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PARTE PRIMA
ELEMENTI DI FISIOPATOLOGIA E SEMEIOLOGIA UTILI PER L’ESECUZIONE DELL’ESAME NEUROLOGICO
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
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1. La raccolta dell’anamnesi C. Loeb, M. Del Sette
In questi ultimi 30 anni uno straordinario incremento di conoscenze ha profondamente trasformato la neurologia. Questa disciplina veniva spesso considerata, nel passato, un arengo per sottili disquisizioni neuropatologiche e problemi di localizzazione della lesione, mentre scarse o nulle apparivano le possibilità terapeutiche. Oggi un insieme organico di numerose discipline sperimentali e cliniche all’insegna del prefisso “neuro” viene universalmente riconosciuto. Il neurologo può attualmente avvalersi di rilevanti nuove conoscenze e, ad esempio, le ricerche di neurobiologia, neurogenetica, neurofisiologia sperimentale e clinica, neurofarmacologia e, in particolare, gli studi di neuroimmagine (tomografia computerizzata, risonanza magnetica, risonanza magnetica funzionale, tomografia ad emissione di positroni, tomografia ad emissione di fotone singolo) introducono fondamentali apporti diagnostici e terapeutici e aprono nuove prospettive per lo studio dei meccanismi neurali delle funzioni mentali. Si potrebbe, quindi, affrettatamente ritenere che il ruolo clinico, classicamente inteso, sia sorpassato e di non rilevante utilità, anche se le tecniche di supporto informatico e di decisione assistita per l’attività clinica non appaiono ancora utilizzabili. Ma il reperto strumentale richiede sempre, anche quando sembra risolutivo, un ulteriore processo di competente e sperimentata elaborazione clinica. L’articolazione del processo diagnostico in neurologia consta di varie fasi: a) acquisizione dei dati, cioè raccolta delle informazioni che provengono dall’anamnesi spontanea, dall’anamnesi mirata su precise do-
mande dell’esaminatore, dall’esame obiettivo generale e neurologico. b) organizzazione motivata delle informazioni al fine di riconoscere un raggruppamento di sintomi utili per individuare una possibile sede di lesione nel sistema nervoso, e un relativo riconoscimento sindromico. c) elaborazione critica e aggregazione in ipotesi diagnostiche dei dati precedenti, confronto delle diverse ipotesi sulla base di conoscenze cliniche e dell’esperienza personale. Il processo utilizzato per il confronto delle diverse ipotesi viene anche indicato come diagnosi differenziale. d) tentativo di identificare la natura della lesione, le possibili cause della malattia e i relativi meccanismi, avvalendosi delle conoscenze etiologiche e fisiopatologiche e con l’ausilio di indagini complementari . e) determinazione dell’entità del danno funzionale per stabilire il grado di invalidità causato dalla malattia, elemento fondamentale per valutare gli effetti del trattamento e per un giudizio prognostico. L’accurata e paziente raccolta dei dati anamnestici sicuramente rappresenta, ancor oggi, la base fondamentale su cui costruire l’edificio diagnostico. La diagnosi, infatti, si raggiunge elaborando criticamente i dati ottenuti dall’anamnesi, dall’esame obiettivo generale, dall’esame neurologico e dagli esami complementari (esami biochimico-umorali, esami di neurofisiologia clinica, e studi con neuroimmagini). L’indagine anamnestica fornisce un orientamento per identificare gli obbiettivi da approfondire nell’esame neurologico e per procedere, successivamente, alla richiesta mirata degli esami complementari necessari.
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Il modo di raccogliere l’anamnesi, anche se schematizzabile, è estremamente soggettivo e richiede particolare abilità, elevato livello culturale specialistico ed adeguata esperienza. Non v'è dubbio che una impostazione anamnestica non corretta o imprecisa e frettolosa rappresenta una fonte di errore che si ripercuote su tutto il procedimento diagnostico. Non sarà mai ripetuto abbastanza che l’accurata raccolta dei sintomi della malattia attuale e delle condizioni morbose pregresse è una componente basilare del lavoro medico. Per una adeguata raccolta dei dati anamnestici alcune considerazioni generali devono essere tenute presenti. Fra medico e malato deve svolgersi una conversazione distesa nella quale il medico, pur dirigendone le linee, deve, almeno in un primo tempo, soprattutto ascoltare. L’ammalato deve raggiungere la convinzione che esiste un completo interessamento per la sua persona e per la sua malattia. Bisogna evitare che l’interrogatorio appaia eccessivamente incalzante e che rischi, quindi, di creare un certo imbarazzo e talora una malcelata resistenza e, comunque, sia fonte di ostacoli per una buona relazione medico-malato. Prendere appunti è consigliabile, ma tale attività non deve essere così intensa e continua da generare un certo grado di diffidenza e compromettere la necessaria collaborazione. La verifica delle informazioni è sempre indispensabile e può essere raggiunta attraverso una seconda fonte, rappresentata da parenti o amici, in special modo se vengono sospettate o accertate alterazioni dello stato di coscienza o di funzioni mentali. A questo proposito appare necessario sottolineare che la raccolta dei dati anamnestici da malati neurologici è talora impossibile, proprio per il tipo di patologia di cui soffre il soggetto. Ad esempio, se si tratta di una perdita di coscienza, dovuta a trauma cranico o ad altra patologia, di un disturbo mnesico da trauma cranico o da amnesia globale transitoria, di uno stato di ebbrezza alcolica acuta, il malato non è in grado di dare alcuna informazione, e spes-
so anche familiari, amici, conoscenti o semplici testimoni dell’evento, non riescono a fornire un racconto significativo e utile a fini clinici. Il neurologo, allora, si deve affidare esclusivamente alle ipotesi diagnostiche che possono essere criticamente elaborate sulla base dei dati clinici obiettivi corroborati dagli esami complementari. Molto spesso il medico può interpretare in maniera inesatta quanto ascolta, sia per i termini usati dal malato sia perché è portato a introdurre personali interpretazioni diagnostiche. L’intervista clinica si articola classicamente in anamnesi familiare, personale fisiologica e patologica remota, per giungere infine all’anamnesi patologica prossima. Di regola il malato, soprattutto per attenuare il coinvolgimento emotivo generato dalla malattia, affronta subito la descrizione dei disturbi di cui soffre, e appare necessario e utile accontentarlo. Successivamente si richiederà il racconto delle vicende mediche personali del passato e gli elementi della storia medica familiare, ed ambedue questi aspetti, alla luce della situazione patologica attuale, potranno essere più utilmente indagati. MALATTIA ATTUALE - Dopo la storia liberamente espressa, il malato deve essere sollecitato a chiarire diversi aspetti del racconto con domande precise e semplici, possibilmente corredate da esempi esplicativi. Ad esempio, il soggetto sofferente di cefalea, il quale si presenta affermando di soffrire di “nevralgia”, dovrà chiarire la sede e le caratteristiche del dolore, le modalità di comparsa, la durata, i possibili fattori scatenanti, i farmaci già utilizzati e la loro relativa efficacia. Il malato va incoraggiato ed invitato a spiegare il sintomo con parole proprie, espressione del livello culturale personale e dell’ambiente in cui vive. Un elemento di notevole importanza nella storia neurologica riguarda le modalità di comparsa e l’evoluzione nel tempo dei diversi sintomi, considerato che l’esordio improvviso o
La raccolta dell’anamnesi
lentamente ingravescente di uno stesso sintomo, orienta verso differenti patologie. A titolo esemplificativo basta ricordare che una emiparesi a comparsa improvvisa può indirizzare l’attenzione verso una lesione cerebrale vascolare, mentre una emiparesi a lenta evoluzione permette di raggiungere il sospetto di una neoplasia encefalica, per cui una serie di utili domande supplettive potranno arricchire l’anamnesi mirata. Va comunque ricordato che le informazioni sull’esordio ed il decorso dei sintomi non sono facilmente accessibili, anche per la scarsa obiettività del soggetto coinvolto, il quale spesso stabilisce arbitrariamente un nesso di causalità tra un qualsiasi evento e la comparsa dei sintomi. Se esistono turbe della memoria, come può accadere nel soggetto anziano, una attendibile ricostruzione degli eventi diventa ancora più difficile. Può essere allora utile tentare di ricostruire l’andamento temporale del disturbo, confrontando la differente capacità del soggetto nell’espletare alcune attività oggi rispetto al passato, quando era in buona salute. Ad esempio, informarsi se il soggetto è in grado, come prima della malattia, di camminare e per quanto tempo, o se riesce a salire le scale, se, in una parola, è ancora capace a svolgere le sue abituali attività come nel passato. Ugualmente rilevante è l’informazione sulla distribuzione del disturbo motorio o sensitivo nei vari distretti corporei, elemento cruciale per raggiungere una diagnosi di sede di lesione. Alcuni semplici elementi possono indirizzare l’interrogatorio mirato in maniera utile, ad esempio, un deficit di forza che coinvolge solamente l’arto inferiore indirizzerà le richieste di informazione verso una possibile patologia a livello midollare dorso-lombare, un’emiparesi con disturbi dei nervi cranici dirigerà l’interrogatorio verso una possibile lesione encefalica. Può essere cruciale la corretta interpretazione delle parole del malato, usualmente non solo scarsamente adeguate ma, spesso, fonte di errata comprensione. Non è infrequente, per citare alcuni esempi, che il soggetto affermi di
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aver l’arto “addormentato”, quando è già evidente dalla semplice ispezione visiva la possibile esistenza di un marcato deficit di forza, oppure di lamentare “testa e vista confusa” in caso di diplopia, oppure di riferire un episodio di “malore” quando si è verificata una crisi di perdita di coscienza. Tutte le funzioni neurologiche devono costituire argomento per la richiesta di informazioni anamnestiche mirate: sede e caratteristiche di eventuali dolori spontanei e provocati, motilità e sensibilità nei vari distretti corporei, equilibrio e deambulazione, disturbi sfinterici, sensi specifici, funzioni mentali, specie memoria, linguaggio e stato di coscienza. Spesso il malato giunge all’osservazione provvisto di diagnosi precedentemente emesse, e con risultati di esami di laboratorio più o meno pertinenti. Tali dati devono essere presi in attenta considerazione al termine dell’attuale procedimento diagnostico, prima di prospettare la lista riguardante i necessari esami complementari da eseguire. STORIA FISIOLOGICA - DATI DI PERSONALITÀ E SOCIOAMBIENTALI - L’anamnesi personale fisiologica deve riguardare, specie in neurologia, le caratteristiche del parto e dello sviluppo psico-fisico, l’inserimento scolastico ed il livello di scolarità, la vita sociale e lavorativa, così come la vita affettiva e sessuale, possibile indice di disagio psichico, così come possibili malattie infettive a trasmissione sessuale. Attenzione particolare va riservata al possibile abuso di sostanze alcoliche o di farmaci e all’abitudine al fumo. Infine, informazioni sulle attività lavorative o extralavorative possono avere importanza per possibili patologie tossiche o traumatiche del sistema nervoso, quali malattie professionali, tossicosi, traumatismi sul lavoro o per l’esercizio di attività sportiva. Il malato deve poter ricostruire queste notizie senza fretta, avendo il tempo necessario per fornire l’informazione richiesta, che spesso viene ricavata con qualche difficoltà. In particolare, le informazioni riguardanti gli aspetti più intimi della vita
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personale, quali adattamento all’ambiente familiare e di lavoro, modalità di reazione ad avvenimenti importanti (quali pubertà, esperienze sessuali, matrimonio, morte di persone care, etc) è preferibile siano richieste alla fine del colloquio o, meglio, dopo la visita, in assenza di altre persone, nell’auspicio che un certo livello di confidenza si possa ritenere instaurato. DATI DELLA STORIA REMOTA- L’anamnesi patologica remota deve riportare gli eventi patologici del passato, con particolare riguardo a precedenti ricoveri, a precedenti terapie mediche o chirurgiche, a pregressi incidenti che possono aver comportato traumi cranici o vertebrali. Sintomi e quadri patologici precedenti, anche apparentemente non correlati con i disturbi attuali, possono portare qualche chiarimento alla patologia attuale. A titolo di esempio: una ipertensione arteriosa di lunga durata può essere associata a una patologia cerebrovascolare, una storia di diabete mellito può essere correlata a una polineuropatia, una neoplasia viscerale può essere causa di metastasi nel sistema nervoso, oppure di una polineuropatia paraneoplastica. Poter valutare con precisione i farmaci precedentemente assunti può aiutare a comprendere i sintomi attuali: una sindrome parkinsoniana può essere dovuta all’assunzione di fenotiazine per lunghi periodi, episodi confusionali nell’anziano possono essere facilitati dall’assunzione di benzodiazepine o antidepressivi, episodi di
caduta a terra possono essere correlati all’uso non controllato di farmaci ipotensivi. DATI FAMILIARI - Molte malattie neurologiche sono ereditarie o familiari, per cui un’accurata ricostruzione della patologia nei familiari ha spesso grande valore diagnostico. Questa parte dell’anamnesi spesso non è agevole, per la dispersione delle notizie nel tempo, per le ridotte conoscenze mediche del passato, per le reticenze del soggetto e dei familiari nei riguardi di malattie neurologiche (ad esempio, epilessia, insufficienza mentale), vissute come onta familiare e spesso tenute nascoste perché gravate da pregiudizi sociali. IN CONCLUSIONE: alla fine della raccolta anamnestica, il medico è in grado di prospettare una serie di ipotesi diagnostiche provvisorie, che possiamo definire “ipotesi diagnostiche anamnestiche”, le quali costituiscono la prima pietra per la costruzione del complesso edificio diagnostico, che dovrà essere proseguito con l’esame obiettivo generale e con l’esame neurologico. Solo al termine di questo percorso potranno essere identificati gli esami complementari biochimico-umorali, gli esami strumentali neurofisiologici e lo studio con neuroimmagine, elementi che permettono di raggiungere la diagnosi. Seguendo questo indirizzo si potrà evitare il ricorso indiscriminato e dispendioso alla diagnostica strumentale immotivata.
Funzione motoria
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2. Funzione motoria G. Abbruzzese
La motilità volontaria e non volontaria (automatica e riflessa) si attua attraverso un’organizzazione nervosa complessa. Esistono due livelli di controllo della funzione motoria: – controllo segmentale del movimento o dell’unità motoria; – controllo encefalico del movimento.
1. Controllo segmentale del movimento: l’unità motoria I corpi cellulari dei neuroni motori che controllano direttamente le fibre del muscolo scheletrico (alfa-motoneuroni) sono localizzati nelle corna anteriori del midollo spinale o nei nuclei motori somatici dei nervi cranici. L’assone di questi neuroni raggiunge la fibra muscolare costituendo con essa un particolare rapporto sinaptico noto come giunzione neuro-muscolare. Ogni fibra muscolare è innervata da un solo alfa-motoneurone, il quale però innerva più fibre muscolari. L’insieme costituito dall’alfa-motoneurone e dalle fibre muscolari da esso innervate è denominato unità motoria. Il rapporto di innervazione esprime il numero di fibre muscolari che compongono l’unità motoria. Tale numero dipende dal muscolo considerato, variando dalle poche unità presenti nei muscoli oculari estrinseci fino alle migliaia presenti nel gastrocnemio. Esso è approssimativamente proporzionale alle dimensioni del muscolo, nel senso che muscoli piccoli sono costituiti da unità motorie formate da poche fibre muscolari, mentre muscoli grandi sono costituiti da unità motorie con rapporto di innervazione elevato.
L’attività dell’unità motoria è controllata sia da strutture superiori (la corteccia cerebrale motoria, attraverso la via cortico-spinale e i nuclei del tronco encefalico, attraverso le vie discendenti del sistema ventro-mediale) sia da afferenze periferiche. L’unità motoria è considerata pertanto la via finale comune della motilità, poichè rappresenta l’ultimo livello comune attraverso cui strutture superiori e periferiche diverse esplicano la loro influenza sul movimento.
I diversi tipi di unità motoria Le fibre muscolari non sono tutte uguali. Alcune appaiono pallide, mentre altre sono di colore rosso scuro, donde la distinzione in fibre bianche e fibre rosse. Le fibre rosse contengono elevate quantità di mitocondri e di mioglobina, una proteina dotata della capacità di fissare l’ossigeno. Queste fibre hanno un metabolismo prevalentemente aerobio, come è testimoniato dall’elevata concentrazione di enzimi ossidativi. Le fibre bianche possiedono meno mitocondri delle fibre rosse ed hanno un metabolismo di tipo anaerobico, che utilizza la scissione del glicogeno in piruvato e lattato a scopo energetico. Le fibre bianche sono molto più grandi delle fibre rosse, si contraggono più velocemente, sviluppando tensioni maggiori. Durante la contrazione esse esauriscono rapidamente i loro substrati energetici, andando facilmente incontro a fatica. Le fibre rosse si contraggono più lentamente sviluppando tensioni minori, ma, in virtù del loro metabolismo di tipo ossidativo, sono più resistenti alla fatica.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Sulla base di queste caratteristiche metaboliche e funzionali, le fibre muscolari vengono distinte in tre classi: classe I fibre lente ossidative (SO = Slow Oxidative), sono le fibre rosse; classe IIA fibre rapide, ossidative e glicolitiche (FOG = Fast Oxidative Glycolytic), sono fibre con caratteristiche intermedie tra le fibre bianche e quelle rosse; classe IIB fibre rapide glicolitiche (FG = Fast Glycolytic), sono le fibre bianche. Tutte le fibre muscolari di una unità motoria hanno proprietà fisiologiche e biochimiche simili, appartengono cioè alla stessa classe. Esistono pertanto tre gruppi di unità motorie, con caratteristiche funzionali diverse, che riflettono il diverso tipo di fibre muscolari che le compongono. Le unità rapide suscettibili alla fatica (unità FF = Fast Fatiguing) sono costituite da fibre muscolari di classe IIB. Queste unità si rilasciano e si contraggono velocemente, ma si affaticano rapidamente quando vengono stimolate in modo ripetitivo. Generano la maggior parte della forza sviluppata nel corso di una contrazione muscolare. Esistono poi le unità lente resistenti alla fatica (unità S = Slow), costituite da fibre muscolari di classe I. Esse presentano una velocità di contrazione minore e sono estremamente resistenti alla fatica; sviluppano però forze dell’ordine dell’1-10% rispetto a quelle sviluppate dalle unità rapide suscettibili alla fatica. Il terzo tipo è rappresentato dalle unità rapide resistenti alla fatica (unità FR = Fast Resistant), costituite da fibre muscolari di classe IIA, caratterizzate da proprietà intermedie tra quelle degli altri due gruppi. Queste sono resistenti alla fatica quasi come le unità lente, sviluppando però forze pari circa il doppio. I tre tipi di unità motorie, pertanto, differiscono per la diversa suscettibilità alla fatica (che dipende dalla capacità o meno di utilizzare l’ossigeno a scopo energetico) e per la quantità di forza che sono in grado di sviluppare. A questo proposito vale la pena di ricordare che le unità FF sviluppano forze che possono essere 100 volte maggiori rispetto a quelle originate dalle unità S. Ciò dipende dai seguenti fattori: 1) maggiore efficacia, nelle fibre bianche, dei processi di secrezione e riassorbimento degli ioni calcio nel reticolo sarcoplasmatico e maggiore
attività dell’ATPasi, che si traducono in una contrazione più efficace del sarcomero; 2) rapporto di innervazione maggiore nelle fibre bianche; 3) la dimensione della singole fibre muscolari, massima per le fibre rapide suscettibili alla fatica e minima per le fibre lente. Riassumendo, le unità motorie FF sono più grosse delle unità S perché hanno un rapporto di innervazione maggiore e perché sono formate da fibre muscolari più grandi. Le unità FR hanno caratteristiche intermedie.
Le unità motorie dei tre gruppi (S-FR-FF) differiscono tra loro non solo per le fibre muscolari, ma anche per le caratteristiche anatomiche e funzionali dei rispettivi motoneuroni alfa. Le unità motorie grandi sono caratterizzate da un motoneurone grande; le unità motorie piccole sono costituite da un motoneurone piccolo. Ne consegue che i motoneuroni delle unità veloci sono più grandi di quelli delle unità lente. Come vedremo in seguito, questa caratteristica anatomica sta alla base del reclutamento progressivo delle unità motorie nel corso di contrazioni muscolari di intensità crescente. Esistono differenze anche nelle modalità di scarica. I motoneuroni delle unità veloci tendono a generare scariche occasionali di potenziali d’azione ad alta frequenza (30-60 impulsi al secondo), mentre i motoneuroni lenti si caratterizzano per una attività a bassa frequenza relativamente regolare (10-20 impulsi al secondo). Ogni muscolo possiede unità motorie dei tre tipi, in proporzione variabile a seconda della sua specializzazione funzionale. Ad esempio, il muscolo soleo, che ha una funzione essenzialmente posturale, è formato in prevalenza da unità lente. I muscoli oculari estrinseci invece, responsabili dei movimenti rapidi e improvvisi dei globi oculari (saccadi), sono formati in prevalenza da unità rapide.
Gradazione della forza muscolare: modulazione di frequenza e modulazione di reclutamento Quando un motoneurone genera un potenziale d’azione, tutte le fibre muscolari da esso in-
Funzione motoria
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Tabella 2.1 - Correlazione tra tipo di fibra, tipo di unità motrice e dimensione del motoneurone Tipo di fibra muscolare
I SO (Slow Oxidative) Lente, ossidative
IIA FOG (Fast Oxidative Glycolytic) Rapide, ossidative e glicolitiche
IIB FG (Fast Glycolytic) Rapide, glicolitiche
Tipo di unità motoria
S (Slow) Lenta
FR (Fast Resistant) Rapida, resistente alla fatica
FF (Fast Fatiguing) Rapida, suscettibile alla fatica
piccola
intermedia
grande
Dimensione alfamotoneurone
nervate vengono depolarizzate e successivamente si contraggono. L’unità motoria segue quindi il principio del tutto o nulla: o è attivata o non lo è affatto. Non sono possibili situazioni intermedie. Per graduare la forza della contrazione muscolare due meccanismi vengono messi in atto: il reclutamento delle unità motorie, cioè l’aumento o la diminuzione del numero di unità motorie attivate (modulazione di reclutamento) e la variazione della frequenza di scarica delle singole unità motorie (modulazione di frequenza). Il reclutamento delle unità motorie segue un ordine preciso, dato dalle dimensioni del corpo cellulare del motoneurone alfa. Nel corso di contrazioni muscolari di intensità crescente, inizialmente vengono reclutati i motoneuroni piccoli. Successivamente, aumentando l’intensità della contrazione, vengono attivati anche i neuroni più grandi. Ciò significa, per la relazione esistente tra dimensione del motoneurone e dimensione dell’unità motoria, che le unità motorie più piccole, che sviluppano forze lievi ma sono resistenti alla fatica, vengono attivate prima delle unità più grandi. Questo reclutamento in base alle dimensioni prende il nome di principio dimensionale di Henneman, dal neurofisiologo che lo descrisse. Esso è valido sia per l’attivazione volontaria dei motoneuroni che per quella riflessa. Questa modalità di reclutamento delle unità motorie semplifica molto il compito dei centri
superiori nella regolazione della forza muscolare. Per produrre un particolare livello di forza i centri superiori devono solo determinare l’entità dell’eccitamento sinaptico complessivo diretto al pool motoneuronale, senza preoccuparsi di specificare quali motoneuroni, e quindi quali unità motorie, debbano essere attivate. La base biofisica del principio di Henneman risiederebbe nel fatto che i neuroni piccoli presentano una maggiore resistenza d’ingresso alle correnti elettriche sinaptiche. L’ampiezza di un potenziale sinaptico dipende dal prodotto della corrente sinaptica per la resistenza d’ingresso del neurone (legge di Ohm, E = IR). Pertanto, una corrente sinaptica di una data entità determina un potenziale sinaptico più grosso in un neurone piccolo rispetto a quello che induce in un neurone grande. La frequenza di scarica del motoneurone modula la forza di contrazione dell’unità motoria in virtù della sommazione temporale delle tensioni prodotte dalle singole contrazioni. La durata del potenziale d’azione (1-3 ms) è ben inferiore alla durata della scossa muscolare, che comprende il tempo di contrazione e decontrazione muscolare (10-100 ms). Tuttavia, siccome i motoneuroni attivati durante il movimento generano raffiche di potenziali d’azione, separati tra loro da poche decine di ms o anche meno, la fibra muscolare può essere riattivata prima che il suo rilasciamento si sia completato. Se i potenziali d’azione sono sufficiente-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
mente ravvicinati, le forze generate da ogni contrazione muscolare hanno il tempo di sommarsi, raggiungendo valori superiori a quelli determinati da una singola contrazione. Maggiore è la frequenza dei potenziali d’azione, maggiore è la tensione che ne risulta. Se la frequenza è sufficientemente elevata, le tensioni sviluppate da ogni contrazione si fondono fino a formare un plateau, che prende il nome di tetano e rappresenta lo sforzo massimale possibile. Ne consegue che un ulteriore aumento di frequenza non produce alcun incremento di tensione. Esistono importanti differenze nei fenomeni di regolazione della forza tra i muscoli distali e prossimali dell’arto superiore. La modulazione di frequenza è più importante nei muscoli distali, laddove la frequenza di scarica dei motoneuroni varia da un minimo di 9Hz (contrazione lieve) ad un massimo di 40Hz (contrazione massimale). Nei muscoli prossimali la forza della contrazione muscolare dipende in massima parte dalla modulazione del reclutamento. La frequenza dei motoneuroni che innervano questi muscoli varia entro limiti più ristretti, partendo da 10 Hz e non superando, per contrazioni massimali, il valore di 25 Hz. Si ritiene che il motivo delle differenti proporzioni con cui entrano in gioco la modulazione di frequenza e di reclutamento nei muscoli prossimali e distali dipenda dalla specificità del loro ruolo funzionale. Nei muscoli della mano una regolazione della forza basata solo sul reclutamento delle unità motorie non sarebbe sufficientemente accurata per garantire la corretta esecuzione dei compiti motori più fini e complessi, come ad esempio quelli connessi con la scrittura. Bisogna infatti considerare che la regolazione della forza sulla base del reclutamento delle unità motorie non è uniforme, ma procede invece a scalini. L’incremento minimo di forza è rappresentato dal reclutamento di una singola unità motoria e quindi dall’entrata in campo di un numero di fibre muscolari corrispondente al rapporto di innervazione. Ne con-
segue che l’altezza dello scalino dipende dal numero di fibre muscolari che compongono l’unità motoria reclutata. Nei muscoli distali si rende spesso necessario regolare la forza in posizioni intermedie (a metà scalino) e questo è possibile solo modulando la frequenza di scarica delle unità già attivate.
Il controllo riflesso delle unità motorie: la propriocezione muscolare La maggior parte dei muscoli scheletrici è dotata di strutture specializzate denominate fusi neuromuscolari, che hanno il compito di fornire al sistema nervoso centrale informazioni riguardanti la lunghezza del muscolo. I fusi neuromuscolari, così denominati per la loro forma fusale, sono costituiti da 8-12 fibre muscolari contenute in una guaina fibrosa. Tali fibre sono denominate fibre muscolari intrafusali (Fig. 2.1), per distinguerle dalle più numerose fibre extrafusali, che si trovano all’esterno della capsula connettivale che delimita il fuso. Le fibre extrafusali formano la maggior parte del muscolo e sono interamente responsabili della sua forza contrattile. Sia le fibre intrafusali che quelle extrafusali sono situate in parallelo, vale a dire le une a fianco delle altre. La struttura dei fusi è piuttosto complessa (Fig. 2.1). Si distinguono intanto due tipi di fibre intrafusali: fibre a sacco nucleare, con nuclei raggruppati nella porzione centrale e fibre a catena nucleare con nuclei disposti a catena nella porzione centrale, che si presenta in questo caso allungata. Ciascuna fibra intrafusale comprende una porzione centrale o equatoriale, non contrattile, e due porzioni periferiche o polari, contrattili e striate. La parte centrale di ogni fibra intrafusale è avvolta a spirale da una terminazione detta appunto anulospirale o primaria, da cui originano le fibre afferenti primarie del fuso, dette fibre Ia. In posizione paraequatoriale si trovano le terminazioni arborescenti o secon-
Funzione motoria Terminazioni a STRISCIA
Terminazioni a PLACCA
FIBRE NERVOSE FUSI MOTRICI (FIBRE GAMMA)
Terminazioni PRIMARIE (ANULOSPIRALI) C. d. Recettori Primari Sensibili a stiramenti sia statici (TONICI) che dinamici (FASICI)
Terminazioni SECONDARIE (ad ARBORIZZAZIONE FLOREALE) C. d. Recettori Secondari sensibili solo a stiramenti statici (TONICI) Fibre a CATENA NUCLEARE
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Afferenti Ia
Fibre a SACCO NUCLEARE
Fibre NERVOSE AFFERENTI (dal fuso neuromuscolare) Afferenti II
Fig. 2.1 - Struttura del fuso neuro-muscolare: fibre a sacco nucleare e a catena nucleare. Dalle terminazioni primarie anulospirali originano le fibre Ia, che raggiungono gli alfa motoneuroni; dalle terminazioni secondarie, ad arborizzazione floreale, originano le fibre II, che, dal pari, raggiungono gli alfa motoneuroni. Dai motoneuroni gamma partono fibre efferenti verso i poli del fuso (modificata, da J. W. Lance, Neurologia e neurofisiologia clinica, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1973).
darie, da cui partono le fibre afferenti secondarie, dette fibre II. Tali fibre (Ia e II) rappresentano i prolungamenti periferici di neuroni sensitivi, i pirenofori dei quali sono localizzati nei gangli sensitivi, mentre i prolungamenti centrali raggiungono il nevrasse decorrendo attraverso le radici posteriori dei nervi spinali o nei nervi cranici. In virtù della sistemazione in parallelo delle fibre intra ed extra-fusali, quando le fibre extrafusali vengono stirate, e quindi il muscolo si allunga, anche le fibre intrafusali si allungano. L’allungamento delle fibre intrafusali determina la depolarizzazione delle fibre nervose avvolte intorno ad esse (Ia e II). Questo fenomeno è dovuto alla presenza, nelle fibre nervose, di canali ionici ad accesso variabile sensibili allo stiramento, che si aprono cioè in
risposta alla deformazione meccanica della membrana sulla quale sono indovati, determinando la depolarizzazione della membrana cellulare. Pertanto l’allungamento del muscolo, e quindi l’allungamento delle fibre intrafusali, determina l’aumento della frequenza di scarica dei neuroni sensitivi che innervano i fusi. L’accorciamento del muscolo produce al contrario la riduzione della tensione delle fibre intrafusali, con inibizione della frequenza di scarica del fuso. I fusi neuromuscolari sono pertanto gli organi addetti alla rilevazione delle variazioni della lunghezza delle fibre extrafusali (recettori di lunghezza). Le fibre Ia dei fusi neuromuscolari di un muscolo stabiliscono sinapsi eccitatorie con gli alfa-motoneuroni omonimi (che innervano cioè lo stesso muscolo). È questa la base anatomica
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del riflesso monosinaptico da stiramento, caratterizzato per l’appunto da un’unica sinapsi, quella delle fibre Ia sui motoneuroni omonimi. Quando il muscolo viene allungato, i fusi neuromuscolari vengono stirati e quindi generano impulsi che raggiungono i motoneuroni alfa, i quali, a loro volta, inviano impulsi alle fibre muscolari striate che si contraggono. La contrazione delle fibre extrafusali determina l’accorciamento del fuso riducendo l’afflusso di impulsi agli alfa motoneuroni. Analogamente, se il tendine muscolare viene percosso, come si fa per produrre un riflesso osteotendineo, il muscolo viene stirato. Anche in questo caso si provoca una distensione del fuso neuromuscolare, che a sua volta metterà in funzione il meccanismo precedentemente descritto, realizzando un arco diastaltico monosinaptico, costituito da: recettore sensitivo (porzione centrale del fuso); via afferente sensitiva (prolungamento periferico e centrale del neurone gangliare); centro riflesso (corna anteriori del midollo spinale o nuclei motori dei nervi cranici); via efferente motoria (assone del neurone motore) ed infine organo effettore (fibre muscolari extrafusali). Il riflesso da stiramento costituisce un meccanismo finalizzato a mantenere costante la lunghezza muscolare e risulta fondamentale nel mantenimento del tono posturale della muscolatura di sostegno. Se il corpo, durante la stazione eretta, si piega in avanti, i recettori da stiramento dei muscoli della loggia posteriore della gamba vengono stimolati determinando la contrazione di questi stessi muscoli e riportando il corpo nella posizione di equilibrio. Se il corpo si sposta all’indietro, sono i recettori da stiramento dei muscoli della loggia antero-laterale della gamba ad essere stimolati, con conseguente contrazione di questi muscoli e spostamento del corpo in avanti. Le fibre Ia non stabiliscono solamente contatti monosinaptici eccitatori con i motoneuroni omonimi (circuito del riflesso da stiramento, detto anche arco diastaltico del riflesso da sti-
ramento), ma anche contatti disinaptici inibitori con i motoneuroni del muscolo antagonista. In particolare, i messaggi provenienti dai fusi neuromuscolari (input Ia) di un muscolo attivano neuroni inibitori, localizzati nella zona grigia intermedia del midollo spinale, che a loro volta inibiscono gli alfa motoneuroni del muscolo antagonista. Tale meccanismo, grazie al quale durante la contrazione muscolare riflessa (indotta cioè dall’attivazione dei fusi neuromuscolari) i muscoli antagonisti vengono inibiti, prende il nome di inibizione reciproca (Fig. 2.2). L’inibizione reciproca viene utilizzata anche dalle vie nervose discendenti, provenienti dalla corteccia motoria e dai nuclei del tronco encefalico, che controllano i motoneuroni alfa.
Fig. 2.2 - Rappresentazione del circuito per l’inibizione reciproca. Le fibre Ia provenienti dal fuso hanno effetto eccitatorio sugli alfa motoneuroni per i muscoli agonisti ed effetto inibitorio sugli alfa motoneuroni per i muscoli antagonisti.
Funzione motoria
Nel corso della flessione volontaria dell’avambraccio sul braccio, ad esempio, le vie motorie discendenti non attivano soltanto i motoneuroni alfa che controllano i muscoli flessori, ma anche gli interneuroni che inibiscono i motoneuroni alfa dei muscoli estensori. Il significato dell’inibizione reciproca è palese. Basti pensare quanto sarebbe difficoltoso flettere l’articolazione del gomito se i muscoli estensori non si decontraessero. Le connessioni centrali delle afferenze fusali del gruppo II sono meno note e così, di conseguenza, il loro significato funzionale. Classicamente si ritiene che rappresentino una delle afferenze del riflesso flessore. Esse inoltre contribuirebbero all’attivazione degli alfamotoneuroni del muscolo omonimo.
Il fuso neuromuscolare costituisce una formazione del tutto particolare poichè nella stessa struttura sono comprese, oltre alle funzioni di recettore, anche quelle di effettore. Infatti le fibre muscolari intrafusali possiedono una innervazione motoria da parte di neuroni di piccole dimensioni, i pirenofori dei quali sono localizzati nel nevrasse (corna anteriori del midollo spinale e nuclei motori somatici dei nervi cranici) insieme ai corpi cellulari degli alfamotoneuroni. Tali cellule sono denominate motoneuroni gamma, che insieme ai motoneuroni alfa rappresentano i motoneuroni inferiori. Gli assoni dei motoneuroni gamma stabiliscono connessioni sinaptiche con le porzioni polari, contrattili, delle fibre intrafusali. La contrazione delle porzioni polari della fibra intrafusale stira la regione equatoriale non contrattile, inducendo l’eccitazione delle terminazioni sensoriali primarie. Pertanto l’organizzazione motoria centrale (area motoria corticale e strutture del tronco encefalico) può teoricamente realizzare il movimento attraverso due meccanismi: a) agendo direttamente sui motoneuroni alfa; b) agendo sui motoneuroni gamma, i quali, a loro volta, attraverso i fusi neuromuscolari, attivano i motoneuroni alfa (circuito gamma). Sembra però che il movimento volontario, nel-
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l’uomo, sia generalmente ottenuto mediante una attivazione combinata dei motoneuroni alfa e gamma. L’attivazione pura degli alfa motoneuroni sarebbe responsabile delle contrazioni riflesse prodotte da stimoli cutanei e delle contrazioni indotte da stimoli vibratori prolungati in grado di attivare le fibre Ia (riflesso tonico di vibrazione). L’attivazione indipendente dei motoneuroni gamma sarebbe responsabile dell’incremento del riflesso miotattico di un muscolo indotto dalla contrazione di altri gruppi muscolari, fenomeno utilizzato anche nella pratica clinica e denominato manovra di Jendrassik.
Se la contrazione muscolare fosse ottenuta attraverso l’attivazione pura dei motoneuroni alfa, l’accorciamento del muscolo determinerebbe la riduzione della tensione delle fibre intrafusali, rendendole incapaci di rispondere a minimi allungamenti muscolari e conseguentemente il loro ruolo funzionale sarebbe nullo. Invece, la coattivazione dei motoneuroni alfa e gamma fa sì che l’effetto della contrazione extrafusale sia compensato dalla contrazione delle fibre intrafusali, in modo tale che i fusi neuromuscolari possano mantenere la loro funzione di rilevatori delle variazioni di lunghezza anche quando il muscolo si accorcia. Oltre ai fusi muscolari esistono altri tipi di recettori coinvolti nella funzione motoria: recettori tendinei o organi muscolotendinei di Golgi (Fig. 2.3). Si tratta di arborizzazioni nervose situate entro i fasci di fibre collagene del tendine, in prossimità della sua giunzione col muscolo, e circondate da una delicata capsula. Gli organi muscolotendinei sono disposti in serie rispetto alle fibre muscolari extrafusali e sono quindi sensibili ad un aumento di tensione del tendine. Dagli organi tendinei di Golgi partono le fibre afferenti (Ib) che, attraverso un neurone internuciale, producono un effetto inibitorio sugli alfa motoneuroni del muscolo agonista (inibizione autogenetica) e una azione facilitatoria sugli alfa motoneuroni del muscolo antagonista. Questi circuiti hanno il compito di prevenire una eccessiva tensione del muscolo.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 2.3 - Raffigurazione schematica del circuito gamma; le afferenze provenienti dalle terminazioni anulo-spinali raggiungono, attraverso le fibre Ia, decorrenti nelle radici posteriori,gli alfa motoneuroni; dagli alfa motoneuroni partono gli assoni per l’innervazione delle fibre muscolari extrafusali; dai gamma motoneuroni partono le fibre per l’innervazione motoria dei poli del fuso (fibre gamma). È raffigurato anche l’organo tendineo di Golgi che attraverso le fibre Ib raggiunge un neurone intercalare, il quale esercita una funzione inibitoria sull’alfa motoneurone: inibizione autogenetica.
Esiste anche un sistema di autoregolazione, costituito dalle cellule di Renshaw (Fig. 2.4), situate nelle corna anteriori del midollo in prossimità degli alfa motoneuroni. Le cellule di Renshaw ricevono un ramo collaterale dell’assone di un motoneurone alfa e proiettano a loro volta un breve assone sul corpo cellulare dello stesso alfa motoneurone. Questo breve circuito ha funzione inibitoria, denominata inibizione ricorrente, ed entra in attività quando la frequenza di scarica dei motoneuroni alfa raggiunge livelli troppo elevati. Come abbiamo visto, il riflesso da stiramento è monosinaptico. Infatti una sola sinapsi separa la branca afferente dalla branca efferente dell’arco riflesso, senza l’interposizione di alcuna cellula. I riflessi che mediano l’inibizione reci-
Fig. 2.4 - Rappresentazione del circuito delle cellule di Renshaw (R): l’assone del motoneurone alfa invia una collaterale alla cellula di Renshaw, la quale, a sua volta, invia l’assone allo stesso motoneurone alfa, con funzione inibitoria: inibizione ricorrente.
Funzione motoria
proca e quella autogenetica sono invece disinaptici. Due sono le sinapsi che separano la branca afferente da quella efferente dell’arco, mediante l’interposizione di una singola cellula. La maggior parte dei riflessi motori, peraltro, coinvolge più sinapsi, collegate in serie, a livello del nevrasse per cui il riflesso viene denominato polisinaptico. Tipico esempio di riflesso polisinaptico è il riflesso flessorio, caratterizzato dalla retrazione dell’arto in seguito ad uno stimolo doloroso applicato sulla pianta del piede. Il riflesso flessorio è accompagnato da una estensione dell’arto controlaterale, che prende il nome di riflesso estensorio crociato, che ha la funzione di compensare la perdita del sostegno antigravitazionale provocata dall’arto in flessione. Questi riflessi sono facilmente elicitabili nell’animale spinale, dimostrando in tal modo che essi si estrinsecano attraverso archi diastaltici spinali.
Tono muscolare Per tono muscolare si intende la sensazione di resistenza che viene apprezzata dall’esaminatore, quando mobilizza passivamente gli arti o il capo. Tale resistenza all’allungamento passivo del muscolo riconosce una duplice origine: a) in parte deriva dall’elasticità intrinseca dei muscoli, che si comportano come molle; b) in parte è un fenomeno di natura riflessa e dipende dal riflesso di stiramento, descritto nel paragrafo precedente.
Funzione trofica La lesione di una qualunque parte del motoneurone alfa determina una riduzione di volume o atrofia delle fibre muscolari corrispondenti. Ciò dipende non tanto dal non uso (l’atrofia da non uso, infatti, non supera il 25-30%), quanto dalla perdita dell’influenza trofica nor-
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malmente esercitata dall’innervazione motoria da cui dipende il mantenimento del metabolismo e dell’eccitabilità elettrica del muscolo.
2. Controllo encefalico del movimento Le aree motorie della corteccia cerebrale È noto che la stimolazione elettrica di quasi tutte le aree corticali cerebrali è in grado di produrre movimenti. Alcune aree sono caratterizzate però da una soglia elettrica più bassa che nelle altre, per cui intensità di stimolazione minori sono sufficienti per evocare il movimento. Si ritiene che tali aree siano direttamente responsabili del controllo motorio e vengono denominate aree motorie corticali. Esse sono rappresentate dalle aree 4 e 6 di Brodmann (Fig. 2.5). Con intensità di stimolazione più elevate, possono essere evocati effetti motori anche dalle aree postcentrali 1, 2, 3 e 5, che appartengono alla corteccia sensoriale. Il movimento provocato dalla stimolazione elettrica di queste aree è probabilmente mediato da connessioni cortico-corticali dirette alle aree motorie. L’area motoria caratterizzata dalla soglia motoria più bassa è l’area 4, nota come area motoria primaria (M1). Essa corrisponde alla circonvoluzione frontale ascendente localizzata sulla superficie laterale e mediale (lobulo paracentrale) del lobo frontale al davanti della scissura di Rolando, che separa il lobo frontale dal lobo parietale (Fig 2.6 A). Nell’area motoria i gruppi muscolari delle diverse parti del corpo sono rappresentati (rappresentazione somatotopica) in modo che la porzione superiore del giro e quella localizzata nella superficie mediale corrisponde all’arto inferiore, la parte media al tronco ed agli arti superiori e la parte inferiore del giro al capo e
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
A
B
C
Fig. 2.5 - Faccia laterale (A), mediale (B), ventrale (C), dell’emisfero sinistro con indicazione delle aree corticali secondo Brodmann.
alla faccia (Fig 2.7). Un’importante caratteristica della rappresentazione somatotopica nell’area motoria primaria risiede nel fatto che le parti del corpo deputate all’esecuzione di mo-
vimenti fini e complessi, come le mani, ricoprono un’area molto più grande di parti deputate a compiti motori più grossolani, come ad esempio le spalle.
Funzione motoria circonv. frontale ascendente scissura di Rolando circonv. parietale ascendente
circonv. frontale sup.
circonv. parietale sup. circonv. parietale inf. circonv. frontale media
giro sopramarginale giro angolare
circonv. frontale inf. parte triangolare
circonv. occipitale lat.
parte opercolare parte orbitaria scissura di Silvio circonv. temporale sup. circonv. temporale inf. circonv. temporale media A
circonvoluzione circonvoluzione frontale sup. scissura di del cingolo Rolando ginocchio del corpo calloso
lobulo paracentrale precuneo scissura parieto-occipitale cuneo
giro retto scissura calcarina
area paraolfattoria ipofisi setto pellucido
chiasma ottico
lobulo linguale
corpo mammillare B Fig. 2.6 - (segue didascalia)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
C
D
Fig. 2.6 - A) Faccia laterale dell’emisfero sinistro, con indicazione delle circonvoluzioni e delle scissure; B) Faccia mediale dell’emisfero sinistro, con indicazione delle circonvoluzioni e delle scissure; C) Faccia ventrale dell’encefalo, con indicazione di scissure, solchi e circonvoluzioni (giri) (c = circonvoluzione; p = polo; s = scissura; g = giro); D) Rappresentazione dell’origine apparente dei nervi cranici a livello del tronco encefalico.
Recenti dati sperimentali sembrano dimostrare che una singola cellula piramidale contrae rapporti sinaptici con motoneuroni che innervano muscoli diversi. La funzione della cellula corticospinale sarebbe quella di guidare l’attività di unità motorie appartenenti a muscoli a funzione sinergica, al fine di compiere un movimento in una determinata direzione. A livello corticale, quindi, non sarebbero rappresentati i singoli muscoli bensì i vari movimenti possibili.
La stimolazione dell’area motoria primaria non evoca mai movimenti complessi, ma solo scosse muscolari semplici. Generalmente i movimenti degli arti vengono evocati controlateralmente rispetto alla corteccia stimolata, mentre i muscoli assiali del tronco, così come i muscoli masticatori e laringei, vengono attivati anche dalla stimolazione della corteccia ipsilaterale. L’area 6 di Brodmann, denominata area premotoria, è localizzata anteriormente alla corteccia motoria primaria e comprende due regio-
ni funzionalmente distinte: l’area supplementare motoria, che giace nella faccia mediale degli emisferi, immediatamente al davanti dell’area primaria per la gamba, al di sopra del giro cingolato (Fig. 2.8), e la corteccia premotoria, localizzata sulla faccia laterale degli emisferi. In generale la stimolazione dell’area 6 evoca movimenti più complessi di quelli evocati dalla stimolazione dell’area motoria primaria, bilaterali per stimolazione dell’area supplementare motoria e comunque caratterizzati da una soglia elettrica nettamente più elevata. L’area supplementare motoria e la corteccia premotoria ricevono segnali afferenti dai nuclei talamici VA e VL, dalle aree visive, dalle regioni somatosensoriali parietali. Le fibre efferenti sono invece dirette ai centri motori inferiori (troncali e midollari) e alla corteccia motoria primaria.
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Funzione motoria
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Fig. 2.7 - Rappresentazione somatotopica della corteccia motoria.
Fig. 2.8 - Localizzazione dell’area rolandica primaria e dell’area supplementare motoria (faccia mediale, superiormente alla circonvoluzione del cingolo e anteriormente all’area motoria rolandica).
Si ritiene che tali aree siano utilizzate per pianificare sequenze motorie e per integrare le informazioni sensoriali, in modo da ottenere movimenti finalizzati ad uno scopo. L’area
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supplementare motoria sarebbe attiva soprattutto nella pianificazione di sequenze motorie iniziate spontaneamente, indipendentemente cioè da qualunque stimolazione esterna. La corteccia premotoria svolgerebbe invece il suo ruolo nella programmazione di movimenti provocati da stimoli sensoriali. La registrazione dell’attività neuronale in animali svegli, precedentemente addestrati a compiere dei movimenti volontari, ha consentito di documentare un aumento dell’attività di scarica delle cellule dell’area supplementare motoria, circa un secondo prima dell’esecuzione del movimento volontario (Evarts, 1966). È stato inoltre dimostrato, studiando nell’uomo le modificazioni del flusso ematico cerebrale, che l’aumento del flusso nell’area supplementare motoria, nel corso dell’esecuzione di movimenti volontari, è proporzionale alla complessità del movimento eseguito (Roland, 1980). È stato altresì evidenziato che quando il movimento è solamente immaginato l’aumento di flusso riguarda solo l’area supplementare motoria, mentre quando il movimento è realmente eseguito le modificazioni del flusso riguardano anche l’area motoria primaria. Questi dati attestano il coinvolgimento dell’area supplementare motoria nella pianificazione di sequenze motorie complesse e nell’elaborazione del segnale di “via” per il movimento volontario. L’area supplementare motoria, infine, sarebbe coinvolta nel controllo delle modificazioni posturali che si verificano durante il movimento volontario (Massion, 1989).
I neuroni delle aree corticali motorie ricevono informazioni sensitive. Le informazioni provenienti dall’area somestesica primaria sono dirette all’area motoria primaria, mentre quelle provenienti dalla corteccia parietale posteriore giungono principalmente all’area premotoria. Le proiezioni originate dalla corteccia sensitiva primaria sono organizzate topograficamente, in modo che la zona corticale motoria in cui è rappresentata una determinata regione del corpo riceve fibre da quella parte della corteccia sensitiva in cui è rappresentata la stessa regione.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Le interazioni tra le informazioni sensitive e i sistemi motori sono fondamentali per la pianificazione del movimento. È intuitivo che per programmare la sequenza motoria che consente, ad esempio, di afferrare un oggetto, i centri motori devono ricevere informazioni concernenti la posizione dell’arto e dell’oggetto nello spazio. La corteccia parietale posteriore svolgerebbe in tal senso un ruolo integrativo di primaria importanza, ricevendo diversi input sensitivi (provenienti dalla corteccia sensitiva primaria, dalle aree corticali visive ed uditive) ed inviando fibre all’area premotoria. Le cellule della corteccia parietale posteriore aumentano la loro frequenza di scarica durante l’esecuzione dei movimenti volontari. Sono stati identificati, nelle scimmie, neuroni che si attivano solo quando l’animale manipola oggetti per apprezzarne le qualità fisiche e sono pertanto denominati neuroni di manipolazione. Altri neuroni scaricano quando l’animale muove l’arto superiore per raggiungere un oggetto che attira il suo interesse, per cui sono denominati neuroni di proiezione del braccio. Queste cellule avrebbero la funzione di integrare le informazioni sensitive riguardanti le parti corporee dell’animale coinvolte nel movimento con le informazioni spaziali inerenti il bersaglio del movimento stesso.
Le vie motorie discendenti (organizzazione generale) I motoneuroni spinali sono localizzati nella sostanza grigia in due nuclei distinti: mediale e laterale. ll nucleo mediale è costituito dai motoneuroni che innervano i muscoli assiali del collo e del dorso. Il nucleo laterale è costituito dai motoneuroni che innervano la muscolatura degli arti. All’interno del nucleo laterale, i motoneuroni collocati più medialmente innervano i muscoli prossimali degli arti, mentre quelli posti lateralmente innervano i muscoli distali. Questa disposizione mediolaterale dei motoneuroni è fondamentale per comprendere l’organizzazione delle vie motorie discendenti.
Esistono infatti due sistemi di fibre discendenti, che collegano i centri motori superiori (corticali e troncoencefalici) ai motoneuroni inferiori (Lawrence e Kuypers, 1968). Il primo sistema è formato da fibre che decorrono nel cordone laterale del midollo spinale e controllano i motoneuroni situati lateralmente nel grigio midollare, addetti alla innervazione dei muscoli distali. Tale sistema prende il nome di via laterale e comprende il tratto corticospinale laterale e il tratto rubrospinale. Esso è deputato al controllo volontario della muscolatura distale degli arti e dipende strettamente dalla corteccia cerebrale. Il secondo sistema è formato da fibre che decorrono nel cordone ventro-mediale del midollo spinale, destinate ai motoneuroni situati nel nucleo mediale del grigio midollare e nella porzione mediale di quello laterale, che innervano rispettivamente i muscoli assiali e quelli prossimali degli arti. Tale sistema, denominato ventro-mediale, dipende fondamentalmente dal tronco encefalico ed è addetto al controllo della postura e della deambulazione. Il sistema ventro-mediale comprende il tratto cortico-spinale ventrale, il tratto vestibolo-spinale, i tratti reticolo-spinali pontino e bulbare e il tratto tetto-spinale. La corteccia motoria controlla tali sistemi discendenti attraverso fibre corticovestibolari, cortico-reticolari e fibre destinate al collicolo superiore.
Il sistema laterale Comprende il fascio piramidale e il fascio rubrospinale. Il fascio piramidale è costituito da fibre che attraversano le piramidi bulbari (dalle quali il fascio trae il proprio nome), riconoscibili come due ampi rigonfiamenti sulla superficie ventrale del bulbo a livello della giunzione bulbo-midollare. Le fibre del fascio piramidale prendono origine dalla corteccia cerebrale e la maggior parte di esse termina nel midollo spinale. Per
Funzione motoria
tale motivo il fascio piramidale è detto anche fascio cortico-spinale. Vengono comprese nel fascio piramidale anche le fibre destinate ai nuclei motori dei nervi cranici. Tali fibre non sono piramidali, perché non passano attraverso le piramidi bulbari, e non sono neppure corticospinali, perché terminano nel tronco dell’encefalo. Tuttavia si considerano parte del fascio piramidale sulla base di un duplice criterio anatomico (decorrono in stretto contatto con le fibre cortico-spinali, prima di staccarsi da esse per raggiungere i nuclei di destinazione) e funzionale (mettono in contatto diretto i centri motori corticali con i nuclei contenenti i motoneuroni inferiori). Il fascio piramidale è costituito da circa un milione di fibre, due terzi delle quali prendono origine dalle aree motorie corticali (un terzo dall’area 4 e un terzo dall’area 6); il terzo restante origina dalla corteccia somatosensoriale primaria (aree 1, 2, 3) e dalle aree parietali posteriori (aree 5 e 7). Le fibre provenienti dalle aree sensitive afferiscono ai nuclei gracile e cuneato e alle corna posteriori del midollo spinale; esse sono verosimilmente responsabili della modulazione corticifuga della trasmissione sensoriale. Tutte le fibre del fascio piramidale hanno il corpo cellulare nel V strato della corteccia cerebrale. Tali cellule rappresentano il neurone superiore della motilità volontaria, detto anche 1° neurone di moto. Le cellule corticali del V strato, che danno luogo a proiezioni corticofugali, sono denominate, in tutte le aree corticali nelle quali sono presenti, cellule piramidali, per la particolare conformazione del loro pirenoforo. È solo per caso che le fibre delle cellule piramidali, che danno luogo alle proiezioni corticospinali, siano anch’esse denominate piramidali, in virtù del loro decorso attraverso le piramidi bulbari. Riassumendo, il fascio è detto piramidale perché decorre nelle piramidi bulbari (Turk, 1851) e non perché rappresenta le proiezioni dei neuroni piramidali della corteccia cerebrale.
Circa il 90% delle fibre del fascio piramidale ha un diametro che va da 1 a 4 µm e pertanto
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conduce l’impulso nervoso a bassa velocità. Solo il 2% delle fibre ha un diametro assai maggiore, compreso tra 10 e 20 µm. Tali fibre, caratterizzate da una velocità di conduzione che oltrepassa i 60 m/sec, originano probabilmente da cellule piramidali giganti, localizzate nell’area motoria primaria, denominate cellule di Betz. Il 6% delle fibre del fascio piramidale non è mielinizzato; sconosciuta è la loro origine così come la loro funzione. Le fibre del fascio piramidale discendono attraverso la corona radiata e convergono nei 2/3 anteriori del braccio posteriore della capsula interna (Figg. 2.9, 2.10) raggiungendo i 3/5 medi del peduncolo cerebrale, la porzione basale del ponte e le piramidi bulbari. A livello della parte caudale del bulbo, la maggior parte delle fibre si incrocia e raggiunge il lato opposto del midollo spinale decorrendo nel cordone laterale (fascio piramidale crociato o laterale). Le vie piramidali includono, come abbiamo già detto, il «fascio cortico-bulbare» o «fascio genicolato» destinato ai nuclei motori dei nervi cranici (Fig. 2.11). Tali fibre decorrono nella corona radiata, passano attraverso il ginocchio della capsula interna (donde la denominazione di fascio genicolato), la parte più mediale dei 3/5 medi del peduncolo cerebrale per terminare, direttamente o indirettamente, a mezzo di neuroni intercalari, sulle cellule di origine dei nervi cranici del tronco encefalico. La maggioranza delle fibre incrocia il piano mediano, ma una modesta percentuale di fibre raggiunge il nucleo motore dello stesso lato. Molti nuclei dei nervi cranici motori e precisamente i nuclei dei nervi oculomotori (III, IV, VI), i nuclei del V, del VII superiore, il nucleo ambiguo (IX, X, XI), ricevono fibre dall’area motoria di ambedue gli emisferi e usufruiscono pertanto di una innervazione bilaterale. Ne consegue che una lesione unilaterale delle vie corticali discendenti dirette a questi nuclei non produce paralisi, poiché le fibre controlaterali mantengono adeguatamente l’attività motoria.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
capsula interna
nuclei dell’oculomotore mesencefalo
nuclei del trigemino ponte
bulbo
nuclei dell’ipoglosso nucleo ambiguo piramide
midollo cervicale
midollo lombare
Fig. 2.9 - Rappresentazione schematica del decorso della via motoria cortico-spinale. 1: fibre per l’arto inferiore; 2: fibre per il tronco; 3: fibre per l’arto superiore; 4: fibre per i muscoli della faccia; 5: fibre cortico-bulbari; 6: fascio cortico-spinale; 7: decussazione motoria; 8: fascio cortico-spinale diretto.
Funzione motoria Braccio anteriore
N. caudato F. fronto-pontino Radiaz. talamiche anteriori F. genicolato o corticobulbare F. piramidale
Talamo
Putamen Globo pallido Vie corticorubre e corticotegmentali Radiaz. uditive Radiaz. ottiche Braccio posteriore
Fig. 2.10 - Rappresentazione schematica del decorso della via cortico-spinale e cortico-bulbare nella capsula interna.
Fascio cortico-bulbare Nucleo del III Nucleo del IV Nucleo del V Nucleo del VI Nucleo del VII Nucleo ambiguo Nucleo del XII
Fig. 2.11 - Rappresentazione schematica delle modalità con cui il fascio cortico-bulbare termina nei nuclei dei nervi cranici.
Gli assoni del fascio piramidale crociato terminano nella regione dorsolaterale delle corna ventrali del midollo spinale, ove sono situati i motoneuroni che controllano i muscoli distali degli arti, in particolare i flessori. Nel midollo spinale la via piramidale si articola con un nu-
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mero di motoneuroni spinali che, per ciascun lato, ammonta a circa 200.000-250.000. Alcune fibre corticospinali entrano in contatto sinaptico diretto con i motoneuroni alfa, mentre altre li raggiungono indirettamente attraverso interneuroni spinali. Sono i motoneuroni che innervano i muscoli flessori a ricevere il maggior contingente di connessioni monosinaptiche. Le fibre corticospinali, oltre ad eccitare i motoneuroni alfa, hanno proiezioni eccitatorie sugli interneuroni spinali (compresi quelli che mediano l’inibizione reciproca, detti interneuroni Ia), sulle cellule di Renshaw e sui motoneuroni gamma. Nell’uomo e negli altri primati la lesione del fascio piramidale crociato comporta la perdita della capacità di muovere indipendentemente le dita, con conseguente difficoltà nell’esecuzione di compiti motori fini. Il fascio corticospinale è un sistema di fibre filogeneticamente recente. Nell’uomo è formato da circa un milione di fibre, mentre nello scimpanzé è costituito da 800000 fibre, nel macaco da 400000 e nel gatto da 186000. Nel gatto non esistono fibre corticospinali che proiettano direttamente sui motoneuroni alfa. Tali componenti monosinaptiche compaiono solo nelle scimmie e diventano molto più numerose nell’uomo.
Il fascio rubro-spinale è invece più sviluppato nelle scimmie e negli altri mammiferi (ad esempio il gatto) che nell’uomo. Le fibre traggono origine dal nucleo rosso, situato nel mesencefalo, si incrociano poco dopo la loro origine sulla linea mediana, e discendono poi nel cordone laterale del midollo spinale. Tali fibre sono collegate attraverso sinapsi eccitatorie con interneuroni che, a loro volta, eccitano i motoneuroni flessori degli arti. Le cellule d’origine del fascio rubro-spinale ricevono afferenze eccitatorie dalla corteccia motoria e dal cervelletto. Si ritiene che il sistema rubro-spinale o meglio cortico-rubro-spinale duplichi molte delle funzioni del tratto cortico-spinale. A questo proposito appare suggestivo che nell’uomo il con-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
siderevole sviluppo, rispetto agli altri primati, del sistema piramidale coincida con l’ involuzione della via cortico-rubro-spinale.
Il sistema ventro-mediale Il fascio piramidale diretto o fascio corticospinale ventrale è formato dalle fibre del fascio piramidale, che non si decussano a livello delle piramidi bulbari e decorrono nel cordone anteriore del midollo spinale (10-20% delle fibre piramidali). Contrariamente alle fibre del fascio cortico-spinale laterale, le fibre del fascio diretto innervano i motoneuroni dei muscoli assiali di ambo i lati (parte delle fibre si decussa infatti a livello della commessura bianca anteriore del midollo spinale). La via vestibolo-spinale deriva principalmente dal nucleo vestibolare laterale (nucleo di Deiters). È una via pressoché interamente ipsilaterale, che porta le cellule motorie del midollo spinale sotto il controllo del sistema vestibolare. Decorre nel cordone ventrale del midollo spinale e termina nella porzione ventro-mediale della zona intermedia del grigio midollare (localizzata tra la base del corno anteriore e quella del corno posteriore). I nuclei vestibolari ricevono fibre dal labirinto ipsilaterale, attraverso il ramo vestibolare dell’VIII nervo cranico, e dal cervelletto. In particolare la via cerebellovestibolare (che origina direttamente dalle cellule di Purkinje della corteccia del lobo anteriore) esplica una azione inibitoria sul nucleo vestibolare di Deiters. La via vestibolo-spinale produce eccitazione disinaptica dei motoneuroni estensori ed inibizione di quelli flessori. Il fascio reticolo-spinale mediale prende origine dalla formazione reticolare mediale del ponte e decorre ipsilateralmente nel cordone ventrale del midollo spinale. Termina nella porzione ventro-mediale della zona intermedia ed ha una funzione facilitante sul tono muscolare, fornendo input eccitatori ai motoneuroni dei muscoli estensori.
Il fascio reticolo-spinale laterale è formato da assoni che provengono dalla formazione reticolare bulbare (nucleo reticolare gigantocellulare e cellule adiacenti di calibro minore), incrocia la linea mediana e termina sulle porzioni laterali della zona intermedia. Ha un’azione inibitoria sul tono muscolare. Il fascio tetto-spinale origina negli strati profondi del collicolo superiore, è crociato e termina nella porzione ventro-mediale della zona intermedia (prevalentemente nei segmenti cervicali del midollo spinale). Controlla gli spostamenti del capo e degli occhi rispetto a bersagli visivi e uditivi.
I gangli della base I gangli della base sono costituiti dalle seguenti strutture: – il nucleo caudato; – il putamen; – il globo pallido; – il nucleo subtalamico; – la sostanza nera. Tali strutture venivano un tempo considerate facenti parte del sistema extrapiramidale. Tale sistema veniva definito come l’insieme delle vie motorie discendenti escluso il fascio piramidale. Attualmente l’aggettivo extrapiramidale è utilizzato pressoché esclusivamente in ambito clinico, per indicare le malattie dovute all’alterato funzionamento dei gangli della base.
Il nucleo caudato, il putamen e il globo pallido sono situati nella parte centrale del telencefalo, al di sotto degli strati corticali degli emisferi cerebrali, lateralmente al talamo. Nel loro insieme tali nuclei vengono denominati corpo striato, ad indicare che tale struttura è costituita da formazioni grigie intersecate da fasci di fibre nervose. Molti testi, tuttavia, usano il termine nucleo striato per indicare il caudato ed il putamen, filogeneticamente più recenti del pallido. Il braccio anteriore della capsula interna separa il nucleo caudato dal putamen, men-
Funzione motoria ventricolo laterale
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corpo calloso
plesso corioideo nucleo caudato
fornice terzo ventricolo talamo fascio mammillo talamico
massa intermedia capsula interna putamen n. lenticolare globo pallido capsula esterna claustro
{
fascio lenticolare nucleo subtalamico sostanza nera piede del peduncolo corpo mammillare
corno inferiore del ventricolo laterale ippocampo III n. cranico
fossa interpeduncolare
Fig. 2.12 - Sezione frontale dell’encefalo per dimostrare il corpo striato, il nucleo subtalamico, la sostanza nera.
tre il braccio posteriore è posto tra globo pallido e talamo. Il nucleo caudato ed il putamen, vengono denominati neo-striato. Il globo pallido, noto come paleo-striato essendo filogeneticamente più antico del caudato e del putamen, è anche denominato pallidum e comprende un segmento laterale (globo pal-
lido laterale) e uno mediale (globo pallido mediale) separati ad opera di un sistema di fibre denominato lamina midollare mediana (Fig. 2.12 e 2.13). Il nucleo caudato ed il putamen, di derivazione telencefalica, sono identici dal punto di vista citoarchitettonico. Sono caratterizzati da una
girus cinguli polo frontale cavità del setto pellucido ginocchio del corpo calloso circonvoluzione frontale sup. circonvoluzione frontale media testa del nucelo caudato setto pellucido
corno ant. del ventricolo laterale opercolo frontale insula scissura di Silvio
circonvoluzione triangolare opercolo frontale
pallido putamen
capsula esterna claustro capsula estrema
parte talamolenticolare del braccio posteriore della capsula interna parte retrolenticolare del braccio posteriore della capsula interna pulvinar stria terminale fimbria
talamo dorsale massa intermedia coda del nucleo caudato terzo ventricolo abenula epifisi o corpo pineale tubercolo quadrigemello sup. scissura calcarina polo occipitale
ippocampo corno d’Ammone fascia dentata solco fimbriodentato scissura dell’ippocampo
Fig. 2.13 - Sezione orizzontale dell’encefalo per dimostrare le formazioni basali.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
struttura omogenea, all’osservazione con il microscopio ottico, e contengono numerosi piccoli neuroni tra cui sono sparse in modo uniforme cellule di grossa taglia. Tali nuclei presentano inoltre connessioni nervose e funzioni simili. Per tale motivo sono probabilmente da considerare come un’unica struttura, separata in due porzioni dalle fibre della capsula interna. Il globo pallido, che deriva dal diencefalo, presenta una citoarchitettonica completamente differente, essendo formato da neuroni fusiformi di grossa taglia, scarsamente addensati. Il nucleo subtalamico è una formazione grigia localizzata nella porzione più caudale del diencefalo, medialmente alla capsula interna, nella zona in cui le fibre si riuniscono a formare il peduncolo cerebrale. La sostanza nera, situata nel mesencefalo, è compresa tra il tegmento ed il peduncolo cerebrale. Essa è divisibile in due zone: la parte ventrale, pallida e citologicamente simile al globo pallido, denominata parte reticolata, ed una parte dorsale, caratterizzata da una pigmentazione scura, nota come parte compatta, costituita da neuroni dopaminergici (la neuromelanina, pigmento nero che conferisce il colore scuro alla sostanza nera, è un polimero della dopamina). Il segmento interno del globo pallido e la parte reticolata della sostanza nera, simili per le loro caratteristiche citologiche e per le loro connessioni, sono da considerare, così come il nucleo caudato ed il putamen, un’unica struttura funzionale. Talvolta il putamen ed il globo pallido vengono denominati globalmente, per il loro aspetto macroscopico, nucleo lenticolare, di cui il putamen occupa il terzo laterale e il globo pallido i due terzi mediali. Tale associazione ha un valore puramente morfologico, essendo priva di alcun significato funzionale.
I gangli della base costituiscono una unità funzionale, nell’ambito della quale è presente una netta compartimentazione dei compiti. Infatti, quasi tutte le fibre destinate ai gangli della base terminano a livello del neostriato (caudato e
putamen), che possiamo pertanto definire il centro di ricezione del sistema. Invece, le principali vie che originano dai gangli della base, raggiungendo altre strutture nervose, prendono origine dal segmento interno del globo pallido e dalla parte reticolata della sostanza nera, che costituiscono così il centro di proiezione del sistema. I principali sistemi di fibre destinate al neostriato provengono dalla corteccia cerebrale, dalla parte compatta della sostanza nera e dal talamo. L’intera corteccia cerebrale (aree motorie, sensitive, associative e limbiche) contribuisce alle proiezioni cortico-striatali. Queste ultime sono arrangiate topograficamente, nel senso che aree specifiche della corteccia cerebrale proiettano ad aree specifiche del neostriato. Le fibre cortico-striatali sono eccitatorie ed utilizzano l’acido glutammico come mediatore chimico dell’impulso nervoso. Le fibre nigro-striatali hanno origine dalla parte compatta della sostanza nera ed utilizzano come neurotrasmettitore la dopamina. Nel neo-striato sono stati identificati tre gruppi di neuroni: a) interneuroni colinergici; b) neuroni inibitori GABAergici, che contengono anche, come co-trasmettitore, la sostanza P (neuroni GABA P); c) neuroni inibitori GABAergici, contenenti, come co-trasmettitore, encefalina (neuroni GABA Enc). I neuroni GABA P presentano, nella loro membrana, recettori per la dopamina di tipo 1 (D1); la stimolazione di tali recettori ha un’azione eccitatoria sulla funzione cellulare. I neuroni GABA Enc e gli interneuroni colinergici esprimono invece recettori di tipo 2 (D2), la cui attivazione determina inibizione cellulare. L’azione delle fibre dopaminergiche sui neuroni striatali dipende pertanto dal tipo di recettore per la dopamina presente sulla membrana postsinaptica. Le fibre talamo-striatali originano prevalentemente dai nuclei intralaminari del talamo e sono anch’esse organizzate topograficamente. Una notevole percentuale di queste fibre proviene dal nucleo centro-mediano, che a sua volta riceve afferenze dalla corteccia motoria.
Funzione motoria
La principale via efferente che prende origine dal globo pallido mediale e dalla parte reticolata della sostanza nera è destinata al talamo e termina nei nuclei ventrale-anteriore (VA) e ventrale-laterale (VL). Questa via utilizza come trasmettitore l’acido gamma amino-butirrico (GABA) ed è pertanto inibitoria. I nuclei VA e VL, a loro volta, proiettano fibre eccitatorie (glutammatergiche) alla corteccia prefrontale e, soprattutto, alle aree corticali premotorie e motorie (6 e 4 di Brodmann). I gangli della base sono connessi anche ai nuclei troncali mediante fibre pallido-tegmentali, nigro-tettali e nigro-reticolari (Fig. 2.14, 2.15 e 2.16). Le fibre pallido-tegmentali discendono nel tegmento mesencefalico, dove entrano in sinapsi con i neuroni del nucleo tegmentale peduncolo-pontino; quest’ultimo proietterebbe ai nuclei vestibolari e reticolari. Le fibre nigro-tettali terminano nel collicolo superiore, da dove originano i fasci tetto-reticolare e tetto-spinale. Le fibre nigro-reticolari proiettano direttamente alla formazione reticolare, da cui originano le fibre reticolo-spinali.
La compartimentazione funzionale all’interno dei gangli della base implica che il centro di ricezione del sistema (nucleo caudato e putamen) sia collegato al centro di proiezione (globo pallido mediale e parte reticolata della sostanza nera). Recenti ricerche hanno permesso di individuare due vie di collegamento tra i suddetti compartimenti: una “via diretta” e una “via indiretta”. La “via diretta” è formata dai neuroni neostriatali GABA P, che proiettano direttamente alla parte reticolata della sostanza nera e al globo pallido mediale, che vengono inibiti. L’attivazione di tali fibre svincola pertanto i nuclei talamici VA e VL dal controllo inibitorio esercitato dai gangli della base, inducendo così l’attivazione delle proiezioni eccitatorie talamocorticali. La “via indiretta” prende origine dai neuroni neo-striatali GABA Enc, che inibiscono i neuroni
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GABAergici localizzati nel globo pallido laterale. Questi ultimi esercitano un controllo inibitorio sul nucleo subtalamico, i cui neuroni glutammatergici determinano l’eccitazione dei neuroni del globo pallido mediale e della parte reticolata della sostanza nera. Pertanto l’attivazione della “via indiretta”, svincolando il nucleo subtalamico dal controllo inibitorio del globo pallido laterale, induce eccitazione dei neuroni del centro di proiezione, inibendo così le proiezioni eccitatorie talamo-corticali. È opportuno sottolineare che le fibre dopaminergiche nigro-striatali eccitano i neuroni GABA P, mentre inibiscono i neuroni GABA Enc. In tal modo eccitano la “via diretta” ed inibiscono la “via indiretta”, attivando le proiezioni eccitatorie talamo-corticali. Le connessioni nervose dei gangli della base sopra descritte, permettono di speculare sulla loro funzione. I gangli della base ricevono afferenze da tutte le aree della corteccia cerebrale e le ritrasmettono, attraverso il talamo, principalmente all’area premotoria. In tal modo, costituiscono una sorta d’imbuto, che concentra in una zona circoscritta della corteccia cerebrale le afferenze provenienti da tutta la corteccia. La volontà di compiere un movimento è un concetto intimamente connesso a quello di coscienza e pertanto presuppone l’attivazione sinergica di vaste aree della corteccia cerebrale. La pianificazione del movimento e l’elaborazione del segnale di avvio sono affidate principalmente all’area premotoria. I gangli della base, concentrando l’attività diffusa della corteccia nelle aree corticali premotorie, consentirebbero di tradurre la volontà di compiere un movimento nella programmazione e nell’avvio del movimento stesso.
Il cervelletto Per l'anatomia e le funzioni del cervelletto v. pag. 497.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 2.14 - Schema delle connessioni del sistema extrapiramidale. 1: connessioni intrinseche tra i diversi nuclei del corpo striato. 2: Connessioni cortico-striate. Le fibre provengono dall’area frontale (aree 4-6-8 e corteccia orbitale); parietale (aree 2-5-7); insulare; temporale; cingolata. 3: Connessioni talamo-striate (a sinistra), striato-talamiche (a destra) e talamocorticali (VA e VL proiettano all’area 4 e 6) (CM = nucleo centro-mediano; DM = nucleo dorso-mediale; VL = nucleo ventralelaterale; VA = nucleo ventrale anteriore). 4: Connessioni nigro-striate e cortico-nigriche (a sinistra); e connessioni striatonigriche e nigro-tegmentali (a destra).
Funzione motoria
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Fig. 2.15 - 5: Connessioni striato-subtalamiche e subtalamo-tegmentali (a sinistra); subtalamo-striate (a destra). 6: Connessioni striato rubriche. 7: Vie efferenti del corpo striato: 1: fascicolo pallido-ipotalamico; 2: fascicolo subtalamico e vie subtalamo-tegmentali; 3: ansa lenticolare.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
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Fig. 2.16 - Schema delle principali connessioni anatomo-funzionali dei gangli della base.
Esame della funzione motoria Tono muscolare Per esaminare il tono muscolare si osserva preliminarmente l’atteggiamento generale del paziente: la postura del tronco in posizione di riposo, quindi quella del capo, del collo e la postura degli arti, ciascuno in confronto con il lato opposto e con il tronco. Queste osservazioni saranno ripetute con il paziente seduto, in piedi e durante la marcia. In questo modo vengono osservate le risposte dei vari muscoli alla gravità e le variazioni dovute al peso della testa e degli arti. In seguito viene saggiata la resistenza passiva alla mobilizzazione degli arti a livello di ciascuna articolazione. È indispensabile che il paziente sia completamente rilassato e non solo con l’invito a collaborare mantenendo un atteggiamento di abbandono, ma distraendone l’attenzione, ad esempio, interrogandolo su fatti familiari o sulla sua malattia.
Ogni articolazione viene mobilizzata passivamente lungo tutti i suoi assi e ogni movimento (al collo ed ai quattro arti) deve essere ripetuto varie volte, poiché determinati aspetti semeiologici (ad esempio il fenomeno della troclea dentata) non sono immediatamente apprezzabili. La sensazione che si rileva in caso di normotonia è una resistenza molto modesta. Nell’ipertonia, ovviamente, la resistenza aumenta notevolmente, a volte tanto da impedire la mobilizzazione. L’ipertono può essere distribuito preferenzialmente a determinati muscoli, estensori o flessori, oppure a gruppi di muscoli dotati di una specializzazione particolare, ad esempio i muscoli antigravitari. Nell’ipotonia, che semeioticamente risulta di più difficile apprezzamento dell’ipertonia, vi è una maggiore facilità e cedevolezza alla mobilizzazione passiva, le articolazioni possono essere maggiormente iperestese (fenomeno della «iperestensibilità» degli Autori francesi, indice altresì di deficit motorio). Quando gli arti sono
Funzione motoria
lasciati cadere sul piano del letto, quelli dal lato ove esiste ipotonia cadono più pesantemente, oppure quando gli arti sono passivamente agitati (manovra del ballottamento), si osservano escursioni più ampie ed intense dal lato leso. La maggiore o minore ampiezza, la durata, il numero di queste escursioni sono in funzione dell’entità del tono esistente nei muscoli interessati. Per ricercare questo segno è essenziale, come abbiamo detto, che il paziente sia decontratto ma, quando si debbano studiare le oscillazioni agli arti inferiori, è utile fare eseguire anche la manovra di Jendrassik (l’ammalato seduto sul lettino a gambe penzoloni fuori dal letto viene invitato a mantenere il capo esteso, occhi fissi al soffitto, e ad agganciarsi le mani l’una all’altra espletando il massimo della forza). Si imprime alla gamba un movimento di flesso-estensione e questa passivamente continua ad oscillare pendolarmente per un certo tempo. Gli arti superiori sono esaminati a paziente in piedi, imprimendo alle spalle o ai fianchi movimenti dall’indietro all’avanti (o viceversa) alternativamente. Quando esiste una ipotonia il movimento è aumentato in ampiezza, durata e frequenza di oscillazione e la traiettoria non è più rettilinea; nella rigidità di tipo extrapiramidale il movimento è poco ampio e le oscillazioni sono spesso ridotte o addirittura abolite.
Alterazioni del tono muscolare IPERTONIE Si distinguono classicamente, contrapponendone le caratteristiche, la rigidità o ipertonia extrapiramidale, osservabile ad esempio nella malattia di Parkinson, e la spasticità o ipertonia piramidale, osservabile ad esempio nell’emiplegia capsulare. La distinzione fra ipertonia piramidale ed extrapiramidale è fondata su dati anatomo-cli-
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nici. Mentre i caratteri semeiologici di questi due tipi di ipertonie sono netti e precisi, gli schemi e le interpretazioni fisiopatologiche sono più incerti. Infatti, come è già stato detto, gli schemi anatomo-funzionali del sistema piramidale e del sistema extrapiramidale non possono essere ritenuti, al momento attuale, completamente chiariti. Circa l’esistenza di ipertonie di origine muscolare i pareri sono discordi. IPERTONIA PIRAMIDALE L’ipertonia piramidale o spasticità (da non confondere con «spasmo», v. pag. 71) è rappresentata dalla resistenza che si apprezza nella mobilizzazione passiva di arti o segmenti di arti (cioè nello stiramento passivo di un muscolo) e che aumenta proporzionalmente alla velocità di stiramento; tale resistenza, ad un certo livello di stiramento, può cessare all’improvviso (fenomeno del temperino o del coltello a serramanico). L’ipertonia piramidale interessa i muscoli antigravitari e cioè all’arto superiore i muscoli flessori ed i pronatori dell’avambraccio, i flessori del polso e delle dita; all’arto inferiore i muscoli adduttori ed estensori della coscia e della gamba, i flessori plantari del piede e delle dita. L’atteggiamento è pertanto tipico: arto superiore flesso ed intraruotato, arto inferiore esteso con piede equino-varo (Fig. 2.17). L’andatura, considerato l’atteggiamento dell’arto inferiore, è particolare e definita «falciante» poiché nel camminare l’emiparetico effettua con l’arto inferiore un movimento di circonduzione e abduzione a livello dell’articolazione dell’anca per ovviare alla abolizione o riduzione della flessione a livello dell’articolazione del ginocchio. Considerato inoltre che il piede è in flessione plantare, le dita tendono a strisciare contro il suolo. Normalmente l’ipertonia piramidale tende ad instaurarsi 7-15 giorni dopo l’esordio dell’emi-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia fusi neuromuscolari in caso di spasticità (Burke, 1983 e 1988). Esiste attualmente un generale consenso nel ritenere che una ridotta soglia o un’aumentata risposta allo stiramento stiano alla base dell’ipertonia e dell’aumento dei riflessi osteotendinei. Tale fenomeno è principalmente determinato da un’alterata elaborazione dei segnali afferenti al midollo spinale che, unitamente all’alterato controllo sovraspinale può condurre ad una condizione d’ipereccitabilità motoneuronale. La riduzione o la perdita del controllo sopraspinale può intervenire attraverso la variabile compromissione di alcuni meccanismi inibitori: a) inibizione pre-sinaptica Ia, b) inibizione reciproca Ia, c) inibizione non-reciproca Ib, d) inibizione ricorrente. Accanto alle modificazioni neurali dell’eccitabilità del pool motoneuronale, numerosi fattori biomeccanici contribuiscono al fenomeno spasticità: retrazione dei tessuti molli, accorciamento muscolare, modificazioni delle proprietà visco-elastiche muscolari (‘stiffness’). L’ipertonia spastica, inoltre, si associa comunemente ad altri fenomeni (spasmi flessori od estensori, co-contrazione, reazioni associate) che riconoscono meccanismi fisiopatologici diversi. L’interruzione della via piramidale non sembra essere un elemento particolarmente rilevante nella genesi dell’ipertonia spastica (lesioni isolate del fascio piramidale producono esclusivamente una perdita dell’agilità motoria ed una risposta plantare estensoria). Avrebbe, invece, maggiore valore il disequilibrio di due sistemi discendenti, uno inibitorio (via reticolo-spinale dorsale) ed uno eccitatorio (via reticolo-spinale mediale e via vestibolo-spinale) che originano nel tronco encefalico e contraggono sinapsi con il pool interneuronale spinale.
Fig. 2.17 - Atteggiamento di soggetto con emiparesi sinistra da lesione delle vie corticospinali a livello capsulare, sottoposta a rieducazione motoria (da C. Loeb e A. Brusa, in: Diagnostica Differenziale, A. Wassermann ed., 1959).
plegia, ma esistono, d’altra parte, casi che presentano anche permanentemente una netta ipotonia. Altri casi, al contrario, dimostrano fin dai primi momenti un aumento del tono muscolare (ipertonia precoce).L’ipertonia precoce dimostra una intensità molto variabile nel corso dello stesso esame o a distanza di poche ore nello stesso paziente (Fazio, 1942, 1945). L’ipotesi che la spasticità dipenda da una iperattività dei motoneuroni gamma è contraddetta da studi microneurografici che dimostrano la normalità funzionale dei
IPERTONIA EXTRAPIRAMIDALE Le caratteristiche semeiotiche dell’ipertonia extrapiramidale o rigidità, sono nettamente differenziabili da quelle della spasticità piramidale. La rigidità extrapiramidale interessa in egual misura sia i muscoli agonisti che antagonisti, talora con saltuaria prevalenza degli uni o degli altri, per cui la resistenza opposta alla mobilizzazione passiva è sempre eguale dall’inizio alla fine del movimento passivo. Il muscolo passivamente disteso conserva la posizione assunta, rendendo ragione dei termini di «rigidità plastica», flexibilitas cerea, «rigidità a tubo di piombo», impiegati per indicare queste caratteristiche della rigidità extrapiramidale.
Funzione motoria
Durante la mobilizzazione passiva si può osservare un altro particolare fenomeno, tipico nei soggetti affetti da malattia di Parkinson, detto «fenomeno della ruota o troclea dentata» per cui, durante la mobilizzazione passiva si succedono variazioni del tono, dando all’esaminatore la sensazione che a livello dell’articolazione esista una sorta di ruota dentata, che fa subire al movimento passivo arresti corrispondenti alle singole dentellature (fenomeno della ruota dentata di C. Negro, 1901). La rigidità extrapiramidale è associata ad aumento dei riflessi di postura elementari (v. pag. 56); cessa durante il sonno e la narcosi. I meccanismi fisiopatologici che sottendono la rigidità extrapiramidale non sono ancora del tutto noti. La rigidità non è apparentemente causata da un’iperattività dei gamma motoneuroni, ma dipende da una combinazione della difficoltà al rilasciamento dei pazienti con un’abnorme attivazione del riflesso da stiramento. Si ipotizza, secondariamente alla compromissione dei gangli della base, l’esistenza di un alterato controllo corticale dei circuiti segmentali spinali (pool interneuronale Ib), con modificazione dell’attivazione legata allo stiramento muscolare. Il fenomeno della ruota dentata, originariamente attribuito ad una serie di reazioni di allungamento-accorciamento eccessive, si ritiene esprima la sovrapposizione di scariche di attività di un tremore d’azione subclinico (6-8 Hz) sul tono muscolare aumentato.
NEGATIVISMO MOTORIO - PARATONIA Con il termine di negativismo motorio (Gegenhalten di Kleist, 1927) si intende (Fazio, 1945) una modificazione del tono che interviene quando si tenta di mutare, con movimenti passivi, la posizione di segmenti corporei, e che viene avvertita dall’esaminatore come una resistenza che consolida la posizione di partenza e cresce proporzionalmente alla forza impiegata per vincerla. Il negativismo motorio si rileva in una discreta percentuale di casi di apoplessie cerebrali nell’emilato opposto a quello plegico. La paratonia (Dupré, 1925) è l’impossibilità al rilassamento volontario dei muscoli su
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comando. I muscoli sono in uno stato di aumentata tensione muscolare; ai tentativi di muovere passivamente l’arto si incontra una notevole resistenza che tende a mantenere l’arto nella posizione primitiva. L’influenza dell’attenzione sul fenomeno sembra notevole. Alla «prova del braccio morto» (Dupré) l’arto non solo non si rilascia, malgrado l’invito dell’esaminatore, ma si blocca man mano che il soggetto tenta di eseguire l’ordine, mentre in quella del «lancio del braccio» (nell’eseguire il tentativo di lancio) l’arto si blocca in posizioni similcatatoniche. La paratonia si riscontra spesso negli alcoolisti acuti e negli oligofrenici. Anche Kleist, successivamente (1934), aveva individuato questa condizione, denominandola negativismo motorio spontaneo (insorge in assenza di stimoli esterni), in contrapposizione al precedente, o negativismo motorio puro (insorge in rapporto con stimoli esterni). RIGIDITÀ DA DECEREBRAZIONE Nell’animale la sezione del tronco cerebrale a livello intercollicolare, e cioè tra i tubercoli quadrigemini anteriori e posteriori, provoca la comparsa di una rigidità tonica distribuita ai muscoli antigravitari (rigidità da decerebrazione) (Sherrington, 1898). Nell’uomo l’ipertonia estensoria dei 4 arti si accompagna a pronazione e rotazione interna degli arti superiori, ad abduzione e rotazione interna degli arti inferiori. Le dita della mano sono estese in corrispondenza delle articolazioni metacarpo-falangee e flesse in corrispondenza delle articolazioni interfalangee; esiste flessione plantare dei metatarsi e delle falangi ai piedi (Fig. 2.18 A). Molto evidenti sono i riflessi tonici del collo. Una riproduzione parziale degli atteggiamenti tipo rigidità decerebrata si può osservare nei traumatizzati cranici con associati segni di lesione del tronco encefalico, o in traumatizzati con alterazioni osteostrutturali delle prime vertebre cervicali.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 2.18 - (A) Atteggiamento in rigidità decerebrata. (B) Atteggiamento in rigidità decorticata.
Una riproduzione parziale dell’atteggiamento tipo rigidità decerebrata, con andamento accessuale, si osserva nei cosiddetti accessi tonici cerebellari (cerebellar tonic fits degli Autori anglosassoni), in rapporto con un improvviso aumento della tensione intracranica a livello della fossa cranica posteriore. L’episodio, che dura pochi secondi, si manifesta con lieve opistotono, cianosi, disturbi del respiro e talora della coscienza. Talvolta l’episodio è unilaterale e in questo caso omolaterale alla lesione cerebellare. La rigidità decerebrata sembra dovuta all’aumento di attività del nucleo vestibolare laterale, che esercita una spiccata azione facilitatoria sui motoneuroni alfa e gamma ipsilaterali a funzione estensoria, non bilanciata dalla normale opposta azione delle vie rubro-spinali, che facilitano i motoneuroni flessori. L’ablazione del paleocerebello (parte vermiana del lobo anteriore, piramide, uvula e paraflocculo), che esercita una azione inibitoria sul n. vestibolare laterale di Deiters, produce un aumento della rigidità da decerebrazione con opistotono. Al contrario la stimolazione del paleocerebello riduce la rigidità decerebrata. Ma nel mantenimento della rigidità decerebrata hanno anche notevole importanza impulsi afferenti: la rigidità infatti sparisce se sono
state sezionate le radici posteriori. Ciò dimostra che le afferenze fusoriali sono di grande importanza, tanto che spesso si parla, per la rigidità decerebrata, di rigidità gamma, intendendo che l’aumento di eccitabilità dei neuroni gamma produce l’eccitamento degli alfa motoneuroni. D’altra parte la rigidità da decerebrazione ottenuta per legatura delle due arterie carotidi e della basilare (rigidità decerebrata anemica, che produce lesioni di metà cervelletto e di gran parte del ponte) si mantiene anche dopo sezione delle vie radicolari afferenti. Ciò dimostra che gli alfa motoneuroni possono provocare un aumento del tono anche senza il concorso del circuito gamma. Questo rilievo è di notevole importanza clinica poiché dimostra che esistono due vie differenti per aumentare l’eccitabilità degli alfa motoneuroni: una attraverso il circuito gamma ed una indipendente da questa. Le crisi toniche cerebellari devono essere interpretate come episodi transitori di decerebrazione e si manifestano, in genere, in casi di tumore cerebellare. IPERTONIA DA DECORTICAZIONE (RIGIDITÀ DECORTICATA) La rigidità decorticata è rappresentata dal seguente atteggiamento: flessione degli arti superiori che sono addotti; estensione e rotazione interna degli arti inferiori, flessione plantare dei piedi (Fig. 2.18 B). Sperimentalmente questo atteggiamento segue l’ablazione dei lobi frontali o la decerebrazione talamica. Nell’uomo si osserva nelle vaste lesioni che interessano la capsula interna o un emisfero cerebrale, talora con lesioni dei gangli basali e del talamo. Si può ottenere la risposta tipo rigidità decorticata nelle prime ore dopo una lesione cerebrale acuta con l’impiego di stimolazioni nocicettive: compressione della parete superiore dell’orbita, suzione tracheale, o stimolazioni dolorose intense.
Funzione motoria
Negli animali decorticati (animale o preparazione talamica) si possono elicitare particolarmente bene i riflessi posturali (riflessi del collo, riflessi tonici del labirinto, riflessi di raddrizzamento). Crampi muscolari Il crampo è una contrazione muscolare improvvisa, visibile, palpabile, spesso associata a dolore, localizzata in un muscolo o in un gruppo di muscoli per lo più dell’arto inferiore, che può intervenire a riposo o, più frequentemente durante l’attività fisica prolungata od in risposta ad un’intensa contrazione volontaria; si risolve usualmente con il massaggio e lo stiramento del muscolo. Crampi intervengono frequentemente durante la gravidanza, nel raffreddamento, specie in acqua di mare, ma anche in soggetti normali, senza stimolazione alcuna. Del resto l’occasionale esperienza di un crampo è evenienza piuttosto comune. In ambito medico si possono osservare crampi nell’ambito di condizioni cliniche che modificano l’equilibrio idroelettrolitico (ipocalcemia, ipomagnesemia), quali: in seguito a terapia diuretica, per disidratazione, dopo vomito e diarrea, nel mixedema, nell’uremia, dopo dialisi. In neurologia, i crampi possono riscontrarsi in relazione ad un’alterazione funzionale del secondo motoneurone (motoneuroni spinali, nervi periferici), ma anche degli interneuroni spinali o delle fibre muscolari. L’EMG, durante il crampo, dimostra scariche di potenziali di unità motoria ad alta frequenza, spesso con potenziali di fascicolazione all’inizio e alla fine della sequenza elettrica. La genesi del crampo è oscura, ma l’associazione frequente con le malattie del secondo motoneurone e dei nervi periferici è considerata rilevante ai fini dell’interpretazione del fenomeno. La tendenza a manifestare crampi può essere ridotta o prevenuti dall’utilizzo di farmaci stabilizzanti la membrana quali il chinino, la dintoina e specialmente la carbamazepina.
Contrattura tetanica La tossina tetanica blocca l’attività di interneuroni inibitori (cellule di Renshaw ed altri) con conseguente iperattività dei motoneuroni spinali. Nel tetano, quindi l’attività motoria (volontaria o riflessa) evoca contrattura muscolari involontarie, più evidenti a livello della muscolatura masticatoria (trisma) e dei muscoli periorali (riso sardonico) fino ad osservare una rigidità quasi generalizzata, spesso associata ad iperreflessia.
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Sindrome dell’uomo rigido Si tratta di un quadro clinico infrequente, originariamente descritto da Moersch e Woltmann (1956), caratterizzato da una rigidità plastica d’intensità progressiva, localizzata prevalentemente alla muscolatura assiale (dorsale e cervicale) e prossimale degli arti ed, infine, generalizzata. Su questa rigidità s’instaurano crampi e spasmi dolorosi talora d’intensità tale da provocare deformazioni ossee e fratture. Esistono varianti localizzate ad un solo arto o con segni neurologici addizionali (atassia, mioclono, segno di Babinski). Questa sindrome viene attualmente interpretata come un encefalomielite cronica su base autoimmune, in relazione alla presenza di anticorpi diretti contro la glutammico decarbossilasi acida (GAD) nel 60 % circa dei casi e più raramente contro il pancreas (associazione con diabete mellito insulino-dipendente). Il trattamento, quindi, è basato sull’impiego di steroidi, plasmaferesi, e farmaci miorilassanti (benzodiazepine, baclofen).
IPOTONIE L’ipotonia è una riduzione del tono muscolare che può essere osservata a riposo, nel corso del mantenimento di alcune attitudini e durante la contrazione volontaria. In condizioni di riposo si apprezza con la palpazione la consistenza del muscolo e, con la mobilizzazione passiva, l’articolarità, cioè il massimo grado di estensione o flessione raggiungibile da quel determinato segmento d’arto, in altre parole il grado di estremo stiramento possibile (ovviamente ad integrità articolare assoluta). I meccanismi fisiopatologici alla base dell’ipotonia sono quelli già enunciati a proposito del tono muscolare. Appare quindi chiaro che l’ipotonia può essere determinata per lo più dalla lesione dell’arco riflesso elementare (a livello dei motoneuroni o delle radici motorie o a livello delle afferenze sensitive), più raramente dalla lesione di alcune strutture soprasegmentali (midollari od encefaliche) che controllano i motoneuroni alfa e il circuito gamma. L’ipotonia deve essere esplorata a livello segmentario, eventualmente in modo comparativo tra i due lati, nel soggetto a riposo.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Sul piano semeiotico è utile impiegare la prova del ballottamento che consiste nel provocare movimenti passivi, alternati e molto rapidi (l’esplorazione a livello dell’articolazione della mano è la più facile). Si osserverà la facilità e l’ampiezza con cui si ottiene lo spostamento di segmenti corporei. Clinicamente, quindi, l’ipotonia si riscontra: – nelle lesioni dei nervi periferici (polineuropatie), delle radici e dei tronchi nervosi; – nelle lesioni midollari, sia per lesioni del motoneurone (come nella poliomielite anteriore acuta) sia per lesione dei cordoni posteriori (come nella tabe dorsale). Nei casi di lesione midollare trasversa acuta completa si osserva nello stadio iniziale flaccidità (stadio dello shock spinale). Si ritiene comunemente che lo shock sia dovuto alla scomparsa delle influenze discendenti sui motoneuroni spinali. In particolare è ipotizzato (Illis, 1967) che nei primi due giorni si osservi a livello dei neuroni spinali una disorganizzazione della «zona sinaptica» che riduce il livello di eccitabililità; – nelle lesioni cerebellari (v. pag. 508); – nelle lesioni cerebrali, dove l’ipotonia si può manifestare immediatamente dopo la lesione delle fibre corticofugali. Questo stadio iniziale o stadio dello shock è destinato a durare alcune ore ed eccezionalmente 2-3 giorni. Le cause dell’ipotonia che segue immediatamente una lesione cerebrale improvvisa non sono al momento conosciute; una classica spiegazione si riferisce al concetto di diaschisi di Von Monakow: si tratterebbe di un fenomeno transitorio, che si avvera per perdita della funzione dei centri più elevati, cosicché la loro influenza viene acutamente e improvvisamente a mancare. Fra le cause di ipotonia vanno abitualmente incluse anche le malattie muscolari ancorché, in tal caso, l’ipotonia non dipende da una disfunzione dell’arco riflesso, ma da una ridotta contrattilità delle fibre muscolari ad origine congenita o acquisita.
ALTERAZIONI DEL TONO NELLE SINDROMI MENINGEE Tra i sintomi, espressione di una sofferenza o irritazione delle meningi, devono essere indicati: la cefalea, il vomito, e soprattutto le alterazioni del tono muscolare e dell’atteggiamento. La cefalea ed il vomito possono essere ritenuti generica espressione di un aumento della pressione endocranica (v. pag. 608), mentre le turbe del tono possono essere considerate un elemento specifico dell’irritazione meningea. Appaiono, semeioticamente, come ipertonia o rigidità, maggiormente evidenti ai muscoli nucali o paravertebrali, spesso già evidenti alla osservazione: il capo in iperestensione forzata, il tronco in opistotono ed il decubito tipico, definito «a cane di fucile» (decubito laterale, gambe flesse sulle cosce, cosce flesse sul bacino). Ma non sempre l’atteggiamento del malato è sufficientemente caratteristico e devono allora essere ricercati alcuni segni tipici, definiti «segni meningei»: a) la rigidità nucale, per cui la flessione del capo sul tronco è abolita o ridotta e risveglia acuto dolore; b) il segno di Kernig, che può essere ricercato sia in posizione seduta che sdraiata: in posizione seduta ogni tentativo di estendere le gambe provoca un intenso dolore; in posizione sdraiata il sollevamento della gamba estesa provoca, ad un certo punto, la flessione dell’articolazione del ginocchio che diventerà invincibile e talvolta dolorosa; oppure il sollevamento del tronco eseguito dall’esaminatore, nel tentativo di mettere il paziente seduto, provoca una flessione dell’articolazione del ginocchio e vivo dolore; c) i segni di Brudzinski, che possono essere ricercati in diversi modi: a malato sdraiato sul dorso, flettendo passivamente e completamente la gamba sulla coscia e questa sul bacino, si osserva dal lato opposto un’analoga flessione spontanea dell’arto (Brudzinski controlaterale); oppure flettendo passivamente il capo sul tronco, si ottiene una flessione degli arti inferiori al ginocchio e all’anca (Brudzinski del capo); analoga risposta si ottiene premendo intensamente sul pube del paziente (Brudzinski del pube).
Funzione motoria Il cervello e il midollo spinale sono avvolti da tre membrane: la più esterna è la dura madre, l’intermedia è l’aracnoide, la più interna e sottile e provvista di vasi è la pia madre (Fig. 2.19). La dura madre è formata da tessuto connettivo fibroso. Nel cranio consta di una porzione periostea e di una meningea, mentre nel midollo solo della porzione meningea. La dura spinale forma un sacco che circonda il midollo dal forame magno alla seconda vertebra sacrale. È attaccata ai margini del forame magno e alla superficie interna della 2ª e 3ª vertebra sacrale e diventa continua col periostio della superficie dorsale del coccige come legamento coccigeo. Nel cranio la dura forma la membrana periostea della superficie interna delle ossa craniche. La dura forma anche una membrana per separare gli emisferi (falce cerebrale), il cervello dal cervelletto (tentorio cerebellare) e gli emisferi cerebellari (falce cerebellare). La falce cerebrale va dalla crista galli alla protuberanza occipitale interna dove si continua col tentorio. Contiene, al margine superiore, il seno sagittale superiore e al margine libero il seno sagittale inferiore. Il tentorio origina anteriormente dal margine superiore dell’osso temporale e del processo clinoideo posteriore, lasciando ai margini laterali lo spazio per il seno petroso superiore, e ai margini posteriori lo spazio per il seno trasverso. Nella linea mediana si continua con la falce e forma il seno retto. Nella parte centrale libera esiste un’apertura ovoidale, il forame tentoriale dove passa il tronco encefalico. La falce cerebellare parte dalla cresta occipitale interna e raggiunge il tentorio. La pia madre encefalica ricopre tutta la superficie esterna del cervello e del cervelletto penetrando nei solchi e nelle fessure, contribuisce a formare inoltre il tetto del III e IV ventricolo (tela corioidea). I vasi che riforniscono il cervello ed il midollo attraversano l’aracnoide, e sono ricoperti da fibre collagene e da cellu-
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le mesoteliali piatte. Queste cellule mesoteliali formano, raggiungendo la pia, un cul di sacco, denominato spazio di Virchow-Robin, che è continuo con lo spazio subaracnoideo. La pia è provvista di fori: a livello del IV ventricolo esistono due fori laterali o fori di Magendie e un foro sul tetto o forame di Luschka che permettono il passaggio del liquido cerebrospinale negli spazi subaracnoidei. I legamenti dentati della pia ancorano il midollo alla dura spinale. Lo spazio tra l’aracnoide e la pia è mantenuto da trabecole di tessuto connettivo fibroelastico che vanno dal foglietto interno dell’aracnoide alla pia. Questo spazio definito subaracnoideo contiene il liquido cerebrospinale. In certi punti dove il cervello non segue strettamente il contorno osseo lo spazio subaracnoideo è largo, contiene una notevole quantità di liquor, e viene denominato cisterna. La più vasta cisterna, o cisterna magna, è la cisterna cerebello-midollare, che occupa lo spazio tra la superficie inferiore del cervelletto e la faccia dorsale del bulbo. Altre cisterne sono: la cisterna pontina (ventrale al ponte), la cisterna interpeduncolare (nella fossa interpeduncolare tra i peduncoli cerebrali e il chiasma), la cisterna chiasmatica (anteriormente al chiasma), la cisterna ambiens, che si trova tra i collicoli superiori, lo splenio del corpo calloso e il cervelletto (Fig. 2.20).
Lesioni endocraniche della fossa posteriore (tumori, aracnoiditi, ecc.) e lesioni cerebrali che provocano l’erniazione del cervelletto nel forame tentoriale, sono in grado di realizzare una sindrome di rigidità nucale e segni meningei.
Lobo parietale Corpo calloso
Dura madre Trabecole aracnoidee Corteccia cerebrale
Aracnoide Vena cerebrale Pia madre Spazio di VirchowRobin
Lobo occipitale
Lobo frontale Me se nc efa lo
Cervelletto
Ponte Acquedotto Bulbo
Fig. 2.19 - Rappresentazione schematica delle meningi e dello spazio subaracnoideo.
Fig. 2.20 - Rappresentazione delle cisterne e dei ventricoli. 1: Cisterna ambiens; 2: cisterna magna; 3: cisterna pontina; 4: cisterna interpeduncolare; 5: cisterna chiasmatica; 6: cisterna pericallosa; III: 3° ventricolo; IV: 4° ventricolo.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Appare semplicistico interpretare questi segni come atteggiamenti antalgici. La rigidità nucale è una risposta estensoria, ma negli altri segni sopra indicati la risposta flessoria è tipica e dominante. Le risposte flessorie agli arti, osservate nell’irritazione meningea, rappresenterebbero una parte del riflesso flessorio da stimoli nocicettivi o riflesso di allontanamento, risposta primitiva dei vertebrati ad uno stimolo nocicettivo, che può essere provocato dalle stimolazioni di diverse strutture (cavità cranica e grandi cavità sierose, ecc.). La rigidità nucale sarebbe dovuta, secondo Fulton (1951), alla stimolazione delle terminazioni trigeminali a livello della dura madre della base del cervelletto.
lato paretico per movimenti che vengono eseguiti dal lato sano. Se ad esempio il paziente viene invitato a flettere dorsalmente il piede sano contro resistenza, il piede del lato malato esegue una flessione dorsale (sincinesia di raccorciamento crociata). Risposta in flessione plantare del piede paretico si otterrà per invito a flettere plantarmente il piede sano (sincinesia di allungamento crociata). Le sincinesie di coordinazione possono anche essere riflesse quando si manifestano per una risposta muscolare ottenuta in via riflessa (la ricerca del riflesso radioflessore induce oltre alla risposta riflessa una risposta sinergica di flessione delle dita). L’attività motoria involontaria sincinetica è strettamente correlata alla ipertonia piramidale.
MOVIMENTI SINCINETICI (SINCINESIE) Le sincinesie sono movimenti che si manifestano in una parte del corpo nel momento in cui appaiono movimenti riflessi o si eseguono movimenti in altre parti del corpo. Si distinguono classicamente: sincinesie di coordinazione, sincinesie globali, sincinesie di imitazione. Le sincinesie di coordinazione si distinguono in sincinesie omolaterali e controlaterali. Le sincinesie di coordinazione omolaterali sono rappresentate da contrazioni involontarie di gruppi muscolari sinergici omolaterali durante la contrazione volontaria di muscoli paretici. Ad esempio: un paziente non è in grado di effettuare volontariamente la flessione dorsale del piede paretico. Tale movimento si effettua involontariamente durante il tentativo di flessione della coscia sul bacino e della gamba sulla coscia (fenomeno di Strumpell o sincinesia di raccorciamento). Se l’arto paretico è messo in flessione, l’estensione volontaria della coscia provoca un’estensione sincinetica della gamba e del piede e una flessione dorsale delle dita del piede (sincinesia di allungamento). Le sincinesie di coordinazione controlaterali consistono in movimenti che avvengono dal
Le sincinesie globali sono costituite dall’esagerazione della ipertonia piramidale e si manifestano sia nei gruppi muscolari agonisti che antagonisti in malati con lesione della via piramidale, in seguito ad un movimento volontario o automatico (come la tosse, lo starnuto, ecc.) o a uno stimolo doloroso, e consistono in un’accentuata flessione all’arto superiore e in un’accentuata estensione all’arto inferiore, rinforzando, quindi, il grado di ipertonia piramidale. La spiegazione per questi fenomeni è complessa: è probabile che si possa trattare di un aumento globale dell’eccitabilità dei motoneuroni spinali, in rapporto all’ipertonia piramidale. Le sincinesie di imitazione: sono rappresentate da movimenti involontari del lato sano che si producono in occasione di un analogo movimento eseguito dal lato paretico. Le sincinesie che comunemente si ricercano sono le sincinesie di coordinazione omo- e controlaterali e le sincinesie globali che - come è stato detto - si ritrovano nelle lesioni piramidali e rappresentano una modificazione dell’ipertonia piramidale.
Funzione motoria
Esame muscolare intrinseco e relative alterazioni TROFISMO MUSCOLARE La valutazione del trofismo muscolare deve tenere conto di tutte quelle condizioni che possono essere causa di variazioni individuali nelle dimensioni del muscolo. Il sesso, l’età, la costituzione, il tipo di lavoro comunemente eseguito, l’abitudine a determinate pratiche sportive, lo stato generale di nutrizione, possono essere causa di variazioni, anche molto importanti, del trofismo da soggetto a soggetto. È quindi necessaria molta prudenza, associata a notevole esperienza, per poter valutare correttamente o meno la presenza di un disturbo del trofismo muscolare di natura neurogena o muscolare. IPOTROFIA O ATROFIA: definisce una riduzione più o meno intensa della massa muscolare precedentemente esistente. È quindi necessario preventivamente accertarsi che la massa muscolare sia esistita (non è eccezionale, in determinate sedi, una assenza congenita del muscolo o, meno frequentemente, un arresto dello sviluppo muscolare per cause patologiche, ad es. poliomielite sofferta nell’infanzia). È indispensabile, successivamente, sia un confronto con i muscoli vicini e con i muscoli simmetrici del lato opposto, sia un’accurata palpazione del muscolo in stato di riposo e durante contrazione, che permetterà di apprezzare se la riduzione di volume sia in realtà presente e se la consistenza indichi la presenza di eventuale tessuto fibroso nel contesto muscolare. Talora è sufficiente la valutazione derivata dall’ispezione, che potrà evidenziare una variazione del contorno e del volume, ma sarà sempre la misurazione dei perimetri muscolari a convalidare il dato. Benché la misurazione rappresenti l’unica possibilità quantitativa di valutare il grado e l’evoluzione dell’atrofia, non bisogna dimenti-
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care che modeste differenze della circonferenza di determinati muscoli, ad esempio a livello dei gastrocnemi o gruppi muscolari omologhi (destrimani e mancini), possono esistere senza assumere valore patologico. L’atrofia o ipotrofia muscolare è espressione di una malattia muscolare primitiva o di una malattia del neurone periferico (cellule radicolari anteriori, radici anteriori e nervi periferici) ed è sempre associata ad un significativo deficit di forza. Talora la riduzione della forza non è sempre proporzionale al grado di atrofia: in certe affezioni nervose sistemiche la presenza di un notevole grado di atrofia non è associata ad una diminuzione proporzionale della forza. Esiste anche la possibilità che una lesione a livello centrale produca una compromissione del trofismo muscolare. In questo caso l’ipoatrofia muscolare predilige l’arto superiore nella sua estremità distale e talora l’arto inferiore. In genere l’atrofia colpisce i piccoli muscoli della mano (eminenza tenar e ipotenar) e talora i muscoli del cingolo scapolare. Questa atrofia si riscontra nelle lesioni del lobo parietale. Diverse ipotesi sono state emesse per spiegare questo dato di fatto clinico, ma nessuna appare al momento attuale convincente (v. pag. 532). Particolare valore, per la frequenza con cui si riscontra in clinica, assume l’atrofia dei muscoli della mano. Si distingue: – mano a scimmia, quando l’atrofia è localizzata ai muscoli dell’eminenza tenar. L’eminenza tenar racchiude i muscoli breve abduttore, breve flessore, opponente del pollice (innervati perifericamente dal n. mediano e dipendenti dai segmenti midollari C6- C8). Per azione del lungo estensore del pollice, il primo metacarpo si allinea sul piano degli altri metacarpi e mima l’aspetto della mano della scimmia, che come è noto, non ha la possibilità di opporre il pollice alle altre dita. La mano a scimmia può esser dovuta a lesione midollare (segmenti C6 - C8, specie sclerosi laterale amio-
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trofica) o a lesione periferica distale del mediano (specie nei casi di sindrome da compressione a livello del tunnel carpale); – mano ad artiglio cubitale (Fig. 2.21, A). Il nervo ulnare proviene dai segmenti midollari C7 - C8 - T1 ed innerva nell’eminenza ipotenar: l’abduttore, l’opponente, il breve flessore del V dito; tutti gli interossei, il III e IV lombricale, ed inoltre nell’eminenza tenar l’adduttore del pollice (e il capo profondo del breve flessore del pollice). Nella mano ad artiglio esiste ipotrofia dell’eminenza ipotenar e degli interossei, denunciata da 4 solchi profondi tra i metacarpi (Fig. 2.21, B). Per atrofia degli interossei che flettono la prima falange ed estendono le ultime due, si avrà appunto l’atteggiamento inverso (per prevalenza dell’estensore comune), detto ad artiglio: estensione della prima falange e flessione delle ultime due. In un primo stadio, la paresi degli interossei sarà caratterizzata dalla difficoltà di ravvicinare le dita della mano allargata. Le lesioni che possono determinare la mano ad artiglio cubitale sono lesioni midollari (C8 - T1) e lesioni del n. cubitale; – l’associazione di atrofia dei muscoli delle eminenze tenar e ipotenar e degli interossei determina la mano a scimmia con artiglio o mano tipo Aran-Duchenne. Questo tipo di mano si ritrova negli stati avanzati di sclerosi laterale amiotrofica (Fig. 2.21, C); – se l’atrofia della mano Aran-Duchenne è molto avanzata e sono colpiti anche gli estensori e i flessori dell’avambraccio, si parla di mano cadaverica. IPERTROFIA E PSEUDOIPERTROFIA: definisce un aumento di volume della massa muscolare. La tecnica di valutazione è del tutto simile alla precedente. È necessario essere estremamente circospetti poiché, per determinati tipi di attività sportiva e lavorativa, alcuni gruppi muscolari possono risultare apparentemente ipertrofici. Usualmente l’ipertrofia muscolare di un soggetto sano risulterà armonicamente distribuita a tutte le masse muscolari, ma è anche possibile
A
B
C Fig. 2.21 - (A) Mano ad artiglio cubitale. (B) Ipotrofia degli interossei, specie del 1°. (C) Mano tipo Aran-Duchenne.
che soggetti adusi a lavori particolari o esercizi atletici o sportivi speciali dimostrino una ipertrofia localizzata a determinati distretti muscolari. In tutti questi casi all’aumento di volume del muscolo sarà associata una forza notevole.
Funzione motoria
Al contrario, nella pseudoipertrofia, presente in alcune malattie muscolari, si osserverà un aumento di volume particolarmente in alcuni muscoli, gastrocnemi principalmente, ma anche deltoidi, glutei, bicipiti, tanto da simulare grossolanamente, all’ispezione, un aspetto atletico, mentre la forza è ridotta. CONSISTENZA MUSCOLARE Nel normale varia molto da soggetto a soggetto, soprattutto in funzione dell’esercizio cui sono state sottoposte le masse muscolari. Il muscolo denervato offre alla palpazione una sensazione di flaccidità, mentre i muscoli di pazienti affetti da distrofia muscolare, paralisi spastica di Volkmann, ecc., possono presentare una consistenza aumentata, paragonabile a volte alla sensazione di palpare gomma o legno. Il muscolo può essere colpito in tutta la sua estensione, o in maniera parcellare e, in questo caso, è possibile palpare delle strie fibrose longitudinali. La cedevolezza del muscolo può essere saggiata comprimendolo. Poiché comprimendo la massa muscolare viene compressa anche la cute ed il tessuto adiposo sovrastante, è necessario assicurarsi innanzitutto dello stato di queste strutture, perché l’impressione di cedevolezza muscolare che si riceve potrebbe essere falsata. (Se, ad esempio, esiste un edema della cute si può ricevere l’impressione di una maggiore cedevolezza muscolare, mentre il muscolo in realtà è completamente normale). Per evitare errori si apprezzerà prima lo stato della cute e sottocute, prendendo fra due dita una piega della pelle o premendo con un dito la cute su di una superficie ossea (cresta tibiale, ad esempio) e quindi si ripete la manovra sul ventre muscolare. RISPOSTE MUSCOLARI SPECIALI RISPOSTA MIOTONICA: la persistenza di una contrazione muscolare, oltre la norma e comunque diversi secondi dopo la fine della stimola-
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zione che l’ha scatenata, è definita reazione miotonica. Se un soggetto affetto da miotonia stringe il pugno con forza per qualche secondo, non potrà, per quanti sforzi faccia, obbedire immediatamente all’ordine di aprire il pugno. Solo dopo qualche decina di secondi, lentamente, quasi al rallentatore, otterrà il movimento desiderato. La reazione miotonica si osserva usualmente nelle miotonie: può essere tuttavia presente anche in altri quadri, ad es. nelle polineuriti, nella sclerosi laterale amiotrofica, nel mixedema. L’aspetto elettromiografico e i meccanismi fisiopatogenetici responsabili di questo fenomeno sono descritti a pag. 347. MIOTONIA DA PERCUSSIONE (miotonia meccanica): se con un martelletto si percuote brevemente e rapidamente un muscolo si può ottenere una prolungata contrazione. Usualmente si preferisce percuotere l’eminenza tenar, per cui si ottiene una rapida contrazione di opposizione del pollice, che persiste per qualche tempo. La reazione miotonica può essere ottenuta anche da altri muscoli quali il deltoide e i muscoli della lingua. MIOEDEMA: saltuariamente sia in soggetti normali, ma più frequentemente in soggetti affetti da mixedema o da malattie debilitanti, la porzione del muscolo che è stata percossa forma una protrusione, che persiste per alcuni secondi, definita «mioedema». Si differenzia dalla miotonia da percussione per assenza di attivazione elettrica del muscolo. MOVIMENTI MUSCOLARI INTRINSECI I movimenti muscolari intrinseci, cioè piccole contrazioni muscolari spontanee, limitate a parte della massa muscolare, che non causano spostamenti dei segmenti corporei, sono rappresentati dalle fibrillazioni e dalle fascicolazioni.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
FIBRILLAZIONI: questo termine designa classicamente contrazioni muscolari parcellari, che si manifestano come contrazione di poche fibre muscolari (v. fascicolazioni). Attualmente sulla base delle conoscenze desunte dall’analisi elettromiografica, il termine «fibrillazione» dovrebbe riferirsi alla contrazione spontanea e indipendente di una singola fibra muscolare, contrazione che non potrà mai essere osservata a cute integra (è discutibile se non siano visibili, ad esempio, attraverso le mucose che ricoprono i muscoli linguali). Il termine fibrillazione nella pratica clinica dovrebbe pertanto essere sostituito dal termine fascicolazione. Le fibrillazioni si manifestano nei muscoli denervati, da 8 a 21 giorni dopo che il muscolo è stato privato della sua innervazione e possono persistere a lungo, anche un anno e più. Come abbiamo detto, le fibrillazioni non possono essere osservate dall’esaminatore, ma solo registrate all’esame elettromiografico. Le fibrillazioni (Denny-Brown e Pennybacker, 1936) sarebbero dovute o ad una più elevata ec-citabilità del sarcolemma o ad una più rapida contrazione di una porzione della fibra muscolare. FASCICOLAZIONI: le fascicolazioni sono contrazioni spontanee, rapide, ripetentesi a intervalli irregolari, parcellari (interessano una piccola parte di muscolo e non comportano spostamenti di segmenti corporei), dovute all’attività di una sola unità motoria o di gruppi di unità motorie: sono avvertite dal soggetto come rapidi ed improvvisi guizzi di una parte del muscolo. Solo nel caso di soggetti pingui e per determinati muscoli l’osservazione delle fascicolazioni può risultare difficile. Il loro rilievo richiede talora alcuni semplici accorgimenti: l’illuminazione deve cadere trasversalmente sui segmenti corporei, ma soprattutto l’ambiente deve essere sufficientemente riscaldato per evitare contrazioni muscolari da freddo. Sono descritte manovre facilitanti, quali tendere oppure inumidire la pelle sopra il muscolo, percuotere il muscolo leggermente con le
dita o con un piccolo martello. Anche un’iniezione di prostigmina, soprattutto nei soggetti sensibili, può avere azione facilitante. Le fascicolazioni possono variare sia in lunghezza che in estensione; nel primo caso la variazione dipenderà soltanto dalla lunghezza della fibra muscolare interessata, nel secondo dal maggior o minor numero di unità motorie eccitate simultaneamente. Le fascicolazioni e le fibrillazioni sono espressione di una scarica di un alfa motoneurone anormale, quando la lesione evolve gradualmente con un decorso prolungato nel tempo. Si ritrova perciò nelle malattie degenerative che ledono l’alfa motoneurone, come la sclerosi laterale amiotrofica, la poliomielite anteriore cronica, talora in casi particolari di tumori a lenta e lunga evoluzione; eccezionalmente nelle malattie delle radici e dei nervi periferici. Le fascicolazioni non hanno invariabilmente un significato patologico: sono state descritte fascicolazioni di genesi non conosciuta e definite «benigne», che si osservano nei muscoli di soggetti affaticati, dopo deprivazione di sonno, o in relazione ad eccessivo consumo di alcool, caffè, nicotina, specie in età giovanile. Naturalmente in questi casi le fascicolazioni sono l’unico segno obiettivo presente. MIOCHIMIE: è un termine con cui oggi si designano almeno tre distinte forme di contrazioni muscolari patologiche: 1) contrazioni di tipo fascicolare, localizzate, ripetitive, piuttosto lente (durata da 2 a 15 secondi). Ne risulta un’ondulazione continua e irregolare. All’elettromiogramma si osserva prolungata e continua attività spontanea di potenziali simili ai potenziali di unità motoria; 2) contrazioni continue e ondulatorie nei muscoli di tutto il corpo che comportano movimenti specie alle dita; all’elettromiografia si osservano potenziali a tipo di multipletta; 3) brevi serie di contrazioni dei muscoli palpebrali (esperienza comune a tutti) e talora dei gastrocnemi, spesso in rapporto con la fa-
Funzione motoria
tica (e spesso denominate mioclonie) che elettromiograficamente, sebbene poco studiate, corrispondono a multiplette, molto localizzate. In sostanza si dovrebbe usare il termine di miochimia per indicare un’attività muscolare di tipo fascicolare ma continua, dovuta, forse, a una abnorme secrezione di acetilcolina a livello della placca motoria. Fra le ipotesi che tentano di spiegare questo tipo di «false fibrillazioni» vengono considerate (Denny-Brown e Pennybacker, 1936): una possibile genesi da spasmo vascolare, un’alterazione della irrorazione vascolare del fascio muscolare, la fatica, la sudorazione eccessiva, alterazioni del metabolismo del sodio.
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Fig. 2.22 - Esame della forza muscolare agli arti superiori: prova di Mingazzini.
Forza muscolare Comprende l’esame della forza muscolare globale, quando si esplora la forza di più gruppi muscolari degli arti superiori o inferiori, e l’esame della forza di ogni singolo muscolo. Per un corretto esame semeiotico è bene prima esaminare la forza muscolare globale e solo in seguito la forza di ogni singolo muscolo. ESAME GLOBALE DELLA FORZA MUSCOLARE Un disturbo della forza muscolare globale può essere messo in luce con le manovre seguenti, specialmente utili nei deficit della forza di genesi piramidale: Segno di Mingazzini agli arti superiori: il malato seduto ad occhi chiusi, viene invitato a protendere le braccia con le palme rivolte verso il pavimento e a mantenere questa posizione per 3-4 minuti (Fig. 2.22). In questa posizione l’arto paretico lentamente inizia ad abbassarsi per il deficit degli estensori. Ovviamente il deficit può anche avere una distribuzione bilaterale. Qualora il deficit motorio sia estremamente modesto, soltanto le dita della mano o la mano tenderanno ad abbassarsi, o l’arto lieve-
mente abbassato viene richiamato alla posizione di partenza, cosicché si possono osservare, continue, lente oscillazioni. Segno della pronazione: il malato è posto nella posizione precedente, ma le palme delle mani sono rivolte verso l’alto. Nelle lesioni piramidali, lentamente la mano paretica, ed in seguito il braccio, si portano in pronazione, perché i muscoli supinatori all’arto superiore sono, insieme con altri gruppi muscolari, primitivamente colpiti, e pertanto si evidenzia l’azione prevalente dei pronatori (Fig. 2.23). Segno della mano cava: segno molto precoce di lesione piramidale, per alcuni Autori (Garcin, 1955); viene ricercato nel seguente modo: il malato, seduto, tiene gli avambracci flessi a circa 90 gradi, la faccia palmare delle mani in avanti, le dita divaricate con forza. In caso patologico, si osserva che, a causa della adduzione del pollice, il palmo della mano si incava perché il pollice e l’eminenza tenar sono portati in avanti e in dentro. Il deficit di forza degli estensori del pollice (che provocano abduzione ed estensione) presente in questi casi, evidenzia l’azione non contrastata dell’adduttore breve del pollice (Fig. 2.24).
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Fig. 2.23 - Segno della pronazione.
Fig. 2.25 - Prova di Mingazzini agli arti inferiori.
Segno di Barré: il malato è posto bocconi sul letto, le cosce lievemente divaricate e le gambe flesse ad angolo retto sulle cosce. L’arto leso inizierà lentamente a cadere, nonostante che, a volte, si osservi la contrazione dei muscoli della zampa d’oca (semitendinoso, gracile, sartorio) che tentano di opporsi alla caduta. Esplora la forza del bicipite femorale, del semitendinoso e del semimembranoso (Fig. 2.26). ESAME SEGMENTALE DELLA FORZA MUSCOLARE
Fig. 2.24 - Segno della mano cava sinistra.
La forza impiegata in una contrazione muscolare volontaria o attiva può essere esami-
Segno di Mingazzini agli arti inferiori: il malato è posto in posizione supina, le cosce sono flesse a 90 gradi sul tronco e le gambe formano un angolo retto con le cosce. Dal lato della lesione (nel caso di una lesione unilaterale) si potrà osservare sia un lento e progressivo abbassamento dell’arto, sia una serie di oscillazioni che, aumentando progressivamente di ampiezza, esitano in una caduta dell’arto sul piano del letto. Questa prova esplora i muscoli ileo-psoas e gli estensori della gamba sulla coscia (Fig. 2.25).
Fig. 2.26 - Prova di Barré.
Funzione motoria
nata facendo compiere un movimento contro resistenza imposta dall’esaminatore. Quando però la forza del soggetto appare di grado già molto modesto sarà utile esaminare il movimento contro gravità o addirittura a gravità eliminata. Il movimento contro gravità è quello spontaneo senza l’imposizione di una resistenza attiva, quello a gravità eliminata si avvera quando lo spostamento del segmento corporeo avviene in un piano in cui la gravità è eliminata (il malato viene posto, ad esempio, in decubito laterale ed il movimento eseguito su un piano orizzontale). Per poter eseguire un corretto esame segmentale della forza è ovviamente necessaria una buona conoscenza della disposizione anatomica dei singoli muscoli e del tipo di movimento che essi consentono: conoscere cioè quali gruppi muscolari concorrono all’esecuzione del movimento, quale nervo sia responsabile dell’innervazione di quel muscolo, ed infine quali radici o segmenti midollari concorrano alla formazione di quel nervo periferico. Solo con questo bagaglio di conoscenze sarà possibile correttamente diagnosticare le lesioni di un nervo periferico, dei plessi, delle radici o del midollo. L’esaminatore dovrà decidere se la forza è conservata, se vi è paralisi o paresi, se vi sono movimenti muscolari percettibili, se esistono movimenti contro gravità o contro resistenza. Mentre si esegue l’esame, la parte del corpo da esplorare deve essere posta in posizione tale da permettere un’azione diretta del muscolo ed impedire l’azione di gruppi muscolari sinergici: così se si vuole esaminare la parte distale di un segmento corporeo, bisognerà impedire che la contrazione di gruppi muscolari prossimali compensi in parte la deficienza di forza del movimento dei gruppi muscolari distali. L’intensità della contrazione del muscolo in esame viene accertata con la palpazione del ventre muscolare. Con questi metodi, osservazione e palpazione, è possibile valutare correttamente la forza muscolare senza l’aiuto di particolari strumenti. Solo in casi speciali, soprattutto quando si desiderano dati quantitativi, è possibile usare il dinamometro, peraltro di utilità limitata a pochi gruppi di muscoli. È quindi necessario possedere determinati criteri per designare vari gradi di forza muscolare, riconoscibili anche da altri esaminatori in controlli successivi.
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La seguente quantificazione ad uso clinico della forza muscolare (Medical Research Council, 1962) appare tutt’oggi molto utile: 0: nessuna contrazione muscolare; 1: accenno a contrazione o apprezzamento di contrazione alla palpazione senza spostamento di segmenti ossei; 2: il muscolo riesce a spostare i segmenti ossei a gravità eliminata; 3: il muscolo riesce a spostare i segmenti ossei contro gravità, ma non contro resistenza; 4: il muscolo riesce a spostare i segmenti ossei anche contro un certo grado di resistenza; 5: il muscolo riesce a spostare i segmenti ossei contro il massimo della resistenza. In un esame neurologico non è necessario esaminare la forza di tutti i muscoli, ma piuttosto di un limitato numero di gruppi muscolari di particolare importanza. Per l’esecuzione dell’esame è necessaria una buona collaborazione, che può mancare in caso di disturbi della coscienza o di disturbi psichici, per cui l’esame non potrà essere eseguito. In questo caso si potrà ottenere solo una grossolana informazione dalla osservazione globale dell’atteggiamento o dei movimenti eseguiti: se l’arto o gli arti sono mossi spontaneamente, se a stimoli intensi o modesti l’arto viene allontanato, se entrambi gli arti sollevati cadono sul piano del letto nello stesso modo, se offrono resistenza alla caduta, ecc. Benché un esame dettagliato della forza segmentale venga eseguito soltanto se esiste un quesito specifico, ad esempio una lesione periferica, esistono alcuni muscoli, od alcuni gruppi muscolari ad azione sinergica, che vengono costantemente esaminati nel corso di un esame neurologico, poiché permettono una sufficiente valutazione della forza muscolare distrettuale. Riferiremo pertanto brevemente sulla tecnica adatta per esaminare questi muscoli o gruppi muscolari.
a) Arti inferiori M. estensore lungo dell’alluce (L5-S1, n. sciatico) si invita il paziente a dorsiflettere l’alluce contro resistenza; il tendine può essere apprezzato con la palpazione. M. estensore breve delle dita (L5-S1, n. sciatico) si invita il paziente a dorsiflettere l’alluce contro resistenza; il muscolo può essere apprezzato palpatoriamente anteriormente al malleolo esterno. M. estensore lungo delle dita (L5-S1, n. sciatico) si invita il paziente a dorsiflettere le dita contro resistenza; il tendine può essere apprezzato con la palpazione. M. tibiale anteriore (L4-L5, n. sciatico) si invita il paziente a dorsiflettere il piede contro resistenza; la contrazione del muscolo può essere apprezzata palpatoriamente.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
M. gastrocnemio (S1-S2, n. sciatico) si invita il paziente a flettere plantarmente il piede contro resistenza: il muscolo può essere apprezzato palpatoriamente. Mm. flessori della gamba sulla coscia (muscoli bicipite femorale, semitendinoso e semimembranoso, L4-L5-S1-S2, n. sciatico) il paziente è in decubito prono e cerca di flettere la gamba sulla coscia contro resistenza. Mm. estensori della gamba sulla coscia (quadricipite femorale: L2-L3-L4, n femorale), il paziente in decubito supino cerca di estendere la gamba sulla coscia. M. ileo-psoas (L1-L2-L3, n. femorale), il paziente è in decubito supino. La coscia è flessa a 90 gradi sul bacino e sostenuta dall’esaminatore; il paziente cerca di flettere la coscia sul bacino contro resistenza. Mm. adduttori (L2-L3-L4, n. otturatorio), il paziente è in decubito supino, a ginocchio esteso e cerca di addurre gli arti contro resistenza.
b) Arti superiori M. trapezio (C3-C4, n. accessorio spinale) per esaminare la parte superiore del muscolo il paziente è seduto e cerca di elevare la spalla contro resistenza: per esaminare la parte inferiore del muscolo cerca di portare la spalla posteriormente contro resistenza. M. dentato (C5-C6-C7, n. toracico lungo) il paziente è in piedi e spinge con gli arti superiori estesi contro il muro. Le scapole non devono allontanarsi con il loro margine mediale dalla parete toracica; il muscolo può essere palpato sulla faccia esterna delle coste. M. sopraspinoso (C5, n. soprascapolare) e sottospinoso (C5-C6, n. soprascapolare) il paziente è in piedi e per l’esame del muscolo sopraspinoso cerca di abdurre l’arto esteso contro resistenza; per l’esame del muscolo sottospinoso il paziente cerca di extraruotare contro resistenza l’arto superiore flesso a 90 gradi. M. deltoide (C5-C6, n. circonflesso), il paziente abduce l’arto esteso e cerca di mantenerlo a 45 gradi contro resistenza. M. bicipite (C5-C6, n. muscolo cutaneo), il paziente cerca di flettere l’avambraccio supinato contro resistenza. M. tricipite (C7-C8, n. radiale), il paziente cerca di estendere l’avambraccio sul braccio contro resistenza. M. brachioradiale (C5-C6, n. radiale), il paziente cerca di flettere l’avambraccio, in posizione media tra pronazione e supinazione, contro resistenza. Mm. estensori delle dita (m. estensore radiale del carpo C6-C7, n. radiale, m. estensore delle dita, m. estensore ulnare del carpo; C7-C8, n. radiale), il paziente cerca di estendere il polso o le dita contro resistenza.
M. flessore radiale del carpo (C6-C7-C8, n mediano) m. flessore superficiale delle dita (C7-C8-T1, n. mediano), m. flessore profondo I-II dito (C8-T1, n. mediano) III-IV dito (C8-T1, n. ulnare) il paziente cerca di flettere il polso o le dita contro resistenza. Mm. interossei (dorsali e palmari; C8-T1, n. ulnare), il paziente cerca di addurre e/o abdurre le dita contro resistenza tenendo il palmo della mano e le dita appoggiate a piatto sopra una superficie. M. opponente del pollice (C8-T1, n. mediano), il paziente cerca di portare, contro resistenza, la punta del pollice a contatto con quella del mignolo. M. abduttore lungo del pollice (C7-C8, n. radiale), il paziente cerca di abdurre il pollice in direzione radiale. M. abduttore breve del pollice (C8-T1, n. mediano), il paziente cerca di abdurre in direzione palmare il pollice contro resistenza. M. abduttore del mignolo (C8-T1, n. ulnare) il paziente cerca di abdurre il mignolo contro resistenza tenendo il dorso della mano e le dita appoggiate a piatto sopra una superficie. M. opponente del mignolo (C8-T1, n. ulnare), a dita estese il paziente cerca di atteggiare il palmo della mano a coppa e di portare il mignolo davanti alle altre dita.
I riflessi I riflessi, che comunemente vengono ricercati nella pratica clinica, sono rappresentati da una contrazione muscolare involontaria ottenuta per appropriata stimolazione di una determinata struttura sensitiva. La base anatomica della attività riflessa è - come abbiamo visto (v. pag. 10) - l’arco diastaltico che elementarmente è composto dal recettore sensitivo, dalla via afferente sensitiva, dal neurone motore, dalla via efferente motoria ed infine dall’organo effettore (cioè il muscolo) (Fig. 2.3). Lo studio dei riflessi è di estremo valore nella pratica neurologica poiché fornisce informazioni obbiettive e, in una certa misura, anche quantificabili: può permettere di stabilire l’integrità o l’alterazione in un determinato segmento midollare (quello a cui appartiene l’arco diastaltico) e può fornire utili elementi per un giudizio sull’evoluzione di un quadro morboso (ad esempio, ripristino di un riflesso prima assente nelle lesioni periferiche, ecc.).
Funzione motoria
CLASSIFICAZIONE I riflessi si possono suddividere in due gruppi: Riflessi fisiologici: presenti in ogni soggetto normale e che, nelle diverse lesioni del sistema nervoso, sono suscettibili di modificazioni quantitative: iperreflessia, iporeflessia o areflessia. Riflessi patologici: non presenti nel soggetto normale, ed espressione di lesioni del sistema nervoso. RIFLESSI FISIOLOGICI Si suddividono in riflessi profondi o propriocettivi e riflessi superficiali o esterocettivi. Riflessi profondi. – Rappresentano la risposta motoria ottenuta per stimolazione dei fusi neuromuscolari. Sinonimi devono intendersi i termini di riflessi propriocettivi o riflessi tendinei e osteoperiostei, riflessi miotattici, riflessi di stiramento. Le tecniche neurofisiologiche cliniche permettono la stimolazione elettrica selettiva delle fibre afferenti e quindi consentono di ottenere la contrazione riflessa del muscolo senza aver provocato una stimolazione degli organi fusali. Questo riflesso miotattico artificiale fu descritto per la prima volta da P. Hoffmann e denominato comunemente riflesso H.
Il riflesso, provocato dalla percussione del martelletto sul tendine dei diversi muscoli è un riflesso propriocettivo di allungamento fasico. Con la percussione del tendine, cioè, si provoca un brusco allungamento del muscolo; per stiramento delle grosse fibre intrafusali a «sacco nucleare», ne risulta una eccitazione delle terminazioni primarie anulo-spirali, da cui parte una scarica afferente che, con le fibre Ia, raggiunge direttamente gli alfa-moto-neuroni, i cui impulsi attraverso la via efferente delle radici anteriori, mettono in azione le fibre muscolari extrafusali dello stesso muscolo agonista determinandone una contrazione rapida (contrazione fasica). Questa cessa bruscamente
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in quanto la stessa contrazione muscolo-tendinea eccita i recettori tendinei di Golgi che, attraverso le fibre afferenti Ib, inibiscono l’agonista con conseguente rilasciamento del muscolo stesso.
I riflessi profondi od osteo-tendinei sono perciò dei riflessi monosinaptici e unisegmentali e ognuno di essi ha un centro proprio situato in un determinato segmento midollare. Riflessi superficiali o esterocettivi. – Le afferenze da recettori esterocettivi (in particolar modo quelle attivate da stimoli cutanei), che agiscono sui motoneuroni, sono messe in gioco soprattutto dagli stimoli che risultano «nocivi» per l’organismo (riflessi nocicettivi). Riflesso esterocettivo o riflesso F (di Foerster) sono sinonimi. La stimolazione eccita in primo luogo i motoneuroni dei muscoli flessori, ciò che determina, da un punto di vista finalistico, la retrazione dell’arto e l’allontanamento dallo stimolo nocivo. Un riflesso esterocettivo può essere scatenato da una eccitazione che proviene dalle più diverse regioni sensitive. A differenza dei riflessi profondi che sono monosinaptici i riflessi superficiali sono polisinaptici e plurisegmentali. L’attivazione dell’arco riflesso, infatti, prima di raggiungere i motoneuroni, utilizzerebbe numerosi interneuroni specie ascendenti che sposterebbero il centro riflesso a monte del segmento midollare interessato, cioè a livelli sopraspinali ed anche, per taluno, corticali. In questo modo sarebbe spiegata l’assenza dei riflessi addominali nelle lesioni emisferiche della via corticospinale. Ma l’articolazione sinaptica dei riflessi addominali a livello corticale non sembra accettabile sulla base di ricerche più recenti, le quali dimostrerebbero che i riflessi addominali sono riflessi polisinaptici spinali. La scomparsa del riflesso per lesione piramidale sarebbe quindi dovuta alla diminuita eccitabilità del centro spinale.
RIFLESSI PROFONDI (TAB. 2.2) Il necessario completo rilasciamento muscolare non è facile da ottenere soprattutto in soggetti emotivi. Più che il generico invito a «es-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 2.2. - Riflessi profondi e superficiali. Riflessi
Centro
Nervo afferente
Nervo efferente
Riflessi profondi Masseterino Bicipitale Tricipitale Radio-flessore Cubito-pronatore Patellare o Rotuleo Achilleo Medio-plantare
Ponte C5-C6 C6-C7 C5-C6 C8-T1 L2-L3-L4 L5-S1-S2 L5-S1-S2
V sensitivo Muscolo-cutaneo Radiale Radiale Mediano Femorale Tibiale Tibiale
V motorio Muscolo-cutaneo Radiale Radiale Mediano Femorale Tibiale Tibiale
Riflessi superficiali Corneale Faringeo Addominale superiore Addominale medio Addominale inferiore Cremasterico Cutaneo plantare Anale
Ponte Bulbo T7-T9 T9-T11 T11-T12 L1-L2 L5-S1-S2 S4-S5
V IX Intercostali Intercostali Intercostali Femorale Tibiale Pudendo
VII IX-X Intercostali Intercostali Intercostali Genito-femorale Tibiale Pudendo
ser rilassato», a «non contrarre i muscoli» è utile distrarre l’attenzione del soggetto. Molto spesso non si ottiene la risposta riflessa poiché il muscolo non è posto nel grado ottimale di tensione muscolare, cioè in modo che risulti ne poco né troppo stirato. Qualora non si ottenga il riflesso, si varierà la posizione degli arti sino a trovare la posizione ottimale. Lo stimolo sarà applicato a mezzo del martello con un colpo breve e secco. Quando il riflesso è presente e vivace, è sufficiente un martello piccolo, ma quando il riflesso è torpido è meglio usare un martello con la testa grossa e pesante ed un manico lungo e flessibile per ottenere uno stimolo più intenso. A volte pur avendo correttamente eseguito la manovra, il riflesso non risulta elicitabile: prima di affermarne l’assenza, è necessario, tuttavia, ricorrere ai vari metodi di rinforzo che attuano la contrazione di muscoli non interessati nel riflesso.
Ad esempio, quando si debbano esaminare i riflessi degli arti inferiori si invita il paziente ad eseguire la manovra di Jendrassik1 (il soggetto tenta con forza di divaricare le mani avvinghiate), oppure a stringere i denti con forza, ed a spingere violentemente gli arti superiori l’uno contro l’altro. Esaminando i riflessi degli arti superiori si inviterà il paziente a stringere forte il pugno controlaterale e addurre con forza le gambe, ecc. Ciononostante, il miglior metodo di rinforzo sembra essere una modesta contrazione del muscolo esaminato. Dopo aver ottenuto i riflessi, eventualmente ricorrendo a questi accorgimenti, è necessario valutarne l’intensità. Alcuni AA. preferiscono adottare un termine descrittivo: normali, dimi1
Il meccanismo della manovra di Jendrassik è stato oggetto di recenti studi. La manovra produrrebbe un aumento dell'attività del sistema gamma efferente per cui la soglia dell'arco riflesso sarebbe diminuita.
Funzione motoria
nuiti, assenti, aumentati, molto vivaci (o policinetici). Altri preferiscono un termine grafico, un numero con il segno positivo o negativo, uno 0 o vari segni di +. Questa quantificazione non è ovviamente obiettiva, e può avere valore soltanto se i dati sono ottenuti dallo stesso esaminatore. Elenchiamo adesso i principali riflessi, quelli cioè che è utile ricercare nel corso di un esame neurologico (Tab. 2.2). Riflesso masseterino (sinonimo r. mandibolare). Arco afferente: n. trigemino; arco efferente: n. trigemino. Si applica un leggero colpo di martelletto o sul dito, posto sul mento del paziente, o su un abbassalingua posto sull’arcata dentaria inferiore. La contrazione del massetere causa la chiusura della bocca, mantenuta in posizione di leggera apertura. Riflesso bicipitale (C5-C6; n. muscolo-cutaneo). Si può eseguire sia a paziente seduto che supino: nel primo caso gli arti superiori saranno appoggiati sulle cosce del paziente, nel secondo sul ventre. Lo stimolo viene applicato sul pollice dell’esaminatore, posto sul tendine del bicipite al gomito. Si ottiene una flessione dell’avambraccio sul braccio. Riflesso tricipitale (C6-C7; n. radiale). La sede di percussione è sull’inserzione omerale del tricipite, circa 3-4 centimetri al di sopra del gomito, per evitare di provocare il riflesso olecranico (che provoca flessione dell’avambraccio sul braccio). L’arto del paziente può essere posto nella stessa posizione in cui si ottiene il r. bicipitale, oppure l’esaminatore sostiene il braccio del paziente, che è flesso al gomito, lo eleva e lo abduce. In questo modo è più facile osservare il movimento di estensione dell’avambraccio sul braccio. Riflesso radio-flessore (sinonimo r. radiale periosteo; C5-C6; n. radiale). Gli arti superiori
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del paziente vengono posti come per l’esame del r. bicipitale, lo stimolo viene portato sul margine laterale della parte distale del radio. Si ottiene la flessione dell’avambraccio sul braccio. Riflesso cubito-pronatore (sinonimo r. pronatore; C8-T1; n. mediano). L’arto superiore del paziente è posto nella stessa posizione nella quale si elicita il riflesso radio-flessore. Lo stimolo viene applicato sulla superficie dorsale dell’apofisi distale dell’ulna. Si ottiene un movimento di pronazione dell’avambraccio. Riflesso flessore comune delle dita (C7-C8-T1; n. mediano ed ulnare). Per evocarlo si pone la mano in semisupinazione appoggiata sul ginocchio del paziente seduto; il dito medio e l’indice dell’esaminatore, posti trasversalmente sulle dita del paziente, vengono percossi dal martelletto. Si ottiene una flessione di tutte le dita della mano. Riflessi addominali profondi (T1-T2; n. intercostali medio e inferiore). Si percuote il margine inferiore dell’ultima costa e si avverte, con la mano posta sulla parete addominale, la contrazione dei muscoli retti dell’addome. Riflesso rotuleo (sinonimo r. del quadricipite femorale, r. patellare; L2-L3-L4; n. femorale). La tecnica per la provocazione varia a seconda che il paziente sia seduto o sdraiato: quando il paziente è seduto sul bordo del letto con le gambe penzolanti, lo stimolo viene applicato sul tendine sottorotuleo; quando il soggetto è sdraiato, l’esaminatore pone un braccio sotto le ginocchia del paziente e le solleva leggermente causando così una modesta flessione e, applicando lo stimolo come nel caso precedente, si ottiene l’estensione della gamba sulla coscia. Si può ottenere il riflesso (cosiddetto riflesso soprarotuleo) percuotendo direttamente sopra la rotula del paziente seduto, o, nel paziente sdraiato, stirando verso il basso, con un dito dispo-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
sto trasversalmente, la rotula e quindi percuotendo il dito dall’alto verso il basso. Si ottiene una contrazione del quadricipite che provoca un rapido spostamento della rotula verso l’alto.
minatore, consistente nella flessione plantare delle dita del piede.
Riflesso achilleo e r. medio-plantare (sinonimo r. del gastrocnemio e r. del soleo; L5-S1-S2; n. tibiale). Per la esecuzione del r. achilleo il punto di percussione è il tendine di Achille, mentre per l’esecuzione del r. medio-plantare deve essere percossa la pianta del piede sul margine laterale, alla sua metà circa. Il paziente può essere posto seduto con le gambe penzoloni, inginocchiato, sdraiato. Si ottiene una flessione plantare del piede.
Lo stimolo portato a contatto della cute e delle mucose, può essere quanto mai vario: toccare con cotone, con un piccolo pezzo di carta, oppure strisciare, pungere, ecc.
Riflesso degli adduttori (L2-L3-L4; n. cutaneo-mediale, n. otturatore). Il paziente in decubito supino mantiene gli arti inferiori semiflessi ed abdotti: viene percosso il condilo mediale del femore. Si ottiene una risposta di adduzione dell’arto. Sempre nell’ambito dei riflessi profondi accenniamo a due riflessi che da vari Autori sono ritenuti patologici, mentre in realtà non assumono significato patologico se riscontrati isolamente. Riflesso flessore delle dita: si provoca comunemente seguendo la tecnica di Hoffmann: l’esaminatore stringe con due dita della mano sinistra la seconda falange del dito medio del paziente: con il pollice dell’altra mano pizzica, a mo’ di chitarra, la terza falange dello stesso dito medio del soggetto in esame. A tale manovra fa seguito normalmente la flessione delle altre dita, pollice compreso; quando questa risposta è vivace ed associata ad iperreflessia generalizzata o monolaterale esprime una compromissione del sistema piramidale. Segno di Rossolimo: è un riflesso patologico provocabile con diverse manovre, usualmente con l’improvvisa percussione delle dita del piede del paziente da parte delle dita dell’esa-
RIFLESSI SUPERFICIALI (TAB. 2.2).
Riflesso corneale (afferenza V, efferenza VII; centro: ponte). Stimolando leggermente la cornea con un batuffolo di cotone, portato in direzione lateromediale dall’esterno del campo visivo mentre il paziente viene invitato a guardare dalla parte opposta, si ottiene una contrazione dell’orbicolare delle palpebre con ammiccamento. Riflesso faringeo (afferenza, efferenza: IXX; centro: bulbo). Stimolando la parete posteriore del faringe con un abbassalingua o con qualsiasi altro oggetto, si ottiene la contrazione dei mm. faringei. Riflessi addominali (sup. T7-T9, medio T9T11, inferiore T11-T12). Lo stato dell’addome (condizioni della cute, adipe, muscoli) condiziona l’estrinsecazione del riflesso in soggetti ricchi di adipe o in donne che abbiano partorito più volte, casi in cui difficilmente potranno essere ottenuti i riflessi addominali. A soggetto completamente rilasciato, con i muscoli addominali completamente detesi, l’esaminatore striscia, con una punta smussa, obliquamente dall’esterno all’interno o dall’interno all’esterno sulla cute dell’addome. Si distinguono i riflessi addominali superiore, medio ed inferiore. I riflessi addominali rivestono una certa importanza poiché sono spesso assenti negli stadi iniziali della sclerosi multipla e diminuiti o assenti unilateralmente nel caso di lesioni piramidali a livello encefalico. Riflesso cremasterico (L1-L2). Viene stimolata la cute della faccia mediale della coscia, alla
Funzione motoria
radice dell’arto, strisciando con una punta smussa per ottenere una contrazione del m. cremastere e quindi un sollevamento del testicolo. Riflesso anale (dello sfintere esterno o volontario: S4-S5). Si stimola con una punta smussa la cute perianale e si ottiene come risposta la contrazione dello sfintere esterno. Riflesso bulbo-cavernoso (S3-S4). Si ottiene stimolando la cute della parte anteriore del pene o pungendo lievemente il glande. Si apprezzerà la contrazione del m. bulbo-cavernoso alla base del pene. Riflesso cutaneo-plantare (L5-S 1-S 2). Per stimolazione, con una punta smussa, della cute della porzione centrale della pianta del piede ascendendo dal calcagno alle dita, si ottiene la flessione plantare delle dita. MODIFICAZIONI QUANTITATIVE DEI RIFLESSI PROFONDI
– IPOREFLESSIA O AREFLESSIA: la riduzione o abolizione dei riflessi profondi può essere dovuta a: a) alterazione o abolizione della conduzione dell’impulso attraverso l’arco riflesso e quindi per lesione della via afferente, del neurone intercalare, della via efferente; b) lesioni midollari e cerebrali quando si manifestino improvvisamente. L’areflessia in questi casi è transitoria e attribuita allo stato di shock spinale o al fenomeno di diaschisi. – RIFLESSI PENDOLARI: è una modalità particolare di risposta dei riflessi profondi, che si mette in evidenza per il riflesso rotuleo e tricipitale. La risposta che si ottiene per un singolo stimolo è costituita da una serie di oscillazioni pendolari del segmento di arto. I riflessi pendolari si riscontrano soprattutto nei malati cerebellari e la loro estrinsecazione è in rapporto con l’ipotonia.
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– IPERREFLESSIA: l’esagerazione dei riflessi profondi si dimostra con la velocità e l’intensità della contrazione e l’ampiezza del movimento riflesso. I riflessi sono detti trepidanti o policinetici o polifasici, quando un singolo stimolo dà luogo ad un accenno di risposta multipla, che si può poi concretare in una risposta ripetitiva vera e propria, cioè nel clono. Clono: con questo termine si intende una serie ritmica di contrazioni muscolari scatenate da una brusca e protratta tensione del tendine. Tale fenomeno, osservabile in condizioni fisiologiche solo in stato di fatica muscolare o di viziata tensione di un muscolo, si provoca facilmente quando i riflessi tendinei sono accentuati in conseguenza di una lesione piramidale. Il clono del piede è provocabile con una brusca flessione dorsale del piede; quello della rotula con un brusco spostamento verso il basso della rotula; quello del polso con una brusca estensione del polso. In relazione alla sua durata il clono può essere definito come ‘esauribile’ od ‘inesauribile’. L’iperreflessia profonda è dovuta a: a) lesione della via piramidale; b) condizioni come la tetania, il tetano, l’avvelenamento da stricnina. RIFLESSI PATOLOGICI Compaiono soltanto in concomitanza con malattie del sistema nervoso. Segno di Babinski: si ottiene strisciando con una punta smussa lungo il bordo esterno del piede e quindi verso l’alluce tracciando una linea trasversale alla base delle dita. In caso di positività si ottiene l’estensione dorsale dell’alluce e l’abduzione delle dita (cosiddetto segno del ventaglio di Dupré) (Fig. 2.27 B). Esistono numerosissime modalità per provocare l’estensione delle dita del piede e quindi
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 2.27 - Indicazione della sede di stimolazione per ottenere il segno di Chaddock (A) e il segno di Babinski (B). La freccia verticale indica la sede di stimolazione per il riflesso cutaneo-plantare.
moltissimi segni con relativa eponimia. Nella pratica clinica è utile conoscerne alcuni: Segno di Oppenheim: strisciamento con forza della cute della parte anteriore della gamba tra il ginocchio e la caviglia, facendo scorrere tra il pollice e la nocca dell’indice la cresta tibiale. Segno di Chaddock: strisciamento con una punta smussa intorno al malleolo esterno, iniziando posteriormente e proseguendo lungo il margine esterno del piede (Fig. 2.27 A). Segno di Gonda: rapida e forzata flessione delle ultime due dita. Segno di Gordon: compressione violenta delle masse muscolari del polpaccio. Segno di Schaefer: violenta compressione digitale del tendine di Achille. Il segno di Babinski è considerato classicamente come il segno più attendibile di lesione delle vie piramidali.
La risposta plantare patologica, cioè l’inversione del riflesso cutaneo-plantare o segno di Babinski, rappresenterebbe una parte del cosiddetto riflesso in flessione [flessione della coscia sul bacino, della gamba sulla coscia, del piede sulla gamba e delle dita (nello scimpanzé e nell’uomo si aggiunge l’estensione dell’alluce2)] che rappresenta la risposta riflessa in rapporto a stimoli nocicettivi con finalità di evitare o allontanare lo stimolo dannoso. La corteccia motoria e la via piramidale manterrebbero un’azione soppressoria sul riflesso in flessione per cui, in caso di lesione piramidale, la risposta patologica verrebbe a manifestarsi. La normale risposta in flessione si manifesta tra il I e il II anno di vita; nei primi mesi quindi, la risposta alla stimolazione cutanea della pianta del piede è in estensione. La variazione della risposta, in altri termini, correla bene con il periodo di mielinizzazione del tratto piramidale e con il concomitante sviluppo dei movimenti fini delle dita. La risposta plantare estensoria (segno di Babinski) è indicativa, quindi, di una lesione del sistema piramidale in grado di svincolare gli alfa-motoneuroni del muscolo estensore dell’alluce dal controllo esercitato dalla corteccia motoria. La presenza di questo segno non dipende dalla gravità della lesione del sistema piramidale: lesioni certe delle fibre cortico-spinali possono non accompagnarsi alla presenza del segno di Babinski, come spesso accade nella sclerosi laterale amiotrofica, mentre il segno può essere talvolta presente in pazienti che non presentano una franca ipostenia dell’arto inferiore. In generale, il segno di Babinski viene posto in relazione alla compromissione del contingente neo-cortico-spinale, cioè la via che dalle cellule di Betz dell’area 4 arriva ai motoneuroni
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In realtà la dorsiflessione dell’alluce rappresenta fisiologicamente un movimento flessorio, anche se i muscoli in azione sono indicati come estensori. Al contrario la flessione plantare delle dita del piede è in realtà un’estensione (Brain e Wilkinson, 1959). Secondo Sherrington (1910) infatti, i muscoli dell’arto inferiore possono essere classificati in funzione della loro partecipazione al riflesso in flessione e alle differenti fasi della marcia: in questi casi il flessore dell’alluce che produce una flessione plantare, fa parte funzionalmente del gruppo degli estensori, l’estensore dell’alluce che produce una flessione dorsale fa parte funzionalmente del gruppo dei flessori.
Funzione motoria spinali. Il segno clinico che più frequentemente si associa alla risposta plantare estensoria è la perdita della capacità di eseguire movimenti fini del piede, presente nel 92 % dei pazienti con segno di Babinski (Van Gijn, 1978). Inoltre, il segno di Babinski può essere presente anche in assenza di lesioni anatomiche delle fibre piramidali, esprimendo una compromissione funzionale del sistema cortico-spinale (ipoglicemia, anestesia generale, somministrazione di sostanze ipnotiche, periodo postcritico di una crisi epilettica, ecc.).
RIFLESSI PRIMITIVI I riflessi primitivi, normalmente presenti nel neonato o nella primissima infanzia, possono presentarsi nell’adulto in caso di patologia cerebrale diffusa. I principali riflessi primitivi utilizzati nella pratica clinica sono: – Riflesso del muso: protrusione delle labbra (per contrazione del m. orbicolare della bocca) in seguito a percussione con il martello delle labbra stesse. – Riflesso glabellare: contrazione bilaterale dell’orbicolare delle palpebre per percussione sulla glabella; ha valore patologico quando persiste in seguito a stimolazioni ripetute («glabellare inestinguibile»). – Riflesso di suzione: stimoli tattili sulle labbra determinano una risposta di succhiamento. – Riflesso corneo-mandibolare: contrazione dei muscoli pterigoidei per stimolazione della cornea con un batuffolo di cotone. – Riflesso di prensione forzata: stimoli tattili sul palmo della mano con le dita (o con oggetti) determinano chiusura della mano. – Riflesso palmomentoniero (di Marinesco-Radovici): contrazione dei muscoli mentonieri ipsilaterali per stimolazione (strisciamento con una punta smussa) dell’eminenza tenar di una mano. Si ritrova in una percentuale variabile di soggetti normali, ma si deve ritenere patologico in base alla soglia di comparsa, alla sua riproducibilità, alla diffusione della zona reflessogena. Alcuni clinici lo considerano patologico solo se unilaterale.
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Esprime l’esistenza di una lesione soprasegmentale del sistema motorio e rappresenterebbe la componente precoce di un riflesso nocicettivo generale (Dehen e coll., 1974). – Riflesso di inseguimento: il paziente segue con le mani, o con il capo, gli oggetti che gli vengono avvicinati. RIFLESSI DI AUTOMATISMO SPINALE (sinonimo: riflessi di difesa, riflessi massivi, riflessi nocicettivi). Si tratta della risposta in flessione dell’arto inferiore (flessione della coscia sul bacino, della gamba sulla coscia, del piede sulla gamba) per stimoli in genere dolorosi portati all’estremità distale dell’arto, espressione della completa e massiva risposta in flessione ad uno stimolo nocicettivo. Si possono riscontrare per lesioni encefaliche con disturbi piramidali, ma sono particolarmente evidenti nelle lesioni midollari trasverse in cui l’area reflessogena è enormemente estesa e dove lo stimolo che li provoca può anche essere un semplice stimolo tattile. In soggetti paraplegici è possibile stabilire il livello inferiore della lesione midollare (Babinski e Jervoski, 1909) perchè questa concorda con il limite superiore della zona cutanea in cui la stimolazione causa ancora il riflesso di difesa, mentre il limite superiore della lesione è fornito dal livello di anestesia. Nei paraplegici il riflesso di accorciamento o di triplice retrazione dell’arto con risposta in flessione si può accompagnare alla contrazione delle pareti addominali, evacuazione della vescica e del retto, sudorazione e orripilazione («Mass reflex o di flessione massiva» di Riddoch). Il riflesso di allungamento è molto più raro del precedente. Si ottiene per stimolazione della parte alta della coscia o della parte bassa del ventre con una risposta in estensione dell’arto. Riflesso di allungamento crociato: rarissimo. Si pone un arto in estensione e l’altro in semi-
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flessione: provocando nell’arto in estensione la triplice retrazione, si osserva l’estensione dell’arto controlaterale. Si ritrova nelle paraplegie, specialmente nelle forme cutaneo-riflesse. INVERSIONE DEI RIFLESSI Un riflesso si dice invertito quando in luogo della risposta muscolare riflessa che si ottiene normalmente, la percussione tendinea provoca la contrazione di un muscolo antagonista. Per esempio, la percussione del tendine del muscolo tricipite, anziché provocare come di norma il riflesso tricipitale con estensione dell’avambraccio, può essere seguita da una risposta paradossa di flessione dell’avambraccio. Perché questo avvenga sono necessarie due condizioni: che manchi del tutto la normale contrazione riflessa del muscolo tricipite, e che questa sia sostituita da una contrazione del bicipite (inversione del riflesso tricipitale). Analogo è il fenomeno di «inversione del riflesso radiale» descritto da Babinski: la percussione dell’apofisi stiloide del radio, invece di determinare flessione dell’avambraccio sul braccio per contrazione riflessa del muscolo brachioradiale, provoca solo una flessione delle dita. Anche il riflesso rotuleo può essere invertito e in questo caso si ottiene una flessione anziché un’estensione della gamba. Classicamente si ritiene che il fenomeno sia dovuto ad una lesione intramidollare e alla diffusione dell’eccitamento reflessogeno ai metameri superiori o inferiori. Clinicamente l’inversione dei riflessi si può osservare in lesioni dell’arco diastaltico, senza interessamento del midollo. Secondo alcuni Autori, l’inversione ha lo stesso significato clinico dell’abolizione del riflesso: l’elicitazione del riflesso desiderato è impossibile, ma lo stimolo può essere in grado, seppure applicato in sede non usuale, di provocare un altro riflesso osteotendineo, la cui area di elicitazione è, nel caso particolare, allargata.
Iniziativa motoria, motilità automatica e associata È possibile osservare in alcuni pazienti un indebolimento ed impoverimento dell’iniziativa motoria e dell’attività automatica e associata, senza che esistano disturbi motori di tipo piramidale. L’iniziativa motoria, substrato indispensabile per l’effettuazione del movimento volontario, rappresenta la capacità di iniziare il movimento e di correttamente orientare reazioni motorie istintive e riflesse. La motilità automatica e associata è rappresentata da un gran numero di movimenti che si compiono in maniera automatica (e quindi non volontariamente) spesso in associazione con movimenti volontari: movimenti del tronco e degli arti durante la marcia; movimenti del capo e degli occhi verso la sorgente di un rumore; movimenti della muscolatura mimica facciale che tendono ad esprimere stati d’animo e a sottolineare atteggiamenti motori; gesticolazione che accompagna la conversazione. Le alterazioni di questo tipo di attività motoria sono tipiche dei quadri morbosi da lesioni del sistema extrapiramidale. Le turbe dell’iniziativa motoria e della motilità automatica e associata possono essere così indicate: 1) catalessia e catatonia; 2) acinesia, ipocinesia, bradicinesia; 3) disturbi del linguaggio; 4) disturbi della mimica. CATALESSIA E CATATONIA. – Per catatonia s’intende la protratta conservazione di posizioni e di atteggiamenti spontaneamente assunti dal paziente, per catalessia la conservazione nel tempo di posizioni impresse ed imposte dall’esaminatore (De Lisi, 1935). Quindi, mentre un atteggiamento catatonico è apprezzato passivamente dall’esaminatore, un atteggiamento catalettico viene ricercato, alzando ad esempio un arto del paziente e osservando come questa posizione venga mantenuta per un certo tempo. Quando la catalessia è molto
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intensa, possono essere imposte all’arto del paziente posizioni abnormi, bizzarre, scomode e tali da giustificare il termine di flexibilitas cerea alla possibilità di imporre al paziente i più diversi atteggiamenti, quasi si trattasse di operare con cera da modellare. La catatonia si ritrova con modalità paradigmatiche nel «sintomo del guanciale psichico» dei parkinsoniani: il paziente sdraiato, con il capo semiflesso sul tronco, come se fosse sostenuto da un guanciale, lasciato a sè mantiene questa posizione per lungo tempo. Gli stessi termini (catatonia e catalessia) sono anche impiegati in psichiatria, con significato parzialmente analogo. Tuttavia, invece di «catatonia», si preferisce, in psicopatologia, il termine più globale di «sindrome catatonica», caratterizzata da aspetti estremi di negativismo e passività (catatonia, ecoprassia, ecolalia ed ecomimia), e da stereotipie mimiche, gestuali, fasiche. Questi quadri si riscontrano principalmente in stati tossici acuti e nella schizofrenia.
alla rigidità; attualmente (anche in relazione agli effetti delle terapie farmacologiche e chirurgiche) si ipotizza che tali fenomeni abbiano una genesi indipendente ed esprimano la deficitaria facilitazione talamo-corticale delle aree corticali deputate alla programmazione (in particolare, l’area supplementare motoria) ed all’esecuzione del movimento (aree motorie primarie)(v. pag. 526)
ACINESIA, IPOCINESIA, BRADICINESIA. – Acinesia significa l’assenza o l’estrema povertà di movimenti spontanei (ad esempio, nella gesticolazione o nella mimica) o associati (ad esempio, movimenti pendolari degli arti nella marcia). Tale condizione si accompagna, spesso, a difficoltà dell’inizio del movimento («della messa in moto») ed è associata ad una riduzione nell’ampiezza del movimento (ipocinesia) quale si manifesta nell’andatura a piccoli passi o nella micrografia. La bradicinesia ,infine, indica una particolare lentezza nell’esecuzione del movimento volontario (De Lisi, 1935) e si caratterizza per la particolare estrema difficoltà nel passaggio rapido da una sequenza motoria ad un’altra (movimenti sequenziali) e per la perdita o riduzione del ritmo di esecuzione di tali sequenze (perdita della «melodia cinetica»). Per molto tempo si è ritenuto che l’acinesia e la bradicinesia fossero strettamente correlate
DISTURBI DELLA PAROLA. – I disturbi dell’iniziativa motoria si possono esprimere anche nell’ambito dell’articolazione della parola (disartria). Ci riferiamo a ciò che si osserva in alcune malattie extrapiramidali, fra cui il morbo di Wilson. Questi malati, pur non presentando turbe fasiche (comprensione, lettura e scrittura, linguaggio interno conservati), dimostrano una progressiva limitazione del linguaggio parlato fino alla totale abolizione. Altre turbe del linguaggio in rapporto con l’ipocinesia consistono in: monotonia del linguaggio, mancanza della cadenza con cui viene data enfasi al discorso e, talora, palilalia, cioè ripetizione, anche per 15 o 20 volte, dell’ultima parola o sillaba pronunciata. Anche per la parola può essere dimostrata una cinesia paradossa (tachifemia).
L’acatisia è invece l’impossibilità di conservare a lungo una determinata posizione e la necessità di muovere anche frequentemente segmenti di arto o tutto il corpo. Un elemento singolare che si riscontra nelle sindromi parkinsoniane è dato dal fatto che mentre l’atto motorio risulta generalmente lento, impacciato, estremamente povero, alcune attività complesse possono essere eseguite correttamente o meglio sono eseguite più rapidamente: tipica è la possibilità di correre con notevole celerità (cinesia paradossa).
DISTURBI DELLA MIMICA. – I movimenti mimici espressione di un particolare stato d’animo o di
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un’emozione, possono dimostrare alterazioni definite come: amimia, ipermimia, paramimia, riso e pianto spastico. – Amimia o ipomimia: con questi termini s’intende la perdita o la riduzione dell’espressione del viso, con povertà o assenza dei movimenti emozionali ed espressivi della faccia, in assenza, come è ovvio, di lesioni del nervo facciale, unilaterali o bilaterali. La dissociazione tra innervazione facciale volontaria e emozionale è infatti molto chiara anche se non facile ne è la spiegazione. Il riso o il sorriso spontaneo, determinato da un’emozione, è ovviamente ben differente dal riso o dal sorriso di circostanza. Quest’ultimo necessita l’integrità del facciale mentre il primo utilizzerebbe vie efferenti pallido-ipotalamiche (v. pag. ??). L’amimia appare tipicamente e precocemente nella sindrome parkinsoniana, ed è da considerare espressione dell’acinesia. – Ipermimia: con questo termine possono essere definiti quei movimenti rapidi e grotteschi a tipo di smorfia (grimaces degli AA. francesi) che compaiono in vari quadri morbosi (lesione del pallido, sclerosi a placche, ecc.). – Paramimia o mimica discordante: sono espressioni mimiche inadeguate o addirittura discordanti con la situazione emotiva che le ha suscitate. Questi disturbi sono tipici di ammalati psichici, ma osservabili anche in ammalati neurologici con lesioni del sistema extrapiramidale. – Riso e pianto spastico: le modalità di comparsa e cessazione, solitamente improvvisa o spastica, le caratteristiche del riso e del pianto disordinato ed irrefrenabile, a volte lamentoso, l’assenza di un’adeguata motivazione ne costituiscono la caratteristica. Si tratta quindi di pazienti nei quali, improvvisamente e con caratteristiche esplosive, si scatena il riso o il pianto, senza uno stimolo emozionale adeguato talora anzi in rapporto con uno stimolo che dovrebbe suscitare una manifestazione mimica opposta (riso o pianto paradosso). Facilmente
il paziente può passare dal pianto al riso, iniziando con uno e finendo con l’altro. Il riso e il pianto spastico si ritrovano soprattutto nella sindrome pseudobulbare, nella sclerosi in placche e dovrebbero essere interpretati come perdita del controllo corticale che normalmente inibisce impulsi emozionali involontari.
Alterazioni della regolazione delle posizioni corporee La regolazione delle posizioni e degli atteggiamenti di parti corporee o del corpo in toto (De Lisi, 1935) è controllata da riflessi di natura propriocettiva o riflessi posturali che si integrano a differenti livelli del nevrasse e in cui il sistema extrapiramidale gioca un ruolo fondamentale. Clinicamente sono di interesse relativo, ma è fondamentale il loro rilievo per l’interpretazione del meccanismo impiegato dal sistema nervoso nel mantenimento della postura. I riflessi posturali si distinguono in riflessi posturali locali, segmentali e generali. I riflessi posturali locali sono rappresentati dai riflessi di stiramento o riflessi miotattici che nascono dal muscolo stesso. La contrazione del quadricipite femorale, ad esempio, per stimolazione della pianta del piede (reazione positiva di sostegno) contribuisce a mantenere l’arto rigido e quindi, in via riflessa, la stazione eretta. Ma per poter compiere un movimento volontario, ad es. nella marcia, deve intervenire una reazione di sostegno negativa, che ugualmente origina dagli organi propriocettivi muscolari quando si verifica la flessione plantare del piede con l’arto sollevato dal terreno. Si ha cioè l’inibizione del riflesso miotattico per poter effettuare il movimento volontario. I riflessi posturali segmentali si manifestano negli arti controlaterali, sempre per stimoli di origine muscolare propriocettiva. Il riflesso di estensione crociata appare in un arto inferiore se uno stimolo doloroso è applicato all’altro arto inferiore che si retrae (riflesso nocicettivo in flessione). La reazione estensoria permette quindi la stazione eretta su un solo arto. Le reazioni statiche generali (riflessi tonici del collo e riflessi tonici labirintici) riguardano alcuni riflessi che si articolano a livello del tronco encefalico. I riflessi tonici del collo sono reazioni posturali che si manifestano in seguito a modificazioni della posizione
Funzione motoria del capo rispetto al tronco. Le afferenze partono dai recettori delle articolazioni delle prime vertebre cervicali e dai propriocettori dei muscoli del collo e raggiungono attraverso le prime tre radici cervicali posteriori, i neuroni intercalari situati a livello del I e II segmento cervicale. La rotazione laterale della testa verso sinistra, ad esempio, provoca un aumento del tono estensorio dell’arto superiore verso cui è rivolto il mento e aumento del tono flessorio dell’arto cui è rivolto l’occipite, facendo assumere la cosiddetta posizione da schermitore (Fig. 2.28). La flessione dorsale del capo provoca un aumento del tono estensorio agli arti superiori e del tono flessorio agli arti inferiori, raffigurando l’atteggiamento dell’uomo che guarda verso l’alto, mentre la flessione ventrale del capo fa assumere l’atteggiamento opposto, tipico di un uomo che da posizioni sopraelevate guarda verso il basso (Fig. 2.29). I riflessi tonici labirintici dipendono dalla stimolazione delle strutture otolitiche dell’utriculo (e forse del sacculo) in rapporto col movimento nello spazio, e non devono essere confusi con i riflessi vestibolari. I riflessi tonici labirintici si dimostrano quando la posizione della testa e del corpo è modificata sul piano orizzontale, senza che esista modificazione della posizione del capo rispetto al corpo. Si studiano negli animali: se l’animale è in posizione prona gli arti si flettono.
Fig. 2.28 - Riflessi tonici del collo: la rotazione del capo verso sinistra provoca aumento del tono estensorio dell’arto superiore, verso cui è rivolto il mento, e aumento del tono flessorio dell’arto verso cui è rivolto l’occipite: posizione da schermitore.
Fig. 2.29 - Riflessi tonici del collo: la flessione ventrale del capo provoca aumento del tono flessorio agli arti superiori ed estensorio agli arti inferiori.
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In termini generali, lo studio dei riflessi posturali è difficile quando il sistema motorio funziona normalmente; le diverse sezioni trasverse (ed in particolare quella al di sopra del nucleo rosso, o preparazione mesencefalica) consentono la liberazione dei riflessi posturali, che risultano esagerati. I riflessi tonici labirintici ed i riflessi tonici del collo si integrano reciprocamente. Infatti i riflessi labirintici agiscono in base al presupposto che il capo abbia una posizione costante rispetto al corpo, e ciò è garantito dai riflessi tonici del collo. Va infine sottolineato che esiste un contributo importante degli impulsi visivi nel mantenimento dell’equilibrio.
Semeioticamente i riflessi di postura sono contrazioni toniche più o meno durature che si determinano, in condizioni fisiologiche, in alcuni muscoli quando si porta passivamente un segmento di arto in una determinata posizione, causando quindi un accorciamento o stiramento del corpo muscolare. I riflessi di postura che si ricercano in clinica sono due: il riflesso di postura del piede (Foix) o contrazione paradossa del tibiale (Westphal) e il riflesso di postura del bicipite. Il primo si ricerca nel paziente supino, imponendo al piede movimenti passivi di flessione dorsale che provocano la contrazione del tibiale anteriore. Il riflesso di postura del bicipite si ricerca a soggetto seduto con il braccio sostenuto a livello dell’articolazione del gomito: con i movimenti di flessione dell’avambraccio si ottiene una contrazione del bicipite. I riflessi di postura aumentano di intensità soprattutto nelle sindromi extrapiramidali. I riflessi tonici del collo (riflessi di Magnus e De Klejn), chiaramente osservabili nell’animale, sono fisiologici nell’uomo fino a 6 mesi d’età: a paziente supino la deviazione laterale del capo provoca un aumento del tono estensorio agli arti del lato verso cui è rivolto il mento, e aumento del tono flessorio agli arti del lato verso cui è rivolto l’occipite. In questo modo il soggetto assume la cosiddetta «posizione da schermitore», infatti l’arto verso cui guarda il viso è esteso, come se avesse nella mano un fioretto, mentre il controlaterale è flesso (Fig. 2.28).
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Anche il semplice piegamento del capo può scatenare questi riflessi e in questo caso si ottiene un aumento del tono flessorio negli arti verso cui è piegato il capo. La dorsiflessione del capo provoca un aumento del tono estensorio agli arti superiori e di quello flessorio agli inferiori, raffigurando l’atteggiamento di un animale che guarda verso l’alto; al contrario la ventroflessione provoca un aumento del tono flessorio agli arti superiori ed estensorio agli inferiori, posizione di un animale che da una posizione sopraelevata guarda verso il basso (Fulton, 1949) (Fig. 2.29). La persistenza dei riflessi tonici del collo nei bambini al di sopra dei 6 mesi indica che il controllo sui riflessi del tronco encefalico non è compiuto e che probabilmente il bambino mostrerà deficit permanenti motori. I riflessi di raddrizzamento nell’uomo possono essere ricercati imprimendo ad un soggetto in piedi, a gambe unite, una leggera spinta dall’avanti all’indietro, al fine di esplorare le reazioni sincinetiche e automatiche che si oppongono ad una spinta. Alterazioni nella manovra della spinta sono state riscontrate in sindromi extrapiramidali. A proposito dei riflessi di raddrizzamento, è necessario ricordare brevemente il fenomeno di prensione forzata. Infatti fra gli atti motori che i primati usano per raddrizzarsi, «la prensione» risulta di notevole importanza. Il fenomeno di prensione forzata si presenta quando stimolando la regione palmare, specie fra pollice e indice, per mezzo di un oggetto a punta smussa o con un dito, si ottiene la forzata prensione per involontaria chiusura della mano, tanto che il soggetto non è più capace di abbandonare volontariamente la presa. Il fenomeno è fisiologico nei primati e nell’uomo durante i primi anni di vita e rappresenterebbe una reazione di raddrizzamento, scatenata da stimoli a partenza dal corpo e che agiscono sul corpo stesso. Sembra che anche le strutture extrapiramidali basali possano essere implicate nel determinismo del fenomeno. Sul piano finalistico sembrerebbe lecito interpretare il fenomeno come tentativo di assicurare un completo e duraturo afferramento dell’infante alla madre, afferramento che è di importanza vitale nella scimmia ed assai minore nell’uomo.
Il fenomeno, patologico nell’uomo adulto e particolarmente evidente se si ricerca in decubito laterale, (con il lato affetto libero dal piano del letto), sarebbe da imputare alla lesione dell’area supplementare motoria. Analogo significato semeiologico e funzionale ha i1 riflesso di prensione forzata delle dita del piede (flessione ed adduzione delle dita del piede per stimolazione della parte distale della pianta). Tra gli atteggiamenti anomali segnaliamo la mano a «posizione interossea» dei parkinsoniani (flessione leggera del polso, dita iperestese, addotte e flesse in corrispondenza dell’ultima falange, pollice addotto) e la mano en patte de canard («flessa a zampa di anitra»: flessa al polso e con dita iperestese e abdotte) di certi atetosici. Tra gli atteggiamenti anomali generali del corpo descriviamo: l’atteggiamento flessorio dei parkinsoniani (capo flesso, dorso curvo, arti inferiori un po’ flessi) e alcuni atteggiamenti particolari di ammalati di morbo di Wilson e definite da De Lisi «pose ginniche» (Figg. 2.30; 2.31).
Movimenti involontari patologici (ipercinesie) G. Abbruzzese Con questo termine generale si definisce un gruppo eterogeneo di disturbi del movimento, caratterizzati da contrazioni muscolari involontarie (cioè non sopprimibili dalla volontà) con distribuzione topografica variabile, che generano movimenti semplici o complessi, inadeguati e apparentemente afinalistici. I «movimenti involontari patologici» sono da sempre considerati espressione di una sofferenza anatomica o funzionale dei gangli della base, nonostante le loro basi fisiopatologiche restino in larga parte speculative e le correlazioni anatomo-cliniche risultino soltanto parziali (De Long, 1990). Tuttavia, le recenti acquisizioni biochimico-farmacologiche (inclusi i modelli sperimentali e l’osservazione di forme iatrogene) ed i dati derivati dagli studi fisiopatologici con l’utilizzazione della tomografia ad emissione di positroni (PET), hanno avvalorato questa attribuzione.
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Fig. 2.30 - Atteggiamenti del corpo e degli arti in un gruppo di soggetti affetti da Morbo di Parkinson (da C. Loeb e A. Brusa, in: Diagnostica Differenziale, A. Wassermann ed., 1959).
Fig. 2.31 - Atteggiamenti assunti da malati di Morbo di Wilson: fissità di alcune posizioni corporee (disegno dall’originale di De Lisi, in: A. Ceconi e F. Micheli “Medicina Interna”, Torino, Minerva Medica, 1943).
zazione diagnostica può comportare erronee interpretazioni. Nonostante l’ausilio delle valutazioni neurofisiologiche o delle modificazioni farmacologicamente indotte, l’osservazione clinica resta tuttora il principale approccio diagnostico a questi disturbi. I criteri descrittivi semeiologici tengono in considerazione: a) i parametri spazio-temporali del movimento (ampiezza, durata, velocità, ritmo), b) la distribuzione topografica (prossimale-distale, focale-diffusa), c) i muscoli coinvolti (agonisti, antagonisti, sinergisti), d) l’influenza di fattori esterni (riposo, sonno, emozioni, motilità volontaria, atteggiamento posturale). I principali tipi di movimenti involontari patologici sono rappresentati da: corea, atetosi, ballismo, tremori, mioclonie, reazioni di soprassalto, distonie, discinesie, tic.
L’eziologia può risultare spesso sconosciuta (forme essenziali o idiopatiche) o dipendere da cause note (forme secondarie o sintomatiche). Spesso bizzarri e polimorfi, i movimenti involontari patologici risultano, talora, difficili da classificare e l’inaccuratezza nella categoriz-
MOVIMENTI COREICI. – Si tratta di movimenti rapidi, di breve durata ed ampiezza variabile, improvvisi ed imprevedibili, irregolari ed asimmetrici, che si presentano isolatamente od in sequenze casuali in qualsiasi parte del corpo, pur prediligendo le sedi più distali, il collo e la muscolatura mimica. In alcune condizioni ap-
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paiono più scattanti (Corea di Sydenham), in altre assumono un aspetto più lento e fluente (Corea di Huntington). Lo spettro dei movimenti coreici è estremamente ampio: corrugamento del sopracciglio, ammiccamento palpebrale, protrusione della lingua, increspamento delle labbra; flesso-estensione, rotazione, reclinazione o rovesciamento del capo; innalzamento ed adduzione delle spalle; inarcamento del tronco; dondolamento del bacino; flesso-estensione delle dita della mano o del piede; flesso-estensione, prono-supinazione del polso e della caviglia. Quando il quadro clinico è conclamato, il paziente presenta movimenti continui, fluttuanti da una parte all’altra del corpo (quasi una danza, dal termine greco «coreia»), che gli fanno assumere espressioni grottesche o un atteggiamento «clownesco». I movimenti coreici, che inizialmente possono essere inseriti in una sequenza motoria finalizzata (paracinesie), finiscono con l’interferire con la motilità volontaria compromettendo, ad esempio, l’uso corretto delle mani, la deambulazione ed anche la fonazione e la deglutizione. Sono usualmente associati ad ipotonia, accentuati dalle emozioni e scompaiono durante il sonno; possono essere attenuati, anche drasticamente, dai farmaci antagonisti della dopamina che causano una deplezione presinaptica di dopamina (tetrabenazina: 75-150 mg/die) o bloccano i recettori dopaminergici postsinaptici (cloropromazina: 75-300 mg/die; aloperidolo: 2-10 mg/die) ed in minor misura anche dai cosiddetti neurolettici ‘atipici’ (clozapina, olanzapina, quetiapina). Dal punto di vista EMG, i movimenti sono caratterizzati da un quadro variabile sia per l’ordine di attivazione che per la durata delle scariche EMG, più frequentemente con conservazione dell’innervazione reciproca. I movimenti coreici sono il segno dominante di a) diverse condizioni cliniche a decorso acuto, la principale delle quali è rappresentata dalla Corea di Sydenham, e b) della corea cro-
nica degenerativa o malattia di Huntington (Tab. 2.3). La lesione anatomica responsabile dei movimenti coreici interessa il corpo striato, in particolare il nucleo caudato (segmento cefalico) ove si rileva perdita neuronale e gliosi reattiva. MOVIMENTI ATETOSICI. – Sono movimenti involontari lenti, aritmici, continui e protratti nel tempo, di modesta ampiezza. Predominano alle estremità e sono particolarmente pronunciati agli arti superiori (flesso-estensione e adduzione-abduzione delle dita e della mano), ove realizzano posture bizzarre che ricordano i movimenti striscianti dei tentacoli del polipo o i movimenti delle dita delle danzatrici giavanesi. Possono, tuttavia, localizzarsi anche al settore cranico (faccia, lingua). I movimenti atetosici si osservano sia a riposo che nel mantenimento di specifiche attitudini o nel corso del movimento volontario; si accentuano con le emozioni, scompaiono nel sonno. Rispetto ai movimenti coreici appaiono più lenti, ma meno variabili: la distinzione tra questi due tipi di movimenti patologici, tuttavia, non è sempre agevole, anche perchè possono coesistere nelle forme di «coreo-atetosi» (Tab. 2.3). L’analisi elettrofisiologica dimostra caratteristiche simili a quelle delle distonie con la presenza di una contemporanea attivazione EMG dei muscoli agonisti ed antagonisti, seppur continuamente variabile nel tempo. L’identificazione del ruolo dei gangli basali nella patogenesi dell’atetosi risale alle osservazioni di C. Vogt e O. Vogt (1920) che ne descrissero l’associazione con lo status marmoratus e con lo status dismielinisatus dello striato. Le lesioni responsabili sono localizzate prevalentemente nel neostriato (putamen) e, meno frequentemente, nel pallido e possono far seguito ad encefalopatie neo-perinatali (atetosi doppia congenita), malattie eredo-degenerative (tra cui l’atrofia pallidale progressiva di van Bogaert) o essere secondarie a cause tossiche-metaboliche e, soprattutto, vascolari (atetosi post-emi-
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Tabella 2.3.- Classificazione eziologica delle coree (modificata da Shoulson, 1986). Ereditarie: – Malattia di Huntington – Corea benigna ereditaria – Neuroacantocitosi – Coreo-atetosi parossistiche (chinesigeniche e non) – Degenerazioni SNC (atrofia olivo-ponto-cerebellare, atassia teleangectasica, calcificazione dei gangli della base) – Disturbi neurometabolici (malattia di Wilson, malattia di Leigh, malattie lisosomiali) Infettive – – – –
o immunologiche: Corea di Sydenham Encefalite letargica Post-infettive e post-encefalitiche Immunomediate (LES, porpora di Schönlein-Henoch, sindrome di Beçhet)
Da farmaci e tossici: – Neurolettici, antiparkinsoniani, fenitoina, anfetamine, triciclici, contraccettivi orali – Alcool, monossido di carbonio, manganese, mercurio Endocrine e metaboliche: – Ipertiroidismo, iper-ipoparatiroidismo, corea delle gravide – Ipo-ipernatriemia, ipo-iperglicemia, encefalopatie epatiche e renali Vascolari (emicorea o coreo-atetosi) : – Lesioni ischemiche o emorragiche dei gangli della base, malformazioni artero-venose – Policitemia vera – Emicrania – Ematomi subdurali ed epidurali (post-traumatici)
plegiche). I movimenti atetosici possono essere attenuati dall’impiego di farmaci neurolettici: perfenazina (8-12 mg/die), pimozide (4-12 mg/ die), aloperidolo (8-12 mg/die). Occorre ricordare che quadri simil-atetosici (pseudoatetosi o atetosi sensoriale) possono riscontrarsi in pazienti con disturbi della sensibilità profonda (in particolare del senso di posizione) di diversa origine (malattie demielinizzanti, ecc.).
MOVIMENTI BALLICI. – Sono movimenti improvvisi, rapidi, aritmici, relativamente stereotipati, caratterizzati da una notevole ampiezza e da una cospicua energia potenziale. Generalmente si localizzano ad un emilato (emiballi-
smo), coinvolgendo prevalentemente la muscolatura prossimale, e sono evidenti soprattutto all’arto superiore ove determinano peculiari atteggiamenti posturali, per cui il paziente dà l’impressione di lanciare un oggetto con forza, quasi fosse un discobolo o un lanciatore di peso. Talora il movimento è localizzato ad un solo arto (monoballismo) ed è stato descritto, seppur estremamente raro, un ballismo bilaterale (biballismo o paraballismo). Il movimento è aumentato dalle emozioni e dallo sforzo fisico, ed abolito durante il sonno. La registrazione EMG dimostra la presenza di scariche di attivazione muscolare sincrone nei muscoli agonisti ed antagonisti, analoga-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
mente a quanto si osserva nelle distonie ed atetosi. La lesione responsabile dei movimenti ballici è usualmente situata nel nucleo subtalamico di Luys controlaterale: in genere si tratta di lesioni vascolari di tipo ischemico o emorragico, più raramente focali di altra natura (tumori, ascessi, malformazioni arterovenose, placche di demielinizzazione). Quadri clinici caratterizzati da movimenti ballici sono stati descritti, tuttavia, in rapporto a lesioni iuxta-Luysiane, tali da interrompere le connessioni associative con il pallido, ed anche a livello dello striato e del talamo. L’evoluzione clinica delle forme vascolari è, di solito, spontaneamente migliorativa nell’arco di 3-6 mesi; nelle fasi acute, i movimenti possono essere attenuati con l’impiego di farmaci neurolettici (perfenazina 8-12 mg/die; aloperidolo 812 mg/die). Occasionalmente, tuttavia, nei casi contraddistinti da una particolare intensità dei movimenti involontari e dalla scarsa risposta alle terapie farmacologiche è stata utilizzata la lesione, per via stereotassica, del nucleo talamico ventralis intermedius (Grossman, 1988). TREMORI. – Rappresentano il più comune dei movimenti involontari patologici e consistono in oscillazioni ritmiche (più o meno continue e regolari) di un segmento corporeo attorno al proprio piano di equilibrio, prodotte dalla contrazione di tipo alternante o sincrono di muscoli antagonisti ad innervazione reciproca. Il tremore si manifesta in conseguenza della sincronizzazione di più unità motorie che deriva dalle complesse interazioni tra l’attività autonoma di «oscillatori» situati nel sistema nervoso centrale (talamo, cervelletto) e l’influenza dei fenomeni di risonanza che si sviluppano nei circuiti periferici a feedback (Marsden, 1984). I tremori possono essere descritti in termini di frequenza, ampiezza, morfologia. La loro classificazione è sempre stata oggetto di accese controversie. Il criterio cui solitamente si fa riferimento prende in considerazione la condi-
zione posturale o l’attività motoria che ne determina più frequentemente la comparsa. In base a tale criterio, i tremori sono stati recentemente (Deuschl et al., 1998) suddivisi in a) tremore a riposo, e b) tremore d’azione, quest’ultimo comprendente le seguenti forme: 1. tremore posturale (posizione-specifico e posizione-indipendente), 2. tremore cinetico (semplice, intenzionale, compito-specifico, isometrico). Le principali cause di tremore sono indicate nella Tab. 2.4. Il tremore a riposo si manifesta in assenza di attività motoria, quando il relativo segmento corporeo è a totale riposo, mentre si attenua (o scompare) durante l’esecuzione di un movimento volontario o il mantenimento di una postura; la sua ampiezza è accentuata dalle emozioni e dallo stress, scompare durante il sonno. Si tratta di un tremore ritmico, regolare, a bassa frequenza (4-6 Hz. o scosse al secondo). Si localizza prevalentemente ai settori distali degli arti, in particolare alla mano (flesso-estensione, prono-supinazione) ove determina aspetti particolari (movimenti tipo «contar monete» o «confezionare pillole»). Può interessare anche il capo (labbra, mandibola) e, nelle forme più gravi, diffondersi a tutto il corpo. Questo tipo di tremore è classicamente espressione della malattia idiopatica di Parkinson, di cui rappresenta il sintomo di esordio (per lo più unilaterale) nel 60-70 % circa dei casi, per poi associarsi agli altri segni tipici della malattia. La registrazione EMG dimostra una contrazione alternante, ritmica dei muscoli agonistiantagonisti con frequenza compresa tra 4-6 Hz. (Fig. 2.32, A). I tremori d’azione compaiono durante la contrazione volontaria di uno o più muscoli, mentre sono assenti in condizioni di riposo. Possono quindi manifestarsi durante il mantenimento volontario di una specifica posizione o atteggiamento (posturale), talora con esacerbazione in posizioni specifiche, o durante l’esecuzione di movi-
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Tabella 2.4 – Classificazione eziologica dei tremori (modificata da Deuschl et al., 1998)
1.
2.
3.
4.
Malattia
Tipo di tremore
Malattie idiopatiche, degenerative ed ereditarie – Malattia di Parkinson – Parkinsonismo giovanile – Atrofia multisistemica – Malattia di Wilson – Atrofia pallidale progressiva – Malattia di Huntington
R-P R-P R-P-C R-P-C R R-P-C
– – – – – – – – –
R-C C P-C P P R-P P R-P-C P-C
Malattia di Fahr Coreo-atetosi parossistiche Sindrome di Ramsay-Hunt Atassia teleangectasia Distonia generalizzata Distonia levodopa-responsiva Distonie focali (torcicollo spasmodico, sindrome di Meige) Tremore essenziale Sindrome di Klinefelter
Malattie infiammatorie, neoplastiche e vascolari – Sclerosi multipla – Neurolue – Neuroborreliosi – HIV – Tumori, cisti – Ematomi, Malformazioni vascolari – Lesioni cerebrovascolari – Traumi
R-P-C R-P-C R - P -C P R-P-C R-P-C R-P-C R-P-C
Malattie metaboliche – Ipertiroidismo – Iperparatiroidismo – Ipomagnesemia – Ipocalcemia – Ipoglicemia – Encefalopatia epatica, degenerazione epato-cerebrale – Insufficienza renale – Carenza vitamina B12
P R-P R-P R-C P P-C P-C R-P-C
Neuropatie periferiche – Charcot-Marie-Tooth – Neuropatie demielinizzanti – Sindrome di Guillain-Barrè – Gammopatie monoclonali (IgM, IgG) – Distrofia simpatico-riflessa – Malassorbimento – Polineuropatie metaboliche
P-C P-C P-C P P P P (continua tabella 2.4)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
(Segue tabella 2.4)
5.
6.
Malattia
Tipo di tremore
Tossici e farmaci – Nicotina – Alcool – Cianuro – Mercurio, piombo, manganese, arsenico, ossido di carbonio – Neurolettici, Reserpina, Tetrabenazina, Metoclopramide – Litio – Triciclici – Cocaina – Simpaticomimetici, beta2-agonisti – Teofillina, Caffeina, Dopamina – Steroidi – Valproato – Amiodarone, Mexiletina, Procainamide – Citostatici, Ciclosporina – Ormoni tiroidei
P P-C P R-P-C R-P R-P-C P P P-C P R-P P P P-C P
Altri – Emozione, Fatica, Raffreddamento – Sindromi da astinenza – Psicogeno
P P-C R-P-C
R = Riposo, P = Posturale, C = Cinetico
menti volontari (cinetico), indirizzati o no ad un bersaglio preciso o parte di un compito specifico. Il tremore ‘posturale’ è spesso responsabile di una importante disabilità, oltre che dell’imbarazzo sociale che caratterizza anche il tremore a riposo. Si tratta di movimenti oscillatori rapidi, spesso irregolari, di ampiezza variabile, con un’ampia banda di frequenze (5-20 Hz.) più elevata rispetto a quella del tremore a riposo, che possono localizzarsi agli arti (sia nei settori distali che prossimali), ma anche al capo ed al tronco. A differenza del tremore a riposo parkinsoniano, la registrazione EMG dimostra solitamente la presenza di scariche sincrone nei muscoli agonisti ed antagonisti (Fig. 2.32, B). Questo tipo di tremore può riscontrarsi in molte condizioni differenti sia dal punto di vista eziopatogenetico che clinico (Tab. 2.4).
Il tremore fisiologico è generalmente presente in tutti gli individui normali a livello di ciascuna articolazione o muscolo che è libero di oscillare, ma a causa della sua ampiezza assai ridotta è molto difficile da apprezzare ad occhio nudo. Può essere evidenziato strumentalmente (quadro EMG di tipo alternante) e la sua frequenza dominante, maggiore nei settori distali rispetto a quelli prossimali è compresa tra 5-15 Hz. e varia in funzione dell’età (tra 6-10 Hz. prima dei 9 anni e dopo i 50 anni, superiore ai 10 Hz. tra 15-45 anni). Il tremore fisiologico è espressione dell’influenza di diversi fattori che concorrono a generare un’attività oscillatoria ritmica, quali: a) le oscillazioni legate al battito cardiaco, b) la frequenza iniziale di scarica delle unità motorie di circa 8 Hz., c) la frequenza naturale di risonanza meccanica degli arti protesi, tra 812 Hz., d) le oscillazioni intorno a 10 Hz., legate al-
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Il tremore essenziale presenta per lo più caratteristiche di tipo posturale, anche se meno frequentemente può essere osservato in condizioni cinetiche o di riposo. Diversi tipi di tremore sono stati descritti in associazione con neuropatie periferiche ereditarie o acquisite (c.d. tremore neuropatico). Il tremore, prevalentemente posturale, irregolare, può essere localizzato nei settori prossimali o distali con frequenza 3-10 Hz. L’origine di tale tremore è tuttora oggetto di discussione. Tra le forme di neuropatia in cui più frequentemente è riscontrabile tremore vanno ricordate: HMSN tipo I (v.pag. …), polineuropatie demielinizzanti croniche (v.pag. …), neuropatie paraproteinemiche (v.pag. …), neuropatie dismetaboliche (diabetica, uremica, porfirica) (v.pag. …), neuropatie da farmaci (amiodarone, citostatici). Il trattamento sintomatico (propranololo, gabapentin) può talora risultare utile. Fig. 2.32 - Registrazione elettromiografica di superficie dai muscoli flessori (1) ed estensori (2) del polso in un paziente con tremore «a riposo» parkinsoniano (A) ed in un paziente con tremore essenziale (B). Si noti: in A la presenza di scariche EMG alternanti nei due muscoli (con frequenza pari a circa 6 cicli per secondo), in B la presenza di scariche EMG sincrone nei due muscoli (con frequenza pari a 8 cicli per secondo).
l’instabilità dei servomeccanismi del circuito riflesso miotattico.
In diverse condizioni è possibile osservare un’accentuazione del tremore fisiologico, caratterizzata da un incremento della sua ampiezza (senza variazioni della frequenza tipica): ciò si verifica negli stati ansioso-emotivi, nell’affaticamento e in condizioni caratterizzate da un’aumentata attività beta-adrenergica periferica (tireotossicosi, ipoglicemia, feocromocitoma, farmaci beta-stimolanti). In questi casi, quindi, il tremore può essere controllato dalla somministrazione di farmaci beta-bloccanti (propranololo).
Nelle lesioni paleo-cerebellari può manifestarsi un tremore posturale, assente a riposo, caratterizzato da oscillazioni a bassa cadenza (4-5 Hz.) degli arti superiori indotte da una contrazione di tipo alternante (c.d. «tremore statico» di Holmes, 1922). Questo tipo di tremore può localizzarsi anche al capo («tremore di affermazione») ed al tronco. Tremori con caratteristiche di tipo posturale possono osservarsi, inoltre, nel morbo di Wilson ed in corso di encefalopatie epatiche acquisite (spesso in associazione ad aspetti di tipo cinetico): la localizzazione è prevalentemente distale agli arti superiori, ove si manifestano movimenti di flesso-estensione del polso, descritti come «a battito d’ala» (flapping tremor), che possono estendersi all’intero arto. Attualmente si ritiene che questo tipo di movimento sia prodotto, in larga parte, da brevi cadute del tono posturale (con transitoria cessazione dell’attività EMG), per cui viene considerato espressione di una forma di mioclonia negativa (v. «asterixis», pag. 66).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Il tremore cinetico può essere osservato durante l’esecuzione di compiti motori semplici (ad esempio, movimenti rapidi alternati) o complessi, in particolare, durante l’esecuzione di movimenti ampi, ma diretti con precisione ad un «bersaglio» (ad esempio: nel portare un bicchiere alla bocca; durante la prova indice-naso, v. pag. 81). Assente a riposo e, spesso, nelle fasi iniziali del movimento, compare e si accentua progressivamente mano a mano che il movimento richiede aggiustamenti progressivi ed il «bersaglio» sta per essere raggiunto, interessando sia la muscolatura distale che prossimale. In conseguenza del tremore il movimento volontario appare come discontinuo, interrotto da scatti e riprese che avvengono bruscamente ed irregolarmente, con un’ampiezza variabile. Questa condizione va distinta dalle mioclonie d’azione e dall’atassia. Il quadro EMG è caratterizzato da scariche alternanti nei muscoli antagonisti, irregolari, con frequenza 4-5 Hz. Questo tipo di tremore si osserva tipicamente nei disturbi neo-cerebellari (lesione dei nuclei dentato ed interposito o dei peduncoli cerebellari superiori), la cui eziopatogenesi è frequentemente legata alla patologia demielinizzante (sclerosi multipla). Tremori analoghi si possono riscontrare nelle sindromi troncali (anche post-traumatiche). Non esiste alcuna terapia farmacologica sicuramente documentata per il tremore cinetico, anche se sono stati segnalati singoli casi rispondenti ai farmaci.
Alcune forme di tremore risultano non facilmente classificabili, in considerazione del fatto che possono manifestarsi e persistere in tutte le condizioni. Lesioni mesencefaliche con interessamento del nucleo rosso o delle connessioni dentatotalamiche possono dare origine ad un tremore («rubrale» o mesencefalico) (4 Hz.) che accomuna caratteristiche semeiotiche dei tre tipi
principali (presente a riposo, si accentua in condizioni posturali e cinetiche). Anche i tremori indotti da farmaci o che compaiono in seguito all’ingestione o inalazione di sostanze tossiche (mercurio, piombo, arsenico, manganese, fosforo, ossido di carbonio) presentano solitamente caratteristiche variabili. MIOCLONIE. – Le mioclonie sono una manifestazione comune a numerose condizioni morbose neurologiche e fra tutti i disturbi del movimento risultano certamente uno dei più difficili da classificare: esistono, infatti, molti tipi di mioclonie e spesso non si riscontrano fattori eziologici, fisiopatologici o clinico-terapeutici che le accomunino. La mioclonia può essere definita come un movimento involontario, rapido ed improvviso, espressione di una breve contrazione muscolare analoga a quella ottenibile mediante stimolazione elettrica di un tronco nervoso periferico (Marsden et al., 1981). Questa definizione va, in realtà, allargata per comprendere anche il fenomeno della «asterixis» che consiste in una breve inibizione della contrazione muscolare (potenzialmente responsabile di una caduta del tono posturale) e può essere considerata una forma di mioclonia negativa. Le mioclonie possono assumere aspetti molto variabili, tali da porre problemi di diagnosi differenziale rispetto ad altri movimenti involontari patologici (tics, corea, distonia, tremore posturale). Dal punto di vista semeiologico possono essere descritte in base alla: – distribuzione spaziale: a) focali (interessano una sola regione corporea, anche in modo parcellare, con o senza spostamento di segmento); b) segmentali (interessano due o più regioni contigue); c) multifocali; d) generalizzate o massive; – distribuzione temporale: a) intermittenti o permanenti; b) ritmiche o aritmiche; c) sincrone o asincrone; – modalità di comparsa: a) spontanee; b) riflesse stimolo-dipendenti, indotte da improv-
Funzione motoria
vise stimolazioni visive, uditive, esterocettive o propriocettive; c) d’azione o intenzione, che si manifestano durante una contrazione muscolare (movimento volontario o mantenimento di una postura) o, perfino, in rapporto all’intenzione di muovere. Le mioclonie possono essere espressione di un’ampia varietà di condizioni patologiche interessanti l’encefalo, ma anche il midollo ed il sistema nervoso periferico, di cui possono rappresentare uno degli aspetti più caratteristici, ma non necessariamente quello prevalente (c.d. «sindromi miocloniche»), o costituire, invece, l’elemento clinico dominante («mioclono» p.d.). Tale eterogeneità clinica si riflette nelle classificazioni eziologiche proposte (Tab. 2.5) che distinguono le mioclonie in: a. Fisiologiche, che si osservano in individui del tutto normali, tipiche quelle dell’addormentamento (De Lisi, 1932); b. Essenziali, ad eziologia ignota, prive di un preciso substrato neuropatologico e senza altri segni neurologici associati; c. Epilettiche (in cui le manifestazioni comiziali sono l’aspetto dominante del quadro clinico, in assenza di una sicura encefalopatia); d. Sintomatiche (espressione di una encefalopatia diffusa o focale, a carattere progressivo o stazionario). La distribuzione neuropatologica delle lesioni responsabili dei fenomeni mioclonici può non coincidere con la sede della scarica nervosa che determina la contrazione muscolare involontaria. L’analisi elettrofisiologica può, tuttavia, contribuire all’identificazione dei meccanismi fisiopatologici responsabili delle mioclonie tramite: la registrazione dell’attività EMG dei muscoli coinvolti al fine di definire la durata e l’ordine di attivazione EMG ed i rapporti tra muscoli agonisti-antagonisti; la registrazione dell’attività EEG temporizzata con la scarica EMG al fine di definire i rapporti temporali tra eventi EMG ed EEG; lo studio dei fenomeni associati alle mioclonie indotte in via riflessa (potenziali evocati somestesici, riflesso C). Sulla base dei dati clinici ed elettrofisiologici, Obeso et al. (1988) hanno proposto una classificazione fisiopatologica delle mioclonie: 1. Mioclonie corticali (a distribuzione prevalentemente focale, distale) espressione dell’attività anomala
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di un focolaio, sito nella corteccia sensitivo-motoria, trasmessa al midollo spinale attraverso la via piramidale. Le scariche EMG di breve durata, 10-50 millisecondi, presentano un ordine di attivazione discendente e sono precedute, a breve latenza, da un correlato EEG focale. L’ampiezza dei potenziali evocati somestesici è solitamente aumentata («potenziali giganti»). 2. Mioclonie sottocorticali (a distribuzione prevalentemente generalizzata, prossimale) in cui l’attività patologica origina da strutture poste tra la corteccia cerebrale ed il midollo spinale (in particolare, dal nucleo giganto-cellulare della formazione reticolare del tronco). Le scariche EMG di durata superiore ai 100 millisecondi indicano un ordine di attivazione ascendente lungo il tronco e discendente lungo il midollo, in assenza di correlati EEG. 3. Mioclonie cortico-sottocorticali (a distribuzione multifocale o generalizzata), espressione di una scarica corticale diffusa tramite vie cortico-reticolo-spinali o dell’attività di focolai sottocorticali a proiezione corticale. Le scariche EMG, tipicamente sincrone e di durata variabile tra 10-100 millisecondi, possono essere precedute da potenziali EEG bilaterali. 4. Mioclonie spinali e periferiche (a distribuzione focale o segmentale), caratterizzate da scariche EMG sincrone e ritmiche, di durata superiore a 100 millisecondi, ovviamente senza alcun correlato EEG. Esprimono l’iperfunzione di sistemi neuronali spinali o propriospinali, anche secondaria a lesioni radicolari o plessuali. Dati farmacologici clinici e sperimentali depongono per il coinvolgimento di diversi neurotrasmettitori (serotonina, GABA, aminoacidi eccitatori, dopamina, acetilcolina, neuropeptidi) (Pranzatelli e Snodgrass, 1985) nella genesi delle mioclonie. Tra i farmaci più efficaci nel controllo delle mioclonie vanno considerati: a. gli agonisti serotoninergici, precursori (5-idrossitriptofano: 150-1000 mg/die in associazione con carbidopa) ed inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (fluoxetina: 20-40 mg/die), attivi in particolare nelle forme di mioclono d’azione post-anossico, b. gli agonisti GABAergici (clonazepam: 4-10 mg/die; sodio valproato: 150-3000 mg/die; primidone: 500-750 mg/die), indicati nelle epilessie miocloniche. Risultati clinici favorevoli sono stati occasionalmente descritti con il piracetam (10-24 g/die) e gli agonisti dopaminergici (lisuride: 1-6 mg/die).
REAZIONI DI SOPRASSALTO. – La reazione di soprassalto (startle response) consiste in una risposta motoria generalizzata, di natura riflessa polisinaptica, evocabile in tutte le specie di mammiferi. Si manifesta in seguito a stimoli
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 2.5 - Classificazione eziologica delle mioclonie (modificata da Fahn e coll., 1986). 1. Mioclonie – – –
Fisiologiche ipniche e/o notturne singhiozzo da stress, ansia, fatica
2. Mioclonie Essenziali – familiari (ereditarietà autosomica dominante) – sporadiche 3. Mioclonie Epilettiche A. Forme frammentarie: – mioclonie epilettiche isolate – epilessia parziale continua – mioclono idiopatico stimolo-dipendente – mioclono fotosensibile – assenze miocloniche del “piccolo male” B. Epilessie miocloniche infantili: – spasmi infantili – epilessia astatica mioclonica (Lennox-Gastaut) – epilessia mioclonica criptogenetica (Aicardi) – epilessia mioclonica del risveglio (Janz) C. Epilessia familiare mioclonica benigna (Rabot) D. Epilessia mioclonica progressiva (Unverricht-Lundborg) 4. Mioclonie Sintomatiche A. Malattie da accumulo: malattia con corpi di Lafora, lipidosi, ceroidolipofuscinosi, sialidosi B. Degenerazioni spino-cerebellari: sindrome di Ramsay-Hunt, atassia di Friedreich, atassia-teleangectasia C. Malattie degenerative dei gangli basali: morbo di Wilson, distonia, malattia di Hallervorden-Spatz, sindrome di Steele-Richardson-Olszewski, malattia di Huntington, morbo di Parkinson, degenerazioni cortico-basali, degenerazioni pallidali, atrofie multisistemiche D. Encefalopatie mitocondriali E. Demenze: malattia di Alzheimer, malattia di Creutzfeldt-Jacob F.
Encefalopatie virali: encefalite letargica, encefalite herpetica, encefaliti postinfettive, encefaliti da arbovirus, panencefalite sclerosante subacuta
G. Encefalopatie metaboliche: insufficienza epatica, insufficienza renale, sindrome dialitica, iponatriemia, ipoglicemia, iperglicemia non chetogena, carenze carbossilasi, encefalopatia mioclonica infantile H. Encefalopatie tossiche: da bismuto, da metalli pesanti, da DDT, da metil-bromuro, da farmaci (inclusi triciclici e levodopa) I.
Encefalopatie da agenti fisici: post-ipossica, post-traumatica, da calore, da folgorazione, da trauma decompressivo
L. Danno cerebrale focale: esiti ictus, traumi, tumori, talamotomia, lesioni spinali, lesioni olivo-dentate (mioclono palatale)
Funzione motoria
(per lo più acustici) inattesi e nell’uomo è rappresentata da un rapido ammiccamento, cui fanno seguito (con latenza crescente) una smorfia del viso, la flessione del capo, l’abduzione delle spalle, la flessione dei gomiti, la pronazione degli avambracci e, talora, la flessione del tronco (in avanti), delle anche e delle ginocchia. Possono essere presenti, inoltre, manifestazioni vegetative (tachicardia, apnea) e reazioni emozionali. È stato dimostrato nell’animale che la componente più precoce della reazione di soprassalto a stimoli acustici è generata a livello del tronco encefalico e trasmessa attraverso vie reticolo-spinali (Davis et al., 1982). La risposta, inoltre, è tipicamente caratterizzata da fenomeni di abitudine (precoce o tardiva), sensibilizzazione e potenziamento.
La normale reazione di soprassalto è sufficientemente rapida da poter essere considerata una forma di «mioclono fisiologico». In alcuni individui, tuttavia, può verificarsi un’esagerazione patologica della reazione di soprassalto, sospettabile ogniqualvolta la risposta motoria assuma caratteristiche di particolare violenza e complessità o si manifesti in seguito a stimoli di scarsa intensità. Le sindromi cliniche caratterizzate da una accentuazione patologica della reazione di soprassalto appaiono di difficile classificazione in rapporto all’incertezza circa i meccanismi fisiopatologici ed il substrato anatomico e vengono, solitamente, accomunate sotto la definizione di «iperecplessia». Questa condizione comprende, quindi, sia forme ereditarie che sintomatiche. L’iperecplessia ereditaria (autosomica dominante) può esordire nell’infanzia con ipertonia flessoria diffusa e mioclonie notturne ad andamento spontaneamente migliorativo. Persistono, invece, reazioni di soprassalto di intensità variabile, ma talora tale da compromettere la deambulazione e causare improvvise cadute a terra. La sintomatologia risponde positivamente al trattamento con clonazepam. Sindromi iperecplessiche possono manifestarsi come espressione sintomatica di: lesioni troncali (infiammatorie, emorragiche), encefalopatia ipossica-ischemica, cause psicogene, intossicazione farmacologica (cocaina, anfetamine), sindrome di Gilles de la Tourette (Matsumoto e Hallett, 1994).
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Una condizione nosografica autonoma è costituita dalla c.d. «epilessia da soprassalto» consistente in crisi comiziali, scatenate da stimolazioni improvvise e precedute da una reazione di soprassalto, che si manifestano in soggetti con encefalopatia diffusa.
DISTONIE. Con questo termine si definisce un disturbo caratterizzato da contrazioni muscolari involontarie toniche, protratte nel tempo, che possono interessare diverse parti del corpo (faccia, capo, tronco, arti), responsabili di movimenti ripetitivi, per lo più a carattere torsionale, o di posture anomale. Va sottolineato, tuttavia, che il termine «distonia», oltre che in senso semeiologico, viene oggi abitualmente utilizzato per indicare una specifica condizione morbosa (inizialmente descritta da Oppenheim nel 1911 come dystonia muscolorum deformans) che costituisce un’entità sindromica attribuibile a numerose cause (Tab. 2.6).
Le posture distoniche, spesso accompagnate da una sensazione soggettiva di irrigidimento muscolare, si localizzano prevalentemente agli arti, sia prossimalmente che distalmente, ed al tronco; sono scatenate o aggravate dai movimenti volontari e presentano una durata variabile da pochi minuti a molte ore. I movimenti distonici, usualmente lenti, possono talora assumere una particolare rapidità (del tutto simile alle mioclonie) od associarsi a movimenti ritmici («tremore distonico»), rendendo difficile l’identificazione semeiologica. Sono aggravati dall’affaticamento o dalle emozioni e ridotti dal rilassamento, l’ipnosi, il sonno. Possono essere indotti dai movimenti volontari e manifestarsi in rapporto ad attività motorie specifiche («distonia di azione») ed essere attenuati, o temporaneamente aboliti da specifiche manovre tattili o propriocettive («gesti antagonisti»). Inizialmente limitati a pochi gruppi muscolari, i movimenti distonici tendono ad aumentare di intensità e ad interessare la muscolatura adiacente, determinando la comparsa degli specifici aspetti torsionali. Dal punto di vista topografico le distonie possono essere distinte in: a. focali, che interes-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 2.6 - Distonie: classificazione eziologica (modificata da Jankovic e Fahn, 1987). 1. Forme Primarie o Idiopatiche A. Familiari – Distonia generalizzata ereditaria (autosomica dominante, autosomica recessiva, eterosomica X recessiva) B. Familiari o Sporadiche – Distonia con fluttuazioni diurne (sensibile alla levodopa) – Distonia parossistica (cinesigenica e non cinesigenica) – Parkinsonismo distonico C. Sporadiche – Generalizzate, Segmentali, Focali, Multifocali (distonia cervicale o torcicollo spasmodico, distonie o crampi occupazionali, distonia oromandibolare, blefarospasmo, distonia laringea o disfonia spasmodica, distonia faringea, distonia linguale) 2. Forme Secondarie o Sintomatiche A. In corso di malattie neurologiche degenerative: – Morbo di Wilson – Malattia di Huntington – Malattia di Steele-Richardson-Olszewski – Atrofia pallidale progressiva – Malattia di Hallervorden-Spatz – Malattia di Joseph – Atassia-teleangectasia – Neuroacantocitosi – Sindrome di Rett – Malattia da inclusioni intraneurali – Necrosi striatale bilaterale infantile – Calcificazioni familiari dei gangli basali B. In corso di malattie metaboliche: – Alterazioni del metabolismo proteico (acidemia glutarica, aciduria metilmalonica, omocistinuria, malattia di Hartnup, tirosinosi) – Alterazioni del metabolismo lipidico (leucodistrofia metacromatica, ceroido-lipofuscinosi, gangliosidosi GM1-GM2, lipidosi distonica giovanile) – Alterazioni metaboliche diverse (sindrome di Leigh, malattia di Leber ed encefalopatie mitocondriali, sindrome di Lesh-Nyhan, carenza di vitamina E) C. Da cause specifiche – Danno cerebrale perinatale (ipossia, ittero nucleare) – Infezioni (encefaliti virali, encefalite letargica, tubercolosi, sindrome di Reye, malattia di Jakob-Creutzfeldt, sifilide, AIDS) – Traumi cranici e periferici – Dislocazione atlanto-epistrofea, sublussazione – Ischemie cerebrali focali – Tumori cerebrali – Malformazioni arterovenose – Mielinolisi pontina centrale – Sostanze tossiche (manganese, ossido di carbonio, disolfuro di carbonio, metanolo) – Farmaci (neurolettici, metoclopramide, levodopa, bromocriptina, ergotaminici, anticomiziali) D. Forme Psicogene
Funzione motoria
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I fenomeni distonici possono essere caratterizzati da quadri EMG diversi: a) attività continua della durata di 2-30 secondi, interrotta da brevi periodi di inattività; b) attività più breve, fino a 2 secondi, spesso ripetitiva e ritmica («mioritmia»); c) attività di breve durata, 100-300 millisecondi, simile a quella delle mioclonie. I movimenti distonici sono caratterizzati da una coattivazione simultanea dei muscoli agonisti-antagonisti e dalla diffusione dell’attivazione EMG a muscoli lontani non impegnati direttamente nel movimento (overflow).
Fig. 2.33 - Atteggiamento assunto per distonia di torsione (torcicollo spasmodico) (da C. Loeb e A. Brusa, in: Diagnostica Differenziale, A. Wassermann ed., 1959).
sano una sola parte del corpo; b. segmentali (cranio-cervicali, assiali, brachiali, crurali) (Fig. 2.33); c. generalizzate, che consistono nella combinazione di una distonia segmentale crurale con segni distonici di qualunque altro segmento; d. multifocali, in cui sono coinvolte due parti non contigue del corpo; e. emidistonia, in cui sono colpiti i due arti ipsilaterali. Movimenti involontari o posture anomale di natura distonica possono essere osservati in molte condizioni morbose neurologiche (Tab. 2.6), di cui le forme «idiopatiche» rappresentano solo una parte. Gli studi neuropatologici in soggetti con forme distoniche idiopatiche non hanno evidenziato alterazioni specifiche, mentre nella maggioranza delle forme secondarie è stata individuata una lesione del nucleo lenticolare con interessamento prevalente del putamen.
Il trattamento farmacologico delle distonie risulta scarsamente efficace (fa eccezione la distonia levodopasensibile). Tra le molte sostanze farmacologiche utilizzate (benzodiazepine, neurolettici, dopaminergici) i risultati migliori sono stati ottenuti con l’impiego di farmaci anticolinergici a dosi elevate (triesifenidile, 20-50 mg/die) tali, tuttavia, da rendere spesso precaria la tollerabilità. Il trattamento di scelta delle principali forme di distonia focale viene attualmente individuato nell’infiltrazione locale con la tossina botulinica A (v. pag….). Il termine «spasmo», un tempo ampiamente utilizzato per indicare anche manifestazioni di tipo distonico (ad esempio, «spasmo di torsione»), è oggi ritenuto generico ed ambiguo. Il suo impiego è limitato, attualmente, ad alcune specifiche condizioni morbose, quali: spasmo faciale, spasmo tetanico, spasmo nella tetania, spasmi nella ‘sindrome dell’uomo rigido’ (v. pag. 35), spasmi infantili nella sindrome di West. Spasmo faciale. Si tratta di una condizione caratterizzata da contrazioni involontarie (toniche o cloniche) che interessano unilateralmente (‘emispasmo’) la muscolature innervata dal nervo faciale, sia superiore (muscoli orbicolare dell’occhio, frontale, corrugatore del sopracciglio) sia inferiore ( muscoli zigomatico, buccinatore, elevatore dell’angolo della bocca, quadrato del mento, platisma). Solo eccezionalmente sono stati descritti casi bilaterali. Tale condizione deve essere distinta dai movimenti sincinetici che possono fare seguito ad una paresi del VII nervo cranico (v. pag. 275). Si ritiene che, nella maggioranza dei casi, la causa sia costituita da un ‘conflitto nervo-vascolare’ (talora, evidenziabile tramite studio di angio-risonanza), per cui sono stati proposti interventi chirurgici di micro-decompressione. Tuttavia, lo spasmo del faciale può essere efficacemen-
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te controllato tramite l’infiltrazione locale di tossina botulinica (Berardelli et al., 1997). Spasmo tetanico. Può essere generalizzato o localizzato, continuo o discontinuo. Generalmente inizia ai muscoli masticatori (trisma), quindi interessa i muscoli facciali (risus sardonicus), il collo (rotazione del capo), il tronco (opistotono), ecc. L’interpretazione neurofisiologica di questa contrattura è già stata accennata nel capitolo delle alterazioni del tono muscolare (v. pag. 35). Spasmo nella tetania. È causato dalla ipocalcemia e dalla alcalosi e si manifesta essenzialmente alla muscolatura delle estremità (da cui la dizione di «spasmo carpo-pedale»). Quando si manifesta all’arto superiore, si osserva classicamente la «mano da ostetrico» con polso in flessione, pollice addotto, dita unite e flesse all’articolazione metacarpo-falangea. Caratteristica è la ipereccitabilità dei nervi periferici alla stimolazione meccanica, a cui conseguono contratture. Su questo fenomeno si basano i segni clinici da ricercare per svelare una tetania latente: segno di Chvostek, percuotendo a livello dell’apofisi zigomatica (3 cm al davanti del condotto uditivo esterno) si ottiene la contrazione dei muscoli facciali; segno di Lust, percuotendo il nervo sciatico-popliteo esterno a livello della testa del perone si ottiene la contrazione dei muscoli peronei; segno di Trousseau, applicando al braccio del paziente con un manicotto di sfingomanometro una pressione di poco superiore a quella arteriosa massima si ottiene uno spasmo della mano. Caratteristica è, nei periodi intercritici della tetania, la registrazione elettromiografica di particolari potenziali («doppiette», «triplette», «multiplette», le cui singole componenti sono più brevi della durata del potenziale di unità motoria ma più lunghe di quello di fibrillazione), presenti occasionalmente a riposo ed in genere indotti dalla iperventilazione o dall’ischemia. Sindrome dell’uomo rigido (v. pag. 35). In questo quadro clinico, la sintomatologia è caratterizzata da crampi muscolari dolorosi e spasmi della muscolatutra paraspinale che possono causare una lordosi secondaria. Gli spasmi dolorosi possono essere provocati dall’attività motoria o dallo stress. Gli studi neurofisiologici hanno documentato un’iperattività delle unità motorie che si ritiene dipenda dalla disinibizione delle vie discendenti desinate alle cellule di Renshaw.
DISCINESIA. Questo termine viene utilizzato, non senza qualche ambiguità, nella letteratura anglosassone come sinonimo di «movimenti involontari patologici» (Marsden, 1986), oppu-
re ad indicare alcuni tipi di disturbi del movimento indotti farmacologicamente. In senso restrittivo il termine va riferito a movimenti involontari, rapidi, aritmici, di aspetto simile ai movimenti coreici ma da questi distinguibili per l’andamento ripetitivo e stereotipato, che colpiscono la muscolatura del volto e in particolare la regione bucco-linguale: movimenti di protrusione della lingua, masticazione, suzione, schiocco delle labbra e smorfie talora grottesche. Scompaiono nel sonno, sono influenzati dalle emozioni e dal grado di attenzione del soggetto (che può esercitarne un parziale controllo volontario). Le discinesie possono essere distinte in primarie (assai rare che insorgono, senza causa apparente, in soggetti spesso edentuli, specie di sesso femminile, dopo i 50 anni di età) e secondarie, usualmente indicate come «discinesie tardive», che si osservano in circa il 20 % dei pazienti affetti da malattie mentali e sottoposti a trattamento cronico con farmaci neurolettici. Le discinesie tardive sono spesso caratterizzate, oltre che dalla usuale localizzazione alla regione bucco-linguale, anche da movimenti stereotipati di altre parti corporee (oscillazione del tronco, tamburellamento delle dita delle mani o dei piedi) e, talora, ad altri segni dell’impregnazione da neurolettici (fenomeni distonici, segni parkinsoniani). La denominazione «tardive» si riferisce al fatto che queste complicanze si manifestano dopo un prolungato periodo di trattamento con neurolettici (in genere molti mesi), talora, anche dopo un intervallo libero dalla sospensione del trattamento. I rapporti cronologici con il trattamento hanno sollevato qualche dubbio circa l’ipotesi che le discinesie tardive siano causate da una iperattività funzionale nigrostriatale, successiva all’ipersensibilità dei recettori dopaminergici indotta dal trattamento con neurolettici (Klawans, 1973). Il trattamento delle discinesie tardive si basa, quando possibile, sulla sospensione dell’agente causale neurolettico; tale misura, tuttavia, può rivelarsi inefficace in
Funzione motoria un’elevata percentuale di casi. Strategie alternative includono: la deplezione presinaptica di dopamina (reserpina: 6 mg/die); l’impiego di neurolettici con minor affinità per i recettori striatali D2 (clozapina, olanzapina, quetiapina); l’utilizzazione di farmaci dopaminomimetici (apomorfina, bromocriptina). Sconsigliabile l’uso degli anticolinergici o l’incremento del dosaggio dei farmaci neurolettici responsabili (nonostante l’iniziale effetto benefico).
Il termine «discinesie» viene utilizzato, infine, ad indicare i movimenti involontari patologici che compaiono nei pazienti affetti da malattia di Parkinson (o sindromi parkinsoniane) in rapporto al trattamento con levodopa. Tali discinesie rappresentano uno degli aspetti caratteristici della «sindrome da trattamento prolungato con levodopa» (v. pag. ???). TIC. Si tratta di movimenti improvvisi, rapidi e stereotipati, che si ripetono ad intervalli irregolari ed imitano movimenti coordinati, determinando azioni gestuali o posture forzate con modalità compulsive. I pazienti avvertono spesso un impulso irresistibile ad eseguire il movimento «ticcoso», la cui esecuzione è seguita da una sensazione di sollievo (riduzione dell’ansia e della tensione interna). I tic possono, quindi, essere soppressi volontariamente per un breve e variabile periodo di tempo, ma ciò si verifica a spese di un aumento della tensione interna. Fortemente influenzati dallo stato emozionale del soggetto, i tic possono persistere nel sonno. Il riscontro di un parziale controllo volontario dei tic ha condotto a formulare l’ipotesi di un’origine psicogena di questo disturbo. Attualmente numerose evidenze cliniche e sperimentali suggeriscono una genesi organica dei tic (che sarebbero generati da strutture sottocorticali tramite meccanismi che coinvolgono il sistema dopaminergico), anche se questa teoria non è universalmente accettata. Dal punto di vista semeiologico possono essere distinti in 1) motori e fonici (vocali), 2) semplici e complessi.
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I tic motori semplici sono costituiti da brevi ed irregolari contrazioni muscolari di isolati segmenti corporei (in particolare: le palpebre, la muscolatura facciale, il collo, le spalle), mentre i tic motori complessi sono rappresentati da movimenti coordinati che coinvolgono in modo sinergistico numerosi gruppi muscolari. I tic fonici, semplici e complessi, comprendono un’ampia varietà di suoni, rumori inarticolati e fonemi. Il più noto, ma non sempre il più frequente, dei tic vocali complessi è il fenomeno della «coprolalia», per cui il paziente pronunzia parole oscene, spesso gergali o abbreviate. Una grande varietà di altre manifestazioni motorie si possono associare ai tic: comportamenti ossessivi e compulsivi, coproprassia (eseguire gesti osceni), ecoprassia ed ecolalia (imitare gesti o suoni), iperattività motoria con deficit attenzionali, auto-mutilazioni. Le cause dei tic sono molteplici (Tab. 2.7); per lo più si tratta di condizioni idiopatiche, in larga maggioranza infantili, in cui i maschi sono colpiti più frequentemente delle donne e le manifestazioni cliniche presentano un ampio spettro di gravità e complessità. La sindrome di Gilles de la Tourette esordisce nell’infanzia o adolescenza con tic motori che interessano il settore cranico. Successivamente si sviluppa un’eterogenea produzione di tic vocali e gestuali, semplici o complessi, che possono imitare pressochè qualsiasi movimento o espressione umana. Il decorso cronico è caratterizzato dalla variabilità delle manifestazioni ticcose e dalla tendenza ciclica a periodiche remissioni e riacerbazioni; la malattia raggiunge la sua massima espressione durante l’adolescenza ed una limitata percentuale di pazienti presenta una remissione completa durante la pubertà. I tic si associano ad alterazioni comportamentali (difficoltà attenzionali con basso rendimento scolastico, comportamenti ossessivo-compulsivi) che spesso rappresentano il principale problema sociale. La causa della sindrome di Gilles de la Tourette è sconosciuta: il riscontro di un’elevata incidenza di familiari affetti ha fatto ipotizzare una possibile ereditarietà autosomico dominante con penetranza legata al sesso, ma fattori non genetici (stress materno, ipertermia, infezioni) svolgono verosimilmente un ruolo rilevante. Anche il substrato anatomico risulta incerto e
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Tabella 2.7. - Classificazione eziologica dei tic. Idiopatici: Tic semplici transitori dell’infanzia (durata < 1 anno) Tic semplici o complessi persistenti dell’infanzia Tic semplici o complessi cronici Tic senili Sindrome di Gilles de la Tourette Secondari o acquisiti: Post-infettivi (post-encefalitici, encefalite letargica, corea di Sydenham, malattia di Jacob-Creutzfeldt) Post-traumatici Post-lesioni vascolari Da farmaci: stimolanti (anfetamine, metilfenidato), levodopa, neurolettici, antiepilettici (carbamazepina, dintoina, fenobarbitale) Da intossicazione con monossido di carbonio Da alterazioni cromosomiche In corso di malattie degenerative (malattia di Huntington, neuroacantocitosi, distonie)
sembra costituito da un’alterazione di circuiti frontali sottocorticali (è stata descritta, inoltre, una riduzione volumetrica del putamen e del nucleo lenticolare).
Il trattamento farmacologico è basato sulla utilizzazione di antagonisti della dopamina (aloperidolo, fenotiazine, pimozide); il loro impiego non è privo di possibili complicanze (parkinsonizzazione, discinesie tardive), per cui in considerazione dell’età dei pazienti e del decorso cronico vengono preferiti, nelle forme iniziali o lievi, approcci farmacologici diversi (clonidina, clonazepam, tossina botulinica).
Considerazioni conclusive sui disturbi della motilità I. – Alterazioni del livello spino-muscolare e piramidale
centrale», «primo motoneurone» e «neurone motore superiore»). La via motoria che dai nuclei motori spinali o dai nuclei motori dei nervi cranici raggiunge il muscolo è indicata come via motoria periferica («neurone motore periferico», «secondo motoneurone» o «neurone motore inferiore»). Gli elementi semeiotici descritti sinora permettono di distinguere, quando si osserva una riduzione o un’abolizione della motilità volontaria (denominata rispettivamente paresi o plegia), se si tratta di una lesione del neurone motore centrale o del neurone periferico, proponendo già all’inizio una diagnosi di sede di lesione a livello delle strutture nervose deputate alla motilità volontaria. Le caratteristiche semeiotiche della paralisi o paresi da lesione del neurone motore centrale o periferico sono le seguenti: PARALISI DA LESIONE DEL NEURONE MOTORE CENTRALE (PARALISI CENTRALE)
A – Paralisi centrale e paralisi periferica La via motoria, che dalla corteccia raggiunge i nuclei motori spinali o i nuclei dei nervi cranici motori, è indicata complessivamente come via motoria centrale («neurone motore
1) la paralisi o paresi interessa molti gruppi muscolari e mai un muscolo isolato; 2) il tono muscolare è aumentato e presenta le tipiche caratteristiche piramidali (spasticità o ipertonia spastica);
Funzione motoria
3) i riflessi profondi sono aumentati, talora con risposta multipla (trepidanti o policinetici) fino all’eventuale comparsa di cloni; i riflessi superficiali sono assenti o diminuiti dal lato della lesione; sono presenti riflessi patologici (segno di Babinski, ecc.); 4) l’atrofia è assente o molto modesta (da ascrivere al non uso, salvo talora per le lesioni parietali, come descritto precedentemente); 5) movimenti sincinetici o sincinesie possono esistere nei muscoli paralizzati. PARALISI DA LESIONE DEL NEURONE MOTORE PERIFERICO (PARALISI PERIFERICA) 1) la paralisi può interessare muscoli isolati o gruppi di muscoli; 2) il tono muscolare è ridotto; 3) i riflessi profondi sono diminuiti o assenti; quelli superficiali possono pure essere assenti o diminuiti. Non sono presenti riflessi patologici; 4) l’atrofia è marcata e localizzata ai gruppi muscolari paralizzati; 5) le fascicolazioni sono spesso presenti; 6) fenomeni vasomotori sono presenti in maniera molto netta; 7) i movimenti sincinetici (sincinesie) sono assenti; 8) l’elettromiografia dimostra una completa o parziale denervazione. PARALISI DA LESIONE MUSCOLARE 1) il deficit di forza di norma interessa, in maniera simmetrica, gruppi muscolari con maggior compromissione di quelli prossimali; è, tuttavia possibile una distribuzione distale (anche asimmetrica) ed un interessamento selettivo ‘focale’; 2) i riflessi profondi possono essere diminuiti o assenti, sempre in proporzione al deficit di forza; 3) il tono muscolare ha un comportamento consensuale a quello dei riflessi;
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4) l’atrofia muscolare è sempre presente ed in alcune forme può prevalere sull’ipostenia; un ingrossamento muscolare (“pseudoipertrofia”) è presente in alcune miopatie; 5) le sensibilità non sono compromesse; 6) le fascicolazioni sono di norma assenti; è possibile la presenza di miotonia; 7) l’elettromiografia dimostra alterazioni ‘miogene’.
B – Aspetti semeiotico-clinici dei disturbi della motilità volontaria Emiplegia o emiparesi: questo termine definisce un’abolizione o diminuzione della motilità volontaria che interessa una metà del corpo, determinata da una lesione delle vie piramidali a livello dell’emisfero cerebrale controlaterale o del tronco encefalico o a livello dei primi segmenti cervicali. Una lesione corticale che comprenda tutta la superficie motoria dell’area 4, compreso il lobulo paracentrale, è praticamente impossibile. La tipica emiparesi capsulare presenta alcune caratteristiche particolari: a) i muscoli delle due metà del corpo, che usualmente agiscono insieme (ad esempio orbicolare delle palpebre, muscoli laringei, muscoli intercostali, ecc.) non sono paralizzati poiché i nuclei motori del tronco possiedono un’innervazione cerebrale bilaterale; b) i muscoli del facciale inferiore risultano ipostenici all’emilato paretico durante la contrazione volontaria, ma non per quella mimica, presente ad esempio in stati emozionali; c) alcuni gruppi muscolari risultano particolarmente colpiti: i peronei, i flessori del ginocchio e della coscia, i rotatori esterni e gli adduttori del braccio, gli estensori delle dita, polso, gomito ed i supinatori dell’avambraccio. L’azione dei muscoli antagonisti e la distribuzione dell’ipertonia piramidale causano la tipica postura dell’emiplegico: l’arto inferiore è esteso alla coscia e alla gamba, il piede è equino-varo, il braccio è addotto e intraruotato, le
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dita, il polso ed il gomito sono flessi, l’avambraccio e la mano sono pronati (Fig. 2.17). La somma delle attitudini ora descritte è causa dell’atteggiamento assunto dal paziente emiparetico e dell’andatura, detta “falciante”. Infatti la mancata flessione della coscia sul bacino e della gamba sulla coscia obbliga il paziente a fare perno sull’articolazione dell’anca e a far compiere un movimento di semicerchio all’arto paretico. Possono tuttavia esistere emiparesi con caratteristiche diverse, in rapporto con la sede della lesione. Una lesione a livello del tronco dell’encefalo è causa di una sindrome alterna, cioè emiparesi brachio-crurale e controlateralmente paresi di uno o più nervi cranici. Quando la lesione sia presente al di sotto dell’incrocio delle piramidi si verifica la cosiddetta emiplegia o emiparesi spinale, cioè una emiplegia o emiparesi brachio-crurale omolaterale alla lesione. Monoplegia o monoparesi: il deficit motorio è localizzato ad un solo arto (superiore o inferiore) e può dimostrare caratteristiche centrali o periferiche. Una monoplegia di natura centrale è dovuta ad una lesione circoscritta corticale (assai raramente, midollare). Nelle monoparesi o monoplegie da lesione corticale è caratteristico l’interessamento prevalente delle parti distali degli arti, e talora paralisi o paresi solo di alcuni gruppi muscolari, che mimano una distribuzione radicolare. Si parla allora di paralisi centrale di tipo pseudoradicolare, poiché possono essere interessati i muscoli innervati dal nervo ulnare (mm. interossei, eminenza ipotenar, adduttore del pollice) e più raramente quelli innervati dal radiale e dal mediano. All’arto inferiore è più frequente la sindrome pseudoradicolare lombo-sacrale. Le monoplegie di natura periferica possono essere dovute a lesioni midollari, delle radici, dei plessi o, più raramente, di un gruppo di nervi periferici.
Tetraplegia e tetraparesi: esprime l’abolizione o riduzione della motilità volontaria localizzata ai quattro arti (è anche definita quadriplegia e quadriparesi). La lesione responsabile di una tetraparesi può essere localizzata a livello encefalico, midollare o periferico. In pratica la tetraparesi o tetraplegia si ritrova comunemente per lesioni midollari. Se la lesione è localizzata a livello del midollo cervicale alto (C2-C4, al di sopra del rigonfiamento cervicale) la quadriparesi o quadriplegia presenta tutti i caratteri della paresi piramidale con ipertonia, iperreflessia profonda e segno di Babinski. Se la lesione è localizzata a livello del midollo cervicale inferiore (C5C8) i segni piramidali sono presenti agli arti inferiori, mentre agli arti superiori coesistono, con prevalenza diversa a seconda dei casi, segni piramidali e segni di compromissione del neurone periferico (atrofia, specie distale, a livello della mano, iporeflessia) per lesione delle cellule radicolari anteriori. In questi casi, comunque, si associano spesso alterazioni della sensibilità e segni di sofferenza del n. frenico (C4-C5) con singhiozzo, paresi del diaframma e turbe del respiro. La lesione midollare può essere dovuta a trauma, compressione midollare da tumore o da malattie vertebrali, ma anche a malattie degenerative quali, ad esempio, la sclerosi laterale amiotrofica. Le lesioni encefaliche capaci di dar luogo a una quadriparesi sono state ritrovate eccezionalmente, a livello del piede del ponte, in genere per cause vascolari (trombosi dell’arteria basilare). Più spesso, forse, la lesione pontina è limitata e dà luogo solo ad una paraparesi. Nella sindrome pseudobulbare, dovuta a lesioni vascolari lacunari diffuse ai due emisferi, si può osservare una compromissione piramidale ai quattro arti, anche se nettamente più marcata agli arti inferiori. Si associano turbe della deglutizione, disartria e crisi di riso e pianto spastico. Disturbi piramidali ai quattro arti si ritrovano anche nelle paralisi cerebrali infantili (emiplegia doppia congenita).
Funzione motoria
Le lesioni periferiche capaci di dar luogo a una tetraparesi sono rappresentate dalle polineuropatie e dalle poliradiculoneuropatie. Le caratteristiche cliniche, sono quelle di una lesione del motoneurone periferico con ipotonia e ipo o areflessia. Bisogna tuttavia rilevare che in questi casi, il deficit motorio, in genere, prevale alle estremità distali degli arti con tendenza a risalire verso le porzioni prossimali; talora il disturbo prevale agli arti inferiori. Il disturbo motorio è spesso associato a turbe sensitive soggettive e obiettive e, talora, a turbe vasomotorie. Paraplegia e paraparesi: definisce l’abolizione o riduzione della motilità volontaria localizzata ai due arti superiori o ai due arti inferiori (paraplegia o paraparesi superiore o inferiore). Per consuetudine tuttavia con il termine paraplegia o paraparesi si intende l’abolizione o riduzione della motilità volontaria ai due arti inferiori. La lesione responsabile di una paraplegia può essere localizzata a livello encefalico, midollare o periferico. Nelle paraplegie encefaliche la lesione occupa la regione del lobulo paracentrale bilateralmente. La paraplegia midollare, inizialmente ipotonica, gradualmente diventa ipertonica e si distingue in: paraplegia in estensione e paraplegia in flessione. La paraplegia in estensione è caratterizzata da un ipertono che colpisce tutti i muscoli, sia flessori che estensori, per cui gli arti sono estesi, addotti, con il piede in equinismo o varismo. I riflessi profondi sono nettamente aumentati, mentre quelli di automatismo midollare sono poco evidenti (paraplegia tendineo-riflessa). La paraplegia in flessione è caratterizzata dalla ipertonia dei muscoli flessori, per cui gli arti inferiori sono flessi, le cosce sul bacino, le gambe sulle cosce, il piede sulla gamba. I riflessi profondi, al contrario del quadro preceden-
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te, sono diminuiti, mentre quelli di automatismo midollare sono nettamente aumentati (paraplegia cutaneo-riflessa). Secondo Fulton (1951), la paraplegia in flessione esprime una transezione spinale completa, mentre la paraplegia in estensione indica che il midollo non è stato completamente interrotto. Osservazioni effettuate su paraplegici traumatici dell’ultimo conflitto mondiale e sopravvissuti grazie alle moderne terapie permettono di affermare che il tipo di paraplegia dipende dal numero dei segmenti midollari esistenti nel tratto di midollo spinale isolato da influenze superiori. Maggiore è il numero dei segmenti midollari nel tratto di midollo isolato, più frequente è la paraplegia in flessione (Pollock e coll., 1951). Le paraplegie periferiche possono essere dovute a una lesione del motoneurone midollare, (in questo caso la distribuzione del deficit motorio e della amiotrofia è ineguale e incompleta, come, ad esempio, nella poliomielite acuta), o delle radici e dei nervi (come, ad esempio, nelle poliradicoliti o poliradicoloneuropatie). Diplegia: con questo termine si intende una paralisi di due parti simmetriche del corpo. La diplegia può essere causata da lesioni bilaterali e simmetriche degli emisferi cerebrali o del tronco encefalico. Da sottolineare la diplegia scapolo-crurale, forma piuttosto rara, costituita da paralisi bilaterale e simmetrica degli arti inferiori, del torace e della parte prossimale degli arti superiori, causata da una insufficienza circolatoria nel territorio cerebrale irrorato dalle due arterie cerebrali anteriori.
II. – Alterazioni del livello extrapiramidale I diversi segni o sintomi espressione clinica di una lesione del sistema extrapiramidale sono
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rappresentati da: ipertonia extrapiramidale o rigidità, disturbi dell’iniziativa motoria, della motilità automatica e associata, alterazioni delle posizioni corporee, movimenti involontari patologici. Dalla varia associazione di questi segni in determinati quadri clinici, sono state, specie nel recente passato, tratteggiate differenti sindromi extrapiramidali. Si può distinguere, infatti, la sindrome acinetico-ipertonica, caratterizzata appunto da acinesia e rigidità, dalle sindromi ipercinetiche, caratterizzate da movimenti involontari patologici. È chiaro che queste denominazioni hanno un valore puramente descrittivo, senza nessuna implicazione anatomoclinica e servono pertanto a riassumere sotto una etichetta, non sempre valida a dire il vero, gli aspetti caratteristici di un multiforme quadro clinico; la sindrome acineticoipertonica, infatti, sta ad indicare gli aspetti prevalenti della malattia di Parkinson, ma la definizione diventa insufficiente se sono presenti anche tremori. Esiste, inoltre, anche una distinzione sindromica con supposti riferimenti anatomo-clinici e funzionali. La sindrome paleostriata o sindrome strionigrica sarebbe caratterizzata da sintomi del m. di Parkinson, mentre la sindrome neostriata sarebbe caratterizzata da movimenti involontari patologici. Questa distinzione appare troppo schematica per essere accettata. Allo stato attuale delle conoscenze non sembra quindi possibile stabilire un raggruppamento sindromico con motivazioni anatomo-cliniche. Si potrà, molto più semplicemente, procedere ad una elencazione descrittiva di quadri clinici e precisamente: a) sindromi acinetico-ipertoniche (parkinsoniane) (v. pag. ???); b) sindromi con movimenti involontari patologici o ipercinetiche (coreiche, distoniche, ecc.) (v. pag. 59, 69); c) sindrome wilsoniana (v. pag. ???).
4. Organizzazione per il controllo e la regolazione del movimento: la coordinazione motoria (livello cerebellare) Col termine coordinazione motoria si intende la capacità di compiere, con armonia e adeguata misura, movimenti complessi che implicano la contrazione simultanea e sincrona di diversi gruppi muscolari ad azione agonista, antagonista e sinergica. I disturbi della coordinazione possono essere distinti in statici e dinamici: la coordinazione statica si esamina nella stazione eretta; la coordinazione dinamica si esamina nel movimento degli arti o di segmenti di arti e nella marcia. Il termine atassia è praticamente sinonimo di incoordinazione motoria e si riferisce specialmente alla statica e alla dinamica nella marcia (atassia statica e atassia dinamica); le prove per esplorare l’armonica esecuzione di movimenti segmentali agli arti sono invece usualmente indicate come prove per la coordinazione segmentale. La coordinazione motoria si esprime, in genere, come attività non cosciente. Il movimento è certamente dovuto alla messa in moto di meccanismi motori volontari, ma la ripetizione sorvegliata e corretta crea un movimento che seppure strettamente collegato con un’attività volontaria diventa stereotipato. Comunque, sia che l’azione motoria sia volontaria o automatica, la coordinazione interviene, in gran parte, indipendentemente dalla volontà 3. La coordinazione dei movimenti è regolata da tre sistemi: – il cervelletto, la cui lesione determina una incoordinazione che possiamo definire primaria, poiché dipende esclusivamente dalla funzione cerebellare; 3 Per certe attività sportive, ad es., anche la funzione di coordinazione motoria di base o «automatica» può essere convenientemente e sapientemente indirizzata e corretta.
Funzione motoria
– il sistema sensitivo, che trasporta le informazioni afferenti attraverso le vie della sensibilità profonda. Oltre agli impulsi sensitivi coscienti, anche le afferenze propriocettive incoscienti, trasportate dai fasci spinocerebellari diretti e crociati convogliano adatte informazioni al cervelletto. Le alterazioni di questi fasci, come ad esempio nel morbo di Friedreich o in altre lesioni spinali, comportano la comparsa di atassia; – l’apparato vestibolare e visivo regolano l’equilibrio e comportano, se alterati, instabilità nella stazione eretta e deviazioni vettoriali che interferiscono nella coordinazione dei movimenti. Anche l’organo della vista ha un ruolo di controllo, spesso inconscio. Ma questi due fattori (vestibolo e vista) hanno importanza relativa poiché soggetti con distruzione dei labirinti o soggetti ciechi possono mantenere la stazione eretta e deambulare. A dire il vero i soggetti con lesioni vestibolari non presentano genuini disturbi della coordinazione. Un disturbo della coordinazione quindi si può manifestare per alterazioni cerebellari, delle vie afferenti sensitive coscienti e incoscienti, ma anche per alterazioni cerebrali, in particolare, per alterazioni frontali, temporali, callose e parietali. Le turbe atassiche per lesioni frontali e callose si dovrebbero ascrivere a lesione delle vie fronto-ponto-cerebellari, mentre quelle da lesioni temporali riscontrate in casi di tumori sarebbero forse dovute agli effetti dell’ipertensione endocranica sul cervelletto. L’atassia parietale dovrebbe, invece, essere ascritta ai concomitanti disturbi della sensibilità profonda, trattandosi quindi di una atassia sensitiva. Le premesse anatomiche e le informazioni fisiopatologiche utili per approfondire il problema della coordinazione del movimento, devono riferirsi, dopo quanto è stato ora accennato, primariamente alla funzione cerebellare, ma anche alla funzione sensitiva e alla funzione cerebrale corticale. Pertanto rimandiamo il lettore a pag. 497 per il cervelletto e le sindro-
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mi cerebellari; a pag. 85 per la funzione sensitiva; a pag. 511 per le funzioni cerebrali emisferiche.
Esame della coordinazione motoria Già la semplice osservazione del comportamento del malato può fornire elementi utili a stabilire se esistono turbe atassiche. Si annoti quindi come il paziente esegue gli atti della vita quotidiana e, in particolare, come si siede o si alza da una sedia, quale postura mantiene mentre è seduto ed è in piedi, com’è la sua andatura; come esegue movimenti quali portare un bicchiere alla bocca, abbottonarsi la camicia o la giacca, annodarsi il laccio delle scarpe. In particolare si osservi se esiste armonia nell’esecuzione del movimento, se l’atto sia quantitativamente e qualitativamente adatto allo scopo (troppo o poco ampio, troppo o poco veloce), se esistano titubanze o incertezze, ecc. Le prove semeiotiche atte ad evidenziare un disturbo della coordinazione dei movimenti vengono suddivise in: A) prove per la coordinazione del corpo in toto (equilibrio e marcia); B) prove per la coordinazione segmentaria o degli arti. A) COORDINAZIONE DEL CORPO IN TOTO (EQUILIBRIO E MARCIA) Gli eventuali disturbi vengono osservati nel mantenimento di specifiche posture, nella stazione eretta (atassia statica) e nella marcia (atassia dinamica). Per il mantenimento della postura si esamina il paziente sdraiato e seduto, per evidenziare le eventuali oscillazioni del capo e del corpo, l’impossibilità a stare seduto, la mancata fissazione di gruppi muscolari del dorso e dei cingoli scapolari o pelvici, presenti in casi con gravi turbe della coordinazione. Nella stazione eretta è possibile cogliere alterazioni anche in casi con modeste turbe atas-
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siche. La prova di Romberg è particolarmente utile a questo scopo: il paziente viene posto sull’attenti, con le punte dei piedi unite; successivamente lo si invita a chiudere gli occhi. Se il corpo del paziente tende ad oscillare, giungendo talora, alla chiusura degli occhi, sino alla caduta, il fenomeno di Romberg è positivo. Nel malato cerebellare il fenomeno di Romberg è negativo, poiché il paziente oscilla già ad occhi aperti e l’equilibrio non viene significativamente peggiorato dalla chiusura degli occhi. Si deve inoltre esplorare la funzione sinergica cioè la sinergia muscolare o capacità di correttamente aggiustare il livello di contrazione nei vari muscoli che partecipano al movimento. Come abbiamo visto un determinato movimento complesso comporta la contrazione sincrona e armonica di differenti gruppi muscolari: l’esecuzione di un movimento in stadi isolati e successivi caratterizza l’asinergia (scomposizione dei movimenti). L’asinergia della stazione eretta esprime l’alterata ripartizione e adattamento del tono posturale e si dimostra invitando il paziente ad inclinare il tronco all’indietro: nel soggetto normale ciò è possibile poiché il movimento si associa alla flessione degli arti inferiori, cioè alla contrazione sinergica dei flessori degli arti inferiori, mentre il paziente cerebellare cade all’indietro e la prova è quindi positiva per mancanza appunto della flessione agli arti inferiori. Per quanto riguarda la marcia si distinguono: – Atassia cerebellare: l’andatura è a base allargata, le braccia a bilanciere, l’ammalato avanza con incertezza e con pulsioni laterali brusche che lo fanno proseguire a zig zag e mima, come si suol dire, l’andatura dell’ubriaco, rischiando di cadere. Il fenomeno di Romberg è negativo. Nelle lesioni cerebellari unilaterali la deviazione si manifesta sempre verso il lato cerebellare affetto, con brusche lateropulsioni. La grande asinergia di Babinski o asinergia della marcia si evidenzia con la prova seguen-
te: il paziente, posto col dorso al muro e invitato ad iniziare la marcia, solleva l’arto inferiore ma non associa questo movimento allo spostamento del tronco in avanti per cui, essendo il baricentro del corpo spostato all’indietro egli tende a cadere. L’asinergia della marcia comunque è di osservazione piuttosto rara. – Atassia per turbe della sensibilità profonda: si designa in genere col termine di atassia tabetica ma è presente anche in altre condizioni cliniche. L’atassia tabetica, per lesioni dei cordoni posteriori è caratterizzata dal brusco lancio delle gambe in avanti, dalla pesante ricaduta del tallone sul suolo e dall’assiduo controllo della vista sui movimenti degli arti. In sostanza e nei casi osservabili oggi, di certo meno gravi di quelli del passato, il disturbo è rappresentato da tallonamento, dalla mancanza di misura nel lanciare gli arti in avanti e dalla positività del fenomeno di Romberg. Nelle lesioni midollari l’atassia spesso non è pura, ma associata a turbe piramidali. Nelle lesioni radicolari e dei nervi periferici si può manifestare un’atassia analoga a quella della tabe dorsale (pseudotabe periferica: nelle polineuropatie, e nella poliradiculoneurite di Guillain Barré). Il fenomeno di Romberg è positivo. Nelle lesioni cerebrali e nelle lesioni talamiche riscontriamo atassia della marcia per turbe della sensibilità profonda. In questo caso la turba atassica è unilaterale (crociata rispetto alla sede della lesione) e di entità modesta. – Atassia per turbe labirintiche: le turbe dell’equilibrio di origine labirintica, spesso indicate come atassia labirintica, sono alterazioni puramente statiche dell’equilibrio e della marcia, e mancano sempre segni di incoordinazione segmentale. Il labirintico presenta un equilibrio instabile, divarica i piedi per aumentare la base di appoggio ma, segno distintivo capitale, ha un fenomeno di Romberg positivo. La perdita di equilibrio per chiusura degli occhi non è imme-
Funzione motoria
diata ma avviene dopo circa una dozzina di secondi e sempre verso un determinato lato (lateropulsione). Il labirintico non può, come il cerebellare, seguire una linea retta, devia lateralmente, ma sempre nello stesso senso, dalla parte del labirinto malato. La marcia eseguita verso l’avanti e verso l’indietro per 8-10 passi, ad occhi chiusi, disegna i raggi di una stella (marcia a stella). – Atassia cerebrale (frontale, callosa, temporale): mentre l’atassia parietale è una vera atassia per turbe della sensibilità profonda, il termine atassia frontale, callosa e temporale è da alcuni ritenuto improprio, e a maggior ragione quello di atassia cerebrale, anche se entrato nell’uso comune. Nel caso dell’atassia frontale e callosa si osserva un difetto di equilibrio nella marcia e nella stazione eretta con tendenza alla retro- e lateropulsione. La atassia temporale sarebbe anch’essa del tipo ora descritto. B) COORDINAZIONE SEGMENTARIA O DEGLI ARTI Viene esaminata con prove codificate che permettono di mettere in evidenza: la dismetria, l’asinergia, l’adiadococinesia. 1) La dismetria, che traduce l’incapacità di regolare l’intensità e la durata dell’attività motoria in rapporto allo scopo da raggiungere, può essere evidenziata da diverse prove. Per gli arti superiori: – Prova indice-naso: si invita il paziente ad occhi aperti e ad occhi chiusi ad abdurre completamente il braccio e quindi a toccare leggermente e con precisione la punta del naso; questa manovra deve essere eseguita più volte, rapidamente, sia con un braccio che con l’altro. – Prova indice-fronte-naso-mento: il soggetto dovrà toccare tre parti del viso (fronte, naso e mento) invece del solo naso. – Prova indice-orecchio: ha le stesse caratteristiche di esecuzione della precedente.
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– Prova dito-paziente – dito-esaminatore: si invita il paziente a toccare il dito dell’esaminatore che viene spostato di volta in volta. – Prova della prensione (o prova del bicchiere): se si invita un paziente a prendere un bicchiere pieno d’acqua a metà e a portarlo alle labbra per bere. Per gli arti inferiori: – Prova calcagno-ginocchio: il paziente deve toccare con il calcagno il ginocchio dell’arto opposto, ad occhi aperti e ad occhi chiusi. Una variante di questa prova consiste nell’ordinare al paziente di colpire ripetutamente con una serie di piccoli colpi il ginocchio, dopo averlo raggiunto. – Prova calcagno-tibia strisciata: il paziente è invitato a strisciare leggermente il tallone lungo la cresta della tibia fino al dorso del piede. – Prova dito-paziente – dito-esaminatore: analoga a quella eseguita agli arti superiori, il paziente cercherà di toccare con il suo alluce il dito dell’esaminatore che viene spostato di volta in volta. Se esiste un disturbo della coordinazione, il movimento, in tutte queste prove, è eseguito in maniera scorretta: la mira non è raggiunta (dismetria), o è raggiunta con troppa forza e quindi superata (ipermetria), oppure in vicinanza della meta il dito o il calcagno si arrestano o rallentano l’atto motorio (braditeleocinesia). Si potrà anche notare che il movimento viene eseguito con minore rapidità, particolarmente all’inizio del movimento (ritardo dell’inizio del movimento), e con una serie successiva di irregolari contrazioni (discontinuità del movimento). 2) L’asinergia, che abbiamo già studiato a proposito della stazione eretta e della marcia, può anche manifestarsi a livello di movimenti segmentali degli arti. Il movimento globale può essere scomposto in movimenti parziali, in tempi
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diversi, per difetto di sinergia tra i diversi movimenti che compongono l’atto nel suo insieme. L’asinergia segmentale o piccola asinergia di Babinski si mette in evidenza con diverse prove: – il soggetto seduto è invitato a toccare con la punta del piede un oggetto posto a circa 50 cm dal suolo, pochi centimetri distante dal ginocchio. L’asinergico, invece di compiere simultaneamente la flessione della coscia e della gamba, prima flette la coscia e poi estende la gamba, oltrepassando spesso l’oggetto; – il soggetto asinergico dimostra la scomposizione del movimento nell’esecuzione delle prove di coordinazione segmentale precedentemente descritte. Tutte queste prove possono essere positive da un solo lato realizzando una emiasinergia che esprime una lesione cerebellare omolaterale. L’asinergia globale o grande asinergia può essere evidenziata invitando il soggetto, disteso sul letto a braccia conserte, a mettersi seduto senza aiutarsi con gli arti superiori. Il soggetto normale esegue la prova contraendo i muscoli che fissano gli arti inferiori al letto; l’asinergico solleva, anche smodatamente, gli arti inferiori mentre non riesce a sollevare il dorso. Si noti tuttavia che soggetti normali, specie anziani, hanno difficoltà ad assumere la posizione seduta senza aiutarsi con gli arti superiori. 3) La diadococinesia esplora la capacità di eseguire movimenti volontari rapidi e alternativi. La perdita di questa possibilità, denominata adiadococinesia, si esplora con le seguenti prove: – prova di pronazione-supinazione delle mani: il soggetto è seduto e, poste sulle ginocchia le mani, esegue rapidi movimenti alternativi di prono-supinazione. Se esiste adiadococinesia si osserverà che il malato non riesce, già dopo alcuni movimenti, a mantenere il ritmo e l’alternanza della successione; – prova delle marionette: il soggetto seduto di fronte all’esaminatore, con le braccia addot-
te, gli avambracci flessi sul braccio e palme delle mani in avanti, esegue, al comando, rapidi movimenti alternati di prono-supinazione. Quando il malato non può abbandonare il letto, lo si invita a estendere le braccia e a compiere gli stessi rapidi movimenti alternati di pronosupinazione. La prova si considera positiva quando il paziente non è in grado di mantenere il ritmo e l’alternanza delle successioni motorie. L’adiadococinesia può essere anche evidenziata facendo eseguire movimenti quali: battere le mani, scrivere a macchina, segnare il passo. Le prove per l’adiadococinesia saranno particolarmente dimostrative se la lesione è unilaterale. Appare ovvio che molte delle prove sopraelencate sono in grado di mettere in evidenza globalmente turbe dismetriche, asinergiche e adiadococinetiche. Un esempio particolare è dato dalle turbe della scrittura. La scrittura, che utilizza una successione di movimenti alternativi particolarmente precisi e regolari, dimostra molto bene l’esistenza di turbe della coordinazione. Se il malato è invitato a tracciare linee orizzontali in successione sovrapposta tra due limiti verticali, segnati dall’esaminatore, molte linee oltrepasseranno o non raggiungeranno il limite verticale e la linea sarà intercisa (iperipometria, dismetria, asinergia, adiadococinesia, braditeleocinesia). Altri segni, che si possono riscontrare in un malato con turbe della coordinazione, fanno parte delle sindromi cerebellari e saranno pertanto descritti a pag. 497. Ci riferiamo ai seguenti segni: – disturbi del tono: ipotonia e passività (prova del ballottamento, prova di Holmes, riflessi pendolari); ipertonia nella reazione di sostegno; turbe dell’atteggiamento (asimmetrie di posizione); – ipostenia; – tremori; – disartria, con parola scandita ed esplosiva (v. pag. 126).
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Funzioni sensitive
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3. Funzioni sensitive A. Seitun
Il termine sensibilità indica genericamente la capacità di avvertire sensazioni spontanee o prodotte da stimoli somatici superficiali (esterocettivi cutanei e mucosi), profondi (propriocettivi sottocutanei e muscolo-scheletrici) e viscerali (enterocettivi). Lo studio delle funzioni sensitivo-sensoriali coscienti, compete alla psicofisica, branca della psicologia sperimentale che studia la percezione di uno stimolo usando mezzi che ne permettano l’oggettivazione e la valutazione in termini matematico-statistici. Qualunque esperienza sensitiva, infatti, altro non è che un fenomeno soggettivo, la cui occorrenza e le cui caratteristiche possono rimanere confinate all’individuo ed alla sua soggettività, oppure prestarsi ad una oggettivazione indiretta mediante l’impiego di idonee strategie. Nella terminologia neurologica, si trova molto spesso usata la distinzione fra sensibilità soggettive, riferentesi a sensazioni non correlabili ad alcun oggetto, e sensibilità oggettive, riguardanti l’intera gamma delle normali sensazioni che sono riconosciute o percepite come derivanti da oggetti (stimoli)1 . Le sensibilità soggettive, quindi, si riferiscono per traslato ed in senso metonimico a sensazioni spontanee inusuali ed a contenuto qualitativamente e quantitativamente abnorme, quali parestesie, prurito e dolore, esperienze soggettive definibili in modo più semplice e chiaro come «sintomi sensitivi positivi» (Baker, 2000). Circa la sensibilità dolorifica o nocicettiva, è fin d’ora opportuno anticipare che essa può essere indagata oggettivamente solo utilizzando stimoli puntiformi meccanici 1
La percezione di un oggetto reale in assenza dello stesso è un fenomeno psicopatologico definito allucinazione.
o termici capaci di evocare dolore locale immediato rapidamente evanescente (rapido). Il dolore diffuso, lentamente ingravescente e duraturo (lento o cronico) che accompagna ogni lesione tissutale di una certa importanza e può persistere anche a lungo dopo l’avvenuta riparazione dei tessuti, è invece un’esperienza tipicamente individuale e soggettiva, non quantificabile in termini psicofisici convenzionali. L’esperienza dolorosa può però essere obbiettivata tramite neuroimmagini funzionali (PET, fMRI).
Le sensibilità oggettive si riferiscono alla percezione degli usuali stimoli esterni o interni al corpo, e sono quindi indagabili in termini di stimolo-risposta. Si distinguono sensibilità superficiali (o esterocettive), profonde (o propriocettive), complesse (o combinate) e viscerali (o enterocettive) (Tab. 3.1). La valutazione psicofisica delle sensibilità oggettive richiede l’integrità dello stato di coscienza della persona esaminata e la capacità di fornire risposte adeguate, soprattutto durante la ricerca della soglia percettiva, convenzionalmente rapportabile all’intensità di stimolazione che riesce a produrre il 50% di risposte positive. La soglia è un parametro fondamentale, essendo molto stabile nonostante le fluttuazioni del tempo di reazione semplice del soggetto. A questo riguardo, esistono tre principali strategie: 1) il metodo dei limiti, basato sull’uso di stimoli di intensità crescente fino al raggiungimento della loro percezione, comunicata di volta in volta dal soggetto; 2) il metodo della scelta forzata, indipendente dal tempo di reazione ma ben più ponderoso, dato che solo a posteriori si deve indicare quale stimolo è stato percepito in una batteria di cinque differenti stimoli somministrati a caso; ed infine 3) il metodo misto 4-2-1, preciso come il precedente ma di più agevole applicazione, in cui la soglia percettiva viene progressivamente approssimata mediante sequenze di stimoli scalari di intensità oscillante attorno ad essa (Dyck et al., 1993). È bene sottolineare che l’applicazione di questi metodi, soprattutto gli ultimi due, rientra nell’ambito dell’estesiometria quantitativa, richiedente specifica prepara-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 3.1 - Classificazione delle sensibilità. Sensibilità elementari
Sensibilità complesse o combinate (epicritiche)
Superficiali
Profonde (propriocettive)
1. Tattile
cute glabra cute pilifera
1. Batiestesia e chinestesia 2. Bariestesia 3. Pallestesia
2. Termica
caldo freddo
3. Dolorifica
meccanica termica chimica
1. Discriminazione tattile e dolorifica 2. Topoestesia 3. Grafoestesia o dermolessia 4. Stereoestesia
meccanica termica chimica Sensibilità viscerale
zione e strumentazioni sofisticate (commercialmente disponibili per lo studio della sensibilità termica e dolorifica). Solo in tal modo diventa possibile identificare o quantificare deficit sensitivi sfuggenti o dubbi all’esplorazione delle sensibilità effettuata secondo le usuali metodiche semeiotico-cliniche (vedi oltre).
La sensibilità superficiale comprende tre differenti modalità somestesiche esplorabili in termini di qualità, intensità, durata, localizzazione ed estensione spaziale dello stimolo: 1) sensibilità tattile (meccanoestesia della cute glabra e pelosa, della cornea e delle mucose); 2) sensibilità termica (termoestesia per caldo e freddo) e 3) sensibilità dolorifica superficiale (puntoria). Ciascuna di esse è mediata da specifici recettori e trasportata con alta conservazione somatotopica alla corteccia sensitiva da specifiche vie nervose afferenti. La sensibilità profonda comprende: 1) sensibilità al movimento (chinestesia) ed alla posizione dei segmenti corporei (batiestesia); 2) sensibilità alla pressione ed al peso (bariestesia); 3) sensibilità alla vibrazione (pallestesia); 4) sensibilità dolorifica profonda. Anche per queste sensibilità, esistono recettori sensitivi specifici, sottocutanei, osteo-articolari, muscolari e tendinei, e relative vie nervose afferenti somatotopicamente arrangiate.
Le sensibilità complesse, o combinate o associate, derivano da un’attivazione simultanea di varie modalità somestesiche estero- e propriocettive, e comprendono in particolare: 1) sensibilità epicritica tattile e dolorifica, o capacità di discriminare spazialmente due stimoli meccanici tattili2 applicati simultaneamente su punti vicini della cute; 2) grafoestesia o dermolessia, o capacità di identificare tattilmente simboli grafici tracciati sulla cute; 3) stereoestesia3 , o capacità di percepire dimensioni e forma tridimensionale degli oggetti manipolati. Queste sensibilità integrano più di una classe recettoriale e più di una via sensitiva alla volta, e riflettono le continue interazioni che esistono fra le diverse modalità sensitive ad ogni livello del nevrasse (spinale, bulbare, talamico e corticale). La sensibilità viscerale, o enterocettiva, è stata poco indagata sotto il profilo psicofisico nel-
2
Anche gli stimoli termici e dolorifici possono essere utilizzati, ma non hanno rilevanza semeiotico-clinica. 3 Si preferisce questo termine a quello di stereognosia poiché quest’ultimo si riferisce alla mera capacità di riconoscere il significato simbolico utilizzatorio di un oggetto manipolato, del quale si abbia ovviamente una corretta rappresentazione stereopercettiva (DeJong, 1969). La astereognosia o stereoagnosia ha origine corticale ed è anche definita «asimbolia tattile» (v. pag. 113, 157).
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l’uomo per ovvie difficoltà. Esistono tuttavia evidenze che la assimilano per certi versi alla sensibilità dei tessuti profondi, capace di fornire solo una limitata gamma di percezioni sensitive (trazione, compressione, dolore). Lo stiramento viscerale (capsule, fascie, ligamenti, sierose, pareti vascolari etc.) comporta indistinte e diffuse sensazioni di distensione, gonfiore, costrizione a carattere spesso sgradevole o francamente doloroso, tipicamente accompagnate da un corteo di risposte vegetative molto evidente.
Proprietà anatomiche e neurobiologiche del sistema sensitivo Le vie sensitive iniziano dai recettori, propaggini terminali specializzate di assoni sensitivi periferici (neuroni di 1° ordine), che collegano l’estrema periferia del corpo con il midollo spinale. Nel nevrasse, le informazioni sensitive sono elaborate in parte nel midollo, in parte nel bulbo, ritrasmesse al talamo attraverso neuroni di 2° ordine (rispettivamente lemniscali e spinotalamici), ed infine trasportate nella corteccia sensitiva attraverso neuroni di 3° ordine (talamocorticali). Questa semplicità è più apparente che reale, e seppur accettabile a scopo didattico, non rende giustizia alla notevole complessità dei circuiti intraspinali e delle loro proiezioni rostrocaudali al tronco encefalico ed al talamo (Wall e Melzack, 1989). Il sistema sensitivo è somatotopicamente organizzato in modo assai preciso, ma ciò non basterebbe di per sé a fornire alla neocorteccia un’equivalente rappresentazione del flusso di eventi sensitivi occorrenti alla superficie ed all’interno del soma. Tale scopo è raggiunto grazie alla presenza di potenti sistemi satelliti di enfasi del segnale, basati sulla continua competizione di un messaggio in transito con tutti quelli provenienti dalle zone adiacenti, e sulla soppressione dei segnali non prioritari. Questa selezione, operante in ogni stazione sinaptica, è basata su meccanismi lo-
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cali di inibizione laterale e di eccitazione ricorrente (feed-back) o afferente (feed-forward) e nelle stazioni sottocorticali, anche su meccanismi di inibizione presinaptica. In tal modo, dalla prima all’ultima stazione sinaptica è possibile mantenere rapporti segnale/rumore straordinariamente elevati (Kandel et al., 2000). A differenza dei sistemi sensoriali, il trasporto delle informazioni dalla periferia recettoriale al midollo spinale segue percorsi molto lunghi ed intricati attraverso nervi periferici, plessi sensitivi, nervi spinali e radici dorsali. Le rispettive lesioni si manifestano con una sintomatologia sensitiva variabile in rapporto alla sede. Ogni nervo sensitivo, infatti, è dotato di territori di distribuzione differenti per ogni tipo di sensibilità, massimi per le sensibilità profonde, intermedi per la sensibilità tattile, minimi per la sensibilità termica e dolorifica, che si sovrappongono ai territori sensitivi circostanti. Sulla cute, la sovrapposizione risulta quindi massima per il territorio tattile rispetto a quello termico e dolorifico, a cui si riferiscono essenzialmente i confini dei territori sensitivi dei vari nervi cutanei (Fig. 3.6–3.7). Analoghe caratteristiche presentano i territori sensitivi delle radici dorsali (Fig. 3.9–3.10). Ogni radice convoglia in un dato segmento midollare (metamero4 ) assoni provenienti da precisi distretti cutanei (dermatomeri), muscolari (miomeri), osteo-articolari (scleromeri) e viscerali fra essi solo in parte sovrapposti. L’area dermatomerica è quella meno estesa ma ha il grande vantaggio di essere precisamente delineata sulla cute come una striscia di zebra. Ogni radice dorsale si distribuisce ad almeno tre metameri. Ogni metamero, quindi, si trova complessivamente innervato dalle fibre provenienti almeno da tre radici (ramo principale di quella corrispondente e rami provenienti dalle due radici adiacenti). 4
Anatomicamente, per metamero s’intende il segmento midollare relativo ad una coppia di radici anteriori e posteriori, e compreso fra due piani di sezione ideali tracciati a metà fra queste radici e quelle immediatamente sopra e sottostanti.
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Storicamente, Sherrington (1898) fu il primo a dimostrare nella scimmia mediante il “metodo della sensibità residua” che i dermatomeri cutanei adiacenti sono più o meno sovrapposti. A partire dal 1911, lo studio di malati sottoposti a sezione o asportazione di una o più radici permise di tracciare una mappa della distribuzione radicolare sensitiva (Foerster, 1911; Foerster, 1933), nonostante il metodo fosse stato considerato inadeguato da Déjérine (1914). Fra i metodi alternativi impiegati (stricnina locale, stimolazione antidromica, studio della distribuzione delle vescicole erpetiche) uno in particolare, basato sull’anestesia locale di gangli delle radici dorsali in soggetti normali (Keegan e Garrett, 1948) permise in seguito di ottenere una mappa dermatomerica soddisfacente a scopo clinico (Hansen e Schliack, 1962) (Fig. 3.8, 3.9). Le varie assunzioni di cui sopra, tuttavia, non possono oggi considerarsi né assolute né statiche, poiché l’innervazione sensitiva dei tessuti rimane un fenomeno plastico, non solo nel corso dello sviluppo, ma anche nella successiva vita postnatale. La sovrapposizione dei territori sensitivi, neuroperiferici e radicolari, è regolata nella vita post-natale da neurotrofine, quali ad es. NT-3 (Ritter et al., 2001). Inoltre, i fenomeni di reinnervazione conseguenti a danno di fibre sensitive periferiche occorrono non solo in periferia, ove le preesistenti distribuzioni sensitive possono essere topograficamente e qualitativamente rimaneggiate, ma anche nel midollo spinale, in corrispondenza delle stazioni sinaptiche. A livelli superiori (talamo, corteccia cerebrale), il rimaneggiamento assume un carattere puramente plastico, comportando espansione o coartazione funzionale di aree sensitive in assenza di modificazioni morfo-strutturali apprezzabili. Il ruolo di tali fenomeni, documentabili anche nell’uomo mediante PET, fMRI e stimolazione magnetica corticale, sembra non meno importante del danno di per sé, soprattutto nella genesi del dolore cronico.
Recettori Storicamente, il problema dell’origine delle diverse modalità sensitive è stato uno degli aspetti piu dibattuti e controversi della fisiologia sensoriale. La “legge delle energie nervose specifiche” enunciata da J. Müller (1826) ma proprio da lui intesa in puri termini di “energie sensoriali”, sarebbe poi stata accettata come tale - e con preciso riferimento a recettori e vie sensitive specifiche anziché ad energie stimolanti - grazie soprattutto ai contributi fondamentali di altri assai meno noti suoi contemporanei, quali Blix, Donaldsson e Goldscheider (Norrsell et al., 1999).
A lungo si è discusso sulla specificità o meno dei recettori somestesici e delle relative vie afferenti. A partire dalla fine degli anni ’60, l’avvento della microneurografia applicata sperimentalmente all’uomo ha permesso di dimostrare in maniera inequivocabile che la qualità della percezione somestesica dipende dal tipo di recettore o rispettivo assone stimolati, e non dalla frequenza di stimolazione, responsabile quest’ultima solo dell’intensità della percezione (sommazione temporale) (Vallbo et al., 1984). Ulteriori incrementi dell’intensità percettiva possono quindi raggiungersi solo reclutando tutti i recettori derivanti da un singolo assone sensitivo o ulteriori unità sensitive (sommazione spaziale). I dati attuali indicano che ogni unità sensitiva risponde fisiologicamente a quell’unico tipo di stimolo cui essa è particolarmente sensibile («stimolo adeguato»). Ciò non esclude che certe particolari formazioni recettoriali dotate di innervazione multipla, come ad es. i corpuscoli di Meissner, possano fornire risposte qualitativamente dissimili da quelle fisiologiche qualora siano abnormemente stimolati. I recettori somestesici possono assumere l’aspetto di terminazioni capsulate, ben individuabili come formazioni organizzate e con massima densità nelle aree più sensibili del corpo (mano) oppure corrispondere a terminazioni libere, ubiquitarie e percentualmente dominanti (Fig. 3.1). La depolarizzazione graduale della membrana recettoriale causata dallo stimolo si propaga in senso ortodromico ed in direzione prossimale. Nelle fibre mieliniche, questa depolarizzazione modula le oscillazioni spontanee del potenziale di membrana del primo nodo di Ranvier raggiunto, il quale funge da trasduttore voltaggio/frequenza, modificando fasicamente la propria scarica spontanea. Nelle fibre C amieliniche dolorifiche, caratterizzate da una propagazione per contiguità del potenziale d’azione e da una scarica a riposo virtualmente assente, la codifica degli stimoli nocicettivi non è altrettanto modulabile, poiché il danno tissutale produce in queste fibre una scarica tonica che persiste molto a lungo.
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I messaggi sensitivi risalgono lungo l’intero ramo cosiddetto “centrifugo” del neurone a T del ganglio dorsale, attraversando nervo periferico e plessi fino a raggiungere il soma e a propagarsi contemporaneamente nel ramo assonale centripeto (per le fibre C di calibro generalmente inferiore), che penetra come radice dorsale nel solco dorso-laterale del midollo spinale.
Fig. 3.1 - Aspetto e struttura di alcuni tipi di recettori sensitivi. 1: Terminazioni libere (nocicettori = dolore; termocettori = caldo, freddo). 2: Corpuscoli del Pacini (propriocettori sottocutanei = pallestesia, pressione profonda). 3: Corpuscoli di Meissner (meccanocettori = papille dermiche, campo recettivo tattile di 0,2-0,5 mm). 4: Clave di Krause (meccanocettori = mucose). 5: Corpuscoli di Ruffini (meccanocettori da stiramento = pressione, posizione angolare). 6: Dischi di Merkel (meccanocettori = valli dermiche, campo recettivo tattile di 2-4 mm).
Si distinguono tre classi di recettori: meccanocettori, termocettori, nocicettori. La maggioranza dei meccanocettori deriva da grosse fibre mieliniche, mentre termocettori, nocicettori ed alcuni meccanocettori sensibili a lievi pressioni sulla cute ed al movimento dei peli, derivano da piccoli assoni mielinici o amielinici. La classificazione delle fibre nervose periferiche in rapporto al loro diametro, velocità di conduzione e funzione sono riportate in Tab 3. 2. A seconda della loro morfologia e del loro rivestimento, i recettori somestesici dimostrano campi recettivi larghi o ristretti, bassa o alta soglia, e rapido o lento adattamento agli stimoli,
Tabella 3.2 - Denominazione, velocità di conduzione, diametro e funzione delle fibre nervose periferiche. Denominazione
Diametro (mm)
Velocità (m·sec-1)
Funzione
Mieliniche Aα
Gruppo Ia Gruppo Ib
20 - 12
120 - 70
Efferenti motrici extrafusali Afferenti propriocettive (terminazioni anulospirali intrafusali) Afferenti propriocettive (organi muscolo-tendinei di Golgi)
Aβ
Gruppo II
12 - 5
70 - 30
Afferenti dai meccanocettori cutanei tattili e pressori Afferenti propriocettive dalle terminazioni floreali intrafusali
7-4
35 - 25
Efferenti motrici intrafusali (dai γ-motoneuroni)
5-1
30 - 5
Afferenti cutanee termoestesiche al freddo Afferenti cutanee e muscolari per il dolore rapido (meccano-nocicettori)
3
15 - 3
Efferenti vegetative pregangliari
1,5 - 0,2
2 - 0,5
Afferenti cutanee termocettive per il caldo ad alta soglia Afferenti cutanee e muscolari: nocicettori polimodali (dolore cronico o lento) Efferenti ortosimpatiche post-gangliari
Aγ Aδ
Gruppo III
B Amieliniche C
Gruppo IV
Costante approssimativa di Hursch: velocità di conduzione = diametro assonale x 6 (fino ad Aδ)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
intendendosi per adattamento5 la progressiva riduzione della risposta a stimoli continui di intensità costante (a tipo onda quadra prolungata). 1.– Meccanocettori. Il ruolo di questi recettori è piuttosto complesso (Johnson, 2001). Si distinguono in esterocettivi (superficiali) e propriocettivi (profondi). I meccanocettori esterocettivi della cute glabra (presenti anche nelle mucose) sono responsabili del tatto a finalità esplorative, essendo altamente rappresentati sulle superfici palmari, soprattutto in corrispondenza della mano e dei polpastrelli delle dita. Funzionalmente si distinguono recettori ad adattamento rapido (corpuscoli di Meissner: apice delle papille dermiche; bulbi terminali di Krause: mucose; corpuscoli di Pacini: derma profondo; terminazioni del bulbo del pelo: cute pilifera) e recettori ad adattamento lento (dischi di Merkel: vallate dermiche e mucose; corpuscoli di Ruffini: matrice connettivale sottocutanea). I corpuscoli di Meissner sono situati all’apice delle papille dermiche ed appaiono come piccole strutture ovoidali innervate da una decina di terminazioni assoniche meccanocettive Aa-Ab a bassa soglia avvolte da terminazioni di fibre C, entrambe dotate di recettori o peptidi a chiara funzione nocicettiva (Pare et al., 2001). Normalmente fungono come meccanocettori a campo recettivo ristretto (1-3 mm) ed adattamento rapido (possono trasferire informazioni fino a frequenze di 150 Hz). Nell’uomo, l’attivazione di un singolo corpuscolo mediante un breve singolo microstimolo meccanico causa una superficiale e ben distinta percezione tattile puntiforme quale può essere prodotta da una zampa di formica, esattamente riproducibile mediante stimolazione sogliare al polso dell’assone corrispondente. Aumentando l’intensità dello stimolo, tuttavia, la sensazione tattile si trasforma in sensazione puntiforme intensamente dolorosa (probabilmente per una duplice funzione del corpuscolo, meccano e
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Da non confondere con accomodazione, o proprietà delle membrane eccitabili, massima negli assoni, di tollerare incrementi depolarizzanti più o meno ripidi (a tipo onda triangolare o trapezoidale) senza generare potenziali d’azione. L’abitudine è invece un fenomeno prettamente psichico, caratterizzato da una progressiva riduzione di risposta in caso di stimoli ripetitivi e monotoni.
nocicettiva). L’elevata densità dei corpuscoli di Meissner sui polpastrelli delle dita permette inoltre di codificare spazialmente nel tempo e mappare a livello microgeometrico le caratteristiche superficiali degli oggetti lievemente strisciati sull’epidermide (ad es. maggiore o minore ruvidità) (Srinivasan et al., 1990). I corpuscoli di Pacini (o di Vater-Pacini, o di GolgiMazzoni) sono situati nel derma e nel sottocutaneo, sono meccanocettori a bassa soglia, adattamento rapido e campo recettivo largo. Sono estremamente sensibili anche a minime sollecitazioni meccaniche vibratorie, con picco di sensibilità massimo attorno ai 200 Hertz. Assieme ai corpuscoli di Meissner contribuiscono a fornire informazioni sulla superficie degli oggetti, specie se in spostamento rapido, sulle vibrazioni anche minime degli oggetti toccati o impugnati e sulla situazione dinamica delle superfici d’appoggio. I dischi di Merkel si presentano come terminali di numerose ed estese ramificazioni di singoli assoni. Isolatamente, essi presentano campi recettivi tattili vasti (36 mm) ad adattamento lento, risultando capaci di rispondere a pressioni superficiali prolungate e circoscritte. L’attivazione di più dischi della stessa unità permette una codifica complessa delle informazioni cutanee, tale da fornire informazioni sulle caratteristiche morfologiche degli oggetti appoggiati e spostati lateralmente sulla cute (estensione, spigolosità, curvatura, etc.). Si ritiene che la loro alta densità in aree cutanee speciali a basso spessore, quali labbra, capezzolo, genitali ed anche in molte mucose sia responsabile di percezioni diffuse a carattere intrinsecamente piacevole (piacere sessuale), ma tali da assumere carattere opposto al di là di un certo livello di stimolazione. I corpuscoli di Ruffini sono meccanocettori ad alta soglia, campo recettivo vasto, adattamento lento e rispondono preferenzialmente agli spostamenti tangenziali della cute sui piani sottostanti. L’applicazione di singoli stimoli sul relativo assone non produce tuttavia alcuna percezione tattile.
L’apparato tattile del volto e della cute pilifera è costituito da dischi di Merkel, corpuscoli di Pacini e Ruffini, e terminazioni lanceolate a bassa soglia e rapido adattamento avvolgenti il bulbo pilifero emanate in numero variabile (1030) da fibre Aβ, dotate di uno specifico canale del sodio, BNC1 (Price et al., 2000), ed infine da abbondanti terminazioni meccanocettive a bassa soglia di fibre C, producenti scariche ritardate e prolungate sotto stimoli pressori con-
Funzioni sensitive
tinuativi lievi. Queste ultime hanno permesso di postulare che nell’uomo esiste, accanto al sistema tattile superficiale rapido delle estese regioni pilifere, un secondo sistema tattile “lento”, molto esteso sul corpo, possibilmente coinvolto nell’elaborazione emotivo-affettiva dei contatti cutanei persistenti (Vallbo et al., 1999). I meccanocettori propriocettivi, o propriocettori, sono terminazioni più o meno capsulate e specializzate presenti nei muscoli striati (fusi neuromuscolari: terminazioni anulo-spirali di assoni Ia delle miofibre a sacco nucleare e terminazioni floreali di assoni II nelle miofibre a catena nucleare; fascie e perimisio: terminazioni libere) nei tendini (organi muscolo-tendinei di Golgi: terminazioni Ib) nel sottocutaneo periarticolare (corpuscoli di Ruffini) e nell’apparato articolare (meccanocettori di I-II-III tipo). Globalmente più rappresentati dei recettori superficiali, i propriocettori producono scariche afferenti che in gran parte sono destinate alla regolazione preconscia o inconscia dei meccanismi posturali statici e dinamici a carattere riflesso. Essi contribuiscono in maniera rilevante all’esplorazione tattile spaziale ed allo sviluppo ed al mantenimento delle sensibilità complesse o combinate. L’insieme dei dispositivi di cui sopra non chiarisce perché la vasta gamma di sensazioni tattili che si è in grado di provare comprenda anche un versante emotivamente sgradevole, sconfinante nel dolore vero e proprio. Una spiegazione può forse derivare dalla recente scoperta che in differenti tipi di terminazioni specializzate somato-sensitive è presente un particolare canale cationico DRASIC appartenente alla famiglia DEG/ENaC che, attraverso la probabile formazione di canali eteromultimerici, riduce la risposta a stimoli tattili lievi liberando quella a stimoli meccano-termo e chemonocicettivi o viceversa, come dimostrato nell’animale -/- (Price et al., 2001).
2.– Termocettori. I termocettori cutanei e mucosi si presentano come terminali di ramificazioni (6-12) di singoli assoni, e sono distinguibili in recettori al caldo (confine dermo-epi-
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dermico, range da 32 °C a 43 °C) ed al freddo (derma profondo, range da 32 °C a 10 °C) (Julius e Basbaum, 2001). Nella cute si intercalano fra loro distribuendosi in maniera tipicamente puntiforme, ma senza alcuna sovrapposizione («spots» con campo recettivo di 1-2 mm). Rispondono selettivamente a modificazioni termiche puntiformi, la cui intensità sogliare percettiva è tuttavia assai superiore a quella dimostrabile mediante attivazione di tutti i recettori di una stessa unità termopercettiva (sommazione spaziale locale). Per tale motivo, l’esplorazione termoestesica utilizza termosonde di adeguata superficie (3-9 cm2). In corrispondenza delle zone a massima densità recettoriale quali punta della lingua e labbra, ove la temperatura cutanea media s’aggira sui 35 °C, la soglia differenziale media al caldo corrisponde nell’uomo a circa + 0,6°C, e quella al freddo ad appena -0,18°C. I valori crescono progressivamente spostandosi in sedi a minore densità recettoriale (ad es. dorso degli arti). La depolarizzazione dei recettori al caldo dipenderebbe da un’iniziale apertura di canali per il Ca2+ sensibili all’innalzamento termico (35 °C → 42 °C) seguita da apertura dei canali del Na+ V-dipendenti (Gotoh et al., 1998; Adair, 1999). La depolarizzazione dei recettori al freddo, invece, è stata attribuita ad un’inibizione della Na+/K+-ATPasi, ad un blocco di una conduttanza al K+, e più recentemente, ad un’apertura dei canali del Ca2+ sensibili all’abbassamento termico (35 °C → 20 °C), senza evidente contributo di conduttanze al Na+ (Reid e Flonta, 2001; Suto e Gotoh, 1999). Entrambe le unità sensitive richiedono quindi l’attivazione di correnti del Ca2+, e non a caso quindi si contraddistinguono per una ricca dotazione della proteina chelante il Ca2+ calbindina, il che potrebbe rendere ragione delle rispettive capacità di adattamento e dei curiosi fenomeni di isteresi termopercettiva. Del tutto recentemente, è stata descritta una sottopopolazione di neuroni ganglionari responsivi al freddo che esprime uno speciale membro della sottofamiglia “lunga” (capostipite melastatina) delle proteine TRP denominato TRPM8, attivato sia dal freddo che dal prototipo delle sostanze rinfrescanti, il mentolo (Peier et al., 2002). Incidentalmente, le aree a maggior densità termocettoriale (volto, labbra, sfinteri) possono spontaneamente attivarsi anche in assenza di stimoli termici generando percezioni termiche puramente soggettive, qualora vari
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
perifericamente la concentrazione del Ca2+ extracellulare (ipocalcemia transitoria, ad es. in corso di iperventilazione = sensazione di freddo; ipercalcemia transitoria, ad es. per somministrazione endovenosa di calcio gluconato = sensazione di caldo) (Adair, 1999).
3.– Nocicettori. I nocicettori sono sottili digitazioni assoniche amieliniche libere di fibre Ad (gruppo III, 30%) e C (gruppo IV, 70%), che usano come neurotrasmettitore glutammato, in associazione o meno ad uno o più neuropeptidi (SP, CGRP). La loro membrana è dotata di una varietà di differenti canali del Na+, fra cui alcuni non-inattivanti (tetrodotossino-resistenti), la cui espressione genica può essere rapidamente e selettivamente amplificata in seguito ad un danno dell’estrema periferia, contribuendo ai fenomeni di ipersensibilizzazione recettoriale. I nocicettori Ad comprendono recettori a bassa o ad alta soglia che rispondono a stimoli meccanici, termici ed anche chimici con breve latenza (tipo I) o lunga latenza (tipo II). La loro stimolazione produce dolore rapido puntorio o bruciante, ben localizzato ed a carattere transitorio. Gli assoni C terminano con nocicettori che rispondono ad un solo tipo di stimolo (unimodali) o a due o più tipi (polimodali), e sono responsabili delle qualità lente, brucianti del dolore. La neurobiologia del sistema nocifensivo e del dolore è un argomento molto complesso e di ardua semplificazione (Caterina e Julius, 1999; Cesare e McNaughton, 1997). Molti nocicettori sono bi- o polimodali, altri unimodali. Si distinguono meccano-nocicettori a bassa ed alta soglia, dotati di canali del Na+ attivati da pressioni lesive; termo-nocicettori ad alta soglia, dotati di canali del Na+ attivabili selettivamente da temperature lesive superiori a 42 - 43°C; chemi-nocicettori, attivati da variazioni di pH e da una varietà di sostanze chimiche. a) Un primo, principale gruppo di fibre C contiene neuropeptidi pro-infiammatori (sostanza P, CGRP) e termina negli strati più esterni del corno posteriore (lamina I e II esterna), connettendosi con i neuroni spinotalamici. Queste fibre, che esprimono preferenzialmente canali del Na+ sensibili al calore nocivo, sono anche sensibili ad una
varietà di molecole nocive prodotte dal danno tissutale (citochine, serotonina, istammina), ed al pH acido, e sembrano candidate al ruolo di nocicettori responsabili del dolore somatico infiammatorio. b) Un secondo gruppo non peptidergico, ma esprimente carboidrati leganti l’isolectina IB4 e dotato di fosfatasi acida fluoruro resistente, termina nella lamina II di Rexed del corno posteriore del midollo connettendosi principalmente ad interneuroni. Queste fibre esprimono il recettore trKA per le neurotrofine (NGF, e dopo lo sviluppo, GDNF) e recettori per la bradichinina (B1), rapidamente inducibili da interleuchine IL-1B e IL-8. Questi ultimi appaiono selettivamente coinvolti nella genesi dei fenomeni di prolungata iperalgesia dopo danno nervoso (Pesquero et al., 2000), ed appaiono quindi candidati al ruolo di nocicettori responsabili del dolore da lesione del nervo (dolore neuropatico) (Stucky et al., 2001). c) Entrambi i gruppi esprimono una particolare varietà di canali del Ca2+ non selettivi appartenenti alla seconda sottofamiglia (TRPV) delle sei che costituiscono la superfamiglia delle proteine TRP6 (Montell, 2001), in particolare il canale vanilloide VR1, che è attivato dalla capsaicina (principio attivo pungente della paprika) o da variazioni acide del pH (< 5,8) (Caterina e Julius, 2001; Cesare et al., 1999) ed è bloccato dal freddo (T < 14°C) (Babes et al., 2002). Un canale strutturalmente analogo (VRL-1), che è insensibile a capsaicina e protoni H+, ma è attivato da T° nocive (> 43 °C), è espresso selettivamente da nocicettori Aδ. Differenti combinazioni di altri tipi di recettori si esprimono nell’eterogenea popolazione C, distribuendosi in maniera ubiquitaria, o risultando selettivamente espressi in precise sottopopolazioni: recettori cannabinoidi (CB1) strettamente omologhi, ma ad azione opposta a quelli VR1 sensibili alla capsaicina; neurochininici (NK1); nucleotidici (sensibili all’ATP ed a funzione metabotropica tramite attivazione della PKC); GABAergici; prostaglandinici E2 (la cui attivazione riduce la soglia d’apertura in vari tipi di canali del Na+); adrenergici (specie α1, ma anche α2 ed imidazolinici I2, descritti nelle terminazioni centrali delle fibre C). La maggior parte delle fibre C è dotata di espansioni rotondeggianti che contengono neuropeptidi (soprattutto SP) sotto forma vescicolare. Essi possono essere rilasciati per esocitosi non solo nel midollo, potenziando la
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«transient receptor proteins» responsabili dell’ingresso “capacitativo” del Ca 2+, tutte dotate di 3-4 sequenze di ankirina ed operanti attraverso l’attivazione di PLC (DAG/IP3).
Funzioni sensitive trasmissione sinaptica glutammatergica dei segnali dolorosi, ma anche in periferia, ove innescano risposte difensive flogistiche asettiche attraverso un meccanismo asinaptico di “trasmissione di volume”. L’esocitosi periferica di SP conseguente ad intensa e prolungata scarica di fibre C causa una complessa cascata di eventi: permeabilizzazione vascolare, attivazione della chemotassi neutrofila e macrofagica con rapida espressione di nitrossido, attivazione mastocitaria con liberazione di istamina, attivazione di terminazioni di altre fibre C. Nella cute, questa reazione è inizialmente localizzata, ma tende poi ad estendersi, sia per diffusione di SP, che per invasione antidromica di tutte le altre diramazioni terminali quiescenti dell’assone C attivato in uno dei suoi rami, con il risultato di un’ulteriore rilascio di SP nel tessuto. Nella cute, il fenomeno è descritto come “axon flare” o “riflesso assonico antidromico”, e si rivela con arrossamento, aumento di temperatura, iperalgesia ed edema attorno all’area lesa. Nei tessuti profondi, specie in corrispondenza dei vasi, l’insieme di questi eventi causa edema della parete e vasoparalisi, fenomeni alla base della cefalea vasomotoria (v. pag. 000).
L’attivazione dei nocicettori C, normalmente silenti, produce differenti qualità di dolore in rapporto all’intensità, al tipo di stimolo ed al tessuto in cui esso è applicato, ad esempio: nella cute, dolore urente o sordo; nei muscoli, lancinante e crampiforme; nei visceri, dapprima sensazioni tensive con nausea, quindi dolore sordo, gravativo, diffuso, infine costrittivo (angina), lacerante (aneurisma aortico), urente (gastro-esofageo, vescicale ed uretrale), trafittivo (colica renale ed epatica) (v. pag. 101). Per concludere, sembrerebbe ingiusto lasciare l’impressione che sia essenzialmente l’estrema periferia, con la sua vasta e complessa dotazione di sistemi nocifensivi, il principale o unico responsabile del fenomeno “dolore”. Tralasciando il dettaglio che questo imponente armamentario algogeno è in realtà espresso dall’intero neurone sensitivo di 1° ordine in tutte le sue propaggini, periferiche e centrali, a monte di esso esistono approntati altrettanti meccanismi di modulazione dei messaggi dolorosi, uno
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dei quali rappresentato da DREAM, repressore del gene codificante per la prodinorfina/proteina C-fos. DREAM frena il controllo dinorfinico k-oppioide nel midollo spinale: in caso di DREAM (– / –), l’aumento di precursore/oppioide endogeno diventa talmente critico da bloccare le risposte spinali comportamentali ad ogni tipo di dolore, somatico e viscerale (Cheng et al., 2002; Costigan e Woolf, 2002; Craig et al., 2002). Ignoriamo ancora quanti altri meccanismi analoghi esistano, e come possano essere spontaneamente o farmacologicamente modulati per prevenire il dolore inutile.
Vie sensitive afferenti Le vie sensitive periferiche sono costituite dal ramo centrifugo dei neuroni pseudo-unipolari a T dei gangli delle radici dorsali o dei gangli sensitivi craniali di 1° ordine. Comprendono assoni mielinici con diametro e velocità di conduzione ampiamente distribuiti, e da un’assoluta maggioranza (70%) di assoni amielinici C (Tab. 3.2). Il ramo radicolare centripeto, usualmente di calibro inferiore (soprattutto nelle fibre C) decorre nelle radici dorsali che penetrano nel solco dorsolaterale nel midollo. Ogni neurone ganglionare rappresenta un’unità somestesica di 1° ordine (Fig. 3.2). Il successivo destino delle afferenze sentive dal corpo è affidato a due distinti sistemi ascendenti: il sistema lemniscale (o delle colonne dorsali- lemnisco mediale) ed il sistema spinotalamico. Le afferenze sensitive dal volto sono affidate in maniera analoga al sistema trigeminale. Le afferenze tattili superficiali Aβ terminano nella III-IV lamina di Rexed del corno posteriore. Le afferenze termiche mieliniche Aδ (freddo) e C (caldo) terminano esclusivamente nella zona marginale di Waldeyer (lamina I di Rexed), come dimostrato dalla distribuzione dell’immunoreattività per la calbindina. La maggior parte delle afferenze dolorifiche (Aδ-C) attraversano e innervano omolateralmente la zona marginale di Waldeyer (lamina I)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
e terminano in massima parte nella sostanza gelatinosa di Rolando (lamina II esterna ed interna, come dimostrato per alcune sottopopolazioni ricche di tiammina-monofosfatasi) ed anche nella lamina V. Un altro contingente di fibre penetra più ventralmente, innervando la porzione mediale delle corna anteriori (lamina VIII) ed il grigio centrale (lamina X) (Fig. 3.2).
Colonne Dorsali - Sistema lemniscale S. Tattile epicritica, vibratoria, profonda S. dolorifica lenta Aδ-C Aδ
Le terminazioni sinaptiche delle fibre C, normalmente silenti, sotto scarica intensa rilasciano oltre a glutammato anche SP ed altri neuropeptidi, alcuni dei quali, come la SP, amplificano grandemente l’azione eccitatoria di quest’ultimo. Ciò comporta l’innesco della cascata di eventi pre- e postsinaptici responsabile del potenziamento a lungo termine della trasmissione sinaptica. Questo fenomeno, noto per la sua importanza nei processi di memorizzazione, appare in gran misura responsabile del dolore cronico postlesionale, ad es. postoperatorio, che può essere prevenuto - o grandemente attenuato - dal blocco anestetico completo delle afferenze nocicettive periferiche prima dell’intervento (anestesia tronculare, epidurale, spinale).
S. dolorifica lenta
Aα-β Aβ
Sistema lemniscale S. tattile superficiale
F. Spinotalamico dorsolaterale S. termica S. dolorifica rapida
F. Spinotalamico ventromediale
Fig. 3.2 - Decorso e terminazione nelle corna posteriori degli assoni di 1° ordine termici, dolorifici e tattili (modificata da Wall e Melzack, 1989). Notare che le colonne dorsali trasportano, oltre ad afferenze tattili epicritiche e profonde (A), anche afferenze dolorifiche viscerali (E). La sensibilità dolorifica somatica lenta è trasportata sia dalla via paleospinotalamica (X) che dal fascio neo-spinotalamico dorsolaterale, che convoglia nella sua porzione più dorsale anche la sensibilità termica. La sensibilità tattile superficiale è trasportata dal fascio spinotalamico ventrolaterale (B). Abbreviazioni: I-II-III-IV-V-VI, X= lamine di Rexed; X= area della sostanza grigia periependimale (in grigio).
I rami centripeti dei neuroni ganglionati a T di I° ordine sono eccitatori e rilasciano glutammato. Le rispettive terminazioni sinaptiche intraspinali esprimono numerosi tipi di recettori, principalmente glutammatergici non-NMDA (AMPA-Kainato), GABAA-B, oppioidi e serotoninergici, che appaiono coinvolti in complessi fenomeni di modulazione presinaptica (depolarizzazione GABAA mediata a causa di un gradiente del Cl- invertito, con conseguente minor ampiezza del potenziale d’azione e minore rilascio di neurotrasmettitore; iperpolarizzazione con inibizione dell’esocitosi per attivazione dei 5-HT e dei µ-recettori oppioidi).
Il sistema lemniscale, o via spinobulbotalamica, è stato probabilmente il sistema afferente sensitivo più indagato nel passato (Norton e Kruger, 1973). Infatti, è costituito da fasci ben localizzati di fibre relativamente omogenee e ad elevata velocità di conduzione e da strutture nucleari e rappresentazioni corticali ben definite, agevolmente indagabili sia nell’animale che nell’uomo mediante tecniche elettrofisiologiche. Il sistema lemniscale utilizza le colonne dorsali del midollo spinale quale primo tratto di transito delle informazioni inviate da tutte le classi di meccanocettori cutanei e profondi, e di parte consistente delle informazioni nocicettive viscerali omolaterali, ed il lemnisco mediale come secondo tratto crociato per il loro trasferimento al talamo sensitivo controlaterale. Esso è il principale responsabile dei processi di elaborazione sottocorticale della sensibilità tattile a carattere esplorativo-cognitivo (epicritica, localizzatoria, complessa), integrando afferenze tattili superficiali con afferenze profonde a carattere propriocettivo. Anatomicamente, le afferenze di 1° ordine coinvolte in queste sensibilità penetrano nel midollo attraverso la porzione mediale della radice dorsale, quindi entrano a fare parte, direttamente o indirettamente, del sistema delle
Funzioni sensitive
colonne dorsali. Queste sono infatti formate da due contingenti di fibre, rispettivamente di 1° e 2° ordine. parte mediale della radice dorsale f. gracile f. cuneato tratto di Lissauer parte laterale della radice dorsale cellule sost. gelatinosa di Rolando e cellule funicolari dorsali
f. spino-talamico dorso-laterale f. spino-talamico ventrale
A
Parietale ascendente
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1.– Fibre ascendenti di 1° ordine. Rappresentano il principale contingente ascendente dorsale, e corrispondono al ramo principale delle fibre radicolari Aβ meccano-propriocettive, che una volta raggiunta la colonna dorsale omolaterale (e solo in minima misura quella controlaterale) forniscono collaterali alle corna posteriori ed ai metameri sottostanti. Ad ogni metamero, le fibre che entrano nelle colonne dorsali tendono a sospingere medialmente quelle ascese dai metameri sottostanti. Esiste quindi una precisa disposizione somatotopica in senso mediolaterale secondo l’ordine: fibre sacrali, lombari, toraciche e cervicali (Fig. 3.3, 3.4 e 3.5), riscontrabile anche nelle successive proiezioni lemniscali. A livello cervico-toracico i contingenti a provenienza sacrale, lombare e toracica inferiore sono ragguppati in un fascio mediale, il fascicolo gracile di Goll, lateralmente separato tramite un sepimento gliale sagittale dai contingenti più laterali a provenienza toracica superiore e cervicale, costituenti il fascicolo cuneato di Burdach. Raggiunta la porzione dorsomediale del bulbo, le fibre terminano nei rispettivi nuclei (mediale di Goll e laterale di Burdach), da cui originano assoni di 2° ordine (fibre arcuate interne a decorso ventromediale) che si incrociano e decorrono come lemnisco mediale in un’area triangolare paramediana situata dorsalmente al fascio piramidale.
Talamo (VPL)
Ponte
1 2 midollo cervicale
S L T C
fasci di Goll e Burdach 1
midollo lombare
S
midollo sacrale
L
T C
CTL
fascio piramidale
B Fig. 3.3 - A. Schema delle modalità di entrata e divisione della radice dorsale nel midollo: la porzione mediale della radice forma direttamente i fasci gracile e cuneato; una parte della porzione mediale e la porzione laterale innervano i neuroni di 2° ordine da cui originano i fasci spinotalamici. B. Schema del decorso delle vie spinotalamiche: 1. fascio spinotalamico ventromediale (sensibilità tattile); 2. fascio spinotalamico dorsolaterale (sensibilità termo-dolorifica); S.L.T.C.: disposizione somatotopica nel fascio spinotalamico (S: fibre sacrali; L: fibre lombari; T: fibre toraciche; C: fibre cervicali).
C T L S
fascio spino-talamico
Fig. 3.4 - Disposizione somatotopica delle fibre della colonna dorsale, opposta a quelle del fascio piramidale e del fascio spinotalamico, fra loro simili (C: cervicale; T: toracico; L: lombare; S: sacrale)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Parietale ascendente
2.– Fibre ascendenti di 2° ordine. Costituiscono tre contingenti minoritari a funzione specializzata, che originano da gruppi neuronali midollari innervati da specifiche afferenze sensitive.
Talamo (VPL)
Ponte
3 4 Bulbo
5 2 C8 1 S1
Fig. 3.5 - Schema delle vie della sensibilità profonda e della sensibilità tattile discriminativa. 1: Fibre del fascicolo gracile; 2: fibre del fascicolo cuneato; 3: nucleo gracile; 4: nucleo cuneato; 5: lemnisco mediale.
In entrambi i fasci, l’arrangiamento somatotopico è simboleggiato da una figura umana semieretta, con le proiezioni relative al volto disposte più medialmente, e quelle sacrali lateralmente. Tale disposizione si accentua nel ponte e nel mesencefalo, ove il lemnisco mediale si lateralizza nelle regioni dorsali avvicinandosi gradualmente al fascio spinotalamico (lemnisco spinale). Nel diencefalo, i due contingenti lemniscali progressivamente si confondono e si distribuiscono senza embricarsi al complesso ventrobasale del talamo (nucleo ventroposterolaterale o VPL). Dal VPL originano assoni di 3° ordine che dapprima attraversano compattamente il terzo posteriore del braccio posteriore della capsula interna, quindi ascendono nella corona radiata come radiazioni talamiche, ed infine terminano nella corteccia parietale sensitiva (IV strato di S1, circonvoluzione parietale ascendente) (Fig. 3.3, B e 3.4).
a) Le afferenze propriocettive dai fusi neuromuscolari (Ia-II) ed organi muscolo-tendinei (Ib) dirette alle corna anteriori ed altre afferenze meccanocettive dalle articolazioni e dalla cute, raggiunta la base del corno posteriore (lamina VI-VIII), innervano direttamente o tramite collaterali il nucleo dorsale (o colonna di Clarke) da cui origina il fascio spinocerebellare dorsale (diretto o omolaterale). All’istmo cervico-bulbare, questo fascio entra nel peduncolo cerebellare inferiore emettendo rami ascendenti che raggiungono il cosiddetto nucleo Z, situato rostralmente rispetto ai nuclei di Goll e di Burdach. Le proiezioni di 3° ordine del nucleo Z entrano infine a far parte del lemnisco mediale. b) Parte delle afferenze sensitive cervicali di 1° ordine, provenienti soprattutto dalla mano, è destinata a neuroni della lamina IV del corno posteriore, dotati di campo recettivo tattile ed anche dolorifico. Le rispettive proiezioni di 2° ordine risalgono omolateralmente nella parte più dorsale della colonna laterale fino a raggiungere il nucleo cervicale laterale (situato nei metameri C1-C2, lateralmente e caudalmente rispetto al nucleo del fascicolo cuneato). Le proiezioni di questo nucleo seguono lo stesso destino della via lemniscale, costituendo quella che è nota come via spinocervicotalamica. La via è presente nei mammiferi ed anche nell’uomo, ed appare di potenziale rilevanza nell’elaborazione delle informazioni stereoestesiche (Weidenfeld et al., 1988). c) Un terzo contingente di afferenze sensitive di 1° ordine è costituito da fibre C a funzione nocicettiva viscerale. Esse originano da piccoli somi a T dei gangli dorsali, che innervano sensitivamente gli organi della cavità pelvica ed addominale, ed il cui ramo centripeto decorre nella radice dorsale frammisto alle altre afferenze somestesiche. Parte rilevante di queste afferenze termina su specifici neuroni della sostanza grigia periependimale (lamina X), i cui assoni di 2° ordine entrano a far parte della colonna dorsale omolaterale decorrendo in due sottili fasci laminari sagittali, uno estremamente mediale al confine con la scissura intermedia (afferenze sacrali), l’altro lateralmente adiacente al sepimento intermedio che divide il fascio di Goll dal fascio di Burdach (afferenze mediotoraciche) (Fig. 3.2).
Funzioni sensitive
I due fasci laminari terminano infine negli stessi nuclei di Goll e di Burdach, e le informazioni viscerali che trasportano seguono lo stesso destino delle altre informazioni lemniscali, raggiungendo il nucleo VPL del talamo, e da esso la corteccia sensitiva. È quasi certo che la piuttosto grossolana somatotopia di questa via non contempli chiare distinzioni di lato, inutili essendo la maggior parte dei visceri impari, e ciò sembra documentato dal massiccio effetto antalgico prodotto da lesioni circoscritte cordonali, che necessariamente devono essere bilaterali per sopprimere il dolore cronico intrattabile di genesi neoplastica (Willis et al., 1999). La restante parte innerva lamine profonde, le cui proiezioni di 2° ordine entrano a far parte del fascio spinotalamico.
Sistema spinotalamico Convoglia la sensibilità termica e dolorifica del corpo, parte della sensibilità tattile superficiale indiscriminata e parte della sensibilità dolorifica viscerale, ed è attivato da afferenze AβAδ-C che decorrono nella porzione laterale delle radici dorsali. È formato da proiezioni crociate di 2° ordine dirette al talamo sensitivo e da proiezioni mono e multisinaptiche ascendenti al tronco dell’encefalo. L’organizzazione sinaptica intramidollare è più complessa e le vie di proiezione meno definite rispetto al sistema lemniscale. 1.– Proiezioni spinotalamiche di 2° ordine. Indicate anche come via neospinotalamica, originano da preferenziali lamine del corno posteriore del midollo, s’incrociano nella commissura bianca ventrale ed ascendono nel quadrante ventrale controlaterale del midollo come fascio spinotalamico (Fig. 3.2, 3.3, 3.4 e 3.5). Esso comprende una porzione dorsolaterale, convogliante la sensibilità termica e dolorifica dell’emisoma controlaterale, che si estende obliqua-
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mente in una porzione ventromediale (o anteromediale), convogliante informazioni dolorifiche ed anche tattili non discriminative prevalentemente dall’emisoma controlaterale (83% crociate, 17% dirette). Poiché le fibre che s’incrociano tendono a sospingere lateralmente quelle già crociate ascendenti dai metameri sottostanti, il fascio spinotalamico risulta somatotopicamente arrangiato in maniera analoga al fascio corticospinale ed in maniera opposta alle colonne dorsali, secondo il seguente ordine medio-laterale: cervicale, toracico, lombare e sacrale. Sul piano funzionale, la maggior parte delle unità spinotalamiche risponde a stimoli meccanonocicettivi, ed una larga parte anche termonocicettivi; molte unità, inoltre, rispondono anche a stimoli tattili innocui, ed alcune quasi preferenzialmente ad essi. Esistono infine unità attivate dalla stimolazione dei muscoli, delle articolazioni e dei visceri. Nel tronco dell’encefalo, il fascio spinotalamico (denominato anche lemnisco spinale) decorre lateralmente all’oliva inferiore, e nel tratto ponto-mesencefalico fiancheggia dorsalmente il lemnisco mediale prima di terminare con esso, senza sovrapposizione, nel talamo sensitivo.
Il contingente (o fascio) spinotalamico dorsale, originato dalle lamine più superficiali del corno posteriore, convoglia le afferenze sensitive a campo recettivo ristretto ai nuclei talamici specifici VPL (dolorifiche ed in una certa misura anche tattili) ed al nucleo ventrale posteriore VP (in particolare, alla porzione ventrale mediale postero-orale o VMpo) (termiche). Tale contingente permette la percezione somatotopica e discriminativa del dolore e della temperatura cutanei. Il contingente (o fascio) spinotalamico ventrale, originato dalle lamine più profonde, convoglia prevalentemente le afferenze multimodali a campo recettivo vasto (spesso esteso all’intero emivolto o all’emisoma controlaterale), e si distribuisce anche al talamo mediale, specie ai nuclei centrale laterale, centromediano e parafascicolare (Fig. 3.3 B), che ricevono anche le informazioni spinotalamiche viscerali. La
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sensibilità tattile e dolorifica superficiale convogliata da tale contingente è quindi poco precisa e localizzata, e si presta inoltre ad errori interpretativi («dolore riferito»). 2.– Proiezioni ascendenti mono e multisinaptiche extratalamiche. Indicate anche come via paleospinotalamica, originano dalle lamine di Rexed profonde (Fig. 3.2), decorrono più medialmente e si distribuiscono in gran parte alla formazione reticolare troncoencefalica connessa ai nuclei talamici mediani aspecifici a proiezione diffusa. Esse comprendono: a) proiezioni al tronco dell’encefalo: tratto spinomesencefalico, dalle lamine I e IV-V a vari nuclei del tetto mesencefalico, al grigio periacqueduttale (PAG) ed al nucleo cuneiforme; tratto spinoreticolare, formato da proiezioni delle lamine VII-VIII-X e da collaterali spinotalamiche dirette a molti nuclei reticolari troncoencefalici, quali laterale e para-gigantocellulare del bulbo, reticolare caudale e dorsale del ponte, locus subcoeruleus e coeruleus, nucleo di Kölliker-Fuse e parabrachiale del passaggio ponto-mesencefalico. Queste vie sembrano principalmente responsabili dell’attivazione di risposte avversive e dei meccanismi di controllo discendente endogeno del dolore, dei meccanismi risveglianti e di orientamento, e dei meccanismi di adattamento omeostatico vegetativo. b) proiezioni limbiche: multisinaptiche (via spinoreticolo-talamo-limbica); monosinaptiche, proiettanti dalle stesse aree spinali all’ipotalamo mediale e laterale ed al nucleo centrale dell’amigdala. Queste ultime vie sono essenzialmente coinvolte nelle risposte neuroendocrine e nell’elaborazione emotivo-affettiva del dolore cronico.
Secondo un’idea ormai consolidata (Bishop, 1959) il “cuore” reticolare midollare (grigio periependimale) rappresenterebbe il punto di partenza della via paleo-spinotalamica, ascendente tramite connessioni multisinaptiche fino al diencefalo (complesso nucleare posteriore e nuclei talamici mediani a proiezione diffusa) e responsabile del dolore diffuso, persistente ed a forte impatto sulla sfera emozionale.
Nel corso dell’evoluzione, si sarebbe poi gradualmente sviluppata la via neo-spinotalamica (dorsolaterale ed ventromediale), responsabile soprattutto degli aspetti immediati, qualitativi e localizzatori della percezione dolorosa. Tale distinzione è ancor oggi molto usata perché è indubbiamente comoda a scopo didattico, anche se, come si è visto, nel fascio spinotalamico dorsolaterale decorrono anche proiezioni dal grigio centrale, ed emerga sempre più chiaramente che le lamine I-II-V da cui origina sono coinvolte in quella serie di fenomeni plastici che caratterizzano l’insorgenza dei dolori cronici più comuni (post-lesionali). Essa, tuttavia, dovrebbe essere ridiscussa, per il fatto che in alcune specie di una stessa classe la via paleo-spinotalamica è assente, mentre in altre specie è ben rappresentato (Kevetter e Willis, 1984).
Le sensibilità trasportate dal sistema spinotalamico (termica, dolorifica, tattile e viscerale) presentano aspetti peculiari. Sensibilità termica.– Utilizza una distinta via ricca di calbindina e di neuropeptide CGRP, immunocitochimicamente mappata sia nel primate che nell’uomo (Blomqvist et al., 2000). Le afferenze termoestesiche di 1° ordine terminano nella lamina I - lamina II esterna delle corna posteriori. Da queste lamine originano proiezioni termoestesiche di 2° ordine che s’incrociano nella commissura bianca anteriore e raggiungono alcuni metameri sopra la porzione più dorsale del fascio spinotalamico dorsolaterale, distribuendosi infine al nucleo VM (ventralis medialis) del talamo (e, più specificatamente alla porzione posterooralis del VMpo e in minor misura ad altre aree del nucleo ventrale posteriore). Da qui originano proiezioni massive verso l’area immediatamente retro-gustativa della corteccia dell’insula omolaterale, ove qualità termiche e gustative degli alimenti possono facilmente integrarsi ed assumere, grazie alle connessioni con la corteccia limbica, significato emotivo (Blomqvist et al., 2000). La particolare convergenza nei nuclei VMpo e PO di afferenze dolorifiche, termiche (in misura notevole da mano e regione bucco-labiale) e vegetative vagali (dal nucleo del tratto solitario e parabrachiale) spiega perché nell’uomo la microstimolazione di quest’area causi un insieme di intense sensazioni termiche, dolorose e viscerali, e la sua lesione focale (così come quella della corteccia insulare innervata dagli stessi nuclei) produca un’ipoestesia termodolorifica a predilezione cheiro-orale preludente alla comparsa nelle stesse sedi di dolore centrale (v. pag. 560).
Funzioni sensitive Sensibilità dolorifica.– Le vie centrali della sensibilità dolorifica sono anatomicamente le vie sensitive più complesse in assoluto, specie a livello intraspinale (Willis e Westlund, 1997). Come è stato già detto, le informazioni nocicettive sono convogliate da fibre Aδ e C del nervo spinale7. Queste fibre in gran parte terminano nelle lamine di Rexed più superficiali (soprattutto lamina I e II), ed innervano non solo i neuroni spinotalamici di 2° ordine (lamina II esterna), ma anche numerosi interneuroni della sostanza gelatinosa di Rolando (lamina II). In questa ristretta area, i fenomeni di inibizione laterale sono meno marcati rispetto al sistema lemniscale, ma esistono importanti interazioni segmentali multimodali sia fra afferenze tattili/propriocettive ed afferenze dolorifiche, che fra afferenze tattili e viscerali (vedi fenomeno del «dolore riferito», pag. 99). Il quadro è reso ancora più complesso dalla commistione di un’innervazione discendente deputata al controllo endogeno del dolore (Fig. 3.7). Le proiezioni spinotalamiche sono inoltre multiple: i nuclei talamici specifici, localmente modulati con meccanismo a feed-back negativo dal nucleo reticolare del talamo, trasferiscono in modo rapido e somatotopicamente organizzato le informazioni spinotalamiche alla corteccia sensitiva primaria (S1); i nuclei talamici mediani a proiezione diffusa, attivati da afferenze dolorifiche spinotalamiche multisinaptiche, mantengono in allerta l’intera corteccia circa la presenza di un “danno” periferico. Sensibilità tattile.– Riguarda principalmente le informazioni tattili provenienti da recettori cutanei ad adattamento lento e campo recettivo vasto, che di per sé sono in grado di fornire soltanto sensazioni di pressione o di toccamento diffuso e poco localizzato. Queste afferenze, entrate nel corrispondente metamero, emettono collaterali che raggiungono verticalmente alcuni metameri sopra- e sottostanti (2-6), ed infine terminano sui neuroni del nucleo proprio del corno posteriore (III e soprattutto IV-V lamine di Rexed). Questi ultimi inviano proiezioni di 2° ordine che s’incrociano nella commissura anteriore, raccogliendosi nella porzione ventromediale (o anteroventrale) del fascio spinotalamico, adiacente alle emergenze radicolari anteriori (Fig. 3.3, A). Anche in questo caso, un modesto contingente ascende direttamente senza incrociarsi. L’importanza delle informazioni spinotalamiche nella funzione tattile non è stata mai chiaramente appurata. Evidenze indirette, derivanti da sezione dell’intero fascio (trattotomia antero-laterale usata in passato per alleviare
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Esse comprendono anche fibre amieliniche C che provvedono all’innervazione dolorifica delle radici anteriori, della dura madre ventrale e dei relativi vasi (Groen et al., 1988).
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il dolore neoplastico cronico), o viceversa, da lesione massiva delle colonne dorsali, permettono tuttavia di attribuire le qualità somatotopiche, discriminative e direzionali degli stimoli tattili al sistema lemniscale, mentre le altre qualità più grossolane sono in gran parte condivise. Sensibilità viscerale.– Le afferenze viscerali sono in massima parte rappresentate da fibre amieliniche C, ma anche da piccole fibre mieliniche Aδ ( provenienti ad es. dal cuore o dai reni), a funzione nocicettiva viscerale dominante, ma non è chiaro quante di esse si prestino anche al trasporto di informazioni “meccaniche” o “termiche” a carattere non doloroso. Nel midollo, queste afferenze utilizzano almeno due percorsi per giungere al talamo: il sistema colonne dorsali-lemnisco mediale già descritto (v. pag. 94) ed il sistema spinotalamico. Il contingente spinotalamico viscerale nasce da gruppi di neuroni delle lamine III-IV-V immediatamente adiacenti, in senso rostrocaudale, a gruppi di neuroni spinotalamici a dominante attivazione tattile dalle porzioni distali di un arto (Hobbs et al., 1992). Il significato di questa dualità (lemniscale e spinotalamica) nel trasporto del dolore viscerale è ancora incerto. Entrambe le vie, tuttavia, mantengono stretti rapporti di contiguità con la via tattile e ne condividono le stazioni sinaptiche. Ciò si presta ad ulteriori speculazioni sui fenomeni di dolore «riferito», usualmente attribuiti alla «convergenza» su di uno stesso neurone spinale di afferenze cutanee, muscolari e viscerali dai corrispondente territori periferici. La percezione del dolore riferito potrebbe infatti non dipendere solo da questa convergenza spinale, ma anche da meccanismi d’integrazione sensitiva occorrenti a livello superiore, ad es. nei nuclei specifici bulbari e talamici del sistema lemniscale. Diventa più chiaro, quindi, perché la stimolazione intensa di un viscere, soprattutto se ripetuta più volte, provochi un dolore riferito a cute e muscoli grossolanamente sovrastanti e non accada mai il processo inverso. Essendo la corteccia parietale caratterizzata da una dominante e ben definita rappresentazione della sensibilità cutanea, peraltro rintracciabile anche nel talamo sottostante, questa potrebbe sempre essere utilizzata all’occorrenza ed in condizioni estreme, per dar voce ad una rappresentazione viscerale di per sé molto modesta.
Nel sistema spinotalamico, le seguenti peculiarità neuroanatomiche appaiono di particolare rilevanza clinica: 1.- l’arrangiamento somatotopico delle fibre, con gradiente in senso medio-laterale cervicotoraco-lombo-sacrale (Fig. 3.4). Questa dispo-
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sizione spiega perché le lesioni intramidollari centrali, tipicamente la siringomielia, causino anestesie “sospese” caratterizzate da dissociazione “termodolorifica” delle sensibilità, ovvero anestesia termodolorifica con conservazione della sensibilità tattile. Infatti, l’espansione centrale della cavità siringomielica tende a comprimere le fibre che stanno attraversando la commessura bianca anteriore per portarsi al fascio spino-talamico dorso-laterale e a danneggiare simultaneamente il contingente spinoreticolare. L’anestesia termodolorifica è globale (il malato non s’accorge né del dolore immediato, né di quello tardivo secondario a lesioni cutanee accidentali, ad es. bruciature), ha un carattere tipicamente «sospeso» (solo le fibre che s’incrociano sono lese, mentre sono risparmiate sia quelle dei metameri sottostanti, ormai decussate e lateralizzate, sia quelle sovrastanti la lesione) ed è bilaterale, ma spesso asimmetrica. Eccezioni che confermano la regola sono rappresentate dall’ipoestesia termodolorifica isolata controlaterale con livello metamerico, causata da un tumore extramidollare che comprime dall’esterno il fascio spinotalamico dorsolaterale. 2.- la biforcazione verticale degli assoni termodolorifici nel tratto di Lissauer, con innervazione metamerica multipla delle lamine di Rexed I-II sopra- e sottostanti. Ciò potrebbe spiegare l’iperestesia, l’iperalgesia e l’allodinia osservabili nei dermatomeri immediatamente sovrastanti un metamero midollare leso (v. pag. 102) 3.- l’incrociamento in salita degli assoni spinotalamici di 2° ordine, il cui ingresso nel fascio spinotalamico si completa uno o più metameri al di sopra della loro origine, con discrepanze di un metamero nel tratto medio-toracico e di due - cinque metameri nel tratto cervicale. Ciò spiega perché la sindrome da emisezione midollare trasversa di Brown-Séquard (v. pag. 468) comporti omolateralmente una sottile fascia di anestesia superficiale “sospesa” (per distruzione dei neuroni spinotalamici) e controla-
teralmente, un’anestesia termodolorifica con margine superiore situato alcuni metameri al di sotto di quello leso (per interruzione dei contingenti spino-talamici ascendenti già decussati e lateralizzati). SISTEMA TRIGEMINALE La sensibilità superficiale del viso (Fig. 3.6), delle mucose del naso, di parte della cavità orale e della cornea è convogliata dai recettori cutanei e mucosi innervati dal nervo trigemino (V). I neuroni ganglionari a T di 1° ordine relativi a queste sensibilità sono contenuti nel ganglio semilunare di Gasser, che giace nel cavo di Meckel ed è rivestito dalla dura madre della base cranica. I rispettivi rami assonali centrifughi formano tre distinti nervi, l’oftalmico, il mascellare ed il mandibolare destinati alla faccia, mentre in prolungamenti centripeti si raccolgono in un unico tronco, la radice principale del V. Raggiunta la porzione dor-
Talamo VPM
Lemnisco trigeminale
Radice ascendente del V° Branca oftalmica Branca mandibolare Branca mascellare Nucleo sensitivo principale del V°
Radice discendente del V°
Fig. 3.6 - Schema del decorso delle vie trigeminali e del lemnisco trigeminale.
Funzioni sensitive
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solaterale del ponte, un certo contingente assonale si distribuisce al nucleo sensitivo principale pontino del V, mentre gli altri discendono caudalmente nella porzione più latero-esterna del bulbo, raggiungendo i primi segmenti cervicali come radice discendente. Quest’ultima avvolge dall’esterno ed innerva in maniera somatotopicamente arrangiata il corrispettivo nucleo (nucleo della radice discendente del V), costituito in senso cranio-caudale da vari sub-nuclei specializzati. Il nucleo principale pontino è essenzialmente preposto alla trasmissione della sensibilità tattile, il nucleo della radice discendente alla sensibilità termodolorifica. Gli assoni di 2° ordine, originati dal nucleo principale e dal nucleo della radice discendente, s’incrociano ed ascendono in due contingenti globalmente denominati lemnisco trigeminale fino a raggiungere il nucleo ventro-postero-mediale (VPM) del talamo, e, limitatamente alla sensibilità termica e dolorifica, i nuclei VMpo e parafascicolare. Le proiezioni di 3° ordine del VPM decorrono assieme alle altre proiezioni talamocorticali sensitive nella capsula interna e corona radiata per raggiungere infine la circonvoluzione parietale ascendente (corteccia post-centrale). I rami assonali centrifughi propriocettivi, innervanti i muscoli facciali e masticatori, decorrono nel ganglio di Gasser e nella radice principale del V, quindi, una volta penetrati nel ponte, ascendono fino ai rispettivi somi d’origine, situati nel nucleo mesencefalico del V. Questa rappresenta un’eccezione piuttosto unica, riscontrabile soltanto nel sistema trigeminale, che va sottolineata: il soma del neurone propriocettivo a T non risiede nel ganglio di Gasser, ma in una colonna nucleare dorsale subependimale mesencefalo-pontina. I rami centripeti di questi neuroni trigeminali proiettano principalmente al nucleo motore del V (pontino), ma anche a molte altre stutture troncoencefaliche ed al cervelletto.
– le vie sono in massima parte crociate, per cui le informazioni sensitive provenienti da un emisoma sono convogliate all’emisfero opposto; – le vie sono somatotopicamente organizzate, dotate in ogni stazione sinaptica di circuiti locali di potenziamento del rapporto segnale/ rumore, e di meccanismi segmentali e sovrasegmentali di controllo; – in larga misura, anche sul piano anatomico, le diverse modalità sensitive si mantengono separate. Il sistema lemniscale conduce la maggior parte delle informazioni tattili epicritiche e propriocettive muscolo-scheletriche, e parte delle informazioni nocicettive viscerali. Il sistema spinotalamico trasporta le informazioni termiche, le informazioni dolorifiche superficiali e profonde, e parte delle informazioni tattili cutanee e nocicettive viscerali. L’integrazione talamica delle varie afferenze sensitive permette la percezione immediata e la localizzazione spaziale precisa degli stimoli, la loro identificazione qualitativa (nucleo VPL), la percezione del dolore tardivo conseguente a stimoli lesivi (nuclei talamici posteriori, corteccia retro-insulare) e la risposta emozionale a questo tipo di dolore (nuclei talamici intralaminari, corteccia cingolata anteriore).
In sintesi, le principali caratteristiche anatomiche delle vie somatosensitive possono essere così riassunte:
Alterazioni della sensibilità soggettiva (Sintomi sensitivi positivi)
– la via somatosensitiva è costituita in massima parte da tre ordini di neuroni ascendenti: a) 1° ordine, con soma nei gangli dorsali o nei corrispondenti gangli dei nervi cranici sensitivi (V-IX-X); b) 2° ordine, con soma situato nel bulbo (sistema lemniscale) o nella sostanza grigia del midollo (sistema spinotalamico); c) 3° ordine, con soma situato nel talamo sensitivo (principalmente nucleo VPL);
IL DOLORE Per la corretta comprensione dei fenomeni clinici e fisiopatologici relativi al dolore è indispensabile premettere le definizioni di alcuni termini (Merskey e Bogduk, 1994): – Dolore: esperienza sensoriale ed emozionale sgradevole, associata a danno tissutale reale o potenziale, o comunque descritta in tal senso.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
– Disestesia: sensazione spiacevole o anche dolorosa abnorme che colora parestesie spontanee o evocate (vedi oltre). Disestesia è quindi un termine piuttosto generico, riferibile ad una grande varietà di dolori causati da stimoli periferici o insorgenti spontaneamente. Nella definizione di disestesia occorre porre attenzione all’aggettivo «abnorme»: un dolore con caratteristiche disestesiche è un dolore inusuale, «strano», che il paziente difficilmente ha avvertito in precedenza. Si tratta di dolori a tipo scossa elettrica, urenti, a puntura di spillo, avvertiti sempre nel territorio di innervazione di un nervo o di una o più radici. – Iperestesia: aumentata sensibilità ad uno stimolo. Si usa per indicare in senso generale una diminuzione della soglia ad uno stimolo (tattile, termico, dolorifico), oppure per definire l’aumentata risposta ad uno stimolo che viene riconosciuto normalmente. Casi particolari di iperestesia sono l’allodinia e l’iperalgesia. – Iperalgesia: percezione, sproporzionata in eccesso, di uno stimolo doloroso. Lo stimolo viene quindi qualificato correttamente come doloroso, ma la sua quantificazione in termini di intensità è erronea. – Allodinia: è la percezione di dolore, anche intenso, in risposta a stimoli normalmente non dolorosi, specie tattili. Si tratta quindi di un errore nell’identificazione della qualità dello stimolo. Nella sua genesi è stata invocata la reinnervazione della lamina II, parzialmente deprivata per lesione neuroperiferica di afferenze Aδ-C, da parte di fibre afferenti mieliniche di grosso calibro, o un’ipersensibilizzazione dei neuroni spino-talamici ad ampia dinamica (sensibili cioè a stimoli nocivi e non nocivi), per potenziamento a lungo termine NMDA-mediato. Quest’ultima ipotesi, che si adatterebbe particolarmente ai casi in cui iperalgesia ed allodinia coesistono, trova supporto sperimentale nel fatto che l’allodinia da danno neuroperiferico è preceduta da una marcata e selettiva espressione della subunità α2-delta del canale del Ca2+ voltaggio-dipendente di tipo L nei rispettivi neuroni ganglionari (Luo et al., 2001). Ciò può spiegare l’efficacia antidolorifica
del gabapentin, nuovo farmaco antiepilettico selettivo per tale subunità.
– Alloestesia: è la percezione di dolore superficiale in un’area normoestesica differente da quella ipoestesica stimolata. Può assumere carattere controlaterale, nel qual caso è più correttamente definita allochiria. È attribuita alla conduzione del messaggio nocicettivo attraverso il contingente ascendente omolaterale del tratto spinoreticolare – Iperpatia: è una sindrome caratterizzata da un’aumentata soglia agli stimoli dolorosi, non percepiti come tali sino a quando non raggiungono una data intensità o una data frequenza di ripetizione; successivamente ed improvvisamente, gli stimoli sono percepiti in modo marcatamente esagerato, con forte componente psico-affettiva. Sono presenti anche erronee identificazioni e localizzazioni dello stimolo. In senso generale, il dolore può rappresentare una manifestazione puramente biologica, e segnalare con la sua presenza l’esistenza di un danno tissutale, oppure derivare da un’abnorme elaborazione psico-affettiva di situazioni somatiche ed anche non somatiche, vissute ed interpretate dal soggetto in termini dolorosi. Il dolore psichico, ad es. da separazione o lutto da perdita, può avere componenti somatiche, ma queste rimangono quasi sempre prive di quel particolare contenuto di corporeità che contraddistingue il dolore fisico. Quest’ultimo, in condizioni normali, funge da «campanello di allarme» per avvertire l’individuo che esiste un danno tissutale, o un imminente pericolo di tale danno. A differenza tuttavia dei comuni sistemi di allarme, che possono essere disattivati una volta assolto il loro compito, il dolore causato da danno dei tessuti somatici tende a mantenersi nel tempo e, in caso di danno delle fibre nervose o del SNC centrale, a trasformarsi in un dolore cronico o «dolore inutile».
Funzioni sensitive
A questo proposito, il SNC è dotato di almeno due differenti sistemi di controllo del dolore ben integrati fra loro, uno rapido, basato su meccanismi intraspinali metamerici «teoria del controllo a cancello» (Melzack e Wall, 1965), l’altro più lento, basato su meccanismi riflessi discendenti multisinaptici attivati dallo stesso dolore («controllo endogeno del dolore», Basbaum e Fields, 1978). Le differenze fra i due meccanismi sono numerose, ma quella più saliente è rappresentata dalla differente suscettibilità al naloxone, antagonista oppiode a vasto spettro: il controllo metamerico è naloxone-indipendente, mentre il controllo endogeno è in gran misura naloxone-dipendente (Fig. 3.7). 1.– Teoria del controllo a cancello (Wall, 1989). Si riferisce in senso stretto ai sistemi rapidi di elaborazione e controllo della trasmissione sensitiva intraspinale, e contempla quattro componenti: a) interazione funzionale fra afferenze a conduzione rapida (Aβ) e lenta (Aδ-C), dimostrata dall’inibizione rapida del dolore per stimolazione ripetitiva di fibre Aβ-δ afferenti allo stesso livello metamerico fino al raggiungimento di dolore puntorio (stimolazione periferica transcutanea dell’area algica); b) ricca dotazione di interneuroni nel corno posteriore, specie nelle lamine I-II; c) controllo centrale delle stesse aree da parte di efferenze discendenti (dai metameri spinali più craniali, dai nuclei di Goll e di Burdach, dai nuclei del rafe e locus coeruleus, dal tetto mesencefalico, dall’ipotalamo, dal n. parafascicolare del talamo, dalla corteccia fronto-parietale e da collaterali piramidali, etc.); d) neuroni spinotalamici di proiezione, deputati all’elaborazione sinaptica e trasmissione del messaggio doloroso, suscettibili di modificazioni plastiche (Fig. 3.7). In caso di danni tissutali, soprattutto profondi, la prolungata scarica delle fibre C produce, probabilmente attraverso meccanismi di potenziamento a lungo termine, una diffusa ipereccitabilità dei neuroni spinotalamici, con allargamento dei loro campi recettivi, ed insorgenza di iperalgesia, allodinia e dolore riferito. Se è invece un nervo ad essere colpito (traumi, neuropatie), la degenerazione parziale delle sinapsi afferenti di 1° ordine può causare abnorme ipereccitabilità spinotalamica ed interneuronale per cause presinaptiche (attivazione dei recettori bradichininici B1 delle fibre C IL-B4 positive, normalmente inattivi) e postsinaptiche (neo-assemblamento dei recettori al glutammato in regioni di membrana prive di sinapsi). Questi fenomeni locali possono essere ulteriormente peggiorati dalla formazione di
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Fig. 3.7 - Schema dell’innervazione dei neuroni spinotalamici dolorifici (STn) nelle lamine I-II di Rexed delle corna posteriori del midollo spinale. Notare la dotazione di interneuroni (cellule ad “isola”) eccitatori (in grigio) ed inibitori (in nero), che modulano l’eccitabilità di interneuroni eccitatori effettori (cellule a “stelo”, S). Gli assoni C eccitano i neuroni STn sia direttamente che tramite gli interneuroni a stelo (S), che possono essere inibiti da interneuroni GABAergici e glicinergici (GLY) attivati da una un’intensa scarica degli assoni Aβ–δ (teoria del cancello). Le afferenze algogene spino-mesencefaliche al grigio periacqueduttale (PAG) attivano i nuclei bulbari del rafe magno (NRM) e para-gigantocellulare (NRpg). Questi, tramite il fascio discendente dorso-laterale spinale (FDL), inibiscono direttamente o tramite un interneurone encefalinergico (E) i neuroni STn. Abbreviazioni: 5-HT= serotonina; E= interneurone encefalinergico; FDL = fascio dorso-laterale; GD = ganglio dorsale; GABA = acido γ-amino-butirrico; GLU = glutammato; GLY = glicina; δ-κ-µ = recettori oppioidi; NA = noradrenalina; NRM = n. del rafe magno; NRpg= nucleo paragigantocellulare; PAG = grigio periacqueduttale; TAL = talamo (modificato, da Wall e Melzack, 1989).
efapsi8 periferiche fra terminazioni C neoformate nei tessuti dalle fibre C integre (Fig. 3.7), e da proliferazione abnorme di fibre C ortosimpatiche sia a livello periferico che attorno ai somi dei neuroni ganglionari. Ciò spiegherebbe il fenomeno noto come causalgia, caratterizzato da intenso dolore cronico di tipo neuropatico associato a turbe vegetative periferiche, insensibile alla morfina, ma attenuabile all’arto superiore mediante blocco farmacologico adrenergico (infiltrazioni del ganglio stellato, perfusione locale intra-arteriosa). 8
Il termine efapsi indica un contatto non sinaptico fra due assoni contigui capace di causare la propagazione del un potenziale d’azione da un assone all’altro in senso mono- o bidirezionale (diafonia).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
2.– Controllo endogeno oppioide, serotoninergico e noradrenergico (Fields e Basbaum, 1989) (Fig. 3.7). I principali sistemi discendenti di controllo nascono da specifici nuclei troncoencefalici fra loro connessi, e principalmente, in senso cranio-caudale, sostanza grigia periacquedottale mesencefalica (PAG), nucleo del rafe magno bulbare (NRM) e nucleo para-gigantoreticolare bulbare (NRpg). La stimolazione elettrica della PAG o del NRM provoca potente analgesia naloxone-dipendente per inibizione della trasmissione dolorifica a livello spinale. In condizioni fisiologiche, la PAG può essere attivata dalle afferenze nocicettive che ascendono nel tratto spinomesencefalico. La PAG, a sua volta, invia efferenze discendenti ai neuroni serotoninergici del NRM ed ai neuroni noradrenergici del NRpg, le cui proiezioni discendenti decorrono come sottile fascio dorso-laterale subpiale nella parte più dorsolaterale del midollo e terminano nel corno posteriore in corrispondenza della sostanza gelatinosa di Rolando (lamina II). Sia PAG che sostanza gelatinosa sono densamente dotate di recettori oppioidi (µ, δ, κ), serotoninergici e noradrenergici e sintetizzano intensivamente oppioidi endogeni (leucina- e metionina-enkefalina, β-endorfina, dinorfina, endomorfina). La morfina endogena (endomorfina) ed esogena, così come i suoi analoghi sintetici, sono potenti analgesici che si legano ai recettori oppioidi di queste aree ed esercitano una funzione globalmente inibitoria. Tale azione può essere bloccata da antagonisti esogeni quali ad es. il naloxone, o anche endogeni, quali il peptide CGRP, liberato nelle lamine I-II del midollo dalle afferenze nocicettive C IL-B4 negative. Nelle stesse aree, anche serotonina e noradrenalina esercitano funzione inibitoria tramite specifici recettori.
In condizioni di corretto funzionamento delle vie nervose, i sistemi di controllo delle afferenze nocicettive possono essere talmente efficaci da rendere inavvertito anche un dolore conseguente a gravi traumatismi. Condizioni di stress fisico e particolari atteggiamenti psicologici possono sicuramente mettere in atto sistemi di controllo. Ne sono esempi ben conosciuti le analgesie che si verificano in casi di ferite riportate in combattimento, nel corso di eventi sportivi e in occasione di particolari cerimonie religiose svolte da alcune comunità primitive. In conclusione, la presenza di una percezione dolorifica dipende dalla prevalenza che i sistemi di attivazione nocicettiva hanno su quelli di inibizione, e la assenza di dolore è dovuta alla
condizione inversa. La condizione di «non dolore» è quindi, sempre e comunque, una condizione attiva, collegata al corretto funzionamento del sistema nervoso centrale. È facilmente comprensibile come lesioni del sistema nervoso centrale possano interferire con il corretto equilibrio dei due sistemi e dar luogo a sindromi in cui il dolore viene avvertito anche in completa assenza di stimoli esterni. Si tratta del dolore patologico, che ha perso il significato di «campanello d’allarme». Il dolore è caratterizzato da qualità, intensità, localizzazione spaziale e temporale, circostanze scatenanti, aggravanti ed allevianti e l’analisi delle varie caratteristiche è di importanza determinante per una corretta diagnosi. A questo scopo sono stati preparati vari questionari in cui sono raccolti i numerosissimi termini che il paziente puo utilizzare per descrivere il dolore. Il più conosciuto ed applicato in campo internazionale è il McGill Pain Questionnaire, tradotto ormai in molte lingue, che riporta ben 78 possibili aggettivazioni suddivise in 20 gruppi. In ogni caso, anche in assenza di questionari specifici, è possibile raccogliere notizie abbastanza accurate osservando alcune semplici regole. Occorre dapprima annotare la localizzazione del dolore su di un disegno del corpo umano, successivamente si definiscono le caratteristiche temporali, con la distinzione fondamentale tra dolori parossistici e non parossistici o persistenti, e fra dolori acuti e cronici. Gli aggettivi «parossistico» e «persistente» si riferiscono al singolo attacco, oppure, se gli attacchi non sono distinguibili l’uno dall’altro, all’andamento del dolore nell’ambito delle 24 ore. Un parossismo solitamente ha la durata di pochi secondi o minuti, mentre il dolore persistente è presente per ore, più o meno con la medesima intensità. L’acuzie e la cronicità si riferiscono invece alla durata globale della malattia. Si puo quindi dire, ad esempio, che la nevralgia trigeminale è caratterizzata da dolore parossistico e da una
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condizione cronica. Al contrario, la sciatalgia è un dolore persistente, ma, nei casi più favorevoli, la condizione è fortunatamente acuta. Per quanto riguarda la qualità del dolore, dovrà essere lo stesso esaminatore a suggerire i termini e a chiedere al paziente come si adattino a quanto percepito. Qualità comuni sono quelle del dolore di tipo urente, gravativo, o con caratteristiche folgoranti (a tipo scossa elettrica). L’intensità è difficilmente valutabile; un criterio utile è quello di chiedere al paziente se al momento della visita il dolore è presente, per verificare se esiste una proporzione tra quanto riferito verbalmente ed eventuali atteggiamenti antalgici o di sofferenza. Inoltre è essenziale comprendere se e quanto il dolore interferisce con l’attività lavorativa o generale. Numerose sono le malattie o affezioni del sistema nervoso che possono provocare l’insorgenza di dolore, spesso con caratteristiche abbastanza definite. Sul piano fisiopatogenetico, si possono distinguere almeno tre grandi categorie di dolore: somatogeno, neurogeno e centrale.
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1.– Dolore somatogeno. Deriva dall’attivazione dei nocicettori periferici, causata da lesioni superficiali o profonde del corpo, e contempla sia il dolore immediato e rapido che si prova al momento del danno (ad es. taglio accidentale), sia il dolore tardivo, lento e cronico, che ad esso fa seguito. Questo tipo di dolore non è di specifico interesse neurologico.
raffiche, costituendo una crisi perdurante alcuni minuti. Le crisi sono usualmente seguite da modesta dolenzia diffusa che tende rapidamente a svanire, tendono a ripetersi più volte spontaneamente, e sono anche tipicamente scatenate da lievi stimolazioni cutanee tattili o termiche di particolari aree cutanee o «zone trigger» incluse nel territorio ove il dolore proietta. Sono assenti di regola deficit sensitivi e manifestazioni flogistiche periferiche primitive o secondarie. Questo tipo di dolore assomiglia alla violenta fitta dolorosa indotta da una stimolazione elettrica o meccanica soprasogliare di gruppi compatti di nocicettori (ad es. polpa dentaria), di un tronco nervoso sensitivo (ad es. nervo ulnare al gomito per urto accidentale), di una radice dorsale (ad es. per accidentale sfioramento durante una rachicentesi), ed anche dei suoi prolungamenti all’ingresso o dentro al midollo spinale (vedi ad es. fibre delle colonne dorsali e relativo segno di Lhérmitte). È insensibile ad oppiacei ed antidolorifici non oppioidi, ma prevenibile ed attenuabile solo da farmaci antiepilettici (fenitoina, carbamazepina, lamotrigina, topiramato, etc.). Le nevralgie intese come entità cliniche a sé stanti sembrano appannaggio pressoché esclusivo dei nervi cranici sensitivi (soprattutto V, v. pag. 266), essendo di fatto scomparsa la possibilità di osservare le violente crisi nevralgiche (dolori folgoranti) a distribuzione radicolare e gli equivalenti accessuali viscerali (crisi vegetative) descritti in passato nella tabe dosale.
2.– Dolore neurogeno. Si riferisce genericamente ai due differenti tipi di dolore con cui si manifesta la sofferenza o il danno delle fibre sensitive periferiche, rispettivamente dolore nevralgico e dolore neuropatico. a) Dolore nevralgico (da sofferenza delle fibre nervose). È un dolore parossistico folgorante, acutissimo e di brevissima durata, irradiato nel territorio di un nervo o di una radice, che compare all’improvviso e si sussegue in brevi
Il dolore nevralgico si ritiene dipenda da scariche ectopiche massive producentisi in corrispondenza di ristrette aree demielinizzate di assoni Aβ-Aδ, la cui conduzione è rallentata in maniera minima ed inapparente (Calvin et al., 1982; Calvin et al., 1977; Hilton et al., 1994). In corrispondenza della radice del V, ove gli assoni non adeguatamente protetti sono particolarmente vulnerabili a compressioni vascolari anche modeste («conflitto neuro-vascolare»), vi sarebbe anche una maggiore la probabilità di formazione di contatti efaptici (Burchiel, 1980). Sebbene la coesistenza di un’alterata elaborazione sinaptica centrale dei messaggi sensitivi periferici non pos-
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sa essere esclusa (Bowsher, 1997; Fromm et al., 1984), essa rimane non adeguatamente dimostrata. Il fatto che tipici attacchi scatenati da stimoli acustici siano stati osservati - e solo per alcuni giorni - in un paziente con lesione demielinizzante pontina del lemnisco laterale e dell’adiacente via trigeminale (Hartmann et al., 1999), e soprattutto l’immediata scomparsa della nevralgia in seguito ad intervento decompressivo (come si verifica anche nello speculare - e fisiopatogeneticamente analogo - fenomeno dell’emispasmo facciale), mantengono l’ipotesi “assonale” in assoluto primo piano (Broggi et al., 2000).
b) Dolore neuropatico (da lesione delle fibre nervose). Il dolore neuropatico è la più importante e frequente causa di dolore cronico non somatico o viscerale, e può insorgere in seguito a lesione di radici nervose e di nervi periferici, settore craniale incluso (Burchiel, 1993). È poco sensibile agli oppioidi, ed è assai poco sensibile anche agli antidolorifici non oppioidi. È caratterizzato da sensazioni urenti, talora anche intensamente puntorie, o crampiformi e costrittive, a carattere persistente, ma suscettibili di esacerbazione da parte di stimoli periferici o movimenti degli arti, con distribuzione limitata al territorio di una radice (v. pag. 000) o di un singolo nervo, oppure diffusa agli arti, specie alla loro estremità distale (polineuropatie croniche). Coesiste di regola un deficit di una o più sensibilità obbiettive nello stesso territorio doloroso. Il dolore neuropatico è molto spesso accompagnato da iperalgesia o allodinia. Qualora sia associato ad importanti manifestazioni vegetative di tipo ortosimpatico (turbe della sudorazione, della vasomotilità cutanea, della piloerezione) si configura il quadro più complesso della cosiddetta «causalgia», entità clinica per molti aspetti sfuggente, sostenuta soprattutto dalla risposta, talora spettacolare, al blocco dei gangli prevertebrali ortosimpatici o al trattamento locale con antagonisti adrenergici. Il dolore da lesione spinale presenta caratteristiche simili a quello neuropatico, ma essendo causato quasi sempre da lesioni traumatiche del midollo, specie a livello dorso-lombare, si distribuisce diffusamente a vaste aree del cor-
po (arti inferiori, addome), e talvolta si può associare a sensazioni intensamente dolorose tipo «arto fantasma», simili a quelle che possono insorgere negli amputati ma assai meno distinte. Tali sensazioni sarebbero presenti in circa un terzo dei casi con sezione anatomica completa o parziale del midollo. c) Dolore «centrale» (da lesioni cerebrali). Si manifesta quasi sempre nell’ambito di sindromi causate da lesioni cerebrovascolari circoscritte. Il termine dolore «centrale» è sinonimo di tali sindromi, e non comprende i dolori di origine spinale (Merskey e Bogduk, 1994). Sicuramente la piu conosciuta è la sindrome talamica di Déjerine e Roussy, la prima sindrome dolorosa di origine cerebrale ad essere descritta, anche se non la più frequente, dovuta ad una lesione talamica parcellare, ed associata ad altri segni e sintomi neurologici di tipo sensitivo e motorio (v. pag. 560, 562). I1 dolore è di tipo persistente, di qualità urente, talvolta terebrante o lancinante, e si manifesta tipicamente con le caratteristiche dell’allodinia e dell’iperpatia, localizzandosi nelle aree del corpo colpite da ipoestesia termodolorifica a distanza di qualche tempo dall’incidente vascolare. Si distribuisce tipicamente alla porzione inferiore del volto ed alla mano (distribuzione «cheiro-orale»), ma può interessare anche aree più vaste, fino ad un intero emisoma. Sintomatologia dolorosa analoga, pur se accompagnata da diversi segni e sintomi neurologici, si verifica per lesioni delle vie sensitive caudalmente o rostralmente al talamo. Si parla, in tali casi, di sindromi «pseudotalamiche». Occorre sottolineare il fatto che nel caso di lesioni troncali con interessamento dei nuclei trigeminali, l’ipoestesia ed il dolore che si localizzano alla faccia occorrono nel lato opposto rispetto al resto del soma, seguendo la regola generale delle «sindromi alterne». Nell’ambito di queste ultime, la sindrome di Wallenberg, causata da lesione laterale bulbare, è spesso accompagnata da dolore centrale (v. pag. 486).
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Un paragrafo a parte merita la sclerosi multipla, in cui il dolore assume aspetti proteiformi come la malattia che ne sta alla base. Dolore e Sclerosi Multipla. Le manifestazioni dolorose più note sono i dolori parossistici, che possono assumere i seguenti aspetti: a) nevralgia trigeminale: è indistinguibile dalla nevralgia «essenziale», se non per l’età di insorgenza (giovanile), la frequente bilateralità e l’eventuale presenza di altri segni della malattia; b) segno di Lhérmitte: sono sensazioni folgoranti a tipo «scossa elettrica» a carattere per lo più sgradevole ma, talora, anche intensamente doloroso, che si irradiano lungo il corpo e gli arti in seguito a movimenti di flessione del capo. Il segno è presente in circa il 40% dei malati con sclerosi multipla; c) dolori urenti parossistici: piuttosto rari come sintomo isolato, si manifestano in modo stereotipato nello stesso individuo, coinvolgendo solitamente il segmento di un arto; d) crisi toniche: consistono nella contrazione di gruppi muscolari di un arto accompagnata da dolori crampiformi, e sono una delle manifestazioni più intense e fastidiose della malattia, specie nelle localizzazioni spinali a decorso ingravescente progressivo. Esistono inoltre dolori persistenti, fra i quali il più comune e refrattario più di altri alla terapia è di tipo urente o gravativo (30% dei casi), irradiato agli arti inferiori, e si aggrava di notte, con il calore, e con le variazioni atmosferiche. Quasi tutti coloro che lamentano questo tipo di dolore hanno qualche segno di coinvolgimento dei tratti spinotalamici o delle colonne dorsali. Esiste un altro tipo di dolore persistente, decisamente più raro, ma molto più rilevante del precedente, con caratteristiche di violenta «scossa elettrica» irradiata a tronco ed arti. Altro dolore di tipo persistente è quello che accompagna la neurite ottica: esso è localizzato ai globi oculari o alla regione orbito-frontale,
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ed è esacerbato dai movimenti oculari. Nonostante questo dolore sia molto comune, spesso può essere di entità modesta e non riferito dal paziente. LE PARESTESIE Le parestesie sono percezioni abnormi, spontanee o anche evocate, usualmente riferite come sensazioni di formicolio, di puntura di spillo, di costrizione o fasciatura, di acqua che scorre, di intorpidimento o addormentamento. Se assumono carattere molto fastidioso o francamente doloroso, dovrebbero più appropriatamente definirsi «disestesie». Le parestesie possono essere prodotte sia da scariche spontanee abnormi ectopicamente generate lungo il decorso di assoni mielinici sensitivi periferici o centrali, sia da analoghe scariche abnormi originate da focolai irritativi corticali. Di per sé, quindi, esse non forniscono specifiche indicazioni né sul tipo né sulla sede di un’eventuale patologia nervosa in atto. Gli unici elementi utili ai fini diagnostici sono la localizzazione ed il contesto clinico in cui esse si verificano. 1.- Genesi assonale ectopica. Adrian per primo descrisse nel 1930 l’occorrenza spontanea di scariche ectopiche in un nervo sensitivo sezionato (“injury discharges”) (Adrian, 1930). Questa abnorme attività può assumere tre aspetti: 1) scarica continua di impulsi a frequenza elevata (> 150 Hertz), 2) scarica irregolare a frequenza minore e 3) scarica in brevi raffiche ripetitive ad alta frequenza. In assenza di danno, scariche ectopiche possono essere indotte nelle fibre sensitive mieliniche periferiche e con minor facilità nelle fibre mieliniche motorie - da quattro manovre: a) iperventilazione (o alternativamente ipocalcemia), b) ischemia, c) riperfusione post-ischemica e d) tetanizzazione prolungata. L’alcalosi respiratoria indotta da iperventilazione, e comunque una ridotta disponibilità degli ioni liberi Ca2+, aumenta selettivamente la conduttanza del Na+ attraverso canali non inattivanti, mentre la depolarizzazione della membrana prodotta da ischemia aumenta la conduttanza di tutti i tipi di canali del Na+. In entrambi i casi, l’attivazione simultanea di conduttanze per il K+ rapide e lente porta ad un progressivo ac-
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cumulo di K+ nello spazio periassonale submielinico degli internodi. Poiché l’accumulo non può essere rapidamente compensato dalla pompa Na+/K+, il gradiente elettrochimico del K+ si riduce fino ad invertirsi ed a causare un influsso di K+ tale da innescare scariche ripetitive ad alta frequenza coincidenti con le sensazioni parestesiche (o le fascicolazioni). Questa fase di depolarizzazione dell’internodo (flip) si alterna ad una fase polarizzata silente (flop) in maniera ciclica, probabilmente per una disomogenea distribuzione del K+ extracellullare lungo l’assolemma internodale. Le parestesie post-ischemiche e post-tetaniche tendono così ad assumere l’aspetto di scosse o vibrazioni elettriche intense ad elevata frequenza, assomigliando ad “injury discharges” di tipo III. Nella patologia demielinizzante delle fibre sensitive periferiche e lemniscali a rapida velocità di conduzione, è stato invece osservato che l’assolemma privo di guaina mielinica non solo rallenta o anche blocca la propagazione dei potenziali d’azione, ma diventa anche sede di oscillazioni depolarizzanti periodiche a tipo “pacemaker”, suscettibili di propagarsi elettrotonicamente fino al primo internodo indenne ed ivi generare scariche spontanee continue a 5-20 Hertz. Tali oscillazioni sembrano dipendere dall’esposizione, o neo-espressione, di classi di canali del Na+ non inattivanti (principale candidato il canale Na v1.6) (Baker, 2000). Questo meccanismo, che potrebbe forse anche valere per le fibre talamo-corticali, non ne escluderebbe di per sé altri, fra cui il salto di potenziali d’azione fra fibre demielinizzate contigue (trasmissione efaptica). In entrambi i casi, le afferenze periferiche possono modulare i fenomeni assonali locali inducendo, o amplificando, la scarica assonale ectopica responsabile delle parestesie. 2.- Genesi corticale. Essenzialmente due sono i meccanismi corticali capaci di generare scariche spontanee a frequenza sostenuta: l’epilettogenesi focale (v. pag. 000), e la «spreading depression» di Leão (v. pag. 000). In entrambi i casi, la diffusione della scarica dal focolaio iniziale alle rappresentazioni somatotopiche contigue della corteccia sensitiva primaria (S1) si può tradurre in parestesie migranti con maggior espressività, e probabilità di localizzazione, nei territori del corpo più estesamente rappresentati (volto, mano, piede).
Cause banali, non patologiche, di parestesie a genesi periferica sono rappresentate dalla compressione meccanica di un tronco nervoso (è esperienza comune quella delle parestesie nel territorio dei nervi ulnare, sciatico o peroneo a
seguito di malposizionamento degli arti, che possono allarmare solo i bambini ancora ignari del fenomeno). L’ischemia, l’ipocapnia e l’ipocalcemia sono altre cause funzionali piuttosto frequenti. Le parestesie da sofferenza neuroperiferica sono di solito bilaterali e diffuse, limitate all’estremità distale degli arti (polineuropatie) o confinate nel territorio di una o più radici spinali, di un plesso o di un singolo nervo, e tendono ad assumere un carattere persistente. In caso di assonotmesi, esse possono essere facilmente evocate dalla compressione del nervo in corrispondenza della regione rigenerante (segno di Tinel). Tale segno può essere utile per controllare nel tempo il progressivo allungamento del moncone prossimale rigenerato. Le parestesie da sofferenza del SNC sono tipicamente accessuali, di breve durata (al massimo 15'-20'), e si localizzano unilateralmente al volto o ad un arto con distribuzione nettamente diversa rispetto alle lesioni periferiche. Le lesioni parietali o anche talamiche, ad esempio, possono manifestarsi con tipiche parestesie cheiro-orali transitorie, sia nell’epilessia parziale a sintomatologia elementare sensitiva (v. pag. 000), sia nell’aura sensitiva emicranica (v. pag. 000). Nelle lesioni demielinizzanti delle colonne dorsali, invece, la distribuzione delle parestesie è generalmente bilaterale, l’insorgenza è evocata da flessioni anche modeste del capo o addirittura spontanea, e la diffusione cranio-caudale è istantanea (v. pag. 115???). IL PRURITO Il prurito è una sensazione anomala, fastidiosa, attenuata dal grattamento (cosa che non accade con le parestesie o le disestesie). Dipende da irritazione dei nocicettori (C e forse anche Aδ) superficiali epidermici e delle zone cutanee di transizione con le mucose. A differenza del dolore, non può essere evocato dalla stimolazione dei nocicettori profondi.
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Come possa avvenire la distinzione tra prurito e dolore, trasportati entrambi dalla stessa via, non è ben chiaro, e nemmeno è chiaro perché il sollievo del grattamento tenda facilmente a trasformarsi in una specie di dolore epidermico urente. Il prurito dipende quasi sempre da affezioni dermatologiche, indicando un’irritazione dell’estrema periferia sensitiva. Per questo motivo, è molto difficile che un prurito localizzato, distribuito ad es. in una sottile banda toracica, faccia pensare ad un Herpes Zoster in fase iniziale, o ad un’irritazione radicolare di altra genesi. Può anche essere una manifestazione parossistica della sclerosi multipla, ove tuttavia rimane un sintomo di contorno. Può infine dipendere da cause sistemiche (reazione allergica precoce a farmaci) e manifestarsi in particolari sedi del corpo. In questo caso, l’ipotesi di un’irritazione parziale dei chemi-nocicettori superficiali causata da bradichinina, istammina e prostaglandina (PgE2) rilasciate nei tessuti come conseguenza di reazioni IgE-mediate, o prodotta da irritanti esogeni penetrati per via transcutanea (sostanze urticanti), è quella più verisimile, dato che, a parte gli anestetici da contatto, anche i farmaci antistaminici ed antinfiammatori locali riescono ad attenuare il prurito a genesi periferica. INSENSIBILITÀ CONGENITA AL DOLORE CON ANIDROSI (NEUROPATIA EREDITARIA SENSITIVO-AUTONOMICA DI TIPO V) È una rara affezione geneticamente determinata e con esordio nell’infanzia, caratterizzata da episodi febbrili ricorrenti, anidrosi, assenza di reazioni agli stimoli dolorosi, comportamento automutilatorio e ritardo mentale. È causata da mutazioni del gene TRKA (NTRK1), cromosoma 1(1q21-q22), che codifica per un recettore tirosin-chinasico ad alta affinità (TrkA) per la neurotrofina NGF, essenziale per la crescita dei neuriti e per la sopravvivenza dei neuroni di 1° ordine sensitivi e dei neuroni simpatici (Indo et
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al., 1996; Mardy et al., 1999; Indo, 2001) (v. pag. 000). Il fenotipo clinico include anche un coinvolgimento multisistemico, con fratture ossee a lenta saldatura, artropatia di Charcot, assenza di sostanza P nella cute e nelle articolazioni con depapuperamento dei piccoli neuroni ganglionari sensitivi di 1° ordine (fibre C), cheratiti, ulcerazioni endo-orali da masticazione e lesioni cutanee di tipo autolesivo (inconscia), anormalità immunologiche e stato infiammatorio cronico sfociante in amiloidosi sistemica (Toscano et al., 2000). La malattia, come già nel 1983 sottolineò Dick et al., non è un’affezione a sé stante, denominata insensibilità o indifferenza congenita al dolore, ma una particolare varietà di neuropatia ereditaria sensitivo-autonomica (tipo V) (v. pag. 000). ASIMBOLIA AL DOLORE (SINDROME DI SHILDERSTENGEL) Non meno rara della precedente, è un’affezione caratterizzata dall’incapacità non tanto a percepire gli stimoli dolorosi, quanto a riconoscerne gli aspetti simbolici ed a mettere quindi in atto comportamenti adeguati per evitarli. Si tratta dunque di una particolare forma di agnosia al dolore (analgognosia) o anche di aprassognosia, considerando la mancata realizzazione di comportamenti e gesti autoprotettivi congrui. In 6 malati cerebrovascolari colpiti dal disturbo, è stato osservato che le sensibilità, ivi compresa quella dolorifica, erano rimaste integre, ma mancavano le normali risposte antinocicettive di evitamento ed a carattere difensivo, comprese quelle alla minaccia verbale (Berthier et al., 1988). In questi malati, ed in un successivo caso analogo (Masson et al., 1991), esisteva una lesione coinvolgente la corteccia dell’insula, per cui è molto probabile che l’asimbolia al dolore rappresenti un fenomeno da disconnessione sensitivo-limbica, come originariamente prospettato da Geschwind.
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Alterazioni della sensibilità oggettiva Un deficit obbiettivo delle sensibilità può essere parziale (ipoestesia) o completo (anestesia); inoltre può coinvolgere tutte le forme di sensibilità (globale), o interessare selettivamente o prevalentemente alcune sensibilità con conservazione di altre (dissociato). In quest’ultimo caso è possibile osservare: – anestesia superficiale con conservazione delle sensibilità profonde, frequentemente riscontrabile nelle lesioni periferiche; – dissociazione di tipo siringomielico, ovvero anestesia termodolorifica con conservazione delle sensibilità profonde, per lesioni del fascio spinotalamico dorsolaterale; – dissociazione di tipo tabetico, cioè anestesia profonda e tattile discriminativa con conservazione delle sensibilità superficiali, per lesione delle colonne dorsali (non da tutti ammessa). La paradossale coesistenza di dolore cronico a carattere neuropatico distribuito all’interno di un territorio ipoestesico è un’evenienza abbastanza rara definita «anestesia dolorosa». È spiegata dal fatto che il territorio dermatomerico e neuroperiferico tattile sono più estesi - e perifericamente più embricati a quelli circostanti - dei corrispettivi territori termici e dolorifici.
Esame della sensibilità Poiché l’indagine estesiometrica richiede l’attenzione e la piena collaborazione del paziente per un un periodo di tempo non irrilevante, essa dovrebbe essere effettuata all’inizio dell’esame neurologico o rimandata al momento in cui il paziente è riposato. È buona norma, comunque, eseguire un rapido esame orientativo di tutte le sensibilità già nella prima visita, anche se il paziente non lamenta alcun tipo di disturbo sensitivo. In caso contrario, è fondamentale raccogliere preliminar-
mente il maggior numero di informazioni in merito, onde procedere ad un esame delle sensibilità mirato ed approfondito sugli aspetti pertinenti al problema. II soggetto deve tenere sempre gli occhi chiusi, e fornire, appena avvertito lo stimolo, risposte immediate semplici: «sì», oppure comunicare il tipo di sensazione avvertito: toccare (cotone), pungere (spillo), caldo o freddo. La ripetizione dello stimolo dev’essere casuale, onde evitare cali di attenzione e risposte di tipo automatico, frequenti nel caso di lunghe e monotone sequenze di stimolazione. L’esame contempla l’esplorazione di tutta la superficie corporea, volto incluso, e tiene conto non solo delle risposte mancate o errate, ma anche di eventuali ritardi nel fornire la risposta (latenza aumentata) e di eventuali ulteriori commenti (ad es. insorgenza di sintomi positivi). Le modeste variazioni interindividuali di soglia percettiva descritte nell’invecchiamento non comportano di solito alcun deficit sensitivo, fatta eccezione per le sensibilità profonde dell’estremità distale degli arti inferiori: nell’anziano, infatti, pallestesia e riflesso achilleo possono rivelarsi ridotti o del tutto assenti (v. pag. 451).
Esame delle sensibilità superficiali SENSIBILITÀ TATTILE.— Si possono utilizzare stimoli tattili puntiformi, come una punta di matita appoggiata sulla cute o in maniera più rigorosa inflettendo su essa setole di Von Frey9 (ed in tal caso esplorare prevalentemente i meccanocettori rapidi a campo recettivo ristretto, quali i corpuscoli di Meissner) oppure stimoli tattili non puntiformi, ricorrendo ad es. ad un batuffolo di cotone, ad un pennellino di setola 9
Le originali setole di crine usate da von Frey sono state attualmente sostituite dai monofilamenti di Semmes-Weinstein a punta smussa, la cui flessione sotto appoggio produce pressioni puntiformi costanti proporzionali al diametro dei filamenti, calibrati secondo una progressione scalare logaritmica.
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morbida o ad una sottile striscia di carta (inglobando così anche i recettori più lenti ed a campo recettivo più vasto, maggiormente rappresentati nelle regioni cutanee pilifere). L’esplorazione della sensibilità tattile corneale richiede tassativamente l’uso di un fine batuffolo di cotone sterile. SENSIBILITÀ DOLORIFICA.— Si usa un semplice spillo sterile, da gettare al termine dell’esame, ponendo attenzione a non procurare ferite di sorta (comune evenienza con aghi taglienti ipodermici). Il malato informa l’esaminatore se - e quando - sente pungere, e se in una certa area cutanea egli avverte la puntura in modo diverso (ad es. più intensa, o più debole, come se la punta fosse diventata smussa, ecc.). Nella successiva delimitazione di queste aree, generalmente più precisa iniziando la stimolazione a partire dal centro, il paziente deve segnalare se - e quando - avverte «cambiamenti» nella percezione dello stimolo doloroso. Quando si desidera esaminare rapidamente il malato può essere utile adottare, come suggerito da Wartemberg, una rotella da sarto. In questo modo è possibile, passando rapidamente la ruota sulla cute del malato, esaminare tutta la superficie corporea e poi soffermarsi nei punti sui quali lo stimolo è avvertito meno intensamente. SENSIBILITÀ TERMICA.— Si utilizzano due provette da 100 ml a vetro spesso, asciutte, contenenti rispettivamente acqua fredda (5-10 °C) ed acqua calda (38-42 °C)10 , il cui fondo è alternativamente appoggiato sull’intera superficie cutanea del paziente. Egli deve contestualmente rispondere «caldo» o «freddo» a seconda della sensazione avvertita. Viene quindi annotata la correttezza delle risposte, la loro latenza e le eventuali indecisioni di scelta, indicative di una lieve ipoestesia termica altrimenti inapparente. 10
Si utilizzano queste temperature estreme poiché la reale T della superficie del vetro è sempre leggermente inferiore a quella dell’acqua a causa della dispersione termica nell’ambiente.
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Esame delle sensibilità profonde SENSIBILITÀ AL MOVIMENTO O CHINESTESIA. — Il paziente dev’essere sdraiato, rilassato e stare ad occhi chiusi. Si afferra lateralmente la parte centrale, lontana dalle articolazioni, di un dito del piede, o della mano del malato e lo si sposta in una posizione determinata, in flessione dorsale o plantare. Il paziente deve riferire se ha sentito muovere ed in quale direzione (verso l’alto o il basso), ed infine in quale posizione è posto il suo dito, o anche imitarla con il corrispondente dito dell’altro arto. Il posizionamento passivo dev’essere effettuato delicatamente, per evitare che il paziente si aiuti con movimenti attivi per riconoscere la vera posizione imposta. Dati sperimentali ottenuti nel primate indicano che il test è sensibile ad una lesione delle colonne dorsali solo quando lo spostamento angolare è modesto (>14°) e la velocità di spostamento bassa (>7° sec-1) (Glendinning e Vierck, 1993). Poiché la stimolazione delle dita del piede, scarsamente rappresentati a livello corticale, comporta frequenti errori nel loro riconoscimento, è prudenziale ritenere validi solo i risultati ottenuti con l’alluce. SENSIBILITÀ
ALLA POSIZIONE E LOCALIZZAZIONE
SPAZIALE O BATIESTESIA. — La sensibilità alla po-
sizione si esplora con le prove cosiddette «d’imitazione», indispensabili per le grandi articolazioni. Dopo aver posizionato passivamente un arto inferiore del paziente sul piano del letto, il paziente è invitato a disporre l’arto controlaterale in maniera speculare e simmetrica. La prova viene ripetuta più volte alternando il lato e quindi applicata anche ai segmenti distali ed alle dita. L’identificazione della localizzazione spaziale di un arto si effettua sia all’arto superiore che inferiore, dislocati passivamente dall’esaminatore e poi mantenuti fermi in una certa posizione. Il paziente deve quindi afferrarsi il pollice (o l’alluce) con la mano controlaterale, dapprima aiutandosi con la vista, quindi ad occhi chiu-
112
Elementi di fisiopatologia e semeiologia
si. L’arto utilizzato per raggiungere il bersaglio deve ovviamente essere dotato di normale motilità e forza. La prova è ripetuta tre-quattro volte per parte da entrambi i lati per confermare l’esistenza di eventuali errori. Come regola, un errore ad occhi chiusi correggibile dalla vista indica un deficit sensitivo profondo all’arto “bersaglio”, attribuibile a danno di un punto qualunque (ipsi o controlaterale) della rispettiva via sensitiva lemniscale. Errori sia ad occhi aperti che ad occhi chiusi indicano invece un disturbo della coordinazione di tipo cerebellare (non correggibile dalla vista). In pratica, il fatto che, ad esempio, l’arto superiore destro non venga raggiunto correttamente ad occhi chiusi, può dipendere sia da lesioni ipsilaterali (neuropatie periferiche o danno della colonna dorsale di destra) che da lesioni controlaterali (danno del lemnisco mediale, del nucleo VPL del talamo, o della corteccia parietale sensitiva di sinistra) (Hirayama et al., 1999). Gli errori rivelati del test di localizzazione spaziale si associano di regola ad errori nelle prove di imitazione e localizzazione spaziale tattile (vedi oltre), e non si riscontrano mai nell’ipo- anestesia termodolorifica isolata di un arto. Il test di localizzazione spaziale ha significato analogo alla prova di Romberg (v. pag. 000), fondamentale per discriminare rapidamente la natura di eventuali disturbi della statica. In questa prova, basata sul mantenimento della stazione eretta a basi quanto più possibile ravvicinate, la chiusura degli occhi non peggiora sensibilmente la statica in caso di atassia cerebellare. Al contrario, l’eliminazione del controllo visivo causa caduta immediata polidirezionale in caso di atassia sensitiva di tipo tabetico, e caduta ritardata unidirezionale in caso di atassia o disequilibrio vestibolare. SENSIBILITÀ VIBRATORIA (PALLESTESIA).— Si utilizza un diapason a 128 (C0) o 256 (C1) vibrazioni al secondo (ottave della nota Do). Dopo
essersi assicurati che il paziente non possa udire il suono dello strumento che vibra, si appoggia il diapason dapprima sulla fronte, in modo che il paziente possa riconoscere il tipo di sensazione provocata, invitandolo a riferire se «sente vibrare» o «non sente vibrare». Quindi si sposta il diapason su prominenze ossee (quali malleoli, rotule, pube, spine iliache, capitello radiale, gomito, ecc.). Il malato deve comunicare se avverte lo stimolo, ed in caso positivo, segnalare quando cessa di avvertirlo, ed inoltre, se lo percepisce nuovamente spostando velocemente il diapason in sedi simmetriche (o altrove). Diventa così possibile evidenziare asimmetrie della pallestesia altrimenti difficilmente documentabili. Alcuni diapason sono forniti di un dispositivo ottico che permette di valutare continuamente l’intensità della vibrazione, e quindi di quantificare approssimativamente i valori sogliari per ogni sede esplorata. SENSIBILITÀ ALLA PRESSIONE (BARESTESIA).— I1 malato deve riconoscere l’entità della pressione esercitata sulla cute da un peso, o dalle dita dell’esaminatore, o meglio da un barestesimetro, apparecchio dotato di indice graduato che consente la quantificazione della reale pressione d’appoggio. I dati desumibili dall’esame di questa sensibilità non consentono deduzioni cliniche di reale interesse. S ENSIBILITÀ D OLORIFICA P ROFONDA .— Si esplora stringendo fortemente i muscoli (ad es., trapezio superiore, tricipite, gastrocnemi), i tendini oppure comprimendo i nervi nel loro decorso superficiale. Ricordiamo a questo proposito il segno di Abadie (assenza di dolore alla compressione del tendine d’Achille) ed il segno di Biernacki (assenza di dolore alla pressione del nervo ulnare). Non vi è accordo circa le vie midollari che trasportano il dolore profondo, anche se generalmente si suppone che corrispondano al fascio spinotalamico dorsolaterale.
Funzioni sensitive
Esame delle sensibilità complesse o combinate Comprende le seguenti prove: DISCRIMINAZIONE SPAZIALE TATTILE E DOLORIFIPresuppone una corretta percezione di stimoli singoli, e si esplora mediante il compasso di Weber, che permette di applicare simultaneamente due stimoli cutanei a distanza variabile fra loro. Allargando progressivamente il compasso, si misura la distanza minima corripondente alla percezione di due stimoli distinti. La sensibilità discriminativa, inversamente proporzionale alla distanza minima compatibile con la doppia percezione, è minima al tronco ed arti (4-6 centimetri), intermedia sul dorso della mano (1-2 cm) e massima in corrispondenza dei polpastrelli delle dita (1-3 millimetri). CA .—
DISCRIMINAZIONE DI DUE STIMOLI SIMULTANEI SIMMETRICI O ASIMMETRICI (TATTILI, DOLORIFICI, TERMICI). — Si esplora come sopra, ma applicando simultaneamente due stimoli su punti simmetrici del corpo, o anche su due differenti punti di uno stesso emisoma. Nel caso di due stimoli simmetrici, ciascuno dei quali sia isolatamente ben percepito, può accadere che il soggetto ne avverta uno solo, usualmente in maniera fluttuante. Tale fenomeno, definito «estinzione sensitiva» da Bender (1945) o «inattenzione tattile» da Critchley (1949) (per citare solo i termini più conosciuti), è quasi sempre transitorio, e tipicamente caratterizza lesioni circostritte della corteccia parietale controlaterale in fase di regressione. È assai probabile che dipenda da uno sbilanciamento funzionale - via corpo calloso - fra i corrispondenti punti somatotopici della corteccia parietale, potendo essere indotto ad es. a destra per lesione parietale sinistra, quindi a sinistra per una successiva lesione parietale destra. In questo caso, l’estinzione sensitiva rientrerebbe, assieme ad altri disturbi analoghi (motori, visivi, uditivi), nell’ambito dei deficit unilaterali dell’attenzione spaziale da lesione parietale
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(emidisattenzione). Nel caso di due stimoli applicati sullo stesso arto o anche emisoma, quello più prossimale ha maggior probabilità di essere “estinto” di quello distale, essendo favorito da una rappresentazione corticale e da una ridondanza percettiva più ampie. LOCALIZZAZIONE CUTANEA TATTILE O TOPOESTESIA. I1 soggetto tocca con un dito, e ad occhi chiusi, l’esatto punto della cute precedentemente toccato dall’esaminatore. RICONOSCIMENTO
DI SIMBOLI TATTILI (GRAFOE-
STESIA O DERMOLESSIA).
— Il soggetto deve riconoscere ad occhi chiusi in quale direzione si sposta un oggetto smusso strisciato sulla cute (dorso della mano, del piede, cosce, addome, torace) e simboli grafici semplici (quali la lettera « o» ed «i», segni aritmetici come +, – , x o geometrici, ad es. quadrato, triangolo, ecc.) analogamente tracciati. Tali prove sono molto sensibili al danno delle afferenze meccanocettive a vasto campo recettivo (dischi di Merkel, corpuscoli di Ruffini). RICONOSCIMENTO
TATTILE DELLE QUALITÀ MA-
TERICHE E SPAZIALI DEGLI OGGETTI (ILOESTESIA E STEREOESTESIA).—
Il soggetto è invitato a descrivere le proprietà materiche e spaziali semplici e complesse di un oggetto che egli può palpare ed esplorare col tatto ad occhi chiusi dapprima usando una mano, quindi entrambe. Si notano quindi le risposte circa il tipo di superficie (liscia, rugosa, abrasiva etc..), consistenza (dura, morbido-elastica etc…), spigolosità (presenza o meno di angoli solidi o curvature), dimensioni (piccolo, medio, grande) e forma (allungata, rotondeggiante etc.). È utile annotare anche la destrezza, il modo più o meno accurato e la forza con cui il paziente palpa l’oggetto: in caso di grave ipoestesia profonda, oggetti fragili o delicati possono andare anche distrutti. Come oggetti si possono usare quelli più comuni, come chiavi, matite, penne, piccoli barattoli o palline, a patto che non si approfitti di in-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
formazioni accessorie (ad es. mazzo di chiavi che tintinna, scatola di carta che scricchiola). L’impiego di una batteria di oggetti solidi appositamente preparati permette di esplorare separatamente l’iloestesia (riconoscimento della superficie materica dell’oggetto, o “texture”) e la stereoestesia o morfoestesia (apprezzamento delle differenze di forma). L’iloestesia si valuta: con una serie di tests di resistenza o serie duro-morbido; con una serie di tests di rugosità o serie rugoso-liscio; con una serie di tests di peso, presentando una serie di oggetti di volume identico e di peso differente (apprezzamento della differenza di peso). La stereoestesia si valuta ponendo in mano oggetti di legno di differente forma geometrica (cubi, piramidi, cilindri, ecc.). Se esiste difficoltà a descriverne correttamente la forma, si invita ad identificare la copia dell’oggetto in una serie di doppi esposta. Qualora le sensibilità superficiali, profonde e la stereoestesia siano conservate, ma il significato utilizzatorio dei comuni oggetti sfugga al paziente, emerge l’ipotesi di un mancato riconoscimento simbolico dell’insieme dei messaggi somestesici percepiti, disturbo definito stereoagnosia o «asimbolia tattile» (v. pag. 000).
Sindromi sensitive topografiche SINDROMI PERIFERICHE. La distribuzione del deficit sensitivo varia sensibilmente in rapporto alla sede della lesione. 1. –Lesione delle terminazioni. Di riscontro comune nelle cicatrici post-operatorie, ove può residuare una circoscritta area di anestesia per sezione di fascicoli subdermici, accompagna ogni grave lesione cutanea (ad es. ustioni di III grado) manifestandosi in fase acuta con anestesia globale della zona lesa. Una seconda causa, rilevante soprattutto per vaste regioni del sudest continentale, è rappresentata dalla neuro-
patia leprosa, che può esordire con lesione di piccoli fascicoli subdermici producendo chiazze cutanee, spesso anche acromiche, di anestesia termo-dolorifica circondate da cute normale (distribuzione a “pelle di leopardo”). Una terza causa è rappresentata da alcune neuropatie latenti ad esordio subclinico estremamente distale (Khalili et al., 2001; Lauria, 1999). 2. –Lesioni dei nervi. Si devono distinguere le lesioni tronculari (di un singolo nervo o più nervi) dalle lesioni diffuse: a) la lesione tronculare completa, usualmente di natura traumatica, comporta ipo-anestesia cutanea globale localizzata nel territorio d’innervazione del nervo leso (Figg. 3.8–3.9). In questo territorio, si può mappare una porzione centrale (o distale) globalmente anestesica (zona autonoma), circondata da un’area ipoestesica in cui il deficit termodolorifico è più marcato ed esteso di quello tattile (zona marginale). La demarcazione fra area ipoestesica termodolorifica e cute normale è generalmente agevole. Le lesioni incomplete comportano ipoestesia associata a parestesie, disestesie o manifestazioni dolorose (v. pag. 000), spesso associate a turbe vegetative e trofiche (causalgia, distrofia simpatica riflessa). In caso di lesione di un nervo misto, si associa una paralisi muscolare di tipo periferico (caratterizzata da amiotrofia ed areflessia). Le cause più comuni sono traumatiche (da ferita o intrappolamento, vedi ad es. lesione del nervo mediano al polso nell’ambito di una sindrome del tunnel carpale (v. pag. 000). Le mononeuropatie multiple, o multineuropatie (v. pag. 000), producono quadri variabili in rapporto al momento evolutivo della malattia sistemica da cui dipendono. Inizialmente, infatti, la distribuzione del quadro ipo-anestetico corrisponde a quella di un singolo nervo, quindi a quella tipicamente asimmetrica e dispersa di più nervi spesso non contigui, tendendo infine a riprodurre la distribuzione bilaterale tipica delle polineuropatie.
Funzioni sensitive
Trigemino (V° n. cranico) Plesso cervicale Branche superficiali
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Branca oftalmica Branca mascellare Branca mandibolare
Grande auricolare C2, 3 Nervo cutaneo del collo (branca trasversa) C2, 3 Branche sopraclavicolari C3, 4
Branca perforante lat. Branca perforante ant. Nervo circonflesso (ascellare) Nervo intercosto-omerale (intercosto-brachiale) Nervo cutaneo int. (mediale) Branca cutanea del nervo muscolo-cutaneo (N. cut. lat. antibrachii)
Nervo intercostale D2, 12
Plesso brachiale
Ramo genitoperineale
Cutaneo post. del braccio
Nervo dorsale del pene
Nervo radiale Branca superficiale Nervo mediano Nervo ulnare
Plesso lombare
Nervo ileo-inguinale Nervo genito-crurale (genito-femorale) Cutaneo laterale della coscia Rami cutanei mediali e Nervo (crurale) intermedi femorale Nervo safeno lungo (safeno)
Ramo perineale Nervo otturatorio
Cutaneo laterale della gamba N. sciatico Plesso sacrale
Muscolo cutaneo (peroneo superficiale)
Popliteo est. Tibiale anteriore (peroneo profondo; per la piccola area triangolare dietro il 1° (peroneo spazio interdigitale) comune) N. sciatico
Nervo safeno breve (surale)
Popliteo interno (tibiale)
Nervo plantare interno
Fig. 3.8 - Distribuzioni sensitive cutanee dei nervi periferici (superficie ventrale del corpo).
b) le lesioni diffuse dei nervi si manifestano con una sofferenza bilaterale sincrona e simmetrica degli assoni più lunghi, configurando un quadro clinico di polineuropatia (v. pag. 000). Tale apparente predilezione può attribuirsi sia ad una maggiore probabilità di danno cumulativo da demielinizzazione segmentale a distribuzione casuale, sia ad una precarietà distale di-
rettamente proporzionale alla lunghezza di percorso del traffico molecolare dal soma alla periferia e viceversa. Agli arti, il deficit sensitivo è bilaterale, più marcato all’estremità distale (soprattutto agli arti inferiori) e si riduce progressivamente in senso prossimale fino a sfumare nella cute normale. Possono essere preferenzialmente colpi-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia Br. oftalmica Br. mascellare Trigemino - 5° paio cranico Br. mandibolare Br. mastoidea C2,3 Br. gr. auricolare C2,3 Plesso cerv. superf. Nervo occipitaleC2 C3 Br. post. C4 C5,8 Sopraclavicolare C3,4 (Pl. cerv. sup.) Fibre mediali Br. cut. med. D1,7 Rami post. dei N. dorsali (toracici) Br. cut. lat. D 8,12
Br. perfor. lat dei N. intercostali Br. cut. int. e est. del N. radiale Cut. int. (med.) del braccio Intercosto-omerale (intercosto-brachiale) Nervo muscolo cutaneo
Tibiale posteriore
Nervo safeno lungo (safeno) Cutaneo mediale
Plantare laterale
Plantare mediale
Nervo mediano Nervo ulnare, br, cut. dorsali Br. glutea del 12° intercostale Br. perforante del N. ileo-ipogastrico Br. glutea sup. L1,3 Br. lat. dei rami post. Br. glutea media L4,5 dei N. lomb. e sacr. Br. med. dei rami post. dei N. lomb. e sacr.L1-S6 Br. perforante cutanea Pl. pudendo post. della coscia Cutaneo lat. della coscia Nervo otturatorio Plesso Cutaneo mediale Crurale ant. lombare (femorale) N. safeno lungo Cutaneo post. della coscia Peroneo superf. Popliteo esterno Safeno breve (N. peroneo comune) (surale) Tibiale posteriore Popliteo interno Plantare laterale (tibiale) Plesso sacrale
Safeno breve (surale) Plantare laterale
Popliteo interno (tibiale)
Branca ant. del radiale
Fig. 3.9 - Distribuzioni sensitive cutanee dei nervi periferici (superficie dorsale del corpo).
te sia le sensibilità superficiali che profonde, possono coesistere parestesie o manifestazioni dolorose, e può associarsi (ma anche mancare del tutto) un deficit motorio periferico distale ad analoga distribuzione diffusa. L’ipoestesia è distribuita tipicamente «a stivale», «a calza» o «a guanto» (Fig. 3.10A). Al tronco, nelle forme più gravi, può coesistere un deficit sensitivo mediano distribuito «a goccia», più vasto nelle regioni addominali inferiori per la maggior obliquità (e quindi lunghezza) dei rispettivi nervi sensitivi.
Al capo, analoghe considerazioni valgono per le polineuropatie craniali (v. pag. 000). Le poliradicoloneuropatie si presentano con quadri acuti di grave ipo- anestesia bilaterale dell’estremità degli arti, rapidamente ascendente in senso disto-prossimale fino ad interessare la radice degli arti, il tronco e talora anche il territorio craniale, associata a paralisi flaccida nelle stesse regioni (v. pag. 000). A volte, tuttavia, il deficit sensitivo si manifesta simultaneamente nei settori prossimali e distali.
Funzioni sensitive
117
SINDROME GANGLIONARE. Ad esclusione della neuronopatia erpetica da virus HVZ (Herpes Zoster), la patologia ganglionare primitiva è di per sé diffusa ed interessa prevalentemente i neuroni a maggior diametro ed alta velocità di conduzione. Si manifesta con un quadro generalizzato di dissociazione tabetica delle sensibilità (ipoestesia ed areflessia profonde) a distribuzione polineuropatica. Le cause più comuni sono quelle dismetaboliche (alte dosi di vit. B6 o piridossina; amiloidosi; m. di Tangier), autoimmuni-paraneoplastiche e tossiche (antiblastici, specie cisplatino).
Fig. 3.10 - A: Distribuzione dell’anestesia a calza e a guanto. B1-B2: distribuzione dell’anestesia a tipo sospeso. C1C2: distribuzione dell’anestesia nelle lesioni midollari trasverse a livello cervicale inferiore e C3, a livello lombare alto.
3. –Lesioni dei plessi. La lesione dei tronchi di un plesso (v. pag. 000) comporta quadri ipoanestesici variabili in rapporto al plesso colpito ed all’estensione del danno. Le lesioni del plesso cervicale si manifestano infatti con distribuzioni simil-tronculari, quelle del plesso brachiale con distribuzioni miste, in parte d’aspetto tronculare, in parte radicolare, localizzate alla spalla-segmenti prossimali del braccio (porzione superiore del plesso), ai settori medi dell’arto superiore (porzione media del plesso), o alla mano, margine ulnare dell’arto, ascella e parte del torace alto (porzione inferiore del plesso). Nelle lesioni del plesso lombosacrale, la distribuzione del deficit sensitivo è invece similradicolare.
SINDROME RADICOLARE. La distribuzione dei disturbi sensitivi è tipicamente dermatomerica («a zebra»). La sofferenza irritativa, usualmente con componente flogistica, di una singola radice (sia dorsale che ventrale) si manifesta con sintomi sensitivi positivi, rappresentati in ordine di gravità da parestesie, disestesie o dolore di tipo neuropatico spesso associato ad iperalgesia ed allodinia, localizzati in corrispondenza del rispettivo dermatomero ( Fig. 3.11–3.12). Tali sintomi possono talvolta estendersi, ed addirittura predominare, nelle strutture profonde del corrispondente miomero o scleromero (ad es. muscoli della natica e posteriori della coscia, o articolazione coxo-femorale nella sciatica da ernia discale). Essi sono quasi sempre accentuati dagli aumenti di pressione endoaddominale (tosse, starnuto, manovra di Valsalva), dalle manovre di stiramento delle radici (Lasègue) e dalla compressione lungo il decorso del nervo o dei nervi originati dalla radice. È importante ricordare che l’insorgenza di un dolore a distribuzione simil-dermatomerica in certe regioni del corpo (quali ad es. margine ulnare dell’arto superiore, torace, addome) talora non dipende da un’irritazione radicolare, ma da lesione di visceri innervati dalla radice sospetta («dolore riferito»). La lesione di una singola radice dorsale produce gli stessi sintomi sensitivi di cui sopra,
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 3.11 - A. Distribuzione sensitiva cutanea radicolare (faccia anteriore). B. Distribuzione sensitiva cutanea radicolare (faccia posteriore).
Fig. 3.12 - A. Limiti dei dermatomeri cervicali, dorsali, sacrali, in posizione quadrupedale. B. Dermatomeri a livello perineale.
Funzioni sensitive
quasi sempre dominanti su quelli deficitari sensitivi, rappresentati da ipoestesia superficiale prevalentemente termodolorifica, più evidente nelle porzioni distali del dermatomero. Un esempio paradigmatico è rappresentato dall’Herpes Zooster, il cui esordio può essere identificato valorizzando la distribuzione dermatomerica del prurito, delle parestesie e del dolore, sintomi che possono precedere anche di molti giorni la tipica eruzione vescicolare, l’ipoestesia termodolorifica, l’iperalgesia ed allodinia che contraddistinguono la malattia conclamata (Haanpaa et al., 1999). Se sono lese due o più radici dorsali adiacenti, l’ipoestesia è più grave, a carattere globale ed a chiara distribuzione dermatomerica. Se è lesa isolatamente o in associazione una radice anteriore (ad es. per compressione da ernia discale), il dolore radicolare s’accompagna ad un deficit motorio di tipo periferico. SINDROME MIDOLLARE. A seconda della sede ed estensione delle lesioni, si possono osservare differenti quadri ipo- anestesici, schematizzati in Fig. 3. 10 C ed in Fig. 3.13. 1. –Lesioni extramidollari: una compressione unilaterale estrinseca può causare ipoestesia termodolorifica controlaterale limitata ai segmenti più caudali per danno preferenziale delle fibre spinotalamiche più esterne (Fig. 3.4). Una compressione agente in senso dorso-ventrale tende più facilmente a produrre turbe della sensibilità profonda per compressione delle colonne dorsali contro il canale rachideo. Si tratta in genere di lesioni extramidollari aventi caratteristiche di massa occupante spazio (tumori; patologia vertebrale, degli spazi epidurali e del disco intervertebrale, ecc.). 2. –Lesioni endomidollari: possono interessare la porzione centrale del midollo, e produrre quadri di anestesia termodolorifica «sospesa» per danno delle fibre spinotalamiche decussanti (dissociazione siringomielica, Fig. 3.10
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B); oppure le colonne dorsali, e manifestarsi con parestesie a tipo scossa elettrica, dolori parossistici folgoranti, e deficit selettivo delle sensibilità profonde (dissociazione di tipo tabetico, riscontrabile, oltre che nella tabe dorsale, anche nella sindrome neuroanemica o sclerosi combinata dorsolaterale, e nella sclerosi multipla). Secondo alcuni Autori, la lesione delle colonne dorsali può anche comportare una modesta riduzione della sensibilità tattile superficiale, documentabile sotto forma di aumento dei valori sogliari. La sindrome da sezione midollare completa da gravi traumi o processi infiammatori spinali (mielopatia acuta trasversa), comporta paraplegia, paralisi sfinterica ed anestesia globale bilaterale al di sotto del metamero leso. Nella fase acuta, l’anestesia è spesso sovrastata da una sottile banda di iperalgesia o allodinia, per ipersensibilizzazione dei metameri adiacenti. La sindrome da emisezione spinale, o sindrome di Brown-Séquard, si manifesta nei settori del corpo sottostanti alla lesione con i seguenti disturbi: omolateralmente, una sottile banda di anestesia globale sospesa, talora con segni di denervazione muscolare in corrispondenza del metamero leso, anestesia profonda in tutti i metameri sottostanti e paresi spastica; controlateralmente, anestesia termodolorifica con margine superiore 2-4 dermatomeri al di sotto del metamero leso (Fig. 3.13). Talora coesistono iperalgesia o algodinia al di sopra di uno o entrambi i margini ipoestesici, ed alloestesia (per stimolazione dolorifica dell’area cutanea anestetica). Nelle lesioni incomplete, tali da risparmiare sufficientemente la forza muscolare all’arto inferiore, l’anestesia profonda può manifestarsi anche come atassia sensitiva nell’ambito di una paresi atasso-spastica. SINDROMI LICO .—Sono
SENSITIVE DEL TRONCO ENCEFA -
descritte dettagliatamente nell’ambito delle sindromi troncali (v. pag. 475).
120
Elementi di fisiopatologia e semeiologia Emisfero destro Emisfero sinistro
spesso più grave in queste stesse aree. Nelle fasi acute, l’ipoestesia può essere globale, con recupero maggiore per la sensibilità tattile e profonda. Spesso l’ipoestesia presenta carattere dissociato termo-dolorifico, e talora si associa a disturbi del gusto e a turbe del movimento della mano di tipo coreo-atetosico. A distanza di tempo, le aree ipoestesiche diventano sede di dolore spontaneo con caratteristiche iperpatiche: la soglia e la latenza sensitiva sono innalzate, e la percezione del dolore prolungata (v. pag. 560). La spiegazione del dolore talamico è incerta. Classicamente si sono ipotizzati fenomeni di liberazione intratalamici, per interruzione delle proiezioni inibitorie dal nucleo reticolare del talamo ai nuclei VPL-VPM. Attualmente si ritiene che dipenda da una lesione delle vie spinotalamiche responsabili del dolore rapido, capace di liberare l’attività del sistema del dolore lento, proiettante ai nuclei intralaminari ed ai nuclei posteriori.
SINDROMI CORTICALI - Le afferenze somestesiche talamocorticali ascendono alla corteccia granulare colonnare postcentrale o postrolandica ipsilaterale (circonvoluzione parietale ascendente), corrispondente all’area sensitiva primaria o SI (Kaas e Collins, 2001). Fig. 3.13 - Sindrome d’emisezione spinale o di BrownSéquard. L= livello di emisezione medio-toracica. 1 = fascio spinotalamico (in tratteggio sopra la sezione); 2 = colonne dorsali (in nero) e lemnisco mediale (in tratteggio); 3 = fascio corticospinale (in tratteggio sotto la sezione); 4 = monoplegia spastica con anestesia profonda; 5 = anestesia superficiale termodolorifica.
SINDROME TALAMICA.— È causata da lesioni ischemiche parcellari nel territorio dei rami talamogenicolati dell’a. cerebrale posteriore, che coinvolgono più o meno estesamente i nuclei talamici sensitivi VPL-VPM e complesso nucleare posteriore (v. pag. 556). In questi gruppi nucleari la rappresentazione della mano e del volto sono molto estese ed adiacenti, specie pollice e labbra, per cui l’ipoestesia controlaterale conseguente a lesione talamica è molto
Nelle aree 3a-3b-1-2 di Brodmann (corrispondenti ad SI), si realizza una precisa, quadruplice e parallela mappatura dell’intera superficie dell’emisoma controlaterale secondo aree di dimensioni proporzionali alla ricchezza d’innervazione periferica (massima su dita e palmo della mano, occhio, labbra, lingua) (Fig. 3.14– 3.15). Si rappresenta il principale, se non esclusivo, centro di elaborazione dei messaggi convogliati dal lemnisco mediale. Il ruolo di SI nell’elaborazione delle informazioni spinotalamiche sembra invece limitato agli aspetti puramente discriminativi e localizzatori della sensibilità cutanea dolorifica puntoria e probabilmente anche termica. SI invia proiezioni controlaterali all’area SI omologa (via corpo calloso), ai nuclei di Goll, di Burdach, laterale cervicale e nucleo proprio del corno posteriore del midollo; inoltre, proiezioni omolaterali al nucleo VPL del talamo, allo striato e all'area sensitiva secondaria SII (Fig. 3.15) (Disbrow et al., 2000). Non è chiaro se le altre aree
CC E SU
Tronco A Ga nca mb a
SE
In Po dic O llic e Na cch e so i Fa cc ia Lab bro sup erio re Labbra
Collo Testa Spalla Braccio Gomito ccio bra Avam o Pols
E ON SI
A ITIV NS
no Ma olo ign re M ula io An ed M
S
Funzioni sensitive
Di
ta
de
de Pie de e i lp
ali
nit
Ge
Labbro inferiore Denti, gengive, mandibola Lingua Gola e interno della bocca Visceri addominali
Fig. 3.14 - Rappresentazione della distribuzione somatotopica al livello dell’area sensitive primaria (circonvoluzione parietale ascendente).
Area supplementare motoria Area motoria I
Area supplementare sensitiva Area sensitiva I
Area sensitiva II Fig. 3.15 - Rappresentazione schematica della topografia delle aree cerebrali sensitive: area primaria (I), area secondaria (II), area supplementare (parte posteriore del lobulo paracentrale e precuneo). Per paragone, sono indicate anche le aree motorie.
multisensoriali secondarie (uditivo-somestesiche) descritte nel primate sul labbro inferiore della scissura di Silvio esistano anche nell’uomo. Infine, SI ed SII inviano proiezioni ipsilaterali sia all’area precentrale frontale 4, sia alle aree parietali associative 5 e 7, ove i messaggi somestesici possono essere confrontati con altre informazioni (stimoli visivi o anche «rappresentazioni mentali» del soggetto, ad esempio).
121
In conclusione, SI, ed anche SII possono considerarsi sofisticati analizzatori in parallelo che permettono l’estrinsecarsi di percezioni somestesiche complesse, epicritiche o combinate, ed inoltre possono continuamente modulare sia i messaggi afferenti sensitivi, sia la funzione motoria connessa all’attività gestuale esplorativa. Le lesioni di SI causano un’ipoestesia controlaterale più o meno grave che predilige volto (regione periorale) ed estremità distale degli arti. Il deficit sensitivo ha spesso estensione limitata, presentandosi a volte con una distribuzione pseudoradicolare: alla mano, ad es., può simulare una lesione della radice dorsale C8. Fra le varie modalità sensitive, quelle più colpite sono le sensibilità profonde (specie chinestesia e batiestesia), e soprattutto le sensibilità combinate (topoestesia, grafoestesia, discriminazione tattile, stereoestesia) con conseguente instabilità motoria della mano di tipo atassico sensitivo ed incapacità alla manipolazione ed utilizzo degli oggetti («mano parietale» o «useless hand»). Le sensibilità superficiali sono relativamente risparmiate, e comunque tendono a normalizzarsi più rapidamente. Nella fase iniziale di recupero, il deficit sensitivo può essere transitoriamente caratterizzato dal fenomeno dell’estinzione tattile. Le lesioni a carattere irritativo possono produrre sintomi sensitivi soggettivi parossistici di breve durata, quali parestesie o disestesie tipo formicolio, scossa elettrica o anche puntura di spillo. Come è già stato detto, questi fenomeni possono configurare una crisi epilettica parziale a sintomatologia elementare sensitiva, con o senza marcia Jacksoniana, e, nel caso assai più raro di sensazioni di movimento in un certo distretto corporeo, una crisi chinestesica (v. pag. 000). Fenomeni analoghi, ad estensione molto più lenta e durata maggiore (fino a 15-20') possono dipendere invece da una «spreading depression» parietale ad innesco emicranico, ischemico o lesionale (Loeb, 1998).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
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Funzioni nervose superiori
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4. Funzioni nervose superiori Il linguaggio e le sue alterazioni C. Loeb, C. Serrati, A. Tartaglione
Il linguaggio è lo strumento attraverso il quale avviene la comunicazione, grazie alla possibilità di produrre e comprendere espressioni simboliche, costituite da sequenze intellegibili di suoni articolati, segni grafici e gestuali. L’eloquio si riferisce alla semplice espressione verbale, alle sue modalità di esecuzione e tiene conto delle caratteristiche dei suoni verbali, indipendentemente dal loro significato; presuppone la normale capacità di fonazione, processo mediante il quale la vibrazione delle corde vocali genera la voce, e di articolazione, processo con cui la voce assume le differenti qualità fonetiche dei suoni vocalici o consonantici. La produzione verbale richiede la preliminare selezione dei vocaboli che vengono combinati secondo opportune regole grammaticali e sintattiche. La parola nella sua precisa forma scritta o verbale costituisce il “lessico di emissione” o “lessico fonologico di emissione”, poichè si basa sulla struttura del suono della parola. In questo «magazzino» sarebbe concentrato non solo l’insieme delle informazioni riguardanti le singole parole, sostantivi, verbi, aggettivi, avverbi, preposizioni, ecc., ma anche la rappresentazione dei singoli fonemi, vale a dire i componenti sonori (consonanti o vocali) di ciascuna parola. In un successivo stadio, fonologico, verrebbe pianificata la corretta sequenza delle parole, identificata la giusta successione dei suoni nel loro interno, elaborati i programmi dei movimenti adatti a fornire le connotazioni acustiche di ciascun suono, e le sue eventuali modificazioni a seconda del contesto, come accade, ad esempio, per il differente suono della g nelle parole gente e ghiro. L’ultimo stadio, fonetico, implica l’utilizzo di regole articolatorie che consentono la traduzione della forma fonologica in una serie di comandi per l’attivazione delle strutture neuromuscolari che controllano l’apparato bucco-fonatorio, responsabile della produzione verbale definitiva. L’eloquio esprime il risultato dell’attivazione
di questi due ultimi stadi che determinano gli aspetti non linguistici della produzione verbale. Il linguaggio vocale è strettamente connesso con il linguaggio gestuale e, quindi, l’espressione verbale e la capacità di comprendere le parole non rappresentano l’unica via per comunicare. I sordomuti possono diventare “afasici” quando sono incapaci di comunicare gestualmente per una lesione dell’emisfero dominante. Linguaggio e significato del gesto sarebbero dipendenti dall’attività di analoghe strutture, capaci di codificare il significato dei simboli impiegati. Il disturbo denominato “aprassia di fonazione”, che, in genere, coesiste con l’afasia, specie motoria, è caratterizzato da disprosodia (alterazione del ritmo, della melodia, dell’intonazione della parola e della frase) e da alterazioni dell’articolazione (sforzo nel ricercare la sequenza articolatoria necessaria, con frequenti autocorrezioni, turbe non costanti della ripetizione della stessa parola, particolare difficoltà ad iniziare il discorso) per cui la maggioranza degli autori ritiene che si tratti di un disturbo articolatorio e non fasico.
Posto che non vi siano deficit visivi ed acustici, che le capacità intellettive e la coscienza siano sufficientemente conservate, le alterazioni più comuni della voce, dell’eloquio e del linguaggio sono rappresentate rispettivamente dalla disfonia, dalla disartria e dall’afasia. La disfonia consiste nell’alterazione delle qualità della voce ed è generalmente secondaria a un danno nervoso periferico (lesione del nervo laringeo, del facciale e del trigemino bilateralmente, ecc.), anche se può essere osservata in corso di lesione centrale, in particolare dei gangli della base. La disartria è dovuta all’alterazione dei meccanismi motori che garantiscono l’articolazione dei suoni e la normalità dell’eloquio. L’afasia è l’incapacità di elaborare il linguaggio e, quindi, di produrre e comprendere i messaggi verbali, traducendo pensieri e stati d’ani-
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mo in sequenze significative di tipo sonoro, grafico o gestuale, e viceversa.
Le alterazioni che provocano disartria possono essere così distinte:
DISARTRIA – Rappresenta una turba dell’espressione articolatoria di sequenze verbali già programmate, per alterazione dei meccanismi nervosi centrali e periferici che regolano e coordinano l’attività delle strutture foneticoarticolatorie periferiche. Il disturbo può essere tanto grave da compromettere l’articolazione della parola, come accade nell’anartria, in cui l’eloquio risulta incomprensibile. La disartria va distinta dalle dislalie che includono una serie di turbe del linguaggio dovute ad alterazioni muscolari, lesioni dell’apparato osseo-facciale o cause psicogene (ad es. balbuzie) in assenza di danni neurologici centrali. Va, altresì, distinta dalla disfonia (voce bitonale, rinolalia, ecc.) e dall’afonia in cui l’alterazione della normale dinamica delle corde vocali modifica timbro, volume e tono della voce.
1) Lesioni bilaterali delle vie cortico-bulbari. La lesione bilaterale delle vie cortico-bulbari, che tipicamente si verifica per lesioni ischemiche bilaterali, come nella sindrome pseudobulbare, determina diffusa ipostenia e spasticità, con difficoltà nella produzione e nell’articolazione dei suoni. La compromissione bilaterale dei nuclei dei nervi cranici, coinvolti nel controllo delle strutture vocali, e cioè i nuclei del V, del VII, del IX, del X e del XII si esprime con l’ipostenia della muscolatura bucco-facciale e si accompagna ad atrofia (come accade nella sclerosi laterale amiotrofica). La disartria, in entrambe le condizioni, si accompagna a disfagia. Qualunque sia il tipo di lesione, i movimenti articolatori, gravemente ipocinetici, impediscono la corretta differenziazione dei singoli suoni fonemici, soprattutto consonantici, e la parola diventa «abburattata» (buratto = setaccio usato per separare la farina dalla crusca) dato che le singole sillabe, mal separate, coartate e sovrapposte, risultano difficilmente riconoscibili.
L’articolazione della parola talora è alterata in alcune sindromi afasiche, ad es. nell’afasia di Broca; tuttavia, mentre nella disartria le alterazioni dell’eloquio sono uniformi, relativamente insensibili allo stato emotivo del paziente e scarsamente influenzate dalla complessità e della difficoltà del compito verbale, nell’afasia la prestazione è assai variabile e le espressioni verbali, precocemente apprese ed automatizzate (ad es. le serie corrispondenti all’alfabeto, i giorni della settimana, i mesi dell’anno, ecc.), sono meno compromesse di quanto non si rilevi nel corso della conversazione ove, peraltro, prestazioni verbali relativamente elementari possono risultare risparmiate. Inoltre, gli errori fasici sono prevalentemente legati all’erronea programmazione della sequenza dei fonemi, mentre quelli disartrici sono caratterizzati da un’alterata modalità di realizzazione del suono, che è a tal punto distorto, da assumere connotazioni completamente nuove ed inesistenti nel sistema linguistico del paziente.
La semeiotica della disartria si basa sull’analisi del linguaggio spontaneo e sulla ripetizione di parole test che abbiano segmenti tali da mettere alla prova l’agilità articolatoria del paziente (splendido, strepito, broncio, extra-territorialità).
2) Lesioni bilaterali del secondo neurone di moto. Nel caso di lesione del secondo motoneurone il deficit articolatorio varia a seconda della distribuzione del danno ai differenti nervi cranici: se la lesione coinvolge il IX e X il deficit può essere prevalentemente (a) laringeo, con disfonia ed alterazione del volume e del timbro della voce che è ridotta ad un flebile sussurro, o (b) velofaringeo con ipernasalità dovuta ad emissione della voce per via nasale a causa dell’ipostenia dei muscoli del velo faringeo; se la lesione coinvolge il V, VII, XII il deficit è prevalentemente orale, con imprecisa articolazione delle consonanti per l’ipostenia dei muscoli linguali ed oro-facciali. Si può riscontrare in traumi cranici chiusi, nella sindrome di Guillain Barrè e nella miastenia e in lesioni ischemiche localizzate nel tronco encefalico.
Funzioni nervose superiori
3) Lesioni dei gangli della base. Le modificazioni articolatorie secondarie a lesioni del sistema extrapiramidale possono essere espressione dell’alterato tono posturale, dell’acinesia, del tremore o dei movimenti patologici dei muscoli del sistema fonatorio. Lesioni localizzate al caudato e al putamen, determinano quadri clinici diversi da lesioni del pallido e della substantia nigra. Nelle lesioni caudate e putaminali il deficit è determinato da movimenti involontari ed alterazioni posturali che interrompono i movimenti fonatori provocando, ad esempio, una improvvisa protrusione della lingua, una contrazione laringea, una smorfia facciale o, ancora, un’inattesa rotazione del capo. Si riscontra soprattutto nella corea di Huntington. Se la lesione è pallido-nigrica la rigidità della muscolatura, la riduzione dell’ampiezza dei movimenti ed il tremore determinano voce monotona con tonalità incolore e spesso tremula, difficoltà ad iniziare la frase con ripetizione, frequentemente reiterata, dell’ultima sillaba della parola (palilalia). L’emissione verbale è usualmente lenta ed esitante (bradilalia) anche se può essere interrotta da un’accelerazione improvvisa (tachifemia parossistica), che costituisce un esempio di cinesia paradossa. Si ritrova soprattutto nel morbo di Parkinson. 4) Lesioni cerebellari. – Le turbe cerebellari che danno luogo ad incoordinazione con atassia ed asinergia dei muscoli impegnati nell’articolazione del linguaggio, producono imprevedibili errori di sincronizzazione, ampiezza e direzione del movimento. La perdita dell’intonazione delle parole e della frase produce un linguaggio interciso e scandito; talora dopo una breve incertezza la produzione orale assume vigore e tono sproporzionati, in una sorta di «esplosione vocale» o linguaggio esplosivo. La proposta di distinguere i diversi tipi di disartria in: disartria flaccida (da lesione del secondo motoneurone), disartria spastica (da lesione delle vie cortico-bulbari), disartria atassica (da lesione cerebellare), disartria iper-
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cinetica (da lesione soprattutto della sostanza nera), disartria ipocinetica (da lesione dello striato, specie del caudato) (Duffy, 1995) non sembra fornire un reale vantaggio rispetto alla classificazione riportata e riferita alla sede di lesione.
AFASIA – L’afasia può essere definita un’alterazione dell’uso dei simboli verbali, in assenza di gravi turbe dell’intelligenza e di disfunzioni degli apparati sensoriali o motori. Ne consegue una compromissione del linguaggio caratterizzata da errori dell’espressione orale, disturbi della comprensione e difficoltà di reperimento dei vocaboli. L’afasia si manifesta per lesioni di specifiche aree perisilviane dell’emisfero «dominante», in soggetti che hanno già l’uso della parola e deve essere, pertanto, distinta dai difetti di sviluppo del linguaggio rilevabili in età evolutiva. Lo studio dell’afasia fornisce le basi delle conoscenze attuali sull’organizzazione morfofunzionale del linguaggio. In linea di massima si tratta di un disturbo che coinvolge più modalità linguistiche simultaneamente, associandosi a disturbi della lettura e della scrittura, a differenza della disartria che, essendo un disturbo esclusivamente motorio ed esecutivo, colpisce solo l’espressione verbale. L’afasia si distingue altresì dalla completa perdita del linguaggio o mutismo, determinata da un danno cerebrale diffuso quale si verifica in corso di grave trauma cranico o di sindrome apallica. Nelle prime fasi di una lesione focale acuta, si può avere un quadro di grave inibizione della produzione verbale che, tuttavia, rapidamente regredisce per lasciare spazio a disturbi propriamente fasici. I disturbi fasici nei bilingui che imparano due lingue nello stesso periodo di tempo sono simili, mentre si riscontrano maggiori differenze nel grado di afasia tra le due lingue quando l’apprendimento è avvenuto in tempi diversi. Il deficit fasico può comparire in forma accessuale in corso di crisi epilettiche o emicraniche ed in questo caso il disturbo si manifesta a coscienza integra come arresto dell’eloquio in presenza di una comprensione sostanzialmente inalterata. È opportuno ricordare che il termine “afemia “, oggi scarsamente utilizzato, dovrebbe identificare malati che presentano un linguaggio non fluente con comprensione e scrittura normali. L’afemia sarebbe da considerare un disturbo motorio della fonazione e non un disturbo fasico.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Analisi semeiotica dei disturbi fasici Le alterazioni dell’espressione verbale hanno caratteristiche, natura e gravità estremamente variabili; in alcuni casi il disturbo è tanto rilevante da rappresentare l’aspetto predominante, mentre in altri è meno evidente e si può accompagnare ad alterazioni della ripetizione, comprensione orale, lettura e scrittura per dar luogo a una serie di sindromi afasiche, correlate con la localizzazione della lesione. I disturbi che descriveremo sono presenti in tutti i sistemi linguistici e si associano variamente dando luogo a differenti quadri clinici o sindromi afasiche. Negli ultimi decenni la definizione di questi quadri è stata arricchita dal contributo della neurolinguistica che, applicando modelli e metodologie proprie, ha permesso di precisare il significato dei diversi sintomi. Tuttavia, l’approccio neurolinguistico che, incidentalmente, ha contribuito a dimostrare l’elevata variabilità del linguaggio afasico, integra ma non sostituisce la nosografia delle sindromi afasiche, il cui rilievo clinico-prognostico viene così confermato.
I disturbi fasici, variabili nei diversi quadri clinici e mutevoli, anche nello stesso paziente, vengono esaminati sia conversando con il soggetto su temi liberi sia con appositi tests. Se il linguaggio spontaneo è limitato sarà opportuno sollecitare il paziente mediante semplici domande che consentano di ottenere una risposta articolata piuttosto che monosillabica, chiedendo notizie sull’attività lavorativa, sul decorso della malattia, o la descrizione di compiti usuali quali il radersi o il preparare una pietanza. La somministrazione di tests si propone di quantificare gli aspetti più importanti della compromissione linguistica. A questo scopo esistono esami standardizzati, quali la versione italiana dell’Aachen Aphasic Test, che consente di confrontare il risultato individuale sia con la prestazione di soggetti normali che con quella di pazienti afasici, in modo da individuare la presenza di deficit del linguaggio e da determinarne l’entità, anche se la validità e l’affidabilità dei vari tests standardizzati va criticamente valutata. La valutazione del deficit del linguaggio può essere completata esaminando la capacità di comunicare nelle situazioni quotidiane, a prescindere dal sistema - verba-
le, gestuale o mimico - impiegato. In tutti i casi il soggetto dovrà essere posto il più possibile a proprio agio, dato che le prestazioni risentono notevolmente dello stato emotivo. Si dovrà individuare accuratamente la presenza di disturbi cognitivi, che possono alterare il risultato della prestazione verbale in assenza di afasia, conducendo ad errate conclusioni diagnostiche. Ad esempio, la presenza di disturbi gnosici può interferire con le prestazioni che richiedano il riconoscimento visivo, come la denominazione di immagini o l’indicazione di oggetti designati verbalmente dall’esaminatore. In questo caso si richiederà la descrizione gestuale e mimica dell’uso di oggetti e del significato di immagini che il soggetto non riesce a denominare o indicare. Analogamente, nella prova di esecuzione di ordini, è opportuno escludere l’esistenza di disturbi prassici, che potrebbero alterare la prestazione, indipendentemente dalla comprensione. L’analisi della prestazione può trovare un utile completamento nella somministrazione di tests psicometrici di tipo non verbale (ad es. le Matrici Progressive Colorate di Raven) che possono fornire indicazioni sull’eventuale difetto intellettivo, la cui entità non è necessariamente correlata al disturbo linguistico.
Uno schema elementare di esame del linguaggio analizza: l’espressione orale, la ripetizione, la comprensione orale, la lettura e la scrittura. Espressione orale Si valuta nel corso di una conversazione libera, su temi di diversa difficoltà, e facendo eseguire prove di denominazione di immagini o di oggetti, di descrizione di scene complesse, di costruzione di frasi a partire da due o tre vocaboli e richiedendo la formulazione di serie automatiche. I disturbi dell’espressione orale sono rappresentati da alterazioni della struttura della parola o della frase e da modificazioni della fluenza. ALTERAZIONI DELLA STRUTTURA DELLA PAROLA Il disturbo fasico può dar luogo ad errori fonologici e fonetici. Gli errori fonologici, o parafasie fonemiche, si manifestano nell’incapacità a selezionare i
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suoni fonemici nella giusta sequenza, in assenza di disturbi di articolazione (tata invece di casa o talovo invece di tavolo). Le parafasie fonemiche o letterali possono essere di 4 tipi: a) sostituzioni, per cui un segmento sonoro è scambiato con un altro (ferra per terra); b) semplificazioni con soppressione di un segmento o di una sillaba (ippotami invece di ippopotami); c) addizioni, con aggiunta di uno o più suoni in posizione errata (papra per papa); d) spostamenti, che includono metatesi, caratterizzate da trasposizioni di lettere nella stessa parola (sucido invece di sudicio) e da assimilazioni con trasformazione di suoni sonori, come p,t,v, nei corrispondenti suoni sordi b,d,f e viceversa (pampino per bambino). Le parafasie fonemiche emergono con estrema variabilità in ogni aspetto della produzione verbale, coinvolgendo sia l’eloquio spontaneo che la ripetizione e la denominazione. Gli errori fonetici, o parafasie fonetiche, riflettono, invece, l’alterazione dei programmi che traducono la rappresentazione fonologica di una parola in movimenti articolatori. Le difficoltà di articolazione si manifestano con distorsioni delle caratteristiche acustiche dei singoli suoni vocalici o consonantici, e con la modificata intonazione della parola. Nelle forme più gravi si realizza il quadro della «disintegrazione fonetica», in cui, alla perdita della programmazione motoria dei suoni verbali, si aggiungono paresi, alterazioni della coordinazione e del tono delle strutture fonatorie. Si tratta di un quadro clinico caratterizzato da un eloquio estremamente laborioso e dall’evidente sforzo del paziente di produrre il corretto suono o la giusta sequenza sonora. Nonostante i vari tentativi di aggiustamento il discorso risulta caratterizzato da distorsioni cui si associano omissioni, sostituzioni, addizioni, ecc., e ogni correzione fallisce, producendo nuovi errori fonetici in un frustrante e continuo tentativo di approssimare la corretta rappresentazione della parola cui il paziente non riesce ad approdare. Questa alterazione può variare a seconda della condi-
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zione emotiva e dipende dal tipo di prestazione richiesta; migliora quando si tratta di serie linguistiche precocemente apprese e altamente automatizzate (ad es. modi di intercalare, bestemmie, preghiere, ecc.) e peggiora con la difficoltà del compito. ALTERAZIONI DELLA STRUTTURA DELLA FRASE Nel linguaggio afasico è possibile distinguere un disturbo di contiguità, consistente nell’incapacità ad ordinare sul piano grammaticale e sintattico vocaboli correttamente selezionati, da un disturbo di selezione, caratterizzato da difficoltà a scegliere le parole appropriate, e da produzioni verbali abnormi. Disturbi di contiguità – Le più tipiche manifestazioni sono rappresentate dall’agrammatismo e dal paragrammatismo. L’agrammatismo consiste nell’incapacità di utilizzare correttamente le norme grammaticali, e deriva sia dall’uso improprio che dall’assenza delle parti invariabili del discorso quali preposizioni, congiunzioni, avverbi, dei verbi ausiliari e dei suffissi che consentono di coniugare i verbi, e di modificare numero (singolare o plurale) e genere (maschile o femminile) dei sostantivi. I più comuni errori grammaticali sono caratterizzati da a) omissioni e sostituzioni di articoli, preposizioni, congiunzioni e pronomi personali; b) sostituzioni di forme verbali; c) perdita di costruzioni sintattiche coordinate e subordinate; d) alterazione della melodia del linguaggio dovuta alla segmentazione errata delle parole nell’interno della frase; e) mancata comprensione dei termini grammaticali e delle inflessioni che da essi derivano; f) uso di frasi non complete e mescolanza di forme grammaticali diverse. Questi disturbi si manifestano con la produzione di frasi telegrafiche (ad es. Luca andare casa, invece di Luca è andato a casa) in cui si ha la caduta dell’ausiliare e della preposizione e la trasformazione del verbo all’infinito. Pick (1905) che per primo affrontò il tema dal punto di vista linguistico, ipotizzò che nell’elaborazione del linguaggio esistesse una fase preliminare necessaria alla formulazione dello schema della frase nella quale verrebbero successivamente inserite le parole secondo le norme sintattiche e grammaticali. L’agrammatismo rappre-
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senterebbe una regressione dalla fase della completa e corretta formulazione sintattica alla fase dello schema preliminare. Qualunque sia l’interpretazione, il paziente agrammatico perde la capacità di manipolare la struttura grammaticale della frase, pur essendo relativamente risparmiata la disponibilità di vocaboli e la capacità di usarli in modo corretto.
Il paragrammatismo è caratterizzato da una forma sintattica relativamente preservata, con una abbondante produzione di elementi grammaticali e strutture sintattiche usate in maniera inappropriata, come è il caso di questa sequenza: «quando la papà anda in casa trova tutto con disordine ...» in cui l’articolo e la preposizione sono utilizzati erroneamente ed il verbo è coniugato, ma in maniera sbagliata. Disturbi di selezione – Il deficit fasico si associa, pressoché regolarmente, ad una grave riduzione della quantità di parole disponibili, dando luogo ad un disturbo definito anomia, cioè incapacità di evocare intenzionalmente un vocabolo sia nell’eloquio spontaneo che nelle prove tests. Il disturbo non è specifico e un certo numero di condizioni morbose (stati confusionali, demenze e situazioni psicopatologiche di vario tipo) possono accompagnarsi ad anomia. L’esistenza di anomia, apprezzabile nel corso del linguaggio spontaneo può essere meglio valutata nel corso del test di denominazione in cui si richiede di produrre i nomi di una serie di immagini o di oggetti presentati visivamente o attraverso altre modalità sensoriali. L’anomia afasica è molto variabile: l’impossibilità a reperire una parola in un determinato contesto, può scomparire nel linguaggio colloquiale o sotto una spinta emotiva particolarmente forte, ad es. il paziente riesce a dare il buongiorno all’arrivo del medico, ma non dietro comando. È questo un esempio di dissociazione automatico-volontaria che sottolinea il ruolo emotivo nella produzione verbale, anche in condizioni di notevole riduzione del repertorio lessicale. L’anomia afasica dipende dalla compromissione di fattori diversi ed è correlata alla localizzazione della lesione. In particolare, lesioni temporali si associano ad un’estrema povertà lessicale e le difficoltà di reperimento dei vocaboli danno luogo a sostituzioni con parole passepartout o circonlocuzioni che falliscono lo scopo, producendo il quadro clinico dell’afasia anomica o amnestica (v. pag. 142).
Esistono forme di anomia specifiche per determinate categorie di vocaboli (ad es. i colori) e per alcune modalità di presentazione. Tra queste va segnalata l’afasia ottica di Freund, in cui il disturbo è rappresentato dalla dissociazione tra denominazione di stimoli visivi, alterata pur in presenza di un normale riconoscimento, e denominazione di stimoli tattili e uditivi, sostanzialmente normale.
Il disturbo di selezione si può anche manifestare con produzioni verbali abnormi che includono: stereotipie, parafasie, neologismi. Le stereotipie verbali sono emissioni ricorrenti costituite da una sillaba, una parola o una frase più o meno significativa che viene ripetuta iterativamente, spesso in maniera involontaria. Questo tipo di emissione, frequentemente osservabile nello stadio acuto di sindromi afasiche gravi, si associa ad un grave disturbo della capacità di produrre parole, per cui ogni tentativo di comunicare dà luogo alla loro comparsa, quasi sempre rapida ed esplosiva. Talora perdono il carattere di emissione involontaria per acquistare tonalità affettive ed intonazioni variabili a seconda delle circostanze, costituendo l’unico mezzo verbale che consente al paziente di esprimere emozioni e stati d’animo, anche se in modo inadeguato ed elementare. Le parafasie rappresentano sostituzioni di suoni o parole per un difetto di selezione, e si distinguono in parafasie fonemiche o letterali già descritte (v. pag. 129) e parafasie semantiche o verbali. Le parafasie semantiche o verbali sostituiscono un vocabolo con un altro incongruo, ma presente nella lingua in cui si esprime il paziente. La parafasia può essere legata alla stessa classe semantica della parola bersaglio, come accade usando «cane» per «gatto», entrambi i sostantivi rappresentando nomi di animali; o può essere costituita da una parola che non ha alcun legame semantico o formale con la parola bersaglio. Le parafasie verbali possono complicarsi con parafasie fonemiche come accade, ad esempio, nel caso in cui si sostituisce la parola «mela» con «arancio», e poi l’alterata sequenza fonemica di arancio produce il neologismo «rncio».
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I neologismi sono sostituzioni di parole con altre inesistenti nella lingua del paziente e, pertanto, prive di significato. La frequenza di questi elementi può essere tale da determinare la comparsa di gergofasia a sua volta distinta in gergo fonemico e gergo semantico. In entrambi i casi il discorso non è comprensibile, anche se scorre con estrema fluidità, dando l’impressione che il soggetto padroneggi perfettamente un linguaggio solo a lui noto. Nel gergo fonemico esiste un’espressione verbigerante di serie sillabiche prive di significato, ottenute combinando in modo inconsuetamente rapido un numero di fonemi molto limitato. Il gergo semantico indica la successione incontrollata di parafasie verbali frammiste a neologismi che trasformano il discorso in un’insalata di parole. ALTERAZIONI DELLA FLUENZA VERBALE I fenomeni sopradescritti si accompagnano ad un’alterazione della fluenza, interferendo con la scorrevolezza del linguaggio spontaneo. Il giudizio sulla fluenza del linguaggio si fonda sulla velocità dell’emissione verbale, la lunghezza delle frasi, la prosodia o melodia del discorso, la presenza e natura di pause ed inceppi, la ricchezza di parole significative (sostantivi e verbi) rispetto a quelle non significative (preposizioni, congiunzioni, avverbi); inoltre il diverso grado di fluenza si accompagna ad una differente consapevolezza del disturbo. La maggior parte dei pazienti afasici può essere distinta in due gruppi, definiti rispettivamente afasici non fluenti ed afasici fluenti. La distinzione basata sulla fluenza è parallela a quella tra disturbi fonologici e fonetici e tra agrammatismo e paragrammatismo; la presenza di disturbi fonologici e di paragrammatismo è più frequente negli afasici fluenti mentre disturbi fonetici ed agrammatismo sono caratteristici degli afasici non fluenti. I due gruppi corrispondono ad una diversa localizzazione della lesione encefalica che nel primo caso è pre-rolandica e nel secondo caso post-rolandica (Fig. 4.1).
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AFASIA NON FLUENTE – Il linguaggio è caratterizzato dalla marcata riduzione della velocità del discorso, che spesso scende al di sotto delle dieci parole per minuto, e dall’aumento dello sforzo per produrre e associare singoli fonemi o parole. Le frasi sono spesso limitate a poche parole separate da inceppi e pause, determinate dalla difficoltà di produrre la corretta sequenza fonemica o verbale. I disturbi dell’articolazione della parola sono assai frequenti anche se la ridotta fluenza può essere dovuta alla difficoltà di procedere da una parola all’altra o da un raggruppamento verbale al successivo. Talora l’emissione è distorta nel ritmo o nella melodia e presenta modificazioni della cadenza che costituiscono il quadro clinico della disprosodia. L’afasico non fluente ha consapevolezza del proprio deficit e delle difficoltà insormontabili che incontra nel comunicare il proprio pensiero. Ciò può dare origine, nei casi più gravi, a «reazioni catastrofiche», vere crisi di disperazione di fronte alla propria incapacità a superare le difficoltà verbali. AFASIA FLUENTE – L’emissione verbale presenta caratteristiche opposte, dal momento che la quantità di parole prodotte nell’unità di tempo è normale o decisamente superiore alla norma. La relativa carenza di parole significative rispetto alle non significative (avverbi, congiunzioni, ecc.) caratterizza la produzione verbale che, a dispetto della sovrabbondanza, consente solo un minimo scambio di informazioni: il discorso risulta «vuoto» ossia privo di contenuti informativi. La comunicazione verbale può essere, inoltre gravemente compromessa da parafasie e neologismi che possono essere tanto abbondanti da giungere alla gergofasia. Non esiste alcuna difficoltà o sforzo evidente nell’eloquio e nella sua articolazione; la linea melodica del discorso è normale. Il disturbo predominante è rappresentato da alterazioni del-
Fig. 4. 1 - Lesione pre-rolandica: afasie non fluenti; lesione post-rolandica: afasie fluenti.
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la produzione lessicale con riduzione della capacità di comunicare verbalmente. Gli eventuali inceppi sembrano riflettere un deficit d’accesso ad una particolare parola e questa difficoltà dà luogo a circonlocuzioni o perifrasi costituite da verbigerazioni abbondanti, prive di significato. A differenza dell’afasico non fluente, il paziente è spesso privo di consapevolezza del proprio deficit e del fatto che l’interlocutore non riesce a comprendere il suo linguaggio.
Le lesioni responsabili delle sindromi con alterata ripetizione sarebbero localizzate nelle aree perisilviane, immediatamente circostanti la scissura di Silvio, mentre le sindromi che presentano una normale ripetizione sarebbero dovute a lesioni delle aree marginali, situate perifericamente, attorno alle zone perisilviane (Fig. 4.2).
Ripetizione La ripetizione, testata proponendo parole di differente lunghezza, neologismi e frasi di crescente complessità, può essere alterata per varie cause. Quando esiste un difetto di comprensione, come nel caso estremo della sordità verbale pura (v. pag. 143), il soggetto riesce a ripetere solo un limitato numero di elementi che identifica come suoni verbali. Il disturbo della ripetizione può essere legato ad un’alterazione dell’articolazione, presentando le medesime distorsioni del linguaggio spontaneo. D’altro canto, la ripetizione è una funzione indipendente dai restanti aspetti linguistici e, come tale, è servita da strutture specifiche. In alcuni soggetti risulta sproporzionatamente compromessa rispetto al deficit della comprensione e dell’espressione verbale. In altri casi la capacità di ripetere è pressoché intatta, malgrado la grave compromissione della comprensione orale e la normale, ma incontrollata, abilità di ripetere può interferire con il linguaggio spontaneo, determinando frequenti ecolalie, rappresentate dalla ripetizione irrefrenabile di frasi o, più spesso, frammenti di frasi e parole appena pronunciate dall’esaminatore. L’abilità di ripetere correttamente numeri, parole e frasi costituisce una funzione di cui si tiene specifico conto nel classificare le sindromi afasiche. È possibile, infatti, distinguere sindromi afasiche con disturbi della ripetizione (afasia di Broca, di Wernicke, di conduzione, globale, sordità verbale pura) e senza disturbi della ripetizione (afasia transcorticale motoria, transcorticale sensoriale, transcorticale mista, anomia e afasie sottocorticali). Questa distinzione corrisponderebbe, secondo il modello classico, ad una diversa localizzazione della lesione.
Fig. 4. 2 - La lesione delle aree silviane (in bianco) dà luogo ad afasie con alterazione della ripetizione; quella delle aree marginali (tratteggiate) è seguita da afasia senza disturbo della ripetizione.
Comprensione orale Viene valutata chiedendo al soggetto di eseguire ordini di varia complessità e di indicare immagini ed oggetti su designazione orale, avendo preliminarmente esclusa la presenza di disturbi del riconoscimento visivo. Nel test dei gettoni (De Renzi e Vignolo, 1962), comunemente impiegato per esaminare questo deficit, le difficoltà di comprensione vengono graduate introducendo elementi che aggiungono complessità all’ordine con il quale si richiede al paziente di manipolare gettoni di differente grandezza, forma e colore. Dapprima si chiederà, ad esempio, di toccare «un gettone grande», quindi «un gettone grande, tondo», poi ancora «un gettone grande, tondo e giallo», ecc. Nei casi più gravi il paziente non riesce a comprendere gli ordini più semplici e può ripetere una stessa azione, nonostante l’ordine sia stato modificato (perseverazione). Sarà necessario escludere l’eventuale presenza di deficit mnesici,
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che potrebbe alterare la prestazione in assenza di alterazioni della comprensione verbale. La comprensione uditiva non è un fenomeno unitario dipendendo da eventi di differente natura, acustici, fonemici, semantici e sintattici. Tutti i modelli proposti per chiarire i momenti essenziali della comprensione orale hanno in comune i seguenti elementi: a) rilevazione della natura verbale del segnale acustico, b) identificazione delle unità di suono (fonemi) che hanno significato linguistico o percezione fonemica, c) raggruppamento di sequenze fonemiche chiaramente identificabili come parole, significative o non, per consentire la comprensione lessicale e semantica, d) identificazione delle interazioni esistenti tra parole significative nell’ambito di una struttura grammaticale e sintattica caratteristica di un certo sistema linguistico in modo da garantire la comprensione sintattica. Il contesto in cui si presentano le anomalie della comprensione orale - in particolare la variabile concomitanza di disturbi della ripetizione e della comprensione dello scritto - conferma la complessità del deficit. Ad esempio, il relativo risparmio della ripetizione, associato a grave compromissione della comprensione orale e scritta, sembra dimostrare che il paziente è in grado di ricevere con sufficiente chiarezza i messaggi verbo-acustici, ma non riesce ad estrarre il significato dalle sequenze verbali. Altre situazioni, infine, caratterizzate da un deficit parallelo e grave delle tre funzioni - comprensione orale, ripetizione e comprensione dello scritto - suggeriscono l’esistenza di una alterazione globale della capacità di analizzare il linguaggio.
In generale gli afasici con disturbi di comprensione orale, non presentano difficoltà nella rilevazione di semplici toni acustici, anche se l’alterazione può comparire con l’aumento della frequenza dei segnali uditivi; ciò è particolarmente evidente nella sordità verbale pura, dove la difficoltà di comprensione è tanto maggiore quanto più è alta la velocità del messaggio verbale. Nulla conferma che il deficit di comprensione orale possa dipendere dalla difficoltà di discriminare i fonemi, ad es. p da b, t da d, tanto più che, sia nei soggetti normali che negli afasici, il riconoscimento delle normali differenze fonemiche sembra basarsi piuttosto sulla conoscenza semantica, cioè sull’identificazione del significato della parola. È, infatti, più age-
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vole discriminare i suoni di parole di senso compiuto che i neologismi. Anche se componenti semantiche e struttura sintattica e grammaticale si integrano nell’ambito di una frase per renderne comprensibile il contenuto, i due elementi sono tenuti distinti sul piano semeiologico. Quadri afasici possono caratterizzarsi per la presenza di un’alterata capacità di comprendere le caratteristiche sintattiche e grammaticali del discorso, mentre la comprensione del significato lessicale può essere relativamente risparmiata. Viceversa, lesioni corticali diffuse, responsabili di quadri di grave demenza, si possono associare ad una compromissione semantica, senza, peraltro, alterare la capacità di comprendere le caratteristiche sintattiche e grammaticali del discorso. Lettura Con il termine di alessia si indica sia l’incapacità a comprendere lo scritto che la difficoltà a leggere ad alta voce; i due disturbi devono, tuttavia, essere distinti dal momento che esistono pazienti in grado di comprendere un testo scritto, pur non essendo capaci di leggere ad alta voce e viceversa. L’alessia presuppone che il soggetto abbia acquisito la capacità di leggere e, quindi, va distinta dalla dislessia che si riferisce all’incapacità di apprendere la lettura per varie cause patologiche, insorte nell’età evolutiva. Il disturbo, valutato mediante l’esecuzione di ordini scritti o l’indicazione di oggetti richiesta per iscritto, può essere dovuta ad incapacità a comprendere singole lettere (alessia letterale) o parole (alessia verbale). La comprensione dello scritto è strettamente correlata al grado di integrità della comprensione orale e dipende dalla possibilità di trasferire le informazioni visuo-grafiche alle aree corticali deputate al processo linguistico. Pertanto, ad eccezione della sordità verbale pura, quadri di afasia con alterazione della comprensione orale si associano frequentemente a deficit della comprensione dello scritto. D’altro canto una grave compromissione della capacità di comprendere lo scrit-
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to può associarsi ad un risparmio relativo o addirittura ad una completa integrità della comprensione orale. È il caso dell’alessia con agrafia, in cui il disturbo coinvolge comprensione dello scritto e scrittura anche se può associarsi a lievi disturbi dell’espressione e della comprensione del linguaggio e a sindrome di Gerstmann (v. pag. 160). Analogamente, nell’alessia senza agrafia, sindrome spesso considerata di natura agnosica, il disturbo è limitato alla sola comprensione dello scritto in assenza di deficit dell’espressione grafica o di disturbi delle altre funzioni linguistiche.
Scrittura Disturbi della scrittura che non siano dovuti a deficit puramente motori (emiplegia, rigidità extrapiramidale, atassia cerebellare, distonie) sono indicati con il termine di agrafia. La definizione del disturbo presuppone l’avvenuta acquisizione della capacità di scrivere. L’analisi della scrittura prevede la valutazione della scrittura spontanea, dettata e copiata. Poiché la scrittura mette in moto meccanismi diversi, esistono differenti quadri clinici: agrafia afasica, quando è associata a disturbi linguistici, agrafia aprassica associata a compromissione di prestazioni gestuali, agrafia spaziale associata a deficit dell’orientamento spaziale ed infine una agrafia pura, quando il disturbo dell’espressione scritta appare del tutto isolato. Nell’agrafia afasica si ha un sovvertimento della capacità di combinare correttamente i simboli grafici, di per sé correttamente eseguiti. Le modificazioni dello scritto hanno una forte analogia con le parafasie dell’espressione orale e sono caratterizzate da sostituzioni di lettere, sillabe e parole che danno luogo a paragrafie (letterali, sillabiche, verbali), neologismi e, nei casi più gravi, a gergografia. Si possono associare perseverazioni di una o più parole ed errori grammaticali o sintattici. Quando l’alterazione è particolarmente grave, le scritture spontanea e dettata sono completamente assenti, e risulta possibile solo la copia servile in cui il paziente, incapace a trascrivere un testo nel normale corsivo, è costretto a “disegnare” i singoli caratteri grafici copiando l’originale. Nell’agrafia aprassica l’alterazione interessa il segno grafico in tutte le modalità e consiste in realizzazioni informi, costituite da pochi segni (scrittura a cerchi) iterativamente ripetuti.
Aspetti non verbali della comunicazione orale La comunicazione include elementi non linguistici che possono essere compromessi in corso di afasia, anche se meno di quanto avviene a livello sintattico e semantico. La prosodia, ossia il ritmo, la melodia e l’intonazione della frase, sottolinea questi differenti aspetti a seconda che si tratti di prosodia affettiva o pragmatica. La prosodia affettiva dà il colorito affettivo alla comunicazione quando si vogliano esprimere emozioni o sentimenti quali ira, gioia, tristezza, etc. La prosodia pragmatica sottolinea le indicazioni contenute nel discorso quando, ad esempio, si fa un’affermazione o, invece, si esclama, si interroga, si ordina, si sollecita, etc. La prosodia può altresì avere una valenza linguistica laddove consente di modificare il significato della frase modulando accenti e pause del discorso. È il caso della frase latina «ibis redibis non morieris in bello» che ha un significato ambivalente, a seconda che la pausa (segnata dalla virgola) segua il redibis («ibis redibis, non morieris in bello»: andrai tornerai, non morrai in guerra) o il successivo non («ibis redibis non, morieris in bello»: andrai non tornerai, morrai in guerra). La prosodia affettiva è in genere compromessa da lesioni emisferiche destre; mentre lesioni dell’emisfero sinistro possono interferire con gli aspetti pragmatici o linguistici della prosodia ed il soggetto può essere scambiato per uno straniero. È possibile che l’afasia si associ ad altri disturbi cognitivi che ricordano quadri demenziali, in parte legati alla presenza di deficit di comprensione orale, superati i quali l’afasico può fornire buone prestazioni, in parte dovuti alla generale difficoltà degli afasici di manipolare il materiale verbale. Infatti quando si impieghino prove che richiedono la soluzione di tests non-verbali, ad esempio la prova delle Matrici Colorate di Raven, la prestazione degli afasici è generalmente sovrapponibile a
Funzioni nervose superiori quella dei cerebrolesi non-afasici. Anche se il decadimento mentale, che colpisce sia prove verbali che non verbali, può complicarsi con deficit fasici, i difetti linguistici e le alterazioni cognitive devono essere considerati separatamente. L’afasia può associarsi ad aprassia bucco-linguofacciale tanto più frequentemente quanto più grave è il disturbo fasico. I due deficit sono indipendenti, come dimostra la differente velocità di recupero della funzione; è ,infatti, possibile che in un paziente, inizialmente afasico ed aprassico, il disturbo del linguaggio persista ben oltre la guarigione del secondo.
La rappresentazione cerebrale della funzione fasica È ormai largamente accettato che il comportamento e, quindi, anche il linguaggio siano correlati con la struttura e la fisiologia della corteccia cerebrale. Fin da quando Paul Broca (1863) sottolineò l’associazione fra lesione del piede della terza circonvoluzione frontale sinistra e disturbo fasico, la localizzazione cerebrale delle aree del linguaggio e la relativa organizzazione sono state e, tuttora sono, oggetto di ricerca. Per un lungo periodo, sulla base delle correlazioni anatomo-cliniche più significative è stata postulata l’esistenza di «centri corticali», opportunamente localizzati, ciascuno selettivamente responsabile di isolate funzioni linguistiche. Nel modello classico di Wernicke e Lichteim il messaggio orale produce la sollecitazione di immagini verbo-acustiche che ne permettono la comprensione; se dal polo verbo-acustico le immagini vengono trasmesse alla regione motoria, inducono la elaborazione di immagini verbo-motorie che si trasformano in parole. Il centro verbo-acustico garantisce l’assenza di intrusioni parafasiche nel linguaggio e controlla le informazioni provenienti dalle aree di associazione visiva consentendo la lettura. Il modello, nella sua semplicità, identifica due poli, con specifiche differenze funzionali, l’uno localizzato anteriormente, l’altro posteriormente. Anche se oggetto di critiche, tra le prime quella di Freud (1891) che sottolineava l’evidente ipersemplificazione del modello, continua ad essere la base di molte analisi contemporanee perché, meglio di altri, riflette la realtà clinica. Tuttavia, l’eccessivo schematismo della localizzazione di «centri» corticali mal si adatta alla complessità dei disturbi, e ai processi di integrazione tra aree cerebrali diverse per la stessa funzione del linguaggio.
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A conferma di questa impostazione possiamo dire che solo raramente è possibile ottenere una correlazione diretta ed univoca tra segno clinico e lesione di un’area specifica. In effetti l'identificazione della sede di una lesione cerebrale, sia alle neuroimmagini che all’autopsia, non permette di affermare che la funzione cognitiva alterata abbia la sua genesi in quell’area. La lesione può risparmiare la prestazione ai tests, ma ciò non implica che l’area danneggiata sia irrilevante per la funzione esaminata. Al contrario il danno anatomico può modificare il compito cognitivo esaminato, ma ciò non significa che quella determinata area sia l’unica con valore critico per quella funzione (Chow, 1967). Il rilievo che ogni atto cognitivo, anche semplice ed elementare, si accompagni all’attivazione di regioni cerebrali diverse è stato recentemente confermato dagli studi del flusso ematico e del metabolismo cerebrale. Ad esempio, anche produzioni verbali semplici e stereotipate attivano più aree cerebrali simultaneamente. La funzione del linguaggio non sembra, quindi, localizzata in un’area specifica e circoscritta, ma appare, piuttosto, il risultato dell’attività di raggruppamenti neuronali localizzati in diverse aree cerebrali corticali e sottocorticali strettamente interconnesse da una rete neurale complessa, realizzando un sistema spazialmente distribuito. La sede della lesione, quindi, non proverebbe l’esistenza di «centri» del linguaggio, ma identificherebbe semplicemente la maglia in cui l’interruzione del sistema è in grado di determinare la comparsa di un segno clinico. D’altra parte, già Jackson alla fine dell’ottocento (1878) affemava che individuare le aree lese nei disturbi del linguaggio è cosa ben diversa dall’identificare le strutture che elaborano il linguaggio: è improprio inferire la funzione da un sintomo.
Dall’analisi della sede di lesione encefalica negli afasici discende la definizione di dominanza emisferica e l’identificazione di strutture che, con ruoli differenti, partecipano alla funzione linguistica. Dominanza emisferica Il concetto di dominanza non implica che un emisfero governa l’altro, controllandone l’attività, né che un emisfero presiede in maniera esclusiva a singole funzioni integrative, come sembrava suggerire l’affermazione secondo la quale «è cruciale per il linguaggio nei destrimani l’emisfero sinistro, e nei mancini l’emisfero destro». Si riferisce, piuttosto, alla specializ-
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zazione di ciascun emisfero per alcune funzioni e prevede una differente organizzazione anatomo-funzionale, pur modulata da una continua integrazione reciproca. Se le turbe fasiche e prassiche si verificano per lesione dell’emisfero sinistro, le turbe dell’orientamento visuospaziale (v. pag. 157) sono più frequenti per lesione dell’emisfero destro. La dominanza, quindi, implica un diverso grado di lateralizzazione di alcune funzioni cognitive che, come accade per il linguaggio, sono rappresentate in maniera asimmetrica nei due emisferi. Anche se è oggi ammessa una associazione tra preferenza manuale e lateralizzazione per il linguaggio, il rapporto tra i due parametri è tutt’altro che semplice e diretto, come dimostra lo studio dei disturbi del linguaggio nei mancini. Le lesioni cerebrali che determinano afasia sono localizzate nell’emisfero sinistro nella quasi totalità dei destrimani ed approssimativamente nel 60% dei mancini o ambidestri. Solo in una piccola percentuale dei destrimani, valutata tra l% e il 5%, l’afasia può essere dovuta ad una lesione emisferica destra; in questo caso si parla di afasia crociata. Queste indicazioni sono confermate dai risultati del test di Wada-Rasmussen, effettuato in pazienti neurochirurgici allo scopo di individuare l’emisfero dominante per il linguaggio prima di procedere ad interventi demolitori in caso di neoplasia cerebrale (Milner, 1994). Il test consiste nell’introduzione intracarotidea di Amytal sodico che determina il temporaneo arresto della produzione verbale, se l’emisfero è rilevante per il linguaggio. Per inattivazione dell’emisfero sinistro il linguaggio si modifica nella quasi totalità dei destrimani e nel 69% dei mancini ove si riscontra una frequente rappresentazione bilaterale del linguaggio. In circa il 15% dei pazienti mancini, infatti, l’iniezione dell’uno o dell’altro emisfero non produce significative alterazioni del linguaggio; nel restante 16% l’emisfero dominante è il destro.
La lateralizzazione per il linguaggio non è solo un fatto funzionale, ma ha anche un substrato anatomico, come dimostra la maggior estensione, rispetto all’emisfero controlaterale, delle aree citoarchitettoniche corrispondenti ai centri del linguaggio. Il rilievo si adatta anche ai neonati e dimostra che la lateralizzazione cerebrale del linguaggio è geneticamente acquisita. È comunemente accettato che ad uno stadio di equipo-
tenzialità dei due emisferi faccia seguito, verso il 3°- 4° anno di vita, il processo di specializzazione dell’emisfero dominante, dovuto, probabilmente, alla maggiore prontezza ed efficienza nell’acquisire funzioni linguistiche. Verso il 12°15° anno il processo è praticamente concluso e l’emisfero dominante assume il suo ruolo definitivo. Infatti fino all’età di 10 anni l’emisferectomia sinistra, in pazienti affetti da epilessia ribelle ai trattamenti medici, si accompagna ad un pressoché completo recupero del linguaggio, e d’altra parte, solo raramente, lesioni dell’area del linguaggio in età infantile producono quadri di afasia permanente. Il tipo di afasia è influenzato dall’età, ed è assai difficile osservare quadri di afasia fluente nell’infanzia dove, invece, prevalgono disturbi di tipo non-fluente.
Le aree del linguaggio In adulti destrimani si distingue nell’emisfero sinistro, dominante per il linguaggio, un’area centrale situata in regione perisilviana e costituita dalle strutture riferite più avanti (a,c,d), la cui distruzione determina pressoché costantemente afasia, ed un’area marginale, che comprende le restanti aree e la cui lesione non determina necessariamente la comparsa di afasia, anche se spesso si associa a disturbi del linguaggio (Fig. 4. 2). All’interno delle aree perisilviane le regioni situate anteriormente o posteriormente alla scissura di Rolando (Fig. 4. 1) si caratterizzano per una diversa specializzazione funzionale. Una lesione delle strutture pre-rolandiche determina la comparsa di afasia non fluente, una lesione delle strutture post-rolandiche si associa alla comparsa di afasia fluente, con variabile grado di alterazione della comprensione. Nell’ambito di questa organizzazione il modello classico identifica quali strutture responsabili delle funzioni del linguaggio, le seguenti regioni, tutte localizzate, nell’emisfero di sinistra (tranne la corteccia uditiva di destra, riportata in d):
Funzioni nervose superiori
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e) il terzo inferiore della corteccia motoria e somatosensoriale, nella regione rolandica, che presiede alla funzione dei muscoli utilizzati per l’espressione verbale; f) il giro angolare (area 39 di Brodmann), il giro sopramarginale (area 40 di Brodmann) e le loro connessioni con il lobo limbico (Fig. 4. 3).
A
La ricerca neuropsicologica e gli studi con neuroimmagini, attualmente condotti molto spesso in associazione, hanno permesso di ampliare notevolmente le nostre conoscenze individuando le diverse strutture che intervengono nella produzione e nella comprensione del linguaggio. Un breve riassunto di questi dati viene fornito nei paragrafi seguenti. Produzione di Parole e Frasi - Fluidità
B
Fig. 4. 3 (A e B) - Le aree la cui lesione determina afasia, sono individuate nella faccia laterale e mediale dell’emisfero; l’area 6 (faccia mediale) rappresenta la sede responsabile solo di una inibizione grave dell’eloquio.
a) l’area anteriore o di Broca (area 44 di Brodmann), localizzata a livello dell’opercolo rolandico, corrispondente al piede della terza circonvoluzione frontale, provvede alla produzione del linguaggio; b) l’area posteriore o di Wernicke, (area 22 di Brodmann), situata nel terzo posteriore della prima circonvoluzione temporale e parte della seconda circonvoluzione temporale, deputata alla comprensione del linguaggio. c) il fascicolo arcuato, via di connessione che unisce l’area di Broca e di Wernicke decorrendo nella profondità del giro sopramarginale e dell’insula; d) le due corteccie uditive primarie e le vie di connessione interemisferiche;
L’area anteriore, attiva per la produzione del linguaggio, include a sinistra oltre all’area 44 e 45, anche aree più anteriori, quale l’area frontale dorsolaterale (aree 9,10, 46) (v. pag. 518). L’area di Broca, quindi, fa parte di un sistema che implica l’attività di una vasta area frontale e ha la capacità di rendere operative diverse aree associate. La fluidità del linguaggio è in rapporto con l’integrità delle aree frontali inferiori e posteriori, comprese le sottostanti aree sottocorticali, oltre alle aree corticali e sottocorticali a livello rolandico. L’area frontale dorsolaterale esplica la sua funzione nella produzione e nel monitoraggio di un discorso di lunga durata, coordinando l’emissione di espressioni verbali che durano nel tempo (narrazioni, ripetizione di una storia, etc). Le strutture mediali del lobo frontale (incluse l’area supplementare motoria e la parte anteriore del giro cingolato) hanno un ruolo nell’iniziare e nel mantenere il flusso verbale,e nel controllo delle emozioni e dell’attenzione. La lesione di queste aree non determinerebbe un quadro afasico, ma produrrebbe vari gradi di acinesia e impossibilità ad emettere le parole, riducendo, in tal modo, la capacità di comunicare per via verbale, gestuale e mimica.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Le aree anteriori del lobo temporale (aree 20, 21 e 38 di Brodmann), hanno la funzione di reperire parole, in assenza di alterazioni fonemiche e fonetiche o di deficit grammaticali. La lesione del polo temporale (area 38) determinerebbe l’incapacità di rievocare nomi propri (sostantivi che identificano luoghi e persone uniche) senza interessare i nomi comuni (sostantivi che identificano categorie ad es. libro, tavolo, etc). Quando invece la lesione coinvolge le aree 20 e 21 il difetto si verifica sia per i nomi comuni che per i nomi propri. In entrambi i casi è conservata l’abilità di reperire altri tipi di parole, quali aggettivi, verbi, funtori grammaticali, etc. Esistono, infatti, casi clinici che dimostrano deficit dissociati nel produrre parole di categorie affini, ad esempio un malato è in grado di denominare concetti animati e non concetti inanimati, di indicare nomi di frutta ma non di vegetali, di esprimere nomi geografici ma non di altre categorie affini etc. Questi rilievi dimostrano che reti neurali diverse provvedono ad attività fasiche affini e possono fornire supporto alla concezione che il cervello funzioni per moduli distribuiti in aree anche distanti. Comprensione delle Parole e Frasi L’area posteriore, attiva per la comprensione del linguaggio, non include solo l’area 22. Il disturbo nella comprensione delle singole parole, con la compromissione isolata della ritenzione immediata della parola udita, è indicato come alterazione della “memoria verbale uditiva immediata”, ed è dovuto a lesione della circonvoluzione sopramarginale posteriore sinistra (area 39) e della circonvoluzione temporale superiore (area 22), aree in cui ha sede il “lessico fonologico di emissione”. Il deficit nella comprensione delle parole di contenuto è associato a lesione della parte posteriore della circonvoluzione temporale superiore (area 22) e parietale inferiore (area 40). Se la lesione è più ampia e coinvolge anche l’area 37, maggiore è il deficit di comprensione semantica.
Analogamente a quanto descritto più sopra per la produzione del linguaggio, esistono casi che dimostrano aspetti dissociati della comprensione in rapporto alla categoria delle parole. È possibile riscontrare malati con dissociazione tra comprensione ortografica (parola scritta) e fonologica (parola udita), dissociazione nella comprensione dei nomi propri oppure dei nomi comuni, dissociazione nella capacità di definire concetti animati o inanimati. Questi rilievi corroborano,anche per la comprensione, l’esistenza di circuiti neurali diversi per funzioni del tutto affini. Lesioni della testa del nucleo caudato e della regione anteriore della capsula interna dell’emisfero sinistro possono determinare un particolare tipo di afasia che, non rientrando nelle classiche categorie, viene considerata atipica, anche per la variabilità dei sintomi nei diversi casi, attribuita, in via presuntiva, a diversi fattori. È caratterizzata da un linguaggio abbastanza fluente, ma particolarmente stringato, con un certo grado di anomia, dalla presenza di parafasie e, specialmente, da disturbi fonetico-articolatori, mentre la comprensione è, usualmente, abbastanza buona. La lesione delle restanti parti del nucleo caudato di sinistra e quella del nucleo controlaterale non producono afasia. Lesione di nuclei talamici. L’importanza dei nuclei antero-laterali del talamo di sinistra, che frequentemente si accompagna a disfonia con alterazioni del volume della voce, determinerebbe un’afasia di tipo transcorticale sensoriale con produzione fluente, alterata comprensione e normale ripetizione. Funzione dell’emisfero non dominante L’emisfero non dominante sembra avere una propria parte in un limitato numero di operazioni verbali, evidenziabili in condizioni patologiche. Nei pochi casi di emisferectomia sinistra riportati, viene registrata la presenza di un linguaggio automatico ed emozionale, rappresentato da brevi espressioni comuni o ripetutamen-
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te apprese, le quali rappresentano la capacità linguistica dell’emisfero destro. L’analisi dell’evoluzione dei quadri clinici, ha dimostrato che, anche dopo lesione dell’emisfero sinistro, l’emisfero non-dominante partecipa in maniera rilevante alla ripresa delle capacità di elaborazione del linguaggio. La lesione dell’emisfero minore è responsabile di difficoltà dell’articolazione, della prosodia e del reperimento di vocaboli.
Le sindromi afasiche I disturbi fasici possono variamente associarsi in una serie di sindromi abbastanza ben codificate e correlate alla localizzazione della lesione. Per un riassunto schematico degli aspetti clinici delle maggiori sindromi afasiche vedere la Tabella 4.1. AFASIA DI BROCA – Il linguaggio spontaneo, non fluente, è caratterizzato da una produzione verbale scarsa, male articolata, assai laboriosa, costituita da frasi molto brevi, in genere singo-
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li vocaboli, con segni di agrammatismo. Nei casi più gravi l’espressione verbale è abolita o ridotta a poche stereotipie verbali; nei casi più lievi il disturbo espressivo può essere limitato ad una disprosodia. L’espressione verbale ed i disturbi dell’articolazione migliorano nelle serie automatiche (contare, ripetere l’alfabeto, ecc.). Il soggetto è consapevole della propria incapacità e, spesso, dopo ripetuti tentativi la frustrazione si accompagna a reazioni depressive, talora assai intense, definite «reazioni catastrofiche», nel cui contesto possono comparire espressioni (bestemmie, frasi gergali, esclamazioni, ecc.) correttamente formulate. Questa produzione verbale che riguarda materiale automatizzato, perché appreso da tempo e frequentemente ripetuto o perché strettamente connesso con situazioni emozionali, rivelerebbe le capacità dell’emisfero destro, in cui sarebbero localizzati i meccanismi per il linguaggio automatico. La ripetizione, sempre alterata, è caratterizzata da disturbi analoghi a quelli dell’espressione orale, e costituisce un elemento costitutivo della sindrome che, per questo motivo, si distingue dall’afasia transcorticale motoria.
Tabella 4. 1 - Le maggiori sindromi afasiche. Sindromi
Fluenza
Reperimento vocaboli
Parafasie fonemiche semantiche
Comprensione orale
BROCA
non fluente
alterato
frequenti
assenti
abbastanza buona
alterata
20
fluente
alterato
frequenti
frequenti
gravemente alterata
alterata
20
non fluente
alterato
frequenti
assenti
gravemente alterata
alterata
20
CONDUZIONE
fluente
variabile
assai freq. rare
abbastanza buona
gravem. alterata
9
AMNESTICA
fluente
alterato
assenti
assenti
normale
normale
8
non fluente
normale
rare
assenti
normale
normale
4
fluente
alterato
frequenti
frequenti
gravemente alterata
normale
2
WERNICKE GLOBALE
Ripetizione Frequenza %
TRANSCORTICALE MOTORIA SENSORIALE
Una parte degli afasici, stimata approssimativamente nel 15% (Benton, 1979), sfugge alla classificazione, presentando caratteristiche che impediscono una sicura attribuzione ad una sindrome clinica.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
La comprensione orale è variamente deficitaria ma possibile e, talora, abbastanza buona. In genere la lettura ad alta voce è alterata, pur essendo il soggetto in grado di comprendere lo scritto. La scrittura è gravemente compromessa, più di quanto non sia giustificato dall’impiego della mano sinistra, reso necessario dalla frequente associazione di emiplegia facio-brachiocrurale destra. La lesione responsabile delle forme più gravi si estende ben oltre l’area di Broca, coinvolgendo le parti inferiori della circonvoluzione rolandica, il polo temporale ed il cosiddetto quadrilatero di Pierre Marie, che include la sostanza bianca della parte anteriore del lobo dell’insula fino al putamen. La dimensione della lesione è un fattore prognostico importante ed il protrarsi dei sintomi dipende dall’estensione del danno. Se la lesione è localizzata all’area di Broca (piede della terza circonvoluzione frontale) si determina un quadro di afasia minore, caratterizzato da disturbi dell’espressione orale con disprosodia, errori fonetici, ecc., rapidamente reversibili (Fig. 4.4). L’afasia di Broca si accompagna ad altri segni neurologici di compromissione focale encefalica. Assai frequente la presenza di una sindrome piramidale destra, con emiplegia facio-brachio-crurale, talora dissociata per
Fig. 4. 4 - Sede della lesione classicamente ritenuta responsabile dell’afasia di Broca: piede della III circonvoluzione frontale.
il prevalere del disturbo motorio al settore facciale inferiore ed all’arto superiore; può coesistere deviazione del capo e degli occhi verso il lato della lesione. Abbastanza comune la presenza di aprassia bucco-linguo-facciale, mentre più rara è l’associazione con aprassia ideomotoria del lato sinistro. Meno frequenti i deficit sensoriali, in particolare i deficit visivi campimetrici che, in genere, sono in rapporto con lesioni in sede posteriore a quelle coinvolte nell’afasia di Broca.
AFASIA DI WERNICKE – Il linguaggio spontaneo è scorrevole, spesso sovrabbondante e logorroico, ma il discorso è nella gran maggioranza dei casi incomprensibile per la caotica mescolanza di parafasie letterali e verbali, neologismi e, talora, aspetti gergofasici. In questo contesto la produzione parafasica permette di distinguere almeno due modalità di produzione verbale, che spesso possono coesistere nello stesso paziente, alternandosi in maniera imprevedibile. In particolare, l’eloquio, comprensibile nei suoi tratti generali, può essere caratterizzato dalla prevalenza di parafasie fonemiche e semantiche, con relativo risparmio della struttura sintattica, talora distorta per l’inappropriato uso delle forme grammaticali (paragrammatismo); oppure l’espressione orale può dimostrare un’abbondante produzione gergofasica, generalmente neologistica e risultare completamente «vuota» di significato, ed il soggetto si esprime con neologismi, quasi fossero il suo linguaggio nativo. La sovrabbondante quantità della produzione verbale è caratteristica e suggerisce la presenza di un fenomeno di disinibizione, associato al ridotto controllo della produzione verbale per deficit di comprensione orale. In tutti i casi la prosodia è corretta, l’espressione è ricca di inflessioni, la mimica e la gestualità sono adeguate, il soggetto è totalmente privo di consapevolezza del proprio disturbo e non si preoccupa di non riuscire a comunicare con l’interlocutore. La comprensione orale e la ripetizione sono sempre notevolmente alterate. La lettura ad alta voce è disturbata, mentre la comprensione dello scritto è variamente compromessa. L’entità di quest’ultimo deficit non corrisponde necessaria-
Funzioni nervose superiori
mente a quello della comprensione orale e può essere relativamente modesto in situazioni cliniche che si avvicinano alla sindrome della sordità verbale pura (v. pag. 143). La scrittura è gravemente alterata. L’afasia di Wernicke è in rapporto con una lesione localizzata al terzo posteriore della 1ª e 2ª circonvoluzione temporale o area di Wernicke (area 22), spesso con estensione all’opercolo parietale, parte del giro angolare e sopramarginale (Fig. 4.5). La sintomatologia neurologica associata è spesso assai povera, potendo coesistere disturbi delle sensibilità (emiipoestesia) e, più raramente, deficit piramidali (emiparesi), spesso transitori; con una certa frequenza sono presenti disturbi visivi, quali emianopsia laterale omonima destra o quadrantanopsia superiore destra per danno alle fibre temporali delle radiazioni ottiche. L’assenza di segni neurologici può dar luogo ad errori diagnostici per la difficoltà di differenziare questa sindrome da un quadro demenziale, negli anziani, o da una sindrome psicotica, nei giovani.
AFASIA DI CONDUZIONE – La sua esistenza, postulata da Wernicke, è stata ampiamente documentata, ma talora non è considerata forma autonoma, ma uno stadio di regressione dell’afasia di Wernicke. Il disturbo, attribuito ad un’alterazione della memoria a breve termine, sottolinea la stretta connessione che esiste tra funzione linguistica e memoria.
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In presenza di una comprensione orale relativamente risparmiata, la ripetizione è impossibile o, comunque, più compromessa del linguaggio spontaneo. L’eloquio fluente, è spesso interrotto dalla presenza di anomie, difficoltà che il paziente tenta di superare mediante «frasi fatte», pronunciate con una corretta intonazione e linea melodica e con abbondanza di parafasie fonemiche. La comprensione può essere alterata, anche se meno di quanto accade nel corso dell’afasia di Wernicke. In base alla gravità dei deficit espressivi e comprensivi si distinguono due forme, l’una con lesioni anteriori, in cui prevalgono le difficoltà espressive e parafasiche; l’altra con lesioni più posteriori caratterizzata dalla prevalenza di disturbi della comprensione. La lettura ad alta voce e la scrittura sono spesso gravemente alterate rispetto alla comprensione scritta, relativamente indenne. La lesione responsabile è localizzata in profondità nella parte posteriore della regione perisilviana, coinvolgendo il fascicolo arcuato, o in superficie, a livello della parte inferiore del giro sopramarginale o area 40. Recentemente è stata sottolineata l’importanza della corteccia insulare nella trasmissione delle “immagini acustiche” dei suoni verbali ai meccanismi motori. L’afasia di conduzione può associarsi ad una varietà di segni focali. Rara la presenza di segni della serie piramidale, frequentemente transitori; variabile l’entità di segni sensitivi, spesso rappresentati da deficit di tipo pseudoradicolare, indicativi di lesione parietale e delle vie talamo-corticali; possibile la presenza di emianopsia laterale omonima destra, o, più frequentemente, quadrantanopsia inferiore per lesione delle porzioni superiori delle radiazioni ottiche. Frequente è l’associazione con aprassia ideomotoria o con aprassia bucco-linguo-facciale.
Fig. 4. 5 - Sede della lesione classicamente ritenuta responsabile dell’afasia di Wernicke: terzo posteriore delle circonvoluzioni temporali superiore e media.
AFASIA GLOBALE – La sindrome è dominata da eloquio non fluente con gravi alterazioni della comprensione orale.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Il linguaggio spontaneo è notevolmente ridotto, talora abolito; usualmente si osserva la capacità di produrre sillabe o frammenti verbali in maniera stereotipata. In taluni casi il paziente riesce a dare ai pochi frammenti residui del linguaggio una inflessione apparentemente adeguata al contesto o un’intonazione coerente con il proprio stato d’animo per cui è possibile percepire se il paziente intende esprimere domanda, approvazione, rabbia o tristezza. I disturbi dell’articolazione del linguaggio sono gravi fino a raggiungere la sindrome di disintegrazione fonetica. La comprensione è pressoché totalmente abolita, così come la ripetizione. La lesione include l’intera area centrale del linguaggio nell’emisfero dominante per cui, semplificando, l’afasia globale può essere considerata un quadro in cui entrambi i poli del linguaggio, anteriore e posteriore, sono lesi. Tuttavia, la TC ha dimostrato che la sindrome può essere determinata anche da lesioni più circoscritte, situate nella regione insulo-lenticolare, che non interessano l’area di Wernicke. I segni neurologici associati sono rappresentati da una grave sindrome piramidale con emiplegia facio-brachiocrurale destra, frequentemente associata a emianopsia laterale omonima destra.
AFASIA TRANSCORTICALE – Il gruppo delle afasie transcorticali comprende tre sindromi, caratterizzate da relativo risparmio della ripetizione. Afasia Transcorticale Motoria – Consiste in una elettiva compromissione dell’iniziativa verbale con relativo risparmio delle altre funzioni linguistiche, per cui il paziente sembra aver perso ogni interesse a comunicare verbalmente. L’eloquio è estremamente ridotto con comprensione orale e ripetizione pressoché indenni. Possono essere presenti disturbi dell’articolazione del linguaggio, ma l’espressione è più spesso caratterizzata da un andamento balbettante e sillabico, con evidente perdita della linea melodica, dei nessi grammaticali e sintattici (agrammatismo). La lettura ad alta voce, così come la scrittura sono deficitarie, mentre la comprensione dello scritto è pressoché normale. La sintomatologia associata, simile a quella descritta per l’afasia di Broca, è per lo più rappresentata da una
sindrome piramidale destra con emiparesi o emiplegia. La lesione è localizzata nelle aree premotorie o prefrontali situate attorno all’area di Broca; talvolta questa zona viene risparmiata e il danno coinvolge le strutture mediali e parasaggitali superiori del lobo frontale (area supplementare motoria), nel territorio di irrorazione dell’arteria cerebrale anteriore. Afasia Transcorticale Sensoriale – Il linguaggio spontaneo è fluente, caratterizzato spesso dalla frequenza di parafasie semantiche e neologismi che lo rendono incomprensibile; frequentemente si osserva gergofasia fonemica per cui l’espressione verbale risulta costituita da una verbigerazione irrefrenabile. Gravemente compromessa la comprensione orale, in evidente contrasto con la facilità e la precisione con cui il paziente può ripetere le frasi all’esaminatore; frequenti sono le ecolalie per cui il malato ripete parole e frasi dell’esaminatore. La ripetizione quasi perfetta indicherebbe una condizione di integrità delle strutture responsabili della decifrazione dei messaggi verbo-acustici; l’impossibilità di associare questi ultimi al relativo significato sarebbe responsabile della grave alterazione della comprensione orale. La lettura ad alta voce può essere conservata, mentre la comprensione dello scritto e la scrittura sono gravemente danneggiate. L’afasia transcorticale sensoriale raramente si associa a disturbi della serie piramidale o a ipoestesia: più frequentemente si accompagna a deficit del campo visivo, sia di tipo emianoptico che quadrantanopsico. La sede della lesione è mal definita ed in genere è localizzata nella area del linguaggio in regione parietale o temporale o in entrambe; recentemente la dissociazione tra ripetizione e comprensione orale è stata dimostrata anche in corso di lesioni talamiche posteriori. Afasia Transcorticale Mista – Identificata anche come sindrome da «isolamento» dell’area del linguaggio, si tratta di una disturbo grave caratterizzato da una notevole compromissione della comprensione e dell’espressione orale in presenza di una buona capacità di ripetere. Il soggetto può non essere in grado di comunicare verbalmente né comprendere, pur essendo capace di riprodurre le parole di un motivo ascoltato alla radio, e di ripetere quanto è stato detto poco prima dall’esaminatore. La lesione responsabile è in genere situata in aree cortico-sottocorticali, attorno all’area del linguaggio che, pertanto, risulterebbe isolata dalla restante corteccia cerebrale. AFASIA ANOMICA – È caratterizzata da una marcata incapacità a reperire parole, non identificabile con la semplice anomia presente in tutte le sindromi afasiche, per cui l’espressione verbale, apparentemente facile e fluente,
Funzioni nervose superiori è completamente «vuota» di informazioni; ciò dipende dalla povertà di parole significative (sostantivi) e dalla loro sostituzione con parole passe-partout (raramente parafasie). In pratica il paziente si arresta frequentemente, comunica all’esaminatore la sua difficoltà a «trovare la parola» che non «viene più in mente», anche se è «sulla punta della lingua» e tenta di superare lo scoglio con parole generiche (coso, roba, affare) o con circonlocuzioni che finiscono col determinare nuove difficoltà di reperimento di vocaboli in una catena inarrestabile di tentativi perifrasici inconcludenti. La comprensione è per lo più normale; la ripetizione orale, la lettura e la scrittura sono normali. La localizzazione della lesione è diversa, dimostrando che l’anomia e le difficoltà di reperimento di parole possono essere determinate dalla compromissione di diverse regioni cerebrali. L’afasia anomica può essere osservata per lesione dell’area di Broca, dello striato, dell’insula, del talamo, ma le aree che più frequentemente sembrano essere coinvolte sono rappresentate dal giro angolare e dalla circonvoluzione temporale inferiore. ALESSIA CON AGRAFIA – Il disturbo riguarda la comprensione dello scritto e la scrittura, mentre il linguaggio spontaneo e la comprensione sono relativamente risparmiati. La localizzazione anatomica è di solito il giro angolare o piega curva (area 39) dell’emisfero sinistro, il che spiega come si trovino spesso associati altri sintomi parietali tra cui acalculia e aprassia costruttiva.
Afasie pure Si tratta di sindromi cliniche rare, caratterizzate dalla compromissione di un aspetto isolato del linguaggio con completa integrità delle restanti funzioni. AFASIA MOTORIA PURA – È un disturbo dell’articolazione della parola per lesione corticale, consistente in una sindrome di disintegrazione fonemica di varia entità, in assenza di disturbi della comprensione orale e scritta e, in particolare, in assenza di deficit della scrittura. La ripetizione mostra lo stesso tipo di disturbo del linguaggio spontaneo. Si può associare ad aprassia buccolinguo-facciale. Generalmente non viene considerato un disturbo fasico, dal momento che la scrittura è indenne e la comprensione mantenuta e, in caso di miglioramento, si dimostra una buona capacità di selezione di vocaboli e di forme sintattiche.
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SORDITÀ VERBALE PURA E SORDITÀ CORTICALE – La comprensione orale è alterata in presenza di una normale comprensione dello scritto. La ripetizione, così come la scrittura sotto dettatura, è impossibile, mentre scrittura spontanea e copiata sono risparmiate. Il malato riconosce i suoni ambientali, mentre i suoni verbali hanno perso ogni familiarità o connotazione linguistica ed il suo comportamento è simile a quello di un sordo. L’audiometria tonale e la localizzazione spaziale del suono sono normali. Occasionalmente il paziente riesce a percepire e a ripetere parole isolate, dimostrando una buona comprensione del loro significato e suggerendo che il disturbo sia a livello delle strutture che analizzano il messaggio verbo-acustico. Il linguaggio spontaneo presenta lievi disturbi parafasici, per mancato controllo dell’emissione verbale da parte dell’analizzatore acustico. La lesione è, in genere, bilaterale e coinvolge entrambi il lobi temporali. ALESSIA SENZA AGRAFIA – Il disturbo riguarda unicamente la comprensione dello scritto che può essere nella forma di alessia letterale o verbale. Non esistono, quindi, alterazioni del linguaggio spontaneo, ripetizione e comprensione orale; la scrittura è possibile, tranne per la copia che viene effettuata in maniera servile. Si associa ad emianopsia laterale omonima destra e ad anomia per i colori. La sindrome è legata invariabilmente a lesione delle aree mediali del lobo occipitale e dello splenio del corpo calloso, determinando un isolamento delle aree visive dell’emisfero destro dalle strutture del linguaggio controlaterali. AGRAFIA PURA – Il disturbo consiste in una grave forma di agrafia in assenza di afasia, alessia e aprassia. Si tratta di una forma molto rara. Un centro per la scrittura, classicamente localizzato nel piede della seconda circonvoluzione frontale (Exner, 1881), non viene attualmente riconosciuto. La sede della lesione in casi di agrafia pura non ha il conforto di un controllo neuropatologico ma, solo un controllo CT che localizza la lesione nell’area perisilviana posteriore (Rosati e De Bastiani, 1979).
Alterazioni del linguaggio in corso di demenza Il linguaggio può essere significativamente, anche se non necessariamente, compromesso in corso di demenza ed in questo caso il disturbo
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
fasico presenta caratteristiche abbastanza peculiari, giustificate dai concomitanti difetti cognitivi (v. pag. 000). L’aspetto dominante è costituito dalla difficoltà di reperimento di parole che, presente sporadicamente nelle prime fasi, può diventare assai grave, causando l’interruzione delle frasi che vengono lasciate tronche ed incomplete: l’espressione verbale, sempre alterata, è in genere fluente. La comprensione verbale viene lentamente compromessa ed il deficit coinvolge anche gli aspetti non verbali del discorso, per cui la possibilità di comunicazione è notevolmente impoverita, le frasi, prive di contenuto, propongono una sorta di insalata di parole e le risposte, incongrue, non hanno alcun nesso con la domanda posta. Rispetto al disturbo del linguaggio in corso di lesioni focali, il quadro clinico è caratterizzato da una maggiore fluenza verbale e da un più grave deficit della comprensione. Nella malattia di Alzheimer il deterioramento del linguaggio procede secondo una sequenza abbastanza costante: dapprima compaiono disturbi anomici, che danno luogo ad inceppi e a sostituzioni parafasiche prevalentemente verbali e neologistiche; successivamente compare un’afasia transcorticale, con lievi disturbi della comprensione, qualche ecolalia ed espressione saltuariamente gergofasica. Quando comprensione e ripetizione sono più gravemente compromesse, il quadro clinico assume le caratteristiche di un’afasia di Wernicke, con sovrabbondante produzione gergofasica. In fase terminale si possono avere perseverazioni sillabiche, risa inappropriate, riduzioni significative dell’emissione verbale fino al mutismo; rari i disturbi agrammatici e l’afasia di Broca. Se l’afasia evolve parallelamente ai restanti segni di compromissione cognitiva, esistono quadri clinici in cui il progressivo deterioramento del linguaggio rappresenta l’unico segno clinico, salvo cedere il passo, a distanza di anni dall’esordio, ad un quadro di demenza a lenta evoluzione. A differenza di quanto avviene nelle
restanti forme di demenza, si ha un relativo risparmio dell’autonomia, che consente al paziente di effettuare, in modo sufficientemente adeguato, le comuni attività della vita quotidiana. Il quadro clinico che va sotto il nome di afasia progressiva primaria è caratterizzato soprattutto da anomia e parafasie fonemiche, cui si associa in misura meno evidente e variabile il difetto delle altre aree del linguaggio.
La riabilitazione dell’afasia Se la malattia che ha causato il disturbo del linguaggio non è progressiva, come in caso di ictus e di trauma cranico o dopo l’escissione di un tumore benigno, l’afasico deve essere sottoposto a trattamento. L’efficacia del trattamento è tuttora questione aperta e la risposta è difficile, poiché il risultato può essere influenzato da differenti fattori quali il tipo, la gravità e la natura della lesione. Ad esempio l’afasia post-traumatica ha prognosi migliore dell’afasia da lesione cerebrovascolare, ed, in genere, il trattamento è meno efficace quanto maggiore è la gravità dei disturbi. Inoltre le possibilità di ripresa sono correlate al livello di intelligenza, alle preesistenti capacità di comunicazione e alle condizioni dello stato timico, poiché la presenza di aspetti depressivi riduce la possibilità di ripresa, positivamente influenzata dal diretto impegno del paziente e da un forte supporto dei familiari. Infine, l’evoluzione del quadro clinico e l’efficacia del trattamento dipendono dalla presenza di alterazioni non direttamente correlate con il disturbo del linguaggio, quali i deficit percettivi, visivi o uditivi, e le alterazioni dell’attenzione o della memoria. Riferimenti bibliografici BABINSKI J.: Contribution a l’ètude des troubles mentaux dans l’hémiplégie cérébrale. Revue Neurologique 27, 845-847, 1914.
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5. Funzioni nervose superiori Aprassia. Agnosia. Disturbi dell’esplorazione spaziale e dello schema corporeo C. Loeb, C. Serrati, A. Tartaglione
Aprassia L’aprassia consiste nell’incapacità di compiere intenzionalmente, con la normale destrezza, sequenze motorie significative (gesti) e non significative, in assenza di disturbi motori, cioè deficit della motilità, della coordinazione, del tono muscolare, e di movimenti involontari patologici. L’aprassia è, dunque, un disturbo dell’organizzazione del movimento, in soggetto con funzione motoria integra, senza turbe psichiche, disturbi di comprensione del linguaggio, deficit di riconoscimento. Prima di analizzare in dettaglio i dati clinici, è opportuno considerare alcuni aspetti della gestualità. Quando apriamo e chiudiamo ripetutamente la mano, eseguiamo semplicemente una successione alternata di movimenti opposti e, quindi, un “gesto non significativo”. La stessa sequenza, effettuata per salutare una persona costituisce un “gesto significativo”, cioè un atto motorio con contenuto espressivo. I gesti significativi sono il frutto di apprendimento, per cui una successione ordinata e costante di movimenti, assume un significato finalistico o si carica di un valore simbolico. Nel tempo queste azioni divengono sempre più indipendenti dalla volontà per cui il gesto che dapprima richiede un controllo attento, procederà successivamente preciso e sicuro. Così, ad esempio, i gesti che compie l’automobilista, la dattilografa, il pianista, incerti agli inizi quando sono controllati dalla volontà, diventano rapidi e precisi quando hanno acquistato la loro autonomia. Si distinguono: 1) gesti transitivi, legati alla manipolazione di oggetti (usare le forbici, accendere un fiammifero, ecc.) e 2) gesti intransitivi, distinguibili in: (a) gesti mimici, espressivi dello stato d’animo, che coinvolgono l’espressione del viso e gli arti, ad es. gesti di minaccia, di rabbia, di disappunto, etc; (b) gesti simbolici, come il saluto militare, il segno della croce, etc; (c) gesti non significativi, senza riscontro nella vita di relazione, come, ad es. quando si chieda di spostare alternativamente due
dita poste sul tavolo o sollevare il braccio in maniera da portare la mano sul capo.
L’esecuzione di un gesto richiede il preliminare richiamo alla memoria della sua configurazione generale e la successiva trasformazione in una serie di comandi codificati da trasmettere ai centri motori. L’alterazione di questi stadi dà luogo a due differenti quadri clinici, l’aprassia ideatoria, in cui la programmazione è assente e il soggetto «non sa cosa fare»; l’aprassia ideomotoria in cui il programma del gesto è alterato ed il malato, pur sapendo che cosa fare, “non sa come farlo” (De Renzi e Faglioni, 1999). Nello stesso soggetto si possono trovare aspetti di aprassia ideatoria e ideomotoria, ma la distinzione è giustificata dal fatto che i due quadri clinici possono esistere indipendentemente l’uno dall’altro. I disturbi prassici sono molto variabili e raramente compaiono nell’attività di tutti i giorni, pur essendo frequentemente presenti, come dimostra il fatto che circa un terzo dei malati affetti da lesione emisferica sinistra presenta questo disturbo. In realtà, l’aprassia è caratterizzata dal massimo grado di dissociazione automatico-volontaria per cui uno stesso gesto, impossibile quando deve esser effettuato su comando o su imitazione, può essere eseguito automaticamente, come accade per una sequenza già appresa che si svolga nel suo contesto naturale. Così un soggetto, incapace di «soffiare» su richiesta, può dimostrare di saper compiere la stessa azione quando gli viene presentato un fiammifero acceso; o, ancora, può essere in grado di protrudere la lingua per inumidire un francobollo ed affrancare una lettera, pur non riu-
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scendo a fare lo stesso gesto su comando. Per questi motivi l’aprassia viene considerata un disturbo del gesto intenzionale. La dissociazione automatico-volontaria non è esclusiva caratteristica dell’aprassia. Il sorriso che segue una «battuta» faceta o una situazione divertente, è cosa diversa dallo stirare volontariamente le labbra. Un’ampia documentazione indica che il controllo di questi due tipi di movimenti, spontanei e volontari, ha una differente localizzazione cerebrale. La lesione del piede della circonvoluzione frontale ascendente comporta una paralisi controlaterale facciale di tipo centrale che, tuttavia, può significativamente ridursi durante il sorriso, il pianto, ecc. D’altro canto, lesioni del giro cingolato anteriore o dell’area motoria supplementare possono ridurre o abolire i movimenti mimici emotivi, a motilità volontaria indenne. I disturbi prassici non ostacolano l’esecuzione delle attività della vita quotidiana, ampiamente automatizzate, e si associano a generale compromissione della destrezza e della precisione dei movimenti non significativi, compromissione tanto più evidente quanto più la sequenza motoria è lunga, complessa e nuova per il soggetto. Il termine « aprassia », coniato da Liepmann ai primi del secolo (1908), è stato successivamente attribuito a una serie di disturbi di natura diversa, quali l’aprassia costruttiva e dell’abbigliamento, generalmente considerati espressione di un disturbo visuo-spaziale. Ciò nonostante queste forme saranno trattate in questo capitolo, considerata la abituale collocazione sotto il termine di aprassia. Controverso è, infine, l’uso del termine aprassia per disturbi quali l’aprassia della marcia e dello sguardo. L’aprassia della marcia consiste in una diminuzione o perdita della facoltà di utilizzare convenientemente gli arti inferiori nella marcia, nonostante l’assenza di paresi, atassia o disturbi motori funzionali. Il malato che, a letto o in posizione seduta può muovere senza difficoltà le
gambe, resta con i piedi incollati al suolo, incapace ad accennare al passo quando deve camminare. L’aspetto aprassico è legato alla variabilità del disturbo che, presente all’inizio della marcia, può ridursi quando il paziente abbia preso velocità, per ricomparire sia in maniera del tutto imprevedibile sia nell’avvicinarsi a passaggi più o meno difficoltosi come l’attraversare una porta, il salire un gradino, etc. Questo disturbo che viene considerato espressione di alterazione del tono e della postura, si verifica per lesioni cortico-sottocorticali ed é frequentemente, ma non necessariamente, associato alla sindrome parkinsoniana. Nel caso dell’aprassia dello sguardo il malato è incapace di effettuare movimenti oculari intenzionali e di mantenere la fissazione di una mira pur essendo in grado di muovere lo sguardo in ogni direzione. Invece di guardare nel punto indicato dall’esaminatore egli sbarra gli occhi, fissa in tutt’altra direzione, per poi continuare a muovere gli occhi in maniera casuale; la fissazione della mira, talora raggiunta in maniera accidentale, viene tenuta solo per pochi attimi.
Analisi semeiotica Prima di procedere all’esame semeiotico per disturbi prassici, deve essere esclusa l’esistenza sia di deficit fasici di comprensione, che possono determinare difficoltà nell’esecuzione di comandi verbali, sia deficit gnosici che, interferendo con il riconoscimento percettivo, possono causare disturbi nell’utilizzazione degli oggetti. Una serie di prove assai semplici esplorano la motilità gestuale nei diversi settori del corpo, viso, arti, tronco. Per il settore cranico si chiede al paziente di aprire e chiudere gli occhi, guardare in alto, aggrottare la fronte, annuire o far cenni di negazione con il capo, mostrare la lingua, fischiare, sbadigliare, cercare di leccare il labbro, dare un bacio, schioccare la lingua, raschiare la gola, soffiare. A livello degli arti si fanno eseguire gesti significativi transitivi, quali usare il martello, lo spazzolino da denti, le forbici, la gomma da cancellare, ecc., e intransitivi, come il segno della croce, il saluto militare, fare ciao o minacciare qualcuno con la mano, fare marameo, dare un buffetto, fare la lettera «O» con le dita, ecc. Per i gesti non significati-
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vi si invita a unire pollice ed indice per formare un cerchio o muovere alternativamente le dita, tenute verticalmente, sul tavolo. Le prove devono essere effettuate su comando verbale e su imitazione, dal momento che il deficit può essere strettamente dipendente dalla modalità impiegata per elicitare la risposta motoria. Alterazioni prassiche evidenti su comando verbale possono scomparire quando il gesto viene eseguito su imitazione. Si possono, peraltro, usare differenti modalità, tattile piuttosto che visiva o viceversa, per richiedere al paziente di manipolare un oggetto. Posto che non vi siano disturbi gnosici, si può osservare che il gesto evocabile correttamente per via tattile non lo è per via visiva o viceversa. La valutazione finale deve considerare non solo se la richiesta dell’esaminatore è portata a termine, ma anche le modalità con cui il gesto è effettuato. Si deve, inoltre valutare l’esistenza di dissociazione automatico-volontaria, il ruolo dell’emozione e la diversità delle prestazioni su comando verbale o su imitazione. Il gesto nel malato con disturbi prassici potrà : a) risultare incerto, goffo, intercalato da pause o inceppi, pur conservando i suoi tratti fondamentali; b) contenere elementi estranei o mancare di alcune sequenze fondamentali; c) essere sostituito del tutto o in parte da movimenti privi di significato o da gesti corretti privi, tuttavia, di relazione con la sequenza richiesta; d) essere complicato dalla presenza di perseverazioni; e) essere caratterizzato da una errata successione degli atti che compongono la sequenza gestuale, quali si succedono nel tagliare una fetta di pane o accendere una candela con fiammiferi, ecc. Aprassia ideomotoria Consiste in un’alterazione dei gesti intransitivi sia significativi che non significativi in assenza di paralisi o atassia dell’arto esaminato. Il disturbo è assai più evidente quando si tratta di azioni non abituali, mentre i gesti automati-
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ci sono in gran parte o totalmente risparmiati. Il soggetto è in grado di descrivere la sequenza gestuale, pur non riuscendo ad effettuarla su comando, mentre i gesti transitivi, di utilizzazione o manipolazione degli oggetti, sono conservati. Tra gli errori più comuni dell’aprassico ideomotorio sono frequenti le perseverazioni, rappresentate dalla tendenza a ripetere in maniera casuale ed iterativa movimenti o parte di movimenti che appartengono ad un’azione precedente; il gesto può essere sostituito da una sequenza di significato più o meno riconoscibile. Dovendo eseguire il saluto militare il soggetto può fare il gesto di marameo o, alternativamente, sbarrare gli occhi, aprire la bocca, piegare indietro la testa e toccare successivamente il collo, la bocca e la fronte. Infine il gesto, riconoscibile nelle sue linee generali, può risultare fortemente deformato per l’esistenza di movimenti parassiti o per errori di direzione del movimento. Ad esempio, nel fare il saluto militare il malato può iniziare appoggiando la mano a piatto sulla bocca o sulla nuca, riuscendo a realizzare il gesto richiesto solo dopo successive approssimazioni; oppure il soggetto, invitato ad eseguire il segno della croce, si porta la mano verso il viso, si tocca la guancia ed infine riesce ad eseguire quanto è stato richiesto tra incertezze, arresti imbarazzati e pause. L’aprassico ideomotorio ha spesso consapevolezza dei propri errori e si sforza, talvolta inutilmente, di realizzare correttamente il gesto ordinato . Il tipo di errore nell’aprassia ideomotoria e la conservata capacità di descrivere le sequenze che costituiscono il gesto, suggeriscono che il soggetto è in grado di progettare adeguatamente il piano dell’azione da svolgere, ma non è capace di trasferire il progetto motorio alle strutture esecutive. L’aprassia ideomotoria consiste, quindi, in un disturbo dell’organizzazione intenzionale di una sequenza motoria, mentre la programmazione non sembra alterata. Il disturbo è usualmente bilaterale e colpisce prevalentemente gli arti, ma anche il tronco e il
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settore cranico. In quest’ultimo caso, può colpire i movimenti dello sguardo, coinvolgendo il settore faciale superiore (con incapacità,ad es., a corrugare la fronte) o la regione faciale inferiore ( dando luogo ad aprassia bucco-linguofaciale), o entrambi. L’aprassia ideomotoria può essere occasionalmente unilaterale ed in questo caso è, in genere, localizzata agli arti di sinistra e solo eccezionalmente sono interessati gli arti di destra. Nel caso che la lesione emisferica sinistra comporti un disturbo fasico grave e una emiplegia destra, la realizzazione del gesto sia su comando che su imitazione diviene, ovviamente, impossibile.
L’autonomia dell’aprassia ideatoria è stata più volte posta in discussione dal momento che può essere associata a deterioramento intellettuale ed essere ritenuta espressione di disturbi mentali di tipo mnesico-attentivo, una sorta di demenza focale che colpisce settori specializzati delle attività della vita di relazione. Le acquisizioni più recenti dimostrano che il deterioramento mentale non si associa necessariamente ad aprassia ideatoria e il disturbo, pertanto, non può essere considerata una manifestazione di demenza. Anche il rapporto fra le due forme di aprassia è oggetto di discussione. L’aprassia ideatoria potrebbe essere considerata uno stadio avanzato dell’aprassia ideomotoria che, se particolarmente grave, coinvolgerebbe persino i gesti più automatizzati che implicano l’uso di oggetti. In realtà, dato che è possibile identificare malati in cui sono isolatamente compromessi gesti transitivi e gesti intransitivi, è ragionevole mantenere la distinzione tra aprassia ideomotoria ed aprassia ideatoria.
Aprassia ideatoria Aprassia bucco-linguo-faciale Consiste nell’impossibilità di manipolare ed utilizzare gli oggetti e si riferisce, quindi, quasi esclusivamente all’esecuzione di gesti transitivi, in particolare quelli che prevedono l’esecuzione di sequenze prolungate di atti motori. Il disturbo è sempre bilaterale. L’aprassia ideatoria è caratterizzata da un vero e proprio «deragliamento del gesto», tanto più vistoso quanto più numerose sono le tappe della sequenza motoria. L’aprassico ideatorio non è in grado di fornire una descrizione dell’azione richiesta e di programmare la corretta successione degli atti motori, nonostante che la motilità segmentale sia assolutamente corretta. Quando si chiede al malato di utilizzare lo spazzolino da denti, può accadere che il soggetto si fermi alle prime tappe dell’organizzazione gestuale (ad es. si limiti a porre la pasta dentifricia sullo spazzolino), oppure, bruciando ogni tappa, strofini i denti con il solo spazzolino; oppure, invertendo l’ordine della sequenza, strofini i denti con il tubo del dentifricio, oppure, modificando uno degli atti motori già compiuti con gesti estranei alla consegna, spazzoli i vestiti con lo spazzolino, oppure, facendo diventare irterativo uno degli atti motori già compiuti, inumidisca continuamente lo spazzolino sotto il rubinetto.
Consiste nell’impossibilità di compiere su comando movimenti gestuali con la bocca, la lingua e la muscolatura faciale inferiore, mentre gli stessi movimenti possono essere eseguiti spontaneamente. Il malato, su richiesta, non è in grado di protrudere la lingua, leccarsi le labbra, schioccare la lingua contro il palato, raschiarsi la gola, fare l’atto di succhiare, sbuffare o fischiare. Tuttavia, gli stessi soggetti, sotto la sollecitazione derivante dalla situazione contingente o da un particolare stato d’animo, sono in grado di protrudere senza difficoltà la lingua per inumidire un francobollo o leccarsi le labbra, masticare, tossire, sbuffare, ridere o piangere. Assai frequente è l’associazione dell’aprassia bucco-linguo-faciale con l’afasia, soprattutto non fluente. Questa osservazione ha suggerito l’opinione che i disturbi dell’articolazione della parola, caratteristici di questi malati, fossero legati non già ad un difetto di ordine linguistico, quanto ad un difetto prassico dell’apparato articolatorio-fonatorio. Tuttavia, poiché l’associazione fra disturbi dell’articolazione della parola e aprassia bucco-linguo-faciale non è obbligatoria e l’evoluzione clinica è diversa, si
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può ritenere che i due quadri siano indipendenti e che la loro frequente combinazione sia dovuta alla lesione di strutture diverse, ma adiacenti. Aprassia motoria (innervatoria o melocinetica) Descritta come aprassia di esecuzione pura, è la forma più discussa. In effetti, la localizzazione unilaterale, con interessamento prevalente dell’attività manuale, l’assenza di dissociazione tra atti volontari ed automatici, la corretta capacità di progettare ciascuna azione unitamente alla limitazione nell’esecuzione dei movimenti, specie di quelli più complessi, la rendono difficilmente differenziabile da una paresi, cui viene spesso assimilata. A differenza della paresi, tuttavia, non esiste ipostenia, e la riduzione della spontaneità e dell’iniziativa motoria, unitamente alla compromissione pressoché esclusiva della motilità fine, dà un aspetto impacciato ai movimenti dell’arto superiore e della mano. L’aspetto semeiologico è quello di un disturbo di esecuzione, senza errori di omissione, senza perseverazioni, nè deformazione o confusione di atti motori, mentre è presente un rallentamento motorio con impossibilità ad effettuare sequenze di atti in rapida successione ed impaccio nei movimenti. Il malato affetto da aprassia motoria risulta maldestro in atti come strofinare l’uno contro l’altro il pollice e l’indice, flettere ripetutamente l’indice per chiamare qualcuno, voltare una pagina di un libro, girare un interruttore, ecc. Questo tipo di aprassia, sufficientemente rara, è descritta soprattutto nei quadri di degenerazione cortico-basale. Correlazioni anatomo-cliniche I dati disponibili indicano che l’aprassia ideatoria, l’aprassia ideo-motoria e l’aprassia bucco-linguo-faciale sono determinate da lesio-
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ni localizzate nell’emisfero di sinistra, anche se l’aprassia ideatoria è spesso espressione di lesioni diffuse, frequentemente bilaterali. Liepmann (1900) per primo, dimostrò l’importanza dell’emisfero sinistro per le attività gestuali di ambedue le mani, documentando che in una serie di lesioni cerebrali unilaterali, l’aprassia era presente nel 50% circa nelle lesioni sinistre, ed in nessun caso nelle lesioni destre. Da allora il risultato è stato ripetutamente confermato, e si ritiene che, nel destrimane, l’emisfero sinistro sia dominante per la gestualità. Si tratta di una dominanza meno assoluta di quella per il linguaggio, e numerosi dati clinici dimostrano che anche l’emisfero minore gioca il suo ruolo, tanto che le forme più gravi e permanenti di aprassia si associano a lesioni di entrambi gli emisferi. L’aprassia è, in genere, più grave per gli arti di destra rispetto a quelli di sinistra, quasi che questi ultimi possano giovarsi di un sufficiente controllo da parte dell’emisfero minore la cui lesione può determinare rare ma sicure alterazioni gestuali. I due emisferi si scambiano i ruoli nel caso di soggetti mancini nei quali è possibile dimostrare la frequente comparsa di aprassia per lesioni emisferiche destre. In questi casi la dominanza dell’emisfero destro per la gestualità può essere dissociata da quella per il linguaggio, per cui si possono avere aprassici con e senza disturbi fasici. L’ipotesi classica ritiene che il ruolo dell’emisfero dominante per il gesto sia quello di determinare la corretta sequenza degli atti motori, e che l’aprassia consista nell’incapacità di tradurre il progetto del movimento in un'ordinata successione di comandi per gli effettori muscolari. In realtà, i gesti compiuti dagli aprassici sono dominati da movimenti erronei e perseverazioni per cui il difetto sembra consistere nell’incapacità di scegliere i movimenti opportuni per attuare il gesto desiderato.
A differenza di precedenti ipotesi che consideravano la programmazione dei gesti una caratteristica diffusa all’intera corteccia dell’emisfero sinistro, oggi si ritiene che lobo parietale inferiore, corteccia premotoria e alcuni
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nuclei profondi, come il lenticolare, le aree talamiche più anteriori ed il putamen, siano le strutture più direttamente coinvolte nell’organizzazione del gesto. Il lobo parietale inferiore, con il giro sopramarginale, il giro angolare e la sostanza bianca sottostante, sembra essere l’area più importante e la sua lesione è fondamentale per la comparsa dell’aprassia ideomotoria ed ideatoria. Il danno dell’area premotoria e delle strutture profonde correlate è invece in genere responsabile della comparsa di aprassia motoria. Il fatto che i due emisferi abbiano un diverso peso nell’organizzazione del gesto comporta l’esistenza di connessioni che consentano uno scambio continuo di informazioni da un emisfero all’altro. Il corpo calloso rappresenta la via di connessione interemisferica più importante e la sua lesione dà luogo ad aprassia con caratteristiche miste, sia ideatorie che ideomotorie. L’aprassia in questo caso è limitata agli arti di sinistra dal momento che la lesione callosa blocca il flusso delle informazioni relative alla gestualità dall’emisfero sinistro, dominante, alle strutture emisferiche destre, subordinate. In sintesi: l’organizzazione della gestualità, secondo gli studi di correlazione anatomoclinica in casi di disturbo prassico, dipenderebbe da un’area principale a sede parietale, connessa con strutture frontali premotorie ipsilaterali e, attraverso il corpo calloso, con strutture corrispondenti nell’emisfero destro. La lesione dell’area parietale dà luogo ad un’aprassia bilaterale, mentre il danno frontale è più comunemente associato alla comparsa di aprassia sinistra, come accade anche per lesione del corpo calloso. Lesioni emisferiche destre a livello del corpo calloso interrompono il flusso di informazione provenienti da sinistra e determinano l’impossibilità di eseguire ordini verbali con la mano sinistra, mentre gli stessi ordini sono eseguiti con la mano destra. Il fenomeno è attribuito alla disconnessione tra l’emisfero sinistro, addetto alla comprensione dell’ordine verbale, e l’emi-
sfero destro che provvede alla motilità della mano controlaterale. Nel caso di lesioni selettive l’aprassia della mano sinistra, rilevabile su comando verbale, può scomparire quando il malato compie sequenze motorie su imitazione. La rilevanza che la dissociazione automatico-volontaria ha nel quadro aprassico, induce alcuni ricercatori a postulare una diversa organizzazione del gesto, a seconda che la sequenza motoria sia ormai automatizzata, o sia di recente acquisizione e richieda un costante controllo del risultato ed un monitoraggio attento degli eventuali errori. Nel primo caso si può parlare di comportamento “predittivo”, caratterizzato dalla prevalente presenza di gesti e movimenti pre-programmati; nel secondo di comportamento “responsivo” per il quale è necessaria una continua comparazione con i dati dell’esperienza sensoriale e con la programmazione iniziale del movimento. I due comportamenti corrisponderebbero a differenti sistemi corticali: il sistema mediale è costituito dalla corteccia frontoparietale mediale, dal lobulo parietale superiore, da formazioni sottocorticali (pallido, putamen, sostanza nera) e, specialmente, dalle aree motorie supplementari; il sistema laterale è formato dall’area frontoparieto-temporale laterale, l’area premotoria ventro-laterale, le aree sensoriali secondarie e le aree di associazione, e in particolare dal lobulo parietale inferiore. I due sistemi sarebbero attivati da differenti forme di gestualità: il sistema mediale controllerebbe l’esecuzione di sequenze motorie organizzate su motivazioni e regole soggettive, il sistema laterale sarebbe coinvolto nell’apprendimento di nuovi comportamenti motori (Goldberg, 1985). Il flusso ematico regionale aumenterebbe nel sistema mediale quando il malato esegue, o anche solo immagina, sequenze motorie già apprese e ampiamente utilizzate nel passato, mentre aumenterebbe nel sistema laterale quando la sequenza dei movimenti necessita di un continuo controllo e monitoraggio dalla periferia sensoriale (ad es. informazioni visive) (Roland et al., 1980, 1982).
In sommario, si può proporre, seguendo De Renzi e Faglioni (1999), il seguente schema : – l’aprassia ideomotoria è un’alterazione dei gesti intransitivi significativi e non significativi, il malato ”sa cosa deve fare” per realizzare il compito richiesto, ma fallisce perché “ non sa come fare”. Il disturbo è in genere bilaterale, e la lesione responsabile è localizzata nella regione parietale inferiore dell’emisfero sinistro; in
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rari casi, l’aprassia è unilaterale, e la lesione è localizzata nell’area premotoria sinistra o nel corpo calloso e nelle sue radiazioni; – l’aprassia ideatoria è un’alterazione della rievocazione del gesto da compiere: il malato “non sa come fare” il gesto.La lesione ha sede nell’area parietale sinistra, ma frequentemente il danno, molto esteso, coinvolge altre aree dell’emisfero dominante e, talora, è bilaterale. – l’aprassia bucco-linguo-facciale è dovuta a lesioni dell’opercolo rolandico di sinistra anche se, frequentemente, il danno si estende fino al piede della prima e seconda circonvoluzione frontale, giustificando la frequente associazione con afasia non fluente e paralisi faciale centrale. È anche possibile che l’aprassia buccolinguo-facciale sia dovuta a una disconnessione tra le aree posteriori del linguaggio e l’area di associazione premotoria, poiché può essere associata a quadri di afasia di conduzione, attribuita a lesioni dell’opercolo parietale o della sostanza bianca sottostante.
Aprassia costruttiva Si tratta di un disturbo della capacità di combinare ed organizzare singole parti di un disegno in un insieme ordinato, sotto la guida della vista, in malati senza alterazioni della percezione della forma e della discriminazione visiva. L’alterazione si manifesta quando si richiede al malato di disegnare, copiare o, ancora, quando si propongono compiti di costruzione mediante cubi di legno o facili «puzzles». Nelle forme più lievi può manifestarsi semplicemente con l’incapacità di riprodurre immagini elementari in prospettiva,ad es. il disegno di un cubo; in altri casi si evidenzia con l’impossibilità di copiare semplici immagini bidimensionali, quali un martello, una bottiglia o una casa. Infine, nelle situazioni di maggiore gravità il paziente non è in grado di riprodurre alcuna forma e riesce a realizzare solo segni
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amorfi, privi di connessione tra di loro e senza relazione o somiglianza con il disegno richiesto. Analoghi disturbi si verificano quando si invita il soggetto a costruire una qualsivoglia forma mediante bastoncini ( o fiammiferi) o elementi di un qualunque gioco di costruzioni. Frequentemente si accompagna ad alterazioni della scrittura. Abbastanza caratteristico è il fenomeno del «closing-in» o giustapposizione della copia al modello, per cui alla richiesta di copiare un disegno o una costruzione bi o tridimensionale, gli elementi della copia vengono sovrapposti a quelli del modello. Non è chiaro se il disturbo visuo-costruttivo debba essere considerato la conseguenza a livello motorio di un difetto generale del pensiero spaziale. Non tutti gli aprassici costruttivi presentano alterazioni visuo-spaziali che, quando presenti, sono costituiti da deficit della localizzazione nello spazio extrapersonale, eminattenzione, disturbi della memoria topografica, etc. In questo caso, il tipo di errori compiuti conferma l’esistenza di una profonda compromissione della capacità di manipolare i dati spaziali; il paziente può riuscire a copiare la configurazione generale del modello tridimensionale, pur compiendo errori di rotazione di uno o più elementi della costruzione o può, altresì, ignorare una metà del disegno o della costruzione, suggerendo l’esistenza di eminattenzione. Lo stesso fenomeno del «closing-in» deriva dall’incapacità di valutare le relazioni spaziali esistenti tra modello e copia. Si distinguono, pertanto due forme di aprassia costruttiva: – l’aprassia da lesione emisferica destra che dipende da una difettosa analisi percettiva dei rapporti visuo-spaziali. Il disegno del soggetto è caratterizzato da perdita dei rapporti di continuità fra i vari elementi, con cattivo orientamento ed omissioni nella metà sinistra della copia, senza una visione di insieme. – l’aprassia da lesione emisferica sinistra è imputabile a difficoltà di carattere motorio o esecutivo. Il disegno è ipersemplificato, primi-
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tivo, formato da un minor numero di elementi, organizzati lentamente, con evidente difficoltà e sforzo. Tuttavia, questo approccio non è da tutti accettato per cui, al momento, è impossibile risalire in presenza di disturbi costruttivi, alla localizzazione del lato della lesione. In generale, si può affermare che l’aprassia costruttiva tende ad essere leggermente più frequente e più grave in caso di lesione emisferica sinistra e, indipendentemente dall’emisfero leso, la sua presenza è più probabile per lesioni posteriori che anteriori. In questo caso entrambi i gruppi di cerebrolesi presentano una relazione costante tra difetti visuo-costruttivi e visuo-percettivi. L’aprassia costruttiva spesso si associa a un deterioramento mentale globale, e l’associazione è generalmente più frequente per lesione emisferica sinistra. Aprassia dell’abbigliamento Consiste in un’elettiva incapacità ad eseguire correttamente gli atti appropriati a vestirsi, cioè nell’impossibilità di indossare correttamente gli indumenti, in assenza di alterazioni prassiche di tipo ideatorio o ideomotorio. Nei casi più lievi il problema viene superato dopo una serie di tentativi infruttuosi; in altre situazioni gli atti necessari ad indossare un abito o un capo d’abbigliamento costituiscono una difficoltà insormontabile. Il malato manipola gli abiti in maniera inadeguata e talora, pur orientandoli in modo corretto, non riesce ad organizzare i gesti necessari per adeguare i segmenti del corpo alla posizione dei vestiti e viceversa. Altre volte, prende gli indumenti alla rovescia, infila gli arti in parti errate del vestito, non riesce ad annodare le stringhe delle scarpe, calza le scarpe alla rovescia, attorciglia la cravatta anziché annodarla, ecc. L’aprassia dell’abbigliamento, cioè la perdita di automaticità dei gesti associati all’atto del vestire è assai rara e si associa frequentemen-
te a disturbi sensoriali, alterazioni della valutazione spaziale e disturbi dello schema corporeo, caratteristici delle lesioni dell’emisfero destro. Talvolta il disturbo dell’abbigliamento si associa ad emisomatoagnosia ed eminattenzione per la metà sinistra dello spazio. In questo caso il comportamento è caratterizzato da errori riguardanti la metà sinistra del corpo; ad es. il paziente dimentica di infilare il braccio nella manica o la gamba nei pantaloni. Altre volte il disturbo è bilaterale, e si collega ad una più generale incapacità ad analizzare e guidare i movimenti nello spazio, analogamente a quanto accade nel corso di turbe visuopercettive e visuo-costruttive.
Agnosie Il termine agnosia, introdotto da Freud nel 1891, si riferisce classicamente ad un disturbo del riconoscimento di stimoli sensoriali, dovuto a una lesione cerebrale, in assenza di turbe percettive, intellettive o fasiche. Potremmo avere tante forme di agnosia quante sono le modalità dell’esperienza sensoriale, ma, per alcuni sensi specifici, come il gusto e l’olfatto, non è possibile, sul piano clinico, differenziare il deficit sensoriale dal disturbo gnosico, per cui si distinguono solamente tre forme: l’agnosia visiva, l’agnosia uditiva e l’agnosia tattile. Agnosia visiva Si tratta di un disturbo del riconoscimento degli stimoli visivi, dovuto a lesione delle regioni temporo-parieto-occipitali dei due emisferi. Il deficit, comunque, non è riconducibile a disturbi della percezione visiva, dal momento che il quadro clinico è diverso da quello che può essere determinato dalla somma delle alterazioni del campo visivo, dell’acuità visiva, del senso cromatico.
Funzioni nervose superiori Munk per primo dimostrò sperimentalmente, nel cane, la possibilità di ottenere, per ablazione di entrambi i lobi occipitali, un disturbo del riconoscimento visivo, apparentemente dissociato da turbe percettive, e definì questa condizione «cecità psichica». L’animale, pur essendo in grado di evitare gli ostacoli e di fissare gli oggetti, sembrava aver perso la capacità di afferrarne il significato. Non riusciva, ad esempio, a riconoscere il padrone se non quando ne udiva la voce e appariva indifferente di fronte a un pezzo di carne fino a quando non poteva annusarlo.
I disturbi di riconoscimento visivo possono compromettere selettivamente alcune categorie di stimoli per cui si può avere agnosia per gli oggetti e per le immagini, agnosia per le fisionomie, agnosia per i colori, agnosia per le forme geometriche, agnosia per i simboli grafici (il mancato riconoscimento della scrittura è già stato riportato nell’alessia senza agrafia, v. pag. 134). La possibilità di un coinvolgimento isolato di differenti categorie di stimoli (oggetti, immagini, facce, parole, etc) suggerisce l’ipotesi che il processo del riconoscimento si realizzi in strutture anatomiche almeno in parte diverse. D’altra parte il processo di riconoscimento potrebbe realizzarsi con modalità differenti se l’immagine viene percepita globalmente oppure se vengono analizzati i singoli elementi che la compongono. Una faccia è identificata nel suo insieme e una parola viene analizzata nelle sue componenti; ciò indica una strategia di analisi diversa e selettivamente vulnerabile. La lesione interesserebbe l’una o l’altra modalità di elaborazione dando luogo, nel primo caso, ad agnosia per le facce, nel secondo, ad un’alterazione del riconoscimento delle parole e delle immagini. Entrambe le ipotesi poggiano sull’esistenza di una specializzazione emisferica, per cui l’emisfero destro sembra avere un ruolo più importante nell’identificazione delle facce, mentre il sinistro sarebbe più specificamente correlato con l’identificazione di parole.
1) AGNOSIA PER GLI OGGETTI E PER LE IMMAGINI. Lissauer (1890) osservò due gruppi di malati: coloro che erano incapaci di percepire e discriminare un oggetto e coloro che, malgrado una corretta percezione, erano incapaci di riconoscere l’oggetto, per cui propose la distinzione, tuttora accettata, di una forma appercettiva,
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in cui esiste compromissione percettiva, e di una forma associativa senza tali turbe. L’agnosia appercettiva si manifesta con il mancato riconoscimento di immagini od oggetti, in presenza di una normale capacità di valutarne le qualità percettive semplici (forma, dimensioni, contorni, luminosità etc) . Il malato manifesta incapacità a discriminare immagini differenti, ad accoppiare figure o oggetti simili, copiare forme geometriche semplici, seguirne il contorno, organizzare i dati percettivi in una rappresentazione distinta dallo sfondo. L’agnosia simultanea (simultanagnosia), cioè l’incapacità di cogliere il significato complessivo di una scena o di una immagine è tuttora oggetto di discussione. Il termine è da molti considerato erroneo e il disturbo dovrebbe essere riferito a un deficit dell’attenzione spaziale e si ritrova nella sindrome di Balint. Il malato descrive l’immagine presentata separando i diversi componenti e perdendo il significato complessivo. Ad esempio, in una figura test come quella del “ladro di cioccolatini”, ove la scena rappresenta un bimbo che cade da una seggiola mentre cerca di prendere dei cioccolatini da un armadio, attirando l’attenzione della madre, raffigurata mentre lava i piatti, il malato non riesce a cogliere l’insieme dell’azione, ma riesce ad identificar solo i singoli componenti: il bimbo, l’armadio, la donna, il lavello, la seggiola etc. Il malato è in grado di copiare accuratamente i disegni anche se la copia è servile, lenta, faticosa, quasi avesse difficoltà ad integrare i vari particolari, interni ed esterni, di una rappresentazione costituita da numerosi elementi.
L’agnosia associativa è caratterizzata dalla incapacità di riconoscere visivamente un'immagine o un oggetto pur essendo normali il linguaggio e le capacità di denominare oggetti percepiti per via tattile. Il malato è incapace di riconoscere l’oggetto attraverso la via visiva, di definirne le modalità di utilizzazione, di indicare un oggetto nominato dall’esaminatore, ma è in grado di seguire i contorni di un’immagine, di accoppiare figure simili, copiare forme di varia complessità, associare figure dello stesso oggetto prese da differenti prospettive, individuare le componenti di disegni sovrapposti e di
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identificarli anche se tracciati con un contorno incompleto. Quella dell’agnosico associativo può essere considerata, dunque, una esperienza percettiva normale “priva di ogni significato”. In alcuni malati i segni dell’agnosia associativa si associano a segni appercettivi. Malati con agnosia appercettiva hanno la lesione nelle aree occipito-temporali bilateralmente, benchè in alcuni casi la lesione sia stata reperita nell’emisfero destro. L’etiologia è varia : avvelenamento da CO, traumi cranici, infarti bilaterali, intossicazione da mercurio. Anche nell’agnosia associativa la lesione, quasi invariabilmente, ha sede in regione occipitotemporale bilateralmente, ma talora anche solo a sinistra. La causa più comune è un infarto nel territorio della cerebrale posteriore. L’impossibilità di denominare un oggetto presentato per via visiva, mentre è conservato, invece, il riconoscimento per via uditiva e tattile caratterizza “l’afasia ottica”, termine introdotto da Freund (1899). Le differenze tra afasia ottica e agnosia associativa devono essere vagliate con molta cautela considerato che una lesione mediale occipito-temporale sinistra (ad es. dovuta a infarto nel territorio della cerebrale posteriore) può essere responsabile di una agnosia associativa e di una afasia ottica. La differrenza tra i due quadri sarebbe piuttosto quantitativa e non qualitativa, tanto è vero che alcuni malati con agnosia associativa possono evolvere verso un quadro di afasia ottica (De Renzi,1999).
2) AGNOSIA PER LE FISIONOMIE (PROSOPOAGNOSIA) Il disturbo è rappresentato dall’incapacità di identificare le facce dei familiari o, comunque, di persone note la cui identificazione è, peraltro, possibile sulla base di elementi estranei alla fisionomia, ad esempio la statura, gli abiti, gli occhiali e, soprattutto, la voce, che viene immediatamente riconosciuta. In genere è mantenuta la capacità di riconoscere le caratteristiche generali del volto, ad esempio se si tratta di un viso maschile o femminile, e di valutare l’espressione mimica, ad esempio se esprime gioia o dolore. Nei casi gravi anche il proprio viso riflesso allo specchio non viene identificato. Nella maggioranza dei casi ambedue le aree occipito-temporali partecipano al processo di ri-
conoscimento di un viso, sebbene venga riconosciuta una prevalenza dell’emisfero destro. L’amigdala gioca un ruolo importante nel riconoscimento dell’espressione emozionale del viso. Si deve distinguere la capacità di identificare il viso di persone note e di persone ignote, poiché queste due possibilità possono essere alterate indipendentemente l’una dall’altra, e la lesione sarebbe, in questo caso, localizzata nell’emisfero destro. 3) DISTURBI DEL RICONOSCIMENTO DEI COLORI Questa denominazione raggruppa una serie di disturbi differenti, caratterizzati da difficoltà nel riconoscimento o nella utilizzazione dei colori a seguito di danno cerebrale, correlabili a turbe percettive, associative, linguistiche. a) I disturbi percettivi includono la discromatopsia e la acromatopsia centrale acquisita. La discromatopsia è una ridotta capacità di distinguere i colori che appaiono pallidi (desaturati) o offuscati; l’acromatopsia è la totale incapacità di distinguere i colori,e il mondo appare in bianco e nero o in varie sfumature di grigio. L’esame clinico dimostra che il malato è incapace di appaiare serie di colori differenti e cade nelle prove di valutazione del senso cromatico (vari tests possono essere impiegati: test di Ishihara, test di Hardy-Rand-Ritter, test di Farnsworth). Questi malati hanno spesso alterazioni del campo visivo, consistenti in una quadrantopsia bilaterale superiore. La lesione ha sede nel giro linguale e fusiforme bilateralmente. b) I disturbi associativi, sono di due tipi: – l’anomia per i colori, incapacità di denominare e indicare su richiesta verbale i colori che, peraltro, vengono discriminati correttamente. Il disturbo, che sembra essere specifico e indipendente dall’esistenza di afasia, è stato rilevato in casi di «alessia senza agrafia». – l’amnesia per i colori incapacità a rievocare il colore di un oggetto, associare ad ele-
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menti caratteristici (ad es. sangue, erba, cielo, neve, etc.) il colore corrispondente, colorare immagini in bianco e nero,o, infine, indicare figure di oggetti colorati in modo errato. Il disturbo associativo si accompagna a segni di lesione emisferica sinistra, e in particolare ad afasia. 4) AGNOSIA ACUSTICA È l’incapacità a riconoscere suoni significativi non verbali in assenza di alterazioni della percezione uditiva elementare. La forma isolata è molto rara e usualmente, il quadro si ritrova associato a disturbi del linguaggio. L’agnosia uditiva può, schematicamente, esprimersi in tre forme: un’agnosia uditiva globale, nella quale i rumori, i suoni musicali e le parole non sono più identificati; un’agnosia per i suoni non verbali (sordità psichica); un’agnosia per i soli suoni musicali, definita amusia sensoriale. L’agnosia per i soli simboli verbali si identifica con la «sordità verbale pura» (v. pag. 143). Nell’agnosia uditiva globale i disturbi fasici dominano la scena, per cui gli aspetti agnosici non verbali appaiono del tutto accessori. La dicotomia fra forma appercettiva e forma associativa sembra applicabile anche all’agnosia per i suoni non verbali. Nel primo caso, il disturbo compromette la possibilità di riconoscere un suono isolato, impedendo di associarlo con uno identico; nel secondo caso il malato è in grado di discriminare i diversi rumori e di riconoscere suoni identici ma non può associare il suono alla rappresentazione dell’oggetto cui corrisponde. La differenza sembra correlata ad una diversa sede della lesione che sarebbe localizzata nell’emisfero destro nella forma appercettiva e nel sinistro nella forma associativa.
5) AGNOSIA TATTILE L’agnosia tattile è una condizione per cui gli oggetti non sono riconosciuti attraverso la modalità tattile in presenza di normali sensibilità superficiali e profonde. In particolare, se la morfognosia, cioè il riconoscimento della forma di un oggetto e l’ilognosia, cioè il riconoscimento delle qualità fisiche dell’oggetto, sono conservate e il malato non è in grado di riconoscere l’oggetto, allora si deve ritenere che esista una agnosia tattile. L’agnosia tattile rappresenta un disturbo eccezionale, ma alcuni casi sono stati descritti. La lesione responsabile ha sede nell’area postero-inferiore del lobo parietale controlaterale alla mano interessata.
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Disturbi dell’esplorazione spaziale Questi disturbi possono interessare lo spazio extrapersonale o lo spazio personale. Le turbe dello spazio extrapersonale riguardano fenomeni patologici di natura diversa e variamente associati che hanno in comune la difficoltà a manipolare le informazioni spaziali derivanti dall’ambiente esterno. Le turbe dello spazio personale si riferiscono al proprio spazio corporeo o al riconoscimento di parti di esso. Il termine agnosia,già applicato a questi disturbi (agnosia spaziale), risulta inappropriato poichè, alla luce della definizione data in precedenza, identifica un errore di riconoscimento di dati percettivi provenienti da uno specifico canale sensoriale. Nella patologia dell’esplorazione spaziale sono coinvolti oltre alle informazioni fornite dal canale visivo che, pure, sono preponderanti, altre modalità sensoriali (tatto, propriocezione, udito), componenti motorie (motilità dello sguardo e degli arti) e capacità intellettuali.
A. Disturbi dello spazio extrapersonale Seguendo la classificazione proposta da Benton (1980), ci limiteremo ad esaminare le alterazioni visuo-spaziali, tralasciando i disturbi grafomotori di natura spaziale e le alterazioni visuocostruttive, queste ultime descritte nel capitolo dell’aprassia costruttiva (v. pag. 153). Nei soggetti con alterazioni visuospaziali la lesione è situata nell’area temporo-parieto-occipitale, soprattutto dell’emisfero destro e talora bilateralmente. 1) DISTURBI DELLA LOCALIZZAZIONE NELLO SPAZIO Spesso si associano a disturbi della valutazione della direzione, della distanza e della stereopsi. Nelle forme più gravi questi errori si riflettono nel comportamento del soggetto, il quale urta contro gli ostacoli perché non sa localizzarli o perchè ha perso la visione stereoscopica. Un malato, descritto da Hécaen ed Angelergues, guardando dalla finestra aveva l’impressione di vedere tutto come in una superfi-
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cie piana e giudicava vicina una casa situata ad oltre 80 metri. Nei casi più lievi gli errori possono essere dimostrati con test che consentano di esaminare la capacità di valutare le distanze (ad es. unire con una linea due punti, segnare il punto di mezzo di una linea o il centro di un cerchio, ecc.), l’orientamento di linee o le dimensioni relative (ad es. stimare la lunghezza relativa di due linee, ecc.). I malati con questi disturbi sono frequentemente portatori di una lesione temporo-parieto-occipitale destra. 2) DISTURBI DELL’ORIENTAMENTO TOPOGRAFICO L’alterazione più tipica consiste nella difficoltà o impossibilità a descrivere le caratteristiche spaziali di ambienti familiari. Nelle forme più lievi il disturbo si limita all’incapacità di indicare la disposizione dei mobili nella stanza d’ospedale, o nella stanza dove ripetutamente è stato sottoposto a tests. Nelle forme più conclamate si ha perdita della memoria topografica, cioè incapacità ad orientarsi in luoghi già noti, descrivere mentalmente o tracciare sulla carta un itinerario, disegnare la pianta del proprio appartamento o del proprio quartiere. Questi malati non sanno più ritrovare il proprio letto, la strada che porta ad edifici pubblici ben noti nella città di residenza (ospedale, stazione, chiesa), per il venir meno del ricordo o del riconoscimento dei punti di repere visivi che, consapevolmente o automaticamente, guidano il soggetto nei suoi spostamenti. Questi disturbi sembrano in relazione con un’incapacità mnesica, per cui risulta impossibile la «rappresentazione» o «rivisualizzazione» degli elementi fondamentali delle configurazioni topografiche. Non è infrequente che questi malati falliscano nelle prove che richiedono la rievocazione mnemonica di nozioni topografiche consolidate (ad es. riconoscere da cartoline luoghi famosi, localizzare sulla carta d’Italia le città più importanti),dimostrando un’amnesia selettiva considerato che altre capacità mnesiche sono conservate. Non può essere esclusa, tuttavia, l’esistenza di disturbi percet-
tivi, i quali possono impedire l’analisi di elementi rilevanti della configurazione spaziale, considerato che turbe della localizzazione extracorporea, emidisattenzione ed agnosia visiva possono produrre difficoltà d’orientamento. I due quadri vanno opportunamente identificati e differenziati. La lesione sembra esser localizzata nelle aree posteriori dell’emisfero destro o in regione parieto-occipitale bilateralmente. 3) NEGLIGENZA SPAZIALE UNILATERALE (EMIDISATTENZIONE) È il disturbo spaziale più frequente ed è caratterizzato dalla incapacità di indirizzare l’attenzione ad una metà dello spazio, qualunque sia la direzione del punto di fissazione. Il difetto si riferisce usualmente alla metà sinistra ed è in rapporto con lesioni temporo-parietooccipitali dell’emisfero destro. In considerazione del fatto che la negligenza spaziale unilaterale colpisce prevalentemente la metà sinistra, il malato ignora tutto ciò che è situato alla sinistra del punto centrale della visione quando si muove nell’ambiente, nelle prove di lettura e di costruzione. La negligenza spaziale unilaterale si associa frequentemente ad emianopsia, ma non ne è la conseguenza. Infatti gli emianoptici apprendono in breve tempo che il difetto può essere compensato da movimenti dello sguardo che permettono di fornire informazioni di ambedue le metà dello spazio, mentre i malati con emidisattenzione hanno limitata e scarsa tendenza a volgere lo sguardo in direzione dell’emispazio ignorato. Nelle forme lievi il difetto è rilevabile solo nel disegno e nella lettura: il soggetto utilizza unicamente la parte destra del foglio, i disegni risultano incompleti nella metà sinistra, e la riproduzione di un modello riguarda solo la parte destra. Nei casi gravi il malato ignora tutti gli oggetti che si trovano alla sua sinistra, urta contro gli ostacoli che incontra a sinistra, non riesce a percorrere un tragitto che richieda di svoltare a sinistra; se gli viene rivolta una do-
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manda da un interlocutore situato alla sua sinistra si rivolge , nella risposta, a chi si trova alla sua destra. La negligenza spaziale unilaterale frequentemente coinvolge oltre la sfera visiva, anche l’esplorazione tattile e uditiva nello spazio e, talvolta, è associata ad alterazioni nel riconoscimento della metà del proprio corpo (emisomatoagnosia) (v. pag. 160). 4) SINDROME DI BALINT È caratterizzata dai seguenti sintomi: 1) difetti di attenzione visiva per gli stimoli extramaculari («debolezza dello sguardo periferico» di Kleist) così che, anche in assenza di alterata percezione periferica, si ha in pratica un restringimento del campo visivo. Pertanto, questi malati non sono in grado di vedere due stimoli simultaneamente presentati, ad es. due figure disegnate nello stesso foglio, una circonferenza ed il punto segnato al centro di essa, ecc.; 2) aprassia dello sguardo, cioè incapacità ad orientare lo sguardo verso un punto che si trovi nel campo visivo periferico, pur essendo la motilità oculare volontaria apparentemente integra. Il disturbo è dominato dalla dissociazione tra la sostanziale normalità dei movimenti automatici dello sguardo, presenti in tutte le direzioni, ed il grave disturbo dei movimenti volontari che risultano gravemente compromessi; 3) atassia ottica, disturbo della coordinazione visuomotoria, consistente in grossolani errori di direzione che il soggetto compie nel tentativo di raggiungere con la mano una mira o un oggetto. Il disturbo può estendersi a tutto il campo visivo o solo a un emicampo, e può interessare un solo arto superiore o entrambi. 4) non costanti disturbi della valutazione delle distanze possono essere associati alla triade sintomatica sopra indicata. Le lesioni responsabili della sindrome di Balint hanno sede nella regione occipito-parietale bilateralmente.
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B. Disturbi dello spazio personale e dello schema corporeo La formulazione del concetto di schema corporeo è nata dalla necessità di inquadrare una serie di osservazioni neurologiche e psichiatriche assai difficilmente interpretabili se non ammettendo l’esistenza di un «modello interno» o «schema corporeo» cui sarebbero riferiti i dati percettivi, le reazioni motorie ed i giudizi di identità e unità somatica. Lo schema corporeo, fondato sulle continue informazioni provenienti dai vari apparati sensoriali, si trasformerebbe in esperienza cosciente del proprio corpo attraverso un processo di integrazione delle informazioni sensoriali con fattori più propriamente immaginativi ed intellettivi. L’esistenza di questo «modello di sé» garantirebbe la coscienza della propria unità, la rappresentazione tridimensionale del corpo, la consapevolezza immediata della sua posizione e di quella che i diversi segmenti occupano nello spazio nel succedersi degli atti motori. Il concetto di «schema corporeo» fu formulato in neurologia per la prima volta da Pick (1908), il quale attribuì ad una sua alterazione l’impossibilità di alcuni malati a localizzare parti del proprio corpo (autotopognosia) e ad avere una corretta «immagine spaziale di sé». Anton (1899), del resto, aveva descritto malati che, nonostante un pressocché normale stato intellettivo, ignoravano o negavano la propria emiplegia e Babinski (1914), commentando casi analoghi, sottolineava che le turbe sensitive, di per sè, non potevano spiegare tale disturbo, suggerendo la compromissione di una specifica funzione cerebrale. Head (1920), infine, postulò l’esistenza di «modelli» o «schemi corporei» derivati dalla elaborazione centrale delle informazioni posturali, propriocettive e somatosensoriali. Il fenomeno dell’arto fantasma, cioè la constatazione che soggetti sottoposti all’amputazione di un arto avvertono disturbi sensitivi (caldo, freddo, senso di pesantezza etc) e sopratutto un dolore violento e insopportabile localizzato nel segmento amputato, quasi fosse ancora presente, ha particolarmente attratto l’attenzione sulle problematiche dello schema corporeo. Incidentalmente sarà utile osservare che l’arto fantasma dopo amputazione si può osservare solo al di là dei 6-8 anni di età, favorendo l’ipotesi che il processo di riconoscimento ed espe-
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rienza del proprio corpo richiede l’integrazione di aree cerebrali diverse e un’attività funzionale che si sviluppa solo dopo una certa età. Nonostante l’interesse che il problema ha sempre suscitato, il concetto di schema corporeo non è mai stato definito in maniera univoca, anche se esso facilita la comprensione di una serie di disturbi causati da una lesione cerebrale. È tuttavia oggetto di discussione se il disturbo abbia una sua autonomia, dipendendo dal difetto di una funzione specifica, o rifletta la presenza di disturbi concomitanti, ad es. del linguaggio e dell’orientamento spaziale.
I disturbi dello schema corporeo possono essere positivi, quando vi sia l’illusione dell’esistenza di parti del proprio corpo non più presenti perché, ad es. amputate, o negativi quando esiste una mancata consapevolezza di specifiche regioni del corpo. In questo caso il disturbo, secondario a lesione cerebrale, può essere bilaterale come nel caso dell’autotopognosia e della sindrome di Gerstmann o unilaterale come nel caso dell’emisomatoagnosia. 1) AUTOTOPOAGNOSIA È l’impossibilità di indicare parti sia del proprio corpo che di quello altrui; generalmente il disturbo è bilaterale, e meno marcato per le parti mediane del corpo. Il deficit, indipendente dalla presenza di alterazioni della comprensione orale, si può osservare sia per comandi verbali che non verbali. Il malato è incapace di denominare parti del corpo (la spalla, il gomito, il ginocchio, ecc.) indicate dall’esaminatore, di identificarle su denominazione, di indicare il punto toccato dall’esaminatore sul proprio corpo o su un disegno. Il difetto che si osserva soprattutto in condizioni test e non crea particolari difficoltà nella vita quotidiana, è dovuto a lesione del lobo parietale sinistro. È più facilmente osservabile in corso di neoplasie piuttosto che nelle lesioni vascolari, probabilmente perché nelle lesioni vascolari il disturbo fasico, spesso presente, maschera il disturbo autotopognosico. Il fenomeno della “ mano aliena “ o “mano estranea” (solo ad occhi chiusi, il malato non riconosce come pro-
pria la mano o una sua parte stretta dall’altra mano, non è un disturbo autotopognosico e verrà discusso a proposito della sindrome callosa (v. pag. 000).
2) SINDROME DI GERSTMANN È rappresentata da: agnosia digitale, disconoscimento fra destra e sinistra, acalculia e agrafia pura. Un sintomo non essenziale ma assai frequentemente associato, è l’aprassia costruttiva del tipo descritto nei cerebrolesi sinistri (v. pag. 153). L’agnosia digitale può essere definita come l’incapacità di distinguere, denominare e mostrare le dita della mano propria ed altrui. Si esamina usando prove verbali, ad es. il malato è invitato ad indicare il dito denominato dall’esaminatore, e prove non verbali in cui il soggetto è invitato a identificare le dita toccate dall’esaminatore su una immagine schematica della mano. Il disorientamento destra-sinistra consiste nell’incapacità di distinguere tra il lato destro e quello sinistro del proprio corpo o di quello dell’osservatore. L’acalculia consiste nell’ incapacità ad effettuare operazioni aritmetiche, ed è prevalentemente di tipo spaziale, cioè con difficoltà e alterato incolonnamento delle cifre e conseguenti errori di calcolo. L’agrafia, il sintomo più costante della sindrome, è «pura», non legata cioè ad alessia né a disturbi del linguaggio interno. L’autonomia della sindrome di Gerstmann è stata, negli ultimi anni, messa in dubbio, a causa della sua frequente associazione con altri disturbi neuropsicologici, ma, oggi, la sua validità appare accettata. Comunque l’associazione di almeno tre dei segni caratteristici della sindrome, ha un buon valore localizzatorio, essendo correlata con una lesione nel giro angolare o piega-curva del lobo parietale sinistro (Denes, 1999). 3) EMISOMATOAGNOSIA Si tratta della perdita della coscienza di appartenenza di metà del proprio corpo, che non viene più avvertita come parte integrante dell’unità somatica. Il disturbo riguarda il distret-
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to corporeo controlaterale alla lesione, che è localizzata nel lobo parietale destro, a livello del giro sopramarginale e angolare. A differenza delle alterazioni dello schema corporeo riferite a lesione dell’emisfero sinistro, ove il deficit è evidenziabile solo con i test, il disturbo si manifesta molto chiaramente nel comportamento, e il malato agisce come se effettivamente gli mancasse metà del proprio corpo. Il soggetto può essere consapevole o inconsapevole del proprio disturbo; infatti, può riferire di avere la sensazione di aver perso la percezione della propria metà del corpo, pur sapendo che ciò non corrisponde alla realtà oppure non presta alcuna attenzione alla metà del corpo asomatognosica e, quindi, non rade la metà sinistra della faccia, non sistema correttamente la stanghetta degli occhiali sull’orecchio sinistro, ecc. L’emisomatoagnosia può essere accompagnata da una serie di disturbi che in genere vengono riferiti alla sfera affettiva. Si può osservare anosognosia caratterizzata da negazione o misconoscimento di un deficit grave di una funzione motoria o sensitiva, ecc., ed in genere si riferisce all’emiplegia: il malato ignora la paralisi e può sostenere che l’arto plegico che l’esaminatore gli mostra non è il suo (somatoparafrenia). L’anosognosia può prevalere su altri segni clinici dovuti a lesioni posteriori, come nella Sindrome di Anton-Babinski, in cui la negazione di malattia accompagna la comparsa di cecità corticale, e nella Sindrome di DideBotcazo, nella quale ai precedenti sintomi si aggiunge la presenza di amnesia dovuta a lesione delle strutture temporali mesiali. Nei casi più lievi si osservano quadri di anosodiaforia, che consiste in una indifferenza verso il disturbo o nella minimizzazione della sua gravità. Se la paralisi non è completa il paziente può mostrare negligenza per l’emilato paretico, con riduzione dell’uso degli arti paretici, quasi non fossero i suoi. Questi disturbi possono associarsi alla comparsa di illusioni ed allucinazioni sensoriali, tra cui vanno ricor-
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date: a) alloestesia: per cui uno stimolo applicato su un lato del corpo viene localizzato sul lato opposto, in genere in una zona simmetrica; b) allucinazioni cenestesiche: quando esiste negazione dell’emiplegia, il malato, richiesto di muovere gli arti plegici, ritiene di averli spostati ed asserisce quindi, senza alcun dubbio, di aver eseguito l’ordine.
L’evoluzione clinica di questi quadri è diversa: nella maggioranza dei casi (traumi, lesioni vascolari) si assiste ad un lento riadattamento, per cui il soggetto prende gradualmente coscienza del deficit e critica le illusioni e le allucinazioni sensoriali, raggiungendo frequentemente un parziale recupero; altre volte (nel caso di tumori e processi degenerativi) il peggioramento è progressivo, talora associato a decadimento mentale. Ciò vale soprattutto per i disturbi emisomatognosici in senso stretto; quando ad essi si accompagnano dolore, angoscia, arto fantasma, emidisattenzione o anosodiaforia è possibile che siano coinvolte altre strutture, ad es. talamiche o talamo-parietali. Ajuriaguerra e Hécaen (1964) distinguono le osservazioni anatomiche della letteratura in tre gruppi: lesioni corticali, lesioni sottocorticali, e infine un terzo gruppo con lesioni corticali e sottocorticali; le lesioni talamiche sembrano provocare, secondo questi AA., il senso di assenza, di estraneità o di non appartenenza dell’emicorpo o di un suo segmento.
4) SINDROME DELL’ARTO FANTASMA Il disturbo, indipendente da turbe psichiche o cognitive, si manifesta in seguito ad amputazione di una parte del corpo, in genere un arto (ma anche il seno per la donna, e i genitali per l’uomo), e consiste nella impressione soggettiva che una parte del corpo amputata sia ancora presente. Si può, inoltre, manifestare in seguito a lesione delle vie sensoriali periferiche o centrali, ed allora dà luogo all’erronea sensazione di poter controllare gli stimoli provenienti della regione del corpo deafferentata. La sindrome viene considerata una prova cruciale dell’esistenza della rappresentazione mentale dello schema corporeo. Il disturbo è estremamente realistico e il malato può erroneamente attribuire ogni sorta di
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sensazione, ad es. freddo, caldo, pesantezza, leggerezza o, ancora, comparsa di crampi, parestesie e dolori, a regioni specifiche dell’arto mancante; la sensazione di integrità può essere così vivida che il soggetto, immaginando di poter muovere l’arto amputato, ad es. la gamba, può cadere e procurarsi lesioni. La sindrome si può accompagnare a una sintomatologia dolorosa estremamente violenta e persistente, e spesso si ritrovano neuromi delle terminazioni nervose del moncone, ma anche la loro rimozione chirurgica è spesso senza effetto. Nei casi in cui il dolore è assente o scarso, la sensazione fantasma tende con il tempo a diventare meno continua, fino a scomparire gradualmente. L’esistenza di una conoscenza implicita del proprio corpo, precedente la rappresentazione dell’immagine del corpo attribuita agli adulti, viene suggerita dalla capacità che i neonati possiedono di imitare i movimenti e dalla constatazione che l’arto fantasma si può osservare, in seguito ad amputazione, solo dopo i 6-8 anni di età (Berlucchi e Aglioti, 1997).
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6. Funzioni nervose superiori Le funzioni intellettive o mentali. Le sindromi psicorganiche C. Loeb, C. Serrati, A. Tartaglione
La valutazione clinica delle funzioni intellettive (attenzione, percezione, coscienza, memoria, affettività, pensiero, intelligenza,) rappresenta una tappa importante dell’esame neurologico, sia perchè disturbi di queste funzioni si associano con una certa frequenza a molte malattie neurologiche, sia perché, non raramente, alcune malattie neurologiche debuttano con disturbi mentali e, solo successivamente, compaiono sintomi neurologici. In questo capitolo vengono sommariamente indicate le alterazioni delle funzioni intellettive che possono essere causate da una lesione cerebrale organica, con lo scopo di fornire alcune informazioni semeiotico-cliniche di base che sono necessarie per affrontare adeguatamente un gruppo abbastanza numeroso di malati neurologici. Quest’area di conoscenze è strettamente collegata con lo studio delle malattie mentali e per l’esecuzione di un esame psichico completo e per lo studio specifico degli aspetti psicopatologici si rimanda ai trattati di Psichiatria. Atteggiamento e comportamento I dati relativi potranno essere raccolti osservando il comportamento e le modalità di contatto del soggetto con il medico e, soprattutto, interrogando i famigliari e gli amici per ottenere informazioni, per quanto possibile accurate, sul comportamento del malato in famiglia e nell’ambiente di lavoro. Spesso alcune notizie vengono spontaneamente fornite dai parenti, sia perchè le modificazioni del comportamento sono avvenute in maniera repentina, sia perchè la loro evidenza colpisce particolarmente l’attenzione.
Inizialmente, è l’aspetto generale del soggetto, cioè l’espressione mimica e l’attitudine generale del corpo, che deve essere osservato. L’espressione mimica potrà apparire indifferente oppure intonata all’euforia o alla tristezza. Mentre l’amimia può essere espressione sia di disturbi extrapiramidali che di gravi turbe psicotiche, una mimica non adeguata alla situazione (mimica discordante) si può osservare soprattutto in malati psichici, ma anche in pazienti neurologici (pseudobulbari). Al contrario una risposta mimica particolarmente accentuata deve essere sempre considerata espressione di una reazione emotiva esagerata, ad es. in soggetti con lesioni prefrontali. L’atteggiamento posturale è spesso in relazione con lo stato generale sia fisico che mentale, o più particolarmente con il fattore affettivo. Ad esempio, è classico affermare che un atteggiamento dimesso, a testa bassa, con fronte corrugata, corpo piegato in avanti e spalle cadenti, può essere espressione di una malattia depressiva, mentre l’ iperattività con mimica perplesso-attonita si può riscontrare in soggetti che soffrono di una psicosi organica acuta. L’attività può essere ridotta nel rallentamento motorio, abolita nel blocco psicomotorio; in opposizione a quanto richiesto dall’esaminatore nel negativismo. Al contrario, l’attività può essere aumentata, oppure può consistere in una rapida successione di azioni o di atti motori spesso senza carattere finalistico, o in una serie di atti che, per quanto finalistici, risultano scarsamente concludenti (affaccendamento inoperoso) o infine, si può osservare una ripetizione di movimenti sempre uguali (stereotipia).
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Il linguaggio spontaneo può essere povero o ricco di contenuti. Il malato può quindi essere inaccessibile o scarsamente accessibile, sia perchè rifiuta il colloquio (negativismo) o perché è confuso o reticente (dissimula le proprie idee e sentimenti), sia perchè il linguaggio è vischioso e prolisso (difficoltà a trovare le espressioni, ripetizioni, abbondanti giri di parole). Al contrario il discorso può essere particolarmente fluente, accelerato e si può giungere alla verborrea e ideorrea (espressività verbale e ideatoria non contenibile e particolarmente abbondante). Il problema degli istinti e del comportamento istintivo non può essere affrontato in questa sede. Molti fenomeni cosiddetti istintivi cioè innati, sembrano in effetti dovuti all’apprendimento, anche se avvenuto in tempo brevissimo. Sembra accertato che molte attività considerate istintive richiedono in realtà, anche nell’uomo, un certo grado di apprendimento. La discussione tra genesi psichica e genesi organica degli istinti è antica: lo stesso Freud scriveva che l’istinto appare come un concetto di frontiera tra l’attività mentale e quella somatica. La neuropsicologia moderna ha mostrato che la lesione di alcune strutture, come il sistema limbico e in particolare il complesso amigdaloideo, è in grado di provocare alterazione di diverse attività istintive, anche se si deve ovviamente tener conto della motivazione e degli aspetti emozionali connessi ad un determinato comportamento istintivo.
Attenzione Si distingue un’attenzione globale o diffusa e una attenzione selettiva. L’attenzione globale si riferisce ad un generico stato di disponibilità all’ambiente, (“arousal“, termine inglese, spesso utilizzato anche in testi italiani), per qualsiasi tipo di stimolo percebile, associato al processo di attivazione della corteccia cerebrale da parte dei sistemi a proiezione diffusa (v. pag. 000). L’attenzione globale può essere modificata dalla riduzione del livello di coscienza in condizioni fisiologiche, come accade nella sonnolenza, o in stati patologici come si verifica nel coma leggero (v. pag. 000).
L’attenzione selettiva si distingue in : attenzione spontanea o riflessa, che si manifesta con l’interesse spontaneo verso determinati obiettivi, e attenzione volontaria o conativa, che orienta, con sforzo e impegno particolare, verso obiettivi specifici e predeterminati, anche in rapporto con canali sensoriali diversi (attenzione visiva, uditiva, etc). L’attenzione conativa, quindi, dirige e seleziona i processi mentali, avendo la funzione di proteggere dalle interferenze esterne e interne, quando il soggetto è intento a svolgere un compito che richiede un impegno cognitivo o comportamentale specifico. I disturbi dell’attenzione possono essere osservati durante la raccolta dell’anamnesi, durante l’esame neurologico, nell’intervista psichiatrica, e tests neuro-psicologici specifici (ripetizione di numeri, ritrovamento di lettere o numeri bersaglio, Trail Making Test, etc.) possono essere utilizzati per documentarli in modo obbiettivo e ripetibile. I disturbi dell’attenzione sono tipicamente presenti nelle sindromi confusionali acute (v. pag. 000), nelle demenze, nelle sindromi frontali di natura diversa e spesso nelle sindromi post-traumatiche craniche, e, ovviamente, in numerose malattie mentali. Le formazioni corticali implicate nella funzione attentiva sarebbero sulla base di studi di risonanza magnetica funzionale: la corteccia frontale (area prefrontale dorso-laterale), la corteccia parietale postero-inferiore, la circonvoluzione del cingolo, con il contributo di alcune formazioni sottocorticali: il collicolo superiore, il pulvinar, il corpo striato e la formazione reticolare troncoencefalica (v. pag. 479). Funzione percettiva La percezione è espressione di un’attività che integra numerose e complesse funzioni per raggiungere il riconoscimento della realtà esterna. Infatti la funzione percettiva include l’organizzazione dei dati forniti dai canali sensitivo-sensoriali, il confronto con esperienze precedenti,
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l’integrazione con processi rappresentativi. Anche altre funzioni quali lo stato affettivo e le attitudini personali o acquisite intervengono nell’elaborazione percettiva. Le alterazioni della percezione comprendono: alterazioni quantitative, sia nel senso di esagerazione delle caratteristiche sensitive o sensoriali (amplificazione, ad es., dei rumori), sia nel senso di diminuzione (riduzione, ad es., delle sensazioni gustative e dolorifiche nei depressi), oppure qualitative (alterazioni della percezione dei colori, ad es. nelle intossicazioni da farmaci). Ma le alterazioni più importanti nell’ambito psicopatologico sono rappresentate dal falsamento delle percezioni. Le illusioni rappresentano un disturbo percettivo per cui elementi esterni si fondono con elementi psichici soggettivi e la percezione della realtà diventa inadeguata (percezione inadeguata dell’oggetto). Le illusioni, frequenti anche nei soggetti normali, possono essere dovute a disturbi attentivi, a particolari stati affettivi (illusioni olotimiche; ad es. falso riconoscimento per strada di una persona che si attende con particolare ansia). Le paraeidolie rappresentano la possibilità, presente anche nei soggetti normali, di strutturare, a figura formale significativa, materiale indistinto (macchie sul pavimento strutturate come volto, ecc.). Le allucinazioni consistono nella percezione di un oggetto senza stimoli sensoriali adeguati (percezioni senza oggetto), evento non sottoposto a critica e non correggibile da parte del soggetto. Le allucinazioni si distinguono, in base all’apparato psicosensoriale interessato, in allucinazioni uditive, visive, olfattive, gustative, cenestesiche . Le allucinazioni possono essere elementari, complesse o combinate. Allucinazioni uditive elementari sono la percezione di rumori, ronzii, fischi, ecc.; le allucinazioni complesse sono rappresentate dalla percezione di parole (voci, per lo più bisbigliate o sussurate, ma ben
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comprensibili), talora alterate (allucinazioni parafasiche) o da frasi o interi discorsi, che possono impartire ordini (allucinazioni imperative) o consigli (allucinazioni teleologiche). Si può anche verificare un colloquio a più voci (quando il malato sente diverse voci), o la ripetizione sonora del pensiero (il malato sente il proprio pensiero espresso ad alta voce) o il commento sonoro degli atti (le voci commentano approvando o più spesso disapprovando le azioni del soggetto). Le allucinazioni visive possono essere elementari (visione di scintille, lampi luminosi, ecc.) oppure complesse (il soggetto vede persone, cose o animali) e anche strutturate come una visione scenica. Si possono verificare allucinazioni caratterizzate dalla percezione di oggetti ingranditi (macropsia), o rimpiccioliti (micropsia o allucinazioni lillipuziane), deformati (dismorfopsia), lontani (teleopsia) o multipli (poliopsia). Le allucinazioni possono essere proiettate al di fuori del campo visivo (allucinazioni extracampine). Le allucinazioni cenestesiche investono la cenestesi, termine piuttosto mal definito che indica quell’insieme di sensazioni coscienti ed incoscienti, che derivano dal proprio corpo e che determinano il senso di benessere o malessere, genericamente e globalmente inteso. Distinguiamo allucinazioni somestesiche: il corpo brucia (allucinazioni termiche), il corpo è pervaso da una scossa elettrica (allucinazioni aptiche), oppure è bagnato (allucinazioni idriche); allucinazioni per avvenimenti somatici imposti (in genere nella sfera sessuale: le donne si sentono violentate, gli uomini affermano di sentirsi imporre un eccitamento sessuale); allucinazioni di trasformazione somatica: il corpo è raggrinzito, rigonfiato, di vetro, di pietra, ecc., l’intestino è posseduto da un serpente, ecc. (allucinazioni zoopatiche interne). Le pseudoallucinazioni o allucinazioni psichiche sono allucinazioni in cui manca la proiezione spaziale sensoriale (si tratta di voci interne, immagini dietro gli occhi, ecc.) e si ri-
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trovano in malati psichici, specie nella schizofrenia. Le allucinosi sono fenomeni allucinatori, generalmente visivi, raramente uditivi, di cui il soggetto riconosce il carattere abnorme e che pertanto critica. Le allucinazioni riflesse sono quelle stimolate da una percezione reale e ad essa connessa (sentendo abbaiare, il soggetto ha l’allucinazione visiva di un cane, ecc.). Le allucinazioni combinate presentano l’intervento di almeno due canali percettivi: il soggetto vede persone e le sente parlare. Allucinazioni in diversi quadri patologici. Le allucinazioni si riscontrano nelle malattie mentali (specie nella schizofrenia), in reazioni psicogene acute, in certe melanconie deliranti e nelle psicosi alcoliche (il soggetto «vede» piccoli animali: allucinazioni zooptiche o microzooptiche). In questa sede dobbiamo sottolineare l’esistenza di allucinazioni in diverse malattie neurologiche organiche, cioè allucinazioni, in genere visive, dovute a un processo organico diffuso o focale dell’encefalo. In particolare, fenomeni allucinatori di diverso tipo, più frequentemente allucinazioni olfattive e gustative, in malati con lesione temporale (v. pag. 537) e in epilettici temporali (v. pag. 544), fenomeni allucinatori visivi, in genere di tipo elementare, ma anche allucinazioni visive complesse (v. pag. 492) in soggetti portatori di lesioni occipito-temporali. Lesioni mesencefaliche paramediane rostrali possono essere associate ad allucinosi visive, talora quasi di tipo filmico, con scene complesse e mutevoli, denominate “allucinosi peduncolari". Il disturbo è molto raro e il suo significato localizzatorio è incerto e, comunque, ancora in discussione (v. pag. 000). Le allucinosi rivestirebbero un certo grado di similarità con le allucinazioni ipnagogiche, che compaiono durante la fase di addormentamento, e con le allucinazioni ipnopompiche,che compaiono al momento del risveglio (v. pag. 000).
Stato di coscienza Per l’importanza che assumono in patologia neurologica la turbe di coscienza sarà dedicato a questo argomento un intero capitolo, cui si rimanda (v. pag. 633). Funzioni intellettive Una lesione organica può comportare una riduzione o una modificazione delle funzioni intellettive tradizionalmente rappresentate e valutate in maniera indipendente l’una dalle altre e distinte usualmente in apprendimento e memoria, pensiero, giudizio e critica, intelligenza, affettività. Questa classica suddivisione, esprime una semplificazione di un problema complesso, poiché le singole attività sono tra loro strettamente connesse e interdipendenti e l’attività psichica appare un’entità da prendere in esame globalmente. Tuttavia, e specialmente per gli aspetti di patologia psichiatrica che vengono definiti organici, una delimitazione appare possibile e comunque particolarmente utile sul piano pratico-clinico e didattico. APPRENDIMENTO E MEMORIA – L’acquisizione di nuove informazioni è strettamente correlata alla memoria, cioè alla possibilità di immagazzinare e rievocare ciò che è stato appreso. L’apprendimento si svela con la capacità di memorizzare, poiché ricordiamo solo ciò che abbiamo appreso. Le variabili che influiscono sull’apprendimento riguardano: le caratteristiche del materiale da apprendere, le modalità con le quali viene esercitato l’apprendimento, ed infine le caratteristiche e le motivazioni personali di colui che apprende. Il fattore cruciale per ogni soggetto che vuole apprendere è rappresentato dal fattore motivazionale perchè senza l’intenzione di apprendere è raro ottenere un risultato. L’apprendimento è il processo per cui le informazioni vengono trasferite dal magazzino a breve termine a quello a lungo termine, e impli-
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ca un consolidamento della traccia mnesica, ottenuta consapevolmente con un impegno motivazionale e uno sforzo attentivo, oppure, per compiti e capacità pratiche, raggiunte, come vedremo, anche in modo inconsapevole. La codificazione dell’informazione può avvenire a diversi livelli. La parola “verde”, ad esempio, può essere codificata come sequenza di suoni, a livello fonologico, come può fare uno straniero che conosce poco la lingua italiana. Si può, invece, astrarre il significato in quanto colore e la parola potrà anche essere associata a una serie di ricordi e di emozioni che il colore e le sue tonalità suscitano, ad es. il colore dei campi, la visione della campagna e la sensazione di pace e tranquillità, etc. Maggiore è il numero dei livelli di codifica e di associazione cui l’informazione (in questo caso la parola “verde”) dà luogo, migliore è la sua memorizzazione.
La memoria è la capacità di codificare, conservare, consolidare, immagazzinare ed infine rievocare informazioni ed esperienze derivate dall’ambiente e dall’attività di pensiero. La memoria, usualmente ritenuta una funzione singola o unitaria, è costituita da differenti e specifiche attività mnesiche elaborate in stadi successivi e distinti. Lesioni cerebrali localizzate in sedi diverse possono determinare compromissioni selettive della memoria, cioè alcune funzioni mnesiche possono essere conservate ed altre possono essere ridotte o annullate. La dimostrazione di questa affermazione è fornita da molti casi clinici e in particolare dal noto e ampiamente studiato malato HM (Scoville e Milner, 1957) sottoposto a lobectomia temporale bilaterale, inclusa l’asportazione di entrambi gli ippocampi, per una grave forma di epilessia. Dopo l’intervento chirurgico il malato era in grado di apprendere e ritenere nuove capacità pratiche e di ricordare eventi verificatisi molti anni prima, ma era incapace di ricordare nuove informazioni ed eventi in corso di svolgimento o accaduti solo poche ore prima. L’apprendimento può verificarsi in maniera consapevole realizzando la memoria esplicita, oppure in maniera inconsapevole quando riguarda attività, compiti e abilità pratiche, realizzando la memoria implicita.
MEMORIA ESPLICITA – La memoria esplicita o dichiarativa si distingue in: memoria semantica e memoria episodica.
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La memoria semantica contiene le informazioni relative al nostro patrimonio di conoscenze e include il significato delle parole, le regole grammaticali e sintattiche, le regole del calcolo. Queste informazioni sono indipendenti da un contesto temporale o spaziale e rispecchiano il significato concettuale delle acquisizione accumulate e quindi si riferiscono a una generalizzazione delle informazioni. Ad esempio: una tazza è riconosciuta come tazza, indipendentemente da forma, dimensioni, decorazioni , elementi che possono renderle estremamente diverse tra loro. Infatti, al processo di elaborazione mentale viene fornita l’evocazione di una rappresentazione interna, depositata nel magazzino della memoria a lungo termine. La memoria episodica si riferisce ai ricordi coscienti di esperienze passate e si distingue in memoria biografica, che mantiene i ricordi personali, e memoria prospettica che riguarda la memoria delle azioni da intraprendere nel futuro e l’apprendimento didattico. L’attività funzionale della memoria esplicita è in rapporto con il fattore temporale, e si riconosce una memoria a breve termine (o memoria primaria) ed una memoria a lungo termine (o memoria secondaria). La memoria a breve termine ha la possibilità di richiamare l’informazione immediatamente dopo la sua presentazione e possiede una limitata capacità di immagazzinamento. Esistono diverse forme di memoria a breve termine ed una memoria a brevissimo termine sarebbe la memoria visiva o iconica, ritenute in rapporto al persistere delle immagini retiniche postume, e la memoria uditiva o ecoica, in rapporto con le caratteristiche funzionali del complesso cocleare. La memoria a breve termine rappresenta uno stadio in cui l’informazione viene temporaneamente ritenuta, in rapporto al fattore attenzione e al significato emotivo per il soggetto. La memoria a breve termine ha un magazzino di limitata capacità (non più di 7 unità o item) e
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durata, ma consente di integrare i dati raccolti con i ricordi della personale esperienza e con le informazioni che continuano ad affluire dall’esterno, realizzando la funzione che è stata definita “memoria di lavoro”. La memoria a breve termine, come memoria di lavoro, può essere considerata un sistema di confronto dinamico dei dati e consente una continuità temporale e spaziale tra l’esperienza passata e l’azione attuale. La sua importanza risulta evidente se si pensa, ad esempio, alla condizione in cui si cerca di capire un discorso il cui senso sarà chiarito solo alla fine. Nella frase: “egli si rivolse al giudice e protestò energicamente, dicendo che il suo avversario violava le regole usando una racchetta da tennis con le corde tese in modo illecito” è difficile dire, prima della fine della frase, se la scena si svolge su un campo da tennis o in tribunale. Per poter giungere a questa conclusione bisogna che il materiale venga ritenuto per breve tempo nel magazzino e confrontato con gli altri elementi man mano che vengono percepiti. Una qualche forma di memorizzazione temporanea è necessaria per una grande varietà di compiti, come l’aritmetica mentale, il ragionamento e la soluzione di problemi. Anche se intesa come processo unitario, la memoria di lavoro opererebbe come una serie di subsistemi controllati da un sistema esecutivo di limitata capacità, direttamente sotto il controllo dell’attenzione. In particolare esisterebbero due sistemi principali: a) utilizzazione del materiale verbale (loop fonetico-articolatorio) testabile formalmente con il digit span), b) utilizzazione del materiale visuo-spaziale ( cosidetto taccuino visuospaziale, testabile formalmente con il test di Corsi). Questi due sistemi sarebbero sotto il controllo e l’effetto integratore di un “sistema supervisore centrale”.
In sommario: la memoria a breve termine, utilizzata come memoria di lavoro, ha la funzione di acquisire e mantenere l’informazione e di usarla per guidare il comportamento anche senza aiuto e indicazioni esterne. Attraverso processi mentali di consolidamento (ad es. la ripetizione evidente o silente), si produce una continua reiterazione della traccia mnesica che aumenta la probabilità di passare alla fase successiva di immagazzinamento e, quindi, di apprendimento e ricordo.
L’elaborazione dell’informazione audio e visuo-spaziale della memoria di lavoro sembra, sulla base di studi con RM funzionale, che attivi la corteccia prefrontale dorsolaterale (aree di Brodmann : 9-10-46 e parte dell’area 8 e 47) (v. pag. 518) e la corteccia parietale posteriore, oltre ad altre aree in rapporto con compiti spaziali e non spaziali. La memoria di lavoro è primariamente coinvolta nell’attività che si riferisce alle “funzioni esecutive”, termine recentemente introdotto che si riferisce alle attività rivolte alla risoluzione di nuovi problemi, alla capacità di identificare nuovi obbiettivi e di modificare i propri piani, se necessario, al controllo dei diversi compiti da eseguire, alla modificazione del comportamento in rapporto alla situazione ambientale, all’organizzazione di nuovi schemi per un nuovo comportamento. Questa funzione sarebbe svolta da un complesso circuito che coinvolge la regione prefrontale dorsolaterale e le relative connessioni: testa del caudato e quindi parte del pallido e della sostanza nera e di qui i nuclei talamici anteriori e dorso-mediali (DeLong, 2000) (v. pag.518).
La memoria a lungo termine è in grado di richiamare l’informazione dopo un intervallo di tempo lungo, durante il quale l’attenzione del soggetto è stata focalizzata su altri diversi obbiettivi, e possiede una capacità di immagazzinamento molto vasta. Memoria recente e memoria remota sono termini generici, talora impiegati per indicare ricordi immagazzinati nelle ultime ore, giorni, settimane o mesi rispetto a ricordi che si riferiscono a molti anni precedenti, ed anche all’adolescenza o all’infanzia. Ma non sono riscontrabili limiti temporali precisi per qualificarli, perché non esistono tracce di discontinuità temporale dei ricordi. La distinzione viene utilizzata tuttavia, per le modificazioni che si riscontrano in rapporto con l’età, considerato che i ricordi identificabili come remoti risultano più stabili dei ricordi recenti nei soggetti anziani.
MEMORIA IMPLICITA – La memoria implicita si riferisce alla possibilità di adempiere un compito, di eseguire una serie di azioni anche particolarmente complicate, di mettere in atto abilità manuali, apprese nel tempo, in parte senza rendersene conto e quindi inconsciamente. I fattori
Funzioni nervose superiori
che la possono realizzare sono rappresentati dal condizionamento, dall’innesco visuo-spaziale e verbale, e dalla memoria procedurale, responsabile del deposito di informazioni sul modo di procedere in diverse circostanze e con quel determinato materiale. Questo tipo di memoria non può essere evocato coscientemente in nessun altro modo che con l’esecuzione di quella determinata procedura, essendo la descrizione verbale parziale e incompleta. Basti pensare, in effetti, ad azioni e comportamenti della nostra vita quotidiana: guidare l’automobile, andare in bicicletta, scrivere a macchina, o anche azioni più elaborate, come suonare il piano o il violino. Si tratta quindi di un apprendimento di compiti percettivo-motori non accessibili alla coscienza. Ad esempio, alcuni pazienti non ricordano nulla di eventi passati o della loro vita personale, ma sono in grado di vestirsi, di mangiare, di eseguire attività motorie abituali, cioè di eseguire atti che implicano apprendimenti e che sono divenuti procedure quotidiane abituali. All’opposto sono stati descritti malati di corea di Huntington, in cui queste attività sono specificamente compromesse, mentre la memoria esplicita è relativamente risparmiata o molto meno colpita. Il ruolo della memoria implicita o procedurale, per molti decenni ignorata, può servire a predisporre nuove modalità di intervento per la neuroriabilitazione e, specificamente, per la riabilitazione della memoria. OBLIO E AMNESIA. L’oblio in un soggetto normale si riferisce alla perdita delle informazioni acquisite ed è in rapporto con diversi fattori, a parte le cause patologiche, di cui ricordiamo tra i più rilevanti, il significato personale attribuito all’informazione, l’età avanzata, l’abbondante affluenza di nuove informazioni, responsabili di un processo di interferenza con i ricordi acquisiti. Nel malato con lesioni cerebrali la memoria può essere gravemente danneggiata in assenza di altri disturbi cognitivi realizzando i seguenti deficit amnestici:
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– amnesia anterograda, incapacità a fissare e acquisire nuovi ricordi, come accade tipicamente nei traumi cranici, ma anche nelle psicosi organiche, – amnesia retrograda, incapacità a ricordare avvenimenti accaduti prima dell’instaurazione del quadro patologico, come si osserva nei traumi cranici, in casi di patologia da agenti tossici. Talora il disturbo è misto antero-retrogrado. Va precisato che il termine “amnesia lacunare”, specialmente utilizzato in passato, si riferisce a disturbi di memoria per periodi di tempo ben delimitati e include, quindi, i deficit esclusivamente anterogradi oppure retrogradi, – amnesia selettiva, cioè deficit mnesici selettivi per informazioni verbali e non verbali. Malati sottoposti a lobectomia temporale sinistra hanno difficoltà a ritenere materiale verbale, mentre i lobectomizzati temporali destri hanno difficoltà a ritenere informazioni non verbali (ad esempio, richiamo e riconoscimento di visi). Le strutture interessate sono individuate nel giro fusiforme bilateralmente e nella popolazione neuronale che si trova nella profondità del solco temporale superiore a destra, anche se non è ancora definito se la memoria per gli oggetti e la memoria per le facce sia mediata da strutture cerebrali almeno in parte diverse, – amnesia globale che interessa sia i ricordi recenti che i ricordi antichi, come accade nel decorso delle demenze primarie (v. pag. 000). Nel quadro denominato “amnesia globale transitoria “ (v. pag. 000), la caratteristica essenziale è la limitata durata nel tempo di amnesia prevalentemente anterograda (impossibilità di fissare nuove informazioni) associata ad amnesia per il passato recente con variabile estensione temporale (da qualche ora a qualche anno). – amnesia sistematica o elettiva, riferita al mancato ricordo di un avvenimento o serie di avvenimenti legati a situazioni psicodinamiche, per cui il quadro, molto spesso transitorio, è anche indicato come amnesia psicogena. Le turbe qualitative della memoria comprendenti le illusioni del ricordo o allomnesie, le
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
allucinazioni del ricordo o paramnesie si osservano prevalentemente in malati psichici. Le confabulazioni , falsi ricordi che riempiono lacune mnesiche, si ritrovano in soggetti dementi (v. pag. 000), nella sindrome di Korsakoff (v. pag. 000) e talora anche in patologie diverse con lesione diencefalica (v. pag. 561, demenza talamica). A REE MNESICA.
CEREBRALI ATTIVATE DALLA FUNZIONE
L’utilizzazione delle tecniche di neuroimmagine funzionale ha permesso di raggiungere risultati di rilievo in questo campo rispetto ai dati desunti dagli studi neuropsicologici in malati neurologici o in epilettici dopo interventi neurochirurgici. La memoria di lavoro, cui compete un ruolo specifico nell’apprendimento della lettura, nell’acquisizione del vocabolario e nella comprensione (elaborazione dell’informazione audio e visuo-spaziale), rende attive, sulla base di studi con RM funzionale, le regioni prefrontali, in particolare la corteccia prefrontale dorsolaterale (aree di Brodmann: 9-10-12-46) (v. pag. 518) e la corteccia parietale posteriore, oltre ad altre aree in rapporto con compiti spaziali e non spaziali. Le funzioni di memoria a lungo termine sono localizzate in multiple aree cerebrali, anche se i dati attuali non devono ancora essere ritenuti definitivi. La memoria esplicita rende attive le aree temporali mediali bilateralmente, cioè l’ippocampo e le circonvoluzioni paraippocampiche (v. pag. 535). L’amigdala ha importanza solo perché codifica gli stimoli emotivi e fornisce il significato dell’evento che verrà immagazzinato. La memoria episodica attiva l’ippocampo, ma anche la corteccia prefrontale, il giro anteriore del cingolo, la regione del cuneo e precuneo, la corteccia parietale inferiore. Anche il diencefalo e specialmente i nuclei dorsolaterali del talamo, i corpi mammillari e i tratti mamillo-talamici, se lesi bilateralmente, produrrebbero alterazioni nell’immagazzinamento e nella
codificazione dei dati. Il materiale dichiarativo codificato in prima istanza in queste formazioni, verrebbe successivamente distribuito in varie aree della corteccia frontale, temporale e parieto-occipitale. Sulla base dei dati neuropsicologici si ritiene che esistano subsistemi parzialmente indipendenti per ogni specifica funzione (codificazione, immagazzinamento, richiamo) e per le categorie degli elementi da ritenere (oggetti concreti, componenti astratte, colori, facce, etc). ATTIVITÀ NEURALE E MEMORIA. I meccanismi neuromolecolari alla base della memoria sono stati individuati per la memoria a breve termine, in meccanismi spazio-temporali di eccitazione neuronica di per sé labili, mentre per la memoria a lungo termine viene prevista la formazione di nuove proteine e modificazioni funzionali più durature nel tempo (Kandel, 2000). Le attuali conoscenze indicano che i differenti tipi di memoria sono espressione di meccanismi nervosi diversi e, come vedremo, anche di localizzazioni cerebrali diverse. I meccanismi per la memoria a breve termine sono stati individuati in circuiti nervosi detti riverberanti, perchè partono da una cellula nervosa o da un gruppo cellulare e, dopo un tragitto relativamente breve, che può comportare la messa in attività di altre cellule e assoni, ritorna alla cellula o al gruppo cellulare di partenza. Questo meccanismo caratterizzato dalla presenza di uno stimolo in un circuito chiuso potrebbe soddisfare le caratteristiche della memoria a breve termine specialmente per quanto riguarda la labilità e la transitorietà del fenomeno. Sono state elaborate, sulla base di ricerche sperimentali, anche altre ipotesi le quali ritengono che la memoria a breve termine sarebbe innescata dalla produzione di un neurotrasmettitore, responsabile di una serie di eventi che inducono la fosforilazione delle proteine, capace di produrre una modificazione sinaptica a breve termine. I meccanismi messi in opera per consentire la memoria a lungo termine differiscono da quelli per la memoria a breve termine per un fatto essenziale, caratterizzato dalla formazione di nuove proteine. Nella memorizzazione a lungo termine si verifica la formazione di nuove proteine attraverso passaggi ancora sconosciuti, anche se
Funzioni nervose superiori è stata prospettata la sequenza rappresentata dalla trascrizione del DNA in mRNA e la traduzione del mRNA in proteine. In sintesi, i neurotrasmettitori attivano una cascata di eventi che portano, attraverso processi in parte noti, in parte ancora sconosciuti, all’aumento di eccitabilità, fosforilazione di proteine e complessi proteici esistenti oppure formazione di nuove proteine e complessi proteici e potenziamento delle connessioni sinaptiche. Si ipotizza anche che la memoria esplicita sia in rapporto con il fenomeno indicato come “potenziamento a lungo termine “ (LTP) a livello dei neuroni dell’ippocampo. L’attivazione di questi neuroni, ottenuta con una stimolazione ad alta frequenza (40-100 Hz) può produrre un aumento della funzione sinaptica per un tempo molto lungo, che può essere di ore o anche di giorni.
PENSIERO – Rappresenta una funzione per cui il soggetto, attraverso particolari modalità operative, riconosce la realtà, la utilizza con processi di astrazione e di sintesi, forma idee, raffronta diversi contenuti ideatori col ragionamento e ne critica i risultati allo scopo di risolvere compiti specifici, che si era proposto. La delimitazione tra pensiero e intelligenza è ovviamente illusoria, poiché la generale capacità di adattamento a nuovi compiti e a nuovi problemi rappresenta sia una possibile definizione dell’intelligenza sia una caratteristica del pensiero. Nei disturbi formali del pensiero si riscontra: la fuga delle idee, propria degli stati maniacali; rallentamento o inibizione del pensiero, propria degli stati depressivi; la dissociazione, propria degli schizofrenici, e l’incoerenza, propria dei malati confusi. I disturbi formali del pensiero includono anche il pensiero concreto (incapacità ad operare astrazioni con accentuato riferimento alla concretezza degli oggetti) frequente negli schizofrenici, come il deragliamento del pensiero in cui i collegamenti associativi sono alterati e talora non comprensibili. Nelle sindromi demenziali si osserva un impoverimento delle idee, e soprattutto l’incapacità di operare contemporaneamente con idee e rappresentazioni differenti, per cui una rappresentazione permane a lungo quale contenuto predominante del pensiero e diminuisce il nu-
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mero di idee di cui si può disporre contemporaneamente. Le turbe del corso del pensiero sono rappresentate dall’accelerazione e dal rallentamento. Il più rapido fluire della successione delle idee si osserva anche in soggetti normali in particolari stati emotivi o nell’ebbrezza alcolica leggera. L’accelerazione patologica si riscontra, in diversi gradi, nello stato subeuforico e nello stato maniacale, nella mania grave, con la «fuga delle idee» associata a logorrea o verborrea marcata. Accanto alla produzione ideatoria e verbale esagerata si riscontra anche una motilità e una mimica esuberante e instabile, tanto da arrivare all’agitazione motoria; la fuga delle idee, la logorrea e l’agitazione motoria caratterizzano la sindrome di agitazione psicomotoria. L’attività ideatoria ed anche quella motoria possono essere rallentate, tanto da giungere ad un grado di inerzia o di inibizione per cui la semplice risposta ad una domanda è difficile e sembra che il paziente debba superare un grosso ostacolo. Ai gradi estremi si raggiunge l’arresto o blocco psicomotorio, e il soggetto allora è immobile, non parla spontaneamente nè risponde alle domande. La dissociazione ideatoria, che ritroviamo nel pensiero schizofrenico, esprime una sconnessione e un allentamento dei legami dell’associazione delle idee, cioè di quelle qualità che rendono il corso delle idee logicamente conseguente e finalisticamente diretto. L’espressione verbale di questo tipo di ideazione patologica si traduce, all’estremo limite, nell’insalata di parole e frequentemente in un discorso incoerente, molto spesso oscuro, allusivo e difficilmente comprensibile. Nel soggetto schizofrenico poi, il fluire del pensiero può dimostrare un intoppo, cioè un’improvvisa interruzione, che il soggetto vive come l’impressione di un vuoto, ed altri aspetti (come il deragliamento, l’iperinclusività, il pensiero circostanziato, ecc.) per cui si rimanda ai manuali di psichiatria. Nelle malattie mentali, i disturbi del contenuto del pensiero realizzano:
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– le idee prevalenti, idee o gruppi di idee che assumono, per effetto del tono affettivo particolare, preponderanza marcata nel pensiero del soggetto; – le idee deliranti, idee morbose non correggibili dalla critica e dal giudizio, spesso alimentate da percezioni e intuizioni deliranti. Il delirio può essere lucido o confuso, in rapporto allo stato di coscienza; oppure primitivo o secondario, a seconda che sia inderivabile oppure in rapporto a disturbi affettivi o psicosensoriali; strutturato o non strutturato, a seconda se assume precisa configurazione e stabilità, o rimane labile e meno consistente nel tema. Il pensiero compulsivo o ossessivo (anancasmo) indica un’idea o una rappresentazione mentale, intrinsecamente normale, che in maniera incoercibile e persistente disturba il normale flusso ideatorio, nonostante che il soggetto la critichi come abnorme e tenti, seppure senza successo, di liberarsene (parassitismo psicologico). Si distinguono ossessioni ideatorie (tendenza irresistibile a fare somme, ecc.), ossessioni impulsive (il soggetto teme di dover eseguire azioni immorali o assurde, come bestemmiare in chiesa, ecc.). Il soggetto può sentirsi obbligato a compiere azioni (atti compulsivi) che può riconoscere assurde, deve ripetere certi atti (controllare se la porta è chiusa, lavarsi ripetutamente le mani, talora per ore, ecc.) che costituiscono i cerimoniali o rituali (coazioni motorie). La fobia invece è definita come un timore patologico associato a uno stato affettivo penosamente vissuto, riferito a un oggetto o ad una situazione (fobie d’arrossire, fobie per luoghi chiusi, per le malattie, ecc. denominate ereutofobia, claustrofobia, nosofobia, ecc.). L’ossessione si riscontra tipicamente nel gruppo di malattie indicate come neurosi, ma anche nelle distimie e in certi tipi di psicosi organiche da lesione temporale. La fobia non rappresenta un aspetto patologico del pensiero, ma è un disturbo d’ansia. Tuttavia, considerato che è spesso associata a turbe ossessive, realizzando quadri
denominati nevrosi fobico-ossessiva, viene inclusa in questo paragrafo. INTELLIGENZA – L’intelligenza non è definibile o misurabile in sé, ma nella prestazione che il soggetto fornisce, che deve essere, oltre che adeguata, raggiunta in economia. L’intelligenza include, quindi, la capacità di risolvere i problemi, cioè la capacità di utilizzare, in modo appropriato allo scopo, gli elementi del pensiero necessari per impostare e risolvere adeguatamente l’adattamento alle situazioni, oltre alla capacità verbale. In sostanza l’intelligenza riguarda la possibilità di indirizzare verso una scelta precisa e adeguata al problema da affrontare, diverse funzioni che costituiscono la premessa dell’intelligenza, cioè capacità d’apprendimento, memoria, attività ideatoria. Gardner (1983) ritiene che esistano diversi tipi di intelligenza: l’intelligenza linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale (per l’arte, la navigazione etc), l’intelligenza corporeo-cinestesica (propria di danzatori, atleti, artigiani provetti), intelligenza personale tipo A (sensibilità nel riguardo degli altri), intelligenza personale tipo B (conoscenza e consapevolezza di sé). Del resto è stata anche usata la denominazione di “intelligenza pratica”, cioè la capacità di identificare gli aspetti essenziali di una situazione, di individuare la via adeguata per raggiungere uno scopo, di avere una varietà di interessi per il mondo. Il livello d’intelligenza emerge in parte dall’osservazione, ma può essere valutato più oggettivamente e meglio quantificato con l’uso di tests mentali per l’intelligenza (ad es.: Test di Wechsler-Bellevue per gli adulti; v. pag. 182). Il deficit d’intelligenza congenito o insorgente nella prima età evolutiva, denominato frenastenia o oligofrenia, deve esser distinto dal deficit di intelligenza che colpisce un soggetto adulto con intelligenza già sviluppata che viene denominato demenza. Le demenze sono dovute a cause organiche e dimostrano un deficit delle prestazioni intel-
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lettive, per cui, almeno all’inizio, solo le attività quotidiane più banali possono essere compiute, ma per nuovi compiti, prima correttamente affrontati, il comportamento è inadeguato o errato o di rinuncia. È questo il quadro che appare nella demenza paralitica (v. pag. 000) e nel gruppo delle demenze (v. pag. 000). Talora, nella fase iniziale, prevale in maniera molto appariscente il disturbo mnesico e il quadro viene denominato “presbiofrenia”. Tuttavia, accanto all’evidente deficit mnesico, spesso si associano confabulazioni e impoverimento del patrimonio ideativo e delle capacità critiche. Il termine deterioramento mentale dovrebbe riferirsi alla compromissione dell’attività intellettuale evidenziata dai tests per l’intelligenza (che riportano appunto il quoziente di deterioramento), ma è spesso impiegato come sinonimo di demenza. Il ritardo mentale riguarda il deficit intellettivo che si manifesta durante lo sviluppo, ma a cui oggi viene anche aggiunto il deficit di adattamento (indipendenza, autonomia) e manifestazioni associate (alterazioni neurologiche e internistiche proprie della malattia responsabile del ritardo mentale e alterazioni comportamentali). AFFETTIVITÀ – La terminologia utilizzata è spesso ambigua e diversa secondo gli Autori, specie in rapporto alla lingua utilizzata e, pertanto, ci atteniamo ai termini classicamente utilizzati da Jaspers (1946) e da Schneider (1967). L’affettività indica «il colorito soggettivo» dei processi psichici e quindi la risonanza piacevole o spiacevole, soggettivamente esperita, in rapporto con la realtà vissuta. Lo stato affettivo può essere manifestato in maniera diversa: da comportamenti motori a processi vegetativi, dalle modalità del ricordare e del pensare all’azione volontaria. L’affettività comprende classicamente le emozioni, i sentimenti, l’umore e viene tenuta distinta dai processi intellettivi, anche se è sempre con essi molto strettamente collegata.
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L’emozione è uno stato d’animo reattivo a stimoli intero- o esterocettivi, di intensità marcata, a presentazione improvvisa, di breve durata, accompagnato da fenomeni vegetativi (rossore al viso, aumento della pressione arteriosa, tachicardia, stimolo a defecare etc.). Le emozioni possono essere espresse dal nostro comportamento e dalla mimica. I sentimenti rappresentano stati affettivi abbastanza persistenti nel tempo, che possono essere legati ad avvenimenti esterni ma, forse più spesso, sono in rapporto con situazioni puramente psichiche e quindi connessi con l’attività di pensiero, con la memoria e con l’evocazione di rappresentazioni. L’umore definisce il durevole colorito di fondo di tutti i sentimenti di un determinato soggetto e viene allora inteso come “temperamento”, ma, usualmente, il termine viene impiegato per indicare uno stato affettivo temporaneo e variabile che rappresenta il risultato, soggettivamente esperito, della somma di tutti i sentimenti in un determinato stato di coscienza. Lo stato depressivo consiste nel vivere la propria esperienza con una tonalità affettiva pervasa dalla tristezza, dal dolore, dalla disperazione. Lo stato ansioso o ansia può essere definito come un sentimento di attesa di un pericolo vitale, imminente; se accompagnato da sintomi somatici (sensazione di oppressione toracica) si definisce angoscia. Nella depressione il corso delle idee è inibito e possono esistere idee deliranti (di rovina, di colpa, di autoaccusa, ecc.). L’apatia rappresenta una mancanza marcata di interessi, una indifferenza verso l’ambiente e la propria persona, una sorta di assenza o riduzione della risonanza affettiva che rende il soggetto freddo e staccato. L’apatia si osserva anche in malattie psichiche di genesi organica (sindromi demenziali). Se il tono affettivo è esaltato si ha euforia o subeuforia: il mondo e l’esistenza sono vissuti con particolare vivacità e con tono piacevole. La mania rappresenta il polo euforico della psicosi
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ciclotimica (alternanza di depressione e mania), ma può anche manifestarsi, in altre malattie, come espressione di uno stato affettivo esaltato e rappresenta allora «lo stato maniforme». Il tono dell’umore è esaltato, euforico; i processi ideativi accelerati sino a raggiungere la fuga delle idee, la spinta vitale abnormemente vivace per cui il soggetto è particolarmente attivo, anche se con modalità che non conducono ad un risultato utile. Un misto di indifferenza e di fatua euforia con tendenza al motteggio (moria) si puo osservare nelle lesioni organiche cerebrali focali. Per labilità emotiva si intende una rapida e anormale mutevolezza affettiva, facilità nel passaggio dal riso al pianto e specialmente incontinenza emotiva, cioè reazioni emotive che si manifestano per avvenimenti di scarsa importanza e che il soggetto non riesce a controllare. Oltre allo studio clinico del soggetto può essere indicato avvalersi di tests utili per sondare la sfera affettiva. La personalità La personalità, termine ampiamente discusso nel suo significato e quindi molto diversamente definito, può essere intesa come l’insieme dell’attività di pensiero, affetti e comportamento che l’individuo abitualmente esprime nel suo incessante impegno di adattamento alla realtà. Personalità è spesso usato come sinonimo di carattere, mentre il temperamento rappresenta lo stato affettivo durevole della personalità, cioè l’insieme degli aspetti fondamentali affettivo-emotivi che contraddistinguono un soggetto nell’adattamento alla realtà. Ogni malattia mentale altera la personalità, ma possono essere particolarmente evidenti e clinicamente importanti le alterazioni della personalità nelle sindromi psicorganiche (v. pag. 175). Oltre alle modificazioni della personalità riscontrabili nelle malattie mentali o nei disturbi psicorganici, esistono disturbi duraturi della
personalità a etiogenesi sconosciuta, che, classicamente, erano intesi come deviazioni dalla norma statistica. Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV) i disturbi di personalità vengono distinti in diversi gruppi («Disturbo antisociale di personalità», «Disturbi borderline di personalità» , «Disturbo istrionico di personalità», «Disturbo narcisistico di personalità», ecc) e la loro trattazione riguarda i testi di psichiatria.
Sindromi psichiche da patologia cerebrale o internistica o sindromi psicorganiche Si tratta di sindromi psichiche, transitorie o permanenti, causate da patologia cerebrale o internistica, con caratteristiche cliniche ben differenti da quelle delle malattie mentali primarie. Varie terminologie sono state utilizzate per denominarle, tra cui più recentemente: sindromi cerebrali organiche ; disturbi mentali organici (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, III edizione o DSM III, 1980). Questa terminologia non è riportata nella edizione più recente (DSM IV, 1994), poiché, viene affermato, si potrebbe erroneamente ritenere che le malattie mentali «non organiche» possano non avere un substrato biologico. Nel recente passato la denominazione «Sindromi psicorganiche» (Bleuler, 1957), era usualmente impiegata, ed ancor oggi appare particolarmente utile per indicare sul piano clinico, le sindromi psichiche dovute a lesione cerebrale organica, a patologia internistica, a intossicazioni esogene. La dimostrazione del rapporto causale tra la patologia cerebrale e internistica rilevata e la sintomatologia psichica deve essere concordemente avvalorata dai seguenti elementi: a) accurata valutazione diagnostica della lesione causale sulla base dei dati anamnestici,
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dell’esame obbiettivo generale e neurologico, dei dati di laboratorio e dei dati di neuroimmagine; b) valutazione del rapporto temporale tra evento patologico e sintomatologia psicorganica, valutando l’associazione temporale tra debutto, esacerbazione, eventuale remissione della sindrome psichica e malattia neurologica o internistica causale. Ovviamente anche l’impossibilità, sulla base dei sintomi riscontrati, a formulare una diagnosi di malattia mentale primaria può, in determinati casi, avere un ruolo aggiuntivo di appoggio diagnostico. Come vedremo, infatti, la sintomatologia psicorganica ha, quasi nella totalità dei casi, caratteristiche specifiche e non confondibili. Le sindromi psicorganiche si possono distinguere in quattro gruppi : 1) Sindrome confusionale 2) Sindrome demenziale 3) Sindrome amnestica 4) Sindrome con disturbi di personalità (Sindrome organica di personalità). È indispensabile, tuttavia, sottolineare che, in rapporto alla patologia determinante, i quadri possono sovrapporsi e associarsi, per cui, ad esempio, una sindrome demenziale, una sindrome amnestica e una sindrome con disturbi di personalità potranno essere associate ad uno stato confusionale, una sindrome confusionale potrà regredire e rivelare l’esistenza di una sottostante sindrome demenziale, oppure ancora una sindrome confusionale potrà evolvere in uno stato di coma e, in rapporto alla malattia causale, perfino al decesso. Le cause delle sindromi psicorganiche sono da ricercare nella più varia patologia cerebrale, nella patologia internistica dei vari organi e apparati e nella patologia tossica esogena, particolarmente alcool, sostanze psicoattive e droghe. Al termine della descrizione di ogni sindrome, verranno indicate le cause possibili del disturbo. Anche se ciò comporta qualche ripetizione, permette di attirare l’attenzione su alcune
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patologie che più frequentemente sono responsabili delle sindromi descritte. Sindrome confusionale o stato confusionale acuto Questa sindrome è, specie negli USA, indicatata come «delirium», termine che può creare difficoltà, poiché «delirio», nella psichiatria italiana, ha un significato diverso e ben definito (v. pag. 172), ed è in contrasto con la tradizione europea che si riallaccia allo «Stato confusionale» di Chaslin (1895), termine del resto utilizzato anche in recenti trattati inglesi (Walton, 1993). La sindrome confusionale, caratterizzata da turbe di coscienza, con alterazioni dell’attenzione e della memoria, disorientamento temporospaziale e per le persone, pensiero incoerente, allucinazioni uditive e visive, turbe del ciclo sonno-veglia, con andamento tumultuoso e oscillante nel tempo è riportata a pag. 634. Lo stato confusionale acuto è determinato da: a) patologia cerebrale primaria: – traumi cranici, ematomi subdurali – sindrome di ipertensione endocranica, tumori cerebrali – encefaliti, meningiti – malattie cerebrovascolari – fase ictale e post-ictale dell’epilessia (la sindrome è transitoria) b) patologia internistica: – malattie infettive e infiammatorie (batteriche, virali, protozoarie, fungine etc.) a partenza da vari organi e apparati (polmoni, apparato gastroenterico, apparato urogenitale etc.) – malattie cardiovascolari (infarti, aritmie, collasso cardiaco) – malattie metaboliche: ipo-iperglicemia, uremia, insufficienza epatica, alterazione idroelettrolitiche – malattie endocrine: tiroide, paratiroide, m. di Addison
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c) intossicazioni: esogene: alcolismo, farmaci psicotropi, digitale, cimetidina, anticolinergici, anticonvulsivi; uso di sostanze psicoattive ( cocaina, eroina, anfetamine, miscele di sostanze diverse).
b) intossicazioni (avvelenamento da monossido di carbonio); abuso di sostanze tossiche (soprattutto alcool); sovradosaggio di farmaci sedativi, ipnotici, ansiolitici; uso di sostanze psicoattive.
Sindrome demenziale
Sindrome organica di personalità
La sindrome demenziale, caratterizzata da disturbi mnesici a breve e lungo termine, turbe delle funzioni simboliche, turbe del pensiero, turbe affettive e della personalità, e le relative cause sono riportate a pag. 000-000.
La sindrome rappresenta una netta e persistente modificazione delle precedenti caratteristiche di personalità. Soggetti, precedentemente attivi e impegnati, appaiono inerti, incuranti dei propri compiti familiari e sociali, dell’igiene personale e si dimostrano apatici e abulici. Il comportamento può esser scarsamente controllato, risultandone una condotta impulsiva, con frequenti scoppi di aggressività e di collera non motivati. Gli istinti possono essere ridotti o intensificati, soprattutto quelli elementari, quali sonno, fame, sete, sessualità, per cui si può osservare bulimia o anoressia, insonnia o sonnolenza, inversione del ritmo sonno-veglia (insonnia notturna con bulimia e sonnolenza diurna), ipererotismo con tentativi di compiere atti sessuali in tempi e luoghi non adatti. L’affettività è labile, instabile e si può estrinsecare con aspetti depressivi oppure subeuforici; l’ideazione è caratterizzata da diffidenza e sospettosità, senza giungere a una completa struttura delirante. Alcuni Autori (Kleist, 1934) ritengono che per lesioni frontali e temporali esistano alterazioni da ritenere specifiche. I tumori frontali, pertanto, sarebbero caratterizzati da modificazioni dell’umore, associate a puerili spiritosaggini, grossolane facezie (denominate «moria»), in contrasto con un assoluto disinteresse nei riguardi del proprio stato, del proprio lavoro, della propria famiglia, con incapacità a rappresentarsi il futuro. Il soggetto è trascurato, espansivo in maniera incongrua, ha atteggiamenti megalomanici oppure manca completamente di iniziativa. Nei tumori temporali il malato è instabile,
Sindrome amnestica Si tratta di una sintomatologia consistente esclusivamente in turbe mnesiche, per la memoria a breve e lungo termine, di grado piuttosto rilevante e comunque tali da causare una riduzione della capacità di prestazione nel lavoro, nell’ambito sociale e familiare. Possono essere presenti confabulazioni che tendono a scomparire nel tempo. I disturbi sono più evidenti per i compiti che richiedono memorizzazione spontanea e, in rapporto con la sede di lesione cerebrale, possono prevalere per stimoli verbali o visivi e per i ricordi recenti. Si possono associare anche un disorientamento per spazio e tempo, scarsa iniziativa e apatia (v. pag. 169). Ma il soggetto non è consapevole di tali disturbi, e usualmente non riconosce di averli. Il decorso è in rapporto con la malattia causale e il disturbo può essere transitorio o cronico, o anche ricorrente. Le cause responsabili di una sindrome amnestica sono: a) patologia cerebrale: traumi cranici (anche per interventi neurochirurgici); malattie cerebrovascolari (specie infarto nel territorio dell’art. cerebrale posteriore) (v. pag. 000) e ipossia cerebrale diffusa;
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aggressivo e può compiere atti violenti e si possono associare quadri deliranti simil-schizofrenici. Molti Autori ritengono, invece, che i sintomi psichici siano sostenuti, almeno al debutto, dalle caratteristiche di personalità del soggetto, dalla rapidità di evoluzione della lesione, dalla presenza di una sindrome di ipertensione endocranica, dalla sede della lesione nell’emisfero dominante, piuttosto che essere in diretto rapporto con una specifica localizzazione. Le cause che sostengono la comparsa della sindrome organica di personalità sono rappresentate da: a) tumori cerebrali; c) traumi cranici, con lesioni cerebrali parenchimali o con ematoma subdurale; d) epilessia temporale, nel periodo intercritico; e) encefalopatie infettive e infiammatorie (in particolare HIV); f) assunzione continuata di sostanze psicoattive; e più raramente da: g) malattie neurologiche con evoluzione cronica (sclerosi multipla, corea di Huntington); h) patologia endocrina (tiroidea e surrenalica); i) patologia cerebrale autoimmune (lupus eritematoso). Riassumendo: i sintomi della sindrome organica di personalità sono rappresentati da: – apatia e indifferenza di grado rilevante, – instabilità affettiva con disturbi depressivi o ipomanici e marcata irritabilità, – ricorrenti episodi di aggressività; turbe comportamentali con scarso controllo degli impulsi (atti sessuali compiuti in luoghi e tempi sconvenienti rispetto al giudizio sociale), – turbe del pensiero con ideazione caratterizzata da diffidenza e sospettosità.
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La valutazione neuropsicologica Carlo Serrati
La valutazione neuropsicologica consiste nell’esame delle funzioni cognitive, e si estende alla valutazione degli aspetti emozionali e del comportamento sociale. In passato i test neuropsicologici rappresentavano strumenti di valutazione elettiva delle disfunzioni cerebrali. In alcune condizioni morbose essi rimangono tuttora lo strumento diagnostico principale, anche se il recente avvento delle tecniche di neuroimmagine ha cambiato la prospettiva dell’attività neuropsicologica, volgendola anche alla elucidazione delle specifiche relazioni tra cervello e comportamento, fino alle conseguenze psicosociali del danno cerebrale. In generale, ad un laboratorio di neuropsicologia accedono tre categorie di soggetti: – coloro che soffrono di un danno cerebrale noto, nei quali la valutazione neuropsicologica fornisce informazioni essenziali sulla natura e la gravità dei problemi funzionali, fondamentali ai fini di un programma riabilitativo o di recupero socio-lavorativo del malato. – coloro che presentano fattori di rischio noti per un possibile danno cerebrale, del quale una variazione comportamentale o un disturbo cognitivo potrebbero essere spia (ad esempio, disturbi dell’attenzione successivi ad un trauma cranico). In questo gruppo si inserisce anche il problema, ancora relativamente trascurato, delle relazioni tra malattie internistiche e funzioni cognitive. – coloro che, pur senza evidenti fattori di rischio o cause identificabili di danno cerebrale, presentano una modificazione comportamentale o un disturbo anche solo soggettivo che possono generare il sospetto clinico di una sofferenza organica dell’encefalo, eventualmente in fase di esordio. Il caso paradigmatico è la valutazione in fase iniziale di una demenza e la diagnosi differenziale con le sindromi depressive, tutt’altro che agevole nella pratica clinica.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
La valutazione nella pratica clinica Un importante problema preliminare è la selezione dei soggetti che hanno probabilità di trarre vantaggio dalla somministrazione dei test neuropsicologici. Spesso infatti le richieste vengono formulate con modalità aspecifiche e senza interazione con chi dovrà valutare la prova neuropsicologica. Talora la valutazione neuropsicologica finisce, in realtà, per sostituire la valutazione clinico-anamnestica che dovrebbe essere effettuata dal medico nel corso della visita. La valutazione mediante test dovrebbe essere sempre preceduta da un’analisi clinico-anamnestica da parte di chi scriverà il referto finale, nel quale si integreranno l’impressione clinica ed i dati qualitativi e quantitativi dei test. È importante illustrare al malato lo scopo della valutazione neuropsicologica, precisando che la scoperta o la conferma di eventuali “punti deboli” è la premessa per una corretta terapia o un adeguato programma riabilitativo. È opportuno che la valutazione neuropsicologica vera e propria sia preceduta dalla raccolta dei dati anamnestici effettuata dal neurologo, con particolare riferimento al motivo della valutazione ed alla descrizione del problema diagnostico. A questa fase preliminare fa seguito un’intervista mirata e sistematica sulle funzioni cognitive, secondo uno schema strutturato con il malato e, se possibile, anche con un familiare. L’insieme dei dati raccolti produce un protocollo di valutazione che, pur seguendo linee guida generali, risulta mirato per ogni singolo soggetto; in altre parole, la scelta dei test è guidata da un’ipotesi eziologica sui disturbi cognitivi da accertare. Questo approccio è preferibile all’uso sistematico di batterie fisse di test, spesso dispendiose in termini di tempo e di risorse umane. Una preliminare suddivisione delle funzioni cognitive, in apparenza piuttosto grossolana ma molto utile nella pratica clinica, distingue: – funzioni distribuite (ad esempio: orientamento, attenzione, memoria)
– funzioni localizzate (ad esempio: linguaggio); Una successiva importante distinzione riguarda gli effetti di un danno a livello corticale e sottocorticale: – le lesioni corticali, delle quali la malattia di Alzheimer è esempio tipico, si caratterizzano per deficit isolati delle singole funzioni corticali. – le lesioni sottocorticali (ad esempio, del talamo e dei nuclei della base) possono essere espresse dalla perdita o dalla riduzione dell’integrazione e dell’organizzazione delle funzioni corticali.
Principali test neuropsicologici in relazione alle diverse funzioni cognitive FUNZIONI DISTRIBUITE (a) Orientamento: in genere non si utilizzano test strutturati. Il Mini Mental State Examination (MMSE) (v. pag. 000) presenta una sezione iniziale che valuta l’orientamento nel tempo (data, giorno della settimana, mese, stagione, anno) e nello spazio (edificio, piano, città, regione, stato). (b) Attenzione: tra i test strutturati si ricordano il Digit Span (ripetizione seriale di numeri in quantità crescente), le Matrici Attentive (segnare in una matrice di numeri alcuni numeri indicati all’inizio del test); il PASAT (viene richiesto di sommare coppie di numeri presentati verbalmente, in rapida successione: ad esempio nella sequenza 1 – 3 – 2 – 9…, il soggetto risponde 4 dopo 1 – 3, 5 dopo il 2, 11 dopo il 9 e così via); il Trail Making Test (si richiede di unire a penna in sequenza alternata lettere e numeri in successione). Nel MMSE, l’attenzione ed il calcolo vengono testati sottraendo ripetutamente 7 a partire da 100. (c) Memoria: la capacità di apprendere nuove informazioni (memoria anterograda) viene testata sul piano verbale chiedendo di ripetere liste di parole più o meno complesse, o un rac-
Funzioni nervose superiori
contino strutturato (test di memoria logica). Nel MMSE si richiede di ripetere tre parole immediatamente (memoria a breve termine), e poi di rievocarle dopo un compito distraente (memoria a lungo termine o di rievocazione). La memoria visuospaziale viene testata chiedendo di ridisegnare, dopo un intervallo di tempo, figure complesse precedentemente copiate (ad es. Figura di Rey); questa forma di memoria non viene testata nel MMSE. La memoria retrograda, che riguarda informazioni strutturate, è difficile da valutare con test formali. Esistono, comunque, test che valutano informazioni autobiografiche (memoria episodica) o test di memoria semantica, raramente applicati nella pratica clinica. (d) Funzioni frontali: Il MMSE non testa specificamente le funzioni frontali; disturbi lievi (v. pag. 000) spesso possono sfuggire se non sono indagati specificamente. I test utilizzati per indagare queste funzioni comprendono: – Stime cognitive, con le quali si richiede al soggetto una serie di valutazioni quantitative effettuate con l’approssimazione del “buon senso” (ad esempio: quanti cammelli ci sono in Italia?). – Giudizi di somiglianza/diversità (ad esempio, che cosa hanno in comune una pera e una mela?). – Capacità astrattiva, che in genere viene testata con l’interpretazione di proverbi o la critica di storie assurde. – Iniziativa verbale, che viene testata con i test di fluenza verbale. Si distinguono fluenze semantiche (ad esempio, dire tutti i nomi di animale che vengono in mente in un minuto) e fonemiche (ad esempio, dire in un minuto tutti i nomi di oggetti che iniziano per “F”). Il test è particolarmente sensibile alle lesioni delle connessioni tra nuclei della base e lobi frontali. – Flessibilità di pensiero e formazione di concetti, vengono testate, ad esempio, con il Wisconsin Card Sorting Test. Si richiede all’individuo di classificare stimoli successivi presentati con carte secondo categorie predefinite;
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la scelta della categoria è assunta dall’esaminatore che non la comunica, ma che volta per volta informa il soggetto della correttezza o meno della scelta. Il compito del soggetto è trovare il criterio corretto per tentativi successivi. L’esaminatore, dopo un po’, cambierà il criterio, costringendo il soggetto ad individuarlo nuovamente senza perseverare nel precedente. Funzioni localizzate EMISFERO DOMINANTE Linguaggio. La valutazione del linguaggio, ed in particolare la capacità di comprensione, può inficiare la somministrazione di qualunque test e quindi, almeno in termini grossolani, dovrebbe precederne la somministrazione. Il linguaggio spontaneo viene valutato nel corso dell’intervista; esistono schemi strutturati che consentono di quantificare gli errori (Aachener test, ad esempio); in questa fase è altresì opportuno testare la capacità comunicativa (utilizzando ad esempio la Scala di Goodglass Kaplan). Le singole funzioni linguistiche possono essere poi testate con prove di: – denominazione (ad esempio, nominare alcuni oggetti) – ripetizione (ripetere una frase complessa, ad es. “niente se, ma o però”) – comprensione (ad es. chiedere al soggetto di eseguire un compito in tre fasi “prenda questo foglio, lo pieghi e lo metta sul pavimento”; si possono utilizzare test strutturati complessi come il Test dei Gettoni) – lettura (si chiede al soggetto di leggere parole o frasi strutturate) – scrittura (si chiede al soggetto di scrivere una frase anche semplice). Esistono, inoltre, test strutturati, particolarmente complessi, che consentono di valutare deficit fini del linguaggio e di categorizzarli adeguatamente (A.A.T., B.A.D.A.).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Emisfero non dominante
Interpretazione dei test neuropsicologici
Le lesioni dell’emisfero non dominante di lieve intensità, se non ricercate specificamente, possono passare inosservate. Le capacità visuo-costruttive possono essere formalmente testate con la copia di disegni (ad esempio, con la Figura complessa di Rey, che consente di quantificare la prestazione secondo tarature precise). Nel MMSE si richiede di copiare due pentagoni che si intersecano. Le capacità attentive per lo spazio vengono testate con batterie apposite (BIT, Behavioural Inattentive Test), che valutano sia aspetti formali (es. cancellazione di linee) che possibili ricadute nella vita quotidiana. Alcune forme di agnosia, infine, si prestano particolarmente a test specificatamente strutturati (ad es. Test di riconoscimento di visi di Benton, per la prosopoagnosia).
Presupposto indispensabile per l’attendibilità del risultato dei test neuropsicologici è la collaborazione attiva del soggetto. Nell’interpretazione dei test devono essere tenuti presenti alcuni aspetti critici: a) Si devono usare test costruiti secondo criteri neuropsicologici precisi ed esplicitati, di cui sia disponibile una taratura; in altre parole ogni test dovrebbe consentire di confrontare la prestazione del singolo malato con quelle di una popolazione di soggetti sani, di equivalente classe di età e scolarità. In tale modo al risultato del test può essere attribuito un “punteggio equivalente”, che esprime l’entità dello scostamento della prestazione individuale dalla media della popolazione di riferimento. In una distribuzione normale delle prestazioni, generalmente, si considerano patologiche quelle inferiori a due volte la deviazione standard o al 5° percentile. b) L’età e la scolarità influenzano fortemente le prestazioni; anche dopo le opportune correzioni dei valori grezzi dei punteggi, queste due variabili vanno sempre considerate nella stesura del referto finale. c) La motivazione è un elemento critico; alcuni neuropsicologi ritengono di poter individuare profili tipici per un deficit di motivazione. In generale, tuttavia, l’osservazione clinica è più attendibile. d) L’abitudine ad eseguire prestazioni cognitive sotto stress può fornire prestazioni falsamente negative. e) Deficit visivi ed uditivi, se non segnalati, possono portare ad interpretazioni aberranti dei test. f) I quadri depressivi possono alterare fortemente le prestazioni cognitive. Anche se esistono profili neuropsicologici significativi in tal senso (dissociazioni nelle prestazioni tra i diversi subtest, incongruenze etc), il giudizio clinico resta della massima importanza. g) La valutazione degli aspetti qualitativi dei singoli test è comunque fondamentale (ad esem-
TEST DI STATO MENTALE Il termine, non felicissimo, fa riferimento a test comprensivi della maggior parte delle funzioni precedentemente descritte. Il più utilizzato è il già citato Mini Mental State Examination (v. Tab. 6.1) È un test semplice, di rapida somministrazione e con elevata concordanza tra operatori diversi; i limiti del test sono un certo sbilanciamento verso le funzioni linguistiche, e la possibilità di falsi positivi per danni funzionali lievi, spesso dell’emisfero non dominante, ed anche di falsi negativi considerato che il test non esplora le funzioni frontali. Il punteggio totale è di 30/30. Va sottolineato che i punteggi non esprimono misure lineari, per cui, ad esempio, un punteggio di 20/30 non significa deterioramento cognitivo di 1/3 per cui è importante precisare la distribuzione delle prestazioni patologiche in rapporto ai singoli subtest.
Funzioni nervose superiori
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Tabella 6.1. MINI-MENTAL STATE MMSE
❑
Test somministrabile
EVALUATION
SI
❑
NO
In che anno siamo? (0-1) In che stagione siamo? (0-1) In che mese siamo? (0-1) Mi dica la data di oggi? (0-1) Che giorno della settimana è oggi? (0-1) Mi diva in che Nazione siamo? (0-1) In quale regione italiana siamo? (0-1) In quale città ci troviamo? (0-1) Mi dica il nome del luogo dove ci troviamo? (0-1) A che piano siamo? (0-1) Far ripetere: “pane, casa, gatto”. La prima ripetizione dà adito al punteggio. Ripetere finché il soggetto esegue correttamente, max 6 volte (0-3) Far contare a ritroso da 100 togliendo 7 per 5 volte 93 ❑ 86 ❑ 79 ❑ 72 ❑ 65 ❑ (se non completa questa prova, allora far sillabare all'indietro la parola Mondo (0-5) O ❑ D ❑ N ❑ O ❑ M ❑ Chiedere la ripetizione dei tre soggetti precedenti (0-3) Mostrare un orologio e una matita ciedendo diodirne il nome (0-2) Ripetra questa frase: “tigre contro tigre” (0-1) Prenda questo foglio con la mano destra, lo pieghi e lo metta sul tavolo (0-3) Legga ed esegua quanto scritto su questo foglio (chiuda gli occhi) (0-1) Scriva una frase (deve contenere soggetto e verbo) (0-1) Copi questo disegno (pentagoni intrecciati) (0-1) Punteggio massimo totale = 30 Punteggio totale Punteggio totale corretto per età e scolarità
AGGIUSTAMENTO DEL
MMSE PER CLASSI
DI ETÀ
ED EDUCAZIONE NELLA POPOLAZIONE ITALIANA
Intervallo di età Anni di scolarizzazione 0-4 5-7 8-12 13-17
❑
❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑
Tabella 6.1bis COEFFICIENTI DI
❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑
65-69
70-74
75-79
80-84
85-89
+0,4 -1,1 -2,0 -2,8
+0,7 -0,7 -1,6 -2,3
+1,0 -0,3 -1,0 -1,7
+1,5 +0,4 -0,3 -0,9
+2,2 +1,4 +0,8 +0,3
Il coefficiente va aggiunto (o sottratto) al punteggio grezzo del Mmse per ottenere il punteggio aggiustato.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
pio: individuazione di attività confabulatoria al Test del Raccontino). Stesura del referto L’attività di refertazione è particolarmente impegnativa dovendo unificare in modo critico i dati raccolti dall’intervista clinica con i dati qualitativi e quantitativi dei test. Spesso, infatti, è proprio la contraddittorietà della prestazione ai test rispetto ai dati clinici, oppure, all’opposto, la sua coerenza, a consentire di risolvere il problema diagnostico. In secondo luogo, benché la responsabilità diagnostica spetti in ultima analisi al clinico che ha richiesto la valutazione neuropsicologica, quest’ultima assume un peso decisivo in alcune condizioni morbose (ad esempio, diagnosi precoce di demenza). In terzo luogo, la valutazione neuropsicologica è essenziale per indirizzare il malato ad uno specifico programma riabilitativo. Infine, la valutazione neuropsicologica assume spesso un rilevante valore medico–legale; in quest’ambito, si tende ancora ad utilizzare in modo eccessivo e spesso improprio il W.A.I.S. (Wechsler Adult Intelligent Scale). Il test, che è uno dei più noti “test di intelligenza”, nel suo punteggio totale quantifica un livello di generica efficienza mentale, ma consente poche inferenze sul piano neuropsicologico. Il test può avere una limitata utilità in quelle situazioni medico-legali nelle quali è richiesto di accertare le generiche capacità intellettuali del soggetto (ad esempio in rapporto a quesiti sulla capacità di intendere e di volere in materia penale o sulla capacità di agire in materia civile), ma il suo impiego non è appropriato per stabilire le caratteristiche e l’entità di un danno cognitivo conseguente ad una lesione cerebrale, per esempio di tipo traumatico. Un referto di esame neuropsicologico dovrebbe perciò contenere i seguenti elementi: a) una sintesi del problema diagnostico;
b) una tabella riassuntiva dei test eseguiti, con l’indicazione quanto meno dei punteggi grezzi; c) una breve conclusione, con indicazioni diagnostiche più precise possibili (ad esempio, diagnosi di sindrome; esclusione di attribuzione del problema ad aspetti depressivi e/o funzionali; etc.); d) un giudizio sull’opportunità di controlli a distanza di tempo in caso di dubbio.
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Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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7. Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali C. Loeb
Nervi cranici GENERALITÀ I nervi cranici sono 12, anche se il primo (nervo olfattorio) ed il secondo (nervo ottico) non possono essere considerati propriamente nervi, ma sono piuttosto estroflessioni cerebrali. Mentre nel midollo spinale esistono quattro categorie di fibre: le fibre efferenti distinte in somatiche e viscerali, le fibre afferenti distinte in somatiche e viscerali, le fibre dei nervi cranici presentano qualche ulteriore particolarità. I nuclei e le fibre efferenti che si distribuiscono ai muscoli striati sono indicate come fibre e nuclei somatici efferenti generali (nuclei del III, IV, VI, XI, XII nervo cranico). Le cellule di questi nuclei sono morfologicamente analoghe alle cellule delle corna anteriori del midollo. Lateralmente ai nuclei somatici efferenti generali si trovano altre due categorie di nuclei efferenti. Le fibre dei nuclei che si trovano nella colonna mediale si distribuiscono a muscoli striati sviluppati dagli archi branchiali e cioè muscoli masticatori e in più ventre anteriore del digastrico e miloioideo (primo arco branchiale); muscoli mimici e in più ventre posteriore del digastrico e stiloioideo (secondo arco branchiale); muscoli del faringe e del laringe (terzo e quarto arco branchiale). I nuclei sono quelli del V, VII paio dei nervi cranici e il nucleo ambiguo, e forse l’XI. Questi nuclei e fibre costituiscono la porzione somatica efferente speciale. Le fibre che nascono dalla colonna grigia situata più lateralmente alla precedente, rappre-
sentano le vie efferenti viscerali generali. Si tratta del n. di Edinger Westphal del III, del n. salivatorio superiore (VII paio) e salivatorio inferiore (IX paio) e del n. motore dorsale del vago (X paio): innervano muscoli lisci e ghiandole (lacrimali e salivari). Le vie afferenti che raggiungono la colonna grigia, lateralmente al solco limitante interno, sono definite viscerali generali afferenti. Tale colonna grigia è il nucleo del tratto solitario, che si estende lungo tutto il bulbo e che riceve fibre che passano attraverso il n. intermediario, il IX, il X. Le fibre che convogliano stimoli gustativi sono indicate come afferenti viscerali speciali, altre che convogliano impulsi viscerali sono indicate come viscerali afferenti generali. I nuclei che ricevono vie afferenti somatiche generali si trovano nella porzione più laterale del tegmento e si riferiscono a fibre che trasportano la sensibilità cutanea superficiale (e forse profonda) e giungono ai nuclei sensitivi del V paio. I nuclei che ricevono vie vestibolari e cocleari sono indicati come nuclei e fibre somatiche afferenti speciali. Riassumendo si può quindi osservare che i nuclei motori (efferenti) sono disposti medialmente, mentre i nuclei sensitivi (afferenti) sono localizzati lateralmente (Fig. 7.1). In senso medio-laterale, avremo perciò: A. Nuclei e vie efferenti 1. Somatiche generali per i muscoli striati (III-IV-VI-XI - branca spinale - XII paio di nervi cranici)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
2. Viscerali SPECIALI, per i muscoli derivati da: 1° arco branchiale (muscoli masticatori; ventre anteriore digastrico; miloioideo) (V paio) 2° arco branchiale (muscoli mimici; ventre posteriore vie efferenti digastrico; stiloioideo) (VII paio) 3°- 4° arco branchiale (muscoli del faringe e laringe) (IX-X-XI paio di nervi cranici – nucleo ambiguo) GENERALI, per muscoli lisci e ghiandole (lacrimali e salivari) (III, nucleo di Edinger Westphal; VII, nucleo salivatorio superiore; XI, nucleo salivatorio inferiore; X, nucleo motore dorsale). B. Nuclei e vie afferenti 1. Viscerali SPECIALI: convogliano stimoli gustativi (VIIIX-X paio) GENERALI: convogliano stimoli dalla porzione posteriore della lingua (IX), dal faringe, laringe, trachea, esofago, visceri toracici e addominali (IX paio; X paio) 2. Somatiche SPECIALI: convogliano stimoli acustici e dai canali semicircolari (VIII paio) GENERALI: convogliano stimoli dalla cute e dalle mucose a livello del capo (V-VII paio e in parte IX e X) (e per stimoli propriocettivi III- IV-V paio)
Il capitolo sui nervi cranici è stato organizzato tenendo contro di un criterio eminentemente funzionale. Comprende quindi 1) le funzioni e le alterazioni dell’olfatto e del gusto che coinvolgono il primo nervo cranico o nervo olfattorio e parzialmente i nervi cranici V, VII, X e XI; 2) la neuroftalmologia in cui vengono descritte la funzione visiva e l’oculomozione (nervi cranici II, III, IV, VI); 3) la neurotologia che descrive i sistemi uditivo e vestibolare (VIII nervo cranico); 4) la descrizione sistematica delle funzioni dei nervi cranici V, VII, X, XI e XII; 6) le lesioni combinate dei nervi cranici.
I Sensi Chimici: Olfatto e Gusto A. Seitun Olfatto e gusto sono accomunati da qualità uniche nell’ambito dei sistemi sensoriali dell’uomo. Entrambi i sensi permettono di avvertire e riconoscere la presenza di esigue tracce di molecole volatili (cavità nasale → odori) o in soluzione (cavità orale → sapori) attraverso sen-
Fig. 7.1 - Rappresentazione schematica dei nuclei di origine dei nervi cranici sulla faccia dorsale (A) e laterale (B) del tronco cerebrale (da C. Loeb, «Trattato Italiano di Medicina Interna», USES, Firenze, 1974).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
sibilissimi chemorecettori di cellule altamente specializzate, ma a ciclo vitale paradossalmente effimero (olfattive: 30-60 giorni; gustative: 10 giorni), in palese contrasto con il principio di perennità di ogni altra cellula nervosa. L’opportunità di accomunare olfatto e gusto in un unico capitolo non è dettata solo da questioni di affinità neurobiologica, piuttosto dal fatto che questi sensi armonicamente regolano le scelte edoniche oro-alimentari, le pulsioni ed il comportamento, preparano l’apparato digerente alla digestione dei cibi, e permettono anche l’unica possibile difesa da sostanze tossiche (veleni alimentari o ambientali) o pericoli imminenti (odore di fumo) altrimenti non percepibili. Lo strategico posizionamento di olfatto e gusto in sedi anatomiche molto vicine, strettamente connesse per via aerea (rinofaringe – cavità nasali) ed accomunate da una ricca innervazione sensitiva mucosa (trigeminale), non sembra affatto casuale, poiché permette di fondere aromi, sapori e sensazioni tattili e termiche in un’unica esperienza percettiva impregnata di significati emozionali e di ricordi, che globalmente – ed impropriamente – siamo abituati a definire “gusto” dei cibi. Il significato e l’ulteriore elaborazione fantastico-rievocativa di questa esperienza può essere straordinariamente variabile, ed è stato finora una specie di leit-motif di molta grande letteratura. L’incredibile dipanarsi dei ricordi nella “A la recherche du temp perdu” di Proust, innescato dalla semplice degustazione di un cucchiaino di thé con una briciola di madeleine (“Du côté de chez Swann”, 1913), è più che sufficiente a giustificare l’affermazione che “nulla può far rivivere il passato meglio degli odori” (Vladimir Nabokov). È altresì vero che nella nostra vita quotidiana, sempre più cerebrale poiché basata su vista ed udito, le sensazioni olfattive e gustative spesso si fermano a semplici impressioni di «gradevolezza» o «sgradevolezza» (o meglio, disgusto). Il modo con cui si per-
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cepiscono gli odori ed i sapori, così come il significato estetico e di piacere o dispiacere che viene loro attribuito, dipende molto anche dal contesto sociale ed intellettuale nel quale si è cresciuti (Jha, 1999), e ciò sta alla base di molte curiose differenze etniche, tipicamente espresse nell’uso - o rifiuto - gastronomico di aromi, spezie, varietà di cibo1 . L’impatto di questi sensi sulla vita istintivo-affettiva è noto fin dall’antichità, ma è stato portato agli estremi letterari solo recentemente (“Colui che domina gli odori domina il cuore degli uomini”, Süskind 1985). Curiosamente trascurata è invece l’impenetrabilità delle memorie olfattive e gustative come tali agli sforzi del nostro ricordo (“la memoria può riportare in vita qualunque tipo di ricordo, salvo quello degli odori”, Vladimir Nabokov). La spiegazione di questi e molti altri aspetti soggettivi della nostra esperienza chemio-sensoriale è stata finora alquanto elusiva, non andando oltre alla constatazione che olfatto e gusto hanno come principale epicentro anatomo-funzionale l’allocortex (o archicortex) del sistema limbico anziché la neocorteccia.
L’integrarsi e fondersi delle due sensazioni in un’unica complessa esperienza sensoriale si può perdere anche per isolate disfunzioni olfattive o del gustative, che difficilmente sono riconosciute come tali da chi per la prima volta le esperimenta, e che non sono nemmeno facilmente quantificabili in maniera obbiettiva. In questi casi, non vi è da sorprendersi se il disturbo più comunemente riferito consiste in una perdita di “appetibilità” dei cibi (diventati privi di “gusto”) o in una generale disappetenza, di per sé piuttosto aspecifica se non corredata di ulteriori, più precise informazioni. Il neurologo è raramente interpellato per primo per disturbi dell’olfatto o del gusto, poiché i malati, attraverso il medico di famiglia o direttamente, quasi sempre si rivolgono – e rimangono in carico –all’otorinolaringoiatra. La mancanza di sollecitazioni ha condizionato nel tempo una diffusa mancanza d’interesse e di cultu1
In Cina, ad esempio, si pensa che bere latte faccia emanare odori sgradevoli, ed è forse per questo motivo che nella sterminata gastronomia cinese non viene proposto alcun latticino.
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ra della comunità neurologica verso questi disturbi, rafforzando l’opinione che spetti ad altri occuparsene. È appena il caso di sottolineare che i disturbi chemopercettivi non sono dissimili da quelli visuo- ed audiopercettivi (vedi Neurooftalmologia e Neurootologia), ed implicano altrettante competenze specialistiche multisciplinari, nell’ottica di risolvere nella maniera cooperativa più colta, efficiente e rapida i problemi chemosensoriali che possono affliggere un soggetto altrimenti sano.
Olfatto (I - Nervo olfattivo - Sistema Vomero-Nasale - Nervo Cranico 0) In media, una persona impiega 5 secondi per respirare, 2 secondi per inspirare e 3 per espirare. In un anno, respiriamo mediamente 6.307.200 volte, e ad ogni respiro, siamo in grado di avvertire migliaia di odori, e di distinguerne fino a 5000 differenti tipi (Buck, 2000a,b). L’olfatto è 10 volte più sensibile del gusto, ma nonostante sia un senso incredibilmente preciso, non permette di comunicare tutte le varie sfumature di un odore a chi non l’abbia già provato2. A parte i gemelli monozigoti, ciascuno di noi ha anche un proprio “odore” impalpabile unico, geneticamente codificato e simile ad una vera e propria impronta digitale da noi stessi riconoscibile (Lord e Kasprzak, 1989) e capace di attivare nell’altro sesso specifiche aree cerebrali, come è stato recentemente dimostrato mediante la PET (Savic et al., 2001b; Sobel e Brown, 2001). Tale proprietà, ben sviluppata nel mondo animale macrosmatico e globalmente riferibile a specifiche miscele di «feromoni» (cfr. Weller, 1998) nell’uomo sembra essere correlata al biotipo MHC-HLA, ed avere specularmente, in altre persone della stessa specie, ma di sesso opposto, un corrispettivo corredo di recettori olfattivi per il suo riconoscimento. 2
La scarsità del vocabolario odoroso dipende dalla difficoltà a rievocare la sensazione di un odore dal suo eventuale nome.
Quindi, l’olfatto ingloba un “sesto senso” inconscio, che nella specie umana appare in qualche modo coinvolto in preferenze e selezioni biosessuali sottilmente finalizzate alla scelta di idonei istotipi (Jacob et al., 2002). Il corrispettivo sistema anatomico utilizza una via olfattiva accessoria, costituita dal sistema dell’organo vomero-nasale (VNO) (Keverne, 1999) e dal sistema di rilascio gonadotropinico GnRH (o LHRH) costituito dal nervus terminalis, detto anche Nervo Cranico 0 (zero). Storicamente, il sistema olfattivo si è prestato più d’ogni altro allo studio neuromorfologico mediante metodi di impregnazione argentica, grazie alla sua citoarchitettonica laminare abbastanza semplice ed alla presenza di tipi neuronali ben distinguibili fra loro, contribuendo in maniera fondamentale all’elaborazione della classica «dottrina del neurone» (Cajal, 1911, 1955). Questo periodo di grande interesse, compreso nel periodo fra fine dell’800 e primo ‘900, fu seguito da un periodo di relativo silenzio fino agli anni ’50-’60, quando la moderna neurofisiologia e la microscopia elettronica permisero di intuire che la semplicità strutturale del sistema olfattivo era solo apparente, e che la sua organizzazione funzionale andava ben oltre lo schema della dottrina del neurone come era stata formulata in semplici termini di “modello motoneuronale” (Shepherd, 1974). Nel ventennio successivo, evidenze ultrastrutturali, neuroanatomiche, elettrofisiologiche e neurochimiche contribuirono a rafforzare ulteriormente questo sospetto, senza permettere, tuttavia, di formulare ipotesi attendibili su come riusciamo a percepire e distinguere migliaia di differenti odori. Complessivamente, non v’è dubbio che il sistema olfattivo sia stato il sistema sensoriale più a lungo negletto, sia sul piano sperimentale che clinico, e che i suoi segreti abbiano dovuto attendere fino al 1991 per cominciare ad essere tumultuosamente svelati.
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Infatti, è solo a partire dall’identificazione della grande famiglia multigenica dei recettori olfattivi (siglati OR) avvenuta circa dieci anni fa (Buck e Axel, 1991; Buck, 1996, 2000a,b; Mombaerts, 1999a,b,c, 2001; Zoxulya et al., 2001; Zhang e Firestein, 2002)3 che si è rapidamente attivata in questo senso la ricerca multidisciplinare di base coinvolgendo anche il gusto, per cui questi due sensi chimici, olfatto e gusto, trovano finalmente adeguata collocazione nell’ambito delle Neuroscienze. Aspetti neuroanatomici 1. – MUCOSA OLFATTIVA E PROIEZIONI DI 1° ORDINE a) Sistema olfattivo propriamente detto. La via olfattiva nasce da specifici neuroni bipolari chemosensibili situati nella mucosa olfattiva della porzione supero-posteriore della cavità nasale, ove essa si estende in senso medio-laterale dal terzo superiore della mucosa del setto nasale fino alla superficie del turbinato superiore (Fig. 7.2). Fig. 7.3 - Distribuzione dell’epitelio olfattorio nella parete laterale (A) e nella parete mediale (B) delle fosse nasali.
Fig. 7.2 - Localizzazione della mucosa olfattiva nella cavità nasale. VNO= organo vomero-nasale.
Il neuroepitelio olfattivo4 occupa circa 5 cm2 della mucosa nasale, distinguendosi visivamente dalla mucosa respiratoria (rossastra) per un tipico colore giallastro causato da un particolare pigmento, la cui assenza si correla all’anosmia che accompagna l’albinismo (Fig. 7.3). In esso si riconoscono tre differenti tipi cellulari: a)
3
Vedi database on-line dello Human Brain Project USA al sito http://senselab.med.yale.edu/senselab/ORDB/default.asp 4 Verrà usato arbitrariamente solo il termine olfattivo, anziché olfattorio (usato nella lingua anglosassone).
neuroni sensoriali olfattivi (da 6 a 20 milioni per lato), b) cellule di supporto simil-gliali frammiste ad esse, principalmente deputate a mantenere l’omeostasi del [K+]e e c) cellule staminali basali, deputate alla rigenerazione dei neuroni sensoriali olfattivi perduti per apoptosi. Le terminazioni trigeminali diffuse, in buona parte chemocettive, contribuiscono alla percezione chemoestesica di esili tracce di molecole volatili irritanti, a cui rispondono rilasciando localmente neuropeptidi (ad esempio SP) responsabili di immediata irritazione locale (ipersecrezione mucosa, edema) e, per via riflessa, di starnuto. Il numero totale dei neuroni sensoriali olfattivi varia ampiamente in rapporto alla sensibilità olfattiva di ciascuna specie: da 40 milioni dell’uomo si sale a 100 milioni del coniglio ed a un miliardo del cane. I neuroni olfattivi (neuroni di 1° ordine) sono esili cellule bipolari con soma di 40-50 µm di diametro, che perifericamente si estende in un dendrita periferico (diametro 1µm) dotato all’estremità di 5-20 delicate ciglia immobili protrudenti per 100-150 µm nel muco superficiale, e centralmente in un prolungamento assonale centripeto amielinico molto sottile (0,1-0,2 µ) che converge con altri in piccoli fascicoli (fila olfactoria) avvolti da particolari cellule gliali di rivestimento mielinico, simili alle cellule di Schwann, ma a differenza di
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esse penetranti nel SNC ed esprimenti marcata azione neurotrofica. L’estrema compattezza delle varie fibre all’interno dei fascicoli, costituenti nel loro insieme il I nervo cranico, ha permesso recentemente di postulare l’esistenza di interazioni efaptiche fra gli assoni di I° ordine quale peculiare modalità fisiologica di modulazione dei segnali olfattivi (Bokil et al, 2001). Dopo avere attraversato la dura madre di cui è rivestita la lamina cribrosa dell’etmoide, i fascicoli provenienti dalla mucosa olfattiva raggiungono la porzione orbitaria del bulbo olfattivo, organo pari adagiato sulla lamina cribrosa, penetrano nel suo strato più superficiale (1° strato delle fibre olfattive) e terminano nello strato immediatamente sottostante in corrispondenza di glomeruli sinaptici (2° strato glomerulare) (Fig. 7.4). b) Sistema Vomero-Nasale. Istologicamente simile, anche se per vari aspetti differente, appare la mucosa dell’organo vomero-nasale di Jakobson (VNO), struttura tubulare contenente muco situata su entrambi i lati della porzione antero-inferiore del setto nasale (Fig. 7.2), deputata esclusivamente alla trasduzione dei segnali sessuali portati dai cosiddetti «feromoni», steroidi volatili ad azione attrattiva specifica solo per l’altro sesso (vedi oltre). Ben sviluppato nei vertebrati macrosmatici, il VNO è rinoscopicamente dimostrabile uni- o bilateralmente nel 73% almeno degli esseri umani (Trotier et al., 2000), sotto forma di un abbozzo rudimentale tubuliforme di lunghezza variabile da 3 a 23 mm (media 7 mm) e diametro di 1 mm, lievemente obliquo verso il basso, aprentesi in una piccola cavità anteriore non sempre facilmente riconoscibile in vivo (Abolmaali et al., 2001). La sua posizione è assai variabile, ma più frequentemente si trova alla base della porzione più anteriore del setto nasale, aggettante al di sopra del cercine corrispondente alla cartilagine vomero-nasale (anteriormente ed obliquamente frapposta fra cartilagine del setto e vomere sottostante) (Fig. 7.2). La mucosa del VNO è formata da un epitelio pseudo-stratificato, in cui si aprono in prossimità del lume ghiandole mucipare settali (Bhatnagar e Smith, 2001; Smith et al., 2001). L’esistenza del VNO nell’uomo è stata a lungo messa in discussione, anche perché si tratta di una piccola struttura soggetta a modificazioni di volume tali da impedirne molto spesso la dimostrazione in un singolo esame (Trotier et al., 2000; Abolmaali et al., 2001), e l’importanza del suo ruolo modulatorio neuroendocrino è ancora dibattuta (cfr. Buck, 2000b; Trotier et al., 2000; Doty, 2001; Meredith, 2001). Il neuroepitelio del VNO è dotato superficialmente di microvilli, anziché di ciglia; i suoi fini assoni si raccolgono in fascicoli che raggiungono il bulbo olfattivo, per
terminare nella sua porzione dorso-posteriore o bulbo olfattivo accessorio, struttura ben evidente nei vertebrati macrosmatici ma alquanto discussa nell’uomo. c) Sistema del Nervo Terminale(NT) o Nervo Cranico 0. È un sistema assai poco noto, descritto un secolo fa nello squalo come nervo isolato, ma presente nella mucosa olfattiva di tutti i vertebrati ed anche nell’uomo (Fuller e Burger, 1990; Wirsig-Wiechmann, 2001). È costituito da cellule della porzione più rostrale della cresta neurale, originariamente adiacenti ai progenitori delle cellule dell’ipofisi anteriore, in parte rimaste in sede nella cavità nasale, in parte migrate nel telencefalo basale attraverso il nervo terminale. Quest’ultimo è formato da una catena di somi ganglionari contenenti ormone rilasciante gonadotropine (GnRH) frammisti a processi distali e prossimali, dotati di varicosità che indicano capacità di rilascio e trasmissione di volume. Nei mammiferi, tali catene neuronali si trovano prefernzialmente associate ai fascicoli nervosi del sistema VNO (WirsigWiechmann, 2001). Nell’uomo, il sistema NT è bilateralmente presente sotto forma di un microscopico plesso di fascicoli nervosi periferici amielinici subaracnoidei ricoprenti il giro retto della superficie orbitaria dei lobi frontali. Il plesso si forma a livello della lamina cribriforme dell’etmoide e si estende posteriormente in prossimità del trigono olfattivo, del giro olfattivo mediale e della lamina terminale (Fuller e Burger, 1990). La funzione del sistema NT non è chemosensoriale, bensì modulatoria della chemorecezione, conscia ed inconscia. d) Connessioni nel bulbo olfattivo e proiezioni di 2° ordine (Fig. 7.4). Gli assoni olfattivi e vomero-nasali terminano con digitazioni sinaptiche nei glomeruli, formati dalle arborizzazioni dendritiche di tre singoli diversi tipi di neuroni: cellule a pennacchio (3° strato plessiforme esterno), cellule mitrali (4° strato delle cellule mitrali di Golgi) ed interneuroni periglomerulari. Quest’ultimi formano localmente sinapsi asso-dendritiche con gli assoni olfattivi afferenti di 1° ordine e sinapsi dendrodendritiche sui dendriti mitrali, ed inviano un corto assone ai glomeruli adiacenti per formare sinapsi inibitorie GABAergiche asso-dendritiche sui rispettivi dendriti mitrali. Negli stessi strati terminano anche assoni ascendenti diretti, provenienti dal nucleo olfattivo anteriore e dal nucleo del braccio orizzontale della banda diagonale di Broca ipsilaterali, ed assoni crociati, provenienti via commissura anteriore dal nucleo olfattivo anteriore dell’altro lato (Fig. 7.4 e 7.5). Le cellule mitrali sono grandi neuroni a morfologia piramidale dotati di un dendrita apicale principale a decorso radiale (400-600 µm) che si arborizza e termina
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Fig. 7.4 - Schema semplificato dell’organizzazione neuronale e delle connessioni sinaptiche nel bulbo olfattivo. Notare la convergenza di più assoni olfattivi di 1° ordine della stessa classe (nero, grigio, bianco), provenienti da da aree lontane, sullo stesso glomerulo sinaptico, ove esse innervano, assieme alle terminazioni assonali dei neuroni periglomerulari inibitori, i dendriti apicali delle cellule mitrali ed a pennacchio. Non sono riportate le cellule gliali della mucosa olfattiva e l’innervazione afferente extra-mucosa.
nello strato dei glomeruli, e di estesi dendriti basali secondari, poco ramificati, che si estendono trasversalmente per circa 600 µm nello strato plessiforme esterno. L’elaborazione dei segnali olfattivi avviene nelle cellule mitrali ed a pennacchio (neuroni di proiezione molto simili e definite anche cellule mitrali «in miniatura») ed utilizza, oltre agli interneuroni periglomerulari superficiali ad assone corto, anche i granuli, il cui soma è situato nel 5° e penultimo strato granulare, essendo il 6° strato costituito da glia limitante ed ependima. Ciò vale anche per la porzione dorsale, occupata dal bulbo olfattivo accessorio. I granuli sono elementi cellulari del tutto unici, poiché mancano di un vero e proprio assone, ed inoltre, in analogia ai neuroni sensoriali di I° ordine, hanno un ciclo vitale analogo e scompaiono per apoptosi. Ma ciò non è tutto. Il loro rinnovamento, infatti, è reso possibile da progenitori staminali indifferenziati non locali, ma situati nella zona sub-ventricolare anteriore, capaci di migrare rostralmente fino al bulbo olfattivo ed a rimpiazzare con esattezza gli elementi mancanti (Gheusi et al., 2000). Lo stesso fenomeno, presente anche nella specie umana (Bernier, 2000), vede coinvolti anche gli interneuroni periglomerulari, ed accomuna i granuli del sistema olfattivo ai granuli del giro dentato ippocampale, appartenente all’interconnesso sistema limbico.
Funzionalmente, i granuli sono cellule GABAergiche inserite in un circuito a «feed-back» negativo: sono eccitati sia dalle cellule mitrali, attraverso loro collaterali assoniche ricorrenti e sinapsi dendro-dendritiche, che dai vari tipi di assoni ascendenti sopra descritti, ed inibiscono non solo la stessa cellula mitrale da cui sono innervati, ma anche quelle circostanti con cui formano sinapsi dendro-dendritiche. La peculiarità delle interazioni dendrodendritiche multiple e bidirezionali del bulbo olfattivo, già osservata 30 anni fa (Shepherd, 1974-1998), emerge anche da una serie di recenti evidenze sulle particolari caratteristiche dei meccanismi di trasmissione localmente presenti, GABAergici (Isaacson, 2001) glutamatergici e nitrossido-dipendenti, la cui descrizione dettagliata esula da questa trattazione5. È possibile comunque intuire il ruolo di potenziamento reciproco dei due bulbi olfattivi nella prima elaborazione dei segnali sensoriali in arrivo (attraverso una vera e propria “scultura” funzionale delle zone attive omologhe), ed anche il ruolo modulante dei segnali afferenti al bulbo olfattivo dal telencefalo basale, capace di enfatizzare - o mitigare - gli odori in rapporto alle necessità istintuali-comportamentali del momento. 5
Molto utile al riguardo è il database on-line dello Human Brain Project USA al sito: http://senselab.med.yale.edu/senselab/
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Le proiezioni efferenti di 2° ordine sono rappresentate dagli assoni delle cellule a pennacchio e dalle cellule mitrali che si raccolgono nel tratto olfattivo, prolungamento a sezione prismatica (30-35 mm), adagiato sul corrispondente solco della faccia orbitale del lobo frontale (Fig. 7.5). In sintesi, il bulbo olfattivo presenta un’organizzazione simil-corticale piuttosto complessa, ma molto più rudimentale e filogeneticamente più antica rispetto ad ogni altro tipo di corteccia, per cui può essere giustamente considerato come una protrusione estrema di archicortex (allocortex) dal SNC. A questo proposito, il paragone che viene fatto con la retina, anch’essa un’estroflessione periferica del SNC, è piuttosto grossolano ed improprio poiché la retina non ha alcuna organizzazione corticale. Il paragone, quindi, vale solo limitatamente al fatto che i somi dei neuroni sensoriali di 2° ordine presenti in entrambe le strutture (rispettivamente cellule ganglionari della retina e cellule mitrali), in tutti gli altri sistemi sensoriali e sensitivi sono situati all’interno del SNC. e) Aree olfattive primarie. L’avamposto rostrale estremo è rappresentato dal nucleo olfattivo anteriore, contenuto all’interno del tratto olfattivo (Fig. 7.5). Esso è innervato dalla maggior parte degli assoni delle cellule a pennacchio, ed a sua volta proietta assoni che contribuiscono a formare la radice mediale del tratto. Questo contingente di fibre si incrocia ad ansa nella commissura anteriore formando una specie di chiasma (chiasma olfattivo), e decorre nel tratto olfattivo dell’altro lato per raggiungere infine il bulbo controlaterale.
All’estremità posteriore del solco, il tratto olfattivo si appiattisce e si divide in due strie olfattive, una mediale e l’altra, più voluminosa, laterale. Esse delimitano uno spazio triangolare o trigono olfattivo, la cui base si estende nel tubercolo olfattivo, che nell’uomo corrisponde alla sostanza perforata anteriore (corteccia orbito-frontale). Il tubercolo olfattivo rappresenta il secondo avamposto delle aree olfattive primarie: infatti, contiene un nucleo (nucleo del tubercolo olfattivo) che riceve proiezioni dalle cellule mitrali (ma anche dalle cellule a pennacchio), ed a sua volta proietta, attraverso la stria laterale, alle aree olfattive secondarie, ed attraverso la stria mediale, ai nuclei del setto pellucido e, molto probabilmente, anche ai nuclei dell’abenula (via stria midollare). Infine, il principale contingente delle proiezioni olfattive di 2° ordine, proveniente essenzialmente dalle cellule mitrali e decorrenti nella stria laterale (ed in minor misura, mediale), si distribuisce a tre vicine aree temporali archicorticali di transizione costituenti il lobulo piriforme: corteccia prepiriforme, corteccia peri-amigdaloidea o nucleo cortico-mediale dell’amigdala (settore antero-superiore dell’uncus dell’ippocampo, ed all’area entorinale (area 28 di Brodman), situata nella parte anteriore del giro paraippocampale (Brodal, 1981). f) Aree olfattive secondarie. Le proiezioni efferenti dalle cinque aree olfattive primarie convergono in parte su comuni aree secondarie, rappresentate dal nucleo dorsale mediale del talamo e dalla corteccia prefrontale, in parte raggiungono aree specifiche: dal nucleo corticomediale dell’amigdala → nucleo baso-laterale dell’amigdala → ipotalamo e bulbo olfattivo; dalla corteccia entorinale
Fig. 7.5 - Schema semplificato delle principali proiezioni di 2° ordine dal bulbo olfattivo alle aree olfattive primarie, e da queste alle aree olfattive secondarie (frecce).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali (area 28) → uncus dell’ippocampo, amigdala e probabilmente anche circonvoluzioni dell’insula. Le connessioni di queste aree con altre o con il bulbo olfattivo sono illustrate in Fig. 7.5. Ulteriori dettagli sull’organizzazione funzionale di queste strutture limbiche sono forniti a pag. 534) Un recente studio PET non ha dimostrato alcuna differenza anatomo-funzionale olfattiva fra maschio e femmina, essendo in entrambi attivate bilateralmente corteccia piriforme, amigdala ed insula (Bengtsonn et al., 2001). g) Sistema Vomero-Nasale (VNO). Le proiezioni mitrali del sistema VNO provenienti dal bulbo olfattivo accessorio raggiungono quasi esclusivamente l’ipotalamo, sia direttamente (Firestein, 2001) che attraverso la mediazione dei nuclei amigdaloidei proiettanti principalmente su di esso. Un recente studio funzionale nell’uomo ha dimostrato nella femmina olfattivamente stimolata con derivati androgenici un’attivazione ipotalamica con epicentro nei nuclei preottico e ventromediale, e nel maschio stimolato con composti estrogenici, un’analoga attivazione nei nuclei paraventricolare e dorso-mediale (Savic et al., 2001b). Esistono inoltre retro-proiezioni dall’amigdala al bulbo olfattivo accessorio. Ciò s’accorda con un coinvolgimento del sistema VNO nella biologia comportamentale dell’attaccamento (infantile ed adulto) e della riproduzione attraverso comunicazioni feromonali volatili, sessualmente orientate e specifiche, ma inodori ed inconscie.
Aspetti neurofisiologici e neurobiologici 1.– Muco olfattivo. La mucosa olfattiva contiene particolari ghiandole tubulari o tubuloalveolari (g. di Bowmann), deputate alla produzione di uno speciale muco contenente lattoferrina e particolari «lipocaline», glicoproteine specificamente deputate a catturare e trasportare in fase acquosa molecole idrofobiche di vario tipo. In particolare, le lipocaline espresse nella sfera “orale” dell’uomo6 (mucosa olfattiva, apparato salivare, polmoni) corrispondono alle «odorant binding proteins» (OBP-IIa) (Lacazette et al., 2000), che facilitano il trasporto e la presentazione delle molecole odorose ai recettori delle ciglia olfattive e fungono anche da tampone in caso di loro eccesso, evitando la saturazione dei recettori. Il muco è anche ricco di IgA-IgM e lisozima per bloccare i germi patogeni all’esterno del cranio. Nel sistema VNO esistono analoghe lipocaline per la veicolazione dei feromoni o «vomeromoduline» (afrodisina nel criceto, Briand et al., 2000). 6
Un secondo gruppo di lipocaline (OBP-IIb), è espresso dalla sfera genitale (specie prostata e mammella)
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2.– Recettori olfattivi (OR). L’usuale risposta dei neuroni sensoriali ad un odore consiste in una depolarizzazione apicale che si traduce in una generazione di potenziali d’azione in corrispondenza del cono d’emergenza dell’assone. La depolarizzazione può essere elettrofisologicamente registrata anche nell’uomo mediante elettrodi di superficie (elettro-olfattogramma), ma la tecnica è complessa e rimane di appannaggio prettamente sperimentale. Il numero di neuroni attivati è proporzionale alla concentrazione delle molecole odorose: ma ciò si traduce in sensazioni più intense solo fino ad un certo punto, oltre il quale la sensazione si può modificare anche drasticamente sul piano qualitativo7. Complessivamente, in molti eucarioti i geni che codificano per le proteine OR costituiscono il 4% del rispettivo genoma (Firestein, 2001). I recettori olfattivi sono proteine etero-trimeriche dotate di sette domini transmembrana, sito di riconoscimento esterno, e sito di accoppiamento interno a G-proteine (Buck e Axel, 1991; Dryer e Berghard, 1999; Mombarts, 1999c). A differenza del sistema visivo, ove sono sufficienti tre sole classi di fotorecettori (per il blu, il verde e per il rosso), il sistema olfattivo utilizza un elevato numero di recettori olfattivi (OR) codificati da altrettanti geni appartenenti a 228 famiglie, distribuiti in 27 gruppi su quasi tutti i cromosomi, specie l’11 (il 20 e l’Y ne sono apparentemente privi). Il numero degli OR identificati è salito rapidamente fino ad oggi: da una stima nei roditori (macrosmatici) di almeno 1000 OR, e nell’uomo (microsmatico) di 500-750 OR (Mombaerts, 1999b), si è giunti fino a stimarne 1296 sia nel topo che nell’uomo (Zhang e Firestein, 2002). Nell’uomo, tuttavia, solo il 3035% dei geni OR è capace di esprimersi, essendo i due terzi degli OR umani «pseudo-geni» formati dalla fusione di due geni o da sequenze nucleotidiche inattive (Mombaerts, 1999b; Glusman et al., 2001; Zozulya et al., 2001; Crasto C. et al., 2002; Zhang e Firestein, 2002)8. Sebbene il quadro generale sia piuttosto intricato e suscettibile di ulteriori precisazioni, si può ritenere pari a 347 il numero dei geni OR umani pienamente funzionanti (Zozulya et al., 2001). La trasduzione del segnale chimico comporta un distacco della G-proteina dal recettore → interazione della G-proteina con la limitrofa adenilil-ciclasi III → produzione di cAMP → attivazione di canali cationici (Na+Ca2+) → depolarizzazione → generazione di potenziali
7
È noto che odori ripugnanti possono trasformarsi in fragranze quando siano opportunamente diluiti nell’aria: il muschio, ad esempio, la cui soglia percettiva (fragranza gradevole) corrisponde a 4·10-5mg·l-1 (aria). 8 Al sito: http://senselab.med.yale.edu/senselab/ORDB/default.asp è disponibile il database completo delle sequenze delle proteine OR.
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d’azione assonici. Coesistono altri meccanismi di trasduzione in cascata, basati sulla formazione di inositolo(1,4,5)-trifosfato (IP3), cGMP e monossido di carbonio (CO). I neuroni olfattivi sono caratterizzati da «adattamento» rapido, dipendente da una desensitizzazione del recettore per fosforilazione, e da aggiustamento della sensibilità dei canali cationici ai livelli medi di cAMP sub-membrana. 3.– Recettori feromonali del VNO. Nel ratto, il sistema VNO è dotato di due famiglie recettoriali, V1R e V2R, ciascuna comprendente approssimativamente 100 geni espressi su una vasta gamma di cromosomi, e nell’uomo del solo V1R, ma solo con il 52-59% di identità e con un’alta percentuale di sequenze inattive (pseudogeni) (Giorgi et al., 2000). I recettori VR hanno sequenze non correlate con quelle OR, solo raramente espresse dai neuroni di 1° ordine VNO, ma sono costituiti da proteine dotate di sette domini transmembrana accoppiate a due differenti G-proteine. La distribuzione spaziale dei V1RV2R differisce da quella degli OR, poiché nella mucosa del VNO i neuroni sensoriali si dispongono in due pseudo-strati paralleli, esprimenti quello superficiale la proteina Gαi2, quello profondo la proteina Gαo. Nell’uomo, i ligandi putativi di questi recettori sono probabilmente molteplici, e principalmente prodotti da particolari zone del corpo maschile (ascelle: androstadienone) o femminile (vagina: «copuline» o derivati estro-progestinici). È anche probabile che esistano proiezioni differenziate dal sistema VNO all’amigdala ed all’ipotalamo in funzione delle differenti classi recettoriali, come suggerito dalle differenti risposte osservate in seguito a stimolazione feromonale (Monti-Bloch et al., 1998; Grosser et al., 2000; Savic et al., 2001b). 4.– Recettori GnRH. Sono presenti sia nel neuroepitelio olfattivo propriamente detto che feromonale, e sono attivati dal GnRH secreto dal sistema NT, ove la trasduzione del segnale avviene in cascata tramite G-proteine transmembrana, attivazione di fosfolipasi C e formazione di IP3 quale secondo messaggero. Nel sistema NT, l’esocitosi di GnRH si traduce in una modulazione autocrina dell’attività «pace-maker» della stessa cellula e paracrina dell’attività delle cellule circostanti secondo un meccanismo bifasico (transitoria inibizione seguita da prolungato aumento di scarica) (Abe e Oka, 2000). L’attività spontanea dei neuroni NT è inoltre modulata dal numerose proiezioni centrali e periferiche, anche trigeminali (Yamamoto e Ito, 2000). Nella femmina, l’attivazione del sistema NT all’inizio della fase luteale (ovulazione) comporta non solo un potenziamento dell’acuità olfattiva, ma anche una maggior gradevolezza dei messaggi feromonali maschili, inducendo risveglio sessuale finalizzato ad un comporta-
mento copulatorio centrato sul momento più favorevole per la fecondazione (Wirsig-Wiechmann, 2001). Ciò è probabile che avvenga anche nella specie umana, ove sono state documentate variazioni della sensibilità olfattiva correlate al ciclo mestruale (con maggior sensibilità nella fase luteale: Pause et al, 1996) ed in gravidanza, ove l’aumento dell’acuità olfattiva garantirebbe nel primo trimestre risposte avversive nei confronti di sostanze potenzialmente dannose per la gestazione ed il feto (Kolble et al., 2001). Ogni gene olfattivo attivo si esprime solo nello 0,1% delle cellule neuroepiteliali olfattive, per cui si può concludere che ognuna di esse è dotata di un solo tipo di proteina recettoriale. Dato il breve ciclo vitale di queste cellule (come è già stato detto, destinate a scomparire per apoptosi), il posto lasciato vuoto viene colmato da una nuova: quest’ultima non solo riesce ad esprimere la stessa proteina, ma nell’inviare il proprio assone al bulbo olfattivo, riesce addirittura a connettersi con il glomerulo sinaptico lasciato vacante. Come ciò possa avvenire resta tuttora un affascinante mistero. Spazialmente, i neuroni dotati dello stesso OR sono segregati in una sola zona della mucosa olfattiva, ove sono intercalati a neuroni dotati di altri OR: esistono almeno quattro grossolane aree neuroepiteliali che proiettano a differenti aree del bulbo olfattivo, garantendo con questo tipo di arrangiamento altamente distribuito una conservazione dell’olfatto anche in caso di lesioni di buona parte del neuroepitelio sensoriale. In ciascun glomerulo, 200-500 assoni provenienti da vaste aree della mucosa olfattiva convergono su 20-50 dendriti di neuroni di proiezione di 2° ordine (cellule a pennacchio e mitrali): ciò permette una drastica riduzione (circa 100 volte) del numero dei neuroni deputati alla trasmissione del segnale, e garantisce nel contempo la loro attivazione da parte di stimoli odorosi applicati su disparati punti della mucosa. I meccanismi di identificazione di una molecola odorosa sono piuttosto intricati e di non facile comprensione. a) Ogni singolo OR riconosce molecole odorose multiple di massa superiore a 500, ed ogni molecola è riconosciuto da OR multipli, per cui differenti molecole sono riconosciute da differenti combinazioni di OR. Il sistema olfattivo, quindi, usa uno schema di codifica recettoriale di tipo combinatorio per identificare ogni tipo di odore. Ciò spiega perché il “codice” – e quindi l’odore – di una molecola odorosa possano modificarsi in rapporto a minime variazioni della sua struttura chimica o, alternativamente, in rapporto a variazioni della sua concentrazione nell’aria (Malnic et al., 1999). A seconda della propria dotazione di differenti OR, ogni cellula neurosen-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali soriale olfattiva risponde con elevata specificità e sensibilità a precisi gruppi funzionali di un certo composto odoroso, ma presenta anche un’elevata tolleranza e capacità di risposta anche per gruppi chimici di altro tipo, caratteristici di altri composti: tale strategia permette all’apparato olfattivo di essere altamente discriminativo e, nello stesso tempo, capace di riconoscere alcune migliaia di differenti odori (Araneda et al., 2000). L’identità di una molecola odorosa implica quindi una codifica multipla di certi suoi epitopi da parte di un certo numero di classi recettoriali, permettendo così di raggiungere elevatissimi gradi di discriminazione molecolare, fino al limite estremo del riconoscimento degli enantiomeri di una stessa molecola. Nell’uomo, tale capacità consente di distinguere l’isomero (R) dall’isomero (L) di almeno 100 coppie di essenze chirali, in base a sottili differenze della qualità o dell’intensità dell’odore percepito (Ohloff, 1994), ma nei mammiferi inferiori si estende ulteriormente a molti altri enantiomeri che l’uomo non riesce a distinguere («optical imaging»: Xu, 2001; Rubin e Katz, 2001)9 . b) Gli assoni dei neuroni sensoriali sensibili ad uno stesso stimolo convergono su pochi glomeruli, che nel bulbo olfattivo curiosamente conservano la stessa posizione in differenti specie animali, e selettivamente si attivano ogni volta per lo stesso stimolo odoroso, come è stato possibile dimostrare nel ratto stimolato con isoamilacetato e limonene anche mediante fMRI (Xu et al, 2000). Come corollario di questa disposizione somatotopica, se uno stimolo odoroso riesce ad attivare molti glomeruli, esso necessariamente deve avere attivato molti differenti tipi di neuroni sensoriali. Se invece è il singolo glomerulo ad essere attivato da differenti stimoli odorosi, questi devono necessariamente essere stati riconosciuti dallo stesso neurone sensoriale olfattivo. In termini più semplici e sintetici, ciascun recettore olfattivo fornisce un tassello di quel codice ultimo che, come un’impronta digitale, contraddistingue una grande varietà di molecole odorose. Ne consegue che il bulbo olfattivo è cablato secondo un’organizzazione “parallela” non tanto in funzione degli odori (che sono soltanto sensazioni olfattive “finali”), quanto in funzione delle caratteristiche chimico-steriche comuni a molecole odorose anche fortemente eterogenee fra loro. La successiva elaborazione centrale, come dimostrato mediante la PET, avviene attraverso l’attivazione di
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Per ulteriori informazioni a riguardo: http://www.leffingwell.com/chirality/chirality.htm
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aree primarie, secondarie e di associazione secondo un’organizzazione anche “gerarchica”, sensibilmente variabile a seconda del compito olfattivo assegnato (Savic et al., 2000; Savic, 2001a).
Esame della funzione olfattiva La ricchezza di informazioni di base emergente dalle premesse di cui sopra contrasta in maniera stridente con la relativa povertà di mezzi clinico-strumentali concretamente utilizzabili in ambiente neurologico per esplorare la funzione olfattiva. La semplice olfattometria qualitativa, ovvero il riconoscimento di aromi già conosciuti tramite inalazione in una narice per volta (ad esempio, il caffè, la menta, la canfora, il petrolio, il muschio artificiale) serve assai poco, e pressoché solo a confermare – senza pretese di vera obbiettività – ciò che è già ovvio o al massimo ad escludere grossolane simulazioni (alternando essenze aromatiche a sostanze irritanti come l’ammoniaca o l’aceto). L’elettro-olfattografia ed i potenziali evocati olfattivi sono rimasti confinati alla ricerca sperimentale di pochi laboratori e non hanno avuto, né in Italia né altrove, il successo e la popolarità dell’elettro-retinografia e dei potenziali evocati visivi. La ultradecennale arretratezza delle conoscenze di base sul sistema olfattivo, e la povertà di ricerche cliniche in tema, tumultuosamente corrette solo in quest’ultimo decennio, hanno condizionato un atteggiamento di vero e proprio “neglect” neurologico diffuso, che solo a partire dal 1984 si è progressivamente corretto, dal Nord America all’Europa, grazie all’introduzione ed alla disponibilità di nuovi metodi olfattometrici standardizzati, primo dei quali l’UPSIT (University of Pennsylvania Smell Identification Test) (Doty et al., 1984). In accordo, nel 1999 è stato proposto alla comunità medica italiana un accurato protocollo standard per l’esame dell’olfatto, del quale vengono di seguito riportati i parametri essenziali (Parola e Liberini, 1999).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 7.1 – Intervista strutturata per la valutazione dell’olfatto. Dati personali
Stile di vita
Anamnesi
Disturbi olfattivi
Disturbi gustativi
Genere (sesso)
Fumo
M. naso M. seni paranasali
Modalità d’insorgenza
Modalità d’insorgenza
Età
Sostanze d’abuso
M. neurologiche
Durata
Durata
Cultura etnica
Esposizione a tossici ambientali
Disturbi psichiatrici
Andamento temporale
Andamento temporale
Livello d’educazione
Uso di profumi
Disturbi metabolici
Sensibilità agli odori
Sensibilità ai gusti: salato-acido dolce-amaro
Preferenza manuale
Assunzione di farmaci
Intervista anamnestica Precede l’esame olfattometrico vero e proprio, e viene condotta secondo quanto riportato nella tabella 7.1. È così possibile tener conto dei fattori che più influenzano l’olfatto, quali sesso, età, professione e fumo, ed inoltre di accertare le modalità d’insorgenza, di evoluzione e durata del disturbo olfattivo, la concomitanza con traumi cranici, l’avvio di terapie o le esposizioni accidentali o professionali ad inalanti esogeni, e l’eventuale coesistenza di disturbi neuro-psichiatrici, di affezioni locali o generali e di disturbi gustativi. Successivamente viene effettuata l’indagine olfattometrica vera e propria, che si struttura secondo paradigmi di complessità crescente in rapporto alle particolari necessità di ogni singolo paziente. Valutazione olfattometrica MODALITÀ DI STIMOLAZIONE. La stimolazione comporta l’annusamento del vapore emanato da soluzioni con concentrazioni scalari di una sostanza odorosa attraverso entrambe le narici, o attraverso una narice per volta (essendo l’altra otturata mediante nastro adesivo). Il secondo metodo (unirinale) è molto più lento ma anche
Perversioni olfattive
Perversioni gustative
Odore avvertito Effetto dell’ammoniaca
Gusto avvertito
più preciso, e comunque indispensabile per localizzare un deficit olfattivo unilaterale. IDENTIFICAZIONE DELLA SOGLIA OLFATTIVA. La soglia è definita dalla concentrazione molare minima di sostanza odorosa (o “odorante”) cui corrisponde, per inalazione dei vapori, una percezione del rispettivo aroma, ed è un indice convenzionale dell’acuità olfattiva. L’eventualità di una coattivazione trigeminale può essere esclusa impiegando un odorante “puro” quale l’alcool fenil-etilico10 . L’odorante è diluito in acqua bidistillata, o meglio ultrapura (Millipore-Q) in 14 concentrazioni 0,5 log scalari comprese fra 1 – 10-7 M, e la soluzione posta in flaconi con apertura di 2,5 cm di diametro. In ogni prova, il soggetto deve annusare ad occhi bendati due flaconi, uno dei quali contenente solo il solvente (acqua), e dire quale dei due evoca in lui la sensazione più forte. L’identificazione della soglia chemopercettiva trigeminale (ammoniaca, acido formico) può essere utile in caso di iposmia post-traumatica per documentare la frequente coesistenza di un deficit trigeminale, generalmente assente o molto modesto nella patologia rino-sinusitica (Gudziol et al., 2001): perciò, l’impiego di irritanti trigeminali a scopo medico-legale (per documentare
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Phenylethyl alcohol, PEA (Carlo Erba o Sigma-Aldrich-Fluka).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Tabella 7.2 – Punteggi di identificazione olfattiva nel test del CA-SIT nella popolazione italiana. Probabile simulazione
Anosmia totale
Microsmia grave
Microsmia moderata
Microsmia lieve
Normosmia
00 – 04
05 – 15
16 – 19
20 – 23
24 – 27
28 – 34
Anosmia: perdita completa della capacità a percepire le sensazioni qualitative degli odori. Microsmia: perdita parziale della capacità a percepire le sensazioni qualitative degli odori. Tabella 7.3 – Coppie di aromi consigliati per il test di discriminazione olfattiva. Paia simili
Paia dissimili
γ-dodecalattone – Aldeide C-14 Citronellil acetato – Citronellil butirrato Cinnamil propionato – Cinnamil butirrato Estratto di limone – Citral rettificato
Anetolo – Benzil butirrato Fenetil alcool – Eptanolo Olio di garofano – Solfuro d’allile Acido butirrico – Eugenolo
eventuali tentativi di frode) perde molto del suo significato in caso di trauma cranico.
dall’80% dei soggetti normali. I relativi punteggi tarati sono espressi in Tab. 7.2.
IDENTIFICAZIONE DEGLI ODORI. Comporta una stimolazione olfattiva soprasogliare e tre possibili tipi di risposte: denominazione dell’odore, risposta «sì-no» circa il nome suggerito, e risposta a scelta multipla, con scelta di un nome fra quelli elencati per ciascun odore. L’UPSIT (Sensonics, Haddon Heights, N.J., USA) appartiene a quest’ultima categoria, implicando la scelta forzata di un nome fra quattro suggeriti per ciascun stimolo olfattivo (il soggetto deve rispondere comunque, anche se non avverte odore), ed è basato sull’annusamento di 40 aromi microincapsulati e stampati a 10 per volta su quattro differenti foglietti secondo una tecnica definibile come «gratta-eannusa»11 . Poiché sei di questi 40 aromi sono relativamente sconosciuti Italia, nel nostro paese è da usarsi il test culturalmente adattato CASIT, che comprende 34 aromi riconoscibili
DISCRIMINAZIONE DEGLI ODORI. La capacità di decidere se due odori sono gli stessi o differiscono fra loro si esplora per ogni narice con 16 coppie di odori, di cui 8 paia simili e 8 dissimili, presentati nell’ambito di ciascun paio in rapida successione mediante un piccolo tampone imbevuto di essenza, con intervallo di almeno 20 secondi fra differenti paia. Il soggetto deve annusare una sola volta e rispondere se i due odori sono identici o differiscono fra loro, o alternativamente, qualora si trovi incerto, indovinare. In base alle risposte ottenute, si calcola il rapporto percentuale di quelle corrette su quelle errate. Le sostanze che si impiegano in questo test sono riportate in Tab. 7.3.
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Analoga a quella ben nota del «gratta-e-vinci». In versioni più ridotte, è stato proposto in passato come auto-test di svago perfino da riviste femminili a larga tiratura.
MEMORIA DEGLI ODORI. La capacità mnesica per gli odori condivide con la memoria visiva e verbale lo stesso utilizzo di parole (codici verbali) ogniqualvolta un odore abbia una chiara denominazione (ad esempio odore di menta), ma ciò non è essenziale quando si tratta di dimostrare di avere già avvertito un odore inusuale privo di un nome preciso (ad esempio l’epta-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
nolo). Viene testata chiedendo al soggetto di annusare con entrambe le narici 10 aromi differenti per 5 secondi, con intervallo di presentazione di 20 secondi. A distanza di tempo (minuti, ore o giorni dopo), il soggetto deve analogamente annusare 5 degli aromi precedenti intercalati a caso fra 5 nuovi, e identificare quali egli ricorda di avere già percepito. Il punteggio corrisponde alla differenza fra risposte corrette ed errate e varia da 10 a –10. Lo studio della memoria olfattiva, verbale e non verbale, richiede l’impiego di sostanze odoranti riconoscibili in base ad un nome chiaro e ben identificabile nel linguaggio corrente (quasi sempre riferito all’oggetto in cui sono contenute), e di sostanze sprovviste di tale nome (e quindi identificabili solo in funzione di un astratto nome chimico, ma prive di correlati con oggetti del mondo circostante). In ogni caso, l’interpretazione dei risultati ottenuti con questi tipi di test dovrebbe sempre avvenire nell’ambito di uno studio neuropsicologico più o meno allargato e mirato sui problemi posti da ciascun paziente. In linea generale, la misura dell’acuità olfattiva (soglia) rappresenta il parametro di base per ogni tipo di disturbo dell’olfatto, a cui associare gli altri test isolatamente o in associazione fra loro a seconda che si tratti di patologia neurodegenerativa (demenze, m. di Parkinson, etc.), neurologica focale (traumatica, neoplastica, epilessia del lobo temporale), psichiatrica (schizofrenia, parafrenia), periferica (nasale/paranasale) o di problematiche medico-legali (Parola e Liberini, 1999). A questo riguardo, vale la spesa sottolineare che l’enigma dell’asserita maggior sensibilità olfattiva femminile non sembra giustificato da una più bassa soglia agli odori, poiché questa non differisce significativamente fra i due sessi; piuttosto, sembra dipendere da una maggior capacità di identificazione e discriminazione olfattiva indipendente dal livello di intelligenza (Segal et al., 1995; Brand e Millot, 2001).
ALTRI TEST OLFATTOMETRICI Recentemente è diventata disponibile una versione ridotta dell’UPSIT a validità multi-culturale (12 aromi, CC-SIT) (Doty et al., 1996), che permette di effettuare il test di identificazione olfattiva in meno di 6 minuti, ed anche una miniversione tascabile a 3 odori per l’esame neurologico di routine (PST). Test simili al CC-SIT, altamente concordanti con l’UPSIT o il CC-SIT ed adattati per l’Europa, si basano sull’impiego di kit portatili relativamente poco costosi quali la batteria “Sniffin’ Sticks”, costituito da 7 pennarelli con differenti odori che permettono la valutazione della soglia olfattiva e l’effettuazione dei test di identificazione e discriminazione (Kobal et al., 1996; Wolfensberger et al., 2000), e “Le Nez du Vin”, kit analogo alla batteria precedente, formato da sei differenti aromi, originariamente progettato per gli allievi «sommeliers» (McMahon e Scadding, 1996). INDAGINI ELETTROFISIOLOGICHE. Sono rappresentate dall’elettro-olfattogramma e dai potenziali chemiosensoriali evento–correlati (CSERP), entrambi tipi d’indagine praticabili solo in alcuni laboratori specializzati, e finora utilizzati quasi esclusivamente a scopo sperimentale (Pause et al., 1996; Pause e Krauel, 2000).
Disturbi dell’Olfatto La loro prevalenza è molto più alta di quanto si possa immaginare: in Italia, circa 500.000 persone (0,87% dell’intera popolazione) sono colpite da disturbi olfattivi (Parola e Liberini, 1999). In accordo a Victor (2001), si possono suddividere in quattro categorie: a) disturbi quantitativi, sotto forma di deficit (completo: anosmia; parziale: iposmia o microsmia) o, assai più raramente, di aumento dell’acuità olfattiva; b) disturbi qualitativi, sotto forma di distorsioni o perversioni (disosmia) o di illusioni olfattive (paro-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
smia); c) disturbi psico-olfattivi, sotto forma di allucinazioni o deliri a contenuto olfattivo; d) disturbi simbolici (agnosia olfattiva). Disturbi quantitativi IPOSMIA (MICROSMIA) ED ANOSMIA. Indicano una diminuzione o perdita dell’olfatto12 . Sono i disturbi più frequenti, che possono passare inosservati se unilaterali, ed invece essere vissuti come perdita congiunta dell’olfatto e del gusto quando sono bilaterali. Sul piano patogenetico possono riconoscersi tre principali cause di ipo- anosmia: patologia primitiva del neuroepitelio olfattivo, patologia centrale (dei sistemi di conduzione) e patologia geneticamente determinata (Tab. 7.4). Come si può osservare, il primo gruppo ingloba la patologia locale dell’apparato nasale e paranasale responsabile di deficit olfattivi tradizionalmente attribuiti ad un ostacolato afflusso di aria alla mucosa olfattiva (dogma «ostruttivo»). A parte la comune constatazione che l’iposmia causata dal semplice raffreddore è poco sensibile alle usuali terapie disostruenti locali o generali (vasocostrittori, FANS, mucolitici) che ripristinano la pervietà aerea dell’intera cavità nasale, l’evidenza di un frequente, incompleto recupero olfattivo dopo guarigione da affezioni rino-sinusitiche trova spiegazione nell’evidenza istologica di un danno neuro-olfattivo più o meno rilevante o anche permanente, qualora vi sia stata perdita delle cellule staminali basali (Doty e Mishra, 2001). Perciò, il fattore ostruttivo va considerato un fattore di aggravamento importante ma secondario. Una delle più vaste casistiche esistenti sull’argomento ha dimostrato che nei due terzi dei casi di ipo- anosmia il disturbo dipende da 12
Non esistono finora dati riguardanti possibili deficit della sensibilità olfattiva ai feromoni nell’uomo.
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una patologia nasale e paranasale (infezioni virali incluse) o da trauma cranico (Hendriks, 1988). In particolare, la prevalenza del disturbo olfattivo appare correlata all’entità del trauma subito: 0% (traumi minori senza disturbo di coscienza), 5% (traumi minori con disturbo di coscienza < 1 ora), 15-19% (traumi moderati con disturbo di coscienza da 1 a 24 ore), 2430% (traumi maggiori con disturbo di coscienza > 24 ore) (v. pag. 000). Nel 66,8% dei casi si tratta di un’anosmia permanente, che in massima parte (87,3%) fa seguito a traumi cranici maggiori causati da impatto occipitale o anche temporo-parietale, sedi particolarmente rischiose per lesioni da contraccolpo in fossa cranica anteriore (Doty et al., 1997; Biacabe et al., 2000). L’ipo- anosmia può dipendere sia da lesioni dei filamenti olfattivi nel loro passaggio attraverso la lamina cribrosa dell’etmoide, sia da contusioni dei bulbi o tratti olfattivi, o del trigono olfattivo, o delle regioni orbito-frontali. Ciò spiega la frequente associazione fra anosmia post-traumatica e problematiche sociolavorative importanti, connesse non solo ad esclusioni professionali specifiche (profumieri, cuochi, «sommeliers», ecc.), ma spesso anche a perdite motivazionali sul lavoro inquadrabili nell’ambito di una sindrome orbito-frontale (Varney, 1988) (v. pag. 523). Una riduzione bilaterale dell’olfatto si instaura nella settima decade di vita in entrambi i sessi, ma si accentua progressivamente soprattutto nel maschio: lo stesso periodo d’età coincide con una maggior incidenza di varie forme di patologia neurodegenerativa, molte delle quali caratterizzate da marcata e precoce iposmia (ad esempio malattia di Alzheimer e di Parkinson), a genesi non chiara, ma potenzialmente attribuibile al progressivo depauperamento neuronale delle aree olfattive primarie o delle rispettive aree di proiezione associative. Al contrario, i vari parametri olfattivi risultano normali nell’anoressia nervosa, ove l’av-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 7.4 – Cause di ipo –anosmia. Patologia neuroepiteliale
Patologia centrale (o di conduzione)
Patologia genetica
Riniti e rino–sinusiti allergiche e vasomotorie batteriche virali adeno-rinovirus, influenza, HSV1, epatite Poliposi nasale Abuso di vasocostrittori Rinite cronica atrofica Fumo di tabacco (intenso) Radioterapia locale Da tossici esogeni solventi organici (benzene) metalli polveri industriali contenenti metalli: Al, As, Bi, Cd, Co, Cr, Hg, Mn, Ni, Zn (Sunderman, 2001) cocaina oppiacei corticosteroidi * immunosoppressori antiblastici aminoglicosidi tetracicline L-DOPA Carenziale Ipovitaminosi A Ipovitaminosi B1 (S. di Wernicke–Korsakoff) Ipocorticosurrenalismo Ipotiroidismo Insufficienza epatica Insufficienza renale Estesioneuroblastoma (estremamente raro)
Traumi cranici Frattura lamina cribrosa Da trazione – contusione Masse occupanti spazio Meningiomi della doccia olfattiva soprasellari della piccola ala dello sfenoide Gliomi orbito–frontali del chiasma e n. ottico temporo–basali mediali Osteomi del tetto orbitario Ascessi del lobo frontale Neoplasie ipofisarie Aneurismi a. cerebrale anteriore a. comunicante anteriore Meningoencefalocele anteriore M. neurodegenerative m. di Alzheimer m. di Pick demenza a corpi di Lewy s. di Down (fase tardiva) m. di Parkinson (idiopatica) m. di Parkinson (famigliare) corea di Huntington Parkinson-Dementia complex (Guam) SLA-Dementia complex (Guam) SLA Sclerosi Multipla Emorragia subaracnoidea Meningiti croniche Interventi neurochirurgici Tumori Epilessia temporale
Sindrome di Kallman (anosmia congenita per agenesia del neuro-epitelio e dei bulbi olfattivi con ipogonadismo ipo-gonadotropo) Sindrome di Turner Albinismo Anosmia specifica
* Solo l’abuso cronico, poiché una breve terapia corticosteroidea locale è utile e consigliabile nell’iposmia rinogenica (Golding-Wood et al., 1996).
versione verso i cibi potrebbe indurre a sospettare un deficit olfattivo primitivo o anche secondario, causato cioè da grave carenza alimentare (Kopala et al., 1995).
Un particolare, piuttosto infrequente tipo di deficit olfattivo è rappresentato dalla cosiddetta «anosmia specifica», cioè una selettiva mancanza di olfatto per una sostanza o un’intera
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
classe di sostanze odorose con olfatto altrimenti normale (Amoore, 1967). Paragonabile alla cecità per i colori, il disturbo ha base genetica, derivando dalla mancanza di recettori olfattivi specifici per una certa sostanza volatile (Griff e Reed, 1995). Secondo alcuni (Moller et al., 1999), il disturbo sembrerebbe curabile mediante ripetute esposizioni all’odore non percepito. Una riduzione unilaterale dell’olfatto può riscontrarsi tipicamente nella patologia espansiva della fossa cranica anteriore (neoplasie, aneurismi dell’a. carotide interna), ove può occasionalmente arricchire una sindrome di Foster-Kennedy (v. pag. 525), e nell’epilessia temporale, in cui l’iposmia può dipendere da un’estensione del focolaio lesionale alle aree olfattive, o rappresentare l’esito di un intervento neurochirurgico di exeresi. In questi casi, la presenza di un’iposmia unilaterale può essere riconosciuta solo effettuanto i vari test olfattometrici per via monorinale. IPEROSMIA. Indica un abnorme aumento della percezione olfattiva verso gli odori in genere. Contraddistingue essenzialmente le crisi più violente di emicrania (ove si associa a nausea ed a vomito) e le meningiti acute, ove costituisce un segno irritativo di significato analogo all’iper- disestesia superficiale ed alla foto- e fonofobia spesso coesistenti. Disturbi qualitativi DISOSMIE. Sono distorsioni percettive a carattere fastidioso o sgradevole che si manifestano in presenza di comuni stimoli odorosi. Tipicamente riguardano l’odore dei cibi, olfattivamente percepiti come disgustosi o nauseabondi, e possono configurare in casi estremi una globale «cacosmia», spesso associata ad un’analoga modificazione della percezione gustativa («cacogeusia»).
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In certe forme particolari di patologia rinosinusitica (ozena, empiema dei seni paranasali) con produzione locale di secreti ad odore particolarmente sgradevole, è probabile che le disosmie o la cacosmia dipendano da un danno delle ciglia olfattive o da una saturazione dei rispettivi recettori. Manifestazioni disosmiche possono insorgere anche per lesioni incomplete del bulbo olfattivo, causate da traumi, compressioni o esposizione a vapori – o assunzione – di sostanze tossiche. Esistono infine casi a genesi oscura, che riguardano persone anziane (ed in cui, a parte l’età, non si trovano altre possibili cause), o che si associano ad una evidente sintomatologia ansioso-depressiva: in questo caso, il disturbo spesso recede spontaneamente a distanza di tempo, senza che siano emerse motivazioni plausibili del disturbo (quali ipovitaminosi, uso di alcuni farmaci, patologia dentaria, abuso di fumo etc.). P AROSMIE . Sono percezioni spontanee di odori inusuali, non riferibili ad alcun odore noto, che compaiono in assenza di stimoli odorosi. Consistono nella percezione, spesso a carattere accessuale e di breve durata, di odori forti, sgradevoli e mal definibili a parole dal paziente, quali ad esempio odore di cavolo o uovo marcio, di zolfo, di copertone d’auto o rifiuti incendiati, etc. Queste manifestazioni dispercettive, talora associate o seguite da una breve, parziale compromissione della coscienza, configurano le cosiddette crisi epilettiche «olfattive» o «uncinate» del lobo temporale, in quanto prodotte dall’attivazione della corteccia olfattiva primaria (corteccia prepiriforme ed uncus dell’ippocampo) (v. pag. 537). Disturbi psico-olfattivi Sono costituiti dalle allucinazioni olfattive, percezioni spontanee altamente realistiche di
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
odori esistenti ben noti, contraddistinte dall’assenza di una stimolazione odorosa. Possono avere genesi epilettica e, come le parosmie, dipendere dall’attivazione di aree corticali olfattive quali corteccia prepiriforme ed uncus dell’ippocampo. Alternativamente, possono rappresentare frammenti psicosensoriali proiettati dal paziente su sé stesso o all’esterno, nell’ambito di un delirio di riferimento sensitivo o di una psicosi dissociativa (parafrenia tardiva e schizofrenia). Nel primo caso, di solito il paziente avverte odori emananti dal proprio corpo che nessun altro percepisce, ma che egli ritiene tali da pregiudicare ogni rapporto con gli altri, per cui è spinto ad interminabili lavacri e ad esagerato o abnorme uso di detergenti. Coesiste quasi sempre una condizione depressiva che peggiora una struttura di personalità ossessivo-fobica. Nel secondo caso, il paziente avverte odori particolari provenienti da una sorgente esterna, quali esalazioni di gas, solventi o fumi industriali, che ritiene appositamente procurati da altri a suo esclusivo dispetto o danno. Come in ogni altro delirio, anche in queste circostanze esiste un’incrollabile certezza sulla realtà dei fenomeni percettivi allucinatori e sul significato soggettivo del loro vissuto, benché non esistano prove a sostegno. Non è chiaro se vi sia una base biologica delle allucinazioni olfattive, anche se ciò è probabile, almeno limitatamente nella schizofrenia. Infatti, in una vasta casistica (Kopala et al., 1994) allucinazioni olfattive erano presenti nel 34,6% dei soggetti schizofrenici, nel 19% dei soggetti affetti da depressione maggiore e nel 29% dei soggetti con disturbi del comportamento oro-alimentare, ma solo nel gruppo degli schizofrenici si poteva dimostrare la coesistenza di un generico disturbo dell’identificazione olfattiva. L’inquadramento ed il trattamento di queste forme è di competenza psichiatrica, e contempla l’impiego di terapie mirate principalmen-
te sui sintomi distimici (antidepressivi-ansiolitici) o deliranti-allucinatori (neurolettici maggiori). Occasionali allucinazioni olfattive sono eccezionalmente riferite anche nelle fasi evolutive della m. di Alzheimer e nella sindrome da astinenza alcoolica (entrambe condizioni che contemplano riduzione dell’acuità olfattiva).
Disturbi simbolici Analogamente agli altri sistemi sensoriali, anche l’olfatto soggiace alla possibilità di un’errata elaborazione simbolica dei segnali da parte delle aree corticali deputate all’attribuzione ed alla rievocazione dei nomi o al riconoscimento del significato simbolico dei messaggi in arrivo. La dimostrazione di un’agnosia agli odori, ovvero incapacità ad identificare o denominare correttamente dati aromi può essere sospettata in base ai risultati del test UPSIT (test di identificazione degli odori). Conviene precisare, peraltro, che questo test risente particolarmente delle capacità lessicali e verbali del soggetto, e può risultare alterato non tanto per un disturbo della sfera olfattiva, quanto per la coesistenza di un disturbo fasico, quale ad esempio l’anomia che frequentemente contraddistingue l’esordio di una demenza. In questi casi, l’UPSIT dovrebbe essere sostituito da un test analogo basato sull’identificazione di figure (PIT): ad esempio di frutti (arancio, banana), cibi (pizza, cioccolata), solventi (benzina, trementina). Analogamente, i test di discriminazione e di memoria degli odori risentono notevolmente delle capacità attentivo-mnesiche di cui ciascun soggetto dispone, per cui, come concetto di base, la valutazione psicometrica olfattiva dovrebbe avvenire nell’ambito più generale di un bilancio neuropsicologico completo (v. pag. 000).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
Gusto (V - Nervo linguale; VII - Nervo intermediario; IX - Nervo glossofaringeo; X - Nervo vago) Il senso del gusto è principalmente deputato ad identificare la qualità degli alimenti da ingerire. Per quanto possa essere aiutata da olfatto e vista, la ricognizione e selezione finale del cibo si affida alla trasduzione chemocettiva intraorale, che ha principalmente sede nell’apparato gustativo della lingua, e, in misura del tutto accessoria, del palato, della faringe e dell’epiglottide. Poiché il transito di un alimento dal cavo orale alla porzione superiore dell’esofago è piuttosto veloce, specie per i cibi liquidi ed a nutrizione già avviata, il rischio che parti di cibo invisibilmente avariate e possibilmente tossiche siano per sbaglio ingerite può essere minimizzato solo attraverso un controllo gustativo continuo, inserito in un circuito riflesso a velocità d’intervento sufficientemente rapida. Nelle decisioni gustative, implicanti un significato di vita o di morte, l’uomo risulta circa tre volte più veloce del topo, impiegando solo 50 msec per bloccare la deglutizione di un alimento dal gusto sospetto (Delconte et al., 1992). Il gusto, quindi, costituisce in primo luogo un apparato di difesa, inducendo risposte di avversione per quei cibi che visualmente ed olfattivamente appaiono seducenti, ma che alla scansione chimica si rivelano veri e propri «trojans»13 : il “troppo” salato o acido evocano immagini di composti avariati e dannosi, mentre l’amaro è indispensabile per riconoscere ed evitare alcaloidi vegetali ed altre tossine ambientali potenzialmente mortali. Per contro, l’abilità ad identificare sostanze alimentari dolci è particolarmente importante nella ricerca di cibi ricchi di carboidrati con alto valore nutritivo (Margolskee, 2002). In tal
modo, il gusto diventa anche fonte di ineguagliabile piacere, fondamentale per motivare dopo la nascita l’attaccamento al seno materno (Steiner et al., 2001), e successivamente garantire la qualità della vita (Lindemann, 2001), non solo in termini puramente edonici, ma anche sociali, permettendo quella speciale convivialità orale essenziale per ogni genuino rapporto d’intimità, sia nei primati che nell’uomo. Antropologicamente, esistono evidenze circa un’evoluzione parallela dell’acuità gustativa per due raggruppamenti di gusti primari: per le sostanze vegetali dolci (gradevoli) e per quelle amare o ricche di tannini (sgradevoli). L’apprezzamento del gusto salato, e la corrispettiva minor acuità, sarebbe invece una risposta culturalmente acquisita in tempi recenti (Hladik et al, 2002). L’apparato gustativo, a differenza di quello olfattivo, non risponde alle molecole volatili, ma alle molecole in soluzione, fenomeno che è fisiologicamente garantito dalla continua produzione di saliva; inoltre, è perifericamente distribuito su una superficie molto più estesa. La differenza più evidente fra i due apparati sta però nella rispettiva sensibilità agli stimoli chimici, straordinariamente superiore per quelli olfattivi (molti dei quali capaci di farsi percepire persino a diluizioni di 1·10–9 di fronte ad un massimo di 3,376·10–3 per l’amaro della chinina solfato) e nel numero di sostanze riconosciute: migliaia di odori contro solo sei gusti di base, di cui quattro classici (il dolce, l’amaro, il salato e l’acido), e due di recente inclusione, rispettivamente l’umami14 o gusto di l-glutammato monosodico (il “sapido” del piatto giapponese “dashi”, degli intingoli e salse cinesi e dei brodi concentrati di carne) (Faurion, 1991; Lindemann, 2000; Yamaguchi e Ninomiya, 2000), ed il “grasso” (Margolskee, 2002).
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13
Cavalli di Troia, termine informatico usato per definire piccoli programmi nocivi mascherati sotto nomi allettanti.
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Dispiace che la patria di Brillat-Savarin, del «consommé» e di salse «haute cuisine» ed anche il famoso estratto di carne «deutsche» non abbiano avuto la benché minima considerazione nel mondo scientifico anglosassone.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.6 - Aree gustative della lingua, territori d’innervazione, papille e calici gustativi e zone di maggior sensibilità per i gusti di base.
Esistono spiegazioni di ordine anatomico: di fronte a 40 milioni di cellule olfattive, esprimenti complessivamente molte centinaia di differenti classi recettoriali, vi sono solo 5-10 milioni di equivalenti cellule gustative, dotate di pochissime classi recettoriali. Fortunatamente, le combinazioni gustative possibili risultano in realtà più numerose di quanto ci si potrebbe attendere da così pochi gusti–base: il problema principale, quindi, è di natura eminentemente lessicale, essendo il vocabolario occidentale particolarmente povero di parole atte a descrivere l’intera gamma dei sapori che a tavola siamo in grado di percepire. Aspetti neuroanatomici 1. – Mucosa, calici e cellule gustative. La via gustativa nasce da specifiche cellule recettoriali che complessivamente formano l’organo del gusto, rappresentato dai calici o gemme o bottoni gustativi (Fig. 7.6). Descritti da Loven e Schwalbe nel 1868, i calici sono microscopiche formazioni sferiche o ovoidali morfologicamente paragonabili a palloncini o meglio, a minuscole bottiglie rigonfie annidate nello spessore dell’epitelio (altezza 70-80 µm, larghezza 35-50 µm), con base appoggiata al derma e collo terminante alla superficie libera della mucosa con un piccolo «poro gustativo» (diametro 3-4 µm).
Su un totale di circa 10.000 calici, 9000 si concentrano sul dorso della lingua in corrispondenza delle papille gustative, ed in particolare: a) in numero scarso (da 1 a 5) nelle papille fungiformi, piccole escrescenze protrudenti dalla mucosa dei 2/3 laterali e punta della lingua (dominio del nervo intermediario, VII); b) in numero molto più alto (centinaia: 150 o più) nelle papille foliate, invaginate nella mucosa e disposte in fila lungo i bordi laterali del 1/3 posteriore della lingua; c) nelle grandi papille circumvallate (o vallate), invaginate e circondate da un vallo più profondo, situate nel 1/3 posteriore della lingua e costituenti la V linguale (dominio del nervo glossofaringeo, IX) (Fig. 7.6). I restanti calici (circa 1.000) si distribuiscono al palato molle attorno all’ugola, agli archi palatini, alla faringe (dominio dei nervi glossofaringeo e vago, IX-X). Una piccola quota di essi, priva di rilievo funzionale anche perché destinata a scomparire nella prima infanzia, si ritrova sulla faccia laringea (o posteriore) dell’epiglottide e sulle pieghe ariteno-epiglottiche (nervo vago, X). Ghiandole sierose annesse alle papille contribuiscono alla formazione di saliva all’interno del vallo peripapillare. I calici sono così costituiti (Fig. 7.6): a) all’esterno, da cellule epiteliali di sostegno, allungate ed a faccia concavo-convessa, che delimitano il poro gustativo; b) all’interno, da cellule neuro-epiteliali fusiformi disposte a doga di botte, alquanto ispessite in corrispondenza del nucleo ed interconnesse da giunzioni serrate16 , che ter16
Tali giunzioni ostacolano la diffusione passiva dei sali alle regioni basali, in proporzione al loro peso ed ingombro sterico.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali minano perifericamente con microvilli simili a ciglia protrudenti nel poro gustativo; c) al confine dermico, da piccole cellule basali rotondeggianti indifferenziate d’aspetto staminale (precursori), che incessantemente generano nuovi elementi neuro-epiteliali. Il neuro-epitelio, infatti, ha un ciclo vitale piuttosto breve (attorno ai 10 giorni), ed istologicamente risulta formato da una minoranza di cellule scure, iperdense (probabilmente in fase degenerativa per apoptosi) alternate ad una maggioranza di cellule chiare o intermedie. Le cellule neuro-epiteliali non sono neuroni, poiché mancano di dendriti e di assone, ed avendo vita effimera, devono essere continuamente rinnovati. Analogamente al neuro-epitelio olfattivo, ogni nuova cellula esprime il corredo recettoriale – e si connette con le stesse terminazioni assoniche – di quella scomparsa che va a sostituire (Ganchrow, 2000). Le cellule gustative, tuttavia, sono capaci di generare potenziali d’azione come i neuroni, ed inoltre formano, in corrispondenza di accumuli di vescicole di aspetto “presinaptico” situati al loro polo baso-laterale, numerosi contatti presinaptici con espansioni dei rami centrifughi di neuroni ganglionari a T gustativi, del tutto analoghi a quelli sensitivi di 1° ordine dei gangli dorsali. Ogni cellula neuro-epiteliale è presinaptica non solo rispetto a molte terminazioni di una stessa fibra ganglionare, ma in parte anche alle diramazioni collaterali di altre fibre ganglionari preferenzialmente terminanti su altri elementi. 2.– Proiezioni gustative di 1° ordine. Il decorso centripeto fino al soma delle fibre gustative provenienti dai due terzi anteriori della lingua è anatomicamente complicato ed ancor oggi poco chiaro nell’uomo, non solo per l’impossibilità ad identificare quali siano i contingenti di fibre che decorrono nei rami anastomotici, ma anche per le variazione anatomiche esistenti fra persona e persona. È diffusamente accettato, comunque, che i due terzi anteriori antistanti la V linguale (papille fungiformi) siano principalmente innervati da fibre afferenti al SNC che ascendono nella corda del timpano, raggiungono il rispettivo soma nel ganglio genicolato e da qui entrano a far parte del tratto prossimale del nervo intermediario di Wrisberg (nervo intermedio-facciale, VII) per penetrare nel solco bolbo-pontino in corrispondenza dell’ala cinerea (tratto o fascicolo solitario) e terminare infine nell’area gustativa bulbare, o porzione rostrale del nucleo del tratto solitario, aggettante lateralmente sul pavimento del IV ventricolo (tuber cinereum) (Fig. 7.7, 7.8, 7.9). È possibile che un certo contingente raggiunga il ganglio genicolato tramite un’anastomosi fra corda del
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timpano e nervo grande petroso superficiale, ed un altro contingente ascenda inizialmente nel nervo linguale (ramo del nervo mandibolare, III branca del trigemino,V) e solo successivamente, tramite un ramo anastomotico, raggiunga la corda del timpano. Simile destino hanno le fibre che innervano il palato molle, ascendenti attraverso il nervo grande petroso superficiale al ganglio genicolato (VII). Al contrario, il terzo posteriore della lingua (papille foliate e circumvallate) è innervato da fibre gustative ganglionari centrifughe che, ascendendo nella branca linguale del nervo glossofaringeo (IX) raggiungono i rispettivi somi nel ganglio petroso (Andersch, 1791) e decorrendo come rami centripeti nella radice del IX nervo, poi si distaccano per entrare nell’area gustativa bulbare (Bradley et al., 1996) (Fig. 7.8 e 7.9). Le restanti regioni retro-linguali sono innervate nella faringe dai nervi IX e X (vago) attraverso il plesso faringeo, e nella laringe, dal nervo laringeo superiore (X nervo): le fibre gustative ganglionari centrifughe, dopo aver raggiunto i rispettivi somi, situati rispettivamente nel ganglio petroso (IX nervo) e nel ganglio nodoso (X nervo), si estendono in rami centripeti lungo le radici di questi nervi per terminare anch’esse nell’area gustativa bulbare (Fig. 7.8 e 7.9). 3.– Proiezioni gustative di 2° e 3° ordine. Le vie centrali del gusto sono ancor oggi poco conosciute nell’uomo (Brodal, 1981; Norgren, 1990), e ciò che la recente letteratura riporta al riguardo è basato sullo studio anatomo-funzionale in RM di singoli casi con lesioni focali del tronco, del talamo o della corteccia (SanchezJuan e Combarros, 2001). Le proiezioni di 2° ordine dei neuroni dell’area gustativa bulbo-pontina (nucleo del tratto solitario) ascendono ipsilateralmente nel tratto tegmentale centrale bulbopontino, posto dorsalmente al lemnisco mediale, e sono di tre tipi: segmentali, solitario-talamiche e solitarioparabrachiali. a) Le proiezioni segmentali innervano vari nuclei del tronco encefalico: nucleo dorsale motore del X, nucleo ambiguo, nuclei salivatori, nuclei del V e del VII, e rappresentano l’arco afferente di vari meccanismi vegetativi e motori riflessi, quali ad esempio, salivazione, masticazione, deglutizione e vomito. b) Le proiezioni solitario-talamiche risalgono ipsilateralmente fino al ponte-mesencefalo, quindi in gran parte si incrociano in un tratto compreso fra mesencefalo e parte mediale del VPM (Onoda e Ikeda, 1999), e terminano controlateralmente nella porzione più mediale
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.7 - Schema della distribuzione delle vie vasodilatatorie, secretrici ghiandolari e delle vie gustative del n. intermediario di Wrisberg.
(parvicellulare) del nucleo talamico VPM (Fig. 7.9). Le proiezioni di 3° ordine di questo subnucleo raggiungono la corteccia gustativa primaria corrispondente, situata nel territorio di confine fra porzione anteriore dell’insula ed opercolo parietale. Non è chiaro se esistano contingenti che seguono il decorso del lemnisco mediale (Fig. 7.11) e contingenti che non s’incrociano: tali possibilità, suggerite soprattutto in passato, oggi sembrano assai remote. Pertanto, l’ageusia di un’intera emilingua (emiageusia) può dipendere: i) da una lesione focale ipsilaterale del tronco encefalico, oppure ii) da una lesione focale controlaterale del talamo, dell’adiacente capsula interna o della corteccia gustativa primaria opercolo-insulare. c) Le proiezioni solitario-parabrachiali terminano nella porzione mediale del nucleo parabrachiale pontomesencefalico, disposto ventralmente attorno al braccio congiuntivo di ogni lato. Il nucleo parabrachiale invia proiezioni rostro-ventrali di 3° ordine sia all’ipotalamo, deputate alla regolazione di funzioni vegetative quali ad
esempio l’appetito e la sete, sia alle regioni olfattive del sistema limbico (area prepiriforme, uncus dell’ippocampo). In tali sedi avviene quella speciale integrazione degli odori e dei sapori che permette di apprezzare il “gusto” dei cibi sotto il profilo edonico e contemporaneamente di impedire l’ingestione di sostanze tossiche (Reilly, 1999).
Aspetti neurofisiologici e neurobiologici 1.– Recettori e meccanismi di trasduzione degli stimoli gustativi. Le quattro qualità gustative basali (salato, dolce, amaro, acido) sono percepite ubiquitariamente sulla lingua, ma con maggior facilità in corrispondenza di specifiche regioni, ove ogni unità sensitiva reagisce a tutti e quattro gli stimoli, ma con soglia particolarmente bassa per uno stimolo specifico: apice della lingua (dol-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.8 - Via gustativa: fibre a partenza dal terzo posteriore della lingua (n. glosso-faringeo) e fibre a partenza dai due terzi anteriori della lingua, ove tre possibili vie A, B, C, sono indicate. A) Attraverso la corda del timpano, il ganglio genicolato e l’intermediario di Wrisberg si raggiunge il n. del fascicolo solitario; B) attraverso la corda del timpano, il ganglio genicolato, il n. grande petroso superficiale, il ganglio sfenopalatino, il ganglio di Gasser, il V paio, si raggiunge il n. del fascicolo solitario; C) attraverso il n. linguale, il ganglio di Gasser, il V paio si raggiunge il n. del fascicolo solitario. V-VII-IX-X: nervi cranici. 1°, 2°, 3°: branche del trigemino.
Fig. 7.9 - Schema delle vie gustative centrali.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
ce), V-linguale (amaro), bordi laterali anteriori (salato), bordi laterali posteriori (acido). Per ogni tipo di stimolo gustativo esiste uno specifico meccanismo di trasduzione, ma la stessa sensazione può essere evocata da due differenti stimoli (ad esempio, il gusto acido prodotto da protoni [H+] può essere potenziato da anioni organici, quali lattato– o meglio ancora, citrato–). Inoltre, i meccanismi trasduttivi per la stessa sostanza stimolante possono sensibilmente differire fra le diverse specie di vertebrati. In accordo a Buck (2000b) e Margolskee (2002), i meccanismi molecolari responsabili dei gusti base seguono questa sequenza generale: interazione delle sostanze stimolanti con recettori situati sulla superficie apicale (microvilli) → depolarizzazione → generazione di potenziali d’azione → ingresso (o liberazione intracellulare) di Ca2+ → rilascio di neurotrasmettitori dalla superficie basale → attivazione sinaptica delle fibre di 1° ordine. Sia i recettori gustativi con relative G-proteine, che i meccanismi di trasduzione intracellulare del segnale chimico attraverso secondi e terzi messaggeri, tentativamente sintetizzata in Tab. 7.5, rappresentano argomenti molto complessi e non ancora completamente conosciuti (Kinnamon, 2000; Margolskee, 2002). Come è possibile osservare, esistono due classi multigeniche di recettori accoppiati a differenti G-proteine (gustducine, molto simili alla transducina dei coni retinici), T1R per il gusto dolce e T2R (o TRB) per il gusto amaro. In particolare: a) la prima classe è caratterizzata da tre tipi di recettore, T1R (1-3), di cui la forma T1R3, corrispondente al locus Sac sul cromosoma 4, è la principale responsabile per la sensibilità ai dolcificanti naturali ed artificiali, quali la saccarina (Sainz et al. 2001), ed è espressa sulle papille fungiformi, ed anche sulle papille circumvallate e foliate. La formazione di eterodimeri (T1R1/T1R2, T1R2/T1R3) e l’associazione a isoforme di gustducina sarebbero responsabili della differente sensibilità finale ai differenti dolcificanti. Sorprendentemente, oltre a permettere il riconoscimento delle sostanze dolci, l’etero-dimero T1R1/T1R3 permetterebbe anche quello del gusto umami, cioè del lglutammato ed l-aspartato. Recenti evidenze di non age-
vole comprensione, infatti, dimostrano che questi l-aminoacidi producono una selettiva attivazione, nettamente potenziata da 5'-ribonucleotidi (IMP-GMP), dell’eterodimero formato dal recettore T1R1 (dotato di sequenze identiche a quelle del recettore metabotropico per il lglutammato (mGluR1) e dal recettore T1R3, qualora entrambi siano espressi in cellule dotate di particolari Gproteine, quali ad esempio Gα15 (Li et al., 2002). Ma ciò non è tutto (Nelson et al., 2002): l’etero-dimero T1R1/T1R3 funzionerebbe non tanto come recettore specifico per l-glutammato/l-aspartato (con relativo gusto umami), ma come generico sensore della maggior parte di altri 20 l-aminoacidi dotati di sapore piacevole (dolce o umami-simile). Sequenze aminoacidiche di T1R1/T1R3, differenti da specie a specie, spiegherebbero le preferenze di gusto nell’ambito di queste molecole, essenziali sia come precursori biosintetici, che come fonte d’energia. Questa selettività del senso del gusto probabilmente comporta rilevanti implicazioni di carattere evoluzionistico. Rigorosamente stereospecifica ed assente per i d-isomeri, essa tuttavia differisce da quella olfattiva, capace di distinguere gli isomeri chirali della stessa molecola in base ad una differente intensità o qualità percettiva. Il gusto umami, inoltre, è garantito anche da un secondo meccansimo di trasduzione, basato sull’attivazione di recettori metabotropici per il glutammato/aspartato di tipo mGlu-R4 (sensibili a l-2-amino-4-fosfono-butirrato o L-AP4), cui fa seguito in cascata una riduzione del cAMP submembrana (Chaudhari e Roper, 1998; Chaudari et al., 2000) ed una facilitata apertura dei canali Na+ e Ca2+ c-AMP-dipendenti. b) La seconda classe T2R/TRB (amaro) comprende una famiglia di 40-80 recettori associati ad a-gustducina o anche ad altre sue isoforme, espresse nel 15-20% delle cellule neuro-epiteliali delle papille circumvallate e foliate e del palato, ma soltanto in pochissime cellule delle papille fungiformi (Adler et al., 2000). Poiché un largo repertorio di questi recettori è espresso nella stessa cellula, diventa facile spiegarsi perché un uniforme gusto amaro sia prodotto da così tante sostanze tossiche strutturalmente eterogenee, ed anche prive di correlato fra loro (Chandrashekar et al., 2000).
2.– Saliva ed apparato gustativo. La funzione salivare è strettamente legata a quella gustativa, e le rispettive interazioni, non ancora completamente conosciute, possono essere così riassunte (Spielman, 1990): a) Interazioni saliva–stimoli gustativi. La dotazione ionica della saliva è critica per la trasduzione dei segnali fisiologici: la presenza di bicarbonati, infatti, attenua il
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Tabella 7.5 – Principali meccanismi recettoriali e di trasduzione intracellulare degli stimoli gustativi (aggiornati al 2002). Recettori Salato
Acido
Dolce
Stimolo
Eventi molecolari intracellulari
NaCl
canali Na+ → ingresso Na+ (apicale/ basale) → depolarizzazione → esocitosi
KCl
canali K+ → ingresso K+ (apicale) → depolarizzazione basale → esocitosi
HCl
canali Na+ (amiloride sensibili) → ingresso H+ → depolarizzazione → esocitosi
Citrato–
canali K+ (apicali) → blocco → depolarizzazione → esocitosi
T1R1-T1R2 Zucchero
attivazione adenilil-ciclasi → aumento cAMP → fosforilazione (PKA) ed inibizione
T1R2-T1R3
dei canali basolaterali K+ → depolarizzazione → ingresso di Ca2+ → → esocitosi
T1R3 Amaro T2R/TRB
Dolcificanti
attivazione fosfolipasi PLC → IP3/DAG → rilascio di Ca2+ →
Denatonio
gustducina (Gα → attivazione di fosfodiesterasi (PDE1A) → riduzione cAMP →
Propiltiouracile → disinibizione canali (Ca2+, K+) cAMP dipendenti → ingresso di Ca2+ → → esocitosi gustducina (Gβ3, Gγ13) → PLCβ2 → IP3/DAG → rilascio di Ca2+ →
Umami mGLU-R4
Chinina
blocco di canali K+ apicali e relativa corrente d’uscita → depolarizzazione → esocitosi
GLU/ASP
gustducina (?)→ attivazione di fosfodiesterasi → riduzione cAMP →
c-AMP/IP3
→ disinibizione canali (Ca2+, K+) cAMP dipendenti (?)→ ingresso di Ca2+ → → esocitosi
T1R1-T1R3 idem + L-AP4 gustducina (Gα15) → attivazione fosfolipasi → IP3/DAG → rilascio di Ca2+ → (mGLU-R1)
gusto acido, mentre quella di glutammato tende a potenziare il gusto sapido (umami); inoltre, è il contenuto in Na+ della saliva, normalmente privo di correlato gustativo, a determinare la soglia per l’apprezzamento del salato. Analogamente, ogni sostanza escreta nella saliva o trasportata in essa dall’apparato dentale (ad esempio farmaci, ioni metallici, derivati della degradazione di residui alimentari, etc.) è teoricamente in grado di modificare in maniera anche sostanziale la soglia percettiva per uno o più gusti base, o di creare distorsioni percettive (disgeusia). La presenza nella saliva di lipocaline quali le hOBPIIa (componenti del muco olfattivo già descritte a pag. 000) permette inoltre la solubilizzazione e presentazione ai recettori gustativi di molecole idrofobiche “grasse”, responsabili di quell’attraente ed indefinibile sapore aggiuntivo che caratterizza ogni alimento ricco in lipidi. b) Interazioni stimoli gustativi–saliva. La produzione e la composizione della saliva sono influenzate dal tipo
degli stimoli gustativi. Generalmente, il massimo flusso con più elevata concentrazione di Na+ è prodotto dagli acidi organici (da acido citrico o acetico), mentre la più alta concentrazione di proteine e Ca2+ è prodotta dal sale comune e dal l-glutammato monosodico (Horio e Kawamura, 1989) La relativa proporzione delle varie proteine salivari, comunque, rimane fisiologicamente invariata ed indipendente dal tipo di stimolo.
3.– Apprendimento e modulazione dei gusti. La diffusa accettazione dei quattro gusti di base nasce dalla certezza, mai contestata, che possono essere percepiti da tutti, sia pure con modeste variazioni interindividuali. I nuovi due gusti, l’umami ed il “grasso”, sono ancor oggi accettati con riserva, anche da chi vi crede. Molto probabilmente, il motivo sta nel fatto che sono entrambi molto allettanti e piacevoli, ma
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
poco nettamente delineati da un punto di vista qualitativo, e che non tutte le cucine ne fanno lo stesso uso. Il fatto che solo il 73% delle persone riesca a distinguere il gusto umami dal gusto salato, suggerendo che le altre abbiano un’ageusia specifica per il glutammato (Lugaz et al., 2002), sembra piuttosto ridimensionato dalla dimostrazione che tale deficit selettivo scompare facilmente, solo che si assaggi dadi al l-glutammato per un po’ di giorni (Kobayashi e Kennedy, 2002). Ciò va pienamente d’accordo con la dimostrazione neurofisiologica nel primate di un epicentro corticale per il gusto umami differente da quello dei gusti classici, essendo situato in un’area gustativa secondaria della corteccia orbito-frontale, area in cui è possibile un netto potenziamento da parte di altri specifici gusti (5'-inosina monofosfato) o odori (aglio), così come una loro marcata attenuazione a sazietà raggiunta (Rolls, 2000).
In conclusione, così come per gli odori, anche per i sapori ed i gusti non è tanto l’attrezzatura che sembra difettare, quanto l’abitudine ad usarla. 4.– Elaborazione del codice neurale. Il paradigma dei quattro gusti di base indurrebbe a pensare che vi siano linee privilegiate per ciascuno di essi (teoria quadripartita delle “labelled-lines”). L’insieme delle evidenze psicofisiche ed elettrofisiologiche finora raccolte depone piuttosto per l’esistenza di qualità gustative che vanno ben al di là di una scarsa manciata di gusti. L’attivazione iniziale di un vasto numero di differenti recettori, canali ionici e secondi messaggeri, comporterebbe piuttosto l’insorgenza di specifici, differenti “pattern” di scarica attraverso l’intera matrice neuronale del sistema gustativo (teoria “across-fiber”). In altre parole, i neuroni non sarebbero programmati per elaborare una particolare sensazione, ma per operare in rete con gli altri nella codifica dei vari sapori (Schiffman, 2000). 5.– Interazioni fra sistema gustativo e sistema trigeminale somestesico endo-orale. La densa innervazione tattile, termica, dolorifica e vegetativa (eccitosecretiva e vasomotoria)
delle mucose chemosensoriali da parte del nervo trigemino permette di modulare finemente la sensibilità agli stimoli olfattivi e gustativi attraverso un controllo locale delle secrezioni mucose e del flusso arteriolo-capillare. Stimoli sensitivi endo-nasali ed endo-orali, inoltre, accompagnano costantemente quelli sensoriali nella loro elaborazione ad ogni livello del SNC. Limitatamente all’aspetto puramente percettivo (e tralasciando quindi le attività riflesse quali ad esempio la congestione nasale riflessa, lo starnuto, la nausea ed il vomito), l’esperienza finale olfattiva e gustativa risulta sempre arricchita di qualità non sensoriali, come per esempio il caldo, il freddo, la consistenza o la fluidità, e non ultimo, anche le proprietà “irritanti” dei cibi, erroneamente attribuite al senso del gusto. La diffusa abitudine, specie nei climi caldi, di condire gli alimenti con paprika piccante o con spezie analoghe, quali ad esempio lo zenzero, di per sé essenzialmente prive di odore e sapore, basterebbe da sola ad attestare l’esistenza - o una forte necessità - di un’elaborazione sensitivo-sensoriale centrale congiunta17 . Vi sono peraltro sufficienti evidenze neuroanatomiche che sostengono quest’idea, almeno limitatamente al gusto, poiché l’approdo finale dei messaggi talamo-corticali termici e dolorifici avviene, vedi caso, in un’area insulare immediatamente retrostante a quella che riceve i messaggi gustativi (porzione anteriore dell’insula) (v. pag. 542). ESAME DELLA FUNZIONE GUSTATIVA Prevede l’effettuazione di un’intervista anamnestica come per l’olfatto (v. pag. 196) seguita da prove di semplice identificazione dello stimolo gustativo. Sfortunatamente mancano ancora metodi standardizzati analoghi a quelli olfattometrici precedentemente esposti per quantificare la soglia e le capacità di discrimi17
Analogamente alla consonanza «son et lumière», direbbero i sacerdoti del culto della temperatura di vini.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
nazione e di memorizzazione degli stimoli gustativi, e, come per l’olfatto, l’impiego di tecniche elettrofisiologiche rimane essenzialmente sperimentale e confinato all’ambito di pochi laboratori specializzati. Diversi fattori possono interferire con l’esame del gusto: un’adeguata collaborazione da parte del paziente, la progressiva riduzione con l’età delle cellule e delle papille gustative, il differente apprezzamento simbolico dei sapori in rapporto alle abitudini ed alla cultura etnica. L’esame si effettua stimolando vari punti dei due terzi anteriori e del terzo posteriore della lingua, sia a sinistra che a destra. Poiché gli stimoli chimici sotto forma liquida tendono a diffondere rapidamente, è preferibile utilizzare sostanze chimiche solide in minima quantità, tali da formare una soluzione concentrata pressoché solo nel punto di contatto, applicate mediante un piccolo tampone leggermente inumidito. Alternativamente, possono essere applicati, con una sottile pinza, piccoli dischi di carta da filtro imbevuti di soluzioni concentrate, oppure, qualora si voglia testare la soglia gustativa, di soluzioni a concentrazioni log-scalari (NaCl: 2,57,5-15%; acido citrico: 1,5-5-10%; glucosio: 110-40%; chinina-HCl: 0,035-0,075-0,5%). Il soggetto non deve parlare, essere in grado di mantenere la lingua protrusa immobile, appoggiata su una garza, e di indicare, sulle figure o sui nomi rappresentativi di ciascun gusto che gli vengono mostrati, quello corrispondente alla sensazione che di volta in volta prova. Dopo ogni applicazione, la lingua dev’essere accuratamente pulita con un tampone o, meglio ancora, sciaquata con acqua. Le sostanze usate per la stimolazione sono classicamente: zucchero (dolce), sale comune o NaCl (salato), acido citrico (acido) e chinino solfato (amaro). La stimolazione con acido citrico può essere sostituita da una stimolazione galvanica mediante comuni pile connesse tramite potenziometro ed interruttore a due elettrodi applicati l’uno in un punto indifferente della mucosa orale (negativo), l’altro su differenti punti del dorso della lingua (positivo). Idonee apparecchiature predisposte per erogare correnti costanti sono necessarie per effettuare l’elettrogustometria quantitativa.
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In caso di deficit bilaterale, può essere utile valutare globalmente la sensibilità gustativa residua del paziente invitandolo ad assaggiare direttamente in bocca le soluzioni di ogni sostanza.
Alterazioni del gusto IPOGEUSIA ED AGEUSIA Definiscono rispettivamente la riduzione e la perdita completa della sensibilità gustativa. In mancanza di una classificazione universalmente accettata delle cause di ipo- ageusia, si propone tentativamente la seguente Tabella riassuntiva (Tab. 7.6). 1. –L’ipo-ageusia da cause non neurologiche è spesso associata a disgeusia ed è diffusa all’intera mucosa gustativa. Tralasciando l’azione lesiva di fumo di tabacco ed infezioni oro-faringee e delle prime vie aeree, una causa abbastanza comune di ipo- disgeusia è l’uso cronico di farmaci a larga diffusione. In questi casi, il disturbo può non solo compromettere la qualità della vita, ma anche comportare una scarsa «compliance» terapeutica da parte del paziente. I quadri farmaco-iatrogeni si osservano generalmente in soggetti di età media attorno ai 50 anni di ambo i sessi (58% femmine), nei quali la sospensione del trattamento usualmente si associa a regressione del disturbo gustativo, che si completa, però, solo nel 60% circa dei casi (Ratrema et al., 2001). Una possibile spiegazione dell’ipogeusia da farmaci può essere ricercata nell’azione chelante svolta da alcuni di essi su metalli divalenti come il rame e lo zinco (vedi ad esempio D-penicillamina). Lo zinco, in particolare, è un cofattore essenziale per oltre 300 funzioni enzimatiche, per la sintesi del DNA e l’espressione genomica, per la difesa immunitaria, per il trofismo della cute, delle mucose e degli epiteli chemosensoriali, ed assieme al rame, è essenziale per il funzionamento della Cu2+/Zn2+-superossido-dismutasi18. Il fabbisogno alimentare di zinco, pari
18
Ridotta, incidentalmente, nella malattia di Parkinson, ove sono stati descritti importanti disturbi olfattivi e anche gustativi.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
nell’adulto a 15 mg al giorno, è normalmente soddisfatto dalla comune alimentazione basata su cereali, legumi, noci, latticini, carne e pesce, ma può aumentare in gravidanza, o l’apporto diventare insufficiente per cause alimentari, malassorbimento o patologia sistemica grave. Lo zinco, infine è cruciale per la conduzione di una normale gravidanza e per un corretto sviluppo fetale, e successivamente, per un normale sviluppo infantile (Prasad, 1996).
avanzata oltre 30 anni fa (Henkin e Bradley, 1970) poco prima della descrizione di un’allora nuova «sindrome di ipogeusia idiopatica con disgeusia, iposmia e disosmia» (Henkin et al., 1971), si è rafforzata via via fino ad oggi, anche per merito di una progressiva serie di ricerche effettuate dagli stessi e da altri Autori.
L’ipotesi di un cruciale coinvolgimento dello zinco nella funzione gustativa ed anche olfattiva,
In sintesi, è stato dimostrato che il 3% delle proteine secrete nella saliva dalla parotide è rappresentato dalla
Tabella 7.6 – Principali cause di alterazione del gusto *. 1. - Cause non neurologiche
2. - Cause neurologiche
1. Fumo di tabacco (specie sigaro, pipa)
1. Periferiche Lesioni del V – nervo linguale Interventi odontostomatologici e maxillo-facciali Intubazione tracheale Poliradicoloneuropatia di Guillain Barré Neuropatie sensitive Lesioni gasseriane (terapia della nevralgia del trigemino) Lesioni del VII intermediario – corda del timpano Paralisi di Bell Traumi facio-cervicali Aneurisma dissecante carotide interna extracranica Neoplasie Lesioni IX-(X) (foro lacero posteriore) Tumori (neoplasie, iperplasie linfonodali) Traumi
2. Patologia infettiva del cavo orale e prime vie aeree Virale (Adeno, rino ed influenza-virus; Herpes simplex) Batterica (sialoadeniti) Fungina (candidiasi orale) 3. Patologia salivatoria Sindrome di Sjögren (“sicca syndrome”) Sclerodermia Fibrosi cistica Radioterapia 4. Farmaci (oltre 250), ma soprattutto: ACE-inibitori, ipocolesterolemizzanti orali, antistaminici, D-penicillamina, inibitori dell’anidrasi carbonica (Diamox), imidazolici ed imidazolinici (metimazolo, carbimazolo, metronidazolo, zopiclone), captopril, calcio-antagonisti, psicofarmaci, chinoloni, macrolidi 5. Patologia tossico-carenziale Malnutrizione e celiachia Insufficienza renale ed epatica Ipovitaminosi A e B Deficit di zinco e di ferro Cachessia neoplastica 6. Patologia endocrinologica Iper– o ipocorticosurrenalismo Panipopituitarismo Ipotiroidismo Pseudoipoparatiroidismo Diabete mellito 7. Patologia psichiatrica Depressione Schizofrenia * modificata da Sanchez-Juan e Combarros, 2001.
2. Centrali Troncoencefaliche Lesioni vascolari Sclerosi multipla Malattia di Parkinson Talamiche Neoplasie Sclerosi multipla Lesioni vascolari Corticali Sclerosi temporale mesiale (in associazione ad epilessia) Lesioni vascolari Neoplasie 3. A topografía indeterminata Traumi cranici maggiori Neuropatia sensitivo- autonomica ereditaria tipo III (sindrome di Riley-Day)
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali “gustina”, Zn2+-metalloproteina di 37 kD corrispondente all’isoforma VI dell’anidrasi carbonica (CAVI-gustina), capace di attivare una fosfodiesterasi Ca2+-calmodulino-dipendente (Thatcher et al., 1998) e probabilmente anche fattore trofico per la mucosa neuro-epiteliale. Infatti, in malati con sindrome influenzale complicata con ipogeusia, disgeusia, iposmia e disosmia, è stata osservata una riduzione dei tassi di Zn2+ urinari, ematici e salivari associata ad una riduzione dei tassi salivari di CAVI-gustina e ad evidenti segni di danno morfostrutturale dei calici gustativi delle papille circumvallate (Henkin et al., 1999a). Il fatto che l’insieme dei disturbi sensoriali e delle alterazioni biochimico-strutturali migliorasse in oltre il 70% dei malati dopo trattamento per 4-6 mesi con 100 mg/pro die (in dosi refratte ripetute) di sali di zinco (solfato), ha indotto a concludere che lo zinco attiva l’espressione genica (e probabilmente l’attività specifica e la secrezione) di CAVI-gustina nella saliva, e che essa è fondamentale per il processo di rinnovamento del neuroepitelio gustativo attivando i precursori staminali basali. Le mancate risposte terapeutiche possono dipendere o da una zinco-resistenza, o da un’inattivazione della CAVI-gustina da eccessiva sialilazione dell’enzima (Henkin et al., 1999b).
Supporto all’ipotesi di un deficit di zinco/ CAVI-gustina quale principale causa (o via finale comune) di ipo-disgeusie ed ipo- disosmie di varia natura deriva anche dall’evidenza che la profilassi o la terapia con zinco è efficace nel migliorare o prevenire l’ipo- disgeusia da psicofarmaci (Stoll e Oepen, 1994) o da irradiazione del capo e del collo (Ripamonti et al., 1998), e che il trattamento con zinco riduce i sintomi neurosensoriali deficitari e la durata del comune raffreddore, come è risultato da una revisione critica di numerosi studi randomizzati effettuati a questo riguardo (Marshall, 1998). 2. –L’ipo-ageusia da cause neurologiche si manifesta con ipo-ageusia localizzata ad un’emilingua, o a porzioni di lingua, salvo alcune eccezioni (contusioni cerebrali bilaterali, neuropatie sensitive). Il seguente semplice schema illustra gli elementi di base che servono per una diagnosi di sede lesionale (Tab. 7.7). DISGEUSIE E PARAGEUSIE. –Indicano rispettivamente distorsioni delle sensazioni gustative evo-
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cate dai normali cibi, il cui sapore è percepito come sgradevole (fino alla cacogeusia), e percezioni abnormi di sapori strani ed inusuali, non evocati da alcun stimolo e spesso a carattere accessuale. Il disturbo è di solito percepito se sufficientemente intenso o bilaterale. La disgeusia, come l’ipogeusia, può dipendere innanzi tutto dal fumo (specie di tabacchi forti da sigaro o pipa) e da cause locali odontostomatologiche, ad esempio infiammazioni acute e croniche del cavo orale e le otturazioni o protesi di differenti metalli (con produzione di effetti galvanici). Altre cause da ricercare sono l’eccessivo uso locale di disinfettanti ad azione ossidante (acqua ossigenata, soluzioni iodate, clorexidina, sbiancanti dello smalto), l’uso topico di sostanze ad azione antisettica tannante (antrachinonici, sali di argento e, paradossalmente, anche di zinco) e l’assunzione di certi farmaci (Tab. 7.6). Quadri di dominante disgeusia, spesso associata a disosmia, possono insorgere nell’età avanzata, apparentemente senza causa, oppure accompagnarsi a quadri depressivi o psicotici, ove diventa pressoché impossibile stabilire se il disturbo in realtà non dipenda dal trattamento psicofarmacologico, spesso già da tempo in atto, o anche dall’età e dalle abitudini alimentari. A scanso di errori, in ognuna di queste situazioni l’ipotesi carenziale ipovitaminosica o da deficit di zinco (più sopra descritta) dovrebbe essere seriamente considerata, ed eventualmente provata una terapia integrativa con zinco solfato per un adeguato periodo di tempo. Ipo- disgeusia causata da un aneurisma dissecante della carotide interna extracranica con effetto massa è stata descritta isolatamente (3% dei casi, per interessamento della corda del timpano) o in associazione a deficit unilaterale di uno o più nervi cranici (17% dei casi) (Mokri et al., 1996): tali sintomi, associati (83% dei casi) o meno che siano ad emicrania omolaterale, hanno un importante valore patognomonico predittivo, sollecitando una dirimente esplorazione eco-doppler dei vari tronchi sovra-aortici.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 7.7 – Diagnosi di sede nell’ageusia da lesioni neurologiche focali. Ageusia localizzata a:
Territorio d’innervazione
Strutture lese
emilingua
nervi VII-(V)-IX
Tronco (bulbo-ponte dorsale): nucleo del tratto solitario* Talamo: VPM mediale Corteccia: area opercolo-insulare
due terzi anteriori
nervi VII–(V)
Nervo intermedio-facciale (VII) Ganglio genicolato Corda del timpano N. linguale (V)
terzo posteriore
nervo IX
Nervo glossofaringeo (IX) Ganglio petroso
* La possibilità di una lesione isolata e selettiva del nucleo del tratto solitario è da alcuni messa in discussione (Victor, 2001).
Le parageusie sono quasi sempre di natura epilettica, quasi mai hanno un contenuto percettivo piacevole, ed esprimono l’attivazione parossistica focale delle aree corticali gustative primarie o secondarie. ALLUCINAZIONI GUSTATIVE. Corrispondono a percezioni gustative altamente realistiche prive d’oggetto, e possono rappresentare sia un sintomo psichico positivo nelle forme di schizofrenia produttiva, sia un sintomo epilettico da interessamento di aree associative, qualora la loro insorgenza sia repentina e la loro durata breve. In questo caso, valgono le stesse considerazioni già esposte a proposito delle allucinazioni olfattive (v. pag. 201).
Neuroftalmologia E. Favale La neuroftalmologia studia le alterazioni della funzione visiva e della motilità oculare (intrinseca ed estrinseca) di interesse neurologico.
Vie ottiche Dati anatomici Il nervo ottico (così come il nervo olfattivo) deve essere considerato come una estroflessione cerebrale, poiché la retina è in realtà una evaginazione dell’emisfero cerebrale, sviluppata nella vita fetale dalla vescicola ottica. La retina infatti è formata da cellule nervose, divise in dieci strati (Fig. 7.10). Le cellule sensoriali sono rappresentate dai coni e dai bastoncelli: i primi si trovano isolati nella fovea e predominano sui secondi nella restante parte della macula lutea, mentre in tutta la superficie retinica circostante sono più numerosi i bastoncelli. La macula lutea è la zona di maggior acuità visiva mentre la papilla ottica, priva di organi sensoriali, non ha capacità visive e si esprime nel campo visivo come una macchia cieca. I dendriti delle cellule bipolari dello strato nucleare interno (VI strato), diretti verso l’esterno, entrano in connessione sinaptica con i recettori visivi, i coni e i bastoncelli. Gli assoni delle cellule bipolari, diretti centralmente, entrano in connessione sinaptica con le cellule gangliari dell’VIII strato, i cui assoni a loro volta, dopo avere attraversato lo strato fibrillare della
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
Fig. 7.10 - Struttura della retina. 1: epitelio pigmentato; 2: coni e bastoncelli; 3: membrana limitante esterna; 4: strato dei granuli esterni; 5: strato plessiforme esterno; 6: strato dei granuli interni con a, b, e, cellule bipolari; 7: strato plessiforme interno; 8: strato delle cellule ganglionari (g, h, i); 9: strato delle fibre ottiche (con cellule di Muller); 10: membrana limitante interna. Le frecce indicano la direzione seguita dall’impulso nervoso.
retina, perforano la sclerotica a livello della papilla ottica e costituiscono il nervo ottico. LE VIE OTTICHE.– Dalle cellule gangliari retiniche nasce quindi la via ottica che attraverso il nervo ottico, il chiasma, il tratto ottico, il corpo genicolato laterale e le radiazioni ottiche raggiunge la corteccia striata del lobo occipitale (Fig. 7.11). Il nervo ottico che corre posteriormente attraverso l’orbita, ed entra nella cavità cranica attraverso il forame ottico ove, a circa 1 cm di distanza dal bulbo, è accompagnato, sulla sua superficie superiore, dall’a. oftalmica, e si unisce quindi al n. ottico controlaterale formando il chiasma ottico. Il chiasma ottico, situato dorsalmente alla sella turcica, è costituito dall’unione dei due nervi ottici, e dà origine ai due tratti ottici.
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Fig. 7.11 - Schema del decorso delle vie ottiche.
La superficie dorsale contrae rapporto con il pavimento del terzo ventricolo, la superficie ventrale con la tenda dell’ipofisi e il solco chiasmatico. Il margine anteriore si trova sulla tenda dell’ipofisi e sul solco chiasmatico, mentre il margine posteriore prende contatto con il peduncolo ipofisario. Lateralmente il chiasma contrae rapporti con le due arterie carotidi interne, che decorrono appunto lungo i due margini laterali e con le due cerebrali anteriori, che spesso si curvano a gomito sulla superficie superiore del chiasma o passano al di sopra dei due nervi ottici e sono collegate fra loro dalla comunicante anteriore (Fig. 7.12).
Il tratto ottico collega il chiasma con il corpo genicolato laterale. Alcuni gruppi di fibre, come vedremo (v. pag. 216), non entrano nel corpo genicolato, ma raggiungono il collicolo superiore e il tetto mesencefalico attraverso il braccio quadrigemino superiore e costituiscono la base anatomica per l’estrinsecazione del riflesso pupillare.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.12 - Relazioni anatomiche del chiasma ottico con l’arteria carotide interna.
Il corpo genicolato laterale, di forma ovoidale, situato ventrolateralmente al pulvinar è formato da strati alternati di sostanza grigia e bianca e costituisce, col corpo genicolato mediale, il metatalamo. Il corpo genicolato laterale rappresenta la stazione finale per le fibre del tratto ottico e costituisce pertanto un centro visivo primario. Le radiazioni ottiche, o fascio genicolatocalcarino, si estendono dal corpo genicolato laterale alla corteccia occipitale (area striata o area 17), stazione di arrivo del sistema ottico che occupa il labbro superiore ed il labbro inferiore della scissura calcarina. Lungo tutto il sistema ottico e cioè retina, chiasma, tratto ottico, corpo genicolato laterale, radiazioni ottiche, corteccia striata, esiste una localizzazione punto a punto, per cui una determinata, anche piccola porzione retinica, possiede in tutto il sistema una localizzazione precisa e determinata (Fig. 7.13). Come vedremo, la metà nasale della retina vede la metà temporale del campo visivo e, viceversa, la metà temporale della retina vede la metà nasale del campo visivo. Nel nervo ottico le fibre di provenienza retinica, già a breve distanza dal globo oculare, si dispongono in vari fasci ben distinti da un pun-
to di vista funzionale: il fascio papillo-maculare, proveniente dalla macula, occupa la porzione centrale del nervo, il fascio temporale proveniente dalla metà temporale della retina, si dispone nella porzione laterale, ed il fascio nasale, proveniente dalla metà nasale della retina, è collocato nella porzione mediale del nervo. Le fibre provenienti dai quadranti inferiori della retina sono situate inferiormente, quelle provenienti dai quadranti retinici superiori superiormente. In corrispondenza dell’angolo anteriore del chiasma le fibre provenienti dalla metà temporale della retina si portano nella porzione laterale del tratto ottico omolaterale senza incrociarsi, mentre le fibre provenienti dalla metà nasale della retina si incrociano nel corpo del chiasma formando un’ampia ansa e quindi si portano nella porzione mediale del tratto ottico controlaterale. La porzione di retina situata in corrispondenza del polo posteriore dell’occhio è altamente differenziata poichè fornisce l’acuità visiva più elevata: quest’area, di colore giallo all’oftalmoscopio, è la macchia lutea o area maculare. Ha la dimensione della papilla ottica e il suo centro, o fovea centrale, si trova circa a tre diametri dalla papilla, temporalmente. Le fibre nervose che originano dalle cellule gangliari della macula costituiscono il fascio papillo-maculare. Le fibre papillo-maculari occupanti la parte centrale del nervo ottico, si dividono a loro volta in due gruppi: le temporali che si portano nel tratto ottico omolaterale senza subire incrociamento, e le nasali che si portano nel tratto ottico controlaterale, incrociando la linea mediana nella porzione più posteriore e dorsale del chiasma. Le fibre maculari sembrano pertanto formare un «chiasma nel chiasma», situato appunto posteriormente, nel contesto del chiasma ottico. Nel chiasma si incrociano anche le fibre per il riflesso fotomotore, che poi si continuano nei tratti ottici controlaterali.
Ogni tratto ottico, che origina dall’angolo posteriore del chiasma, risulta così costituito da fibre provenienti dalla metà temporale della retina dello stesso lato e dalla metà nasale della
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.13 - Le vie ottiche: schema della modalità di distribuzione delle fibre ottiche dalla retina alla corteccia striata.
retina del lato opposto, la cui destinazione è suddivisa come segue: a) il contingente numericamente e funzionalmente più importante che termina nel nucleo
genicolato laterale, da dove la via prosegue con le radiazioni ottiche sino all’area striata; b) un secondo contingente che salta il genicolato laterale e termina nel collicolo superiore;
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
c) un terzo contingente che, così come il precedente, salta il genicolato laterale e termina nella regione pretettale del mesencefalo. La disposizione delle fibre di provenienza retinica presenta alcune particolarità a livello del corpo genicolato laterale. Infatti, nel processo di sviluppo dei centri visivi, il corpo genicolato laterale ha subito una rotazione di 90 gradi. Per questo motivo, mentre in tutto il sistema ottico le fibre retiniche dorsali o superiori hanno posizione dorsale e quelle ventrali o inferiori posizione ventrale, nel corpo genicolato laterale le fibre retiniche provenienti dalle porzioni superiori hanno posizione mediale e quelle provenienti dalle porzioni ventrali o inferiori si trovano lateralmente. Anche la localizzazione delle fibre maculari è ben definita (Fig. 7.13). Le radiazioni ottiche comprendono tre fasci principali: i fasci dorsale e laterale che attraversano i lobi parietale e temporale e il fascio ventrale che circonda il corno temporale del ventricolo laterale. La disposizione delle fibre nelle radiazioni ottiche permette di distinguere una porzione centrale, che contiene le fibre maculari, una porzione superiore che rappresenta i quadranti superiori della retina, e una porzione inferiore che rappresenta i quadranti inferiori della retina. A livello della corteccia striata (area visiva primaria o area 17) esiste una somatotopia ben definita: nella metà anteriore del labbro superiore della scissura calcarina di ciascun lato terminano le fibre provenienti dai quadranti retinici superiori, nella metà anteriore del labbro inferiore terminano le fibre provenienti dai quadranti retinici inferiori. Una precisa somatotopia esiste anche per i contigenti di fibre maculari: alla metà posteriore del labbro superiore terminano le fibre maculari provenienti dai quadranti superiori, mentre nella metà posteriore del labbro inferiore terminano le fibre provenienti dai quadranti inferiori. Conviene infine ricordare che nell’area striata si verifica la fusione delle afferenze delle emiretine omologhe.
La scissura calcarina inizia ventralmente allo splenio del corpo calloso e si estende lungo tutta la superficie mediale del lobo occipitale, ove separa la circonvoluzione del cuneo da quella del lobulo linguale. La scissura calcarina comprende una porzione rostrale, che si dirige verso l’alto fino ad incontrare la scissura parieto-occipitale, e una porzione posteriore che raggiunge il polo occipitale e talora si estende anche sulla superficie dorso-laterale del lobo occipitale. La struttura dell’area striata è brevemente indicata a pag. 214, 543.
In sintesi, l’emicampo visivo sinistro di ciascun occhio è rappresentato nel corpo genicolato destro e nella corteccia visiva del lobo occipitale destro; la metà superiore del campo visivo è rappresentata nella porzione laterale del corpo genicolato e nel labbro inferiore della scissura calcarina (l’opposto vale rispettivamente per l’emicampo visivo destro e per la metà inferiore del campo visivo). Oltre alle vie di collegamento tra la retina e l’area striata vanno ricordati: a) il collicolo superiore, posto sul tetto del mesencefalo, caratterizzato da una struttura laminata che riceve, oltre alle proiezioni retiniche, afferenze somatiche ed acustiche. Invia proiezioni ascendenti al pulvinar, alle aree prestriate (aree 18 e 19) e ai campi oculomotori frontali (aree 8, 6 e 4), e proiezioni discendenti alle strutture oculomotrici del tronco; b) la regione pretettale, posta alla giunzione tra mesencefalo e talamo, che riceve fibre retiniche ed è connessa con i centri della motilità oculare (III nervo cranico ed ipotalamo); invia inoltre proiezioni ai nuclei vestibolari. Sul piano operativo si possono identificare tre sistemi funzionali con diverse attribuzioni: a) il sistema genicolo-striato deputato alla discriminazione cosciente della realtà visiva (“che cosa sto guardando?”). Possiede, come già indicato, una precisa organizzazione topografica, che si mantiene dalla retina alla corteccia striata, dove la realtà visiva è analizzata in parallelo da colonne cellulari che esplorano separatamente l’orientamento direzionale degli stimoli, il movimento dello stimolo, il colore, e prov-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
vedono a fondere le afferenze dei due occhi consentendo di percepire la profondità di campo; b) il sistema collicolo-peristriato (o secondo sistema visivo), deputato al rilevamento di eventi improvvisi e alla scelta degli stimoli cui il sistema genicolo-striato deve dare priorità di analisi (“dove devo guardare?”). Controlla anche i movimenti oculari in risposta a stimoli sensoriali e, dopo lesioni del sistema striato, è in grado di localizzare in maniera incosciente la posizione di stimoli apparsi nel campo visivo cieco; c) la regione pretettale deputata alla regolazione riflessa del calibro della pupilla e alla stabilizzazione degli occhi, allorché il capo compie movimenti uniformi. SOMMARIO
SULLA VASCOLARIZZAZIONE DELLE VIE OTTI-
CHE.– Il nervo ottico, nella sua porzione orbitale è irrorato
dall’arteria oftalmica, ramo della carotide interna; nelle altre porzioni (intracanalicolare e intracranica) riceve piccoli rami dalla carotide interna ed anche dalla cerebrale anteriore e comunicante anteriore. Il chiasma è irrorato da rami della carotide interna e della comunicante anteriore e, talora, della corioidea anteriore, della comunicante posteriore e della cerebrale media. Il tratto ottico riceve rami arteriosi dall’arteria corioidea anteriore. Il corpo genicolato laterale riceve rami arteriosi dall’arteria corioidea anteriore nella porzione laterale, e dall’arteria corioidea posteriore (ramo della cerebrale posteriore) nella porzione mediale. Le radiazioni ottiche sono irrorate dall’arteria cerebrale media e, nella porzione ventrale, dalla cerebrale posteriore. L’area striata è vascolarizzata da rami della cerebrale posteriore. Va ricordato, inoltre, che alcuni rami della cerebrale media, a livello della convessità dorsale occipitale, raggiungono l’area striata costituendo così un potenziale circolo collaterale.
Esame della funzione visiva Devono essere esaminate l’acutezza visiva, il campo visivo, e, a mezzo dell’oftalmoscopio, la papilla ottica e la superficie retinica. Tutti questi dati vengono rilevati con maggior precisione e completezza dall’oftalmologo, ma anche il
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neurologo deve essere in grado di riconoscere alcuni aspetti di particolare rilevanza neurologica.
Esame dell’acuità visiva Viene usualmente esaminata per mezzo delle tavole internazionali decimali, costituite da 10 serie di lettere di grandezza decrescente. Queste tavole (ottotipi) permettono di valutare l’acutezza visiva per la visione a distanza. Le tavole, poste ad una distanza fissa di 5 metri, sono calcolate in modo tale che la grandezza del carattere più piccolo corrisponda ad una acutezza visiva V = 10/10, mentre il carattere più grande a V = 1/ 10; i caratteri intermedi corrispondono a una differenza di acuità visiva pari a un decimo. Se un soggetto per leggere il primo rigo (V = 1/10) deve avvicinarsi a m 2,50, avrà V = 1/20; in linea generale vale la formula V = d/D, cioè l’acutezza visiva è data dal rapporto fra la distanza (d) alla quale viene effettivamente riconosciuta una lettera e la distanza (D) a cui dovrebbe essere riconosciuta da un occhio normale. Per mezzo di tavole adatte, è possibile valutare anche l’acuità visiva per vicino. Una diminuzione dell’acuità visiva può essere causata da: 1) errori di rifrazione (miopia, ipermetropia, astigmatismo, cheratocono); 2) opacità dell’apparato ottico (cicatrici corneali, cataratta, ecc.); 3) difetti dell’apparato di percezione (dalla retina alla corteccia visiva).
Esame del campo visivo (perimetria o campimetria) A fini pratici si definisce Campo Visivo (CV) quella porzione di spazio esterno percepito dalla retina di un occhio immobile in posizione primaria. Le dimensioni del CV monoculare espresse in ampiezza angolare sono pari rispettivamente a 60° verso l’alto (limite imposto dall’arcata sopracigliare), 70° verso il basso (li-
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mite imposto dal margine orbitario inferiore), 60° internamente (limite imposto dal naso), 90° esternamente (lo spazio più libero da ostacoli, la cui ampiezza si avvicina a quella del CV assoluto) (Fig 7.14). L’estensione del CV binoculare sul piano orizzontale è di circa 30° più ampia del campo visivo monoculare ma la sua esplorazione non presenta alcun interesse diagnostico. I limiti assoluti del campo visivo monoculare vengono determinati utilizzando uno stimolo luminoso sovramassimale e la sua forma (proiettata su un apposito diagramma) appare grossolanamente ovalare (Fig. 7.14). La sensibilità luminosa della retina aumenta progressivamente dalla periferia al centro del CV. Tale aumento è espresso efficacemente dalla cosiddetta isola della visione, consistente in una rappresentazione tridimensionale del CV, che appare come un cono la cui base corrisponde alla estensione massima dello spazio percepito dalla retina e la cui altezza esprime il progressivo aumento della sensibilità luminosa man mano che dalla periferia, ove la sensibilità luminosa è minima, ci si avvicina alla vetta dell’isola (che corrisponde alla fovea, o punto
Fig. 7.14 - Limiti assoluti del campo visivo di un occhio destro. La macchia cieca è situata tra i 10 e i 15°.
di fissazione), ove la sensibilità è massima (Fig. 7.15A). La superficie laterale dell’isola riproduce plasticamente il degradare della sensibilità dal centro alla periferia esterna del CV. Le linee di uguale altitudine della mappa dell’isola, infine, corrispondono ai profili delle zone di uguale sensibilità della retina, o isoptere (v. oltre). Nella routine clinica tradizionale l’esame del campo visivo si basa sulla determinazione della sensibilità retinica alla luce in un numero di punti sufficientemente rappresentativo: l’unione di tutti i punti della retina aventi la stessa sensibilità consente di tracciare linee chiuse concentriche dette isoptere. A circa 15° di distanza dalla vetta (dal lato temporale) dell’isola della visione, è riconoscibile una sorta di “pozzo” che dalla superficie dell’isola scende fino al livello del “mare della cecità” (Fig. 7.15A): esso corrisponde alla papilla ottica e viene definito macchia cieca (la papilla, infatti, è priva di recettori). La posizione della macchia cieca è rappresentata nella figura 7.16 come una chiazza nera. La ricerca di eventuali difetti del CV è essenziale ai fini della localizzazione di una lesione delle vie ottiche. La determinazione del campo visivo si fonda su: a) la misurazione della sensibilità luminosa della retina in un numero sufficientemente rappresentativo di punti; b) la quantificazione del grado di perdita di sensibilità nei punti eventualmente difettosi; c) la rappresentazione su apposito diagramma del grado di sensibilità luminosa di ogni punto esaminato. Prima dell’avvento delle neuroimmagini lo studio del CV era uno strumento insostituibile nella diagnostica strumentale delle lesioni delle vie ottiche posteriori (chiasmatiche e retrochiasmatiche). L’introduzione della perimetria computerizzata (vedi oltre), peraltro, ha ridato significato allo studio del CV nella diagnostica delle lesioni delle vie ottiche anteriori (retina e nervo ottico). Le procedure per la determinazione del CV secondo il metodo tradizionale possono essere più o meno sofisticate. Al limite l’esame del CV
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.15 - A) Rappresentazione altimetrica dell’isola della visione di Traquair. B) Perimetria statica con il profilo del meridiano orizzontale che passa per la fovea e la macchia cieca.
po’ essere eseguito anche manualmente al letto del malato, paragonando il CV del paziente a quello dell’esaminatore. In particolare esaminatore e paziente devono porsi uno di fronte all’altro a circa 1 metro di distanza, tenendo un occhio chiuso e fissandosi nell’occhio corrispondente. A questo punto l’esaminatore avvicina la mano a metà strada tre sé ed il malato e la sposta dalla periferia al centro del CV lungo un adeguato numero di meridiani, avendo preventivamente chiesto al soggetto di segnalare immediatamente il momento in cui percepisce lo stimolo. Un metodo ancora più grossolano consiste nel chiedere al paziente di contare le dita dell’esaminatore nei quattro quadranti del CV oppure, più semplicemente, di paragonare la nitidezza delle dita o di un oggetto rosso presentati simultaneamente nei quadranti nasali e temporali, sia superiori che inferiori.
Laddove sia possibile esaminare il paziente in un luogo opportunamente attrezzato si utilizzerà, invece, un campimetro vero e proprio. In termini generali la perimetria (o campimetria) può essere: – statica, quando studia la sensibilità allo stimolo luminoso di punti ben determinati della retina. Il parametro variabile è la luminanza dello stimolo; – cinetica, quando studia la sensibilità alla luce dei vari punti del CV, rilevata mentre la mira che ha luminanza e dimensioni note si sposta dalla periferia verso il centro (Fig. 7.16). Prima dell’avvento della perimetria computerizzata l’esaminatore si limitava a riportare su un apposito diagramma le linee di isosensibilità (o isoptere) tracciate dal perimetrista utilizzando mire di luminosità variabile la cui comparsa doveva essere segnalata dal soggetto, essendo
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l’occhio fisso su un punto centrale. A questo scopo, per molto tempo è stato usato il campimetro di Goldmann consistente in una calotta emisferica a luminosità controllata sulla quale sono proiettate mire di grandezza e luminosità graduabili; il soggetto fissa una mira centrale. Spostando le mire dalla periferia al centro si costruisce la campimetria classica o dinamica (Fig. 7.16) con l’isoptera periferica ed almeno 3 isoptere centrali. Viceversa, mantenendo ferma la mira ed aumentando progressivamente la luminosità si costruisce un profilo di sensibilità o campimetria statica; l’esame viene effettuato lungo il meridiano orizzontale che passa per la fovea e la macchia cieca (Fig. 7.15 B) e il profilo ottenuto è paragonabile ad una sezione altimetrica dell’isola della visione di Traquair. Nei casi in cui l’interesse diagnostico prevalente riguardi le parti più centrali del CV (fino a 20-25° dal centro), si preferisce utilizzare lo schermo di Bjerrum, superficie piana che consente di esplorare la zona centrale del campo e di realizzare così una mappa dettagliata di eventuali difetti centrali. La campimetria manuale è stata per molto tempo la procedura di gran lunga dominante, anche perché la sua interpretazione era piutto-
sto agevole; bastava infatti una rapida ispezione del tracciato per stabilire se le isoptere avevano o meno ampiezza e morfologia normali sempre che l’esame, completamente gestito dall’esaminatore, fosse tecnicamente attendibile. Con l’avvento della perimetria computerizzata i ruoli si sono invertiti, nel senso che l’esame è gestito dal computer ed al perimetrista spetta esclusivamente il compito di scegliere di volta in volta il programma di esame più adatto ed interpretare correttamente la grande mole di dati grafici, simbolici e numerici che compaiono sul tracciato perimetrico che, contrariamente alla perimetria manuale, va oltre la capacità di comprensione del medico profano. Senza entrare in eccessivi particolari basti ricordare che la perimetria computerizzata (o automatica) è così chiamata in quanto la gestione dei parametri di stimolazione è controllata automaticamente da un calcolatore elettronico. Ogni programma comprende tre componenti: la strategia, il pattern e la rappresentazione dei risultati. La strategia è il procedimento seguito dal programma per la determinazione della soglia; il pattern è la griglia dei punti che il programma intende esplorare (ovvero il loro numero e la loro distribuzione); la rappresentazione
Fig. 7.16 - Campo visivo normale al peimetro di Goldmann (occhio destro e occhio sinistro).
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è la modalità di registrazione dei dati sotto forma di mappe, tracciati o altre forme grafiche. La perimetria computerizzata presenta diversi vantaggi rispetto alla perimetria tradizionale effettuata con il campimetro di Goldmann che, fino al 1980, è stato considerato lo strumento di riferimento in tutto il mondo. Fra i vantaggi della perimetria automatica va ricordata anzitutto la migliore verifica della collaborazione del paziente grazie al controllo automatico della fissazione (essenziale ai fini della corretta esecuzione dell’esame). Senza contare che, grazie al collegamento con il computer, è possibile archiviare i dati ed effettuare analisi statistiche ed epidemiologihe; è possibile inoltre effettuare un confronto automatico fra risposte fornite nel corso dello stesso esame o di esami successivi. I limiti della metodica possono risiedere nella lunga durata della procedura che può affaticare eccessivamente il paziente. L’altro svantaggio è la mancanza di standardizzazione tra i vari strumenti, donde la difficoltà di confronto fra esami ottenuti con perimetri diversi (es: l’Octopus rispetto all’Hunphrey), ovviata solo parzialmente da programmi e tavole di conversione, che peraltro possono risentire anche di variazioni individuali legate al diametro pupillare, alla trasparenza dei mezzi diottrici e ad altri fattori. Per tutti questi motivi, considerato che i malati neurologici sono spesso incapaci di collaborare adeguatamente ad un esame campimetrico particolarmente minuzioso, molti ritengono che sia ancora giustificato fare ricorso al perimetro di Goldmann. I difetti campimetrici sono fondamentalmente di due tipi: gli scotomi e le emianopsie.
soluti), oppure come un’area vista in bianco e nero (scotomi relativi), o ancora come un’area di abbagliamento (scotomi scintillanti), tipici dell’aura emicranica. Topograficamente lo scotoma può essere: • centrale se occupa la porzione centrale del campo visivo e provoca una riduzione del visus; compare nella patologia della regione maculare e nelle lesioni del nervo ottico che interessano il fascio maculopapillare; • paracentrale se occupa le immediate vicinanza della regione centrale ed è dovuto a patologie della retina perimaculare; un tipo particolare di scotoma paracentrale è dato dall’ingrandimento della macchia cieca, che compare nell’edema della papilla ottica; • centrocecale se occupa la regione centrale inglobando nell’area difettuale la macchia cieca, di solito ingrandita: è tipico delle lesioni infiammatorie o ischemiche della testa del nervo ottico, che ledono il fascio maculopapillare e rendono edematosa la papilla ottica; • periferico se occupa una zona periferica, di solito a causa di patologie focali della retina; • concentrico se il campo visivo appare concentricamente ristretto; è tipico della retinopatia pigmentosa; • altitudinale se occupa la metà superiore o inferiore del campo visivo, rispetto al meridiano orizzontale che passa per la fovea: è di solito monoculare, per occlusione dei rami inferiori o superiori dell’arteria centrale della retina; talora è bilaterale (ed allora più propriamente può essere definito emianopsia altitudinale) e dipende da compressioni estese del chiasma o da lesioni bilaterali della corteccia striata limitate alle zone sovrastanti o sottostanti la scissura calcarina.
Scotomi ed emianopsie
Le emianopsie sono difetti del campo visivo unilaterali o bilaterali, dovuti a lesioni chiasmatiche o retrochiasmatiche. Il difetto campimetrico le cui caratteristiche variano a seconda che la lesione interessi il chiasma, il tratto ottico, il corpo genicolato laterale, le radiazioni ottiche o l’area striata, interessa metà del campo visi-
Gli scotomi possono essere definiti difetti del campo visivo, di cui il paziente si rende conto solo quando interessano la regione maculare o quando diventano molto estesi. Possono essere percepiti come una macchia nera (scotomi as-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
vo per lo più di entrambi gli occhi. Il difetto può essere eteronimo (in genere indicativo di una lesione chiasmatica, vedi oltre), cioè interessare le due metà temporali (emianopsie bitemporali) o le due metà nasali (emianopsie binasali) del campo visivo; oppure omonimo, cioè riguardare le due porzioni di destra o di sinistra (emianopsie laterali, in genere indicative di una lesione retrochiasmatica, vedi oltre) del campo visivo. Più rare sono le emianopsie altitudinali (vedi oltre) in cui il difetto visivo riguarda la metà superiore o inferiore di entrambi i campi visivi. Il difetto può essere completo cioè occupare interamente due emicampi, o incompleto ed occuparne solo una porzione. La quadrantopsia o emianopsia quadrantica è un difetto incompleto che riguarda quadranti omonimi o eteronimi dei due occhi. Infine un difetto incompleto può essere congruo, cioè simmetrico nei due occhi, oppure incongruo, cioè più esteso in uno dei due occhi.
Esame oftalmoscopico È di importanza fondamentale per evidenziare un edema della papilla ottica, un’atrofia ottica e, in genere, alterazioni della retina e dei vasi arteriosi e venosi. L’esame viene eseguito con un oftalmoscopio, ed è bene che, per una visione panoramica del fondo, sia stata dilatata farmacologicamente la pupilla. Attualmente esistono sostanze (omatropina 1 %, tropamide 0,5 %, fenilefrina 10 %) che agiscono rapidamente e che causano midriasi e disturbi dell’accomodazione soltanto per poche ore. L’uso di queste sostanze dovrebbe essere evitato in pazienti affetti da glaucoma ad angolo chiuso. Per l’esame della papilla ottica il p. deve guardare all’infinito; per l’esame della macula verso la luce dello strumento. Gli eventuali difetti del visus dell’esaminatore possono essere corretti dalle lenti dell’oftalmoscopio.
Durante l’esame del fundus bisognerà osservare, per i semplici fini neurologici: 1) IL COLORE DELLA PAPILLA OTTICA: normalmente rosa pallido o giallo chiaro, diventa grigio o bianco-madreperlaceo nell’atrofia, rosso o grigio-rossastro nell’edema. 2) I MARGINI DELLA PAPILLA OTTICA: sono ben definiti, ma quello nasale può essere fisiologicamente un po’ sfumato; è fortemente sfumato o addirittura non riconoscibile nella papilla da stasi. 3) STATO DELLA SUPERFICIE PAPILLARE: normalmente è pianeggiante o più o meno ombelicato al centro (escavazione fisiologica della papilla, che talora può essere molto accentuata). L’escavazione può accentuarsi nel glaucoma, o al contrario la papilla può essere sporgente (edema della papilla) nelle neuriti ottiche bulbari o nella stasi papillare (papilla da stasi). 4) STATO DEI VASI: si deve osservare se esiste vasocostrizione oppure vasodilatazione. È importante il confronto fra il calibro delle vene equello dell arterie (normalmente in rapporto è di 3 a 2) poichè una dilatazione, o una tortuosità, delle vene può essere espressione di stasi iniziale. Osservare anche se è presente il fenomeno dell’incrocio arterovenoso (segno di GunnSalus o schiacciamento delle vene nel punto d’incrocio con le arterie). 5) PERIFERIA DEL FONDO OCULARE: oltre ai caratteri della papilla ottica, l’esame oftalmoscopico può dimostrare: emorragie peripapillari e periarteriose; depositi di colesterina; segni di retinopatia diabetica e albuminurica; tubercoli coroideali; calcificazioni toxoplasmosiche e vari altri aspetti. Importanza notevole assume l’osservazione dei vasi arteriosi per la diagnosi di retinopatia ipertensiva. Le alterazioni osservabili sono: presenza di riflessi (bianco, dorato, rameico), tortuosità dei vasi, a volte a cavaturac-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
ciolo, restringimento e sclerosi dei vasi, fenomeni di incrocio artero-venoso, essudato cotonoso ed emorragie retiniche.
Patologia della retina Esiste una vasta gamma di malattie neurologiche (oltre ad alcune malattie internistiche suscettibili di complicanze neurologiche come, ad esempio, l’ipertensione arteriosa ed il diabete) che possono manifestarsi con sintomi (riduzione dell’acuità visiva) o segni (difetti campimetrici e/o particolari alterazioni del fondo dell’occhio) di sofferenza della retina. Per quanto concerne le retinopatie dovute a patologie internistiche, possibilmente responsabili di complicanze neurologiche, meritano particolare menzione: – la retinopatia ipertensiva, classicamente suddivisa in quattro stadi evolutivi: a) restringimento diffuso delle arterie; b) restringimenti focali con irregolarità di calibro; c) comparsa di essudati ed emorragie; d) edema della papilla; – la retinopatia diabetica, caratterizzata da tortuosità dei vasi arteriosi, dilatazioni focali dei capillari, che appaiono come punti rossi (microaneurismi), emorragie retiniche e preretiniche anche di grosse dimensioni, essudati cerei di aspetto puntuto o a fiocco di cotone, più abbondanti nella regione maculare. Sia nella forma ipertensiva che nella forma diabetica la riduzione dell’acuità visiva è legata alla patologia maculare. Le patologie più strettamente neurologiche associate a compromissione della retina comprendono anzitutto le amaurosi transitorie che possono coinvolgere in parte o in toto il campo visivo di un occhio a causa di una stenosi emboligena della carotide (comune o interna) e, meno spesso, in occasione di una crisi di emicrania retinica, per cui si rinvia ai rispettivi capitoli (v. pag. 000 e pag. 000). Esiste poi una serie di malattie neurologiche di tipo:
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– metabolico (es.: Adrenoleucodistrofia), – mitocondriale (es.: Sindrome di KearnsSayre), – neurocutaneo (es.: Sclerosi Tuberosa), – degenerativo (es.: Atassie cerebellari), che possono associarsi a retinopatia pigmentosa o degenerazione maculare (con tipico reperto di macula “rosso ciliegia”), che costituiscono altrettante cause di riduzione cronica dell’acuità visiva. Anche a questo proposito il lettore è rinviato ai rispettivi capitoli. In termini generali si può affermare che le patologie precedentemente elencate si accompagnano a difetti campimetrici polimorfi (uni o bilaterali), scotoma centrale, restringimento concentrico del campo visivo o, addirittura, ad una cecità totale. Abitualmente si ritiene che la diagnosi di queste alterazioni retiniche sia relativamente agevole, in quanto esse sono direttamente osservabili con l’oftalmoscopio. In realtà la valutazione di questi quadri richiede una particolare competenza oftalmologica o, meglio ancora, neuroftalmologica, per cui è sempre opportuno rivolgersi a centri diagnostici specializzati.
Patologia del nervo ottico Una neuropatia ottica determina riduzione dell’acuità visiva e della visione dei colori, difetti del campo visivo che interessano quasi sempre la visione centrale (ovvero uno scotoma centrale) o addirittura una cecità completa. Coesistono quasi sempre alterazioni della papilla ottica, a meno che non si tratti di una neurite retrobulbare in fase iniziale (vedi oltre). Le neuropatie ottiche possono essere unilaterali (es.: la neuropatia ottica ischemica) o bilaterali (es.: le neuropatie ottiche tossiche e carenziali); in particolare si distinguono: neuropatie demielinizzanti, ischemiche, parainfettive, tossiche, carenziali, eredofamiliari, compressive.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
La papilla da stasi non rappresenta una neuropatia ottica in senso stretto ma più semplicemente un edema passivo della papilla (quasi sempre bilaterale) secondario ad uno stato di ipertensione endocranica di qualsivoglia origine (tumorale o non tumorale). In effetti, a differenza di tutte le altre malattie del nervo ottico, la papilla da stasi non si associa a riduzione dell’acuità visiva per cui, in presenza di una papilla edematosa accompagnata a diminuzione del visus si deve pensare non già ad un edema passivo, bensì ad una papillite da neurite ottica bulbare o ad una neuropatia da infarto della testa del nervo ottico (o neuropatia ottica ischemica anteriore). Solo in caso di papilla da stasi di vecchia data, quando subentra una atrofia ottica secondaria (vedi oltre), si possono manifestare difetti visivi eventualmente culminanti in una cecità completa. Le neuropatie ottiche di interesse prevalentemente neurologico comprendono: a) la neurite ottica, b) la neuropatia ischemica anteriore, c) le neuropatie carenziali, d) le neuropatie tossiche, e) le neuropatie eredofamiliari , f) le neuropatie compressive. Un paragrafo a parte sarà dedicato al concetto di atrofia ottica “primaria” e “secondaria”. A. NEURITE OTTICA. – È caratterizzata da una rapida diminuzione dell’acuità visiva uni o, più raramente bilaterale (contemporaneamente o, più spesso, in tempi successivi), che colpisce soprattutto gli adolescenti ed i giovani adulti e può condurre nel giro di pochi giorni (o addirittura di ore) alla cecità completa. Questa sintomatologia è determinata da una demielinizzazione del nervo ottico, la cui causa più comune (almeno per quanto concerne la forma retrobulbare) è costituita dalla sclerosi multipla. I casi di neurite ottica che non sfociano in questa malattia neanche a distanza di 15 o 20 anni, sarebbero dovuti ad una patologia demielinizzante post-infettiva. Gli stretti rapporti patogenetici tra neurite ottica e sclerosi multipla sono documentati dal fatto che:
a) circa il 50 % dei pazienti colpiti da neurite ottica sviluppa una sclerosi multipla nel giro di 5 anni; b) in circa il 15 % dei pazienti affetti da sclerosi multipla è possibile accertare che la malattia esordisce con una neurite ottica retrobulbare. Per ulteriori particolari si rimanda al capitolo sulla sclerosi multipla (v. pag. 000). Il possibile ruolo eziologico di processi morbosi a carico dei seni paranasali è stato, con gli anni, notevolmente ridimensionato; e, comunque, il relativo meccanismo patogenetico non è stato ancora chiarito. Infine i casi di “neurite ottica” tradizionalmente attribuiti a cause tossiche saranno trattati separatamente. Nei casi più gravi l’esito anatomico di una neurite ottica è rappresentato da una cicatrice gliale più o meno estesa. In oltre i 2/3 dei casi, tuttavia, si verifica un recupero completo della funzione visiva. Tale recupero può avvenire spontaneamente o, meglio ancora, dopo somministrazione endovenosa di alte dosi di corticosteroidi. La via orale, al contrario, favorirebbe le ricadute che, peraltro, possono verificarsi anche senza apparenti motivi. All’esame oftalmoscopico la papilla ottica può apparire perfettamente normale (se il nervo è stato colpito nel suo segmento retrobulbare) oppure, più raramente, presentarsi edematosa (se è stata colpita la testa del nervo): a seconda del caso si parla rispettivamente di neurite ottica retrobulbare oppure di neurite ottica bulbare o papillite. Il differente aspetto oftalmoscopico dipende dal fatto che nella forma bulbare si verifica una compromissione contemporanea del nervo e dei vasi, mentre nella forma retrobulbare sia la papilla che la retina restano normalmente vascolarizzate e, pertanto, il fondo dell’occhio può apparire normale, anche per molto tempo. Dopo un periodo di tempo alquanto variabile la forma retrobulbare si accompagna ad un pallore della metà temporale della papilla (ove penetra il fascio maculo-papillare) mentre nella forma bulbare si instaura spesso una atrofia ottica secondaria (v. pag. 228).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
In entrambi casi il fascio maculo-papillare è precocemente compromesso per cui, oltre alla diminuzione del visus, è possibile apprezzare la presenza di uno scotoma centrale. Durante la fase acuta, inoltre, il paziente può accusare un dolore alla compressione del bulbo oculare e durante i movimenti dell’occhio. Il riflesso pupillare alla luce, infine, appare diminuito. Il liquor può risultare normale oppure dimostrare una pleiocitosi linfocitaria (da 10 a 100 elementi), oltre ad un aumento delle proteine totali e delle gammagobuline, con presenza di bande oligoclonali. B. NEUROPATIA OTTICA ISCHEMICA ANTERIORE. – Negli ultracinquantenni l’infarto della testa del nervo ottico viene considerata la causa principale di perdita monoculare della vista a carattere persistente. Il deficit visivo può insorgere in maniera subitanea oppure nel giro di pochi giorni. In circa 1/3 dei casi (specie se si tratta di soggetti ipotesi o diabetici) anche l’altro occhio può essere colpito in un secondo tempo. Abitualmente non vengono riportati sintomi premonitori o episodi di amaurosi transitoria. La neuropatia ottica ischemica può essere provocata da aterosclerosi (ed essere scatenata da uno stato di shock) oppure da un processo vasculitico (in primis l’arterite temporale a cellule giganti o malattia di Horton). In ogni caso l’esame oftalmoscopico rivela un edema della papilla, con piccole emorragie a fiamma, che evolve in una atrofia ottica nel giro di 4-8 settimane. La diagnosi differenziale rispetto alla neurite ottica bulbare si basa sull’età (invariabilmente più avanzata), sulla mancanza di dolore e sul difetto campimetrico (classicamente di tipo altitudinale). Solo le forme vasculitiche sono suscettibili di un trattamento terapeutico (somministrazione prolungata di corticosteroidi). Per completezza va ricordato che, oltre alla neuropatia ischemica anteriore (bulbare) esiste anche una neuropatia ischemica posteriore (retrobulbare), generalmente su base vasculitica.
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C. NEUROPATIE OTTICHE CARENZIALI. – Sono caratterizzate da una compromissione bilaterale dell’acuità visiva con scotoma centrale o centro-cecale. Insorgono prevalentemente negli alcoolisti cronici a causa della malnutrizione (molto comune in questi soggetti) e traggono beneficio dalla somministrazione di vitamine del gruppo B, oltre che da un apporto calorico adeguato. Le probabilità di successo di questo trattamento dipendono soprattutto dalla sua tempestività. Infatti, se l’intervento è tardivo, residueranno difetti irreversibili della visione centrale in ambedue gli occhi, unitamente ad un pallore temporale delle papille ottiche. Poiché molto spesso questi soggetti sono anche forti fumatori, si usa parlare di ambliopia “alcool-tabagica” benché in realtà si tratti di una neuropatia ottica nutrizionale. In effetti quadri clinici del tutto analoghi possono verificarsi in soggetti globalmente denutriti o carenti di vitamina B12, non necessariamente dediti all’alcool o al fumo. Per completezza va ricordato inoltre che molti testi includono erroneamente tuttora le neuropatie ottiche carenziali tra le neuriti ottiche. D. NEUROPATIE OTTICHE TOSSICHE. – Così come le neuropatie carenziali, anche le neuropatie tossiche si manifestano con un difetto bilaterale dell’acuità visiva associato ad una atrofia ottica primaria (v. pag. 228). Un quadro particolarmente drammatico, tristemente noto anche in Italia, può essere causato dall’intossicazione da alcool metilico o metanolo, in cui la compromissione dell’acuità visiva si sviluppa in maniera improvvisa ed è sostenuta da estesi scotomi centrali bilaterali. Un quadro analogo, ad evoluzione subacuta, può verificarsi, non solo per cause tossiche, ma anche per somministrazione prolungata (a scopo terapeutico) di farmaci come l’isoniazide, il cloramfenicolo, l’etambutolo, la streptomicina, la clorpropamide, la clorochina, il clioquinol oltre a vari prodotti ergotaminici.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
E. NEUROPATIE OTTICHE EREDOFAMILAIRI. – L’esempio più emblematico è costituito dalla neuropatia ottica ereditaria di Leber, una malattia eredofamiliare che provoca degenerazione degli assoni e della mielina del nervo ottico. Si sviluppa preferenzialmente nei maschi, nella seconda e terza decade di vita, con un deficit visivo ad esordio subacuto che conduce, nel giro di pochi mesi, ad una grave riduzione bilaterale dell’acuità visiva che appare soprattutto compromessa a livello centrale, mentre la porzione più periferica può essere risparmiata, almeno parzialmente. L’esame oftalmoscopico rivela una atrofia ottica primaria. Un quadro del tutto simile alla neuropatia ottica di Leber può manifestarsi in associazione con una serie di malattie degenerative “classiche”, tipo la malattia di Friedreich, di Pierre Marie, di CharcotMarie-Tooth. Per ulteriori notizie in merito si rinvia ai relativi capitoli. F. NEUROPATIE OTTICHE COMPRESSIVE. – Sono causate da svariati tipi di tumori (gliomi, meningiomi, craniofaringiomi, metastasi) che, esercitando una azione compressiva sul nervo ottico (e, quasi sempre anche sul chiasma) possono produrre difetti campimetrici tipo scotomi unitamente ad atrofia ottica. In altri casi (sarcoidosi, granulomatosi di Wegener, leucemie, linfomi) l’effetto della lesione sul nervo ottico è duplice (compressivo ed infiltrativo). Un caso del tutto particolare è rappresentato dalla sindrome di Foster-Kennedy, caratterizzata dalla associazione di una atrofia ottica primaria (vedi oltre) in un occhio con papilla da stasi dal lato opposto. Questa sindrome viene attribuita all’effetto della compressione diretta da parte del tumore sul nervo ottico ipsilaterale e della ipertensione endocranica associata sul nervo ottico controlaterale. Ciò non toglie che reperti oftalmoscopici del tutto analoghi si verifichino in associazione con neuriti ottiche o con neuropatie ottiche ischemiche, laddove la sofferenza del nervo si sviluppi bilateralmente ma in tempi successivi.
Prima di concludere conviene ricordare che a) la neurite ottica (A) rappresenta la neuropatia ottica di gran lunga più importante sul piano pratico, almeno dal punto di vista neurologico; b) l’eventualità per cui le altre neuropatie ottiche appena elencate (B, C, D, E e F) possano mimare una neurite ottica è improbabile ma non impossibile (Martinelli, Bianchi Marzoli, 2001); ne consegue che c) nei casi in cui i dubbi persistano nonostante i vari approfondimenti diagnostici, è indispensabile seguire l’evoluzione della sintomatologia anche per lunghi periodi, in considerazione della diversa portata delle rispettive implicazioni prognostiche. ATROFIA OTTICA. – La degenerazione degli assoni del nervo ottico determina oltre ad un quadro clinico caratterizzato da una riduzione ingravescente dell’acuità visiva (talora sino alla cecità), un progressivo sbiancamento della papilla ottica con alcune peculiarità del reperto oftalmoscopico che consentono di distinguere due forme di atrofia ottica: l’atrofia ottica primaria e l’atrofia ottica secondaria. L’atrofia ottica primaria può essere legata a patologie che agiscono sulla porzione retrobulbare degli assoni (come nella neurite ottica retrobulbare), oppure svilupparsi “primitivamente” (come nella malattia di Leber). In ambedue i casi la papilla appare pallida e presenta un aspetto madreperlaceo. Inoltre l’escavazione fisiologica della papilla risulta più ampia ed i margini si caratterizzano per l’estrema nettezza. I vasi arteriosi sono assottigliati ed i vasellini che irrorano la papilla appaiono meno numerosi. Se la degenerazione assonale è limitata al fascio maculo-papillare (come spesso accade nella neurite ottica retrobulbare), l’atrofia è circoscritta alla metà temporale del nervo ottico, ove transita il contingente di fibre proveniente dalla macula. Questo dato oftalmoscopico, peraltro, deve essere sempre valutato con cautela , in quanto la porzione temporale della papilla è normalmente più pallida di quella nasale. L’atrofia ottica secondaria è classicamente considerata l’esito di un edema papillare prolungato, quale che sia la sua origine (infiammatoria, ischemica o da stasi). In tutti questi casi la papilla è pallida e presenta una tonalità grigiastra. Inoltre, l’escavazione fisiologica risulta obliterata ed i margini della papilla appaiono mal delimitati rispetto alla retina circostante.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Patologia delle vie ottiche chiasmatiche e retro-chiasmatiche
solitamente asimmetrica), atrofia ottica e riduzione del riflesso pupillare alla luce.
Lesione del chiasma. – È tipicamente caratterizzata da una emianopsia eteronima. La varietà di gran lunga più frequente è l’emianopsia bitemporale, abitualmente dovuta ad un adenoma ipofisario. Altre possibili cause di emianopsia bitemporale sono rappresentate da lesioni espansive soprasellari o parasellari tipo meningiomi o craniofaringiomi. Il difetto campimetrico bitemporale, dovuto ad interruzione delle fibre provenienti dalle metà nasali delle retine, ben difficilmente appare simmetrico. In certi casi, inoltre, il difetto campimetrico può insorgere unilateralmente (emianopsia temporale unilaterale), per poi estendersi anche al lato opposto. Molto meno frequente è l’emianopsia eteronima binasale dovuta all’interessamento delle fibre provenienti dalle metà temporali delle retine, che decorrono (senza incrociarsi) nelle porzioni laterali del chiasma. A differenza di quanto accade per le emianopsie eteronime temporali in cui la varietà bilaterale è più frequente di quella unilaterale, nelle emianopsie nasali la forma unilaterale è più comune di quella bilaterale. Quest’ultima può essere causata da aneurismi bilaterali della carotide, da infarti chiasmatici o anche da lesioni demielinizzanti (neurite ottico-chiasmatica). Premesso che: a) le fibre provenienti dai quadranti nasali inferiori delle retine decorrono nella porzione ventrale del chiasma, a differenza delle fibre provenienti dai quadranti nasali superiori che decorrono nella porzione dorsale; b) le compressioni chiasmatiche dal basso sono molto più frequenti delle compressioni dall’alto; si può correttamente affermare che nelle emianopsie bitemporali i difetti altitudinali superiori, peraltro infrequenti, sono più comuni dei difetti altitudinali inferiori. Ancora va ricordato che, oltre al difetto campimetrico, le lesioni del chiasma provocano caduta dell’acuità visiva (uni o bilaterale,
Lesione del tratto ottico. – Una lesione delle vie ottiche retrochiasmatiche determina un difetto emianoptico interessante, per ciascun occhio, l’emicampo visivo controlaterale alla lesione (emianopsia laterale omonima), con caratteristiche in molti casi peculiari a seconda della sede della lesione. Una lesione della banderella ottica determina una emianopsia laterale omonima, che si differenzia da quella per lesioni genicolate e sopragenicolate per il fatto di essere incongrua, per l’assenza del riflesso pupillare emianoptico di Wernicke e per la conservazione del nistagmo optocinetico (Fig. 7.17). Si tratta per lo più di patologie tumorali, più rare le sindromi demielinizzanti. Lesione del corpo genicolato laterale. – Assai rare in forma isolata, producono emianopsie a quadrante (lesione genicolata mediale destra = emianopsia a quadrante inferiore sinistra; lesione genicolata laterale destra = emianopsia a quadrante superiore sinistra) (Fig. 7.17). Le cause più frequenti sono l’occlusione dell’arteria cerebrale posteriore e i tumori. Lesione delle radiazioni ottiche. – Se la lesione è limitata si possono anche osservare emianopsie quadrantiche e precisamente: a quadrante superiore, per lesioni temporali (interessamento del fascio ventrale delle radiazioni ottiche, che si porta al labbro inferiore della scissura calcarina); a quadrante inferiore, per lesioni parietali (fascio dorsale, che si porta al labbro superiore). Si può osservare anche, per lesioni più vaste, una emianopsia laterale omonima completa, con visione maculare risparmiata (Fig. 7.17). Gli infarti ed i processi espansivi del lobo temporale e parietale sono le patologie più frequenti. Lesione dell’area striata. – La lesione dell’intera area visiva primaria (area 17) di un lato,
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Fig. 7.17 - Alterazione del campo visivo in rapporto alla sede di lesione lungo le vie ottiche.
dà luogo ad una emianopsia laterale omonima controlaterale interessante anche la visione maculare; se la metà più prossima al polo occipitale è risparmiata, la visione maculare è conservata anche nel campo emianoptico. Se la lesione interessa soltanto il labbro superiore od inferiore della scissura calcarina di un lato si osserva una emianopsia a quadrante controlaterale, rispettivamente inferiore o superiore.
L’emianopsia laterale omonima, da lesione dell’area visiva, presenta alcune caratteristiche che la differenziano da quella dovuta a lesione delle radiazioni ottiche (Fig. 7.17). Nelle lesioni situate in prossimità del polo occipitale può essere infatti conservato un certo grado di visione periferica e risparmiata la visione maculare. Il risparmio della visione maculare è stato attribuito a vari meccanismi: a) rappresentazione corticale della macula molto
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
estesa e bilaterale; b) vascolarizzazione dell’area di proiezione maculare proveniente da due sorgenti arteriose; c) possibilità che una zona dell’area striata risparmiata assuma funzioni maculari (pseudo-macula). Se la lesione è situata nelle porzioni anteriori dell’area visiva si osserva una precoce compromissione della visione dei colori (emiacromatopsia). Una lesione bilaterale del labbro superiore della scissura calcarina dà luogo ad una emianopsia altitudinale o orizzontale della metà inferiore dei campi visivi, mentre una lesione bilaterale del labbro inferiore della scissura calcarina dà luogo a una emianopsia altitudinale orizzontale della metà superiore dei campi visivi. Ciò può verificarsi per infarti bilaterali nel territorio della arteria cerebrale posteriore, ma è opportuno ricordare che la causa più frequente di emianopsia altitudinale (monoculare) è la neuropatia ottica ischemica. Una lesione bilaterale della porzione più anteriore dell’area striata dà luogo ad emianopsia doppia con risparmio bilaterale della visione maculare (visione a cannocchiale); un quadro analogo si può osservare tuttavia anche per lesione bilaterale delle radiazioni ottiche, per il possibile risparmio delle fibre maculari che, nel portarsi al polo occipitale, decorrono più superficialmente. Una lesione che interessi bilateralmente la corteccia striata determina una cecità completa detta «cecità corticale», caratterizzata da integrità dell’apparato oculare, conservazione del riflesso fotomotore, assenza del nistagmo optocinetico. Si può concludere che: a) le lesioni prechiasmatiche causano difetti visivi in un solo occhio; b) le lesioni chiasmatiche, in genere, causano difetti eteronimi del campo visivo bilateralmente; c) le lesioni retrochiasmatiche causano difetti dell’emicampo visivo controlaterale di tipo omonimo in entrambi gli occhi, congruo o incongruo.
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Da un punto di vista pratico conviene sottolineare, inoltre, che: – le emianopsie omonime sono di gran lunga più frequenti di quelle eteronime, ma la loro ricerca potrebbe essere superflua (o tecnicamente impossibile) per la coesistenza di altri segni di sofferenza cerebrale; – tra le emianopsie eteronime quelle bitemporali sono assai più frequenti delle binasali; – la ricerca di una emianopsia eteronima è essenziale ogni qual volta si sospetti la presenza di una lesione sellare o iuxtasellare. In ogni caso è indubbio che una emianopsia, sia essa omonima o eteronima, indica sempre l’esistenza di una lesione intracranica.
Motilità oculare Concetti generali I movimenti di ciascun globo oculare sono affidati a sei muscoli (retto laterale, retto mediale, retto superiore, retto inferiore, obliquo superiore, obliquo inferiore) innervati da tre nervi cranici (III, IV e VI). È opportuno sottolineare che i muscoli oculomotori non possono essere contratti singolarmente in quanto l’azione di ciascun muscolo è inscindibilmente coordinata con quella di altri muscoli ad opera di sistemi oculomotori sopranucleari che saranno descritti successivamente. Ne consegue che il contributo dei singoli muscoli alla motilità dei globi oculari può essere extrapolato solo indirettamente sulla base della fenomenologia deficitaria collegata, caratterizzata fondamentalmente da a) deviazione del globo oculare nello sguardo diretto (strabismo paralitico), dovuta alla prevalenza del muscolo antagonista; b) limitazione (o addirittura abolizione) del movimento dell’occhio nella direzione del muscolo agonista; c) diplopia: a causa del disallineamento dei globi oculari, l’immagine di un oggetto cadrà in punti non corrispondenti della retina (nell’occhio
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sano l’immagine cade sulla fovea, mentre nell’occhio paretico l’immagine cade al di fuori della fovea) per cui, venendo a mancare la fusione delle immagini, l’oggetto apparirà sdoppiato. In tal caso, per attenuare la diplopia, il soggetto tende istintivamente a deviare il capo nella direzione di azione del muscolo paretico. Le due immagini possono essere situate su un piano orizzontale, verticale o obliquo. Se la diplopia è orizzontale i muscoli paretici possono essere solo due: il retto laterale o il retto mediale. Se la diplopia è verticale o obliqua è interessato almeno uno degli altri 4 muscoli. Si definisce immagine vera quella percepita dall’occhio sano e immagine falsa quella percepita dall’occhio paretico. L’immagine falsa si distingue dall’immagine vera in quanto, non essendo proiettata sulla fovea, presenta contorni meno nitidi. A volte il soggetto riferisce non già di vedere “doppio”, bensì di vedere “male” o “annebbiato”, in tale caso basterà chiedere al paziente di guardare l’immagine con un occhio alla volta per scoprire (se il soggetto non lo ha già fatto per conto proprio) la vera natura di tale annebbiamento. Come risulterà più chiaramente in seguito, la diplopia è un sintomo importante potenzialmente riferibile a svariate patologie. Un caso del tutto particolare è rappresentato dalla diplopia monoculare in cui, a differenza della diplopia binoculare di cui si è appena parlato, lo sdoppiamento dell’immagine persiste anche con la chiusura di un occhio. L’eventualità più frequente è rappresentata da un disturbo psicogeno, ma talora, specie in casi di patologia oculistica, è possibile che si realizzi una autentica diplopia monoculare. Ciò può avvenire per: a) alterazioni corneali (cheratocono), b) sublussazione del cristallino o cataratta combinata, c) corpo estraneo nel vitreo, d) oscillopsia monoculare (in caso di nistagmo). L’esame della motilità oculare si esegue invitando il soggetto a spostare volontariamente lo sguardo nelle diverse direzioni (movimenti saccadici) oppure a seguire una mira che si sposta nel campo visivo (movimenti di inseguimen-
to). Se il deficit del muscolo è completo, la prova di inseguimento di una mira permette di individuare il movimento oculare abolito e quindi di identificare il muscolo leso. Contestualmente il paziente accuserà diplopia che, peraltro, potrebbe essere riferita anche in assenza di un visibile disallineamento dei globi oculari. In tal caso, per individuare il muscolo paretico, potranno essere impiegate alcune particolari strategie. Esemplificando, laddove il paziente accusi diplopia nei movimenti orizzontali, in assenza di un evidente strabismo, sarà opportuno: 1) identificare la posizione di massima diplopia, assumendo che la distanza tra le due immagini (vera e falsa) è tanto maggiore quanto più viene impegnato il muscolo paretico, per cui, in caso di deficit del muscolo retto laterale di destra, la distanza tra le due immagini aumenta nello sguardo verso destra e diminuisce o si annulla nello sguardo verso sinistra: in tal caso si parla di diplopia omonima. Nella situazione speculare (deficit del retto mediale di destra) al contrario, la distanza tra le due immagini aumenta nello sguardo verso sinistra e diminuisce o si annulla nello sguardo verso destra: in questo caso si parla di diplopia eteronima. Riassumendo, a seconda che il lato dell’occhio paretico coincida o meno con quello della direzione dello sguardo in cui compare (o aumenta) la diplopia, si parla rispettivamente di diplopia omonima o di diplopia eteronima; 2) identificare l’occhio in cui ha origine l’immagine falsa (che deve essere ricercata nella posizione di massima diplopia) facendo chiudere alternativamente i due occhi. Esemplificando, qualora si tratti di un deficit del muscolo abduttore dell’occhio destro, la chiusura dell’occhio omolaterale determinerà la scomparsa dell’immagine indistinta, mentre la chiusura dell’altro occhio provocherà la scomparsa dell’immagine nitida. Per facilitare l’identificazione dell’immagine falsa (e quindi dell’occhio paretico), potrà essere utile porre un vetro rosso di fronte a uno dei due occhi.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
Riassumendo, dato un paziente diplopico in cui: a) la posizione degli occhi in cui la separazione delle immagini è maggiore nello sguardo laterale verso sinistra; b) chiudendo l’occhio destro scompare l’immagine nitida, mentre chiudendo l’occhio sinistro scompare l’immagine indistinta; si può ragionevolmente concludere che l’occhio paretico è il sinistro ed il muscolo deficitario il retto laterale sinistro. In caso di incertezza, converrà rivolgersi all’oftalmologo che utilizzerà particolari strategie, come la prova di Borsotti ed il test di Hess. I termini strabismo ed eterotropia sono sinonimi. Infatti si definisce eterotropia qualsiasi deviazione dell’asse visivo di un occhio dal punto di fissazione (exotropia, occhio deviato all’esterno; esotropia, all’interno; ipertropia, in alto; ipotropia, in basso). L’eterotropia può essere «paralitica» cioè causata da una lesione dei nervi oculomotori o dei muscoli oculari estrinseci, oppure «non paralitica» cioè dovuta ad alterazioni che interferiscono con la visione centrale di un occhio (errori di rifrazione, opacamento corneale, lesioni maculari, ecc.), definite usualmente eterotropie concomitanti. Nello strabismo non paralitico l’angolo di deviazione degli assi oculari si mantiene costante in tutte le direzioni dello sguardo (strabismo concomitante), mentre nello strabismo paralitico l’angolo varia, come abbiamo visto, a seconda della direzione dello sguardo; inoltre non vi è diplopia, in quanto il conflitto fra le due immagini viene risolto a livello corticale, con l’esclusione di un occhio; se la condizione non viene adeguatamente trattata si giunge alla perdita definitiva dell’acuità visiva di un occhio (ambliopia ex anopsia). L’occhio “escluso” mostra retina, papilla e riflessi pupillari normali, ma percepisce soltanto la luce. Il trattamento palliativo consiste nell’occlusione alternata di un occhio; quello definitivo nella correzione chirurgica. Conviene ricordare, infine, che la diplopia è caratteristica dei disturbi della motilità oculare “elementare” sia essa dovuta a lesioni dei muscoli o dei nervi oculomotori, mentre non si verifica nei disturbi della motilità oculare “co-
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niugata” da lesione dei sistemi oculomotori sopranucleari (vedi oltre). I muscoli oculomotori Come si è detto precedentemente, ciascun occhio è fornito di 4 muscoli retti e di 2 muscoli obliqui (Fig. 7.18), le cui rispettive azioni sono schematizzate nella figura (Fig. 7.19). Le azioni dei muscoli oculomotori si possono così sintetizzare: • il retto laterale ruota l’occhio orizzontalmente all’esterno • il retto mediale ruota l’occhio orizzontalmente all’interno • il retto superiore ruota in alto l’occhio abdotto • l’obliquo inferiore (o piccolo obliquo) ruota in alto l’occhio addotto • il retto inferiore ruota in basso l’occhio abdotto • l’obliquo superiore (o grande obliquo) ruota in basso l’occhio addotto. Nei movimenti dello sguardo un muscolo di un occhio agisce in modo sinergico con un muscolo dell’altro occhio, con cui forma una coppia di agonisti. In particolare:
Fig. 7.18 - Muscoli oculomotori: con l’eccezione dei muscoli retto laterale e obliquo superiore, sono tutti innervati dal III paio di nervi cranici.
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Fig. 7.19 - Rappresentazione schematica dell’azione dei singoli muscoli oculomotori.
– il retto laterale di un occhio ed il retto mediale dell’altro occhio agiscono in coppia nello sguardo orizzontale verso destra e verso sinistra; – la coppia per lo sguardo verso l’alto e lateralmente è costituita dal retto superiore di un occhio e dall’obliquo inferiore dell’altro occhio; – la coppia per lo sguardo verso il basso e lateralmente è formata dal retto inferiore di un occhio e dall’obliquo superiore dell’altro occhio. In altre parole, mentre i movimenti coniugati di lateralità sono affidati a 2 muscoli (uno per occhio), i movimenti coniugati di verticalità richiedono l’intervento di 4 muscoli (due per occhio), sia per lo sguardo verso l’alto che verso il basso.
bra, retto superiore, retto mediale, retto inferiore, obliquo inferiore (o piccolo obliquo). Con il III nervo decorrono anche le fibre parasimpatiche pupillocostrittrici, che originano dal nucleo di Edinger-Westphal e innervano lo sfintere dell’iride (Fig. 7.20, 7.21, 7.22, 7.23). Il IV nervo cranico (trocleare) prende origine da un nucleo mesencefalico, posto caudalmente a quello del III. Si porta in alto circondando la sostanza grigia centrale e si decussa con quello dell’altro lato nel tetto del mesencefalo, emergendo dietro ai collicoli inferiori. Si porta in avanti e, dopo aver circondato il mesencefalo, percorre lo spazio subaracnoideo della base, attraversa il seno cavernoso e penetra nell’orbita attraverso la fessura sfenoidale superiore. Innerva il muscolo obliquo superiore (o grande obliquo) (Fig. 7.23, 7.24).
I nervi oculomotori Il III nervo cranico (oculomotore comune) origina da un nucleo situato nel mesencefalo, sotto la sostanza grigia periacqueduttale, all’altezza del tubercolo quadrigemino superiore. Il nervo emerge dal mesencefalo nello spazio interpeduncolare, entra nel seno cavernoso (assieme al IV al VI e alla branca oftalmica del V) ed esce dal cranio attraverso la fessura sfenoidale superiore. Nella cavità orbitaria si distribuisce ai seguenti muscoli: elevatore della palpe-
Fig. 7.20 - Nucleo di origine del n. oculomotore comune (III paio).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.24 - Nucleo d’origine del n. trocleare (IV paio) nel mesencefalo. Fig. 7.21 - Rapporti del III paio con l’arteria cerebrale posteriore e l’arteria cerebellare superiore.
Il VI nervo cranico (abducente) origina da un nucleo situato nel ponte, in posizione paramediana, in prossimità del nucleo del VII. Emerge dal solco bulbo-pontino, risale lungo il clivus, scavalca l’apice della rocca ed entra nel seno cavernoso, da cui fuoriesce per penetrare nell’orbita attraverso la fessura sfenoidale superiore. Innerva il muscolo retto laterale (Fig. 7.25).
I Sistemi Oculomotori sopranucleari
Fig. 7.22 - Rapporti del III paio col legamento clino-petroso. 1: Nervo ottico; 2: carotide interna; 3: n. oculomotore (III paio); 4: n. trocleare (IV paio); 5: n. abducente (VI paio); 6: n. trigemino (V paio); 7: tenda dell’ipofisi; 8: legamento clinopetroso.
Fig. 7.23 - Rapporti tra le diverse strutture contenute nel seno cavernoso.
L’uomo utilizza movimenti oculari rapidi, chiamati saccadi, per portare una immagine sulla fovea, mentre per il suo mantenimento in
Fig. 7.25 - Nucleo d’origine del n. abducente (VI paio) e del facciale (VII paio) nel ponte.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
questa regione sfrutta un movimento lento detto di inseguimento. Considerato che l’immagine può muoversi obliquamente, orizzontalmente o verticalmente, gli occhi devono compiere movimenti simultanei nella sua stessa direzione che vengono chiamati movimenti coniugati o versioni. Se l’immagine inseguita si avvicina o si allontana, i relativi movimenti oculari non sono più coniugati e si chiamano vergenze. Oltre a mantenere fissa l’immagine foveale, i sistemi oculomotori sopranucleari devono provvedere a compensare le oscillazioni del tronco e della testa grazie al sistema vestibolare ed otticocinetico. SISTEMA SACCADICO Le saccadi sono movimenti veloci, sia volontari che involontari, diretti verso l’immagine di un oggetto visto alla periferia del campo visivo che suscita l’interesse dell’osservatore. La saccade consiste in un movimento di ampiezza appropriata, di velocità proporzionale a questa, con un tempo di latenza di circa 200 msec. Durante i movimenti saccadici la visione non subisce alcuna modificazione. Le saccadi possono essere evocate anche da stimoli non visivi quali ad esempio stimoli uditivi, il sonno (fase REM) e la stimolazione vestibolare (fase rapida del nistagmo). Non è noto quale sia il sistema di controllo dell’intensità e della durata delle saccadi. Tuttavia è certo che le saccadi verticali sono mediate da un generatore mesencefalico e quelle orizzontali da un generatore pontino (v. pag. 237). Esistono poi neuroni tonici, localizzati nella sostanza reticolare del ponte e del bulbo, che provvedono al mantenimento della posizione dell’occhio nell’orbita. Da ricordare inoltre, le cellule cosiddette di pausa site nel ponte che non scaricano durante la saccade. Le proiezioni corticali responsabili dei movimenti saccadici provengono dall’area 8 e raggiungono il generatore pontino controlaterale, per i movimenti dello sguardo verso il lato opposto; e quello mesencefalico per il movimenti verti-
cali, sia direttamente che tramite il collicolo superiore cui fanno capo anche gli impulsi afferenti responsabili dei movimenti saccadici riflessi. SISTEMA DI INSEGUIMENTO I movimenti oculari di inseguimento permettono il mantenimento di una immagine in movimento sulla fovea (riflesso di fissazione) e vengono programmati a livello delle aree corticali occipito-parietali 18 e 19 da cui partono impulsi diretti agli effettori (o generatori) comuni (v. pag. 545). I movimenti di inseguimento sono di origine riflessa e, a differenza dei movimenti saccadici, non possono seguire mire che si spostano con velocità superiore a 30° - 50° sec. SISTEMA DI VERGENZA I movimenti di vergenza permettono la stereopsi e, in un certo senso, prevengono la diplopia. Infatti, lo sfuocamento dell’immagine e la sua rappresentazione in punti retinici non corrispondenti (disparità retinica) determinano movimenti accomodativi e fusionali di vergenza. La vergenza accomodativa può essere indotta modificando la distanza di fissazione di una mira osservata con l’occhio controlaterale; quella fusionale ponendo un prisma davanti ad un occhio durante la osservazione binoculare di una mira fissa. Questi movimenti, volontari o riflessi, sono molto lenti (circa 10°/sec) e sono mediati, almeno in parte, dagli stessi neuroni motori preposti alle versioni. Gli impulsi responsabili delle vergenze partono dalle aree occipito-parietali e, tramite la formazione reticolare, raggiungono i motoneuroni dei retti mediali o dei retti laterali. SISTEMA VESTIBOLARE E OTTICOCINETICO Coordina la cooperazione tra i movimenti degli occhi e quelli della testa, grazie a riflessi cervico-oculari (collo-occhio), vestibolo-cervi-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
cali (testa-collo) e vestibolo-oculari (testa-occhio). Questi ultimi sono i più importanti e permettono la stabilizzazione della posizione degli occhi nello spazio durante la rotazione del capo, mantenendo la linea di fissazione costante. Il riflesso vestibolo-oculare è mediato dai canali semicircolari in modo che se è stimolato il canale anteriore è inibito quello posteriore e viceversa. Vi sono tre canali semicircolari: l’orizzontale, l’anteriore ed il posteriore. Ciascun canale stimola prevalentemente due muscoli extraoculari: quello orizzontale eccita il muscolo retto mediale omolaterale ed il retto laterale controlaterale; il canale anteriore sollecita il retto superiore omolaterale ed l’obliquo inferiore controlaterale; il canale posteriore stimola l’obliquo superiore omolaterale ed il sinergista controlaterale cioè il retto inferiore. I segnali provenienti dai canali semicircolari e dagli otoliti sono trasmessi ai nuclei vestibolari e da qui a) per i movimenti orizzontali al nucleo dell’oculomotore omolaterale ed attraverso il fascicolo longitudinale mediale al nucleo dell’abducente controlaterale; b) per i movimenti oculari verticali e torsionali ai nuclei del trocleare e dell’oculomotore omolaterali e sempre attraverso il fascicolo longitudinale mediale al nucleo dell’oculomotore controlaterale. Sia la stimolazione del sistema vestibolare che di quello ottico-cinetico determina l’insorgenza di un movimento oscillatorio involontario oculare caratterizzato da una fase lenta seguita da una fase rapida in direzione opposta, detto nistagmo. Quest’ultimo può essere orizzontale, verticale o torsionale, mono o binoculare e, a seconda dei casi, si definisce coniugato (se le fasi lente di ciascun occhio sono della stessa ampiezza e nella stessa direzione ) o dissociato (se le fasi lente hanno direzione e/o ampiezze differenti). In particolare se una persona, in cui il riflesso di fissazione sia stato inibito ponendole davanti agli occhi lenti che impediscono la visione distinta (occhiali di Frenzel), viene fatta sedere su una poltrona rotante, si osserverà la
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comparsa di un movimento compensatorio degli occhi della stessa velocità angolare della poltrona, ma in direzione opposta rispetto alla rotazione del capo, fino a quando la posizione diviene troppo eccentrica per cui si verificherà una scossa rapida nel senso della rotazione del capo tendente a riportare gli occhi in posizione primaria di sguardo. Questa sequenza di eventi corrisponde al nistagmo vestibolare in cui il movimento lento è di origine vestibolare e la scossa rapida è una saccade di origine corticale. Un mezzo per stimolare separatamente i due labirinti è rappresentato dall’irrigazione calorica. La fissazione visiva riduce o abolisce questa forma di nistagmo. Se invece si provoca il riflesso di fissazione in un soggetto normale con una successione di strisce chiare e scure in movimento (tamburo rotante), si evoca il cosiddetto nistagno optocinetico che potrà essere orizzontale o verticale, a seconda della direzione degli stimoli visivi. Un tipico esempio di nistagmo optocinetico orizzontale si può osservare in un individuo che guarda fuori dal finestrino di un treno in movimento: in tal caso gli occhi inseguono lentamente una mira fino a quando questa esce dal campo visivo per cui subentra un movimento compensatorio che riporta l’immagine sulla fovea, in modo che la sequenza possa riprendere. La ricerca del nistagmo optocinetico può essere utile a fini diagnostici. EFFETTORI (O GENERATORI) COMUNI I sistemi precedentemente descritti usufruiscono di effettori neuronali comuni situati nel ponte e nel mesencefalo bilateralmente. I neuroni che li compongono sono eccitatori o inibitori, ad azione fasica o tonica. I neuroni fasici scaricano durante i movimenti rapidi, mentre quelli tonici intervengono durante i movimenti lenti. Il generatore pontino (o nucleo parabducente) si trova accanto al nucleo dell’abducente, è connesso al nucleo del VI omolaterale e del III controlaterale, ed elabora i movimenti di sguardo
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
omolaterali attivando i motoneuroni del muscolo retto laterale omolaterale e del muscolo retto mediale controlaterale. Il generatore mesencefalico si trova nel nucleo interstiziale, è connesso bilateralmente con i nuclei del III e del IV e coordina i movimenti di verticalità attivando i motoneuroni dei muscoli retti verticali ed obliqui.
Le sindromi da lesione dei nervi oculomotori In termini generali, si può ritenere che data una popolazione di casi con lesione dei nervi oculomotori, nel 50% sia colpito il nervo oculomotore comune, nel 40% il nervo abducente, e solo nel 10% il nervo trocleare. Nervo oculomotore comune. - Se la paralisi è completa il paziente presenta: a) ptosi palpebrale (paralisi dell’elevatore), b) strabismo divergente (exotropia) per paresi del retto mediale e prevalenza del retto laterale, innervato dal VI, c) difetto di rotazione dell’occhio verso l’interno, l’alto e il basso (per la paresi del retto mediale, retto superiore, obliquo inferiore e retto inferiore), d) diplopia orizzontale nella posizione primaria dello sguardo, che diventa massima nello sguardo orizzontale verso il lato opposto, campo d’azione del retto mediale paretico (diplopia eteronima), e) midriasi fissa omolaterale, per paralisi del parasimpatico pupillo-costrittore. Le cause più importanti di paralisi dell’oculomotore comune sono: – oftalmoplegia diabetica (con frequente risparmio della componente intrinseca); – lesioni nucleari: infarti, malattie demielinizzanti, tumori (metastatici); – lesioni delle fibre intraparenchimali: infarti (sindromi alterne mesencefaliche) e, raramente, tumori; – lesioni a livello interpeduncolare: aneurismi, traumi, meningiti, emorragie subaracnoidee; – lesioni a livello del seno cavernoso: aneurismi, tumori (meningiomi, tumori extrasellari, metastasi);
– lesioni a livello dell’orbita: traumi, tumori. Poiché la miastenia (talora anche la miopatia distiroidea) possono mimare vari tipi di paresi oculari, il test al Tensilon (v. pag. 0000) e i tests di funzionalità tiroidea devono essere eseguiti in tutti i pazienti con pupille normali.
Nervo trocleare. - La paralisi del IV è caratterizzata dai seguenti disturbi: a) inclinazione compensatoria della testa verso il lato opposto rispetto all’occhio affetto, b) slivellamento dei globi oculari sul piano orizzontale con lieve elevazione di quello affetto (prevalenza dell’obliquo inferiore, con rotazione dell’occhio in alto all’interno), c) difetto di rotazione dell’occhio in basso e all’esterno, d) diplopia verticale massima nello sguardo in basso e verso il lato opposto al muscolo paretico. Le paresi isolate del IV paio sono meno frequenti delle paresi degli altri nervi oculomotori. Le cause più comuni sono: – traumi cranici (la paresi può essere bilaterale); – diabete (specie negli anziani); – infarti mesencefalici; – patologia del seno cavernoso e/o fessura orbitale superiore; – patologia orbitale; Anche in questo caso, poiché la miastenia (talora anche la miopatia distiroidea) possono presentarsi con paresi oculari di vario tipo, il test al Tensilon (v. pag. 000) e i tests di funzionalità tiroidea devono essere eseguiti nei soggetti con paresi del IV paio.
Nervo abducente. - La paralisi del VI si manifesta con i seguenti disturbi: a) strabismo convergente (esotropia), per paresi del retto laterale e prevalenza del retto mediale b) difetto di rotazione dell’occhio verso l’esterno, sul piano orizzontale, c) diplopia orizzontale, che diventa massima nello sguardo diretto verso il lato dell’occhio affetto (diplopia omonima). Le cause più comuni di una paralisi del VI paio sono: – diabete; – sindrome da ipertensione endocranica;
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali – sindromi pontine (infarto, tumore, malattie demielinizzanti) e, meno frequentemente, sindromi dell’angolo ponto-cerebellare; – sindromi da lesione della fossa media (tumori); – sindromi del seno cavernoso e della fessura orbitale superiore; – sindromi del clivus (tumori nasofaringei). Anche per la paralisi del VI, la miastenia e la miopatia distiroidea devono essere prese in considerazione, eventualmente con esecuzione del test al Tensilon (v. pag. 000) e dei tests di funzionalità tiroidea.
Riassumendo, le cause della paralisi dei nervi oculomotori sono molto numerose e possono essere localizzate in varie sedi: • a livello del tronco encefalico, ove i nuclei oculomotori e/o il tratto intrassiale del nervo possono essere colpiti da tumori, infiammazioni, infarti. Spesso esiste una emiplegia controlaterale (sindromi alterne di Weber o di MillardGubler); • davanti al tronco, ove i nervi possono essere interessati da tumori, aneurismi della basilare, meningiti croniche della base (sarcoidosi, carcinomatosi); • nel seno cavernoso e nella fessura sfenoidale superiore, ove le lesioni più comuni sono i tumori e gli aneurismi. Conviene ricordare, infine, che nelle persone anziane, paralisi isolate di nervi oculomotori (soprattutto del III) sono spesso causate da ischemia dei tronchi nervosi, su base aterosclerotica o diabetica. Queste forme sono abitualmente benigne.
Le sindromi da paralisi combinate dei muscoli oculomotori Possono dipendere sia da patologie dei nervi che da patologie dei muscoli. FORME NEUROGENE Le paralisi combinate dei nervi oculomotori sono quasi sempre unilaterali e sono causate da
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lesioni non diverse da quelle che possono dare paralisi isolate. Il quadro clinico comprende segni di paralisi dei muscoli innervati dai tre nervi oculomotori, con o senza interessamento della pupilla. L’oftalmoplegia può associarsi a difetto visivo per lesione del nervo ottico (lesioni orbitarie o della fessura sfenoidale), ad esoftalmo, a disturbi nel territorio della branca oftalmica del V. Se l’oftalmoplegia si associa a dolore dentro o attorno all’occhio, si parla di “oftalmoplegia dolorosa”, una sindrome che riconosce svariate eziologie. La Sindrome di Tolosa-Hunt è una varietà di oftalmoplegia dolorosa , che esordisce in modo acuto, tende a regredire spontaneamente o con terapia cortisonica, ma può recidivare omo- o controlateralmente. È sostenuta da un processo infiammatorio granulomatoso non specifico, localizzato nel seno cavernoso e nell’avventizia della carotide. Se lo stesso processo si localizza nell’orbita, si realizza il cosiddetto “pseudotumor orbitae” con oftalmoplegia dolorosa ed esoftalmo marcato. FORME MIOGENE Miopatia distiroidea. - È la causa più comune di diplopia cronica nell’età media e senile. L’ipertiroidismo produce alterazioni dei muscoli extraoculari, che vanno incontro a retrazione fibrotica: ne consegue una limitazione della rotazione oculare nella direzione opposta a quella del muscolo retratto, che può simulare una paresi del muscolo antagonista. Tutti i muscoli estrinseci dei due occhi possono essere colpiti in varie combinazioni, realizzando oftalmoplegie complesse, non riconducibili a lesioni dei nervi oculomotori. All’oftalmoplegia si associano segni evocatori di ipertiroidismo a livello oculare: esoftalmo, retrazione della palpebra superiore che non segue l’occhio nello sguardo verso il basso (Segno di Graefe), edema palpebrale, iperemia congiuntivale nei punti di inserzione dei muscoli oculomotori. Molti malati presentano
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segni biologici di ipertiroidismo (T3-T4 elevati), ma alcuni sono eutiroidei. L’ecografia dei muscoli oculomotori è un utile esame diagnostico che ha sostituito il test di rotazione forzata dei globi, in passato utilizzato per la diagnosi di miopatia distiroidea. Altre patologie miogene. – Per i disturbi della motilità oculare in corso di distrofie muscolari o di patologie mitocondriali (tra cui merita particolare menzione la c.d. oftalmoplegia esterna progressiva) il lettore è rinviato ai capitoli dedicati a queste malattie (v. pag. 000). Va infine ricordato che la miastenia oculare è una delle cause più comuni di diplopia cronica. Alterazioni della motilità oculare coniugata Paralisi dello sguardo orizzontale. - Depone per la presenza di una lesione della via cortico-nucleare addetta ai movimenti saccadici (volontari) in un punto compreso fra la corteccia frontale (area 8) ed il ponte19. Ai fini della localizzazione della lesione ha grande valore il rapporto fra il lato della paralisi dello sguardo e quella dell’emiplegia, abitualmente associata. In particolare: a) se la lesione è emisferica, è paralizzato lo sguardo verso il lato opposto alla lesione e c’è una deviazione tonica degli occhi verso lo stesso lato della lesione per cui lo sguardo è deviato verso il lato opposto all’emiplegia. b) Se la lesione è pontina, è paralizzato lo sguardo verso il lato della lesione e c’è una deviazione tonica degli occhi verso il lato opposto per cui lo sguardo è deviato verso il lato dell’emiplegia.
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La lesione dell’area oculomotoria occipitale non altera i movimenti saccadici (volontari) bensì i movimenti di inseguimento che possono risultare limitati in ambedue le direzioni, ma in misura maggiore allorchè gli occhi devono seguire una mira che si sposta verso il lato della lesione.
Fig. 7.26 - Deviazione oculare coniugata sul piano orizzontale causata da lesione emisferica e da lesione pontina.
Il deficit da lesione emisferica è abitualmente dovuto a patologie cerebrovascolari acute (ischemiche o emorragiche), tende a risolversi nel giro di pochi giorni e la sua eventuale persistenza ha un significato prognostico sfavorevole. La paralisi dello sguardo orizzontale da lesione pontina, in genere, è molto più grave e duratura che nei danni emisferici (Fig. 7.26). Paralisi dello sguardo verticale. - Le lesioni cerebrali emisferiche unilaterali non interferiscono con i movimenti di verticalità in quanto le relative vie discendenti sono bilaterali. La paralisi dello sguardo associato verso l’alto e/o verso il basso (la paralisi verso l’alto è più comune) è determinata da una lesione a livello della porzione rostrale del tetto mesencefalico. Le paralisi dello sguardo coniugato verso il basso sono estremamente rare e si riscontrano per lesioni mesencefaliche bilaterali in aree dorsomediali al nucleo rosso.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
La sindrome di Parinaud consiste in un’alterazione della motilità coniugata verso l’alto e talora verso il basso, cui si possono eventualmente associare alterazioni pupillari (midriasi con pupille non reagenti alla luce, ma reagenti alla accomodazione), retrazione palpebrale o ptosi, nistagmo retrattorio ed edema papillare. La sindrome è ritenuta patognomonica di tumori dei tubercoli quadrigemini, ma è osservabile in tutte le lesioni che provocano un’alterazione dell’area pretettale, con particolare frequenza in caso di tumori epifisari o di lesioni vascolari localizzate. Paralisi internucleare. - È una forma disconiugata di paralisi dello sguardo orizzontale dovuta alla compromissione del normale sinergismo fra il retto mediale di un lato ed il retto laterale del lato opposto. Questo sinergismo è assicurato da un sistema di controllo che collega il nucleo del VI di un lato al nucleo del III del lato opposto. Le fibre internucleari partono dalla formazione reticolare pontina paramediana (FRPP) adiacente al nucleo del VI, percorrono il fascicolo longitudinale mediale (FLM), incrociano la linea mediana, e terminano nella porzione del nucleo del III che innerva il retto mediale. La lesione del FLM causa una oftalmoplegia internucleare ben riconoscibile in quanto nello sguardo laterale un occhio non può essere addotto, mentre l’altro viene abdotto ma presenta ampie scosse di nistagmo. La lesione è omolaterale all’occhio che non adduce. La condizione simula una paresi del retto mediale, la cui integrità è però dimostrata dal fatto che la convergenza dei due occhi è normale. Le cause più comuni di oftalmoplegia internucleare sono la sclerosi a placche, gli infarti ed i tumori del tronco encefalico. La classica distinzione fra oftaloplegia internucleare anteriore e posteriore non ha significato clinico. Sindrome “one and half” (uno e mezzo). Può essere considerata come la combinazione tra una paralisi orizzontale ed una paralisi inter-
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nucleare, ed è dovuta ad una lesione che, oltre a distruggere il generatore pontino (di cui si è parlato a proposito degli effettori comuni), ingloba anche il fascicolo longitudinale mediale omolaterale. L’occhio del lato leso non è in grado di abdurre a causa della paralisi orizzontale, né di addurre a causa della paralisi internucleare (“uno”); mentre l’occhio del lato opposto non adduce per la paralisi orizzontale (“mezzo”) e presenta un nistagmo in abduzione per la paralisi internucleare. Le cause più frequenti sono la sclerosi multipla e, nell’anziano, la malattia cerebrovascolare. Paralisi globale dello sguardo. - L’impossibilità, peraltro rara come fenomeno isolato, a dirigere lo sguardo in qualunque direzione può dipendere da numerose cause, fra cui la Sindrome di Guillain-Barrè e le varie forme di oftalmoplegia cronica esterna progressiva, in primis la sindrome di Kearns-Sayre per cui si rinvia al capitolo delle malattie mitocondriali. Se il soggetto è anziano, va considerata la possibilità di una paralisi sopranucleare progressiva. Se è un alcoolista, potrebbe trattarsi di una encefalopatia di Wernicke.
Motilità palpebrale È affidata al III (muscolo elevatore della palpebra superiore) e al VII (muscolo orbicolare dell’occhio) nervo cranico. L’ampiezza della rima palpebrale può essere aumentata, a causa di una paralisi del muscolo orbicolare dell’occhio con abbassamento della palpebra inferiore (ad esempio in caso di paralisi del VII di tipo periferico con lagoftalmo), oppure diminuita, per la presenza di una ptosi della palpebra superiore dovuta ad una paralisi del muscolo elevatore della palpebra, innervato dal III nervo cranico. A questo proposito va ricordato che una sorta di ptosi o – più propriamente – un restringimento della
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rima palpebrale, può essere determinato da una paralisi del muscolo tarsale (di Müller), un muscolo liscio inserito nelle fibre striate dell’elevatore della palpebra e sul tarso della palpebra superiore, innervato dal simpatico cervicale, che contribuisce al sollevamento della palpebra. Questa “ptosi”, associata a miosi ed enoftalmo, configura la sindrome di BernardHorner (v. pag. 245). Le cause più comuni di ptosi unilaterale della palpebra superiore sono rappresentate da una lesione parziale del III nervo cranico e da una miastenia che, peraltro, può essere responsabile anche di una ptosi bilaterale. Quest’ultima, a sua volta, può anche essere dovuta ad una miopatia iniziale (tipo oftalmoplegia esterna progressiva). Fra le cause di alterazione della motilità palpebrale vanno ancora ricordati: – il blefarospasmo (v. pag. 000) che consiste nella chiusura forzata delle palpebre per una contrazione intermittente o relativamente duratura del muscolo orbicolare; – l’aprassia delle palpebre, un raro disturbo caratterizzato dall’impossibilità ad aprire le palpebre dietro comando; – l’allargamento della rima palpebrale per contrazione tonica dei muscoli lisci della palpebra superiore può dipendere da irritazione del simpatico (associato a midriasi ed esoftalmo configura la sindrome di Pourfur du Petit), oppure dalla presenza di un gozzo esoftalmico; – la retrazione spastica e la retrazione tonica palpebrale possono verificarsi sia nel gozzo esoftalmico, che nelle lesioni, in genere tumorali, del mesencefalo. Se il segno è bilaterale si tratta, con notevole probabilità di lesioni mesencefaliche.
Motilità pupillare La motilità pupillare (o motilità oculare intrinseca) è affidata a due muscoli lisci: – lo sfintere dell’iride a forma di cercine, a innervazione parasimpatica che costringe la pupilla (miosi);
– il dilatatore dell’iride disposto a raggiera, a innervazione ortosimpatica, che dilata la pupilla (midriasi). Il diametro pupillare varia normalmente da 2 a 5 mm ed è maggiore nell’età giovanile. Una riduzione del diametro < 2 mm viene definita miosi, un aumento del diametro > 6 mm midriasi. Le pupille normali sono circolari (isocicliche) e di pari diametro (isocoriche). Anisociclia pupillare: in situazioni patologiche quali postumi di lesioni infiammatorie dell’iride, tabe dorsale, paralisi progressiva, o anche alterazioni congenite, il contorno della pupilla può presentare forme diverse (ovale, a goccia, irregolare) o anisociclia. Anisocoria pupillare: la variazione unilaterale di diametro può dipendere sia da una irritazione che da un deficit delle vie deputate alla motilità pupillare. È opportuno tuttavia sottolineare che circa il 20 % della popolazione può presentare una lieve anisocoria in cui, peraltro, la differenza tra i due diametri pupillari resta costante nelle varie condizioni di illuminazione e le reazioni pupillari alla luce e all’accomodazione-convergenza sono normali. In questi casi si parla di anisocoria essenziale. Il valore delle indicazioni fornite dall’esame delle pupille discende dal fatto che le vie della motilità pupillare coprono un lungo percorso attraverso il sistema nervoso centrale, spesso in stretta continuità con le strutture addette alla regolazione dello stato di vigilanza, senza contare che le vie pupillari sono assai resistenti ai danni metabolici. In termini generali, il riscontro di alterazioni pupillari può essere indicativo di una lesione strutturale sia del sistema nervoso centrale che periferico. Nel corso di alcune intossicazioni, infine, le pupille possono presentare modificazioni caratteristiche. – La via simpatica pupillare prende origine da un centro situato nell’ipotalamo posteriore (di Karpus-Kreidl), scende lungo il tronco encefalico e termina a livello dei segmenti C8D2 (centro di Budge), da cui parte il secondo neurone della via simpatica pupillare che esce
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
dal midollo con le radici anteriori C8-D2, risale lungo la catena simpatica paravertebrale del torace e del collo e termina nel ganglio cervicale superiore, sotto la base del cranio. Dal ganglio cervicale superiore prende origine il terzo neurone simpatico, che accompagna la carotide interna nel cranio e, nella fossa cranica media, si unisce alla branca oftalmica del quinto, con la quale penetra nell’orbita attraverso la fessura sfenoidale superiore. Le fibre si staccano dalla branca oftalmica come nervi ciliari lunghi, raggiungono il polo posteriore del globo ed infine il muscolo dilatatore della pupilla ed il muscolo tarsale (Fig. 7.27). Vanno considerati infine altri due contingenti: uno raggiunge il globo seguendo l’arteria oftalmica, ramo della
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carotide interna, l’altro (formato da fibre ortosimpatiche sudomotorie e vasomotorie, destinate alle ghiandole sudoripare e alle diramazioni vasali della faccia) segue la carotide esterna. – La via parasimpatica pupillare prende origine dal nucleo di Edinger-Westphal, situato nel mesencefalo, dorsalmente e rostralmente al nucleo del III. Le fibre pupillomotrici accompagnano il III nervo fino all’orbita e terminano nel ganglio ciliare, da cui parte il secondo neurone parasimpatico, che raggiunge l’occhio ed innerva il muscolo costrittore della pupilla ed il muscolo ciliare (posto nel corpo ciliare) cui spetta la regolazione del potere convergente del cristallino per la visione da vicino (accomodazione). RISPOSTE PUPILLARI FISIOLOGICHE
Fig. 7.27 - Le vie pupillari dilatatrici.
– Riflesso fotomotore: si ricerca ponendo il p. in una stanza scarsamente illuminata e, dopo aver atteso per un tempo sufficiente, portando davanti all’occhio del paziente una sorgente luminosa. La via afferente del riflesso fotomotore prende origine dalla retina e segue la via ottica sino al tratto ottico, lo abbandona prima del corpo genicolato laterale e raggiunge in nucleo pretettale. Da esso gli impulsi (via efferente) sono inviati al nucleo di Edinger-Westphal dei due lati, le cui fibre raggiungono il ganglio ciliare e, da qui, attraverso i nervi ciliari brevi, il muscolo costrittore dell’iride dei due occhi, determinando una miosi sia nell’occhio che è stato illuminato (riflesso fotomotore diretto) che nell’occhio controlaterale (riflesso fotomotore consensuale) (Fig. 7.28). – Riflesso di accomodazione-convergenza: si ricerca invitando il soggetto a fissare un oggetto lontano qualche decina di metri e successivamente a fissare un oggetto o il dito dell’esaminatore posto a circa 20-30 cm di distanza. Abitualmente si porta il paziente davanti ad una finestra e si fa fissare prima un oggetto a distanza e successivamente un punto della finestra, posto che siano il più possibile sulla stessa li-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.28 - Le vie del riflesso pupillare alla luce
nea di sguardo. La visione per vicino comporta un restringimento della pupilla. In sintesi questo riflesso comporta una triplice reazione (convergenza degli assi oculari, accomodazione e miosi) la cui insorgenza presuppone una attivazione delle aree striate e peristriate ad opera delle afferenze visive, cui fa seguito una risposta corticifuga diretta alla regione pretettale (Fig. 7.29). In realtà le afferenze visive non sono necessarie alla risposta pupillare: quest’ultima, infatti, si può osservare anche nei ciechi quando effettuano uno sforzo di convergenza. – Riflesso cilio-spinale: è provocato da stimoli dolorosi nella parte superiore del corpo e consiste in una lieve midriasi dovuta ad una inibizione del nucleo di Edinger-Westphal, ma soprattutto ad una attivazione del centro ciliospinale di Budge.
Fig. 7.29 - Via pupillare per l’accomodazione per vicino.
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RISPOSTE PUPILLARI AI FARMACI La pupilla si dilata per effetto di farmaci che stimolano il sistema simpatico (adrenalina, anfetamina, cocaina) o che bloccano il parasimpatico (atropina, omatropina, scopolamina). Al contrario, la pupilla si costringe sia per effetto di farmaci che stimolano il parasimpatico (pilocarpina, muscarina, acetilcolina) o che bloccano il simpatico (derivati dalla segale cornuta). L’azione di alcuni farmaci nella cosiddetta «prova dei colliri», viene utilizzata a scopo diagnostico per stabilire se le modificazioni del diametro pupillare sono di origine simpatica o parasimpatica. Una midriasi, ad esempio, può essere espressione sia di una lesione parasimpatica che di una irritazione simpatica. L’uso di farmaci stimolanti o bloccanti le due componenti vegetative permette di precisare la diagnosi (v. pag. 667). Può essere utile ricordare che la variazione del diametro pupillare rappresenta un ausilio nella
valutazione di uno stato di coma dovuto a farmaci o sostanze psicoattive: miosi si associa ad intossicazione da morfina o eroina, inibitori dell’aceticolinesterasi, reserpina o meprobamato; midriasi ad intossicazione da fenotiazine (cloropromazina), triciclici, cocaina, tossina botulinica, alcaloidi della belladonna. La tabella 7.8 elenca i principali farmaci che possono modificare il diametro pupillare unitamente al rispettivo effetto ed al relativo meccanismo d’azione. ALTERAZIONI PUPILLARI DI INTERESSE NEUROLOGICO – Miosi unilaterale: si osserva, associata a restringimento della rima palpebrale, per paralisi del muscolo tarsale, nelle lesioni unilaterali della via ortosimpatica (Sindrome di BernardHorner). L’enoftalmo, classicamente incluso nella sindrome, sarebbe solo apparente. Possono associarsi anidrosi e vasodilatazione dell’emifaccia ispilaterale. Le lesioni responsabili di una sindrome di Bernard-Horner possono essere
Tabella 7.8 - Reattività farmacologica delle pupille Farmaco
Meccanismo d’azione
Effetto
Pilocarpina Metacolina
stimolazione dei recettori colinergici stimolazione dei recettori colinergici
miosi miosi
Fisostigmina Neostigmina Edrofonio
inibizione dell’acetil-colinesterasi inibizione dell’acetil-colinesterasi inibizione dell’acetil-colinesterasi
miosi miosi miosi
Ergotamina Timololo
blocco dei recettori adrenergici blocco dei recettori adrenergici
miosi miosi
Adrenalina Efedrina
stimolazione dei recettori adrenergici stimolazione dei recettori adrenergici
midriasi midriasi
Idrossianfetamina
liberazione di adrenalina dalle terminazioni adrenergiche
midriasi
Cocaina
blocco della captazione di adrenalina dalle terminazioni adrenergiche
midriasi
Atropina Omoatropina Scopolamina Tropicamide
blocco blocco blocco blocco
midriasi midriasi midriasi midriasi
dei dei dei dei
recettori recettori recettori recettori
colinergici colinergici colinergici colinergici
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situate nell’ipotalamo, nel tronco encefalico, nel midollo cervicale, nel torace, nel collo, alla base del cranio, e nell’orbita, dato il lungo e complesso decorso della via simpatica pupillare. Il riscontro della sindrome isolata ha quindi scarso valore localizzatorio. Anche la natura delle lesioni è molto varia: bisogna però tener presente che in circa un terzo dei casi la sindrome è sostenuta da un tumore, localizzato di solito nel torace o nel collo. Altre cause comuni sono i traumi, gli infarti latero-bulbari (sindrome di Wallenberg) e, almeno sino a qualche tempo fa, l’arteriografia della carotide per puntura diretta (lesione del simpatico pericarotideo). La presenza di segni di interessamento delle vie lunghe e/o di nervi cranici depone per una lesione centrale; l’effetto dell’instillazione di un collirio di idrossi-anfetamina all’1% sul diametro pupillare consente di distinguere le lesioni pregangliari da quelle post-gangliari: solo nel primo caso, infatti, si osserva midriasi. – Miosi bilaterale: si osserva nelle lesioni bilaterali del diencefalo, del ponte e del bulbo, che mettono fuori funzione la via ortosimpatica, e nell’intossicazione da oppiacei: le pupille possono raggiungere dimensioni inferiori al millimetro (pupille a punta di spillo). – Midriasi unilaterale: è caratteristica delle lesioni del III nervo cranico. Una midriasi unilaterale da irritazione del simpatico, di cui si è parlato in precedenza, deve considerarsi eccezionale. – Midriasi bilaterale: si osserva nelle lesioni del tegmento mesencefalico, che interrompono la via del riflesso alla luce, nelle lesioni bilaterali del III che interrompono la via parasimpatica; nella morte cerebrale le pupille tendono alla midriasi unicamente per un effetto elastico. Si osserva inoltre nelle intossicazioni da cocaina e da atropina. REAZIONI PUPILLARI PATOLOGICHE Vanno ricordati soprattutto i seguenti fenomeni:
Perdita del riflesso alla luce: può dipendere da lesioni della branca afferente o efferente. La lesione del nervo ottico interrompe la branca afferente: l’illuminazione dell’occhio leso non provoca risposta in nessuno dei due occhi, mentre la risposta è bilateralmente normale illuminando l’occhio sano; è una prova molto sensibile del danno del fascio maculo-papillare. Lesioni bilaterali delle vie ottiche pregenicolate causano l’assenza bilaterale del riflesso fotomotore, permettendo di differenziare le cecità “anteriori” da quelle corticali, in cui il riflesso è normale, avendo le fibre pupillomotrici abbandonato la via ottica prima del corpo genicolato laterale. La lesione del III interrompe invece la branca efferente del riflesso e abolisce la risposta pupillare dal lato leso, quale sia l’occhio illuminato. – Fenomeno di Argyll-Robertson: è pressocché patognomonico della lue del sistema nervoso, ma si può osservare anche nelle lesioni compressive della regione pretettale. Le pupille sono miotiche e, talora, anisocoriche e anisocicliche, non reagiscono alla luce ma reagiscono normalmente all’accomodazione. La lesione è localizzata nella regione pretettale e interrompe bilateralmente la via afferente del riflesso fotomotore, risparmiando le vie discendenti dalla corteccia responsabili dell’accomodazione. – Pupilla tonica di Adie: compare in età giovanile, di solito nel sesso femminile, quasi sempre da un lato solo. La pupilla appare midriatica a normale illuminazione e non risponde alla luce; dopo prolungata esposizione a luce intensa può mostrare una lieve riduzione di calibro, ma di solito le variazioni sono minime. Reagisce invece all’accomodazione con una miosi intensa, ma la risposta è lenta, tonica e persistente; mostra inoltre una caratteristica ipersensibilità ai farmaci parasimpaticomimetici (l’instillazione di pilocarpina allo 0,125% produce una rapida costrizione della pupilla tonica mentre non modifica una pupilla normale). In circa la metà dei
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali Tabella 7.9 - Motilità pupillare. ALTERAZIONI DELLA PUPILLA A RIPOSO MIDRIASI BILATERALE – congenita; giovani adulti con simpaticotonia; portatori di lenti a contatto – tossico-farmacologica (belladonna, triciclici, cocaina, tossina botulinica) – lesioni mesencefaliche – sindrome di Miller Fisher ed alcune polineuropatie autonomiche MIOSI BILATERALE – età avanzata – lesioni pontine – tossico-farmacologica (pilocarpina, morfinoderivati, organofosforici) ANISOCORIA MIDRIASI – paralisi del terzo nervo cranico; segno di ernia uncale o di emorragia subaracnoidea – pupilla tonica (sindrome di Adie) – emicrania oftalmoplegica – traumi (frammenti di corpo estraneo) – infiammazioni locali (presenza di sinechie) – applicazione unilaterale di farmaci midriatici MIOSI – sindrome di Bernard-Horner – farmaci ad azione miotica (pilocarpina) – iriditi ALTERAZIONI DEL RIFLESSO ALLA LUCE ED ALLA ACCOMODAZIONE - CONVERGENZA – lesioni dell’area afferente (cioè del nervo ottico); le lesioni retrogenicolate non causano alterazioni del riflesso fotomotore – lesione della porzione efferente (cioè del nervo oculomotore) – ganglionite ciliare acuta DISSOCIAZIONE TRA RIFLESSO PUPILLARE ALLA LUCE (assente) E ACCOMODAZIONE - CONVERGENZA (conservato) – con lieve miosi (segno di Argyll - Robertson): neurolue, diabete – con lieve midriasi: neurolue, lesioni pretettali, atrofie ottiche bilaterali.
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casi i riflessi achillei e rotulei sono assenti. La lesione consiste in un danno acuto del ganglio ciliare, seguito da una reinnervazione incompleta del muscolo sfintere dell’iride da parte di fibre destinate al muscolo ciliare; le fibre muscolari non reinnervate sviluppano una ipersensibilità da denervazione all’acetilcolina. La causa è ignota ma la condizione è benigna. Pupille toniche bilaterali possono essere associate a polineuropatie di varia natura (diabetiche, infettive, etc.). Non va dimenticato, infine, che la presenza di una midriasi bilaterale isolata con perdita del riflesso fotomotore potrebbe dipendere dall’instillazione locale di atropina o dall’assunzione di farmaci (anticolinergici) per via generale. Sono state segnalate anche transitorie midriasi unilaterali o bilaterali con riduzione della risposta alla luce per l’utilizzo di preparati antichinetosi per via transdermica. Una illustrazione schematica delle alterazioni della motilità pupillare è contenuta nella tabella 7.9.
Neurootologia M. Del Sette La neurootologia è quella branca della neurologia che studia le funzioni dell’udito e dell’equilibrio, e le complesse interazioni tra queste ed altre funzioni neurologiche (vista, coordinazione motoria, sensibilità profonda). Il sistema cocleare e quello vestibolare sono accomunati dalla loro sede anatomica nell’orecchio interno, situato nella rocca petrosa dell’osso temporale, dove sono localizzate la branca cocleare e la branca vestibolare dell’8° paio dei nervi cranici (nervo statoacustico o nervo acustico).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Sistema vestibolare Anatomia Il ganglio di Scarpa, situato nel meato acustico interno, è formato dai neuroni sensitivi, il cui prolungamento centrale si porta come nervo vestibolare ai nuclei vestibolari, ed il cui prolungamento periferico raggiunge il labirinto membranoso (vie afferenti somatiche speciali). IL LABIRINTO (FIG. 7.30) Il labirinto è costituito da tre canali semicircolari (orizzontale, verticale e laterale), orientati nelle tre direzioni dello spazio, dal sacculo e dall’utricolo, che è in comunicazione con il dotto endolinfatico. L’endolinfa è contenuta all’interno del labirinto membranoso, e la perilinfa separa il labirinto membranoso dal periostio del labirinto osseo. L’epitelio sensitivo si trova nell’ampolla di ogni canale semicircolare (cresta acustica) e nella macula del sacculo e dell’utricolo. Le cellule dell’epitelio sensoriale del sacculo e dell’utricolo sono coperte da una massa gelatinosa che contiene dei prismi di carbonato di calcio (otoliti). Lo stimolo adeguato per l’epitelio sensoriale dell’utricolo e del sacculo è rappresentato dal movimento degli otoliti,
determinato, a sua volta, dai movimenti del capo. Le cellule delle creste ampollari sono invece stimolate dai movimenti dell’endolinfa, in rapporto con l’accelerazione o la decelerazione angolare del capo. I NUCLEI E LE VIE VESTIBOLARI CENTRALI (FIG. 7.31 E 7.32) I nuclei vestibolari sono il nucleo superiore o di Bechterew, il nucleo laterale o di Deiters, il nucleo mediale o di Schwalbe e il nucleo discendente o spinale. Si trovano nel bulbo, ad eccezione del nucleo superiore, che è situato nel ponte. Accanto a questi nuclei principali esistono altri nuclei minori, la cui descrizione va oltre gli obiettivi di questo trattato. Il nervo vestibolare, prima di raggiungere i nuclei, si divide in una branca ascendente ed una discendente. I nuclei vestibolari sono a loro volta connessi con il midollo spinale (a), il cervelletto (b), alcuni nuclei tronco-encefalici e la formazione reticolare (c, d); vi sono poi vie sopravestibolari, dai nuclei vestibolari alla corteccia (e), e fibre dai nuclei vestibolari alle cellule sensitive (f). In particolare si riconoscono: a) le connessioni con il midollo spinale, che avvengono tramite il fascio vestibolo-spinale laterale, che dal nucleo di Deiters ipsilaterale ar-
Fig. 7.30- Vie vestibolari: dalla periferia ai nuclei vestibolari bulbari (per confronto è schematizzata anche la via cocleare).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.31 - a. Vie vestibolo-spinali. b. Alcune connessioni tra i nuclei vestibolari e il cervelletto; connessioni tra i nuclei vestibolari e i nuclei oculomotori attraverso il cervelletto.
riva a livello sacrale, e con il fascio vestibolospinale mediale, che dal nucleo vestibolare mediale discende fino ai primi segmenti toracici omo- e controlaterali. Le vie spino-vestibolari, in parte collaterali dei fasci spino-cerebellari, terminano nel nucleo laterale e nel nucleo inferiore o spinale; b) le connessioni con il cervelletto, che si realizzano attraverso vie vestibolo-cerebellari, che raggiungono il lobo flocculo-nodulare omolaterale ed il nucleo del tetto omo- e controla-
terale. Dai nuclei del tetto partono le vie cerebello-vestibolari, in parte dirette ed in parte crociate, che proiettano ai nuclei vestibolare laterale, superiore e spinale. Il lobo flocculo-nodulare, invece, invia solo uno scarso contingente di fibre ai nuclei vestibolari; c) le connessioni con i nuclei dei nervi oculomotori, tramite il fascicolo longitudinale mediale; d) le connessioni con la formazione reticolare e con il nucleo del nervo vago (Fig. 7.32);
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.32 - Relazione tra il sistema vestibolare e la formazione reticolare; schema di alcuni archi di riflessi viscerali eccitati dalla stimolazione vestibolare.
e) le vie sopravestibolari, dai nuclei vestibolari alla corteccia cerebrale adiacente all’area acustica (aree 41 e 42 di Brodmann), al lobo parietale ed al lobo frontale; f) le connessioni efferenti, che vanno dai nuclei vestibolari all’epitelio sensoriale del labirinto. Fisiologia I riflessi vestibolari hanno la funzione di provocare aggiustamenti della posizione del capo e degli occhi rispetto al tronco, sia in posizione statica che durante il movimento. Si distinguono: 1) riflessi vestibolo-oculari: consentono la deviazione coniugata degli occhi in risposta al movimento del capo; per esempio, la rotazione del capo verso destra attiva il canale semicircolare orizzontale di destra ed inibisce il contro-
laterale, determinando la contrazione del retto laterale di sinistra e del retto mediale di destra: il risultato sarà la rotazione degli occhi verso sinistra, necessaria per il mantenimento della fissazione oculare. Ogni canale semicircolare regola i movimenti oculari sullo stesso piano del canale attivato (legge di Flourens): in particolare, il movimento dell’endolinfa verso l’ampolla (movimento ampullipeto) comporta un’eccitazione del labirinto, mentre un movimento ampullifugo ha un effetto inibitorio. I riflessi vestibolo-oculari hanno importanti implicazioni cliniche, e sono alla base del nistagmo e delle reazioni alle prove caloriche; 2) riflessi vestibolocervicali: orientano la posizione del collo durante l’inclinazione del capo, con significato compensatorio; ad esempio, la rotazione del capo verso destra attiva lo sternocleidomastoideo omolaterale, che riporta il capo in posizione di partenza;
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
3) riflessi vestibolospinali: adattano la posizione degli arti in rapporto a quella del capo; ad esempio, la posizione prona aumenta il tono flessorio degli arti, mentre quella supina aumenta il tono estensorio; 4) riflessi cervicospinali: prendono origine dai recettori propriocettivi della muscolatura paravertebrale: la rotazione del capo verso un lato comporta una estensione degli arti omolaterali e la flessione degli arti controlaterali. In condizioni normali i riflessi cervico-spinali sono mascherati dalla presenza dei riflessi labirintici. A loro volta, i riflessi vestibolocervicali e vestibolospinali sono inibiti da influenze sopravestibolari, e sono riconoscibili solo nel neonato o nelle condizioni in cui le influenze corticali inibitorie sono ridotte (ad es. nei danni diffusi della corteccia cerebrale per malattie degenerative corticali). Un danno a carico del labirinto o delle vie vestibolari si traduce in una alterazione dei riflessi fisiologici, con comparsa di caratteristiche alterazioni della postura (asimmetrie di posizione) e della motilità oculare (nistagmo). L’alterata percezione soggettiva dei rapporti tra il proprio corpo e lo spazio circostante comporta il sintomo soggettivo della vertigine, spesso associata a malessere generale e nausea. Va comunque segnalato che il sistema vestibolare possiede grandi capacità di adattamento nel tempo, così che spesso i sintomi sono evidenti solo in caso di danno vestibolare acuto, mentre nelle malattie a decorso lento vi è un adattamento, con sintomi più sfumati, o con una riduzione dell’entità dei sintomi nel tempo. VERTIGINI FISIOLOGICHE Si tratta di condizioni fisiologiche, in cui la discrepanza tra le informazioni provenienti dai differenti canali sensoriali può determinare il sintomo vertiginoso, con significative differenze interindividuali. 1. Chinetosi: è la sensazione vertiginosa, spesso associata a nausea, provocata da stimola-
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zione ripetitiva dei recettori labirintici per accelerazioni e decelerazioni del capo. Classicamente aumentano se il campo visivo non cambia, come nel cosiddetto “mal di mare”, “mal d’auto”, accentuati nel chiuso di una cabina, o nella lettura durante un viaggio in auto. Il sintomo vertiginoso viene invece attenuato dalla fissazione di una mira, con ristabilimento della congruità tra le informazioni di movimento provenienti dal labirinto e quelle visive. Un tipo di vertigine analoga è quella che deriva dalla visione di un oggetto in rapido movimento mentre si è fermi: la discrepanza tra informazione visiva di movimento e quella propriocettiva e vestibolare si traduce in vertigine. 2. Vertigini da grandi altezze: derivano dal contrasto tra la percezione propriocettiva e visiva del movimento relativo della base di appoggio ad ogni piccolo movimento del capo, e l’apparente fissità dello sfondo, che sembra immobile a causa della grande distanza rispetto al soggetto. La discrepanza tra le informazioni propriocettive, visive e labirintiche comporta il sintomo vertiginoso, attenuato dalla fissazione di un oggetto vicino.
Esame clinico ANAMNESI DEL SOGGETTO CON SINTOMI VESTIBOLARI La storia clinica del soggetto con sintomi vestibolari deve sempre specificare la durata, la episodicità o cronicità dei disturbi, la presenza di sintomi associati, come disturbi dell’udito, della vista, della sensibilità o della motilità, cefalea. Il sintomo vertiginoso deve essere descritto nelle sue caratteristiche, e differenziato da altre sensazioni soggettive più correttamente definibili come “capogiri”, “disequilibrio”, “sensazione di testa vuota” (lightheadness degli autori anglosassoni). Talora il “capogiro” rientra nel contesto di una serie di sintomi riferibili ad un disturbo d’ansia; in questi casi spesso è possibile provocare il sintomo invitan-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
do la persona ad iperventilare per alcuni minuti. Lo storiografo deve inoltre accertare eventuali precedenti quali traumi cranici, immersioni subacquee, uso di particolari farmaci (come gli aminoglicosidi), malattie sistemiche. ESAME OBIETTIVO GENERALE Il soggetto che accusa una sintomatologia vertiginosa deve essere valutato innanzitutto sul piano generale, rivolgendo particolare attenzione al sistema cardiovascolare: a questo scopo è utile la misurazione dei valori pressori in clinostatismo ed in ortostatismo, per accertare l’eventuale presenza di ipotensione ortostatica; inoltre, se la sensazione di “capogiro” si associa a riduzione del livello di vigilanza, è utile ricercare possibili alterazioni del ritmo cardiaco, o patologie ostruttive dei vasi epiaortici. ESAME NEUROVESTIBOLARE L’esame del soggetto con vertigine consente di analizzare le caratteristiche della vertigine, e di rilevare la presenza di nistagmo e di asimmetrie di posizione. L’analisi di questi elementi consente di formulare la diagnosi di “sindrome vestibolare periferica” o “armonica”, cui classicamente si contrappone la “sindrome vestibolare centrale”. 1. Vertigine: la vertigine propriamente detta consiste in una illusione di spostamento del proprio corpo o del capo nello spazio, oppure di spostamento dell’ambiente circostante rispetto al proprio corpo. Tali sensazioni dipendono dalla presenza di informazioni sensoriali discordanti (labirintiche, visive, propriocettive) circa la posizione del capo e del corpo nello spazio. Generalmente le vertigini si associano a nausea (per le connessioni tra le vie vestibolari ed i centri neurovegetativi), nistagmo e atassia vestibolare (per le connessioni tra le vie vestibolari, i centri oculomotori e le vie vestibolo-spinali). Abitualmente si distinguono le vertigini sogget-
tive (sensazione di spostamento del corpo rispetto all’ambiente) dalle vertigini oggettive (sensazione di spostamento dell’ambiente rispetto al corpo), anche se tale distinzione ha poca rilevanza sul piano clinico. 2. Nistagmo: si tratta di movimenti oculari coniugati, involontari e ritmici, consistenti in una oscillazione lenta, di allontanamento del globo oculare dalla posizione centrale, ed in una oscillazione rapida, di ritorno del globo oculare alla posizione di sguardo diretto. Convenzionalmente si dice che il nistagmo “batte” nella direzione della scossa rapida. Del nistagmo vanno precisate le seguenti caratteristiche: piano (nistagmo orizzontale, verticale, rotatorio, obliquo, retrattorio), direzione della scossa rapida (nistagmo battente a destra, a sinistra, in alto o in basso), grado. Classicamente si distinguono 3 gradi di nistagmo, in particolare si parla di primo grado se il nistagmo che è assente nello sguardo diretto compare solo quando lo sguardo si allontana dalla linea mediana di 30-50° verso la direzione della scossa rapida; secondo grado, quando il nistagmo, presente già a riposo, si accentua con lo sguardo diretto verso la scossa rapida; terzo grado, quando il nistagmo è presente già nello sguardo diretto, e permane in tutte le direzioni dello sguardo (Fig. 7.33). Il nistagmo va esaminato a soggetto seduto, gli occhi in posizione di sguardo diretto, facendo quindi seguire una mira (in genere il dito indice dell’esaminatore, a 20 cm circa dal volto del soggetto) che si sposta nelle varie direzioni dello spazio. Da segnalare che il nistagmo che si osserva nella posizione di lateralità estrema dello sguardo è fisiologico. Il nistagmo di origine centrale è accentuato dalla fissazione, per cui il metodo descritto è il più adatto per evidenziare tale fenomeno. Il nistagmo di origine labirintica è invece accentuato dalla soppressione delle afferenze visive, per cui si utilizzano occhiali con lenti di -20 diottrie (occhiali di Frenzel), che impediscono la fissazione ed ingrandiscono l’occhio. Un metodo particolarmente sensibile per esaminare le caratteristiche del nistagmo è l’esame del fondo dell’occhio, con
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Fig. 7.33 - Gradi del nistagmo. I grado: quando il nistagmo si dimostra con i globi oculari deviati dalla linea mediana tra 30-50°; II grado: quando il nistagmo esiste nello sguardo diretto e si accentua nella direzione della scossa rapida; III grado: quando il nistagmo esiste nello sguardo diretto e permane in tutte le direzioni dello sguardo.
l’altro occhio chiuso: la papilla ottica presenterà movimenti con direzione opposta a quella del segmento anteriore dell’occhio (ad esempio, se la direzione della scossa rapida della papilla è verso destra, vuol dire che la direzione della scossa rapida del globo è verso sinistra, e pertanto si dirà che il soggetto presenta un nistagmo orizzontale battente a sinistra). La registrazione dei movimenti oculari durante il nistagmo è oggi enormemente perfezionata, grazie all’uso dell’elettronistagmografia (ENG), che registra le modificazioni del dipolo retino-corneale durante i movimenti oculari. Il nistagmo può essere di origine oculare, vestibolare periferica o da lesione del sistema nervoso centrale. a) Nistagmo di origine oculare: si tratta del nistagmo optocinetico, che compare fisiologicamente quando una successione di oggetti in rapido movimento attraversa il campo visivo, oppure quando il soggetto si muove in relazione ad una serie di oggetti fissi (ad es. guardando fuori da un veicolo in movimento). Nella prati-
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ca clinica, la ricerca del nistagmo optocinetico viene effettuata mediante un tamburo rotante, o una striscia di stoffa a bande bianche e nere, che dovranno scorrere a velocità costante davanti agli occhi del paziente. Si ottiene così un movimento lento degli occhi in direzione del movimento delle bande, seguito da una scossa rapida di ritorno in direzione opposta. Il meccanismo di questo tipo di nistagmo è complesso e, siccome richiede l’integrità della corteccia visiva, ne consegue che la sua presenza dimostra che il soggetto non è cieco, mentre la sua assenza depone per l’esistenza di una lesione a livello della corteccia occipitale. b) Nistagmo di origine vestibolare periferica: si tratta di un nistagmo abitualmente orizzontale, talora con componente rotatoria, di grado variabile dal 1° al 3°, inserito nel contesto di una sindrome vestibolare armonica (vedi oltre). c) Nistagmo da lesione del sistema nervoso centrale: è dovuto a lesioni localizzate a livello del tronco encefalico o del cervelletto, e può essere orizzontale o verticale, raramente rotatorio, usualmente di 2° o 3°grado. Più persistente nel tempo del nistagmo di origine labirintica, il nistagmo di origine centrale può presentare alcune caratteristiche che consentono spesso di localizzare la lesione responsabile (Tab. 7.10). Oltre al nistagmo propriamente detto, vanno ricordati alcuni tipi di movimenti oculari patologici, che possono manifestarsi nelle lesioni del tronco encefalico e del cervelletto: – opsoclono: consiste in movimenti oculari continui, in tutte le direzioni dello sguardo, raccolti in episodi accessuali, con periodi intervallari di quiescenza. Si può osservare nelle encefaliti del tronco; – “ocular bobbing”: movimenti oculari rapidi verso il basso, con ritorno lento verso l’alto, oltre la linea mediana. Si osserva nelle lesioni acute pontine, ed ha un significato prognostico sfavorevole. Analogo significato hanno le cosiddette “square wave jerks”, scosse orizzontali seguite da una breve fissazione dello sguardo in
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Tabella 7.10 - Caratteristiche del nistagmo di origine centrale in rapporto alla sede di lesione. Sede della lesione
Direzione del nistagmo
Caratteristiche particolari
Bulbare Pontina laterale
Rotatorio Orizzontale
Pontina paramediana Mesencefalica (tettale) Cerebellare laterale Cerebellare diffusa
Orizzontale Retrattorio Orizzontale (batte verso la lesione) Tutte le direzioni (fase lenta verso il centro)
Si può associare a paralisi oculare coniugata Si può associare a paralisi internucleare
posizione di lateralità e ritorno lento alla posizione di sguardo diretto; – dismetria oculare: si tratta di movimenti incoordinati oculari, con superamento del bersaglio visivo e progressivo avvicinamento a questo. Ha lo stesso significato della dismetria degli arti con ipermetria, ed esprime la presenza di una lesione acuta emisferica cerebellare. Un altro tipo di movimento oculare patologico che si osserva nelle lesioni cerebellari acute è rappresentato dal nistagmo altalenante, dove un occhio si muove ritmicamente verso l’alto e l’altro verso il basso; – nistagmo pendolare: si tratta di movimenti simmetrici e ripetitivi, con la stessa velocità nelle due direzioni dello spazio. Si osserva nei difetti visivi congeniti gravi (per fissazione oculare imperfetta) o anche, indipendentemente dalla presenza di difetti visivi, alla nascita (nistagmo congenito, sporadico o ereditario), oppure verso il 4°-12° mese di vita (spasmus nutans, con prognosi benigna).
deviazione lenta verso una determinata direzione, di uno o di entrambi gli indici. La prova deve essere ripetuta più volte e, se riproducibile, si dirà che vi è la “deviazione degli indici verso destra (o verso sinistra)”. La prova di Romberg viene effettuata con il soggetto in posizione eretta, le braccia lungo i fianchi, gli occhi aperti, di fronte all’esaminatore. Se la chiusura degli occhi determina uno sbandamento uni- o polidirezionale, con tendenza alla caduta, si dice che la “prova di Romberg è positiva, con tendenza alla caduta verso destra (o verso sinistra, o polidirezionale)”. Infine il soggetto con sindrome vestibolare periferica presenterà un’alterazione della marcia, con lateropulsione. La prova della marcia a stella viene effettuata facendo compiere al soggetto ad occhi chiusi tre passi avanti e tre passi indietro: in caso di sindrome vestibolare periferica il soggetto devierà sempre verso la stessa direzione, mostrando la tendenza a ruotare su se stesso, e pertanto tracciando i raggi di una stella sul pavimento.
3. Asimmetrie di posizione: Si valutano con la “prova degli indici” e la “prova di Romberg”. La prima viene effettuata con il soggetto in posizione seduta, ad occhi chiusi, gli arti superiori protesi e gli indici puntati in avanti; l’esaminatore è di fronte, con gli indici puntati su quelli del soggetto: in caso di positività si osserva la
ESAMI STRUMENTALI Le prove abitualmente effettuate nel soggetto con vertigini sono le prove caloriche e la prova rotatoria. 1. Prove caloriche: si tratta test che hanno l’obiettivo di stimolare uno dei canali semicir-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
colari (usualmente quello orizzontale), mediante l’introduzione di acqua a temperatura differente da quella corporea (più bassa o più alta). Il soggetto viene posto in posizione seduta con il capo reclinato indietro di 60°, in modo da verticalizzare il canale semicircolare orizzontale. L’irrigazione del condotto uditivo esterno con acqua calda (50-200 ml di acqua a 45°C circa) fa risalire l’endolinfa verso l’ampolla, situata superiormente; la stimolazione dell’ampolla comporta fisiologicamente la deviazione tonica degli occhi verso il lato opposto a quello stimolato. L’irrigazione con acqua fredda (30° circa) determina la reazione opposta (endolinfa in direzione ampullifuga, con deviazione tonica degli occhi verso il lato stimolato). In ambedue i casi la deviazione tonica è seguita, nel soggetto vigile, dal nistagmo, con scossa rapida controlaterale. La prova calorica va quindi valutata esaminando le risposte dei due lati, studiati separatamente. Si possono verificare complessivamente tre situazioni: a) ipereccitabilità labirintica: caratterizzata da un nistagmo abnormemente protratto, talora accompagnato da nausea e vertigine, che compare dopo stimolazione di un solo labirinto. Questa risposta indica un aumento di eccitabilità del labirinto affetto, usualmente in corso di patologie acute, specie infiammatorie, dell’orecchio interno. b) paresi labirintica: è la condizione opposta, in cui la risposta alla stimolazione calorica dal lato affetto è ridotta o abolita. Tale risposta si osserva soprattutto nelle patologie non acute dell’orecchio interno o del nervo acustico. c) preponderanza direzionale: è caratterizzata dalla prevalenza monodirezionale del nistagmo da un lato rispetto all’altro, indipendentemente dal lato stimolato. Compare frequentemente nelle lesioni centrali delle vie vestibolari, ed è pertanto la condizione di maggiore interesse per il neurologo. 2. Prova rotatoria: il soggetto viene posto a sedere su una sedia girevole, con il capo flesso in avanti di 30°. Dopo 10 rotazioni effettuate in
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20 secondi, la sedia viene arrestata bruscamente: la brusca decelerazione si ripercuote sul canale semicircolare orizzontale, determinando la comparsa di nistagmo con fase lenta nella direzione della rotazione, e scossa rapida in direzione opposta. Normalmente il nistagmo si esaurisce in qualche minuto, dopo di che il test viene effettuato con rotazione della sedia nell’altra direzione. È opportuno precisare che la prova rotatoria non consente la valutazione separata dei due labirinti, poiché la decelerazione si ripercuote, con effetto inverso, su entrambi i labirinti.
Sindromi vestibolari La valutazione delle caratteristiche della vertigine, del nistagmo, delle asimmetrie di posizione e l’analisi dei risultati dei test diagnostici consente di distinguere una sindrome vestibolare periferica da una sindrome vestibolare centrale: 1. Sindrome vestibolare periferica: dovuta a lesioni delle strutture del labirinto, viene anche detta sindrome vestibolare armonica, poiché i segni sono tutti congrui con il lato del labirinto danneggiato: infatti la deviazione degli indici, la tendenza alla caduta alla prova di Romberg, la deviazione del corpo nella marcia e la fase lenta del nistagmo avvengono tutti nella stessa direzione (mentre il nistagmo “batte” controlateralmente agli altri segni di deviazione assiale del corpo). La vertigine può essere accompagnata da nausea e da disturbi uditivi. 2. Sindrome vestibolare centrale: la lesione delle vie vestibolari centrali comporta segni che sono disarmonici nella direzione e nella entità: vi può essere, ad esempio, un nistagmo di terzo grado, con componente rotatoria, accompagnato da modesta deviazione degli indici, talora in assenza di vertigine, di nausea, di disturbi uditivi. Sono spesso presenti altri segni neurologici, espressione di danno di strutture nervo-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
se contigue ai centri vestibolari (segni cerebellari, deficit di altri nervi cranici).
Patologia vestibolare VERTIGINE DI ORIGINE PERIFERICA 1. Vestibulopatia periferica: comprende la “neuronite vestibolare”, la “labirintite” e la “neurolabirintite”; la preferenza verso una dizione che non implichi necessariamente una genesi infiammatoria deriva dal fatto che raramente è possibile documentare l’origine flogistica della vertigine. Si tratta di una malattia episodica, caratterizzata dalla comparsa improvvisa di vertigine, che può protrarsi per ore o giorni, con le caratteristiche di sindrome vestibolare armonica, spesso associata a nausea e vomito; i sintomi possono essere scatenati da bruschi spostamenti del capo. Talvolta si associa un deficit dell’udito. L’episodio vertiginoso si risolve nell’arco di alcuni giorni, ma vi è tendenza alla recidiva, spesso con modificazione delle caratteristiche del sintomo vertiginoso, che da vera e propria vertigine può assumere le caratteristiche di “instabilità posturale”, o “disequilibrio”, probabilmente anche grazie a meccanismi di compenso centrale. L’evidenza di un andamento talora epidemico o stagionale ha fatto ipotizzare una genesi infettiva della vestibulopatia, anche se questo è dimostrabile solo nel caso in cui la sindrome vertiginosa periferica si associ ad una infezione da Herpes Zoster, insieme al dolore auricolare ed alla tipica eruzione vescicolare in corrispondenza dell’orecchio esterno: l’associazione di questi sintomi con la paresi del 7° nervo cranico di tipo periferico configura la sindrome di Ramsay Hunt (v. pag. 277). 2. Vertigine posizionale benigna: si tratta di una sindrome vestibolare periferica, che colpisce soggetti di età media, con comparsa di vertigine di breve durata (20-30 secondi), a seguito di cambiamenti di posizione del capo, come
durante l’atto di sdraiarsi o di cambiare posizione nel letto. La vertigine ed il nistagmo possono essere provocati con la manovra di Hallpike: il soggetto, in posizione seduta, viene rapidamente adagiato sul piano orizzontale, con il capo fuori dal lettino di visita, iperesteso e ruotato da un lato. Dopo una latenza variabile (da 1 a 40 secondi) compaiono nistagmo e vertigine, che si estinguono nell’arco di alcune decine di secondi. L’esecuzione ripetuta del test consente di verificare il fenomeno dell’affaticamento, con progressiva attenuazione della sintomatologia. La vertigine posizionale benigna può essere causata dalla cupololitiasi, cioè dalla deposizione di sali di calcio in corrispondenza delle cupole dei canali semicircolari, oppure essere conseguenza di traumi cranici con concussione vestibolare. La prognosi è generalmente buona ed i sintomi si risolvono spontaneamente nell’arco di poche settimane. In alcuni casi vi è una risposta positiva al trattamento con esercizi di desensibilizzazione, che consistono in manovre di provocazione della sintomatologia con movimenti ripetuti del capo, allo scopo di “affaticare” il vestibolo affetto, riducendo progressivamente la frequenza e l’intensità degli attacchi vertiginosi. La vertigine posizionale benigna, di origine periferica, va differenziata dalla vertigine posizionale di origine centrale, in cui episodi con caratteristiche “posizionali” possono essere causati da malattie che coinvolgono il sistema nervoso centrale, come le neoplasie della fossa cranica posteriore. Le caratteristiche differenziali della vertigine posizionale periferica e centrale sono elencate nella tabella 7.11. 3. Vertigine di origine tossica: Gli agenti più frequentemente responsabili di un danno vestibolare sono gli antibiotici aminoglicosidici, in particolare streptomicina e gentamicina, mentre kanamicina, tobramicina e neomicina colpiscono maggiormente la componente cocleare dell’8° nervo cranico. I test vestibolari documentano un progressivo e irreversibile danno vestibolare bilaterale. Il danno da aminoglico-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Tabella 7.11 - Caratteristiche differenziali della vertigine posizionale (V.P.) in rapporto alla sede del danno Sintomi o segni
V.P. Periferica
V.P. Centrale
Latenza Durata Intensità Direzione nistagmo Faticabilità
1-40 sec. meno di 1 minuto elevata fissa, orizzontale presente
immediata persistente modesta variabile assente
sidi va differenziato da quello, generalmente transitorio, causato da altre sostanze vestibulotossiche (alcool, analgesici, antimalarici, anticonvulsivanti, ipnotici, antiipertensivi, antiaritmici, agenti antineoplastici). 4. Sindrome di Ménière: si tratta di attacchi acuti caratterizzati da vertigine, acufeni, ipoacusia, sensazione di “oppressione” auricolare. La crisi in genere inizia con una sensazione di pressione all’interno di un singolo orecchio, con successivo sviluppo di vertigine, acufeni (spesso a tipo “rombo”) e malessere generale crescente, fino ad un picco, con successiva risoluzione spontanea. I sintomi soggettivi sono molto intensi, e talvolta il soggetto può anche presentare caduta a terra, peraltro senza alterazioni dello stato di coscienza. Nel corso del tempo le vertigini si riducono di intensità, mentre si sviluppa una progressiva ipoacusia. La sindrome di Ménière è dovuta ad una idrope endolinfatica, con incremento del volume del liquido endolinfatico e conseguente distensione del canale. La maggior parte dei casi è idiopatica, anche se in alcuni soggetti è ipotizzabile un meccanismo infettivo virale o batterico; la comparsa di una sindrome di Ménière dopo un trauma cranico deve fare sospettare la presenza di una fistola perilinfatica, con passaggio patologico di perilinfa dall’orecchio interno all’orecchio medio. Il trattamento si avvale di farmaci diuretici, con lo scopo di ridurre la tensione derivante dall’idrope endolinfatica, e di farmaci sintomatici antivertiginosi; la fistola perilinfatica può essere oggetto di correzione chirurgica.
VERTIGINE DI ORIGINE CENTRALE A rigore di termini, le lesioni del nervo acustico dovrebbero essere incluse tra le cause di vertigini periferiche, in quanto il nervo è extraassiale. Tuttavia, sia la letteratura otoiatrica che quella neurologica classificano tali lesioni tra le cause di vertigine di origine centrale, che pertanto comprendono quelle causate da lesioni della componente vestibolare dell’8° paio dei nervi cranici, dei nuclei vestibolari, o delle loro vie associative centrali (vie cerebellari, visive, sensitive). Le vertigini di origine centrale sono decisamente più rare di quelle di origine periferica, rappresentando solo il 10% circa di tutte le vertigini e si caratterizzano per una minore intensità del sintomo vertiginoso, e per la possibile associazione con segni di danno neurologico a focolaio. 1. Lesioni cerebrovascolari tronco-encefaliche: un episodio cerebrovascolare, transitorio o stabilizzato, nel territorio vascolare vertebro-basilare può determinare la comparsa di vertigine, associata ad altri sintomi o segni quali deficit campimetrici, diplopia, disartria, atassia, deficit di forza o disturbi sensitivi agli arti o nel distretto craniale, talora nell’ambito di una sindrome alterna. La presenza di dolore latero-cervicale spontaneo o post-traumatico in concomitanza con l’esordio dei sintomi deve fare sospettare una dissezione dell’arteria vertebrale. La comparsa improvvisa di ipoacusia unilaterale associata a vertigine si osserva nelle lesioni infartuali nel territorio di distribuzione dell’arteria uditiva in-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
terna. La vertigine improvvisa, con caratteristiche simil-periferiche, può essere inoltre il sintomo di esordio di un infarto cerebellare nel territorio della arteria cerebellare postero-inferiore, o di un’emorragia cerebellare emisferica. In questi casi, le caratteristiche del nistagmo aiutano a differenziare il quadro da quello di una vestibulopatia periferica, dove il nistagmo è sempre unidirezionale, battente dalla parte opposta a quella del labirinto leso, mentre nella lesione acuta cerebellare è a direzione variabile, e si accentua con lo sguardo verso il lato del cervelletto colpito; si associano ovviamente i segni di danno emisferico cerebellare. Va ricordato infine che l’insorgenza improvvisa di vertigine in assenza di altri sintomi è raramente espressione di patologia cerebrovascolare. 2. Sclerosi multipla: una lesione demielinizzante tronco-encefalica con coinvolgimento delle vie vestibolari può manifestarsi con una sintomatologia vertiginosa, generalmente associata ad altri sintomi o segni di lesione del sistema nervoso centrale, con andamento remittente. 3. Tumori dell’angolo ponto-cerebellare e della fossa cranica posteriore: il più comune è il neurinoma dell’acustico, dove la proliferazione delle cellule di Schwann avviene usualmente nella porzione del nervo acustico che decorre all’interno del condotto uditivo interno: i sintomi si sviluppano lentamente nel tempo e comprendono, oltre alle vertigini (che sono spesso compensate e non costituiscono un sintomo preminente), ipoacusia, lesione del 7° e del 5° paio dei nervi cranici, segni di compressione del cervelletto e del tronco encefalico. Nelle fasi avanzate si può sviluppare anche una sindrome da ipertensione endocranica. Oltre al neurinoma (o schwannoma) dell’acustico, altre neoplasie (meningiomi, tumori epidermoidi e metastasi) possono svilupparsi in corrispondenza dell’angolo ponto-cerebellare. Anche le neoplasie di origine astrocitaria a sede troncoencefalica o cerebellare possono dare segno di sé con sintomi di tipo vertiginoso.
4. Neuropatie craniali: anche le multineuropatie craniali che talora insorgono nell’ambito di vasculiti, sarcoidosi, carcinomatosi meningee, possono danneggiare, tra gli altri, il nervo acustico e dare segno di sé con sintomatologia vertiginosa. La sindrome di Cogan rientra in queste multineuropatie, ed è caratterizzata da una cheratite associata a vertigine, tinnito, atassia, nistagmo ed ipoacusia progressiva. 5. Sindromi comiziali: crisi epilettiche con focolaio temporale possono talvolta essere causa di episodi accessuali vertiginosi. In tal caso la storia clinica rivela spesso la coesistenza, durante la crisi, di altri sintomi, come una riduzione del livello di vigilanza, la presenza di movimenti automatici, di angosciosa partecipazione emotiva, di allucinazioni uditive e visive complesse; oppure si tratta di episodi di perdita di coscienza preceduti da un’aura vertiginosa (v. pag. 000).
Sistema cocleare Anatomia Il nervo cocleare nasce dalle cellule del ganglio spirale, situate nella coclea, e trasmette gli stimoli acustici (vie afferenti somatiche speciali). Il prolungamento periferico del neurone gangliare termina nell’organo spirale del Corti, mentre il prolungamento centrale percorre il condotto uditivo interno, insieme al nervo vestibolare, e raggiunge i nuclei cocleari, situati nel bulbo, a livello della transizione bulbopontina, lateralmente al corpo restiforme (Fig. 7.34 e 7.35). La coclea, organo periferico dell’udito, è formata da tre canali paralleli avvolti a spirale, di cui due (il canale superiore o scala del vestibolo, chiuso dalla finestra ovale, ed il canale inferiore o scala del timpano, chiuso dalla finestra rotonda) contengono la perilinfa; mentre il terzo (canale intermedio o scala media, a sezione triangolare, il cui pavimento è detto membrana
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
A
B Fig. 7.34 - A. Schema dell’orecchio interno: le aree di epitelio sensoriale sono punteggiate. B. Schema raffigurante il ganglio del Corti e origine del n. cocleare; il ganglio di Scarpa e origine del n. vestibolare.
basale) contiene endolinfa. L’organo del Corti si trova sulla membrana basale: le cellule sensoriali sono dotate di ciglia, e circondate da cellule di sostegno, disposte in un’unica fila interna lungo il dotto cocleare, ed in tre file esterne. Tra la fila interna e le fila esterne si trova il tunnel del Corti, attraversato da fibre che giungono alle cellule ciliate esterne. Le ciglia delle cellule sensoriali entrano in contatto con la membrana tettoria, una massa gelatinosa ancorata all’angolo interno della scala media. Nell’organo del Corti è riconoscibile una localizzazione tonotopica: i toni alti sono registrati dalle cellule situate nella porzione basale del dotto cocleare, i toni bassi dalle cellule situate nella
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porzione apicale del dotto. Le fibre del nervo cocleare penetrano nel tronco encefalico a livello del solco bulbo-protuberenziale, e giungono ai nuclei cocleari, dorsale e ventrale. Dai nuclei le vie sopranucleari proseguono come corpo trapezoide, costituito da fibre che si incrociano a livello del ponte ed ascendono come lemnisco laterale, che termina nel collicolo inferiore ed in parte nel corpo genicolato mediale. A livello del collicolo inferiore, dove si trovano i neuroni di terzo ordine, la connessione tra i due lati è assicurata dalla commessura collicolare inferiore: pertanto, gli impulsi uditivi provenienti da un orecchio giungono ad entrambi i collicoli inferiori. Ne consegue che una lesione sopranucleare monolaterale non determina sordità. Le fibre provenienti dal collicolo inferiore terminano nel corpo genicolato mediale, dove l’organizzazione tonotopica è tale per cui le fibre che conducono le basse frequenze raggiungono la parte laterale, mentre quelle per le alte frequenze terminano medialmente. Dal corpo genicolato mediale partono fibre che giungono alla corteccia cerebrale a livello della prima circonvoluzione temporale (giro temporale traverso, aree 41 e 42 di Brodmann), dove l’organizzazione tonotopica è sempre riconoscibile. Oltre alla via ascendente uditiva crociata (con incrociamento a livello del corpo trapezoide), esiste una via ascendente omolaterale, che proietta dai nuclei cocleari al nucleo olivare superiore ed al collicolo superiore, e quindi alla corteccia temporale omolaterale. Vanno ricordate, infine, le vie centrifughe cortico-olivari ed olivococleari, che terminano sulle cellule recettoriali della coclea, con probabile funzione di modulazione centrale dell’attenzione uditiva selettiva. Fisiologia I suoni vengono definiti in termini di frequenza (misurata in cicli/sec. o Hertz) e di intensità (espressa in Decibel, dB); i suoni percepibili dall’orecchio umano rientrano in un intervallo
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 7.35 - Vie cocleari: dai nuclei cocleari dorsale e ventrale (bulbo) ascendono le vie acustiche centrali, che raggiungono la corteccia temporale.
di frequenze compreso fra 20 e 20.000 Hz. I suoni giungono al condotto uditivo esterno e vengono trasmessi dal timpano alla finestra ovale tramite la catena ossiculare (martello, incudine e staffa). Questa fase è detta della conduzione aerea. I “riflessi acustici”, per cui i muscoli stapedio (innervato dal 7° nervo cranico) e tensore del timpano (innervato dal 5° nervo
cranico) possono ridurre l’ampiezza della vibrazione della catena ossiculare, difendendo la coclea da stimoli troppo intensi e prolungati. Il principale centro riflesso è rappresentato dal collicolo inferiore. Vi è poi una conduzione ossea, dovuta alla vibrazione diretta delle strutture ossee, particolarmente importante come via alternativa, in
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
presenza di un danno alle strutture che consentono la trasmissione aerea del suono. La vibrazione della finestra ovale viene trasmessa alla perilinfa, come onda meccanica che risale e fa a sua volta oscillare la scala media. Ogni frequenza fa risuonare un preciso tratto della membrana basale della scala media, attivando così le cellule recettoriali corrispondenti. Il recettore fornisce quindi informazioni sulla frequenza del suono (sede delle cellule attivate) e sulla intensità del suono (numero di cellule attivate). Le vie acustiche trasportano l’impulso alla corteccia, ove viene decodificato. La bilateralità della rappresentazione delle vie acustiche, oltre a rappresentare una ridondanza che garantisce la trasmissione dell’impulso in caso di lesione centrale monolaterale, consente la localizzazione dello stimolo uditivo nello spazio.
Esame clinico ANAMNESI DEL SOGGETTO CON DISTURBI DELL’UDITO I sintomi più comuni in caso di lesione della via uditiva sono l’ipoacusia (si parla di sordità per i gradi di ipoacusia più elevati) ed il tinnito (detto anche acufene), che è una sensazione uditiva in assenza di stimoli. È sempre utile ricostruire la durata del sintomo, le modalità di esordio, le particolari condizioni che lo aggravano o al contrario lo alleviano. Utile inoltre raccogliere informazioni sulla presenza di disturbi analoghi in altri membri della famiglia, sull’attività lavorativa del soggetto (ad esempio in prossimità di macchinari rumorosi) e sulle attività del tempo libero (ad esempio la caccia). Va segnalata, infine, la possibilità che il soggetto lamenti un deficit inesistente della funzione uditiva, allo scopo di usufruire di vantaggi sul piano personale, assicurativo o lavorativo; in questi casi una valutazione obiettiva con test specifici consente di identificare l’inconsistenza o l’amplificazione del sintomo riferito.
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Esame otologico Il soggetto sano è in grado di udire da ogni orecchio la voce sussurrata fino ad una distanza di 6 metri. Una prima grossolana valutazione di un deficit di tale capacità va effettuata chiedendo al soggetto di discriminare la voce dell’esaminatore a distanze progressivamente maggiori. L’esame otoscopico consente di rilevare l’integrità della membrana timpanica e l’eventuale presenza di cerume che occlude anche parzialmente il condotto uditivo esterno. Si descrivono classicamente tre tipi di ipoacusia, definiti rispettivamente di trasmissione (o di conduzione), di percezione (o sensoriale) e neurale. a) L’ipoacusia di trasmissione è dovuta a lesioni dell’orecchio medio, per compromissione della trasmissione dell’energia sonora dal timpano alla finestra ovale. La percezione dei suoni per via aerea è compromessa, mentre è relativamente aumentata la trasmissione per via ossea, per l’aumentata rigidità della catena ossiculare; b) L’ipoacusia di percezione (sensoriale) è dovuta a lesioni delle cellule sensoriali della coclea. Il suono è condotto normalmente fino al recettore, ma il danno cocleare ne impedisce la codificazione. I suoni sono uditi meno sia per via aerea sia per via ossea, ed il deficit riguarda soprattutto i suoni acuti. Il fenomeno del “reclutamento” (per cui all’aumentare dell’intensità del suono un maggior numero di cellule sensoriali viene attivato) consente una percezione uditiva simmetrica, pur persistendo la difficoltà nella discriminazione verbale dal lato leso; c) L’ipoacusia neurale o retrococleare consegue ad un danno del nervo cocleare, con compromissione sia della trasmissione aerea che di quella ossea, specie per i toni acuti. In questo caso però, a differenza dell’ipoacusia sensoriale, dovuta a lesioni cocleari, l’aumento dell’intensità del suono non comporta un miglioramento percettivo, e non si verifica pertanto il fenomeno del “reclutamento”, donde la persistenza
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
della differente sensibilità tra i due lati anche con l’aumentare dell’intensità dello stimolo sonoro. La classificazione del tipo di ipoacusia rappresenta uno dei principali obiettivi dell’esame clinico e strumentale del soggetto ipoacusico. A questo scopo si procede a una serie di test clinici che utilizzano il diapason a 512 Hz (il diapason a 128 o 256 Hz, usualmente utilizzato nell’esplorazione della pallestesia, non deve essere utilizzato, perché lo stimolo vibratorio può essere erroneamente interpretato come suono dal soggetto esaminato). 1. Test di Weber: il diapason viene fatto vibrare e quindi appoggiato al vertice del capo, chiedendo al soggetto da quale lato provenga il suono: nel soggetto normoacusico (a) non vi è lateralizzazione dello stimolo, a differenza di quanto avviene nel soggetto con ipoacusia di trasmissione (b), ove lo stimolo viene lateralizzato verso il lato dove è presente il danno della conduzione aerea, a causa della prevalenza della conduzione ossea; oppure nel soggetto con ipoacusia sensoriale (c), in cui lo stimolo è lateralizzato verso l’orecchio sano. 2. Test di Rinne: si esamina un orecchio alla volta, occludendo il condotto uditivo esterno controlaterale all’orecchio esaminato. Il diapason è tenuto appoggiato alla mastoide fino a quando il soggetto afferma di non udirne più il suono; a questo punto viene avvicinato all’orecchio, a circa 2 cm dal condotto uditivo esterno. In tal caso il soggetto sano avverte ancora il suono, poiché la conduzione aerea è maggiore di quella ossea, mentre in presenza di ipoacusia di trasmissione il suono non viene percepito per via aerea, poiché questa è meno efficiente della via ossea (Rinne negativo). Nelle ipoacusie di percezione, il test ha esito analogo al soggetto sano (Rinne positivo). 3. Test di Schwabach: si basa sul confronto fra la percezione del suono prodotto dal diapason appoggiato sulla mastoide del paziente con l’analoga percezione dell’esaminatore, supposto normoacusico. Dapprima il diapason viene
appoggiato sulla mastoide del soggetto esaminato, e, quando la percezione del suono si è esaurita, sulla mastoide dell’esaminatore; quindi la prova è ripetuta, con il diapason posizionato inizialmente sulla mastoide dell’esaminatore. In presenza di una ipoacusia di trasmissione, il malato percepisce il suono per via ossea più a lungo dell’esaminatore. ESAMI STRUMENTALI Si tratta di test di competenza audiologica più che neurologica, anche se spesso il neurologo è chiamato ad emettere un parere clinico che tenga conto anche dell’esito di tali accertamenti. Audiometria tonale: comporta la somministrazione, all’interno di una cabina audiologica, di suoni puri di frequenze differenti, erogati con una cuffia o con un vibratore sulla mastoide. L’intensità minima percepita dal soggetto esaminato è definita intensità sogliare, e varia a seconda della frequenza. Viene così costruita una curva per ogni orecchio, detta audiogramma, dove l’ascissa rappresenta la frequenza in Hz e l’ordinata l’intensità in dB necessaria per la percezione del suono a quella determinata frequenza (Fig. 7.36). In presenza di ipoacusia, la curva corrispondente alla trasmissione aerea, così come quella corrispondente alla trasmissione ossea, presentano una “caduta” per i toni corrispondenti. Dall’esame dell’audiogramma si può quindi formulare la diagnosi di: a) ipoacusia di trasmissione, dove è presente una curva patologica per la conduzione aerea con normale trasmissione ossea (e compromissione maggiore per i toni bassi) (Fig. 7.36 A); b) ipoacusia di percezione, con compromissione della percezione sia per via aerea che per via ossea (Fig. 7.36 B); c) ipoacusia mista, come si osserva ad esempio nell’otosclerosi (Fig. 7.36 C). Nel corso dell’esame audiometrico si può effettuare inoltre il test di Fowler o del “reclu-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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tamento”, per cui all’aumento dell’intensità del suono la sensazione può aumentare (reclutamento positivo, nella ipoacusia cocleare) o restare immutata (reclutamento negativo, nella ipoacusia retrococleare). La prova di Lüscher esamina, per ciascuna frequenza, qual è il più piccolo aumento di intensità che il soggetto riesce a discriminare. Il valore di questa soglia differenziale cala con il crescere dell’intensità, ma in presenza di lesione cocleare si assiste ad un ulteriore abbassamento: questo fenomeno si spiega con il fatto che piccoli incrementi di intensità dei suoni comportano un reclutamento maggiore nell’orecchio con difetto cocleare che nell’orecchio sano. Nel soggetto sano la soglia va da 0.75 a 1.5 dB. La prova di Lüscher si definisce positiva quando la soglia discriminante è inferiore a 0.5 dB. Timpanometria: si tratta di una tecnica che valuta i cambiamenti dell’impedenza acustica del timpano conseguenti a modifiche della pressione aerea nel condotto uditivo esterno. L’impedenza acustica è la resistenza del sistema dell’orecchio medio al passaggio del suono. Un aumento dell’impedenza acustica comporta una ridotta trasmissione dell’impulso sonoro, ed è riferibile a patologie del timpano o dell’orecchio medio. Potenziali evocati uditivi: (v. pag. 361) rappresentano una metodica particolarmente utile per la diagnosi di sede di lesione in caso di ipoacusia neurale. Se la prima onda è normale in latenza ed ampiezza, e la terza e le successive sono meno ampie e più ritardate, si può ipotizzare una lesione del nervo acustico, come si osserva ad esempio nel neurinoma del nervo acustico. Fig. 7.36 - Esempi di audiogramma patologico (linea continua = via aerea; linea interrotta = via ossea). A) Sordità di trasmissione: riduzione della conduzione per via aerea, più accentuata per i toni gravi. B) Sordità di percezione: riduzione della conduzione per via aerea e per via ossea; le curve praticamente coincidono. Per la via aerea la caduta si accentua per i toni acuti. C) Sordità mista: riduzione delle conduzione per via aerea e per via ossea, più accentuata per la via aerea. La conduzione ossea (cioè ad orecchio otturato) è nettamente inferiore a quella del soggetto normale.
Patologia del sistema cocleare Ipoacusie di trasmissione: si realizzano per danno dell’orecchio medio, in presenza di integrità della coclea e del nervo cocleare. Le cause più frequenti sono rappresentate da difetti
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
congeniti dell’orecchio esterno, otite media, tappo di cerume, rottura della membrana timpanica, traumi a carico della catena ossiculare, otosclerosi. Nell’adulto la causa più frequente è l’otosclerosi, malattia genetica a trasmissione autosomica dominante con penetranza variabile, che comporta una iperproduzione ossea attorno alla finestra ovale, con irrigidimento progressivo, fino alla immobilizzazione, della staffa; nelle fasi avanzate della malattia l’ipoacusia diviene di tipo misto, poiché si associa una ipoacusia sensoriale. L’ipoacusia di trasmissione in genere risponde al trattamento medico o chirurgico e coinvolge caratteristicamente molte frequenze, per cui la curva audiometrica risulta tipicamente “piatta” (Fig. 7.36 A), anche se talora possono essere prevalentemente interessate le frequenze più basse. Rispetto agli altri deficit uditivi, nell’ipoacusia di trasmissione la discriminazione verbale è relativamente conservata. Il soggetto affetto spesso si esprime a voce bassa, poiché la buona trasmissione ossea consente di percepire la propria voce ad una buon volume; un’altra caratteristica dell’ipoacusia di trasmissione è la
migliore percezione della voce umana in ambienti rumorosi, probabilmente per l’incremento del volume sonoro della voce dovuto all’elevato rumore di fondo (paracusia di Willis). Va comunque ricordato che le caratteristiche descritte sono soggette a notevoli variazioni, a seconda dell’entità del deficit, della mono- o bilateralità dell’ipoacusia, delle caratteristiche individuali. Frequentemente si associa tinnito, usualmente di bassa frequenza (v. pag. 265). La semiologia clinica e strumentale differenziale tra i differenti tipi di ipoacusia sono descritte nella tabella 7.12. Ipoacusie di percezione: si intende classicamente per ipoacusia o sordità di percezione quella conseguente ad un danno cocleare, essendo le strutture anatomiche pre-cocleari integre. Le forme congenite sono dovute ad aplasia della coclea o a un danno verificatosi durante la vita intrauterina (ad es. nel corso di rosolia). Le forme perinatali sono spesso dovute a trauma cocleare da parto. Le forme acquisite dell’infanzia possono derivare da estensione all’orecchio interno di un’otite media complicata, mentre
Tabella 7.12 - Caratteristiche semeiologiche dei differenti tipi di ipoacusia.
Frequenze compromesse Trasmissione aerea Trasmissione ossea Test di Weber Test di Rinne Test di Schwabach Audiometria tonale Test di Fowler (reclutamento) Test di Luscher Timpanometria Potenziali evocati uditivi
Ipoacusia di trasmissione
Ipoacusia di percezione (cocleare)
Ipoacusia neurale (retrococleare)
alte compromessa migliorata lateralizza lato affetto – allungato caduta via aerea –
Basse compromessa compromessa lateralizza lato sano + accorciato caduta via aerea e ossea +
basse compromessa compromessa lateralizza lato sano – accorciato caduta via aerea e ossea –
– alterata Latenza onda 1: +++ Morfologia: normale
+ normale Latenza onda 1:+ Morfologia normale
– normale Latenza: onde 1 e 3 +++ Morfologia alterata onde3-5
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
nell’adulto la causa più frequente è il trauma acustico prolungato, professionale o extralavorativo. Altre cause apprezzabili nell’adulto sono i traumi cranici, le malattie vascolari, la degenerazione cocleare senile (presbioacusia), il danno da sostanze tossiche (salicilati, chinino, aminoglicosidi, diuretici dell’ansa). Il soggetto con ipoacusia di percezione si esprime tipicamente con un volume di voce più alto della norma, poiché la trasmissione ossea è ridotta, e la percezione soggettiva della propria voce dà l’impressione di un volume apparentemente troppo basso per essere udito dall’interlocutore. Le difficoltà di udito aumentano in ambienti rumorosi. Il deficit riguarda tutte le frequenze, ma può essere maggiore per le frequenze più elevate, consentendo così una preservata comprensione della voce umana, che utilizza frequenze più basse (Fig. 7.36 B). È tipicamente presente il fenomeno del “reclutamento”, per cui l’aumento di intensità del suono comporta un miglioramento della percezione dall’orecchio affetto. Il tinnito, quando presente, riguarda le frequenze alte (fischio, campanello…). Le ipoacusie di percezione possono trarre beneficio dall’utilizzo di apparecchi di amplificazione acustica. Va comunque ricordato che spesso può coesistere una ipoacusia di trasmissione con una ipoacusia percettiva (Fig. 7.36 C). Ipoacusie neurali: Per ipoacusie neurali si intendono le forme dovute a danno del nervo acustico a sede retrococleare, per neuropatie ereditarie, meningiti croniche dalla base cranica, lesioni demielinizzanti a livello dell’ingresso del nervo acustico nel tronco encefalico, neoplasie intracraniche. Tra i tumori, la sede di gran lunga più frequente è l’angolo ponto-cerebellare, dove si possono sviluppare meningiomi, colesteatomi, neurinomi del nervo acustico (v. pag. 000). L’audiometria mostra un deficit tipicamente percettivo, con assenza del fenomeno del “reclutamento”, ma non sempre agevolmente differenziabile dalla ipoacusia percettiva di
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origine cocleare. I potenziali evocati acustici possono essere di aiuto, contribuendo a localizzare la sede della lesione. Ipoacusie centrali: molto rare, grazie alla bilateralità delle proiezioni sopranucleari, si possono osservare in corso di lesioni del tronco piuttosto vaste o nelle lesioni bilaterali delle radiazioni acustiche o della corteccia temporale. IL TINNITO Viene definito come una sensazione soggettiva di rumore, che può avere differenti caratteristiche di intensità e di frequenza, da frequenze basse (rombo, tuono) a frequenze più alte (soffio, fischio, cinguettio, campanello…); spesso si associa a ipoacusia o sordità. I soggetti con ipoacusia di trasmissione presentano più frequentemente tinnito a bassa frequenza, a differenza dei soggetti con ipoacusia percettiva, in cui il tinnito copre frequenze più elevate. Fa eccezione la sindrome di Ménière, dove il tinnito ha le tipiche caratteristiche di “rombo” a bassa frequenza. Non è infrequente che, con il peggiorare dell’ipoacusia, il tinnito tenda a diminuire di intensità. Talora il sintomo è riportato come costante, più spesso come un fenomeno intermittente, e l’intensità può essere tale da interferire con le usuali attività e compromettere significativamente la qualità della vita della persona. Si tratta di un sintomo molto aspecifico, che può essere espressione di patologie molto differenti, per cui un attento e completo esame neurologico e neuro-otologico è sempre d’obbligo nel soggetto che lamenta tinnito. Nei soggetti con funzione uditiva e test audiometrici normali va ipotizzata l’origine psichica del disturbo, o l’origine tossica, da farmaci che non compromettono la funzione uditiva (chinidina, indometacina, carbamazepina, levodopa, propranololo, aminofillina). Oltre al tinnito descritto, detto anche “soggettivo”, esiste il più raro tinnito “oggettivo”, in cui
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
il rumore è percepito non solo dal paziente, ma anche dall’esaminatore. Tale condizione si realizza ad esempio nelle malformazioni arterovenose o nelle stenosi dei vasi sopraaortici, dove il suono è sincrono con il polso ed è percepibile al fonendoscopio come rumore di “soffio”. Un altro esempio di tinnito obiettivo, di origine meccanica, è quello che si può rilevare nei soggetti con mioclono palatale. Il trattamento del tinnito comporta la rimozione, ove possibile, della causa sottostante. Laddove questo non sia possibile, il trattamento sintomatico del tinnito soggettivo può essere di carattere farmacologico (carbamazepina, benzodiazepine, antidepressivi), o fisico (biofeedback).
Il nucleo motore del V paio è situato nella parte media del ponte in posizione dorso-laterale, medialmente al nucleo sensitivo principale (Fig. 7.37). Le fibre escono dalla parte laterale del ponte distinte dalla porzione sensitiva, formando la radice motoria, che macroscopicamente si congiunge alla più grossa radice sensitiva a circa 1 cm di distanza dal ponte. Raggiungono la periferia unite alle fibre sensitive della 3ª branca mandibolare e forniscono rami motori ai muscoli massetere, temporale e pterigoidei interno ed esterno. Innervano anche il muscolo tensore del timpano, il tensore del palato, il miloioideo ed il ventre anteriore del m. digastrico.
V. N. trigemino
NUCLEI E VIE AFFERENTI SOMATICHE GENERALI.– Le cellule d’origine del trigemino sensitivo si trovano nel ganglio semilunare o di Gasser, situato nella superficie dorsale della piramide
C. Loeb Il trigemino è un nervo misto sensitivo-motore che, per mezzo delle sue tre branche periferiche: oftalmica, mascellare, mandibolare (di qui la sua denominazione), provvede all’innervazione motrice dei muscoli masticatori e all’innervazione sensitiva della cute della faccia, della congiuntiva, del globo oculare inclusa la cornea, delle meningi della fossa cranica anteriore e media, del tentorio del cervelletto, delle pareti dei vasi del poligono di Willis, della mucosa buccale, dei due terzi anteriori della lingua, della mucosa dei seni frontali e mascellari, dei denti e della mucosa nasale. NUCLEI E VIE EFFERENTI SOMATICHE SPECIALI. – La via sopranucleare nasce nella porzione inferiore dell’area precentrale, attraversa la capsula interna in corrispondenza del ginocchio, decorre nella porzione mediale dei tre-quinti medi del peduncolo cerebrale (via cortico-bulbare) e discende in prossimità del lemnisco mediale per raggiungere, nella porzione dorso-laterale del ponte, il nucleo motore del trigemino omo- e controlaterale (Fig. 2.14).
Fig. 7.37 - Disegno schematico raffigurante il nucleo del V paio motorio (nel ponte) e sensitivo.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
petrosa in prossimità dell’apice. Dalle cellule del ganglio si dipartono: 1) una branca centrale che entra nella parte laterale del ponte (ventralmente e distinta dalla branca motrice), che costituisce la radice sensitiva retrogasseriana, e che raggiunge i nuclei sensitivi; 2) una branca che raggiunge la periferia attraverso i tre nervi oftalmico, mascellare e mandibolare. I nuclei sensitivi del trigemino sono costituiti da tre porzioni differenti: il nucleo mesencefalico, il nucleo sensitivo principale (pontino) e il nucleo del tratto spinale o della radice discendente (Fig. 3.6 e Fig. 7.37). Le fibre appartenenti ai gruppi Ia, Ib e II provenienti dai propriocettori (fusi neuromuscolari, recettori articolari) terminano nel nucleo mesencefalico.
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Le grosse e medie fibre mielinizzate (A alfa e beta) provenienti dalla cute e recanti la sensibilità da meccanocettori cutanei a bassa soglia terminano nel nucleo sensitivo principale (pontino) con una precisa proiezione somatotopica. Le fibre più sottili (A delta e C), provenienti principalmente da nocicettori e termocettori, terminano nel nucleo del tratto spinale, che si estende lunbo il bulbo sino ai primi segmenti cervicali, costituendo un proseguimento delle lamine dorsali del corno posteriore del midollo spinale. La porzione più caudale del nucleo del tratto spinale del trigemino riceve anche fibre provenienti dalle radici dorsali dei primi segmenti cervicali e ciò potrebbe spiegare l’irradiazione del dolore trigeminale ad aree non innervate dal V.
Fig. 7.38 - Schema del decorso e distribuzione delle tre branche periferiche del n. trigemino (V paio).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
frontali). La dura è innervata dal trigemino, salvo a livello della fossa cranica posteriore ove l’innervazione è dipendente dal X. Bisogna inoltre aggiungere che l’organizzazione funzionale e le connessioni anatomiche dei nuclei sensitivi del trigemino sembrano particolarmente complesse e non ancora del tutto chiarite.
Esame della funzione del V paio
Fig. 7.39 - Topografia sensitiva periferica del capo.
La porzione o branca periferica che trae la sua origine dalle cellule del ganglio di Gasser, si divide in tre nervi: il n. oftalmico, il n. mascellare e il n. mandibolare, che lasciano la cavità cranica attraverso la fessura orbitale superiore (n. oftalmico), il forame rotondo (n. mascellare) e il forame ovale (n. mandibolare) (Fig. 7.38). La distribuzione cutanea è dimostrata nella Fig. 7.39. Si osservi che il nervo mandibolare ha la sua distribuzione inferiore diversi centimetri al di sopra del margine della mandibola e che la conca auricolare è innervata dal VII (n. intermediario) e dal X (Fig. 7.49) (v. pag. 283). Si deve sottolineare che le diverse aree cutanee di distribuzione sono molto scarsamente sovrapposte e i confini con l’area di distribuzione dei nervi spinali sono molto netti. Alla branca oftalmica è associato il ganglio ciliare, alla branca mascellare il ganglio sfenopalatino, alla branca mandibolare il ganglio otico; queste strutture sono in rapporto con le funzioni vegetative (secrezione lacrimale, mucosa, salivare, l’innervazione della mucosa nasale, della cavità orale, dei seni mascellari e
L’esame della funzione motoria consiste nel testare l’efficienza dei muscoli masticatori (temporale, massetere, pterigoidei interno ed esterno): si ordina al paziente di chiudere fortemente la bocca e si apprezza palpatoriamente la contrazione del temporale e del massetere; tentando di aprire la bocca, se ne valuta la forza; lo spostamento laterale della mandibola permette di apprezzare la funzione degli pterigoidei. Se l’ipostenia è unilaterale, difficilmente il paziente la avverte spontaneamente, ed è quindi importante effettuare le specifiche prove di forza appena descritte. L’esame della funzione sensitiva consiste nel valutare, con la tecnica già descritta nell’esame della funzione sensitiva, la sensibilità tattile, termica e dolorifica. Una serie di riflessi che hanno come branca afferente il trigemino e come branca efferente lo stesso trigemino o altri nervi cranici, permettono di esaminare clinicamente o strumentalmente la via trigeminale e alcune delle sue connessioni. I riflessi più importanti elicitabili sia clinicamente (per la tecnica di esecuzione, v. pag. 49) sono: 1) il riflesso masseterino (v. pag. 49) in cui le strutture implicate sono: fibre afferenti trigeminali propriocettive della branca mandibolare, nucleo sensitivo mesencefalico, nucleo motore del trigemino (attraversamento di una sola sinapsi), radice motoria e nervi motori periferici trigeminali. 2) il riflesso di ammiccamento o blink reflex (valutazione clinica e strumentale) (v. pag.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
276, 358): afferenti esterocettive, nucleo sensitivo principale, nucleo del nervo faciale dello stesso lato (per la parte precoce del riflesso, o R1); la parte tardiva del riflesso (R2) è mediata dall’attivazione del nucleo trigeminale spinale con proiezioni su i nuclei del nervo faciale ipsi e contro-laterali. 3) Il riflesso corneale (v. pag. 50) (valutazione clinica e strumentale): afferenti nocicettive, nucleo spinale trigeminale, nucleo del nervo faciale ipsi e contro-laterale. L’attività riflessa elicitabile solo con mezzi strumentali si riferisce a: – riflesso inibitorio masseterino (anche indicato come periodo silente della muscolatura masticatoria): afferenze esterocettive dalla II e III branca trigeminale, nucleo spinale trigeminale con proiezioni ipsi e contro-laterali al nucleo motore trigeminale. – riflessi trigemino-cervicali afferenti nocicettive, nucleo motore trigeminale ipsi e controlaterale attraverso vari interneuroni. È anche possibile valutare la conduzione delle fibre afferenti trigeminali per mezzo dei potenziali evocati trigeminali precoci.
Sintomatologia da lesione delle vie trigeminali TRIGEMINO MOTORIO Le lesioni sopranucleari che distruggono le vie cortico-bulbari, destinate al nucleo motorio, producono raramente sintomi, poichè il nucleo motorio, nella maggior parte degli individui, riceve fibre cortico-bulbari dai due emisferi. Nei rari casi in cui le fibre cortico-bulbari provengono esclusivamente dall’emisfero controlaterale, si manifesta, solitamente assieme ad una emiparesi dovuta a lesione capsulare, ipostenia della muscolatura masticatoria. Se la lesione interessa le vie cortico-bulbari bilateralmente si ha un
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disturbo della masticazione come nella paralisi pseudobulbare. L’accentuazione del riflesso masseterino è caratteristica dell’interessamento sopranucleare bilaterale, come avviene nella paralisi pseudobulbare. Per lesioni del nucleo motore e della branca motoria si osserva paralisi periferica dei muscoli innervati: atrofia delle regioni sopra e sottozigomatiche e della guancia; minor validità nella masticazione; minor resistenza alla palpazione del pavimento della bocca per atrofia dei muscoli miloioideo e del ventre anteriore del digastrico; a bocca aperta la mandibola devia dal lato paralizzato per azione dei muscoli pterigoidei del lato opposto e non può essere spostata verso il lato sano; il riflesso masseterino è assente dal lato leso. La paralisi del muscolo peristafilino esterno provoca un abbassamento del pilastro posteriore del velo palatino ed una modesta deviazione dell’ugola dal lato sano; la paralisi del muscolo tensore del timpano può causare ipoacusia. Nella lesione bilaterale della branca motrice la mandibola è cadente ed immobile, la masticazione è impossibile e la saliva scola attraverso la bocca aperta. La mancanza del riflesso masseterino ed i segni di paralisi periferica differenziano questo quadro di paralisi nucleare da un analogo quadro di paralisi sopranucleare del trigemino. Si può in quest’ultimo caso dimostrare il fenomeno sincinetico palpebra-mandibola, cioè la contrazione forzata dell’orbicolare della palpebra si associa al movimento laterale della mandibola verso il lato opposto. Le lesioni nucleari possono essere dovute a malattie vascolari o tumorali, quelle del nervo periferico saranno indicate a proposito del trigemino sensitivo. TRIGEMINO SENSITIVO La lesione può interessare i nuclei sensitivi, il ganglio di Gasser, le tre branche periferiche.
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Fig. 7.40 - Topografia sensitiva cutanea nucleare del trigemino (disposizione cosiddetta a cipolla).
LESIONE NUCLEARE. – Il disturbo della sensibilità (specie per il caldo e freddo) riguarda la faccia con una disposizione peculiare concentrica o disposizione a cipolla (Fig. 7.40). Il disturbo della sensibilità è localizzato alla fronte per lesioni della porzione caudale del n. principale e della radice discendente, alla regione temporale e alle palpebre per lesioni della porzione più rostrale del n. principale, al naso e alla guancia per lesione della porzione più anteriore. Le cause più comuni di lesione sono: siringobulbia, trombosi dell’arteria cerebellare posteroinferiore, tumori del tronco encefalico. LESIONE DEL GANGLIO DI GASSER E DELLA RADIIl disturbo della sensibilità interessa tutto il territorio delle tre branche realizzando un’anestesia totale omolaterale, associata a paralisi trigeminale motoria nel caso sia coinvolta anche la radice motoria contigua. Si osserva anestesia cutanea dell’emifaccia dalla fronte al mento e della mucosa del naso, bocca, tonsille, pilastro posteriore del faringe e due terzi anteriori della lingua (solo sensibilità tattile). Saltuariamente può manifestarsi una cheratite neuroparalitica.
CE RETROGASSERIANA.–
Le cause più comuni di lesione sono: malattie infiammatorie o tumorali in aree contigue, e talora tumori dello stesso ganglio. In questi casi il dolore è distribuito nell’area delle tre branche associato ad anestesia totale e ad assenza di zone «trigger». Intossicazioni da solventi organici, soprattutto il tricloroetilene, possono provocare una lesione elettiva della porzione sensitiva del trigemino a livello della radice retrogasseriana. Malattie sistemiche del connettivo, come il lupus erythematosus, la dermatomiosite, la sclerodermia e la sindrome di Sjögren possono essere le cause di una neuropatia trigeminale che si manifesta principalmente sotto forma di deficit sensitivo localizzata ad una o più branche trigeminali, spesso bilateralmente, anche se in modo asimmetrico. La neuropatia non si accompagna quasi mai a dolore, ma sono presenti tormentose parestesie. Talvolta la neuropatia di tipo sensitivo si può manifestare anche in maniera apparentemente “primitiva” e può essere accompagnata da interessamento della parte motoria, con atrofia dei muscoli masticatori e persino delle strutture ossee faciali. LESIONI DELLE TRE BRANCHE PERIFERICHE a) Branca oftalmica La lesione della branca oftalmica comporta anestesia nel territorio corrispondente cioè: la fronte, l’occhio, la palpebra superiore, la mucosa dei seni frontali e del naso (salvo la parte più laterale in corrispondenza della narice) (Fig. 7.39); perdita del riflesso corneale e congiuntivale e del riflesso oculocardiaco; rimane la secrezione lacrimale. Si può manifestare inoltre cheratite paralitica, per l’assenza dei riflessi corneale e di ammiccamento che hanno funzione di protezione dell’occhio. La fotofobia, cioè intolleranza e dolore all’esposizione degli occhi alla luce, si può riscontrare quando è lesa la branca oftalmica o in altre condizioni quali malattie del segmento an-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Il nervo nasociliare fornisce rami per l’area delle cellule etmoidali posteriori e per il seno sfenoidale (nervo etmoidale); rami per la mucosa nasale anteriore e attraverso il ramo nasale esterno per la cute della punta del naso; e un ramo per il ganglio ciliare. Il ganglio ciliare, situato all’apice dell’orbita, è un ganglio parasimpatico associato alla 1ª branca del trigemino. Riceve rami dal III paio, dal n. nasociliare (V paio), e rami simpatici dal plesso cavernoso; invia rami allo sfintere irideo (come nervi ciliari brevi).
b) Branca mascellare
Fig. 7.41 - Topografia sensitiva del trigemino nel cavo buccale.
teriore dell’occhio (congiuntiviti, cheratiti, iriti, iridocicliti, opacità corneali, del cristallino e del vitreo). È tipica in alcune malattie neurologiche quali emicrania, meningite, emorragia subaracnoidea, ed ancora si ritrova nell’acrodinia e nell’acromegalia. La fotofobia potrebbe rappresentare, in caso di malattie extraoculari, un esempio di dolore riferito che utilizza le vie trigeminali e i meccanismi centrali del trigemino sensitivo. Il riflesso oculo-cardiaco o di Dagnini-Ascher consiste in bradicardia, nausea e fenomeni presincopali o sincopali per compressione dei bulbi oculari. L’arco afferente utilizza la branca oftalmica e i sintomi che si manifestano sono dovuti alle connessioni nucleari col vago. La branca oftalmica, prima di abbandonare il seno cavernoso si divide in tre rami: nervo lacrimale, nervo frontale, nervo nasociliare o ciliare (Fig. 7.38). Il nervo lacrimale raggiunge la ghiandola lacrimale. Il nervo frontale si divide in diverse branche, la più importante delle quali emerge sulla fronte attraverso il forame (o incisura) sopraorbitale e fornisce la sensibilità alla cute della fronte.
La lesione di questa branca comporta anestesia nel territorio corrispondente (Figg. 7.39) e cioè: la cute della guancia e del labbro superiore, parte della regione temporale, la palpebra inferiore, la cute della porzione laterale del naso in corrispondenza della narice, parte della mucosa del naso, le radici dentali superiori, il nasofaringe, il seno mascellare, il palato molle, le tonsille e la mucosa del palato. Il n. mascellare si divide in diverse branche: nervo meningeo medio; nervi sfenopalatini, che formano la via afferente del ganglio sfenopalatino o di Meckel; n. alveolare superiore; n. zigomatico che invia anastomosi al n. lacrimale. Il ganglio sfenopalatino è situato nella parte superiore della fossa pterigoidea. L’apporto sensitivo è costituito dai rami sfenopalatini; la via motoria proviene dal ganglio genicolato del facciale attraverso il nervo grande petroso superficiale; l’apporto simpatico proviene dal plesso carotideo. Le fibre in partenza dal ganglio vanno al faringe, al palato molle e duro, alle tonsille, alla mucosa del turbinato superiore e medio, alle ghiandole lacrimali, al periostio orbitario.
c) Branca mandibolare La lesione della branca mandibolare comporta anestesia nell’area corrispondente (Fig. 7.39) e cioè: parte della cute, della mucosa della guancia e del labbro inferiore, la parte superiore della cute dell’orecchio, la parte superiore della cute del meato acustico, la membrana timpanica, la parotide, e la parte temporale inferiore della cute del capo, i due terzi
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
anteriori della lingua, le radici dentali inferiori (Fig. 7.41). Il ganglio otico, situato al di sotto del foro ovale, riceve vie parasimpatiche attraverso il nervo piccolo petroso superficiale; vie sensitive dal nervo mandibolare, e vie simpatiche dal plesso meningeo; invia fibre ad azione secretoria attraverso il nervo auricolo-temporale alla parotide.
Lesioni delle branche trigeminali, in sommario, possono essere causate da: a) tumori, con compressioni o infiltrazioni lungo tutto il decorso. A livello del mento, sono frequenti le lesioni metastatiche da tumore polmonare o mammario (lesione del nervo alveolare inferiore); a livello della guancia, può essere frequentemente riferita una storia di carcinoma cutaneo a cellule squamose; b) traumi: specie del nervo sovraorbitario ed infraorbitario; c) patologia infettiva, più frequentemente da herpes simplex ed herpes zoster. La branca del V più frequentemente colpita è quella oftalmica. d) lesioni con azione compressiva moderata (piccoli tumori a lento accrescimento, vasi tortuosi- conflitto neuro-vascolare), o in grado di disturbare la conduzione (piccole placche di demielinizzazione in malati di
sclerosi multipla) della radice retrogasseriana nel suo punto di ingresso nel ponte (“root entry zone”) meritano un cenno a parte. Infatti queste lesioni non sono in grado di provocare una ipoestesia, ma causano una alterazione nella modalità di scarica delle fibre afferenti, e ciò si traduce, clinicamente, in una caratteristica sindrome dolorosa, denominata “nevralgia trigeminale” o “tic douloureux” (v. pag . 000).
VII. N. faciale e n. intermediario di Wrisberg C. Loeb Il nervo faciale e il n. intermediario di Wrisberg, talora trattati separatamente, costituiscono un nervo misto denominato nervo intermediario-facciale. Il nervo faciale propriamente detto costituisce la parte motoria, il nervo intermediario la parte sensitiva. Il nucleo del nervo faciale è situato nel terzo inferiore del ponte, medialmente alla radice discendente del V (Fig. 7.42). Le fibre, uscite dal
Fig. 7.42 - Schema, in sezione frontale, della sede dei nuclei del n. facciale (VII paio) e del n. abducente (VI paio) nel ponte, e del decorso intrapontino delle loro fibre.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
nucleo, si radunano in un fascio che, diretto dorsalmente, compie una curva attorno al nucleo del VI nervo cranico sotto il pavimento del IV ventricolo (cosiddetto ginocchio del nervo facciale) e fuoriesce dalla faccia ventrale del ponte in corrispondenza del solco bulbo-protuberenziale al di sopra e lateralmente all’oliva bulbare (vie efferenti somatiche speciali). Il tronco del nervo faciale, accollato all’VIII paio, attraversa l’angolo ponto-cerebellare, penetra, tramite il foro acustico interno, nel canale del faciale, scavato nella rocca petrosa, lo percorre in tutta la sua lunghezza e fuoriesce dal cranio attraverso il foro stilomastoideo. Durante il percorso intrapetroso fornisce rami al muscolo stapedio e, in corrispondenza della porzione terminale del canale faciale, allo stiloioideo e al ventre posteriore del digastrico; il tronco del nervo, attraversata la parotide, si divide in due rami che si distribuiscono a tutti i muscoli della faccia (escluso l’elevatore della palpebra superiore ed i muscoli masticatori) ed al platisma (Fig. 7.43). In clinica si distingue la paresi del «faciale superiore» e la paresi del «faciale inferiore»: i muscoli innervati da una porzione ben delimitata del nucleo del faciale (la parte intermedia) cioè il muscolo frontale, il corrugatore del sopracciglio e l’orbicolare delle palpebre, rappresentano i muscoli innervati dal «faciale superiore»; i muscoli innervati dal gruppo cellulare laterale, cioè quelli della parte inferiore della faccia (zigomatico, elevatore delle labbra, orbicolare delle labbra, buccinatore, risorio, quadrato del labbro superiore, quadrato del mento, platisma) rappresentano il «faciale inferiore». L’importanza di questa distinzione è in rapporto con le connessioni sopranucleari del nucleo del faciale. La via sopranucleare del faciale inizia dalla porzione inferiore della circonvoluzione precentrale, decorre nel ginocchio della capsula interna, nella parte media del peduncolo cerebrale e, come fascio cortico-bulbare (Fig. 2.11), attraversa il tegmento per portarsi al nucleo del VII
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controlaterale per la muscolatura dei due terzi inferiori della faccia, ai nuclei omo e controlaterali per quanto riguarda la muscolatura del terzo superiore della faccia (muscoli frontale, orbicolare delle palpebre, corrugatore del sopracciglio). Il «faciale superiore» ha quindi una innervazione sopranucleare bilaterale e il «faciale inferiore» solamente un’innervazione sopranucleare controlaterale. Pertanto la paralisi faciale dovuta a lesione delle vie sopranucleari colpisce esclusivamente i muscoli dei due terzi inferiori della faccia, e la paralisi si definisce «centrale», mentre la paralisi faciale dovuta a lesioni del nucleo o del nervo colpisce tutti i muscoli innervati dal faciale e la paralisi si definisce «periferica» 20. Il nervo intermediario di Wrisberg nasce dalle cellule del ganglio genicolato, situato nel canale di Falloppio: i prolungamenti centrali si portano al nucleo del fascicolo solitario del bulbo, i prolungamenti periferici hanno funzione gustativa (vie afferenti viscerali speciali), stimolano la secrezione salivare, lacrimale (vie efferenti viscerali generali) e hanno funzione sensitiva (vie afferenti somatiche generali) (Fig. 7.7). La funzione gustativa si riferisce ai due terzi anteriori della lingua. La funzione dell’intermediario nel gusto è stata discussa ed è ancora controversa. Ciò dipende da diversi fattori che interferiscono con l’esame del gusto: la collaborazione del p., il fatto che con l’età le papille gustative diminuiscono, la constatazione che il senso del gusto può essere differentemente apprezzato da ciascuno. Le fibre gustative, che
20
Alcuni Autori (in particolare otorinolaringoiatri, vedi Legent et al., 1976) ritengono che le fibre radicolari del n. facciale subiscano un incrociamento parziale prima dell’origine apparente del nervo, e quindi indicano in questa particolarità anatomica la ragione delle differenze semeiotiche tra paralisi centrale e periferica. Anche Bairati (1961 e 1975) dà notizia di questa discussione, che, peraltro, non è menzionata nei più autorevoli testi di neuroanatomia e neurologia.
Fig. 7.43 - Origine, decorso, distribuzione del n. facciale (VII paio).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
dipartono dai due terzi anteriori della lingua, si raccolgono nel nervo linguale (ramo della branca mandibolare del V paio) e poi nella corda del timpano (ramo del VII paio) e raggiungono il nucleo del tratto solitario, situato nel pavimento del IV ventricolo a livello del ponte e del bulbo. Le fibre che stimolano la secrezione lacrimale originano nel nucleo salivatorio superiore del VII e attraverso il nervo intermediario raggiungono il ganglio genicolato, di qui entrano nel nervo petroso superficiale, e terminano al ganglio sfeno-palatino. Da questo, attraverso il ramo zigomatico (branca mascellare del V paio), il nervo zigomatico-temporale e il nervo lacrimale innervano le ghiandole lacrimali provocando vasodilatazione e secrezione lacrimale. Accanto all’innervazione parasimpatica, ora descritta, esiste una innervazione simpatica che origina dalla colonna intermedio-laterale dei segmenti T1 e T2 e attraverso il tronco simpatico raggiunge il ganglio cervicale superiore, il plesso carotideo e le ghiandole salivari provocando vasocostrizione e riduzione della secrezione. Le fibre che stimolano la secrezione salivare originano dal nucleo salivatorio superiore del VII e attraverso il nervo intermediario, raggiungono il ganglio genicolato. Di qui percorrono il fascio del nervo facciale che, al di sotto del forame stilomastoideo, abbandonano per immettersi nella corda del timpano e poi nel n. linguale, ramo del V paio, e raggiungono il ganglio sottomascellare da cui si distribuiscono alle ghiandole sottomascellari e sottolinguali, con azione vasodilatatoria ed eccito-secretiva. Accanto alla innervazione parasimpatica ora descritta, esiste un’innervazione simpatica, le cui fibre originano dalla colonna intermedio-laterale dei primi segmenti toracici, arrivano al ganglio cervicale superiore e di qui alle ghiandole, con azione vasocostrittrice e iposecretiva. Gli impulsi sensitivi somatici dalla cute dell’orecchio esterno, dal meato uditivo esterno e dalla membrana timpanica (zona di Ramsay Hunt) decorrono lungo vie nervose che non possono essere facilmente schematizzate per l’ampia variabilità individuale, dovuta alle differenze dell’area di distribuzione periferica che si sono andate realizzando nella scala dei vertebrati fino all’uomo. Concorrerebbero all’innervazione sensitiva: rami sensitivi del n. intermediario; la branca auricolare del vago; il nervo auricolo-temporale del trigemino; forse rami sensitivi del glossofaringeo. Una schematizzazione abbastanza comune (e da noi, al momento, adottata) riferisce l’area cutanea della conca auricolare innervata da: rami sensitivi somatici dell’intermediario, che raggiungono il ganglio genicolato, da dove i rami
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centripeti pervengono alla radice discendente del V paio; ramo sensitivo somatico del vago (n. auricolare), che raggiunge il ganglio giugulare, da dove i rami centripeti raggiungono la radice discendente del V paio (Fig. 7.49).
Esame della funzione del n. faciale Per eliminare ripetizioni, la semeiotica verrà trattata nel paragrafo seguente. SINTOMATOLOGIA DA LESIONE DEL N. FACIALE Paralisi periferica. – È dovuta a lesioni che colpiscono il nucleo del nervo nel ponte (disturbi vascolari, tumori, poliomielite) o il tronco del nervo nel suo decorso nella fossa posteriore (tumori dell’angolo ponto-cerebellare), nel canale dell’osso temporale (traumi, processi infiammatori), al di fuori del cranio (alterazioni della ghiandola parotide, lesioni traumatiche). L’ispezione mostra spianamento delle rughe della fronte, impossibilità a chiudere le palpebre (lagoftalmo), mancanza dell’ammiccamento, perdita di lacrime lungo la guancia, poichè l’eversione della palpebra inferiore e l’allontanamento del punctum della congiuntiva impediscono l’assorbimento delle stesse; spianamento del solco naso-genieno, scomparsa del solco naso-labiale, abbassamento dell’angolo delle labbra, mancanza di espressione nell’emifaccia colpita, abbassamento della parte posteriore della lingua nel cavo orale dal lato leso per paralisi del ventre posteriore del digastrico. Il soggetto non è capace, dal lato paretico, di corrugare la fronte, di chiudere la rima palpebrale, di gonfiare la gota, di fischiare; l’espressione faciale risulta distorta nel sorridere e nel piangere, i cibi solidi si raccolgono tra guancia e gengiva ed i liquidi scolano lungo l’angolo della bocca. L’esame della funzionalità dei muscoli innervati dal VII si attua con le seguenti modalità: – muscolo frontale: il malato tenta di aprire gli occhi, tenuti chiusi dalle dita dell’esaminatore; si
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dimostra, con questa manovra, una contrazione massimale poiché il frontale è un muscolo ad azione sinergica con l’elevatore della palpebra; – orbicolare della palpebra: il soggetto deve chiudere gli occhi tenuti aperti dalle dita dell’esaminatore; non si avverte dal lato paretico la vibrazione, dovuta alla contrazione dell’orbicolare (segno della vibrazione delle palpebre); nel tentativo di chiudere gli occhi dal lato paretico, per diminuzione della contrazione dell’orbicolare, le ciglia sporgono di più che dalla parte sana (segno di Souques). Nel tentativo di chiudere gli occhi si mettono in evidenza particolari fenomeni che riconoscono la loro origine nella sincinesia tra l’orbicolare dell’occhio ed alcuni muscoli innervati dall’oculomotore, che esistono anche nel soggetto normale, ma che acquistano nella paralisi dell’orbicolare particolare rilievo semeiotico. Nel caso di paresi dell’orbicolare prevale l’azione del muscolo sincinetico innervato dal III paio; il più comune di questi fenomeni è il fenomeno di Bell che consiste nella rotazione verso l’alto e leggermente all’esterno del globo oculare nel tentativo di chiudere gli occhi (sincinesia tra orbicolare e retto superiore); nello sguardo forzato verso l’alto il globo oculare dal lato della paresi si sposta apparentemente più in alto e più in fuori (fenomeno ipercinetico di Negro o sincinesia tra orbicolare e retto superiore); nello sguardo verso il basso e successiva chiusura degli occhi, si osserva dal lato deficitario una marcata contrazione dell’elevatore della palpebra superiore che, per la mancata contrazione dell’orbicolare, fa rilievo al di sotto della cute (fenomeno di Dutemps e Cestan, o sincinesia tra orbicolare ed elevatore della palpebra superiore). Per esaminare la muscolatura della parte inferiore del viso si invita il paziente a compiere alcuni semplici movimenti: stirare gli angoli della bocca come per sorridere o per mostrare i denti; protrudere le labbra, fischiare, gonfiare le gote. L’accumulo di cibo nella guancia rivela la paralisi del buccinatore, che rende anche difficile spegnere una candela.
Per esaminare la funzionalità del platisma, si invita il paziente ad abbassare il mento verso il torace contro resistenza; in tal caso la contrazione delle fibre del platisma non si evidenzia dal lato paretico. I principali riflessi mediati dal nervo faciale sono: – il riflesso naso-lacrimale: le lacrime sono prodotte dalla stimolazione della mucosa nasale. Via afferente il trigemino, centro pontino, via efferente il n. grande petroso. – il riflesso corneale: contrazione dell'orbicolare delle palpebre per stimolazione della cornea. Via afferente I° branca del V, centro pontino, via efferente il VII (v. pag. 000). Assente nelle paralisi periferiche del VII. – il riflesso di ammiccamento (riflesso glabellare; in inglese: “blink reflex”): contrazione dell'orbicolare delle palpebre evocato da stimoli tattili, visivi, acustici. Vie afferenti esterocettive diverse, nucleo sensitivo principale del V, nucleo del nervo faciale dello stesso lato (per la parte precoce del riflesso, o R1). La parte tardiva del riflesso (R2) è mediata dall'attivazione del nucleo trigeminale spinale con proiezione bilaterale sui nuclei del nervo faciale (v. pag. 358). Assente nelle paralisi periferiche del VII. Nei soggetti comatosi o scarsamente cooperativi si può ottenere la contrazione dei muscoli innervati dal facciale con uno stimolo doloroso, quale la compressione forzata con i pollici degli apici delle mastoidi o dei processi stiloidei (manovra di Foix), oppure con la ricerca del «fenomeno bulbo-mimico» di Modenesi-De Lisi: la compressione dei bulbi oculari provoca una contrazione dei muscoli del faciale inferiore (riflesso trigemino-facciale). Quando la paralisi del faciale è di vecchia data si possono mettere in evidenza movimenti associati intrafaciali, cioè movimenti associati tra i muscoli innervati dal faciale e dovuti alla incapacità di contrarre separatamente ogni singolo muscolo: nel chiudere l’occhio si porta in alto l’angolo della bocca e viceversa, oppure nel chiudere l’occhio si ha contrazione del muscolo mentoniero (movimenti associati spontanei); nel provo-
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali care il riflesso dell’orbicolare dell’occhio, si ha anche contrazione del platisma (movimenti associati provocati). I movimenti associati, come abbiamo già detto, sono dovuti al fatto che talora, nel processo riparativo, le fibre rigenerando possono contrarre connessioni diverse da quelle normali. Raramente nei periodi di ricupero di una paralisi del faciale si osserva il «fenomeno delle lacrime di coccodrillo», per cui l’introduzione in bocca di cibi molto sapidi produce un’abbondante lacrimazione. Il fenomeno trova la sua spiegazione nell’ipotesi che fibre destinate alla secrezione delle ghiandole salivari si saldino nel moncone periferico del nervo con fibre destinate alla secrezione delle ghiandole lacrimali. I movimenti associati intrafacciali suddescritti si manifestano anche nello spasmo del faciale idiopatico, dove si può anche osservare un movimento associato oculoauricolare: guardando forzatamente verso il lato opposto dello spasmo del faciale, si osserva uno spostamento verso l’indietro ed il basso dell’orecchio per contrazione del piccolo muscolo trasverso dell’orecchio innervato dal nervo faciale. Lo spasmo faciale può essere una sequela della paralisi del VII o comparire in maniera primitiva. Consiste inizialmente in una fine ed intermittente contrazione dell’orbicolare delle palpebre, che progressivamente si estende a tutti i muscoli innervati dal VII ed in particolar modo ai mm. retrattori dell’angolo della bocca (m. zigomatico, m. quadrato del labbro superiore). Nei casi più gravi tutta la muscolatura facciale è interessata.
DIAGNOSI TOPOGRAFICA NELLE PARALISI PERIFERICHE DEL FACIALE. – La lesione isolata del nucleo motorio del VII è estremamente rara e di regola associata alla compromissione di altri nervi cranici (VI paio) e di altre strutture intrapontine, senza turbe del gusto. La lesione in genere oltre al nucleo si estende alle fibre ed è rappresentata da lesioni vascolari ischemiche o da processi espansivi tumorali, ma anche da sclerosi a placche e da sarcoidosi. Anche nelle lesioni del nervo nella cavità cranica si osservano sempre altri segni associati come nella sindrome dell’angolo ponto-cerebellare. Nelle lesioni localizzate nel tratto compreso tra il foro acustico interno ed il ganglio genicolato, al deficit del faciale si associano compromissione dell’acustico, disturbi del gusto nei
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due terzi anteriori della lingua e della secrezione lacrimale e salivare. Nelle lesioni del canale del faciale i disturbi del gusto e della secrezione salivare esistono o meno a seconda che la lesione avvenga prima o dopo il punto di distacco della corda del timpano; se la lesione avviene a monte del ramo dello stapedio esiste, per paralisi di questo muscolo, un aumento dell’acutezza uditiva (iperacusia), specialmente per i toni bassi; se la lesione è a valle del foro stilo-mastoideo si osserva soltanto paralisi della muscolatura della faccia, che sarà parziale qualora la lesione sia a valle della divisione nelle due branche, superiore ed inferiore. Deficit delle sensibilità sono clinicamente evidenti in rari casi. Fenomeni sensitivi irritativi si riscontrano nella nevralgia del ganglio genicolato di Ramsay-Hunt. Compare spesso dopo un herpes zoster otico con eruzione a localizzazione nella conca auricolare e talora in un’area ristretta posteriormente al padiglione auricolare, qualche volta associata o seguita da una paralisi periferica del faciale. La sindrome consiste in attacchi dolorosi a tipo urente o a tipo di coltellata che si presentano con modalità intermittenti, localizzate a livello della conca e nella profondità del meato acustico. I dolori che talora si rilevano nella paralisi del faciale periferico a livello auricolare sarebbero dovuti a compromissione delle fibre sensitive. La paralisi periferica del faciale è in genere attribuibile ad una forma idiopatica, la cosiddetta paralisi a «frigore» di Bell (v. pag. 0000). Altre cause sono rappresentate da infezioni mastoidee, lesioni traumatiche, herpes zoster oticus; lesioni bilaterali sono relativamente frequenti nella sindrome di Guillain Barré (e variante di Miller Fisher) e nella borrelliosi (v. pag. 000). PARALISI CENTRALE – v. pag. 74.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
IX. N. glosso-faringeo C. Loeb Il n. glosso-faringeo ha funzioni efferenti somatiche speciali e viscerali generali; funzioni afferenti, viscerali speciali e generali, e somatiche generali. VIE EFFERENTI Fig. 7.45 - Componenti efferenti del n. glosso-faringeo (IX paio).
Le fibre efferenti fuoriescono dal bulbo nel solco dorsale all’oliva inferiore, attraversano il forame giugulare, discendono nella parete laterale del faringe. 1) Somatica speciale Le fibre derivano dal n. ambiguo (Fig. 7.44), situato nel bulbo medialmente alla radice discendente del V e al suo nucleo. Il nucleo ambiguo è un nucleo efferente viscerale speciale per il IX, X e XI paio dei nervi cranici.
Le fibre appartenenti al glosso-faringeo innervano il muscolo stilofaringeo che forma la parete laterale e superiore del faringe e insieme con le fibre del vago concorrono alla formazione del plesso faringeo, in cui si trovano anche fibre simpatiche che provengono dal simpatico cervicale (per la parte muscolare liscia). Si afferma spesso che il glosso-faringeo innerva il m. costrittore superiore del faringe, che permetterebbe la deglutizione dei cibi solidi. In effetti il plesso faringeo è formato da molte componenti, e in gran parte, dal vago, e non sembra possibile attribuire al glosso-faringeo l’innervazione del costrittore superiore. 2) Viscerale generale Le fibre nascono dal nucleo salivatorio inferiore e raggiungono il ganglio otico; fibre postgangliari a funzione secretoria e vasodilatatoria arrivano alla parotide (Fig. 7.45). VIE AFFERENTI 1) Viscerale speciale
Fig. 7.44 - Raffigurazione schematica del nucleo ambiguo nei primati. (Ridisegnato da Crosby, Humphrey, Lauer, Correlative Anatomy of the Nervous System, MacMillan, London, 1962).
Trasporta stimoli gustativi; le cellule di origine sono situate nel ganglio petroso o di Andersch o inferiore. La branca centrale costituisce un fascio, situato lateralmente al n. motore dorsale del vago, detto fascicolo o tratto solitario
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
che termina nel nucleo del tratto solitario. Di qui le fibre raggiungerebbero il talamo (parte mediale del n. ventrale posteriore), probabilmente attraverso il lemnisco mediale e i corpi mammillari (via gustativa secondaria). La branca periferica innerva il terzo posteriore della lingua, compreso il V linguale, e costituisce la via gustativa afferente (Figg. 7.8, 7.9). 2) Viscerale generale Trasporta impulsi sensitivi dalla porzione posteriore della lingua, dalla regione tonsillare, dalla tuba di Eustachio, dalla porzione nasale e orale del faringe e dal seno carotideo. Le cellule di origine si trovano nel ganglio petroso o inferiore situato a livello del forame giugulare. La branca centrale entra a far parte del tratto solitario e termina nel nucleo del tratto solitario (Fig. 7.9). 3) Somatica generale Vie somatiche generali afferenti sarebbero costituite da fibre che concorrono all’innervazione cutanea dell’orecchio. Le cellule di origine sono nel ganglio petroso superiore, la cui branca centrale raggiunge la radice discendente del V. Talora queste vie somatiche generali afferenti mancano.
Esame della funzione del glosso-faringeo La stimolazione della parete posteriore del faringe (con un bastoncino avvolto alla sua estremità da un batuffolo di cotone, oppure con lo stesso abbassalingua) provoca normalmente una contrazione del costrittore superiore, talora accompagnata da un conato di vomito (riflesso faringeo). Benché classicamente si ritenga che nel caso di lesione del nervo glosso-faringeo sia maggiormente perturbata la deglutizione per i solidi e nelle lesioni del n. vago, quella per i liquidi, per i motivi anatomici già ricordati (formazione del plesso faringeo) la deglutizione può
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essere esaminata sia facendo inghiottire un cibo solido che un liquido. Per dimostrare la funzionalità del muscolo costrittore superiore del faringe (anche se è discutibile la sua innervazione da parte del glossofaringeo) si chiede al soggetto, a bocca aperta e lingua abbassata, di emettere lungamente il suono della vocale «a». In caso di paralisi unilaterale del costrittore superiore la parete posteriore del lato leso si muove trasversalmente verso il lato sano, producendo un movimento a tipo tendina che scorre («segno della tendina» di Vernet). Lo stimolo per il riflesso faringeo utilizza le vie afferenti viscerali generali del IX, raggiunge il nucleo solitario e, attraverso neuroni intercalari, il nucleo ambiguo. Si ottiene quindi attraverso il plesso faringeo (IX e X paio) la contrazione del costrittore superiore del faringe e la chiusura dell’epiglottide. L’intervento della nausea e del vomito implica la messa in azione del n. motore dorsale del vago e di vie simpatiche. Per esaminare se è conservato il gusto al terzo posteriore della lingua si procede come già illustrato (v. pag. 210).
Sintomatologia da lesione del n. glosso-faringeo La lesione unilaterale produce la paralisi monolaterale del movimento di elevazione del faringe (muscolo stilo-faringeo) nonchè la scomparsa omolaterale del riflesso faringeo e la emianestesia del terzo posteriore della lingua, del faringe e del palato (Fig. 7.46). Si associa inoltre anestesia nella zona attorno al meato acustico esterno. Nelle lesioni del tronco nervoso l’ageusia è limitata al terzo posteriore della lingua, mentre nelle lesioni del fascicolo solitario l’ageusia interessa tutta l’emilingua omolaterale. La lesione sopranucleare, sempre bilaterale, si verifica soprattutto nella paralisi pseudobulbare, o sindrome soprabulbare (v. pag. 000).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
e funzioni afferenti: somatiche, viscerali speciali e generali. Al nervo vago è associata la cosiddetta branca interna dell’XI o accessorio. L’XI infatti è classicamente descritto composto di due parti: branca esterna o n. accessorio propriamente detto e branca interna. La fusione delle due branche avviene a livello del forame giugulare, ma poco dopo si assiste alla nuova divisione tra ramo esterno o accessorio e ramo interno che si associa al n. vago.
VIE EFFERENTI Fig. 7.46- Territorio sensitivo del n. glosso-faringeo (IX paio) e del n. vago (X paio) a livello delle fauci.
Le lesioni nucleari intrabulbari si ritrovano nella sclerosi laterale amiotrofica, nelle lesioni demielinizzanti, nelle lesioni vascolari, in cui si associano altri segni. Le lesioni del nervo glossofaringeo si verificano nella sindrome dell’angolo ponto-cerebellare, nelle lesioni del forame giugulare (tumori glomici, fratture della base), nelle lesioni retrofaringee e dello spazio retroparotideo, nella «nevralgia del glosso-faringeo» (v. pag. 000). Il glosso-faringeo ed il vago sono intimamente correlati sia a livello centrale che nei territori di innervazione periferica ed entrambi svolgono una funzione di vasoregolazione (v. pag. 000).
Funzione del gusto (v. pag. 211-223)
X. N. vago C. Loeb Il n. vago è un nervo misto; ha funzioni efferenti: somatiche speciali e viscerali generali;
1) Somatica speciale Le fibre originano dal n. ambiguo e in particolare dalla parte intermedia e più estesa del complesso nucleare, emergono dal solco retroolivare (dell’oliva inferiore) e contribuiscono, in associazione col n. glosso-faringeo, alla costituzione del plesso faringeo (v. IX paio), e alla innervazione del palato molle, del laringe e dei muscoli laringei (Fig. 7.47). Il palato molle è costituito dai muscoli peristafilino interno e palato-stafilino che hanno funzione di elevatori del velo palatino e dell’ugola. Il laringe possiede, attraverso i muscoli e le corde vocali una funzione respiratoria e fonatoria. Gruppi muscolari sinergici regolano la sua azione: muscoli adduttori o costrittori (cricoaritenoidei laterali; tiroaritenoidei), muscoli abduttori o dilatatori (cricoaritenoidei posteriori), muscoli tensori delle corde vocali (cricotiroidei). Il nervo laringeo superiore che si stacca dalla parte superiore del ganglio plessiforme innerva il muscolo cricotiroideo, mentre il n. laringeo inferiore, che si stacca dal tronco del vago a livello della parte alta del torace (circondando quello di destra l’arteria succlavia e quello di sinistra l’arco aortico) innerva tutti i restanti muscoli laringei (Fig. 7.48).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Fig. 7.47 - Schema delle componenti del n. vago (X paio). Componenti afferenti somatiche per il tratto spinale e il nucleo del X; componenti afferenti viscerali speciali per il nucleo del fascicolo solitario. Le componenti efferenti provengono dal n. ambiguo (viscerali speciali) e dal n. motore dorsale del X (viscerali generali).
2) Viscerale generale
VIE AFFERENTI
Le fibre nascono dal n. motore dorsale situato a livello bulbare lateralmente al nucleo del XII, sotto il pavimento del IV ventricolo. Il nucleo contiene le cellule di origine delle fibre pregangliari dell’accessorio e del vago che terminano nei gangli dei plessi periferici come rami toracici e addominali: a) plesso faringeo, che fornisce rami alle ghiandole faringee e alle fibre muscolari lisce dell’esofago a funzione secretoria e motoria; b) plesso bronchiale e polmonare, che forniscono rami a funzione motoria e forse secretoria alla trachea, bronchi e polmoni; c) plesso cardiaco, che fornisce rami per il tessuto muscolare degli atrii e dei ventricoli; d) plesso gastrico, che fornisce rami allo stomaco; e) plesso epatico, che fornisce rami al fegato e alla cistifellea; f) plesso celiaco; rami vagali, insieme a rami simpatici, forniscono fibre al duodeno, pancreas e intestino fino al colon trasverso (Figg. 7.47, 7.48).
1) Somatica generale Le fibre afferenti a funzione somatica nascono dal ganglio giugulare o superiore. La branca periferica si porta attraverso il ramo auricolare del vago all’area cutanea attorno al meato acustico esterno (conca del padiglione auricolare) (Fig. 7.49). La branca centrale raggiunge la radice spinale o radice discendente del V. Esisterebbero anche afferenze somatiche propriocettive vagali (specie provenienti dai muscoli laringei) che terminerebbero nel n. ambiguo. 2) Viscerale speciale Il vago fornisce poche fibre ai bottoni gustativi dell’epiglottide. Le fibre nascono dal ganglio nodoso o inferiore; la branca centrale va al fascicolo solitario. La funzione gusta-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
tiva del vago è di scarsissima importanza clinica. 3) Viscerale generale Tutti gli organi che ricevono innervazione vagale efferente inviano impulsi afferenti al centro, attraverso fibre che originano dal ganglio nodoso o inferiore. La branca centrale va a costituire il fascicolo solitario e termina nel nucleo del fascicolo solitario, che si trova lateralmente al n. motore dorsale (Fig. 7.47). Questa via afferente viscerale generale costituisce la porzione afferente dell’arco riflesso viscerale vagale.
Il tronco del nervo lascia il bulbo a livello della fossetta retroolivare e fuoriesce dal cranio attraverso il foro giugulare. A livello del ganglio nodoso riceve le fibre della radice cranica dell’XI, discende lungo il collo unitamente al n. accessorio ed alla vena giugulare interna ed è quindi incrociato dal nervo ipoglosso che si porta alla lingua. Seguendo quindi la parete latero-posteriore della trachea giunge ai bronchi cui invia i primi rami, forma poi il plesso esofageo; attraversa il diaframma, costituisce il plesso gastrico, per portarsi infine al ganglio celiaco e ai visceri. Le fibre sopranucleari per il n. ambiguo provengono dall’opercolo rolandico, decorrono nel
Fig. 7.48 - Innervazione viscerale speciale e viscerale generale del n. vago.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
ginocchio della capsula interna, nella parte media del peduncolo cerebrale, e come fascio cortico-bulbare, terminano appunto al nucleo ambiguo omo- e controlaterale. Sono state ipotizzate nell’uomo e dimostrate nell’animale fibre sopranucleari per il nucleo motore dorsale, d’origine ipotalamica con funzioni vegetative di controllo.
Esame della funzione del vago L’esame si riferisce quasi esclusivamente alla componente efferente viscerale speciale e generale (motrice) e afferente somatica (sensitiva cutanea), poichè la funzione vegetativa è completamente integrata nella funzione del sistema vegetativo. L’esame dei muscoli del palato molle viene eseguito invitando il paziente ad emettere suoni prolungati (ad esempio «a»). Normalmente il palato molle e l’ugola si sollevano, ma in caso di lesione unilaterale si osserva il mancato sollevamento del lato leso e la deviazione
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dell’ugola verso il lato sano. Nelle lesioni bilaterali il palato molle non si solleva, manca il riflesso del velo palatino (toccando lievemente il palato molle si ottiene una contrazione ed elevazione dello stesso), vi è rigurgito dei cibi nel naso, specie per i liquidi, poichè il palato molle non occlude il naso-faringe, e per gli stessi motivi la voce assume un timbro nasale (rinolalia). L’esame dei muscoli faringei dimostra un abbassamento della parete faringea e l’assenza di riflesso. Vi è anche disfagia più intensa per i liquidi che per i solidi e spesso per quelli semisolidi come la purea, ecc. L’esame dei muscoli laringei deve essere eseguito a mezzo della laringoscopia. Quando la lesione è completa, la corda vocale è, in genere, in posizione intermedia tra l’adduzione e l’abduzione (posizione cadaverica) e la voce è disfonica. Il disturbo sensitivo si ricerca a livello del palato, faringe, laringe e della conca auricolare (Figg. 7.46 - 7.49).
Fig. 7.49 - A) Anatomia descrittiva del padiglione dell’orecchio. B) Schematizzazione proposta per l’innervazione sensitiva del padiglione dell’orecchio (vedi pag.191).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Sintomatologia da lesione del vago La lesione bilaterale del vago determina la morte immediata. La lesione unilaterale produce paralisi ipsilaterale dei muscoli del palato, del laringe e del faringe (emiplegia faringo-laringo-palatina). Il palato molle si presenta abbassato dal lato leso per cui la voce ha un timbro nasale; nella emissione forzata di vocali aperte il faringe presenta uno spostamento verso il lato sano «segno della tendina o di Vernet». La corda vocale ipsilaterale all’esame laringoscopico è in posizione cadaverica e la voce è disfonica (sindrome del n. laringeo inferiore). Se la lesione del vago è parziale può interessare solo il muscolo adduttore della corda vocale. Sempre nelle lesioni unilaterali si può verificare tachicardia e diminuzione della frequenza respiratoria. Si noterà anche anestesia dell’emipalato, emifaringe ed emilaringe omolaterali (per cui dallo stesso lato della lesione del vago saranno aboliti il riflesso palatino o faringeo) e della conca del padiglione auricolare. Nelle lesioni sopranucleari una lesione bilaterale si traduce in una sindrome soprabulbare con disfagia e disartria. Le lesioni nucleari sono causate da patologie ischemiche (v. sindrome laterale bulbare, pag. 486), tumorali o degenerative (sclerosi laterale amiotrofica) e di regola sono associate a segni di compromissione delle strutture circostanti. Nelle lesioni della fossa posteriore (sindrome di Guillain-Barré, tumori del glomo giugulare o metastatici) il vago può essere colpito all’emergenza bulbare, insieme al IX, XI e XII nervo cranico. Il tronco nervoso può essere colpito a livello del collo e del torace per processi espansivi (tumori, aneurismi, linfonodi) o traumi. La lesione del nervo laringeo ricorrente è causata da un aneurisma dell’arco aortico, da linfonodi metastatici o tumori mediastinici; la voce è classicamente bitonale, oltre che ridotta
nel volume e stridula nelle fasi inspiratorie, per paresi di una corda vocale.
XI. N. accessorio spinale C. Loeb È un nervo esclusivamente efferente somatico (motorio). Il nucleo dell’accessorio consta di due parti nettamente divise: una parte situata nel bulbo, appartenente al nucleo ambiguo (Fig. 7.44), la quale dà origine alle fibre accessorie del vago (parte craniale); una parte accessoria spinale (radice spinale) che origina da un nucleo proprio (forse continuazione caudale del nucleo ambiguo) situato nelle corna anteriori del midollo cervicale da C1 a C5-C6 (Fig. 7.50). La porzione accessoria spinale, fuoriuscita dal midollo, si porta in alto decorrendo nello
Fig. 7.50 - Schema delle componenti del n. accessorio spinale (XI paio).
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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speco vertebrale, entra quindi nel cranio attraverso il forame occipitale e si accolla alla porzione accessoria del vago. Le due porzioni, spinale e craniale, formano quindi il tronco dell’XI che esce dalla cavità cranica attraverso il foro giugulare, insieme col vago. Il nervo quindi, si suddivide in un ramo interno, costituito dalla parte craniale accessoria, associato al vago e già descritto; e in un ramo esterno, parte spinale, che, seguendo la vena giugulare, si porta ad innervare il muscolo sternocleidomastoideo e la parte superiore del trapezio. In particolare, al trapezio giungono fibre della porzione caudale del nucleo spinale, e allo sternocleidomastoideo fibre della porzione rostrale di tale nucleo.
Lo sternocleidomastoideo ha la funzione di far ruotare lateralmente il capo e, in caso di paralisi unilaterale, la rotazione del capo contro resistenza permette di palpare una netta diminuzione di consistenza a livello dell’inserzione sternale del muscolo (fenomeno della corda di Babinski) (Fig. 7.51). Il trapezio ha la funzione di elevare e spostare all’indietro la spalla; si esamina facendo sollevare la spalla contro resistenza, oppure invitando il paziente ad estendere gli arti superiori davanti a sé, un po’ sotto la linea orizzontale facendo combaciare il palmo delle due mani. In caso di lesione unilaterale il paziente non può sollevare le spalle ed inoltre, eseguendo la manovra sopradescritta, le dita della mano del lato affetto si portano più avanti della mano del lato sano.
Esame della funzione dell’accessorio
Sintomatologia da lesione del nervo accessorio-spinale
Le manovre semeiotiche qui riferite esplorano soltanto il ramo esterno (spinale), poiché quello interno che si accolla al vago, viene ovviamente esaminato con quello.
Fig. 7.51 - Assenza, visibile all’ispezione, del corpo muscolare dello sternocleidomastoideo e del trapezio per lesioni dell’accessorio spinale di destra.
La lesione sopranucleare determina soltanto un lieve abbassamento della spalla controlaterale, per paresi del trapezio. La lesione nucleare provoca paralisi ed atrofia dei due muscoli innervati determinando un caratteristico appiattimento del profilo della spalla ed un aumento della profondità della fossetta sopraclaveare omolaterale (segno di Sicard). La parte inferiore del trapezio innervata dal quarto e quinto nervo cervicale è indenne. La lesione bilaterale dell’XI determina una caduta all’indietro della testa per deficienza dei due muscoli sternocleidomastoidei. Nelle lesioni sopranucleari, il trapezio è paretico dal lato plegico nelle lesioni emisferiche; crisi epilettiche focali (area 8 e 9 in particolare) possono determinare rotazione del capo controlateralmente alla lesione. La lesione nucleare presenta frequenti associazioni di segni bulbari o cervicali alti (siringomielia e tumori); sono presenti atrofia e fascicolazioni.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
A livello del collo, la lesione dell’accessorio è conseguenza di complicazioni chirurgiche, di traumi, di radioterapia. Una lesione bilaterale del trapezio si riscontra nella miastenia grave, nella polimiosite ed in alcune distrofie muscolari.
XII. N. ipoglosso C. Loeb È un nervo efferente somatico (a funzione motoria per i muscoli della lingua). Il nucleo dell’ipoglosso è situato a livello bulbare al di sotto del pavimento del IV ventricolo, vicino alla linea mediana. Le fibre che originano dal nucleo si portano ventralmente, accollate alla parte esterna del lemnisco mediale, e fuoriescono dal bulbo a livello del solco laterale anteriore tra la piramide e l’oliva (Fig. 7.52).
Il nervo esce dal cranio attraverso il forame condiloideo, si porta verso il basso formando un arco a convessità caudale e durante il suo decorso verso la radice della lingua emette alcune collaterali che anastomizzandosi con fibre del vago, del ramo linguale del V e dei primi nervi cervicali, costituiscono l’ansa dell’ipoglosso, da cui partono fibre per l’innervazione dei muscoli sottoioidei (sternoioideo, sternotiroideo, omoioideo). Il nucleo dell’ipoglosso consiste di distinti raggruppamenti cellulari per ogni singolo muscolo (distribuzione somatotopica) le cui fibre efferenti si distribuiscono alla muscolatura intrinseca dell’emilingua corrispondente e ai muscoli stiloglosso, ioglosso e genioglosso. Il muscolo genioglosso, con le sue fibre che si incrociano sulla linea mediana, permette la protrusione della lingua. Se la sua azione viene a mancare unilateralmente la lingua protrusa sarà deviata. Le fibre sopranucleari dell’ipoglosso provengono dalla parte più caudale dell’area motrice centrale (opercolo rolandico), attraversano il ginocchio della capsula interna e la parte media del peduncolo cerebrale e, come via corticobulbare, si portano ai nuclei dell’ipoglosso omo e controlaterale. Il nervo ipoglosso convoglia anche fibre simpatiche a funzione vaso-costrittrice, che raggiungono il nervo attraverso un’anastomosi che proviene dal ganglio cervicale superiore o dal plesso carotideo.
Esame della funzione dell’ipoglosso
Fig. 7.52 - Schema dell’origine e dell’innervazione periferica del nervo ipoglosso (XII paio).
Consiste nella valutazione della funzione motoria della lingua. L’esame della lingua nel cavo orale ci può informare se esiste deviazione, se vi siano segni di atrofia, se siano presenti fibrillazioni o fascicolazioni. L’eventuale palpazione permette di apprezzarne la consistenza e valutare meglio la presenza di una sospetta atrofia. Si invita quindi il paziente a protrudere la lingua, ad eseguire movimenti di lateralità verso
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
l’alto e il basso e a spingere la lingua contro la parete interna della guancia, a bocca chiusa. La forza con cui vengono eseguiti questi movimenti può essere valutata anche contro resistenza. In caso di lesione unilaterale del XII, la lingua in posizione di riposo sul pavimento buccale, appare mediana con la punta deviata verso il lato sano, per azione del muscolo stiloglosso che «tira» verso il lato sano. Al contrario la lingua protrusa devia verso il lato della lesione per azione del muscolo genio-glosso controlaterale, che «spinge» l’emilingua all’infuori.
Sintomatologia da lesione del n. ipoglosso La lesione sopranucleare non produce atrofia, la lingua protrusa devia semplicemente dal lato opposto alla lesione sopranucleare, a causa dell’azione del muscolo genioglosso ipsilaterale (non leso poiché riceve un’innervazione dall’emisfero controlaterale) che come abbiamo visto «spinge» l’emilingua verso il lato opposto (Fig. 7.53).
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Nella lesione nucleare, l’emilingua corrispondente diventa atrofica, raggrinzita, flaccida e presenta fascicolazioni. La paralisi nucleare bilaterale determina atrofia, fascicolazioni e disturbi della motilità a carico di tutta la lingua con conseguente compromissione dell’articolazione della parola e del primo tempo della deglutizione. La lesione nucleare si distinguerebbe, secondo alcuni AA., dalla lesione delle radici del nervo perchè nel primo caso è compromesso anche il muscolo orbicolare della bocca; sembra infatti che la parte superiore del nucleo dell’ipoglosso fornisca al nervo facciale fibre destinate a tale muscolo 21. Le lesioni sopranucleari sono rappresentate da lesioni delle vie cortico-bulbari e la lingua devia verso il lato plegico; nella sindrome soprabulbare la lesione è bilaterale. La causa è spesso di genesi vascolare e sono presenti segni associati da lesione di vie lunghe (emiplegia brachio-crurale controlaterale e perdita del senso di posizione e vibratorio controlaterali). A livello periferico, il XII presenta spesso lesioni combinate con altri nervi cranici (IX, X), dovute soprattutto a tumori o traumi.
Sommario dei dati essenziali sulla funzione dei nervi cranici I. NERVO OLFATTORIO Dall’epitelio olfattorio nelle cavità nasali, partono fibre che raggiungono il bulbo olfattorio, di qui attraverso la stria olfattoria la-
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Fig. 7.53 - In caso di paresi sopranucleare del XII, la lingua protrusa devia verso il lato opposto alla lesione, per azione del muscolo genio-glosso ipsilaterale.
Esistono alcune situazioni che potrebbero simulare una lesione del n. ipoglosso. L’aprassia della lingua è presente quando il malato, pur comprendendo l’ordine, non riesce volontariamente a protrudere o a muovere la lingua mentre questa può compiere movimenti automatici di leccamento (scatenati da zucchero sulle labbra o dalla presentazione di un francobollo).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
terale raggiungono la corteccia del giro ippocampale e l’uncus dell’ippocampo (area olfattiva primaria). (L’area olfattiva primaria è in connessione con il n. medio-dorsale del talamo, il n. amigdaloideo basolaterale, l’area entorinale e la porzione rostro-caudale dell’ipotalamo). Funzione: olfattiva. II. NERVO OTTICO Dalle cellule gangliari della retina il nervo ottico raggiunge il chiasma. Qui le fibre si decussano, ma solo in parte e precisamente le fibre provenienti dalla metà nasale di ciascuna retina. Dopo il chiasma le fibre proseguono come tratto ottico e raggiungono il corpo genicolato laterale e di qui, attraverso le radiazioni ottiche, la corteccia striata, nella superficie mediale del lobo occipitale. Funzione: visiva. III. NERVO OCULOMOTORE (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO MESENCEFALICO) Origine apparente alla superficie mediale del peduncolo cerebrale. È costituito da: A. – Vie efferenti somatiche: origine reale nei nuclei del n. oculomotore (tegmento mesencefalico) dello stesso lato e in parte del lato opposto. Funzione: innervazione di tutti i muscoli oculomotori estrinseci, salvo il retto laterale e l’obliquo superiore. B. – Vie efferenti viscerali generali: dal n. di Edinger Westphal si raggiunge il ganglio ciliare e di qui con le fibre post-gangliari (nervi ciliari brevi) i muscoli intrinseci oculari. Funzione: costrizione del muscolo sfintere irideo. (Fibre afferenti somatiche generali: a funzione propriocettiva, con partenza dai muscoli oculari).
IV. NERVO TROCLEARE (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO MESENCEFALICO) Origine apparente: velo midollare anteriore (l’unico nervo cranico con origine apparente sulla superficie dorsale). A. – Fibre efferenti somatiche: dal nucleo trocleare nel tegmento mesencefalico le fibre terminano nel muscolo obliquo superiore (anche qui esisterebbero fibre propriocettive afferenti). Funzione: innervazione del muscolo obliquo superiore o grande obliquo. V. NERVO TRIGEMINO (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO PONTINO) Origine apparente a livello della superficie laterale della porzione mediana del ponte. A. – Vie afferenti somatiche generali: cellule di origine nel ganglio di Gasser (cellule a T), branca periferica alla cute della faccia e del capo anteriormente ad una verticale passante per il meato acustico, branca centrale al nucleo sensitivo principale nel ponte e alla radice discendente. (Esistono fibre somatiche generali che probabilmente dal n. mesencefalico raggiungono i muscoli masticatori, con funzioni propriocettive). Funzione: sensibilità superficiale alla cute della faccia e del capo. B. – Vie efferenti somatiche speciali: dalle cellule del nucleo motorio, nel ponte, le fibre vanno ad innervare i muscoli masticatori (temporale, massetere, pterigoideo interno ed esterno). Funzione: innervazione muscoli masticatori. VI. NERVO ABDUCENTE (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO PONTINO) Origine apparente al margine caudale del ponte. A. – Vie efferenti somatiche: il nucleo d’origine si trova nel ponte e le fibre raggiungono il
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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muscolo retto laterale dell’occhio. (Esistono fibre afferenti propriocettive). Funzione: innervazione del muscolo retto laterale.
vanno al nucleo del fascicolo solitario, i prolungamenti periferici alla cute del padiglione auricolare. Funzione: sensibilità padiglione auricolare.
VII. NERVO FACIALE E INTERMEDIARIO DI WRISBERG (NUCLEI DI ORIGINE A LIVELLO PONTINO)
VIII. NERVO ACUSTICO (COCLEO-VESTIBOLARE) (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO BULBARE; N. VEST. SUP.: PONTE)
Origine apparente al margine inferiore del ponte. A. – Vie efferenti: – somatiche speciali: cellule di origine dal n. del faciale, nel ponte; le fibre vanno ad innervare i muscoli della faccia (m. frontale, orbicolare della palpebra superiore e tutti i muscoli della faccia, escluso il massetere, ed inoltre il platisma, il ventre posteriore del digastrico e lo stiloioideo). Funzione: innervazione dei muscoli della faccia (con esclusione dei muscoli masticatori); – viscerali generali: le cellule d’origine sono rappresentate dal n. salivatorio superiore, situato alla giunzione bulbo-pontina. Attraverso il nervo intermediario e la corda del timpano, le fibre raggiungono il ganglio sottomascellare provvedendo all’innervazione delle ghiandole salivatorie sottomascellari e sublinguali; attraverso il nervo intermediario, il ganglio genicolato, il ganglio sfenopalatino, il nervo zigomatico e il nervo lacrimale, le fibre giungono alle ghiandole lacrimali. Funzione: azione eccitosecretiva delle ghiandole salivari e lacrimali. B. – Vie afferenti: – viscerali speciali: origine dalle cellule del ganglio genicolato. Ramo periferico attraverso la corda del timpano e il n. linguale ai due terzi anteriori della lingua, per funzione gustativa. Ramo centrale attraverso l’intermediario al nucleo del tratto solitario, a livello bulbare. Funzione: gustativa nei due terzi anteriori della lingua. – somatiche generali: dalle cellule a T del ganglio genicolato, i prolungamenti centrali
Origine apparente al margine laterale inferiore del ponte. Nervo cocleare. – Vie afferenti speciali somatiche. Nascono dalle cellule a T del ganglio spirale della coclea. Ramo periferico all’organo spirale del Corti, ramo centrale ai nuclei cocleari ventrali e dorsali. Di qui, attraverso il corpo genicolato mediale, alla circonvoluzione temporale (giro temporale trasverso). Funzione: udito. Nervo vestibolare. – Vie afferenti speciali somatiche. Dal ganglio vestibolare di Scarpa si diparte un ramo periferico per l’epitelio sensoriale del labirinto e un ramo centrale che raggiunge i nuclei vestibolari, a loro volta connessi con il cervelletto, nuclei del tronco cerebrale, formazione reticolare, midollo spinale. Dai nn. vestibolari si originerebbero vie sopranucleari che raggiungono il lobo temporale. Funzione: via afferente fondamentale per i movimenti oculari riflessi, e modificazioni riflesse del tono muscolare in rapporto alla posizione del capo. IX. NERVO GLOSSO-FARINGEO (NUCLEI D’ORIGINE A LIVELLO BULBARE) Origine apparente dal solco laterale posteriore del bulbo. A. – Vie efferenti: – somatiche speciali: dal nucleo di origine (nucleo ambiguo) le fibre si portano al muscolo stilofaringeo, e con le fibre del vago costitui-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
scono il plesso faringeo (per i mm. costrittori del faringe); Funzione: contrazione dei muscoli stilofaringeo, costrittore superiore del faringe; – viscerali generali: originano dal n. salivatorio inferiore nel bulbo e attraverso il ganglio otico raggiungono la parotide. Funzione: secrezione ghiandola parotide. B. – Vie afferenti: – viscerali speciali: originano dal ganglio petroso o di Andersch, il cui ramo centrale raggiunge il nucleo del tratto solitario e di qui il talamo ventrale postero-mediale e i corpi mammillari. Il ramo periferico raggiunge il terzo posteriore della lingua (via gustativa). Funzione: gusto per il terzo posteriore della lingua; – viscerali generali: dal ganglio petroso la branca centrale va al n. del tratto solitario, la branca periferica trasporta impulsi sensitivi dalla porzione posteriore della lingua, porzione nasale e orale del faringe, regione tonsillare. Funzione: sensibilità porzione posteriore della lingua, regione tonsillare, area nasale e faringea orale. X. NERVO VAGO Origine apparente dal solco postero-laterale del bulbo. A. – Vie efferenti: – somatiche speciali: dal n. ambiguo nel bulbo, contribuiscono con il IX alla costituzione del plesso faringeo per i mm. costrittori del faringe (superiore, medio e inferiore), del palato molle (m. peristafilino e palato-stafilino che elevano il velo palatino e l’ugola) e del laringe. Funzione: contrazione dei muscoli costrittori del faringe, dei muscoli del palato molle e del laringe; – viscerali generali. Le fibre nascono dal n. motore dorsale del vago, a livello bulbare, e raggiungono i gangli dei plessi periferici come rami toracici (plesso faringeo, bronchiale, cardiaco, gastrico, epatico).
Funzione: attività vegetativa. B. – Vie afferenti: – somatica generale. Dal ganglio giugulare la branca periferica raggiunge l’area cutanea attorno al meato acustico esterno (conca del padiglione auricolare); la branca centrale raggiunge la radice discendente del V. Funzione: sensibilità conca del padiglione auricolare; – viscerale generale. Tutti gli organi che ricevono innervazione efferente inviano impulsi centripeti attraverso fibre che rappresentano la branca periferica del ganglio nodoso. La branca centrale termina al n. del fascicolo solitario. Funzione: attività vegetativa. XI. NERVO ACCESSORIO SPINALE (NUCLEO D’ORIGINE: COLONNA GRIGIA DA C1 A C6) Origine apparente dal solco postero-laterale del bulbo. La porzione craniale si associa alle vie efferenti del vago. A. – Vie efferenti: – somatiche: la porzione spinale origina in un nucleo situato nelle corna anteriori di C1-C5-C6 e raggiunge il m. sternocleidomastoideo e la porzione superiore del trapezio. Funzione: contrazione muscoli sternocleidomastoideo e trapezio. XII. NERVO IPOGLOSSO (NUCLEO D’ORIGINE A LIVELLO BULBARE) Origine apparente dal solco laterale anteriore. A. – Vie efferenti: – somatiche: dal nucleo a livello bulbare originano fibre che innervano i muscoli sottoioidei (ventre posteriore del digastrico, sternoioideo, sternotiroideo, omoioideo; tiroioideo) e della lingua (stiloglosso, genioglosso, ioglosso). Funzione: contrazione muscoli sottoioidei e della lingua.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
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Lesioni combinate dei nervi cranici Verranno brevemente indicate in questo paragrafo le lesioni combinate per lesione periferica, rimandando al capitolo sulle sindromi del tronco encefalico altri quadri da lesione dei nuclei, delle vie sopranucleari o delle fibre periferiche nel loro breve tragitto intraparenchimale. – SINDROME
DELLA PARETE LATERALE DEL SENO
CAVERNOSO. – Nella varietà posteriore sono lesi il
VI, il IV ed il III e le branche sensitive del V, nella varietà media ed anteriore, oltre i tre nervi oculomotori, sono lese solo la prima e raramente la seconda branca del trigemino. L’occhio può mostrare segni di tumefazione da ridotto ritorno venoso dall’orbita al seno cavernoso. La causa va ricercata in tumori ipofisari, meningiomi infraclinoidei, aneurismi della carotide interna, trombosi del seno cavernoso (Fig. 7.54), fistola carotido-cavernosa spontanea o traumatica. La dia-
Fig. 7.54 - Schema della disposizione topografica dei nervi cranici a livello del seno cavernoso.
gnosi differenziale si pone anche con la sindrome di Tolosa-Hunt, patologia infiammatoria retrorbitaria che risponde alla terapia steroidea. – SINDROME DEL FORO LACERO ANTERIORE. – Coincide con la sindrome precedente cui si aggiunge la compromissione del nervo grande petroso superficiale che si manifesta con la lacrimazione intensa e precoce (Fig. 7.55).
Fig. 7.55 - A sinistra: nervi cranici visti sulla base cranica; a destra: in evidenza i fori della base cranica attraverso cui passano i nervi cranici.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
– SINDROME DELLA FESSURA SFENOIDALE. – Caratterizzata dalla lesione del III, IV e VI e della branca oftalmica del trigemino. Si osserva in fratture della piccola ala dello sfenoide, aneurismi carotidei, tumori, specie meningiomi (Fig. 7.55). – SINDROME DELL’APICE ORBITARIO. – Oltre al III, al IV e VI e prima branca del trigemino è presente anche compromissione del nervo ottico con amaurosi progressiva ed atrofia ottica. Si osserva per cause simili alle precedenti (Fig. 7.55). – SINDROME PARASELLARE. – Attualmente la sindrome della fessura sfenoidale o dell’apice orbitario, di genesi non traumatica, è appunto definita sindrome parasellare o oftalmoplegia dolorosa. Ha netta prevalenza femminile, nell’età media o matura, modalità d’insorgenza acuta; consiste in un deficit dei nn. cranici dal II al VI con dolore fronto-orbitario che spesso costituisce il primo sintomo.
È dovuta a genesi vascolare, infiammatoria, diabetica, tumorale (Fig. 7.55). – SINDROME DI GARCIN. – Lesione unilaterale di gran parte dei nervi cranici (dal III al XII). Talora tutti i nervi cranici di un lato sono interessati (Fig. 7.56). In genere è dovuta ad un sarcoma della base o ad un tumore infiltrante della rinofaringe. – SINDROME DI GRADENIGO (sindrome dell’apice della rocca). – È caratterizzata da paralisi del VI e da lesione del trigemino che causa una nevralgia atipica. È conseguenza di un’alterazione infiammatoria (otite purulenta) o di una frattura dell’apice della rocca (Fig. 7.56). Ha un elevato valore localizzatorio ma è oggi estremamente rara. – SINDROME DELL’ANGOLO PONTO-CEREBELLARE. – Consiste in lesione dell’VIII, del V e del VII paio dei nervi cranici cui si aggiungono, in genere successivamente, segni cerebellari (v. pag. 000).
Fig. 7.56 - I nervi cranici visti sulla base dell’encefalo.
Funzioni dei nervi cranici e dei nervi spinali
Nello stadio successivo, si aggiunge la lesione del nervo abducente e, a causa della compressione sul ponte, atassia omolaterale; a questo punto il paziente lamenta costantemente una intensa cefalea. La sindrome è dovuta a lesioni espansive, in genere tumorali (neurinoma dell’acustico, meningioma, cisti epidermoidi). – SINDROME DI TAPIA. – Si riferisce a paralisi del X e del XII, e talora dell’XI. La lesione colpisce l’ipoglosso e il vago nel punto in cui i due nervi si incrociano nel triangolo faringo-mascellare, al di sotto del ganglio plessiforme (da cui emergono i rami faringei). Si ha quindi emiparesi linguale e paralisi del n. laringeo ricorrente con voce bitonale (Fig. 7.56). La lesione è in genere di genesi traumatica. – SINDROME DEL FORO LACERO POSTERIORE O DI VERNET. – Sono lesi il IX, X, XI paio, che fuoriescono dal cranio attraverso il foro lacero posteriore. La sintomatologia è costituita da emi-anestesia del palato, faringe e laringe, paralisi della corda vocale e del palato, del trapezio e dello sternocleidomastoideo, perdita del gusto nel terzo posteriore della lingua. La genesi è in genere da ascrivere a traumi o a tumori del glomo giugulare (Fig. 7.55). – SINDROME DI SICARD-COLLET.– Per lesione del condilo e del foro lacero posteriore aggiunge alla sindrome precedente di Vernet anche il XII paio con emiparesi linguale. Anche questa sindrome è in genere dovuta a traumi o ferite d’arma da fuoco (Fig. 7.55). – SINDROME DI VILLARET. – Consiste in una sindrome di Sicard-Collet (IX, X, XI, XII) che estendendosi allo spazio retroparotideo, interessa il simpatico cervicale e comporta una sindrome di Claude Bernard-Horner (miosi, enoftalmo, restringimento della rima palpebrale) (Fig. 7.55). La genesi è in genere traumatica, ma anche tumorale.
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Nervi spinali La funzione e la patologia dei nervi spinali sono trattate a pag. 000
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Funzioni del sistema nervoso vegetativo
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8. Anatomia e funzioni del sistema nervoso vegetativo A. Schenone
La definizione di sistema nervoso vegetativo, spesso indicato come «sistema autonomo» o «sistema simpatico» o «sistema nervoso involontario», non è semplice. Il sistema nervoso vegetativo, che può essere considerato parte sia del sistema nervoso centrale che del sistema nervoso periferico, ha la funzione di regolare l’attività degli organi viscerali e di controllare l’omeostasi interna. È quindi un sistema essenzialmente efferente che innerva i muscoli lisci, il muscolo cardiaco, le ghiandole (Pick, 1970). Sebbene il sistema nervoso vegetativo sia classicamente considerato un sistema efferente puro o motorio, esso comprende anche fibre afferenti rappresentate dalla branca periferica dei prolungamenti a T dei gangli spinali, che ricevono informazioni dai recettori viscerali. Il prolungamento centrale entra nel midollo attraverso le radici posteriori (Fig. 8.1) e veicola le informazioni relative alle funzioni viscerali ai centri vegetativi nel sistema nervoso centrale.
Fig. 8.1 - Arco riflesso simpatico con fibre afferenti e fibre efferenti pre- e post-gangliari.
Attraverso questa via si realizzano i riflessi vegetativi che garantiscono risposte, talora anche molto rapide, a modificazioni dell’ambiente interno e assicurano il mantenimento dell’omeostasi viscerale. Il sistema efferente vegetativo è costituito da centri localizzati nel sistema nervoso centrale (tronco encefalico e midollo spinale), detti neuroni pregangliari che, attraverso l’assone, detto fibra pregangliare, stabiliscono un contatto sinaptico con neuroni postgangliari localizzati al di fuori del sistema nervoso centrale, nei gangli simpatici o direttamente nella parete dei visceri da loro innervati. Il sistema nervoso vegetativo si distingue in sistema simpatico o ortosimpatico e sistema parasimpatico (Shields, 1993).
Sistema simpatico I corpi cellulari dei neuroni pregangliari che compongono il sistema simpatico efferente sono localizzati nelle corna intermediolaterali del midollo spinale toracico e dei due primi segmenti lombari. Le fibre pre-gangliari (mielinizzate) escono dal midollo attraverso le radici anteriori e quindi, mediante i rami comunicanti bianchi, raggiungono la catena gangliare posta simmetricamente ai lati della colonna vertebrale (gangli paravertebrali) ove contraggono sinapsi con i neuroni di secondo ordine (neuroni postgangliari). La catena gangliare di ogni lato comprende 3 gangli cervicali, 10-12 gangli toracici, 3-5 gangli lombari e 4-5 gangli sacrali (Fig. 8.2). Le fibre pregangliari talvolta contrag-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 8.2 - Innervazione smpatica differente
gono sinapsi con neuroni postgangliari localizzati in gangli adiacenti al loro livello di uscita, ma più spesso si distribuiscono a gangli di segmenti superiori o inferiori. Ciascuna fibra pregangliare contrae tipicamente sinapsi con più neuroni postgangliari. Da questi ultimi neuroni partono gli assoni postgangliari (amielinici) che vanno a costituire i rami comunicanti grigi e
garantiscono l’innervazione di vasi, ghiandole sudoripare, follicoli piliferi e strutture viscerali attraverso la catena simpatica o mediante plessi nervosi (Low e Dyck, 1977). Alcune fibre pregangliari non contraggono sinapsi nei gangli simpatici ma in gangli successivi. Infatti tutte le fibre pregangliari per i visceri addominali e pelvici si portano attraverso i nervi splancnici
Funzioni del sistema nervoso vegetativo
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a tre gangli prevertebrali (preaortici), ai gangli celiaci e ai gangli mesenterici, superiore e inferiore, con cui contraggono sinapsi e da cui partono fibre postgangliari che contribuiscono a formare i plessi ipogastrico, splancnico e mesenterico per l’innervazione di ghiandole, vasi e muscoli lisci degli organi addominali e pelvici (Fig. 8.2). Infine va ricordata la peculiare innervazione ortosimpatica della midollare surrenale, che riceve le fibre simpatiche pregangliari attraverso i nervi splancnici e secerne direttamente i mediatori chimici (adrenalina e noradrenalina) nel torrente circolatorio. In un certo senso la midollare surrenale può quindi essere considerata un ganglio simpatico che libera neurotrasmettitori nel sangue per assicurare, in condizioni di emergenza, una risposta simpatica rapida e diffusa.
Sistema parasimpatico Anche il sistema efferente parasimpatico, come quello ortosimpatico, comprende due neuroni, uno posto nel sistema nervoso centrale (neurone pregangliare) ed uno nei gangli periferici (neurone postgangliare). Tuttavia, i gangli parasimpatici, a differenza di quelli ortosimpatici, sono localizzati in stretta vicinanza con l’organo bersaglio. Il sistema parasimpatico si distingue in due sezioni: craniale e sacrale (Fig. 8.3). La sezione craniale è costituita da neuroni situati nel tronco dell’encefalo, i cui cilindrassi o fibre pregangliari raggiungono la periferia attraverso il III, VII (intermediario), IX, X, XI paio dei nervi cranici (Loewy, 1990a). In particolare si distingue: – parasimpatico mesencefalico: i neuroni pregangliari sono localizzati nel nucleo di Edinger-Westphal (III paio); le fibre pregangliari dalle vie del III paio che raggiungono il ganglio ciliare; le vie postgangliari che, come nervi ciliari brevi, innervano il muscolo ciliare
Fig. 8.3 - Raffigurazione topografica dei centri simpatici e parasimpatici.
e il muscolo irideo con funzione costrittiva (sfintere irideo); – parasimpatico ponto-bulbare: i neuroni pregangliari sono contenuti nei nuclei: 1) salivatorio superiore (alcuni distinguono il nucleo salivatorio superiore dal nucleo lacrimatorio) situato a livello della giunzione ponto-bulbare che dà origine a fibre pregangliari che viaggiano nel nervo faciale; 2) salivatorio inferiore le cui fibre pregangliari lasciano il tronco encefalico con il nervo glossofaringeo; 3) ambiguo e motore dorsale del vago da cui originano fibre pregangliari che emergono dal tronco encefalico con il nervo vago. Il parasimpatico ponto-bulbare provvede così all’innervazione delle ghiandole lacrimali
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
e salivari (sottolinguale e sottomascellare) e dei vasi e delle ghiandole del palato (VII paio); all’innervazione secretoria della ghiandola parotide (IX paio) e delle ghiandole rinofaringee (VII paio) e faringee (X paio); all’innervazione, attraverso il nervo vago, delle fibre muscolari lisce dell’esofago (plesso faringeo); dei bronchi e dei polmoni (plesso bronchiale); del muscolo cardiaco (plesso cardia-
co); dello stomaco (plesso gastrico); del fegato e della cistifellea (plesso epatico); del duodeno, pancreas, intestino fino al colon trasverso (plesso celiaco), con associata funzione vaso-attiva e secretoria (Fig. 8.4). – Parasimpatico sacrale: è costituito da neuroni pregangliari posti alla base delle corna anteriori del midollo sacrale, i cui cilin-
Fig.8.4 - Innervazione parasimpatica efferente.
Funzioni del sistema nervoso vegetativo
drassi escono attraverso la seconda, terza , quarta radice anteriore. I neuroni postgangliari sono localizzati nei gangli del plesso ipogastrico; le fibre postgangliari costituiscono i nervi pelvici. In particolare le fibre postgangliari portano (Fig. 8.4): a) impulsi motori per il colon discendente, il retto, l’ano, la vescica ed alcuni muscoli dei genitali esterni; b) impulsi inibitori per gli sfinteri interni dell’ano, della vescica e dell’uretra; c) impulsi secretori per la prostata e le ghiandole di Bartolini e Cowper; d) impulsi vasodilatatori per il retto, l’ano ed i genitali esterni (vasodilatazione dei corpi cavernosi o nervi erigentes).
Organizzazione centrale delle funzioni viscerali In generale si ritiene che la integrazione sovraspinale delle funzioni vegetative sia espletata da una interazione piuttosto complessa fra strutture situate a vari livelli del nevrasse comprendenti il nucleo del tratto solitario, il nucleo ambiguo, il nucleo motore dorsale del vago, i nuclei dorsali del rafe, i nuclei della formazione reticolare bulbare, il locus coeruleus, l’ipotalamo, il sistema limbico e le corteccie sensitiva e motoria (Loewy, 1990b). A. LIVELLO CORTICALE Le funzioni vegetative sono diffusamente rappresentate nella corteccia cerebrale ma non esistono aree ben definite da cui si possa, sperimentalmente, evocare attività vegetative. Nell’uomo sono state dimostrate rappresentazioni corticali di funzioni viscerali nella circonvoluzione frontale ascendente, nella parietale ascendente, nella corteccia insulare e nell’area paracentrale frontale. Si tratta di dilatazione pupillare per stimolazione dell’area frontale per i movimenti coniugati, o di lacrimazione per l’area frontale immediatamente prossima all’area oculomotoria, o di salivazione per aree prossime a quelle della rappre-
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sentazione motoria per labbra, lingua e muscoli masticatori. Inoltre la stimolazione di zone corticali dell’area motoria per gli arti, produce vasodilatazione, sudorazione e piloerezione. In altri termini a livello corticale l’attività vegetativa appare come funzione associata e sussidiaria di attività motorie. Anche a livello limbico (v. pag. 535), la parte filogeneticamente più antica della corteccia cerebrale, le funzioni viscerali sono intimamente connesse a funzioni somatiche. Basterà qui ricordare che nel giro dell’ippocampo, nel lobo temporale anteriore, nel giro del cingolo, nel lobo orbitale e nell’insula esistono vie che in parte attivano e in parte inibiscono funzioni somatiche e visceromotrici. Quest’area controlla la respirazione e tutti i meccanismi viscero e somatomotori in rapporto con l’espressione emotiva. Il sistema limbico regola l’adattamento del comportamento alimentare, sessuale ed emozionale. La corteccia cerebrale inoltre esercita attività vegetative attraverso vie corticofugali, tra cui ricordiamo: – vie che dall’area frontale premotoria (area 6) raggiungono i corpi mammillari, l’ipotalamo postero-laterale; i nuclei ventromediali ipotalamici bilateralmente (raggiunti anche dalla corteccia orbitale, area 13); – vie che dall’area frontale (aree 8 e 10) vanno al nucleo sopraottico con funzione attivante; – vie che dalle aree frontali (aree 6, 8, 9, 10, 11) raggiungono il talamo dorsomediale; – vie che dal giro cingolato (aree 23-24) raggiungono con funzioni attivanti i corpi mammillari, le regioni settali, l’ipotalamo anteriore e il tegmento mesencefalico attraverso il fornice; – vie cortico-pontine, dai campi prefrontali (aree 46) al ponte e al bulbo, con funzioni viscerali.
B. LIVELLO IPOTALAMICO Gli aspetti anatomici e funzionali dell’ipotalamo sono descritti a pag. …. Basterà quindi ricordare, in sintesi, che l’organizzazione funzionale ipotalamo-ipofisaria opera in stretta cooperazione con la formazione reticolare caudalmente e il sistema limbico rostralmente per coordinare comportamenti istintivi viscerali e somatici. Si possono distinguere: – funzioni che incrementano l’attività motoria, sensitiva e psichica (reazioni ergotrope di Hess). Le reazioni istintive di aggressività, di preparazione al combattimento coinvolgono attività viscerali e somatiche integrate a livello dell’ipotalamo postero-ventrale e mediate dal sistema simpatico. Se gli stimoli nocivi ambientali o del mezzo interno diventano troppo intensi o prolungati (freddo, dolore, fame, ecc.) entrano in gioco anche meccanismi umorali, quali l’ormone adrenocorticotropo del lobo an-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
teriore dell’ipofisi e l’ormone glicocorticoide dei surreni. La regolazione neuroumorale è utilizzata per la cosiddetta reazione di adattamento di Selye; – funzioni che consistono in un’attivazione selettiva viscerale per restituire energia al mezzo interno cellulare (reazione trofotropica di Hess). Le attività funzionali che intervengono durante la digestione, le mestruazioni, la gravidanza sono mediate dal sistema parasimpatico e da attività ormonali (pancreas e insulina); – funzioni tendenti a proteggere il mezzo interno da turbe elettrolitiche (perdita di Na+), da perdita di acqua, da ritenzione di calore (reazioni endofilattiche di Hess). Queste attività sono dovute al nucleo sopraottico e preottico in associazione con il lobo posteriore dell’ipofisi (attraverso secrezione di vasopressina e antidiuretina) e i surreni (attraverso la secrezione di aldosterone). Altre funzioni endofilattiche sono rappresentate dai riflessi vasodepressori, dalla minzione e defecazione che impediscono la sovradistensione dei visceri, e sono dovute ad attività delle porzioni oro-medio-ventrali dell’ipotalamo, in associazione con il rinencefalo basale e il tetto.
C. LIVELLO ROMBOMESENCEFALICO Questo livello è soprattutto in rapporto con la regolazione omeostatica. L’omeostasi rappresenta il mantenimento delle condizioni ottimali del mezzo interno («milieu interieur» di Claude Bernard). Il mezzo interno è mantenuto in condizioni ottimali innanzitutto da un adeguato flusso sanguigno [convoglia O2 e nutrimento alle cellule, trasporta i prodotti di escrezione (CO2 eliminato attraverso i polmoni; metaboliti vari eliminati attraverso il rene)]. L’apparato escretorio regola la concentrazione degli ioni e il volume dello spazio extracellulare (stabilizzazione del pH del sangue e tessuti; pressione osmotica). La funzione vasocostrittiva e vasodilatatoria nella cute, e la funzione sudoripara permettono il mantenimento della temperatura. Alcuni riflessi proteggono le mucose orofaringee e il canale respiratorio, regolano l’attività circolatoria (riflessi depressori) e l’apparato digestivo ed escretorio (vomito, defecazione, minzione).
D. NUCLEO DEL TRATTO SOLITARIO Anche il nucleo del tratto solitario ha rilevanti funzioni di integrazione nell’attività vegetativa. Riceve afferenze dai baro e chemocettori arteriosi (aorta, seno carotideo e grosse arterie) e da molte regioni del sistema nervoso
centrale (aree corticali, midollo spinale e cervelletto) e invia efferenze a strutture diverse: ipotalamo e nucleo amigdaloideo, bulbo e nucleo ambiguo, nucleo dorsale del vago, midollo spinale (Jordan e Spyer, 1986).
Neurotrasmettitori, recettori e sistema nervoso vegetativo L’acetilcolina (v. pag. 706) è il neurotrasmettitore che media la funzione di tutte le fibre pregangliari, sia orto che parasimpatiche. Inoltre l’acetilcolina funge anche da neurotrasmettitore per le fibre postgangliari parasimpatiche. Le fibre postgangliari ortosimpatiche utilizzano la noradrenalina come mediatore chimico. In realtà ciò non è sempre vero: infatti le fibre postgangliari ortsimpatiche che innervano le ghiandole sudoripare sono colinergiche. Come già detto, il sistema parasimpatico utilizza per la trasmissione sinaptica nei gangli, nelle fibre pregangliari e nelle fibre postgangliari l’acetilcolina, che è inattivata dall’acetilcolinesterasi. I recettori per l’acetilcolina sono indicati come muscarinici e nicotinici, a seconda che mimino rispettivamente l’azione della nicotina o della muscarina. I recettori post-gangliari sono muscarinici; l’effetto della loro azione è antagonizzato dalla atropina. Sono stati descritti almeno cinque recettori muscarinici (M1, M2, M3, M4 e M5). A livello gangliare (ed a livello muscolare) i recettori sono di tipo nicotinico e sono bloccati dalla tubocurarina. A livello gangliare l’azione dell’acetilcolina è integrata da numerosi peptidi (sostanza P, enkefaline, somatostatina, VIP). La noradrenalina è il mediatore chimico delle fibre postgangliari ortosimpatiche. La sua azione avviene mediante legame a recettori specifici, di cui si distinguono almeno due tipi: alfa e beta. Gli alfa-recettori mediano la vasocostrizione, il rilasciamento dei muscoli intestinali, la dilatazione della pupilla; i beta recettori mediano la vasodilatazione (specie nei muscoli), il rilassamento bronchiale e l’aumento della fre-
Funzioni del sistema nervoso vegetativo
quenza e della contrattilità cardiaca. In questo ambito si individuano ulteriori sottotipi di recettori: gli alfa 1, generalmente postsinaptici ed eccitatori; gli alfa 2, principalmente presinaptici ed inibitori. Dal punto di vista biochimico l’attivazione degli alfa 1 determina aumento dell’AMP ciclico, mentre quella degli alfa 2 comporta una ridotta sintesi di AMP ciclico. La stimolazione dei recettori alfa 1 provoca rilasciamento della muscolatura gastrointestinale, aumento della attività secretoria delle ghiandole salivari e sudoripare, effetto inotropo positivo a livello cardiaco e attivazione della glicogenolisi. I recettori alfa 2, se stimolati, riducono il rilascio di noradrenalina ed hanno pertanto una funzione inibitoria sulla funzione ortosimpatica. Anche i recettori beta possono essere divisi in tre sottotipi: beta 1, beta 2 e beta 3 (non ben definiti). I beta 1, hanno importanti effetti a livello del cuore, ove regolano la frequenza e la contrattilità; inoltre stimolano la lipolisi ed il rilascio di renina dal rene. I recettori beta 2 hanno una rilevante azione di rilasciamento sulla muscolatura liscia, soprattutto bronchiale; inoltre stimolano secrezione di amilasi delle ghiandole salivari, gluconeogenesi e glicogenolisi. La fenossibenzamina ed il propranololo sono tipici esempi di bloccanti rispettivamente degli alfa e dei beta recettori. Bisogna tuttavia sottolineare che la distinzione in fibre postgangliari colinergiche e adrenergiche non corrisponde completamente alla suddivisione anatomica di sistema parasimpatico e simpatico. Infatti le ghiandole sudoripare, che appartengono al simpatico, hanno una mediazione colinergica, così come l’azione vasodilatatoria nei muscoli scheletrici per stimolazione simpatica è mediata dall’acetilcolina attraverso fibre simpatiche. Si afferma anche, comunemente, che il parasimpatico aumenta l’attività (motilità, secrezione) mentre il simpatico ha azione opposta o inibitoria. Anche questo non è completamente vero. Se tipicamente, a livello gastrico, la stimolazione parasimpatica aumenta la peristalsi e la secrezione gastrica e il
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simpatico la inibisce, gran parte delle ghiandole dell’apparato digerente e le ghiandole sudoripare non hanno innervazione doppia, ma solo una innervazione con mediatore colinergico. In conclusione: la noradrenalina è il mediatore delle sinapsi postgangliari simpatiche. Neuroni inibitori adrenergici controllano la trasmissione a livello pregangliare. L’acetilcolina è il mediatore delle sinapsi postgangliari parasimpatiche, delle sinapsi pregangliari simpatiche e parasimpatiche, delle sinapsi neuromuscolari. Si parla spesso in clinica di «tono vegetativo», di soggetti simpatico-tonici e vago-tonici, e, ancor più frequentemente, di «distonia neurovegetativa», terminologie che devono essere abbandonate in quanto prive di fondamento sperimentale o clinico. È possibile, invece, reperire una preponderante attività parasimpatica o simpatica in un dato organo. Conviene aggiungere, infine, che: – il simpatico è un sistema più lento del parasimpatico. Infatti le fibre postgangliari parasimpatiche sono brevi, mentre quelle simpatiche sono lunghe; – il sistema adrenergico ha un’azione diffusa, mentre il sistema colinergico ha un’azione localizzata alla regione ove viene liberato il mediatore; – la noradrenalina non è solo un mediatore ma anche un ormone, poiché è secreta dalla midollare del surrene. L’acetilcolina è invece solo un mediatore. In sintesi, il sistema nervoso vegetativo consente risposte rapide ed efficaci alle variazioni ambientali ed è composto dai due sistemi simpatico e parasimpatico con due sezioni: craniale e sacrale. L’attività di questi due sistemi, che rappresentano l’efferenza del sistema nervoso vegetativo, è integrata dalle afferenze sensitive viscerali (nucleo del tratto solitario), dall’ipotalamo e dalle strutture corticali (sistema limbico).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Innervazione di organi e sistemi viscerali FUNZIONI CARDIACHE; REAZIONI VASOMOTORIE: PRESSO E CHEMOCETTORI SENO-CAROTIDEI E AORTICI a) L’innervazione motoria del muscolo cardiaco è simpatica e parasimpatica. La sezione simpatica ha origine dalle cellule della colonna intermedio-laterale tra T2 e T5. Le fibre pregangliari raggiungono i gangli cervicali inferiore (o stellato), medio e superiore od anche gangli sottoposti; le vie postgangliari costituiscono i nervi cardiaci e raggiungono i plessi cardiaci (superficiale, localizzato nella concavità dell’arco aortico; profondo, localizzato al di sopra della biforcazione dell’arteria polmonare, anteriormente al tratto inferiore della trachea). I plessi cardiaci che ricevono rami simpatici e vagali, e
costituiscono una rete nervosa intricata, si distribuiscono poi all’aorta, ai plessi coronarici (ed anche ai polmoni, al tratto inferiore della trachea, e ai bronchi). La sezione parasimpatica origina dal nucleo motore dorsale del X, prosegue nel nervo vago (rami cardiaci superiore, medio, inferiore). Le fibre postgangliari iniziano da gangli terminali localizzati nei plessi coronarici. Le fibre viscerali afferenti sono rappresentate dai nervi cardiaci simpatici e parasimpatici. Le afferenze simpatiche raggiungono il midollo attraverso il ganglio cervicale medio e inferiore e i nervi cardiaci toracici, i quali ultimi, a sinistra, trasportano impulsi dolorosi (donde la topografia del dolore anginoso: aree precordiali e margine ulnare del braccio). Le afferenze attraverso il vago sono utilizzate solo per riflessi cardiaci e vascolari (Fig. 8.5). La stimolazione simpatica produce tachicardia, quella vagale bradicardia. Sembra che l’orecchietta e il fascio atrioventricolare abbiano innervazione vagale e simpa-
Fig. 8.5 - Vie viscerali afferenti simpatiche e parasimpatiche.
Funzioni del sistema nervoso vegetativo tica, mentre i ventricoli avrebbero solo innervazione simpatica. Il nodo seno-auricolare ha innervazione prevalente dal vago di destra. b) Reazioni e riflessi vasomotori; presso e chemocettori seno-carotidei e aortici. Le fibre vasomotorie appartengono al sistema simpatico, agiscono generalmente come vasocostrittrici e gli impulsi sono mediati dalla noradrenalina. Provengono dalle fibre postgangliari dei rami comunicanti grigi e attraverso i nervi vasorum giungono alle tuniche muscolari e alla tunica avventiziale delle arterie, arteriole e venule. I capillari invece possono modificare il loro calibro indipendentemente dalle arterie e in rapporto con fattori chimici. L’aumento della tensione del CO2 e la riduzione del pH, per aumento dell’attività metabolica tissutale, è seguita da vasodilatazione. Vasodilatazione si ha anche per azione dell’istamina. La presenza di fibre ad azione vasodilatante è discussa. Sicuramente esse sono presenti nella corda del timpano e nelle fibre parasimpatiche per gli organi genitali esterni; il mediatore sinaptico è l’acetilcolina. Alcune fibre, che raggiungono i vasi nei muscoli scheletrici, appartenenti al simpatico, ma utilizzanti il mediatore colinergico, hanno azione vasodilatatrice. I riflessi vasomotori rivestono una particolare importanza poichè contribuiscono al mantenimento dei valori della pressione arteriosa e alla distribuzione del sangue nei differenti organi. Riflessi vasomotori spinali si possono dimostrare quando si osserva che il raffreddamento di una mano è accompagnato da fenomeni vasomotori in ambedue le mani. Altri riflessi vasomotori utilizzano archi riflessi a livello spinale. c) Il mantenimento di valori costanti della pressione arteriosa rappresenta una fondamentale funzione omeostatica atta ad assicurare un flusso costante agli organi, specie al cuore e al cervello. Questo scopo è ottenuto con un’accurata regolazione, i cui aspetti periferici sono rappresentati da tre aree recettrici: la zona del seno carotideo, la zona dell’atrio destro all’entrata della vena cava inferiore ed il tessuto adiacente dell’auricola; l’arco aortico e l’atrio sinistro. Il seno carotideo, area localizzata alla biforcazione della carotide comune come dilatazione della parete arteriosa, è fornito di organi recettori che rispondono allo stiramento e alla stimolazione chimica (baro e chemorecettori). Analogamente esistono baro e chemorecettori a livello dell’arco aortico. Le fibre afferenti dai recettori seno-carotidei (baro e chemorecettori) viaggiano lungo il nervo del seno (o nervo di Hering), ramo del glosso-faringeo e raggiungono il nucleo del fascicolo solitario, che a sua volta ha connessioni col nucleo motore dorsale del vago. I recettori dell’arco aortico utilizzano rami vagali afferenti e rag-
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giungono il nucleo del fascicolo solitario e quindi il nucleo motore dorsale del vago. Qualora si verifichi un innalzamento della pressione arteriosa, la zona cardioaortica agisce determinando diminuzione della frequenza del polso, diminuzione del volume minuto, vasodilatazione periferica e quindi diminuzione della pressione arteriosa; viceversa nel caso di ipotensione. Analogamente la zona posta nel cuore destro provoca una diminuzione della pressione, e viceversa nel caso di ipotensione. L’azione del seno carotideo può essere considerata simile a quella della zona cardio-aortica: i barocettori inviano stimoli, in caso di aumento di pressione, al centro vagale inibitore ed inoltre inibiscono il centro cardioacceleratore simpatico; la caduta della pressione è anche dovuta a vasodilatazione venosa ed arteriosa. L’azione del seno carotideo sulla circolazione cerebrale appare molto diversa da quella esercitata sulla circolazione sistemica: infatti, quando la pressione arteriosa diminuisce, si verifica una vasocostrizione periferica, ed una vasodilatazione a livello cerebrale che produce una deviazione del sangue dai territori periferici a quelli cerebrali; l’effetto è contrario in caso di aumento di pressione. A questo tipo di regolazione contribuiscono non solo il seno carotideo ma forse, secondo alcuni AA., anche riflessi vasomotori locali cerebrali originati soprattutto a livello dell’arteria meningea media (riflesso meningeo di Schneider). Tuttavia è necessario sottolineare che le risposte vasomotorie cerebrali osservate dai diversi Autori, sono conseguenza delle variazioni della pressione di perfusione e non di un’azione diretta del seno carotideo sulle arterie cerebrali. Se questo meccanismo di controllo è alterato (soggetti sottoposti ad interventi di denervazione seno-carotidea a scopo terapeutico) si osserva un’ipertensione generale transitoria, una modesta riduzione delle resistenze periferiche, un aumento di flusso cerebrale e del consumo di O 2. I recettori della zona cardio-aortica contribuiscono anche alla regolazione della respirazione poichè, come è noto, esiste una interrelazione fra questa e la circolazione: un aumento della pressione arteriosa produce, tramite la zona cardio-aortica, una inibizione della respirazione e viceversa; una diminuzione di flusso cerebrale è causa di iperpnea e viceversa. Le zone ora descritte posseggono, oltre ai pressocettori, chemocettori, specie a livello del glomo carotideo, sensibili a variazioni emato-chimiche, particolarmente alle variazioni della tensione di CO2 e di O2. La zona reflessogena del seno carotideo concorre a rendere operanti gli adattamenti cardiovascolari necessari nei cambiamenti di posizione del capo e del corpo. Nel passaggio dalla posizione sdraiata all’ortostatismo, per
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
la forza di gravità, tende a crearsi uno sfavorevole gradiente pressorio che rapidamente provoca un modesto calo tensorio sufficiente a stimolare il seno carotideo. Si produce allora una vasocostrizione splancnica, un aumento della frequenza cardiaca e del volume minuto che tendono ad impedire o a ridurre la caduta tensoria. L’alterazione di questo meccanismo può essere responsabile di una crisi sincopale. Gli effetti della compressione manuale del seno carotideo sono noti da lungo tempo, e particolarmente interessanti appaiono in caso di iperreflettività sinusale. La compressione, infatti, può provocare in alcuni soggetti un notevole rallentamento cardiaco, una caduta della pressione arteriosa e in alcuni casi una perdita di coscienza (sincope seno-carotidea, v. pag. ….).
FUNZIONE PILOMOTRICE E RIFLESSI PILOMOTORI Le fibre pregangliari hanno origine dalla colonna intermedio-laterale del midollo, dal primo segmento dorsale al terzo segmento lombare, raggiungono non solo il ganglio simpatico corrispondente ma anche gangli sovra e sottoposti. Di qui escono le fibre postgangliari per i muscoli pilomotori. I muscoli pilomotori situati sulla tunica esterna del follicolo del pelo, al di sotto delle ghiandole sebacee e sullo strato più superficiale del derma, quando si contraggono producono per spostamento dei follicoli e delle ghiandole, l’aspetto cutaneo noto come pelle anserina. I muscoli pilomotori sono eccitati dal freddo, da rumori fastidiosi e da stati emotivi. L’erezione del pelo è mediata da un arco riflesso con neurone intercalare nel midollo spinale. Alcune regioni sono più sensibili per l’eccitazione del riflesso; specie la regione ascellare, l’addome, la cute lungo la colonna vertebrale; la nuca e la regione posteriore del padiglione auricolare sono le regioni di scelta per l’estrinsecazione del riflesso. L’eccitamento unilaterale provoca orripilazione uni e omolaterale per un’area estesa a tutto l’emicorpo o a una regione limitata. La pelle anserina è poco evidente sul volto; nel resto del corpo esiste una propagazione dall’alto al basso; spesso il riflesso è molto fugace. Nelle lesioni spinali (situate tra T1 e L2) il riflesso si arresta al territorio cutaneo corrispondente al segmento spinale leso. Poichè le fibre simpatiche di diversi segmenti midollari raggiungono un solo ganglio, il riflesso pilomotore, se provocato da stimolazione nucale, non si arresta a livello dei disturbi sensitivi, ma discende di alcuni segmenti. Se provocato da stimolazione lombare ascende di alcuni dermatomeri. Le lesioni dei rami comunicanti e dei gangli si accompagnano a modificazioni del riflesso pilomotore. Dopo estirpazione del ganglio stellato la piloerezione è assente nella faccia, braccio e regione del collo omolaterale.
Nelle lesioni del nervo periferico il riflesso è assente in un’area sovrapponibile all’area di anestesia. Persiste invece la reazione locale alle eccitazioni dirette (riflesso pilomotore locale). La stimolazione faradica, ad esempio, determina la pelle anserina a livello dell’area direttamente stimolata. Non tutti i nervi contengono fibre pilomotrici; infatti, ne sono privi il cubitale e lo sciatico popliteo esterno.
FUNZIONE SUDORIPARA Le fibre delle ghiandole sudoripare accompagnano le fibre pilomotorie ma posseggono una mediazione colinergica. In una sezione del midollo toraco-lombare, si dimostra che la sudorazione si arresta a livello del dermatomero corrispondente alla lesione. Anche le lesioni che coinvolgono i gangli simpatici cervicali o toracici producono anidrosi. L’iniezione di adrenalina produce solo piloerezione e vasocostrizione, mentre l’acetilcolina e la pilocarpina causano vasodilatazione e sudorazione profusa. La sudorazione è un fattore importante nella regolazione della temperatura corporea ed è regolata dall’ipotalamo, probabilmente dalla porzione anteriore e laterale. Il sudore «emotivo» prevale alle mani e ai piedi e si postula in rapporto con attività corticale, mediata dai centri inferiori, ma le vie non sono state ancora individuate.
FUNZIONE RESPIRATORIA La respirazione è in gran parte automatica, attraverso meccanismi riflessi autonomi, in cui giocano sia fattori meccanici che fattori chimici, i quali agiscono, attraverso il sangue circolante e i recettori carotidei e aortici, sui centri respiratori. Stimoli afferenti provenienti da tutte le parti del corpo sono capaci di alterare il ritmo e la profondità del respiro; si deve sottolineare, tuttavia, che il ritmo e la profondità del respiro possono essere modificati anche per effetto di attività somatiche volontarie, involontarie ed emozionali (ad es. il pianto e il riso modificano il respiro). Centri respiratori del ponte e del bulbo Nel tronco encefalico si presume che esistano vari centri respiratori.
Funzioni del sistema nervoso vegetativo
I dati sperimentali permettono di distinguere (Fig. 8.6):
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NEL BULBO:
– un centro bulbare inspiratorio situato nella sostanza reticolare ventrale, dorsalmente all’oliva inferiore; – un centro bulbare espiratorio, localizzato nella sostanza reticolare dorsale. Meccanismo della respirazione ritmica fasica
Fig. 8.6 - Schema della localizzazione dei centri respiratori, secondo dati sperimentali.
NEL PONTE:
– un centro pneumotassico situato nella porzione dorso-laterale del terzo rostrale del ponte. La sua distruzione bilaterale provoca una apnea inspiratoria (apneusi) o respiro apneustico, nel quale la fase inspiratoria predomina largamente e dura per molti secondi o per minuti mentre l’espirazione rappresenta solo la breve interruzione della forzata inspirazione. Il disturbo è più evidente dopo vagotomia bilaterale. Il centro pneumotassico non sembra possedere un’attività ritmica intrinseca; – un centro apneustico localizzato nel terzo caudale del ponte. Dopo distruzione del centro pneumotassico e vagotomia bilaterale, il centro apneustico sostiene la respirazione apneustica. È responsabile dell’attività inspiratoria. La stimolazione simpatica produce broncodilatazione, quella vagale broncocostrizione e aumento secretivo delle ghiandole bronchiali;
L’ampiezza e la frequenza del respiro (fase inspiratoria ed espiratoria) determinano la profondità della respirazione e cioè il volume d’aria introdotto ed espulso per minuto. I centri respiratori bulbari sono capaci di un’attività ritmica, in assenza di stimoli afferenti ma nei primati questa attività non sembra sufficiente a mantenere l’attività respiratoria. Se i centri bulbari sono deafferentati, cioè isolati da impulsi afferenti, si ha una respirazione apneustica. Il centro respiratorio sviluppa un’attività fasica ritmica solo se esistono periodiche depressioni di attività del centro bulbare inspiratorio, determinata dall’attività: a) del centro pneumotassico pontino; b) del centro espiratorio bulbare attivato non automaticamente, bensì dal centro pneumotassico o dal sistema vagale-solitario, che possiede un’azione inibitoria sul centro inspiratorio; c) del sistema riflesso vagale sul centro inspiratorio; d) del nucleo motore dorsale del vago attraverso i neuroni intercalari che raggiungono il tratto solitario. La distensione polmonare attiva il nucleo solitario e questo a sua volta il nucleo motore del vago, per cui ne risulta una riduzione o abolizione dell’attività inspiratoria del centro bulbare. I centri respiratori sono regolati – come abbiamo detto – da stimoli chimici, attraverso la pressione parziale di CO2 (controllo attraverso chemocettori centrali) e attraverso l’attività dei chemocettori periferici (glomo carotideo e aortico); da stimoli meccanici attraverso i barocettori carotidei e aortici. In ultimo i centri respiratori sono regolati anche da meccanismi a sede ipotalamica e corticale, durante attività motorie, sensitive e psichiche. La postura respiratoria è determinata dalla contrazione tonica del diaframma e dei muscoli intercostali e consente una respirazione simmetrica o asimmetrica (a seconda che l’inspirazione e l’espirazione siano di durata uguale o diversa). Il tipo posturale del respiro determina la superficie alveolare e la capacità polmonare. La postura respiratoria è regolata in via riflessa da propriocettori situati negli alveoli polmonari e nelle articolazioni costovertebrali che raggiungono, attraverso il vago, il tratto solitario. Una distensione polmonare produce riduzione della contrazione tonica del diaframma e una respirazione asimmetrica espiratoria: infatti gli stimoli afferenti attraverso il tratto solitario attivano il
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
centro espiratorio ed inibiscono il centro inspiratorio. Il contrario avviene se i polmoni hanno un’espansione ridotta. Le alterazioni del respiro che si possono riscontrare per lesioni del sistema nervoso a differenti livelli (respiro di Cheyne-Stokes, iperventilazione centrale neurogena, apneusi, respiro a grappolo, respiro atassico) saranno descritte a pag. 637.
Meccanismi nervosi periferici della respirazione
I muscoli respiratori permettono il succedersi delle periodiche espansioni e contrazioni del torace che si sovrappongono ad un tono posturale fondamentale. Esiste pertanto una respirazione ritmica fasica e una respirazione tonica posturale. Gli effettori periferici del respiro sono rappresentati dal diaframma, innervato dai nervi frenici (origine C2, C3, C4), dai muscoli intercostali, innervati dai nervi intercostali (origine T1T6) dai muscoli addominali (origine T7-T12), dagli scaleni (origine C4-C8), dallo sternocleidomastoideo (C2 e nucleo accessorio spinale). Come abbiamo già detto il meccanismo respiratorio è influenzato da stimoli provenienti dalle più diverse parti dell’organismo. Le vie afferenti più efficaci nel convogliare stimoli respiratori ai centri sono rappresentate dal glomo carotideo e aortico, attraverso il glosso-faringeo e il vago. In particolare il vago trasporta impulsi che provengono oltre che dal glomo aortico, da tensorecettori situati nelle vene di maggior calibro, da meccanorecettori laringei e tracheali (vedi riflesso della tosse) e tensorecettori localizzati nei polmoni. Influenza sul respiro di aree encefaliche e ipotalamiche
Ricerche sperimentali dimostrano che la neocorteccia (piede della 3ª circonvoluzione frontale) modifica la respirazione sia attivando, sia inibendo, durante la vocalizzazione o l’emissione di parole, cioè durante attività volontarie. La regolazione respiratoria in occasione di reazioni emotive è regolata dalla paleo-cortec-
cia, cioè dalla parte orbitale del lobo frontale, dal polo temporale, e dalla regione anteriore dell’insula, aree corticali che sono in connessione con l’ipotalamo ventro-posteriore. La loro funzione è eccitatoria e inibitoria e si accompagna a modificazioni del calibro vasale e della pressione arteriosa. Nell’uomo la stimolazione dell’area motoria indicata come rappresentante la «vocalizzazione», produce arresto del respiro o inibizione dell’atto respiratorio. Lo stesso effetto si ottiene per stimolazione della regione anteriore dell’insula e dell’uncus dell’ippocampo. L’attivazione di aree ipotalamiche ventrali posteriori produce un aumento dell’attività respiratoria (insieme ad aumento dell’attività cardiaca, elevazione della pressione arteriosa, dilatazione pupillare, aumento dell’attività motoria). Effetti opposti si ottengono per attivazione dell’ipotalamo anteriore, ventrale e mediale. FUNZIONI DIGESTIVE Il tratto gastro-intestinale è fornito di innervazione simpatica e parasimpatica. In generale l’eccitazione parasimpatica (del vago e del parasimpatico sacrale) attiva i processi secretivi gastrici e intestinali, aumenta la peristalsi e rilascia gli sfinteri. L’eccitazione simpatica è in genere inibitoria: riduzione della secrezione, della peristalsi e aumento del tono degli sfinteri. La porzione parasimpatica è costituita dal nucleo del vago (v. pag. 280). La porzione simpatica è rappresentata dalle cellule della colonna intermedio-laterale da T5 a T12. Le fibre pregangliari non si interrompono a livello del ganglio paravertebrale e costituiscono, unendosi a fibre di altri segmenti, nervi viscerali di cui i più voluminosi sono il nucleo grande splancnico e il piccolo splancnico (le anomalie sono peraltro molto frequenti e si possono anche avere 3 nervi splancnici). Il grande splancnico raggiunge il plesso celiaco, il piccolo splancnico raggiunge il plesso celiaco e il ganglio mesenterico superiore. Il plesso celiaco è un’intricata rete di fibre, situata nella parete addominale posteriore, che contiene numerose masse gangliari. Il plesso mesenterico superiore è un plesso sussidiario. Dai plessi le fibre postgangliari innervano lo stomaco, il tenue, il sistema biliare, il colon, il pancreas. Il vomito è, in condizioni normali, un riflesso che permette un rapido svuotamento dello stomaco e previene quindi il passaggio di sostanze nocive all’intestino.
Funzioni del sistema nervoso vegetativo Esiste un centro del vomito nel bulbo a livello del nucleo reticolare mediale, molto vicino ai centri respiratori. L’attività di questo centro avviene attraverso il nucleo motore dorsale del vago, il quale provoca inibizione dei movimenti peristaltici del fondo gastrico, contrazione tonica del piloro e dell’antro pilorico, rilasciamento del cardias. Tale attività è associata alla contrazione volontaria dei muscoli addominali e del diaframma. Le vie afferenti del riflesso sono diverse: stimoli gastrici, ma anche psichici, olfattivi, visivi, ecc.
FUNZIONE DELLA MINZIONE La modalità del controllo della funzione vescicale e quindi della minzione è di fondamentale importanza per la frequenza con cui possono manifestarsi turbe della minzione, ma persistono ancora punti oscuri. I muscoli vescicali, in via elementare e schematica, sono rappresentati da fibre muscolari lisce (muscolo detrusore, muscolo del trigono, sfintere interno) e da fibre muscolari striate (sfintere esterno). L’innervazione è dovuta ai sistemi simpatico e parasimpatico ed al sistema motorio somatico. Innervazione simpatica. – Origina dalla colonna intermedio-laterale a livello di T12-L3, per alcuni autori soprattutto L1-L3. Le fibre pregangliari costituite dal nervo splancnico pelvico terminano nel plesso ipogastrico inferiore, da dove emergono le fibre postgangliari o nervi ipogastrici, a mediazione noradrenergica. Le opinioni circa la destinazione delle fibre postgangliari sono contrastanti: infatti i nervi ipogastrici possono essere sezionati senza produrre turbe della minzione. Si può tuttavia affermare, in base agli effetti della stimolazione, che i nervi ipogastrici innervano il muscolo trigonale e lo sfintere interno (verosimilmente con funzione inibitoria) ed hanno funzione inibitoria sul muscolo detrusore; gli adrenorecettori (alfa 1) presenti a livello del collo vescicale e del trigono, mediano la contrazione. Le fibre afferenti simpatiche conducono la sensibilità dolorosa dal trigono e la sensazione di pienezza vescicale.
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Innervazione parasimpatica. – Origina da neuroni posti alla base del corno anteriore del midollo sacrale (S2-S3) e con le fibre pregangliari costituite dai nervi pelvici o nervi erigentes va a formare il plesso vescicale, che è situato alla base della vescica. Il plesso vescicale (parte del plesso pelvico) è composto da fibre postgangliari simpatiche (nervi ipogastrici), da fibre parasimpatiche pregangliari (nervi pelvici) e da fibre afferenti viscerali sensitive che accompagnano i nervi simpatici e i nervi parasimpatici. Parte delle vie parasimpatiche pregangliari contraggono sinapsi anche con gangli intramurali (situati nella parete vescicale). Vie parasimpatiche accessorie raggiungono poi la vescica direttamente senza utilizzare i nervi pelvici (per questo motivo l’innervazione vescicale parasimpatica può essere non completamente abolita dopo alcuni interventi intrapelvici). Le fibre parasimpatiche determinano contrazione del detrusore e inibizione dello sfintere interno; il mediatore pre e post-gangliare è l’acetilcolina. L’inibizione dello sfintere sembra essere indiretta e passiva, dovuta all’aumentata pressione endovescicale. Inoltre lo sfintere interno sarebbe non un muscolo a sè stante ma la continuazione delle fibre del detrusore. Le fibre afferenti del contingente parasimpatico conducono gli stimoli dolorosi, la sensazione di pienezza vescicale e mediano il riflesso di contrazione vescicale. Innervazione somato-motoria. – Lo sfintere striato o esterno è innervato dai nervi pudendi che nascono dalle radici anteriori dei segmenti sacrali S3-S4 (forse S2) (Fig. 8.7). Regolazione della minzione La minzione si effettua per contrazione del m. vescicale (m. detrusore) e simultaneo rilasciamento dello sfintere interno ed esterno. Si accompagnano comunemente contrazione dei muscoli addominali e rilasciamento del perineo.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 8.7 - Schema dell’innervazione dell’apparato vescicale.
Centro riflesso: situato a livello dei metameri S2-S4. La via efferente è rappresentata dalla via parasimpatica (S2-S4) attraverso i nervi pelvici. La via afferente è rappresentata da recettori sensibili allo stiramento, situati nella parete vescicale, e dai nervi pelvici. Gli impulsi afferenti, prodotti dalla sovradistensione vescicale, raggiungono S2-S4 e ritornano sempre attraverso gli stessi nervi pelvici come impulsi motori provocando contrazione del detrusore (classicamente associata a rilasciamento dello sfintere interno). L’azione del simpatico è discussa. Per alcuni Autori l’innervazione simpatica avrebbe un effetto inibitorio sul tono vescicale e aumenterebbe la soglia per la minzione. Lo sfintere esterno non può essere aperto volontariamente, indipendentemente dal detrusore, ma può essere attivamente chiuso.
Il riflesso minzionale ora descritto è quello utilizzato dal bambino fino a 4-5 anni per svuotare la vescica. Più tardi la contrazione riflessa può essere inibita da impulsi soprasegmentali di centri sovrapposti. Solo quando la distensione vescicale ha raggiunto una certa intensità gli impulsi afferenti raggiungono il livello cosciente e producono il bisogno di urinare. La minzione può essere rimandata per un certo tempo per mezzo della contrazione volontaria dell’uretra striata e della muscolatura pelvica. Da queste considerazioni, discendono importanti conseguenze sul piano farmacologico e terapeutico, ai fini di un corretto approccio dell’incontinenza e della ritenzione vescicale, disturbi assai comuni nella pratica neurologica. Si può pertanto proporre il seguente schema:
Funzioni del sistema nervoso vegetativo
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Detrusore
Sfintere interno e trigono
Sfintere striato
Azione inibitoria
parasimpaticolitici (propantelina, imipramina)
alfalitici (fenossibenzamina, prazosin)
antispastici (baclofene, diazepam)
Azione eccitatoria
parasimpaticomimetici (betanecolo, carbacolo)
alfastimolanti (efedrina, etilefrina, desimipramina)
anticolinesterasici (prostigmina)
Regolazione soprasegmentale. – A livello corticale centri che attivano la minzione sono localizzati nel giro del cingolo, nella superficie orbitale del lobo frontale e nella porzione superiore della frontale ascendente e nel lobulo paracentrale. Inoltre la minzione sarebbe anche attivata da aree situate nel giro cingolato, nel nucleo amigdaloideo, nella corteccia piriforme e nell’ipotalamo. È stato inoltre suggerita l’esistenza di “centri della minzione” a livello del tegmento ponto-mesencefalico, in contiguità anatomica con il locus coeruleus. Questi centri riceverebbero impulsi afferenti dai metameri sacrali ed invierebbero fibre efferenti per il nucleo di Onuf e per le cellule della colonna intermedio-laterale a livello sacrale. A loro volta i centri della minzione pontomesencefalici sarebbero sotto il controllo di corteccia frontale, talamo, ipotalamo a cervelletto. Un interessante studio nell’uomo, effettuato con l’ausilio della PET, ha mostrato, in volontari sani durante la minzione, un aumento del flusso ematico a livello di: tegmento pontino di destra, regione periacqueduttale, ipotalamo e corteccia frontale destra. A vescica piena, impedendone lo svuotamento, si osservava aumentata attività nel tegmento pontino ventrale di destra. Le fibre discendenti sarebbero localizzate nel cordone laterale del midollo mentre le fibre ascendenti, che mediano le sensazioni di riempimento vescicale, decorrono nella porzione ventrale del cordone laterale. Inibizione della minzione. – Nel tentativo di inibire volontariamente la minzione può essere
utilizzata la contrazione dell’uretra striata e dei muscoli pelvici per cui la base della vescica si eleva, il muscolo vescicale si rilascia e si ha reflusso dell’urina nella vescica con chiusura dello sfintere. L’inibizione della minzione è mediata dall’innervazione simpatica che origina dai segmenti T12-L3, raggiunge i gangli e i plessi ipogastrici da cui originano le fibre postgangliari che producono atonia della parete vescicale e aumento del tono dello sfintere interno e quindi ritenzione urinaria. L’innervazione simpatica dello sfintere interno impedisce il reflusso dello sperma nella vescica durante l’eiaculazione. Turbe neurogene della minzione Lesioni cerebrali delle aree precentrali, specie se sono bilaterali, possono causare ritenzione urinaria, come avviene nei tumori cerebrali e negli aneurismi della comunicante anteriore. Lesioni delle vie discendenti precentrali possono essere causa di incontinenza, come si osserva nelle demenze. Nelle lesioni spinali a livello del centro sacrale o delle vie pregangliari parasimpatiche, la vescica si distende passivamente, vince la debole resistenza dell’uretra, e siccome lo sfintere non è contratto l’urina scola all’esterno, pur esistendo residuo. È questa l’incontinenza vera o attiva (“vescica autonoma”). Nelle lesioni spinali soprasacrali il controllo volontario è abolito se la sezione interessa bilateralmente i cordoni laterali o comunque se la
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transezione è completa. In questo caso l’arco riflesso sacrale è intatto e si verificano periodiche involontarie contrazioni del detrusore (ogni 3-4 ore), per cui la vescica si vuota pur esistendo sempre un residuo. È questa la “vescica automatica” o “riflessa”. Se la transezione soprasacrale è parziale, il controllo soprasegmentale è ridotto, ma non abolito. Ne risulta una minzione volontaria, ma l’imperiosità del bisogno di mingere non potrà essere soppressa (minzione imperiosa, sintomo frequente ad es. nella sclerosi multipla). Ritenzione urinaria si osserva in casi di lesione spinale al di sopra di T12 ed è dovuta alla liberazione dell’innervazione inibitoria simpatica con conseguente ipertonia dello sfintere interno. FUNZIONE DEFECATORIA L’atto della defecazione ha una componente volontaria e una involontaria. Il centro della defecazione è localizzato a livello del midollo sacrale (S2-S3). La via afferente è costituita dai nervi pelvici, che conducono a livello sacrale gli stimoli prodotti sulla parete intestinale dalla sovradistensione dovuta all’accumulo di feci. La via efferente parasimpatica è costituita dai nervi sacrali e dal nervo pelvico, che raggiungono la tunica muscolare del colon e del retto, e, attraverso il nervo pudendo, lo sfintere anale esterno. La via efferente simpatica proviene dai segmenti T10-L2 e attraverso il ganglio mesenterico inferiore e i nervi ipogastrici raggiunge il colon e lo sfintere interno con funzione inibitoria. Questo meccanismo ha notevole importanza nella genesi della stipsi. I centri soprasegmentali per la defecazione sono in gran parte in aree contigue a quelle che regolano la minzione, e in particolare: aree rinencefaliche e ipotalamiche. Un centro corticale nei primati è stato individuato nella parte superiore della circonvoluzione frontale ascendente e nell’adiacente lobulo paracentrale.
FUNZIONI SESSUALI NELL’UOMO Erezione. – La turgida replezione dei corpi cavernosi è causata dall’azione vasodilatatrice e dall’azione tonica dei muscoli ischio e bulbocavernoso, che impediscono il reflusso del sangue venoso. Entrambe queste azioni sono mediate dai centri parasimpatici (S2-S4) che ricevono impulsi sensitivi dal glande e dal prepuzio attraverso i nervi pudendi e inviano impulsi tramite i nervi pelvici (erettori). Gli impulsi simpatici, via nervo dorsale del pene, causano vasocostrizione dei corpi cavernosi e cessazione dell’erezione. I meccanismi con cui stimoli visivi, olfattivi o ideazione a tematica erotica, possono scatenare l’erezione, sono ancora in gran parte sconosciuti. Eiaculazione. – Il centro ha sede nel midollo lombare superiore (T12-L3) e, attraverso i nervi ipogastrici e il plesso ipogastrico, le fibre postgangliari raggiungono la prostata e le vescicole seminali: la contrazione dei muscoli lisci ghiandolari è quindi attivata dal simpatico. La fase di emissione, iniziata dal simpatico, è seguita dalla fase espulsiva, prodotta dalle contrazioni ritmiche dei mm. bulbo e ischiocavernoso e dello sfintere esterno uretrale: questa fase è attivata dal parasimpatico (S2S3). Patologie che colpiscono le strutture soprasegmentali, il midollo spinale (specie a livello sacrale) o le fibre parasimpatiche dell’arco riflesso possono causare impotenza su base neurogena: traumi, sclerosi multipla, diabete, alcoolismo, sono le cause più frequenti. L’azione dei farmaci può interferire inoltre sull’equilibrio fisiologico nelle funzioni di erezione ed eiaculazione: neurolettici, antidepressivi, antiipertensivi (alfa-bloccanti, beta-bloccanti, diuretici tiazidici, metil-dopa, clonidina) sono tra i farmaci più comuni, con effetto inibitorio sulle funzioni sessuali.
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Esami diagnostici complementari
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9. Esami diagnostici complementari
Liquido cerebrospinale (Liquor) A. Leonardi, E. Capello Il liquido cerebrospinale, o cefalorachidiano, o più brevemente liquor, è un secreto plasmatico prodotto dai plessi corioidei dei ventricoli cerebrali, che diffonde dalle cavità ventricolari agli spazi subaracnoidei encefalici e spinali ed è riassorbito in massima parte dal seno longitudinale superiore. I meccanismi di produzione, circolazione e riassorbimento del liquor, così come la fisopatogenesi ed i quadri clinici delle sindromi da alterata pressione intracranica sono descritti nel Cap. 16, pag. 00, essendo questo Capitolo specificamente dedicato alle tecniche di prelievo e di esame liquorale a scopo diagnostico.
La rachicentesi o puntura lombare È la tecnica più semplice ed utilizzata per misurare la pressione del liquor e raccoglierne un campione sufficiente per l'analisi citochimica. La stessa tecnica si presta anche per introdurre nello spazio subaracnoideo spinale farmaci o di mezzi neuroradiologici di contrasto. L'analisi del liquor è di importanza diagnostica nella quasi totalità delle malattie neurologiche. CONTROINDICAZIONI.- Sono poche, ma im-portanti. Una ipertensione intracranica dovuta ad una massa occupante spazio emisferica o una localizzazione tumorale in fossa cranica poste-
riore controindicano la rachicentesi, poiché la rapida sottrazione di liquor a livello lombare può causare ernie cerebrali (v. pag. 000). Tuttavia, l'ipertensione liquorale di per sé non costituisce controindicazione assoluta: vi sono casi in cui la sottrazione di liquor, riducendone la pressione, apporta un transitorio beneficio (meningiti, emorragia subaracnoidea, idrocefalo normoteso, ipertensione intracranica idiopatica). In ognuna di queste circostanze è preferibile anteporre una TC cerebrale. Se per ragioni di urgenza la rachicentesi non può essere procrastinata, la decisione resta affidata ad una accurata valutazione clinica. Altre controindicazioni o motivi di impossibilità all'esecuzione della rachicentesi sono rappresentati da: infezioni nella sede della puntura (ascessi, piaghe da decubito, osteomielite vertebrale), dato il rischio di trasportare agenti infettivi all'interno degli spazi subaracnoidei; gravi coagulopatie (rischio di emorragie); grave spondiloartrosi deformante lombo-sacrale (impossibilità al corretto inse-rimento dell'ago).
ESECUZIONE.- Di norma la rachicentesi deve essere eseguita in pazienti digiuni da almeno 6 ore. POSIZIONE DEL PAZIENTE.- È fondamentale per una rapida corretta esecuzione dell'esame. Il paziente dev'essere confortevolmente posto sulla sponda di un letto rigido in decubito laterale destro, con il dorso perpendicolare al piano del letto, ed in posizione genupettorale, onde aumentare al massimo la distanza interapofisaria. Adeguati cuscini sono necessari per mantenere il capo in asse ed il dorso perpendicolare, così come è molto utile un secondo operatore che
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aiuti a mantenere stabilmente capo ed arti in flessione. Talora è necessario ricorrere alla posizione seduta con iperflessione del capo e degli arti inferiori, dorso a filo della sponda del letto e cuscino premuto sull'addome: in tal caso, la misurazione della pressione liquorale, inficiata dall'ortostatismo, perde gran parte del suo signifi-cato. In mani esperte, e con personale di assistenza addestrato adeguatamente, la rachicentesi è innocua e quasi com-pletamente indolore. Solo in particolari circostanze può essere richiesta una preliminare anestesia locale che, oltre a non essere del tutto indolore, rimane sempre pittosto difficoltosa e superficiale ed inoltre, per l'edema che indu-ce, ostacola la corretta identificazione dei punti di repere.
La puntura è di regola effettuata nell'interspazio fra le apofisi spinose L3-L4, ma in caso di difficltà (grave osteoartrosi con deformità della colonna) si prestano altrettanto bene gli interspazi sottostanti (L4-L5) o, nell'adulto, sovrastanti ma non più rostrali di L2-L3 (Fig. 9.1, B), dato il rischio di lesioni midollari accidentali. Il midollo spinale termina a livello del passaggio fra i corpi di L1 ed L2 nell'adulto, L2-L3 nella donna e del margine inferiore di L3 nel neonato. La dura e l'aracnoide continuano in basso fino al corpo di S2 e formano un cul di sacco lombo-sacrale che contiene il liquor e la cauda equi-na. In queste circostanze si dovrebbe preferire la via su-boccipitale (Fig. 9.1, A), che richiede tuttavia aghi speciali e particolare esperienza e manualità.
Gli aghi da rachicentesi sono lunghi circa 8 cm., hanno calibro n° 18 o 22, sono muniti di mandrino e hanno punta obliqua tagliente, per cui, onde evitare una sezione trasversale delle fibre longitudinali della dura madre con formazione di fistola liquorale, il taglio dell'ago deve mantenersi parallelo all'asse della colonna. Tale avvertenza permetterebbe di ridurre l'incidenza di cefalea post-rachicentesi dal 19,3% al 7,9% (Kochanowicz et al., 1999). Recentemente è stato anche proposto l'uso degli aghi atraumatici a punta chiusa con apertura laterale a circa 5 mm. dalla estremità, comunemente utilizzati per anestesia spinale. L'utilizzo di questi aghi
Fig. 9.1 - A: puntura suboccipitale. L'ago è inserito nello spazio fra margine occipitale postero-inferiore del forame magno e l'apofisi dell'epistrofeo (C2). B: puntura lombare. L'ago è inclinato di 10° ver-so il basso e 0° in senso laterolaterale rispetto alla perpendicolare relativa all'asse longitudinale della colonna.
è però più inda-ginoso, specie in persone corpulente, poiché richiede la previa inserzione di un ago-guida di calibro maggiore. La reale utilità pratica di tale tecnica, che sembra complessi-vamente ridurre il rischio di cefalea del 26% (Thomas. et al., 2000), rimane ancora da determinarsi. Sterilizzata accuratamente la cute (tintura di iodio o Be-tadine) ed eliminato ogni residuo iodato con alcool, l'operatore, munito di guanti sterili non talcati, localizza l'interspazio L3-L4 con il pollice. Questo serve da guida per l'ago, tenuto saldamente impugnato (onde evitare fles-sioni) ed orientato secondo una leggera inclinazione verso l'alto (10°). È importante evitare errori di parallasse sul piano laterale (Fig. 9.1, B). Ad una profondità di circa 4,5 cm, la punta dell'ago attraversa il legamento giallo, poco dopo incontra la resistenza della dura
Esami diagnostici complementari madre, la cui perforazione è quasi sempre ben avvertita (come un click), per penetrare infine nello spazio subaracnoideo e permettere la fuoriuscita di liquor qualora si estragga parzialmente il mandrino. In questo caso, il liquor è immediatamente convogliato mediante un deviatore a tre vie in un manometro a colonna per misurarne la pressione iniziale, le fluttuazioni artificialmente provocate, ed infine la pressione residua (finale) dopo prelievo. Per l'esame analitico è sufficiente estrarre complessivamente 5-10 ml di liquor in 2-3 quote sequenziali raccolte in provette sterili trasparenti, numerate in ordine progressivo. La rachicentesi si conclude con il reinserimento del mandrino, la rimozione dell'ago, la disinfezione ed il tam-ponamento della piccola ferita. Il paziente è quindi posto per alcune in posizione prona per favorire la chiusura dell'eventuale breccia durale e possibilmente minimizzare il rischio di cefalea post- rachicentesi. Poiché questa complicanza transitoria insorge assumendo la posizione eretta, e si manifesta quasi esclusiva-mente degli adulti, è stata avanzata l'ipotesi che dipenda essenzialmente dallo spostamento di liquor verso il com-partimento subaracnoideo spinale causato dalla posizione ortostatica (con conseguente iperpulsatilità dei vasi venosi cerebrali), anziché, come comunemente ritenuto, dall'ipo-tensione liquorale conseguente al prelievo (o da un'even-tuale esito in liquorrea). Il prelievo liquorale per via suboccipitale, infatti, non causa mai cefalea. Inoltre, la cefalea post-rachicentesi può essere bloccata mediante successiva iniezione epidurale di qualche ml di sangue del paziente (onde produrre un coagulo epidurale tamponante), o anche soltanto di soluzione fisiologica, in quantità tale (10-20 ml) da determinare una riduzione di volume del sacco durale lombo-sacrale (Levi-ne e Rapalino, 2001). Una abbondante assunzione di liquidi per via orale o intravenosa (glucosata 5% o fisiologica, 500 ml) può essere utile a favorire una più rapida ricostitu-zione del liquor comunque drenato. Il prelievo liquorale dev'essere di regola affiancato da un prelievo di sangue venoso per i motivi che sono più oltre descritti.
Esame del liquor PRESSIONE Dev'essere determinata prima e dopo l'estrazione di liquor mediante semplici manometri a colonna graduati monouso, inseriti perpendicolarmente sull'ago tramite appositi raccordi a tre vie.
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La pressione normale misurata a livello lombare ed in decubito laterale supino, è compresa nell'adulto tra i 60 ed i 200 mm di H2O. I valori sono sensibilmente inferiori nel bambino (41102 mm H2O). Aumenti della pressione liquorale oltre i 300 mm H2O caratterizzano l'ipertensione intracranica (vedi pag. 000). In questo caso, è consigliabile non sottrarre altro liquor oltre a quello già contenuto nel manometro. Più raramente la rachicentesi lombare dimostra la presenza di un'ipotensione liquorale: si tratta in genere di condizioni di ipotensione intracranica (v. pag. 000), molto più raramente di un blocco subaracnoideo da lesioni midollari, meningee o vertebrali che isolano in modo pressocchè completo il compartimento subaracnoideo spinale caudale da quello sovrastante alla lesione. PROVE DINAMICHE.- Ancorché superate dalla diagnostica per neuroimmagini, le prove dinamiche sono ancora tradizionalmente eseguite nell'ambito dello studio manometrico liquorale, anche perché molto semplici da effettuare. Sono basate sul fatto che: 1. - la compressione di entrambe le vene giugulari al collo causa immediato blocco del deflusso venoso dall'encefalo ed aumento della pressione liquorale fino a 280-300 mm H2O, mentre la compressione di una sola giugulare non produce alcun effetto, essendo sufficiente una sola giugulare pervia a garantire l'intero deflusso venoso del cervello; 2. - la manovra di Valsalva, aumentando la pressione intraaddominale e quindi dei plessi venosi intrarachidei, causa immediato aumento della pressione liquorale lombare. La prova di Queckenstedt consiste nel verificare se la compressione di entrambe le giugulari o di una per volta modifica la pressione liquorale. Esistono pertanto tre pos-sibilità: a) qualora la compressione giugulare bilaterale e la prova di Valsalva siano negative, l'ago da rachicentesi è otturato da lacinie subaracnoidee, per cui è necessario spostarlo o ruotarlo lievemente a mandrino inserito;
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b) qualora la compressione bilaterale delle giugulari dia esito scarso o negativo mentre la prova di Valsalva è nettamente positiva, si profila l'evenienza di un "blocco subaracnoideo spinale" (o blocco dinamico) completo (meningiti, aracnoiditi adesive, neoplasie); c) qualora la compressione di una sola giugulare cau-si immediato aumento della pressione liquorale, si profila l'esistenza di un'occlusione più o meno completa dell'altra giugulare (trombosi da processi settici otomastoidei, vedi " idrocefalo otitico", pag. 000). Il quoziente di Ayala è calcolato misurando pressione liquorale prima e dopo aver estratto esattamente 10 ml di liquor, dividendo Pressione finale per Pressione iniziale e moltiplicando il quoziente per 10. Il quoziente normalmente oscilla fra 5.5 - 6.5: valori in-feriori a 5 indicano scarsa produzione o riserva (blocco subaracnoideo), valori superiori a 7 eccesso di liquor (me-ningiti, ipertensione endocranica, idrocefalo). Questo pa-rametro, assai usato in passato, risulta oggi molto meno utilizzato.
ASPETTO Il liquor cerebrospinale ha un peso specifico solo lievemente superiore a quello dell'acqua distillata (gravità specifica 1.004-1.007 g· (cm3)-1 e risulta limpido ed incolore come “acqua di roccia”. Qualunque variazione di queste caratteristiche deve ritenersi quindi patologica. TRASPARENZA.- Si modifica proporzionalmente all'aumento delle cellule liquorali, o pleiocitosi1: dalla lieve opalescenza riscontrabile nelle meningiti linfocitarie e nella meningite tubercolare, caratterizzate da una pleiocitosi quasi mai superiore a 500 mononucleati per mm3 (liquor “smerigliato”), si può giungere all'aspetto torbido o francamente purulento nelle meningiti da piogeni (liquor opaco, grigiogiallastro, con pleiocitosi di oltre 10.000 polinucleati neutrofili per mm3).
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Pleiocitosi e pleocitosi, termine privilegiato nella letteratura anglosassone e consigliato dal Dizionario Medico Dorland, sono sinonimi, e si usano per indicare specificatamente l'ipercitosi liquorale
FLUIDITÀ.- Si riduce nelle sindromi da iperviscosità liquorale per eccesso di particolari ed abnormi soluti liquorali: mucina, prodotta da adenocarcinomi secernenti metastatici encefalici o meningei; mucopolisaccaridi capsulari in corso di meningiti da Criptococcus neoformans (Fishman, 1992). fibrinogeno ed albumina plasmatici. Il loro passaggio nel liquor, causato da un danno della barriera ematoencefalica, può essere relativamente modesto e tradursi in una tendenza a formare spontaneamente, nel liquor lasciato riposare in provetta per alcune ore, esili reticolari fibrinosi che assomigliano ad una tela di ragno a forma di imbuto rovesciato, come nella meningite brucellosica o tubercolare (reticolo di Mya). Elevate concentrazioni liquorali di fibrinoggeno ed albumina comportano invece una più o meno massiva coagulazione spontanea del liquor, con formazione di una massa gelatinosa normocitosica di colore giallo-arancio (xantocromico). Tale fenomeno caratterizza la sindrome liquorale di Froin o s. di loculazione liquorale, causata da blocco subaracnoideo spina-le completo causato da neoplasie intradurali (v. pag. 000). La xantocromia dipende dalla quota di bilirubina fisiologicamente adsorbita dall'albumina e da essa trascinata nel liquor COLORE.- Le modificazioni patologiche del colore possono dipendere da una contaminazione da parte di eritrociti o pigmenti ematici, o da contaminazione da parte di leucociti e costituenti batterici. Aspetto ematico.- È dato da una contaminazione eritrocitaria che conferisce al liquor un colore rossastro più o meno marcato, da lievemente rosato ad un colore rosso-vino intenso. La presenza di sangue nel liquor può essere un fenomeno del tutto accidentale, causato dalla puntura di un vaso intratecale durante l'inserimento dell'ago da rachicentesi.
Esami diagnostici complementari
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Tabella 9.1 - Composizione del liquor lombare normale e del sangue. Liquor
Sangue
Osmolarità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
295 mOsm/l
295 mOsm/l
Sodio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
138 mEq/l
138 mEq/l
Potassio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2.8 mEq/l
4.5 mEq/l
Magnesio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2.3 mEq/l
1.7 mEq/l
Cloruri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
119 mEq/l
102 mEq/l
Pressione CO2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
47 mm Hg
41 mm Hg
pH . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.33
7.41
Proteine totali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
35 mg%
7000 mg%
Glucosio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
55 mg%
90 mg%
Leucociti/mm3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5 (linfo-monociti)
In questo caso, frazionando la raccolta del liquor in successive provette, l'intensità del colore generalmente decresce dalla prima all'ultima e, dopo centrifugazione e sedimentazione degli eritrociti, il sopranatante risulta limpido ed incolore. Al contrario, se l'aspetto ematico è prodotto da una emorragia parenchimale o meningea datante da almeno 4 ore, il liquor rimane uniformemente ematico in tutti i campioni, e la centrifugazione abitualmente lascia un sopranatante più o meno intensamente xantocromico.
Aspetto xantocromico.- È indice di emolisi, indicando una permanenza del sangue nel liquor sufficientemente prolungata da permettere una lisi degli eritrociti e la formazione di metaboliti pigmentati dell'emoglobina di colore giallo-brunastro (ossiemoglobina e bilirubina). Nell'emorragia subaracnoidea e cerebromeningea, infatti, gli eritrociti scompaiono dal liquor nel giro di 37 giorni, mentre la xantocromia inizia a manifestarsi già alcune (4-12) ore dopo l'emorragia, per raggiunge il massimo dopo una settimana e scomparire in 2-4 settimane. Questi tempi sono ovviamente indicativi, e dipendono dalla quantità di sangue penetrato negli spazi liquorali oltre che dalla assenza o meno di recidive emorragiche. La presenza di sangue negli spazi subaracnoidei, oltre a causare intensa stimolazione dei nocicettori menin-
7000
go-vascolari intracranici e spinali, comporta anche una reazione irritativa meningea a carattere flogistico asettico associata ad una modesta pleiocitosi monocito-macrofagica. Nell'emorragia cerebrale o cerebromeningea e nella contusione cerebrale, l'aspetto ematico e la xantocromia del sopranatante possono anche mancare quando la rachicentesi è stata eseguita troppo precocemente. Per contro, Kjellin e Sodestrom (1974) hanno segnalato la possibilità di dimostrare pigmenti ematici invisibili a occhio nudo su liquor incolori mediante spettrofotometria. Questo metodo risulta più sensibile delle tecniche per neuroimmagini per la dimostrazione di pregresse emorragie. Xantocromia non post-emorragica anche intensa può essere causata, oltre che da massivo ingresso nel liquor di proteine plasmatiche (albumina + bilirubina, vedi sopra), anche o di bilirubina libera nei soggetti gravemente itterici. Infine, un liquor trasparente ma lievemente colorato può eccezionalmente riscontrarsi anche per migrazione dal plasma di coloranti lipofili (assunzione a scopo autolesivo di elevate quantità di confetti laccati).
Aspetto purulento.- Comprende intensa torbidità e colore grigio o giallo-verdasto, ed è rapportabile all'elevato numero di leucociti, batteri e pigmenti da essi eventualmente prodotti che caratterizzano la fase acuta delle meningiti purulente (v. Cap. 00, pag. 00).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Composizione Specifici meccanismi ionici e di trasporto attivo regolano la produzione e l'omeostasi chimico-fisica del liquor (v. Cap. 16, pag. 00), che è un vero e proprio secreto e non un semplice tra-sudato plasmatico, come si può osservare nella tabella 9.1. Infatti, le concentrazioni liquorali di Mg2+, Cl- e CO2 sono superiori a quelle plasmatiche, quelle di Na+ e l'osmolarità sono identiche, mentre il pH e la concentrazione di K+ sono sensibilmente inferiori nel liquor rispetto al sangue. I costituenti liquorali usualmente analizzati a scopo clinico sono la componente cellulare, le proteine ed il glucosio. L'esame citochimico standard, inoltre, può essere all'occorrenza integrato da analisi microbiologiche e sierologiche più o meno complesse e sofisticate. CELLULE Sono sempre di provenienza ematica. Normalmente si tratta di linfociti (60-70%) e monociti (40-30%) che attraversano le cellule endoteliali del capillare cerebrale, grazie al processo di emperipolesi, cioè migrazione transcellulare di leucociti in vacuoli giganti dal versante luminale a quello abluminale della cellula endoteliale (Fishman, 1992). Il conteggio va eseguito il più rapidamente possibile dopo la rachicentesi, in quanto, per ragioni non chiare, a temperatura ambiente le cellule si lisano spontaneamente e dopo 2 ore dal prelievo circa il 40% dei leucociti è scom-parso (Fishman, 1992). Si utilizza a questo scopo la camera di Fuchs-Rosenthal: le cellule nucleate si distinguono facilmente dagli eritrociti, ma non è possibile identificare attendibilmente i diversi tipi di leucociti. Qualora il campione liquo-rale sia leggermente contaminato da sangue fresco, la lisi selettiva degli eritrociti mediante shock chimico (acido acetico al 10% in fisiologica) permette una conta più agevole dei leucociti; se la contaminazione ematica è pesante, la conta leucocitaria perde molto del suo significato.
Normalmente e nell'adulto, il liquor non contiene più di 5 cellule per mm3. Valori tra 6 e 10 si considerano anormali; più di 10 cellule per mm| rappresentano un reperto sicuramente patologico.
Il semplice conteggio può essere integrato da tecniche citologiche più sofisticate e precise. Lo studio citomorfologico dei preparati allestiti per sedimentazione o citocentrifugazione e colorazioni istologiche (May-Grunwald-Giemsa, acridine Orange) (Kolmel, 1977) consente di riconoscere la natura delle cellule liquorali, identificando eventuali elementi neoplastici o particolarmente caratteristici di determinate condizioni, quali macrofagi fagocitanti eritrociti o contenenti granuli emosiderinici nel caso di pregresse emorragie. Lo studio immunocitochimico del sedimento liquorale consente poi di identificare mediante anticorpi monoclonali i diversi fenotipi cellulari (Fig. 9.2). La pleiocitosi è causata da un aumento dei linfociti, monociti e polimorfonucleati neutrofili in varie proporzioni. Più raramente il liquor contiene eosinofili, plasmacellule, macrofagi, basofili. Non è eccezionale il reperto di cellule tumorali, soprattutto nelle metastasi cerebrome-ningee e, comunque, solo se la neoplasia si trova in prossimità degli spazi liquorali (Fig. 9.3, d). La pleiocitosi esprime quasi sempre irritazione, ma non necessariamente infezione, delle meningi. La "formula" leucocitaria liquorale dipende in parte dall'acuzie del processo ed in parte, se si tratta di condizioni infettive, dalla natura dell'agente. Pleiocitosi neutrofila si trova abitualmente nelle infezioni acute, specie da piogeni, ma anche nelle riacutizzazioni di infezioni croniche, quali ad esempio tubercolosi: l'elevatissimo numero di cellule che in genere si riscontra (fino ad alcune decine di migliaia per mm3) conferisce al liquor un aspetto purulento grigio-verdastro. Pleiocitosi mononucleata si osserva in corso di infezioni virali o fungine, eccetto che nei primi giorni, se l'esordio è acuto: essa raramente supera i 1000 elementi per mm3, ed assai più frequentemente i conteggi sono infe-riori alle 200 cellule per mm3. Formule liquorali miste, cioè caratterizzate dalla contemporanea presenza di mono e polinucleati, si possono osservare in quasi tutte le condizioni, in particolare nelle fasi iniziali di cronicizzazione di infezioni esordite acutamente o nelle riacutizzazioni di infezioni croniche (tubercolosi, sifilide, micosi).
Esami diagnostici complementari
a
b
c
d
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Fig. 9.2 - Preparati allestiti mediante citocentrifugazione. Colorazione May-Grunwald Giemsa. 440x. Sono osservabili: a)linfociti attivati; b) macrofago in fase di attività fagocitarla; c) tappeto di granulociti neutrofili quale si osserva in una meningite batterica; d) elementi neoplastici in un caso di carcinomatosi meningea (tumore primitivo: adenocarcinoma vescicole)
In linea di massima, vale sempre il principio che l'acuzie del processo si associa a neutrofilia. Gli eosinofili possono essere presenti in percentuale variabile in tutte le condizioni infettive, particolarmente nelle fasi acute delle meningiti virali, nelle lesioni granulomatose e nelle infestazioni parassitarie. PROTEINE Quasi tutte le proteine presenti nel liquor derivano dal plasma, salvo alcune frazioni (beta e gamma, proteina tau) di sintesi intratecale. La transtiretina o prealbumina, deputata al trasporto della tiroxina e della proteina legante il retinolo, viene sintetizzata sia nel fegato che nei plessi corioidei, il che spiega perché la sua concentrazione liquorale sia percentualmente più alta di quella plasmatica. La concentrazione normale di proteine nel liquor lombare dell'adulto è tra i 20 ed i 50 mg% (0.2-0.5 g per litro). I valori variano leggermente secondo i vari Autori in rapporto alle metodiche utilizzate: attualmente la più diffusa è quella colorimetrica al biureto (metodo di Bradford).
L'aumento delle proteine liquorali, o iperproteinorrachia, è sempre patologico e contraddistingue molte malattie neurologiche, esprimendo in modo aspecifico l'esistenza di un danno anatomico o funzionale delle strutture di barriera (v. Cap. 16, A). Peraltro, anche la stessa iperproteinorrachia, superati certi valori, può rallentare il riassorbimento aracnoideo delle proteine, per cui nelle meningiti purulente o in altre condizioni con elevati livelli di proteine liquorali si può instaurare un "circolo vizioso" che tende progressivamente ad aggravare il quadro (Fishman, 1992). – Iperproteinorrachia lieve o moderata (dai 50 ai 100 mg%) si può osservare nelle le-sioni cerebrovascolari, in alcuni tumori encefalici, nelle meningiti linfocitarie, nelle encefaliti, in alcune neuropatie periferiche (diabetica, uremica) e nella sclerosi multipla. – Iperproteinorrachia grave (dai 100 ai 3600 mg%) si osserva nelle meningiti purulente e tubercolari, nei tumori midollari o nelle aracnoiditi spinali con blocco liquorale dinamico,
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
nei neurinomi dell'VIII nervo cranico e nei neurofibromi della cauda equina, ed infine nella poliradicoloneuropatia idiopatica acuta o cronica. Curiosamente, in una buona percentuale di pazienti con mixedema sono stati descritti alti livelli di proteinorrachia. – Ipoproteinorrachia fisiologica (valori al di sotto dei 15 mg%) si riscontra nei bambini tra i 6 mesi ed i 2 anni. Nell'adulto, il reperto è assai più raro, ma può osservarsi: a) nei liquor prelevati dopo recenti abbondanti sottrazioni; b) in soggetti portatori di fistole liquorali per il prevalere negli spazi spinali di liquor ventricolare, normalmente a bassa concentrazione proteica; c) nell'ipertensione intracranica idiopatica; d) nell'intossicazione da acqua per accelerato ritmo di riassorbimento liquorale; e) nell'ipertiroidismo. Va ricordato ancora che l'ipoproteinemia anche grave non comporta ipoproteinorrachia, data la scarsissima permeabilità delle barriere ematoencefalica ed ematoliquorale alle proteine (Fishman, 1992). La determinazione della proteinorrachia totale, benchè indispensabile, fornisce informazioni diagnostiche aspecifiche e parziali. Soprattutto nelle malattie neurologiche infiammatorie o a patogenesi immunitaria, il SNC dimostra di essere in grado di comportarsi da organo immunocompetente, di suscitare risposte immunitarie autonome o intratecali in tutto o in parte indipendenti da quelle dell'immunità si-stemica (Kabat et al., 1942). Queste risposte autoctone caratterizzano le meningiti virali, la sclerosi multipla, le malattie neurologiche associate all'HIV, e comportano alti livelli liquorali di vari "markers" di attiva-zione immunitaria (citochine, neopterina, inter-feroni) (Brooks et al., 1983; Griffin et al., 1991). Queste condizioni sono contraddistinte da una sintesi intratecale di immunoglobuline di classe G (IgG), A (IgA), M (IgM), indice dia-
gnostico oggi universalmente considerato irrinunciabile in molte condizioni infiammatorie. La sintesi intratecale di immunoglobuline può essere dimostrata quantitativamente tramite do-saggio nel liquor, o qualitativamente mediante tecniche elettroforetiche. Il dosaggio quantitativo delle singole frazioni proteiche liquorali è effettuato mediante immunonefelometria (albumina, IgG e IgA), tecnica ELISA (IgM) o RIA (IgD e IgE). Queste due ultime frazioni hanno una concentrazione liquorale minima e l'utilità della loro determinazione nella pratica clinica corrente non è ancora stata definita. Nell'adulto, i valori liquorali medi di IgG corrispondono a 1.5 mg%, di IgA a 0.2 mg%, di IgM a 0.02 mg%. A scopo clinico, è sufficiente dosare le IgG, che sono la frazione maggiormente rappresentata. L'aumento della concentrazione liquorale di immunoglobuline di per sé non è sufficiente a definire l'esistenza di una risposta immunitaria intratecale. Un'ipergammaglobulinemia, infatti, comporta un corri-spondente aumento delle immunoglobuline nel liquor, poiché la barriera ematoencefalica di per sé tende a mantenere un fisiologico gradiente tra le concentrazioni plasmatiche e liquorali di IgG. Inoltre, un danno di barriera permette la migrazione passiva di immunoglobuline dal plasma al liquor. Al di fuori di queste circostanze, un aumento di IgG nel liquor può dipendere solo da una sintesi intratecale. Ne consegue che nella patologia caratterizzata dalla coesistenza di un danno di barriera e da sintesi intratecale di IgG, come ad es. frequentemente accade nelle meningiti, diventa impossibile distinguere la quota di IgG derivanti dal sangue da quella di reale produzione autoctona.
L'interpretazione di una iperglobulinorrachia richiede quindi la disponibilità di parametri aggiuntivi, quali concentrazione delle immunoglobuline plasmatiche e stato della barriera ematoencefalica. Quest'ultimo è espresso abbastanza fedelmente dal rapporto Albumina Liquor/Albumina Siero («Albumin Ratio»). L'albumina, infatti, è sintetizzata solo nel fegato, per cui tutta l'albumina liquorale è di origine ematica. L'innalzamento dei livelli liquorali di albu-
Esami diagnostici complementari
mina, espresso dall'aumento del valore di “Albumin Ratio”, può quindi dipendere soltanto da un danno della barriera ematoencefalica. Su questo assunto si basa (Tibbling et al., 1977) l'indice di IgG liquorale o Indice di Link derivato dalla formula: (IgGLiquor/IgG siero): (Albumina Liquor/Albumina Siero). I valori normali non sono superiori a 0,69: qualunque innalzamento di questo parametro esprime sintesi intratecale di IgG. Analoghi indici sono stati elaborati per le IgA e per le IgM. Formule più recenti si basano sugli stessi assunti (Tourtellotte, 1980; Reiber e Felgenhauer, 1987), introducendo costanti derivate dai rapporti liquor/siero e dai pesi molecolari dell'albumina e delle immunoglobuline. In tal modo è possibile quantificare (in mg%) sia le immunoglobuline liquorali di sintesi, sia il loro valore percentuale rispetto alle immunoglobuline liquorali totali (Fig. 9.3). Sintesi intratecale di IgG si osserva in più dell' 80% dei casi di sclerosi multipla definita ed in percentuali inferiori, ma significative, nei
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pazienti affetti da altre nevrassiti infiammatorie o infettive. Al contrario, la sintesi intratecale di IgG è rara nella poliradicoloneuropatia acuta idiopatica di Guillain-Barrè. Sintesi intratecale di IgA ed IgM, spesso concomitante a quella di IgG, si può osservare nella sclerosi multipla, ma il reperto è più frequente nelle condizioni infettive (meningiti purulente e tubercolari, borreliosi, neurolue) con predominante risposta IgM nelle fasi più acute. Analisi qualitativa delle proteine. - È basata su tecniche elettroforetiche che permettono di separare le varie frazioni proteiche in rapporto al loro peso molecolare e carica elettrica (elettroforesi tradizionale su gel di agar o poliacrilamide) o alternativamente, in funzione del loro punto isoelettrico (pI, "isoelectrofocusing", IEF). Questa ultima tecnica permette alle immunoglobuline di migrare e raccogliersi in distinte "bande oligoclonali" (BO) corrispondenti ai relativi, specifici pI (Thompson e Keir, 1990). Le BO possono essere visualizzate direttamente, o meglio ancora, trasferite ed adsorbite su nitrocellulosa e quindi identificate e visualizzate immunochi-
Fig. 9.3 - Grafico della formula di Reiber che si applica per lo studio immunochimico delle proteine liquorali. Le variazioni dell'indice di Link consentono di identificare quattro settori che, dal reperto di normalità, individuano sequenzialmente il danno di barriera (DDB) con aumento proporzionale del quoziente di immunoglobuline (IgG) e di Albumina, il DDB accompagnato a sintesi addizionale di IgG all'interno del SNC, ed infine la sintesi di IgG all'interno del SNC in assenza di alterazione della BEE (Reiber, 2001).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
micamente ("immunoblot"). A tale scopo il foglio di nitrocellulosa è incubato in soluzioni di anticorpi anti- IgG (o IgA o IgM) umane coniugate con HRP (perossidasi), e gli im-munocomplessi formatisi sono infine rivelati mediante reazione enzimatica con idonei cromogeni. L'immunoblot è stato indicato dall'European Consensus già dal 1994 come il metodo più adeguato per identificare la presenza di BO nel liquor. L'IEF, infatti, pur risultando più sensibile, in alcuni casi si è dimostrato meno specifico. L'immunoblot, invece, permette di visualizzare soltanto quelle bande a cui l'anticorpo specifico primario si è legato, e che corrispondono quindi per certo ad immunoglobuline di classe IgG. Le techiche di biologia molecolare hanno apportato ul-teriore specificità allo studio dei linfociti B nel liquor. In-fatti l'RT-PCR consente, partendo da un numero esiguo di cellule isolate con il prelievo liquorale, di ottenere un nu-mero elevato di copie di DNA da cui verrà sequenziata parte della catena immunoglobulinica. Questa tecnica, la cui sensibilità comunque è sovrapponibile alla metodica in uso, viene al momento prevalente-mente utilizzata nella ricerca applicata (Colombo, 2000) risultando invece sicuramente informativa nella diagnostica differenziale fra sclerosi multipla ad esordio atipico (lesioni singole, similtumorali) e linfoma primitivo del SNC (Widemann, 2001).
Il reperto di BO di IgG caratterizza il 90% dei casi di sclerosi multipla (Fig.9.4 b) (Lunding, 2000). Va tuttavia sottolineato che il bandeggio oligoclonale è osservabile, in varia percentuale di casi, nelle vasculiti cerebrali (es. lupus), nelle meningoencefaliti (Panencefalite Sclerosante Subacuta, Neurolue, Borreliosi, sindromi neurologiche HIV-correlate), nelle sindromi Neurologiche Paraneoplastiche e persino, raramente, in condizioni apparentemente non immunomediate quali tumori cerebrali primitivi o metastatici, malattia di Alzheimer, malattia del motoneurone, malattie cerebrovascolari. Non è frequente, invece, il reperto di BO esclusivamente liquorali nella Radicolopatia Acuta Idiopatica (in queste condizioni sono state descritte talora BO liquorali e sieriche con pattern "mirror"). (Fig. 9.4b, c) Una peculiarità della sclerosi multipla è che, nello stesso paziente, il tracciato delle BO liquorali resta immodificato nel tempo.
a
b
c
Fig. 9.4 - Immunoblot su gel di agarosio delle proteine liquorali e sieriche visualizzate con anticorpi anti-IgG umane coniugate con perossidasi.e reazione cromogena. Si osservano in sequenza: a) tracciato normale (bande oligoclonali assenti su liquor e siero); b) bande oligoclonali presenti su liquor; c) bande oligoclonali liquor-siero con aspetto speculare.
Nelle altre patologie, invece, le BO possono modificare il loro aspetto o scomparire del tutto nel corso della malattia. Inoltre, mentre nelle malattie infettive le immunoglobuline costituenti le bande sono quasi esclusivamente costituite da anticorpi specifici contro l'agente eziologico, nella sclerosi multipla la specificità anticorpale di gran parte delle BO è ignota, e si ritiene che esse esprimano una risposta immunitaria plasmacellulare aspecifica, conseguenza e non causa della disregolazione immunitaria (verosimilmente sistemica) che sta alla base della malattia. Dimostrazione di anticorpi specifici.- In alcune condizioni cliniche risulta importante ai fini diagnostici riconoscere la specificità di quegli anticorpi rilevati all'immunoblot che possono essere, come si è detto, o compartimentalizzati all'interno del SNC oppure presenti anche nel siero, e che rappresentano la risposta anticorpale ad infezioni virali o batteriche oppure
Esami diagnostici complementari
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l'espressione di un'attivazione "patologica" del sistema immunitario diretta verso componenti neuronali, come avviene nelle sindromi paraneoplastiche, nelle degenerazioni cerebellari subacute e nella Stiff-Man Sindrome. La metodica ELISA viene diffusamente utilizzata nel dosaggio di anticorpi diretti verso molti agenti neurotropi, fra cui l'herpes simplex e zoster, il toxoplasma, l'HIV-1 e la borrelia burgdorferi, ma assai più raramente nel dosaggio di anticorpi diretti verso determinanti antigenici neuronali.
gico della variante sporadica di Encefalopatia Spongiforme, conosciuta anche come malattia di Creutzfeldt-Jacob (Hsich, 1996). La proteina viene rilevata con tecnica WB effettuata in parallelo sul campione liquorale e controllo positivo tramite immunoreazione e rivelazione cromogena mediante anticorpo specifico per la proteina 14-3-3. A tutt'oggi, questo test di screening è l'unico effettuabile in vita per questa malattia.
Si tratta in questo caso di anticorpi sindrome-correlati più o meno rari, diretti verso: – gangliosidi, nella malattia del motoneurone e nelle neuropatie motorie multifocali; – cellule di Purkinje e nuclei neuronali, nelle sindromi paraneoplastiche; – enzimi, quali ad esempio la GAD nella sindrome dell'uomo rigido ("stiff-man"); – glicoproteina associata alla mielina o MAG, nella polineuropatia demielinizzante in corso di gammopatia monoclonale. L'identificazione di questi particolari anticorpi può essere effettuata con alta specificità e sensibilità mediante: a) immunofluorescenza indiretta su sezioni di tessuto cerebrale o di nervo periferico. In questo caso, gli anticorpi primari del siero del paziente che si sono fissati sui corrispondenti antigeni tissutali sono visualizzati in microscopia in epifluorescenza grazie ad anticorpi secondari anti-IgG umane marcati con fluorocromi. In tal modo, oltre ad accertare la presenza di anticorpi primari specifici diretti verso un particolare costituente nervoso, è possibile anche visualizzarne la distribuzione nel tessuto o la localizzazione a livello cellulare; b) "protein-blot" o "Western Blot" (WB). In questo caso, l'antigene sospettato viene fatto migrare su gel di poliacrilamide, quindi trasferito su membrana di nitrocellulosa ed infine immunofissato dagli anticorpi specifici even-tualmente presenti nel liquor o nel siero del paziente. La rivelazione degli immunocomplessi è effettuata impiegando un antisiero secondario anti-IgG umane marcato con perossidasi, seguito da reazione cromogena.
Proviene solo dal sangue e la sua concentrazione dipende da quella plasmatica e dal metabolismo glucidico del tessuto nervoso (v. Cap. 16, pag. 00). Nei soggetti normoglicemici, la glicorrachia varia da 45 a 80 mg%. Il rapporto glicorra-chia/ glicemia è normalmente compreso tra 0.6- 0.7, ed a scopo clinico esso risulta più importante della glicorrachia assoluta, dato che l'iperglicemia, entro certi limiti, comporta un certo aumento della glicorrachia. Entrambe, quindi, devono essere determinate effettuando la rachicentesi a digiuno. In caso di iperglicemia elevata (fino a 700 mg%), tuttavia, l'eccesso di substrato può paradossalmente causare una saturazione del trasportatore del glucosio ed una onseguente riduzione del rapporto glicorrachia/glicemia fino a 0,4. Ciò sottolinea ulteriormente l'importanza della valutazione contemporanea di glicemia e glicorrachia.
Dimostrazione di proteine specifiche.- Il riscontro nel liquor della proteina 14-3-3, dotata di peso molecolare di 30 kD ed espressa costitutivamente sia dai neuroni che dagli elementi gliali, viene considerato come marcatore biolo-
GLUCOSIO
In condizioni normoglicemiche, un'ipoglicorrachia con rapporto glicorrachia/glicemia ridotto usualmente s'osserva in condizioni che comportano un danno di barriera diffuso e grave, quali ad esempio meningiti batteriche (purulente e tubercolari), fungine (criptococcosi) o più raramente virali (da parotite o herpes virus), e la sarcoidosi meningea. Lo stesso reperto caratterizza spesso anche le diffuse infiltrazioni neoplastiche delle meningi (carcinomatosi e leucosi meningea).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
In queste condizioni, l'ipoglicorrachia può dipendere almeno da due meccanismi (Fishman, 1992): a) aumentata utilizzazione del glucosio da parte del parenchima nervoso sofferente che accresce la propria glicolisi anaerobia (infatti l'acido lattico liquorale può essere aumentato); b) riduzione del passaggio di glucosio dal sangue per alterazione del trasportatore di membrana, funzionalmente compromesso dal diffuso danno della barriera ematoencefalica.
ANALISI MICROBIOLOGICA Ricerca diretta di microorganismi.- Si esegue su liquor fresco, raccolto in provette sterili, possibilmente prima dell'inizio della terapia antibiotica. Si utilizzano le classiche colorazioni di Gram (flora batterica) e di Ziehl-Neelsen (micobatteri) e la coltivazione su appositi terreni atti a favorire lo sviluppo di germi aerobi, anaerobi, e funghi. Nelle meningiti criptococciche il test all'inchiostro di china consente la diretta identi-ficazione dell'agente. Nelle infezioni virali, ol-tre all'isolamento dei vari agenti su colture cellulari, è possibile dimostrare la presenza di una risposta anticorpale intratecale calcolando, come per le IgG totali, gli indici liquor/siero per le IgG specifiche dosate con tecnica ELISA. Neurosifilide.- Data l'estrema difficoltà ad isolare il Treponema Pallidum dal liquor e coltivarlo in vivo, valgono i criteri proposti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, che richiedono una positività liquorale della VDRL associata a pleiocitosi. Test sierologici specifici molto più sensibili, quali FTA o FTA-Abs sono meno affidabili, potendo fornire una “falsa positività” liquorale in soggetti ematologicamente FTA-Abs positivi. Infatti, esiste sempre la possibilità di una contaminazione liquorale da parte di minime quantità di IgG plasmatiche antitreponema migrate dal sangue. Per compenso, solo una negatività dell'FTAAbs su liquor può escludere il dubbio di una falsa positività della VDRL liquorale: entram-
bi i test, quindi, dovrebbero essere sempre effettuati in parallelo. Ricerca di virus.- La ricerca di antigeni virali nel liquor può essere effettuta sia sul sovranatante, utilizzando tecniche quali l'ELISA, il RIA, o il WB, sia sul sedimento cellulare, mediante tecniche di immunocitochimica o di immunofluorescenza (IFA). Lo studio in microscopia elettronica a trasmissione del sedimento o del sopranatante liquorali opportunamente trattati è molto complesso e costoso, ed inoltre offre una modesta sensibilità e specificità, per cui è attualmente un metodo scarsamente utilizzato. La dimostrazione istopatologica diretta dell'agente virale nel SNC è pressoché riservata ai casi autoptici di encefaliti post-morbillose o da citomegalovirus in pazienti immunodepressi e di Panencefaliti sclerosanti. Queste affezioni sono tipicamente caratterizzate dalla presenza di corpi inclusi intranucleari. In netta espansione sono invece le applicazioni diagnostiche della tecnica di amplificazione del DNA mediante “polimerase chain reaction” o PCR. Essa permette di ottenere da poche copie di DNA virale presenti nel liquor milioni di sequenze nucleotidiche identiche, necessarie per identificare con certezza il DNA dell'agente patogeno mediante ibridazione con probe specifico (tecnica cosiddetta del “Southern Blot”). Per i RNA-virus, la PCR viene applicata alle copie di DNA ottenute mediante una preliminare retrotrascrizione in vitro da RNA a DNA (trascizione inversa). Isolamento di virus.- Può essere effettuato su colture cellulari, su embrioni di pollo ed anche su animali di laboratorio, ma richiede da alcuni giorni a più settimane. Un ulteriore limite della tecnica è che, mentre l'isolamento dell'agente virale può rivelarsi anche relativamente facile, non altrettanto può dirsi per la sua l'identificazione, soprattutto
Esami diagnostici complementari
quando si tratti ceppi appartenenti a grandi gruppi di virus neurotropi, come ad es. gli enterovirus. Anticorpi anti-virus.- La ricerca degli anticorpi antivirali specifici è comunemente utilizzata per la diagnosi di encefalomielite virale. Durante la malattia si può osservare una siero-conversione o un aumento del titolo anticorpale di partenza verso un determinato ceppo virale: questo può considerarsi significativo solo per una titolazione superiore ad 1/64. L'applicazione della formula di Reiber ai titoli anticorpali su siero e liquor consente di valutare l'eventuale sintesi intratecale di anticorpi specifici. Le tecniche più utilizzate per la diagnosi sierologica sono l'ELISA, il RIA, l'IFA, il WB. Negli ultimi anni, con lo sviluppo della neurochimica, neuroimmunologia e neuropsicofarmacologia, le conoscenze sulla composizione del liquor e sulle sue alterazioni in diverse condizioni cliniche e sperimentali si sono molto estese: vengono continuamente pubblicati studi su markers immunitari umorali e cellulari, metaboliti e cataboliti di vari neuromediatori, neurotrasmettitori, farmaci, enzimi, ecc. Il valore diagnostico dei risultati di queste ricerche è ancora oggetto di discussione nella pratica clinica.
2. Elettroencefalografia (EEG) C. Loeb, A. Primavera L’elettroencefalografia consiste nella registrazione dell’attività elettrica cerebrale derivata da elettrodi disposti sulla superficie del capo, utilizzando un’adatta apparecchiatura amplificante (elettroencefalografo). Rappresenta una metodica non invasiva, facilmente disponibile, per lo studio funzionale del sistema nervoso centrale, che permette una valutazione dell’attività elettrica cerebrale spontanea ed evocata da stimoli sensitivi, di fondamentale importanza nello studio delle epilessie,
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delle encefalopatie tossico-metaboliche, degli stati confusionali, del coma, delle malattie da prioni, nel monitoraggio della funzione cerebrale in unità di terapia intensiva e nella fisiopatologia del sonno. In Italia la valutazione EEG è richiesta per legge nell’accertamento della morte, nei soggetti affetti da lesioni encefaliche, sottoposti a misure rianimatorie (v. pag. 648). L’elettrocorticogramma (ECoG) e la stereoencefalografia consistono nella registrazione, rispettivamente dalla superficie della corteccia cerebrale e da strutture profonde. Tale metodiche sono riservate a casi selezionati per la terapia chirurgica dell’epilessia. L’elettroencefalografia sviluppata da Hans Berger tra il 1924 ed il 1938 è stata adottata in clinica , come mezzo diagnostico,a partire dal 1935 e, specie dopo il 1946, ha avuto una vastissima diffusione, grazie alla non invasività dell’esame. Inizialmente impiegata per lo studio dell’epilessia, si è successivamente imposta come semeiotica strumentale, tanto da diventare parte integrante della valutazione neurologica, risultando utile nella comprensione dei meccanismi operazionali cerebrali, sia nel soggetto normale (ad esempio: studi sul sonno), che in patologia. L’avvento della TC, della RM, della SPECT e della PET, negli anni ’70, ha ridimensionato l’uso indiscriminato dell’EEG.
Lo sviluppo tecnologico permette attualmente di eseguire studi EEG prolungati (EEG dinamico), Video EEG, e di quantificare i dati EEG, trasformando il segnale analogico in segnale numerico (digitale). Grazie a tale tecnica è possibile ricavare mappe topografiche della distribuzione e della propagazione dei potenziali sulla superficie cerebrale. La capacità di analizzare matematicamente l’EEG è una delle aree di ricerca più promettenti ed è già risultata utile nella valutazione dell’azione centrale degli psicofarmaci. L’EEG computerizzato e il mappaggio dell’attività elettrica cerebrale permettono di meglio evidenziare le alterazioni focali e rendono più semplice la visualizzazione della sede in cui
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
compaiono, ma l’applicazione clinica di tali metodiche è ancora limitata. Infatti il riconoscimento computerizzato degli artefatti rispetto ad alcune attività patologiche non è sempre agevole e rende indispensabile il continuo confronto con l’usuale analisi visiva. L’elettroencefalogramma, registrato con elettrodi dalla superficie cranica è, in gran parte, generato dalla corteccia cerebrale e riflette i flussi di corrente che risultano dalla sommazione dei potenziali postsinaptici eccitatori ed inibitori dei neuroni corticali. Di particolare importanza nella genesi del segnale EEG è la disposizione dei neuroni piramidali che sono orientati uniformemente con l’asse maggiore perpendicolare alla superficie corticale. I loro dendriti si prolungano attraverso gli strati della corteccia, facendo propagare i flussi di corrente generati dai potenziali postsinaptici sia ai corpi cellulari, negli strati profondi, che ai dendriti negli strati più superficiali. Le cellule piramidali si comportano come veri e propri dipoli, in cui il polo positivo e il polo negativo sono rappresentati dal diverso grado di polarizzazione della membrana dei dendriti e del soma. Tale disposizione citoarchitettonica facilita la sommazione spaziale delle correnti generate da ciascun neurone. Dato poi che tali gruppi di cellule, ad impulsi simili, rispondono contemporaneamente con modificazioni di potenziale che si propagano nella stessa direzione, si ottiene anche una sincronizzazione delle loro scariche. I potenziali d’azione dei singoli neuroni, registrabili con microelettrodi, non sembrano invece contribuire direttamente all’attività EEG registrata dalla teca cranica. L’elettroencefalogramma è in rapporto, oltre che all’interazione fra larghe popolazioni di neuroni corticali, a pacemaker sottocorticali (talamo, formazione reticolare del tronco e altri sistemi a proiezione diffusa (v. pag. 479, 485). Le oscillazioni tipiche del ritmo alfa e dei fusi del sonno, ad esempio, sembrano dipendere dall’interazione fra talamo e corteccia, per cui la
scomparsa di tale attività sincrona, o desincronizzazione, può avvenire per lesioni corticali o talamiche, per interessamento delle afferenze talamo-corticali o anche per l’attivazione della formazione reticolare ascendente. La formazione reticolare ascendente può influenzare direttamente, o attraverso le strutture talamiche, l’attività dei neuroni corticali. Sia un aumento che una riduzione dell’attività tonica della reticolare determina la scomparsa della sincronizzazione corticale, come si osserva nella reazione di risveglio (arousal), nell’addormentamento e in alcune fasi del sonno. Attività ritmiche patologiche, come un tracciato tipo alfa nel coma, possono risultare da lesioni troncali, che riducono l’azione desincronizzante della reticolare ascendente. Si deve infine ricordare che l’EEG non corrisponde completamente all’ECoG, dato che non tutti i potenziali derivati a livello della superficie della corteccia cerebrale sono registrabili dalla teca cranica per l’attenuazione del voltaggio da parte delle meningi, del liquor e della struttura ossea. Ne consegue che aree relativamente vaste della corteccia devono essere interessate, perchè una scarica possa essere registrata con l’EEG. Gli elettrodi disposti sulla teca cranica raramente registrano potenziali prodotti da aree non adiacenti: tuttavia le strutture sottocorticali possono influenzare l’attività corticale ed essere responsabili di una sincronizzazione più o meno diffusa (attività a distanza). Inoltre l’attività degli aggregati neuronali delle pareti dei solchi corticali non compare all’EEG, mentre può essere valutata con la magnetoencefalografia, metodica ancora sperimentale e molto promettente, in grado di registrare il campo magnetico che accompagna i gradienti elettrici cerebrali. Queste considerazioni rendono ragione dei limiti dell’EEG, le cui alterazioni sono raramente specifiche, dato che differenti sedi e tipi di lesione possono dare quadri EEG simili. Inoltre non sempre lesioni circoscritte, specie se a localizzazione profonda, sono in grado di deter-
Esami diagnostici complementari
minare modificazione dell’attività elettrica registrata dalla teca. Tuttavia l’EEG è l’unica tecnica che permette un monitoraggio nel tempo della funzione cerebrale, e può evidenziare anomalie anche in assenza di lesioni strutturali documentabili. Tecnica di registrazione. – La registrazione di variazioni di potenziale di ampiezza minima (da 10 a 500 microvolts) e di frequenza oscillante da 0,5 a 30 cicli al secondo (c/s) è possibile solo con l’amplificazione del segnale elettrico e con selezione delle frequenze mediante filtri e costanti di tempo, per eliminare rispettivamente attività rapide, come quelle dovute agli artefatti muscolari, ed attività lente, legate spesso ad artefatti da movimento. L’amplificatore è collegato ad un sistema scrivente, che riporta le oscillazioni di potenziale su un nastro di carta che si sposta a velocità costante. L’amplificazione dell’apparecchio correntemente usata è tale che 50 microvolts (1 microvolt = 1 milionesimo di volt) si traducono sul tracciato in una deflessione delle penne scriventi pari a 5 millimetri. I potenziali che determinano una deflessione verso l’alto della penna sono detti, per convenzione, negativi mentre la deflessione verso il basso indica un potenziale positivo. Si possono naturalmente utilizzare amplificazioni maggiori (specie nel casi di marcate depressioni dell’attività elettrica cerebrale) e minori (in presenza di potenziali di voltaggio molto elevato). La velocità abituale di scorrimento della carta è in Europa di 1,5 cm/secondo, e negli U.S.A. di 3 cm/secondo. La classica registrazione EEG su carta è oggi in gran parte sostituita dall’EEG digitale che consente di rielaborare il tracciato al momento della refertazione, scegliendo l’ampiezza ed il montaggio desiderato, una più facile archiviazione degli esami ed una loro visualizzazione anche a distanza.
Il tracciato deve essere derivato contemporaneamente da almeno quattro regioni simmetriche di ciascun emisfero. La registrazione da una coppia di elettrodi è definita derivazione ed avviene con metodo bipolare se entrambi gli elettrodi sono attivi, con metodo monopolare se uno dei due è inattivo, essendo applicato al lobulo dell’orecchio o in altre regioni ritenute elettricamente inattive, o indifferente (referenza media). Il metodo monopolare si propone di esplorare separatamente i vari distretti della superficie cerebrale, mentre il metodo bipolare
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esprime soltanto la differenza di potenziale tra due distretti diversi. È opportuno tuttavia ricordare che la validità del metodo monopolare risulta notevolmente inficiata dal fatto che, in realtà, non esistono elettrodi assolutamente indifferenti. Le diverse modalità di disposizione delle derivazioni costituiscono i cosiddetti montaggi (longitudinali, trasversali, triangolari). Nella disposizione degli elettrodi, quale che sia il montaggio usato, si tengono come punti di riferimento, in accordo al sistema internazionale 10/ 20, quattro punti fissi: inion, nasion, e i meati acustici esterni (Fig. 9.5). Mentre i primi elettroencefalografi non consentivano di registrare più di una o due derivazioni alla volta, gli strumenti attualmente disponibili permettono, di registrare contemporaneamente 8-16-32-64 e perfino 128 derivazioni (monopolari o bipolari). Il dibattito sulla scelta e sul numero dei montaggi necessari appare oggi superato grazie all’EEG digitale: il solo limite è rappresentato dal numero degli elettrodi utilizzati. Nella refertazione EEG è comunque sempre fondamentale fare riferimento al tipo di montaggio impiegato. Gli elettrodi impiegati a scopo clinico sono di tre tipi: ad ago, a placca oppure a bottone (il più usato in Europa). Nell’EEG convenzionale il soggetto deve essere in condizioni di riposo, ad occhi chiusi, in ambiente silenzioso e poco illuminato, onde consentire un adeguato rilassamento psico-fisico. La durata della registrazione non deve mai essere inferiore a 20 minuti, considerato che le eventuali alterazioni possono comparire in maniera sporadica. Solo in presenza di sicure e significative alterazioni EEG è possibile ridurre la durata dell’esame. Dopo la registrazione a riposo, viene effettuato un periodo di 3-5 minuti di iperventilazione. Il soggetto viene infine sottoposto a stimolazione luminosa intermittente (S.L.I.) mediante un fotostimolatore a frequenza variabile; l’impiego della S.L.I. è particolarmente indicato per
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.5 - Disposizione standard degli elettrodi, secondo le indicazioni della Federazione Internazionale di Elettroencefalografia. (Fp = fronto-polare; Fm = frontale mediano; Fs = frontale superiore; Fi = frontale inferiore; Cm = centrale mediano; C = centrale; Tm = temporale medio; Pm = parietale mediano; P = parietale; Tp = temporale posteriore; O = occipitale; A = auricolare; M = mastoideo; Cb = cerebellare; Ph = faringeo).
facilitare la comparsa di alterazioni elettroencefalografiche in alcuni soggetti epilettici. L’iperpnea, che induce ipocapnia e di conseguenza una riduzione del flusso cerebrale, può facilitare la comparsa di potenziali patologici. Da ricordare che la risposta EEG all’ipossia è pronta ed esiste una soglia precisa, al di sotto della quale, specie nei giovani, compare un’attività lenta diffusa, con rapida normalizzazione del quadro EEG dopo la sospensione dell’iperventilazione. Deve pertanto considerarsi patologica solo la comparsa o l’incremento di alterazioni di tipo epilettico o la comparsa di alterazioni focali. Oltre alla iperventilazione e alla S.L.I., che fanno parte integrante dell’indagine EEG abituale, esistono altre procedure di attivazione di impiego meno corrente, come la registrazione del sonno spontaneo o da barbiturici, la registrazione dopo deprivazione di sonno , la compressione carotidea e la manovra di Valsalva. A queste manovre si ricorre per attivare, o
per mettere in evidenza alterazioni elettroencefalografiche assenti nel tracciato a riposo, nei casi di epilessia, di insufficienza cerebro-vascolare e di sincopi vaso-vagali. Per lo studio del sonno e dei movimenti involontari patologici (ad esempio le mioclonie) è necessario l’uso della poligrafia, che consiste nella registrazione simultanea di potenziali bioelettrici con diversa sorgente (elettroencefalogramma, elettrocardiogramma, elettromiogramma). In particolare, per una adeguata valutazione del sonno (polisonnografia) è necessaria la registrazione EEG, dei movimenti oculari, del tono muscolare e del respiro. La contemporanea registrazione dell’EEG e dell’ECG può risultare utile per la diagnosi differenziale fra crisi epilettiche ed episodi sincopali. L’EEG dinamico o EEG ambulatoriale, tecnica di registrazione continua mediante un piccolo registratore portatile, consente di valutare l’attività elettrica cerebrale per 6-24 ore, men-
Esami diagnostici complementari
tre il soggetto svolge le sue normali attività, incluso il periodo del sonno. Risulta utile nello studio dei malati con episodi di perdita di coscienza di natura non ancora definita, nel quantificare il numero delle crisi epilettiche e nello stabilire più precise correlazioni elettro-cliniche, specie se associato al monitoraggio con telecamera.
Le figure elementari dell’EEG Prima di affrontare lo studio del tracciato nel suo insieme descriviamo le singole figure elementari, che possono essere definite come una qualunque transitoria differenza di potenziale registrabile all’EEG. Il tracciato EEG è costituito da onde che si caratterizzano per frequenza, ampiezza, morfologia. FREQUENZA PER SECONDO (c/s = cicli al secondo). – Le frequenze sono suddivise in bande di frequenze e precisamente (Fig. 9.6): – frequenza beta oltre i 13 c/s; – frequenza gamma tra i 30 e i 60 c/s – frequenza alfa tra 8-13 c/s; – frequenza theta tra 4-8 c/s; – frequenza delta tra 0,5-4 c/s. Lo sviluppo tecnologico ha permesso, in questi ultimi anni, lo studio di frequenze EEG più rapide (oltre la banda beta) e della desincronizzazione ed ipersincronizzazione delle attività EEG a seguito di stimoli sensoriali o in rappor-
Fig. 9.6 - Esempi di frequenze beta, alfa, teta, delta.
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to alla progettazione ed esecuzione di compiti specifici. In particolare, dati neurofisiologici sperimentali hanno dimostrato l’origine corticale del pattern oscillatorio ad alta frequenza (30-60 Hz o banda gamma). Nell’EEG standard tali oscillazioni sono generalmente di basso voltaggio e di difficile identificazione. Le componenti mu (frequenza tra 7-11c/s, “ritmo a pettine” o “en arceau“) e sigma (14c/s) si dimostrano in attività ritmica e vengono riportate a pag. 000. AMPIEZZA (misurata in microvolts). – Un semplice dispositivo incorporato nell’apparecchio è in grado di produrre una deflessione delle penne di ampiezza voluta, che serve da taraggio per l’ampiezza. In genere le registrazioni si effettuano con una amplificazione per cui 5 millimetri corrispondono a 50 microvolts. L’ampiezza dell’attività elettrica cerebrale varia da 10 a 500 microvolts (Fig. 9.7).
Fig. 9.7 - Esempio di ampiezza diversa del ritmo alfa: in 1, l’ampiezza è di 20-40 µV, in 2 è di 50-100 µV.
MORFOLOGIA. – Ciascun elemento ha una propria morfologia, in base alla quale viene definito. Spesso è indispensabile oltre alla morfologia specificare, per la definizione, anche la durata del singolo elemento. Si distinguono (Fig.9.8): – onde sinusoidali, poichè hanno una forma a tipo sinusoide; – onde aguzze o onde puntute, della durata tra 80 e 200 millisecondi. Le onde aguzze (punte) al vertice sono associate a stimoli risveglianti. Le onde puntute che compaiono in regione occipitale, usualmente associate alla visione, sono denominate onde lambda;
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
– punte, onde a forma di punta di durata inferiore a 80 msec. Possono essere positive (se si estrinsecano al di sotto della linea isoelettrica di base), o negative (se si estrinsecano al di sopra della linea isoelettrica), oppure difasiche, se lo stesso elemento si estrinseca nei due sensi; – onde trifasiche, costituite da tre deflessioni che compaiono al di sopra e al di sotto della linea di base.
Fig. 9.8 - Esempi per illustrare la morfologia di singoli elementi elettrografici. 1: Onde sinusoidali; 2: onde puntute o punte digradanti; 3: punte positive, negative, difasiche.
ATTIVITÀ, RITMI, COMPLESSI. – Per attività si intende ogni onda EEG o una qualsiasi sequenza di onde. L’attività di fondo rappresenta la base da cui si differenzia un certo quadro normale o patologico. Per ritmo si intende un’attività consistente in onde con una certa costanza di periodo e di forma (il periodo è l’intervallo di tempo in millisecondi tra l’inizio e la fine di un’onda; se l’onda è componente di un ritmo, il periodo è il reciproco della frequenza). Col termine complesso si indica un gruppo di due o più onde, chiaramente distinguibili dall’attività di fondo, che può apparire anche in maniera ricorrente (Figg. 9.9; 9.10; 9.11). Le attività – definibili in base alla frequenza – sono: attività beta, alfa, theta, delta. I ritmi – definibili sempre in base alla loro frequenza – sono: ritmo beta, alfa, theta, delta, mu (ritmo a 7-11 c/s, che compare in regione centrale, attenuato da stimoli propriocettivi) (Fig. 9.12), sigma (ritmo a 14 c/s, usualmente
Fig. 9.9 - Esempi di attività, ritmi, complessi. 1: Attività: qualsiasi sequenza di onde; 2: ritmo: attività di onde con periodo e forma di una certa costanza; 3: complesso: gruppo di due o più onde chiaramente distinguibili dall’attività di fondo (complesso punta-onda).
diffuso, che compare in genere in certi stadi del sonno: fusi del sonno) (Fig. 9.13). I complessi sono: complessi punta-onda, polipunta-onda, complessi K (combinazione di punte al vertice e di attività sigma che appare in genere nel sonno come risposta a stimoli improvvisi, Fig. 9.14). Le diverse attività o ritmi possiedono anche una topografia particolare, poiché alcuni ritmi o attività si registrano solo o con prevalenza in determinante aree cerebrali. L’attività si può presentare in maniera continua ed allora diventa un ritmo, in maniera occasionale e sporadica cioè a intervalli di tempo incostanti, oppure ad intervalli approssimativamente regolari (attività periodiche, Figg. 9.15, 9.16, 9.17) o anche in maniera parossistica. I parossismi sono una serie di onde che appaiono e spariscono improvvisamente, nettamente distinte dall’attività di fondo (Fig. 9.18). La reattività consiste nella modificazione del tracciato in risposta ad afferenze estero e enterocettive, spontanee o provocate (apertura degli occhi, stimolazione luminosa intermittente, rumori, stimoli tattili, propriocettivi, ecc.) (Fig. 9.12 e 9.19). In sintesi: nella descrizione dell’attività EEG devono essere sempre considerati i seguenti parametri: frequenza, morfologia, ampiezza, quantità e persistenza, modalità di comparsa, distribuzione topografica, simmetria e reattività.
Esami diagnostici complementari
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Fig. 9.10 - Tracciato normale di adulto, ad occhi chiusi. Ritmo alfa a 9 c/s, piuttosto continuo, asimmetrico per predominanza destra (Fp-Cd: frontopolare-centrale; Fp-Tmd: frontopolare-temporale medio destro; Cm-Od: centrale mediano-occipitale destro; C-Od: centrale-occipitale destro; Tm-Od: temporale medio-occipitale destro; Fi-Cd: frontale inferiore-centrale destro; analoghe le derivazioni per s, sinistra).
Fig. 9.11 - Esempio di complesso punta-onda ritmico a 3 cicli al secondo.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.12 - Esempio di ritmo mu, abolito (vedi frecce) dagli stimoli propriocettivi (fare il pugno).
Fig. 9.13 - Esempio di ritmo sigma o fusi del sonno.
Fig. 9.14 - Esempio di complessi K. La freccia indica il momento in cui viene effettuato un rumore. L’attività che precede il segnale della freccia è un altro esempio di ritmo sigma.
Esami diagnostici complementari
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Fig. 9.15 - Attività periodica generalizzata a periodismo lungo (i complessi EEG stereotipati compaiono in questo caso di Panencefalite Sclerosante Subacuta ogni 6-7 secondi).
Fig. 9.17 - Scariche periodiche lateralizzate di tipo epilettico in un caso di epilessia parziale continua nella fase acuta di un ictus ischemico emisferico destro.
Fig. 9.16 - Attività periodica generalizzata a periodismo breve (i complessi EEG stereotipati compaiono in questo caso di malattia di Creutzfeldt-Jacob ogni 1-1,5 sec).
Fig. 9.18 - Attività parossistica di punta-onda con complessi tipo polipunta-onda (derivazioni analoghe a Fig. 9.10).
Elettroencefalogramma normale Il tracciato EEG è condizionato da numerosi fattori come l’età, il livello di attenzione, l’eventuale assunzione di psicofarmaci. Le caratteristiche dell’EEG nel soggetto normale adulto e sveglio, a riposo psicosensoriale, sono rappresentate da: Ritmo alfa, costituito da una sequenza più o meno continua di oscillazioni apparentemente
Fig. 9.19 - Reattività dell’attività elettrica all’apertura degli occhi (reazione di arresto) (derivazioni analoghe a Fig. 9.10).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
sinusoidali, la cui frequenza è compresa fra 8 e 13 c/s, di ampiezza variabile fra 20 e 100 microvolts. I1 ritmo alfa è localizzato nella regione parieto-occipitale dei due emisferi e più raramente compare nei settori anteriori. Questo ritmo appare particolarmente evidente in condizioni di riposo psicosensoriale e scompare temporaneamente con l’apertura degli occhi. Tale fenomeno, riprodotto con qualsiasi stimolo in grado di risvegliare l’attenzione, e definito da Berger “reazione di arresto”, dimostra che l’attività elettrica cerebrale varia con il livello di attenzione. La scarsità o l’assenza di ritmo alfa in un tracciato non rappresenta necessariamente un fenomeno patologico e non è raro che sia in relazione con un rilassamento non completo. Il ritmo alfa può presentare la stessa ampiezza sui due emisferi, ma il riscontro di una asimmetria non è raro e, entro certi limiti, può ritenersi nella norma (Fig. 9.10). Col termine alfa variante si indicano attività EEG prevalenti sui settori posteriori dei due emisferi con la tipica reattività dell’alfa, ma caratterizzate da una differente frequenza, in rapporto alla quale vengono descritte rispettivamente le varianti lente e rapide dell’alfa. Tali varianti dell’alfa non hanno significato patologico. Ritmo beta, è costituito da oscillazioni di frequenza compresa fra 13 e 30 c/s, di ampiezza assai modesta, spesso inferiore a 30 microvolts. È generalmente distribuito sulle regioni anteriori dei due emisferi e sulle regioni rolandiche e reagisce esclusivamente agli stimoli propriocettivi (chiusura del pugno, ecc.). A questo proposito è opportuno sottolineare che tale reazione non è bilaterale; la scomparsa del ritmo beta infatti è limitata all’emisfero controlaterale allo stimolo. La presenza o meno di ritmo beta non ha valore diagnostico. Un aumento dell’attività della banda beta può essere in rapporto all’uso di farmaci antidepressivi ed ansiolitici. Sulla regione rolandica si riscontra anche il ritmo mu, che si interrompe con stimoli propriocettivi (chiusura del pugno) (Fig. 9.12).
Sulla regione temporale l’attività è a 4-8 c/s, spesso mescolata con frequenze che provengono da territori contigui. Il tracciato nel bambino normale presenta una graduale «maturazione», forse in relazione alla progressiva mielinizzazione delle fibre nervose e alla comparsa di nuove connessioni sinaptiche: in generale le onde sono assai lente ed ampie durante la prima infanzia, mentre col passare degli anni, la frequenza dei ritmi aumenta e l’attività tende ad essere sincrona sui due emisferi. A due anni esiste già un ritmo a 6-7 c/s, ma ancora sugli 8-9 anni il ritmo di base presenta, spesso mescolate ad attività ad 8-9 c/s, frequenze più lente (Fig. 9.20). Va ricordato che, data l’estrema variabilità individuale del ritmo di maturazione, la valutazione di un tracciato può presentare notevoli difficoltà e dare luogo a false positività. Errori analoghi possono avvenire a causa di una banale sonnolenza insorta durante l’esame o di una iperpnea eseguita involontariamente nel corso della registrazione: ambedue i fenomeni, infatti, determineranno la comparsa di ritmi lenti del tutto simili a quelli legati a certe situazioni patologiche.
Fig. 9.20 - Tracciato normale di bambino di 2 anni e 6 mesi (per le derivazioni vedi Fig. 9.10).
Esami diagnostici complementari
In conclusione: nell’adulto normale, sveglio, non è presente attività di tipo delta che compare invece nel sonno. La quantità di attività lente (delta e theta) si correla con la profondità del sonno (v. pag. 000). Attività lente sono invece presenti nell’EEG dei neonati e dei bambini, ma tendono progressivamente a scomparire.
Elettroencefalogramma patologico Un EEG può essere alterato per la presenza di una depressione dell’attività elettrica cerebrale, per la comparsa di un’eccessiva quantità di attività lente focali o diffuse e di attività di tipo epilettico. Tranne in quest’ultimo caso, le alterazioni EEG sono quasi sempre aspecifiche e devono essere correlate e valutate contemporaneamente con i dati clinici. In rapporto alla modalità di comparsa, le attività EEG patologiche possono essere distinte in alterazioni parossistiche e non parossistiche. Queste ultime sono costituite da sequenze di onde più o meno continue che si distinguono dal ritmo di fondo per la loro frequenza, ampiezza, morfologia. Possono essere suddivise, in accordo con Gastaut (1980), in sei sottogruppi: attività delta patologica, attività theta patologica, attività rapide patologiche, grafoelementi trifasici, ipsaritmia e depressione dell’attività elettrica cerebrale. Le attività EEG parossistiche, tipiche ma non esclusive dell’epilessia, possono a loro volta essere distinte in base alla loro modalità di comparsa sul piano topografico e su quello temporale in parossismi generalizzati o focali e in alterazioni parossistiche isolate, ad insorgenza ritmica e periodica.
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tuttavia fornire indicazioni sulla loro natura (Fig. 9.21). – Attività lente bilaterali ritmiche ed intermittenti: la comparsa di onde delta e theta regolari, di aspetto sinusoidale, sincrone sui due emisferi come l’attività delta ritmica intermittente frontale (Fig. 9.22) depone per una disfunzione talamo-corticale e può verificarsi in corso di encefalopatie tossico-metaboliche, di lesioni delle strutture mediane profonde o della fossa cranica posteriore.
Fig. 9.21 - Attività lenta unilaterale in un caso di rammollimento completo nel territorio della cerebrale media di sn.
PRINCIPALI TIPI DI ATTIVITÀ PATOLOGICA NON PAROSSISTICA
– Attività lente focali: sia nell’ambito della banda delta che theta, si correlano generalmente con lesioni emisferiche (ad esempio, infarti ed emorragie cerebrali, ascessi, neoplasie), senza
Fig. 9.22 - Attività delta intermittente frontale in caso di lesione vascolare troncale.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
– Attività lente polimorfe diffuse: disturbi dell’attività di fondo caratterizzati da una eccessiva quantità di onde lente, irregolari e non ritmiche. Mentre un’attività di questo tipo, se localizzata, è sempre suggestiva di una diretta sofferenza corticale, se diffusa può essere sia in rapporto ad una sofferenza corticale diretta (ad esempio, in alcune meningoencefaliti) che ad un interessamento della formazione reticolare del tronco (ad esempio, nel coma post-traumatico). – Attività rapide patologiche: ritmi rapidi a 15-20 c/s di ampiezza maggiore rispetto all’attività beta fisiologica (generalmente superiore a 40 microvolts) possono essere in rapporto con l’assunzione di ipnotici e sedativi, come i barbiturici e, in particolare, le benzodiazepine. Questo quadro EEG patologico può inoltre essere riscontrato esclusivamente in neonati o, durante la prima infanzia, in bambini affetti da gravissime encefalopatie. Si tratta, in questo caso, di ritmi rapidi (15-25 c/s) di grande ampiezza (50-150 microvolts), non reattivi. – Ritmi di onde lente trifasiche: sono suggestivi ma non patognomonici della encefalopatia epatica (Fig. 9.23), essendo stati osservati anche nel corso di encefalopatie metaboliche di altra genesi e nella demenza di Alzheimer in fase avanzata. – Ipsaritmia: è un’attività polimorfa, bilaterale, costituita da onde lente di alto voltaggio, frammiste a punte, senza chiara sincronia fra i due emisferi, che si manifestano in modo caotico e che si alternano con depressione dell’attività EEG. È specifica della sindrome di West del neonato. – Attenuazione dell’ampiezza dell’attività EEG: la riduzione del segnale EEG si verifica per una sofferenza corticale focale o diffusa. Se focale, indica una sofferenza corticale circoscritta, come nella poroencefalia, in certe atrofie corticali localizzate, nelle contusioni e nelle lesioni cerebrovascolari massive sia di tipo ischemico che emorragico ed in tal caso assume un grave significato prognostico. Può anche essere in rapporto a lesioni a sede extraparenchi-
Fig. 9.23 - Onde trifasiche, più evidenti a livello frontale, in un caso di encefalopatia epatica.
male, come gli ematomi subdurali ed i meningiomi. Se diffusa, la depressione dell’attività EEG può alternarsi con raffiche (“burst”) di onde delta e theta, con punte ed onde puntute, come nello stato di male mioclonico post-anossico (attività tipo “burst-suppression”, [raffiche/depressione]). L’attenuazione dell’ampiezza del segnale EEG è associata ad una significativa depressione funzionale, come nel coma barbiturico profondo, che può, tuttavia, essere reversibile anche dopo diverse ore. La depressione dell’attività elettrica cerebrale si può riscontrare anche in certe malattie con degenerazione neuronale, come la Corea di Huntington. Il silenzio elettrico rappresenta il massimo grado di tale alterazione EEG. Se persistente nell’adulto, per almeno sei ore ed associato ad un insieme di dati clinici (stato di incoscienza, assenza di riflessi nel settore cranico e di respirazione spontanea) in presenza di una lesione primitivamente cerebrale, permette l’accertamento della morte in malati sottoposti a misure rianimatorie (v. pag. 647).
Esami diagnostici complementari
PRINCIPALI TIPI DI ATTIVITÀ PATOLOGICA
341
PAROSSISTICA
– Alterazioni parossistiche isolate: sono costituite da punte, onde puntute, complessi punta-onda e polipunta-onda, focali o generalizzate in rapporto al tipo di crisi. Si riscontra nell’EEG intercritico di soggetti epilettici (50-90% dei casi, percentuali che variano in rapporto al momento della registrazione e, specialmente, al numero degli esami praticati (Tab. 9.2.) e, molto raramente, in soggetti che non hanno mai presentato crisi (2%). Il riscontro di queste alterazioni può essere di supporto per la diagnosi di epilessia, se altre patologie sono state escluse. Nelle epilessie generalizzate idiopatiche insorgono su un ritmo di fondo normale, mentre nelle epilessie generalizzate organiche compaiono su un ritmo di fondo di per sè già alterato (Figg. 9.18, 9.24). L’assenza di tali alterazioni non permette tuttavia di escludere la diagnosi di epilessia.
Fig. 9.24 - Ripetute scariche di complessi punta-onda e polipunta-onda che insorgono su di un ritmo di fondo normale.
Tabella 9.2 - Alterazioni EEG intercritiche in soggetti epilettici in relazione al momento e al numero delle registrazioni (dati della letteratura) Momento e numero delle registrazioni EEG di veglia EEG di veglia e di sonno EEG di veglia e di sonno ripetuti
Incidenza di attività epilettiforme 49% 81% 92%
– Alterazioni parossistiche ad insorgenza ritmica: sono costituite da scariche EEG critiche, della durata di almeno qualche secondo, con inizio e fine relativamente improvvisi. Le onde ed i complessi di tali attività ritmiche variano per forma, frequenza e topografia. Spesso mostrano un’ampiezza crescente ed una frequenza decrescente durante lo stesso episodio (Fig. 9.25). Le alterazioni all’inizio della loro comparsa possono essere localizzate, ma tendono poi a diffondere ad altre aree (Fig. 9.26).
Fig. 9.25 - Alterazioni parossistiche ad insorgenza ritmica a livello frontotemporale sn durante una crisi epilettica parziale: le onde di tale attività ritmica mostrano un’ampiezza crescente (da 30 a 150 microV) ed una frequenza decrescente (da 10 a 2 c/s).
Ricordiamo fra le altre: a) le scariche generalizzate di punte ritmiche (o ritmo epilettico reclutante), tipiche della fase tonica di Grande Male; b) le scariche generalizzate di ritmi rapidi delle crisi toniche delle epilessie generalizzate secondarie (Fig. 9.27); c) le scariche generalizzate di punta onda ritmiche a 3 c/s, della durata di 5-15 secondi, tipiche delle assenze dell’epilessia primitivamente generalizzata (Fig. 9.11); d) le scariche di punta onda a 2-2.5 c/s solitamente più prolungate (5-30 se-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.26 - Alterazioni parossistiche ad insorgenza ritmica a livello frontotemporale ds con successiva propagazione della scarica al restante ambito encefalico in un caso di epilessia parziale con secondaria generalizzazione; a) attività epilettica reclutante localizzata; b) diffusa; c) comparsa di complessi punta-onda e polipunta-onda rapidi; d) progressiva riduzione della frequenza dei complessi patologici fino al termine della crisi.
Fig. 9.27 - Scarica generalizzata di ritmi rapidi, in un paziente curarizzato, nel corso di uno stato di male tonico. In concomitanza della crisi tonica si nota dapprima una desincronizzazione seguita da attività rapida a 9-12 c/s di ampiezza crescente (ritmo epilettico reclutante). La scarica cessa improvvisamente con la comparsa di onde lente postcritiche per 15 secondi.
condi) meno sincrone e simmetriche, osservate generalmente nelle epilessie generalizzate secondarie ed in particolare nella sindrome di Lennox-Gastaut. La registrazione di una crisi epilettica consente di confermare definitivamente la diagnosi e di ottenere più precise informazioni sull’origine delle crisi. – Attività EEG di tipo periodico: sono costituite da onde o complessi EEG stereotipati che tendono a presentarsi in modo intermittente, ad intervalli regolari di uno o più secondi. In rapporto alla modalità di presentazione, focale o
diffusa, e all’intervallo più o meno lungo fra le scariche, tali alterazioni sono altamente suggestive della panencefalite sclerosante subacuta (attività periodica generalizzata a periodismo lungo Fig. 9.15), della malattia di CreutzfeldtJakob (attività periodica generalizzata a periodismo breve, Fig. 9.16), dell’encefalite erpetica (attività periodica focale). Da ricordare inoltre le scariche periodiche lateralizzate di tipo epilettico (Fig. 9.17) che si presentano ad intervalli di 1-3 secondi e sono generalmente riscontrate in corso di patologie emisferiche acute (ictus, metastasi e ascessi cerebrali).
Esami diagnostici complementari
Riassumendo: l’indagine EEG, largamente impiegata per la sua non invasività, è caratterizzata da un discreto grado di sensibilità, ma da una bassa specificità. Di conseguenza l’uso dell’EEG nella valutazione di malati con sospette lesioni focali è di limitato valore, poiché un EEG normale non permette di escludere la presenza di lesioni intracraniche (falsi negativi), mentre in malati con disturbi accessuali bisogna valorizzare solo le modificazioni del tracciato EEG di sicuro significato patologico (problema dei falsi positivi). Pur con questi limiti, la valutazione EEG, se correlata con i dati clinici, risulta utile primariamente nell’epilessia (v. pag. 000), ma anche negli stati confusionali (Tab. 9.3), nel coma (v. pag. 649), nelle malattie da prioni (v. pag. 000) nei disturbi del sonno (nelle crisi narcolettiche la registrazione poligrafica può risultare diagnostica: v. pag. 000). In particolare, nelle unità di terapia intensiva, l’EEG permette una valutazione della funzione cerebrale in pazienti comatosi, spesso per cause non neurologiche, o in malati curarizzati (Tab. 9.4), quando un completo esame neurologico è difficilmente eseguibile e la scala del coma di Glasgow non utilizzabile (v. pag. 636). Il monitoraggio continuo dell’EEG (in associazione con studi seriati dei potenziali
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Tabella 9.3 - EEG nello stato confusionale acuto e quadri clinici correlati 1.
RALLENTAMENTI PIÙ O MENO MARCATI
(encefalopatie tos-
sico-metaboliche, encefaliti) 2.
(delirium tremens o sovradosaggio di sedativi) 3. ONDE TRIFASICHE (encefalopatia epatica, encefalopatie metaboliche, disturbi idroelettrolitici, intossicazione, processi degenerativi) 4. ATTIVITÀ EPILETTIFORME CONTINUA E DIFFUSA (stato di male non convulsivo generalizzato) 5. ATTIVITÀ PERIODICA LATERALIZZATA DI TIPO EPILETTICO(stato di ABBONDANTE QUANTITÀ DI ATTIVITÀ RAPIDA
male non convulsivo parziale complesso). 6. EEG NORMALE (disturbi psichiatrici)
evocati) può, nei malati delle unità di terapia intensiva, modificare le decisioni terapeutiche nell’82% dei casi (Jordan, 1993). Infatti si possono evidenziare in malati sedati e ventilati, attività EEG epilettica focale o diffusa senza manifestazioni motorie, in traumatizzati cranici gravi e nei malati cerebrovascolari si può riscontrare la ricomparsa del ciclo sonno-veglia e della reattività, segnali utili sul piano prognostico ma valorizzabili anche in funzione terapeutica.
Tabella 9.4 - Alterazioni EEG e relativo significato prognostico in malati in coma, degenti in unità di terapia intensiva (modificata da Young et al 1997). Alterazioni EEG 1. RALLENTAMENTI FOCALI O DIFFUSI DELL’ ATTIVITÀ ELETTRICA CEREBRALE, A) Con Reattività B) Senza Reattività 2. ONDE
ONDE DELTA E THETA IN PIÙ DEL
50% DELLA REGISTRAZIONE:
TRIFASICHE
3. ATTIVITA
TIPO “BURST SUPPRESSION”:
A) Intercalata da Attività Epilettiforme B) Senza Attività Epilettiforme
4. Alfa/Theta/Spindle coma 5. ATTIVITÀ
EPILETTIFORME IN ASSENZA DI BURST SUPPRESSION:
A) Generalizzata B) Focale o Multifocale
6. MARCATA DEPRESSIONE DELL’ATTIVITÀ ELETTRICA CEREBRALE: A) Ampiezza < 20 microV ma > 10 Significato prognostico sfavorevole: – Assenza di reattività – Attività tipo burst suppression – Depressione marcata e diffusa dell’attività elettrica cerebrale
B) = 20 microV
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
L’EEG fornisce, inoltre, informazioni sul piano diagnostico nelle encefaliti, encefalopatie e demenze, e permette di documentare l’interessamento del sistema nervoso nel corso di malattie sistemiche e di malattie infettive. Nell’AIDS la presenza di un rallentamento del ritmo di fondo suggerisce la possibilità di una encefalopatia da HIV, anche in soggetti neurologicamente asintomatici. In molti casi più che il singolo esame, risultano importanti controlli seriati nel tempo.
3. Elettrodiagnostica neuromuscolare M. Abbruzzese, C. Caponnetto In questo capitolo vengono descritte le principali tecniche elettrofisiologiche impiegate nella diagnosi delle malattie del sistema nervoso periferico, del muscolo e della giunzione neuromuscolare. Tali tecniche forniscono informazioni riguardanti natura, sede e gravità (sino all’identificazione di quadri subclinici) delle lesioni, utili anche al fine della valutazione prognostica. Le tecniche elettrodiagnostiche più comunemente utilizzate nella pratica clinica sono l’elettromiografia convenzionale e di singola fibra, l’elettroneurografia sensitiva e motoria, lo studio delle «risposte tardive» (onda F e riflesso H) e del riflesso di ammiccamento, la stimolazione ripetitiva del nervo per la valutazione della trasmissione neuromuscolare.
Elettromiografia L’elettromiografia (EMG) consiste nella registrazione dell’attività elettrica muscolare. Gli elettrodi di derivazione comunemente in uso nell’EMG clinica sono: a) elettrodi di superficie, costituiti da dischetti di argento o rame posti sulla cute sovrastante il ventre muscolare;
b) elettrodi di profondità o elettrodi ad ago, inseribili nel ventre muscolare, a loro volta distinti in quelli (concentrici unipolari, bipolari) impiegati nell’EMG ad ago convenzionale e in quelli (microelettrodi con superfici di registrazione molto piccole) utilizzati nella elettromiografia della singola fibra. La registrazione con elettrodi di superficie consente solo la valutazione dello stato di contrazione muscolare ed è perciò utilizzata in studi chinesiologici e nella descrizione delle caratteristiche dei movimenti involontari patologici. La registrazione con ago-elettrodi, permettendo la registrazione extracellulare dei potenziali di fibra muscolare e dei potenziali di unità motoria, è divenuta la tecnica di elezione nella pratica clinica al posto delle vecchie tecniche elettrodiagnostiche di stimolazione neuromuscolare (determinazione dei valori di cronassia e reobase e della curva intensità-durata). L’attività elettrica registrata da un ago-elettrodo inserito nel muscolo è costituita da potenziali d’azione delle fibre muscolari che scaricano separatamente o in gruppo. Le fibre muscolari hanno un potenziale di membrana a riposo di 70-80 mV con negatività all’interno della miocellula. Quando il potenziale di placca supera il valore soglia si determina il potenziale d’azione con inversione, all’interno della fibra, della polarità che un elettrodo extracellulare registra come negativa. La registrazione extracellulare di un potenziale di azione muscolare attraverso un conduttore di volume genera un’onda di morfologia normalmente trifasica (positiva-negativa-positiva). La prima deflessione positiva è l’espressione dell’avanzare dell’onda depolarizzante verso l’elettrodo registrante; la seconda deflessione positivo-negativa rappresenta il passaggio della depolarizzazione sotto l’elettrodo; la terza fase, positiva è dovuta all’allontanarsi dall’elettrodo registrante dell’onda di depolarizzazione. Quando l’elettrodo registrante è situato nella zona di placca il potenziale d’azione ha una morfologia difasica negativo-positiva venendo a mancare la prima deflessione.
Elettromiografia convenzionale L’esecuzione dell’indagine prevede l’inserzione dell’ago, l’esame a muscolo completamente decontratto per evidenziare l’esistenza di
Esami diagnostici complementari
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eventuale attività spontanea, a contrazione volontaria lieve per l’analisi dei parametri dei potenziali di unità motoria e a contrazioni gradualmente più intense fino allo sforzo massimale per la valutazione del reclutamento delle unità motorie. SEMEIOTICA ELETTROMIOGRAFICA Attività di inserzione Nel muscolo normale completamente decontratto l’inserzione o lo spostamento dell’agoelettrodo danneggia o stimola meccanicamente le fibre muscolari, generando una raffica di breve durata (circa mezzo secondo) di potenziali di fibra (Fig. 9.28). Tale attività può essere abnormemente prolungata per «instabilità» della membrana muscolare (nella fase acuta della lesione neurogena periferica, in casi di miosite o miotonia) o ridotta sino ad essere assente (nel muscolo ineccitabile come negli attacchi di paralisi periodica familiare oppure nel muscolo ormai divenuto gravemente atrofico o fibrotico con sostituzione del tessuto muscolare da parte di tessuto connettivo o grasso).
Fig. 9.29 - Attività spontanea registrata in sede di placca motrice. In A sono visibili i cosiddetti «potenziali di placca in miniatura», costituiti da deflessioni negative di bassa ampiezza ed elevata frequenza. In B, a questo ultimo tipo di attività si superimpongono potenziali di fibra, trifasici o, più caratteristicamente, difasici a deflessione iniziale negativa.
l’equivalente extracellulare dei «potenziali di placca in miniatura»; b) sul rumore di placca possono iscriversi rari potenziali di placca, più ampi (100-200 µV), spesso difasici, sempre con inizio negativo, con frequenza irregolare di scarica da 5 a 50 potenziali per secondo, verosimilmente generati da scariche di singole fibre muscolari eccitate da terminazioni assonali intramuscolari irritate dall’ago. I potenziali di placca sono distinti dai potenziali di fibrillazione per l’inizio negativo e per la modalità di scarica. Attività spontanea patologica
Fig. 9.28 - Attività di inserzione evocata al momento dell’inserzione dell’elettrodo ad ago entro il ventre muscolare.
Attività di placca motrice È l’attività elettrica registrata nel muscolo completamente decontratto da un elettrodo situato in prossimità della giunzione neuromuscolare. Si distingue (Fig. 9.29): a) un rumore di placca (onde negative monofasiche, 10-50 µV in ampiezza e 1-2 msec in durata), corrispondente alla liberazione continua di «quanta» di acetilcolina in quantità insufficiente a determinare un potenziale di azione. Tale attività è
Nel muscolo normale, ad ago-elettrodo stabilmente posizionato al di fuori della regione della placca motoria, non si registra alcuna attività elettrica. La presenza in queste condizioni di attività elettrica spontanea ha pertanto – di massima – un significato patologico. I principali tipi di attività spontanea sono: potenziali di fibrillazione, potenziali positivi, potenziali di fascicolazione, scariche miotoniche, scariche ripetitive complesse. Verranno anche descritte le scariche miochimiche, neuromiotoniche e da crampi. Potenziali di fibrillazione (Figg. 9.30; 9.31): generalmente di forma difasica, talora trifasica (raramente tetrafasica o polifasica per sommazione temporale di più potenziali di fibra), con
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.30 - Diversi tipi di potenziali registrabili con l’EMG convenzionale. 1: potenziale di fibrillazione; 2: potenziale positivo; 3: potenziale trifasico di unità motoria; 4: potenziale di unità motoria con potenziale satellite; 5: potenziale polifasico di lunga durata; 6: potenziale polifasico di breve durata.
Fig. 9.31 - In A e B: due diversi tipi di attività spontanea registrabile in condizioni di denervazione motoria: potenziali di fibrillazione e positivi a «dente di sega». In C: potenziali di fascicolazione.
inizio sempre positivo, breve durata (1-5 msec), ampiezza variabile da 20 a 200 µV, scaricano ritmicamente con frequenza variabile da 1 a 30 per secondo (Buchthal e Rosenfalck, 1966); un ritmo di scarica apparentemente irregolare è dovuto a scarica contemporanea di più fibre. Se registrati con la tecnica dell’elettromiografia della singola fibra, i potenziali di fibrillazione hanno la stessa morfologia dei potenziali di fibra attivati volontariamente. Se la registrazione avviene in regione di placca i potenziali di fibrillazione hanno inizio negativo per cui non sono più distinguibili dai potenziali di placca: ne consegue che l’attività spontanea registrata nella regione di placca è di dubbio significato clinico.
Potenziali positivi (Figg. 9.30; 9.31): oltre che spontaneamente possono anche comparire a seguito dell’inserzione dell’ago-elettrodo; rappresentano, come i potenziali di fibrillazione, il potenziale di azione di una singola fibra muscolare, di cui però la membrana è stata danneggiata (anche dallo stesso ago-elettrodo). Il danno della membrana causa una prolungata depolarizzazione che non consente l’origine di un potenziale negativo come avviene per il potenziale di fibrillazione. Il potenziale d’azione che si avvicina al punto danneggiato determina una scarica positiva «puntuta» seguita da una deflessione negativa di bassa ampiezza. I potenziali positivi si presentano pertanto con una iniziale positività, seguita da un’onda negativa prolungata e di bassa ampiezza e conseguente caratteristico aspetto «a dente di sega», con una durata totale dai 10 ai 30 msec ed un’ampiezza dai 20 ai 200 µV. Anche i potenziali positivi, come quelli di fibrillazione, scaricano ritmicamente. Sia i potenziali di fibrillazione che quelli positivi hanno origine da fibre muscolari private della loro innervazione: possono pertanto essere presenti sia in neuropatie che in miopatie. Nella patologia del sistema nervoso periferico non compaiono che 2-3 settimane dopo l’instaurazione della lesione; inoltre compaiono prima nei muscoli prossimali rispetto a quelli distali e i potenziali positivi prima di quelli di fibrillazione. La presenza di potenziali di fibrillazione e positivi nelle miopatie è spiegata o da denervazione secondaria a necrosi muscolare (distrofie muscolari progressive) o da denervazione funzionale per degenerazione focale che separa parte della fibra muscolare dalla regione di placca oppure da infiammazione delle fibre nervose intramuscolari (polimiosite, dermatomiosite). Potenziali di fascicolazione (Fig. 9.31): sono il correlato elettromiografico delle fascicolazioni (Denny-Brown e Pennybacker, 1938) e derivano dalla scarica spontanea di un gruppo di fibre muscolari innervate dallo stesso moto-
Esami diagnostici complementari
neurone e spesso coincidenti con un intera unità motoria. Possono quindi avere l’aspetto di potenziali di unità motoria normali o patologici a seconda delle condizioni del muscolo da cui vengono registrate. Compaiono saltuariamente, con una frequenza di scarica molto irregolare e del tutto variabile (da uno a cinquanta per minuto primo). I potenziali di fascicolazione originerebbero dalla porzione più distale dell’assone, probabilmente dalla porzione presinaptica della placca motoria. Più comunemente i potenziali di fascicolazione si verificano nelle malattie del motoneurone inferiore ma possono essere registrati anche in polineuropatie, compressioni radicolari e in condizioni quali tetania, tireotossicosi, intossicazione da farmaci inibitori della colinesterasi. I potenziali di fascicolazione possono essere riscontrati anche in soggetti normali (fascicolazioni benigne), associati o no a crampi: in questo caso avrebbero una frequenza di scarica più elevata dei potenziali in rapporto a condizioni patologiche. Scariche miotoniche: sono scariche o di potenziali simili a quelli di fibrillazione (breve durata, bassa ampiezza, inizio negativo) o di potenziali positivi; in entrambi i casi è tipico l’andamento in crescendo-decrescendo sia della frequenza (sino ad un massimo di 150 c/s) che dell’ampiezza (tra i 10 µV e 1 mV) con caratteristico rumore all’altoparlante paragonato a quello di un bombardiere in picchiata od anche, e forse meglio, a quello dell’accelerazione e decelerazione di una motocicletta. Le scariche miotoniche possono comparire al termine di una contrazione volontaria, dopo stimolazione meccanica del muscolo (inserzione dell’ago-elettrodo, percussione) o, talora, anche spontaneamente. Scariche ripetitive complesse: denominate anche «scariche bizzarre ad elevata frequenza» e, impropriamente, «scariche pseudomiotoniche» sono dovute a scarica pressoché sincrona di un gruppo di fibre, probabilmente denervate,
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guidate, per trasmissione non sinaptica (efapsi) da una sola fibra fibrillante che funge da segnapassi (pacemaker). Possono essere sia a bassa che ad alta frequenza di scarica che può pertanto variare da 3 a 150 c/s. A differenza delle scariche miotoniche, le scariche ripetitive complesse iniziano e terminano bruscamente, senza variazioni di frequenza, ampiezza e forma all’interno della singola scarica. Possono essere costituite da potenziali di breve durata (non distinguibili dai potenziali di fibrillazione) o da potenziali di morfologia più complessa. Le scariche ripetitive complesse possono essere registrate sia in miopatie (polimiosite, distrofie muscolari, miopatia ipotiroidea) che in neuropatie (sclerosi laterale amiotrofica, radicolopatie e neuropatie croniche, malattia di Charcot-Marie-Tooth): il loro contributo diagnostico è pertanto limitato. Scariche miochimiche: sono il correlato elettromiografico delle miochimie (fini contrazioni muscolari vermicolari). Sono costituite da raffiche di 2-10 potenziali di unità motoria, che scaricano in sequenze ritmiche (40-60 c/s) ad intervalli regolari da 0,1 a 10 secondi tra una raffica e l’altra. Probabilmente hanno un’origine ectopica da fibre nervose motorie demielinizzate. Non sono influenzate dal movimento volontario e persistono nel sonno. Scariche miochimiche facciali si riscontrano in pazienti con neoplasie del tronco encefalico (gliomi) o affetti da sclerosi multipla; le scariche miochimiche osservate agli arti suggeriscono un processo neuropatico acuto, come una poliradicoloneuropatia di Guillain-Barrè, o cronico, come una plessopatia da irradiazione o una compressione di tronchi nervosi. Scariche neuromiotoniche: sono scariche ad elevata frequenza (100-300 c/s) di potenziali di unità motoria associate a forme di attività muscolare continua (sindrome di Isaac). Possono essere prolungate o presentarsi in brevi, ripetute raffiche.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Scariche da crampi: consistono in scariche a frequenza rapida (40-60 c/s) di potenziali di unità motoria che iniziano e, dopo aver reclutato un numero crescente di unità motorie, cessano bruscamente. Possibili anche nei soggetti normali in seguito a contrazioni muscolari eccessivamente intense o effettuate con muscolo «accorciato», i crampi si verificano frequentemente in gravidanza o in condizioni patologiche quali deplezione di sali (iponatriemia e ipocalcemia), atrofie neurogene croniche, mixedema, uremia. Potenziali di unità motoria I potenziali di unità motoria, o potenziali di azione muscolare, sono dovuti alla sommazione temporo-spaziale dei potenziali delle fibre muscolari appartenenti ad una singola unità motoria. Dei potenziali di unità motoria si valutano alcuni parametri convenzionali (ampiezza, durata e forma) e la modalità del loro reclutamento a contrazioni volontarie gradualmente più intense fino allo sforzo massimale. I parametri dei singoli potenziali sono definibili facendo compiere al soggetto una contrazione volontaria lieve: solo in tal modo i potenziali di unità motoria reclutati restano ben distinti gli uni dagli altri. L’ampiezza dei potenziali di unità motoria, espressa come ampiezza picco-a-picco, cioè come distanza tra la più ampia deflessione negativa e la più ampia deflessione positiva, varia notevolmente da potenziale a potenziale (da poche decine a diverse centinaia di µV). A causa di questa grande variabilità un valore medio di ampiezza di 30 potenziali deve deviare, rispetto al valore medio normale, almeno del 40% per poter considerare la sua variazione statisticamente significativa. Si è calcolato che solo le fibre (meno di 20) più vicine (entro un raggio di 0,5-1 mm) alla superficie registrante contribuiscono alla genesi della componente più ampia del potenziale: la densità delle fibre (numero di fibre per unità di superficie) è quindi il
principale parametro biologico nella genesi dell’ampiezza di un potenziale di unità motoria. Altri fattori importanti sono il diametro delle fibre e la sincronia di scarica dei potenziali di fibra oltre alla distanza dalla superficie elettrodica registrante. La durata è definita come l’intervallo temporale compreso tra l’inizio della prima deflessione ed il ritorno alla linea di base o isoelettrica dell’ultima deflessione del potenziale. La durata di un potenziale di unità motoria esprime l’attività di un numero di fibre muscolari maggiore di quello che contribuisce all’ampiezza della componente principale o rapida del potenziale: infatti, alle fasi «lente», iniziale e finale, del potenziale (e quindi alla durata totale di questo) contribuiscono anche le fibre distanti più di 1 mm dalla superficie registrante. La durata di un potenziale di unità motoria può essere assunta come indice del grado di sincronia di scarica delle fibre che, a sua volta, dipende dall’entità della dispersione spaziale delle placche motorie. Infatti, maggiore è la dispersione spaziale delle placche, minore è la sincronia di scarica e quindi maggiore è la durata del potenziale di unità motoria. Altri fattori da cui dipende la durata, soprattutto in condizioni patologiche, sono la differente velocità di conduzione delle ramificazioni nervose terminali e delle fibre muscolari. Normalmente la durata dei potenziali di unità motoria varia da 5 a 15 msec a seconda del muscolo e dell’età del soggetto, divenendo maggiore con l’età. Nella pratica clinica è necessario misurare la durata di almeno 20 potenziali per ogni muscolo, considerando convenzionalmente patologiche deviazioni di durata media più o meno il 20% del valore medio normale del muscolo esaminato per un soggetto di età corrispondente. La forma è definita dal numero di fasi, intendendosi per fase la deflessione, a polarità sia negativa che positiva, che supera la linea di base. La maggioranza dei potenziali di un muscolo normale ha forma trifasica o difasica (Fig. 9.30).
Esami diagnostici complementari
Potenziali con più di quattro fasi sono detti polifasici (Fig. 9.30): la loro percentuale nel soggetto normale varia da muscolo a muscolo risultando, in genere, inferiore al 12% (nel deltoide tale percentuale arriva sino al 25%). L’abnorme aumento della percentuale di polifasici è segno di desincronizzazione del potenziale per aumento della dispersione temporale o di perdita di fibre muscolari. L’incidenza dei potenziali polifasici aumenta sia nelle miopatie che nelle neuropatie, e può riguardare sia i potenziali polifasici di breve durata (detti anche «a punte corte») che quelli di lunga durata (detti anche «a punte lunghe»); infatti, i potenziali polifasici di breve durata sono tipici delle miopatie ma possono anche riscontrarsi nelle fasi precoci della reinnervazione («unità nascenti»), mentre quelli di lunga durata sono tipici di fasi più avanzate della reinnervazione, ma sono stati anche descritti nelle miopatie a causa di una lenta conduzione delle fibre muscolari in rigenerazione. La forma di un potenziale di unità motoria è definita anche dal numero di inversioni di polarità («turns») superiori a 20 µV senza che vi sia superamento della linea di base: un loro aumento, come quello del numero delle fasi, indica un aumento della desincronizzazione delle fibre muscolari in scarica. Il tipo di reclutamento delle unità motorie varia in funzione dell’entità della contrazione volontaria effettuata (Fig. 9.32). A sforzo lieve, le unità motorie vengono attivate ad una frequenza di 5-10 al secondo, essendo attivate per prime le unità a bassa soglia, costituite da fibre piccole, di tipo I. Il progressivo aumento di intensità della contrazione volontaria comporta contemporaneamente un aumento della frequenza di scarica delle unità già attivate (sino ad una frequenza massima di 50 al secondo) ed il reclutamento di nuove unità. Così, a sforzo lieve, a bassa velocità di scansione del raggio catodico, i potenziali sono distinguibili nettamente l’uno dall’altro (tracciato «di
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Fig. 9.32 - I tre diversi tipi di tracciato a lieve sforzo: singole oscillazioni (A); a medio sforzo: stato intermedio (B); a massimo sforzo: interferenza (C).
singole oscillazioni»), a sforzo medio sono distinguibili solo i potenziali più ampi (tracciato «a tipo stato intermedio o misto»), mentre a sforzo massimale i singoli potenziali non sono più distinguibili (tracciato «interferenziale»). In presenza di una riduzione del numero di unità motorie attivabili si può avere, anche al massimo sforzo possibile, una riduzione più o meno marcata (a tipo singole oscillazioni o a tipo intermedio) del tracciato interferenziale. Se il numero di unità motorie attivabili é patologicamente ridotto per una lesione neurogena periferica, le unità superstiti scaricano a frequenza abnormemente elevata per poter mantenere un certo livello di contrazione (tracciato «di singole oscillazioni a frequenza di scarica rapida»). È stato anche calcolato che il rapporto (definito «rapporto di reclutamento») tra frequenza di scarica delle unità motorie e numero di unità motorie attivate non deve essere superiore a cinque: un valore superiore è indice di denervazione (Daube, 1987). Anche nelle lesioni del primo motoneurone si ha un tracciato di ridotto reclutamento ma, a differenza delle lesioni neurogene periferiche, non si osserva mai un aumento della frequenza di scarica delle unità motorie.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Nelle miopatie, una contrazione volontaria modesta recluta molte unità per cui si ha un tracciato interferenziale a sforzo non massimale: ciò è dovuto al fatto che le unità miopatiche producono minor forza perché costituite da un numero di fibre minore rispetto a quello delle unità normali. Nelle paresi isteriche il reclutamento è ridotto, ma la frequenza di scarica delle unità motorie è irregolare («tremula»), mai aumentata. APPLICAZIONI CLINICHE L’esame elettromiografico è utile solo se effettuato ed interpretato adeguatamente alla luce dell’anamnesi, dell’esame obbiettivo e del risultato di altre eventuali indagini tra cui va posta, in primo luogo, l’elettroneurografia. In particolare la scelta dei muscoli da esplorare non segue un protocollo predeterminato, ma dipende da un’attenta valutazione clinica; in linea di massima non vanno esplorati i muscoli gravemente atrofici in quanto le informazioni che possono essere tratte sono scarse e talora errate. Nel caso che sia ritenuto utile procedere ad un’indagine istologica muscolare è opportuno che il prelievo bioptico sia effettuato da un muscolo non sottoposto di recente ad EMG, poiché la ripetuta inserzione dell’ago-elettrodo può comportare alterazioni istologiche. Infine, anche se l’inserzione dell’ago-elettrodo non dovrebbe comportare significativi aumenti della concentrazione serica di creatinfosfochinasi (CPK), è consigliabile procedere all’indagine EMG dopo aver effettuato il prelievo ematico per il dosaggio degli enzimi serici. Le alterazioni EMG possono essere distinte in due grandi categorie: neurogene e miogene. Va tuttavia tenuto presente che esiste la possibilità di parziale sovrapposizione all’interno di queste categorie: ad esempio, potenziali di unità motoria con caratteristiche «miopatiche» possono ritrovarsi anche in patologie neurogene croniche e viceversa.
Lesioni neurogene Lesioni con totale interruzione assonale. Trovano il loro esempio nella sezione acuta traumatica di un nervo periferico. Immediatamente dopo la sezione l’attività di inserzione è normale, quella spontanea patologica è assente, malgrado che i potenziali di unità motoria non siano più attivabili. La prima alterazione patologica consiste nel prolungamento dell’attività di inserzione. Dopo 7-21 giorni (a seconda della distanza tra il muscolo e la lesione del nervo) compare attività spontanea patologica costituita da potenziali positivi, potenziali di fibrillazione e scariche ripetitive complesse; a causa dell’interruzione della conduzione assonale non si registrano potenziali di fascicolazione. Diverse settimane dopo la lesione i potenziali di fibrillazione divengono molto abbondanti per diminuire gradualmente in epoca successiva (soprattutto se si è verificata nel frattempo una reinnervazione apprezzabile) e scomparire a distanza di anni. Nel caso che si verifichi reinnervazione, le unità motorie sono costituite inizialmente solo da poche fibre per cui i potenziali di unità motoria sono polifasici e possono essere di durata ridotta e di ampiezza diminuita. Questi potenziali osservabili nelle fasi precoci della reinnervazione possono essere erroneamente ritenuti espressione di una lesione miogena. Col procedere della reinnervazione si determina una completa ristrutturazione dell’unità motoria che risulta costituita da fibre muscolari adiacenti fra di loro (non più a «distribuzione dispersa» come nell’unità motoria) e in genere aumentate di numero: i potenziali di unità motoria risultano di grande ampiezza (per l’aumento della densità di fibre) e di durata moderatamente o marcatamente aumentata (in rapporto al numero delle fibre). Il tracciato di reclutamento volontario delle unità motorie presenta inizialmente le caratteristiche di un tracciato a tipo di «singole oscillazioni ad alta frequenza di scarica» per divenire, con il procedere della reinnervazione,
Esami diagnostici complementari
più ricco, raggiungendo talora l’aspetto interferenziale, con progressivo aumento anche dell’ampiezza. Lesioni con parziale interruzione assonale (Fig. 9.33). In questo tipo di lesioni si registra inizialmente un tracciato di ridotto reclutamento dell’attività di unità motoria, talora di ampiezza diminuita, con potenziali di unità motoria di durata, ampiezza e forma nella norma. Con l’avvio del processo di reinnervazione i potenziali di unità motoria si modificano: aumenta dapprima la percentuale di potenziali polifasici, successivamente aumentano ampiezza e durata. Se un assone integro va a reinnervare fibre denervate («reinnervazione collaterale») si può constatare la presenza di componenti tardive («potenziali satellite», Fig. 9.30), che seguono, con intervallo di tempo abbastanza stabile, potenziali di unità motoria dalle caratteristiche normali. Nello stadio finale di una lesione neurogena cronica possono registrarsi potenziali polifasici di lunga durata. Il comportamento dell’attività spontanea è quello già descritto nel paragrafo precedente.
Fig. 9.33 - Tracciato EMG di affezione neurogena periferica. Donna di 70 a. portatrice di lesione traumatica del nervo circonflesso di Ds. Deltoide di Ds: in A, tracciato a tipo stato intermedio, a massimo sforzo. In B, attività spontanea di potenziali positivi e di fibrillazione; in C, potenziali di unità motoria di durata aumentata (durata media 19,1 msec, aumentata del 52%) con potenziali polifasici a punte corte nel primo canale.
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In pratica, nelle neuropatie da lesione assonale l’EMG può evidenziare sia segni di denervazione (potenziali di fibrillazione o potenziali positivi od entrambi, reclutamento a massimo sforzo dell’attività di unità motoria ridotto e di ampiezza diminuita) sia eventuali segni di reinnervazione (aumento della durata e dell’ampiezza dei potenziali di unità motoria, aumento della percentuale dei potenziali polifasici). Le alterazioni EMG non differiscono in funzione della sede di lesione. Ciò che distingue tra di loro una lesione di nervo, plesso o radice è la distribuzione topografica delle alterazioni: ad esempio, il riscontro di alterazioni nei muscoli paravertebrali suggerisce una radicolopatia. Solo nel caso di lesione delle cellule delle corna anteriori il quadro EMG è relativamente differente (Fig. 9.34), risultando più marcato l’aumento di durata e di ampiezza dei potenziali di unità motoria, più ridotto (anche in casi con relativa conservazione della forza) con ampiezza
Fig. 9.34 - Tracciato EMG tipico di affezione degenerativa dei motoneuroni alfa delle corna anteriori midollari. R.A., 57 a., portatore di sindrome fascicolatoria diffusa con crampi muscolari. Registrazione dal tibiale anteriore di ds. In A, tracciato di singole oscillazioni a massimo sforzo, con ampiezza enormemente aumentata. In B, attività spontanea di denervazione e di fascicolazione. In C, giganteschi potenziali di unità motoria (di durata aggirantesi sui 100 msec.), sincroni nelle tre derivazioni.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
notevolmente aumentata, il tracciato di reclutamento a massimo sforzo, superiore al 20-50% l’incidenza di sincronizzazione tra potenziali derivati da punti distanti tra loro più di 10 mm. Lesioni demielinizzanti. Il quadro EMG differisce da quello descritto per le lesioni assonali, risultando poco espressivo. Infatti, anche nel caso di un blocco di conduzione completo non si osservano alterazioni dell’attività di inserzione, non si sviluppa attività spontanea, le alterazioni dei parametri dei potenziali di unità motoria (se attivabili) sono limitate ad un aumento della percentuale dei polifasici (dovuto verosimilmente a demielinizzazione distale), il tracciato di reclutamento è ridotto. Di fatto, nelle neuropatie demielinizzanti l’indagine elettroneurografica fornisce un contributo diagnostico più rilevante. Lesioni miogene Nelle miopatie (Fig. 9.35) il dato più caratteristico (Kugelberg 1947, 1949) è la modificazione del potenziale di unità motoria che risulta in genere di breve durata, bassa ampiezza e forma complessa (per aumento delle fasi, dei «turns» o di entrambi). La riduzione della durata e la forma complessa del potenziale sono dovute alla riduzione del numero di fibre e alla marcata variazione del loro diametro con
conseguente dispersione temporale delle componenti del potenziale, per differente velocità di propagazione degli impulsi lungo le fibre stesse. L’aumento percentuale dei potenziali polifasici è spesso la prima alterazione registrabile nelle miopatie, ma la riduzione della durata media dei potenziali di unità motoria è l’alterazione più caratteristica. Non è inconsueto, tuttavia, trovare anche potenziali di durata aumentata, prevalentemente di forma polifasica, dovuti a rigenerazione di fibre muscolari: per evitare falsi risultati è opportuno che nel calcolo della durata media non sia conteggiata la durata di questi potenziali. Nelle miopatie metaboliche ed endocrine di lieve entità i potenziali di unità motoria spesso conservano un aspetto normale. Altra caratteristica comune ai diversi tipi di miopatia è la facilità ad ottenere un tracciato di interferenza, spesso di bassa ampiezza, anche per sforzi muscolari inferiori al massimale, in quanto tutte le unità motorie disponibili vengono precocemente reclutate. In alcune miopatie, quali polimiositi e distrofie muscolari, è spesso presente attività spontanea patologica, sotto forma di potenziali di fibrillazione, potenziali positivi e scariche ripetitive complesse. Nelle miopatie infiammatorie, è stata descritta la scomparsa dell’attività spontanea in seguito a terapia steroidea. Le scariche miotoniche sono tipiche dei disturbi miotonici primitivi, possono riscontrarsi anche in casi di polimiosite e di glicogenosi tipo II.
Elettromiografia di singola fibra
Fig. 9.35 - Tracciato EMG tipico di affezione miogena. C.B., di anni 6 e mezzo, portatore di distrofia muscolare. Tibiale anteriore di destra. In A, tracciato di massimo sforzo a tipo interferenza, di bassa ampiezza. In B, potenziali di unità motoria, di breve durata (durata media 7,3 msec, diminuita del 31%) con notevole aumento della percentuale di polifasici a punte corte.
Questa tecnica (Ekstedt 1964, Stalberg e Trontely, 1979) si fonda sulla registrazione extracellulare dei potenziali di singole fibre muscolari attivate a minima contrazione volontaria. A tale scopo vengono impiegati ago-elettrodi capaci di esplorare un’area con raggio di 300 µ. I parametri che vengono analizzati sono il «jitter» e la densità delle fibre.
Esami diagnostici complementari
Fig. 9.36 - Registrazione elettromiografica di singola fibra dal muscolo estensore comune delle dita. La sovrapposizione delle tracce oscilloscopiche mostra un jitter normale in 1 ed aumentato (soggetto con miastenia gravis) in 2. In 3, le tracce, non più sovrapposte, permettono di evidenziare anche il fenomeno del «blocco» (penultima traccia).
Per jitter (Fig. 9.36) si intende la variabilità dell’intervallo di tempo che intercorre tra i potenziali di due singole fibre muscolari appartenenti alla stessa unità motoria; il valore medio di tale parametro varia da 20-50 µs, in rapporto al muscolo considerato. Il jitter è un parametro correlato alla stabilità della placca motoria e la sua misurazione costituisce uno strumento assai sensibile per l’individuazione di alterazioni della trasmissione neuromuscolare, quali si riscontrano nella miastenia gravis o nella sindrome miastenica di Lambert-Eaton. Alterazioni di lieve entità della trasmissione neuromuscolare causano una maggiore variabilità nei tempi impiegati dai potenziali di placca a raggiungere la soglia per originare il potenziale d’azione: questo fenomeno si manifesta con un aumento del jitter. Poiché nel soggetto normale un aumento del jitter può essere presente in 1 potenziale su 20, è neces-
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sario verificarne l’esistenza in almeno 2 su 20 potenziali per poter diagnosticare un disturbo della trasmissione neuromuscolare. In casi più gravi la trasmissione neuromuscolare peggiora ad un punto tale che il potenziale di placca non riesce a raggiungere la soglia: si verifica allora il fenomeno del «blocco» (mancata comparsa del secondo potenziale), correlato neurofisiologico della faticabilità muscolare (Fig. 9.36). L’aumento del jitter ed il numero dei blocchi sono direttamente correlati con l’entità della compromissione clinica. L’entità del jitter nel miastenico varia inoltre da muscolo a muscolo: in pazienti con solo interessamento oculare il jitter può essere aumentato unicamente nei muscoli facciali. La densità delle fibre corrisponde al numero di fibre che scaricano simultaneamente entro l’area esplorata dall’elettrodo: tale parametro aumenta progressivamente nel corso della reinnervazione per rimanere elevato a reinnervazione conclusa; in senso opposto si comporta il jitter, aumentato all’inizio, ma pressoché nella norma al termine della reinnervazione. Nelle miopatie, infine, il jitter non è in genere alterato mentre la densità delle fibre può essere occasionalmente aumentata sia a causa della perdita di fibre per necrosi, sia per la presenza di fenomeni di reinnervazione nei confronti di fibre denervate ad opera di necrosi segmentale.
Elettroneurografia e tecniche correlate Le tecniche che si avvalgono della stimolazione elettrica delle fibre nervose periferiche, divenute con il tempo di uso sempre più frequente per la loro affidabilità, consentono l’esplorazione sia dei segmenti distali (elettroneurografia motoria e sensitiva) che di quelli prossimali (riflesso H, onda F, riflesso di ammiccamento) del sistema nervoso periferico.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Elettroneurografia motoria La velocità di conduzione delle fibre nervose motorie è stata misurata per primo da Helmholtz (1850) che registrò la risposta muscolare meccanica, mentre Piper (1909) fu il primo ad utilizzare il potenziale muscolare. L’applicazione clinica inizia nel 1948 con Hodes e collaboratori. Le fibre nervose motorie vengono stimolate in almeno due punti (Fig. 9.37) del tronco di un nervo, mentre la riposta muscolare (potenziale evocato muscolare composto) è registrata da un unico punto di uno stesso muscolo innervato dal nervo in esame. Lo stimolo, rettangolare, della durata di 0,1-0,2 msec, in genere erogato attraverso elettrodi di superficie (con l’anodo posto 23 cm prossimalmente al catodo) deve essere di intensità sovramassimale (superiore del 20-30% a quella capace di determinare una risposta massimale), in modo tale che tutte le fibre a conduzione più rapida siano attivate. Anche la registrazione viene normalmente eseguita con elettrodi di superficie: in particolare, l’elettrodo attivo viene posto sul ventre muscolare in corrispondenza della zona di placca motoria, quello indifferente sul tendine (derivazione ventre muscolare-tendine). Si ottiene così un potenziale difasico ad inizio negativo di cui vengono presi in considerazione ampiezza, latenza e durata.
a
L’ampiezza, espressa in mV, è misurata dalla linea di base al picco negativo o picco-a-picco e riflette il numero delle fibre attivate, la durata corrisponde al tempo, espresso in msec, che va dall’inizio al picco negativo (durata della fase negativa) o al ritorno all’isoelettrica (durata totale) ed è indice della sincronia di attivazione delle fibre, la latenza indica il tempo (espresso in msec) che va dall’artefatto da stimolo all’inizio della fase negativa. La velocità di conduzione viene calcolata in metri al secondo (m/sec) dividendo la distanza in millimetri tra due punti di stimolazione (prossimale e distale; ad esempio: gomito e polso, stimolando le fibre dei nervi mediano o ulnare) per la differenza tra le latenze dei potenziali evocati nelle due sedi di stimolazione. È necessario che forma e ampiezza dei potenziali muscolari evocati da stimolazione nelle diverse sedi siano il più possibile simili e che la temperatura superficiale dell’arto sia mantenuta a 36-38°C, in quanto la velocità delle fibre nervose periferiche, sia motorie che sensitive, diminuisce con il diminuire della temperatura (1,2-2,4 m/sec/1°C). Per il tratto compreso tra il punto più distale di stimolazione e l’elettrodo registrante non è corretto calcolare la velocità e ci si limita ad indicare il valore della latenza (denominata latenza terminale o distale). Questa, infatti, oltre al tempo di conduzione degli impulsi dalla sede di stimolazione alla terminazione nervosa, include anche il tempo di trasmissione neuromuscolare e, se la registrazione non è effettuata esattamente dalla zona di placca, anche il tempo di propagazione degli impulsi lungo la membrana delle fibre muscolari. Il tempo di trasmissione neuromuscolare e quello di propagazione lungo la membrana muscolare vengono esclusi quando si calcola la differenza di latenze dei potenziali evocati da due diverse sedi di stimolazione.
Elettroneurografia sensitiva
b
Fig. 9.37 - Velocità di conduzione motoria del nervo mediano di ds. R.A., uomo di 54 anni. Potenziali evocati nell’opponente del pollice dalla stimolazione sopramassimale del nervo mediano al gomito (A) ed al polso (B). Velocità di conduzione nel tratto gomito-polso, metri 60,0 al secondo: normale.
Dawson (1949) è stato il primo a registrare potenziali di nervo esclusivamente sensitivi mediante la tecnica della superimposizione fotografica di diverse risposte. Lo studio elettroneurografico sensitivo può essere attuato secondo due tecniche: ortodromica e antidromica. Nella tecnica ortodromica (Fig. 9.38) il nervo viene stimolato distalmente ed il potenziale evocato registrato prossimalmente: in particolare, la stimolazione può essere effettuata o per mezzo di elettrodi ad anello posti intorno alle dita (come, nel caso del nervo mediano, al I°, II° o III° dito) o di ago-elettrodi posti vicino al nervo (come, nel caso del nervo surale, al malleolo laterale). Lo stimolo, di breve durata (0,1-0,2 msec), deve essere di intensità sovramassimale, superiore, cioè, a quella capace di evocare la risposta di maggior ampiezza. La registra-
Esami diagnostici complementari
Fig. 9.38 - Velocità di conduzione sensitiva del nervo mediano di ds. M.B., uomo di 37 anni. In A, potenziali evocati nel nervo mediano al polso, gomito e terzo medio del braccio dalla stimolazione della cute delle prime 3 dita della mano, amplificati secondo la tecnica descritta da Buchtal e Rosenfalk (1966). Velocità sensitiva nel tratto polso-gomito 69,6 metri al secondo; nel tratto gomito-braccio 75,0 metri al secondo. In B, potenziale evocato al polso dalla stimolazione del pollice, amplificato secondo la stessa tecnica. Nelle due scale sottostanti al potenziale, la velocità delle diverse componenti dello stesso, in metri al secondo (m/ sec), e la base dei tempi in millisecondi (msec).
zione dei potenziali di nervo può essere effettuata con elettrodi di superficie, ma di solito viene eseguita con ago-elettrodi e si avvale del ricorso all’elaborazione elettronica di media (averaging), a causa della bassa ampiezza (dell’ordine, al massimo, di alcune decine di µV) dei potenziali stessi. Nella tecnica antidromica lo stimolo viene applicato in una sede prossimale del nervo (ad esempio, al polso) ed il potenziale è registrato in una sede distale (ad esempio, alle dita, con elettrodi ad anello). Il limite della tecnica antidromica risiede nel fatto che, al fine di evitare la costimolazione di fibre motorie, non sempre viene impiegata un’intensità sovramassimale: l’ampiezza del potenziale evocato non risulta pertanto un parametro pienamente affidabile. Come per il potenziale evocato muscolare, anche per il potenziale di nervo i parametri principali sono costituiti dall’ampiezza e dalla latenza. L’ampiezza viene generalmente misurata picco-a-picco. La latenza nella metodica antidromica viene misurata all’inizio della fase negativa, mentre nella metodica ortodromica corrisponde al primo picco positivo. La velocità di conduzione delle fibre sensitive, a differenza di quelle delle fibre motorie, può essere calcolata anche nel tratto compreso tra elettrodo registrante e stimolante incluso quello più distale (ad esempio, dito-polso): in tal caso corrisponde al rapporto tra distanza tra le sedi di stimolazione e di registra-
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zione e la latenza del potenziale. Se i potenziali vengono registrati da due diverse sedi del nervo (determinazione ortodromica) o per stimolazione in due diverse sedi (determinazione antidromica) la velocità di conduzione viene calcolata dividendo la distanza per la differenza delle latenze dei potenziali evocati. Infine, per elettroneurografia mista si intende la registrazione di un potenziale misto (sensitivo-motorio) di nervo evocato per stimolazione in una sede più prossimale dello stesso tronco nervoso: poiché le fibre sensitive di grosso diametro hanno una più bassa soglia e conducono più velocemente delle fibre motorie, la stimolazione di un nervo misto consentirà di determinare la velocità di conduzione delle fibre sensitive più veloci.
APPLICAZIONI CLINICHE DELL’ELETTRONEUROGRAFIA I valori della velocità di conduzione dipendono dal grado di mielinizzazione e dal diametro degli assoni. Nel soggetto normale tali valori variano da un minimo di 40-45 m/sec ad un massimo di 75-80 m/sec a seconda del nervo stimolato (la velocità di conduzione è maggiore di circa 10 m/sec nei nervi dell’arto superiore e nei distretti prossimali) e dell’età (i valori alla nascita sono circa la metà di quelli a 15-20 anni, età in cui iniziano a decrescere progressivamente). L’ampiezza dei potenziali evocati, muscolare e di nervo, è espressione del numero di fibre nervose attivate dalla stimolazione; in particolare, l’ampiezza della componente principale (trifasica, rapida) del potenziale sensitivo ottenuto per via ortodromica, deriva da fibre di grande diametro (oltre i 7 µ). Anche l’ampiezza del potenziale di nervo diminuisce con l’età (a 70 anni è circa la metà di quella osservabile a 20 anni). A parità di danno l’elettroneurografia sensitiva è più sensibile di quella motoria. Infatti, la velocità di conduzione motoria risulta ancora nella norma in presenza di poche fibre motorie integre (Buchthal, 1973) ed il valore normale dell’ampiezza del potenziale evocato muscolare ha limiti molto ampi. Ne consegue anche che ampiezza del potenziale evocato muscolare e velocità di conduzione motoria sono due parametri che, spesso, non forniscono informazioni tali da ipotizzare con affidabilità la natura
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
delle alterazioni istologiche del nervo periferico. I principali indici elettroneurografici di sofferenza nervosa periferica sono la riduzione di ampiezza delle risposte evocate ed il rallentamento della velocità di conduzione delle fibre nervose più rapide. La riduzione di ampiezza può essere dovuta a perdita di fibre, blocco della conduzione degli impulsi, prevalenza nel tronco esaminato di fibre in rigenerazione, aumento della dispersione temporale associato a rallentamento della conduzione. Il rallentamento della velocità di conduzione massima può dipendere da perdita delle fibre di maggior diametro, demielinizzazione segmentale o paranodale, rigenerazione dopo degenerazione walleriana, crescita anomala della guaina mielinica (come nella neuropatia tomaculare). L’indagine elettroneurografica è indispensabile nelle mononeuropatie da danno localizzato (traumatiche, compressive, da intrappolamento) per determinare sede e tipo di lesione. Seddom (1943, 1972) ha diviso le lesioni da danno localizzato in tre tipi: neuroaprassia, assonotmesi e neurotmesi. Nella neuroaprassia la continuità dell’assone è conservata e vi è solo una demielinizzazione localizzata delle fibre di maggior diametro; nell’assonotmesi la continuità assonale è interrotta senza compromissione delle strutture endoneurali; nella neurotmesi si ha un’interruzione totale delle fibre nervose e dei tessuti di supporto. Nella neuroaprassia e nella fase precoce dell’assonotmesi (cioè entro 4-7 giorni dalla lesione, prima dell’inizio della degenerazione walleriana) la stimolazione al di sotto della sede di lesione evoca un potenziale normale, mentre il potenziale da stimolazione prossimale è di ampiezza ridotta. La distinzione tra neuroaprassia e assonotmesi è possibile solo nei giorni successivi, quan-
do nell’assonotmesi gli assoni in degenerazione non sono più eccitabili, nella neuroaprassia persiste una risposta di maggior ampiezza per stimolazione distale mentre nell’assonotmesi l’ampiezza della risposta è ridotta nella stessa misura sia per stimolazione distale che prossimale. L’assenza della risposta per stimolazione prossimale alla sede di lesione indica che le fibre nervose non conducono attraverso la lesione stessa, reperto tipico della neurotmesi ma osservabile anche nella neuroaprassia completa, nei primi 4-7 giorni. Dopo una settimana i due quadri si differenziano poiché nella neuroaprassia la stimolazione distale rivela un’eccitabilità normale del nervo, mentre nella neurotmesi la risposta è di bassa ampiezza o assente. L’indagine elettroneurografica fornisce elementi utili per la classificazione delle polineuropatie che possono essere distinte in due categorie principali: assonali e demielinizzanti. A tale scopo, soprattutto in presenza di segni e sintomi clinici non univoci, è indispensabile esplorare fibre motorie e sensitive di più nervi, di cui almeno uno all’arto superiore (evitando il nervo ulnare, facilmente soggetto a lesioni traumatiche). Il nervo surale è uno dei nervi più esplorati in quanto consente il confronto tra i dati elettrofisiologici e quelli istologici ottenibili con biopsia dello stesso nervo. Il danno assonale comporta una diminuzione significativa dell’ampiezza del potenziale cui può associarsi una riduzione della velocità di conduzione proporzionale alla perdita numerica di fibre. Studi della correlazione tra i dati neurografici sensitivi e quelli morfologici hanno stabilito che una riduzione della velocità di conduzione al 55% del valore medio normale può essere dovuta solamente a perdita delle fibre di maggior diametro; se la velocità di conduzione è rallentata a meno del 60% del valore medio normale è necessario considerare altre cause, oltre alla degenerazione assonale, per poter spiegare la riduzione della velocità. Rientrano tra le neuropatie da prevalente danno as-
Esami diagnostici complementari
sonale le neuropatie alcooliche, uremiche, la maggioranza dei casi di neuropatie tossiche e su base carenziale, alcuni casi di neuropatie diabetiche e paraneoplastiche. Anche nelle mielopatie si può avere rallentamento della velocità di conduzione motoria (sino al 70% del valore medio normale) e riduzione dell’ampiezza (a meno del 10% del valore normale) per la perdita delle cellule di grande diametro delle corna anteriori (Lambert, 1960). Il danno della guaina mielinica si manifesta, in generale, con aumento del tempo di conduzione: pertanto, il reperto elettroneurografico in caso di neuropatia con sola demielinizzazione segmentale (evenienza, peraltro, rara) è costituito unicamente da un rallentamento della velocità senza alcuna variazione di ampiezza del potenziale evocato. La riduzione della velocità è dovuta ad un notevole aumento del tempo di conduzione internodale che può superare i 500 µs (nelle fibre normali è circa 20 µs). Nella maggioranza dei casi, tuttavia, alla demielinizzazione segmentale si associa degenerazione assonale, con conseguente diminuzione anche dell’ampiezza del potenziale evocato ed un rallentamento della velocità superiore al 40% del valore medio, cioè superiore a quello derivante dalla sola perdita numerica di fibre. Il rallentamento della velocità non è identico nelle diverse fibre a causa della differente entità di demielinizzazione; ne consegue la perdita della sincronia dei potenziali d’azione che si traduce in aumento della dispersione temporale per cui il potenziale evocato risulta di durata aumentata e di forma polifasica. Il «blocco di conduzione» è un altro aspetto tipico delle neuropatie demielinizzanti ed è definito come l’incapacità degli impulsi a propagare attraverso un segmento di assone strutturalmente intatto. Nella pratica clinica si può affermare la presenza di un «blocco di conduzione» quando si registra una significativa riduzione (più del 50%) dell’ampiezza (o dell’area) del potenziale d’azione evocato per stimolazione in
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una sede prossimale rispetto a quello evocato per stimolo distale. Rientrano tra le neuropatie da prevalente danno della guaina mielinica la poliradicoloneuropatia acuta di Guillain-Barré, la poliradicoloneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica, la polineuropatia in corso di mieloma, la forma tipo I di malattia di Charcot-Marie-Tooth, alcuni casi di polineuropatia diabetica e paraneoplastica. Infine, nelle lesioni radicolari il reperto elettroneurografico motorio è scarsamente espressivo: talora si può mettere in evidenza una diminuzione dell’ampiezza del potenziale quando è presente marcata atrofia muscolare. L’elettroneurografia sensitiva può, invece, aiutare nel differenziare una lesione del plesso da una lesione radicolare: infatti, poiché le fibre sensitive degenerano solo per una lesione distale al ganglio, il potenziale è presente e di ampiezza normale, malgrado la perdita di sensibilità, solo quando la lesione è prossimale al ganglio.
Riflesso H Descritto per la prima volta da Hoffmann (1918), è una risposta muscolare tardiva considerata l’equivalente elettrico del riflesso monosinaptico da stiramento. La branca afferente della via riflessa è costituita dalle fibre Ia (afferenti muscolari a bassa soglia provenienti dalle terminazioni anulospirali dei fusi neuromuscolari), quella efferente dagli assoni dei motoneuroni α corrispondenti. La stimolazione elettrica di un nervo misto ad intensità progressivamente crescente attiva inizialmente solo fibre Ia (in quanto a soglia più bassa degli assoni α) con conseguente registrazione della sola risposta riflessa; con l’aumentare dell’intensità, l’ampiezza della risposta H aumenta sino a raggiungere il valore massimo, e compare la risposta M (o diretta), a più breve latenza, per attivazione degli assoni α. Ulteriori aumenti dell’intensità dello stimolo causano riduzione della risposta H sino alla sua scomparsa, mentre la risposta M aumenta sino a raggiungere la sua massima ampiezza. Nella pratica clinica viene soprattutto studiata la risposta H evocata dal muscolo soleo per stimolazione del nervo tibiale posteriore alla fossa poplitea (arco riflesso S1), ma possono essere studiate anche le risposte H evocate da altri muscoli come il quadricipite femorale per stimolazione del nervo femo-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
rale all’inguine (arco riflesso L3-L4) o il muscolo flessore radiale del carpo per stimolazione del nervo mediano al gomito (arco riflesso C6-C7). La latenza della risposta riflette la velocità di conduzione delle fibre sensitive e motorie che intervengono nella via riflessa: in presenza di normale velocità dei tronchi nervosi periferici (determinata con l’elettroneurografia tradizionale) una latenza alterata della risposta H suggerisce un danno prossimale del sistema nervoso periferico. Così, il riflesso H del soleo può essere assente o di latenza aumentata in radicolopatie S1.
Risposta F È una risposta muscolare (Fig. 9.39) di bassa ampiezza, a latenza tardiva, causata dall’attivazione antidromica di un contingente (circa il 5%) di motoneuroni α in seguito ad una stimolazione sovramassimale di un nervo motore. A differenza della risposta H, l’onda F è facilmente evocabile da qualsiasi muscolo distale degli arti. Nella pratica clinica il parametro principale di valutazione è costituito dalla latenza della risposta (misurata dall’arte-
fatto dello stimolo all’inizio della deflessione iniziale, qualunque ne sia la polarità). La latenza dell’onda F è peraltro caratterizzata da una variabilità dell’ordine di qualche msec tra una risposta e l’altra, per cui è necessario eseguire almeno 15-20 stimolazioni per valutare correttamente la latenza minima, espressione della velocità di conduzione delle fibre più rapide. Altri parametri considerati sono la differenza fra latenza massima e minima (indice dell’esistenza di fibre a diversa velocità di conduzione del nervo) e la persistenza della risposta, definita come rapporto tra il numero di risposte evocate e il numero di stimolazioni eseguite. Sono stati descritti anche metodi di calcolo della velocità di conduzione dell’onda F nei segmenti prossimali rispetto a quelli distali. Una latenza alterata della risposta F suggerisce, in presenza di normale velocità dei tronchi nervosi periferici, un danno prossimale del sistema nervoso periferico motorio. Lo studio dell’onda F trova la sua indicazione in patologie radicolari localizzate ed in quadri di interessamento diffuso del sistema nervoso periferico con particolare compromissione dei tratti radicolari (quali, ad esempio, sindrome di Guillain-Barrè, poliradicoloneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica).
Riflesso di ammiccamento («Blink reflex») Per stimolazione elettrica del nervo sovraorbitario (ramo della branca oftalmica del trigemino) si registra, dal muscolo orbicolare dell’occhio, una risposta costituita da due componenti, entrambe riflesse, di origine esterocettiva. La prima componente (R1), di breve latenza e omolaterale al lato stimolato, avrebbe il suo centro nel ponte; la seconda componente (R2), a più lunga latenza, compare da ambo i lati contemporaneamente all’ammiccamento ed avrebbe il suo centro nel bulbo e nel ponte. Lo studio di questo riflesso (in particolare della componente R1) può fornire utili informazioni nelle lesioni del V e del VII nervo cranico (branca efferente del riflesso).
Stimolazione nervosa ripetitiva
Fig. 9.39 - Risposte M e F registrate dalla muscolatura ipotenar di un soggetto normale per stimolazione del nervo ulnare al polso.
Introdotta da Harvey e Marsland (1941), la tecnica della stimolazione nervosa ripetitiva rimane la metodica più diffusamente impiegata per la valutazione della trasmissione neuromuscolare, anche se è meno sensibile dell’EMG della singola fibra. Nella pratica clinica l’indagine viene effettuata con la stimolazione ad in-
Esami diagnostici complementari
tensità sovramassimale delle fibre nervose motorie e registrazione del potenziale d’azione muscolare composto da un muscolo innervato dal nervo stimolato (tipicamente dal muscolo abduttore del V° dito per stimolazione del nervo ulnare). La stimolazione ripetitiva di un nervo comporta due fenomeni opposti a seconda che la frequenza di stimolazione sia bassa (3-5 c/s) o elevata (> 10 c/s). La stimolazione a bassa frequenza comporta deplezione di quanta di acetilcolina (ACh) immediatamente disponibile e conseguente diminuzione dell’ampiezza dei potenziali di placca; la stimolazione ad elevata frequenza determina, nelle terminazioni presinaptiche, aumento dell’accumulo di Ca++ che, in successione, aumenta la mobilizzazione di ACh, la quantità di ACh immediatamente disponibile e, infine, la liberazione di ACh. L’aumentata liberazione di ACh causa aumento dell’ampiezza dei potenziali di placca. Nella miastenia gravis di lieve entità la rapida deplezione di ACh immediatamente disponibile si somma alla riduzione di recettori postsinaptici attivi, per cui la stimolazione a bassa frequenza determina una riduzione dell’ampiezza del potenziale muscolare evocato («risposta decrementale»), particolarmente evidente valutando la 4ª-5ª risposta ottenuta alla frequenza di 3 c/s. In casi di miastenia gravis di lieve entità la stimolazione a frequenza elevata non evidenzia alterazioni poiché l’aumento di liberazione di ACh è in grado di compensare il deficit della trasmissione neuromuscolare. Nei casi più compromessi di miastenia gravis l’aumento di liberazione di ACh non è più sufficiente a compensare il deficit per cui anche la stimolazione a frequenza elevata comporta una risposta decrementale. La risposta decrementale è più evidente e più frequente nella muscolatura prossimale rispetto a quella distale (quest’ultima è, peraltro, più facilmente sottoponibile all’indagine). La risposta decrementale è correggibile con la somministrazione di farmaci anticolinesterasici.
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Nella sindrome di Lambert-Eaton, in cui il difetto di base è una minor liberazione presinaptica di ACh, l’aumento di liberazione di ACh indotto dalla stimolazione ad elevata frequenza aumenta progressivamente l’ampiezza dei potenziali di placca per cui viene attivato un numero crescente di fibre, determinando così un aumento di ampiezza dei potenziali evocati muscolari («risposta incrementale»). Infine, a distinguere l’alterazione postsinaptica della miastenia gravis da quella presinaptica della sindrome di Lambert-Eaton, contribuisce anche il comportamento, a riposo e dopo manovre facilitanti, del potenziale d’azione muscolare composto. In particolare, a differenza della miastenia gravis, nella sindrome di Lambert-Eaton il potenziale d’azione muscolare composto è, a riposo, di ampiezza ridotta mentre presenta un marcato aumento di ampiezza dopo facilitazione [contrazione volontaria per 30" o stimolazione tetanica (50 c/s per 1 sec)].
Potenziali evocati M. Abbruzzese, G. Abbruzzese Il termine potenziali evocati si riferisce a segnali bioelettrici generati all’interno del sistema nervoso in risposta a stimoli sensoriali (visivi, uditivi, somestesici) che causano una depolarizzazione simultanea di specifici raggruppamenti di neuroni (o dei loro assoni). Malgrado la loro bassa ampiezza i potenziali evocati sono registrabili dalla superficie esterna del corpo grazie al fatto che sono «tempo correlati» (time locked) con lo stimolo, cioè l’attivazione della popolazione neuronale avviene sempre dopo un intervallo costante di tempo dallo stimolo stesso. È così possibile sottoporre i segnali elettrici generati da serie di stimoli identici ad un processo di elaborazione elettronica di medie (averaging) che consente di distinguere il potenziale evocato da altre attività elet-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
triche (attività elettroencefalografica non correlata con lo stimolo, attività elettromiografica o attività derivante da interferenze ambientali). La registrazione dei potenziali evocati, oltre a documentare la presenza di lesioni clinicamente dubbie o silenti, di cui spesso suggerisce anche la precisa sede anatomica, è utile in quei soggetti che non sono in grado di collaborare al convenzionale esame neurologico (ad esempio, pazienti anestetizzati o in stato di coma). Nella loro interpretazione va tenuto presente che i potenziali evocati costituiscono un esame funzionale della via esplorata e non forniscono indicazioni eziologiche, non esistendo di fatto alterazioni patognomoniche di una particolare forma morbosa. In questo capitolo vengono descritti, pur presentando caratteristiche peculiari, anche i potenziali evocati motori ottenuti per stimolazione transcutanea della via cortico-spinale.
no fra loro (reversal): il modello più usato è quello di una scacchiera in cui gli elementi bianchi si invertono con quelli neri in successione cadenzata. La stimolazione viene effettuata ad occhi aperti, un occhio per volta; si può stimolare l’intera retina o un’emiretina. La normale morfologia di un PEV da stimolazione «pattern-reversal» mono-oculare a pieno campo consiste (Fig. 9.40, 1) nella successione di tre onde o componenti, denominate in base alla loro polarità (negativa o positiva) e latenza media nella popolazione sana: la prima componente è negativa, di bassa ampiezza, con latenza media di 75 msec (N75), la seconda è positiva, ampia, con latenza media di 100 msec (P100), l’ultima, negativa, ha una latenza media di 145 msec (N145). Quando lo stimolo è presentato in un emicampo la componente P100 diffon-
Potenziali evocati visivi (PEV) I potenziali evocati visivi consistono nella registrazione dalla regione occipitale di risposte della corteccia visiva a stimoli che provocano o variazioni di luminanza («PEV da flash») o variazioni di contrasto («PEV da pattern») a livello retinico. I potenziali da flash (generati da una lampada stroboscopica) hanno una morfologia costituita da una serie di oscillazioni negative-positive seguita da un’oscillazione ritmica sinusoidale, denominata scarica postuma. Il loro impiego è notevolmente limitato da una marcata variabilità interindividuale e da una relativa insensibilità alle lesioni per cui di fatto sono utilizzati solo nei bambini (malattie da accumulo), in pazienti scarsamente collaboranti o affetti da cataratta. Nella pratica clinica la stimolazione più comunemente impiegata è quella «pattern reversal», in cui gli elementi di un modello (pattern), prodotto da uno schermo televisivo, si inverto-
Fig. 9.40 - Potenziali visivi evocati da stimolazione «pattern reversal» (256 replicazioni), registrati in derivazioni occipite-vertice. In 1 soggetto normale, in 2 soggetto con alterazione unilaterale per aumento della latenza della componente P100 a sinistra, in 3 soggetto con aumento bilaterale della latenza della stessa componente (OD = occhio destro; OS = occhio sinistro).
Esami diagnostici complementari
de ipsilateralmente al campo stimolato; questa diffusione è dovuta al fatto che la regione attiva della corteccia gira attorno al polo occipitale sconfinando nella superficie mediale dell’emisfero. L’interpretazione clinica dei PEV da patternreversal è basata soprattutto sul valore della latenza della componente P100 (sia in assoluto che come differenza interoculare). Il valore dell’ampiezza della stessa componente ha minor importanza, anche se differenze interoculari superiori al 50% sono ritenute significative. A causa della decussazione chiasmatica delle fibre a partenza dall’emiretina nasale, un aumento unilaterale (Fig. 9.40, 2) della latenza della componente P100 del PEV, ottenuto per stimolazione mono-oculare a pieno campo, depone per una patologia del nervo ottico ipsilaterale. Un ritardo bilaterale (Fig. 9.40, 3) della componente P100 del PEV, ottenuto sempre per stimolazione mono-oculare a pieno campo, può essere dovuto ad una sofferenza bilaterale del nervo ottico, del chiasma o delle vie retrochiasmatiche. Nel caso di lesioni emisferiche unilaterali la latenza della componente P100 del PEV, ottenuto per stimolazione a pieno campo, non si altera grazie al contributo dell’emicampo indenne. In pazienti con compressione del chiasma ottico da parte di una massa soprasellare (adenoma pituitario, craniofaringioma) il PEV registrato dalla regione occipitale mediana è in genere normale ma la registrazione dalle regioni occipitali laterali mostra un’asimmetria crociata caratteristica dell’emianopsia bitemporale e opposta all’asimmetria non crociata osservabile nella popolazione normale; in questi casi la presentazione dello stimolo in singoli emicampi temporali evoca di solito risposte alterate se non assenti. In pazienti con deficit campimetrico omonimo da lesione retrochiasmatica la stimolazione a pieno campo mostra una asimmetria non crociata sovrapponibile a quella dei soggetti normali, per cui solo se si effettua una stimolazione per singoli emicampi si possono registrare
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risposte patologiche, soprattutto in presenza di emianopsia con interessamento maculare. In ogni caso la campimetria visiva convenzionale risulta più sensibile. L’utilità clinica della registrazione dei PEV consiste soprattutto nella possibilità di documentare l’esistenza di una patologia in atto o pregressa del nervo ottico, anche in assenza di alterazioni neuroftalmologiche. Di fatto i PEV sono alterati in quasi il 100% dei pazienti con una storia certa di neurite ottica, ma soprattutto sono così sensibili da evidenziare con notevole frequenza lesioni asintomatiche e non altrimenti documentabili del nervo ottico. Così il 70-80% di pazienti con sclerosi multipla definita, ma senza storia di disturbi visivi presentano alterazioni dei PEV. Un reperto patologico dei PEV in pazienti con accertata lesione in altra sede del SNC suffraga la diagnosi di sclerosi multipla. Oltre che nella patologia demielinizzante i PEV possono risultare alterati in diverse altre condizioni: patologie oculari (glaucoma, retinopatie, opacità dei mezzi diottrici), lesioni compressive intrinseche (tumori del nervo ottico) ed estrinseche (gliomi a farfalla della porzione posteriore del corpo calloso), neuropatie ottiche tossiche e carenziali, atrofia ottica di Leber, malattie diffuse del SNC (malattia di Parkinson, degenerazione spino-cerebellare, adreno-leucodistrofia).
Potenziali evocati acustici (PEA) Un improvviso stimolo acustico («click») della durata di 100 µs, in somministrazione monoauricolare alla frequenza di 10-30 c/s, con intensità pari a 70 dB sopra la soglia uditiva, permette la registrazione, da elettrodi posti al vertice della teca cranica, di una risposta costituita da una successione di diverse componenti distinte in precoci, medie e tardive. Le componenti precoci si verificano nei primi 10 msec dallo stimolo e sono dovute all’attivazione di
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
strutture acustiche troncoencefaliche. Le componenti medie, con latenza compresa tra i 10 e 60 msec, in parte hanno origine miogena e in parte sono dovute all’attivazione del talamo e della corteccia acustica; lo studio di queste componenti ha importanza solo nella valutazione della funzione audiologica. Infine le componenti tardive, con una latenza superiore a 50 msec, sono l’espressione dell’attivazione diffusa della corteccia frontale e risentono particolarmente di fattori quali attenzione, concentrazione, sonnolenza e somministrazione di farmaci; la loro maggior applicazione è di nuovo in campo audiologico tranne per la componente P300 utilizzata nella valutazione della funzione cognitiva. Nella pratica clinica neurologica si fa pressoché esclusivo riferimento alle componenti precoci che costituiscono nel loro complesso il potenziale evocato acustico troncoencefalico. Il PEA troncoencefalico (Fig. 9.41) è costituito dalla successione di sette onde designate con i numeri romani da I a VII, di ampiezza inferiore a 1 µV, generate dall’attivazione in sequenza di strutture troncoencefaliche delle vie uditive ipsilaterali all’orecchio stimolato. In particolare l’onda I è generata nella porzione distale dell’VIII nervo cranico, l’onda II nelle por-
Fig. 9.41 - Potenziale acustico evocato in un soggetto normale per stimolazione monoauricolare registrato in derivazione vertice-padiglione auricolare (1024 replicazioni). Sono indicate con i riferimenti usuali le diverse componenti della risposta (vedi testo).
zioni distali ed intrassiali dello stesso nervo con probabile contributo del nucleo cocleare, l’onda III nel ponte inferiore, tra il nucleo cocleare ed il complesso olivare superiore, soprattutto nelle fibre decussanti del corpo trapezoide, mentre i generatori dell’onda IV e dell’onda V (spesso costituenti un unico complesso) sono situati rispettivamente nel ponte superiore (lemnisco laterale e suo nucleo) e nel collicolo inferiore. Le onde VI e VII sono registrate con minor frequenza e l’identificazione dei loro generatori è più incerta: l’onda VI originerebbe nel corpo genicolato mediale, la VII nelle radiazioni temporali. Nell’interpretazione clinica del PEA troncoencefalico si fa solitamente riferimento alle componenti I, III e V per la loro maggior stabilità nel soggetto normale e per la più certa identificazione topografica dei loro generatori. In particolare si valuta la differenza di latenza tra queste onde ed i rapporti fra le loro ampiezze (soprattutto tra la I e la V onda), poiché i valori assoluti di latenza e di ampiezza presentano fisiologicamente una notevole variabilità. Così un aumento della differenza di latenza tra la I e la III onda indica un’alterazione tra la porzione prossimale dell’VIII nervo cranico e la porzione caudale del ponte, mentre un aumento della differenza di latenza tra la III e la V onda indica un’alterazione tra la porzione rostrale del ponte ed il mesencefalo. In generale, la lesione di una delle strutture troncoencefaliche coinvolte nella via uditiva si manifesta con una diminuzione di ampiezza o un aumento di latenza dell’onda corrispondente (o con entrambe le alterazioni), oppure con l’assenza o riduzione di ampiezza delle onde successive. Benché i PEA del troncoencefalo risultino alterati in un discreto numero di condizioni morbose il loro principale impiego diagnostico consiste nella possibilità di confermare la presenza di lesioni in pazienti con sclerosi multipla sospetta, e di contribuire all’identificazione di neoplasie dell’VIII nervo cranico o del troncoencefalo.
Esami diagnostici complementari
Alterazioni dei PEA troncoencefalici sono presenti in circa il 50% di pazienti con sclerosi multipla definita e, aspetto più importante, in circa il 20% dei pazienti con sclerosi multipla possibile o probabile anche in assenza di segni o sintomi clinici riferibili al troncoencefalo. In questi casi le alterazioni consistono in genere nell’assenza o nella riduzione di ampiezza di alcune componenti (soprattutto la IV e la V onda) oppure nell’aumento della differenza di latenza tra I e III onda. La distinzione tra sordità cocleare e quella da lesione dell’VIII nervo cranico (associata in genere a risparmio dell’onda I) è importante nel contesto dei tumori dell’angolo ponto-cerebellare soprattutto nel caso di piccoli neurinomi dell’acustico. L’incidenza di alterazioni del PEA troncoencefalico in casi di neurinomi dell’acustico è stimata intorno al 95%: le alterazioni consistono o nell’aumento della differenza di latenza tra la I e la III onda, o nella conservazione dell’onda I con distorsione o perdita delle componenti successive o nell’assenza di tutte le componenti. Alterazioni del PEA troncoencefalico possono essere presenti anche in pazienti con patologia demielinizzante non focale del SNC (leucodistrofia e adreno-leucodistrofia). Infine l’impiego dei PEA troncoencefalici è utile nel differenziare i comi da cause tossiche e metaboliche da quelli dovuti a danno troncoencefalico bulbopontino, e nella diagnosi di «morte cerebrale».
Potenziali evocati somatosensoriali (PES) I potenziali evocati somatosensoriali consistono nelle risposte evocate dalla stimolazione sia di nervi periferici che delle terminazioni meccaniche o termodolorifiche. Nella pratica clinica si fa solitamente riferimento alle componenti con latenza inferiore a 50 msec, ottenute per stimolazione elettrica (onda quadra della du-
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rata di 0,1-0,2 msec) di nervi periferici (misti o sensitivi). I nervi più comunemente stimolati sono il nervo mediano (al polso) ed il nervo tibiale posteriore (alla caviglia). Elettrodi posti lungo la colonna e sulla teca cranica permettono la registrazione di onde che riflettono l’attivazione in successione di strutture nervose della via afferente colonne dorsali-lemnisco mediale. La morfologia delle risposte ed il significato delle loro componenti (denominate in base alla loro polarità, negativa o positiva, e latenza media nella popolazione sana) variano in funzione della diversa localizzazione degli elettrodi registranti: ciò vale soprattutto per le risposte cervicale e corticale, ottenute per stimolazione di un tronco nervoso all’arto superiore. La Fig. 9.42 mostra la morfologia normale delle risposte evocate per stimolazione del nervo mediano al polso e registrate alle consuete sedi. Un elettrodo posto all’angolo interno della fossa sopraclavicolare (punto di Erb) registra la scarica afferente di impulsi nel passaggio attraverso il plesso brachiale. La risposta cervicale (registrata da un elettrodo posto in corrispondenza dell’apofisi spinosa della V vertebra cervicale) è costituita da tre componenti negative che esprimerebbero rispettivamente l’attivazione del plesso brachiale (N9), dei cordoni posteriori (N11) e, se la registrazione è effettuata con referenza non cefalica, dei neuroni delle corna posteriori del midollo (N13). Quest’ultimo potenziale può essere registrato con opposta polarità (P13) nelle rilevazioni antero-cervicali, dimostrando così l’esistenza di un campo elettrico disposto in senso antero-posteriore. La risposta corticale, registrata dalla teca cranica controlateralmente allo stimolo con referenza non cefalica, è inizialmente caratterizzata dalla presenza di una serie di componenti che riflettono l’attivazione di strutture sottocorticali: tra queste vanno segnalate la componente P14 (generata nella regione cervico-bulbare, probabilmente dalla porzione caudale del lemnisco mediale) e la componente P18 (a origine preta-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.42 - Potenziali somestesici evocati in un soggetto normale da stimolazione del nervo mediano al polso (512 replicazioni) e registrati con elettrodi attivi posti al punto di Erb (1), tra la V° e la VI° vertebra cervicale (2), sulla teca cranica in corrispondenza delle aree corticali post-centrale (3) e pre-centrale (4) dell’emisfero controlaterale al nervo stimolato (referenza non-cefalica). Sono indicate con i riferimenti usuali le principali componenti delle risposte (vedi testo).
lamica, verosimilmente dal collicolo superiore, ma con possibile contributo anche dai nuclei talamici). Le successive componenti sono descritte come complesso N20-P27-N35 se registrate dalla regione parietale postrolandica o come complesso P22-N30 se registrate dalla regione frontale prerolandica. Sulla base di dati clinici e sperimentali si ritiene che la popolazione neuronale generatrice
della componente postrolandica N20 sia situata a livello del labbro posteriore della scissura rolandica mentre la componente prerolandica P22 sarebbe espressione dell’attivazione di popolazioni neuronali site nell’area 4 della corteccia frontale ascendente. Nell’applicazione clinica un aumento di latenza del potenziale registrato al punto di Erb o della componente N9 della risposta cervicale indica una patologia esclusivamente periferica, un aumento dell’intervallo N9-N13 suggerisce una patologia radicolo-midollare, mentre la differenza di latenza tra le componenti N20 e N13 rappresenta una valida misura del tempo di conduzione del tratto centrale della via lemniscale. Il valore dell’ampiezza delle varie componenti è caratterizzato da una grande variabilità, sia intra- che interindividuale, che ne limita notevolmente l’applicabilità clinica. I PES da stimolazione del nervo tibiale posteriore sono per molti aspetti analoghi ai PES da stimolazione del nervo mediano. Nelle risposte registrate da elettrodi posti lungo il rachide lombare sono evidenziabili due componenti di polarità negativa di cui la prima è prodotta dalla scarica afferente prima nelle radici e poi nel fascio gracile mentre la seconda (N22 per stimolazione alla caviglia) è l’espressione dell’attivazione dei neuroni delle corna posteriori. L’arrivo in corteccia della scarica afferente corrisponde ad un’onda positiva (P38) mentre le componenti ad origine sottocorticale sono difficilmente registrabili. Anche per il PES da stimolazione all’arto inferiore il principale parametro clinico è il valore di latenza, sia quello assoluto delle componenti N22 e P38, che quello dell’intervallo N22-P38, che permette di valutare la conduzione del tratto centrale delle via lemniscale. La lunghezza della via esplorata e la possibilità di stimolare e registrare da diverse sedi di quest’ultima, spiegano come i PES risultino alterati in numerosi e differenti quadri morbosi. Il 90% di pazienti con sclerosi multipla definita presentano infatti alterazioni dei PES da
Esami diagnostici complementari
stimolazione all’arto superiore (50%) o a quello inferiore (70%), ma, cosa più importante, alterazioni dei PES sono riscontrabili anche in una discreta percentuale di pazienti con sclerosi multipla senza segni o sintomi clinici di interessamento della via somestesica. Oltre che nella sclerosi multipla, i PES sono alterati in altre affezioni che colpiscono la mielina (malattia di Pelizeus-Merzbacher, leucodistrofia metacromatica, adreno-leucodistrofia, adreno-mieloneuropatia) o che comportano una diffusa degenerazione assonale delle fibre afferenti di grande diametro (atassia di Friedreich, sclerosi combinata subacuta, deficit di vitamina E o di vitamina B12). Lesioni diffuse o focali (danni radicolari o plessuali traumatici) del sistema nervoso periferico, del midollo (spondilosi cervicale), o lesioni vascolari troncoencefaliche, talamiche ed encefaliche (inclusa la demenza multinfartuale) possono associarsi ad alterazioni dei PES. Infine i PES risultano notevolmente aumentati di ampiezza, senza variazioni di latenza, in pazienti con mioclonoepilessia familiare, epilessia fotosensibile ed in casi di ceroido-lipofuscinosi tardiva infantile. I PES, al pari dei PEA troncoencefalici, possono venire impiegati nella diagnosi di «morte cerebrale».
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In entrambi i casi, l’attivazione transcranica delle vie motorie discendenti evoca risposte muscolari a breve latenza («potenziali evocati motori»), il cui comportamento suggerisce la trasmissione attraverso una via oligosinaptica ad elevata velocità di conduzione (diffusamente distribuita alla muscolatura craniale, degli arti e del tronco), identificata nella via cortico-spinale. Sulla base dei dati sperimentali attualmente disponibili si ipotizza che, ad intensità sogliare, la stimolazione magnetica attivi indirettamente, per via transinaptica, le cellule corticali, mentre la stimolazione elettrica attiverebbe direttamente gli assoni in prossimità della corteccia (l’incremento dell’intensità determina, in entrambi i casi, lo spostamento in profondità della sede di attivazione). La metodica di stimolazione magnetica è quella comunemente utilizzata nella pratica clinica per la maggior rapidità di esecuzione dell’indagine e, soprattutto, per l’assenza di sensazioni nocicettive legate alla stimolazione. I PEM possono essere registrati elettromiograficamente, tramite elettrodi di superficie, da tutti i muscoli scheletrici (Fig. 9.43) e risultano influenzati dagli effetti di una lieve contrazione volontaria che riduce la soglia di attiva-
Potenziali evocati motori (PEM) L’introduzione delle metodiche di stimolazione transcranica della corteccia motoria ha reso possibile lo studio funzionale del sistema cortico-spinale nell’uomo. Due diversi tipi di stimolazione possono essere utilizzati per attivare con modalità non-invasive le vie motorie a livello cerebrale e spinale: 1) stimolatori elettrici in grado di erogare singoli impulsi di breve durata (50-100 µs) ed elevato voltaggio (fino a 1500 Volt), 2) stimolatori magnetici che sfruttano le correnti indotte da campi magnetici transitori (fino a 2 Tesla).
Fig. 9.43 - Potenziali motori evocati in un soggetto normale da stimolazione magnetica delle regioni vertebrali (1) e transcranica (2) e registrati elettromiograficamente dai muscoli opponente del pollice (A) e tibiale anteriore (B). La differenza tra la latenza delle risposte evocate da stimolazione corticale e radicolare costituisce il cosiddetto «tempo di conduzione centrale motoria» (TCCM).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
zione, accorcia la latenza, aumenta l’ampiezza. Analoghe risposte motorie (con latenza minore) possono essere evocate dalla stimolazione delle regioni vertebrali (cervicale e lombare rispettivamente), in conseguenza dell’attivazione delle radici spinali anteriori in prossimità della loro fuoriuscita dal canale vertebrale (Fig. 9.43). La differenza tra la latenza delle risposte evocate nello stesso muscolo dalla stimolazione corticale e radicolare rappresenta una stima indiretta ed approssimata del tempo necessario per la conduzione degli impulsi dalla corteccia motoria ai motoneuroni spinali (c.d. «tempo di conduzione centrale motoria») e costituisce il parametro maggiormente utilizzato nella pratica clinica. Le principali alterazioni dei PEM sono rappresentate da: assenza delle risposte alla stimolazione corticale, aumento della latenza (e durata) delle risposte, aumento del tempo di conduzione centrale motoria. Tali alterazioni riflettono principalmente il rallentamento od il blocco di conduzione delle fibre cortico-spinali di maggior diametro (secondari a demielinizzazione o a degenerazione assonale), ma ad esse possono contribuire la riduzione del numero di assoni e la dispersione temporale degli impulsi discendenti. L’aumento o la riduzione dell’intensità di stimolazione necessaria per evocare le risposte, dipendono dalle modificazioni dell’eccitabilità corticale o spinale. La registrazione dei PEM consente di documentare un’alterazione funzionale (anche subclinica) delle vie motorie centrali in numerose patologie neurologiche. La compromissione della conduzione centrale è stata documentata nella sclerosi multipla (ove i PEM costituiscono il test neurofisiologico più sensibile nell’identificazione di alterazioni subcliniche), nella sclerosi laterale amiotrofica, nelle mielopatie (spondilogenetiche, traumatiche, attiniche), nelle lesioni cerebro-vascolari (ove la registrazione dei PEM può fornire indicazioni prognostiche) ed in alcuni casi di neuropatie ereditarie (neuropatie ereditarie sensitivo-motorie tipo I e
II) e di neuropatie croniche demielinizzanti. Le alterazioni dei PEM sono generalmente associate alla presenza di segni o sintomi clinici caratteristici della sindrome del neurone motore superiore, ma non risultano specificamente correlate con alcuno di questi (ipostenia, ipertonia, iperreflessia, fenomeno di Babinski). La registrazione delle risposte evocate dalla stimolazione (elettrica o magnetica) delle regioni spinali può documentare un ritardo della conduzione periferica in varie patologie (malattia dei motoneuroni, lesioni plessuali, radicolopatie e neuropatie periferiche).
4. Diagnostica cerebrovascolare non invasiva ultrasonografica M. Del Sette La diagnostica vascolare non invasiva comprende metodiche di studio velocimetrico e tecniche ecografiche. Le prime utilizzano il cosiddetto «effetto Doppler», che consiste nella variazione della frequenza di un fascio di onde ultrasonore quando viene riflesso da un corpo in movimento, e che nella diagnostica cerebrovascolare è finalizzato al riconoscimento di modificazioni del calibro di un vaso. L’ecografia consente invece la rappresentazione in immagine delle pareti vasali. Tecniche velocimetriche. – La velocimetria doppler si avvale dell’uso di sonde (trasduttori) a emissione continua o pulsata di ultrasuoni, con frequenza di emissione variabile da 2 a 8 Mega Hertz (MHz). L’onda riflessa è caratterizzata da una frequenza di picco sistolico, una frequenza diastolica e una frequenza media. La frequenza dell’onda riflessa varia secondo la funzione: 2 v f cos α ΔF = ——————— c dove ΔF rappresenta la variazione della frequenza tra il fascio incidente e il fascio riflesso, v è la velocità del flusso ematico, f il valore medio della frequenza di emissio-
Esami diagnostici complementari ne, α è l’angolo di incidenza del fascio ultrasonoro, e c la velocità degli ultrasuoni nel tessuto. Nell’effettuazione dell’esame Doppler è importante che l’angolo di incidenza del fascio ultrasonoro sia mantenuto tra 30° e 60°, ma non oltre. Ne consegue che, conoscendo la variazione di frequenza del fascio ultrasonoro si può risalire alla velocità di scorrimento degli elementi corpuscolati del sangue. La variazione del flusso nel tempo, in relazione al ciclo cardiaco, viene indicata come curva di flusso. Di tale curva vengono considerati i seguenti parametri: velocità sistolica, velocità diastolica e velocità media. In un fluido ideale, con flusso laminare e viscosità costante, la velocità di scorrimento è direttamente proporzionale alla portata, e inversamente proporzionale alla sezione del vaso. In presenza di una riduzione del calibro vasale quindi, con angolo di incidenza del fascio ultrasonoro costante, la velocità del sangue all’interno del vaso aumenta. Esiste una correlazione attendibile e validata tra entità dell’incremento velocimetrico (accelerazione) ed entità della stenosi vasale nel punto di rilevazione del segnale Doppler. A valle della stenosi si registrerà invece una riduzione delle velocità sistoliche, diastoliche e medie, dovuta a una globale riduzione del flusso post-stenotico. Conseguentemente, in presenza di aumento della resistenza al flusso, con registrazione effettuata a monte della stenosi, si avrà una riduzione delle sole velocità diastoliche. L’entità della stenosi rilevata viene espressa come riduzione percentuale del lume vasale, oppure con termini descrittivi corrispondenti a intervalli di stenosi, di grado lieve (10-29%), moderato (3069%), elevato (70-99%); con il termine «stenosi serrata» si intendono usualmente stenosi di grado maggiore o uguale al 90%. L’occlusione completa del vaso comporta l’assenza di segnale velocimetrico in corrispondenza del vaso occluso, e la presenza di flusso a elevate resistenze (cioè a bassa componente diastolica) nel tratto del vaso a monte dell’occlusione. L’introduzione delle cosiddette tecniche di analisi spettrale rappresenta una evoluzione ulteriore della velocimetria doppler. La velocità di scorrimento del sangue all’interno di un vaso non è omogenea, poichè nella periferia il sangue scorre più lentamente che nella zona centrale del vaso stesso. L’analisi spettrale consente la rilevazione della distribuzione delle velocità di differenti «lamine» di flusso. Ne deriva un «profilo di flusso», che è funzione del regime di flusso (laminare o turbolento) nel vaso, e che risulta alterato in caso di modificazioni della parete con turbolenze di flusso. La velocimetria doppler viene oggi utilizzata soprattutto per lo studio del circolo intracranico, mentre lo studio dei tronchi sopraaortici si avvale della combinazione della velocimetria con tecniche ecografiche. Tecniche ecografiche. L’ecografia si basa sul principio per cui un fascio di onde ultrasonore, prodotto dal
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trasduttore posto sulla superficie corporea, attraversa il mezzo biologico e viene riflesso in modo diverso a seconda dell’impedenza, cioè della resistenza, dei tessuti che il fascio attraversa. Le sedi di variazione di impedenza, ovvero le interfacce, sono quindi gli obiettivi della ricerca ecografica. Gli echi ultrasonori riflessi vengono analizzati per dare origine a immagini digitali. Nel caso dell’ecografia vascolare, l’immagine che interessa è quella delle pareti del vaso esplorato, in particolare della superficie interna del vaso stesso, possibile sede di alterazioni aterosclerotiche. La combinazione delle tecniche ecografiche con la velocimetria doppler (rilevata nel punto del vaso visualizzato all’ecografia) costituisce l’esame duplex, che consente una più precisa caratterizzazione dell’entità e delle caratteristiche della stenosi vasale, in quanto fornisce sia le caratteristiche della parete del vaso sia le modifiche che l’eventuale alterazione di parete comporta sulle velocità di flusso (Fig. 9.44). Il color doppler rientra nelle cosiddette tecniche di «angiografia Doppler», e permette, attraverso una codifica digitale dei valori numerici delle velocità, un rappresentazione in scala colorimetrica dei valori di velocità di un determinato punto del lume vasale, le cui pareti sono nel contempo visualizzate dall’ecografia. In pratica si tratta di un’immagine B-mode (ecografica) cui viene sovrapposta un’immagine a colori, rappresentazione in scala arbitrariamente codificata delle velocità di flusso, dove i flussi in avvicinamento alla sonda sono usualmente indicati in rosso e quelli in allontanamento in blu. Ne risulta un’immagine cromatica in cui sono evidenziabili
Fig. 9.44 - Esame Duplex di arteria carotide interna sinistra: in alto si visualizzano ecograficamente le pareti del vaso, con all’interno il relativo profilo di flusso, rappresentato in scala colorimetrica;in basso sono rappresentate le velocità di flusso nel punto in cui è posizionato il cursore.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
il lume, la parete vasale, la direzione del flusso: è così possibile l’analisi di accelerazioni e turbolenze di flusso, in rapporto con eventuali irregolarità della superficie vasale. Il power doppler è una tecnica che registra, anziché le modificazioni della velocità del segnale, quelle della ampiezza dello stesso; è una tecnica importante per rilevare i flussi lenti, e pertanto sensibile nel differenziare con accuratezza le occlusioni complete di un vaso dalle stenosi serrate con basso flusso residuo, e per rilevare i flussi venosi ed i vasi di difficile visualizzazione come le arterie vertebrali nel loro decorso inter-trasversario (Fig. 9.45). Il doppler transcranico è una tecnica ideata e descritta inizialmente nel 1982 da Ruune Aaslid e coll. (Aaslid et al., 1982), che consente, attraverso l’uso di sonde pulsate a bassa frequenza (1-2 MHz) e alta energia, l’esplorazione non invasiva delle principali arterie intracraniche attraverso forami cranici naturali, o zone della teca cranica a parete ossea sottile, dette «finestre ossee». È infatti possibile esplorare attraverso la cosiddetta «finestra temporale» (situata anteriormente al meato acustico esterno, al di sopra dell’arcata zigomatica), le arterie cerebrali medie, cerebrali anteriori, cerebrali posteriori e l’ultimo tratto del sifone carotideo. Attraverso la «finestra transorbitaria» (con la sonda posizionata sul globo oculare) è possibile l’esplorazione delle arterie oftalmiche e del sifone carotideo. Infine, attraverso la «finestra transoccipitale» (al di sotto della protuberanza occipitale esterna), si possono esplorare le arterie vertebrali nel loro ultimo tratto e il tronco basilare. Di ogni vaso identificato viene registrata la curva di flusso velocimetrica, e valutata la direzione del flusso, la
Fig. 9.45 - Esame Power-Doppler dell’arteria vertebrale sinistra, dove si apprezza la presenza del vaso arterioso (colore blu in questa scansione) e delle due vene vertebrali (segnale rosso).
velocità media, e anche parametri indiretti quali l’indice di pulsatilità (rapporto tra la differenza fra velocità sistolica e velocità diastolica, e la velocità media) (Fig. 9.46).
Fig 9.46 - Esame Doppler transcranico: a 55 mm di profondità (Depht) è stato reperito un segnale velocimetrico diretto verso la sonda con velocità media di 33 cm/sec (Mean) e indice di pulsatilità di 1.06 (P.I.). Tale segnale corrisponde all’arteria cerebrale media
Conviene ricordare che in una percentuale di soggetti variabile tra il 5 % e il 15% (specie anziani e donne) non è possibile effettuare la registrazione attraverso la finestra ossea temporale. Recenti tecniche di ecografia con color doppler e power-doppler transcranico consentono una migliore identificazione ecografica del vaso da cui proviene il segnale velocimetrico (Fig. 9.47). (Schoning et al., 1993).
Fig. 9.47 - Esame Power-Doppler transcranico, con evidenza dell’arteria cerebrale media destra.
Esami diagnostici complementari
Le tecniche velocimetriche ed ecografiche offrono la possibilità di uno studio non invasivo dei principali vasi sopraaortici e intracranici, di rilevante importanza nello studio dei meccanismi eziopatogenetici di episodi cerebrovascolari ischemici, o dei fattori di rischio in soggetti asintomatici. Il Doppler transcranico inoltre riveste una specifica utilità nella diagnostica delle malformazioni vascolari intracraniche, nel riconoscimento precoce delle complicanze dell’emorragia subaracnoidea, nel monitoraggio intraoperatorio in corso di interventi neurochirurgici, e nella diagnosi di shunt destro-sinistro da difetti del setto interatriale cardiaco. ESAME DEI TRONCHI SOPRA-AORTICI La velocimetria Doppler consente di esplorare le arterie carotidi comuni, carotidi interne ed esterne, le arterie succlavie, e, in parte, le arterie vertebrali. Di tali vasi è possibile individuare con affidabilità stenosi di grado superiore al 50% del lume. In presenza di stenosi di grado elevato o occlusioni della arteria carotide interna, si può documentare l’inversione della direzione del flusso della arteria epitrocleare (registrata sull’angolo supero-interno dell’orbita), che riceve sangue, anziché dalla carotide interna ostruita, dai rami anastomotici provenienti della carotide esterna diretti, per via retrograda, verso l’arteria oftalmica. L’esame duplex dei tronchi sopraaortici, associando l’informazione ecografica a quella velocimetrica, consente di identificare anche lesioni minori della parete vasale che sfuggono alle tecniche doppler quando non modificano i parametri velocimetrici. Lo studio ecografico è inoltre in grado di precisare le caratteristiche delle alterazioni parietali: le principali patologie della parete arteriosa diagnosticabili ecograficamente sono: 1) ispessimenti parietali o medio-intimali: l’insieme della tonaca media ed intima è facilmente misurabile con l’ecografia, e nel soggetto sano è inferiore ad 1 mm; un aumento di tale
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spessore è il segno iniziale delle alterazioni che conducono allo sviluppo di placche aterosclerotiche, e viene considerato un fattore di rischio per malattia cardio-e cerebrovascolare (Rothwell, 2000) 2) placche ateromatose: si tratta di strutture che alterano il decorso parallelo delle pareti vasali, di spessore superiore a 1.3 mm, e di struttura varia. Classicamente, la placca aterosclerotica viene definita all’ecografia in base alle seguenti caratteristiche: a) superficie: liscia, irregolare o ulcerata, b) struttura: omogenea o eterogenea, c) ecogenicità: ipoecogena, isoecogena, iperecogena. Le placche ipoecogene hanno contenuto prevalentemente fibro-lipidico, mentre quelle iperecogene hanno elevato contenuto di sali di calcio. Le placche ipoecogene, a superficie irregolare e soprattutto le placche ulcerate sono considerate “placche a rischio”, in quanto maggiormente associate ad eventi cerebrovascolari causati dalla loro frammentazione o dalla adesione di piastrine sulla loro superficie, con successiva migrazione distale (Hennerici et al., 1985). 3) dissezioni della parete arteriosa: il cosiddetto aneurisma dissecante consiste nella lacerazione intimale, con formazione di un “falso lume” tra tonaca intima e tonaca media; ne consegue un restringimento del lume vero del vaso, aggravato dalla possibilità di eventi tromboembolici a partenza dalla rottura dell’intima. La diagnosi di stenosi dei vasi sopraaortici è di rilevante importanza nel programmare strategie di prevenzione medica o chirurgica della malattia cerebrovascolare ischemica. Pazienti che hanno presentato un episodio cerebrovascolare ischemico transitorio o con minimo deficit residuo possono beneficiare di una endoarteriectomia carotidea in presenza di stenosi della carotide interna di grado superiore al 50%. La diagnosi non invasiva di stenosi della arteria carotide o dell’asse succlavio-vertebrale consente di identificare i soggetti in cui può essere
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
indicata l’effettuazione di un intervento di endoarteriectomia carotidea. La sensibilità, la specificità e l’accuratezza complessiva dell’esame duplex rispetto alla angiografia tradizionale sono particolarmente elevate nella diagnosi di alterazioni minori di parete, delle stenosi carotidee e dell’occlusione carotidea (Sitzer et al., 1993). DOPPLER TRANSCRANICO ED ECODOPPLER TRANSCRANICO
La velocimetria doppler transcranica, per le sue caratteristiche non invasive, ha assunto sempre maggiore importanza in questi ultimi anni. Oltre alla informazione velocimetrica, la metodica si è recentemente arricchita grazie all’avvento di tecniche ecografiche, con possibilità di visualizzare i vasi del poligono di Willis. Infine l’uso di “agenti ecoamplificatori”, che consentono di ottenere un più efficiente segnale eco-Doppler attraverso la teca cranica, ha permesso di superare il problema dei soggetti con insufficiente finestra ossea, in cui l’esame non poteva essere in passato effettuato. Le indicazioni attualmente validate del Doppler e dell’ecoDoppler transcranico sono (Caplan et al., 1990): 1) lo studio degli effetti emodinamici a livello intracranico di una stenosi carotidea al collo o di una stenosi succlavio-vertebrale; 2) il riconoscimento di stenosi o occlusione della arteria cerebrale media. A questo proposito la sensibilità del doppler transcranico è del 92%, la specificità del 99% e il valore predittivo dell’ 89%, mentre l’affidabilità nella diagnosi di stenosi dell’asse vertebro-basilare, della cerebrale anteriore o posteriore è minore (Hennerici et al., 1987, Rorick et al., 1994). Tale applicazione del doppler transcranico può essere importante nella diagnostica dell’ictus ischemico nella fase acuta, per identificare la presenza di steno-occlusioni intracraniche a breve distanza dall’esordio del deficit clinico, e seguirne l’evoluzione nel tempo, anche in relazione a eventuali trattamenti di fase acuta. È stato infatti recen-
temente dimostrato che, a parità di deficit neurologico clinicamente valutato, i soggetti con occlusioni della cerebrale media nella fase acuta dell’ictus ischemico hanno prognosi peggiore rispetto a quelli con asse vascolare pervio (Baracchini et al., 2001); 3) diagnosi e monitoraggio del vasospasmo conseguente a emorragia subaracnoidea. Il vasospasmo, complicanza che può essere causa di lesioni cerebrovascolari ischemiche, viene rivelato dal marcato incremento della velocità media sui principali vasi intracranici, e compare tra il 4° e l’8° giorno dall’emorragia subaracnoidea, con normalizzazione verso la 3ª4ª settimana; 4) identificazioni di malformazioni arterovenose di medie e grosse dimensioni; 5) monitoraggio in corso di interventi chirurgici con by-pass cardio-polmonare e di endoarteriectomia carotidea. In particolare, l’utilizzo di tecniche di monitoraggio transcranico durante gli interventi di endoarteriectomia carotidea consente di evidenziare riduzioni delle velocità di flusso nell’arteria cerebrale media conseguenti al clampaggio della carotide omolaterale, suggerendo provvedimenti chirurgici che hanno consentito di ridurre significativamente la morbilità di tale intervento; 6) diagnosi di shunt destro-sinistro cardiaco, usualmente dovuto alla presenza di pervietà del forame ovale a livello cardiaco. Tale condizione, presente nel 20% circa della popolazione normale e nel 40% circa dei soggetti emicranici (Del Sette et al., 1998), può essere causa di ictus nel soggetto giovane. Iniettando endovena una miscela di 9 ml di soluzione fisiologica ed 1 ml di aria, nel soggetto sano l’aria viene espirata a livello polmonare; in presenza di pervietà del forame ovale o di altro difetto interatriale si verifica, spontaneamente o durante manovra di Valsalva, il passaggio di microbolle d’aria dall’atrio destro alle cavità cardiache sinistre, e da qui a livello dell’arteria cerebrale media, dove il Doppler transcranico registra la presenza di segnali
Esami diagnostici complementari
microembolici (Fig. 9.48). Il test ha elevata sensibilità e specificità nei confronti dell’ecocardiografia transesofageo, esame di riferimento nella diagnosi di tali malformazioni. Il doppler transcranico è pertanto un agevole ed affidabile test di screening in soggetti giovani con eventi cerebrovascolari, in cui, soprattutto in assenza di altre cause di ictus, la probabilità di rilevare un shunt destro-sinistro da pervietà del forame ovale può raggiungere il 60-70%; 7) la possibilità di registrare il passaggio di segnali microembolici (microbolle d’aria o elementi particolati) a livello delle arterie intracraniche con il Doppler transcranico fornisce un possibile aiuto nell’identificazione di una sorgente embolica attiva; tale metodica diagnostica, pur essendo molto promettente, non è ancora entrato nella pratica clinica corrente (Markus, 1993); 8) infine il Doppler transcranico, registrando le modifiche emodinamiche intracraniche, può essere di aiuto nel monitoraggio dell’ipertensione endocranica e nella diagnosi di morte cerebrale.
Fig. 9.48 - Esame Doppler transcranico con contrasto gassoso: l’iniezione endovena di soluzione fisiologica miscelata con aria, ha determinato il passaggio di microbolle d’aria a livello dell’arteria cerebrale media, con la presenza di segnali transitori di alta intensità e breve durata (macchie rosso-verdi): tale reperto è espressivo della presenza di shunt destro-sinistro, usualmente dovuto a pervietà del forame ovale a livello cardiaco.
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5. Neuroradiologia L. Bozzao La diagnostica neuroradiologica ha ricevuto in questi ultimi anni uno straordinario impulso dall’avvento della Tomografia Computerizzata (TC) e più di recente da quello della Risonanza Magnetica (RM). Con queste metodiche è oggi possibile formulare una diagnosi più precisa dell’estensione e più esatta della natura di molti processi patologici, diagnosticabili anche in passato, ma meno dettagliatamente,e inoltre ottenere diagnosi non raggiungibili prima d’ora. Compito del neuroradiologo, oggi, non è solo determinare la presenza di un processo patologico, ma documentare con la maggior precisione possibile sede, estensione, rapporto con le aree funzionali e, nei limiti del possibile, la natura del processo patologico. Inoltre, lo sviluppo della neuroradiologia interventiva permette di espletare una delicata attività terapeutica, mirante alla occlusione ed esclusione dalla circolazione cerebrale delle malformazioni vascolari cerebrali, alla ricanalizzazione delle arterie cerebrali esocraniche con angioplastica e, nel prossimo futuro, con protesi, e di quelle intracraniche, usando la terapia fibrinolitica intra-arteriosa. Il neuroradiologo è anche chiamato a collaborare con il neurochirurgo e con il radioterapista per la esatta determinazione dei reperi stereotassici per le biopsie cerebrali e per il trattamento radioterapeutico stereotassico. Questa importante evoluzione tecnologica ha ridotto notevolmente l’utilità e l’impiego di metodiche largamente utilizzate in passato, quali la pneumoencefalografia, non più utilizzata attualmente, e la mielografia, di utilizzazione saltuaria. Anche lo studio radiografico del cranio e della colonna è oggi meno frequentemente impiegato, trovando ancora una indicazione precisa in alcune patologie. Anche le indicazioni all’uso dell’esame angiografico si sono modificate nel corso di questi ultimi anni.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
STUDIO RADIOLOGICO DEL CRANIO Lo studio radiologico del cranio, come è stato detto, viene oggi utilizzato meno frequentemente rispetto al passato, spesso sostituito dalla TC che, soprattutto con la tecnica ad alta risoluzione, permette uno studio dettagliato della strutture scheletriche. L’esame del cranio viene utilizzato, attualmente, per una valutazione di insieme nelle malformazioni cranioencefaliche e nei traumi cranici, I radiogrammi fondamentali sono quelli ottenuti in posizione laterale e nelle tre posizioni antero-posteriori: diretta, obliqua di 15° caudo-cranialmente e di 30° cranio-caudalmente. Una serie di proiezioni per lo studio in dettaglio di particolari strutture anatomiche (canale ottico, meato acustico interno, forami della base cranica) sono oggi sostituite dalla TC. Analogamente sono sostituiti dalla TC ad alta risoluzione gli studi stratigrafici che hanno avuto ampia utilizzazione in passato. Per questo motivo si ritiene superflua un’illustrazione di questi aspetti, rimandando a trattati di radiologia generale.
ANGIOGRAFIA CEREBRALE L’angiografia cerebrale è basata sull’introduzione per via intra-arteriosa di mezzo di contrasto iodato idrosolubile non ionico e nelle riprese in rapida successione di radiogrammi, in modo da documentare la fase arteriosa, intermedia e venosa della circolazione cerebrale. Il mezzo di contrasto viene iniettato tramite posizionamento per via femorale di idonei cateteri o nell’arco aortico, per uno studio di insieme dei tronchi epiaortici, (Fig. 9.49) o selettivamente nelle singole arterie cerebrali (Figg. 9.50; 9.51). Attualmente è possibile, con opportuni cateteri, eseguire anche un cateterismo selettivo delle afferenze intracraniche più distali, modalità necessaria per lo studio e l’occlusione endovascolare delle malformazioni vascolari e per il trattamento chemioterapico locale dei tumori. La ripresa del transito intravascolare del mezzo di contrasto può essere eseguita, o con radiogrammi scattati in rapida successione con ripresa su pellicola radiografica, o con tecnica sottrattiva digitale. Quest’ultima tecnica è oggi da preferire poiché permette, grazie alla sua migliore risoluzione, l’impiego di minore quantità di mezzo di contrasto iodato e quindi l’uso di cateteri di calibro più sottile. La possibilità di avere la documentazione immediata dell’immagine angiografica su monitor televisivo, permette inoltre una notevole riduzione dei tempi di esame. Le indicazioni attuali più comuni sono lo studio, in casi selezionati, dei difetti di canalizzazione arteriosa, e lo studio della patologia malformativa vascolare.
Fig. 9.49 - Studio angiografico dell’arco aortico tramite cateterismo femorale. Proiezione antero-posteriore. Si visualizzano il tronco anonimo, la succlavia e la carotide comune destra, la succlavia sinistra e la carotide sinistra. Le arterie vertebrali in questa proiezione si sovrappongono alla arteria carotide.
Fig. 9.50 - Studio angiografico selettivo della biforcazione carotidea. Proiezione laterale; si visualizzano la carotide comune, l’interna e l’esterna.
Non esistono controindicazioni assolute all’esame angiografico; le complicanze neurologiche di questo esame sono valutate intorno allo 0,5-1% e sono più elevate nei pazienti con grave arteriosclerosi. Le compli-
Esami diagnostici complementari
Fig. 9.51 - Studio selettivo delle afferenze intracraniche del distretto carotideo. Proiezione laterale. Si visualizzano l’arteria oftalmica, la corioidea anteriore, la cerebrale media e la cerebrale anteriore.
canze sono dovute ad eventuale distacco di frammenti di placche arteriosclerotiche durante il cateterismo selettivo o a distacchi di piccoli coaguli dall’apice del catetere, oltre ai rari casi di intolleranza al mezzo di contrasto.
ANGIOGRAFIA MIDOLLARE Consiste nella iniezione di mezzo di contrasto idrosolubile non ionico nelle arterie radicolo-midollari, tramite cateterismo selettivo per via femorale e nella documentazione, con tecnica digitale, delle varie fasi dell’angiogramma. Uno studio angiografico midollare completo deve prevedere il cateterismo selettivo delle arterie vertebrali, del tronco tireo-cervico-scapolare e delle arterie intercostali. L’angiografia midollare è particolarmente utile per lo studio delle malformazioni vascolari del midollo, permettendo di evidenziare esattamente la sede, l’estensione e le afferenze vascolari della malformazione, fornendo elementi indispensabili per un giudizio di operabilità ed offrendo la possibilità di embolizzare, per quanto possibile, i vasi patologici.
TOMOGRAFIA COMPUTERIZZATA (TC) La TC ed analogamente, come vedremo successivamente la RM, evidenzia sezioni del corpo umano con immagini digitali. Il termine d’immagine digitale sta a
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significare che la rappresentazione anatomica di una sezione del corpo umano è basata su una valutazione numerica computerizzata di determinate proprietà fisiche dei tessuti. In TC la proprietà fisica utilizzata è l’assorbimento, da parte dei diversi tessuti, delle radiazioni ionizzanti. I valori di assorbimento cosí ottenuti vengono incasellati in una griglia di numeri nella memoria di un computer, denominata matrice. Il volume di tessuto rappresentato da ciascun valore numerico viene definito voxel ed è in rapporto con la dimensione della matrice e lo spessore dello strato; più il voxel è piccolo maggiore sarà la risoluzione dell’immagine. Assegnando un valore nella scala dei grigi ai singoli voxel in rapporto al valore di attenuazione del voxel stesso (più elevato è il valore, più chiara la sfumatura nella scala dei grigi), il sistema di ricostruzione del computer è in grado di trasformare i valori di attenuazione dei voxel in immagini. La differenza di contrasto nelle singole immagini, apprezzabile con diverse sfumature nella scala dei grigi è in stretto rapporto con il valore di attenuazione del tessuto e rappresenta un valore assoluto. Alla TC i tomogrammi vengono normalmente ottenuti su piani assiali. Per quanto riguarda comunque il cranio e l’encefalo è possibile, posizionando opportunamente il paziente, ottenere tomogrammi sui piani coronali o frontali. E’ inoltre possibile ottenere immagini su diversi piani, coronali, sagittali ed obliqui tramite ricostruzioni computerizzate partendo dalle informazioni ottenute con le scansioni sui piani assiali. I mezzi di contrasto iodati idrosolubili, ionici e non ionici, somministrati per via endovenosa, con diverse modalità, alla dose di 1-1,5 ml/Kg/peso sono largamente utilizzati. I contrasti iodati possedendo un elevato numero atomico determinano una marcata attenuazione delle radiazioni ionizzanti. Per questo motivo, quando sono in sede intravasale, aumentando i valori di attenuazione (potenziamento) del sangue, permettono una visualizzazione delle strutture vascolari venose ed arteriose. Quando, per la presenza di alterazioni della barriera ematoencefalica, si accumulano nei tessuti patologici, determinano una modificazione dei valori di attenuazione (potenziamento) dei tessuti stessi e ne permettono una più chiara documentazione. L’alterazione della barriera emato-encefalica si ritrova nei capillari anatomicamente normali, quando sia presente una situazione di anossia e di acidosi tissutale, e nei vasi patologici neoformati che sono costituiti da solo endotelio privo del meccanismo di barriera. Un potenziamento, dopo somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto, è presente anche nei tumori vascolarizzati da rami della carotide esterna, distretto vascolare che non possiede il meccanismo di barriera.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Le indicazioni sull’uso del contrasto in TC sono molteplici; si potenziano, dopo mezzo di contrasto, la maggior parte dei tumori cerebrali, i processi flogistici, le ischemie cerebrali. Anche l’ipofisi normale presenta subito dopo somministrazione endovenosa di contrasto un marcato potenziamento. Con la somministrazione endovenosa di contrasto, con la tecnica a bolo (angio TC), è inoltre possibile documentare le condizioni malformative vascolari (aneurismi, angiomi) ed identificare difetti di canalizzazione nei tratti esocranici della carotide. Lo studio dei vasi con la TC sta ottenendo oggi un notevole impulso dall’avvento dei moderni tomografi a scansione continua, con i quali è possibile ottenere, in tempi molto brevi, numerose sezioni a strato sottile (1 mm), dalle quali, con le tecniche di ricostruzione (post-processing) secondarie è possibile ottenere immagini tridimensionali dei distretti vascolari con buon dettaglio anatomico. La descrizione della anatomia radiologica cerebrale evidenziata dalla TC è riportata nella Fig. 9.52.
RISONANZA MAGNETICA (RM) I protoni idrogeno si comportano nel tessuto come dei piccoli magneti dotati di carica elettrica, che ruotano intorno al proprio asse con movimento angolare ed hanno una distribuzione casuale nel contesto del tessuto. I protoni quando vengono sottoposti all’influenza di un campo magnetico esterno si orientano nella direzione del campo magnetico. Se i protoni, così orientati, sono sottoposti all’influsso di un secondo campo magnetico esterno, che possieda una caratteristica frequenza di risonanza, assorbono energia e la cedono quando l’eccitazione indotta dal campo magnetico viene a cessare. L’energia così ceduta, che viene rilevata dall’esterno con opportune antenne (bobine), e misurata come valore numerico, è in rapporto con la costituzione chimico-fisica dei tessuti esaminati e varia quando i tessuti siano patologicamente alterati. Le intensità di segnale, con procedimento simile a quello utilizzato nella TC, possono essere incasellate in una matrice numerica computerizzata e, dopo aver assegnato a ciascun numero una diversa intensità nella scala dei grigi proporzionale alle intensità di segnale, il computer con un processo di ricostruzione, è in grado di generare immagini della sezione del corpo umano esaminata. Queste sequenze che utilizzano il movimento angolare dei nuclei di idrogeno vengono definite spin-echo. Modificando opportunamente la radiofrequenza è possibile ottenere misure maggiormente dipendenti dal tempo di rilassamento T1 e T2 o dalla densità dei protoni (densità protonica). È per questo motivo che in RM si parla di immagini dipendenti o pesate in T1, densità protonica (DP), e T2.
Fig. 9.52 - Tomografia computerizzata dell’encefalo. Tomogrammi sui piani assiali dopo somministrazione endovenosa di contrasto A) 1: arteria cerebrale media; 2: arteria basilare; 3: IV ventricolo; 4: cervelletto. B) 1: scissura silviana; 2: arteria cerebrale anteriore; 3: tentorio del cervelletto. C) 1: lobo frontale; 2: cisterna interpeduncolare; 3: mesencefalo; 4: acquedotto; D) 1: corno frontale; 2: III ventricolo; 3: nucleo lentiforme; 4: tubercoli quadrigemelli; 5: verme cerebellare. E) 1: corno frontale del ventricolo laterale; 2: capsula interna; 3: nucleo caudato; 4: III ventricolo; 5: ghiandola pineale; 6: verme cerebellare. F) 1: falce cerebrale; 2: splenio del corpo calloso; 3: plessi corioidei. G) 1: ventricolo laterale; 2: corona radiata; 3: corpo calloso; 4: falce cerebrale. H) 1: scissura interemisferica; 2: falce cerebrale; 3: centro semiovale.
Esami diagnostici complementari
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È opportuno ricordare che nelle immagini così ottenute, le strutture vascolari ad alto flusso, arterie e strutture venose di maggior calibro, non generano segnale, per cui i vasi vengono evidenziati come aree di assenza di segnale (flow void). Utilizzando opportune sequenze denominate gradientecho (G.E.) si può ottenere un segnale proveniente esclusivamente dalla struttura vascolare. Con un procedimento di ricostruzione, che utilizza il segnale proveniente dai vasi in sezioni contigue di spessore sottile (1-1,5 mm), è possibile ottenere, con una ricostruzione tridimensionale delle arterie e delle vene, una immagine angiografica con RM (Fig. 9.53). La RM in considerazione dei diversi parametri utilizzabili è in grado di fornire informazioni sulla struttura intrinseca dei tessuti superiori a quelle ottenibili con la TC.
Fig. 9.54 - Angio-RM dei tronchi epiaortici ottenuta con tecnica FFE sul piano coronale durante introduzione e.v. a bolo di mezzo di contrasto. Con questa tecnica si ottiene in pochi secondi. una buona visualizzazione dei tronchi epiaortici dall’origine dall’arco aortico fino al tratto intracranico
Fig. 9.53 - Angiografia RM dei distretti intracranici.
La angiografia a risonanza magnetica può essere ottenuta anche durante somministrazione e.v. di mezzo di contrasto paramagnetico. Quest’ultima tecnica consente di ridurre alcuni artefatti dell’angio-RM senza mezzo di contrasto quali la riduzione di segnale legata a flusso turbolento o a saturazione del segnale nel caso che il vaso studiato decorra per un tratto parallelamente al piano di acquisizione. La applicazione più diffusa di questa tecnica é rappresentata dallo studio delle arterie cerebrali nel tratto extra-cranico (Fig. 9.54). La maggior parte delle lesioni del sistema nervoso presentano tempi di rilassamento T1 e T2 più lunghi rispetto al tessuto cerebrale normale. In alcuni tessuti patologici si può osservare un accorciamento del tempo di rilassamento T1, tale da permettere una caratterizzazione del tessuto stesso. In linea di massima le immagini pesate prevalentemente in T2 forniscono un migliore contrasto tra tessuto patologico e tessuto normale, e quelle pesate in T1 un miglior dettaglio anatomico.
Anche con la RM si fa ampio uso di mezzo di contrasto. I mezzi di contrasto utilizzati hanno la proprietà di accorciare il tempo di rilassamento T1, e per tale motivo quando si accumulano in un tessuto patologico provocano un aumento della intensità di segnale nelle immagini T1 dipendenti. L’accumulo di mezzo di contrasto in un tessuto patologico è legato, come avviene per i mezzi di contrasto iodati, alle alterazioni della barriera ematoencefalica. Il mezzo di contrasto paramagnetico può essere utilizzato anche come già detto per gli studi angiografici. Il mezzo di contrasto attualmente utilizzato è il gadolinio DTPA, somministrato per via endovenosa alla dose di 0,1-0,2 ml/Kg. Gli effetti collaterali (reazioni allergiche) di questo tipo di contrasto sono rarissimi. Nelle Figg. 9.55 e 9.56 sono illustrate sezioni di RM dell’encefalo con immagini pesate in T2 sui piani assiali, coronali ed in T1 sui piani sagittali, e nella Fig. 9.57 sezioni del midollo spinale sui piani sagittali, sempre con immagini pesate in T1 e T2. Tra le applicazioni più recenti, dobbiamo ricordare la spettroscopia a RM e le tecniche di immagine cosidette funzionali. La spettroscopia a RM (RMS) è una tecnica non invasiva, che permette la rilevazione dei costituenti chimici dei tessuti, ed è possibile valutare in particolare, il contenuto, nei vari tessuti, di alcuni elementi, quali fosforo ed idrogeno.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.55 - Risonanza magnetica dell’encefalo; tomogrammi sui piani assiali con immagini pesate in T2. Alto a sn: 1. condilo mandibolare; 2. bulbo; 3. piramide; 4. seno mascellare. Alto centrale: 1. lobo temporale; 2. bulbo oculare; 3. arteria carotide interna; 4. canale uditivo interno; 5. coclea; 6. vestibolo; 7. canale semicircolare; 8. ponte; 9. IV ventricolo; 10. peduncolo cerebellare medio. Alto a ds: 1. corteccia lobo temporale; 2. peduncolo cerebrale; 3. corno temporale; 4. lobo temporale; 5. mesencefalo; 6. cervelletto; 7. infundibolo; 8. cisterna episellare. Medio a sn: 1. peduncolo cerebrale; 2. arteria cerebrale media; 3. circonvoluzione frontale anteriore; 4. arteria cerebrale anteriore; 5. lobo temporale ; 6. verme cerebellare; 7. acquedotto silviano; 8. cisterna interpeduncolare. Medio centrale: 1. circonvoluzione temporale superiore; 2. peduncolo cerebrale; 3. sostanza nigra; 4. nucleo rosso; 5. tetto del mesencefalo; 6. verme cerebellare; 7. acquedotto. Medio a ds: 1. putamen; 2. trigono; 3. talamo; 4. vena cerebrale interna; 5. III ventricolo; 6. capsula interna. Basso a sn: 1. ginocchio del corpo calloso; 2. giro cingolato; 3. splenio del corpo calloso; 4. falce cerebrale; 5. seno retto. Basso centrale: 1. circonvoluzione postcentrale; 2. circonvoluzione centrale; 3. circonvoluzione precentrale; 4. circonvoluzione centrale inferiore; 5. circonvoluzione frontale inferiore; 6. corona radiata; 7. polo occipitale; 8. corteccia cerebrale. Basso a ds: 1. solco centrale; 2. circonvoluzione frontale superiore; 3. giro frontale medio.
La spettroscopia si basa sull’analisi delle frequenze di risonanza dei differenti nuclei, e permette l’acquisizione di uno spettro costituito da un insieme di picchi che ca-
Fig. 9.56 - Risonanza magnetica dell’encefalo; tomogrammi su piani coronali con immagini pesate in T2 (in alto ed in basso a sinistra) e sul piano sagittale mediano con immagini pesate in T1 (in basso a destra). Alto a sn: 1. sostanza bianca del lobo temporale; 2. scissura silviana; 3. arteria comunicante anteriore; 4. ventricolo laterale; 5. III ventricolo; 6. nucleo caudato; 7. nucleo lenticolare; 8. arteria cerebrale media; 9. corteccia cerebrale. Alto a ds: 1. IV ventricolo; 2. corpo calloso; 3. spazio subaracnoideo; 4. vena cerebrale interna; 5. ventricolo laterale; 6. corno temporale. Basso a sn: 1. cervelletto; 2. corno occipitale; 3. seno longitudinale superiore; 4. tentorio; 5. IV ventricolo. Basso a ds: 1. ginocchio del corpo calloso; 2. giro cingolato; 3. vena cerebrale interna; 4. splenio del corpo calloso; 5. vena di galeno; 6. scissura occipito-parietale; 7. seno retto; 8. cisterna cerebellare superiore; 9. verme cerebellare; 10. IV ventricolo; 11. midollo; 12. ponte; 13. talamo; 14. chiasma ottico.
ratterizzano la componente chimica in esame e ne indicano la quantità presente. Con la spettroscopia è così possibile studiare diversi nuclei naturalmente presenti nell’organismo, e, quindi, indicare le variazioni dei vari metaboliti costituiti da tali nuclei e presenti nel tessuto cerebrale quali N-Acetilaspartato, glutammato, creatinina, colina, inositolo, lattato, lipidi. Ulteriori informazioni si possono ottenere con la RM utilizzando le tecniche funzionali. Il flusso ed il volume ematico cerebrale possono essere valutati utilizzando la somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto paramagnetico. La RM diffusione é una tecnica che consente di studiare alterazioni della mobilità delle molecole d’acqua, pre-
Esami diagnostici complementari
Fig. 9.57 - Risonanza magnetica della colonna vertebrale segmento cervicale con tomogrammi sul piano sagittale mediano ed immagini pesate in T1 (A) e T2 (B).
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senti in alcuni stati patologici quali l’ischemia acuta, le malattie infiammatorie e l’ascesso cerebrale. Nelle immagini pesate in diffusione le aree di diminuita mobilità delle molecole d’acqua appaiono nettamente iperintense. Le immagini pesate in diffusione risentono anche di altri parametri tissutali, quali il T2 e la densità protonica. Per eliminare l’effetto di questi parametri si possono generare delle immagini sintetiche del coefficiente di diffusione apparente, dette mappe dell’ADC, in cui le aree in cui la mobilità delle molecole d’acqua é ridotta appaiono ipointense. La determinazione di detti parametri sta assumendo una notevole importanza nello studio della patologia cerebrovascolare ischemica e dei tumori cerebrali. Gli studi di attivazione permettono di individuare aree funzionalmente importanti quali la corteccia motoria o visiva misurando le modificazioni di concentrazione dell’ossi e deossiemoglobina presente nelle strutture in esame durante opportune prove di attivazione funzionali (Fig. 9.58). Con questa ultime tecnica è possibile individuare alcune importanti aree funzionali e valutare il loro coinvolgimento in caso di patologia cerebrale espansiva o malformativa vascolare. Tali informazioni rivestono un notevole interesse per la pianificazione dell’intervento chirurgico.
Neuroradiologia dei diversi quadri clinici 1 Maturazione e sviluppo cerebrale La RM per la sua elevata sensibilità nell’evidenziare modificazioni di segnale in rapporto alla diversa costituzione dei tessuti, si presta in maniera ottimale per lo studio dello sviluppo dell’encefalo ed, in particolare, per lo studio della mielinizzazione cerebrale. Nell’adulto la sostanza bianca, normalmente e completamente mielinizzata, presenta nelle sequenze T1 pesate, un segnale iperintenso rispetto alla sostanza grigia corticale; nel neonato il quadro è completamente invertito e la sostanza bianca presenta un segnale ipointenso rispetto alla sostanza grigia. Nelle sequenze pesate in T2, la sostanza bianca nell’adulto dimostra un segnale ipointenso rispetto alla corteccia, mentre nel neonato la sostanza bianca è iperintensa rispetto alla corteccia. Considerato che la mielinizzazione avviene in senso caudo-craniale e dorso-ventrale, già dai primi mesi di sviluppo possiamo osservare alla RM modificazioni di segnale caratteristici. Fig. 9.58 - Immagine di fMRI ottenuta durante movimento della mano destra in un soggetto normale sovraimposta su immagine 3D di tutto l’encefalo.
1
In alcuni dei radiogrammi presentati nelle figure il lato ds e sn risultano invertiti per motivi tecnici
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Divengono, così, progressivamente iperintense nelle sequenze pesate in T1 a 3 mesi, la sostanza bianca del cervelletto, del braccio anteriore della capsula interna e delle radiazioni ottiche, a 3-4 mesi lo splenio, a 4-6 mesi il corpo ed il ginocchio del corpo calloso, a 8 mesi tutta la sostanza bianca sottocorticale, con eccezione della regione frontale e parietale ed infine all’età di 12 mesi l’aspetto della sostanza bianca è quello dell’adulto. Con un ritardo di 2-3 mesi, rispetto alle sequenze in T1, le strutture sopradescritte iniziano a presentare un segnale ipointenso nelle sequenze pesate in T2, e a 24 mesi la sostanza bianca presenta anche nelle sequenze in T2 un aspetto simile a quello dell’adulto. Durante questa fase di maturazione, esiste un momento, a 6 mesi per le sequenze pesate in T1, a 12 mesi per quelle pesate in T2, in cui la sostanza bianca e grigia presentano un segnale isointenso. Questo comportamento suggerisce di utilizzare per lo studio delle patologie che comportano un ritardo od un’alterazione della mielinizzazione sequenze pesate sia in T1 che in T2. Con lo sviluppo del cervello si assiste anche ad un progressivo accumulo di ferro nel nucleo dentato del cervelletto, nella sostanza nera, nel nucleo rosso e nei gangli della base, in particolare il globo pallido. L’accumulo di ferro, meglio evidenziabile con le sequenze pesate in T2, e con tomografi ad elevato campo magnetico, inizia all’età di 9-10 anni, rimane elevato sino alla seconda decade, e continua più lentamente nell’età successiva.
Fig. 9.59 - Malformazione di Arnold-Chiari tipo I. RM tomogramma sagittale pesato in T1: dislocazione caudale delle tonsille.
Malformazioni cerebrali Le malformazioni cerebrali congenite sono numerose, ma le più comuni, su base organogenetica, sono la malformazione di Arnold- Chiari, di Dandy-Walker, le agenesie del corpo calloso, la cranioschisi (meningocele - encefalocele), e i disturbi nella migrazione cellulare (schizoencefalia - agiria - eterotopia). Malformazione di Arnold-Chiari (v. pag. 0000). – Dimostra nel tipo I, la più comune, una dislocazione caudale delle tonsille nel forame occipitale (Fig. 9.59), associata in percentuale variabile a siringoidromielia, idrocefalo di media entità, anomalie scheletriche della giunzione cranio-vertebrale. La malformazione di Arnold-Chiari di tipo II, oltre ad una marcata ectopia cerebellare, presenta una ipoplasia delle strutture scheletriche della fossa cranica posteriore (Fig. 9.60), una deformazione del tron-
Fig. 9.60 - Malformazioni di Arnold-Chiari tipo II. TC tomogrammi assiali: A) Deformazioni delle strutture scheletriche della fossa cranica posteriore con morfologia arcuata delle piramidi petrose. B) Deformazione del tetto del mesencefalo con aspetto «rostrato».
co-encefalo, agenesia od ipoplasia del corpo calloso nel 80-90% dei casi, dismorfismo dei ventricoli laterali, fenestrazione della grande falce cerebrale e disrafismi spinali (meningocele-siringoidromielia, midollo ancorato con associato lipoma). Malformazione di Dandy-Walker. – È caratterizzata da una dilatazione cistica del IV ventricolo associata con diversi gradi di ipoplasia od aplasia del verme cerebellare (Fig. 9.61).
Esami diagnostici complementari
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te ad erniazione, attraverso la schisi, di meninge (meningocele) o di meninge ed encefalo (meningoencefalocele). Sono più comuni in sede occipitale e naso-etmoidale. La RM è l’accertamento che meglio documenta queste malformazioni.
Fig. 9.61 - Malformazione del tipo Dandy-Walker. RM (A B) tomogramma sui piani assiali e sagittali con immagini pesate in T1. Marcata dilatazione del IV ventricolo che è in continuità con gli spazi liquorali della cisterna magna; ipoplasia del cervelletto.
Malformazioni del corpo calloso. – Possono interessare il corpo calloso settorialmente o globalmente. Nel 50% la malformazione del corpo calloso si associa ad altre malformazioni del sistema nervoso centrale. Le malformazioni del corpo calloso sono documentate in modo ottimale dalla RM nelle immagini su piano sagittale mediano pesate in T1 (Fig. 9.62). Concomitano anomalie morfologiche dei ventricoli laterali con separazione e deformazione dei corni frontali e dilatazione marcata dei corni occipitali (colpocefalia), dilatazione del terzo ventricolo con risalita del tetto di detta struttura, talvolta associazione di lipoma.
Disturbi della migrazione cerebrale. – Sono molto complessi, e possono variare da una totale assenza di migrazione cellulare dalla matrice germinale alla corteccia, determinando un quadro di assenza di circonvoluzioni (Fig. 9.63) (lissencefalia - cervello liscio), alla presenza di sostanza grigia in sede atipica (eterotopia - schizencefalia) (Fig. 9.64).
Cranioschisi. – Sono dovute a difetti di saldatura ossea sulla linea mediana e sono associaFig. 9.63 - Lissencefalia. RM tomogramma sul piano sagittale con immagine pesate in T1; aspetto liscio della corteccia con assenza delle circonvoluzioni.
I disturbi dell’istogenesi comprendono le sindromi neurocutanee, le malformazioni vascolari, i tumori congeniti ed i disturbi congeniti del metabolismo. Fig. 9.62 - Agenesia del corpo calloso. RM (A - B) tomogramma sui piani coronali e sagittali con immagini pesate in T1; agenesia quasi totale del corpo calloso del quale è presente solo una piccola porzione del corpo (A) e deformazioni dei ventricoli laterali (B).
Facomatosi Neurofibromatosi (Malattia di von Recklinghausen) (v. pag. 000). – La forma più comune (tipo I) è associata a tumori dei nervi, specie i neurinomi dell’ acu-
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B
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Fig. 9.64 - Eterotopia corticale. RM tomogrammi sui piani coronali con immagini pesate in T1 (A), densità protonica (B) e T2 (C): marcato e circoscritto aumento di volume del manto corticale in sede frontale destra; nelle diverse sequenze il tessuto anomalo presenta intensità di segnale simile alla corteccia cerebrale.
stico, più rari quelli di altri nervi. I tumori astrocitari sono benigni, del tipo pilocitico, e si verificano più comunemente a livello dei nervi ottici e del chiasma (Fig. 9.65). Caratteristici del tipo I sono inoltre le alterazioni displasiche della grande ala dello sfenoide, amartomi dell’iride (noduli di Lisch) ed aree nodulari di alterato segnale iperintense in DP e T2 nei nuclei della base (Fig. 9.66), nel talamo, nel tronco encefalico e nei peduncoli cerebellari. Questi noduli evidenti alla RM, ma non alla TC, sono di incerta natura (cellule gliali atipiche, noduli gliali subependimali, ectopie ependimali).
Fig. 9.66 - Aree di alterato segnale sui nuclei della base. RM tomogramma su piano assiale con immagine pesata in T2.
Fig. 9.65 - Astrocitoma pilocitico dei nervi ottici e del chiasma. RM tomogrammi sui piani coronali con immagini pesate densità protonica (A) e T1 dopo gadolinio (B). I nervi ottici ed il chiasma presentano un aumento di volume ed una alterazione di segnale (A) ed un marcato potenziamento dopo gadolinio (B).
La neurofibriomatosi tipo 2, è caratterizzata dalla presenza di neurinomi bilaterali dell’acustico (Fig. 9.67), neurofibromi disseminanti, meningiomi. Sclerosi tuberosa (Malattia di Bourneville) (v. pag. 000). – Le alterazioni di interesse neuroradiologico sono gli amartomi corticali (tuberi), amartomi subependimali (Fig. 9.68) e astrocitomi a cellule giganti.
Esami diagnostici complementari
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Fig. 9.67 - Neurinoma bilaterale del nervo acustico. RM tomogramma su piano assiale con immagini pesate in T1 prima (A) e dopo (B) gadolinio.
Fig. 9.68 - Sclerosi tuberosa. RM tomogrammi sui piani assiali con immagini pesate in T2. Presenza di circoscritte aree iperintense in sede temporale posteriore corticale (tubero) e di piccole aree di ipointensità in sede subependimale (noduli amartomatosi calcifici).
I noduli subependimali, spesso calcifici, sono meglio identificati con la TC. Gli astrocitomi a cellule giganti, spesso localizzati in prossimità dei forami di Monro, sono lievemente iperdensi alla TC, presentano un segnale variabile in RM ed un evidente potenziamento dopo contrasto. I tuberi corticali sono meglio evidenziabili con la RM, sono iperintensi in T2 (Fig. 9.68) e non si potenziano dopo contrasto. Angiomatosi encefalo-trigeminale (malattia di SturgeWeber) (v. pag. 000). – Il quadro neuroradiologico è caratterizzato dalla presenza di calcificazioni a stria in sede corticale, bene evidenziate dalla TC (Fig. 9.69). Dopo
Fig. 9.69 - Sturge-Weber. TC cerebrale. Presenza di calcificazioni a stria sulla corteccia cerebrale in sede parietale bilateralmente.
somministrazione endovenosa di contrasto, si rileva la presenza di un potenziamento delle circonvoluzioni, dovuto a congestione venosa ed alterazione della barriera emato-encefalica. È presente anche una ipertrofia del plesso coroideo omolaterale. La RM documenta l’atrofia corticale, l’ipertrofia del plesso coroideo e dopo contrasto il potenziamento corticale. Angiomatosi cerebello-retinica (malattia di Von Hippel-Lindau) (v. pag. 0000). – La neoplasia più frequente è l’emangioblastoma cerebellare per le caratteristiche neuroradiologiche del quale si rimanda a pag. 000.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Invecchiamento cerebrale Con la RM è possibile ottenere in vivo una documentazione anatomica multiplanare della morfologia e della struttura del cervello con un dettaglio simile a quello ottenibile con studi anatomici. Tali caratteristiche rendono la RM metodica ideale per lo studio dell’encefalo e delle sue manifestazioni patologiche. Proprio per l’elevata sensibilità della RM, sono sorte particolari problematiche nella valutazione di alcuni reperti di comune riscontro nella pratica diagnostica. Alterazioni osservabili alla RM con l’avanzare dell’età e non sempre da considerare patologiche, sono le aree di aumentato segnale nelle immagini pesate in T2, localizzate nel braccio posteriore della capsula interna o, a livello paraventricolare, nella sostanza bianca sottocorticale, in sede frontale e temporo-occipitale, riferibili ad un aumento dello spazio interstiziale extracellulare con rarefazione delle fibre mieliniche (Fig. 9.70). Aspetti di comune riscontro nell’età adulta sono rappresentati inoltre, dalla presenza di depositi di sostanze, quali il calcio ed il ferro, e dall’aumento di dimensioni degli spazi peri-vascolari di Virchow-Robin. Depositi di sali di calcio, specie a livello dei nuclei della base ed in particolare a livello del globo pallido, sono ben documentabili alla tomografia computerizzata, come aree di aumentata densità di vario grado, a disposizione bilaterale. La presenza di aree ipointense nelle immagini RM fortemente pesate in T2, osservabili a livello della sostanza grigia e a livello dei nuclei coinvolti nei circuiti extra-piramidali, sono riferibili alla presenza di depositi di ferro, presenti sia nel soggetto anziano normale, che in una varietà di processi patologici, come malattie con degenerazione cellulare primaria e infarti cerebrali (Fig. 9.71). Lo spazio virtuale, formato dal connettivo che, seguendo i vasi arteriosi penetra nel tessuto nervoso arrestandosi a livello delle dirama-
Fig. 9.70 - Sezione assiale di RM con immagini pesate in T2. La RM documenta la presenza di aree di alterato segnale, iperintense nelle immagini pesate in T2, a prevalente localizzazione periventricolare, di comune riscontro nei soggetti anziani, non associato a disturbi delle funzioni simboliche superiori.
zioni arteriolari, è denominato spazio perivascolare di Virchow-Robin, e può essere considerato una invaginazione dello spazio subaracnoideo, con il quale è in continuità. Alla RM, gli spazi perivascolari si evidenziano come piccole aree di alterato segnale, spesso puntiformi, di morfologia rotondeggiante od ovalare e del maggior diametro di circa 2 mm, che presentano la stessa intensità del liquido cerebro-spinale, ipointense in T1 ed iperintense in T2. Più comunemente sono localizzate a livello dei nuclei della base, lungo il decorso delle arterie lenticolo-striate, costituendo aspetti di comune riscontro in ogni gruppo di età e tipici dell’età adulta, specie nei soggetti affetti da ipertensione arteriosa (Fig. 9.72). La perdita di neuroni e l’atrofia cerebrale sono considerate conseguenze fisiologiche dell’invecchiamento cerebrale, ma tali alterazioni sono presenti anche in alcune malattie con de-
Esami diagnostici complementari
Fig. 9.71 - Sezione assiale di RM con immagini pesate in T2 condotta a livello dei nuclei della base. E’ presente una netta ipointensità di segnale a carico dei nuclei della base bilateralmente, da riferire alla presenza di depositi di ferro non emico.
generazione neuronale primaria, anche se, qualitativamente e quantitativamente, in misura maggiore rispetto ai soggetti normali. Al momento attuale, tuttavia, non è ancora stato individuato il valore di alcune modificazioni morfostrutturali evidenziabili alla RM sia nei soggetti anziani normali che in pazienti con alterazione della sfera cognitiva. Infatti l’evidenza di sofferenza diffusa o focale della sostanza bianca, le variazioni volumetriche dei ventricoli, dei solchi corticali e del corpo calloso, spesso non si accordano con il quadro di deterioramento mentale clinicamente accertato. Demenze Demenza di Alzheimer (DA). – La RM documenta una atrofia diffusa del cervello con aumento del volume dei ventricoli laterali e degli spazi subaracnoidei. Tali alterazioni, derivanti
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Fig. 9.72 - Sezione assiale di RM con immagini pesate in T2 condotta a livello dei ventricoli laterali. La RM documenta la presenza di puntiformi aree iperintense, con lo stesso segnale del liquor, localizzate a livello della sostanza bianca bilateralmente, da riferire alla dilatazione degli spazi perivascolari di Virchow-Robin, facilmente riscontrabili nei soggetti anziani normali.
dalla perdita di neuroni cerebrali, si riscontrano anche nel normale invecchiamento cerebrale, ma nella DA si può osservare l’atrofia dell’ippocampo, la dilatazione consensuale del corno temporale del ventricolo laterale, delle cisterne soprasellari, della cisterna silviana, elementi da valutare nel processo diagnostico clinico delle diverse forme di demenza (Fig. 9.73). Alterazioni focali della sostanza bianca, evidenziabili come aree iperintense nelle sequenze pesate in T2, sono nettamente più frequenti nella demenza vascolare, ed il loro riscontro nella DA può suggerire la presenza di una forma mista. Demenza vascolare (DV). – L’avvento della TC, ma soprattutto della RM, ha portato un notevole contributo per la diagnosi e la presenza di lesioni focali, e costituisce infatti un importante elemento per la diagnosi differenziale clinica tra DV e DA (Fig. 9.74).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.73 - Sezione coronale di RM con immagini pesate in T1. Si apprezza, oltre alla marcata atrofia dei lobi temporali, una atrofia settoriale a livello dell’ippocampo con conseguente dilatazione dei corni temporali dei ventricoli laterali; il quadro si può riscontrare nella demenza di Alzheimer.
Idrocefalo normoteso. – Lo studio neuroradiologico con la TC evidenzia, dato di rilievo a fini diagnostici, una dilatazione ventricolare, di vario grado, non associata a dilatazione degli spazi subaracnoidei, come comunemente avviene nei quadri di atrofia cerebrale. Inoltre la presenza di una diffusa ipodensità, in sede periventricolare frontale, documenta il fenomeno idrodinamico del riassorbimento transependimale. Le stesse caratteristiche si evidenziano alla RM: dilatazione ventricolare e riduzione di ampiezza degli spazi subaracnoidei, cui si associa una tenue iperintensità periventricolare nelle immagini pesate in DP e in T2, espressione del riassorbimento liquorale transependimale (Fig. 9.75).
Fig. 9.74 - Sezione assiale di RM con immagini pesate in T2 condotta a livello dei ventricoli laterali. La RM documenta la presenza di piccole multiple aree di alterato segnale, iperintense e a carattere confluente, localizzate a livello della sostanza bianca della corona radiata, espressione di circoscritte zone di sofferenza vascolare di comune riscontro nella demenza vascolare.
Altro aspetto caratteristico è il comportamento del segnale liquorale a livello dell’acquedotto: l’ostacolo al riassorbimento liquorale causa uno stato di «stallo», che risente in maniera più decisa delle pulsazioni cardiache. È proprio a livello dell’acquedotto che si forma così un rapido movimento di va e vieni, che crea una marcata assenza di segnale nelle immagini pesate in T2, poiché i tessuti in movimento (i liquidi), hanno una caduta del segnale tanto maggiore quanto più veloce è il loro movimento (Fig. 9.76 A). Ulteriori informazioni diagnostiche, inoltre, possono essere fornite dalla valutazione della dinamica liquorale. Lo studio della dinamica liquorale prevede l’impiego della TC con controlli seriati nel tem-
Esami diagnostici complementari A
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pressione del riassorbimento transependimale), che dimostra un aumento della densità della sostanza bianca periventricolare ai controlli TC tardivi (Fig. 9.76 B). Demenza di Pick. – Con la TC e, ancor meglio con la RM, è possibile dimostrare un quadro di atrofia cerebrale a localizzazione frontale, fronto-temporale bilaterale, prevalente nell’emisfero dominante.
Fig. 9.75 - Idrocefalo normoteso. RM sezione assiale con immagini pesate in T2 condotta a livello dell’acquedotto (A) ed a livello dei ventricoli laterali (B). È presente, oltre ad una notevole dilatazione dei ventricoli laterali non associata ad una dilatazione degli spazi subaracnoidei, una diffusa iperintensità di segnale che circonda i ventricoli, espressione di riassorbimento liquorale trans-ependimale (B). È possibile inoltre osservare, a livello dell’acquedotto un segnale ipointenso, espressione di accelerata pulsatilità liquorale (A).
Malattia di Creutzfeldt-Jakob. – Gli studi di neuroimmagine evidenziano una graduale e progressiva atrofia cerebrale, con dilatazione dei ventricoli e dei solchi. Le immagini in RM documentano, in alcuni casi, un’iperintensità di segnale della sostanza grigia, nelle sequenze pesate in T2, che include il nucleo striato, il talamo e la corteccia cerebrale, attribuibile a fenomeni di gliosi e di spongiosi dei neuroni. Malattie extrapiramidali
Fig. 9.76 - Studio della dinamica liquorale. TC sezioni assiali condotte a livello dei ventricoli laterali eseguite nello stesso paziente all’esame di base (A) e distanza di 24 ore dall’introduzione endorachide di mdc idrosolubile (B). Ai controlli tardivi (B) si osserva il ristagno di mdc all’interno delle cavità ventricolari espressione di alterato riassorbimento liquorale.
po a 4, 12 e 24 ore dopo iniezione endorachidea di 5-8 cc di mezzo di contrasto non ionico, idrosolubile. Scopo dello studio seriato è quello di valutare il riassorbimento del contrasto iodato nel tempo; normalmente, entro 24 ore, il contrasto non è più evidente a livello degli spazi subaracnoidei, ma, nell’idrocefalo normoteso, il contrasto refluisce nelle cavità ventricolari e passa nel tessuto cerebrale periventricolare (es-
Malattia di Huntington (v. pag. 000). – L’atrofia della testa del nucleo caudato, con consensuale dilatazione della base dei corni frontali dei ventricoli laterali, sono ben apprezzabili sia alla TC che alla RM. All’atrofia del caudato, talvolta, si associa una sofferenza del nucleo lenticolare ed in particolare del putamen. Morbo di Parkinson (v. pag. 000) – Paralisi sopranucleare progressiva – PSP (v. pag. 000). – Nel morbo di Parkinson si osserva alla RM, nelle immagini pesate in T2, una iperintensità a livello della sostanza nera mesencefalica, dovuta a fenomeni di gliosi. Nella PSP l’aspetto, sempre nelle immagini in T2, è di netta ipointensità. Tali differenze risultano legate per il Parkinson alla presenza di fenomeni di gliosi, mentre nella PSP predominano fenomeni degenerativi con deposito di ferro, associati ad atrofia.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Encefalopatie mitocondriali (miopatia mitocondriale, acidosi lattica e ictus – MELAS) e Mioclono epilessia a fibre rosse (v. pag. 0000). – Le metodiche di neuroimmagine consentono di valutare, oltre all’atrofia cerebrale, sempre presente in queste forme, il differente coinvolgimento di altre strutture cerebrali. Atrofia olivopontocerebellare. – La RM documenta una spiccata atrofia delle strutture coinvolte, in particolare, del ponte e dei peduncoli cerebellari, con risparmio delle strutture sovratentoriali. Malattia di Hallervorden-Spatz (v. pag. 000). – Le alterazioni del globo pallido e di parte della porzione reticolata della sostanza nera mesencefalica, si evidenziano alla RM dapprima con la presenza di una iperintensità nelle immagini pesate in T2, espressione di gliosi reattiva, cui segue, nel corso degli anni, una vera e propria degenerazione delle vie striato-nigriche, con depositi di ferro non emico e comparsa di netta ipointensità nelle immagini pesate in T2.
Fig. 9.77 - Angiografia carotidea. Stenosi di marcata entità della carotide interna di sinistra ad 1 centimetro al di sopra della biforcazione.
Ischemia cerebrale
lare nel territorio ischemico (Fig. 9.78 A-B). Per lo stesso meccanismo si possono evidenziare, in fase acuta, lievi compressioni sul sistema ventricolare sovratentoriale o spianamento delle circonvoluzioni cerebrali. Anche la RM può evidenziare nella fase acuta dall’ictus aree di iperintensità di segnale nelle sequenze pesate in T2.
Negli attacchi ischemici transitori gli accertamenti neuroradiologici trovano indicazione per documentare una lesione lacunare, per escludere piccole emorragie intracerebrali o neoplasie, e talora infarti, che possono essere responsabili di disturbi neurologici focali transitori. Lo studio angiografico può essere utile quando un esame dopplersonografico od uno studio angio RM documenta una patologia stenoocclusiva arteriosa, suscettibile di terapia chirurgica (Fig. 9.77). Nell’ictus ischemico embolico è invece possibile documentare con la TC, già entro le prime 4-6 h dal debutto, la presenza di aree di tenue ipodensità (ipodensità precoce), espressione di sofferenza edemigena intracellu-
Fig. 9.78 - TC cerebrale con sezioni passanti per i ventricoli laterali (A e B). La TC eseguita entro 4 ore dall’esordio clinico documenta la presenza di una tenue area ipodensa che interessa i nuclei della base di destra (A), e i nuclei della base e la corteccia (B), espressione di iniziale sofferenza cerebrovascolare ischemica.
Malattie cerebrovascolari
Esami diagnostici complementari
a
b
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c
Fig. 9.79 - Immagini di diffusione e perfusione nell’ischemia acuta: in a) immagine di diffusione ottenuta 4 ore dopo l’esordio di emiplegia sinistra, dimostra un’area iperintensa localizzata sui nuclei della base e della corona radiata a destra; in b) la mappa del tempo di transito (MTT) dimostra che intorno all’area di alterata diffusione esiste un’area in cui l’emodinamica cerebrale è alterata e che rappresenta tessuto a rischio di evolvere anch’esso in infarto; in c) l’immagine di diffusione ottenuta 20 ore più tardi documenta che l’area ischemica si è estesa fino ad occupare quasi completamente l’area ipoperfusa.
Più sensibili in questa fase dell’ischemia sono le tecniche funzionali, che consentono di individuare anche precocemente aree di sofferenza tissutale severa o alterazioni dell’emodinamica cerebrale. Nella fase iperacuta dell’ischemia cerebrale, una serie di eventi conduce infatti ad una riduzione della diffusione delle molecole d’acqua nell’area cerebrale che presenta una sofferenza ischemica severa. Nelle immagini di diffusione questa alterazione determina un aumento del segnale, che è quasi sempre indice di danno tissutale irreversibile (Fig. 9.79). Il bersaglio di interventi terapeutici nell’ischemia acuta non è tuttavia rappresentato dall’area che presenta danno ischemico severo ma dall’eventuale tessuto a rischio o area di penombra. La RM di perfusione é una tecnica che consente, analogamente ad alcune tecniche di medicina nucleare, di mappare i maggiori parametri emodinamici, volume ematico cerebrale, flusso ematico cerebrale e tempi di transito. Nell’ischemia cerebrale, attorno all’area che é irreversibilmente danneggiata dall’insulto ischemico, possono essere presenti aree ischemiche, con riduzione del flusso ed alterazione di volume e tempi di transito indicativi di
situazioni di rischio emodinamico (Fig. 9.79). Sono queste le aree che, se riperfuse precocemente, possono essere salvate dall’infarto. Nella maggior parte di pazienti con ictus in sede sopratentoriale, studi angiografici hanno documentato la presenza di occlusioni arteriose esocraniche e, più frequentemente, endocraniche (Fig. 9.80) od associate. Una occlusione della arteria cerebrale media può essere individuata con la TC per la presenza di iperdensità all’interno del lume arterioso, in seguito alla formazione di coagulo intravasale (Fig. 9.81). Informazioni sulla pervietà arteriosa si possono ottenere con l’angiografia a RM (Fig. 9.82). Lo studio angiografico, in questa fase, è eseguibile qualora vi sia l’indicazione ad una terapia fibrinolitica intra-arteriosa. Nella fase successiva, in 3ª-4ª giornata, si ha la comparsa di un edema extracellulare, documentabile come area nettamente ipodensa alla TC (Fig. 9.83 A, B) ed iperintensa alla RM (Fig. 9.84), sia nelle sequenze in DP che in T2. Concomita, in questa fase, una più marcata compressione del sistema ventricolare ed un più evidente spianamento delle circonvoluzioni cerebrali.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.82 - Angio-RM intracranica in un paziente a quattro ore dall’esordio di emiplegia sinistra. L’immagine dimostra la occlusione dell’arteria cerebrale media di destra. Fig. 9.80 - Angiografia cerebrale eseguita tramite cateterismo per via transfemorale con iniezione selettiva del contrasto in carotide comune. L’esame eseguito a 6 ore dall’ictus, documenta la presenza di una occlusione completa dell’arteria cerebrale media nel suo tratto orizzontale.
Fig. 9.83 - TC cerebrale eseguita a distanza di 36 ore dall’esordio clinico. La TC documenta la presenza di una estesa area ipodensa localizzata in sede emisferica destra nel cui contesto è inoltre apprezzabile un’area iperdensa a stria lungo il decorso dell’arteria cerebrale media (A) espressione di occlusione tromboembolica dell’arteria stessa; è inoltre apprezzabile un esteso edema vasogenico (B) con compressione e spostamento del sistema ventricolare sovratentoriale.
Fig. 9.81 - TC cerebrale senza contrasto eseguita entro 4 ore dall’ictus. Presenza di area iperdensa di aspetto lineare localizzata lungo il decorso dell’arteria cerebrale media di sinistra, espressione di trombo-embolia intra-arteriosa.
Negli ictus a patogenesi emodinamica, il danno tissutale, documentabile con la TC o con la RM, è localizzato nei territori di confine superficiali tra le arterie cerebrali anteriori, medie e posteriori, o nei territori di confine profondi tra rami perforanti e rami sottocorticali della cerebrale media (Fig. 9.85). Negli ictus lacunari, le lacune, di solito di dimensioni circoscritte e localizzate a livello dei nuclei della base o della sostanza bianca profon-
Esami diagnostici complementari
Fig. 9.84 - RM cerebrale con immagini pesate in densità protonica eseguita in fase subacuta. Presenza di estesa area di alterato segnale, iperintensa, localizzata a sinistra nel territorio di distribuzione profondo e superficiale dell’arteria cerebrale media con evidenti effetti compressivi sugli spazi subaracnoidei e sul sistema ventricolare sovratentoriale, da riferire a zona di sofferenza vascolare ischemica in fase edemigena.
da, sono più facilmente documentabili con la RM (Fig. 9.86). Nella evoluzione dell’ictus ischemico, soprattutto quando la patogenesi è embolica, gli studi neuropatologici hanno documentato in una elevata percentuale (50-60%) la comparsa di aree di infarcimento emorragico. La trasformazione emorragica di una lesione ischemica, può essere documentata alla TC con la comparsa di aree iperdense, usualmente di aspetto puntiforme, talvolta confluenti, nel contesto dell’area ipodensa (Fig. 9.87). Alla RM l’infarcimento emorragico determina la comparsa, nel contesto dell’area ischemica, di aree iperintense nelle sequenze T1 pesate (Fig. 9.88 B), espressione della presenza
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Fig. 9.85 - TC cerebrale eseguita in fase cronica, a distanza di 3 mesi dall’esordio clinico. L’esame documenta la presenza di un’area ipodensa con aspetto ellittico localizzata a destra a livello della sostanza bianca della corona radiata da riferire a zona di sofferenza vascolare su base emodinamica.
di metaemoglobina, o di aree ipointense, nelle sequenze in T2, espressione di depositi di deossiemoglobina ed emosiderina (Fig. 9.88 A). L’infarcimento emorragico si sviluppa più frequentemente nei soggetti con ipodensità precoce e la localizzazione più comune è nella sostanza grigia dei nuclei della base o della corteccia. A distanza di 3-4 settimane dall’ictus, si può osservare, sia all’esame TC che alla RM, la apparente scomparsa della lesione ischemica («fogging effect»), causata dalla presenza di macrofagi e vasi patologici neoformati (neoangiogenesi) nel contesto dell’area ischemica (Fig. 9.89). In fase più tardiva, dopo 2-3 mesi, la TC e la RM permettono di documentare con precisione la sede e l’estensione del danno anatomico, che si manifesta con aree di netta e circoscritta ipodensità alla TC (Fig. 9.90), e con aree ipointense in T1, ed iperintense in DP o T2 alla
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.86 - RM cerebrale con immagini pesate in T2. Presenza di circoscritta area iperintensa localizzata a livello talamico destro, espressione di piccola zona di sofferenza vascolare di tipo lacunare; due piccole aree con le medesime caratteristiche sono inoltre evidenti a livello paratrigonale a sinistra.
Fig. 9.87 - TC cerebrale eseguita a distanza di 5 giorni dall’ictus. Presenza di area ipodensa localizzata a sinistra nel cui contesto sono presenti piccole aree di aumentata densità di tipo ematico da riferire alla presenza di zona di sofferenza parenchimale su base cerebrovascolare ischemica contenente piccoli nuclei di infarcimento emorragico.
RM (Fig. 9.91). Concomita frequentemente una dilatazione ex vacuo della cavità ventricolare adiacente. Una ischemia cerebrale può infine essere causata da patologia occlusiva venosa (trombofleblite e flebotrombosi). La distribuzione del danno ischemico in questo caso non segue quella dei territori vascolari arteriosi ed è frequente la comparsa, anche in fase precoce, di esteso infarcimento emorragico. Emorragia cerebrale Può essere diagnosticata facilmente alla TC, manifestandosi come una zona di aumentata densità (in media tra le 65 e 75 Unità Hounsfield), circondata da un sottile orletto ipodenso determinato dalla retrazione del coagulo (Fig. 9.92). Solo nei soggetti con basso ematocrito l’ematoma può presentare una ridotta densità.
Fig. 9.88 - RM cerebrale eseguita a 7 giorni dall’esordio clinico in paziente con ischemia cerebrale. Presenza di area di alterato segnale nelle immagini pesate in T2 (A) contenente nel suo contesto aree ipointense, da riferire alla presenza di desossiemoglobina; nelle immagini pesate in T1 (B) si apprezzano aree iperintense da riferire alla presenza di metaemoglobina. Tali aspetti sono di comune riscontro nei pazienti con infarcimento emorragico.
Esami diagnostici complementari
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Fig. 9.89 - Effetto fogging. TC cerebrale a 1 (A) e 3 (B) settimane dall’esordio clinico. All’esame eseguito ad 1 settimana si rileva la presenza di una netta area ipodensa in sede temporale anteriore a sinistra (A). Al controllo a distanza di 3 settimane (B) l’area ipodensa evidente all’esame in fase subacuta è parzialmente oscurata.
Fig. 9.91 - RM cerebrale con immagini pesate in T2. Presenza di area iperintensa localizzata a destra nei territori di distribuzione superficiale ed in parte profonda dell’arteria cerebrale media, da riferire alla presenza di zona di necrosi su base vascolare ischemica; è possibile notare una modesta dilatazione del sistema ventricolare sovratentoriale (dilatazione ex vacuo).
Fig. 9.90 - TC cerebrale eseguita a distanza di 3 mesi dall’esordio clinico. Presenza di area di netta ipodensità localizzata a sinistra nei territori di distribuzione superficiali e profondi dell’arteria cerebrale media di sinistra da riferire a zona di necrosi tissutale su base cerebrovascolare ischemica; concomita una dilatazione ex-vacuo del sistema ventricolare sovratentoriale, che appare attratto dall’area di necrosi parenchimale.
L’edema perilesionale è di solito modesto, se esteso suggerisce il sospetto di una concomitante sofferenza ischemica, da spasmo arterioso, conseguente alla rottura di una malformazione vascolare artero-venosa. Nelle emorragie voluminose il sistema ventricolare è compresso dalla massa ematica, in minor grado quando il sangue invade il sistema ventricolare. L’evoluzione TC dell’emorragia è caratterizzata in parte dal riassorbimento ed in parte dal-
la degradazione della parte corpuscolata. L’iperdensità dell’emorragia si riduce, pertanto, progressivamente a partire dalla periferia sino a raggiungere l’isodensità verso la III-IV settimana. Nella fase di riassorbimento si forma, alla periferia della massa ematica, un cercine di lieve aumentata densità costituito da macrofagi, contenenti emosiderina, e da piccoli vasi arteriosi neoformati, modificazioni che determinano un potenziamento periferico, dopo somministrazione endovenosa di contrasto (Fig. 9.93). L’aspetto TC, in questa fase, può essere confuso con quello degli ascessi o dei gliomi con componente cistico-necrotica. Le emorragie di piccole dimensioni si possono riassorbire quasi completamente, in quelle più voluminose può residuare un’area ipodensa
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Meno semplice è la diagnosi dell’emorragia con la RM, in fase acuta, poiché l’emorragia in questa fase presenta un segnale aspecifico ipointenso in T1 e iperintenso in T2, simile a quello di una soluzione proteica. Tuttavia utilizzando opportune sequenze è possibile individuare anche con la RM l’ematoma intracerebrale in fase acuta. Diversi studi hanno dimostrato che le sequenze sensibili alla suscettibilità magnetica, quali le sequenze gradient-echo T2* pesate, essendo molto sensibili alla desossiemglobina presente nella fase iperacuta dell’emorragia, dimostrano l’ematoma anche nelle primissime ore (Fig. 9.94). Nelle ore successive, per trasformazione
Fig. 9.92 - TC cerebrale eseguita a 5 ore dall’esordio clinico. Presenza di area iperdensa, con densità di tipo ematico, di morfologia ovoidale, localizzata a destra a livello dei nuclei della base, da riferire alla presenza di emorragia cerebrale in sede tipica.
di forma ovalare con lieve iperdensità della parete. In questa fase non è più evidenziabile il potenziamento dopo contrasto.
Fig. 9.93 - Ematoma cerebrale in fase subacuta. TC cerebrale eseguita prima (A) e dopo somministrazione endovenosa di contrasto (B) a distanza di 3 settimane dall’esordio clinico. Presenza di area ipodensa, disomogenea localizzata a sinistra in sede parietale; dopo somministrazione di contrasto si apprezza un potenziamento periferico espressione di capsula dell’ematoma.
a
b
Fig. 9.94 - Immagini fast field echo T2* pesate in una paziente due ore dall’esordio di emiplegia sinistra. Le immagini documentano la presenza di ematoma intracerebrale acuto, nettamente ipointenso soprattutto nelle componenti periferiche per la presenza di desossiemoglobina.
dell’ossiemoglobina in desossiemoglobina, si osserva una zona al centro dell’emorragia, ipointensa in T2, con estensione progressiva verso la periferia. Dopo la prima settimana vi è una continua trasformazione della desossiemoglobina in metaemoglobina, prima intracellulare (segnale iperintenso in T1 ed ipointenso in T2) e successivamente extracellulare (con segnale iperintenso in T1 ed in T2) (Fig. 9.95). La formazione della metaemoglobina avviene in senso centripeto e per questo motivo, dopo la prima settimana, l’ematoma è iperintenso alla periferia ed ipointenso al centro nelle sequenze pe-
Esami diagnostici complementari
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Neoplasie cerebrali
Fig. 9.95 - Ematoma cerebrale. RM eseguita in fase subacuta. Presenza di area ovoidale localizzata a destra a livello dei nuclei della base, iperintensa nelle immagini pesate in T2 (A) ed iperintensa nelle immagini pesate in T1 (B), da riferire alla presenza di ematoma cerebrale; la iperintensità di segnale nelle immagini pesate in T1 è da riferire alla presenza di metaemoglobina.
sate in T1, totalmente ipointenso in T2, per divenire poi globalmente iperintenso sia in T1 che in T2. Nella fase cronica l’emosiderina rimane il segno distintivo permanente del pregresso sanguinamento. L’emosiderina è ipointensa in T2 e tale segnale è proporzionale alla intensità del campo magnetico utilizzato. La presenza di una eventuale malformazione vascolare può essere identificata con la RM, poichè i vasi a flusso elevato si presentano come aree di assenza di segnale, nelle sequenze spineco, o come aree iperintense, nelle sequenze con inversione di gradiente. La presenza di una malformazione artero-venosa può essere meglio documentata con l’angio RM. Infatti, utilizzando particolari sequenze e tecniche di saturazione selettive, è possibile evidenziare separatamente la componente arteriosa da quella venosa. L’esame fondamentale per accertare la presenza di una malformazione vascolare, e per documentare le arterie e le vene afferenti ed efferenti, rimane conunque l’angiografia cerebrale con iniezione intra arteriosa di contrasto iodato ed acquisizione con tecnica digitale (angiografia digitale arteriosa).
L’edema si presenta, alla TC, come area ipointensa, con aspetto digitato e localizzazione intorno alla lesione (Fig. 9.96). Alla RM è ipointenso nelle sequenze in T1, ed iperintenso in quelle in DP e T2 (Fig. 9.97). L’elevata cellularità, proporzionale alla malignità della lesione, determina una lieve iperdensità alla TC e, alla RM, si manifesta con un segnale iperintenso nelle sequenze pesate in T2, che tende a decadere nelle sequenze più fortemente pesate in T2. Anche la necrosi, indice di rapidità di accrescimento, di solito localizzata al centro della neoplasia, si presenta nettamente ipodensa alla TC (Fig. 9.96 A), mentre alla RM è ipointensa in T1 ed iperintensa in T2 (Fig. 9.97). Le calcificazioni, talvolta secondarie alla necrosi, in alcuni casi caratteristiche della neoplasia, (negli oligodendrogliomi, nei teratomi, in alcuni meningiomi, nei craniofaringiomi, nei tumori della ghiandola pineale, nei papillomi ed in alcune metastasi) sono iperdense alla TC, mentre alla RM si manifestano come aree di assenza di segnale e quindi ipointense in tutte le sequenze.
Fig. 9.96 - TC Glioblastoma multiforme. (A) Area di alterata densità disomogenea localizzata in sede temporo-parietale ds circondata da edema perilesionale di morfologia digitata e con compressione e dislocazione controlaterale del sistema ventricolare. Dopo somministrazione endovenosa di contrasto (B) presenza di potenziamento disomogeneo e prevalentemente periferico con aree di necrosi centrale.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.97 - RM Glioblastoma A) T1, B) Densità Protonica (DP), C) T2, D) T1 dopo gadolinio. Estesa area di alterata intensità di segnale localizzata in sede temporo-parietale ds iso-ipointensa in T1 (A) e DP (B), iperintensa e disomogenea in T2 (C), circondata da edema perilesionale e con dislocazione controlaterale del sistema ventricolare. Dopo somministrazione endovenosa di gadolinio (D) comparsa di potenziamento disomogeneo con componente solida, necrosi e componente pseudocistica.
In alcuni oncotipi (astrocitomi, emangioblastomi) è caratteristica la formazione di raccolte cistiche, in altri (glioblastomi, metastasi) le aree di necrosi possono assumere un aspetto di tipo cistico (pseudocisti). Alla TC, le cisti sono ipodense, mentre alla RM sono ipointense in T1 e con un segnale vicino a quello del liquor nelle sequenze in DP e T2. Il segnale può comunque variare in rapporto al contenuto e alla quantità di proteine contenute nel contesto delle cisti. La morfologia della parete, liscia nelle cisti vere, irregolare nelle cisti necrotiche, è l’aspetto diagnostico differenziale più importante. Un sanguinamento, talora presente nelle neoplasie a più elevato grado di malignità, è iperdenso alla TC, mentre alla RM segue i diversi mutamenti nel tempo dell’emoglobina. La presenza di vasi patologici neoformati è più facil-
mente documentabile con la RM, come aree di assenza di segnale (flow-void). Il potenziamento dopo somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto nei tumori intrassiali, è legato alla presenza di vasi neoformati con alterazione od assenza della barriera ematoencefalica, mentre nei tumori extrassiali (meningiomi) è dovuto alla presenza di vasi anomali, originati dai rami della carotide esterna, distretto vascolare privo del meccanismo di barriera. Il potenziamento nei tumori intrassiali è, in genere, indice di più elevata malignità, anche se può essere presente in tumori a basso indice di malignità, quali gli astrocitomi pilocitici e gli angioreticulomi (emangioblastomi). Il potenziamento si evidenzia come una iperdensità alla TC ed una iperintensità di segnale nelle sequenze in T1 alla RM, e può essere omogeneo, disomogeneo o periferico rispetto alla lesione, e con morfologia regolare ad anello od irregolare a ghirlanda. TUMORI INTRA-ASSIALI Tumori emisferici Astrocitomi. – Di I-II grado, forme istologicamente benigne, presentano alla TC una ipodensità omogenea, uno scarso edema perilesionale ed una assenza di potenziamento dopo contrasto (Fig. 9.98), con eccezione degli astrocitomi pilocitici, che hanno, invece, un marcato potenziamento.
Fig. 9.98 - TC Astrocitoma II grado. A) area ipodensa a margine irregolare localizzata in sede temporale sottocorticale ds; dislocazione controlaterale del sistema ventricolare; B) dopo somministrazione endovenosa di contrasto non si apprezzano aree di potenziamento.
Esami diagnostici complementari
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Fig. 9.99 - RM Astrocitoma II grado. Immagini pesate in: A) Densità Protonica (DP), B) T2 e C) T1 dopo gadolinio. Area iperintensa in DP (A) e T2 (B), non evidenti aree di potenziamento dopo gadolinio (C).
Alla RM gli astrocitomi benigni sono ipointensi in T1 ed iperintensi in DP e T2; scarso od assente il potenziamento dopo mezzo di contrasto paramagnetico (Fig. 9.99). L’astrocitoma anaplastico ed il glioblastoma hanno un maggiore edema perilesionale, una densità ed un segnale disomogeneo per la presenza di aree di necrosi ed un potenziamento omogeneo nelle forme anaplastiche, e disomogeneo e prevalentemente periferico nei glioblastomi multiformi (Figg. 9.96, 9.97). Possono essere presenti, sia alla TC che alla RM, segni di pregressi sanguinamenti e la RM può visualizzare vasi patologici neoformati. L’angiografia cerebrale è, oggi, di scarsa utilità per la diagnosi, e può documentare la presenza di dislocazioni dei vasi (segni indiretti), e di vascolarizzazioni patologiche neoformate
nelle forme maligne. La angiografia cerebrale nei tumori gliali viene attualmente eseguita con finalità terapeutiche, per la somministrazione distrettuale di farmaci antiblastici. Oligodendroglioma. – Si localizza più frequentemente nei lobi frontali e si distingue dall’astrocitoma di II grado per la presenza di calcificazioni. Assente sia alla TC che alla RM il potenziamento dopo contrasto (Fig. 9.100). Neuroblastoma emisferico. – Alla TC ed alla RM si presenta come una massa ben circoscritta, con edema perilesionale abbondante, e con potenziamento diffuso ed irregolare, dopo contrasto. La densità è disomogenea, prevalentemente ipodensa con aree di più netta ipodensità (necrosi) ed aree iperdense (calcificazioni).
Fig. 9.100 - RM Oligodendroglioma. Immagini su piani assiali pesate in T2 (A), T1 (B) e T1 dopo contrasto (C). Presenza di estesa area di alterata intensità di segnale localizzata in sede frontale sinistra, nettamente iperintensa e con nuclei ipointensi dovuti alla presenza di calcificazioni (A). Nelle sequenze pesate in T1 l’area patologica è ipointensa mentre le calcificazioni appaiono iperintense (B); dopo gadolinio si rileva un potenziamento parcellare (C).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
L’aspetto disomogeneo è evidente anche alla RM; in T1 il segnale è ipointenso, ma possono essere presenti aree iperintense (metaemoglobina), se vi sono stati pregressi sanguinamenti. La elevata cellularità della neoplasia, con cellule piccole e molto compatte, rende ragione della relativa caduta di segnale nelle sequenze pesate in T2. Gangliogliomi, gangliocitomi. – Alla RM dimostrano segnale aspecifico, iperintenso e disomogeneo nelle sequenze pesate in T2. Dopo somministrazione endovenosa di contrasto i gangliogliomi hanno un potenziamento omogeneo, i gangliocitomi disomogeneo. Linfomi primitivi. – Sono attualmente di grande interesse, essendo particolarmente diffusi nei soggetti immunodepressi, per trapianti o per AIDS. A causa della ricca cellularità, il linfoma è lievemente iperdenso alla TC (Fig. 9.101).
Fig. 9.102 - RM Linfoma A) T2, B) T1 dopo gadolinio. Nelle sequenze pesate in T2 (A) si evidenzia una caduta di segnale rispetto all’edema perilesionale dovuta alla elevata cellularità della neoplasia. Marcato ed omogeneo il potenziamento dopo gadolinio (B).
Alla RM è iso-ipointenso in T1, iperintenso in T2, ma con perdita di segnale dovuta alla elevata cellularità, nelle sequenze più fortemente pesate in T2 (Fig. 9.102). Si osserva un discreto edema perilesionale ed un costante potenziamento, sia alla TC che alla RM, dopo somministrazione endovenosa di contrasto (Fig. 9.102). Nei pazienti con AIDS, i linfomi sono usualmente unici e, dopo contrasto, presentano, sia alla TC che alla RM, un potenziamento periferico. Nei pazienti immunodepressi difficile può essere la diagnosi differenziale con la toxoplasmosi in fase acuta. Melanomi. – Sono molto rari e sono alla TC iso-ipodensi; iperdensi in caso, non infrequente, di sanguinamento. Alla RM, per la presenza di melanina, hanno segnale iperintenso in T1, con caduta di segnale in T2. Costante sia alla TC che alla RM il potenziamento dopo somministrazione endovenosa di contrasto. Tumori del troncoencefalo
Fig. 9.101 - TC Linfoma. Area di lieve aumentata densità localizzata sui nuclei della base di sn circondata da un discreto edema perilesionale.
Astrocitoma. – Rappresenta la quasi totalità dei tumori del troncoencefalo ed è in maggioranza del tipo fibrillare (Fig. 9.103), con frequenti anaplasie, necrosi ed emorragie. Nel 25% l’aspetto istologico è quello dell’astrocitoma pilocitico giovanile, con componenti cistiche (Fig. 9.104).
Esami diagnostici complementari
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ze pesate in DP e T2. Il comportamento dopo gadolinio è simile a quello descritto per la TC. Tumori del cervelletto I tumori cerebellari più frequenti sono l’astrocitoma, il medulloblastoma e l’emangioblastoma.
Fig. 9.103 - TC Astrocitoma fibrillare del tronco: A) il ponte è aumentato di volume e si rileva nel suo contesto un’area di tenue ipodensità; il quarto ventricolo è dislocato posteriormente; B) non evidenti zone di potenziamento dopo contrasto.
Alla TC si evidenzia un aumento di volume del tronco, sostenuto da un tessuto ipo-isodenso rispetto al parenchima. Il comportamento dopo mezzo di contrasto è molto variabile ed il potenziamento non è in rapporto con il grado di malignità. Spesso gli astrocitomi più maligni sono nettamente ipodensi e non si potenziano dopo mezzo di contrasto (Fig. 9.103), mentre vi può essere un marcato potenziamento nell’astrocitoma pilocitico, che presenta caratteristiche di benignità. Con la RM è possibile ottenere una documentazione più dettagliata della estensione della neoplasia, che si presenta ipointensa nelle sequenze pesate in T1 ed iperintensa nelle sequen-
Astrocitomi pilocitici. – Presentano alla TC una componente centrale cistica, ipodensa, ed una componente periferica o nodulare lievemente iperdensa. Questa componente presenta dopo contrasto un marcato potenziamento. Alla RM la componente cistica dell’astrocitoma pilocitico è ipointensa in T1 e nettamente iperintensa in T2, mentre la componente solida è isointensa in T1 ed iperintensa in T2 e si potenzia dopo contrasto (Fig. 9.105). Gli astrocitomi fibrillari si presentano tenuamente ed omogeneamente ipointensi alla TC, hanno un segnale omogeneamente ipointenso in T1 ed iperintenso in T2 alla RM, e non presentano potenziamento dopo contrasto. Emangioblastoma. – È il tumore cerebellare primitivo più comune nell’adulto e si associa frequentemente (20%) alla malattia di Von Hippel- Lindau. Nel 50% dei casi presenta alla TC un aspetto cistico, con un nodulo murale solido, con netto potenziamento dopo contrasto endovenoso. Il nodulo murale è in sede piale,
Fig. 9.104 - RM Astrocitoma pilocitico del tronco. A) Densità Protonica, B) T2, C) T1 dopo gadolinio. Il mesencefalo è aumentato di volume e si rileva al suo interno la presenza di aree di alterato segnale iperintense in Densità Protonica (A) e T2 (B) con zone di potenziamento dopo gadolinio (C) e componenti cistiche.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.105 - RM Astrocitoma pilocitico del cervelletto. RM in T1 dopo somministrazione endovenosa di gadolinio, tomogrammi su piani assiali (A) e sagittali (B). Presenza di componente cistica ipointensa e componente solida che presenta un marcato potenziamento.
ciò che consente la diagnosi differenziale con l’astrocitoma pilocitico. Nell’altra metà dei casi prevale la componente solida, che dopo contrasto ha un marcato potenziamento. Alla RM la componente cistica e quella parenchimale sono ipointense in T1 e nettamente iperintense in T2, mentre il cercine periferico, il nodulo murale o la componente solida presentano un marcato potenziamento dopo contrasto (Fig. 9.103 A). I vasi patologici neoformati sono caratteristici e si apprezzano come aree di assenza di segnale con aspetto serpiginoso (Fig. 9.106 B). La vascolarizzazione patologica viene evidenziata più nettamente dalla angiografia.
Fig. 9.106 - RM Emangioblastoma cerebellare: A) T2, B) T1 dopo gadolinio. Area iperintensa nelle immagini in T2 (A) con zone di assenza di segnale riferibili ai vasi patologici; (B) dopo gadolinio marcato potenziamento della componente solida.
Medulloblastoma. – Predilige l’infanzia e l’adolescenza e si localizza nel verme cerebellare. Con la TC e con la RM si documentano la compressione del quarto ventricolo, e l’eventuale idrocefalo sovrantentoriale. Alla TC il medulloblastoma è lievemente iperdenso, alla RM è iso-ipointenso in T1 e solo lievemente iperintenso in T2, per l’elevata cellularità. Ha un netto potenziamento dopo contrasto, sia alla TC che alla RM. TUMORI INTRAVENTRICOLARI Si localizzano in sede intraventricolare gli ependimomi, i subependimomi, gli astrocitomi subependimali a cellule giganti, i papillomi dei plessi corioidei e le cisti colloidi. Ependimomi. – Sono più frequenti nei bambini a livello del IV ventricolo, presentano spesso nel loro contesto piccole calcificazioni e più raramente cisti o aree necrotiche. Alla TC sono disomogenei, con lieve potenziamento della componente solida parenchimale. La RM evidenzia, meglio della TC, l’origine dal pavimento del IV ventricolo, differenziandolo dal medulloblastoma. È iso-ipointenso in T1 ed iperintenso in T2. Il potenziamento dopo contrasto è simile a quello della TC. In alcuni casi può localizzarsi nel contesto del tessuto cerebrale e si ipotizza, allora, che possa prendere origine da cellule ependimali ectopiche, connesse all’ependima da bande di tessuto ependimale. Subependimomi. – Caratterizzati istologicamente dalla coesistenza di cellule ependimali e di astrociti, sono iso-iperdensi alla TC; alla RM le lesioni più piccole sono iperintense in T2, mentre in quelle più voluminose il segnale è disomogeneo per la presenza di aree di necrosi. Gli astrocitomi subependimali originano da astrociti in sede sottoventricolare, più frequenti in prossimità dei forami di Monro e si riscontrano esclusivamente nei pazienti con sclerosi tuberosa. Comuni nel loro contesto le calcifica-
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zioni. Sono iso-iperdensi alla TC, iperintensi con aspetti disomogenei alla RM nelle sequenze in T2. Costante sia alla TC che alla RM il potenziamento dopo contrasto. Papillomi dei plessi corioidei. – Sono rari, localizzati più frequentemente, nel trigone ventricolare. Alla TC sono iperdensi, presentano piccole calcificazioni e potenziamento dopo contrasto. Alla RM sono iso-ipointensi in T1, iperintensi e disomogenei, per la presenza di calcificazioni, in T2. Marcato il potenziamento dopo contrasto. Possono determinare idrocefalo o per ostacolo al deflusso liquorale o per iperproduzione. Cisti colloidi. – Sono tumori neuroepiteliali, localizzati nel III ventricolo in prossimità dei forami di Monro. Alla TC, la cisti colloide è più comunemente iperdensa, con potenziamento periferico dopo contrasto. Alla RM la cisti colloide in T1 può essere ipo od iperintensa, in rapporto alle diverse concentrazioni di sostanze paramagnetiche e tessuto mucoide. Per gli stessi motivi possono essere ipo od iperintensi in T2. Dopo contrasto vi è un potenziamento periferico. TUMORI DELLA REGIONE PINEALE Sono per la metà germinomi, il 20% origina dalle cellule proprie della pineale (pinealocitomi e pinealoblastomi), e per il resto sono teratomi. Indipendentemente dal tipo istologico, presentano con elevata frequenza calcificazioni. Pinealocitomi e pinealoblastomi. – I pinealocitomi sono lievemente iperdensi; i pinealoblastomi sono anche essi lievemente iperdensi e presentano aree ipodense, per l’esistenza di zone necrotiche. Entrambe le neoplasie hanno potenziamento dopo contrasto. Alla RM sono ipointensi in T1, iperintensi in T2, con potenziamento al gadolinio (Fig. 9.107).
Fig. 9.107 - RM Pinealoma. Tomogrammi su piani sagittali pesate in T1 prima (A) e dopo gadolinio (B). Presenza di un nucleo di tessuto isointenso in T1 (A) che presenta potenziamento dopo gadolinio (B).
Germinomi. – Oltre a localizzarsi nella regione pineale, presentano spesso una seconda localizzazione in sede episellare. Alla TC hanno una morfologia irregolare, sono lievemente iperdensi e si potenziano dopo contrasto. Alla RM sono isointensi in T1, iperintensi in T2 con costante potenziamento con gadolinio. Teratomi. – L’aspetto TC ed RM è molto variabile, in rapporto alle differenze istologiche della lesione. TUMORI EXTRA-ASSIALI Meningiomi. – La radiografia del cranio può documentare la presenza dalle calcificazioni o delle alterazioni indotte dal meningioma sull’osso. Alla TC i meningiomi sono lievemente iperdensi, di solito omogenei (Fig. 9.108 A), talvolta disomogenei per la presenza di aree cistico-necrotiche. Presentano margini regolari, con edema perifocale variabile, di solito modesto, ed un marcato potenziamento dopo contrasto (Fig. 9.108 B). Alla RM sono di solito ipointensi in T1 ed iperintensi in T2, anche se, in questa sequenza, quelli più riccamente cellulari possono presentare una caduta di segnale; marcato il potenziamento dopo contrasto (Fig. 9.109). Le calcificazioni e le alterazioni scheletriche, se presenti, sono meglio documentate dalla TC, mentre l’infiltrazione delle strutture vascolari è
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Fig. 9.108 - TC Meningioma. A) esame senza contrasto, B) dopo contrasto. A) area di aumentata densità localizzata in sede temporo-centrale ds circondata da lieve edema perilesionale; B) marcato ed omogeneo potenziamento dopo contrasto.
meglio documentata dalla RM. L’angiografia cerebrale permette uno studio dettagliato della vascolarizzazione, per la componente arteriosa, ma, soprattutto, per quella venosa, per la valutazione della quale ancora oggi vengono chiesti esami angiografici convenzionali. Caratteristica è l’impregnazione del meningioma nella fase tardiva dell’angiogramma, con un aspetto a nubecola (blush) (Fig. 9.110). Neurinomi e neurofibromi intracranici. – Originano dalle cellule di Schwann (Schwannomi) dei nervi cranici; più comuni quelli dell’ottavo paio, che nella neurofibromatosi di Von Recklinghausen possono essere bilaterali, più rari quelli del IX, X, XI e degli altri nervi cranici.
Alla TC il neurinoma è isodenso, talvolta con aree cistiche, e presenta un netto potenziamento dopo contrasto (Fig. 9.111 A, B). È possibile evidenziare con la TC, l’allargamento del meato acustico interno. I neurinomi di piccole dimensioni e quelli intracanalicolari possono non essere evidenziati alla TC. Alla RM sono iso-ipointensi in T1, iperintensi in T2 con netto potenziamento dopo contrasto (Fig. 9.112 A, B), che permette di evidenziare i neurinomi di più piccole dimensioni, anche se in sede intracanalicolare. Craniofaringioma. – Si localizza in sede endosellare o soprasellare ed è costituito da componenti solide, cistiche o calcifiche variamente combinate. Alla TC le calcificazioni sono iperdense, la componente cistica di solito è ipodensa (Fig. 9.113), raramente iperdensa per versamento ematico recente, mentre la componente solida è isodensa o lievemente iperdensa, e si potenzia dopo contrasto. Alla RM la componente cistica è più comunemente ipointensa in T1, ed iperintensa in T2 (Fig. 9.114), ma per la presenza di metaemoglobina da sanguinamento recente o per l’elevato contenuto di colesterina, può essere iperintensa sia in T1 che in T2. La componente solida è ipointensa in T1, iperintensa in T2 con netto potenziamento dopo contrasto. C
Fig. 9.109 - RM Meningioma immagini in (A) Densità Protonica, (B) T2 e (C) T1 dopo gadolinio. A) Area di aumentata intensità di segnale localizzata in sede frontale paramediana ds; la neoplasia per l’elevata cellularità presenta una diminuzione di segnale nelle sequenze in T2 (B). Dopo gadolinio (C) si rileva un marcato potenziamento che interessa anche la dura madre nel punto di impianto del tumore.
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Fig. 9.112 - RM Neurinoma acustico. A) tomogramma assiale in T1: piccolo nucleo di tessuto con intensità di segnale parenchimale che (B) presenta un netto potenziamento dopo gadolinio.
Fig. 9.110 - Angiografia Meningioma. Studio selettivo della carotide esterna; presenza di impregnazione diffusa della neoplasia con aspetto a «nubecola».
A
B
Fig. 9.111 - TC Neurinoma acustico. A) area di densità simile a quella del parenchima cerebrale. B) netto potenziamento dopo contrasto. Fig. 9.113 - TC Craniofaringioma. Tessuto di alterata densità con componente cistica ipodensa e piccoli nuclei calcifici che occupano la cisterna chiasmatica.
Le cisti della tasca di Rathke, relativamente rare, sono spesso di riscontro occasionale, localizzate in sede endosellare, presentano alla RM un segnale iperintenso in T1 per la presenza nel loro contesto di mucopolisaccaridi. Epidermoidi e dermoidi. – Gli epidermoidi, più frequentemente localizzati in sede laterale, specie a livello dell’angolo ponto cerebellare,
presentano alla TC una bassa densità, vicina a quella del liquor. Alla RM il segnale è simile a quello del liquor in T1, ma è, rispetto al liquor, nettamente iperintenso in DP. Dopo contrasto può essere presente, sia alla TC che alla RM, un lieve potenziamento periferico.
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Fig. 9.114 - RM Craniofaringioma. Tomogramma su piano sagittale mediano in T1 (A) e T2 (B). Area di alterata intensità di segnale ipointensa in T1 (A) ed iperintensa in T2 (B) che occupa la cisterna chiasmatica.
I dermoidi presentano densità e segnali variabili, in rapporto alla loro costituzione istologica. Più spesso risultano iperintensi in T1, con decadimento progressivo nelle immagini T2 pesate. Cordomi. – Sono localizzati più frequentemente sul clivus, determinando osteolisi di tale struttura, ed estendendosi anteriormente nel rinofaringe e posteriormente negli spazi cisternali del tronco (Fig. 9.115 A, B). Il quadro neuroradiologico sia alla TC che alla RM è aspecifico e il potenziamento, dopo contrasto, è disomogeneo. La RM permette comunque una accurata documentazione della estensione della neoplasia. TUMORI DEL BASICRANIO Con questo termine vengono indicate le strutture interposte tra encefalo e rivestimento meningeo da un lato e la regione orbitaria, le fosse nasali, i seni paranasali ed il rinofaringe dall’altro. Il basicranio può essere diviso in tre porzioni: anteriore, media e posteriore. I tumori della regione del basicranio possono originare o da struttura esterna al cranio e diffondersi in sede intracranica attraverso i forami della base o da struttura interna al cranio e diffondersi verso l’esterno. Questi ultimi sono stati già trattati nel capitolo dei tumori intracranici extra-assiali.
Fig. 9.115 - Cordoma. A) TC cerebrale su piani assiali con contrasto endovena. Esiti di intervento chirurgico con breccia craniotomica in sede temporale sinistra. Vasta area di alterata densità localizzata nella regione del clivus che si estende anteriormente e lateralmente nella fossa cranica media provocando osteolisi del clivus e dell’apice della rocca petrosa ed invade il seno cavernoso omolaterale. B) TC cerebrale con contrasto endovena e con ricostruzione sul piano sagittale. Vasta area di alterata densità disomogenea localizzata in sede extra-assiale nella regione clivale che si estende verso l’alto nella cisterna chiasmatica, verso il basso nell’epifaringe, verso l’indietro comprimendo il tronco.
Tumori del basicranio anteriore. – I più comuni sono quelli delle cavità paranasali, per la maggior parte di natura epiteliale, e localizzati nel seno mascellare. Il tessuto neoplastico occupa la cavità paranasale e determina un’estesa osteolisi della parete che può essere documentata dettagliatamente dalla TC. La componente parenchimale della neoplasia presenta alla TC un aspetto isodenso, disomogeneo, con potenziamento variabile dopo contrasto. Alla RM il tessuto patologico dà un segnale iso-ipointenso in T1, e modicamente iperintenso in T2, distinguibile dalla patologia infiammatoria, talvolta concomitante per ostruzione delle vie di scarico, poiché nella flogosi il segnale è nettamente iperintenso nelle sequenze T2 pesate. La somministrazione di contrasto determina, di solito, un potenziamento diffuso con aspetti disomogenei (Fig. 9.116). Il neuroblastoma che origina dalla mucosa olfattoria della lamina cribrosa invade le cellule etmoidali e si può estendere nella cavità orbitaria e nella fossa cranica anteriore. Le alterazioni scheletriche sono bene evidenziabili con
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Fig. 9.116 - Carcinoma dell’epifaringe. RM immagine su piani coronali pesata in T1 dopo somministrazione endovena di gadolinio. Vasta area di alterata intensità di segnale che presenta un potenziamento disomogeneo dopo gadolinio e che occupa le cavità nasali e l’epifaringe e si estende verso l’alto invadendo l’etmoide ed i seni frontali, le cavità orbitarie e la fossa cranica anteriore.
la TC. Le alterazioni di densità e di segnale sono aspecifiche, con netto potenziamento dopo contrasto, sia alla TC che alla RM. Tumori del basicranio centrale. – Il più frequente è il carcinoma nasofaringeo, che origina spesso nel recesso faringeo laterale, e si può sviluppare verso la fossa cranica media, attraverso il canale sfeno-palatino, e verso la fossa cranica posteriore attraverso il forame lacero. Alla radiografia convenzionale si può evidenziare la deformazione della colonna aerea a livello dell’epifaringe e della fossa nasale. La neoformazione è isodensa, rispetto ai tessuti molli della regione del collo, e presenta un netto potenziamento dopo contrasto. Comuni sono le lesioni osteolitiche della base cranica, e fre-
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quenti sono anche le localizzazioni metastatiche nei linfonodi cervicali. La diagnosi può essere più precoce con la RM, che più facilmente documenta l’infiltrazione, da parte del tessuto neoplastico, del tessuto adiposo e la via di diffusione intracranica del tumore, che avviene spesso attraverso la fossa pterigo-palatina. Il tessuto neoplastico alla RM è isointenso in T1 e modicamente iperintenso in DP e T2 e presenta un netto potenziamento dopo contrasto. L’angiofibroma giovanile è una neoplasia benigna, di origine mesenchimale, riccamente vascolarizzata, si sviluppa negli adolescenti e predilige il sesso maschile. Origina nell’area del foro sfeno-palatino, si estende anteriormente deformando la parte posteriore del seno mascellare, lateralmente nella fossa infratemporale e verso l’alto attraverso la fessura orbitaria superiore. La TC permette di evidenziare le deformazioni della struttura scheletrica contigua; il tessuto neoplastico è isodenso, rispetto ai tessuti molli, e presenta un marcato potenziamento. Alla RM il tessuto neoplastico è ipointenso in T1 ed iperintenso in T2, con immagini caratteristiche di assenza di segnale, dovuto all’abbondante vascolarizzazione patologica. L’angiografia digitale arteriosa con cateterismo selettivo dei rami della carotide esterna, permette uno studio dettagliato della vascolarizzazione patologica dell’angiofibroma e ne consente la embolizzazione pre-operatoria. Altri tumori di questa regione sono i cordomi già descritti. Tumori del basicranio posteriore. – I più comuni sono i chemodectomi o tumori glomici, tumori benigni dall’età adulta, che possono originare dal glomo timpanico, vagale, carotideo e nel 50% dal glomo giugulare. Presentano segni di invasività locale, determinando osteolisi delle strutture scheletriche adiacenti. I chemodectomi possono estendersi in sede intracranica attraverso il foro lacero posteriore.
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L’esame TC, oltre che evidenziare le alterazioni scheletriche, documenta la presenza di un tessuto iso o lievemente iperdenso, con potenziamento dopo contrasto. Alla RM il tumore glomico presenta, nelle sequenze in T2, un aspetto caratteristico «a sale e pepe», dovuto alla presenza di puntiformi aree di assenza di segnale, causata dai vasi patologici neoformati, di cui sono ricchi i tumori glomici (Fig. 9.117 A, B). La vascolarizzazione patologica viene dettagliatamente documentata dalla angiografia selettiva. I chemodectomi del glomo timpanico si localizzano nella cassa timpanica e sono i più comuni tumori primitivi dell’orecchio medio.
PATOLOGIA SELLARE, EPISELLARE E PARASELLARE Adenomi ipofisari. – Vengono attualmente studiati con la TC e con la RM, con preferenza per quest’ultima. Lo studio con TC viene eseguito sui piani coronali, con spessore di strato di 1.5-2 mm e durante somministrazione endovenosa di contrasto. Lo studio con RM viene eseguito con tomogrammi sui piani coronali con immagini pesate in T1, a spessore di strato di 2-3 mm, prima e dopo somministrazione endovenosa di contrasto. Alla TC, eseguita durante somministrazione endovenosa di contrasto, il microadenoma si evidenzia come una piccola area di relativa ipodensità nel contesto dell’ipofisi, con marcato potenziamento dopo contrasto; si può apprezzare anche una lieve dislocazione del peduncolo ipofisario (Fig. 9.118). Molto raramente il microadenoma può essere iperdenso rispetto alla ghiandola normale. All’esame RM, nelle sequenze pesate in T1, il microadenoma si presenta ipointenso, rispetto al parenchima ipofisario normale. Dopo som-
Fig. 9.117 - Chemodectoma. A) RM immagine pesata in T2 su piani assiali. Area di alterata intensità di segnale, disomogenea, a tipo «sale e pepe», che occupa il forame lacero posteriore di destra che si presenta eroso e slargato. B) RM immagine pesata in T1 dopo somministrazione endovena di gadolinio su piani assiali. Dopo somministrazione endovena di gadolinio si evidenzia un potenziamento dell’area di alterato segnale.
Lesioni ossee del basicranio. – Sono lesioni neoformate primitive benigne (osteomi) e maligne (osteosarcomi e fibrosarcomi), lesioni secondarie di tipo addensante o di tipo osteolitico, da patologia primitiva della mammella, tiroide, prostata. La TC e la RM offrono indicazioni integrative; le alterazioni ossee, sono meglio documentate dalla TC, la diffusione intracranica è maggiormente dettagliata dalla RM.
Fig. 9.118 - TC Microadenoma ipofisario. Tomogramma sul piano coronale durante somministrazione endovena di contrasto. Il microadenoma è evidente come un’area di relativa ipodensità nel contesto dell’ipofisi normale che durante somministrazione di contrasto presenta un marcato potenziamento.
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ministrazione endovenosa di contrasto, si ottiene, nei primi minuti, un potenziamento del tessuto ipofisario normale che permette una migliore identificazione del microadenoma (Fig. 9.119); nei minuti successivi, il microadenoma può presentare un potenziamento vicino a quello dell’ipofisi, ed essere meno facilmente distinguibile.
Fig. 9.119 - RM Microadenoma ipofisario. Tomogramma sul piano coronale con immagine pesata in T1 dopo somministrazione endovena di gadolinio. Il microadenoma si evidenzia come una piccola area ipointensa rispetto all’ipofisi.
La TC e, più dettagliatamente la RM, sono in grado di indentificare l’estensione dell’adenoma al di fuori della cavità sellare (macroadenoma). All’esame TC, il macroadenoma, nel 45% dei casi, presenta una densità omogenea, e più frequentemente lievemente iperdensa, nel rimanente 55% dei casi è disomogeneo. In questa evenienza le componenti ipodense possono essere causate da necrosi, cisti da pregresso sanguinamento o da effettiva ipodensità di una parte della neoplasia, mentre le componenti iperdense sono dovute a recenti aree di sanguinamento o raramente a calcificazioni. Alla RM, i macroadenomi hanno un segnale lievemente ipointenso in T1 (Fig. 9.120A) ed iperintenso in T2 ed un potenziamento dopo ga-
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Fig. 9.120 - RM Macroadenoma ipofisario. Tomogramma sul piano coronale con immagini pesate in T1 prima (A) e dopo (B) somministrazione endovena di gadolinio. Tessuto con intensità di segnale di tipo parenchimale che occupa la cavità sellare e si estende verso l’alto, oblitera la cisterna chiasmatica e disloca verso l’alto il chiasma (A). Dopo somministrazione di gadolinio il tessuto descritto presenta un potenziamento omogeneo (B).
dolinio (Fig. 9.120B). Le eventuali aree emorragiche appaiono come zone iperintense in T1, per la presenza di metaemoglobina (Fig. 9.121); le aree di necrosi in T1 sono nettamente ipointense. Nella estrinsecazione in sede paracavernosa, l’inglobamento del tratto intracavernoso del sifone carotideo nel contesto dell’adenoma, si apprezza meglio con la RM. La TC e la RM sono molto utili per monitorare la risposta dell’adenoma alla terapia medi-
Fig. 9.121 - RM Macroadenoma ipofisario. Tomogramma sul piano sagittale mediano pesato in T1. L’area iperintensa è da riferire alla presenza di metaemoglobina da recente sanguinamento.
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ca; sono soprattutto i prolattinomi che presentano una marcata riduzione volumetrica, dopo terapia con bromocriptina. La diagnosi differenziale deve essere posta con i craniofaringiomi e le metastasi, che possono avere una primitiva localizzazione endosellare con estrinsecazione episellare e, viceversa, con le lesioni endosellari ad estrinsecazione episellare (cisti aracnoidee, neuroepiteliali, dermoidi ed epidermoidi), e con lesioni episellari ad estrinsecazione endosellare (aneurismi, meningiomi, germinomi, gliomi del chiasma ottico, tumori della neuroipofisi, astrocitomi, sarcoidosi). Sella vuota. – La sella vuota, caratterizzata da ernia parziale o totale della cisterna chiasmatica e del liquor in essa contenuto all’interno della cavità sellare (Fig. 9.122), può essere primitiva o secondaria ad intervento chirurgico sulla regione ipofisaria. La sella vuota primitiva è dovuta ad una incontinenza del diaframma sellare, che, attraver-
Fig. 9.122 - RM Sella vuota. Tomogramma sul piano sagittale mediano pesato in T1. Presenza di tessuto con intensità di segnale simile a quello del liquor che occupa parzialmente la cavità sellare e disloca l’ipofisi nel fondo della cavità.
so l’aditus sellare permette l’ernia intrasellare della cisterna chiasmatica. È quasi sempre un reperto occasionale, privo di significato patologico. Raramente può causare dislocazione del chiasma ottico verso il basso, ma, anche in tali casi, determina raramente disturbi del campo visivo. Metastasi cranio-encefaliche METASTASI INTRA-ASSIALI Le metastasi cerebrali presentano aspetti neuroradiologici variabili rendendo, a volte, difficile la diagnosi di lesione metastatica. In linea generale le metastasi sono più frequentemente localizzate nei nuclei della base e fra sostanza grigia e sostanza bianca, ed agli esami neuroradiologici presentano una morfologia rotondeggiante con aspetto omogeneo, se di piccole dimensioni, e disomogeneo con aree necrotiche centrali se più voluminose. Spesso è presente un evidente edema perilesionale, causa di deformazione del sistema ventricolare e di aumento di volume delle circonvoluzioni cerebrali, con conseguente obliterazione degli spazi subaracnoidei adiacenti (Fig. 9.123).
Fig. 9.123 - Metastasi cerebrale A) TC senza contrasto: presenza di estesa area ipodensa di aspetto digitato (edema) localizzata in sede frontale sinistra e contenente nel suo contesto un’area isodensa rispetto al parenchima cerebrale di morfologia anulare che (B) dopo somministrazione endovena di contrasto presenta un marcato potenziamento. Gli spazi subaracnoidei della convessità dal lato della lesione sono meno evidenti per l’edema emisferico.
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Un aspetto costante delle metastasi cerebrali, dovuto alla vascolarizzazione patologica priva di barriera ematoencefalica, è quello di presentare un potenziamento dopo somministrazione di contrasto, sia alla TC che alla RM. In caso di metastasi multiple si pongono problemi di diagnosi differenziale con i gliomi multicentrici e, più comunemente, con lesioni singole o multiple con aspetto simil-neoplastico, ma di origine flogistica (protozoaria o fungina) nei pazienti con immunodepressione. Alla TC le metastasi cerebrali dimostrano un’alterazione della densità variabile, potendo presentarsi come aree omogeneamente ipodense, tenuamente iperdense o disomogenee per l’esistenza di necrosi centrale. L’iperdensità alla TC è dovuta all’elevata cellularità della neoplasia, ad emorragie intratumorali e più raramente a calcificazioni. A volte, l’unico segno di lesione metastatica è rappresentato dall’edema cerebrale, quasi sempre presente, che si estende seguendo i fasci di fibre della sostanza bianca. Tuttavia nelle metastasi corticali di piccole dimensioni, l’edema è spesso assente e solo la somministrazione di contrasto (Fig 9.124 A), anche con doppia dose e controllo tardivo dopo 1 h. (Fig. 9.124 B), ne permette la visualizzazione. Tutte le metastasi cerebrali presentano un potenziamento dopo contrasto, di tipo nodulare solido (Fig.
9.125, 9.126) o con aspetto ad anello o a ghirlanda (Fig. 9.127) per area di necrosi centrale. Quest’ultimo aspetto può porre problemi di diagnosi differenziale con i gliomi, con gli ascessi cerebrali e con gli ematomi intracerebrali in fase di riassorbimento. La RM, comunque, è oggi l’accertamento diagnostico di prima scelta nello studio dei pazienti con sospetta localizzazione metastatica. All’indagine RM le metastasi cerebrali si presentano come aree di alterata intensità di segnale (ipointense nelle sequenze T1 ed iperintense nelle sequenze T2), con morfologia rotondeggiante, tra sostanza grigia e bianca, o a livello dei nuclei della base (Fig 9.125).
Fig. 9.124 - Metastasi cerebrale A) Esame TC dopo somministrazione endovena di contrasto: presenza a sinistra di due aree puntiformi iperdense. B) Dopo somministrazione endovena di una seconda dose di contrasto e controllo tardivo i nuclei di potenziamento sono nettamente più evidenti.
Fig. 9.126 - Metastasi cerebrali multiple A) TC senza contrasto: non si evidenziano aspetti patologici. B) TC dopo contrasto endovena: l’esame tomodensitometrico documenta la presenza di numerose piccole aree di potenziamento di tipo nodulare.
Fig. 9.125 - Metastasi cerebrale A) RM con immagine T2 pesata: non si evidenziano aree patologiche. B) RM immagine T1 pesata dopo somministrazione endovena di mezzo di contrasto: presenza di un piccolo nucleo iperintenso nodulare in sede occipitale.
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Fig. 9.127 - Metastasi cerebrale. RM immagine pesata in T1 dopo somministrazione endovena di mezzo di contrasto: presenza di area iperintensa anulare in sede pontina.
In alcuni casi le metastasi presentano una intensità di segnale caratteristica, che ne permette la tipizzazione di natura. Nelle metastasi da melanomi, infatti, la presenza di melanina, che determina un’accorciamento dei tempi di rilassamento T1 e T2, determina un segnale caratteristico iperintenso in T1 con perdita di segnale nelle sequenze pesate in T2 (Fig. 9.128 A, B).
Fig. 9.128 - Metastasi da melanoma. A) RM immagine pesata in T1: presenza di area iperintensa nodulare in sede temporale corticale con edema perilesionale e spianamento della circonvoluzione. B) immagine pesata in T2: l’area nodulare presenta un segnale disomogeneo ed isointenso rispetto alla corteccia. Nettamente iperintenso è l’edema perilesionale.
In alcuni tumori metastatici polmonari di tipo mucoepidermoidale, si evidenzia un segnale nettamente ipointenso nelle sequenze pesate in T2. La presenza di aree iperintense in T1 e T2, dovuta a metaemoglobina, o ipointense in T2 per emosiderina nel contesto di una lesione metastatica, sono indicative di pregresso sanguinamento, più frequente nelle metastasi da melanoma, coriocarcinoma o tumore renale. L’edema peritumorale è particolarmente ben evidenziato come area di segnale ipointenso in T1 e nettamente iperintenso in T2 (Fig. 9.128 B); in T2 l’edema è maggiormente iperintenso, rispetto alla massa neoplastica, che quindi può essere individuata nel contesto dell’area di alterato segnale. L’uso di contrasto paramagnetico rappresenta in RM un completamento indispensabile per la diagnosi di metastasi cerebrali, poichè, come già detto per la TC, esiste un potenziamento di tipo nodulare nelle metastasi di piccole dimensioni (Fig. 9.126 B), e un aspetto ad anello o a ghirlanda nelle lesioni più voluminose (Fig. 9.123). METASTASI EXTRASSIALI Le metastasi possono localizzarsi nel tavolato cranico, nello spazio epidurale, in quello subdurale ed in quello subaracnoideo. La localizzazione nel tavolato cranico, più frequente nei tumori della mammella, tiroide e prostata, determina alterazioni osteolitiche a tutto spessore della teca, a margini irregolari, ben evidenziate sia alla TC che alla RM, soprattutto sui piani coronali o sagittali. La localizzazione nello spazio epidurale avviene per continuità, da metastasi tecali, poichè la dura è una barriera invalicabile. Le metastasi possono localizzarsi in sede sottodurale o per via ematica o per diffusione, attraverso i plessi venosi epidurali. Localizzazioni metastatiche sono possibili anche negli spazi subaracnoidei realizzando un quadro di carcinomatosi meningea, più fre-
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quente negli adenocarcinomi del polmone e della mammella, nelle leucemie, nei linfomi e nella sarcoidosi. La disseminazione negli spazi subaracnoidei può avvenire o per diffusione o per via ematica o da metastasi intrassiali corticali. Dagli spazi meningei la neoplasia, seguendo gli spazi perivascolari, può diffondere nel cervello e raggiungere l’ependima delle cavità ventricolari, come avviene nei linfomi. La disseminazione negli spazi subaracnoidei può avere aspetti nodulari o infiltranti, causando idrocefalo. Disseminazione per via liquorale può aversi anche in tumori cerebrali primitivi, come i medulloblastomi, gli ependimomi, i germinomi, i pinealoblastomi ed i glioblastomi. La RM è l’esame d’elezione per lo studio delle metastasi sottodurali e subaracnoidee. Nelle metastasi sottodurali l’alterazione di segnale è, di solito, ipointensa in T1 e lievemente iperintensa in T2, con potenziamento dopo contrasto. Nella infiltrazione neoplastica delle meningi, la RM con contrasto evidenzia un potenziamento nodulare o diffuso, simile a quello delle meningiti granulomatose (tubercolare o fungina) e della sarcoidosi. Nella sarcoidosi una localizzazione frequente è a livello ipotalamoipofisario.
Malformazioni artero-venose e aneurismi In questo paragrafo vengono descritte le malformazioni artero venose (MAV), gli aneurismi, l’aneurisma dell’ampolla di Galeno, le teleangectasie, i cavernomi e i cosidetti angiomi venosi. Malformazioni artero-venose. – Anche se la TC può evidenziare microcalficazioni lineari è sempre necessario somministrare contrasto poichè, per lo scarso effetto massa, le MAV potrebbero sfuggire ad un esame di base. Dopo contrasto si evidenziano serpiginose strie iperdense (Fig. 9.129), eventuali versamenti emorragici.
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Fig. 9.129 - TC dopo contrasto. Malformazione artero-venosa. Si evidenziano le vene di scarico come aree di potenziamento con morfologia a stria.
Con la RM, utilizzando le sequenze spinecho, si evidenziano strie di assenza di segnale (Fig. 9.130). Con le sequenze in gradient-echo, presentano un segnale iperintenso, che permette una diagnosi differenziale con le calcificazioni ed i prodotti di degradazione dell’emoglobina. Lo studio angiografico in RM, visualizza le arterie afferenti, il nido e le vene di scarico. Per una diagnosi dettagliata e per pianificare un trattamento terapeutico è comunque indispensabile eseguire una angiografia con cateterismo selettivo e superselettivo (Fig. 9.131). La arteriografia riveste inoltre un importante ruolo nel controllo perioperatorio, per confermare la completa escissione chirurgica della lesione ed evitare un reintervento. Aneurisma della vena di Galeno. – Sotto questo termine viene indicato un gruppo di MAV
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Galeno. Il seno retto può essere assente e, comunque, la relativa difficoltà di scarico provoca la dilatazione «aneurismatica». Se non trattate, la prognosi è, nella maggior parte dei casi, infausta. Alla TC senza contrasto si evidenzia la vena dilatata come struttura iperdensa, possono coesistere focolai emorragici, ischemici e calcificazioni parenchimali, espressione di ipossia cronica (Fig. 9.132). Le sequenze RM spin-echo evidenziano la lesione come una area di assenza di segnale. Teleangectasie capillari. – Sono dilatazioni capillari, espressione di disfuzione dello sviluppo angiogenetico e, forse, non vere malformazioni, ma analoghe ai cosidetti angiomi venosi. Sono evidenziabili alla RM come piccole aree tenuamente iperintense in T2, e con tenue potenziamento dopo contrasto. Fig. 9.130 - RM sequenze T2 pesate. La malformazione vascolare si presenta come area di morfologia serpiginosa di assenza di segnale.
congenite, costituite da shunts artero-venosi a livello della vena mediana prosencefalica, dalla quale origina embriologicamente la vena di
Fig. 9.131 - Angiografia carotidea. Presenza di malformazione vascolare in sede occipitale alimentata dall’arteria cerebrale posteriore.
Fig. 9.132 - TC dopo contrasto. L’aneurisma della ampolla di Galeno si evidenzia come un’area rotondeggiante iperdensa. I piccoli difetti di riempimento sono costituiti da materiale embolizzante di una precedente seduta di neuroradiologia interventiva.
Esami diagnostici complementari
Cavernomi. – Possono essere unici o multipli, costituiti da masse lobulate di tessuto endoteliale in cui ristagna il sangue, completamente delimitati dal tessuto cerebrale circostante. Non sono presenti shunts, e si comportano come lesioni a bassa pressione, che possono ingrandire in caso di emorragia e per la successiva gliosi perilesionale. Clinicamente possono essere silenti e la sintomatologia, in caso di emorragia, dipende dalla loro localizzazione. Alla TC si evidenziano come lesioni rotondeggianti tenuamente iperdense per la presenza di microcalcificazioni, talora con tenue potenziamento dopo contrasto (Fig. 9.133). Generalmente non è presente edema, nè effetto massa. La RM è più sensibile e specifica e dimostra lesioni ben circoscritte dal parenchima circostante, e, nelle immagini pesate in T1 e T2, è evidente un anello periferico ipointenso costituito da ferritina ed emosiderina (Fig. 9.134).
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Fig. 9.134 - RM sequenze T2 pesate. Il cavernoma si evidenzia come una area di alterato segnale, rotondeggiante, circondata da un alone ipointenso costituito da emosiderina.
Per la lentezza del flusso circolatorio all’interno, non sono evidenziabili all’angiografia (lesioni criptiche). Angiomi venosi. – Sono costituiti da vene midollari dilatate, orientate radialmente in direzione di una larga vena corticale, che partecipa al normale drenaggio cerebrale. Sono considerate anomalie, piuttosto che vere malformazioni, e spesso sono reperti occasionali, con elevata frequenza associati ad angiomi cavernosi. La TC ed la RM danno immagini caratteristiche, evidenziando vene dilatate, orientate radialmente verso una vena di drenaggio.
Fig. 9.133 - Esame TC. Il cavernoma si evidenzia come una area iperdensa per la presenza nel suo contesto di calcificazioni.
Aneurismi ed emorragia subaracnoidea (ESA). – Gli aneurismi possono essere evidenziati con la TC, dopo somministrazione endovenosa di contrasto, e la documentazione è più netta se si utilizza la tecnica angio-TC (Fig. 9.135).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.135 - Angio TC. Dopo somministrazione di mezzo di contrasto in bolo; l’aneurisma della comunicante anteriore presenta un omogeneo potenziamento.
Possono sfuggire all’esame TC gli aneurismi di piccole dimensioni, inferiori ai tre millimetri; gli aneurismi giganti (superiori ai 15 mm) presentano spesso calcificazioni parietali e, dopo somministrazione di contrasto, un potenziamento disomogeneo, dovuto alla presenza di trombi (Fig. 9.136). Alla TC, l’ ESA presenta una più o meno diffusa iperdensità a livello degli spazi subaracnoidei (Fig 9.137), ed è evidente, nel 90% dei casi, nell’esame eseguito entro 24-48 ore dall’ episodio acuto. Nei giorni successivi al sanguinamento, si possono evidenziare eventuali aree malaciche, conseguenti a vasospasmo, e dilatazione del sistema ventricolare per alterazione della dinamica liquorale. L’ evidenza TC di un sanguinamento perimesencefalico comporta,in genere, una buona prognosi, essendo tale sanguinamento usualmente sostenuto da rottura delle vene del clivus e non di un aneurisma.
Fig. 9.136 - Angio TC. Dopo somministrazione di contrasto, l’aneurisma gigante presenta un disomogeneo potenziamento per la presenza nel suo interno di coaguli.
La RM, con le normali sequenze spin-echo, è in grado di evidenziare aneurismi di dimensioni superiori ai 3 mm, che appaiono come aree di assenza di segnale (Fig. 9.138), e con le sequenze GE si evidenziano come aree iperintense. Gli aneurismi giganti, superiori a 15 mm, possono presentare un segnale disomogeneo, per l’esistenza di trombi all’interno. Il gadolinio non aumenta l’intensità di segnale degli aneurismi ad alto flusso, solo gli aneurismi giganti presentano un disomogeneo potenziamento e possono sembrare lesioni tumorali. La RM non è in grado di evidenziare l’ESA in fase acuta, nella fase subacuta è, invece, possibile rilevare emorragie intraparenchimali e lesioni infartuali, sostenute dal vasospasmo. L’angio RM aumenta le possibilità di evidenziare la sacca aneurismatica (Fig. 9.139), tuttavia i limiti di questa metodica, per lo studio dei piccoli aneurismi, sono ancora da precisare.
Esami diagnostici complementari
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Fig. 9.138 - RM sequenze T2 pesate. L’aneurisma della comunicante anteriore si evidenzia come una area rotondeggiante di assenza di segnale. Fig. 9.137 - Esame TC. L’emorragia subaracnoidea si evidenzia come una diffusa iperdensità a livello degli spazi subaracnoidei.
L’angiografia cerebrale con cateterismo selettivo è ancora la metodica di scelta per dimostrare gli aneurismi e stabilire la scelta terapeutica (Fig. 9.140, 9.141). Devono essere esaminati i quattro vasi cerebrali, poichè gli aneurismi sono spesso multipli, e realizzare proiezioni sui piani ortogonali ed obliqui per stabilire con esattezza i rapporti dell’aneurisma con l’arteria da cui origina (colletto dell’aneurisma). Se l’arteriografia risulta negativa, è necessario ripetere l’esame nei giorni successivi, perchè l’aneurisma può essere sfuggito al primo controllo per la presenza di vasospasmo.
Malattie della sostanza bianca La metodica più largamente utilizzata per lo studio di questo tipo di patologia, è, senza dub-
Fig. 9.139 - Angio RM: presenza di un aneurisma del sifone carotideo (freccia).
bio, la RM, che ha dimostrato di possedere un’elevata sensibilità nell’evidenziare alterazioni, anche minime, dell’intensità di segnale della sostanza bianca, ma non analoga specificità,
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.142 - Leucoencefalopatia multifocale progressiva. RM sui piani assiali con immagini pesate in T1 (A) ed in T2 dopo somministrazione endovena di contrasto paramagnetico (B). Presenza di multiple aree di alterata intensità di segnale localizzate in maniera asimmetrica nella sostanza bianca di entrambi gli emisferi cerebrali, iperintense nelle sequenze pesate in T2 ed ipointense nelle sequenze in T1. Non sono evidenti potenziamenti dopo somministrazione endovena di contrasto. Fig. 9.140 - L’angiografia cerebrale evidenzia la presenza di un aneurisma della comunicante anteriore (A) e della cerebrale media (B).
maniera asimmetrica, appaiono iperintense alla RM nelle sequenze pesate in T2 (Fig. 9.142 B). Con il progredire della malattia tali aree diventano più numerose, tendono a confluire e possono interessare anche la sostanza grigia. In genere non è presente potenziamento dopo somministrazione di gadolinio (Fig. 9.142 B) verosimilmente per la scarsa risposta infiammatoria nei confronti delle lesioni demielinizzanti. Panencefalite sclerosante subacuta. – Si evidenzia una estesa sofferenza edemigena periventricolare, dimostrata come ipodensità alla TC ed iperintensità in T2 alla RM, che determina effetto massa nella fase acuta e tende successivamente ad evolvere in un quadro di atrofia piuttosto marcato.
Fig. 9.141 - L’angiografia cerebrale evidenzia la presenza di un aneurisma della cerebrale media.
poichè solo pochi quadri RM sono caratteristici di singole malattie. Leucoencefalopatia multifocale progressiva. – Le aree di demielinizzazione, distribuite principalmente nella sostanza bianca di entrambi gli emisferi cerebrali, in
Encefalomielite acuta disseminata. – Dimostra aree di demielinizzazione, localizzate diffusamente nella sostanza bianca degli emisferi cerebrali, prevalentemente in sede sottocorticale, talora con interessamento della sostanza grigia. Tali lesioni appaiono, alla RM, come aree iperintense, nelle sequenze pesate in T2. In genere è presente un potenziamento dopo somministrazione di contrasto. Mielinolisi pontina centrale. – L’aspetto RM è costituito da una iperintensità in T2 ed ipointensità in T1, in sede pontina centrale, di dimensioni variabili, da pochi millimetri fino alla quasi totalità del ponte. È sempre presente una rima periferica di tessuto sano e le fibre cortico-spinali discendenti sono risparmiate. Aree di demielinizzazione si possono riscontrare anche a livello del talamo, della capsula interna, del corpo genicolato laterale e della corteccia.
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Malattia di Marchiafava-Bignami. – TC ed RM dimostrano alterazioni della densità o della intensità di segnale del corpo calloso nella fase acuta, mentre in fase cronica si evidenziano aspetti atrofici del corpo calloso e della corteccia, prevalentemente in sede frontale.
Malattia di Canavan. – Alla RM si osserva una iperintensità di segnale della sostanza bianca biemisferica a distribuzione simmetrica e un aumento del volume della sostanza bianca legato al quadro di macrocefalia e, nelle fasi finali, atrofia.
Ipossia. – Alla TC ed alla RM si dimostra, nell’adulto, un quadro di atrofia corticale, ma possono esistere vari gradi di sofferenza della sostanza bianca. Nel neonato, l’ipossia è, in genere, responsabile di una sofferenza della sostanza bianca biemisferica, in sede periventricolare, spesso in maniera simmetrica, con predilezione per le regioni di confine tra territori vascolari profondi e superficiali. Tali lesioni sono evidenti alla TC come aree ipodense ed alla RM come aree iperintense in T2.
Adrenoleucodistrofia. – L’aspetto TC ed RM consiste in un’alterazione della sostanza bianca peritrigonale, evidente come ipodensità alla TC e iperintensità in T2 alla RM (Fig 9.143 A), che oltrepassa lo splenio del corpo calloso e mostra una disposizione simmetrica. In alcuni casi le alterazioni della sostanza bianca hanno una diversa distribuzione, interessando prevalentemente le regioni frontali, o un solo emisfero cerebrale. Dopo somministrazione di contrasto, è presente un potenziamento periferico a livello delle zone di demielinizzazione (Fig. 9.143 B).
Soggetti anziani, ipertesi, diabetici. – È frequente il riscontro di piccole zone di sofferenza della sostanza bianca in sede periventricolare, dovute ad episodi ischemici. Tali lesioni sono evidenti come multiple e circoscritte aree ipodense alla TC e iperintense alla RM in T2, localizzate più frequentemente a livello della sostanza bianca del centro semiovale in sede profonda, delle radiazioni ottiche e dei gangli della base. Bisogna sottolineare che tali reperti sono spesso presenti in soggetti anziani normali, in assenza di deficit neurologici e cognitivi. Leucodistrofie. – La RM, pur essendo molto utile nel corretto inquadramento di queste malattie, non è, tuttavia, in grado di fornire una sicura diagnosi di natura. Il quadro RM dimostra un progressivo coinvolgimento della sostanza bianca, che tende ad evolvere verso una atrofia cerebrale diffusa. Sebbene questo quadro sia comune ai vari tipi di leucodistrofia negli stadi avanzati, esistono, nelle fasi precoci, alcuni aspetti RM caratteristici. Leucodistrofia metacromatica. – Il quadro TC ed RM è caratterizzato da lesioni simmetriche della sostanza bianca, che più frequentemente cominciano dalle regioni frontali e si estendono posteriormente. Frequentemente sono presenti lesioni cerebellari, rare in altre forme di leucodistrofia. Non è presente potenziamento dopo contrasto. Nelle fasi tardive sono presenti quadri atrofici. Malattia di Krabbe o leucodistrofia a cellule globoidi. – Alla TC è possibile evidenziare un aumento simmetrico della densità dei talami, dei nuclei caudati e della corona radiata, correlata, dal punto di vista neuropatologico, alla presenza di fini deposizioni di sali di calcio. Quando presenti, questi reperti sono caratteristici. Alla RM si osserva una iperintensità di segnale della sostanza bianca nelle sequenze in T2, con distribuzione preferenziale ai settori posteriori del centro semiovale ed alle radiazioni ottiche. La perdita progressiva di sostanza bianca porta ad un quadro finale di atrofia marcata.
Fig. 9.143 - Adrenoleucodistrofia. RM con immagini pesate in T2 (A) ed in T1 dopo endovena di contrasto (B). L’esame documenta la presenza di aree di alterata intensità di segnale in sede peritrigonale (A). Dopo gadolinio è presente un potenziamento periferico (B).
Malattia di Alexander. – Alla TC si osserva una ipodensità, e alla RM ipointensità in T1 ed iperintensità in T2, che interessa la sostanza bianca soprattutto in sede frontale e temporale, in maniera simmetrica e con rapida progressione verso un quadro di atrofia cerebrale diffusa. Come nella malattia di Canavan, nelle fasi iniziali, è presente megalencefalia, ma può essere presente un potenziamento dopo somministrazione di contrasto. Malattia di Pelizaeus-Merzbacher. – Presente una diffusa alterazione della sostanza bianca sopratentoriale, ipodensità alla TC ed iperintensità in T2 alla RM, anche per le fibre sottocorticali, con associazione di un quadro di atrofia, di grado variabile, prevalentemente del corpo calloso, del tronco encefalico e del cervelletto. Malattie da accumulo lipidico (m. di Niemann-Pick, m. di Fabry, m. di Gaucher, m. di Tay-Sachs). – Possono essere presenti infarti lacunari a livello dei nuclei della
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
base, evidenti alla RM come puntiformi aree iperintense nelle sequenze pesate in T2. Nei quadri più avanzati, si può osservare una iperintensità di segnale in T2, per la sostanza bianca periventricolare. Mucopolisaccaridosi. – Si riscontra spesso una compressione del tratto cervicale alto e del forame magno, dovuta ad una stenosi del canale e ad ispessimento durale, secondario a deposito di mucopolisaccaridi. A livello dell’encefalo il quadro RM varia dalla normalità fino alla presenza di piccole aree iperintense in T2, localizzate nella sostanza bianca di entrambi gli emisferi cerebrali, dovute all’accumulo di cellule contenenti mucopolisaccaridi a livello degli spazi perivascolari.
Sclerosi Multipla (SM) La RM, esame non invasivo e ripetibile nel tempo, ha assunto, al giorno d’oggi, un ruolo fondamentale, non solo nella diagnosi, ma ancor più nella valutazione del decorso della malattia e nel monitoraggio delle terapie mediche. Le placche di demielinizzazione si evidenziano come aree iperintense nelle immagini pesate in DP e T2, di dimensioni variabili da pochi millimetri a qualche centimetro di diametro, a localizzazione nella sostanza bianca sovra e sottotentoriale (Fig. 9.144). Le lesioni, a prevalente localizzazione periventricolare, possono confluire tra loro per assumere l’aspetto di «cappucci» peritrigonali (Fig. 9.145) o, se a livello delle celle medie dei ventricoli laterali, l’aspetto a tipo «corona di rosario» (Fig. 9.146). Le localizzazioni delle placche di demielinizzazione possono interessare contemporaneamente cervello e midollo in circa il 70% dei pazienti o interessare solo il midollo, in meno del 30% (Fig. 9.147). L’uso del mezzo di contrasto permette di ottenere informazioni sull’attività della malattia, documentando la presenza di un potenziamento nelle immagini pesate in T1 (Fig 9.148), espressione di alterazione della barriera ematoencefalica, sia in placche di nuova formazione che in placche preesistenti, che aumentano di volume, ed infine in placche apparentemente stabili ad esami RM ripetuti nel tempo. Il potenziamento dopo mezzo di contrasto, come dimostra-
Fig. 9.144 - Sclerosi multipla. RM cerebrale con immagini pesate in T2. Multiple aree iperintense, di dimensioni variabili, localizzate a livello della sostanza bianca del centro semiovale.
to anche da studi sull’encefalite allergica sperimentale, permane al massimo per due mesi dalla formazione della placca. Anche per lo studio del midollo le tecniche di RM hanno rivoluzionato le capacità di investigare i pazienti affetti da SM. Tuttavia, esistono alcune limitazioni alla rilevazione delle lesioni midollari legate, soprattutto, allo scarso potere di risoluzione per le ridotte dimensioni del midollo ed agli artefatti dovuti ai movimenti respiratori ed alle pulsazioni sia arteriose (aorta) che liquorali. Monitoraggio dell’evoluzione della malattia. – La RM rappresenta, come è già stato detto, un parametro fondamentale nel monitoraggio dell’evoluzione della malattia e dell’efficacia dei presidi terapeutici. L’attività della malattia viene valutata ricorrendo a studi longitudinali, considerando gli studi di RM sequenziali, eseguiti sullo stesso paziente.
Esami diagnostici complementari
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Fig. 9.145 - Sclerosi multipla. Sezione assiale di RM condotta a livello dei ventricoli laterali con immagini pesate in densità protonica. Aspetto confluente periventricolare a «cappuccio» delle placche di demielinizzazione. Fig. 9.147 - Sclerosi multipla. Sezione sagittale di RM con immagini pesate in T2 condotta a livello del midollo cervicale. Presenza di diffuse alterazioni di segnale a carico del midollo e del bulbo, espressione di zone di demielinizzazione.
Fig. 9.146 - Sclerosi multipla. Sezione assiale di RM con immagini pesate in T2 condotta a livello dei ventricoli laterali. Aspetto confluente a «corona di rosario» delle placche di demielinizzazione.
Parametri da considerare sono la valutazione del numero delle lesioni attive ed il potenziamento dopo contrasto. Le lesioni attive sono quelle che si presentano ex novo, quelle preesistenti che aumentano di volume ad esami RM sequenziali, e quelle che, pur non presentando modificazione morfovolumetriche nel tempo, presentano potenziamento di contrasto. Un parametro molto importante nella valutazione oggettiva delle placche di demielinizzazione è la sua quantificazione volumetrica, tramite l’impiego di programmi dedicati e analizzatori di immagine. È con la quantificazione volumetrica che si è in grado di esprimere il «peso» della malattia, e di valutare a distanza l’evoluzione e l’efficacia di un trattamento terapeutico.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Patologia infettivo-infiammatoria La RM è metodica d’elezione per lo studio della patologia infettivo-infiammatoria e permette spesso una diagnosi precoce, elemento indispensabile per una terapia mirata. Con le immagini pesate in T2 è possibile evidenziare le alterazioni di segnale dovute alle lesioni indotte nel tessuto nervoso. Le immagini pesate in T1 dopo contrasto endovenoso, forniscono informazioni fondamentali sull’entità del processo flogistico, e sulla possibile diffusione del processo infiammatorio lungo le vie liquorali (Fig. 9.149).
Fig. 9.148 - Sclerosi multipla. Sezione assiale di RM con immagini pesate in T1 ottenuta dopo somministrazione endovena di contrasto. L’esame documenta la presenza di un potenziamento a livello di tre placche di demielinizzazione, espressione di attività di malattia.
La RM può, inoltre, essere utilizzata per valutare l’efficacia dei farmaci in corso di esperimento terapeutico a breve termine (sei mesi), mentre la valutazione clinica sull’efficacia di un farmaco richiede, necessariamente, una osservazione di lunga durata (almeno tre anni). Recenti studi hanno rivelato come, in contrasto col profilo clinico, la malattia presenti una continua attività biologica, dimostrabile dalla presenza di nuove lesioni che appaiono e scompaiono durante i periodi di remissione clinica: le lesioni visibili alla RM sono da 5 a 10 volte più frequenti delle ricadute cliniche. L’attività di malattia in caso di esperimenti terapeutici, può, pertanto, essere valutata utilizzando la RM, con studi seriati con contrasto. È possibile che ulteriori informazioni sulla attività metabolica della placca e, quindi, sulla fisiopatologia della malattia si possano avere in futuro con la spettroscopia in RM.
Infezioni virali. – La RM documenta la presenza di molteplici aree, spesso confluenti, di iperintensità nelle immagini pesate in T2 ed aree iso-ipointense nelle immagini pesate in T1, con effetto massa variabile. L’aumento di segnale nelle immagini pesate in T2 è dovuto all’edema vasogenico. Dopo contrasto è possibile osservare nelle immagini pesate in T1, un potenziamento parenchimale disomogeneo ed irregolare, legato alla rottura della barriera ematoencefalica. Nell’encefalite erpetica una iperintensità di segnale nelle immagini T1 basali è dovuta alla
Fig. 9.149 - TC cerebrale con tomogramma condotto a livello dei ventricoli laterali eseguito prima (A) e dopo somministrazione endovena di contrasto (B). L’esame documenta la presenza di un esteso coinvolgimento della parete ventricolare e del parenchima adiacente (A), con marcato potenziamento dopo contrasto (B), espressione di processo flogistico.
Esami diagnostici complementari
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Fig. 9.150 - Encefalite erpetica. RM cerebrale con sezioni condotte a livello dei nuclei della base ed immagini pesate in T2 (A) e T1 (B). Nelle immagini pesate in T2 è evidente un’estesa area di alterato segnale localizzata in sede temporale (A); allo stesso livello e nelle immagini pesate in T1 (B) si apprezza la presenza di una iperintensità di segnale in sede temporale anteriore espressione di infarcimento emorragico tipico dell’encefalite erpetica.
componente emorragica della lesione (metaemoglobina) (Fig. 9.150). Nelle meningiti, la RM di base non fornisce dati diagnostici, ma dopo contrasto paramagnetico, è possibile osservare aree di potenziamento a livello degli spazi subaracnoidei, espressione di processo in atto. Infezioni da HIV. – La localizzazione diretta del virus HIV nel cervello determina una sofferenza diffusa della sostanza bianca degli emisferi, rilevabile come diffusa iperintensità di segnale, visibile alla RM nelle immagini pesate in T2 (Fig. 9.151). Concomita spesso un quadro di atrofia cerebrale diffusa. La iperintensità di segnale è espressione di demielinizzazione e vacuolizzazione. L’estensione del coinvolgimento cerebrale evolve grossolanamente in modo parallelo alla progressione del quadro neurologico. Le encefaliti virali, nei pazienti affetti da AIDS, presentano quadri neuroradiologici aspecifici e difficilmente differenziabili. Infezioni batteriche. – Alla RM, l’ascesso cerebrale è caratterizzato dalla presenza, nelle immagini pesate in T2, di una componente centrale iperintensa, circondata da un sottile cercine ipointenso, espressione della capsula ascessuale
Fig. 9.151 - Encefalite da HIV. RM cerebrale con immagini pesate in T2 condotte a livello ventricolare. Presenza di multiple aree di alterato segnale, iperintense, localizzate in sede frontale destra ed occipitale bilateralmente, presenti in paziente con infezione primitiva da HIV.
costituita da fibroblasti e macrofagi, che presenta un marcato potenziamento dopo contrasto endovenoso (Fig. 9.152).
Fig. 9.152 - Ascesso cerebrale. RM cerebrale. Le immagini pesate in T2 documentano la presenza di una formazione ascessuale bilobata circondata da reazione edemigena (A) localizzata in sede frontale destra; è tipico il segnale a carico della capsula dell’ascesso, ipointenso nelle immagini pesate in T2 (A) con potenziamento periferico ad anello nelle immagini pesate in T1 eseguite dopo somministrazione endovena di contrasto paramagnetico (B).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
L’aspetto in RM convenzionale può tuttavia rappresentare un problema di diagnosi differenziale con altre lesioni cistiche o necrotiche quali le metastasi cerebrali. La RM di diffusione consente di diagnosticare con certezza gli ascessi piogenici: il contenuto purulento dell’ascesso appare infatti nettamente iperintenso nelle immagini pesate in diffusione e presenta una riduzione del coefficiente di diffusione apparente (Fig. 9.153). Un’altra possibile localizzazione intracranica dell’infezione batterica è quella subdurale (empiema subdurale), spesso in relazione con focolai batterici a livello dei seni paranasali. La trombosi venosa è la più grave complicanza. Infezioni da protozoi Toxoplasmosi. – Alla RM si osservano, generalmente, multiple aree di alterato segnale, localizzate a livello dei nuclei della base, e a livello cortico-sottocorticale, e più raramente a livello cerebellare e del tronco. Tali lesioni sono caratterizzate da un cercine periferico ipointenso in T2, che si potenzia dopo somministrazione di gadolinio. a
b
Fig. 9.153 - Immagine T1 post-contrasto a) in un paziente con crisi convulsiva e cefalea. L’immagine dimostra la presenza di due lesioni caratterizzate da una zona centrale ipointensa in T1 circondata da un cercine periferico con potenziamento. La diagnosi differenziale includeva in questo caso lesioni ripetitive o ascessi cerebrali multipli. b) L’immagine di diffusione dimostra una marcata iperintensità di segnale delle componenti centrali delle lesioni espressione di materiale purulento ad levata viscosità. L’esame istologico ha dimostrato la natura ascessuale delle lesioni.
Fig. 9.154 - Toxoplasmosi. RM cerebrale con immagini pesate in T2 (A) ed in T1 dopo somministrazione endovena di contrasto paramagnetico (B). Localizzazione di toxoplasma in paziente HIV positivo. Le immagini pesate in T2 documentano la presenza di una formazione rotondeggiante, disomogeneamente ipointensa (A) con potenziamento dopo contrasto (B), localizzata a livello dei nuclei della base di sinistra e circondata da estesa reazione edemigena.
Ultimamente, per il sempre più crescente numero di soggetti immunodepressi, si osserva, frequentemente, un’unica estesa area di alterato segnale, costituita da una zona centrale, di morfologia rotondeggiante, disomogeneamente ipointensa nelle immagini pesate in T2, circondata da un’estesa area iperintensa di probabile natura edemigena (Fig. 9.154). Infezioni fungine. – Alla RM, nelle immagini pesate in T1, si osserva dopo contrasto, la presenza di aree di potenziamento multiple, di aspetto anulare o nodulare, espressione di lesioni focali granulomatose. Infezione tubercolare. – Alla RM, nelle immagini pesate in T2, le lesioni granulomatose appaiono generalmente iperintense e presentano nelle sequenze in T1, dopo contrasto, un potenziamento anulare o nodulare, con caratteristiche assai simili alle lesioni granulomatose fungine. Alla TC si osservano alterazioni della densità, che coinvolgono preferenzialmente le strutture della base; dopo contrasto, il potenziamento è circoscritto con coinvolgimento degli spazi subaracnoidei e delle cisterne basali (Fig. 9.155).
Esami diagnostici complementari
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Fig. 9.155 - Tubercolosi meningea. TC cerebrale eseguita prima (A) e dopo somministrazione endovena di contrasto (B). L’esame documenta la presenza di un tessuto patologico che interessa gli spazi cisternali ponto-mesencefalici e temporali.
Traumi cranici L’accertamento neuroradiologico di elezione, in un traumatizzato cranico in fase acuta, è la TC, che oltre ad essere disponibile in molte strutture sanitarie, permette un buon monitoraggio del paziente, fornisce immagini altamente diagnostiche in un tempo relativamente breve, ed ha una elevata specificità nell’evidenziare la presenza di raccolte ematiche, e le soluzioni di continuità dell’osso. LESIONI EXTRA PARENCHIMALI Ematomi epidurali. – Alla TC si dimostrano come una raccolta iperdensa, con morfologia a lente biconvessa (Fig. 9.156). È fondamentale esaminare con finestra per l’osso la teca cranica perilesionale per evidenziare la eventuale presenza della rima di frattura. Ematomi sottodurali. – Alla TC appaiono come ampie raccolte, estese anche a tutta la convessità emisferica (Fig. 9.157), a volte bilaterali. Il grado di densità è in rapporto con i valori dell’ematocrito e con la fase di formazione dell’ematoma. In fase acuta sono prevalentemente iperdensi, anche se in alcuni casi possono presentare una densità simile a quella del parenchima cerebrale, e, in questa
Fig. 9.156 - Ematoma epidurale (TC). In sede temporale parietale sinistra è evidente una circoscritta raccolta iperdensa con morfologia a lente biconvessa.
evenienza, l’ematoma è identificabile per la compressione esercitata sul parenchima cerebrale e sui ventricoli. Nei casi dubbi (ematomi bilaterali), può essere utile la ripetizione dell’esame dopo contrasto, che determina un lieve aumento di densità della corteccia cerebrale e permette di meglio identificare l’ematoma, oppure l’esecuzione di una RM, che evidenzia l’ematoma come una falda iperintensa (Fig. 9.158), sia nelle sequenze in T1 che in quelle in T2. Emorragia subaracnoidea. – Appare alla TC come una iperdensità nel contesto degli spazi subaracnoidei, generalmente con distribuzione focale, più raramente diffusa. Non è evento frequente nei traumi cranici e, se presente, si associa ad altre raccolte ematiche extra ed intraparenchimali. La presenza di sangue a livello degli spazi subaracnoidei della base può interferire sulla circolazione liquorale ed essere causa di idrocefalo comunicante.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Fig. 9.157 - Ematoma sottodurale (TC). Presenza di ampia falda isodensa interposta fra teca cranica e parenchima cerebrale estesa a tutto l’emisfero di sinistra; il sistema ventricolare sovratentoriale è compresso.
Fig. 9.158 - Ematoma sottodurale (stesso caso Fig. 9.157) (RM). Nelle sequenze T1 pesate l’ematoma si evidenzia come un’area di netta iperintensità di segnale interposta fra teca cranica e parenchima cerebrale.
Igromi. – Si evidenziano come raccolte sottodurali che, alla TC ed alla RM (Fig. 9.159), presentano le stesse caratteristiche di densità e di segnale del liquor, e, generalmente, con effetto massa modesto.
Alla RM le contusioni corticali si manifestano come aree iperintense in T2; i focolai emorragici come piccole aree ipointense, per la presenza di desossi-emoglobina o iperintense in T1, per la presenza di metaemoglobina.
Fistola liquorale. – Nella comunicazione tra gli spazi subaracnoidei ed i seni paranasali, a volte è possibile evidenziare alla TC, la presenza di gas a livello degli spazi subaracnoidei della base, anche se è estremamente difficile individuare con certezza il punto di fistola, pur utilizzando piani di scansione coronali ed introduzione di contrasto endorachide.
Emorragie cerebrali.– L’aspetto TC ed RM degli ematomi intracerebrali è descritto a pag. 390.
LESIONI INTRAPARENCHIMALI Contusioni corticali. – Alla TC si osservano come aree ipodense, espressione di edema cerebrale, nel cui contesto sono evidenti nuclei iperdensi espressione di microemorragie. (Fig. 9.160).
Lesioni assonali diffuse. – Meno del 25% delle lesioni assonali diffuse sono emorragiche e, per tale motivo, sono difficilmente individuabili con la TC in fase acuta. Alla RM appaiono come multiple aree di alterato segnale, di morfologia ovoidale, del diametro di 5-15 mm. (Fig. 9.161). Lesioni assonali possono localizzarsi anche nel tronco dell’encefalo, più frequentemente nel mesencefalo dorsale e nel ponte. La TC riesce ad indentificarne meno del 25% e, nel sospetto
Esami diagnostici complementari
Fig. 9.159 - Igroma bilaterale (RM). Nelle sequenze T2 pesate sono evidenti due falde iperintense con intensità di segnale simile a quella del liquor.
della presenza di tali lesioni, il paziente deve essere ulteriormente valutato con una RM. LESIONI VASCOLARI CORRELATE AL TRAUMA Fistola carotido-cavernosa. – Alla TC ed alla RM si evidenzia una dilatazione della vena oftalmica superiore ed un ingrandimento del seno cavernoso omolaterale. All’angiografia, il seno cavernoso e la vena oftalmica superiore si visualizzano precocemente in fase arteriosa; in particolare, la vena oftalmica superiore presenta il flusso invertito. La angiografia inoltre, visualizzando il punto di fistola, fornisce gli elementi per stabilire un adeguato atteggiamento terapeutico. Dissecazione traumatica della carotide interna a livello esocranico. – La TC con contrasto può documentare il restringimento del lume vasale. La RM evidenzia la riduzione del lume
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Fig. 9.160 - Contusione corticale (TC). In sede frontale destra è presente una area di alterata densità contenente nuclei iperdensi espressione di focolai emorragici.
vasale e la presenza in sede subintimale dei prodotti di degrado dell’emoglobina. La angiografia dimostra il restringimento della carotide ed eventualmente l’occlusione. Sequele a distanza. – Risolta la fase acuta, gli esami neuradiologici, in particolare la RM, documentano gli esiti costituiti da: atrofia cerebrale diffusa o focale, aree di malacia, idrocefali da alterato riassorbimento liquorale, igromi tardivi.
Anomalie congenite del midollo e del rachide Colonna vertebrale Le più comuni alterazioni morfologiche sono: – L’impressione basilare: invaginazione dei condili occipitali e dell’atlante, spesso associata a fusione dell’atlante col basi-occipite.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia Particolarmente utile la TC con tecnica ad alta risoluzione, integrata da ricostruzioni sull’istmo, nello studio della spondilolisi.
MIDOLLO Le anomalie congenite del midollo sono:
Fig. 9.161 - Lesioni assonali diffuse (RM). Nelle sequenze T2 pesate sono evidenti piccole aree iperintense a livello della sostanza bianca a prevalente localizzazione giunzionale.
– Sinostosi vertebrale: fusione di più vertebre, più frequentemente C2-C3. Nella sindrome di Klippel-Feil le vertebre del tratto inferiore del segmento cervicale sono fuse con le prime dorsali. – Anomalie vertebrali: emispondilia, da mancato sviluppo di un emiarco o di un emicorpo. Segmentazioni anomale basali, come può accadere alla base del dente, o verticali, con spina bifida, manifesta o occulta, anteriore, e vertebre a farfalla (per lo più sacrale) posteriori. – Spondilolisi: determinata dalla presenza di tessuto fibroso non ossificato a livello dell’istmo; se bilaterale, determina una spondilolistesi anteriore. La sede di elezione è nel 90% dei casi L5, poi L4. – Vizi di differenziazione regionale: dorsalizzazione di C7 con costa sovrannumeraria mono o bilaterale; lombarizzazione di D12 e, più frequente, sacralizzazione di L5 completa o monolaterale. Le deviazioni congenite della colonna sono: – Cifosi-scoliosi: lo studio di elezione è rappresentato dall’esame radiografico diretto. La RM ed in alcuni casi selezionati la TC e la mieloTC sono utili a completare la diagnosi quando, oltre al tessuto osseo, è compreso anche il parenchima.
Mielomeningocele e Meningocele. – Il mielomeningocele contiene anche midollo o radici, e talora è accompagnato da tessuto adiposo (lipomi e lipomeningocele), o da veri e propri teratomi o dermoidi; la sede di elezione è il segmento lombo-sacrale. La TC consente di evidenziare la lesione, il difetto osseo e i tessuti di diversa densità, eventualmente presenti. Con la mielo-TC si dimostra meglio il rapporto della sacca con lo spazio subaracnoideo, il suo contenuto ed il tramite con lo speco. La RM è la metodica di elezione per lo studio di tali patologie, essendo in grado di differenziare tutti i tessuti eventualmente presenti, ed evidenziare la presenza di corda ancorata ed altre malformazioni associate. Il meningocele è una estroflessione del sacco meningeo attraverso una discontinuità ossea, talora assai piccola e non obiettivabile; può avvenire posteriormente, lateralmente o anteriormente, ma la localizzazione più frequente è anteriore e può essere cervicale, lombare, lombo-sacrale e cervicale (Fig. 9.162).
Fig. 9.162 - TC Meningocele anteriore. Scansione secondo piani assiali (A); ricostruzione secondo piani sagittali (B). Estesa raccolta di tessuto con densità liquorale localizzata al davanti del sacro.
Nella diastematomielia, il midollo è suddiviso in due da un setto osseo, fibroso o cartilagineo che si diparte dalla porzione posteriore del corpo vertebrale. Si localizza di preferenza a livello dorsale inferiore o lombare, associandosi a malformazione delle vertebre viciniori o a tumori (teratomi o lipomi) (Fig. 9.163). La TC evidenzia bene il difetto osseo e la presenza del setto divisorio. La mielo TC permette di osservare meglio il setto divisorio e la RM ha maggior specificità per individuare le diverse componenti tissutali normali o patologiche.
Esami diagnostici complementari
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Cisti aracnoidee. – Si localizzano di preferenza in sede dorsale, derivando da una membrana posta longitudinalmente a livello dello spazio subaracnoideo posteriore (setto postico). Se extradurali sono dovute ad erniazioni attraverso smagliature della dura; talora multiple sono spesso comunicanti con lo spazio subaracnoideo. La mielografia e la mielo TC, quando esiste comunicazione, posseggono un elevato potere diagnostico. La RM evidenzia una sacca con contenuto liquorale e, attraverso lo studio multiplanare, ne segue la via di sviluppo. La vertebra talora è rimaneggiata, da adattamento. Le cisti perineurali si localizzano al passaggio tra la radice posteriore ed il ganglio. Visibili come noduli ipodensi alla TC e come noduli con contenuto liquorale alla RM, si opacizzano alla mielografia ed alla mielo TC.
Fig. 9.163 - RM Diastematomielia. Immagine pesata in T1 secondo piani assiali. È ben evidente la duplicazione del midollo.
Lipoma spinale. – Si associa spesso alla cosiddetta corda ancorata. In tale malformazione spesso il lipoma si salda col tratto terminale del midollo che si porta fino al soma di L4 o L5, senza restringimento caudale. Questi ultimi due aspetti sono molto ben studiati con la RM. (Fig. 9.164). Seno dermico. – Rappresenta una anomalia determinata dalla comunicazione del derma, tramite un tragitto patologico, con la dura. Talora (50%) si associa a fibromi, cisti, dermoidi ed epidermoidi. Non rara l’associazione con cavità siringomieliche e corda ancorata. Data la eterogeneità dei tessuti interessati al fenomeno, la RM costituisce lo studio di elezione.
Siringomielia. – Alla TC la siringomielia si presenta come un’area ipodensa in sede intramidollare, con densità simile al liquor. Alla mielo TC si può osservare la penetrazione del mezzo di contrasto in fase precoce o tardiva, dopo 6-8 ore dall’iniezione, nel contesto della cavità. Alla RM si evidenzia una cavità ipointensa nelle sequenze a TR/TE breve (Fig. 9.165). Tale cavità è iperintensa, nelle immagini a TR/TE lunghi.
MALFORMAZIONI VASCOLARI Angiomi vertebrali. – Sono spesso un reperto occasionale; si presentano col classico aspetto a palizzata all’esame diretto, meglio evidente alla TC. Alla RM danno iperintensità a livello dei corpi vertebrali, nelle sequenze T1 pesate, per la ricchezza di tessuto adiposo a livello del tessuto di sostegno. Fistole dirette. – Sono per lo più extradurali, ad alto flusso, a localizzazione per lo più cervicale. Traggono
A
Fig. 9.164 - RM Lipomeningocele con associata «tethered cord». Immagini pesate in T1 secondo piani sagittali (A) ed assiali (B). Presenza di dislocazione caudale del midollo e aumento di spessore del filum terminale che appare «ancorato» nel contesto del lipoma.
B
Fig. 9.165 - RM Siringomielia. Immagini pesate in T1 sui piani sagittali; segmento cervicale (A) e dorsale (B). Il midollo è aumentato di volume e presenta nel suo interno un tessuto con intensità di segnale vicina a quella del liquor.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
afferenze dalle arterie vertebrali, tramite le arterie spinali ed hanno voluminosi scarichi venosi. Fistole arterovenose durali spinali. – Hanno di preferenza sede lombare o dorsale e sono alimentate dalle arterie spinali, scaricano nelle vene perimidollari, determinando sofferenza da alterato scarico. Malformazioni artero-venose. – Sono di tre tipi: I con afferenze multiple, con nido grande, nel cui interstizio si celano cellule midollari; II con afferenza singola, nido piccolo e senza cellule nervose nel loro contesto; III tipo, che si assimila ad una fistola diretta, con afferenza unica. Angiomi cavernosi. – Hanno lo stesso tipico aspetto RM della localizzazione cerebrale, per la presenza di calcificazioni, metaemoglobina, emosiderina. La TC e l’angio TC sono utili alla diagnosi, evidenziando le aree puntiformi iperdense dopo contrasto, con decremento della densità nei controlli tardivi. Ottimi risultati si hanno con la RM, per l’evidenza di serpiginose assenze di segnale dovute agli scarichi venosi ipertrofici in sede extradurale, in tutte le sequenze. Con la RM nelle sequenze a lungo TR/TE si obiettivano anche eventuali sofferenze mieliche. L’angiografia è per definizione lo studio di elezione (Fig. 9.166). Importante questo esame anche in fase terapeutica, per l’embolizzazione.
Fig. 9.166 - Angiografia tradizionale con sottrazione fotografica. Malformazione artero-venosa spinale.
Tumori della colonna vertebrale e del midollo La RM rappresenta attualmente la tecnica diagnostica più sensibile e più largamente utilizzata per lo studio della patologia vertebro-midollare, mentre la mielografia e la mielo-TC hanno indicazioni sempre più ridotte. La radiologia tradizionale, la scintigrafia ossea e la TC vengono invece comunemente utilizzate nello studio delle patologie scheletriche della colonna vertebrale. Tumori extradurali Tumori ossei. – I tumori ossei benigni più frequentemente localizzati a livello della colonna vertebrale sono l’angioma vertebrale (Fig. 9.167), l’osteoma osteoide, l’osteoblastoma, la cisti ossea aneurismatica ed il tumore a cellule giganti.
Fig. 9.167 - Angioma vertebrale. RM della colonna vertebrale, segmento lombare, scansioni sul piano sagittale con immagini pesate in T1 (A) e T2 (B): presenza di un’alterazione di segnale che interessa diffusamente il corpo vertebrale di L1 che appare iperintenso in T1 ed in T2.
L’esame di scelta nello studio di queste patologie, peraltro già evidenti con la radiologia tradizionale, è la TC, in grado di fornire informazioni dettagliate sulla esten-
Esami diagnostici complementari sione delle lesioni osteolitiche, sulla eventuale presenza di lesioni cistiche e sulle caratteristiche della corticale ossea. La RM, pur essendo molto sensibile nell’evidenziare alterazioni di segnale nel contesto del corpo vertebrale, fornisce minori dettagli morfologici sulle alterazioni delle strutture ossee. La principale indicazione all’esecuzione di un esame RM è costituita dallo studio di una compressione midollare, di raro riscontro in questo tipo di tumori e per lo più sostenuta da deformazione di un corpo vertebrale o da invasione dello spazio epidurale. La RM trova invece maggiori indicazioni nello studio dei tumori ossei maligni (sarcomi e cordoma) altamente distruttivi i primi, con invasività locale il secondo, entrambi caratterizzati da un’intensità di segnale disomogenea, ipointensa in T1 ed iperintensa in T2, ed accompagnati da una componente parenchimale in sede paraspinale o epidurale. Anche in questi casi soltanto un esame TC consente un’idonea documentazione delle lesioni ossee e, nel caso di cordoma, delle calcificazioni associate. Infine, nel caso di plasmocitoma o di mieloma multiplo, la radiologia tradizionale e, in maniera più dettagliata la TC, consentono di dimostrare le lesioni osteolitiche nel contesto dei corpi vertebrali. Metastasi. – La RM si è affiancata a metodiche già esistenti, quali la radiologia tradizionale, la scintigrafia ossea e la TC, che conservano a tutt’oggi ampia validità e diffusione. Il principale limite della TC è costituito dalla difficoltà ad estendere l’esame ad ampi tratti della colonna vertebrale, per cui tale esame viene di regola mirato in base ai dati clinici, radiologici e scintigrafici. La scintigrafia ossea, invece, pur essendo più sensibile della TC nell’evidenziare lesioni ossee, non mostra uguale specificità. La RM ha dimostrato di possedere maggiore sensibilità e specificità della TC nel documentare alterazioni dei corpi vertebrali, consentendo inoltre di documentare contemporaneamente, nelle scansioni sui piani sagittali e coronali, ampi tratti della colonna vertebrale. Le lesioni appaiono nelle sequenze in T1, come aree ben definite di riduzione dell’intensità, che risalta nel contesto del segnale del corpo vertebrale, iperintenso per il normale contenuto adiposo (Fig. 9.168); nelle sequenze pesate in T2 appaiono, invece, nettamente iperintense e sono ancora una volta facilmente riconoscibili nel contesto del corpo vertebrale, che tende a perdere segnale in questo tipo di sequenze. Anche l’eventuale impegno del tessuto patologico nel canale vertebrale e le compressioni sul midollo (Fig. 9.169) vengono documentate con chiarezza dalla RM che può, quindi, far evitare il ricorso a metodiche più invasive, come la mielo-TC. Nei casi di fratture vertebrali la RM può essere utile nella diagnosi differenziale tra crollo osteoporotico, in cui
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Fig. 9.168 - Metastasi. RM della colonna vertebrale, segmento lombare, scansioni sui piani sagittale (A) e coronale (B) con immagini pesate in T1. Presenza di multiple aree ipointense localizzate nel contesto dei corpi vertebrali.
Fig. 9.169 - Metastasi. RM della colonna vertebrale segmento dorsale, scansione sul piano sagittale con immagini pesate in T1. Presenza di multiple aree di alterata intensità di segnale nel contesto dei corpi vertebrali e di un tessuto localizzato in sede medio-dorsale che invade il canale vertebrale avvolgendo il midollo.
il corpo vertebrale conserva il segnale del tessuto adiposo, o lesione metastatica, in cui appare ipointenso in T1 ed iperintenso in T2. Tale diagnosi può, tuttavia, essere difficile nella fase acuta del crollo osteoporotico, dal momento che, anche in tale evenienza, il soma presenta elevato segnale in T2.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
Il potenziamento dopo somministrazione endovenosa di contrasto paramagnetico nelle metastasi è estremamente variabile. Infatti alcune mostrano scarse modificazioni, rimanendo ipointense rispetto al normale tessuto osseo, altre si potenziano nettamente divenendo iperintense, altre ancora diventano isointense e risultano pertanto più difficilmente riconoscibili. Questi diversi tipi di potenziamento si possono osservare anche contemporaneamente nello stesso paziente in lesioni diverse. Linfomi. – La localizzazione di linfomi primitivi vertebrali è oggi in continuo aumento, per la elevata incidenza nei pazienti affetti da AIDS. Si tratta quasi sempre di linfomi non Hodgkin, che si localizzano di preferenza a livello dello spazio epidurale, in ogni tratto della colonna vertebrale. Normalmente, non sono presenti alterazioni scheletriche e pertanto il quadro radiologico risulta normale. Con la mielo-TC è possibile evidenziare gli effetti compressivi sullo spazio subaracnoideo e sul midollo, mentre soltanto con la RM si ottiene una idonea documentazione del tessuto patologico, che può presentarsi come massa epidurale o circondare a manicotto lo spazio epidurale ed estendersi a tratti anche ampi della colonna vertebrale. Il potenziamento marcato ed omogeneo di tale tessuto dopo gadolinio consente, in ogni caso, di definirne con precisione i rapporti spaziali e l’estensione (Fig. 9.170).
Tumori intradurali extra-midollari Neurinomi e neurofibromi. – La TC e, soprattutto la RM, sono le metodiche di scelta. La TC è in grado di documentare direttamente la lesione, evidente come una massa di densità simile a quella dei tessuti molli, localizzata in sede intraspinale o intraforaminale. Per ottenere una buona rappresentazione morfologica dei margini della neoplasia e dei suoi rapporti con il sacco durale ed il midollo è, però, necessario eseguire l’esame con tecnica mielo-TC. Alla RM l’aspetto è caratterizzato da un segnale ipo-iso-intenso nelle immagini pesate in T1, iperintenso in DP e nettamente iperintenso in T2, a causa dell’elevato contenuto idrico di questi tumori. A volte, la porzione centrale della neoplasia può presentare una diminuzione dell’intensità di segnale nelle immagini pesate in T2, e ciò può dipendere dall’aumento della densità delle
Fig. 9.170 - Linfoma. RM della colonna vertebrale segmento dorsale, scansioni sui piani sagittale (A) ed assiale (B) con immagini pesate in T1 dopo somministrazione endovena di contrasto paramagnetico. Presenza di un tessuto localizzato in sede epidurale che avvolge a manicotto un esteso tratto del midollo dorsale e presenta un marcato potenziamento dopo gadolinio.
Esami diagnostici complementari
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fibre collagene e delle cellule di Schwann, dimostrato istologicamente, con conseguente riduzione dei protoni liberi nella matrice fibrosa. In questo tipo di tumori sono abbastanza frequenti le formazioni cistiche, mentre sono decisamente molto rare le emorragie intratumorali. Dopo somministrazione di contrasto paramagnetico è presente un potenziamento marcato e, in genere, sostanzialmente omogeneo (Figg. 9.171, 9.172). Meningiomi. – Alla TC possono essere documentati come un tessuto iso-iperdenso, rispetto al midollo, con potenziamento dopo contrasto endovenoso. Anche in questo caso, soltanto la mielo-TC consente una corretta definizione morfologica del tessuto patologico rispetto al midollo spinale. Alla RM, appaiono come una massa ben delimitata, rispetto al midollo, ipointensa o isointensa nelle sequenze pesate in T1, lievemente iperintensa nelle sequenze pesate in T2. In queste ultime sequenze, l’elevato segnale del liquor,
Fig. 9.172 - Neurinoma. RM della colonna vertebrale segmento lombare, immagini sul piano sagittale pesate in T2 (A) ed in T1 dopo somministrazione di contrasto paramagnetico (B). Presenza di un tessuto di alterata intensità di segnale, iperintenso nelle sequenze pesate in T2, che presenta un potenziamento marcato ed omogeneo nelle sequenze pesate in T1 dopo somministrazione endovena di contrasto.
formando un «effetto mielografico», contribuisce ad evidenziare la lesione. Dopo somministrazione endovenosa di gadolinio, il potenziamento è marcato ed omogeneo, e riflette la ricca vascolarizzazione del tumore (Fig. 9.173).
Fig. 9.173 - Meningioma. RM della colonna vertebrale segmento cervico-dorsale, scansioni sui piani sagittale (A) ed assiale (B) con immagini pesate in T1 dopo somministrazione endovena di contrasto paramagnetico. Presenza di un tessuto con potenziamento marcato ed omogeneo dopo contrasto, che occupa quasi interamente il canale vertebrale. A tale livello il midollo appare compresso e dislocato nella metà destra del canale. Fig. 9.171 - Neurinoma. RM della colonna vertebrale, segmento cervicale, scansioni sul piano assiale con immagini pesate in T1 dopo somministrazione endovena di contrasto paramagnetico. Presenza di una voluminosa neoformazione di morfologia a clessidra localizzata in parte all’interno del canale vertebrale, dove comprime e disloca controlateralmente il midollo ed in parte in sede intraforaminale ed extravertebrale. Marcato ed omogeneo potenziamento dopo somministrazione di contrasto.
Metastasi. – La mielo-TC è in grado di dimostrare i difetti di riempimento all’interno del sacco durale da metastasi, ma l’esame di scelta è costituito dalla RM con gadolinio, che facilita il riconoscimento di queste lesioni, in genere, con
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
potenziamento marcato (Fig. 9.174). L’uso del mezzo di contrasto paramagnetico è, in questo caso, particolarmente importante, poichè le localizzazioni metastatiche di piccole dimensioni possono sfuggire ad un esame RM di base. Tumori intramidollari Astrocitomi. – La mielografia e, ancor meglio, la mielo-TC documentano l’ingrandimento del midollo ed il conseguente restringimento degli spazi liquorali perimidollari. Nello studio dei tumori intramidollari, ancor più che nelle lesioni localizzate negli altri compartimenti, la RM rappresenta l’esame più sensibile e più specifico, l’unico in grado di forni-
Fig. 9.175 - Astrocitoma midollare. RM della colonna vertebrale, segmento cervicale, scansione sul piano sagittale con immagini pesate in T1 dopo somministrazione endovena di contrasto paramagnetico. Diffuso ingrandimento del midollo cervicale nel cui contesto si può distinguere una componente neoplastica che presenta un potenziamento marcato e periferico dopo contrasto ed una formazione cistica associata, priva di potenziamento parietale, localizzata al di sopra della precedente.
Fig. 9.174 - Metastasi liquorali. RM della colonna vertebrale segmento lombosacrale, con immagini sul piano sagittale pesate in T1 dopo somministrazione endovena di contrasto paramagnetico. Presenza di due piccoli nuclei di alterata intensità di segnale, iperintensi in T1 dopo contrasto, localizzati in sede extra-assiale a livello del cono e dell’epicono.
re informazioni sulle caratteristiche intrinseche della lesione. Alla RM gli astrocitomi appaiono come aree di alterata intensità di segnale, ipointensi nelle sequenze pesate in T1, lievemente iperintensi in DP e nettamente iperintensi in T2; il midollo in corrispondenza della lesione appare ingrandito. Dopo somministrazione di gadolinio, contrariamente a quanto avviene per le localizzazioni cerebrali, quasi sempre vi è un potenziamento, talvolta marcato e, a volte, disomogeneo (Fig. 9.175). I margini della lesione restano invece per lo più scarsamente definiti, in accordo con la sua natura infiltrante. È inoltre possibile identificare l’eventuale presenza di formazioni cistiche intramidollari, associate al tumore, ma
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senza caratteristiche neoplastiche, localizzate al di sopra o al di sotto del tumore, che appaiono ipointense nelle sequenze pesate in T1 ed iperintense in DP e T2. Tale comportamento può variare in funzione della diversa natura del contenuto liquido: un elevato contenuto proteico può provocare una riduzione dei tempi di rilassamento T1 e T2 e rendere la cisti più difficilmente riconoscibile dal tumore; nel caso di pregresse emorragie intracistiche possono essere presenti segnali riferibili ai prodotti di degradazione dell’emoglobina. Dopo somministrazione di gadolinio non si osservano potenziamenti parietali e ciò contribuisce alla diagnosi differenziale con una cisti neoplastica. Tale diagnosi riveste grande importanza ai fini dell’intervento chirurgico, poichè le cisti sono formazioni benigne, con tendenza a collabire spontaneamente dopo la rimozione della neoplasia. Ependimomi. – La mielografia e la mielo-TC possono documentare un aumento di volume del midollo, segno aspecifico di lesione espansiva intramidollare. La RM è in grado di evidenziare correttamente le alterazioni morfologiche e l’ingrandimento del midollo, o più spesso del cono e del filum terminale. Si dimostra un segnale ipo-isointenso in T1, lievemente iperintenso in DP e nettamente iperintenso in T2. Il riscontro di emorragie è evenienza più frequente rispetto agli astrocitomi e pertanto depositi di emosiderina, evidenti come aree nettamente ipointense in T2, possono essere riscontrati frequentemente, soprattutto a livello dei margini superiore ed inferiore della lesione. Come per gli astrocitomi, è abbastanza frequente il riscontro di cisti intramidollari satelliti, che possono estendersi anche per ampi tratti del midollo. Dopo somministrazione di gadolinio è presente un potenziamento, in genere marcato ed omogeneo, che consente di evidenziare con maggior dettaglio le caratteristiche dei margini della lesione (Fig. 9.176), in genere meglio definiti rispetto a quelli degli
Fig. 9.176 - Ependimoma. RM della colonna vertebrale segmento lombosacrale, scansioni sul piano sagittale con immagini pesate in T1 dopo somministrazione endovena di contrasto paramagnetico. Presenza di tessuto localizzato nel contesto della cauda di morfologia plurilobulata con marcato potenziamento dopo gadolinio.
astrocitomi, per la presenza di una sottile capsula che li delimita dal midollo. Emangioblastomi. – Con la RM è possibile documentare con precisione l’ingrandimento del midollo e le alterazioni di segnale a livello della lesione, che appare ipointensa in T1 ed iperintensa in DP e T2. A volte è possibile documentare le strutture vascolari caratteristiche della lesione, evidenti come strutture serpiginose di assenza di segnale. In una percentuale di casi superiore a quella degli ependimomi e degli astrocitomi, sono presenti lesioni cistiche anche molto estese. Dopo somministrazione di gadolinio si osserva un potenziamento marcato ed omogeneo, che consente di distinguere il nodulo tumorale, talora molto piccolo, dall’edema circostante o dalla cisti satellite (Fig. 9.177).
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
il disco intervertebrale va incontro a modificazioni morfostrutturali che si riflettono in modificazioni dell’intensità di segnale in RM, in particolare nelle sequenze in T2. Un segno di avvenuta degenerazione discale è rappresentato dalla presenza di gas all’interno del disco (fenomeno del vacuum discale), evidente alla TC, come area di marcata ipodensità all’interno del disco.
Fig. 9.177 - Emangioblastoma. RM della colonna vertebrale segmento cervicale, scansioni sul piano sagittale con immagini pesate in T1 dopo somministrazione ev di mdc paramagnetico. Il midollo cervicale appare ingrandito ed occupato da una estesa formazione cistica. Dopo somministrazione di gadolinio è presente un circoscritto nucleo di potenziamento marcato ed omogeneo.
Protrusione discale ed ernia del disco. – La protrusione discale, cioè debordamento dell’anulus oltre i margini dei corpi vertebrali, è correttamente evidenziabile con la TC (Fig. 9.178) e con la RM, e può essere di tipo concentrico e simmetrico, quando l’anulus deborda globalmente oltre i limiti dei corpi vertebrali, o di tipo asimmetrico. L’ernia del disco, caratterizzata dalla presenza di materiale del nucleo polposo erniato al di fuori delle fibre dell’anulus fibroso, è accuratamente diagnosticata dalla TC e dalla RM. La TC mostra la presenza di un tessuto di densità analoga a quella del disco intersomatico,
La corretta documentazione della struttura vascolare del tumore, arterie nutritive e vene di scarico, si ottiene con esame angiografico.
Patologia spondilo-artrosica ed ernia discale L’anulus fibroso è costituito da fibre esterne, di natura collagene, che generano un segnale ipointenso sia in T1 che in T2, mentre le componenti interne, di natura fibrocartilaginea e il nucleo polposo, composto da materiale gelatinoso, hanno un segnale iperintenso nelle sequenze T2 pesate. Dopo l’infanzia, in T2, si evidenzia nel contesto del nucleo polposo una fessura intranucleare (intranuclear cleft), determinata da una trasformazione fibrosa della matrice simil-gelatinosa. Con l’avanzare dell’età,
Fig. 9.178 - TC ernia discale. Tomogramma sul piano assiale e ricostruzione sul piano sagittale mediano. Presenza di tessuto con densità simile a quella del disco intersomatico che occupa lo spazio epidurale anteriore in sede mediana e disloca posteriormente la cauda.
Esami diagnostici complementari
che oblitera il tessuto adiposo epidurale e comprime il sacco durale (Fig. 9.178), o la radice nervosa, nel recesso laterale del corpo vertebrale o nel canale neurale. Anche i rilievi di RM documentano la presenza di materiale discale nel canale vertebrale o nel canale neurale, che presenta, nelle sequenze T1 pesate, un segnale ipointenso (Fig. 9.179). In alcuni casi, parte del nucleo polposo può distaccarsi e migrare verso l’alto o verso il basso nel canale vertebrale e sia la TC che la RM permettono di evidenziare questi frammenti discali espulsi. Raramente i frammenti di materiale discale possono lacerare la dura e portarsi in sede intradurale. Dopo somministrazione endovenosa di contrasto si può osservare un potenziamento alla periferia del materiale discale erniato, legato alla presenza di processi cicatriziali accompagnati da neoangiogenesi.
Fig. 9.179 - RM ernia discale. Immagini pesate in T1 sul piano assiale (A) e sagittale (B). Presenza di tessuto con intensità di segnale simile al disco intersomatico che occupa lo spazio epidurale anteriore in sede mediana e laterale destra e che comprime la radice S1 omolaterale.
Nei pazienti operati si può, invece, osservare un potenziamento più esteso del tessuto cicatriziale, che talora può comprimere il sacco durale o la radice, e che, all’esame senza contrasto, può simulare una recidiva di ernia discale. Spondiloartrosi – Stenosi del canale vertebrale e del canale neurale. – Gli osteofiti dei corpi vertebrali e quelli delle faccette articolari sono bene documentati dalla TC sui piani assiali.
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Quando la osteofitosi è particolarmente estesa, può determinare una stenosi del canale vertebrale, del recesso laterale o del canale neurale, con conseguente compressione sul sacco durale o sulle radici (Fig. 9.180).
Fig. 9.180 - Stenosi del forame di coniugazione di destra. TC (A) ed RM con immagini pesate in T1 (B). L’esame TC documenta la presenza di una osteofitosi marginale che determina una marcata stenosi del forame di coniugazione di destra (A); l’osteofitosi è meno evidente alla RM (B).
A determinare una stenosi acquisita del canale vertebrale possono concorrere anche estese calcificazioni sul legamento longitudinale posteriore o sui legamenti gialli. Le stenosi del canale vertebrale, oltre che acquisite, possono essere congenite e sono caratterizzate dalla presenza di peduncoli vertebrali corti. La TC è l’accertamento diagnostico di elezione nelle stenosi sia del canale vertebrale, che dei recessi vertebrali e del canale neurale. Nelle stenosi del tratto cervicale della colonna vertebrale, la RM può documentare le eventuali sofferenze del midollo spinale, evidenziando aree iperintense endomidollari nelle sequenze T2 pesate.
Neuroradiologia interventiva Il continuo sviluppo delle metodiche diagnostiche neuroradiologiche e la disponibilità di materiali e presidi terapeutici, sempre più perfezionati e raffinati, ha dato un impulso notevole allo sviluppo ed alla applicazione delle metodiche terapeutiche, basate sull’approccio endolu-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
minale. Tali metodiche possono offrire soluzioni terapeutiche definitive o possono essere propedeutiche ad ulteriori trattamenti. Attraverso l’approccio per via endoluminale, è possibile realizzare occlusioni vasali temporanee o permanenti, ricostruzione della parete arteriosa o ricanalizzazione di segmenti arteriosi stenotici. Trattamenti endovascolari embolizzanti Si tratta di tecniche di occlusione di vasi patologici neoformati o malformati utilizzando materiale diverso, a seconda delle situazioni e dei distretti interessati, posto in situ con specifici cateteri. Tumori ipervascolarizzati. – La devascolarizzazione preoperatoria di lesioni ipervascolarizzate viene eseguita con il duplice scopo di ridurre il sanguinamento intraoperatorio e demarcare meglio il tessuto patologico dai tessuti sani circostanti. Viene ormai abitualmente eseguita per i tumori ipervascolarizzati della base cranica, quali i rinofibromi (Fig. 9.181), i paragangliomi, e, in casi selezionati, nei meningiomi e negli emangioblastomi. Malformazioni artero-venose (M.A.V.). – Una corretta pianificazione del trattamento di questo tipo di patologia impone una attenta discussione interdisciplinare su ogni singolo caso. La continua evoluzione delle tecniche chirurgiche,
Fig. 9.181 - Rinofibroma. Presenza di lesione riccamente vascolarizzata a livello del rinofaringe (A). La angiografia di controllo dopo la embolizzazione dimostra la completa devascolarizzazione della lesione (B).
neuroradiologiche interventive e radioterapiche offre infatti nuove possibilità terapeutiche che, spesso, si associano tra loro. La obliterazione completa di una MAV è rara. Poiché non sappiamo se il trattamento incompleto riduca il rischio dell’emorragia, lo scopo della embolizzazione è quello di ridurre il volume della malformazione, al fine di rendere trattabili con altre metodiche (radioterapia stereotassica, chirurgia) lesioni che, per le loro dimensioni, sono considerate intrattabili. Aneurismi. – L’occlusione endoluminale di un aneurisma, per la sua scarsa invasività, può essere eseguita anche nei pazienti con gravi situazioni cliniche, non è preclusiva ad un successivo intervento chirurgico e può anche rappresentare l’unico risolutivo intervento. Per tale motivo queste tecniche sono state successivamente estese al trattamento di aneurismi di difficile accesso chirurgico, quali quelli dell’apice della basilare ed i carotido-oftalmici. L’occlusione di aneurismi con tecnica endoluminale può essere realizzata con palloncini distaccabili, con spirali o con spirali di platino ed elettrotrombosi. Sono sicuramente necessarie ampie casistiche e lunghe osservazioni nel tempo per giudicare la validità di queste tecniche, ma i primi risultati appaiono promettenti. Fistole carotido-cavernose dirette. – La patologica comunicazione diretta fra la carotide interna ed il seno cavernoso, può essere spontanea, traumatica o iatrogena. La sintomatologia è in rapporto all’aumento di pressione che si viene a creare a livello del seno cavernoso. Il trattamento chirurgico contempla il sacrificio dell’arteria, con chiusura della carotide interna, a livello eso ed intra-cranico. Il trattamento endoluminale rappresenta sicuramente il trattamento di prima scelta, perchè permette la occlusione della fistola con completa remissione della sintomatologia, mantenendo pervio il lume arterioso (Fig. 9.182).
Esami diagnostici complementari
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Generalmente viene eseguito per via arteriosa, posizionando nel seno cavernoso, a livello del punto di fistola, spirali o palloncini distaccabili. In alcuni casi selezionati, lo stesso risultato è stato ottenuto con approccio venoso o con cateterismo del seno petroso superiore per via femorale o, direttamente, per cateterizzazione della vena oftalmica superiore. Fistole artero-venose durali. – Con questo termine si intende la patologica comunicazione, acquisita, fra arteriole durali, sia della carotide esterna che della carotide interna o del distretto vertebro-basilare ed un seno venoso o una vena cerebrale. Attualmente si ritiene siano in rapporto a trombosi venose, con conseguente dilatazione di cortocircuiti artero-venosi, normalmente presenti nella dura. Anche in questo tipo di patologia le opzioni terapeutiche sono rappresentate dalla chirurgia, dalla neuroradiologia e dalla radioterapia. La scelta del trattamento terapeutico, eventualmente combinato, deriva da un accurato bilancio arteriografico preliminare e dalla sintomatologia clinica in atto. Fistole vertebrali. – Sono costituite da una patologica comunicazione tra l’arteria vertebrale ed il plesso venoso o la vena giugulare, in genere conseguenza di un trauma penetrante a livello cervicale. Il trattamento di prima scelta è quello endoluminale (palloncini distaccabili, spirali), che permette di occludere il punto di fistola, mantenendo pervia l’arteria vertebrale. Solo nel caso di fistola molto ampia si può ricorrere alla occlusione dell’arteria vertebrale.
Fig. 9.182 - Presenza di fistola carotido-cavernosa diretta a flusso elevato (A). Dopo posizionamento di un palloncino distaccabile a livello del punto di fistola si ottiene una occlusione della fistola con conservata canalizzazione della carotide interna (B).
Aneurisma dell’ampolla di Galeno. – Questa malformazione congenita è costituita da uno shunt patologico artero-venoso, con conseguente dilatazione della vena mediana del prosencefalo, dalla quale deriva embriologicamente la vena di Galeno.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
La sintomatologia varia secondo il periodo di presentazione: nei neonati il sintomo dominante è l’insufficenza cardiaca, nei bambini la macrocefalia e le crisi epilettiche, negli adulti la cefalea e le emorragie subaracnoidee. Il trattamento terapeutico ottimale è, attualmente, l’approccio endoluminale transarterioso o transvenoso, che punta sia a migliorare la funzionalità cardiaca che ad occludere completamente la malformazione.
Trombolisi intraarteriosa. – Valida alternativa alla somministrazione di farmaci fibrinolitici, iniettati per via venosa (urochinasi, streptochinasi, attivatore del plasminogeno ricombinante), può essere la somministrazione per via endoarteriosa, con infusione continua, con cateteri che giungono a contatto con il trombo, e con la possibilità di meglio dosare la quantità di farmaco, sospendendo la somministrazione non appena ottenuta la ricanalizzazione (Fig. 9.184).
Trattamenti endoluminali di rivascolarizzazione Angioplastica endoluminale. – Si tratta di tecniche che permettono di ripristinare il calibro vasale di arterie stenotiche, utilizzando cateteri forniti di palloncino gonfiabile, non distaccabile, di calibro adeguato. I vasi epiaortici che, per primi, sono stati oggetto di questo tipo di trattamento sono stati: le succlavie, la anonima e le vertebrali. (Fig. 9.183). A livello di queste arterie, l’angioplastica si pone come valida alternativa alla chirurgia, che propone interventi di by-pass, non completamente soddisfacenti. Le ampie casistiche e l’osservazione prolungata riportate in letteratura evidenziano la validità della metodica.
Fig. 9.183 - La angiografia documenta una stenosi serrata della arteria succlavia di sinistra a livello prevertebrale (A). Il controllo dopo angioplastica endoluminale evidenzia un normale calibro vasale (B).
Fig. 9.184 - La angiografia documenta una occlusione embolica della cerebrale media (A). Dopo somministrazione di urokinasi per via arteriosa si documenta la ricanalizzazione del vaso (B).
Patologia vascolare spinale Attualmente si ricorre alla angiografia spinale per un preciso inquadramento delle lesioni vascolari e per valutare la possibilità di un trattamento endovascolare. Le malformazioni vascolari spinali possono essere: intramidollari (il nido è intraparenchimale), fistole artero-venose perimidollari (con apporto arterioso da una arteria midollare) e fistole durali acquisite (con scarico venoso verso il midollo spinale). Nelle malformazioni intramidollari le tecniche di embolizzazione possono essere un momento prechirurgico o rappresentare l’unico trattamento palliativo. L’utilizzo di colla, quale materiale embolizzante, può invece essere risolutivo per le malformazioni perimidollari e rappresentare l’unico trattamento terapeutico delle fistole durali.
Esami diagnostici complementari
Stereotassia Le tecniche di centraggio stereotassico sono da lungo tempo utilizzate in campo neurologico per individuare, anatomicamente, strutture cerebrali, e determinare le coordinate spaziali in un sistema di riferimento, ma le principali applicazioni riguardano il loro utilizzo in neurochirurgia (biopsia stereotassica) ed in radioterapia (radioterapia stereotassica). I sistemi utilizzati consentono di ottenere in modo esatto la localizzazione di strutture patologiche e permettono di calcolare le coordinate di un bersaglio, sul quale poi intervenire mediante biopsia o radioterapia. La stereotassia può essere effettuata mediante l’impiego della TC o della RM e necessita dell’applicazione al cranio del paziente di un sistema di fissaggio costituito da punte metalliche, o di un caschetto rigido in fibra di vetro (costruito in unico esemplare, rimovibile per ogni paziente). L’impiego del caschetto, oltre a risultare meno invasivo, consente l’applicazione di radiazioni in più riprese, essendo facilmente rimovibile e riposizionabile.
Fig. 9.185 - Esame TC eseguito con dispositivo stereotassico. È possibile determinare con precisione le coordinate spaziali delle aree sulle quali praticare prelievi bioptici.
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L’impiego di tale procedura risulta di notevole utilità nei casi di difficile interpretazione diagnostica, e quando sia necessaria una esatta definizione del grado istologico delle neoplasie cerebrali. In radioterapia, inoltre, consente di concentrare, in un ridotto volume di tessuto, un elevato dosaggio di radiazioni, con maggior efficacia terapeutica e risparmio dei tessuti sani limitrofi (Fig. 9.185).
6. Applicazioni cliniche della tomografia ad emissione F. Fazio, C. Messa
Tomografia ad emissione di positroni (PET) Le tecniche di neuroimmagine hanno raggiunto un altissimo livello tecnologico con una trasformazione radicale dei protocolli di studio e delle procedure diagnostiche. In particolare, lo sviluppo della risonanza magnetica (RM) e della tomografia ad emissione di positroni (PET), per la valutazione in vivo, rispettivamente, degli aspetti morfo-strutturali e funzionali cerebrali, ha consentito di ottenere informazioni fondamentali sulle alterazioni anatomiche e sulle modificazioni dei parametri fisiologici in patologia neurologica. L'alto potere di risoluzione spaziale, la possibilità di ottenere immagini multiparametriche e l'utilizzo di campi magnetici o di basse quantità di radioattività, pongono queste tecniche all'avanguardia. La RM e la PET possono considerarsi tecniche complementari, la prima per informazioni di tipo anatomo-strutturale, la seconda per la misura quantitativa dei processi emodinamici, metabolici e biochimici del sistema nervoso centrale. In una strategia di un utilizzo complementare delle immagini digitalizzate, si stanno sviluppando programmi di ricostruzione che consentono una visualizzazione
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
tridimensionale dell'anatomia, del metabolismo e della vascolarizzazione degli emisferi cerebrali ricavati da RM, PET e RM angiografia, e permettono di ottenere un singolo modello integrato a tre dimensioni dell'anatomia e della funzionalità cerebrale. Queste possibilità di integrazione avranno un sicuro riscontro in quelle condizioni patologiche dove, alla negatività del quadro anatomico, si associano modificazioni metabolico-funzionali, che possono così essere meglio identificate e messe in relazione correttamente alle strutture cerebrali coinvolte. La PET permette lo studio quantitativo in vivo di processi fisiologici e biochimici cerebrali. Questa possibilità è data dal fatto che molte molecole di interesse biologico quali acqua, ossigeno molecolare, anidride carbonica, glucosio, farmaci, sono formate da atomi di cui esistono isotopi radioattivi che decadendo emettono positroni. La marcatura con tali isotopi di queste molecole biologiche non ne modifica comunque le caratteristiche biochimiche e ne rende possibile la rivelazione con un tomografo adatto. La tomografia ad emissione di positroni (PET) con tecnica 15O2 steady-state (Frackowiak et al., 1980) consente la determinazione a livello cerebrale del consumo regionale di ossigeno (rCMRO2), del flusso ematico regionale (rCBF), del volume ematico (rCBV) e della frazione di estrazione di ossigeno dal sangue da parte dei tessuti (rOER). I radiotraccianti usati per lo studio di tali parametri sono rispettivamente 15O2, C15O2 e C15O; meno utilizzati i traccianti equivalenti marcati con 11C come 11CO2 e 11CO. L'elevata risoluzione spaziale della PET rispetto ad altre metodiche tomografiche ad emissione, come la tomografia ad emissione di fotone singolo (SPET), deriva principalmente dalle proprietà fisiche dei positroni e dal particolare sistema di rivelazione impiegato. I positroni sono particelle con la stessa massa di un elettrone, ma con una carica elettrica opposta che, dopo aver percorso pochi millimetri nei tessuti,
si annichilano interagendo con un elettrone. Tale interazione produce due fotoni gamma ad alta energia (511 KeV) che vengono emessi a 180° l'uno dall'altro. Una mappa della radioattività tissutale, e quindi del destino di un radiotracciante emittente positroni, può essere ottenuta mediante un apposito tomografo ad emissione che consiste principalmente in un sistema di rivelatori esterni disposti in anelli e controllati da un circuito elettronico di coincidenza che consente la registrazione di un segnale solo quando due fotoni sono rivelati entro un breve intervallo di tempo (coincidenza) da due rivelatori geometricamente opposti tra loro. I moderni tomografi ad emissione di positroni hanno più anelli di rivelatori che permettono l'acquisizione e la ricostruzione contemporanea di numerose sezioni tomografiche. La risoluzione spaziale dei tomografi commerciali di ultima generazione è di 4.5 mm. Per quantificare un parametro funzionale quale il rCBF, il rCMRO2 o il consumo regionale di glucosio (rCMRglu) sono stati elaborati dei modelli matematici che permettono di giungere dalla radioattività tissutale, misurata dalla PET, alla variabile fisiologica in esame. Questi modelli tengono conto della distribuzione e del metabolismo del tracciante all'interno del tessuto, del suo rilascio, del ricircolo di tracciante metabolizzato e non metabolizzato, della componente di tracciante contenuto nel compartimento vascolare. La tomografia ad emissione di positroni (PET) con tecnica del 18F-fluorodesossiglucosio ([18F]FDG), basata sul modello autoradiografico del 14C-desossiglucosio, permette la misurazione quantitativa del consumo regionale cerebrale di glucosio (rCMRglu) (Lucignani et al., 1993). La PET permette di ottenere misure quantitative di parametri fisiologici cerebrali quali il flusso ematico, il metabolismo dell'ossigeno e del glucosio, l'estrazione di ossigeno. Questi parametri hanno un ruolo fondamentale nella regolazione della funzione regionale
Esami diagnostici complementari
del tessuto nervoso, costituendo la base del meccanismo che regola i consumi energetici cerebrali. Gli studi mediante PET hanno dimostrato l'interazione tra flusso ematico, metabolismo e funzione cerebrale: stimoli sensoriali semplici o semplici attività motorie, come pure attività mentali complesse, determinano l'attivazione di aree cerebrali preposte alla loro ricezione ed elaborazione secondo gli schemi della neurofisiologia o configurando modelli neuropsicologici basati sulla esistenza di circuiti neuronali più o meno complessi. È possibile studiare le basi funzionali dei processi cognitivi mediante due modalità (Perani et al., 1992). La prima si basa sull'esame PET di soggetti con lesioni del sistema nervoso centrale in cui siano clinicamente evidenti deficit neuropsicologici, quali ad esempio disturbi della memoria o del linguaggio (Fazio et al., 1992; Perani et al., 1993); la seconda riguarda l'utilizzo di particolari tecniche PET dette di "attivazione", che si basano sulla valutazione di modificazioni funzionali cerebrali, quali il flusso e il metabolismo regionali, durante stimolazioni semplici (uditive o visive), e durante l'esecuzione di compiti cognitivi più complessi (Decety et al., 1994). Questi studi rivestono una importanza fondamentale per la comprensione delle funzioni cognitive nell'uomo e rappresentano l'unica possibilità di conoscere in vivo i correlati funzionali dell'attività mentale. Si tratta di un campo di ricerca che, oltre all'enorme interesse di tipo teorico, potrà in futuro rivestire anche aspetti di tipo applicativo, sia ai fini di una diagnosi precoce di malattie neurologiche, come le differenti forme di decadimento demenziale, ove la compromissione cognitiva costituisce l'elemento fondamentale del quadro clinico, sia per la possibilità di sperimentazione di trattamenti farmacologici e non, mirati ad influenzare le funzioni neuropsicologiche. Questi studi rivestono un'importanza fondamentale per la comprensione della regolazione dei diversi parametri funzionali in condizioni fisiologiche e
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sono la base per la comprensione delle alterazioni presenti in condizioni patologiche. Un nuovo capitolo nella ricerca e nelle applicazioni PET si è aperto con lo sviluppo di nuovi radiotraccianti per lo studio dei sistemi di neurotrasmissione. In Tabella 9.5 sono riportati i principali traccianti PET (marcati con 11C o 18 F) e SPECT (marcati con 123I, v. dopo) utilizzati allo stato attuale. Le metodiche di studio dei sistemi di neurotrasmissione sono in continuo sviluppo, sia per quanto riguarda la radiochimica, sia per quanto riguarda l'interpretazione e la quantificazione dei dati a mezzo di complessi modelli matematici (Lucignani et al., 1989). Tali studi rivestono un grande interesse per le potenziali applicazioni pratiche in patologia neurologica e psichiatrica caratterizzate da alterazioni nei sistemi di neurotrasmissione. I radiotraccianti maggiormente impiegati sono quelli per lo studio del sistema dopaminergico, quali il 18F-L fluorodopa ([18F]dopa) per la valutazione del metabolismo della dopamina (dopa-decarbossilasi), 11C-FE-CIT, CFT per la misura pre-sinaptica della ricaptazione della dopamina da parte dei terminali nervosi ed il 11 C-metilspiperone o 11C-raclopride per la valutazione della funzionalità dei recettori postsinaptici D2. L'applicazione di tali strumenti allo studio di alcune patologie fra cui principalmente quelle del sistema extrapiramidale e quelle psichiatriche ha permesso l'introduzione di queste metodiche nella pratica clinica e nella ricerca in neuropsicofarmacologia. La tecnica PET ha fornito contributi fondamentali per le conoscenze della fisiopatologia in vivo, con contributi alla diagnosi ed alla prognosi di diverse malattie neurologiche. Patologia cerebrovascolare. - La PET ha permesso di dimostrare le modificazioni emodinamiche nei diversi stadi dell'ischemia, dalla fase di reversibilità all'infarto, a quella di necrosi tissutale, consentendo non solo una più affidabile valutazione prognostica, ma soprattutto una valutazione di metodi di prevenzione e di tratta-
Elementi di fisiopatologia e semeiologia
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Tabella 9.5 - Traccianti PET-SPECT per studi di neurotrasmissione •
DOPAMINERGICO
D2/D3 (striatali) D2/D3 (extra-striatali) D2/D3/D4 D1 DOPA-decarbossilasi Siti reuptake dopamina ADENOSINA A2 •
SEROTONERGICO
5HT1A 5HT2 5HT •
[123I]IODOBENZOVESAMICOL [11C]NICOTINE [11C]QNB, [123I]]DEXETIMIDE
ADRENERGICO [11C]ICI 118155 [18F] or [ 11C]CARAZOLOL
β2 β1 •
[11C]FLUMAZENIL , [123I]IOMAZENIL [11C]PK11195
COLINERGICO
Vescicole di ACH Recettori Nicotinici Recettori Muscarinici •
[11C]WAY 100635 [11C]NMSP, [18F]ALTANSERINE, [18F]SETOPERONE, [18F]FESP, [11C]MDL [11C]McN 5652z, [123I]bCIT , [123I]NQP
BENZODIAZEPINE
Centrali Periferiche •
[11C]RACLOPRIDE, [123I]IBZM, [123I]NCQ298, [11C]FLB 456, [123I]EPIDEPPRIDE [18F]FESP, [11C]NMSP [11C]SCH23390 [18F]DOPA CIT - ANALOGUES (11C, 18F, 123I) [11C]SCH442416
OPPIOIDI
κ, µ
[11C]DYPRENORPHIN, [11C]CARFENTANIL
mento che siano realmente mirati ed efficaci (Wise et al., 1983). Nella fase acuta dell'ischemia cerebrale, quando spesso i dati morfo-strutturali delle indagini neuroradiologiche TC o RM sono negativi, la misura contemporanea dei parametri emodinamici e metabolici con tecnica PET permette di definire il grado di ischemia e di evidenziare altri meccanismi aggravanti la patologia cerebrovascolare come la perfusione di lusso. Questo stato di iperemia reattiva, misurabile alla PET come incremento di flusso ematico con bassa estrazione di ossigeno, è pre-
sente nella fase post-infartuale non solo nel tessuto necrotico ma anche nel tessuto integro circostante: il suo ruolo nell'aggravare l'edema vasogenico cerebrale, presumibilmente attraverso una alterazione della barriera emato-encefalica, è stato dimostrato. Nella fase acuta dell'infarto cerebrale, un altro importante parametro da considerare, è la glicolisi anaerobia, che si ottiene dalla misura del consumo di ossigeno e di glucosio, poichè la presenza di una severa acidosi lattica è una delle possibili cause di morte neuronale. Sia nella fase acuta sia in quel-
Esami diagnostici complementari
la subacuta dell'ictus ischemico, è presente inoltre una certa instabilità del flusso ematico e del metabolismo ossidativo, fino alla perdita della autoregolazione fisiologica. Il flusso ematico, in particolare, non risponde più ai cambiamenti di PaCO2 o ad agenti vasoattivi, tanto da rendersi superflui in queste fasi interventi farmacologici mirati a ripristinare la perfusione. Un altro interessante aspetto, ampiamente documentato da studi PET, presente nella fase acuta ma frequentemente anche negli stadi cronici dell'ictus, è caratterizzato da una depressione associata del metabolismo e del flusso ematico cerebrale in aree che appaiono strutturalmente integre ad esami TC o RM e distanti dalla lesione infartuale. Questi effetti a distanza, attribuiti a meccanismi di deafferentazione tra aree cerebrali connesse da vie neuronali, hanno dimostrato avere un ruolo fondamentale nel recupero funzionale dopo ictus: il recupero dei deficit neurologici e dei disordini cognitivi per lesioni cerebrovascolari è infatti strettamente legato al risolversi di questi fenomeni di diaschisi. La possibilità di misurare gli effetti di terapie mirate al recupero di funzione, siano queste di tipo riabilitativo o farmacologico mirato, è possibile con la tecnica PET mediante studi longitudinali in pazienti con patologia cerebrovascolare sottoposti ad interventi specifici. Sono evidenti gli importanti contributi in campo diagnostico, prognostico e terapeutico-riabilitativo. Con tecnica PET è stato possibile misurare gli effetti dell'occlusione arteriosa cronica, particolarmente della arteria carotide interna o della media, dimostrata angiograficamente. È stato infatti evidenziato come a questa patologia si accompagnino conseguenze emodinamiche di gravità differente. In uno stadio iniziale, per un decremento della pressione di perfusione in una certa area cerebrale, il flusso ematico può mantenersi ancora entro valori normali grazie ad una risposta di vasodilatazione autoregolatoria che determina un incremento del volume ematico in quell'area. In uno stadio successivo, detto di perfusione critica e
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caratterizzato da una condizione di oligoemia, la vasodilatazione diventa inefficiente e l'unico meccanismo di compenso allo stato di progressiva riduzione dell'apporto ematico è l'aumento dell'estrazione di ossigeno tissutale. Quando anche questo secondo meccanismo di compenso si esaurisce, si instaura una vera situazione ischemica che si accompagna a una brusca caduta dei valori di flusso ematico e di consumo di ossigeno con comparsa di sintomi neurologici. È questa la fase più a rischio, ancora reversibile se l'apporto ematico si riequilibra, come nel caso degli attacchi ischemici transitori, o altrimenti irreversibile fino alla fase dell'infarto ischemico. È palese come nelle fasi precedenti l'infarto, caratterizzate da assenza di alterazioni morfo-strutturali, ma da profonde modificazioni dei parametri funzionali, la PET possa svolgere un ruolo fondamentale nella valutazione dei differenti aspetti emodinamici e metabolici permettendo quindi di indirizzare correttamente ad una terapia medica o chirurgica disostruttiva quei pazienti che presentano un quadro di perfusione critica, risparmiando interventi e terapie inutili in condizioni di compenso fisiologico o nelle fasi ormai irreversibili. Recentemente, i patterns di rCBF e rCMRO2 osservabili nella fase acuta e subacuta dell'ischemia con PET sono stati correlati con successo alla prognosi. In particolare stati di marcata ipoperfusione con marcato ipometabolismo e stati di aumento di perfusione con lieve ipometabolismo sono rispettivamente correlati a cattiva e buona prognosi, mentre l'esito è imprevedibile per situazioni intermedie (Iacoboni 1999). Malattia di Alzheimer. - Studi del metabolismo cerebrale di glucosio, indice della funzionalità neuronale, hanno dimostrato un deficit metabolico nei pazienti sospettati avere questa patologia rispetto ad anziani normali. Sono state inoltre determinate le aree cerebrali più colpite dal deficit funzionale, anche nelle fasi precoci
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia Fig. 9.186 - Al centro, esame di risonanza magnetica in un paziente con demenza di tipo Alzheimer: normalità del quadro morfo-strutturale; a destra, studio del metabolismo glucidico cerebrale con [18F]FDG e tomografia ad emissione di positroni (PET): presenza di grave riduzione del consumo glucidico a livello delle aree parietali e temporali bilateralmente; a sinistra, atlante anatomico di riferimento.
della malattia (Haxley et al., 1990). La depressione metabolica coinvolge infatti in modo specifico le aree corticali parieto-temporali bilateralmente, insieme ad un progressivo coinvolgimento delle aree associative frontali con l'avanzare della malattia o in presenza di grave compromissione cognitiva (Fig. 9.186). Questa distribuzione dei deficit metabolici, che corrisponde alle maggiori alterazioni regionali anatomo-patologiche, è specifica di questo tipo di demenza, che si distingue così da altre forme di decadimento cognitivo su base degenerativa o vascolare o da forme a sintomatologia simile ma non propriamente dementi, come disturbi di memoria associati ad invecchiamento (AAMI = age associated memory impairment) o demenza in corso di depressione (pseudodemenza). L'unico altro tipo di demenza a tipologia PET simile è quella associata a malattia di Parkinson. I dati PET ottenuti in pazienti con probabile malattia di Alzheimer non sono in rapporto alla presenza di atrofia cerebrale, vista la negatività degli esami TC o RM soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, ma mostrano una correlazione con il tipo e la gravità dei deficit cognitivi, a sottolineare quanto l'alterazione funzionale preceda quella strutturale. Disturbi del movimento Nella corea di Huntington, studi PET del metabolismo cerebrale di glucosio hanno consentito
di stabilire dei pattern metabolici correlabili alla presenza e alla gravità dei sintomi neurologici e neuropsicologici. Una depressione metabolica è presente a livello dei nuclei caudati, non solo nella fase conclamata della malattia, ma anche molto prima del manifestarsi dei disordini del movimento, in soggetti geneticamente predisposti. Nella malattia di Parkinson, studi di flusso o metabolismo hanno messo in evidenza una depressione metabolica dei gangli della base ed, in pazienti che presentavano anche un decadimento cognitivo, riduzioni del metabolismo corticale, simili a quelle osservabili in corso di demenza di Alzheimer. La possibilità di ottenere indicazioni utili alla diagnosi o ad un miglior inquadramento dei disturbi del movimento è sempre più promettente, grazie allostudio del sistema dopaminergico mediante marcatori specifici. Con il radiotracciante 18F-L fluorodopa (18F-dopa), un analogo della L-dopa, si sono ottenute informazioni in vivo sulle alterazioni del metabolismo della dopamina e sulle ridotte capacità di deposito del mediatore a livello delle vescicole dei terminali dopaminergici nella malattia di Parkinson (PD). Tale riduzione è particolarmente evidente a livello del putamen, con relativo risparmio della testa del nucleo caudato, in accordo con la patogenesi nota del PD, ovvero di danno prevalente delle fibre nigro-striatali che proiettano maggiormente al putamen. Diversamente, in pazienti con parkinsonismi quali la Paralisi So-
Esami diagnostici complementari
pranucleare Progressiva (PSP), le strutture dei gangli della base sono omogeneamente interessate dalla malattia, in quanto il danno coinvolge primariamente tali strutture oltre che le fibre nigro-striatali. Per quantro riguarda lo studio del sistema dopaminergico post-sinaptico, questo non è generalmente alterato nella malattia di Parkinson mentre è ridotto in varia misura nei parkinsonismi. È quindi evidente come siano disponibili vari strumenti per la diagnosi differenziale precoce delle malattie del sistema extrapiramidale. Da notare è anche che l'entità del deficit dopaminergico a livello presinaptico osservabile con [18F] dopa o, più recentemente, con marcatori dei siti di reuptake della dopamina quali l'[11C]FE-CIT, è strettamente correlata alla gravità della malattia, tanto che la PET con tali marcatori costituisce un utile ed obiettivo strumento per la valutazione del followup e dell'effetto dei farmaci in questi pazienti. Epilessia farmacoresistente. - Il principale utilizzo della PET in questa patologia è la valutazione di sede ed estensione del focolaio epilettogeno nelle epilessie farmaco-resistenti ad indirizzo chirurgico. In questi casi, talvolta, non esistono alterazioni parenchimali rilevabili con RM, mentre la PET può evidenziare anomalie metaboliche focali, che potrebbero trovare una più sicura attribuzione anatomica nel contesto di una immagine integrata PET/RM, con quindi più corrette indicazioni al trattamento chirurgico. Gli studi PET nelle fasi interictali hanno dimostrato riduzioni di metabolismo in aree cerebrali in correlazione con i dati della elettrofisiologia (Engel et al., 1982), mentre aumenti del consumo di glucosio sono presenti durante le fasi ictali dell'epilessia ed in alcune epilessie accompagnate a gravi malformazioni, particolarmente nei bambini (es. emimegaloencefalopatia).
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gine, riveste un ruolo di importanza fondamentale nella ricerca e nella pratica clinica neurologica. Questa tecnologia sta contribuendo a chiarire in vivo la neurofisiologia del sistema nervoso centrale e la fisiopatologia di numerose affezioni neurologiche (malattie cerebrovascolari, malattie con degenerazione primaria, epilessia parziale farmacoresistente, ecc.), con importanti implicazioni per la diagnosi differenziale e per gli aspetti prognostici. Lo studio della fisiopatologia dell'ischemia cerebrale ad esempio, si presenta ancora oggi estremamente complesso, e ancor più nell'uomo, essendo coinvolti fattori di diversa natura, emodinamici, energetici, biochimici, neurotrasmettitoriali. Le varie fasi del danno ischemico neuronale sembrano essere scandite da una cascata di eventi biologici, cui probabilmente si accoppiano precisi patterns emodinamici ed energetici. La valutazione di tali aspetti, in vivo, con uno studio sequenziale di pazienti nelle fasi più precoci e a distanza, potrà forse essere la base su cui sviluppare approcci terapeutici mirati. In patologia cerebrovascolare, la misura di parametri funzionali cerebrali in vivo con le metodiche di tomografia ad emissione potranno inoltre meglio chiarire i meccanismi del recupero spontaneo di funzioni neurologiche elementari e complesse. Un nuovo capitolo nella ricerca e nelle applicazioni PET si è aperto con lo sviluppo di radiotraccianti per lo studio dei sistemi di neurotrasmissione. Con queste tecniche é possibile visualizzare, nell'uomo, la distribuzione dei neurorecettori, misurarne la densità e le affinità di legame con i neurotrasmettitori e osservare le modificazioni legate a differenti condizioni patologiche, correlandole ai differenti meccanismi etiopatogenetici.
Conclusioni
Tomografia ad emissione di fotone singolo (SPET)
La tomografia ad emissione di positroni (PET), una delle più complesse tecniche di neuroimma-
La tomografia ad emissione di fotone singolo (SPET) è una tecnica che, mediante l'uso di oppor-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
tuni traccianti marcati con isotopi radioattivi emittenti fotoni singoli, permette lo studio di alcune funzioni cerebrali, quali il flusso ematico regionale cerebrale. È una tecnica simile alla PET, dalla quale differisce per la risoluzione spaziale e la quantificazione della funzione indagata. La risoluzione spaziale è legata alla modalità di emissione dei positroni rispetto ai fotoni singoli, i primi decadendo per annichilazione, ed i secondi per emissione di raggi gamma a 360 gradi dal punto di interazione. Ciò comporta un diverso sistema di rivelazione delle radiazioni e la conseguente diversa risoluzione spaziale delle immagini. Attualmente esistono diversi tipi di strumentazione per la rivelazione dei fotoni singoli: la più semplice e diffusa è la gamma-camera rotante (a testata circolare o, meglio, rettangolare). Per migliorare la qualità delle immagini, tuttavia, sono state sviluppate sia apparecchiature a più testate (ottimale quella a tre teste) che strumentazioni dedicate a studi cerebrali. Nella Tab. 9.6 sono riportati i valori di risoluzione spaziale per le diverse gamma-camere e il confronto con la PET. Tabella 9.6 - Risoluzione spaziale di diversi sistemi tomografici (SPET e PET). Gamma-camera a testata circolare
15 mm
Gamma-camera a testata rettangolare
11 mm
Gamma-camera dedicata
8 mm
PET
5 mm
La quantificazione della funzione indagata è legata alle caratteristiche chimiche dei radionuclidi emittenti positroni. Per la PET, vengono utilizzati gli isotopi radioattivi del carbonio, dell'azoto, dell'ossigeno e del fluoro (quest'ultimo facilmente sostituibile all'idrogeno, avendo un elettrone solo sull'ultimo orbitale). Questi elementi rientrano nella normale costituzione delle molecole biologiche, che possono essere così marcate direttamente. Seguendo il de-
stino metabolico di tali traccianti nell'organismo mediante l'emissione radioattiva, è possibile quantificare alcune delle funzioni cerebrali più importanti, quali il consumo di glucosio o di ossigeno, o il flusso ematico regionale. La SPET (con l'eccezione dello Xe-133) invece utilizza radioisotopi di atomi pesanti, quali il Tecnezio-99 metastabile. Questi atomi vengono utilizzati per marcare sostanze che, grazie alle loro caratteristiche fisico-chimiche, si distribuiscono in maniera proporzionale al flusso. Non è quindi possibile quantificare il flusso in termini di ml/g/min, ma si possono ottenere immagini rappresentative della distribuzione del flusso in senso qualitativo.
I traccianti di perfusione cerebrale Per flusso ematico cerebrale (CBF) si intende il volume di sangue che giunge a perfondere i tessuti del sistema nervoso centrale in un minuto. Il tessuto cerebrale riceve il 13% della gittata cardiaca, con una perfusione di 750 ml/ min; il che equivale a circa 50 ml per 100 g di tessuto per ogni minuto. In condizioni normali, il flusso regionale (rCBF) è maggiore nella sostanza grigia rispetto alla sostanza bianca, ed è in genere particolarmente alto a livello delle aree primarie (area uditiva, visiva, motoria) e delle strutture grige sottocorticali (gangli della base). I valori dell'rCBF si abbassano in tutte le condizioni che vedono una riduzione del metabolismo ossidativo cerebrale; tali condizioni possono essere fisiologiche (calo dell'attenzione), indotte dall'uomo (anestesia) o patologiche. Come osservato anche in studi del metabolismo glucidico con PET, i valori di flusso si innalzano a partire dal primo anno di vita, fino a diventare circa il doppio di quelli dell'adulto verso i 4-7 anni, per poi riscendere ai valori normali verso i 16 anni e calare a poco a poco in rapporto alla fisiologica deplezione del pool neuronale legata ai processi di invecchiamento.
Esami diagnostici complementari
In condizioni fisiologiche, e per la maggior parte delle patologie, la perfusione cerebrale è accoppiata al metabolismo e la misura del rCBF con SPET fornisce una stima dell'attività funzionale delle varie aree del SNC. Le applicazioni cliniche dello studio di flusso con SPET sono simili a quelle osservate precedentemente con PET. Nonostante la qualità delle immagini ottenute con SPET sia inferiore rispetto a quella ottenuta con PET, grazie ai costi contenuti e alla disponibilità nella maggior parte dei centri di medicina nucleare, la SPET viene utilizzata in maniera più diffusa nella pratica clinica. I traccianti di perfusione per la SPET cerebrale comprendono lo Xenon-133 e i radiofarmaci marcati con Tecnezio-99 metastabile. Lo Xenon-133 è un gas nobile, (periodo fisico 5,3 giorni, emissione gamma 81 KeV, beta 374 KeV) che viene inalato dal paziente contemporaneamente allo studio scintigrafico e che permette la misurazione in termini assoluti del flusso ematico cerebrale in ml/g/min. La possibilità di quantificare il flusso rende questo tracciante particolarmente interessante. Tuttavia l'impiego routinario in centri di medicina nucleare è limitato da alcuni svantaggi, fra cui principalmente il fatto che, per ottenere immagini tomografiche, è necessario utilizzare strumenti dedicati con un notevole aumento dei costi. Comunque, anche con l'utilizzo di strumenti dedicati, la risoluzione delle immagini non scende sotto i 2 cm.
Fig. 9.187 - Studio SPET della perfusione cerebrale; sezioni transassiali; quadro di normalità. Si noti la maggior perfusione degli emisferi cerebellari (in rosso) rispetto alla sostanza grigia corticale (in giallo) e alla sostanza bianca dei centri semiovali (in verde/blu).
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I traccianti più utilizzati nella pratica clinica sono i radiofarmaci marcati con Tecnezio-99 metastabile, fra cui l'exametil-propilene-aminooxima (HM-PAO), e l'etilene-cistein-diidroclorato (ECD), di più recente introduzione. Entrambe queste molecole sono in grado di passare la barriera emato-encefalica grazie alla propria lipofilia e neutralità elettrica, e restano intrappolate all'interno del tessuto cerebrale senza possibilità di ricircolo né di ridistribuzione. La marcatura viene effettuata con Tecnezio-99 metastabile (99mTc), radioisotopo estremamente maneggevole per le caratteristiche di periodo fisico (6 ore) e per la sua disponibilità in ogni servizio di Medicina Nucleare. Una volta marcati, tali radiofarmaci vengono somministrati per via endovenosa. L'attività somministrata è di circa 25 mCi (925 MBq). La percentuale di captazione di tali traccianti a livello cerebrale è del 7% per l'HM-PAO e poco meno per l'ECD. Un esempio delle immagini ottenute con SPET ad alta risoluzione e [99mTc]HM-PAO in un soggetto normale è riportato in Fig. 9.187. Oltre che per studi di flusso, un'area di grande interesse in cui la SPET potrebbe avere un ruolo è lo studio di sistemi di neurotrasmissione. I traccianti recettoriali Se fino a poco tempo fa la possibilità di studio dei sistemi di neurotrasmissione in vivo nell'uomo
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
era pertinenza della metodica PET, recentemente la marcatura con I-123 di nuovi ed interessanti traccianti ha reso possibile l'esecuzione di questi studi anche con metodica SPET (Tab. 9.5). Il sistema neurorecettoriale più indagato è quello dopaminergico, sia con molecole che si localizzano direttamente sui recettori postsinaptici, ([123I]IBZM per i recettori D2), sia con radiofarmaci che competono per i siti di reuptake ([123I]b o FPCIT, analogo della cocaina). Particolarmente utili si stanno dimostrando i radiofarmaci del secondo tipo: essendo infatti la funzione di reuptake di competenza del neurone presinaptico, esiste la possibilità di misurare con questi traccianti un indice che è proporzionale alla densità dei terminali nervosi che trasmettono, ad esempio, mediante dopamina, e caratterizzare in modo più approfondito alcune patologie importanti del SNC, come il morbo di Parkinson ed i parkinsonismi. Ancora a livello sperimentale sono da considerarsi le molecole per lo studio dei sistemi adrenergico e serotoninergico, ma anche in questo caso esiste la possibilità di indagare la funzionalità presinaptica utilizzando l'IBVM marcato con Iodio-123 per il sistema colinergico e l'NPQ, sempre marcato con Iodio-123, per quello della serotonina.
Applicazioni cliniche Come già sottolineato, le applicazioni della SPET in clinica sono analoghe a quelle della PET, e poiché le informazioni fornite sono simili, ma a costi molto inferiori, la SPET viene utilizzata molto più frequentemente (Holman et al., 1992). Demenze. - Lo studio si è rivelato particolarmente utile specie per la malattia di Alzheimer (AD), la demenza multiinfartuale (MID), la demenza del lobo frontale (FLD) e la demenza associata ad AIDS (AIDS dementia complex, ADC). Nell' AD, per una diagnosi differenziale precoce, qualora l'esame neurologico, le più comu-
ni indagini bioumorali e le immagini RM o TC non siano clinicamente decisive, il dato di perfusione cerebrale aggiunge un'informazione oggettiva preziosa, con un'accuratezza diagnostica pari all'80 % (Holman et al., 1994). La diagnostica neuroradiologica fornisce informazioni molto dettagliate sulla morfologia, ma in genere il dato anatomico in questi casi si limita ad una più o meno marcata atrofia della corteccia cerebrale. Per quanto concerne l'indagine funzionale, effettuata con i normali traccianti di perfusione marcati con 99mTc, nella malattia di Alzheimer la compromissione è precoce e coinvolge i lobi temporali e parietali bilateralmente, anche se molto spesso in modo asimmetrico. Questi quadri sono sovrapponibili a quelli osservati con la PET (Mezza et al., 1994), per cui come primo approccio ai pazienti con disturbi cognitivi, compatibili con la diagnosi di AD, lo studio di flusso con la SPET può essere preferito alla PET. Esistono tuttavia casi, soprattutto nelle fasi precoci di malattia, in cui il coinvolgimento della corteccia è unilaterale ed allora la correlazione fra deficit di perfusione e AD è meno certa, e ulteriori dati sull'evoluzione di questi pazienti sono necessari per poter trarre conclusioni sul significato clinico di tali anomalie funzionali. Un altro quadro nelle forme iniziali di sospetta AD, è quello di un deficit selettivo dei lobi frontali. Difficile è, in questi casi, concludere se sia o meno presente un malattia di Alzheimer o altre forme di demenza ( fronto-temporale, m. di Pick, demenze associate a disturbi del movimento) o forme non dementi (disturbi psichiatrici). Multipli difetti di perfusione, circoscritti e casualmente distribuiti su tutta la corteccia depongono per la demenza multiinfartuale e sono associati in genere alla presenza di alterazioni vascolari tipicamente localizzate nella sostanza bianca ed evidenziate all'esame RM. L'ipoperfusione in sede corticale potrebbe in questi casi essere dovuta a fenomeno di deafferentazione da lesioni sottocorticali. La diagnosi precoce nel campo delle demenze riveste particolare importanza per la distinzio-
Esami diagnostici complementari
ne fra demenza degenerativa e vascolare, la cui terapia è differente, ma anche per differenziare la demenza da un deficit mnesico, in rapporto con l'invecchiamento, o da una forma psicotica. I recentissimi progressi della ricerca farmacologica nel campo delle malattie del SNC con degenerazione primaria potranno rendere fondamentali tali esami non soltanto per la diagnosi, ma per l'impostazione di eventuali protocolli terapeutici. Infine, un quadro particolare è rappresentato dalla demenza associata ad AIDS (ADC), da HIV o da altri agenti patogeni associati, quali più frequentemente il Citomegalovirus (CMV). Le anomalie di distribuzione del tracciante non rivestono in questi casi caratteristiche di specificità, ma l'esame SPET della perfusione cerebrale è importante, perchè spesso è l'unica indagine che dimostri alterazioni a livello cerebrale in pazienti sintomatici, e perché, data la reversibilità delle lesioni, può essere un utile elemento diagnostico e terapeutico del soggetto nel tempo (Maini et al., 1990). Infine, sono state descritte alterazioni di flusso anche in pazienti HIV positivi asintomatici (sia a livello neurologico che sistemico): un tale dato è spiegabile in base alla precoce localizzazione del virus HIV nel SNC, e potrebbe in futuro essere utilizzato per la definizione di nuovi protocolli terapeutici. Malattie cerebrovascolari (CVD). - Lo studio del flusso ematico cerebrale con SPET è stato largamente utilizzato nelle malattie cerebrovascolari, che costituiscono storicamente uno dei primi campi di applicazione di questa metodica. Le riduzioni di flusso già nelle prime ore dopo l'ictus ischemico, quando la TC nella maggioranza dei casi è ancora negativa, possono essere evidenziate. Successivamente si assiste ad un aumento transitorio del flusso nella sede di lesione, che, qualora si verifichi in 5a-7a giornata dopo l'evento ischemico e in presenza di una lesione anatomica all'esame TC, corrisponde al "flusso di lusso". Infine, a circa un mese dall'insulto vascolare, si assiste ad una riduzio-
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Fig. 9.188 - A) Studio di perfusione con SPET e [99mTc] HM-PAO in un paziente con esordio, 6 ore prima, di un quadro acuto di emisindrome faciobrachiocrurale sinistra. Lo studio SPET evidenzia marcata ipoperfusione frontale e temporale destra. La TC era in questa fase negativa. B) Lo studio di perfusione ripetuto 9 gg dopo, quando la TC era ormai da tempo positiva. Si nota che, ove era presente ipoperfusione, e’ ora evidente un marcato aumento della perfusione, come da fenomeno di «flusso di lusso».
ne/assenza di flusso che corrisponde all'area anatomicamente lesa (Fig. 9.188 A, B) (Jorgensen et al., 1994). La classificazione delle CVD e la stratificazione prognostica dopo l'evento acuto è affidata ai criteri clinici e alle indagini neuroradiologiche; abitualmente i pazienti vascolari vengono sottoposti a TC in fase precoce e questa indagine è sufficiente a chiarire il tipo, la sede e l'estensione della lesione. Tuttavia, ai fini di un approfondimento diagnostico e, soprattutto, di una valutazione prognostica, lo studio del danno funzionale mediante SPET può fornire infor-
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
mazioni molto importanti (Fieschi et al., 1989), per lo meno nella fase acuta dell'ischemia. Due sono gli aspetti più interessanti: la possibilità di evidenziare un danno funzionale quando la TC è ancora negativa, può essere utile sia per la localizzazione e la dimostrazione del danno che, soprattutto, per la prognosi, poiché più estesa è la lesione funzionale, peggiore è la prognosi. Inoltre, come per la PET, il danno funzionale non è presente solo nella sede della lesione anatomica, ma anche in aree distanti, morfologicamente illese, ma funzionalmente deafferentate (Perani et al., 1987). La dimostrazione di tale fenomeno, detto diaschisi, può essere utile a) per documentare la presenza di segni e sintomi difficilmente spiegabili in base alla sola lesione anatomica (es.: afasia dopo lesione dei gangli della base) e b) per una valutazione prognostica ed il follow-up: infatti, essendo la diaschisi un fenomeno reversibile, anche il sintomo correlato può essere reversibile, e quindi la SPET può essere utilizzata come esame per tali pazienti. Epilessia. - Lo studio del flusso ematico cerebrale non rientra nella batteria iniziale di esami ai quali viene indirizzato il paziente sospetto di epilessia. La SPET, come la PET, trova un'indi-
cazione nella localizzazione del focolaio epilettogeno delle epilessie parziali farmaco-resistenti con indicazione all'intervento chirurgico. Si distinguono studi SPET in fase ictale da quelli interictali, a seconda del momento in cui viene iniettato il radiofarmaco; il focus epilettogeno è visualizzabile come iperperfuso in fase ictale, mentre appare ipoattivo allo studio interictale (Fig. 9.189). La sensibilità della SPET nel localizzare il focus epilettogeno è prossima al 100% durante la fase ictale, mentre scende al 50% circa nella fase interictale (Rowe et al., 1989). Nei confronti della PET, la SPET presenta lo svantaggio della minor risoluzione spaziale, parametro fondamentale qualora sia necessario localizzare un focolaio epilettogeno, che debba essere rimosso. Tuttavia la SPET presenta un vantaggio, legato alla caratteristica cinetica del tracciante. Infatti con PET e [18F]FDG, a causa del lungo tempo necessario per la fosforilazione dell'FDG (45-60 minuti), non è possibile valutare variazioni metaboliche rapide come quelle che avvengono durante la crisi epilettica. Con i traccianti SPET, che rimangono intrappolati nel tessuto cerebrale nei primi minuti dopo l'iniezione, è possibile fotografare rapide variazioni di flusso che avvengono durante la fase ictale
Fig. 9.189 - Studio RM, PET e SPET effettuati in fase interictale in un caso di epilessia temporale farmaco-resistente. Alla normalità del quadro neuroradiologico corrisponde un’area chiaramente ipoperfusa a livello temporale destro nelle indagini nucleari.
Esami diagnostici complementari
dell'epilessia. Poiché il tracciante non ricircola, l'immagine di distribuzione del tracciante radioattivo a livello cerebrale può essere acquisita in tempi successivi all'iniezione, quando il paziente sta bene, pur rappresentando la distribuzione del flusso al momento dell'iniezione. Disturbi del movimento. - Le sindromi classificate come "disturbi del movimento" racchiudono una grande varietà di stati clinici fra di loro correlati. La più frequente di queste malattie è il Morbo di Parkinson, la cui diagnosi differenziale con i parkinsonismi non sempre è agevole. Gli studi del sistema dopaminergico con PET visti sopra sono possibili anche con SPECT. Al posto della [18F]DOPA o [11C]CFT è possibile utilizzare l'[123I]FP-CIT ed al posto del [11C]metilspiperone o dell'[11C]raclopride il [123I]IBZM. È quindi possibile anche con SPECT discriminare il Parkinson dai parkinsonismi, valutare la progressione di malattia e predirne la risposta alla Ldopa. La differenza con la PET è essenzialmente dovuta alla qualità delle imagini (inferiore per la SPECT) e di conseguenza alla possibilità di discriminare la captazione del tracciante all'interno della diverse strutture che compongono i gangli della base (Booij et al 1999). Tumori cerebrali. - In questo ambito, sebbene la PET sia da ritenersi l'indagine d'elezione, anche la SPET ha assunto una notevole importanza. Lo studio di flusso con HM-PAO o ECD è in questo caso meno interessante, e vengono invece utilizzate sostanze che, per vari meccanismi, si accumulano con maggior intensità nei tessuti ad alta attività proliferativa. L'indicazione principale della SPET nei tumori riguarda malati con sospetta recidiva tumorale dopo terapia chirurgica o radiante. La diagnostica neuroradiologica, fondamentale e risolutiva nel momento della diagnosi, è invece meno utile per la valutazione di tumori trattati, in cui non riesce più a discriminare il tessuto necrotico o cicatriziale dalla possibile ripresa di malattia. Lo studio mediante SPET e marcatori
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tumorali, si è dimostrato spesso risolutivo, potendo differenziare il tessuto neoplastico da quello cicatriziale. I traccianti utilizzati con SPET sono il Tallio201 o il [99mTc]MIBI. Il Tl-201 si accumula all'interno del citoplasma delle cellule in funzione dell'attività metabolica (Kim et al., 1990). È così possibile non solo dimostrare la presenza di una ripresa di malattia, ma anche dare un giudizio sull'attività proliferativa del tessuto neoplastico, confrontando l'entità dell'accumulo con i valori di radioattività presenti in un'area speculare, di uguali dimensioni, localizzata nell'emisfero sano. Anche la diagnostica oncologica mediante anticorpi monoclonali radiomarcati trova applicazioni in neurologia, grazie all'espressione di un antigene di membrana, la tenascina. È stato possibile sintetizzare un anticorpo monoclonale anti-tenascina che, opportunamente radiomarcato, è in grado di identificare con grande sensibilità le cellule che esprimono tenascina nel proprio pannello antigenico di superficie. La correlazione delle immagini Uno dei problemi che si pongono oggi nel campo della diagnostica medico-nucleare applicata alla neurologia, è la correlazione fra dato funzionale e informazione anatomica. Dato infatti il volume relativamente ridotto delle strutture cerebrali, è molto importante poter stabilire con sicurezza un rapporto fra i tessuti indagati e la distribuzione della radioattività. Grazie all'evoluzione dell'informatica nell'elaborazione dell'immagine, è oggi possibile fare affluire sullo stesso schermo le immagini della risonanza, della TC e dello studio scintigrafico, procedere al loro "riallineamento" e poter così correlare il dato funzionale con quello anatomico. L'informazione comparata anatomica/funzionale potrebbe essere di grande aiuto per vari motivi: a) in patologia, per la localizzazione anatomica di lesioni funzionali o anche per la correlazione fra natura della lesione (dato TCRM) e attività funzionale di questa (dato SPET)
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
e b) nel soggetto normale, per la definizione di aree anatomico-funzionali, ad esempio aree funzionalmente attivate da specifici tests.
APPENDICE
L’esame neurologico nell’anziano C. Finocchi Le persone anziane sono in forte aumento sia come numero assoluto che in proporzione rispetto al totale della popolazione italiana, e tale tendenza è destinata ad accentuarsi nei prossimi anni. Nel 1993 gli ultrasessantacinquenni rappresentavano il 15% della popolazione totale italiana e nei prossimi 30 anni raggiungeranno circa il 24% (Amaducci et al., 1994). Anche le classi di età oltre gli 80 anni diventeranno via via più rappresentate: nel 1988 costituivano il 14% degli ultrasessantenni e nel 2020 saranno circa il 23%. Nella popolazione oltre gli 85 anni, infine, vi è una prevalenza netta del sesso femminile (71%). L’incidenza di molte malattie neurologiche cresce con l’aumentare dell’età. Questo dato è stato recentemente confermato da uno studio che ha analizzato estesamente la patologia di un ampio campione di popolazione italiana di età compresa tra i 64 e gli 85 anni (ILSA working group, 1997), in cui le patologie neurologiche maggiormente rappresentate sono risultate le demenze, le malattie cerebrovascolari, i Parkinsonismi, e le polineuropatie. Raramente tuttavia viene sottolineato che qualunque manifestazione patologica dell’anziano deve essere valutata sulla base di cambiamenti “fisiologicamente” correlati con l’invecchiamento. L’esperienza clinica insegna che l’esame neurologico di soggetti sani si modifica in parte con il progredire dell’età: alcuni segni, che in persone giovani o adulte potrebbero essere interpretati come indice di patologia del sistema nervoso, possono essere invece considerati privi di significato patologico nell’anziano.
La ricerca relativa ai meccanismi di invecchiamento cellulare è stata particolarmente intensa negli ultimi anni e, nonostante che manchi a tutt’oggi una convincente definizione di “invecchiamento fisiologico”, ha consentito di svelare l’importanza di svariati fattori genetici ed ambientali implicati in tale processo. Benché i meccanismi siano multipli e complessi, singole mutazioni geniche e interventi “semplici” quali la restrizione calorica (Kirkwood TB, 2000) hanno importanti effetti sulla senescenza. In attesa di chiarimenti definitivi rimangono l’interazione tra i diversi fattori, la reciproca influenza della genetica nucleare e mitocondriale, il peso dello “stress ossidativo”. Ne consegue che l’enunciazione di una teoria generale dell’invecchiamento cellulare sembra ancora lontana. Per quanto riguarda gli aspetti neuropatologici, si osserva una rarefazione di cellule nervose, che, associata alla diminuzione del contenuto in acqua, è causa di una progressiva perdita di peso dell’encefalo, a partire dai 30-40 anni. Nella settima, ottava e nona decade di vita, il numero di neuroni si riduce, in alcune zone sino al 50% ed in modo più evidente nelle lamine seconda e quarta della neocortex, delle regioni frontale e temporale superiore, ippocampo, giro del cingolo e giro paraippocampale. Perdita neuronale di minor consistenza, è stata dimostrata in altre aree, quali i gangli posteriori del midollo spinale ed i motoneuroni delle corna anteriori (Adams, 1993). Anche nel cervello di individui normali, con l’aumentare dell’età, compaiono placche senili, in numero e localizzazione, tuttavia, ben differenti rispetto ai cervelli di soggetti con malattia di Alzheimer, mentre molto più raro è il riscontro di alterazioni neurofibrillari (v. pag. 000). Oltre la quinta decade alterazioni dei vasi cerebrali sono la regola e consistono in ispessimento e ialinizzazione della parete delle arteriole e fibrosi pericapillare. Nel nervo periferico (in modo più spiccato a livello degli arti inferiori) è stata osservata una modesta e progressiva riduzione del numero di fibre sensitive e motorie oltre ad una significativa perdita di fibre muscolari nel muscolo striato. L’invecchiamento compromette anche l’attività dei principali neurotrasmettitori nel sistema nervoso centrale, in particolare dei sistemi catecolaminergici (soprattutto quello dopaminergico), mentre un declino più modesto riguarda la serotonina ed i suoi metaboliti e solo lievi anomalie si riscontrano nell’innervazione colinergica dell’ippocampo e della corteccia. Le conoscenze sono meno precise per il glutammato e l’acido gamma-amino-butirrico.
Esame neurologico Elenchiamo, qui di seguito, i segni che possono essere considerati semplice espressione del-
Esami diagnostici complementari
l’invecchiamento “fisiologico”. Quasi tutti gli aspetti sottoelencati possono essere al limite con la patologia ed è ovvio che nel giudizio deve intervenire una corretta valutazione semeiotica supportata da una adeguata esperienza. 1) Nervi cranici: una lieve riduzione del diametro pupillare ed una minore prontezza della risposta in miosi allo stimolo luminoso («torpidità» del riflesso fotomotore) e alla accomodazione/convergenza sono rilievi frequenti. Possono essere saltuariamente presenti anche una limitazione del movimento coniugato degli occhi verso l’alto, una riduzione o abolizione della capacità a convergere e, occasionalmente, una ridotta velocità ed aumentata latenza dei movimenti saccadici oculari. 2) Motilità: una ridotta rapidità di esecuzione dei movimenti, con parziale riduzione delle sincinesie fisiologiche, un iniziale atteggiamento in flessione del tronco, una lieve riduzione di destrezza nell’esecuzione di atti motori fini o complessi sono rilievi di comune osservazione, dovuti anche alla ridotta elasticità dei tessuti e alle alterazioni osteo-articolari di natura artrosica. 3) Tremore: un tremore posturale si può rilevare circa nel 40% dei soggetti oltre i 65 anni. Se si escludono condizioni internistiche (es: ipertiroidismo, ipoglicemia, feocromocitoma) e l’azione di farmaci (litio, nicotina, xantine, cortisonici, sospensione di alcool e di farmaci sedativi) capaci di produrre tremore posturale, la prevalenza del tremore essenziale si aggira intorno al 4-5% della popolazione oltre i 65 anni. 4) Forza muscolare: non viene rilevata obiettivamente ipostenia muscolare, anche se gli anziani lamentano spesso generica «debolezza» e facile stancabilità, sintomi soggettivi attribuibili ad alterazioni osteo-articolari, alla riduzione dell’attività fisica (come sopra sottolineato esiste una perdita di fibre muscolari) o a fattori psicogeni. 5) Trofismo muscolare: un lieve grado di ipotrofia dei piccoli muscoli della mano, in particolare del primo interosseo e del tibiale ante-
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riore, non assume necessariamente un significato patologico. 6) Tono muscolare: un lieve aumento della resistenza alla mobilizzazione passiva di segmenti corporei è abituale ma può essere imputabile anche ad alterazioni articolari, alla perdita generale di elasticità dei tessuti e, non raramente, ad una certa difficoltà alla decontrazione volontaria. 7) Sensibilità: il riscontro di ipopallestesia nei segmenti distali degli arti inferiori è piuttosto frequente. Non sono state rilevate alterazioni riguardanti la batiestesia e la chinestesia e le sensibilità tattile, termica e dolorifica. 8) Coordinazione segmentale: qualche esitazione con accenno a telebradicinesia e tremore nel raggiungimento della mira non rivestono necessariamente un significato patologico. 9) Riflessi profondi: una riduzione o abolizione dei riflessi achillei si può osservare nel 510% dei soggetti. Tuttavia, come prima ricordato, nell’anziano l’incidenza di polineuropatie da deficit di vitamina B12, alcoolismo, diabete mellito, neoplasie, è abbastanza elevata e spesso misconosciuta: secondo lo studio ILSA (1997) una neuropatia distale simmetrica era presente ma non diagnosticata nell’85% dei casi trovati affetti da tale patologia. 10) Riflessi superficiali: i riflessi addominali sono spesso assenti, per lo più in relazione ad alterazione della parete addominale per adiposità e, nella donna, anche per le pregresse gravidanze. La risposta alla stimolazione cutaneo-plantare può essere dubbia o indifferente, per alterazioni dell’articolazione metatarso-falangea del primo dito. Al contrario la presenza del segno di Babinski è sempre espressione di patologia neurologica. 11) Sensi specifici: riduzione della capacità di accomodazione (presbiopia) e progressiva perdita di funzione percettiva uditiva (presbiacusia), specialmente per i toni alti, sono molto frequenti e così l’aumento della soglia olfattiva e gustativa verosimilmente dovuta ad una riduzione numerica delle papille gustative.
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Elementi di fisiopatologia e semeiologia
12) Riflessi primitivi: sono normalmente presenti nel neonato e rappresentano schemi motori che vengono inibiti nel soggetto maturo. La loro ricomparsa nell’anziano esprimerebbe un fenomeno di «liberazione», dovuto ad un danno cerebrale diffuso, specialmente della corteccia frontale premotoria (v. pag. 53). Tuttavia, alcuni di questi riflessi, ed in particolare il riflesso palmomentoniero, il riflesso glabellare inestinguibile ed il riflesso del muso, sono stati osservati anche in soggetti anziani normali. Il riflesso di suzione e quello di prensione forzata sarebbero invece invariabilmente indicativi di patologia del lobo frontale (degenerativa, neoplastica, più raramente vascolare) (v. pag. 53). 13) Andatura: una modificazione dell’andatura è comune e presenta le seguenti caratteristiche: a) lieve tendenza alla anteroflessione del tronco, b) passo raccorciato e lento, c) riduzione dei movimenti associati degli arti superiori, d) lieve allargamento della base di appoggio. Ne risulta una marcia titubante ed incerta che rientra nella cosiddetta «marcia cauta» della classificazione di Nutt (1993). Sarebbe dovuta ad una variabile combinazione di alterazioni muscolari ed osteoarticolari, lieve deficit dei riflessi vestibolo-troncali e dei riflessi posturali. 14) Funzioni autonomiche: una modesta caduta ortostatica della pressione arteriosa (inferiore a 20 mm di Hg di sistolica e a 10 mm di Hg di diastolica), un aumento in ortostatismo della frequenza cardiaca da 10 a 20 battiti al minuto ed un ridotto rapporto tra frequenza cardiaca in fase espiratoria ed in fase inspiratoria possono essere riscontrati in soggetti anziani normali. Occorre tuttavia ricordare che spesso il paziente anziano è più sensibile a sviluppare ipotensioni ortostatiche sintomatiche in seguito all’uso di farmaci antipertensivi o a condizioni associate che riducono il volume ematico. La presenza di ipotensione ortostatica ed i lievi disturbi della marcia sopradescritti sono tra le cause più usuali dell’aumentata frequenza di cadute.
Valutazione neuropsicologica I primi studi di standardizzazione della Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS) su ampi strati di popolazione hanno probabilmente sovrastimato l’esistenza di un progressivo e globale declino delle funzioni cognitive con l’aumentare dell’età, non tenendo conto del fatto che il livello socioeconomico e di scolarità della maggior parte degli anziani è nettamente più basso della media degli adulti e dei giovani. Studi longitudinali su anziani normali hanno dimostrato variazioni assai più lievi e limitate solo ad alcuni specifici tests riguardanti la capacità di astrazione, il tempo di reazione, la velocità di acquisizione e ritenzione di nuove informazioni, la capacità di richiamare i nomi. Lievi disturbi mnesici isolati, inizialmente inquadrati sotto il termine «sindrome amnesica benigna dell’anziano» e, più di recente, «disturbo cognitivo lieve correlato all’età avanzata» rappresentano un quadro abbastanza frequente nei soggetti oltre i 65-70 anni (v. pag. 000). L’osservazione longitudinale e l’utilizzo al letto del paziente o in ambulatorio di tests rapidi di valutazione neuropsicologica (es: Mini Mental State) rappresentano un utile appoggio diagnostico. Alcuni autori (Masur et al., 1994) hanno identificato specifici subtests (fluenza verbale, velocità nel richiamare informazioni, riconoscimento simbolico delle dita) che sarebbero in grado, se alterati, di predire un quadro di demenza, con una probabilità di circa l’85 %. I soggetti che eseguono correttamente questi tests hanno invece oltre il 95% di probabilità di non sviluppare una demenza.
Esami complementari L’elettroencefalogramma dei soggetti normali oltre i 65 anni presenta un rallentamento di circa un ciclo/secondo della frequenza dominante del ritmo alfa, con aumento corrispondente del-
Esami diagnostici complementari
le altre bande di frequenza. Onde lente (3-6 c/s) e, più raramente, onde puntute si osservano, in maniera occasionale e subcontinua, localizzate in regione temporale anteriore sinistra e, con minore frequenza, in regione temporale media o posteriore sinistra o temporale bilaterale o temporale destra, circa nel 30% dei soggetti sani oltre i 60 anni, durante la veglia, con accentuazione nella sonnolenza e scomparsa durante il sonno. Gli esami di neuroimmagine (TC, RMN) hanno dimostrato una correlazione tra progredire dell’età e aumento delle dimensioni ventricolari e degli spazi subaracnoidei dell’encefalo, anche in assenza di alterazioni delle funzioni cognitive. Frequentemente si osservano, con la TC, aree di ipodensità più o meno diffuse, nella sostanza bianca degli emisferi cerebrali (leucoaraiosi) e con la RMN analoghe immagini di iperintensità nelle sequenze T2 dipendenti. Questi rilievi aumentano di frequenza con l’età e sono stati messi in correlazione con l’ipertensione arteriosa, con altri fattori di rischio vascolare, e con segni di declino delle funzioni cognitive (Breteler et al., 1994), ma si possono osservare anche in soggetti anziani clinicamente normali. Il metabolismo ossidativo cerebrale, misurato con la Tomografia ad Emissione di Positroni, presenta una riduzione progressiva con l’età nelle regioni corticali, con un andamento lineare (circa 6 % per decade di età) ed in modo simmetrico in entrambi i lati, mentre la sostanza bianca, i nuclei striati, il talamo ed il cervelletto non presentano modificazioni (Marchall et al., 1992). Si è, infine, osservata una lieve riduzione della velocità di conduzione sia sensitiva che motoria, specialmente agli arti inferiori, in assenza di rilievi clinici correlati. Riferimenti bibliografici
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Sindromi midollari
PARTE SECONDA
LE GRANDI SINDROMI NEUROLOGICHE BASI FISIOPATOLOGICHE E CLINICHE PER LA DIAGNOSI DI SEDE DI LESIONE
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Le grandi sindromi neurologiche
Sindromi midollari
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10. Sindromi midollari C. Loeb, C. Serrati
Il midollo spinale rappresenta a diversi livelli, oltre che la sede di centri da cui originano gran parte delle risposte riflesse, una grande via di transito di fasci sensitivi e motori e di vie di associazione propriospinali, per cui i segni clinici che ne esprimono la patologia sono diversi in rapporto al livello e all’estensione della lesione. Premesse anatomo-fisiologiche Il midollo spinale, parte del sistema nervoso centrale situata all’interno del canale vertebrale, si estende dal forame magnum, dove si continua col midollo allungato, fino al margine superiore della 2a vertebra lombare e ha nell’adulto una lunghezza di 40-45 cm ed una forma ovale. Si distinguono un tratto cervicale, uno dorsale o toracico, uno lombare e uno sacrale e due rigonfiamenti in corrispondenza dell’origine delle radici destinate all’innervazione degli arti: il rigonfiamento cervicale esteso dal segmento C4 al segmento Tl e il rigonfiamento lombo-sacrale esteso dal segmento T12-L1 al segmento S2. La parte inferiore del rigonfiamento lombo-sacrale (segmenti L5-S1-S2) costituisce l’epicono e i segmenti S3-S4S5, più uno o due segmenti coccigei, costituiscono il cono terminale. Il cono terminale si continua con un filamento fibroso, il filum terminale, che si prolunga in basso fino alla superficie posteriore del coccige. In altre parole, al di sotto del cono terminale, il canale vertebrale contiene solo le radici dei nervi spinali, che decorrono longitudinalmente; l’insieme di queste radici (dorsali e ventrali), è definito «cauda equina». La superficie del midollo presenta solchi longitudinali, una profonda fessura mediana anteriore e il solco mediano posteriore meno profondo. Su ogni emifaccia laterale vi sono due solchi: il solco antero-laterale, dal quale fuoriesce una serie di fibre nervose che si riuniscono ad intervalli regolari per formare la radice anteriore o motoria, e il solco postero-laterale, in corrispondenza del quale penetrano i filamenti radicolari costituenti la radice posteriore o sensitiva.
La radice anteriore e la corrispondente radice posteriore di ciascun lato si congiungono, appena distalmente al ganglio spinale, per formare il nervo spinale. Perciò da ciascun lato si originano i nervi spinali ed il midollo spinale può considerarsi diviso in segmenti (metameri), ognuno dei quali corrispondente ad un paio di nervi spinali. Vi sono 31 o 32 paia di nervi spinali e altrettanti segmenti midollari: 8 cervicali, 12 dorsali, 5 lombari, 5 sacrali e 1 o 2 coccigei (il paio di nervi spinali coccigei può talora mancare). Il midollo e la porzione iniziale delle radici sono avvolti nella guaina connettivale formata dai tre involucri meningei (pia madre, aracnoide, e dura madre), che si continuano cranialmente con le meningi che avvolgono l’encefalo e caudalmente terminano in un cul di sacco, situato a livello del margine superiore della 2a vertebra sacrale. Lo spazio compreso tra la dura madre e la superficie interna del canale vertebrale è denominato spazio epidurale; lo spazio compreso fra aracnoide e superficie esterna del midollo, avvolto dalla pia madre, è denominato spazio subaracnoideo e contiene il liquor cerebro-spinale. Il midollo è sospeso nella guaina durale da una serie di legamenti dentati, così denominati perchè si staccano dai lati del midollo e terminano con una inserzione dentellata nella faccia interna della dura. Una sezione trasversa dimostra che il midollo è diviso in una sostanza grigia centrale e una bianca periferica (Fig. 10.1). La sostanza grigia è composta di cellule nervose e di fibre nervose, la sostanza bianca solo di fibre. La sostanza grigia ha la forma di una H e ricorda quella di una farfalla: le ali rivolte in avanti sono le corna anteriori (columnae ventrales), quelle dirette posteriormente sono le corna posteriori (columnae dorsales); i due lati sono uniti dalla commessura grigia, al cui centro è il canale centrale ependimale. Nelle corna anteriori si trovano le cellule radicolari anteriori o neuroni motori di secondo ordine o più semplicemente motoneuroni spinali, dai quali originano le radici anteriori o motorie. Le cellule radicolari anteriori ricevono rapporti sinaptici diretti o indiretti (attraverso neuroni intercalari o interneuroni) con le fibre corticospinali o piramidali e con le fibre extrapiramidali.
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Le grandi sindromi neurologiche
Fig. 10.1 - Sezione trasversa di midollo spinale a diversi livelli (cervicale, dorsale, lombare). (Colorazione: metodo di Weil).
Nelle corna posteriori si trovano le cellule sensitive, neuroni sensitivi di secondo ordine, che ricevono il contingente laterale delle fibre della radice posteriore e da cui originano le fibre ascendenti; parte del contingente mediale delle fibre della radice posteriore si continua, senza interrompersi nella sostanza grigia midollare, nei cordoni posteriori per raggiungere direttamente il bulbo (fasci spino-bulbari).Per tutte le vie ascendenti, fino al livello corticale, esiste una organizzazione somatotopica (v. pag. 000). Nel tratto di midollo che si estende da C8 ad L3 la sostanza grigia presenta anche un corno laterale, situato tra quello anteriore e quello posteriore (nucleo intermediolaterale toraco-lombare), formato da cellule i cui neuriti costituiscono le fibre pregangliari del sistema simpatico, e fuoriescono dal midollo con le radici anteriori. A livello dei segmenti da S1 o S2 a S5, tra il corno anteriore e posteriore è situato un raggruppamento cellulare che costituisce il parasimpatico sacrale, i cui neuriti si portano nella radice anteriore e sono destinati a settori del sistema viscerale periferico: vescica, retto e organi genitali. In sintesi, quindi, tre tipi principali di neuroni sono contenuti a livello della sostanza grigia spinale: a) neuroni a funzione motoria: motoneuroni alfa per l’innervazione delle fibre muscolari, motoneuroni gamma per l’innervazione dei fusi neuromuscolari, neuroni motori
della colonna intermedio-laterale per l’area viscerale; b) neuroni sensitivi, i cui assoni ascendono (v. pag. 00) nella sostanza bianca fino a livelli encefalici; c) interneuroni, che garantiscono le connessioni intraspinali. Una linea trasversale, passante per il canale ependimale, divide quindi una porzione anteriore motoria da una porzione posteriore sensitiva. La porzione motoria è a sua volta divisa in due parti: l’anteriore corrisponde alla testa del corno anteriore e rappresenta l’area somatomotoria, mentre l’area viscero-motoria corrisponde alla base del corno anteriore. A sua volta la sostanza grigia del corno posteriore può essere suddivisa in tre porzioni: l’area per gli stimoli esterocettivi (dolore, temperatura, tatto, pressione) è situata nella testa del corno posteriore; l’area per gli stimoli propriocettivi (propriocettori muscolari, tendinei, articolari e ossei) ha sede nel «collo» del corno posteriore; l’area degli stimoli enterocettivi (enterocettori dei vasi e visceri) si trova nella base del corno posteriore. L’area vegetativa si trova perciò raggruppata attorno al canale dell’ependima; quella motoria anteriormente (area vegetativa viscero-motoria), quella sensitiva posteriormente (area vegetativa viscero-sensibile o enterocettiva). La sostanza bianca, formata da fasci di fibre nervose ascendenti e discendenti, è divisa in tre cordoni: il cordone anteriore, situato tra la fessura mediana anteriore e le radici anteriori emergenti dal solco antero-laterale; il cordone laterale, situato lateralmente alla sostanza grigia tra solco antero-laterale e solco postero-laterale; il cordone posteriore, tra il solco mediano posteriore e le radici posteriori penetranti nel solco postero-laterale, a sua volta suddiviso dal solco intermediario posteriore in due cordoni secondari: il fascio gracile o di Goll medialmente e il fascio cuneato o di Burdach lateralmente (Fig. 10.2).
Fig. 10.2 - Rappresentazione schematica dei fasci discendenti (a losanghe nere) e ascendenti (punteggiati) nel midollo spinale. In bianco i fasci proprio-spinali.
Sindromi midollari Sulla base di studi cito-architettonici e sinaptologici (Rexed, 1964) i neuroni della sostanza grigia formano degli strati, denominati lamine di Rexed e numerati da I a X in senso postero-anteriore (Fig. 10.3).
Fig. 10.3 - Gli strati citoarchitettonici di Rexed nel midollo di gatto.
Schematizzando, sembra potersi attribuire alla sostanza grigia midollare la seguente organizzazione morfofunzionale: 1) le lamine da I a IV, che costituiscono l’area ricettiva primaria e accolgono la maggior parte dei messaggi esterocettivi che trasmettono ai centri superiori, attraverso le vie di proiezione ascendenti; 2) le lamine V e VI, che ricevono le informazioni propriocettive e giocano un grande ruolo nell’integrazione riflessa richiesta per la fine regolazione dei movimenti, sono controllate dalla corteccia sensori-motoria attraverso proiezioni discendenti; 3) la lamina VII è connessa nella sua parte esterna con il mesencefalo e il cervelletto, nella parte interna con archi riflessi vegetativi; 4) la lamina VIII, controllata da strutture bulbo-spinali e proprio-spinali, sembra la zona preposta alla modulazione dell’attività motoria, particolarmente esercitata attraverso il ruolo dei motoneuroni gamma; 5) la lamina IX è la sede dei motoneuroni disposti in gruppi funzionali distinti: un gruppo antero-laterale per la motilità distale degli arti e per i muscoli flessori ed un gruppo antero-mediale per la
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motilità prossimale e per i muscoli estensori; 6) la lamina X, intorno al canale centrale, sembra sia in rapporto con le lamine VII e VIII dell’altro lato. Tale organizzazione è ancor oggi ritenuta valida, ma è basata esclusivamente sulla funzione di un gruppo di neuroni, senza considerare le strutture dendritiche che, in contatto sinaptico con i neuroni contigui, creano rapporti funzionali molto più complessi. LE VIE LUNGHE DISCENDENTI. – I fasci discendenti (Fig. 10.2) comprendono tutte le vie che collegano i centri encefalici con le cellule radicolari anteriori, sia quelle per la motilità volontaria (motoneuroni alfa e gamma), sia quelle per la motilità viscerale. Sono raggruppate in due grandi vie: la via piramidale e le vie extrapiramidali (Tab. 10.1). Alle cellule del corno anteriore giungono gli impulsi motori cerebrali volontari attraverso: – le fibre del fascio piramidale o cortico-spinale, che decorre nella parte posteriore del cordone laterale (fascio piramidale crociato) e nel cordone anteriore (fascio piramidale diretto) (Fig. 10.4). È opportuno ricordare che nel fascio cortico-spinale o piramidale crociato esiste una disposizione somatotopica, nel senso che le fibre destinate ai segmenti sacrali occupano la zona più esterna mentre verso l’interno del fascio sono via via situate quelle per i segmenti lombari, dorsali e cervicali (Fig. 10.5); – le fibre motorie costituenti i diversi fasci delle vie extrapiramidali: il fascio vestibolo-spinale e il fascio tetto-spinale situati nel cordone anteriore, il fascio rubrospinale situato nel cordone laterale, il fascio reticolo-spinale, di cui una parte scende nel cordone laterale (fascio reticolo-spinale laterale) e l’altra nel cordone anteriore (fascio reticolo-spinale mediale o anteriore). Il fascio rubro-spinale prende origine dalle cellule giganti del nucleo rosso, si incrocia nella decussazione di Forel e discende, a livello del midollo, nel cordone laterale, al davanti del fascio cortico-spinale crociato. Nell’uomo il fascio rubro-spinale può essere seguito solo fino al midollo toracico superiore. Si distribuisce nelle lamine VI e VII di Rexed, ove giungono anche le proiezioni cortico-spinali del fascio piramidale, e dove, attraverso interneuroni, si mette in contatto con i motoneuroni dei muscoli flessori e distali degli arti. Esistono pertanto, sul versante motorio, evidenti analogie di distribuzione tra fascio rubro-spinale e fascio piramidale. Il fascio reticolo-spinale origina dalla sostanza reticolare del tronco encefalico. Le fibre reticolo-spinali, che nascono da gruppi cellulari reticolari pontini, discendono omolateralmente nel cordone anteriore midollare, in sede solco-marginale (fascio reticolo-spinale anteriore o mediale), per terminare nella sostanza grigia della zona intermedia o lamina VIII di Rexed.
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Le grandi sindromi neurologiche
Tabella 10.1 - Principali fasci midollari discendenti. Denominazione
Sede midollare
Piramidale crociato
Cordone laterale
Piramidale diretto
Origine
Tragitto midollare
Termine
Corteccia motoria controlaterale
Diretto
Direttamente su motoneuroni solo nei primati. Interneuroni del corno posteriore e zona intermedia (IV-VII di Rexed)
Cordone anteriore
Corteccia motoria ipsilaterale
Crociato
Rubro-spinale
Cordone laterale
Nucleo rosso controlaterale
Diretto
Corno posteriore e zona intermedia (VI e VII di Rexed)
Reticolo-spinale
Cordone anteriore e laterale
Reticolare
Diretto e crociato
Zona intermediaria (VIII di Rexed)
Vestibolo-spinale
Idem
Nucleo di Deiters Diretto ipsi - e controlaterale
Idem
Idem
Tetto-spinale
Idem
Tubercolo quadrigemino anteriore
Idem
Idem
Fig. 10.4 - Schematizzazione del decorso dei fasci piramidali, diretto e crociato, a livello midollare (sinapsi con le cellule radicolari anteriori).
Diretto
Idem
Funzione
Comandi ai muscoli flessori e distali (motilità volontaria)
Idem
Idem
Comandi ai muscoli estensori e prossimali
Fig. 10.5 - Schema della disposizione somatotopica nelle principali vie motorie e sensitive del midollo: 1-2 fasci spinotalamici; 3: fascio piramidale crociato; 4: fasci di Goll e Burdach (cordoni posteriori). Fibre provenienti da diversi settori corporei indicati con C: cervicale; T: dorsale; L: lombare; S: sacrale.
Sindromi midollari Le fibre reticolo-spinali, provenienti da cellule reticolari bulbari, con decorso sia diretto che crociato, sono situate vicino al fascio piramidale nel cordone laterale midollare (fascio reticolo-spinale laterale) e terminerebbero nella lamina VII di Rexed. Tutte le fibre del fascio reticolo-spinale terminano su interneuroni con funzione inibitoria per i motoneuroni per i muscoli estensori ed eccitatorie per i motoneuroni per i muscoli flessori. Il fascio vestibolo-spinale origina, in massima parte, dal nucleo vestibolare laterale di Deiters e discende omolateralmente nel cordone anteriore midollare, situato anteriormente al fascio reticolo-spinale pontino. Le vie vestibolo-spinali percorrono, anche nell’uomo, tutto il midollo, terminando nelle lamine VII e VIII di Rexed, a contatto prevalente con motoneuroni estensori, con funzione facilitatoria. Il fascio tetto-spinale nasce dal collicolo superiore, si incrocia nella decussazione dorsale di Meynert, discende nel cordone anteriore midollare controlaterale e termina nelle lamine VI, VII e VIII di Rexed, senza stabilire contatti diretti con i motoneuroni.
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Le vie a funzione extrapiramidale, di origine reticolare, vestibolare e tettale, si distribuiscono nella regione antero-interna della zona intermedia, terminando a contatto di interneuroni connessi con i motoneuroni che innervano la muscolatura del tronco, dei cingoli e della porzione prossimale degli arti (lamina IX di Rexed). LE VIE LUNGHE ASCENDENTI. – Trasportano gli stimoli raccolti dai rispettivi recettori periferici e costituiscono i fasci spinotalamici, i cordoni posteriori (v. pag. 94, 97 e Fig. 3.3) e i fasci spino-cerebellari (Tab. 10.2). Per tutte le vie ascendenti, fino al livello corticale, esiste una organizzazione somatotopica (v. pag. 100). LE VIE PROPRIOSPINALI. – Le fibre proprio-spinali o fasci fondamentali assicurano l’integrazione delle funzioni proprie del midollo, cioè la connessione tra i diversi segmenti e i due lati del midollo spinale. Sono situati intorno alla sostanza grigia centrale e la lunghezza delle fibre è assai variabile: alcune di esse non superano l’estensione di 1-2 segmenti midollari,
Tabella 10.2. - Principali fasci midollari ascendenti. Denominazione
Sede midollare
Origine
F. di Goll e Burdach
Cordone posteriore Ganglio spinale omolaterale
Fascio spino-talamico ventrale e laterale o neospinotalamico
Cordone anteriore e laterale
Fascio paleospinotalamico (spino reticolo-talamico intralaminare)
Idem
Tragitto midollare Diretto
Termine
Funzione
Nucleo ventro-postero-laterale del talamo
Sistema lemniscale mediale: sensibilità propriocettive coscienti e sensibilità combinata tattile
Corno posteriore Crociato controlaterale
Nucleo ventro-postero-laterale del talamo
Sistema spino-talamico: sensibilità termodolorifica e tattile protopatica
Idem
Formazione reticolare e talamo intralaminare
Per sensibilità dolorifica a debutto lento e non localizzata
Idem
Spino-cerebellare Cordone laterale crociato (di Gowers) (ventrale)
Parte laterale so- Crociato stanza grigia controlaterale
Corteccia paleocerebellare
Sensibilità propriocettive incoscienti
Spino-cerebellare Cordone laterale diretto (di Flechsig) (dorsale)
Colonna di Clarke Diretto omolaterale
Idem
Idem
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Le grandi sindromi neurologiche
altre percorrono l’intero asse del midollo spinale (Fig. 10.2). In generale ciascun fascio proprio-spinale è composto di fibre ascendenti e discendenti, in maggior parte di piccolo diametro (meno di 7 micron) e spesso scarsamente mielinizzate. Il sistema propriospinale comprende i seguenti fasci: a) il fascio fondamentale del cordone anteriore, che si prolunga con il fascicolo longitudinale mediale del midollo allungato; b) il fascio fondamentale del cordone laterale; c) il fascio fondamentale del cordone posteriore, che occupa la parte ventrale del cordone posteriore ed è ben visibile allorché, ad es. nella tabe dorsale, si verifica la degenerazione delle vie lunghe dei cordoni posteriori; d) il tratto di Lissauer, situato nel prolungamento della sostanza gelatinosa di Rolando, di cui assicura la connessione intersegmentaria; e) la commissura bianca anteriore, attraverso la quale si incrociano oltre ai fasci fondamentali anteriori e laterali, fibre delle vie lunghe, come il fascio reticolo-spinale e il fascio spino-cerebellare ventrale; f) la commissura bianca posteriore, ove s’incrociano fibre proprio-spinali posteriori e collaterali degli assoni dei fasci spino-bulbari; g) le fibre proprio-spinali della sostanza grigia, che passano in gran parte nella sostanza gelatinosa di Rolando.
Neurotrasmettitori spinali La neurochimica del midollo spinale è particolarmente complessa ed in fase di elucidazione per cui verranno sottolineati solo alcuni dati essenziali. I motoneuroni del corno anteriore utilizzano acetilcolina. Tra gli interneuroni, quelli che ricevono le vie discendenti e le afferenze periferiche delle fibre Ia, utilizzano la glicina (come le cellule di Renshaw), e mediano l’inibizione reciproca. A questo livello agiscono sia la tossina tetanica (blocco del rilascio di glicina), sia la stricnina (antagonista recettoriale). Il GABA è distribuito soprattutto a livello delle corna posteriori (interneuroni inibitori). Nell’ambito delle vie discendenti, il fascio corticospinale utilizza molto probabilmente il glutammato e svolge azione eccitatoria (direttamente sugli alfa motoneuroni o su interneuroni glicinergici o gabaergici); la via ceruleo-spinale utilizza la noradrenalina e svolge funzione inibitoria, mentre la via nucleo del rafe-spinale utilizza la serotonina e svolge funzione facilitatoria. I neuroni sensitivi di primo ordine rilasciano un neurotrasmettitore eccitatorio, molto probabilmente il glutammato, ed in alcuni casi interverrebbe direttamente come mediatore l’ATP.
Sindromi cliniche da lesione midollare La sofferenza midollare può esprimersi con quadri sindromici diversi a seconda della sede, dell’estensione e della natura delle varie lesioni. Una lesione intramidollare, localizzata o anche estesa, prevalente nella sostanza grigia di uno o più segmenti midollari, realizza una sindrome segmentaria; una lesione localizzata prevalentemente nella sostanza bianca realizza una sindrome cordonale. È ovvio che lesioni segmentarie e cordonali spesso si presentino associate. A seconda dell’estensione della lesione sul piano trasversale possiamo avere sindromi da interruzione completa del midollo, costituenti la cosiddetta sindrome trasversa o da transezione midollare (a genesi quasi esclusivamente traumatica o infiammatoria), o sindromi da interruzione incompleta del midollo (a prevalente genesi vascolare o compressiva). Le lesioni compressive possono inoltre dar luogo a sindromi extra o intramidollari. Sul piano semeiotico, la sintomatologia potrà consistere in: 1) sintomi irritativi: a) dolore radicolare, limitato ad una ben determinata area cutanea, corrispondente alla radice interessata (si esacerba con la tosse, lo starnuto ed il torchio addominale; la manovra di Valsalva riduce il ritorno venoso cerebrale e provoca quindi un aumento della pressione liquorale); b) dolore cordonale, segno di irritazione del fascio spino-talamico o dei cordoni posteriori, che si manifesta come senso di costrizione, di bruciore, di liquido freddo o caldo che scorre, a livello del tronco e degli arti inferiori; c) dolore vertebrale, una sorda sensazione dolorosa specificamente localizzata alla colonna, spesso con contrattura muscolare antalgica. Le parestesie possono assumere distribuzione radicolare o cordonale; 2) sintomi deficitari: a) motori (con caratteri piramidali o periferici); b) sensitivi (con carattere radicolare o cordonale).
Sindromi midollari
Anche se le moderne tecniche di neuroimmagine (RM) permettono una precisa diagnosi di sede e di estensione della lesione, gli aspetti clinici non possono essere trascurati, poiché solo la coordinata integrazione dei dati clinici e di diagnostica strumentale permette di raggiungere mete diagnostiche e terapeutiche.
1. Sindromi segmentarie SINDROME SEGMENTARIA VENTRALE O DELLE CORNA ANTERIORI
La lesione è localizzata alle corna anteriori e si manifesta clinicamente con una paralisi flaccida nel territorio muscolare dipendente dai segmenti midollari lesi. In genere la paralisi si accompagna ad abolizione dei riflessi, atrofia ed ipotonia muscolare, fascicolazioni (queste ultime, soprattutto, nelle lesioni lentamente progressive). Talora si osservano (per lesioni del corno laterale o delle fibre vegetative) turbe della sudorazione e della vasomotilità. La sindrome può essere sostenuta da una lesione acuta (poliomielite, talora obliterazione dell’arteria spinale anteriore) o da una lesione cronica (come nelle c.d. poliomieliti anteriori croniche).
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Le affezioni localizzate esclusivamente alle corna posteriori sono rare: un esempio è rappresentato da alcuni tumori intramidollari. SINDROME SEGMENTARIA VENTRALE E DORSALE ASSOCIATE O CENTROMIDOLLARE
Clinicamente esprime l’associazione sintomatologica delle due sindromi ora descritte e se anche il corno laterale è leso si possono osservare turbe trofiche. Si riscontra in casi di ematomielia, nella siringomielia e in alcuni casi di rammollimento midollare. Nell’ematomielia, ove il versamento emorragico interessa quasi sempre tutta la sostanza grigia, la comparsa della paralisi avviene in modo brusco e spesso si accompagna ad un dolore vivo e ben localizzato in un determinato punto della colonna vertebrale. Nella siringomielia la cavità siringomielica si sviluppa alla base delle corna anteriori e posteriori (sindrome centromidollare) e interessa più frequentemente il tratto inferiore del midollo cervicale. Spesso si associano lievi segni di irritazione piramidale. La sindrome segmentaria da rammollimento centromidollare verrà considerata fra le sindromi da interruzione incompleta del midollo.
2. Sindromi cordonali SINDROME DEL CORDONE ANTERO-LATERALE
SINDROME SEGMENTARIA DORSALE O DELLE CORNA POSTERIORI
La lesione è localizzata nelle corna posteriori, ove giungono le vie della sensibilità termodolorifica e tattile protopatica. Clinicamente si riscontra: dissociazione di tipo siringomielico delle sensibilità e ipo- o anestesia termodolorifica «sospesa», cioè di uno o più dermatomeri contigui (v. pag. 00) e abolizione dei riflessi profondi. Si possono verificare anche dolori a topografia metamerica, con caratteri più spesso simili alle algie cordonali spino-talamiche, e turbe trofiche dovute verosimilmente all’estensione della lesione al corno laterale.
In questo cordone transitano le vie piramidali ed extrapiramidali, i fasci spino-talamici e le vie afferenti propriocettive incoscienti (fasci spinocerebellari di Flechsig e di Gowers). Se la lesione interessa le vie motorie, realizza una sindrome piramidale: paresi o paralisi omolaterale con spasticità, iperreflessia osteotendinea, fenomeno di Babinski; se è colpito anche il fascio spino-talamico si determina ipoestesia o anestesia termodolorifica nella metà controlaterale del corpo al di sotto del segmento midollare colpito. È da sottolineare il fatto che, per la particolare disposizione somatotopica delle fibre del fascio spinotalamico (Fig.
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Le grandi sindromi neurologiche
10.5), i disturbi sensitivi interessano prevalentemente i distretti corporei distali nelle lesioni extramidollari e prevalentemente quelli prossimali nelle lesioni endomidollari. Per lesione irritativa del fascio spino-talamico, in caso di traumi, tumori intramidollari o siringomielia, si possono manifestare dolori cordonali. I dolori, di tipo urente, hanno una distribuzione sottolesionale controlaterale oppure metamerica, a seconda che il fascio sia leso nel cordone antero-laterale o a livello della decussazione. Il primo disturbo può quindi essere un deficit sensitivo-motorio a distribuzione asimmetrica, ad esordio controlaterale alla lesione, con successiva estensione ipsilaterale. Talora i disturbi sono bilaterali sin dall’esordio e una paraplegia o paraparesi spastica può essere la prima manifestazione di una compressione midollare, di una sclerosi combinata, di una sclerosi a placche o di una mielopatia. Più raramente si manifestano disturbi dell’equilibrio e della coordinazione per lesione del fascio spino-cerebellare diretto e crociato. Con una certa frequenza si osservano i disturbi sfinterici e della sfera genitale, specie ritenzione vescicale e impotenza sessuale. SINDROME DEL CORDONE POSTERIORE La lesione del cordone posteriore comporta un deficit o una soppressione omolaterale delle sensibilità profonde e tattile discriminativa. La compromissione delle sensibilità profonde comporta la perdita del senso di posizione dei vari segmenti degli arti (batiestesia), specie quelli distali, del senso vibratorio (pallestesia) e della nozione della pressione e dei pesi (barestesia). In conseguenza di ciò il malato avverte male il contatto dei piedi sul terreno, non edotto della esatta posizione dei suoi arti nello spazio, e nella marcia presenta una atassia di tipo tabetico, con positività del segno di Romberg. La scomparsa della sensibilità tattile epicritica comporta la perdita della discriminazione tattile, della stereognosia e della dermolessia.
In caso di lesioni irritative si manifestano dolori di tipo cordonale o parestesie a tipo scarica elettrica, diffuse lungo il rachide, sia durante i movimenti volontari del capo, sia soprattutto in seguito ad una brusca manovra di flessione del collo operata dall’esaminatore (segno di Lhermitte). Ciò si verifica soprattutto nella sclerosi multipla e in alcuni tumori. La perdita delle sensibilità profonde e della tattile-discriminativa contrasta con la conservazione della sensibilità termodolorifica e realizza la c.d. dissociazione tabetica delle sensibilità. SINDROME ASSOCIATA DEI CORDONI LATERALI E POSTERIORI O SINDROME DA SCLEROSI COMBINATA
L’interessamento associato dei cordoni posteriori e dei cordoni laterali si osserva nella sclerosi combinata o mielosi funicolare. Incostante l’interessamento dei fasci spino-cerebellari e ancora più raro quello dei fasci spino-talamici. La prevalenza dei segni deficitari piramidali o dei disturbi delle sensibilità profonde con atassia è condizionata dalla maggiore o minore intensità della lesione a livello del cordone laterale o posteriore. Molto spesso i segni di compromissione dei cordoni antero-laterali sono rappresentati dal fenomeno di Babinski, da un deficit motorio anche lieve e dalla scomparsa dei riflessi addominali. Nel periodo infantile-adolescenziale, la causa più frequente è una forma di atassia spino-cerebellare. Nel giovane e nell’adulto la sclerosi multipla è la causa principale, cui si aggiungono patologie tossiche (epatopatie croniche), deficit di vitamina B12, mielopatia da spondilartrosi e tumori. In tutte queste forme con le rilevanti eccezioni dell’atassia di Friedreich e della sclerosi combinata, la sintomatologia, specie all’inizio è prevalentemente motoria (paraparesi spastica). 3. Sindrome segmentaria e sindrome cordonale associate La lesione associata delle cellule delle corna anteriori e dei cordoni laterali, con relativa sin-
Sindromi midollari
tomatologia di tipo piramidale associata ad atrofia muscolare e fascicolazioni, si realizza tipicamente nella sclerosi laterale amiotrofica. Una sindrome segmentale di dissociazione delle sensibilità con amiotrofia e segni di vie lunghe configura tipicamente la sindrome siringomielica (v. pag. 119), ma può essere riscontrata in tumori intramidollari, mielopatia attinica, mielomalacia ed ematomielia. 4. Sindromi da lesione trasversa SINDROME TRASVERSA COMPLETA Si osserva in genere per cause traumatiche (frattura o lussazione vertebrale), ma anche nella mielite acuta (mielite traversa) o nel rammollimento midollare e, molto raramente, in caso di tumore. Nella fase acuta domina lo «shock midollare», dovuto all’isolamento totale del midollo dalle strutture soprasegmentali, caratterizzato da paraplegia o tetraplegia flaccida con marcata ipotonia muscolare, abolizione dei riflessi sia tendinei che cutanei, anestesia totale nelle regioni corporee sottostanti la sede della lesione, ritenzione di urine e feci, impossibilità all’erezione ed all’eiaculazione, comparsa di turbe trofiche della cute e delle masse muscolari, scomparsa della sudorazione, vasoparalisi con conseguente caduta della pressione arteriosa ed ipotermia cutanea. Se non è subito intrapreso un adeguato trattamento l’evoluzione è spesso mortale a breve distanza di tempo dal trauma; per contro un’assidua sorveglianza conduce il malato alla fase cronica, con la comparsa di attività riflessa che può intervenire a distanza di 1-6 settimane dalla fase acuta. La fase cronica si caratterizza per la presenza dei fenomeni cutaneo-riflessi di difesa, tra cui il riflesso di triplice retrazione dell’arto inferiore e i vari fenomeni di automatismo spinale, tra i quali l’evacuazione riflessa della vescica e del retto. Nel quadro di sezione midollare trasversa completa con interruzione, oltre che dei fasci
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piramidali anche dei fasci reticolo-spinali, vengono soppresse influenze sopraspinali inibitorie per i motoneuroni dei gruppi muscolari flessori e favorite le grandi sinergie riflesse di flessione degli arti per stimoli cutanei nocicettivi: si presentano violente contrazioni spastiche flessorie degli arti inferiori, che alla fine si fissano in atteggiamento flessorio, realizzando la tipica paraplegia in flessione, più frequente nelle lesioni cervicali. I riflessi tendinei ricompaiono solo tardivamente, tra i 20 ed i 60 giorni, ma non appaiono mai molto vivaci, nè si accompagnano a clono del piede. SINDROME TRASVERSA INCOMPLETA La sindrome da lesione trasversa incompleta può essere dovuta ad un trauma o ad un processo infiammatorio. Il quadro clinico dimostra persistenza di alcuni riflessi cutanei, e comparsa precoce dei riflessi di automatismo midollare, segno di Babinski, e disturbi del controllo sfinterico. L’attitudine degli arti è in estensione e progressivamente aumentano di intensità i riflessi profondi e si realizza l’assai più frequente paraparesi spastica in estensione. Un cenno a parte meritano, in questo paragrafo, la sindrome dell’arteria spinale anteriore, la sindrome delle arterie spinali posteriori e la sindrome del rammollimento centromidollare (Fig. 10.6).
Fig. 10.6 - Schema della topografia di lesione nelle ischemie midollari. 1 = sindrome dei ¾ anteriori del midollo o sindrome dell’arteria spinale anteriore; 2 = sindrome del quarto posteriore del midollo o sindrome dell’arteria spinale posteriore; 3 = sindrome del rammollimento centromidollare o «rammollimento a matita».
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Nella sindrome dell’arteria spinale anteriore è tipica la perdita della sensibilità termodolorifica al di sotto del livello lesionale, con conservazione relativa o assoluta delle sensibilità propriocettive, associata a una paraplegia o paraparesi. SINDROME DA EMISEZIONE MIDOLLARE O SINDROME DI BROWN-SÉQUARD La sezione di una metà laterale del midollo (Fig. 3.13) determina il seguente quadro: a) omolateralmente alla lesione: paralisi spastica per lesione delle vie piramidali, abolizione della sensibilità profonda e tattile discriminativa per lesione dei cordoni posteriori; b) controlateralmente alla lesione: anestesia termica e dolorifica. Omolateralmente alla lesione si può osservare una banda di anestesia totale (per compromissione di due o tre radici posteriori o delle corna posteriori dei segmenti midollari corrispondenti) al di sopra della quale esiste una banda d’iperestesia (per alterazioni irritative delle vie spino-talamiche). L’emisezione può essere realizzata parzialmente e certi elementi della sindrome possono mancare (sindrome di BrownSéquard incompleta). La sindrome di Brown-Séquard è dovuta a lesioni traumatiche, ad ematomielia o focolaio mielitico unilaterali, a tumori intra- o extramidollari, ma è da considerare evento raro.
5. Sindrome da compressione midollare LESIONI EXTRAMIDOLLARI Sono dovute a svariate cause: tumori intra ed extra-durali, malattia di Pott, traumi vertebrali, aracnoiditi, ernie discali, spondiloartrosi specie a livello cervicale, ecc. Ai sintomi midollari propriamente detti, dovuti alla compressione dei cordoni antero-laterali o posteriori, si aggiunge quasi sempre
una sintomatologia da lesione radicolare. I sintomi radicolari sono costituiti da una banda di iperalgesia ed iperestesia a distribuzione radicolare dovuta ad irritazione della radice sensitiva, cui segue col progredire della malattia una zona di anestesia; nella fase irritativa il dolore spontaneo è continuo e si esacerba con l’aumento della pressione intrarachidea, ad esempio durante lo starnuto, i colpi di tosse o la defecazione. Nel caso di lesione della radice motoria, sono reperibili nel territorio interessato, i segni caratteristici delle lesioni motorie periferiche (atrofia muscolare, iporeflessia osteo-tendinea e talora fascicolazioni). I sintomi midollari sono rappresentati da deficit piramidale, con iperreflessia profonda più accentuata e più precoce dal lato della lesione, disturbi sensitivi irritativi o deficitari (controlaterali se l’interessamento primitivo è del fascio spino-talamico, omolaterali se sono compromessi i cordoni posteriori). I disturbi sfinterici ed i sintomi neurovegetativi intervengono precocemente. Le lesioni extramidollari intradurali, al contrario di quanto comunemente affermato, non presentano quadri clinici patognomonici, anche se l’esordio è riferito talora come unilaterale. LESIONI INTRAMIDOLLARI Sono dovute in genere a processi tumorali gliali (ependimomi ed astrocitomi). Il quadro, anche se non sempre facilmente distinguibile da quello della compressione extramidollare, è caratterizzato da disturbi delle sensibilità con aspetti e limiti meno identificabili, talvolta di tipo cordonale; da precoci, spesso simmetrici, disturbi da lesione delle corna anteriori (atrofia, fascicolazioni e tipico reperto elettromiografico); da meno marcati e più tardivi segni di deficit piramidale e da disturbi degli sfinteri. Mancano i dolori di tipo radicolare che si riscontrano nelle lesioni extramidollari.
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Criteri per la diagnosi di livello di lesione La diagnosi di sede di una lesione midollare, ossia la diagnosi di livello della lesione, è nella pratica clinica uno dei più importanti quesiti diagnostici e certamente il primo in ordine di tempo. Gli elementi utili a tale fine sono: la presenza di sintomi segmentari, testimoni del livello lesionale (quali la paralisi atrofica di determinati distretti muscolari o la scomparsa di determinati riflessi osteotendinei) e il livello superiore dell’anestesia o ipoestesia cutanea. Minor valore come elemento di diagnosi topografica hanno la paresi o paralisi piramidale sottolesionale: una paraplegia o paraparesi spastica indica ovviamente una lesione al di sotto del rigonfiamento cervicale, mentre una tetraparesi spastica è espressione di una lesione del midollo spinale cervicale alto. La diagnosi di livello nelle lesioni extramidollari, e la successiva utilizzazione mirata degli strumenti paraclinici adeguati, quali la RM, richiede la conoscenza dei rapporti topografici esistenti tra segmenti midollari e relative radici, ad andamento obliquo cranio-caudale, e i corpi vertebrali. A causa dello sviluppo ineguale tra midollo spinale e colonna vertebrale, il midollo spinale subisce un movimento di ascesa nello speco vertebrale, per cui, specie nei segmenti inferiori, ogni singola vertebra corrisponde a segmenti midollari di due o più unità superiori. In particolare, per risalire al segmento corrispondente al punto di repere usualmente impiegato e costituito dall’apofisi spinosa, al numero dell’apofisi spinosa bisogna aggiungere: per la regione cervicale 1-2 unità; per la regione dorsale, fino all’apofisi della 6a vertebra, 2 unità; per la regione dorsale, dall’apofisi della 6a all’apofisi della 10a vertebra, 3 unità; la parte inferiore dell’11a e la 12a vertebra corrispondono ai tre ultimi segmenti lombari: lo spazio tra la 12a dorsale e la 1a lombare corrisponde ai segmenti sacrali (Fig. 10.7).
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LESIONE TRASVERSA A LIVELLO CERVICALE ALTO (C2-C4 ) Il malato lamenta dolori alla regione occipitale e del collo e contrazione prolungata dei muscoli del collo. A livello lesionale si riscontra: paresi del trapezio, dello sternocleido-
Fig. 10.7 - Schema delle relazioni topografiche tra segmenti midollari, corpi vertebrali e apofisi spinose.
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mastoideo e del diaframma. I sintomi sottolesionali sono rappresentati da tetraplegia spastica, deficit delle sensibilità, specie termica e dolorifica, disturbi sfinterici. Talora si possono osservare effetti remoti, cioè compromissione dei piccoli muscoli della mano con atrofia, ritenuti segni a distanza, a livello di C8 -T1, probabilmente dovuti a fenomeni vascolari , cioè stasi venosa e ischemia. LESIONE TRASVERSA A LIVELLO CERVICOBRACHIALE (C5-T1 ) La sindrome lesionale corrisponde ad un interessamento motorio del tipo periferico-amiotrofico agli arti superiori nelle sue tre varietà: segmentario-radicolare superiore (C5-C6), medio (C7) e inferiore (C8-T1). I riflessi possono essere aboliti e qualcuno invertito (specie il tricipitale). Le turbe della sensibilità a livello lesionale possono essere dissociate (di tipo siringomielico), a distribuzione tipica segmentario-radicolare, in bande parallele spesso sospese, e interessanti gli arti superiori e la parte alta del torace. La sindrome sottolesionale consiste in una paraplegia spastica generalmente simmetrica, con turbe delle sensibilità di tipo cordonale. Nelle lesioni a livello di C8-T1 può manifestarsi la sindrome oculo-simpatica di C. Bernard-Horner, per lesione del centro simpatico cilio-spinale. LESIONE TRASVERSA A LIVELLO DORSALE ( T2 – T12) A livello lesionale si ha paralisi atrofica dei muscoli intercostali e, nei settori più distali, paralisi o paresi dei muscoli addominali e corrispondente mancanza dei riflessi addominali. Sono tuttavia le turbe delle sensibilità che, ripetutamente ricercate, permettono di stabilire il livello della lesione. La sindrome sottolesionale è ancora quella di una paraplegia spastica con anestesia degli arti inferiori e della parte del tronco fino all’altezza della lesione.
LESIONE TRASVERSA A LIVELLO LOMBARE SUPERIORE (L1-L4 ) A livello lesionale si osserva l’interessamento del plesso lombare (cosiddetta zona del crurale): la paralisi flaccida del quadricipite si accompagna ad abolizione del riflesso rotuleo, mentre i muscoli posteriori della coscia e della gamba possono essere intatti o paretico-spastici; si può avere iperreflessia dell’achilleo e del medioplantare e il plantare può essere in estensione. Il malato marcia senza steppare, ma ha un’impotenza motoria nel salire o discendere le scale. Le turbe della sensibilità sono in bande radicolari verticali lungo la faccia anteriore della coscia e il lato mediale della gamba. I dolori spontanei interessano la parte inferiore dell’addome, la radice delle cosce e gli organi genitali. LESIONE TRASVERSA A LIVELLO DELL’EPICONO (L5-S1-S2 ) La sindrome lesionale è periferica e interessa la zona del plesso lombo-sacrale e in pratica la zona dello sciatico: si ha cioè una paralisi amiotrofica di tutti i muscoli della gamba con «steppage» e dei muscoli posteriori della coscia. I riflessi rotulei sono conservati, gli achillei aboliti, il plantare indifferente. I dolori si irradiano alla faccia posteriore della coscia e della gamba; l’ipo-anestesia, sempre in forma di bande verticali, interessa la faccia antero-esterna e quella posteriore della gamba e la faccia posteriore della coscia, rispettando la zona perineo-anale e glutea. Costanti le turbe sfinteriche più spesso a tipo di ritenzione vescicale. LESIONE A LIVELLO
DEL CONO TERMINALE (S3-S4-S5)
La sintomatologia, che interessa l’area del plesso pudendo o zona ano-genitale, consiste in incontinenza vescicale e rettale, anestesia a sella, cioè comprendente l’ano, l’uretra, il perineo e i genitali e frequente abolizione di erezione ed eiaculazione.
Sindromi midollari
Salvo casi rarissimi (ematomielia o mielite del cono terminale) la sindrome non è mai pura, poichè inevitabilmente sono lese anche le radici spinali contigue di segmenti più alti.
Sindrome della cauda Il cul di sacco del manicotto meningeo si estende dal limite inferiore del midollo (margine superiore del corpo vertebrale di L2) fino a livello della seconda vertebra sacrale, e comprende le radici da L2 a S5, che decorrono obliquamente dall’alto verso il basso e dall’interno all’esterno. Il decorso è tanto più lungo e tanto più verticale quanto più la radice è caudale: ad esempio,
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la seconda radice lombare ha un decorso discretamente obliquo, ma la quinta radice sacrale ha una direzione quasi verticale. Le radici sono addossate le une alle altre, ma comprese in uno spazio relativamente ampio che giustifica, nelle lesioni compressive della cauda, sia la frequente compromissione simultanea di più radici, sia la lunga persistenza dei segni di irritazione prima della comparsa dei segni deficitari. 1. SINDROME DA LESIONE COMPLETA DELLA CAUDA (LESIONE BILATERALE DELLE RADICI LOMBOSACRALI A PARTIRE DALLA 2A RADICE LOMBARE) (FIG. 10.8) È costituita da paraplegia flaccida, con scomparsa dei riflessi medio-plantare, achilleo e iporeflessia rotulea; abolizione dei riflessi anale,
Fig. 10.8 - Distribuzione del disturbo sensitivo nelle sindromi della cauda: sindrome da lesione completa (L2); da lesione lombosacrale incompleta unilaterale (L4); da lesione lombosacrale bilaterale (L5); da lesione sacrale (S2).
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bulbo-cavernoso e cutaneo-plantare. La sintomatologia sensitiva di tipo irritativo è rappresentata da forti dolori di tipo radicolare, che si accentuano con l’aumento della pressione intrarachidea, mentre quella di tipo deficitario è caratterizzata da anestesia ai due arti inferiori sino alla radice delle cosce con la tipica distribuzione a sellino. Vi è precoce compromissione delle funzioni vescicale (in genere a tipo ritenzione e, meno spesso, incontinenza), rettale e genitale; talora sono presenti anche disturbi trofici. 2. SINDROME DA LESIONE INCOMPLETA DELLA CAUDA (FIG. 10.8) Si distingue: – una varietà alta, interessante le radici L2, L 3, L 4, che si manifesta con paresi dell’estensione della gamba sulla coscia (quadricipite femorale), diminuzione del riflesso rotuleo e ipo-anestesia nei distretti radicolari corrispondenti; – una varietà media, interessante le radici L5, S1, S2, caratterizzata da paresi dei muscoli innervati dallo sciatico, ipo- o areflessia achillea, alterazioni delle funzioni vescicali, rettale e genitale ed ipoestesia del piede, faccia posteriore della gamba e della coscia; – una varietà bassa, detta varietà sacrale, interessante le radici S3, S4, S5, semeioticamente simile alla precedente per quanto riguarda i disturbi genito-urinari (in genere più gravi), mentre l’anestesia è perineale; i riflessi anale e bulbo-cavernoso sono aboliti. Mancano deficit motori o atrofia degli arti inferiori. 3. SINDROME DA LESIONE UNILATERALE DELLA CAUDA (EMISINDROME DELLA CAUDA) (FIG. 10.8) È spesso un aspetto iniziale della sindrome bilaterale. È caratterizzata da turbe motorie e sensitive unilaterali e da compromissione della funzione genito-urinaria. Le cause più frequenti delle sindromi della cauda sono rappresentate dai tumori intrara-
chidei, soprattutto gli ependimomi e i neurinomi, più rari i meningiomi e i carcinomi metastatici; dalle ernie discali L 4-L5 e L5-S1 ad esteriorizzazione sulla linea mediana; patologie assai più rare sono rappresentate da meningiti croniche localizzate (tubercolosi), processi granulomatosi (schistosoma) e meningiti linfomatose. In sintesi quindi, paraplegia o paraparesi con variabili combinazioni di segni di lesione del primo e secondo motoneurone sono tipici di lesione del midollo lombare, del cono midollare e della cauda equina. Su base clinica è estremamente difficile individuare il livello lesionale. Per quanto riguarda la diagnosi differenziale tra lesione del cono e lesione della cauda si deve ricordare che nelle lesioni del cono midollare la compromissione delle funzioni urinaria (ritenzione vescicale con successiva incontinenza), rettale e genitale, prevale sulla sintomatologia motoria e sensitiva dei due arti inferiori. L’anestesia perineale è in genere molto marcata; i riflessi osteotendinei sono conservati o aumentati, spesso è presente il fenomeno di Babinski. Inoltre, nelle lesioni del cono, i sintomi, sin dall’inizio, sono in genere bilaterali e simmetrici, mentre nelle lesioni della cauda, almeno all’inizio, i sintomi possono prevalere da un lato. È evidente che la precisa individuazione del livello lesionale è premessa indispensabile all’esecuzione delle indagini neuroradiologiche mirate, ciò vale soprattutto nel caso che l’accesso allo studio con risonanza magnetica sia impossibile o fortemente limitato (v. pag. 000).
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Sindromi midollari
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Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi del tronco encefalico)
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11. Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche C. Loeb
Premesse anatomiche Il bulbo, il ponte e il mesencefalo, costituiscono il tronco cerebrale, formazione che è interposta senza soluzione di continuo tra il midollo spinale e il diencefalo e che possiede strette connessioni con il cervelletto attraverso i peduncoli cerebellari (inferiore, medio, superiore). Il tronco encefalico, nelle sue tre diverse sezioni, è distinto sul piano frontale in tre porzioni: a) il tetto, che comprende le strutture dorsali al sistema ventricolare; b) il tegmento, area ventrale al sistema ventricolare e dorsale alle vie lunghe di trasmissione; c) il piede o base, che costituisce la porzione più ventrale, ove decorrono appunto le vie lunghe di trasmissione o fasci longitudinali (Fig. 11.1).
Fig. 11.2 - Delimitazione di mesencefalo, ponte, bulbo in veduta laterale.
Fig. 11.1 - Sezione sagittale del tronco encefalico sulla linea mediana: il tetto è costituito dai tubercoli quadrigemini e dal cervelletto, strutture dorsali al sistema ventricolare; il tegmento è rappresentato dalle aree ventrali al sistema ventricolare e dorsali alle vie lunghe di trasmissione; il piede costituisce la porzione ventrale in cui decorrono le vie lunghe di trasmissione.
MIDOLLO ALLUNGATO O BULBO – Si delimita inferiormente con una linea orizzontale che congiunge il margine superiore del I nervo cervicale e il margine inferiore della decussazione piramidale, e superiormente con una linea che dal margine superiore della stria midollare
(sul pavimento del IV ventricolo) raggiunge il margine inferiore del massiccio pontino (Figg. 11.2 e 11.3). Il tetto del bulbo si considera costituito dal cervelletto. Il tegmento bulbare (Fig. 11.4) contiene diverse formazioni tra cui: – nella porzione dorsale: i nuclei dei nervi cranici (XII-XI-X-IX-VIII): – nella porzione mediale: il fascicolo longitudinale mediale (per i movimenti oculari associati v. pag. 241) e il lemnisco mediale che trasporta le sensibilità profonde e discriminativa tattile (v. pag. 94); – nella porzione centrale: la formazione reticolare (v. pag. 479); – nella porzione laterale: le vie spino-talamiche che trasportano le sensibilità termodolorifiche (v. pag. 98); le vie spino-cerebellari ventrali e dorsali, che trasportano le sensibilità propriocettive; la radice o tratto discendente del V paio (v. pag. 267); le vie di associazione con il cervelletto: peduncolo cerebellare inferiore (v. pag. 499); l’oliva inferiore. L’oliva inferiore proietta con le fibre rampicanti al cervelletto e riceve connessioni dal mi-
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Le grandi sindromi neurologiche
Fig. 11.3 - Visione dorsale del tronco encefalico e del talamo.
dollo spinale, dall’area cerebrale motoria, ed inoltre dal caudato, dal pallido, dal n. rosso e dal grigio periacquedottale. In questo modo impulsi motori corticali ed extrapiramidali raggiungono il cervelletto attraverso la stazione olivare. La base o piede (Fig. 11.4) è rappresentata dalle piramidi bulbari che contengono le vie cortico-spinali e bulbari (v. pag. 21). La decussazione piramidale inizia nella porzione più caudale del bulbo, immediatamente al di sopra dell’emergenza del I nervo cervicale. In una sezione frontale a questo livello, il bulbo ha ancora una struttura simile a quella del midollo poiché l’organizzazione anatomofunzionale è in via di trasformazione, da colonne cellulari interne (sostanza grigia) e fasci di fibre esterne (sostanza bianca) in nuclei grigi ben individuabili a localizzazione tegmentale e fasci ben distinti ventrali, tegmentali laterali e fasci di associazione tegmentali mediali. La decussazione sensitiva (lemnisco mediale) avviene in un piano più rostrale, a livello dell’estremo caudale del IV ventricolo. In una sezione frontale a questo livello i nuclei gracile e cuneato e le fibre che da essi originano si incrociano sulla linea mediana e vanno a costituire il lemnisco mediale che occupa il tegmento, in posizione mediale nel bulbo, e in una posizione più laterale nel ponte caudale.
Fig. 11.4 - Disegno schematico delle strutture bulbari in sezioni frontali: 1: sezione rostrale; 2: sezione alla parte media dell’oliva; 3: sezione caudale.
Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi del tronco encefalico)
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Fig. 11.5 - Disegno schematico delle strutture pontine in sezioni frontali: 1: sezione rostrale; 2: sezione mediana; 3: sezione caudale.
PONTE. – Il margine inferiore è già stato identificato con la descrizione del bulbo. Il margine superiore che lo separa dal mesencefalo si traccia con una linea che congiunge il margine inferiore del collicolo inferiore con l’estremo rostrale del piede pontino (Figg. 11.2; 11.3). Il tetto del ponte si considera formato dal cervelletto. Il tegmento pontino (Fig. 11.5) contiene diverse formazioni, tra cui: – nella porzione dorsale: i nuclei dei nervi cranici (parte dell’VIII vestibolare, VII, Vl, V); – nella porzione mediale: il fascicolo longitudinale mediale e il lemnisco mediale – nella porzione centrale: la formazione reticolare – nella porzione laterale: la radice discendente del V, il peduncolo cerebellare medio (o brachium pontis) il fascio spino-talamico e il lemnisco mediale. La base del ponte (Fig. 11.5) forma la parte ventrale e comprende le vie cortico-spinali e bulbari e le vie cortico-pontine, che si interrompono in raggruppamenti cellulari della base pontina (grigio pontino), frammisti alle fibre di associazione lunghe, e raggiungono il cervelletto (fascio cortico-ponto-cerebellare). La via cortico-ponto-
cerebellare trasporta impulsi dalle aree frontali, parietali, temporali e occipitali al cervelletto1. MESENCEFALO. – Il margine inferiore è già stato individuato nella descrizione del ponte; il margine superiore, che lo separa dal diencefalo, è indicato da una linea che dal margine superiore della commessura posteriore raggiunge il margine inferiore dei corpi mammillari (Figg. 11.2; 11.3). Il tetto (Fig. 11.6) è costituito dai corpi quadrigemini, distinti in collicoli superiori o anteriori e collicoli inferiori o posteriori, e da un’area rostrale al collicolo superiore, indicata come area pretettale. Il collicolo superiore, che possiede una struttura laminare con strati di cellule e fibre alternati, è una importante stazione della via visiva.
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È opportuno segnalare che lesioni del ponte caudali, al n. del VII, e a livello rostrale del bulbo possano dimostrare una paralisi del faciale di tipo centrale. Sulla base di recenti valutazioni si ritiene che questo possa avvenire perché in alcuni casi le fibre del VII raggiungono e si decussano a livello bulbare rostrale per poi risalire fino a livello del nucleo del faciale inferiore (Terao et al., 2000)
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Le grandi sindromi neurologiche
Fig. 11.6 - Disegno schematico delle strutture mesencefaliche in sezioni frontali; 1: sezione a livello dell’area pretettale; 2: sezione a livello del collicolo superiore; 3: sezione a livello del collicolo inferiore.
Il collicolo superiore e l’area pretettale ricevono fibre, in parte crociate, che provengono dal tratto ottico, attraverso il braccio quadrigemino superiore. Queste fibre rappresentano il substrato anatomico per l’estrinsecazione del riflesso pupillare alla luce e all’accomodazione. Il collicolo superiore e l’area pretettale intervengono nella regolazione dei movimenti oculari riflessi nel seguire una mira, ricevendo afferenze da aree occipitali attraverso il fascio cortico-tettale o cortico-mesencefalico. Le vie efferenti collicolari, in gran parte dimostrate nell’animale, sarebbero costituite da: – vie tetto-spinali: raggiungono i motoneuroni spinali per i muscoli del collo, ciò che consente movimenti del capo per stimoli visivi; – vie tetto-pontine e tetto-ponto-cerebellari, che trasporterebbero impulsi di origine visiva al cervelletto. Appare quindi, anche da una rassegna così sommaria e incompleta, che l’area del collicolo superiore rappresenta una stazione importante per l’estrinsecazione di una serie di riflessi evocati da stimoli visivi e in special modo per i movimenti oculari coniugati e del capo di tipo riflesso. Il collicolo inferiore, distinto in un nucleo principale e in un nucleo esterno, è invece una stazione importante per le vie acustiche ascendenti. Il nucleo principale infatti riceve le vie del lemnisco laterale e invia fibre, attraverso il braccio quadrigemino inferiore, al corpo genicolato mediale.
I due collicoli superiore e inferiore sono poi in connessione tra loro (vie acustico-ottiche) e con il midollo spinale attraverso vie discendenti tetto-tegmento-spinali. Il tegmento mesencefalico (Fig. 11.6) contiene diverse strutture, tra cui: – nella porzione dorsale: il nucleo mesencefalico del V, il nucleo del III e IV paio; il grigio periacquedottale, masse grige situate intorno all’acquedotto di Silvio. Il grigio periacquedottale contiene masse nucleari tra cui il n. di Darkschewitsch e il n. interstiziale di Cajal, che intervengono nella costituzione del fascicolo longitudinale mediale. Il grigio periacquedottale, secondo ricerche sperimentali, sembra in rapporto con attività emozionali, di ricerca attentiva e con attività di tipo vegetativo; – nella porzione mediale: il fascicolo longitudinale mediale, e, per le sezioni più rostrali, il fascio tegmentale centrale 2; – nella porzione centrale: la formazione reticolare e il n. rosso; il fascio tegmentale centrale; il grigio tegmentale profondo o nucleo mesencefalico profondo. Il 2
Il fascio tegmentale centrale o fascio talamo-olivare o fascio mediale del tegmento, composto in prevalenza da fibre originantisi dal grigio periacquedottale e dal n. rosso, ma anche da fibre provenienti dai gangli basali e dalla corteccia cerebrale, raggiunge l’oliva inferiore. Una lesione di questo fascio e dell’oliva inferiore comporterebbe la comparsa del nistagmo palatino (contrazione ritmica del velo palatino, pag. 488).
Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi del tronco encefalico) grigio tegmentale profondo (o nucleo mesencefalico profondo) riceve fibre: a) dall’ipotalamo anteriore, posteriore e dorsale. Le connessioni che provengono dall’ipotalamo anteriore e posteriore proseguono poi, molto probabilmente, come via tegmento-bulbo-spinale. La loro funzione concerne la regolazione del calibro vasale e l’innervazione delle ghiandole sudoripare, concorrendo così alla regolazione della temperatura corporea. Le vie ipotalamo posteriore-tegmentali interverrebbero anche nella regolazione dell’espressione mimica; b) dal n. subtalamico: fascio subtalamo-tegmentale e quindi fascio tegmento-spinale; c) dai gangli basali: l’ansa lenticolare (v. pag. 00) ha come connessione anche il grigio tegmentale profondo; d) dalla corteccia cerebrale (area premotoria, insula, corteccia parietale e occipitale): fascio cortico-tegmentale. Il grigio tegmentale profondo rappresenta pertanto una stazione nella trasmissione di attività motorie riflesse, attività extrapiramidali e vegeto-emotive e del sistema ascendente reticolare. – nella porzione laterale: il lemnisco laterale, il lemnisco mediale e il fascio spino-talamico. La parte basale o piede (Fig. 11.6) contiene: una massa nucleare costituita dalla sostanza nera e le vie corticospinali, cortico-bulbari e cortico-pontine. La via corticospinale e cortico-bulbare occupa i tre quinti medi del peduncolo cerebrale. Di quest’area la parte più mediale è occupata dalle fibre cortico-bulbari e successivamente in direzione medio-laterale dalle fibre cortico-spinali per gli arti superiori, il tronco e gli arti inferiori. Le vie frontopontine occupano il quinto mediale o interno, le vie parieto-temporo-occipito-pontine occupano il quinto laterale: provengono dalle rispettive aree associative corticali e terminano nella sostanza grigia pontina. * *
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Per completare la descrizione trattiamo ora gli aspetti anatomici di strutture comuni o da considerare globalmente rispetto alle tre diverse sezioni del tronco encefalico: la formazione reticolare e i peduncoli cerebellari.
FORMAZIONE RETICOLARE (FIG. 11.7) Con questo termine si indica una struttura composta da fibre e da aggregati cellulari, che occupa la porzione centrale del tronco encefalico, dal bulbo al mesencefalo e che, per il fitto intrecciarsi di fibre in tutte le direzioni, assume un aspetto detto appunto reticolare. Dal 1949, quando Moruzzi e Magoun attirarono per primi l’attenzione dei ricercatori sulla funzione della forma-
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Fig. 11.7 - Proiezione schematica dell’area occupata dai nuclei reticolari del tronco encefalico dell’uomo; proiezione laterale (A) e dorsale (B) (riadattato da J. Olszewski, Brain Mechanism and Consciousness, C. Thomas, Springfield, 1954).
zione reticolare, si è sviluppata una serie molto estesa di ricerche sperimentali e correlativamente di ipotesi cliniche applicative. È utile sottolineare che i dati, sia anatomici che funzionali, che riportiamo sono il risultato di ricerche condotte in grandissima parte sul gatto e sulla scimmia, anche se la gran maggioranza dei neurologi affronta, su queste basi,l’interpretazione di numerosi problemi clinici. La formazione reticolare occupa la porzione centrale tegmentale avendo lateralmente le vie lemniscali, medialmente il fascicolo longitudinale mediale, mentre alcuni nuclei dei nervi cranici (ad es. il n. ambiguo) si trovano ai margini o inclusi, anche se funzionalmente nettamente distinti 3.
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L’appartenenza di determinati gruppi cellulari alla formazione reticolare è stata ampiamente dibattuta. Alcuni nuclei come il n. reticolare laterale, il n. reticolare del tegmento pontino e il n. reticolare paramediano, pur appartenendo anatomicamente alla formazione reticolare, sono generalmente omessi poichè proiettano esclusivamente al cervelletto.
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I gruppi cellulari che appartengono alla formazione reticolare sono numerosi, ricordiamo: nel bulbo, il n. reticolare giganto-cellulare; nel ponte, il n. reticolare pontino caudale e orale (o n. reticolare magno cellulare o formazione reticolare pontina paramediana); nel mesencefalo il n. mesencefalico profondo o grigio tegmentale profondo. Le cellule più grandi sono più abbondanti nei due terzi mediali e a certi livelli, mentre cellule di dimensioni più ridotte abbondano nel terzo laterale. Le connessioni della formazione reticolare si distinguono in afferenti ed efferenti. a) Le connessioni afferenti, provengono da un gran numero di strutture e precisamente: – dal midollo spinale: sia attraverso collaterali che provengono dalle vie sensitive, specie dalle vie spinotalamiche, ma soprattutto attraverso vie spino-reticolari che ascendono mescolate al fascio spino-talamico (anche nell’uomo) e raggiungono in gran parte i raggruppamenti cellulari dei due terzi mediali bilateralmente (nuclei gigantocellulare e pontini caudali) e, nell’uomo, anche un nucleo ponto-mesencefalico; – dai nervi cranici afferenti somatici e viscerali generali e speciali e da vie sensitivo-sensoriali di secondo ordine: raggiungono la formazione reticolare fibre del vago e del glosso-faringeo (anche nell’uomo) e forse del trigemino; collaterali provenienti dal nucleo spinale del V, dai nuclei vestibolari, dalle vie acustiche ascendenti, e, attraverso il collicolo superiore e le vie tetto-reticolari, anche dalle vie ottiche. Nell’animale sono state anche descritte vie attraverso le quali impulsi olfattori raggiungono la formazione reticolare; – dal cervelletto: specie dai nuclei del tetto, attraverso il fascio uncinato di Russell, le fibre raggiungono la formazione reticolare e i n. vestibolari; – dall’ipotalamo laterale e dal pallido: le vie raggiungono il grigio tegmentale profondo; – dal tetto mesencefalico: vie tetto-reticolari (dal collicolo superiore alla reticolare, specie mesencefalica); – dalla corteccia sensorimotoria e forse da altre aree corticali: le fibre, mescolate alla via cortico-spinale, o collaterali della via cortico-spinale terminano nella reticolare a tutti i livelli, anche nell’uomo. b) Le vie efferenti sono rappresentate da: – vie discendenti che raggiungono il midollo spinale: fibre lunghe che dai nuclei bulbari e pontini, situati nei due terzi mediali della formazione reticolare, scendono direttamente o incrociandosi, raggiungono le cellule del corno anteriore (lamina VII e VIII di Rexed). Il fascio reticolo-spinale, presente anche nell’uomo (mancano però precisazioni descrittive), agisce sugli alfa e gamma motoneuroni;
– vie ascendenti che raggiungono il talamo. Si tratta di fibre lunghe ascendenti che dai nuclei bulbari, pontini e mesencefalici sembra raggiungano, direttamente o dopo essersi incrociate, i nuclei talamici cosiddetti aspecifici cioè i nuclei della linea mediana, i nuclei intralaminari e il nucleo reticolare. Esistono anche vie ascendenti che dalla reticolare mesencefalica raggiungono l’ipotalamo, l’area preottica e il nucleo del setto mediale. È bene tuttavia rilevare che il problema della stazione di arrivo delle vie reticolari ascendenti è dibattuto, abbastanza controverso e, al momento, non risolto. Sembra che le vie ascendenti reticolari raggiungano anche i nuclei talamici cosiddetti specifici (cioè in rapporto con vie sensitive ascendenti). Il problema più oscuro, tuttavia, rimane, sul piano anatomico, quello della prosecuzione della via reticolare ascendente. Si ammette che dal talamo cosiddetto aspecifico esistano vie per il n. ventrale anteriore del talamo e che parte delle vie ascendenti terminino direttamente nel subtalamo e nell’ipotalamo. Il nucleo ventrale anteriore, che riceve anche fibre dal pallido, proietta alla regione frontale, e il nucleo mediale dorsale, che riceve fibre dall’ipotalamo, proietta ugualmente al lobo frontale. Una via reticolare ascendente verso la corteccia, anche se con stazioni intermedie, potrebbe quindi essere ammessa. ORGANIZZAZIONE ANATOMO-FUNZIONALE DELLA FORMAZIO– In sommario: la formazione reticolare riceve segnali da quasi tutte le strutture del sistema nervoso: dal midollo, dalle vie afferenti dei nervi cranici, dalle vie sensitivo-sensoriali di secondo ordine, dal cervelletto, dal tetto mesencefalico, dall’ipotalamo, dalla corteccia cerebrale e invia impulsi discendenti al midollo, e ascendenti al talamo aspecifico. Le vie intrareticolari consentono i rapporti tra le diverse porzioni della formazione reticolare. Particolare degno di rilievo, la gran maggioranza delle cellule da cui originano le vie ascendenti sono le stesse da cui originano le vie discendenti, per cui una singola cellula può inviare impulsi nelle due direzioni, ascendente e discendente. Tuttavia, malgrado quanto abbiamo ora esposto, non si può accettare il concetto che la formazione reticolare sia organizzata come un’entità funzionale diffusa. Anche se non in maniera completa, le cellule reticolari eserciterebbero azioni o prevalentemente discendenti o prevalentemente ascendenti. E poiché i dendriti cellulari sono orientati sul piano frontale così come le fibre che entrano nella reticolare, si può ritenere che la formazione reticolare operi come una serie di segmenti intrinsecamente connessi, ma sovrapposti ed anche differenti sul piano funzionale. NE RETICOLARE
Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi del tronco encefalico)
PEDUNCOLI CEREBELLARI Il cervelletto è unito al tronco encefalico mediante tre distinte paia di peduncoli: i peduncoli inferiori o corpi restiformi, dal bulbo al cervelletto; i peduncoli cerebellari medi o brachia pontis, dal ponte al cervelletto; i peduncoli cerebellari superiori o brachia conjunctiva, dal mesencefalo al cervelletto. I peduncoli cerebellari inferiori contengono vie afferenti ed efferenti, rispetto al cervelletto, e precisamente: – il fascio spino-cerebellare dorsale o diretto di Flechsig, che trasporta impulsi propriocettivi degli arti inferiori; il fascio cuneo-cerebellare, che trasporta impulsi propriocettivi del collo e degli arti superiori. Il fascio di Flechsig che origina dalle cellule della colonna di Clarke o nucleo dorsale, situato alla base del corno posteriore da T1 a L2, ascende omolateralmente nel midollo; il fascio cuneo-cerebellare origina dal nucleo cuneato laterale o di Monakow situato nel bulbo, lateralmente al nucleo cuneato. Il fascio di Flechsig termina omolateralmente nel lobo anteriore e nel verme posteriore (specie nella piramide); il fascio cuneato nel lobo anteriore, più posteriormente, e nella parte più caudale della piramide; – i fasci reticolo-cerebellari e cerebello-reticolari: dai n. reticolari laterali e dal n. reticolare paramediano originano fibre omo- e controlaterali per il verme cerebellare. Gli stessi nuclei reticolari ricevono fibre cerebellari, forse prevalentemente dai nuclei del tetto; – i fasci olivo-cerebellari e cerebello-olivari: connessioni reciproche tra l’oliva e il verme cerebellare (vie crociate e dirette); – i fasci vestibolo-cerebellari e cerebello-vestibolari: vie dirette dal nervo vestibolare e dai nuclei vestibolari si distribuiscono al lobo flocculo-nodulare (e forse al n. del tetto bilateralmente) e, reciprocamente, vie incrociate dal lobo flocculo-nodulare, ed anche dal verme anteriore, raggiungono i nuclei vestibolari. Il peduncolo cerebellare medio o brachium pontis mette in rapporto il ponte con il cervelletto ed è costituito dalle: – vie ponto-cerebellari, seconda stazione delle vie cortico-ponto-cerebellari. Le vie ponto-cerebellari originano dal grigio pontino e terminano, in parte direttamente, in parte incrociandosi, nel verme bilateralmente e nell’emisfero cerebellare controlaterale. Anche il fascio cortico-spinale abbandona qualche collaterale al grigio pontino, stabilendo così un rapporto tra la via della motilità volontaria e il cervelletto; – vie cerebello-reticolari (dirette e crociate) dai n. globoso ed emboliforme alla formazione reticolare. Il peduncolo cerebellare superiore o brachium conjunctivum mette in relazione il mesencefalo con il cervelletto.
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Contiene vie afferenti: – il fascio spino-cerebellare crociato o di Gowers: dalla sostanza grigia funicolare dorsale del midollo, omo- e controlaterale, raggiunge nuovamente incrociandosi a livello cerebellare, il lobo anteriore. Il fascio trasporta impulsi propriocettivi (forse solo per gli arti inferiori e il tronco; gli impulsi riferentisi agli arti superiori sarebbero trasportati dal fascio spino-cerebellare rostrale, individuato fisiologicamente ma non ancora anatomicamente); – il fascio tetto-cerebellare, che dal collicolo inferiore e superiore, raggiunge la parte posteriore del lobo anteriore, il culmen, il clivus, il tuber e la piramide, fornendo una proiezione uditiva e visiva al cervelletto. Le vie efferenti raggiungono diversi livelli del tronco e del diencefalo: – fascio cerebello-reticolare: dai n. globoso ed emboliforme raggiunge la formazione reticolare: – fascio cerebello-rubrico e cerebello-talamico: la via si origina in gran parte dal n. dentato (e in parte dai n. globoso ed emboliforme) e raggiunge il n. rosso; alcune fibre non si arrestano al n. rosso e raggiungono direttamente il n. ventro-laterale talamico (vie dentato-rubro-talamiche e dentato-talamiche, che raggiungono poi la corteccia): – via fastigio-bulbare che, attraverso il fascio uncinato di Russell, raggiunge la formazione reticolare e i nuclei vestibolari, incrociandosi; – fascio cerebello-olivare: dal n. dentato ed emboliforme discende fino all’oliva inferiore.
VEDUTA ANATOMICA D’INSIEME A FINI CLINICI Appare ovvio che tutti i nuclei e le vie sopraindicate sono fondamentali per una corretta funzione del sistema nervoso centrale, ma bisogna rilevare che la lesione di alcune strutture si riproduce con maggior frequenza con un’importanza clinica cruciale. Indichiamo quindi, in sommario sinottico, i sintomi di maggior interesse clinico-pratico, che possono manifestarsi per lesioni del tronco encefalico. a) TETTO – Collicolo superiore e area pretettale: alterazioni dei movimenti coniugati oculari sul piano verticale ed anche orizzontale. Probabile alterazione dei riflessi ottici (anche di fissazione). Alterazioni del riflesso pupillare alla luce. – Collicolo inferiore: sordità.
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b) TEGMENTO – Porzione dorsale: lesioni dei rispettivi nuclei dei nervi cranici e delle loro fibre. – Porzione laterale: disturbi della sensibilità termodolorifica al corpo e al viso controlaterale (sistema spino-talamico e trigeminale), omolaterale al viso per lesione pontina prima dell’incrociamento del lemnisco trigeminale; alterazione delle sensibilità profonde controlaterale (lemnisco mediale). – Porzione mediale: turbe dei movimenti oculari coniugati sul piano orizzontale (fascicolo longitudinale mediale); fino al ponte caudale anche turbe da lesioni del lemnisco mediale. – Porzione centrale: sintomi da lesione della formazione reticolare. c) PORZIONE VENTRALE O PIEDE Deficit della motilità volontaria agli arti, emiplegia ma anche tetra- e paraplegie (in genere per lesioni bilaterali a livello pontino) e deficit sopranucleare dei nervi cranici (lesione delle vie cortico-spinale e cortico-bulbare). VASCOLARIZZAZIONE La vascolarizzazione del tronco encefalico è di difficile precisazione per i seguenti motivi: presenza di varianti anatomiche di singole arterie, per sede di origine, decorso e modalità di suddivisione; variazioni dell’area di irrorazione di una determinata arteria che può essere, in determinati casi, più vasta, a detrimento di altra fonte arteriosa, e per parziale sovrapposizione di aree vascolarizzate da arterie diverse, specie a livello pontino. Alcuni schemi di vascolarizzazione, che si fondano su dati di diversi Autori, sono riportati (Loeb, 1962; Pullicino, 1993): a) vascolarizzazione del bulbo (Fig. 11.8); b) vascolarizzazione del ponte (Fig. 11.9); c) vascolarizzazione del mesencefalo (Fig. 11.10).
Fig. 11.8 - Schema della vascolarizzazione del bulbo. L’area laterale dorsale può essere vascolarizzata dall’arteria cerebellare postero-inferiore (PICA) nel 20% (a); dall’arteria cerebellare antero-inferiore (AICA), e postero-inferiore nel 22% (b); da rami della basilare (B) nel 16% (c); dall’arteria vertebrale (V) nel 31% (d). Tutte e quattro le sorgenti arteriose sono presenti nell’11% (non riportato nello schema) (da C. Loeb, 1962).
Riassumendo si può tracciare il seguente quadro sinottico: – livello bulbare: l’area antero-mediale è irrorata a livello caudale dall’art. spinale ant. e rostralmente dall’art. vertebrale, l’area laterale dall’art. vertebrale, l’area dorso-laterale media e rostrale dall’art. vertebrale, oppure dalla cerebellare antero-inferiore, oppure dall’art. cerebellare postero-inferiore, oppure da ambedue queste arterie; – livello pontino: l’area antero-mediale caudale è vascolarizzata da rami della basilare e l’area dorso-laterale dalla cerebellare antero-inferiore; mentre, più rostralmente, l’area dorso-laterale superiore è fornita dall’art. cerebellare superiore;
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Fig. 11.9 - Schema della vascolarizzazione del ponte.
Fig. 11.10 - Schema della vascolarizzazione del mesencefalo.
– livello mesencefalico: rami dell’art. basilare irrorano l’area antero-mediale, l’art. cerebellare superiore provvede all’area dorso-laterale dei 2/3 caudali, mentre l’art. cerebrale posteriore (distinta nei segmenti P1, dall’ori-
gine al punto in cui diparte la comunicante posteriore, e P2, al di là dell’origine della comunicante posteriore) incrementa il suo contributo alle aree latero-dorsali, dalle regioni caudali alle regioni rostrali.
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Premesse fisiologiche In questo breve sommario vengono richiamati alcuni aspetti essenziali delle funzioni del tronco encefalico che, in parte, si rifanno a quanto precedentemente esposto ed, in parte, dimostrano le funzioni di integrazione sottocorticale di questa complessa struttura. a) Funzioni motorie e sensitive, in rapporto con i nuclei e le fibre dei nervi cranici, con il passaggio di vie discendenti della motilità volontaria (fascio cortico-spinale e cortico-bulbare) ed extrapiramidale, con il passaggio di fibre dei sistemi sensitivi ascendenti (fascio spinotalamico, lemnisco mediale e trigeminale). b) Funzioni vitali in rapporto con l’attività del IX, X, Xl paio dei nervi cranici (v. pagg. 278-286). c) Funzioni di controllo della motilità oculare e dei riflessi pupillari (v. pagg 231 e 242). d) Funzioni uditiva e vestibolare (v. pag. 247). e) Funzione di controllo della mimica. La muscolatura mimica è sotto il controllo di due diversi sistemi: il sistema della motilità volontaria rappresentato dalle vie cortico-bulbari e dal nervo facciale e il sistema dell’innervazione emozionale involontaria. La lesione delle vie cortico-bulbari produce paralisi della muscolatura volontaria, mentre i movimenti mimici riflessi ed automatici sono risparmiati; il malato non può sorridere volontariamente, ma può sorridere in seguito ad uno stimolo emotivo. Del resto è ben noto che nel morbo di Parkinson la facies è rigida e amimica, pur non essendo intaccata la motilità volontaria. Il problema dell’innervazione emozionale dei muscoli facciali non è ancora sufficientemente spiegato. È probabile che esistano aree corticali da cui origina la risposta emotiva ed altre aree corticali che la regolano o la inibiscono. Le aree interessate sarebbero le regioni frontali, il fornice e la stria terminale, da cui originano fibre che, direttamente o attraverso una stazione talamica, raggiungono l’ipotalamo anteriore, il quale rappresenta per le sue efferenze ai vari nuclei vegetativi (simpatici e parasimpatici) una stazione fondamentale per la regolazione dell’espressività emozionale. Anche il globo pallido, attraverso il fascio pallido-ipotalamico (nuclei ipotalamici ventro-mediali) e quindi le vie ipotalamotegmentali rappresenta una componente delle vie discendenti per l’espressività emotiva (v. pag. 583). Riassumendo: l’espressività emotiva sarebbe servita da vie fronto-ipotalamiche e pallido-ipotalamiche e successivamente ipotalamo-tegmentali. La facilità di espressioni emozionali come il riso e il pianto nelle emiplegie o le crisi di pianto e riso spastico nella paralisi pseudobulbare potrebbe essere ascritta alla mancata funzione inibitoria di strutture corticali lese che, in condizioni normali, sopprimono gli impulsi emozionali involontari.
f) Funzione reticolare Si possono distinguere: – funzioni discendenti: a) regolazione del tono posturale e fasico, b) partecipazione al controllo centrale sensitivo, c) regolazione della funzione respiratoria, d) regolazione della funzione vasomotoria; – funzioni ascendenti: a) regolazione dell’attività cosciente e dell’attività elettrica cerebrale. Come già è stato detto a proposito dei dati anatomici, le funzioni reticolari (ci riferiamo in particolare a quelle ascendenti) sono in gran parte desunte da studi sperimentali su animali.
Funzioni Discendenti a) Regolazione del tono posturale e fasico. Esisterebbero due aree reticolari a funzione differente: una situata a livello bulbare a funzione inibitoria sul riflesso miotattico e sul tono muscolare, l’altra situata a livello pontino e mesencefalico che possiede invece un’azione facilitatoria. Gli effetti inibitori e facilitatori sono forse mediati indirettamente dal fascio reticolo-spinale che, con neuroni internunciali, influenza sia i gamma che gli alfa motoneuroni. Il fascio reticolo-spinale sembra presente anche nell’uomo, anche se mancano, al momento, studi adeguati per una precisa definizione. La funzione reticolare sul tono è integrata con altre strutture sopraspinali che ugualmente agiscono sul tono, quali i nuclei vestibolari, il nucleo rosso, il collicolo superiore, i nuclei tegmentali e la corteccia cerebrale. b) Controllo centrale sensitivo: centri soprasegmentali (e forse in particolare la corteccia) influenzano la trasmissione degli impulsi sensitivi a livello dei cordoni posteriori, del fascio spino-talamico e dei nervi cranici (specie V, VIII e forse I e II paio) che trasportano impulsi afferenti. L’azione si verifica attraverso vie discendenti che agiscono sui neuroni sensitivi di secondo ordine o sulle terminazioni delle vie afferenti. In altri termini si stabilisce per le afferenze sensoriali un circuito di tipo feed-back che regola l’entrata sensitiva o sensoriale. Le strutture che esercitano quest’azione sono la corteccia sensorimotoria, il lobo anteriore cerebellare e la formazione reticolare. c) e d) Regolazione della funzione respiratoria e vasomotoria. L’attività respiratoria e cardiovascolare è influenzata dalla formazione reticolare. I centri respiratori sono stati descritti a pag. 308. Il raggruppamento cellulare ad attività inspiratoria occuperebbe l’area bulbare inibitoria, da cui originano le vie reticolo-spinali, mentre il raggruppamento cellulare ad attività espiratoria è al di fuori di quest’area. Analogamente l’area ad attività cardiovascolare depressoria (modificazioni dei valori pressori e del rit-
Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi del tronco encefalico) mo cardiaco) coincide con l’area reticolare bulbare inibitoria, mentre l’area ad attività cardiovascolare eccitatoria è laterale e rostrale. Risposte respiratorie e cardiovasali si ottengono, come abbiamo già detto, per attività di strutture soprasegmentali, quali la corteccia cerebrale e l’ipotalamo, ma i centri a livello reticolare, ora descritti, ne mediano gli effetti. I centri reticolari inoltre sono anche influenzati dagli impulsi afferenti trasmessi dal vago e da stimoli chimici, sia direttamente sia attraverso i chemocettori.
Funzioni Ascendenti a) Regolazione dell’attività cosciente e dell’attività elettrica cerebrale. In questi ultimi 25 anni un’enorme quantità di dati sperimentali ha permesso di affrontare il problema del significato funzionale della via ascendente della formazione reticolare. La trasposizione di questi dati all’uomo e alla clinica appare in massima parte arbitraria, anche se particolarmente stimolante poichè fornisce una spiegazione delle modalità funzionali del sistema nervoso centrale nel comportamento, negli stati di sonno e di veglia, nella perdita di coscienza, e nella regolazione dell’attività elettrica cerebrale. Le prime ricerche (Moruzzi e Magoun, 1949) ponevano il problema in termini piuttosto semplici: un’attivazione (sperimentalmente prodotta con la stimolazione elettrica) della formazione reticolare produce un tracciato desincronizzato (tracciato di attività rapida a basso voltaggio) e un comportamento di attenzione o veglia; una lesione della stessa area produce un tracciato sincronizzato (attività lenta ad alto voltaggio) e un comportamento di tipo sonno o coma. Successive ricerche dimostravano che questa semplice enunciazione corrispondeva solo in parte alla realtà sperimentale. Infatti la stimolazione (a seconda della sede ma soprattutto della frequenza di stimolo) può provocare sia un’attività desincronizzata che sincronizzata e, analogamente, una lesione (a seconda della sede ove è effettuata) può produrre una sincronizzazione o una desincronizzazione. Inoltre è stato dimostrato in questi ultimi anni che il sonno può essere accompagnato da un’attività lenta sincronizzata ma anche (nella fase REM) da un’attività desincronizzata sia nell’animale che nell’uomo. Questi dati sperimentali dimostrano che la relazione, postulata sulla base delle prime ricerche sulla funzione reticolare, tra attività elettrica cerebrale e comportamento (e stato di coscienza) appare ben più complicata di quanto si era immaginato. Anche se, al momento, molti punti rimangono oscuri, si può affermare che la formazione reticolare riveste un ruolo importante nel controllo del livello di coscienza. Appare ragionevole, e basata su dati anatomici, fisiologici e clinici, la tesi che il sistema reticolare rappresenti un’area
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dove gli stimoli sensitivi e sensoriali che provengono dalla periferia, impulsi che provengono da diverse strutture quali la corteccia, il talamo, i gangli basali, il cervelletto, vengono convogliati e subiscono un primo processo di integrazione, che sarà successivamente completato o proseguito a livello corticale, specie per funzioni altamente differenziate. Tra queste la coscienza sembra particolarmente importante: lesioni mesencefalo-diencefaliche dirette o indirette (v. pag. 651) si associano a turbe dello stato cosciente con alterazioni del tracciato di tipo lento sincronizzato; lesioni invece del ponte e del bulbo possono manifestarsi con alterazioni della coscienza e tracciato tipo alfa e ciò suggerisce una probabile differenza funzionale tra le porzioni rostrali e caudali della reticolare. In conclusione: i dati sopra riportati dimostrano che il sistema reticolare ascendente è in grado di influenzare l’attività elettrica cerebrale e di modificare lo stato di coscienza. I dati raccolti sul meccanismo del sonno e della veglia rappresentano un ulteriore aspetto dell’influenza del sistema reticolare sulla regolazione dello stato di coscienza.
Altri sistemi a proiezione diffusa La funzione ascendente della formazione reticolare che, attraverso il talamo, raggiunge la corteccia cerebrale, non rappresenta l’unica via afferente che dal tronco encefalico si proietta alla corteccia cerebrale. Diversi gruppi di fibre con origine nel tronco encefalico si distribuiscono direttamente e diffusamente all’intera corteccia cerebrale, passando inferiormente alle formazioni talamiche. Questi sistemi afferenti vengono identificati in base al neurotrasmettitore monoaminergico utilizzato. I sistemi meglio conosciuti sono i seguenti : – sistema noradrenergico, che origina dal locus coeruleus del ponte – sistema serotoninergico, che origina dai nuclei del rafe del tronco; – sistema dopaminergico, che origina, principalmente, dall'area tegmentale ventrale del mesencefalo, ed è spesso indicato come sistema mesocorticale; – sistema colinergico, che origina dal nucleo basale di Meynert (area ventrale al putamen) Numerosi studi fanno ritenere che questi sistemi abbiano una funzione regolatrice dell'eccitabilità del prosencefalo, e, in particolare, nel ciclo sonno-veglia, nella spinta appettitiva, e, più in generale, nel tono affettivo.
Sindromi del tronco encefalico La presenza in un’area ristretta di sistemi sensitivi ascendenti e motori discendenti, di nuclei dei nervi cranici e di sistemi associativi intra-
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troncali, rende ragione del fatto che lesioni, anche circoscritte, provochino sindromi rappresentate dall’associazione di segni centrali, dovuti alla lesione di sistemi ascendenti o discendenti, e sintomi periferici dovuti alla lesione del motoneurone cranico o delle fibre dei nervi cranici. Si realizzano, in tal modo, le sindromi alterne, con segni centrali controlaterali (da lesione situata al di sopra delle decussazioni sensitiva e motoria), e segni periferici omolaterali (da lesione dei nuclei o delle fibre dei nervi cranici). Esistono, tuttavia, anche sindromi troncali senza sintomatologia alterna o crociata. La trattazione delle sindromi troncali, secondo gli schemi classici, ha il grosso inconveniente di fornire quadri clinici, spesso creati sulla base di una singola osservazione, e di essere appesantita da denominazioni eponimiche. Per semplificare, verranno descritte le sindromi troncali di più frequente riscontro, fornendo l’indicazione della localizzazione anatomica.
Sindromi bulbari Le sindromi bulbari classicamente descritte e riportate in sommario nella Tabella 11.1 sono rare o molto rare, mentre la sindrome laterale bulbare, di non raro riscontro, verrà più ampiamente descritta. Lo schema della vascolarizzazione del bulbo è riportato nella Fig. 11.8 e il disegno schematico della sede di lesione si ritrova nella Fig. 11.11.
Sindrome bulbare laterale (Sindrome di Wallenberg) La sindrome bulbare laterale è espressione di una lesione anatomica dell’area laterale del bulbo (area retrolivare). La lesione può avere estensione diversa e la sindrome, quindi, dimostrare segni clinici diversi. La vascolarizzazione del bulbo è indicata nella Fig. 11.8, ove appare che l’area laterale può essere irrorata da fonti arteriose diverse, spiegando la diversità di sintomatologia in singoli casi. L’area laterale bulbare (Fig.11.11) include le seguenti formazioni: la radice discendente del V paio, il nucleo ambiguo, le fibre simpatiche oculari, il fascio spino-cerebellare ventrale, il fascio spino-talamico, parte del corpo restiforme e del nucleo vestibolare laterale. Se si divide il bulbo in 4 sezioni corrispondenti al terzo superiore, al terzo medio, al terzo inferiore dell’oliva bulbare e al segmento caudale all’oliva, si può constatare che la lesione bulbare laterale risiede, con maggior frequenza, a livello del terzo medio dell’oliva (Fisher et al., 1961). Sul piano clinico si ha allora, il quadro tipico della sindrome di Wallenberg: – omolateralmente alla sede di lesione: ipoestesia faciale termodolorifica, paralisi dei muscoli faringei, del velo pendulo e della corda vocale, sindrome di Bernard-Horner, nistagmo, atassia; – controlateralmente alla sede di lesione: ipoestesia corporea termodolorifica.
Fig. 11.11 - Disegno schematico della lesione della sindrome laterale bulbare e della sindrome dell’emibulbo di Babinski-Nageotte.
Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi del tronco encefalico)
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Tabella 11.1 - Sindromi bulbari classiche. Denominazione secondo sede anatomica
Sede della lesione
Sintomatologia Eziologia
Frequenza relativa
secondo letteratura classica
Sindrome dell’incrocio via cortico-spinale
Sindrome dell’incrocio piramidale
incrocio via cortico spinale (per arto sup. già incrociata)
Paresi crociata (arto sup. di un lato, inf. dell’altro)
vascolare ischemica
Sindrome bulbare paramediana
Sindrome alterna bulbare inferiore o infima, S. di Goukowski-Giannuli; S. di Dejerine
area bulbare interolivare paramediana
Emiparesi controlaterale; paresi con atrofia lingua omolaterale
ischemica vascolare (a. spinale ant.)
estremamente rara
Sindrome vago-spinale-ipoglossica
S. di Jackson
tegmento bulbare caudale; incerto fascio piramidale
Paresi IX, X, XI (branca spinale) XII omolaterale. Incerta emiparesi corporea controlat.
vascolare, sclerosi multipla, neurolue
molto rara
Sindrome del n. ambiguo
a) S. di Avellis b) S. di David Wolfstein c) S. di Milian-Meunier
a) n. ambiguo; b) associato a fascio piramidale e via spino-talamica c) n. ambiguo e corpo restiforme
a) emiparesi faringo-laringopalatina b) + emiparesi, emianestesia termodolorifica c) + sindrome cerebellare
vascolare ischemica, sclerosi multipla, trauma
rara
Sindrome vago-spinale
Sindrome di Schmidt
n. X, XI spinale
emiparesi velopalatino, corda vocale, sternocleidomastoideo e trapezio
vascolare ischemia, sclerosi multipla, trauma
rara
Sindrome bulbare laterale
S. di Wallenberg
vedi testo pag. 486
Sindrome bulbare laterale estensiva
S. di BabinskiNageotte, S. di Cestan-Chenais
vedi testo pag. 488
Possono essere associate, eventualmente, turbe vasomotorie e algie all’emifaccia e all’emicorpo, sede delle alterazioni della sensibilità. La sindrome laterale bulbare, in rapporto alle caratteristiche di vascolarizzazione sopra indi-
ipotetica
cata, presenta due varietà cliniche: a) le forme estensive e b) le forme parziali. L’estensione della lesione si può verificare sia in direzione rostrale o caudale che in direzione mediale e ventrale. La prima eventualità compor-
488
Le grandi sindromi neurologiche
ta la compromissione dei nuclei del VI e VII paio con relativa diplopia e paralisi facciale; la seconda, più rara, si traduce in una associazione dei segni della sindrome di Wallenberg con lesione dell’XI paio dei nervi cranici (anche branca esterna) e quando è completa, evenienza estremamente rara, compromissione del XII, del fascicolo longitudinale mediale, del lemnisco mediale, delle vie piramidali con emiparesi controlaterale, realizzando la sindrome laterale bulbare estensiva tipo Babinski-Nageotte e Cestan-Chenais o sindrome dell’emibulbo (Fig. 11.11). Le forme parziali, già definite come forme fruste o incomplete o subsindromi di Wallenberg, sono rappresentate da una lesione che occupa solo una porzione dell’area laterale: il nucleo ambiguo, la radice discendente del V, il fascio spino-talamico, il tratto spino-cerebellare possono essere colpiti isolatamente, in diverse associazioni, dando luogo a quadri clinici di difficile classificazione secondo gli schemi classici, oltreché a sindromi tipo Avellis, tipo Jackson, tipo Schmidt (Tab. 11.1). Una sindrome alterna bulbare tipica è dovuta, nella gran maggioranza dei casi, ad un rammollimento bulbare. La siringobulbia talora è responsabile di una sindrome bulbare parziale (tipo Avellis) e, eccezionalmente, tipo Wallenberg. Sindromi alterne bulbari da malformazione vascolare e aneurisma sono possibili, ma molto rare; assolutamente eccezionali e quindi di scarso interesse nella diagnostica differenziale corrente, le sindromi alterne bulbari da tumore, da processi infiammatori, da emorragie, sclerosi multipla, ecc. Sindrome mioclonica o nistagmo del velo palatino. Sindrome mioclonica oro-faringo-laringea. – Consiste in contrazioni ritmiche che spesso iniziano a livello del palato molle per poi diffondere ai muscoli faringei, laringei e spesso anche ai muscoli cervicali, intercostali e al diaframma. Le contrazioni sono ritmiche e a frequenza elevata, da 30 a 200 al minuto. Talora si associano movimenti oculari, sincroni alla contrazione del velo, verso l’alto e verso il basso («ocular bobbing» degli AA. anglosassoni, cioè movimenti oculari di va e vieni sul piano verticale).
La sede di lesione responsabile di questa sindrome non si può ritenere ancora accertata in maniera indiscussa, ma è opinione accettata da molti, che la lesione risieda nel sistema talamo-olivare o tratto tegmentale centrale (v. pag 000). La sindrome mioclonica del velo compare per rammollimento del tronco encefalico, in casi di sclerosi multipla e in alcuni altri quadri meno noti. Benchè questa sindrome sia descritta, in genere, nel paragrafo delle sindromi bulbari o pontine appare chiaro che non appartiene interamente alla lesione di queste aree.
Sindromi pontine Seguendo il criterio anatomico, le sindromi pontine possono essere distinte in: sindromi pontine ventrali, tegmentali, mediali e laterali (a livello caudale, medio, rostrale), e sono riportate sommariamente nella Tabella 11.2, mentre con maggior dettaglio vengono descritte le sindromi di riscontro più frequente. Lo schema della vascolarizzazione del ponte è riportato nella Fig. 11.9, e il disegno schematico della sede di lesione nelle sindromi pontine più comuni si ritrova nella Fig. 11.12. A. Sindrome pontina ventrale Sindrome pontina ventrale caudale (sindrome di Millard-Gubler).– La lesione ha sede nel piede del ponte, al terzo caudale, e ingloba le fibre piramidali e le fibre radicolari del VII e VI paio dei nervi cranici (talora solo il VII o il VI) (Fig. 11.12). Clinicamente si osserva: – omolateralmente alla lesione, paralisi periferica del VII, associata a paralisi del muscolo retto esterno (VI paio: strabismo interno e diplopia); – controlateralmente alla lesione: emiparesi o emiplegia. Se la lesione si estende verso la linea mediana i disturbi motori all’emicorpo, alla faccia e al retto esterno possono estendersi controlateralmente. La causa è usualmente un tumore.
Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi del tronco encefalico)
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Tabella 11.2 - Sindromi pontine classiche. Denominazione secondo sede anatomica
Sede della lesione
Sintomatologia Eziologia
Frequenza relativa
secondo letteratura classica
Sindrome pontina ventrale, terzo caudale
Sindrome di MillardGubler
vedi testo pag. 488
Sindrome pontina ventrale, terzo medio e rostrale
Sindrome pontina paramediana
Sindrome pontina tegmentale terzo caudale
Sindrome di Foville o S. di Foville MillardGubler
Sindrome pontina tegmentale terzo medio
Sindrome sensitiva alterna o sindrome di Grenet
Nucleo V sensitivo e motorio, lemnisco mediale, fascio spino-talamico
Sindrome pontina tegmentale terzo rostrale
Sindrome di RaymondCestan o sindrome di Foville superiore
Tegmento pontino Omolaterale: Tumore terzo rostrale emiatassia, emiasinergia, coreo-atetosi. Controlaterale: paralisi laterale coniugata dello sguardo; emiipoestesia superficiale e profonda, atassia
Sindrome pontina
Sindrome di Marie-Foix
Piede pontino terzo medio e rostrale
Emiparesi o emi- Vascolare plegia controlate- ischemica rale; Paraparesi o paraplegia
Rara
vedi testo pag. 489
B. Sindrome pontina tegmentale Sindrome tegmentale del terzo caudale (Sindrome di Foville) – La lesione può interessare i nuclei e le fibre radicolari del VI e VII paio dei ner-
Omolaterale: Tumore anestesia faccia termodolorifica (talora paralisi muscoli masticatori). Controlaterale: emianestesia corporea termodolorifica
Rara
Piuttosto rara
vedi testo pag. 491
vi cranici, il fascicolo longitudinale mediale, il lemnisco mediale, la radice o tratto spinale del V paio, il peduncolo cerebellare medio (Fig. 11.12). Clinicamente si rileva, omolateralmente alla sede di lesione: paralisi dei movimenti coniugati
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Le grandi sindromi neurologiche
Fig. 11.12 - Disegno schematico della sede di lesione delle sindromi pontine più comuni: Sindrome di Foville o Sindrome pontina tegmentale del terzo caudale; Sindrome di Millard-Gubler o Sindrome pontina ventrale del terzo caudale.
di lateralità dello sguardo (paralisi coniugata diretta), paralisi del VII e VI, turbe cerebellari; controlateralmente: emianestesia corporea tattile e profonda. In effetti il termine «sindrome di Foville» sottolinea l’esistenza di turbe dei movimenti coniugati oculari, che tuttavia non si presentano mai isolatamente. La sindrome descritta si riscontra nei tumori pontini, specie nel glioma pontino dell’infanzia, ed allora la sintomatologia diventa spesso bilaterale. C. Sindrome pontina mediale Mentre le altre sindromi pontine descritte sono quasi esclusivamente causate da tumori, emorragie o altre più rare patologie in questa sede ristretta (traumi, processi infiammatori ecc.), le sindromi dell’area mediale del ponte sono esclusivamente in rapporto con lesioni ischemiche. La vascolarizzazione del ponte distingue un territorio paramediano, fornito dai rami paramediani dell’arteria basilare, che irrora il fascio cortico-bulbare e cortico-spinale, parte del peduncolo cerebellare medio, il lemnisco mediale e, in particolare, nel terzo caudale il VI nervo cranico e il centro per la motilità coniugata laterale e, nel terzo rostrale, il fascicolo longitudinale mediale e talora il fascio mediale del tegmento (Fig. 11.9).
La sintomatologia consiste, omolateralmente in: disturbi della coordinazione agli arti e atassia; controlateralmente: emiparesi (emifaccia compresa), disturbi della sensibilità tattile e profonda. Se la lesione è nel terzo caudale si aggiunge una paralisi dello sguardo laterale verso il lato della lesione (paralisi coniugata diretta) e una paresi omolaterale del VI paio dei nervi cranici con diplopia ed eventuale compromissione di fibre del VII. In tal caso classicamente la sindrome può essere indicata come la sindrome di Foville-Millard-Gubler. La lesione del terzo medio può essere bilaterale e si può registrare una tetraparesi e realizzare una sindrome da chiavistello (v. pag. 634); eccezionalmente si può anche riscontrare una paraparesi. Se la lesione risiede nel terzo rostrale si aggiunge per lesione del fascicolo longitudinale mediale una oftalmoplegia internucleare (v. pag. 235). La Sindrome Uno e Mezzo (One and a half). – È una sindrome piuttosto rara, consistente in una paralisi dello sguardo orizzontale nell’occhio del lato leso, e in una paralisi dell’adduzione nell’occhio controlaterale. Si possono associare: deviazione asimmetrica (skew deviation, v. pag. 241), nistagmo laterale o verso l’alto (raramente verso il basso), assenza di convergenza.
Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi del tronco encefalico)
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Il soggetto lamenta: diplopia, oscillopsia (oggetti e ambiente oscillano) e annebbiamento visivo. La lesione risiede nella formazione reticolare paramediana pontina (o nucleo pontino magnocellulare) o nel nucleo del VI paio o nelle fibre internucleari crociate del VI paio. La causa più frequente è, per i soggetti al di sotto dei 45-50 anni, la sclerosi multipla, e, per coloro al di sopra dei 50 anni, una patologia cerebro-vascolare (infarto, emorragia pontina) e, talora, tumori (glioma pontino).
b) Sindrome pontina laterale del 3° medio. – L’area è irrorata dalle art. circonferenziali lunghe, rami della basilare. Le strutture interessate sono: il peduncolo cerebellare medio, il nucleo e le fibre motorie e sensitive del V, le fibre oculo-simpatiche, e parte del lemnisco mediale. La sintomatologia è rappresentata, omolateralmente alla sede della lesione da turbe della coordinazione agli arti, deficit motorio nella masticazione, ipoestesia all’emifaccia, sindrome di Bernard-Horner; controlateralmente da ipoestesia corporea.
D. Sindrome pontina laterale
c) Sindrome pontina laterale rostrale. – L’area è irrorata dall’arteria cerebellare superiore e il riscontro della sindrome è molto raro. La lesione interessa la giunzione ponto-mesencefalica tegmentale e in particolare: il peduncolo cerebellare medio e superiore al di sopra o al di sotto del suo incrociamento, le vie oculo-simpatiche, talora il tratto spino-talamico, parte del lemnisco mediale, e il lemnisco laterale, oltre a lesioni del lobulo anteriore e ansiforme, del verme e talora del lobulo semilunare del cervelletto, che riceve irrorazione da questa arteria. Dal punto di vista clinico si osservano: disturbi cerebellari e tremori che possono essere omolaterali (se la lesione è al di sotto dell’incrociamento del peduncolo cerebellare superiore che avviene a livello mesencefalico) o controlaterali (se la lesione è al di sopra della decussazione del peduncolo); sindrome di BernardHorner omolaterale; controlateralmente: anestesia superficiale e profonda controlaterale (compresa la faccia); se esiste lesione del tetto mesencefalico caudale (collicoli inferiori) è presente sordità.
Anche le sindromi pontine laterali sono dovute a patologia vascolare ischemica. La vascolarizzazione della porzione laterale del ponte è fornita dalle arterie circonferenziali brevi e dall’art. cerebellare antero-inferiore, con sovrapposizione delle due sorgenti di irrorazione nei territori di confine, e dall’art. cerebellare superiore (Fig. 11.9). Ma il calibro dell’art. cerebellare anteroinferiore ha variazioni anche importanti in rapporto al calibro dell’art. cerebellare postero-inferiore, per cui l’infarto ha dimensioni estremamente variabili e, secondo Murphy (1954), non è associato a segni clinici per il compenso che si instaura da altre fonti arteriose. a) Sindrome pontina laterale caudale. – L’area è irrorata dalla cerebellare antero-inferiore e pertanto oltre alle dimensioni variabili dell’infarto sopra accennate, bisogna aggiungere che i casi anatomo-clinici riportati sono solamente una decina. Le strutture interessate sono: il nervo o il nucleo vestibolare, il VII, l’VIII o il nucleo cocleare, il tratto discendente del V, il VI nervo cranico; il peduncolo cerebellare medio, il tratto spino-talamico. La sintomatologia consiste, omolateralmente, in: nistagmo orizzontale e verticale, paresi del VII, sordità, ipoestesia dell’emifaccia, paralisi coniugata dello sguardo, atassia; controlateralmente: ipoestesia termodolorifica.
Sindrome mesencefalica La sintomatologia delle sindromi mesencefaliche è riportata nella tabella 11.3, la vascolarizzazione del mesencefalo nella Fig. 11.10 e la sede schematica della lesione nella Fig. 11.13.
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Le grandi sindromi neurologiche
A. SINDROME VENTRALE (FIG. 11.13 E TAB. 11.3) La lesione interessa il piede del peduncolo cerebrale e quindi le vie cortico-spinali e cortico-bulbari, le fibre radicolari del III paio, e la sostanza nigra. Clinicamente si osserva: paralisi omolaterale del III paio (totale o parziale) e emiplegia controlaterale. Il deficit motorio può includere una paralisi sopranucleare del nervo faciale, (paralisi controlaterale del facciale inferiore), e talora una paralisi del III bilaterale (sindrome interpeduncolare). Gli effetti clinici della lesione della sostanza nigra non sono manifesti. La sindrome, classicamente designata come sindrome di Weber, è dovuta a tumori, traumi, e raramente ad emorragia e infarti (se la lesione è di dimensioni ridotte e a sede tegmentale si può osservare esclusivamente una paralisi del III paio). I casi documentati in cui sono presenti, insieme ad altri sintomi (paralisi del III paio, segni di oftalmoplegia internucleare [v. pag. 241], possibili movimenti involontari) anche le allucinosi peduncolari riconoscono cause diverse. Si tratta di un numero molto esiguo di casi (v. pag. 166), e per quanto si riferisce alla genesi ischemica, l’infarto, più spesso bilaterale, ha sede in un’area mesencefalica paramediana rostrale piuttosto vasta, che interessa la sostanza nera, il nucleo rosso, il fascicolo longitudinale mediale, la parte mediale del peduncolo cerebrale, la decussazione del peduncolo cerebellare superiore.
Solo in un caso l’infarto è di dimensione particolarmente ridotte ed è localizzato nella pars reticolata della sostanza nera, bilateralmente (McKee et al, 1990), cioè nell’area irrorata dai rami rostrali dell’arteria basilare.
B. SINDROME TEGMENTALE, DEL TETTO E DELL’AREA PRETETTALE Le sindromi classicamente descritte sono indicate nella Tabella 11.3, e in particolare attiriamo l’attenzione sulle sindromi del nucleo rosso. Le sindromi del tetto e dell’area pretettale includono la sindrome di Parinaud e la sindrome già descritta come sindrome della cerebellare superiore (v. pag. 491) (Fig.11.13; Tab. 11.3). Sindrome di Parinaud – È in rapporto con una lesione del tetto mesencefalico, cioè del collicolo superiore e dell’area pretettale. I casi di sindrome di Parinaud, dovuti a lesione ischemica, e controllati autopticamente, dimostrano che la lesione può essere unilaterale o bilaterale e che la regione critica per la verticalità dello sguardo verso l’alto e verso il basso è localizzata nel mesencefalo rostrale, uni o bilateralmente, a livello del nucleo interstiziale del fascicolo longitudinale mediale (Fig. 11.13) e della commessura posteriore, mentre il nucleo interstiziale di Cajal avrebbe un ruolo rilevante nel riflesso vestibolo-oculare verticale (v. pag
Fig. 11.13 - Disegno schematico della sede di lesione in caso di sindrome mesencefalica. Sindrome dell’area pretettale e sindrome di Parinaud (a livello dell’area pretettale) [sezione 1] e sindrome della cerebellare superiore, e sindrome ventrale o di Weber [sezione 3].
Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi del tronco encefalico)
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Tabella 11.3 - Sindromi mesencefaliche classiche. Denominazione secondo sede anatomica
Sede della lesione
Sintomatologia Eziologia
Frequenza relativa
secondo letteratura classica
Sindrome ventrale
Sindrome di Weber
Piede del peduncolo
vedi testo pag. 492
Sindrome tegmentale ventrale
A) Sindrome di Benedikt. B) Sindrome del nucleo rosso inferiore o S. di Claude inferiore o S. di Nothnagel; C) Sindrome superiore del n. rosso o S. di Claude superiore o di Nielsen D) Sindrome controlaterale del n. rosso
Nucleo rosso, fascicolo longitudinale mediale, nuclei e fibre del III, lemnisco mediale e talvolta lemnisco laterale
A) Omolaterale: Tumorale paralisi del III; Controlaterale: movimenti involontari (emiparesi); B) Omolaterale paralisi del III; Controlaterale: emiatassia; C) Controlaterale: movimenti involontari D) Controlaterale: atassia, talora con movimenti involontari
Sindrome del tetto
Rara
vedi testo pag. 492
a) collicolo inferiore
Sindrome dell’arteria cerebellare superiore
Peduncolo cerebellare sup., lemnisco mediale e laterale, fibre oculo-pupillari, collicolo inferiore
Omolaterale: Vascolare atassia, s. di Bernard-Horner, tremore o mioclonie ritmiche; Controlaterale: ipo- o anestesia per il dolore e la temperatura, o globale, ipoacusia o sordità
b) collicolo superiore
Sindrome di Parinaud
Collicolo sup.
vedi testo pag. 492
250). Appare accertato che la paralisi verso l’alto può riconoscere una lesione unilaterale, mentre la paralisi combinata verso l’alto e verso il basso sarebbe dovuta a una lesione bilaterale.
Rara
Clinicamente mancano i movimenti saccadici e di inseguimento sul piano verticale verso l’alto, e talora anche verso il basso, così come la convergenza. I riflessi oculo-vestibolari sono
494
Le grandi sindromi neurologiche
normali, e le pupille sono normali o midriatiche o presentano assenza del riflesso alla luce o una sindrome di Argyll Robertson; talora si associa retrazione palpebrale. La causa della sindrome è, negli adolescenti, il tumore della pineale; nei giovani e negli adulti, la sindrome è rara e in rapporto con traumi cranici, malformazioni vascolari, sclerosi multipla; negli anziani è relativamente più frequente e dovuta a patologia cerebrovascolare e a paralisi sopranucleare progressiva. C. SINDROME DELL’APICE DELLA BASILARE L’occlusione o la stenosi della porzione rostrale della basilare (Caplan, 1980) tra l’apice dell’arteria e la comunicante posteriore, usualmente dovuta a embolia di provenienza cardiaca o arteriosa, è causa di episodi ischemici transitori o infartuali in una vasta area che include il mesencefalo, il talamo, l’ipotalamo, l’area mediale del lobo temporale e i lobi occipitali. La sindrome è ritenuta rara, ma è forse più frequente di quanto sia riportato (Mehler, 1988). L’estensione dell’area infartuata dipende da diversi fattori (grado della stenosi, tempo trascorso dall’ostruzione, funzionalità del circolo collaterale ecc.), ma l’infarto non è mai completo. Molto brevemente vengono qui riportati i dati che si riferiscono alla sintomatologia dovuta a infarto bilaterale rostrale dell’area mediale del mesencefalo. La sintomatologia può dimostrare alcuni o tutti i segni sotto indicati: alterazioni pupillari (le pupille sono eccentriche o «correctopia iridis»; si può avere midriasi fissa) e del riflesso pupillare; nistagmo; paresi dello sguardo sul piano verticale; paresi del III e del IV paio, anche sopranucleare; paralisi internucleare; deviazione oculare strabica, retrazione palpebrale o ptosi; allucinazioni peduncolari. Ai sintomi mesencefalici si possono aggiungere segni di compromissione talamica, occipitale e temporale (emipoestesia, coma, amnesia, afasia, emianopsia).
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12. Sindrome cerebellare C. Loeb, C. Serrati
Il cervelletto è situato nella fossa cranica posteriore, dorsalmente al tronco dell’encefalo, cui è unito da tre coppie di peduncoli: inferiori o corpi restiformi che lo uniscono al bulbo, medi o brachia pontis che lo uniscono al ponte, superiori o brachia conjunctiva, che lo uniscono al mesencefalo. Consta di una formazione mediana, il verme, e di due laterali, gli emisferi (Fig. 12.1). La superficie cerebellare è organizzata in fogli, orientati trasversalmente. Fessure e solchi dividono la superficie in lobi. Il lobo flocculo-nodulare è separato dal resto, detto corpo cerebellare, da una scissura trasversa, detta fessura posteriore laterale.
La parte più rostrale del corpo, separata dal resto dalla fessura prima o fessura preclivale è detta lobo anteriore. Tra il lobo flocculo-nodulare e il lobo anteriore, si colloca il lobo posteriore. Il lobo posteriore ed il lobo anteriore contengono così una porzione vermiana sulla linea mediana ed una porzione emisferica, laterale; tra le due, è posta la regione intermedia o regione paravermiana, identificabile solo funzionalmente, in relazione alle specifiche connessioni. Usualmente, oltre alla terminologia anatomica macroscopica (Fig. 12.1) viene anche impiegata una terminologia su base filogenetica ed una sulla base delle connessioni afferenti (Fig. 12.2). Il lobo flocculo-nodulare, denominato anche archicerebello, parte integrante del sistema vestibolare, è detto quindi anche vestibolo-cerebello; il lobo anteriore o paleocerebello, in rapporto con il midollo spinale, è detto anche spinocerebello; il lobo posteriore o medio, o neocerebello, connesso con il ponte e gli emisferi, è detto anche pontocerebello.
Aspetti strutturali Il cervelletto è costituito dalla corteccia, dai nuclei centrali e dai sistemi di fibre afferenti ed efferenti. Corteccia cerebellare. – Si distinguono tre strati: lo strato molecolare, il più superficiale che contiene le cellule a canestro, lo strato intermedio delle cellule di Purkinje e lo strato dei granuli (il più profondo che contiene anche le cellule del Golgi) (Fig. 12.3). Nello strato molecolare e dei granuli arrivano le afferenze cerebellari, mentre le cellule del Purkinje danno origine ad assoni efferenti verso i nuclei centrali e i nuclei vestibolari. Le fibre afferenti che arrivano alla corteccia sono di due tipi: le fibre rampicanti, proFig. 12.1 - A) Faccia superiore e B) faccia inferiore del cervelletto con indicazione dei lobi, lobuli e scissure, secondo la terminologia anatomica macroscopica.
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Le grandi sindromi neurologiche nuclei cerebellari, per cui esiste un arrangiamento zonale delle proiezioni corticonucleari.
Connessioni cerebellari Le fibre afferenti superano di gran lunga quelle efferenti (40 a 1), dato indicativo della particolare attività integrativa svolta dal cervelletto. Le vie afferenti utilizzano prevalentemente il peduncolo cerebellare medio, le vie efferenti il peduncolo cerebellare superiore; in particolare, le principali connessioni efferenti proiettano alle stesse aree da cui partono le fibre afferenti. In altre parole, il vestibolo-cerebello invia fibre soprattutto ai nuclei vestibolari, lo spino-cerebello al midollo spinale, il cortico-cerebello alla corteccia cerebrale.
Fig. 12.2 - A) Rappresentazione schematica dei lobi cerebellari, secondo indicazioni filogenetiche, embriologiche e funzionali, con indicazione dell’area in cui terminano le connessioni afferenti. B) Rappresentazione schematica dei lobuli del verme.
venienti in gran parte dall’oliva inferiore, raggiungono le cellule di Purkinje (dando collaterali alle cellule a canestro e del Golgi); le fibre muschiose raggiungono lo strato dei granuli, formando le terminazioni a rosetta, a loro volta in rapporto con i dendriti delle cellule dei granuli (glomeruli cerebellari). La maggior parte delle afferenze cerebellari, salvo quelle dell’oliva inferiore, sono rappresentate dalle fibre muschiose (o muscoidi). I nuclei cerebellari sono: il nucleo del tetto o del fastigio (il più mediale), il nucleo globoso, il nucleo emboliforme e il nucleo dentato (Fig. 12.4). I nuclei ricevono le proiezioni dalle cellule di Purkinje e, in particolare, le rispettive aree cerebellari proiettano a determinati
Fig. 12.3 - Rappresentazione schematica della struttura della corteccia cerebellare.
Fig. 12.4 - Rappresentazione schematica dei nuclei cerebellari.
Sindrome cerebellare
Vie cerebellari afferenti (Fig. 12.5) AFFERENZE VESTIBOLARI. – Le vie vestibolo-cerebellari provengono dal ganglio vestibolare, in parte direttamente e in parte interrompendosi a livello dei nuclei vestibolari, passano attraverso il peduncolo cerebellare inferiore e raggiungono il lobo flocculo-nodulare e il n. del fastigio. L’apparato vestibolare provvede quindi ad informare il cervelletto sulla posizione del capo, degli occhi e del corpo.
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AFFERENZE SPINALI. – Due grossi contingenti di fibre corrono senz’interrompersi dal midollo spinale al cervelletto. Il primo è rappresentato dal fascio spino-cerebellare dorsale o diretto (di Flechsig), che nasce dalle cellule della colonna di Clarke posta alla base del corno posteriore, a livello di T1-L2; e dal fascio cuneo-cerebellare che origina dal n. cuneato accessorio, situato nel bulbo accanto al n. cuneato. Alla colonna di Clarke giungono fibre che portano la sensibilità propriocettiva incosciente (impulsi che provengono dai fusi neuromu-
Fig. 12.5 - Vie cerebellari afferenti. A. Via cerebello-vestibolare (1): via diretta dal ganglio vestibolare e via dai nuclei vestibolari. B. Via spino-cerebellare: fascio spino-cerebellare ventrale o crociato (2-2') e fascio spino-cerebellare dorsale o diretto (3). C. Via olivo-cerebellare (4). D. Via cortico-ponto-cerebellare (5), (a: oliva bulbare; b: nuclei vestibolari; c: nuclei pontini; d: nucleo rosso).
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Le grandi sindromi neurologiche
scolari, dagli organi tendinei e dai meccanocettori cutanei a bassa soglia) della metà inferiore del corpo, al cuneato accessorio arrivano fibre provenienti dalla metà superiore del corpo (vie radicolari posteriori che raggiungono i segmenti C1-T4-T5), sempre per lo stesso tipo di sensibilità. Lo spino-cerebellare dorsale sale nel cordone laterale del midollo e attraversa, col cuneocerebellare, il corpo restiforme, terminando nella corteccia paravermiana del lobo anteriore omolaterale, secondo una disposizione somatotopica che vede rappresentata anteriormente la metà inferiore del corpo, e posteriormente quella superiore. Il secondo contingente di fibre afferenti è costituito dal fascio spino-cerebellare ventrale o crociato (di Gowers) che origina dalle cellule delle corna posteriori omolaterali e del lato opposto, sale nei cordoni laterali e raggiunge il verme del lobo anteriore attraverso i peduncoli cerebellari superiori, portando afferenze propriocettive dalla metà inferiore del corpo. Le afferenze controlaterali subiscono un ulteriore incrociamento, per cui, in effetti, la proiezione è omolaterale. Le afferenze controlaterali della metà superiore del corpo sarebbero mediate dal fascio spino-cerebellare rostrale, della cui esistenza c’è per ora la sola dimostrazione neurofisiologica. Altri contingenti di fibre (dette vie spino-cerebellari indirette) provenienti dal midollo s’interrompono nel tronco cerebrale e precisamente nell’oliva bulbare e nel n. reticolare laterale. La proiezione del f. olivo-cerebellare, relativa alle afferenze spinali, è prevalentemente controlaterale; la proiezione del f. reticolo-cerebellare, omolaterale e controlaterale, raggiunge il verme e, in parte, il lobo anteriore. Sul piano funzionale, le vie spino-cerebellari dirette trasportano due diversi tipi di informazione. Dagli organi muscolo-tendinei, dai fusi neuro-muscolari e dai meccanocettori giungono al cervelletto informazioni precise durante l’esecuzione del movimento. Dagli interneuroni
spinali, intercalati negli archi riflessi spinali o tra la via cortico-spinale ed i motoneuroni spinali, giungono al cervelletto informazioni rilevanti per l’attività di coordinazione motoria. Il cervelletto, quindi, potrà confrontare i due tipi di informazione, valutando, attimo per attimo, quanto il programma motorio sia adeguato al realizzarsi del movimento; nel caso, ad esempio, che aumenti la resistenza esterna ad un movimento, che risulterà rallentato rispetto alla velocità prevista, il cervelletto, immediatamente informato, potrà intervenire per ristabilire la velocità adeguata (Brodal, 1992). AFFERENZE OLIVARI. – Le olive inferiori con i nuclei olivari accessori dorsali e mediali, situate nel bulbo, attraverso le fibre rampicanti, in parte incrociandosi ed in parte direttamente, proiettano alla regione vermiana del lobo anteriore e del lobo posteriore, ma anche agli emisferi cerebellari (neocerebello). Le olive bulbari ricevono vie spino-olivari le quali, probabilmente, trasportano afferenze cutanee e afferenze provenienti dagli organi tendinei. Alle olive bulbari giungono fibre da vari nuclei mesencefalici (collicolo superiore, nuclei pretettali, nucleo rosso) e dalla corteccia motoria. La via che unisce i nuclei pretettali (che ricevono segnali dalla retina) all’oliva inferiore e, poi, al lobo flocculo-nodulare ha un ruolo importante nei processi di correzione fisiologica e di adattamento del riflesso oculo-vestibolare. AFFERENZE CEREBRALI. – Il contingente più importante è rappresentato dalla via cortico-pontocerebellare, che ha origine nella corteccia frontale, e, dopo essersi interrotta nei nuclei del piede del ponte, passa per il peduncolo cerebellare medio e si distribuisce bilateralmente al verme e controlateralmente ai lobi anteriore e posteriore. Altre afferenze cerebrali sono rappresentate dai sistemi cortico-reticolo-cerebellari e cortico-olivo-cerebellari. La via cortico-ponto-cerebellare origina soprattutto dalla corteccia motoria e sensitiva pri-
Sindrome cerebellare
marie, ma importanti contingenti derivano tuttavia anche dall’area supplementare motoria, dall’area supplementare sensitiva e dalla corteccia parietale posteriore (aree 5, 7, 8). Nel suo decorso e nelle aree degli emisferi cerebellari questa via conserva un’organizzazione topografica precisa. Dalla corteccia cerebellare si origina una via efferente, che, attraverso il talamo, ritorna alla corteccia cerebellare d’origine. Il cervelletto riceve così informazioni sui movimenti che sono stati programmati e sui
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comandi originati dalla corteccia; in risposta, può modulare l’attività della corteccia motoria, per affinare l’esecuzione dei movimenti. Vie cerebellari efferenti (Fig. 12.6) Come abbiamo detto la maggior parte degli assoni delle cellule del Purkinje terminano nei nuclei centrali con modalità tali per cui a ogni nucleo giungono assoni di determinate parti del cervelletto. In particolare: il nucleo del tetto o
Fig. 12.6 - Vie cerebellari efferenti. A. Via cerebello-vestibolare (1) (diretta e fastigio-vestibolare, attraverso il peduncolo cerebellare superiore, qui non indicato) e via vestibolo-spinale (1'). B. Via cerebello-reticolare (2) e via reticolo-spinale (2'). C. Via cerebello-rubrotalamica (3), cerebello-talamica (4) e via rubro-spinale (3'). (a: corna anteriori del midollo; b: nuclei vestibolari; c: formazioni nucleari reticolari; d: nucleo rosso; e: corpo striato; f: talamo).
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fastigiale riceve afferenze dal verme; i nuclei globoso ed emboliforme afferenze dalla regione paravermiana; il nucleo dentato afferenze dagli emisferi. EFFERENZE VESTIBOLARI E RETICOLARI. – Esiste un contingente di fibre che dalla corteccia del lobo flocculo-nodulare e dalla parte posteriore dell’uvula raggiunge direttamente (senza passare attraverso i nuclei centrali – unica eccezione – ) i nuclei vestibolari e in particolare il n. di Deiters, costituendo la via di ritorno della connessione afferente vestibolo-flocculo-nodulare. Le connessioni vestibolari sono mantenute anche dal tratto fastigio-bulbare, costituito da vie che dal nucleo del fastigio raggiungono, in parte direttamente attraverso il peduncolo cerebellare inferiore, in parte incrociandosi attraverso il peduncolo cerebellare superiore (fascio uncinato di Russell), i nuclei vestibolari omo e controlaterali e i nuclei reticolari ponto-bulbari. Il verme cerebellare può quindi agire sul midollo spinale attraverso la via fastigio-reticolospinale e fastigio-vestibolo-spinale. EFFERENZE RUBRO-TALAMICHE. – Tutte le fibre efferenti che originano dalla corteccia cerebellare, ad eccezione di quelle provenienti dal vestibolo-cerebello, si arrestano nei nuclei cerebellari. Le fibre cortico-nucleari sono organizzate con una rigida distribuzione topografica: il verme invia fibre al nucleo fastigiale; la zona intermedia ai nuclei globoso ed emboliforme, gli emisferi al nucleo dentato. I nuclei dentato, globoso ed emboliforme proiettano, attraverso il peduncolo cerebellare superiore, al n. rosso controlaterale e al n. ventrale-laterale del talamo. Così come il verme, anche l’area paravermiana è in grado di agire sul midollo spinale attraverso le vie rubro-spinali. Il nucleo dentato proietta al nucleo ventrale laterale talamico controlaterale, attraverso il peduncolo cerebellare superiore; ma il nucleo ventrale laterale talamico riceve a sua volta con-
nessioni dal globo pallido, e proietta alle aree corticali motorie, rappresentando quindi un importante crocevia del sistema motorio. Concludendo: oltre alle reciproche connessioni vestibolo-flocculo-nodulari si possono sintetizzare le connessioni cerebellari come segue: il verme cerebellare, attraverso il nucleo fastigiale è in grado di influenzare con le vie cerebello-reticolari, cerebello-vestibolari e quindi le vie vestibolo-spinali e reticolo-spinali le cellule delle corna anteriori del midollo; la regione paravermiana attraverso i nuclei globoso ed emboliforme e la via cerebello-rubrica e quindi la via rubro-spinale raggiunge ancora il midollo spinale. Le vie cerebellari che, attraverso le stazioni del tronco, raggiungono il midollo, hanno origine quindi da quella porzione di corteccia cerebellare che riceve le afferenze spinali. D’altra parte la corteccia cerebellare che riceve le afferenze corticali (via cortico-pontocerebellare) attraverso il n. dentato e la via dentato-talamica, raggiunge ancora la corteccia, per cui si stabilisce un doppio circuito (corticoponto-cerebellare e cerebello-talamico-corticale) tra corteccia cerebrale e corteccia cerebellare. Poichè le connessioni ascendenti dal cervelletto alla corteccia cerebrale e quelle discendenti dalla corteccia al midollo sono entrambe crociate, nella patologia cerebellare emisferica i sintomi sono omolaterali alla lesione. L’organizzazione della corteccia cerebellare è tale che gli impulsi afferenti al cervelletto convergono su un gran numero di cellule di Purkinje. Infatti, a livello dei granuli, ogni cellula riceve da 3 a 6 afferenze, mentre le fibre che ne partono e che ascendono allo strato molecolare si dividono a T e procedono nell’asse longitudinale della lamella (fibre parallele) prendendo contatto con almeno 460 cellule di Purkinje, oltre un gran numero di cellule a canestro e di Golgi. A sua volta, ciascuna cellula di Purkinje contrae circa 60.000 sinapsi con altrettante fibre parallele, mentre ogni cellula a canestro si mette in rapporto con 240 cellule di Purkinje e ciascuna di queste con un numero indeterminato di cellule a canestro. Le modalità operative della corteccia cerebellare sono particolari e schematicamente indicate nella Fig. 12.7 (le cellule stellate non sono indicate).
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Fig. 12.7 - Schema dell’organizzazione funzionale del cervelletto, secondo Eccles. A) Le fibre rampicanti provenienti dall’oliva inferiore, eccitano i dendriti delle cellule di Purkinje. Le fibre muschiose (che rappresentano tutte le altre afferenze) eccitano i granuli, i quali, attraverso le fibre parallele, attivano le cellule di Purkinje. Le cellule di Purkinje inibiscono i nuclei centrali cerebellari, i quali, a loro volta, possiedono un’azione di attivazione sui neuroni del tronco encefalico a funzione motoria. Il risultato è quello di una riduzione dell’effetto facilitante esercitato dai nuclei centrali cerebellari sui neuroni del tronco encefalico a funzione motoria. B) I granuli esercitano un’azione di eccitamento anche sulle cellule del Golgi e sulle cellule a canestro, con effetto inibitorio sulle cellule di Purkinje, provocando quindi una riduzione dell’effetto inibitorio sui nuclei centrali cerebellari. Il risultato è quello di un aumento dell’effetto facilitante dei nuclei centrali sui neuroni del tronco encefalico a funzione motoria.
Riassumendo, la corteccia cerebellare contiene cinque tipi di cellule: le cellule a canestro e le cellule stellate nello strato molecolare, le cellule del Purkinje nello strato intermedio e le cellule del Golgi e i granuli, nello strato dei granuli. I dati sperimentali più recenti consentono di effettuare alcune considerazioni sul piano neurochimico; il trasferimento di tali dati nell’uomo deve essere ovviamente assai cauto e va considerato, per il momento, ipotetico. Gli assoni delle cellule del Purkinje terminano nei nuclei cerebellari, svolgendo un’azione tonica inibitoria a mediazione gabaergica. Le cellule stellate, stimolate dalle fibre parallele, inibiscono le cellule di Purkinje; le cellule a canestro forniscono un controllo inibitorio sulle cellule del Purkinje; le cellule del Golgi hanno azione inibitoria sui granuli.
I granuli, infine, utilizzano il glutammato e sono le uniche cellule che esplicano azione eccitatoria sulle cellule del Purkinje. Cellule stellate, cellule a canestro e cellule del Golgi funzionano utilizzando il Gaba o la glicina. Dati recenti conferirebbero alle fibre muschiose, di origine spino-cerebellare (che utilizzano aspartato e hanno azione eccitatoria), la funzione di convogliare informazioni assai precise e graduate sul movimento degli arti. Le fibre rampicanti, ad azione eccitatoria (neurotrasmettitore ignoto), sarebbero coinvolte soprattutto nella segnalazione di errori compiuti nell’eseguire un movimento, e avrebbero quindi un ruolo importante nell’apprendimento di sequenze motorie programmate. Sono infine descritte fibre aminergiche che proiettano alla corteccia cerebellare dal nucleo
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tegmentale ventrale mesencefalico, dai nuclei del rafe, dal locus coeruleus, complessivamente a funzione inibitoria. La modalità di neurotrasmissione a livello dei nuclei cerebellari resta ancora in parte da chiarire, ma sembra che la mediazione gabaergica sia prevalente.
Organizzazione funzionale Il cervelletto rappresenta il punto d’incontro e d’arrivo d’una fitta trama d’afferenze provenienti dalla periferia e dalla corteccia, e il punto di partenza d’informazioni destinate alla corteccia cerebrale e ai motoneuroni spinali. Il cervelletto, in rapporto con le sue connessioni è in grado di influenzare quasi ogni area del sistema nervoso centrale e periferico. Si potrebbe pertanto affermare che il cervelletto è essenziale per rendere adeguate e corrette un gran numero di funzioni, anche se non è essenziale per la vita dell’individuo. Lo studio delle funzioni cerebellari, desunte dai dati sperimentali e clinici, permette la seguente schematizzazione: – la funzione dell’equilibrio è controllata prevalentemente dal lobo flocculo-nodulare, attraverso i reciproci rapporti con i nuclei vestibolari; – la regolazione dei riflessi posturali (reazioni statiche locali, segmentali e generali), elementi essenziali per una corretta prestazione motoria, sono sotto il controllo della porzione vermiana e paravermiana del lobo anteriore, che riceve le afferenze propriocettive (vie spino-cerebellari) e informa i motoneuroni attraverso efferenze vestibolari, reticolari e rubriche. In particolare la cosiddetta reazione di sostegno (risposta estensoria degli arti inferiori per lieve stimolazione della pianta del piede) sarebbe sotto l’influenza del lobo anteriore. Infatti la lesione del lobo anteriore provoca esagerazione dei riflessi posturali; – la regolazione dell’attività dei muscoli agonisti e antagonisti (sinergia) è demandata alle connessioni a doppio senso tra emisferi cerebel-
lari ed emisferi cerebrali e alle reciproche connessioni cerebello-spinali. Tale controllo consiste nell’integrazione delle afferenze propriocettive, esterocettive e corticali nel cervelletto, e nell’informazione contemporanea ai motoneuroni e alla corteccia motoria, cosicché l’impulso cortico-spinale possa essere adeguato allo stato in cui si trova al momento l’effettore muscolare. La via cerebello-corticale avrebbe inoltre un’attività facilitante la corteccia motoria, espressiva di un’azione stenica o di rafforzamento sul movimento volontario. Ricerche sperimentali hanno dimostrato l’esistenza nei primati di una rappresentazione somatotopica a livello cerebellare (Fig. 12.8).
Fig. 12.8 - Rappresentazione somatotopica motoria del cervelletto di scimmia.
La funzione cerebellare è generalmente indicata come «regolazione» o «coordinazione» del movimento. Anche se gli effetti dell’ablazione sperimentale o di una lesione clinica corrispondono a questa definizione generale, l’essenza della funzione cerebellare non è in tal modo ancora chiarita. Gli effetti semeiotico-clinici dovuti ad una lesione cerebellare sono stati riferiti, a livello elementare, all’alterazione di quello che Sherrington ha denominato «principio della innervazione reciproca»: la realizzazione di un movimento comporta l’attivazione di un determinato muscolo (agonista) e simultaneamente l’inibizione del suo antagonista. Si obbietta oggi, non
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solo che in alcuni casi, ad es. nella contrazione statica, non esista opposizione funzionale tra agonista e antagonista bensì contrazione e attività sinergica, ma si dà per dimostrato che il principio dell’innervazione reciproca non si manifesti per tutto il tempo della contrazione che dà luogo a un movimento. Il principio dell’innervazione reciproca è presente come elemento fondamentale della formula del movimento attivo o volontario ma può essere, se del caso, contrastato. Il disturbo fondamentale, invece, sembra rappresentato da una alterazione dei rapporti funzionali tra motoneuroni alfa e gamma, in particolare una depressione dell’attività gamma fusimotoria e una riduzione dell’attività facilitante del motoneurone alfa (Asbury, 1992). Il cervelletto infatti esercita un’azione facilitante sui motoneuroni gamma attraverso la via fastigio-bulbare (la quale dai nuclei fastigiali o del tetto raggiunge i nuclei reticolari bulbari e pontini e i nuclei vestibolari e di qui discende al midollo attraverso la via reticolo-spinale e vestibolo-spinale, le quali agiscono sui motoneuroni alfa e gamma) 1. Si potrebbe aggiungere che l’attività fastigiale non sembrerebbe esser semplicemente facilitante, ma piuttosto di aggiustamento o di bilanciamento delle influenze inibitorie propriocettive tra gli arti delle due parti corporee. La facilitazione cerebellare si manifesta anche attraverso la via dentato-rubro-talamo-corticale e apparentemente, seppure ipoteticamente, la via discendente utilizzata per mediare questa attività cerebellare sarebbe individuata nella via cortico-spinale (le fibre rubro-talamiche giungono infatti al n. ventrale-laterale che proietta all’area 4, da cui partono molte fibre piramidali).
L’alterazione dei rapporti funzionali dell’attività degli alfa e gamma motoneuroni è responsabile dei seguenti segni: 1
La via vestibolo-spinale, a sua volta, agisce sui motoneuroni estensori in senso facilitante e la via reticolo-spinale sugli stessi motoneuroni in senso inibitorio. Attraverso i nuclei globoso ed emboliforme il cervelletto è in connessione col n. rosso, e di qui, attraverso la via rubro-spinale, col midollo spinale. Nell’uomo l’individuazione della via rubro-spinale, almeno fino al tratto toracico è accettata, ma la funzione ancora poco nota. Nell’animale il tratto rubro-spinale agisce a livello degli alfa e gamma motoneuroni nel senso di facilitare l’attività dei motoneuroni flessori.
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– alterazioni del tono muscolare: alterazione del tono posturale, che si manifesta con ipotonia e passività, e del tono attitudinale, che si manifesta con alterazione degli atteggiamenti; – alterazione della regolazione del movimento volontario che si estrinseca con dismetria, asinergia, adiadococinesia. Il disturbo può interessare la stazione eretta e la marcia, e si identifica con atassia e asinergia della marcia; o i movimenti segmentali, e si identifica con dismetria, adiadococinesia, discontinuità del movimento, ritardo nell’inizio e nell’arresto del movimento, ipostenia o astenia, tremore attitudinale e dinamico, disturbi della scrittura e della parola. L’attività eumetrica e sinergica, dalla cui alterazione derivano i segni sopra indicati, è espressa e controllata dalle connessioni a doppio senso tra cervelletto (neocerebellum) e corteccia cerebrale. Abbiamo indicato nei diversi sintomi anche l’ipostenia o astenia; non esiste una sicura dimostrazione dell’origine della funzione stenica, cioè di rafforzamento del movimento, ma si ammette che l’astenia sia dovuta alla riduzione dell’azione tonica facilitatoria esercitata dal cervelletto a livello della corteccia motoria. Un breve cenno a parte merita il problema dell’interpretazione del tremore. Il tremore cerebellare, come abbiamo visto, si distingue in tremore cinetico e tremore attitudinale (v. pag. 506). L’ipotesi emessa da Holmes (1922), che il tremore cerebellare di attitudine (da lui definito «statico») dipenda dall’ipotonia non può essere sostenuta, ma è in genere ammesso che il disturbo dell’attività fusimotoria contribuisca all’estrinsecazione del tremore sia cinetico che attitudinale. Il tremore cinetico dovrebbe invece la sua comparsa alla perdita dell’influenza cerebellare sull’attività motoria corticale (area 4 e 6) (Gilman, 1980). Nelle scimmie la lesione del n. dentato produce un tremore; nell’uomo la lesione chirurgica del n. ventrale-laterale talamico è espressione di una alterazione di un sistema complesso che include circuiti cerebellari, striati, corticali e quindi i rapporti del cervelletto con tutte le strutture che intervengono nell’attività motoria. Il fenomeno tremore può anche essere interpretato alla luce di teorie più generali che abbracciano l’insieme del funzionamento del sistema nervoso. Alcuni aspetti della teoria dell’informazione, che ha aperto la via alla costruzione dei calcolatori, sono stati infatti utilizzati per tentare di comprendere meglio le modalità di funzionamento del sistema nervoso. Ne accenniamo in questa sede perchè il tremore offre la possibilità di illustrare alcuni concetti elementari utilizzati dalla teoria dell’informazio-
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ne quali il «feed-back» e il servo-meccanismo (o meccanismo asservito). Feed-back o «circuito a retroazione» è il termine ormai universalmente adottato per definire un sistema o un circuito in cui l’energia o l’attività uscente regola e controlla l’energia o l’attività che entra nel sistema stesso, cosicchè si stabilisce un anello o un circuito chiuso. Il processo di feed-back (retroazione) significa che il comportamento di un sistema viene periodicamente e continuamente confrontato con i risultati da conseguire, e che il successo o il fallimento del risultato modifica il comportamento futuro. Il circuito a feed-back può essere negativo o positivo, a seconda che il controllo esercitato tenda a ridurre oppure ad aumentare l’attività della struttura in esame. Con questo sistema di retroazione sono stati costruiti diversi apparati con la peculiare proprietà di raggiungere un risultato, apparati quindi muniti di un servo-meccanismo (pilota automatico, ricerca automatica di un bersaglio o di una meta, ecc.) (Fig. 12.9).
Fig. 12.9 - Un sistema tale che A controlla B, B controlla C, C controlla D, D controlla A possiede attività di retroazione («feed back») (schema in alto). Come indicato nello schema in basso, un sistema di retroazione si esprime con un controllo di una parte sull’altra, attraverso un circuito di retroazione (da C. Loeb, Sistema Nervoso, 1953).
In un sistema con feed-back la stabilità è fondamentale. Al limite tra stabilità e instabilità molti sistemi tendono ad entrare in oscillazione; un calcolo matematico può anche precisare e prevedere la frequenza delle oscillazioni. L’esistenza istologica di circuiti tipo feed-back è ampiamente dimostrata nel sistema nervoso ed è ammessa la teoria della «legge della reciprocità delle connessioni». Se «una cellula A manda fibre alla cellula B, allora anche B manda fibre ad A, direttamente o attraverso un neurone internuciale» (circuito riverberante) (Fig. 12.10).
Fig. 12.10 - Rappresentazione grafica della legge della pluralità delle connessioni (I), e della reciprocità delle connessioni (II-III) di Lorente de Nò per le cellule del sistema nervoso (da C. Loeb, Sistema Nervoso, 1953).
Il tremore cinetico può essere interpretato quindi come un’espressione dell’instabilità di un sistema contenente feed-back, che sfocia nella «oscillazione», come disordine del servo-meccanismo della fissazione posturale. Quando l’arto è libero nello spazio il servo-meccanismo entra in oscillazione per mancanza di stabilità, mentre se l’arto è sostenuto o è a riposo, le necessità per la fissazione posturale diminuiscono e il tremore non si verifica. Poichè il tremore fisiologico è stato messo in relazione con una caratteristica propria del sistema nervoso centrale rappresentata dalla ritmicità dell’attività neurale, il tremore patologico rispechierebbe la distorsione e amplificazione di queste oscillazioni centrali (McAuley e Mardsen, 2000). Recenti ricerche cliniche e dati derivati dall’osservazione con studi PET, portano a individuare nell’instabilità del circuito olivo-cerebellare l’origine più probabile del tremore essenziale (Deuschl e Elble, 2000), il quale viene ritenuto un aspetto clinico connesso con il tremore intenzionale (Deuschl et al, 2000). Le osservazioni sviluppate circa il tremore possono essere estese al complesso delle funzioni motorie del cervelletto. L’ipotesi generale più semplice è che il cervelletto funzioni da «comparatore», tra il programma del movimento da effettuare e la sua reale esecuzione. A tal fine il cervelletto (Kandel, 1994): a) riceve informazioni dalle strutture cerebrali che programmano il movimento (via cortico-ponto-cerebellare) e dagli interneuroni spinali che integrano le informazioni periferiche (feed-back interno); b) riceve informazioni propriocettive dalla periferia durante lo svolgimento dei movimenti (feed-back esterno); c) proietta ai sistemi motori. La funzione comparatrice realizza così la possibilità di correggere il movimento rispetto al programma motorio e di riadattarlo alle finalità prefissate.
Sindrome cerebellare Si può ritenere in sintesi che il cervelletto utilizzi un’attività eccitatoria, espressa soprattutto attraverso i nuclei cerebellari ed i nuclei vestibolari, ed una attività inibitoria, espressa delle cellule del Purkinje a livello della corteccia cerebellare. Le cellule del Purkinje inibiscono i nuclei cerebellari, ma sono a loro volta controllate dalle cellule stellate, dalle cellule a canestro, dai granuli e dalle fibre rampicanti (Fig. 12.7). Si ritiene che siano soprattutto queste ultime, attraverso la modulazione della loro attività sinaptica, a conservare nel tempo l’informazione relativa ad una variazione del programma motorio. Studi sperimentali permettono di ritenere che il cervelletto abbia anche influenza su alcune funzioni autonome, quali la regolazione cardiovascolare, la respirazione, il diametro pupillare e la funzione vescicale. Anche la motilità oculare sarebbe in rapporto con il cervelletto, poichè la stimolazione di alcune aree del cervelletto provoca movimenti dei globi oculari e l’integrità del cervelletto è indispensabile per la comparsa dei riflessi vestibolo-oculari. Ricerche relativamente recenti coinvolgono il cervelletto nell’apprendimento ed in alcune modalità dei processi mnesici. La stretta connessione tra strutture corticali cerebrali e cervelletto è stata confermata mediante studi PET, che hanno sottolineato il significato prognostico dell’ipometabolismo cerebellare controlaterale all’emisfero colpito da ictus ischemico (Serrati et al., 1994). Ulteriori recenti ricerche dimostrano che il cervelletto è coinvolto in diverse funzioni mentali, quali l’apprendimento e i processi mnesici, specie la memoria di lavoro e la memoria procedurale (Cabeza e Nyberg, 2000), ma anche nell’espletamento di funzioni esecutive (progettazione, ragionamento astratto, fluenza verbale, memoria di lavoro), nella cognizione spaziale, nel comportamento che può diventare disinibito e inappropriato e nelle funzioni affettive ( Schmahmann e Sherman, 1998). Si va, quindi, modificando la classica concenzione che il cervelletto sia esclusivamente coinvolto nel controllo dell’attività motoria. Le connessioni tra cervelletto e corteccia sarebbero organizzate in circuiti selettivi, coinvolti in differenti funzioni ,in particolare, le connessioni con le aree motorie si riferirebbero al movimento, quelle con le aree prefrontali alle funzioni cognitive (Middleton, 2000). VASCOLARIZZAZIONE - La distribuzione arteriosa del cervelletto varia anche notevolmente da soggetto a soggetto. Le arterie che provvedono alla irrorazione del cervelletto sono: – l’arteria cerebellare postero inferiore, ramo dell’art. vertebrale – l’arteria cerebellare antero inferiore, ramo dell’art. basilare – l’arteria cerebellare superiore, ramo della basilare.
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L’art. cerebellare postero-inferiore si distribuisce, seppure con sensibile variabilità, alla metà inferiore del verme, alla superficie inferiore del cervelletto e ai nuclei globoso e emboliforme. Talora, quando il calibro dell’arteria omologa controlaterale è notevolmente ridotto, irrora anche l’area cerebellare controlaterale. L’art. cerebellare antero-inferiore irrora il flocculo oppure il flocculo, il lobo anteriore e l’area del lobulo ansiforme del lobo posteriore. L’art. cerebellare superiore irrora la superficie superiore del cervelletto attraverso tre gruppi arteriosi: i rami mediani provvedono al verme,i rami mediali al lobulo semilunare posteriore, i rami laterali all’area che si trova tra la superficie superiore e la superficie inferiore.
Sindromi cliniche Il cervelletto come è già stato detto, può essere distinto sul piano filogenetico o anatomofunzionale in tre lobi, dotati di connessioni e attività differenti e complementari, e precisamente: 1) lobo flocculo-nodulare o archicerebello, definito, per quanto riguarda le connessioni come vestibolocerebello; 2) lobo anteriore o paleocerebello, definito, per quanto riguarda le connessioni, come spinocerebello; 3) lobo posteriore o neocerebello, definito, per quanto riguarda le connessioni, come cortico-ponto-cerebello. Questa suddivisione, che non deve essere considerata assoluta ma anzi prevede interazioni anche importanti, permette di individuare sul piano clinico tre diverse sindromi, espressione del prevalente interessamento di uno dei tre lobi e precisamente: sindrome flocculo-nodulare, sindrome del lobo anteriore, sindrome del lobo posteriore. 1. SINDROME
FLOCCULO-NODULARE (O SINDROME
ARCHICEREBELLARE O SINDROME VESTIBOLO-CEREBELLARE)
La lesione del lobo flocculo-nodulare si manifesta con i seguenti segni: atassia statica e dinamica, in assenza di turbe dismetriche agli arti, rotazione del capo (occipite rivolto verso il lato
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Le grandi sindromi neurologiche
opposto alla sede della lesione), con un atteggiamento caratteristico definito «in viatico» (per la somiglianza dell’atteggiamento assunto dal prete che porta il viatico), per lesione flocculonodulare asimmetrica o del peduncolo cerebellare inferiore; nistagmo, che si dimostra lento, irregolare, orizzontale (raramente verticale), diretto verso il lato della lesione e soppresso dalla fissazione. Non solo il compenso per questo nistagmo è abbastanza precoce ma, per lesioni ristrette, il nistagmo è appena accennato. Il disturbo principale è comunque il disturbo dell’equilibrio cioè l’instabilità sia nella marcia che nella postura eretta. La causa più frequente di una sindrome vestibolo-cerebellare è rappresentata dai tumori della linea mediana e in particolare dal medulloblastoma, tipico tumore dell’età infantile. 2. SINDROME
DEL LOBO ANTERIORE
(SINDROME
PALEOCEREBELLARE O SPINOCEREBELLARE)
Le manifestazioni cliniche da lesione del lobo anteriore sono piuttosto scarsamente conosciute. Il disturbo fondamentale consiste nel disturbo della marcia che si effettua con barcollamenti, a base allargata, e con arti lievemente rigidi. I disturbi agli arti superiori sono molto modesti; manca l’ipotonia (e quindi anche i riflessi non sono pendolari). Il disturbo è dovuto ad un’alterazione dei riflessi posturali (riflessi statici locali, segmentali e generali, cioè reazioni riflesse (v. pag. 56) che preservano la normale postura del corpo e che sono essenziali per una normale attività motoria segmentale e generale) e ad alterazione della sinergia della marcia. Abbiamo sopra menzionato l’esistenza di un certo grado di rigidità degli arti durante la marcia. Si tratta di un’esagerazione del riflesso di sostegno «positivo» cioè di un riflesso posturale che si manifesta con estensione degli arti inferiori in risposta ad una leggera pressione sulla pianta del piede (cosiddetta «reazione di appoggio»).
La sindrome del lobo anteriore si ritrova classicamente nell’atrofia cerebellare tardiva a predominanza corticale (Marie, Foix, Alajouanine) in cui l’alterazione è nella parte rostrale del lobo anteriore, ove esisterebbe la localizzazione somatotopica per gli arti inferiori. 3. SINDROME DEL LOBO POSTERIORE (O SINDROME NEOCEREBELLARE O CORTICO-PONTO-CEREBELLARE) Comporta i seguenti segni: – Ipotonia. – Interessa la muscolatura degli arti e, talora, anche del tronco e se unilaterale è omolaterale alla sede della lesione cerebellare. Si apprezza con la palpazione, con la manovra del ballottamento (l’arto superiore sostenuto a livello dell’avambraccio viene ritmicamente scosso e la mano dimostra una grande estensione di movimento rispetto al normale), con la prova di mantenere gli avambracci verticali (in caso positivo la mano omolaterale alla lesione si flette). L’ipotonia comporta anche la pendolarità dei riflessi e, in parte, la comparsa di un tremore attitudinale. L’alterazione del tono attitudinale realizza le asimmetrie di posizione spontanee (in posizione eretta l’arto omolaterale alla lesione è lievemente flesso) e provocate (gli arti superiori protesi ad occhi chiusi deviano e le dita della mano non sono allineate). – Dismetria. – Caratterizzata dagli errori nella esecuzione delle diverse prove semeiotiche (indice-naso, indice-fronte-naso-mento; calcagno-ginocchio e calcagno-tibia strisciata, pag. 81) che mettono in evidenza la discontinuità del movimento (un determinato atto si effettua come la successione di singoli isolati movimenti), il ritardo nell’inizio e nell’arresto di un atto volontario, gli errori nell’ampiezza e nella misura del movimento. In effetti queste alterazioni, che sono indicate come dismetriche, possono anche essere definite come disturbi sinergici a livello segmentale.
Sindrome cerebellare
La prova di Stewart Holmes è spesso descritta sotto il paragrafo ipotonia e passività, ma esprime in sostanza un disturbo della sinergia muscolare. Infatti in questa prova l’esaminatore cerca di estendere l’avambraccio, mantenuto flesso con forza dal paziente, e, improvvisamente, desiste dallo sforzo: in caso positivo l’avambraccio del malato, col cessare della resistenza, si flette fino a toccare con la mano il braccio, mentre nel normale si osserva, dopo una limitata flessione, una estensione dell’avambraccio sul braccio. Anche la prova della deviazione degli indici (past-pointing degli AA. anglosassoni) non è completamente chiarita nella sua genesi, ma sicuramente hanno valore nella sua estrinsecazione l’ipotonia e la dismetria. Per questa prova l’esaminatore è di fronte al soggetto (ambedue in piedi o seduti) con l’arto superiore in posizione orizzontale e gli indici che si toccano: il soggetto viene invitato a sollevare l’arto in posizione verticale e quindi, ad occhi aperti e poi ad occhi chiusi, raggiungere col suo indice l’indice dell’esaminatore. La prova può essere eseguita anche sul piano orizzontale (a destra e a sinistra) o sul piano frontale (il soggetto avanza e ritira il proprio indice). Nel cerebellare o nel soggetto affetto da malattia labirintica si osserva una deviazione verso il lato leso e/o un arresto oltre la meta, più evidente ad occhi chiusi. La positività nel cerebellare è molto precoce e la prova assume quindi particolare valore in clinica. – Adiadococinesia. – Caratterizza l’impossibilità di eseguire movimenti alternativi rapidi (v. pag. 82). Si manifesta anche nell’aritmocinesi, cioè nell’impossibilità di ripetere con l’arto affetto un determinato ritmo, eseguito precedentemente dall’esaminatore, battendo ad es. la mano sul tavolo. Anche queste prove non esprimono un disturbo fondamentale, ma rientrano nel disturbo sinergico. – Atassia statica. – Caratterizzata dalla tendenza alla caduta quando il soggetto mantiene la stazione eretta a piedi uniti. Il segno di Rom-
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berg (stessa posizione ad occhi chiusi) è negativo poichè la chiusura degli occhi non modifica l’esito della prova, che evidenzia il disturbo dell’attività posturale riflessa. Il disturbo della marcia, che consiste nella deviazione laterale (omolaterale alla sede della lesione), è secondario al disturbo segmentale dell’arto o degli arti inferiori. – Astenia o ipostenia. – Nel cerebellare la forza muscolare è ridotta, i movimenti sono eseguiti con scarsa energia anche se sono tutti possibili e completi. La discussa emiparesi cerebellare di Mann esprime una emisindrome cerebellare, ed è quindi rappresentata da astenia e atassia e non deve essere confusa con turbe piramidali. – Tremore cinetico. – Compare durante l’esecuzione di un movimento attivo (v. pag. 66). – Disartria. – Turbe dell’articolazione della parola di tipo scandito o esplosivo, espressione, a livello dell’apparato periferico della parola, dell’alterazione dell’innervazione fusimotoria. – Turbe della scrittura. – Nella prova grafica (scrittura; prova delle linee orizzontali: il soggetto è invitato a tracciare 4-5 linee orizzontali in uno spazio determinato dall’esaminatore con due linee verticali) si traducono le turbe asinergiche e dismetriche e quindi anche la discontinuità, il ritardo nell’inizio e nell’arresto del movimento. La sindrome del lobo posteriore, anche se può comparire nell’atrofia olivo-ponto-cerebellare di Dejerine-Thomas, è piuttosto frequente nelle lesioni tumorali, vascolari ed anche infiammatorie; si manifesta, almeno inizialmente, da un solo lato, omolateralmente alla sede di lesione, ma presto o tardi la lesione interessa diversi lobi e la sintomatologia diventa più complessa e raggruppa elementi di più sindromi. Le possibilità di compenso al deficit cerebellare per le lesioni che si sviluppano lentamen-
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Le grandi sindromi neurologiche
te, sono nell’uomo molto elevate e nel bambino ele-vatissime, per cui, in questi casi, la sintomatologia può essere appena accennata. Per riassumere, una atassia cerebellare può essere riferita a: a) forme ad esordio acuto e transitorie: intossicazione da alcool, o da farmaci (benzodiazepine, e farmaci antiepilettici); episodi di sclerosi multipla; b) forme ad esordio acuto e permanenti: intossicazioni da mercurio, da toluene, malattie infiammatorie nell’infanzia; c) forme subacute (settimane): processi espansivi, sindromi paraneoplastiche, disturbi nutrizionali da alcool, deficit vitaminici (vitamina E); d) forme croniche (mesi o anni): atassie ereditarie, patologie dismetaboliche ereditarie e non (distiroidismi). Riferimenti bibliografici ADAMS R., VICTOR M.: Principles of neurology. 5th ed. Mc Graw-Hill, New York, 1993. ASBURY A., MC KHANN G., MC DONALD W.: Diseases of the Nervous System. Clinical Neurobiology, Vol. 1, pag. 319-341, Saunders Co., Philadelphia, 1992. BRADLEY W., DAROFF R., FENICHEL G., MARSDEN D.: Neurology in clinical practice. Butterworth-Heinemann, 1991. BRODAL A.: Neurological Anatomy in relation to Clinical Medicine. 2nd ed., Oxford Univ. Press, London, 1969. BRODAL P.: The central nervous system. Structure and function. Oxford University Press, London, 1992.
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Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi Sindromi tronco-encefaliche) cerebrali corticali
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13. Sindromi cerebrali corticali C. Loeb, A. Seitun, C. Serrati
Con la generica terminologia di sindromi cerebrali corticali si indicano usualmente l’insieme dei sintomi neurologici e psichici causati da lesioni di determinate aree della corteccia cerebrale.
Struttura della corteccia cerebrale Il cervello è diviso dalla scissura interemisferica in due emisferi simmetrici, destro e sinistro. Ogni emisfero presenta tre facce: una faccia inferiore, che si adagia sulla base cranica e sul tentorio del cervelletto, una faccia esterna convessa, che corrisponde alla volta cranica, una faccia interna o mediale, connessa a quella del lato opposto per mezzo delle commessure interemisferiche. La superficie degli emisferi cerebrali è divisa da profonde scissure in lobi, e ciascun lobo è suddiviso da solchi più superficiali in circonvoluzioni o giri. La faccia esterna o convessità di ciascun emisfero è divisa in due dalla scissura laterale emisferica o scissura di Silvio. Questa separa lobo frontale e parietale, posti superiormente, da lobo temporale ed occipitale, posti inferiormente. Due scissure obliquamente dirette dall’alto al basso separano rispettivamente il lobo frontale da quello parietale (scissura centrale di Rolando) e il lobo parietale da quello occipitale (scissura parieto-occipitale). Il lobo frontale, temporale e occipitale oltrepassano i margini esterni dell’emisfero per occupare parte delle facce inferiore e mediale; il lobo parietale oltrepassa solo il margine superiore, estendendosi nel precuneo o lobulo quadrato, situato sulla faccia mediale posteriormente al lobulo paracentrale del lobo frontale. La restante parte della faccia mediale dell’emisfero è occupata dalla circonvoluzione del cingolo, appartenente al sistema limbico anatomicamente e funzionalmente connesso soprattutto col lobo temporale. Nascosto nel fondo della scissura di Silvio si trova, infine, il lobo dell’insula, funzionalmente connesso alle strutture limbiche. La corteccia cerebrale umana rappresenta volumetricamente il 77% dell’intero encefalo, è spessa 1,5-4,5 mm
e si estende su una superficie totale di 2200-2500 cm2. Complessivamente contiene circa 27.4 miliardi di neuroni con un coefficiente di variazione interindividuale del 12 % (Braendgaard et al., 1990), corrispondenti ad oltre un quarto dei 100 miliardi di neuroni (1011)1 contenuti nell’intero encefalo, per numero totale di sinapsi pari a 60 mila miliardi (60 ×1012), ed un pressoché pari numero di cellule gliali (Swanson, 1995; Williams and Herrup, 1988). Complessivamente, l’intera corteccia utilizza oltre i 2/ 3 dell’O2 globalmente consumato dall’encefalo (31 → 46 ml/min, e 2,4 → 3,3 ml/min/100 g di tessuto), attraverso percentuali sovrapponibili di flusso ematico globale (15% → 20% del flusso cardiaco destinato all’encefalo), e di flusso regionale (577 → 750 ml/min, e 42 → 54 ml/ min/100 g di tessuto), essenzialmente in rapporto all’impressionante dotazione sinaptica di cui è dotata, principale responsabile del consumo energetico dell’encefalo. La corteccia cerebrale può essere divisa, dal punto di vista filogenetico ed in base alle sue caratteristiche morfologiche e funzionali, in due territori ineguali: a) l’archipallio (allocortex o archicortex), parte più antica altamente conservata fra le specie e relativamente poco sviluppata nell’uomo, che è preposta alla funzione olfattiva, alla regolazione del comportamento emotivo-istintivo ed alla modulazione delle funzioni vegetative (sistema limbico); b) il neopallio (isocortex o neocortex), molto più esteso, che è la stazione finale d’arrivo di quasi tutte le vie sensoriali e sensitive, la stazione di partenza delle vie della motilità volontaria, la sede delle più importanti vie associative cortico-corticali ed infine l’epicentro di vie ascendenti a proiezione diffusa che modulano globalmente lo stato d’attivazione corticale. A questo alto valore funzionale della corteccia cerebrale corrisponde una complessa e delicata organizzazione strutturale citomielo- ed angio-architettonica. In particolare, l’isocortex si distingue in omotipica quando i sei strati cellulari sono facilmente differenziabili l’uno dall’altro (come ad esempio nella corteccia sensitiva ed uditiva) ed eterotipica quando i sei strati non sono
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Secondo alcuni Autori, i neuroni contenuti nell'intero sistema nervoso centrale raggiungerebbero i 1000 miliardi (1012) (Nauta e Feirtag, 1986).
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Le grandi sindromi neurologiche
ben distinti, come ad esempio nella corteccia eterotipica agranulare dell’area motoria (dove sono prevalentemente sviluppati gli strati delle cellule piramidali) e nella corteccia eterotipica granulare (o koniocortex) della corteccia visiva (dove sono prevalentemente sviluppati gli strati dei granuli). Nell’isocortex omotipica i neuroni corticali sono disposti in sei strati, riconoscibili soprattutto dalla grandezza e dal tipo dei neuroni (Fig. 13.1): 1) strato molecolare (o zonale), formato da un compatto strato subpiale di cellule gliali, quindi da rare cellule nervose fusiformi (cellule orizzontali di Cajal-Retzius), e da fasci assonali orizzontali, paralleli alla superficie (lamina o plesso tangenziale); 2) strato granulare esterno, costellato di neuroni multipolari o a morfologia piramidale di piccole dimensioni;
3) strato piramidale esterno. Contiene neuroni piramidali di media grandezza, dotati di lunghi dendriti principali radialmente diretti verso la superficie; 4) strato granulare interno, molto simile al secondo, striato orizzontalmente da fasci di fibre (strie di Baillarger esterne o lamina suprastriata); 5) strato piramidale interno (o ganglionare), ricco di cellule piramidali di grandi dimensioni (cellule di Betz), dotate di dendriti principali radialmente diretti alla superficie e dendriti basali a ramificazione laterale, ed inoltre attraversato da fasci assonali a decorso orizzontale (strie di Baillarger interne, o lamina infrastriata); 6) strato multiforme, contenente prevalentemente cellule fusiformi ed assoni discendenti nella sostanza bianca sottocorticale. Sul piano funzionale, si possono individuare due tipi di cellule: a) le cellule piramidali di grandi-medie dimensioni (quinto strato) proiettanti a lunga distanza e localmente connesse, tramite collaterali assoniche ricorrenti, ad interneuroni inibitori circostanti (cellule basket) responsabili di un controllo a feed-back negativo rapido (inibizione ricorrente disinaptica); b) le cellule degli strati 1-2-3-4-6 assimilabili, a tutti gli effetti, ad interneuroni, in quanto dotate di assoni che si ramificano nelle immediate vicinanze del corpo cellulare, oppure orizzontalmente nello stesso strato (cellule fusiformi di CajalRetzius del 1° strato) o verticalmente coinvolgendo più strati (cellule chandelier o double bouquet).
Fig. 13.1 - Schema della struttura istologica della corteccia cerebrale. A sinistra la divisione in strati: I: strato molecolare; II: strato granulare esterno; III: strato delle cellule piramidali piccole e medie; IV: strato granulare interno; V: strato delle grandi cellule piramidali; VI: strato fusiforme. A destra sono indicate le diverse strutture fibrose: 1: lamina tangenziale; 2: lamina disfibrosa; 3: lamina suprastriata; 4: stria di Baillarger esterna; 5: lamina infrastriata (modificata, da A. Bairati, Trattato di Anatomia Umana, Minerva Medica, Torino, 1959).
Suggestiva e di indubbia utilità didattica appare l’interpretazione della struttura funzionale dell’isocortex data da Delmas (1971), più recentemente convalidata da Brodal (1992), che paragona tale tipo di corteccia ad un edificio a sei piani funzionalmente specializzati, in cui la struttura di ognuno di essi corrisponde ad una ripartizione di lavoro (Fig. 13.2). Gli strati 2 e 4 (granulare esterno ed interno) sono i piani di ricezione: lo strato 2 riceve segnali provenienti da altre zone della corteccia e dai nuclei talamici a proiezione diffusa, lo strato 4 riceve messaggi dai nuclei talamici specifici, ed entrambi ricevono inoltre messaggi da interneuroni corticali locali e da strutture troncodiencefaliche a proiezione diffusa. Gli strati 3 e 5 (strati delle piccole e grandi-medie cellule piramidali) rappresentano i piani di emissione dei messaggi: lo strato 3 è il principale responsabile dei messaggi intercorticali e callosali, lo strato 5 è invece essenzialmente deputato ad inviare messaggi alle strutture sottocorticali, tronco cerebrale e midollo spinale compresi. Lo strato 1 assicura le connessioni tra superficie corticale e piani sottostanti. Lo strato 6 è in gran parte efferente, provvedendo alle connessioni cortico-talamiche ed in parte callosali.
Sindromi cerebrali corticali
Fig. 13.2 - Schema delle connessioni dei sei strati della corteccia cerebrale. Gli strati II e IV sono livelli di recezione (afferenze corticali e afferenze talamiche); gli strati III, V, VI sono i livelli di emissione, rispettivamente efferenze corticali, efferenze sottocorticali, efferenze corticali interemisferiche; lo strato I assicura connessioni tra superficie corticale e gli altri strati.
L’evoluzione dell’isocortex in corteccia agranulare e corteccia granulare (koniocortex) rappresenterebbe il risultato dell’elevata specializzazione funzionale filogeneticamente raggiunta per l’emissione - o la ricezione - di messaggi, la cui corretta integrazione, organizzazione spazio-temporale e memorizzazione appare strettamente basata su una peculiare organizzazione citoarchitettonica di tipo colonnare. Nella neocortex infatti, e soprattutto in corrispondenza delle aree primarie sensitivo-sensoriali e motorie, è riconoscibile un aspetto radialmente striato, dovuto a fasci di dendriti principali ed assoni verticalmente ascendenti fino al 1 strato, frammisti a neuroni assemblati in distinte ‘colonne’, o singoli ‘moduli’ anatomo-funzionali del diametro di 300-600 micron (Széntagothai, 1975). I moduli, oltre a connettersi in maniera topicamente organizzata con nuclei sottocorticali o l’estrema periferia, sono connessi fra loro tramite i dendriti basali delle cellule piramidali e tramite assoni a decorso orizzontale anche molto esteso. L’esistenza dei moduli è stata dimostrata non solo mediante registrazioni microelettrodiche nei primati, uomo incluso, ma anche da evidenze sperimentali istoenzimatiche (distribuzione colonnare dell’attività citocromo-c ossidasica) ed autoradiografiche mediante [14C]desossiglucosio sistemico, dimostranti l’attivazione funzionale (metabolica) di singole colonne sensitive in seguito a protratta stimolazione periferica puntiforme (Brodal, 1981; Kandel et al., 1994). Ontogeneticamente, l’organizzazione colonnare inizia con una migrazione radiale geneticamente determinata di cellule gliali dallo strato ependimale dei ventricoli cerebrali embrionali, cui fa
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seguito una migrazione ed una stratificazione progressiva di neuroni (Rakic, 1988b). Il processo è suscettibile di successive modificazioni focali epigenetiche fisiologiche o patologiche, quali espansioni (da iperstimolazione), coartamenti (da deprivazione sensitivo-sensoriale) e turbe dei meccanismi di morte programmata (apoptosi) o della migrazione neuronale. In quest’ultimo caso, possono residuare eterotopie e displasie cortico-sottocorticali più o meno circoscritte, spesso responsabili di epilessia farmacoresistente (Rakic, 1988a) (v. pag. 000). Per la corteccia somato-sensitiva primaria, la tradizionale mappa delle regioni del corpo riferentesi all’homunculus sensitivus (v. pag.000) appare piuttosto approssimativa, stando a due evidenze raccolte nel primate. In primo luogo, per ogni regione, ed in particolare per quelle più riccamente dotate di recettori quali mano e volto, esistono almeno quattro rappresentazioni corticali, localizzate in senso postero-anteriore in attigue zone delle aree di Brodman 2, 1, 3b, 3a. Ciascuna di queste ‘striscie’ contiene colonne somatotopicamente arrangiate, deputate alla dominante percezione di afferenze da recettori articolari e profondi (2), a rapido adattamento (1), cutanei a lento adattamento (3b) e muscolari propriocettivi (3a), attivati nella periferia controlaterale. In secondo luogo, la rappresentazione delle varie parti del corpo non è affatto sequenziale: ad esempio, l’area del piede (perifericamente dipendente dai dermatomeri L5-S1) è frapposta fra le aree cutanee anteriore (L2-L4) e posteriore (S1-S2) dell’arto inferiore, suggerendo la presenza, anche in corteccia, di un certo rispetto della naturale sequenzialità dermatosomica (Somjen, 1983). Tale idea è avvalorata da registrazioni video-EEG di crisi epilettiche Jacksoniane coinvolgenti sequenzialmente le varie parti un emisoma, in ordine caudo-craniale o viceversa. L’organizzazione colonnare delle aree sensoriali è ancora più complessa: l’area visiva è dotata di un’organizzazione ipercolonnare deputata all’apprezzamento delle forme, dei rispettivi colori e dello spostamento spaziale degli oggetti; l’area uditiva è organizzata in colonne di sommazione e soppressione in grado di valutare le caratteristiche non solo tonotopiche, ma anche mono- o binaurali dei suoni in arrivo e di fornire una localizzazione spaziale dinamica della loro sorgente (Kandel et al., 1994; Loeb and Poggio, 1998; Somjen, 1983). È utile ricordare però che i paradigmi di cui sopra valgono eminentemente per le regioni corticali filogeneticamente più evolute e specializzate, rappresentate dal neopallio o isocortex, dato che le regioni filogeneticamente più antiche, rappresentate dall’archipallio limbico, o allocortex, sono caratterizzate da una citoarchitettonica più semplice, altamente conservata fra specie. Da quanto è stato detto emerge chiaramente che la corteccia cerebrale non ha una struttura istologica uni-
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forme. La mappa delle aree corticali in funzione della disposizione delle cellule, e del numero, tipo ed ampiezza degli strati proposta da Brodmann (1868), e successivamente precisata e confermata da altri Autori, rimane ancor oggi valida (Figg. 2.5; 2.6), ed utilizzata anche nei principali atlanti stereotassici umani per impiego neurochirurgico (Lancaster et al., 2000; Talairach and Tournoux, 1988), compatibilmente con le variabilità interemisferiche ed interindividuali dell’adulto. L’estensione delle aree corticali specifiche può infatti variare sorprendentemente da individuo ad individuo: ad esempio, l’area striata varia di un fattore 3 fra soggetti adulti, mentre il volume complessivo degli emisferi non presenta variazioni di analoga portata. Le suddivisioni citoarchitettoniche conservano indubbiamente una significativa importanza, poiché a diverse organizzazioni citoarchitettoniche corrispondono funzioni diverse. Tuttavia, non meno importanti sono i tentativi attuali di integrare i dati morfologici con altri parametri: neuroanatomici (connessioni tra le diverse strutture); neurochimici, neurofisiologici e neurofarmacologici (funzione dei neurotrasmettitori, dei recettori, e di specifici canali ionici).
Neurotrasmissione corticale L’avvento delle moderne tecniche immunocitochimiche ed autoradiografiche in microscopia ottica ed elettronica hanno permesso di definire la neuroanatomia chimica dell’intero encefalo, e mappare in ogni area encefalica, corteccia inclusa, le popolazioni neuronali contenenti uno o più neurotrasmettitori (o i rispettivi enzimi di sintesi o catabolismo), quali: aminoacidi eccitatori (glutamato ed aspartato, o GLU/ASP); aminoacidi inibitori (acido gamma-amino-butirrico o GABA); amine alifatiche (acetilcolina, Ach) ed aromatiche (serotonina, dopamina, noradrenalina); oligopeptidi (N-acetil-aspartil-glutamato o NAAG, SP, VIP, CGRP, NY, somatostatina, galanina, endorfine, etc.) (Björklund and Hökfelt, 1983-2000; Siegel, 1999). Neuroni di proiezione (efferenze cortico-corticali e sottocorticali). I neuroni corticospinali ed ogni altra classe neuronale dotata di proiezioni lunghe transcorticali, callosali o sottocorticali sono eccitatorie, e contengono pressoché esclusivamente GLU/ASP e sono dotate sia di recettori al GLU/ASP ed all’Ach sia di recettori al GABA. Le ramificazioni dendritiche degli stessi neuroni sono inoltre dotate di recettori per altri neurotrasmettitori e neuromodulatori. Interneuroni corticali. Comprendono cellule eccitatorie, a prevalente azione glutamatergica, e cellule inibitorie, a prevalente azione GABAergica. In corteccia sono
pressoché esclusivamente gli interneuroni ad esprimere più di un neurotrasmettitore o neuromodulatore, rendendo assai ardua la comprensione delle innumevoli sottoclassi interneuronali finora descritte. Co-attività neurotrasmettitoriali. La coesistenza negli interneuroni corticali di un neurotrasmettitore classico (quale GLU/ASP o GABA) con uno o più neuropeptidi non appare completamente chiarita, ma sembra che la liberazione di neuropeptidi sia fortemente dipendente dalla frequenza di scarica del neurone, e ne amplifichi quando necessario la funzione sia eccitatoria che inibitoria. Afferenze da strutture sottocorticali. Le afferenze corticali possono utilizzare neurotrasmettitori e neuromodulatori: – afferenze neurotrasmettitoriali. Rappresentano la maggioranza delle afferenze corticali ed in massima parte sono eccitatorie (GLU/ASP). Comprendono le afferenze talamo-corticali, le afferenze al paleo- ed archipallio (quali ad es. le vie di connessione limbica) e le afferenze olfattive. Accanto ad esse, esiste uno sparso e diffuso contingente afferente inibitorio GABAergico, proveniente dalle regioni basali dell’encefalo (zona incerta), innervante selettivamente gli interneuroni corticali GABAergici ricchi di somatostatina (Freund and Gulyas, 1991; Freund and Meskenaite, 1992; Lin et al., 1990). – afferenze neuromodulatorie. Provengono da specifiche aree sottocorticali diencefaliche, mesencefaliche e ponto-bulbari, e comprendono: a) vie colinergiche, diffusamente distribuite all’intero mantello corticale, provenienti dal n. peduncolo-pontino tegmentale, dal n. basale di Meynert/banda diagonale di Broca/zona incerta, e dai nuclei del setto. Queste vie avrebbero un ruolo risvegliante e modulante le funzioni cognitivoemotive (aumento della vigilanza, incremento attentivo-mnesico). Dibattuto il significato di una loro specifica, iniziale compromissione nella genesi di sindromi demenziali, in particolare la m. di Alzheimer (vedi pag. 000). b) vie noradrenergiche, provenienti dai nuclei pontini locus coeruleus/subcoeruleus, a carattere estremamente diffuso ed ubiquitario, con maggior densità delle proiezioni nelle aree corticali motorie e sensitive primarie. È assai probabile un ruolo significativo di tali proiezioni nel mantenimento della vigilanza, nella modulazione di specifiche fasi del sonno (risveglio, sonno REM), e nelle funzioni emotive. c) vie dopaminergiche, provenienti dal tegmento mesencefalico e dalla sostanza nera (pars com-
Sindromi cerebrali corticali pacta), preferenzialmente distribuite al lobo frontale, con massima densità nelle aree frontali mediali. A livello cerebrale esiste, in generale, un gradiente rostro-caudale dell’innervazione dopaminergica, massima a livello frontale e minima a livello parieto-occipitale. A tali afferenze è attribuito un preminente ruolo di attivazione dei meccansimi ideativi, e di iniziativa comportamentale e relazionale. d) vie serotoninergiche, provenienti dai nuclei del rafe ponto-mesencefalici, ed a gradiente di distribuzione corticale opposto a quello dopaminergico. La massima concentrazione si osserva nelle aree posteriori, a funzione sensoriale. A tali afferenze è attribuito un ruolo attivante i meccanismi percettivi ed associativi, complementare rispetto a quello delle vie dopaminergiche. È infine importante osservare che i nuclei del rafe ed il n. locus coeruleus, a proiezione diffusa a tutta la corteccia, ricevono a loro volta afferenze soprattutto dalle aree prefrontali. Al contrario, i neuroni dopaminergici del mesencefalo e della sostanza nera, che proiettano elettivamente al lobo frontale, ricevono afferenze dall’intero manto corticale. Queste brevi osservazioni di neuroanatomia chimica possono assumere un significato fisiopatologico in diverse condizioni neurologiche. Ad esempio, un danno selettivo di popolazioni interneuronali corticali GABAergiche si traduce in forme di epilessia spesso a carattere farmacoresistente, così come il depauperamento dei neuroni colinergici basali costituirebbe un fattore di particolare rilievo nella m. di Alzheimer (v. pag. 000).
Localizzazioni cerebrali funzionali: premesse generali Nel tentativo di interpretare la fisiopatologia dei diversi sintomi psichici e neurologici di una sindrome cerebrale, Jackson (1881-1887) ha elaborato una teoria, che ancor oggi è spesso utilizzata. Secondo Jackson, la lesione di un’area corticale, oltre a determinare la scomparsa di funzioni altamente differenziate, libera l’attività delle strutture fisiologicamente controllate dalla stessa area. Una lesione encefalica determinerà perciò: 1) sintomi c.d. negativi o deficitari, corrispondenti ad una perdita totale o parziale, transitoria o permanente, delle funzioni di un’area cerebrale specifica danneggiata: ad esempio, una paralisi per lesione delle aree motorie, un’emianopsia per lesione dell’area visiva;
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2) sintomi c.d. positivi o di liberazione, dovuti al fatto che l’area lesa non controlla più le strutture funzionalmente dipendenti permettendone la piena espressione, spesso sotto forma di nuove fenomenologie comportamentali. Così, ad esempio, nel caso di lesione dell’area motoria primaria o delle vie piramidali, si osserva l’aumento del tono, dei riflessi profondi e la comparsa di fenomeni patologici come il segno di Babinski. Tra i sintomi positivi si deve sottolineare l’importanza di una particolare categoria: i cosiddetti sintomi ‘irritativi’, derivanti da un’abnorme iperattività della funzione neuronale. Esempi tipici sono rappresentati dalle crisi jacksoniane, causate da lesioni irritative delle aree corticali motorie e sensitive, e dalle allucinazioni visive elementari, prodotte da lesioni irritative dell’area visiva occipitale (v. pag. 544). La valutazione anatomo-clinica non risolve però tutti i problemi; oltre alle caratteristiche della lesione in sè (natura, modalità d’esordio, evoluzione, estensione) il terreno sul quale la lesione s’instaura (tipo di personalità, età e grado di cultura) condiziona, infatti, la maggior o minor rilevanza di sintomi complessi, quali i disturbi simbolici, le anomalie del comportamento e della sfera affettivo-emotivo-volitiva e del pensiero. Descrivere le «sindromi corticali» vuol dire, evidentemente, accettare la dottrina, tuttora discussa, delle localizzazioni cerebrali, conseguenza diretta dell’osservazione anatomoclinica, e concedere largo spazio ai risultati della ricerca neurofisiologica nell’animale e nell’uomo. Non si può certo negare che tra i risultati della stimolazione o distruzione della corteccia cerebrale ottenuti dai fisiologi, e la sintomatologia focale, irritativa o deficitaria osservata dal clinico nella patologia umana spontanea, esistano strette analogie. In queste proporzioni la dottrina delle localizzazioni cerebrali è universalmente accettata. Ulteriore conferma è fornita da una cospicua mole di dati relativi a casi clinici ed a volontari sani, raccolti mediante PET e RM funzionale dell’encefalo (v. pag. 439). Ancora oggi il problema delle localizzazioni funzionali corticali è complesso e dibattuto. L’assegnare ad una singola area corticale, o addirittura ad un raggruppamento cellulare, una determinata funzione può rappresentare anche un problema mal posto. L’area corticale usualmente funziona secondo modalità integrate, quindi la sua funzione isolata rimane del tutto teorica. In aggiunta, le esperienze di ablazione potrebbero esprimere soprattutto l’attività funzionale delle restanti strutture indenni, piuttosto che il mancato funzionamento dell’area lesa. Analogamente, il fatto che la lesione di un’area corticale risparmi una particolare funzione non esclude che quell’area sia in qualche modo coinvolta nella stessa funzione. Infine, le cospicue capacità di riorganizzazione funzionale, o plastiche, del cervello consentono di vicariare
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almeno in parte le funzioni perdute in seguito a lesione di un’area specifica. L’utilizzo della PET e della RM funzionale dell’encefalo nello studio del cervello umano normale mediante tecniche di attivazione (si propone al soggetto l’esecuzione di un compito : stringere ripetutamente la mano, pronunziare una sillaba, ascoltare la musica, ecc., misurando contemporaneamente le variazioni di flusso ematico regionale cerebrale) e gli studi di neuropsicologia cognitiva supportano ulteriormente l’ipotesi che le funzioni nervose superiori siano organizzate in maniera ‘modulare’ e ‘spazialmente distribuita’ (in accordo all’arrangiamento citoarchitettonico precedentemente descritto), dimostrando che aree corticali diverse, anche non contigue, sono insospettabilmente attivate nell’esecuzione di compiti anche molto semplici. Ogni inferenza sul ruolo specifico di una certa area cerebrale, dedotte dalla perdita di specifiche funzioni in seguito a lesione corticale, dev’essere perciò rivista, poichè quella determinata area cerebrale potrebbe rivelarsi solo parte di una più vasta organizzazione. L’accumularsi di nuove informazioni ha infatti costretto finora a rivedere non poco della fisiopatologia e della clinica delle lesioni cerebrali, come già previsto da Raichle nel 1992. Funzioni particolarmente complesse, quali il pensiero, il linguaggio, la coscienza, difficilmente possono attribuibirsi a specifiche, ristrette aree cerebrali, ma rappresentano piuttosto il risultato funzionale di un sistema complesso ed integrato, anche se, di volta in volta, l’attività specifica di diversi sottosistemi può essere vicariata. Queste considerazioni non impediscono tuttavia di valorizzare, sul piano clinico, il significato localizzatorio di alcuni sintomi e segni.
Sindrome frontale Il lobo frontale può essere funzionalmente suddiviso in senso postero-anteriore in almeno tre differenti regioni: motoria propriamente detta (area 4), premotoria (aree 6, 8 ed area supplementare motoria) e prefrontale, che a sua volta può essere suddivisa in tre zone, dorso-laterale, mediale/cingolata ed orbito-frontale. L’area prefrontale, pur avendo anche una funzione motoria, appare fondamentalmente implicata nei processi neurali che sottendono funzioni comportamentali e cognitive, l’apprendimento simbolico e l’ideazione creativa. L’eterogenicità funzionale della corteccia frontale, e l’estremo polimorfismo dei sintomi derivanti da lesioni
focali, precludono che una generica «sindrome del lobo frontale» esista come entità a sé stante. Piuttosto, si è progressivamente concretizzata nel tempo l’esistenza di raggruppamenti maggiori di sintomi (o sindromi) correlati ad una precisa topografia lesionale (Faglioni, 1999; Fuster, 1997; Fuster, 1999; Lurija, 1969; Niedermeyer, 1998). Oggi si possono quindi distinguere: 1) una sindrome frontale motoria, che sarà descritta nel paragrafo dedicato alla sindrome rolandica (v. pag. 526); 2) una sindrome frontale premotoria; 3) tre sindromi prefrontali, rispettivamente (a) dorso-laterale, (b) mediale/cingolata e (c) orbito-frontale. Premesse anatomo-fisiologiche La corteccia frontale (Fig. 13.3) si estende dal solco centrale di Rolando fino al polo frontale. In accordo alla nomenclatura anatomica ufficiale (Committee, 1983), la porzione convessa della corteccia frontale antistante al solco centrale è formata dalla circonvoluzione o giro precentrale, ed anteriormente al solco precentrale e procedendo dall’alto al basso, da tre giri frontali ben delimitati: superiore (F1), medio (F2) ed inferiore (F3). Quest’ultimo comprende una porzione opercolare e triangolare delimitate dal solco laterale di Silvio ed una porzione orbitaria che ventralmente prosegue nei giri orbitari olfattivi (laterale, mediale, retto) (Fig. 2.6) L’estrema porzione anteriore del lobo frontale è indicata come polo frontale. Sul versante mediale, a partire dall’alto s’incontrano dapprima le porzioni paramediane del giro precentrale (lobulo paracentrale) e del giro superiore, quindi la porzione anteriore del giro del cingolo (aree 24, 32-33), il corpo calloso (splenio, ginocchio e rostro) e più ventralmente il giro subcalloso (area 25). Le connessioni del lobo frontale sono particolarmente complesse (per una trattazione dettagliata vedi Faglioni, 1999). La corteccia frontale è reciprocamente connessa con quella controlaterale (via corpo calloso) e con altre post-rolandiche, in particolare con le aree sensitivo-sensoriali, con il lobo occipitale ed il lobo temporale (specie la corteccia orbito-frontale). Particolarmente importanti sono le proiezioni efferenti sottocorticali, nell’ambito di un circuito cortico-caudato-pallido(interno)-talamo(VA)-corticale (pag. 26), e cortico-talamo (VAMD)-corticale. La corteccia orbito-frontale mediale proietta inoltre allo striato ventrale (n. accumbens, tubercolo olfattorio), il quale riceve efferenze provenienti dall’ip-
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B
C
Fig. 13.3 - Le aree del lobo frontale (A: faccia laterale; B: faccia mediale; C: inferiore). (R: scissura di Rolando; S: Scissura di Silvio; CC: corpo calloso; T: talamo).
pocampo, dalla corteccia ento- e peri-rinale e dalla corteccia temporale, ed a sua volta proietta sul n. talamico mediale dorsale (MD magnocellulare). Questo nucleo è reciprocamente connesso alla regione orbito-frontale (aree 45, 47, 11) (Fig. 13.3) risultando di fatto inserito nel circuito limbico. La regione orbito-frontale è inoltre dotata di dirette, reciproche connessioni con l’ipotalamo, ed assieme alla corteccia dell’insula di Reil, è deputata alla regolazione centrale di numerose funzioni viscerali (modificazioni vasomotorie, pressorie e della frequenza cardiaca, modificazioni della peristalsi intestinale, della motilità e della secrezione gastrica, della funzione urogenitale).
Regione motoria È rappresentata dal giro precentrale, sede dell’area motoria primaria (area 4 agranulare), da cui origina il fascio piramidale. La diretta attivazione di porzioni circoscritte di quest’area, ad es. per stimolazione magneti-
ca transcranica, causa movimenti mioclonici elementari nei corrispondenti distretti somatici controlaterali. Un blocco funzionale circoscritto (as es. blocco sperimentale criogeno, ischemia transitoria) causa invece paralisi della motilità volontaria. Nel piede di F3 dell’emisfero dominante (sinistro) si trova l’area 44 (area di Broca) la cui attivazione, associata a quella di aree viciniori (v. pag. 137), è fondamentale per l’espressione verbale.
Regione premotoria Corrisponde all’area 6 posta innanzi alla scissura precentrale, e s’estende sulla convessità su parte dei tre giri frontali orizzontali, e mesialmente sulla porzione interna di F1 antistante il lobulo paracentrale (area supplementare motoria). I due strati granulari che la contraddistinguono denotano un’isocortex tipica a sei strati. L’area 6 riceve connessioni da varie regioni corticali, di cui particolarmente importanti alcune del lobo parietale
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(aree sensitive primarie 3, 1, 2, aree 5 e 7), dal putamen, dal globo pallido e dal nucleo ventro-laterale talamico, ed invia efferenze al putamen, al pallido ed alle aree 4, 8, 1, 5, 39. A differenza dell’area 4, zona di motricità molto discriminata, l’area 6 rappresenta (come anche l’area 8) un’area di motricità più globale, meno elettiva, che si esplica in movimenti sinergici automatici (di flessione, estensione, abduzione, adduzione degli arti controlaterali), di sostegno ai movimenti volontari distali fini (c.d. movimenti di accompagnamento) oppure in sinergie posturali e antigravitarie che assicurano la stazione eretta. Complessivamente, l’85% di tutta la corteccia motoria è destinata alla motricità involontaria, ma questa proporzione non deve sorprendere quando si pensi che ogni movimento volontario è accompagnato da una complessa preparazione e da un ricco e continuo corteo di movimenti involontari a carattere pressoché inconscio. Particolarmente importanti sono le connessioni fra area 6 e le regioni postrolandiche parietali ed occipitali, indispensabili per una sofisticata integrazione delle innumerevoli informazioni provenienti dalla periferia somestesica e sensoriale. Il prendere un oggetto con le dita (atto volontario) utilizza infatti sia informazioni somestesiche estero- e propriocettive, sia informazioni spaziali visive riguardanti la collocazione dell’oggetto nello spazio entro - oppure oltre - i limiti direttamente raggiungibili dalla mano. La strategia motoria di volta in volta impiegata comporta, pertanto, differenti posizionamenti della dita della mano, dell’avambraccio, del braccio, della spalla e del tronco, vale a dire la messa in opera di una complessa attività muscolare statica e dinamica di supporto, automaticamente regolata da strutture sottocorticali (striato e cervelletto) sotto la supervisione corticale. Recenti evidenze (microelettrodiche nel primate; fMRI nell’uomo) dimostrano, inoltre, che la corteccia premotoria si attiva non solo nell’esecuzione gestuale, ma, anche in assenza di risposte motorie, solo per una semplice visione di gesti altrui. Anche in questa circostanza, l’attivazione dell’area 6 comporta una simultanea attivazione di aree parietali e visive (Iacoboni et al., 1999). Le implicazioni di queste capacità di imitazione anche per via visiva sono ovvie, sia per l’apprendimento di schemi motori nuovi (ad es. sport), che di schemi alternativi o vicarianti (ambito fisioterapico). La corteccia premotoria emerge sempre più come sofisticato apparato motorio di notevole autonomia funzionale (peraltro ancora incompletamente esplorata), anziché come struttura di semplice formattazione o traduzione motoria interposta fra corteccia prefrontale (ideativo-intenzionale) ed area 4. Anteriormente, l’area 6 si estende nell’area 8 («frontal eye field», parte di F1 e F2). L’area 8 controlla la motilità oculo-cefalogira volontaria assieme alla parte anteromesiale dell’area 6 («supplementary eye field»), caratterizzata da identica citoarchitettonica (isocortex tipica). L’at-
tivazione unilaterale dell’area 8 (ad es., destra) produce versione laterale dello sguardo verso il lato opposto (sinistra). La sua ablazione provoca non solo una paralisi della versione volontaria e disturbi dell’attenzione visiva nell’emicampo del lato opposto (sinistro), ma anche una deviazione forzata dello sguardo verso il lato leso (destro), causata dall’attività tonica dell’area 8 controlaterale rimasta indenne. L’attivazione bilaterale causa versione verticale dello sguardo. Dall’area 8 originano efferenze discendenti al tronco encefalico (fasci fronto-tegmentale pontino e fronto-bulbare). L’area 8, a sua volta, si estende anteriormente nella regione prefrontale.
Regione prefrontale È costituita dai due terzi anteriori dei giri frontali orizzontali e dal polo frontale e comprende una porzione convessa dorso-laterale (aree 9-10-46), una porzione mediale (aree 32-33, porzione anteriore del giro del cingolo o area 24, e giro subcalloso o area 25) ed una porzione inferiore o orbitaria (aree 11- 47) (Fig. 13.3). Sia filogeneticamente che ontogeneticamente, l’area prefrontale è una delle regioni neocorticali che si sviluppano per ultime, ma, comparativamente, è a maggior crescita relativa, arrivando a costituire il 30% circa dell’intera neocorteccia umana. È anche una delle regioni più lente a completare la mielinizzazione degli assoni afferenti, efferenti ed intrinseci, ed a giungere a maturazione anche per altri aspetti, quali numero e volume cellulare, e numero e dimensione di spine dendritiche neuronali. La completa maturazione non viene raggiunta prima della tarda adolescenza, in relazione al lento, progressivo sviluppo delle funzioni cognitive, specialmente del linguaggio. Queste attività sono organizzate soprattutto dalla corteccia della convessità dorso-laterale del lobo frontale, che sia filogeneticamente, sia ontogeneticamente, cresce relativamente assai più delle regioni orbito-mediali. La corteccia prefrontale è quella più altamente interconnessa fra le varie regioni neocorticali: riceve afferenze troncoencefaliche, ipotalamiche, limbiche (dall’amigdala ed ippocampo), talamiche (specialmente dai nn.anteriori e medio-dorsali) e neocorticali, specie dalla corteccia associativa delle regioni post-rolandiche. Le afferenze dal tronco encefalico, dall’ipotalamo e dal sistema limbico, probabilmente, convogliano alla corteccia prefrontale informazioni riguardanti l’ambiente interno, mentre quelle dall’ippocampo molto probabilmente contribuiscono anche alla complessa formazione di nuove esperienze motorie (Buzsaki, 1996; Lorincz and Buzsaki, 2000; Nadasdy et al., 1999). Le afferenze provenienti dalla corteccia post-rolandica associativa sono essenziali per l’integrazione sensori-motoria di livello più elevato. A sua volta, la corteccia prefrontale proietta reciprocamente verso le stesse strutture.
Sindromi cerebrali corticali Le conoscenze neuropsicologiche e neurofisiologiche acquisite nell’uomo e nella scimmia in questi ultimi vent’anni, dimostrano che la corteccia prefrontale permette lo svolgimento sequenziale sia di attività comportamentali originali e complesse, linguaggio incluso, sia dell’attività mentale logico-razionale. Tali attività, indicate con il termine di “funzioni esecutive”, utilizzano specifiche proprietà funzionali basate sulla memoria di schemi e progetti di comportamento acquisiti e ben consolidati. Il substrato di tali schemi è con ogni probabilità rappresentato da reti neuronali distribuite, consolidatesi in seguito alla coincidenza temporale di «input» dall’amigdala, dall’ippocampo e dalla corteccia postrolandica e di «input» troncoencefalichi, questi ultimi indispensabili per il mantenimento dell’iniziativa e della motivazione. L’attivazione di tali reti oltre ad una certa soglia innescherebbe lo svolgimento nel tempo del piano d’azione memorizzato. In sintesi, l’elaborazione di ogni nuova sequenza comportamentale o ideativa finalizzata al raggiungimento di un obbiettivo necessita della rappresentazione del piano dell’azione da svolgere, della messa in opera della memoria di lavoro (v. pag. 168), ambedue processi che attivano la regione prefrontale dorso-laterale, e di un controllo inibitorio delle interferenze esterne (sensoriali) o interne (pulsionali, oppure causate da comportamenti appresi), attivante la corteccia orbitofrontale. Vascolarizzazione. – L’arteria cerebrale anteriore irrora la quasi totalità della faccia inferiore e della faccia esterna del lobo prefrontale, la faccia interna nella sua totalità, nonchè la circonvoluzione del corpo calloso. L’arteria silviana completa tale vascolarizzazione tramite l’arteria orbito-frontale (parte posteriore del lobo prefrontale e parte opercolare di F3) e l’arteria del solco prerolandico (piede di F2 e F1).
Sintomatologia La descrizione dei sintomi e segni causati da lesione frontale sarà limitata alle manifestazioni deficitarie e da liberazione, poiché l’insieme delle manifestazioni irritative è trattato nel capitolo sull’epilessia (v. pag. 000). SINDROME FRONTALE MOTORIA Tale sindrome è descritta nel paragrafo dedicato alla sindrome rolandica (v. pag. 526).
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SINDROME FRONTALE PREMOTORIA I sintomi e segni comprendono: a) disturbi del tono muscolare, della motilità riflessa e volontaria; b) disturbi della statica e della marcia; c) disturbi della motilità oculare coniugata; d) disturbi del linguaggio e delle prassie. a) Disturbi del tono muscolare e della motilità riflessa e volontaria Le lesioni isolate dell’area 6, di rarissimo riscontro nella patologia umana spontanea, comportano un’ipertonia plastica molto simile alla rigidità parkinsoniana. In pratica, il coinvolgimento discreto e bilaterale dell’area 6 assieme ad altre aree frontali vicine produce solo paratonia (v. pag. 33). Alle lesioni anche unilaterali dell’area 6 è inoltre attribuita la liberazione di risposte motorie riflesse arcaiche in flessione, ed in particolare del riflesso di prensione forzata (o «grasp reflex»). Si tratta di un riflesso neonatale che come altri scompare dopo alcuni mesi dalla nascita, caratterizzato dalla chiusura involontaria, tonica e persistente delle dita in seguito a stimolazione tattile superficiale del palmo della mano, specie nella zona fra pollice e indice. Analogo significato ha il fenomeno della calamita, in cui la mano o il piede seguono gli spostamenti di un oggetto che li abbia toccati. L’evocazione del riflesso dipende in parte dalla posizione del soggetto: la più favorevole è il decubito laterale sul lato opposto a quello stimolato. Questo ed altri fenomeni prensili si riscontrano complessivamente nell’8% dei cerebrolesi, in massima parte con lesioni emisferiche frontali corticali o profonde singole o multiple, e con sintomi neurologici stabilizzati, risultando assente nelle lesioni retrorolandiche. Nel 70% dei pazienti risultano colpite le aree frontali mediali-giro cingolato, nel 26% l’area premotoria/laterale motoria, nel 4% aree profonde, senza alcuna preferenza di lato. Il riflesso usualmente interessa entrambe le mani, anche per lesioni unilaterali, e nella maggior parte dei casi può essere inibito dalla volontà, ricomparendo non appena il malato è distratto (De Renzi and Barbieri, 1992). Spesso coesiste una liberazione di altri fenomeni arcaici: riflesso di suzione (protrusione delle labbra per stimolazione delle stesse); riflesso labio-, palmo- e pollico-mentoniero (sia la percussione del labbro superiore che lo strisciamento della palma della mano o dell’emi-
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nenza tenar evocano una contrazione riflessa del m. quadrato del mento omolaterale); riflesso tonico palmare e plantare (flessione lenta ed adduzione delle dita, nonchè accentuazione della concavità della palma della mano o della pianta del piede per stimolazione tattile da strisciamento); riflesso di prensione del piede o «groping» (evidenziato mediante toccamento della superficie plantare delle dita); fenomeno di Potzl (contrazione persistente del quadricipite femorale scatenata dalla flessione passiva della coscia sul bacino); aumento della reazione di appoggio (estensione forzata dell’arto inferiore quando il paziente flette dorsalmente il piede); fenomeno di iterazione motoria (il movimento passivo impresso ad un arto continua fintantochè la mano dell’esaminatore resta a contatto con lo stesso); perseverazione motoria (difficoltà nell’interrompere una sequenza gestuale iniziata dietro ordine, con ripetizione stereotipata della stessa anche quando l’ordine è cambiato); ecoprassia (ripetizione passiva di gesti eseguiti dall’esaminatore).
I disturbi della motilità volontaria da lesione pura dell’area 6 (rammollimento da occlusione dell’arteria prerolandica, contusione corticale strettamente localizzata), sperimentalmente indagati nel primate e nell’uomo più ipotetici che reali, configurano la cosiddetta emiplegia cortico-premotoria, distinguibile sia dall’emiplegia da lesione isolata dell’area 4, sia dall’emiplegia classica da lesione globale delle aree 4 e 6. I caratteri principali dell’emiplegia cortico-premotoria sono i seguenti: a) aprassia melocinetica, in cui il comando volontario ed isolato di muscoli del lato controlaterale alla lesione spesso è possibile, mentre è impossibile integrare l’azione degli stessi muscoli in un atto motorio sinergico e gestualmente finalizzato (l’indice, per es. può essere flesso volontariamente e ripetutamente per grattare la superficie di un tavolo, ma non si flette sinergicamente con le altre dita nell’atto di chiudere il pugno o di abbottonarsi); b) spasticità precoce con iperreflessia profonda, presenza del segno di Hoffmann alle dita della mano, assenza dell’estensione dell’alluce ma presenza del fenomeno dello sventagliamento delle dita nella stimolazione plantare del piede; c) presenza di segni di liberazione di attività riflesse, tra cui soprattutto i riflessi crociati, di solito molto evidenti; d) presenza di aprassie motorie specializzate (aprassia della marcia, aprassia verbale e aprassia grafica).
I disturbi derivanti da lesione dell’area supplementare motoria (porzione mediale dell’area 6, lobulo paracentrale) sono stati recentemente
studiati in alcuni pazienti sottoposti a corticectomia unilaterale selettiva. In essi si è manifestata una sindrome controlaterale caratterizzata da un’emiparesi normo o ipertonica con relativo risparmio della motilità automatica (ad es. nella marcia e nell’abbigliamento), emidisattenzione motoria ed aprassia melocinetica, ed in un caso operato a sinistra, anche disfasia. Il dato forse più interessante emerso da queste osservazioni è la rapida regressione del quadro deficitario nel giro di qualche settimana, in netto contrasto con l’emiplegia causata da lesioni dell’area 4 (Bannur and Rajshekhar, 2000). b) Disturbi della statica e della marcia Consistono in un’incapacità a mantenere il tronco in posizione eretta per una più o meno marcata retropulsione, talora già evidente in posizione seduta, e in una conseguente difficoltà o impossibilità a camminare senza cadere all’indietro. Quest’insieme di alterazioni astasicoabasiche va sotto il nome di atassia frontale di Bruns (1892). Tale atassia può essere attribuita al mancato controllo cortico-ponto-cerebellare da parte dell’area 6. Queste aree infatti, attraverso il fascio discendente frontopontino di Arnold e successive proiezioni ponto-cerebellari (nn. intrinseci del piede pontino, n. reticolare laterale) informano continuamente il cervelletto delle varie strategie motorie programmate in corteccia, permettendo alla corteccia cerebellare non solo di coordinare ed ottimizzare l’insieme dei messaggi in arrivo dalle varie fonti periferiche, ma anche di ritrasmetterne l’istantaneo elaborato - via nuclei della base cerebellare - attraverso la via ascendente cerebello-rubro-talamo-frontale. È doveroso però ricordare che in passato l’atassia frontale è stata attribuita ad un meccanismo indiretto di compressione e spostamento del tronco encefalico, mentre altri hanno accentuato l’importanza degli aspetti più propriamente aprassici della sindrome frontale (Martin e Van Bogaert; Ajuriaguerra e Tissot, 1964), fino a parlare anziché di atassia, solo di aprassia della marcia (Meyer e Barron, 1960). L’atassia frontale con vistosa componente di retropulsione si osserva più frequentemente nei tumori a sviluppo profondo e negli ematomi subdurali frontali bilaterali, mentre è rara nei casi non tumorali o negli esiti delle lobotomie prefrontali un tempo effettuate a scopo terapeutico. Rari casi di atassia frontale tipica sono stati de-
Sindromi cerebrali corticali scritti nell'insufficienza circolatoria distrettuale bilaterale dell’arteria cerebrale anteriore. Nelle lesioni bilaterali, si può manifestare un caratteristico disturbo della postura e dell’andatura, a piccoli passi ed instabile, che progressivamente si traduce in un’impossibilità a mantenere la stazione eretta ed infine evolve in una vera e propria «paraplegia cerebrale in flessione».
c) Disturbi della motilità oculare coniugata I meccanismi che regolano la motilità oculare sono stati descritti a pag. 231. Come è già stato spiegato, una lesione distruttiva dell’area frontale oculogira (area 8) di un lato determina una transitoria versione ipsilaterale dello sguardo, mentre una lesione irritativa provoca versione controlaterale. È la classica legge di Prevost e Landouzy: «il malato guarda i suoi arti in contrazione in caso di lesione irritativa, guarda il lato sano se la lesione è di tipo paralitico». Si tratta però in questi casi di lesioni emisferiche molto estese, alle quali difficilmente si può attribuire un qualche valore localizzatorio: è il caso della paralisi dello sguardo controlaterale nel corso di accidenti vascolari massivi, o di paralisi spesso transitorie dopo topectomie frontali. Assai più frequenti in clinica sono le crisi adversive secondarie a lesioni focali irritative, caratterizzate da versione forzata dello sguardo con rotazione consensuale del capo e sollevamento dell’arto superiore. Le lesioni frontali bilaterali possono provocare curiose sindromi che ricordano la paralisi psichica dello sguardo di Balint (v. pag. 159). I movimenti volontari dello sguardo sono impacciati e l’esplorazione dello spazio visivo è compromessa, lo sguardo erra senza una meta precisa e a tratti si blocca su un punto fisso, senza potersi poi staccare dallo stesso, conseguendone ovviamente impossibilità a percepire due o più oggetti contemporaneamente, a valutare le distanze, a leggere, ecc. Rari nelle lesioni bilaterali circoscritte, questi fenomeni sono invece la regola nelle lesioni diffuse delle demenze presenili e senili, nelle quali, però, la diffusione delle lesioni ne limita grandemente il valore localizzatorio.
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d) Disturbi del linguaggio e delle prassie Per una trattazione più ampia delle turbe fasiche e prassiche v. pag. 128 e pag. 147. Una lesione dell’emisfero dominante strettamente circoscritta all’area 44 (piede di F3) sembra causare solo un disturbo transitorio della produzione del linguaggio. Molto più frequentemente, tuttavia, sono coinvolte l’area 44, la corteccia immediatamente circostante e la regione opercolo-insulare, risultandone come conseguenza una classica afasia motoria di Broca, caratterizzata da assenza o deficit grave della produzione orale del linguaggio. L’agrafia per lesione del piede di F2 è ritenuta oggi un disturbo di tipo prassico per incapacità di programmare ed eseguire gli atti necessari per la scrittura. A parte l’aprassia bucco-linguo-facciale, che accompagna pressocchè costantemente sia l’anartria isolata, sia la sindrome di disintegrazione fonetica dell’afasia di Broca (v. pag. 129), le aprassie cosiddette frontali sono ancora molto discusse.
SINDROMI PREFRONTALI Comportano disturbi della capacità di programmazione, dell’iniziativa, dell’attenzione, della motivazione e da disturbi emotivo-comportamentali, inquadrabili in tre diverse sindromi (Duffy and Campbell, 1994), che possono comprendere anche disturbi vegetativi, dell’olfatto e della vista in rapporto alla sede ed al tipo della lesione prefrontale in causa. a) Sindrome dorso-laterale o «sindrome da disturbo delle funzioni esecutive». I disturbi più appariscenti sono rappresentati da una perdita dell’iniziativa, dell’attenzione e della motivazione, che configurano la c.d. inerzia frontale. Il malato si dimostra privo di ogni interesse verso il mondo circostante, e pur non dimostrando deficit motori di alcun tipo, non è in grado di intraprendere ed eseguire spontaneamente alcuna azione. La perdita di ogni iniziativa psicomotoria interessa tutte le varie attività transitive ed intransitive e di comu-
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nicazione verbale e gestuale. Nei casi estremi, il malato non riesce ad assolvere nemmeno i più elementari bisogni della vita quotidiana, come lavarsi, vestirsi, preparare i cibi, ecc. La sua vita appare strettamente limitata alle usuali abitudini ed alla concretezza temporale: il comportamento appare ancorato alle necessità del momento, stacccato dall’esperienza del passato e senza proiezioni verso il futuro. Non si tratta però di un deficit primario delle pulsioni istintive, ma di un deficit della pianificazione e della memoria di lavoro ( v. pag. 168). Ciò si può desumere sia dall’osservazione clinica, sia dal risultato di idonei test neuropsicologici (v. pag. 177). L’incapacità a tenere vive in mente ed utilizzare a ritroso le informazioni del recente passato impoverisce l’arsenale comportamentale del malato al punto di farlo apparire privo di motivazioni, quando in realtà è solo deprivato della possibilità di manifestarle appieno. Recenti evidenze dimostrano che nelle lesioni dorso-laterali la capacità di provare emozioni negative quali depressione ed ansia non è affatto soppressa come in caso di lesione prefrontale mediale, e ciò può contribuire sensibilmente al peggioramento della qualità della vita e dell’integrazione sociale. (Paradiso et al., 1999).
Il segno che tuttavia è più costante, specifico, e virtualmente patognomonico della sindrome dorso-laterale è il deficit della capacità di programmazione (Shallice, 1982), ben dimostrabile mediante opportuni test. Il paziente si rivela incapace di formulare piani per future azioni che esulino dall’ordinario e di organizzare nuovi schemi comportamentali o nuovi discorsi. Tale disturbo può essere visto come un’incapacità ad utilizzare le strategie d’azione già memorizzate - ed il significato delle rispettive conseguenze - come modello per rispondere con sequenze seriali adatte (ideative e motorie) agli stimoli seriali rilevanti per l’esecuzione di un compito, immersi nel caotico e frastornante rumore sensoriale. Sinteticamente ciò corrisponde ad una perdita della «memoria del futuro» (Ingvar, 1985). Nell’insieme, questo deficit della pianificazione prospettica nell’immediato futuro di scelte ideativo-comportamentali finalizzate ad uno scopo giustifica la definizione della sindrome dorso-laterale in termini di «sindrome da disturbo delle funzioni esecutive ».
b) Sindrome mediale/cingolata o «sindrome apatica». È caratterizzata da disturbi della motivazione e dell’iniziativa ancora più evidenti e marcati rispetto alla sindrome dorso-laterale, specie in caso di lesione bilaterale. L’apatia, l’abulia e l’inerzia predominano. Il malato è apatico, ovvero incapace di provare emozioni di qualunque tipo, e rimane emotivamente indifferente alla propria condizione ed a tutto ciò che lo circonda (atimormia). Il comportamento spontaneo appare privo di aspetti intenzionali-volitivi, come dimostrato dalla carenza di iniziative motorie di qualunque genere, ivi compresa la comunicazione mimica e verbale (v. afasia transcorticale motoria, pag. 000). Lo stato d’inerzia motoria si avvicina più a quello di una demenza o di una sindrome parkinsoniana piuttosto che a quello di una sindrome depressiva. In caso di lesioni bilaterali estese, la condizione può diventare così drammatica da configurare un quadro di blocco psicomotorio. La sindrome apatica può insorgere anche per lesioni bilaterali della testa del nucleo caudato, innervato dalla corteccia fronto-mediale, del globo pallido, e, virtualmente, in seguito a lesioni di qualunque punto del circuito prefrontale mediale-caudato-pallido-talamo-prefrontale laterale (Cummings, 1993; Strub, 1989; Trillet et al., 1990). Nella genesi della sindrome apatica potrebbe avere una certa importanza anche la concomitante denervazione dopaminergica per danno delle terminazioni nigroprefrontali di cui la regione mediale/cingolata è particolarmente ricca (gradiente mesio-orbito-laterale). A parte i ben noti effetti timo-neurolettici dei farmaci ad azione anti-dopaminergica, in questo contesto si possono ricordare le numerose evidenze sperimentali neuropsicologiche, neurofarmacologiche e neurometaboliche deponenti a favore dell’ipotesi dopaminergica della schizofrenia, specie in rapporto ai sintomi negativi dell’affezione (apatia, abulia, inerzia).
Clinicamente, i quadri apatico-acinetici gravi senza disordini del movimento, pur essendo suggestivi per la presenza di una lesione pre-
Sindromi cerebrali corticali
frontale mediale, non risultano strettamente patognomonici di una specifica sede lesionale, la quale va di volta in volta appurata mediante indagini diagnostiche per neuroimmagini. c) Sindrome orbito-frontale o «sindrome disinibita». Differisce dalle due altre sindromi per la presenza di un dominante deficit attentivo con iperattività e comportamento utilizzatorio («utilization behaviour», Lhermitte, 1983; Shallice et al., 1989), associato a disinibizione emotivo-comportamentale tale da produrre vere e proprie sociopatie. Il malato appare abnormemente distraibile, ed incapace di bloccare le interferenze degli stimoli esterni o interni estranei al contesto dell’azione corrente. Pur riuscendo a concentrarsi ed a focalizzare attivamente la propria attenzione su un obbiettivo, egli lo cambia continuamente, dimostrandosi distraibile, incostante e volubile, del tutto incapace di escludere ciò che in quel dato momento sopraggiunge dall’ambiente esterno o interno. Si tratta quindi di una riduzione dell’attenzione selettiva più che di un deficit della capacità d’esclusione. In contrasto con l’inerzia e l’apatia-abulia delle due precedenti sindromi, il comportamento è, in questo caso, iperattivo, ma incostante ed inconcludente poiché il malato tende ad utilizzare ogni tipo d’oggetto o di stimolo si presenti senza apparenti motivi o strategie finalizzate (affaccendamento inoperoso). Si può osservare per lesioni orbito-frontali unilaterali, destre o sinistre, o bilaterali, e si considera un’equivalente del riflesso di prensione forzata. La sola presentazione di comuni oggetti per canali tattili, visuotattili e visivi spinge il malato a prenderli ed usarli senza motivo, quasi ne fosse costretto. L’ipotesi prevalente è che l’equilibrio fra la dipendenza e l’indipendenza del paziente dal mondo esterno sia disturbata per una perdita del controllo inibitorio normalmente esercitato dalle aree orbito-frontali sui lobi parietali, che integrano le stimolazioni esterne somestesiche con quelle sensoriali visive/uditive. Un quadro molto simile si manifesta spontaneamente con discreta frequenza in età pediatrica assumendo la forma di un deficit dell’attenzione con iperattività («At-
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tention-Deficit Hyperactivity Disorder» o ADHD), e nella rara sindrome neuropediatrica di Rett, caratterizzata da ipoplasia frontale, iperattività ed alterazioni EEG localizzate in regione rolandica. In entrambi i casi, la mancanza di evidenze lesionali suggerisce una ritardata maturazione del controllo inibitorio normalmente esercitato dal lobo frontale sulle regioni corticali cui è connesso. Quest’ipotesi è avvalorata da un progressivo, spontaneo miglioramento della sindrome ADHD nella tarda adolescenza, anche se ciò può rivelarsi insufficiente per compensare appieno il deficit di abilità cognitive prodottosi nel frattempo.
L’umore è spesso labile, imprevedibile e disforico. L’euforia immotivata rappresenta usualmente il vettore dominante, anche se spesso frammista a momenti di depressione. Alla base dell’euforia esiste una perdita del sottile senso dell’umorismo. Nel contesto di una generale disinibizione e povertà critica, ciò si traduce in una particolare tendenza a produrre giochi di parole puerili e scialbi definita moria («witzselsucht», «jocularity»). Poiché un’isolata condizione di eccitamento e di scherzosità acritica potrebbe confondersi con un episodio maniacale, l’opportunità di una diagnosi differenziale tramite neuroimmagini appare piuttosto chiara (Murad, 1999). Non è ancora ben chiaro quali siano le aree cerebrali responsabili di ciò che s’intende come senso dell’umorismo, qualità chiave molto complessa e forse unica nel discriminare l’uomo adulto dai primati superiori. Un’innegabile importanza integrativa può essere attribuita alla corteccia prefrontale destra, la cui lesione impedisce di identificare in condizioni di scelta multipla il recondito lato umoristico di situazioni verbali (barzellette) e non verbali (vignette) (Shammi and Stuss, 1999). In questo casi rimarrebbe un sottofondo di umorismo primordiale, puerile e farsesco. A questo proposito, appare cruciale il riscontro fMRI di un’attivazione selettiva della porzione mediana della regione prefrontale ventrale (orbitofrontale), solo ed allorquando i contenuti umoristici riescono ad innescare il meccanismo edonico della risata spontanea (Goel and Dolan, 2001).
La perdita della capacità di connotare le informazioni sensoriali di un corretto significato emotivo-viscerale (Kawasaki et al., 2001) e della capacità di prevedere le inevitabili conse-
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guenze che tutto ciò comporta sia sotto l’aspetto del premio che della punizione (Schultz et al., 2000; Tremblay and Schultz, 1999) - ovvero, delle capacità di modulare o inibire pulsioni emotive ed istinti - si traducono in manifestazioni che vanno da una semplice mancanza di tatto ad una vera e propria aggressività incontrollata. Spesso sono i familiari a descrivere un mutamento consistente e piuttosto rapido della personalità del congiunto: egli diventa chiassoso, litigioso, incurante di sé (ad es. nell’igiene personale) e degli altri (assenza di rispetto) e può giungere a gravi alterazioni della condotta oroalimentare (sotto forma di bulimia ed iperfagia, fino ad appropriarsi della zuppa del cane per mangiarla), sessuale (ipersessualità polimorfa diretta verso la prima persona che s’avvicina) e sfinterica (appagamento delle proprie necessità fisiologiche al momento del bisogno, senza riguardo verso persone e luoghi). Le turbe del comportamento possono giungere a livelli socialmente così inaccettabili da infrangere perfino la legge. La sociopatia - e l’inevitabile emarginazione - in casi estremi possono diventare l’elemento più caratterizzante della sindrome (Blair e Cipolotti, 2000). Storicamente, il primo esempio descritto a questo proposito coincide con il primo caso pubblicato in letteratura sugli effetti di una lesione prefrontale traumatica (trafissione delle aree prefrontali dal basso verso l’alto). Si tratta del famoso caso di Phineas Gage, caratterizzato da disturbi delle capacità esecutivo-decisionali e da disturbi emotivo-comportamentali con litigiosità, aggressività, sociopatia ed emarginazione (Harlow, 1868). A distanza di oltre un secolo, la ricostruzione digitale delle lesioni ha permesso di localizzare le lesioni bilateralmente, con estensione dalle aree orbito-frontali a quelle dorso-laterali (Damasio et al., 1994).
In ultimo, la sindrome orbito-frontale può comportare più frequentemente delle altre sintomi e segni vegetativi che quasi sempre s’esprimono sotto forma irritativa, sia a livello cardiovascolare, sia a livello di altri organi splancnici. Tali manifestazioni saranno descritte nel capitolo sull’epilessia (vedi pag. 000).
Negli accidenti vascolari, e più raramente, nei tumori e nelle lesioni traumatiche, si riscontra frequentemente una vasodilatazione controlaterale con edema, ipotermia e iperidrosi (sindrome vegetativa tardiva delle emiplegie vascolari). Nei tumori, specie delle aree prefrontali, si manifestano assai spesso incontinenza vescicale e rettale, che sembrano dipendere non tanto da un deficit di innervazione sopraspinale discendente, quanto da un alterato controllo psichico delle funzioni sfinteriche. La sonnolenza e lo sbadiglio, anche in assenza di ipertensione endocranica, sono piuttosto frequenti nei tumori frontali, e presenti talora nelle lesioni vascolari. Nelle lobotomie e topectomie premotorie sono stati segnalati fenomeni gastrointestinali (iperperistaltismo o pseudo-occlusione intestinale, invaginazioni), ipotensione arteriosa, eruzioni bollose controlaterali, intensa bulimia o viceversa, stati cachettici progressivi con uremia e flittene diffuse, mortali nel giro di 2-6 mesi.
L’anosmia omolaterale, sintomo spesso inosservato o non denunciato, può insorgere per compressione uni o bilaterale esercitata da un tumore frontale sui bulbi olfattivi, sul trigono e regione entorinale. Qualora coesista atrofia ottica omolaterale (per compressione del nervo ottico) e papilla da stasi controlaterale (da ipertensione endocranica), si configura il raro quadro della sindrome di Foster-Kennedy. Tale sindrome può tuttavia dipendere anche da cause extracerebrali, e quindi non può ritenersi indicativa di una lesione prefrontale. I sintomi da lesione frontale sono sintetizzati nella tabella 13.1.
Le sindromi frontali secondo le diverse eziologie Sindromi vascolari. – Sono rappresentate dai rammollimenti nel territorio di irrorazione dell’arteria cerebrale anteriore. Nelle lesioni unilaterali i disturbi psichici sono eccezionali, mentre è abituale un’emiplegia crurale o a predominanza crurale. Presenti con una certa frequenza, anche se non costanti, sono il fenomeno di prensione forzata controlaterale ed i disturbi della statica, con retro-lateropulsione e caduta verso il lato della lesione. Disturbi dell’articolazione della parola sono frequenti nelle lesioni dell’emisfero sinistro, ma non eccezionali
Sindromi cerebrali corticali
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Tabella 13.1 - Sindromi Frontali. Sindrome motoria
Sindrome premotoria
Sindromi prefrontali
vedi Sindrome rolandica pag. 526
Motilità: – spasticità precoce – emiparesi transitoria – paralisi dello sguardo controlaterale – crisi oculogire (contro-adversive)
S. dorso-laterale (disturbo esecutivo): – incapacità di programmazione – perdita «memoria del futuro» – perdita di iniziativa – inerzia comportamentale
Riflessi: – prensione forzata (bilaterale) – labio- palmo-mentoniero – segno di Hoffmann – segno di Rossolimo
S. mediale/cingolata (apatico-abulica): – apatia – abulia – atimormia – blocco psicomotorio (inerzia)
Marcia – atassica – aprassica
S. orbito-frontale: (disinibita) – turbe comportamentali – condotta asociale – sintomi e segni vegetativi
Funzioni simboliche – afasia di Broca – agrafia – aprassia melocinetica – aprassia bucco-linguo-facciale – emidisattenzione motoria
in quelle dell’emisfero destro. L’obliterazione bilaterale dell’arteria cerebrale anteriore è rara: la sintomatologia è quella da lesione dei due lobuli paracentrali con paraplegia, inerzia, incontinenza sfinterica. Sindromi tumorali. – I disturbi psichici rappresentano l’elemento più importante della semeiologia dei tumori frontali e possono presentarsi anche isolatamente in assenza di turbe neurologiche e di segni di ipertensione endocranica. In questo caso si realizza una tipica sindrome orbito-frontale con componente espansivo-moriatica assai spesso rilevante. Se invece coesiste ipertensione endocranica, compaiono generalmente confusione mentale, torpore psichico, ottundimento della coscienza e sopore. I segni neurologici variano col variare delle singole aree frontali interessate. Nei tumori della convessità che non interessano la circonvoluzione precentrale, i sintomi controlaterali più frequenti sono la paralisi facciale di tipo centrale e il riflesso di prensione forzata, e nelle lesioni dell’emisfero sinistro, anche i disturbi del linguaggio di tipo espressivo (afasia di Broca).
Nei tumori parasagittali si ritrovano alterazioni permanenti della parola caratterizzati da difetto dell’intenzione di comunicare, stile telegrafico senza agrammatismo, povertà di parola, disartria. Specie nei meningiomi sono stati descritti interessamenti a distanza del nervo trigemino per dislocazione del tronco cerebrale. Nei tumori infero-polari si riscontrano i classici sintomi di vicinanza costituiti abitualmente dall’anosmia, per compressione del bulbo olfattivo, e dall’atrofia ottica, per compressione del nervo ottico; assai più rara è la comparsa di una sindrome di Foster-Kennedy. Nel caso di un coinvolgimento della regione prefrontale mediale, diventano dominanti i sintomi psichici della serie deficitaria: apatia, abulia, acinesia, perdita dell’iniziativa, ecc. Sindromi demenziali. – Nella demenza presenile di Pick, caratterizzata da atrofia fronto-temporale, i sintomi orbito-frontali (disinibizione, moria, turbe cognitivoemotive e del comportamento) precedono di solito quelli premotori (prensione forzata, paratonia, esagerazione dei riflessi di postura), mentre i disturbi della memoria sono in genere più tardivi. Nella demenza di Alzheimer e nel-
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le demenze senili, all’opposto, i sintomi e segni frontali psichici e neurologici possono comparire anche molto tardivamente rispetto ai disturbi della memoria. Sindromi traumatiche. – Nei traumi cranici maggiori, l’occorrenza non infrequente di lesioni contusive, spesso bilaterali, delle porzioni ventrali del lobo frontale può produrre sindromi orbitofrontali più o meno gravi. In caso di lesioni dirette da proiettile, i quadri clinici possono invece ampimente variare in rapporto alla traiettoria ed alla localizzazione ed estensione del danno creato. Sindromi tossico-dismetaboliche. – È necessario brevemente ricordare che in seguito ad avvelenamento da ossido di carbonio, da cianuri, così come in seguito ad anossia o ischemia cerebrale generalizzata prolungate, insorge un danno diffuso della neocortex che si manifesta con uno stato di coma più o meno grave e protratto. In caso di lesioni parzialmente reversibili, o compatibili con la sopravvivenza, è possibile assistere ad un ripristino graduale dello stato di coscienza, spesso attraverso uno stadio più o meno prolungato di mutismo acinetico.
Sindrome rolandica La sindrome rolandica è causata da una lesione che interessa le circonvoluzioni prerolandica e postrolandica. Si distingue, pertanto, una sindrome rolandica anteriore o dell’area motoria, ed una sindrome rolandica posteriore o dell’area sensitiva. A seconda del tipo di lesione si può avere una sintomatologia di tipo irritativo o di tipo deficitario.
Sindrome rolandica anteriore o dell’area motoria corticale Premesse anatomo-fisiologiche La regione motoria prerolandica comprende l’area 4 e l’area 6 (Fig. 13.3). L’area 4 occupa la porzione posteriore del lobo frontale e si estende, allargandosi progressivamente, dalla scissura di Silvio fino alla superficie mediale dell’emisfero, nel lobulo paracentrale (Fig. 2.11). L’area 4 può essere ulteriormente suddivisa in tre aree: l’area 4 gamma, l’area 4 alfa e l’area 4 s. Una lesione circoscritta ed isolata dell’area 4 gamma determina diminuzione di forza, ipotonia, aumento dei
riflessi profondi e positività del segno di Babinski. Il deficit motorio interessa prevalentemente i segmenti corporei a rappresentazione corticale più estesa. L’area 4 alfa è situata immediatamente al davanti dell’area 4 gamma. Il ruolo funzionale dell’area 4 alfa è sconosciuto e pertanto essa è priva di interesse clinico. L’area 4 s o area soppressoria è posta al davanti dell’area 4 gamma. La stimolazione dell’area 4 s avrebbe un effetto inibitorio sulle risposte motorie ottenute mediante stimolazione dell’area 4 gamma. Quando la lesione dell’area 4 gamma è associata a una lesione dell’area 4 s si verifica un’emiparesi spastica: la spasticità (che, come si è detto, manca quando la lesione è circoscritta alla sola area 4 gamma) sarebbe dovuta appunto alla mancanza dell’influenza inibitoria normalmente esercitata dall’area 4 s. L’area 6 (o area premotoria) è situata al davanti dell’area 4. L’area 6 non invia fibre al fascio cortico-spinale: ne consegue che i collegamenti discendenti avvengono tramite stazioni sottocorticali fra cui i nuclei della base, la sostanza nera, ecc. La stimolazione dell’area 6 determina risposte motorie che, a differenza di quelle ottenute stimolando l’area 4, sono caratterizzate da movimenti più grossolani e globali all’emicorpo controlaterale. Impiegando stimoli più intensi si possono osservare movimenti analoghi anche all’emicorpo omolaterale. L’aspetto clinico più caratteristico della distruzione isolata dell’area 6 è costituito dalla comparsa del fenomeno della prensione forzata in corrispondenza degli arti controlaterali. Oltre alle aree 4 e 6 esiste un’altra area motoria: l’area supplementare motoria (v. pag. 00). La vascolarizzazione della convessità esterna dell’area rolandica dipende dall’arteria cerebrale media: a. rolandica e a. parietale anteriore. Il lobulo paracentrale e la parte superiore della faccia esterna sono irrorate dall’arteria cerebrale anteriore. La mappa motoria è stata tracciata nell’uomo sulla base dei risultati ottenuti mediante la stimolazione con macroelettrodi della circonvoluzione frontale ascendente durante interventi chirurgici (Penfield e Boldrey, 1937) ed è stata riportata nella figura 000. Attualmente la mappa motoria non può più esser vista come un mosaico in cui hanno la loro sede gli apparati neurali che consentono l’attivazione di ogni singolo muscolo del corpo. Ciascun muscolo, infatti, è ripetutamente rappresentato per permettere una combinata organizzazione dei movimenti adatti per ogni specifico compito. Le diverse popolazioni neuronali corticali a funzione motoria sembrano avere ruoli specifici nel determinare l’attività motoria (Krakauer e Ghez, 2000), per cui esiste una marcata sovrapposizione funzionale per la contrazione di un determinato singolo muscolo, che può, infatti, essere attivato da aree della corteccia motoria spazialmente disperse.
Sindromi cerebrali corticali Infine, due considerazioni, desunte dai dati di recente acquisizione, debbono essere segnalate : 1) la pianificazione e l’esecuzione di un compito motorio è frutto di una integrazione sensorimotoria, che comprende tra l’altro una rappresentazione dello spazio esterno; 2) l’apprendimento di un compito motorio è un’attività cognitiva complessa, che coinvolge più aree motorie (frontali) e sensitive (parietali) (Krakauser e Ghez, 2000).
SINTOMATOLOGIA IRRITATIVA – Consiste in crisi jacksoniane motorie (v. pag. 000). SINTOMATOLOGIA DEFICITARIA. – Una lesione della regione motoria prerolandica determina un deficit di forza la cui distribuzione varia in rapporto all’estensione della lesione. La lesione interessa, in genere, una porzione dell’area motoria, essendo estremamente improbabile che la occupi tutta, per cui si verifica una monoparesi (o una monoplegia) localizzata, in ordine di frequenza, all’arto superiore, all’arto inferiore oppure alla faccia. Il deficit motorio interessa, con maggior frequenza, l’arto superiore. In genere la paresi si manifesta, prevalentemente, ai segmenti distali degli arti e, nel caso dell’arto superiore, sono i movimenti fini ad essere compromessi; meno colpiti, invece, appaiono i movimenti prossimali ed i movimenti più grossolani. La fase iniziale si accompagna a flaccidità ma, successivamente, interviene una certa spasticità. La paralisi isolata dei muscoli della faccia, come si è detto, è piuttosto rara: infatti, è associata quasi sempre a paresi dell’arto superiore e, se la lesione ha sede nell’emisfero dominante, a disturbi del linguaggio. L’esperienza clinica insegna che una paresi centrale isolata del VII nervo cranico è in genere espressiva di un processo espansivo. Talora le monoplegie corticali possono assumere una distribuzione segmentale che simula una paralisi di tipo periferico (c.d. paralisi cortico-motorie dissociate): sono state descritte, ad esempio, paralisi di tipo «ulnare» o di tipo «radiale» all’arto superiore; o anche paralisi simulanti una lesione radicolare lombosacrale all’arto inferiore (Foerster 1936; Delmas-Mar-
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salet, 1968). L’analogia con le corrispondenti paralisi periferiche è tuttavia limitata alla distribuzione del deficit motorio; inoltre, la presenza di iperreflessia profonda, la scarsità dell’atrofia muscolare e la presenza di riflessi patologici (segno di Babinski) permettono un’agevole diagnosi differenziale. Una lesione interemisferica che interessi il lobulo paracentrale bilateralmente provoca una paraparesi (o una paraplegia) agli arti inferiori, non sempre facilmente distinguibile da una paraparesi dovuta ad una lesione midollare. In sintesi, gli elementi più caratteristici della sindrome rolandica anteriore sono rappresentati da: 1) paresi (specie all’arto superiore), 2) crisi jacksoniane motorie.
Sindrome rolandica posteriore Premesse anatomo-fisiologiche L’area sensitiva primaria è situata nella circonvoluzione post-centrale o parietale ascendente (aree 3, 1, 2 di Brodmann) (Fig. 13.4) ma si estende per breve tratto anche sulla superficie della circonvoluzione precentrale. L’area sensitiva secondaria è posta lungo il margine superiore della scissura di Silvio, sia anteriormente che posteriormente alla scissura di Rolando (Fig. 3.13). La mappa corticale sensitiva (Fig, 3.12), come quella motoria, è stata costruita mediante la stimolazione con macroelettrodi durante interventi chirurgici. Il mappaggio sensitivo, nella scimmia e nell’uomo, si riferisce non a una ma a quattro rappresentazioni separate e complete dell’emicorpo del lato opposto, e le popolazioni neuronali delle quattro aree sono funzionalmente in rapporto con diversi tipi di sensibilità (Amaral, 2000). Sia l’area sensitiva primaria che l’area sensitiva secondaria sono connesse con il talamo. In particolare, l’area sensitiva primaria riceve impulsi afferenti dai nuclei ventro-postero-laterale e ventro-postero-mediale ove terminano il lemnisco mediale, il fascio spino-talamico ed il lemnisco trigeminale. L’area sensitiva secondaria, invece, sarebbe connessa con una regione talamica contigua al nucleo ventro-postero-laterale; le connessioni del-
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l’area sensitiva secondaria, comunque, sono tuttora oggetto di discussione. L’area sensitiva parietale darebbe origine, inoltre, a sistemi efferenti la cui rilevanza clinica resta da stabilire. La stimolazione, sia dell’area sensitiva primaria che dell’area sensitiva secondaria determina sensazioni descritte come «intorpidimento, formicolio, scosse elettriche». Da notare che le sensazioni prodotte mediante stimolazione dell’area sensitiva primaria sono esclusivamente controlaterali, mentre la stimolazione dell’area sensitiva secondaria determina anche sensazioni omolaterali. La stimolazione dell’area sensitiva secondaria può determinare anche sensazioni più complesse, come l’impulso a compiere un movimento oppure l’incapacità a muovere un arto. Va segnalato infine che mentre l’ablazione dell’area sensitiva primaria determina la perdita della sensibilità discriminativa a livello dell’emicorpo controlaterale, l’ablazione dell’area sensitiva secondaria non produce deficit sensitivi clinicamente apprezzabili. La somatotopia corticale sensitiva è analoga a quella motoria (v. pag. 121), nonostante ciò, l’ablazione della circonvoluzione post-centrale, non produce un’anestesia permanente. Quest’ultima può verificarsi, invece, a seguito di una lesione sottocorticale: tale lesione, infatti, determinerebbe l’interruzione delle fibre talamo-corticali dirette ad altre aree della corteccia «potenzialmente sensitive», situate sia nel lobo frontale che nel lobo parietale (Ruch e Fulton, 1962). Le varie forme di sensibilità non vengono ugualmente compromesse da una lesione corticale: in particolare, la sensibilità dolorifica viene ricuperata rapidamente e quasi completamente; e così anche la sensibilità alla pressione, al caldo e al freddo; mentre la sensibilità tattile discriminativa e la sensibilità batiestesica sono quelle più gravemente e durevolmente compromesse. La vascolarizzazione è quella indicata a pag. 000, per la sindrome rolandica anteriore.
SINTOMATOLOGIA IRRITATIVA. – Consiste in crisi jacksoniane sensitive (v. pag. 000). SINTOMATOLOGIA DEFICITARIA. – Può interessare sia tutto l’emicorpo controlaterale che parte di esso; i segmenti distali risultano maggiormente colpiti dei segmenti prossimali. L’entità del deficit obbiettivo varia notevolmente in rapporto al momento in cui il soggetto viene esaminato. Accade così che, durante la fase acuta di una lesione distruttiva o immediatamente dopo una crisi jacksoniana sensitiva, tutte le forme di sensibilità risultino temporaneamente abolite.
Quando il quadro clinico è stabilizzato o lentamente progressivo il deficit sensitivo, anche se oscillante, è generalmente di «tipo corticale». In particolare, le sensibilità superficiali (dolorifica, termica, tattile protopatica) appaiono conservate o comunque scarsamente compromesse. Gravemente colpite risultano invece le sensibilità profonde e combinate, cioè il senso di posizione, il riconoscimento dei movimenti passivi, la discriminazione tattile, la capacità di localizzare uno stimolo e di valutarne l’intensità, la stereognosia. Particolare valore diagnostico ha la cosiddetta “disattenzione tattile” (Critchley, 1955) più nota come “fenomeno dell’estinzione” (v. pag. 113), poiché rappresenta, talvolta, l’unico indizio di una compromissione della regione rolandica posteriore. Altri fenomeni deficitari meno frequenti sono la grafoagnosia (impossibilità a riconoscere numeri o lettere tracciati sulla cute), la topoagnosia (impossibilità di localizzare esattamente uno stimolo), l’alloestesia (localizzazione dello stimolo sulla parte opposta o speculare del corpo), l’alterazione del tempo di adattamento ad uno stimolo (cessazione della percezione di uno stimolo continuato a causa di un eccesso di adattamento oppure la percezione continua di uno stimolo intermittente). Può accadere che la disposizione topografica delle turbe sensitive presenti qualche aspetto particolare. Spesso si osserva, ad esempio, che le turbe della sensibilità non risultano evidenti lungo la linea mediana del corpo, in quanto, in questa regione, le aree di innervazione sensitiva dei due lati si sovrappongono per qualche centimetro per cui la separazione fra emilato sano ed emilato affetto non è netta, ma graduale e sfumata. Altro fenomeno abbastanza frequente è costituito dal fatto che il deficit sensitivo è più marcato all’arto superiore che all’arto inferiore, ed alle superfici ventrali più che a quelle dorsali. Raramente poi si possono osservare turbe della sensibilità a distribuzione pseudoradicolare: in tal caso il disturbo interessa soprattutto i territori compresi fra C6 e T1 e fra L5 e S3. Il deficit sensitivo, infine, può concernere piccole zone isolate le une dalle altre: il tipo più frequente è costituito dalla cosiddetta anestesia cheiro-orale che interessa la rima orale e l’eminenza tenar. Oltre ai disturbi della sensibilità il malato può presentare, in corrispondenza dei segmenti corporei colpiti, ipotonia, flaccidità ed atassia; quest’ultima, ovviamente, è dovuta al deficit del senso di posizione. Talora può essere presente anche atrofia muscolare la cui origine, peraltro, è tuttora oggetto di studio.
Sindromi cerebrali corticali
In sintesi, gli elementi essenziali della sindrome rolandica posteriore sono rappresentati da: 1) deficit delle sensibilità combinata e profonda all’emisoma controlaterale 2) fenomeno dell’estinzione 3) crisi jacksoniane sensitive.
La sindrome rolandica secondo le diverse eziologie La sindrome rolandica è stata isolata, per esigenze di chiarezza didattica, dal contesto delle sindromi corticali. La sindrome rolandica anteriore, tuttavia, rappresenta di fatto l’effetto di una lesione frontale posteriore, e può quindi combinarsi variamente ad altri segni o sintomi espressione di lesione frontale; analogamente la sindrome rolandica posteriore è espressione di una lesione parietale. Pertanto, per l’analisi della sindrome secondo le diverse eziologie si rimanda alla sindrome frontale (v. pag. 524) e alla sindrome parietale ( v. pag. 533). Sindrome opercolare Il termine opercolo dell’insula (di Reil), o semplicemente opercolo, fa riferimento a quella ristretta regione del manto corticale che ricopre l’insula di Reil (v. pag. 541). Si usa distinguere un opercolo frontale, rappresentato dall’estremità caudale della circonvoluzione frontale inferiore (F3), un opercolo parietale, a livello del piede delle circonvoluzioni pre e post-centrale ed un opercolo temporale a livello della porzione più rostrale della circonvoluzione temporale superiore. Mentre le funzioni della corteccia opercolare ed i rapporti con l’insula di Reil non sono completamente chiarite, la sintomatologia clinica è sufficientemente documentata, anche se molto rara, e indicata degli autori di lingua francese, come paralisi labio-facio-glosso-faringo-laringo-brachiale.
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Il quadro clinico è caratterizzato da deficit di tipo centrale dei seguenti nervi cranici: V (deficit della masticazione e aumento del riflesso masseterino); VII (paresi di tipo centrale); IX, X, XI (paresi faringo-laringo-palatina); XII (paresi linguale). Disartria, disfonia fino all’afonia, e turbe fasiche motorie (se è interessato l’emisfero dominante) sono descritte assai più precocemente del deficit della deglutizione; le lesioni bilaterali possono determinare riso e pianto spastico. Nel complesso esiste una spiccata dissociazione automatico-volontaria. Rispetto alla sindrome pseudobulbare o soprabulbare, la sindrome opercolare si distingue per: a) possibilità di segni unilaterali (in questo caso l’eventuale deficit motorio piramidale è ipsilaterale alle alterazioni dei nervi cranici), b) assenza costante di turbe delle funzioni mentali e degli sfinteri, c) rarità del riso e pianto spastico, d) rapida regressione delle turbe della deglutizione, e) presenza di ageusia (sia pure assai rara). Come nella sindrome pseudobulbare, anche nella sindrome opercolare saranno ovviamente assenti segni di denervazione della muscolatura cranio-facciale, presenti invece nelle lesioni bulbari. Una lesione ischemica per occlusione embolica o trombotica dei rami terminali dell’arteria cerebrale media è, quasi sempre, responsabile della sindrome opercolare.
Sindrome parietale Il lobo parietale è funzionalmente collegato con i lobi vicini ( in particolare i lobi occipitale e temporale), con i quali non si evidenziano confini ben definiti. Una sintomatologia temporo od occipito-parietale è di riscontro più frequente di una sintomatologia parietale pura, salvo quella che riguarda la circonvoluzione parietale ascendente, descritta come sindrome rolandica posteriore.
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Premesse anatomo-fisiologiche Quasi interamente collocato nella faccia esterna dell’emisfero, tranne il lobulo quadrilatero, il lobo parietale (Fig. 13.4) è situato posteriormente alla scissura rolandica (R), dorsalmente al lobo temporale, anteriormente a quello occipitale. Un solco post-centrale, parallelo alla scissura rolandica, separa il giro post-centrale o circonvoluzione parietale ascendente (PA) dal restante lobo parietale. Quest’ultimo è diviso in due circonvoluzioni parietali (P1 e P2) o lobuli parietali (superiore e inferiore) dal solco interparietale, il cui ramo verticale forma il limite con la PA (parietale ascendente) e il ramo orizzontale separa P1 da P2. Il lobulo parietale inferiore o P2 è diviso in due dal solco di Jensen, ramo del solco interparietale: la porzione anteriore o giro sopramarginale, a cavallo della terminazione della scissura di Silvio, e la porzione posteriore o giro angolare o piega curva, che ricopre a forma di U capovolto l’estremità posteriore del solco temporale superiore (Fig. 2.6A). La corteccia parietale, secondo la nomenclatura di Brodmann, comprende: a) le aree post-centrali (3, 1, 2) della circonvoluzione parietale ascendente e della parte posteriore del lobulo paracentrale; b) le aree parietali posteriori (5, 7) del lobulo parietale superiore e del precuneo; c) le aree parietali inferiori (39, 40) del lobulo parietale inferiore con i giri sopramarginale (40) e angolare o piega curva (39). a) Aree post-centrali. Sono state descritte a pag. 527 nella sindrome rolandica posteriore. b) Aree parietali posteriori o aree sensitivo-psichiche. L’area parietale posteriore o sensitivo-psichica, situata posteriormente all’area somato-sensitiva, ricopre la parte posteriore della parietale ascendente, le due labbra del solco retro-rolandico e la prima circonvoluzione parietale. Corrisponde alle aree 5 e 7 di Brodmann; istologica-
Fig. 13.4 - Le aree del lobo parietale (faccia laterale).
mente si tratta di una corteccia omotipica di tipo frontale, caratteristica di un’area sensitiva secondaria di associazione, connessa coi n. ventrali posteriori talamici. Il lobulo parietale superiore possiede certamente un ruolo nella percezione sensitiva specie discriminativa, in gran parte analoga a quella dell’area rolandica posteriore, ma non esiste una rappresentazione somatotopica. In effetti viene spesso affermato che limitare l’area sensitiva alla circonvoluzione rolandica posteriore rappresenta un artificio e che anche il lobulo parietale posteriore dovrebbe far parte dell’area corticale sensitiva. c) Aree parietali inferiori o aree sensitivo-gnosiche. Situate nella seconda circonvoluzione parietale, comprendono il giro sopramarginale e il giro angolare o piega curva (rispettivamente area 40 e 39 di Brodmann) e sono in connessione con il pulvinar. È in queste aree sensitivognosiche che si realizza il vero riconoscimento delle percezioni o processo gnosico, la sintesi cioè dei dati percettivi attuali in funzione delle esperienze passate. In effetti, i lobuli parietali superiore ed inferiore, insieme con le vicine porzioni del lobo temporale ed occipitale, sono più estesi nell’uomo che in ogni altro primate, e raggiungono il loro sviluppo completo piuttosto tardivamente (attorno ai 7 anni di età). Tali aree presentano importanti connessioni con i lobi frontali, occipitali e temporali dello stesso emisfero e, tramite il corpo calloso, con i lobuli parietale superiore ed inferiore controlaterali. L’ipotesi di una funzione integratrice per vista, udito e sensibilità (in compartecipazione con le regioni adiacenti dei lobi temporale ed occipitale) è accettabile. In conclusione: in presenza di lesioni distruttive della corteccia parietale le sensibilità protopatiche o superficiali (dolore, tatto, sensibilità termica e vibratoria) sono in gran parte conservate, mentre il senso chinestesico-posturale e le sensibilità discriminative risultano elettivamente compromesse. Per quanto concerne la sensibilità dolorifica la corteccia parietale non contiene alcun raggruppamento cellulare specifico, e interviene per aggiungere alla sensazione dolorosa elementare, fornita dal talamo, due elementi, l’algognosia e l’algotimia, che trasformano il «dolore» in «sofferenza» (Lazorthes, 1973). L’algognosia (sede, natura, intensità, causa), è realizzata a livello delle aree parieto-temporo-occipitali. L’algotimia deborda dal quadro del dolore fisico per estendersi a quello della vita affettiva. L’interruzione delle connessioni frontotalamiche in seguito a lobotomia o lesione infiltrativa frontale permette di ottenere un’analgotimia, cioè un’indifferenza affettiva al dolore e non un’analgognosia poichè non scompare la consapevolezza del dolore, ma la sofferenza.
Sindromi cerebrali corticali Infine la sostanza bianca del lobo parietale è attraversata dal contingente laterale e dorsale delle vie ottiche. Vascolarizzazione. – La convessità esterna del lobo parietale dipende dai rami dell’arteria silviana: arteria parietale anteriore (parte anteriore di P1 e P2), arteria parietale posteriore (parte posteriore di P1 e P2), ramo terminale dell’arteria silviana o arteria della piega curva. Sulla faccia interna il lobo parietale è irrorato dai rami dell’arteria cerebrale anteriore.
Sintomatologia SINTOMI DA LESIONE DEL LOBULO PARIETALE SUPERIORE (AREE PARIETALI POSTERIORI) Le aree interessate sono quelle parietali posteriori altrimenti dette aree sensitivo-psichiche (particolarmente 5 e 7). La lesione di queste aree comporta una sintomatologia simile a quella descritta per lesioni delle aree somato-sensitive (3, 1, 2) con compromissione delle sensibilità discriminative e presenza del fenomeno dell’estinzione (v. pag. 113). Nelle lesioni delle aree parietali posteriori la topografia dei disturbi sensitivi sarebbe meno precisa, interessando globalmente l’emicorpo controlaterale, talora con prevalenza nelle parti distali degli arti. Ciò corrisponde alla sindrome sensitiva parietale di Verger-Dejerine, caratterizzata dall’integrità delle sensibilità elementari (tattile, termo-dolorifica, chinestesica), mentre è elettivamente compromessa la stereognosia. SINTOMI DA LESIONE DEL LOBULO PARIETALE INFERIORE (AREE PARIETALI INFERIORI) Sono interessate le aree parietali inferiori, cioè il giro sopramarginale e il giro angolare (aree 40 e 39), che hanno funzioni essenzialmente gnosiche e prassiche. La principale di queste funzioni sembra essere la conservazione dello schema tonico-chinestesico-posturale del proprio corpo (schema corporeo). È infatti nella regione parietale che sembra verificarsi quella integrazione delle sensazioni tattili, chineste-
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siche, vestibolari e visive che è alla base della formazione dell’immagine del nostro corpo. Ciò non può sorprendere se si tengono presenti le connessioni del lobo parietale con i lobi vicini, in particolare col lobo occipitale. a) Disturbi dello schema corporeo. Sono stati descritti a pag. 159. Ricordiamo solamente che i disturbi somatognosici presentano notevoli differenze a seconda dell’emisfero leso. In particolare, per lesione del lobo parietale destro (emisfero non dominante) il sintomo fondamentale varia dall’anosognosia, cioè dal mancato riconoscimento o dalla negazione, da parte del paziente, della propria infermità fisica (per lo più emiplegia sinistra), all’anosodiaforia, che consiste in un atteggiamento affettivo di assoluta indifferenza nei riguardi della propria condizione morbosa. Altre volte tutto l’emicorpo sinistro viene «dimenticato», partecipando in maniera estremamente ridotta, anche in assenza di fatti paretici grossolani, alle funzioni sensorio-motrici dell’individuo, ciò che si designa come emisomatoagnosia; o, ancora, possono comparire sentimenti di non appartenenza, di estraneità di una parte del corpo, che può essere vissuta anche come appartenente ad un’altra persona (fenomeni variamente denominati: illusione di assenza, delirio di assenza, somatofrenia, ecc.). Osservazioni più recenti indicano che soggetti con lesione parietale destra, presentano anche una emidisattenzione ipsilaterale, suggerendo che, per l’attenzione spaziale, il lobo parietale destro svolge funzione dominante. In sintesi, una lesione parietale può rendere insufficienti i meccanismi attentivi per l’emispazio e l’emisoma controlaterali. Nelle lesioni dell’emisfero dominante i disturbi somatognosici possono essere bilaterali e si può realizzare allora la sindrome di Gerstmann (v. pag. 160), attribuita classicamente a lesione del giro sopramarginale e della piega curva e caratterizzata da: 1) agnosia digitale, 2) agrafia pura, 3) disconoscimento destra-sinistra,
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4) discalculia. Il valore anatomo-clinico della sindrome, ampiamente criticato, è oggi rivalutato (Walsh, 1994). Altri sintomi di asomatognosia da lesione parietale sinistra sono: l’autotopoagnosia o impossibilità di designare e denominare le differenti parti del corpo, anche se si dà al paziente la possibilità di guardarle, di toccarle o di mettersi davanti allo specchio; l’asimbolia al dolore (Schilder e Stengel, 1931) o assenza o insufficienza di reazione al dolore, che non viene più avvertito come tale, malgrado siano conservate le forme elementari di sensibilità e le reazioni vegetative che accompagnano il fenomeno doloroso. Lesioni parietali localizzate a destra sono la causa di disturbi spaziali (agnosia spaziale unilaterale o emidisattenzione per lo spazio, disturbi per difettosa memoria delle relazioni spaziali, in particolare disorientamento topografico, perdita della memoria topografica, ecc.) e di agnosia per le fisionomie (prosopoagnosia) ( v. pag. 156).
b) Disturbi prassici. Sono stati descritti a pag. 147. L’aprassia ideomotoria, sarebbe determinata da lesioni cerebrali a focolaio del lobo parietale sinistro, soprattutto in corrispondenza del giro sopramarginale con probabile interessamento anche dei settori posteriori del lobo temporale.
L’aprassia dell’abbigliamento è pressoché costantemente dovuta ad una lesione del lobo parietale destro, spesso associata, e, con buona probabilità forse conseguente, a disturbi somatognosici (emisomatoagnosia) o di riconoscimento spaziale (disorganizzazione delle funzioni visuospaziali e visuocostruttive). Come si vede tutti i disturbi gnosici e prassici riferibili a lesioni del lobo parietale sembrano avere come denominatore comune un’alterata percezione dello spazio. Infatti, il lobo parietale svolge un ruolo di primaria importanza nelle seguenti funzioni: a) percezione tattile (stereognosia); b) percezione del proprio corpo (somatognosia); c) esplorazione, orientamento e memoria delle relazioni spaziali (gnosia spaziale); d) programmazione dei movimenti (prassia). La programmazione dei movimenti necessita ovviamente di un’esatta percezione sia dello spazio «esterno», in cui tali movimenti si esplicano, sia del proprio corpo, che rappresenta lo spazio «interno».
c) Disturbi del linguaggio. Sono stati descritti a pag. 139. La circonvoluzione parietale inferiore (giro sopramarginale e piega curva) fa parte della zona del linguaggio di Wernicke, ma questa zona si trova a cavallo tra i lobi temporale e parietale e interessa molto più il primo del secondo, per cui generalmente l’afasia non viene considerata come una sindrome parietale propriamente detta. Tuttavia se è vero che il ruolo della piega curva dell’emisfero dominante dà ancora luogo a discussioni circa la genesi di alcune varietà di afasia, quali l’afasia amnestica, l’afasia di conduzione e l’agrafia, è altrettanto vero che la responsabilità di tale area nel determinare un’alessia pura sembra essere innegabile. Anche nelle lesioni parietali destre si osservano frequentemente disturbi della lettura, ma questi sono di un tipo tutto particolare e dipendono da disordini di carattere visuospaziale (c.d. dislessia di tipo spaziale).
d) Sintomi non riconducibili a lesioni di precise aree parietali. 1) Amiotrofie parietali. – Amiotrofie dei piccoli muscoli della mano, che ricordano il quadro di Aran-Duchenne, ma senza reazione degenerativa o attività di denervazione all’indagine elettrodiagnostica e talora coesistenti con segni piramidali, sono state riscontrate per lesione parietale. Si trovano in casi di tumore parietale a lento sviluppo, nelle lesioni traumatiche e vascolari. Sino ad oggi non ne è stata fornita una spiegazione soddisfacente e, in genere, sono ascritte a lesioni post-centrali e parietali posteriori. Viene anche sottolineata l’importanza delle turbe vasomotorie associate e la possibilità che esista a livello della corteccia parietale una rappresentazione neurovegetativa. 2) Atassia parietale. – Le alterazioni delle sensibilità profonde osservate frequentemente nelle lesioni del lobo parietale possono, in molti casi, spiegare l’atassia generalmente simile a quella tabetica, aggravata cioè dalla chiusura degli occhi. Ma in alcuni casi l’atassia è «pura» e compare al di fuori di qualsiasi disturbo sensitivo. In questi casi è probabile si verifichi un’alterazione o un’interruzione di particolari vie associative tra corteccia cerebrale e cervelletto (per es. fascio temporo-ponto-cerebellare). È
Sindromi cerebrali corticali anche possibile che alla base dei disordini atassici parietali esistano alterazioni dell’orientamento spaziale, anche in assenza di veri e propri disturbi della propriocettività mioartrocinetica. Una forma tipica di atassia parietale è rappresentata dalla paraplegia sensitivo-motoria corticale, realizzata da una lesione interessante i due lobuli paracentrali e costituita da una paraparesi atasso-spastica con alterazioni delle sensibilità profonde e positività del segno di Romberg. 3) Sindrome iperpatica. – Nelle lesioni parietali profonde con esordio acuto, ad una primitiva abolizione delle sensibilità elementari superficiali e profonde, può far seguito, nella fase di recupero, una «sindrome dolorosa di tipo talamico», caratterizzata essenzialmente da una risposta iperpatica similtalamica: tutti gli stimoli possono provocare sensazioni dolorose, per lo più diffuse, prolungate, a carattere particolarmente penoso e spiacevole. Tale sindrome è stata variamente denominata, ma il termine di sindrome iperpatica parietale sembra preferibile. È proprio la sua incompletezza e la sua limitazione alla sola iperpatia che la rende differenziabile dalla sindrome talamica completa: quest’ultima presuppone una lesione di almeno una parte del n. ventrale posteriore talamico, mentre la sola iperpatia rappresenta una modificazione complessa della sensibilità somatica che si verifica per lesioni o stimolazioni portate a diversi livelli delle vie di senso, sia periferiche (causalgie nella fase di rigenerazione delle fibre periferiche sensitive) sia sopratalamiche (cioè la sindrome iperpatica da lesione della sostanza bianca del lobo parietale). Due sono le aree parietali particolarmente incriminate nella genesi della iperpatia parietale: l’area 3, nella profondità della scissura rolandica e l’area somestesica secondaria.
4) Disturbi visivi. – Si tratta di deficit del campo visivo costituito, in genere, da una emianopsia quadrantica omonima inferiore controlaterale, che si verifica per una lesione del contingente dorsale delle radiazioni ottiche, laddove queste circondano il ventricolo laterale e si affondano nella sostanza bianca parietale per portarsi al labbro superiore della scissura calcarina. Tuttavia, frequentemente, tale deficit quadrantico può completarsi più o meno interamente in una emianopsia laterale omonima. 5) Disturbi del sistema vestibolare. – Sebbene la proiezione corticale del sistema labirintico resti discussa, molti autori ritengono che il lobo parietale rivesta un ruo-
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lo molto importante nei sistemi d’integrazione sopravestibolare. Le proiezioni corticali del labirinto sarebbero localizzate nel solco interparietale e zone adiacenti (Hécaen e Angelergues, 1964). Lesioni irritative di quest’area provocherebbero la comparsa di particolari fenomeni motori accessuali, caratterizzati da crisi oculo-cefalogire e da vere e proprie crisi di rotazione del corpo intorno al proprio asse o crisi giratorie. Dovuta ad analoghi meccanismi irritativi, ma costituita essenzialmente da fenomeni accessuali di tipo sensoriale, appare la c.d. sindrome del solco interparietale: ad un’aura vestibolare di tipo vertiginoso si associano angoscia e fenomeni visivi di tipo illusionale o metamorfopsie (modificazioni illusionali di forma degli oggetti: dismorfopsie; modificazione illusionale di sede: sensazione di movimento, inclinazione o allontanamento degli oggetti; plagiopsie). Crisi di questo tipo sono state riprodotte sperimentalmente da Foerster (1936) e da Hoff e Kamin (1930); Penfield (1954) ha ottenuto fenomeni di tipo metamorfopsico stimolando nell’uomo le zone corticali della regione postero-inferiore. 6) Disturbi gustativi. – I lavori di Bornstein (1940) tendono a stabilire che la rappresentazione corticale del gusto risiederebbe a livello del piede dell’area sensitiva (area 43), in prossimità della zona di rappresentazione della sensibilità linguale e dei centri per i movimenti di deglutizione e di masticazione. Questo autore ha riscontrato disturbi gustativi in 11 soggetti affetti da ferite da arma da fuoco a livello dell’opercolo rolandico. La lesione sperimentale delle stesse aree determina nell’animale turbe gustative.
I sintomi da lesione parietale sono riassunti nella tabella 13.2.
La sindrome parietale secondo le diverse eziologie Sindromi vascolari. – La sintomatologia parietale è la conseguenza di rammollimenti silviani, tra cui si distinguono: a) rammollimenti silviani globali (con estensione sottocorticale della lesione) con: emiplegia, emianestesia, emianopsia ed alterazioni delle funzioni simboliche; b) rammollimenti silviani posteriori: con sintomatologia tipica del carrefour temporo-parieto-occipitale (c.d. sindrome visuo-costruttiva); c) rammollimenti silviani localizzati: di cui il più tipico è il rammollimento dell’arteria della piega curva, responsabile a sinistra di una alessia con afasia amnestica e sindrome di Gerstmann.
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Le grandi sindromi neurologiche
Tabella 13.2 - Sindromi parietali Lesioni Unilaterali (manifestazioni controlaterali) 1. 2. 3.
Sindrome sensitiva corticale, estinzione sensitiva Emianopsia omonima incongrua, quadrantanopsia omonima inferiore incongrua Emidisattenzione o neglect visivo. Anosognosia
a) Emisfero dominante 4a. 5a. 6a. 7a.
Lesioni Bilaterali
b) Emisfero non dominante
Alessia 3b. Sindrome di Gerstmann 4b. Agnosia tattile e per i colori Aprassia ideatoria ed 5b. ideomotoria bilaterale
Tutti i precedenti sintomi, fra i quali assai più frequenti o gravi: 1. Disorientamento spaziale 2. Alterata percezione spaziale 3. Aprassia costruttiva
Aprassia costruttiva Dsturbi dell’orientamento topografico e disturbi visuo-spaziali Aprassia dell’abbigliamento
Sindromi tumorali. – I disturbi sensitivi di tipo epicritico sono in primo piano, frequentemente associati a disturbi motori, mentre i deficit del campo visivo sono incostanti. I sintomi aprattognosici, pressochè costanti in presenza di lesione destra, anche se di grado e di natura diversi, sono meno frequenti quando la lesione è a sinistra, ove si presentano, generalmente, sotto l’aspetto della sindrome di Gerstmann più o meno completa. Tra i sintomi irritativi accessuali che possono manifestarsi nel corso di un processo tumorale e che spesso sono di tipo jacksoniano, motorio o sensitivo, si sottolinea l’importanza, ai fini localizzatori, di fenomeni accessuali asomatognosici. Sindromi traumatiche. – Sono frequenti e danno spesso luogo a quadri clinici «puri», che permettono un’analisi minuziosa dei vari disturbi (aprassia costruttiva di tipo destro o sinistro, asimbolia tattile, emianopsia quadrantica inferiore, ecc.). L’epilessia post-traumatica si manifesta nei traumatismi parietali preferibilmente con crisi sensitive, crisi algiche e fenomeni asomatognosici parossistici.
Sindrome temporale Nel lobo temporale si trovano riunite, accanto a zone filogeneticamente molto recenti e costituenti la neocorteccia temporale, zone filogeneticamente più antiche o allocorticali, anatomicamente eterogenee, indicate classicamente come rinencefalo, o pragmaticamente inglobate nel termine oggi più usato, anche se altrettanto discutibile, di «sistema limbico».
Premesse anatomo-fisiologiche Situato al di sotto del lobo parietale, dal quale è separato dalla scissura di Silvio, il lobo temporale si continua posteriormente con il lobo occipitale (Fig. 2.6 A, C - 13.5) e presenta una faccia laterale e una faccia inferiore, tutte e due convesse, che convergono in avanti dando all’estremo anteriore del lobo un aspetto arrotondato: il polo temporale. Due solchi sulla faccia esterna, temporale superiore (parallelo alla branca posteriore della scissura di Silvio) e medio (parallelo al precedente) e due solchi temporo-occipitali sulla faccia inferiore dividono il lobo temporale in cinque circonvoluzioni: – la circonvoluzione temporale superiore (T1), compresa tra la scissura di Silvio e il solco temporale superiore (solco parallelo), posteriormente abbraccia l’estremità della scissura laterale di Silvio e dirigendosi verso l’alto continua nel giro sopramarginale della circonvoluzione parietale inferiore; – la circonvoluzione temporale media (T2), compresa fra solco temporale superiore e medio, posteriormente continua nel giro angolare e in parte nella circonvoluzione occipitale media (O2); – la circonvoluzione temporale inferiore (T3) corrisponde al bordo inferiore dell’emisfero e confina posteriormente con la circonvoluzione occipitale inferiore (O3) (Fig. 2.6 A, C); – la circonvoluzione temporo-occipitale laterale (T4), o lobulo fusiforme, situata sulla faccia inferiore tra i due solchi temporo-occipitali (Fig. 2.6 C); – la circonvoluzione temporo-occipitale mediale (T5) costituisce il limite interno dell’emisfero. La sua porzione temporale è rappresentata dalla circonvoluzione
Sindromi cerebrali corticali dell’ippocampo, quella occipitale dalla porzione inferiore del lobulo linguale (O4) (Fig. 2.6 C). Secondo la nomenclatura di Brodmann (Fig. 13.5) la neocorteccia temporale comprende l’area 22, che ricopre i due terzi posteriori di T1, le aree 41 e 42, che comprendono le circonvoluzioni trasverse (anteriore e posteriore) di Heschl e sono situate nella parte centrale di T1, le aree 20 e 21, che corrispondono a T2 e T3, l’area 37, che continua le due precedenti e le separa dall’area 19 del lobo occipitale, ed infine l’area 38, che ricopre il polo temporale e confina con il lobo dell’insula (area 37). Dal punto di vista funzionale, nella corteccia temporale si possono distinguere le seguenti zone: 1) La zona uditivo-sensoriale. – È localizzata nella parte superiore della prima circonvoluzione temporale, versante silviano (aree 41 e 42, circonvoluzioni trasverse di Heschl), ed è caratterizzata da una koniocortex sensoriale eterotipica granulare dotata di una fitta rete mielinica, in gran parte formata dalle proiezioni ascendenti del corpo genicolato mediale (via cocleare centrale). Costituisce l’area acustica primaria, essendo funzionalmente deputata alla sola registrazione dei suoni e dei
Fig. 13.5 - Le aree del lobo temporale (1: faccia laterale; 2: faccia mediale).
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rumori, di cui peraltro non permette una precisa interpretazione e localizzazione. La sua distruzione bilaterale, evento clinicamente molto raro, si traduce in una sordità centrale completa; la lesione unilaterale può provocare modesta ipoacusia bilaterale, più accentuata controlateralmente. 2) La zona uditivo-psichica. – Circonda l’area acustica primaria nella prima circonvoluzione temporale e si estende anteriormente fino all’insula, posteriormente fino al giro angolare ed al giro sopramarginale. Corrisponde all’area 22 di Brodmann, caratterizzata da un particolare addensamento delle cellule del terzo strato, con profonda penetrazione delle fibre radiate e scarso sviluppo della stria di Bechterew. Funzionalmente rappresenta il centro percettivo-gnosico dei segnali acustici, grazie al quale rumori e suoni vengono percepiti, identificati ed anche decifrati come messaggi o parole con significato. Quest’ultima operazione richiede la conoscenza della lingua ed è pertanto svolta dall’area 22 dell’emisfero dominante, la cui lesione determina un’afasia di Wernicke (v. pag. 140). 3) La zona temporale comune. – Comprende la maggior parte della convessità temporale (aree 20, 21, 37, 38), ed è considerata una vasta zona associativa d’integrazione polisensoriale, ricevendo anche proiezioni dal pulvinar. Una porzione dell’area 21 di Brodmann riceve inoltre proiezioni dalle vie vestibolari centrali. 4) Il sistema limbico. – Non esiste una definizione accettata di sistema limbico e tanto meno di lobo limbico, termini tuttavia ampiamente usati nella trattazione moderna. Anche il termine rinencefalo, usato fino a qualche anno fa, include strutture diverse secondo i vari Autori. Il concetto di sistema limbico può essere accettato per uniformità e comodità descrittiva. Il sistema limbico comprende, in sommario, tre settori: 1) complesso olfattivo propriamente detto, costituito da: bulbo olfattivo, vie olfattive, circonvoluzione del cingolo, uncus dell’ippocampo, nucleo cortico-mediale dell’amigdala (Fig. 13.6/1); 2) complesso amigdaloideo costituito da: corteccia orbito-frontale posteriore, nuclei settali, circonvoluzione del cingolo, circonvoluzione dell’ippocampo (Fig. 13.6/2); 3) complesso settale o ammono-settale costituito da: nuclei settali, circonvoluzione del cingolo, formazione ippocampale (che comprende subiculum, ippocampo e giro dentato). I nuclei settali hanno anche connessioni con l’abenula, il nucleo interpeduncolare ed il tegmento del mesencefalo (Fig. 13.6/3).
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Le grandi sindromi neurologiche all’organizzazione dei comportamenti oro-alimentari nonché alle condotte istintive che le sottendono, come l’aggressività e la paura. L’ablazione di queste zone sopprime gli istinti e le condotte di autoprotezione alimentare, di lotta e di difesa dell’individuo nei confronti degli stimoli minacciosi o nocicettivi La disconnessione di queste zone dalle aree orbito-frontali (esercitanti un controllo inibitorio), così come la loro iperattivazione o stimolazione, analogamente a quella delle zone insulari, provoca effetti vegetativi (secretori, visceromotori, circolatori, respiratori, pupillari) e comportamentali (attenzione, sorpresa, paura, fuga, difesa, attacco), automatismi istintivi orali e fenomeni endocrini (liberazione di ACTH e di ormoni corticosurrenali). La funzione del «circuito settale» si riassume, invece, nella preservazione della specie, cioè nella organizzazione delle condotte sessuali e dei comportamenti sociali ed emozionali che le sottendono. Nell’ambito del circuito settale deve essere inoltre ricordato il ruolo del tutto particolare che viene assunto dal c.d. circuito di Papez (ippocampo-mammillo-talamico-cingolare) nell’apprendimento, registrazione, organizzazione e fissazione dei ricordi. L’attività del sistema limbico si esplica soprattutto attraverso due strutture effettrici principali, rappresentate dall’ipotalamo e da nuclei del tronco encefalico, a cui il sistema limbico è reciprocamente connesso. Grazie a tali connessioni bidirezionali, le strutture limbiche integrano una gran massa di informazioni provenienti dai vari sistemi sensoriali, sensitivi e viscerali, ed a loro volta intervengono nel determinare tipo ed entità delle varie risposte adattive viscero-comportamentali.
Fig. 13.6 - Raffigurazione schematica del sistema limbico. 1. Complesso olfattivo propriamente detto, costituito da: bulbo olfattivo, vie olfattive, circonvoluzione del cingolo, uncus dell’ippocampo, amigdala. 2. Complesso amigdaloideo, costituito da: corteccia orbito-frontale, nuclei settali, circonvoluzioni del cingolo, circonvoluzioni dell’ippocampo. 3. Complesso settale costituito da: nuclei settali, circonvoluzione del cingolo, ippocampo. I nuclei settali hanno connessione anche con l’abenula, i nuclei interpeduncolari e il tegmento mesencefalico.
Dal punto di vista funzionale si può distinguere, seguendo Mac Lean (1960 e 1962), un circuito dell’amigdala, che riunisce i complessi 1 e 2 e un circuito settale che corrisponde al complesso 3. Al «circuito dell’amigdala» sarebbe deputata essenzialmente l’autoprotezione dell’individuo. Ricordiamo infatti che le regioni fronto-temporali e insulare con il loro principale nucleo sottocorticale, l’amigdala, sono zone di rappresentazione viscero-somatica e presiedono
In conclusione: per rendere più agevole e schematica la suddivisione dei vari sintomi che si presentano nella patologia del lobo temporale, al termine di queste note anatomo-funzionali introduttive, possiamo dire che la «regione temporale» comprende tre settori fondamentali: 1) Un settore temporale propriamente detto, la cui lesione causa: a) disturbi uditivi; b) disturbi vestibolari e dell’equilibrio (tra cui la c.d. atassia temporale); c) disturbi visivi (tra cui soprattutto la quadrantanopsia omonima superiore controlaterale); d) afasia di Wernicke ed aprassia ideativa (per le lesioni temporali dell’emisfero sinistro). 2) Un settore limbico paleocorticale, rappresentato dal complesso olfattivo e amigdaloideo, la cui lesione è responsabile di:
Sindromi cerebrali corticali a) disturbi olfattivi e gustativi; b) disturbi delle funzioni vegetative; c) disturbi delle attività orali e genitali. 3) Un settore limbico archicorticale o complesso settale, la cui lesione produce: a) disturbi dell’attività psicomotoria; b) disturbi mnesici e dell’apprendimento; c) disturbi emozionali; d) disturbi della condotta sessuale; e) crisi epilettiche di tipo psicomotorio spesso, ma non costantemente, associate a crisi uncinate o vegetative. Come si può vedere, il lobo temporale non è soltanto “ l’organo” centrale della sensorialità uditiva, olfattiva e gustativa e del linguaggio ma, a causa delle sua porzione limbica (dall’anatomia e connessioni molto complesse), è anche “l’organo” che integra le afferenze somatiche e viscerali con l’insieme dei processi psicosensoriali e delle funzioni psichiche (coscienza, memoria, emotività, motivazioni) intervenendo nella complessa organizzazione dell’attività conscia e del comportamento istintivo-emotivo. Vascolarizzazione. – Il lobo temporale è irrorato, nella sua parte supero-esterna ed a livello del polo, dalle arterie temporali anteriore e posteriore, rami dell’arteria silviana. La parte infero-esterna dipende invece dal territorio di irrorazione dell’arteria cerebrale posteriore. L’arteria corioidea anteriore è l’arteria che irrora le principali strutture del lobo limbico e si anastomizza a livello di T5 con l’arteria cerebrale posteriore, che provvede alla irrorazione del corno d’Ammone, dell’uncus dell’ippocampo e del nucleo dell’amigdala per terminare a livello del corpo genico-lato laterale e della parte terminale del corpo caudato.
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DISTURBI UDITIVI L’area uditiva, a struttura anatomica prevalentemente granulare (koniocortex) è localizzata nella circonvoluzione temporale superiore (T1) e comprende le aree 41 e 42 di Brodmann. Queste aree ricevono specifiche proiezioni dal corpo genicolato mediale che riceve messaggi acustici, attraverso il lemnisco laterale, da entrambe le coclee, specie la controlaterale.
Una lesione irritativa di queste aree si manifesta con allucinazioni uditive elementari (suoni semplici) o allucinazioni uditive complesse (verbali, musicali, ecc.); una lesione deficitaria con ipoacusia bilaterale, più marcata controlateralmente se la lesione è unilaterale, oppure con sordità, nei rari casi di lesione bilaterale. Ciascuna delle due coclee avrebbe una rappresentazione corticale bilaterale, anche se prevalentemente controlaterale. Le lesioni unilaterali sono spesso responsabili di disturbi uditivi irritativi (paracusie, allucinazioni uditive), e solo raramente, per le grandi possibilità di compenso controlaterale, di disturbi uditivi deficitari (sordità, ipoacusia). La stimolazione dell’area uditiva, effettuata durante interventi neurochirurgici, provoca sintomi «irritativi», caratterizzati da allucinazioni uditive elementari (ronzii, fischi, suoni a tonalità metallica) o complesse (voci, rumori che ricordano il suono delle campane, lo stormire delle foglie, ecc.), o anche da fenomeni illusionali, cioè percezioni di suoni realmente esistenti, tuttavia modificati per intensità o per tono. Generalmente il malato attribuisce tali sintomi «irritativi» all’orecchio controlaterale alla sede di stimolazione. Non chiaramente precisati sono, invece, i sintomi conseguenti a lobectomie unilaterali.
Sintomatologia DISTURBI OLFATTIVI E GUSTATIVI Lo studio della sintomatologia conseguente ai vari tipi di lesioni del lobo temporale comprende i seguenti disturbi: 1) disturbi uditivi; 2) disturbi olfattivi e gustativi; 3) disturbi vestibolari e dell’equilibrio; 4) disturbi visivi; 5) disturbi delle funzioni simboliche; 6) disturbi vegetativi; 7) disturbi psichici; 8) disturbi da lesione di strutture adiacenti.
I disturbi dell’olfatto e del gusto sono quasi sempre di tipo irritativo, presentandosi sotto forma di fugaci allucinazioni olfattive e gustative, a comparsa repentina, a contenuto percettivo particolarmente sgradevole, come si osserva nelle crisi uncinate (v. pag. 000). Tali allucinazioni, facilmente evocabili mediante stimolazione dell’ippocampo o dell’amigdala, sono talvolta associate ad un particolare stato emotivo, caratterizzato da ansia, paura, terrore,
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Le grandi sindromi neurologiche
sintomi che nella patologia umana spesso accompagnano sia le crisi uncinate, sia le crisi psicomotorie (v. pag. 000). Le crisi allucinatorie olfattive e gustative possono ritenersi un sintomo cardinale di lesione temporale profonda. L’ageusia (o disgeusia) da lesione temporale è un evento possibile ma estremamente raro, e suggerisce, più che una lesione temporale, una lesione estesa all’insula. L’anosmia, o iposmia o parosmia da lesione dell’uncus o del polo temporale sono eventi relativamente più frequenti.
DISTURBI VESTIBOLARI
E DELL’EQUILIBRIO
Un’area di proiezione labirintica sarebbe localizzata nell’uomo in corrispondenza di T1, posteriormente all’area uditiva. Clinicamente vengono descritte , specie in casi di tumori temporali, vertigini persistenti o parossistiche. Le lesioni temporali deficitarie, solo raramente, causano quadri vertiginosi persistenti, distinguibili da quelli causati da lesione labirintica o tronco-encefalica per una prevalenza del nistagmo calorico dal lato della lesione, soglia nistagmica normale e mancanza delle normali sensazioni vertiginose evocate dalla stimolazione labirintica. Assai meno rare sono, invece, le vertigini parossistiche che caratterizzano, con una certa frequenza, le crisi epilettiche temporali, spesso associate ad allucinazioni uditive o fenomeni illusionali particolari, ad esempio l’impressione di cadere in un baratro o di levitare. Un cenno a parte merita la discussa atassia temporale pseudocerebellare di Knapp, assai vicina all’atassia frontale e costituita, come quest’ultima, da una astasiaabasia più o meno marcata con retropulsione. Il sintomo principale e più precoce rimane la atassia del tronco con retropulsione, associata o meno a lateropulsione; l’astasia-abasia non sarebbe che il grado estremo della retropulsione. Più rari e più tardivi sono la deviazione della marcia e la caduta controlaterale al lato della lesione, ed i segni dismetrici, l’adiadococinesia e il tremore intenzionale, tutti controlaterali. L’atassia temporale ha sollevato le stesse discussioni e gli stessi problemi di interpretazione dell’atassia frontale (v. pag. 520).
DISTURBI VISIVI Le lesioni temporali distruttive che interessano il contingente ventrale delle radiazioni ottiche determinano una tipica quadrantanopsia omonima superiore controlaterale. Le emianopsie omonime o le quadrantanopsie superiori controlaterali da lesioni temporali (come le
emianopsie omonime o le quadrantanopsie inferiori controlaterali da lesioni parietali) sono in genere ritenute emianopsie «congrue» (v. pag. 224). Le lesioni irritative del lobo temporale possono produrre allucinazioni visive, spesso complesse e spesso associate a fenomeni di visione panoramica dei ricordi o «rivissuto del passato». Nelle crisi epilettiche parziali a sintomatologia visiva, solo le allucinazioni complesse (scene elaborate, spesso in movimento e colorate) indicano con precisione la presenza di un focolaio temporale. Le allucinazioni visive elementari (punti, macchie, bagliori, saette luminose, ecc.) possono, invece, essere causate sia da focolai temporali che occipitali: la diagnosi differenziale di sede di lesione è basata sul fatto che generalmente le allucinazioni elementari a partenza temporale occupano l’intero campo visivo, mentre quelle a partenza occipitale rimangono confinate a porzioni omonime dei due campi visivi.
DISTURBI DELLE FUNZIONI SIMBOLICHE a) Disturbi fasici (v. pag. 139). Comprendono: l’afasia di Wernicke e l’afasia amnestica (non da tutti accettata come forma autonoma). L’afasia di Wernicke è sostenuta da una lesione dell’area di Wernicke, comprendente la parte posteriore di T1 e T2 (zona perisilviana posteriore dell’area del linguaggio) con frequente allargamento all’insula, al giro sopramarginale, ed al giro angolare (v. pag. 141). Nell’afasia amnestica la lesione di solito colpisce la convessità del lobo temporale, soprattutto nella parte posteriore di T3 (area 37), ma spesso si estende in alto e posteriormente fino a interessare tutta la zona marginale temporo-parieto-occipitale dell’emisfero sinistro.
b) Disturbi gnosici (v. pag. 157). L’agnosia uditiva è rara come quadro isolato, più spesso fa parte di un quadro afasico. Si manifesta come impossibilità di distinguere e dare significato a suoni diversi, per cui, ad esempio, una sirena che suona, lo squillo del telefono, l’acqua che scorre, rappresentano per il malato suoni del tutto simili. Il disturbo si asso-
Sindromi cerebrali corticali
cia spesso ad amusia, sintomo ancora non completamente chiarito. Il lobo temporale non dominante (usualmente il destro), sarebbe fondamentale per il riconoscimento della melodia e dell’armonia, in assenza di parole, mentre il lobo temporale dominante (usualmente il sinistro), svolgerebbe un ruolo fondamentale nella lettura e la scrittura della musica e nell’associazione al «cantato». c) Disturbi prassici (v. pag. 147). L’aprassia ideatoria, nonostante la sua rarità, possiede un qualche valore localizzatorio, essendo ritenuta espressione o di una vasta lesione retrorolandica dell’emisfero sinistro, o di una lesione retrorolandica bilaterale. DISTURBI VEGETATIVI E DELLE ATTIVITÀ ORO-GENITALI Fenomeni vegetativi e oro-alimentari (analoghi a quelli ottenuti sperimentalmente, specie nelle stimolazioni del lobo temporale) sono osservabili in patologia umana. I fenomeni irritativi costituiscono alcuni dei più caratteristici sintomi delle crisi epilettiche temporali (aura epigastrica, crisi vegetative, crisi orofaringee, ecc.). L’ablazione o la distruzione bilaterale dell’intera corteccia temporale causa la sindrome di Kluver-Bucy, costituita da: a) aumento e deviazione delle condotte orali; b) aumento e deviazione delle condotte sessuali; c) attenuazione dei comportamenti aggressivi (docilità e passività); d) aumento delle reazioni agli stimoli visivi (ipermetamorfosi), che conduce ad una incessante manipolazione orale e manuale degli oggetti; e) comportamento che ricorda da vicino l’agnosia visiva e conseguente tendenza ad esaminare gli oggetti con la bocca (Terzian e Dalle Ore, 1955).
DISTURBI PSICHICI I sintomi psichici comprendono: a) disturbi della sfera emotiva; b) disturbi psicomotori e del livello di vigilanza; c) disturbi delle funzioni mnesiche e dell’apprendimento; d) disturbi delle funzioni cognitive o intellettive in senso stretto.
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a) Disturbi della sfera emotiva. – I disturbi emozionali sono di due tipi: parossistici o permanenti. I disturbi emozionali parossistici si osservano generalmente in presenza di focolai epilettogeni della regione temporale mediale e consistono in accessi di collera, rabbia, ira, aggressività o anche in temporanee alterazioni affettive a tipo di depressione o di euforia. La loro associazione con le crisi epigastriche e neurovegetative è in genere piuttosto frequente. I disturbi emozionali permanenti, da lesioni temporali circoscritte unilaterali, sono invece meno definiti e piuttosto eterogenei, presentandosi come alterazioni del carattere, labilità emotiva, atteggiamenti neurotiformi, stati subeuforici o depressivi. Nell’uomo, la stimolazione della convessità temporale (in corrispondenza di T1) ha permesso a Penfield (1958) di provocare fenomeni emozionali quali tristezza, paura, terrore, angoscia e sentimenti di solitudine. Per contro, la stimolazione dell’amigdala o dell’ippocampo provoca nell’uomo risposte emozionali piuttosto scarse.
b) Disturbi psicomotori. – Sono così definite particolari manifestazioni comportamentali di tipo accessuale (crisi psicomotorie), caratterizzate sul versante psichico da alterazioni dello stato di coscienza con perdita più o meno marcata delle capacità di contatto o rapporto con l’ambiente circostante e, sul versante motorio, da automatismi mimici, gestuali, verbali, ecc. (v. pag. 000). c) Disturbi delle funzioni mnesiche e della percezione del tempo – Importanti disturbi della memoria possono derivare da lesioni temporali profonde (peduncolo temporale) e del sistema limbico, ma anche, non infrequentemente, da lesioni della convessità corticale, e soprattutto del polo temporale. Nella prima evenienza (lesioni temporo-mediali profonde), il quadro clinico è dominato dall’amnesia di fissazione che contraddistingue la sindrome di Korsakoff nelle sue diverse forme eziologiche (forma tossico-dismetabolica
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Le grandi sindromi neurologiche
degli alcoolisti, forme post-encefalitiche, forme vascolari da trombosi bilaterale dell’ a. cerebrale posteriore) o le demenze atrofiche dell’età involutiva, ed ancora, ma più raramente, i tumori del terzo ventricolo o i pinealomi. In tutti questi casi, è pressoché costantemente coinvolta la formazione ippocampale, e nel caso specifico dell’encefalopatia alcoolica con sindrome di Korsakoff, il circuito di Papez (corpi mammillari, pilastri anteriori del fornice, nuclei anteriori e nucleo mediale dorsale del talamo). Nella seconda evenienza (lesioni del polo temporale) sono soprattutto i gravi traumi contusivi interessanti entrambi i poli temporali a causare disturbi di tipo amnesico. L’amnesia può essere grave come nella sindrome di Korsakoff, ma generalmente risulta meno marcata, e comunque a carattere reversibile rispetto alle lesioni temporo-mediali (Petit-Dutaillis et al., 1965).
Un sintomo particolare delle lesioni temporali bilaterali è rappresentato da un’alterata percezione del tempo: il tempo sembra scorrere velocissimo o arrestarsi, e per il malato è difficile o impossibile collocare gli avvenimenti fondamentali della propria esistenza, pur correttamente rievocati, nell’adeguata sequenza temporale. d) Disturbi delle funzioni cognitive o intellettive. – Nelle lesioni temporali dell’emisfero sinistro esisterebbe non solo un deficit importante nelle prove intellettive verbali e nell’apprendimento di compiti verbali, ma anche una riduzione delle capacità operative in gran parte non attribuibile alla compromissione fasico-gnosico-prassica eventualmente presente. Nelle lesioni temporali dell’emisfero destro molti autori hanno invece descritto un’alterazione che interesserebbe maggiormente l’integrazione intellettiva dei dati visuo-spaziali (Heilbrum, 1956; Milner, 1958) o i processi d’integrazione polisensoriale visiva, uditiva e tattile (Teuber, 1962), rilevabili con adatti tests psicologici. DISTURBI DA LESIONE DI STRUTTURE ADIACENTI Si verificano solo nelle lesioni temporali di tipo tumorale e sono dovuti a compressione diretta - o indiretta da ipertensione endocranica di strutture nervose confinanti. Tra questi ricordiamo: la paresi del nervo oculomotore comu-
ne omolaterale (midriasi, ptosi, strabismo divergente), associata o meno ad emiparesi controlaterale, causata da ernia uncale che comprime direttamente il III nervo cranico e talora anche il peduncolo cerebrale; la paresi del nervo faciale controlaterale, dovuta a stiramento del nervo per un processo compressivo a livello del tronco cerebrale; lo stato confusionale o soporoso fino al coma, per compressione mesencefalo-diencefalica; ed infine, la scomparsa del riflesso corneale, per compressione del V paio nel pavimento della fossa cranica media (Visintini e Macchi, 1964). I sintomi da lesione temporale sono sintetizzati nella tabella 13.3. La sindrome temporale secondo le diverse eziologie Sindromi vascolari. – Nelle lesioni temporali sinistre a genesi vascolare il disturbo più frequente è costituito dall’afasia che, nei rammollimenti del territorio silviano posteriore, si presenta come afasia di Wernicke, associata ad emiparesi ed emianopsia destra e talora ad aprassia ideatoria; nei rammollimenti dei rami temporali della silviana come afasia di Wernicke isolata, solo occasionalmente associata ad emianopsia a quadrante superiore. I rammollimenti silviani posteriori dell’emisfero destro danno frequentemente origine alla tipica sindrome apratto-agnosica dell’emisfero minore. I rammollimenti bilaterali dell’arteria corioidea posteriore sono, in genere, all’origine di sindromi di Korsakoff ad insorgenza repentina. Gli ematomi intracerebrali hanno una delle loro sedi elettive a livello del carrefour temporo-parieto-occipitale, per cui la diagnosi deve essere indirizzata in tal senso, di fronte, per es., ad un quadro di afasia ed emianopsia ad insorgenza acuta, complicate da sintomi di ipertensione endocranica. Sindromi tumorali. – I sintomi più frequenti sono nell’ordine: i disturbi sensitivo-motori, i disturbi psichici, le manifestazioni epilettiche, i deficit del campo visivo, lo stato sognante, le allucinazioni olfattive e gustative, gli automatismi psicomotori, le allucinazioni visive complesse, i disturbi uditivi deficitari, le allucinazioni uditive complesse. L’afasia è pressochè costante nei tumori temporali dell’emisfero sinistro.
Sindromi cerebrali corticali
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Tabella 13.3. Sindrome temporale Lesioni Unilaterali (manifestazioni controlaterali) 1. 2. 3. 4. a)
allucinazioni uditive, visive, olfattive, gustative (lesioni irritative); «stato sognante» (crisi uncinate per lesioni irritative); alterazioni del comportamento e disturbi emotivi; quadrantopsia superiore omonima controlaterale. Emisfero dominante
5a afasia di Wernicke 6a alcuni tipi di amusia
b)
Lesioni Bilaterali 4. gravi turbe mnesiche (sindrome di Korsakoff) 5. apatia, inerzia, ipersessualità, esplorazione orale degli oggetti (sindrome di Kluver-Bucy).
Emisfero non dominante
6b. distorsione della percezione visiva e del giudizio delle relazioni spaziali 7b. agnosia per i suoni e per alcune caratteristiche della musica.
I tumori a sede temporale anteriore si presentano più frequentemente con un’epilessia temporale, mentre quelli a sede posteriore causano soprattutto con disturbi delle funzioni simboliche (a sinistra: afasia, alessia e sindrome di Gerstmann; a destra: aprasso-agnosia spaziale ed emiasomatognosia).
particolare, le lobectomie temporali bilaterali provocano, nell’uomo, disturbi oro-alimentari, sessuali e mnesici, assai vicini alla sindrome di Kluver-Bucy della scimmia; le lobectomie unilaterali destre danno origine a disturbi di tipo visuospaziale e le lobectomie unilaterali sinistre ad afasia e a disturbi intellettivi veri e propri.
Sindromi traumatiche. – Le lesioni contusive della convessità e del polo temporale sono assai frequenti nei traumi cranici chiusi. I sintomi che ne conseguono sono rappresentati da sindromi amnestiche, raramente di tipo Korsakoff, crisi epilettiche, alterazioni del carattere e disturbi psichici.
Sindromi temporali irritative. – Costituiscono il complesso capitolo dell’epilessia temporale, per la illustrazione della quale si rimanda al capitolo delle epilessie (v. pag. 000).
Sindromi demenziali. – L’atrofia temporale della demenza di Pick (solitamente associata ad atrofia frontale) sembra interessare soprattutto il polo temporale e risparmiare generalmente la parte posteriore del lobo. Ciò spiegherebbe (Ajuriaguerra e Hécaen, 1960) l’abituale assenza di afasia vera e propria in questo tipo di demenza, essendo i disturbi espressivi rappresentati piuttosto da una riduzione di linguaggio, che può raggiungere, nelle fasi tardive della malattia, un vero e proprio mutismo. Nella demenza di Alzheimer e nella demenza senile il processo atrofico corticale è invece più omogeneo e diffuso ed interessa elettivamente l’ippocampo ciò che spiega da un lato la precocità dei disturbi della memoria e dall’altro la costanza della sindrome afasico-agnosico-aprassica nel periodo di stato. Sindromi «psico-chirurgiche». – I sintomi conseguenti alle lobectomie totali o parziali del lobo temporale sono assai vari, come si è visto ripetutamente nel corso della descrizione analitica della sintomatologia temporale. In
APPENDICE
Lobo dell’insula A differenza della sintomatologia derivante da lesione dei quattro lobi cerebrali (frontale, parietale, temporale occipitale), classicamente inquadrabile nell’ambito di specifiche sindromi, la sintomatologia da lesione del quinto lobo, rappresentato dall’insula di Reil, non ha finora trovato adeguata sistematizzazione. Può tuttavia essere utile descrivere brevemente, con intenti clinici, il ruolo anatomo-funzionale di questo lobo, relativamente trascurato ed ancora poco studiato nell’uomo (Augustine, 1996).
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Le grandi sindromi neurologiche
Aspetti anatomo-fisiologici e rilievi clinici Il lobo dell’insula, o quinto lobo corticale cerebrale, include le aree di Brodmann 13-14-15-16, giace sul fondo della scissura laterale di Silvio, completamente ricoperto dalle porzioni opercolari dei lobi frontale, parietale e temporale che ne formano le labbra. Nei primati e nell’uomo, l’insula è reciprocamente connessa con numerose aree della neocorteccia: frontale (orbitaria, ventrale granulare, premotoria laterale e mediale, opercolare), parietale (somatosensitiva secondaria e retroinsulare), temporale (polare e del solco temporale superiore); con i nuclei della base; con l’amigdala (nuclei basolaterale, centrale, corticale e mediale); con il sistema limbico (corteccia cingolata); ed infine con il talamo (nuclei dorsali, centro-mediano, parafascicolare; nuclei ventrali, in particolare parte parvicellulare o gustatoria ipsilaterale del complesso ventro-postero-mediale e complesso ventromediale). Il lobo dell’insula appare fisiologicamente coinvolto in numerose funzioni: a) viscerali sensoriali speciali: funzione gustativa, elaborata nella parte antero-superiore dell’insula e nell’adiacente opercolo frontale (area gustativa); b) viscerali sensoriali generali, deputate all’apprezzamento del senso di pressione e distensione della gola, dell’esofago e possibilmente di altre porzioni del tubo digerente; c) somato-sensitive, per l’elaborazione di stimoli: a) tattili e dolorifici, risultando la porzione granulare dell’insula la principale stazione di raccordo fra aree parietali sensitive (primaria e secondaria) e sistema limbico (soprattutto amigdala ed ippocampo), così come fra le stesse aree parietali e talamo sensitivo. L’insula sembra quindi coinvolta sia nei processi di riconoscimento e rievocazione degli stimoli tattili (memorizzazione tattile), sia nel controllo delle afferenze talamocorticali. L’interruzione delle connessioni insulo-limbiche impedirebbe di reagire emotivamente e comportamentalmente a stimoli nocicettivi, anche se essi sono identificati come dolorosi (asimbolia al dolore, vedi pag 000); al contrario, l’interruzione delle connessioni parieto-insulo-talamiche causerebbe una sindrome algica pseudo-talamica; b) termici, per stimoli fisiologici non nocicettivi. Proiezioni specifiche dal nucleo posteroorale del complesso ventromediale del talamo sono state immunocitochimicamente mappate nell’uomo in una area insulare dorsale, caudale rispetto a quella gustativa, suggerendo una stretta cooperazione sensitivo-sensoriale non solo a livello periferico (lingua, estremamente ricca di recettori termoestesici), ma anche centrale. Sembra quindi probabile che l’insula svolga un ruolo rilevante nell’elaborazione degli istinti e dei comportamenti alimentari;
d) viscerali motorie (autonomiche), dedotte dai disturbi provocati da crisi epilettiche parziali intrattabili a partenza dall’insula, o da stimolazione, o da lesioni vascolari dell’insula: a) gastro-intestinali, sotto forma di manifestazioni di rimescolio gastro-intestinale, di vomito o di defecazione improvvisa; b) cardiovascolari, sotto forma di tachicardia o di aritmie anche così gravi da poter essere considerate causa della morte improvvisa di pazienti epilettici e, nei pazienti vascolari, di fibrillazione atriale anche grave. La stimolazione insulare effettuata a destra causerebbe prevalentemente bradiaritmia ed ipotensione, a sinistra tachiaritmia ed ipertensione; e) associativo-motorie somatiche: grazie alle diversificate connessioni con la corteccia frontale premotoria (area 6), corteccia parietale e nuclei della base, l’insula sembra coinvolta nell’organizzazione della motilità automatica (ad es. movimenti di rotazione del capo e del tronco, del cingolo scapolare e dell’arto superiore), e probabilmente svolge anche un complesso ruolo vicariante nella fase del recupero motorio post-ictale; f) vestibolari. La porzione dorso-caudale (disgranulare) dell’insula e la limitrofa corteccia parietale opercolare retroinsulare ricevono afferenze dal nucleo ventropostero-inferiore del talamo, deputato al trasferimento delle informazioni labirintiche. Il ruolo svolto dall’insula nell’elaborazione di tali messaggi rimane, peraltro, scarsamente precisato; g) fasiche, suggerite sia da evidenze anatomo-cliniche, sia da studi funzionali PET. Nell’insieme, l’insula sembra coinvolta non solo nell’elaborazione verbale espressiva, proiettando allla circonvoluzione frontale inferiore (e probabilmente anche all’area di Broca), ma anche e soprattutto nell’elaborazione e comprensione dei messaggi verbo-acustici, ricevendo numerose proiezioni dal lobo temporale (regione polare, aree acustiche primarie ed associative, opercolo temporale). In particolare, insula, F3 (area 44), T1 (aree 22 e 42) e giro sopramarginale parietale (area 40) sono simultaneamente attivate da compiti di memorizzazione a breve termine di singole lettere, costituendo un vero e proprio circuito articolatorio verbale.
Sindrome occipitale Premesse anatomo-fisiologiche Il lobo occipitale occupa la parte posteriore degli emisferi, e termina nel polo occipitale. Presenta tre facce, di cui una, la faccia mediale, molto estesa e nettamente delimitata dal lobo parietale dal solco parieto-occipitale mediale, e le altre due, laterale ed inferiore, a confini in gran parte indistinti verso i lobi parietale e temporale,
Sindromi cerebrali corticali solo arbitrariamente delineabili congiungendo le estremità delle scissure parieto-occipitale laterale e preoccipitale. Il lobo occipitale si può suddividere in 6 maldelimitabili circonvoluzioni, di cui tre sulla faccia laterale (O1, superiore; O2, media; O3, inferiore) (Fig. 13.7), una sulla faccia inferiore (O4, circonvoluzione occipito-temporale laterale, parte occipitale del lobulo fusiforme) (Fig. 2.9) e due sulla faccia mediale, separate fra loro dalla scissura calcarina, rispettivamente dal basso verso l’alto, giro linguale o circonvoluzione occipito-temporale mediale (O5) (Fig. 2.9- 13.7) e circonvoluzione del cuneo (O6) (Fig. 2.8). La scissura calcarina è una scissura assai profonda che si estende in senso antero-posteriore dal polo occipitale fino allo splenio del corpo calloso. Questa suddivisione macroscopica appare solo grossolanamente utile alla delimitazione funzionale delle aree visive umane finora identificate, la cui approssimativa estensione si può desumere da studi comparativi nella scimmia, dotata di analoghe - anche se meno estese - aree, e soprattutto dalla continua, sofisticata elaborazione cartografica di risultati fRMI - PET ottenuti nell’uomo in rapporto a differenti pattern di stimolazione visiva (DeYoe et al., 1996; Van Essen et al., 2001).
Fig. 13.7 - Le aree del lobo occipitale (1: faccia laterale; 2: faccia mediale).
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Sul piano citoarchitettonico, si riconoscono tre aree concentriche: l’area visiva primaria o striata (area 17 di Brodmann), situata in corrispondenza delle labbra della scissura calcarina, del polo e della porzione laterale estrema del lobo occipitale; attorno ad essa è situata l’area parastriata (area 18) a funzione associativa; ancora più all’esterno, l’area peristriata (area 19), (Fig. 13.7) anch’essa a funzione associativa, particolarmente estesa sulla superficie laterale ed inferiore, ove prosegue sia nel lobo temporale come circonvoluzione occipito-temporale mediale (O5), sia nel giro paraippocampale (Braak, 1977) (Fig. 2.9). L’area visiva primaria (area 17) è strutturalmente molto simile all’area somestesica primaria, presentando una citotettonica di tipo granulare (koniocortex) con particolare risalto del IV strato (dei granuli interni), ed una mielotettonica caratterizzata da una particolare evidenza della quarta lamina corticale (stria di Gennari) formata dalle proiezioni afferenti genicolo-striate. Tali proiezioni, dotate di somatotopia molto precisa, decorrono con andamento curvilineo dapprima in direzione anteriore, quindi posteriore sull’intera superficie laterale del ventricolo laterale (radiazioni ottiche di Gratiolet). Di esse è clinicamente utile distinguere a) un contingente supero-laterale o ‘parietale’, destinato al labbro superiore della scissura calcarina (convogliante le informazioni dai quadranti retinici superiori) e b) un contingente lateroinferiore o ‘temporale’ (ansa di Meyer), destinato al labbro inferiore (convogliante le informazioni dai quadranti retinici inferiori). Una lesione isolata di uno di questi due contingenti - con specifica sintomatologia deficitaria visiva - può infatti riscontrarsi per lesioni profonde del lobo parietale o del lobo temporale, oltre che per lesioni circoscritte ad uno dei due labbri della scissura calcarina (v. pag. 230). Le aree 18 e 19, a struttura granulare, hanno connessioni omo- e controlaterali con l’area 17 e con la corteccia frontale, parietale e temporale. Le considerazioni fisiologiche che riguardano il lobo occipitale coincidono con le conoscenze fisiologiche del sistema visivo centrale, argomento complesso, oggetto, in questi ultimi anni, di un gran numero di contributi scientifici che si riferiscono sia alla scimmia che all’uomo, per cui appare necessario il rimando a trattazioni specifiche (Kandel, Schwartz, Jessell, 2000). In questa sede basterà rilevare, molto sommariamente, che le informazioni retiniche dopo aver raggiunto, attraverso il corpo genicolato laterale, l’area visiva primaria (area 17, area striata o V1) si distribuiscono a diverse aree corticali. Due vie hanno origine dalla corteccia striata e si distribuiscono alla neocorteccia posteriore: il sistema ventrale, o via occipito-temporale, che raggiunge la corteccia temporale inferiore, e il sistema dorsale o via occipito-parietale che raggiunge la corteccia
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Le grandi sindromi neurologiche
parietale posteriore. Come afferma Marr (1982) il vedere è “sapere cos’è e dov’è ciò che si guarda” (“to know what is where by looking”). Il sistema ventrale, particolarmente coinvolto nel processo di riconoscimento degli oggetti e nella funzione della memoria di lavoro visiva, rappresenta il sistema che risponde alla domanda “che cosa vedo?”. Il sistema dorsale, utilizzato soprattutto per la percezione delle relazioni spaziali tra le diverse immagini visive e per il controllo dei movimenti a vista, rappresenta invece il sistema che risponde alla domanda “dove si trova quello che vedo?”. Mentre la funzionalità del sistema ventrale è strettamente dipendente dall’integrità di V1 (area 17 distribuita attorno alla scissura calcarina), l’attività del sistema dorsale dipende dall’attività delle aree extrastriate 18 e 19, e non dall’attività di V1. Al momento, specialmente in rapporto a studi di neuroimmagine che evidenziano le aree cerebrali attive durante specifiche prove visive, nell’uomo si rileva che: – la percezione del colore si associa ad un’attivazione di porzioni del giro linguale e fusiforme (identificate come area V4); – il riconoscimento delle forme e degli oggetti attiva aree del lobo temporale inferiore; – le dimensioni del viso (distanza tra i due occhi) ed il riconoscimento del viso come familiare attivano gruppi neuronali diversi nella stessa area temporale inferiore; – le figure in movimento sono associate ad attività di V1 (area 17) e V2 (area 18), ma anche di V5 (area al confine tra area 19 e 37). Sulla base delle attuali conoscenze, tali funzioni non sembrerebbero mutualmente esclusive: ad esempio, la percezione della forme e del movimento comporterebbe l’esistenza di interazioni funzionali tra area parietale posteriore e temporale inferiore (Wurtz e Kandel , 2000). La vascolarizzazione del lobo occipitale è fornita dall’arteria cerebrale posteriore.
La sindrome occipitale è costituita da sintomi abbastanza caratteristici, e può comprendere: 1) disturbi della funzione visiva primaria : a) di tipo irritativo (allucinazioni o illusioni ottiche); b) di tipo deficitario (difetti campimetrici); 2) disturbi della motilità oculare (sindrome delle fibre occipitofugali, sindrome di Balint); 3) disturbi della funzione visiva simbolica (agnosia visiva o cecità psichica); 4) disturbi della percezione temporale; 5) disturbi psichici.
DISTURBI DELLA FUNZIONE VISIVA PRIMARIA a) Manifestazioni cliniche di tipo irritativo della corteccia striata primaria (area 17). – Sono rappresentate da fenomeni allucinatori elementari di due tipi: scotomi scintillanti, sotto forma di fosfeni o linee geometriche a zig-zag, più spesso in bianco e nero, come saette luminose in movimento e progressiva estensione in un emicampo visivo, nell’aura visiva emicranica (v. pag. 000); macchie rotonde intensamente colorate, percepite in un emicampo visivo, quasi sempre improvvisamente ed al massimo solo per secondi o minuti, nell’epilessia occipitale (Panayiotopoulos, 1999) (v. pag. 000). Focolai irritativi coinvolgenti l’area 17 e l’area 18 determinano la comparsa di allucinazioni visive più complesse, costituite da scene vivaci e colorate, da oggetti o animali in movimento, con caratteristica vivissima rappresentazione, anche nell’emicampo visivo cieco. Più frequentemente, quando esiste un difetto campimetrico e la lesione interessa una più vasta area temporo-parieto-occipitale, si verifica una percezione distorta delle figure e delle immagini (metamorfopsia), o una errata valutazione delle loro dimensioni (micropsia e macropsia), del loro numero (poliopsia) o della loro posizione nello spazio rispetto al soggetto (teleopsie, pelopsie) (v. pag. 000). b) Manifestazioni cliniche da lesioni distruttive della corteccia striata. – Le lesioni distruttive unilaterali della corteccia striata o della sostanza bianca immediatamente sottocorticale, determinano difetti campimetrici emianoptici, quadrantanoptici o altitudinali bilaterali, in rapporto alla localizzazione e all’estensione della lesione (v. pag. 229). Il difetto visivo è molto spesso isolato e rimane asintomatico almeno nel 15% dei malati (Trobe et al., 1973), o più spesso, viene lamentato dal malato con un generico ‘non vedo bene’. Talora, viene decisamente negato (Nehmad, 1998) e i malati, affermando di vedere
Sindromi cerebrali corticali
benissimo, con meccanismo confabulatorio attribuiscono gli inevitabili errori o incidenti cui vanno incontro all’illuminazione scarsa o all’uso di occhiali non adeguati. Tale quadro configura una vera e propria «anosognosia» per la propria cecità (sindrome di Anton-Babinski) (v. pag. 161). Lesioni distruttive bilaterali dell’area 17 producono una cecità completa, denominata “cecità corticale”. In questo quadro il riflesso fotomotore è conservato, poiché la via retino-tettale da cui dipende tale riflesso rimane integra, così come rimane conservata anche la motilità oculare coniugata, fatta eccezione per quella riflessa da stimoli visivi (nistagmo ottico-cinetico), abolita per interruzione della via cortico-tettale. La cecità corticale è inoltre caratterizzata dalla scomparsa del ritmo alfa nell’elettroencefalogramma e dei potenziali corticali evocati da stimolazione visiva (PEV). Lesioni bilaterali incomplete dell’area 17 possono anche comportare allucinazioni visive elementari o complesse. DISTURBI DELLA MOTILITÀ
OCULARE RIFLESSA
Esiste nel lobo occipitale (in particolare in corrispondenza delle aree 18 e 19) un’area che esplica una funzione oculo-cefalogira, la cui stimolazione determina una rotazione degli occhi e del capo verso il lato opposto. Tale area, subordinata ai centri frontali e a questi connessa mediante vie associative omolaterali, entra in attività per i movimenti oculari riflessi di fissazione. A differenza della paralisi dello sguardo volontario da lesione dell’area 8 prefrontale, la «sindrome del sistema occipitofugale» (Holmes, 1938) consta di una paralisi dello sguardo “involontario”: vengono, cioè, perduti il riflesso di fissazione, il riflesso dell’ammiccamento indotto da stimoli visivi, i riflessi di convergenza ed accomodazione ed infine, il nistagmo ottico-cinetico, che, nelle lesioni unilaterali, risulta non evocabile nell’emicampo emianoptico. Nelle lesioni parieto-occipitali bilaterali si
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può riscontrare la sindrome di Balint o paralisi psichica dello sguardo (v. pag. 159). DISTURBI GNOSICI Sono rappresentati soprattutto da agnosia visiva per gli oggetti e per le immagini, da prosopoagnosia e da agnosia per i colori (v. pag. 155). DISTURBI DELLA PERCEZIONE DEL TEMPO La valutazione della successione degli avvenimenti e del fluire del tempo è alterata: per il malato il tempo può esser raccorciato o allungato rispetto alla realtà, e anche i vari atti ed eventi della sua vita sono valutati secondo una base dei tempi accelerata o rallentata. Queste errate valutazioni possono riguardare eventi percepiti visivamente, oppure attraverso altri canali sensitivi o sensoriali (tatto, udito, cenestesi). In quest’ambito si annovera anche il fenomeno, spesso a carattere parossistico, della perseverazione visiva o palinopsia, caratterizzato dalla persistente percezione di un oggetto anche dopo che questo è uscito dal campo visivo: la sua immagine si trova, quindi, a sovrapporsi a quelle successivamente percepite, causando difficoltà visive e disturbi dell’orientamento nel tempo e nello spazio. DISTURBI PSICHICI Sono rappresentati, soprattutto, da un deficit mnesico, riguardante la memoria di fissazione o a breve termine, cui il malato sopperisce con confabulazioni, per cui si realizza spesso una sintomatologia tipo sindrome di Korsakoff. Non raramente si riscontrano anche stati confusodemenziali, turbe della sfera affettiva (depressione o ansia) e del carattere (impulsività). La tabella 12.4. riporta in forma riassuntiva il complesso di sintomi dovuti a una lesione occipitale.
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Le grandi sindromi neurologiche
Tabella 12.4 - Sindromi occipitali Lesioni Unilaterali (manifestazioni controlaterali)
Lesioni Bilaterali
1. Emianopsia omonima congrua, quadrantanopsia omonima 2. Allucinazioni elementari (lesioni irritative)
1. Cecità corticale e sindrome di Anton-Babinski 2. Difetti visivi altitudinali (traumatici) 3. Prosopoagnosia 4. Acromatopsia 5. Sindrome di Balint.
a) Emisfero dominante
b) Emisfero non dominante
3a. Alessia senza agrafia 4a. Anomia per i colori
3b. Perdita della memoria topografica e dell'orientamento visivo
5a. Agnosia visiva per gli oggetti
4b. Illusioni visive
La sindrome occipitale secondo le diverse eziologie
porta cecità corticale, presenza di doppi scotomi paracentrali e disturbi gnosici, e successivamente, come esito, disturbi allucinatori.
Sindromi vascolari. – L’occlusione dei rami terminali dell’arteria cerebrale posteriore causa generalmente una sintomatologia occipitale pura. L’occlusione della stessa arteria più a valle, può causare una sindrome occipitale associata ad una sindrome talamica (sindrome di Dejerine-Roussy, v. pag. 562). L’occlusione delle due arterie cerebrali posteriori comporta cecità corticale, eventualmente associata a segni talamici e ad una sindrome di Korsakoff (v. pag. 000). L’occlusione dell’a. basilare, oltre a tali manifestazioni può comportare anche segni di sofferenza focale del tronco encefalico più o meno marcati ed evidenti. Le lesioni occipitali di origine vascolare sono caratterizzate quasi costantemente da una emianopsia omonima generalmente completa, che s’associa ad alessia se la lesione è a sinistra. Anche l’agnosia visiva per gli oggetti e quella per i colori sono più frequenti nelle lesioni vascolari che in altre patologie.
Affezioni diverse. – La leucoencefalopatia multifocale progressiva (v. pag.000) può dimostrare segni di compromissione occipitale (disturbi campimetrici, cecità corticale). Tra le affezioni prioniche, la m. di Creutzfeldt-Jakob nella rara variante occipitale (forma di Heidenhain) ( v. pag. 000), comporta una cecità corticale che evolve in un contesto demenziale con preminenti segni extrapiramidali. Tra le sequele dell’intossicazione da ossido di carbonio non è raro riscontrare una sintomatologia occipitale, costituita soprattutto da disturbi di tipo agnosico e da disturbi campimetrici.
Sindromi tumorali. – I disturbi psichici (amnesie di fissazione ed euforia) frequentemente presenti, sono più spesso dovuti all’ipertensione endocranica. La sintomatologia occipitale vera e propria è ancora costituita da una emianopsia omonima controlaterale e da alessia (per lesione sinistra), cui si associano, con una certa costanza, allucinazioni elementari o illusioni visive. Al contrario, i disturbi di tipo agnosico sarebbero infrequenti, a meno che il tumore non si estenda oltre il lobo occipitale (Hécaen e Angelergues, 1964). Un glioma bilaterale può essere responsabile di cecità corticale. Sindromi traumatiche. – Realizzano spesso una sindrome occipitale bilaterale pura, che in fase acuta com-
Sindrome callosa La sindrome callosa classicamente descritta e costituita da sintomi psichici, motori e prassici, non sembra esser dovuta esclusivamente ad una lesione del corpo calloso, bensì a lesioni del corpo calloso e di strutture nervose adiacenti. Tuttavia, la sindrome callosa, alla luce dei dati più moderni, conserva un interesse del tutto particolare. Premesse anatomo-fisiologiche Il corpo calloso (Fig. 13.8), divisibile in estremità anteriore (ginocchio), tronco propriamente detto (corpo) ed estremità posteriore (splenio), è formato da fibre trasversali che connettono le parti omologhe della neocorteccia
Sindromi cerebrali corticali
Fig. 13.8 - Aspetti della distribuzione delle fibre del corpo calloso.
dei due emisferi, ad eccezione dell’area 21 (seconda circonvoluzione temporale) e probabilmente della maggior parte dei poli temporali, che sono collegati attraverso la commessura bianca anteriore. In linea generale si può dire che le fibre frontali occupano il ginocchio e il terzo anteriore del corpo, le fibre occipitali lo splenio e il terzo posteriore, le fibre parietali e, in parte, temporali la parte restante o terzo intermedio. La consistenza numerica delle fibre callose in base alle aree corticali collegate è, tuttavia, lungi dall’essere omogenea: le aree associative sembrano possedere connessioni callose molto più abbondanti rispetto alle aree di proiezione motoria o sensitivo-sensoriale e, nell’ambito delle aree motorie, quelle che controllano i movimenti bilaterali della faccia e del tronco sono collegate da un maggior numero di fibre callose rispetto alle aree motorie che controllano movimenti unilaterali, come quelli degli arti. Accanto alle fibre rigorosamente trasversali che connettono punti simmetrici delle aree corticali dei due emisferi (proiezione punto a punto) esistono fibre che realizzano connessioni asimmetriche tra punti non omologhi della corteccia dei due lati. Tutte le fibre callose prendono origine dalle piccole cellule piramidali degli strati V e VI della corteccia e terminano in corrispondenza degli strati superficiali II e III dell’emisfero opposto. Le ricerche elettrofisiologiche di Bremer e coll. (19561958) assegnano un doppio ruolo alle connessioni interemisferiche transcallose: a) assicurare il controllo dinamico reciproco di aree corticali simmetriche. L’attività di una determinata area
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corticale di un lato, attraverso il corpo calloso, è in grado di modificare l’attività dell’area omologa controlaterale; b) assicurare la duplicazione del messaggio sensoriale pervenuto ad un emisfero nell’emisfero controlaterale. Messaggi corticipeti pervenuti ad una determinata area sensoriale vengono trasmessi fedelmente all’area simmetrica controlaterale. Gli esperimenti di sezione del corpo calloso e delle altre commessure telencefaliche (« split brain » degli AA. anglosassoni) eseguiti nell’animale ed anche nell’uomo, nel tentativo di bloccare la generalizzazione delle crisi epilettiche, hanno dimostrato che si manifesta un blocco di transfert informativo tra i due emisferi per le funzioni più complesse (messaggi visivi, somestesici, funzioni dell’emisfero dominante, processi mnesici, attività motorie fini), mentre sarebbero risparmiate le funzioni relativamente più elementari (apprendimento di movimenti globali e grossolani, semplice percezione di luminosità e di colore, ecc.), per le quali vengono ammesse connessioni interemisferiche a più bassi livelli. Nell’uomo l’emisfero minore separato da quello maggiore (o dominante), non è più in grado di utilizzare l’attività neurale relativa alle funzioni fasiche, prassiche e gnosiche localizzate nell’emisfero dominante. In queste condizioni, se si richiede al soggetto destrimane di eseguire prove che comportino compiti verbali, gestuali e di riconoscimento dell’emicorpo sinistro si manifesta una serie di sintomi che saranno descritti nella prossima sezione e che indicano il deficit unilaterale e omolaterale di funzioni emisferiche dell’emisfero dominante. Va sottolineata infine la ripresa, in epoca recente, delle osservazioni anatomocliniche, che hanno, in gran parte, confermato i dati della ricerca elettrofisiologica e psicofisiologica permettendo a Geschwind (1965) di effettuare quella originale sintesi clinica che va sotto il nome di sindrome da disconnessione interemisferica («callosal disconnection syndrome»), inquadrata a sua volta nel più vasto capitolo delle «sindromi da disconnessione» (sindromi commessurali o interemisferiche, sindromi intraemisferiche e sindromi miste).
Sintomatologia Riteniamo utile suddividere lo studio della sintomatologia della sindrome callosa in: 1) sindrome callosa, che possiamo denominare classica, frequentemente osservata nella pratica clinica associata a segni «emisferici»; 2) sindrome da disconnessione callosa (o pura), non inquinata da segni d’accompagnamento.
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SINDROME CALLOSA
I sintomi che la caratterizzano sono: 1) disturbi psichici; 2) disturbi prassici e gnosici; 3) disturbi motori e dell’equilibrio. DISTURBI PSICHICI. – Si tratta di un insieme di sintomi che richiamano la sindrome prefrontale e sono rappresentati da: irritabilità, oscillazioni del tono dell’umore, indifferenza verso lo stato di malattia, apatia, abulia, talora atteggiamento subeuforico e, soprattutto, disturbi della memoria. La sindrome «demenziale», classicamente segnalata, consegue più frequentemente a grosse lesioni tumorali del corpo calloso con estensione ad uno o ad entrambi i lobi frontali. Specificamente attribuibili a lesione callosa sarebbero i disturbi della memoria. DISTURBI PRASSICI E GNOSICI. – I disturbi prassici consistono in: aprassia ideomotoria unilaterale sinistra attribuita, nei destrimani, ad una lesione del corpo calloso; aprassia bucco-linguo-facciale, cui forse possono essere ascritti i disturbi disartrici, frequentemente segnalati nelle lesioni callose, e l’amimia. I disturbi gnosici sono rappresentati da: agnosia per i colori e alessia ottica pura o alessia agnosica (v. pag. 156). Si aggiunge, inoltre, un altro segno denominato “anomia stereognosica”, consistente nell’incapacità di denominare un oggetto palpato ad occhi chiusi con la mano sinistra (v. pag. 155). Il disturbo non deve essere confuso con l’astereognosia (v. pag. 113) perché, nell’anomia stereognosica, il malato è in grado, ad occhi chiusi, di ritrovare, tra molti, l’oggetto precedentemente palpato ma non denominato. DISTURBI MOTORI E DELL’EQUILIBRIO. – I disturbi motori, consistenti in una paresi bilaterale o anche soltanto in una sindrome piramidale bilaterale limitata a iperreflessia osteo-tendinea con o senza fenomeno di Babinski, sono ritenuti espressione di un interessamento delle aree cerebrali adiacenti.
I disturbi dell’equilibrio, indicati nel passato come «atassia callosa» (Zingerle, 1900), si manifestano con turbe nel mantenimento della stazione eretta, e tendenza alla retro- e alla lateropulsione. Frequentemente segnalati sono i disturbi delle funzioni sfinteriche, attribuiti a lesioni di formazioni adiacenti al corpo calloso o al deterioramento mentale. È di qualche interesse fisiopatologico segnalare il riscontro di malati i quali pur avendo lesioni, anche estese, del corpo calloso, non dimostrano segni riferibili a una sindrome da disconnessione. D’altra parte l’agenesia del corpo calloso raramente determina sindromi da disconnessione emisferica. Si ipotizza che, in tali casi, il trasferimento di informazioni tra un emisfero e l’altro avvenga attraverso vie alternative.
Sindromi callose in rapporto all’eziologia Sindromi vascolari. – Nei rammollimenti del corpo calloso, (da occlusione dell’arteria cerebrale anteriore quando interessano i due terzi anteriori, da occlusione dell’arteria cerebrale posteriore quando interessano il terzo posteriore) i sintomi più frequentemente segnalati sono: aprassia ideomotoria unilaterale sinistra (nell’insufficienza circolatoria dell’arteria cerebrale anteriore), alessia pura (nel rammollimento interessante lo splenio e conseguente ad occlusione dell’arteria cerebrale posteriore sinistra). Sindromi tumorali. – Nei tumori del corpo calloso, spesso glioblastomi infiltranti precocemente i due emisferi, si riscontrano: segni di ipertensione endocranica, amnesia, irritabilità innestata su un fondo di apatia e, più raramente, aprassia unilaterale sinistra, disartria, disturbi sensitivo-motori, per lo più tardivi. I disturbi psichici sono predominanti. Sindromi tossiche. – Nella degenerazione del corpo calloso (malattia di Marchiafava-Bignami, consistente in demielinizzazione centrale del corpo calloso, frequentemente associata ad altre lesioni tra cui la sclerosi laminare di Morel, che si verifica in alcuni casi di alcoolismo cronico) si osserva uno stato confuso-demenziale a rapida evoluzione, disartria, tremore, talora a tipo battito d’ala, astasia-abasia, negativismo motorio, alterazioni pupillari.
Sindromi cerebrali corticali Agenesia del corpo calloso. – I disturbi neurologici e psichici possono anche mancare. Quando esistono, i segni iniziali sono rappresentati da un ritardo mentale e da crisi epilettiche, cui si aggiungono, successivamente, alterazioni del carattere, segni piramidali bilaterali e disturbi della motilità oculare.
Sindrome da disconnessione callosa (sindrome callosa in senso stretto) Si possono distinguere due categorie di sintomi : a) sintomi che esprimono l’assenza di trasferimento di una funzione emisferica unilaterale (dominante) all’altro emisfero, cioè sintomi da disconnessione dell’emisfero minore dal dominante; b) sintomi che esprimono l’ignoranza e l’estraneità di un emisfero e, quindi, di un emicorpo nei confronti dell’altro (sintomi da indipendenza dei due emisferi). SINTOMI DA DISCONNESSIONE DELL’EMISFERO MINORE Si esprimono con segni di deficit unilaterale della funzione emisferica dominante, che interessa l’emicorpo omolaterale (sinistro dei destrimani). 1) Anomie unilaterali sinistre (anomia tattile, ottica, per i colori). L’anomia stereognosica o anomia tattile unilaterale sinistra o afasia tattile o, più semplicemente, segno della mano sinistra anomica, consiste nell’incapacità di denominare gli oggetti palpati con la mano sinistra, ad occhi bendati. Il deficit è esclusivamente di tipo verbale e non stereognosico, come dimostrato dalla possibilità di estrarlo, ad occhi chiusi, dopo averlo palpato con la mano sinistra, tra un gruppo di oggetti posti in un apposito contenitore, dalla corretta manipolazione dell’oggetto, e dalla normale capacità di discriminare le forme elementari. Il malato non sembra, tuttavia, aver perduto l’immagine verbale dell’oggetto, che denomina, infatti, nel linguaggio spontaneo o quando lo percepisce attraverso altri canali sensoriali (per es. quello visivo) o per via tattile, ma con la mano destra. Egli non è, quindi, un afasico in senso stretto, e neppure un agnosico tattile, poichè può descrivere l’uso dell’oggetto del quale non sa più dire il nome. Il disturbo di anomia tattile suggerisce l’esistenza di un deficit di transfert informativo tra emisfero destro, che
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riconosce l’oggetto senza poterlo denominare, ed emisfero sinistro che, anche senza riconoscerlo in quel momento, ne conosce il nome. La sindrome di anomia tattile della mano sinistra rappresenta il prototipo dei sintomi da disconnessione o distacco dell’emisfero minore da quello dominante e un analogo meccanismo è postulato per tutti gli altri sintomi da disconnessione dell’emisfero minore. Nella cosiddetta confabulazione tattile l’esplorazione palpatoria di un oggetto o le manovre di utilizzazione di un utensile, pur corrette, provocano tutta una serie di designazioni erronee, talora vicine al giusto significato, più spesso espresse a caso, con un commento che ha veri e propri caratteri confabulatori. L’anomia ottica unilaterale sinistra (o afasia ottica, Freund, 1889), segno meno frequente, consiste nell’incapacità di denominare gli oggetti situati nella metà sinistra del campo visivo. Una forma a sè di anomia ottica è considerata l’anomia o afasia per i colori (v. pag. 000) assai raramente descritta come forma pura (caso di Geschwind e Fusillo, 1966), più spesso associata ad alessia nell’emicampo visivo sinistro. 2) Alessia dell’emicampo minore. Consiste nel mancato riconoscimento di lettere nell’emicampo visivo sinistro, in assenza di emianopsia, e si ritrova nelle lesioni dello splenio (parte posteriore del corpo calloso), conseguente, in genere, ad interventi neurochirurgici. 3) Alterata percezione uditiva unilaterale sinistra. L’errata localizzazione spaziale degli stimoli sonori che giungono all’orecchio sinistro si può riscontrare come esito della sezione chirurgica del corpo calloso. Questo disturbo non viene riferito spontaneamente dal malato. 4) Aprassia ideomotoria unilaterale sinistra. È considerato il sintomo più tipico di lesione del corpo calloso, anche se sarebbe da ascrivere a concomitante lesione emisferica, in genere, del lato sinistro. Alcuni ritengono, più semplicemente, che si tratti di disturbo dell’esecuzione gestuale della mano sinistra per ordini verbali, e sarebbe la conseguenza di una errata trasmissione dell’ordine verbale dall’area del linguaggio all’area motoria destra, poichè lo stesso gesto, non eseguibile su richiesta verbale, viene correttamente eseguito per imitazione. Il deficit di trasferimento tra aree del linguaggio e aree somato-motorie dell’emisfero minore vale anche in senso inverso; infatti, gli stessi soggetti dimostrano impossibilità o difficoltà a esprimere verbalmente le attività gestuali dell’emicorpo sinistro. In sintesi, le principali funzioni gestuali da esaminare al fine di escludere una disconnessione callosa sono: – palpazione di oggetti in cieco con ciascuna mano, per escludere una anomia tattile sinistra;
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– scrittura dettata e copiata con la mano destra e sinistra, per escludere una agrafia sinistra; – disegno di cubi con ciascuna mano, per escludere una aprassia costruttiva destra; – esecuzione di gesti (impossibile su ordine verbale, possibile su imitazione) per escludere una aprassia ideomotoria sinistra. 5) Disgrafia unilaterale sinistra. Soggetti con lesione callosa sono in grado di scrivere con la mano sinistra, sia copiando che sotto dettatura, seppure con errori disgrafici. Si ipotizza, in questo caso, che essendo l’emisfero destro impossibilitato a ricevere i messaggi utili per scrivere, sia l’emisfero sinistro a controllare la mano ipsilaterale. 6) Aprassia costruttiva destra. I soggetti, pur destrimani, sono in grado di disegnare più abilmente e più rapidamente con la mano sinistra che con la mano destra e sono incapaci di eseguire la copia di un cubo o di un albero con la mano destra, mentre vi riescono con la sinistra. Il disturbo di trasferimento interessa in questi casi le informazioni che dall’emisfero destro (sede delle capacità visuocostruttive) devono raggiungere l’emisfero sinistro da cui dipende la mano destra.
SINTOMI DI INDIPENDENZA DEI DUE EMISFERI Si esprimono con segni di ignoranza o di estraneità di un emicorpo nei confronti del controlaterale e comprendono: 1) Segno della «mano estranea» («signe de la main étrangère» di Brion e Jadynak, 1972). Il malato, se tiene le mani, o parti di essa, l’una nell’altra dietro il dorso, oppure ad occhi chiusi in altre posizioni, non riconosce la mano come propria. Il segno della «mano estranea» non può essere considerato un disturbo somatognosico, perché elettivo per la percezione tattile e perché il riconoscimento avviene alla semplice apertura degli occhi. Più estensivamente, il termine di mano estranea fa riferimento alla tendenza esplorativa irrefrenabile di una mano che tocca a tastoni, si aggrappa, manipola gli oggetti. Il malato testimonia l’involontarietà del comportamento e qualche volta “personifica” la mano estranea. La lesione in questi casi interessa la parte anteriore del corpo calloso, la regione frontale inclusa l’area supplementare motoria, la parte anteriore del giro del cingolo e la corteccia prefrontale mediana. In tal senso rientrerebbe nel quadro della sindrome da dipendenza ambientale descritta da Lhermitte (1986). Il concetto di mano aliena è stato quindi esteso alla deafferentazione sensitiva di una mano atassica, animata da movimenti anomali, come accade ad esempio, nella degenerazione cortico-basale (v. pag. 000).
2) Perplessità di fronte ai disturbi unilaterali dell’emicorpo sinistro. I malati si dimostrano stupiti della scrittura disgrafica della propria mano sinistra, come se il disturbo fosse loro estraneo e la scrittura non appartenesse loro (un malato, ad esempio, così si esprimeva: “non ho l’impressione che sia la mia mano a scrivere; io non sto scrivendo affatto ciò che dico alla mia mano di scrivere”). 3) Impossibilità di imitare, ad occhi chiusi, con la mano il gesto impresso dall’esaminatore all’altra mano. Il segno è stato descritto, in assenza di deficit delle sensibilità profonde, in entrambi i lati ed interpretato come conseguenza del mancato trasferimento tattile-chinestesico da un emisfero all’altro. 4) Difficoltà ad esprimere verbalmente i propri sentimenti, da parte di soggetti commissurotomizzati. Questa rilievo non va oltre l’osservazione clinica “statistica” e sarebbe l’espressione di una difficoltà di trasferimento di informazioni tra l’emisfero destro (che controllerebbe le emozioni) e l’emisfero sinistro (che controlla l’elaborazione del linguaggio). Dobbiamo ricordare che la sindrome completa e «pura», ora descritta, si verifica in pratica solo nei casi di sezione chirurgica del corpo calloso. Nella casistica clinica, la sindrome più completa è stata descritta quale conseguenza di rammollimento dei 4/5 anteriori del corpo calloso, per occlusione dell’arteria cerebrale anteriore, sia destra che sinistra. In queste due evenienze possono variare i sintomi emisferici di vicinanza (nell’occlusione della cerebrale anteriore destra, il deficit motorio e sensitivo a prevalenza crurale, è a sinistra, e, ovviamente, nell’occlusione dell’arteria di sinistra il deficit è a destra), ma il quadro di disconnessione interemisferica appare del tutto simile. In questi casi, essendo risparmiato lo splenio del corpo calloso, il soggetto riesce a leggere e a denominare gli oggetti in entrambe le metà del campo visivo. Le lesioni limitate allo splenio sono causa di una sindrome più delimitata: il malato non riesce a leggere i caratteri scritti o denominare gli oggetti situati nell’emicampo visivo sinistro (anomia ottica e alessia unilaterale dell’emicampo minore) in assenza di deficit emianopsico. Tutti i casi finora documentati di sindrome isolata dello splenio sono conseguenza di sezioni chirurgiche e mancano documentazioni anatomo-cliniche nel campo della patologia umana spontanea.
Lo studio della sindrome callosa consente di rimuovere le rigidità concettuali che oppongono l’emisfero dominante (usualmente il sinistro) a quello non dominante (usualmente il destro). In una visione dinamica delle funzioni cerebrali, si può sostenere che lo svolgimento di un com-
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pito o la manifestazione di un comportamento vengono sostenute da un contributo specifico di ogni singolo emisfero cerebrale. Si può ritenere, infatti, che due aree simmetriche: a) possono essere equivalenti sul piano funzionale, ma controllare parti opposte del corpo e dello spazio; b) possono svolgere la stessa funzione, ma con aspetti qualitativamente diversi (es. prove visuocostruttive); c) possono contribuire alla stessa funzione, ma in modo qualitativo e quantitativo diverso (es. generazione di immagini mentali); d) possono partecipare alla stessa funzione, ma con diverso ruolo gerarchico (es. categorizzazione semantica di oggetti visivi); e) possono trattare allo stesso modo materiale informativo diverso (amnesie per materiale verbale e non verbale); f) possono contribuire simultaneamente alla stessa funzione con ruoli diversi (area di Broca ed equivalente destro nell’espressione verbale e nella prosodia). In ogni caso, l’identificazione nell’emisfero dominante delle principali aree del linguaggio e i relativi rapporti con la dominanza manuale conservano sul piano semeiotico-clinico il loro valore.
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Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi tronco-encefaliche) Sindromi talamiche
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14. Sindromi talamiche C. Loeb, C. Serrati
Il talamo, struttura sottocorticale pari e paramediana, esplica funzioni in rapporto con la sensibilità generale somatica e i sensi specifici, con il controllo delle attività motoria e vegetativa, con le funzioni simboliche, con la regolazione dell’attività elettrica cerebrale e con l’attività cosciente.
senso sagittale e poi si sdoppia a formare una Y aperta in avanti, permette di riconoscervi tre masse grigie che ne costituiscono le formazioni nucleari più cospicue (Fig. 14.2): 1) raggruppamento anteriore; 2) raggruppamento mediale; 3) raggruppamento laterale; a questi si aggiungono:
Premesse anatomo-fisiologiche Il talamo, che coll’ipotalamo e il subtalamo fa parte del diencefalo, appare come una massa ovoidale, disposta sui due lati, obliquamente al margine rostrale dei peduncoli cerebrali (Fig. 14.1). È costituito da numerosi nuclei raggruppati in diverse formazioni o gruppi. L’esistenza di una lamina verticale di sostanza bianca (lamina midollare interna) che attraversa il talamo in
4) raggruppamento dei nuclei intralaminari; 5) raggruppamento posteriore; 6) raggruppamento extralaminare esterno o reticolare; 7) raggruppamento della linea mediana; ed infine: 8) metatalamo o corpi genicolati, formati dai corpi genicolati laterale (G.L.) e mediale (G.M.); 9) epitalamo (E).
Fig. 14.1 - Faccia superiore del talamo.
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Le grandi sindromi neurologiche
Fig. 14.2 - Talamo destro dell’uomo. GM, genicolato mediale; GL, genicolato laterale; PU, pulvinar; NR, n. reticolare; VPM, n. ventro-postero-mediale; VPL, n. ventro-posterolaterale; VL, n. ventrale laterale; VA, n. ventrale anteriore; LD, n. laterale dorsale; LP, n. laterale posteriore; CM, n. centro mediano; MD, n. mediale dorsale; A, formazione anteriore. (Modificata, da A. Brodal: Neurological anatomy in relation to clinical medicine, Oxford University Press, New York, 1969).
PRINCIPALI CONNESSIONI DELLE FORMAZIONI (Fig. 14.3)
TALAMICHE
VPM) cui afferisce il lemnisco trigeminale. Secondo recenti ricerche, tuttavia, il VPL, non sembra essere l’unica stazione talamica per la sensibilità generale somatica. Un nuovo nucleo, identificato nel talamo umano e denominato “nucleo ventro-mediale, parte posteriore” (VM po), situato in un’ area mediale e posteriore a VPL e VPM, e ventrale al nucleo centromediano, costituirebbe una specifica stazione per la sensibilità dolorifica e per la sensibilità termica (Blomqvist e Zhang, 2000). La parte dorsale del gruppo laterale è costituita da nuclei di associazione, connessi con la corteccia parietale posteriore e con la circonvoluzione del cingolo, nn. dorsali: n. laterale-dorsale (LD) e n. laterale posteriore (LP). 4) Raggruppamento dei nuclei intralaminari. – Il nucleo più importante di questa formazione è il n. centromediano (CM), che probabilmente riceve fibre dalla reticolare mesencefalica e dal nucleo emboliforme del cervelletto, e ne invia al caudato e al putamen. 5) Raggruppamento posteriore. – Costituito dai nuclei del pulvinar (PU) che sembra ricevano fibre dal corpo genicolato laterale, dal lemnisco laterale e dalla formazione laterale, inviandone poi alla corteccia associativa
1) Raggruppamento nucleare anteriore. – Si distinguono il nucleo anteroventrale (AV) e due nuclei accessori (anterodorsale e anteromediale). I nuclei anteriori ricevono impulsi dal corpo mammillare attraverso il fascio mammillo-talamico (di Vicq d’Azyr) e ne inviano alla circonvoluzione del cingolo, e di qui all’amigdala. 2) Raggruppamento nucleare mediale. – L’unico nucleo del gruppo mediale, il nucleo mediale dorsale (MD), riceve fibre dal pallido, dalla corteccia prefrontale e da altri nuclei talamici, e ne invia alla corteccia prefrontale (e di qui all’amigdala), alla corteccia orbitaria, all’ipotalamo, al n. ventrale anteriore del talamo e allo striato. 3) Raggruppamento nucleare laterale. – Comprende 2 parti: la ventrale e la dorsale. Il gruppo laterale ventrale è costituito da 4 nuclei: (a) n. ventrale anteriore (VA), che riceve dal pallido e proietta sulla corteccia premotoria; (b) n. ventrale laterale (VL), suddiviso in parte anteriore (dal pallido all’area 6), posteriore (dal dentato cerebellare: fasci dentato-talamico e dentato-rubro-talamico, all’area 4) e mediale (dal nucleo interstiziale di Cajal all’area 8); (c) n. intermedio (VIM), interposto fra sistema reticolo-vestibolare e corteccia cerebrale; (d) n. ventrale posteriore (VP), che riceve tutte le vie della sensibilità generale somatica: è diviso in una parte laterale (n. ventro-postero-laterale, VPL) in cui terminano i fasci bulbo-talamico e spino-talamico, e in una parte mediale (n. ventro-postero-mediale,
Fig. 14.3 - Rappresentazione delle principali connessioni talamo-corticali. RET: Nucleo Reticolare; GM: Corpo Genicolato Mediale; GL: Corpo Genicolato Laterale; Pu: Pulvinar; LP: Nucleo Laterale Posteriore; LD: Nucleo Laterale Dorsale; VP: Nucleo Ventrale Posteriore; VL: Nucleo Ventrale Laterale; VA: Nucleo Ventrale Anteriore; DM: Nucleo Mediale Dorsale; NA: Nuclei Anteriori.
Sindromi talamiche temporo-parieto-occipitale. Il pulvinar sarebbe un centro di integrazione sottocorticale delle funzioni fasiche, gnosiche e prassiche. 6) Nucleo extralaminare esterno o reticolare (NR). – È un sottile strato di cellule lungo tutta la superficie laterale del talamo separato dal corpo principale dalla lamina midollare esterna; è l’unico nucleo talamico a funzione inibitoria che non proietta alla corteccia ma ai nuclei talamici da cui riceve. 7) Nuclei della linea mediana. – Situati nella sostanza grigia periventricolare, sono collegati principalmente all’ipotalamo. 8) Raggruppamento metatalamico. – È formato dai corpi genicolati, laterale (GL) e mediale (GM), che costituiscono la tappa diencefalica delle vie ottiche e delle vie uditive. 9) Raggruppamento epitalamico. – Formato dal n. abenulare (HB). È connesso con l’amigdala, dalla quale riceve fibre attraverso la stria midollare del talamo, e col n. interpeduncolare, cui ne invia tramite il fascicolo retroflesso di Meinert. L’abenula appartiene al sistema limbico.
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Per una revisione critica sul’argomento si rimanda ai lavori di Macchi (1986) e Minciacchi et al. (1993). Uno schema riassuntivo delle principali connessioni è riportato nella Tabella 14.1.
Organizzazione funzionale In base all’attività che esplicano, i nuclei del talamo possono essere suddivisi nel seguente modo: 1) Nuclei specifici per la trasmissione della sensibilità somatica. – VPL, VPM, GL e GM, intercalati sulle vie della sensibilità, proiettano sulle aree corticali di ricezione primaria gli impulsi sensitivi e sensoriali provenienti dalla periferia. Sul complesso VPL-VPM afferisce tanto la sensibilità superficiale (tatto, lieve pressione, caldo e freddo, dolore), quanto quella profonda e combinata (senso di posizione, di movimento e sensibilità tattile discriminativa). L’impulso sensitivo raggiunge i nuclei talamici attraverso una via paucisinaptica rapida costituita dal fascio spino-talamico, dal fascio spino-bulbo-talamico e dal lemnisco trigeminale. Dai primi due, VPL riceve
Tabella 14.1 - Connessioni di alcuni raggruppamenti nucleari talamici. Nuclei
Principali afferenze
Principali efferenze
1. Raggruppamento anteriore
Corpo mammillare, ipotalamo
Giro del cingolo
2. Raggruppamento mediale
Amigdala, ipotalamo, pallido
Corteccia prefrontale
3. Raggruppamento laterale – Ventrale anteriore – Ventrale laterale – Ventrale posteriore vie spinotalamiche
Pallido Nucleo dentato del cervelletto Lemnisco mediale e trigeminale,
Corteccia premotoria Corteccia motoria e premotoria Corteccia parietale
Nuclei a proiezione diffusa
Formazione reticolare Corteccia cerebrale Nuclei talamici
Corteccia Nuclei della base Nuclei talamici
Pulvinar
Collicolo superiore, lemnisco laterale, formazione laterale
Corteccia temporo-parietooccipitale
Collicolo inferiore Tratto ottico
Corteccia uditiva Corteccia visiva
Nuclei a proiezione specifica
Corpi genicolati – mediale – laterale
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Le grandi sindromi neurologiche
le afferenze sensitive della metà controlaterale del corpo esclusa la faccia, mentre il lemnisco trigeminale porta a VPM la sensibilità generale dell’emifaccia opposta. Esiste, a livello di VP, una distribuzione somatotopica che corrisponde a una precisa organizzazione topografica del nucleo: procedendo dalle aree laterali del complesso nucleare verso quelle mediali, si trovano rappresentate prima le porzioni più caudali del corpo, poi quelle prossimali, quindi le porzioni laterali della faccia e infine quelle mediali. La proiezione corticale di VP è costituita dalla circonvoluzione parietale ascendente omolaterale secondo la successione illustrata dalla Figura 14.3. Le differenze esistenti fra VP e parietale ascendente nell’apprezzamento degli stimoli, non sono sufficientemente chiarite. Si ammette che, mentre le lesioni di VP sono seguite da un’ipoestesia più marcata per le sensibilità profonde, le lesioni della parietale ascendente, forse in rapporto con la dispersione cui gli impulsi sono soggetti a livello corticale, siano accompagnate dalla perdita dell’analisi discriminativa dei caratteri dello stimolo, in particolare di quelli spaziali e dell’intensità. 2) Nuclei a proiezione diffusa, o sistema talamocorticale generalizzato. – Attraverso vie multisinaptiche, ricevono afferenze provenienti da tutta la periferia e proiettano su tutta la corteccia cerebrale. Questi nuclei, rappresentati principalmente dalla formazione intralaminare, sono ritenuti la continuazione diencefalica della sostanza reticolare del tronco dell’encefalo. Il sistema talamo-corticale generalizzato è in grado di modificare l’eccitabilità neuronale corticale e l’attività elettrica cerebrale. La stimolazione dei nuclei intralaminari del gatto alla frequenza di 8-12 stimoli al secondo, produce la comparsa di onde lente, diffuse, via via più ampie per effetto di un fenomeno di reclutamento. Stimoli più frequenti (60-80 al secondo) provocano invece una desincronizzazione del tracciato, analoga a quella che si osserva nello stato di attenzione e di attività a occhi aperti. Questi dati dimostrerebbero che il sistema talamocorticale generalizzato modifica l’eccitabilità delle cellule nervose della corteccia cerebrale. Poiché l’attività cosciente dipende dal livello d’eccitabilità cerebrale, mentre stati di coscienza alterati possono essere dovuti a lesioni che coinvolgono la regione diencefalica, si può ammettere che il sistema talamo-corticale generalizzato intervenga nei meccanismi integrativi che presiedono alla regolazione della funzione di coscienza. I nuclei intralaminari, e in particolare il nucleo centro-mediano, costituirebbero inoltre, coi nuclei della formazione posteriore, la stazione talamica delle vie polisinaptiche (sistema paleo-spino-talamico) deputate alla conduzione del dolore lento, dilazionato e diffuso (v. pag. 00).
3) Nuclei con funzioni di controllo sulle attività efferenti. – Sono quelli della parte antero-ventrale della formazione laterale e delle formazioni anteriore e mediale. I nuclei della parte antero-ventrale della formazione laterale: VA e VL ricevono afferenze dal pallido, dal nucleo dentato del cervelletto, dal nucleo interstiziale di Cajal e dalla reticolare, e proiettano sulle aree 4 e 8 e sulla corteccia premotoria. Si ritiene che l’insieme di questi nuclei, e in particolare VL, posto sulle vie pallido-talamocorticali e spino-cerebello-talamo-corticali, esplichi funzioni inerenti l’orientamento dell’attività istintivo-riflessa, intervenendo nel controllo della direzione del movimento. Infatti, attraverso tali circuiti, la corteccia motoria verrebbe informata della regolazione posturale effettuata dalla corteccia neocerebellare sulla base delle afferenze spino-cerebellari e cerebro-cerebellari. Questa informazione sarebbe integrata, a livello talamico, sia dalle afferenze spino-talamiche e spino-bulbo-talamiche, sia dagli impulsi che arrivano attraverso il sistema spino-reticolo-talamico. I nuclei della formazione anteriore e quelli della formazione mediale, intercalati fra corteccia e ipotalamo, avrebbero un ruolo inerente il controllo delle attività motorie viscerali ed endocrine, correlando la risposta viscerale allo stato emotivo. 4) Nuclei di integrazione. – Connessi con la corteccia parietale: nuclei della parte dorsale della formazione laterale, laterale posteriore (LP) e laterale dorsale (LD), e nuclei della formazione posteriore o nuclei del pulvinar. Il nucleo laterale dorsale (LD) proietta alla corteccia del cingolo e forse alla corteccia parietale ed il nucleo laterale posteriore (LP) proietta ad altri nuclei talamici e alla corteccia parietale, area posteriore; il pulvinar proietta ad altri nuclei talamici e raggiuge l’area peristriata e la parte posteriore del lobo parietale. La loro funzione è di integrazione per l’attività corticale di funzioni sensoriali, espressione emotiva, e funzioni del linguaggio.
VASCOLARIZZAZIONE Il talamo riceve sangue dal sistema vertebro-basilare, attraverso arterie che nascono dalla basilare, e da rami della cerebrale posteriore e della comunicante posteriore. L’occlusione dell’arteria cerebrale media e delle arterie corioidee anteriori non produce, perciò, infarti talamici, mentre l’occlusione dei vasi talamici può comportare lesioni della capsula interna. La vascolarizzazione talamica si distingue in quattro territori principali : – il territorio tubero-talamico (Fig. 14. 4 a) (peduncolo premamillare, o arteria polare degli AA classici), ir-
Sindromi talamiche rorato da rami dell’art. comunicante posteriore, comprende il nucleo ventrale anteriore e parte del nucleo ventrale laterale – il territorio paramediano (Fig.14.4 b) (peduncolo talamo-perforato o paramediamo talamo-subtalamico degli AA.classici), costituito da rami dell’art. basilare, comprende la parte paramediana del mesencefalo rostrale e la porzione paramediana del talamo, includendo i nuclei intralaminari talamici e parte del nucleo dorsomediale. – il territorio infero-laterale (Fig. 14.4 c) (peduncolo talamo-genicolato degli AA. classici), irrorato da
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rami dell’arteria cerebrale posteriore, che comprende , principalmente, il nucleo ventrale posteriore e, in parte, il nucleo ventrale laterale. – il territorio corioideo posteriore (Fig. 14.4 d) (peduncolo corioideo posteriore o arterie del pulvinar degli AA classici), irrorato dalle arterie corioidee posteriori mediali e laterali, rami della cerebrale posteriore, comprende il Pulvinar e parte del nucleo genicolato laterale. Gli scarichi venosi del talamo sono costituiti dalla vena basilare e dalla vena cerebrale interna.
a
b
a A. com. posteriore Sifone carotideo
b
c d A. cerebrale posteriore A. basilare
c
d
Fig. 14.4 - Figura schematica dei territori di irrorazione del talamo ottico. a) Territorio tubero-talamico, irrorato da rami della comunicante posteriore, comprende VA e parte di VL ; b) Territorio paramediano, irrorato da rami dell’art. basilare, comprende la porzione paramediama del talamo (nuclei intralaminari e parte di DM) ; c) Territorio infero-laterale, irrorato da rami della cerebrale posteriore, comprende VP e parte di VL; d) Territorio corioideo posteriore, irrorato dalle arterie corioidee posteriori ,comprende P e parte del NGL. VA = nucleo ventrale anteriore; VL = nucleo ventrale latrerale; VP = nucleo ventrale posteriore; DM = nucleo dorso-mediale; P = pulvinar; NGL = nucleo genicolato laterale. ( da C.Loeb,Neurologia diagnostica, Springer-Italia, Milano, 2000)
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Le grandi sindromi neurologiche
Segni e sintomi da lesione del talamo DISTURBI DELLA SENSIBILITÀ. – Una lesione di VP provoca un innalzamento della soglia di stimolazione e un’ipoestesia nell’emicorpo controlaterale. Le sensibilità più colpite sono le profonde e quelle combinate, mentre le superficiali risultano in generale meno alterate. La compromissione delle sensibilità per lesioni a livello talamico è frequentemente dovuta a necrosi d’origine vascolare. Dei peduncoli arteriosi che si distribuiscono al talamo, il posteriore, costituito dall’arteria talamo-genicolata, irrora in particolare VP. Esiste pertanto una condizione anatomica precisa per la quale il nucleo cui convergono le vie della sensibilità generale può essere selettivamente distrutto da un rammollimento circoscritto. La possibilità che la lesione sia limitata a una parte del territorio di distribuzione del peduncolo vascolare, e la presenza di una localizzazione somatotopica nell’ambito di VP, spiegano i casi in cui il disturbo delle sensibilità risparmia una parte dell’emisoma controlaterale alla lesione, assumendo una distribuzione segmentaria pseudo-radicolare o pseudo-periferica. Nella maggior parte di questi casi, la conservazione della sensibilità all’emifaccia depone per l’integrità di VPM, mentre un rammollimento a cavallo fra VPM e VPL dà origine a turbe sensitive circoscritte alla regione periorale e alla mano (sindrome sensitiva cheiro-orale).
Il disturbo obiettivo delle sensibilità, soprattutto quando la lesione sia costituita da un rammollimento, può essere accompagnato o seguito dalla comparsa di iperpatia e dolore spontaneo. L’iperpatia è una sensazione dolorosa provocata dalla stimolazione superficiale (strisciamento della punta dell’ago sulla pelle, tocco, pizzicottamento, caldo, freddo, ecc.) o profonda (vibrazione, pressione, ecc.) dell’emicorpo controlaterale alla lesione. Appena l’intensità dello stimolo supera la soglia di stimolazione, più elevata rispetto a quella dell’emicorpo controlaterale, compare bruscamente un senso di penoso fastidio o anche un dolore parossistico molto intenso, non proporzionato allo stimolo, diffuso a tutto l’emicorpo e mal localizzabile, persistente oltre la durata della stimolazione ed evocatore di esagerate reazioni di sofferenza e
di movimenti di difesa. Lo stesso stimolo, portato sull’altra metà del corpo, non provoca né fastidio né dolore. Il dolore può essere spontaneo, e conserva in tal caso il carattere di parossismo che ha quando è provocato. Esso è riferito generalmente alle estremità degli arti, ma può interessare tutto l’emisoma, compresa la faccia, la lingua e i visceri, o presentare localizzazioni curiose (per esempio, come in un caso di Lhermitte, tronco e condotto uditivo esterno), mentre la sua provocazione o la sua riproducibilità possono essere in rapporto con movimenti occasionali come dare la mano, camminare, stringere un oggetto, ecc., o con stimoli portati in regioni del corpo assai lontane da quelle in cui viene poi avvertito. Il dolore e l’iperpatia talamici sono classicamente correlati con una lesione della formazione laterale, talora associata all’interessamento della formazione mediale. Tuttavia l’esperienza stereotassica dimostrerebbe che la lesione responsabile del dolore talamico e dell’iperpatia include, oltre la formazione laterale, anche parte della capsula interna o della sostanza bianca del lobo parietale. Il meccanismo fisiopatologico di questi sintomi sarebbe costituito dallo squilibrio fra i due sistemi cui è deputato il trasporto e l’apprezzamento degli impulsi dolorosi (v. pag. 102). Per quanto l’associazione fra turbe obbiettive e soggettive delle sensibilità costituisca il cardine della sindrome talamica di Dejerine e Roussy (v. pag. 562), considerata patognomonica delle lesioni talamiche postero-laterali, non sempre le due modalità sintomatologiche coesistono. È molto più probabile, anzi, che nei rammollimenti del territorio dell’arteria talamo-genicolata, l’iperpatia e il dolore si manifestino tardivamente, talora anche molti mesi dopo l’ictus, o che costituiscano l’unica manifestazione clinica della sindrome o che siano del tutto assenti.
ALTERAZIONE DEI SENSI SPECIFICI. – Sono più controverse delle precedenti. I disturbi uditivi connessi con una lesione talamica sarebbero di tipo agnosico, con l’aggiunta di una componente iperpatica che interferisce nella qualità della
Sindromi talamiche
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percezione e nell’intensità della reazione emotiva da questa provocata. Lo stesso varrebbe per i rari disturbi dell’olfatto o del gusto che, come gli altri, avrebbero carattere episodico. L’interessamento del genicolato laterale dà origine a un’emianopsia omonima controlaterale, con comportamento non univoco della motilità pupillare alla luce e conservazione della risposta optocinetica.
che paiono congelare in attitudini atetosiformi le estremità degli arti, in particolare la mano («mano talamica»: estensione o iperestensione delle articolazioni interfalangee, flessione delle articolazioni metacarpo-falangee, divaricazione delle dita, flessione e abduzione del polso). Sintomi meno frequenti di perturbata motilità: il riso spastico, il pianto spastico e l’ipomimia.
DISTURBI DELLO SCHEMA CORPOREO. – Nelle lesioni del talamo dell’emisfero non dominante, possono manifestarsi alterazioni dello schema corporeo relative alla metà opposta del corpo: anosognosia, anosodiaforia, sensazione di estraneità e di non appartenenza, illusione di movimento e di posizione. Il sintomo coinvolge solitamente gli arti, in parte o nella loro totalità. I disturbi dello schema corporeo d’origine talamica differirebbero da quelli d’origine parietale per la presenza d’una componente affettiva, probabilmente iperpatica, che rende il paziente consapevole del sintomo.
DISTURBI VEGETATIVI. – Alterazioni della vasomotilità periferica e del trofismo della cute e degli annessi possono talora osservarsi nell’emicorpo controlaterale alla lesione talamica.
DISTURBI MOTORI.– L’atassia, che incostantemente si osserva nelle sindromi talamiche, è di tipo sensitivo, se accompagna il disturbo delle sensibilità e se si accentua con la chiusura degli occhi. Non è tuttavia così marcata come quella dovuta a una lesione dei cordoni posteriori, e può perdurare oltre l’eventuale recupero delle sensibilità profonde. Qualora fin dall’esordio della sintomatologia le sensibilità siano integre, l’incoordinazione motoria, accompagnata da tremore cinetico a scosse ampie, non migliora col controllo della vista e deve essere verosimilmente ascritta all’interessamento delle fibre cerebello-talamiche (dentato-talamiche e dentato-rubro-talamiche) o della loro stazione talamica, VL. Dati recenti hanno confermato questa impostazione (Solomon, 1994). La sofferenza delle connessioni talamo-striate e talamo-pallidali è invece responsabile della comparsa di movimenti involontari di tipo coreico e atetosico e di atteggiamenti distonici
DISTURBI DEL LINGUAGGIO. – L’interruzione di un circuito cortico-sottocorticale costituirebbe la causa più plausibile della disartria che compare talora, per breve tempo, nelle lesioni del talamo dell’emisfero dominante. Le lesioni del talamo dell’emisfero dominante sarebbero anche responsabili di una diminuzione transitoria dell’intensità della voce e di un’afasia mista, anch’essa transitoria. I nuclei coinvolti nei meccanismi semantici e di coordinazione motoria della parola sarebbero il nucleo centro-mediano e la formazione posteriore, che rappresentano un livello di integrazione sottocorticale per i processi di memorizzazione verbale e per l’adeguamento della meccanica respiratoria alla sonorizzazione dei fonemi. I deficit neuropsicologici focali riscontrati in lesioni talamiche unilaterali sarebbero da ascrivere ad una depressione dell’attività a livello della corteccia cerebrale omo e controlaterale (cosiddetta diaschisi talamo-corticale, Baron et al., 1992). TURBE PSICHICHE. – Nelle lesioni talamiche bilaterali che coinvolgono l’area paramediana dorsale e polare compare spesso una sindrome demenziale, indicata come «demenza talamica», caratterizzata da uno stato d’apatia, di indifferenza affettiva, con disorientamento temporo-spaziale e deterioramento mentale. La
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Le grandi sindromi neurologiche
sofferenza talamica può anche essere associata ad alterazioni dell’umore o più intense turbe melancoliche, ed anche a disturbi di tipo espansivo, oppure a deliri paranoidei con allucinazioni. È stata anche suggerita la possibilità che alterazioni dei circuiti talamici possano fornire una spiegazione per alcuni disturbi schizofrenici (Andreasen, 1994 ). Recentemente è stata attirata l’attenzione su una possibile disfunzione glutamatergica a livello del talamo, poichè anomalie dei recettori del glutamato e dell’aspartato, sono stati ritrovate in soggetti schizofrenici, nei nuclei del talamo che proiettano al sistema limbico (Ibrahim et. al., 2000). I raggruppamenti nucleari del talamo anteriore e mediale possiedono proiezioni multiple, in particolare al giro del cingolo e alla corteccia prefrontale, e di qui all’amigdala, circuiti neuronali che sarebbero implicati nell’apprendimento e nel comportamento emotivo. SEGNI E SINTOMI DI STRUTTURE ADIACENTI. – Ben difficilmente una lesione responsabile della sintomatologia talamica risparmia le strutture vicine, e in particolare la capsula interna e la regione ipotalamo-peduncolare. E’ anzi al rilievo dei segni di interessamento di queste strutture che si affida il sospetto della localizzazione talamica nei casi in cui il quadro semeiologico non sia sufficientemente indicativo. Una sindrome piramidale è ovviamente dovuta alla compromissione del fascio corticospinale a livello della capsula interna. Vi è anche la possibilità che la lesione, qualora occupi spazio, sviluppi una linea di forza verso il basso, compromettendo la funzione di strutture omo- e controlaterali a livello della giunzione meso-diencefalica e dell’ipotalamo: sarebbe questa la patogenesi del segno di Babinski e della miosi, presenti bilateralmente in alcuni casi di tumore e di emorragia talamica. Il segno di Babinski sarebbe la conseguenza della compressione dei fasci cortico-spinali a livello del passaggio capsulo-peduncolare, la miosi l’effetto della lesione dei centri pupillo-dilatatori dell’ipotalamo laterale. Questi segni di sofferenza subtalamica, che configurano lo stadio diencefalico della sindrome di deterioramento rostro-caudale di Plum e Posner (1980) (v. pag. 000), sono associati a disturbi della motilità coniugata degli occhi e ad alterazioni dello stato di coscienza. Le modificazioni dello stato di coscienza prodotte da lesioni dirette o indirette della regione diencefalica, avrebbero la particolarità di essere quasi sempre reversibili.
Sindromi talamiche topografiche Derivano da lesioni circoscritte, generalmente costituite da rammollimenti nel territorio di uno dei peduncoli arteriosi. SINDROME TALAMICA POSTERO-LATERALE (SINDEJERINE E ROUSSY). – È dovuta a rammollimento nel territorio del peduncolo arterioso talamico posteriore (arteria talamo-genicolata) ed è caratterizzata da: emiparesi transitoria, emianestesia, iperpatia e dolore talamico, emiatassia e emiastereognosia, movimenti coreo-atetosici e turbe vasomotorie.
DROME DI
SINDROME TALAMICA ANTERO-LATERALE. – Da lesione nel territorio del peduncolo inferiore, è costituita da tremore a riposo e intenzionale, movimenti coreo-atetosici, mano talamica, occasionalmente paralisi dello sguardo. Questo quadro, che non comprende disturbi della sensibilità, si differenzia dalla sindrome inferiore del nucleo rosso per l’assenza di paralisi del III. SINDROME TALAMICA MEDIALE. – Consiste nell’associazione di turbe della termoregolazione, della motilità gastrointestinale, della reattività vasoperiferica e del ritmo respiratorio, e delle funzioni psichiche quali modificazioni dell’umore, disturbi mnesici, stato confusionale, allucinazioni e deterioramento mentale. Mancano turbe della motilità e della sensibilità. Le lesioni responsabili sono localizzate nelle formazioni mediale e paraventricolare. Sindromi di eccezionale riscontro, che si manifestano in rapporto a lesioni che coinvolgono strutture contigue, sono: SINDROME DELL’ARTERIA CORIOIDEA POSTERIORE. – (o del peduncolo talamico posteriore). Emiplegia, emianestesia con iperpatia o dolore talamico, emianopsia. SINDROME LENTICOLO-OTTICA. – Emiparesi e emianestesia, senza iperpatia e senza dolore talamico.
Sindromi talamiche
La sintomatologia talamica in rapporto con la natura della lesione I rammollimenti circoscritti al territorio di distribuzione di uno dei peduncoli arteriosi provocano sindromi talamiche che si identificano o si avvicinano sensibilmente a quelle della nosografia classica. Lo stesso può dirsi delle lesioni stereotassiche, che, essendo accuratamente selettive, possono causare quadri sindromici incompleti. In caso di lesioni talamiche estese, sia infiltranti (tumori) che distruttive (emorragie), la sintomatologia è invece più complessa e mostra segni che derivano dall’interessamento di strutture vicine al talamo. Il quadro dei gliomi talamici è sovente dominato dall’associazione fra sintomi psichici a esordio subdolo e segni sempre più evidenti d’interessamento delle strutture paratalamiche, cui tardivamente si aggiunge l’ipertensione endocranica. Nei tumori a localizzazione mediana prevarrebbero i sintomi della demenza talamica, mentre i disturbi della motilità e della sensibilità sono più frequenti nei tumori talamici laterali. Nelle emorragie circoscritte al talamo, la diagnosi di sede può essere sospettata per la concomitanza di emi-ipoestesia ed emiparesi con Babinski e miosi bilaterali, mentre solo l’esordio acuto e il decorso difasico della compromissione dello stato di coscienza orienterebbero clinicamente sulla natura della lesione.
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Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi Sindromi tronco-encefaliche) ipotalamiche
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15. Sindromi ipotalamiche F. Minuto, A. Primavera
Sistema ipotalamo-ipofisario L’ipotalamo è una struttura filogeneticamente antica che costituisce una estensione rostrale della sostanza reticolare del tronco encefalico. I molteplici rapporti funzionali con altre aree cerebrali coinvolte nelle funzioni viscerali e in quelle del sistema vegetativo autonomo e del comportamento contribuiscono al ruolo critico dell’ipotalamo come regolatore dell’omeostasi dell’organismo. Il compito più tipico dell’ipotalamo è quello di trasmettere segnali neurogeni all’ipofisi (Fig. 15.1). Il controllo ipotalamico sull’ipofisi è mediato attraverso due distinti sistemi: – nel primo i neurosecreti dell’ipofisi posteriore sono rilasciati nel circolo sistemico da terminazioni assoniche che traggono origine da neuroni magnocellulari ipotalamici; – nel secondo il controllo ipotalamico sull’ipofisi viene esercitato, attraverso il sistema portale ipofisario, dagli ormoni ipofisotropi, detti anche ormoni di rilascio (releasing hormones, RH) o ormoni inibitori (release inhibiting hormones, RIH), prodotti da neuroni parvicellulari.
Ipotalamo: aspetti anatomici L’ipotalamo è formato nella sua parte ventrale dal tuber cinereum (eminenza grigia), protuberanza localizzata alla base dell’encefalo, dorsalmente alla ghiandola ipofisaria, di colorazione grigia, dovuta alla ricchezza di corpi cellulari frammisti a fibre nervose non mielinizzate. La parte inferiore dell’ipotalamo, che forma il pavimento del terzo ventricolo, ha forma di imbuto (infun-
dibulum). Nella sua porzione centrale l’infundibulum è avvolto in basso dalla pars tuberalis dell’adenoipofisi ed è penetrato da numerose anse capillari derivanti dal plesso primario del circolo portale ipofisario. Questo complesso neurovascolare forma una struttura piccola, ma importante, denominata eminenza mediana del tuber cinereum.
neuroni secernenti mediatori/modulatori neuroni secernenti ormoni neuroipofisari
neuroni secernenti ormoni ipofisiotropi
vasi portali lunghi
vasi portali brevi arteria ipofisaria inferiore
Fig. 15.1 - Organizzazione anatomo funzionale del sistema ipotalamo-ipofisario. A livello ipotalamico sono localizzate le cellule neurosecretorie che producono ormoni neuroipofisari, ormoni ipofisiotropi e mediatori/modulatori neuronali. Gli ormoni neuroipofisari sono sintezzati in cellule dotate di assoni lunghi che rilasciano il neurosecreto nel circolo sistemico a livello della neuroipofisi. Gli ormoni ipofisiotropi sono prodotti da cellule con assoni brevi che terminano nell’eminenza mediana; di qui i neurosecreti vengono trasportati all’adenoipofisi attraverso il circolo portale ipofisario. I mediatori sono prodotti da cellule che proiettano le loro terminazioni assoniche su altri neuroni ipotalamici, in tal modo regolandone direttamente la funzione secretoria, oppure a livello dell’eminenza mediana, dove i neurosecreti passano nel circolo portale ipofisario e di qui all’adenoipofisi.
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Le grandi sindromi neurologiche
I confini dell’ipotalamo sono mal definiti. Anteriormente confina con il chiasma ottico e la lamina terminale della commissura anteriore, ma l’area preottica, che è situata rostralmente al chiasma ottico, è funzionalmente simile all’ipotalamo. Posteriormente l’ipotalamo è delimitato da un piano coronale immaginario situato tra la parte posteriore dei corpi mammillari e la commissura posteriore. Dorsalmente è delimitato da un piano orizzontale che passa per il terzo ventricolo a livello del solco ipotalamico. I limiti laterali sono definiti dalla capsula interna e dalla base dei peduncoli cerebrali. I nuclei ipotalamici, ancorché distinti in termini anatomo-microscopici, non trovano corrispondenza nelle differenti funzioni, neuroendocrine, autonomiche, comportamentali, attribuite a questa regione, ma l’identificazione di tali nuclei e delle aree circostanti (Fig. 15.2) è importante per l’inquadramento delle differenti funzioni. Classicamente l’ipotalamo è diviso in tre zone longitudinali: laterale, mediale e periventricolare (Tabella 15.1). La zona laterale è attraversata longitudinalmente dal fascio mediale del prosencefalo, un complesso di fibre che connettono la regione limbica con il tronco ce-
rebrale. La zona periventricolare si differenzia dalla zona mediale nelle specie di mammiferi più avanzate. I nuclei ipotalamici sono generalmente localizzati in queste due zone, mentre l’ipotalamo laterale è riccamente collegato con l’ipotalamo mediale, ma contiene anche cellule che proiettano ramificazioni dendritiche verso il piano coronale, perpendicolare al fascio mediale del prosencefalo. Questo arrangiamento strutturale fa pensare che questa zona abbia funzioni di connessione tra il sistema limbico e il tronco encefalico e di qui verso l’ipotalamo mediale. Le zone mediale e periventricolare sembrano possedere, per contro, più specifiche funzioni neuroendocrine e neurovegetative. L’eminenza mediana è una regione specializzata del pavimento del terzo ventricolo che dà origine al peduncolo ipofisario. La parte superiore del peduncolo e l’eminenza mediana costituiscono la zona di contatto tra le terminazioni dei neuroni ipotalamici, che proiettano i loro assoni in questa zona (per questo detti tuberoinfundibolari) ed i capillari del circolo portale ipofisario. Caratteristicamente questa regione è altamente vascolarizzata da capillari dotati di endotelio fenestrato, presenta un tessuto nervoso privo di pericario ed è dotata di particolari cellule ependimali, dette taniciti.
a. ipotalamica dorsale a. ipotalamica anteriore a. ipotalamica laterale
n. paraventricolare a. preottica
n. dorsomediale a. ipotalamica posteriore
n. ventromediale
n. premammillare
n. soprachiasmatico n. sopraottico
n. mammillare
n. arcuato
area preottica zona mediale zona periventricolare zona laterale
Fig. 15.2 - Topografia dei nuclei ipotalamici
Sindromi ipotalamiche
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Tabella 15.1 - Principali strutture funzionali ipotalamiche Area preottica (funzionalmente anche se non anatomicamente localizzabile nell’ipotalamo)
Zona periventricolare
Zona mediale
mediale
A neuroni parvicellulari: nucleo periventricolare nucleo soprachiasmatico nucleo arcuato A neuroni magnocellulari: nucleo sopraottico nucleo paraventricolare
nucleo ventromediale area ipotalamica laterale nucleo dorsomediale nuclei mammillari area ipotalamica anteriore “ “ dorsale “ “ posteriore
laterale
L’eminenza mediana è costituita da tre zone (interna, intermedia, esterna), la zona interna, o zona ependimale, è costituita prevalentemente dai taniciti che formano una barriera tra il liquor contenuto nel terzo ventricolo e lo spazio extracellulare dell’eminenza mediana. I taniciti hanno probabilmente una attività secretoria nel liquor e sono in contatto, tramite i corpi cellulari, con i bottoni terminali degli assoni della zona intermedia dell’eminenza mediana. La funzione dei taniciti è tutt’oggi sconosciuta; in base alla loro morfologia è probabile che abbiano un ruolo di trasporto di neurosecreti dal liquor all’eminenza mediana o viceversa. La zona intermedia dell’eminenza mediana (o zona palisadica mediale) contiene gli assoni amielinici dei neuroni magnocellulari ipotalamici che terminano nella neuroipofisi. Dati sperimentali suggeriscono che in questa zona si trovino terminazioni nervose catecolaminergiche provenienti dal tronco cerebrale e terminazioni peptidergiche. La zona esterna (o zona palisadica laterale) contiene le terminazioni nervose dei neuroni tuberoinfundibolari, che secernono i neurosecreti nel sangue portale. Al microscopio elettronico questa zona risulta composta da fibre amieliniche, terminazioni assoniche, cellule gliali e dai processi basali dei taniciti. Non sono dimostrabili sinapsi nervose tra le terminazioni nervose localizzate nello spazio perivascolare delle numerose anse capillari. Le terminazioni sono separate dal lume capillare dei vasi portali, da un tessuto endoteliale fenestrato e da due membrane basali, una intorno al capillare, l’altra intorno al neuroepitelio. Gli ormoni di rilascio (releasing hormones) entrano nel sangue portale per diffusione dallo spazio extracellulare definito da queste membrane basali. I neuroni tuberoinfundibolari provengono prevalentemente dall’area setto-preottica e periventricolare ante-
Zona laterale
riore, dai nuclei paraventricolari mediale e rostrale e dal nucleo arcuato. Alcune terminazioni originano dal nucleo ventromediale, dorsomediale e sopraottico. La maggior parte di questi neuroni sono parvicellulari, anche se sono visibili nello strato esterno dell’eminenza mediana terminazioni di neuroni magnocellulari a contatto con i capillari portali. La circolazione ipotalamica è fornita dalle arterie carotide interna, cerebrali anteriore, media e posteriore, comunicanti anteriore e posteriore e, in genere, ogni porzione dell’ipotalamo è irrorata da più di un ramo arterioso; l’eminenza mediana è irrorata dalle arterie ipofisarie superiori, rami della carotide interna. È noto che il tessuto nervoso è separato dal circolo sistemico dalla barriera ematoencefalica, ma l’eminenza mediana, che è all’esterno della barriera ematoencefalica, è liberamente permeabile alle sostanze intravascolari e, in senso contrario, rilascia liberamente nel circolo i propri increti. Forse anche regioni ipotalamiche (il nucleo arcuato e forse l’ipotalamo mediobasale) sono prontamente permeabili al circolo sistemico, probabilmente per l’azione di trasporto dei taniciti. Funzionalmente l’accesso pronto e diretto degli ormoni circolanti a livello dell’eminenza mediana e di tali centri ipotalamici ha importanza nel sistema di regolazione degli archi a feed-back.
Ipofisi: aspetti anatomici La ghiandola ipofisaria, situata alla base del cranio, alloggiata nella sella turcica dello sfenoide, è formata da due parti o lobi, l’adenoipofisi o lobo anteriore e la neuroipofisi o lobo posteriore, che hanno origine embriologica e struttura istologica differenti. Il lobo intermedio, presente nei roditori, è, nella specie umana, facilmente
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Le grandi sindromi neurologiche
distinguibile solamente nel feto e nella donna gravida; nelle altre epoche della vita è costituito da agglomerati cellulari identificabili istologicamente nella cosiddetta invasione basofila della neuroipofisi. L’adenoipofisi origina da una evaginazione ectodermica dell’orofaringe, detta tasca di Rathke e può, a sua volta, essere distinta in due parti: pars tuberalis e pars distalis. La pars tuberalis costituisce la parte della ghiandola che si trova lungo e attorno il peduncolo ipofisario, la pars distalis costituisce il corpo ghiandolare vero e proprio. La popolazione cellulare dell’adenoipofisi è costituita da differenti citotipi prevalentemente disposti in raggruppamenti cordoniformi, circondati da capillari sinusoidali e suddivisibili, in base alle caratteristiche di colorazione, in acidofili (o eosinofili), basofili, cromofobi. La differente colorazione è dovuta al contenuto dei granuli secretori citoplasmatici: il materiale proteico assume i coloranti acidi come l’eosina, mentre il materiale glicoproteico assume coloranti basici, per cui cellule secernenti ormoni proteici (Prolattina, GH) sono acidofile, mentre cellule secernenti ormoni (o precursori ormonali) glicoproteici (LH, FSH, ACTH, TSH) assumono coloranti basofili; le cellule cromofobe sono tali in quanto sprovviste di granulazioni e quindi non sono dotate di attività secretoria ormonale. Le moderne tecniche di istochimica hanno permesso di individuare i vari stipiti cellulari in base all’ormone secreto, per cui oggi la classificazione istologica è fatta su questa base e quindi riconosciamo nell’ipofisi cellule somatotrope, lattotrope, corticotrope, gonadotrope, tireotrope e cellule “nulle”.
istochimica, che permette di evidenziare la presenza del neuroormone, e tecniche di biologia molecolare, che dimostrano la biosintesi del neuroormone mediante l’utilizzo di sonde molecolari specifiche per il suo mRNA. Queste tecniche sono importanti per stabilire il ruolo dei singoli centri funzionali nella produzione e nel trasporto del segnale neuroormonale, tenendo conto che un neurosecreto, una volta sintetizzato, viene trasmesso attraverso le terminazioni nervose in zone dotate di una struttura vascolare che ne consente il passaggio nel circolo. Quindi, l’evidenza immunoistochimica di un neuroormone a livello dell’eminenza mediana ne dimostra la presenza in tale struttura, mentre la dimostrazione dell’mRNA nei vari nuclei ipotalamici è prova della sintesi a quel livello.
MEDIATORI E MODULATORI NERVOSI DELL’IPOTALAMO A livello ipotalamico sono stati evidenziati numerosi neurotrasmettitori, la cui funzione sembra quella di influenzare, in modo positivo o negativo, la secrezione degli ormoni ipofisiotropi o di modularne l’effetto a livello periferico. In genere tali neurotrasmettitori non sono sintetizzati a livello ipotalamico, ma vi giungono da centri extraipotalamici e quindi costituiscono il sistema di connessione dell’ipotalamo con il resto del sistema nervoso centrale.
Organizzazione funzionale
Dopamina - È probabilmente il neurotrasmettitore più rappresentato a livello ipotalamico. La più alta concentrazione ipotalamica di DA è a livello dell’eminenza mediana. I neuroni ipotalamici dopaminergici (tuberoinfundibolari dopaminergici, TIDA) provengono prevalentemente dal nucleo arcuato, di cui costituiscono solo il 34%, e terminano a livello dell’eminenza mediana, ma il contenuto di DA a livello di questa struttura si riduce solo del 45% dopo distruzione del nucleo arcuato, poiché il resto della dopamina proverrebbe dal mesencefalo. A livello dell’eminenza mediana le terminazioni DA positive sono localizzate nello strato esterno. Cellule a dopamina nell’ipotalamo periventricolare anteriore sembrano proiettare nell’area preottica e nello strato interno dell’eminenza mediana. Nel ratto questo gruppo di cellule, insieme alle cellule DA provenienti dal nucleo arcuato rostrale, inviano assoni ai lobi intermedio e posteriore dell’ipofisi.
Lo studio della organizzazione funzionale delle varie strutture ipotalamo-ipofisarie si avvale di tecniche “in vivo”, che studiano il comportamento della secrezione ormonale in animali da esperimento, dopo lesione stereotassica o deafferentazione di particolari aree ipotalamiche, di tecniche “in vitro” che utilizzano l’immuno-
Noradrenalina (NA) - È distribuita ubiquitariamente, ma non uniformemente, nell’ipotalamo, essendo la più alta concentrazione osservabile nel nucleo paraventricolare, nell’area retrochiasmatica, nei nuclei ventromediale e dorsomediale ipotalamici. La concentrazione di NA a livello dell’eminenza mediana è circa un quinto di
L’adenoipofisi è l’organo più irrorato di tutto il corpo umano (0,8 ml/g*min), ma riceve il suo apporto sanguigno indirettamente attraverso l’arteria ipofisaria superiore, ramo della carotide interna, e le sue diramazioni, arteria ipofisaria anteriore e arteria ipofisaria posteriore, dopo il passaggio attraverso l’eminenza mediana ed il circolo portale, per cui una interruzione del circolo portale comporta necrosi infartuale dell’adenoipofisi. Al contrario l’ipofisi posteriore è irrorata in modo diretto dall’arteria ipofisaria inferiore.
Sindromi ipotalamiche quella di DA ed è prevalentemente localizzata nello strato interno. I dati di distribuzione, pertanto, parlano a favore di un ruolo funzionale intraipotalamico pittosto che quello di un vero ormone ipofisiotropo. La deafferentazione dell’ipotalamo medio-basale comporta una riduzione del 70-90% della NA ipotalamica, a sostegno di una origine quasi esclusivamente extraipotalamica, forse da neuroni localizzati nel tronco encefalico caudale. La maggior parte delle fibre noradrenergiche arrivano all’ipotalamo attraverso il nervo noradrenergico ventrale. Adrenalina - La concentrazione a livello ipotalamico è circa il 10% di quella della NA, è particolarmente elevata a livello del nucleo ipotalamico dorsomediale, nucleo paraventricolare, regione periventricolare, nucleo arcuato e nucleo sopraottico. Terminazioni nervose adrenergiche sono dimostrabili nel nucleo ipotalamico dorsomediale, nel nucleo arcuato, nella porzione parvicellulare mediale del nucleo paraventricolare, e nelle regioni perifornicale e periventricolare. Scarse sono le terminazioni nervose a livello dell’eminenza mediana e nessuna è presente nello strato esterno. Si pensa che tutte le cellule adrenergiche del cervello siano localizzate nel midollo, nel nucleo reticolare laterale o nel midollo dorsomediale. Ciò non di meno la deafferentazione dell’ipotalamo medio-basale comporta una riduzione del contenuto globale di adrenalina ipotalamica solo del 60%. Serotonina (5-HT) - È distribuita diffusamente in tutto l’ipotalamo, particolarmente nel nucleo soprachiasmatico, ma concentrazioni elevate sono rinvenibili anche nel nucleo arcuato e nelle regioni basale e posteriore dell’ipotalamo, mentre scarsi sono i livelli osservabili a livello dell’eminenza mediana, soprattutto nello strato interno. Esistono comunque notevoli differenze di distribuzione nelle varie specie di mammiferi. La deafferentazione ipotalamica comporta una riduzione della concentrazione di 5-HT di circa il 60%, e la maggior sorgente extraipotalamica di 5-HT sono i nuclei del rafe del mesencefalo. La produzione intraipotalamica sembra localizzata in prossimità del terzo ventricolo, prevalentemente nel nucleo dorsomediale ipotalamico. I livelli di 5-HT nel sangue portale non sono più elevati di quelli della circolazione generale, mentre più elevati sembrano essere quelli del suo metabolita 5-idrossi-indolo-3-acido acetico, per cui è possibile che la 5-HT o il suo metabolita abbiano una qualche funzione a livello ipofisario. Acetilcolina (Ach) - Neuroni contenenti Ach sono presenti nel nucleo sopraottico e nell’area preottica laterale. È stata ipotizzata una via tuberoinfundibolare colinergica, analoga alla TIDA.
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Acido gamma amminobutirrico (GABA) - Neuroni contenenti GABA, che proiettano fibre allo strato esterno dell’eminenza mediana, sono osservabili nell’ipotalamo mediobasale, posteriore e mediano. Altri neuropeptidi ipotalamici, meno noti perché meno studiati ma potenzialmente non meno importanti, sono il peptide vasoattivo intestinale (vasoactive intestinal polypeptide, VIP), che deve il nome all’organo da cui venne per la prima volta isolato, la sostanza P, i peptidi oppioidi (encefaline ed endorfine), il neuropeptide Y (NPY).
Funzione adenoipofisaria L’adenoipofisi secerne numerosi ormoni che a loro volta regolano la funzione di altre ghiandole endocrine o apparati coinvolti nel sistema endocrino-metabolico ed è regolata da neuroormoni, prodotti a livello dei nuclei ipotalamici, detti ormoni ipofisiotropi (Tabella 15.2); i quali risentono dell’effetto regolatorio di afferenze provenienti da centri superiori e della concentrazione nel liquido extracellulare degli ormoni da essi stessi stimolati od inibiti in modo diretto o indiretto (effetto di retroregolazione o feed-back), come della concentrazione di mediatori e modulatori nervosi (catecolamine, GABA, ecc.). Ogni singola funzione ipofisaria fa parte di un sistema articolato in diversi livelli che interagiscono fra di loro in modo da garantire l’omeostasi ormonale. Il sistema nel suo complesso costituisce un “asse” formato da “archi”, discendenti ed ascendenti (Fig. 15.3). Gli archi discendenti sono costituiti dai segnali ormonali inviati dall’ipotalamo all’ipofisi e da questa alla ghiandola bersaglio, gli archi ascendenti originano dalla ghiandola bersaglio che, attraverso il suo secreto, regola in modo inibitorio (feedback negativo) la funzione ipotalamica o la funzione ipofisaria. È stato anche descritto un arco costituito dall’ipofisi che regola, attraverso le tropine da essa prodotte, la funzione ipotalamica. Questo sistema ad archi garantisce l’omeostasi ormonale.
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Le grandi sindromi neurologiche
Tabella 15.2 - Assi ipotalamo-ipofisari. I nuclei ipotalamici secernono gli ormoni ipofisiotropi che, attraverso il circolo portale ipofisario raggiungono l’ipofisi dove esercitano la loro azione di stimolo o inibizione della secrezione delle tropine ipofisarie, le quali svolgono il loro effetto biologico sulle ghiandole bersaglio, che raggiungono attraverso il circolo sistemico.
EFFETTO STIMOLATORIO
EFFETTO INIBITORIO
LHRH = ormone stimolante il rilascio dell’ormone luteinizzante; GHRH = ormone stimolante il rilascio di somatotropina; SS = somatostatina; TRH = ormone stimolante il rilascio di tireotropina; CRH = ormone stimolante il rilascio di corticotropina; LH = ormone luteinizzante; FSH = ormone follicolostimolante; GH = somatotropina; TSH = tireotropina; PRL = prolattina; ACTH = corticotropina; E2 = estradiolo; T = testosterone; IGF-I = fattore di crescita insulinosimile I, insulin-like growth factor I; T4 = tiroxina.
IPOTALAMO
Ormoni ipofisiotropi IPOFISI Feed-back
Tropina
TESS. BERSAGLIO
Effetto biologico Effetto stimolatorio Effetto inibitorio
Fig. 15.3 - Sistema regolatorio degli assi ipotalamo-ipofisitessuti bersaglio.
A tutt’oggi sono stati isolati e caratterizzati cinque neuroormoni (Tab. 15.2), quattro stimolatori (ormone stimolante il rilascio di tireotropina, ormone stimolante il rilascio di luteotropina, ormone stimolante il rilascio di somatotropina, ormone stimolante il rilascio di adrenocorticotropina) e uno inibitore (ormone inibente il rilascio di somatotropina) la cui denominazione riflette l’azione principale, o meglio quella per cui è stato inizialmente caratterizza-
to; infatti alcuni di questi hanno azioni dirette verso ormoni differenti. Ormone stimolante il rilascio dell’ormone luteinizzante (luteinizing hormone releasing hormone, LHRH)È un polipeptide di 10 aminoacidi dotato di potente azione stimolante sulla secrezione del’ormone luteinizzante (LH), ma ha anche una azione, meno marcata, sulla secrezione dell’ormone follicolo-stimolante (FSH) per cui è anche chiamato ormone di rilascio delle gonadotropine (gonadotropin releasing hormone, GnRH). A tutt’oggi non è stato possibile identificare una sostanza capace di stimolare specificamente ed isolatamente la secrezione di FSH, per cui sembra verosimile che esista un solo ormone di rilascio per entrambe le gonadotropine, mentre è stato individuato un peptide di origine gonadica, detto inibina, capace di inibire specificamente la secrezione di FSH. La distribuzione anatomica dell’LHRH è molto più confinata di quella del TRH: nei mammiferi l’immunoreattività per LHRH è rinvenibile nell’ipotalamo, nel setto e nell’area preottica, nell’amigdala e nel mesencefalo. La distribuzione di neuroni responsabili della sintesi di LHRH è differente nei mammiferi da specie a specie: nei primati sembrano localizzati nell’area preottica ed in una zona periventricolare che si estende dall’ipotalamo anteriore ai nuclei premammillari; cellule isolate sono state osservate nei nuclei arcuato, sopraottico e settale. Nella specie umana cellule LHRH positive sono state localizzate nella parte ventrale dell’ipotalamo mediobasale, tra il terzo ventricolo e l’eminenza mediana. Le cellule non sono confinate in nuclei distinti, ma disperse in
Sindromi ipotalamiche tutta la regione periventricolare infundibolare. Solo poche cellule sono state ritrovate nell’ipotalamo rostrale. Ormone stimolante il rilascio di somatotropina (growth hormone releasing hormone, GHRH) - È un polipeptide di 44 aminoacidi che stimola in modo specifico la secrezione somatotropinica (GH). Il GHRH ha una localizzazione piuttosto ristretta. L’immunoreattività più elevata è, al solito, osservabile a livello dell’eminenza mediana, seguita dal nucleo arcuato. Interessante il rilievo che in genere la concentrazione a livello dell’ipotalamo e dell’eminenza mediana del GHRH è un decimo di quella della somatostatina. Nei mammiferi la grande maggioranza di cellule GHRH secernenti è localizzata nel nucleo arcuato o nelle immediate vicinanze. Cellule GHRH positive sono anche rinvenibili, nel ratto, nella regione perifornicale dell’ipotalamo laterale ed anteriore, nelle regioni mediale e laterale del nucleo ventromediale ipotalamico, nel nucleo paraventricolare, nel nucleo dorsomediale ipotalamico e nell’ipotalamo baso-laterale. Fibre GHRH positive si ritrovano soprattutto nella zona esterna dell’eminenza mediana, ma sono state descritte anche a livello dell’ipotalamo anteriore soprachiasmatico, del nucleo ventromediale ipotalamico e dell’ipotalamo mediodorsale. I neuroni tuberoinfundibolari originano in maggioranza dal nucleo arcuato, in minoranza da altri distretti ipotalamici. Ormone inibente il rilascio di somatotropina o somatostatina (growth hormone release inhibiting hormone, GHRIH, SS) - È stato caratterizzato in due forme molecolari di 14 e 28 aminoacidi ed ha molteplici azioni inibitorie. Infatti inibisce la secrezione di GH e di TSH a livello ipofisario, di insulina, glucagone e di altri enteroormoni a livello pancreatico e gastroenterico, ove è stata dimostrata la sintesi. La SS, a somiglianza con il TRH e diversamente dall’LHRH, è sintetizzata nel tessuto cerebrale ma anche in altri organi, come l’insula pancreatica e il tubo digerente. La concentrazione più elevata di SS è riscontrabile nell’eminenza mediana; elevati livelli sono rinvenibili anche nel nucleo arcuato, nelle regioni periventricolari dell’ipotalamo anteriore e dell’area preottica e nel nucleo ventromediale. Cellule positive per SS sono principalmente concentrate nella regione periventricolare anteriore, nel nucleo paraventricolare a neuroni parvicellulari e nel nucleo arcuato. Alcune cellule positive sono riscontrabili anche a livello del nucleo ipotalamico anteriore, nella regione perifornicale e nell’ipotalamo laterale. I neuroni a SS tuberoinfundibolari sono localizzati nella regione periventricolare anteriore. Lesioni dell’ipotalamo periventricolare anteriore riducono dell’80-90% il contenuto di SS dell’eminenza mediana. Deplezione di SS a questo livello è anche osservabile dopo deafferentazione frontale ipotalamica e dopo tagli laterali parasagittali, il che
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suggerisce che le fibre a SS compiano un percorso ad arco rivolto lateralmente attraverso il fascio mediale del prosencefalo, prima di rientrare nel nucleo ventromediale a livello dell’eminenza mediana. La maggior parte delle fibre contenenti SS sono localizzate nel peduncolo ipofisario e nell’eminenza mediana (strati esterno ed interno), nel nucleo arcuato, nucleo ventromediale ipotalamico e nucleo soprachiasmatico. Numerose fibre SS hanno terminazioni presso i capillari dell’organo vasculoso della lamina terminale (OVLT). Interessante il rilievo nel cane di neuroni SS positivi a livello del confine ependimale con il terzo ventricolo che suggerisce un rilascio di SS a livello del liquor cerebrospinale. Ormone stimolante il rilascio di tireotropina (thyrotropin releasing hormone, TRH) - È un tripeptide che stimola la secrezione di tireotropina (TSH) e di prolattina. L’effetto prolattino-stimolatorio è marcato, anche se non sembra rivestire importanza fisiopatologica, poiché, in genere, non si osserva un concomitante aumento del TSH in situazioni di attivata secrezione prolattinica. Del resto è noto che la secrezione di questo ormone è regolata da un prevalente tono inibitorio e quindi una iperprolattinemia si può verificare per semplice riduzione di tale tono inibitorio senza aumento dello stimolatore fisiologico. L’immunoreattività per il TRH è ampiamente distribuita nella maggior parte del cervello e del tessuto gastroenterico, ma i livelli più elevati di TRH nel corpo sono evidenziabili a livello dell’eminenza mediana e la più densa raccolta di corpi cellulari contenenti TRH è riscontrabile nella porzione mediale parvicellulare del nucleo paraventricolare. Altre regioni ipotalamiche ricche in pericaria TRH-positivi sono il nucleo preottico soprachiasmatico, la regione perifornicale, il nucleo dorsomediale, il nucleo ventromediale e l’ipotalamo basolaterale. Fibre contenenti TRH sono distribuite in tutto l’ipotalamo e una densa rete di tali fibre è osservabile anche nell’ipofisi posteriore. Probabilmente sono le cellule parvicellulari del nucleo paraventricolare quelle da cui originano gli assoni che rilasciano il TRH a livello dell’eminenza mediana, in quanto la lesione di tale nucleo produce una riduzione del TRH a livello dell’eminenza mediana ed una riduzione del TSH nel circolo; al contrario la sua stimolazione produce un rilascio di TSH da parte dell’ipofisi. Ormone inibente il rilascio di prolattina (prolactin inhibiting factor, PIF) - Non è stato identificato a tutt’oggi un polipeptide dotato di tale attività che abbia caratteristiche simili a quelle degli altri neuroormoni, ma è stato chiaramente dimostrato un potente effetto inibitorio della dopamina, la cui sintesi è ampiamente dimostrata a livello ipotalamico, sulla secrezione prolattinica; poiché la
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Le grandi sindromi neurologiche
prolattina è regolata da un tono ipotalamico prevalentemente inibitorio, la dopamina è, di conseguenza, il principale regolatore della sua secrezione. Un difetto del tono dopaminergico a livello ipotalamico comporta una iperprolattinemia e questo spiega la frequenza delle iperprolattinemie da farmaci. Recentemente è stato caratterizzato un polipeptide di 28 aminoacidi, sintetizzato a livello del nucleo arcuato e dello stomaco dotato di potente e specifico effetto secretagogo sul GH, denominato “ghrelina” (“ghre” è la radice proto-indo-europea della parola “grow”). Questo peptide sarebbe il ligando naturale dei recettori ipofisari per i secretagoghi del GH, caratterizzati in seguito all’osservazione che peptidi sintetici, come il growth hormone releasing peptide (GRP) e l’exarelina hanno una potente azione di rilascio del GH, anche dopo somministrazione orale. Ormone stimolante il rilascio di corticotropina (corticotropin releasing hormone, CRH) - È un polipeptide di 41 aminoacidi che stimola la secrezione di adrenocorticotropina (ACTH) e di beta-lipotropina (ß-LPH), ambedue provenienti dalla idrolisi enzimatica di un proormone detto pro-opio-melanocortina (POMC) (Fig. 15. 4). Immunoreattività per il CRH è stata trovata in molte aree cerebrali, nel midollo spinale e nel tratto gastroenterico, ma la grande maggioranza di corpi cellulari contenenti granuli CRH positivi è localizzata nell’ipotalamo, mentre la più alta concentrazione tissutale è localizzabile a livello dell’eminenza mediana. Nell’ambito ipotalamico, per quanto riguarda il ratto, il CRH è rinvenibile nei pericaria localizzati nella parte mediale parvicellulare del nucleo paraventricolare, nell’ipotalamo periventricolare preottico, nell’area preottica e nel nucleo sopraottico. Cellule positive sparse sono state trovate nell’ipotalamo anteriore, nei nu-
clei premammillari ed in altre sedi ipotalamiche. Nell’ambito di alcuni gruppi cellulari sono state descritte colocalizzazioni di differenti peptidi ipotalamici, ad esempio nella zona parvicellulare del nucleo paraventricolare sono state descritte cellule positive per CRH e met-encefalina. Sempre nella zona parvicellulare del nucleo mediale paraventricolare è stato osservato un gruppo di neuroni che selettivamente aumenta l’intensità della colorazione in seguito ad adrenalectomia, suggerendo il loro ruolo funzionale nel’asse ipotalamo-ipofisi-surrenalico. Esperimenti di deafferentazione indicano che i neuroni tuberoinfundibolari a CRH originano essenzialmente nel nucleo paraventricolare mediale, le fibre nervose corrono lateralmente dal nucleo paraventricolare, girano ventralmente nell’ipotalamo laterale e medialmente nell’area laterale retrochiasmatica verso l’eminenza mediana.
Assi neuroendocrini ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-PROLATTINA La prolattina, regolata come già detto da un tono ipotalamico prevalentemente inibitore, ha funzioni non ancora ben definite a livello gonadico (da cui deriva la denominazione di ormone luteotropo) ed ipotalamico, dove avrebbe un effetto inibitorio sulla secrezione pulsatile delle gonadotropine. La sua principale funzione è svolta a livello della ghiandola mammaria ove inizia e mantiene la lattazione (Fig. 15.5).
Fig. 15.4 - Schema descrittivo dei processi biosintetici dell’ACTH. La molecola proormonale dell’ACTH è notevolmente più grande della molecola matura (261 residui aminoacidi) e contiene nella sua sequenza diversi peptidi. Un primo processo di clivaggio distacca un frammento N-terminale, apparentemente privo di azione biologica ed un frammento C-terminale che contiene due molecole, ACTH (39 residui) e beta-lipotropina (91 residui). La molecola dell’ACTH, a sua volta, può essere ulteriormente degradato in due frammenti, alfa MSH (Melanocyte Stimulating Hormone) o ormone melanostimolante e CLIP (Corticotropinlike Intermediate Lobe Peptide); quest’ultimo processo è osservabile nei roditori, ma non nella specie umana. La betalipotropina, a sua volta, viene scissa in gamma-lipotropina, dalla quale deriva il beta MSH, e in beta-endorfina, dalla quale deriva la met-encefalina.
Sindromi ipotalamiche Stress Sonno
DA
PRF
Farmaci
Estrogeni
PRL
573
particolare l’arginina) e l’ipoglicemia stimolano la secrezione di GH. Probabilmente tutti questi effetti vengono esplicati attraverso la modulazione del tono somatostatinergico; per gli acidi grassi è stato dimostrato anche un effetto diretto sulle cellule ipofisarie. ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-GONADI
Fig. 15.5 - Asse ipotalamo-ipofisi prolattina
ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-SOMATOTROPO L’ormone somatotropo (growth hormone, GH) è regolato in modo inibitorio dalla somatostatina ipotalamica ed in modo stimolatorio dal GHRH e dalla ghrelina. A livello periferico il GH esplica azioni dirette di tipo metabolico, quali la stimolazione dell’incorporazione cellulare degli aminoacidi, la stimolazione della lipolisi e la riduzione dell’utilizzazione dei carboidrati, ed azioni indirette, tramite l’induzione dell’IGF-I, sui processi di accrescimento e maturazione. A sua volta l’IGF-I esercita un effetto inibitorio a feed-back a livello ipofisario ed ipotalamico (Fig. 15.6). Anche i substrati metabolici hanno un’influenza sulla secrezione del GH. L’iperglicemia e gli acidi grassi hanno effetto inibitorio mentre alcuni aminoacidi (in
La gonadotropina LH subisce l’effetto stimolatorio da parte dell’LHRH ipotalamico e stimola, a livello gonadico, la secrezione steroidea sia nel maschio che nella femmina; la gonadotropina FSH, invece, ha prevalentemente un effetto sulla linea germinativa e, nella femmina, sulle cellule della granulosa ove induce effetti maturativi come l’induzione dei recettori per l’LH e del patrimonio enzimatico steroidogenetico. L’effetto feed-back è svolto dall’inibina, prodotta dalle cellule del Sertoli e della granulosa ovarica, che ha una azione specifica di inibizione della secrezione di FSH, e dagli steroidi sessuali, che hanno effetto inibitorio sull’LH nel maschio (Fig. 15.7), bifasico, a seconda del momento del ciclo mestruale, nella femmina (Fig. 15.8). Sembra che il NPY abbia un ruolo nell’attivazione del picco gonadotropinico della fase ovulatoria, mentre la leptina avrebbe un effetto di stimolo, evidenziato soprattutto nell’induzione dell’attivazione secretoria pulsatile delle gonadotropine all’inizio della pubertà.
Stimoli visivi Stimoli olfattori Stress
GHRH
SS
Esercizio fisico Stress Sonno
LHRH
Ghrelina
LH
FSH
GH IGF-I IGFBP-3 ALS
Fig. 15.6 - Asse ipotalamo-GH-IGF-I
IGFBP-1 IGFBP-2
TESTOSTERONE
INIBINA
Fig. 15.7 - Asse ipotalamo-ipofisi gonadi nel maschio
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Le grandi sindromi neurologiche
Stimoli visivi Stimoli olfattori Stress
LHRH
LEPTINA
NPY
LH
FSH
INIBINA
ESTROGENI PROGESTERONE
Fig. 15.8 - Asse ipotalamo-ipofisi gonadi nella femmina
ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-SURRENE L’adrenocorticotropina (adrenocorticotropic hormone, ACTH) è regolata dall’effetto stimolatorio del CRH ipotalamico e della vasopressina rilasciata dai neuroni ipotalamici che hanno terminazioni nervose a livello dell’eminenza mediana, e dall’effetto inibitorio del feedback cortisolico. Un importante ruolo stimolatorio è giocato dall’adrenalina medullosurrenalica e dalle interleuchine. Queste ultime fanno parte di un arco a feed-back che coinvolge gli effetti immunomodulatori dei glicocorticoidi (Fig. 15.9).
del TRH e quello inibitorio della SS (Fig. 15.10); un ruolo inibitorio viene esercitato anche dalla dopamina. La somatostatina subisce a sua volta un effetto inibitorio da parte degli ormoni tiroidei per cui il ruolo di questo neuroormone nella regolazione dell’asse è ancora poco chiaro. Il feed-back degli ormoni tiroidei viene esercitato attraverso la T3, prevalentemente prodotta a livello intracellulare dalla desiodazione della T4, a livello delle cellule ipofisarie TSH secernenti. Questo è il meccanismo regolatorio più importante in quanto blocca anche la risposta ipofisaria al TRH, mentre l’effetto del feed-back degli ormoni tiroidei a livello ipotalamico è più debole e può essere superato da stimoli extraipotalamici come l’esposizione al freddo.
TRH
SS
TSH
ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-TIROIDE L’ormone tireotropo (thyroid stimulating hormone, TSH) subisce l’effetto stimolatorio
T4 - T3 Fig. 15.10 - Asse ipotalamo-ipofisi tiroide
ACH 5-HT NE CRH
Ritmo circadiano Stress
CRH VP
IL-1 IL-2 IL-6 TNF-α
NE GABA
ACTH
ADRENALINA
CORTISOLO
Fig. 15.9 - Asse ipotalamo-ipofisi surrene
Funzione neuroipofisaria L’adiuretina (ADH) o arginin-vasopressina e l’ossitocina (OT) sono i due peptidi secreti dal lobo posteriore dell’ipofisi nella specie umana ed in altri mammiferi. Questi due peptidi sono sintetizzati come proormoni a livello ipotalamico nei pericaria dei neuroni magnocellulari dei nuclei sopraottico e paraventricolare; ogni
Sindromi ipotalamiche
singolo neurone sintetizza l’uno o l’altro neuroormone e non entrambi. La molecola proormonale include il peptide di segnale (o sequenza leader), la molecola ormonale “matura” ed una proteina associata, specifica per ognuno dei due peptidi, detta neurofisina (Fig. 15.11). La biosintesi avviene a livello del ribosomi che rilasciano il proormone nel reticolo endoplasmico ruvido ove viene distaccata la sequenza leader; dopodiché le molecole proormonali vengono riversate nei granuli secretori dell’apparato del Golgi e migrano lungo gli assoni neuronali nelle terminazioni nervose della neuroipofisi. Durante la migrazione avviene il distacco enzimatico della molecola ormonale matura dalla neurofisina. La secrezione avviene per esocitosi, cosicché neurofisine e neuroormoni vengono rilasciati in quantità equimolari. Gli stimoli secretori sono trasmessi anch’essi lungo gli assoni delle cellule neuroendocrine, cosicché queste cellule posseggono sia le caratteristiche funzionali tipiche delle cellule nervose sia quelle tipiche delle cellule endocrine. L’ADH è il principale ormone coinvolto nei meccanismi di controllo della volemia e della concentrazione di soluti nei liquidi dell’organismo. La sua secrezione è regolata attraverso un sistema di rilevazione della concentrazione sa-
gene della vasopressina
lina dei liquidi extracellulari, costituito dagli osmocettori, e da un sistema di rilevazione della volemia, costituito dai barocettori. Sono sufficienti una riduzione di appena il 2% dell’osmolalità o del 10% della volemia per produrre una significativa attivazione della secrezione di ADH. Negli stati iposmolari, poiché l’acqua scambia liberamente tra i compartimenti extra ed intracellulare, si verifica inizialmente un rigonfiamento delle cellule che costituiscono gli osmocettori le quali mandano segnali inibitori sulla secrezione di ADH. I meccanismi di replezione idrica vengono attivati solamente quando l’aumento della pressione osmotica è dovuto a soluti che non attraversano liberamente la membrana cellulare, il che comporta, almeno acutamente, una contrazione cellulare a livello degli osmocettori che inviano segnali di stimolo della secrezione di ADH. Per questo motivo l’aumento della concentrazione di soluti che, come l’urea, attraversano liberamente la barriera cellulare, non attiva i meccanismi osmoregolatori, come invece avviene per l’aumento della concentrazione del sodio. Dati sperimentali suggeriscono che gli osmocettori siano localizzati all’esterno della barriera emato-encefalica, nell’organo vasculoso della lamina terminale, situato nella porzione anteroventrale del terzo ventricolo.
ESONE B
ESONE A
ESONE C
precursori PEPTIDE SEGNALE
GLICOPROTEINA
peptidi terminali VASOPRESSINA
575
NEUROFISINA
Fig. 15.11
576
Le grandi sindromi neurologiche
Un secondo meccanismo di regolazione della secrezione di ADH coinvolge stimoli legati alla volemia che possono operare indipendentemente da modificazioni dell’osmolalità plasmatica. Per riduzioni della volemia del 10% od oltre, i barocettori stimolano la secrezione di ADH e attivano il meccanismo della sete. I barocettori sono localizzati a livello del cuore destro, dell’atrio sinistro, del letto venoso (barorecettori a bassa pressione) e del letto arterioso (barorecettori ad alta pressione). I segnali afferenti provenienti dai barocettori extrarenali sono trasmessi dal IX e dal X nervo cranico. L’ADH esplica la sua azione a livello renale ove aumenta la permeabilità dei dotti collettori all’acqua. In questa zona l’urina è ipotonica per l’azione di riassorbimento del sodio esplicato a livello del tratto ascendente dell’ansa di Henle. In assenza di ADH la permeabilità all’acqua dei dotti collettori è bassa e quindi si verifica uno scarso riassorbimento di liquidi con conseguente eliminazione di urina ipotonica; al contrario la presenza di ADH comporta una maggior permeabilità dei dotti collettori ai liquidi con conseguente aumentato riassorbimento di acqua e concentrazione delle urine. L’ossitocina è chimicamente molto simile all’ADH (la differenza consiste solo in due aminoacidi). La biosintesi è localizzata nella parte più rostrale dei nuclei sopraottico e paraventricolare e la sua secrezione è prevalentemente regolata da stimoli neurogeni legati alla distensione meccanica della vagina ed alla suzione del capezzolo. Le azioni principali sono legate alla contrazione uterina durante il parto ed alla contrazione della muscolatura della ghiandola mammaria durante l’allattamento, ma l’ossitocina possiede anche altre azioni biologiche, legate alla somiglianza con l’ADH, connesse con l’equilibrio idrosalino. Similmente all’ADH la sua secrezione risente, anche se in misura minore, degli effetti stimolatori del sistema osmocettoriale e barorecettoriale. In condizioni fisiologiche l’ossitocina non sembra in grado di vicariare l’effetto dell’ADH,
poiché non necessariamente nel diabete insipido si verifica carenza ossitocinica, ma dosi di questo ormone, analoghe a quelle usate durante l’induzione del parto, esercitano effetti significativi sul metabolismo dell’acqua. È stata descritta grave intossicazione idrica in donne infuse con elevati dosaggi di ossitocina (generalmente superiori a 20 mU/min) e con elevate quantità di liquidi ipotonici (generalmente oltre 3.5 litri). Una significativa antidiuresi è rilevabile per infusioni di oltre 15 mU/min che diventa massimale a dosi di 30 mU/min; l’effetto si osserva 10-15 minuti dopo l’inizio della terapia e cessa dopo 10-15 minuti dalla sua sospensione. I neuroni neurosecretori coinvolti nella secrezione neuroipofisaria si identificano classicamente nei neuroni magnocellulari dei nuclei sopraottico e paraventricolare dell’ipotalamo, che sintetizzano ossitocina e vasopressina, le quali, attraverso il tratto sopraottico ipofisario, vengono depositate e rilasciate a livello delle terminazioni nervose contenute nel lobo posteriore dell’ipofisi. L’ipofisi posteriore contiene anche piccole cellule, conosciute col nome di pituiciti, elementi gliali apparentemente privi di rapporti con la funzione neuroendocrina. La vasopressina è stata identificata anche in neuroni parvicellulari nel nucleo arcuato. Assoni di neuroni contenenti vasopressina sembrano terminare lungo la parete del terzo ventricolo e nell’eminenza mediana e il significato è poco chiaro, anche se le terminazioni a livello dell’eminenza mediana sono in accordo con l’ipotesi che la vasopressina abbia un ruolo di regolazione della secrezione di ACTH. Mediante tecniche istochimiche è stata dimostrata la presenza di cellule secernenti ossitocina e vasopressina sia nel nucleo sopraottico che paramediano, pur essendo i due neuroormoni localizzati in cellule differenti. Nella specie umana le cellule a vasopressina sono situate nella zona più ventrale del nucleo sopraottico e nella zona centrale del nucleo paraventricolare, men-
Sindromi ipotalamiche
tre le cellule a ossitocina sono localizzate nella porzione dorsale del nucleo sopraottico e alla periferia del nucleo paraventricolare. Gli assoni dei neuroni magnocellulari sono costituiti da fibre amieliniche che contengono numerose varicosità dette corpi di Herring. Le terminazioni nervose contengono vescicole in contatto diretto con la membrana basale del neurone, la quale a sua volta comunica, attraverso lo spazio perivascolare, con la membrana basale dei capillari che originano dall’arteria ipofisaria inferiore. Nelle terminazioni nervose sono anche osservabili dilatazioni contenenti granuli che non sono in contatto con i capillari.
Regolazione del bisogno e dell’assunzione di cibo Il fatto che in determinate condizioni sperimentali, che tendono a modificare la composizione corporea, si verificano fenomeni che tendono ad opporsi a tali modificazioni, porta ad ipotizzare che esista un sistema preposto alla regolazione del peso corporeo e del bilancio energetico. Ad esempio, ratti sottoposti ad una iperalimentazione forzata con conseguente aumento ponderale riducono drasticamente l’alimentazione spontanea. Più in generale, in risposta a periodi di iper o ipoalimentazione, l’assunzione di cibo e la spesa energetica dell’organismo si adattano in modo da ridurre il più possibile le modificazioni ponderali e, quindi, mantenere il più possibile costante il peso corporeo. Il sistema nervoso centrale gioca un ruolo fondamentale nella regolazione dell’omeostasi energetica attraverso tre distinti meccanismi: la regolazione della fame e della sazietà, l’influenza sulla spesa energetica, la regolazione della secrezione di un numero di ormoni e neuroormoni coinvolti sia nella percezione del senso di fame e sazietà, sia nella regolazione della spesa energetica. L’esistenza di due separati centri ipotalamici che regolano l’apporto di cibo è stata ipotizzata in base ad esperimenti di lesio-
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ne ed elettrostimolazione del nucleo ventromediale e dell’area ipotalamica laterale che furono per questo definiti come sedi del centro della sazietà e della fame rispettivamente. Il fatto però che la lesione di entrambi i centri non prevenga le risposte alimentari compensatorie al digiuno ha fatto supporre che altri centri nervosi siano coinvolti in questo sistema. L’esperienza degli ultimi vent’anni ha evidenziato come molti neuroormoni, mediatori e modulatori nervosi abbiano effetti sia sull’apporto di cibo sia sulla spesa energetica (Tab. 15.3). L’ipotesi prevalente oggi è quella di una rete neurale di regolazione dell’appetito (appetite regulating network, ARN) che coinvolge numerosi nuclei ipotalamici (n. arcuato, n. ventromediale, ipotalamo laterale, n. dorsomediale, n. paraventricolare, n. soprachiasmatico) che interagiscono attraverso segnali neuroendocrini e subiscono gli effetti regolatori di altri segnali neuroendocrini provenienti da sedi extraipotalamiche ed extracerebrali. Tra gli stimolatori dell’appetito ricordiamo: L’NPY è un peptide di 36 aminoacidi, membro della famiglia del polipeptide pancreatico, espresso sia a livello del tessuto nervoso centrale che periferico. L’espressione di NPY è aumentata nel digiuno, così come l’iniezione intracerebrale di questo peptide aumenta l’appeTabella 15.3 - Inibitori e stimolatori endogeni dell’appetito Inibitori dell’appetito
Stimolatori dell’appetito
Leptina CRH (urocortina) Serotonina Catecolamine CCK Amilina Bombesina GLP-1 Melanocortina (á-MSH) Insulina CART
NPY, PYY, PP Galanina Peptidi oppioidi Glutammato GABA Oressine (ipocretine) Ghrelina Glucocorticoidi Catecolamine
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Le grandi sindromi neurologiche
tito, mentre la sua immunoneutralizzazione provoca una riduzione dell’appetito. Gli altri peptidi di questa famiglia (polipeptide pancreatico e peptide PYY, tutti con lo stesso numero di aminoacidi e una elevata omologia sequenziale) sono prodotti dal tubo gastroenterico, ove esercitano azioni sulla secrezione e sulla contrazione della colecisti ma hanno anche un potente effetto centrale di stimolo dell’appetito. L’NPY è sintetizzato particolarmente nel nucleo arcuato in neuroni che proiettano le loro fibre nei nuclei paraventricolari, adiacenti al nucleo ventromediale. Una quota importante è sintetizzata anche nel tronco encefalico in regioni che producono altri importanti segnali oressigeni come le catecolamine (adrenalina e NA) e la galanina. A livello dell’ipotalamo l’NPY interagisce con neuroni che producono POMC, precursore dei peptidi oppioidi (v. pag. 572), e galanina, ambedue, direttamente o indirettamente, potenti stimolatori dell’appetito. Allo stato delle conoscenze l’NPY sembra essere, tra tutti i segnali oressogeni, l’unico considerabile come un trasduttore fisiologico dell’appetito a livello del sistema nervoso centrale mentre tutti gli altri segnali, per lo più, agiscono interagendo in qualche modo con questo peptide. La sintesi di NPY è regolata da meccanismi neurali ed ormonali. Per quanto riguarda i primi è stato riportato un effetto inibitorio da parte della serotonina e dei farmaci serotoninergici (usati da anni come inibitori dell’appetito nel trattamento dell’obesità); importanti segnali regolatori provengono anche dai centri preposti alla regolazione dei ritmi biologici (n. soprachiasmatico) e sarebbero responsabili della stimolazione dell’appetito in particolari ore della giornata. La regolazione ormonale dell’NPY soggiace a meccanismi regolatori da parte degli steroidi gonadici e surrenalici, dell’insulina e delle citochine. La galanina (GAL) è un peptide di 29 aminoacidi sintetizzato nel tratto gastroenterico ma anche diffusamente a livello del SNC. Microiniezioni di GAL a livello dei nuclei paraventricolare e ventromediale, dell’ipotalamo late-
rale e del nucleo centrale dell’amigdala stimolano l’appetito nei ratti, anche se l’effetto pare meno pronunciato di quello del NPY. I neuroni che producono GAL sono in stretta correlazione anatomica con quelli che producono segnali oressogeni, come NPY e POMC; è stata anche dimostrata un’interazione con la noradrenalina, in quanto il suo effetto viene abolito dalla somministrazione di α2 antagonisti e dall’inibizione della sintesi delle catecolamine. È probabile che l’effetto di stimolazione dell’appetito si trasmetta attraverso una cascata di interazioni che coinvolgono da un lato NPY > GAL > α-endorfine, dall’altro GAL > NA. I peptidi oppioidi (v. pag. 712) stimolano l’appetito probabilmente interagendo con l’NPY, in quanto il naloxone (inibitore specifico dei peptidi oppioidi) riduce gli effetti dell’NPY e ne stimola la sintesi intracerebrale. Per contro l’NPY stimola la produzione di α-endorfine a livello ipotalamico. Dei rapporti con GAL si è già detto sopra. È stata, inoltre, rilevata un’interazione con l’acido α-aminobutirrico (GABA) (v. oltre). Non è ancora chiaro se questi segnali siano importanti dal punto di vista fisiologico o se rappresentino meccanismi ridondanti nel complesso sistema della regolazione dell’appetito. Gli aminoacidi glutammato (eccitatorio) e GABA (inibitorio), sono i più abbondanti neurotrasmettitori presenti nell’ipotalamo. Il glutammato probabilmente stimola la sintesi di NPY, GAL, peptidi oppioidi e di altri segnali oressogeni; il suo ruolo fisiologico è ancora poco chiaro. Anche il GABA, abbondantemente rappresentato a livello ipotalamico, agirebbe interagendo con gli altri segnali oressogeni con un meccanismo d’azione ancora poco chiaro. Le oressine (A e B) o ipocretine (I e II) sono peptidi identificati in questi ultimi anni da due gruppi indipendenti a livello dei neuroni ipotalamici. Gli effetti sull’appetito sono meno potenti di quelli del NPY e sembrano esercitarsi in limitate aree ipotalamiche. La ghrelina (v. pag. 572) infine, di recentissima scoperta, prodotta a livello dello stomaco
Sindromi ipotalamiche
e del n. arcuato, è dotata di un potente effetto di stimolo sull’assunzione di cibo dopo somministrazione sia centrale che periferica. La potenza d’azione, in base ai primi dati sperimentali, sarebbe simile a quella del NPY. I glicocorticoidi agiscono a livello centrale, probabilmente interagendo con NPY e catecolamine. Questo spiegherebbe, almeno in parte, le alterazioni del peso corporeo di senso opposto che si osservano negli ipercortisolismi e nella malattia di Addison. Del resto la surrenectomia nell’animale da esperimento abolisce l’effetto dell’NPY iniettato nel cervello. Tra i fattori che riducono l’appetito ricordiamo: La leptina è ritenuta attualmente tra i più importanti fattori regolatori dell’appetito. È una proteina, rilasciata dalle cellule adipose, identificata in base agli studi sugli animali geneticamente obesi del ceppo ob (ob/ob). In questi animali, naturalmente iperfagici ed obesi, è stato caratterizzato un difetto genetico (a carico del gene che è stato perciò definito “ob”) che comporta la mancata produzione da parte degli adipociti di leptina. La somministrazione di leptina in questi animali produce una riduzione dell’apporto di cibo e del peso corporeo. Il principio fisiopatologico sarebbe imperniato sul messaggio di feedback che gli adipociti inviano ai centri regolatori dell’appetito in funzione del loro numero; infatti è stato osservato che la concentrazione di leptina nella specie umana è direttamente proporzionale alla massa grassa dell’organismo. Un’alterazione, quindi, della capacità degli adipociti a sintetizzare leptina potrebbe essere la causa dell’obesità; purtroppo questa evenienza si verifica in casi assolutamente eccezionali, mentre nella maggioranza dei soggetti obesi la leptina è normalmente prodotta, come avviene nei topi db/db, che sono obesi perché presentano una resistenza alla leptina per difetto del recettore ipotalamico per questo peptide. Il CRH (v. pag. 572) iniettato nella sua maggior sede di produzione, i nuclei paraventrico-
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lari, produce una riduzione dell’assunzione di cibo ed un aumento di NPY. L’effetto è evidente anche in animali trattati con NPY solo se il farmaco è iniettato nel nucleo paraventricolare. A livello periferico la somministrazione di CRH provoca una stimolazione simpatica e iperglicemia con ipoinsulinemia relativa, vale a dire un “effetto ansiogeno”. Recentemente è stato identificato un peptide omologo al CRH, denominato urocortina, espresso nel nucleo di EdingerWestphal, nell’oliva laterale superiore, nel n. sopraottico e nell’ipotalamo laterale, dotato di attività anoressante ancora più pronunciata. La serotonina, è stata ampiamente studiata nel passato in quanto i farmaci serotoninergici riducono l’assunzione di cibo e particolarmente il desiderio di alimenti calorici, come i carboidrati; l’effetto anoressante verrebbe esplicato a livello dei nuclei paraventricolare ed arcuato attraverso l’inibizione della produzione di NPY. La NA e l’adrenalina iniettate a livello del nucleo paraventricolare stimolano l’assunzione di cibo mentre, come la dopamina, esercitano un’azione anoressante a livello dell’area perifornicale dell’ipotalamo laterale. Dell’interazione delle catecolamine con GAL e NPY si è detto più sopra. La colecistochinina (CCK), peptide di 33 aminoacidi appartenente alla famiglia della gastrina, rilasciato dal digiuno prossimale in risposta all’arrivo di acidi grassi a lunga catena e a certi aminoacidi come triptofano e tirosina, regola la secrezione esocrina pancreatica e la contrazione della colecisti. A livello centrale, ove è riscontrato a elevate concentrazioni un suo frammento (o forma) di 8 aminoacidi, ha un effetto di riduzione dell’appetito che contrasta l’effetto del NPY solo se somministrato perifericamente. L’amilina è un polipeptide di 37 aminoacidi prodotto a livello delle cellule α dell’insula pancreatica che avrebbe la funzione di inibire a livello epatico l’azione dell’insulina. Ha evidenziato nell’animale da esperimento, meno nell’uomo, un potente effetto anoressante, proba-
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bilmente esplicato attraverso l’inibizione dell’azione dell’NPY. La bombesina è un peptide di 14 aminoacidi, inizialmente isolato dalla cute di rana (Bombina bombina), capostipite di una famiglia di peptidi omologhi. Nei mammiferi sono stati identificati numerosi peptidi che consistono in varie forme di gastrin-releasing peptide e neuromedina B, prodotti a livello del tubo gastroenterico. A livello ipotalamico questi peptidi inibirebbero l’appetito. Il glucagon-like peptide-1 (GLP-1) è un prodotto del gene del glucagone, espresso a livello dell’intestino e rinvenibile in numerose aree cerebrali ricche in recettori per questo peptide. A livello ipotalamico sembra agire sul n. paraventricolare ove inibisce gli effetti di NPY. La melanocortina, o α-MSH, è uno dei prodotti della POMC (Fig. 15.4) che svolge i suoi effetti a livello della cute ove stimola lo sviluppo dei melanociti. A livello cerebrale interagisce con uno specifico recettore cellulare (MC4-R) localizzato in numerose aree encefaliche, nell’ipotalamo a livello dei n. paraventricolare, ventromediale, dorsomediale e nei nuclei localizzati nella zona mediale dell’ipotalamo. Topi transgenici con mutazioni del recettore MC4-R sviluppano obesità nell’età adulta con caratteristiche molto simili a quella osservabile nella specie umana. La sintesi di questo peptide è probabilmente stimolata dalla leptina e l’effetto si svolge attraverso l’inibizione dell’NPY. Il suo ruolo fisiologico è incerto. L’insulina ha un effetto anoressante se iniettata direttamente nell’ipotalamo ventrale, anche a bassissime dosi. L’effetto di stimolo dell’appetito conseguente alla sua somministrazione periferica è legato alla riduzione della glicemia, in quanto negli esperimenti di clamp iperinsulinemico euglicemico (in cui si mantiene elevata la concentrazione circolante di insulina contemporaneamente ad una glicemia nella norma, mediante infusione di appropriate concentrazioni delle due sostanze) l’effetto è in senso anoressogeno.
Va, infine considerato un peptide recentissimamente identificato, il CART (cocaine and amphetamine-regulated transcript), localizzato a livello centrale nei centri ipotalamici coinvolti nella regolazione dell’appetito, che sembra essere un importante segnale fisiologico. In conclusione, la regolazione dell’appetito soggiace ad un sistema complesso, sul quale interagiscono numerosi fattori di origine centrale e periferica, che può essere schematizzato in quattro componenti fondamentali: a) una rete stimolatrice dell’appetito, costituita da NPY, NA, GABA, GAL, peptidi oppioidi e oressine; b) una serie di segnali anoressanti, consistenti in CRH, GLP-1, α-MSH e CART che regolano gli eventi neurali atti a ridurre l’appetito e a interrompere l’assunzione di cibo, probabilmente attraverso l’inibizione degli effetti postsinaptici del NPY; c) un tonico effetto inibitorio, responsabile della riduzione dell’appetito nei periodi tra i pasti, esercitato probabilmente dalla leptina a livello dei n. ventromediale e dorsomediale mediante l’inibizione del NPY e lo stimolo dei segnali anoressogeni; d) un sistema che regola la periodicità nel tempo del senso di appetito, che coinvolge i n. soprachiasmatico, ventromediale, dorsomediale e paraventricolare.
Regolazione del bisogno e dell’assunzione di acqua Il senso della sete è regolato dagli stessi fattori che regolano la secrezione di ADH. Anche in assenza totale di ADH, la risposta agli stimoli osmotici è sufficiente a prevenire lo sviluppo dell’ipertonicità, per cui individui consci e in grado di accedere liberamente all’acqua possono compensare la perdita di liquidi conseguente alla carenza di ADH. La soglia di stimolo della sete è costituita da un aumento del 2-3% dell’osmolalità plasmatica, un valore quindi lievemente superiore alla soglia necessaria alla stimolazione della secrezione di ADH. La sete, similmente all’ADH, è
Sindromi ipotalamiche
anche stimolata da variazioni del volume extracellulare, talora anche a dispetto di una riduzione dell’osmolalità. Ciò si verifica, ad esempio, in condizioni di gravi perdite di liquidi attraverso il sistema gastroenterico, nella cirrosi ascitica e nel grave scompenso cardiaco congestizio. La contrazione del volume ematico stimola la sete anche attraverso la stimolazione della secrezione di angiotensina II. Il senso di sazietà della sete viene raggiunto attraverso differenti meccanismi, legati da un lato al ripristino della quantità di liquidi perduta ed alla velocità del ripristino stesso (il recupero di metà dell’acqua perduta in 10-12 minuti comporta un successivo ripristino dei rimanenti liquidi ad una velocità inferiore), dall’altro al senso di ripienezza gastrica. Nei primati, comunque, il principale meccanismo di regolazione del senso di sete è legato al sistema osmocettoriale più che alla volemia.
Ipotalamo e sistema neurovegetativo L’ipotalamo, riccamente interconnesso con le strutture corticali che fanno parte del sistema limbico, è stato a lungo considerato la porzione più craniale del sistema neurovegetativo, che controlla organi ed apparati diversi per rispondere adeguatamente alle modificazioni dell’ambiente. I nuclei ipotalamici ricevono afferenze sia da aree cerebrali connesse con attività autonomiche (ippocampo, amigdala, corteccia prefrontale, giro del cingolo, area settale) che dalla formazione reticolare del tronco, e, oltre ad essere in rapporto con la neuroipofisi, inviano proiezioni (fascio longitudinale dorsale, tratto mammillo-talamico, fascio mammillo-tegmentale) ai nuclei talamici anteriori, alla formazione reticolare, ai nuclei dei nervi cranici ed al midollo spinale. Dato che il talamo ha efferenze ed afferenze sia nervose che umorali, si possono distinguere, schematicamente, quattro tipi di riflessi: 1) riflessi puramente nervosi; 2) riflessi in cui
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l’input è neurale e l’output umorale; 3) riflessi in cui l’input è umorale e l’output è neurale; 4) riflessi puramente umorali. Lesioni e stimolazioni dell’ipotalamo determinano modificazioni di numerose funzioni vegetative; in particolare sono interessate la funzione cardio-vascolare, gastro-intestinale, urinaria, la termo-regolazione ed il ciclo sonno-veglia. La stimolazione dell’ipotalamo anteriore determina un’iperattività parasimpatica con riduzione della frequenza cardiaca, iperperistalsi e contrazione della muscolatura vescicale. Lesioni sperimentali causano erosioni della mucosa gastrica ed insonnia. La stimolazione dell’ipotalamo posteriore determina una iperattività simpatica, con aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, midriasi, piloerezione e diminuzione della peristalsi. Lesioni di tale area possono causare turbe emotive, come la «falsa rabbia» negli animali, o all’opposto, ipersonnia. Le fibre discendenti dall’ipotalamo sono prevalentemente di tipo simpatico. Alcune fibre contraggono nel tronco sinapsi in stretta prossimità del nucleo del tratto solitario (NTS), principale sede dell’interazione con le afferenze che influenzano il controllo autonomico del sistema cardio-respiratorio (Spyer, 1988). Il NTS è a sua volta connesso con il nucleo ambiguo (NA), che esplica attività vagale cardio-inibitoria. Le connessioni fra NTS e NA sono responsabili del controllo dei barorecettori sulla frequenza cardiaca. Molte fibre discendenti “simpatiche” raggiungono le corna intermedio-laterali del midollo spinale; un altro gruppo, meno numeroso, di fibre “parasimpatiche” termina nei nuclei dei nervi oculomotori, del facciale, del glossofaringeo e del vago, o nella porzione sacrale del midollo spinale. TERMOREGOLAZIONE. – È un’attività integrata del sistema vegetativo, del sistema endocrino e di quello muscolo-scheletrico. Negli animali omeotermi (uccelli, mammiferi), vi è equilibrio tra produzione e dispersione di calore. L’ipota-
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lamo anteriore e la regione preottica sembrano agire sulla termoregolazione come un termostato, regolato sui 37°C. L’ipotalamo anteriore e l’area preottica contengono una popolazione neuronale specificatamente sensibile alle modificazioni della temperatura del sangue circolante. Tali neuroni risentono particolarmente degli aumenti di temperatura. La loro attività varia in rapporto al ritmo circadiano, e risente degli impulsi afferenti che provengono dai termorecettori periferici. Le variazioni della temperatura ambientale sono trasmesse all’ipotalamo dal flusso sanguigno. Al fine di ristabilire la normale temperatura, partono dall’ipotalamo anteriore impulsi nervosi che, passando attraverso l’ipotalamo posteriore, il tronco dell’encefalo e il midollo spinale, agiscono sul sistema vegetativo e su quello muscolo scheletrico. Altri impulsi sono inviati a livello corticale. In caso di ipertermia la perdita di calore si avrà mediante vasodilatazione periferica, aumento della frequenza del respiro, sudorazione, ridotta produzione di calore e reazioni comportamentali adeguate. In caso di ipotermia si avrà un’attivazione metabolica, vasocostrizione, inibizione della sudorazione, ipertonia muscolare e brividi. Altri termorecettori centrali, di minore importanza, a livello dell’ipotalamo posteriore e del tronco dell’encefalo, sarebbero particolarmente sensibili all’ipotermia, portando informazioni supplementari all’ipotalamo anteriore. Una terza via di attivazione dell’ipotalamo anteriore origina da recettori periferici che, in rapporto alle variazioni della temperatura ambientale, inviano impulsi nervosi che lo raggiungono passando per il talamo. Nella termoregolazione la funzione vegetativa si vale di risposte neuroendocrine adeguate: ad es. la produzione di calore può essere accresciuta da un’aumentata secrezione di TSH che, a sua volta, induce una maggiore secrezione di tiroxina e quindi aumento del metabolismo basale. Sebbene numerosi neurotrasmettitori e neuropeptidi possano influenzare la temperatura
corporea, il loro ruolo non è stato ancora completamente definito. Le citochine pirogene, la prostaglandina E e il 5-idrossitriptofano aumentano la temperatura corporea; la somatostasina, il naloxone la catecolamine il neuropeptide Y e la bombesina la riducono. Turbe della termoregolazione sono in rapporto con lesioni ipotalamiche, in particolare dell’ipotalamo anteriore e dell’area preottica, che interferiscono con i meccanismi alla base della dispersione del calore: lesioni acute di natura vascolare (infarti, emorragie subaracnoidee) o traumatica possono causare grave ipertermia. Lesioni dell’ipotalmo posteriore vascolari, traumatiche ed infiammatorie possono causare ipotermia, interferendo con la produzione e la dispersione di calore. Lesioni estese dell’ipotalamo posteriore e anteriore, possono causare poichilotermia, un disturbo della termoregolazione, per cui la temperatura corporea segue quella ambientale in assenza di meccanismi di autoregolazione. Il servo meccanismo alla base della termoregolazione è regolato su una temperatura di circa 37°C. Qualsiasi variazione dell’equilibrio termico che allontana la temperatura corporea da quella di riferimento, determina l’entrata in funzione dei meccanismi di termoregolazione. Nella febbre da processi infettivi, invece, i leucociti ed i batteri liberano citochine pirogene, come l’interleukina 1, l’interleukina 6, il fattore di necrosi tumorale, l’interferone gamma che, attraverso il torrente ematico, raggiungono l’ipotalamo e innalzano il valore termico di riferimento, forse riducendo la sensibilità dei termorecettori dell’ipotalamo anteriore; nella febbre, la funzione dei centri termoregolatori non è alterata, ma il valore termico di riferimento è innalzato da sostanze pirogene. Se ad es. il valore di riferimento è portato a 39°C, i meccanismi della termoregolazione rispondono alla temperatura corporea di 37°C come nel soggetto normale esposto al freddo. Il brivido che precede la febbre contribuisce a portare la temperatura al nuovo valore di riferimento.
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Dato che inibitori della sintesi della prostaglandina, come l’acido acetil-salicilico e l’indometacina, bloccano efficacemente l’azione febbrile, è verosimile che la produzione della prostaglandina svolga un ruolo importante nella fase precoce del meccanismo che determina la febbre. La reazione febbrile causa inoltre una aumentata secrezione di vasopressina e di glicocorticoidi. La vasopressina attiverebbe un’area cerebrale “antipiretica” comprendente i nuclei settali situati anteriormente all’area preottica, mentre i glicocorticoidi inibiscono la sintesi di citochine pirogene. L’ a-MSH è un altro neuropeptide con spiccata attività antipiretica, ma non è stato identificato nelle fibre che proiettano nell’area settale ventrale. Una grave forma di ipertemia è rappresentata dalla sindrome dell’ipertermia maligna, un raro disturbo miopatico su base genetica, scatenato dall’uso degli anestetici generali. In rapporto all’uso dei curari e di diversi anestetici, si verifica una alterazione dei canali del calcio del reticolo sarcoplasmatico che può essere controllata col blocco dei canali stessi con un potente miorilassante, il dantrolene sodico. In soggetti predisposti la sindrome dell’ipertermia maligna può essere scatenata da violenti sforzi fisici e da infezioni. L’aumentata contrattilità delle fibre muscolari ottenuta in vitro con l’alotano e la caffeina permette di identificare i soggetti a rischio. Un’altra forma di ipertermia è rappresentata dalla «sindrome neurolettica maligna» (S.N.M.), caratterizzata da rigidità muscolare diffusa, aumento della temperatura e alterazioni vegetative, in rapporto con il blocco dei recettori dopaminergici. Sono stati osservati focolai necrotici a livello dei nuclei ipotalamici anteriori e laterali. La sospensione dei neurolettici, associata a una terapia di supporto, è un provvedimento terapeutico fondamentale; possono risultare utili agonisti dopaminergici quali la bromocriptina ed i miorilassanti. Circa lo 0.2% dei pazienti trattati con neurolettici può presentare sintomi compatibili con tale sindrome.
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Disturbi simili a quelli su descritti (rialzo febbrile più o meno marcato, disturbi dello stato di coscienza, sudorazione profusa, tremori, mioclonie) si riscontrano nella sindrome serotoninergica, che si sviluppa in pazienti trattati con antidepressivi inibitori selettivi del reuptake della serotonina, specie se associati ad inibitori delle monoaminossidasi. A differenza della S.N.M. la sintomatologia si manifesta generalmente nelle prime 24 ore di trattamento o in caso di sovradosaggio. La sospensione della terapia e l’uso di antagonisti del 5-HT (ciproeptadina) possono ridurne la durata. Il colpo di calore è più frequentemente osservato in pazienti trattati con psicofarmaci, che impediscono la normale dispersione di calore attraverso la sudorazione. La sintomatologia si associa ad aritmia cardiaca e a segni neurologici: stato confusionale, convulsioni, coma, paralisi pseudobulbare e segni cerebellari. Fondamentale appare una marcata idratazione, la sospensione dei farmaci, ed il raffreddamento del paziente per mantenere la temperatura sotto i 39°C. Secondo alcuni autori il colpo di calore e la S.N.M. rappresentano varianti dell’ ipertermia maligna. Alcuni dati suggeriscono inoltre un nesso tra tale sindrome e la morte improvvisa del lattante. COMPORTAMENTO EMOZIONALE. – Dati clinici e sperimentali depongono per l’ipotesi che l’interazione fra lobi frontali e temporali e sistema limbico sia necessaria per la normale funzione emozionale. All’ipotalamo spetta, per le numerose interconnessioni, il compito di coordinare ed adeguare le influenze che, strutture encefaliche diverse (corteccia, nuclei della base, formazione reticolare), esercitano sulle funzioni vegetative. All’integrazione ipotalamica sono quindi da ricondurre le modificazioni della mimica, della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, il rossore e il pallore del viso, il sudore, le lacrime, la dilatazione delle pupille e le turbe peristaltiche, l’iperglicemia e la glicosuria transitorie, l’atteggiamento motorio di
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fuga o di aggressione, che accompagnano le emozioni. In accordo con le ipotesi di Papez e Mc Leod si ritiene quindi che l’ipotalamo integri le risposte motorie autonomiche ed endocrine e che il telencefalo, oltre a fornire i meccanismi necessari per un’adeguata reazione motoria agli eventi esterni, sia di fondamentale importanza per l’esperienza cosciente delle emozioni. Studi sperimentali hanno dimostrato che strutture ipotalamiche diverse sono alla base di un ampio spettro di stati emotivi. La stimolazione dell’ipotalamo laterale provoca manifestazioni di collera mentre le lesioni della stessa regione determinano uno stato di apatia e di docilità. Lesioni dell’ipotalamo mediale determinano una eccessiva eccitabilità ed aggressività. Animali con rimozione della corteccia cerebrale, o di grosse porzioni dei gangli della base e del talamo, presentano un comportamento del tutto simile, definito da Cannon e Britton nel 1925, di «falsa rabbia», potendo un animale decorticato o decerebrato esprimere solo una immagine del comportamento reale. Il substrato indispensabile per l’espressione di rabbia risulta la regione perifornicale dell’ipotalamo anteriore, e la sostanza grigia periacqueduttale del mesencefalo. Dati sperimentali suggeriscono che la serotonina è connessa all’aggressività, mentre la dopamina è correlata al rinforzo del comportamento.
Ipotalamo e ritmi biologici La maggioranza dei ritmi biologici sono circadiani, della durata di circa 24 ore. L’esempio più caratteristico di ritmo circadiano è rappresentato dal ciclo sonno-veglia. In molti animali la luce gioca un ruolo cruciale nella regolazione dei cicli circadiani. Le fibre dal chiasma ottico proiettano ai nuclei soprachiasma-
tici e arcuati dell’ipotalamo che, a loro volta, controllano i ritmi di secrezione ormonale e le variazioni durante la giornata della termoregolazione, dell’appetito, della sete e del ciclo sonno-veglia. In particolare i nuclei soprachiasmatici regolano i ritmi di secrezione della melatonina da parte della ghiandola pineale. Il funzionamento del centro soprachiasmatico dipende in parte dall’integrità anatomica della via retino-ipotalamica che ne condiziona l’attività neuronale, tipicamente maggiore durante le ore diurne. All’interno di tale nucleo si distinguono una parte dorso-mediale i cui neuroni sintetizzano vasopressina ed una ventrolaterale dove vengono prodotti il polipeptide vasoattivo intestinale (VIP) ed il peptide che rilascia la gastrina (GRP). L’abbondante presenza di GABA e di suoi recettori suggerisce l’importanza di questo neurotrasmettitore all’interno del nucleo soprachiasmatico: i livelli di mRNA dell’acido glutammico decarbossilasi (GAD), l’enzima che converte il glutammato in GABA, mostrano un ritmo circadiano. I ritmi biologici sono geneticamente determinati e numerosi geni codificano per le proteine essenziali per tale funzione. Il centro soprachiasmatico esercita la propria azione mediante proiezioni diffuse all’ipotalamo. Altre efferenze sia direttamente che attraverso l’ipotalamo raggiungono il talamo ed il sistema limbico. La ghiandola pineale è l’altra maggiore struttura deputata alla regolazione circadiana. Altre strutture, oltre al nucleo soprachiasmatico ed alla ghiandola pineale, svolgono un ruolo non ancora ben definito nel mantenimento del ritmo circadiano; ad esempio le cellule retiniche coltivate in vitro secernono autonomamente melatonina con oscillazioni circadiane.
Sindromi ipotalamo-ipofisarie Manifestazioni patologiche della regione diencefalo-ipofisaria si manifestano precoce-
Sindromi ipotalamiche
mente con sintomi legati alle molteplici azioni endocrino-metaboliche e vegetative di questa regione. L’evoluzione delle indagini diagnostico-strumentali ha però, sempre più frequentemente, fornito l’occasione di dimostrare o sospettare lesioni di questa regione in condizioni precliniche o subcliniche. La disponibilità di un metodo di dosaggio della prolattina, ad esempio, ha ampliato enormemente il capitolo degli adenomi ipofisari, essendo state osservate iperprolattinemie secondarie a microadenomi ipofisari non evolutivi, che danno segno di sé unicamente con una sintomatologia aspecifica, legata agli effetti funzionali dell’iperprolattinemia, come l’infertilità o l’impotenza; solo la correzione dell’iperprolattinemia e la conseguente regressione della sintomatologia correlata hanno consentito di individuare nel tempo i rapporti di causalità. Il progresso delle indagini strumentali di tipo radiologico ha ulteriormente allargato la casistica, soprattutto per l’avvento di tecniche diagnostiche, come la risonanza magnetica, per le quali si prevede, una volta abbattuti i costi, una diffusione capillare ed una utilizzazione ancora più vasta dell’indagine radiologica tradizionale. Già ora queste indagini rivelano casualmente alterazioni morfologiche o espansive, che potrebbero nel futuro dare segni clinici o che potrebbero spiegare una sintomatologia funzionale in atto. Recentemente è nato il capitolo degli “incidentalomi” surrenalici, per i quali è critica la diagnosi differenziale con le neoplasie maligne o con gli adenomi funzionanti del surrene. Una situazione analoga si sta verificando con gli studi di neuroimmagine della regione diencefaloipofisaria. Per la prognosi e la terapia può essere importante la localizzazione primitiva del processo patologico. Ad esempio, una massa ad origine intrasellare ha in genere caratteri di benignità, mentre le masse della regione ipotalamica hanno tendenza all’invasività.
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Sindromi ipotalamiche Le sindromi ipotalamiche possono essere idiopatiche o primarie, cioè non imputabili ad una causa individuata, oppure possono essere secondarie a processi espansivi, malformativi, flogistici o neoplastici dell’ipotalamo o di strutture contigue. A causa della vicinanza dei differenti centri funzionali la sintomatologia clinica, conseguente a processi patologici della regione ipotalamoipofisaria, ha espressione diversa, in funzione della estensione più che della natura della lesione, per cui processi di natura differente possono produrre una sintomatologia simile o, al contrario, lo stesso tipo di lesione può manifestarsi con una sintomatologia diversa, a seconda dei centri colpiti. La sintomatologia, pertanto, può essere classificata in: sintomatologia legata all’effetto massa (vomito, cefalea, segni di stasi papillare, ecc.) o sintomatologia di tipo neurovegetativo, comportamentale od endocrino-metabolico, dovuta alla lesione di centri funzionali ipotalamici. LESIONI DEI NUCLEI IPOTALAMICI DEPUTATI AL CONTROLLO DELLA TEMPERATURA CORPOREA POSSONO DETERMINARE IPO O IPERTERMIA
Ipotermia si verifica in genere a seguito di un danno, da parte di processi neoplastici, granulomatosi, infettivi, o di insulti vascolari, a carico dei nuclei situati nell’ipotalamo posteriore, mentre lesioni dell’ipotalamo anteriore e dell’area preottica possono provocare vasocostrizione, tachicardia e ipertermia, spesso a carattere transitorio, generalmente dovuti ad emorragia ipotalamica. Ipotermia è spesso osservabile nei soggetti anziani ed in pazienti affetti da anoressia nervosa. La sindrome da ipotermia periodica, che si presenta con attacchi periodici di ipotermia con temperatura rettale sotto i 30°, sudorazione,
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vasodilatazione, vomito e bradicardia è spesso riscontrabile in soggetti che presentano agenesia del corpo calloso. Raramente può accompagnarsi a diabete insipido e a deficienza di secrezione somatotropinica. La poichilotermia, caratterizzata da una temperatura corporea che segue quella dell’ambiente circostante, è talora associata a masse espansive dell’ipotalamo. Disturbi del comportamento alimentare possono essere dovuti a lesioni dei centri ipotalamici coinvolti nella regolazione dell’appetito. Lesioni dell’ipotalamo ventrale possono produrre comportamenti bulimici. Un danno ipotalamico si associa frequentemente a ipogonadismo, iperfagia e obesità; iperfagia è anche osservabile in condizioni di diabete insipido; obesità in casi di neoplasie (craniofaringiomi specialmente), processi flogistici, traumi interessanti l’area ipotalamica. Ipogonadismo e diabete insipido sono presenti in circa il 50% dei casi. Lesioni ipotalamiche possono produrre anche anoressia e afagia tali da portare al decesso. Nella sindrome diencefalica dell’infanzia, dovuta generalmente ad un glioma ipotalamico, si osserva dimagramento progressivo a dispetto di un apporto calorico apparentemente normale. Alterazioni della regolazione della sete sono osservabili soprattutto per lesioni espansive a livello ipotalamico come craniofaringiomi, granulomi, germinomi, gliomi del nervo ottico e grosse cisti. La sindrome cerebrale da ritenzione di sali è caratterizzata da ipodipsia e ipernatriemia, associate a normale volume dei liquidi extracellulari e normale pressione arteriosa. I valori di sodio possono superare i 160 mEq/l con conseguente sintomatologia astenica e crampi muscolari fino al coma. Possono associarsi segni di ipopituitarismo. Disturbi del sonno sono frequentemente osservabili in pazienti affetti da patologia espansiva o infiammatoria dell’ipotalamo e generalmente si associano ad altri sintomi ipotalamici,
come obesità e ipotermia. Un discorso analogo vale per le turbe del comportamento che possono consistere in semplici alterazioni dell’umore, rabbia, aggressività, labilità emotiva, fino a veri comportamenti antisociali, associati in genere a lesioni infiltranti i nuclei ventromediali. Il comportamento sessuale è generalmente caratterizzato da ipogonadismo, raramente da iperattività sessuale. Tumori infiltranti il pavimento del terzo ventricolo possono raramente produrre episodi accessuali di tipo epilettico. Alterazioni del sistema vegetativo sono osservabili per tumori che coinvolgono i nuclei centrali dell’ipotalamo, comportando un aumento di adrenalina, noradrenalina, ipercortisolemia e ipertono vagale. La sintomatologia clinica di disfunzione neurovegetativa può essere caratterizzata da aritmie, ipertensione, lesioni ed emorragie gastriche, raramente edema polmonare acuto. SINDROMI IDIOPATICHE O PRIMITIVE Le sindromi idiopatiche sono spesso associate ad alterazioni malformative di altri organi o apparati e a disfunzioni metaboliche. Non è chiaro quanti e quali di questi sintomi associati siano secondari alle alterazioni ipotalamiche oppure espressione di una comune causa etiologica. La sindrome di Laurence-Moon-Bardet-Biedl è una sindrome autosomica recessiva caratterizzata da obesità, ritardo mentale, retinite pigmentosa, ipogonadismo e, spesso, polidattilia. La displasia ipofisaria setto-ottica, caratterizzata da disgenesia del setto pellucido o del corpo calloso, comporta ipopituitarismo. I pazienti presentano multiple malformazioni come palatoschisi, sindattilia, ipertelorismo, atrofia
Sindromi ipotalamiche
ottica, micropene, anosmia, ipostaturismo secondario a deficienza di GH, diabete insipido e, talvolta, distiroidismo. La sindrome di Prader-Willi, associata a difetto a livello del cromosoma 15, comprende in obesità, ritardo mentale, ipostaturismo legato a deficit di somatotropo, ipogonadismo. Si accompagnano, meno frequentemente, ipertelorismo, micrognatia, clinodattilia, palatoschisi. La sindrome di Kallmann, o displasia olfatto-genitale, è caratterizzata da ipogonadismo per difetto secretorio di LHRH frequentemente associato ad anosmia ed è dovuta a un difetto della migrazione delle cellule neuronali che producono LHRH dal placode olfattorio all’ipotalamo. Il difetto genetico è stato localizzato nel cromosoma X (regione Xp22). La risonanza magnetica mette talvolta in evidenza ipoplasia delle vie olfattive. SINDROMI DA PATOLOGIA MALFORMATIVA La cisti del Rathke deriva da un difetto dell’embriogenesi per cui residui della tasca del Rathke rimangono tra il lobo anteriore e posteriore dell’ipofisi, producendo disturbi compressivi ipofisari. Altre formazioni cistiche (aracnoidi, epidermoidi, dermoidi) possono formarsi nella regione parasellare, producendo una sintomatologia varia, soprattutto del sistema nervoso centrale (idrocefalo, difetti visivi), più raramente ipopituitarismo. SINDROMI DA PATOLOGIA NEOPLASTICA Craniofaringioma - È la più comune neoplasia della regione ipotalamo-ipofisaria, relativamente più frequente nell’infanzia, responsabile in genere del 10% dei tumori intracranici dei bambini. Può originare dalla sella turcica oppure dalle regioni parasellari e consiste in genere in una massa cistica, ripiena di un liquido viscoso ricco di colesterolo, circondato da un epitelio
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squamoso contenente isolotti di cellule colonnari. La caratteristica morfologica più importante è costituita dalle tipiche calcificazioni contenute nella massa neoplastica. Può crescere ed assumere notevoli dimensioni, fino ad ostruire il flusso di liquor, ma raramente va incontro a trasformazione maligna. I segni clinici più frequenti sono quelli legati all’espansione della massa neoplastica, particolarmente i difetti visivi, e, tra i segni endocrini, il difetto di secrezione dell’ormone della crescita che comporta nei bambini un arresto dell’accrescimento in una fase clinica relativamente precoce, mentre nei soggetti in epoca post-puberale saranno evidenti ipogonadismo ed iperprolattinemia. Un craniofaringioma intraipofisario può facilmente simulare un prolattinoma, il che comporta problemi legati al trattamento terapeutico, tendenzialmente più aggressivo nel craniofaringioma e più conservativo nel prolattinoma. Segni più suggestivi del craniofaringioma sono la asimmetria della lesione che si espande posteriormente o dorsalmente e che non si riduce di volume in seguito a trattamento con farmaci dopaminergici. Il trattamento consiste nell’ablazione chirurgica della massa associata a radioterapia. La radicalità del trattamento comporta quasi invariabilmente panipopituitarismo e, spesso, diabete insipido. La recidiva può avvenire in circa il 25% dei casi, più frequentemente in quelli dotati di elementi cellulari squamosi papillari. Altre forme neoplastiche di questa regione sono i meningiomi, i gliomi soprattutto del chiasma e in genere delle vie ottiche, e gli amartomi, che spesso esprimono ormoni ipotalamici con conseguente sintomatologia (tipica la pubertà precoce in soggetti giovanissimi dovuta ad ipersecrezione di LHRH). La sindrome di Pallister-Hall consiste in un amartoblastoma ipotalamico associato a ipopituitarismo, anomalie dell’area craniofacciale, del cuore, reni e polmoni e da ano imperforato.
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Le grandi sindromi neurologiche
Gli amartomi ipotalamici sono relativamente poco invasivi e si sviluppano lentamente, al contrario dei gangliocitomi. Questi ultimi in alcuni casi esprimono GHRH o CRH producendo quadri clinici di acromegalia e di ipercorticosurrenalismo (sindrome di Cushing). Tumori ipotalamici rari sono i germinomi, i teratomi, i carcinomi embrionali. Alcuni secernono ormoni placentari (gonadotropina corionica e lattogeno placentare). La sintomatologia può essere caratterizzata da pubertà precoce o da ipogonadismo variamente associati ad altri segni della sindrome ipotalamica.
Sindromi adenoipofisarie La patologia più comune dell’adenoipofisi è di tipo espansivo per adenomi intraipofisari; più rare le anomalie di sviluppo (aplasia parziale o globale dell’ipofisi), i traumi, la patologia vascolare (infarto), i processi flogistici (ipofisiti infettive o autoimmuni). Patologia espansiva - Gli adenomi ipofisari possono essere suddivisi, a seconda delle dimensioni, in macroadenomi o microadenomi a seconda che superino o no le dimensioni di un centimetro e possono essere funzionanti, con sintomatologia riferibile all’ipersecrezione dell’ormone prodotto, con possibili effetti di compressione meccanica degli altri stipiti cellulari ipofisari; oppure non funzionanti, con conseguente sintomatologia di tipo compressivo. I segni compressivi sono legati da un lato al volume, dall’altro alla direzione del processo patologico nella fase espansiva, per cui la sintomatologia non è prevedibile se non a grandi linee. Un processo espansivo che si estrinsechi verso l’alto, per esempio, darà maggiormente segni compressivi delle strutture parasellari (sindrome sellare), mentre in altri casi si può verificare una prevalente compressione dell’ipofisi
anteriore con conseguente ipopituitarismo. I sintomi più comuni che indirizzano verso una diagnosi corretta sono il diabete insipido, l’iperprolattinemia, l’amenorrea, l’ipogonadismo. La sintomatologia legata all’espansione extrasellare è caratterizzata spesso dalla cefalea, la cui entità, però, non è in stretta correlazione con l’entità dell’espansione. Anche minimi effetti compressivi del diaframma sellare o infiltrazioni della dura madre si accompagnano a cefalea persistente; spesso però questa sintomatologia si riduce notevolmente in seguito a terapia con farmaci dopaminergici o con analoghi della somatostatina, in parte per la regressione dell’edema circostante il processo adenomatoso, in parte per un effetto diretto sulle cellule adenomatose. La compressione del peduncolo ipofisario può verificarsi per l’espansione di un adenoma intraipofisario o essere provocata da un processo espansivo parasellare ed è caratterizzata da iperprolattinemia e da iposecrezione degli altri ormoni ipofisari. È però difficile distinguere la sintomatologia dovuta alla compressione del peduncolo ipofisario da quella dovuta ad un adenoma a prolattina (prolattinoma) intraipofisario che ha completamente schiacciato il resto della ghiandola ipofisaria. Particolarmente utili ai fini dianostici sono l’iperprolattinemia, molto più pronunciata in caso di prolattinoma (oltre 150 ng/ml), e le alterazioni morfologiche rilevate alla RM. La compressione delle vie ottiche secondaria ad un adenoma ipofisario interessa, in genere, il chiasma con conseguenti difetti del campo visivo; la perdita della percezione del colore rosso sembra essere un sintomo precoce, per cui è consigliabile effettuare l’esame del campo visivo utilizzando stimoli luminosi di questo colore; compressioni a livello del chiasma ottico conseguenti all’espansione dal basso della massa ipofisaria producono una emianopsia bitemporale, mentre compressioni parziali della parte posteriore del chiasma sono causa di difetti settoriali del campo visivo.
Sindromi ipotalamiche
L’invasione laterale del seno cavernoso può causare lesioni del terzo, quarto e sesto nervo cranico e delle branche oftalmica e mascellare del trigemino. La sintomatologia consisterà quindi in: diplopia, ptosi palpebrale, oftalmoplegia ed ipoestesia facciale. L’espansione a livello dorsale comporterà l’invasione del seno sfenoidale, in genere asintomatica, a meno che non si tratti di tumori particolarmente aggressivi che invadono il tetto del palato producendo ostruzione nasofaringea, processi flogistici infettivi e liquorrea.
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renzialmente l’ipofisi posteriore con conseguente diabete insipido, mentre più rara è la sintomatologia da difetto ipofisario anteriore. Patologia funzionale - Le anomalie funzionali dell’ipofisi possono essere, come già detto, di tipo iposecretorio, ipersecretorio o misto, ovvero con sintomatologia ipersecretoria di un ormone prodotto da un processo adenomatoso oppure con fenomeni iposecretori degli altri assi ormonali per i processi compressivi secondari. L’ipopituitarismo secondario a processi espansivi ipofisari difficilmente è limitato ad un solo asse endocrino, ma coinvolge i vari stipiti cellulari anche se in grado e con frequenza diversi (Tab. 15.4). Per lo più la progressione di un processo espansivo coinvolge in primo luogo la secrezione somatotropinica, quindi quella gonadotropinica mentre le secrezioni corticotropinica e tireotropinica e la neuroipofisi sono coinvolte più
Le metastasi da tumori primitivi solidi sono in genere dovute a neoplasie mammarie o polmonari, più raramente a neoplasie gastrointestinali, prostatiche e a leucemia linfatica acuta. E stata riportata un’incidenza di metastasi ipofisarie nel 25% di neoplasie mammarie. In funzione della vascolarizzazione dell’ipofisi, le metastasi di origine sistemica invadono prefe-
Tabella 15.4 - Caratteristiche epidemiologiche dei più diffusi adenomi ipofisari. (Modificata da Ambrosi et al., Epidemiology of pituitary tumors. In “Pituitary adenomas: New trends in basic and clinical research. Elsevier Science Publishers B.V., 1991. TIPO
DI ADENOMA
FREQUENZA
Non secernente
PRL
GH
ACTH
23.1
50.1
21.4
4.7
RELATIVA
SINTOMATOLOGIA
macro
micro
macro
micro
macro
micro
macro
micro
di tipo espansivo cefalea difetti visivi
34.3 60.1
25 50
48 35.7
18.2 0.1
38.9 10
35.5 0.2
25 8.3
21 4.8
di tipo endocrino disordini mestruali impotenza galattorrea modificazioni somatiche ipertensione arteriosa obesità
50.8 27.9 0.4 0 0 0
50 25 0 0 0 0
100 62.5 26 0 0 0
88.8 59.2 67.8 0 0 0
38.5 1.5 7.2 87.8 11.7 1.7
48 33.3 4.8 83.9 3.2 0
50 50 8.3 0 83.3 50
26.2 18.7 3.2 0 69.3 77.4
TERAPIA chirurgica radiante medica chir. ripetuta
90.0 33.3 27.7 8.2
68.7 22.3 83.4 4.5
23.4 1.7 87.1 0.2
74.7 48.2 58.3 6.6
67.6 17.6 41.9 0
84.0 16.0 24.0 16.0
84.2 6.6 43.4 1.3
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Le grandi sindromi neurologiche
raramente e recuperano più facilmente nel tempo dopo l’eliminazione della lesione espansiva; la ripresa funzionale è comunque legata oltre che all’entità anche alla durata del danno. Il difetto ipofisario è in genere evidenziato dalla dimostrazione di una ridotta risposta della tropina ipofisaria a stimoli specifici e dalla diminuita concentrazione degli ormoni stimolati specificamente dalla tropina coinvolta. La carenza di GH non dà in genere segno di sé nel soggetto adulto, mentre è evidente nell’età evolutiva soprattutto con l’arresto dell’accrescimento. Le cause più frequenti di difetto somatotropinico sono rappresentate dai tumori intraipofisari e parasellari, soprattutto craniofaringiomi, e dalla cosiddetta deficienza isolata “idiopatica” di GH che si associa ad alterazioni anatomiche del peduncolo ipofisario. La dimostrazione del difetto secretorio non è possibile con il semplice dosaggio della concentrazione di base di GH, perché i valori normali sono spesso indistinguibili dai valori patologici; per questo è indispensabile valutare la secrezione somatotropinica dopo appropriati test di stimolo (insulina, arginina, GHRH da solo o associato a piridostigmina o ad arginina) e la concentrazione dell’effettore periferico del GH, l’IGF-I. Il difetto gonadotropinico comporta ritardo puberale nell’adolescente, amenorrea primaria o secondaria e impotenza nell’adulto. I pazienti presentano ridotta risposta delle gonadotropine LH e FSH allo stimolo con LHRH, ridotta concentrazione di estradiolo e testosterone rispettivamente nelle femmine e nei maschi. L’ipotiroidismo da difetto ipofisario presenta riduzione della tiroxina (T4) ed una concentrazione di TSH ridotta o, comunque, non elevata (cioè sproporzionatamente bassa rispetto alla concentrazione di T4). La risposta del TSH allo stimolo con TRH servirà a differenziare le forme ad origine ipotalamica (in cui il TSH risponde con un aumento della sua concentrazione) dalle forme ipofisarie (con TSH insensibile allo stimolo specifico).
L’iposurrenalismo ipofisario presenta una ridotta concentrazione di cortisolo senza elevazione dell’ACTH. In questi casi il test con CRH non riveste particolare importanza diagnostica. Le sindromi da ipersecrezione ipofisaria vengono in genere evidenziate dall’aumento della concentrazione dell’ormone bersaglio. L’iperprolattinemia è sicuramente la più comune anomalia funzionale ipofisaria perché non è solamente dovuta ad adenomi secernenti questo ormone, ma anche a qualunque affezione che svincoli l’ipofisi dal controllo inibitorio ipotalamico (deconnessione ipofisaria) e a farmaci quali gli antidopaminergici (metoclopramide, sulpiride, domperidone, fenotiazine, butirrofenoni), altri agenti a livello del sistema nervoso centrale (triciclici, benzodiazepine, -metildopa) e ormoni (estrogeni); la diagnosi differenziale tra l’iperprolattinemia da prolattinoma e l’iperprolattinemia funzionale è già stata trattata (v. pag. 585). L’ipersecrezione di gonadotropine si presenta nei bambini con i segni della pubertà precoce vera, caratterizzata da una risposta gonadotropinica di tipo adulto allo stimolo con LHRH e da un aumento degli steroidi sessuali. L’ipersecrezione di ormone somatotropo produce gigantismo nel soggetto in accrescimento e acromegalia nell’adulto. Questa malattia è nella grande maggioranza dei casi dovuta ad un adenoma ipofisario, ma sono stati descritti rari casi dovuti ad ipersecrezione di GHRH da parte di neoplasie benigne o maligne dell’insula pancreatica o di gangliocitomi ipotalamici. L’ipercortisolismo da ipersecrezione di ACTH da parte dell’ipofisi fa parte del più vasto capitolo delle sindromi di Cushing, che si caratterizzano per l’ipersecrezione di glucocorticoidi dovuta a cause differenti. Le cause possono essere un adenoma o un adenocarcinoma surrenalico o una iperstimolazione secondaria a ipersecrezione di ACTH eutopico (Morbo di Cushing) o ectopico (microcitomi polmonari).
Sindromi ipotalamiche
Se la diagnosi di sindrome di Cushing è relativamente semplice in quanto nella maggior parte dei casi è evidente un incremento della cortisoluria delle 24 ore ed una assente soppressione della cortisolemia mattutina o della cortisoluria dopo somministrazione di bassi dosaggi di desametazone (0,5 mg/6 h per due giorni oppure 1 mg in unica dose la sera precedente il prelievo ematico), la diagnosi differenziale tra differenti forme è estremamente difficile per la non univocità di comportamento nei singoli soggetti. In genere si può affermare che una concentrazione estremamente elevata di ACTH è suggestiva di una forma ectopica, mentre la forma ipofisaria non necessariamente, anzi ben raramente, presenta un ACTH elevato; d’altro canto la forma surrenalica non necessariamente presenta valori di ACTH soppressi, in considerazione dei limiti metodologici dei dosaggi di questo ormone. La presenza di una forma ipofisaria può essere suggerita (ma non dimostrata) da una parziale soppressione della cortisolemia mattutina a seguito di un trattamento con dosi elevate di desametazone (2 mg/6 h per due giorni). Dati più sicuri vengono dalla dimostrazione di una maggior elevazione in seguito a stimolo con CRF dell’ACTH ottenuti mediante cateterismo di un seno petroso inferiore rispetto a quello controlaterale. Ovviamente è estremamente importante la dimostrazione morfologica della presenza dell’adenoma, soprattutto mediante RM, anche se non è infrequente il riscontro di microadenomi di dimensioni inferiori al potere di risoluzione delle apparecchiature di ultima generazione. Sono descritte anche per il Morbo di Cushing rare forme dovute ad ipersecrezione di CRH da parte di neoformazioni (gangliocitomi) ipotalamiche. La sindrome di Nelson, oggi abbastanza rara, è caratterizzata da un macroadenoma ipofisario espansivo e compressivo delle strutture vicine associato a melanodermia, insorto in seguito a una surrenectomia bilaterale in soggetti affetti da morbo di Cushing.
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L’ipersecrezione di TSH è comunemente osservabile in caso di ipotiroidismo primitivo e talora può produrre progressiva iperplasia ipofisaria fino alla trasformazione adenomatosa. Raramente è osservabile modica elevazione del TSH, soprattutto in risposta alla stimolazione con TRH, in pazienti affetti da resistenza agli ormoni tiroidei. L’ipertiroidismo da primitiva ipersecrezione di TSH è una sindrome molto rara, ma dimostrata; in questo caso l’adenoma può essere visualizzato mediante TC o RM. L’ipersecrezione di gonadotropine è estremamente rara e si accompagna in genere ad ipogonadismo.
Sindromi neuroipofisarie Diabete insipido - È caratterizzato dalla mancanza dell’effetto antidiuretico a livello renale e può essere dovuto ad una deficienza di ormone antidiuretico o a una insensibilità renale a questo ormone. La sintomatologia è caratterizzata da poliuria e sete compulsiva. La diagnosi differenziale si pone con la potomania e viene effettuata con il test dell’assetamento o con il carico salino. È importante, durante il test dell’assetamento, controllare strettamente il paziente per evitare una pericolosa disidratazione, Nel caso si verifichi un calo ponderale di oltre il 20% è consigliabile sospendere il test. Un aumento dell’osmolalità urinaria oltre le 750 mmol/L in seguito a questi test esclude la diagnosi. La diagnosi differenziale con il diabete insipido renale viene dalla dimostrazione della contrazione della diuresi e dall’elevazione dell’osmolalità urinaria oltre 750 mmol/L in seguito a somministrazione dell’analogo dell’ADH, ovvero la des-amino-D-argininin-vasopressina (DDAVP). Il trattamento, importante soprattutto per i soggetti che hanno turbe della coscienza e che quindi non sono in grado di compensare spontaneamente la perdita di liquidi, consiste
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Le grandi sindromi neurologiche
nella somministrazione per via intranasale o parenterale del DDAVP. Sindrome da inappropriata secrezione di ADH (SIADH) - È caratterizzata da iponatriemia, ipernatriuria ed osmolalità urinaria superiore a quella plasmatica. La diagnosi va posta una volta escluse patologie renali, condizioni edemigene, insufficienza cardiaca congestizia, ipotiroidismo o iposurrenalismo. Le cause sono molteplici, dalla produzione ectopica di ADH, da parte di neoplasie (carcinoma del polmone, del tratto gastroenterico, del rene e delle vie urinarie, mesotelioma, timoma, sarcoma, leucemia e linfoma) all’azione di particolari farmaci (antineoplastici come vinblastina cisplatino, ecc., diuretici tiazidici, ecc.). Le cause neurologiche sono molteplici: traumi, complicanze chirurgiche, sindrome di GuillainBarré, encefalopatia metabolica, vascolare, infettiva, porfiria acuta intermittente. La sintomatologia clinica è correlata con la ritenzione idrica e con la conseguente ipoosmolalità dei fluidi corporei. Condizioni di modica iponatriemia producono una sintomatologia aspecifica, con faticabilità, malessere, perdita dell’appetito; una caduta della natriemia al sotto 115 mmol/L determina confusione, obnubilamento della coscienza e convulsioni. Il trattamento è mirato a correggere la ritenzione idrica, riducendo drasticamente l’introito di liquidi e, ove necessario, stimolando la diuresi con furosemide (1 mg/Kg ev), rimpiazzando la perdita idrica con soluzione salina al 3% di cloruro di sodio, contenente quantità di potassio proporzionali alla perdita urinaria dell’elettrolita. Un aumento troppo rapido dell’osmolalità plasmatica può produrre una mielinolisi centrale pontina, per cui si raccomanda di non aumentare la concentrazione circolante del sodio ad una velocità superiore a 1-2 mmol/ h. Per il trattamento cronico, quando non possa essere eliminata la causa che ha prodotto l’ipersecrezione di ADH, ci si può avvalere dell’ef-
fetto della demeclociclina, una tetraciclina che induce diabete insipido renale al dosaggio di 300-600 mg/2 volte al dì. LA GHIANDOLA PINEALE È un organo ad attività secretoria nei mammiferi, un organo fotorecettivo negli anfibi e nei pesci e un organo ad attività mista, fotorecettiva e secretoria, nei rettili (il terzo occhio degli iguana) e negli uccelli. Istologicamente è costituita dai pinealociti e da elementi cellulari legati all’attività fotorecettiva. Le calcificazioni che si osservano frequentemente nella specie umana dopo la pubertà sono erroneamente attribuite ad una involuzione funzionale della ghiandola che, al contrario, resta attiva anche nell’età adulta. Il principale prodotto della secrezione ghiandolare è la melatonina, prodotta dalla metabolizzazione del triptofano in 5-idrossi-triptofano, 5-idrossi-triptamina, N-acetilserotonina. La sintesi di quest’ultimo precursore è regolata da un enzima, la serotonin-N-acetil-trasferasi (NAT), che ha un ritmo di attività circadiano, con attività massima durante le ore notturne, e risente della alternanza luce-buio attraverso meccanismi regolatori che partono dalla retina e, attraverso il nucleo soprachiasmatico, generano impulsi di tipo noradrenergico stimolanti la sintesi enzimatica da parte del pinealocita. Il ruolo fisiologico della ghiandola pineale, e della melatonina in particolare, è poco chiaro. Sono state ipotizzate funzioni regolatorie sui ritmi riproduttivi e comportamentali stagionali e circadiani, in funzione della durata dei periodi di luce e buio oltre che dell’alternanza luce-buio. La secrezione di melatonina è stata associata alle variazioni di temperatura, al sonno ed a molteplici altre funzioni endocrino-metaboliche caratterizzate da ciclicità circadiana, senza alcuna prova conclusiva di rapporti di causalità. Le correlazioni cliniche tra neoplasie della ghiandola pineale e sviluppo puberale non sono confortate dall’evidenza di un chiaro effetto inibitorio della melatonina sull’attività secretoria dell’asse gonadotropinico, anche se è riportato un progressivo decremento di melatonina dai primi anni di vita all’età adulta, soprattutto incentrato nel periodo puberale, ed una concentrazione elevata nei soggetti con pubertà ritardata. Benché sia stata osservata una concentrazione circolante di melatonina ridotta in soggetti con pubertà precoce, non si è potuta dimostrare la sua elevazione in seguito al controllo terapeutico della malattia con analoghi inibitori dell’LHRH. La patologia della ghiandola pineale consiste principalmente nelle neoplasie. I tumori, piuttosto rari, possono derivare da cellule germinali (teratomi, germinomi, coriocarcinomi, tumori del seno entodermico, tumori misti), da cellule parenchi-
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mali (pinealomi, pinealoblastomi) o da cellule stromali della ghiandola (gliomi) e si manifestano prevalentemente nell’età evolutiva, con l’eccezione dei pinealomi e dei pinealoblastomi. La sintomatologia è essenzialmente legata al processo espansivo, con diabete insipido, compromissione della funzione visiva e riproduttiva e con sintomi legati all’idrocefalo (sonnolenza, cefalea, vomito). I disturbi dell’apparato riproduttivo possono essere: la pubertà precoce o l’ipogonadismo, a seconda del tipo di neoplasia, ma non è chiaro quale sia il meccanismo responsabile dell’attivazione del processo puberale. Oltre alla riduzione della secrezione melatoninica nei soggetti con pubertà precoce, il fenomeno può essere attribuito all’espressione, da parte del tumore, della gonadotropina corionica che, avendo struttura ed attività simili all’LH, stimola la produzione di steroidi sessuali da parte della gonade. Questa ipotesi, tuttavia, è in contrasto con l’evidenza di una attivazione della secrezione gonadotropinica, talora osservata in questi casi. Le anomalie del ritmo circadiano di alcuni ormoni in mlattie psichiatriche, come la depressione e le sindromi maniacali, hanno suggerito un ruolo della ghiandola pineale e della melatonina in questa patologia. L’ipotesi riveste un notevole interesse e trova conferme indirette nella dimostrazione, ad esempio, che trattamenti antidepressivi elevano la secrezione di melatonina attraverso l’aumento della disponibilità dei suoi precursori, triptofano e serotonina, e del principale attivatore della sua sintesi, la noradrenalina, o attraverso effetti diretti di tipo catecolaminergico o serotoninergico.
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Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche Sindromi da alterata (sindromi pressione tronco-encefaliche) intracranica
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16. Sindromi da alterata pressione endocranica A. Seitun, A. Leonardi
I quadri clinici causati da alterazioni della pressione intracranica rappresentano un argomento tanto semplice da descrivere e comprendere, quanto denso di intricate implicazioni fisiopatogenetiche riguardanti le funzioni di barriera fra sangue, encefalo e liquido cerebrospinale, i meccanismi di formazione dell'edema cerebrale ed i meccanismi omeostatici pressori intracranici. Tali argomenti rappresentano quindi le premesse necessarie per comprendere i quadri clinici che derivano da una disregolazione della pressione intracranica.
A. Funzioni di barriera fra sangue, encefalo e liquido cerebrospinale ed edema cerebrale Il Sistema Nervoso Centrale (SNC) ed il liquido cerebrospinale (o liquor) che lo circonda sono isolati dalla circolazione generale da una barriera attiva su due versanti: ematoencefalico ("blood-brain barrier", BBB) ed ematoliquorale. Nell'interfaccia fra sangue e cervello, l'effetto barriera è dovuto a speciali proprietà dell'endotelio dei capillari cerebrali, mentre sul versante liquorale un'azione simile è svolta dall'epitelio dei plessi corioidei e dell'aracnoide. Le due barriere, per vari aspetti simili e cooperanti, impediscono la libera diffusione di soluti dal sangue al cervello, e, attraverso la produzione controllata di liquor, mantengono la speciale omeostasi fisica e biologica di cui il SNC ha necessità per funzionare correttamente.
Il liquor è prodotto prevalentemente (~70%) dai plessi corioidei dei ventricoli laterali, da cui fuoriesce attraverso i rispettivi forami di Monro nel III ventricolo per defluire attraverso l'acquedotto di Silvio nel IV ventricolo. L'esistenza nella tela corioidea del IV ventricolo del forame mediano di Magendie e dei forami laterali di Luschka1 permette al liquor di raggiungere gli spazi subaracnoidei della base e diffondere attraverso gli spazi subaracnoidei della convessità fino alla principale sede di riassorbimento, corrispondente al seno longitudinale superiore (o sagittale) (Fig. 9.1). Il parenchima cerebrale produce la restante quota di liquor (~ 30%), che confluisce assieme a quello ventricolare nel tessuto finemente areolare della parte interna dell'aracnoide, volumetricamente corrispondente agli spazi subaracnoidei. Questi rimangono isolati dallo spazio virtuale subdurale per le proprietà di barriera di cui è dotato l'epitelio aracnoideo. Gli spazi subaracnoidei sono attraversati da vasi e nervi, ed a livello della base cranica si espandono in cisterne, la più voluminosa delle quali è la cisterna magna, situata tra cervelletto e tronco encefalico (v. Fig. 9.1). Le strette analogie esistenti fra le due barriere, ematoencefalica ed ematoliquorale, spingerebbero a considerarle come un tutt'uno, ma ciò risulta penalizzante per certe peculiarità relative a ciascuna di esse. Per comprenderne più agevolmente il funzionamento, sono brevemente illustrati i meccanismi fisici e biologici di 1
I forami laterali di Luschka sono però assai poco pervi, essendo occlusi dai plessi corioidei del IV ventricolo.
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base che regolano il passaggio di soluti e di acqua fra sangue-cervello e fra sangue-liquor (Laterra et al., 1999). 1. Meccanismi generali di transito transmembrana 1) - Diffusione. È lo spostamento fisico di molecole secondo il gradiente di concentrazione esistente fra due compartimenti fluidi comunicanti. Se questi compartimenti sono separati da una membrana cellulare al suo interno lipidica ed idrofobica (barriera), la diffusione delle molecole attraverso essa dipende in massima parte dalla loro lipofilicità, espressa dal coefficiente di ripartizione olio o octanolo/acqua, ed in minima misura dalla rispettiva massa (MW). La membrana è scarsamente permeabile ai soluti idrofilici (polari) quali ad es. piccoli ioni inorganici ed H+, mentre è molto permeabile ai gas (O2, CO2, NO, NO2, Xenon, anestetici volatili), alle molecole idrofobiche liposolubili (apolari o scarsamente polari come molti farmaci) ed alle molecole anfipatiche (con estremità idrofobica ed estremità idrofilica, ad es. detergenti non polari). In caso di acidosi metabolica, ad esempio, l'alcalosi respiratoria di compenso fa sì che l'estrazione di CO2 dall'encefalo sia molto maggiore dell'ingresso di H+ dal sangue, con il risultato di un'alcalosi del SNC. L'acqua (MW= ~18) diffonde abbastanza rapidamente: il tempo di emiscambio di D2O fra sangue e cervello oscilla fra 12 e 25 sec, in rapporto al flusso ematico ed alle concentrazioni ioniche presenti sui due lati della barriera ed all'osmolarità del plasma. Questa proprietà può essere clinicamente sfruttata per ridurre il contenuto idrico dell'encefalo in caso di edema e di ipertensione intracranica tramite infusione endovena di soluzioni iperosmolari di molecole scarsamente permeanti, ad es. mannitolo, o alternativamente, impiegando natriuretici (furosemide). L'etanolo pur essendo 2,6 volte più pesante dell'acqua (MW= ~46), diffonde circa 6 volte più velocemente, in quanto molto più liposolubile. Altre molecole, ancora più pesanti ma molto liposolubili come ad es. nicotina, iodoantipirina e diazepam, diffondono così rapidamente da essere completamente estratte dal sangue in un solo passaggio. Altre, sia di basso peso come la glicina, sia di alto peso come le catecolamine, ma entrambi polari ed ionizzate al pH plasmatico, presentano scarsa diffusione. Altre ancora, pur essendo scarsamente polari e non ionizzate al pH plasmatico (quindi lipofile, come ad es. fenobarbitone e fenitoina), diffondono meno del previsto trovandosi in misura non irrilevante "catturate" nelle tasche idrofobiche dell'albumina plasmatica. 2) - Trasporto transcellulare. Richiede l'assemblamento di specifiche proteine o "trasportatori" sulla super-
ficie luminale ed antiluminale del monostrato cellulare che funge da barriera. a. - Trasporto transcellulare. Può essere di tipo "facilitato" ed avvenire senza gradiente di concentrazione per la presenza di un idoneo trasportatore transmembrana situtato su due superfici cellulari opposte, o di tipo "attivo" e contro gradiente di concentrazione, per la presenza di un trasportatore transmembrana ATP-dipendente su una sola delle due superfici. Il trasporto attivo con spesa energetica è sempre associato ad un trasporto facilitato (non attivo) sulla superficie opposta della cellula, ed è elettrogenico, comportando la formazione di un gradiente di potenziale: queste caratteristiche "polari" contraddistinguono le cellule che sono attraversate da un flusso massivo di fluidi contenenti soluti di vario genere destinati alla secrezione, tipicamente l'epitelio dei plessi corioidei. b. - Transcitosi di macromolecole. Implica la presenza di specifiche proteine transmembrana dotate di un sito esterno capace di legare una specifica macromolecola, di un successivo processo di endocitosi microvescicolare seguito da trasporto intracitoplasmatico e da esocitosi finale sul versante opposto. Il legame può avvenire grazie alla presenza di recettori dotati di specifici siti di riconoscimento, ad es. per la transferrina, l'insulina, la vasopressina, il fattore di crescita insulino-simile, il frammento C delle IgG, oppure, nel caso delle lectine, dotato di catene glicidiche. Alternativamente, il ligando è catturato tramite meccanismi polari aspecifici di interazione elettrostatica, occorrenti fra una proteina transmembrana fortemente acidica e macrosoluti fortemente basici, come avviene per proteine o altre macromolecole spontaneamente - o artificialmente rese - policationiche. 3) - Pinocitosi. Differisce dalla transcitosi di macromolecole comportando un'endocitosi macrovescicolare di fluido extracellulare seguita da convogliamento all'apparato lisosomale, oppure da esocitosi sulla superficie opposta della cellula, nel qual caso può essere favorita da un adeguato gradiente pressorio. Questo meccanismo sembra responsabile del riassorbimento liquorale.
2. La barriera ematoencefalica È rappresentata dalla superficie luminale (ematica) dell'endotelio capillare encefalico, che differisce da quello di tutti gli altri tessuti per la presenza di giunzioni serrate fra cellule endoteliali adiacenti e per l'esistenza di una esile matrice collagene immediatamente extracellulare (membrana basale) in cui sono immersi adiacenti periciti e "piedini" astrocitari che ricopro-
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no pressoché integralmente la superficie abluminale (parenchimale) dell'endotelio. Ontogeneticamente, le giunzioni serrate si sviluppano ad opera di specifici segnali gliali, in mancanza dei quali vanno incontro a progressiva riduzione e scomparsa. Ciò si verifica ad es. nelle colture endoteliali pure o nelle neoplasie cerebrali maggiormente anaplastiche e soprattutto nelle metastasi, caratterizzate da marcato danno della barriera ematoencefalica. Capillari cerebrali fisiologicamente privi di proprietà di barriera per la presenza di giunzioni serrate discontinue ed anche fenestrazioni, si ritrovano solo in alcune circoscritte zone encefaliche: ipofisi, eminenza mediana, area postrema, recesso preottico, epifisi, organo subfornicale, plessi corioidei. La barriera fra sangue e tessuto nervoso formata dal complesso glio-capillare non dipende soltanto da una più o meno ostacolata - o facilitata - diffusione di soluti, ma anche da meccanismi di selettivo trasporto transcellulare o di trasporto per transcitosi, i più importanti dei quali sono riportati di seguito (Fishman, 1992; Laterra et al., 1999; Rowland et al., 2000).
SNC, per il 90% basato sul glucosio. Sono altresì trasportati galattosio e mannosio, zuccheri importanti nelle prime fasi dell'età evolutiva, mentre il fruttosio ha un trasporto 200 volte inferiore. La ridotta espressione di GLUT-1 (circa il 50% in meno), osservata in casi sporadici (De Vivo et al., 1991), o in ceppi famigliari autosomici dominanti (Brockmann et al, 2001; Klepper, 2001), causa nel bambino e nell'adulto un'encefalopatia metabolica cronica caratterizzata da ritardo mentale, epilessia più o meno grave peggiorata dal digiuno e migliorata da carico di carboidrati, atassia ed ipoglicorrachia: in questi casi, le crisi epilettiche risentono favorevolmente della cosiddetta "dieta chetogena", costituita da un 91% di grassi e 9% di proteine. Oltre a fornire all'encefalo corpi chetonici quale substrato energetico complementare al glucosio, la dieta sembrerebbe anche capace di aumentare l'espressione non solo del trasportatore degli acidi monocarbossilici MCT-1, ma anche di GLUT-1 (Leino et al., 2001).
1) - Acqua. Come è già stato detto, esiste una diffusione passiva di acqua attraverso le membrane cellulari lipidiche2, ivi compresa quella endoteliale luminale, che incide per il 99% del passaggio complessivo, essendo solo l'1% attribuibile a transito attraverso canali ionici (Laterra et al., 1999). Il passaggio dell'acqua è quindi essenzialmente regolato dallo scambio degli elettroliti fra i due ambienti intra ed extracellulare.
4) - Aminoacidi. Esistono differenti sistemi di trasporto per le varie classi di aminoacidi essenziali. Gli aminoacidi neutri più grandi, quali leucina, isoleucina, valina, metionina, istidina, tirosina, fenilalanina, di-idrossifenilalanina o L-DOPA e triptofano, non sintetizzati dal SNC, vengono importati dal sangue attraverso il sistema di trasporto di tipo L ("leucine-preferring"), e quindi competono reciprocamente sul trasportatore. In caso di fenilchetonuria, ad es., l'eccesso di fenilalanina plasmatica causa una riduzione nel SNC degli altri aminoacidi essenziali per lo sviluppo dell'encefalo infantile. I piccoli aminoacidi neutri, quali alanina, glicina, prolina ed ac. γ- o 4-aminobutirrico (GABA), sintetizzati dal SNC, sono invece prevalentemente esportati nel sangue attraverso un sistema di trasporto di tipo A ("alaninepreferring"), localizzato sulla superficie endoteliale abluminale. Esistono anche distinti sistemi di trasporto per gli aminoacidi essenziali basici (lisina, arginina), per gli aminoacidi dicarbossilici (glutammato, aspartato), per i b-aminoacidi (taurina), e per la creatina, la colina, l'inositolo, i nucleosidi e gli acidi grassi saturi.
2) - D-glucosio. Scarsamente permeabile per diffusione, è estratto dal sangue in maniera stereospecifica da trasportatori di membrana appartenenti all'estesa famiglia dei "GLUT-transporters" (Joost e Thorens, 2001), fra i quali le isoforme a più alta affinità, GLUT-1 (Lund-Anderson, 1979; Fishman, 1991) e soprattutto GLUT-3, sono espresse dai capillari cerebrali umani ed in minor misura, dall'epitelio corioideo. L'estrazione di glucosio, Na+-dipendente e saturabile in eccedenza di substrato, supera di 2-3 volte il fabbisogno energetico globale del 2
In particolare, la permeabilità all'acqua varia da 2-1000 molecole · 10-5 · cm-1 · sec-1
3) - Acidi monocarbossilici. Comprendono fisiologicamente L-lattato, piruvato e corpi chetonici, molecole soggette a trasporto per diffusione ma anche stereospecifico (Pardridge, 1983) tramite il trasportatore MCT1 (Leino et al., 2001). Questi substrati hanno un trasporto quantitativamente inferiore a quello del glucosio, ma il loro abbondante apporto dal latte durante l'allattamento o in corso di digiuno rappresenta una fonte energetica supplettiva piuttosto importante. Anche alcuni farmaci monocarbossilici come l'acido valproico (VPA) sono trasportati attraverso analogo meccanismo.
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5) - Vitamine. Non sintetizzate dal SNC, sono importate dal sangue in piccola quantità attraverso sistemi di trasporto specifici per il retinolo (Vit. A), la tiamina (Vit. B1) e le altre vitamine del gruppo B, per l'ac. ascorbico (Vit C), l'ac. pantotenico, l'ac. folico, la biotina.
dina, spermina); c) la xantina-(ossido)-reduttasi, che normalmente riconverte la xantina in ipoxantina, derivante dall'adenosina, ma in condizioni ipossiche si trasforma in ossidasi convertendo l'ipoxantina in ac. urico + anioni superossido (O2•-), dotati di potente azione citolesiva.
6) - Macromolecole. Meccanismi di transcitosi mediata da specifici recettori permettono il passaggio regolato transbarriera di numerosi macrosoluti plasmatici quali ormoni (insulina, tiroxina, vasopressina), peptidi (transferrina, leu-encefalina), e vari tipi di proteine plasmatiche, immunoglobuline incluse, la cui idrofilicità ed il cui ingombro sterico ne impedirebbero completamente l'ingresso nel SNC.
2) - Attività anti-xenobiotica. Oltre ad enzimi ad azione farmaco-catabolica analoghi a quelli epatici, sia l'endotelio cerebrale che l'epitelio corioideo esprimono pompe transmembrana ATP-dipendenti per l'espulsione attiva di farmaci penetrati per diffusione. Nell'uomo sono rappresentate dalla P-glicoproteina 150 (PgP-150, gene MDR1), la cui piena espressione si associa alla comparsa della cosiddetta "multidrug resistance" (Chin e Liu, 1994; Sarkadi et al., 1996; Rao et al., 1999; Sisodiya et al., 2002). Questa capacità difensiva, originariamente scoperta studiando le neoplasie refrattarie al trattamento con doxirubicina o vinblastina, si estende a molti altri farmaci, ivi compresi alcuni antiepilettici (epilessia refrattaria o farmaco-resistente), ma la possibilità di una sua neutralizzazione mediante bloccanti specifici della PgP-150 (quali ad es. verapamil e diidropiridine) non ha finora trovato precise e sicure indicazioni in campo neurologico.
L'endotelio cerebrale, inoltre, esercita funzione di barriera "enzimatica" ed "anti-xenobiotica" essendo dotato di specifici enzimi e sistemi difensivi per l'espulsione di sostanze estranee potenzialmente nocive. 1) - Attività enzimatica. Di particolare importanza sono la decarbossilasi degli L-aminoacidi aromatici e le monoamino-ossidasi (MAO), principali responsabili della regolazione intraluminale della concentrazione di catecolamine, sia che esse provengano dal sangue che prodotte dal cervello. Nel caso ad es. della L-DOPA esogena, somministrata per curare la m. di Parkinson, essa è in parte decarbossilata a dopamina; quest'ultima è ossidativamente deaminata dalle MAO a 3,4-di-idrossifenilacetaldeide, che viene prevalentemente ridotta dall'aldeide-deidrogenasi ad ac. 3,4-di-idrossifenil-acetico (DOPAC). L'associazione terapeutica di bloccanti la decarbossilasi (benserazide, carbidopa) permette quindi di ottenere un netto aumento del tasso cerebrale di LDOPA. Ad analogo metabolismo vanno incontro la noradrenalina (NA), deaminata dalle MAO a 3,4-diidrossifenil-glicolaldeide, successivamente ossidata ad ac. 3,4-di-idrossifenil-mandelico (DOMA), e la serotonina (5-HT), deaminata a 5-idrossi-indolacetaldeide, poi ossidata ad ac. 5-idrossi-indolacetico (5-HIAA). Altri enzimi di barriera sono coinvolti nel catabolismo di neurotrasmettitori e neuropeptidi (ad es. GABAtransaminasi, acetil-colinesterasi, endopeptidasi), nei meccanismi di defosforilazione (fosfatasi alcalina) e nel metabolismo di farmaci e tossici esogeni. Da un punto di vista fisiopatologico, particolarmente importanti appaiono i seguenti enzimi di barriera: a) la NOsintasi endoteliale (eNOS), che sintetizza il potente vasodilatatore nitrossido (NO) trasformando l'arginina in citrullina; b) l'ornitina-decarbossilasi, che regola la permeabilità di barriera trasformando l'ornitina (derivata dall'arginina) in poliamine permeabilizzanti (putrescina, spermi-
3. La barriera ematoliquorale I plessi corioidei, sede principale della barriera sangue-liquor, aggettano nei ventricoli, hanno una superficie di circa 200 cm2 e sono costituiti dai villi corioidei, il cui asse vascolare (capillare corioideo), originato da rami terminali delle aa. corioidee, è ricoperto dall'epitelio corioideo. Questo è un esile monostrato di cellule cilindriche di derivazione ependimale, con base appoggiata sul capillare, superfici laterali giustapposte ed interconnesse nella porzione apico-laterale da giunzioni serrate impermeabili o "tight junctions", e con superficie apicale, secernente liquor, dotata di "orletto a spazzola". Tali aspetti contraddistinguono tutte le cellule capaci di regolare attivamente il passaggio transcellulare dei soluti plasmatici, ovvero dotate di proprietà di barriera, nel caso in questione fra sangue e liquor (Fig 9.2) È utile rimarcare che, a differenza dell'endotelio cerebrale, l'endotelio dei capillari corioidei è fenestrato come in ogni altro distretto corporeo ed è quindi totalmente privo di proprietà di barriera.
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4. Produzione, pressione, trasporto, composizione, circolazione e riassorbimento, funzioni del liquor PRODUZIONE . - Il volume complessivo del liquor nell'adulto è in media di 135 ml (100-160 ml), distribuito come segue: ventricoli cerebrali: ~35 ml; spazi subaracnoidei della convessità: ~25 ml; spazi subaracnoidei spinali: ~75 ml. Tali dati, tuttavia, si riferiscono alla sola quota di liquor extraparenchimale, e non tengono in considerazione la quota di liquor che occupa gli spazi interstiziali dell'encefalo, stimata pari al 20% della quantità totale di liquidi extracellulari intracranici (Nicholson e Sykova, 1998; Sykova et al., 2000). Gli spazi interstiziali sono in diretta comunicazione con gli spazi perivascolari di Virchow-Robin della superficie del cervello, e raccolgono acqua e soluti a composizione simile al liquor filtrati attraverso la barriera emato-encefalica. In essi, la componente liquida (liquor) si distribuisce nella maglie di cui è formata la cosiddetta "matrice extracellulare", o rete perineuronale-perigliale di Golgi, formata da glicoproteine e proteoglicani (Celio, 1999; Spreafico et al., 1999), coinvolta non solo in funzioni di sostegno ma probabilmente anche di conduzione di volume (Viggiano et al., 2000). Non è finora stato appurato quanto peso complessivamente abbia il turnover liquorale interstiziale rispetto a quello extracerebrale corioideo: evidenze per neuroimmagini MR sincronizzate sull'ECG, hanno permesso di avanzare addirittura l'ipotesi che il primo sia complessivamente dominante (Greitz, 1993), suggerendo l'opportunità di un'integrale revisione dei meccanismi di riassorbimento liquorale (Greitz et al., 1997a-1997b; Whitelaw, 1997). I plessi corioidei secernono 0.35 ml di liquor al minuto, cioè 500 ml nelle 24 ore, per cui il liquor si rinnova completamente almeno tre volte al giorno. A scopo puramente didattico, può essere utile distinguere la secrezione di ioni inorganici ed
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acqua (produzione di liquor) dallo scambio di altre molecole e macrosoluti organici con il sangue (Fishman, 1992; Laterra et al., 1999; Rowland et al., 2000). 1) - Secrezione liquorale da parte dei plessi corioidei. Contempla una complessa concatenazione di eventi: la pressione idrostatica nel capillare spinge acqua e soluti alla base e fra le cellule dell'epitelio corioideo, ma la libera diffusione è impedita dalle giunzioni serrate apicali, che lasciano passare come ultrafiltrato solo piccole quantità di acqua e ioni. Sono invece meccanismi di trasporto ionico attivo, di scambio e di trasporto (o co-trasporto) facilitato che causano la quasi totalità della produzione liquorale, considerabile in effetti come una netta secrezione di Na+ e Cl- accompagnata da flusso di H2O. Tali meccanismi sono illustrati sinteticamente in Fig. 16.1. Il ruolo della pompa Na+,K+-ATPasi, espressa sulla membrana apicale (liquorale) dei microvilli corioidei è probabilmente quello più importante, non solo per il trasporto di Na+ nel liquor, ma anche per la formazione di un gradiente elettrochimico (- 45 mV) che a livello della superficie baso-laterale della cellula epiteliale favorisce il trasporto di Na+ dal sangue attraverso lo scambiatore ("antiporter") Na+/H+, sensibile ad amiloride. Il blocco della Na+,K+-ATPasi mediante ouabaina, infatti, inibisce gran parte del trasporto di Na+ nel liquor e quindi gran parte della stessa secrezione liquorale, essendo ogni Na+
Fig. 16.1 - Schema semplificato del trasporto ionico attraverso l'epitelio secernente dei plessi corioidei. Il netto influsso di Na+ e Cl- si associa a spostamento di acqua sul versante ventricolare. Notare la polarizzazione dell'epitelio, causata dalla pompa Na+, K+-ATPasi (cerchio con frecce). Gli altri cerchi indicano trasporto facilitato (co-trasporto, scambio ionico) (modificato da Laterra et al., 1999 e Rowland et al., 2000).
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idratato da ben sei molecole di acqua (ingresso passivo di H2O). Il trasporto intracellulare di Cl- avviene attraverso la superficie basolaterale per scambio fra ioni cloro/ αioni bicarbonato (HCO3-) la cui formazione è catalizzata dall'anidrasi carbonica di cui sono dotate le cellule corioidee secondo la reazione CO2 + 2H2O → H3O+ + HCO3- . Lo scambio cloro/bicarbonato può essere bloccato direttamente da inibitori specifici (stilbeni) o indirettamente da inibitori specifici dell'anidrasi carbonica (acetazolamide). L'efflusso di Cl- nel liquor avviene tramite un co-trasportatore del tipo K+/Cl- o Na+/K+/Cl- analogo a quello presente nei tubuli renali distali, sensibile a furosemide e bumetanide. Il risultato complessivo si traduce in una modesta prevalenza di Cl- nel liquor, circa 1,2 volte rispetto al plasma. La riduzione della produzione liquorale indotta da furosemide o acetazolamide è terapeuticamente sfruttata nel controllo dell'ipertensione intracranica idiopatica (v. pag. 614). L'epitelio dei plessi corioidei riceve una diffusa innervazione ortosimpatica dal ganglio cervicale superiore ed inoltre, pur essendo sprovvisto di innervazione serotoninergica, risulta la struttura encefalica più riccamente dotata di recettori 5-HT2C. I plessi corioidei del IV ventricolo ricevono anche collaterali GABAergiche, probabilmente dal cervelletto, pur mancando di recettori per il GABA. La presenza di una dotazione recettoriale per molti neuro-ormoni suggerisce una modulazione neuroendocrina della secrezione liquorale: ad esempio, l'aumentata produzione ipotalamica di vasopressina secondaria ad ipertensione liquorale riduce la perfusione dei plessi corioidei e quindi la produzione di liquor, e sembra quindi finalizzata a mantenere l'omeostasi pressoria intracranica. I plessi corioidei, infine, sintetizzano - e rilasciano nel liquor - transtiretina (prealbumina), il che spiega perché la concentrazione di questa proteina sia più alta nel liquor rispetto al plasma, e neurotrofine (fattore di crescita insulino-simile). 2) - Trasporto di altri soluti. Sebbene molti sistemi di trasporto siano espressi da entrambe le barriere, alcuni di essi sono più attivi ed efficienti a livello della barriera ematoencefalica, principale sede di scambio di gas (O2, CO2) e di assorbimento di aminoacidi e D-glucosio, la cui concentrazione nel liquor è fisiologicamente mantenuta entro il 60-70% del corrispondente valore plasmatico. Per altri sistemi, invece, vale l'opposto. Ad esempio, l'influsso di Ca2+ attraverso i plessi corioidei è dieci volte superiore a quello attraverso i capillari cerebrali. Il fatto che la concentrazione liquorale di Ca2+ sia circa due volte e mezzo inferiore rispetto a quella plasmatica induce quindi a ritenere che siano gli stessi plessi le strutture principalmente deputate alla regolazione dell'omeostasi
intracerebrale del Ca2+ tramite trasporto selettivo. Il basso contenuto liquorale di fosfati (circa 3 volte inferiore al plasma) è invece attribuibile all'attività fosfatasica di cui sono dotate entrambe le barriere sui rispettivi versanti luminali (ematici). Il passaggio di macrosoluti proteici dal plasma è molto modesto, ma regolato in maniera attiva. Le grosse proteine sono internalizzate attraverso la superficie basale della cellula corioidea per transcitosi microvescicolare e riversate per esocitosi sull'opposto versante apicale (ventricolare). Questo meccanismo richiede energia, ma consente un ingresso controllato delle proteine, la cui concentrazione globale nel liquor è rigidamente mantenuta circa 200 volte inferiore a quella plasmatica. Le diverse proteine plasmatiche sono trasportate nel liquor in proporzioni reciproche ben definite ma differenti rispetto a quelle del plasma. Infatti, il rapporto liquor/plasma per l'albumina è pari a 1:250, per la transferrina a 1:143 e per ogni frazione globulinica (IgG, IgA, IgM) a 1:1000 (Fishman, 1992; Laterra et al., 1999). Nel liquor, quindi, la quota di ciascuna di queste immunoglobuline sulla quantità totale delle proteine è cinque volte inferiore rispetto a quella plasmatica. L'esportazione di soluti dal liquor al plasma avviene tramite trasporto attivo contro gradiente, e riguarda sia molecole xenobiotiche inorganiche (ioduri, tiocianati) sia molecole organiche (metaboliti acidi dei neurotrasmettitori aromatici, farmaci carbossilici, ad es. penicillina ed analoghi acidi, ac. valproico). A ciò si deve aggiungere l'esportazione causata dall'attività di pompa della proteina "multidrug resistance" PgP-150 e delle altre a funzione analoga.
PRESSIONE. - La pressione liquorale è un fedele indice della reale pressione intracranica solo quando è misurata a livello intraventricolare o subaracnoideo encefalico. Ciò è realizzabile in sede neurochirurgica ed in caso di reale necessità di monitoraggio tramite cateterismo ventricolare o sonde epidurali a dimora. Misurata a livello della cisterna magna mediante puntura suboccipitale ed in posizione seduta, la pressione liquorale media è pressoché nulla, mentre a livello lombare, nell'adulto in decubito laterale, essa è compresa fra 5-15 mmHg, ovvero 70-200 mm di H2O (Fishman, 1992). La pressione liquorale fluttua non solo in rapporto alla dilatazione sistolica dei plessi corioidei-tessuto nervoso, ma anche in rapporto all'as-
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se verticale del paziente, e soprattutto in funzione della posizione del capo rispetto al cuore, ed alle situazioni che riducono il ritorno venoso al cuore o comunque aumentano la pressione venosa intrarachidea (manovra di Valsalva: incrementi fino al 50-100%; compressione di entrambe le vene giugulari: incrementi fino al 100150%). Fisiologicamente esiste una pulsatilità pressoria spontanea di 5-15 mm di H2O causata dall'espansione sistolica dei plessi corioidei e del parenchima cerebrale, cui si sommano le fluttuazioni pressorie intraaddominali e toraciche connesse al respiro. Particolari fluttuazioni si osservano inoltre durante il sonno. COMPOSIZIONE. - I dati riportati in Tab. 9.1 dimostrano che il liquor è un secreto, non un trasudato plasmatico: infatti, le concentrazioni liquorali di potassio sono inferiori, quelle di magnesio e cloruri superiori rispetto a quelle plasmatiche. La concentrazione di sodio e l'osmolarità sono identiche, mentre il liquor è più acido con una pressione parziale di CO2 più alta rispetto a quella plasmatica. Va ricordato che le caratteristiche biochimiche alle quali si fa abitualmente riferimento sono quelle del liquor lombare. Esistono infatti notevoli differenze, in particolare nella composizione proteica, nel liquor ventricolare e cisternale. CIRCOLAZIONE E RIASSORBIMENTO. - La produzione continua di liquor e la pulsatilità sisto-diastolica dei plessi corioidei (Bering, 1955) e del parenchima cerebrale causano l'espulsione del liquor neoformato dai ventricoli laterali nel III ventricolo attraverso i forami di Monro, e dal III ventricolo nel IV ventricolo attraverso il rispettivo acquedotto, sede di un impercettibile movimento del liquor a tipo "va e vieni" (~ 0,15 ml). Come è già stato detto all'inizio, dal IV ventricolo il liquor defluisce attraverso il forame
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mediano di Magendie (ed eventualmente i forami laterali di Luschka) presenti nella tela corioidea del IV ventricolo negli spazi cisternali della base (specie cisterna magna), e da questi negli spazi subaracnoidei pericefalici fino a raggiungere raggiungere gli spazi subaracnoidei della convessità. Assai minore è la diffusione caudale del liquor negli spazi subaracnoidei spinali, e minima nel canale ependimale. L'espansione sistolica dei vasi arteriosi intracranici e dell'encefalo all'interno del cranio (nell'adulto rigido ed inestensibile) produce istantaneamente un gradiente pressorio fronto-caudale che sospinge il liquor pericefalico verso il compartimento subaracnoideo spinale, dotato di un certo grado di espansibilità o "compliance" (Fishman, 1992; Greitz, 1993). Fisiologicamente, quindi, esiste un gradiente pressorio fluttuante di 13-26 mmH2O fra cavità ventricolari e spazi subaracnoidei della convessità e di 20-50 mmH2O fra questi ultimi ed il seno longitudinale superiore. In questa sede, avviene il riassorbimento del liquor in corrispondenza delle granulazioni aracnoidee di Pacchioni (1791), strutture rotondeggianti grigiastre aggettanti in vario numero (circa 50) e diametro (0,5-4 mm) dalla superficie esterna della dura madre nel lume del seno longitudinale superiore. Esse sono formate da agglomerati di microscopici villi aracnoidei, le cui cellule epiteliali differenziate permette il trasporto di liquor nel sangue attraverso un meccanismo pinocitico a tipo "valvola tarata": quando il gradiente pressorio liquor → sangue venoso raggiunge la cosiddetta "pressione di apertura" (20-50 mm H2O), in esse si formano grandi vescicole piene di liquor che migrano e si aprono sul versante venoso riversando il proprio contenuto nel sangue. Il liquor, secreto in maniera selettiva per ciascuno dei propri componenti, viene così riassorbito in modo indifferenziato (riassorbimento "in massa"). Anche se il riassorbimento del liquor pericefalico è quantitativamente dominante nel seno longitudinale superiore, esso avviene anche -
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seppur in minor misura - in corrispondenza di piccoli villi aracnoidei aggettanti nelle vene radicolari spinali. Il liquor interstiziale viene riassorbito nel sangue all'interno dello stesso parenchima cerebrale attraverso la barriera ematoencefalica in quota non esattamente precisabile, ma da alcuni ritenuta ragguardevole (Greitz, 1993). FUNZIONI. - Il liquor fornisce sostegno e protezione meccanica al nevrasse. Lo strato liquido interposto tra sistema nervoso e pareti ossee che lo contengono, assorbe ed attenua gli urti e le trazioni imposte dalle sollecitazioni lineari ed angolari e dalle pulsazioni dei vasi arteriosi intracranici. Immerso nel liquor, un cervello che mediamente pesa 1500 grammi vi "galleggia", acquistando, in virtù del principio di Archimede, un peso relativo di nemmeno 50 g. Il volume del liquor varia in modo reciproco a quello del contenuto ematico o parenchimale intracranico, garantendo così un certo margine di compenso nelle condizioni di ipertensione intracranica (v. pag. 605. Come si è già visto, il liquor svolge anche una funzione escretoria, di rimozione di prodotti del
catabolismo tessutale quali CO2, H+, lattato, metaboliti neurotrasmettitoriali e farmaci. Infine, assicura la diffusione a distanza di neurotrofine e di "releasing factors" ipotalamici (v. pag. 570-571): per esempio, TRH ed LHRH sono riversati nel liquor del terzo ventricolo e da qui convogliati alle rispettive cellule bersaglio dell'eminenza mediana e dell'ipofisi.
L'edema cerebrale Il termine indica un aumento patologico del contenuto idrosalino del tessuto nervoso con contemporaneo aumento di volume del parenchima. Può essere distinto in due principali categorie: intracellulare ed extracellulare (Tab. 16.1). 1) EDEMA INTRACELLULARE O CITOTOSSICO. Definisce il rigonfiamento isotonico delle cellule endoteliali, neuroni e glia per ingresso intracellulare massivo di acqua ed elettroliti (Na+, Cl-) dagli spazi extracellulari, conseguente a depolarizzazione per arresto delle pompe ioniche attive (ATP-dipendenti).
Tabella 16.1 - Classificazione dell'edema cerebrale Intracellulare Citotossico Deplezione di ATP
Disionie plasmatiche
Extracellulare Vasogenico
– Carenza di substrati – Danno di barriera (glucosio, O2…) anossico – Iperconsumo (Stato di male) traumatico – Blocco enzimatico infiammatorio ATPasi tossico citocromi osmotico - da detergenti – – – –
Dialisi Coma uremico Diabete insipido Reidratazione rapida ipernatriemia coma iperosmolare
– Capillari fenestrati neoformati neoplasie maligne primitive metastasi
Interstiziale – Periventricolare (ipertensione liquorale con gradienti transmurali ↑ → Idrocefalo – Diffuso ipertensione liquorale con gradienti transmurali ≈ → Ipertensione intracranica idiopatica
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Può dipendere da esaurimento energetico per deplezione di ATP causata da a) mancanza di substrato (anossia-ischemia, ipoglicemia grave), b) iperconsumo di ATP (intense e prolungate stimolazioni eccitotossiche, ad esempio stato di male epilettico), e c) cause tossiche (blocco della respirazione mitocondrale da cianuri e del loro metabolismo da dinitrofenolo; blocco della NA+, K--ATPasi da ouabaina, ecc.). Alternativamente, può insorgere in seguito a gravi turbe del metabolismo idrosalino (ad es. in corso di dialisi; diabete insipido, iponatriemia grave o reidratazione eccessivamente rapida per correggere un'ipernatriemia grave). Questo tipo di edema entro certi limiti può essere reversibile qualora, ad esempio, rimanga prevalentemente confinato al compartimento dendritico (stato di male epilettico generalizzato tonico-clonico), ma più spesso coinvolge anche il soma, anticipandone usualmente la lisi. 2) EDEMA EXTRACELLULARE. L'accumulo di liquidi nell'interstizio extracellulare può distinguersi in due tipi patogeneticamente differenti: a) Edema vasogenico. È causato da un danno della barriera ematoencefalica ed è il tipo di edema extracellulare più comune. Può dipendere da due cause: i.- permeabilizzazione abnorme dell'endotelio capillare (barriera ematoencefalica), di per sé normale, conseguente a traumi e danni endoteliali di vario tipo (da anossia-ischemia, da flogosi, da tossici esogeni, detergenti non ionici ed endotossine batteriche, da shock osmotico, elettrico, da calore ed altre radiazioni, da farmaci). Nel caso specifico dei traumi meccanici, si aggiunge la concreta possibilità di un'attivazione stress-mediata dell'antiporter Na+/H+ endoteliale e gliale amiloride sensibile, e di altri canali ionici, con edema da massivo ingresso di NaCl ed acqua e danno delle giunzioni serrate. Al danno diretto prodotto dall'agente lesivo si associa un danno secondario causato dalla rapida attivazione di enzimi endoteliali silenti 3: principalmente ornitinadecarbossilasi, catalizzante la trasformazione di ornitina 3
Non vengono riportate citazioni biliografiche a questo proposito, dato l'elevatissimo numero di voci esistenti sul tema e la diffusa notorietà degli argomenti in questione.
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in poliamine cationiche ulteriormente permeabilizzanti; xantina-ossido-(reduttasi), catalizzante la trasformazione di ipoxantina e xantina (derivanti dall'adenosina) in ac. urico con intensa produzione locale di anioni superossido (O2•-); nitrossido-sintasi costitutiva inducibile (εNOS), catalizzante la trasformazione di citrullina in arginina con produzione del radicale nitrossido (NO•), potente vasodilatatore in grado di combinarsi con idrossil-radicali (•OH) per formare il radicale perossinitrito (ONOO•- ), molecola diffusibile estremamente reattiva e denaturante. Ciò induce a cascata una rapida espressione di citochine e di molecole di adesione endoteliale, favorenti l'aggregazione piastrinica, l'adesione di piastrine e leucociti alla superficie endoteliale luminale e l'attivazione della coagulazione e della catena del complemento (Stahel et al., 1998). L'endotelio cerebrale, pertanto, oltre a diventare permeabile ai costituenti plasmatici, si trova ad essere anche il primo bersaglio di un danno più complesso, favorito dalla produzione di radicali liberi e dall'attivazione dei meccanismi coagulativi (Hulka et al., 1996) e di difesa. ii.- neoformazione di endotelio capillare abnorme privo di giunzioni serrate, stimolata da fattori di crescita endoteliali vascolari (quali ad es. il VEGF) secreti dalle neoplasie cerebrali più invasive. In entrambi i casi, il danno di barriera favorisce non solo la permeazione di acqua nell'interstizio extracellulare, ma permette a sali e proteine (specie albumina) idratati di diffondere liberamente dal plasma. Il liquido interstiziale prodotto in eccesso tende quindi a migrare gradualmente negli spazi subaracnoidei, aumentando in tal modo il volume complessivo del liquor.
L'edema vasogenico può esprimersi in maniera focale, sotto forma di edema perilesionale che aggrava il danno focale da cui è prodotto; oppure manifestarsi in maniera diffusa in seguito a generalizzato danno endotelio-capillare da agenti chimici (shock osmotici; tossine batteriche; tossici esogeni; farmaci), fisici (traumi cranici, trauma meccanico da ipertensione arteriosa maligna; radiazioni UV, IR ed ionizzanti, ecc.) o biologici (reazioni allergiche ed autoimmuni, flogosi, ecc.). b) Edema interstiziale. Indica ogni tipo di abnorme imbibizione acquosa della matrice e degli spazi extracellulari del tessuto nervoso non dipendente da un primitivo danno di barriera.
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Può essere causato sia da un aumento della pressione liquorale (Milhorat, 1992), sia da alterazioni dell'osmolarità plasmatica. i.- L'ipertensione liquorale associata ad aumento dei gradienti pressori intra-extramurali, come ad esempio avviene negli idrocefali ostruttivi non comunicanti (v. pag. 619), causa un tipico edema idrocefalico periventricolare, per prevalente infiltrazione di liquor nella sostanza bianca subependimale e nel corpo calloso. In presenza di gradienti pressori normali, si crea invece un edema diffuso con riduzione volumetrica del sistema ventricolare e talora espansione degli spazi subaracnoidei nella sella turcica ("sella vuota"), aspetti entrambi frequenti nell'ipertensione intracranica idiopatica (v. pag. 614). ii.- La perdita o l'inversione del normale gradiente osmotico fra sangue venoso e liquor/liquido interstiziale, a partire da riduzioni dell'osmolarità plasmatica del 10% (ad esempio, per aumentata increzione o assunzione terapeutica di vasopressina, o alternativamente, per emodiluizione da eccessiva somministrazione di soluzioni ipotoniche endovena), causa riduzione del riassorbimento del liquor nel sangue, senza incidere sensibilmente sulla sua produzione da parte dei plessi corioidei. A causa del passaggio di acqua dal sangue agli spazi interstiziali pericapillari e pericellulari, e da questi agli spazi subaracnoidei, il volume complessivo e la pressione del liquor tendono ad aumentare: il riassorbimento liquorale da parte dei villi della convessità, sebbene ostacolato dalla perdita del gradiente osmotico, è in parte compensato dall'aumento della pressione di filtrazione, per cui, fintantoché la pressione del liquor non supera quella venosa, l'aumento volumetrico dell'encefalo si mantiene modesto.
È opportuno sottolineare che tali categorizzazioni non devono essere intese in modo rigido, poiché spesso i diversi meccanismi si sovrappongono ed aggravano vicendevolmente, provocando un edema misto, intra- ed extracellulare. Nell'ischemia cerebrale, ad esempio, ad un iniziale edema citotossico (da ipossia cellulare) si sovrappone costantemente un edema vasogenico da danno di barriera intra- e perilesionale, e lo stesso può osservarsi nelle neoplasie cerebrali più invasive (glioblastoma multiforme), in cui l'edema vasogenico che le contraddistingue può essere bruscamente aggravato da un edema citotossico da necrosi ischemica o emorragica all'interno del tumore.
– L'edema cerebrale focale (lesionale-perilesionale) può essere anche molto esteso e presentarsi nelle neuroimmagini con aspetti bizzarri, irregolari e con propagazione a strutture anche lontane (ad es. dalla neocorteccia ai nuclei profondi): ciò è spiegato dalla constatazione sperimentale che la componente intracellulare (citotossica) tende ad estendersi lungo tutti i prolungamenti cellulari, specie proiezioni assonali a distanza (ad esempio, dalla neocorteccia al talamo o ai gangli della base via connessioni discendenti), e la componente vasogenica a diffondere in maniera anisotropica, variabile in rapporto alla cito- e mieloarchitettonica dell'area nervosa coinvolta (Nicholson e Sykova 1998; Sykova et al., 2000). Ne consegue che la sintomatologia neurologica strettamente connessa alla lesione primitiva può essere ingigantita o arricchita dalla sintomatologia causata esclusivamente dall'edema e dall'ipertensione intracranica che da esso deriva; ed inoltre, che l'estensione di una lesione cerebrale acuta accompagnata da edema appare alle neuroimmagini molto più vasta di quanto non sia realmente in quel dato momento. – L'edema cerebrale diffuso contraddistingue i traumi cranici maggiori e le gravi encefalopatie in corso di malattie generali quali l'encefalopatia ipertensiva (da ipertensione arteriosa maligna o da feocromocitoma), l'encefalopatia anossica acuta (da CO, insufficienza respiratoria acuta, arresto cardiaco), l'encefalopatia da piombo ed infine le encefalopatie da grave squilibrio osmotico (sindrome da inappropriata secrezione di ADH, sindrome da squilibrio dialitico, ecc.). Indipendentemente dalla sua patogenesi, l'edema cerebrale comporta sempre un consistente rischio di ipertensione intracranica. Se quest'ultima è tale da causare stasi capillarovenosa con riduzione della perfusione ematica cerebrale, si crea un circolo vizioso che comporta non solo un'estensione del danno necrotico
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preesistente con peggioramento dell'acidosi tissutale, ma anche in sequenza → aumento delle resistenze di deflusso venoso dalle vene cerebrali e dal seno trasverso (King et al., 1995) → ridotto riassorbimento del liquor → aumento del volume liquorale → formazione di edema interstiziale aggiuntivo. La conseguenza più temibile di questo scenario è l'insorgenza acuta di ernie cerebrali (v. pag. 642), che si rivelano con un rapido aggravamento del quadro neurologico iniziale e con la comparsa di segni di progressivo deterioramento rostro-caudale dell'encefalo.
B. Fisiopatologia della pressione intracranica La pressione intracranica (ICP nella letteratura anglosassone) corrisponde alla pressione liquorale, ed esprime l’equilibrio fra le forze esercitate all’interno della teca cranica da tre distinti volumi incomprimibili: parenchima cerebrale (80%), sangue (10%), liquor (10%). Secondo la dottrina di Monro-Kelly4 , l’aumento di uno di questi tre volumi comporta un’equivalente riduzione degli altri due, per cui la loro somma rimane costante e l’ICP rimane stabile. Ciò è valido solo per l’adulto, in cui la progressiva saldatura delle ossa craniche, completata solitamente verso i 17-18 anni, rende la teca un contenitore rigido ed inestensibile. In età infantile, la diastasi delle suture craniche e delle fontanelle permette al cranio dilatazioni plastiche anche ragguardevoli: per tale motivo, le capacità di adattamento pressorio intracranico differiscono sensibilmente fra lattante ed adulto. Come è stato già illustrato (v. pag. 600), la pressione liquorale fluttua fisiologicamente entro limiti ben definiti, al di là dei quali possono insorgere sindromi acute da ipertensione o ipo-
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Alexander Monro, 1783; George Kelly, 1824.
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tensione intracranica, o analoghe sindromi subacute o croniche dominate da segni di lesione del SNC. Nell’adulto, quindi, gli unici compartimenti intracranici suscettibili di compensazioni volumetriche reciproche sono il volume ematico arterioso, venoso e liquorale. Le fluttuazioni sisto-diastoliche della pressione liquorale, massime all’interno del sistema ventricolare, sono attutite sia dall’espulsione sistolica di sangue venoso dall’encefalo, sia dalla consensuale dilatazione pulsatile del compartimento liquorale spinale a patto, ovviamente, che le vie di comunicazione fra quest’ultimo ed il compartimento intracranico siano pervie. Il rapporto volume/pressione, indagato mediante infusione progressiva di liquor artificiale negli spazi subaracnoidei e graficamente rappresentato in Fig. 16.2, è espresso da un’iperbole, caratterizzata sull’asse delle ascisse da un primo tratto pressoché orizzontale, nel quale la ICP cresce in maniera irrilevante per progressivi aumenti liquorali fino a 100-120 ml; quindi, raggiunta la saturazione o punto di «breakpoint», da un “ginocchio” in ascesa che evolve
Fig. 16.2 - Curva dei rapporti Volume/Pressione intracranica sotto incremento del volume liquorale. Fino a 120 ml la pressione (P) rimane pressoché invariata (tratto orizzontale), quindi, oltrepassato un ginocchio critico s’impenna, poiché un costante incremento del volume liquorale (ΔV) causa crescenti incrementi pressori (ΔP1/ΔV < ΔP2 /ΔV).
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in un secondo tratto ad incremento esponenziale (Miller, 1975). Il primo tratto espime la presenza e l’entità dei meccanismi fisiologici di compenso descritti di seguito. 1) - «Compliance»5 o dilatazione elastica del compartimento subaracnoideo spinale. Questo compartimento funge soprattutto da sistema ammortizzatore dell’onda pressoria causata dalla pulsatilità dei plessi corioidei (Bering, 1955), delle arterie intracraniche e dell’encefalo (Greitz, 1993): l’espansione del sacco durale spinale verso le pareti ossee del canale vertebrale, specie a livello lombo-sacrale, richiede libera comunicazione fra spazi liquorali intracranici e spazi perimidollari e normale densità del liquor. La compliance, infatti, può ridursi sensibilmente anche in caso di comunicazioni pervie, solo per l’occorrenza di un’elevata iperproteinorrachia (come, ad esempio, nella poliradicoloneuropatia acuta o sindrome di Guillain-Barré, pag. 000). La compliance si esaurisce rapidamente nell’adulto, mentre nel bambino e nell’anziano è maggiore. Nel bambino, infatti, è possibile anche un reale aumento volumetrico della teca cranica, mentre nell’anziano la fisiologica atrofia del parenchima cerebrale rende più ampi gli spazi liquorali. Ciò spiega perché in entrambe le condizioni lo scompenso di un’ipertensione intracranica si verifichi di solito più tardivamente. 2) - Aumento del riassorbimento liquorale. È il meccanismo di compenso fisiologicamente più importante: l’aumento dell’ICP comporta aumenti del gradiente pressorio liquor-sangue fra granulazioni aracnoidee e seni venosi della volta superiori ai fisiologici 5-10 mm H2O, per cui il drenaggio di liquor nel sangue corrispondentemente aumenta. A ciò contribuisce anche la maggior espulsione del sangue venoso cerebrale nelle vie di deflusso extracraniche. Ulteriori aumenti della ICP comportano un progressivo tamponamento vascolare dell’encefalo a partire dalle venule postcapillari, leptomeningee e cortico-durali «a ponte» ed i seni cerebrali fino a coinvolgere rete capillare ed arteriole precapillari dell’encefalo. L’aumento della pressione venosa e delle resistenze del microcircolo causa una progressiva riduzione del flusso ematico cerebrale, solo in parte - e transitoriamente - compensato da meccanismi riflessi cardiovascolari. Il raggiungimento di questa fase, in cui viene
raggiunto ed oltrepassato il “ginocchio” nella curva volume/pressione liquorale, è rivelato dalla comparsa di fenomeni vegetativi riflessi cardiovascolari e respiratori a carattere compensatorio («effetto Cushing»), il cui primo stadio è caratterizzato dalla comparsa di ipertensione arteriosa sistemica da vasocostrizione periferica con bradicardia riflessa e bradipnea, tendenti ad aumentare pressione di perfusione e flusso ematico cerebrale6. Successivi aumenti della ICP (tratto iperbolico della curva volume/pressione), tali da vanificare queste risposte, segnano l’ingresso nel secondo stadio, caratterizzato da ipertensione arteriosa con tachicardia, usualmente transitorio e preludente al terzo ed ultimo stadio agonico cratterizzato da ipotensione e gravi irregolarità del ritmo cardio-respiratorio. 3) - Aumento di volume degli spazi liquorali. Questo terzo meccanismo di compenso, limitato alle condizioni di ipertensione intracranica fluttuante ed evolvente in maniera cronica, può essere rappresentato da atrofia parenchimale compressiva (vedi oltre, Idrocefalo a pressione normale). È tuttavia opportuno ricordare che un’ipertensione intracranica non grave, ma prolungata ed abbastanza stabile, tende inizialmente a favorire l’insorgenza di edema cerebrale diffuso di tipo interstiziale con aumento del volume parenchimale intracranico, innescando così un circolo vizioso che può condurre a conseguenze gravi ed irreversibili.
Nella fase di compenso (tratto orizzontale della curva) la coscienza è integra ed eventuali sintomi e segni neurologici concomitanti hanno valore localizzatorio, permettendo di appurare sede e lato di una lesione cerebrale causa di ipertensione intracranica. Nella fase di scompenso (tratto in ascesa della curva) la coscienza è più o meno gravemente compromessa, e possono comparire sintomi e segni aspecifici o con valore falsamente localizzatorio, poiché l’inevitabile formazione di ernie cerebrali tende a coinvolgere strutture nervose e vascolari lontane dalla lesione primitiva. Nell’ipertensione intracranica grave, infatti, l’encefalo compresso tende a farsi strada nelle uniche direzioni consentite dalle sepimentazioni della cavità cranica, provocando in certe particolari aree la formazione di “ernie” di tessuto
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La «compliance» è espressa dal rapporto dV/dP, il suo inverso, o elastanza, dal rapporto dP/dV (Miller, 1975). La «compliance» terapeutica, invece, si riferisce alla piena adesione del paziente alla terapia prescritta.
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pressione di perfusione = PA – ICP ; flusso ematico cerebrale = PA – ICP / R (resistenze vascolari) (Mendelow, 1993).
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nervoso che, nel loro prolasso, comprimono le strutture con cui vengono in contatto (vasi, nervi cranici e parenchima di altre regioni), ed inoltre tendono a sospingere caudalmente il tronco encefalico (con rischio di microemorragie da trazione). L’ipertensione intracranica può essere provocata da aumento volumetrico del parenchima, del sangue, del liquor. AUMENTO DI VOLUME DEL PARENCHIMA. È causato da lesioni occupanti spazio o da edema cerebrale o più spesso da entrambi. A. Lesioni occupanti spazio. Sono così definite quelle lesioni che, indipendentemente dalla loro natura, dimostrano una tendenza più o meno rapida all’accrescimento, sia per aumento intrinseco di volume che per la comparsa di edema perilesionale concomitante. Comprendono fondamentalmente neoplasie benigne e maligne, lesioni vascolari (emorragie, ematomi), infiammatorie (ascessi cerebrali, granulomi, meningiti). Alle neuroimmagini TC o RM, tali lesioni appaiono come masse neoformate che deformano o amputano i ventricoli e dislocano più o meno grossolanamente la struttura colpita o quelle adiacenti. B. Edema cerebrale. Può coinvolgere massivamente l’intero encefalo (traumi cranici gravi, ed encefalopatie metaboliche, tossiche o infiammatorie acute) o circondare lesioni acute del SNC (edema lesionale e perilesionale) producendo un «effetto massa». Perciò, oltre ad essere causa di ipertensione intracranica, l’edema può comportare una dislocazione di strutture cerebrali oltre la linea mediana o i sepimenti durali (falce, tentorio) tale da tradursi in vere e proprie ernie cerebrali o cerebellari (v. pag. 641). La sua presenza e la sua evoluzione sono ben documentabili mediante neuroimmagini con mezzi di contrasto (TC) o «enhancement» del segnale (RM). Nelle lesioni cerebrovascolari stabilizzate, si riassorbe spontaneamente nel giro di alcune decine di giorni, permettendo di appurare la
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reale estensione volumetrica del danno necrotico residuo. Assente nella patologia degenerativa, negli idrocefali attivi ed ipertensivi l’edema assume un tipico aspetto interstiziale a distribuzione periventricolare, mentre nell’ipertensione intracranica idiopatica, qualora presente, assume un aspetto interstiziale diffuso prevalentemente pericefalico. AUMENTO DEL VOLUME EMATICO. Può assumere l’aspetto di un’iperemia arteriolo-capillare o di un’iperemia venosa. 1. Iperemia arteriolo-capillare si verifica in seguito a vasodilatazione circoscritta perilesionale (per intensa produzione reattiva di nitrossido) o vasodilatazione diffusa, per perdita dell’autoregolazione dei vasi cerebrali da acidosi tissutale diffusa (encefalopatia respiratoria), o per grave anemia associata a febbre elevata. 2. Iperemia venosa si osserva in diverse condizioni di ostacolato deflusso venoso dalle vene e seni cerebrali o dalle vene giugulari (processi trombotici), dalla vena cava superiore (tumori mediastinici), e in tutti i casi di ostacolato ritorno venoso al cuore con aumento della pressione venosa centrale. In tutte queste condizioni, l’iperemia venosa diventa causa di ipertensione intracranica, non solo per l’aumento della massa ematica encefalica, ma anche per il contemporaneo aumento del volume liquorale per ostacolato riassorbimento. AUMENTO DEL VOLUME LIQUORALE. Può essere causato, in ordine di importanza, da un blocco della circolazione liquorale in un punto qualunque delle vie di deflusso (idrocefalo ostruttivo), da difettoso riassorbimento a livello del complesso villi aracnoidei/seni venosi della volta (idrocefalo aresorptivo), ed assai più raramente da ipersecrezione (papillomi o carcinomi secernenti dei plessi corioidei: idrocefalo ipersecretivo).
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Le grandi sindromi neurologiche
Ciascuna di queste condizioni, di regola comportanti ipertensione liquorale, tende ad innescare un processo idrocefalico che almeno in origine è sempre ipertensivo, attivo e progressivo ma che, nei casi lievi o a più lenta progressione, può stabilizzarsi e trasformarsi in idrocefalo normotensivo. L’unico quadro di ipertensione intracranica da incremento del volume liquorale con scarsa tendenza ad un’evoluzione idrocefalica è rappresentato dall’ipertensione intracranica idiopatica (vedi oltre).
C. Quadri clinici 1. Sindrome da ipertensione endocranica È classicamente descritta come una triade sintomatologica costituita da cefalea, vomito, papilla da stasi. Tuttavia, l’incidenza di ciascuno di questi sintomi varia: il più frequente è la cefalea (88% dei casi) seguita dalla papilla da stasi (75%) e dal vomito (65%); solo nel 60% dei casi la triade è completa (Mendelow, 1993). In realtà, altri sintomi e segni possono accompagnare, o addirittura precedere la cefalea, da sempre considerata il sintomo più precoce ed importante, secondo la diffusa convinzione che i sintomi dolorosi debbano necessariamente precedere ogni altra manifestazione di malattia. La cefalea, dovuta a compressione e trazione delle strutture algogene intracraniche (dura madre e vasi) presenta inizialmente un carattere intermittente, mattutino, presentandosi come un dolore sordo o anche pulsante non riferibile a strutture epicraniche, più spesso localizzato nelle regioni frontali o occipitali. Il dolore è scatenato o esacerbato dalle condizioni che aumentano la ICP (inclinazione del capo verso il basso, decubito supino, equivalenti della mano-
vra di Valsalva quali sforzi, tosse, starnuto), e nei momenti di maggiore intensità può associarsi a vomito ed oscuramento del visus. Il dolore tende progressivamente a peggiorare diventando diffuso, continuo e refrattario ai comuni antidolorifici (FANS). In questa fase, nausea e vomito, atteggiamento obbligato del capo in semi-flessione e comparsa di rigidità nucale con altri segni della serie meningea possono dominare il quadro. In una certa percentuale di pazienti portatori di lesioni cerebrali espansive, una cefalea unilaterale può costituire per un certo tempo l’unico sintomo («warning sign»): se localizzata in regione oculare, frontale o temporo-parietale, indica un coinvolgimento delle strutture algogene sopratentoriali (V nervo cranico); in regione retromastoidea ed occipitonucale, delle strutture algogene sottotentoriali (IX -X nervi cranici); al vertice, della base cranica (ipofisi). In questi casi, solo la successiva diffusione del dolore alle regioni frontali (o occipitali) e l’associazione di altri segni (vomito, papilledema) indicano l’esistenza di un’ipertensione intracranica in atto.
Il termine papilledema o papilla da stasi indica il peculiare aspetto morfologico che assumono la papilla ottica, e quindi anche i vasi peripapillari e la retina, in seguito a compressione della vena oftalmica decorrente al centro del nervo ottico. Quest’ultimo, essendo inguainato dalla dura madre fino al tratto retrobulbare e circondato da liquor subaracnoideo, condivide con l’encefalo gli effetti dell’ipertensione intracranica già descritti, in primo luogo la stasi venosa. Il quadro insorge per pressioni intracraniche superiori a 190 – 200 mmH2O (14 –15 mmHg), manifestandosi nel giro di ore con un progressivo aumento di spessore dello strato delle fibre ottiche che può raggiungere un valore fino a 20 volte quello normale. All’esame oftalmoscopico la papilla ottica edematosa appare iperemica ed a margini sfumati; le venule retiniche sono marcatamente dilatate e prive della pulsatilità che normalmente si può osservare comprimento lievemente il bulbo oculare; nel superare i contorni papillari sollevati, i vasi dapprima appaiono «inginocchiati», quin-
Sindromi da alterata pressione intracranica di, con l’accentuarsi dell’edema, ne sono sommersi. L’escavazione centrale fisiologica del disco ottico si riduce progressivamente fino a scomparire quando la sua protrusione dal piano retinico raggiunge una sfocatura correggibile con +2 – +3 diottrie. In questa prima fase, l’acuità può rimanere apparentemente conservata anche per molto tempo, anche se un’accurata esplorazione campimetrica è in grado di rivelare un ingrandimento dello scotoma paracentrale fisiologico (corrispondente all’edema papillare). In una seconda fase il papilledema diventa più marcato associandosi ad essudati fibrinosi perivenosi e capillari disseminati nelle aree retiniche peripapillari, e possono insorgere scotomi retinici ad irregolare distribuzione quadrantica, preferenzialmente nasale inferiore. In una terza fase, l’effetto devastante della stasi si manifesta al completo con la comparsa di massive emorragie retiniche perivenose di aspetto raggiato «a fiamma» (Fig. 16.3). Questa fase coincide con la perdita dell’acuità visiva per allargamento dello scotoma fisiologico all’area retinica centrale (scotoma cieco-centrale): il danno retinico e delle fibre ottiche è irreversibile. Se l’ipertensione intracranica regredisce (interventi decompressivi), l’edema, gli essudati e le emorragie si riassorbono lentamente, e la papilla ottica assume un aspetto pallido, atrofico. In questa quarta ed ultima fase, coincidente con una cecità da atrofia ottica secondaria, il disco ottico appare di colore bianco-grigiastro, a margini sfumati, e la lamina cribrosa risulta nascosta da una porliferazione glio-connettivale reattiva, che nelle regioni peripapillari sede di pregresse emorragie dà luogo alla formazione di pliche coroidee.
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Il papilledema non è un segno esclusivo di ipertensione intracranica, potendo essere simulato dalla presenza di «drusen», escrescenze ialine della membrana di Bruch (lamina basale coroidea) in corrispondenza del disco ottico, o dipendere da lesioni immediatamente extraoculari (stenosi locale delle vie liquorali retrobulbari, varici ed angiomi orbitari), o intraoculari, quali malformazioni vascolari e patologia del disco ottico su base infiammatoria (papillite) o ischemica (neuropatia ottica ischemica anteriore). L’apporto oculistico, che si avvale di specifiche tecniche diagnostiche quali l’ecografia Doppler dell’orbita, l’angiofluorografia retinica, e la valutazione dell’acuità e del campo visivi restano perciò determinanti per un’eventuale diagnosi differenziale. Nei tumori, il papilledema insorge più frequentemente e precocemente quando la lesione è localizzata nella fossa cranica posteriore. Le localizzazioni orbito-frontali, della doccia olfattoria o dell’ala dello sfenoide possono causare la rara sindrome di Foster-Kennedy, costituita da atrofia ottica unilaterale per compressione diretta del nervo da parte del tumore e da papilledema controlaterale per ipertensione intracranica.
Fig. 16.3 - Papilla ottica normale (A) e papilledema in fase avanzata (B). Notare in B l’allargamento del diametro papillare, l’aspetto cotonoso del disco ottico che maschera lamina cribrosa e vasi, il turgore delle vene e la presenza di essudati ed emorragie iuxtapapillari.
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Vomito. È più frequente al mattino e spesso coincide con il momento di maggiore intensità della cefalea. Usualmente si manifesta in modo repentino ed imprevedibile, a getto, non preceduto da nausea, anche se non sempre. È causato da irritazione dell’area postrema, essendo il centro del vomito situato in corrispondenza del margine rostrale della tela corioidea del IV ventricolo, maggiormente suscettibile di irritazione nei tumori della fossa cranica posteriore. Alterazione della coscienza. Possono insorgere gradualmente, assumendo dapprima l’aspetto di un semplice rallentamento psicomotorio, quindi di una tendenza sempre più marcata alla sonnolenza, con frequenti sbadigli ed anche singhiozzo; oppure acutamente, configurando un vero e proprio stato di coma. Vertigini, acufeni e senso d’instabilità. Fugaci vertigini soggettive, talora associate ad acufeni ed a sensazioni di instabilità possono addirittura precedere la cefalea e gli altri sintomi. Nonostante ciò, essi sono usualmente trascurati come tali, o attribuiti in prima istanza a disfunzioni dell’apparato cocleo-vestibolare. Sintomi psichici. Le modificazione del carattere, dell’umore e del comportamento che si possono talora osservare in corso di ipertensione intracranica rappresentano sintomi e segni da lesione prefrontale primitiva (v. pag. 521) o secondaria ad ipertensione intracranica di lunga durata. In questo caso, infatti, sono soprattutto le regioni frontali confinanti con il tetto ventricolare a subire con maggior intensità l’impatto dell’abnorme pulsatilità liquorale intraventricolare. Analoghe considerazioni valgono per eventuali segni di decadimento mentale. Paralisi di nervi cranici. Sono più frequentemente causate da ernie transtentoriali. Il VI nervo cranico (abducente) è quello più frequentemente - ed aspecificamente - coinvolto, essendo particolarmente suscettibile al danno da
stiramento o compressione in corrispondenza della cresta sfenoidale su cui decorre prima di entrare nel seno cavernoso. La lesione dell’abducente (spesso bilaterale) causa diplopia laterale omonima (diretta) associata a strabismo convergente nello sguardo di lateralità verso il lato leso. Nell’ipertensione intracranica acuta, la comparsa di una midriasi paralitica unilaterale («pupilla di Hutchinson») o anche una ptosi della palpebra superiore sono patognomoniche di un’ernia transtentoriale temporale (uncale) che inizia a comprimere il III nervo cranico (fibre pupillocostrittrici decorrenti nelle porzioni supero-mediali; fibre destinate all’elevatore della palpebra superiore, porzioni inferiori), per cui s’impongono immediati provvedimenti terapeutici. In assenza di chiari sintomi di ipertensione intracranica, una midriasi evolvente in oftalmoplegia estrinseca fino alla paralisi del m. elevatore della palpebra superiore («il sipario cala all’ultimo atto») suggerisce una lesione parasellare che comprime i nervi oculomotori. Manifestazioni cardio-repiratorie riflesse («effetto Cushing», 1902). Indicano un rapido aggravamento dell’ipertensione intracranica, e sono rappresentate inizialmente da un aumento della pressione arteriosa sistolica con bradicardia e bradipnea riflesse, quindi da ipertensione arteriosa con tachicardia e tachipnea, ed infine da ipotensione arteriosa con gravi irregolarità del ritmo cardiaco e respiratorio fino al loro arresto. La patogenesi di questi sintomi è stata attribuita a compressione o sofferenza ischemica dei centri regolatori diencefalici e troncali. DIAGNOSI Il solo sospetto clinico, o anche puramente oftalmoscopico, di ipertensione intracranica richiede un immediato controllo diagnostico non invasivo tramite neuroimmagini (TC o RM), anche in assenza di disturbi della coscienza o deficit neurologici focali. Ciò per-
Sindromi da alterata pressione intracranica
mette di visualizzare rapidamente, e senza alcun rischio per il paziente, eventuali lesioni occupanti spazio relativamente silenti, trombosi venose, alterazioni morfo-volumetriche o strutturali degli spazi liquorali ventricolari e subaracnoidei (idrocefali, deformazioni, obliterazioni, emorragie) e dislocazioni parenchimali (ernie ecc.). La misurazione diretta della pressione liquorale mediante rachicentesi fornisce soltanto un dato pressorio di per sé aspecifico; per contro è assai rischiosa in presenza di una lesione espansiva intracranica, soprattutto se localizzata in fossa cranica posteriore. Lo stesso principio vale anche se non vi sono lesioni espansive, ma il paziente è portatore di malformazioni della cerniera atlo-occipitale (sindromi di Arnold-Chiari e di Dandy-Walker). In questi casi, infatti, anche una minima sottrazione lombare di liquor può causare immediata erniazione delle tonsille cerebellari nel forame occipitale causando la morte. Non c’è quindi da stupirsi se la disponibilità della diagnostica per neuroimmagini ha fatto cadere in disuso l’esecuzione della rachicentesi per la diagnosi ed il monitoraggio dell’ipertensione intracranica. In ambiente neurochirurgico, tuttavia, il monitoraggio dell’ICP tramite sonde intraventricolari, subaracnoidee o epidurali rappresenta un passo fondamentale per seguire l’evoluzione dei traumi cranici maggiori (v. pag. 000) e per valutare l’opportunità di effettuare derivazioni liquorali nei pazienti idrocefalici
Un aspetto solitamente trascurato è quello visivo. Anche se l’ipertensione intracranica è lieve e non vi è presenza di papilledema, è indispensabile estendere le indagini sul versante oculistico, data la possibilità non remota di deficit visivi perimetrici difficili da documentare senza campimetro, e che il paziente non accusa perché non ne è consapevole. TERAPIA È volta a rimuovere possibilmente le cause della sindrome ed è prettamente neurochirurgica, anche quando rimane puramente palliativa (derivazioni liquorali, ecc.). Il trattamento medico può solo mirare a ridurre il volume dei fluidi intracranici (Fishman, 1992). I farmaci impiegati sono:
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– Glicocorticoidi. Sono utili soprattutto nell’edema vasogenico tumorale, poiché tendono a ridurre la permeabilità dell’endotelio capillare neoformato, privo di giunzioni serrate. Gli steroidi, per contro, non sembrano migliorare il riassorbimento liquorale, e sono inefficaci sulla componente citotossica delle lesioni cerebrovascolari ischemiche, ove possono agire solo sulla quota di edema vasogenico concomitante e fungere in parte da «radical scavengers». Il desametazone è il derivato più potente e preferito: quando non esistano controindicazioni assolute, si usa a dosi iniziali di 10 mg. i.m. o e.v., seguito da 4 mg ogni 6 ore nei giorni successivi. In base alla risposta clinica, il dosaggio viene gradualmente ridotto fino al minimo efficace. Richiede una copertura gastroprotettiva (H2 antagonisti, inibitori della pompa protonica, misoprostol), accurato controllo di costanti bioumorali (glicemia, ionogramma) e della pressione arteriosa sistemica, oltre che speciale prudenza nella sua sospensione, per il rischio di un rimbalzo ipertensivo liquorale e di un’insufficienza surrenalica acuta. – Diuretici osmotici. Riducono il contenuto intracranico di acqua qualora siano somministrati per via endovenosa in concentrazioni tali da innalzare il normale valore dell’osmolarità plasmatica da 300 mOsm·l–1 ad un massimo di 350 mOsm·l–1, valore oltre il quale può insorgere un coma iperosmolare. L’effetto disidratante dipende non solo dalla concentrazione, ma anche dalla velocità d’infusione e può anche essere rapido, ma sempre di durata breve e con rischio di «rimbalzi» pressori, tanto più temibili quanto più la barriera è danneggiata. Il danno di barriera può preesistere (ad es. vasi neoformati) o essere causato da un eccesso dello stesso osmolita che, attivando l’enzima endoteliale ornitina-decarbossilasi (ODC), causa produzione locale di poliamine permeabilizzanti (Koenig et al., 1983). L’osmolita può quindi diffondere nel parenchima, trascinando con sé acqua. La dimostrata utilità di un inibitore irreversibile della
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ODC, la α–difluoro-metilornitina (Baskaya et al., 1996), è rimasta finora confinata allo stadio sperimentale. a) Il glicerolo è attivo sia oralmente che per via intravenosa, preferita per ottenere effetti più rapidi ed intensi. È confezionato in flaconi per fleboclisi da 500 ml alla concentrazione del 10% in fisiologica NaCl 0,9% (1394 mOsm·l–1) e viene infuso ad una velocità tra i 3 ed i 4 ml·min–1 allo scopo di creare rapidamente un gradiente osmotico sufficiente tra plasma e parenchima. Non va superata la velocità di somministrazione di 4,5 ml·min–1 per il rischio di coma iperosmolare. Il trattamento per via intravenosa comporta un certo rischio di emolisi, usualmente così modesta da passare inosservata, ma talvolta tanto grave da causare emoglobinuria ed insufficienza renale. Le cause non sono ben chiare: poiché in passato è stata data importanza ad un’accidentale fuoriuscita della soluzione nel sottocutaneo perivenoso con attivazione della fosfolipasi A tissutale e formazione di lisolecitina emolizzante, dovrebbe essere sempre garantita una corretta infusione, utilizzando somministrazioni intermittenti, con frequente controllo del colore dell’urina. A scopo prudenziale, inoltre, l’uso del glicerolo dovrebbe essere evitato in presenza di emopatie emolitiche, anche in mancanza di chiare evidenze a proposito. Rispetto ad altre sostanze simili (mannitolo), il glicerolo ha lo svantaggio di una massa minore che ne agevola il transito indesiderato nel parenchima, ma il vantaggio di essere metabolizzato e di fornire direttamente al tessuto nervoso 4,3 calorie·g-1. b) Il mannitolo è confezionato in flaconi per fleboclisi alla concentrazione del 20%, e viene infuso alla dose 11,5 g·Kg–1 di peso corporeo entro 20-30 minuti. Ha un pronto effetto osmotico, è metabolicamente inerte e relativamente escluso dal parenchima, ma tende come il glicerolo ad indurre un transitorio danno di barriera da shock osmotico con rischio di «rimbalzo». Poiché sono state sporadicamente segnalate gravissime reazioni anafilattiche iperacute (I tipo) dopo 2-3' dall’infusione di mannitolo in condizioni d’emergenza in pazienti affetti da dermatite atopica (Lamb e Keogh, 1979; McNeill, 1985; Biro et al., 1992) il suo uso richiede un’accurata esclusione di antecedenti allergici, specie cutanei, in presenza dei quali dovrebbe essere preferito il glicerolo.
I soggetti sottoposti a terapia con diuretici osmotici, soprattutto durante somministrazioni ripetute, devono essere accuratamente sottoposti a monitoraggio della pressione intracranica, diuresi, funzionalità renale, elettroliti ed osmolarità plasmatica. In ogni caso l’impiego di que-
sti farmaci rimane limitato nel tempo ed ai casi di reale necessità, quali grave ipertensione intracranica acuta da neoplasie o idrocefalo occlusivo, edema cerebrale o ernie in rapida evoluzione. – Altri diuretici. Quando l’ipertensione intracranica ha un decorso meno tumultuoso, è preferibile un iniziale trattamento steroideo seguito da natriuretici o inibitori dell’anidrasi carbonica, non tanto perché attivi a livello renale, quanto perché capaci di ridurre direttamente la secrezione liquorale. Si possono usare a tale scopo sia la furosemide (Lasix) che l’acetazolamide (Diamox), quest’ultima attiva anche sulla pressione della camera anteriore dell’occhio. In determinate condizioni, si può indurre alcalosi respiratoria mediante iperventilazione od ossigenoterapia iperbarica, che determinano vasocostrizione arteriolare encefalica e conseguente riduzione del volume ematico intracranico. Si tratta di metodi utilizzati sopratutto in ambiente neurotraumatologico, in grado di garantire al paziente costante sorveglianza anestesiologica: una caduta della pressione parziale di pCO2 sotto i 20 mmHg causa vasocostrizione cerebrale di entità tale da indurre ischemia e lattacidosi tessutale.
2. Sindrome da ipotensione intracranica È causata da riduzioni del volume liquorale tali da abbassarne la pressione lombare al di sotto del valore minimo di 60 mmH2O. Esula ovviamente da quest’ambito l’ipotensione liquorale che si può riscontrare al di sotto di un blocco subaracnoideo midollare (v. pag. 000). Può insorgere per varie cause. – Disidratazione acuta. È frequente soprattutto nella prima infanzia, e clinicamente si rivela attraverso un infossamento delle fontanelle.
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– Fistole liquorali. Sono relativamente comuni, e la loro causa più comune è la puntura lombare, la cui complicanza più frequente è la cefalea ortostatica post-rachicentesi (v. pag. 320) Fistole liquorali possono formarsi in seguito a fratture craniche, craniotomie, chirurgia dei seni paranasali o dell’ipofisi, erosioni ossee flogistiche o tumorali, avulsione traumatica delle radici spinali con lacerazione dei rispettivi involucri meningei. In questi casi, la comunicazione degli spazi liquorali con l’ambiente esterno comporta sempre un grave rischio di meningite purulenta. – Iperdrenaggio di liquor da derivazioni a permanenza. Può avvenire a distanza di tempo dall’inserzione neurochirurgica di dispositivi di drenaggio liquorale (ventricolo-peritoneale, ventrico-atriale, ventricolo-lombare) per regolazione errata o disfunzione della valvola tarata in serie che regola la pressione di drenaggio. – Forma idiopatica o «ipotensione intracranica primaria spontanea» o «sindrome di Schaltenbrand» dal nome dell’Autore che la descrisse nel 1938. È una rara sindrome usualmente benigna e di eziologia sconosciuta caratterizzata da importante cefalea ortostatica ed ipotensione liquorale, ed in alcuni pazienti, da evidenze di fibrosi meningea da pregressi sanguinamenti subdurali e da una cospicua riduzione degli spazi ventricolari («ventricoli a fessura»). È stato ipotizzato che la sindrome dipenda da iposecrezione o iperriassorbimento liquorale, o da liquorrea occulta per fistole liquorali risolventesi lentamente (Ben Amor et al., 1996). SINTOMATOLOGIA Il sintomo cardine è la cefalea: talora assai grave, spesso fronto-orbitaria, gravativa. Caratteristicamente scatenata dall’assunzione della
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postura eretta, essa è alleviata dal decubito supino ed aggravata dagli spostamenti bruschi del capo e dalle manovre che inducono brusche fluttuazioni della pressione intracranica (compressione delle vene giugulari) o intrarachidea (tosse, manovra di Valsalva). La cefalea non dipende dall’ipotensione intracranica in sé, ma piuttosto dall’aumento della mobilità dell’encefalo che la riduzione volumetrica del liquor comporta, sufficiente a permettere un’eccessiva sollecitazione meccanica statica (ortostatismo) o dinamica delle strutture algogene che connettono l’encefalo al cranio (specie vasi venosi ed arteriosi e dura madre ad essi adiacente). Oltre alla cefalea, le variazioni posturali possono indurre nausea, vomito, vertigini, acufeni e talora anche diplopia, per interessamento del VI nervo cranico. A questa sintomatologia si possono aggiungere rinoliquorrea od otoliquorrea, se il paziente è portatore di fistole comunicanti rispettivamente con le cavità nasali o paranasali o con l’orecchio. Una temibile complicanza dell’ipotensione intracranica grave è rappresentata dallo stiramento e rottura delle «vene a ponte» corticali nel loro transito subdurale: in questo caso, l’allontanamento della corteccia dalla teca fa sì che sollecitazioni meccaniche anche modeste possano tradursi in piccole lacerazioni venose con sanguinamento nello spazio subdurale. TERAPIA Nella disidratazione infantile, il regime reidratante richiesto dalle gravi condizioni generali è sufficiente a determinare un rapido miglioramento dell’ipotensione intracranica concomitante. Nelle fistole liquorali senza rapida risoluzione spontanea la terapia è neurochirurgica. La cefalea da ipotensione intracranica primaria spontanea e quella da puntura lombare rispondono in genere al riposo assoluto per alcu-
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ni giorni; in questo tempo, infatti, si dovrebbe verificare la spontanea chiusura della breccia aracnoido-durale da puntura. In alcuni ambienti si usa associare comuni analgesici (acido acetilsalicilico e caffeina) cercando nel contempo di ripristinare la quota di liquor perduta mediante infusione di glucosata al 5%, visto che il D-glucosio è una molecola idratata che trascina con sé H2O nell’encefalo.
3. Ipertensione intracranica idiopatica (IIH) Definisce una sindrome da ipertensione intracranica manometricamente accertata ed a decorso benigno (salvo un rischio di cecità nel 1030% dei pazienti), decorrente senza alterazioni liquorali, sintomi neurologici localizzatori (tranne papilledema ed occasionale paresi del VI n. cranico) e disturbi della coscienza, e con neuroimmagini negative per presenza di tumori, patologia venosa e ventricolomegalia (Walker, 2001). Originariamente descritta da Heinrick Quincke 1897 come «meningite sierosa», la sindrome ha avuto nel tempo numerose denominazioni: «pseudotumor cerebri» (Warrington, 1914; Nonne, 1914), «ipertensione intracranica senza tumore cerebrale» (Dandy, 1937), «idrocefalo otitico», «idrocefalo angioneurotico», «idrocefalo tossico», «ipertensione meningea», «idrope meningea ipertensiva», «pseudoascesso», «ipertensione intracranica da causa sconosciuta», «papilledema ad eziologia indeterminata», «ipertensione intracranica senza tumore cerebrale», «ipertensione intracranica benigna» (Foley, 1955), ed in ultimo, «ipertensione intracranica idiopatica» (IIH) (Bucheit, 1969), dizione non scevra di critiche (Biousse e Bousser, 2001), ma ufficialmente adottata nel mondo anglosassone7 ed attualmente in voga.
L’incidenza è di 0.9 casi su 100.000 per anno, ma di 1.6 casi sulla sola popolazione femminile. Nel gruppo di età compresa fra 15 e 44 anni, 7
È anche formalmente richiesta dall’Editore di Neurology, Organo ufficiale dell’American Academy of Neurology.
l’incidenza però sale a 3.3 - 10.3, raggiungendo il valore di 7.9 - 20.2 casi su 100.000 nel sottogruppo ad alto rischio di donne obese della stessa fascia di età (Radhakrishnan et al., 1994). In età pediatrica, invece, non vi è prevalenza né di sesso, né di obesità (Lessel, 1992). ETIOPATOGENESI Da oltre un secolo, la causa dell’IIH continua ad essere non solo un semplice mistero irrisolto, ma soprattutto un rompicapo fisiopatogenetico di primaria importanza neurobiologica, sproporzionato al modesto impatto epidemiologico ed alla relativa benignità dell’IIH, come stanno a testimoniare le variegate denominazioni della sindrome (compresa l’attuale) ed oltre 4300 lavori sull’argomento dal 1966 ad oggi. Qualora, in linea con Dandy, vengano usati criteri restrittivi (diagnosi accertata secondo i criteri della definizione; almeno due casi simili descritti; remissione e recrudescenza coincidenti con la sospensione e la riesposizione a farmaci; esclusione di trombosi venose, sindromi da iperviscosità ematica e traumi encefalici), le cause putative si restringono a specifici fattori di rischio, a disturbi disendocrini, a farmaci e a poche malattie sistemiche (Tab. 16.2), riducendo a meno del 50% dei casi la possibilità di identificare un’etiologia convincente. La patogenesi è rimasta finora sfuggente, come attestano sia numerose rassegne (Fishman, 1992; Johnston et al., 1991; Milhorat, 1992; Boeri, 1994; Radhakrishnan et al., 1994; Karahalios et al., 1996; Digre, 1999; Bandyopadhyay, 2001; Biousse e Bousser, 2001) sia recenti editoriali (Walker, 2001; Corbett e Digre, 2002), che invocano l’approdo ad una teoria unificatrice, per ora mancante, capace di spiegare gli elementi più caratteristici della sindrome (ipertensione intracranica, volume ventricolare normale o ridotto, normale funzionamento del SNC, rapido miglioramento dopo drenaggio liquorale), ed il perché solo eccezionalmente essa evolva in idrocefalo comunicante (v. pag. 618). Esistono varie ipotesi patogenetiche, ciascuna delle quali tende a privilegiare uno fra i molti possibili fattori causali. Malauguratamente, ognuno di essi risulta più o meno strettamente correlato agli altri, il che spiega perché i rapporti causa/effetto siano stati finora così sfuggenti. 1) Aumento del volume ematico cerebrale. L’ipotesi di un aumento della massa ematica encefalica, suggerita da Dandy nel 1937, è stata avvalorata da evidenze sperimentali e neuroradiologiche PET (Raichle et al., 1978) dimostranti la presenza di un’espansione del letto vasco-
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Tabella 16.2 - Principali condizioni e malattie associate a IIH. Sesso femminile Età fertile Dismenorrea Obesità Aumento ponderale Familiarità
Terapie farmacologiche
Affezioni sistemiche
Tetracicline Trimetoprim-Sulfametossazolo Nitrofurantoina Acido nalidixico Isotretinoina Cimetidina Tamoxifene Danazolo Litio Corticosteroidi L-tiroxina
lare in pazienti affetti da IIH. Successivamente, essa è stata esclusa mediante SPECT (Gjerris et al., 1985), ed anche l’ipotesi di un aumento del volume ematico venoso, per quanto a lungo dibattuta (Boeri, 1994; Radhakrishnan et al., 1994), non ha trovato finora alcun valido appoggio. 2) Formazione di edema interstiziale. L’ipotesi è nata da evidenze istologiche (Sahs e Joynt, 1956), quindi messa in questione da evidenze autoptiche (Wall et al., 1995), ma contemporaneamente suffragata in 11 pazienti da risultati ottenuti mediante Na+–fRM a 1,5 T (Moser et al., 1988). Analoghe evidenze ha prodotto un successivo studio fRM spin-echo su 10 pazienti con IIH ed aumento delle resistenze d’efflusso liquorale (Sorensen et al., 1990): alcuni di essi presentavano un preferenziale edema delle regioni periventricolari, suggestivo per edema interstiziale da riassorbimento transependimale, gli altri, invece, un modesto edema diffuso, suggestivo per la presenza - o coesistenza - di un edema intracellulare. Un modesto aumento del contenuto e della mobilità dell’acqua nelle aree sottocorticali è stata infine documentato in 12 pazienti mediante fRM con mappe di diffusione compensate (Gideon et al., 1995). Non essendo mai emerse prove certe di ipersecrezione liquorale da parte dei plessi corioidei in corso di IIH, l’ipotesi di un edema interstiziale da aumentato passaggio di liquidi attraverso la barriera ematoencefalica, secondario a cause osmotiche oppure a sofferenza endoteliale, sembra ancor oggi abbastanza sostenibile (Milhorat, 1992; Radhakrishnan et al., 1994). i.– Cause osmotiche sarebbero operanti nelle sindromi da IIH con obesità e ritenzione idrosalina, ed eventualmente in situazioni disendocrine (menarca, disme-
Insufficienza renale cronica Lupus eritematosus sistemico Sindrome POEMS (P = polineuropatia, O = organomegalia, E = endocrinopatie, M = monoclonopatia, S = alterazioni cutanee e proliferazione plasmacellulare) Malattie endocrine M. di Addison M. di Cushing Ipoparatiroidismo Ipotiroidismo
norrea, gravidanza, contraccezione progestinica, terapia con rhGH, inappropriata increzione di vasopressina, ecc.). Esiste infatti la recente ed importante evidenza che, su 30 pazienti obese affette da IIH, l’80% presentava ritenzione ortostatica di Na+ ed acqua ed il 75% anche edema periferico agli arti inferiori; ed inoltre, la prova che il solo calo ponderale associato al controllo dell’edema (diuretici con simpaticomimetici, dieta restrittiva per liquidi e NaCl, periodi diurni di posizione supina) bastava a determinare un netto miglioramento della cefalea in 7 pazienti e del papilledema in 4 pazienti. (Friedman e Streeten, 1998). L’importanza del calo ponderale è ulteriormente documentata da uno studio su 34 pazienti, in cui la gravità dell’obesità risultava correlata ad un più alto rischio di danno visivo permanente (Rowe e Sarkies, 1999). ii.– L’ipotesi vasogenica (danno di barriera) si riferisce invece alle sindromi da IIH che apparentemente insorgono in seguito ad assunzione di farmaci di vario genere, a sospensione di corticosteroidi, a m. di Addison e reazioni allergiche. 3) Alterato riassorbimento liquorale primitivo, in assenza di fattori ostruttivi subaracnoidei (essudati fibrinosi, emorragici o neoplastici), venosi (Johnston et al., 1991) e di malattie o alterazioni metaboliche sistemiche. Si ammette che in età infantile possa dipendere da fattori genetici che comportano riduzione numerica congenita dei canali di riassorbimento o ritardata maturazione dei villi subaracnoidei. Nell’adulto affetto da IIH, è stato più volte documentato un netto aumento delle resistenze di efflusso liquorale (raddoppiamento, Gjerris et al., 1985; Orefice et al., 1992; Walker, 2001), con normalità della perfusione ematica cerebrale (Gjerris et al., 1985).
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La prevalenza di IIH nella popolazione femminile giovane ed obesa ha per qualche tempo favorito l’idea che il blocco della conduttanza liquorale potesse dipendere da un’aumentata conversione di androstenedione in pregnenolone da parte del tessuto adiposo in eccesso, ma l’ipotesi è stata poi abbandonata a favore di altre, anche perché di per sé non chiariva il motivo per cui solo un’esigua percentuale di donne obese, e per di più giovani, sviluppasse IIH. Analoghe considerazioni valgono per l’aumento di vasopressina descritto nel liquor di pazienti con IIH, a quanto pare un fenomeno secondario omeostatico volto solo a ridurre la secrezione liquorale. Il primo caso segnalato di IIH da ipervitaminosi A risale alla descrizione fatta dallo storico olandese Gerit van Veer (1597) di un esploratore artico nutritosi di fegato di orso polare (contetente quantità letali di vit. A) e poi colpito da cefalea e cecità fino all’exitus. In epoca moderna, si sono poi accumulate sporadiche segnalazioni di IIH insorta in seguito ad ipervitaminosi A o a terapia con acido retinoico per acne. La patogenesi di queste forme è stato attribuita ad blocco reversibile della conduttanza di ogni singolo canale di riassorbimento, e lo stesso meccanismo è stato anche invocato per spiegare i casi sporadici di IIH segnalati in corso o innumerevoli altri farmaci di largo impiego (Tab. 16.2), implicando tuttavia la necessità di un bio-fenotipo predisponente. Del tutto recentemente, aumentati tassi plasmatici della vit. A (retinolo), non giustificati da aumentato apporto (come nel caso di una dieta abbondante in carote o assunzione di alte dosi di vit. A), sono stati riscontrati in 17 giovani donne obese affette da IIH: ciò suggerisce che sia un aumentato apporto, sia un alterato trasporto (o metabolismo) o un’abnorme sensibilità al retinolo possano avere un eguale ruolo scatenante (Jacobson, 1999). 4) Aumento della pressione venosa nei seni cerebrali, in assenza di ostruzioni luminali. Dopo la prima documentazione di un’ipertensione venosa nel seno longitudinale superiore (pervio) in un discreto numero di pazienti affetti da IIH cronica (Malm et al., 1992), si sono moltiplicate le osservazioni circa la presenza di un’ipertensione venosa nel seno longitudinale superiore e seno trasverso prossimale (9 pazienti, King et al., 1995; 10 pazienti, di cui 5 con un’ostruzione segmentale parziale e 5 con ipertensione venosa atriale destra, Karahalios et al., 1996). L’obesità può diventare una possibile causa attraverso la sequenza: aumento della pressione intraaddominale ed intra-pleurica → ipertensione venosa atriale destra → ipertensione nella vena cava superiore → ipertensione venosa sinusale (Brazis e Lee, 1998). Tuttavia, l’ipotesi di un’”ipertensione venosa” primitiva ha recentemente subito una drastica smentita (Corbett e Digre, 2002): in pazienti affetti da IIH sottoposti a registrazione simultanea della pressione liquorale a livello
C1-C2 e della pressione venosa intrasinusale (entrambe aumentate oltre la norma), la sottrazione di liquor causava un’immediata normalizzazione della pressione venosa intrasinusale, dimostrando che, almeno in quei pazienti, essa dipendeva strettamente da quella liquorale (King et al., 2002). In altre parole, i seni venosi cerebrali non sarebbero completamente rigidi, ma sotto l’effetto di una spinta liquorale aumentata possono collassare quel tanto che basta a produrre ipertensione venosa a monte in assenza di vera e propria stasi. Di per sé, ciò renderebbe ampiamente ragione del riscontro di un’aumentata “pressione di apertura”, cioè ridotta conduttanza, del liquor attraverso i villi corioidei della convessità, e del fatto che la sindrome migliori nettamente, o addirittura regredisca, dopo sottrazione liquorale singola o ripetuta. Rimangono però oscuri sia il fattore scatenante, che la dinamica esatta di questo circolo vizioso che tende a mantenersi nel tempo secondo l’ipotetica sequenza: ipertensione liquorale ? → ipertensione venosa intrasinusale → aumento delle resistenze d’efflusso liquorale nel sangue → ipertensione liquorale → ipertensione venosa…..(fintanto che il liquor non ritorni normoteso, ad esempio dopo una rachicentesi). Un’ipertensione intracranica da ostacolato riassorbimento liquorale per perdita dei gradienti pressori liquor → sangue può osservarsi in numerose condizioni patologiche riguardanti il versante ematico: a) occlusioni luminali dei seni cerebrali, della vena giugulare o della cava superiore, ipertensione venosa centrale; b) iperviscosità plasmatica; d) ipoosmolarità plasmatica. A questo proposito, il quesito se, fra queste condizioni (grossolanamente sintomatiche sul piano clinico, bioumorale o neuroradiologico) e l’IIH propriamente detta esista qualche rapporto, non ha finora avuto alcuna risposta definitiva. 5) Fattori genetici (Radhakrishnan et al., 1994). Esistono relativamente pochi studi al riguardo, concernenti fra l’altro solo pazienti obesi, dai quali emerge sia la possibilità di un’ereditarietà autosomica dominante (ricorrenza di IIH in successive generazioni di quattro famiglie) sia la possibilità di un’ereditarietà autosomica recessiva (occorrenza di IIH in fratelli eterozigoti ed omozigoti). L’osservazione di una famiglia in cui la madre e tre figlie su quattro erano affette da IIH ed un figlio da idrocefalo comunicante ha permesso di sospettare l’occorrenza in entrambe le affezioni di uno stesso difetto genetico del riassorbimento liquorale, in grado di evolvere differentemente in rapporto alla presenza o meno di gradienti pressori transmurali intra → extraventricolari di sufficiente portata (v. fisiopatogenesi dell’idrocefalo). Un convincente esempio viene fornito dall’insorgenza di
Sindromi da alterata pressione intracranica IIH in età pediatrica. Al di sotto dei 18 mesi, quando le fontanelle sono ancora aperte e possono quindi distendersi, un deficit di riassorbimento comporta costantemente la generazione di gradienti pressori transmurali patologici con evoluzione dell’IIH in idrocefalo. Dopo i 18 mesi, la progressiva chiusura delle fontanelle ostacola la formazione di tali gradienti, per cui un difetto aresorptivo si traduce assai più facilmente in una sindrome da IIH (Olivero e Ashner, 1992). In conclusione, una particolare predisposizione genetica, il sesso femminile, l’età, il possibile influsso ormonale, la sensibilità fenotipica individuale a vitamine o farmaci, suggeriscono una etiopatogenesi multifattoriale dell’IIH.
SINTOMATOLOGIA Si manifesta con i sintomi e segni di un’ipertensione intracranica isolata, suggerendo la presenza di un tumore encefalico evolvente senza sintomi e segni focali. Nell’adulto, in ordine di frequenza si osservano (Giuseffi et al., 1991): a) nel 94% dei malati cefalea non pulsatile, diffusa o a sede bifrontale, bitemporale o occipito-nucale, più intensa al risveglio, accentuata dagli sforzi addominali e spesso di modesta entità; b) nel 68%, «amaurosi fugace» o oscuramenti visivi transitori, talora scatenati dallo sguardo laterale estremo; c) nel 58%, tinnito o rumori pulsatili intracranici; d) nel 54%, fotopsie; e) nel 38%, diplopia laterale da paresi del VI nervo; f) nel 30%, perdita del visus; g) nel 20-40%, nausea; h) nel 22%, dolore retrobulbare nei movimenti dell’occhio. Nel bambino, invece, predominano i segni psichici come irritabilità, apatia, sonnolenza (Lessel, 1992). I segni, qualora presenti, sono rappresentati da papilledema e da paralisi del VI n. cranico (per compressione aspecifica sul bordo sfenoidale). Il papilledema è generalmente bilaterale, ma può spesso risultare asimmetrico, ed anche unilaterale, e deve essere distinto da pseudopapilledemi da patologia intraculare (iperopia, corpi ialini, papillite). A parte ciò, la sindrome non comporta di regola alterazioni neurologiche o neuropsicologiche di rilievo.
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DIAGNOSI Poiché spesso la sindrome è paucisintomatica, il sospetto diagnostico può nascere anche per una semplice cefalea subcontinua perdurante, priva di analoghi antecedenti anamnestici («nuova cefalea»), peggiorata dagli sforzi addominali ed associata a nausea e rumori intracranici. Il sospetto si rafforza se esistono antecedenti famigliari di IIH, se si tratta di donne obese, se esiste concomitanza con periodo puberale, gravidanza, assunzione di farmaci (specie estroprogestinici e corticosteroidi), e soprattutto se sono riferiti episodi di amaurosi fugace e calo dell’acuità visiva. L’accertamento è prettamente strumentale, e rimane tuttora basato su criteri di esclusione (Boeri, 1994; Biousse e Bousser, 2001; Walker, 2001). Il sospetto clinico richiede in primo luogo uno studio completo per neuroimmagini TC, RM ed angio–RM. Tali indagini, negli usuali protocolli di routine, servono essenzialmente per escludere la presenza di lesioni espansive, idrocefalo, occlusioni dei seni cerebrali e malformazioni vascolari. La presenza di edema interstiziale molto lieve, solitamente limitato al parenchima a contatto con il liquor (pericefalico e periventricolare) può spesso passare inosservata, ed in mancanza di altre lesioni, solo un eventuale rimpicciolimento del sistema ventricolare ed un allargamento della sella turcica con aspetto di «sella vuota» possono connotare le neuroimmagini. Una volta accertata l’assenza di lesioni espansive intracraniche, può essere effettuata senza rischio la rachicentesi, indispensabile per documentare la presenza di ipertensione liquorale lombare (> 250 mmH2O) e per escludere alterazioni citochimiche liquorali indicative di flogosi. Se il liquor è iperteso ma normale, l’eventualità di occlusioni, trombosi occulte o malformazioni delle vene o dei seni cerebrali dev’essere esclusa mediante angiografia digitale o angio-fRM. La valutazione oftalmologica strumentale è indispensabile. La fluoroangiografia retinica
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(con fluoresceina sodica o verde di indocianina endovena) è particolarmente utile, specie nei casi dubbi, permettendo di distinguere un papilledema vero (diffuso) da uno pseudo-papilledema da corpi ialini (multifocale) o da iperopia e da un papilledema da papillite. L’esame dell’acuità visiva, e soprattutto la campimetria manuale di Goldmann o automatica di Humphrey con test di sensibilità al contrasto ed al colore permettono di documentare l’esistenza di un deficit visivo anche infraclinico e di seguirne periodicamente l’evoluzione. I difetti visivi che più frequentemente si osservano sono rappresentati da restringimenti concentrici (30%) e difetti nasali inferiori (15%). Seguono difetti arcuati, allargamento della macchia cieca fisiologica, scotomi cieco-centrali. Lo studio dei potenziali evocati visivi, invece, è scarsamente utile. Qualora coesista diplopia, il test di HessLancaster permette di appurare se essa dipende da un’isolata paralisi dell’abducente, oppure da una paralisi di altri nervi oculomotori (III e IV), incompatibile con diagnosi di IIH. Il riscontro anamnestico di uno o più episodi di amaurosi fugace monoculare richiede tassativamente lo studio eco-Doppler dei vasi sopra-aortici, onde escludere l’eventualità di una patologia ateromasica carotidea. La diagnosi infine deve sempre considerare la possibilità di malattie o affezioni sistemiche ancora poco appariscenti, di cui la sindrome può tuttavia costituire il primo segnale di avvertimento.
4 settimane), c) somministrazione di diuretici (acetazolamide retard fino ad 1 g/dì per os.; furosemide, clortalidone, ecc.) e vasocostrittori periferici; d) attuazione di una dieta a basso contenuto di NaCl ed acqua e, in caso di sovrappeso, adeguatamente ipocalorica; e) 2-3 periodi di riposo supino per 30'-1 h nel corso della giornata. Solo in casi particolarmente gravi può essere indicato un breve ciclo di terapia con glicocorticoidi (desametazone, 8-16 mg/dì per alcuni giorni sotto gastroprotezione). I risultati sono in genere soddisfacenti, anche se non suffragati da evidenze meta-analitiche a riguardo: infatti, la sindrome può migliorare e guarire spontaneamente già dopo la prima rachicentesi terapeutica, ma anche recidivare a distanza di tempo. Il trattamento neurochirurgico (derivazione lombo-peritoneale) è riservato ai pazienti più gravi e resistenti, o ai pazienti con peggioramento del visus. Può essere alternativamente applicato un più semplice, settoriale intervento di fenestrazione e decompressione del nervo ottico per via transcongiuntivale. Ciascun approccio presenta vantaggi e svantaggi, ma non è stato ancora chiarito quale dei due produca i migliori risultati, anche in termini di rapporto rischi/benefici (Brazis e Lee, 1998). In particolari casi di grave IIH con ipertensione venosa da ostruzione parziale dei seni è stata verificata anche l’utilità di un’angioplastica per via endoscopica con posizionamento di «stent» a dimora (Malek et al., 1999).
TERAPIA Si deve innanzi tutto valutare e tener conto delle condizioni visive del paziente, programmando una soluzione neurochirurgica qualora si verifichino peggioramenti del visus progressivi o anche improvvisi. La terapia medica comprende: a) sospensione di ogni farmaco a sospetta o accertata azione causale, b) sottrazione ripetuta di liquor per via lombare (20-40 ml, 3-4 volte nell’arco di 2-
4. Idrocefalo Il termine «idrocefalo» (idro- + kephalé‚ testa) è stato usato per la prima volta da Ippocrate per indicare un abnorme aumento del volume liquorale a spese del parenchima cerebrale. Epifenomeno di patologie anche molto dissimili, l’idrocefalo può rimanere confinato al sistema ventricolare (idrocefalo interno), manife-
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standosi nel bambino con macrocefalia; oppure interessare esclusivamente o principalmente gli spazi subaracnoidei della convessità, nel caso di perdite di sostanza o atrofia del mantello corticale o cerebellare (idrocefalo esterno). Gli idrocefali interni corrispondono ad un allargamento delle cavità ventricolari a spese del parenchima immediatamente circostante (in gran parte sostanza bianca); nella stragrande maggioranza dei casi, insorgono per ostruzioni delle vie di deflusso del liquor dal sistema ventricolare capaci di causare abnorme aumento dei gradienti pressori transmurali (intra-extraventricolari) ed ipertensione liquorale, per cui vengono anche definiti attivi. Nelle forme attive ad evoluzione acuta o subacuta, l’aspetto ipertensivo è quasi sempre clinicamente manifesto e sollecita immediati provvedimenti terapeutici (drenaggio). Nelle forme attive a più lenta evoluzione o croniche, invece, il momento ipertensivo può progressivamente attenuarsi, sfumando talora in un’insidiosa ipertensione
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fluttuante di ardua identificazione: ciò è quanto probabilmente accade nel cosiddetto idrocefalo normoteso, a tutti gli effetti attivo ed evolutivo (v. pag. 625) Gli idrocefali esterni, invece, sono quasi sempre causati da un’atrofia primitiva della parte più esterna dell’encefalo, o neocorteccia, evolvono senza abnormi gradienti pressori transmurali e senza ipertensione liquorale, per cui sono anche definiti passivi o «ex vacuo». La distinzione fra processi idrocefalici attivi e passivi è quindi pragmaticamente utile per le importanti implicazioni diagnostico-terapeutiche che comporta (diagnosi e drenaggio chirurgico tempestivi nelle forme ipertensive acute, e comunque in ogni forma attiva e progressiva). La classificazione degli idrocefali illustrata nella Tabella 16.3 segue la tradizionale divisione anatomo-patologica degli idrocefali in forme ostruttive e forme non ostruttive (Russel, 1966; De Lange, 1977; Fishman, 1992).
Tabella 16.3 - Classificazione degli idrocefali. A.
Idrocefali ostruttivi (da occlusione delle vie liquorali) 1. Ostruzioni intraventricolari (i. non comunicante) a) cisti, tumori ed infiammazioni ventricolari e/o del III ventricolo b) stenosi, biforcazione, sepimentazione dell’acquedotto di Silvio. 2. Ostruzioni extraventricolari (i. comunicante o non comunicante) a) post-infiammatorie, post-emorragiche, post-traumatiche, tumori b) malformazioni congenite – malformazione di Arnold-Chiari, meningo-mielocele, aneurisma della vena di Galeno – occlusione dei forami di Lushka e Magendie (s. di Dandy-Walker) – cisti aracnoidee – lissencefalia – aplasia congenita delle granulazioni di Pacchioni.
B.
Idrocefali non ostruttivi 1. Ipersecretivo (da ipersecrezione liquorale) a) papilloma dei plessi corioidei (può causare ostruzione ventricolare). 2. Aresorptivo (da diminuito riassorbimento liquorale) a) blocco dei villi subaracnoidei b) stasi venosa – trombosi dei seni venosi – ipertensione endocranica, edema cerebrale. 3. «Ex vacuo», compensatorio di perdite parenchimali.
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PATOGENESI Saranno considerati solo i meccanismi di formazione degli idrocefali attivi, dato che gli idrocefali «ex vacuo» o passivi dipendono dal puro e semplice riempimento di liquor di cavità o spazi subaracnoidei ingranditi per perdite o atrofie parenchimali (cavità poroencefaliche post-traumatiche o post-ischemiche, atrofia del mantello corticale). Gli idrocefali attivi sono causati dal trauma compressivo esercitato sulle pareti ventricolari da un persistente e patologico aumento dei gradienti pressori liquorali intra → extraventricolari (transmurali). L’omeostasi fisiologica dei gradienti transmurali idrostatici ed idrodinamici (Fig. 16.4A), è mantenuta grazie all’ampia capacità di riassorbimento liquorale dei villi subaracnoidei (Fig. 16.4B, Cutler et al., 1968) ed alla compliance del compartimento subaracnoideo spinale (v. pag. 606). Tale parametro è desumibile dalla curva volume/pressione che si può ottenere mediante test manometrici di infusione costante di liquor artificiale negli spazi subaracnoidei spinali (Katzman e Hussey, 1970; Fishman, 1992). Se il compartimento subaracnoideo spinale è escluso per fattori ostruttivi, o in assenza di fattori ostruttivi, esso non riesce più a dilatarsi per irrigidimento delle sue pareti o per eccessiva distensione (da aumento del volume liquorale), la pressione intraventricolare idrostatica ed idrodinamica pulsatile crescono rapidamente in maniera esponenziale (compliance ridotta, elastanza aumentata). In questa situazione, l’ipertensione intracranica può ciclicamente aggravarsi a causa di particolari fluttuazioni patologiche della pressione liquorale osservabili in condizioni di ridotta vigilanza: 1) nel coma, incrementi ritmici correlati alla comparsa di un respiro di CheyneStokes; 2) nel sonno, onde ipertensive «plateau» (o onde A di Lundberg) cicliche, di lunga durata e notevole ampiezza (anche oltre 500 mmH2O), più frequenti in fase REM, ed onde ipertensive B, correlabili alle onde di Traube-Hering della pressione arteriosa sistemica (di origine vasomotoria simpatica). Le onde «plateau» si associano a rapidi, reversibili peggioramenti clinici, e contraddistinguono non solo l’ipertensione intracranica da edema cerebrale (specie post-traumatico), ma anche situazioni apparentemente non ipertensive, come il cosiddetto idrocefalo normoteso. Questa particolare forma è ormai unanimemente ritenuta una varietà di idrocefalo interno attivo, ad innesco non ben definito, in cui la possibilità di cogliere il momento
Fig. 16.4 - A. A sinistra, gradienti idrostatici liquorali fra ventricoli laterali e spazi subaraccnoidei pericefalici, e fra spazi subaracnoidei e seno longitudinale superiore. A destra e dall’alto, pulsatilità sistolica intraventricolare, cisternale e subaracnoidea lombare (in mm H2O); ultima traccia, elettrocardiogramma (ECG). B. Correlazioni fra produzione, pressione ed assorbimento liquorale. La produzione liquorale si mantiene costante (0,35 ml·min-1) fino a 250 mm H2O; l’assorbimento inizia alla pressione di 68 mm H2O, bilanciando la produzione a 112 mm H2O.
ipertensivo (onde «plateau») rimane subordinata alla registrazione ininterrotta della pressione intracranica per adeguati periodi di tempo (almeno 24 ore). In conclusione, ipertensione liquorale idrostatica ed idrodinamica pulsatile esercitano un effetto congiunto tanto più devastante sulle pareti ventricolari quanto più l’omeostasi pressoria intracranica è ridotta o messa fuori uso. Ciò è quanto si verifica nelle situazioni ostruttive, ma che può anche avvenire in molte altre condizioni non ostruttive. 1) Nel caso di ostruzioni delle vie di deflusso liquorale, notevoli gradienti pressori transmurali intra → extraventricolari si creano soprattutto negli idrocefali interni non comunicanti, caratterizzati da ipertensione intraventricolare senza corrispondente aumento della pressione extraventricolare, dato un normale deflusso del liquor negli spazi subaracnoidei ed un suo normale rias-
Sindromi da alterata pressione intracranica sorbimento. Se l’ostruzione intraventricolare è causata da un papilloma secernente, l’ipersecrezione liquorale che esso determina può aggravare sensibilmente la situazione. Nelle ostruzioni extraventricolari cisternali con elastanza subaracnoidea aumentata per esclusione del compartimento spinale, i gradienti transmurali sono tanto più elevati quanto più rimangono inalterate le capacità di riassorbimento; ciò è assai probabile che accada anche quando l’ostruzione è situata in maggior prossimità dei villi aracnoidei della convessità. 2) Nel caso di completa pervietà delle vie di deflusso liquorale (fino alle granulazioni di Pacchioni incluse), un aumento patologico della pressione idrostatica può insorgere: a) per aumentata produzione di liquor (come nel caso di meningiti o di papillomi secernenti, ove può arrivare fino a 5-10 ml·m–1); b) per ridotto riassorbimento da parte dei villi corioidei; c) per accrescimento del volume parenchimale (edema cerebrale, tumori) o ematico (stasi venosa); d) per ridotta compliance degli spazi subaracnoidei spinali, documentabile mediante i tests di perfusione. Si ritiene che in molte di queste situazioni, i gradienti pressori idrostatici transmurali possano restare immodificati anche a lungo, e che i gradienti idrodinamici pulsatili tendano ad aumentare in rapporto al progressivo esaurimento della compliance prodotto da un abnorme incremento liquorale, o da un irrigidimento o esclusione del compartimento subaracnoideo spinale (tipicamente nelle meningiti purulente acute). Tuttavia, come e perché queste situazioni evolvano in un processo idrocefalico, oppure si stabilizzino in quadri di ipertensione intracranica idiopatica non è affatto chiaro, come anche Victor et al. (2001) hanno chiaramente sottolineato. Parziale chiarimento su ciò che determina l’evoluzione in idrocefalo è fornito da evidenze sperimentali ottenute in un modello di ipertensione intracranica da occlusione del seno longitudinale superiore. A cranio integro, insorge ipertensione intracranica senza idrocefalo. Qualora esista una breccia di sufficienti dimensioni, l’ipertensione sfocia rapidamente in un idrocefalo interno comunicante (Olivero e Asner, 1992). Ciò dimostra il ruolo patogenetico dei gradienti pressori transmurali idrostatici ed idrodinamici, amplificati dal calo pressorio subaracnoideo causato dalla breccia cranica, e può rendere ragione del fatto che in corso di ipertensione intracranica cronica i solchi corticali della convessità spesso appaiono allargati quando non vi è dilatazione ventricolare, e per converso rimpiccioliti o assenti in caso di ventricolomegalia. Supporto a queste evidenze è offerto dalle osservazioni di Greitz et al. (1993-1997a) su soggetti normali e pazienti con idrocefalo comunicante mediante fMRI
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«gated» (sincronizzata sul complesso QRS dell’ECG). Fisiologicamente, esiste di un flusso liquorale pulsatile sistolico diretto come un’onda fronto-occipitale dagli spazi pericefalici e ventricolari verso le cisterne della base, il forame magno e gli spazi subaracnoidei spinali (con minimo flusso netto attraverso l’acquedotto di Silvio). Tale onda liquorale è causato dall’espansione dei vasi arteriosi della base e del parenchima (sia verso l’esterno, che verso le sue cavità interne), ed è accompagnato fisiologicamente da un contestuale aumento di flusso nel seno longitudinale superiore, che agevola il riassorbimento del liquor. Ciò fa sì che i gradienti pressori transmurali si mantengono invariati, essendo l’incremento di pressione intraventricolare bilanciato da un simultaneo incremento extraventricolare, ed inoltre permette un normale flusso ematico cerebrale. Se l’espansione sistolica dell’encefalo si riduce, flusso ematico, pressione ed onda di volume liquorale pericefalico si riducono, ed i gradienti pressori transmurali aumentano, come avviene negli idrocefali comunicanti (definibili quindi come «idrocefali da ridotta pulsazione arteriosa»). Gli idrocefali ostruttivi non comunicanti (interni) comportano invece una compressione delle vene corticali causata dalla dilatazione ventricolare («idrocefali da congestione venosa»). Se infine è presente un’ipertensione venosa nel seno longitudinale superiore, il ridotto riassorbimento del liquor si traduce in aumento del volume e della pressione liquorale, senza aumento dei gradienti pressori transmurali: tale situazione evolve con l’insorgenza di un’ipertensione intracranica idiopatica o secondaria senza idrocefalo. Come si può vedere, le evidenze fMRI hanno spinto a riformulare, o comunque esprimere la necessità di nuove ipotesi sulla reale fisiopatogenesi degli idrocefali nell’adulto (Greitz et al., 1997b; Whitelaw, 1997). I meccanismi prettamente idraulici potrebbero essere sottesi - o affiancati - anche da complessi meccanismi neurobiologici dipendenti da errori genetici o innescati da fattori esogeni, tali da comportare un’aumentata espressione di fattori di crescita quali, ad esempio, quello fibroblastico (FGF). L’FGF è capace di indurre simultaneamente apoptosi delle «stem cells» periventricolari e fibrosi dei villi corioidei. Ciò può spiegare un selettivo e progressivo allargamento delle cavità ventricolari anche in assenza di fattori ostruttivi rilevanti, ad esempio nel corso dell’ontogenesi, ed aprire quindi nuovi orizzonti nella comprensione patogenetica, e possibilmente prevenzione e terapia dell’idrocefalo sia pre- che postnatale (Johanson e Jones, 2001). Tipo di danno. Nell’idrocefalo attivo, la prima struttura a soffrire è l’ependima ventricolare, che perdendo le sue proprietà di barriera permette al liquor di infiltrarsi negli spazi extracellulari della sostanza bianca subependimale. L’edema interstiziale (edema idrocefalico)
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che si forma localmente determina un particolare aspetto sfumato o cotonoso del parenchima periventricolare nelle immagini TC, assai meglio dimostrato nelle immagini RM da un bordo periventricolare ipertintenso di spessore superiore a 5 mm. Contemporaneamente, nelle stesse sedi inizia un processo atrofico istologicamente dominato da demielinizzazione, degenerazione assonica e soprattutto danno astrocitario, che successivamente si estende ad altre strutture, quali corpo calloso, sostanza bianca sottocorticale e nervi cranici, specie il n. ottico. Sperimentalmente, è stata documentata una preferenziale sofferenza argirofila assonica sottocorticale ma anche intracorticale (strati II e IV) con risparmio dei pericari neuronali (Ding et al, 2001a). È ormai assodato che questo tipo di danno deriva non solo da fattori traumatici, ma anche da un’ischemia cronica della sostanza bianca, probabilmente secondaria ad alterazioni microvascolari, cui sperimentalmente sembra far riscontro un’aumentata tolleranza all’ischemia acuta (Ding et al, 2001b). La sostanza grigia corticale e sottocorticale, pur presentando evidenze di edema interstiziale, continua invece ad essere normoirrorata. Sedi del danno. – Nelle forme ostruttive non comunicanti, la cavità idrocefalica può anatomicamente coinvolgere (Fig. 16.5): 1) un solo ventricolo laterale (i. monoventricolare) per ostruzione del rispettivo forame di Monro; 2) entrambi i ventricoli (i. biventricolare) per ostruzione di entrambi i forami di Monro; 3) ventricoli
Fig. 16.5 - Tipi di idrocefalo ostruttivo non comunicante. A: idrocefalo monoventricolare. B: idrocefalo biventricolare. C: idrocefalo triventricolare. D: idrocefalo tetraventricolare.
laterali e III ventricolo (i. triventricolare), per ostruzione dell’acquedotto di Silvio; 4) ventricoli laterali, III e IV ventricolo (i. tetraventricolare, Fig. 16.5), per ostruzione dei forami laterali di Luschka e mediano di Magendie; in questo caso, la dilatazione del IV ventricolo rimane comparativamente inferiore a quella ventricolare. In tutti gli altri idrocefali attivi, l’aspetto dominante è quello di un idrocefalo interno tetraventricolare, che si può associare in casi particolari a dilatazione più o meno consistente delle cisterne della base. Il danno parenchimale è particolarmente evidente a livello delle aree periventricolari, frontali, callosali, parieto-temporaliali e basali diencefalo-ipotalamiche. Evolutività. – L’evoluzione degli idrocefali attivi rimane condizionata da vari fattori quali: 1) età e corrispondente grado di elastanza della teca cranica (decrescente dal periodo neonatale fino all’età di 10 anni); 2) tipo, gravità, reversibilità e soprattutto curabilità delle affezioni causali; 3) eventuale associazione con encefalopatie atrofizzanti primitive (m. di Alzheimer ed altre forme degenerative, etilismo cronico, ecc.); 4) efficienza ed eventuali complicazioni del drenaggio chirurgico; 5) insorgenza di meccanismi intrinseci di compenso. Un compenso più o meno efficace contraddistingue le fasi più avanzate dell’idrocefalo, quando la perdita tissutale e la conseguente dilatazione ventricolare sono ormai molto evidenti, ma progrediscono con maggiore lentezza rispetto alle fasi iniziali, fino ad arrestarsi (idrocefalo stazionario o compensato). Una possibile spiegazione si può trovare nel raggiunto equilibrio fra due serie contrapposte di fattori: a) aumentata elastanza del parenchima encefalico residuo e distribuzione della pressione su una superficie ventricolare più vasta (legge di Pascal), tendenti entrambi ad accentuare gli effetti dannosi della forza pulsatile sistolica endoventricolare, e b) aumentato riassorbimento passivo da parte delle pareti ventricolari e riduzione della produzione liquorale per atrofia dei villi corioidei, tendenti entrambi a ridurre tali effetti. L’utilità della distinzione clinica fra forme progressive e forme stazionarie o stabilizzate, utile anche a fini prognostici, deve perciò rimanere strettamente subordinata alla conoscenza delle cause e del particolare momento evolutivo di ogni singolo processo idrocefalico. Infatti, l’apparente stazionarietà di un idrocefalo desumibile da reperti di neuroimmagine seriati nel tempo non basta a testimoniare la definitiva stabilizzazione del processo, escludendo l’utilità di ulteriori indagini e provvedimenti terapeutici. Ciò vale sia per le forme asintomatiche casualmente scoperte dalla diagnostica per immagini (idrocefalo occulto), in alcuni casi dipendenti da occlusioni intraventricolari reversibili e ricorrenti anche dopo lunghi intervalli di tempo, sia per le forme lentamente e subdola-
Sindromi da alterata pressione intracranica mente progressive (idrocefalo normoteso, idrocefali con derivazione, ma insufficiente drenaggio). Per contro, la lenta progressione di idrocefali «ex vacuo» da atrofia cerebrale primitiva (ad esempio nella m. di Alzheimer) appare essenzialmente un epifenomeno passivo concomitante, privo di particolare significato diagnostico o prognostico.
EZIOLOGIA Idrocefali ostruttivi.– Comprendono forme comunicanti e non comunicanti in rapporto alla pervietà o meno delle vie di comunicazione liquorale fra sistema ventricolare e cisterne basali, e riconoscono quattro principali cause: malformazioni, gliosi dell’acquedotto, infiammazioni e tumori. Le malformazioni più significative interessano le strutture della fossa cranica posteriore, ed in particolare l’acquedotto di Silvio, che può essere stenotico, in quanto ridotto ad una sottile fessura tappezzata di ependima normale, biforcato, ovvero formato da due sottili canalicoli paralleli di cui uno a fondo cieco, o anche occluso da un setto gliale nella sua estremità caudale. Se la malformazione consiste nell’impervietà dei forami di Luschka e di Magendie, l’idrocefalo coinvolge acquedotto e IV ventricolo, provocando risalita del tentorio e dei lobi occipitali, nonostante coesista atrofia cerebellare secondaria (malformazione di Dandy-Walker). Nella malformazione di Arnold-Chiari, essendo il IV ventricolo dislocato nel canale cervicale ed il forame occipitale tamponato dal tronco e dal cervelletto, si realizza egualmente un ostacolato deflusso liquorale dal IV ventricolo verso le cisterne della base. Nella gliosi dell’acquedotto, quest’ultimo può risultare stenotico o suddiviso in molteplici sottili canalicoli a causa di un’ipertrofia ed iperplasia della glia subependimale. Il rivestimento dei canalicoli non è ependimale, ma residui di epitelio si ritrovano all’esterno dei noduli gliofibrillari, quasi a demarcare i contorni del preesistente canale normale. Per tali motivi, la stenosi acquedottale da gliosi viene con-
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siderata secondaria a processi lesivi insorti negli ultimi mesi di gravidanza (sifilide e toxoplasmosi connatale). Nelle infiammazioni (batteriche, emorragiche, chimiche) un’ostruzione delle vie di deflusso liquorale può facilmente occorrere a livello intra- e extraventricolare (spazi subaracnoidei e cisterne della base) a causa dell’organizzazione mesenchimale cui vanno incontro sia i versamenti ematici (emorragie intraventricolari o subaracnoidee), sia gli essudati meningitici. Va anche ricordata la possibilità di un’organizzazione di essudati da flogosi asettiche conseguenti all’introduzione negli spazi subaracnoidei di sostanze chimiche a scopo diagnostico o terapeutico (come nel caso di mezzi di contrasto iodati liposolubili, ormai in disuso, o di chemioterapici irritanti). Numerosi tumori encefalici, infine, possono causare idrocefalo interno non comunicante attraverso: a) dislocazione dei ventricoli laterali ed il terzo ventricolo (tumori del lobo temporale e dei gangli della base); b) occlusione di uno o entrambi i forami di Monro o dell’imboccatura dell’acquedotto (tumori intraventricolari); c) compressione dell’acquedotto e del IV ventricolo (tumori della fossa cranica posteriore). Idrocefali non ostruttivi. – Sono sempre comunicanti, essendo le vie liquorali pervie in ogni loro settore, e caratterizzate da ipertensione intracranica. Si distinguono forme ipersecretive, aresorptive ed «ex-vacuo». Forme ipersecretive. Sono quasi sempre causate da meningiti batteriche o virali acute, comportanti una prolungata flogosi dei plessi corioidei con aumentata produzione liquorale, e molto più raramente da papillomi o carcinomi corioidei ipersecernenti. È bene precisare, tuttavia, che in entrambi i casi l’effetto ipersecretivo è amplificato dalla frequente coesistenza di un ostacolato deflusso liquorale dal sistema ventricolare (per depositi fibrinosi, o per occlusione parziale del forame di Monro, del III ventricolo o dell’acquedotto prossimale da parte della neoplasia).
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Forme aresorptive. Sono causate da una patologia strutturale del sistema di riassorbimento liquorale, e dipendono da un blocco dei villi aracnoidei sul versante liquorale (processi flogistico-cicatriziali post-emorragici o post-traumatici) o sul versante venoso (trombosi delle vene e dei seni durali). Il deficit aresorptivo può a sua volta dipendere: a) da un innalzamento della “pressione di apertura” dei canali di riassorbimento, con successivo normale deflusso del liquor, e b) da normale pressione di apertura dei canali con rallentato deflusso di liquor (Lorenzo et al., 1970). In questi casi, come è stato già detto, non è ben chiaro perché l’aumento di volume e di pressione del liquor possa evolvere talora in idrocefalo interno attivo, talora in ipertensione intracranica idiopatica: questa seconda eventualità, ad esempio, sembra quella preferita in corso di ipervitaminosi A o di trattamenti con particolari farmaci (v. pag. 615). Altre cause comprendono le affezioni dismetaboliche acidosiche croniche (da ipoventilazione, diabete cheto-acidotico, uremia), alcune endocrinopatie (specie ipocorticosurrenalismo primitivo o secondario), l’encefalopatia ipertensiva ed infine la patologia traumatica dell’encefalo. Forme «ex vacuo». Sono le forme di gran lunga più frequenti in età adulta e medio-avanzata, dato che ogni tipo di perdita consistente di tessuto cerebrale, indipendentemente dall’eziologia, comporta esiti idrocefalici comunicanti «ex vacuo», compensatori ed a carattere passivo o di per sé non evolutivo: basti pensare agli esiti necrotici di emorragie o rammollimenti ischemici profondi paraventricolari, o agli esiti poroencefalici postraumatici o neurochirurgici. Nelle encefalopatie che comportano progressivo depauperamento neuronale ed atrofia della corteccia cerebrale, la TC inizialmente dimostra un dominante allargamento dei solchi corticali e della scissura interemisferica (idrocefalo esterno), mentre nelle fasi più avanzate rivela un progressivo ingrandimento anche delle cavità ventricolari.
SINTOMATOLOGIA Varia drasticamente in rapporto all’età di comparsa (gestazionale, infantile, adulta), e può essere mascherata, oltre che dai sintomi e segni di un’ipertensione intracranica concomitante, anche da quelli direttamente prodotti dalla lesione causa di idrocefalo. 1) – Idrocefalo congenito. Può connotare un processo malformativo globale caratterizzato da spina bifida o mielomeningocele, oppure manifestarsi come idrocefalo non comunicante (per atresia o stenosi dell’acquedotto) o comunicante (per ostruzione infiammatoria o emorragica degli spazi subaracnoidei della convessità ). In tutti questi casi, la diagnosi prenatale è prettamente ultrasonografica. 2) – Idrocefalo in età pediatrica. Nel bambino, l’idrocefalo può manifestarsi precocemente dopo la nascita, o più spesso insorgere nei primi mesi di vita, causando progressivo ingrandimento del capo in tutti i suoi diametri (macrocefalia), allargamento e tensione delle fontanelle, turgore delle vene epicraniche, diastasi delle suture craniche (clinicamente apprezzabile dal caratteristico rumore percussorio a tipo «pentola fessa») ed appiattimento radiologicamente apprezzabile dei tetti orbitari (aspetto «a mefisto»). Ad una prima fase caratterizzata da irritabilità, pianto frequente («grido idrocefalico»), disappetenza e vomito, segue una fase di sonnolenza ed apatia ingravescente in cui si nota la comparsa di una retrazione delle palpebre superiori con paralisi dello sguardo verso l’alto, causata da compressione del tetto mesencefalico: essendo i globi oculari tonicamente deviati verso il basso e le palpebre superiori normalmente sollevate, l’eccessiva visibilità delle sclere conferisce allo sguardo un aspetto patognomonico (segno del «sole nascente»). La notevole espansibilità della teca cranica infantile può ritardare anche per molto tempo
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l’insorgenza di papilledema e di ipertensione intracranica conclamata; molto più frequentemente, invece, s’instaurano alterazioni posturali con flessione degli arti superiori ed estensione (o flessione) di quelli inferiori associate a segni di compromissione corticospinale. Spesso anche il solo mantenimento della postura seduta è difficoltoso e la marcia, qualora possibile, è esitante ed impacciata. Il quadro è aggravato dalle affezioni febbrili concomitanti, e può complicarsi in seguito alla comparsa di crisi epilettiche, di papilledema evolvente in atrofia ottica secondaria con cecità, e di deficit di nervi cranici, specie oculomotori (in ordine di frequenza VI, III, IV) ed acustico (VIII). La stabilizzazione dell’idrocefalo in fase avanzata, basato sulla derivazione liquorale, in genere permette di ottenere un parziale recupero delle capacità motorie, ed anche un certo miglioramento delle funzioni cognitive, per cui gli esiti permanenti sono rappresentati da un ritardo mentale più o meno importante con relativo risparmio della funzione fasica, eventualmente associato a deficit visivo, paresi craniali ed epilessia. 3) – Idrocefalo in età adulta. L’insorgenza spesso coincide con la comparsa di una cefalea subcontinua, più spesso bifrontale e sensibile ai cambiamenti posturali, e di altri sintomi e segni di ipertensione intracranica. Successivamente si innesca un processo di progressivo decadimento demenziale di tipo «sottocorticale» caratterizzato da: a) impoverimento ideativo, apatia, sonnolenza, rallentamento e confusione mentale; b) incontinenza urinaria; c) alterazioni della statica, con perdita delle capacità di aggiustamento posturale e tendenza alla retropulsione con caduta, e d) alterazioni della marcia, che diventa rallentata, incerta ed esitante soprattutto nella messa in moto, nei cambiamenti di direzione e nel varco di una soglia. Le difficoltà motorie, pressoché confinate agli arti inferiori, e la stessa incontinenza urina-
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ria suggeriscono una precoce compromissione delle proiezioni frontali paramediane profonde alle aree motorie primarie: infatti, l’eventuale comparsa di segni di sofferenza piramidale (paraparesi spastica, segno di Babinski) o extrapiramidale (perseverazione motoria da aumento dei riflessi di fissazione posturale, ipertonia plastica, paratonia), è generalmente molto più tardiva. Questa interpretazione è giustificata dall’evidenza di un’espansione dei tetti ventricolari (specie a livello dei corni frontali e delle celle medie) a scapito del parenchima sovrastante, rappresentato dalla sostanza bianca periventricolare/callosale ed aree corticali paramediane profonde. Le forme «ex vacuo», per definizione passive e compensatorie, sono prive di sintomatologia propria, e la loro presenza rappresenta solo un reperto accessorio - ed “in negativo” di neuroimmagini dimostranti una riduzione volumetrica parenchimale diffusa (demenze) o circoscritta (poroencefalia, lesioni vascolari, esiti di interventi). Particolari casi non dipendenti da atrofia parenchimale sono rappresentati dalla ventricolomegalia in genere modesta che si può osservare nell’anoressia nervosa, nella schizofrenia, nell’ipercorticosurrenalismo primario (m. di Cushing) o farmaco-iatrogeno (trattamenti corticosteroidei protratti) e nell’abuso cronico di alcool o cannabinoidi. In queste ultime tre circostanze, la sospensione dei farmaci o delle sostanze d’abuso permette una lenta normalizzazione del volume ventricolare. La sintomatologia neurologica o psichica connessa a queste particolari condizioni è quindi da riferirsi alla causa primaria da cui l’idrocefalo ex-vacuo dipende. IDROCEFALO NORMOTESO O NORMOTENSIVO Descritto nel 1965 da Hakim e Adams come «normal-pressure hydrocephalus» (Hakim et al., 2001), costituisce un’insidiosa forma di idrocefalo occulto comunicante e progressivo che si-
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mula una demenza, e che evolve senza cefalea, papilledema o altri sintomi e segni di ipertensione intracranica, e soprattutto con normale manometria liquorale alla rachicentesi di routine (generalmente effettuata al mattino ed in corsia). La mancanza di segni clinici di ipertensione intracranica e la normalità della pressione liquorale, tuttavia, sono solo apparenti: in realtà, come è già stato spiegato, questo tipo di idrocefalo è caratterizzato da notevoli incrementi della pressione liquorale a carattere episodico ricorrente (onde A di Lundberg o «plateau» insorgenti esclusivamente nel sonno REM ed onde B (Symon et al., 1972) e spesso da una consistente riduzione della compliance subaracnoidea spinale, dimostrabili entrambi soltanto tramite tecniche invasive e registrazioni prolungate. Nonostante l’idrocefalo normotensivo sia oggi considerato – almeno in origine – ipertensivo, la sua connotazione normotensiva viene ancora oggi valorizzata per evitare l’errata, ma possibile equazione [lieve demenza + liquor normoteso] = demenza di Alzheimer. Si riconoscono forme idiopatiche o primitive, insorgenti prevalentemente in pazienti di età medio-avanzata senza antecedenti neurologici di rilievo, e forme sintomatiche o secondarie, che possono far seguito a pregresse emorragie subaracnoidee, meningoencefaliti, ed anche ostruzioni spinali causate da neoplasie o ernie discali. Queste ultime, in effetti, riconoscono una chiara patogenesi ostruttiva, apparentemente assente nelle forme idiopatiche. La sintomatologia è sovrapponibile a quella degli idrocefali ipertensivi e progressivi, ma s’instaura in maniera molto più subdola, senza cefalea ed altri sintomi o segni di ipertensione intracranica e peggiora gradualmente nel giro di settimane o mesi, presentando nella fase conclamata una patognomonica «triade» (Adams e Victor, 1993) costituita da: 1) importanti alterazioni della statica e della marcia con frequenti cadute, 2) deterioramento mentale generalmente di modesta entità, con apatia e rallentamento
psicomotorio e 3) marcata incontinenza urinaria, non proporzionata allo stato di decadimento mentale. In particolare, l’instabilità e la perdita delle capacità di aggiustamento posturale, così come la marcata difficoltà ad iniziare il passo ed a voltarsi rapidamente non dipendono da spasticità, atassia cerebellare o atassia sensitiva agli arti inferiori, e nemmeno da ipertonia parkinsoniana, anche se quest’ultima, a prima vista, potrebbe sembrarne la causa: mancano infatti molti altri segni parkinsoniani, ad esempio il riflesso glabellare inestinguibile (s. di Myerson), e gli arti superiori oscillano normalmente durante la deambulazione. Piuttosto, le esitazioni, gli inceppamenti, gli arresti (passo magnetico) che connotano la marcia, sembrano rapportabili ad un’aprassia degli arti inferiorie a genesi prettamente «frontale» (Nutt, 2001; Kuba, 2002).
L’esperienza pratica dimostra che quasi mai la triade si presenta al completo fin dall’inizio. Se l’esordio è caratterizzato da un lieve impoverimento ideativo, che evolve lentamente senza importanti deficit della memoria o turbe della marcia o del controllo vescicale si può essere inizialmente spinti a sospettare una m. di Alzheimer, per una mera questione di probabilità epidemiologico-statistiche. In questa fase, una diagnosi differenziale è praticamente impossibile su basi puramente cliniche, ed è ovvio che solo le neuroimmagini TC e RM possono essere dirimenti. Successivamente, la comparsa di un disturbo della statica e della marcia, e soprattutto l’incontinenza, aiutano a risolvere il dilemma, a patto che, nel frattempo, non siano emersi altri disturbi suggestivi di altra patologia per certi aspetti consimile: solo per citare i più importanti, aprassia dell’arto superiore sinistro (o di entrambi gli arti superiori) associata a segni piramidali e parkinsoniani più evidenti agli arti inferiori (degenerazione cortico-basale); rigidità prevalentemente assiale associata a paralisi verticale dello sguardo (paralisi sopranucleare progressiva); disartria con riso e pianto spastico (sindrome pseudobulbare); evoluzione “a scalini” del quadro di deterioramento o recidivanti manifestazioni ictali (demenza vascolare).
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Di fronte all’ipotesi clinico-neuroradiologica di idrocefalo normoteso è necessario valutare attentamente assieme al neurochirurgo i benefici ed i rischi connessi ad una valutazione preoperatoria della pressione intracranica con sonde a permanenza. Il tema è sempre attuale e molto dibattuto (Burns e Ravindran, 2001; Reilly, 2001; Rosenfeld e Siraruj, 2001), poiché esistono molte evidenze che non tutti i pazienti operati migliorano in egual misura, e che alcuni di essi tendono a peggiorare dopo un iniziale miglioramento sviluppando una demenza degenerativa, o paradossalmente, a migliorare “nonostante” la coesistenza di una demenza degenerativa. In linea di massima, sembra fondamentale porre una diagnosi meditata, incentrata, ma non esclusivamente basata, sui criteri manometrici. ESAMI COMPLEMENTARI La diagnosi di idrocefalo è essenzialmente neuroradiologica. La definizione dei suoi meccanismi patogenetici e dell’opportunità di un drenaggio, tradizionalmente basata su indagini funzionali invasive di competenza neurochirurgica, si appoggia sempre più sulle moderne tecniche di acquisizione ed elaborazione delle neuroimmagini in RM. Diagnostica neuroradiologica. È ormai integralmente basata sulla TC e la RM dell’encefalo, che hanno completamente soppiantato l’angiografia cerebrale, la pneumoencefalografia, la pneumocisternografia frazionata e la iodo-ventricolografia (Figg. 9.75 e 9.76). La TC, e con maggior risoluzione la RM, permettono di visualizzare direttamente gli spazi liquorali intra- ed extracranici (Fig. 16.6). La RM, in particolare, utilizzando tecnica pesata in T2, permette di osservare iperintensità dei segnali periventricolari e della sostanza bianca ed assottigliamento del corpo calloso, mentre la valutazione comparativa T1-T2 consente di discriminare le alterazioni della sostan-
Fig. 16.6 - Idrocefalo normoteso. Dilatazione tetraventricolare (a, b, c) con normalità dei solchi della convessità (d) dimostrata mediante TC.
za bianca associate ad idrocefalo attivo da quelle associate ad idrocefalo passivo «ex-vacuo». Infine, la possibilità di visualizzare il flusso liquorale lento e rapido con tecnica RM di diffusione pesata eco-planare consente di documentare un ridotto o assente flusso di liquor attraverso i forami di Monro o l’acquedotto di Silvio. La TC e la RM permettono inoltre di verificare l’evoluzione dell’idrocefalo dopo drenaggio, documentandone eventuali anomalie di funzionamento (idrope residua o, all’opposto, sindrome da collasso ventricolare). Nell’idrocefalo normoteso, la RM dimostra una tipica iperintensità protonica periventricolare di spessore superiore a 5 mm., talora con disomogeneità puntiformi riferibili a sofferenza ischemica. Tali reperti tendono progressivamente a regredire dopo derivazione liquorale seguita da netto miglioramento clinico.
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Lo studio radiografico standard del cranio rimane di qualche utilità solo nell’idrocefalo infantile, confermando i segni clinici più sopra esposti. Fra le indagini non invasive dev’essere ricordata anche l’ecotomografia cerebrale. Tale esame, pur essendo facilmente ripetibile, presenta nell’adulto non poche limitazioni di indole interpretativa. In epoca prenatale, tuttavia, l’ecotomografia pelvico-addominale è di fondamentale utilità per documentare la presenza di idrocefalo fetale, potenzialmente suscettibile di trattamento intrauterino. Diagnostica funzionale. – È invasiva e di stretta competenza neurochirurgica, e trova principale indicazione nella diagnosi differenziale fra idrocefalo normoteso ed «ex-vacuo». Comprende i seguenti tipi di indagine: a) studio della diffusione di traccianti dagli spazi subaracnoidei spinali lombari a quelli cisternali, e da questi alla convessità (reperto normale) o, al contrario, nel sistema ventricolare (idrocefalo normoteso): a tal fine, la TC seriata nel tempo dopo contrasto (metrizamide) ha sostituito la mielo-cisterno-scintigrafia radioisotopica con 99m Tc-albumina; b) lo studio del riassorbimento liquorale/compliance subaracnoidea, evoluto dalla semplice tecnica di Katzman e Hussey (1970) a sofisticati tests computerizzati di infusione intratecale a flusso costante (Meier e Bartel, 2001); c) lo studio manometrico prolungato mediante sonde intracraniche disposte in sede epidurale, utile soprattutto nei pazienti con grave ipertensione intracranica e nei pazienti con sospetto idrocefalo normoteso. TERAPIA Il trattamento farmacologico antiedemigeno (corticosteroidi) o diuretico (acetazolamide, furosemide, glicerolo, ecc.) è di solito poco efficace negli idrocefali attivi, per cui, considerandone anche gli svantaggi, è da riservare alle situazioni di rapido peggioramento della sindro-
me di ipertensione intracranica e delle condizioni neurologiche, in attesa dell’intervento neurochirurgico. L’intervento consiste nell’inserimento di protesi di drenaggio isto-compatibili dotate di valvole unidirezionali in cui la pressione di apertura è opportunamente tarata per evitare l’eccessivo svuotamento delle cavità ventricolari (sindrome dei ventricoli a fessura): l’originale modello di Spitz-Holter oggi è sostituito da valvole programmabili per via magnetica transcranica (Bergsneider, 2000), che minimizzano il rischio di complicanze emorragiche post-operatorie da grave ipotensione intracranica (ematomi subdurali). In caso di idrocefalo acuto con ipertensione intracranica ingravescente per ostruzione delle vie di deflusso liquorale da parte di coaguli ematici formatisi all’interno del sistema ventricolare o all’esterno, negli spazi subaracnoidei della base o della convessità, si è dimostrata efficace la somministrazione endoventricolare o cisternale di fibrinolitici (rTPA). Nelle forme ostruttive non comunicanti, il classico intervento di derivazione ventricolocisternale (Torkildsen) oggi tende ad essere sostituito da interventi microchirurgici di drenaggio liquorale mediante fenestrazione ventricolosubaracnoidea per via endoscopica, che permettono di evitare il rischio di intolleranza o di complicazioni legate all’impianto protesico (Fishman, 1992). Nelle altre forme la derivazione si effettua entro cavità naturali (ventricolo-atriale, pleurica, peritoneale, ecc.). Il miglioramento clinico e neuroradiologico rimangono comunque subordinati alla tempestività della diagnosi e dell’intervento neurochirurgico, al buon funzionamento del drenaggio ed all’assenza di complicazioni a distanza. Un sensibile miglioramento clinico si ottiene nell’80% dei pazienti portatori di idrocefalo evolutivo sintomatico (Black, 1990) e nel 60-74% dei pazienti con idrocefalo normotensivo idiopatico (Petersen et al., 1982): in queste ultime forme, stime recenti su vaste casistiche forniscono risultati meno brillanti (59%:
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Hebb e Cusimano, 2001) o sovrapponibili (80%, con il 73% di miglioramento a distanza di 3 anni: Mori, 2001), con percentuali di complicazione variabili fra il 6 ed il 29%, e rischio di mortalità post-operatoria fino al 6% (Hebb e Cusimano, 2001). Riferimenti bibliografici 1) Funzioni di barriera BERING E.A. JR.: Choroid plexus and arterial pulsation of cerebrospinal fluid. Demonstration of the choroid plexus as a cerebrospinal fluid pump. Arch. Neurol. Psychiatry 73, 165-172, 1955. BROCKMANN K, WANG D., KORENKE C.G., VON MOERS A., H O Y.Y., PASCUAL J.M., KUANG K., Y ANG H., MA L., KRANZ-EBLE P., FISCHBARG J., HANEFELD F., DE VIVO D.C.: Autosomal dominant glut-1 deficiency syndrome and familial epilepsy. Ann. Neurol. 50, 476-85, 2001.
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Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche Le alterazioni (sindromi della coscienza tronco-encefaliche) e il coma
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17. Le alterazioni della coscienza e il coma C. Loeb
La definizione di coscienza è un compito ritenuto da molti non solo difficile ma addirittura impossibile perchè ogni definizione utilizza un circolo vizioso di termini. L’individuazione, in questi ultimi decenni, di alcuni essenziali meccanismi neurali alla base delle funzioni mentali ha certamente reso l’approccio meno difficile. La definizione proposta da Stanley Cobb (1958), ispirata a Williams James, è stata ripresa da un gran numero di clinici. La coscienza, quindi, viene usualmente definita, sul piano clinico, «la consapevolezza di sé stessi e dell’ambiente che ci circonda» (Cobb, 1958), cui viene aggiunto da Plum ( 1994) la dimensione temporale, ottenendo “una consapevolezza temporalmente ordinata del sè e dell’ambiente interno ed esterno”. Questo tipo di definizione, ampiamente utilizzata, soffre di “circolarità”, cioè vengono impiegati termini equivalenti e che, in sostanza, sono sinonimi, quali “coscienza e consapevolezza”. L’analisi delle alterazioni individuabili nel malato rende possibile una valutazione clinica della funzione di coscienza e delle sue basi anatomo-funzionali. Seppure consapevole di queste limitazioni, appare possibile definire la coscienza, sul piano clinico, come un processo che coinvolge sia l’esperienza e il riconoscimento dell’unità, della continuità temporale, dell’identità e dei confini del sé corporeo, sia il riconoscimento e l’esperienza riferite alle proprie funzioni cognitive e al mondo esterno (Loeb e Poggio, 1998). Le terminologie adottate nel passato per indicare i disturbi di coscienza sono numerose, e poiché il loro significato non è sempre univo-
co, appare opportuno fornire alcune precisazioni sui termini più usati. Il termine «sensorio» (in origine, anche in inglese o tedesco, «sensorium commune») è ancor oggi occasionalmente utilizzato, pur essendo stato introdotto da Aristotele (IV sec a.C.). Per Aristotele ogni sensazione aveva una funzione specifica (quella dei cinque sensi) e una funzione comune, appunto il “sensorium commune”, dove tutte le sensazioni convergono e dove ha sede la capacità di giudicare, comparare e distinguere le diverse qualità delle sensazioni e dove esiste anche la capacità di riconoscere che si prova una sensazione. Il sensorium commune ha sede nel cuore e, solo per traslato, è diventato sinonimo di coscienza. Vigilanza, termine introdotto da Henry Head (1923) per indicare lo stato di efficienza fisiologica di un preparato animale e, successivamente, utilizzato per indicare un elevato livello di risposte adattate dello stesso preparato, è impropriamente utilizzato nell’uomo come termine sussidiario e meno impegnativo di coscienza. Analogo commento per il termine «crude consciousness» o coscienza grezza o primitiva, che è da ritenere sinonimo di vigilanza. Mutismo acinetico è un termine coniato da Cairns (1941), per indicare uno stato in cui il soggetto non è in grado di eseguire nessun movimento volontario, non è in grado di parlare, ma è in condizioni di seguire con gli occhi, ma non volontariamente, una mira o l’esaminatore che si muove nella stanza. Questo stato è spesso indicato dagli Autori francesi come «coma vigile», termine che comporta in sé una stridente contraddizione. La sindrome apallica (Kretschmer,1942), può esser ritenuta analoga al mutismo acinetico, an-
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Le grandi sindromi neurologiche
che se alcuni movimenti sono possibili e se può esser presente rigidità o spasticità. È stato proposto che termini quali mutismo acinetico, sindrome apallica vengano sostituiti da «stato vegetativo persistente» (ANA, 1993). Recentemente viene sottolineato che il mutismo acinetico si differenzia dallo stato vegetativo per la capacità di seguire con lo sguardo un bersaglio (Schiff e Plum, 2000). A dire il vero anche nello stato vegetativo persistente il malato può, occasionalmente, essere in grado di rivolgere lo sguardo verso un rumore o un oggetto, ed anche seguire con lo sguardo oggetti di grandi dimensioni, ma questa eventualità potrebbe significare l’esistenza di un residuo di attività di coscienza (Wade e Johnston, 1999). Lipotimia, usato nel passato come sinonimo di perdita di coscienza, è oggi, usualmente, riferito a un complesso di sintomi definiti presincopali (pallore, sudorazione, sensazione di mancamento, ecc.), che non includono la perdita di coscienza, per cui il termine «lipotimia», non può essere utilizzato come sinonimo di perdita di coscienza. È opportuno ricordare, per confronto, un quadro clinico particolare, la sindrome da chiavistello («locked in syndrome»), uno stato in cui non esiste, in effetti, perdita di coscienza, ma, la paralisi dei quattro arti e degli ultimi nervi cranici permette di comunicare solo con movimenti oculari sul piano verticale o con movimenti di apertura e chiusura delle palpebre.
Classificazioni delle modificazioni di coscienza A. MODIFICAZIONI 0000).
FISIOLOGICHE:
Sonno (v. pag.
B. ALTERAZIONI O MODIFICAZIONI PATOLOGICHE 1) Alterazioni episodiche o transitorie: a) epilessia (v. pag. 000) b) sincope (v. pag. 000)
c) narcolessia (v. pag. 000) d) commozione cerebrale (v. pag. 000) 2) Alterazioni prolungate o durature: a) confusione mentale b) coma.
Alterazioni prolungate della coscienza Definizioni CONFUSIONE MENTALE O STATO CONFUSIONALE ACUTO
Con questo termine si intende un quadro caratterizzato da una destrutturazione parziale della coscienza, con turbe della memoria, dell’attenzione, dell’orientamento temporo-spaziale, del pensiero, del ciclo sonno-veglia con andamento tumultuoso e oscillante. L’esperienza cosciente di sé utilizza la coordinata organizzazione di differenti funzioni: la memoria che fornisce la continuità dell’esperienza interna, l’immaginazione, le idee, la volontà, i sentimenti che forniscono una personale impronta e colore affettivo; l’esperienza percettiva, elaborata attraverso l’attività sensitiva e sensoriale, la funzione attentiva, l’orientamento temporo-spaziale che permettono di esperire il mondo esterno degli oggetti e degli eventi, inclusa l’immagine del proprio corpo. Naturalmente l’esperienza cosciente interna, del proprio corpo e del mondo esterno, sono tra loro intimamente collegate e coordinatamente organizzate. È questa complessa attività cerebrale superiore che, nella confusione mentale, è alterata e disorganizzata. COMA È una condizione in cui, per cause patologiche cerebrali ed extracerebrali, esiste una ridu-
Le alterazioni della coscienza e il coma
zione o abolizione della coscienza e delle funzioni della vita di relazione o somatiche (motilità, sensibilità, espressione e comprensione verbale) associata ad alterazioni, talora marcate, delle funzioni vegetative o vitali (respirazione, attività cardiaca e pressoria), che possono essere abolite nella speciale condizione definita «morte cerebrale» e dagli AA. francesi «coma dépassé» (letteralmente «al di là del coma»). Aspetti semeiotici Confusione mentale o stato confusionale acuto («delirium» degli AA. americani) La sintomatologia, sommariamente riportata a pag. 175, nel capitolo delle sindromi psicorganiche consta di: a) disturbi di coscienza, caratterizzati da una ridotta consapevolezza di sé stessi e del mondo esterno, mentre la risposta agli stimoli esterni può essere abormemente ridotta o elevata. Il soggetto spesso vive una esperienza di irrealtà, simile al sogno, e talora, in maniera non continua, dimostra un obnubilamento della coscienza; b) disturbi dell’attenzione: esiste difficoltà ad ottenere «accesso» al paziente, mantenere l’attenzione su determinati stimoli esterni (ad esempio le domande debbono essere ripetute diverse volte); c) gravi disturbi della memoria immediata e successivamente anche disturbi modesti della memoria a breve termine e della memoria a lungo termine (impossibilità di ricordare dopo cinque minuti tre nomi o tre sostantivi che il soggetto ha adeguatamente ripetuto, sempre che le condizioni del paziente consentano questa prova); d) disorientamento temporo-spaziale e per le persone: il soggetto non è in grado di riconoscere l’ora, il giorno della settimana, il mese, la stagione, l’anno (orientamento temporale); di
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indicare il proprio indirizzo, il luogo ove si trova (orientamento spaziale); di precisare la propria identità e quella dei famigliari che lo circondano e di indicare il ruolo di ciascuno in famiglia. Le funzioni di orientamento qui indicate implicano la possibilità di ricevere ed elaborare i dati percettivi esterni e di immagazzinarli (memoria immediata e a breve termine); e) disturbi del pensiero, dell’affettività, della percezione e del comportamento. Il pensiero è spesso frammentario e poco coerente. I deliri sono piuttosto rari e comunque transitori e poco organizzati, usualmente a contenuto persecutorio. Lo stato affettivo è contrassegnato da irritabilità, ansietà, agitazione e talora da apatia e depressione, mentre l’euforia o uno stato subeuforico sono meno comuni. Caratteristica comunque l’oscillazione anche rapida dello stato affettivo (da depressione a euforia o viceversa). Illusioni e allucinazioni sono molto frequenti (dal 40 al 75% dei casi) specie nei giovani, e consistono in forme geometriche e colori o visione di persone, animali ed oggetti (specie negli stati tossici). Il malato può essere ipoattivo o iperattivo o alternare questi due stati. L’iperattività è in genere associata ad un stato di vivace ma incongrua risposta agli stimoli ambientali, e di logorrea usualmente incoerente (tenta in maniera continua di scendere dal letto volendo lasciare l’ospedale; esegue movimenti continui privi di scopo; parla in maniera incessante). L’ipoattività può essere molto marcata e allora il soggetto giace inerte e non parla. Questi due stati si possono alternare nel tempo, anche in breve periodo; f) il ciclo sonno-veglia è gravemente alterato e il soggetto è sonnolento di giorno e insonne di notte. Il sonno può essere accompagnato da incubi e da allucinazioni al risveglio. Il debutto della sintomatologia confusionale è tipicamente improvviso (stato confusionale acuto) e si sviluppa in poche ore e spesso
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Le grandi sindromi neurologiche
compare di notte. Nei casi in cui il debutto è relativamente graduale, esiste un periodo prodromico con malessere, irritabilità, alterazioni del ciclo sonno-veglia. L'EEG può presentare alterazioni di tipo diverso: attività lenta diffusa, abbondante attività rapida, attività di tipo epilettico, onde trifasiche, in relazione con il quadro clinico responsabile (Tab. 9.3, pag. 343). Le cause dello stato confusionale sono riportate a pag. 175. In rapporto con la gravità della patologia causale e dell’età avanzata il quadro può evolvere, se non è possibile intervenire adeguatamente, in uno stato di coma fino al decesso. Coma I soggetti con turbe di coscienza non possono fornire collaborazione per l’esecuzione di un esame neurologico completo, ma si può raggiungere, con un adeguato esame clinico, uno degli obbiettivi più importanti affidato alla semeiotica neurologica, cioè la diagnosi di sede di lesione. Gli elementi semeiotici da prendere in considerazione in un soggetto in coma sono rappresentati da: a) stato di coscienza; b) alterazioni del respiro; c) alterazioni delle pupille e della motilità oculare; d) alterazioni della funzione motoria.
ALTERAZIONI DELLA COSCIENZA Il monitoraggio clinico delle condizioni di coscienza è fondamentale per seguire l’evoluzione della malattia nel tempo, ed esprimere una valutazione prognostica. Nella letteratura internazionale viene ampiamente utilizzata la scala per il coma di Glasgow (Glasgow Coma Scale) (Tab. 17.1), inizialmente impiegata per il coma post-traumatico (anche da personale non specializzato), e poi utilizzata ampiamente per comi di altra natura. La scala si riferisce a tre parametri fondamentali: risposta per l’apertura degli occhi, risposta verbale, risposta motoria. Il punteggio può oscillare da un minimo di 3, per i soggetti in coma profondo, ad un massimo di 15 per i soggetti senza turbe di coscienza. La scala fornisce uno strumento di facile impiego (anche, seppure con pareri non univoci, per personale infermieristico) per una quantificazione numerica della profondità del coma. Tuttavia, questa scala non può essere utilmente impiegata nei soggetti con disturbi fasici, e comunque anche l’approccio semeiotico per la valutazione della profondità dell’alterazione della coscienza deve essere conosciuto ed espletato. Anche coloro che, seguendo Plum e Posner (1980), non tengono conto dei diversi livelli di compromissione della coscienza, in effetti riconoscono almeno due livelli di alterazione della coscienza: lo stupor
Tabella 17.1 - Scala di Glascow per il coma. Quantificazione dello stato di coscienza. A. Apertura degli occhi spontanea a richiesta da stimolo doloroso assente
Punteggio 4 3 2 1
B. Risposta verbale Punteggio orientata 5 confusa 4 parole inappropriate 3 suoni incomprensibili 2 assente 1
(Punteggio Max 15/Min 3)
C. Risposta motoria Punteggio su comando 6 a stimolo doloroso con localizzazione 5 coordinata al dolore 4 flessoria al dolore 3 estensoria al dolore 2 assente 1
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e il coma. Vengono in questa sede indicati tre livelli diversi di compromissione della coscienza, semeioticamente distinguibili, che consentono, sul piano pratico, al letto del malato, una valutazione rapida dell’evoluzione migliorativa o peggiorativa della compromissione di coscienza. – Il coma può essere definito leggero o Coma 1, quando esiste un rallentamento del pensiero e delle attività motorie. Il soggetto appare in uno stato di dormiveglia, la comprensione degli ordini è incompleta e parziale, la cooperazione spesso insufficiente. Il soggetto stimolato apre gli occhi, tenta, seppure con lentezza e difficoltà, di eseguire quanto viene richiesto. Lasciato a sé, chiude gli occhi e appare inerte e indifferente all’ambiente. I termini usualmente impiegati per indicare questo stato sono: ottundimento, sopore, torpore ( stupor), ma una descrizione semeiotica, come più sopra indicato, dovrebbe accompagnare l’indeterminatezza di questi termini. – Nel coma moderato o Coma 2, la perdita di coscienza è più marcata: il soggetto giace inerte, gli occhi chiusi, senza la capacità di rispondere agli usuali richiami. Risponde con movimenti automatici elementari a stimoli dolorosi, anche intensi, tentando, talora in modo poco efficace, di allontanare lo stimolo. – Nel coma profondo o Coma 3, il soggetto giace inerte, non risponde agli ordini o inviti rivoltigli e a nessun tipo di stimolo doloroso, anche intenso. ALTERAZIONI DEL RESPIRO (Fig. 17.1) – Respiro di Cheyne-Stokes. È un respiro periodico che alterna l’iperpnea con l’apnea; la fase iperpnoica ha un andamento di graduale crescendo e decrescendo e dura più a lungo della fase apnoica. È dovuto a lesioni cerebrali, ma anche ad alterazioni metaboliche, all’anossia.
Fig. 17.1 - Rappresentazione grafica dei diversi tipi di respirazione osservabili nel coma. Le attività respiratorie indicate si esplicano in un minuto.
Le lesioni cerebrali dirette o indirette sono localizzate a livello diencefalico. In questi soggetti l’accumulo di CO2 produce iperpnea che, a sua volta, è responsabile di una diminuzione del CO2 nel sangue al di sotto del livello utile per stimolare i centri respiratori, per cui il respiro si arresta. Durante l’apnea il CO2 si accumula nuovamente e si eleva oltre il livello normale per cui il ciclo periodico si ripete. – Iperventilazione centrale neurogena. Si tratta di una iperpnea regolare, rapida (40-60 al minuto), profonda,senza alterazioni dell’equilibrio acido-basico (normali valori della gas analisi). Si ritrova nelle lesioni a livello tegmentale della porzione ponto-mesencefalica 1. – Respiro apneustico. Consiste in una pausa del respiro che interviene nella fase inspiratoria ed è raro nell’uomo. Si riscontra quando esiste una lesione a livello del terzo rostrale del ponte; si ritrova anche nell’ipoglicemia, nell’anossia e nelle meningiti gravi.
1
Il respiro di Kussmaul è costituito da inspirazioni ed espirazioni molto ampie, in genere a ritmo accelerato.
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Le grandi sindromi neurologiche
– Respiro a grappolo. Consiste in sequenze di atti respiratori irregolari per ampiezza, seguiti da pause irregolari. Si verifica per lesioni bulbari rostrali o pontine caudali. – Respiro atassico. Consiste in un respiro che si effettua in maniera irregolare e impossibile a prevedersi (respiro di Biot). Una lesione dei centri respiratori bulbari, a livello della porzione dorso-mediale del bulbo, nella formazione reticolare, causa questo tipo di respiro: in particolare lesioni tumorali, emorragiche, la poliomielite e talora malattie demielinizzanti. Per riassumere indichiamo i diversi tipi di respiro patologico in rapporto alla sede di lesione: 1) lesione emisferica o diencefalica: respiro di Cheyne-Stokes; 2) lesione tegmentale mesencefalo-pontina: iperventilazione centrale neurogena; 3) lesione tegmentale dei 2/3 pontini caudali: respiro apneustico, respiro a grappolo, respiro atassico; 4) lesione bulbare: respiro atassico, respiro regolare lento. ALTERAZIONE DELLE PUPILLE E DELLA MOTILITÀ OCULARE
Alterazioni pupillari Le alterazioni pupillari nei soggetti comatosi hanno un notevole valore semeiotico. Si può riscontrare: – sindrome di Claude Bernard-Horner (miosi, enoftalmo, restringimento della rima palpebrale (v. pag. 000), per lesione ipotalamica e bulbare. Spesso si associa, nelle lesioni ipotalamiche, anidrosi dell’emicorpo ipsilaterale (faccia e braccio esclusi); – pupille miotiche reagenti alla luce, per lesioni diencefaliche bilaterali; – pupille in posizione media (3-5 mm di diametro) o assenza del riflesso alla luce e conser-
vazione del riflesso all’accomodazione (è possibile rilevare una spontanea fluttuazione del diametro pupillare o hippus) per lesione a livello del tetto o pretetto mesencefalico; – pupille con diametro medio (3-5 mm), spesso anisocoriche e anisocicliche, riflesso alla luce abolito, per lesione mesencefalica. Se la lesione interessa il III paio si avrà una paralisi del III con midriasi, spesso bilaterale; – pupille puntiformi non reagenti alla luce, per lesioni pontine tegmentali; – la risposta pupillare del riflesso cilio-spinale (v. pag. 000) consiste in una modesta dilatazione pupillare bilaterale (l-2 mm) per stimolo doloroso portato alla faccia e alle regioni superiori della cute del tronco. Il riflesso utilizza vie afferenti dolorifiche spinali e vie efferenti pupillo-dilatatrici simpatiche, che avendo la loro stazione sinaptica a livello del midollo cervicale non sono utilizzabili per saggiare l’integrità del troncoencefalico. Alterazioni della motilità oculare Hanno importanza semeiotica nei soggetti in coma: – movimenti oculari lenti, irregolari, coniugati o divergenti. Si trovano per lesioni emisferiche diffuse o bilaterali ; – deviazione oculare laterale coniugata: i globi oculari sono deviati lateralmente. La deviazione può essere paralitica (ipsilaterale) o irritativa (controlaterale), in genere per lesione del lobo frontale; deviazione oculare coniugata verso il basso o verso l’alto: la lesione è presumibilmente a livello mesencefalico; – deviazione oculare strabica, paralisi internucleare (v. pag. 241); la lesione è pontina dorsolaterale o del fascicolo longitudinale posteriore; – movimenti oculari oscillatori verticali (ocular bobbing) segno di grave compromissione a livello pontino. Le risposte oculari riflesse sono rappresentate da:
Le alterazioni della coscienza e il coma
– il riflesso oculo-cefalico o fenomeno degli occhi di bambola che consiste nella deviazione coniugata laterale in senso opposto alla rotazione del capo (il capo è ruotato verso sinistra e gli occhi deviano lateralmente verso destra; analogamente per la flessione del capo verso il basso gli occhi si elevano e per l’estensione del capo verso l’alto gli occhi si abbassano). Il riflesso non è presente nei soggetti normali e, se presente nei soggetti in coma dimostra l’integrità delle strutture troncali (funzioni oculogire e nuclei dei nervi cranici); – i riflessi oculo-vestibolari (v. pag. 236) sono di più difficile attuazione pratica poichè richiedono, per essere correttamente effettuati, l’aiuto di un otoiatra. Nei soggetti in coma per lesioni emisferiche diffuse o bilaterali le risposte oculo-cefaliche sono pronte, mentre la stimolazione calorica provoca una deviazione oculare tonica. Nei soggetti in coma con lesioni frontali (e deviazione oculare paralitica) le risposte oculocefaliche e caloriche sono presenti, ma dopo qualche ora dal debutto della sintomatologia. Se i globi oculari sono completamente deviati lateralmente e possono essere riportati sulla linea mediana e verso il lato opposto da stimoli oculo-cefalici o calorici, la lesione è con tutta probabilità emisferica. Se i globi oculari sono parzialmente deviati, ma non possono essere modificati nella loro posizione da stimoli oculo-cefalici o calorici, la lesione è presumibilmente pontina. Se il riflesso oculo-cefalico e la stimolazione calorica provocano un movimento oculare verticale non coniugato la lesione è a livello del tronco encefalico.
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cato clinico, sono rilevabili in stadi di coma più profondo, quali il riflesso di prensione, la paratonia, la rigidità decorticata e decerebrata. Il riflesso di prensione si ricerca in decubito laterale: la stimolazione che l’esaminatore porta col dito o con un oggetto smusso sul palmo della mano del paziente, induce la contrazione tonica delle dita della mano con afferramento dell’oggetto. È espressione di lesione frontale controlaterale. La paratonia o negativismo motorio spontaneo (v. pag. 33) rappresenta un aumento del tono muscolare di tipo plastico che si sviluppa al momento in cui l’esaminatore tenta di mobilizzare passivamente un arto. La sua fisiopatogenesi è oscura; si verifica usualmente nelle lesioni emisferiche diffuse con interessamento dei gangli basali. Durante lo stato di obnubilamento o di sopore, o di riduzione della coscienza anche marcata, la risposta motoria a stimoli nocicettivi può essere inappropriata o stereotipata, con tentativi inefficaci di allontanare lo stimolo. La rigidità decorticata (v. pag. 34) si ritrova nelle lesioni emisferiche, che interrompono la via cortico-spinale; lesioni quindi che includono la capsula interna e, talora, i gangli basali e il diencefalo. La rigidità decerebrata (v. pag. 33) si rivela in lesioni del tronco encefalico rostrale, anche indirette (v. ernie cerebrali, pag. 642), e comunque nelle lesioni della fossa posteriore che comprimono il tronco encefalico. La rigidità decorticata e decerebrata può essere provocata da stimolazioni dolorose (compressione del pavimento orbitale). Atteggiamento da rigidità decerebrata agli arti superiori associata a flaccidità o risposta flessoria agli arti inferiori si ritrova nelle lesioni del tronco encefalico, specie a livello pontino medio (livello di entrata del trigemino).
ALTERAZIONI DELLA FUNZIONE MOTORIA Nel soggetto in coma lieve è possibile rilevare le tipiche turbe della motilità da lesione della via cortico-spinale (monoplegie, emiplegie) che hanno tuttavia scarso valore localizzatorio. Altre alterazioni motorie con maggior signifi-
Sindromi cliniche SINDROME DI DETERIORAMENTO ROSTRO-CAUDALE L’insieme dei segni indicati nel precedente paragrafo sugli aspetti semeiotici del coma, ha
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Le grandi sindromi neurologiche
permesso di individuare una serie di sindromi denominate da Plum e Posner (1980) «Sindromi di deterioramento rostro-caudale», espressione del deterioramento funzionale del diencefalo, mesencefalo, ponte, bulbo, e in particolare della compromissione, in genere graduale e progressiva, dalle porzioni più rostrali (diencefalo) a quelle più caudali (bulbo) del cervello, durante lo stato di coma e il suo possibile aggravamento. L’individuazione di queste sindromi permette pertanto di precisare la sede della lesione e di avere un utile strumento di valutazione prognostica nel seguire un malato in coma. Naturalmente quando lo stato di coscienza è alterato allo stadio 1 e talora 2, anche una parte dell’usuale esame neurologico, riferito alla motilità e alla sensibilità è possibile e fornisce un utile apporto alla diagnostica, distinguendo i comi di genesi neurologica (con alterazioni focali all’esame neurologico) dai comi metabolici (assenza di segni neurologici focali). Si distinguono, semplificando da Plum e Posner (1980), le seguenti sindromi: sindrome diencefalica, sindrome mesencefalica, sindrome ponto-bulbare. La sindrome diencefalica presenta le seguenti caratteristiche: – disturbi dello stato di coscienza: coma 1, con possibile saltuario approfondimento del coma, e talora agitazione psicomotoria; – la respirazione è interrotta da profonde inspirazioni e occasionali pause oppure è di tipo Cheyne Stokes; – le pupille sono miotiche (1-2 mm di diametro) e, solo con una luce particolarmente intensa, dimostrano l’esistenza del riflesso pupillare, ma la contrazione è minima; – i globi oculari mostrano lenti movimenti coniugati o lievemente divergenti. Il riflesso degli occhi di bambola è presente, ma talora assente sul piano verticale; – l’irrigazione auricolare con acqua fredda evoca un lento movimento tonico verso il lato
stimolato, mentre la componente rapida del nistagmo è abolita o fortemente ridotta; – sul piano motorio si osservano segni bilaterali di deficit delle vie cortico-spinali (con plantare in estensione bilateralmente) ed extrapiramidali (rigidità generalizzata con rigidità nucale). La sindrome mesencefalica prova la progressione della lesione in senso rostro-caudale; – lo stato di coma persiste e può ulteriormente approfondirsi e il soggetto non risponde neppure agli stimoli dolorosi intensi (Coma 2-3, v. pag. 637); – il respiro di tipo Cheyne-Stokes si modifica in respiro di tipo iperventilazione centrale neurogena; – le pupille diventano più ampie (da 3 a 5 mm di diametro) e non reagiscono alla luce. Il riflesso ciliospinale può scomparire; – le risposte oculo-cefaliche e vestibolari sono assenti o diventano elicitabili con estrema difficoltà; – la funzione motoria mostra, alla stimolazione nocicettiva, una risposta di tipo decerebrato che può essere assunta anche spontaneamente; – occasionalmente si può rilevare: diabete insipido, marcata fluttuazione della temperatura corporea, oppure ipertermia o ipotermia. Ciò è dovuto a trazione e compressione dell’area ipotalamo-ipofisaria. La sindrome ponto-bulbare è espressione dell’ulteriore aggravamento del malato. Il coma persiste profondo (coma 3); il respiro può sembrare abbastanza regolare, più spesso frequente (fino a 40 respiri/minuto); le pupille permangono in posizione media, non reagiscono alla luce, nè esiste riflesso ciliospinale; le risposte oculo-cefaliche e vestibolari sono assenti; il soggetto è flaccido e talora a stimoli nocicettivi si ottiene una risposta flessoria agli arti inferiori. La sindrome ponto-bulbare rappresenta lo stadio terminale del deterioramento funzionale ed allora la respirazione rallenta, è irregolare per ritmo e profondità, dimostra frequenti pause e
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forzate inspirazioni e alla fine si interrompe. Le pupille, a respirazione cessata, spesso si dilatano. La sindrome da deterioramento rostro-caudale è identificabile solo nel caso di comi da lesione encefalica, ma non nei comi metabolici. La Tabella 17.2 riporta uno schema riassuntivo degli aspetti semeiotici del coma neurologico in rapporto alla sede di lesione.
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di tipo espansivo che esercitano, modificazioni importanti dei normali rapporti anatomici che portano in definitiva ad una azione compressiva delle strutture diencefaliche e del tronco encefalico e quindi comportano alterazioni della coscienza e coma. Per questa ragione le sindromi da ernia cerebrale vengono descritte in questo capitolo. LESIONI SOPRATENTORIALI
Coma da ernie cerebrali Le lesioni occupanti spazio a livello sopra e sottotentoriale possono provocare, per l’azione
Una lesione sopratentoriale specie, ma non esclusivamente, di tipo tumorale è, per le sue caratteristiche di lesione espansiva, molto frequentemente responsabile di una grave modifi-
Tabella 17.2 - Riassunto degli aspetti semeiotici del coma neurologico in rapporto alla sede di lesione. Sede della lesione Elementi semeiotici
1. Coscienza
2. Respiro
3. Pupille (*)
4. Mov. oculari
5. Motilità
Emisferi
Diencefalo
stadio 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . stadio 2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . stadio 3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
* *
* *
Cheyne-Stokes . . . . . . . . . . . . . . . . . Iperventilazione centrale . . . . . . . . . Apneustico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A grappolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Atassico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Regolare lento . . . . . . . . . . . . . . . . .
*
< 2 mm reagenti . . . . . . . . . . . . . . . . 2-5 mm non reagenti . . . . . . . . . . . . 1-2 mm non reagenti . . . . . . . . . . . .
*
Lenti, coniugati o divergenti . . . . . . Deviazione coniugata laterale . . . . . Deviazione strabica . . . . . . . . . . . . . Assenza fenomeno occhi di bambola .
* *
Rigidità decorticata . . . . . . . . . . . . . . Rigidità decerebrata . . . . . . . . . . . . . Rigidità decorticata arti sup. e risposta flessione arti inf. . . . . . . . . . . . . . . . .
*
(*)< 2 mm = miosi > 2-5 mm = posiz. intermedia > 6 mm = midriasi
Mesencefalo
Ponte-Bulbo
* *
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* * * * * * * * * *
*
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* * *
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cazione dei normali rapporti anatomici tra le varie porzioni della massa encefalica e tra massa encefalica e cavità cranica che la contiene. La cavità cranica di struttura ossea è di per se stessa inestensibile e non idonea a sopportare, nell’adulto, la presenza di una lesione occupante spazio sopratentoriale, la quale ovviamente fa risentire i suoi effetti espansivi dislocando porzioni di encefalo o in senso latero-laterale o latero-mediale guadagnando spazio a livello degli spazi subaracnoidei, oppure delle cavità ventricolari e delle vie arteriose e venose, oppure verso il basso in direzione dell’unica via apparentemente libera, cioè il forame tentoriale, che mette in comunicazione lo spazio sopratentoriale con lo spazio sottotentoriale. Si può manifestare quindi lo spostamento della massa encefalica di un emisfero al di là della linea mediana o la dislocazione dell’area diencefalomesencefalica in senso rostro-caudale attraverso il forame tentoriale. Lo spostamento e l’impegno di porzioni encefaliche in sedi abnormi, dovute a cause compressive, viene indicato con il termine di ernia. Distinguiamo: l’ernia cingolata, quando il giro del cingolo passa sotto la falce; l’ernia centrale o trans-tentoriale, quando la regione diencefalo-mesencefalica viene spostata verso il basso e si impegna in parte nel forame tentoriale; l’ernia uncale, quando l’uncus dell’ippocampo e il giro ippocampale erniano attraverso il margine laterale del tentorio (Fig. 17.2). Le ernie e gli spostamenti di sostanza cerebrale sono responsabili di gravi alterazioni di vascolarizzazione: l’ernia cingolata comprime l’arteria cerebrale anteriore; le ernie centrale e uncale comprimono l’arteria cerebrale posteriore, possono deformare il tronco cerebrale, comprimere l’acquedotto di Silvio fino a bloccare la circolazione liquorale, produrre ischemia ed emorragie del tronco encefalico (emorragie secondarie). Le ernie cerebrali e gli spostamenti di porzioni cerebrali sulla linea mediana in caso di lesioni espansive cerebrali producono quin-
Fig. 17.2 - Le ernie cerebrali. 1: ernia cingolata; 2: ernia uncale; 3: ernia delle tonsille cerebrali.
di alterazioni vascolari e compressive che aggravano il processo morboso e lo rendono irreversibile. – Ernia della circonvoluzione del cingolo. L’erniazione della circonvoluzione del cingolo sotto la falce (Fig. 17.2) produce, attraverso la compressione del lobo frontale controlaterale e delle arterie cerebrali anteriori, segni quali: tetraparesi, disturbi psichici a tipo di deterioramento mentale, atassia della marcia. – Ernia centrale o transtentoriale. Lo spostamento verso il basso e l’impegno nel forame tentoriale della regione diencefalomesencefalica conduce alla sindrome da deterioramento rostro-caudale sopradescritta nelle sue diverse forme (sindrome diencefalica, mesencefalica, ponto-bulbare). – Ernia uncale. L’erniazione dell’uncus dell’ippocampo e del giro ippocampale attraverso il margine libero del tentorio, provoca, all’inizio, compromissione del III paio, omolaterale alla lesione, e successivamente distorsione e spostamento verso il
Le alterazioni della coscienza e il coma
basso del tronco encefalico (Figg. 17.2; 17.3). Si distinguono clinicamente i seguenti stadi diversi: 1) compressione precoce del 3° paio dei nervi cranici. La compressione del 3° paio sul legamento petro-clinoideo o tra la massa erniata e il bordo libero del tentorio, produce una dilatazione pupillare e una riduzione marcata del riflesso pupillare alla luce, unilateralmente. La coscienza è integra; 2) compressione tardiva del 3° paio dei nervi cranici. La pupilla è dilatata al massimo, il riflesso pupillare alla luce è abolito, unilateralmente. Si manifestano i segni di una sindrome da deterioramento diencefalico con turbe del respiro;
Fig. 17.3 - Ernia uncale (vedi freccia) da tumore sopratentoriale. Notare la deformazione esercitata sulla faccia laterale del mesencefalo.
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3) successivamente, quando la compressione interessa il mesencefalo e il ponte, ambedue le pupille sono dilatate e non reagenti alla luce e si associa una sindrome di deterioramento mesencefalico e pontino. Successivamente si può verificare una sindrome di deterioramento pontino e bulbare. LESIONI SOTTOTENTORIALI Le lesioni sottotentoriali possono anch’esse provocare importanti modificazioni nei rapporti anatomici delle strutture della fossa posteriore. Si può infatti osservare: dislocazione verso l’alto del cervelletto e del mesencefalo (ernia cerebello-mesencefalica o invaginazione nel forame tentoriale); ernia delle tonsille cerebellari nel forame magno, con compressione del bulbo; compressione diretta del tronco encefalico: – ernia cerebello-mesencefalica. Si riscontrano i seguenti segni: oftalmoplegie nucleari o internucleari, paralisi dei movimenti oculari laterali coniugati ed eventualmente dei movimenti coniugati sul piano verticale; i segni della sindrome di deterioramento mesencefalico; – ernia delle tonsille cerebellari (nel forame magno). Si osservano i seguenti segni: cefalea intensa, rigidità nucale, contrazione durevole dei muscoli nucali, e accessi tonici in estensione degli arti e del tronco (accessi tonici cerebellari o «cerebellar fits»). Se è erniata una sola tonsilla, l’occipite è ruotato verso il basso e verso il lato opposto della tonsilla erniata, realizzando una caratteristica distonia di atteggiamento del capo (Fig. 17.2); – compressione diretta. Se si manifesta acutamente, l’alterazione o l’abolizione della coscienza è, quasi invariabilmente, la regola; se si instaura lentamente si possono osservare deformazioni, anche rilevanti, del tronco encefalico senza turbe della coscienza (ad es.: aneurismi dell’art. basilare possono raggiungere dimensioni rilevanti senza turbe della coscienza e talora anche in assenza di segni clinici di altro tipo).
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Le grandi sindromi neurologiche
Coma da disturbi metabolici Lo studio semeiotico del coma da causa metabolica ha aspetti diversi da quello del coma neurologico. Accade, tuttavia, che specie in assenza di dati anamnestici adeguati, si debba procedere a una diagnosi differenziale tra coma neurologico e coma metabolico. Se il disturbo di coscienza è di grado lieve o discreto (stadio 1 o 2) l’esame neurologico è possibile, anche se non nella sua completezza, che necessita adeguata collaborazione. In particolare si potrà identificare per un coma neurologico, l’esistenza di: – segni di compromissione motoria agli arti (l’arto paretico ricade sul piano del letto immediatamente appena sollevato e comunque prima e più velocemente del controlaterale); presenza del segno di Babinski; – segni di compromissione dei nervi cranici: asimmetria della rima orale e «segno di fumar la pipa» (la guancia si gonfia e si sgonfia passivamente con l’espirazione e l’inspirazione) per paralisi dei muscoli innervati dal VII paio; turbe della motilità oculare coniugata; alterazioni unilaterali del diametro pupillare; – disturbi della sensibilità dolorifica ad un emilato (lo stimolo doloroso eccita una risposta di allontanamento o una risposta mimica solo da un lato). Se le alterazioni della coscienza sono allo stadio 3 e i segni neurologici focali non riescono ad emergere e non possono essere rilevati, specie in assenza di dati anamnestici, il coma metabolico è segnalato dai seguenti elementi: – lo stato di coma è molto spesso preceduto da disturbi confusionali; – il respiro può avere alterazioni generiche o specifiche. Le alterazioni generiche sono caratterizzate da iperventilazione postapnoica o da respiro tipo Cheyne-Stokes, e talora da iperventilazione neurogena. Brevi periodi di iperpnea o di apnea si riscontrano nell’intossicazione da barbiturici o nell’ipoglicemia e nell’anossia. Le
alterazioni specifiche rispecchiano una modificazione omeostatica di fronte a turbe dell’equilibrio acido-basico. L’iperventilazione può significare allora o un compenso all’acidosi metabolica o la risposta a una stimolazione respiratoria primitiva (alcalosi respiratoria). Nel primo caso il pH è basso (< 7,30) e così il bicarbonato serico (< 10 mEq/l), nel secondo il pH è alto (> 7,45) e il bicarbonato serico normale o lievemente ridotto. L’acidosi metabolica può esser dovuta a uremia, diabete, latticoacidosi (spontanea o da anossia, e da veleni acidi o con prodotti acidi di degradazione). L’alcalosi respiratoria può essere dovuta a coma epatico, malattie polmonari, sepsi, avvelenamento da salicilici. L’ipoventilazione può essere dovuta a compenso per alcalosi metabolica o a depressione respiratoria con conseguente acidosi respiratoria. Nell’alcalosi metabolica il pH è elevato (> 7,45) e così il bicarbonato serico (> 35 mEq/l). Nell’acidosi respiratoria il pH è basso (< 7,35) e il bicarbonato serico normale o elevato. L’alcalosi metabolica è dovuta a eccessiva ingestione di alcali o a perdita di sostanze acide per le vie escretorie intestinali o renali. L’acidosi respiratoria è dovuta a malattie polmonari o neuromuscolari o a depressione del centro respiratorio. Questi quadri inducono ipossia e ritenzione di CO2. – i riflessi pupillari e il riflesso ciliospinale sono usualmente preservati nel coma metabolico, anche quando il respiro e i segni motori starebbero ad indicare un’alterazione grave del tronco encefalico. Anzi la preservazione dei riflessi pupillari in casi con depressione dell’attività respiratoria, rigidità decerebrata o flaccidità permette di affermare l’esistenza di un coma metabolico. – i globi oculari non presentano usualmente movimenti e mantengono la posizione dello sguardo diretto. La permanente deviazione coniugata o non coniugata dei globi oculari suggerisce l’esistenza di una lesione del sistema nervoso centrale e non un coma metabolico.
Le alterazioni della coscienza e il coma
– Si possono riscontrare disturbi, espressione della depressione funzionale del sistema nervoso, quali paratonia, riflessi di prensione, rigidità decerebrata e decorticata. In particolare possono presentarsi: tremori irregolari, ampi, con frequenza di 8-10 per secondo, mioclonie, tremori a battito d’ala (asterixis degli AA. anglosassoni). Le mioclonie agli arti e alla faccia sono soprattutto evidenti nel coma post-anossico, ma anche nel coma da encefalopatia epatica (possono trovare una soluzione terapeutica con l’impiego di clonazepam; acido valproico; 5 idrossitriptofano associato a carbidopa). VALUTAZIONE DIFFERENZIALE TRA COMA NEUROLOGICO E COMA METABOLICO
Segni utili per la diagnosi di coma neurologico. Sono rappresentati da segni neurologici focali, quando è possibile l’esecuzione di un esame neurologico o da deficit di nervi cranici, specialmente paresi del faciale con il segno di “fumar la pipa”, assenza dei riflessi pupillari, alterazione unilaterale del diametro pupillare oppure da una sindrome di deterioramento rostro-caudale e presenza del riflesso bulbo-mimico. Segni utili per la diagnosi di coma metabolico. Quando segni focali neurologici o una sindrome di deterioramento rostro-caudale non sono evidenziabili, il coma è metabolico. Eccezionalmente uno stato di edema cerebrale, un’encefalite possono occasionalmente e transitoriamente non dimostrare segni neurologici focali. In questi casi tuttavia, la determinazione della glicemia, della funzionalità epatica e renale, la presenza di un collasso circolatorio o di patologia polmonare possono essere rapidamente accertati, in ambiente adatto, per individuare alcune delle cause più comuni e importanti di coma. Possibili difficoltà. Riguardano : l’intossicazione alcoolica, la quale può accompagnarsi a
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segni neurologici focali (etilismo associato a trauma cranico e talora ad ematoma subdurale), una ipoglicemia può, in alcuni soggetti, essere responsabile di segni neurologici focali, ad esempio una emiplegia. La maggioranza di questi casi sono soggetti diabetici in terapia con insulina o ipoglicemissanti. L’emiplegia compare con una glicemia di 60 mg/dl. Le difficoltà diagnostiche possono essere superate, in ambiente ospedaliero, dalla consulenza internistica che può accertate o meno la presenza di un collasso circolatorio, di patologie polmonari, epatiche, renali anche con l’esecuzione di esami di laboratorio che richiedono poco tempo per essere espletati ( glicemia, funzionalità epatica e renale). Le neuroimmagini potranno chiarire l’esistenza di una patologia encefalica. Le cause del coma di origine metabolica sono indicate nella Tabella 17.3. Tabella 17.3 - Cause del coma metabolico. A. Deficienza d’ossigeno, cofattori e substrati metabolici: ipoanossia, ischemia, ipoglicemia, deficienza di cofattori (tiamina, piridossina, cianocobalamina). B. Malattie internistiche: 1) patologia organi interni (fegato, rene, polmoni); 2) patologia organi endocrini (pituitaria, tiroide, paratiroide, pancreas, surrenali); 3) porfiropatie. C. Avvelenamenti esogeni: – da farmaci sedativi (barbiturici, oppiacei, fenotiazinici, ecc.); – da veleni acidi (paraldeide, alcool metilico, ecc.); – da inibitori enzimatici (metalli pesanti, fosforo organico, ossido di carbonio). D. Alterazioni ioniche e dell’equilibrio acido basico (iper e iponatriemia, acidosi e alcalosi metabolica e respiratoria, iper e ipocaliemia, iper e ipocalcemia). E. Malattie che producono tossine e inibizione enzimatica nel sistema nervoso centrale (meningite, encefalite, emorragia subaracnoidea).
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STATO VEGETATIVO STATO VEGETATIVO PERSISTENTE O CRONICO È una condizione caratterizzata da: gravi turbe della coscienza, con mantenimento delle funzioni vegetative o vitali (attività cardiaca, respiratoria e pressoria) e preservazione del ciclo sonno-veglia. Il soggetto non è in grado di rispondere a stimoli visivi, uditivi e noxicettivi e di comunicare verbalmente, anche se, talora, sono presenti riflessi uditivi e visivi di orientamento (rivolge il capo verso la sorgente di uno stimolo uditivo o visivo), e i riflessi pupillari, corneali, oculocefalici e vestibolo-oculari e i riflessi spinali. Talora sono presenti movimenti non finalizzati del tronco e degli arti e reazioni miocloniche per stimoli improvvisi («startle reaction»). L’ attività delle funzioni del tronco encefalico è conservata (funzione cardiaca, respiratoria e pressoria); in particolare non esistono paresi oculari, se non eccezionalmente (paresi uni o bilaterale del III paio) mentre i movimenti oculari di inseguimento di una mira sono usualmente assenti. Anche la funzione ipotalamica è conservata: la temperatura corporea, la sudorazione, il metabolismo salino e dell’acqua sono entro i limiti della normalità. Stato vegetativo persistente è definito uno stato vegetativo che continua e dura da almeno un mese. In conclusione: questo quadro clinico differisce dal coma perché il soggetto mantiene gli occhi aperti, può avere movimenti del tronco e degli arti anche se non diretti ad uno scopo, mantiene il ciclo sonno-veglia, il respiro è normale, mentre nel coma di intensità media o profonda il soggetto giace inerte, gli occhi chiusi, non ha movimenti del tronco o degli arti, il ciclo sonnoveglia è perduto, il respiro è alterato. Usualmente si afferma che questo stato è quello nel passato identificato come sindrome apallica, mutismo acinetico, coma vigile, termini che si consiglia di abbandonare.
Lo stato vegetativo persistente è dovuto a cause multiple, raggruppabili in quattro gruppi: – traumi cranici acuti; – patologia cerebrale acuta (encefalopatia anossica da arresto cardiorespiratorio, da malattia polmonare, da soffocamento, ecc.); malattia cerebrovascolare (emorragia, infarto, emorragia subaracnoidea, demenza vascolare); encefaliti e meningo-encefaliti; – disturbi metabolici e «degenerativi» (encefalopatie tossiche o da avvelenamento; malattia di Alzheimer, morbo di Parkinson, corea di Huntington, ecc.); – disturbi di sviluppo (encefalopatie perinatali, asfissia perinatale, ecc.). Le alterazioni neuropatologiche sono rappresentate da necrosi corticale laminare e diffusa con coinvolgimento dell’ippocampo, e da piccole aree infartuali nei nuclei cerebrali basali, nell’ipotalamo e nel tronco encefalico. La TC e la RM rivelano la patologia cerebrale causale o comunque una lesione cerebrale diffusa o multifocale della sostanza bianca e grigia. La PET dimostra una riduzione fino al 50% del metabolismo del glucosio e del flusso cerebrale. Il quadro può essere totalmente o parzialmente reversibile o può condurre a morte. La prognosi deve esser fatta tenendo conto della malattia causale, della durata della sindrome (la maggior percentuale di ricupero si verifica entro 6 mesi dal debutto) e dell’età del paziente. Complessivamente la prognosi appare più favorevole se la genesi è traumatica, specie per i traumi non chirurgici, raggiungendo nelle diverse casistiche una percentuale che si aggira tra l’8 e il 57% di evoluzione favorevole a distanza di un anno, ma il ritorno all’ indipendenza di questi soggetti non supera le poche unità percentuali. Per gli stati vegetativi da cause non traumatiche (specie encefalopatie anossiche) l’evoluzione favorevole è estremamente scarsa o addirittura nulla (Tasseau et al., 1994).
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MUTISMO ACINETICO Il malato giace inerte, incapace di compiere spontaneamente alcun movimento agli arti e al tronco, gli stimoli dolorosi possono provocare la retrazione degli arti, gli occhi sono aperti, fissi in posizione centrale, e la capacità di seguire una mira con lo sguardo con escursione massima sul piano laterale, talora anche sul piano verticale, o di volger lo sguardo verso la sorgente di un rumore, è conservata. La possibilità di compiere movimenti oculari rappresenta l’elemento semeiotico che permette di differenziare questa sindrome dallo stato vegetativo persistente ( Schiff e Plum, 2000). Nella pratica clinica, l’osservazione di una motilità oculare apparentemente simile a quella volontaria in un soggetto in coma non è evento raro e, il semplice riscontro di movimenti oculari seguendo una mira non è di per sè elemento sufficiente per stabilire il livello di coscienza. Non raramente malati con mutismo acinetico hanno gravi e costanti turbe sfinteriche, espressione di un disturbo di coscienza di grado discreto. MORTE CEREBRALE (COMA DEPASSÉ; COMA IRREVERSIBILE) Le moderne tecniche di rianimazione consentono di mantenere artificialmente diverse funzioni vitali (attività cardiaca, adeguati valori di pressione arteriosa) e, soprattutto, nel quadro che ora trattiamo, un ritmo e una profondità respiratoria, anche quando l’attività delle aree cerebrali, che normalmente governano queste funzioni, viene a cessare. Questa condizione definita «morte cerebrale», ha assunto in questi anni notevole importanza per motivi etici e di riflesso per motivi clinici, ed infine, legislativi, poiché impone una risposta al quesito fino a quando è giustificato mantenere il supporto artificiale per il mantenimento della vita, e se e quando può essere effettuato un prelievo per trapianti d’organo.
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Morte cerebrale è un termine colloquiale, e viene utilizzato per indicare l’esistenza di un complesso di sintomi che esprimono l’irreversibile cessazione delle funzioni cerebrali del tronco encefalico. In effetti, il termine “ morte cerebrale” diventato di uso comune, può indurre a ritenere che si tratti di una condizione che precede la morte “reale” e, nell’ambito legale, potrebbe portare a sostenere che la perdita delle funzioni cerebrali superiori (come, ad esempio, si osserva nello stato vegetativo, in stati demenziali gravi) sia equivalente di “morte”. Il termine morte deve essere utilizzato per l’organismo nel suo complesso, ma non per indicare la perdita di funzione di un organo. Queste considerazioni, riportate da Capron (2001), inducono ad aggiungere nel titolo il termine “coma irreverbile”.
La legislazione dei paesi occidentali, e quella dell’Italia, hanno accettato la morte cerebrale come quadro clinico espressione della morte dell’individuo. Questo quadro clinico comporta i seguenti segni peculiari: 1) assenza della funzione encefalica e, in particolare, del tronco encefalico; 2) silenzio elettrico cerebrale. La funzionalità del tronco dell’encefalo è assente quando esiste perdita di coscienza, cessazione del respiro spontaneo, assenza del riflesso pupillare alla luce, del riflesso corneale, oculocefalico, vestibolo-oculare, faringeo, e assenza di risposta decorticata o decerebrata per stimoli nocicettivi. Silenzio elettrico o inattività elettrocerebrale significa che il tracciato non contiene potenziali registrati dalla teca al di sopra di 2 microvolts. Le precisazioni di tecnica di registrazione devono essere molto accurate e sono ben stabilite dall’Associazione EEG Internazionale. Per definire uno stato clinico come “coma depassé “(“al di là del coma“, termine utilizzato da Mollaret e Goulon che per primi descrissero questa condizione nel 1959) o «morte cerebrale», è indispensabile che esistano i segni sopraelencati, che venga esclusa l’intossicazione da farmaci, e venga stabilito che la condizione è dovuta ad una conosciuta causa di lesione cerebrale irreversibile.
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Sul piano clinico bisogna sottolineare che la possibile riapparizione di riflessi tendinei o addominali, può verificarsi essendo semplicemente espressione di una attività spinale. Condizioni che vengono segnalate per la diagnosi differenziale con lo stato di morte cerebrale sono: l’ipotermia, l’intossicazione da farmaci, ed anche la sindrome di Guillain Barré e la sindrome da chiavistello (v. pag. 634). L’ipotermia accidentale è causa di una perdita dei riflesssi del tronco cerebrale e di una midriasi sotto i 28 °C, ma il quadro è potenzialmente reversibile; l’intossicazione da farmaci (specie barbiturici) può mimare, in un caso pubblicato, il quadro della morte cerebrale dimostrando anche silenzio elettrico, ma il livello di barbituremia permette la diagnosi; nella sindrome da chiavistello la volontaria chiusura delle palpebre e i movimenti oculari verticali sono conservati; nella sindrome di Guillain Barré possono essere coinvolti i nervi spinali e cranici, e di questi il VII e i muscoli ad innervazione bulbare, talora i muscoli oculari estrinseci. Naturalmente una corretta indagine anamnestica e un’ accurata valutazione clinica permettono di raggiungere la diagnosi corretta. Comunque, nei pochissimi casi dubbi, i seguenti tests possono confermare la diagnosi : a) il Doppler transcranico, che dimostra l’assenza del flusso diastolico, un alto indice di pulsatilità, una velocità sistolica inferiore al livello normale, b) l’angiografia cerebrale (con introduzione del contrasto sia nel circolo anteriore che posteriore) o anche l’angiografia in risonanza magnetica. Il mancato riempimento totale delle arterie cerebrali è incompatibile con la vita e convalida la diagnosi clinica di morte cerebrale, c) il test per l’apnea (prescritto dal 1995 negli USA) viene condotto a condizione che il malato abbia una temperatura corporea di 36.5°C o maggiore, una pressione sistolica di 90 mm Hg o maggiore, e un bilancio idroelettrolitico positivo per 6 ore. Il malato viene preossigenato con 100% di ossigeno per 10 minuti e, quindi, disconesso dal respiratore per osser-
vare se esistono efficaci movimenti respiratori e se l’aumento della pressione parziale di CO2 è bifasico e raggiunge approsimativamente 3 mm di Hg per minuto. Durante la prova è indispensabile il monitoraggio della pressione arteriosa, della saturazione di O2 e dell’attività cardiaca. La morte cerebrale è considerata comprovata se la pressione arteriosa parziale di CO2 è di 60 mm di Hg o maggiore, o se si registra un aumento maggiore di 20 mm di Hg del livello normale basale, e se non si osservano movimenti respiratori. Il test comporta possibilità negative per il malato se non condotto con particolare accuratezza, e, in particolare, può essere indotta una grave ipotensione arteriosa e una aritmia cardiaca (Widicks, 2001). Il coma depassé può manifestarsi per patologie diverse, e precisamente, in caso di malattie cerebrali primitive (encefalopatie primitive di qualunque natura: tumorale, infiammatoria, vascolare, traumatica) e in caso di malattie cerebrali secondarie (arresto cardiaco o respiratorio durante anestesia e nel decorso post-operatorio, avvelenamento da barbiturici e da CO, encefalopatie metaboliche, ecc.). Il meccanismo con cui si avvera lo stato di «coma depassé» è rappresentato dall’anossia e susseguente edema e arresto circolatorio. Le lesioni che si ritrovano nella morte cerebrale sono di tipo diverso: dalla colliquazione totale del cervello ad alterazioni meno importanti, consistenti in autolisi intravitale con degenerazione rilevante e diffusa, ma predominante nelle strutture basali e nel tronco cerebrale. La legge del 29 dicembre 1993 contiene le norme per l’accertamento e la certificazione di morte, valida in Italia. Il Regolamento (Decreto del 22-8-1994) stabilisce per l’accertamento della morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie, l’accertamento delle condizioni cliniche sopra indicate (stato di incoscienza; assenza di funzioni del tronco encefalo con assenza di respiro spontaneo, silenzio elettrico); precisa che l’accerta-
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mento della morte nel neonato, può essere eseguito solo se la nascita è avvenuta dopo la 38ª settimana di gestazione e comunque dopo una settimana di vita extrauterina. La durata dell’ osservazione ai fini dell’accertamento della morte deve essere non inferiore a: a) sei ore per gli adulti e i bambini in età superiore a cinque anni; b) dodici ore per i bambini di età compresa tra uno e cinque anni; c) ventiquattro ore per i bambini di età inferiore a 1 anno. In tutti i casi di danno cerebrale anossico il periodo di osservazione non può iniziare prima di 24 ore dal momento dell’insulto anossico. L’accertamento della morte è effettuata da un collegio medico, nominato dalla direzione sanitaria, composto da un medico legale (in mancanza da un medico di direzione sanitaria o da un anatomo-patologo), da un medico specialista in anestesia e rianimazione e da un medico neurofisiopatologo o, in mancanza, da un neurologo o da un neurochirurgo esperti in elettroencefalografia. I componenti del collegio medico devono essere dipendenti di strutture sanitarie pubbliche. ELETTROENCEFALOGRAMMA NEL COMA L’EEG non può fornire un contributo per la diagnosi di natura e di sede della lesione. Le onde trifasiche non sono, infatti, esclusive del coma epatico, ma si riscontrano anche in casi di coma da tumore cerebrale, trauma cranico e malattia vascolare cerebrale. Usualmente l’EEG nello stato di coma dimostra (v. pag. 000) una attività teta o delta polimorfa diffusa, o una attività alfa (alfa coma) oltre a depressione generalizzata dell’attività (“generalized suppression”) o soppressione con attività in raffica (“burst-suppression”) nel coma post-arresto cardiaco (Young, 2000), ma in una serie di casi di coma con lesioni sopratentoriali, specie vascolari, le alterazioni elettriche possono essere localizzate ad un emisfero o focali.
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Lo studio della reattività EEG agli stimoli, può fornire informazioni sulla profondità del coma e sulla prognosi, poiché la presenza di reattività esprime maggior possibilittà di recupero (Arfel, 1974; Young et al., 1999). Gli stimoli impiegati sono: stimoli visivi (usualmente poco efficaci), stimoli sonori, dolorosi, specie se portati in territorio privilegiato (territorio trigeminale), poiché più efficaci; utile la ripetizione e convergenza degli stimoli e l’impiego di stimoli a elevato contenuto emotivo al fine di ottenere una risposta più evidente. Nel coma 1, le stimolazioni provocano una reattività immediata con blocco dell’attività lenta, eventualmente del ritmo alfa, oppure rallentamento con aumento di ampiezza. Nel coma 2, si riscontrano tracciati periodici o alternanti, cioè tracciati con ampiezza elevata, in genere di onde delta, alternate con sequenze di ampiezza ridotta (< di 50 microvolts). Se si ha un tracciato di basso voltaggio lo stimolo doloroso può suscitare un voltaggio più elevato, oppure un rallentamento dell’attività. Le fasi o le risposte lente di ampiezza elevata corrispondono a momenti di alleggerimento del coma forse in risposta a stimoli enterocettivi (quando sembrano spontanee) o a stimoli dolorosi (Fig. 17.4). Nel coma profondo la reattività e l’alternanza sono assenti, ma può esistere una reattività differita, cioè spostata nel tempo di alcune decine di secondi. Tuttavia esistono casi, in cui esiste una risposta extracerebrale a stimoli dolorosi, consistente in variazioni del ritmo cardiaco o respiratorio o dell’attività elettromiografica e casi in cui è assente ogni risposta. Esistono tuttavia alcune eccezioni: a) il coma di genesi tossica, in genere da farmaci, non obbedisce dal punto di vista della reattività ad alcuna regola; b) il coma da lesione pontina o ponto-mesencefalica, in cui il coma profondo dimostra un’attività tipo alfa e una reattività alla stimolazione visiva (tracciato tipo alfa o «alfa coma») (Fig. 17.5).
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Fig. 17.4 - Esempio di tracciato alternante durante respirazione di Cheyne-Stokes (A: periodo iperpnoico; B: periodo apnoico) in soggetto in coma 2.
Fig. 17.5 - Rappresentazione schematica della topografia di una emorragia ponto-mesencefalica primitiva. Stadio 3 dei disturbi di coscienza; elettroencefalogramma con attività a 9-10 c/s (da C. Loeb, Sistema Nervoso, 1962).
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È opportuno, infine, segnalare che lo stato di coma di malati degenti per cause non neurologiche in unità di terapia intensiva, è associato ad alterazioni EEG che vengono indicate a pag. 000. Nello stato vegetativo persistente l’EEG dimostra una attività delta e teta polimorfa, senza modificazioni per stimoli sensitivi e talora per stimoli noxicettivi; talora l’attività elettrica è a basso voltaggio. La presenza di figure elettriche tipiche del sonno (attività in fusi, complessi K, punte al vertice e attività tipica degli stadi di sonno) è conservata nello stato vegetativo persistente e assente nel coma profondo ed è comunque un segno prognostico buono, se ricompare nel coma traumatico (Bergamasco et al., 1968; Bricolo et al.,1968). Per la morte cerebrale vedi le indicazioni fornite a pag. 647. FISIOGENESI DEL COMA Da quanto abbiamo esposto a proposito delle sindromi da deterioramento rostro-caudale risulta che le strutture diencefaliche posteriori e mesencefaliche sembrano avere un ruolo determinante nella genesi della perdita di coscienza. In particolare una lesione localizzata bilateralmente nella sostanza reticolare rostralmente al terzo inferiore del ponte fino alle porzioni posteriori del diencefalo, è in grado di produrre perdita di coscienza. La lesione delle strutture diencefalo-mesencefaliche e in particolare della formazione reticolare (v. pag. 000) può essere anche indiretta, per gli effetti meccanici dell’ernia transtentoriale e uncale o per effetti vascolari (perdita della autoregolazione e della regolazione chimica). Nei comi metabolici le strutture diencefalomesencefaliche sono modificate nella loro funzione per alterazione del metabolismo ossidativo, che fornisce l’energia per le fondamentali attività cerebrali (trasporto transmembranario del Na+ e del K+; sintesi dei mediatori chimici,
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ad es. acetilcolina; rinnovo degli enzimi catabolici e degli elementi cellulari). Quanto riportato esprime il parere attualmente accettato in letteratura, ma rappresenta solo la base di partenza per chiarire la fisiogenesi del coma e molti problemi devono ancora avere risposta. In particolare i casi di coma con tracciato normale (lesione mesencefalo-pontina) (Loeb e Poggio, 1953) suggeriscono l’ipotesi che le strutture nervose interessate alla regolazione dell’attività elettrica cerebrale e all’esperienza cosciente, anche se funzionalmente correlate, possano, in casi particolari, dimostrare un’attività indipendente.
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Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi Sindromi tronco-encefaliche) neurovegetative
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18. Sindromi neurovegetative A. Schenone, N. Dagnino
Nel presente capitolo sono riportate le sindromi che determinano sofferenza del sistema nervoso vegetativo per lesioni a diversi livelli del sistema nervoso centrale e periferico, e che sono di più frequente osservazione nella pratica neurologica quotidiana. Le diverse patologie neurologiche che possono coinvolgere il sistema nervoso vegetativo sono trattate nel capitolo sulle “Malattie del Sistema Nervoso Vegetativo”. Maggior risalto verrà dato alle sindromi più comuni, che riteniamo debbano essere conosciute e “riconosciute” anche dal medico specialista non-neurologo. Si sottolinea inoltre che molte delle sindromi sottoelencate sono spesso associate, determinando così quadri clinici complessi. SINDROME DI CLAUDE BERNARD-HORNER (O SINDROME PARALITICA DEL SIMPATICO CERVICALE ANTERIORE) Una lesione delle vie simpatiche postgangliari a livello del ganglio cervicale superiore o a valle di questo (v. pag. 299) determina la comparsa di una sindrome di Bernard-Horner completa. Una interruzione delle vie pregangliari (v. pag. 299) a qualsiasi livello dal centro ciliospinale di Budge (colonna intermedio laterale del midollo spinale da C8 a D2) al ganglio cervicale superiore, o una lesione delle vie discendenti ipotalamo-spinali, si manifesta con una sindrome di Bernard-Horner incompleta. La sindrome di Bernard-Horner è fondamentalmente caratterizzata da: miosi, per paralisi del muscolo dilatatore della pupilla e prevalenza del muscolo costrittore e restringimento della rima
palpebrale (spesso erroneamente indicata come ptosi), per paralisi del muscolo tarsale superiore. A questi sintomi cardinali si associano, nella forma completa, vasodilatazione, anidrosi dell’emifaccia, e modesta iniezione congiuntivale. L’interessamento del ganglio stellato (v. pag. 655), ad esempio per neoplasie dell’apice polmonare, determina la comparsa anche di anidrosi del collo e dell’arto superiore omolaterale alla lesione, per lesioni delle fibre vasomotrici e sudorali. Alcuni autori, fra i sintomi della sindrome di Bernard-Horner, includono anche l’enoftalmo, conseguente ad una paralisi del muscolo orbitale, la cui esistenza è tuttora oggetto di discussione. Elenchiamo di seguito le cause che più frequentemente determinano la comparsa di una sindrome di Bernard-Horner e i sintomi usualmente associati: a) sindrome di Bernard-Horner da lesione centrale: si realizza quasi esclusivamente nell’ambito di una più complessa sintomatologia neurologica come la s. laterale bulbare (di Wallenberg) o la miosi «pontina» bilaterale nelle lesioni pontine. La sindrome di Claude BernardHorner può osservarsi anche per lesioni talamiche, ma è incompleta e limitata alla sola miosi; b) lesioni simpatiche pregangliari: per trauma chirurgico toracico, nella sindrome di Pancoast, per aneurismi dell’aorta o della succlavia, per traumi del plesso brachiale (associata ad una sindrome radicolare inferiore tipo Dejerine-Klumpke). In questi casi la sindrome di Claude Bernard-Horner è completa; c) lesioni simpatiche postgangliari: si osservano nella patologia della parete carotidea extra o intracranica (aneurisma dissecante, periarterite, s. del seno cavernoso) e, in modo ricorrente correlato agli accessi cefalalgici,
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Le grandi sindromi neurologiche
Tabella 18.1 - Cause di ptosi e miosi. Ptosi
Miosi
Miogene oftalmoplegia progressiva miastenia steroidi locali
Sindrome di Adie dissociazione luce-accomodazione
Neurogene s. di Claude Bernard-Horner
Pupille di Argyll-Robertson
paralisi del 3° n. cranico Meccaniche flogosi (calazio, edema, blefarite) deformazione cicatriziale tumore (palpebra, orbita) blefarocalasi
Denervazione simpatica
Iridociclite Miosi da miotizzanti topici (pilocarpina)
Deiscenza dell’elevatore pseudoptosi dermatocalasi enoftalmo retrazione palpebra controlaterale blefarospasmo unilaterale ipotropia s. di Duane microftalmia del bulbo
nella cefalea «a grappolo»; nel 20% di questi casi si osserva una paralisi oculosimpatica permanente, che ovviamente può creare dubbi diagnostici.
La diagnosi si basa sui rilievi clinici, tenendo tuttavia presente le molteplici altre cause di ptosi e miosi (Tab. 18.1); è necessario anche ricordare che il 20% della popolazione «normale» presenta un’anisocoria semplice e circa il 15% una asimmetria della rima palpebrale. Si indicano questi casi come «sindrome pseudo-Horner» o «s. di Claude Bernard-Horner apparente». Ai fini diagnostici può essere utile il test dei colliri (Tab. 18.2) basato sull’instillazione congiuntivale di soluzioni di cocaina al 4-10%, di idrossianfetamina all’1%, di adrenalina allo 0,1% e di metacolina al 2,5% o di pilocarpina
allo 0,125%. La base fisiopatologica di questo test risiede nel fenomeno di ipersensibilità da denervazione, in base al quale un organo effettore, dopo 2-3 settimane dalla denervazione, diventa ipersensibile al suo neurotrasmettitore specifico e ai farmaci correlati. La instillazione di adrenalina allo 0,1% non ha effetto sulla pupilla normale, ma provoca dilatazione della pupilla denervata per lesione ortosimpatica. Normalmente, la ipersensibilità alla adrenalina è maggiore per lesione postgangliare che pregangliare. Inoltre, nelle lesioni delle vie simpatiche centrali la pupilla reagisce raramente a questa manovra. La mancata dilatazione della pupilla miotica alle soluzioni di cocaina e di idrossianfetamina, che potenziano gli effetti della nora-
Sindromi neurovegetative
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Tabella 18.2 - Test dei colliri nella s. di Claude Bernard-Horner. Collirio
Funzione esplorata
Risposta normale
Cocaina 4-10%
Innervazione ortosimpatica
Dilatazione pupillare
Adrenalina 0.1%
Innervazione ortosimpatica postgangliare
Nessuna risposta
Idrossianfetamina 1%
Innervazione ortosimpatica postgangliare
Dilatazione pupillare
Metacolina 2.5% o pilocarpina 0.125%
Innervazione parasimpatica
Nessuna risposta
drenalina, la prima bloccandone il reuptake, e la seconda determinandone il rilascio da parte dell’assone postgangliare, depone per una lesione ortosimpatica pre o postgangliare non essendo disponibile il neurotramettitore. In caso di lesione simpatica centrale la risposta può essere assente o molto debole. SINDROME DI POURFOUR DU PETIT (DA IRRITAZIONE DEL SIMPATICO CERVICALE ANTERIORE) La sintomatologia, conseguente ad irritazione del simpatico cervicale, è opposta a quella precedentemente descritta: midriasi, allargamento della rima palpebrale, esoftalmo associati talora a raffreddamento e sudorazione dell’emifaccia. È di rara osservazione, e a nostro parere di scarso aiuto nella diagnostica neurologica comune. Le cause sono analoghe a quelle che determinano la sindrome di Bernard-Horner.
Si osserva pertanto: a) sindrome di Bernard-Horner (per lesioni delle fibre simpatiche che attraversano il ganglio senza interrompersi); b) vasodilatazione del viso e del braccio con alterazioni della temperatura cutanea; c) scomparsa dei riflessi pilomotore e sudorale al viso, collo ed a parte del braccio. La sindrome può essere causata da gozzi, traumi, adenopatie e lesioni, per lo più neoplastiche, dell’apice polmonare (Sindrome di Pancoast-Ciuffini). SINDROME DEI GANGLI TORACICI SUPERIORI Si osserva una paralisi simpatica del capo con difetto della sudorazione e della vasodilatazione termoregolatoria e risparmio della funzione pupillare. Ne consegue arrossamento e sudorazione dell’emifaccia e parte superiore del torace controlaterali, per cui è stata suggerita la denominazione «sindrome di Arlecchino» (Drummond et al., 1993).
SINDROME DEI GANGLI TORACICI INFERIORI Sindrome del ganglio stellato Il ganglio stellato è formato dalla fusione del ganglio cervicale inferiore col primo ganglio dorsale. Una lesione di questo ganglio determina una sintomatologia da paralisi simpatica interessante la testa, il collo, la maggior parte dell’arto superiore e la parte superiore del torace.
In questo caso i disturbi sono estremamente modesti, limitati alla perdita della reflettività vegetativa nella zona radicolare corrispondente alla lesione.
SINDROME DEI GANGLI LOMBOSACRALI Si tratta di sindromi relativamente semplici nelle loro manifestazioni, costituite da alterazioni vasomotorie (solitamente transitorie e a predominanza distale) e da perdita dei riflessi pilomotori e sudorali.
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Le grandi sindromi neurologiche
Qualora la lesione sia situata a livello del secondo ganglio lombare si osserva un’alterazione interessante tutto l’arto inferiore. Questa sindrome può essere osservata per lesioni traumatiche, morbo di Pott, aneurisma aortico, infiltrazione dei linfonodi paraaortici. La sintomatologia riguarda prevalentemente le funzioni sfinteriche (vescicali e rettali) o sessuali (v. pag. 658, 661).
SINDROME DEL SIMPATICO PARAVERTEBRALE O SINDROME SIMPATICA CERVICALE POSTERIORE
È costituita da un complesso di sintomi soggettivi quali vertigini, acufeni, cefalea occipitale, fosfeni, individuati da Barré e Lieou nel 1926. È stata attribuita a turbe circolatorie labirintiche (arteria uditiva interna) per difetti di vasoregolazione neurogena da parte del simpatico perivertebrale conseguente ad una spondiloartrosi cervicale. Considerando che l’autoregolazione cerebrale si realizza per meccanismi metabolici e umorali locali, l’ipotesi patogenetica e la esistenza stessa della sindrome come entità clinica sono stati messi in discussione o addirittura negati dalla maggioranza dei clinici. A questo proposito, tuttavia, va segnalato che esistono precisi dati sperimentali in base ai quali la denervazione funzionale unilaterale delle afferenze cervicolabirintiche unilaterale determina vertigini ed atassia (Baloh et al., 1990).
Sindromi da disfunzione cardiovascolare Innervazione e fisiologia delle funzioni cardiovascolari sono state descritte a pag. 306. La sintomatologia da disfunzione cardiovascolare può manifestarsi con: ipotensione, ipertensione o aritmie cardiache. Ipotensione. – L’ipotensione, che è tipicamente posturale (ortostatica), rappresenta il fenomeno più frequente e spesso più precoce di sofferenza cardiovascolare di natura vegetativa. I sintomi ad essa connessi sono essenzialmente dovuti ad un difetto acuto e diffuso di perfusione cerebrale e consistono in: sensazione di capogiro, annebbiamento visivo eventualmente seguiti da perdita di coscienza (sincope da
ipotensione ortostatica). Tale sintomatologia è tipicamente transitoria e può essere così improvvisa da determinare caduta a terra. Gli attacchi, che si verificano più spesso al mattino al risveglio, possono essere aggravati dall’assunzione abbondante di cibo o alcolici, da una elevata temperatura e dal torchio addominale effettuato durante la defecazione o la minzione. Alcuni farmaci, inoltre, come la L-Dopa possono peggiorare l’ipotensione ortostatica. L’età avanzata è un altro fattore aggravante gli effetti dell’ipotensione ortostatica, poiché l’ipoperfusione cerebrale può essere favorita da una situazione preesistente di stenosi o ateromatosi dei tronchi sovraaortici. Raramente l’ipotensione indotta dalla assunzione della posizione eretta può essere così grave da comportare ischemia di altri organi come il midollo spinale, il cuore o i reni. Improvvisi cali della pressione arteriosa tali da determinare perdita di coscienza si possono verificare anche indipendentemente dalla assunzione della posizione eretta, ad esempio nelle sincopi vasovagali, in cui all’ipotensione si accompagna bradicardia (v. pag. 000). Ipertensione. – L’ipertensione può complicare alcune patologie con interessamento del sistema nervoso vegetativo. Ad esempio ipertensione in posizione supina si osserva, talora, nella insufficienza autonomica pura. Il meccanismo non è chiaro, ma potrebbe essere legato ad una alterata attività dei barorecettori, ad una ipersensibilità adrenergica o ad una vasocostrizione periferica. In taluni casi l’ipertensione clinostatica è dovuta ai farmaci che il paziente assume per il controllo dell’ipotensione ortostatica; ciò avviene tipicamente nei pazienti in terapia con fludrocortisone (v. pag. 000). Crisi ipertensive su base vegetativa si possono osservare nella sindrome di Guillain-Barrè, nelle porfirie, nel feocromocitoma, nel tetano e in pazienti con lesioni del midollo spinale. Nel feocromocitoma l’ipertensione è dovuta ad una liberazione di catecolamine. Nelle lesioni spi-
Sindromi neurovegetative
nali una crisi ipertensiva può essere precipitata da una contrazione della vescica o del retto, da uno spasmo muscolare o da una semplice stimolazione cutanea. Aritmie cardiache. – Fra le aritmie cardiache da iperattività ortosimpatica segnaliamo gli episodi di tachicardia che si verificano in corso di sindrome di Guillain-Barrè o di tetano. La liberazione di catecolamine nel feocromocitoma può provocare, oltre ad episodi ipertensivi, anche tachicardia parossistica. In caso di iperattività parasimpatica, come avviene nella sincopi da ipersensibilità del seno carotideo (v. pag…), si associa intensa bradicardia. Bradicardia, in questo caso con ipertensione, si può verificare in lesioni del midollo spinale cervicale per un tentativo di compenso cardiaco all’ipertensione, essendo l’arco riflesso barorecettoriale intatto.
Sindromi da disfunzione sudomotoria La sintomatologia da disfunzione sudomotoria può manifestarsi con iperidrosi o anidrosi. Iperidrosi. – Aumento della sudorazione può verificarsi in maniera localizzata o diffusa. Iperidrosi localizzata si osserva, talora, al di sopra del livello lesionale in traumi del midollo spinale, con anidrosi sottostante. Altri tipi di iperidrosi localizzata sono: l’iperidrosi al volto e al tronco nella malattia di Parkinson; l’iperidrosi al volto causata dal cibo (sudorazione gustativa); l’iperidrosi palmare ed ascellare. Iperidrosi generalizzata si osserva in corso di feocromocitoma, può accompagnare l’ipertensione nel tetano o può essere una manifestazione dell’intossicazione da mercurio nei bambini. Anidrosi. – Una diminuzione o abolizione della sudorazione, specie in presenza di elevata temperatura ambientale, si manifesta comunemente nella disautonomia primitiva.
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Sindromi da disfunzione termoregolatoria La sintomatologia da disfunzione termoregolatoria può manifestarsi con ipotermia o ipertermia. Ipotermia. – Diminuzione della temperatura corporea si può avere per lesioni ipotalamiche o per lesioni spinali alte in fase iniziale. In quest’ultimo caso l’ipotermia è dovuta a perdita di funzioni termoregolatorie quali il brivido e la vasocostrizione periferica. Iperpiressia. – Un aumento della temperatura corporea può complicare le disfunzioni sudomotorie con anidrosi, soprattutto in corso di aumento della temperatura ambientale.
Sindromi da disfunzione gastroenterica La sintomatologia più frequente da disfunzione gastrointestinale conseguente a lesioni del sistema nervoso vegetativo è costituita da: xerostomia, disfagia, vomito, stipsi e diarrea. La xerostomia si può avere nelle disautonomie primitive acute. La disfagia può essere un sintomo di acalasia esofagea, ad esempio in corso di malattia di Chagas, oppure può essere una manifestazione di sofferenza vegetativa in corso di atrofia multisitemica. La stipsi è comune nei malati affetti da insufficienza autonomica pura o nei soggetti con lesione del parasimpatico sacrale. Il vomito è per lo più secondario a gastroparesi, ad esempio in corso di diabete mellito o amiloidosi. Infine nei pazienti con lesione acuta del midollo spinale si può verificare un ileo paralitico che determina grave meteorismo e distensione addominale con compressione sul diaframma e conseguenti difficoltà respiratorie.
Sindromi da disfunzione respiratoria Innervazione e fisiologia della funzione respiratoria sono state descritte a pag. 308.
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Le grandi sindromi neurologiche
Le alterazioni del respiro che si possono riscontrare per lesioni del sistema nervoso a differenti livelli (respiro di Cheyne-Stokes, iperventilazione centrale neurogena, apneusi, respiro a grappolo, respiro atassico), sono descritte a pag. 637. In corso di atrofia multisitemica la compromissione vegetativa si può manifestare con episodi di apnea, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia.
Sindromi da disfunzione sfinterica Le funzioni sfinteriche vescico-uretrale e ano-rettale sono controllate da attività riflesse orto- e parasimpatiche che regolano le attività motorie fasiche e toniche degli sfinteri lisci
(simpatico) e le attività espulsive del detrusore vescicale e della peristalsi colon rettale (parasimpatico). Esiste poi un substrato anatomofunzionale per un ampio margine di controllo volontario, subordinato ad influenze emisferiche cortico-sottocorticali, realizzato da strutture muscolari striate. Un’alterata funzione sfinterica si osserva per alterazioni a molteplici livelli di integrazione del controllo neurale. La sintomatologia di disfunzione sfinterica è relativamente stereotipata essendo caratterizzata quasi esclusivamente da incontinenza o da ritenzione: i caratteri del disturbo dipendono più dalla sede che dal tipo di lesione o malattia (Tab. 18.3). In linea generale si può ritenere che le lesioni emisferiche e troncali diano luogo prevalentemente ad una incontinenza, per difetto di
Tabella 18.3 - Cause neurologiche di disfunzioni sfinteriche Patologia cerebrale diffusa Demenze degenerative Mixedema
M. da Prioni
Patologia cerebrale focale o multifocale M. di Parkinson Sclerosi multipla Atrofia multisistemica Tumori frontali
Traumi cranici M. cerebrovascolare Idrocefalo
Patologia midollare Traumi Sclerosi multipla Mielopatie compressive Patologia radicolare Ernia discale centrale Spina bifida Agenesia sacrale
Mieliti Sclerosi combinata Mielopatie vascolari
Traumi Herpes zoster
Patologia dei nervi periferici Diabete Alcool Neuropatie tossiche Uremia
Amiloidosi S. di Guillain-Barrè Plessopatie lombosacrali chirurgiche o attiniche Neuropatie sensitive ereditarie
Patologie primitive del SNV Insufficienza autonomica pura
Disautonomia acuta
Sindromi neurovegetative
contenzione del materiale fecale e urinario. Incontinenza si può verificare anche per lesioni dei centri sacrali. Lesioni midollari al di sopra di T12 determinano invece prevalentemente ritenzione per difetto delle attività espulsive. I danni diretti alle strutture anatomiche sfinteriche possono determinare indifferentemente incontinenza o ritenzione in relazione al tipo e alla natura della lesione. La valutazione diagnostica, tesa ad identificare sede e natura del danno anatomo-funzionale, richiede le consuete procedure cliniche e strumentali neurologiche. Queste possono essere sufficienti se la turba sfinterica si associa ad alterazioni di altre funzioni neurologiche (ad es. turbe motorie o sensitive), ma se il danno è limitato alla funzione sfinterica spesso sono necessari esami specifici, la cui corretta effettuazione richiede una esperienza interdisciplinare urologica e proctologica. Per le funzioni anorettali la manometria anale permette di valutare l’efficienza propulsiva dei plessi mioenterici e intramurali; l’elettromiografia dei mm. puborettali e dello sfintere esterno fornisce – con gli stessi criteri utili negli altri muscoli striati scheletrici – dati funzionali inerenti la loro innervazione. Più complessa appare la valutazione della funzione vescico-uretrale. A questo scopo vengono abitualmente utilizzate le prove urodinamiche, che permettono di valutare la soglia vescicale, la capacità vescicale massima, la adattabilità e contrattilità del detrusore; questi parametri consentono di effettuare un bilancio funzionale dell’apparato e delle sue eventuali disfunzioni. Metodiche più strettamente neurologiche, che richiedono comunque una buona standardizzazione, sono: l’elettromiografia del pavimento pelvico, la determinazione della latenza terminale del nervo pudendo, la stimolazione spinale transcutanea, i potenziali evocati sensitivi della regione anogenitale. Tali metodiche forniscono utili informazioni sulle afferenze ed efferenze neuroperiferiche del complesso vescico-uretrale.
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Incontinenza. – L’incontinenza urinaria è un disturbo molto comune (ne soffrirebbe fino al 10% delle donne oltre i 50 anni), con forte impatto sulla vita personale e sull’integrazione sociale. Già si è detto dell’incontinenza dovuta a lesioni emisferiche, frontali in particolare, sia tumorali che vascolari (v. pag. 658). Un aspetto del tutto particolare è rappresentato dall’incontinenza dell’idrocefalo normoteso (v. pag. 000) che riflette verosimilmente un danno delle connessioni motorie frontali. Anche nel m. di Parkinson (ove si accompagna a stipsi), nei parkinsonismi secondari, nella atrofia multisistemica e nell’encefalopatia multinfartuale è presente spesso incontinenza vescicale per perdita dell’inibizione volontaria e facilitazione del riflesso di svuotamento del detrusore; tale tipo di incontinenza è caratterizzato da stimolo frequente, impellente ed irrefrenabile. Disturbi sfinterici del tutto analoghi si possono però osservare per alterazioni muscolari locali o strettamente vescicali o rettali. Si può trattare di stati flogistici (cistite, prostatite, proctite, colite) o di neoplasie-metaplasie (endometriosi, metaplasia di tipo intestinale o nefrogena) oppure ancora di lesioni midollari parziali come sclerosi multipla, mielopatia cervicale spondilogena o mielopatie compressive o flogistiche. Nel caso della sclerosi multipla il disturbo assume i caratteri della cosiddetta “minzione imperiosa”, che non è una vera e propria incontinenza, ma un bisogno impellente a mingere che non può essere soppresso con la volontà. Si riconosce pure un’incontinenza sintomatica (vescica autonoma) per alterazione delle radici sacrali che compromettono le funzioni afferenti ed efferenti somatiche degli sfinteri striati per lesioni intrarachidee (ernie discali, canale stretto, tumori sacrali) o extrarachidee (v. pag. 313). I motoneuroni sacrali per le strutture sfinteriche volontarie, e le vie discendenti spinali e sopraspinali sono invece tipicamente risparmiati (come i nervi oculomotori) nella sclerosi laterale amiotrofica, che non presenta di-
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Tabella 18.4 - Disfunzioni sfinteriche e disturbi correlati.
A- Incontinenza alterato controllo sfinterico iperreflessia idiopatica del detrusore disturbi del SNC insufficienza dello sfintere incontinenza da stress incontinenza anorettale idiopatica doppia incontinenza lesioni dirette degli sfinteri lesioni della cauda equina
B- Ritenzione incoordinazione degli sfinteri dissinergia del detrusore anismo riduzione della forza propulsiva debolezza del detrusore insufficienza autonomica miopatia viscerale neuropatia viscerale m. di Hirschprung
terica realizzando in tal caso una ritenzione per dissinergia, oppure per una intrinseca debolezza e insufficienza dell’attività espulsiva (Tab. 18.5). La patologia midollare trasversa completa, al di sopra di T12, coinvolgendo anche i cordoni laterali provoca una disconnessione del così detto centro sacrale di Onuf, dalle attività di coordinamento del centro sopraspinale pontino. Il riflesso di svuotamento risulta pertanto compromesso per alterazioni nell’inizio dell’attività e nell’eventuale inibizione e completamento. Si tratta appunto di una dissinergia fra le funzioni degli sfinteri (liscio e striato), del detrusore e della peristalsi espulsiva. Lo svuotamento vescicale avviene così in modo intermittente e incompleto, con un residuo, che, sommandosi nel tempo, crea le condizioni per un ristagno e una sovradistensione, che genera la falsa incontinenza della «iscuria paradossa». La funzione rettale, nonostante attività peristaltica valida, può essere inibita per un mancato rilasciamento anale, e il fenomeno vien definito «anismo». Tabella 18.5 - Cause di disfunzione vescicale e rettale
sturbi sfinterici fino alle fasi più avanzate di malattia. Il motivo di ciò non è chiaro, ma potrebbe risiedere nel corredo genetico che tali popolazioni motoneuronali sono in grado di esprimere. Conseguenza di un danno neurogeno o miogeno dei muscoli del pavimento pelvico e degli sfinteri striati è la così detta incontinenza da sforzo, cioè incapacità a trattenere le urine, e più raramente le feci, a seguito di sforzo o altre condizioni di aumento della pressione intraaddominale, come la tosse, il riso o una flessione del tronco (Tab. 18.4). Ritenzione. – L’incapacità di svuotamento del retto o della vescica, o di entrambi, può essere determinato da un’incoordinazione fra attività espulsiva (detrusore, peristalsi) ed attività sfin-
Lesioni del parasimpatico sacrale Mielopatia trasversa sacrale Lesioni traumatiche o neoplastiche della cauda Stenosi del canale midollare Herpes zoster sacrale Tabe dorsale Neuropatie periferiche S. di Guillain-Barrè Neuropatia diabetica Disautonomie Atrofia multisistemica M. di Parkinson Insufficienza autonomica pura Ostruzioni intravescicali Spasmo degli sfinteri Meccanismi sconosciuti Intossicazione da alcool
Sindromi neurovegetative
Tutte le lesioni che determinano un danno sia delle vie afferenti che delle vie efferenti periferiche possono determinare ritenzione per difetti di afferenze sensitive sullo stato di riempimento della vescica e del retto, con incapacità ad iniziare l’atto, in via volontaria e in via riflessa, oppure per insufficienza di attività motoria. In molti casi sono in gioco entrambi i meccanismi (Tab. 18.5).
Sindromi da disfunzione sessuale Il comportamento sessuale umano è attività straordinariamente complessa essendo modulato da funzioni neurali, psicoemotive, bioumorali (ormonali e non), ambientali e socioculturali. Nel presente paragrafo saranno trattati esclusivamente gli aspetti fisiogeni. La funzione biologica dell’attività sessuale e copulatoria è realizzata dalla possibilità per il maschio di avere e mantenere una erezione tale da consentire la penetrazione vaginale ed ivi ottenere l’eiaculazione e per la femmina da un rilasciamento muscolare locale tale da rendere possibile la penetrazione. Tale attività è strutturata in almeno tre livelli: la libido, rappresentata dal generico interesse psicoemotivo all’attività sessuale; lo stimolo sessuale specifico, che prelude all’atto sessuale; l’orgasmo che si accompagna, nel contesto di una complessa ed indefinibile esperienza sensoriale, alla eiaculazione del maschio, mentre nella femmina la funzione fisiologica è tuttora non ben definita. I disturbi della funzione sessuale da patologia neurologica possono essere divisi in gruppi a seconda che interessino la libido, l’erezione e l’eiaculazione. Libido. – Intesa come generico interesse e desiderio sessuale, è una funzione ancora poco chiarita, genericamente finalizzata alla ricerca del partner per l’atto sessuale e influenzata, sia nell’uomo che nella donna, da una notevole va-
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rietà di stimoli talora solo immaginativi. I centri nervosi coinvolti fanno capo al sistema limbico che trasmetterebbe impulsi all’ipotalamo e da qui al midollo spinale. È ben noto che la sua quantificazione (aumento o riduzione), è fortemente influenzata da fattori biologici e fisici (età, affaticamento, stato nutrizionale, condizioni di malattia somatica), psicologici, ambientali, educativi e culturali. L’influenza stessa dei fattori ormonali non è del tutto chiara, salvo la dimostrazione che gli androgeni sono necessari per sviluppare e mantenere un interesse sessuale, anche nelle femmine, mentre non univoca è l’interpretazione del ruolo degli estrogeni. Sono ben note le alterazioni della libido, e del comportamento sessuale che conseguono a lesioni organiche frontali e temporali, diffuse (demenze) o focali (tumori, cicatrici traumatiche, esiti da lesioni cerebrovascolari o infiammatorie). Sono state descritte alterazioni del desiderio sessuale non solo quantitative, ma soprattutto qualitative con perdita dell’inibizione e del controllo di sè e comportamenti socialmente ed eticamente indesiderabili, perversi (inversione, esibizionismo, ecc.) e penalmente perseguibili. Stimolo sessuale, erezione. – Lo stimolo sessuale può essere definito come la risposta psicologica e fisiologica allo stimolo erotico. In entrambi i sessi si presenta con modificazioni psicologiche (eccitamento specifico) e fisiologiche generali (tachicardia, iperventilazione) e genitali (erezione nel maschio, congestione vulvare, clitoridea e secrezione vaginale nella femmina). È certo tuttavia che l’evento cruciale al fine copulatorio è l’erezione peniena. Nel maschio vengono postulati due centri midollari coinvolti nella risposta di erezione: a) un centro sacrale parasimpatico (a livello di S2S3-S4), primariamente responsabile della erezione riflessa, che risponde a stimoli fisici dell’area genitale e in particolare del glande; b) un centro toraco-lombare simpatico ( situato in corrispondenza dei metameri D12-L2) responsabile dell’ere-
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zione psicogena attivata da molteplici stimoli sensoriali (visivi, uditivi, olfattivi) e mentali (rappresentazioni fantastiche e mnesiche), controllati dalle strutture limbiche, ipotalamiche e temporali. Questa organizzazione funzionale può dar luogo a fenomeni di perdita dell’erezione psicogena con conservazione di quella riflessa o viceversa, a seconda delle lesioni. Le modificazioni vasomotorie responsabili dell’erezione attraverso la tumescenza dei corpi cavernosi e del corpo spongioso si esplicherebbero tuttavia in minima misura attraverso attività adreno- e colinergiche, abituali neuromediatori di orto- e parasimpatico. Molto maggiore rilievo sembrano rivestire i neuropeptidi (VIP e Y), e soprattutto l’ossido nitrico (NO) attraverso una via arginina-NO-glucosio monofosfato, che sarebbe il vero fattore di dilatazione endoteliale (relaxing endothelial factor) (Singer, 1993). Sembra anche ipotizzabile, almeno a livello corticosottocorticale, un ruolo delle endorfine, come sembra dimostrare l’effetto terapeutico del naloxone in casi di impotenza psichica. Nel maschio si configurano essenzialmente due disturbi: a) impotenza o disfunzione erettile, che si esprime con l’impossibilità a iniziare e mantenere l’erezione fino al completamento dell’atto copulatorio; b) priapismo o eccesso di erezione, evento raro e sempre espressione di patologia organica, inabilitante ai fini funzionali. La disfunzione erettile si può realizzare per molteplici condizioni morbose, nervose ed extranervose (Tab. 18.6). Tabella 18.6 - Cause di impotenza. – – – – – – – – – –
primaria psicogena da encefalopatie da mielopatie da neuropatie periferiche da insufficienza arteriosa da fistola cavernosa da trombosi cavernosa da insufficienza ormonale farmacologico-iatrogena
Da un punto di vista pratico è particolarmente importante distinguere le forme organiche dalle forme psicogene, che sono sicuramente più frequenti e si possono avvalere di specifici trattamenti psichiatrici o farmacologici. Depongono per una causa organica un affievolimento graduale della funzione erettile, la coesistenza di altre disfunzioni sfinteriche (vescicali e rettali), l’incapacità in ogni situazione e con qualunque partner, l’assenza delle erezioni notturne nella fase REM del sonno, la mancata risposta all’iniezione intracavernosa di papaverina. Nell’ambito di una trattazione neurologica rivestono particolare importanza le impotenze da encefalopatie, mielopatie, neuropatie e alcune forme tossiche. Encefalopatie. – Lesioni frontali o temporali possono presentarsi con impotenza, che si inserisce nella più complessa sintomatologia neuropsicologica e comportamentale. L’impotenza come primo e unico disturbo, può essere anche per anni espressione clinica di encefalopatie che si associano a una forte componente disautonomica (m. di Parkinson ed atrofie multisistemiche). Il problema dei rapporti fra epilessia e sessualità è dibattuto da anni. Sono comunemente riportati un ridotto desiderio e scarsità di erezione, ma mancano dati attendibili e può essere difficile distinguere gli effetti della malattia da quelli della terapia. Risulta documentata l’esistenza di crisi parziali complesse con automatismi sessuali, caratterizzati da erezione nel maschio e crisi orgasmiche nella femmina. La Tab. 18.7 sintetizza le diverse possibilità.
Tabella 18.7 - Epilessia e funzione sessuale. – – – – – – –
crisi da iperventilazione durante il coito sensazioni genitali componenti di un’aura orgasmo ed allucinazioni sessuali come aura epilessia riflessa provocata dall’orgasmo automatismi sessuali durante o dopo una crisi comportamenti sessuali anomali intercritici effetto dei farmaci antiepilettici
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Mielopatie. – Nelle lesioni midollari, indipendentemente dall’eziologia, si osservano, unitamente ai disturbi sfinterici rettovescicali, turbe della funzione genitale. Il livello di lesione risulta significativo: quanto più caudale e completa è la lesione, tanto più grave la disfunzione e probabile l’irreversibilità; una alta percentuale di lesioni cervicali o toraciche superiori è compatibile con una erezione riflessa e relativa eiaculazione, superata la fase di shock midollare. Residua comunque sempre una infertilità per difetto maturativo degli spermatozoi, secondario a turbe della regolazione termica dei testicoli. Le lesioni midollari dei
segmenti toracici inferiori e lombo-sacrali comportano pressochè costantemente una completa impotenza erettile ed eiaculatoria con abolizione, quindi, anche dell’erezione riflessa. Radicolo- e neuropatie. – Indipendentemente dall’eziologia (traumatica, tossica, infiammatoria, compressiva, degenerativa, metabolica) determinano un’impotenza erettile ed eiaculatoria interferendo sia sul versante afferente che efferente dei relativi riflessi. Come nelle mielopatie, si associano assai frequentemente disturbi sfinterici.
Tabella 18.8 - Farmaci e procedure medico-chirurgiche con azione su funzioni genitali. Farmaci
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Antipertensivi:
tutti (tranne ACE inibitori) #
Psicotropi:
neurolettici ansiolitici antidepressivi triciclici * antidepressivi eterociclici inibitori monoaminossidasi
Inibitori dei recettori istaminici H2 gastrici:
cimetidina ranitidina
Vari:
digossina clofibrato ac. epsilon-amino-caproico disulfirame baclofen
Procedure chirurgiche:
resezione prostatica transuretrale prostatectomia (sopra-retropubica) simpaticectomia lombare proctocolectomia resezione addominoperineale chirurgia aorto-iliaca trapianto renale neurectomia nn. pudendi plastica peniena per m. di Peyronie
Procedure non chirurgiche:
dialisi (60%) radioterapia
# prazocina, labetololo, idralazina e trazodone possono provocare priapismo * la ciproeptadina può inibire l’effetto
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Impotenze farmacologiche e iatrogene. – Da lungo tempo sono riconosciuti gli effetti negativi sull’eccitamento sessuale e sull’erezione dell’abuso di alcool e di oppiacei. Anche la maggior parte degli psicofarmaci possono, in alcuni casi, interferire con le funzioni genitali e sessuali, con effetti sia sull’erezione che sull’eiaculazione. Analoghi effetti possono avere procedure chirurgiche o mediche (Tab. 18.8). Orgasmo - eiaculazione. – L’orgasmo nei due sessi costituisce l’effetto culminante dell’atto copulatorio. Nel maschio si accompagna all’eiaculazione con emissione di sperma. L’orgasmo in entrambi i sessi è rappresentato da una complessa esperienza sensoriale corticale, stimolata dall’effetto sommatorio di afferenze somatiche e psicoemotive altrettanto complesse. Anche l’eiaculazione è fenomeno riflesso, il cui centro è individuato nei metameri toracici inferiori e lombari superiori. I nervi simpatici efferenti determinano la contrazione dei muscoli lisci dell’epididimo, dei deferenti, delle vescicole seminali e della prostata: tale serie di eventi concatenati conduce all’immissione dello sperma nell’uretra posteriore. La contrazione del pavimento pelvico e la parziale contrazione dello sfintere vescicale conduce alla fase eiaculatoria finale. La mancata contrazione dello sfintere provoca un’eiaculazione retrograda, come avviene in molte neuropatie e radicolopatie e in molte condizioni in cui esiste dissinergia sfinterica. L’eiaculazione precoce, infine, rappresenta un altro disturbo della funzione sessuale a genesi quasi esclusivamente psicogena. Anche nella donna, come ovvio, possono verificarsi disturbi della funzione sessuale, anche se questi sono più difficili da diagnosticare e documentare. Perdita del desiderio e incapacità di raggiungere l’orgasmo sono normalmente dovuti alle stesse patologie che provocano tali
disturbi nell’uomo. Tuttavia risultano più frequenti nella donna soprattutto in relazione a stati di ansia o a fenomeni socio-culturali. Fecondità e sterilità non hanno abitualmente nulla a che vedere con i disturbi della sfera sessuale. Recentemente nel trattamento dell’impotenza maschile è stato introdotto il Sildenafil (Viagra), un inibitore delle fosfodiesterasi che agisce, anche nell’impotenza neurogena, aumentando gli effetti dell’ossido nitrico prodotto localmente, sui muscoli lisci dei corpi cavernosi; ciò comporta rilascio della muscolatura liscia ed afflusso di sangue.
Riferimenti bibliografici DRUMMOND P.D., LANCE J.W.W.: Site of autonomic deficit in Harlequin syndrome: local autonomic failure affecting the arm and face. Ann. Neurol. 34, 814-819, 1993. SINGER C.: Neurology of sexual dysfunction. Syllabus A.A.N. 45th annual meeting, 116-117, 1993.
Metodiche di valutazione della funzionalità del Sistema Nervoso Vegetativo P. Cortelli
La tecnica di esplorazione funzionale del Sistema Nervoso Vegetativo (SNV) dipende dal tipo di disfunzione che il paziente presenta. In alcuni casi con insufficienza vegetativa generalizzata possono essere necessarie diverse metodologie appartenenti a differenti specialità mentre in altri casi un singolo test fornisce le informazioni necessarie per confutare o confermare il sospetto clinico. Le principali metodiche di indagine divise per sistemi sono riassunte nella tabella 18.9. In particolare la valu-
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tazione del sistema cardiovascolare permette di evidenziare un deficit e di chiarirne il livello e l’entità. Per questo, per la facilità di esecuzio-
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ne e di interpretazione e per la caratteristica non-invasività, queste metodiche sono certamente le più frequentemente usate.
Tabella 18.9 - Metodiche di indagine della funzionalità del SNV. Sistema da valutare
Metodiche
Cardiovascolare TESTS FISIOLOGICI
Test ortostatico passivo ( Tilt test, 65° per 10 min) Test ortostatico attivo Manovra di Valsalva Stimoli pressori (esercizio isometrico, stress con acqua fredda, stress aritmetico) Variazioni della FC (respiro profondo 6/min, iperventilazione, Test ortostatico, Valsalva) Massaggio del seno carotideo Ingestione di un pasto standard Dosaggio della Noradrenalina plasmatica in posizione supina e dopo 10 min di Tilt test Infusione di Noradrenalina (α-recettori, vascolari) Infusione di Isoprenalina (β-recettori vascolari e cardiaci) Infusione di Atropina (blocco parasimpatico cardiaco Infusione di tiramina (risposta pressoria e incremento di Noradrenalina plasmatica )
TESTS BIOCHIMICI TESTS FARMACOLOGICI
Sudorazione REGOLAZIONE
CENTRALE
RISPOSTA DELLE GHIANDOLE
SUDORIPARE
Incremento di 1° C della temperatura corporea interna Variazione circadiana della temperatura corporea interna Iniezione intradermica di pilocarpina o acetilcolina
Gastrointestinale Endoscopia Svuotamento gastrico Motilità gastroenterica Genito-Urinario Valutazione (notturna e diurna) del volume urinario e della secrezione di Na e K Studio urodinamica EMG sfintere urinario Erezione peniena nel sonno Respiratorio Polisonnografia con ossimetria Laringoscopia diretta o indiretta Occhio Tests pupillari (vedi Tab. 18.2) Test di Schirmer per la lacrimazione
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Sistema Cardiovascolare Una caduta posturale della pressione arteriosa (PA) superiore a 20 mmHg della sistolica e a 10 mmHg della diastolica o una caduta di PA meno importante ma sintomatica, richiede ulteriori valutazioni in un laboratorio per lo studio della funzionalità del SNV. Il test ortostatico con tavolo basculante (Head-up tilt test) è lo stimolo posturale più frequentemente usato con la contemporanea misurazione di PA e frequenza cardiaca (FC). In alcuni casi l’ipotensione posturale può essere inizialmente slatentizzata dall’ingestione di cibo, dall’esercizio fisico e dall’ambiente caldo. Ulteriori tests aiutano a determinare il livello e l’entità dell’alterazione del controllo vegetativo del sistema cardiovascolare. Le risposte di PA ed FC alla manovra di Valsalva, durante la quale la pressione intratoracica è aumentata, dipendono dall’integrità dell’intero arco riflesso barorecettoriale. Stimoli come l’esercizio isometrico (“handgrip”, 35% sforzo massimale per 3-5 min), lo stress con il freddo (“coldpressor” immersione della mano per 90 sec in acqua ghiacciata) e lo stress aritmetico (sottrazioni seriali di 7 e 17) attivano le efferenze vasocostrittive simpatiche e aumentano la PA. Le risposte della FC durante il respiro profondo (aritmia respiratoria), la manovra di Valsalva, l’iperventilazione forniscono informazioni sull’integrità delle vie vagali efferenti cardiache. Il massaggio del seno carotideo nel sospetto di una ipersensibilità, è da farsi per non più di 10-12 sec, con monitoraggio dell’ECG e con molta cautela nei soggetti anziani. Per valutare l’ipotensione ortostatica post-prandiale si esegue un test ortostatico prima e dopo un pasto liquido con quantità note di carboidrati, proteine e grassi. Nella insufficienza vegetativa pura, i livelli plasmatici a riposo di Noradrenalina (NA) in posizione supina sono molto bassi suggerendo una neuropatia efferente simpatica . Invece nella atrofia multisistemica con insufficienza vegetativa i livelli di NA in condizione di riposo supino sono entro i limiti della norma in quanto
la sede della lesione è a livello centrale; tuttavia, in entrambi i gruppi di pazienti si può evidenziare una riduzione o la mancanza dell’incremento della NA plasmatica al passaggio dal clinostatismo all’ortostatismo a causa del comune deficit del riflesso barorecettoriale. Nelle insufficienze vegetative secondarie il pattern di alterazione delle NA in posizione supina e ortostatica riflette il livello della lesione. Per esempio nella sezione trasversale del midollo spinale cervicale i livelli di NA sono bassi in posizione supina e non aumentano in ortostatismo mentre nella rara sindrome di insufficienza secondaria alla deficienza dell’enzima dopamina- beta- idrossilasi (che converte la dopamina in noradrenalina) i livelli di NA sono praticamente non misurabili mentre la dopamina plasmatica è molto elevata. In alcuni casi è utile associare al dosaggio delle catecolamine plasmatiche anche quello della renina e dell’aldosterone (Morbo di Addison, diabete). Oggi, l’attività delle fibre simpatiche cutanee e muscolari può essere registrata direttamente mediante un microelettrodo inserito per via cutanea nel nervo peroneo e mediano (microneurografia). Questa metodica, utilissima nel chiarire molti meccanismi fisiopatologici specialmente legati ad una iperattività del sistema simpatico, mentre appare di limitata utilità clinica nello studio delle insufficienze vegetative dove l’attività del simpatico si riduce progressivamente. L’approccio farmacologico, infine, ci aiuta a determinare il grado di sensibilità dei recettori vascolari alfa-adrenergici (infusione di noradrenalina), beta-adrenergici (infusione di isoprenalina) e muscarinici cardiaci (infusione di atropina). Le risposte pressorie e di incremento della NA plasmatica alla infusione di tiramina sono una misura delle riserve di NA del terminale simpatico periferico. SUDORAZIONE Si può valutare la risposta termoregolatoria in termini di sudorazione provocata dall’aumen-
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to di 1°C della temperatura corporea interna facilmente ottenibile con l’uso di una termocoperta. Questo metodo valuta l’integrità delle vie centrali dall’ipotalamo alle ghiandole sudoripare. La sudorazione viene messa in evidenza mediante polveri che cambiano colore in presenza di umidità. Un altro metodo per valutare l’integrità dei sistemi di termoregolazione centrali si basa sullo studio del ritmo circadiano della temperatura corporea interna e in particolare dell’entità della riduzione della temperatura durante il sonno lento. Nelle atrofie multisistemiche spesso si dimostrano ampie aree di anidrosi e la mancanza della caduta della temperatura corporea interna nelle ore notturne; viceversa tale caduta presenta caratteristiche normali nella malattia di Parkinson. L’iniezione intradermica di acetilcolina o pilocarpina può essere utilizzata per dirimere eventuali lesioni a valle del ganglio paravertebrale, nelle quali manca la risposta a tali farmaci. SISTEMA GASTROINTESTINALE Lo studio del transito di un pasto baritato può essere utile nel sospetto di un disordine gastrointestinale delle prime vie digestive. Con metodiche di medicina nucleare è possibile misurare con precisione il tempo di svuotamento gastrico mentre per uno studio approfondito dell’attività del sistema vegetativo enterico sono necessarie particolari tecniche elettrofisiologiche per misurare la motilità dell’intestino tenue. SISTEMA GENITO-URINARIO La poliuria notturna si valuta mediante la misura del volume di urina, della osmolarità e dell’escrezione di sodio e potassio divisa in diurna (ore 8-20) e notturna (ore 20-8). Le metodiche di urodinamica (flussometria, studio pressione/flusso, cistometria, video-urodinamica) misurano l’integrità delle diverse componenti vegetative della minzione.
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L’ EMG dello sfintere vescicale può svelare segni di denervazione e reinnervazione del muscolo striato, soprattutto nelle atrofie multisistemiche. Le metodiche di rilevazione dell’erezione peniena durante il sonno sono utili per differenziare una impotenza organica da una impotenza psicogena. SISTEMA RESPIRATORIO Nei pazienti con disturbi del respiro durante il sonno (apnee notturne, stridor) è utile una polisonnografia con ossimetria, mentre una laringoscopia diretta o indiretta spesso può svelare un deficit di attivazione degli abduttori delle corde vocali tipico dell’atrofia multisistemica. OCCHIO Al fine di determinare l’entità di coinvolgimento delle fibre simpatiche e parasimpatiche addette al controllo del diametro pupillare, si usano numerosi test farmacologici (pilocarpina 1% e 0,125%, cocaina 4%, adrenalina 1 %). La lacrimazione può essere valutata con il semplice test di Schirmer che comporta l’utilizzo di cartine assorbenti sterili della lunghezza di 50 mm da porre nel fornice inferiore per 5 min. Il test è normale quando la cartina assorbente si imbibisce per almeno 15 millimetri escludendo la parte inserita nel fornice inferiore. MISCELLANEA In letteratura sono descritte numerose altre metodiche utili a determinare la causa di un alterazione della funzionalità del SNV e delle possibili complicazioni associate. La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica cerebrale sono indicate per valutare il coinvolgimento dei gangli della base e del cervelletto nella insufficienza vegetativa primaria o per mostrare possibili lesioni del tronco cerebrale nelle forme secondarie. Se si sospetta una
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disautonomia di tipo periferico sono indicati studi elettrofisiologici e la biopsia del nervo surale. Nel sospetto di amiloidosi è indicata la biopsia rettale e del grasso periombelicale. Recentemente sono state proposte metodiche di medicina nucleare con radioisotopi che valutano l’integrità dell’innervazione simpatica cardiaca e che sarebbero in grado di distinguere forme di atrofia multisistemica dalla malattia di Parkinson. Infine, nei pazienti con lesioni focali
del SNV, possono essere indicate specifiche metodiche per determinarne la causa. Per esempio nel caso di una sindrome di Claude-Bernard-Horner sarà necessario eseguire una RM cerebrale per escludere lesioni del tronco cerebrale, uno studio radiografico del polmone per escludere patologia dell’apice polmonare e uno studio Ecodoppler con eventuale angiografia delle carotidi per escludere una lesione della carotide interna.
Sindromi bulbari, pontine, mesencefaliche (sindromi tronco-encefaliche)
INTRODUZIONE ALLA CLINICA
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Introduzione alla clinica
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19. Elementi di genetica, di neuropatologia, farmacologia clinica, neuroimmunologia, neuroepidemiologia, bioetica
Elementi di Genetica F. Ajmar, P. Mandich Introduzione La genetica medica studia: – la costituzione, a livello molecolare, di ogni gene, la sua posizione, in una regione ben definita dei cromosomi o rispetto ad altri geni, l’espressione di ogni gene, cioè il modo in cui un gene si esprime sotto forma di proteina alla quale corrisponde una funzione, il controllo qualitativo e quantitativo di tale espressione, la cronologia e la sequenza di tale espressione nello sviluppo e nella differenziazione, l’ambito di variazione normale, le alterazioni nella struttura e nel numero dei geni e le conseguenze di tali alterazioni, la relazione genotipo fenotipo, cioè la risultante visibile, anche clinica, dell’espressione genica: questa tiene conto della struttura e funzione del singolo gene e della presenza, in ogni organismo diploide, di due alternative (alleli) per ogni gene: dipende dal bilancio che ne risulta quando i due alleli sono in omozigosi o in eterozigosi, e se uno dei due prevale o meno sull’altro (dominanza, recessività, codominanza); come si trasmettono i geni nelle generazioni (ereditarietà); come si distribuiscono le frequenze geniche nelle popolazioni. I principali strumenti che si impiegano nella Genetica Medica sono l’analisi dei pedigree, l’analisi del linkage, la genetica molecolare e la citogenetica.
Il gene è una sequenza di DNA costituita da basi puriniche (A = adenina, G = guanina) e pirimidiniche (T = timina, C = citosina) capace di essere trascritta in un’equivalente sequenza di basi di RNA e tradotta, secondo un codice a triplette, in una proteina con funzioni enzimatiche, strutturali, di regolazione, etc. La corrispondenza tra sequenza di basi di DNA, sequenza di basi di RNA e sequenza di aminoacidi della proteina non è rigida. La sequenza di basi che costituisce il gene sul DNA comprende infatti parti codificanti (esoni) inframmezzate da parti non codificanti (introni), che vengono rimossi da un processo di integrazione (splicing): in questo modo l’RNA messaggero da cui deriva la proteina funzionante contiene solo le parti codificanti. Per lo stesso gene possono esistere forme di integrazione alternative (splicing alternativo) fra vari esoni, il che dà luogo a prodotti diversi e, nella patologia, a proteine alterate. Perchè un gene si traduca in una proteina è anche necessaria una sequenza di DNA di controllo (promotore): questa sequenza controlla quando il gene debba essere trascritto e la quantità di trascritto. L’espressione del gene può inoltre essere costante (costitutiva) o variabile (inducibile) in risposta a stimoli diretti o mediati (ormoni, farmaci, altre molecole, altre proteine). La dimensione di ogni singolo gene è molto varia, e si misura in kilobasi (kb = migliaia di basi). Anche il numero di esoni ed introni che compongono ogni gene varia considerevolmente. Nell’ambito della sequenza di basi che costituiscono il gene si può riscontrare una certa variabilità compatibile con una funzione che
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consideriamo normale. Questa variabilità neutrale viene definita polimorfismo, intendendosi con questo termine la presenza, in una stessa popolazione, di due o più forme genetiche normali, nessuna delle quali con frequenza inferiore all’1-2 %. Esistono cioè due o più geni strutturalmente diversi ma funzionalmente indistinguibili. Frammenti di DNA, codificanti o, più frequentemente, non codificanti, possono presentare questa variabilità: non essendo presumibilmente soggette a significativa pressione selettiva, le sequenze non codificanti tendono a presentare quote di polimorfismo più elevate. Per gli studi di associazione genetica in famiglie e gli studi caso-controllo in popolazione, è stato fatto largo uso di polimorfismi del tipo microsatelliti o single nucleotide polymorphisms (SNP). Alterazioni più significative, cioè mutazioni, comportano alterazioni funzionali che caratterizzano le malattie genetiche. Con l’impiego di tecniche diverse è stato possibile localizzare precisamente molti geni, e questa mappa si sta rapidamente completando. Il DNA di cui si compone il gene è a sua volta organizzato in cromosomi, sui quali è possibile stabilire la posizione di molti geni. Per alcuni geni è stata per ora soltanto determinata la posizione relativamente ad un altro gene, si sa cioè che due geni sono fra loro vicini, senza conoscerne la posizione. Questa lacuna si va colmando rapidamente ed è già disponibile una mappa quasi completa del genoma umano. La prossimità di due geni è utilizzata per dedurre la presenza dell’uno, non identificabile direttamente perchè rilevabile solo fenotipicamente come malattia, attraverso il rilevamento dell’altro, di cui è invece possibile l’identificazione in laboratorio. Il DNA presente nelle cellule è conservato attraverso la sua replicazione. Solo il DNA che viene espresso costituisce i geni dei quali ci occupiamo: ogni gene deve essere trascritto; l’mRNA viene poi sottoposto ad un processo col quale vengono rimosse le sequenze prive di si-
gnificato (introniche) e vengono uniti i tratti significativi (esonici). Questo mRNA, con alcune altre modificazioni post trascrizionali, viene tradotto in proteina. Le funzioni del restante DNA che non viene trascritto nè tradotto (DNA Intercalare), ma solo duplicato, non sono interamente precisate. Il DNA telomerico garantisce la completa replicazione di tutto il DNA. Alcuni geni deputati a funzioni fondamentali, quali quelle energetiche e metaboliche, sono espressi in modo basale e pressochè costante in tutti i tessuti: si parla di espressione costitutiva e geni di gestione; altri geni si esprimono invece specificamente solo in certi tessuti, o in certe fasi del differenziamento o in risposta a stimoli: sono cioè soggetti a regolazione, induzione o repressione e sono detti geni inducibili: la regolazione dipende a sua volta da una o più proteine che stimolano o bloccano la trascrizione del gene inducibile agendo su una zona di DNA a monte di tale gene, chiamata promotore. Trattandosi di proteine, sono anch’esse sotto controllo genico, in risposta ad ormoni o altri induttori. Anche per la funzione del gene esiste un intervallo di valori che rientrano nell’ambito normale. Talvolta una variabilità funzionale latente si esprime solo in presenza di un particolare stimolo, per esempio un farmaco: questo giustifica sensibilità individuali diverse allo stesso farmaco. L’altro aspetto da considerare è la costituzione diploide dell’organismo: tutti i geni, salvo quelli localizzati sui cromosomi X e Y, sono presenti in duplice copia. La funzione genica totale sarà la risultante delle attività dei due alleli di ogni gene. I due geni presenti potranno essere tra di loro eguali o diversi (omozigosi ed eterozigosi). Di ciascun gene, presente in doppia copia nell’individuo, possono esistere forme diverse in una popolazione. Così se chiamiamo A il gene in questione, nella popolazione possono esistere varie forme o alleli: A1, A2, A3, A4, .....An: ogni individuo potrà essere omozigote
Genetica
A1/A1, oppure A2/A2, o A3/A3 etc, oppure eterozigote A1/A2, A1/A3, A2/A3 etc. Le frequenze con cui si incontrano le varie forme omozigoti ed eterozigoti sono regolate da precise leggi di genetica di popolazioni (appendice 1). Due geni allelici diversi in un individuo eterozigote possono entrambi esprimersi con la stessa evidenza: ad un genotipo eterozigote corrisponderà allora un fenotipo eterozigote, cioè nel fenotipo si vedranno entrambe le forme: al genotipo A1/A2 corrisponderà il fenotipo A1/ A2. È il caso del gruppo sanguigno AB, che ha un genotipo eterozigote A/B e un fenotipo A/B. (codominanza). Esistono tuttavia molti casi in cui due alleli diversi, presenti in un individuo eterozigote, non si esprimono con la stessa evidenza, ma uno prevale sull’altro: pur essendo presenti nel genotipo due forme, una sola si manifesterà a livello fenotipico. È il caso dei gruppi sanguigni A e 0: il genotipo A/0 avrà fenotipo A, e solo l’omozigote 0/0 avrà fenotipo 0. Si dirà che A è dominante su 0, o che 0 è recessivo rispetto ad A. Come si vede recessivo non significa nè raro nè malato. I geni possono andare incontro ad alterazioni che ne modificano la struttura, o il numero o la posizione. Queste alterazioni o mutazioni possono riguardare il singolo gene, o gruppi di geni, o interi cromosomi. Le mutazioni inoltre possono essere di tipo diverso: dalle più piccole, puntiformi, che riguardano una sola base del DNA alle delezioni con perdita più o meno grande di materiale genetico, alle inserzioni, alle duplicazioni, fino alle mutazioni cromosomiche strutturali (delezioni, inversioni, traslocazioni, isocromosomi o quelle che comportano l’aumento o la perdita di interi cromosomi quali le trisomie o le monosomie. Le mutazioni possono riguardare le cellule somatiche o le cellule gametiche. Mutazioni nelle cellule somatiche si manifestano in genere solo se l’alterazione provoca un vantaggio selettivo per la cellula colpita, così da esaltarne per es. la replicazione a sca-
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pito della differenziazione ed esitare così, ad esempio, in una neoplasia. Mutazioni genetiche in senso stretto sono invece quelle che colpiscono il DNA delle cellule germinali, e diventano perciò trasmissibili nelle generazioni. Esistono frequenze abbastanza precise con cui queste mutazioni de novo possono comparire e interessare geni diversi: esse dipendono, oltre che dall’agente mutageno, anche dalla struttura e dimensione del gene. Esistono inoltre casi particolari di formazione, espressione e trasmissione delle mutazioni. Un primo caso riguarda le mutazioni dinamiche: si tratta di mutazioni che, pur interessando le cellule germinali ed essendo perciò ereditarie, tendono a modificarsi nel passaggio tra generazioni. Esse sono caratteristiche di alcune malattie neurologiche quali la corea di Huntington, la distrofia miotonica, l’atassia spinocerebellare tipo 1, l’atrofia muscolare spinobulbare, l’atrofia ereditaria dentato rubro pallidoluysiana, la sindrome da X fragile, la sindrome di MachadoJoseph, e consistono di solito nella ripetizione di una tripletta di basi nel DNA (per es. CAG); il numero di ripetizioni di tale tripletta in queste patologie eccede il valore riscontrato negli individui normali. Per esempio, mentre il numero medio di triplette CAG nel gene normale è di 25, con un intervallo tra 10 e 30 nella popolazione italiana, quello degli individui con corea di Huntington è superiore alle 36 triplette e può superare le 100. Si chiamano dinamiche in quanto tale numero di triplette è instabile e tende a modificarsi, più spesso ad aumentare, nella trasmissione da genitore a figlio. Poiché la gravità dell’espressione della malattia è spesso correlata con il numero di triplette ripetute, questo meccanismo dà conto anche del fenomeno della anticipazione, per il quale particolari patologie tendono a comparire più precocemente e in forma più grave col passare delle generazioni. Altro meccanismo mutazionale particolare è quello misto, presente per certi tipi di tumori, tipicamente nel retinoblastoma. Una mutazione,
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trasmessa per via germinale, cioè ereditaria ma di per sè insufficiente, allo stato eterozigote, a produrre la malattia, e quindi recessiva, predispone al retinoblastoma. Questo si verifica quando l’altro allele, sano, viene colpito da mutazione somatica, quindi non ereditaria e di per sè insufficiente a provocare la malattia: per il concorrere di due eventi, uno ereditario e uno acquisito, si crea così una condizione equivalente alla omozigosi o alla eterozigosi composta (due alleli mutati in punti diversi) o alla emizigosi (se una delle due mutazioni è una delezione, con conseguente perdita di eterozigosità (LOH = loss of heterozygosity). Un altro riscontro atipico di mutazioni si ha nel mosaicismo germinale. Se la mutazione colpisce una cellula germinale staminale possono formarsi, a partire dall’individuo colpito, numerosi gameti mutati, che si rivelano anche in tempi successivi. Questo si può osservare ad esempio in una famiglia in cui entrambi i genitori sono certamente sani, cioè non hanno segni della mutazione che provoca la malattia in oggetto: tuttavia essi generano più di un figlio con la mutazione. Considerata la bassa frequenza di mutazioni de novo, la probabilità che, nella formazione del gamete maturo, si produca due volte per caso una mutazione è trascurabile. Se invece esiste un mosaico tra le cellule germinali staminali, un clone mutato può produrre più di un gamete mutato. Questa situazione è importante nella consulenza genetica per la valutazione del rischio di ricorrenza della malattia. Le mutazioni possono provocare conseguenze diverse. Esse dipendono dal tipo di mutazione, dalla posizione che la mutazione occupa nel gene, dal tipo di funzione colpita, dalla situazione dell’altro allele. Non si può stabilire a priori un rapporto tra la dimensione o il tipo di mutazione e la gravità della lesione che ne deriva. Sostituzioni puntiformi di una base del DNA (missense mutations) possono non dare luogo ad alcuna alterazione, o al contrario, se riguardano una regione funzionale critica, provocare gravi conseguenze: inoltre possono, con la delezione
o inserzione di una singola base, spostare di una unità la lettura a triplette (frameshift mutations) o trasformare una normale tripletta in codone di stop (nonsense mutations) all’interno di una proteina, rendendola così priva di funzione. Alterazioni di dimensioni relativamente maggiori sono le delezioni, con perdita di tratti di DNA o di interi frammenti di cromosoma, e le inserzioni, talvolta con duplicazione di parte del DNA o di tratti di cromosoma. Alterazioni ancora maggiori riguardano la perdita o l’acquisizione di interi cromosomi. Mutazioni diverse dello stesso gene possono dare luogo a entità cliniche classificate come diverse: ad esempio una duplicazione del gene della mielina periferica 22 sul cromosoma 17p11.2 provoca una neuropatia sensitivo-motoria del tipo CharcotMarie-Tooth 1A, mentre una delezione dello stesso gene provoca una neuropatia con predisposizione alla paralisi da compressione (o neuropatia tomaculare). Nella situazione diploide, il genotipo di un individuo ad ogni locus può essere omozigote, quando entrambi gli alleli sono eguali, oppure eterozigote quando essi sono diversi. Il fenotipo risultante dipenderà dai rapporti di dominanza, codominanza e recessività dei due alleli tra loro. Nella vera dominanza non sono fenotipicamente distinguibili l’omozigote con due alleli dominanti dall’eterozigote con un allele dominante ed uno recessivo. È un caso abbastanza raro in genetica medica, dove in realtà le malattie genetiche dominanti sono nella maggior parte dei casi dovute alla condizione eterozigote, mentre la condizione omozigote dominante per la malattia è letale. La corea di Huntington rappresenta un esempio di vera dominanza in quanto l’eterozigote con un solo allele malato e l’omozigote con entrambi gli alleli malati si comportano clinicamente allo stesso modo, e la diversa gravità della malattia correla con l’estensione dell’amplificazione delle triplette CAG piuttosto che con la condizione di omozigosi. In linea generale, ma con molte eccezioni, le malattie autosomiche dominanti tendono a es-
Genetica
sere meno gravi e a comparire più tardivamente delle recessive, dovute alla omozigosi di due alleli recessivi, che tendono ad essere più gravi e più precoci e sono tipicamente pediatriche. Una condizione particolare di malattia può essere data dalla situazione di doppia eterozigosi (eterozigote composto) nella quale sono presenti nell’individuo due alleli diversi, entrambi recessivi, cioè in grado di provocare la malattia solo allo stato omozigote. Supponiamo che A1 sia un allele normale, dominante, mentre a1 o a2 siano alleli recessivi che provocano malattia allo stato omozigote: gli individui con genotipo a1/a1 e a2/a2 saranno entrambi malati in quanto omozigoti, ma risulterà malato anche a1/a2, pur essendo eterozigote, mentre A1/a1 o A1/a2 risulteranno sani. Questo è ben comprensibile se si considera che le mutazioni possono colpire il gene in punti diversi, entrambi non funzionanti, e quindi dare una malattia se entrambi presenti. Il meccanismo patogenetico con cui un allele recessivo provoca la malattia è abbastanza intuitivo: si tratta spesso di perdita o di riduzione di funzione. Una delezione che abolisca un gene, o una mutazione che lo modifichi ne ridurrà presumibilmente la funzione (aploinsufficienza): l’allele sano potrà fino ad un certo punto supplire a questa carenza, e solo la totale mancanza quale si verifica nell’omozigosi produrrà l’effetto patologico. Questo è spesso rilevabile anche quantitativamente misurando l’attività dell’enzima prodotto dal gene in questione: l’eterozigote portatore avrà valori quantitativamente intermedi tra il normale e il malato, ma tali valori saranno più che sufficienti per la normale funzione. Più complesso è il meccanismo per un allele dominante, dove la funzione alterata, nell’eterozigote, deve riuscire ad annullare anche quella normale. In tal caso si parla di acquisizione di funzione. Un meccanismo patogenetico di acquisizione di funzione si ha nel caso di dosaggio genico eccessivo, quale si ha ad esempio nelle duplicazioni di un gene (malattia di Charcot-
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Marie-Tooth tipo 1A). La presenza di un eccessiva dose genica provoca alterazioni di tipo dominante. Anche alterazioni di proteine strutturali (collageno) possono impedire il corretto assemblaggio con le proteine normali, producendo così un’alterazione dominante. L’espressione fenotipica di un particolare genotipo non è sempre prevedibile, e genotipi identici possono dare luogo a fenotipi anche diversi: quanto più ci allontaniamo, nel nostro rilevamento fenotipico, dal prodotto genico, cioè dalla proteina codificata dal gene, tanto più possono intervenire fattori, noti o sconosciuti, che modificano l’espressione finale fenotipica, e dal punto di vista clinico possono dare luogo a quadri di gravità diversa (espressività variabile). Il caso estremo di variabilità dell’espressività è la penetranza incompleta: il difetto genico è sicuramente presente, per es. in forma di malattia, sia nel padre sia nel figlio dell’individuo esaminato; in questo individuo però la malattia non si manifesta: si dice allora che la penetranza è incompleta. Tuttavia, se siamo in grado di esaminare il DNA dell’individuo, riscontriamo in lui la presenza della stessa mutazione responsabile della malattia in suo padre e in suo figlio. Viceversa geni diversi possono dare lo stesso quadro clinico, per esempio se intervengono ad alterare la stessa funzione. L’analisi genetica rivelerà trattarsi di geni magari collocati su cromosomi diversi e che producono proteine diverse. Si parla di eterogeneità genetica quando malattie ereditarie con quadri clinici sovrapponibili e con la stessa classificazione sono sostenute da geni sicuramente diversi. Un caso particolare si ha per i geni presenti sul cromosoma X. La condizione nel maschio con una sola X è quella di emizigote. Non si ha cioè la condizione di eterozigote con un bilancio nell’espressione dei due alleli: la corrispondenza genotipo/fenotipo è più diretta. La situazione per quanto riguarda i geni sul cromosoma X nella femmina è più complessa. Per ragioni di dosaggio genico, una delle due X viene precocemente inattivata, per cui anche la
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Introduzione alla clinica
femmina risulta emizigote per i geni presenti su quel cromosoma, in quanto una sola delle due X è attiva e funzionante. Tuttavia l’inattivazione è casuale, cioè coinvolge con la stessa probabilità il cromosoma X di origine paterna e quello di origine materna, e la femmina risulta un mosaico di cloni cellulari contenenti, allo stato attivo, il solo cromosoma X paterno o quello materno (lyonizzazione). Situazione patologica analoga all’emizigosi fisiologica appena descritta è quella che si crea nel caso di una delezione di un gene, per esempio per perdita di un tratto di DNA o di un cromosoma. Il fenotipo risultante dipenderà dalla capacità dell’allele rimasto di sopperire a questa carenza e dalla sua condizione. Se l’allele rimasto era funzionalmente alterato, ma in maniera recessiva e quindi non visibile, la condizione di emizigosi da delezione dell’allele sano rivelerà la sua carenza funzionale.
L’ereditarietà Lo studio dell’ereditarietà, cioè della trasmissione dei caratteri da una generazione all’altra, rappresenta l’aspetto caratterizzante della genetica. È peculiare di questa disciplina impiegare il rapporto di parentela tra l’individuo in esame, il probando o propositus, ed il resto della sua famiglia (genitori, nonni, fratelli, figli) per ottenere informazioni diagnostiche decisive. La conoscenza della modalità di trasmissione permette, ad esempio, di predire con certezza la presenza di un gene mutato nella figlia di un uomo con malattia legata al cromosoma X senza nemmeno vedere la paziente: la trasmissione obbligata dei geni presenti sul cromosoma X dal padre alla figlia permette cioè la diagnosi in una persona attraverso la conoscenza del suo rapporto di parentela con un’altra. Qualsiasi altra disciplina medica rivolge l’indagine diagnostica unicamente sull’individuo interessato. Nelle malattie ereditarie l’analisi della famiglia (pedigree) diventa invece elemento diagnostico
essenziale per l’individuo: la modalità di trasmissione diventa cioè elemento diagnostico critico (Fig. 19.1). Questo approccio comporta il coinvolgimento più o meno obbligato dei familiari per ottenere la diagnosi di un individuo, con i problemi, anche etici, che comporta questa intrusione, magari non richiesta, nella vita privata di altri. Il gene è l’unità funzionale minima di trasmissione. Nella specie umana (diploide) la maggior parte dei geni sono rappresentati in doppia copia, uno proveniente dal padre (p) e uno proveniente dalla madre (m). Fanno eccezione i geni sui cromosomi X e Y. Data la modalità di formazione dei gameti (processo meiotico) solo uno dei due geni presenti in coppia in ogni individuo viene trasmesso da ogni genitore a ciascun figlio. Perciò se è presente nel genitore la coppia di geni A1(p) e A2(m), solo o l’uno o l’altro sarà trasmesso al figlio: si tratta quindi di geni alternativi o alleli. (segregazione degli alleli o prima legge di Mendel). La struttura che porta i geni è il cromosoma, dove ogni gene occupa una posizione ben precisa (locus). Nella specie umana sono presenti 22 coppie di cromosomi (autosomi), uno di origine paterna (p) e uno di origine materna (m) per ogni coppia, più una coppia di cromosomi sessuali. Il cromosoma costituisce l’unità strutturale trasmessa attraverso il gamete aploide (spermatozoo, oocita), che perciò contiene 23 cromosomi. L’assortimento dei 23 cromosomi che entrano a far parte del gamete è casuale: per ogni coppia di cromosomi da 1 a 23 ne entra a far parte uno solo, paterno (p) o materno (m), a caso. I geni che sono su cromosomi diversi obbediscono perciò ad un assortimento casuale. I cromosomi sono presenti in ogni cellula in coppie di omologhi, numerate da 1 a 22 1. 1
Per indicare un gene si usa una lettera, per es. A,B,C; Si usa la maiuscola per il dominante, la minuscola per il recessivo; se ci sono più alleli si indicano con numeri, per es. A1, A2, A3 , a1, a2, a3.
Genetica
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Fig. 19.1 - Albero genealogico; (a) simboli impiegati; (b) modalità di rappresentazione dei rapporti di clientela.
Supponiamo che sui due cromosomi numero 1 siano presenti, al locus A, gli alleli A1(p) e A2(m)2, e sui due cromosomi numero 2, al locus 2
Spesso si usa una sigla che ricorda il gene, per es DM o HD, con una indicazione (+) per l’allele normale (selvatico) e una indicazione diversa per ogni mutazione. Si dovrebbe evitare di usare lettere diverse (per es A e B) per indicare gli alleli di un gene ad un determinato locus. Per indicare il genotipo si usa scrivere i due alleli separati da una barra, per es. a1/A2; due geni (con i rispettivi alleli) su cromosomi diversi sono separati da (;) per es a1/A2; B1/b3. Se i geni sono concatenati, si indica A1B2/a2b3. L’importante è la coerenza interna della nomenclatura impiegata
B, siano presenti gli alleli B1(p) e B2(m). È ovvio che i geni A e B sono fra loro non allelici. I possibili gameti, aploidi, risultanti potranno contenere A1 e B1 oppure A1 e B2 oppure A2 e B1 oppure A2 e B2.(assortimento indipendente dei non alleli, seconda legge di Mendel). E così via con 223 assortimenti possibili nella composizione dei gameti. Le dimensioni dei geni e quelle dei cromosomi variano notevolmente: tuttavia la dimensione del cromosoma è di ordini di grandezza
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Introduzione alla clinica
superiore a quella del gene. Questo significa che su un cromosoma possono essere collocati in loci diversi molti geni, A,B,C, etc; essi, pur essendo non alleli, non seguiranno il principio dell’assortimento indipendente ma saranno vincolati (concatenati, geneticamente associati, linked), cioè seguiranno il destino dello stesso cromosoma, segregheranno insieme. Consideriamo due paia di cromosomi, un paio del numero 1 e un paio del numero 2 (Fig. 19.2). Supponiamo che sul cromosoma del numero 1 paterno (p) siano presenti due loci distinti, A e C, uno portatore del gene A1, l’altro del gene C1; sul suo omologo, sempre del numero 1, materno, (m), siano i relativi alleli A2 e C2 ; sul cromosoma del numero 2 (p) siano i geni non allelici B1 e D1, e sul suo omologo, sempre del numero 2 (m) siano i loci per i rispettivi geni B2 e D2: un gamete, aploide, potrà contenere: a) Cromosoma 1(p)A1C1; cromosoma 2(p)B1D1 oppure b) Cromosoma 1(p)A1C1; cromosoma 2(m)B2D2 oppure
Fig. 19.2 - Assortimento indipendente di due cromosomi ciascuno con due geni. Nella cellula diploide in A (per esempio spermatogonio) sono rappresentati: due cromosomi omologhi di Tipo 1 con i loci A e C e i rispettivi alleli A1C1 e A2C2, e due cromosomi omologhi di Tipo 2 con i loci B e D ciascuno con i rispettivi alleli B1D1 e B2D2; P indica l’origine paterna e M l’origine materna. Al termine della gametogenesi (se non è avvenuta ricombinazione), avremo le cellule mature finali (spermatozoi) nei quattro assortimenti rappresentati nella parte B.
c) Cromosoma 1(m)A2C2; cromosoma 2(p)B1D1 oppure d) Cromosoma 1(m)A2C2; cromosoma 2(m)B2D2. Come si vede non si riscontrano gameti contenenti A1C2, nè A2C1 , nè B1D2 nè B2D1 e cosi via. In altre parole i due non alleli A e C presenti sullo stesso cromosoma sono concatenati (linked) e cosegregano; così pure i due non alleli B e D, anch’essi concatenati. I geni presenti sui due cromosomi omologhi, cioè dello stesso numero, per es. 1 oppure 2 oppure 7, non sempre cosegregano. Tra loro possono avvenire scambi per un processo chiamato di ricombinazione che avviene durante la meiosi. Nella coppia di cromosomi del numero 1 considerati precedentemente, i geni A1 e C1 e i geni A2 e C2 possono ricombinare fra loro e dar luogo a due gameti ricombinanti contenenti A1C2 e A2C1.(Fig.19.3)
Fig. 19.3 - Ricombinazione. In A sono rappresentati due cromosomi omologhi. In B si scambiano una parte di materiale genetico. In C sono rappresentate le forme ricombinanti che risultano da questo scambio.
Genetica
Questo processo di ricombinazione è tanto più frequente quanto più i geni sono distanti tra loro: la frequenza di ricombinazione (percentuale di volte in cui si ottengono i ricombinanti sopra detti) è usata come misura della distanza tra i due geni. Questa percentuale di ricombinanti permette cioè di stimare la distanza di mappa tra due geni: l’1% di ricombinanti indica che i geni, per definizione, sono distanti tra loro un’unità di mappa o 1 centiMorgan (cM). La distanza fisica corrispondente alla distanza genetica di 1cM è di circa 1 milione di coppie di basi sul DNA.
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Il principio del linkage (concatenazione, associazione genetica) e il processo di ricombinazione sono elementi caratteristici della genetica e hanno alcune importanti implicazioni (Fig. 19.4). Da un punto di vista genetico generale la ricombinazione aumenta enormemente il numero di combinazioni possibili nella formazione dei gameti: come si è detto, i possibili assortimenti cromosomici sono 2 23, ma diventano enormemente più numerosi se si includono anche tutte le possibili ricombinazioni; infatti il genoma è stimato consistere di 30 Morgan, cioè
Fig. 19.4 - In A sono indicate due coppie di cromosomi (per es. 1 e 2). Sul cromosoma 1 è indicato il locus A con gli alleli A1 e A2, sul cromosoma 2 è indicato il locus B con gli alleli S (sano) ed M (malato). Le frecce indicano le 4 classi di gameti che derivano dai possibili assortimenti. In B ed in C esiste solo una coppia di cromosomi omologhi del cromosoma 1: in B A1 e M sono in CIS ed i relativi ricombinanti sono A1S e A2M; in C A1 e M sono in TRANS e i relativi ricombinanti sono A1M e A2S.
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3000 cM, quindi circa 3 miliardi di coppie di basi. Anche per questa ragione non esistono due individui identici, tranne i gemelli monozigoti. Da un punto di vista pratico, il principio del linkage e il processo di ricombinazione consentono di stabilire la posizione relativa di molti geni. Con l’ausilio di altre tecniche di genetica molecolare e di citogenetica è possibile mappare il genoma, cioè conoscere la posizione, l’anatomia topografica, di tutti i geni. Da un punto di vista diagnostico applicativo infine, il principio del linkage, cioè della cosegregazione di geni concatenati, ha permesso e permette tuttora di formulare diagnosi genetiche predittive per malattie a gene non ancora noto di cui si conosca però una associazione genetica con marcatori polimorfici. Nella figura 19.5 e nella Tabella 19.1 viene esemplificato il modo di procedere per eseguire diagnosi presintomatica con l’impiego del linkage.
L’esempio illustra in modo schematico il principio che viene seguito. Esistono programmi per l’uso col personal computer per la serie di calcoli necessari a verificare la significatività del risultato. Come si vede esistono precisi vincoli per l’uso della diagnosi genetica attraverso il linkage: a) non è possibile la diagnosi individuale del probando. ma devono essere disponibili più individui malati, in diverse generazioni; più sono gli individui disponibili, più sicuro è l’accertamento; b) gli individui sani possono non costituire elemento di controllo, nelle malattie genetiche a penetranza incompleta o ad insorgenza tardiva, in quanto potrebbero essere non ancora malati; c) i polimorfismi utilizzati devono essere informativi. Se nel nostro esempio, sia il padre che la madre avessero genotipo omozigote A/A, non si potrebbe dedurre niente. Il massimo della
Fig. 19.5 - Esempio di analisi di linkage per una malattia autosomica dominante. A, B e C sono gli alleli al locus P di cui si vuol verificare il linkage con il locus per la malattia, rappresentato dai due alleli: M = malato e S = sano. Si possono verificare due situazioni: 1) il locus P per i polimorfismi A, B e C e il locus per la malattia, con gli alleli M e S, sono su cromosomi diversi, cioè assortiscono indipendentemente (ipotesi A). 2) Il locus per il polimorfismo e quello per la malattia sono sullo stesso cromosoma e in associazione. In questa seconda ipotesi tuttavia non è possibile conoscere direttamente la fase, cis o trans, degli alleli polimorfici rispetto agli alleli per la malattia: nella madre affetta potrebbe cioè essere presente la situazione A-M su un cromosoma e B-S sull’altro (ipotesi B) o la reciproca con A-S su un cromosoma e B-M sull’altro (ipotesi C). A loro volta l’ipotesi B e C prevedono la possibilità di ricombinanti (ipotesi D e E). Le varie ipotesi vengono confrontate con il dato osservato e discriminate statisticamente nella tabella. Nel caso cis risulterebbero ricombinanti tutti i figli A-S o B-M, cioè 1 su 8, mentre gli altri (7 su 8) sarebbero parentali, cioè non ricombinanti; nel caso trans risulterebbero invece ricombinanti tutti i figli A-M e B-S, cioè 7 su 8, e uno solo risulterebbe parentale. È chiaro che la situazione più probabile è la prima, cioè A-M, B-S in cis.
681 Tabella 19.1. Ipotesi
Valori attesi (%) AM
BM
AS
BS
A) B) C) D) E)
Assortimento Indipendente Linkage completo (A e M in cis) Linkage completo (A e M in trans) Linkage,10% ricombin (A e M in cis) Linkage,10% ricombin (A e M in trans
25 50 0 45 5
25 0 50 5 45
25 0 50 5 45
25 50 0 45 5
F)
Valori Osservati nella famiglia (%) (Valori reali
50 4
12.5 1
0 0
37.5 3
Nella tabella sono riportati i calcoli per i valori di linkage della famiglia di fig. 19.5 Si verifica quale delle ipotesi si avvicini di più ai dati osservati, e quale ne sia la significatività statistica. Già all’osservazione appaiono improbabili le ipotesi A (assortimento indipendente), B ed C (linkage completo). Il fatto che si riscontri un ricombinante (BM) fa infatti escludere il linkage completo. L’ipotesi più probabile appare quella di un linkage incompleto con A e M in fase cis (ipotesi D): il valore esatto di ricombinazione si calcola per tentativi: esso si esprime come rapporto tra i valori nelle varie ipotesi di linkage (B,C,D.E) e il valore nell’ipotesi di assortimento indipendente (A), cioè B/A oppure C/A etc. Naturalmente le ipotesi comprenderanno tutti i valori di ricombinazione tra 0 (linkage completo) e 50% (Assortimento indipendente). Possiamo cioè immaginare una serie di ipotesi F,G,H, etc con valori di ricombinazione di 8%, 4%, 2% etc, e valori di AM 41; BM 4; AS 4 e BS 41; o 43, 2, 2, 43; 44,1,1,44 rispettivamente e calcolare ciascuno dei rapporti F/A; G/A; H/A; etc. La probabilità di linkage, P, sarà data dal valore del rapporto dell’ipotesi B/A, oppure C/A oppure D/A e via dicendo. Il valore più elevato di questo rapporto ci dice contemporaneamente il valore più probabile di ricombinazione e la significatività di questo valore. Per esempio può risultare che il rapporto D/A sia di 100:1. Un valore di 1000:1 è accettato come prova di linkage. Valori inferiori (100:1; 10:1), suggeriscono un linkage, ma richiedono conferme. Per convenzione il valore di questo rapporto è espresso come logaritmo in base 10. La terminologia inglese LOD scores (logarithm of the odds, scores = punteggio del logaritmo delle probabilità) è comunemente usata per questi valori. Un LOD di 3 significa un rapporto 1000:1; un LOD di 2 significa 100:1 e così via. I calcoli, apparentemente macchinosi, sono ora effettuati con apposito programma di computer.
informatività al contrario si riscontra quando entrambi i genitori sono eterozigoti e diversi, per es. A1/A2 e A3/A4. La probabilità di avere genotipi eterozigoti e informativi dipende dal tipo di polimorfismo e dalla composizione genetica della popolazione in esame. d) i marcatori utilizzati devono essere quanto più possibile vicini al gene: minore è la frequenza di ricombinazione, maggiore è l’attendibilità diagnostica; e) la possibilità di utilizzare marcatori a monte e a valle del gene considerato (cioè telomerici e centromerici rispetto al gene per la malattia) permette di verificare i possibili casi di ricombinazione, essendo la probabilità di doppia ricombinazione (sia a monte che a valle del gene studiato) il prodotto delle probabilità di ogni singola ricombinazione, cioè dal punto di vista pratico trascurabile;
f) va sempre tenuta presente la possibilità di eterogeneità genetica di alcune patologie, cioè del caso in cui esistono più geni, su cromosomi diversi, responsabili per patologie clinicamente indistinguibili; g) la non-paternità può creare difficoltà all’effettuazione di studi di linkage. La frequenza di illegittimi è stimata nell’ordine del 10%. Naturalmente l’impiego diagnostico del linkage, con i vincoli che comporta, è da considerarsi provvisorio fino a quando per ogni malattia non sia identificato il gene: tuttavia alcune malattie, pur a gene noto, hanno un alto numero di mutazioni disperse in tutto il gene, per cui non è pratico identificare la mutazione nel singolo individuo. La diagnosi con il linkage rimane allora la scelta obbligata. L’impiego del linkage avviene attraverso due fasi: in una prima fase si stabilisce, su poche
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famiglie estese (più generazioni e molti individui), la posizione del gene e il suo linkage con marcatori adatti. A partire da questi se ne ricercano altri più vicini e possibilmente collocati a monte e a valle del gene per la malattia (che, ripetiamo, non è noto ed è riconoscibile nella sua trasmissione solo fenotipicamente in quanto provoca appunto la malattia). In una seconda fase se ne verifica l’unicità, cioè si esclude o si quantifica la presenza di eterogeneità genetica, estendendo l’analisi a molte famiglie, anche più piccole. Si verifica anche l’applicabilità nella popolazione in cui si vuole utilizzare la diagnostica con il linkage, data la possibile diversità di composizione genetica delle varie popolazioni. Come si è detto, la misura della distanza tra due geni concatenati è data dalla frequenza con cui si osservano ricombinazioni. Tale frequenza è anche la misura della incertezza diagnostica. Facciamo un esempio: il figlio di un individuo con malattia autosomica dominante ad insorgenza tardiva ha una probabilità a priori del 50% di aver ereditato la malattia. Se però si può verificare che ha ereditato il marcatore A, che nel padre è strettamente concatenato al gene della malattia, la probabilità sale al 100%. Tuttavia, se il valore di ricombinazione tra questo marcatore e il gene è del 3%, la probabilità finale di aver ereditato la malattia sarà del 97%. Supponiamo ora che esistano due marcatori, uno (A) a monte e uno (C) a valle del gene per la malattia, diciamo “A-(0.03)-malattia-(0.02)C”, distanti rispettivamente 3 e 2 cM (cioè con il 3 e il 2 % di ricombinazione ciascuno). Se il figlio ha ereditato dal padre entrambi i marcatori A e C, la probabilità di non aver ereditato la malattia dipenderà dalla probabilità di doppia ricombinazione, cioè sarà del: (0.03 × 0.02 = 0.0006 %). Bisogna ricordare infine che lo specifico allele del locus concatenato con il gene della malattia va individuato famiglia per famiglia: se tra i marcatori polimorfici di tipo A esistono 5 alleli (A1, A2, A3, A4, A5), il marcatore legato
al gene per la malattia può essere A1 nella famiglia 1, e invece A5 nella famiglia 2, e A3 nella famiglia 4. Il marcatore A1 di per sè non indica la presenza di malattia ma, in ogni famiglia, consente solo di determinare la probabilità di cosegregazione. L’impiego del linkage per il posizionamento e successiva identificazione di un gene o a scopo diagnostico, richiede ovviamente alberi familiari estesi, non sempre disponibili. Un metodo alternativo è quello dell’analisi di coppie di fratelli (sib pair analysis). Esso è stato impiegato per l’analisi di malattie familiari comuni come l’asma o il diabete, per localizzare i geni responsabili. Esso si basa sull’identificazione di aplotipi che siano identici per discesa (IBD) (cioè che siano identici perché ereditati dallo stesso progenitore), a differenza di quelli identici per stato o condizione (IBS). Se ora consideriamo i marcatori IBD per due loci, per es. S ed M (cioè S1/ S2, S3/ S4 per un locus e M1/ M2, M3/ M4 per l’altro locus) essi assortiranno indipendentemente se i due loci sono su cromosomi diversi ( o comunque con una ricombinazione > 0.5) ma saranno positivamente correlati in caso di linkage, e tanto più quanto più stretto sarà il linkage. In assenza di ricombinazione troveremo associati, nella coppia di fratelli, per es. S1 e M1. Se con M1 abbiamo indicato la malattia, troveremo positivamente correlati S1 e la malattia. Ovviamente il trattamento rigoroso di questo tema esula da questa esposizione, che presenta l’approccio solo in modo intuitivo. Anche per questo approccio sono comunque disponibili softwares dedicati per svolgere la complessa statistica necessaria.
Citogenetica La citogenetica rappresenta la parte della genetica di più intuitiva comprensione. Le 22 coppie di cromosomi autosomi e i due cromosomi sessuali X e Y sono classificati in base alla
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dimensione e alla posizione del centromero con una numerazione che va da 1 a 22. Per ogni cromosoma sono individuate, a partire dal centromero, braccia corte p e braccia lunghe q divise in zone, ben identificate attraverso colorazioni specifiche, e numerate, a partire dal centromero, con una numerazione convenzionale universale. Il primo numero indica la zona, il secondo la subzona e così via: per esempio: 1p13.1 indica che si sta parlando del cromosoma 1, del braccio p, della zona 1, della subzona 3 e della subsubzona 1. Sulla base di questa numerazione è possibile posizionare un grande numero di geni, così da costruire una mappa citogenetica per i singoli geni. Questa mappa viene arricchita costantemente con un insieme di tecniche di genetica molecolare, ibridazione in situ non fluorescente (FISH), etc, e se ne prevede la saturazione, per i geni principali e in particolare per quelli responsabili delle principali malattie ereditarie, nel giro di pochi anni. Naturalmente la collocazione topografica dei geni su specifiche zone di cromosomi permette di verificare, e in alcuni casi prevedere, le conseguenze di aberrazioni o riarrangiamenti cromosomici che interessino la loro struttura o il numero. In prima approssimazione si può verificare il risultato di un eccesso o difetto di dose per una trisomia o monosomia di cromosomi o di parti identificabili di essi. La genetica molecolare in seguito dimostra come il problema possa essere più complesso e riguardare anche effetti che si vengono a creare per la nuova posizione che un gene viene ad assumere quando è spostato dalla sua zona originaria ad un’altra su un altro cromosoma. Per quanto riguarda gli aspetti generali delle aberrazioni cromosomiche, numeriche o strutturali, elenchiamo alcune osservazioni (gli aspetti specifici relativi ad ogni patologia sono illustrati nei rispettivi capitoli). Anche per le aberrazioni esiste una nomenclatura che permette di definire esattamente non solo il tipo di aberrazione, ma la zona e subzona coinvolta.
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A) Nella grande maggioranza le alterazioni numeriche (per es. trisomie) non sono ereditarie, ma derivano da non disgiunzione meiotica. Fanno eccezione alcune traslocazioni bilanciate. B) Non deve sorprendere una certa variabilità fenotipica per lo stesso tipo di trisomia. Se si pensa al grande numero di geni presenti su un cromosoma, la cui forma può essere diversa (possono cioè essere presenti polimorfismi e mutazioni), sorprende semmai la relativa uniformità fenotipica.
Genetica dei caratteri quantitativi. Eredità poligenica e multifattoriale. Interazioni eredità/ambiente L’analisi genetica mendeliana descritta in precedenza non è facilmente applicabile ad alcuni caratteri fisiologici o patologici, pur essendo in essi evidente una componente ereditaria. Esempi di tali caratteri sono la statura e il peso, il valore della pressione sanguigna: è osservazione comune che da genitori alti nascano più frequentemente figli alti, tuttavia non è possibile stabilire una precisa trasmissione mendeliana per questi caratteri. Per spiegare queste modalità di trasmissione si devono invocare meccanismi diversi. Una distribuzione continua di valori (per esempio il colore dei petali di fiori, con gradazioni continue dal bianco al rosso scuro) si può spiegare con la presenza di più geni che controllano il colore attraverso due alleli: bianco e rosso. Quanti più geni con l’allele rosso sono presenti, tanto più rosso sarà il colore del fiore, e viceversa: le diverse proporzioni di alleli bianchi e rossi, trasmessi ciascuno mendelianamente e presenti in ogni individuo, daranno luogo nella popolazione a un continuum di colore tra rosso e bianco passando per il rosa, che rappresenterà anche la classe più frequente in una distribuzione binomiale. Si tratterà di una trasmissione poligenica con numero variabile di geni, ciascuno con effetto additivo.
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Più complessa è la situazione ad esempio del peso: il peso di una persona dipenderà dal peso delle ossa, dei muscoli, dei tessuti adiposi, dei singoli organi, dell’acqua presente etc. Basta pensare che ciascuna di queste componenti sia sottoposta ad un controllo genetico per constatare quanto sia complessa l’analisi genetica di un carattere come il peso. Sia l’influenza relativa di queste componenti che la variabilità genetica di ciascuna possono risultare in significative deviazioni dalle attese mendeliane. Anche in questo caso il controllo è dovuto a molti geni, ma il loro effetto non è additivo, e la presenza o assenza di un singolo gene con effetto principale (per esempio quello che controlla il tessuto adiposo e che porta all’obesità) può condizionare il fenotipo finale (il peso della persona), senza però poter provare un’indiscutibile segregazione mendeliana a causa dell’apporto additivo o sottrattivo dei prodotti degli altri geni (modificatori). Alterazioni di uno o più di questi geni possono provocare patologie nelle quali si può riscontrare un’aggregazione familiare senza poter tuttavia prevedere mendelianamente la probabilità di malattia. Sistemi più complessi, come il sistema nervoso centrale, possono risultare compromessi per alterazioni genetiche, in punti diversi, di una catena di processi: tuttavia essi possono esitare fenotipicamente nella stessa disfunzione, per esempio ritardo mentale: così la maggior parte delle aberrazioni cromosomiche, oltre a sindromi ben definite e specifiche, esitano spesso in ritardo mentale. Questo non significa che la “funzione mentale”, quale misurata ad esempio con il Q.I., che risulta in una apparente distribuzione normale, a campana, sia poligenica nel senso descritto per il colore dei petali dei fiori, ma significa piuttosto che una funzione così complessa può essere alterata geneticamente in punti diversi con esiti globali quantitativamente diversi. Questo intervallo di variabilità diventa ancora più esteso se si considera anche l’effetto am-
bientale: l’esempio che deriva dalla farmacogenetica è paradigmatico. Nel caso di carenza di G6PD (Glucoso 6 fosfato deidrogenasi) l’individuo che ingerisce fave va incontro ad emolisi, mentre è un individuo perfettamente normale finchè non le mangia. L’ambiente interviene solo su un preciso substrato genetico (carenza di G6PD). Sono state dimostrate anche differenze genetiche qualitative (polimorfismi, variabilità individuale normale) nell’ambito dei geni che sintetizzano i recettori per la Dopamina (D4): ad esse corrispondono affinità diverse per la clozapina. Se nella accezione di ambiente includiamo anche l’ambiente umorale (ormoni e altri fattori sintetizzati dall’organismo), risulta chiaro come si possano avere risposte diverse, su base genetica, allo stesso stimolo ambientale. Infine l’ambiente genetico, cioè la diversa costituzione genetica individuale, può risultare determinante nella diversa espressione di un singolo gene, di cui si conosce esattamente l’alterazione, cioè si è identificata e caratterizzata la mutazione. Nel topo la stessa singola mutazione inserita in ceppi puri ma diversi può dare luogo a fenotipi diversi, che dipendono dal diverso ambiente genetico con il quale la mutazione si trova ad interagire. L’intervento di questi geni modificatori è ipotizzato anche in patologie umane, e il sequenziamento del genoma contribuirà a chiarirne i meccanismi. Uno stimolo ambientale può indurre l’espressione, temporanea o permanente, di funzioni silenti. Anche questa espressione è su base genetica. L’alimentazione può influenzare significativamente il peso e la statura, tuttavia non modifica significativamente l’altezza nel nanismo acondroplasico. Naturalmente la distinzione dei singoli apporti in un sistema di interazione genetica/ambiente è complessa. Il procedimento è spesso quello di ottenere su sistemi semplici (per es. Drosophila o, come si è accennato prima per i geni modificatori, nel topo), l’informazione molecolare, la cui base genetica è possibile confer-
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mare in quanto se ne può rapidamente dimostrare la trasmissione ereditaria. Se la funzione è importante, l’omologia molecolare (la somiglianza della sequenza di basi del DNA) è conservata per ragioni evolutive anche in specie superiori, e rapidamente se ne estende la comprensione all’uomo.
Genetica mitocondriale Il materiale genetico dei mitocondri presenta alcune differenze nella modalità di trasmissione e di espressione rispetto al DNA nucleare. Il cromosoma mitocondriale, chiamato anche cromosoma M o cromosoma 25, è circolare ed è presente in diverse copie in ogni mitocondrio. Il DNA del cromosoma mitocondriale codifica per alcuni complessi enzimatici necessari per la fosforilazione ossidativa. La sintesi di questi complessi è sotto il controllo combinato del DNA nucleare e di quello mitocondriale. Il DNA mitocondriale è composto di 16569 coppie di basi (5523 codoni), ed è prevalentemente impiegato per funzione codificante. Non ci sono introni. La funzione delle 13 proteine codificate da questo gene è interamente nota. Dal punto di vista genetico si devono rilevare due peculiarità; la prima riguarda la modalità di trasmissione, che è esclusivamente per via materna. La seconda riguarda il fatto che, mentre i cromosomi nucleari sono presenti solo in doppia copia per ogni cellula, il cromosoma mitocondriale è presente in migliaia di copie. Per questo la trasmissione risulta deviata rispetto a quella mendeliana classica, ma obbedisce piuttosto alle regole della genetica di popolazione: significa cioè che la trasmissione dei cromosomi mitocondriali rappresenta un campionamento di quelli presenti nella cellula dalla quale provengono: la distribuzione dei cromosomi nella cellula ricevente rifletterà l’esito di questo campionamento, con le relative fluttuazioni casuali. Questo va tenuto presente soprattutto quando si considerino le possibili alterazioni (muta-
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zioni) del DNA mitocondriale. Mentre quelle di tipo fisiologico (polimorfismi) possono servire per identificare la linea di eredità materna, quelle patologiche possono spiegare le diverse gravità riscontrabili fenotipicamente per la stessa malattia. Anche nel DNA mitocondriale, come in quello nucleare, sono stati riscontrati tipi diversi di mutazione: puntiformi (atrofia ottica di Leber), delezioni (oftalmoplegia esterna progressiva).
Consulenza genetica La consulenza genetica in neurologia è spesso diretta ad estendere a persone sane (a rischio) le informazioni riguardanti una diagnosi effettuata dallo specialista neurologo. La possibilità di prevedere la comparsa di una malattia in un individuo asintomatico è acquisizione recente e coincide praticamente con la diagnostica genetico-molecolare. I precedenti sistemi di screening erano tutti test presintomatici in senso lato in quanto precedevano la comparsa dei sintomi clinici, ma erano tuttavia solo rivelatori precoci di un’alterazione già in atto (per es. il PAP test). I test genetici presintomatici evidenziano invece una predeterminazione biologica che precede le modificazioni patologiche; il loro margine di incertezza riguarda l’esatto periodo di insorgenza e la loro precisione nel riconoscimento della mutazione nei casi di eterogeneità genetica. La diagnosi di una malattia ereditaria prima della comparsa dei sintomi o presintomatica si basa generalmente sull’identificazione della mutazione responsabile della malattia quando l’individuo risulta ancora sano all’esame clinico o strumentale tradizionale. Questa mutazione viene generalmente ricercata sulla base di un richiamo anamnestico, cioè per il rischio di averla ereditata da un genitore affetto. L’individuazione di solito si basa su una indagine molecolare.
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Genetica
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Fig. 19.6 - Anatomia patologica del genoma umano. Malattie neurologiche: sono indicate le localizzazioni cromosomiche delle principali malattie neurologiche (mappa aggiornata al 1994).
Nella definizione più restrittiva l’insorgenza della malattia nell’individuo portatore della malattia è certa, e l’incertezza consiste solo nel tempo di comparsa dei sintomi. In questo essa si differenzia, formalmente, dalla diagnosi predittiva
nella quale è implicito un elemento di probabilità per il manifestarsi della malattia (per es. test di suscettibilità per predisposizioni ereditarie ai tumori). In realtà anche nella diagnosi presintomatica il tempo di comparsa può essere così
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prolungato da lasciare un margine di incertezza. Concettualmente, e soprattutto operativamente, questa distinzione è comunque utile. La diagnosi presintomatica riguarda, per ovvie ragioni, quasi esclusivamente malattie ad esordio tardivo generalmente autosomico-dominanti. Infatti la grande maggioranza delle malattie autosomico-recessive è di pertinenza pediatrica perchè esse sono presenti già dalla nascita o insorgono nella prima infanzia, e non esiste perciò il periodo asintomatico che caratterizza la diagnosi presintomatica. Infine mentre la diagnosi genetica predittiva (di rischio o di suscettibilità) è applicabile a numerose patologie dell’adulto, quella presintomatica copre un numero piuttosto limitato di malattie. Tuttavie queste ultime, per le loro caratteristiche di gravità e di evoluzione, forniscono un utile paradigma che può essere facilmente esteso ad altre patologie. La gravità delle patologie per le quali si applica la diagnosi presintomatica in neurologia può essere diversa e variare da quadri gravissimi e a rapida evoluzione (per es. sclerosi laterale amiotrofica familiare) a forme clinicamente quasi asintomatiche (per es. neuropatia tomaculare). Perciò per le diverse implicazioni mediche, oltre che psicologiche e legali, che accompagnano la diagnosi presintomatica sono stati creati appositi protocolli e linee guida che generalmente prevedono l’utilizzo di una equipe multidisciplinare della quale facciano parte, oltre al genetista medico, altre figure professionali tra le quali ha un ruolo fondamentale il consulente psicologo. Gli elementi che lo psicologo deve affrontare nella diagnosi presintomatica sono diversi: l’ineluttabilità della comparsa della malattia, la durata dell’intervallo libero, il metro personale di valutazione della gravità della malattia, la frequente esperienza diretta in un familiare già affetto dalla stessa patologia, la risposta comportamentale individuale nei confronti di una sentenza senza appello. Anche nella diagnosi predittiva sono presenti tutti questi
elementi, ma essi sono in un certo senso diluiti dalla diversa percezione di rischio statistico e di probabilità e dalla speranza di interventi terapeutici che consentano di prevenire o di ridurre il rischio. La consulenza genetica per diagnosi presintomatica deve tenere conto di alcune caratteristiche peculiari quali il fatto che la richiesta viene generalmente effettuata su persone adulte sane, per le quali il fulcro della consulenza è la necessità di conoscere il rischio personale e non il rischio riproduttivo come avviene generalmente per malattie recessive nelle quali la richiesta di consulenza genetica avviene da parte di genitori che abbiano avuto un figlio affetto. In questo caso i genitori scelgono per un’altra persona (il figlio che deve nascere) mentre nel test presintomatico è l’individuo che richiede la consulenza, che sceglie per se stesso. Un ovvio corollario di questo spostamento dal rischio riproduttivo al rischio personale è il diritto a non sapere di ciascun individuo in grado di scegliere liberamente. La consulenza genetica deve anche tenere conto di quali possibilità di intervento possono seguire alla diagnosi presintomatica. In questo senso è ovvia la differenza tra patologie in cui non sia possibile modificare la prognosi mediante un intervento terapeutico (per es. corea di Huntington o SLA) e patologie il cui decorso clinico possa venire modificato da presidi terapeutici o da follow-up clinico-strumentali (per es. neuropatie ereditarie). La ricaduta psicologica della diagnosi presintomatica in questi due gruppi di patologie sarà pertanto diversa così come le motivazioni che portano alla richiesta del test. Una problematica di frequente riscontro è l’invio per l’effettuazione di test presintomatici di pazienti borderline o addirittura con quadro clinico conclamato. Il paziente viene generalmente inviato al Servizio di Genetica dallo specialista o dal medico di base con l’indicazione ad effettuare il test, spesso per evitare di fornire direttamente la diagnosi al paziente oppure
Neuropatologia
suggerendo che il test è necessario per la prescrizione di una terapia efficace. In entrambi i casi il Servizio deve riuscire a trovare una posizione che non sia sentita dal paziente come un ulteriore rifiuto di aiuto. Pertanto anche in questo caso l’approccio al probando attraverso un’èquipe multidisciplinare è risultato estremamente soddisfacente per entrambe le parti. L’organizzazione di un Servizio di consulenza genetica per persone che richiedano un test presintomatico per malattie ereditarie deve perciò tenere conto di tutti questi fattori e delle aspettative che queste persone ripongono nell’esecuzione del test stesso.
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Il sistema nervoso centrale (SNC) origina dall’ectoderma, dal quale si stacca il tubo neurale, già evidente al termine del primo mese dalla fecondazione. Nella parete del tubo neurale si differenziano i neuroblasti e spongioblasti, precursori dei neuroni e della glia, mentre altre cellule gliali (microglia) sono di origine mesodermica. Con il progredire dello sviluppo si forma una rete estremamente sofisticata di connessioni interneurali. In un tessuto così funzionalmente complesso la maggior parte delle malattie determina alterazioni cellulari non specifiche di tipo regressivo o di tipo ipertrofico-iperplastico, che possono essere evidenziate dallo studio microscopico, o alterazioni parenchimali diffuse o focali, che spesso possono essere riconosciute dal semplice esame macroscopico.
Patologia cellulare Riferimenti bibliografici SCRIVER C.R., ET AL.: The Metabolic and Molecular Basis of Inherited Diseases. McGraw Hill, 2001. E MERY Y. & R IMOINS P.: Principles and Practice of Medical Genetics. Churchill & Livingstone, 1999. DALLAPICCOLA B. & NOVELLI G.: Genetica Medica Essenziale. Phoenix ed., 1998. GELERTHER A., COLLINS F.S. & GINSBURG D.: Genetica Medica. Masson, 2001. AA VARI: (Telethon) Filo diretto con le malattie genetiche. UTET, 2000.
Elementi di neuropatologia G.L.Mancardi, E.Capello La diagnostica neuropatologica delle malattie del sistema nervoso si basa sullo studio macroscopico e microscopico del tessuto cerebrale, del midollo spinale, dei nervi periferici e del muscolo, uniformandosi ai criteri generali dell’anatomia patologica, ma caratterizzandosi per alcune peculiarità. L’analisi morfologica deve infatti sempre essere integrata dallo studio topografico delle lesioni e dalla correlazione con le informazioni cliniche. La sintesi dei dati morfologici, topografici e clinici permette nella maggior parte dei casi una precisa diagnosi.
Nel SNC le lesioni possono interessare i neuroni, gli astrociti, gli oligodendrociti, l’ependima, la microglia o la componente vasale e meningea. Anche se non è raro il riscontro di una prevalente compromissione di specifiche strutture cellulari (vulnerabilità selettiva), la sofferenza di alcuni elementi si accompagna sempre alla compromissione e a fenomeni reattivi degli altri gruppi cellulari.
IL NEURONE I neuroni sono elementi perenni, variabili per forma e volume a seconda della sede e della funzione. Ciascun neurone è un’entità autonoma, formata da un corpo cellulare, il pericario, da processi afferenti, che si estendono per poca distanza, denominati dendriti, e da un prolungamento di maggior estensione denominato assone, che rappresenta il processo efferente, destinato a portare l’impulso nervoso ad altri neuroni, assoni, dendriti ed effettori periferici. Il numero dei neuroni del SNC è dell’ordine di 1010, il loro diametro varia dai 5 micron (µ) dello strato granulare del cervelletto (Fig. 19.7A) agli 80-100 µ delle cellule piramidali di Betz (Fig. 19.7B) o dei motoneuroni spinali (Fig. 19.7C). I neuroni con assone lungo, sono definiti neuroni del tipo I di Golgi; quelli con neurite corto del II tipo di Golgi. Il nucleo è disposto al centro della cellula, mentre nel citoplasma sono evidenti zolle formate da ribosomi, aggregati nel reticolo-endoplasmico ruvido, note come «sostanza o granuli di Nissl», colorabili con i coloranti basici come il Cresil violetto o il blu di toluidina. I granuli di Nissl possono estendersi nei dendriti, ma sono assenti nella zona di impianto dell’assone e nel prolungamento
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A
assonale. Nel citoplasma sono inoltre presenti numerosi organuli, in tale abbondanza da essere la spia dell’intensa attività metabolica. I neuroni della sostanza nera, del locus coeruleus, dei nuclei di alcuni nervi cranici, sono, dopo il 4-6 anno di età, fisiologicamente pigmentati, per la presenza di neuromelanina. Molti altri neuroni, con l’età, a partire dal 3° decennio, accumulano pigmento lipofuscinico. I dendriti sono prolungamenti numerosi, corti, con la funzione di aumentare la superficie recettiva del corpo cellulare. Contengono, analogamente al citoplasma, i neurotubuli, di 300 Angstrom (A)(1A=10-4 micron) di diametro, e i neurofilamenti, di 60-100 A e non sono mielinizzati. L’assone contiene molti mitocondri, reticolo-endoplasma, neurofilamenti e rari neurotubuli e numerose sostanze proteiche, enzimi, ormoni, che, sintetizzati nel corpo cellulare, viaggiano in direzione centrifuga lungo l’assoplasma con un flusso lento (0.3-4 mm al giorno) o rapido (200-500 mm al giorno) od anche con una direzione centripeta (flusso retrogrado). L’assone può essere mielinizzato o amielinico ed entra, dopo un tragitto più o meno lungo, in contatto, mediante sinapsi, con altri assoni, dendriti, corpi cellulari, fibrocellule muscolari o recettori periferici.
PATOLOGIA DEL NEURONE
B
C Fig. 19.7 - A: Granuli cerebellari (EE, × 250); B: Neuroni piramidali della corteccia frontale (Nissl, × 400); C: Motoneuroni delle corna anteriori del midollo spinale (Nissl, × 250).
Rarefazione neuronale. – Durante la vita fetale i neuroni proliferano, migrano e contraggono connessioni con altri neuroni o con strutture periferiche. Il processo di differenziazione può proseguire dopo la nascita, ma quando è completato i neuroni perdono la capacità di dividersi e la eventuale perdita neuronale non può più essere rimpiazzata. Una progressiva rarefazione neuronale si verifica nell’invecchiamento ed in altri processi patologici, ma se la perdita neuronale è inferiore al 30%, può essere difficile riconoscerla per il concomitante raggrinzimento del tessuto circostante. In tali casi le colorazioni specifiche per la glia evidenziano l’ipertrofia e l’iperplasia gliale, che sempre si accompagnano alla scomparsa degli elementi neuronali. Atrofia neuronale semplice. – L’atrofia neuronale semplice si manifesta con un raggrinzimento del corpo cellulare, diffusa basofilia del citoplasma, picnosi ed ipercromasia del nucleo. La semplice riduzione del volume del neurone è un processo di frequente osservazione in numerose malattie con degenerazione neuronale primaria, nei casi in cui viene leso l’assone di neuroni che hanno esclusive connessioni nell’ambito del SNC e in caso di degenerazione transinaptica, quando i neuroni perdono il supporto di connessioni afferenti, come accade ad esempio nei neuroni del corpo genicolato laterale in conseguenza di
Neuropatologia una lesione dei nervi ottici o dei tratti ottici. I neuroni atrofici sono poi fagocitati dalla microglia e dagli astrociti o semplicemente scompaiono. Alterazione ischemica acuta. – Si verifica in stati ischemici o anossici e si caratterizza per la retrazione del citoplasma neuronale, che diventa intensamente eosinofilo, scomparsa dei granuli di Nissl, picnosi nucleare, presenza di piccoli corpi basofili sulla superficie citoplasmatica, espressione di terminali sinaptici degenerati o di aree lese del citoplasma neuronale. Il neurone successivamente degenera e viene fagocitato dalla microglia o dai macrofagi (neuronofagia) o, talvolta, i corpi cellulari si incrostano di sali ferrosi e calcarei e tali depositi possono persistere per molto tempo ai margini della sede di lesione. Cromatolisi centrale. – Compare per una grave lesione dell’assone dei motoneuroni delle corna anteriori, ed è l’espressione dell’aumentato metabolismo cellulare volto a restaurare e riparare l’integrità del cilindrasse. Si caratterizza per un rigonfiamento cellulare con frammentazione e scomparsa delle zolle di Nissl, che si dispongono alla periferia, e dislocamento in posizione eccentrica del nucleo (Fig. 19.8). La cromatolisi centrale può essere seguita da una atrofia cellulare con degenerazione e perdita neuronale o, al contrario, quando la lesione assonale è riparabile, da un recupero completo delle caratteristiche morfologiche del neurone. Alterazioni simili alla cromatolisi centrale possono essere osservate anche in malattie in cui non viene interrotto l’assone, ad es. in alcune encefalopatie carenziali. In altri casi si può osservare una «cromatolisi periferica», caratterizzata dalla tendenza della sostanza di Nissl a disporsi intorno ad un nucleo centrale intensamente colorato, probabile espressione di una fase di recupero da una grave lesione assonale.
Fig. 19.8 - Cromatolisi centrale. Motoneuroni delle corna anteriori in un caso di sclerosi laterale amiotrofica (Nissl, × 250).
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Accumuli intraneuronali Lipofuscina. – Nell’invecchiamento i neuroni accumulano granuli di lipofuscina, che si colorano in giallo all’ematossilina eosina, formati da lipidi e proteine. I granuli di lipofuscina, più abbondanti in alcuni nuclei (il nucleo olivare inferiore, i nuclei dei nervi cranici), nei motoneuroni spinali, nei neuroni corticali, sono già evidenti nell’adolescenza e aumentano nella vita adulta e senile (Fig. 19.9). La loro comparsa pertanto non assume un significato patologico, a parte i casi, come in alcune malattie con degenerazione neuronale primaria, dove si accompagnano a raggrinzimento del corpo cellulare e del nucleo, fino ad un processo di atrofia neuronale definita con il termine di «atrofia pigmentaria».
Fig. 19.9 - Accumulo di lipofuscina nei neuroni del nucleo olivare inferiore (EE, × 250).
Tesaurismosi. – In numerose malattie da accumulo, quali ad es. la malattia di Tay-Sachs, o la malattia di NiemannPick, il citoplasma neuronale appare occupato da materiale finemente granulare, formato da complessi lipoproteici e carboidratici, che dislocano il nucleo alla periferia e si estendono nei dendriti e nel cilindrasse, che appaiono deformati e rigonfi. La microscopia elettronica permette di riconoscere e di definire la fine morfologia e la struttura del materiale accumulato. Degenerazione neurofibrillare (DNF). – È una alterazione neuronale caratteristica della malattia di Alzheimer (v. pag. 000), ma non specifica, potendosi osservare in altre malattie quali ad es. il parkinsonismo postencefalitico, la sindrome di Down, malattie con degenerazione neuronale primaria multisistemiche o, in alcune sedi quali l’ippocampo, anche nell’invecchiamento normale. Tale alterazione si evidenzia facilmente alle colorazioni all’argento che mostrano un accumulo di strutture filamentose nel citoplasma neuronale, disposte a vortice, a gomitolo,
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a fiamma (Fig. 19.10). Il microscopio elettronico ha permesso di dimostare che la DNF è formata da filamenti elicoidali appaiati con un diametro di circa 100 A, e gli studi di immunocitochimica hanno evidenziato determinanti antigenici in comune ai neurofilamenti e ai neurotubuli, contenenti proteina tau abnormemente fosforilata e ubiquitina (Fig. 19.11). In alcune forme morbose, come la paralisi sopranucleare progressiva, le DNF hanno un aspetto globoso e risultano formate da filamenti rettilinei di circa 150 A di diametro, immunocitochimicamente simili, tuttavia, a quelli presenti nella malattia di Alzheimer.
mati da un accumulo di poliglucosani e glicogeno, ialini, PAS positivi, interessanti i neuroni del nucleo dentato, i neuroni corticali e altre strutture sottocorticali. Corpi di Lewy. – Sono caratteristici, ma non specifici, della malattia di Parkinson e si osservano nel citoplasma dei neuroni della sostanza nera e del locus caeruleus. Sono corpi eosinofili, ialini, con un nucleo centrale e una periferia più pallida (Fig. 19.12) e al microscopio elettronico risultano formati da neurofilamenti e granuli.
Degenerazione granulovacuolare. – La degenerazione granulo-vacuolare, caratterizzata da vacuoli citoplasmatici contenenti granuli argirofili ed ematossilinofili, si osserva nell’invecchiamento e nella malattia di Alzheimer, nelle cellule piramidali del corno di Ammone. Corpi di Lafora. – In alcune forme di mioclono-epilessia si possono osservare corpi intracitoplasmatici for-
Fig. 19.12 - Corpi di Lewy nei neuroni pigmentati della sostanza nera in un caso di malattia di Parkinson (Nissl, × 400).
Corpi di Pick. – Nella malattia di Pick i neuroni corticali hanno spesso un aspetto rigonfio, con citoplasma omogeneo ed eosinofilo privo di granuli di Nissl, o, nell’ippocampo, i neuroni possono contenere un corpo rotondeggiante e argentofilo, formato da un accumulo di neurotubuli e neurofilamenti. Fig. 19.10 - Degenerazione neurofibrillare. Corteccia parietale in un caso di malattia di Alzheimer (Von Braunmuhl, × 250).
Inclusioni virali. – In alcune encefaliti virali, quali l’encefalite erpetica e la panencefalite sclerosante subacuta, si possono ritrovare inclusioni intranucleari eosinofile, formate dal virus dell’herpes zoster o dal myxovirus. Nella rabbia e nelle infezioni da citomegalovirus le inclusioni possono essere intracitoplasmatiche.
Alterazioni di tipo ipertrofico-iperplastico Sono estremamente rare ed, esclusi i tumori, si osservano solo nelle facomatosi con neuroni giganti e multinucleati.
Alterazioni dell’assone Fig. 19.11 - Degenerazione neurofibrillare tau positiva. Corteccia parietale in un caso di malattia di Alzheimer (immunoperossidasi con anticorpi monoclonali anti tau, × 250).
La sofferenza dell’assone nel SNC non differisce da quella del Sistema Nervoso Periferico (SNP), anche se ben diversi nei due sistemi sono i tempi della degenerazione e le possibilità di recupero.
Neuropatologia Degenerazione simil-walleriana. – Si caratterizza per la frammentazione e la scomparsa dell’assone e della guaina mielinica, a valle della sezione assonale. I dendriti vengono rimossi dai macrofagi. Nel SNC la degenerazione assonale si osserva, in genere, in seguito alla degenerazione del corpo cellulare. Distrofia neuroassonale. – È caratterizzata da una serie di rigonfiamenti focali con eventuale frammentazione dell’assone, formata da corpi rotondeggianti eosinifili (sferoidi) che, dalla periferia, progrediscono verso il corpo cellulare. Oltre che nell’anziano, si possono osservare nella carenza da vitamina E, e sono individuabili prevalentemente nel nucleo gracile e cuneato. Sono diffusi nella rara forma di distrofia neuro-assonale dell’infanzia e nella malattia di Hallervorden-Spatz dove si accompagnano alla presenza di depositi di ferro nei nuclei della base.
Alterazioni della neuroglia Lo stroma del SNC è particolarmente complesso ed è costituito, oltre che dalle strutture vasali e dal tessuto connettivo della guaina avventiziale delle arterie, delle vene e delle meningi, dalla neuroglia, composta da astrociti, da ependimociti, da oligodendrociti e microgliociti, ciascun elemento dotato di una propria funzione e di diverse modalità di reazione nei confronti delle varie cause patogene. La neuroglia non ha quindi solo compiti di supporto dell’impalcatura neuronale, ma possiede specifici compiti funzionali. Gli astrociti si dividono in protoplasmatici e fibrosi, contengono filamenti intermedi formati dalla proteina gliofibrillare (GFAP) sia nel loro citoplasma che nei processi, i quali terminano intorno a capillari o nella lamina basale subpiale. Gli astrociti protoplasmatici sono più abbondanti nella sostanza grigia e hanno processi corti e tozzi, mentre gli astrociti fibrosi predominano nella sostanza bianca ed hanno lunghi e ramificati processi, ricchi in filamenti GFAP positivi. Gli astrociti non hanno solo funzioni di supporto meccanico, riparative e cicatriziali, ma svolgono anche compiti complessi e ancora poco conosciuti. Infatti, importante è il ruolo degli astrociti nella sinaptogenesi e nella plasticità neuronale, nella crescita e nell’allungamento dei neuriti, nel mantenimento della barriera ematoencefalica, nel controllo e nella regolazione del metabolismo neuronale e del neuropilo circostante, nella protezione dei neuroni tramite l’eliminazione dei radicali tossici o degli aminoacidi eccitotossici, come l’acido glutammico. Gli oligodendrociti sono abbondanti nella sostanza bianca, dove si dispongono fra i fasci di fibre nervose e avvolgendosi intorno agli assoni formano la guaina mielinica. Mentre nel SNP una unica cellula di Schwann mielinizza un singolo tratto di assone, nel SNC un unico oligodendrocita mielinizza numerosi assoni.
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Gli ependimociti, di origine neuroectodermica, analogamente agli astrociti e agli oligodendrociti, tappezzano i ventricoli cerebrali, il canale centrale del midollo spinale e i plessi coriodei. La microglia è invece di origine mesodermica, derivata da cellule mononucleate di provenienza ematica e, quando attivata, assume funzione macrofagica. Astrociti. – Il riscontro di un aumento del numero e delle dimensioni degli astrociti (astrocitosi), e di una ipertrofia dei processi astrocitari con incremento delle fibre gliali (astrogliosi), è un preciso e sicuro indice di patologia (Fig. 19.13). L’iperplasia e l’ipertrofia astrocitaria sono in genere secondarie a una degenerazione neuronale o delle fibre nervose di qualunque origine. Il nucleo aumenta di volume, appare ipercromatico e il citoplasma con i suoi processi diventa eosinofilo. Talvolta il corpo cellulare appare rigonfio e vitreo (astrociti gemistocitici) o può assumere un volume molto grande con nucleo voluminoso in rapporto al citoplasma (astrociti di Alzheimer di tipo I). Nei processi degenerativi che colpiscono specifici tratti nervosi, la astrocitosi e la astrogliosi si orientano in direzione parallela alle fibre lese, creando un quadro di gliosi isomorfica e risparmiando così la generale architettura del tessuto. Al contrario, in caso di lesioni distruttive, l’astrogliosi reattiva è spesso disordinata e sovverte completamente la precedente morfologia tissutale, creando un aspetto di gliosi anisomorfa. In alcuni casi, quali la malattia di Wilson e nella encefalopatia epatica, gli astrociti dei gangli della base e della corteccia presentano un nucleo voluminoso, multilobulato, mentre il citoplasma non appare più visibile (astrociti di Alzheimer di tipo II). Nell’ischemia e nell’anossia, gli astrociti, sebbene siano più resistenti dei neuroni, possono andare incontro a necrosi, con disintegrazione dei processi, picnosi nucleare e disintegrazione citoplasmatica (clasmatodendrosi).
Fig. 19.13 - Astrocitosi e astrogliosi alla periferia di una lesione infartuale (immunoperossidasi con anticorpi monoclonali anti GFAP, × 100).
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In casi di intensa e prolungata astrogliosi, o in tumori astrocitari, si possono osservare le fibre di Rosenthal, strutture allungate od ovalari, omogenee e ialine, intensamente eosinofile, formate da processi astrocitari rigonfi, contenenti materiale elettron-denso e filamenti gliali. I corpi amilacei sono privi di significato patologico, aumentano nell’invecchiamento, hanno sede nelle regioni subpiali e intorno ai corni ventricolari e sono formati da polimeri di glucosio che si accumulano nei processi astrocitari. Oligodendrociti. – Hanno un nucleo piccolo, scuro, rotondeggiante, simile per dimensioni e morfologia a quello dei linfociti. Il citoplasma non è riconoscibile nelle comuni colorazioni e, all’argento, appare poco sviluppato, con rari e tozzi processi estendentisi per breve distanza. Nella sostanza bianca sono disposti in filiere a formare la glia interfascicolare, mentre nella sostanza grigia si dispongono spesso intorno a neuroni a formare la glia satellite perineuronale. Sono particolarmente sensibili alle diverse cause patogene ed i processi regressivi si manifestano con un rigonfiamento citoplasmatico, che appare come un alone otticamente vuoto, disposto intorno al nucleo picnotico. Gli oligodendrociti sembrano essere il bersaglio elettivo di alcune encefaliti, quale la leucoencefalite multifocale progressiva e la panencefalite sclerosante subacuta, contenendo nel loro nucleo inclusioni virali specifiche. Gli oligodendrociti, come già riportato, formano la guaina mielinica nel SNC, e di particolare rilevanza sono quindi le alterazioni oligodendrogliali nelle malattie demielinizzanti. Nelle placche in fase acuta, il loro numero diminuisce nelle aree affette, mentre può aumentare alla periferia della lesione (Fig. 19.14). Ciò esprime un tentativo di rimielinizzazione degli assoni denudati, che nella maggior parte dei casi fallisce, ma talora può avere
Fig. 19.14 - Numerosi oligodendrociti, riconoscibili per il nucleo rotondeggiante e chiaro, alla periferia di una placca di demielinizzazione in un caso di sclerosi multipla (sezione semifine, blu di toluidina, × 800; cortesia Prof. Raine).
un parziale successo (placche ombra). Nelle placche in fase cronica è invece evidente lo spopolamento oligodendrogliale. Rimane non risolta la questione se nelle malattie demielinizzanti gli oligodendrociti siano il bersaglio del processo autoimmune o se la loro compromissione sia un evento aspecifico, forse dovuto a sostanze tossiche, quali le citochine, prodotte da linfociti attivati e da cellule di origine monocitico-macrofagica. Ependima. – Le alterazioni dell’ependima, in caso di fenomeni flogistici quali la neurolue o le meningiti batteriche, consistono in uno sfaldamento cellulare, cui segue una proliferazione della glia subependimale che forma piccoli rilievi mammellonati (ependimite granulare). La formazione di tali lesioni può comportare una ostruzione alle normali vie di deflusso liquorale, specie a livello dell’acquedotto o del III ventricolo. Microglia. – Nel SNC vi sono elementi cellulari, quali i periciti e la microglia residente, che rappresentano circa il 5% di tutte le cellule neurogliali, sono di origine mesodermica e possono quindi acquisire proprietà macrofagiche. I microgliociti che hanno nucleo allungato e sottili processi citoplasmatici, sono meglio evidenziati dalle colorazioni all’argento. La microglia partecipa attivamente a qualunque processo patologico che colpisca il SNC. In caso di lesione tessutale di tipo distruttivo e necrotico in circa 48 ore compaiono i macrofagi, cellule arrotondate e voluminose, con nucleo eccentrico e citoplasma granulare (Fig. 19.15), contenente lipidi sudanofili o pigmenti di emosiderina. Nel corso del tempo tali cellule aumentano di numero ed hanno la funzione di smaltire il tessuto danneggiato, potendo persistere nel SNC per molti mesi. I macrofagi derivano dalla microglia residente ma, per la maggior parte, provengono dalle cellule mononucleate di origine ematica.
Fig. 19.15 - Numerosi macrofagi al centro di un’area infartuata (EE, × 250).
Neuropatologia In casi di malattie croniche a lenta evoluzione, quali ad es. la paralisi progressiva, i microgliociti assumono la forma a bastoncello, con nuclei allungati e citoplasma sottile a disposizione bipolare, con piccole corte diramazioni. In malattie virali acute o subacute, in cui il corpo neuronale degenera e diventa atrofico, possono comparire intorno al neurone piccoli noduli di microgliociti con attività fagocitaria, che contribuiscono ad eliminare i detriti cellulari (noduli di neuronofagia).
Patologia dei vasi e delle meningi La patologia dei grossi vasi cerebrali afferenti è indicata a pag. 000. Analogamente agli altri distretti dell’organismo i vasi cerebrali vanno incontro a processi di arteriosclerosi o di ialinosi, con conseguente stenosi, trombosi, embolia o emorragie. È importante ricordare che i piccoli vasi intracerebrali reagiscono attivamente a numerose lesioni del SNC, quali ad es. una necrosi ischemica, traumatica, o una neoplasia, partecipando al processo e contribuendo in maniera significativa alla sua evoluzione. Il coinvolgimento vasale si manifesta con un aumento della loro permeabilità, rottura della barriera emato-encefalica, richiamo di elementi mononucleati dal circolo ematico, aumento della cellularità endoteliale ed avventiziale e dilatazione dei piccoli capillari, che in condizioni normali non sono visibili (proliferazione vascolare). In alcuni casi, e, in particolare, in alcune malattie infiammatorie, o più raramente in alcune neoplasie, cellule linfocitarie o mononucleate o cellule carcinomatose si dispongono nello spazio di Virchow-Robin, normalmente virtuale, che è formato da una duplicazione dell’avventizia disposta intorno alle arterie e alle vene ed è in continuità con lo spazio subaracnoideo. Tali cellule possono pertanto essere ritrovate nel liquor cerebro-spinale, riconosciute e caratterizzate con un esame citomorfologico. Le cellule della pia ed aracnoide, formate prevalentemente da fibroblasti, istiociti e, in minor numero, da melanociti, reagiscono attivamente, con prevalente trasformazione macrofagica, nei confronti delle varie lesioni infiammatorie che possono colpire le meningi (meningite, meningoencefalite). Minore, ma presente, è la loro capacità di reazione a lesioni che interessino la corteccia sottostante.
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particolare, lo studio topografico riveste una importanza diagnostica cruciale, e rende ragione della necessità di avere sempre a disposizione tessuto ben fissato e ben conservato, per potere effettuare inclusioni di entrambi gli emisferi e quindi macro-sezioni che forniscano una visione completa delle varie aree e strutture encefaliche. In alcuni casi le alterazioni tissutali possono essere diffuse, come in molte malattie infettive, o metaboliche; in altri le alterazioni cellulari e tissutali possono avere una distribuzione focale, come ad es. nelle malattie cerebrovascolari, dove il territorio infartuato disegna il territorio vascolare; in alcune patologie la localizzazione lesionale può essere sistemica, interessando solo alcuni sistemi neuronali con risparmio di altri, come in molte malattie con degenerazione neuronale primaria, quali la sclerosi laterale amiotrofica, la malattia di Parkinson, la paralisi sopranucleare progressiva, ecc.; in altri casi ancora il processo patologico può avere una distribuzione multifocale, come in alcune malattie infiammatorie e demielinizzanti. Le principali alterazioni tissutali che si possono osservare sono: Necrosi. – La necrosi si manifesta con una distruzione del parenchima e degli elementi cellulari residenti nell’area affetta. La necrosi tissutale, spesso associata ad edema circostante, ha in genere una distribuzione focale, quale, ad. es., si osserva negli infarti cerebrali. Sul piano microscopico risulta evidente la scomparsa delle cellule neuronali, con fenomeni regressivi gravi dei neuroni superstiti e di alcuni elementi neurogliali, cui segue una importante reazione macrofagica, che ha la funzione di eliminare il tessuto necrotico, e una risposta astrogliale. Infiammazione. – Le lesioni infiammatorie si caratterizzano per la presenza di infiltrati perivascolari formati, a seconda delle eziologie, da linfociti, mononucleati o polimorfonucleati (Fig. 19.16), con distribuzione diffusa o prevalentemente focale.
Patologia tissutale Anche se le lesioni cellulari elementari sembrano relativamente limitate, numerosi sono i diversi quadri neuropatologici che si possono osservare, in relazione non solo alle diverse alterazioni citopatologiche ma anche all’intensità, alla durata e alla localizzazione della lesione. In
Fig. 19.16 - Infiltrato infiammatorio perivascolare, formato da mononucleati e linfociti, in un caso di sclerosi multipla (EE, × 400).
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Introduzione alla clinica
Molte sono le malattie infiammatorie in cui l’origine non è in realtà infettiva ma piuttosto immunomediata, quali, ad es., la sclerosi multipla o le encefaliti postinfettive o postvacciniche. Degenerazione. – Le malattie con degenerazione neuronale primaria hanno la caratteristica di colpire alcuni sistemi neuronali in maniera selettiva. Ad es., nella sclerosi laterale amiotrofica la malattia colpisce il 1° e il 2° motoneurone; nella malattia di Parkinson i neuroni della sostanza nera; nelle demenze degenerative i neuroni corticali. Sul piano microscopico i neuroni colpiti presentano una progressiva rarefazione, con raggrinzimento del corpo cellulare e sua successiva scomparsa (atrofia neuronale semplice) o accumulo di particolari elementi citoplasmatici e comparsa di caratteristiche alterazioni neuronali (quali, ad es., le degenerazioni neurofibrillari). A livello tissutale si possono osservare, in alcune condizioni morbose, particolari depositi, come ad es., nella malattia di Alzheimer, le «placche senili», formate da amiloide circondata da processi neuritici degeneranti (Fig. 19.17).
interstiziale, dovuto ad una essudazione di liquor dai ventricoli al tessuto periventricolare, come si osserva nell’idrocefalo (v. pag. 000). Demielinizzazione. – La disintegrazione mielinica è un evento obbligato di qualunque lesione patogena che determini una distruzione tissutale sufficientemente estesa. Tuttavia, con il termine di demielinizzazione, ci si riferisce usualmente ad una alterazione tissutale caratterizzata da perdita della mielina con relativa conservazione dell’assone (Fig. 19.18). Tale processo è tipico delle malattie demielinizzanti, quali la sclerosi multipla, in cui una mielina strutturalmente normale viene alterata e distrutta da un processo infiammatorio immunomediato, o delle leucodistrofie, in cui una mielina abnorme fin dalla sua formazione degenera.
Fig. 19.18 - Area di demielinizzazione (parte destra della fotografia) in un caso di sclerosi multipla (Luxol Fast blue, × 100).
Fig. 19.17 - Numerose placche senili nella corteccia parietale di un caso di malattia di Alzheimer (Bodian, × 100).
Edema. – È evenienza frequente e può essere diffuso o localizzato in alcune aree, in genere in vicinanza di lesioni ischemiche, tumorali o necrotiche. L’encefalo si presenta rigonfio, le circonvoluzioni sono appiattite ed i ventricoli rimpiccioliti, e per l’aumento volumetrico dell’encefalo, sono possibili erniazioni di strutture cerebrali (v. pag. 000). Sul piano microscopico l’edema può essere di tipo vasogenico, quando, come nei tumori cerebrali, è prevalentemente localizzato nello spazio intercellulare, secondario ad un’alterazione della barriera emato-encefalica; di tipo citotossico, quando si caratterizza per un prevalente rigonfiamento cellulare, come nelle prime fasi dell’ischemia cerebrale; o può essere di tipo
Atrofia. – È una alterazione visibile macroscopicamente, e si manifesta con un ingrandimento ed un ampliamento dei solchi cerebrali, una diminuzione del volume delle circonvoluzioni cerebrali, spesso con conseguente ingrandimento ventricolare. Può essere diffusa, come nella maggior parte delle demenze degenerative, o focale, come nella patologia multi-infartuale. Emorragia. – È in genere visibile all’esame macroscopico, può avere sede a livello dei gangli della base, del cervelletto o del ponte o nella sostanza bianca emisferica. Può essere circoscritta da tessuto cerebrale ed, in tal caso, va incontro a processi di organizzazione fino a lasciare posto a una cavità con bordi ferruginosi; può sfondare la parete ventricolare ed invadere i ventricoli cerebrali ed ha allora un significato prognostico infausto. Multiple emorragie possono riscontrarsi in disturbi della coagulazione, nelle leucosi, nelle tromboflebiti venose e nella amiloidosi cerebrale. Neoplasie. – I tumori vengono distinti in tumori intracranici e intraspinali e possono essere primitivi o se-
Neuropatologia
Fig. 19.19 - Glioblastoma multiforme. Proliferazione gliale a «palizzata» e iperplasia vasale (EE, × 100).
condari (v. pag. 000). I tumori cerebrali possono essere differenziati in quelli istologicamente benigni (astrocitomi, ependimomi, adenomi ipofisari, meningiomi) e istologicamente maligni (Fig. 19.19) (glioblastomi, medulloblastomi, metastasi) o ancora in neoplasie che originano da elementi cellulari del parenchima cerebrale (astrocitomi, glioblastomi) o da strutture cellulari a sede extraparenchimale (meningiomi, adenomi ipofisari). Un tessuto in rapido accrescimento presenta spesso fenomeni involutivi nel proprio contesto, evidenziabili come necrosi, emorragie o cisti. La massa neoformata comprime e disloca il parenchima circostante, che risulta sofferente, potendosi osservare nel tessuto peritumorale gliosi, necrosi, ischemia, emorragie secondarie, nonché l’infiltrazione di elementi maligni. È presente edema, e, se viene ostacolato il deflusso liquorale, si può osservare un’ectasia del sistema ventricolare, spesso unilaterale. Frequente, nelle fasi avanzate, la comparsa di erniazioni cerebrali.
Patologia del nervo periferico Il nervo periferico è formato da fascicoli circondati e protetti da tessuto connettivale, l’epineurio; ciascun fascicolo è ulteriormente limitato dal perineurio, mentre il connettivo intrafascicolare è denominato endoneurio. Le fibre nervose, all’interno dello spazio endoneuriale, sono costituite da assoni amielinici e da assoni di maggior calibro circondati da mielina prodotta dalle cellule di Schwann, disposte in serie lungo l’assone. Il nervo possiede piccoli vasi di vario calibro, i «vasa nervorum». Nervi esclusivamente sensitivi, quali il nervo surale, possono essere agevolmente biopsiati a scopo diagnostico. Per gli importanti risvolti diagnostici e terapeutici, sul materiale prelevato devono essere effettuate non solo tecniche istologiche tradizionali sulle inclusioni in paraffi-
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na, ma anche tecniche quali la dissociazione delle singole fibre (teasing), l’inclusione in resine epossidiche, per potere così poi ottenere sezioni semifini che offrono una alta risoluzione del tessuto, e tecniche di immunocitochimica e di immunofluorescenza. A seconda se viene offeso primitivamente l’assone o la guaina mielinica distinguiamo: Degenerazione walleriana. – In seguito alla sezione dell’assone si osserva nel tratto distale una degenerazione sia dell’assone che della mielina ed una proliferazione delle cellule di Schwann all’interno dei tubi formati dalla membrana basale delle stesse cellule. Compaiono così rapidamente le «bande di Bugner», formate da ovoidi di mielina in degenerazione con frammenti assonali in via di disintegrazione e cellule di Schwann (Fig. 19.20). La rigenerazione procede lentamente dal moncone prossimale e nuove cellule di Schwann si appongono
Fig. 19.20 - Nervo surale in degenerazione walleriana (sezione semifine, blu di toluidina, × 100).
agli assoni rigeneranti a formare nuovi e corti internodi mielinici. Assonopatia distale. – In tali casi degenera l’assone nella porzione più distale della fibra nervosa, spesso a causa di un disturbo metabolico che colpisce la cellula di origine o il suo flusso assonale. Degenerano per prime quindi le fibre più lunghe, perché più lontane dal corpo celullare e il processo prosegue in direzione centripeta verso il corpo cellulare, che dimostra alterazioni degenerative. Tale modalità di degenerazione è nota anche con il termine di «dying back» (morte a ritroso) e si osserva, ad es., in alcune neuropatie tossiche. Neuronopatie. – Il processo patologico è inizialmente localizzato nel neurone di origine della fibra nervosa ma, contrariamente al fenomeno del «dying back», la degenerazione colpisce in maniera temporalmente sincrona sia il corpo cellulare che il prolungamento assonale, rendendo
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Introduzione alla clinica
impossibile la rigenerazione. Un esempio di neuronopatia è quello che si verifica in alcune polineuropatie paraneoplastiche, dove sono elettivamente colpiti i neuroni dei gangli dorsali e le sue diramazioni periferiche. Demielinizzazione segmentale. – Il processo morboso colpisce elettivamente la guaina mielinica o le cellule di Schwann, con demielinizzazione di alcuni segmenti internodali e risparmio di altri tratti nervosi e dell’assone. Lungo la stessa fibra possono essere osservati segmenti demielinizzati e tratti con mielina apparentemente normale. Le cellule di Schwann possono proliferare e ricostruire la mielina perduta, che però è più sottile e gli internodi sono di minore lunghezza. La demielinizzazione segmentale è il processo neuropatologico caratteristico di alcune neuropatie metaboliche e di neuropatie infiammatorie demielinizzanti. Quando il processo si cronicizza e successive demielinizzazioni seguono i ripetuti tentativi delle cellule di Schwann di ricostituire la guaina mielinica possono comparire i cosiddetti «bulbi di cipolla», formati da numerose cellule di Schwann disposte concentricamente intorno ad un assone privo di mielina o con una mielina abnormemente sottile in rapporto al diametro assonale. I «bulbi di cipolla» sono caratteristici di alcune neuropatie demielinizzanti ereditarie sensitivo motorie, come la «malattia di Charcot-Marie-Tooth» o la «malattia di Dejerine Sottas», e di alcune neuropatie demielinizzanti infiammatorie croniche (Fig. 19.21). Nella pratica clinica e neuropatologica lesioni di tipo assonale e di tipo demielinizzante frequentemente coesistono, per cui, come per tutti gli altri settori della neuropatologia, la diagnosi definitiva è affidata alla sintesi dei dati morfologici e clinici.
Patologia del muscolo Il muscolo è costituito da fibre raggruppate in fascicoli, alla periferia dei quali si può osservare la placca motrice. Ciascuna fibra contiene 3-5 nuclei subsarcolemmali, mentre i nuclei disposti al centro della fibra sono molto rari. L’endomisio, ricco in capillari, riveste ogni fibra, mentre il connettivo perifascicolare o perimisio, contiene vasi di maggior calibro e terminazioni nervose. L’unità motoria è costituita dal singolo motoneurone e dalle fibre muscolari da questo innervate. Studi istochimici hanno permesso di differenziare le fibre di tipo 1, ricche in enzimi ossidativi, dalle fibre di tipo 2, che mostrano una intensa attività ATPasica a pH 9,4. La biopsia muscolare è in grado di fornire rilevanti informazioni utili all’inquadramento diagnostico del caso in esame, solo però se vengono applicate tecniche convenzionali associate a metodiche istochimiche, enzimatiche e di genetica molecolare. Va pertanto limitata a casi
Fig. 19.21 - Malattia di Charcot-Marie-Tooth tipo 1. Proliferazione concentrica delle cellule di Schwann a bulbo di cipolla (sezione semifine, blu di toluidina, × 250).
selezionati e deve essere eseguita in laboratori specializzati e con esperienza specifica. Nelle atrofie neurogene si osserva una atrofia delle fibre muscolari, che appaiono di piccole dimensioni e con bordi angolati, con un marcato aumento dell’attività enzimatica ossidativa. I fenomeni di reinnervazione del muscolo denervato si manifestano con la formazione di larghi campi di fibre muscolari che hanno la stessa reattività istochimica, con scomparsa del normale quadro morfologico a mosaico (type grouping). Spesso si evidenziano fibre a bersaglio (target fibers) costituite da tre zone concentriche, un’area centrale pallida che manca degli enzimi ossidativi, un anello intermedio scuro ricco in attività ossidativa e una zona periferica normale. Nelle distrofie muscolari le fibre muscolari appaiono molto irregolari, con fibre atrofiche frammiste a fibre ipertrofiche con nuclei a disposizione centrale. Il connettivo è aumentato e una fibrosi endomisiale è evidente. Nella distrofia di Duchenne la distrofina, una proteina citoplasmatica delle fibre muscolari, risulta assente alle colorazioni immunoistochimiche. In altre miopatie possono essere osservate numerose altre alterazioni delle fibre muscolari o talvolta inclusioni caratteristiche, come nelle miopatie metaboliche o nelle miopatie mitocondriali (v. pag. 0000).
Riferimenti bibliografici ADAMS R.D., SIDNAM R.L.: Introduction to Neuropathology. Mc Graw-Hill Co., New York, 1968. DUCHEN L.W.: General pathology of neurons and neuroglia. In: Greenfield’s Neuropathology, Adams J.H., Duchen L.W. Eds, Edward Arnold, London, 1-68, 1992.
Embriologia GULLOTTA F.: Elementi di istologia generale del sistema nervoso. In: Neuropatologia, D. Schiffer ed., Il Pensiero Scientifico, Roma, 1-48, 1980. POIRIER J., GRAY F., ESCOUROLLE R.: Manual of basic Neuropathology. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990. WALTON J.: Disorders of function in the light of anatomy and physiology. In: Brain’s disease of the nervous system, Walton J. Ed., Oxford University Press, Oxford, 1-14, 1993.
APPENDICE
Cenni di embriologia G.L. Mancardi Il Sistema Nervoso Centrale (SNC) origina dall’ectoderma, dalla cui parte anteriore si differenzia una striscia mediana, detta placca neurale, caratterizzata da un maggior spessore rispetto alle parti circostanti dello stesso foglietto. La placca neurale si allunga in direzione caudale, si incurva a doccia e successivamente le sue labbra laterali si uniscono, trasformandosi nel tubo neurale.
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Dal tubo neurale, che è il primo abbozzo del futuro sistema nervoso, originano le varie porzioni delle strutture nervose centrali e, in seguito, di quelle periferiche. Il segmento caudale del tubo neurale si differenzia nel midollo spinale, passando per una fase in cui si sviluppano più rapidamente delle pareti anteriori e posteriori, le pareti laterali del tubo che sviluppano una porzione ventrale, detta lamina basale, e una porzione dorsale, detta lamina alare. La lamina basale rappresenta la futura area motoria del midollo spinale, con le corna anteriori ed i cordoni antero-laterali, mentre la lamina alare rappresenta la futura area sensitiva, con le corna posteriori e i cordoni posteriori. I segmenti anteriori del tubo neurale si differenziano in senso caudorostrale nel romboencefalo; mesencefalo; prosencefalo, primitive divisioni del futuro encefalo. Tali segmenti si rendono evidenti per la comparsa sul tubo neurale di solchi, di inflessioni, di curve e fessure, che danno successivamente origine ad un ulteriore sviluppo e ad una suddivisione in vescicole secondarie, per cui l’encefalo appare in tale fase diviso in cinque vescicole, da cui si differenziano infine le definitive strutture encefaliche. L’embriogenesi del SNC può essere schematizzata come si vede nella Tabella 19.2.
Tabella 19.2 - Divisione primitiva e sviluppo del tubo neurale. FORMAZIONE ORIGINARIA
Divisione primitiva
Sviluppo
Strutture definitive
Cavità residue
Lamina alare e basale
Midollo spinale primitivo
Midollo spinale
Canale centrale
Mielencefalo
Bulbo
Romboencefalo Cervelletto Metencefalo
IV ventricolo Ponte
Tubo neurale
Mesencefalo
Mesencefalo (vescicola indivisa)
Tetto Peduncoli
Acquedotto di Silvio
Diencefalo
Epitalamo Metatalamo Talamo Ipotalamo Neuroipofisi Retina, nervi ottici e tratti ottici
III ventricolo
Telencefalo
Rinencefalo Nuclei della base Emisferi cerebrali
Ventricoli laterali
Prosencefalo
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Introduzione alla clinica
Premesse di neurofarmacologia C. Albano Farmacocinetica La farmacocinetica dei farmaci neurotropi non presenta particolari peculiarità; basterà quindi richiamare i principali concetti di farmacocinetica generale, che descrive i processi di assorbimento, distribuzione, biotrasformazione, ed eliminazione dei farmaci nell’organismo fornendo le indicazioni essenziali per le scelte e la modalità di somministrazione. Assorbimento. È la fase che segue l’introduzione del farmaco nell’organismo: la rapidità di assorbimento viene quantificata determinando il picco di concentrazione plasmatica (C max) e l’intervallo di tempo tra il momento della somministrazione ed il momento del picco (T max). Un T max breve indica un assorbimento rapido che risulta auspicabile quando si desideri un effetto farmacologico pronto (ad esempio per un farmaco ipnotico); un T max lungo indica un assorbimento lento che è utile quando si preferisce un effetto sostenuto e prolungato. È intuitivo che il T max dipende anche dalla via di somministrazione (orale, parenterale o intravenosa), risultando più breve per quest’ultima. Biodisponibilià. Definisce la frazione di farmaco somministrato che raggiunge immodifìcata il circolo sistemico: essa dipende dalla via di somministrazione, dalla formulazione farmaceutica e dalla eventuali trasformazioni metaboliche avvenute a livello epatico (somministrazione orale o rettale). Volume apparente di distribuzione. Il volume apparente di distribuzione (Vd), esprime la quantità teorica di farmaco che dal plasma è passato nei tessuti. Un valore basso di Vd signi-
fica che il farmaco passa difficilmente dal plasma ai tessuti; al contrario un valore alto di Vd indica una buona e rapida diffusione ai tessuti dal plasma. Emivita. Il tempo necessario al dimezzamento della concentrazione plasmatica di un farmaco viene denominato tempo di vita media plasmatica o emivita (t ½). È determinato dal volume apparente di distribuzione e dalla velocità di eliminazione e consente di valutare la durata dell’effetto farmacologico di ciascuna dose e il tempo necessario per raggiungere un livello plasmatico costante che rappresenta, in determinati casi (ad esempio, per i farmaci antiepilettici) la migliore garanzia di effetto terapeutico. L’emivita è influenzata dall’eventuale presenza di patologie degli emuntori, dall’interazione con altri farmaci somministrati per patologie concomitanti e dall’età (aumenta nel prematuro e nell’anziano e diminuisce nel bambino e nell’adolescente). Clearance plasmatica. La clearance (Cl) plasmatica (abitualmente espressa in ml/min o l/h) indica il volume di plasma che viene completamente depurato da un farmaco nell’unità di tempo e risulta inversamente proporzionale all’emivita (t ½) e direttamente proporzionale al volume apparente di distribuzione (Vd). Anche la clearance plasmatica varia notevolmente da un paziente all’altro, risultando influenzata dagli stessi parametri che condizionano l’emivita. Aumentando la dose somministrata, alcuni farmaci mantengono una clearance inalterata con incremento del tasso plasmatico proporzionale all’incremento della dose orale (farmaci con “cinetica lineare”); altri presentano una riduzione progressiva della clearance con forte incremento del tasso plasmatico per minimi incrementi della dose somministrata (farmaci con “cinetica saturativa”); ed altri ancora presentano un aumento progressivo della clearance a causa di un fenomeno di “autoinduzione enzimatica”.
Neurofarmacologia
Anche un più o meno elevato legame del farmaco alle proteine plasmatiche condiziona una variazione del valore della clearance. Nelle terapie di associazione i farmaci a maggiore affinità per le proteine plasmatiche possono “spiazzare” quelli a minore affinità, determinando un aumento anche rilevante della quota libera. Un esempio di questo tipo di interazione è fornito dall’associazione barbiturici + aspirina. Concentrazione plasmatica all’equilibrio (“steady state”). Se un farmaco viene somministrato in modo regolare con intervalli non eccessivamente superiori alla sua emivita (t ½) raggiunge, dopo un periodo di tempo variabile, uno stato di equilibrio farmacocinetico per cui la quantità di farmaco eliminata eguaglia la quantità assorbita (“steady state”). Il tempo necessario per raggiungere la condizione di equilibrio è tanto più lungo quanto più lunga è l’emivita ed è abitualmente pari a 4-5 volte quest’ultima. Conoscere il tempo che ciascun farmaco impiega per raggiungere il suo steady state è essenziale per valutare correttamente l’effetto terapeutico ed il momento opportuno per effettuare eventuali dosaggi dei tassi plasmatici. Diffusione tissutale. Dipende dalla concentrazione plasmatica, ma anche da quelle proprietà, intrinseche a ciascun farmaco, che condizionano un transito più o meno rapido attraverso le membrane. In particolare i parametri che condizionano la diffusione tissutale sono: la dimensione molecolare del farmaco, la sua solubilità, il suo stato di ionizzazione, la sua liposolubilità. Risulta chiaro che un farmaco con basso peso molecolare, scarsamente ionizzato e con scarso legame alle proteine plasmatiche avrà una velocità di transito verso il tessuto molto maggiore rispetto ad un farmaco con caratteristiche opposte. Da tenere presente che la diffusione tessutale è di particolare importanza per i farmaci neurotropi che, per raggiungere il tessuto ner-
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voso centrale, debbono superare la “barriera” emato-encefalica. Farmacodinamica La farmacodinamica studia gli effetti biochimici e fisiologici dei farmaci ed i loro meccanismi d’azione. La farmacodinamica dei farmaci che agiscono sul sistema nervoso dipende ovviamente dalle caratteristiche delle cellule nervose. Queste hanno due proprietà distintive: conducono segnali per lunghe distanze senza decremento di ampiezza, con modalità unidirezionale, e posseggono specifiche connessioni con altre cellule nervose o con cellule di altri tessuti come ghiandole e muscoli. Il collegamento tra due cellule nervose viene definito semplicemente sinapsi, mentre quello tra cellula nervosa ed effettore (ghiandolare o muscolare) sinapsi neuroeffettoriale. Il «sito presinaptico» identifica il terminale nervoso da cui parte l’impulso, mentre il «sito postsinaptico» è la struttura che riceve l’impulso. I due siti sono direttamente comunicanti ma divisi da una fessura chiamata «spazio», o «vallo sinaptico». L’assone può contrarre sinapsi con i prolungamenti dendritici (sinapsi asso-dendritica), con il soma (sinapsi asso-somatica) o con l’assone (sinapsi asso-assonica) di un altro neurone. A livello del dendrite e dell’assone, la sinapsi può effettuarsi direttamente sul tronco principale o su una delle numerose evaginazioni (spine), che consentono un aumento della superficie disponibile per i contatti sinaptici (Fig. 19.22). Neuroregolatori La trasmissione dei segnali a livello sinaptico e neuro-effettoriale è di natura chimica ed avviene per mezzo di «neuroregolatori», distinti in «neurotrasmettitori», «neuromodulatori» e «neuroormoni».
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Introduzione alla clinica
con la sostanza produce un effetto fisiologico (eccitatorio o inibitorio); – essere presenti sistemi di inattivazione della sostanza. Le sostanze che non soddisfano tutti i criteri sopraindicati vengono definite «neurotrasmettitori putativi».
Fig. 19.22 - Classificazione delle sinapsi in rapporto alla sede del contatto utile. 1: sinapsi asso-dendritica. 2-3: sinapsi asso-somatica. 4: sinapsi asso-assonica. Le sinapsi possono essere distinte in: eccitatorie, con vescicole rotondeggianti e membrana postsinaptica di densità continua (2), e inibitorie, con vescicole allungate e membrana postsinaptica di densità discontinua (3).
Per «neurotrasmettitore» si intende una molecola in grado di trasportare un messaggio da un sito presinaptico ad uno postsinaptico. Affinché una molecola possa essere definita neurotrasmettitore, deve soddisfare i seguenti requisiti: – essere presente nei terminali sinaptici, così come i precursori e gli enzimi che ne determinano la sintesi; – essere liberata a seguito della stimolazione nervosa; – la sua applicazione in loco avere lo stesso effetto della stimolazione del terminale nervoso; – essere presenti siti specifici di legame a livello postsinaptico, la cui interazione
«Neuromodulatori» sono sostanze che aumentano o diminuiscono la risposta neuronale post-sinaptica ad un neurotrasmettitore, pur non avendo la capacità di determinare un potenziale post-sinaptico inibitorio o eccitatorio. I neuromodulatori, hanno le seguenti caratteristiche: – non sono in grado di provvedere alla trasmissione sinaptica, ma solo di modularla in modo specifico; – sono presenti a livello ematico con accesso al sito di modulazione; – hanno recettori specifici di legame; – la loro variazione di concentrazione comporta una variazione dell’attività neuronale postsinaptica; – la loro diretta applicazione riproduce l’effetto fisiologico della sostanza endogena; – sono inattivati da specifici meccanismi correlati all’intensità della modulazione. Neuromodulatori e neurotrasmettitori possono coesistere all’interno dello stesso neurone e la dismissione avvenire simultaneamente realizzando così una «cotrasmissione». I «neurormoni» sono prodotti, in genere, a livello ipotalamo-ipofisario, diffondono nei liquidi biologici e svolgono un’azione simile ai neuromodulatori. I «neuromediatori» o «secondi messaggeri» sono sostanze chimiche intraneuronali funzionalmente connesse al recettore tramite le modificazioni strutturali delle proteine G (vedi oltre).
Neurofarmacologia
Il legame del neurotrasmettitore col recettore provoca, a livello neuronale, una serie di eventi chimici «a cascata» cui fa seguito un mutamento di permeabilità della membrana cellulare agli ioni. PROTEINE G. Le proteine G o proteine GTP-dipendenti di membrana (guanosintrifosfato) sono presenti sul lato citoplasmatico della membrana neuronale e la loro modificazione strutturale costituisce il primo evento conseguente al legame del recettore con il neurotrasmettitore, cui consegue la sequenza di eventi metabolici determinata dai neuromediatori. La trasmissione sinaptica è dovuta al potenziale d’azione che, raggiunto il terminale presinaptico, determina la liberazione di neurotrasmettitori. La porzione terminale dell’assone («bottone sinaptico») presenta un rigonfiamento costituito da mitocondri e vescicole, le quali contengono il neurotrasmettitore ed altre sostanze (ATP, proteine enzimatiche e proteine idrosolubili). Quando una cellula nervosa è attiva, si depolarizza con conseguente riduzione della differenza di potenziale ai due lati della membrana cellulare, contemporaneamente si verifica un aumento di concentrazione degli ioni calcio che determina la fusione tra vescicole e membrana cellulare, con conseguente liberazione del contenuto vescicolare nel vallo sinaptico («esocitosi»).
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che stimolano i recettori. Il recettore è costituito da una molecola proteica, localizzata sulla membrana cellulare della struttura ricevente, capace di legare selettivamente il neurotrasmettitore. Esistono due tipi di recettori: recettori «ionotropi» («classe 1») e recettori «metabotropi» («classe 2»). I recettori ionotropi, utilizzati per la trasmissione sinaptica rapida, presentano il sito di riconoscimento su una porzione di una proteina transmembranaria che funziona da canale ionico. L’interazione neurotrasmettitorerecettore determina una variazione di conformazione strutturale della proteina con conseguente apertura del canale. I recettori metabotropi sono costituiti da una molecola recettoriale accoppiata ad un canale ionico, che si modifica a seguito di una cascata di eventi metabolici, mediati da neuromediatori, di diversa natura a seconda del recettore coinvolto. In particolare, i recettori sensibili alla noradrenalina agiscono sui canali rapidi del Na+, quelli sensibili al GabaB sui canali del K+, quelli sensibili al GabaA sui canali per il Cl –, quelli sensibili all’acetilcolina, di tipo muscarinico, sui canali del K+. I recettori sono presenti oltre che a livello postsinaptico, anche a livello presinaptico (autorecettori) con la funzione di regolare il rilascio del neurotrasmettitore da parte della terminazione nervosa presinaptica.
SECONDI MESSAGGERI CANALI IONICI E RECETTORI. L’attività del neurone è in funzione della permeabilità dei canali ionici, porzioni di membrana a struttura differenziata, rappresentate da macromolecole proteiche che attraversano a tutto spessore la membrana neuronale e sono dotate di una porzione centrale idrofila, selettiva per uno specifico ione. La depolarizzazione di membrana, infatti, comporta una modificazione dell’attività dei canali ionici, ad esempio aumento di permeabilità agli ioni Na+ e successivamente, per gli ioni K+, che ripolarizzano la membrana. Esistono diversi tipi di canali per lo stesso ione. Lo ione K+ ha 4 tipi di canali, che differiscono per cinetica di attivazione, per valori di voltaggio entro i quali vengono attivati e per la diversa sensibilità nei confronti di particolari ligandi. In particolare si distinguono: 1) canali ad attivazione lenta o a «rettificazione ritardata», 2) canale K-Ca++ dipendente, cioè dipendente dalla concentrazione intracellulare di Ca++, 3) canale K-rapido, caratterizzato da velocità di modificazione simile a quella dei canali del Na+, 4) canali per il K+ di tipo «M», inattivati dall’acetilcolina. Lo ione Ca++ ha almeno tre tipi di canali; lo ione Na+ due tipi di canali; e lo ione Cl– un tipo di canale, L’attivazione del neurone può essere provocata da eventi fisici (es. meccano-recettori) o da eventi chimici
– L’AMP ciclico (adenosin monofosfato) è una molecola prodotta per azione dell’enzima adenilato-ciclasi dall’ATP (adenosintrifosfato). Si distinguono due tipi di recettori accoppiati all’adenilato ciclasi: uno a funzione eccitatoria, l’altro a funzione inibitoria. La formazione dell’AMP-ciclico determina, in una sequenza di eventi a cascata, l’attivazione di una proteina chinasi specifica (proteinchinasi A) che influenza l’attività di numerosi enzimi coinvolti nei fenomeni di esocitosi e di eccitabilità di membrana. – Inositolo trifosfato e diacil glicerolo. Sono secondi messaggeri che derivano dall’idrolisi del fosfatidil inositolo-4,5-difosfato (fosfolipide che si ritrova sul lato interno della membrana citoplasmatica). La sua scissione è catalizzata da un enzima specifico, la fosfolipasi C attivata da una proteina G di membrana, in rapporto con l’interazione recettore-neurotrasmettitore. – Acido arachidonico. È prodotto per scissione di lipidi di membrana ad opera di una fosfolipasi (fosfolipasi A2), attivata o per mezzo di una proteina G specifica o tramite il diacil glicerolo. L’acido arachidonico viene quindi trasformato da diversi enzimi (ciclossigenasi, lipossigenasi e epossigenasi) nei suoi metaboliti (prosta-
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Introduzione alla clinica
glandine, leucotrieni, trombossani e epossi-eicosanoidi) responsabili di diversi effetti biologici. – GMP-ciclico. Prodotto dall’enzima Guanilato Ciclasi a partire dal GTP (Guanosintrifosfato). Il GMP-c attiverebbe una protein chinasi C in maniera analoga all’AMP-c.
MECCANISMI DI INATIVAZIONE DEI NEUROTRASMETTITORI L’azione del neurotrasmettitore si interrompe con due meccanismi: la ricaptazione presinaptica («reuptake») e la degradazione enzimatica. I processi di reuptake coinvolgono specifici vettori di membrana («carrier»), che necessitano consumo energetico, presenti nelle terminazioni nervose e nella glia. La degradazione chimica avviene grazie ad enzimi che possono essere intracellulari (ad esempio le MonoAminoOssidasi, presenti nei mitocondri delle terminazioni nervose, e la GabaTransaminasi, presente nei mitocondri delle cellule postsinaptiche e gliali ) oppure extracellulari (Acetilcolinesterasi e Catecol-O-Metiltransferasi).
Neurotrasmettitori Aminoacidi Eccitatori La maggioranza delle sinapsi eccitatorie a livello del SNC utilizza come neurotrasmettitori l’acido aspartico e l’acido glutamico, spesso definiti, per i loro effetti, aminoacidi eccitatori, indicati comunemente con l’acronimo inglese EAA. L’acido aspartico è formato a partire dall’acido ossalacetico ad opera dell’enzima amino-transferasi, condivide l’effetto e la localizzazione anatomica dell’acido glutamico ma ha assai minore importanza. L’acido glutamico è formato a partire dalla glutamina, dall’ornitina, e dalla prolina ed è un prodotto intermedio del ciclo di Krebs. La neurotrasmissione glutamatergica avviene nelle vie cortico-talamiche, cortico-ipotalamiche e cortico-troncali, nelle connessioni entorinali-ippocampali corticostriatali e nei circuiti cerebellari a livello dei granuli. Si distinguono recettori diversi per gli EAA, con funzioni distinte: i recettori denominati NMDA (N-metil-Daspartato), i recettori non-NMDA (quisqualato, AMPA o acido amino–3idrossi–5metil–4isoxazolico, e kainato), il
recettore AP4 (acido amino-fosfovalerianico) ed il recettore metabotropico ADP (acido aminociclopentil-dicarbossilico). La trasmissione eccitatoria pare coinvolgere uno o più combinazioni di questi recettori anche su una singola sinapsi. I recettori NMDA e quelli non-NMDA sono responsabili di un potenziale postsinaptico eccitatorio per aumento della permeabilità al Na+ ed al Ca++ conseguente all’apertura dei rispettivi canali di membrana. Il recettore AP4 sembra invece localizzato a livello presinaptico con funzione di autorecettore, essendo in grado di inibire il rilascio di aminoacidi eccitatori. Il recettore metabotropico (ADP) determinerebbe la depolarizzazione della cellula postsinaptica mediante l’attivazione del fosfatidil-inositolo.
L’importanza nell’epilettogenesi degli EAA è dimostrata dall’efficacia terapeutica di farmaci che inibiscono la trasmissione glutamatergica (la lamotrigina, che inibisce la dismissione di acido glutamico, il felbamato che blocca i recettori NMDA). Il loro ruolo nel controllo della motilità extrapiramidale si desume dalla probabile esistenza di una iperattività di vie glutamatergiche cortico-neostriatali nella corea di Huntington. Le sinapsi glutamatergiche sono inoltre di rilevante importanza per l’attività piramidale a livello spinale: la loro iperattività contribuisce alla genesi della spasticità, ed alcuni farmaci anti-NMDA (antagonisti non competitivi quali la fenciclidina e taluni derivati dell’anestestico chetamina) hanno una azione antispastica. Gli EAA tendono, infine, ad accumularsi nel focolaio ischemico cerebrale con una concentrazione proporzionale all’estensione dell’area infartuata, che sperimentalmente si riduce usando antagonisti non competitivi o competitivi dei recettori NMDA. Aminoacidi Inibitori Sono rappresentati dall’acido gamma-aminobutirrico (Gaba) e dalla glicina, e generano potenziali postsinaptici iperpolarizzanti (IPSP). Tale funzione è mediata principalmente dalla glicina nel midollo spinale e dal Gaba nel restante SNC.
Neurofarmacologia Il Gaba è prodotto, a partire dall’acido glutamico, per mezzo dell’enzima glutamico decarbossilasi (GAD) e viene degradato dalla Gaba-transaminasi (Gaba-T) (Fig. 19.23). È largamente distribuito in tutto il SNC: infatti i neuroni gabaergici sono presenti in tutti gli strati della neocorteccia, nei gangli basali (ove il GABA è utilizzato da interneuroni a breve proiezione e costituisce il trasmettitore della via striato-nigrica, ad effetto inibitorio sulle cellule dopamino-produttrici della nigra), nel talamo, nell’ipotalamo, nel mesencefalo, nel ponte, nel cervelletto e nella sostanza gelatinosa delle corna midollari posteriori del midollo spinale. I recettori gabaergici si distinguono in Gaba-A e Gaba-B. Il recettore Gaba-A è correlato ad un canale per il cloro e la sua stimolazione provoca l’apertura del canale con conseguente iperpolarizzazione per entrata di anioni (Cl–). Associati al recettore Gaba-A sono presenti altri due siti, uno per le benzodiazepine e l’altro per i barbiturici (entrambi questi farmaci faciliterebbero l’azione del Gaba). I recettori Gaba-B sono autorecettori metabotropi, anche se nell’animale da esperimento sono stati identificati, nell’ippocampo, anche a livello postsinaptico; la loro attivazione determina una fuoruscita degli ioni K+ ed una inibizione dell’ingresso degli ioni Ca++, causando, quindi, una iperpolarizzazione neuronale.
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La glicina prodotta a livello del SNC a partire dalla serina, grazie all’enzima serina idrossimetilasi, viene inattivata con un meccanismo di reuptake e successivamente va incontro a modificazioni metaboliche (Fig. 19.23). Alti livelli di glicina si trovano nel midollo spinale, nel tronco encefalico e nel nucleo caudato e alta densità di recettori per la glicina si trova nel midollo spinale.
Nel sistema extrapiramidale, il Gaba costituisce il neurotrasmettitore della via striato-nigrica, con effetto inibitorio sulle cellule dopamino-produttrici della substantia nigra. Nel morbo di Parkinson la via sarebbe indenne, anche se ipoattiva, per consentire una disinibizione delle cellule dopaminoproduttrici superstiti, nell’ambito di un insieme di meccanismi finalizzati ad un compenso al deficit nigrostriatale dopaminergico. La compromissione di altre vie gabaergiche, neostriato-pallidali, a funzione eccitatoria sulle aree motorie corticali (vie pallido-talamo-corticali) potrebbe essere responsabile dei sintomi «negativi» della malattia.
Fig. 19.23 - Vie di sintesi e di degradazione dei principali neurotrasmettitori (Linee continue indicano: vie di sintesi; tratteggiate: vie di degradazione).
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Introduzione alla clinica
Nella corea di Huntington è documentata una riduzione di Gaba e del suo enzima di sintesi nello striato, con una proporzionata diminuzione del neurotrasmettitore a livello liquorale. Il potenziamento dell’attività gabaergica, ottenuta sia con il blocco del suo catabolismo (ad esempio somministrando vigabatrin) che con il miglioramento dell’affinità per i recettori gabaA (ad esempio con fenobarbitale) contrasta efficacemente l’attività epilettica. Il Gaba gioca anche un ruolo nel controllo del tono timico e nella genesi dei sintomi depressivi, come dimostra l’efficacia terapeutica antidepressiva di farmaci gabaergici (es. progabide, fengabina). Inoltre altri farmaci ad azione ansiolitica, come le benzodiazepine, determinano un aumento di affinità del recettore Gaba-A.
Acetilcolina (Ach) È un neurotrasmettitore eccitatorio che, a livello del sistema nervoso periferico, agisce nelle sinapsi nervo-muscolo striato, ortosimpatica pregangliare e parasimpatica pre- e post-gangliare. L’acetilcolina è prodotta per acetilazione della colina dall’enzima colina-acetil-transferasi (Fig 19.23). Dopo il rilascio l’acetilcolina è inattivata dall’enzima acetilcolinesterasi (presente nelle membrane degli assoni pre e post-sinaptici e delle cellule gliali), che determina l’idrolisi dell’acetilcolina in acido acetico e colina. La colina verrà quindi ricaptata, ritrasformata in Ach e nuovamente immagazzinata nelle vescicole presinaptiche.
Due sono le principali classi di recettori per l’acetilcolina: i recettori muscarinici (M) che sono localizzati a livello delle sinapsi postgangliari parasimpatiche ed i recettori nicotinici (N) responsabili della trasmissione a livello delle sinapsi neuro-muscolari, e di quelle parasimpatiche e simpatiche pregangliari. I recettori nicotinici sono situati su un canale ionico di membrana che, attivato dal neurotrasmettitore, si apre
aumentando la permeabilità al Na+ e determinando così la depolarizzazione della cellula nervosa.I recettori muscarinici coinvolgono invece secondi messaggeri. Ne esisterebbero almeno 5 tipi denominati M1, M2, M3, M4 ed M5.
L’Ach svolge il ruolo di neurotrasmettitore anche a livello del SNC in diverse sedi: esistono vie colinergiche dall’area peduncolo-pontina e dal nucleo laterale tegmentale al talamo; dal complesso limbico al bulbo olfattorio; dal nucleo settale mediale e dal nucleo basale di Meynert all’amigdala ed alla neocorteccia. Interneuroni colinergici sono presenti nella corteccia, nel nucleo accumbens e nel neostriato. I risultati terapeutici ottenuti nella spasticità mediante l’impiego di tossina botulinica, che inibisce il rilascio di Ach e blocca i recettori nicotinici del muscolo striato, costituiscono una ulteriore prova del ruolo della trasmissione colinergica a livello dell’effettore muscolare. Nel morbo di Parkinson esiste una iperfunzione degli interneuroni colinergici neostriatali; per contro, nelle fasi iniziali della corea di Huntington si verifica una rarefazione degli stessi interneuroni (v. pag. 000). È segnalato un possibile ruolo dell’Ach nella genesi della depressione maggiore, in cui l’ipersensibilità dei recettori colinergici centrali costituirebbe un «marcatore» apparentemente attendibile. Un ruolo delle vie centrali colinergiche (ed, in particolare, di quelle a proiezione corticale dal nucleo basale di Meynert) per la memoria e per le funzioni intellettive in genere, è desumibile dal costante rilievo nella demenza di Alzheimer di una compromissione delle proiezioni Meynert-corticali, con diminuzione di Ach e del suo enzima di sintesi (CAT) nell’ippocampo ed in diverse altre aree corticali, e riduzione di recettori M2 e nicotinici a livello corticale. I risultati terapeutici nell’Alzheimer, ottenuti mediante l’impiego di farmaci che tendono a ripristinare una adeguata trasmissione colinergica, sembrano promettenti.
Neurofarmacologia
La necessità di acetato attivo per la sintesi di acetilcolina rende la funzione colinergica particolarmente vulnerabile all’ipossia, all’ipoglicemia ed alla carenza di tiamina, tanto che nell’animale da esperimento il pretrattamento con anticolinesterasici protegge dalle convulsioni da ipossia ed ipoglicemia. Un importante ruolo patogenetico è stato ipotizzato per questo motivo nella encefalopatia di Wernicke, laddove la carenza di vitamina B1 risulta responsabile della ridotta formazione di acetato attivo e, quindi, di acetilcolina.
Dopamina È un neurotrasmettitore ad effetto inibitorio. La dopamina (DA) è un precursore della noradrenalina (Fig. 19.23) ed è prodotta a partire dall’aminoacido fenilalanina, idrossilata prima a tirosina e successivamente a DOPA e poi decarbossilata da un enzima specifico (DOPA decarbossilasi) a dopamina. La DA viene immagazzinata in vescicole nei terminali assonici e, una volta rilasciata, è inattivata per reuptake e degradazione enzimatica determinata dagli enzimi MAO (monoaminoossidasi, presenti nei mitocondri) e COMT (catecol–O– metiltransferasi, presenti a livello citoplasmatico). Il rilascio di neurotrasmettitore è modulato da autorecettori a livello presinaptico. Le MAO sono di due tipi, MAO-A (con maggior affinità per noradrenalina e serotonina) e MAO-B. Neuroni dopaminergici proiettano dall’area tegmentale ventrale e dalla pars compacta della substantia nigra al corpo striato (ove stabiliscono un contatto presinaptico con le afferenze glutamatergiche corticali, tramite recettori D2), alla corteccia limbica (neuroni mesocorticali) e ad altre regioni limbiche (neuroni mesolimbici). I recettori della dopamina sono distinti in due gruppi: il gruppo dei D1, cui appartengono i D1 propriamente detti ed i D5 e il gruppo dei D2, cui appartengono i D2 propriamente detti, i D3 e i D4. I recettori del gruppo D1 sono presinaptici e postsinaptici ed una loro stimolazione porta alla formazione di AMPc. I recettori del gruppo D2 sono invece principalmente presinaptici e la loro attivazione inibisce l’adenilato ciclasi ed anche la fosfolipasi C, alla quale talvolta sono accoppiati.
Nel morbo di Parkinson esiste una carenza di dopamina nigrostriatale, responsabile di una
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inibizione presinaptica, tramite i recettori D2, sulle afferenze glutamatergiche cortico-neostriatali. Un parkinsonismo iatrogeno può essere provocato dalla somministrazione di farmaci deplezionanti le cellule dopamino-produttrici (es. reserpina); o di farmaci impiegati per il controllo dei sintomi psicotici nella schizofrenia bloccanti i recettori D2 (come ad esempio i butirrofenoni, le fenotiazine ed i tioxanteni). Il blocco dei recettori D2 potrebbe, tuttavia, non essere essenziale per l’effetto terapeutico vista l’efficacia antipsicotica di farmaci capaci di produrre un blocco selettivo dei recettori D1 (ad esempio la clozapina). Del resto è stato ipotizzato che il vero responsabile dell’effetto terapeutico sui sintomi psicotici dei neurolettici tradizionali sia il blocco farmacologico del recettore D3, identificato nell’area limbica. L’implicazione della DA nella patogenesi della depressione è tuttora incerta e discussa: ad un documentato effetto terapeutico di inibitori selettivi del reuptake della dopamina (es. amineptina, dotiapina), si contrappone, infatti, il potere timoanalettico pressocché irrilevante del metilfenidato il quale, essendo un inibitore assai più selettivo e potente del reuptake della DA, manifesta notevole efficacia nel reprimere gli attacchi di sonno incoercibile dei narcolettici. Noradrenalina È un neurotrasmettitore eccitatorio o inibitorio, in rapporto al recettore attivato. La noradrenalina (Fig. 19.23) è prodotta per idrossilazione della dopamina ad opera dell’enzima dopamina-betaidrossilasi. È inattivata con gli stessi meccanismi indicati per la dopamina (anche per la noradrenalina esistono autorecettori presinaptici). Nel SNC i neuroni noradrenergici sembrano localizzati tutti nel locus coeruleus pontino da cui partono proiezioni alla corteccia, al talamo, all’ipotalamo, al bulbo olfattorio, al cervelletto ed al midollo. Vi sono cinque tipi di recettori per la noradrenalina denominati alfa1, alfa2, beta1, beta2 e beta3 (ancora poco conosciuti). L’attivazione di recettori alfa1 dà luogo ad
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Introduzione alla clinica
una eccitazione dell’effettore, mentre l’attivazione degli alfa2 ad una inibizione. I recettori alfa1 sono postsinaptici mentre i recettori alfa2 sono prevalentemente presinaptici e favoriscono una maggior permeabilità al K+ o una inibizione dell’adenilatociclasi. I recettori beta1,2 hanno una localizzazione pre e postsinaptica e attivano l’adenilato ciclasi con conseguente depolarizzazione.
Nel sistema nervoso centrale sono particolarmente rappresentati i beta-recettori e scarsamente gli alfa. Il ruolo del sistema noradrergico centrale non è chiaramente definito. La trasmissione noradrenergica ha un ruolo di primaria importanza nella regolazione del tono vasale e, quindi, della pressione arteriosa sistemica, attivando le proiezioni dei neuroni del tegmento ventrale al nucleo dorsale del vago e al nucleo del tratto solitario; partecipa, inoltre, al controllo motorio mediante proiezioni midollari a neuroni delle corna anteriori. Le proiezioni noradrenergiche ascendenti ed, in particolare, quelle provenienti dal locus coeruleus, sono implicate nella veglia attiva, mentre quelle destinate all’ipotalamo parteciperebbero al meccanismo della termoregolazione. Esse intervengono anche nel controllo del tono timico e, quindi, nella genesi dei sintomi depressivi, come dimostra il rilievo di una iposensensibilità nella depressione dei recettori beta2 centrali e l’effetto potenziante sulla sinapsi noradrenergica dei timoanalettici. È noto, in ultimo, l’effetto positivo di beta1 bloccanti sul tremore essenziale e nella profilassi della cefalea vasomotoria.
Serotonina (5-HT) È un neurotrasmettitore ad effetto prevalentemente inibitorio. È sintetizzata dal triptofano che viene idrossilato (da una triptofano idrossilasi) a 5-idrossitriptofano e successivamente decarbossilato (da una 5-OHTP decarbossilasi); viene inattivata per reuptake e degradazione enzimatica con meccanismi simili a quelli descritti per le catecolamine. I neuroni serotoninergici sono localizzati nei nuclei del rafe bulbare, da cui proiettano alla corteccia, ai gangli basali, al talamo, all’ipotalamo, al cervelletto e al midollo, oltre a proiezioni nel bulbo stesso. I recettori per la 5-HT sono stati suddivisi in tre classi principali 5-HT1, 5-HT2 e 5-HT3 in relazione non solo alla diversa localizzazione, ma anche in relazione all’attivazione ed al blocco da parte di differenti farmaci. La Tabella 19.3 elenca le diverse funzioni in cui il sistema serotoninergico è implicato.
Un effetto inibitorio sulle afferenze nocicettive sarebbe determinato da proiezioni serotoninergiche spinali, a livello della sostanza gelatinosa. L’implicazione della serotonina nella modulazione delle afferenze algiche è corroborata dalla cosiddetta «sindrome da panalgesia centrale» (riproducibile mediante somministrazione di para-clorofenil-alanina, che distrugge
Tabella 19.3 - Recettori per la serotonina. Tipo
Siti di maggiore densità
Antagonisti
Agonisti
5HT1a
Ippocampo, rafe, art. basilare
Metisergide, Metergolina, Spiperone
5HT(*), LSD(**)
5HT1b
Pallido, sostanza nera
Metisergide, Metergolina, Propranololo
5HT, LSD
5HT1c
Plesso corioideo
Metisergide, Metergolina, Mianserina
5HT, LSD
5HT1d
Gangli basali, vasi intracranici
Metisergide, Metergolina, Mianserina
Sumatriptan
5HT2
Corteccia, caudato, piastrine
Metisergide, Metergolina, Mianserina, Chetanserina, Pizotifene,Verapamil, Amitriptilina
5HT
5HT3
Neuroni enterici, setto, amigdala, corteccia entorinale, ippocampo
Cocaina, Metoclopramide
2-metil-5HT
(*) (**)
5HT LSD
= Serotonina = Acido lisergico
Neurofarmacologia
i terminali serotoninergici), nella quale risulta inefficace addirittura la somministrazione di oppiacei. Il ruolo della serotonina nella patogenesi della emicrania è complesso. La cefalea, infatti, sarebbe dovuta a due meccanismi: dismissione massiva di 5HT circolante con effetto sulle arteriole, e difetto delle influenze centrali serotoninergiche, responsabili dell’inibizione attiva dell’impulso nocicettivo. A favore di tale ruolo depone l’efficacia dei farmaci con azione bloccante i recettori della serotonina (agenti a livello arteriolare tramite i recettori 5HT2) e dei farmaci potenzianti la sinapsi serotoninica a livello centrale come agonisti dei recettori 5-HT1d (sumatriptan). L’attivazione delle vie serotoninergiche costituisce il primum movens dell’insorgenza del sonno per la capacità di reprimere le afferenze nocicettive e di inibire l’attività di neuroni «segna-passi» corticoreticolari. Nella depressione, si verificherebbero una riduzione del livello liquorale del principale catabolita della 5-HT, l’acido 5-idrossi-indolacetico (5-HIAA) ed un significativo aumento di recettori 5HT2. Una conferma del deficit di attività serotoninica nella depressione è rappresentato dall’effetto timoanalettico di farmaci potenzianti, con modalità selettiva (Inibitori Selettivi del Reuptake della Serotonina o SSRI) la trasmissione serotoninergica. Farmaci serotoninergici (ad esempio il precursore: 5-idrossitriptofano) sono utili nel trattamento del mioclono d’azione ed, in particolare, di quello postanossico. Spetterebbe alle proiezioni dal rafe bulbareipotalamo la regolazione dell’appetito e della sazietà: la maggior parte dei farmaci anoressizzanti in commercio ha, infatti, un effetto serotoninergico centrale.
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L’istamina è prodotta a partire dall’aminoacido istidina che viene decarbossilato tramite un enzima specifico. Dopo il rilascio non agirebbe un sistema di reuptake, ma solo un complesso di meccanismi di degradazione enzimatica che coinvolgono anche le MAO-B. I neuroni istaminergici hanno i corpi cellulari nell’ipotalamo e proiettano diffusamente in corteccia; esigue sono le proiezioni discendenti destinate al cervelletto ed al nucleo vestibolare laterale. I recettori per l’istamina si dividono in tre classi principali H1, H2, H3; gli H3 si identificano come autorecettori. Gli H1 e H2 sono postsinaptici e di tipo metabotropo.
L’istamina è presente in basse quantità nel cervello, rispetto ad altri tessuti; i neuroni istaminergici sono localizzati esclusivamente nel nucleo tubero-mamillare dell’ipotalamo posteriore, da cui partono proiezioni diffuse alla corteccia; più esigue le proiezioni discendenti al n. vestibolare laterale, al cervelletto ed al midollo spinale. I neurolettici sono stati sintetizzati a partire dall’istamina; i farmaci anti-H1 istaminici provocano sonnolenza e sono impiegati anche come antiemetici. Diversi timoanalettici triciclici attuano un blocco degli H2 suggerendo così una eventuale partecipazione dell’istamina alla regolazione del tono timico. L’impiego di taluni antiistaminici nel morbo di Parkinson può essere motivato dall’esistenza di una stretta somiglianza strutturale dei recettori H1 con quelli muscarinici, e dall’effetto su entrambi i recettori di taluni farmaci (es. orfenadrina). Promettente, ma ancora priva di possibilità applicative, la nozione che uno dei principali cataboliti dell’istamina (l’acido imidoossiacetico = IAA) esercita un potente effetto attivante sui recettori Gaba-A.
Neurotrasmettitori purinergici Istamina Le funzioni dell’istamina nel sistema nervoso centrale non sono ancora chiarite.
Sono rappresentati dall’adenosina e dall’ATP. Queste sostanze sono tuttora allo studio e le attuali conoscenze non consentono ancora una
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Introduzione alla clinica
applicazione in ambito clinico. Pare tuttavia interessante ricordare che l’attivazione di recettori per l’adenosina, denominati A1, determina un blocco dei canali del calcio ed una attivazione di quelli del sodio, con suggestive possibilità terapeutiche nell’epilessia. L’effetto inibitorio dei recettori A2 sui recettori D2 lascia intravedere future possibilità di applicazione nella terapia del morbo di Parkinson. L’ATP è presente in corteccia ed a livello ipotalamico e midollare ove è cotrasmesso da neuroni noradrenergici ed acetilcolinergici. Non sono ancora disponibili, per altro, elementi a favore di future applicazioni cliniche.
Sinapsi e farmaci neurotropi L’interazione tra farmaci e neurotrasmettitori può avvenire in siti diversi, (Tabella 19.4). Farmaci «antagonisti» sono molecole in grado di legarsi ad uno specifico recettore, inibendone la usuale risposta; farmaci «agonisti» sono molecole in grado di attivare uno specifico recettore determinando una risposta simile al neurotrasmettitore endogeno. Se questa è di intensità inferiore, rispetto alla stimolazione endogena, l’agonista sarà definito «parziale» e,
competendo con il neurotrasmettitore per il recettore, rappresenterà anche un «antagonista parziale». Quando i recettori sono stimolati in maniera eccessiva (da un agonista o dal loro specifico neurotrasmettitore), si può verificare una diminuita funzionalità sinaptica o per riduzione del numero dei recettori stessi («down-regulation») o per una riduzione di sensibilità del sito di riconoscimento («desensibilizzazione»). Al contrario, in risposta ad una diminuzione di neurotrasmissione (anche in questo caso iatrogena o connessa ad una specifica patologia), può verificarsi un potenziale aumento di efficacia sinaptica o per «ipersensibilità» (per una maggior capacità legante del sito di riconoscimento) o per aumento effettivo del numero dei recettori attivi («up-regulation»). Entrambi i fenomeni possono verificarsi in particolari patologie o per trattamenti farmacologici e sono usualmente interpretati come un tentativo di mantenere l’omeostasi funzionale sinaptica.
Neuropeptidi I neuropeptidi sono presenti in alte concentrazioni nei neuroni del SNC e spesso sono localizzati, insieme ad altri neurotrasmettitori,
Tabella 19.4 - Modalità di interazione farmacologica sulla funzione sinaptica.
AGENTI A LIVELLO PRE-SINAPTICO
Farmaci inibenti la funzione sinaptica
Farmaci che potenziano la funzione sinaptica
– Inibenti la sintesi di neurotrasmettitori – Deplezionanti le vescicole – Bloccanti i recettori post-sinaptici
– Precursori – Inibitori degli enzimi catabolici – Bloccanti gli autorecettori – Inibitori del re-uptake – Attivanti l’uptake del precursore
AGENTI A LIVELLO POST-SINAPTICO
– Bloccanti i recettori
AGENTI A LIVELLO DEI CANALI IONICI
– Farmaci antiepilettici
– Agonisti diretti dei recettori post-sinaptici – Miglioranti l’affinità col recettore
Neurofarmacologia
negli stessi neuroni (colocalizzazione con «cotrasmissione»). Comprendono i cosiddetti «peptidi oppioidi», così definiti perché attivi sugli stessi recettori su cui agisce la morfina. I neuropeptidi usualmente sono prodotti a partire da peptidi più grandi. Dopo il rilascio vengono degradati da enzimi specifici e non vanno incontro a reuptake. I recettori su cui agiscono sono generalmente di classe 2, in quanto accoppiati, ad una proteina G di membrana.
Somatostatina. – Neuropeptide a 24 aminoacidi con effetto assai rapido e di breve durata. Ne sono estremamente ricchi l’ippocampo ed il talamo (ove coesiste all’interno di neuroni Gaba-produttori) e le cellule dei gangli vertebrali (ove coesiste con neuroni noradrenergici e produttori di sostanza P), nella neocorteccia e nell’amigdala. Nel SNC ha un effetto inibitorio e causa sedazione e riduzione della motilità. Ne è stata segnalata una precoce riduzione nella malattia di Alzheimer ove la somastostatina rappresenterebbe uno dei componenti delle caratteristiche placche neurofibrillari (v. pag. 000). Colecistochinina. – Si tratta di un polipeptide a 33 aminoacidi, contenuto in forma attiva nel SNC come polipeptide ad 8 aminoacidi. È localizzato con il Gaba negli interneuroni corticali e a livello della via dopaminergica meso-cortico-limbica in cui modulerebbe in senso inibitorio l’effetto della dopamina. Si ipotizza un suo ruolo nel meccanismo della sazietà in quanto risulta aumentata dopo il pasto. Coesiste con la metaencefalina nei neuroni del grigio periacqueduttale e risulta avere un effetto anfotero sulla analgesia da oppioidi che viene inibita a basse dosi e potenziata a dosi elevate. Vasoactive Intestinal Peptide (VIP). – Peptide a 29 aminoacidi, è presente sia a livello del sistema nervoso autonomo (nelle terminazioni parasimpatiche post-gangliari, ove coesiste con l’acetilcolina) che a livello corticale, ipotalamico e striatale, con imprecisato effetto eccitatorio
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(non estranea a ciò sarebbe, probabilmente, la sua coesistenza con l’acetilcolina negli interneuroni corticali). Sostanza P (Peptidi Tachichininici). – Polipetide ad 11 aminoacidi, è presente in diversi piccoli neuroni e, soprattutto, nelle cellule dei gangli vertebrali con assone diretto alla sostanza gelatinosa di Rolando, ove esercita un effetto modulatorio di tipo facilitante sulla trasmissione nocicettiva. Un suo ruolo nella trasmissione dolorifica è suffragato dalla dimostrazione di una inibizione della percezione algica da parte di farmaci anti-P. Neuropeptide Y. – Polipeptide a 36 aminoacidi, è un potente vasocostrittore, contenuto negli stessi neuroni pontini e bulbari in cui è presente la noradrenalina. Vasopressina ed ossitocina (9 aminoacidi). – Prodotti principalmente a livello del nucleo sovraottico e paraventricolare, vengono dismessi, come ormoni, nel circolo portale ipotalamoipofisario, causando un aumento della dismissione di ACTH. Collaterali degli assoni che raggiungono i neuroni di produzione, con effetto inibitorio, proiettano anche ai nuclei talamici, all’ippocampo, al sistema limbico, alla substantia nigra ed al midollo spinale. Oltre ad un effetto analgesico, la somministrazione intranasale di vasopressina sembra migliorare nell’uomo l’attenzione e la memoria. TRH (Ormone rilasciante il tireo-stimolante). – È un tripeptide, sintetizzato oltre che in neuroni ipotalamici (e da qui dismesso nel circolo portale ipoatalamo-ipofisario), anche in neuroni del tronco encefalico, dei gangli basali e della corteccia cerebrale dove interagirebbe con i neuroni noradrenergici, con un ruolo non precisato sul ciclo sonno veglia. La Tabella 19.5 schematizza la sede centrale di produzione dei principali neuropeptidi, indi-
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Introduzione alla clinica
Tabella 19.5 - Caratteristiche dei principali neuropeptidi. Neuropeptide
Cotrasmettitore
Siti di maggiore densità
Somatostatina
GABA, Noradrenalina
Neocorteccia, ippocampo
Colecistochinina
GABA, Dopamina
Neocorteccia, ipotalamo, via meso-limbica, grigio periacqueduttale
VIP
Acetilcolina
Neocorteccia, nervi parasimpatici
Sostanza P
Acetilcolina, Serotonina
Ponte, rafe midollare
Neuropeptide Y
Noradrenalina, Adrenalina
Ponte, midollo, rafe midollare, nervi simpatici, sostanza reticolare
TRH
Serotonina
Rafe midollare
candone anche la collocazione neuronale, alla base della «cotrasmissione».
Peptidi oppioidi Il termine «oppioidi» identifica sostanze endogene, mentre con quello di «oppiacei» ven-
gono indicate le sostanze a derivazione esogena, (da alcaloidi naturali), dotate di effetto analgesico (come la morfina). I principali oppioidi sono le encefaline (metaencefalina e leucoencefalina), le endorfine e le dinorfine. Non agiscono con una modalità diretta, bensì, generalmente, modulando la dismissione di neurotrasmettitori (nel sistema nervoso centrale, tra essi,
Tabella 19.6 - Caratteristiche dei recettori per gli oppioidi. Recettore
Ligando
Siti di maggiore densità
Attivazione
m1
Endorfine
Grigio mesencefalico, locus coeruleus, n. reticolare gigantocellulare
Analgesia, ipotermia, rilascio di PRL (*)
m2
Morfina
Come sopra
Depressione respiratoria, aumento rilascio di GH (**), aumento turnover di DA (***)
d
Encefaline
Corna posteriori
Analgesia, aumento turnover di DA, aumento rilascio di GH
k
Dinorfine
Corna posteriori
Analgesia, sedazione, riduzione rilascio ADH (****)
E
Beta-endorfine
s
Fenciclidina
(*) (**) (***) (****)
PRL GH DA ADH
= = = =
Catatonia Nucleo rosso, sostanza nera, nn. motori, nn. cranici, cervelletto
prolattina ormone somatotropo dopamina adiuretina
Controllo motorio
Neuroimmunologia
soprattutto la noradrenalina) per inibizione presinaptica. Le endorfine hanno una localizzazione ristretta all’ipofisi anteriore ed al nucleo arcuato dell’ipotalamo. Le encefaline sono invece rintracciabili in diverse sedi, corrispondenti, in genere, a quelle ricche in neurotrasmettitori monoaminici (dopamina, noradrenalina e serotonina) e sostanza P (gangli della base, corna posteriori del midollo spinale, grigio periacqueduttale). Le dinorfine sono presenti nell’ipotalamo, nell’ipofisi posteriore, nell’amigdala, nei gangli basali e nel midollo spinale. Le encefaline sono prevalentemente implicate nella percezione del dolore, che modulano in senso inibitorio, meritando la definizione di «analgesici endogeni» ma la loro azione (a differenza delle dinorfine) non è del tutto sovrapponibile a quella della morfina. Assai più potente e duraturo è l’effetto delle endorfine, che, oltre all’effetto analgesico, provocano uno stato catatonico («neurolettici endogeni»). Esistono diversi sottotipi di recettori per gli oppioidi: i recettori µ (stimolati massimalmente dalle endorfine e dalla morfina) producono effetto analgesico e depressione respiratoria; i recettori delta, spesso presenti assieme al recettore µ sullo stesso neurone, risultano più specifici per le encefaline e sono verosimilmente implicati in un effetto genericamente sedativo ed in modificazioni del tono timico. La differenza tra recettori µ e d è tuttavia assai poco chiarita nell’uomo per mancanza di agonisti o antagonisti elettivi per le due popolazioni di recettori. I recettori k sono specifici per le dinorfine e, qualora stimolati, producono anch’essi analgesia, senza depressione respiratoria e con la possibilità, invece, di provocare disforia ed allucinazioni. Si discute l’appartenenza dei recettori s ai recettori per gli oppioidi, poiché non risentono del blocco funzionale da naloxone, tipico delle altre tre classi di recettori e massimo per i recettori µ e d, hanno una prevalente localizzazione nell’ippocampo e nella corteccia frontale e la loro stimolazione, così come quella dei recettori k, produce sintomi psicotomimetici. La Tabella 19.6 schematizza e completa le caratteristiche dei recettori per gli oppioidi (ligando, sede ed effetto di attivazione).
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Cenni di neuroimmunologia A. Uccelli, M. Grandis Il sistema nervoso è stato a lungo ritenuto un organo “privilegiato”, addirittura un “santuario immunologico” protetto dall’azione delle cellule del sistema immunitario che sembravano scarsamente in grado di svolgere la loro azione di sorveglianza al di là della barriera ematoencefalica. Al contrario, sempre maggiori evidenze cliniche e sperimentali suggeriscono un ruolo fondamentale da parte del sistema immunitario nella patogenesi di molteplici malattie neurologiche. In questo capitolo forniremo in primo luogo alcuni cenni di immunologia di base per poi cercare di spiegare i meccanismi attraverso i quali si svolge la risposta immunitaria nel sistema nervoso (SN). Il Sistema Immunitario LA FUNZIONE DEL SISTEMA IMMUNITARIO Il sistema immunitario è composto da cellule e molecole il cui compito è quello di difendere il nostro organismo dalle infezioni. La risposta immune inizia quando il nostro organismo incontra una sostanza estranea “non-self”, generalmente un microrganismo. La risposta immune è altamente specifica ed è caratterizzata dalla capacità di discriminare tra antigeni espressi da microrganismi e cellule tumorali ed
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Introduzione alla clinica
antigeni dello stesso organismo (“self”). La capacità del sistema immunitario di ignorare gli antigeni self viene chiamata “tolleranza immunologica” ed è un processo dinamico che richiede la continua eliminazione o l’inattivazione dei cloni autoreattivi circolanti. Il mancato sviluppo di un’adeguata tolleranza verso autoantigeni di un certo tessuto conduce allo sviluppo di una risposta autoimmunitaria cui consegue un danno tissutale. L’IMMUNITÀ INNATA L’organismo infettato reagisce rapidamente all’aggressione di un patogeno, attraverso due risposte coordinate finalizzate all’eradicazione del patogeno. L’immunità innata agisce attraverso cellule fagocitiche quali i granulociti neutrofili, macrofagi ed i monociti, cellule in grado di rilasciare mediatori solubili (quali i basofili, gli eosinofili e le mast cellule) e i “linfociti natural killer” ed è in grado di rispondere immediatamente ad un attacco attraverso il rilascio di sostanze quali il complemento, le proteine di fase acuta ed alcune citochine quali gli interferoni, il “granulocyte colony stimulating factor” (G-CSF) ed il “granulocyte-macrophage colony stimulating factor” (GM-CSF). Tale risposta è principalmente diretta ad eradicare patogeni extracellulari, soprattutto batteri, e non viene modificata di intensità dall’infezione ripetuta di uno stesso agente mancando per definizione della capacità di rispondere in modo specifico. L’IMMUNITÀ ACQUISITA L’immunità adattiva o acquisita è mediata dai linfociti che in seguito al riconoscimento di un antigene sono in grado di mantenerne il ricordo (memoria immunologica) attraverso la selezione di popolazioni specifiche per antigeni del patogeno (espansione clonale) e pertanto di rispondere in modo più rapido ed efficace ad una nuova infezione dello stesso. I linfociti dif-
feriscono tra loro non solo per la loro specificità ma anche per le loro funzioni. Si conoscono due grandi classi di linfociti: i linfociti B che sono i precursori delle cellule che producono gli anticorpi ed i linfociti T, timo-derivati. Alcuni linfociti T, che esprimono il co-recettore CD4, svolgono importanti funzioni regolatorie, quali la capacità di facilitare e, in taluni casi, di inibire lo sviluppo di una risposta immunitaria specifica tra cui la produzione di anticorpi da parte dei linfociti B e l’azione fagocitica dei macrofagi. Altri linfociti T, CD8 positivi, sono coinvolti direttamente nelle funzioni effettrici quali la lisi di cellule infettate dai virus o di cellule neoplastiche. I linfociti CD4+ riconoscono gli antigeni nel contesto di molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe II presenti solamente sulla superficie di alcune cellule, quali le cellule dendritiche, i macrofagi ed i linfociti B. I linfociti CD8 al contrario riconoscono antigeni nel contesto di molecole MHC di classe I espresse da tutte le cellule nucleate. Cellule specializzate, chiamate cellule presentanti l’antigene (APC da “antigen presenting cells”) catturano le proteine esogene, le processano nel citoplasma attraverso meccanismi proteolitici trasformandole in piccoli frammenti peptidici (epitopi) che vengono quindi esposti in superficie nel contesto delle molecole di istocompatibilità dove sono riconosciute dal recettore, antigene specifico posto sulla superficie dei linfociti T e B, chiamati rispettivamente “T cell receptor o TCR” e “B cell receptor o BCR”. In generale si può dire che il legame di un ligando con il suo recettore di superficie comporti una serie di segnali intracellulari cui consegue l’attivazione di geni dentro il nucleo della cellula che inducono attivazione cellulare, modificazione del pattern d’espressione dei recettori di superficie, produzione di citochine e modificazioni del ciclo vitale della cellula. L’enorme numero di recettori di superficie fa si che l’effetto finale sulla cellula sia il risultato di numerosi segnali, spesso ad azione controregolatoria.
Neuroimmunologia
I linfociti B producono le immunoglobuline, cioè gli anticorpi antigene-specifici che eliminano i patogeni extracellulari. Questi servono inoltre a neutralizzare le tossine prodotte dai patogeni, a prevenire l’adesione degli stessi alle mucose, ad attivare il complemento, ad opsonizzare i batteri per la fagocitosi ed a sensibilizzare cellule tumorali e cellule infettate alla distruzione da parte di cellule dell’immunità innata (“antibody dependent cytotoxicity”). Differenti classi di immunoglobuline predominano in diversi compartimenti corporei e in diverse fasi dello sviluppo e della risposta immunitaria. Infine, i linfociti B sono in grado di presentare ai linfociti T gli antigeni catturati dalle loro immunoglobuline di superficie. L’interazione T-B induce la maturazione dei linfociti B. Tale evento è scandito dal cambiamento di isotipo delle immunoglobuline secrete e soprattutto dalla produzione di anticorpi con sempre maggiore affinità verso l’antigene bersaglio. La risposta adattiva, cioè la risposta generata dall’interazione tra linfociti T, B ed APC, si sviluppa in strutture particolari il cui microambiente facilita la complessa interazione tra le cellule. Queste strutture sono gli organi linfoidi secondari quali la milza, le strutture linfoidi associate alle mucose e soprattutto i linfonodi dove le principali APC circolanti, le cellule dendritiche, una volta catturato un antigene estraneo in periferia, lo presentano ai linfociti T e B che non hanno ancora incontrato l’antigene, che sono cioè “naive”. Questi, una volta attivati, sono in grado di raggiungere la sede di lesione e svolgere la loro azione antigene specifica. Una piccola frazione di questi linfociti va in circolo come cellula memoria, in grado pertanto di attivarsi più rapidamente e in modo più efficace in caso di una nuova infezione da parte dello stesso patogeno. LO SVILUPPO DELLA RISPOSTA IMMUNITARIA L’infezione con un patogeno innesca pertanto una serie di risposte biologiche a tempi diver-
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si che utilizzano meccanismi differenti. In primo luogo l’immunità innata è capace di portare in modo rapido al sito di lesione cellule in grado di rilasciare sostanze solubili capaci di arginare in modo aspecifico l’infezione e, contemporaneamente, di aumentare l’espressione di molecole di adesione sulle cellule endoteliali permettendo pertanto il reclutamento di altre cellule del sistema immunitario e quindi amplificando la risposta. Successivamente, la comparsa delle cellule dell’immunità acquisita permetterà il riconoscimento e la distruzione in modo selettivo dell’agente infettante. LA RISPOSTA IMMUNE È FINEMENTE REGOLATA DA SOSTANZE SOLUBILI
Al fine di una risposta immune efficace è necessario che le cellule effettrici siano rapidamente attivate e richiamate nel sito di infiammazione. Questo è ottenuto attraverso l’interazione reciproca tra recettori posti sulla superficie delle cellule del sistema immunitario e delle cellule endoteliali e altri recettori di membrana e sostanze solubili extracellulari quali le citochine e le chemochine. Le molecole d’adesione sono tra i principali recettori di membrana il cui compito è quello di facilitare il processo di migrazione, la fagocitosi e la citotossicità. In particolare il processo di migrazione dal torrente ematico da parte dei leucociti è mediato dalle molecole di adesione. Le selectine iniziano il processo di adesione dei leucociti sulla parete endoteliale cui segue l’arresto mediato dalle integrine. I leucociti che rotolano lungo la parete di un vaso di un tessuto sono attratti da polipeptidi, chiamati chemochine, che sono espressi sulla superficie endoteliale o sono secreti nell’ambiente circostante da cellule residenti e che sono in grado di attivare le integrine permettendo l’arresto dei leucociti nel vaso. Dal momento che i leucociti devono essere in grado di raggiungere qualunque tessuto in modo ottimale, il pattern dei recettori per le chemochine, ed il tipo nonché la distribuzione delle
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Introduzione alla clinica
chemochine nei tessuti è in grado di influenzare profondamente la risposta immunitaria. L’azione effettrice delle cellule dell’immunità acquisita è mediata da sostanze solubili chiamate citochine che hanno un ruolo fondamentale nell’orchestrare la risposta immune in modo ottimale in risposta all’agente infettante. Le citochine sono prodotte da quasi tutte le cellule del sistema immunitario in modo ridondante e finemente interconnesso e sono in grado di promuovere l’amplificazione o, al contrario, la riduzione della risposta immunitaria. Benché l’azione di queste sostanze sia estremamente complessa, si può schematicamente suddividerle in citochine ad azione prevalentemente proinfiammatoria (TH1), quali l’interferone α (IFN-α), il tumor necrosis factor α (TNF-α), l’interleuchina 2 (IL-2) e citochine ad azione anti-infiammatoria come per esempio l’interleuchina 4 (IL-4), l’interleuchina 10 (IL-10) e l’interleuchina 13 (IL-13). È comunque ovvio che il sistema immunitario è costituito da un network di cellule e molecole estremamente complesso e tuttora assai poco conosciuto, le cui funzioni effettrici e regolatorie sono in grado di proteggere il nostro organismo da una vasta gamma di malattie infettive e neoplastiche. Allo stesso tempo, il malfunzionamento della risposta immunitaria può provocare esso stesso un danno tissutale attraverso diversi meccanismi che possono variare in base all’organo e alle condizioni in cui essa si sviluppa.
Meccanismi immunologici delle malattie del Sistema Nervoso È ormai dimostrato che alcune malattie neurologiche sono causate da un’anomale risposta del sistema immunitario verso proteine del sistema nervoso centrale come nel caso della sclerosi multipla (v. pag. 000) o della degenerazione cerebellare paraneoplastica (v. pag. 000) o contro strutture del sistema nervoso periferico
come nel caso della sindrome di Guillain Barrè. In altri casi, è probabile che una risposta immunitaria abnorme rappresenti soltanto un epifenomeno di un processo patologico di natura diversa. È questo il caso per esempio dell’epilessia dove la presenza di anticorpi antifosfolipidi è stata riportata in circa il 20% dei casi. Analogamente, recenti evidenze hanno dimostrato come il sistema immunitario sia in grado di montare una risposta immune contro la Beta-Amiloide. In queste e altre patologie non primitivamente disimmuni, è lecito ritenere che la risposta immunitaria sia in grado di condizionarne il decorso e la sintomatologia. LA RISPOSTA IMMUNOLOGICA NEL SISTEMA NERVOSO Le risposte immunitarie pur essendo basate su meccanismi generali, comuni nei vari organi, sono caratterizzate anche da proprietà peculiari che determinano una specializzazione regionale per cui organi distinti sono suscettibili a patogeni diversi e sono inoltre differentemente sensibili agli effetti avversi provocati dalle risposte immunitarie. Gli elementi che determinano la specializzazione regionale sono: l’esistenza di APC specifiche del tessuto, la presenza di vie privilegiate di entrata delle cellule effettrici e di vie d’uscita dei segnali immunitari, l’organizzazione regionale del sistema linfatico, le modalità tessuto-specifiche dell’assetto macrofagico-linfocitario e infine l’unicità del microambiente che modula i fenomeni immunitari. L’antico concetto del sistema nervoso come un organo privilegiato dal punto di vista immunologico si fondava teoricamente sulla necessità di mantenere il sistema nervoso protetto dalle risposte immuni, potenzialmente nocive e poggiava su questi elementi: 1) la presenza di un endotelio ricco di giunzioni serrate tale da consentire una separazione anatomica tra il sangue e il tessuto nervoso, denominata rispettivamente barriera emato-encefalica nel SNC e barriera emato-neurale nel SNP,
Neuroimmunologia
2) l’assenza di un drenaggio linfatico, 3) l’assenza di popolazioni cellulari in grado di esprimere molecole MHC di classe II, 4) la mancanza di una sorveglianza da parte delle cellule immunocompetenti. Molte di queste ipotesi non sono state tuttavia confermate dagli studi successivi. La barriera non è invalicabile, potendo essere attraversata, anche in condizioni d’integrità, dalle immunoglobuline e dai linfociti T attivati che esplicano pertanto un’azione di sorveglianza immunologica costante; inoltre nel SNP la barriera non è completa, mancando in corrispondenza delle radici, dei gangli dorsali e delle terminazioni nervose motorie. Benché non esista un vero sistema linfatico, il fluido interstiziale cerebrale viene drenato alle stazioni linfonodali cervicali profonde attraverso gli spazi perivascolari e attraverso gli spazi interstiziali della submucosa nasale che è connessa con il prolungamento dello spazio subaracnoideo disposto intorno ai nervi olfattori. L’espressione di molecole MHC di classe II può essere indotta anche nel Sistema Nervoso in presenza di uno stimolo infiammatorio. Nel SNC le molecole MHC di classe I e II sono espresse, in presenza di un lieve stato infiammatorio, dalla microglia e, durante un’infiammazione più marcata, anche dalle cellule neuroectodermiche quali gli astrociti e le cellule ependimali. Nel SNP molti macrofagi residenti esprimono bassi livelli di molecole di MHC di classe II che possono peraltro aumentare notevolmente in condizioni di infiammazione. Le stesse cellule di Schwann umane esprimono in vitro bassi livelli di MHC classe II che aumentano quando coltivate con linfociti T attivati o con citochine quali l’IFN-γ e il TNF-α. La capacità di queste cellule di svolgere, in corso di infiammazione, un ruolo di APC, così come la recente osservazione di “APC professionali”, quali le cellule dendritiche nel liquor e nelle regioni subaracnoidee spiega come le cellule dell’immunità innata e dell’immunità acquisita siano in grado di montare una risposta adeguata anche nel sistema nervoso.
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LA REGOLAZIONE DELLA RISPOSTA IMMUNE NEL SISTEMA NERVOSO
È probabile che il compito di immunosorveglianza nel sistema nervoso sia svolto da linfociti probabilmente attivati in modo aspecifico negli organi linfoidi periferici e pertanto in grado di esprimere tutte quelle molecole di attivazione e di adesione necessarie al loro passaggio attraverso la barriera emato-encefalica. Questo processo è mediato da numerose sostanze solubili (chemochine) e dai rispettivi recettori (selectine ed integrine) espressi sulla superficie cellulare che aumentano nel corso di un’infezione o di un processo infiammatorio a carico del SNC. Giunti nel sistema nervoso, i linfociti possono incontrare un antigene non-self, generalmente costituito da patogeni (virus, batteri, parassiti etc.) verso il quale sviluppano una risposta immunitaria atta all’eliminazione dell’agente infettante. Il corretto adempimento del ruolo di protezione verso i patogeni può talora determinare un danno locale definito “by stander” con contemporaneo sviluppo di una reazione autoimmunitaria verso le proteine neurali danneggiate. Un meccanismo simile può essere considerato come uno dei momenti patogenetici di malattie esordite dopo un'infezione virale quali la leucoencefalopatia multifocale progressiva e l’encefalomielite acuta disseminata. Tale ipotesi trova conferma negli studi eseguiti sull’animale infettato con il virus Theiler che sviluppa un’encefalomielite in cui l’effetto citopatico del virus si associa ad una reazione autoimmunitaria innescata dall’esposizione di proteine danneggiate. L’insorgenza di una reazione autoimmunitaria verso “antigeni self” è probabilmente la causa di molte malattie immuno-mediate del sistema nervoso quali la sclerosi multipla o la Sindrome di Guillain Barrè. In tal caso, tra le ipotesi più verosimili, va presa in considerazione la possibilità che un patogeno periferico inneschi l’attivazione di cloni linfocitari auto-reattivi circolanti attraverso un meccanismo chiamato di “mimetismo molecolare”. In tale situazione accade che un agente infettivo condivida anche solo parzial-
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Introduzione alla clinica
mente alcune sequenze proteiche presenti su una struttura self. A causa della “degenerazione” della risposta immune, necessaria affinchè un numero relativamente limitato di linfociti, presenti nel circolo di ciascun individuo, sia in grado di riconoscere e reagire ad un numero di antigeni superiore a 1012, è possibile che un linfocita attivato in modo specifico da un battere, sia in grado di riconoscere, a bassa affinità, anche una struttura del nostro organismo, simile dal punto di vista molecolare. La presenza di linfociti cross-reattivi verso proteine self è generalmente non dannosa in quanto controllata attraverso meccanismi di protezione (tolleranza immunologica) mediati, per esempio, dalla presenza di cellule con funzioni regolatorie. Qualora un linfocita attivato attraversi la barriera ematoencefalica o ematoneurale può continuare a riconoscere una proteina neurale, precedentemente segregata al di là della barriera e verso la quale i meccanismi di tolleranza possono risultare inefficienti. Ne deriva la riattivazione del linfocita all’interno del sistema nervoso attraverso la presentazione di un antigene neurale da parte di APC professionali e non, cui consegue l’amplificazione a cascata della risposta immunologica ed il successivo coinvolgimento di molte altre vie effettrici. Tra queste è importante sottolineare che l’espansione clonale dei linfociti T attivati è seguita dalla differenziazione in cellule effettrici che possono avere un profilo Th1 o Th2 a seconda delle citochine che rilasciano. In tal senso, la produzione di citochine come IL-2, TNF-α e l’INF-α contribuirà a danneggiare direttamente il tessuto nervoso, attivando i macrofagi i quali, a loro volta, possono rilasciare numerosi mediatori tossici come i radicali liberi dell’O2, l’ossido nitrico, le metallo-proteasi ed i fattori del complemento. Queste molecole sono responsabili in gran parte del danno a carico della guaina mielinica, della barriera e favoriscono pertanto l’ulteriore migrazione di cellule infiammatorie nel sistema nervoso. La produzione di autoanticorpi da parte di cellule B attivate può provocare danno tissutale attraverso diversi mec-
canismi che includono un’azione diretta in grado di interferire con la propagazione dell’impulso nervoso così come un danno strutturale mediato dall’attivazione della cascata del complemento. Gli anticorpi possono inoltre attivare la citotossicità cellulare anticorpo-dipendente mediata dai macrofagi e promuovere l’internalizzazione dell’antigene da parte dei macrofagi cui segue la processazione di nuovi epitopi. In alcune circostanze i linfociti T (Th2) producono invece citochine ad azione prevalentemente antiinfiammatoria quali IL-4, TGF-α e IL-10 con lo scopo di limitare la risposta immune. Il bilancio finale tra l’effetto proinfiammatorio delle sostanze Th1 e quello contrario delle sostanze Th2 determina spesso, almeno nei modelli animali, il risultato finale della risposta immunitaria. Analogamente a quanto descritto per la presentazione dell’antigene anche il ruolo di cellule effettrici non è limitato ai linfociti e ai macrofagi provenienti dal circolo ematico. La microglia del SNC e i macrofagi residenti endoneuriali del SNP svolgono molteplici funzioni quali fagocitare patogeni, cellule necrotiche e frammenti di mielina, rilasciare citochine, chemochine, metallo-proteasi, ossido nitrico. Le citochine prodotte dalla microglia possono avere una funzione sia pro-infiammatoria, quali l’IL-1 che ha un’azione co-stimolante i linfociti T, l’IL-6 che stimola la proliferazione delle cellule T e induce le cellule B a produrre immunoglobuline, l’IL-12 che promuove la produzione di citochine Th1; che anti-infiammatoria quali il TGF-α e l’IL-10. La glia è inoltre in grado di produrre alcune chemochine. È probabile che anche i neuroni siano in grado di produrre chemochine ed intervenire pertanto come cellule effettrici. Nel SNP le cellule di Schwann possono svolgere un ruolo di cellule effettrici rilasciando citochine infiammatorie come interleuchina 1 (IL-1), TNF-α, INF-α, radicali derivati dall’ossido nitrico, ma anche citochine anti-infiammatorie e prostaglandine. La capacità di molte cellule del sistema nervoso di rilasciare sostanze quali citochine e chemochine e contemporane-
Neuroepidemiologia
amente, di aumentare l’espressione dei recettori per tali sostanze in corso di infiammazione, fa si che esse possano svolgere un duplice ruolo sia come bersaglio della risposta immunitaria che come cellula effettrice. È necessario considerare che il sistema immunitario utilizza dei meccanismi atti a terminare la risposta immune generalmente quando si è ottenuta l’eradicazione del patogeno. Questi processi, comuni a tutti gli organi, comprendono l’apoptosi delle cellule effettrici ed il rilascio da parte di linfociti T, macrofagi e altre popolazioni immunocompetenti ad azione regolatoria di citochine anti-infiammatorie che prevalendo sulle molecole pro-infiammatorie circoscrivono il processo infiammatorio. CONCLUSIONI La neuroimmunologia è un campo in piena evoluzione il cui impatto sulla conoscenza dei meccanismi patogenetici delle malattie neurologiche non è ancora stato pienamente apprezzato. Lo studio dell’interazione tra il sistema immunitario, gli agenti infettanti ed il microambiente del sistema nervoso apre prospettive terapeutiche non solo per quelle malattie neurologiche in cui i meccanismi patogenetici sono chiaramente di natura immunologica ad esempio la sclerosi multipla ma anche per altre patologie quali per esempio il Morbo di Alzheimer, come suggerisce il fatto che la vaccinazione con un peptide della beta-amiloide sarebbe in grado di rallentare la deposizione dell’amiloide stessa nel modello sperimentale di tale malattia.
Elementi di neuroepidemiologia C. Gandolfo
Introduzione L’epidemiologia clinica è una branca della scienza medica che consente di affrontare con
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rigore metodologico la misura delle malattie nel senso di ottenere, da un lato, dati descrittivi di un determinato quadro morboso nella popolazione (diffusione della malattia: epidemiologia descrittiva), dall’altro di valutare il ruolo dei diversi possibili fattori eziologici e di rischio, di controllare l’efficacia degli interventi sanitari (preventivi e terapeutici) nel modificare in senso favorevole la storia naturale di una malattia, di studiare l’accuratezza delle diverse indagini cliniche e strumentali nel porre una giusta diagnosi (epidemiologia analitica e sperimentale). L’epidemiologia è stata spesso considerata poco comprensibile, dato che questa disciplina utilizza un linguaggio non consueto per il clinico e, talora, non intuitivo. Solo recentemente è entrata nei programmi di studio del Corso di Laurea in Medicina, per cui la grande maggioranza dei medici ha scarsa o nulla dimestichezza in quest’area. Tuttavia, i dati derivati dagli studi epidemiologici possono essere importanti nelle scelte cliniche quotidiane del clinico, nell’effettuare una diagnosi differenziale, nella scelta degli esami più utili, nell’individuare gli interventi terapeutici più efficaci ed efficienti. L’informazione epidemiologica è, pertanto, necessaria a tutti i livelli del sistema sanitario. I pianificatori della sanità dovrebbero conoscere la frequenza attesa delle varie malattie, in modo da poter adeguare correttamente strutture e personale, determinare i costi di questi servizi e l’impatto economico sui pazienti e le loro famiglie. Inoltre, gli operatori del servizio sanitario pubblico necessitano dei dati epidemiologici descrittivi al fine di valutare le modificazioni di ordine temporale per stimare le necessità assistenziali future. La base di partenza dell’epidemiologia è lo studio della storia naturale delle malattie. L’unità dello studio è l’individuo affetto dalla malattia, che, a sua volta, è definita in base alle caratteristiche comuni di un gruppo di individui. La neuroepidemiologia è, ovviamente, l’epidemiologia delle malattie neurologiche (Kurtzke et al, 1999).
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Introduzione alla clinica
Frequenza delle malattie L’impatto numerico di una malattia è analizzabile correttamente solo mediante studi di popolazione. L’analisi di casistiche, anche se numerose, di singoli ambulatori o ospedali non consente di trarre deduzioni attendibili sulla frequenza della malattia, dato che importanti fattori di selezione (talora non facilmente identificabili) possono causare errori di stima molto rilevanti. Il solo modo che permette di essere certi che i dati di frequenza della malattia in una comunità corrispondano alla realtà è di esaminare le casistiche di tutte le strutture sanitarie che operano nella comunità stessa, o, meglio, di esaminare l’intera popolazione al fine di identificare non solo i casi conclamati ma anche quelli affetti ma non ancora clinicamente ammalati. Se questo approccio non è possibile, si può ricorrere all’esame di un appropriato campione della popolazione, per arrivare ad una stima del numero atteso di affetti complessivi. Questo approccio è molto utile per le malattie più frequenti (per esempio, in campo neurologico: Ictus, Demenza, Parkinson, Polineuropatie) ma poco utile per le malattie rare, dato che la numerosità del campione di popolazione da esaminare sarebbe troppo elevata (per esempio Sclerosi Laterale Amiotrofica, Malattia di Jakob-Creutzfeldt, Corea di Huntington). Nel caso delle malattie a bassa frequenza è quindi più indicato l’approccio che prevede l’individuazione di tutti i casi affetti che sono giunti all’attenzione medica, anche se così si perde una quota di soggetti in cui la diagnosi non è stata posta per errore o perché la malattia non era ancora clinicamente individuabile. Ancor più soggetti a grossolani errori sono i dati di mortalità, a meno che la malattia non sia fatale in tempi brevi. Anche se fosse possibile raccogliere tutte le autopsie da tutte le fonti della comunità, esse rappresenterebbero solo una proporzione molto piccola dei soggetti affetti. Questo aspetto è ulteriormente complicato dal fatto che oggi, nella maggior parte delle comunità, solo una estrema minoranza di
pazienti deceduti è sottoposta a riscontro autoptico (“bias” di selezione) e che, per quanto riguarda specificamente la neurologia, non tutte le autopsie fatte includono l’esame dell’encefalo da parte di patologi esperti ed ancor più raramente è incluso il midollo spinale. Infine, nel caso della maggior parte delle casistiche ospedaliere, non è possibile disporre di un denominatore indicativo della popolazione a rischio. In senso generale, abbiamo tre tipi principali di studio di popolazione, rispettivamente definiti “Assirico”, “in-law” e “a ragnatela” (Kurtkze, 1977). Il primo è il tipo più semplice e comune e rappresenta uno sforzo intenso ma di breve durata per identificare tutti i casi in una data comunità, esaminando tutti i componenti della stessa. Il secondo prevede la costituzione a lungo termine di un gruppo di studio che valuta, con controlli ripetuti programmati, la frequenza di una o più malattie, in una specifica area geografica. Il principale esempio di interesse per i neurologi è lo studio sulle malattie cerebro-vascolari di Framingham, Massachusetts, in cui una coorte di circa 5000 adulti à stata seguita per oltre 30 anni (Wolf et al., 1978). Il terzo modello prevede invece la istituzione di una rete di controllo in cui i pazienti stessi abbiano l’opportunità o l’obbligo di “cadere” (da qui la denominazione “a ragnatela)”. L’esempio più noto è la Mayo Clinic a Rochester, Minnesota. In questo caso, un Centro clinico-diagnostico di grande prestigio ed efficienza è strutturato in modo che tutti i casi che vi giungono, per qualsiasi forma morbosa, siano registrati con un sistema a finalità di ricerca epidemiologica. La comunità viene quindi ad essere oggetto di una sorveglianza epidemiologica, tanto più completa e accurata, quanto più l’intera popolazione fa abituale riferimento al centro clinico, grazie al suo grande richiamo (Kurland et al., 1982). I registri di malattia, molto utilizzati anche in campo neurologico, possono rientrare fra gli studi “in-law” o “a ragnatela”, a seconda della “aggressività” e della capillarità con cui l’accertamento dei casi viene effettuato.
Neuroepidemiologia
Tassi di popolazione La corretta definizione della frequenza di una malattia, pertanto, dipende dalla quantificazione di un numeratore (casi) all’interno di un denominatore corretto (la popolazione a rischio). Questi rapporti, con l’aggiunta del fattore tempo a cui si riferiscono, sono definiti tassi. I tassi di popolazione più comunemente usati sono il tasso di incidenza, il tasso di mortalità e il tasso di prevalenza, tutti di solito espressi in valori di unità di popolazione. Per esempio, 10 casi in una comunità di 20.000 rappresenta un tasso di 50 per 100.000 abitanti, oppure di 0,5 per 1000 abitanti. Usando un denominatore comune, tassi diversi possono essere direttamente confrontati fra di loro. I denominatori sono ricavabili dai dati dei censimenti forniti da pubblicazioni governative (ISTAT). Tasso di incidenza Il tasso di incidenza o di attacco è definito come il numero di nuovi casi di una malattia esorditi in un’unità di tempo in una specifica popolazione. Viene usualmente indicato come il tasso di incidenza annuale di casi per 100.000 abitanti per anno. La data di esordio dei sintomi clinici ordinariamente corrisponde al momento di accesso, anche se occasionalmente si usa la data di prima diagnosi. Il reale momento in cui la malattia è stata contratta, naturalmente, può precedere l’esordio dei sintomi di un lasso di tempo variabile da ore a decenni. L’intervallo tra questi due punti può essere considerato come un periodo latente o di incubazione. Il tasso di incidenza è l’indice epidemiologico più importante nelle malattie ad esordio acuto e decorso rapidamente evolutivo, qualunque sia l’esito (guarigione o decesso). Tasso di prevalenza Il tasso di prevalenza corrisponde al numero di soggetti affetti in un determinato momento in una comunità, espresso per unità di popolazione.
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Se non vi sono modificazioni nel rapporto caso-fatalità nel corso del tempo né cambiamenti nel tasso di incidenza annuale (e nessuna migrazione), allora il tasso di incidenza medio annuale moltiplicato per la durata media di malattia in anni è pari al tasso di prevalenza in un dato momento. Il dato della prevalenza è di particolare importanza nel descrivere l’epidemiologia delle malattie croniche, a bassa mortalità, il cui esordio può essere difficilmente individuabile (per esempio Demenza, Parkinson, Corea di Huntington). Tasso di mortalità Il tasso di mortalità indica il numero di decessi, in cui la malattia è indicata causa principale di morte, che avvengono entro un’unità di tempo e di popolazione (tasso annuale di mortalità per 100.000 abitanti, abitualmente). Il rapporto caso-fatalità è la proporzione di affetti deceduti a causa della malattia. I tassi di mortalità sono calcolati a partire dai dati registrati sui certificati di morte ufficiali nella maggior parte dei Paesi. Si utilizzano i codici numerici basati sulla Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie, dei Traumatismi e delle Cause di morte, l’ICD (WHO, 1967,1969). L’ICD viene rivisto ogni 10 anni circa. L’ultima versione è la decima (WHO, 1992) che è entrata in vigore in molti Paesi nel gennaio 1995 (ma non negli Stati Uniti né in Italia, ove è ancora in uso la nona versione). In molte nazioni sviluppate i tassi di mortalità, per un gran numero di entità cliniche codificate in questo modo, sono pubblicati annualmente. Per molti disturbi sono quindi disponibili i dati di mortalità scorporati per fasce di età e per sesso. Il grande vantaggio dei tassi di mortalità è rappresentato dalla loro disponibilità nel tempo e nello spazio per molte condizioni che possono interessare il medico o il ricercatore. Il principale svantaggio di questo sistema è la scarsa accuratezza diagnostica e gli errori di compilazione
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Introduzione alla clinica
dei certificati. Inoltre, non tutte le malattie sono codificate, né quelle codificate sono sempre definite in modo ottimale. Infine, per i disturbi che hanno un alto tasso di fatalità e un breve decorso e che sono facilmente diagnosticati dal medico di medicina generale, i dati di mortalità costituiscono una fonte valida. Se invece i tassi di fatalità sono bassi, come nell’Epilessia, nell’Ictus o nel Parkinson, i dati di mortalità possono essere fortemente distorti ed hanno, comunque, scarsa utilità come descrittori dell’andamento epidemiologico delle malattie. Un altro aspetto rilevante dell’epidemiologia è poi la documentazione del decorso di una data malattia. A livello molto elementare, il decorso può essere misurato in base alla sopravvivenza e un metodo per calcolare la sopravvivenza è quello dell’analisi delle tavole di sopravvivenza (Kurtzke, 1970). Le stime della sopravvivenza sono importanti per molti disturbi neurologici, ma una metodologia simile può essere utilmente applicata anche per misurare eventi diversi dalla morte; per esempio, l’insorgenza di una complicazione o di una seconda malattia, o il raggiungimento di un certo livello di invalidità o deficit funzionale. Tassi specifici per età e sesso Quando il numeratore e il denominatore si riferiscono all’intera comunità, il loro quoziente è un tasso grezzo, che include tutte le età ed i sessi, per il disturbo in questione. Quando entrambi i termini del rapporto sono delimitati dall’età o dal sesso, è appropriato usare i termini tasso età-specifico e sesso-specifico. Se si considerano i tassi relativi ai gruppi di età consecutivi a partire dalla nascita fino alle età più avanzate, separandoli per sesso, si descrive la malattia in relazione ai tassi età- e sesso-specifici per l’intera comunità. Esistono tecniche che consentono il confronto tra tassi epidemiologici di malattie in popolazioni con struttura diversamente distribuita per fasce di età e sesso (standardizzazione dei tassi). Queste tecniche sono indispensabili
quando si vuole confrontare l’andamento dei fenomeni clinici in tempi diversi (per esempio la prevalenza di ictus del 1960 con quella del 2000), oppure se si desidera effettuare confronti contemporanei tra popolazioni differenti (per esempio incidenza di ictus in Italia ed in Russia).
Rischio Le malattie non si sviluppano casualmente, ma secondo modalità che riflettono l’attività di fattori causali e favorenti (Fox et al., 1970). I fattori causali sono quelli che intervengono con evidenza nel determinismo del quadro morboso (per esempio: trauma cranico con frattura e lacerazione dell’arteria meningea media: ematoma epidurale); i fattori favorenti o “di rischio” sono quelli che sono associati ad una aumentata probabilità di malattia, anche se il rapporto causa-effetto può non essere chiaro o intuitivo (per esempio Diabete Mellito ed Ictus). La probabilità o rischio di malattia è data dalla frequenza di insorgenza della stessa in un gruppo di soggetti (o tasso di incidenza) in un dato periodo di tempo. Le situazioni o condizioni che aumentano la probabilità attesa della malattia sono definibili come fattori di rischio. Qualsiasi caratteristica plausibile del macroclima (l’ambiente) o del microclima (l’individuo) è un potenziale fattore di rischio per una malattia. I principali fattori di rischio che classicamente vengono presi in considerazione sono l’età, il sesso, la razza, i fattori genetico-familiari, la sede di residenza, il clima, le variabili sociali (reddito, scolarità, stato civile, lavoro), le abitudini relative all’alcool ed al fumo, le malattie pregresse, gli interventi chirurgici e le terapie effettuate in precedenza. Rischio relativo e studi caso-controllo Se conosciamo il rischio assoluto (o il tasso di incidenza) in due sottogruppi di popolazione che differiscono per la presenza di un fatto-
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re, allora il rapporto del rischio nei soggetti che presentano tale fattore rispetto a quelli in cui manca è una misura del rischio relativo (RR) per tale fattore. Qualora, per esempio, i soggetti che sono esposti ad un determinato fattore sviluppino con frequenza doppia una malattia rispetto a quelli senza tale fattore, il rischio relativo è pari a 2. Più alto è questo rapporto, più è probabile che questo fattore sia direttamente legato in senso causale alla malattia in questione. La situazione ideale per valutare la rilevanza di un sospetto fattore di rischio è la possibilità di studiare prospetticamente due gruppi di soggetti (esposti e non esposti al fattore) e valutare l’incidenza della malattia nel tempo (Kurtzke 1992, 1996). Quando, però, non sono possibili studi prospettici, si possono confrontare due gruppi di soggetti, affetti e non affetti dalla malattia, valutando la frequenza dell’ipotetico fattore di rischio indagando in senso retrospettivo. È ovvio che l’ipotetico fattore di rischio in studio deve precedere l’insorgenza della malattia e non esserne una conseguenza. Tale confronto, detto studio caso-controllo retrospettivo, fornisce un rapporto di probabilità (odds ratio: OR) che è tanto maggiore quanto più alta è la relazione positiva tra fattore di rischio e malattia. Occorre rilevare che in questo tipo di situazione non è facile scegliere controlli adeguati. L’uso, peraltro non infrequente, di casistiche ospedaliere affette da altre malattie, espone a rischio di distorsioni (il fattore in questione può essere coinvolto anche nell’altra malattia). Se si usano come controlli i familiari o i vicini di casa, è possibile l’interferenza di fattori genetici o ambientali, rispettivamente. La scelta dei controlli è quindi egualmente importante di quella dei casi, poiché occorre essere certi che le differenze trovate riflettano la realtà biologica del caso e non del controllo. L’eccesso di frequenza della malattia nei soggetti “esposti” ad un fattore al di sopra della frequenza “standard” dei soggetti non sottoposti a tale esposizione fornisce la misura della
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quantità di malattia attribuibile a questo fattore. Questo eccesso, definito rischio attribuibile, è la quota di malattia che si può sperare di evitare rimuovendo il fattore di rischio in questione. Sensibilità – Specificità – Valori Predittivi Con questi termini si identificano descrittori dell’accuratezza dei risultati di una indagine di laboratorio o della presenza di un segno clinico-anamnestico ai fini di una giusta diagnosi. La sensibilità di un fattore, o di un test, è il tasso di “veri positivi”, cioè la proporzione di soggetti realmente affetti dalla condizione morbosa tra quelli in cui è stata posta la diagnosi e che presentano il fattore in questione o hanno un risultato alterato al test. La sensibilità è perciò la capacità del test (o del fattore) di identificare i soggetti veramente malati. Nella tabella classica 2 × 2, abbiamo la seguente situazione: MALATTIA Presente Assente
Test in analisi (o fattore di rischio)
Totali
+
a
b
a+b
–
c
d
c+d
totali
a+c
b+d
a+b+c+d
Nella tabella di esempio degli odds ratio, la sensibilità è definita come a / (a+c). La specificità è una misura dei “veri negativi”, la proporzione di “tralasciati” correttamente per il fattore (o che hanno il risultato normale al test diagnostico) tra i non affetti. In altre parole la capacità del risultato negativo del test, o dell’assenza del segno o fattore, di identificare i soggetti realmente non affetti dalla malattia. Nella tabella la specificità è = d / (b+d).
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Introduzione alla clinica
Il valore predittivo positivo per il fattore è la proporzione di “eventi” corretti rispetto agli “eventi totali” = a / (a+b). Il valore predittivo negativo per il fattore è la proporzione di “non eventi” corretti rispetto al totale di “non eventi” = d / (c+d). La sensibilità e la specificità non sono influenzate dalla prevalenza della malattia o dalla dimensione del campione. Ciò non si applica al caso dei valori predittivi, che sono in rapporto alla prevalenza della malattia. Quest’ultimo punto diventa particolarmente importante quando vogliamo applicare un’osservazione ottenuta con uno studio caso-controllo, in cui i casi sono, abitualmente, metà del totale, a una situazione di popolazione, in cui i casi sono una proporzione molto più piccola del totale. Un test dotato di elevata sensibilità e specificità, ma di basso valore predittivo positivo, può produrre più “falsi positivi” che “veri positivi”. L’utilità di un test (o della valutazione di un fattore di rischio o di un segno clinico-anamnestico) dipende quindi dalla prevalenza della malattia e dal valore predittivo positivo del test, che ne è strettamente correlato.
Valutazione degli interventi sanitari La diffusione della metodologia epidemiologica ha portato all’applicazione di un approccio scientifico anche nel campo della valutazione degli interventi sanitari. Quando ci proponiamo di valutare un trattamento farmacologico, ma anche una procedura di cura chirurgica, o un intervento preventivo che mira a correggere un fattore di rischio, dobbiamo ricorrere a criteri di valutazione che mettano al riparo da errori o distorsioni. In generale occorre ricordare che ogni intervento sul malato deve essere valutabile in termini di efficacia (capacità di modificare in
senso positivo la storia naturale della condizione morbosa), efficienza (capacità di raggiungere un effetto positivo in modo economico, con il minor spreco di risorse possibile) e sicurezza (valutazione di tutti gli effetti clinicamente rilevanti, e, in particolare, anche degli effetti collaterali immediati, dei rischi a breve, medio e lungo termine, mortalità acuta ed a distanza). Gli studi osservazionali, che analizzano casistiche cliniche in relazione ai risultati di un trattamento, hanno gravi difetti intrinseci dato che spesso è impossibile conoscere chi è stato trattato e chi no, come è stato effettuato il trattamento, perché è stato scelto quel trattamento in quel singolo caso, chi ha interrotto il trattamento e per quali ragioni, chi è uscito dallo studio e per quali ragioni. Anche il ricorso a controlli storici espone al rischio di gravi distorsioni, dato che la storia naturale della malattia può cambiare in rapporto ai progressi nell’accuratezza diagnostica, nella qualità dell’assistenza, nel livello socio-economico della popolazione; in questo tipo di confronti, inoltre, non è possibile essere certi che identici criteri di inclusione ed esclusione siano stati applicati, vi è rischio di cointervento e difficoltà di quantificazione dei “dropout” e di identificazione della loro reale motivazione (Kurtzke,1986). Le premesse metodologiche per considerare uno studio clinico come affidabile sono, in primo luogo, la possibilità di avere un gruppo di confronto. In effetti uno studio di casistica, senza gruppo di controllo, può provare l’efficacia di un trattamento solo quando l’esito della malattia è costantemente prevedibile in tempi brevi e l’efficienza del trattamento è molto grande nella maggior parte dei soggetti affetti. In tutti gli altri casi un trattamento deve essere valutato comparativamente nei confronti di un altro trattamento, già dimostrato efficace, in termini di maggiore efficacia, efficienza o sicurezza, ovvero nei confronti di una sostanza inerte (placebo) nel caso non esista altro trattamento dimostrato efficace.
Neuroepidemiologia
Il giudizio di efficacia si deve basare sul confronto contemporaneo tra la storia “naturale” della malattia in relazione ai due diversi trattamenti a) trattamento sperimentale; b) trattamento di confronto (miglior trattamento in uso o “placebo”), mediante la valutazione comparativa della frequenza con cui compaiono eventi significativi (“end-point”). Tale confronto non può dunque prescindere da una valutazione probabilistica e, quindi, da una analisi statistica dei dati. L’approccio probabilistico ed il conseguente ricorso alla statistica implicano la pre-determinazione delle dimensioni del campione necessario per valutare l’effetto di un intervento sanitario, evitando che la numerosità della casistica sia insufficiente a provare l’ipotesi in studio (errore di tipo II o beta). Il livello di significatività statistico abitualmente considerato accettabile negli studi clinici è del 5 % (P < 5%, cioè probabilità di un risultato positivo dello studio “per caso” inferiore al 5 %). Queste considerazioni hanno portato alla individuazione dello studio clinico controllato randomizzato in doppio cieco come modello ideale per la valutazione di un trattamento. Questo tipo di approccio permette infatti di proteggere lo sperimentatore dalle principali fonti di distorsione che sono qui di seguito elencate (Pockock, 1983): • contaminazione: somministrazione del trattamento sperimentale a parte del gruppo di controllo o viceversa; • cointervento: interventi terapeutici aggiuntivi o diagnostici diversi nei due gruppi a confronto; • diversa “compliance”: diversa fedeltà allo schema di somministrazione del trattamento nei due gruppi a confronto • sbilanciamento: diversa prevalenza di variabili a significato prognostico, note o non note, nei due gruppi a confronto (la assegnazione casuale o randomizzazione protegge essenzialmente da questo errore) • analisi finale limitata ad una sola parte dei casi con esclusione di una parte dei
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soggetti ("per drop-out" o perché deceduti o per le più diverse ragioni); • distorsione da personalità dello sperimentatore: la frequenza di una risposta positiva al trattamento è molto influenzata dalla personalità dello sperimentatore; • distorsione da aspettativa: il fatto stesso di essere "soggetto" o "oggetto" coinvolto in una sperimentazione di un nuovo trattamento aumenta la possibilità di un risultato positivo al trattamento stesso.
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Introduzione alla clinica
Bioetica e neurologia A. Primavera Il termine “bioetica” è stato introdotto da Potter (1971) e utilizzato da Andrè Hellegers nel fondare a Washington il “Joseph and Rose Kennedy Institute for the study of Human Reproduction end Bioethics”, istituto che ha provveduto, nel 1978 alla stesura della “Encyclopedia of Bioethics”. Il termine non si riferisce, come potrebbe apparire, a una nuova etica scientifica, ma ad una organica e razionale valutazione dei vari problemi morali, giuridici, sociali sollevati dall’impetuoso sviluppo della medicina e delle altre scienze della vita in questi ultimi cinquant’anni. Nei trattati di medicina e nei manuali di neurologia le problematiche di etica medica, come ad esempio gli aspetti del trattamento dei malati terminali sono, di solito, affrontati in modo incompleto (Rabow et al, 2000), fornendo informazioni, nella maggior parte dei casi, unicamente sulla prognosi e sulle terapie in grado di modificare l’evoluzione della malattia. Invece, nella pratica neurologica, tali tematiche sono di frequente e di rilevante importanza, in particolare per la diagnosi di “morte cerebrale” e di stato vegetativo permanente, per il trattamento dei dementi e della sclerosi laterale amiotrofica (S.L.A.) con insufficienza respiratoria, per l’espletamento di trials clinici e dei test diagnostici su base genetica. In confronto al passato vi è oggi la tendenza a limitare le terapie aggressive nei malati con gravi e talora irreversibili danni cerebrali, motivata dal rispetto delle volontà precedentemente espresse e dalla qualità della vita. Sin dalla fine degli anni ’70 alcuni ospedali americani dispongono di linee guida in cui sono indicati gli interventi terapeutici da praticare nei soggetti a prognosi infausta, definendo diversi livelli di cura (Wanzer et al.1984). Del resto l’accesso alla terapia intensiva dovrebbe essere riservato a coloro che ne possono real-
mente beneficiare, onde evitare trattamenti sproporzionati ed eccessivi. Molti dei problemi etici derivano inoltre dal fatto che spesso il malato neurologico, per alterazioni dello stato di coscienza e per la rapidità con cui deve essere instaurata una terapia, manca di capacità decisionale. Il livello di certezza diagnostica e prognostica si basa su casistiche riportate in letteratura e devono sempre essere ricordati i limiti di applicabilità di tali studi nel singolo caso. Di fronte a soggetti con prognosi infausta o che pongono gravi problematiche decisionali, sarebbe opportuna la stesura, da parte delle strutture ospedaliere o delle società scientifiche, di linee guida di riferimento. In questo capitolo, oltre a ricordare i principi generali dell’etica medica, discuteremo solo alcune delle principali questioni morali che il neurologo deve affrontare nella realtà clinica (morte cerebrale, stato vegetativo permanente, trattamento dei malati affetti da S.L.A. e da demenza), facendo riferimento in gran parte al lavoro del gruppo di studio di bioetica della Società italiana di neurologia (S.I.N.).
Principi di etica clinica L’etica clinica è lo studio sistematico dei problemi morali legati alla medicina (deontologia, ricerca scientifica e attività assistenziale) che tende a contribuire al miglioramento del trattamento. La medicina, la legge ed i valori culturali e sociali non sono fenomeni statici e negli ultimi 50 anni la società e la pratica medica hanno subito un profondo mutamento, responsabile di nuove situazioni cliniche (sviluppo della chirurgia dei trapianti e accertamento di morte cerebrale sulla base di criteri neurologici, della terapia palliativa e del concetto di medicina basata sull’evidenza), fonti di possibili discrepanze fra valori morali ed obblighi legali. La complessità intrinseca degli organismi viventi, legata alla variabilità biologica, e l’incertezza riguardante le conseguenze dell’atto
Bioetica e neurologia
medico ha fatto emergere l’importanza della valutazione morale che è alla base di ogni scelta decisionale. L’esigenza di dare risposte razionali ai nuovi problemi, in società pluralistiche, ha favorito inoltre il tramonto del paternalismo in medicina, e cioè della convinzione che, in base alle sue conoscenze, il medico potesse decidere da solo, nell’interesse del malato, senza instaurare un dialogo con quest’ultimo. Nella pratica clinica si fa riferimento, in accordo con la sistematizzazione operata da Beauchamp e Childress (1983), ai principi di autonomia, beneficenza, non-maleficenza e giustizia, oltre alla ovvia premessa del principio di integrità morale della professione. Il principio di autonomia della persona esige che si evitino da parte dei sanitari scelte coercitive e che l’operare medico ponga alla sua base il consenso legittimo, valido, libero ed informato. Non si può chiedere ovviamente il consenso ad un atto illecito; il soggetto consenziente deve essere pienamente consapevole di ciò che gli viene proposto (consenso valido); il soggetto non deve soggiacere a condizionamento esterno o ad autocondizionamento per prospettive di successo terapeutico (consenso libero); il malato deve ottenere piena ed accurata informazione sulle proprie condizioni e sul procedimento terapeutico da intraprendere (consenso informato). Ovviamente bisogna tenere conto, nell’informazione del malato, delle sue caratteristiche psicologiche. In situazioni di emergenza ed in soggetti con alterazione mentale è importante rispettare i desideri precedentemente espressi e, tranne nei casi di reale stato di necessità, fare sempre riferimento ai rappresentanti legali. In Italia il consenso del familiare, pur essendo prassi diffusa, non è previsto dal punto di vista normativo e, solo nel contesto sperimentale, la legge indica la necessità di chiedere il consenso al rappresentante legalmente riconosciuto se il malato non è competente (modello del consenso sostitutivo). Si parla di consenso evitabile quando, in caso di urgenza e pericolo di vita per la persona, il
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clinico è comunque autorizzato a scegliere l’assistenza e le cure ritenute indispensabili (art. 35 Codice Deontologico 1998). Sempre al principio di autonomia, si rifanno le cosiddette Direttive Anticipate (D.A.), al fine di rispettare la volontà del soggetto, anche quando questi non fosse più in grado di fornire un consenso (v. pag 734). Secondo il principio di beneficenza, il medico deve agire nel miglior interesse del malato, valutando il rapporto rischio-beneficio di un trattamento. I sanitari dovrebbero avere un ruolo attivo nelle scelte decisionali ricordando l’aforisma secondo cui il loro ruolo è quello “talvolta di curare, spesso di aiutare e sempre di confortare”. Il principio di non-maleficenza vieta di arrecare danno al malato. Il principio di giustizia comporta che si considerino le ricadute sociali di una decisione presa nell’interesse di una persona. È il più discusso e dovrebbe essere secondario rispetto a quello di beneficenza. Le risorse limitate e l’uso talora non appropriato di terapie costose e di dubbia efficacia, pongono tuttavia il problema dell’allocazione delle risorse. A questo proposito, l’aspetto etico non è legato alla possibilità di risparmiare con l’interruzione del trattamento, ma quello di evitare terapie non necessarie. Sono considerati “futili” i trattamenti non in grado di modificare le condizioni irrimediabilmente compromesse di un dato soggetto e tale fatto assume un’importanza maggiore nel caso in cui si rischi di privare altri di terapie per loro indispensabili (etica del singolo e della comunità). I principi dell’etica clinica non sono assoluti e talora possono anche essere in contrasto fra loro. Si consideri il problema morale di dovere rivelare o tacere la verità, di fronte alla diagnosi di una malattia infausta, anche in rapporto al concetto del consenso informato: la modalità di comunicare deve essere trovata caso per caso, tenendo conto sia del principio di autonomia sia di quello di non-maleficenza che di
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Introduzione alla clinica
quello di giustizia, data la possibile rilevanza sociale dell’informazione. Secondo Cattorini (2000) “il medico ha il dovere di essere leale nei confronti del malato e di comunicargli la verità diagnostica e prognostica nella misura in cui questi vuole e può appropriarsene”. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto deve essere rispettata (Codice di Deontologia Medica: articoli 30-31)
Etica clinica e morte cerebrale Nel 1959 Mollaret e Goulon indicarono con il termine “coma depassè” le condizioni di 23 malati in “coma”, con completa mancanza di funzioni cognitive e dei riflessi troncali, assenza di attività elettrica cerebrale all’EEG e di flusso ematico intracranico, in rapporto ad un danno cerebrale diffuso ed irreversibile, in cui la funzione respiratoria era vicariata dalla ventilazione meccanica. Il termine “morte cerebrale” (v. pag.ooo) fu introdotto nel 1965 in occasione di un trapianto di rene da un donatore a cuore battente, che appariva cerebralmente morto (Power et al. 1996). La dichiarazione di morte in base a criteri neurologici era la logica conseguenza di tali osservazioni ed è stata accettata dal personale sanitario, da giuristi e da religiosi (Wijdicks, 2001), in quanto considerata un problema di pertinenza della scienza medica più che una questione morale. Tuttavia la necessità di considerare una nuova definizione di morte (Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School 1968) derivava sia dal miglioramento delle tecniche di rianimazione con la conseguenza di avere soggetti, a “cuore battente”, con una irreversibile perdita di tutte le funzioni cerebrali, sia dallo sviluppo della chirurgia dei trapianti d’organo e dall’impossibilità di utilizzare gli organi delle persone in “coma irreversibile”. Data la necessità di evitare con
la massima certezza errori diagnostici venne identificato lo stato di perdita di coscienza dal quale la ripresa non era mai stata osservata, e definite le condizioni che in modo affidabile predicevano una diffusa e severa necrosi corticale, rifacendosi anche ad indagini strumentali (EEG, Flusso Ematico Cerebrale): se staccati dal respiratore i malati avrebbero avuto un immediato e definitivo arresto cardio-respiratorio, risultando deceduti anche secondo i criteri tradizionali. La definizione di Harvard faceva riferimento all’esaurimento di tutte le funzioni cerebrali (criterio della morte cerebrale totale) e risentiva di implicazioni etiche. Permetteva di disporre di un maggior numero di organi da trapiantare, quindi di garantire la vita ad altri esseri umani e di evitare trattamenti “futili”, senza contrapporre i criteri di non-maleficenza e di giustizia. I criteri di Harvard per l’accertamento della morte, seppur modificati, vennero accettati sul piano giuridico dapprima in America e poi nella maggior parte dei paesi occidentali. Nei singoli paesi venivano precisate differenti modalità di accertamento di morte cerebrale al fine di evitare possibili errori diagnostici. In Italia, dopo un iniziale riscontro dei segni di morte cerebrale, è richiesta la ripetizione dei test diagnostici a vari intervalli di tempo e l’accertamento deve essere fatto da una commissione medica composta da tre medici (un anestesista, un medico legale e un esperto in scienze neurologiche), diversi da quelli dell’equipe dei trapianti. Inoltre, al fine di evitare che il termine “morte cerebrale” possa causare confusione, suggerendo che vi possano essere due tipi di decessi, la legge 578 del 1993 identifica la morte di una persona con la cessazione di tutte le funzioni cerebrali. La morte per arresto cardiaco si intende avvenuta quando il respiro e la circolazione siano cessati per un intervallo di tempo tale da comportare la perdita irreversibile di tutte le funzioni encefaliche. L’accertamento della morte su base neurologica, con il passare degli anni ed il progredire
Bioetica e neurologia
della scienza medica, ha posto nuove problematiche mediche, etiche e giuridiche. Nel 1976 veniva introdotto in Gran Bretagna il concetto di morte “troncoencefalica”: una persona è morta quando si ha la perdita totale ed irreversibile delle funzioni troncali. Nel tronco dell’encefalo vi è la sede dei centri dell’integrazione vegetativa dell’intero organismo e delle strutture che rendono possibile l’attivazione della coscienza. Tuttavia la distruzione isolata del tronco encefalico avviene raramente (ad es. nel corso di vaste emorragie primitivamente troncali) ed in tali condizioni l’attività degli emisferi cerebrali può persistere, come anche l’attività EEG, per poche ore. D’altra parte secondo Pallis (1982), tale diagnosi, che si basa su una rigida lista di criteri clinici, per assicurare che non sia apparente e transitoria, può essere fatta in modo affidabile al letto del malato. L’adozione di tale criterio trova la sua giustificazione nel tentativo di evitare l’uso non appropriato di tecniche rianimatorie, nel rapporto costo/beneficio e nella riduzione delle sofferenze dei parenti. La morte oggigiorno è considerata un processo e non un semplice evento: la cessazione dell’attività cardio-respiratoria, pur implicando la morte della persona globalmente intesa, non necessariamente significa che sia associata all’immediata perdita di ogni cellula. Allo stesso modo la cessazione delle funzioni troncali comporta la morte dell’intero cervello, anche se non quella di ogni singolo neurone. Fra le obiezioni al concetto di morte troncoencefalica ricordiamo, come segnalato dal Comitato Nazionale di Bioetica, che (a) non è giusto equiparare l’inevitabilità della morte con la morte stessa e (b) tale criterio lascia aperto il problema della plasticità cerebrale, specie nella vita fetale e nei primi anni di vita, onde la discussione sul possibile uso dei neonati anencefalici come donatori d’organi (Council on Ethical and Juridicial Affairs, AMA 1995). D’altra parte si sta discutendo in ambito bioetico (Veatch, 1993) il concetto di morte “corticale”, facendo riferimento agli aspetti fonda-
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mentali per l’esistenza di una persona (coscienza, linguaggio e capacità di relazione), a prescindere dalla respirazione e dalla capacità di deglutire. Del resto, i test standard (JAMA, 1981), generalmente usati per stabilire la morte cerebrale, non sono in grado di rilevare tutte le funzioni del SNC, come ad es. la secrezione ormonale. Con la perdita irreversibile della coscienza non si è più in grado di apprezzare nulla della nostra esistenza e viene meno tutto ciò che dà ragione ai medici ed ai parenti di sperare nella sopravvivenza del malato. Il concetto di morte corticale appare tuttavia ancora troppo lontano dalla realtà attuale e porrebbe problemi etici di rilevante portata, non tanto per la sospensione di cure straordinarie e sproporzionate, in quanto tali soggetti potrebbero comunque sopravvivere per anni come è stato dimostrato in molti casi di stato vegetativo, quanto per la liceità della rimozione degli organi (Singer 2000, Hoffemberg et al. 1997). Come già ricordato, l’accertamento di morte in base a criteri neurologici consente i trapianti d’organo. Ne deriva la necessità di far capire la differenza fra un grave danno neurologico, causa di un coma profondo, ma potenzialmente reversibile, e la morte cerebrale, in cui data l’irreversibilità della condizione clinica ogni trattamento risulterebbe vano e l’importanza di promuovere la scelta della donazione attraverso un’opera culturale di informazione. A questo proposito la legge italiana (aprile 1999) prevede una capillare opera informativa e l’esposizione al cittadino del quesito relativo alla sua disponibilità alla donazione d’organi postmortem: qualora egli si esprima in senso favorevole o contrario si registra e si rispetta la sua volontà. Se non si pronuncia il suo silenzio viene inteso come un implicito assenso (principio del silenzio-assenso) e lo si considera un donatore, nonostante eventuali dissensi dei familiari. Tale legge, tendente ad incoraggiare le decisioni da parte dei cittadini, lascia alcuni dubbi sull’aspetto burocratico dell’informazione offerta, sulla raccolta e sulla registrazione del-
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la volontà del singolo sulla tessera sanitaria personale, oltre che su banche dati nazionali. Al fine di assicurare che la scelta compiuta sia realmente volontaria e libera appare fondamentale la salvaguardia della segretezza della decisione, rispettando la “privacy” del cittadino. Fino a quando persistano problemi organizzativi (in particolare in assenza di una diretta manifestazione che i singoli cittadini siano stati realmente informati sul principio del silenzio-assenso) è stato proposto di lasciare ai familiari la facoltà di opporsi al prelievo degli organi, in quanto potenziali testimoni della eventuale volontà negativa espressa in vita dal defunto. Un maggior peso deve inoltre essere dato alla preparazione psicologica dei sanitari nell’affrontare la morte dei malati loro affidati e nel comunicare con i familiari che stanno vivendo il momento doloroso della separazione dai propri cari in tali drammatiche circostanze. Un caso particolare è quello dell’accertamento della morte cerebrale nelle donne durante la gravidanza. Spesso i parenti richiedono il prolungamento del supporto vitale alla madre fino a raggiungere una maturità del feto, compatibile con la sua sopravvivenza. Questi rari casi (Bernstein et al., 1989) testimoniano l’evoluzione tecnologica della terapia intensiva, ma al contempo, sollevano problemi etici.Vi è un sostanziale accordo nel considerare il padre del feto la persona più adatta a decidere sul prolungamento del supporto vitale alla donna in gravidanza, dopo una adeguata valutazione dei possibili rischi.
Etica clinica e trattamento dei malati affetti da S.L.A. La S.L.A. (v. pag. 000) è una malattia caratterizzata da una degenerazione del primo e secondo motoneurone che porta gradualmente alla perdita della funzione motoria sino alla tetraplegia, nonché alla compromissione dell’articolazione della parola, della deglutizione e della
respirazione, in assenza di deterioramento cognitivo: il soggetto assiste nella pienezza delle proprie capacità mentali all’evolversi della patologia. Data la mancanza di una terapia eziologica e la prognosi infausta (decesso in genere entro 2-5 anni dalla comparsa dei primi sintomi) vi è stato, sino agli anni ’80-’90, un atteggiamento di sostanziale disimpegno terapeutico da parte dei neurologi e solo recentemente grazie anche al contributo dell’A.I.S.L.A. (Associazione Italiana per la lotta alla S.L.A.) sono state considerate anche in Italia metodiche, talora invasive, atte a sostituire con mezzi artificiali le funzioni bulbari compromesse (in particolare la ventilazione artificiale meccanica e la gastrotomia) Tali interventi, se consentono il prolungamento della vita vengono a creare condizioni del tutto nuove che non possono non sollevare interrogativi etici: qualità complessiva della vita residua, costi economici e sociali. Date queste premesse la presa in carico di pazienti affetti da S.L.A. comporta ovviamente, fra gli altri sul piano morale, il problema dell’informazione del malato e dei familiari e quello decisionale, specie negli stadi più avanzati. L’importanza dell’informazione, che deve sempre essere fornita in modo graduale ed in rapporto alla personalità del singolo, nella S.L.A. è accresciuta dal fatto che, a differenza di altre malattie a prognosi infausta, vi è la possibilità di un prolungamento notevole della vita con il ricorso a mezzi artificiali, sia pure a prezzo di gravissime menomazioni e della progressiva dipendenza dai familiari: di tutto ciò deve essere informato il malato. Se in passato l’atteggiamento del medico era improntato al principio di non-maleficenza, per cui veniva taciuta la verità al fine di risparmiare paure e sofferenze anticipate e di mantenere la speranza, solo con un’adeguata spiegazione del suo disturbo viene offerta al malato la possibilità di orientarsi fra le diverse alternative terapeutiche che si pongono con l’evoluzione della malattia, nel rispetto
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del principio di autonomia. Date le possibili reazioni psicologiche e l’insorgenza di situazioni conflittuali fra medico e malato, che possono nascere nelle diverse fasi della malattia, viene ribadita l’importanza di fornire informazioni in modo prudente e personalizzato, senza mai interrompere l’alleanza terapeutica installata. Considerata la disabilità e la mancata autonomia che si verificherà nelle fasi avanzate, appare inoltre opportuno ricercare la collaborazione delle persone più vicine al malato per affrontare insieme i momenti più delicati. Nella S.L.A. la possibilità di protrarre la vita in condizioni di dipendenza da mezzi artificiali, non la prognosi infausta, rende alcune decisioni terapeutiche particolarmente difficili, essendo discutibile se sia vantaggioso per il soggetto continuare a vivere in tali condizioni: né il principio di beneficenza, né quello di autonomia permettono di stabilire una condotta terapeutica valida per tutti i casi e per tutte le fasi della malattia. Il medico dovrà innanzitutto trattare sintomi quali la spasticità, il dolore, le reazioni depressive e lo stato ansioso, che spesso vengono poco valorizzati facendo riferimento ai principi della Medicina Palliativa: mancando la possibilità di cura della malattia, l’intervento deve essere rivolto a sostenere la qualità della vita. La consapevolezza di tale esigenza può rendere più difficile, da parte del neurologo, l’assunzione di un atteggiamento distaccato e di delega. Il problema decisionale diventa più complicato quando si debba discutere la applicazione di presidi atti a sostituire le funzioni vitali ed in particolare la respirazione. Poiché una decisione ponderata non è compatibile con le situazioni di emergenza, il soggetto dovrebbe essere incoraggiato ad anticiparla, ricevendo le informazioni sulle limitazioni imposte dalla respirazione assistita e sull’evoluzione sfavorevole, in tempi più o meno brevi, in caso di rifiuto di tale mezzo di sostegno vitale. Il medico dovrà dare la sua disponibilità ad alleviare la sofferenza degli stadi terminali, anche ricorrendo all’uso di anestetici ed analgesici. Il gruppo di
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studio di bioetica della S.I.N. ritiene che non vi siano sostanziali differenze sul piano etico tra non iniziare o sospendere la ventilazione, ma tale opinione può non essere accettata tra chi equipara la sospensione di un trattamento vitale ad una forma di eutanasia. In accordo con l’American Academy of Neurology (1993) lo sforzo del medico deve essere rivolto a privilegiare l’autodeterminazione e il codice di deontologia medica del 1998 invita ad “astenersi dall’accanimento diagnostico e terapeutico” nel caso in cui non si possa fondatamente attendersi un beneficio per la salute del malato o un miglioramento della qualità della vita. La risoluzione del problema può essere vista nella pianificazione anticipata dei trattamenti, durante la quale il malato insieme ai curanti e alle persone a lui più care, prende decisioni circa le proprie future cure. Tale processo può concludersi con la compilazione delle Direttive Anticipate (D.A.), definite anche testamento biologico o testamento di vita, che hanno il loro fondamento etico nel principio di autonomia e la base etico-giuridica nella dottrina del consenso informato. Le D.A. si sono sviluppate nel mondo anglosassone (in gran parte degli Stati Uniti, del Canada e dell’Australia) a partire dall’approvazione (1976) del Natural Death Act in California (Ceccioni e Singer 1996). In Italia dal punto di vista giuridico le D.A. non hanno il pieno riconoscimento, sebbene l’art. 32 della Costituzione, le indicazioni legislative sulle trasfusioni e sui test diagnostici per l’H.I.V. e l’evoluzione del quadro giurisprudenziale, valorizzino grandemente l’autonomia decisionale del paziente. L’art 34 del Codice Deontologico ribadisce il dovere del medico di rispettare la volontà di curarsi, liberamente espressa dal malato, e che quando il soggetto non è in grado di esprimere la propria volontà, deve far riferimento a quanto precedentemente manifestato dallo stesso. L’importanza delle D.A. deve essere considerata anche per quanto riguarda lo stato vegetativo permanente, la demenza in fase avanzata ed
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il trattamento dei pazienti neoplastici: in tal modo non sarà il medico, ma il malato a decidere il livello di trattamento cui desidera essere sottoposto, qualora venga meno la capacità decisionale o di comunicazione. Potrà, inoltre, essere indicata dal soggetto la persona di fiducia cui fare riferimento.
Etica clinica e stato vegetativo permanente Lo stato vegetativo (v. pag. 646) si verifica nei malati in coma prolungato, in genere su base anossica o post-traumatica, con grave sofferenza degli emisferi cerebrali e relativo risparmio delle strutture troncali (Jennett e Plum, 1972). Dopo circa 15-20 giorni quasi tutti i soggetti in coma tendono ad aprire gli occhi (onde il termine usato in passato di “coma vigile”), ma sfortunatamente non tutti recuperano e, in percentuali diverse a seconda delle casistiche, persiste “mancanza di ogni risposta adattiva all’ambiente esterno”, pur essendo presenti riflessi troncali e spinali e la ventilazione spontanea, onde l’identificazione nel 1972 dello stato vegetativo. A volte i malati sembrano dormire e l’EEG può rivelare la presenza di attività elettrica; solo in caso di gravissima e diffusa sofferenza corticale, vi può essere silenzio elettrico cerebrale. Ciò tuttavia non permette la diagnosi di morte in base a criteri neurologici, dato l’insieme dei dati clinici (presenza di respirazione spontanea e dei riflessi troncali). Col passare delle settimane e dei mesi, specie tra il primo e il terzo mese, si può osservare un recupero, oppure le condizioni possono persistere invariate o ancora si possono verificare complicanze che portano al decesso. Si parla di stato vegetativo “persistente” quando si fa riferimento ad una condizione di passata o di perdurante disabilità (della durata di almeno un mese), a prognosi incerta. Si pone la diagnosi o meglio la prognosi di stato vegetativo “permanente” (The Multi-Society Task Force on PVS 1994) quando si fa riferimento ad
una condizione irreversibile, nei limiti dell’ accertamento attualmente possibile, nella quale la persona rimarrà per il resto della propria vita. Levy et al. (1985), hanno riportato che nessun caso in stato vegetativo permanente (SVP), diagnosticato ad un mese dall’arresto cardiaco, ha mai recuperato la coscienza, mentre nei casi di SVP post-traumatico il giudizio prognostico richiede un tempo maggiore (9-12 mesi). Data l’importanza del concetto di irreversibilità è utile ricordare la necessità di un lungo periodo di osservazione e la possibilità di errori diagnostici, se i soggetti non vengono valutati collegialmente dai medici curanti (rianimatori, neurologi e fisiatri) e dal personale paramendico (fisioterapisti ed infermieri, che stanno più a lungo a contatto con i malati). Escludono la diagnosi di SVP la presenza, anche minima, di percezione cosciente o di motilità volontaria, come una risposta riproducible ad un comando verbale o gestuale: in tal caso si preferisce parlare di “minimally conscious state” (Cranford, 1998). La diagnosi-prognosi di SVP, che si basa su criteri clinici, anche se è auspicabile che nuove tecnologie (PET e RM) possano essere di aiuto in un sempre maggior numero di casi, pone inquietanti problemi riguardo alla sua affidabilità. Il soggetto in questo stato non è un malato terminale, e può sopravvivere per periodi prolungati (in media 2-5 anni, ma talora anche più di 10 anni) senza riguadagnare alcuna funzione mentale significativa, realizzandosi una completa dissociazione tra vita cosciente e vita vegetativa. Alcuni studiosi considerano questa condizione come l’esempio paradigmatico della morte “corticale”, data la perdita irreversibile delle funzioni cerebrali superiori ed in particolare della coscienza. Non è tuttavia possibile basarsi su questa ipotesi per affrontare i problemi etici posti dallo SVP che, come già detto, si differenzia dalla morte cerebrale sia sul piano medico che giuridico. Fondamentale appare quindi agire nel migliore interesse della persona rispettandone le volontà anche precedentemente espresse, assicu-
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rando un buon livello di assistenza (igiene, nutrizione ed alimentazione artificiale “NIA”, mobilizzazione articolare), per periodi di tempo anche molto prolungati. Ciò solitamente consente di rispettare il principio di giustizia in quanto, superata la fase acuta, tali malati non necessitano di terapia intensiva e possono essere seguiti sia in ambito ospedaliero, che, talora, a domicilio, dai familiari stessi, con l’aiuto in genere di operatori sanitari. Il soggetto in SVP non è in grado di dare un consenso, né di esprimere un rifiuto al trattamento, che se sospeso comporterebbe il decesso. Ciò spiega l’importanza delle direttive anticipate ed il frequente ricorso dei familiari e dei medici alla giurisprudenza, sia per fare rispettare i desideri del malato, sia per evitare l’accusa di omicidio per omissione di soccorso (Jennett, 1999). In un documento del 1999 l’associazione medica britannica ha affrontato il problema dell’assistenza in tali casi ed ha indicato alcuni principi: a) scopo primario di ogni trattamento medico è procurare un beneficio al soggetto. Qualora la cura non riesca a dare un beneficio netto o cessi di darlo, quello scopo non è più perseguibile e viene meno la stessa giustificazione al trattamento; b) prolungare la vita, generalmente, ma non sempre, rappresenta un beneficio per il malato. Il prolungamento alla vita non è lo scopo della medicina; c) la NIA è considerata un trattamento medico e non una cura di base; d) il consenso informato alle cure, anche precedentemente espresso, è di fondamentale importanza. Tenuto conto di questo e analoghi documenti, è lecito riconsiderare il principio di beneficenza nel trattamento in SVP: una volta stabilita con certezza tale diagnosi, pur prolungandone la sopravvivenza, il malato non è consapevole di vivere e sembra venire meno la giustificazione a continuare le cure, salvo diverso desiderio precedentemente espresso. Anche in tal caso la volontà del soggetto deve essere rispettata, sempre che non comporti danni rilevanti alla società, come l’uso non
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appropriato della terapia intensiva (il beneficio atteso per il singolo giustifica il costo per la collettività?). Come evidenziato dalla recente sentenza alla Corte d’Appello di Milano sul caso E.E, una ragazza in SVP da oltre 8 anni, il problema rimane ancora aperto, specie in Italia, in quanto si considera la NIA come un trattamento medico e non come una cura di base. La NIA, come ogni altro presidio medico, deve essere valutata caso per caso. Dato che l’alimentazione nello SVP avviene generalmente mediante sonda naso-gastrica o tramite gastrostomia e deve essere modificata in rapporto alle esigenze dell’organismo, la maggior parte degli studiosi ritiene che non possa essere considerata una misura ordinaria di assistenza, ma che si tratti di un vero e proprio procedimento medico, che deve essere gestito da esperti e come tale, se ritenuto un provvedimento sproporzionato, può essere interrotto per non cadere nell’accanimento terapeutico ed evitare trattamenti “futili” . Situazioni analoghe a quella affrontata dalla Corte d’Appello di Milano sono state oggetto di numerose pronunce giudiziarie a livello internazionale tra le quali sembra opportuno ricordare il caso Cruzan (USA 1990) ed il caso Bland (UK 1993) che pur con motivazioni diverse giungevano a permettere la sospensione della NIA. Nella sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti veniva valorizzato il rispetto della volontà del malato, anche se manifestato in modo indiretto, mentre l’House of Lord, la corte suprema inglese, pur riconoscendo il diritto di ogni individuo a rifiutare ogni forma di trattamento sulla propria persona, considerava la NIA di un malato in stato vegetativo permanente come un atto medico, valorizzando la valutazione dei sanitari. La Corte d’Appello di Milano (30/12/1999) giungeva a conclusioni opposte, non autorizzando il padre-tutore a disporre l’interruzione della NIA di E.E, avendo considerato ancora non concluso il dibattito sulla giustificazione dell’alimentazione nello SVP.
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Tale sentenza, assai discussa, ha portato il Ministero della Sanità (20 ottobre 2000) a costituire un gruppo di lavoro su nutrizione ed idratazione in soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza, al cui documento si rimanda per le considerazioni medico-legali sul problema.
Etica clinica e demenza Il progressivo declino delle capacità cognitive e dell’autonomia dei soggetti dementi pone numerosi problemi morali, nelle diverse fasi della malattia, per il malato, la famiglia, i medici, i ricercatori e la società in generale. Fra questi ricordiamo: comunicazione della diagnosi, rispetto dell’autonomia e delle scelte individuali, qualità della vita, partecipazione a sperimentazioni, sviluppo di possibili test genetici e trattamento di complicanze internistiche (polmoniti, malnutrizione) nelle fasi avanzate di malattia. Comunicazione della diagnosi. Tutti i soggetti affetti e le loro famiglie dovrebbero essere informati in modo adeguato sulla diagnosi e la prognosi al fine di programmare le necessarie misure di supporto. La compromissione delle funzioni cognitive non implica di per sé incompetenza decisionale. Per un dato livello di menomazione cognitiva, il malato può essere considerato capace di assumere certe decisioni relativamente semplici e non altre più complesse. Nella demenza di Alzheimer, nella maggior parte dei casi, si può distinguere una fase iniziale, ove è conservata la capacità decisionale, uno stadio di ulteriore gravità (demenza lieve-moderata) nel quale il soggetto pur avendo perso tale facoltà è ancora in grado di indicare quali persone, fra familiari ed amici, possono prendere decisioni in sua vece. In queste fasi non vi è pertanto equivalenza fra compromissione cognitiva e incompetenza decisionale e nel caso di demenza lieve - moderata, il consenso sostitutivo può salvaguardare l’autonomia della perso-
na. La volontà del malato liberamente espressa deve rappresentare per il medico l’elemento verso il quale ispirare il proprio comportamento. Argomenti usati in passato contro un’adeguata informazione diagnostica in casi di deterioramento cognitivo si basavano sull’impossibilità di una diagnosi certa, sull’assenza di cure, sulle possibili reazioni psicologiche e sulla reale capacità del malato di comprenderne le implicazioni. Queste obiezioni appaiono almeno in parte superabili e comunque l’informazione dovrebbe essere incoraggiata tenendo conto di alcuni principi: a) individuazione dei familiari che devono essere coinvolti nel processo diagnostico, b) considerare la possibilità di ripetuti controlli per rispondere a problematiche che si verranno via via delineando, c) discussione dei potenziali servizi di supporto. Rispetto della autonomia e delle scelte individuali. Quando è ancora conservata la capacità decisionale, dovrebbe essere favorita l’autodeterminazione attraverso le Direttive Anticipate (D.A.). Secondo Cattorini (2000), data la situazione culturale del nostro paese, l’adozione di questo strumento dovrebbe essere sempre in rapporto ad alcuni criteri fondamentali: a) l’intento delle D.A. è quello di rispettare l’autonomia del soggetto e di evitare forme di trattamento eccessivo o sproporzionato, ma non quello di introdurre la pratica dell’eutanasia; b) le D.A. dovrebbero essere formulate solo da persone non affette da disturbi dell’umore e in condizioni di sufficiente stabilità emotiva; c) le D.A. dovrebbero sempre far riferimento a condizioni specifiche al fine di evitare interpretazioni soggettive. Qualità della vita e trattamento di complicanze internistiche nelle fasi avanzate di malattia. I dementi conservano a lungo la capacità di provare sentimenti (paura, tristezza, gioia, amore) e il declino cognitivo limita la capacità dei parenti e del medico di valutare le esperienze soggettive. Dato che i rapporti sociali e la salute sono alla base di una buona qualità
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della vita è importante che interessi e contatti con parenti ed amici siano mantenuti il più a lungo possibile e che il malato venga efficacemente trattato per possibili complicanze internistiche. È ovvio che la qualità della vita del demente dipende da quella delle persone che si dedicano alla sua cura e ciò risulta particolarmente evidente nel rapporto fra il “peso” dell’assistenza e la decisione di ricoverare il malato in un centro per lungodegenti. D’altra parte nelle fasi avanzate di malattia è opportuno valutare la reale efficacia di trattamenti, anche relativamente poco invasivi, come l’alimentazione mediante la PGE (Percutaneous Endoscopic Gastrostomy). Sebbene ritenuta di semplice esecuzione, in grado di evitare polmoniti ab ingestis, è ormai dimostrato che tale tecnica può essere complicata da problemi medici (diarrea, infezioni, gonfiore addominale). A causa di una aumentata agitazione, i malati devono, inoltre, essere spesso contenzionati. Alla luce dei risultati degli studi più recenti tale metodica sembra un trattamento eccessivo e sproporzionato e non viene più consigliata nei pazienti affetti da demenza. Ricerca e demenza. Per quanto riguarda la ricerca, in presenza di un declino cognitivo esiste il problema del consenso informato sancito per la prima volta dal Codice di Norimberga (“Il consenso volontario del soggetto è assolutamente indispensabile”) e ribadito dalla dichiarazione di Helsinki (“La ricerca clinica su un essere umano non può essere intrapresa senza il suo libero consenso, senza che egli sia stato pienamente informato”). Mentre il Codice di Norimberga non contemplava la possibilità di alternative al consenso informato diretto, per coloro che avevano perso la capacità decisionale, donde l’esclusione dei soggetti incompetenti da ogni tipo di ricerca, sin dalla prima stesura della dichiarazione di Helsinki, veniva enunciato il principio del consenso sostitutivo da parte del rappresentante legale, limitatamente alla così detta “ricerca terapeutica” (ovvero quella nel cui ambito è possibile
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un beneficio diretto per il soggetto della sperimentazione). Solo recentemente (1990, 1993) veniva ammessa la liceità delle ricerche “non terapeutiche” in soggetti incompetenti, qualora fossero ragionevolmente poco rischiose e i loro obiettivi non potessero essere raggiunti in soggetti volontari sani. In base alle considerazioni precedentemente espresse circa la competenza decisionale ed il declino cognitivo, l’impiego di soggetti in fase iniziale di malattia sembra preferibile negli studi sperimentali perché: a) è rispettoso dell’autonomia della persona; b) favorisce una più corretta conoscenza del profilo tollerabilità/efficacia del farmaco e l’apprezzamento soggettivo di un eventuale beneficio in uno stadio in cui questo è ancora clinicamente rilevante. Secondo il gruppo di studio “Bioetica e Neurologia” della S.I.N., nella fase 1 della sperimentazione farmacologica, nella quale si ottengono dati preliminari su cinetica e tollerabilità, appare fondamentale fare ricorso a soggetti dotati di capacità decisionali. Con l’avvento di farmaci meno tossici e in grado, non solo di rallentare il decorso del processo degenerativo, ma anche di bloccarne l’evoluzione, non vi sarebbero obiezioni al reclutamento in fase più avanzata di malattia. Riferimenti bibliografici AD HOC COMMITTEE OF THE HARVARD MEDICAL SCHOOL TO EXAMINE THE DEFINITION OF BRAIN DEATH: A definition of irreversible coma. JAMA 205, 337-340, 1968 ALMQUIST E.W., BLOCK BRINKMAN R. ET AL.: A worldwide assessment of the frequency of suicide, suicide attempts, or psychiatric hospitalization after predictive testing for Huntington disease. Am. J. Hum. Genet. 64,1293-1304, 1999. A MERICAN A CADEMY OF N EUROLOGY : Position of the Academy on certain aspects of the care and the management of the persistent vegetative state. Neurology 39, 125-6, 1989. ANA COMMITTEE ON ETHICAL AFFAIRS: Persistent Vegetative state: Report of the American Neurological Association Committee on Ethical Affairs. Ann. Neurol. 33, 386390, 1993.
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Malattie infiammatorie
PARTE TERZA
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Pachimeningiti ed ascesso epidurale L. Cocito Per pachimeningite si intende un processo infiammatorio della dura madre, che di solito si accompagna ad infezioni delle strutture limitrofe, epidurali o subdurali. Ascesso epidurale indica una raccolta di materiale purulento esternamente alla dura madre, cioè tra quest’ultima e le strutture ossee. Entrambe le condizioni possono verificarsi a livello sia cranico che spinale. In epoca preantibiotica, pachimeningiti ed ascessi epidurali cranici rappresentavano il risultato della diffusione per contiguità di processi infiammatori delle ossa craniche, dell’orecchio medio, dei seni paranasali e di tromboflebiti dei seni venosi intracranici. Attualmente, tali forme morbose rappresentano evenienze del tutto eccezionali, tanto da meritare solo un cenno. Anche la pachimeningite spinale isolata, per lo più caratterizzata da aspetti ipertrofici con marcato ispessimento della dura e conseguente compressione localizzata del midollo spinale, rappresenta una forma morbosa di prevalente interesse storico. La disponibilità della RM ha permesso peraltro di evidenziare con una certa frequenza quadri caratterizzati da ispessimento delle pachimeningi con marcata impregnazione dopo mezzo di contrasto paramagnetico (gadolinio), spesso associati con una sindrome da ipotensione endocranica (v. pag. 000). Quale sia il rapporto di causalità tra le due condizioni, e se l’alterazione evidenziata dalla neuroimmagini sia effet-
tivamente di natura infiammatoria, è ancora controverso. In generale, comunque, si tratta di forme che regrediscono spontaneamente e che non richiedono ulteriori provvedimenti diagnostici o terapeutici, salvo l’eventuale terapia sintomatica. L’ascesso epidurale spinale, quantunque non frequente, configura un quadro clinico meritevole di una trattazione più estesa.
Ascesso epidurale spinale Rappresenta una rara causa di compressione midollare acuta o subacuta, la cui importanza risiede nella totale reversibilità del quadro clinico purché venga tempestivamente riconosciuto e trattato; al contrario, un ritardo nella diagnosi determina un’elevata mortalità e gravi esiti invalidanti, per cui l’ascesso epidurale spinale deve essere considerato una vera e propria emergenza neurologica. La frequenza dell’ascesso epidurale è di 0,2-2 casi su 10.000 ricoveri ospedalieri. Può verificarsi in tutte le età; nel 60% dei casi, comunque, colpisce soggetti fra i 20 e i 50 anni. Negli adulti è lievemente più frequente nei maschi, mentre in età infantile il rapporto tende ad invertirsi. EZIOPATOGENESI. – Può essere determinato da batteri, miceti o parassiti. Gli ascessi da causa batterica sono i più frequenti, e l’agente eziologico più spesso implicato è lo Staphylococcus aureus. Tuttavia, mentre nel passato tale batterio era responsabile della quasi totalità dei casi, attualmente sono spesso implicati altri agenti patogeni. Il diabete, i traumi, l’abuso di droghe per via endovenosa, l’alcolismo, le malattie debilitanti in genere e le sindromi da immunodeficienza rappresentano condizioni predisponenti; inoltre, analogamente a quanto si verifi-
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ca per altre patologie infettive del sistema nervoso, nel soggetto immunocompromesso l’ascesso epidurale è spesso determinato da agenti patogeni meno consueti. Molto raramente, soprattutto nei bambini, l’ascesso epidurale può insorgere primitivamente; in genere, tuttavia, è espressione dell’estensione per contiguità locale di processi infiammatori di strutture limitrofe, quali osteomieliti vertebrali ed ascessi retrofaringei, o di ferite perforanti a livello vertebrale; più spesso ancora, di una disseminazione ematogena di un processo infettivo a distanza. Quest’ultimo può essere rappresentato da infezioni urinarie, malattie polmonari croniche, endocarditi, ulcere da decubito, ma più spesso anche da patologie molto più banali, quali foruncoli, piodermiti e infezioni dentarie. L’ascesso epidurale può inoltre insorgere come rara complicanza di un’anestesia epidurale; anche in questi casi l’agente patogeno più spesso coinvolto è lo Staphylococcus aureus. Il livello più frequente è quello mediotoracico, perché in questa sede lo spazio epidurale è più ampio, e costituito da abbondante tessuto adiposo dotato di particolare lassità e riccamente vascolarizzato; per lo stesso motivo, la raccolta ascessuale si localizza in genere posteriormente al midollo: infatti, anteriormente la dura madre aderisce strettamente al legamento longitudinale posteriore, e lo spazio epidurale è puramente virtuale. S INTOMATOLOGIA. – È quella di una compressione midollare, ad evoluzione acuta o subacuta (v. pag. 000). Data la sede extramidollare-extradurale della compressione, l’interessamento radicolare determina spesso una precoce sintomatologia dolorosa. In generale, comunque, ad una prima fase caratterizzata da sintomi relativamente aspecifici quali febbre e dolore lombare, fa seguito una seconda fase di sintomatologia più specificamente indicativa di interessamento radicolare, e quindi una terza fase nella quale compare il deficit sensitivo-motorio sottolesionale, in genere associato a disturbi sfinterici. L’evoluzione della sintomatologia avviene nell’arco di pochi giorni. Peraltro, la mancanza di dolori radicolari all’esordio non esclude a priori un ascesso epidurale. Il dolore locale è spesso presente, ed è espressione del coinvolgimento delle strutture vertebrali; i segni generali di infezione, quali febbre, malessere generale, aumento della VES e leucocitosi, sono quasi sempre presenti ma occasionalmente possono mancare. DIAGNOSI. – Il sospetto di un ascesso epidurale spinale deve sempre essere tenuto presente nel caso di una compressione midollare a rapida evoluzione, soprattutto se preceduta da una storia recente di infezione batterica focale, anche banale, o accompagnata da segni sistemici di infiammazione, particolarmente da leucocitosi neutrofila. La radiografia della colonna può evidenziare i segni
di una concomitante osteomielite, ma è in genere normale. L’indagine di elezione è la RM spinale, da praticarsi con la massima urgenza, che permette di visualizzare la raccolta purulenta. La mielografia era di impiego comune in passato, ma non è più utilizzata. La diagnosi eziologica precisa richiede l’esame colturale del materiale purulento, ottenuto nel corso dell’intervento di drenaggio chirurgico dell’ascesso. L’esame del liquor, infatti, dimostra alterazioni, espressione sia del processo infettivo che della compressione, ma non è diagnostico, e la puntura lombare presenta il rischio di una disseminazione di materiale settico nello spazio subaracnoideo. PROGNOSI. – Nei primi decenni del novecento, la mortalità dell’ascesso epidurale spinale era pressoché totale. L’avvento dell’era antibiotica ha ovviamente migliorato la prognosi, e la mortalità è passata dal 30-35% degli anni cinquanta al 15% delle casistiche più recenti. Anche dal punto di vista del recupero funzionale la prognosi è oggi notevolmente migliore che in passato, purché la diagnosi ed il trattamento siano tempestivi. La prognosi delle forme insorte come complicanza di anestesia peridurale è sostanzialmente simile a quelle degli ascessi di patogenesi diversa. TERAPIA. – Il drenaggio chirurgico dell’ascesso è la terapia fondamentale; deve essere eseguito il più precocemente possibile per evitare i danni irreversibili determinati dal protrarsi della compressione sul midollo. Al trattamento chirurgico deve essere ovviamente associata un’appropriata terapia antibiotica, dapprima ad ampio spettro e quindi, una volta ottenuti i risultati dell’esame colturale, mirata sulla sensibilità dell’agente patogeno.
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Aracnoiditi L. Cocito Le aracnoiditi sono quadri morbosi ad andamento cronico, caratterizzati da un processo infiammatorio dell’aracnoide. Si tratta di una patologia un tempo di osservazione relativamente frequente, ma oggi divenuta assai rara, tanto da essere quasi ignorata in molti trattati recenti. Nonostante l’affinità nosografica con le meningiti, la fisiopatologia ed il quadro clinico generale delle aracnoiditi si differenziano nettamente. Infatti, mancano i sintomi generali di infiammazione ed i segni meningei, mentre i disturbi fondamentali sono rappresentati dalla sofferenza focale delle strutture nervose, soprattutto extraassiali, contigue al processo, e dalle alterazioni della circolazione liquorale. Classicamente si distinguono aracnoiditi cerebrali e spinali, a seconda che il processo infiammatorio coinvolga l’aracnoide dell’encefalo o del midollo. Nell’ambito del primo gruppo, sono descritte una forma diffusa che si manifesta con una sindrome da ipertensione endocranica, e forme localizzate, con sintomi focali. Le principali forme cerebrali localizzate sono l’aracnoidite della fossa posteriore e l’aracnoidite otticochiasmatica. Quest’ultimo termine definisce un quadro clinico, oggi di riscontro assai più raro che in passato, caratterizzato da atrofia ottica con progressivo deficit dell’acuità visiva e del campo visivo, in rapporto con aderenze e formazioni cistiche aracnoidee nella regione del chiasma. Questi quadri clinici erano in genere conseguenza dell’estensione e della cronicizzazione di processi infiammatori originati in strutture contigue, quali otiti medie, mastoiditi, trombosi dei seni venosi, ascessi, oppure in rapporto con la sifilide. Attualmente, casi di aracnoidite
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ottico-chiasmatica possono occasionalmente insorgere come complicanza di alcuni tipi di interventi neurochirurgici per aneurismi intracranici. Nella nosografia più recente, peraltro, le forme di aracnoidite che ricevono la maggiore considerazione sono le aracnoiditi spinali ed in particolare, il quadro clinico attualmente denominato aracnoidite adesiva cronica.
Aracnoidite adesiva cronica È determinata da cause infettive, chimiche, traumatiche o, eccezionalmente, può insorgere senza una ragione apparente (aracnoidite adesiva cronica idiopatica). Nella maggior parte dei casi rappresenta una complicanza di interventi di chirurgia spinale, con una frequenza che secondo alcune casistiche recenti può arrivare al 6-16%. Le forme infettive possono rappresentare l’esito di una meningite acuta, meningococcica, pneumococcica o virale; più spesso, però, ne sono responsabili agenti eziologici capaci di dar luogo a processi granulomatosi, quali sifilide, tubercolosi, criptococcosi. Le aracnoiditi di origine chimica rappresentano una rara complicanza di manovre diagnostico-terapeutiche, quali l’anestesia epidurale e spinale, la mielografia con mezzo di contrasto oleoso (oggi comunque non più praticata) e, molto più raramente, anche con mezzo di contrasto idrosolubile, l’iniezione intratecale di farmaci (soprattutto steroidi e methotrexate). Sono questi attualmente i quadri di osservazione più frequente, in rapporto da un lato con il declino delle forme infettive, dall’altro con la crescente diffusione soprattutto dell’anestesia epidurale e spinale. In realtà, comunque, l’incidenza relativa di tali complicanze, è diminuita rispetto al passato in virtù dei miglioramenti tecnici delle procedure sopra indicate, quali l’impiego di aghi spinali mono-uso, l’attenzione alla presenza di contaminanti nelle soluzioni farmacologiche somministrate per via intratecale, oltre alla già citata sostituzione dei mezzi di contrasto oleosi con quelli idrosolubili. Anche la presenza di sangue nello spazio subaracnoideo esercita un’azione irritante per cui un’emorragia subaracnoidea può, seppur molto raramente, essere complicata da un’aracnoidite. Eccezionalmente, anche le rachicentesi, soprattutto se ripetute, possono determinare un’aracnoidite adesiva, innescata dall’azione irritante del sangue nello spazio subaracnoideo. Un’aracnoidite può associarsi a preesistenti patologie spinali, quali i tumori o le ernie discali; nelle forme idiopatiche, infine, può esservi familiarità. NEUROPATOLOGIA. – Il processo comporta la formazione di aderenze fibrose tra la pia madre e l’aracnoide, che possono inglobare le radici dei nervi spinali e la cauda equina; le meningi sono ispessite ed indurite, e può ve-
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rificarsi la formazione di cisti aracnoidee; nelle forme più gravi, si può arrivare all’obliterazione dello spazio subaracnoideo. Microscopicamente, corrisponde all’evoluzione dell’originaria infiltrazione infiammatoria della pia madre e dell’aracnoide verso una proliferazione fibroblastica con deposizione di collageno. Queste alterazioni determinano a loro volta ischemia e progressiva atrofia delle strutture nervose, ed in particolare delle radici spinali: proprio l’ischemia, più che la compressione diretta, sembra essere il principale meccanismo responsabile del danno neurologico. Le forme diffuse rappresentano quadri clinici del tutto eccezionali. Nelle forme localizzate, l’aracnoidite può interessare tutti i tratti della colonna vertebrale, con predilezione per le regioni lombo-sacrale, mediodorsale e cervicale inferiore. SINTOMATOLOGIA. – Dipende ovviamente dalla sede del processo, e comprende sintomi di sofferenza midollare e radicolare, non dissimili da quelli della patologia compressiva spinale da cause diverse. In particolare, un’aracnoidite localizzata a livello lombosacrale, può determinare una sindrome della cauda (v. pag. 000). L’esordio della sintomatologia è generalmente graduale, e talora la diagnosi è resa difficoltosa dalla presenza di patologie preesistenti, per esempio di ernie discali, che contaminano il quadro clinico. Il sintomo più precoce ed importante è spesso rappresentato dal dolore, non sempre con caratteristiche di tipo francamente radicolare; l’evoluzione della malattia comporta, comunque, la quasi costante comparsa di deficit motori e sensitivi, e di disturbi sfinterici. DIAGNOSI. – Si fonda attualmente sui reperti delle neuroimmagini, ed in particolare della RM spinale, che dimostra soprattutto dislocazioni ed aderenze delle radici nervose e della cauda, con una sensibilità del 92% ed una specificità del 100%. In particolare, sono stati distinti tre diversi quadri radiografici, rispettivamente rappresentati da tendenza al raggruppamento centrale delle radici, dislocazione laterale delle stesse con adesione alle meningi (cosiddetto quadro di “empty sac”), e presenza di tessuto patologico nello spazio subaracnoideo. Anche se le crescenti potenzialità diagnostiche della RM ne hanno progressivamente ristretto le indicazioni, le indagini neuroradiologiche con mezzo di contrasto (mielografia, sacculo-radiculografia) possono fornire informazioni complementari; l’opportunità del loro impiego, tuttavia, deve essere attentamente valutata, per il rischio di aggravare il quadro clinico. L’esame del liquor, infine, può dimostrare i reperti tipici delle compressioni midollari (dissociazione albumino-citologica; positività delle prove manometriche). TERAPIA. – Nelle forme localizzate è chirurgica, anche se i risultati dell’intervento sono spesso deludenti e solo
la rimozione di eventuali cisti aracnoidee può comportare un miglioramento significativo della sintomatologia compressiva. Nelle forme diffuse, come l’aracnoidite adesiva cronica idiopatica, la terapia chirurgica è controindicata, e la terapia medica non efficace, anche se è stato proposto l’impiego di steroidi ed immunosoppressori nell’ipotesi di una patogenesi autoimmune. La prognosi di queste forme, quindi, è comprensibilmente infausta, anche se il decorso si protrae in genere per parecchi anni.
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Meningiti C. Viscoli, G. Carrega, L. Cocito Le meningiti sono malattie infiammatorie delle membrane che avvolgono l’encefalo, soprattutto della pia madre e dell’aracnoide (leptomeningi), e del liquido cefalo-rachidiano che le separa. Possono essere causate da agenti infettivi (batteri, virus, miceti, protozoi o elminti) o da agenti fisici e chimici. Un interessamento meningeo può anche verificarsi nel corso di
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patologie non infettive, quali neoplasie o malattie autoimmuni. Alcuni agenti eziologici sono in grado di causare meningite anche in soggetti con normale funzionalità immunologica e privi di condizioni predisponenti alle infezioni, mentre altri si comportano quasi esclusivamente come opportunisti. Sulla base dell’andamento clinico si distinguono meningiti acute e meningiti croniche. Le meningiti sono definite acute quando i sintomi si manifestano nell’arco di ore o pochi giorni, croniche se la sintomatologia è presente da settimane o addirittura mesi (in genere si parla di forme croniche in caso di alterazioni cliniche e liquorali per 4 settimane). Da differenziare dalle forme croniche sono le meningiti ricorrenti caratterizzate dal ripetersi di episodi meningitici con intervalli di completa remissione. Nell’ambito delle meningiti acute, si distinguono meningiti purulente, dette anche meningiti a liquor torbido, causate per lo più da batteri, e meningiti linfocitarie, dette anche sierose o a liquor limpido, causate in genere da virus. Le meningiti croniche sono invece causate per lo più da batteri e sono caratterizzate da un quadro liquorale con aspetti tipici sia delle forme batteriche (ipoglicorrachia), sia delle forme virali (pleiocitosi liquorale linfocitaria). Sono anche conosciute con il termine di meningiti sierose atipiche o sierose maligne. La letalità per meningite infettiva varia in rapporto all’agente causale, all’età dell’ospite ed alle sue condizioni di competenza immunologica. Le forme virali hanno in genere un andamento relativamente benigno, mentre le forme batteriche possono essere gravate da tassi di letalità molto elevati, che variano dal 19-26% nelle forme pneumococciche in soggetti immunocompetenti, all’80% nelle forme tubercolari in soggetti affetti dalla sindrome di immunodeficienza acquisita (AIDS). Nel 1990, il tasso di mortalità per meningite batterica nella popolazione italiana è stato pari a 0.15 decessi per milione di abitanti.
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Le meningiti possono inoltre causare gravi sequele neurologiche, la cui frequenza non è necessariamente correlata con la letalità delle singole forme. Per esempio, la letalità per meningite da Haemophilus influenzae tipo b non è superiore al 5%, ma l’incidenza di deficit intellettivi a lungo termine in bambini sopravvissuti è stata stimata intorno al 30-50%. Analogamente, un’elevata percentuale di coloro che sopravvivono ad una meningite pneumococcica presenta deficit permanenti di nervi cranici, crisi epilettiche ed emiparesi. Viceversa, nella meningite meningococcica, gravata da letalità più elevata, solo raramente residuano danni neurologici permanenti. Ancorchè nel corso degli ultimi 20 anni siano stati introdotti in uso antibiotici sempre più attivi sui batteri che causano meningite, la letalità globale nelle meningiti batteriche, stimata intorno al 30%, non si è significativamente ridotta. Tale constatazione ha suggerito che la terapia antibiotica, pur fondamentale, non sia l’unico fattore capace di influire sulla sopravvivenza globale e su quella libera da malattia, ed ha stimolato ricerche sulle modalità con cui i batteri raggiungono le meningi e lo spazio subaracnoideo, e sui meccanismi responsabili dei danni neurologici che portano a morte o allo sviluppo di sequele, al fine di porre le basi teoriche per nuovi approcci terapeutici. Nello stesso tempo, lo sviluppo di resistenza agli antibiotici (in particolare ß-lattamine) da parte dei batteri più spesso causa di meningite acquisita in comunità, in soggetti privi di condizioni predisponenti (Haemophilus influenzae, Neisseria meningitidis e Streptococcus pneumoniae) sta ponendo nuovi problemi terapeutici. Alcuni degli agenti patogeni causa di meningite possono determinare anche processi encefalitici, ed in alcuni casi il confine tra le due manifestazioni cliniche può non essere netto.
EZIOPATOGENESI I microorganismi possono penetrare nello spazio subaracnoideo attraverso quattro modalità: a) penetrazione diretta dall’esterno, attraverso soluzioni di continuo delle parti molli o del cranio per cause traumatiche o iatrogene; b) propagazione da focolai infettivi viciniori o contigui, quali foruncolo dell’ala del naso, otiti e otomastoiditi, osteomieliti, endoftalmiti, pe-
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rioftalmiti, panoftalmiti, lesioni granulomatose peri- o parameningee di natura tubercolare; c) via ematogena, la più frequente, a seguito di una fase batteriemica più o meno apparente, conseguente a penetrazione attraverso le mucose o come localizzazione metasettica di un focolaio infettivo localizzato altrove; d) via linfatica perivenosa, direttamente dalle cavità nasali attraverso la lamina cribrosa, oggi ammessa esclusivamente per le meningiti da amebe (Hartmanella e Naegleria). La conformazione dello spazio subaracnoideo ed i suoi rapporti con i ventricoli cerebrali, con i nervi cranici e con i vasi cerebrali sono tali per cui qualunque processo infettivo ed infiammatorio si diffonde rapidamente, se non esistono blocchi di circolazione, a tutta la superficie delle leptomeningi, inclusa la superficie interna dei ventricoli. Lo stesso accade per la risposta infiammatoria: infatti, pur esistendo processi meningitici localizzati prevalentemente alla base (meningite tubercolare) o alla volta cranica (meningiti da batteri piogeni), in pratica la flogosi meningea è sempre globale. Poiché attraverso le meningi passano tutti i nervi cranici e la maggior parte dei vasi afferenti ed efferenti dall’encefalo, i processi meningitici possono coinvolgere i nervi cranici e la circolazione ematica encefalica. Lo spazio subaracnoideo, il liquido cefalo-rachidiano e l’encefalo sono separati dal compartimento intravascolare dalla barriera ematoencefalica, che impedisce il passaggio dal sangue al liquor di cellule, proteine (incluse immunoglobuline e complemento) e varie altre sostanze, compresi molti antibiotici. Ne consegue che qualunque processo infettivo che colpisca le meningi, alterando la barriera emato-encefalica, non potrà non provocare alterazioni della normale composizione del liquido cefalo-rachidiano.
Meningiti batteriche La patogenesi delle meningiti batteriche, riassunta nella fig. 20.1, prevede le seguenti fasi: – superamento delle barriere mucose, – invasione ematogena, – invasione meningea e liquorale, – sviluppo della flogosi subaracnoidea, – alterazioni della pressione endocranica e del flusso ematico cerebrale.
SUPERAMENTO DELLE BARRIERE MUCOSE. – Il primo stadio del processo che porta allo sviluppo di una flogosi meningea di natura batterica è quello dell’adesione dei batteri alle cellule della mucosa naso-faringea. Tutti e tre i batteri che più spesso causano meningite (Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae e Streptococcus pneumoniae) possiedono fimbrie, pili o recettori di altra natura che favoriscono l’adesività alle cellule mucosali. Non tutti i ceppi sono egualmente capaci di adesività, e questo spiega perché solo alcuni sottogruppi di queste specie batteriche sono in grado di causare meningite. Molti batteri sono in grado di produrre enzimi che inattivando le IgA secretorie facilitano l’adesione del batterio alla superficie mucosa. Una volta stabilita una ferma adesione alle cellule della mucosa naso-faringea, il batterio colonizzante tenta di invadere la mucosa e di passare nel torrente ematico. Le modalità con cui ciò avviene, differenti a seconda del batterio coinvolto, sono abbastanza ben conosciute per Neisseria meningitidis e per Haemophilus influenzae. Nel primo caso, il passaggio è intracellulare e l’agente patogeno passa attraverso la cellula, veicolato in un vacuolo che non viene digerito; nel secondo caso il passaggio è intercellulare, cioè avviene a livello di giunzioni intercellulari probabilmente danneggiate da pregresse o concomitanti infezioni virali (è frequente infatti che la meningite da Haemophilus influenzae si scateni come complicanza di un banale episodio influenzale). INVASIONE EMATOGENA. – Una volta penetrati nel torrente ematico i batteri devono cercare di sopravvivere all’aggressione dei meccanismi deputati alle difese anti-infettive e, in particolare, di resistere alla fagocitosi. La loro principale arma è rappresentata dalla capsula batterica. Alcuni tipi di capsula, posseduti da specifici ceppi, sembrano essere associati ad una maggiore resistenza alla fagocitosi e quindi ad una maggiore invasività. Il sistema immunitario dovrebbe tuttavia essere convenientemente at-
Malattie infiammatorie
747
Colonizzazione
Invasione mucosale
Disseminazione ematogena
Superamento BEE1 ed invasione dello spazio subaracnoideo
Liberazione di LPS e/o componenti parete cellulare batterica
Danno endoteliale con alterazione Bee
Liberazione di IL-1 e TNF
Flogosi meningea con idrocefalo da alterata circolazione liquorale
Edema vasogenico
Edema interstiziale
Danno cellulare
Vasculite cerebrale
Edema citotossico
Aumento pressione endocranica
Microinfarti cerebrali
Alterazione del flusso ematico endocerebrale
1
Barriera emato-encefalica
Danni ischemici permanenti
Fig. 20.1 - Patogenesi della meningite batterica (da Tunkel AL, Scheld WM. Pathogenesis and pathophysiology of bacterial meningitis. Clin Microbiol Rev 6, 118-136, 1993 modificata)
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Malattie del sistema nervoso
trezzato per vincere questa battaglia, specialmente tramite l’attivazione della via alternativa del complemento. Non a caso, infatti, i pazienti splenectomizzati o comunque affetti da deficit dell’immunità umorale e del complemento hanno una maggior frequenza di sepsi e meningiti da batteri capsulati, quali meningococchi, pneumococchi ed emofili. Il motivo per cui un sistema immunitario apparentemente normale può essere sopraffatto con sviluppo di sepsi e meningite è sconosciuto. Probabilmente, sono coinvolti sia fattori legati all’ospite (transitori deficit delle difese indotti da altre infezioni concomitanti, difetti immunitari parziali ed ancora sconosciuti, ritardo nella risposta immunitaria da mancato riconoscimento dell’antigene), sia fattori legati all’agente patogeno (particolare virulenza, cospicua carica batterica o anomala resistenza capsulare) che vanificano l’azione di difese immunitarie altrimenti valide e teoricamente in grado di contrastare con efficacia l’infezione. INVASIONE MENINGEA E LIQUORALE. – La fase successiva, certamente meno conosciuta nel suo intimo meccanismo, prevede il passaggio dei microorganismi patogeni dal torrente ematico alle meningi. La carica batterica infettante potrebbe essere un fattore determinante, anche se esistono infezioni batteriche nelle quali l’interessamento meningeo è eccezionale, nonostante la carica batterica estremamente elevata. I batteri potrebbero in casi particolari sopravvivere all’interno dei monociti e, veicolati da questi, passare la barriera. Altrettanto sconosciuta è la sede di passaggio: si presume che esso avvenga a livello dei plessi corioidei dei ventricoli laterali, nei quali il flusso ematico è particolarmente elevato, previa adesione, mediata da fimbrie o recettori, alle cellule endoteliali dei capillari, ma anche in questo caso si tratta di ipotesi non dimostrate. SVILUPPO DELLA FLOGOSI SUBARACNOIDEA. – Una volta penetrati all’interno dello spazio subarac-
noideo, cioè nel liquor cefalorachidiano, i batteri non vengono aggrediti da parte dei meccanismi di difesa, che, infatti, in quella sede, praticamente non esistono. Il liquor, in condizioni normali, contiene infatti pochissime cellule, per lo più derivate da processi esfoliativi meningei, e scarsissime quantità di proteine, comunque di produzione esogena. La produzione endogena di anticorpi inizia solo quando elementi cellulari di provenienza ematica penetrano nel liquor. Per questo motivo, il quadro anticorpale endoliquorale è oligoclonale, ossia prodotto da un limitato numero di cloni cellulari. Non vi sono stazioni linfonodali di drenaggio che possano reagire all’agente estraneo e arginarne la diffusione, né vi sono adeguate concentrazioni di fagociti, immunoglobuline e complemento che, interagendo, possano contrastare efficacemente l’infezione. Per esempio, il rapporto sangue/liquor per quanto riguarda il contenuto in immunoglobuline è circa 800:1. I batteri possono pertanto liberamente proliferare e raggiungere concentrazioni liquorali estremamente elevate, tali da consentire spesso la loro visualizzazione al microscopio. La presenza di microorganismi nel liquor provoca due principali conseguenze: il danno della barriera emato-encefalica e lo scatenamento della risposta flogistica. Il principale substrato anatomico della barriera è costituito dallo strato endoteliale dei capillari cerebrali e meningei. In corso di meningite batterica, si verificano evidenti alterazioni endoteliali, specie delle venule meningee, caratterizzate soprattutto dalla comparsa di segni di sofferenza cellulare (formazione di vescicole pinocitotiche) e dalla tendenza alla separazione delle giunzioni intercellulari. Ciò correla con un progressivo aumento della concentrazione endoliquorale di albumina e con il progressivo passaggio nel liquor di molecole e cellule normalmente mantenute al di fuori di esso. Perché tutto ciò si verifichi, non è strettamente necessaria la presenza di cellule batteriche integre. Il meccanismo viene infatti scatenato, spe-
Malattie infiammatorie
rimentalmente, anche dalla sola presenza del lipopolisaccaride capsulare (LPS) dei Gram-negativi, e da certi costituenti della parete cellulare dei Gram-positivi (acidi teicoici e peptidoglicano) ed è, verosimilmente, mediato dalla produzione di interleukina 1 (IL-1), Tumor Necrosis Factor (TNF), che agiscono sinergisticamente, e, probabilmente, prostaglandine. Infatti, elevate concentrazioni di queste citochine sono state trovate in moltissimi pazienti affetti da meningite batterica, ma non in quelli con meningite virale, tanto da far ritenere la concentrazione elevata di TNF patognomonica per la diagnosi di meningite batterica. L’inoculazione sperimentale di IL-1 e TNF in animali da esperimento determina le stesse alterazioni osservate dopo inoculazione di LPS. Approfittando del danno di barriera e reagendo, verosimilmente, a stimoli chemiotattici di origine non ben chiara, cellule polinucleate migrano in grandi quantità nel liquor. Questa risposta, evidentemente finalizzata al contenimento dell’infezione, è in definitiva destinata a rimanere parzialmente inefficace, perché le concentrazioni liquorali di immunoglobuline e di complemento continuano a rimanere carenti e quindi le funzioni opsonizzante e battericida permangono insufficienti. La risposta infiammatoria endoliquorale, oltre ad essere poco efficace ai fini del contenimento dell’infezione, può addirittura essere controproducente, sia perché aggrava il danno di barriera, sia perché scatena una serie di reazioni che provocano aumento della pressione endocranica, diminuzione del flusso ematico cerebrale e alterazione dei meccanismi di regolazione pressoria intracerebrale, con possibili danni ischemici permanenti. In realtà, numerosi studi clinici hanno dimostrato che elevate concentrazioni di LPS, IL-1, TNF ed altre citochine correlano con l’esito della meningite, sia in termini di sopravvivenza, che di sviluppo di sequele neurologiche. ALTERAZIONE DELLA PRESSIONE ENDOCRANICA E – Nelle meningiti purulente è costante la presenza di edema cere-
DEL FLUSSO EMATICO CEREBRALE.
749
brale, cui consegue aumento della pressione endocranica. L’edema ha probabilmente origine da molteplici fattori, vasogenici, citotossici e interstiziali. L’edema cerebrale e l’aumento della pressione endocranica tendono a ridurre, per compressione meccanica, il flusso ematico cerebrale, con possibili fenomeni ischemici anche permanenti. La presenza di una vasculite, secondaria all’infiammazione dei vasi encefalici a livello del loro passaggio nello spazio subaracnoideo, aggrava l’edema. È stato inoltre sperimentalmente dimostrato che, in corso di meningite purulenta, viene persa la capacità di autoregolazione del flusso cerebrale, che tende ad assicurare l’indipendenza della perfusione sanguigna cerebrale da variazioni pressorie sistemiche. Da qui la necessità, a livello terapeutico, di assicurare un’adeguata omeostasi pressoria sistemica ed un’adeguata perfusione vasale. In pazienti affetti da meningite purulenta, metodiche diverse, inclusa la TC, la RM e l’angiografia cerebrale, hanno dimostrato svariati tipi di alterazioni del flusso ematico cerebrale, che non sarebbero costanti durante tutta la malattia, ma varierebbero nel tempo, anche a seconda delle terapie effettuate e delle condizioni del paziente.
Meningite tubercolare La patogenesi della meningite tubercolare si differenzia, in parte, da quella delle altre meningiti batteriche. Nella tubercolosi primaria l’ingresso dei bacilli tubercolari nell’organismo umano avviene attraverso le vie respiratorie. Dopo essersi riprodotto nelle regioni mediobasali polmonari, il bacillo di Koch si diffonde ai linfonodi regionali e, da qui, per via ematogena, può migrare in qualunque altro organo. Più frequentemente vengono colpite le regioni polmonari apicali, ma talvolta è possibile che i micobatteri raggiungano il sistema nervoso centrale, le meningi e lo spazio subaracnoideo. La meningite tubercolare può quindi essere il risul-
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Malattie del sistema nervoso
tato di una diffusione miliarica in corso di infezione primaria. Questo meccanismo patogenetico non è però in grado di spiegare tutte le forme di meningite tubercolare. Talvolta, infatti, la meningite tubercolare si manifesta come conseguenza di una infezione post-primaria, per riattivazione endogena. Microorganismi già localizzati nel parenchima cerebrale o in aree adiacenti, in presenza di fattori di turbamento della normale funzionalità immunitaria, possono riprendere a moltiplicarsi, riversandosi nello spazio subaracnoideo (meningite «a tergo») e dando luogo al classico quadro della meningite tubercolare.
Meningiti virali La patogenesi delle meningiti virali è stata studiata meno intensamente ed i dati disponibili sono relativamente più scarsi. Il primo passo è quello della colonizzazione a livello mucosale, cui consegue il superamento delle barriere e lo sviluppo di viremia. L’organismo possiede parecchi meccanismi di difesa per impedire l’ingresso dei virus nel sangue, sia a livello dell’apparato respiratorio (clearance muco-ciliare, macrofagi alveolari, IgA secretorie), sia a livello gastro-enterico (acidità gastrica). Tuttavia, alcuni virus sono in grado di superare tali barriere, di penetrare nel torrente ematico, di riprodursi a livello del tessuto reticolo-endoteliale e di causare una seconda e più intensa viremia, cui può conseguire meningite. Il sito di passaggio è variabile: alcuni virus superano la barriera a livello delle giunzioni intercellulari endoteliali; altri infettano le cellule endoteliali e passano poi ai neuroni ed alle cellule gliali; altri ancora penetrano a livello dei plessi corioidei o risalgono le fibre olfattorie. Una volta penetrati nello spazio subaracnoideo i virus richiamano una risposta prevalentemente mononucleata (T e B linfociti sensibilizzati) mediata probabilmente, anche in questo caso, dalla liberazione di citochine, soprattutto IL-6 e IFN-γ. Viceversa, il
TNF e l’IL-1, che abbiamo visto giocare un ruolo molto importante nella patogenesi delle meningiti purulente, sono virtualmente assenti nel liquor di pazienti affetti da meningite virale.
Meningite nel soggetto con condizioni predisponenti Le modalità di arrivo dei microrganismi nello spazio subaracnoideo possono essere molto semplificate in soggetti con particolari condizioni predisponenti. Nei deficit immunitari acquisiti di natura virale (infezione HIV) o iatrogena (malattie neoplastiche, trapianti), il meccanismo patogenetico non differisce di molto da quello osservato in soggetti immunocompetenti, se si eccettua una molto minore capacità di risposta infiammatoria con conseguente incapacità ad opporsi all’invasione ematica e liquorale. Il deficit di risposta infiammatoria condiziona anche la scarsità di sintomi e la maggiore gravità dell’infezione. Nel neonato e nel prematuro, invece, sono importanti la contaminazione dell’orofaringe o del moncone ombelicale, che possono avvenire durante il parto, a seguito di contatto con microorganismi presenti nelle vie genitali materne, o durante la degenza nei nidi o nei reparti di terapia intensiva; in entrambi i casi la meningite è susseguente alla disseminazione ematogena. In soggetti traumatizzati e sottoposti ad interventi neurochirurgici la tappa ematogena viene saltata ed il processo infettivo si propaga alle meningi direttamente per contiguità, come nel caso delle meningiti conseguenti a traumi penetranti delle ossa craniche, ad ascessi della rocca petrosa, a mastoiditi e ad infezioni dei seni etmoidali. Nei soggetti portatori di apparati di derivazione ventricolo-peritoneale ed atriale, infine, l’infezione meningea è conseguente alla contaminazione batterica o fungina del corpo estraneo. In questi pazienti le meningiti hanno andamento
Malattie infiammatorie
spesso torpido, in rapporto con la scarsa virulenza dei batteri coinvolti (stafilococchi coagulasi-negativi), ma l’infezione è assai difficile da eradicare senza rimuovere il corpo estraneo contaminato.
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SINTOMATOLOGIA Le modalità di esordio e di andamento clinico possono essere acute o croniche e variano a seconda dell’eziologia (Tab. 20.1). Come già
Tabella 20.1 - Eziologia delle meningiti in rapporto alla modalità di esordio MENINGITI
ACUTE A LIQUOR TORBIDO
Batteri più comuni
Haemophilus influenzae Neisseria meningitidis Streptococcus pnemoniae Listeria monocitogenes Streptococcus agalactiae
Altri batteri
Staphylococcus aureus ed epidermidis Escherichia coli Klebsiella, Serratia Pseudomonas aeruginosa Nocardia spp Streptococchi viridanti Proteus spp Citrobacter spp Flavobacterium spp
MENINGITI
Moraxella spp Propionibacterium acnes Enterococcus faecalis Salmonella spp Streptococchi gruppo A Brucella spp Altri organismi
Spirochete Micobatteri Borrelia spp Rickettsiae Leptospira spp Naegleria spp Acantamoeba spp
ACUTE A LIQUOR LIMPIDO
Enterovirus Virus parotitico Herpes Virus Virus della coriomeningite linfocitaria
HIV Virus del morbillo Virus della rosolia Virus di Epstein-Barr
Adenovirus
Arbovirus
MENINGITI
CRONICHE
Virus
Batteri
Funghi
Parassiti
Virus della coriomeningite linfocitaria
Mycobacterium tuberculosis
Cryptococcus neoformans
Cysticercus spp
Virus parotitico
Brucella spp
Coccidioides
Angiostrongylus cantonensis
Herpes simplex Virus
Treponema pallidum
Histoplasma
Schistosoma spp
Arbovirus
Borrelia spp
Candida spp
Echinococcus spp
Flavivirus
Leptospira spp
Blastomyces dermatitidis
Strongyloides spp
Echovirus
Nocardia spp Actinomices spp
Aspergillus spp
Paragonimus westermani
Varicella-zoster
Listeria monocitogenes
Sporothrix schenckii
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Malattie del sistema nervoso
accennato nell’introduzione, si distinguono meningiti acute, quando i sintomi sono presenti da 24 ore o meno e sono rapidamente ingravescenti, e croniche, quando i sintomi sono presenti da oltre 24 ore fino a 4 settimane. Il quadro clinico varia molto a seconda dell’età: alle due età estreme della vita, quella neonatale e quella anziana, la meningite si presenta spesso con un quadro clinico e liquorale totalmente diverso da quello che si osserva nel resto dell’età pediatrica e nell’adulto. La sindrome meningea classica è caratterizzata dai sintomi soggettivi e dai segni obiettivi che vengono qui di seguito riportati (i numeri tra parentesi indicano la frequenza con cui ciascuno di essi viene osservato): • Sintomi soggettivi: cefalea gravativa (8090%); mialgie diffuse (30-60%); fotofobia (2030%); vomito, di solito indipendente dall’assunzione di cibo (>80%). • Sintomi obiettivi: febbre elevata (> 90%); disturbi della coscienza (> 80%); rigidità nucale (>80%); segno di Brudzinski (50%); segno di Lasègue (50%). In aggiunta ai sintomi sopraddetti sono poi talvolta presenti tremori e crisi convulsive generalizzate (20-30%), soprattutto nella meningite meningococcica, deficit di nervi cranici (10-15%), soprattutto nella forma tubercolare, e, raramente, segni di compromissione piramidale (10-15%). I malati sono astenici, estremamente sofferenti, iperestesici, iperalgesici ed assumono talvolta, specie in età pediatrica, la classica posizione in decubito laterale con ginocchia flesse ed iperestensione del capo (posizione “a cane di fucile”). L’edema della papilla ottica è molto raro (<5%), e può costituire un importante elemento di differenziazione clinica tra meningiti ed altre patologie cerebrali. Accanto ai sintomi neurologici, compaiono i segni secondari alla forma setticemica, cui spesso si accompagnano le meningiti da piogeni, o alle malattie virali, di cui la meningite rappresenta una complicanza. Ad esempio, la me-
ningite meningococcica è spesso associata a sindrome settica e gravi alterazioni della coagulazione, con segni e sintomi di tipo emorragico, quali petecchie, ecchimosi e soffusioni emorragiche. La meningite da Haemophilus influenzae si associa spesso a otite media purulenta, mentre la meningite pneumococcica si può presentare anch’essa nell’ambito di un grave shock settico, ma anche in concomitanza o subito dopo una polmonite lobare o un’otite. La meningite parotitica si accompagna, anche se non costantemente, alla tipica tumefazione parotidea. Infine, nelle forme subacute (tubercolare) dominano spesso i sintomi dell’ipertensione endocranica. La sindrome meningea nell’anziano è assai poco specifica. La febbre può essere scarsa o assente, mentre predominano le alterazioni di coscienza e sono assai scarsi i segni di irritazione meningea. Come nell’ospite compromesso, la cellularità liquorale può essere scarsa, ma questo non esclude un’eziologia batterica. DIAGNOSI Esame del liquor. – Una volta posto il sospetto clinico di meningite, si dovrà confermare la diagnosi attraverso una serie di esami di laboratorio (Tab. 20.2), tra i quali spicca, soprattutto, l’esame citochimico e colturale del liquor cefalo-rachidiano. L’esame citochimico, oltre a confermare la diagnosi, potrà fornire informazioni relative all’eziologia del processo infettivo e guidare così la terapia iniziale. L’esame colturale potrà consentire, in un secondo tempo, di modificare la terapia sulla base dell’agente eziologico identificato e della sua sensibilità agli antibiotici. Se il paziente presenta edema della papilla o segni di lato, la rachicentesi dovrà essere sempre preceduta da una TC o una RM del cranio, per escludere una lesione occupante spazio Come indicato nella Tabella 20.3, è possibile distinguere schematicamente due quadri liquorali, caratteristici delle meningiti batteriche
Malattie infiammatorie Tabella 20.2 - Accertamenti indispensabili nel paziente con sindrome meningea. •
•
• • • • • • • • • • •
Esame fisico con particolare attenzione ai segni di irritazione meningea, a segni neurologici focali ed alle manifestazioni emorragiche. Esame del fondo dell’occhio per eventuale edema della papilla (probabilmente non indispensabile, in totale assenza di segni focali) Emocolture Velocità di sedimentazione Proteina C-reattiva Esame emocromocitometrico con piastrine e conta assoluta e differenziale dei globuli bianchi Funzione coagulativa Glicemia Proteinemia ed elettroforesi delle proteine Esami di funzionalità epatica e renale Ionogramma Emogasanalisi Puntura lombare per: ! Esame fisico-chimico e microscopico (colorazione di May-Grunwaldt, di Gram ed eventualmente, di Ziehl-Nielsen) del liquor ! Elettroforesi delle proteine liquorali ! Ricerca dell’agente eziologico mediante diagnostica indiretta (tests di agglutinazione su latex) ! Liquorcoltura.
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(ad esordio acuto) e virali, ed un terzo quadro liquorale, caratteristico di meningiti a varia eziologia, la più importante delle quali è la meningite tubercolare, ad andamento prevalentemente subacuto. I parametri differenziali più importanti sono il tipo di cellule e la glicorrachia. Nelle meningiti batteriche, il liquor fuoriesce di solito a pressione molto aumentata, è torbido e talvolta di colorito giallastro (xantocromico); la cellularità è molto aumentata ed è rappresentata pressoché esclusivamente (>80%) da granulociti neutrofili. La colorazione di Gram permette talvolta di visualizzare direttamente i microrganismi, e quindi di ottenere una diagnosi presuntiva precoce. L’assenza di leucocitosi neutrofila liquorale in una meningite batterica è di solito considerata un segno prognostico negativo. La grave alterazione della barriera emato-encefalica in corso di meningite determina una netta diminuzione del trasporto attivo di glucosio nel liquor, con glicorrachia nettamente ridotta o azzerata; la proteinorrachia è invece fortemente aumentata. Nelle meningiti virali il liquor appare limpido e la leucocitosi è assai più contenuta e rap-
Tabella 20.3 - Classificazione delle meningiti sulla base del quadro liquorale. Meningiti virali (a liquor limpido, sierose benigne, linfocitarie)
Meningiti batteriche acute (a liquor torbido, purulente)
Meningiti subacute ad eziologia varia (sierose maligne, sierose atipiche)
limpido, incolore
torbido, talora xantocromico
smerigliato, incolore
PRESSIONE
aumentata
nettamente aumentata
aumentata
CELLULARITÀ (cellule/mm3)
mediamente aumentata (50-500)
nettamente aumentata (5000-10000)
mediamente aumentata (100-500)
TIPO DI CELLULE
mononucleati
polimorfonucleati
mononucleati1
BATTERI
assenti
spesso evidenziabili2
a volte evidenziabili3
PROTEINORRACHIA (g/L)
0,8-1
5-10
0,5-1
GLICORRACHIA
normale (~50% glicemia)
quasi azzerata
ridotta, quasi mai azzerata
ASPETTO
1
E COLORE
prevalenza di polinucleati nei primi 10-20 giorni alla colorazione di Gram 3 alla colorazione di Ziehl-Nielsen 2
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Malattie del sistema nervoso
presentata in gran parte da cellule mononucleate (prevalentemente linfociti e monociti); il glucosio è normale e le proteine sono solo lievemente aumentate. Nelle meningiti sierose atipiche, di solito ad esordio subacuto, di origine batterica, fungina o protozoaria, la cellularità è variabile a seconda della fase di malattia, ma è rappresentata in prevalenza da elementi mononucleati. La glicorrachia, ridotta anche se non azzerata, consente di differenziare queste forme dalle meningiti virali, con cui possono avere in comune il tipo di cellularità. La proteinorrachia è nettamente aumentata, anche se meno che nelle meningiti purulente. Le meningiti batteriche acute in ospiti compromessi e in pazienti pre-trattati con antibiotici possono presentare quadri liquorali molto dissimili da quello classico delle meningiti purulente. Perciò si dovrà sempre indagare attentamente la storia clinica (infezione HIV nota o appartenenza a fasce di popolazione a rischio, altre cause di immunodeficienza) e richiedere se sono stati somministrati antibiotici prima dell’esecuzione della rachicentesi. Non bisogna infine dimenticare la possibilità che una sindrome meningea sia causata da un processo non infettivo: infatti, una leucemia può esordire acutamente con febbre, lesioni emorragiche e segni meningei, correlati alla presenza di cellule leucemiche nel liquor.
Polymerase Chain Reaction. Questa relativamente nuova metodica di genetica molecolare sta assumendo sempre più importanza nella diagnostica di meningiti ed encefaliti. Consente infatti diagnosi di meningiti causate da patogeni non facilmente isolabili con metodi classici, quali per esempio i virus ed i patogeni a crescita lenta come i micobatteri. Ciò consente una diagnosi eziologica in tempi brevi con ovvi vantaggi terapeutici.
Test indiretti su liquor. Di particolare importanza, in presenza di un quadro clinico-liquorale suggestivo per meningite batterica da cocchi piogeni (emofilo, meningococco, pneumococco), sono i tests per il rilevamento di antigeni batterici nel liquor. In particolare, i tests di agglutinazione su latex sono altamente specifici (70-100%) e sufficientemente sensibili (5060%), e possono consentire una diagnosi eziologica orientativa entro 15 minuti dal prelievo di liquor. Questi tests possono essere positivi anche quando la coltura, a causa di terapie antibiotiche precedenti, risulta negativa.
Esami radiologici. In assenza di segni di lato o edema della papilla la TC o la RM prima della rachicentesi sono superflue nelle forme ad esordio acuto, ma possono rimanere consigliabili in quelle ad esordio subacuto. Quando gli esami neuroradiologici precedono la rachicentesi è prudente instaurare immediatamente una adeguata terapia antibiotica (dopo esecuzione di almeno 2 emocolture), in quanto la somministrazione dell’antibiotico non riduce la percentuale di isolamento da liquor se la rachicentesi è eseguita entro 2 ore, mentre il ritardo nell’inizio della terapia aumenta il rischio di vita del paziente.
Esami colturali e biochimico-umorali. – Tra gli esami colturali (in aggiunta a quello liquorale) assume grande importanza l’emocoltura. Infatti, la positività dell’emocoltura consente una diagnosi eziologica. Inoltre, l’aumento della velocità di sedimentazione e della proteina-Creattiva depongono per una meningite batterica, così come il riscontro di spiccata leucocitosi neutrofila (di particolare significato nel bambino di meno di 5 anni, alla luce della nota inversione della formula leucocitaria tipica dell’età). Per contro, l’assenza di leucocitosi neutrofila in un paziente con segni evidenti di meningite batterica è un segno prognostico negativo. Le gravi alterazione della coagulazione con piastrinopenia e aumento dei fattori di degradazione del fibrinogeno sono fortemente suggestive di un’eziologia batterica, specie di tipo meningococcico, anche se non permettono di escludere altre eziologie.
Malattie infiammatorie
In sintesi la diagnosi di meningite viene posta clinicamente in presenza di un quadro clinico compatibile confermato dall’esame del liquor. Nelle forme batteriche la conferma eziologica si ottiene con l’isolamento dell’agente patogeno dal liquor o dal sangue. Nelle forme virali, invece, l’eziologia può essere individuata con la dimostrazione della sieroconversione, con l’evidenza di una produzione endoliquorale di anticorpi specifici o con le metodiche di amplificazione genica. L’isolamento di un enterovirus dal liquor, dalle feci o dal gargarizzato è anche diagnostico, in un paziente con una sintomatologia compatibile. Nel soggetto immunocompetente, i parametri liquorali permetteranno di differenziare, presuntivamente, tra forma più probabilmente batterica e forma presumibilmente virale e, nell’ambito delle forme batteriche, tra meningite da cocchi capsulati (emofilo, meningococco, pneumococco) e altre forme di meningite batterica, come quella tubercolare, luetica, amebica, criptococcica o da Borrelia (malattia di Lyme). Elementi importanti ai fini della diagnosi sono l’età e la provenienza del soggetto (viaggi o residenze in zone endemiche per particolari patologie), l’anamnesi, inclusa quella familiare che potrebbe indirizzare, per esempio, verso un sospetto di meningite tubercolare, e le modalità di insorgenza della sintomatologia (acuta o subacuta). Nelle meningiti acute è indicato ripetere una rachicentesi di controllo solo se entro 48 ore non si ha risposta clinica alla terapia, mentre nelle forme croniche può essere importante valutare la normalizzazione dei parametri liquorali alla remissione dei sintomi clinici. TERAPIA La gestione clinica del paziente con segni di sospetta meningite richiede una buona organizzazione clinico-laboratoristica, in quanto la tempestività dell’intervento è fondamentale, soprattutto nelle forme ad evoluzione rapida. La Fig.
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20.2 riporta un algoritmo schematico per la gestione clinica del soggetto con segni di sospetta meningite, dalla formulazione del sospetto clinico di meningite, alla diagnosi orientativa, all’inizio di una terapia. La terapia della meningite purulenta comprende non solo la terapia eziologica, e cioè antibiotica, ma anche la cosiddetta terapia di supporto, che include i presidi tesi al controllo dello shock, dell’eventuale coagulazione intravascolare disseminata, dell’ipertensione endocranica, delle eventuali crisi convulsive, ed al ristabilimento dello stato di normale idratazione ed equilibrio idroelettrolitico. L’importanza della terapia di supporto in questa fase è avvalorata anche dal possibile aggravamento della sintomatologia, immediatamente successivo all’inizio della terapia antibiotica, per la massiva liberazione di prodotti della lisi batterica indotta dall’attività battericida degli antibiotici. Un aspetto pratico di estrema importanza è la disponibilità di un accesso venoso affidabile, possibilmente centrale, che consenta la somministrazione di liquidi e farmaci per via endovenosa. Shock e alterazioni della coagulazione. L’uso di vasopressori (dopamina), di “plasma expanders” e di emoderivati in grado di apportare fattori della coagulazione (plasma fresco congelato) è considerato vitale, nelle fasi iniziali, così come, secondo alcuni, l’uso dell’antitrombina III. Recenti studi hanno inoltre dimostrato che la proteina C della coagulazione, grazie alla sua attività anticoagulante e antiflogistica, riduce la mortalità da shock settico, senza aumentare in maniera significativa il rischio emorragico. Altri presidi di terapia intensiva, quali l’uso dell’ultrafiltrazione plasmatica continua (CAVH), sembrano aver dato buoni risultati, specie per la loro capacità di rimuovere dal circolo le citochine che scatenano e mantengono lo stato di shock. Le immunoglobuline endovenose di qualunque genere e generazione (tanto meno quelle che sarebbero arricchite in IgM) non trovano indicazione.
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Malattie del sistema nervoso Quadro clinico suggestivo per meningite
Emocultura
Segni focali o edema della papilla
NO1
SI
Inizio della terapia antibiotica
TAC o RMN
Puntura lombare esame e coltura liquor emocoltura
Quadro di M linfocitaria
Normale
Presenza di blasti 2
Glucosio normale
Glucosio ridotto
Orienta per M. virale
Orienta per M. sierosa atipica
Lesione focale2
Quadro di M purulenta
Cambia sospetto diagnostico e ricontrolla
Inizio terapia antibiotica
Inizio terapia di supporto
1
Una TC o una RM possono essere consigliabili prima di effettuare la rachicentesi in forme ad esordio subacuto, sempre che ciò non comporti un eccessivo ritardo nella diagnosi. Meningosi leucemica
2
Fig. 20.2 - Gestione clinica del soggetto immunocompetente con sindrome meningea.
Malattie infiammatorie
Pressione endocranica e crisi convulsive. – La riduzione della pressione endocranica è un altro importante aspetto della terapia, purché avvenga senza concomitante riduzione del flusso ematico cerebrale. I mezzi per ridurla includono il mantenimento di una posizione semiseduta, per facilitare il ritorno venoso, e l’uso di acetazolamide, mannitolo, diuretici e steroidi. Nei pazienti critici la prima dose di steroide (in genere desametazone) deve essere somministrata in concomitanza con la prima dose di antibiotico. Il controllo delle eventuali crisi convulsive si basa sull’uso dei barbiturici. Terapia antibiotica. – È di grande importanza iniziare immediatamente una terapia antibiotica, dopo avere eseguito gli esami diagnostici, specie quelli colturali. Nelle fasi iniziali, in attesa degli eventuali risultati culturali, la scelta dell’antibiotico dovrà prendere in considerazione l’eziologia più probabile in rapporto alla situazione clinica (età, immunocompetenza, provenienza, modalità di esordio) e allo spettro di sensibilità agli antibiotici dell’agente patogeno più probabilmente implicato. A parità di efficacia sarà bene scegliere un antibiotico che attraversa la barriera ematoencefalica. Solo raramente, nelle forme croniche, potrà essere indicato somministrare gli antibiotici direttamente nei ventricoli laterali, mediante la messa in sede di particolari “serbatoi” di derivazione (pozzetto di Rickam, serbatoio di Ommaya). Poiché gli agenti patogeni che causano meningite purulenta in ospiti immunocompetenti privi di condizioni predisponenti sono Haemophilus influenzae, Neisseria meningitidis e Streptococcus pneumoniae, la scelta dovrebbe cadere su antibiotici attivi su questi tre microrganismi, tenendo presente che l’emofilo predilige i bambini di più tenera età, il meningococco colpisce di solito bambini più grandicelli e giovani adulti, mentre lo pneumococco è l’agente patogeno più frequente dai 20 anni fino all’età anziana. Per molti anni la terapia antibiotica di scelta in pazienti immunocompetenti con meningite
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purulenta, in attesa dell’identificazione del patogeno e della valutazione della sua sensibilità agli antibiotici, si è basata sull’associazione tra penicillina G o ampicillina, e cloramfenicolo; di quest’ultimo veniva sfruttata l’attività su Haemophilus influenzae e l’ottimo passaggio della barriera emato-encefalica, anche a meningi integre. Tale associazione è probabilmente ancora efficace in moltissime forme di meningite purulenta, ma non può più essere considerata di prima scelta, per il diffondersi di ceppi di Haemophilus influenzae resistenti alla penicillina, all’ampicillina ed al cloramfenicolo. Inoltre, a partire dalla Spagna, vengono sempre più spesso segnalati in tutto il mondo ceppi di Streptococcus pneumoniae resistenti in vitro non solo alla penicillina ed all’ampicillina, ma anche alle cefalosporine di terza generazione. Nel nostro paese, al momento, tale forma di resistenza non sembra superare il 10 % dei ceppi. La Neisseria meningitidis sembra essere l’agente patogeno rimasto più sensibile alla penicillina tra quelli responsabili di meningite purulenta. Casi di resistenza sono tuttavia già stati segnalati, anche in questo caso, particolarmente in Spagna. La scelta dell’antibiotico dovrà inoltre tenere presente la possibilità di meningite da Listeria, resistente alle cefalosporine ma sensibile all’ampicillina e alla gentamicina, nei neonati, nei soggetti con più di 50 anni e nei pazienti con deficit immunitario. In conclusione, la terapia attuale della meningite purulenta in soggetti immunocompetenti può esser scelta tra le seguenti opzioni, a seconda dell’età del paziente: • Neonati fino a 4 settimane di vita: ampicillina + cefotaxime o ampicillina + aminoglicoside • Lattanti da 1 a tre mesi di vita: ampicillina + cefalosporina di terza generazione (ceftriaxone o cefotaxime) • Bambini di età superiore ai 3 mesi, e giovani fino a 18 anni: cefalosporina di terza generazione (ceftriaxone o cefotaxime) o ampicillina + cloramfenicolo.
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Malattie del sistema nervoso
• adulti fino a 50 anni: cefalosporina di terza generazione (ceftriaxone o cefotaxime); • Adulti sopra i 50 anni: cefalosporina di terza generazione (ceftriaxone o cefotaxime) + ampicillina • Ospite immunocompromesso: vancomicina + ampicillina + ceftazidime • Soggetti con storia di trauma cranico o intervento neurochirurgico e/o shunt liquorale: ceftazidime + vancomicina • Malati con frattura della base cranica: cefalosporina di terza generazione (ceftriaxone o cefotaxime). La durata della terapia antibiotica dipende dall’eziologia: almeno 7 giorni nelle meningiti da meningococco e Haemophilus, 14 giorni nelle infezioni da pneumococco, 21 giorni in caso di Listeria, streptococco, enterobatteriacee e stafilococco.
Non appena i dati colturali e di sensibilità agli antibiotici sono disponibili la terapia dovrà essere modulata a seconda dei casi specifici, e, a parità di attività in vitro, la scelta dovrà cadere sul farmaco meno tossico, con miglior passaggio di barriera e meno costoso. La Tab. 20.4 riporta i dosaggi nell’adulto e nel bambino degli antibiotici di possibile impiego in corso di meningite purulenta. Terapia cortisonica. – Abbiamo già accennato al possibile uso degli steroidi nelle fasi iniziali di una meningite, per contrastare l’azione indesiderata delle citochine liberate dallo scatenamento dei meccanismi di flogosi. L’utilità dello steroide è stata soprattutto dimostrata nei pazienti di età pediatrica, con meningite da Haemophilus influenzae. Pertanto, nei bambini è senz’altro indicato somministrare desametasone, alla dose di 0.6 mg/
Tabella 20.4. Dosaggi degli antibiotici di possibile impiego in pazienti con meningite. Farmaco
Ampicillina Ampicillina-sulbactam1 Cloramfenicolo Cefuroxime Cefotaxime Ceftazidime Ceftriaxone Aztreonam Imipenem Ciprofloxacina2 Vancomicina Cotrimossazolo3 Rifampicina Isoniazide Pirazinamide e.v. (morfazinamide) Etambutolo Amfotericina B 5-fluorocitosina Fluconazolo 1
Intesa come associazione Al momento non approvato per uso pediatrico 3 Calcolando il dosaggio sul trimetoprim 2
Bambino (mg/kg/die)
Adulto
Intervallo tra le dosi (ore)
300-500 150-200 50-100 100-200 100-200 100-200 50-100 100 60-80 – 40-60 8-20 10-20 10-20 20-30 15-25 0.5-1 100-150 10-15
12 g/die 12 g/die 4 g/die 9 g/die 6-12 g/die 6 g/die 2 g/die 8 g/die 4 g/die 2 g/die 2-3 g/die 1.2 g/die 0.6 g/die 0.3 g/die 3 g/die 15 mg/kg/die 0.5-1 mg/kg/die 100-150 mg/kg/die 0.4-1.2 g/die
4-6 6 6 6 6 4-6 12-24 6 6 12 6-12 6-12 24 12 24 24 24 6 24
Malattie infiammatorie
kg/die in 4 somministrazioni giornaliere per i primi 4 giorni dalla diagnosi di meningite (iniziando appena prima o in concomitanza con la prima somministrazione di antibiotico), mentre negli adulti e nei pazienti affetti da meningite di altra eziologia non vi sono, al momento, dati conclusivi che dimostrino l’utilità dello steroide. Al contrario, è stata espressa la preoccupazione che il rapido ritorno alla normalità della barriera emato-encefalica, indotto dalla terapia steroidea, possa ridurre la penetrazione endoliquorale di anti-
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biotici, come la vancomicina, che difficilmente attraversano le meningi integre.
Meningiti in rapporto alla loro eziologia e alle modalità di esordio più frequenti Nei paragrafi successivi prenderemo in esame il quadro clinico-epidemiologico, la profilassi e la terapia delle varie forme di meningite, a seconda della loro eziologia, prima in ospiti immunocompetenti e poi in ospiti compromessi (Tab. 20.5).
Tabella 20.5 - Principali agenti eziologici di meningite in soggetti normali e con condizioni predisponenti1. Soggetto normale
Neonato
Anziano
Soggetto con immunodeficienza congenita
Soggetto con alterazione delle barriere cutanee e dei tegumenti
Soggetto sottoposto Soggetto a chemioterapia o HIV terapia immunosop- positivo pressiva
Neisseria meningitidis Haemophilus influenzae Streptococ. pneumoniae Mycobact. tuberculosis Leptospira sp.
Escherichia coli Streptococ. agalactiae Listeria monocytog. Staphylococ. aureus Pseudomon. aeruginosa
Streptococ. pneumoniae Listeria monocytogen. Neisseria meningitidis Streptococ. agalactiae Mycobacter. tuberculosis
Streptococ. pneumoniae Haemophilus influenzae Staphylococ. aureus Neisseria meningitidis Salmonella sp.
Staphylococ. epidermidis Streptococcus pneumoniae Haemophilus influenzae Candida sp.
Listeria monocytogenes Staphylococcus aureus Streptococcus pneumoniae Pseudomonas aeruginosa Cryptococcus neoformans
Brucella sp.
Bacilli. Gram-neg.
Bacilli Gram-neg.
Candida sp.
Treponema pallidum Borrelia burgdorferi Coccidioides immitis Histoplasma capsulatum Enterovirus Virus della parotite Virus erpetici HIV Amebe Angiostrong. cantonensis 1
Microorganismi cutanei e ambientali Nocardia
Streptococ. pneumoniae Mycobacter. tuberculosis Cryptococ. neoformans Treponema pallidum Coccidioid. immitis Histoplasma capsulatum
Cryptococcus Actynomices neoformans Enterovirus
per l’anziano, per il soggetto con immunodeficienza congenita, per quello sottoposto a chemioterapia o terapia immunosoppressiva e per l’ HIVpositivo vengono riportati i patogeni più frequenti relativamente alla loro condizione predisponente; ovviamente questi malati possono anche contrarre le infezioni che possono colpire i soggetti normali ed in questo caso l’andamento clinico è di solito più grave e l’infezione può essere recidivante.
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Malattie del sistema nervoso
Ospite immunocompetente Le tre più frequenti cause di meningite acuta batterica in ospiti immunologicamente normali e privi di condizioni predisponenti sono l’Haemophilus influenzae, la Neisseria meningitidis e lo Streptococcus pneumoniae. Possono causare invece forme subacute o croniche il Mycobacterium tuberculosis, il Treponema pallidum, la Borrelia burgdorferi, le brucelle e le leptospire.
Meningiti batteriche acute HAEMOPHILUS INFLUENZAE È la più frequente forma di meningite purulenta di origine batterica nella prima e seconda infanzia, dal primo mese di vita fino, all’incirca, ai 6 anni e causa intorno al 50% di tutte le meningiti purulente. Recentemente l’incidenza di queste forme di meningite si è notevolmente ridotta nei paesi che hanno introdotto la vaccinazione contro l’H. influenzae gruppo C. Nelle altre età, questo batterio Gram-negativo può causare meningite quasi solo se facilitato da condizioni predisponenti (ipogammaglobulinemia, alcolismo, diabete, splenectomia, ipofunzionalità splenica, traumi, sinusiti o otiti croniche). In circa il 90% dei casi è coinvolto il ceppo capsulare b. La letalità è relativamente modesta (3-8% dei casi), ma il 30-50% dei sopravvissuti presenta deficit neurologici a lungo termine e ritardo mentale di grado variabile. La trasmissione avviene per contagio interumano, attraverso la via aerea, ed il quadro clinico è quello caratteristico delle meningiti purulente. In oltre il 50% dei casi, coesiste un’otite media purulenta o un’altra localizzazione settica. Relativamente frequente è l’empiema subdurale post-meningitico. È noto che una significativa percentuale di ceppi di Haemophilus influenzae è produttore di beta-lattamasi ed è perciò resistente alla peni-
cillina ed all’ampicillina. Tali ceppi dovrebbero essere ancora sensibili al cloramfenicolo, farmaco la cui attività antibatterica e la cui efficacia clinica vengono tuttavia da alcuni messe in dubbio. Pertanto, allo stato attuale delle conoscenze, la terapia della meningite da emofilo deve basarsi sulla somministrazione di una cefalosporina di terza generazione (cefotaxime, ceftriaxone). Se il ceppo risulta poi essere sensibile all’ampicillina, la terapia potrà essere aggiustata, passando ad un farmaco meno costoso. La meningite da Haemophilus influenzae tipo b è una malattia prevenibile. La profilassi primaria si basa sulla somministrazione di un vaccino polisaccaridico efficace ed innocuo, che deve essere somministrato in 3 dosi a partire dal terzo mese di vita. In Italia la vaccinazione non è obbligatoria ma inizia ad essere usata su larga scala. Negli Stati Uniti (ed in Finlandia), la vaccinazione anti-emofilo, introdotta già da anni, ha condotto ad una drastica riduzione dei casi di meningite dovuti a questo microrganismo (dal 48% al 7%). La vaccinazione è consigliata in bambini nei primi tre mesi di vita, in pazienti immunocompromessi (per esempio trapiantati) e in soggetti splenectomizzati La chemio-profilassi secondaria, basata sull’impiego della rifampicina (20 mg/Kg/die) per 4 giorni, sia pur non suggerita da tutti gli autori, dovrebbe essere effettuata in tutti i soggetti che hanno avuto un contatto stretto (almeno 4 ore nella settimana precedente) con il caso indice, e nei conviventi (eccetto le donne gravide) se in famiglia vi sono bambini di età inferiore a 4 anni. Negli asili devono essere prese in considerazione sia la profilassi, sia la vaccinazione, specie se vi sono soggetti di età inferiore a 2 anni. NEISSERIA MENINGITIDIS La Neisseria meningitidis è un diplococco Gram-negativo che viene isolato in circa il 1520% delle meningiti purulente, particolarmente in bambini della terza infanzia ed in giovani
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adulti. Poiché questo agente patogeno è estremamente sensibile agli antibiotici, e poiché raramente questi pazienti giungono in ospedale senza avere prima assunto qualche antibiotico, anche solo per via orale, è verosimile che una gran parte delle meningiti purulente che sfuggono ad una diagnosi eziologica (colture negative) siano in realtà meningiti meningococciche. A differenza di quella da emofilo, la meningite meningococcica, detta anche meningite cerebro-spinale epidemica, è più raramente seguita da sequele neurologiche a lungo termine, ma è gravata da una mortalità più elevata, circa il 15% nei paesi occidentali e molto di più in Africa, considerata il serbatoio principale dell’infezione. Si manifesta in maniera recidivante in soggetti affetti da alterazioni della funzione del complemento. La trasmissione dell’infezione meningococcica avviene per contagio interumano, attraverso la via aerea, per contatto con un soggetto malato o con un portatore sano. In Italia la meningite meningococcica è una malattia endemica, che può andare incontro a riaccensioni epidemiche, soprattutto in comunità relativamente chiuse, quali scuole, collegi e caserme. Nel 1999 sono stati registrati ancora 238 casi di meningite da meningococco con un tasso di incidenza di 4.7 casi per milione di abitanti. Il quadro clinico è particolarmente acuto ed è caratterizzato soprattutto dai segni della concomitante e gravissima sintomatologia setticemica, con shock e coagulazione intravascolare disseminata. In fase precoce predominano i segni della sindrome settica, con diffuso esantema, caratterizzato da lesioni petecchiali ed emorragiche, da cui è possibile isolare l’agente patogeno. La diffusione dell’esantema può essere rapidissima, tanto che il malato si può coprire di petecchie ed ecchimosi durante la visita, prima che il medico abbia il tempo di rendersi conto della gravità della situazione e di approntare i primi provvedimenti. Nelle forme più gravi il decesso sopravviene prima che l’interessamento meningeo abbia
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il tempo di manifestarsi, con il quadro dello shock endotossinico e quello (autoptico) della sindrome di Waterhouse-Frederichsen. Nei casi senza interessamento setticemico, la sintomatologia esordisce ed evolve con i segni classici della sindrome meningea. Elementi prognostici sfavorevoli sono la mancanza di febbre, l’assenza di una reazione leucocitaria apprezzabile e la velocità di sedimentazione normale o solo modestamente aumentata. La terapia della meningite e della sepsi meningococcica consiste nell’uso degli antibiotici e nel controllo dello shock e della coagulopatia da consumo. Tra tutti gli agenti patogeni che causano meningite in ospiti immunocompetenti, il meningococco sembra essere quello ancora più sensibile alla penicillina ed all’ampicillina, che rimangono i farmaci di prima scelta. Sono stati, tuttavia, recentemente segnalati casi di resistenza. La profilassi dell’infezione meningococcica si basa sulla somministrazione di un vaccino polisaccaridico che contiene antigeni correlati ai sierogruppi A, C, Y e W135. Sfortunatamente, il gruppo B, una delle cause più frequenti di meningite, non è sufficientemente immunogeno e non fa parte del vaccino di uso corrente. Il vaccino, è comunque raccomandato per i soggetti splenectomizzati (possibilmente prima della splenectomia), per altri pazienti immunodepressi (nei quali però la risposta non è ottimale) e per chi viaggia in zone endemiche. La chemioprofilassi, da iniziare nel più breve tempo possibile, è indicata per adulti e bambini che sono stati a contatto stretto (almeno 4 ore nella settimana precedente) con il caso indice, nei conviventi, nel personale degli asili. Gli operatori sanitari dovranno essere sottoposti a profilassi in caso di contatto con le secrezioni respiratorie del paziente (respirazione bocca-bocca, intubazione, aspirazione tracheale). In questi soggetti la vaccinazione non sostituisce la profilassi. Il farmaco di scelta per la profilassi è la rifampicina (alla dose di 600 mg due volte/die per 2 giorni nell’adulto e di 20 mg/kg/die in due somministrazioni giornaliere nei bambini, per 2 giorni) o il ceftriaxone
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Malattie del sistema nervoso
(alla dose di 250 mg negli adulti e 125 mg nei bambini di età < 15 anni, in dose singola per via intramuscolare). Negli adulti è stata proposta anche una dose singola di 500 mg di ciprofloxacina. STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE La meningite pneumococcica, che rappresenta circa il 20% di tutte le meningiti purulente, può colpire soggetti di qualunque età, ma predilige l’età adulta. La virulenza dell’agente patogeno è senz’altro importante nello sviluppo di questo tipo di meningite, se è vero che l’80% dei casi è dovuto a soli 18 sierotipi, sugli 83 conosciuti. Come nei casi precedenti, anche in questo caso la trasmissione avviene per contagio aereo, interumano. Pur potendosi osservare anche in ospiti privi di condizioni predisponenti, la meningite pneumococcica è più frequente e più grave in soggetti con riduzione delle difese anti-infettive, dovute a traumi, interventi neurochirurgici, splenectomia, trapianti, emoglobinopatie (drepanocitosi) ed alcolismo. Il quadro clinico non si differenzia da quello di altre meningiti purulente, se si eccettua che questa forma di meningite è quella nella quale più spesso si ritrovano altri foci settici (polmonite e otite). La meningite pneumococcica è gravata dalla più elevata letalità (30-40%) e dalle più gravi sequele neurologiche. Alcuni sierotipi più frequentemente implicati in forme meningee sembrano essere diventati resistenti alla penicillina, cui lo pneumococco era rimasto sensibile per molti anni. Come già accennato, la situazione italiana sembra essere migliore di quella di altri paesi (Spagna), ma non è improbabile la diffusione, anche da noi, di fenomeni di resistenza su larga scala. Su questa base, a meno di conferma microbiologica di sensibilità alla penicillina (concentrazione minima inibente <0,06 µg/ml), la terapia attuale della meningite pneumococcica si basa sulla somministrazione di una cefalosporina di terza generazione, come il ceftriaxone o il cefotaxi-
me. È assai preoccupante che ceppi di pneumococchi resistenti anche a questi ultimi farmaci siano stati recentemente segnalati negli Stati Uniti ed in Sudafrica, e che sia stato necessario impiegare la vancomicina (con risultati non del tutto soddisfacenti) o l’associazione rifampicina + ceftriaxone. La profilassi vaccinale dell’infezione pneumococcica si basa sulla somministrazione di un vaccino, composto da antigeni polisaccaridici capsulari dei 23 sierotipi che causano l’88% dei casi di infezione grave (Pneumo23, PasteurMerieux). I soggetti candidati alla vaccinazione sono quelli splenectomizzati (quando possibile, la vaccinazione dovrebbe precedere la splenectomia di almeno 15 giorni), quelli affetti da drepanocitosi, i nefropatici e gli ospiti compromessi in genere. La vaccinazione è inefficacie nei bambini di età inferiore a 2 anni. Recentemente è stato introdotto un nuovo vaccino antipneumococcico coniugato con tossoide difterico attivo contro 7 tra i sierotipi che più frequentemente causano malattia invasiva nei paesi sviluppati (Prevenar-Wyett-Lederle), che può essere somministrato a partire dai 2 mesi di età. LISTERIA MONOCYTOGENES Listeria monocytogenes è un bacillo Grampositivo, intracellulare, causa relativamente frequente di meningiti acute (6-8%). La possibilità di un’eziologia da Listeria deve essere tenuta presenta soprattutto nei soggetti di oltre 50 anni, nelle donne in gravidanza, negli alcolisti e nei pazienti con difetti dell’immunità cellulomediata, come i soggetti con patologie neoplastiche, trapiantati e HIV positivi. L’infezione è ritenuta essere conseguente al consumo di cibi contaminati (specie latte e derivati non pastorizzati). La terapia di scelta è l’ampicillina ma efficaci risultano anche gentamicina, eritromicina, tetracicline e co-trimossazolo. La letalità è elevata, raggiungendo il 90% nelle forme non trattate e il 27-30% nelle forme adeguatamente trattate. Sono possibili sequele neurologiche.
Malattie infiammatorie
LEPTOSPIRA Le leptospire penetrano attraverso la cute integra di persone che entrano in contatto a cute nuda con terriccio o acqua di fiumi o stagni inquinati con urine di topo (in pratica tutti i fiumi che attraversano le grandi città italiane). Ad una prima fase setticemica caratterizzata da febbre elevata, brivido, nausea, vomito e segni meningei sfumati, fa seguito una fase di interessamento d’organo, con epatite, nefrite e meningite. La meningite è di tipo linfocitario, con modesta iperproteinorrachia e normoglicorrachia, indistinguibile sul piano liquorale da una classica meningite virale. L’esordio può essere sia acuto che subacuto o cronico. La diagnosi è clinico-anamnestica, colturale e sierologica. Cardine della terapia è la penicillina G, a dosi elevate (10-20.000.000 U al giorno per 15 giorni). Meningiti virali acute Le cause più frequenti di meningite virale acuta sono gli enterovirus, il virus parotitico, il virus della coriomeningite linfocitaria, i virus erpetici ed il virus dell’immunodeficienza umana (HIV). Quasi tutti possono causare sia forme meningee pure, che tratteremo in questa sede, sia forme encefalitiche con interessamento meningeo ed alterazioni liquorali. La maggior parte delle meningiti linfocitarie con glicorrachia normale, in cui non viene trovata una causa specifica, vengono definite come di probabile natura virale, per la materiale impossibilità di giungere ad una diagnosi eziologica nella stragrande maggioranza dei casi. Pochi laboratori, infatti, sono in grado di effettuare colture virali e, comunque, in ben pochi casi queste risultano positive. Talvolta, la dimostrazione di una decisa sieroconversione (aumento di almeno 4 volte del titolo anticorpale specifico) o l’evidenza di produzione endogena endoliquorale di anticorpi specifici, permette una diagnosi indiretta. Le recenti metodiche di amplificazione genica, miranti a rilevare il DNA o
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l’RNA virale nel liquor stesso, hanno consentito di migliorare le nostre conoscenze sull’eziologia delle meningiti linfocitarie. ENTEROVIRUS Gli enterovirus (ECHO e Coxsackie) sono attualmente considerati i più frequenti agenti causali di meningite virale. L’andamento delle infezioni enterovirali è stagionale, con picchi estivi ed autunnali, e la fascia di popolazione più colpita è quella pediatrica. In uno studio finlandese l’incidenza era di 219 casi/100.000 in bambini di età inferiore a 1 anno e di 19/100.000 in bambini da 1 a 4 anni. L’incidenza è maggiore nelle prime età pediatriche per la mancanza di una memoria immunitaria in queste età. Al di fuori del periodo neonatale, il quadro clinico delle meningiti da enterovirus è di solito benigno e non si discosta dalla classica sindrome meningea. Tuttavia infezioni persistenti ad andamento cronico si possono manifestare in pazienti con ipogammaglobulinemia. Segni orientativi per un’eziologia enterovirale sono la concomitante presenza di sintomi respiratori, esantemi e congiuntivite. Suggeriscono invece una eziologia più specifica la comparsa di un’eruzione vescicolare sulla mucosa orofaringea posteriore (herpangina da virus Coxsackie A), di un esantema maculo-papuloso similmorbilloso (Echovirus 9) o di segni di pericardite o pleurite (Coxsackie A). Non esiste attualmente una terapia specifica, ma un nuovo farmaco antivirale in corso di sperimentazione (Pleconaril) sembra avere dato risultati clinici promettenti. La malattia è di breve durata e può guarire da sola con blando trattamento antiinfiammatorio. Non esistono metodiche di immunoprofilassi. Anche il virus polio può causare una forma meningitica pura. VIRUS PAROTITICO La meningite parotitica è una classica complicanza della parotite epidemica (10-30% dei
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casi), la cui incidenza si è drasticamente ridotta in quei paesi in cui la vaccinazione antiparotitica è entrata nell’uso comune. Il 40-50% dei soggetti con meningite parotitica non rivelano alcun segno clinico di parotite (nessuna tumefazione parotidea), pur presentando, segno diagnostico-differenziale importante, le amilasi elevate. Nelle forme con parotite evidente il quadro clinico esordisce in media 5 giorni dopo la comparsa della tumefazione parotidea, con febbre, vomito e cefalea, e dura una decina di giorni, guarendo poi spontaneamente e totalmente. L’evoluzione encefalitica è estremamente rara. Il liquor ha le caratteristiche delle meningiti linfocitarie, con modesta iperproteinorrachia, normoglicorrachia e infiltrato liquorale monocitario. Non esiste una terapia antivirale specifica. La profilassi della meningite parotitica coincide con la profilassi della parotite. Il vaccino parotitico attenuato viene somministrato insieme a quello antimorbilloso ed a quello antirubeolico dopo il 15° mese di vita ed è molto efficace e ben tollerato. Non è chiaro se i rari casi di menigite parotitica apparentemente post-vaccinale (insorti da 11 a 60 giorni dopo la vaccinazione) siano veramente secondari alla vaccinazione o siano invece dovuti a parotiti già in atto, ma asintomatiche al momento della vaccinazione, o ad insuccessi vaccinali. VIRUS DELL’IMMUNODEFICIENZA UMANA Circa il 5-10% dei soggetti che si infettano con il virus dell’immunodeficienza umana (HIV) sviluppa una meningite linfocitaria come primo e precoce segno di infezione. Lo sviluppo di tale sindrome precede di poco la sieroconversione e si verifica nel corso della sindrome simil-mononucleosica, che caratterizza la prima delle tre fasi dell’infezione HIV (fase precoce o di invasione, fase intermedia o periodo di stato e fase tardiva o AIDS). Il quadro clinico è rappresentato da febbre, cefalea, segni meningei, alterazioni della co-
scienza o del comportamento e, talvolta, convulsioni generalizzate; non sono infrequenti i segni di interessamento dei nervi cranici. La diagnosi di certezza è data dalla positività, in genere ad alti livelli (superiori alle 50.000 copie/ml), della viremia per HIV in presenza di un quadro liquorale indistinguibile dalle altre meningiti sierose. È importante rammentare che esiste in questo caso una precisa indicazione ad iniziare una terapia antiretrovirale di associazione ad alta efficacia, con l’obiettivo non solo per risolvere la situazione acuta, ma anche di migliorare la prognosi a lungo termine. (v. pag. ???). VIRUS ERPETICI Quasi tutti i virus erpetici (herpes simplex 1 e 2, virus varicella-zoster, cytomegalovirus, virus di Epstein-Barr ed herpesvirus umani 6 e 7) sono in qualche modo correlati a manifestazioni neurologiche. Quello più spesso in causa in soggetti normali è tuttavia l’herpes simplex 2 (HSV-2), che provoca un quadro di meningite pura (da non confondersi con la ben più grave forma encefalitica), spesso, ma non esclusivamente, in concomitanza con la prima infezione erpetica genitale. I virus erpetici sono, come è noto, virus persistenti. Pertanto, così come l’HSV può dare recidive periodiche a livello orale e genitale, nello stesso modo gli stessi virus possono dare periodiche riaccensioni a livello neurologico e, specificamente, meningeo. Alla luce di questa acquisizione, molti casi di meningite recidivante di Mollaret (meningite idiopatica) sono stati recentemente posti in relazione con reinfezioni endogene da HSV 1 e 2 ed anche da virus di EpsteinBarr (EBV). Gli altri virus erpetici più spesso coinvolti in forme di meningite linfocitaria sono il varicella-zoster (VZV), durante episodi di reinfezione endogena senza lesioni cutanee (zoster sine materia), e l’herpesvirus umano 6 (HHV6), agente causale dell’esantema critico, in età pediatrica, e di malattie esantematiche con interessamento articolare, nell’adulto.
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Per alcuni virus erpetici esistono farmaci antivirali attivi e relativamente ben tollerati (acyclovir, gancyclovir, foscarnet), ma il loro uso in forme puramente meningee non è stato sperimentato. Ciò non vale, ovviamente, per le forme encefalitiche, nelle quali la terapia con acyclovir ha ribaltato la prognosi. A parte il vaccino anti-varicella, di uso specifico per bambini immunocompromessi e comunque poco diffuso, non esistono metodiche di profilassi vaccinale per i virus erpetici. Forme di meningite recidivante di dimostrata origine erpetica (herpes simplex o zoster) potrebbero giovarsi di una chemioprofilassi soppressiva con acyclovir. ALTRE MENINGITI VIRALI Altri agenti eziologici di meningiti virali sono i Flavivirus (virus dell’encefalite di St. Louis, che causa, oltre all’encefalite, anche una meno grave forma di meningite linfocitaria) ed il virus della coriomeningite linfocitaria. Quest’ultimo virus, appartenente alla famiglia degli Arenavirus, viene trasmesso per contatto da roditori (specie animali di laboratorio) e causa una forma di meningite che colpisce prevalentemente addetti a stabulari, laboratoristi che maneggiano animali o persone che vivono in condizioni di scarsissima igiene in ambienti insalubri ed infestati da topi. L’andamento è per lo più acuto anche se talvolta può essere cronico.
Meningiti acute da protozoi ed elminti MENINGITI DA PROTOZOI I principali protozoi che causano meningite e meningoencefalite appartengono al genere Naegleria ed Acanthamoeba. In particolare, la Naegleria fowleri causa una forma di meningite purulenta, con ipoglicorrachia, iperproteinorrachia e presenza di globuli rossi nel sedimento
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liquorale. Si tratta della cosiddetta “meningite da piscina”, che colpisce soggetti venuti a contatto con acque contaminate (comprese piscine insufficientemente trattate con cloro), impianti di condizionamento d’aria o anche acqua proveniente dall’acquedotto. La Naegleria colonizza la mucosa delle fosse nasali (possibile lo stato di portatore sano) e penetra attraverso la lamina cribrosa, risalendo le terminazioni del nervo olfattorio. La diagnosi si basa sulla dimostrazione dei movimenti ameboidi dei trofozoiti nel liquor esaminato immediatamente dopo il prelievo e la terapia, molto spesso purtroppo inefficace (la letalità raggiunge il 95% dei casi), prevede l’uso di amfotericina B per via intratecale ed endovenosa, associata a rifampicina e a sulfamidici. MENINGITI DA ELMINTI La forma più conosciuta è quella causata dalle larve di un nematode, detto Angiostrongylus cantonensis. Si tratta di una infestazione molto diffusa in Estremo Oriente, in Nuova Guinea ed in alcune isole del Pacifico. Il parassita adulto vive nei polmoni dei ratti (fino al 40% dei ratti di Bangkok è infestato) e le larve vengono emesse con le feci. L’uomo si infetta presumibilmente ingerendo verdure contaminate con le larve o con piccolissimi molluschi che vivono sulle verdure, oppure per contatto o ingestione dei molluschi stessi consumati crudi. Le larve, ingerite, penetrano nel torrente ematico attraverso la parete intestinale, raggiungono l’encefalo e si localizzano sulle superfici meningee, ove evocano una risposta infiammatoria costituita prevalentemente da infiltrato eosinofilo. Nell’uomo, ospite occasionale, il ciclo non si completa e le larve non raggiungono poi, come succede nel ratto, le arterie polmonari. Si tratta quindi di una meningite eosinofila, che si sviluppa nell’arco di circa due settimane dall’infestazione, con il quadro clinico di una tipica sindrome meningea. La malattia si risolve di solito spontaneamente senza sequele gravi.
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Meningiti croniche MENINGITE TUBERCOLARE La meningite tubercolare è una malattia frequente in molte aree del terzo mondo, mentre è relativamente rara nell’emisfero occidentale. Colpisce soggetti immunocompetenti, ma in ospiti compromessi si manifesta con maggiore frequenza e con decorso più grave. È più frequente nella prima decade di vita, anche se questa distribuzione si sta modificando per l’aumento dei casi in giovani adulti affetti da infezione da HIV. L’infezione meningea si sviluppa usualmente in modo subacuto, preceduta per alcune settimane da sintomi aspecifici e, spesso, da un episodio febbrile banale, di natura apparentemente virale. L’esordio è diverso a seconda dell’età del paziente: nel bambino, la febbre si associa a sintomi poco significativi, quali irritabilità, sonnolenza, rifiuto di alimentarsi e arresto di crescita, mentre nell’adulto predomina la cefalea. Gradualmente, il quadro neurologico diviene sempre più evidente ed evolve con la comparsa di segni meningei, peraltro talvolta molto sfumati, disturbi di coscienza, segni di ipertensione endocranica (tensione della fontanella bregmatica, nel bambino piccolo), crisi convulsive generalizzate e segni neurologici focali (emiparesi, crisi convulsive focali, deficit di nervi cranici). L’interessamento dei nervi cranici è abbastanza frequente, in quanto l’essudato si raccoglie prevalentemente in sede basale: in ordine decrescente di frequenza sono interessati il VI, III, IV, VII, II, VIII, X, XI e XII nervo cranico. L’intradermoreazione tubercolinica, poco affidabile come mezzo diagnostico, è quasi sempre negativa nelle forme primarie, mentre può essere positiva nelle forme post-primarie, da riaccensione di un focolaio endogeno. L’emocromo evidenzia di solito, anche se non sempre, leucocitosi, e la velocità di sedimentazione è spesso elevata. Il quadro idroelettrolitico può rivelare la presenza di una sindro-
me da secrezione inappropriata di ormone antidiuretico, con iponatremia, poliuria e iperkaliemia. La TC può rivelare la presenza di idrocefalo per blocco della circolazione liquorale a livello dei forami di Magendie e Luschka. Il liquor è spesso xantocromico, per l’elevata concentrazione proteica, e può addirittura coagulare in provetta, per la presenza di elevate quantità di fibrinogeno (sindrome di Froin). La cellularità è elevata, ma non elevatissima, con una quota significativa di cellule polinucleate in fase iniziale, ma con netta prevalenza di mononucleati nella fase conclamata. La proteinorrachia è anch’essa elevata, mentre la glicorrachia può essere normale (20% dei casi) o, più spesso, ridotta, ma non è mai azzerata. Quest’ultimo dato è dirimente nella diagnostica differenziale con le meningoencefaliti virali, che possono presentare un quadro neurologico simile, con prevalenza di mononucleati nel liquor, iperproteinorrachia, ma con glicorrachia normale o aumentata. La colorazione di Gram è ovviamente negativa, mentre la colorazione di Ziehl-Nielsen può mettere in evidenza la presenza di bacilli alcool-acido resistenti nel sedimento liquorale. La conferma diagnostica non può che venire dall’esame colturale. Purtroppo, l’esperienza tratta da casi istologicamente confermati dimostra che la coltura del liquor è negativa nel 3040% dei casi. Grandi miglioramenti diagnostici sono stati ottenuti con l’applicazione delle metodiche di amplificazione genica (Polymerase Chain Reaction), con le quali è possibile rilevare la presenza di frammenti del DNA micobatterico nel liquor. Il quadro clinico è aspecifico, ma si differenzia da quello delle meningiti virali per la maggior gravità ed estensione dell’interessamento neurologico, e da quello delle meningiti batteriche purulente (da emofilo, neisseria e pneumococco) per l’esordio subacuto e la maggior frequenza di ipertensione endocranica. Più difficile e complessa è invece la diagnostica differenziale nell’ospite immuno-compromesso.
Malattie infiammatorie
La profilassi della meningite tubercolare coincide con la profilassi dell’infezione tubercolare. Alla luce di quello che viene attualmente considerato il più comune meccanismo patogenetico (cosiddetta meningite «a tergo»), alcuni enfatizzano l’importanza di trattare tutti i soggetti tubercolino-positivi di qualunque età, allo scopo di ridurre la carica batterica e di evitare quindi la formazione di granulomi tubercolari, che potrebbero in un secondo tempo riaccendersi. La terapia antitubercolare è un problema complesso, che non è possibile trattare diffusamente in questa sede. Le sempre più frequenti segnalazioni di resistenze, rendono necessaria una scelta terapeutica attentamente ponderata. L’associazione di prima scelta, in caso di basso rischio di resistenza dovrà comprendere l’associazione di rifampicina, isoniazide e pirazinamide (tutti farmaci che passano bene la barriera emato-encefalica), somministrati per almeno 6 mesi. L’etambutolo potrà far parte della terapia, o come quarto farmaco, o in sostituzione della pirazinamide. La somministrazione intratecale di farmaci che non passano la barriera (per esempio, streptomicina) potrà essere riservata a situazioni gravissime con infezione da germi multiresistenti. Oltre alla terapia antibiotica, anche la terapia cortisonica, alla dose di 0,2-0,4 mg/Kg/die di desametazone, ha un ruolo importante. Infine, in fase acuta, potrà rendersi necessaria la messa in opera di un drenaggio liquorale esterno, quando la terapia medica si riveli incapace di controllare l’ipertensione endocranica. In caso di blocco irreversibile della circolazione liquorale non si dovrà esitare a porre in situ un sistema interno di derivazione ventricoloperitoneale. La prognosi della meningite tubercolare è estremamente delicata. La percentuale di pazienti che presentano sequele neurologiche gravi a lungo termine è stimata intorno al 25%, ma sono stati segnalati anche tassi più elevati. Anche la letalità è elevata, soprattutto nel paziente con AIDS.
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MENINGITE LUETICA È una delle possibili modalità di interessamento del sistema nervoso centrale in corso di infezione da Treponema pallidum, sia nell’adulto (forma acquisita), sia nel neonato (forma connatale). L’interessamento meningeo nella lue acquisita, ancorché asintomatico, è molto più frequente di quanto non si ritenesse in passato, come suggerito dalla frequenza di reinfezione endogena endocerebrale in pazienti HIVpositivi con anamnesi positiva per infezione luetica. Nei soggetti normali, la meningite luetica si verifica di solito entro il primo anno dall’infezione primaria, e può anche rappresentare la manifestazione clinica di esordio dell’infezione, quando la lesione primaria sia passata inosservata. Dal punto di vista liquorale, si tratta di una meningite linfocitaria, con iperproteinorrachia e spesso, circa nel 50% dei casi, ipo-glicorrachia. Il quadro liquorale è quindi quello tipico delle meningiti cosiddette sierose atipiche o maligne, con infiltrato monocitario e ipoglicorrachia. L’esordio ed il decorso sono per lo più subacuti, con cefalea, talvolta segni di lato, interessamento di nervi cranici ed ipertensione endocranica. La positività dei tests treponemici sul liquor ed il dato anamnestico sono dirimenti per la diagnosi. La terapia della meningite luetica prevede l’uso della penicillina G alla dose di 12-24 milioni al giorno in dosi refratte, ogni 4-6 ore per 10-14 giorni. MENINGITE IN CORSO DI MALATTIA DI LYME Nel corso della storia naturale della malattia di Lyme l’interessamento neurologico non è infrequente (pag. 000). La sintomatologia meningea può essere caratterizzata da ripetuti episodi di cefalea violenta, fotofobia, nausea, vomito e, talvolta, rigidità nucale che si alternano a periodi di relativo benessere. Tali episodi, inizialmente non accompagnati da alterazioni liquorali, né da deficit neurologici, diventano progressivamente
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più frequenti, fino ad esitare in franche manifestazioni neurologiche meningoencefalitiche, con interessamento di nervi cranici, specie paralisi del faciale bilaterale, e talvolta anche segni di radicoloneuropatia e mielite. In questa fase di malattia l’esame del liquor dimostra una meningite linfocitaria, con iperproteinorrachia e normoglicorrachia. Più raramente l’interessamento cerebrale può manifestarsi precocemente in forma acuta. La diagnosi può essere particolarmente difficile. Il medico deve pensare a questa possibilità sulla base dei dati anamnestici (morso di zecca, tipica lesione cutanea in un soggetto che ha viaggiato o risieduto in zone endemiche, talora non ricordate dal paziente), sulla positività della ricerca degli anticorpi anti-Borrelia, con evidenza di produzione endogena liquorale (indice IgG siero/liquor) e, più recentemente, sulla positività dei metodi di ricerca del DNA batterico (amplificazione genica). La terapia, da protrarsi per 4 settimane, prevede l’uso del ceftriaxone alla dose di 2 g al giorno in singola dose giornaliera, preferibilmente per via endovenosa, ma anche per via intramuscolare. MENINGITE BRUCELLARE Si tratta di una rara (meno del 5% dei casi) manifestazione clinica della brucellosi. Di solito il coinvolgimento del sistema nervoso non si limita alle meningi, ma interessa anche il parenchima cerebrale, nell’ambito di una meningoencefalomielite. Il quadro neurologico è proteiforme e l’andamento cronico. Anamnesticamente spiccano il consumo di formaggi o latte non pastorizzati o contatti professionali (veterinari) con animali infetti. I sintomi della brucellosi (sudorazioni notturne, epatosplenomegalia, febbre, manifestazioni osteo-articolari, endocardite, orchite) precedono spesso la sintomatologia neurologica. La diagnosi si basa sul quadro clinico-anamnestico, sui dati liquorali (meningite linfocitaria) e sulla conferma sierologica e colturale (anche dal
liquor). Il laboratorio deve essere in questo caso avvertito del sospetto clinico, poiché la brucella richiede modalità di coltura particolari. La terapia è quella, complessa, della brucellosi (tetracicline, cotrimossazolo, cloramfenicolo). MENINGITI MICOTICHE Le meningiti micotiche in ospiti immunocompetenti sono eccezionali nelle nostre regioni, ma possono essere osservate in soggetti provenienti da aree endemiche. Nel soggetto HIVpositivo non in terapia antiretrovirale efficace, è relativamente frequente l’infezione da Cryptococcus neoformans. L’infezione da Coccidioides immitis è endemica in alcune aree aride del sud e nord-America. La meningite, ad andamento cronico, si può presentare in forma isolata o associata ad infezione polmonare, tipica localizzazione del micete. Il quadro clinico è dominato dalla cefalea e la diagnosi si basa sulla positività del test cutaneo alla coccidioidina o sulla dimostrazione di una risposta anticorpale specifica a livello liquorale. Il quadro liquorale è quello caratteristico delle meningiti subacute ad eziologia varia (sierose atipiche o maligne). L’interessamento meningeo si può osservare anche, seppur raramente, in corso di infezione da Histoplasma capsulatum. La distribuzione geografica ed il quadro clinico e liquorale sono simili a quelli del Coccidioides immitis. La diagnosi si basa sia sull’isolamento in coltura, sia sui risultati di un test indiretto che ricerca un antigene polisaccaridico micotico. Infine, un interessamento meningeo è stato descritto in corso di infezione oculare da alcuni funghi filamentosi (Drechslera, Alternaria, Curvularia) ed in corso di sporotricosi, paracoccidioidomicosi e blastomicosi. MENINGITI CRONICHE DA ELMINTI Neurocisticercosi. L’infezione è acquisita per ingestione di cibi contaminati con uova di Te-
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nia solium. Le larve attraversano la parete intestinale e sono in grado di disseminarsi nei tessuti tra cui il SNC dove le cisti possono rimanere quiescenti per anni. I pazienti iniziano ad accusare disturbi quando le larve muoiono e innescano la risposta infiammatoria. Quando la malattia diviene sintomatica si manifesta per lo più con crisi convulsive per la presenza di cisti intraparenchimali. Quando le cisti si localizzano nello spazio subaracnoideo possono raccogliersi nelle cisterne della base e causare meningite basale cronica con idrocefalo. Nel liquor si ha pleiocitosi con linfociti. La TC evidenzia lesioni multiple, in parte calcifiche. Ospite immuno-compromesso La riduzione delle difese anti-infettive di tipo immunologico o meccanico facilita lo sviluppo di malattie infettive causate da microorganismi usualmente non patogeni in soggetti normali, aumenta la frequenza delle malattie infettive proprie dei soggetti normali (infezioni recidivanti) e condiziona un aumentata gravità di tali infezioni. I meccanismi anti-infettivi coinvolti sono la fagocitosi, l’immunità umorale, l’immunità cellulo-mediata (meccanismi più propriamente immunologici) e l’integrità della cute, delle mucose e dei tegumenti (difese meccaniche). Dal punto di vista clinico, quindi, le infezioni in ospiti compromessi sono caratterizzate dalla molteplicità dei microorganismi potenzialmente coinvolti (talora anche simultaneamente), dalla scarsa estrinsecazione clinica per riduzione dei fenomeni infiammatori e dall’elevata letalità. Nei paragrafi successivi passeremo in rassegna le complicanze meningee più frequenti in differenti tipi di ospiti compromessi.
Meningiti neonatali Il neonato e, ancora di più, l’immaturo possono, per parecchi motivi, essere considerati ospiti compromessi. L’essenza della loro au-
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mentata predisposizione alle infezioni risiede soprattutto in una complessiva immaturità di varie funzioni immunologiche e di varie barriere cutanee e mucose: tra queste, di particolare rilevanza, la presenza del moncone ombelicale e l’immaturità della barriera emato-encefalica. Le meningiti neonatali sono un gruppo di meningiti purulente, quasi sempre associate a sepsi, causate da patogeni opportunisti che, solitamente, in soggetti normali, non causano infezione nelle altre età della vita. Si distinguono classicamente forme ad esordio precoce (entro il quarto giorno) e forme ad esordio tardivo (dal quinto al 30° giorno di vita). Le forme precoci sono causate di solito da agenti patogeni provenienti dalle vie genitali materne, che vengono acquisiti durante il passaggio nel canale del parto, mentre quelle tardive derivano, più frequentemente, ma non esclusivamente, da contaminazioni post-natali. Le prime hanno un andamento clinico estremamente grave e si associano ad infezioni sistemiche, mentre le seconde tendono ad essere più facilmente localizzate. Gli agenti eziologici più frequenti sono Escherichia coli, Streptococcus agalactiae, Listeria monocytogenes, Staphylococcus aureus, Pseudomonas aeruginosa e Candida albicans. Il quadro clinico delle meningiti neonatali è fondamentalmente lo stesso, qualunque sia l’agente causale. Il rischio di sviluppare meningite neonatale è inversamente proporzionale al peso di nascita e direttamente proporzionale al tempo intercorso tra rottura delle membrane e parto. Altri fattori associati al rischio di sepsi e meningite sono la presenza di febbre nella madre, un’infezione al momento del parto, un liquido amniotico tinto, un parto traumatico con ipossia fetale e qualunque altro fattore che abbia reso necessaria la permanenza del bambino in aree di terapia intensiva. Le madri provenienti da ambienti a basso livello socio-economico o con una storia di infezioni a trasmissione sessuale sarebbero più a rischio di dare alla luce neonati malati, e l’eccessivo e ingiustificato uso
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di antibiotici cosiddetti «di copertura» nei nidi per neonati faciliterebbe la selezione di flora resistente e virulenta. Sulla base dei dati relativi ai più frequenti agenti eziologici, la terapia antibiotica empirica (pre-isolamento dell’agente causale) delle meningiti neonatali deve prevedere l’uso di farmaci attivi contro i Gram-positivi (streptococchi di gruppo B e Listeria monocytogenes, specialmente) e contro gli enterobatteri (Escherichia coli, Pseudomonas aeruginosa). La scelta terapeutica dovrà pertanto cadere sull’associazione tra ampicillina (o sulbactam-ampicillina, che fornisce una migliore copertura contro ceppi produttori di beta-lattamasi) ed un aminoglucoside o cefotaxime. Le scelte successive dovranno essere guidate dai risultati degli esami colturali e dei tests di sensibilità agli antibiotici, dando la preferenza a farmaci che passano la barriera emato-encefalica. La terapia intratecale attraverso pozzetti endoventricolari o derivazioni andrà riservata a casi eccezionali di infezioni da agenti patogeni multiresistenti. Escherichia coli è un normale abitante dell’intestino umano, ma alcuni ceppi, in soggetti predisposti, possono avere un potere patogeno superiore ad altri. È stato dimostrato, infatti, che nelle meningiti neonatali vengono frequentemente isolati ceppi possessori dell’antigene K1 e che la presenza di questi ceppi nelle vie genitali materne correla con una maggiore frequenza, invasività e gravità di malattia. Streptococcus agalactiae (appartenente al gruppo degli streptococchi di gruppo B) colonizza frequentemente le vie genitali femminili ed è stato posto in relazione con sepsi sia ad esordio precoce, che ad esordio tardivo. La meningite purulenta, tuttavia, si osserva, di solito, in associazione alle sepsi ad esordio tardivo. Listeria monocytogenes Nel neonato la meningite da Listeria si trasmette per contatto durante il passaggio attraverso il canale del parto e può dar luogo sia a forme precoci, con interessamento multisiste-
mico (granulomatosi infanto-settica), sia a forme tardive (oltre il quinto giorno) di sepsi e meningite (fig. 20.3). Gli stafilococchi (Staphylococcus aureus e stafilococchi coagulasi-negativi), la Pseudomonas aeruginosa ed i miceti possono causare forme devastanti di meningite neonatale ad esordio tardivo ed acquisite per lo più dall’ambiente. La letalità è elevata ed i bambini che sopravvivono presentano di solito esiti neurologici gravissimi.
Meningite nell’anziano L’anziano presenta usualmente una fisiologica riduzione delle difese anti-infettive, specialmente i meccanismi cellulo-mediati e la fagocitosi, ed i processi involutivi delle barriere cutanee e mucose rendono meno efficace il contenimento dell’ingresso di agenti patogeni infettivi. Ne consegue che le meningiti che si osservano in soggetti normali possono verificarsi con maggiore frequenza e avere andamento più grave nell’anziano, tanto più se si considera che l’anziano può presentare infezioni da patogeni opportunisti. In particolare, Streptococcus pneumoniae si comporta in modo estremamente aggressivo nel soggetto di età avanzata e la letalità per sepsi e meningite risulta essere particolarmente elevata. Streptococcus agalactiae, agente patogeno tipico dell’età neonatale, ma praticamente assente nell’adulto sano, ricompare all’altro estremo della vita come causa di meningiti gravi. Particolarmente frequenti sono, infine, le meningiti da Listeria monocytogenes, conseguenti a colonizzazione intestinale da consumo di cibi contaminati, e quelle da bacilli Gram-negativi.
Meningite in immunodeficienza congenita L’aumentata frequenza di infezione nel paziente con immunodeficienza congenita è una naturale conseguenza del deficit immunitario,
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ed il tipo di agente infettante più frequentemente osservato dipende dal tipo di meccanismo immunitario deficitario. Per quanto riguarda le meningiti, spiccano, ovviamente, tutte le forme da cocchi capsulati (Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis, Staphylococcus aureus, Haemophilus influenzae), la Candida ed il Criptococco. I soggetti con deficit della funzione umorale (immunoglobuline e complemento) presentano inoltre infezioni e reinfezioni meningee da enterovirus (Coxsackie ed ECHO). Di particolare interesse sono le meningiti meningococciche recidivanti in pazienti affetti da deficit della funzione del complemento. In questi casi, l’anamnesi rivela una storia di meningite purulenta recidivante in parecchi soggetti della stessa famiglia.
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fino a un anno dopo il trauma, ed è spesso difficile eradicare l’agente patogeno infettante, che è causa di periodiche riaccensioni della sintomatologia. Il soggetto che ha subito un intervento neurochirurgico, come ogni paziente post-chirurgico, presenta un aumentato rischio di infezione opportunistica nosocomiale. Gli organismi più spesso coinvolti sono le Enterobacteriaceae, gli stafilococchi, gli streptococchi ed i miceti (Candida albicans), ma non mancano descrizioni di infezioni da agenti patogeni più rari quali Nocardia ed Actynomices. I classici segni meningei sono spesso assenti o non valutabili, e perciò la semplice comparsa di febbre può rappresentare un campanello d’allarme e deve indurre ad effettuare un controllo del liquor, purché altri fattori (lesione occupante spazio e rischio di incuneamento) non lo controindichino.
Meningite da alterazione delle barriere meccaniche (cute e tegumenti) I pazienti con traumi cranici penetranti, quelli sottoposti ad interventi neurochirurgici e ad introduzione di farmaci o altre sostanze per via endorachide ed i portatori di cateteri e valvole di derivazione liquorale esterna o interna (ventricolo-peritoneale) presentano un’alterazione delle barriere meccaniche di difesa contro le infezioni e possono pertanto andare incontro ad infezioni meningee da agenti patogeni opportunisti di derivazione dall’ambiente, dalla flora endogena del paziente o dalle mani del personale sanitario. Il più frequente agente eziologico è lo pneumococco, seguito, in ordine decrescente di frequenza, da streptococchi, neisserie, emofili, stafilococchi, bacilli Gram-negativi, microorganismi della flora tellurica, miceti, actinomiceti e nocardie. Il soggetto che ha riportato un trauma cranico con perdite liquorali deve essere considerato come un paziente ad elevato rischio di sviluppare una complicanza meningitica. Circa il 50%, infatti, presenterà un quadro meningitico entro un arco di tempo variabile dai 15 giorni
Meningite in malati sottoposti a terapia antiblastica e immunosoppressiva Le complicanze meningee in pazienti che assumono farmaci citotossici o immunosoppressivi per la terapia di leucemie, linfomi e tumori solidi (compreso il trapianto di midollo) e per il controllo del rigetto nei trapianti d’organo sono relativamente polimorfe. Quando prevalgono i difetti della fagocitosi (leucemie in induzione, tumori e linfomi in chemioterapia, trapianti di midollo nei primi 30 giorni) o dell’immunità umorale (mielomi), possono comparire soprattutto meningiti batteriche (Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae). Nei pazienti con prevalente interessamento cellulo-mediato (trapianti di midollo dopo i primi trenta giorni, trapianti d’organo, leucemie in terapia di mantenimento) l’eziologia più frequente è quella da Listeria monocytogenes (che può anche causare focolai infiammatori intraparenchimali tipo ascesso cerebrale), e poi da Cryptococcus neoformans, Mycobacterium tuberculosis e Coccidioides immitis (quest’ultimo in aree endemiche). In
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Fig. 20.3 - Encefalite focale in una paziente leucemica con meningite purulenta da Listeria monocytogenes. La paziente sopravvisse alla grave infezione e ricevette, con successo, un trapianto di midollo allogenico.
linea di massima i quadri clinici si differenziano da quelli osservati nel soggetto normale, soprattutto per la frequentemente scarsa cellularità del liquor (tipica la meningite nel neutropenico, con molti batteri nel sedimento liquorale, ma pochissime cellule), per la torpidità dell’esordio clinico (soprattutto per la listeriosi e la criptococcosi) e per la gravità della prognosi.
Meningite nel soggetto HIV-positivo È aumentata la frequenza delle infezioni da agenti patogeni che vengono prevalentemente controllati dai meccanismi immunitari cellulomediati (v. pag..). Tra questi, il Cryptococcus
neoformans è quello che causa la più comune forma di infezione meningea, che rappresenta anche una delle condizioni che definiscono la diagnosi di AIDS. Colpisce il 2-9% dei pazienti con AIDS, con un quadro clinico di tipo subacuto o cronico, caratterizzato soprattutto da cefalea e febbre; più raramente compaiono alterazioni comportamentali, nausea, vomito e segni meningei. Nel 12% dei casi l’infezione è totalmente asintomatica ed il riscontro casuale. La diagnosi si basa sul sospetto clinico, sull’isolamento in coltura del micete o sulla sua visualizzazione a livello liquorale (colorazione all’inchiostro di china o in immunofluorescenza) e/o sulla positività di un test indiretto che ricerca un antigene polisaccaridico. La terapia di scelta è tuttora basata sull’associazione tra amfotericina B e 5-fluorocitosina o fluconazolo ad alte dosi e la profilassi (secondaria) prevede l’uso del fluconazolo per lunghi periodi. Nel paziente con AIDS, infatti, l’eradicazione del criptococco è considerata praticamente impossibile e le recidive sono quasi la regola. Relativamente frequente è inoltre la meningite da Streptococcus pneumoniae associata talvolta a polmonite; data la gravità della prognosi gli autori americani propongono la vaccinazione anti-pneumococcica in tutti i pazienti sieropositivi con richiamo dopo 5-6 anni. Altre cause di meningite negli HIV-positivi sono: Listeria monocytogenes, Treponema pallidum, Mycobacterium tuberculosis, Histoplasma capsulatum e Coccidioides immitis (v. pag. …)
Meningiti di natura non infettiva Le cause non infettive di meningite sono riassunte nella Tabella 20.6 Le malattie neoplastiche, sia intracraniche (tumori e linfomi cerebrali), sia sistemiche (leucemie) possono scatenare sintomi meningitici sia per diretta presenza di cellule neoplastiche nel liquor, sia per irritazione indotta da sostanze prodotte dal tumore stesso. Diri-
Malattie infiammatorie
773
Tabella 20.6. Cause non infettive di meningite (da: Connolly KJ, Hammer SM. 1990, modificata) Malattie neoplastiche Farmaci
Malattie disreattive
Procedure mediche invasive
Linfomi Leucemie Carcinomi
Cotrimossazolo Ibuprofen Sulindac
Connettiviti Artrite reumatoide Lupus
Interventi neurochirurgici Anestesia spinale Iniezione intratecale di farmaci, aria, coloranti, isotopi
Tumori cerebrali
Naproxen Tolmetin Azatioprina OKT3 Isoniazide Citosina-arabinoside Immunoglobuline endovenose Carbamazepina Fenazopiridina Penicillina Farmaci a base di fosfolipidi Metalli pesanti
Polimiosite Sindrome diSjogren Malattia di Behcet Granulomatosi Sarcoidosi di Wegener linfomatoide Vasculiti Poliarterite nodosa Sindrome di Kawasaki Febbre Mediterranea Familiare
mente, per la diagnosi, saranno la patologia associata e l’esame del sedimento liquorale. Molti farmaci sono stati associati allo sviluppo di meningite, ed in particolare il cotrimossazolo ed alcuni farmaci anti-infiammatori non steroidei (ibuprofen, sulindac, tolmetin e naproxen). L’associazione tra questi farmaci e lo sviluppo di una sindrome meningea clinicamente tipica ed associata ad alterazioni liquorali variabili (non chiara prevalenza di un tipo di cellule su un altro, glicorrachia normale o ridotta, proteinorrachia aumentata) è stata stabilita con sufficiente certezza, alla luce di tre fattori principali: a) l’evidente relazione temporale tra assunzione del farmaco e sviluppo della sintomatologia; b) la rapida scomparsa della sintomatologia con la sospensione del farmaco; c) la sua ricomparsa alla riassunzione del farmaco. La diagnosi differenziale include non solo le meningiti infettive, ma anche le meningiti che si osservano in corso di quelle malattie autoimmuni o infettive per le quali i farmaci anti-infiammatori venivano somministrati. Ogni procedura che prevede l’introduzione endorachide di farmaci o altre sostanze provo-
ca un’alterazione dell’integrità della barriera anti-infettiva cutanea, con possibile ingresso di agenti patogeni opportunisti. D’altra parte, la sostanza che si introduce può avere un effetto irritante sulle meningi e causare una meningite chimica. La diagnostica differenziale è assai delicata, poiché in entrambi i casi possono mancare segni infiammatori sistemici e la sintomatologia può essere estremamente subdola. La negatività dell’esame colturale rappresenta un criterio importante. Tra le procedure mediche invasive più impiegate che possono associarsi a complicanza meningitica devono essere ricordate le peridurali antalgiche e le tecniche di anestesia spinale. Molte malattie disreattive possono causare interessamento meningitico, sia come unico sintomo di esordio, sia, più spesso, in associazione agli altri sintomi sistemici e neurologici. Riferimenti bibliografici BERGER J.R.: Tuberculous meningitis. Current Opinion in Neurology 7, 191-200, 1994.
774
Malattie del sistema nervoso
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Per encefalite si intende un processo infiammatorio del tessuto cerebrale sostenuto da una causa infettiva, di origine virale, batterica o parassitaria. Nella definizione, quindi, non dovrebbero essere comprese le patologie infiammatorie dell’encefalo di origine diversa. In realtà il termine encefalite (e quelli correlati di encefalomielite e nevrassite) viene talora usato in senso lato per indicare anche quadri morbosi in cui non sono implicate cause infettive (ad esempio le encefalopatie infiammatorie in corso di malattie autoimmuni o neoplastiche). La definizione di encefalite, comunque, non implica necessariamente la presenza dell’agente infettivo nell’encefalo, tanto è vero che alcune encefaliti sono innescate da un agente infettivo, ma mediate da un meccanismo immunitario (cosiddette encefaliti secondarie). Si distinguono quindi encefaliti primarie dovute a diretta invasione del SNC da parte del patogeno ed encefaliti secondarie da causa post-infettiva o post-vaccinica.
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DATI EPIDEMIOLOGICI Le encefaliti rappresentano un capitolo estremamente vasto ed articolato della patologia neurologica anche se, con l’eccezione di alcune aree geografiche, si tratta nel complesso di malattie piuttosto rare. Nella Tab. 20.7 sono riportati alcuni dati epidemiologici disponibili per l’Italia, dai quali emerge che nel 1999 sono stati notificati 868 casi di meningoencefalite virale, con un leggero incremento rispetto agli anni 1993-95. Dall’analisi
Malattie infiammatorie Tabella 20.7 - Casi di meningite e di meningoencefalite notificati in Italia all’Istituto Superiore di Sanità. Meningoencefaliti virali
(casi secondari*)
Meningiti da meningococco
1999
868
-
238
1998
675
-
162
1997
835
-
207
1996
907
-
254
1995
617
(35,4%)
306
1994
593
(39,3%)
226
1993
639
(24,3%)
307
775
tasso di incidenza annuo riferito alla popolazione adulta (>15 anni) di 1,4 casi per 100.000 abitanti. È verosimile tuttavia che i dati riportati, basati sul numero dei casi di encefalite diagnosticati ed ufficialmente registrati, ne sottostimino largamente la reale incidenza: secondo calcoli degli stessi osservatori epidemiologici americani, ad esempio, ogni anno si verificherebbero negli Stati Uniti circa 20.000 casi di encefalite, per cui l’incidenza effettiva potrebbe essere stimata intorno ad 8 casi per 100.000 abitanti. Per quanto riguarda la mortalità, nel 1990 si ebbero in Italia 167 decessi (2,8 per milione di abitanti) per «encefalite, mielite ed encefalomielite» e 40 decessi (0,7 per milione di abitanti) per «ascesso intracranico e intrarachideo».
CLASSIFICAZIONE (*) percentuale di casi secondari a morbillo, parotite, rosolia e varicella nella classe di età 0-15 anni.
delle singole schede di notifica relative agli anni dal 1993 al 1995 si rileva che nelle età da 0 a 15 anni circa il 30% dei casi erano rappresentati da encefaliti post-parotite e morbillo e più raramente post-varicella e rosolia. Non sono disponibili dati relativi agli anni successivi, ma è verosimile che una maggiore diffusione delle vaccinazioni potrebbe aver ridotto l’incidenza delle forme secondarie. Queste cifre sono dello stesso ordine di grandezza di quelle relative ad altri paesi del mondo occidentale, anche se, ad esempio, negli Stati Uniti il tasso di incidenza delle encefaliti primarie ha dimostrato un modesto declino, passando da 0,4 casi per 100.000 abitanti notificati nel 1989 a 0,28 casi nel 1994; per gli anni successivi non sono attualmente disponibili dati globali (Tab. 20.8). Un recente studio finlandese, basato su dati epidemiologicamente attendibili, fornisce per il periodo 1967-1991 un
Le encefaliti possono essere classificate in rapporto a numerosi parametri (Tab. 20.9), ed in particolare (a) l’agente eziologico; (b) il meccanismo patogenetico e (c) il decorso. Altri aspetti importanti sono (d) le caratteristiche epidemiologiche; (e) la prevalente localizzazione e (f) il quadro neuropatologico. Per polioencefalite, leucoencefalite e panencefalite si intendono processi infiammatori che interessano rispettivamente la sostanza grigia, la sostanza bianca ed entrambe. I termini meningo-encefalite ed encefalomielite indicano il coinvolgimento da parte del processo infiammatorio delle meningi o del midollo spinale.
EZIOLOGIA Tutte le principali categorie di agenti infettivi possono dar luogo ad una encefalite, ed in particolare, esistono encefaliti prodotte da virus, batteri, rickettsie, clamidie, spirochete, miceti, protozoi, parassiti pluricellulari (Tab. 20.10 e 20.11).
Tabella 20.8 - Casi di meningite e di encefalite riportati negli USA ed incidenza annuale per 100.000 abitanti Anno
1989 1990 1991 1992 1993 1994
Meningite asettica 10274 11852 14526 12223 12848 8932
4,14 4,77 6,26 5,18 5,39 3,71
Meningite meningococcica 2727 2451 2130 2134 2637 2886
1,1 0,99 0,84 0,84 1,02 1,11
Primaria 981 1341 1021 774 919 717
Encefalite post-infettiva
0,4 0,54 0,4 0,3 0,36 0,28
88 105 82 129 170 143
0,04 0,04 0,03 0,05 0,07 0,06
776
Malattie del sistema nervoso
Tabella 20.9 - Classificazione delle encefaliti 1. Agente eziologico
2. Meccanismo patogenetico
Virali Da altri agenti patogeni: batteri (inclusi micobatteri) rickettsie clamidie spirochete miceti protozoi parassiti pluricellulari Infezione diretta (encefaliti primarie) Reazione immunitaria (encefaliti secondarie)
3. Decorso
Acute Subacute Croniche
4. Caratteristiche epidemiologiche
Epidemiche Endemiche Sporadiche
5. Prevalente localizzazione In rapporto al tipo di tessuto nervoso: Polioencefalite Leucoencefalite Panencefalite
In rapporto alla localizzazione anatomica Emisferi Tronco encefalico Cervelletto Encefalomielite Meningoencefalite 6. Quadro neuropatologico
Demielinizzante Emorragica Purulenta Necrosante Granulomatosa (Spongiforme)
Tabella 20.10 - Virus associati ad encefaliti o encefalomieliti acute. A: CON
MECCANISMO DI INFEZIONE DIRETTA:
Virus a DNA Herpesviridae
Adenoviridae Virus a RNA Togaviridae*
Flaviviridae*
Virus herpes simplex (HSV) tipo 1 e 2 Virus varicella-herpes zoster (VZV) Citomegalovirus (CMV) Virus Epstein-Barr (EBV) Herpes virus B Encefalite da morso di scimmie Human herpesvirus 6 (HHV-6) Adenovirus
Alphavirus Encefalite equina orientale (EEE) Encefalite equina occidentale (WEE) Encefalite equina venezuelana (VEE) Encefalite giapponese Encefalite di St. Louis Encefalite della Valle di Murray Encefalite Rocio (Brasile) Febbre del Nilo Occidentale (West Nile)
(continua)
Malattie infiammatorie
777
(segue tabella 20.10)
Bunyaviridae*
Reoviridae* Paramixoviridae
Arenaviridae
Picornaviridae
Rhabdoviridae Filoviridae Retroviridae
B: CON
Dengue Encefaliti trasmesse dalle zecche (TBE complex) Centro-europea Russa estivo-primaverile Louping ill Encefalite da virus Powassan Encefalite californiana Encefalite di La Crosse Febbre di Rift Valley Encefalite da virus Toscana (Phlebovirus) Febbre da zecche del Colorado (Coltivirus) Rubulavirus Parotite Morbillivirus Morbillo Paramixovirus Nipah virus Arenavirus Coriomeningite linfocitaria Febbre emorragica boliviana (Machupo) Febbre di Lassa Febbre emorragica argentina (Junin) Enterovirus Virus polio Coxsackie Echovirus EV 71 Lyssavirus Rabbia Virus Ebola Lentivirus HIV (Human immunodeficiency virus)
MECCANISMO IMMUNITARIO (POST-INFETTIVO):
Virus a DNA Herpesviridae
Poxviridae Virus a RNA Togaviridae
Orthomixoviridae Paramixoviridae
Virus varicella-herpes zoster (VZV) Virus Epstein-Barr Orthopoxvirus Virus vaccinico Rubivirus Rosolia Virus influenzali Rubulavirus Parotite Morbillivirus Morbillo
(*) Queste famiglie includono virus compresi, in precedenti classificazioni, nell’ambito degli Arbovirus (ARthropod-BOrne virus).
778
Malattie del sistema nervoso
Tabella 20.11 - Principali cause non virali di encefalite o meningo-encefalite. Batteri
Streptococchi e altri piogeni (Ascesso cerebrale) Legionella pneumophila (Legionellosi) Listeria monocytogenes (Listeriosi) Bordetella pertussis (Pertosse) Salmonella typhi (Tifo) Bacillus anthracis (Carbonchio) Brucella (Brucellosi) Bartonella quintana (Febbre delle trincee) Bartonella henselae (Malattia da graffio di gatto)
Coxiella burnetii (Febbre Q) Actinomiceti (Actinomicosi) Nocardia asteroides Micobatteri Malattia di Whipple Spirochete
Treponema pallidum (Sifilide) Borrelia burgdorferi (Malattia di Lyme) Borrelia recurrentis (Febbre ricorrente) Leptospira interrogans (Leptospirosi)
Rickettsie
Rickettsia prowazeki (Tifo esantematico) Rickettsia rickettsii (Febbre purpurica delle Montagne Rocciose) Orientia (Rickettsia) tsutsugamushi (Febbre fluviale del Giappone) Ehrlichia canis
Protozoi
Plasmodium falciparum (Malaria) Toxoplasma gondii (Toxoplasmosi) Trypanosoma brucei (Malattia del sonno) Trypanosoma cruzi (Malattia di Chagas) Amebe (Naegleria, Acanthamoeba) (Meningoencefalite amebica)
Miceti
Aspergillus fumigatus, A. flavus (Aspergillosi) Candida albicans (Candidosi) Cryptococcus neoformans (Criptococcosi) Histoplasma capsulatum (Istoplasmosi) Blastomyces dermatitidis (Blastomicosi)
Altri microrganismi unicellulari
Clamidie (Ornitosi, Psittacosi) Micoplasmi (Mycoplasma pneumoniae)
Parassiti pluricellulari
Elminti (v. Tabella 20-19)
Sul piano pratico, è opportuna una preliminare distinzione tra le encefaliti virali e quelle dovute agli altri tipi di agenti patogeni. Anche se il ruolo di alcuni agenti infettivi quali i miceti e i protozoi, un tempo trascurabile, sta assumendo una rilevanza crescente in ospiti immunocompromessi, le encefaliti virali rappresentano tuttora il pa-
ragrafo più importante di questo capitolo. Anzitutto, alcuni degli agenti infettivi non virali danno luogo a quadri clinici particolari che, pur configurando in teoria vere e proprie encefaliti, sono abitualmente considerati nell’ambito di capitoli specifici della patologia neurologica (l’esempio più importante è quello della sifilide).
Malattie infiammatorie
779
Tabella 20.12 - Fattori ecologici e sociali che possono influenzare l’evoluzione e la diffusione degli agenti neurotropici. Costituzione di un gruppo sufficientemente numeroso di individui potenzialmente esposti all’infezione
Incremento globale della popolazione Aumento dei contatti interumani (viaggi)
Modificazione delle forme di contatto interumano o uomo-animale Fenomeni di costume
Aumento della promiscuità sessuale Precoce esposizione a contatti extrafamiliari baby sitter, asili nido Modificazioni dell’ambiente boschivo insediamenti residenziali in zone “verdi” creazione di parchi salvaguardia delle foreste Disboscamento di terreni agricoli e irrigazione (diffusione dei roditori e dei loro virus) Aumento globale della mobilità degli animali e dei loro prodotti Utilizzo di materiale biologico a scopo militare o criminale guerra biologica, “bioterrorismo”
Interventi medici
Fattori climatici ed ambientali
Trasfusioni Terapia immunosoppressiva Trapianti d’organo (donatore infetto) Terapia antimicrobica (favorisce le forme resistenti) Modificazioni del clima (aumento della temperatura per “effetto serra”) aumento diffusione vettori Flussi uccelli migratori
Inoltre, le encefaliti virali sono globalmente più frequenti, ed anche la loro diffusione è in aumento, rispetto, per esempio, a quella delle malattie batteriche. I motivi di questa tendenza sono molteplici, e comprendono non soltanto aspetti strettamente medici, quali la crescente diffusione di patologie del sistema immunitario. La Tabella 20.12 elenca sinteticamente alcuni esempi di fattori ecologici ed ambientali capaci di favorire la diffusione delle malattie da virus neurotropi. Il ruolo di alcuni di essi (come la mobilità della popolazione) è intuitivo, se si pensa ad esempio che il virus del morbillo, comparso in Europa ai tempi dell’invasione araba, impiegò circa due secoli per attraversare i Pirenei, mentre oggi un individuo con una malattia virale in incubazione, può spostarsi da un continente all’altro in poche ore. Le ripercussioni di altri fenomeni, quali la maggior estensione dei terreni coltivati, la salvaguardia delle foreste, la protezione degli animali selvatici, i flussi migratori degli uccelli appaiono forse meno ovvie, ma
sono comunque ben documentate in alcuni contesti geografici. Il capitolo delle encefaliti virali è in continua evoluzione, non solo per l’affinamento della tassonomia ed il progresso delle tecniche diagnostiche, che hanno determinato una miglior definizione ed una riclassificazione di forme cliniche già note, ma anche in rapporto ad una sorta di evoluzione «storica» della biologia stessa di alcuni agenti eziologici. Ad esempio, l’encefalite letargica di Von Economo, dovuta ad un virus rimasto sconosciuto, ha dato luogo ad una diffusione epidemica nel terzo decennio del XX secolo, per poi scomparire del tutto senza una spiegazione apparente; la crescente diffusione delle vaccinazioni contro le malattie esantematiche infantili ha determinato una drastica riduzione delle complicanze encefalitiche di morbillo e parotite; per converso, negli ultimi decenni, sono apparsi nuovi ceppi di virus neurotropi, quali ad esempio il virus dell’encefalite La Crosse, gli Enterovirus 70 e 71, il virus Nipah.
780
Malattie del sistema nervoso
I virus capaci di determinare processi infiammatori del sistema nervoso centrale, ed in particolare encefaliti, sono molteplici ed appartengono a numerose famiglie di virus sia a DNA che a RNA. La Tabella 20.10 elenca i principali virus responsabili di encefaliti acute, classificati secondo gli attuali criteri tassonomici.
PATOGENESI Elementi di biologia dei virus neurotropi. – Poiché, come si è detto, la maggior parte delle encefaliti è di origine virale, un breve richiamo di alcune nozioni fondamentali di biologia dei virus è indispensabile per la comprensione dei vari aspetti del processo morboso. Le caratteristiche specifiche essenziali dei virus, che li differenziano da tutte le altre categorie di agenti patogeni, sono: a) le dimensioni: 20-300 nm; b) il fatto di possedere un solo tipo di acido nucleico (DNA o RNA, ma mai entrambi); c) la mancanza di un’attività metabolica se non all’interno di una cellula ospite. Schematicamente, una particella virale matura (detta anche virione) è costituita da una zona centrale di acido nucleico, a catena singola o doppia, circondata da unità proteiche (capsomeri); la struttura combinata acido nucleico-proteina è denominata nucleocapside. Alcuni virus, come adenovirus ed enterovirus, sono costituiti dal solo nucleocapside; in altri invece (mixovirus, herpesvirus, retrovirus) il nucleocapside è circondato da un ulteriore involucro costituito da materiale proteico, glicoproteico e lipidico, che può in parte provenire dalla cellula ospite. A differenza dei batteri, i virus sono in grado di replicarsi solo all’interno delle cellule viventi. La stessa sopravvivenza dei virus nell’ambiente è di durata assai breve, e nella maggior parte dei casi essi passano direttamente da un ospite all’altro. La prima fase del processo di replicazione dei virus è la collisione casuale del virione con un sito recettoriale sulla superficie della cellula ospite, la cui specificità determina la capacità del virus di infettare quel tipo di cellula. Nel caso dei virus neurotropi, essa può riguardare i neuroni, le cellule gliali, ependimali e meningee. Il fenomeno successivo è l’assorbimento del nucleocapside all’interno della cellula stessa. Da questo momento il processo di replicazione si diversifica in rapporto al tipo di acido nucleico posseduto dal virus, pur mantenendo alcune caratteristiche comuni. L’acido nucleico virale, infatti, utilizzando fonti di energia e metaboliti della cellula ospite, dirige la sintesi di nuovo acido nucleico virale e di proteine che si assemblano in ulteriori virioni. Tale processo avviene nel nucleo per i virus a DNA e nel citoplasma per i virus a RNA. A questo punto si verifica la liberazione dei virioni nello spazio extracellulare,
che può avvenire con diverse modalità, cui corrispondono differenti conseguenze sul destino della cellula ospite. Una prima possibilità è che si verifichi una rottura completa della cellula (lisi), con immediata morte cellulare (è il caso dei poliovirus). Più comunemente, i virus vengono liberati attraverso un processo di gemmazione della membrana, che può perdurare anche a lungo prima di determinare la morte della cellula. In ambedue i casi, comunque, il risultato dell’infezione virale è la completa distruzione della cellula: questo processo si chiama infezione litica e rappresenta una delle quattro fondamentali modalità di interazione fra virus e cellula ospite. Esistono infatti altri tre tipi di relazione fra virus e cellula ospite, importanti per comprendere la patogenesi di alcune infezioni virali del sistema nervoso: – l’infezione latente: alcuni virus, ed in primo luogo quelli appartenenti alla famiglia herpesviridae possono, dopo aver determinato un’infezione primaria, permanere allo stato di latenza all’interno delle cellule infettate, per riattivarsi mesi o anni più tardi (Tab. 20.13). Il virus dell’herpes simplex rimane latente nei gangli trigeminali, sacrali, in quelli del sistema nervoso autonomo ed anche in alcune strutture del sistema nervoso centrale. Il virus della varicella-herpes zoster rimane latente nei gangli sensitivi dei nervi cranici e delle radici dorsali dei nervi spinali. Il virus Epstein-Barr (latente nei linfociti B circolanti) ed il citomegalovirus (latente probabilmente nelle cellule endoteliali e microgliali) possiedono proprietà analoghe. Anche i virus del morbillo e della rosolia possono persistere in forma latente nelle cellule cerebrali. In tutti questi casi, un processo di riattivazione del virus determina una nuova malattia; – la trasformazione: alcune cellule infettate dal virus non vanno incontro a morte, come avviene nel caso dell’infezione litica, e neppure si limitano a contenere il virus allo stato di latenza come nell’ipotesi precedente: esse piuttosto subiscono un processo di modificazione indotto dal genoma virale, che altera i processi di accrescimento della cellula con possibilità di crescita di tipo tumorale. Un simile meccanismo è stato dimostrato nell’uomo per il virus Epstein-Barr e per alcuni retrovirus (HTLV-1); – l’infezione persistente: quest’ultima eventualità, di estremo interesse sul piano speculativo anche se al momento basata solo su riscontri in vitro, consiste nel fatto che alcuni virus possono provocare un’infezione persistente in grado di sopprimere solo alcune funzioni non essenziali della cellula, consentendone quindi la sopravvivenza, ma alterandone selettivamente l’attività metabolica. Studi sperimentali hanno, ad esempio, dimostrato un effetto del virus della rabbia sui recettori colinergici di cellule cerebrali di ratto.
Malattie infiammatorie
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Tabella 20.13 - Herpesviridae ed infezione latente del sistema nervoso. Tipo di virus
Recettori cellulari
Sede di latenza
Herpes simplex (HSV) HSV-1
Fibroblast growth factor (?)
HSV-2
Fibroblast growth factor (?)
Citomegalovirus (CMV)
beta-microglobulina (?)
gangli dei nervi cranici e spinali (soprattutto ganglio di Gasser); encefalo (?) gangli dei nervi cranici e spinali (soprattutto gangli sacrali) endoteli, microglia
Herpes zoster (VZV)
sconosciuto
Epstein-Barr (EBV) Herpesvirus tipo 6
Complement receptor 2 sconosciuto
gangli dei nervi cranici e spinali, cellule satelliti B-linfociti B-linfociti
da Picard FJ et al, Curr Opin Neurol Neurosurg 1993; 6: 169-175 (modificata).
Cenni di immunologia delle infezioni virali del sistema nervoso centrale. – La presenza del virus nel sistema nervoso centrale determina ovviamente una risposta immunitaria, che è finalizzata alla rimozione dell’agente patogeno che può essere a sua volta causa di malattia. I meccanismi della risposta immunitaria, pur essendo simili a quelli che si verificano negli altri organi, risentono di alcune proprietà specifiche del sistema nervoso centrale. Come è noto, i componenti fondamentali di ogni risposta immunitaria sono i linfociti T, i linfociti B, i monociti-macrofagi ed i prodotti solubili di queste cellule. Mentre i linfociti B sono in grado di riconoscere gli antigeni in fase solubile, le cellule T possono riconoscerli solo se questi sono presentati in associazione con degli antigeni del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC). I linfociti T sono a loro volta suddivisi in due categorie fondamentali in rapporto ai markers di superficie ed alle caratteristiche funzionali. Le cellule T CD4+ sono i principali produttori di sostanze solubili (citochine), importanti per le fasi successive della risposta immunitaria; le cellule T CD8+ producono citochine in quantità più limitata, ma sono dotati di azione citotossica. La funzione principale dei linfociti B è la produzione di anticorpi: nella prima fase della risposta anticorpale vengono prodotte IgM (la cui presenza è quindi espressione di un’infezione recente); in seguito, quando i linfociti B maturano a plasmacellule con l’intervento dei linfociti T CD4+, vengono prodotte IgG e IgA. I macrofagi mancano di specificità antigenica, ma hanno la funzione di fornire il supporto per la presentazione degli antigeni ai linfociti T CD4+ e di produrre citochine importanti per l’attivazione delle cellule B e T; nel sistema nervoso, inol-
tre, essi sono direttamente responsabili della demielinizzazione immunomediata. In generale, affinché all’interno del sistema nervoso centrale possa aver luogo una risposta immunitaria (eventualmente iniziata in un’altra sede), è necessario che si verifichino due condizioni: (a) devono esistere cellule e sostanze solubili circolanti, capaci di attraversare i capillari specializzati che costituiscono il substrato anatomico della barriera ematoencefalica e (b) devono esistere, all’interno del sistema nervoso, cellule capaci di presentare gli antigeni in associazione con gli antigeni MHC, come richiesto dai linfociti T. Ciò è tutt’altro che scontato, dal momento che tutte le principali categorie di cellule implicate nella risposta immunitaria risiedono nel tessuto linfatico periferico, ed il sistema nervoso centrale è classicamente ritenuto privo di una circolazione linfatica. La recente dimostrazione che i linfociti T attivati possono passare dal sangue circolante al parenchima encefalico e seguire poi un percorso inverso fino al sistema linfatico, fornisce i presupposti per l’esistenza di una sorveglianza immunologica del SNC da parte delle cellule circolanti. Probabilmente, il primum movens della risposta immunitaria nel sistema nervoso centrale è rappresentato da linfociti T in precedenza attivati per un contatto con il virus avvenuto in un tessuto linfatico extraneurale. La fase iniziale di questo processo, che comporta l’attraversamento di un’intricata struttura anatomica costituita dalle giunzioni serrate («tight junctions») delle cellule endoteliali, dai periciti, dalla membrana basale e dai processi pediculari degli astrociti, avviene in virtù di meccanismi noti soltanto in parte, che sono comunque estremamente complessi ed implicano la regolazione da par-
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te di numerose molecole (ß1 e ß2 integrine, selectine, immunoglobuline e proteoglicani). All’interno del parenchima encefalico, la microglia, ed occasionalmente altre cellule gliali ed endoteliali, possono esprimere gli antigeni MHC necessari per attivare i linfociti T, svolgendo la funzione che in altre sedi è propria dei macrofagi. In tal modo, se si verifica un incontro delle cellule T con antigeni presentati in modo appropriato, viene attivata la produzione di citochine, con il duplice effetto della lisi di cellule bersaglio e della amplificazione della risposta infiammatoria con modificazioni endoteliali, attrazione di linfociti B (capaci di sintetizzare anticorpi), monociti e altre cellule dal sangue circolante ed ulteriore stimolo dei processi di proliferazione e differenziazione cellulare, e di un aumento dell’espressione MHC a livello locale necessari per il completamento della risposta immunitaria.
Encefaliti primarie e secondarie Come si è accennato nella definizione, il concetto di encefalite implica la presenza di un agente infettivo, che non sempre, tuttavia, è direttamente responsabile del processo infiammatorio cerebrale. Infatti, accanto ad encefaliti in cui l’agente eziologico si localizza effettivamente nel parenchima cerebrale, determinando un danno parenchimale diretto (cosiddette encefaliti primarie), esistono altre forme morbose in cui il danno cerebrale è mediato dalla reazione immunitaria innescata dall’infezione sistemica (encefaliti secondarie). Quest’ultimo meccanismo riguarda prevalentemente, ma non esclusivamente, le infezioni virali (Tab. 20.10). Considerata la fondamentale differenza fra encefaliti primarie e secondarie, la trattazione della patogenesi deve essere distinta. PATOGENESI DELLE ENCEFALITI PRIMARIE L’invasione diretta dell’encefalo da parte dell’agente infettivo può avvenire attraverso tre vie fondamentali, rappresentate rispettivamente dalla diffusione per via ematogena, per via neurale e per contiguità. Nella maggior parte dei casi di encefalite non virale, e nella totalità dei casi di encefalite virale, l’invasione del paren-
chima cerebrale avviene dopo che l’agente infettante è penetrato nell’organismo in una sede lontana dal sistema nervoso. La porta di entrata più frequente è rappresentata dalla mucosa del tratto gastroenterico (è il caso degli enterovirus e della listeria) o dell’apparato respiratorio (virus del morbillo, della parotite e della varicella, Mycobacterium tuberculosis e criptococco) dove, se il patogeno non è immediatamente neutralizzato da anticorpi IgA secretori, infetta le cellule di primo contatto e si moltiplica in esse, diffondendosi quindi ai tessuti linfatici locali e successivamente penetrando in circolo. Altri virus (virus della rabbia, herpesvirus, virus trasmessi dagli artropodi) e le rickettsie penetrano nell’organismo attraverso la cute, per lo più come risultato del morso di un animale (spesso di un insetto). Anche in questi casi, all’ingresso del virus nel corpo dell’ospite fa seguito una prima fase di moltiplicazione nei tessuti limitrofi: il virus della rabbia, ad esempio, si replicherebbe all’interno delle cellule muscolari. Tutte le infezioni virali naturali del sistema nervoso iniziano, quindi, con una crescita locale del virus in un tessuto non neurale. Se il virus viene inattivato da anticorpi preesistenti o da cellule fagocitarie già a questo livello, non si verificherà infezione del sistema nervoso, altrimenti il virus potrà diffondersi al parenchima nervoso attraverso la via ematica o quella neurale. La diffusione per via ematogena, rappresenta il caso più frequente. Dopo la replicazione iniziale nei tessuti limitrofi alla porta di ingresso, i virus entrano in circolo determinando una viremia. È probabile che molti virus sfuggano all’azione del sistema reticolo-endoteliale, che dovrebbe essere in grado di rimuovere le particelle virali circolanti, infettando cellule ematiche ed ottenendo in tal modo una sorta di veicolazione protetta. Ad esempio, il virus del morbillo e probabilmente anche quello della parotite penetrano e si replicano nei linfociti; il virus HIV infetta le cellule mononucleate che hanno in superficie l’antigene CD4, parte del quale
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agisce proprio come sito recettoriale per il virus. Alla prima fase viremica fa seguito un’ulteriore replicazione del virus nel sistema reticolo-endoteliale, nel fegato, nella milza o nei linfonodi, a seconda della natura dell’agente infettante; a questo punto si verifica un’ulteriore fase viremica con la definitiva invasione del sistema nervoso centrale ed eventualmente di altri organi. Il passaggio dei virus dal torrente ematico all’encefalo può avvenire mediante un’infezione diretta delle cellule endoteliali dei capillari cerebrali, oppure utilizzando meccanismi di trasporto transendoteliale, o la veicolazione da parte di cellule ematiche capaci di attraversare normalmente la barriera ematoencefalica. In casi più rari i virus arrivano all’encefalo penetrando nei prolungamenti periferici della cellula nervosa e migrando in senso centripeto, configurandosi in tal modo una diffusione attraverso la cosiddetta via neurale. Due esempi di questa modalità di infezione del sistema nervoso sono rappresentati dal virus della rabbia, che si propaga dalla sede del morso attraverso i nervi periferici, e dal virus dell’herpes. Studi animali hanno dimostrato che il virus dell’herpes diffonderebbe direttamente al sistema nervoso attraverso le cellule recettoriali della mucosa olfattoria ed il nervo olfattorio o anche tramite il ganglio del trigemino. Peraltro, che questo meccanismo patogenetico possa applicarsi anche all’infezione umana è molto dubbio: secondo l’ipotesi più accreditata, l’HSV (come del resto anche il VZV) entrerebbero nei gangli sensitivi durante l’infezione primaria; da questa sede diffonderebbe alla periferia in occasione delle esacerbazioni dell’infezione cutanea o, più raramente, al SNC determinandone l’infezione. Nell’uomo non ci sono prove chiare del meccanismo patogenetico. La propagazione dei patogeni tramite il nervo olfattorio, ben nota sperimentalmente, sarebbe documentata sul piano clinico solo per le free-living amebe. I meccanismi di propagazione dei virus lungo la via neurale non sono completamente chia-
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riti. Si ipotizza che siano coinvolti gli spazi perineurali, i linfatici o le cellule di Schwann, mentre una replicazione all’interno dei cilindrassi è considerata improbabile per l’insufficienza dell’attività metabolica in zone così lontane dal centro della cellula. Tuttavia, la microscopia elettronica ha evidenziato la presenza di particelle virali in transito nei cilindrassi, e studi dinamici hanno dimostrato un flusso assoplasmico adeguato per spiegare il trasporto, che d’altra parte sembra avvenire con una rapidità maggiore di quanto sarebbe compatibile con l’ipotesi di un’infezione progressiva delle cellule di Schwann. Si ritiene perciò che il flusso assonale rappresenti la modalità di propagazione più probabile nell’ambito della via neurale. Infine, la terza modalità di infezione diretta del sistema nervoso, da considerarsi eccezionale, è rappresentata dalla diffusione per contiguità. Questa si verifica allorché un processo infettivo inizialmente localizzato in zone limitrofe, quali l’orecchio medio, la mastoide o i seni paranasali, si estende fino ad interessare l’encefalo. Tale meccanismo di propagazione riguarda solo alcuni agenti eziologici non virali, ed è importante per alcune forme particolari, quali l’encefalite suppurativa (ascesso cerebrale) e le encefaliti granulomatose da miceti, protozoi, ecc. PATOGENESI DELLE ENCEFALITI SECONDARIE La risposta anticorpale contro antigeni virali può comportare una reazione crociata contro alcune strutture del sistema nervoso centrale, ed una conseguente aggressione autoimmunitaria che coinvolge soprattutto la mielina o le cellule che la producono, e quindi la sostanza bianca dell’encefalo. Questo processo si verifica nelle forme post-infettive, post-esantematiche, post-vacciniche, tutte caratterizzate da una sostanziale unitarietà del quadro clinico e neuropatologico, che comporta una malattia demielinizzante monofasica, classicamente denominata encefalite glio-perivenosa. A questo mec-
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canismo patogenetico corrisponde un tipico decorso clinico, caratterizzato dal fatto che i sintomi neurologici dell’encefalite postinfettiva compaiono quando la malattia di base appare ormai in fase di remissione. NEUROPATOLOGIA Il quadro neuropatologico delle encefaliti può essere caratterizzato da aspetti diversi (Tab. 20.9). Gli elementi comuni sono l’infiltrazione perivascolare da parte di elementi di provenienza ematica (linfociti e polimorfonucleati), l’attività fagocitaria di cellule microgliali e le manifestazioni di tipo regressivo dei neuroni. L’infiltrazione manca soltanto nelle infezioni virali in corso di immunosoppressione, nel qual caso si parla spesso di encefalopatia piuttosto che di encefalite.
migratorie, mentre i linfociti B (e la successiva evoluzione in plasmacellule) e i linfociti T CD4+ tendono a rimanere confinati allo spazio perivascolare. In generale, la proporzione reciproca delle cellule che compongono l’infiltrato infiammatorio dipende dal tipo di agente patogeno: nel caso dei virus, ad esempio, nelle infezioni da alphavirus e flavivirus prevalgono i linfociti CD4+, mentre in quelle da arenavirus, virus del morbillo (limitatamente alla forma di encefalite subacuta) e retrovirus vi è una prevalenza dei linfociti del tipo CD8+. Naturalmente, il processo infiammatorio determina precocemente anche un edema cerebrale, da cui può derivare un’ischemia, a sua volta causa di danno cellulare. Le cellule microgliali vanno incontro ad iperplasia e proliferazione, formando piccoli accumuli (noduli microgliali), soprattutto intorno ai vasi venosi (Fig. 20.5). Un aspetto della risposta microgliale è la neuronofagia, termine con il quale si definisce una raccolta di cellule microgliali ipertrofiche intorno ad una cellula neuronale morta. Se vi è stata una necrosi tissutale, si verifica una astrocitosi reattiva, le cui caratteristiche peraltro non sono
Le componenti dell’essudato cellulare variano in rapporto al decorso ed alla natura dell’infezione. Nelle fasi più precoci, vi è una prevalenza di leucociti polimorfonucleati, mentre nelle fasi più avanzate l’essudato è composto quasi esclusivamente da linfociti, plasmacellule e grandi mononucleati. L’infiltrato riguarda anzitutto le leptomeningi, anche se non in modo particolarmente grave; più marcato è l’interessamento degli spazi perivascolari (Fig. 20.4). Esiste una certa selettività della risposta cellulare, infatti i macrofagi, i linfociti T CD8+ e le cellule natural killer (NK) sono dotate di ampie capacità
Fig. 20.4 - Infiltrato perivascolare. A destra si osserva, intorno ad un piccolo vaso, un manicotto parvicellulare di natura infiammatoria; proliferazione gliale diffusa.
Fig. 20.5 - Nodulo gliale. A) A destra, in vicinanza di alcuni vasi venosi, si osserva un ben definito nodulo gliale; proliferazione gliale diffusa. B) Lo stesso nodulo, a più forte ingrandimento.
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In alcune forme di encefalite l’aspetto preminente è la necrosi, che può essere limitata ad alcune zone (encefalite herpetica) oppure diffusa (encefalite di St. Louis). Quando la necrosi tissutale è causata direttamente dall’agente infettivo, gli aspetti istologici ricordano quelli dell’infarto, combinati con l’infiammazione, tanto che anche l’esame istologico può comportare non facili problemi di diagnosi differenziale. Nell’encefalite post-infettiva l’aspetto principale è la sofferenza della sostanza bianca, con demielinizzazione localizzata, soprattutto, intorno ai vasi venosi. Questo particolare aspetto giustifica il termine di encefalite glio-perivenosa con cui classicamente venivano denominati questi quadri. La demielinizzazione non limitata alle zone perivenose costituisce, invece, un aspetto tipico dell’infezione virale litica degli oligodendrociti in corso di leucoencefalopatia multifocale progressiva e dell’infezione da HIV, ove assume un carattere ancora più diffuso.
SINTOMATOLOGIA
Fig. 20.6 - Panencefalite sclerosante subacuta. Corteccia cerebrale. Discreta meningite linfomonocitaria. Sconvolgimento profondo della citoarchitettonica per la massiccia proliferazione gliale, che si accentua in qualche punto a livello del II, V e VI strato della corteccia. Discrete perivascolariti. (Osservazione Guazzi).
particolarmente specifiche, anche se nelle encefaliti subacute (ad esempio la panencefalite sclerosante subacuta e la leucoencefalopatia multifocale progressiva) la proliferazione degli astrociti con sviluppo di forme ipertrofiche rappresenta un aspetto caratteristico (Fig. 20.6). Anche i neuroni subiscono importanti modificazioni, alcune delle quali non specifiche: vi può essere perdita della sostanza di Nissl, rigonfiamento del nucleo o raggrinzimento ed eosinofilia del citoplasma. Una particolare alterazione è la presenza di vacuoli citoplasmatici, che dà luogo al quadro delle encefalopatie spongiformi (tali forme morbose, che corrispondono alle infezioni da prioni, tendono oggi ad essere escluse dal capitolo delle encefaliti). Più specifici sono invece i corpi inclusi, che possono ritrovarsi in alcune encefaliti (ad esempio nell’encefalite erpetica, nella rabbia e nell’encefalite subacuta da morbillo), e che interessano i neuroni, gli astrociti e le cellule oligodendrogliali, con localizzazione sia citoplasmatica che nucleare.
Se si considerano la varietà degli agenti eziologici e dei possibili meccanismi patogenetici, i diversi quadri neuropatologici e la distinzione delle encefaliti in rapporto al decorso, il tentativo di una trattazione unitaria del quadro clinico delle encefaliti potrebbe sembrare destinato all’insuccesso, tanto da suggerire l’opportunità di una trattazione esclusivamente articolata per singole forme morbose. In realtà un simile approccio sarebbe dispersivo e non completamente giustificato, dal momento che il quadro clinico delle encefaliti, soprattutto per quanto riguarda le forme acute, presenta effettivamente aspetti comuni che, sia pure con le inevitabili forzature proprie di ogni generalizzazione schematica, consentono un approccio sintetico alla descrizione della sintomatologia. ENCEFALITI ACUTE. – Il quadro clinico tipico delle encefaliti acute comprende i seguenti elementi fondamentali (Tab. 20.14): 1) Sintomi generali di un processo infiammatorio acuto. In primo luogo la febbre più o meno elevata, quindi gli altri aspetti clinici consueti (astenia, dolori muscolari diffusi, malessere generale) e di laboratorio (aumento della
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Tabella 20.14 - Sintesi schematica del quadro clinico delle encefaliti acute. 1) Sintomi generali di un processo infiammatorio acuto – febbre – astenia – dolori muscolari diffusi – malessere generale – VES elevata – eventuale leucocitosi. 2) Sintomi di sofferenza neurologica a) diffusa – alterazioni della coscienza (coma, confusione mentale) – crisi epilettiche generalizzate – mioclonie – sindrome di ipertensione endocranica – sindrome meningea (meningoencefalite) b) focale – a carattere irritativo crisi epilettiche parziali – a carattere deficitario deficit neurologici focali – disturbi cognitivi – disturbi psichici 3) Sintomi di sofferenza di altri organi
VES, positività dei parametri infiammatori, eventuale leucocitosi). 2) Sintomi neurologici. – Sintomi di sofferenza cerebrale diffusa. Comprendono, in primo luogo, disturbi della coscienza: stato di confusione mentale, alterazioni della vigilanza dal semplice obnubilamento fino ad uno stato di coma di varia profondità; crisi epilettiche generalizzate; mioclonie. Sempre in quest’ambito si devono considerare le manifestazioni cliniche di una eventuale ipertensione endocranica (cefalea, vomito, papilla da stasi, disturbi vegetativi), e quelle di una possibile sindrome meningea associata.
– Sintomi di sofferenza cerebrale focale. Sono frequenti, ma non obbligatori, e le loro caratteristiche dipendono ovviamente dalle aree colpite dal processo morboso, con manifestazioni sia irritative che deficitarie. I fenomeni irritativi, rappresentati da crisi epilettiche parziali, eventualmente con generalizzazione secondaria, sono relativamente frequenti. I fenomeni deficitari possono essere: deficit motori (emiparesi), atassia, disturbi cognitivi, disturbi visivi, deficit di nervi cranici, ecc. In questo ambito possono anche essere considerati i disturbi psichici, frequenti in alcune forme di encefalite, espressione di un interessamento dei lobi frontali e temporali. 3) Sintomi di sofferenza di altri organi. Non obbligatoriamente, si possono riscontrare sintomi in rapporto alla specificità dell’agente eziologico (ad esempio rash cutaneo nelle malattie esantematiche, tumefazione della parotide nell’infezione da virus parotitico). In conclusione, le varie forme hanno caratteristiche specifiche, che riguardano l’espressività di alcuni aspetti clinici rispetto ad altri (per esempio, una diversa rilevanza dei segni di sofferenza focale del sistema nervoso, la frequenza più o meno elevata di crisi epilettiche o di disturbi psichici), le caratteristiche epidemiologiche in rapporto alle modalità di infezione, il tipo di esordio, il decorso, la gravità ed i segni di patologia d’organo associati. Ne consegue che, nonostante alcuni indubbi elementi unificanti, le encefaliti acute rappresentano processi abbastanza polimorfi sul piano clinico, tanto da comportare spesso difficoltà diagnostiche. Ovviamente, di fronte ad un quadro clinico ad insorgenza rapida e costituito da febbre elevata, alterazioni della coscienza e crisi epilettiche generalizzate, eventualmente in un contesto anamnestico «sospetto» (quale un viaggio in paesi esotici, una recente malattia febbrile o esantematica, una puntura di zecche, ecc.), l’ipotesi diagnostica di una encefalite acuta emer-
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ge in modo evidente. Il corretto inquadramento diagnostico può essere invece tutt’altro che immediato qualora prevalgano i segni neurologici focali oppure manifestazioni relativamente aspecifiche, quali la cefalea o disturbi di tipo psichico, eventualmente in un contesto povero di segni infiammatori generali (semplice febbricola o addirittura assenza di febbre), come non raramente può accadere soprattutto nel soggetto anziano. ENCEFALITI SUBACUTE E CRONICHE. – Il quadro clinico è privo dei segni generali di malattia infiammatoria acuta, e risulta caratterizzato da sintomi di interessamento diffuso o multifocale dell’encefalo, ad evoluzione più o meno rapidamente ingravescente. L’aspetto fondamentale è in genere rappresentato da un progressivo deterioramento mentale, accompagnato da crisi epilettiche e da segni di deficit neurologico; solo nelle fasi più avanzate si manifestano anche disturbi della coscienza con un’evoluzione progressiva. ESAMI COMPLEMENTARI Anche la diagnostica delle encefaliti ha tratto vantaggio dall’avvento delle neuroimmagini computerizzate, che consentono la visualizzazione diretta del parenchima encefalico, ed in particolare dalla RM, che ha ormai assunto un ruolo fondamentale. Tuttavia anche tecniche diagnostiche più tradizionali hanno conservato un’importanza maggiore che in altre patologie neurologiche. Nel sospetto diagnostico di una encefalite le indagini fondamentali sono (a) l’EEG; (b) l’esame del liquor; (c) la diagnostica per immagini, TC e RM. a) L’EEG ha mantenuto nelle encefaliti un carattere di insostituibilità. Si può affermare, pur con le riserve legate alla possibilità di eccezioni, che un EEG normale rende la diagnosi di encefalite assai improbabile.
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Le alterazioni EEG in corso di encefalite possono essere aspecifiche e patognomoniche. Al primo gruppo appartengono le onde lente diffuse (theta o delta), di voltaggio più o meno elevato, continue o subcontinue, che caratterizzano il tracciato nella maggior parte dei casi di encefalite acuta. La presenza di epilessia comporta l’associazione di aspetti EEG tipici: punte, onde puntute, isolate o in brevi sequenze; l’ipertensione endocranica o lo stato di coma sono associati ad attività lente (1-2 c/s), di ampio voltaggio, diffuse, ma talora più evidenti nelle derivazioni anteriori. Nelle encefaliti acute l’EEG è quasi sempre alterato in modo grossolano, a meno che il processo infiammatorio non sia localizzato a livello sottocorticale; nelle forme paucisintomatiche, inoltre, la presenza di importanti alterazioni EEG può indirizzare correttamente la diagnosi. Le alterazioni patognomoniche sono rappresentate in primo luogo dalla cosiddetta attività periodica focale lenta caratteristica dell’encefalite herpetica. In questa forma morbosa l’EEG dimostra la presenza di onde lente puntute localizzate in regione temporale. Un altro quadro EEG tipico è quello della panencefalite sclerosante subacuta, caratterizzato da raffiche parossistiche di onde delta difasiche ad insorgenza periodica. b) L’esame del liquor è essenziale, e può presentare rischi solo se esiste ipertensione endocranica. In questo caso, il prelievo può essere eseguito solo dopo attenta valutazione del rapporto rischio-beneficio e, comunque, dopo aver effettuato le indagini neuroradiologiche. L’esame del liquor dimostra alterazioni, anche se una normalità del reperto liquorale non deve ritenersi in assoluto incompatibile con la diagnosi di encefalite (il 3-5% dei pazienti con encefaliti virali possono avere un liquor normale). La pressione liquorale è spesso aumentata; l’esame citochimico dimostra una pleiocitosi moderata, oscillante tra 10 e 2000 elementi per mmc, con prevalenza di mononucleati (una
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pleiocitosi più marcata è in genere espressione di una compartecipazione delle meningi al processo infiammatorio, cioè di una meningoencefalite); un aumento delle proteine, espressione di un danno della barriera emato-encefalica; un aumento delle IgG liquorali. L’esame del liquor può fornire anche informazioni sull’agente eziologico dell’encefalite, attraverso cinque fondamentali modalità d’approccio: (a) l’isolamento dell’agente patogeno; (b) l’identificazione di un antigene specifico; (c) la dimostrazione della presenza del DNA o del RNA virale; (d) la sieroconversione IgM; (e) la produzione endoliquorale di anticorpi specifici, evidenziata dall’isoelectrofocusing. Ciò non di meno, è innegabile che nella pratica clinica i risultati di queste indagini sono spesso deludenti: l’osservazione diretta dell’agente eziologico è assai rara, alcuni agenti patogeni come i virus non crescono nei terreni di coltura, e la ricerca di antigeni specifici viene utilizzata solo occasionalmente (ad esempio per il criptococco e per il virus dell’herpes simplex). D’altra parte le indagini sierologiche solo raramente forniscono risultati conclusivi, perché, da un lato, l’estrema varietà degli agenti patogeni richiederebbe la disponibilità di un numero praticamente illimitato di antigeni, dall’altro la frequente positività della titolazione anticorpale contro gli agenti virali più comuni è molto spesso aspecifica. Solo la dimostrazione di elevati titoli di IgM specifiche (espressione di infezione recente), o ancor più una variazione del titolo anticorpale in due controlli successivi nel corso della malattia, rappresentano elementi di effettiva rilevanza ai fini della diagnosi eziologica. La conferma della discrepanza esistente fra l’apparente chiarezza dei quadri clinici riportati dalla trattatistica e le effettive difficoltà diagnostiche che si incontrano nella pratica clinica, sta nel fatto che la percentuale delle encefaliti da causa non determinata continua a rimanere sorprendentemente elevata. Le prospettive attuali della diagnostica eziologica si basano sui progressi della patologia
molecolare, che hanno consentito di mettere a punto tecniche assai più sensibili e specifiche per l’identificazione dei microrganismi attraverso la dimostrazione della presenza dei relativi acidi nucleici. Tali metodiche consistono nell’ibridizzazione degli acidi nucleici e nella amplificazione del DNA (e, con ulteriori perfezionamenti della tecnica, anche del RNA) attraverso la polymerase chain reaction (PCR). La tecnica di ibridizzazione consiste nel cimentare il materiale biologico contenente frammenti di DNA o RNA dell’agente patogeno, con sonde («probes») oligonucleotidiche (contenenti di solito meno di 30 basi), capaci di combinarsi con la sequenza cercata. La procedura (Southern blotting per il DNA e Northern blotting per l’RNA) avviene in fasi successive (elettroforesi su gel, trasferimento su filtro di nylon, ibridizzazione con sonda specifica marcata, lavaggio ed autoradiografia) e consente di determinare, con precisione assoluta, la presenza nel campione di materiale nucleico di pertinenza di un determinato agente patogeno. La PCR è una metodica ancora più sensibile, perché permette di partire da un numero veramente minimo di «copie» (anche 10-100) dell’acido nucleico bersaglio. Ciò consente di utilizzare materiale biologico di vario tipo e di eseguire una rapida diagnosi anche in condizioni infettive nelle quali i microrganismi sono in quantità troppo esigua per essere evidenziati con le tecniche convenzionali. Per alcune forme di encefalite, ed in particolare per quella herpetica, tale metodica rappresenta ormai il “gold standard”, rendendo superfluo il ricorso a manovre più invasive quali la biopsia cerebrale. La concreta possibilità di utilizzare la PCR non a scopo di ricerca ma nella pratica clinica quotidiana è ancora limitata alla diagnostica di alcuni agenti patogeni ed è attuabile solo presso alcuni centri specializzati. È evidente comunque che le prospettive aperte da questa metodica renderanno l’approccio alla diagnosi eziologica delle malattie infettive del sistema nervoso assai più puntuale ed attendibile, anche se non si deve sottovalutare il rischio
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di false positività legate all’eccessiva sensibilità della PCR. c) Neuroimmagini computerizzate: se fino a pochi anni fa si poteva correttamente affermare che l’avvento di queste tecniche avesse avuto sulla diagnostica delle encefaliti un impatto meno significativo rispetto ad altre patologie, esiste ormai una vasta mole di dati che documentano il ruolo fondamentale della RM nell’evidenziare lesioni infiammatorie. La RM è molto più efficace della TC, le cui potenzialità diagnostiche sono sostanzialmente limitate all’ascesso cerebrale ed alle encefaliti necrosanti, di cui l’encefalite herpetica rappresenta la forma principale. In queste forme morbose, il processo infiammatorio comporta dei focolai di vera e propria necrosi tissutale, localizzati generalmente nei lobi temporali, che sono evidenziati dalla TC come aree ipodense. La RM può invece dimostrare la sede e l’estensione del danno parenchimale anche in altre forme di encefalite, fornendo eventualmente informazioni indirette sull’eziologia del quadro morboso e consentendo un monitoraggio strumentale dell’evoluzione clinica. Sul piano pratico, tuttavia, va sottolineato che le neuroimmagini possono risultare negative in circa la metà dei casi di encefalite, e che spesso i reperti sono aspecifici, evidenziando solo le conseguenze dell’edema cerebrale (lieve ipodensità diffusa alla TC, scarsa rappresentazione degli spazi subaracnoidei e dei ventricoli cerebrali) (Fig. 20.7). Il valore diagnostico di questi elementi dipende dalle correlazioni con la clinica e con i risultati delle altre indagini strumentali (EEG ed esame del liquor in primo luogo). L’EEG, l’esame del liquor e le neuroimmagini rappresentano le indagini essenziali per confermare la diagnosi di encefalite. Naturalmente uno studio completo laboratoristico e strumentale può fornire elementi aggiuntivi talora utili, anche se generalmente poco specifici: i consueti esami ematologici possono, ad
Fig. 20.7 - Quadro TC cerebrale in corso di encefalite di natura non determinata. A: Fase acuta. Si nota la sostanziale povertà dei reperti, rappresentati da una tenue diffusa ipodensità della sostanza bianca dei centri semiovali e da una minor visualizzazione dei solchi corticali. B: L’indagine ripetuta dopo 15 giorni dimostra l’attenuazione dell’ipodensità ed una tendenza alla riespansione dei solchi corticali. (Osservazione Arcuri).
esempio, evidenziare reperti suggestivi di un processo infiammatorio e di una reazione immunitaria, ma il loro valore diagnostico è ovviamente assai scarso; le indagini immunologiche per la ricerca di anticorpi specifici possono comunque essere eseguite, anche su siero, oltre che su liquor. Per quanto concerne indagini di più specifico significato neurologico, in casi selezionati può trovare indicazione la biopsia cerebrale, anche se il rapporto rischio-beneficio di tale indagine deve essere valutato con estrema cautela. DIAGNOSI Il carattere polimorfo dei quadri clinici rende ragione delle possibili difficoltà nella diagnosi. Se, teoricamente, l’associazione di segni infiammatori generali e segni di sofferenza diffusa e focale dell’encefalo non dovrebbe lasciare dubbi, in realtà la situazione è spesso assai più complessa. In linea generale, i quadri clinici con cui può porsi il problema di una diagnosi differenziale sono i seguenti: – Meningiti. Soprattutto le forme più gravi, e le encefaliti possono presentare elementi
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di sovrapposizione del quadro clinico, anche per il possibile coinvolgimento di entrambe le strutture (meningo-encefalite). La rilevanza dei sintomi e dei segni clinico-strumentali più francamente caratteristici di una meningite (sindrome meningea, cefalea, pleiocitosi liquorale) in rapporto a quelli di interessamento parenchimale (disturbi della coscienza, segni neurologici focali, alterazioni EEG) è l’elemento che consente l’orientamento diagnostico differenziale. – Malattie cerebro-vascolari. La necessità di una diagnosi differenziale tra encefalite e patologia cerebro-vascolare si pone soprattutto quando i reperti TC e RM in corso di encefalite necrosante possono risultare simili a quelli di un infarto cerebrale. Nei casi di dubbio diagnostico, l’esame del liquor e le indagini sierologiche possono apportare elementi definitivi. – Tumori cerebrali. Normalmente mancano i segni di un processo infiammatorio ed il decorso è più lento, anche se alcuni tumori scarsamente differenziati possono presentare un’evoluzione particolarmente tumultuosa o addirittura un esordio ictale. Il contributo delle neuroimmagini è in genere sufficiente a dirimere il dubbio diagnostico. – Encefalopatie tossiche, metaboliche e carenziali. Nonostante l’assenza di febbre e di altri segni infiammatori generali, queste forme morbose danno luogo a quadri clinici che possono presentare un problema diagnostico differenziale particolarmente difficile. In entrambi i casi, infatti, prevalgono sintomi e segni di sofferenza diffusa dell’encefalo (confusione mentale, coma, crisi epilettiche generalizzate) ad esordio acuto o subacuto. Ovviamente si deve tener conto dei dati anamnestici (presenza di malattie suscettibili di dare origine ad una encefalopatia metabolica, esposizione a sostanze tossiche); nel caso di un’encefalopatia tossica o metabolica gli esami di laboratorio potranno fornire gli elementi di conferma della diagnosi. Devono essere ricordati, in quest’am-
bito, anche le encefalopatie paraneoplastiche (soprattutto la rara «encefalite limbica», che eccezionalmente può presentare un quadro clinico simile a quello di un’encefalite virale acuta) e quelle iatrogene, ad esempio la leucoencefalopatia indotta dalla chemioterapia e i quadri in rapporto con farmaci psicotropi (v. pag. 000). Un cenno merita anche la cosiddetta encefalopatia settica, quadro clinico di recente identificazione (Bolton et al., 1993). Gli stati settici danno luogo a frequenti e diverse complicanze neurologiche: in particolare, circa il 70% dei soggetti presenta già precocemente disturbi di tipo psicorganico, con peggioramento progressivo nell’arco di giorni o settimane fino al coma. Sono invece rari gli altri sintomi caratteristici delle encefaliti, quali deficit focali, crisi epilettiche e mioclonie. Tale quadro, potenzialmente reversibile in rapporto all’evoluzione dello stato settico originario, non è legato ad un’infezione diretta dell’encefalo, ma è probabilmente in rapporto con la liberazione di elevate quantità di citochine da parte dei macrofagi e dei linfociti. Ciò determina un aumento della permeabilità capillare con conseguente edema tissutale, alterazioni della microcircolazione, aumento dell’attività procoagulante ed effetti diretti sul metabolismo dei tessuti. Non si tratta quindi di un’encefalite, ma la concomitanza di gravi segni generali di infezione (eventualmente da parte di microrganismi capaci di dare a loro volta un interessamento diretto del parenchima cerebrale) può comportare notevoli difficoltà diagnostiche differenziali, tanto più che anche l’EEG risulta spesso alterato. A differenza delle encefaliti, tuttavia, l’esame del liquor risulta normale o dimostra al massimo una lieve iperproteinorrachia.
– Sindromi psichiatriche. Questo aspetto viene spesso trascurato, ma esistono quadri psichiatrici, ed in particolare la sindrome catatonica, che comportano alterazioni non facilmente distinguibili da quadri organici. La catatonia, del resto, può essere sintomo di una malattia cerebrale organica, in genere di tipo infiammatorio, come appunto un’encefalite. La diagnosi differenziale può non essere agevole: l’orientamento verso una patologia psichiatrica si basa, oltre che sulla frequente esistenza di precedenti psicopatologici, sulla negatività delle indagini strumentali (EEG, esame del liquor e neuroimmagini). Molti pazienti psichiatrici,
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inoltre, praticano terapie suscettibili di dare luogo, in particolari circostanze, ad encefalopatie tossiche, quali l’encefalopatia da litio (in coloro che praticano terapia con carbonato di litio per ciclotimia) e la cosiddetta sindrome maligna da neurolettici (v. pag. 000). In quest’ultimo caso, la costante presenza di ipertermia può rappresentare un ulteriore motivo di incertezza diagnostica. TERAPIA Comprende misure specifiche per l’agente eziologico e misure di carattere generale, intese a combattere le conseguenze della malattia. Ovviamente il primo punto richiede che l’agente responsabile sia identificato e che esistano farmaci capaci di antagonizzarlo. Nel caso delle encefaliti virali, che sono le più frequenti, la disponibilità di farmaci antivirali è per ora praticamente limitata agli antagonisti degli herpesvirus (v. pag. 000). Sul piano pratico è comunque raccomandabile iniziare la terapia con acyclovir in tutti i casi di encefalite presumibilmente virale, indipendentemente dall’identificazione dell’agente patogeno, considerate le difficoltà di una diagnosi tempestiva ed il favorevole rapporto rischio-beneficio del trattamento. A seconda della gravità delle condizioni cliniche del paziente e dei dati ematici e liquorali potrà essere presa in considerazione anche una terapia antibiotica ad ampio spettro, ad esempio con ceftriaxone, in associazione con l’acyclovir. Nel caso di encefaliti da altri agenti patogeni (batteri, miceti, ecc.), si devono utilizzare chemioterapici appropriati all’agente patogeno, di cui si tratterà nei relativi paragrafi. Le misure terapeutiche generali e sintomatiche sono spesso non meno importanti di quelle specifiche. Una copertura con farmaci antiepilettici (soprattutto barbiturici) è indispensabile per ridurre il rischio di crisi convulsive generalizzate che possono assumere anche par-
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ticolare gravità (stati di male epilettico) (v. pag. 000). Un altro problema è rappresentato dalla terapia dell’edema cerebrale, che può rappresentare un elemento pericoloso per l’evoluzione ed eventualmente determinare ipertensione endocranica ed ernie cerebrali. La terapia antiedemigena può essere eseguita in modo protratto con diuretici tiazidici o con steroidi, anche se l’uso di questi ultimi va valutato in rapporto al ben noto effetto immunodepressore, oppure in situazione d’emergenza (incuneamento) con diuretici osmotici (infusione di mannitolo al 20%). Soprattutto nei casi in cui le encefaliti si manifestano come un processo acuto di particolare gravità, estremamente importanti sono le misure di supporto intese ad assicurare un corretto bilancio idroelettrolitico, un adeguato apporto nutritivo, la prevenzione dell’insufficienza respiratoria e delle conseguenze dell’immobilità nel paziente in coma. Tali misure sono ovviamente quelle che si impongono in tutte le malattie neurologiche acute e richiedono spesso una terapia intensiva in un reparto di rianimazione.
Quadri clinici specifici Encefaliti virali acute Rappresentano, come si è detto in precedenza, il raggruppamento più vasto e numeroso; alcune, come l’encefalite herpetica, rivestono un estremo interesse sia scientifico che pratico, altre, come le encefaliti che complicano le malattie infettive dell’infanzia, sono importanti soprattutto per la loro diffusione. Il capitolo comprende poi numerose altre forme morbose, di importanza certamente minore perché si tratta di malattie rare o con diffusione geografica limitata, o perché presentano un prevalente se non esclusivo interesse storico, come l’encefalite letargica e la rabbia. Questa premessa giustifica il diverso spazio che sarà
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dedicato alla trattazione delle singole forme, nessuna delle quali tuttavia può venire completamente trascurata. Encefalite da Virus dell’Herpes simplex DATI EPIDEMIOLOGICI L’encefalite da virus dell’herpes simplex (HSV) rappresenta probabilmente la forma più comune di encefalite sporadica in Europa e nell’America del Nord. Certamente è la forma che rende conto della maggior parte dei decessi per encefalite, e quella che più frequentemente consente una diagnosi eziologica definita. Secondo i dati più attendibili l’incidenza annua si aggira intorno ai 2,3 casi per milione di abitanti, con una oscillazione da 1 a 5 casi per milione a seconda delle casistiche. Negli Stati Uniti si calcola che ogni anno si verifichino circa 1250 casi di encefalite herpetica. L’incidenza, che non risente di variazioni stagionali, potrebbe essere più elevata, poiché è possibile che forme cliniche particolarmente lievi passino inosservate o non vengano correttamente diagnosticate. L’encefalite da virus dell’herpes simplex colpisce tutte le fasce di età, e la distribuzione di frequenza ha un andamento di tipo bimodale, con un primo picco tra i 5 e i 30 anni ed un secondo oltre i 50 anni: in particolare, un terzo di tutti i casi si verifica in soggetti con meno di 20 anni, e circa la metà in soggetti con più di 50 anni.
EZIOLOGIA L’agente responsabile è il virus HSV, un virus a DNA con un diametro di 150-240 nm, dotato di un involucro lipidico costituito da materiale proveniente dalla membrana delle cellule infettate. Il virus HSV può passare da una cellula all’altra, attraverso un processo di fusione delle membrane: in tal modo è in grado di evitare il contatto con anticorpi extracellulari e di infettare anche cellule la cui superficie è priva di recettori per il virus; è probabile che questa caratteristica sia alla base della capacità del virus di rimanere a lungo latente nelle cellule. Il gruppo dei virus dell’herpes simplex comprende il virus HSV-1, comunemente responsabile dell’herpes buccale e labiale, ed il virus HSV-2, responsabile dell’herpes genitale, che si differenziano per alcune caratteristiche
antigeniche, biologiche e colturali. Nei bambini e negli adulti l’encefalite herpetica è causata dal virus HSV-1, che giustifica globalmente il 95% dei casi; l’encefalite può instaurarsi sia nel corso di una prima infezione herpetica (30% dei casi) che come espressione di una reinfezione endogena (70%). Nei neonati, invece, l’encefalite herpetica è provocata dal virus HSV-2, ed è la conseguenza di un’infezione genitale della madre, spesso inapparente e trasmessa al bambino durante il parto. L’incidenza di infezione è di circa 1 caso ogni 3.500 nati vivi l’anno ed il 50% dei neonati con infezione herpetica ha lesioni del SNC. L’encefalite herpetica del neonato compare da 1 a 3 settimane dopo la nascita nel quadro di una infezione herpetica generalizzata, con vescicole cutanee diffuse, epatite, polmonite, coagulazione intravascolare disseminata. Talora, tuttavia, anche nel neonato l’encefalite può essere isolata; il processo infiammatorio, a differenza di quanto accade nell’adulto, è diffuso a tutto l’encefalo.
PATOGENESI È in parte ancora controversa, ma è ormai appurato che, per l’intero gruppo degli herpesvirus, il veicolo di trasmissione è rappresentato da fluidi corporei infetti. Di solito il virus penetra nell’organismo attraverso la mucosa orofaringea, la congiuntiva o la cute abrasa; dopo una prima replicazione in sede locale, penetra nelle terminazioni dei nervi sensitivi, da dove, in senso centripeto, raggiunge il corpo cellulare dei neuroni sensitivi a livello dei gangli (nel caso del HSV-1 soprattutto il ganglio trigeminale di Gasser, nel caso del HSV-2 soprattutto i gangli sacrali), dove il virus si replica e dove è probabile che rimanga allo stato latente. La coesistenza di una diffusione ematogena, comunque, non è esclusa. L’infezione primaria da HSV può anche passare inosservata, ma ha come risultato l’instaurarsi di un’infezione latente dei neuroni, della glia, della microglia, delle cellule endoteliali e dei linfociti B. Un aspetto non ancora chiarito è per quale ragione un virus così diffuso determini un’encefalite solo in meno di 5 casi su un
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milione. Nel 70% dei casi di encefalite herpetica anticorpi contro il virus sono presenti all’esordio della malattia, a conferma del fatto che si tratta della riattivazione di un processo morboso preesistente, mentre solo nel restante 30% l’encefalite corrisponde ad una infezione primaria. Solo nel 6-10% dei casi, tuttavia, esiste un’anamnesi positiva per herpes labiale. A differenza di quanto accade per altre encefaliti, non sembra esservi una relazione con una compromissione diffusa del sistema immunitario. La recente osservazione che in circa il 25% dei casi i ceppi di HSV isolati dall’encefalo hanno caratteristiche diverse da quelli presenti nella cavità orofaringea degli stessi soggetti, suggerisce indirettamente l’ipotesi che in alcuni casi l’encefalite potrebbe essere causata da una sovrainfezione da parte di altri ceppi virali dotati di maggior neurovirulenza; inoltre è stata sperimentalmente dimostrata nel genoma virale del HSV la presenza di determinanti di virulenza, ed ancora i virus isolati dall’encefalo dimostrerebbero una maggior neurovirulenza, quando iniettati per via intracerebrale nel topo. Esistono quindi dimostrazioni a favore dell’esistenza di una certa specificità dei ceppi di HSV implicati nello sviluppo dell’encefalite herpetica, cosa che fino a qualche tempo fa era considerata improbabile. Allo stato attuale, tuttavia, si ritiene che la determinazione dell’infezione, lo sviluppo della malattia primaria, la permanenza del virus allo stato latente e le eventuali recidive siano in rapporto soprattutto con fattori relativi all’ospite. Le circostanze che possono associarsi con una riattivazione della malattia sono molteplici: tra le più frequenti si possono citare la febbre, le infezioni da altri agenti patogeni (particolarmente da pneumococco e meningococco), l’irradiazione e i traumi. Come si è detto, il virus herpetico raggiunge l’encefalo attraverso la via neurale. Studi sperimentali sull’animale hanno evidenziato che nel caso di un’infezione primaria o di una reinfezione, la via coinvolgerebbe la mucosa
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ed il nervo olfattorio per raggiungere le regioni fronto-basali e temporali degli emisferi cerebrali, dove si localizza in genere il processo infiammatorio. Più complesso sarebbe invece il percorso ipotizzato nel caso di riattivazione del virus rimasto latente nei gangli trigeminali. NEUROPATOLOGIA Il quadro è quello di una grave encefalite necrosante acuta (Fig. 20.8). Macroscopicamente l’encefalo appare edematoso e congesto, con aree di necrosi emorragica che possono dar luogo a zone di vera e propria colliquazione. Le lesioni cerebrali sono bilaterali, ma non simmetriche, e colpiscono le regioni mediali, temporali e fronto-basali degli emisferi cerebrali: l’ippocampo, l’amigdala, la parte mediale del lobo temporale, la superficie orbitaria del lobo frontale, il giro cingolato e l’insula sono le aree più frequentemente interessate. I reperti neuropatologici, oltre agli elementi tipici di un processo infiammatorio, evidenziano caratteristiche inclusioni nucleari eosinofile nei neuroni e nelle cellule gliali, denominate corpi di Cowdry tipo A. SINTOMATOLOGIA La presentazione clinica è variabile: l’esordio può essere fulminante («cataclismico»), ma più spesso è insidioso, con una fase prodromica della durata di 4-10 giorni, caratterizzata da cefalea, astenia, malessere, febbre e irritabilità. In seguito compaiono alterazioni psichiche, con modificazioni della personalità tipiche delle lesioni frontali e temporali, allucinazioni, disturbi della memoria. Allorché il quadro diviene conclamato, si manifestano i segni di una grave compromissione encefalica, con deficit neurologici focali (emiparesi, afasia, ecc.), assai frequenti (circa 90% dei casi), a carattere rapidamente ingravescente; crisi epilettiche e disturbi di coscienza.
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me più lievi, e si ipotizza che lo spettro dell’encefalite herpetica possa comprendere addirittura forme cliniche inapparenti, con manifestazioni di tipo prevalentemente psichiatrico. DIAGNOSI Le caratteristiche del quadro clinico consentono di porre il sospetto diagnostico, ma nessun aspetto può essere considerato patognomonico, neppure l’eventuale concomitanza di un herpes cutaneo. La diagnosi si basa sulle neuroimmagini, che dimostrano le zone di necrosi (Fig. 20.9), sull’EEG e sull’esame del liquor. Il reperto tipico alla RMN consiste in aree di iperintensità nelle sequenze T2-pesate, nella parte mediale ed inferiore dei lobi temporali, estese verso l’insula. Fino ad un recente passato, la certezza diagnostica poteva essere raggiunta solo con la biopsia cerebrale e con la dimostrazione della presenza del virus nel tessuto cerebrale. Attualmente la PCR è divenuta la metodica fondamentale per la diagnosi precoce dell’encefalite da HSV-1, con una sensibilità del 95% ed una specificità che si avvicina al 100%. La possibilità di dimostrare la presenza del DNA virale a partire da microquantità di liquor ha praticamente reso superfluo il ricorso alla biopsia ce-
Fig. 20.8 - Encefalite necrosante. A) Infarcimento emorragico dell’ippocampo destro. B) Area di gliosi nodulare. C) infiltrazione perivascolare nell’ippocampo di destra (Da Loeb e coll, Neurology, 1959).
Il decorso è in genere tumultuoso, e l’imponenza dell’edema cerebrale può determinare la precoce comparsa di ipertensione endocranica e di ernie cerebrali. Esistono tuttavia anche for-
Fig. 20.9 - RM cerebrale in un caso di encefalite herpetica. Sia la sezione assiale (A) che quella coronale (B) dimostrano un’iperintensità del segnale (sequenze T2-pesate) in regione temporale sinistra. (Osservazione Michelozzi).
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rebrale, il cui rapporto rischi-benefici comportava spesso difficili scelte operative. Prima dell’avvento degli attuali trattamenti antivirali, l’unico trattamento anti-herpetico disponibile era la idossiuridina, farmaco notevolmente tossico: in tali condizioni era ovviamente imperativo raggiungere una diagnosi di certezza prima di esporre il paziente al rischio di un trattamento farmacologico pericoloso. La disponibilità dell’acyclovir, farmaco antivirale notevolmente più efficace e maneggevole, autorizza invece ad iniziare il trattamento già sulla base di un fondato sospetto diagnostico, salvo modificare la strategia terapeutica qualora la diagnosi non risulti confermata. PROGNOSI La disponibilità di un trattamento antivirale specifico ha comportato un notevole miglioramento della prognosi, un tempo assai grave: la letalità, infatti, dal 70-80% si è attualmente ridotta al 20-25%, con importanti variazioni in rapporto alla fascia di età. Nei soggetti sopravvissuti è comunque frequente (e meno influenzata dal trattamento rispetto alla mortalità) la persistenza di sequele, espressione di una sofferenza dei lobi temporali, rappresentate da disturbi della memoria a breve termine, alterazioni del comportamento e della personalità, più raramente afasia e turbe dell’olfatto. Recidive della sintomatologia dopo trattamento con acyclovir possono verificarsi in corso di encefalite herpetica, sia neonatale che dell’adulto, in una percentuale non esattamente precisata, ma probabilmente intorno al 5% dei casi. Queste situazioni hanno in generale una prognosi assai grave, anche se talora la ripresa della terapia antivirale a dosi più elevate fornisce qualche risultato, perché il virus mantiene la sensibilità al farmaco. D’altra parte non esiste la prova certa che la recidiva clinica sia in tutti i casi legata all’azione diretta del virus HSV: sono stati descritti infatti rari casi in cui si è sviluppato un quadro di encefalite demieli-
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nizzante del tutto simile a quello delle encefaliti secondarie glio-perivenose. TERAPIA La terapia consiste nell’uso dell’acyclovir (9[2-idrossietossimetil] guanina), che è un analogo aciclico della guanosina, uno dei costituenti del DNA. L’acyclovir costituisce un profarmaco, di per sé inattivo, a meno che non sia fosforilato ad acyclovir trifosfato. L’enzima che catalizza la prima fase di questa trasformazione (timidina-chinasi) è codificato dal virus, e viene sintetizzato solo nelle cellule infettate dal virus HSV o dal virus VZV (varicella - herpes zoster). Ne consegue che la concentrazione di acyclovir trifosfato nelle cellule infettate raggiunge livelli 40-100 volte superiori a quelli delle cellule non infettate. L’acyclovir trifosfato è un inattivatore suicida della DNA polimerasi del virus HSV, con l’effetto di bloccare la sintesi di DNA virale. L’affinità della DNA polimerasi cellulare per l’acyclovir trifosfato è notevolmente inferiore, con conseguente minima incorporazione dell’acyclovir nel DNA cellulare e quindi scarsa tossicità.
L’acyclovir può essere somministrato per via topica, orale o endovenosa. Il farmaco viene eliminato in massima parte con le urine e sussiste il rischio di una cristallizzazione a livello renale se l’idratazione è inadeguata, per cui si deve somministrare un litro di liquidi per ogni grammo di farmaco somministrato e.v. L’attuale terapia di scelta per l’encefalite da HSV è l’acyclovir 10 mg/kg tre volte al giorno i.v. in un’ora, diluito in 100 ml negli adulti, in 20 ml nei neonati, per la durata di 1421 giorni anche se in alcune circostanze la terapia deve essere ulteriormente prolungata. In vitro l’acyclovir esplica la sua attività, con efficacia decrescente, su HSV-1, HSV-2, VZV e sugli altri virus della famiglia herpesviridae, con l’eccezione del citomegalovirus, che non possiede l’enzima timidina chinasi virus-specifico. Nei casi di encefalite erpetica resistenti alla terapia, particolarmente nei soggetti immunocompromessi, è stata recentemente dimostrata l’efficacia del foscarnet. La terapia è tanto
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più efficace quanto più precocemente è iniziata. Le condizioni generali dei pazienti richiedono anche una terapia di sostegno, comprendente in particolare il controllo dell’edema cerebrale e delle crisi epilettiche. L’associazione di desametazone è controversa, soprattutto per le obiezioni teoriche, ma è in realtà praticata, soprattutto nel corso dei primi 4-5 giorni della malattia. Encefalite da virus della varicella-herpes zoster La varicella, la più frequente malattia esantematica dell’infanzia, è dovuta all’infezione primaria da parte di un virus a DNA della famiglia delle herpesviridae. Lo stesso virus, se riattivato dopo una fase di infezione latente, dà luogo all’herpes zoster, una malattia tipica dell’età adulta. Il virus pertanto prende il nome di virus della varicella - herpes zoster (VZV). L’encefalite, che può essere sia primaria che secondaria, è la complicanza neurologica più frequente della varicella, pur essendo in assoluto molto rara, con un’incidenza stimata intorno allo 0,1% dei casi di varicella. Nelle forme primarie si ha invasione diretta dell’encefalo da parte del virus. Il virus si replica nella mucosa del tratto respiratorio superiore e causa una prima viremia; invade quindi le cellule del sistema reticolo endoteliale dove si replica ancora e causa una seconda viremia in concomitanza con la comparsa del tipico esantema. L’invasione delle cellule endoteliali dei capillari del SNC e delle cellule mononucleate causerebbe presenza diretta del virus nell’encefalo. La varicella può causare inoltre encefalite con un meccanismo immunomediato (encefalite secondaria post-infettiva). In tal caso i segni di encefalite insorgono varie settimane dopo la comparsa dell’esantema e l’anatomia patologica evidenzia aree di demielinizzazione. In più del 50% dei pazienti, l’encefalite da varicella si manifesta con un interessamento prevalente del cervelletto (forma cerebellare). I
segni neurologici compaiono, generalmente, circa una settimana dopo l’inizio dell’esantema, ma in casi più rari possono precederlo o manifestarsi contemporaneamente. La sindrome cerebellare tende ad avere un esordio graduale, con atassia, disartria e nistagmo spesso associati a cefalea e disturbi della coscienza. La forma diffusa può esordire in modo più improvviso, con cefalea intensa, vomito, sopore, crisi epilettiche generalizzate cui possono far seguito segni di deficit neurologico focale. La forma cerebellare ha in genere una prognosi molto migliore della forma diffusa; la letalità è comunque nettamente inferiore a quella dell’encefalite da herpes simplex, a meno che il paziente non sia immunocompromesso. Per quanto riguarda lo zoster, un interessamento encefalitico è estremamente raro (meno dell’ 1% dei casi), ed è più probabile nel soggetto immunodepresso, nell’anziano e nel paziente con localizzazione cranica dell’herpes zoster. Le caratteristiche di questa forma di encefalite non sono specifiche; la letalità è dell’ordine del 15-25%. Il virus VZV è stato infine associato alla comparsa di lesioni di tipo arteritico lungo il decorso dell’arteria cerebrale media con conseguenti lesioni ischemiche o ischemico-emorragiche. Questo quadro è stato inizialmente descritto in soggetti affetti da herpes zoster oftalmico, ma successivamente è stato osservato anche in bambini che avevano presentato varicella in un periodo variabile da 1 settimana a 9 mesi prima dell’insorgere della malattia neurologica. Il danno neurologico è spesso reversibile, ma sono possibili anche forme con gravi sequele. La patogenesi non è chiara ed è stata associata sia alla presenza diretta del virus a livello dell’endotelio e/o del tessuto nervoso, sia a fenomeni immunomediati. In generale, il trattamento della localizzazione encefalica di VZV comporta l’uso dell’acyclovir, peraltro meno efficace che nell’encefalite da HSV, associato a terapia sintomatica.
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Encefalite da Citomegalovirus Anche il citomegalovirus (CMV) appartiene alla famiglia delle herpesviridae e condivide con gli altri virus di questo gruppo la capacità di produrre un’infezione latente, durante la quale rimane inattivo nell’ospite umano senza malattia apparente. Il CMV è il principale agente patogeno della vita prenatale: l’infezione del feto è molto diffusa (0,5-2% di tutti i nati vivi), anche se dà luogo ad una malattia conclamata solo raramente. Al di fuori del periodo prenatale e neonatale, l’infezione da CMV, pur essendo estremamente diffusa (in certi strati della popolazione addirittura il 100% dei soggetti hanno segni sierologici di contatto con il virus), è in genere asintomatica o può determinare una sindrome similmononucleosica. Soltanto nei soggetti immunocompromessi (trapiantati, pazienti con AIDS), il citomegalovirus può dar luogo ad una encefalite. Come si è detto, l’acyclovir è praticamente privo di azione su questo virus; attivi anche se più tossici risultano il gancyclovir, il foscarnet e il cidofovir. Il CMV, inoltre, potrebbe essere implicato nell’eziopatogenesi della encefalite di Rasmussen, una rara encefalopatia epilettica dell’infanzia, caratterizzata sul piano neuropatologico da un quadro di tipo francamente infiammatorio, con noduli microgliali e infiltrati linfocitari perivascolari.
Encefalite da virus Epstein-Barr Il virus Epstein-Barr è l’agente eziologico della mononucleosi infettiva, che in circa il 25% dei casi può, durante la fase acuta, essere accompagnata da alterazioni liquorali, anche se vere e proprie complicanze neurologiche si verificano solo nell’1% circa dei casi. Una delle principali complicanze è rappresentata da una meningoencefalite, che spesso si manifesta con un’atassia cerebellare acuta ed ha normalmente prognosi favorevole. Sono stati però descritti casi di meningoencefalite più grave, caratterizzati da movimenti involontari patologici di tipo coreoatetosico, oppure da gravi alterazioni della coscienza.
Encefalite da virus B Il virus Herpes B è una causa comune di infezione nelle scimmie. È stato scoperto come potenzialmente patogeno per l’uomo nel 1933 e da allora sono stati descritti circa 30 casi. A seguito di morso di scimmia si verificherebbe replicazione virale nel tessuto sottocutaneo, drenaggio linfatico fino ai linfonodi e diffusione nel SNC per via retrograda tramite trasporto neurale.
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Nella sede della morsicatura si evidenzia un’eruzione vescicolare con linfangite. I segni neurologici si manifestano da 3 a 7 giorni dopo. La terapia di scelta è l’acyclovir.
Encefalite da virus del Morbillo L’encefalite (o encefalomielite) rappresenta una complicanza rara, ma non eccezionale, del morbillo. È rara nei bambini al di sotto dei 2 anni, mentre a partire da questa età la frequenza di tale complicanza è intorno allo 0,02-0,1% dei casi di morbillo, con tendenza all’aumento con il crescere dell’età. Prima della campagna in favore di una vaccinazione di massa dei bambini (peraltro non ancora obbligatoria in Italia), il morbillo era una malattia esantematica estremamente diffusa, con un picco di incidenza nei primi anni dell’età scolare (5-9 anni). Perciò, nonostante la modesta frequenza relativa della complicanza encefalitica, il morbillo ha rappresentato in assoluto (e continua a rappresentare nei paesi del terzo mondo) una delle più importanti cause di encefalite nel bambino. L’encefalite acuta da morbillo è una tipica encefalite secondaria (cioè mediata da un fenomeno di tipo allergico), quantunque siano stati descritti rari casi di infezione diretta del parenchima cerebrale da parte del virus. Dal punto di vista clinico, comunque, non vi sono sostanziali differenze tra le due diverse modalità patogenetiche. Il virus del morbillo determinerebbe una risposta immunitaria anomala nei confronti della proteina basica della mielina, con un meccanismo analogo a quello responsabile dell’encefalite allergica sperimentale. Il quadro neuropatologico è caratterizzato da una demielinizzazione perivenosa. Nei casi tipici i segni neurologici si instaurano 7-8 giorni dopo l’inizio della malattia, quando l’esantema è in fase di attenuazione ed il malato sembra in via di guarigione, con la ricomparsa di febbre elevata, seguita rapidamente da segni tipici delle encefaliti, già descritti nella parte generale: convulsioni, deficit neurologici
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Anche l’encefalite da virus parotitico è una rara, ma non eccezionale, complicanza di questa comune malattia infettiva (meno dell’1% dei casi). Compare, in genere, fino a 2 settimane dopo l’esordio della parotite, anche se in alcuni casi i sintomi parotidei possono passare inosservati. Non ha caratteristiche specifiche. La prognosi è generalmente assai buona, anche se occasionalmente può residuare un idrocefalo legato al coinvolgimento delle cellule ependimali per le quali il virus della parotite dimostra un particolare tropismo. La terapia è sintomatica.
bili di meningiti e di mieliti, rappresentando la causa più frequente di mielite paralitica nei paesi dove la poliomielite è stata eradicata grazie alla vaccinazione di massa. Più raramente gli enterovirus tipo Coxsackie, Echo ed EV 71 (eccezionalmente anche il virus EV 72) possono dar luogo ad encefaliti primarie, la cui diffusione globale, considerata la frequenza delle infezioni da enterovirus, è tutt’altro che trascurabile: le encefaliti da enterovirus rappresenterebbero infatti l’11-22% di tutte le encefaliti virali. Le encefaliti da enterovirus hanno un picco di incidenza fra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno e colpiscono soprattutto i bambini. Il quadro clinico non ha caratteri particolarmente specifici e la prognosi è benigna, ad eccezione della encefalomiocardite del neonato, sostenuta da virus Coxsackie del gruppo B e che colpisce i bambini nei primi 8-9 giorni di vita, delle encefaliti da virus Echo nei pazienti con agammaglobulinemia e dell’encefalite da EV 71, che ha recentemente dato luogo a focolai epidemici in estremo oriente, con caratteristiche cliniche di prevalente localizzazione troncale e tasso di mortalità relativamente elevato soprattutto nei bambini. Recentemente è stato sperimentato con successo un farmaco attivo sugli enterovirus, il pleconaril, che inibisce la replicazione virale bloccando la liberazione della capsula del virus e l’adesione alla cellula ospite. Tale farmaco si è dimostrato attivo sia nelle meningiti sierose che nelle meningoencefaliti.
Encefalite da virus dell’Influenza
Encefaliti trasmesse da artropodi
L’associazione di un quadro encefalitico o meningoencefalitico con un’infezione da virus influenzale è rara, anche se alcuni casi sono stati documentati. Non è completamente noto se l’encefalite è dovuta ad un meccanismo immunitario o alla localizzazione diretta del virus nel sistema nervoso, anche se le prove a favore della prima ipotesi sono prevalenti. Relativamente frequente è invece la sindrome di Reye, in corso di infezioni soprattutto da virus influenzale B e da varicella nei bambini. Tale sindrome, talora impropriamente classificata come encefalite, consiste in una encefalopatia non infiammatoria, associata ad interessamento epatico, correlato ad alterazioni strutturali dei mitocondri, che sarebbe favorita dall’assunzione di acido acetilsalicilico.
Comprendono un vasto gruppo di encefaliti che hanno in comune le modalità di trasmissione da un soggetto all’altro, attraverso zanzare o zecche. Fino a qualche tempo fa gli agenti eziologici erano raggruppati in una categoria omogenea (arbovirus, acronimo di «arthropode-borne viruses»), mentre oggi sono classificati in famiglie distinte sulla base delle caratteristiche morfologiche e chimico-fisiche (Togaviridae, Flaviviridae, Bunyaviridae, Reoviridae; Tab. 20.10). Queste encefaliti sono delle antropozoonosi: il serbatoio del virus è rappresentato sia da vertebrati (mammiferi ed uccelli) colpiti dall’infezione, sia dagli artropodi in cui il virus si moltiplica attivamente nelle ghiandole salivari senza dare malattia. La zanzara o la zecca che hanno ingerito il sangue infetto, una volta che il virus si è replicato, rimangono infettanti per il resto della loro vita e spesso trasmettono il virus alla prole per via transovarica. A differenza delle forme di encefalite descritte nei precedenti paragrafi, che sono sporadiche, le encefaliti trasmesse da artropodi sono endemiche o addirittura epidemiche. Hanno una distribuzione geografica ben precisa, che interessa solo marginalmente l’Italia, ma la crescente diffusione dei viaggi intercontinentali ed i flussi migratori inducono a non trascurare queste ipotesi diagnostiche, specialmen-
focali, mioclonie, disturbi della coscienza fino al coma. L’encefalite da morbillo è notevolmente più grave di quelle associate alle altre malattie virali dell’infanzia (varicella e parotite), ed ha una letalità del 10-20%; in un’elevata percentuale di casi, inoltre, la sopravvivenza si accompagna a sequele neurologiche spesso a carattere invalidante. La terapia è sintomatica. Encefalite da virus della Parotite
Encefaliti da Enterovirus Gli enterovirus comprendono i poliovirus, i virus Coxsackie, Echo ed alcuni ceppi di più recente identificazione (EV 70, 71 e 72, quest’ultimo corrispondente al virus dell’epatite A). Oltre al tipico quadro della poliomielite, i poliovirus possono determinare un’encefalite con particolare interessamento del tronco encefalico (v. pag.). Anche gli altri enterovirus sono spesso responsa-
Malattie infiammatorie te quando esiste il dato anamnestico di recenti viaggi all’estero, in zone dove esiste l’esposizione a punture di insetti, che rappresentano la classica modalità di trasmissione del virus all’uomo. Solo alcuni virus sono endemici in Italia: i virus dell’encefalite da zecche nella variante centroeuropea nel nord est dell’Italia e il virus Toscana nell’Italia centrale. Una volta penetrato nell’organismo attraverso la puntura, il virus si replica, dà luogo ad una viremia ed eventualmente ad una encefalite primaria, la gravità della quale dipende dal ceppo virale. Si tratta di quadri clinici che hanno caratteristiche comuni tra loro, a parte minori differenze che riguardano il periodo di incubazione, la predilezione per determinate fasce di età, la frequenza dell’infezione conclamata rispetto alle forme inapparenti, il decorso e la prognosi in rapporto al tasso di letalità ed alle possibili sequele. Anche i quadri EEG e neuroradiologici non sono specifici: quindi, una diagnosi eziologica può basarsi solo sul riscontro di un aumento dei tassi anticorpali specifici in campioni prelevati in tempi diversi. In Italia tali ricerche anticorpali sono eseguite solo in laboratori specializzati e presso l’Istituto Superiore di Sanità. La terapia è, ovviamente, sintomatica. Le forme principali sono elencate nella Tab. 20.15, in cui sono riassunte le caratteristiche fondamentali. Su scala mondiale, l’encefalite giapponese B è sicuramente la forma più diffusa e, con una incidenza annuale complessiva stimata in 50.000 casi, rappresenta un problema medico di rilevante importanza in Cina, nel sub-continente indiano e nei paesi del Sud-Est Asiatico, anche perché si tratta di una forma di encefalite piuttosto grave, con circa 15.000 decessi all’anno (tasso di mortalità di circa un terzo) ed importanti sequele neurologiche nella metà dei sopravvissuti. Negli USA, la forma più diffusa è l’encefalite da virus La Crosse, relativamente benigna, seguita dall’encefalite di St. Louis, più grave. Nell’estate del 1999 si è verificata a New York una piccola epidemia di encefalite da virus West Nile, ad ulteriore conferma che patogeni finora diffusi solo nei paesi in via di sviluppo possono coinvolgere anche il mondo occidentale. Per ragioni geografiche, la forma che interessa più da vicino il nostro paese è l’encefalite centro-europea, alla quale sembra opportuno riservare uno spazio maggiore.
Encefalite centro-europea Rappresenta, insieme all’encefalite russa estivo-primaverile, al louping ill ed all’encefalite da virus Powassan, il gruppo delle encefaliti trasmesse da zecche (tickborne encephalitides, TBE), tutte sostenute da Flavivirus tra loro simili, anche se differenziabili sulla base delle reazioni sierologiche. L’encefalite centro-europea è trasmessa dalla zecca Ixodes ricinus, che funziona anche da serbatoio del vi-
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rus. Sono interessati dall’infezione piccoli roditori, ed esiste inoltre un ciclo domestico, che coinvolge pecore, capre e bovini, con possibilità di trasmissione della malattia all’uomo anche per consumazione di latte non pastorizzato. Ha un’incubazione di 7-14 giorni, più breve se la trasmissione avviene per ingestione di latte contaminato, ed un decorso bifasico, anche se talora questo aspetto manca. All’inizio si manifesta una forma simil-influenzale, della durata di circa 1 settimana, seguita da una remissione che dura 8-15 giorni. In seguito insorge una meningo-encefalite o anche una semplice meningite sierosa, di solito con decorso benigno (letalità 0,5-5%). Più raramente si manifestano segni di mielo-meningoencefalite con comparsa di tetraparesi preceduta da intensi dolori ai 4 arti e al rachide. La RMN di solito è negativa, ma sono stati descritti casi con alterazioni di segnale nei gangli della base e nel talamo, in accordo con i reperti neuropatologici che dimostrano infiltrati infiammatori, neuronofagia ed astrocitosi reattiva nei nuclei profondi di sostanza grigia. In una significativa percentuale di pazienti si verifica la cosiddetta sindrome post-encefalitica caratterizzata da astenia, cefalea, deficit di memoria, disturbi della coordinazione, tremori. Un focolaio probabilmente autoctono di encefalite centro-europea è stato recentemente identificato anche nell’Italia Centrale, con 2-3 casi di encefalite umana ed isolamento del virus da uno di essi. Alcuni casi inoltre si sono verificati nel nord est dell’Italia verosimilmente per diffusione dalla vicina Austria. Proprio in Austria è organizzata una campagna di vaccinazione di massa che ha portato ad una brusca riduzione del numero di casi.
Encefalite da virus Toscana Il virus Toscana (Tab. 20.10), è un Phlebovirus della famiglia Bunyviridae la cui presenza è stata ampiamente documentata nell’Italia Centrale. Ha una maggiore diffusione in estate in quanto il virus è trasmesso da flebotomi. Per lo più causa meningiti sierose ad andamento benigno, ma più raramente può causare encefaliti dopo un breve periodo di incubazione (circa 15 giorni). Il meccanismo patogenetico è verosimilmente dovuto ad invasione diretta del SNC da parte del virus. La diagnosi eziologica può essere ottenuta tramite ricerche anticorpali e in laboratori specializzati (Istituto Superiore di Sanità, Roma), con l’isolamento diretto del virus.
Encefalite epidemica di Von Economo Si tratta di un quadro clinico di importanza quasi esclusivamente storica, se non per gli esiti che ancora oggi si possono occasionalmente incontrare.
ALTRE
del Colorado
Reovirus
Bunyavirus
E. da virus Toscana
Febbre da zecche
Bunyavirus
E. da virus La Crosse
E. da virus Powassan
Bunyavirus
Flavivirus
Louping ill
(FLAVIVIRUS)
E. Californiana
Flavivirus
E. centroeuropea
E. DA BUNYAVIRUS
Flavivirus
Flavivirus
E. TRASMESSE DA ZECCHE E. russa estivo-primaverile
Flavivirus
(TBE COMPLEX)
E. Murray Valley
Africa, Medio Oriente, Russia
Febbre del Nilo Occidentale Flavivirus
Rocciose), Canada
USA (ovest e Montagne
zecche (Dermacentor
Andersoni)
tutte le età
adulti
zanzare (Phlebotomus
perniciosus)
più i maschi
Italia centrale
giovani < 15,
zanzare (Aedes triseria-
tus)
più i maschi
giovani < 15,
bambini
<1%
rara
<1%
rara
rara
(esposizione lavorativa)
USA (zona centrale, Midwest),
zanzare (Culex tarsalis)
I. cookei)
zecche (Ixodes marxi,
adulti
zecche (Ixodes ricinus)
rara
5-20% 0.5-2%
tutte le età
zecche (Ixodes ricinus)
Canada
USA (Utah, Texas)
Nord America
Gran Bretagna
Europa Centrale (Austria ++)
20%
rara
30%
7%
<1%
3-10%
>30%
Letalità
zecche (Ixodes persulcatus) tutte le età
anziani
Russia
giovani <15,
zanzare (Culex annuli-
tutte le età
zanzare (gen. Culex)
rostris)
anziani
Australia, Papuasia-
giovani <15,
zanzare (Culex
tritaenio-rhyncus)
Nuova Guinea
Asia, Europa, USA
Cina, India, Sud-Est Asiatico
USA, America Centrale, Sud
adulti > 50
giovani < 15
zanzare (Culex melano-
conium, gen. Aedes)
Florida, America Centrale, Sud America zanzare (gen. Culex)
adulti > 50
Flavivirus
E. giapponese B
Flavivirus
bambini < 2,
zanzare (Culiseta
melanura, C. tarsalis)
USA (zona occidentale, Midwest), Sud America
(FLAVIVIRUS)
E. di St. Louis
(70% dei casi)
America, Caraibi
DELLA
Togavirus
E. equina venezuelana
giovani < 15
Età più colpite
zanzare
Artropode implicato
(Culiseta melanura)
USA (costa atlantica), Caraibi Sud America
ENCEFALITE GIAPPONESE
COMPLESSO
Togavirus
Togavirus
Agente eziologico Distribuzione prevalente
E. equina occidentale
E. equina orientale
E. DA TOGAVIRIDAE
(ALFAVIRUS)
Forma clinica
Raggruppamento
Tabella 20.15. - Caratteristiche delle principali encefaliti virali trasmesse da artropodi
-
-
++
+/-
-
-
+
++
-
+/-
+++
++
+/-
+
+/-
Diffusione
800
Malattie del sistema nervoso
Malattie infiammatorie L’encefalite letargica si manifestò in forma pandemica per circa un decennio a partire dall’inverno 1916-17, raggiungendo l’acme nel 1920, allorché la morbilità raggiunse picchi di 4-25 casi per 100.000 abitanti, con una letalità superiore al 25%. Un altro 50% dei pazienti affetti sopravvisse, ma con gravi sequele, nella metà dei casi rappresentate da un parkinsonismo post-encefalitico. La malattia iniziava con febbre, cefalea, marcata sonnolenza in tutte le ore del giorno, eventualmente associata ad inversione del ritmo sonno-veglia, movimenti involontari patologici, deficit dei nervi oculomotori, stato confusionale e crisi di agitazione psicomotoria. In alcuni casi un sintomo particolarmente disturbante e tipico era rappresentato da episodi di dolore talamico con mioclonie (algomioclono). In molti pazienti guariti, a distanza di tempo, anche di decenni, si è instaurato un parkinsonismo, associato a crisi oculogire. L’ipotesi della natura virale dell’encefalite letargica fu avanzata sulla base dei reperti neuropatologici, anche se l’agente responsabile non è mai stato identificato. L’epidemia è evoluta nell’arco di circa un decennio, dopo il quale è praticamente scomparsa, e rappresenta, al pari di altre malattie «classiche», quali la peste di Atene, un mistero della storia della medicina.
Encefalite da virus della Rabbia L’encefalite da virus della rabbia è oggi un’evenienza del tutto eccezionale nei paesi sviluppati. In alcune aree, come nelle isole britanniche, l’infezione è stata del tutto eradicata in virtù di severe limitazioni nell’importazione di animali domestici (cani e gatti in primo luogo). In alcune regioni italiane persistono invece focolai di infezione rabica, soprattutto in animali selvatici, donde la necessità di una continua sorveglianza epidemiologica. In condizioni naturali, infatti, esiste un duplice serbatoio del virus, rappresentato rispettivamente dagli animali domestici (cani e gatti soprattutto) e da quelli selvatici (rabbia silvestre). L’uomo viene generalmente infettato dalla morsicatura di animali domestici, che trasmettono il virus attraverso la saliva. Sono stati descritti anche rari casi di infezione trasmessa per via aerea, a seguito di soggiorno in caverne infestate da pipistrelli, o per aver maneggiato senza precauzioni materiale di laboratorio contaminato. In realtà, da molti anni in Italia non vengono segnalati casi di rabbia umana, ma solo situazioni di potenziale rischio per morsicature da parte di gatti affetti da rabbia, non seguite dalla malattia per la pronta adozione di misure profilattiche specifiche. Una volta penetrato nell’organismo, dopo una replicazione iniziale nelle cellule muscolari, il virus si propaga lungo i tronchi nervosi fino all’encefalo, ove si localizza soprattutto nel tronco encefalico, nel cervelletto e nell’ippocampo. Dal punto di vista neuropatologico, ai consueti reperti del proces-
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so infiammatorio, si associa la presenza di tipici corpi inclusi intraneuronali (corpi di Negri). Il quadro clinico è quello di una grave encefalite, con l’aspetto specifico dell’idrofobia. Una persistente dolorabilità intorno alla zona dell’avvenuta morsicatura è un importante segno premonitore, cui segue una fase prodromica caratterizzata da agitazione inspiegabile con frequenti spasmi respiratori scatenati dal tentativo di deglutire. L’idrofobia è la conseguenza di uno spasmo dei muscoli faringei e laringei provocati dal tentativo di deglutire, e nei casi gravi anche dal rumore dell’acqua o dal soffiare sulla faccia. Lo spasmo si può diffondere anche ad altri gruppi muscolari provocando opistotono. Nel 15% circa dei casi, la rabbia può presentarsi in forma atipica, ad esempio con una sindrome tipo sindrome di Guillain-Barré (v. pag. 000). Non esiste una terapia specifica e, una volta manifestata l’infezione, il decorso è inesorabilmente mortale, nell’arco di 10-15 giorni dall’esordio del quadro conclamato, ed occasionali segnalazioni di casi sopravvissuti sono state poste in dubbio. Sul piano pratico, il problema cui attualmente può trovarsi di fronte il medico non è tanto quello di diagnosticare e trattare l’encefalite rabica (evenienza, come si è detto, del tutto eccezionale), quanto quello di porre in atto le misure preventive qualora si verifichino situazioni di potenziale infezione (morso di animali sicuramente o possibilmente infetti). Il rischio di contrarre la rabbia per un individuo non immune, morsicato da un animale rabido, è dell’ordine del 5-15%, con variazioni in rapporto alla sede ed alla gravità del morso (il rischio è massimo per i morsi nel settore cranico e nelle parti non protette da indumenti). La profilassi, quindi, è sempre obbligatoria quando non si può escludere che l’animale sia rabido ed include sia un’immunizzazione passiva con immunoglobuline umane specifiche, sia un’immunizzazione attiva con vaccino HDCV, cioè virus coltivato su cellule diploidi umane e inattivato. Tale vaccino, a differenza di quelli ottenuti da tessuto nervoso di animali che comportavano un elevato rischio di complicanze (encefaliti allergiche), è al tempo stesso efficace e sufficientemente sicuro.
Encefaliti virali subacute Encefalite subacuta da virus del Morbillo Oltre alla già citata encefalite acuta secondaria, il virus del morbillo può causare due distinte forme di encefalite subacuta, rispettivamente la encefalite subacuta da morbillo e la panencefalite sclerosante subacuta. L’encefalite subacuta da morbillo è una entità clinica, indicata
802
Malattie del sistema nervoso
nel passato anche con altre denominazioni (encefalite morbillosa acuta del tipo ritardato; encefalite morbillosa a corpi inclusi; encefalite morbillosa atipica), che insorge tipicamente nei soggetti immunocompromessi, in particolare nei bambini affetti da leucemia linfoide acuta e sottoposti ad irradiazione, o in corso di AIDS. Può tuttavia verificarsi anche in adulti ed occasionalmente sono stati descritti casi in soggetti non immunocompromessi. La frequenza di questa forma morbosa ha subito una netta diminuzione con la diffusione della vaccinazione contro il morbillo. Il quadro clinico si manifesta in modo progressivo 110 mesi dopo la malattia esantematica, con segni di compromissione cerebrale diffusa, per lo più rappresentati da letargia, crisi epilettiche spesso nella forma di stato di male convulsivo, mioclonie, disturbi cognitivi e decadimento mentale. La malattia è dovuta ad una localizzazione del virus nell’encefalo, associata ad una scarsa risposta immunitaria in rapporto con la condizione predisponente di base, e rappresenta quindi una condizione assai diversa dalla panencefalite sclerosante subacuta. Dal punto di vista neuropatologico, accanto alle alterazioni infiammatorie diffuse (spesso tuttavia di modesta entità
per la concomitante immunosoppressione), vi è il tipico reperto di corpi inclusi eosinofili nei neuroni e negli oligodendrociti (donde la denominazione di encefalite a corpi inclusi). Studi di immuno-istochimica e di microscopia elettronica hanno dimostrato che tali inclusioni sono costituite dal virus del morbillo (Fig. 20.10). Il decorso è inesorabilmente progressivo, spesso tumultuoso, ed il decesso del paziente si verifica nel giro di pochi mesi dall’esordio. Non vi è alcuna terapia efficace, anche se è stato occasionalmente riportato un minimo beneficio dalla ribavirina.
Panencefalite sclerosante subacuta (PESS) Anche per questa forma morbosa, indicata nel passato con denominazioni diverse (encefalite subacuta a inclusioni di Dawson, panencefalite nodulare di Pette-Döring, leucoencefalite sclerosante subacuta di van Bogaert), è ormai definitivamente accertata la responsabilità del virus del morbillo. Non è tuttavia ancora
Fig. 20.10 – Encefalite subacuta da morbillo. La microscopia ottica dimostra infiltrati perivascolari, diffusa proliferazione microgliale (a), ed i tipici corpi inclusi intranucleari (b). Alla microscopia elettronica, il nucleo di un neurone appare pieno di nucleocapsidi virali (c), che ad un maggiore ingrandimento (d) rivelano una struttura tondeggiante o allungata (da Gazzola e coll, Neurology, 1999).
Malattie infiammatorie
chiaro in virtù di quale meccanismo solo una minima percentuale dei pazienti che ogni anno si ammalano di morbillo vanno incontro a questa fatale complicanza neurologica. A differenza della forma precedente, non presuppone alcun deficit del sistema immunitario e si manifesta in soggetti che fino all’esordio della malattia erano del tutto normali. L’epidemiologia è caratterizzata dall’associazione con elementi probabilmente importanti per la patogenesi, anche se tuttora non chiariti: colpisce i maschi 3-4 volte più delle femmine, è più frequente negli ultimi nati di una famiglia, nelle zone di campagna più che nelle città e nella popolazione di più bassa condizione socioeconomica; un’altra osservazione curiosa e non spiegata è l’apparente associazione fra PESS e contatto con uccelli domestici. Non sembra invece esistere una predisposizione genetica. Nei paesi dove la vaccinazione contro il morbillo è praticata su vasta scala, si è assistito ad un netto calo di incidenza della PESS. Il più importante fattore di rischio è l’aver contratto il morbillo in età precoce, specie entro il primo anno di vita (si verifica quindi la condizione inversa rispetto all’encefalite acuta da virus del morbillo, più frequente quanto più tardiva è la malattia). Il rischio di PESS dopo il morbillo è di 59 casi per milione; anche la vaccinazione contro il morbillo, che consiste nella somministrazione di virus attenuato, comporterebbe un margine di rischio almeno dieci volte inferiore rispetto all’infezione naturale, e si ritiene che nei rari casi in cui è stata segnalata questa associazione, non esista in realtà un rapporto causale con il vaccino. Nella quasi totalità dei casi la PESS esordisce entro i 16 anni, con un picco fra gli 8 e i 10 anni di età; l’intervallo di latenza rispetto alla pregressa infezione è in media di 7 anni. Si ritiene attualmente che il virus del morbillo si localizzi nell’encefalo già al momento dell’infezione iniziale, ed i motivi per cui si determina un’infezione persistente potrebbero dipendere da fattori legati sia al virus che all’ospite.
803
Sembra accertato che i ceppi virali implicati siano rappresentati da forme atipiche che si caratterizzano per una marcata diminuzione di una proteina strutturale del virus (proteina M), particolarità che potrebbe dipendere da mutazioni casuali del gene che codifica tale proteina durante il processo di replicazione, oppure essere presente fin dall’inizio dell’infezione. Un altro aspetto non ancora chiarito è il ruolo della risposta immunitaria nel determinare la persistenza dell’infezione: la PESS infatti si caratterizza per una massiccia risposta anticorpale documentata dagli elevati livelli di IgG nel liquor. Queste elevate quantità di anticorpi potrebbero avere un effetto di “modulazione dell’antigene”, causando una diminuzione delle proteine virali disponibili e conseguentemente un’alterazione dell’assemblaggio dei virioni. Un’altra ipotesi è che il difetto nella sintesi delle proteine virali dipenda da proprietà specifiche della cellula nervosa, poiché il fenomeno non è riproducibile in altre cellule. Il risultato finale è comunque una ridotta espressione delle proteine virali sulla superficie della cellula, con conseguente capacità del virus di sfuggire alla lisi immunitaria, nonostante gli elevati livelli anticorpali. Le alterazioni neuropatologiche sono rappresentate da diffusa infiltrazione infiammatoria, perdita di neuroni, demielinizzazione ed astrocitosi reattiva, e dipenderebbero sia dall’azione diretta del virus sui neuroni e sulle cellule gliali (in particolare sugli oligodendrociti), sia da una risposta immunomediata che conduce ad una demielinizzazione diffusa. Caratteristici sono i corpi inclusi, sia intranucleari che intracitoplasmatici, nelle cellule gliali, negli oligodendrociti e nei neuroni. Studi con la microscopia elettronica e con tecniche immunochimiche hanno dimostrato che tali corpi inclusi sono costituiti da nucleocapsidi virali. L’esordio è generalmente insidioso, ed i primi sintomi sono rappresentati da labilità emotiva, alterazioni del comportamento, calo del rendimento scolastico, aspetti che quasi sempre possono essere correttamente interpretati solo a posterio-
804
Malattie del sistema nervoso
ri; in seguito compaiono alterazioni dell’equilibrio, disturbi cognitivi e talora crisi epilettiche. In un periodo ancora successivo, si osservano mioclonie (sincrone alle scariche EEG), spesso ripetitive e scatenate da stimoli sensitivosensoriali, e sintomi piramido-extrapiramidali. La malattia continua, quindi, la sua inesorabile progressione fino ad uno stato vegetativo. Il decorso si svolge in tempi variabili, da poche settimane a 2 anni; la possibilità di una stabilizzazione del quadro deve ritenersi eccezionale, anche se remissioni sono descritte nel 4% dei pazienti. L’EEG dimostra un’attività considerata patognomonica, rappresentata da onde delta periodiche, cioè da raffiche di complessi di onde delta difasiche ad intervalli piuttosto regolari che compaiono su un’attività di fondo di basso voltaggio (Fig. 20.11). La diagnosi si basa, oltre che sui dati clinici, sul tipico quadro EEG e sull’esame del liquor, che dimostra livelli di IgG assai elevati. Non esiste a tutt’oggi alcuna terapia efficace, per cui sono possibili solo trattamenti sintomatici. Panencefalite subacuta da virus della rosolia L’infezione da virus della rosolia contratta nel corso del primo trimestre di gravidanza è causa di una grave sofferenza fetale cui conseguono prevalentemente sinto-
mi neurologici. Il quadro, tuttavia, non ha caratteristiche evolutive, per cui i disturbi neurologici presenti nella vita postnatale sono, in genere, espressione degli esiti dell’infezione. Sono stati però descritti rari casi di bambini con encefalopatia congenita da rosolia nei quali, dopo un periodo di stabilizzazione della durata di 8-19 anni, si è verificato un progressivo deterioramento neurologico, con calo del rendimento scolastico, alterazioni comportamentali, crisi epilettiche, atassia, seguito da progressivo declino delle funzioni cognitive. L’evoluzione successiva è simile a quella della PESS, salvo una minor evidenza delle mioclonie e delle alterazioni EEG. Del tutto eccezionalmente, un quadro simile è stato descritto anche dopo infezione rubeolica acquisita. Il quadro neuropatologico è quello di una panencefalite progressiva con particolare coinvolgimento della sostanza bianca, senza corpi inclusi. La panencefalite subacuta da virus della rosolia, che peraltro nel corso degli ultimi anni sembra essere praticamente scomparsa, è dovuta ad una riaccensione dell’infezione, per cause non note, dopo anni di persistenza latente nel sistema nervoso del virus, contratto nel corso della vita intrauterina o più raramente nel periodo postnatale.
Leucoencefalopatia multifocale progressiva (LMFP) È una rara e, pressoché invariabilmente, fatale forma di encefalite subacuta, determinata da una infezione virale opportunistica in un ospite con compromissione dell’immunità cellulare. Le prime descrizioni di LMFP riguardavano soggetti con neoplasie del sistema linfatico e reticolare; in seguito sono stati descritti casi in corso di altre condizioni morbose con depressione del sistema immunitario, quali sarcoidosi, carcinomatosi, trapianti d’organo e terapie immunosoppressive. Oggi è una complicanza re-
Fig. 20.11 - EEG nella panencefalite sclerosante subacuta, caratterizzato dalla comparsa, ad intervalli piuttosto regolari, di raffiche di onde delta difasiche su un’attività di fondo di basso voltaggio.
Malattie infiammatorie lativamente frequente dell’AIDS (4% dei casi) (v. pag). L’agente responsabile è il virus JC (così denominato dalle iniziali del paziente in cui fu isolato per la prima volta), virus a DNA appartenente al gruppo dei papovavirus. Come avviene per molte altre infezioni opportunistiche, studi sierologici hanno dimostrato che il virus JC ha una larga diffusione tra gli adulti, determinando un’infezione latente a livello renale. In condizioni di immunodepressione il virus si diffonde per via ematogena al polmone, al sistema linforeticolare ed al cervello, dove provoca un’infezione litica degli oligodendrociti con conseguente demielinizzazione. Secondo un’altra ipotesi, la LMFP sarebbe invece dovuta alla riattivazione del virus JC già localizzato allo stato latente nell’encefalo. Sul piano neuropatologico la malattia è caratterizzata da focolai multipli di demielinizzazione negli emisferi cerebrali, cervelletto e tronco, che tendono ad aumentare di dimensioni e a coalescere. Inizialmente la zona di predilezione è la giunzione fra la sostanza bianca e la sostanza grigia, mentre le zone subependimali sono relativamente risparmiate. Il quadro clinico ha in genere un inizio insidioso, anche perché si instaura in un soggetto già sofferente per la malattia di base; in corso di AIDS, può avere un esordio improvviso e un decorso tumultuoso. I sintomi più comuni sono i disturbi confusionali e i segni di deficit neurologico focale, in rapporto con la sede e le dimensioni dei focolai di demielinizzazione. La ricerca degli anticorpi contro il virus JC consente, in caso di negatività, di escludere la LMFP, ma la grande diffusione della infezione asintomatica nella popolazione adulta normale determina frequenti false positività. EEG ed esame del liquor non sono specificamente alterati; la diagnosi si basa sui reperti TC e soprattutto RM. Considerato il contesto clinico in cui si verifica, la diagnosi differenziale coinvolge altre patologie proprie del soggetto immunocompromesso ed in casi particolari, soprattutto quando si sospettano altre patologie potenzialmente trattabili, può trovare indicazione la biopsia cerebrale. Il decorso è progressivo e conduce all’exitus nel giro di 4-6 mesi. L’impiego della terapia antiretrovirale di associazione (HAART) sembra comunque aver dimostrato una scarsa efficacia.
Encefaliti da altri agenti patogeni Encefaliti batteriche Numerose infezioni batteriche sistemiche possono essere complicate da encefaliti o meningoencefaliti.
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Nella patogenesi delle encefaliti batteriche prevale il meccanismo di localizzazione diretta, anche se per talune forme la produzione di tossine e fenomeni immunitari possono giocare un certo ruolo. Quando non vi è infezione diretta del parenchima cerebrale, tuttavia, il quadro clinico è in genere quello dell’encefalopatia settica (v. pag) più che di una vera e propria encefalite. Le encefaliti batteriche possono essere legate a malattie classiche, la cui importanza pratica è ormai trascurabile in considerazione della loro rarità (brucellosi, tifo, carbonchio), e di cui si accennerà per completezza; notevolmente più importanti sono invece alcune infezioni batteriche identificate in epoca relativamente recente, in particolare la malattia dei legionari (Legionellosi), le infezioni da Mycoplasma pneumoniae e la meningoencefalite da Listeria monocytogenes. Le complicanze encefaliche della pertosse, anche se raramente identificabili come encefaliti, hanno rilevanza per la frequenza della pertosse e per la problematiche legate all’uso del vaccino. Ancora, un quadro rilevante è l’ascesso cerebrale che, pur potendo eccezionalmente essere causato da microrganismi diversi dai batteri, trova in questa sezione la collocazione più adeguata. Legionellosi La malattia dei Legionari è una malattia infettiva causata dal batterio Gram-negativo Legionella pneumophila, identificata per la prima volta nel 1976 allorché si sviluppò un’epidemia tra i reduci di guerra dell’American Legion, durante la loro convenzione annuale a Filadelfia, con un elevato numero di decessi. Il microrganismo si sviluppa particolarmente nell’acqua a temperatura superiore a 25°C e contamina spesso i sistemi di condizionamento d’aria, determinando un’infezione respiratoria, cui sono particolarmente suscettibili gli anziani, i pazienti ospedalizzati e gli ammalati in genere. La malattia comporta una grave polmonite atipica, che all’esordio può associarsi ad importanti sintomi gastro-intestinali, e se non trattata ha un’elevata mortalità. Le manifestazioni neurologiche, che possono anche rappresentare il sintomo d’esordio della malattia,
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Malattie del sistema nervoso
sono cefalea, ottundimento, confusione mentale acuta, associati a febbre elevata e segni di malattia polmonare; oppure segni di interessamento troncale e cerebellare, con tremore, nistagmo, atassia, paralisi oculomotorie e disartria. Altre più rare complicanze neurologiche comprendono la sindrome da inappropriata secrezione di ADH, encefalomieliti, mieliti trasverse e neuropatie periferiche. L’esame del liquor e la TC cerebrale sono spesso negativi, e la diagnosi si basa sulle indagini sierologiche. La prognosi delle manifestazioni neurologiche è generalmente favorevole, anche se in alcuni casi possono residuare sequele. La terapia di elezione è rappresentata dall’eritromicina 0,5-1 g e.v. ogni 6 ore per almeno 3 settimane o dalla claritromicina, che a parità di efficacia è di più semplice somministrazione; in presenza di complicanze neurologiche, è raccomandata l’associazione con rifampicina, in grado di passare la barriera emato-encefalica. Efficaci risultano anche i chinolonici.
Infezioni da Micoplasma Le infezioni da Mycoplasma pneumoniae possono associarsi a numerose complicanze neurologiche. I micoplasmi sono microrganismi appartenenti ad un gruppo a sé stante, anche se vicino ai batteri; sono privi di parete cellulare, e pertanto insensibili agli antibiotici che agiscono su quest’ultima (ß-lattamine); sono capaci di replicarsi al di fuori della cellula e dotati di un proprio metabolismo energetico. Generalmente causano infezioni respiratorie, il cui spettro può andare da banali infiammazioni delle prime vie aeree fino a gravi polmoniti atipiche bilaterali, spesso associate ad anemia emolitica per la presenza di crioagglutinine. In circa il 5% degli individui affetti, possono svilupparsi complicanze neurologiche di vario tipo, comprendenti, in particolare, un’encefalomielite postinfettiva ed una leucoencefalite emorragica, e sono state anche descritte sindromi da lesione troncale. I segni neurologici sono in rapporto con un’infezione diretta del sistema nervoso, con un effetto tossico del microrganismo o, più frequentemente, con una reazione autoimmune, eventualmente associata con una vasculite. Anche in questo caso le manifestazioni neurologiche possono esordire prima dei classici sintomi dell’apparato respiratorio. La diagnosi è per lo più fondata sul riscontro di incremento del titolo anticorpale di almeno 4 diluizioni; più difficili da eseguire di routine sono l’isolamento colturale e la PCR. Gli antibiotici di prima scelta sono l’eritromicina (500 mg ogni 8 ore), la claritromicina (500 mg ogni 12 ore) o la tetraciclina (250 mg ogni 6 ore), da somministrarsi per 2-3 settimane.
Infezioni da Listeria La meningoencefalite da Listeria monocytogenes si verifica prevalentemente nei soggetti immunocompromessi e debilitati (la listeria è inoltre responsabile di una rara e fatale infezione disseminata, con meningite, nel neonato). Nell’adulto prevale l’interessamento meningeo, ma sono stati descritti numerosi casi di encefaliti focali, spesso con particolare interessamento del bulbo e del ponte. La Listeria può inoltre essere implicata in ascessi cerebrali, con localizzazioni talora multiple, nei soggetti immunocompromessi. La terapia di elezione consiste nell’associazione ampicillina-tobramicina.
Pertosse La pertosse, contratta prima dei 2 anni, dà luogo a complicanze cerebrali nel 2-7% dei casi, soprattutto (75% dei casi) nel periodo compreso fra la seconda e la quarta settimana di malattia. I sintomi consistono in alterazioni della coscienza, convulsioni, deficit neurologici focali. Solo in rari casi, tuttavia, tali manifestazioni cliniche sono determinate da un’encefalite vera e propria, più spesso essendo in rapporto con un’encefalopatia non infiammatoria, causata dagli effetti meccanici della congestione venosa durante gli accessi di tosse, che può determinare piccole emorragie o lesioni ischemiche. Il bacillo della pertosse produce una tossina in grado di influire sull’attività sinaptica, che può avere un ruolo nella genesi dei sintomi neurologici; inoltre, una sofferenza encefalica può far seguito alla vaccinazione contro la pertosse, con un’incidenza inferiore a 1 caso su 100.000, entro 2-3 giorni dalla vaccinazione, in rapporto con un meccanismo allergico monofasico che comporta demielinizzazione. Questa forma rientra, quindi, nelle encefaliti post-vacciniche, anche se non sarebbe appropriato parlare di encefalite per la mancanza di un agente infettante. La prognosi quoad vitam è buona, ma le sequele invalidanti sono molto frequenti. Anche se studi epidemiologici su vasta scala non hanno confermato in modo incontrovertibile la significatività statistica della complicanza post-vaccinica, queste osservazioni hanno stimolato la discussione sul rapporto rischi-benefici della vaccinazione dei bambini contro la pertosse. I vaccini più recenti, ottenuti con tecniche diverse, hanno notevolmente ridotto il rischio di complicanze cerebrali.
Altre infezioni batteriche Brucellosi. – La brucellosi, malattia ormai rara nei paesi sviluppati e trasmessa all’uomo dal bestiame di allevamento, generalmente attraverso il latte, può determi-
Malattie infiammatorie nare una meningoencefalite acuta, spesso caratterizzata da precoce e marcata ipertensione endocranica. Salmonellosi. – Nel corso del tifo, i sintomi neurologici sono frequenti, ma consistono in genere in uno stato confusionale acuto che si manifesta durante il periodo febbrile. Del tutto eccezionalmente, tuttavia, la Salmonella typhi può determinare vere e proprie encefaliti. Carbonchio. – Fino ai drammatici avvenimenti dell’autunno 2001 (atti di “bioterrorismo”), questa malattia rappresentava ormai un’evenienza del tutto eccezionale. È causato dal Bacillus anthracis e può manifestarsi in forma sia localizzata (pustola maligna) che diffusa, ed in quest’ultimo caso può essere complicato da una meningite o da una meningoencefalite emorragica. Sebbene la terapia con penicillina sia generalmente efficace, l’antibiotico di scelta è ormai la ciprofloxacina; la prognosi delle forme con segni neurologici rimane assai grave. Actinomicosi e nocardiosi. – Secondo le classificazioni più recenti, gli actinomiceti sono dei batteri gram-positivi, anche se alcune loro caratteristiche li avvicinano ai funghi unicellulari (miceti), nel cui ambito erano in passato inseriti. Le specie che più comunemente causano infezione nell’uomo sono l’Actinomyces israelii e la Nocardia asteroides. Questi microrganismi sono in genere implicati in ascessi cerebrali (Fig. 20.12) nei soggetti immunodepressi, ma occasionalmente anche in individui immunocompetenti.
Ascesso cerebrale L’ascesso cerebrale consiste in un processo suppurativo focale del parenchima cerebrale,
Fig. 20.12 – Ascesso cerebrale da Nocardia asteroides. La TC cerebrale dimostra una lesione con aspetti misti ipo- ed iperdensi, circondata da un cercine fortemente iperdenso dopo contrasto (da Bruzzone e coll., Neurological Infections and Epidemiology, 1996).
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che può presentarsi con modalità atipiche, tanto da rappresentare una diagnosi difficile. Come accade per altre forme di infezione cerebrale, le possibilità di un efficace intervento terapeutico diminuiscono rapidamente quanto più tardiva è la diagnosi, ed il ritardo con cui spesso viene diagnosticato rende ragione del fatto che la prognosi è migliorata rispetto ai decenni scorsi, ma non quanto sarebbe lecito attendersi in considerazione dei progressi delle tecniche diagnostiche e della disponibilità di terapie potenzialmente efficaci. L’avvento dell’era antibiotica ha in parte modificato il quadro clinico, ma la frequenza dell’ascesso cerebrale è rimasta relativamente stabile; le stime più attendibili fissano l’incidenza intorno a 4-5 casi per milione, ma essa è probabilmente più elevata, e l’avvento dell’AIDS sta contribuendo ad aumentarne la frequenza. L’ascesso cerebrale ha una frequenza circa doppia nei maschi rispetto alla femmine; l’età di incidenza massima è 30-45 anni, anche se il picco varia in rapporto all’eziologia del processo morboso (ad esempio l’ascesso cerebrale otogeno ha una distribuzione bimodale, con un picco nell’età pediatrica). EZIOPATOGENESI L’ascesso cerebrale può essere causato da una molteplicità di microrganismi, il cui numero è destinato ad aumentare parallelamente alla frequenza degli stati di depressione del sistema immunitario in rapporto con farmaci o malattie tipo AIDS. Tali condizioni, infatti, rendono il SNC vulnerabile all’aggressione da parte di una vasta gamma di microrganismi normalmente non patogeni. La formazione di un ascesso cerebrale presuppone la localizzazione, nel parenchima cerebrale, di batteri o più raramente di altri agenti infettivi. I batteri possono raggiungere il parenchima cerebrale: (a) attraverso il torrente ematico, (b) per contiguità da un focolaio infettivo limitrofo o, più raramente, (c) per impianto diretto a seguito di un trauma o di un intervento neurochirurgico. In circa il 15-20% dei casi, tuttavia, non si riesce ad identificare la fonte dell’infezione (ascesso cerebrale criptogenetico). Dati sperimentali indicano che i batteri non sono in grado di costituire un focolaio infettivo se il parenchima cerebrale normale ed integro; è, quindi, verosimile che
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la formazione di un ascesso cerebrale presupponga meccanismi aggiuntivi alla semplice presenza di agenti infettivi, per esempio la propagazione di un processo tromboflebitico da infezioni contigue oppure la concomitanza di microinfarti cerebrali determinati da emboli o da ipossia, su cui può stabilirsi con relativa facilità un processo infettivo. Un’ulteriore conferma dell’importanza dell’ischemia nella genesi dell’ascesso è rappresentata dal fatto che gli ascessi tendono a formarsi nella sostanza bianca o nella zona di confine fra sostanza bianca e sostanza grigia, dove la perfusione è meno valida. I focolai infettivi da cui può partire la disseminazione batterica sono molteplici, ed esiste una relazione fra la sede del focolaio primario e le caratteristiche dell’ascesso cerebrale, per quanto riguarda sia la localizzazione che il tipo di agente responsabile (Tab. 20.16). Gli ascessi cerebrali otogeni (in rapporto con un’otite media o un colesteatoma) si formano nel lobo temporale o nel cervelletto, mentre quelli derivanti da un’infezione dei seni paranasali si localizzano nei lobi frontali e nelle re-
gioni profonde dei lobi temporali. Gli ascessi metastatici, veicolati dal torrente ematico, sono spesso multipli e mostrano una predilezione per la zona di confine tra la sostanza grigia e la sostanza bianca, dove il flusso ematico è relativamente ridotto. Il punto di partenza degli ascessi metastatici è rappresentato in genere dal polmone, dal cuore o dai denti; più raramente sono implicati altri processi morbosi come una osteomielite. Tra le malattie cardiache sono condizioni predisponenti soprattutto le cardiopatie congenite (in particolare la tetralogia di Fallot, i difetti del setto interventricolare, la pervietà del forame ovale e la trasposizione dei grossi vasi) e le endocarditi, anche se l’associazione di queste ultime con ascessi cerebrali è meno frequente di quanto ci si aspetterebbe. Nell’ambito delle malattie polmonari, sono importanti le infezioni polmonari croniche e le fistole artero-venose polmonari. La maggior parte di queste condizioni predisponenti agiscono probabilmente in virtù di un duplice meccani-
Tabella 20.16 - Ascesso cerebrale: relazioni fra condizioni predisponenti, localizzazione e caratteristiche microbiologiche Condizione predisponente Focolaio contiguo di infezione primaria Otite media e mastoidite
Localizzazione
Microrganismi isolati dall’ascesso
Lobo temporale o emisfero cerebellare
Streptococchi (aerobi o anaerobi), Bacteroides fragilis, Enterobacteriaceae Streptococchi, Bacteroides , Enterobacteriaceae, Staphylococcus aureus, Haemophilus, Aspergillus, Mucor Come nella sinusite fronto-etmoidale Flora mista di Fusobacterium, Bacteroides, gen. Streptococcus S. aureus , streptococchi, Enterobacteriaceae, Clostridium
Sinusite fronto-etmoidale
Lobo frontale
Sinusite sfenoidale
Lobo frontale o temporale
Sepsi dentale Trauma cranico penetrante o infezione chirurgica
Lobo frontale Collegata alla sede della ferita
Focolaio a distanza di infezione primaria Cardiopatie congenite
Ascesso polmonare, empiema, bronchiectasie Endocardite batterica Soggetto immunocompromesso
Predilezione non obbligata per il territorio di distribuzione dell’arteria cerebrale media; frequente molteplicità Come nelle cardiopatie congenite
Come nelle cardiopatie congenite Come nelle cardiopatie congenite
Streptococcus viridans, streptococchi anaerobi e microaerofili, Haemophilus
Fusobacterium, Actinomyces, Bacteroides, streptococchi, Nocardia asteroides Staphylococcus aureus, streptococchi, Candida Toxoplasma, miceti, Enterobacteriaceae, Nocardia
Malattie infiammatorie smo: da un lato la grave ipossiemia, associata ad iperviscosità ematica da policitemia compensatoria, determinerebbe microfocolai malacici, dall’altro la presenza di uno shunt aumenta la probabilità che agenti infettivi sfuggano al filtro della circolazione polmonare. Nel caso delle infezioni dentarie, le manipolazioni connesse al trattamento possono agire come causa scatenante. Gli ascessi causati da impianto diretto degli agenti patogeni si localizzano in prossimità della sede di frattura, che spesso è infossata, della ferita d’arma da fuoco o dell’intervento chirurgico. Anche una meningite batterica può complicarsi in ascesso cerebrale, ma la frequenza di tale eventualità sembra rara, salvo che nel neonato con meningite da batteri Gram-negativi (ad esempio, le meningiti neonatali da Citrobacter diversus sono complicate da ascessi cerebrali in più del 70% dei casi). Esiste, come si è detto, una certa correlazione tra meccanismo patogenetico dell’ascesso cerebrale ed agente eziologico (Tab. 20.16). Gli ascessi otogeni sono in genere dovuti ad una flora batterica mista, che comprende in particolare Enterobacteriaceae, streptococchi ed il Bacillus fragilis. Gli ascessi cerebrali da infezioni dei seni paranasali sono spesso determinati dallo Streptococcus milleri e da germi del genere Bacteroides, più raramente da miceti. Le sepsi dentali causano infezioni miste che coinvolgono streptococchi, Bacteroides e Fusobacterium; anche le malattie polmonari spesso determinano ascessi da forme miste comprendenti il Fusobacterium ed altri anaerobi, streptococchi ed actinomiceti. I pazienti con cardiopatie congenite hanno una maggior probabilità di presentare ascessi da Streptococcus viridans, e da streptococchi anaerobi e microaerofili. Nei traumi penetranti si possono trovare stafilococchi, streptococchi e clostridi. Nei pazienti immunodepressi, possono essere implicati la Nocardia oltre a una vasta gamma di miceti (Mucor, Aspergillus). Esistono ovviamente occasionali segnalazioni di ascessi cerebrali causati da altri microrganismi meno usuali. I batteri causa di meningiti purulente (Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, Neisseria meningitidis) sono responsabili di meno dell’1% degli ascessi cerebrali (Tab. 20.17). Cenni di neuropatologia. – L’evoluzione di un ascesso cerebrale viene comunemente suddivisa in quattro fasi, sperimentalmente documentate e con ben definiti correlati clinico-radiografici: (a) la fase precoce del processo infiammatorio infettivo non capsulato (da alcuni denominato «cerebrite») (1°-3° giorno); (b) la fase tardiva di tale processo (4°-9° giorno); (c) la fase precoce di formazione della capsula (10°-13° giorno) e (d) la fase tardiva di formazione della capsula (dal 14° giorno in poi). Questa sequenza di eventi può essere alterata nel soggetto immunocompromesso.
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Tabella 20.17 - Eziologia dell’ascesso cerebrale Microrganismo
Frequenza (%)
Staphylococcus aureus Enterobacteriaceae Streptococcus pneumoniae Haemophilus influenzae Neisseria meningitidis Streptococchi vari Bacteroides (varie specie) Miceti Protozoi, elminti Associazione di due o più microrganismi
10-15 25-33 <1 <1 <1 60-70 20-40 10-15 <1 30-60
Nella fase iniziale prevale l’edema della sostanza bianca circostante il focolaio infettivo; in seguito il centro del processo infiammatorio infettivo va incontro a necrosi ed aumenta di dimensioni (Fig. 20.13); inizia quindi a costituirsi una capsula, con la comparsa di fibroblasti e di vasi neoformati alla periferia, associata ad astrocitosi reattiva ed edema circostante. La terza fase corrisponde allo sviluppo della capsula (Fig. 20.14); la quarta è quella della maturità della capsula con ispessimento ed aumento dell’astrocitosi reattiva. Le durate delle varie fasi devono intendersi come valori medi e sono soggette a variazioni in rapporto alla virulenza del germe ed allo stato immune dell’ospite: alcuni microrganismi, come il Bacte-
Fig. 20.13 - Ascesso cerebrale. A: Stadio iniziale del processo: in alto, magma necrotico-emorragico-purulento.; in basso, edema e congestione grave del parenchima cerebrale circostante. B: In uno stadio più avanzato, ma sempre precoce, si osserva una netta separazione fra parenchima sano e parenchima in disfacimento purulento. (Osservazione Guazzi).
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Fig. 20.14 - Ascesso cerebrale. Due focolai ascessuali adiacenti asportati chirurgicamente, sezionati al centro e fotografati nelle due superfici di taglio. La capsula è già completamente formata, e il centro completamente colliquato. Il paziente è guarito (Osservazione Guazzi).
roides, tendono ad inibire la formazione della capsula mentre altri, come gli streptococchi alfa-emolitici, la stimolano. Nella maggioranza dei casi, comunque, il processo di incapsulamento e fibrosi si completa in circa tre settimane; in seguito la capsula aumenta ulteriormente di spessore con il ritmo di circa 1 mm al mese.
SINTOMATOLOGIA Circa nella metà dei casi si presenta con la triade classica costituita da cefalea, febbre e deficit neurologici focali in rapida progressione. La cefalea è il sintomo più frequente (75% dei casi), e può essere diffusa o localizzata; la febbre è presente circa nella metà dei casi. Spesso all’esordio si manifestano segni cerebrali focali, crisi epilettiche più frequentemente generalizzate che parziali, ipertensione endocranica e possibilità di ernie cerebrali, e rigidità nucale, suggestiva di una meningite. Occasionalmente, il dato più rilevante può essere rappresentato dai sintomi del focolaio infettivo primario, specie quando si tratta di un’otite. Nei bambini le modalità di presentazione sono talvolta ancora più fuorvianti: ad esempio, un aumento delle dimensioni del cranio associato a vomito e crisi epilettiche può indirizzare verso un tumore o una patologia congenita. Nei soggetti immunocompromessi,
i segni sistemici di infezione possono mancare. L’ascesso cerebrale deve quindi essere sempre tenuto presente nella diagnostica differenziale dei malati che si presentano acutamente con ipertensione endocranica, crisi epilettiche, deficit neurologici ad esordio ictale, anche quando il contesto sembrerebbe indirizzare in prima istanza verso meningiti, encefaliti e tumori cerebrali. L’esame obiettivo generale deve essere particolarmente accurato per evidenziare l’eventuale focolaio primario di infezione; nel caso la ricerca sia positiva si devono eseguire esami colturali e prendere le misure necessarie per eradicare l’infezione. È necessario praticare prelievi per emocolture, ottenere al più presto i parametri bioumorali ed eseguire un esame radiografico del torace. Esami complementari. – È fondamentale eseguire al più presto una TC cerebrale, non trascurando di ottenere informazione anche sullo stato dei seni paranasali e della mastoide. Il quadro TC varia a seconda della fase della malattia: nello stadio precoce, di solito dimostra un’area ipodensa, eventualmente circondata da una zona di edema, che inizialmente non assume contrasto e, in seguito, inizia ad assumere contrasto in modo irregolare; solo nelle fasi più tardive, che corrispondono alla formazione della capsula, si ha la caratteristica immagine ad anello, di solito già visibile senza contrasto, ma più evidente dopo contrasto; con il passare del tempo l’aspetto diventa tipico, con aumento dell’ipodensità centrale, espressione dell’evoluzione in necrosi del focolaio. La TC cerebrale può dimostrare anche l’eventuale molteplicità delle lesioni, la presenza di un idrocefalo o di un effetto massa. La RM, nelle sequenze T1-pesate, evidenzia una zona centrale marcatamente ipointensa (il focolaio necrotico), circondata da un’area isointensa o lievemente iperintensa (la capsula), intorno alla quale vi è una regione lievemente ipointensa (l’edema circostante) (Fig. 20.15). La RMN è più sensibile della TC, soprattutto nell’evidenziare le fasi iniziali di cerebrite e
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le tecniche neurochirurgiche e le nuove metodiche diagnostiche (TC, RMN) hanno notevolmente migliorato la prognosi portando la mortalità globale a percentuali comprese tra 0 e 24%. L’incidenza di sequele è comunque elevata, oscillando tra il 20 ed il 70%. Sono fattori prognostici negativi la prolungata sintomatologia pre-ricovero e il grado di compromissione dello stato mentale al momento del ricovero. TERAPIA
Fig. 20.15 - Quadro RM (sequenze T1-pesate) dell’ascesso cerebrale. (Osservazione Michelozzi).
l’edema. Quando TC e RMN non dirimono il dubbio di formazione ascessuale iniziale, può essere utile la scintigrafia con leucociti marcati che avrebbe una sensibilità dell’88-96%. Alcuni tumori necrotizzanti possono dare luogo a falsi positivi, e l’impiego di steroidi a falsi negativi. In realtà, nessuno di questi aspetti può essere considerato patognomonico di ascesso cerebrale, perché quadri simili possono ritrovarsi in alcuni tumori, nei granulomi, nelle encefaliti necrosanti ed anche in alcuni infarti cerebrali. Anche se il liquor è alterato, esiste consenso unanime sul fatto che la puntura lombare non deve essere praticata nel sospetto di ascesso cerebrale, perché i rischi non sono compensati dal valore diagnostico, sostanzialmente scarso. PROGNOSI Fino agli anni ’70 l’ascesso cerebrale era associato con una mortalità estremamente elevata (30-60%), quasi paragonabile a quella dell’era pre-antibiotica. Successivamente, l’introduzione di terapie con farmaci più efficaci (per esempio metronidazolo), il miglioramento del-
La scelta della strategia terapeutica dipende da numerosi fattori, ed esistono ancora controversie sui tempi e le modalità dell’eventuale intervento chirurgico. Naturalmente, se l’ascesso è di origine traumatica, l’opportunità di un intervento è indiscutibile, al fine di eseguire una appropriata toilette, lo sbrigliamento di eventuali aderenze, la rimozione di frammenti e la chiusura di difetti durali. Se invece le lesioni sono multiple e situate in profondità, è più opportuno trattare l’ascesso con terapia medica, scegliendo l’antibiotico, quando possibile, sulla base del materiale colturale raccolto in altre sedi (eventuale focolaio primario) o semplicemente in rapporto ad elementi presuntivi. Gli autori americani consigliano di sottoporre ad aspirazione per via stereotassica o ad intervento neurochirurgico di escissione tutti gli ascessi di almeno 2,5 cm di diametro con coltura del materiale per poter effettuare una terapia mirata. Quando le lesioni sono più piccole, se il monitoraggio neuroradiologico mediante TC o RM dimostra che le dimensioni della lesione non tendono a diminuire, può essere opportuna un’aspirazione del pus, possibilmente praticata con procedura stereotassica sotto controllo TC. Nei pazienti immunodepressi il ricorso all’aspirazione deve essere praticato in modo più estensivo, anche perché l’identificazione dell’agente responsabile riveste un’importanza decisiva. In genere un’appropriata terapia antibiotica, eventualmente associata all’aspirazione del materiale purulento, riesce a dominare il quadro
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morboso, rendendo superfluo l’intervento chirurgico che, attualmente, mantiene la sua indicazione solo nei casi in cui la terapia medica associata all’aspirazione non ha determinato, entro un periodo ragionevole di tempo, alcuna riduzione delle dimensione dell’ascesso o quando si verifica un deterioramento del quadro neurologico. Nella scelta dell’antibiotico, si deve tener conto della capacità di attraversare la barriera emato-encefalica ed emato-liquorale, e di penetrare attraverso la capsula ascessuale e nel pus, mantenendo un’adeguata attività battericida anche in presenza di quest’ultimo. Lo schema terapeutico dipende ovviamente dalla disponibilità di informazioni dirette circa la sensibilità dell’agente patogeno. In assenza di queste ultime, gli schemi raccomandati variano sulla base di considerazioni presuntive in rapporto con l’eventuale condizione predisponente (localizzazione dell’infezione primaria), ed eventualmente con la sede dell’ascesso. Lo schema classico della terapia dell’ascesso cerebrale è stato a lungo rappresentato dall’associa-
zione penicillina-cloramfenicolo, attualmente sostituita dall’impiego di antibiotici più moderni. In caso di ascesso criptogenetico, uno schema ampiamente usato prevede l’impiego di vancomicina associata a metronidazolo ed a una cefalosporina di terza generazione (cefotaxime, ceftriaxone, cefepime oppure ceftazidime quando si ritenga necessario estendere la copertura antibiotica anche allo Pseudomonas). Quando sono identificabili focolai infettivi localizzati, gli schemi terapeutici suggeriti sono diversi, come indicato nella Tabella 20.18. La durata del trattamento, da valutare caso per caso sulla base del monitoraggio TC, non dovrebbe comunque essere mai inferiore alle 6 settimane. Nei pazienti con AIDS la toxoplasmosi è la causa più frequente di ascesso cerebrale, particolarmente nei casi con localizzazioni multiple. Se la presenza di tale agente patogeno non è confermata, il ricorso alla biopsia è pressoché imperativo; se invece si conferma l’infezione da toxoplasma, la terapia consiste nella somministrazione di pirimetamina e sulfadiazina.
Tabella 20.18 - Schema suggerito per la terapia antibiotica empirica negli ascessi cerebrali. Condizione predisponente
Associazione antibiotica
Non nota
cefotaxime o ceftriaxone o cefepime (ceftazidime se si sospetta Pseudomonas) +metronidazolo +vancomicina
Otite o mastoidite o sinusite
cefotaxime o ceftriaxone o cefepime +metronidazolo
Sepsi dentaria
penicillina ad alte dosi + metronidazolo
Ascesso polmonare
penicillina ad alte dosi +metronidazolo +cotrimossazolo (se si sospetta Nocardia)
Endocardite
vancomicina + gentamicina
Malformazioni cardiache congenite
cefotaxime o ceftriaxone o cefepime
Trauma cranico penetrante
cefotaxime o ceftriaxone o cefepime (ceftazidime se si sospetta Pseudomonas) +vancomicina
Malattie infiammatorie
In aggiunta alla terapia causale, è raccomandato l’impiego del desametazone per l’edema cerebrale, perché la necessità di ridurre l’ipertensione endocranica supera i rischi della diminuzione delle risposte immunitarie. Devono poi essere poste in atto tutte le misure di terapia supportiva già descritte a pag. 000.
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un diffuso danno endoteliale a livello dei capillari, con emorragie secondarie e focolai infiammatori perivascolari. La terapia si avvale dell’uso della penicillina G, che va somministrata precocemente alla dose di 12 milioni di unità al dì associata a tetraciclina 500 mg × 4. L’opportunità dell’associazione di steroidi è tuttora controversa. La leptospirosi è mortale in circa il 5% dei casi, che comprendono soprattutto soggetti anziani o con gravi lesioni epato-renali.
Encefaliti da spirochete Le spirochete comprendono i generi Borrelia, Treponema e Leptospira. Il Treponema pallidum e la Borrelia burgdorferi sono responsabili rispettivamente della sifilide e della malattia di Lyme, che rappresentano le principali infezioni da spirochete del sistema nervoso e che sono trattate a pag. 000. Nell’ambito di questo paragrafo restano quindi le complicanze neurologiche delle infezioni da altre specie del genere Borrelia e dalla Leptospira. Febbre ricorrente. – È dovuta alla Borrelia recurrentis, trasmessa all’uomo, che è l’unico serbatoio dell’infezione, dai pidocchi. Dopo una prima fase di malattia febbrile acuta, della durata di alcuni giorni, e arrestata dalla reazione anticorpale, può verificarsi una ripresa della febbre per la capacità del microrganismo di modificare le sue proprietà antigeniche, con una seconda fase di spirochetemia. La complicanza neurologica è in genere rappresentata da una meningoencefalite. Leptospirosi. – È causata da ceppi patogeni della Leptospira interrogans, una spirocheta che infetta numerosi animali domestici e selvatici (soprattutto roditori), le cui urine contaminano l’ambiente poiché la proliferazione del microrganismo si verifica prevalentemente a livello renale. L’uomo si infetta attraverso il contatto delle mucose o la cute abrasa con acqua contaminata; per questo motivo sono particolarmente esposti coloro che lavorano nelle risaie, nelle fogne e nei canali. La leptospira penetra in circolo diffondendosi rapidamente per via ematogena, e può raggiungere il cervello entro 48 ore dall’infezione determinando una meningite (nel 50% dei casi) o molto più raramente una meningoencefalite priva di caratteristiche specifiche. Le lesioni del sistema nervoso sono in parte causate da una diretta invasione da parte della leptospira, ma sembrano essere soprattutto mediate da un meccanismo immunitario che determina
Encefaliti da rickettsie Le rickettsie provocano spesso una infezione del sistema nervoso, con alterazioni neuropatologiche abbastanza specifiche. La forma che più spesso causa encefaliti è il tifo esantematico, malattia peraltro di prevalente interesse storico; le altre rickettsiosi (Tab. 20.11) danno luogo a complicanze encefalitiche più rare, e comunque senza differenze di rilievo rispetto alla forma precedente. Encefaliti da miceti I funghi unicellulari o miceti rappresentano un gruppo di microrganismi estremamente diffusi nell’ambiente, praticamente ubiquitari, che, a seconda delle circostanze, possono rappresentare normali ospiti commensali dell’organismo umano oppure agenti responsabili di un numero sempre maggiore di infezioni neurologiche. I miceti sono microrganismi eucarioti, sprovvisti di clorofilla, che si riproducono attraverso la formazione di spore in modo sessuato o asessuato. Le infezioni fungine del sistema nervoso raramente possono insorgere senza una predisposizione apparente, ma in generale presuppongono condizioni di immunodepressione, per cui stanno assumendo un’importanza molto maggiore che in passato, essendo i pazienti con AIDS particolarmente vulnerabili. Comunque, tutte le condizioni capaci, da un lato, di alterare la normale flora microbica dell’organismo,
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dall’altro di deprimere le risposte immunitarie possono rappresentare condizioni predisponenti alle infezioni fungine. Ciò può verificarsi a seguito di prolungate terapie con antibiotici, corticosteroidi, immunosoppressori, citostatici ed antimetaboliti, e quindi nel corso delle malattie che comportano questo tipo di trattamenti (trapianti d’organo, leucemia, linfomi, tumori maligni, connettiviti), come pure a seguito di malattie particolarmente debilitanti (gravi ustioni, grave diabete, tubercolosi). I meccanismi con cui i miceti provocano malattia sono molteplici, comprendendo in particolare effetti allergici, la produzione di tossine, e l’invasione diretta dei tessuti. L’infezione del sistema nervoso può derivare dalla diffusione locale della colonizzazione di un focolaio primario (i seni paranasali o l’orecchio medio nel caso dell’aspergillosi cerebrale), oppure da una diffusione per via ematogena da focolai a distanza (per lo più localizzati a livello polmonare, come nel caso della criptococcosi e della istoplasmosi). Per le infezioni da Candida un’importante condizione predisponente è la presenza in situ di dispositivi medico-chirurgici quali derivazioni, drenaggi, cannule, cateteri venosi e protesi valvolari cardiache: è ovvia quindi la particolare suscettibilità a questo tipo di infezione dei ricoverati in reparti di terapia intensiva. La patologia delle infezioni fungine è varia: usualmente esiste un prevalente interessamento meningeo più che parenchimale, e conseguente maggior frequenza di meningiti piuttosto che di encefaliti fungine. In alcuni casi, tuttavia, si può verificare un’infiltrazione dell’encefalo o, più frequentemente, la formazione di masse extra-assiali o intra-assiali di tipo solido (granulomatoso) o ascessuale. Le specie fungine più frequentemente coinvolte nelle infezioni del sistema nervoso sono il criptococco, (meningite granulomatosa e granulomi cerebrali), la candida (microascessi intraparenchimali, granulomi, ascessi, meningite, ependimite), l’aspergillo (ascessi e granulomi cerebrali, non meningiti).
Encefaliti da protozoi Accanto a forme che interessano esclusivamente le regioni tropicali (tripanosomiasi), almeno tre quadri clinici hanno una certa importanza anche alle nostre latitudini: la malaria cerebrale, la meningoencefalite amebica e la toxoplasmosi. Malaria cerebrale È la più diffusa malattia parassitaria, da cui si calcola siano affetti nel mondo oltre 300 milioni di persone, particolarmente frequente in gran parte dell’Asia, nell’Africa sub-sahariana, nell’America Centrale e Meridionale, nel Medio Oriente ed in alcune regioni dell’Europa sudorientale. Nei paesi occidentali è una malattia di importazione e coinvolge gli immigrati e i viaggiatori che provengono da paesi in cui la malattia è endemica. La malaria cerebrale è un’encefalopatia acuta diffusa, febbrile che si verifica in circa il 2% dei pazienti con infezione da Plasmodium falciparum, mentre gli altri agenti eziologici della malaria (Plasmodium vivax, P. ovale e P. malariae) non coinvolgono l’encefalo. La malaria cerebrale è una malattia potenzialmente assai grave che, se non riconosciuta tempestivamente, può condurre a morte nel giro di 72 ore, ma anche adeguatamente trattata mantiene una letalità del 25-50%. Come in altre malattie infettive dell’encefalo, è essenziale una diagnosi precoce.
PATOGENESI Numerosi e complessi meccanismi sono coinvolti: anzitutto una reazione infiammatoria immunomediata che determina la liberazione di sostanze vasoattive capaci di produrre danno endoteliale, ed inoltre la presenza di trofozoiti all’interno dei globuli rossi che diventano meno deformabili, più facilmente adesi all’endotelio vascolare e diffusamente sequestrati nei capillari e nelle venule cerebrali, cui conseguono congestione microvascolare ed ipossia tissutale. L’encefalo si presenta punteggiato da numerosi piccoli focolai di necrosi circondati da glia (noduli di Dürck), e processi patologici simili si verificano anche in altri organi, per esempio nel rene e nel polmone. Il ruolo dell’edema cerebrale è ancora controverso; comunque, la somministrazione di desametazone non sembra migliorare il decorso della malattia e potrebbe rivelarsi dannosa. Una frequente complicanza è rappresentata dall’ipoglicemia (particolarmente frequente quando la malattia
Malattie infiammatorie si verifica in corso di gravidanza e nei bambini), che a sua volta deriva da un associazione di fattori comprendenti un malassorbimento, l’iperinsulinismo eventualmente indotto dal trattamento con chinino, l’aumento della domanda metabolica determinato dall’infezione ed il diretto consumo di glucosio da parte dei parassiti.
SINTOMATOLOGIA L’esordio può essere acuto, di solito nella seconda o nella terza settimana dall’infezione, ma spesso è preceduto da una fase prodromica aspecifica, che può essere confusa con una banale sindrome influenzale. Nella fase conclamata esiste sempre un quadro di confusione mentale, spesso associato ad allucinazioni; particolarmente frequenti sono le crisi epilettiche ed i disturbi dell’oculomozione; nel 15% dei casi si possono osservare emorragie retiniche. La malaria cerebrale può talora associarsi a sovrainfezioni, specie da parte di batteri Gram-negativi, responsabili di ulteriori complicanze quali una meningite purulenta. L’ipotesi diagnostica di malaria cerebrale deve essere sempre presa in considerazione di fronte ad un quadro clinico caratterizzato da confusione mentale e crisi epilettiche nel corso di una malattia febbrile, quando vi è il dato anamnestico del soggiorno recente in area endemica (o di un semplice transito aeroportuale). Nella maggior parte dei casi, l’esame del liquor dimostra solo un modesto grado di pleiocitosi ed iperproteinorrachia, mentre la frequente diminuzione del glucosio liquorale è in rapporto con le corrispondenti variazioni glicemiche. La conferma diagnostica si ottiene dimostrando la presenza del parassita nel sangue. Il Plasmodium falciparum è spesso resistente alla clorochina, per cui il farmaco di scelta è il chinino, per infusione endovenosa.
Meningoencefaliti da amebe La meningoencefalite amebica primaria è causata da amebe del genere Naegleria (soprattutto Naegleria fowleri) e più raramente Acanthamoeba (denominata anche Hartmannella). Si tratta di amebe flagellate che vivono liberamente nell’acqua stagnante, e sono resistenti anche ad alcuni comuni disinfettanti a base di cloro. Le amebe penetrano nell’organismo attraverso le cavità nasali, da cui risalgono all’encefalo, ed infettano soprattutto bambini che nuotano o giocano in piscine o stagni. La localizzazione del parassita a livello cerebrale determina un processo infiammatorio necrosante, che si presenta in modo generalmente acuto, con manifestazioni clini-
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che di tipo prevalentemente meningitico, non distinguibili da quelle di una meningite batterica (l’unico elemento suggestivo è la storia di esposizione all’acqua stagnante), rapidamente seguite da disturbi della coscienza fino al coma, segni di deficit neurologico focale e crisi epilettiche. Il decorso della meningoencefalite è quasi sempre inesorabilmente progressivo, con una letalità tuttora elevatissima nonostante il trattamento, rappresentato dall’amfotericina B alle massime dosi tollerate, associata a rifampicina e tetraciclina, che sono dotate di una certa attività sulle amebe del genere Naegleria. L’Acanthamoeba (Hartmannella rhysodes), inoltre, può dare origine ad una rara meningoencefalite cronica granulomatosa, che si manifesta quasi esclusivamente nei soggetti debilitati e immunocompromessi.
Toxoplasmosi La malattia è causata dal Toxoplasma gondii, un piccolo (2-5 µm) protozoo parassita intracellulare obbligato. L’infezione umana può essere congenita o acquisita: l’infezione congenita è il risultato di una parassitemia della madre, e si verifica se la prima infezione asintomatica da toxoplasma ha luogo in corso di gravidanza; la forma acquisita può trasmettersi con varie modalità, ad esempio mangiando o maneggiando carne cruda o non ben cotta, specie se di montone e, soprattutto, attraverso contatti con materiale fecale di gatto, che è l’ospite naturale del toxoplasma di cui emette le oocisti con le feci (Fig. 20.16). Fino a pochi anni orsono, maggiore attenzione era dedicata all’infezione congenita per le gravi alterazioni strutturali determinate nel cervello del feto. Il neonato può talora presentare segni di infezione attiva, quali febbre, rash cutaneo, epatosplenomegalia, convulsioni. Più spesso tuttavia le uniche manifestazioni evidenti dell’avvenuta infezione sono rappresentate da corioretinite, idrocefalo o microcefalia, calcificazioni cerebrali e ritardo psicomotorio, manifestazioni che possono presentarsi poco dopo la nascita oppure settimane o mesi più tardi. Molti bambini vanno incontro al decesso, altri sopravvivono con vari gradi di sequele invalidanti. La toxoplasmosi acquisita è un’infezione assai diffusa: le indagini sierologiche su vasta scala dimostrano che il 40-50% della popolazione adulta presenta anticorpi specifici contro l’agente patogeno; ben più rari sono invece i casi di infezione attiva clinicamente evidente. Infatti, nell’ospite immunocompetente l’infezione decorre in modo del tutto asintomatico o determina al massimo una transitoria linfoadenopatia priva di caratteristiche specifiche. Fino al 1975 erano stati segnalati in letteratura solo 45 casi ben documentati di toxoplasmosi cere-
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Fig. 20.16 - Ciclo della toxoplasmosi. La moltiplicazione sessuata del parassita, che avviene nel gatto, porta alla formazione di oocisti che inquinano il terreno. Il contagio umano avviene direttamente dal gatto o dal terreno infetto, o indirettamente attraverso l’ingestione di carni di un animale erbivoro che funge da ospite intermedio. Il ciclo di riproduzione e l’infezione di nuove cellule nell’uomo è rapido (a destra) in assenza di un controllo immunitario, lento (a sinistra) in presenza di anticorpi. In quest’ultimo caso, anzi, l’infezione risulta nella maggior parte dei soggetti stabilizzata o spenta; il determinarsi di uno stato di immunodepressione può riattivare la malattia.
brale acquisita dell’adulto, la metà dei quali riguardava pazienti con malattie sistemiche associate o compromissione del sistema immunitario. La particolare suscettibilità alla toxoplasmosi dei soggetti immunocompromessi, e soprattutto dei pazienti affetti da AIDS, rende ragione del vertiginoso aumento dei casi registrato nel corso degli ultimi anni. La toxoplasmosi cerebrale rappresenta infatti la principale causa di lesione cerebrale focale in questi malati (v. pag.), nei quali l’esordio della malattia corrisponde spesso alla riattivazione di un’infezione latente, piuttosto che all’episodio di infezione primaria. Il quadro clinico nel soggetto immunocompromesso è variabile: vi può essere un’infezione disseminata, ad esordio fulminante, con rash cutaneo, encefalite, miocardite e polimiosite; oppure i segni neurologici possono consistere solo in mioclonie ed asterixis, suggerendo un’encefalopatia metabolica; occasionalmente, si possono manifestare deficit neurologici focali ad esordio acuto, ponendo il problema diagnostico differenziale con un episodio cerebro-vascolare.
Più frequentemente si osservano i segni di una meningoencefalite, con crisi epilettiche, segni di irritazione meningea, confusione mentale fino al coma e pleiocitosi liquorale con iperproteinorrachia. Sul piano neuropatologico, il cervello dimostra aree di un processo infiammatorio con necrosi e toxoplasmi liberi ed incistati sparsi nella sostanza grigia e nella sostanza bianca; più raramente si tratta di vaste aree di necrosi che possono dar luogo ad un quadro di tipo pseudotumorale. La diagnosi di certezza si basa sul riscontro del parassita nel sedimento liquorale e occasionalmente in reperti bioptici di tessuto muscolare o linfonodale. Una diagnosi presuntiva richiede un titolo di almeno 1:512 al dye test di Sabin-Feldman, un aumento del titolo nel corso dell’infezione o la presenza di IgM specifiche. Nel paziente con AIDS tuttavia tali indagini non sono significative: il liquor è normale nel 30% dei casi, la sierologia spesso è positiva a basso titolo se non addirittura falsamente negativa (fino al 15% dei casi), per cui la diagnosi, in pratica, è solo presuntiva (riscontro di lesioni TC di aspetto compatibile che regrediscono con la terapia). La TC e la RM possono dimostrare lesioni ipodense, con incostante assunzione di contrasto, spesso multiple (Fig. 20.17). Una biopsia cerebrale può essere indicata in casi particolari, non tanto per ottenere la conferma definitiva della diagnosi, quanto per escludere altre patologie.
Fig. 20.17 - TC cerebrale, rispettivamente prima (A) e dopo (B) mezzo di contrasto, in un caso di toxoplasmosi cerebrale acquisita in corso di immunodepressione da HIV in età pediatrica.
Il trattamento, che deve essere eseguito anche nei casi con diagnosi di probabilità, comprende l’associazione di sulfadiazina (4 g inizialmente, poi 2-6 g al dì), pirimetamina (100-200 mg inizialmente, poi 25 mg al dì) e acido folico. Il trattamento deve durare almeno 4 settimane, ma nei pazienti con AIDS deve essere attuata anche una profilassi secondaria.
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Tripanosomiasi Si distinguono la forma africana (Malattia del sonno) determinata dal Trypanosoma brucei nelle due varianti gambiense (Africa occidentale) e rhodesiense (Africa orientale), e la forma sudamericana (Malattia di Chagas) causata dal Trypanosoma cruzi. L’infezione si trasmette mediante la puntura di un insetto (nel caso della malattia del sonno la ben nota mosca tsetse), ed il decorso delle due forme è simile essendo caratterizzato da una sequenza di linfoadenopatia locale, disseminazione ematogena tardiva e successiva meningoencefalite cronica. Nella malattia di Chagas, comunque, la meningoencefalite è più rara rispetto alla forma africana, e l’aspetto principale del quadro clinico è rappresentato da una grave cardiomiopatia e da una miosite diffusa con pseudomixedema della faccia.
Encefaliti da elminti Gli elminti in grado di provocare lesioni cerebrali sono numerosi, e comprendono specie appartenenti a ciascuna delle tre classi in cui questi organismi pluricellulari sono suddivisi (cestodi, trematodi e nematodi) (Tab. 20.19). Le forme cliniche principali sono la trichinosi, la cisticercosi e l’echinococcosi. Trichinosi. – È causata dal nematode intestinale Trichinella spiralis. L’infestazione umana è legata all’ingestione di carne di porco cruda o cotta in modo insufficiente, quando questa contiene le larve incistate del parassita. Le larve sono liberate dalle cisti dai succhi gastrici e si sviluppano in forme adulte sessuate nell’intestino tenue, dove avviene la riproduzione e la generazione in
Tabella 20.19 - Infestazioni cerebrali da elminti Cestodi
Taenia solium (Cisticercosi) Multiceps multiceps (Coenurus cerebralis) Echinococcus granulosus (Echinococcosi)
Nematodi
Gnathostoma spinigerum Angiostrongylus cantonensis Toxocara canis Trichinella spiralis (Trichinosi) Strongyloides stercoralis
Trematodi
Schistosoma japonicum
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successive ondate di nuove larve che passano nei linfatici e quindi nel torrente ematico. Le larve penetrano in tutti i tessuti ma sopravvivono solo nel muscolo, ove si incistano ed eventualmente calcificano. Le manifestazioni cliniche di solito iniziano con una gastroenterite (dolori addominali, vomito, diarrea), seguita dai sintomi della disseminazione e dell’interessamento muscolare (febbre, edema periorbitale, dolori muscolari diffusi). Nel 10-24% dei casi vi può essere un coinvolgimento del sistema nervoso centrale, perché le larve del parassita possono infestare i capillari ed il parenchima cerebrale, con emorragie petecchiali, infiltrato cellulare perivascolare e noduli granulomatosi. In sostanza, si verifica una vera e propria encefalite, caratterizzata da stato confusionale, crisi epilettiche, segni di deficit neurologico focale. La terapia consiste nella somministrazione di tiabendazolo (50 mg/kg al dì, fino ad un massimo di 3 g, per 5 giorni) o mebendazolo (200-400 mg × 3 per 3 giorni poi 400-500 mg × 3 per 10 giorni), entrambi in associazione con corticoste-roidi. Cisticercosi. – Legata all’infestazione dallo stadio larvale o intermedio della Taenia solium, rappresenta un’importante causa di malattia neurologica nei paesi in via di sviluppo. L’ospite umano si infetta ingerendo le uova del parassita, che si schiudono nel tubo digerente, liberando gli embrioni che possono andare a localizzarsi in tutti gli organi, con una particolare predilezione per i muscoli e l’encefalo. Le manifestazioni cerebrali sono legate all’incistamento del parassita ed alla susseguente calcificazione delle larve nel parenchima cerebrale. Le cisti cerebrali hanno dimensioni di circa 1 cm, e si localizzano negli spazi subaracnoidei, nella corteccia cerebrale e più raramente nella sostanza bianca. Il cisticerco può indurre una risposta infiammatoria locale con vasculite, infiltrazione focale con mononucleati e occlusione vascolare. I disturbi più frequenti sono le crisi epilettiche parziali (la cisticercosi rappresenta una delle principali cause di epilessia sintomatica nei paesi del terzo mondo); eccezionalmente il quadro clinico può essere rappresentato da una meningoencefalite subacuta. L’avvento della TC e della RM ha comprensibilmente facilitato la diagnosi. Il farmaco di elezione per l’infezione attiva è il praziquantel alla dose di 50 mg/kg al dì per 15 giorni. Echinococcosi. – È l’infestazione dalle larve di Echinococcus granulosus, e riconosce un meccanismo patogenetico simile alla cisticercosi. La fonte dell’infezione è rappresentata dal materiale contaminato dalle feci dei cani; gli embrioni migrano in primo luogo al polmone ed al fegato, ma in circa il 2% dei casi si localizzano nell’encefalo, ove danno luogo ad una cisti solitaria di grosse dimensioni (cisti idatidea), il
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cui quadro clinico corrisponde a quello di una lesione occupante spazio. Il trattamento di elezione è chirurgico; nei casi in cui questo non è possibile, il farmaco più efficace è l’albendazolo alla dose di 10 mg/kg al dì.
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Poliomielite L. Cocito, C. Viscoli, G. Carrega La poliomielite anteriore acuta (più semplicemente indicata come poliomielite o polio) è un’infezione acuta causata da un virus (poliovirus), dotato di un particolare tropismo per i neuroni motori delle corna anteriori del midollo spinale e del tronco encefalico. L’effetto patogeno del virus si esplica attraverso la distruzione dei neuroni stessi, con conseguente paralisi di tipo periferico delle unità motorie coinvolte. Poiché la malattia, soprattutto nel passato, colpiva più frequentemente i bambini, il termine «paralisi infantile» viene talora usato come sinonimo di poliomielite. Il tema della poliomielite ha subito, negli ultimi decenni, un radicale cambiamento, in rapporto alle modificazioni epidemiologiche de-
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terminate dal miglioramento delle condizioni socio-economiche ed igienico-sanitarie nei paesi industrializzati e, soprattutto, dall’immunizzazione di massa mediante vaccinazione. In conseguenza di ciò il quadro tradizionale della poliomielite anteriore acuta, nei termini in cui dovrà essere trattato per ovvie ragioni di completezza, assume una ben definita connotazione storico-geografica: in Italia e negli altri paesi sviluppati, infatti, la poliomielite causata dal virus selvaggio è stata quasi completamente debellata, a differenza di quanto si verifica nei paesi del terzo mondo dove la malattia ha ancora un’importante diffusione. Nonostante ciò, tuttavia, neppure nei paesi industrializzati la poliomielite rappresenta un problema completamente superato, perché almeno tre elementi mantengono l’argomento di stretta attualità: 1) il virus attenuato usato per la vaccinazione orale conserva una sia pur lieve capacità di determinare paralisi e può quindi causare, ancorché raramente, poliomieliti paralitiche post-vaccinali non solo nei soggetti sottoposti a vaccinazione, ma anche in soggetti venuti a contatto con questi ultimi; 2) anche nelle nostre regioni possono verificarsi casi di poliomielite da importazione, sia in immigrati di origine africana o asiatica, sia in cittadini europei che si rechino, per turismo o per lavoro, in aree endemiche; 3) soggetti con esiti di poliomielite possono presentare la cosiddetta «sindrome postpoliomielitica». Ancora controversi, inoltre, sono i rapporti fra poliomielite e malattia del motoneurone. CENNI STORICI ED EPIDEMIOLOGICI Quantunque la poliomielite sia una malattia nota fin dall’antichità, fino alla seconda metà del XIX secolo la sua insorgenza era del tutto sporadica. A partire da tale epoca, e per circa un secolo, la poliomielite ha invece avuto una diffusione epidemica in vari paesi del mondo, rappresentando una delle più importanti cause di disabilità motoria nei giovani e determinando, quindi, impor-
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tanti ripercussioni sociali. Prima della vaccinazione, si verificavano in Italia tra i 1.000 e i 10.000 casi di poliomielite paralitica ogni anno; l’ultima epidemia di vaste dimensioni si è verificata nel 1958, allorché sono stati segnalati oltre 8.000 casi. L’avvento di un’efficace immunizzazione attiva, dapprima con il vaccino Salk, costituito da virus inattivato (1955), e quindi con il vaccino Sabin, a base di virus vivo attenuato (1962), ha determinato una drastica riduzione dell’incidenza della malattia, che, ad esempio, negli USA è diminuita dai 137 casi per milione di abitanti del 1952 ad una media di meno di 10 casi all’anno nel corso degli anni novanta (l’incidenza è stata di circa 0.01 casi per milione di abitanti nel 1993, anno in cui sono stati riportati 3 soli casi, 2 in adulti e 1 in un bambino). A partire dal 1979, tutti i casi di poliomielite registrati negli USA sono stati causati dal virus vaccinico o importati. In particolare, dal 1980 al 1999 i casi di poliomielite negli USA sono stati 152 di cui 6 casi importati, 2 a genesi non chiara e i restanti 144 (95%) post vaccinici. Per tale motivo dal 2000 viene utilizzato solo vaccino inattivato. I dati disponibili per l’Italia sono del tutto sovrapponibili, dimostrando anzi una maggior evidenza del fenomeno: si è infatti passati dai 176 casi per milione del 1958 (corrispondente al massimo storico dell’incidenza) a zero, nel senso che dal 1986 ad oggi non è stato registrato alcun caso di poliomielite (Fig. 20.18). Attualmente i focolai di poliomielite possono ricondursi a tre fondamentali condizioni. La prima è rappresentata dalle infezioni da poliovirus naturale tipo 1 in soggetti che per varie ragioni non sono stati immunizzati. Ciò si è verificato, per esempio, nel 1979 nella popolazione Amish degli USA, ostile alla vaccinazione per motivi religiosi; un’analoga situazione continua a verificarsi nelle popolazioni di scadente livello socio-economico, specie nei paesi tropicali, sia per un’insufficiente diffusione della vaccinazione, sia per carenze di risposta immunitaria. La seconda è quella di soggetti regolarmente vaccinati, ma con un basso livello di immunità contro il poliovirus tipo 3, che talora (Finlandia 1984-85), si manifesta con caratteristiche antigeniche diverse da quelle dei virus correntemente utilizzati per la preparazione del vaccino. La terza condizione, infine, riguarda la polio postvaccinale, che interessa soggetti di età più avanzata, particolarmente se immunodepressi (comprese le donne in gravidanza), conviventi con bambini sottoposti alla vaccinazione, e bambini affetti da immunodeficienze congenite e sottoposti a vaccinazione con virus vivente. Nella popolazione globale, l’incidenza della poliomielite postvaccinale è stata stimata in 1 caso ogni 2,6 milioni di dosi somministrate, con una letalità del 10%. Nei bambini con
Fig. 20.18 - I due grafici illustrano l’incidenza della poliomielite in Italia. Il grafico superiore rappresenta l’incidenza (numero di nuovi casi per milione di abitanti) dal 1925 al 1970. Particolarmente significativi sono i picchi registrati nel 1939 (137 casi per milione), 1952 (105) e 1958 (176), ed il drastico declino a partire dal 1964, anno in cui fu iniziata la vaccinazione obbligatoria con il vaccino orale tipo Sabin. Il grafico inferiore rappresenta l’incidenza nel periodo successivo al 1970. Poiché i tassi sono stati costantemente inferiori ad 1 caso su un milione di abitanti, è stato indicato il numero assoluto di nuovi casi per anno. Sono degni di nota l’ulteriore declino di incidenza a partire dalla fine degli anni ‘70 e la totale assenza di nuovi casi segnalati a partire dal 1986.
immunodeficienza congenita, invece, il rischio di sviluppare polio post-vaccinale aumenta di circa 10.000 volte. La poliomielite nei paesi tropicali e sub-tropicali rappresenta un problema di cui solo recentemente è stata apprezzata la reale portata. Partendo dal presupposto che nelle popolazioni con scadenti condizioni socio-economiche i soggetti tendono a contrarre l’infezione più pre-
Malattie infiammatorie cocemente e quindi vanno più raramente incontro alla forma paralitica (frequente invece quando l’infezione viene contratta più tardivamente), si riteneva che in questi paesi l’incidenza della poliomielite fosse relativamente bassa. Al contrario, dati recenti stimano l’incidenza della polio in Africa in circa 20-30 casi per 100.000 abitanti, cifra che è dello stesso ordine di grandezza di quella dei paesi europei prima dell’introduzione della vaccinazione. Gli esiti di poliomielite rappresentano tuttora una delle più frequenti cause di disturbi della deambulazione nei bambini africani. Nei paesi tropicali l’incidenza non ha un andamento stagionale ed è costante nel corso dell’anno, mentre in Europa, ai tempi dell’endemia pre-vaccinale, presentava un picco verso la fine dell’estate ed in autunno.
EZIOPATOGENESI Insieme ai virus coxsackie, agli echovirus, al virus dell’epatite A e ad alcuni virus di recente identificazione (EV 68-71), i poliovirus appartengono al genere Enterovirus, parte del più vasto gruppo dei picornavirus (piccoli virus a RNA). Esistono tre distinti tipi sierologici, denominati I, II e III. I poliovirus si replicano solo in colture cellulari di primati, sono inattivati dall’esposizione ad una temperatura superiore ai 60°C per oltre 30 minuti, dall’essiccamento a freddo, dalla formalina, dagli agenti ossidanti, dal cloro e dai raggi ultravioletti. Il virus vaccinico impiegato per il vaccino orale (tipo Sabin) è lievemente diverso dal punto di vista antigenico dal virus selvaggio; altre differenze riguardano inoltre la ridotta neurotossicità e la sensibilità alla temperatura. L’infezione da poliovirus (compreso il virus vaccinico) avviene esclusivamente per trasmissione interumana, non essendo implicato alcun vettore animale. La malattia si trasmette prevalentemente per via orofecale, anche se è ammessa la possibilità di trasmissione per via respiratoria o comunque attraverso la saliva. Quest’ultima rappresenta probabilmente la modalità di infezione più frequente nei paesi con elevati standard di condizioni igienico-sanitarie. Sia il virus selvaggio, sia quello vaccinico vengono escreti nella saliva per parecchi giorni (occasionalmente fino a 3-4 settimane) dopo l’infezione o la vaccinazione con vaccino a virus vivente (tipo Sabin) e si possono isolare dalle feci dei malati e dei vaccinati per 2-3 settimane (in casi più rari per un periodo fino a 3-4 mesi). Come accade per tutte le infezioni da enterovirus, sia il virus selvaggio, sia quello vaccinico penetrano nell’organismo attraverso il tubo gastroenterico e si moltiplicano, inizialmente, nel tessuto linfatico della parete intestinale, cui fa seguito una fase viremica transitoria con dif-
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fusione del virus ad altri tessuti non nervosi. Nella maggior parte dei casi di infezione da virus selvaggio (95%) e nella quasi totalità delle infezioni iatrogene vaccinali, il processo infettivo si arresta a questo stadio, senza manifestazioni cliniche o determinando al massimo, nel caso dell’infezione da virus selvaggio, una sindrome similinfluenzale. In alcuni casi invece l’infezione progredisce ed il virus invade il sistema nervoso centrale. La via di propagazione è probabilmente quella ematogena, anche se l’ipotesi di una concomitante diffusione per via neurale non viene del tutto esclusa. Sembra comunque che l’ingresso dei poliovirus nel nevrasse avvenga sempre a livello di un’unica localizzazione, a partire dalla quale i virus si propagano alle altre strutture nervose utilizzando un meccanismo di trasporto assonale rapido. Il fatto che la velocità di tale trasporto aumenti con il crescere dell’età potrebbe rappresentare una delle ragioni per cui la poliomielite è spesso più grave nei bambini grandicelli e nei giovani adulti.
NEUROPATOLOGIA I poliovirus possiedono un particolare tropismo per i motoneuroni spinali di più grosse dimensioni, particolarmente a livello dei rigonfiamenti cervicale e lombosacrale. Non è chiaro se la maggior vulnerabilità di queste cellule dipenda dalla presenza o dalla più elevata densità di recettori per il virus sulla superficie cellulare, dalla maggior velocità di diffusione lungo le vie nervose o da altri fattori. I poliovirus, peraltro, infettano anche altre strutture, come i neuroni motori del tronco encefalico ed i neuroni della formazione reticolare, dei nuclei vestibolari, del cervelletto, dell’ipotalamo, del talamo e della corteccia motoria. Molto raramente l’infezione può coinvolgere i neuroni sensitivi e vegetativi del midollo spinale e dei gangli, sui quali tuttavia il virus non causa un danno persistente. L’infezione virale e le conseguenti modificazioni patologiche della cellula nervosa si esplicano attraverso le consuete fasi: inizialmente, il virus aderisce ai recettori sulla membrana cellulare; la struttura di tali recettori, di cui peraltro non è nota la funzione in condizioni fisiologiche, è stata recentemente identificata come una proteina simile alle immunoglobuline. Il virus è quindi assorbito all’interno del citoplasma dove una proteina virale (proteina 2A) induce una precoce inibizione della sintesi proteica della cellula ospite, mentre il RNA virale si replica dando luogo a nuove particelle virali che vengono liberate nello spazio extracellulare, determinando una rapida morte cellulare (infezione litica). I neuroni vanno incontro a gravi alterazioni regressive con dissoluzione della sostanza di Nissl e vengono quindi circondati da cellule infiammatorie, che alla fine li fagocitano (neuronofagia).
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Nella fase acuta della malattia vi è una congestione vascolare diffusa con marcata iperemia ed infiltrati perivascolari di cellule infiammatorie; costante è anche una compartecipazione infiammatoria delle leptomeningi. Nella fase degli esiti le alterazioni consistono in una perdita neuronale con gliosi, mentre le fibre muscolari vanno incontro ad atrofia da denervazione.
SINTOMATOLOGIA Nella maggior parte dei casi (90-95%) l’infezione decorre in modo asintomatico. Una percentuale compresa fra il 4% e l’8% dei soggetti infettati va incontro alla cosiddetta «malattia minore» (o poliomielite abortiva), mentre la malattia conclamata, con i classici segni di compromissione del sistema nervoso, si sviluppa solo in una percentuale dell’1-2% dei casi (Tab. 20.20). La malattia minore compare dopo un periodo di incubazione di 1-3 giorni, con una sintomatologia del tutto aspecifica: lieve mal di gola, disturbi gastrointestinali, febbricola, malessere generale e cefalea, con un quadro clinico simile a quello di molte altre malattie batteriche o virali del tutto banali. La poliomielite conclamata può essere preceduta dalla malattia minore, più frequentemente nei bambini, oppure instaurarsi direttamente, con un periodo di incubazione variabile da 3 a 35 giorni, specie negli adulti, nei quali i sintomi neurologici compaiono dopo una fase prodromica estremamente aspecifica o anche senza prodromi. I sintomi iniziali sono in genere rappresentati da febbre, malessere generale, cefalea intensa, Tabella 20.20 - Infezione da poliovirus e manifestazioni cliniche. % casi Asintomatica
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Malattia minore
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Poliomielite paralitica
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vomito, sonnolenza, seguiti, nel giro di 12-24 ore, da rigidità nucale, espressione di interessamento meningeo che, in alcuni casi particolarmente fortunati, può rappresentare l’unico disturbo neurologico ed avere un decorso rapidamente migliorativo (meningite poliomielitica). Usualmente, però, nel giro di 2-5 giorni dall’esordio (ma talora anche in concomitanza, e, più raramente, con una latenza fino a 1-2 settimane) compare il deficit di forza, che rappresenta l’elemento fondamentale del quadro clinico. Quantunque i dati neuropatologici indichino una sostanziale unicità del processo morboso, il quadro clinico della poliomielite conclamata viene tradizionalmente classificato in tre forme, in rapporto alla sede di prevalente espressione clinica della malattia. Forma spinale. – La forma più comune colpisce le cellule delle corna anteriori del midollo (poliomielite spinale) e, in genere, anche se non obbligatoriamente, la distribuzione del deficit è asimmetrica, interessa i muscoli prossimali più di quelli distali e gli arti inferiori più dei superiori. La muscolatura del tronco è spesso risparmiata. Il deficit di forza ha ovviamente caratteristiche di tipo periferico con flaccidità, assenza dei riflessi profondi e talora precoce presenza di transitorie fascicolazioni, mentre l’atrofia muscolare compare più tardivamente, iniziando a manifestarsi circa una settimana dopo l’esordio ed accentuandosi nel corso delle settimane successive. Il deficit, la cui entità può essere variabile, tende ad estendersi, interessando un numero crescente di muscoli, durante i primi 3-5 giorni, trascorsi i quali un’ulteriore progressione è rara. Nella fase acuta della malattia, parestesie e dolori sono frequenti. Molto comuni sono i disturbi vegetativi, rappresentati da alterazioni locali della sudorazione, ritenzione urinaria, ritardo dello svuotamento gastrico e stipsi, fino ad un quadro di ileo paralitico. Forma bulbare. – Nel 10-15% dei casi la localizzazione è bulbare, con interessamento dei
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nuclei dei nervi cranici e dei nuclei della formazione reticolare. I nervi cranici più frequentemente coinvolti sono il IX e il X, con conseguente disfagia e disfonia; meno consueto è l’interessamento del facciale, con paralisi periferica uni- o bilaterale. Gli altri nervi cranici (V motorio, ipoglosso, nervi oculomotori) sono coinvolti molto più raramente. L’interessamento dei nuclei della formazione reticolare (v. pag) può determinare la comparsa di alterazioni del respiro, fino all’arresto; analogamente può verificarsi una compromissione dei centri regolatori delle funzioni cardiovascolari, con conseguenti alterazioni del ritmo cardiaco e della pressione arteriosa. I disturbi della respirazione, naturalmente, possono dipendere anche da un concomitante deficit del diaframma o dei muscoli intercostali. I disturbi vegetativi da sofferenza dei centri bulbari rappresentano la principale causa di morte nella poliomielite acuta. Forma encefalitica. – Ancora più rara della precedente, si presenta con un quadro di encefalite acuta, caratterizzato soprattutto da disturbi della coscienza associati a disturbi delle funzioni vegetative. Anche se il quadro acuto può presentare aspetti estremamente drammatici, la prognosi non è necessariamente peggiore di quella delle forme precedenti e, una volta superata la fase acuta, vi può essere una guarigione con esiti assai modesti. Nei bambini con immunodeficienza congenita il quadro clinico può essere diverso, e caratterizzato da un periodo di incubazione più prolungato e un decorso più protratto e più grave. DIAGNOSI L’insorgenza acuta di una paralisi flaccida, asimmetrica, associata ad una meningite asettica, di solito consente facilmente una diagnosi corretta, sempre che la sintomatologia insorga in un contesto ambientale dove sia prevedibile
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la presenza della malattia. L’eventualità di una polio deve comunque essere considerata anche dove questa malattia è rara, specie se il soggetto è stato vaccinato di recente o se si tratta, come più spesso accade, di soggetto mai vaccinato ma venuto a contatto con soggetti da poco sottoposti a vaccinazione. Le caratteristiche temporali che consentono di ipotizzare una poliomielite post-vaccinale sono la comparsa della paralisi da 7 a 21 giorni dopo la somministrazione della prima dose di vaccino (nei vaccinati), oppure da 20 a 29 giorni dopo la somministrazione del vaccino al soggetto contagiante (in coloro che sono a contatto con vaccinati). Come si è già detto, un importante fattore di rischio per la poliomielite postvaccinale è rappresentato dalle condizioni di immunodepressione. Il quadro clinico con cui più spesso può porsi il problema diagnostico differenziale è la sindrome di Guillain-Barré: in quest’ultima, tuttavia, il deficit di forza è in genere simmetrico (anche se questa caratteristica differenziale non ha valore assoluto) e la malattia febbrile è precedente, piuttosto che concomitante all’esordio della sintomatologia neurologica. L’esame del liquor è comunque dirimente, poiché la sindrome di Guillain-Barré è caratterizzata dal tipico reperto della dissociazione albumino-citologica, mentre nella poliomielite vi è una pleiocitosi (in genere 25-500 cellule per mmc) associata a modesta iperproteinorrachia. Le indagini elettrofisiologiche forniscono inoltre ulteriori elementi differenziali in rapporto alla diversa sede di compromissione motoria periferica. Anche altre forme di polineuropatia acuta possono proporre il problema di una diagnosi differenziale con la poliomielite, ad esempio la porfiria acuta intermittente, la difterite, la mononucleosi infettiva, la malattia di Lyme, l’avvelenamento da triortocresilfosfato. Del tutto eccezionalmente, nel bambino, un deficit di forza ad esordio apparentemente acuto in un contesto clinico simile a quello della
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poliomielite potrebbe in realtà rappresentare la slatentizzazione di una malattia neuromuscolare, preesistente ma non ancora diagnosticata, nel corso di una banale malattia febbrile. Naturalmente non va dimenticato che altre malattie virali, ed in particolare le infezioni da altri enterovirus (echovirus, coxsackie, enterovirus 70 e 71) possono causare mieliti paralitiche o encefaliti (v. pag. 000), differenziabili dalla poliomielite solo con indagini sierologiche. PROGNOSI Data la rarità della poliomielite ai giorni nostri, i dati sulla mortalità sono ancora riferiti a casistiche di qualche decennio fa, ed indicano un tasso di letalità intorno al 10%. La mortalità durante la fase acuta della polio è soprattutto legata alla possibilità di una paralisi respiratoria o di una compromissione bulbare. La maggior parte delle guarigioni avviene con esiti permanenti, a carattere più o meno invalidante e, superata la fase acuta, le condizioni rimangono stabili. Tuttavia, circa il 20% dei pazienti che hanno avuto la poliomielite presentano, anche parecchi decenni dopo la malattia acuta, un deterioramento tardivo delle condizioni neurologiche, per il deficit motorio. Sebbene in alcuni casi possa trattarsi di un’associazione fortuita, per molti esiste un chiaro rapporto di causalità dei nuovi sintomi con la pregressa polio. Questa condizione rappresenta la cosiddetta «sindrome post-poliomielitica» o «sindrome post-polio» (v. pag. 000). TERAPIA Poiché non esiste a tutt’oggi alcun farmaco attivo sui poliovirus, la prevenzione riveste un’importanza fondamentale. Qualora la malattia si manifesti, invece, le uniche possibili forme di trattamento consistono in misure terapeutiche generali e di supporto. Anche se le ragioni non sono note, è accertato che l’eccessiva
attività fisica durante la fase prodromica preparalitica tende ad accentuare la gravità del successivo deficit motorio, e che traumi anche lievi localizzati ad un arto (ad esempio iniezioni intramuscolari, vaccinazioni) oppure interventi chirurgici possono influenzare la distribuzione della paralisi (la tonsillectomia, in particolare, favorirebbe l’instaurarsi di una forma bulbare). Per questi motivi è raccomandabile che, in presenza di una malattia febbrile che potrebbe rivelarsi una poliomielite, tutti questi atti medico-chirurgici vengano evitati. Nella fase paralitica della malattia, si devono anzitutto porre in atto tutte le misure generali di mantenimento delle funzioni vitali ed in particolare della respirazione, eventualmente con intubazione e ventilazione assistita. Le alterazioni del ritmo cardiaco e della pressione arteriosa devono essere trattate con molta prudenza, poiché vi è spesso una marcata instabilità delle funzioni vegetative. Il riposo a letto e l’uso di analgesici sono importanti per alleviare le sofferenze legate alla possibile presenza di contratture e di crampi. Infine si deve al più presto iniziare la terapia fisica, con misure che vanno dalla semplice mobilizzazione passiva nella fase acuta ad un programma di riabilitazione intensiva nella fase degli esiti a distanza. In quest’ultimo caso può anche presentarsi l’opportunità di associare provvedimenti ortopedici ed eventualmente anche chirurgici per ovviare, almeno in parte, alle conseguenze del deficit motorio. PREVENZIONE Esistono attualmente due tipi di vaccino capaci di fornire un’efficace e duratura immunizzazione contro la poliomielite. Il primo, noto come vaccino tipo Salk (dal nome dello scienziato che lo ha messo a punto), è costituito dai tre tipi di virus poliomielitico coltivati in cellule di rene di scimmia o in cellule diploidi umane ed inattivati con formolo (IPV, acronimo di «inactivated polio vaccine»). Viene somministrato per via parenterale in due dosi, a distanza di 6-8 settimane l’una dall’altra, seguite da una terza dose dopo 6-12 mesi. Questo tipo di vaccino indu-
Malattie infiammatorie ce una reazione immunologica protettiva di tipo IgG ed è pertanto in grado di prevenire la malattia, ma non l’infezione. In altre parole, i soggetti vaccinati con il vaccino Salk possono infettarsi con il virus polio selvaggio ed eliminarlo con le feci, ma non si ammalano di poliomielite, perché quando il virus penetra nel torrente ematico trova anticorpi IgG che lo neutralizzano. In alcuni paesi, dotati di ottimi livelli di assistenza sanitaria (ad esempio, la Scandinavia) questo tipo di vaccino è stato impiegato con successo ed ha portato alla virtuale eradicazione della poliomielite. In altri paesi, tra cui l’Italia, è stato preferito il vaccino attenuato per via orale (tipo Sabin), e l’uso del vaccino inattivato è stato riservato ai soggetti immunocompromessi (nei quali l’uso di vaccini con agenti viventi, anche se attenuati, è controindicato) ed agli adulti. Il secondo tipo di vaccino antipoliomielitico (vaccino tipo Sabin) è costituito da una mistura, in parti non uguali, dei tre sierotipi di poliovirus, calibrati in modo da ovviare all’effetto di interferenza sull’attecchimento esercitato dal virus tipo 1 ai danni di quello tipo 2. I virus sono attenuati a seguito di numerosi passaggi su cellule di rene di scimmia, in modo da perdere la loro neuroinvasività, pur mantenendo intatta la capacità di riprodursi nelle strutture linfatiche intestinali e di determinare una risposta immunitaria locale (IgA secretorie) e sistemica (IgG). Ne consegue che il vaccino orale (OPV, «oral polio vaccine»), è in grado di prevenire non solo la malattia, ma anche l’infezione poliomielitica, e che il suo uso su larga scala è in grado di ridurre o eliminare la circolazione di virus selvaggio attraverso un fenomeno di interferenza competitiva. Il vaccino OPV, tuttavia, può essere responsabile in casi rarissimi dell’insorgenza di poliomielite paralitica associata a vaccino (PPAV). Studi condotti negli USA hanno dimostrato che il rischio di PPAV è di circa un caso ogni 2.400.000 dosi somministrate, con il 78% dei casi osservati dopo somministrazione della prima dose. In Italia, negli anni 1990-1999 sono stati segnalati 10 casi di PPAV, corrispondenti ad una frequenza di un caso ogni 550.000 nuovi nati ed ogni 2.200.000 dosi somministrate; in 9 casi su 10 la complicanza è insorta dopo somministrazione della prima dose. Un altro inconveniente del vaccino OPV è rappresentato dalla diminuita efficacia dimostrata nei paesi tropicali, in parte probabilmente per le difficoltà di una corretta conservazione (deve essere mantenuto a 4°C), ma forse anche per interferenze con altre infezioni da enterovirus particolarmente diffuse in questi paesi. È stato infine recentemente dimostrato che le iniezioni intramuscolari, specie se ripetute, nei 30 giorni successivi alla vaccinazione con OPV aumentano significativamente il rischio di una poliomielite post-vaccinale, per un fenomeno analogo a quello già riferito a proposito del-
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l’infezione da virus selvaggio. È opportuno pertanto non somministrare farmaci o altri vaccini per via parenterale ai soggetti recentemente sottoposti a vaccinazione con OPV. Nel 1964 è stata avviata in Italia una campagna di vaccinazione rivolta all’intera popolazione fino a 16 anni di età, che ha portato ad un rapido declino della malattia; nel 1966 la vaccinazione è stata resa obbligatoria per tutti i nuovi nati. Fino al 2000 il vaccino Sabin è stato utilizzato per la vaccinazione di massa con somministrazione per via orale a digiuno, secondo uno schema che prevedeva due somministrazioni successive a distanza di 6-8 settimane l’una dall’altra, più una terza somministrazione dopo 6-12 mesi. Un richiamo era previsto nel corso del terzo anno di vita. Poichè la poliomielite è stata praticamente eradicata in Italia (ed anche nell’intero continente europeo l’ultimo caso segnalato risale al 1998), il rischio associato con la vaccinazione con OPV non è più stato considerato accettabile. Nell’aprile 2000 il calendario vaccinale è stato modificato introducendo l’uso del vaccino IPV (Salk) per le prime due somministrazioni, seguite da due dosi di vaccino orale tipo Sabin. Questa scheda sequenziale ha il vantaggio di minimizzare il rischio di PPAV mantenendo i vantaggi dell’OPV, che però è somministrato a bambini che hanno già anticorpi specifici indotti dal vaccino IPV.
La «sindrome post-polio» Rappresenta una condizione clinica ben conosciuta, che compare molti anni dopo un episodio di poliomielite paralitica, ed i cui sintomi principali sono costituiti da ipostenia, facile stancabilità e dolori muscolo-scheletrici. Se a questa costellazione di sintomi prevalentemente soggettivi si associa un’atrofia muscolare, si parla più specificamente di «atrofia muscolare progressiva post-poliomielite» (PPMA), malattia ad esordio insidioso e decorso molto lentamente progressivo che si instaura in pazienti con esiti stabilizzati di polio, generalmente 30-40 anni dopo la malattia acuta. Consiste in un peggioramento del deficit di forza dei muscoli colpiti dalla pregressa polio e nella comparsa di un deficit di forza di altri muscoli, apparentemente indenni. Questa malattia non ha ancora avuto una spiegazione definita: infatti, non esiste alcuna
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prova della persistenza del poliovirus nel sistema nervoso dell’uomo, anche se tale possibilità è stata dimostrata nell’animale. L’occasionale riscontro autoptico di reperti infiammatori nel midollo spinale, e di bande oligoclonali nel liquor di alcuni pazienti con PPMA suggerisce la possibilità di una patogenesi autoimmune. L’ipotesi più accreditata tende tuttavia a considerare la PPMA legata ai processi di invecchiamento dei neuroni motori. Dopo una poliomielite acuta si verificano fenomeni di compenso, con un’estensiva innervazione collaterale delle fibre muscolari denervate, da parte delle cellule delle corna anteriori sopravvissute, e ciascun motoneurone residuo innerverebbe un numero di fibre muscolari molto maggiore del normale. La PPMA sarebbe dovuta alla morte di singoli neuroni, o alla perdita di terminazioni nervose determinata dall’invecchiamento cellulare. Anche se i processi di reinnervazione possono continuare a verificarsi, la progressiva perdita di terminazioni conduce inevitabilmente ad un peggioramento dell’ipostenia. La PPMA deve essere differenziata in primo luogo dalla sclerosi laterale amiotrofica, e l’assenza di segni di sofferenza del primo motoneurone appare dirimente (v. pag. 000). Poliomielite e sclerosi laterale amiotrofica (SLA) Il tema dei rapporti fra una pregressa polio e l’insorgenza di una SLA vera e propria rappresenta un argomento di attualità, in qualche misura connesso con quanto trattato nel precedente paragrafo ma, comunque, da considerarsi distinto: infatti, mentre l’esistenza della PPMA, pur nell’incertezza della sua patogenesi, è indiscutibile, i dati circa i rapporti fra polio e SLA sono contrastanti e nel complesso piuttosto vaghi (v. pag. 000). Esistono studi epidemiologici che dimostrerebbero una maggior probabilità di ammalarsi di SLA per chi ha sofferto di polio, ma anche indagini che condurrebbero a conclusioni opposte. Peraltro, recenti studi su colture di tessuto hanno dimostrato che i poliovirus, a differenza di quanto si riteneva in passato, possono causare non soltanto un’infezione litica con immediata morte cellulare, ma anche un’infezione persistente; d’altra parte, studi effettuati mediante le tecniche di amplificazione genica (PCR) hanno dimostrato la possibile persistenza di ente-
rovirus responsabili di sindromi non neurologiche in soggetti sia immunocompromessi che immunocompetenti. Infine, è stato dimostrato che gli enterovirus possono indurre in modelli sperimentali un danno con meccanismo autoimmune o immunomediato. Naturalmente tutti questi dati dimostrano solo l’esistenza dei presupposti biologici per ipotizzare un possibile ruolo dei poliovirus (come del resto anche di altri agenti virali) nell’eziopatogenesi della SLA.
Le sindromi paralitiche da enterovirus diversi Oltre ai poliovirus, altri enterovirus possono causare sindromi neurologiche caratterizzate da deficit del motoneurone periferico, clinicamente simili alla poliomielite. Sebbene queste forme morbose non siano in assoluto particolarmente frequenti, hanno assunto un’importanza maggiore che in passato parallelamente al declino di incidenza della poliomielite classica. Ad esempio, 27 dei 52 casi (52%) di sindromi paralitiche da enterovirus registrate negli USA nel periodo 1976-1979 furono causate da virus diversi dai poliovirus (echovirus 35%, coxsackie 13%, enterovirus 71 4%). I virus implicati in queste sindromi sono i virus echo, coxsackie e gli enterovirus di più recente identificazione EV 70 e EV 71. Le paralisi dovute ad infezioni da virus coxsackie ed echo hanno generalmente una prognosi molto più benigna di quelle da poliovirus: infatti, i disturbi determinati da questi virus sono spesso reversibili, e l’assenza di deficit residuo a 60 giorni di distanza dall’esordio della paralisi rappresenta un valido criterio diagnostico differenziale con la poliomielite. L’Enterovirus 70 ha causato a partire dal 1970 numerose epidemie di congiuntivite acuta emorragica in molti paesi extraeuropei: nel corso di questa infezione, sintomi neurologici di tipo paralitico possono manifestarsi all’incirca in un caso ogni 10-15.000, con esordio da parecchi giorni fino a qualche settimana dopo la guarigione della congiuntivite emorragica. Come nel caso della poliomielite, il deficit interessa soprattutto gli arti inferiori, è asimmetrico ed ha una distribuzione prevalentemente prossimale. L’esordio della sintomatologia motoria è spesso preceduto di alcuni giorni da disturbi soggettivi della sensibilità con parestesie e dolori talora di tipo radicolare, ma un coinvolgimento delle strutture sensitive non è mai stato obiettivato. L’infezione da Enterovirus 71, che ha recentemente determinato piccole epidemie in alcuni paesi europei (Bulgaria e Ungheria) e negli USA, può dar luogo a quadri neurologici variabili, con possibile prevalenza di meningiti, encefaliti o mieliti. Soprattutto l’epidemia verificatasi in Bulgaria è stata particolarmente severa ed ha avuto caratteristiche molto simili ad un’epidemia di poliomielite.
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Mieliti e mielopatie L. Cocito
Aspetti generali Analogamente all’encefalo, anche il midollo spinale può essere sede di processi infiammatori (mieliti) e gran parte degli agenti eziologici responsabili di encefaliti (Tab. 20.10 e 20.11) possono determinare anche processi infiammatori del midollo o di entrambe le strutture (encefalomieliti). Mentre la definizione di encefalite implica la presenza di una causa infettiva (v. pag. 000), il termine mielite ha una connotazione più specificamente neuropatologica e tende ad includere una molteplicità di agenti causali, non necessariamente di natura infettiva. Ad esempio, rientra in questo ambito anche la patologia midollare della sclerosi multipla e delle sindromi correlate, come la neuromielite ottica di Devic (v. pag. 000). La distinzione fra mieliti e mielopatie non infiammatorie non è sempre netta: addirittura, la letteratura più recente tende ad unificare questi concetti definendo come mielopatia acuta una disfunzione acuta o subacuta del midollo spinale in rapporto con cause diverse, incluse in particolare quelle post-infettive, la sclerosi multipla, malattie sistemiche quali la sindrome di Sjögren (v. pag. 000) ed il lupus eritematoso sistemico (v. pag. 000), le radiazioni ionizzanti ed anche l’infarto midollare. Anche volendo mantenere la classica distinzione tra forme infiammatorie e non, una certa sovrapposizione
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Malattie del sistema nervoso
nella trattazione di questi quadri clinici è comunque inevitabile. Così come nell’encefalo, anche nel midollo spinale il processo infiammatorio può essere limitato alla sostanza grigia o alla sostanza bianca, configurando rispettivamente poliomieliti e leucomieliti. In rapporto alla sede ed all’estensione della lesione si distinguono mieliti e mielopatie a focolaio, trasverse, diffuse, disseminate. Nelle mieliti a focolaio il processo patologico è localizzato; nelle mieliti trasverse la lesione infiammatoria è limitata longitudinalmente a 1-3 segmenti, ma estesa a tutta o quasi la sezione trasversale del midollo; nelle mieliti diffuse il processo infiammatorio coinvolge in modo più o meno uniforme l’intero midollo spinale; nelle forme disseminate è caratterizzato da una molteplicità di focolai. La Tab. 20.21 riporta una classificazione delle principali forme di mieliti e mielopatie, in rapporto ai meccanismi eziopatogenetici. EZIOLOGIA. – Le mieliti da infezione virale diretta o primitive sono spesso, ma non obbligatoriamente, poliomieliti, ed i virus più frequentemente implicati, oltre ai poliovirus, sono gli altri enterovirus (v. pag. 000) ed i virus della famiglia delle herpesviridae (HSV tipo 1 e tipo 2, VZV, virus Epstein-Barr, herpesvirus B simiae). Le mieliti da causa infettiva batterica, fungina o parassitaria sono generalmente rappresentate da processi infiammatori specifici (tubercolosi, sifilide, malattia di Lyme), e sono molto rare. A differenza dell’ascesso cerebrale, l’ascesso intramidollare (piomielia) è un’evenienza del tutto eccezionale. Le mieliti o mielopatie in corso di infezione da retrovirus sono un argomento di attualità: le infezioni da HIV-1 e HTLV-1 possono dar luogo a quadri clinici specifici. Sono stati anche descritti occasionali casi di probabile lesione midollare da virus HIV-2. Altre infezioni virali, quali alcune malattie esantematiche, e le vaccinazioni possono de-
Tabella 20-21. Principali forme di mieliti e mielopatie Mieliti da causa infettiva diretta – da virus: enterovirus, herpesviridae, virus della rabbia – da batteri, miceti, protozoi e parassiti pluricellulari Mieliti o mielopatie da retrovirus (patogenesi incerta): – lentivirus (HIV-1): mielopatia vacuolare in corso di AIDS – deltaretrovirus (HTLV-1): paraparesi spastica tropicale Mieliti da causa immunitaria – a decorso monofasico: post-infettive e post-vaccinali – recidivanti: sclerosi multipla Mieliti di natura incerta – mielite necrosante (acuta e subacuta) Mielopatie -– metaboliche, tossiche e carenziali – compressive – vascolari – da radiazioni ionizzanti
terminare un processo infiammatorio del midollo spinale per meccanismi immunitari analoghi a quelli implicati nella genesi delle encefaliti secondarie post-infettive e post-vaccinali (v. pag. 000), talora con un coinvolgimento simultaneo di entrambe le strutture (encefalomieliti secondarie, attualmente spesso indicate con l’acronimo inglese ADEM – acute disseminate encephalomyelitis). Sebbene per definizione questa forma morbosa rappresenti un processo monofasico, i rapporti con la sclerosi multipla sono tuttora dibattuti, dal momento che circa un terzo dei malati con una diagnosi iniziale di ADEM sviluppano in seguito quest’ultima malattia. SINTOMATOLOGIA . – Il quadro clinico delle mieliti è variabile in rapporto alla localizzazione del processo infiammatorio ed al decorso.
Malattie infiammatorie
Se il processo infiammatorio coinvolge prevalentemente le cellule delle corna anteriori, come avviene nelle poliomieliti, la sintomatologia è caratterizzata da un deficit di forza di tipo periferico. Se invece il processo infiammatorio coinvolge prevalentemente la sostanza bianca (leucomieliti) oppure sia la sostanza bianca che la grigia, il quadro clinico corrisponde a quello classico delle sindromi midollari (v. pag. 000), ed è ulteriormente classificabile in rapporto alla topografia della lesione. Il quadro più drammatico, soprattutto nelle lesioni ad insorgenza acuta, cioè mielite trasversa acuta e mielite necrosante, è quello della sindrome da lesione trasversa del midollo spinale, che comporta una paraplegia o tetraplegia e deficit della sensibilità sottolesionale. Nei processi infiammatori localizzati, frequenti soprattutto nelle mieliti a focolaio in corso di sclerosi multipla, il quadro clinico è variabile, e caratterizzato da aspetti tipici di una sofferenza midollare parziale (ad esempio, una sindrome di Brown-Séquard). Nel caso delle poliomieliti, la diagnosi differenziale più importante comprende le polineuropatie e le polineuroradiculopatie acute (v. pag. 000). Nelle altre forme di mielite, invece, il quadro clinico può essere simile a quello delle compressioni midollari acute o subacute o delle lesioni vascolari del midollo. La diagnosi può essere indirizzata dai dati anamnestici e dai sintomi concomitanti (ad esempio, un’iperpiressia suggestiva di malattia infettiva acuta, anche se questo aspetto è molto meno costante che nelle encefaliti): in genere tuttavia, la diagnosi di mielite, e soprattutto di mielite trasversa, richiede la preliminare esclusione di altre patologie, ed in particolare di lesioni compressive. I soggetti con una sindrome midollare ad evoluzione acuta o subacuta rappresentano in ogni caso urgenze neurologiche e devono essere sottoposti con la massima celerità ad indagini
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neuroradiologiche per escludere lesioni suscettibili di trattamento neurochirurgico. In rari casi, la mielite può manifestarsi clinicamente con una progressione ascendente della sintomatologia sensitiva e motoria: il deficit inizia agli arti inferiori e coinvolge in modo rapidamente progressivo il tronco e gli arti superiori, fino ad interessare il bulbo. Tale modalità di evoluzione non è specifica di una determinata eziologia e neppure dell’interessamento del midollo spinale piuttosto che di altre strutture, dal momento che anche una polineuroradiculopatia infiammatoria acuta a tipo sindrome di GuillainBarré può avere lo stesso andamento che configura il classico concetto di paralisi ascendente di Landry. ESAMI COMPLEMENTARI E DIAGNOSI. – Prima dell’avvento della RM, la diagnostica per immagini dei processi infiammatori midollari consentiva soltanto una diagnosi in negativo, escludendo cioè la presenza di altre patologie. Attualmente la RM spinale è in grado di evidenziare direttamente le alterazioni infiammatorie del midollo (aree di iperintensità nelle sequenze T2-pesate), anche se la aspecificità delle immagini spesso non consente una precisa diagnosi di natura. Per questo motivo, una volta escluse lesioni compressive, l’origine infiammatoria del processo può essere confermata solo dai reperti dell’esame del liquor, in primo luogo la pleiocitosi, che sono invece poco espressivi nelle mielopatie vascolari ischemiche o di altra natura.
Quadri specifici MIELITE TRASVERSA. – Rappresenta una sindrome da lesione a tutto spessore del midollo. Può essere dovuta a vari agenti eziologici, per lo più di natura virale; particolarmente frequente sembra la responsabilità del virus della varicella-herpes zoster (VZV), specie in soggetti immunocompromessi, ma esistono segnalazioni occasionali di forme dovute ad altri agenti eziologici. Non sempre, tuttavia, può essere
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identificato un agente infettivo, e ciò solleva il problema del possibile significato di manifestazione d’esordio di una sclerosi multipla. È più frequente nelle femmine e negli adulti, presentando due picchi di incidenza verso i 20-30 anni ed oltre i 70, ma questi dati epidemiologici sono probabilmente in parte contaminati dalla sovrapposizione con casi di sclerosi multipla. L’esordio è spesso rappresentato da parestesie e dolori a livello della lesione, seguiti nel giro di alcuni giorni dalla comparsa di deficit di forza e di ipoestesia nei territori sottostanti alla lesione e disturbi sfinterici. I sintomi sistemici di un processo infiammatorio possono mancare o essere molto sfumati. Nei casi dovuti al virus della varicella-herpes zoster, il livello della lesione midollare corrisponde in genere a quello dei dermatomeri interessati dall’eruzione cutanea, che può insorgere anche successivamente. In rapporto con la rapida insorgenza della lesione, le caratteristiche semeiotiche del deficit motorio corrispondono a quelle dello shock spinale, con flaccidità ed areflessia nonostante si tratti di una paralisi da lesione del motoneurone centrale. La diagnosi richiede la preliminare esclusione di cause compressive, ed è confermata dal riscontro di una pleiocitosi liquorale. La RM dimostra in genere reperti aspecifici, quali un lieve rigonfiamento del midollo ed alterazioni diffuse del segnale (iperintensità T2), con rinforzo dopo contrasto paramagnetico (gadolinio), a livello dei metameri interessati. La prognosi è variabile, anche se alla fase acuta generalmente fa seguito un certo recupero funzionale, ed è ovviamente meno favorevole, soprattutto per la possibilità di un’evoluzione recidivante o progressiva, qualora la mielite trasversa rappresenti il sintomo d’esordio di una sclerosi multipla. La diagnosi differenziale tra mielite traversa acuta come processo monofasico ed eventuale segno di esordio di una sclerosi multipla è un problema di non facile soluzione, che si rial-
laccia a quanto detto poc’anzi a proposito dell’encefalomielite acuta disseminata. Elementi orientativi sarebbero il carattere simmetrico del deficit (tipico della mielite traversa infettiva o parainfettiva piuttosto che della mielite da sclerosi multipla) ed i parametri liquorali (una pleiocitosi superiore a 30 cellule per mmc e l’assenza di bande oligoclonali sono suggestive di una mielite infettiva). Sul piano pratico, la ricerca di segni strumentali di coinvolgimento subclinico di altre strutture del sistema nervoso centrale (ad esempio, focolai di demielinizzazione asintomatica alla RM encefalica; alterazioni dei potenziali evocati visivi) è certamente importante ma non dirimente, sia in caso di positività che di negatività delle indagini. L’identificazione di un agente patogeno responsabile, per esempio tramite la PCR o le indagini anticorpali, consente di affermare la natura infettiva o post-infettiva della malattia, anche se, soprattutto nel caso di una mielite secondaria, soltanto il follow-up del paziente può escludere che l’infezione stessa inneschi a sua volta un processo infiammatorio cronico o recidivante come la sclerosi multipla. MIELITE NECROSANTE ACUTA. – Rappresenta una rara forma di mielite trasversa, caratterizzata da un decorso particolarmente tumultuoso in rapporto con la gravità del processo infiammatorio, cui corrisponde un quadro neuropatologico di necrosi. I sintomi sono simili a quelli della mielite trasversa, a parte una maggior gravità, un’evoluzione più rapida nell’arco di ore piuttosto che di giorni, la più frequente presenza di segni sistemici di infiammazione, ed il quadro liquorale caratterizzato da una pleiocitosi particolarmente marcata. È stata recentemente sottolineata la frequente implicazione eziologica dei virus della famiglia herpesviridae (HSV 1, HSV 2, VZV, herpesvirus B simiae), ma casi di mielite necrosante acuta possono insorgere a seguito di vaccinazione antirabbica, oppure nel corso di leucemia linfatica acuta, linfoma, tumori (soprattutto iper-
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nefroma), e nella sindrome di immunodeficienza acquisita. La prognosi è generalmente sfavorevole, sia per la relativamente elevata letalità che per la gravità degli esiti invalidanti nei sopravvissuti; benché raramente, anche una mielite necrosante acuta può proporre il quesito se possa trattarsi dell’esordio di una forma atipica di sclerosi multipla. La terapia con alte dosi di metilprednisolone per via endovenosa (1 g al dì) è talora in grado di migliorare in modo considerevole il decorso clinico della malattia. Il quadro di mielite necrosante subacuta, che corrisponde alla classica descrizione di Foix e Alajouanine (1926), è più frequente negli adulti di sesso maschile ed ha un decorso lentamente ingravescente. La genesi è incerta: in alcuni casi potrebbe essere paraneoplastica, anche se molti autori hanno sottolineato l’associazione con malformazioni arterovenose midollari. PARAPARESI SPASTICA TROPICALE È una leucomielopatia progressiva la cui denominazione è giustificata dalla particolare diffusione nella regione dei Caraibi, (ma anche nell’Africa Equatoriale, nelle regioni meridionali del Giappone ed in Sudamerica). Casi sporadici sono descritti anche in altre aree geografiche, compresi gli Stati Uniti e l’Europa, evidentemente in rapporto con l’immigrazione da aree dove la malattia è endemica. Si tratta di una manifestazione neurologica dell’infezione da virus HTLV-1, retrovirus di tipo C affine ad altri virus linfotropici dell’uomo e dei primati ed al virus della leucemia bovina. La patogenesi è tuttavia ancora incerta, perché solo una piccola percentuale (1-4%) dei soggetti infettati dal virus (stimati in 10-20 milioni su scala mondiale) sviluppano la malattia; curiosamente, la percentuale è ancora più bassa (0.25%) nei giapponesi. Si ipotizza che la malattia abbia una possibile natura autoimmune. Il quadro neuropatologico comprende aspetti infiammatori (infiltrato linfocitario periva-
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scolare e parenchimale con prevalenza di linfociti T documentata dalle indagini immunoistochimiche, presenza di macrofagi, proliferazione degli astrociti, gliosi fibrillare), associati a perdita di assoni e demielinizzazione nei cordoni laterali, soprattutto a livello del tratto toracico del midollo, il che giustifica l’interessamento prevalente degli arti inferiori. La sintomatologia inizia con ipostenia agli arti inferiori talora associata a dolori in regione dorso-lombare, a disturbi sensitivi e sfinterici, con evoluzione progressivamente ingravescente. Il liquor dimostra generalmente un aumento delle proteine (per lo più modesto), soprattutto della frazione immunoglobulinica, pleiocitosi linfocitaria (nel 25-60% dei casi, in genere inferiore a 50 cellule per mmc) e presenza di bande oligoclonali. Non esiste un trattamento di provata efficacia, anche se sono generalmente impiegati gli steroidi (metilprednisolone) con qualche risultato positivo. Data la costante presenza di importanti disturbi del tono muscolare agli arti inferiori, sono utili i farmaci antispastici e la fisioterapia.
MIELOPATIA VACUOLARE IN CORSO DI AIDS Rappresenta una manifestazione clinica assai caratteristica dell’infezione da HIV-1, tanto che casistiche autoptiche hanno documentato la presenza di vacuolizzazione nel tratto toracico del midollo spinale in circa un terzo dei soggetti con AIDS (v. pag. 000). La malattia, però, si manifesta in forma conclamata soltanto quando le alterazioni strutturali del midollo assumono un carattere di particolare gravità. Sul piano neuropatologico consiste in una diffusa vacuolizzazione con degenerazione del midollo spinale, più marcata nei cordoni postero-laterali del tratto toracico. Sia le strutture midollari coinvolte che le caratteristiche neuropatologiche del processo, prive di aspetti infiammatori, rendono il quadro simile alla scle-
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rosi combinata da carenza di vitamina B12, lasciando supporre una possibile patogenesi carenziale solo indirettamente legata all’infezione da HIV. Anche se l’ipotesi di un difetto dei meccanismi di transmetilazione indotto dal virus HIV e dalle citochine è suggestiva, la patogenesi della mielopatia vacuolare in corso di AIDS è ancora sconosciuta. Il quadro clinico è caratterizzato dall’associazione di disturbi motori di tipo centrale e disturbi della sensibilità profonda, soprattutto agli arti inferiori, ad evoluzione progressivamente ingravescente. La mielopatia si manifesta di solito nelle fasi avanzate dell’infezione da HIV, e conduce a grave paraparesi con disturbi della sensibilità agli arti inferiori e disturbi sfinterici. Nei soggetti di sesso maschile il primo segno può essere rappresentato da un’impotenza isolata. Le terapie antiretrovirali sono poco efficaci, e l’unico trattamento utile consiste nei farmaci antispastici e nella terapia fisica. MIELOPATIE DA RADIAZIONI IONIZZANTI L’assenza di caratteristiche neuropatologiche infiammatorie giustifica il termine di mielopatia piuttosto che di mielite; si tratta di una forma iatrogena relativamente importante perché di insorgenza tutt’altro che eccezionale. Si distinguono una forma precoce, che insorge 10-16 settimane dopo la radioterapia ed ha in genere un’evoluzione favorevole con risoluzione completa nel giro di 2-9 mesi, ed una forma tardiva. Questa si manifesta generalmente 6-15 mesi (ma occasionalmente sono state descritte latenze addirittura di più di 10 anni) dopo l’esposizione ad un ciclo di radioterapia cervicale o mediastinica, per lo più impiegata per carcinomi laringei o bronchiali, con un’incidenza fino al 10% dei soggetti esposti. Il quadro clinico comprende disturbi motori, sensitivi e sfinterici ed ha un decorso lentamente progressivo, anche se talora l’evoluzione si arresta ed il deficit, pur irreversibile, va incontro ad una stabilizzazione. Il rischio di questa com-
plicanza dipende dall’entità dell’esposizione alle radiazioni, per cui è raccomandabile la massima prudenza nel determinare la dose nei casi in cui la radioterapia può coinvolgere il midollo spinale. La RM dimostra alterazioni di segnale (iperintensità in T2), rigonfiamento focale del midollo e, nelle fasi avanzate, atrofia del midollo stesso. L’esame del liquor fornisce quasi sempre risultati negativi, in particolare assenza di pleiocitosi e di bande oligoclonali. Non esiste un trattamento di provata efficacia, ma in alcuni casi si verifica un beneficio temporaneo con l’impiego degli steroidi. Occasionalmente possono risultare utili gli anticoagulanti e l’ossigeno-terapia.
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Malattie infiammatorie
Neurosifilide C. Loeb, A. Primavera La neurosifilide (o neurolue, dal latino lues = contagio) comprende diverse manifestazioni neuropsichiatriche dovute all’alterazione, diretta o indiretta, delle meningi, dell’encefalo e del midollo spinale, determinate dal Treponema pallidum (T. pallidum), un agente infettante appartenente al genere delle spirochete, come le Borrelie e le Leptospire. L’ipotesi dell’origine americana della sifilide, sebbene ancora discussa, appare la più probabile: le prime segnalazioni mettono in relazione la diffusione della malattia nel Napoletano da parte di soldati spagnoli, due anni dopo la scoperta dell’America, con successiva propagazione dell’infezione in tutta Europa e quindi in Asia. Nel 1521 venne descritta da Fracastoro in un poema latino «Syphilis sive morbus gallicus», da cui prese il nome. Da descrizioni di quel periodo risulta che la malattia era molto virulenta, portando al decesso nel giro di pochi mesi. Nell’800 è stata distinta dalle altre malattie veneree e furono descritte le principali manifestazioni neuropsichiatriche: la paralisi progressiva o demenza paralitica e successivamente la tabe dorsale. Nel 1905 l’associazione del treponema pallido con la sifilide fu descritta da Schaudinn e Hoffmann e nel 1906 von Wassermann mise a punto un test sierologico per tale infezione. La genesi luetica della paralisi progressiva fu dimostrata nel 1913 da Noguchi e Moore, che identificarono il T. pallidum nel cervello dei malati. La sifilide è stata trattata fin dall’inizio del XVI secolo con il mercurio, i cui effetti tossici, in rapporto alla dose, erano superiori a quelli terapeutici, peraltro inadeguati. Agli inizi del 900 fu introdotto il trattamento con arsenico e bismuto (Salvarsan), e nel 1918 fu utilizzata da Wagner von Jauregg, per la demenza paralitica, la terapia con febbre malarica. La neurosifilide, nella forma clinica di paralisi progressiva, rappresenta il primo disturbo mentale per il quale fu individuato il fattore etiologico, una specifica alterazione istologica e una possibilità terapeutica. La penicillina fu usata per la prima volta da Mahoney nel 1943 e, per la sua sicurezza ed efficacia in tutte le forme di sifilide è considerata da allora il trattamento di prima scelta. Con l’introduzione della terapia antibiotica si verificò nel Nord America e in Europa un marcato calo del-
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l’incidenza della neurosifilide: a Genova la percentuale di ricoveri per paralisi progressiva presso la Clinica delle malattie nervose e mentali scese dal 7,8% del 1936 allo 0,14% nel 1960; negli USA la frequenza di neurosifilide come diagnosi di ammissione negli ospedali psichiatrici passava dal 4,3 per 100.000 ricoveri nel 1946 allo 0,4 per 100.000 nel 1960. Fra il 1960 e il 1985 i casi di neurosifilide erano diventati relativamente rari ed i quadri classici (Hoosmond et al., 1972) sostituiti da forme atipiche, ma, secondo altri Autori (Wolters, 1987; Simon, 1994), le uniche modificazioni, rispetto al passato, riguardano la diminuzione dell’incidenza statistica della malattia e, in particolare, della tabe. Recentemente è stata evidenziata un’aumentata incidenza di sifilide (Fig. 20.19), in parte dovuta al fatto che la terapia penicillinica, consigliata in passato nel trattamento delle forme primarie e secondarie, non sempre raggiungeva nel liquor livelli treponemicidi, e in parte ai mutati stili di vita (Hook e Marra, 1992). A questo proposito è da segnalare il marcato incremento, specie di sifilide primaria e secondaria, nei giovani riscontrato in Russia negli anni ’90. Nel 1995 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ( OMS) stimava che nel mondo vi sarebbero 12 milioni di nuovi casi di sifilide all’anno. La maggior incidenza verrebbe registrata nel sud-est asiatico. Da segnalare infine l’elevata associazione fra sindrome da immunodeficienza acquisita e sifilide, in rapporto con l’importanza della trasmissione venerea di entrambe le malattie (Berger, 1991). Nei soggetti immunodepressi è stata segnalata la possibilità di una sierologia negativa per la lue, di una maggiore gravità e rapidità di progressione delle complicanze neurologiche e di una minore efficacia della terapia penicillinica. L’interazione tra le due infezioni è attualmente oggetto di discussione (Simon, 1994; Musher e Baughn, 1994).
Fig. 20.19 - Numero di casi totali di sifilide primaria e secondaria negli USA dal 1956 al 1990.
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Malattie del sistema nervoso
EZIOPATOGENESI Il T. pallidum viene trasmesso per contagio sessuale, talora per via transplacentare, dalla madre al feto, dopo il quarto mese di gravidanza, forma definita lue connatale, oppure per inoculazione diretta accidentale, soprattutto nel personale medico e paramedico (Tramont, 1990). Il treponema penetra attraverso una microscopica soluzione di continuo a livello della vagina o del pene, raggiunge il sistema linfatico e il torrente sanguigno, disseminandosi in tutto l’organismo, sistema nervoso incluso e si moltiplica lentamente, suddividendosi ogni 30-35 ore. Le lesioni diventano clinicamente evidenti quando si raggiunge la concentrazione di microorganismi pari a 10 7 per grammo di tessuto, e il periodo di incubazione, che segue il contagio, appare direttamente correlato con la quantità di agenti trasmessi. I reperti patologici in tutti gli stadi della malattia sono caratterizzati da interessamento vascolare con segni di endoarterite e periarterite e nello stadio delle gomme da lesioni granulomatose. STADI CLINICI La storia naturale della sifilide non trattata consta di diversi stadi: incubazione, sifilide primaria, secondaria, latente e tardiva. SIFILIDE PRIMARIA . – All’incubazione della durata media di 3-90 giorni, segue la sifilide primaria, caratterizzata dalla comparsa, in corrispondenza della sede d’ingresso del treponema, di un’ulcera indolente, denominata sifiloma, con risentimento linfatico regionale, che, dopo 25-50 giorni, tende spontaneamente a regredire. SIFILIDE SECONDARIA. – Caratterizzata da una sintomatologia generalizzata, consistente in una sindrome similinfluenzale con manifestazioni cutaneo-mucose diffuse e linfoadenopatia generalizzata, diventa evidente in media 6 settimane dopo il contagio. Non sempre vi è
una netta demarcazione fra questi due stadi di malattia e può manifestarsi nel 30% dei casi quando il sifiloma primario è ancora presente o quando le manifestazioni cliniche dello stadio primario sono scomparse da qualche settimana. Tuttavia il 60% dei malti affetti da lue non ricorda alcun tipo di lesione cutanea. La sifilide secondaria è in rapporto con un’elevata quantità di spirochete nel sangue. Il T. pallidum raggiunge, oltre la cute ed i linfonodi, il sistema nervoso e le meningi nel 25% dei casi, mentre l’interessamento dei nervi cranici è raro. Anche questa fase si risolve spontaneamente in un periodo che varia da pochi mesi a 3-4 anni. SIFILIDE LATENTE. – Clinicamente asintomatica, è evidenziata unicamente dai test sierologici, in assenza di alterazioni liquorali. Lo stadio latente, interposto tra stadio secondario e tardivo, è arbitrariamente distinto dall’OMS in precoce (durata inferiore a 1 anno) e tardiva (durata maggiore di 1 anno). In particolare i malati nella fase precoce sono considerati possibili fonti di contagio, presentando nel 25% dei casi il rischio di una ricaduta della sifilide secondaria. SIFILIDE TARDIVA O TERZIARIA. – Si manifesta dopo 5-30 anni dal contagio nel 30% dei non trattati, con lesioni granulomatose o gomme luetiche. A questo stadio la malattia non è più infettiva e le tre principali forme sono la sifilide tardiva benigna ( in cui la lesione essenziale è la gomma luetica) la forma cardiovascolare e la neurosifilide. In era preantibiotica una compromissione cardiovascolare era dimostrata nel 55-86% dei casi al riscontro autoptico mentre attualmente è da considerarsi rara. Un concomitante interessamento neurologico era riportato nel 43% dei casi. SIFILIDE E ALTERAZIONE DEL SISTEMA NERVOSO. – L’alterazione del sistema nervoso si verifica precocemente, sin dalla fase primaria, rimanendo asintomatica per tutto il decorso della malattia o manifestandosi con quadri clinici diversi
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durante l’evoluzione dell’infezione (Fig. 20.20 e Tab. 20.22). Secondo i dati della letteratura, circa il 9% dei casi con sifilide primaria e il 3070% con sifilide secondaria dimostrano alterazioni liquorali, consistenti in pleiocitosi ed aumento delle proteine totali, in assenza di sintomi neurologici. Se alla fine del secondo anno il sistema nervoso non viene interessato e l’esame liquorale è completamente negativo, la probabilità che si manifesti una neurosifilide è del 5%; se il liquor permane negativo alla fine del quinto anno tale probabilità scende all’1%. La distinzione delle diverse sindromi neuroluetiche è tuttavia più teorica che reale e, all’esame autoptico, solo raramente si riscontrano lesioni isolate delle meningi o dei vasi o del parenchima cerebrale. Una sovrapposizione fra le diverse forme esiste anche per quanto riguarda l’intervallo fra l’infezione e la loro comparsa (Fig. 20.20). Sindromi neuroluetiche Si distinguono: (a) meningite precoce, (b) neurosifilide asintomatica, (c) meningite sifilitica acuta, (d) sifilide parenchimatosa, (e) sifilide terziaria benigna (gomme luetiche) (f) forme atipiche, in questi ultimi anni di sempre maggiore importanza, in corso di infezione da HIV, (f) neurosifilide connatale. MENINGITE PRECOCE. – Compare nel 10-30% dei casi nelle fasi precoci della malattia, circa 6-12 mesi dopo l’infezione primaria, ed è di solito asintomatica o caratterizzata da cefalea , stato confusionale, nausea, vomito, in assenza di febbre. Il liquor dimostra una pleiocitosi (anche 400 cellule per mm3), iperproteinorrachia e, occasionalmente, ipoglicorrachia. La reazione infiammatoria può coinvolgere anche i nervi cranici (VII, VIII, VI ed anche II), provocando una degenerazione assonale con conseguente deficit motori e sensoriali. Se il processo infiammatorio colpisce i piccoli vasi meningei, la proliferazione endoteliale conduce all’occlusione vasale, che può essere responsabile di una necrosi ischemica cere-
Fig. 20.20 - Profilo clinico dell’infezione e malattie del sistema nervoso.
brale o spinale, sintomi di ipertensione endocranica, crisi epilettiche. Vi possono anche essere complicanze a livello oculare: cheratite, uveite, iridociclite, neurite ottica. NEUROSIFILIDE ASINTOMATICA – La diagnosi si basa sulle alterazioni liquorali: lieve ipercitosi, aumento delle proteine, e positività dei tests sierologici. Tale forma è divenuta più frequente in era antibiotica. La spirocheta può essere ritrovata nel liquor, nella fase iniziale dell’infezione, nel 10-30% dei casi in assenza di altre alterazioni liquorali, dimostrando l’invasione precoce del sistema nervoso. L’incidenza di alterazioni liquorali espressione di un attivo interessamento del S.N.C (pleiocitosi, iperproteinorrachia, positività della VDRL (Venereal Disease
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Tabella 20.22 - Manifestazioni neurologiche principali in corso di sifilide Stadio della malattia
Manifestazioni cliniche
Periodo di incubazione
Primario Secondario
Disturbi neurologici assenti Meningite, cefalea
3 settimane ( 3-90 gg) 2-12 settimane ( 2 sett-6 mesi)
Terziaria : Neurosifilide:
Sifilide terziaria benigna: Connatale: precoce tardiva
Asintomatica Meningite sifilitica acuta (cefalea, stato confusionale, segni meningei) Sifilide meningovascolare Paralisi progressiva Tabe dorsale Gomma sifilitica : segni focali SNC, sindrome da lesione midollare Coinvolgimento del S.N.C generalmente asintomatico (solo a livello liquorale) Neurosifilide asintomatica Neurosifilide sintomatica (paralisi infantile in 1-5% dei casi)
Research Laboratory Test) raggiunge il picco massimo 12-18 mesi dopo l’infezione. Ne deriva l’importanza di effettuare un esame liquorale in tutti i nuovi casi accertati di sifilide fra i 12 ed i 24 mesi dopo la diagnosi. Il trattamento antibiotico in questa fase può prevenire la progressione della malattia. MENINGITE SIFILITICA ACUTA. – Si manifesta usualmente due anni dopo il contagio, e nel 10% dei casi in concomitanza col rash cutaneo della sifilide secondaria. Oltre alla sintomatologia meningea, segnalata da cefalea, rigidità nucale, nausea e vomito si può riscontrare l’interessamento di nervi cranici, e in particolare ipoacusia, paralisi del facciale, disturbi visivi. Neuropatologicamente il processo interessa esclusivamente la pia madre e l’aracnoide che sono congeste, e si dimostra un’infiltrazione linfocitaria più evidente alla base del cervello, mentre la dura madre è sempre rispettata. L’esame del liquor dimostra una pleiocitosi e un aumento delle proteine, e positività della VDRL nel 90% dei casi.
< 2 anni 5-15 anni 15-25 anni 10-25 anni 1-46 anni
< 2 anni
Oltre 2 anni
La sintomatologia meningea tende a regredire spontaneamente, e l’antibioticoterapia determina una rapida regressione anche delle paresi dei nervi cranici e risulta fondamentale nella prevenzione delle complicanze tardive. SIFILIDE MENINGO-VASCOLARE. – Si manifesta con segni di sofferenza focale dell’encefalo o del midollo, spesso di tipo transitorio, con frequenza maggiore 5-10 anni dopo il contagio, più precocemente nei soggetti con HIV. L’esordio è improvviso, talvolta preceduto da prodromi aspecifici quali, cefalea, vertigini, turbe della memoria, labilità emotiva; talora è gradualmente progressivo, nel giro di qualche giorno. Le manifestazioni cliniche più frequenti sono: emiparesi (80% dei casi), afasia (30%), crisi epilettiche (14%), e più raramente segni di alterazione ischemica nel territorio vertebro-basilare o midollare. Gli infarti spinali, generalmente a livello toracico, possono manifestarsi con una grave paraparesi, turbe sfinteriche e anestesia sottolesionale termodolorifica, mentre l’interessamento dell’arteria spinale anteriore determina un rammollimento che risparmia i cordoni posteriori.
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Neuropatologicamente l’infiltrazione plasmo-linfocitaria colpisce tutte e tre le meningi, può essere localizzata alla base e alla convessità del cervello, ma anche a livello del midollo (aracnoiditi). Accanto alle lesioni meningee esiste una vasculite che può essere diffusa o più spesso localizzata a livello del poligono di Willis; consiste in un’arterite segmentaria dei vasi di grosso e medio calibro e in un’endoarterite dei piccoli vasi. L’arterite è caratterizzata da una marcata infiltrazione linfoplasmocitaria dell’avventizia, più raramente della media, con possibili formazioni di pseudoaneurismi, e da una massiva proliferazione intimale con subocclusione od occlusione completa del lume vasale. La diagnosi di sifilide meningo-vascolare dipende, oltre che dalla sintomatologia, dall’esame del liquor e in particolare dalla positività della VDRL. La TC e la RM possono evidenziare lesioni infartuali, mentre l’angiografia può dimostrare focali restringimenti sia delle piccole che delle grandi arterie. La terapia con penicillina può prevenire l’insorgenza di nuovi episodi vascolari.
Sifilide parenchimatosa A differenza della sifilide meningovascolare le forme parenchimatose che comprendono i quadri tipici della fase tardiva, quali la paralisi progressiva, la tabe dorsale e quadri misti di tabo-paralisi, sono diventate relativamente rare. PARALISI PROGRESSIVA (o demenza paralitica; sinonimo: paralisi generale; attualmente negli USA indicata come «Neurosifilide paretica»). Si tratta di una meningoencefalite diffusa caratterizzata da decadimento mentale, associato ad eccitamento subeuforico o a reazioni depressive, a evoluzione lentamente progressiva che, senza un trattamento precoce e adeguato giunge alla demenza. Si osserva tardivamente, 5-25
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anni dopo l’infezione primaria, in casi trattati in modo inadeguato o ignorati. Neuropatologia. – Le meningi appaiono ispessite ed opache, specie a livello della base; si rileva atrofia cerebrale con dilatazione dei solchi corticali e dei ventricoli. Istologicamente esistono due tipi di lesioni: a) lesioni infiammatorie con infiltrazione plasmocitaria e linfocitaria perivascolare; specialmente a livello fronto-temporale e dei nuclei della base si ritrovano, intorno alle pareti delle arteriole e dei capillari, depositi di pigmento ferroso, probabilmente emosiderina; b) lesioni cellulari con rarefazione neuronale e proliferazione microgliale a bastoncello. Il T. pallidum si ritrova nella corteccia, isolato o in colonie, specie negli spazi perivascolari. Sintomatologia Si distingue una fase iniziale da un periodo di stato, ma le modalità di esordio sono difficili da precisare. La fase di esordio, infatti, si presenta con modalità cliniche diverse, che possono simulare disturbi mentali organici o disturbi mentali propriamente detti: (a) deterioramento mentale, il quadro forse piú usuale caratterizzato da turbe della memoria, dell’attenzione, del giudizio e della critica, del comportamento, che spesso si manifesta subdolamente, con un compenso, talora, abbastanza efficace; (b) sindrome depressiva; (c) stato di eccitamento subeuforico con alterazioni comportamentali (esibizionismo, alterazioni della condotta sessuale); (d) sintomi neurologici: crisi focali o generalizzate, emiparesi transitorie, neuropatie craniali, con frequente interessamento del 3° paio dei nervi cranici, oppure, più genericamente tremore, cefalea, astenia, dimagrimento.
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Nel periodo di stato il quadro clinico è caratterizzato da una sindrome demenziale con turbe mnesiche a breve e lungo termine, deficit di giudizio critico, incapacità ad affrontare problemi interpersonali, famigliari o di tipo lavorativo, modificazioni di personalità, a cui si possono associare idee deliranti sia di tipo espansivo che melanconico. Il delirio espansivo megalomanico, meno frequente che nel passato, è polimorfo, contraddittorio e spesso caratterizzato dall’assurda amplificazione delle proprie capacità nei campi più diversi (politici, finanziari, fisici, sessuali). Il delirio depressivo è rappresentato da idee di rovina e di negazione; più rari i deliri allucinatori, spesso di tipo mistico o erotico. I segni neurologici sono rappresentati da: – segno di Argyll-Robertson, presente circa nel 50% dei casi, essenzialmente caratterizzato da dissociazione tra riflesso pupillare alla luce e all’accomodazione, ma, in contrasto con le descrizioni del passato, le pupille possono essere miotiche o con diametro normale, oppure anisocoriche. Talora l’areflessia pupillare è completa alla luce e all’accomodazione; il segno può anche essere unilaterale; oppure si può riscontrare, circa nel 20% dei casi una pupillotonia (v. pag. 000); – disartria, all’inizio con elisione od omissione di una sillaba nel mezzo di una parola, inversione di sillabe, aspetti scanditi ed esplosivi fino a turbe disartriche pressochè continue, nelle fasi avanzate; – segni extrapiramidali di tipo parkinsoniano; – episodi accessuali generalizzati o focali, episodi ictali con emiparesi e disturbi afasici usualmente transitorie, si presentano circa nel 30% dei casi. La diagnosi si basa sulla positività delle prove sierologiche e sulle alterazioni liquorali con pleiocitosi, iperproterinorrachia, aumento delle gammaglobuline e positività della VDRL. Il trattamento penicillinico può arrestare il processo patologico, ma non determina la regressione completa della sintomatologia.
TABE DORSALE (Atassia locomotrice di Duchenne, 1858). Si tratta di una meningoradicolite, a prevalente localizzazione lombo-sacrale, che si manifesta, in genere, 5-25 anni dopo il contagio, con i seguenti segni neurologici: alterazioni pupillari, areflessia profonda, ipoanestesia e atassia, talora associati a crisi di dolori viscerali e turbe artropatiche. In era preantibiotica ha rappresentato la forma neurologica più frequente dell’infezione luetica (40% dei casi), mentre la sua incidenza è scesa negli anni ’70 al di sotto del 20%. Attualmente sono aumentate le forme miste di tabo-paralisi, in cui ai segni tabetici si associano disturbi psichici di tipo paralitico (Burcke e Skhaberg, 1985, Wolters 1987). Neuropatologia. – Si evidenzia un’atrofia delle radici e dei cordoni posteriori, specie a livello del fascio di Goll (Fig. 20.21), dovuta ad un processo infiammatorio, con infiltrazione plasmolinfocitaria localizzata alle meningi e alle radici posteriori. A lungo si è discusso sul meccanismo fisiopatologico e sulla sede primitiva della lesione tabetica, e attualmente è accettata l’ipotesi che l’infiammazione del nervo radicolare sia responsabile della secondaria perdita di cellule nei gangli dorsali e successiva degenerazione dei cordoni posteriori.
Fig. 20.21 - Midollo lombare: degenerazione dei cordoni posteriori (metodo di Spielmeyer) ( osservazione F. Gullotta).
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Sintomatologia I principali sintomi e segni della tabe sono rappresentati da: dolori lancinanti, perdita della sensibilità profonda con atassia sensitiva, disturbi urinari ed impotenza, iporeflessia profonda agli arti inferiori ed alterazioni pupillari (segno di Argyll-Robertson). In particolare : – i disturbi della sensibilità profonda agli arti inferiori diventano rilevanti con la progressione della malattia (atassia locomotoria progressiva). L’atassia statica si manifesta con la positività del segno di Romberg; l’atassia dinamica con sbandamenti nella marcia al momento del dietro-front, con l’andatura tallonante e a basi allargate. Le sensibilità superficiali sono solitamente conservate (dissociazione tabetica, v. pag. 000), anche se talora si possono osservare ipo-anestesia dolorifica a chiazze o radicolari, specie agli arti inferiori, o per compressione dei tendini, con assenza di dolore alla compressione del tendine di Achille, o segno di Abadie; – l’areflessia osteotendinea tipicamente si riferisce agli arti inferiori, mentre l’ipotonia è globale ed associata a lassità legamentosa. L’ipotonia e l’areflessia, come l’atassia, sono in rapporto all’alterazione delle fibre propriocettive delle radici e cordoni posteriori; – le anomalie pupillari possono rappresentare l’unico segno della neurosifilide e solo nella metà dei casi sono rappresentate dal segno di Argyll-Robertson. Le caratteristiche pupillari descritte per la paralisi progressiva sono valide anche in questa forma; – i dolori folgoranti, caratteristici per la loro brevità, per la loro comparsa in breve sequenza della durata di pochi minuti o di alcune ore, interessano qualsiasi regione del corpo, ma più frequentemente l’addome e gli arti inferiori e sono molto precoci. Sono probabilmente in rapporto con lesioni incomplete delle radici posteriori. Le crisi viscerali o crisi tabetiche, possono rappresentare la manifestazione iniziale della malattia, interessando l’apparato digesti-
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vo, respiratorio e vescicale. Le crisi gastriche, consistenti in dolori molto intensi a sede epigastrica, tali da evocare un quadro di addome acuto, sono le più frequenti, interessando il 10-20% dei casi. – l’atrofia ottica può essere associata alla tabe nel 20% dei casi. Corrisponde ad una lesione analoga a quella radicolare, con reazione infiammatoria della pia che circonda il nervo ottico. La degenerazione delle fibre del nervo ottico dalla periferia si propaga verso il centro del nervo, con demielinizzazione e secondaria gliosi. Clinicamente si osserva restringimento concentrico del campo visivo, inizialmente unilaterale, e poi bilaterale, cecità e pallore progressivo della papilla. – la ritenzione e l’incontinenza urinaria, in rapporto all’ipotonia vescicale, possono manifestarsi precocemente ed assumere particolare importanza in un terzo dei casi. Si possono associare incontinenza fecale, impotenza, e riduzione della libido. Le turbe sfinteriche e l’impotenza sono dovute alla deafferentazione a livello di S2 e S3; – le turbe trofiche consistono in artropatie delle ginocchia e dei piedi, fratture spontanee del femore e della tibia e mal perforante plantare. Sono verosimilmente in rapporto sia ai disturbi delle sensibilità profonde e dolorifiche che ad un disturbo del trofismo osseo; – l’atrofia muscolare, anche di grado rilevante, si può manifestare in muscoli isolati, specie agli arti superiori e alle mani, o agli arti inferiori. Si sviluppa lentamente e può essere associata a fascicolazioni e talora a segni di sofferenza piramidale, con quadri tipo sclerosi laterale amiotrofica. L’amiotrofia è da ascrivere ad una lesione delle cellule radicolari anteriori o a processi meningei che coinvolgono le radici anteriori; – il riscontro di una lesione del III, VI, V, VIII paio di nervi cranici è in rapporto con una concomitante sifilide meningo vascolare. – in una piccola percentuale di casi esistono associati disturbi della sensibilità profonda
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e modesti segni piramidali, quali presenza del fenomeno di Babinski ed iperreflessia profonda, configurando il quadro di una sclerosi combinata luetica (v. pag. 000). Esami complementari. – Il liquor può risultare normale nel 10% dei casi («tabe spenta») e comunque meno alterato che nelle altre sindromi neuroluetiche. In particolare la VDRL liquorale può risultare negativa, mentre il test FTA-ABS risulta positivo sia a livello serico che liquorale. La terapia antibiotica, specie in presenza di alterazioni liquorali può arrestare la progressione, ma i dolori lancinanti, l’atassia, le crisi gastriche e le artropatie possono persistere. Con la normalizzazione del liquor, se non ci sono altri segni di sifilide in atto, ulteriori cicli di penicillina non sono indicati.
Sifilide benigna tardiva GOMMA SIFILITICA. –La gomma è una formazione granulomatosa, costituita da un’area centrale necrotica, contornata da cellule epitelioidi, da infiltrazione linfocitaria e plasmocitaria e da cellule giganti. Si può manifestare a livello del sistema nervoso centrale, a livello cardiaco, cutaneo, osseo ed epatico. Tale lesioni si sviluppa solitamente tra 1-46 anni dalla sifilide secondaria. Sebbene relativamente destruenti le gomme rispondono rapidamente al trattamento e sono pertanto considerate “benigne”. La localizzazione a livello encefalico o spinale è oggi estremamente rara (nessun caso registrato da Wolters, 1987), anche se l’uso diffuso delle neuroimmagini sembra smentire questo rilievo e la gomma luetica deve essere considerata nella diagnosi differenziale delle lesioni tumorali avascolari che interessano sia il parenchima che la dura. Si può localizzare a livello meningeo, sulla superficie del cervello, del cervelletto e del midollo spinale, mentre è più rara la localizzazione intraparenchimale.
La sintomatologia consiste in una sindrome cerebrale focale, in rapporto con la localizzazione della gomma e talora in una sindrome cerebrale occupante spazio, oppure in una sindrome da lesione extramidollare.
Neurosifilide atipica Forme fruste erano già state segnalate in era pre-penicillinica, e sono state particolarmente valorizzate dopo lo studio di Hooshmond et al. (1972), secondo cui i quadri classici, espressione della neurosifilide parenchimatosa, sono attualmente quasi completamente sostituiti da forme paucisintomatiche, caratterizzate da una lieve pleiocitosi liquorale e dalla normalità delle proteine liquorali totali, con aumento solo delle immunoglobuline. L’interessamento del sistema nervoso in corso di sifilide può essere scoperto accidentalmente in rapporto al riscontro di una positività sierologica, generalmente del FTA-ABS nel sangue e nel liquor. Gli elementi clinici che devono essere presi in considerazione sono: alterazioni della personalità, crisi epilettiche, turbe della sensibilità batiestesica, ipo-areflessia rotulea, alterazioni dei riflessi pupillari ed altre turbe oftalmologiche (ptosi palpebrale, atrofia ottica, atrofia iridea, corioretinite, retinite pigmentosa, cheratite interstiziale e uveite). Alterazioni all’esame neurologico sono riscontrabili nel 70% dei casi, ma sono spesso aspecifiche. Burke e Shoberg (1985) su 30 neuroluetici diagnosticati fra il 1970 e il 1981 segnalano la presenza di segni attribuibili alla neurosifilide solo nel 43% dei casi ed una maggiore incidenza delle forme meningovascolari. Questi cambiamenti del quadro clinico e liquorale (assenza di pleiocitosi nel 20% dei casi, normalità delle proteine nel 60% dei casi, in presenza, tuttavia, di un aumento delle immunoglobuline liquorali) sono stati messi in rapporto all’uso intercorrente di antibiotici. A tut-
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t’oggi non vi sono dati che supportino un’alterata risposta immunitaria o una ridotta virulenza nei casi di neurosifilide atipici.
Neurosifilide connatale In questi ultimi anni l’incidenza della sifilide connatale è in crescente aumento. Più di 300 casi sono stati diagnosticati a New York nei primi sei mesi del 1989. Circa il 50% dei figli di madri sifilitiche presentano sintomi correlabili con l’infezione luetica; un’altro 25% è asintomatico, ma sieropositivo. L’infezione avviene per via transplacentare dopo il 4° mese di gravidanza, più frequentemente se la madre è nelle prime fasi di malattia. Le forme cliniche, tranne la tabe dorsale del tutto eccezionale, sono simili a quelle degli adulti, e si manifestano dopo il terzo mese di vita. Si distingue una forma precoce, che compare solitamente entri i primi due anni di vita e si caratterizza per la presenza di alterazioni soltanto a livello liquorale, da una forma tardiva, che compare dopo i 2 anni di età e si manifesta come una neurosifilide asintomatica o nell’15% dei casi con emiparesi. La diagnosi è suggerita dalla presenza della triade di Hutchinson: cheratite interstiziale, deformazioni dentarie e sordità. L’esame del liquor è alterato, con positività della VDRL, nella maggioranza dei casi. L’antibioticoterapia deve essere praticata in tutti i soggetti con alterazioni liquorali.
Neurosifilide ed HIV L’HIV, come la sifilide, è una malattia proteiforme e le due infezioni possono interagire a diversi livelli. Se la sifilide, per le sue lesioni cutaneo-mucose, rappresenta un fattore di rischio per l’HIV, la ridotta immunità cellulare prodotta dall’HIV
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può facilitare lo sviluppo dell’infezione da T. pallidum. Pertanto si ritiene utile effettuare in tutti i malati con lue il test sierologico per HIV e nei soggetti HIV positivi lo screening per l’infezione luetica. La neurosifilide è presente nell’1,5-4% dei sieropositivi per HIV: neurosifilide asintomatica, nel 12,5%; meningite acuta sifilitica nel 57,5%; sifilide meningovascolare nel 27,5%; paralisi progressiva nel 2,5% (Musher, et al. 1990). La diagnosi di neurosifilide nei casi HIV positivi risulta più difficile dato che vi sono nel 40-60% alterazioni liquorali (pleiocitosi e iperproteinorrachia) anche in assenza di sifilide. Inoltre un’ alterazione dei linfociti B può determinare un aumento dei falsi positivi: si consiglia comunque di praticare uno studio liquorale in tutti i casi positivi per HIV con sifilide tardiva latente o sifilide di durata non precisata. Nel 40% dei casi le manifestazioni neuroluetiche prevalenti nei soggetti giovani precedono il riscontro dell’infezione da HIV. Le complicanze dell’apparato oculare si verificano nel 20-40% dei casi, con uveite e corioretinite, e il riscontro di disturbi oculari in casi di AIDS deve suggerire la possibile concomitanza di infezione luetica. ESAMI COMPLEMENTARI Esame del liquor cefalo-rachidiano. – L’ipercitosi liquorale consiste in una linfocitosi di entità variabile da 6-10 a 100-300 elementi per mm3 e rappresenta un segno precoce di fase attiva dell’infezione. Mentre la glicorrachia è solitamente normale, le proteine liquorali, ed in particolare le immunoglobuline sono aumentate. Bande oligoclonali nella regione della gammaglobulina sono presenti nel 70% dei casi; particolarmente utile può risultare sia la dimostrazione che le bande oligoclonali corrispondono ad antigeni treponemici, sia il tentativo di quantificare gli anticorpi di classe IgG e IgM di sintesi intrate-
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cale, sulla base del rapporto liquor-siero IgG e IgM. Nella meningite sifilitica acuta può essere isolato dal liquor il T. pallidum. Attualmente è possibile la ricerca del DNA treponemico nel liquor mediante la «polymerase chain reaction» (PCR) (Burstain et al. 1991). Test sierologici. – L’infezione luetica produce due tipi di anticorpi: quelli non specifici non treponemici, e quelli treponemici specifici. – Gli anticorpi non treponemici o reagine, sono immunoglobuline IgG e IgM dirette contro un antigene lipoideo, una combinazione di cardiolipina, lecitina e colesterolo, che origina dall’interazione del T. pallidum con i tessuti dell’ospite. Le reagine sono alla base della reazione di Wasserman (fissazione del complemento) e della VDRL (reazione di flocculazione), il test più comunemente usato. Quest’ultimo, presenta una limitata sensibilità specie nelle fasi precoci e tardive e false positività della VDRL possono riscontrarsi occasionalmente nel siero, ma raramente a titoli superiori a 1:8, dovute al fatto che l’antigene impiegato si trova anche in altri tessuti. I falsi positivi possono essere associati all’età avanzata, alla gravidanza, alle neoplasie, alle malattie autoimmuni, come il lupus, ed alle infezioni virali, in particolare quelle da EBV, protozoarie (Tab 20.23). Le false positività a livello liquorale sono del tutto eccezionali ed in rapporto ad una contaminazione ematica. Una reattività della VDRL liquorale è ritenuta diagnostica di neurosifilide attiva, ad altissima specificità e il test può essere quantificato ed usato per valutare la risposta al trattamento. Ma la sensibilità a livello liquorale è bassa, specie nelle fasi avanzate di malattia, risultando tra il 30 e il 70%, nelle diverse casistiche. – I test treponemici specifici individuano gli anticorpi specifici del T. pallidum: il test di fluorescenza degli anticorpi treponemici dopo assorbimento (FTA-ABS) è molto sensibile, ma poco specifico a livello liquorale, potendo risultare
anche positivo in rapporto ad una minima contaminazione ematica del liquor. Il test FTA-ABS, sia a livello sierico che liquorale, se positivo, rimane tale per tutta la vita, per cui la sua positività liquorale può indicare: una neurosifilide in fase attiva, una neurosifilide asintomatica, una neurosifilide trattata, oppure esprimere una contaminazione ematica del liquor. Altri test treponemici sono quello di emoagglutinazione (TPHA) e quello di microemoagglutinazione per il T. pallidum (MHA-TP): il TPHA ha un’alta sensibilità e specificità, ma non è sufficientemente sensibile per la diagnosi di sifilide primaria; l’MHA-TP ha la stessa specificità e sensibilità del test FTA-ABS ed è di facile esecuzione. False positività dei test treponemici, sebbene raramente, sono state riscontrate in associazione con malattie autoimmuni, infezioni virali e gravidanza (Tab. 20.23). Recentemente è stato proposto l’uso dei test treponemici, come criterio di alterazione del sistema nervoso (Marra et al., 1995): sebbene una loro positività non consente la diagnosi la negatività dei test treponemici a livello liquorale permette di escludere la presenza di una neurosifilide (Tab. 20.24). Diagnosi La diagnosi si basa sui dati clinici, sui test sierologici e sulle alterazioni liquorali. Le sindromi neuroluetiche classiche sono oggi rare, mentre spesso si riscontrano forme atipiche o frustre che non consentono, in assenza di un controllo liquorale, una sicura diagnosi. I sintomi clinici di maggior valore sono: turbe del carattere, segni di deteriormento mentale, ipo-areflessia rotulea, alterazioni della sensibilità batiestesica, alterazioni dei riflessi pupillari, neuropatie craniali di origine non determinata e corioretiniti. L’esame del liquor è di grande utilità per la diagnosi e il trattamento della neurolue, e le alterazioni liquorali, anche se, nella maggior parte dei casi aspecifiche, sono indice dell’attività dell’infezione.
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Tabella 20.23 - False positività dei test per la lue (modificata da Clyne e Jerrard, 2000). Tests treponemici Età avanzata Gravidanza Tossicodipendenza Cirrosi Vaccinazioni Errore di laboratorio Sclerodermia Lupus erithematosus Leptospirosi Lebbra Malattia di Lyme Malaria Herpes genitale Mononucleosi Brucellosi Febbri ricorrenti Infezioni treponemiche non sifilitiche
La diagnosi di neurosifilide attiva si basa sulla positività della VDRL liquorale, sulle alterazioni del liquor (ipercitosi o iperproteinorrachia) e sulla positività sierologica del test FTA-ABS, che permette di escludere una falsa positività della VDRL. Con rare eccezioni, la negatività serica del test FTA-ABS esclude qualsiasi tipo di sifilide, neurolue inclusa. La possibilità di distinguere anticorpi specifici per il T. pallidum (proteine di peso molecolare di 12-14 KDa) prodotti a livello del sistema nervoso permette, teoricamente, di valutare l’attività o meno dell’infezione (Bollensen et al., Tabella 20.24 - Diagnosi laboratoristiche di neurosifilide. 1) positività di FTA-ABS o MHA-TP sieriche con 1 o più delle seguenti alterazioni liquorali: a) ≥ 5 globuli bianchi/mm3 b) > 50 mg% proteine c) positività della VDRL N.B ( i test treponemici a livello liquorale risultano utili solo se negativi, per una diagnosi di esclusione)
Tests non treponemici Età avanzata Gravidanza Tossicodipendenza Cirrosi Malattia reumatica Mieloma multiplo Poliarterite nodosa Lupus erithematosus Linfogranuloma venereo Lebbra Morbillo Malaria Parotite epidemica Mononucleosi Brucellosi Varicella Porpora idiopatica trombocitopenica
1993), ma mancano a tutt’oggi studi su larghe casistiche per cui rimane sempre essenziale il giudizio clinico (Tramont, 1990). Nel caso in cui siano presenti manifestazioni neurologiche, non altrimenti spiegabili, in soggetti sierologicamente positivi con ipercitosi liquorale e iperproteinorrachia, la diagnosi di neurosifilide è possibile anche col riscontro di una VDRL liquorale negativa. Nella neurosifilide asintomatica la diagnosi si basa esclusivamente sul ritrovamento di alterazioni liquorali, ciò che dimostra l’importanza di un esame del liquor in tutti i casi con un’infezione sifilitica, ed in particolare nei soggetti a rischio di infezione da HIV e in quelli trattati per le forme primarie e secondarie, per valutare l’efficacia del trattamento (Lukahart et al., 1988). TERAPIA Il trattamento si basa sull’uso di una quantità di antibiotico tale da raggiungere a livello del liquor e del sistema nervoso concentrazioni
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treponemicide, per una durata di somministrazione tale da permettere il completo controllo dell’infezione, con monitoraggio clinico e liquorale per 1-2 anni, per verificare l’adeguatezza del trattamento ed escludere eventuali ricadute. Nella neurosifilide asintomatica lo scopo del trattamento è quello di prevenire la comparsa di manifestazioni neuropsichiatriche e di negativizzare i segni liquorali suggestivi di una infezione attiva. Nei casi sintomatici la terapia mira a guarire la malattia in atto o almeno ad arrestarne l’evoluzione, anche se, negli stadi avanzati, è raramente possibile. La penicillina è il farmaco di prima scelta per tutte le forme di sifilide e di neurosifilide e non sono noti casi di una resistenza clinicamente significativa. I migliori risultati sono ottenuti con una penicillinoterapia endovenosa:12-24 milioni U di penicillina G cristallina ogni 24 h per un periodo di 14 giorni. Tali dosaggi assicurano un livello liquorale di penicillina di 0,03 U/ml, che è considerato treponemicida. Non è stato dimostrato che i dosaggi più alti modifichino la risposta terapeutica. La reazione di Jarisch-Herxheimer può manifestarsi dopo l’inizio della terapia antibiotica con febbre, mialgia, vasodilatazione ed ipotensione e non deve essere confusa con un fenomeno allergico. Si verifica più frequentemente nel trattamento della sifilide secondaria, dura 12-24 ore, ed è in rapporto con la liberazione di sostanze pirogene (citochine) dalle spirochete, e spontaneamente tende ad esaurirsi. Può essere utile l’uso di antipiretici, come l’acido acetilsalicilico, e, nei casi di sifilide vascolare con complicanze neurologiche, l’uso degli steroidi può essere indicato per prevenire la reazione. In caso di allergia alla penicillina esistono due alternative: (a) desensibilizzazione con microdosi di penicillina per os, in rapida sequenza di assunzione e a dosaggio crescente, in ambiente di terapia intensiva; (b) utilizzazione di un’antibioticoterapia alternativa con
minociclina 100 mg × 2 /die per os per 14 gg al mese per 9 mesi o con doxicillina alla dose di 200 mg × 2/die per os, per tre cicli di 10 giorni ciascuno, o con tetracillina alla dose di 500 mg × /die, per os, per almeno tre settimane. La doxicillina è preferita, sia perchè meglio tollerata a livello gastrico, sia perchè penetra meglio nel liquor. Sono stati proposti anche il cloramfenicolo e il ceftriazone che, nei soggetti HIV positivi, ha dato risultati sovrapponibili alla penicillina. L’eritromicina, già considerata la più valida alternativa alla terapia classica, è sempre meno usata, per il riscontro di fallimenti terapeutici. La valutazione dell’efficacia terapeutica, si basa sul miglioramento dei parametri liquorali, che è necessario controllare ogni sei mesi, per due anni, fino alla normalizzazione della ipercitosi e della iperproteinorrachia (Simon, 1985). Per quanto riguarda i test sierologici reaginici, la VDRL può restare positiva molto a lungo, se pure a titolo basso, così come è possibile che la sintesi intratecale di IgG o IgM si osservi ancora, dopo quasi tre anni dalla fine del trattamento. Nel controllo a distanza sono valutati i seguenti parametri liquorali di efficacia: (a) normalizzazione del conteggio cellulare; (b) normalizzazione delle proteine; (c) negativizzazione o sostanziale riduzione del titolo di positività della VDRL. Comunque i dati di laboratorio devono essere correlati ed integrati dai dati clinici neurologici. Se il numero delle cellule liquorali non si normalizza dopo 6-9 mesi, o se compaiono nuovi segni clinici di neurosifilide, è necessario e indicato ripetere il trattamento. Nei soggetti HIV positivi sono stati identificati casi resistenti alla penicillina per la persistenza dell’ipercitosi che tuttavia può riflettere un interessamento neurologico su base retrovirale: il trattamento della neurosifilide nei malati coinfettati è sovrapponibile a quello con HIV negativo.
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Malattia di Lyme e neuroborreliosi A. Primavera La malattia di Lyme è una zoonosi trasmessa dalle zecche e causata da una spirocheta, la Borrelia burgdorferi. La malattia interessa, in stadi differenti, la cute, il sistema nervoso (neuroborreliosi), il cuore e le articolazioni (Steere, 1989) (Tab. 20.25). CENNI STORICI La malattia fu descritta come un’entità a sè stante da Steere et al. nel 1977 e denominata con il nome della città di Lyme (Connecticut) dove fu osservata negli anni settanta. L’insorgenza prevalentemente nella stagione estiva, in prossimità di aree boscose, e l’identificazione dell’eritema cronico migrante deponevano per una malattia trasmessa da un artropodo. A supporto di tale ipotesi vi erano inoltre le analogie con l’eritema cronico migrante descritto nel 1909 in Svezia in soggetti punti dalla zecca
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Malattie del sistema nervoso
Tabella 20.25 - Principali manifestazioni cliniche della malattia di Lyme. Stadio 1
Eritema migrante Linfoadenopatia localizzata (Meningite)
Stadio 2
Eritema diffuso Linfoadenopatia regionale o diffusa Brevi attacchi di artrite, dolori migranti ossei, muscolari ed articolari Blocco atrio-ventricolare e pericardite Epatite Meningite, encefalite, neuropatie craniali, paralisi di Bell, radiculoneuriti sensitivo motorie, multineuropatie Congiuntivite
Stadio 3
Acrodermatite cronica atrofizzante, lesioni di tipo sclerodermico localizzate Artrite cronica, periostite Encefalomieliti croniche, paraparesi spastica, polineuropatie croniche di tipo assonale, demenza Miosite Cheratite
Ixodes ricinus e con la sindrome di Bannwarth o meningoradicolite da acaro (1941). Nel 1977 veniva identificata nella zona di Lyme una zecca, Ixodes dammini, strettamente correlata a quella isolata in Europa, ma solo nel 1982 fu determinata la natura dell’infezione, quando Burgdorfer et al. isolarono la spirocheta responsabile della malattia. Mediante l’analisi del DNA è stato successivamente dimostrato che si trattava di una nuova specie di Borrelia. La malattia di Lyme è stata descritta per la prima volta in Italia dal gruppo ligure di Crovato et al . (1985)
EZIOPATOGENESI La Borrelia burgdorferi (B.b.) è una spirocheta, debolmente spirolata, di dimensioni ridotte, il cui diametro varia da 0,18 a 0,25 micrometri. Viene trasmessa all’uomo in genere dalle zecche Ixodes ricinus in Europa e dammini negli USA, che necessitano del sangue di un ospite per il loro sviluppo (piccoli roditori, cani, cervi). Portatori di zecche possono essere numerosi animali selvaggi ed uccelli, in cui la malattia non è mai stata osservata, e animali domestici come cani e cavalli. La spirocheta viene trasmessa all’uomo (ospite occasionale) più frequentemente dall’acaro allo stadio di crisalide all’inizio dell’estate, ed in autunno dall’artropode adulto. Nelle regioni endemiche il tasso di infestazione delle zecche varia dal 5 al 50%. Non tutti i soggetti punti da zecche sviluppano la malattia (la sua rimo-
zione, entro 24-48 ore, può prevenire la trasmissione della B.b.) e circa il 50% dei soggetti con una sieroconversione non presenta alcun sintomo. Nella zona di Lyme gli anticorpi anti B.b. sono presenti nel 4% della popolazione. Chiunque frequenti una zona dove la malattia è endemica è esposto al contagio. La malattia interessa la popolazione di ogni età, senza differenza fra i due sessi. I possessori di animali domestici, che vivono anche fuori di casa, sono considerati a maggior rischio di infezione. La B.b. è stata isolata in diversi tessuti e organi dei soggetti affetti: sangue, cute, liquor cefalorachidiano, occhi, liquido sinoviale, miocardio, tessuto nervoso. Numerosi meccanismi sono alla base delle manifestazioni cliniche della malattia di Lyme. La difficoltà nel ritrovare la B.b. nei malati infettati, la frequenza della reazione di Jarisch-Herxheimer dopo l’inizio della terapia antibiotica, la sintomatologia polimorfa, nonostante il piccolo numero di spirochete usualmente presenti nel materiale biologico umano, sono tutti fattori che depongono per un interessamento del sistema immunitario. È stato ipotizzato che immunocomplessi formati da antigeni della spirocheta, anticorpi e frazioni di complemento si accumulino nelle articolazioni con richiamo di leucociti neutrofili. Gli enzimi rilasciati dai neutrofili sarebbero responsabili della sintomatologia artritica. Gli effetti patologici della B.b. sarebbero inoltre amplificati dalle citochine, l’interleuchina-1 (IL-1), e il fattore di necrosi tumorale (TNF-alfa). I liposaccaridi che si trovano nella parete cellulare della B.b., come di altri
Malattie infiammatorie Gram-negativi, inducono infatti la liberazione di citochine che, agendo sui diversi organi, possono provocare sintomi come la febbre, l’eritema, le algie e i danni articolari. La sindrome meningea, le radiculiti e le neuropatie craniali sembrano in rapporto all’interessamento diretto del sistema nervoso da parte della B.b., ritrovata sia nel materiale di biopsie cerebrali che nel liquor, mentre una reazione immunitaria sembra intervenire nella genesi delle polineuropatie. Una vasculite è stata evidenziata in casi con lesioni cerebrali, e può essere all’origine delle multineuropatie per interessamento dei vasa nervorum.
SINTOMATOLOGIA Si distinguono tre stadi, anche se spesso si hanno sovrapposizioni nei sintomi e nei tempi di malattia, e non sempre le manifestazioni precoci sono evidenti. Primo stadio. – Nella maggior parte dei casi, è caratterizzato dall’eritema migrante che si sviluppa da 3 a 30 giorni dopo la puntura della zecca; si possono associare cefalea, rigidità nucale e mialgie. L’eritema migrante tende a regredire spontaneamente nel giro di qualche settimana, anche se nel 25-50% dei casi possono comparire, successivamente, chiazze eritematose transitorie, legate probabilmente alla diffusione delle spirochete attraverso il flusso ematico, piuttosto che a nuove punture di zecche. L’esame del liquor è usualmente normale, ma può talora mostrare una transitoria pleiocitosi. Secondo stadio. – Si sviluppa, generalmente, diverse settimane dopo l’eritema migrante, in rapporto alla diffusione per via ematica dell’infezione, ed è caratterizzato da disturbi cardiaci transitori (pericardite, blocchi atrioventricolari di diverso grado, turbe del ritmo), da algie muscolari ed articolari, e da un interessamento del sistema nervoso: meningite, neuriti craniali e meningoradicoliti. Sono state anche descritte mono e polineuropatie, plessopatie e neuropatie da intrappolamento e, occasionalmente, encefaliti, mieliti e vasculiti cerebrali.
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Meningite. – L’interessamento meningeo, quasi sempre presente, è spesso asintomatico o caratterizzato da una modesta sintomatologia con cefalea e rigidità nucale. La febbre, se presente, è solitamente non molto elevata. La meningite può rappresentare la manifestazione d’esordio della malattia in coloro che non si sono resi conto della puntura della zecca. La sintomatologia esordisce acutamente, persiste 30-60 giorni e quindi tende a risolversi spontaneamente. L’esame del liquor dimostra una pleiocitosi, prevalentamente linfocitaria, un aumento delle proteine e la presenza di bande oligoclonali specifiche. Neuriti craniali. – Sono presenti nel 50% dei casi. La paralisi del faciale, uni o bilaterale, talora recidivante, è la più comune. Sono state osservate neuriti, isolate o in associazione tra loro, di tutti gli altri nervi cranici, compreso il nervo ottico, generalmente in concomitanza con la sindrome meningea. Meningoradicolite linfocitaria o sindrome di Bannwarth. – Si caratterizza per violente algie radicolari, prevalentemente notturne, talora associate a neuropatie craniali. L’esame del liquor evidenzia una pleiocitosi, in assenza di franchi segni meningei. Terzo stadio. – Si sviluppa nel 70% circa dei casi non trattati, nel giro di qualche mese, e si caratterizza per un’artrite cronica con interessamento delle grandi articolazioni. Un fattore genetico sembra favorire l’interessamento cronico che viene descritto prevalentemente nei soggetti portatori dell’antigene HLA-DR4. La sintomatologia neurologica, è compatibile con una encefalopatia cronica da B.b. (Kaplan et al., 1992) responsiva al trattamento antibiotico. Sono stati descritti anche casi di encefalomielite, che possono mimare una sindrome demielinizzante, e neuropatie croniche. Più raramente sono state segnalate vasculiti a livello cerebrale, miositi, cheratiti e cardiomiopatie dilatative.
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Malattie del sistema nervoso
Encefalopatia. – È una complicanza della fase tardiva caratterizzata da turbe della memoria, del comportamento e del ciclo sonno-veglia e talora da disorientamento spaziale, cui si associa una profonda astenia. L’evoluzione, in assenza di un’adeguata terapia, è di tipo progressivo con la comparsa di segni piramidali, cerebellari e franco deterioramento cognitivo. In questa fase sono stati descritti anche disturbi di tipo psichiatrico: depressione, attachi di panico e sindromi catatoniche. La valutazione neuropsicologica e l’EEG possono risultare utili nel differenziare reazioni psicogene da vere e proprie sindromi psicorganiche. L’esame del liquor può risultare normale. Encefalomieliti. – Segni di sofferenza focale dell’encefalo (emiparesi, afasia, atassia e crisi epilettiche), ad esordio acuto si possono associare con segni di sofferenza midollare: paraparesi, turbe della sensibilità, con livello generalmente toraco-addominale, e turbe sfinteriche. La RM può dimostrare multiple aree di aumentato segnale a livello periventricolare. L’esame del liquor è fondamentale per differenziare questo quadro dalla sclerosi multipla. Neuropatie periferiche. – Si tratta di polineuropatie, prevalentemente sensitive, in cui la valutazione neurofisiologica depone per una sofferenza assonale, verosimilmente in rapporto a processi vasculitici. Riassumendo, appare evidente che il sistema nervoso, con meccanismi diversi, può essere interessato in tutti gli stadi della malattia: irritazione meningea nel primo stadio; meningiti, neuropatie craniali, meningoradicolite linfocitoria (sindrome di Bannwart), neuropatie periferiche, mieliti ed encefalopatie nel secondo stadio; encefalopatie, encefalomieliti progressive, polineuropatie e miositi nel terzo stadio. Alcuni malati trattati per malattia di Lyme continuano a lamentare una eccessiva affaticabilità, algie muscolari, insonnia e turbe neuropsichiatriche. Secondo Treib et al (1998), cir-
ca la metà dei casi con segni clinici di neuroborelliosi e con produzione intratecale di anticorpi specifici e adeguatamente trattati con antibiotici mostrano un significativo miglioramento dei deficit neurologici, ma presentano nel decorso una sintomatologia tipo “sindrome da affaticamento cronico” associata a persistenza di IgM nel siero per la Borellia al Western Blot. La produzione di acido chinolinico, un neuroeccitatore centrale, in rapporto all’attivazione immunitaria, può contribuire alla persistenza della sintomatologia. Altri autori ritengono più probabile che la sindrome post-borreliosica sia in rapporto con un processo encefalitico o rappresenti un esito dell’encefalopatia. Non deve essere trascurato, inoltre, il ruolo di una reazione psicogena. Il gruppo di tali malati appare eterogeneo (malattia di Lyme cronica, sindrome post-borelliosica) e a tutt’oggi non vi sono dati convincenti sull’utilità di ripetuti e prolungati cicli di terapia antibiotica. DIAGNOSI La diagnosi si basa sulla sintomatologia nei casi tipici, ma in assenza di un’anamnesi suggestiva diventa fondamentale il riscontro di livelli serici elevati dapprima di IgM e poi di IgG specifiche per la B.b. Anticorpi specifici per la B.b. possono essere dimostrati anche nel liquor. Il rapporto fra livelli serici e liquorali può essere utile per stabilire se la concentrazione di anticorpi a livello liquorale è il risultato di una disfunzione della barriera emato-liquorale o di una produzione intratecale. In quest’ultimo caso si considera significativo un titolo anticorpale a livello liquorale superiore a quello serico. Tuttavia solo una minima parte di pazienti con malattia di Lyme ha una positività anticorpale nel liquor e non nel siero. Il riscontro di produzione anticorpale intratecale può essere utile nell’identificare l'interessamento meningeo. Data l’alta incidenza di falsi positivi, riportati col metodo ELISA (enzyme-linked immunosorbent assay), specie nei soggetti con altre patologie in-
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fiammatorie, la tecnica Western-blot è usata per confermare la positività ottenuta con l’ELISA. Nonostante la maggiore sensibilità di tale metodica, in grado di identificare gli anticorpi ai diversi antigeni della B.b., è comunque possibile il riscontro di falsi negativi. La polymerase chain reaction (PCR), attualmente disponibile come test diagnostico, si differenzia dalle precedenti tecniche, poichè permette di evidenziare nel siero e nel liquor il DNA della spirocheta, piuttosto che la risposta immunitaria. La sua negatività a livello liquorale non esclude tuttavia la diagnosi di neuroborreliosi, poiché nei modelli sperimentali è stato dimostrato che la B.b. è più facilmente rintracciabile nei tessuti che nei liquidi biologici. L’esame liquorale ed in particolare la produzione intratecale di anticorpi specifici rimangono fondamentali per la diagnosi di neuroborreliosi e, secondo la maggior parte degli autori, la rachicentesi dovrebbe essere praticata in tutti i casi con sospetto interessamento neurologico. Le principali alterazioni liquorali si riscontrano nel secondo stadio con pleiocitosi (20-500 cell/ml), proteine normali o aumentate, glucosio normale o ridotto, presenza di bande oligoclonali specifiche. La produzione intratecale di anticorpi per la B.b. può essere dimostrata per diversi anni dopo il trattamento e non rappresenta un indice di attività della malattia (Tab. 20.26) mentre un minimo, ma possibile, rischio di falsi negativi vi è all’esordio anche in casi con sintomi tipici di neuroborreliosi.
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TERAPIA Può essere trattata con successo con antibiotici a largo spettro: penicillina, eritromicina, cefalosporine e tetracicline. Dato che il rischio di sviluppare un’infezione dopo una puntura di zecca è inferiore all’1% l’impiego abituale degli antibiotici non è indicato, ma si deve sottolineare che il trattamento durante il primo stadio riduce le complicanze neurologiche, cardiache ed artritiche; in ogni caso i malati andrebbero monitorati durante il primo mese sia per la comparsa di lesioni cutanee nella sede della puntura ( suggestive di malattia di Lyme) che per rialzo termico superiore a 38°. La scelta del trattamento è in rapporto alla fase dell’infezione, all’età ed alle eventuali allergie. Nelle fasi precoci (stadio 1 e 2) sono indicate le tetracicline 150 mg × 4 per via orale per 14 giorni, ed in particolare, la doxiciclina (200 mg/die per 14 gg), per la sua prolungata durata d’azione e la scarsa incidenza di effetti collaterali a livello gastroenterico. Nei bambini di età inferiore agli otto anni, per i quali sono controindicate le tetracicline, l’amoxicillina rappresenta il trattamento di prima scelta (20 mg/kg per 14 gg). Il ceftriazone (2 gr/die e.v. per 2-3 settimane) o, in alternativa, la penicillina G (20 milioni U/die e.v. per 2 settimane) sono indicate nelle complicanze delle forme tardive con interessamento del sistema nervoso e nel blocco atrioventricolare di III grado
Tabella 20.26 - Diagnosi di neuroborreliosi. Interessamento del sistema nervoso centrale e periferico in presenza di almeno uno dei seguenti parametri:
a.
anamnesi positiva per lesioni cutanee specifiche;
b.
aumento del titolo degli anticorpi antiborrelia burgdorferi nel siero e nel liquor o solamente nel liquor;
c.
interessamento caratteristico di altri organi od apparati;
d.
sieroconversione o aumento di quattro volte del titolo degli anticorpi in campioni di siero prelevati in modo seriato in fase acuta e a distanza di qualche mese.
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Malattie del sistema nervoso
Tabella 20.27 - Trattamento antibiotico nella malattia di Lyme (modificato dalle linee guida di Wormser et al. (2000) Terapia consigliata
Dosaggio per adulti
Dosaggio per bambini
Trattamento orale di 1° scelta Amoxicillina Doxiciclina
500 mg t.i.d 100 m.g b.i.d
50 mg/kg/die in 3 dosi Sconsigliata al di sotto degli 8 anni
In alternativa Cefurossima
500 mg b.i.d
30 mg/kg/die in due dosi
2 gr e.v al giorno in una singola dose
75-100 mg/kg e.v in una singola dose
2 gr e.v t.i.d 18-24.000 U e.v die
150-200 mg/kg/die in 3 o 4 dosi 200.000-400.000 U /kg/die
Trattamento parenterale di Iª scelta Ceftriaxone
In alternativa Cefotaxime Penicillina G
N.B le tetracicline sono relativamente controindicate in gravidanza e durante l’allattamento; il dosaggio della penicillina dovrebbe essere ridotto nei casi con insufficienza renale.
In circa il 15% dei casi, appena intrapresa la terapia, si verifica un temporaneo aggravamento della sintomatologia (reazione di Jarisch-Herxheimer): il trattamento antibiotico, eliminando un gran numero di spirochete, determina la liberazione di citochine, che hanno un ruolo importante nella genesi di una sintomatologia caratterizzata da febbre, mialgie, cefalea, tachicardia, tachipnea, neutrofilia e riduzione della pressione arteriosa; il quadro può esordire dopo 2 ore dall’inizio della terapia e si risolve nell’arco di 24 ore. È importante distinguerlo da una reazione allergica all’eventuale trattamento con penicillina. Il trattamento antibiotico determina un’evoluzione favorevole, con regressione della sintomatologia, specie se viene iniziato precocemente. La persistenza o la ricorrenza della sintomatologia, un significativo e persistente aumento del titolo anticorpale impongono nuovi cicli di terapia. Per la sindrome post borreliosica è consigliabile un trattamento sintomatico.
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Sindromi neurologiche in corso di infezione da HIV A. Leonardi I virus ai quali viene attribuito ruolo eziologico nella sindrome da immunodeficienza acquisita umana (AIDS o SIDA) sono due, HIV1 (o HTLV-III o LAV) diffuso in tutto il mondo, ed HIV-2, presente in alcune popolazioni dell’Africa Occidentale. Entrambi causano malattie fondamentalmente identiche, anche se viene segnalata una minore virulenza dell’HIV-2. Nel Dicembre 1998 l’OMS stimava che sul pianeta vivessero 47,3 milioni di individui infettati dall’HIV e che, al ritmo di 16.000 nuove infezioni al giorno, entro il 2000 vi sarebbero stati 54 milioni di infezioni, con un totale di 15 milioni di morti dall’inizio dell’epidemia. (UNAIDS, 1998). HIV-1 e HIV-2 sono retrovirus, cioè virus a RNA il cui materiale genetico, dopo l’infezione della cellula ospite, viene trascritto in DNA ad opera dell’enzima virale “reverse
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transcriptase” ed inserito come provirus nel genoma dell’ospite ove può restare latente anche molto a lungo, finché un evento attivante avvia il processo di replicazione che comporta la separazione del provirus dal DNA della cellula ospite e la produzione di RNA messaggero, che dirige la sintesi delle proteine virali. Caratteristici della famiglia delle Lentiviridae, di cui l’HIV fa parte, sono la lunga latenza e il neurotropismo. Da tempo è nota un’encefalopatia della pecora, definita “Visna”, dovuta ad un virus che ha, come l’HIV, la capacità di infettare i monocito-macrofagi e di essere da questi veicolato all’interno del sistema nervoso con un meccanismo definito del “cavallo di Troia” (Wiley et al., 1986). HIV è patogeno anzitutto perché è responsabile di effetto citopatico e litico sui linfociti T CD4+. Il preciso meccanismo che porta alla deplezione di queste cellule è incerto, ma una volta esaurita la loro capacità di rigenerazione esse cominciano a diminuire di numero con conseguente comparsa di immunodeficienza e in seguito AIDS conclamata. Il recettore CD4 è il bersaglio principale dell’HIV, che vi si lega mediante la propria glicoproteina di membrana gp120 (Fig. 20.22). Successivamente per la fusione tra la membrana della cellula
Fig. 20.22 - Ciclo vitale dell’HIV nella cellula ospite, dall’ingresso nella cellula mediante il legame con il recettore CD4, alle sue modificazioni intracitoplasmatiche ed intranucleari fino al rilascio per gemmazione.
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Malattie del sistema nervoso
ed un’altra glicoproteina virale (la gp-41) il virus penetra nella cellula, viene trascritto e avvia la complessa serie di eventi che porteranno alla sua eventuale futura replicazione (Pantaleo et al., 1993). Specifici recettori per le chemochine costituiscono importanti punti d’attacco secondari per il virus (Premack et al., 1996; He et al, 1997). In base al tropismo per determinati recettori chemochinici (rispettivamente CXR4 e CCR5) si distinguono ceppi di HIV T-tropici (che si replicano preferenzialmente nei linfociti T CD4+) ed M-tropici (che si replicano nei Monocito-Macrofagi, essi pure costituzionalmente dotati del CD4). È importante il fatto che una variante genetica del CCR5 (Delta 32) sia protettiva contro l’HIV e ritardi la progressione della malattia. Peraltro, neuroni, astrociti, oligodendrociti, cellule di Schwann e fibrocellule muscolari non esprimono, se non eccezionalmente ed in minima parte, la molecola CD4 e, salvo sporadiche e contestate segnalazioni, l’HIV non si trova all’interno di queste cellule. Le uniche cellule del tessuto nervoso nelle quali è stato dimostrato il virus sono quelle microgliali, in realtà di derivazione mesodermica e rappresentanti i macrofagi cerebrali “residenti”. Negli ultimi anni le conoscenze sulla biologia dell’infezione da HIV sono drasticamente cambiate, e oggi si ritiene che si verifichi una continua replicazione attiva del virus per tutta la durata dell’infezione da HIV, con continuo rilascio di virioni attivi, in numero stimato di 10 miliardi di nuovi virioni ogni giorno (Ho et al., 1995). In particolare, non si esclude l’allarmante ipotesi che il cervello possa costituire un serbatoio sequestrato, e pertanto protetto, sia per un’infezione latente che per una inadeguatamente soppressa; infatti, la barriera emato-encefalica ostacola o riduce la penetrazione nel SNC di molti degli attuali farmaci antiretrovirali. Inoltre, il rapidissimo turnover dei virioni, con milioni di cicli replicativi ogni giorno, rende altamente probabili numerosi errori di trascrizione dell’RNA virale, con comparsa di ceppi mutanti resistenti ai farmaci, a meno che la replicazione dell’HIV non venga soppressa.
Nel quinquennio 1996-2000 sono stati compiuti importanti progressi nel trattamento dell’infezione da HIV, così da migliorare sensibilmente la prognosi della malattia. In particolare: a) è stata chiarita la diretta correlazione esistente tra replicazione virale e progressione della malattia immunologica, rafforzando così il concetto che la replicazione virale va soppressa al più presto; b) sono ora disponibili molti
farmaci antiretrovirali attivi su fasi diverse del ciclo biologico del virus e combinabili tra loro secondo vari schemi di trattamento allo scopo di ottenere la migliore efficacia soppressiva sulla replicazione di HIV; c) è ormai possibile monitorare con precisione ed affidabilità tale replicazione, e quindi l’efficacia della terapia, mediante la precisa quantificazione, con la tecnica della Reazione a Catena Polimerasica (PCR), dei livelli plasmatici (ed anche liquorali) di RNA virale, che, assieme al conteggio dei Tlinfociti CD4+, è ormai entrata a fare parte della routine procedurale nella gestione dei malati. Ciò in quanto la “carica virale” è un potente predittore di progressione di malattia e di risposta alla terapia . I nuovi schemi di trattamento farmacologico vengono definiti con l’acronimo HAART (Highly Active Antiretroviral Therapy; Carpenter et al., 1997) e prevedono varie combinazioni fra tre categorie di farmaci antiretrovirali: inibitori nucleosidici della Reverse Transcriptase (Zidovudina, Stavudina, Abacavir ed altri), inibitori non nucleosidici della R.T. (Nevirapina ed altri), inibitori delle proteasi (Indinavir ed altri) i quali inibiscono la maturazione di nuovi virioni dal provirus. In genere la maggior parte degli esperti consiglia di associare due inibitori nucleosidici ad un inibitore delle proteasi (ad esempio, Zidovudina 600 mg./die, Lamivudina 300 mg./ die, Indinavir 2400 mg./die; Hammer et al., 1997). Tutti i soggetti HIV-sieropositivi, anche quelli asintomatici con un conteggio dei CD4 < 500/mmc o con carica virale plasmatica > 10.000 copie/ml, andrebbero trattati aggressivamente con HAART secondo il principio del “colpire presto e forte”. Sono stati riportati alti e duraturi livelli di soppressione virale mediante combinazioni farmacologiche idonee (Ho, 1996). Nondimeno si tratta di schemi difficili da seguire assiduamente e ricchi di effetti collaterali, così che nella pratica clinica, al di fuori dei trials controllati, le percentuali di fallimento variano
Malattie infiammatorie
dal 30 al 50% (Fatkenheuer et al., 1997). Inoltre si tratta di terapie costosissime - 30.000 dollari/anno/paziente- il che le rende oggettivamente fuori portata per il 90% dei malati del pianeta. Se è doveroso richiamare questi aspetti negativi, anche per smorzare pericolosi trionfalismi nei confronti di una malattia altamente contagiosa e che resta mortale, va rimarcato che l’introduzione di questi nuovi protocolli terapeutici, almeno nei paesi sviluppati che possono sostenerne gli alti costi, ha comportato a partire dal 1996 un netto (40%) miglioramento della sopravvivenza tra i soggetti infettati da HIV, con riduzione del tasso di incidenza delle infezioni opportunistiche ed anche dalla più grave e frequente complicanza neurologica, la demenza da AIDS (v. pag. 000) (Brodt et al., 1997). Cionondimeno, forse proprio in relazione alla maggiore attesa di vita, è prevedibile che la prevalenza della demenza da AIDS resterà invariata o aumenterà e che continuerà a manifestarsi in almeno il 15% dei casi. I nuovi protocolli terapeutici, per un motivo o per l’altro danno nel tempo risultati inferiori alle attese. Inoltre non c’è sicurezza che le nuove politerapie arrivino a sopprimere in modo durevole la replicazione dell’HIV nel SNC. Le sindromi neurologiche resteranno perciò una causa prevalente di morbilità e mortalità nell’infezione da HIV, in tutti i suoi stadi di evoluzione. La stadiazione dell’infezione da HIV viene attualmente stabilita in base al sistema di classificazione proposto nel 1993 dal CDC (Center for Disease Control) che prevede tre classi di gravità progressive: A,B,C in relazione alla crescente complessità clinica, con suddivisione di ciascuna in 3 sottoclassi: 1,2,3 in relazione al numero di T-linfociti CD4+ nel sangue. L’interessamento del sistema nervoso in corso di infezione da HIV è frequentissimo ed assai precoce. Non è raro il riscontro di alterazioni
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liquorali (ipercitosi mononucleata, bande oligoclonali di IgG) in soggetti infettati da HIV, anche neurologicamente asintomatici, fin dalla fase iniziale del contagio. In questi casi la PCR consente di documentare quasi sempre la presenza di RNA virale nel liquor. Nel 15% dei soggetti infettati, più frequentemente nella fase di sieroconversione, entro la 6° settimana dal contagio, una sintomatologia neurologica di qualsiasi tipo, spesso fugace, può costituire addirittura l’esordio clinico della malattia da HIV. Si può trattare di meningoencefalite, poliradiculoneurite demielinizzante acuta, paralisi facciale periferica, neurite brachiale. La prevalenza di patologie del SNC, SNP o del muscolo va comunque aumentando con l’evolvere dell’infezione ed all’autopsia lesioni nervose o muscolari si riscontrano in oltre il 90% dei casi di AIDS, anche in assenza di sintomatologia neurologica in vita (Evans et al, 1991; Tucker, 1991). Nella Tabella 20.28 sono elencate le sindromi neurologiche più comuni in corso di infezione da HIV. Vengono distinte sindromi neurologiche “primarie” o “secondarie” a seconda che, sulla base delle attuali conoscenze, la malattia neurologica sia collegabile direttamente e unicamente all’infezione da HIV o consegua ad altre condizioni morbose, causate a loro volta dalla immunodeficienza. I meccanismi che intervengono in corso di infezione da HIV sono probabilmente indiretti e molteplici e, per gran parte delle sindromi neurologiche primarie, sono di due tipi: meccanismi genericamente definiti immunomediati, e meccanismi tossico-dismetabolici. Non è raro, poi, che lo stesso malato associ due o più sindromi neurologiche (es. encefalopatia e mielopatia da HIV) dimostrando che quadri a diversa eziopatogenesi possono sovrapporsi. Infine non va trascurato il fatto che alcuni quadri neurologici (es. miopatie, neuropatie) possono essere dovuti all’effetto tossico dei farmaci antiretrovirali.
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Tabella 20.28 - Alcune Sindromi Neurologiche Primarie e Secondarie HIV-correlate Livello del Nevrasse
Sindromi Neurologiche Primarie
Sindromi Neurologiche Secondarie
Encefalo
HIV-Demenza Disordine Cognitivo Minore Compromissione Neuropsicologica
Encefalite da CMV Leucoencefalopatia Multifocale Progressiva Linfoma primitivo del SNC Toxoplasmosi Cerebrale
Meningi
Meningite Linfocitaria
Meningite Criptococcica Meningite Tubercolare
Midollo
Mielopatia HIV-correlata
Poliradicolomielite da CMV Ascessi epidurali
Sist. Nerv. Periferico
Neuropatia Sensitiva Distale Simmetrica GBS (v. pag. 000) CIDP (v. pag. 000)
Poliradicolite della cauda Neuropatie da antiretrovirali
Muscolo
Miopatie HIV-correlate
Miopatie da antiretrovirali
Sindromi neurologiche primarie Colpiscono in qualunque stadio dell’infezione da HIV, per quanto in genere alcune sindromi neurologiche prevalgano nei periodi iniziali ed altre in tempi successivi (Fig. 20.23). Meningoencefalite “asettica” acuta In fase iniziale, durante la sindrome similmononucleosica della sieroconversione o talora ancora prima che la sieroconversione sia avvenuta, si manifesta in circa il 5-10% dei soggetti infettati una sindrome meningea più o meno grave. La sintomatologia consiste in cefalea, febbre, vomito, fotofobia; possono associarsi deficit di nervi cranici (più frequentemente paralisi periferica del VII) oppure segni di encefalomielite, consistenti in crisi epilettiche e segni di sofferenza piramidale e delle vie sensitive, fino al quadro di una mielite trasversa acuta o subacuta (paraparesi, anestesia a livello, turbe sfinteri-
Fig. 20.23 - Le malattie neurologiche correlate all’HIV che colpiscono il sistema nervoso e il muscolo, si presentano in stadi differenti dell’infezione con frequenze diverse (valori in percentuale).
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che). L’EEG dimostra alterazioni diffuse. Generalmente il decorso è buono e la sintomatologia regredisce. Il liquor dimostra pleiocitosi linfocitaria con riduzione del rapporto tra T linfociti CD4+ e CD8+ (che non si osserva nelle meningiti acute da altri agenti) e iperproteinorrachia. La PCR rivela alti livelli di RNA virale nel liquor, anche in soggetti praticamente asintomatici.
Encefalopatia (Disordine Cognitivo-Motorio HIV-correlato: AIDS-Demenza e Disordine Cognitivo-Motorio Minore) In corso d’infezione da HIV si verifica frequentemente una compromissione cognitiva, che può assumere gravità diversa da caso a caso; si tratta di uno spettro di condizioni globalmente definite “Disordine Cognitivo-Motorio HIVcorrelato”, che si estendono da uno stato, spesso subclinico, di compromissione di alcune funzioni neuropsicologiche fino ad una vera e propria demenza. In realtà non si tratta di “stadi” di progressione di un’unica malattia, nel senso che non è detto che un malato con AIDS-Demenza sia prima transitato attraverso disturbi cognitivi più leggeri; d’altra parte, non si tratta, almeno nelle forme cliniche meno gravi, di disturbi irreversibili, soprattutto dopo l’avvento della moderna HAART. L’AIDS-Demenza è la sindrome neurologica più frequente nei soggetti infettati dal retrovirus HIV, ove si consideri che circa il 15% dei casi con AIDS ne vanno soggetti prima della morte (McArthur et al., 1993). Benché l’incidenza della condizione stia nettamente declinando dopo l’introduzione della HAART, la maggiore sopravvivenza ottenuta grazie a queste stesse politerapie fa sì che la prevalenza dell’AIDSDemenza rimanga molto alta fra gli infettati da HIV. In effetti, l’AIDS-Demenza è attualmente la più comune causa di decadimento cognitivo
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nella popolazione al di sotto dei 60 anni. In passato è stata definita anche leucoencefalite o encefalite da HIV ancorché l’aspetto istopatologico delle lesioni non sia classicamente encefalitico. La patogenesi è complessa e non completamente nota. Il virus non infetta neuroni, astrociti od oligodendrociti ed è, invece, presente nei pochi T linfociti CD4+, nei microgliociti e nei numerosi macrofagi degli infiltrati. Le cellule giganti multinucleate, anch’esse di origine monocito-macrofagica, sono sincizi di macrofagi o microgliociti infettati, e rappresentano il marcatore istopatologico, peraltro incostante, della “encefalite” da HIV. La maggiore responsabilità dell’ingresso del virus nell’encefalo viene attualmente attribuita ai monociti, che esprimono la molecola CD4, e sono il vero serbatoio dell’HIV nell’uomo. Infatti, mentre i T linfociti CD4+ infettati vengono distrutti, l’HIV non distrugge il monocita, ma si moltiplica in esso e lo utilizza come veicolo per il trasporto nei tessuti. In particolare nel cervello il monocita funzionerebbe da “cavallo di Troia”, analogamente a quanto è stato dimostrato per il virus del Visna degli ovini. Penetrato attraverso la barriera emato-encefalica e attivato a macrofago, produce citokine, quali l’interleukina-1 (IL-1), il tumor necrosis factor alfa (TNF-a), l’interferone gamma (IFN-g), responsabili di danno neuronale e mielinico (Tyor et al., 1992). È anche possibile che le citochine stimolino dapprima altre cellule come la microglia, anch’essa di origine monocito-macrofagica, o gli stessi astrociti, che rispondono a stimoli immunitari producendo a loro volta citochine. Ne risulta una ”amplificazione” dell’infiammazione a livello del tessuto nervoso, con costituzione ed estensione del danno mielinico e neuronale (Epstein e Gendelman, 1993). Inoltre la stessa glicoproteina “env” virale gp-120 si è dimostrata neuronotossica (Dreyer et al., 1990). Perciò, a differenza di altre encefaliti virali nelle quali l’agente infetta direttamente neuroni, astrociti od oligodendrociti, nella infezione da HIV il danno del tessuto nervoso avverrebbe con meccanismi in gran parte indiretti. NEUROPATOLOGIA. – Lo studio neuropatologico può rivelare una netta discrepanza tra entità della compromissione clinica ed estensione delle lesioni encefaliche (Navia et al., 1986). In genere il cervello è globalmente atro-
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Malattie del sistema nervoso
fico; le lesioni della sostanza bianca emisferica consistono in aree di demielinizzazione (dal semplice pallore fino alla vacuolizzazione confluente) variamente infiltrate da macrofagi e con incostante presenza di cellule giganti multinucleate. Rarefazione neuronale con astrocitosi di entità variabile si osserva nella corteccia, nei nuclei grigi della base (soprattutto nel neostriato) e nei nuclei pontini.
razioni dei movimenti oculari di inseguimento e saccadici, atassia statica e segmentale, riduzione di forza agli arti inferiori con iperreflessia, tremore. Le manifestazioni avanzate sono rappresentate da atassia, para o tetraparesi piramidale, incontinenza urinaria e fecale, tremori, mioclonie.
SINTOMATOLOGIA. – La sindrome nota come AIDS-Demenza è assai complessa, e può associarsi alla mielopatia da HIV. Le lesioni midollari, sempre della sostanza bianca, sono peraltro completamente diverse da quelle della sostanza bianca encefalica sia per morfologia che, probabilmente, per patogenesi. La demenza compare quasi sempre in fase avanzata d’infezione, ha esordio subdolo e, in assenza di un trattamento efficace, decorso rapidamente peggiorativo. Esiste una vasta gamma di disturbi delle funzioni nervose superiori (riduzione della memoria, alterazioni di personalità con tendenza a ridurre le relazioni sociali) definiti Disordine Cognitivo-Motorio Minore HIV-correlato (MCMD), che pongono il problema di una diagnosi differenziale con la depressione. Il MCMD (da non confondere con l’AIDS-Demenza) è molto frequente in fase intermedioavanzata d’infezione da HIV e, anche se si tratta di condizione non gravemente invalidante e non necessariamente progressiva comporta una significativa riduzione del tempo di sopravvivenza (Ellis et al., 1997).
ESAMI COMPLEMENTARI. – Lo studio neuroradiologico mediante TC consente anzitutto di escludere lesioni encefaliche focali, tipiche di altre condizioni possibilmente responsabili di deterioramento cognitivo. Si dimostra invece una diffusa atrofia della sostanza bianca, assottigliamento delle circonvoluzioni, allargamento dei solchi, ingrandimento dei ventricoli fino alla formazione di un idrocefalo “ex vacuo” nei casi più gravi. La RM encefalica conferma l’atrofia generalizzata e mostra un diffuso aumento di segnale dei centri semiovali nelle immagini pesate in T2, senza assunzione di contrasto paramagnetico. L’esame del liquor dimostra lieve pleiocitosi mononucleata e modesto aumento delle proteine; in Immunoblot è frequente il riscontro di Bande Oligoclonali di IgG, talora identificabili anche nel siero, a specificità anticorpale in gran parte ignota. Nell’insieme si tratta di reperti comuni nell’infezione da HIV ma non specifici di questa condizione clinica. L’utilità dell’esame liquorale sta nella opportunità di escludere altre possibili cause di deterioramento cognitivo in corso di AIDS, quali la meningo-encefalite criptococcica, l’encefalite da citomegalovirus, la leucoencefalopatia multifocale progressiva; in tutti questi casi, tests liquorali mirati (ricerca di antigene criptococcico, PCR per il DNA dei virus CMV o JC) contribuiscono a chiarire la diagnosi. La dimostrazione nel liquor dell’RNA dell’HIV mediante la Reazione a Catena Polimerasica alla Transcrittasi Inversa (RTPCR) consente una quantificazione, forse solo approssimativa, della carica virale nel SNC. Ciò non toglie che la quantità di RNA virale nel liquor correli, nell’AIDS, con la compro-
L’AIDS-Demenza configura invece una sindrome demenziale ben definita, caratterizzata da gravi turbe della memoria, disorientamento temporo-spaziale, rallentamento ideatorio con difficoltà nel corso del pensiero, riduzione della capacità critica e di giudizio, comportamento apatico e indifferente con isolamento dall’ambiente, talora agitazione ed irritabilità; riduzione delle capacità visuo-spaziali e visuomotorie (es. copiare disegni, comporre puzzles, ecc.). I sintomi neurologici consistono in alte-
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missione cognitiva (Ellis et al, 1997). Ne consegue che la riduzione della carica virale liquorale dev’essere un obiettivo prioritario nel trattamento dell'HIV, soprattutto nel deterioramento cognitivo di modesta entità, come accade nei pazienti affetti da Disordine CognitivoMotorio Minore associato all’HIV (HIVMCMD). In effetti è stato dimostrato che la HAART può ridurre i livelli liquorali di RNA dell’HIV (Tozzi et al, 1999) e che il monitoraggio dell’RNA liquorale è un utile predittore della efficacia della terapia antiretrovirale sulle funzioni cognitive. TERAPIA. – Sia nel MCMD che nell’AIDSDemenza le moderne strategie terapeutiche sono molto aggressive, puntando alla soppressione dell’infezione del sistema nervoso da parte dell’ HIV che sia la più precoce e radicale possibile; un parametro fondamentale di efficacia è costituito, come già detto, dal monitoraggio dei livelli liquorali di RNA virale. L’obiettivo si raggiunge in modo più pronto, radicale e soprattutto duraturo impiegando le HAART messe a punto nell’ultimo quinquennio (Carpenter et al., 1997; Ellis et al 1998; Tozzi et al, 1999). I vecchi schemi terapeutici che utilizzavano la Zidovudina (AZT) ad alto dosaggio in monoterapia hanno certamente avuto efficacia apprezzabile nel rallentare la progressione della malattia neurologica (Simpson, 1999). Purtroppo i benefici dell’AZT diminuiscono dopo un certo periodo di trattamento continuativo, probabilmente per l’emergere di ceppi mutanti resistenti al farmaco. In aggiunta alla HAART, sono stati effettuati tentativi terapeutici mirati sulla inibizione delle risposte molecolari dell’ospite all’infezione che possono contribuire alla compromissione della funzione del sistema nervoso centrale. Del tutto recentemente (Sacktor et al, 2000) sono stati pubblicati i risultati di uno studio sull’impiego della Selegilina, un inibitore della produzione di radicali ossigeno, responsabili di danno neuronale.
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Mielopatie Le mielopatie in corso di infezione da HIV possono essere costituite da mielopatie compressive (ad esempio da tubercolomi o linfomi del canale vertebrale), o da mieliti acute in fase di sieroconversione. Il quadro peraltro più tipico e più frequente è la Mielopatia Vacuolare, che compare in fase tardiva d’infezione, si manifesta clinicamente nel 10-15% dei casi di AIDS (ma all’autopsia si riscontra nel 30%), e si può associare all’encefalopatia da HIV, ovvero alla sindrome di AIDS-Demenza (Evans et al., 1991). Gli aspetti clinici e neuropatologici sono simili a quelli della sclerosi combinata (v. pag. YYY). Le lesioni, nei cordoni laterali e posteriori del tratto toracico inferiore del midollo, causano una paraparesi atasso-spastica, che associa segni piramidali (ipostenia, ipertonia, iperreflessia, Babinski) e turbe delle sensibilità profonde (batiestesia, chinestesia, pallestesia) con positività della prova di Romberg. Rispetto alla vera sclerosi combinata di origine carenziale la mielopatia in corso di AIDS si caratterizza per l’importanza e la precocità delle turbe sfinteriche vescicali (incontinenza). La diagnosi è d’esclusione, poiché gli studi per neuroimmagini (TC, RM) e quelli liquorali sono inespressivi o aspecifici; laddove siano state escluse altre cause, la diagnosi corretta dovrebbe comportare un trattamento con HAART, che può indurre la remissione del quadro clinico (Staudinger e Henry, 2000) La patogenesi è oscura: i livelli plasmatici di Vit. B12 sono normali, e nel midollo, abitualmente, non si isola l’HIV. La mielinopatia da carenza di Vit. B12 dipende da difetto dei processi di metilazione negli oligodendrociti: simili difetti sono stati descritti anche nell’infezione da HIV (Surtees et al., 1990). In alternativa, è ipotizzabile un effetto tossico sulla mielina da parte di citokine infiammatorie.
Neuropatie periferiche Costituiscono un altro importante aspetto delle complicanze neurologiche in corso di in-
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fezione da HIV, dato che nel loro insieme colpiscono oltre il 25% dei soggetti (Katirji, 1991). Segni di sofferenza del Sistema Nervoso Periferico (SNP) possono comparire in ogni stadio dell’infezione. In genere le forme demielinizzanti infiammatorie, probabilmente immuno-mediate (CIDP e GBS), compaiono più precocemente, mentre le neuropatie assonali compaiono nello stadio di AIDS vera e propria. Vengono descritti cinque distinti tipi di neuropatia periferica che, in ordine di frequenza, sono: – NEUROPATIA SENSITIVA DISTALE SIMMETRICA. È la forma più comune di neuropatia periferica in corso di infezione da HIV. Colpisce circa il 30% dei malati quasi sempre in fase di AIDS conclamata ed ha un’incidenza annua del 2-3%. Si tratta di una polineuropatia cronica con netta prevalenza della sintomatologia sensitiva: dolori urenti, parestesie, ipoestesia tattile-dolorifica a calza. La componente motoria, per lo più modesta, può consistere in ipostenia dei muscoli antero-esterni della gamba con “steppage” nella marcia. I riflessi profondi agli arti inferiori sono deboli o assenti, in particolare gli achillei. L’esame del liquor non è diagnostico, a parte la dosabilità -peraltro aspecifica- dell’RNA virale. Lo studio neurofisiologico e la biopsia del nervo dimostrano prevalente compromissione assonale. Si tratta di una “dying back neuropathy” (v. pag. 000), probabilmente a patogenesi tossico-infiammatoria (cito e chemokine rilasciate dai macrofagi) che si manifesta soprattutto a carico delle piccole fibre e di quelle amieliniche. La diagnosi differenziale più importante va posta con le neuropatie tossiche da agenti antiretrovirali (didanosina, zalcitabina, stavudina), le quali in genere migliorano o regrediscono dopo la sospensione dei farmaci. Le terapie basate sull’impiego di steroidi, plasmaferesi, AZT sono inefficaci, per cui ci si limita a un trattamento sintomatico per il dolore e le parestesie, con carbamazepina, gabapentin, lamotrigina o amitriptilina. A tutt’oggi la
prognosi è negativa, poiché il decorso è peggiorativo e gravemente invalidante nel tempo. Esiste però qualche segnalazione (Mc Arthur e Simpson, 1998) sull’efficacia del Nerve Growth Factor umano ricombinante nel trattamento della neuropatia sensitiva da HIV. – POLIRADICOLONEUROPATIA INFIAMMATORIA DEMIELINIZZANTE CRONICA (CIDP). Si può manifestare anche in fase precoce d’infezione e ha decorso subacuto con possibili remissioni. La sintomatologia è prevalentemente motoria (ipostenia e modesta atrofia), estesa anche ai settori prossimali degli arti. Il liquor dimostra iperproteinorrachia e ipercitosi. Lo studio neurofisiologico e la biopsia di nervo dimostrano una neuropatia infiammatoria prevalentemente demielinizzante; il nervo è infiltrato da linfo-monociti dai quali è possibile isolare l’HIV. Si ritiene tuttavia che la patogenesi del danno mielinico non sia direttamente infettiva ma immuno-mediata, come dimostra l’efficacia terapeutica della plasmaferesi (2-3 scambi alla settimana per almeno 3 settimane) e degli steroidi. – RADICULOPOLINEUROPATIA ACUTA O SINDROME GUILLAIN-BARRÉ (GBS). Può manifestarsi già al momento della sieroconversione, e comunque quasi sempre in fase precoce. Ha decorso acuto, in genere ad evoluzione favorevole. Clinicamente è indistinguibile dalla GBS dei soggetti HIV-sieronegativi: andamento subacuto, paralisi ascendente, eventuale interessamento della muscolatura respiratoria con necessità di respirazione assistita, decorso generalmente benigno con recupero entro alcune settimane. L’aspetto laboratoristico che deve fare sospettare la patogenesi da HIV in una GBS è l’ipercitosi liquorale (30-100 mononucleati/mmc), eccezionale nei soggetti HIV-sieronegativi.
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– POLIRADICULOPATIA PROGRESSIVA DELLA CAUDA È la neuropatia più caratteristica e grave in questi malati; compare in fase tardiva di infezione con decorso subacuto (dai 5 ai 30 EQUINA.
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giorni) ed esito regolarmente infausto se non trattata. Benchè sia alquanto rara, e la sua incidenza si sia ulteriormente ridotta dopo l’avvento della HAART, è una condizione catastrofica che va riconosciuta immediatamente perchè con l’opportuno trattamento si può ottenere stabilizzazione e miglioramento nel 50% dei casi (Kim e Hollander, 1993). La sintomatologia consiste in paraplegia flaccida con anestesia nel territorio delle ultime radici lombari e di quelle sacrali con importanti e precoci disturbi sfinterici e sessuali. Lo studio neurofisiologico dimostra segni di denervazione e alterazione dei potenziali evocati somestesici agli arti inferiori. Nel liquor si dimostrano iperproteinorrachia, ipercitosi polinucleata ed ipoglicorrachia; è possibile isolare e coltivare dal liquor il citomegalovirus (CMV), mentre in quasi tutti i casi si dimostra mediante la PCR DNA del CMV nel liquor. La malattia è infatti dovuta ad infezione da CMV, isolabile dalle radici lombo-sacrali ove determina gravissima infiammazione e necrosi. La terapia si basa sull’impiego del ganciclovir, che va iniziato precocemente prima che si verifichino le lesioni radicolari necrotiche, e prolungata indefinitamente. In caso di resistenza al ganciclovir vengono utilizzati farmaci antivirali alternativi quali foscarnet o cidofivir. – MULTINEURITI (MONONEURITIS MULTIPLEX). Sono dovute a microinfarti dei tronchi nervosi, probabilmente per vasculite dei vasa nervorum. Discretamente frequenti, compaiono di solito in fase tardiva e interessano in modo asincrono e asimmetrico più tronchi nervosi periferici ed anche i nervi cranici.
Miopatie La sofferenza del tessuto muscolare, anche se abbastanza frequente, è ancora poco definita poiché in soggetti molto compromessi l’insorgenza di astenia e malessere generalizzati, mialgie, ipotrofia muscolare viene spesso attribuita
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alle scadenti condizioni generali e non ulteriormente indagata. POLIMIOSITE – È il quadro più comune e, come per le altre forme di polimiosite, se ne ipotizza un’eziologia autoimmune. La sintomatologia è costituita da astenia, atrofia, dolore e dolorabilità muscolari, conservazione dei riflessi profondi, reperti miogeni all’EMG, innalzamento, in genere moderato, dei valori plasmatici di CPK. Istopatologicamente si osserva una relativa scarsità di infiltrato infiammatorio linfo-monocitario (e in queste cellule, ma non nelle fibrocellule muscolari, si può isolare l’HIV) e abbondanza di corpi nemalinici, anomalia aspecifica delle miocellule dovuta a distruzione delle strie Z dei sarcomeri. Il trattamento steroideo è efficace. MIOPATIA DA ZIDOVUDINA. La patogenesi probabilmente è tossica. Comporta astenia prossimale degli arti, gravi mialgie, cospicuo innalzamento dei valori plasmatici di CPK. L’aspetto istopatologico è quello di una miopatia mitocondriale con mitocondri ingranditi e deformi e “ragged red fibers” (v. pag. 000). La sospensione dall’AZT migliora il quadro clinico.
Sindromi neurologiche secondarie L’infezione da HIV causa progressiva riduzione numerica dei T linfociti CD4+ e quindi una condizione di immunodeficienza. Tale condizione comporta un gran numero di infezioni, opportunistiche o riattivate, virali, batteriche, spirochetosiche, parassitarie che colpiscono con elevata frequenza anche il sistema nervoso, e di tumori, che possono metastatizzare nel sistema nervoso (come i linfomi sistemici, che usualmente sono di tipo non-Hodgkin, o, raramente, il sarcoma di Kaposi) oppure originarvi direttamente (linfomi primitivi). In generale tali condizioni non si verificano fino a quando il conteggio dei CD4 è superiore a 200: infatti il più importante fattore di rischio per le infezioni
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opportunistiche è costituito dal “nadir” (cioè il livello minimo) raggiunto dal valore di CD4. Esistono alcune peculiarità che caratterizzano le Infezioni Opportunistiche (I.O.) in corso di AIDS rispetto ad altre situazioni d’immunodeficienza: – la possibile coesistenza di I.O. multiple, oppure di una I.O. con altre sindromi neurologiche “primitive” da HIV. Ciò può rendere particolarmente difficile la diagnosi ed il trattamento; – la necessità di mantenere il trattamento per tutta la durata di vita dato che l’immunodeficienza è progressiva; – poiché si tratta spesso di riattivazione di infezioni preesistenti (es. Toxoplasmosi, Tubercolosi), se queste sono identificabili precocemente può essere indicato un trattamento profilattico “primario” da iniziarsi quando il conteggio dei CD4 scende al di sotto di 200/mmcu. Va peraltro considerato che l’incidenza e la gravità delle I.O. (ma non necessariamente la loro prevalenza) sono diminuite dopo l’introduzione della HAART. Ad esempio, la mortalità per I.O. dei soggetti con CD4 < 100/mmcu è scesa dal 35% annuo del 1993 al 10% del 1997 (Palella et al., 1998). Recentemente è stata pubblicata un’interessante rassegna delle linee-guida più aggiornate per il trattamento profilattico primario e secondario delle I.O. in corso di malattia da HIV (Kovacs e Masur, 2000).
Infezioni opportunistiche Benché, come si è detto, la loro incidenza sia in declino, l’AIDS si associa tuttora ad infezioni del sistema nervoso considerate rarissime prima degli anni ’80, in particolare certe micosi quali la Candidosi, l’Aspergillosi, la Coccidioidomicosi. Inoltre, infezioni da agenti virali comuni (Herpes Simplex, Virus della Varicella-Zoster, Morbillo, Parotite) hanno in questi casi un decorso particolarmente grave. Le infezioni opportunistiche descritte nei prossimi paragrafi sono quelle di più comune riscontro in Europa.
Infezione da Citomegalovirus Frequentemente (25-30% degli encefali) lo studio neuropatologico mostra un’encefalite da citomegalovirus associata alla encefalopatia da HIV. È assai difficile distinguere le manifestazioni cliniche dovute al CMV da quelle da HIV. La maggiore frequenza di manifestazioni cerebrali (deficitarie o irritative) espressive di danno focale e l’importanza e precocità dei disturbi dello stato di coscienza (fino al coma) possono fare sospettare la coesistenza di encefalite da CMV. Anche lo studio con neuroimmagini non discrimina agevolmente l’encefalite da HIV e quella da CMV; alla RM la patologia da CMV può essere espressa da aree iperintense in T2, localizzate nella sostanza bianca periventricolare. Il CMV è un Herpesvirus molto diffuso. L’uomo è l’unico ospite naturale ed il 90% della popolazione sarebbe sieropositiva per CMV. La sua riattivazione, però, si verifica solo nei soggetti immunodepressi, dando luogo a complicanze anche neurologiche. Nell’AIDS la riattivazione del CMV è piuttosto frequente, forse perché il CMV condivide molte caratteristiche biologiche con l’HIV (esisterebbe anche un potenziamento reciproco). È trasmesso sessualmente e si ritiene che resti latente nel monocita. Esistono segnalazioni di monocito-macrofagi e anche di cellule giganti multinucleate, coinfettati da HIV e CMV. I quadri neurologici più importanti attribuibili a riattivazione del CMV sono: a) l’encefalite, con i reperti tipici delle encefaliti virali. Si tratta di una vera encefalite, con interessamento prevalente della corteccia, ove i neuroni infettati da CMV presentano inclusioni eosinofile nucleari e sono spesso circondati da noduli microgliali di neuronofagia; b) una retinite emorragico-essudativa, frequente, grave, riconoscibile per il classico aspetto “a pizza” (associazione di emorragie e essudati) della retina in oftalmoscopia. Il ganciclovir (5 mg/kg/die e.v.) è efficace e dev’essere somministrato al più presto;
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c) la radiculopolineuropatia lombo-sacrale. Toxoplasmosi Cerebrale È una delle più frequenti e gravi malattie opportunistiche e la sua frequenza autoptica nei casi di AIDS varia dal 10 al 30%. Consegue quasi sempre alla riattivazione di una infestazione preesistente; il 25-50% dei sieropositivi per toxoplasma gondii infettati da HIV andranno incontro a neurotoxoplasmosi (Evans et al., 1991). Dopo l’infestazione acuta il parassita assume forma latente nei tessuti, ove dà origine a cisti contenenti i bradizoiti. Col declino della immunità cellulo-mediata, le cisti si rompono liberando i tachizoiti, parassiti invasivi intracellulari obbligati che si propagano nell’encefalo invadendo neuroni e glia. Le lesioni cerebrali da toxoplasma, definite anche ascessi, sono generalmente multiple e consistono in focolai di encefalite necrotica non purulenta, spesso disposti attorno ad un vaso trombizzato con infiltrato infiammatorio anche assai modesto. In queste aree si osservano spesso i parassiti, sia in forma cistica che liberi nel tessuto.
La natura focale delle lesioni giustifica il polimorfismo clinico e la relativa sintomatologia che, spesso, si sovrappone ad una AIDSDemenza preesistente. Compaiono così emiparesi, deficit sensitivi, afasia, segni di sofferenza cerebellare, deficit dei nervi cranici per lesioni parenchimali troncoencefaliche. Il liquor dimostra ipercitosi e iperproteinorrachia, come nell’encefalopatia da HIV, ma è assai rara una meningite clinicamente manifesta, che più spesso è da attribuire ad una eventuale terza infezione. La ricerca di anticorpi anti-toxoplasma, in casi con importante disfunzione immunitaria, non è affidabile. Esistono casi autoptici di neurotoxoplasmosi con sierologia negativa e d’altronde una positività sierologica per toxoplasma (evento frequente nella popolazione) non consente di escludere che le lesioni cerebrali siano di altra natura. È comunque opportuno eseguire precocemente la sierodiagnosi per Toxoplasma Gondii (T.G.) in tutti gli individui
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infettati da HIV, in modo da potere sospettare la natura toxoplasmica di eventuali lesioni encefaliche focali insorte successivamente in questi soggetti; inoltre si ritiene che i malati infettati da HIV e sieropositivi per T.G. vadano comunque sottoposti a profilassi antitoxoplasmica primaria quando il loro conteggio di CD4 scende sotto i 200/mmcu., indipendentemente dal fatto che siano o meno sintomatici. Alla TC (Fig. 20.24) ed ancor più alla RM le lesioni, quasi sempre multiple, appaiono compatte e caratterizzate da cospicua accentuazione, dopo contrasto, di un anello perilesionale; l’edema circostante è marcato, con conseguente grave effetto massa. La sede delle lesioni può essere cortico-sottocorticale, nei nuclei della base, nel cervelletto e nel tronco. Eventuali lesioni singole non sono distinguibili dal linfoma e, nei casi dubbi, può essere indicata la biopsia cerebrale per la diagnosi. Anche nei casi in cui la diagnosi differenziale non sia stata ancora chiarita conviene iniziare subito il trattamento antitoxoplasmico con pirimetamina (prima settimana 100-200 mg/die, e poi per 6 settimane 50-100 mg/die) associata a sulfadiazina (4-8-gr/die per 6 settimane). In caso di intolleranza o di tossicità, si può sostituire la sulfadiazina con clindamicina (600 mg × 4 per 6 settimane). In seguito al trattamento, la TC cerebrale dimostra una cospicua riduzione delle dimensioni della lesione (Fig. 20.24).
Fig. 20.24 - TC con lesioni dovute a toxoplasmosi cerebrale prima (A) e dopo (B) trattamento antitoxoplasmico.
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Nella terapia di mantenimento, che va proseguita indefinitamente. Si usano li stessi farmaci a dosi dimezzate. LEUCOENCEFALOPATIA MULTIFOCALE PROGRESSIVA (LEMP) Una volta assai rara, è ora di osservazione non straordinaria nell’AIDS, pur con incidenza declinante dopo l’introduzione della HAART. Si tratta di una leucoencefalite a decorso subacuto dovuta ad infezione degli oligodendrociti (e astrociti) da parte di un virus del gruppo Papova, il virus JC. Si tratta di un classico virus di sortita nelle condizioni di immunodepressione. La malattia era stata descritta originariamente in corso di malattie linfoproliferative e, prima che se ne identificasse l’eziologia virale, veniva classificata tra le malattie neurologiche paraneoplastiche. Studi sierologici statunitensi hanno dimostrato che il 75% della popolazione adulta normale è stata infettata subclinicamente dal virus JC. Almeno il 4% dei pazienti con AIDS presenta la LEMP, ed attualmente oltre 1/4 di tutti i casi di LEMP si verificano in corso di AIDS. In circa il 30% dei casi la malattia costituisce la prima manifestazione clinica di AIDS conclamata.
L’esordio è in genere di tipo demenziale ed in questa fase la diagnosi differenziale con l’AIDS-demenza è impossibile. In seguito, più frequentemente che nell’AIDS-demenza, possono comparire segni focali. La TC può dimostrare tenue ipodensità della sostanza bianca che non si modifica dopo contrasto e la RM rivela tenui, mal delimitate, spesso plurime aree di alterato segnale ipointense in T1, iperintense in T2 sparse nella sostanza bianca degli emisferi senza edema, effetto massa o accentuazione dopo contrasto. La biopsia cerebrale è l’unico esame in grado di confermare la diagnosi in vivo e dimostra diffusa demielinizzazione della sostanza bianca, astrocitosi e soprattutto caratteristiche inclusioni eosinofile negli oligodendrociti costituite da virus JC. La PCR sul liquor può evidenziare il materiale genetico del virus JC, ma in un terzo dei casi il test è negativo.
Non esistono terapie efficaci; sono stati impiegati, senza risultati convincenti, il citosin arabinoside C, la stessa zidovudina, l’interferon alfa. La prognosi è infausta ma, per ragioni che restano ignote, la sopravvivenza media è più lunga nella LEMP in corso di AIDS, rispetto a quella che si manifesta in altre condizioni di immunodepressione; sono anche riportati casi aneddotici di miglioramento clinico e neuroradiologico spontaneo o addirittura di apparente guarigione (Berger e Mucke, 1988). I più recenti schemi di HAART, riducendo la carica di RNA dell’HIV, si sono dimostrati in grado di allungare la sopravvivenza dei malati con LEMP. MENINGITE CRIPTOCOCCICA È molto frequente in corso di AIDS, e colpisce più spesso i tossicodipendenti rispetto ad altre categorie a rischio. Il criptococcus neoformans è il terzo agente infettivo in ordine di frequenza, dopo lo stesso HIV e il Toxoplasma, che può causare complicanze neurologiche nell’AIDS, colpendo tra il 5 e il 10% dei casi. Il quadro clinico è rappresentato dalla meningite, che si manifesta con violenta cefalea, grave malessere generale, febbre. La classica sindrome meningea (rigidità nucale, segni di Kernig e Brudzinski) può mancare o essere frusta in oltre il 60% dei casi. I segni di sofferenza focale del sistema nervoso sono rari, ma circa nel 25% compare una precoce e grave encefalopatia diffusa, con alterazione della coscienza, o una sindrome psicoorganica, che possono fuorviare la diagnosi. Sono inoltre descritte forme acute fulminanti con unicamente cefalea e febbre. Frequentemente lo studio neuroradiologico è negativo ed il liquor può non dimostrare i reperti tipici di meningite (le forme più gravi possono anzi decorrere, nell'AIDS, senza ipercitosi). La diagnosi di questa gravissima complicanza infettiva, che è mortale in circa 1/3 dei casi, può essere perciò difficile; ma se il sospetto diagnostico è posto, il test all’inchiostro di china
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nel liquor è positivo in circa il 90% dei casi, e la ricerca degli antigeni criptococcici su sangue e liquor è quasi sempre positiva (Evans et al., 1991). Il trattamento d’attacco consiste in amfotericina B (0,8 mg/kg/die e.v.) associata a flucitosina (100-150 mg/kg/die) per almeno 6 settimane, oppure fluconazolo (800 mg/die). La terapia di mantenimento, da proseguire indefinitamente perchè le recidive sono la regola, è costituita da amfotericina-B (1 mg/kg/sett. e.v.) o da fluconazolo (400 mg/die). TUBERCOLOSI E SIFILIDE Entrambe complicano frequentemente il decorso dell’AIDS. TUBERCOLOSI. – È quasi sempre una riattivazione e colpisce in forma disseminata circa il 2% dei casi con infezione da HIV. Una grave disseminazione si può manifestare in qualunque stadio, anche precoce, ed i soggetti originariamente positivi all’intradermoreazione alla PPD (Protein Purified Derivative) sono a rischio assai più elevato. Pertanto l’intradermoreazione alla PPD andrebbe eseguita in tutti i casi appena riconosciuti HIV-sieropositivi, sia per identificare precocemente i candidati alla profilassi isoniazidica, sia perché nell’ AIDS conclamata il test cutaneo si negativizza, anche nel corso di una grave infezione micobatterica. Disporre del dato anamnestico di una pregressa PPD-positività può pertanto, in taluni casi, orientare correttamente la diagnosi. La sintomatologia neurologica è quasi sempre meningitica, con il classico quadro liquorale (ipercitosi linfocitica, iperproteinorrachia, ipoglicorrachia). L’isolamento del micobatterio dal liquor conferma la diagnosi ma l’esame colturale comporta lunghe attese. Qualora non si possa disporre di un test mediante PCR, assai più rapido, è giustificato nei casi sospetti iniziare senza indugio la terapia antimicobatterica (v. pag. 000) anche perché il decorso della menin-
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gite tubercolare, come quello di tutte le altre infezioni opportunistiche, spesso è particolarmente sfavorevole nei casi di AIDS. SIFILIDE – Esiste una forte associazione epidemiologica tra questa infezione e quella da virus HIV, soprattutto tra gli omosessuali e i tossicodipendenti. Tutti i soggetti con recente infezione luetica dovrebbero essere testati anche per l’infezione da HIV e viceversa. Peraltro non va dimenticato che almeno il 25% dei casi HIVsieropositivi con neurolue sono VDRL-negativi su liquor e sangue, e anche i tests sierologici più specifici (FTA-ABS, TPHA) possono fornire risultati falsamente negativi (o anche falsamente positivi), in soggetti con importante disregolazione immunitaria. La condizione di immunodepressione rende più rapida e virulenta l’infezione del sistema nervoso da parte del treponema, così che sintomi di neurolue del periodo terziario possono comparire dopo pochi anni dall’infezione primaria. Tutti i quadri clinici della neurolue possono essere osservati: meningite, paralisi di nervi cranici (soprattutto III e VII), tabe, paralisi progressiva (v. pag.YYY). Data la complessiva rarità di malattia cerebrovascolare in corso di AIDS, la comparsa di ictus ischemici o emorragici deve sempre far sospettare la coesistenza di neurolue, in cui la vasculite cerebrale è piuttosto frequente. La terapia si basa sulla somministrazione di penicillina G per via endovenosa ad alto dosaggio (v. pag.YYY).
Tumori Linfoma Primitivo È raro nel sistema nervoso e colpisce prevalentemente i soggetti immunodepressi; nei casi con infezione da HIV è dieci volte più frequente rispetto ad altre condizioni di immunode-
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pressione e compare circa nel 2% dei soggetti con AIDS. Ha sede parenchimale, e infiltra solo raramente le meningi. Ciò lo distingue dal linfoma sistemico non-Hodgkin a cellule B, esso pure non raro nell’AIDS, che in circa in 1/3 dei casi causa meningite linfomatosa o infiltra le meningi spinali causando “blocchi” midollari. Nel linfoma primitivo del sistema nervoso degli immunodepressi (e quindi anche dell’AIDS) si ipotizza un ruolo patogenetico per il virus di Epstein-Barr (EBV). EBV, in vitro, infetta elettivamente i linfociti B trasformandoli e dando origine a linee perenni; in vivo è probabilmente responsabile della trasformazione neoplastica di tali cellule (Evans et al., 1991).
Benché più frequentemente unico, il linfoma primitivo può essere multicentrico, con lesioni nella sostanza bianca encefalica, cerebellare o troncale. La sintomatologia focale è spesso mascherata dalle manifestazioni di un importante edema cerebrale, con ipertensione endocranica e compromissione dello stato di coscienza, fino al coma. Le neuroimmagini dimostrano una lesione per lo più singola, con rilevante effetto massa e vasto edema di contorno, che assume contrasto con aspetto ad anello o ipercaptazione diffusa. La diagnosi differenziale rispetto alle lesioni da toxoplasma può essere ardua. L’assenza di risposta clinica e radiologica alla terapia antitoxoplasmica viene considerata indicazione alla biopsia cerebrale. L’aspetto neuropatologico è caratterizzato da voluminose lesioni della sostanza bianca a disposizione perivascolare. Il trattamento steroideo dell’edema cerebrale determina solo un transitorio beneficio. Complessivamente la prognosi del linfoma cerebrale primitivo in corso di AIDS è negativa. La sopravvivenza media, dopo la diagnosi, è pari a circa 2 mesi, anche se il tumore dimostra un certo grado di radiosensibilità. Non esistono prospettive chirurgiche.
Manifestazioni neurologiche dell’AIDS in età pediatrica Nel bambino l’infezione da HIV è piuttosto frequente. Dal 15 al 40% dei figli di madri HIVsieropositive sono infettati e la trasmissione transplacentare è causa dell’80% dell’AIDS pediatrico. Non esistono criteri clinici, durante la gravidanza o alla nascita, che consentano di identificare precocemente i bambini colpiti. Il rischio di trasmissione diretta può venire drammaticamente ridotto (dal 26 all’8%) trattando intensivamente con Zidovudina la madre -in gravidanza e durante il travaglio- ed il neonato, durante le prime 6 settimane di vita (Connor et al., 1994). Solo il 25% dei bambini infettati avrà uno sviluppo neuropsichico normale; un altro 25% presenta un’encefalopatia stabilizzata, da complicanze natali o perinatali, mentre il restante 50% è affetto da un’encefalopatia progressiva, simile a quella che sottende l’AIDS-demenza dell’adulto. L’età media di esordio è 18 mesi, ma sono stati descritti casi con esordio dopo il 5° anno di vita. ENCEFALOPATIA PROGRESSIVA Debutta generalmente in modo graduale con arresto e successiva regressione delle acquisizioni psicomotorie, ed evolve fino alla completa demenza con tetraplegia spastica, rigidità extrapiramidale diffusa, epilessia. In assenza di trattamento il decesso avviene entro un anno dall’esordio. La TC dimostra un’atrofia cerebrale diffusa con calcificazioni nella sostanza bianca e nei nuclei della base che, in successivi controlli, aumentano di estensione. L’esame citochimico del liquor può essere normale, ma è frequente il riscontro di alti livelli di RNA retrovirale. L’esame neuropatologico dimostra demielinizzazione della sostanza bianca emisferica, con cellule giganti multinucleate nel 70-80% dei casi; l’associazione con la mielopatia vacuolare è rara. La mineralizzazione dei vasellini della sostanza bianca frontale e dei nuclei della base, che si riscontra nell’80-90% dei casi (corrispondente alle calcificazioni visibili alla TC), è un reperto caratteristico dell’encefalopatia progressiva.
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INFEZIONI OPPORTUNISTICHE
Zidovudine Treatment New Engl. J. Med., 331, 11731180, 1994.
Sono rare nell’AIDS pediatrico a parte quella da Citomegalovirus, presente nell’encefalo del 20% dei casi. Ciò si spiega col fatto che le infezioni opportunistiche sono reinfezioni, che non hanno il tempo di manifestarsi nel bambino
DREYER E.B. ET AL.: HIV-1 coat protein neurotoxicity prevented by calcium channel antagonists. Science 248, 364-367, 1990.
LINFOMA PRIMITIVO È più frequente rispetto all’adulto, e colpisce il 3% dei bambini affetti da AIDS. La sierologia per infezione da HIV nei bambini fornisce risultati di significato incerto e non validi per una diagnosi. Infatti, i figli di donne sieropositive sono comunque HIV-sieropositivi alla nascita a causa del passaggio transplacentare di anticorpi materni di classe IgG. La totale rimozione dal circolo degli anticorpi di origine materna richiede tempo, e solo dopo 18 mesi il persistere di sieropositività può essere considerato un indice sicuro di infezione del bambino. L’antigene virale p-24, al contrario, non attraversa la placenta e perciò il suo riscontro indica con ragionevole certezza che il bambino è stato infettato; non si può peraltro escludere una falsa negatività, se l’antigene p-24 nel sangue del bambino non fosse in eccesso rispetto agli anticorpi di origine materna. Così come nell’adulto, anche nel bambino la dimostrazione nei fluidi biologici di materiale genetico dell’HIV mediante PCR consente la diagnosi certa ed il monitoraggio evolutivo dell’infezione. La terapia è basata sulla HAART secondo schemi posologici adattati all’età e al peso.
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Traumi
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21. Traumi Traumi dell’encefalo A. Seitun
I traumi encefalici sono responsabili di almeno la metà dei decessi causati da ogni tipo di trauma, ed oltre a causare morte, spesso sono nei sopravvissuti responsabili di invalidità gravi e persistenti (Kraus, 1993; Finfer e Cohen, 2001). L’incidenza annua dei traumi cranici nei vari continenti varia da 67 a 317 per 100.000 abitanti, ed è proporzionalmente più alta nei Paesi industrializzati e motorizzati, ove rappresenta la maggior causa di mortalità e disabilità nelle persone con meno di 40 anni, specie maschi (3:1) (Basso et al., 2001). La prevalenza di esiti invalidanti da trauma cranico oscilla tra i 30 e 40 per 100.000 abitanti, mentre la mortalità riferibile ai traumi cranici o alle loro conseguenze comprende il 5% circa di tutti i decessi. I costi umani e socio-economici connessi alla patologia traumatica del SNC giustificano ampiamente lo studio di normative di sicurezza sempre più efficienti per ridurre frequenza e gravità degli incidenti stradali, occupazionali e sportivi. In Italia, attualmente, mancano stime epidemiologiche accurate del ricorso all’osservazione medica o al breve ricovero per trauma cranico minore, almeno per le principali sedi abitative. È comunque un dato di fatto che la stragrande maggioranza delle osservazioni neurotraumatologiche d’urgenza o di Pronto Soccorso riguarda traumi del capo molto lievi o insignificanti sul piano neurologico, nei quali tuttavia si tende spesso ad adottare la stessa prassi diagnostica dei traumi più importanti in mancanza di metodi realmente predittivi del rischio posttraumatico.
I traumi cranio-encefalici sono danni funzionali o strutturali del SNC causati da forze fisiche meccaniche (dal greco "trauma" = lesione, ferita). Si distinguono in aperti e chiusi in rapporto alla presenza o meno di una comunicazione fra spazi liquorali e l’esterno.
I traumi aperti, o da lesioni penetranti per urto di oggetti acuminati, sono contraddistinti da uno sfondamento più o meno circoscritto dell’epicranio, del cranio e della dura madre (da proiettile, da taglio, da esplosione, da schiacciamento). Comportano distruzione parenchimale massiva, infossamento di scheggie ossee e tessuti epicranici nell’encefalo, lacerazioni meningo-vascolari con emorragie e liquorrea, edema perilesionale massivo ed elevato rischio di complicanze infettive. Nel caso più tipico delle ferite penetranti da proiettile, la mortalità globale raggiunge l’88%, e sale al 94% quando si associa un coma profondo; la sopravvivenza comporta quasi sempre gravi esiti permanenti che incidono pesantemente sulla qualità della vita (Aldrich et al., 1992). L’argomento in questa sede non verrà trattato, poiché riguarda solo una minima parte dei traumi cranio-cerebrali che occorrono nella vita civile e costituisce oggetto di interesse traumatologico e neurochirurgico. I traumi chiusi, o eventi lesivi non penetranti, non di rado comportano lesioni cranio-facciali o epicraniche associate (ferite abrase o lacero-contuse, ematomi epicranici) e fratture craniche molto spesso prive di dislocazioni ossee. Il danno encefalico nei traumi cranici chiusi varia notevolmente da caso a caso, da lievi disturbi funzionali rapidamente reversibili fino al coma incompatibile con la sopravvivenza. PREMESSE FISICHE La patologia traumatica dell’encefalo dipende in massima parte da forze meccaniche d’urto e da forze di
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dislocazione in accelerazione/decelerazione (lineari, angolari, miste) che coinvolgono il complesso craniocervicale ed agiscono sul parenchima ed i suoi annessi (meningi, vasi, nervi e radici) secondo vari meccanismi lesivi. Secondo la meccanica newtoniana classica, i fenomeni fisici che accompagnano l’urto di due corpi, o comunque il trasferimento di energia cinetica dall’uno all’altro, sono grandemente complicati dal fatto che, in realtà, quasi sempre i corpi che entrano in collisione si deformano per la comparsa di forze elastiche e di forze d’attrito, e diventano sede di oscillazioni capaci di causare anche modificazioni della struttura molecolare (Sivuchin, 1985). Nei traumi cranici il trasferimento e la dissipazione di energia cinetica avvengono sempre in modo complesso, per l’occorrenza di innumerevoli fattori interagenti fra loro, e qui di seguito brevemente illustrati. a) Spostamento dell’encefalo rispetto al cranio. L’encefalo, avvolto dal liquor subaracnoideo, è suscettibile di spostamenti rispetto al cranio in seguito ad urto. Si possono considerare due possibilità: il cranio in movimento urta un ostacolo fermo; il cranio immobile viene urtato da un oggetto dotato di massa, velocità ed adeguata superficie d’impatto sufficienti a trasmettergli energia cinetica e movimento. Sia che il cranio urti un oggetto fermo o un oggetto colpisca il cranio, l’encefalo subisce, per inerzia, una brusca dislocazione rispetto alla teca, avvicinandosi ad essa nel punto d’impatto ed allontanandosi nel punto diametralmente opposto. Nel punto d’impatto si vengono a creare forti pressioni positive che solo in modesta misura possono essere compensate dallo spostamento di liquor, e che causano il cosiddetto "danno da colpo". All’estremità diametralmente opposta, si formano invece pressioni negative che sono responsabili del cosiddetto "danno da contraccolpo". b) Deformazioni elastiche del cranio. - L’elevata e ben nota deformabilità del cranio alla nascita e nei primi anni di vita si riduce progressivamente con il saldarsi definitivo delle suture. Nell’adulto, tuttavia, le ossa della convessità conservano una certa elasticità, per cui possono inflettersi transitoriamente sotto urto fino a comprimere e danneggiare la corteccia sottostante, anche in assenza di frattura; tale evenienza occorre, ad esempio, quando il capo immobile e ben appoggiato ad una parete viene urtato da un oggetto contundente. In questo caso, essendo il trasferimento di energia limitato ai tessuti epicranici ed alla teca, è l’inflessione ossea (o lo sfondamento) ad essere responsabile di un isolato "danno da colpo". Questo meccanismo può ovviamente occorrere anche quando il capo non è appoggiato ed è libero di muoversi, ma, in questo caso, parte più o meno rilevante dell’energia
cinetica è trasferita al capo causandone spostamento, con le possibili conseguenze del danno da contraccolpo descritte sopra. c) Rotazione dell’encefalo. - Il vettore e la direzione della forza d’urto sono o rimangono lineari solo in speciali ed infrequenti circostanze. Di fatto, nell’urto del capo o meglio del corpo contro un oggetto fermo o viceversa, l’ancoraggio elastico del cranio al corpo tramite la cerniera atlo-occipitale ed il tratto cervicale trasforma con molta facilità un vettore lineare di spostamento in una serie di complessi vettori misti, con il risultato di una dislocazione flesso-estensoria o rotatoria del cranio rispetto alla colonna ed al corpo. Questa situazione, che è di gran lunga la più comune, comporta una dislocazione angolare-rotatoria del cervello rispetto al cranio, non omogenea e limitata alle porzioni encefaliche più dislocabili. Si possono quindi verificare spostamenti di un emisfero rispetto ad un altro con trazione sul corpo calloso, o del cervelletto rispetto ai suoi peduncoli, o del telediencefalo rispetto al tronco encefalico: la forza traumatica, in questi casi si esercita non solo sulle strutture di connessione dell’encefalo al cranio (meningi, vasi, nervi), ma anche e soprattutto sulle strutture di connessione interna (fasci assonali, vasi). d) Caratteristiche anatomiche della cavità cranica. - La vulnerabilità meccanica dell’encefalo varia notevolmente da regione a regione, in rapporto all’estensione ed alle caratteristiche della superficie endocranica d’impatto. Nell’urto del capo contro un ostacolo fermo, la liscia superficie interna della convessità offre alla corteccia sottostante un appoggio omogeneo capace di distribuire l’impatto su una vasta superficie, con riduzione globale dell’effetto lesivo. Le superfici fortemente irregolari della fossa cranica anteriore e media, specie in corrispondenza dei numerosi promontori e salienze ossee, costituiscono invece un punto d’impatto sfavorevole per il parenchima sovrastante, ed agiscono contemporaneamente da rigido fulcro di trazione per i nervi che vi decorrono. Ciò spiega la preferenziale o esclusiva predilezione del danno contusivo per la corteccia frontotemporo-basale e per alcuni nervi cranici, specie il VI, indipendentemente dalla direzione della forza d’urto applicata al capo. e) Effetti da onda d’urto. - L’ipotesi prevede che nell’impatto del capo la sollecitazione meccanica dell’osso generi anche vibrazioni ad alta frequenza che si propagano all’encefalo attraverso liquor e tessuti di sostegno raggiungendo la massima intensità nelle zone di baricentro ("zona di vulnerabilità costante"). Una dissipazione di energia avverrebbe, quindi, in corrispondenza delle componenti parenchimali dotate di maggiore inerzia, ad esempio all’interno della cellula, in corrispondenza delle transizioni fisico-chimiche dei suoi costituenti (cito-
Traumi plasma, citoscheletro, ecc.). Tale ipotesi viene ulteriormente considerata in rapporto alla patogenesi del danno contusivo.
PATOGENESI Danno commotivo. - È tradizionalmente considerato di natura funzionale, con disturbi transitori rapidamente reversibili. Insorge in seguito a traumi cranici minori e caratterizza la sindrome da commozione cerebrale, la cui classica manifestazione è rappresentata da una perdita della coscienza di pochi minuti (v. pag. 000). La genesi del fenomeno è stata in passato oggetto di molte congetture, di cui la più nota postulava un’immediata ma reversibile modificazione della struttura protoplasmatica e quindi dello stato fisico-chimico della cellula ("tixotropia" di Hallervorden, 1957). Solo negli anni ’90 un selettivo metodo soppressivo all’argento (Gallyas et al., 1992-1994) ha permesso di documentare che anche modesti traumi meccanici da dislocazione o concussione, di per sé incapaci di causare alterazioni macrostrutturali, possono indurre alterazioni della struttura molecolare del citoscheletro neuronale altrimenti invisibili. Se il trauma si limita a colpire i dendriti più distali, essi manifestano immediatamente retrazione spiraliforme ed aumentata argirofilia, peraltro reversibile nel giro di 24 ore. Se il trauma coinvolge anche i dendriti principali o il soma neuronale, il fenomeno si estende all’intero pericario dando alla cellula l’aspetto di "neurone collassato", destinato ad andare incontro ad un processo di necrobiosi istologicamente osservabile solo dopo 2-4 giorni, ed anche gli assoni possono esibire risposte analoghe. Quanto la sintomatologia commotiva possa, o debba, riferirsi a queste alterazioni citoscheletriche reversibili non è chiaro, data anche l’impossibilità di documentare l’evoluzione del fenomeno "in vivo". Un’altra possibile causa potrebbe essere rappresentata dell’occorrenza di una depressione funzionale traumatica del tessuto nervoso a tipo "spreading depression" di Leão (Somjen, 1987). Si tratta di un fenomeno inducibile in corteccia mediante stimolazioni elettriche, chimiche ed anche meccaniche, caratterizzato da un iniziale epicentro elettronegativo ove i gradienti extracellulari di [K+]e e di [Na+]e - [Cl-]e s’invertono, e simultaneamente si assiste ad un massivo ingresso gliale di Ca2+ con diffusione via "gap junctions" alle cellule gliali ed anche neuronali circostanti. Si configura così un’onda negativa di blocco funzionale con lenta diffusione radiale (3,7 mm·min-1) e con margini caratterizzati da transitoria attivazione dei neuroni reclutati nel processo. Quest’ultimo può invadere anche ampie zone della corteccia, o rimanere spazialmente confinato ed estinguersi nella transizione in zone di tessuto fortemente anisotropiche. Il pro-
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cesso dura al massimo decine di minuti, non sembra associarsi a reliquati strutturali, ed è seguito da un progressivo recupero funzionale dal centro alla periferia (Martins-Ferreira et al., 2000) (v. pag. 000). La brusca perdita del tono muscolare suggerisce il coinvolgimento traumatico di strutture colinergiche ponto-mesencefaliche (nucleo peduncolopontino tegmentale) e nuclei reticolari pontini (caudali e rostrali) coinvolti anche nella fenomenologia spinale del sonno REM, ed in particolare nell’inibizione attiva dei motoneuroni spinali, che sperimentalmente può essere riprodotta applicando carbacolo negli stessi nuclei. Lo scetticismo di alcuni Autori (Victor, 2001) sull’importanza della "spreading depression" nella genesi dei fenomeni commotivi può anche essere giustificato, almeno finché non si avranno nell’uomo conferme simili a quelle ottenute nell’aura visiva emicranica (Hadjikhani et al. 2001). Danno contusivo. - Si configura tipicamente come una lesione "a cuneo" con base estesa sulla superficie della corteccia cerebrale ed apice che raggiunge la sostanza bianca sottocorticale. In essa si osservano lacerazioni superficiali ed aree necrotiche con edema focale e perifocale, dilatazione e rottura dei piccoli vasi con soffusioni emorragiche diffuse e di tipo petecchiale ed importante edema lesionale e perilesionale. La risposta microglialemacrofagica e la risposta riparativa astrocitaria diventano evidenti già dopo 24-48 ore, comportando la progressiva formazione di una cicatrice gliale estesa alle meningi, ricca di pigmenti ematici e depositi di ferro, particolarmente suscettibile di evoluzione epilettogena. A seconda delle dimensioni e della sede, la lesione contusiva corticale può rimanere asintomatica, oppure manifestarsi attraverso la comparsa di segni deficitari o irritativi focali non solo nelle fasi acute, ma anche a distanza di tempo. Nel caso più frequente di un impatto del capo contro un ostacolo viene preferenzialmente lesa la corteccia frontopolare ed orbitaria e la corteccia temporale polare e basale, sia per danno da colpo (urto frontale) che da contraccolpo (urto occipitale). Motivi anatomici spiegano il danno preferenziale di queste aree ed il frequente risparmio di quelle diametralmente opposte occipitali o parietali. Sulla convessità, è più facile invece osservare un danno da colpo circoscritto per l’impatto di oggetti contundenti sul capo. Un danno contusivo può talora manifestarsi anche nelle aree sottocorticali maggiormente sottoposte a forti dislocazioni torsionali, quali area subtalamica e passaggio mesencefalodiencefalico. La rottura di arteriole principali connessa a lesioni penetranti complica il danno emorragico con un danno ischemico secondario a vasospasmo.
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Danno assonale diffuso. - È causato dall’abnorme trazione che le proiezioni assoniche subiscono per le inevitabili dislocazioni angolari-rotatorie di un emisfero rispetto all’altro, o degli emisferi e del diencefalo rispetto al tronco. Può dipendere da una vera e propria assonotmesi, o manifestarsi anche senza rottura dell’assolemma. L’occorrenza di un danno assonale diffuso da assonotmesi è stata inizialmente dimostrata mediante metodi istochimici soppressivi all’argento (Nauta, FinkHeimer), sotto forma di tipica degenerazione walleriana distale, e retrazione globosa dell’estremità del moncone prossimale, probabilmente a carattere rigenerativo, causata dall’accumulo di componenti citoscheletrici e citoplasmatici argirofili trasportati per via ortodromica (Oppenheimer, 1968; Jane et al., 1985). Tale tipo di danno grave, comportante una certa quota di edema e più evidente nel fornice, nel corpo calloso, nella sostanza bianca sotto-corticale e nel tronco encefalico (Ommaya e Gennarelli, 1974), può essere dimostrato anche mediante RM T2 pesata. L’assotomia traumatica, causa di disconnessione anatomo-funzionale fra strutture lontane, non necessariamente è seguita da una degenerazione più o meno rapida del soma: infatti, non pochi neuroni assotomizzati anche a breve distanza dal pericario tendono a manifestare risposte a chiaro significato riparativo o rigenerativo (Singleton et al., 2002). Più recenti tecniche isto o immunocitochimiche hanno permesso di documentare indirettamente l’esistenza di un danno assonale non assonotmesico visualizzando l’accumulo di normali componenti assoplasmatici trasportati per via ortodromica, quali glicogeno (Maxwell et al., 1990) e proteina pre-βamiloide A4 (β-APP) (Blumbergs et al., 1994). È stato così possibile dimostrare per la prima volta l’occorrenza di una sofferenza assonale anche in casi di commozione cerebrale con perdita di coscienza inferiore al minuto (Blumbergs et al., 1994), ed inoltre, a differenza di quanto era noto, una preminente compromissione delle vie visive lungo l’intero loro decorso, specie in corrispondenza delle radiazioni ottiche a livello del trigono (Perunovic et al., 2001). Questo tipo di danno sembra causato dalla cascata: massivo ingresso di Ca2+→ danno mitocondriale con rilascio di citocromo-C → attivazione di serino-proteasi (caspasi-3, calpaina) → lisi dei legami spectrina-dipendenti fra citoscheletro ed assolemma → collasso assonale (Buki et al., 2000). Edema cerebrale. - È la più temibile conseguenza di ogni trauma cranico di una certa importanza, ove insorge anche in assenza di lesioni destruenti, assumendo l’aspetto di edema vasogenico, ed in caso di danno parenchimale da ferite penetranti o da lacerazione o contusione cerebrale, di edema misto, vasogenico e citotossico (v. pag. 000). Ciò comporta la diffusione di acqua, sali e macrosoluti plasmatici sia negli spazi interstiziali
del parenchima, sia all’interno delle cellule gliali e nervose, come sperimentalmente è stato dimostrato mediante infusioni di perossidasi (HRP) (Povlishock, 1979, 1985). La componente intracellulare dell’edema può essere spiegata dall’interazione di eventi di membrana (a carattere neuroeccitotossico) con eventi intracellulari, in particolare mitocondriali, che comportano un più o meno rapido declino del metabolismo ossidativo e fosforilativo mitocondriale: Nelle lesioni contusive da trauma cranico chiuso, la componente edematosa lesionale e perilesionale è già apprezzabile poco dopo il trauma ed aumenta nelle ore successive fino a dominare il quadro neuroradiologico. La progressione dell’edema appare una delle principali cause del peggioramento clinico - o anche del decorso difasico - che fa seguito ai danni contusivi più gravi, ove la frequente insorgenza di una grave ipertensione intracranica richiede provvedimenti d’emergenza in ambiente appropriato (Reparti di Anestesiologia e Rianimazione). Lesioni di vasi intracranici ed emorragie. - Le lesioni vascolari che accompagnano i traumi cranici aperti causano emorragie epi- ed intracraniche con caratteristiche generalmente assai complesse e variabili da caso a caso, che esulano dalla presente trattazione. Le emorragie arteriose o venose da traumi cranici chiusi, a seconda del tipo di vaso e della sede di lesione, assumono invece aspetti abbastanza stereotipati. Ematoma epidurale. - È una raccolta ematica a falda che si insinua progressivamente nello spazio virtuale compreso fra la lamina interna della teca cranica e la superficie esterna della dura madre, invadendo le porzioni in cui essa è più debolmente adesa all’osso ("zona scollabile di Marchant"). Poiché l’adesione della dura madre alla teca è assai maggiore nell’infanzia e nell’età avanzata, in tali fasce d’età l’occorrenza di ematoma epidurale è piuttosto rara. L’ematoma è causato dal sanguinamento di rami arteriosi meningei, che nel loro decorso lungo i solchi del tavolato interno possono essere facilmente lesi in rapporto a fratture, per dislocazione di frammenti o anche solo per modesta scomposizione della rima di frattura. Nelle localizzazioni al vertice o paracentrali bilaterali, il sanguinamento può riguardare il seno longitudinale superiore o la porzione terminale delle vene cerebrali che vi s’immettono; analogamente, le localizzazioni in fossa cranica posteriore, dipendono dal sanguinamento del torculare di Erofilo. Nelle forme acute sottoposte ad intervento o ad esito infausto per la loro rapidità di comparsa ed estensione, l’ematoma rimane costituito da una raccolta ematica liquida. Nelle forme subacute e di minor gravità, la raccolta va incontro a coagulazione, e qualora non svuotata, a successiva organizzazione del coagulo.
Traumi Ematoma subdurale. - È una raccolta ematica più o meno coagulata ed organizzata che si forma nello spazio virtuale compreso fra superficie interna della dura madre e foglietto esterno della membrana aracnoidea in seguito a lacerazione di vene o seni cerebrali. La lacerazione venosa occorre quando brusche dislocazioni angolari-rotatorie dell’encefalo rispetto alla teca determinano un’abnorme trazione delle vene cerebrali della convessità, che pur essendo ben ancorate a corteccia cerebrale e teca attraverso il seno longitudinale superiore, sono particolarmente fragili nel breve tratto subaracnoideo ove sono prive di tessuti di sostegno (vene a ponte). La conseguente emorragia venosa può assumere l’aspetto di un sanguinamento venoso massivo (ematoma subdurale acuto) che tende ad ingrandirsi, o di un modesto stillicidio (ematoma subdurale subacuto e cronico), più suscettibile del primo ad arrestarsi per auto-tamponamento. In questo caso, col tempo, la raccolta tende a coagulare e ad organizzarsi parzialmente, a causa della proliferazione di un panno granulomatoso a partenza dalla superficie interna della dura madre. La fragilità vascolare del tessuto granulomatoso neoformato è causa predisponente di nuovi stillicidi ematici spontanei o traumatici, responsabili della progressiva espansione dell’ematoma. Fattori predisponenti preesistenti al trauma o talvolta anche determinanti in assenza di trauma sono varie emo- e piastrinopatie e sindromi da aumentata fragilità capillare, i trattamenti anticoagulanti, la sifilide meningo-vascolare, l’età avanzata e l’alcoolismo cronico. In queste due ultime condizioni è possibile che traumi cranici anche rilevanti possano passare inosservati o rimanere taciuti per la coesistenza di disturbi della memoria a breve termine o per turbe confusionali. Nelle forme croniche asintomatiche, l’ematoma subdurale può acquistare dopo molto tempo l’aspetto di un igroma contenente liquido xantocromico similliquorale. Lacerazioni di seni cerebrali, infine, possono essere causate dagli stessi meccanismi responsabili delle lacerazioni arteriose, quali le fratture. Emorragia subaracnoidea. - Nella contusione cerebrale e nell’ematoma subdurale il liquor può risultare normale o solo lievemente ematico o xantrocromico. Nei traumi cranici aperti o da ferita penetrante, nelle rotture parietali traumatiche di aneurismi o malformazioni vascolari preesistenti (aneurismi arterovenosi, cavernoma) e nell’emorragia cerebro-meningea a genesi traumatica il liquor è francamente ematico, con tasso eritrocitario molto elevato (fino a 100.000 G.R.· ml-1). Ematoma intracerebrale. - È una raccolta ematica circoscritta alla sostanza bianca sottocorticale, causata da rottura di vasi arteriosi o venosi.
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Le raccolte di maggior volume si localizzano in ordine di frequenza in regione temporale, frontale, parietale, occipitale e cerebellare, mentre quelle più modeste nei gangli della base, nella capsula interna, nel diencefalo, nel corpo calloso e nel tronco encefalico. Quando l’ematoma ha sede non corrispondente alla zona di impatto, si localizza solitamente lungo la direttrice della forza d’urto. Le dimensioni del versamento dipendono dal calibro del vaso arterioso o venoso leso, ed il volume varia da qualche mm3 (ematomi miliari dei gangli della base e troncoencefalici) a qualche decina di cm3 (ematomi massivi a localizzazione emisferica) e la forma è in genere rotondeggiante o irregolarmente globosa. Il parenchima cerebrale abitualmente non viene distrutto, ma semplicemente infiltrato e compresso dalla raccolta ematica. Emorragie intracerebrali possono svilupparsi anche a distanza di mesi o anni da un trauma cranico (ematoma intracerebrale tardivo). In questi casi si presuppone la rottura di piccoli aneurismi arteriosi fusiformi acquisiti, ma appare impossibile stabilire se tali aneurismi si siano formati per danno traumatico o per patologia arteriosclerotica. È possibile supporre che le lesioni arteriosclerotiche, causa rigidità e fragilità vasale, siano più facilmente suscettibili di danno meccanico, specie in concomitanza di discrasie ematiche e coagulopatie. Il trauma, peggiorando una situazione preesistente, agirebbe come fattore concausale. Emorragie cerebrali puntiformi. - Si riscontrano sia nelle lesioni contusive corticali, sia a livello sottocorticale, nelle stesse sedi ove si manifesta danno assonale diffuso, o a livello mesencefalo-pontino, ove rappresentano una comune complicanza dell’edema cerebrale grave con incuneamento transtentoriale del lobo temporale. Lesione dei nn. cranici. - Insorgono immediatamente dopo il trauma, con maggior frequenza in seguito a fratture della base cranica, o per abnormi trazioni causate da brusche dislocazioni dell’encefalo. Il nervo olfattivo è colpito con maggior frequenza, uni- o bilateralmente, per la grande facilità con cui le sue esili diramazioni che attraversano la lamina cribrosa dell’etmoide possono essere strappate per fratture etmosfenoidali o dislocazioni fronto-temporali. Anche il nervo ottico può essere leso per fratture in fossa cranica anteriore-media, nel suo passaggio attraverso il forame ottico o nel successivo decorso fino al chiasma. Fra i nervi oculomotori, il VI è più facilmente coinvolto a livello dell’angolo sfenoidale sul quale s’appoggia prima di entrare nel seno cavernoso; seguono in ordine il III e IV nervo. Le fratture orbitali e del massiccio facciale possono provocare deficit sensitivi per compromissione dei rami periferici del V nervo, specie della branca oftalmica; lo
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stesso vale per i rami periferici del VII nervo. Il tronco del VII ed VIII nervo sono frequentemente lesi nel decorso intraosseo nel caso di fratture della rocca petrosa. Tali fratture possono causare anche lesioni dell’orecchio interno e fistole endolinfatiche. Dislocazioni otolitiche traumatiche possono peraltro verificarsi anche in mancanza di frattura e di vere e proprie lesioni vestibolari, simulando un danno utricolo-sacculare. Gli ultimi nervi cranici (IX-X-XI e XII), infine, risultano spesso coinvolti nelle fratture della fossa cranica posteriore estese fino al forame lacero e possono anche essere danneggiati direttamente al collo. Nel caso dei nervi oculomotori, specie III e VI, la comparsa di un deficit a distanza di tempo dal trauma deve sempre far sospettare un danno secondario compressivo da edema cerebrale con incuneamento temporale transtentoriale. Fistola carotido-cavernosa. - Causata da fratture della base che determinano lacerazione dell’arteria carotide interna o di piccoli vasi carotido-meningei all’interno del seno cavernoso, si manifesta acutamente con un quadro di esoftalmo unilaterale pulsante, chemosi congiuntivale ed oftalmoplegia globale del tutto sovrapponibile a quello che insorge spontaneamente per trombosi del seno cavernoso (v. pag. 000). Igromi. - L’aracnoide può essere lesa non solo per trauma cranico, ma anche per eccessiva trazione da penetrazione di aria o da collasso delle cavità ventricolari. Una possibile conseguenza è la formazione di raccolte subdurali di liquor, talora xantocromico, definite igromi. La loro genesi è attribuita ad una lacerazione della membrana esterna dell’aracnoide che, agendo come una valvola unidirezionale, permette l’ingresso ma non la fuoriuscita di liquor nello spazio virtuale subdurale. Tali raccolte possono raggiungere con il tempo anche dimensioni ragguardevoli ed esercitare un effetto massa, ma anche rimanere a lungo asintomatiche, oppure causare manifestazioni irritative o deficitarie da compressione. Idrocefalo. - Può rappresentare il principale esito di traumi contusivi corticali, manifestandosi subdolamente a distanza di qualche settimana o anche di mesi dal trauma, con gli aspetti clinici di un idrocefalo normoteso secondario.
SINTOMATOLOGIA Dal punto di vista strettamente neurologico, un trauma cranico può rimanere asintomatico oppure causare una grande varietà di quadri cli-
nici più o meno gravi caratterizzati da alterazioni della coscienza e da sintomi o segni neurologici associati, la cui classificazione è ancor oggi in gran parte basata sull’equazione: gravità del danno cerebrale = durata del disturbo di coscienza. Da ciò è nata la tradizionale distinzione anglosassone fra traumi cranici maggiori, con disturbo di coscienza superiore a 24 ore, di competenza neurochirurgica o anestesiologicorianimativa e con esito spesso grave o infausto, e traumi cranici minori, con disturbo di coscienza inferiore a 24 ore o assente, e con manifestazioni assai meno gravi o a carattere transitorio. Numerose evidenze hanno dimostrato che questa dicotomia è inesatta, anche in versioni più restrittive (ad es. durata < 15 minuti = gravità lieve, < 1 ora = gravità media, > 1 ora = gravità severa, Berlit, 1992), poiché una vasta gamma di situazioni intermedie eterogenee si trova ad essere così accomunata nella categoria dei traumi cranici minori. Il trauma cranico minore appare oggi un’entità sempre più elusiva ed ingannevole (Tellier et al., 1999; Wrightson, 2000). Traumi cranici minori, con disturbo di coscienza lieve o assente (traumi insignificanti o addirittura inapparenti, come nel caso di un’onda d’urto per esplosione) possono infatti comportare un rischio non irrilevante di complicazioni anche gravi (Culotta et al. 1996; Hsiang et al., 1997). Ciò è dovuto al fatto che la scala Glasgow del coma (v. pag. 000), di indubbia utilità nei traumi cranici maggiori, raggiunge o sfiora il valore di normalità nei traumi cranici lievi (punteggio massimo 15 = coscienza conservata), mascherando così quelle situazioni a rischio che nel giro di qualche ora possono trasformare in maggiore un trauma cranico minore. Per tale motivo, sono stati affiancati alla scala GCS i parametri prognostici rivelatisi concretamente più utili, in particolare la presenza o meno di fattori di rischio, di sintomi e segni
Traumi
neurologici associati e di alterazioni nelle neuroimmagini strutturali dell’encefalo (TC, RM).
Traumi cranici minori Commozione cerebrale Il termine, corrispondente a "concussion" nella letteratura anglosassone, indica letteralmente un brusco scuotimento o sballottamento del cervello con immediata alterazione della coscienza perdurante di solito pochi minuti (15’), ed in senso traslato, lo stesso disturbo di coscienza derivato dal trauma. Il carattere transitorio e reversibile del disturbo di coscienza e l’assenza di lesioni strutturali encefaliche permettono di assimilare la commozione cerebrale alla neuroaprassia del nervo periferico (v. pag. 000), in cui la piena ripresa funzionale avviene gradualmente nel giro di pochi minuti - ore. Per definizione, mancano alterazioni del SNC dimostrabili per neuroimmagini. SINTOMATOLOGIA. - Il sintomo cardinale è un disturbo di coscienza che va da un breve, transitorio obnubilamento ad uno stato di incoscienza completa associata ad atonia muscolare generalizzata e marcata disregolazione vegetativa. a) Impatti modesti possono causare solo un lieve stordimento, senza incidere sul tono muscolare, sulla marcia e sull’eloquio. Il soggetto appare rallentato, attonito o anche confuso e può reagire con gesti automatici di difesa quando viene soccorso. I bambini, assai più frequentemente degli adulti, manifestano cefalea e vomito ed appaiono rallentati e torpidi, ma talora anche irrequieti ed agitati in modo abnorme. b) Impatti più intensi causano anche alterazioni del tono posturale: il soggetto vacilla e poi scivola a terra per rialzarsi poco dopo ancora stordito, come accade nel cosiddetto "knockdown" pugilistico.
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c) Impatti di entità ancora maggiore determinano immediata incoscienza e perdita del tono muscolare. Il soggetto si affloscia di colpo a terra, ove giace immobile e non responsivo per svariati minuti (1’-5’). In questa fase egli non respira, o respira molto superficialmente, appare pallido, ipoteso e bradicardico, e non risponde a nessun tipo di stimolo nocicettivo. Le pupille sono midriatiche ma ancora responsive alla luce, i riflessi profondi non evocabili e la risposta riflessa cutaneo-plantare è assente o in estensione dorsale bilateralmente (segno di Babinski). Il quadro è quello di un tipico fuori combattimento ( "knock-out"). La ripresa di contatto con l’ambiente avviene in concomitanza di un graduale ripristino delle funzioni vegetative (respiro, polso, pressione), del tono e della postura: il soggetto comincia a muoversi, apre gli occhi, si guarda attorno, cerca di sollevarsi da terra, inizia a parlare, ma per un periodo anche di qualche ora può rimanere rallentato e stordito. In questa fase possono manifestarsi nausea, vomito, vertigini e cefalea diffusa più o meno intensa di durata variabile, in assenza di alterazioni neurologiche di sorta. A normalità raggiunta, si osserva un’amnesia lacunare anterograda o anche retrograda persistente di durata proporzionale all’entità del trauma (v. pag. 000). Eccezionalmente, una crisi epilettica generalizzata tonico-clonica può manifestarsi a distanza di minuti o anche ore da urti banali del capo senza alterazioni della coscienza (ad esempio, "colpo di testa" nel calcio). Ciò deve sempre far sospettare la presenza di una lesione cerebrale latente (cisti aracnoidea, neoplasia), occasionalmente svelata da una risposta encefalica "pseudo-traumatica" irritativa (Hallen, 1969; Krayenbuhl et al., 1970; Wolf, 2001). Un’evenienza altrettanto inusuale e drammatica, ma di regola associata a completa perdita di coscienza e di natura non epilettica, è rappresentata dalla cosiddetta "commozione convulsiva" ("concussive convulsion", McCrory e
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Berkovic, 1998; Perron et al., 2001). Si tratta di una breve crisi tonica o tonico-clonica molto simile ad una crisi sincopale che può manifestarsi entro i primi minuti (1’-2’) di una commozione completa conseguente a violenti traumi frontali o facciali. Video-registrazioni di giocatori di "football" hanno permesso di documentare che immediatamente dopo il trauma il giocatore crolla a terra incosciente ed assume nel giro di pochi secondi una postura tonica in estensione o in semiflessione, spesso asimmetrica, perdurante decine di secondi- pochi minuti, talvolta associata a qualche scossa ritmica agli arti. Segue un breve periodo di rilasciamento muscolare post-accessuale e quindi un rapido recupero della normalità. Analogamente alla sincope convulsiva, l’episodio ha prognosi benigna, non comporta alcun rischio di epilessia né a breve né a lungo termine, e pertanto non implica alcun provvedimento terapeutico successivo. In passato ritenuta di natura epilettica, la commozione convulsiva viene oggi attribuita ad una disfunzione del tronco encefalico secondaria a forze biomeccaniche capaci di indurre una transitoria decerebrazione funzionale (McCrory e Berkovic, 2000).
DIAGNOSI. - In linea con recenti proposte, i soggetti con trauma cranico insignificante, o lieve o minore possono essere più correttamente inquadrati in tre categorie di rischio (Tomei et al., 1996; Servadei et al., 2001). In sede di prima osservazione (usualmente Pronto Soccorso), l’adozione dei parametri descritti in Tab. 21.1 permette di evitare errori decisionali in difetto (o anche in eccesso), e per garantire anche al traumatizzato molto lieve l’assistenza più corretta per il suo immediato futuro. Poiché nella stragrande maggioranza dei casi il malato giunge all’osservazione quando ha già ripreso piena coscienza, il medico può solo accertare il suo stato momentaneo ed effettuare un’accurata indagine retrospettiva. Le informazioni raccolte dagli astanti possono essere molto utili, sia per conoscere la dinamica del trauma (o dei traumi, se ve ne è stato più d’uno), sia per appurare l’occorrenza di alterazioni della coscienza immediatamente post-traumtiche regredite prima dell’osservazione medica. Quest’e-
Tabella 21.1 - Distinzione delle categorie a rischio nei traumi cranici minori. Categorie di Rischio
GCS punteggio – normale + alterata
Coscienza post-trauma:
Amnesia
Vomito
Cefalea diffusa
Frattura cranica
Basso
15
Medio
15
Uno o più di questi sintomi: osservazione adeguata (≥ 6 ore)
Alto
14 o 15
Uno o più di questi sintomi con frattura cranica: TC + osservazione ≥ 24 h (dimissione a paziente asintomatico)
Deficit neurologici
Rischio di ematoma %
–
< 0,1
–
–
1- 3
+
–
6 - 10
– – – – – Dimissione con scheda informativa e prescrizioni scritte (eventuali farmaci o esami e controlli ambulatoriali)
±
±
±
±
Uno dei due (o entrambi): TC + osservazione ≥ 24 h
Qualunque tipo di presentazione, ma con i seguenti fattori di rischio: ipocoagulazione; consumo abituale di alcool o droghe; antecedenti neurochirurgici; epilessia preesistente; età > 60 anni
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ventualità può desumersi dal grado di efficienza, di responsività, di orientamento e di capacità d’attenzione dimostrati dal traumatizzato subito dopo l’incidente. Il resoconto altrui di un breve ottundimento o stordimento che il soggetto non riferisce (corrispondente al sembrare un pò storditi, "bevuti" o "suonati") acquista valore retrospettivo, e dovrebbe essere sempre evidenziato nella cartella clinica. Altrettanto vale per i principali fattori di rischio quali: discoagulopatie ed assunzione di farmaci anticoagulanti (Li, 2001); abuso cronico di alcool o droghe; antecedenti traumi cranici; pregresse crisi epilettiche o sincopali; pregressi interventi neurochirurgici. Dati anamnestici assenti o carenti aumentano infine la categoria di rischio. L’EEG può essere normale, specie nella categoria a basso rischio, o rivelare alterazioni modeste diffuse, di solito a carattere transitorio. Il riscontro di alterazioni EEG parossistiche di tipo intercritico può essere un reperto del tutto casuale, oppure avvalorare l’ipotesi di un trauma cranico secondario a crisi epilettica (con alterazioni posturali o caduta). La ricerca di fratture è obbligatoria, preferendo la TC alla radiografia standard del cranio ogniqualvolta ciò sia possibile. Se il disturbo della coscienza perdura più a lungo di poche decine di minuti, nasce inevitabilmente il sospetto che esista un danno strutturale contusivo, compressivo o emorragico, ed il sospetto è rafforzato da un punteggio iniziale alla GCS eguale o inferiore a 14 (specie se in tendenza peggiorativa), dalla presenza di una o più fratture craniche, dall’esistenza non solo di sintomi (cefalea, nausea o vomito, amnesia lacunare) ma anche di segni neurologici irritativi o deficitari. L’ipotesi di una probabile sindrome commotiva può essere posta anche "a posteriori" e sulla sola scorta del resoconto anamnestico, a patto che vi sia stata immediatamente dopo il trauma una sia pur modesta alterazione della coscienza. Nella classificazione proposta in Tab. 21.1, la presenza di una breve commozione ce-
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rebrale senza esiti di sorta già di per sé aumenta di 10-30 volte il coefficiente di rischio per ematoma, anche se al momento della prima osservazione mancano fratture e l’esame neurologico è negativo. Tale dato è ampiamente da sottolineare, così come il significato prognostico peggiorativo connesso anche alla sola presenza di un singolo fattore di rischio.
Sincope precoce e ritardata Crisi sincopali a genesi riflessa possono verificarsi poco dopo un trauma cranico minore (sincope precoce), o anche a distanza di tempo (sincope ritardata). L’episodio sincopale non dev’essere confuso con l’eventuale sintomatologia commotiva: a posteriori ciò si può desumere solo da un accurato resoconto anamestico. Le cause più probabili sono rappresentate da una violenta stimolazione di particolari aree reflessogene (oculari o seno-carotidee, come nel caso di colpi simili a quelli delle arti marziali), dalla presenza di dolore contusivo profondo in territorio craniale (fratture, schiacciamenti, ematomi epicranici o cranio-facciali) o in altri distretti somatici o viscerali, ed infine, abnorme risposta emotiva all’evento.
Cecità transitoria È una manifestazione tanto spettacolare quanto infrequente, che fa seguito a modesti traumi frontali anche senza completa perdita di coscienza, perdura pochi minuti fino ad un massimo di qualche ora e regredisce completamente senza reliquati. Occorre più frequentemente in età pediatrica, ed insorge in una fase di agitazione psicomotoria spesso accompagnata da cefalea, nausea o vomito, assumendo caratteristiche "corticali" (amaurosi completa con normalità oftalmoscopica, conservazione del riflesso fotomotore, perdita del riflesso ottico-cinetico) (Rodriguez et al. 1993). Si presuppone di-
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Malattie del sistema nervoso
penda da un’abnorme risposta vascolare del circolo posteriore al trauma, con ipossia transitoria ed eventualmente "spreading depression" in corrispondenza della corteccia occipitale (v. pag. 000).
Trauma cranico maggiore Comporta stati di coma clinicamente gravi che iniziano immediatamente dopo il trauma e quadri clinici dopo intervallo lucido. Coma immediato Si associa spesso a gravi lesioni traumatiche del corpo e contempla mortalità molto alta: dal 40% nelle prime 12 ore, scende al 20% alla 24° ora, al 7-8% alla 48° ora, fino ad attestarsi sull’1-2% nei giorni successivi. La gravità e l’evoluzione di questi quadri è variabile, non solo in rapporto all’entità dei danni cerebrali e somatici, ma anche in relazione dall’immediatezza dei soccorsi ed al ricovero in adeguati reparti di terapia intensiva (rianimazione). Si possono individuare tre differenti modalità evolutive del coma. a) COMA GRAVE EVOLVENTE IN MORTE CEREBRALE. - Si osserva nei traumi cranio-cerebrali più violenti, che comportano fratture, lacerazioni corticali, gravi contusioni corticali e sottocorticali ed edema cerebrale massivo, spesso associati ad ematomi epi- o subdurali ed emorragia subaracnoidea. La mortalità entro le prime 24 ore è molto alta. Poiché nell’87% dei pazienti il punteggio alla GCS risulta così basso (≤ 3) da non permettere l’accurata definizione della situazione, è necessario ricorrere ad una periodica valutazione del livello di deterioramento rostro-caudale dell’encefalo, e possibilmente ad un monitoraggio continuo della pressione endocranica. Entro alcuni giorni si assiste ad un’evoluzione in morte cerebrale (v. pag. 000).
b) COMA GRAVE PROTRATTO CON EVOLUZIONE IN COMA VEGETATIVO. - Il coma è grave fin dall’inizio come nel caso precedente (punteggio alla GCS ≤ 3), ma le funzioni vegetative rimangono conservate e la situazione rimane stazionaria per settimane o mesi, senza accenno a miglioramento, configurando uno stato di coma vegetativo persistente (v. pag. 000). Nelle rare occasioni in cui il coma migliora, si può assistere ad un parziale ripristino della funzione vigile senza corrispondente ripresa delle capacità di contatto: si viene così a configurare uno stato vegetativo, dominato da emio tetraplegia e da posture da decorticazione o decerebrazione (v. pag. 000). La presenza di un grave danno encefalico multifocale condiziona sfavorevolmente la possibilità di sopravvivenza a lungo termine. c) COMA MEDIO-GRAVE AD EVOLUZIONE MIGLIO- Lo stato di coma è meno profondo rispetto alle precedenti condizioni (punteggio alla GCS ≤ 8) e configura una sindrome di deterioramento "diencefalica" che regredisce gradualmente, spesso con fluttuazioni o ricadute, permettendo alfine una ripresa di contatto con l’ambiente (punteggio alla GCS ≤ 10). Nei giorni o nelle settimane successive, il malato è confuso e spesso agitato, e quando riacquista uno stato di coscienza normale, mostra costantemente un’amnesia lacunare retro-anterograda molto estesa. Rara è la normalizzazione neurologica completa: possono residuare infatti esiti deficitari sensitivo-motori (emi o tetraparesi), sensoriali (anosmia, emianopsia), simbolici (afasia, segni frontali) e soprattutto deterioramento mentale di entità variabile. RATIVA (GIORNI, SETTIMANE).
ASPETTI PROGNOSTICI PARTICOLARI In tutte queste circostanze, gli elementi clinici e le evidenze per neuroimmagini non permettono una prognosi precoce realmente affidabile. La ricerca di marcatori bioumurali preco-
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ci predittivi di danno cerebrale ha portato ad identificare due molecole costituenti del SNC rintracciabili nel sangue già 1-6 ore dopo un trauma cranico seguito da sofferenza cerebrale, rispettivamente enolasi neuronale specifica e soprattutto proteina astrocitaria S-100b. Tali marcatori non sono per ora entrati a far parte delle indagini usuali di emergenza. La proteina S-100b non fa parte dei normali costituenti plasmatici, e la sua rapida comparsa nel sangue sembra essere proporzionale all’entità di un danno cerebrale traumatico o al suo successivo aggravamento. Il limite discriminante di 2 µ L 10-1 permette di prevedere con una sensibilità del 75% ed una specificità dell’82% l’evoluzione a lungo termine favorevole o sfavorevole in pazienti con punteggio alla GCS > 9 (Rothoerl et al. 2000). Anche nei traumi cranici minori (punteggio GCS fra 13 e 15) il dosaggio di proteina S-100b può essere utile: il riscontro di tracce plasmatiche al momento del ricovero permette infatti di identificare il 90% dei casi con patologia intracranica documentabile mediante CT (Ingebrigtsen et al., 2000) e risulta correlato con la presenza di vomito (de Kruijk J., 2001).
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Quadri clinici dopo intervallo libero Si riscontrano in una relativamente modesta percentuale di traumatizzati cranici nei quali la perdita della coscienza è passata inosservata oppure è stata breve e transitoria, ed in cui, a distanza di tempo, insorge un quadro neurologico deficitario o uno stato di coma più o meno rapidamente ingravescente. L’intervallo libero, definito anche intervallo lucido, varia da qualche mezz’ora a parecchi giorni, durante i quali possono manifestarsi cefalea, nausea e vomito, segni focali deficitari o irritativi, singhiozzo, sbadiglio e sonnolenza fluttuante. Tali sintomi o segni sono quindi da considerarsi utilissimi segni d’allarme ("warning signs"), sulla cui possibile occorrenza devono essere sempre informati sia malato che medico curante, onde permettere una nuova osservazione in ambiente ospedaliero senza alcun ritardo. Le cause possono essere molteplici, alcune molto frequenti, altre piuttosto rare.
ASPETTI DIAGNOSTICO-TERAPEUTICI D’EMERGENZA Come è stato già detto, il quadro evolutivo dei traumi cranici gravi può essere drammaticamente influenzato dalla precocità e qualità del trattamento iniziale, volto ad identificare e rimuovere eventuali masse intracraniche (ematomi) ed a limitare al massimo l’estensione del danno secondario ischemico-anossico e da ipertensione endocranica. L’importanza di protocolli diagnostico-terapeutici affidabili e soprattutto estensivamente applicabili ha portato alla stesura di linee guida sia negli USA (American Association of Neurological Surgeons e Brain Trauma Foundation) sia in Europa (European Brain Injury Consortium), recepite nell’insieme di "raccomandazioni" recentemente proposte a questo riguardo in Italia (Beretta et al., 1999; Procaccio et al., 1999). Tali raccomandazioni, o suggerimenti, contemplano revisioni periodiche in linea con l’evidenza meta-analitica (Cochrane Injuries Group, 2001).
a) EMATOMA EPIDURALE. - L’incidenza varia a seconda delle casistiche dallo 0,04% al 5%, con maggior accordo per una frequenza inferiore al 2% di tutti i traumi cranici chiusi, ed una maggiore frequenza in età giovanile. In almeno il 60% dei casi insorge acutamente con latenza inferiore a 12 ore ed è causato da lacerazione dell’arteria meningea media o di uno dei suoi rami. Costantemente vi è una frattura cranica (intersecante nelle immagini RX-grafiche standard del cranio il solco dell’arteria), che il più delle volte si irradia verso la base sino al foro piccolo rotondo (attraverso il quale l’arteria meningea media entra nel cranio): in tal caso l’ematoma epidurale si espande in regione temporale. A seconda dei rami dell’arteria meningea media lesi, si possono osservare tre diverse localizzazioni: frontale per il ramo anteriore, temporo-parietale per il ramo principale e per il ramo mediano, occipito-parietale per il ramo posteriore.
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Molto più rari sono gli ematomi epidurali causati da rottura di una vena diploica o di un seno venoso. Essi si localizzano preferenzialmente in fossa cranica posteriore configurando forme subacute (latenza fra 12 e 48 h) o croniche (latenza fino a 14 gg). La sintomatologia è spesso caratterizzata da segni d’allarme: cefalea (orbitaria, fronto-parietale, temporale e più raramente occipito-nucale); emiparesi ingravescente, usualmente controlaterale; midriasi omolaterale per ernia temporale transtentoriale (compressione diretta delle fibre supero-interne pupillo-costrittrici parasimpatiche del III n. cranico). Non sempre l’emiparesi è controlaterale o la paresi del III omolaterale rispetto all’ematoma: vi è infatti la possibilità che tali segni siano falsamente localizzatori, essendo causati in una certa percentuale di casi da compressione del peduncolo cerebrale o del III n. cranico controlaterali. In un terzo dei casi il coma sopraggiunge inavvertitamente, evolvendo con una sindrome di progressivo deterioramento rostro-caudale. La prognosi è assai grave, con rischio di mortalità elevato e solo in parte riducibile dall’intervento neurochirurgico di svuotamento. Il rischio si riduce in funzione della tempestività dell’intervento, ovviamente prima che insorgano coma ed eventuali manifestazioni neurologiche. La diagnostica per neuroimmagini (TC, RM) evidenzia una falda iperdensa-iperintensa epicorticale di forma concavo-convessa che si intensifica dopo mezzo di contrasto. Il margine interno è spesso sfumato ed ipodenso, a causa dell’edema corticale sottostante (Fig. 9.148 pag. 000). A seconda del volume o del momento evolutivo, l’ematoma epidurale può comprimere solo leggermente la corteccia sottostante, oppure giungere a dislocare l’emisfero cerebrale verso il basso ed il lato opposto. Questo effetto risulta più evidente nelle regioni prefrontali, ove la falce cerebrale è più sottile. Angiograficamente, l’ematoma si presenta come una zona periferica lenticolare avascolare,
associata a dislocazione controlaterale dei rami dell’a. cerebrale media o anteriore. L’EEG dimostra cospicua riduzione d’ampiezza dell’attività elettrica cerebrale in corrispondenza dell’ematoma, ed iperattività lenta patologica controlaterale. Il trattamento elettivo è lo svuotamento neurochirurgico d’urgenza. b) EMATOMA SUBDURALE. - Più frequente nell’uomo (9:1) e nella quinta-sesta decade di vita, può manifestarsi con forme acute, insorgenti entro le prime 24 ore, forme subacute, con intervallo di 1-10 giorni, e con forme croniche, con intervallo di settimane fino ad un massimo accettato di 8-10 mesi ed eccezionalmente anche di anni. La coesistenza di fratture craniche è più rara rispetto all’ematoma epidurale (15%), occorrendo nel 25-30% delle forme acute, nel 18% delle forme subacute e nello 0-3% nelle forme croniche. Il quadro clinico delle forme acute e subacute è sovrapponibile a quello dell’ematoma epidurale, ma i segni focali da compressione possono anche mancare, e spesso sono modesti (emiparesi, disturbi fasici, ipoestesia o parestesie ad un emisoma, paresi intrinseca del III omolaterale), così come i segni di ipertensione endocranica. Nelle forme croniche, la sintomatologia non è preceduta da chiari segni d’allarme o di significato localizzatorio ed insorge in maniera molto più subdola. Dopo un intervallo lucido anche assai lungo, si osserva un quadro psicorganico con manifestazioni confusionali o di eccitamento ansioso, e frequenti segni di sofferenza cortico-spinale bilaterale, costanti quando l’ematoma si sviluppa bilateralmente. L’atassia cerebellare o la papilla da stasi suggeriscono fortemente una localizzazione in fossa cranica posteriore. Le manifestazioni irritative, sotto forma di crisi epilettiche generalizzate o focali, sono piuttosto rare.
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Il liquor ha solitamente caratteri normali e così la pressione liquorale. L’EEG dimostra tipicamente una netta depressione dell’attività elettrica cerebrale in corrispondenza dell’ematoma ed iperattività lenta controlaterale, ma in non pochi casi è poco significativo o evidenzia alterazioni lente diffuse. La diagnosi è basata sulla diagnostica per neuroimmagini. La TC, tuttavia, permette un’accurata definizione dell’ematoma solo nei primi giorni, poiché dopo 2-3 settimane il versamento va incontro ad una trasformazione isodensa che ne rende difficile una chiara distinzione dal parenchima cerebrale. La RM pertanto è l’indagine elettiva, specie nelle forme croniche. Entrambe le metodiche dimostrano una sottile falda epicorticale iperdensa a forma concavo-convessa verso l’esterno, che tende lentamente a trasformarsi nella forma biconvessa dell’ematoma epidurale per un progressivo aumento della raccolta ematica (Figg. 9.149, 9.150 a pag. 000). L’angiografia cerebrale dimostra, nella proiezione antero-posteriore, una zona avascolare interposta fra teca e parenchima cerebrale. Il trattamento è neurochirurgico con svuotamento della raccolta ematica ed emostasi accurata. c) Ematoma intracerebrale. - È una complicanza infrequente (0,35%-3%) che predilige l’età avanzata e si manifesta ictalmente a distanza di 1-10 giorni da un trauma cranico con segni focali e da lesione occupante spazio analoghi a quelli dell’emorragia intracerebrale spontanea. La cefalea, quando è presente, rappresenta il segno d’allarme principale, per cui non sempre l’intervallo risulta integralmente libero. d) EDEMA CEREBRALE. - Si manifesta nel giro di ore o giorni da un trauma cranico con perdita di coscienza superiore alla mezz’ora - un’ora con segni d’ipertensione endocranica, comparsa o aggravamento di segni neurologici focali,
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e progressiva alterazione della coscienza fino al coma. La TC e la RM dimostrano lesioni contusivo-emorragiche multiple con edema perilesionale esteso. e) OCCLUSIONI DELL’ARTERIA CAROTIDE INTERNA, DELL’ARTERIA VERTEBRALE O DI ARTERIE CEREBRALI.
- Sono evenienze assai meno rare e sporadiche di quanto si pensasse tempo addietro: su una vasta popolazione di soggetti ammessi ad un Centro traumatologico di prima emergenza (1995-1999), l’incidenza globale di occlusione uni- o bilaterale dell’a. carotide interna al collo è risultata pari allo 0,5%, con mortalità del 13%, e dell’a. vertebrale, nel suo decorso extracranico, allo 0,4%, con mortalità del 4% (Miller et al., 2001). Tali occlusioni, non di rado associate fra loro, sono causate da lacerazioni intimali che creano un aneurisma dissecante o la formazione di un trombo murale endoluminale che si può estendere prossimalmente all’iniziale decorso intracranico del vaso. Possono rimanere asintomatiche, o manifestarsi a distanza di mezz’ora giorni dal trauma con quadri difasici o anche ictali suggestivi per lesione cerebrovascolare, cerebellare o troncoencefalica di natura ischemica (v. pag. 000). L’occlusione traumatica di arterie cerebrali, quali ad esempio l’arteria cerebrale media, appare estremamente rara, essendone a tutt’oggi stati descritti solo 65 casi (Mobbs e Chandran, 2001), e del tutto eccezionale quella di rami talamo-capsulari profondi: in entrambi i casi l’emiparesi o l’emiplegia controlaterale, associata ad emiipoestesia, sono le conseguenze più comuni. L’esplorazione Eco-Doppler dei vasi sovraaortici, e se possibile l’Eco-Doppler transcranico, deve quindi considerarsi irrinunciabile in sede di prima osservazione traumatologica, permettendo un tempestivo trattamento di eventuali lesioni vascolari extra- o intracraniche in atto. La diagnostica fMRI ed angio-fMRI con tecnica FLAIR può contribuire sensibilmente alla diagnosi di un’eventuale occlusione traumatica
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delle arterie intracraniche di medio o piccolo calibro e dovrebbe essere sempre attuata al più presto quando un disturbo di coscienza anche assai modesto evolve rapidamente in un’emiparesi (v. Tab. 21.1). f) EMBOLIA ADIPOSA. - Occorre più facilmente nei politraumatizzati gravi, portatori di fratture multiple di ossa importanti quali femore o cingolo pelvico. La distruzione di cellule adipose del midollo e la rottura dei piccoli vasi venosi permettono l’immissione in circolo di particelle grassose che si arrestano al polmone causando un quadro di broncopneumopatia acuta disseminata con grave dispnea e desaturazione di ossigeno. Localizzazioni emboliche all’encefalo sono possibili in caso di comunicazione interatriale congenita o per superamento del filtro polmonare. g) SINDROME
L’attento controllo dello stato coagulativo nelle prime ore dal trauma (numero di piastrine, tempo di protrombina, tempo parziale di tromboplastina, fibrinogenemia, livelli di Ddimero) è perciò indispensabile per instaurare tempestivamente un trattamento anticoagulante adeguato (eparina sistemica quindi cumarinici). h) IDROCEFALO PRECOCE E TARDIVO. - Può insorgere precocemente in concomitanza di ipertensione intracranica, a distanza di giorni o settimane da un trauma cranico maggiore con massiva emorragia subaracnoidea o endoventricolare, oppure tardivamente, manifestandosi in maniera subdola a distanza di più settimane o anche mesi dal trauma con le caratteristiche di un idrocefalo normoteso secondario (v. pag. 000). Per la diagnosi e terapia valgono i principi descritti a pag. 000.
DA COAGULAZIONE INTRAVASCO-
LARE DISSEMINATA (DIC).- È una temibile e purtroppo non infrequente evenienza che si verifica per un’abnorme attivazione dei processi coagulativi secondaria a danno tissutale periferico, viscerale ed anche cerebrale. Come è noto, la DIC comporta iperconsumo di piastrine e fibrinogeno causata da trombosi multidistrettuali dei piccoli vasi, con conseguente simultanea comparsa di petecchie emorragiche cutanee e sanguinamento spontaneo delle mucose. Limitatamente ai traumi cranici chiusi, entro 1-4 ore dal trauma alterazioni coagulative suggestive per DIC in fase iniziale si riscontrano nel 41% dei traumi cranici con lesioni cerebrali in atto e nel 25% dei traumi senza lesioni, con rischi di peggioramento e di mortalità nettamente superiori in entrambi i gruppi (Hulka, 1996). Anche l’encefalo può diventare sede di microtrombosi disseminate che inducono un quadro di edema interstiziale diffuso dimostrabile mediante TC dell’encefalo (Jacobson et al., 1986). In queste circostanze diventa drammatica la comparsa di crisi epilettiche o di stato di male generalizzato tonico-clonico.
ESITI POST-TRAUMATICI Liquorrea. - È una fuoriuscita di liquor cerebrospinale dalle cavità nasali (rino-liquorrea) o dal meato acustico esterno (oto-liquorrea) attraverso lacerazioni della dura madre causate da fratture della base cranica (1-3% delle fratture in questa sede). Il liquor può defluire dal meato acustico esterno o in faringe, o dalle narici, specie negli sforzi o quando il capo assume determinate posizioni. La oto-liquorrea, analogamente all’otorragia, è la forma più frequente, ed è causata da fratture della rocca petrosa che mettono in comunicazione gli spazi subaracnoidei con l’orecchio medio ed il condotto uditivo esterno, oppure con la tromba di Eustachio e l’epifaringe. Le fratture posteriori della rocca petrosa causano invece un deflusso di liquor nelle cavità mastoidee. La liquorrea nasale può dipendere da fratture frontali estese al seno paranasale omonimo, etmoidee (specie della lamina cribrosa) o sfenoidali, evenienza in cui il liquor defluisce nelle cavità nasali direttamente o attraverso il seno sfenoidale.
Traumi
La liquorrea comporta sempre un alto rischio di passaggio di aria ed agenti infettivi all’interno del cranio quando il capo si trova sollevato rispetto all’atrio destro, potendosi formare raccolte aeree (pneumatocele o aerocele) negli spazi extradurali, subdurali, subaracnoidei o ventricolari (pneumoencefalo spontaneo) con evoluzione in meningite o ascesso cerebrale. La diagnosi di sede della fistola liquorale è basata sulle neuroimmagini TC con mezzo di contrasto. Ciò permette di preventivare un intervento neurochirurgico di plastica ricostruttiva del piano durale qualora dopo 10 giorni di decubito orizzontale la liquorrea non s’arresti spontaneamente. Disturbi dell’olfatto e del gusto - Come è già stato riportato (v. pag. 000) l’ipo- anosmia è un esito piuttosto frequente, con prevalenza rapportabile all’entità del trauma subito: 0% (traumi minori senza disturbo di coscienza), 5% (traumi minori con disturbo di coscienza < 1 ora), 1519% (traumi moderati con disturbo di coscienza da 1 a 24 ore), 24-30% (traumi maggiori con disturbo di coscienza > 24 ore). L’anosmia in massima parte (87,3%) fa seguito a traumi cranici maggiori causati da impatto occipitale o anche temporo-parietale, sedi particolarmente rischiose per lesioni da contraccolpo in fossa cranica anteriore, e nel 66,8% dei casi è di natura permanente (Doty et al., 1997; Biacabe et al., 2000). È causata sia da lesioni dei filamenti olfattivi nel loro passaggio attraverso la lamina cribrosa dell’etmoide, sia da contusioni dei bulbi o tratti olfattori, o del trigono olfattorio, o delle regioni orbito-frontali. L’anosmia post-traumatica è spesso associata a problematiche socio-lavorative importanti, connesse non solo ad esclusioni professionali specifiche (profumieri, cuochi, "sommelier" ecc.), ma spesso anche a perdite motivazionali sul lavoro inquadrabili nell’ambito di una sindrome orbito-frontale (Varney, 1988). La coesistenza di ipo- ageusia, originariamente descritta da Ferrier (1876) e successiva-
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mente confermata da Sumner (1967, 1975) è assai più rara, e dipende da un concomitante danno contusivo dell’area gustativa primaria (v. pag. 000). Deficit focali. - Migliorano quasi sempre nel giro di alcuni mesi, spesso in maniera considerevole, in rapporto ad una graduale scomparsa dell’edema e dei processi flogistici connessi alla fase acuta del danno. Non di rado, a distanza di anni, è possibile osservare solo segni di lieve sofferenza cortico-spinale (iperreflessia profonda associata a presenza del segno di Babinski) senza sintomatologia invalidante. Epilessia post-traumatica. - L’incidenza dell’epilessia post-traumatica riportata in letteratura è molto variabile e di valore discutibile sia per la notevole disomogeneità delle popolazioni studiate, sia per la mancanza di una corretta taratura rispetto all’incidenza di epilessia spontanea. Ad esempio, nelle statistiche militari comprendenti ogni tipo di trauma cranio-cerebrale (aperto e chiuso), il rischio di sviluppare epilessia post-traumatica passa dal 30% nel 1° conflitto mondiale al 50% nella guerra in Vietnam, verosimilmente a causa di una maggior sopravvivenza o di traumi globalmente più gravi (Jennet, 1975, 1979). Nella popolazione civile, i più completi e metodologicamente corretti studi di popolazione sono stati condotti presso la Mayo Clinic e riguardano l’Olmsted County di Rochester, Minnesota, concernenti i periodi 1935-1974 (Hauser et al., 1991 e 1993) e 1935-1984 (Annegers, 2000), ove è stato possibile "pesare" il rischio e l’incidenza dell’epilessia post-traumatica in funzione di precedenti, analoghe stime concernenti l’epilessia non provocata (idiopatica). Il campione più vasto riguarda 4541 casi selezionati su 5984 traumi cranici (1935-1984), suddivisi in tre fascie di gravità: modesta (perdita di coscienza o amnesia <30’), media (perdita di coscienza di 30’ - 24 h o frattura cranica) ed elevata: (perdita di coscienza > 24 h, ematoma subdurale
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o contusione cerebrale). Globalmente, il tasso d’indicenza di epilessia eccedente quello già noto di epilessia spontanea (relativa all’intero periodo esaminato, 50 anni) è risultato pari a 3,1 (2,5-3,8) (Annegers, 1998). L’incidenza globale di epilessia fra i maschi di età compresa fra 15-24 anni è stata di 800 soggetti per 100.000 (8‰). Il rischio relativo per crisi epilettiche è risultato per i traumi lievi pari a 1.5 (1-2,2), senza ulteriore aumento dopo 5 anni; per i traumi medi 2.9 (1,9-4,1); per i traumi gravi 17.2 (12.3-23,6). Significativi fattori di rischio sono rappresentati dalla presenza di contusioni cerebrali con ematoma subdurale, fratture cranica, perdita di coscienza o amnesia > 24 h. e da un’età ≥ a 65 anni (Annegers, 1998, 2000). Globalmente, l’incidenza di epilessia è massima nel primo anno dopo il trauma. Il tasso d’incidenza in eccesso è risultato molto modesto nel gruppo dei traumi cranici minori più lievi (0,3 ‰ per anno), ma sensibilmente aumentato (10‰ per anno) nel sottogruppo estremo dei traumi cranici maggiori più gravi con coma > 24 h, ematoma subdurale o contusioni cerebrali (7,6% dell’intera popolazione studiata) (Singer, 2001).
In conclusione, l’incidenza di epilessia in eccesso a quello di epilessia spontanea dopo un trauma cranico di lieve o media gravità è solo di poco superiore all’incidenza dell’epilessia idiopatica, ma sale sensibilmente fino al 17 % circa in una minoranza di traumi cranici gravi. Le crisi epilettiche post-traumatiche precoci (4,2% entro 7 giorni) e tardive (3,7% entro 3 anni) presentano un’incidenza più alta rispetto all’epilessia stabilizzata (2,5%) (Schutze et al., 1999). Le percentuali aumentano proporzionalmente all’entità e gravità del trauma, e soprattutto in rapporto alla presenza di un’emorragia intracranica, che risulta il fattore predittivo più efficace, indipendente dalla localizzazione intracerebrale dell’emorragia. Le crisi precoci evolvono in un’epilessia stabile solo nel 17% dei malati; la percentuale sale però al 48% dopo crisi tardive. Il relativo rischio post-traumatico può essere percentualmente gerarchizzato come segue (Schutze et al., 1999): Crisi epilettiche – + +
Precoci Tardive
Emorragia intracranica – + 1% 8% 16% 53%
Le crisi sono generalmente rappresentate da crisi tonico-cloniche primitivamente generalizzate, crisi parziali a sintomatologia complessa, crisi miocloniche o a tipo assenza, mentre più rare sarebbero le crisi parziali a secondaria generalizzazione (Paillas et al., 1970; Neufeld et al., 1999). Il rischio di un’epilessia post-traumatica non deve essere confuso con quello non indifferente - anche se relativamente poco noto - di crisi di natura non epilettica (Barry E. et al., 1998). A questo proposito, il trauma cranico agirebbe assai più facilmente come fattore scatenante in presenza di fattori socio-familiari predisponenti, quali patologia del rapporto intrafamiliare, scarso criticismo, e tendenza alla somatizzazione (Wood et al., 1998). Circa l’aspetto farmaco-profilattico, i classici antiepilettici maggiori (fenitoina, fenobarbitone, carbamazepina, valproato) impiegati subito dopo il trauma sono capaci di ridurre l’incidenza di crisi epilettiche o di eventuale stato di male epilettico solo a breve termine. Il loro impiego, tuttavia, dev’essere ponderato caso per caso, poiché l’impiego di alcuni di essi può peggiorare la prognosi quoad vitam nei malati più gravi (Temkin et al., 1999). Una farmaco-profilassi antiepilettica può quindi essere giustificata solo nei traumi con più alto rischio di crisi precoci e nello stato di male epilettico (Brain Injury Special Interest Group of the American Academy of Physical Medicine and Rehabilitation, 1998; Schierhout G, Roberts I., 2001; Temkin, 2001). L’impiego degli antiepilettici attualmente disponibili, dunque, rimane prettamente tattico, poiché essi sono sprovvisti di azione anti-epilettogena, e non sono quindi in grado di incidere significativamente sull’evoluzione di un processo epilettogeno silente, responsabile dell’insorgenza di un’epilessia stabilizzata a distanza di tempo (Loescher, 2002). Tale processo, che può perdurare fino a sei mesi nel ratto (Santhakumar et al., 2001) e probabilmente assai più nell’uomo, spiega perché le crisi tardive com-
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portino un così alto tasso di epilessia stabilizzata (48%, Schutze et al., 1999). La diagnosi ed il trattamento, basato sull’impiego di antiepilettici maggiori o di tipo neurochirurgico, ricalcano le indicazioni fornite a pag. 000. Sindrome post-commotiva. - È un’associazione di sintomi somatici e psichici che si presenta a distanza di giorni o di poche settimane in coloro che hanno subito una commozione cerebrale da trauma cranico minore o anche minimo. I sintomi somatici sono usualmente rappresentati da cefalea, capogiri, eccessiva affaticabilità e spossatezza. I sintomi psichici più frequenti comprendono difficoltà mnesiche ed attentive, disforia (irritabilità e labilità emotiva), ansia ed insonnia. La sindrome è abbastanza frequente (30-50% dei traumi cranici minori, Levin et al., 1987), tende spontaneamente a regredire e scomparire nel giro di qualche mese, salvo in una minoranza di casi ove può persistere anche oltre 6 mesi1 anno (Montgomery et al., 1991). L’idea già espressa nel lontano passato che la sindrome fosse eminentemente di genesi psichica si concretizza verso la fine dell’800 nella denominazione di "nevrosi traumatica" (Oppenheim, 1889), poi ribadita negli anni ’60, in concomitanza con il grande aumento delle problematiche assicurative legate agli incidenti stradali o lavorativi, in termini di "accident neurosis" (Miller, 1961), quindi "nevrosi da indennizzo" o "sindrome soggettiva dei traumatizzati cranici", in base alla presunzione di un pressoché costante guadagno secondario quale unico responsabile della cronicizzazione dei disturbi. Tuttavia, questo assunto non ha mai trovato conferme chiare, anzi, è stato ripetutamente contraddetto da ricerche clinico-epidemiologiche accurate. Ha preso così forma un’ipotesi mista (Lishman, 1988; Gerard, 2000), che riconduce a cause organiche i sintomi acuti relativamente transitori, ed a cause prettamente psichiche i sintomi cronici persistenti.
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Una conferma a questa ipotesi è offerta da evidenze clinico-neuropsicologiche, sociologiche ed elettrofisiologiche ottenute in studi prospettici svolti a Belfast su casistiche di traumi cranici minori (McClelland et al., 1994). In particolare, un costante, abnorme rallentamento EEG diffuso era presente nell’immediato periodo postcommotivo, iniziava a regredire solo dopo 10 giorni, ma poteva persistere fino a 6 settimane, dimostrando un recupero più lento sulle regioni temporali dell’emisfero sinistro nei pazienti con tendenza alla cronicizzazione dei sintomi. Lo studio dei potenziali evocati uditivi troncoencefalici, dimostrava inoltre, in un terzo dei casi, un abnorme allungamento dei tempi di conduzione centrale, persistente dopo 6 settimane nei soggetti con sintomi cronici. Tale rilievo è stato confermato anche da successive ricerche (Gaetz e Weinberg, 2000). Infine, lo studio dei fattori psico-sociali dimostrava un rischio di trauma aumentato soprattutto in rapporto al numero degli avvenimenti sfavorevoli occorsi nell’anno precedente, ed una correlazione stretta fra cronicizzazione e presenza di avversità socio-ambientali, con maggior incidenza nelle donne in età avanzata. Indicativo è anche uno studio effettuato su una popolazione di 129 persone giunte in Pronto Soccorso per sospetto trauma cranico e quindi dimesse perché completamente asintomatiche: dopo 1 mese, il 32% lamentava l’insorgenza graduale di sintomi post-contusivi (62% insonnia, 58% cefalea, 56% irritabilità, 56% affaticabilità), che in gran parte scomparivano nel mese successivo. Nell’11% dei casi ove i disturbi persistevano, non vi era più stata ripresa dell’attività lavorativa (Chambers et al., 1996). Ciò dimostra che una sindrome post-commotiva può coinvolgere persone con traumi cranici minimi (e quindi a bassisimo o nullo rischio) in percentuale molto superiore al previsto, e che tale dato dovrebbe essere adeguatamente considerato - oltre ai criteri standard per i traumi cranici minori - già in sede di prima osservazione, in attesa di criteri obiettivi per identificare e curare fin da subito quei soggetti che potrebbero poi sviluppare un quadro post-commotivo.
È probabile che in futuro ulteriori prove di danno funzionale o strutturale a carattere reversibile del SNC saranno ottenute attraverso il sistematico impiego della spettroscopia RM in campo neurotraumatologico. Encefalopatia traumatica cronica dei pugili. - Si manifesta nel 20% circa dei pugili professionisti, e rappresenta l’espressione del danno cerebrale cumulativo prodotto dai colpi ri-
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portati al capo nel corso della carriera ("punchdrunk syndrome" o "demenza pugilistica") (Jordan, 2000). Il quadro neuropatologico è caratterizzato da: a) assottigliamento del corpo calloso con discreto ingrandimento dei ventricoli laterali; b) marcato ingrandimento del cavo del setto pellucido con fenestrazioni del setto; c) cicatrici gliali sulla superficie inferiore del cervelletto, con scomparsa delle cellule di Purkinje e depauperamento dei granuli; d) depauperamento dei neuroni pigmentati della sostanza nera e del locus coeruleus; e) degenerazione neurofibrillare di Alzheimer in molti dei neuroni superstiti appartenenti alle precedenti strutture, ed anche diffusamente sparsa nel tronco encefalico e nella corteccia, con predilezione per il lobo temporale, dimostrata nel 73% dei casi; f) assenza di corpi di Lewy e di placche senili (Corsellis et al., 1973; Gronvall e Wrightson, 1975; Casson et al., 1984). La prevalenza dell’encefalopatia nei pugilatori professionisti varia da un 9-16.5% stimato in base a criteri clinici (Sercl e Jaros, 1962; Roberts, 1969) ad un 50% circa, stabilito in base al reperto TC di una ventricolomegalia con allargamento dei solchi corticali e del cavo del setto pellucido (Ross et al., 1983). Esistono fattori di rischio correlati ad una maggior gravità del quadro: esposizione prolungata (durata della carriera, numero di combattimenti, età di ritiro), prestazioni non brillanti, elevato numero di combattimenti d’allenamento ("sparring partners"), presenza di genotipo con allele ε4 per la apolipoproteina E (Jordan, 2000). Quest’ultima eventualità, che sembra correlarsi alla gravità delle conseguenze traumatiche sia a breve che a lungo termine, ha spinto a caldeggiare il depistaggio dei portatori di allele Apoe4 fra gli adoloescenti intenzionati a praticare sport di contatto violento (pugilato, rugby, football americano, calcio, hockey su ghiaccio) (Caulfield, 1999).
Le manifestazioni cliniche possono insorgere molto precocemente (sono descritti casi in cui il precipitare della sintomatologia è legato ad un determinato combattimento), ma abitualmente deve trascorrere un periodo di almeno tre anni di ripetuti allenamenti e combattimenti perché la sindrome si manifesti clinicamente e diventi irreversibile. L’encefalopatia esordisce con un quadro di deterioramento mentale caratterizzato da ingravescenti disturbi della memoria, rallentamento ed impoverimento ideativo, perdita delle capacità critiche, disforia con irritabilità ed aggres-
sività nei rapporti interpersonali, talora abulia. Frequentemente coesistono una sindrome parkinsoniana (38%), una atassia archi-paleocerebellare con marcata disartria e segni piramidali bilaterali. L’evoluzione è inesorabilmente peggiorativa. La diagnosi è basata, oltre che sull’anamnesi e sui reperti neurologici, sul riscontro EEG di importanti alterazioni theta-delta diffuse e sui reperti TC ed RM precedentemente descritti. Nessuna fra le misure preventive applicate finora è riuscita ad abbattere drasticamente il rischio di encefalopatia traumatica cronica.
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Traumi del midollo spinale La colonna vertebrale costituisce per il midollo e le radici spinali una struttura difensiva straordinariamente valida anche contro traumi molto intensi. Tuttavia, sollecitazioni meccaniche di sufficiente portata possono provocare danni del midollo e delle radici spinali del tutto analoghi a quelli che subisce l’encefalo in seguito ad un violento trauma cranico, comportando conseguenze non meno drammatiche, rappresentate da para o tetraplegia. In Europa esistono circa 300.000 paraplegici e 60.000 tetraplegici, rappresentati per lo più da giovani, con un’età media di 31 anni, nei quali, per il 65% dei casi la patologia deriva da incidenti stradali, e per il 10% da incidenti sportivi. PATOGENESI I principali meccanismi attraverso i quali un trauma può provocare un danno radicolo-midollare sono tre: a) distruzione diretta; b) stiramento; c) commozione e contusione. a) Lesioni dirette del midollo e delle radici possono verificarsi a qualunque livello midollare in seguito a ferite penetranti da proiettile (pallottole d’arma da fuoco o schegge metalliche) o da taglio. Nella vita civile, le cause più frequenti sono gli incidenti stradali, gli incidenti sul lavoro e le cadute dall’alto che determinano frattura di archi o di corpi vertebrali. I frammenti ossei o le
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dislocazioni dei somi vertebrali (spondilolistesi), bruscamente proiettati verso il canale endorachideo, possono lacerare, sezionare o strappare il midollo e le radici, le meningi ed i relativi vasi. In questi casi, assai frequente è l’occorrenza di emorragie intraparenchimali massive (ematomielia), subaracnoidee o extradurali, e di marcato edema perilesionale. Lo spappolamento del midollo comporta necrosi neuronale immediata, che è rapidamente seguita da disintegrazione delle guaine mieliniche e degli assoni per tratti più o meno estesi ed edema misto. La rottura di vasi intramidollari porta alla formazione di versamenti ematici intraparenchimali a carattere petecchiale o a raccolte ematomieliche centrali che evolvono in cisti simili a cavità siringomieliche. Le aree necrotiche e le emorragie puntiformi diventano sede di intensa gliosi reattiva destinata a formare un tessuto cicatriziale compatto, impenetrabile da parte degli assoni rigeneranti ascendenti e discendenti. b) Lesioni da stiramento radicolo-midollare senza fratture vertebrali si localizzano solo in corrispondenza dei segmenti rachidei dotati di maggiore mobilità, ossia nel tratto cervicale e lombare, ove le rispettive vertebre inferiori rappresentano il fulcro sul quale si esercitano al massimo le forze di dislocazione del capo e del collo rispetto al tronco (C6-C7), e del tronco rispetto al bacino (L5-S1). Le escursioni forzate di questi segmenti in posizioni di iperestensione, iperflessione, inclinazione laterale e rotazione possono causare uno stiramento del midollo entro lo speco vertebrale di entità tale da comportare uno strappamento delle radici o una contusione radicolo-midollare nei punti di forzato contatto. Questo meccanismo può essere responsabile di traumi ostetrici in corso di parto distocico, poiché nel neonato il rachide è ancora cartilagineo e la sua principale difesa contro le trazioni o dislocazioni cranio-cervicali è rappresentata solo dalla dura madre. Le lesioni midollari neonatali da stiramento sono più frequentemente causate da estrazioni podaliche, ma possono avverarsi anche durante la trazione del capo nelle presentazioni di vertice: in ambedue i casi viene esercitata una forte trazione con iperestensione del segmento cervicale che può lacerare dura e midollo, o causare compressioni da ematoma intrarachideo extra- o subdurale secondario. Nell’adulto, la causa di gran lunga più frequente è rappresentata dalle situazioni di brusca iperestensione o flessione del capo e del collo con iperabduzione della spalla, quali ad esempio possono verificarsi in seguito ad urto automobilistico (tamponamento) o in seguito ad incidenti motociclistici. In questi casi, spesso coesiste una sindrome da stiramento traumatico del plesso brachiale.
I casi più lievi, di gran lunga più frequenti, comportano quadri algici "da colpo di frusta" cervicale o cervicotoracico, causati da iperestensione del capo, per una sua brusca proiezione all’indietro in caso di tamponamento posteriore ed in mancanza di poggia-testa, o per una sua iperflessione, in caso di tamponamento anteriore con tronco bloccato da una cintura di sicurezza. Le conseguenze sono in genere solo algico-disfunzionali, e rapportabili ad una irritazione delle strutture nocicettive vertebrali e radicolo-meningee. Più raramente, danni da trazione radicolo-midollare possono verificarsi in portatori di grave spondilartrosi cervicale in seguito all’iperestensione del capo richiesta da un’anestesia generale, o in tentativi di impiccagione. i) La commozione e la contusione midollare più frequentemente interessano i segmenti midollari più mobili, cioè il tratto cervicale e toraco-lombare, nei quali un’iperflessione o iperestensione abnorme può giungere a causare un impatto del midollo contro la parete ventrale o dorsale del canale rachideo. Nella commozione, valgono le stesse considerazioni precedentemente esposte a proposito della commozione cerebrale (v. pag. 000). Nella contusione, si osserva nella sostanza grigia midollare la caratteristica e precoce comparsa di microfocolai emorragico-necrotici confluenti con vasoparalisi ed edema diffuso alla sostanza bianca, ove nel giro di 68 ore insorgono segni degenerativi più o meno importanti delle vie lunghe. Questi aspetti riguardano quindi le parti centrali del midollo, ove più metameri contigui possono essere interessati simulando una distribuzione ischemica “a matita” (v. pag. 000). I meccanismi del danno traumatico midollare sono analoghi a quelli già descritti nei traumi dell’encefalo (v. pag. 000), ove un importante edema misto, citotossico e vasogenico, contribuisce ad aggravare sensibilmente il quadro lesionale. Il trattamento precoce con corticosteroidi ad alte dosi, farmacologicamente attivi anche come accettori di radicali liberi, in questa prima fase si è dimostrato benefico, probabilmente limitando l’entità del danno lipo-perossidativo secondario delle membrane cellulari rimaste indenni. Nelle contusioni del midollo, la sintomatologia strettamente connessa al danno midollare viene temporaneamente accentuata e mascherata da fenomeni di diaschisi, con sospensione o grave riduzione delle funzioni midollari afferenti, efferenti e riflesse.
SINTOMATOLOGIA Commozione midollare Causa il 3,7% dei ricoveri per trauma spinale e si verifica in seguito a repentine variazioni
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di velocità del corpo, che possono causare anche danno vertebrale, senza tuttavia ledere il midollo spinale (Del Bigio e Johnson, 1989). Analogamente alla commozione cerebrale, comporta quadri deficitari sensitivo-motori o sensitivi distribuiti nelle porzioni del corpo al di sotto del metamero midollare traumatizzato, reversibili di solito nel giro di pochi minuti o mezz’ora, e comunque entro un massimo di 72 ore. Qualunque metamero può essere interessato, ma sono preferenzialmente colpiti i segmenti più instabili del rachide, e più frequentemente il tratto cervicale rispetto a quello toraco-lombare (Del Bigio e Johnson, 1989; Zwimpfer e Bernstein, 1990). La commozione del tratto cervicale si manifesta con una tetraplegia sensitivo-motora transitoria senza reliquati ("neuroaprassia del midollo cervicale" dei giocatori di "football" o di "rugby": Torg, 1995; Torg et al., 1997), quella del tratto toraco-lombare con un’analoga paraplegia transitoria. Eccezionali sono i quadri transitori di paraplegia motoria isolata degli arti superiori per urto dell’apofisi odontoide o del margine anteriore del forame grande occipitale contro le piramidi bulbari (Maretsis e Adam, 1993) o a tipo sindrome “locked-in” (v. pag. 000). La commozione midollare può essere favorita da preesistenti anomalie della colonna vertebrale, quali ad esempio restringimenti congeniti o acquisiti del canale spinale ed abnorme ipermobilità del rachide, e si osserva più frequentemente nei maschi giovani quale conseguenza di violenti scontri subiti in particolari sport di contatto (football, rugby, calcio, etc.), ove talvolta può verificarsi anche ripetutamente. Contusione midollare Causa sindromi midollari di varia entità, nei casi più gravi emblematicamente rappresentate da una sindrome da sezione trasversa completa, con perdita della motilità e delle sensibilità nelle parti del corpo al di sotto della lesione, ed una particolare sindrome da lesione centrale del midollo (sindrome di Schneider, 1954, e “pa-
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ralisi crociata” di Dickman, 1990) caratterizzata da un deficit sensitivo-motorio a carattere “sospeso” agli arti superiori. Il trauma midollare contusivo comporta inizialmente una fase di completa perdita delle funzioni riflesse spinali esterocettive ed autonomiche, definita da Riddoch (1917) fase areflessica da “shock spinale”, quindi una seconda fase, a decorso cronico, dominata da un aumento patologico delle attività riflesse midollari. a) Fase dello “shock spinale”, o fase areflessica da diaschisi. Comprende, oltre ad un deficit motorio flaccido ed areflessico a distribuzione tetraplegica (lesioni C4-C5) o paraplegica (lesioni toraciche) associate ad anestesia nei territori corrispondenti (v. pag. 000), paralisi vescicale e rettale, paralisi atonica dell’apparato gastro-intestinale (atonia gastrica, ileo paralitico) e perdita di ogni attività spinale riflessa in tutti i segmenti midollari sottostanti alla lesione. La vasomotilità, la sudorazione e la piloerezione risultano temporaneamente abolite al di sotto della lesione, ed una grave ipotensione arteriosa sistemica può contribuire ad aggravare il danno spinale. Gli arti paralizzati sono freddi, edematosi ed ad elevato rischio di ulcere da decubito nei punti d’appoggio sulle salienze ossee (talloni, glutei e sacro). La durata di questa fase è assai variabile, in rapporto alla gravità ed all’estensione della lesione spinale e del grado di deafferentazione dei motoneuroni spinali da parte delle vie sopraspinali discendenti (fasci reticolo-, vestibolo-, rubro- e corticospinali, fasci propriospinali): tipicamente, rimane compresa fra 1 e 4 settimane. L’entità del danno spinale permanente può cominciare ad essere valutata solo trascorsa la fase di “shock”, di solito annunciata dalla ricomparsa di attività spinali riflesse, e, limitatamente ai motoneuroni spinali, dalla ricomparsa dell’onda F (v. pag. 000). Nei primi giorni dopo il trauma, infatti, è molto difficile - se non impossibile - distinguere una sindrome da sezione completa del midollo (per lacerazione o com-
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pressione) da quella di uno “shock spinale”. In favore dello “shock spinale” depongono la precoce comparsa di piccoli movimenti volontari dell’alluce, del segno di Babinski, di accenni a risposte riflesse profonde o superficiali, dei riflessi pilomotori, e la percezione di qualche stimolo sensitivo agli arti inferiori. Se il danno è talmente esteso da comportare una lesione trasversa completa del midollo, la paraplegia flaccida non rivela alcun segno di regressione, e comporta ritenzione vescicale completa, atonia intestinale, spasmo dello sfintere anale o all’opposto, in alcuni casi, incontinenza rettale. Le alterazioni trofiche cutanee sono più precoci (già nelle prime 24 ore) ed evolvono rapidamente in ulcere da decubito. Se il danno midollare è incompleto, la fase acuta di shock spinale trapassa gradualmente in una successiva fase cronica, caratterizzata da progressivo aumento patologico delle varie attività spinali riflesse. b) Fase iperreflessica. Coincide con la graduale trasformazione dell’iniziale tetraplegia o paraplegia flaccida in equivalenti forme spastiche. a) L’evoluzione in paraplegia spastica in estensione, o muscolo-riflessa, è l’evenienza più frequente. Essa è rapportabile ad una massiva ipereccitabilità motoneuronale secondaria all’insorgenza di una supersensitività da denervazione, con persistente ed abnorme responsività spinale alle afferenze propriocettive provenienti dai fusi neuromuscolari dei muscoli paretici. L’ipertonia estensoria, che si manifesta con iperestensione-iperadduzione delle cosce sul bacino e delle gambe sulle coscie associata ad iperestensione plantare-intrarotazione dei piedi, si associa ad una marcata iperreflessia profonda patologica, spesso contraddistinta da clono evocato inesauribile o addirittura da clono spontaneo (v. pag. 000). Il segno di Babinski può essere già spontaneamente presente, e nelle manovre di evoca-
zione associarsi ad un riflesso di triplice o quadruplice retrazione dell’arto con successivo rapido ripristino dell’iperestensione iniziale; nel contempo, l’arto inferiore controlaterale accentua la sua spontanea iperestensione. Queste risposte riflesse arcaiche non si accompagnano a riflessi vescicali, rettali o secretori, come invece avviene nella paraplegia in flessione. b) L’evoluzione in paraplegia spastica in flessione, o cutaneo-riflessa, rappresenta l’eventualità più grave. Può manifestarsi fin dal primo momento o rappresentare una modalità evolutiva peggiorativa di una precedente paraplegia in estensione, suggerendo una deafferentazione sopraspinale completa dei metameri sottolesionali, con prevalenza degli automatismi midollari evocati da stimoli estero-nocicettivi. Si manifesta tanto più frequentemente quanto più il livello lesionale è craniale: infatti, la sua probabilità di comparsa è massima nel caso di lesioni cervicali, e decresce progressivamente per le lesioni dorsali superiori, dorsali inferiori e lombari. Da ciò è stato dedotto che la postura obbligata in flessione dipende dall’entità dell’attività midollare riflessa (esterocettiva ed automatica), tanto maggiore quanto più numerosi risultano i metameri spinali disconnessi (sottolesionali). La spasticità interessa in maniera particolare i flessori dorsali del piede, della gamba sulla coscia e della coscia sul bacino, e si associa ad un’atrofia muscolare diffusa "ex non usu" negli stessi distretti. Il recupero delle risposte riflesse è dominato dalla comparsa di riflessi cutanei patologici: il segno di Babinski, ad esempio, diventa evocabile oltre che per stimolazione della pianta del piede anche per semplice sfioramento dell’arto inferiore, o addirittura può comparire spontaneamente quando la vescica è ripiena, associandosi molto spesso a risposte massive di triplice o quadruplice retrazione.
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Inoltre, stimolazioni cutanee di qualsiasi genere portate su aree metameriche sottolesionali (arti inferiori ed eventualmente bacino e tronco) determinano lo scatenamento di un riflesso massivo ("mass reflex" di Head e Riddoch, 1917) comprendente crisi spastiche in iperflessione e adduzione degli arti inferiori, talora accompagnate da improvvisa iperidrosi e da svuotamento automatico della vescica e del retto. Crisi analoghe possono insorgere spontaneamente per stimoli propriocettivi genito-urinari, ad esempio per una distensione della vescica o del retto. c) Sindrome midollare centrale (sindrome di Schneider, 1954 e “paralisi crociata” di Dickman, 1990). Comprende quadri clinici che interessano una minoranza di mielolesi cervicali in cui il danno midollare rimane preferenzialmente o esclusivamente confinato alle regioni centrali del midollo (“sindrome di Schneider”), simulando un’emato- o siringomielia (v. pag. 000) o un rammollimento ischemico “a matita” (v. pag. 000), oppure una lesione ischemica bulbare ventrale rostrale coinvolgente la decussazione delle fibre corticospinali destinate agli arti superiori (4% dei pazienti secondo Dickman, 1990). In entrambi i casi, il deficit motorio è nettamente più marcato - o addirittura confinato - agli arti superiori, ove coesistono aspetti amiotroficoareflessici periferici (da lesione motoneuronale concomitante) ed anestesia termo-dolorifica sospesa, spesso a carattere asimmetrico. DISTURBI SENSITIVI. Distribuiti nel territorio sottolesionale, comprendono ipo- anestesia globale stabile, cui possono associarsi parestesie, disestesie e dolore cronico (v. pag. 000) Il dolore cronico spinale rappresenta una complicanza di notevole rilevanza sociale (5-45% dei casi), in grado di interferire pesantemente con le attività della vita quotidiana. Esso può assumere i seguenti aspetti: a) dolore localizzato, ad andamento spesso acuto, di natura fisica o meccanica, in corrispondenza del segmento di colonna vertebrale lesa; b) dolore radicolare, irradiato
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lungo i territori di innervazione di radici nervose danneggiate, a carattere nevralgico (folgorante parossistico) o neuropatico (urente, lancinante e continuativo); c) dolore allo-disestesico, abbastanza comune, scatenato da comuni stimolazioni tattili o termiche, ed a carattere diffuso, tipicamente urente o pungente; d) dolore crampiforme, analogo a quello caratteristico di alcune forme di sclerosi multipla caratterizzate da marcata spasticità (v. pag. 000).
DISTURBI DELLE FUNZIONI VEGETATIVE. 1. - La funzione vescicale è variamente alterata, in rapporto alla sede della lesione: a) Lesioni cervicali o dorsali: escludono ogni tipo di controllo volontario, per cui prende il sopravvento il centro parasimpatico spinale della minzione automatica, situato a livello di S1-S2-S3. La vescica, pertanto, si può svuotare solo spontaneamente ed in maniera pressoché completa solo quando è piena (minzione automatica). Svuotamenti riflessi possono essere determinati, in questi casi, anche per stimolazioni esterne della regione genitale e perineale. b) Lesione lombare: comporta una minzione automatica che può essere favorita, e quindi parzialmente controllata, oltre che per via riflessa anche attraverso una contrazione volontaria del diaframma e dei muscoli addominali. c) Lesioni della cauda equina e del cono terminale: si traducono nel quadro della "vescica autonoma", caratterizzato dalla perdita del controllo riflesso parasimpatico sacrale, sia sul versante afferente (lo stimolo alla minzione non è più avvertito) che efferente (per paralisi periferica del muscolo detrusore, innervato dal centro parasimpatico spinale). Non essendo possibile alcun controllo volontario o riflesso della vescica, le possibilità di svuotamento rimangono affidate esclusivamente all’attività del plesso gangliare simpatico della parete vescicale (centro vescicale autonomo), che entra in funzione solo quando la distensione del viscere è massi-
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ma. Lo svuotamento, tuttavia, è solo parziale, con residuo vescicale notevole, per cui le minzioni si susseguono numerose. L’incontinenza vescicale totale con scolo pressoché continuo di urina, costituisce una evenienza molto rara (v. pag. 000). 1. - La funzione rettale è il più delle volte conservata in forma riflessa, per cui utilizzando idonee stimolazioni si riesce di solito ad ottenere un’evacuazione spontanea delle feci. 2. - La funzione sessuale è abolita soltanto per lesioni del cono terminale. L’erezione, dipendente da un centro parasimpatico situato tra S1 ed S4, è conservata per lesioni al di sopra di tali metameri. L’eiaculazione, dipendente da un centro simpatico situato nel segmento dorsolombare le cui vie efferenti decorrono lungo le ultime radici toraciche e le prime lombari, è invece possibile anche quando l’erezione è abolita. L’orgasmo sessuale ha un comportamento molto differente da caso a caso, ma il più delle volte è sufficientemente conservato in entrambi i sessi, anche nelle lesioni dorsali. 3. - La funzione vasomotoria nella fase dello shock spinale è caratterizzata da importanti manifestazioni asimpaticotoniche riflesse: oltre ad una riduzione dei tassi plasmatici basali di noradrenalina e dopamina, particolarmente marcata in seguito a lesioni cervicali, si osservano perdita della sudorazione, della piloerezione e grave ipotensione ortostatica asimpaticotonica (a polso fisso) (v. pag. 000). Nella successiva fase di aumento delle attività riflesse, il quadro si trasforma, comparendo risposte ipertensive ortosimpatiche abnormi per stimolazioni cutanee o viscerali di segmenti del corpo al di sotto della lesione midollare, fino a configurare una grave disreflessia autonomica, con comparsa dei cosiddetti "riflessi di massa" di Riddoch (1917). Si tratta di vere e proprie crisi riflesse, causate da una brusca iperincrezione di noradrenalina e dopamina plasmatiche, caratterizzate da puntate
ipertensive arteriose, intense parestesie alla nuca, al collo ed alla regione cervicale, sensazioni di penosa costrizione toracica con dispnea, midriasi, pallore alternato a rossore del volto, acufeni, vertigine e cefalea pulsante. Poiché questa situazione comporta un aumentato rischio di complicanze ischemiche (cerebrali, cardiache, ecc.) è indispensabile una profilassi farmacologica per cui la clonidina è risultata il prodotto più efficace. I traumi estesi del tratto lombo-sacrale e del bacino possono causare, oltre al danno degli ultimi metameri midollari, anche danni radicolari multipli, che si manifestano con sindromi della cauda equina (v. pag. 000). In questi casi, una paraplegia flaccida ed areflessica (a genesi neuroperiferica) maschera una eventuale sofferenza midollare associata. ESAMI COMPLEMENTARI La diagnostica neuroradiologica per immagini include le indagini radiografiche convenzionali della colonna, la mielografia, la TC (Naidich et al., 1979), la mielo-TC, la RM e l’angioRM. Fra queste, RM ed angio-RM sono particolarmente atte a valutare la presenza di versamenti ematomielici, lesioni necrotiche ed edema del midollo, compressioni da frammenti ossei, protrusioni o ernie discali. La compressione o lo strappamento di radici spinali può richiedere, nei casi dubbi, un’esplorazione mielografica. L’eventualità di lesioni vascolari associate, ed in particolar modo delle arterie vertebrali e degli altri tronchi sopra-aortici, può essere adeguatamente vagliata con un’indagine angio-RM ad alta risoluzione, che permette di dimostrare occlusioni causate da aneurismi dissecanti, permettendo di limitare ai casi dubbi l’impiego di tecniche angiografiche convenzionali. Le varie indagini elettrofisiologiche (EMG, ENG, studio dei potenziali evocati sensitivi e delle vie motorie centrali) permettono di defi-
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nire la distribuzione e l’entità del danno funzionale, ed offrono parametri obbiettivi assai precisi per valutarne l’evoluzione nel tempo. La diagnostica urodinamica è fondamentale per la valutazione funzionale dei disturbi vescico-uretrali, sia nella fase acuta dello "shock" spinale, sia successivamente, qualora si rendano necessarie decisioni terapeutiche appropriate.
Tabella 21.2 - Scala di danno ASIA. ! A = Completo:
! B = Incompleto:
! C = Incompleto:
DIAGNOSI È basata sull’anamnesi, sui reperti dell’esame neurologico e degli esami complementari, in particolare della RM. La valutazione dell’entità del danno midollare riportato, particolarmente utile nelle prime fasi, può essere notevolmente agevolata applicando i criteri proposti dall’American Spinal Injury Association (ASIA) (2000), di cui viene riportata solo la scala globale di gravità in Tab. 21.2. La valutazione dettagliata dei deficit motori e sensitivi è basata sulla compilazione di un modulo1 che, in funzione dei dati quantitativi ottenuti dall’esame neurologico centrato su specifici punti chiave, permette di ottenere un punteggio motorio massimo (normale) di 50 per lato (100 in totale), un punteggio sensitivo tattile superficiale e dolorifico puntorio ciascuno di 56 (112 per lato). PROGNOSI La sindrome da sezione trasversa completa del midollo comporta una prognosi "quoad vitam" ancora molto grave, per l’alta incidenza di complicanze infettive (urinarie, polmonari, cutanee, meningee). Il rischio maggiore riguarda la fase dello shock spinale e delle varie complicanze settiche acute; a distanza di tre mesi, 1
Il modulo può essere liberamente copiato, ma non modificato, dal sito: http://www.asia-spinalinjury.org/publications/ 2001_Classif_worksheet.pdf
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! D = Incompleto:
! E = Normale:
nessuna funzione motoria o sensitiva è conservata nei segmenti sacrali S4-S5 la funzione sensitiva, ma non quella motoria, è conservata sotto il livello neurologico e include i segmenti sacrali S4-S5 la funzione motoria è conservata sotto il livello neurologico, e più di metà dei muscoli rilevanti per la stazione eretta sotto il livello neurologico hanno forza inferiore a 3. la funzione motoria è conservata sotto il livello neurologico, ed almeno la metà dei muscoli rilevanti per la stazione eretta sotto il livello neurologico hanno forza uguale o superiore a 3. funzioni motorie e sensitive normali.
SINDROMI CLINICHE ! ! ! ! !
Midollare Centrale Brown-Séquard Midollare Anteriore Cono Midollare Cauda Equina
la mortalità tende a scendere rapidamente, attestandosi su indici di sopravvivenza a 10 anni dell’86% dei soggetti paraplegici e dell’80% dei tetraplegici (Messard et al., 1978). Nei bambini la prognosi è ancora migliore risultando pari all’87% a 7 anni (DeVivo et al., 1987). Il fattore prognostico peggiore è rappresentato dalla tetraplegia e dall’età molto avanzata. La paraplegia in flessione comporta scarse o nulle possibilità di ricupero funzionale. La prognosi non è molto migliore nelle forme incomplete, in cui a distanza di tempo possono al massimo ricomparire incoordinate contrazioni muscolari, inefficienti sotto il profilo della ripresa funzionale, associate a parestesie. La contusione midollare con livello C3, una volta trascorso il periodo iniziale, può avere un
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miglior prognostico "quoad valetudinem" qualora si manifesti un certo recupero, anche se molto modesto, già nelle prime settimane successive al trauma. La commozione midollare ha decorso favorevole, con ricupero funzionale rapido e completo. Le sindromi della cauda equina hanno solitamente una prognosi meno grave rispetto a quelle midollari per le maggiori possibilità di ricupero funzionale delle radici spinali, fatta eccezione per i casi, fortunatamente piuttosto rari, di una neurotmesi radicolare. TERAPIA In quest’ultimo decennio, l’interesse di base verso il trattamento dei traumi del midollo spinale è cresciuto in maniera esponenziale, e le risorse della bioingegneria e della neurobiologia molecolare vengono sfruttate nelle più impensabili direzioni terapeutiche, con la speranza di identificare strategie e tecniche che permettano un potenziamento delle strutture midollari rimaste indenni ed un rispristino delle connessioni neurali ascendenti e discendenti interrotte dal trauma. Basti qui accennare solo ad alcune fra le più recenti novità: a) particolari protocolli di stimolazione epidurale lombare, capaci di attivare le sequenze automatiche spinali della marcia, hanno permesso a quadriparetici gruppo ASIA C (vedi sopra) una netta agevolazione della deambulazione con ripristino di una certa autonomia (Herman et al. 2002); b) speciali apparati di elettrostimolazione dei muscoli paretici degli arti e del bacino per ora impiantati solo su due persone paraparetiche (in Francia ed Italia) e programmati per attivare in sequenza 50 muscoli deputati alla marcia, si sono dimostrati capaci di migliorare o permettere una deambulazione autonoma, altrimenti impossibile, per periodi di varie mezz’ore al giorno; c) la stimolazione elettrica intermittente si è dimostrata efficace nel far superare ai coni di accrescimento assonale la repulsione che essi subiscono da parte di componenti mieliniche, e nel favorire quindi i fenomeni di rigenerazione e reinnervazione all’interno del tessuto nervoso (Ming et al., 2001); d) nel midollo spinale di ratto, il polisaccaride streptococcico anti-angiogenico CM101 si è rivelato efficace nel ridurre la formazione di
tessuto cicatriziale gliale reattivo alla flogosi da necrosi traumatica, permettendo non solo un’assai più elevata sopravvivenza degli animali trattati, ma anche un loro rapido recupero della marcia (Wamil et al., 1998); e) in un modello sperimentale di demielinizzazione delle colonne dorsali (ratto), l’impianto di cellule di Schwann umane criopreservate si è dimostrato in grado di produrre una neo-mielinizzazione sufficiente a ripristinare la normale conduzione assonale (Kohama et al., 2001); f) nel ratto, tessuto spinale fetale impiantato dopo 2 settimane nella sede di una pregressa sezione completa midollare, induce, in presenza di neurotrofine, il ripristino delle connessioni anatomiche con recupero della funzione motoria (Coumans et al., 2001); g) il trattamento intratecale con condroitinasi (ABC) appare efficace nell’eliminare l’effetto barriera esercitato dai condroitin solfato-proteoglicani extracellulari (prodotti dalla cicatrice gliale reattiva) sugli assoni rigeneranti ascendenti (colonne dorsali) e discendenti (fascio corticospinale), permettendo un’efficiente reinnervazione motoneuronale (Bradbury et al., 2002); h) a partire dal 1987, è iniziata la sperimentazione di impianti di tessuto spinale embrionale umano in portatori di cisti midollari evolutive post-traumatiche (Falci et al., 1997) e siringomieliche (Università di Florida, USA).
In attesa che tali speranze si trasformino finalmente in certezze concretamente utilizzabili ai fini terapeutici, le modalità di trattamento disponibili rimangono basate su provvedimenti tradizionali. Al momento del soccorso, è indispensabile evitare grossolane manipolazioni dell’infortunato nel suo spostamento passivo sulla barella, dato il rischio di lesioni midollari aggiuntive, o addirittura più gravi di quelle già esistenti. Il trasporto dev’essere effettuato in posizione orizzontale: in decubito prono col capo leggermente in estensione nelle lesioni cervicali, in decubito supino nelle lesioni dorsali, avendo cura che il rachide in tutta la sua lunghezza non venga spostato e non subisca alcuna deformazione durante il viaggio; particolare attenzione dev’essere posta perché il capo non subisca flessioni di sorta (Frankel et al., 1969). In questa fase iniziale, la prognosi può essere sensibilmente migliorata dalla somministrazione di corticosteroidi a dosi elevate: desametazone 16-32 mg/dì o metil-prednisolone 30 mg/ kg in bolo, seguito da adeguate dosi di mante-
Traumi
nimento (5 mg/kg ogni ora) entro le prime 24 ore, o protratte per 48 ore in caso di inizio della terapia steroidea ritardato di 3-8 ore dal momento del trauma (Bracken, 2001). Successivamente, a definizione diagnostica dello stato clinico generale e neurologico completata (Young, 1979), si profilano interventi variabili da caso a caso, che prevedono ad esempio operazioni decompressive e ricostruttive nelle fratture vertebrali con dislocazioni, estrazioni di corpi estranei dal rachide e laminectomie con discectomie in caso di ernie discali. Una dettagliata descrizione delle indicazioni e delle procedure ortopediche o neurochirurgiche da adottarsi in ogni singolo caso, esula dagli scopi del presente trattato (vedi a tal scopo Ogilvy e Heros, 1993; Woolsey e Young, 1991). Nelle forme con lussazione vertebrale (Fig. 21.1), può essere utile, in attesa dell’intervento, applicare un’adeguata trazione della colon-
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na cervicale. Nella maggior parte dei casi, la trazione e l’immobilizzazione della colonna fino ad una definitiva fissazione del rachide costituiscono il trattamento preferenziale in attesa di iniziare una rieducazione funzionale intensiva. Sia nella fase acuta che nei periodi successivi è necessario garantire lo svuotamento della vescica mantenendo le vie urinarie pervie mediante cateterismo, dapprima fisso (per via uretrale o sovrapubica, con apertura ogni 2-4 ore), quindi intermittente (ogni 4-6 ore). Particolare cura va posta nell’asepsi, nella periodica sostituzione del catetere a dimora (ogni 2 settimane), e nell’assunzione di abbondanti quantità di liquidi (3-4 l per os al giorno) associati ad acidificanti (Vit. C, 1 g al giorno) onde prevenire la calcolosi e le infezioni urinarie. Lo svuotamento vescicale va agevolato con la spremitura manuale dell’addome e la manovra di Valsalva, e nelle fasi di recupero dell’automa-
Fig. 21.1 - Radiogramma della colonna cervicale e tomografia. A) Sublussazione occipito-atlantoidea e atlanto-assoidea con spiccata deformazione delle superfici articolari specie tra atlante ed epistrofeo. B) Probabile pregressa frattura del dente dell’epistrofeo. Occipitalizzazione dell’atlante con sublussazione ventrale della sua massa anteriore.
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tismo vescicale, eventualmente anche con anticolinesterasici (neostigmina metil-solfato, 0,5 mg im). Nei casi cronici più gravi, può rendersi addirittura necessario un intervento di diversione urinaria. L’alimentazione deve garantire 2000-2500 calorie al giorno, ed essere ricca di proteine (100-150 g al giorno) vitamine e fibre vegetali (verdure, pane integrale e crusca), ma povera di calcio onde prevenire la calcolosi urinaria. La somministrazione dei pasti ad intervalli regolari, l’integrazione con sostanze ad azione emolliente (pectine vegetali) o lubrificante (olio d’oliva, olio minerale), e l’impiego di blandi lassativi contribuiscono ad agevolare la defecazione. La paralisi intestinale richiede la sistemazione di una sonda rettale per evitare disturbi respiratori secondari a meteorismo; una periodica evacuazione, inoltre, deve essere garantita almeno ogni due giorni, se occorre anche mediante svuotamento del retto mediante clistere (e manuale in caso di fecaloma) o ausilio di farmaci (ad esempio, neostigmina metil-solfato 0,5 mg/ i.m.). Le ulcere da decubito rappresentano una temibile complicanza. Poiché nessun mezzo di prevenzione risulta di per sé infallibile, si impiegano generalmente strategie combinate: a) il malato non deve mantenere per più di 2-3 ore la stessa posizione, ma dev’essere spostato il più frequentemente possibile in decubito laterale destro, sinistro, prono e supino, ed a periodi, laddove possibile, anche in posizione semi-seduta; b) devono essere impiegati lettini girevoli per evitare spostamenti del malato; c) il letto dev’essere dotato di speciali materassi idraulici che permettono di variare gradualmente la pressione d’appoggio alternandola periodicamente nei punti di decubito, o di speciali materassi formati da sfere plastiche autoscorrevoli che riducono la pressione d’appoggio distribuendola su vaste superfici; d) dev’essere assicurata la massima cura igienica della cute tramite il contenimento delle urine e delle feci, ed impedita la macerazione cutanea mediante ripe-
tute frizioni con alcool, appoggio su velli sintetici, protezione con preparati siliconici (Silkospray) ed impiego di creme ad azione dermotrofica. Quando le ulcere da decubito si sono già formate, è indispensabile provvedere alla loro cura mediante una vasta serie di provvedimenti, molti dei quali in continua evoluzione tecnologica: a) escissione chirurgica delle escare necrotiche e, se possibile, innesto di lembi cutanei o di cute del malato coltivata “in vitro”; b) detersione con soluzioni di amuchina, di antibatterici a base di ammonio quaternario (benzalconio), e di antibiotici mirati in caso di superinfezione, con bicarbonato in caso di infezioni da pseudomonas; c) impiego di medicazioni vaselinate antibiotiche e dermotrofiche (Fitostimoline), e laddove possibile, applicazione di gomma espansa sterile al silicone (“Silastic foam dressing”) o, alternativamente, di sottili spugne liofilizzate di derivati del condroitin-solfato onde proteggere l’ulcera dall’inquinamento batterico, agevolare il drenaggio delle secrezioni ed esercitare una specie di massaggio che favorisca la granulazione; d) di una certa utilità è la foto- ed ossigenoterapia. La guarigione dell’ulcera comporta retrazione dei margini, granulazione e riepitelizzazione dalla periferia; la cute neoformata, tuttavia, è molto sottile e fragile, ed appoggiandosi su piani sottostanti induriti dal processo cicatriziale, deve essere accuratamente protetta. Il percorso riabilitativo, piuttosto articolato, mira a favorire non solo ogni possibilità di recupero spontaneo, ma anche a potenziare ed utilizzare al meglio le risorse disponibili per supplire ai deficit motori permanenti nell’ottica di un reinserimento sociale soddisfacente. In accordo con le Linee Guida per le Attività di Riabilitazione del Ministero della Sanità (1998), il punto di riferimento permanente per i traumatizzati mielolesi dev’essere l’Unità Spinale, struttura dotata di mezzi e personale altamente specializzato per affrontare fin dalle prime fasi le complesse problematiche di queste persone. Attualmente, la distribuzione di queste strutture sul territorio nazionale rimane confinata al Nord ed al Cen-
Traumi tro-Sud, complessivamente dotati di sei Unità Spinali Unipolari (Firenze, Roma, Vicenza, Perugia, Sondalo, Pietra Ligure) e quattro Unità Spinali Integrate (Milano, Udine e Provincia, Torino e Verona). Queste Unità offrono alle persone affette da para e tetraplegia un approccio globale, che tiene conto di tutti gli aspetti clinico-riabilitativi, chirurgici, psicologici e sociali relativi alla disabilità ed alle necessità individuali di ogni singolo malato, nell’intento di fare acquisire a quest’ultimo il massimo grado di autonomia compatibile con la sua disabilità ed un inserimento sociale ottimale. Il principale problema è quello del recupero della stazione eretta e della marcia: questo obbiettivo implica forti motivazioni personali e capacità di sopportare pesanti carichi di lavoro fisico. I risultati funzionali dopo lunghi periodi di addestramento possono anche rivelarsi insoddisfacenti, dipendendo da un insieme eterogeneo di fattori quali entità e distribuzione del deficit motorio, capacità d’equilibrio, presenza o meno di limitazioni articolari, patologie associate, età, ecc. Le Unità Spinali, grazie a competenze multidisciplinari convergenti, rappresentano non solo un approdo ben attrezzato e specializzato per le fasi di emergenza, ma soprattutto un punto di riferimento per guidare la persona mielolesa al raggiungimento nel tempo di un recupero funzionale ottimale con o senza capacità di deambulare, e di un reinserimento nella famiglia, nel mondo della scuola, del lavoro e della vita quotidiana.
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Ernia del disco intervertebrale È una dislocazione patologica delle strutture che formano il disco intervertebrale (nucleo polposo e anello fibroso) causata da traumi compressivo-torsionali, che il più delle volte agiscono su un disco malformato o in fase degenerativa. Può rimanere asintomatica, oppure causare compressione del midollo e/o delle radici spinali. PREMESSE ANATOMO-FUNZIONALI La colonna vertebrale comprende, fra l’epistrofeo e la prima sacrale, 23 dischi interposti fra i corpi vertebrali, il cui spessore medio aumenta progressivamente dal tratto cervicale (3.5 mm) al tratto lombare (9 mm), arrivando a contribuire, complessivamente, per 1/4-1/5 della sua
lunghezza complessiva, e per 1/3 nel solo tratto cervicale. Nel tratto cervicale e lombare, la parte ventrale dei dischi e dei corpi vertebrali, leggermente più spessa, produce una curvatura dorso-concava (lordosi fisiologica). L’opposto accade nel tratto toracico, che presenta lieve curvatura dorso-convessa (cifosi fisiologica). I dischi si compongono di due parti, una periferica o anello fibroso, ed una centrale, o nucleo polposo. L’anello fibroso è formato da fasci fibrosi lamellari, frammisti a fibre elastiche, che s’incrociano obliquamente connettendo le superfici giustapposte di due corpi vertebrali adiacenti. Il nucleo polposo è leggermente spostato verso il margine posteriore del disco, ed è formato da un tessuto mucoso residuo della primitiva corda dorsale, contenente cellule trasparenti d’aspetto gelatinoso. È molto ricco di mucopolisaccaridi e di acqua (88% nei giovani, 70% nei vecchi), e si comporta come un mezzo fluido incomprimibile. La superficie d’appoggio dei corpi vertebrali è formata da un sottile strato cartilagineo che alla periferia riveste una zona anulare di osso compatto. L’articolazione con i dischi, definita anfiartrosi, permette solo minime escursioni, ma in compenso risulta molto elastica per la presenza del nucleo polposo che funge da cuscinetto ammortizzatore. Nel tratto cervicale l’appoggio è reso più complesso per l’articolarsi delle apofisi semilunari (uncini), presenti sulla superficie superiore del corpo vertebrale, con corrispondenti incisure situate sul corpo inferiore della vertebra sottostante (articolazioni uncovertebrali). Un certo appoggio avviene inoltre in corrispondenza delle apofisi articolari superiori ed inferiori delle lamine vertebrali, ove l’unico spostamento possibile è lo scivolamento. I ligamenti vertebrali comuni, o longitudinali anteriori e posteriori, contribuiscono a mantenere in sede i dischi intervertebrali e assieme ai ligamenti intertrasversari, interspinosi e sopraspinoso contribuiscono ad irrobustire il rachide e ad impedirne abnormi escursioni. La dura madre è mantenuta aderente ad essi da tessuto connettivo areolare. Complessivamente, la colonna può eseguire cinque movimenti: flessione, estensione, inclinazione laterale, circumduzione e rotazione. I dischi vanno precocemente incontro a processi degenerativi già a partire dall’età di 18-20 anni. L’invecchiamento comporta: a) progressiva graduale disidratazione del nucleo polposo, che subisce una trasformazione fibrosa e tende a retrarsi; b) metaplasia cartilaginea dell’anello fibroso, che tende a fissurarsi dapprima in senso circolare quindi anche in senso radiale, permettendo così l’espulsione del nucleo. Tali modificazioni si instaurano più precocemente nei segmenti rachidei più mobili e maggiormente sottoposti a carico come il tratto cervicale, gravato dal capo, ed il tratto lombare, gravato dalla metà superiore del corpo, e
Traumi colpiscono quasi sempre più dischi, con conseguente progressiva riduzione dello spazio intersomatico, perdita delle capacità ammortizzatrici e sovraccarico delle articolazioni interapofisarie posteriori ed uncovertebrali cervicali, che vanno così incontro a processi osteoartrosici degenerativi. Nelle fasi avanzate del processo si realizza un progressivo disallineamento dei corpi vertebrali a tipo spondilolistesi o pseudo-retrolistesi. All’interno dello speco vertebrale, un’abbondante innervazione nocicettiva metamerica è fornita ai dischi intervertebrali (nucleo polposo/anello fibroso), al legamento longitudinale posteriore, alle porzioni anteriori della dura madre, ai plessi venosi, alle radici ed al nervo spinale dal n. senovertebrale, costituito da assoni amielinici sensitivi di piccoli neuroni a T dei gangli dorsali che si distaccano dai rami comunicanti (Bogduk et al., 1982; van Roy et al., 2001) (v. pag. 000). All’esterno dello speco, le strutture rachidee ricevono innervazione nocicettiva metamerica dai rami ventrali e dorsali del n. spinale corrispondente.
PATOGENESI Il trauma meccanico è determinante. L’estrusione del nucleo polposo dal disco si può verificare per: a) eccessiva compressione di un disco normale; b) compressione di un disco normale secondo vettori abnormi; c) compressione di un disco alterato. Le prime due evenienze sono le più rare, ed occorrono per traumi diretti o indiretti della colonna. I traumi diretti, causati ad esempio da cadute sulla testa o su una spalla, o da colpi violenti sul collo o sul dorso, sono principalmente responsabili di ernie cervicali o toraciche. I traumi indiretti, derivanti da brusche e violente sollecitazioni flesso-estensorie o torsionali della colonna, come ad esempio nell’atto di evitare una caduta o di trattenere o sollevare un peso con il tronco flesso ad angolo retto, sono invece la causa principale delle ernie lombari e lombo-sacrali. La terza evenienza si verifica nella degenerazione discale: tanto essa è più avanzata, tanto più facilmente il nucleo polposo viene espulso per traumi anche molto modesti. Gli uomini, più facilmente esposti a lavori faticosi, sono colpiti con frequenza molto maggiore rispetto alle donne. Le localizzazioni più frequenti sono lombari, in ordine di frequenza L4-L5 e L5-S1. Seguono le localizzazioni cervicali, in ordine di frequenza C5-C6, C4-C5, C6C7 e C3-C4 (Grinker e Sahs, 1966; Victor e Ropper, 2001). Le localizzazioni dorsali sono rare. Macroscopicamente, l’ernia discale può assumere differenti aspetti (Fig. 21.2):
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C
B A
Fig. 21.2 - Ernia del nucleo polposo nelle diverse direzioni: intraspongiosa (A), anteriore (B) e posteriore (C).
– l’ernia intraspongiosa (Fig. 21.2A), detta anche nodulo di Schmorl, corrisponde ad una dislocazione del nucleo polposo nel corpo vertebrale con riduzione d’ampiezza del corrispondente spazio intersomatico. È spesso un reperto occasionale e solo raramente può avere importanza clinica; – l’ernia dell’anello fibroso è formata dal nucleo polposo e da frammenti di fibre dell’anello fibroso, e si espande preferenzialmente in senso posteriore. Dapprima si tratta di una semplice protrusione (ernia contenuta), quindi di un’espulsione al di fuori dello spazio intervertebrale, che può essere contenuta dal ligamento longitudinale posteriore (ernia sottoligamentosa), oppure, se questo cede, aggettare direttamente nello speco vertebrale (ernia espulsa) (Fig. 21.2 C). Quando il legamento longitudinale resiste alla pressione, il nucleo polposo ernia lateralmente ad esso, in direzione paramediana o laterale, occupando i recessi laterali o i forami di coniugazione; quando invece il ligamento cede, il nucleo ernia direttamente in direzione postero-mediana (Fig. 21.3). Lasciata a sé, la massa dell’ernia con il tempo si disidrata e subisce una trasformazione in tessuto cicatriziale che progressivamente calcifica ed aderisce alla dura madre. Anche in questo caso lo spazio intersomatico si riduce d’ampiezza, l’anello fibroso compresso va incontro a frammentazione, e si attiva un’osteogenesi osteofitosica marginale. Recenti evidenze dimostrano che i costituenti del nucleo polposo, anche in assenza di effetto compressivo meccanico, possono solo di per sé esercitare una potente azione infiammatoria sul ganglio dorsale, con rapida formazione di edema e sofferenza compressiva della relativa radice posteriore, comportando in tal modo una
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dolore radicolare puro. Per tale motivo, è bene distinguere il dolore localizzato da lesioni vertebrali da quello radicolare, e quest’ultimo dal dolore pseudoradicolare causato dalla compromissione di organi viscerali, utilizzando i seguenti criteri:
Fig. 21. 3 - Ernia discale posteriore e paramediana (destra e sinistra).
vera e propria "sindrome compartimentale" del ganglio stesso (Yabuki et al., 2000; Yabuki et al., 2001). Inoltre, il semplice contatto del nucleo polposo con le radici lombo-sacrali causa un prolungato aumento della scarica dei neuroni spinali agli stimoli nocicettivi (Anzai et al. 2002). Nell’insieme, tali azioni pro-infiammatorie sembrano principalmente causate da citochine, quali il TNF (Olmarker, 2001), interleukine IL-6 ed IL-8 e prostaglandina PGE2 prodotte dal nucleo polposo, rilasciate in quantità assai maggiore nei casi di ernia discale rispetto a quelli di semplice lombalgia (Burke et al., 2002). Evidenze non meno importanti riguardano l’alta incidenza di infezione dei tessuti discali da parte di saprofiti cutanei, in particolare Propionibacterium acnes, verosimilmente migrati in tal sede in seguito a traumatismi del rachide. Questo batterio, di per sé scarsamente invasivo e pericoloso, rappresenta tuttavia uno potente stimolo irritativo capace di produrre localmente risposte infiammatorie subacute o croniche coinvolgenti i tessuti circostanti (Stirling et al., 2001). Entrambe le eventualità non dovrebbero essere ormai più sottovalutate, potendo spiegare i molti casi di sciatica in cui non si riesce a documentare altro che modeste protrusioni discali, o i casi in cui, pur essendovi stata completa espulsione del nucleo polposo, le neuroimmagini non dimostrano segni compressivi di sorta, e comunque tali da giustificare un intervento neurochirurgico decompressivo.
a) dolore localizzato scleromerico (o somatomerico): è avvertito in corrispondenza di una vertebra, di un disco o di un’articolazione intervertebrale lesa. Si tratta di un dolore cronico relativamente confinato, sordo, peggiorato dai movimenti e dal carico, ed esacerbato dalla compressione delle apofisi spinose e dei punti di Valleix paravertebrali. Convogliato attraverso l’innervazione fornita dal nervo senovertebrale, può spesso risultare aggravato da un dolore riferibile a contrattura dei muscoli paravertebrali (innervati dai rami dorsali del nervo spinale), rivelata da ipomobilità, dolorabilità marcata alla compressione ed assunzione di posture antalgiche nel tratto di colonna colpito;
SINTOMATOLOGIA
b) dolore radicolare dermatomerico: è distribuito nel territorio d’innervazione cutanea di una radice compressa o irritata. È un dolore lancinante, continuativo, molto vivo ed intenso, con le caratteristiche del dolore neuropatico, che in certe occasioni può di colpo accentuarsi simulando un dolore nevralgico. Di solito predomina o è confinato nelle porzioni più periferiche del dermatomero in causa. È accentuato dalle manovre di stiramento radicolare e dall’aumento pressorio endorachideo causato dal torchio addominale, si accompagna ad ipomobilità del rachide e del corrispondente cingolo (scapolare o pelvico), e si associa a segni reflessologici o anche deficitari sensitivo-motori a distribuzione radicolare. Si può manifestare isolatamente come primo sintomo, ma più frequentemente si sovrappone ad un dolore sordo localizzato al rachide (nel tratto lombo-sacrale configura il cosiddetto "low-back pain");
Il dolore domina sempre il quadro iniziale, ma non sempre presenta le tipiche caratteristiche del
c) dolore viscerale pseudoradicolare o "riferito": si tratta di un dolore continuativo, solita-
Traumi
mente sordo, spesso con esacerbazioni lancinanti, più o meno vagamente avvertito nelle porzioni distali di uno-due dermatomeri. Si associa a dolenzia e dolorabilità dell’organo o apparato colpito ed a manifestazioni vegetative riflesse (v. pag. 000), non peggiora sollecitando la colonna, e si accentua invece con le posture, le manovre o le situazioni che sollecitano il viscere leso. Ernia discale cervicale. - Si manifesta molto spesso in maniera acuta in seguito a bruschi movimenti o sollecitazioni della colonna cervicale, e si accompagna ad una scoliosi cervicale funzionale con convessità verso il lato dolente associata ad abduzione dell’arto omolaterale onde detendere la radice irritata, per cui il capo risulta leggermente inclinato verso il lato sano. Si distinguono due modalità di erniazione: a) ernia cervicale mediana. Si manifesta inizialmente con algie alla nuca, alle spalle ed agli arti superiori, talora associate a segno di Lhermitte (v. pag. 000). Poiché è alto il rischio di un’evoluzione in tetraparesi spastica più o meno simmetrica, nettamente prevalente agli arti inferiori per le localizzazioni C6-C7-C8, l’intervento decompressivo non può essere ritardato, data la possibile comparsa di paresi vescicali e rettali irreversibili; b) ernia cervicale laterale. Esordisce con un quadro algico-parestesico a distribuzione prettamente radicolare localizzato al cingolo scapolare ed agli arti superiori, associato a contrazione tonica dei muscoli del collo, atteggiamento antalgico del capo e perdita della fisiologica lordosi cervicale. L’obiettività neurologica all’inizio è spesso molto modesta, limitandosi ad una lieve ipoestesia superficiale circoscritta alle porzioni più distali del territorio di una radice, associata ad alterazioni di uno o più riflessi profondi.
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Nel caso di una sofferenza radicolare pura, a seconda del livello, uno o più riflessi profondi dell’arto superiore possono essere ridotti o aboliti. Se coesiste una sofferenza midollare anterolaterale, accanto ad una ipo-areflessia indicativa di un’interruzione dell’arco diastaltico (ad esempio C5-C6, riflessi bicipitale e radioflessore) si può riscontrare un’iperreflessia profonda patologica nei metameri immediatamente sottostanti (C7-C8-T1, riflessi cubitopronatore, tricipitale e flessore comune delle dita). Tale iperreflessia può essere causata sia da una parziale denervazione cortico-spinale, sia da una perdita dell’inibizione reciproca da parte del metamero sovrastante deafferentato: qualora l’abbassamento sogliare sia ragguardevole, questi riflessi diventano evocabili anche per stimolazione del muscolo areflessico, determinando una risposta "paradossale" (DeJong, 1969) o "invertita" (nel caso in questione, riflesso bicipitale in estensione, anziché in flessione, per iperreflessia tricipitale patologica) o "diffusa" a metameri ancora più lontani (m. flessore comune delle dita). La paradossale inversione di un riflesso, pertanto, indica la sua abolizione con diffusione della risposta riflessa a metameri diventati ipereccitabili e capaci di rispondere anche a minime vibrazioni trasmesse da lontano per via ossea (Lance, 1980). Oltre che all’arto superiore, il fenomeno può osservarsi anche all’arto inferiore, ove la scomparsa di un riflesso rotuleo si può associare ad una diffusione della risposta riflessa ai muscoli adduttori ipsilaterali o anche al quadricipite controlaterale. Più raramente si configurano quadri misti radicolo-mielopatici ingravescenti, con ipostenia ed ipotrofia di muscoli dell’arto superiore, specie dei piccoli muscoli della mano, o con caratteristiche di emisezione trasversa tipo sindrome di Brown-Séquard (v. pag. 000). In ogni caso, l’approccio clinico è indispensabile per guidare ed interpretare le successive esplorazioni diagnostiche, elettrofisiologiche e per immagini.
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Ernia discale dorsale. - È la localizzazione meno frequente: 0,5 % rispetto alle altre sedi. Il quadro clinico differisce notevolmente a seconda del segmento toracico in causa. Nelle forme a protrusione mediana, il dolore viene avvertito in sede paraspinosa, mentre nelle protrusioni laterali il dolore si distribuisce a cintura. L’elevato rischio di un’evoluzione in paraparesi spastica con ipoestesia e disturbi sfinterici impone la decompressione chirurgica. Ernia discale lombare. - Si verifica più frequentemente in corrispondenza dei punti di massima mobilità del tratto lombare (L4-L5-S1) e si manifesta quasi sempre in maniera acuta con dolore radicolare a tipo cruralgia o sciatalgia. Le forme più gravi successivamente si complicano con deficit sensitivi e motori a distribuzione radicolare. – Il dolore è violento e persistente, compare spesso di colpo e si distribuisce nel dermatomero della radice irritata: a) la compressione di L1-L2 è molto rara, e si manifesta con dolore subinguinale diffuso alla radice antero-mediale della coscia; b) la compressione di L3 comporta dolore irradiato dalla superficie interna della coscia fino al ginocchio; c) la compressione di L4 si manifesta con un’irradiazione obliqua del dolore dalla superficie antero-esterna della coscia fino a quella antero-interna della gamba; d) la compressione di L5 causa dolore che dalla superficie esterna del ginocchio si irradia a quella laterale della gamba, raggiungendo il dorso del piede e l’alluce; e) la compressione di S1 si manifesta con dolore che dalla natica si estende lungo la faccia posteriore della coscia fino a raggiungere la superficie esterna del piede ed il V dito. La parte più dolente dell’arto è di solito quella più distale, ed è in essa che più facilmente insorge ipoestesia. Il dolore viene nettamente accentuato dalla manovra di Valsalva e dallo stiramento dei tronchi nervosi e delle radici irritate. Particolari manovre risultano assai utili a scopo semeio-
tico: a) l’iperestensione passiva della coscia sul bacino a paziente prono, definita anche manovra di Lasègue inversa, in caso di irritazione L1L2-L3-L4, provoca dolore alla regione lombare media, irradiato alle porzioni antero-mediali della coscia; b) la flessione dell’arto inferiore esteso sul bacino a paziente supino, o manovra di Lasègue diretta, in caso di irritazione L4-L5S1, provoca dolore alla regione lombare inferiore irradiata alla natica ed alle regioni posteriori dell’arto inferiore per escursioni inferiori a 75°; stesso significato ha la flessione del tronco sul bacino ad arti inferiori iperestesi (manovra di Neri), che comporta la flessione del ginocchio dal lato colpito. La positività di entrambe le manovre indica un’irritazione di L4. L’abduzione e la rotazione della coscia sul bacino accentuano il dolore localizzato nella regione dell’anca solo in caso di flogosi coxo-femorale, mentre sono negative in caso di ernia lombare. L’accentuazione del dolore per compressione dei punti di Valleix si può ricercare adeguatamente solo nella sciatalgia, dato che il tronco sciatico può essere compresso dalle dita a livello gluteo, alla coscia ed al poplite. – L’atteggiamento del tronco è tipico: a) nelle ernie lombari mediane si osserva l’alternarsi di una scoliosi funzionale antalgica con concavità dapprima verso un lato, quindi verso l’altro ("sciatica alternante"); b) nelle ernie paramediane e laterali, una scoliosi lombare funzionale con convessità verso il lato dolente si associa ad una flessione dell’arto inferiore onde detendere L5-S1, per cui il tronco risulta leggermente inclinato verso il lato sano; c) la fisiologica lordosi lombare è eliminata o fortemente ridotta dalla contrazione tonica dei muscoli lunghi del dorso e sacrospinali. – I riflessi profondi sono indeboliti nel territorio radicolare colpito, e con maggior intensità l’achilleo. – Ipostenia ed ipotrofia muscolare possono osservarsi soprattutto nelle forme più gravi e di vecchia data. Sono prevalentemente colpiti i
Traumi
muscoli peronei, i tibiali anteriori, l’estensore lungo dell’alluce e, in misura minore, anche il gastrocnemio. Il termine di "sciatica paralizzante", proposto da Putti e Déjerine, viene usato nei casi in cui la sintomatologia algica insorge repentinamente, e dopo una fase di acuzie, si attenua o cessa per dare luogo ad un grave deficit di forza. L’ipostenia, in ogni modo, può instaurarsi assieme al dolore. – La compressione di molte radici lombosacrali, che si manifesta con una sindrome della cauda (v. pag. 000), è solo eccezionalmente causata da erniazione massiva di un disco lombare in soggetti con stenosi del canale lombare, per cui s’impone la ricerca di altre cause compressive (neoplasie).
to nel giro di 10-15 giorni, ma con molta facilità la sindrome sciatalgica si ripresenta, specialmente nei soggetti addetti a lavori pesanti. Lombalgia. Questo termine, che nella letteratura anglosassone corrisponde alla dizione di "low back pain", è puramente descrittivo ed indica in maniera aspecifica dolore uni o bilaterale alle regioni lombo-sacro-iliache, di solito bilaterale, a carattere continuativo, gravativo, diffuso e spesso privo d’irradiazioni. Il dolore può essere sintomo di una discopatia lombare con semplice protrusione discale o di una patologia osteo-articolare localizzata (dolore scleromerico, vedi sopra), oppure rappresentare un sintomo "riferito" causato da patologia pelvico-addominale. Un elenco delle possibili, numerose cause è mostrato nella Tabella 21.3.
La sintomatologia da ernia lombare può regredire spontaneamente con il semplice riposo a let-
Tabella 21.3 - Cause di lombalgia Traumi da stiramento (miofibralgie) Fratture del corpo, archi ed apofisi vertebrali o del bacino Gravidanza, mestruazioni e patologia ginecologica Patologia viscerale addomino-pelvica Patologia vascolare (aneurisma dell'aorta addominale) Emorragia retroperitoneale Osteo-artropatie vertebrali
VES
Ca2+
PO43-
ALP
Discopatie Osteoartrosi (spondilosi) Osteoporosi Osteomalacia Carenza di Vit. D Insufficienza renale cronica Malassorbimento
= = =
= = ↓=
= = =
= = =
= ↑ ↑
↓ ↓ ↓
↑ ↑ ↓
↑ ↑ = ↑
Iperparatiroidismo Metastasi osteolitiche Metastasi osteoblastiche
= ↑ ↑
↑ ↑ ↓ =
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= ↑ ↑ =
↑ = ↑ ↑= ↑↑ ↑ =
= = = ↑ ↑= =
= = ↑ = ↓ = =
= = ↑ ↑↑ ↑= =
Spondilite anchilosante Spondilite reumatoride Malattia di Paget Mieloma multiplo - Linfomi Osteomielite vertebrale Malattia di Scheuermann (parzialmente tratta da Wintrobe et al., 1970)
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A scopo diagnostico, può essere utile valutare mediante compressione digitale la dolorabilità di specifici punti cutanei della regione toracolombo-sacrale e della natica, capaci di scatenare o accentuare selettivamente il dolore lombalgico (punti "trigger", Fig. 21.4). L’identificazione dei punti trigger (o dei punti iperalgesici) richiede una esplorazione delicata, a partire dalle regioni indolenti per raggiungere gradualmente quelle spontaneamente dolenti, in modo da ottenere la massima collaborazione ed evitare false risposte da parte del paziente.
Fig. 21.4 - Punti "trigger" (o iperalgesici) nelle lombalgie. 1: angolo costo-vertebrale (patologia genito-urinaria e surrenale, frattura costale, lesioni delle inserzioni muscolari o dei processi trasversi della I-II vertebra lombare, o, al di sotto, delle altre); 2: apofisi spinose e ligamenti interspinosi (discopatia, spondilolistesi, spondilodiscite, artrite reumatoide); 3: faccette articolari fra V vertebra lombare e I sacrale (discopatia L5-S1, artrite reumatoide); 4: dorso del sacro; 5: cresta iliaca; 6: angolo ileo-lombare; 7: apofisi spinose della V vertebra lombare e I sacrale (come in 2); 8: ligamenti sacro-iliaci, fra la spina ilaca posteriore superiore ed inferiore (stiramento sacro-iliaco, discopatia L5 ed S1); 9: giunzione sacro-coccigea (stiramento, fratture); 10: regione dell'indentatura sacro-sciatica (rottura del IV-V disco lombare); 11: tronco sciatico al bordo inferiore della natica (ernia del IV-V disco lombare o lesioni del nervo sciatico) (modificato da Brown et al., 1970).
ESAMI COMPLEMENTARI L’EMG può essere di grande aiuto nel definire più accuratamente l’entità della distribuzione di eventuali deficit motori presenti, specie agli arti superiori ed ai piccoli muscoli della mano, identificando, anche in assenza di una chiara ipostenia, segni di iniziale e parziale denervazione muscolare. Effettuata sul muscolo paravertebrale, innervato esclusivamente dal ramo posteriore del nervo spinale del corrispondente metamero, l’EMG consente di definire con molta precisione la radice colpita; la corretta inserzione dell’ago-elettrodo, tuttavia, non è agevole e richiede specifiche conoscenze tecniche (Bogduk et al., 1982; Haig et al., 1991; Tomasella et al., 2001). Lo studio dei potenziali evocati somestesici e dei tempi di conduzione centrale ragguagliano non solo sull’eventuale presenza di un danno di conduzione radicolare, ma anche sulla eventuale coesistenza di un danno delle vie di conduzione intramidollari ascendenti e discendenti. Lo studio del riflesso H e del rapporto H/M massimale possono infine confermare un’alterazione dell’arco diastaltico, specie agli arti inferiori. Usualmente, le indagini elettrofisiologiche sono impiegate nelle situazioni più complesse, in cui esistono problemi di diagnosi differenziale o è necessario stabilire l’entità ed il livello del danno, non agevole in caso di ernie del disco multiple. La radiografia della colonna può dimostrare una deviazione scoliotica della colonna, alterazioni malformative e degenerative del rachide, riduzione dello spazio intersomatico corrispondente al disco erniato ed eventualmente spondilolistesi di una o più vertebre. Questo tipo di indagine, tuttavia, è ormai soppiantato dalla TC e dalla RM spinale con mezzi di contrasto, quasi sempre in grado non solo di confermare la diagnosi ma anche di offrire informazioni essenziali per un eventuale intervento chirurgico (Figg.
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9.170, 9.171. Talvolta, nel caso di ernie lombari o lombo-sacrali, può essere richiesta una mielo-radicolografia standard o una TC con iniezione intraliquorale di mezzo di contrasto (metrizamide), ma ciò di solito avviene quando non si riesce a localizzare il livello della lesione mediante TC o RM, o non è possibile ottenere con tali esami un reperto inequivocabile. Il controllo radiografico dell’articolazione dell’anca può rivelarsi molto utile per la diagnosi differenziale fra cruralgia e dolore da artrosi coxo-femorale, talora non agevole o clinicamente impossibile. Lo studio del liquor cerebrospinale è privo di valore diagnostico nelle ernie discali; inoltre, in caso di patologia settica (spondilodiscite ed ascesso epidurale) la stessa rachicentesi è controindicata per il rischio di una contaminazione subaracnoidea (leptomeningite). La eco-dopplersonografia B-mode dei tronchi sopra-aortici, degli arti, o dell’addome consente di scoprire eventuali cause vascolari del dolore. DIAGNOSI L’anamnesi ed i rilievi semeiologici sono di solito sufficienti per orientare correttamente la diagnosi, che richiede comunque conferma attraverso la diagnostica per immagini ed eventualmente anche elettrofisiologica. La diagnosi differenziale effettuata in base al solo sintomo "dolore" impone di considerare con molta attenzione una vasta serie di affezioni non neurologiche. Aspetti semeiotici particolari inducono a sospettare una patologia algica non radicolare: – agli arti superiori, si può osservare un quadro simil-radicolare per compressione del plesso brachiale nell’ambito di una sindrome dello stretto toracico superiore (v. pag. 000), o per lesioni traumatiche dei tessuti molli o, più comunemente, per miofibralgia; – agli arti inferiori, un dolore neuropatico a distribuzione crurale (n. otturatore, crurale e femoro-cutaneo) può essere causato da affezioni
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ginecologiche o addomino-pelviche, mentre un dolore all’arto insorgente solo dopo aver camminato per un certo tratto configura una "claudicatio intermittens" da subocclusioni arteriose aorto-iliaco-femorali o periferiche; – al dorso, dolori persistenti in sede mediana e paramediana toraco-lombare, con o senza estensione al bacino, possono essere causati da aneurismi aortici o da patologia di organi o apparati viscerali (Fig. 000) – in ogni regione del rachide, soprattutto nei tratti di maggior sovraccarico ed a maggior rischio di microtraumi da stiramento (come ad esempio quello cervicale e lombo-sacrale), una patologia osteo-articolare può erroneamente far sospettare una sofferenza radicolare compressiva. – nella lombalgia o nella sciatica, i segni che nella fase precoce consistentemente predicono un decorso sfavorevole a breve (2 settimane) e lungo termine (3 mesi) sono risultati essere: una durata del disturbo > 30 giorni, accentuazione del dolore in posizione seduta e nella manovra di Valsalva e posititività della manovra di Lasègue diretta (o inversa); miglioramenti a breve termine, invece, sono correlati con un favorevole rapporto statura:peso corporeo (Vroomen et al., 2002). TERAPIA Ernia discale -. Il trattamento risolutivo è chirurgico, ma non sempre questo può essere attuato. Limitatamente alle localizzazioni cervicali, l’approccio ventrale è preferibile (intervento di Cloward). Nell’ernia discale lombo-sacrale, un recente studio multicentrico sui risultati ottenuti a medio-lungo termine (2 anni) con intervento chirurgico precoce rispetto ad un intervento tardivo, un trattamento conservativo o nessun trattamento, confermano quanto sopra. Il successo a lungo termine, tuttavia, non riguarda tutti i malati operati precocemente, poiché in una minoranza i risultati stabilizzati sono comunque destinati a restare insoddisfacenti (BenDebba et al., 2002).
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Se non vi sono segni di compressione midollare si può attendere, sia immobilizzando il paziente a letto con la colonna rigorosamente in asse, e sottoponendo a trazione prolungata per più giorni il segmento rachideo interessato, sia invitandolo a continuare a svolgere le sue normali attività quotidiane: recenti studi statistici, infatti, hanno dimostrato che non vi sono apprezzabili differenze fra questi atteggiamenti (Hagen et al., 2000; Hofstee et al., 2002). In ogni caso, è necessario cercare di risolvere il dolore, utilizzando analgesici-antiflogistici non steroidei, miorilassanti, cicli di elettrostimolazione transcutanea ed eventualmente anche glicorticoidi. Nell’ernia discale lombo-sacrale, l’iniezione epidurale intraforaminale di corticosteroidi sotto controllo fluoroscopico si è rivelata nettamente più efficace dell’iniezione dei "trigger points" con soluzione fisiologica (84% di miglioramento a lungo termine vs 48%, Vad et al. 2002). L’ultrasuonoterapia e la fisio-massoterapia possono dare un certo sollievo al dolore essenzialmente attraverso una riduzione delle contratture antalgiche; altrettanto utili possono essere le manipolazioni chiropratiche, le quali, tuttavia, qualora vengano effettuate nel tratto cervicale, comportano un certo rischio di danneggiamento accidentale dell’arteria vertebrale. L’atteggiamento conservativo, permesso solo da un sufficiente controllo del dolore, può talvolta dare soddisfacenti risultati, ma solo in tempi abbastanza lunghi, data la lentezza dei processi di riassorbimento dei frammenti di nucleo polposo espulsi e dei processi di riparazione osteo-articolare. L’ipotesi di una flogosi discale da Propionibacterium acnes (Stirling et al., 2001) non può attualmente essere verificata in modo non invasivo, né d’altra parte vi sono evidenze circa l’eventuale efficacia di un trattamento antibiotico mirato. La riduzione ponderale, nei casi in cui vi sia sovrappeso, ed un adeguato supporto di ginnastica fisioterapica attiva dei muscoli dorsoaddominali e dei cingoli è consigliata per la pro-
filassi di ulteriori, possibili recidive, specie quando coesistono protrusioni discali multiple. La prognosi "quoad functionem", nei casi non trattati chirurgicamente, è sufficientemente buona solo nella lombalgia, poiché le forme algico-radicolari, dopo un certo miglioramento, possono peggiorare o recidivare a distanza di tempo presentandosi con quadri clinici ogni volta sempre più gravi e complessi. Nelle forme radicolo-midollari non operate, difficilmente si assiste ad una soddisfacente regressione. In caso di accertata compressione midollare, si configura una precisa indicazione all’intervento neurochirurgico decompressivo (laminectomia, asportazione delle strutture erniate, eventuale fissazione del tratto rachideo). Una accurata valutazione delle condizioni generali del soggetto, delle sue modalità reattive al dolore, delle sue aspettative circa l’efficacia dell’intervento, e soprattutto delle implicazioni di una patologia discale multipla, è determinante per la scelta dell’atteggiamento più corretto e prudente da assumere in ogni singolo caso.
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Mielopatie spondilogenetiche Sono mielopatie ad evoluzione cronica progressiva che insorgono abitualmente nei maschi dopo i 40 anni, prediligono il tratto cervicale e sono causate da stenosi del canale vertebrale di natura congenita o acquisita (spondiloartrosi). Si esprimono con deficit motori misti, centrali e periferici, e con disturbi delle sensibilità superficiali e profonde. PREMESSE ANATOMO-FUNZIONALI Il midollo spinale segue la curvatura del canale midollare solo parzialmente, comportandosi come una corda leggermente tesa: nel tratto cervicale, nell’iperestensione del capo si sposta cranialmente rispetto alle vertebre e tende ad avvicinarsi ai ligamenti gialli che congiungono gli archi posteriori e viceversa nella flessione, mentre nel tratto toracico la flessione della colonna avvicina il midollo al ligamento longitudinale posteriore dei corpi vertebrali (Fig. 21.5). Le strutture radicolo-meningee di ancoraggio, il liquor, i plessi venosi e le strutture adiposo-connettivali
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Fig. 21.5 - Protrusione entro lo speco rachideo dei legamenti gialli posteriori ipertrofici, nei movimenti di iperestensione del capo.
dello spazio epidurale fungono complessivamente da ammortizzatori, e, pur non offrendo al midollo grandi possibilità di spostamento, impediscono un appoggio diretto sulle pareti dello speco.
PATOGENESI Due principali fattori patogenetici possono essere considerati. Danno traumatico. - Numerose evidenze anatomiche e neuroradiologiche hanno dimostrato una costante associazione di stenosi del canale vertebrale con mielopatia secondaria da compressione, tanto più precoce e marcata quanto più elevato è il grado di stenosi, suggerendo la preminente importanza del danno traumatico. La mielopatia istologicamente è dominata da demielinizzazione dei fasci lunghi, depauperamento neuronale più o meno marcato e gliosi reattiva. La stenosi canalare è spesso asimmetrica e può riguardare sia il diametro antero-posteriore che il diametro laterale. Può essere congenita, associandosi a platibasia, a malformazione della cerniera atlanto-occipitale con invaginazione delle prime vertebre cervicali verso la base del cranio, o ad una sindrome di Klippel-Feil. Un dismorfismo della colonna cervicale abbastanza comune apprezzabile nell’esame somatico generale è rappresentato da
un collo corto, spesso inserito su spalle muscolose ed ampie, anche se ciò può essere semplicemente dovuto ad un’inserzione alta del cingolo scapolare sul tratto cervicale. Malformazioni del piede (tipo piede torto e piede cavo-equino-varo) si accompagnano, non raramente, a malformazioni della colonna cervicale e della cerniera occipito-atlantoidea. Questo tipo di stenosi rimane di solito asintomatico, a meno che non intervengano altri fattori di danno. Nella forma acquisita da spondiloartrosi, la stenosi è causata da: a) ipertrofia dei ligamenti vertebrali posteriori o dei ligamenti gialli; b) protrusione endorachidea di osteofiti neoformati e dischi intervertebrali; c) abnormi curvature della colonna (ad esempio, marcata cifoscoliosi). La stenosi riduce progressivamente le possibilità di accomodamento del midollo dentro lo speco vertebrale, anche perché il volume del liquor endorachideo dall’atlante alla cauda, pari a 80-90 ml nel soggetto normale, può ridursi fino a 55-40 ml in caso di stenosi. Questa situazione facilita grandemente la possibilità di microtraumi ripetuti del midollo e delle radici spinali, specie a livello del tratto cervicale, ove è stato calcolato che certi movimenti flesso-estensori possono ripetersi anche 600 volte in un’ora (Aboulker et al., 1965). Danno ischemico. - Si accetta comunemente che il danno compressivo da stenosi del canale vertebrale sia peggiorato da fenomeni ischemici associati, anche se l’osservazione di vere e proprie lesioni midollari ischemiche è rara. Di fatto, molto spesso esistono i presupposti perché si possa instaurare uno stato di ischemia midollare cronica: a) l’a. spinale anteriore può essere compressa da osteofiti mediani posteriori o da retrolistesi di corpi vertebrali; b) l’a. vertebrale può essere schiacciata da processi unco-artrosici o deformazioni della colonna; c) le arterie radicolari possono essere compresse da protrusioni discali laterali o da unco-artrosi; d) gli stessi meccanismi possono causare compressione di plessi e vasi venosi determinando stasi circolatoria.
SINTOMATOLOGIA La mielopatia da spondiloartrosi colpisce preferenzialmente il tratto cervicale, ma si può manifestare, seppur con minore frequenza, anche nel tratto lombare. I disturbi iniziano in maniera subdola, sono quasi sempre preceduti ed accompagnati da dolore al tratto cervicale o lombare, e presentano costantemente un decorso gradualmente peggiorativo.
Traumi
Mielopatia da spondiloartrosi cervicale Il quadro clinico è assai variabile, comprendendo, in diversa combinazione, un deficit motorio di tipo piramidale ai quattro arti, paralisi amiotrofiche di tipo periferico agli arti superiori, disturbi delle sensibilità soggettive ed obbiettive e turbe sfinteriche. Il deficit motorio piramidale configura una tetraparesi spastica ed iperreflessica ingravescente, spesso asimmetrica e nettamente prevalente agli arti inferiori, per cui può erroneamente essere considerata come una paraparesi spastica isolata. Molto più raramente il deficit motorio assume carattere emiparetico con progressione ascendente Il deficit motorio di tipo periferico colpisce preferenzialmente i piccoli muscoli della mano, che diventano ipostenici, ipotonici, ipotrofici e sede di fascicolazioni. Possono risultare comunque compromessi anche muscoli dell’avambraccio o del braccio, ed uno o più riflessi profondi dell’arto superiore risultare ridotti o aboliti; l’inversione di un riflesso o l’estensione della risposta riflessa a metameri sottostanti, come precedentemente descritto (v. pag. 000), depone per la presenza di una lesione midollare cervicale che coinvolge simultaneamente, nello stesso metamero, motoneuroni e vie spinali discendenti. I disturbi sensitivi soggettivi comprendono: a) cervicalgie o cervico-brachialgie bilaterali spesso asimmetriche, a distribuzione diffusa, o a distribuzione radicolare qualora coesista un’ernia discale cervicale; b) parestesie folgoranti a tipo "scossa elettrica", indotte dalla flessione del capo spontanea o provocata dall’esaminatore (segno di Lhermitte), distribuite alla nuca, dorso ed arti inferiori e più raramente anche agli arti superiori. Il fenomeno è usualmente considerato patognomonico di sclerosi multipla, essendo causato da una lesione demielinizzante delle colonne dorsali (v. pag. 000); tuttavia, esso può manifestarsi (peraltro assai meno spesso) anche per un lieve urto delle colonne dorsali contro i ligamenti gialli e gli archi vertebrali
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posteriori quando il diametro del canale cervicale è ridotto. I disturbi sensitivi oggettivi comprendono: a) ipoestesia superficiale agli arti inferiori ed al tronco senza un margine superiore ben definibile, o con topografia sospesa asimmetrica agli arti superiori e al dorso; b) ipoestesia profonda, di solito prevalente agli arti inferiori, ove si manifesta con quadri di atassia sensitiva o periferica più o meno marcati e puri. La frequente coesistenza di una paraparesi configura usualmente quadri atasso-spastici come in caso di sclerosi combinata del midollo (v. pag. 000). Agli arti superiori, l’ipoestesia profonda prevale alle mani, rivelandosi soprattutto con steroanestesia e difficoltà nella manipolazione degli oggetti (v. pag. 000). I disturbi sensitivi possono essere anche unilaterali, ed all’arto superiore usualmente si sovrappongono al deficit motorio. I disturbi sfinterici vescicali (minzione imperiosa, difficoltà ad iniziare e terminare la minzione) sono abbastanza frequenti nelle forme paraparetico-spastiche.
Mielopatia da stenosi del canale lombare Si manifesta preferenzialmente nella popolazione maschile ed in età avanzata con segni e sintomi di sofferenza radicolare multipla bilaterale ed asimmetrica, associati a segni di sofferenza midollare transitoria occorrenti in posizione seduta o durante la deambulazione (Hall et al., 1985). Questi ultimi determinano un fenomeno di rara osservazione, la cosiddetta “claudicatio” midollare: dopo un certo tratto di cammino, il soggetto avverte dolori crampiformi alle coscie ed ai glutei associati ad ipostenia ed ipoestesia agli arti inferiori, per cui deve fermarsi, e solo parecchi minuti dopo, quando i disturbi scompaiono, può riprendere la deambulazione. Talvolta il quadro insorge anche a riposo in posizione seduta, associandosi a contrazioni cloniche massive degli arti inferiori.
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Malattie del sistema nervoso
A manifestazioni in atto, l’irrorazione degli arti inferiori appare normale, non essendovi segni di ischemia cutanea o ipopulsatilità arteriosa periferica. Nella metà dei malati l’esame neurologico risulta normale, oppure dimostra soltanto l’esistenza di un’iporeflessia achillea, e più raramente rotulea, di per sé scarsamente significativa, trattandosi quasi sempre di soggetti anziani. ESAMI COMPLEMENTARI La diagnostica neuroradiologica per immagini (TC ed RM spinali, mielo-TC) è dirimente, ed ha completamente sostituito la radiografia standard del tratto cervicale e lombare e la mielografia con mezzi di contrasto. La TC, e soprattutto la RM spinale, permettono di apprezzare contemporaneamente in grande dettaglio: a) grado di restringimento del canale midollare nei suoi vari assi; b) dimensioni e struttura normale o patologica del midollo corrispondente; c) protrusioni discali, osteofitosi ad espressione intrarachidea, stenosi foraminali ed ispessimenti ligamentosi. La RM encefalica, inoltre, può agevolare notevolmente la diagnosi qualora esistano dubbi circa l’eventualità di una sclerosi multipla mono o paucisintomatica (Fig. 000). L’esplorazione elettrofisiologica (EMG, ENG, studio dei potenziali evocati sensitivi e di tempi di conduzione centrali) è di grande utilità nel definire funzionalmente il tipo e l’estensione della compromissione midollare. La rachicentesi con valutazione manometrica e l’esame citochimico del liquor, con ricerca di danno di barriera e di produzione di IgG oligoclonali, possono essere richieste laddove si sospettino lesioni tumorali o una sclerosi multipla. DIAGNOSI Clinicamente presenta non poche difficoltà, poiché i quadri clinici descritti non sono di per sé patognomonici. La mancanza di chiari sinto-
mi o segni di lesione focale del midollo o delle sue radici richiede quindi un’attenta valutazione di altre possibili patologie. – La sclerosi multipla colpisce in genere soggetti giovani e il decorso è caratterizzato da remissioni spontanee e da episodi di aggravamento; nelle mielopatie spondilogenetiche, il decorso spontaneo è lentamente ingravescente, ma tale criterio non è sufficiente per escludere la possibilità di forme progressive di sclerosi multipla. Analoga considerazione può essere fatta per il carattere focale e disseminato dei disturbi, che pur essendo il tratto distintivo nella sclerosi multipla, può non esprimersi anche per parecchio tempo (v. pag. 00). – La sclerosi laterale amiotrofica si manifesta con una distribuzione simmetrica dell’amiotrofia, che inizia nei segmenti distali degli arti e si estende rapidamente a quelli prossimali, ai cingoli, al torace ed ai settori inferiori del capo. Nelle mielopatie spondilogenetiche, invece, l’atrofia rimane localizzata a certi gruppi muscolari innervati dallo stesso metamero, e non si presenta quasi mai in forma globale e simmetrica. La sclerosi laterale amiotrofica, infine, a differenza delle mielopatie spondilogenetiche evolve senza apparenti disturbi sensitivi, ed il suo decorso comporta piuttosto gravi disturbi della deglutizione e della ventilazione polmonare (v. pag. 000). – Varie forme di paraparesi (degenerative, tumorali, infiammatorie, carenziali, tossiche) possono essere considerate nella diagnosi differenziale, ma la peculiarità etiopatogenetica di ognuna è agevolmente dimostrabile (v. pag. 000). Considerazioni analoghe valgono per le sindromi da sclerosi combinata del midollo (v. pag. 000). – Le mielopatie vascolari si manifestano in maniera acuta e colpiscono prevalentemente il segmento dorsale superiore (v. pag. 000), mentre le mielopatie spondilogenetiche insorgono lentamente e si localizzano tipicamente a livello cervicale. – I tumori extramidollari, specie nelle localizzazioni ventrali, e gli angiomi midollari
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cervicali causano disturbi sensitivi più marcati ed a livello sensitivo piuttosto netto, e comportano un blocco liquorale associato ad marcate alterazioni citochimiche del liquor. – I tumori intramidollari in fase iniziale possono essere discriminati solo per la mancanza di una sintomatologia algica. – La poliomielite anteriore cronica può talvolta creare complessi problemi di diagnosi differenziale, dato che l’età d’insorgenza è quasi sempre piuttosto avanzata e spesso coesistono alterazioni spondiloartrosiche diffuse: in questi casi, il significato di una coesistente stenosi del canale lombare deve essere valutato con attenzione, poiché il quadro deficitario motorio periferico prodotto dal cronico depauperamento motoneuronale potrebbe mascherare una coesistente sofferenza radicolo-midollare su base compressiva. – L’idrocefalo normoteso si presenta con un disturbo dell’andatura che può essere erroneamente attribuito a paraparesi da mielopatia spondiloartrosica: esso però risulta indipendente dal controllo visivo (segno di Romberg assente) ed è caratterizzato soprattutto da aspetti aprassici frontali (v. pag. 000).
Al blocco delle escursioni rachidee, necessario per evitare il succedersi dei microtraumi radicolo-midollari, può essere utilmente associato un trattamento antalgico (antiinfiammatori non steroidei, miorilassanti, infiltrazioni anestetiche paravertebrali, ecc.), onde accelerare la risoluzione delle contratture dei muscoli paravertebrali. In questa fase, la prudente trazione della colonna mediante idonee attrezzature può favorire l’allontanamento dei corpi vertebrali, ed attenuare eventuali fenomeni compressivi a livello dei forami di coniugazione. Con la ripresa della stazione eretta è opportuno applicare un collare di Schanz, che riduce notevolmente la mobilità del rachide senza impedirla totalmente. La massoterapia, come pure le diverse manipolazioni cheiroprattiche, possono trovare indicazione nelle forme prevalentemente dolorose, purché scelte caso per caso e praticate con prudenza. In caso di fallimento o di peggioramento, deve essere valutata l’opportunità di un intervento neurochirurgico decompressivo.
DECORSO E PROGNOSI
ABOULKER J., METZGER J., DAVID M., ENGEL P.H., BALLIVET J.: Les myélopathies cervicales d’origine rachidienne. Neurochirurgie 11, 89-198, 1965.
Molti casi si arrestano spontaneamente e si stabilizzano, ma non raramente il decorso è lentamente ingravescente, sia per quanto riguarda la paraparesi spastica che il deficit motorio e sensitivo agli arti superiori. Solo dopo parecchi anni la forma può costringere il paziente a letto nella più completa impotenza funzionale. Lentamente peggiorativo è anche il decorso delle amiotrofie delle mani, degli arti superiori e del cingolo scapolare.
Riferimenti bibliografici
HALL S., BARTLESON J.D., ONOFRIO B.M. BAKER H.L. JR., OKAZAKI H., O’DUFFY J.D.: Lumbar spinal stenosis. Ann. Int. Med. 103, 271-275, 1985. M AYFIELD H.F.: Cervical spondylotic radiculopathy and myelopathy, in: Complications of nervous system trauma. Adv. Neurol., vol. 22, Raven Press New York, 1979. PARKER F., COMOY J., CARLIER R., DUFFAU H.: Myélopathies cervicales. Edition Techniques-Encycl. Méd. Chir. (Paris-France), Neurologie 17-660-A10, 14 p, 1993.
TERAPIA
SMLITH B.H.: Cervical spondylosis and its neurological complications. C. Thomas, Springfield, Ill., 1968.
Il trattamento è eminentemente conservativo, ed è basato sull’immobilizzazione della colonna mediante assoluto riposo per 3-6 settimane.
VINKEN P.J., BRUYN G.W., KLAWANS H.L., FRANKEL H.L. (EDS.): Handbook of clinical neurology, Vol. 61, Revised series 17, Spinal cord trauma. Elsevier Science Publishers. Amsterdam, 1992.
Malattie vascolari
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22. Malattie vascolari Malattie cerebrovascolari C. Gandolfo, M. Del Sette, M. Balestrino
INTRODUZIONE Il termine malattie cerebrovascolari identifica un gruppo eterogeneo di malattie unificate dal fatto che la causa è un disturbo circolatorio a livello encefalico. Il meccanismo causale può essere una ischemia (danno o disfunzione dovuti ad ipossia ischemica) o una emorragia, localizzata nel parenchima (emorragia cerebrale), o negli spazi tra il rivestimento piale dell’encefalo e le altre meningi, aracnoide e dura (emorragia subaracnoidea). Si tratta delle malattie neurologiche più frequenti. La loro incidenza tende ad aumentare in maniera esponenziale con l’età. Esse rappresentano, nei paesi sviluppati, la terza causa di morte e la prima causa di invalidità. La gravità clinica delle malattie cerebrovascolari varia notevolmente: si va da forme con disturbi completamente reversibili a forme con alto tasso di mortalità o gravi esiti neurologici permanenti. Le due categorie diagnostiche clinicamente più importanti sono l’ictus cerebrale e l’attacco ischemico transitorio. La demenza vascolare è, a pieno titolo, malattia cerebrovascolare, ma le sue caratteristiche cliniche ne fanno un’entità che può essere più opportunamente trattata con gli altri tipi di demenza (v. pag. 000). L’ictus (stroke nella letteratura anglosassone) è, secondo la definizione proposta dall’OMS ed universalmente accettata, una sindrome caratterizzata dall’esordio improvviso di deficit neurologici focali o diffusi, di durata superiore a 24 ore, o con esito letale, dovuta a cause circolatorie. Nella maggioranza dei casi (85% circa) l’ictus è provocato da ischemia (infarto cerebra-
le). Le emorragie rappresentano il restante 15% circa e sono distinte in emorragie cerebrali (EC), che incidono per il 10% di tutti gli ictus, ed emorragie subaracnoidee (ESA), che ammontano al 5% (Sacco, 1993). La diagnosi differenziale tra ictus ischemico ed emorragico è difficilmente eseguibile solo con dati clinicoanamnestici, per cui il supporto delle indagini strumentali (Tomografia Computerizzata -TCcerebrale, in particolare) è indispensabile (v. pag. 000). Più raramente altre malattie neurologiche non vascolari possono simulare un ictus ponendo problemi di diagnosi differenziale (neoplasie, lesioni infettive o infiammatorie, patologia traumatica, crisi epilettiche di diversa origine). Nell’ambito della malattia cerebrovascolare ischemica l’andamento temporale dei sintomi e segni neurologici identifica diverse categorie. Possiamo infatti avere, da un lato, episodi a carattere transitorio, in cui i sintomi regrediscono completamente entro un termine arbitrario di 24 ore definiti come TIA (dall’acronimo inglese Transient Ischemic Attack) detti in italiano attacchi ischemici transitori (Loeb e Gandolfo, 1988), dall’altro sindromi neurologiche con segni e sintomi definitivi, detti ictus ischemici, che possono, nella fase acuta assumere un andamento inizialmente ingravescente (ictus ingrediens) o tendere a un miglioramento parziale, che si conclude, dopo un periodo variabile da ore a settimane, con una stabilizzazione neurologica caratterizzata da segni e sintomi persistenti di diversa entità (ictus stabilizzato o completed stroke). Il deficit neurologico focale su base ischemica può talora regredire completamente in un
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periodo superiore alle 24 ore (fino a 3 settimane). Questi quadri clinici vengono variamente indicati, nella letteratura internazionale, come attacchi ischemici reversibili o RIA (Reversible Ischemic Attack), o come RIND (Reversible Ischemic Neurological Deficit = deficit neurologici ischemici reversibili). In molti altri casi poi la regressione del deficit è molto soddisfacente ma non completa: questo gruppo viene abitualmente indicato come ictus ischemico minore, in inglese minor stroke. Anche le emorragie cerebrali hanno un decorso clinico ampiamente variabile, anche se in genere sono gravate da un più alto tasso di mortalità acuta. Esistono comunque forme assolutamente benigne con recupero funzionale talora completo (ictus emorragico minore). EPIDEMIOLOGIA Nei paesi industrializzati, fra cui l’Italia, l’ictus è la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie essendo responsabile del 10-12% di tutti i decessi per anno. Rappresenta inoltre la principale causa d’invalidità nelle comunità occidentali. La prevalenza e l’incidenza dell’ictus cerebrale cambiano molto da studio a studio. Le variazioni dell’incidenza e della prevalenza riscontrate nei principali studi nazionali ed internazionali riflettono soprattutto differenze nella composizione della popolazione, in quanto l’ictus è patologia frequente soprattutto nei soggetti anziani, anche se le diverse metodologie utilizzate (definizione di ictus, modalità di reperimento dei casi) ed il livello assistenziale e di accuratezza diagnostica ospeda-
liera ed extraospedaliera possono essere altri fattori responsabili della disomogeneità dei dati. Per quanto riguarda l’Italia abbiamo dati nazionali di prevalenza ed incidenza affidabili (Amaducci et al. 1997, Di Carlo et al. 2000, Di Carlo et al., 2001) forniti dallo studio Italian Longitudinal Study on Ageing (ILSA), per quanto riguarda l’età compresa tra 65 e 84 anni. Esistono poi tutta una serie di studi epidemiologici basati sull’intera popolazione, senza distinzioni di età, in diverse località (Valle d’Aosta, Umbria, Sicilia, Provincia di Belluno, provincia dell’Aquila) che forniscono dati di incidenza e prevalenza accurati ma non facilmente applicabili all’intera realtà nazionale. Nella popolazione anziana italiana il tasso di prevalenza è pari a 6,5%, lievemente superiore nei maschi (7,4%) rispetto alle femmine (5,9%). L’incidenza e la prevalenza aumentano progressivamente con l’età raggiungendo il massimo negli ultra ottantacinquenni. Risulta pertanto che il 75% degli ictus insorge dopo i 65 anni. Circa la metà dei casi riguarda soggetti di età superiore a 75 anni. L’incidenza varia, nei diversi studi da 200 a 350 nuovi casi per anno per 100.000 soggetti. La tabella 22.1 illustra la distribuzione dell’incidenza e della prevalenza per fasce di età riferita alla popolazione italiana del 1999. Ogni anno vi sarebbero quindi oltre 186.000 nuovi ictus in Italia, di cui una minoranza (2030%) decede nel primo mese successivo all’evento e un altro 30-35% sopravvive con esiti gravemente invalidanti. Circa la prevalenza si può ipotizzare che i soggetti complessivamente affetti da esiti di un pregresso ictus nella popolazione del 1999 siano circa 870.000. Questo numero è destinato ad aumentare nei prossimi anni dato che i cambiamenti della struttura demografica delle prossime decadi determineranno un aumento di popolazione appartenente alle fasce di età più anziane ed una contestuale riduzione dei soggetti sotto i 55 anni (Bonita, 1992; WHO, 1993; La Rosa et al., 1993). Oltre all’evoluzione demografica della popolazione, anche l’aumento del tas-
Tabella 22.1 - Struttura della popolazione italiana (1999) ed incidenza e prevalenza di ictus età
0-44 45-54 55-64 65-74 75-84 ³85 totali
popolazione totale 33.045.905 7.508.232 6.860.157 5.838.035 3.199.038 1.161.248 57.612.615
%
incidenza per 100.000
soggetti incidenti
57,36 13,03 11,91 10,13 5,55 2,02 100
13 82 255 845 2.224 3.237 323
4.296 6.157 17.493 49.331 71.147 37.590 186.014
prevalenza per 100.000 65 410 1.275 4.500 8.796 16.185 1.262
soggetti prevalenti 21.480 30.784 87.467 262.712 281.387 187.498 871.328
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so di sopravvivenza dopo ictus, legato al miglioramento dell’assistenza nella fase acuta (Barker e Mullooly, 1997), contribuirà ad un incremento della prevalenza di tale patologia e ad un corrispondente incremento della domanda di servizi sanitari per pazienti cronici stabilizzati con handicap neurologici
IL CIRCOLO CEREBRALE. CENNI DI ANATOMIA VASCOLARIZZAZIONE ARTERIOSA. – Paragonato ad altri organi, il cervello ha la peculiarità di essere alimentato da quattro tronchi arteriosi maggiori che confluiscono in un sistema equalizzante di distribuzione, rappresentato dal poligono di Willis, posto in sede intracranica a livello della base. Le quattro arterie maggiori sono le due carotidi interne e le due vertebrali. Queste ultime confluiscono, a livello intracranico, in un unico tronco mediano, l’arteria basilare. Le due arterie carotidi interne (CI) contribuiscono con circa il 40% ciascuna alla perfusione totale cerebrale. La CI entra nella cavità cranica tramite il canale carotideo, attraversa il seno cavernoso e, dopo aver dato origine all’arteria oftalmica, termina formando quattro rami principali: arteria cerebrale anteriore (ACA), arteria cerebrale media (ACM), arteria corioidea anteriore (AChA) e arteria comunicante posteriore (AcoP) (Figg. 22.1; 22.2; 22.3). L’ACA subito dopo la sua origine decorre inizialmente in senso anteriore, parallelamente alla controlaterale cui invia un ramo anastomotico, l’arteria comunicante anteriore (AcoA), che chiude anteriormente il poligono di Willis, realizzando quindi una comunicazione tra i due assi carotidei di notevole importanza emodinamica e cli-
Fig. 22.1 - Schema del circolo carotideo.
Fig. 22.2 - Schema del circolo vertebro-basilare.
nica. Ambedue le ACA descrivono poi un arco dirigendosi prima in alto e poi indietro, passano nella fessura longitudinale interemisferica, abbracciano il ginocchio del corpo calloso e proseguono verso lo splenio. A volte nell’uomo, come in molti mammiferi, le due ACA si fondono in un tronco comune. Il territorio di distribuzione della ACA è raffigurato nella Fig. 22.4, dove si dimostra che le differenti branche orbitarie, mediane e posteriori della ACA irrorano il polo frontale e la superficie mediale di ambedue i lobi frontali e parietali (lobulo paracentrale). Anche il corpo calloso è irrorato dalla ACA, un ramo ricorrente della quale, l’arteria mediale striata di Heubner, spesso vascolarizza porzioni del caudato, del putamen e della capsula interna. L’arteria di Heubner può anastomizzarsi con le arterie lenticolo-striate, rami dell’ACM, a livello dei gangli della base, costituendo quindi una comunicazione tra i rami terminali della ACA e dell’ACM. La ACM è il ramo di maggior calibro della carotide interna e vascolarizza la maggior parte della superficie laterale dell’emisfero cerebrale ipsilaterale(Fig. 22.4); i suoi rami profondi, le arterie lenticolo-striate, provvedono alla vascolarizzazione del putamen, del globo pallido e della capsula interna.
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Malattie del sistema nervoso
Fig. 22.3 - Poligono di Willis. A) Rapporti del poligono con le strutture circostanti. B) Anatomia del poligono.
Il terzo ramo della carotide interna è l’arteria corioidea anteriore (AChA) che irrora il plesso corioideo del ventricolo laterale, il tratto ottico, l’ippocampo includendo l’uncus, la coda del nucleo caudato, la corteccia piriforme, l’amigdala, parte del globo pallido, il braccio posteriore della capsula interna, il terzo mediale del peduncolo cerebrale e la porzione laterale del corpo genicolato laterale (Fig. 22.4). Le arterie comunicanti posteriori formano un ponte tra il circolo carotideo ed il circolo vertebro-basilare. Le due arterie vertebrali entrano nella cavità cranica attraverso il forame magno e, decorrendo in senso anteriore e verso l’alto lungo la superficie antero-laterale del bulbo, confluiscono, a livello della giunzione bulbopontina, per formare l’arteria basilare (AB). Il decorso della basilare è piuttosto breve, in posizione mediana, lungo la superficie ventrale del ponte sino ai peduncoli cerebrali, dove si divide in due rami terminali detti arterie cerebrali posteriori (ACP) ciascuna delle quali, si anastomizza con l’arteria comunicante posteriore omolaterale, completando così il poligono di Willis (Fig. 22.3). Prima della loro fusione le AV emettono tre coppie di rami collaterali: le arterie spinali anteriori, le spinali posteriori e le cerebellari postero-inferiori, oltre a diversi rami perforanti che vascolarizzano il bulbo. Ciascuna delle arterie spinali anteriori decorre medialmente, si fonde con l’omologa controlaterale e scende in
direzione rostrocaudale, irrorando la parte mediale del bulbo e la porzione ventrale del midollo spinale. L’arteria cerebellare postero-inferiore, è la più rostrale delle collaterali della AV, irrora gran parte del verme e dell’emisfero cerebellare omolaterale, il plesso corioideo del IV ventricolo, e la porzione dorso-laterale del bulbo. L’arteria basilare, a sua volta, fornisce rami perforanti pontini e tre coppie di arterie: le uditive interne, le arterie cerebellari antero-inferiori che irrorano le porzioni inferiori degli emisferi cerebellari e le arterie cerebellari superiori dirette alla superficie superiore dell’emisfero cerebellare. Le due cerebrali posteriori, rami terminali della arteria basilare, terminano nella regione del cuneo, come arteria calcarina. Forniscono rami corticali per i lobi temporale ed occipitale, rami profondi per le pareti del III ventricolo, il talamo e l’ipotalamo e rami peduncolari per il mesencefalo. (Per la vascolarizzazione del tronco encefalico si rinvia a pag. 000 e Fig. 000-000). Spazi di Virchow-Robin. – La modalità di penetrazione delle piccole arterie piali nel tessuto cerebrale è stato a lungo oggetto di discussione. L’opinione classica (Fig. 000), descrive le arteriole penetranti circondate da un’invaginazione della pia madre con la conseguente formazione di uno spazio perivascolare, o spazio di
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Fig. 22.4 - Rappresentazione schematica dei territori di distribuzione delle arterie perforanti dipendenti da cerebrale anteriore, cerebrale media, cerebrale posteriore e corioidea.
Virchow-Robin, in comunicazione con lo spazio subaracnoideo. Man mano che l’arteriola si approfondisce nel tessuto cerebrale, si divide in rami più sottili fin quando la membrana basale della pia madre e quella dell’arteriola si fondono obliterando così lo spazio di Virchow-Robin; ed il vaso diventa un capillare, quando la componente muscolare liscia viene sostituita da periciti. Vie anastomotiche. – Il poligono di Willis, posto alla base del cervello, è costituito dalla comunicante anteriore, dalle due cerebrali anteriori, dalle carotidi interne, dalle comunicanti posteriori e dalle due cerebrali posteriori che chiudono il poligono posteriormente (Fig. 22.3).
Le funzioni principali di questo sistema anastomotico sono di assicurare da una parte una comunicazione tra gli assi arteriosi afferenti, carotidei e vertebro-basilare e dall’altra un’eventuale redistribuzione del flusso ematico cerebrale sulle arterie efferenti, in caso di necessità. Bisogna comunque sottolineare che lo schema anatomico della circolazione arteriosa cerebrale descritto rappresenta la distribuzione più frequente, ma certamente non l’unica. Uno studio neuropatologico su 350 cervelli sani, ha dimostrato che il poligono di Willis presenta una configurazione normale solo nel 50% dei casi; le variazioni più comuni sono rappresentate dalla ipoplasia di una o ambedue le comunicanti posteriori (22% dei soggetti presentano un circolo Willis anomalo) (Fig. 22.5).
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Fig. 22.5 - Anomalie congenite del poligono di Willis. Rispetto alla morfologia normale (in alto, a sinistra) le anomalie della porzione anteriore (in alto, a destra) e di quella posteriore (in basso), indicate dalle frecce ( da C. Fazio e coll., Sist. Nerv., 1970).
Le anastomosi sono classicamente distinte in pre- e post-poligono di Willis. Le anastomosi pre-Willis sono (Fig. 22.6): – fra la succlavia, la carotide e la vertebrale, attraverso i tronchi tireocervicale e costocervicale; – fra i rami orbitari dell’oftalmica, collaterale intracavernosa della CI, ed i rami orbito-temporali e meningei della carotide esterna (CE); – fra la CI e la basilare, attraverso l’arteria trigeminale primitiva, nei casi in cui questo vaso è ancora pervio. Le anastomosi post-Willis sono (Fig. 22.7): – fra la corioidea anteriore ramo della CI e la corioidea posteriore, collaterale della ACP, per mezzo del plesso sottoependimale; – fra una cerebrale anteriore e l’altra attraverso rami a livello dei tratti pericallosi di queste due arterie; – fra l’arteria mediale striata di Heubner, ramo della ACA, e le arterie lenticolo-striate rami dell’ACM. – a livello emisferico vi sono anastomosi corticali superficiali fra i tre territori vascolari (anteriore medio e posteriore; Fig. 22.7), costituiti da minuscoli rami arteriosi, in condizioni normali spesso non funzionanti, ma con una notevole capacità adattativa durante alterazioni della pressione di perfusione, e con importanza notevole nella vascolarizzazione per via retrograda di territori in caso di occlusione di un tronco cerebrale. Lo sviluppo di un circolo collaterale efficace è inversamente proporzionale alla velocità con cui si instaura l’occlusione del tronco arterioso. Aree vascolari di confine. – Sono così denominate ristrette aree cerebrali e cerebellari, poste ai confini dei territori vascolarizzati dalle arterie cerebrali anteriori, medie e posteriori, e dalle arterie cerebellari superiori e
Fig. 22.6 - Anastomosi prewillisiane: 1-7, dalla succlavia alle vertebrali; 1-10, dalla succlavia alla carotide interna dello stesso lato; 1, succlavia; 2, tronco tireocervicale; 3, cervicale profonda; 4, cervicale ascendente; 5, vertebrale, 6, radicolari; 7, spinale anteriore; 8, occipitale; 9, carotide esterna; 10, carotide interna; 11, parasellare esterna; 12, temporale superficiale; 13, meningea media; 14, sopratrocleare; 15, sopraorbitaria; 16, oftalmica.
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Fig. 22.7 - Schema delle anastomosi post-willisiane meningo-corticali fra cerebrale media, cerebrale anteriore e cerebrale posteriore. La linea tratteggiata indica il confine del territorio della cerebrale media.
postero-inferiori; esiste anche un territorio di confine detto interno (internal borderzone), tra i rami terminali superficiali ed i rami profondi dell’arteria cerebrale media. (Fig. 22.8, 22.9, 22.10) I territori di confine possono essere soggetti a danno ischemico in situazioni di rapida e grave ipotensione arteriosa, ad esempio nell’arresto cardiaco, soprattutto se esistono situazioni concomitanti di grave stenosi vascolare a monte (per esempio una stenosi serrata della
Fig 22.8 - F.G. anni 65, TC senza mdc, infarto di confine posteriore destro, tra territorio dell’ACM e territorio dell’ACP.
Fig. 22.9 - F.G. anni 65, TC senza mdc, infarto di confine anteriore sinistro, tra territorio dell’ACM e territorio dell’ACA
Fig. 22.10 - M.U. anni 64, RM T1 pesata, infarto nel territorio di confine interno dell’arteria silviana sinistra in fase acuta.
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carotide interna). Questo fenomeno potrebbe essere dovuto al fatto che le arterie che irrorano queste zone, sono normalmente soggette ad una perdita di pressione per la distanza dai tronchi arteriosi principali, per cui un rapido ed importante calo pressorio sistemico, potrebbe ulteriormente ridurre la pressione di perfusione fino a valori al di sotto di una sufficiente irrorazione. La regione corticale più frequentemente soggetta a questo deficit emodinamico è la zona ai limiti dei territori di irrorazione delle tre arterie cerebrali (ACA, ACM e ACP). Esiste una grande variabilità interindividuale nelle aree di confine, dovuta a differenze anatomiche e/o alla presenza di anomalie congenite o acquisite dell’albero vascolare (Fig. 22.11). Vene. – Il drenaggio venoso avviene attraverso un sistema venoso profondo e uno superficiale. Il sistema superficiale confluisce nel seno longitudinale superiore e nei due seni trasversi (Fig. 22.12) che a loro volta si continuano nelle due vene giugulari interne. Il sistema di vene profonde confluisce nella grande vena di Galeno e
nel seno longitudinale inferiore che drenano nel seno retto, il quale continua sino alla confluenza dei seni trasversi (Fig. 22.13; 22.14). Vie alternative minori all’efflusso del sangue cerebrale si realizzano attraverso il seno cavernoso, le vene oftalmiche, i plessi pterigopalatini e le vene diploiche.
Il circolo cerebrale: cenni di fisiologia Metabolismo energetico. – L’encefalo costituisce il 2% della massa corporea, riceve il 15% della portata cardiaca, è responsabile del 20% del consumo di ossigeno, del 25% del consumo totale di glucosio e necessita di una potenza equivalente a 20 Watt (energia/unità di tempo). In pratica, istante per istante, l’energia prodotta viene utilizzata, per cui la sopravvivenza del tessuto cerebrale è strettamente dipendente dal continuo apporto dei substrati energetici per via ematica. Il fabbisogno energetico cerebrale è coperto quasi esclusivamente dal catabolismo ossidativo del glucosio.
Fig. 22.11 - Raffigurazione schematica delle aree di vascolarizzazione di confine tra le maggiori arterie cerebrali.
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Fig. 22.12 - Schema delle vene cerebrali superficiali.
Fig. 22.13 - Schema delle vene cerebrali profonde.
In un cervello adulto, in condizioni normali, il consumo di ossigeno è di circa 170 mmol g-1 min-1 e l’utilizzo del glucosio di circa 30 mmol g-1 min-1 (con un rapporto di poco inferiore a 6 molecole di ossigeno per una di glucosio). A livelli normali il flusso ematico cerebrale (CBF = cerebral blood flow) è di 55 ml /100 mg/ min; il cervello estrae circa il 50% dell’ossigeno e circa il 10% del glucosio arteriosi. L’ossigeno passa dal sangue al tessu-
to cerebrale per diffusione, mentre il glucosio attraversa la barriera ematoencefalica ed entra nei neuroni attraverso un sistema di trasporto proteico (carrier) ad alta affinità. Il glucosio viene poi metabolizzato via glicolisi aerobica con un ricavo netto di 33 molecole di ATP per molecola di glucosio. Circa il 60-70% dell’energia prodotta viene destinata al mantenimento dei gradienti ionici, il resto dell’energia viene speso nella sintesi, rilascio e recupero di neurotrasmettitori, per il mantenimento e rinnovo delle strutture cellulari. In relazione alla presenza dei corpi cellulari ed alla altissima densità sinaptica, il fabbisogno energetico cerebrale è ovviamente più elevato nella sostanza grigia che nella bianca. L’attivazione funzionale di determinate aree cerebrali è accompagnata da un immediato aumento del consumo di energia e di conseguenza richiede un temporaneo surplus di substrati metabolici. Per un fisiologico funzionamento, il cervello ha bisogno di un flusso adeguato ed adattabile alle locali variazioni di utilizzo di substrati metabolici (prevalentemente ossigeno e glucosio) e di allontanamento di prodotti catabolici e anidride carbonica. Autoregolazione ed Emodinamica Cerebrale. – La circolazione cerebrale possiede un fondamentale meccanismo denominato autoregolazione, che, secondo la
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Fig. 22.14 - Schema del circolo giugulare, effluente dei circoli venosi cerebrali e della faccia.
definizione classica, consiste nella capacità di mantenere il flusso relativamente costante in condizioni di variabilità della pressione arteriosa sistemica o di pressione di perfusione cerebrale (CPP: cerebral perfusion pressure; Fig. 22.15). Questo fenomeno è il risultato dell’interazione di fattori metabolici e miogenici vascolari cerebrali locali. Come tutti i meccanismi biologici di compenso anche l’autoregolazione cerebrale possiede limiti entro cui il flusso resta relativamente, ma non assolutamente costante. Tali limiti approssimativamente si situano intorno a valori di pressione arteriosa media (MABP: mean arterial blood pressure) tra 60 e 140 mmHg, rispettivamente per il limite inferiore e superiore. I limiti dell’autoregolazione cerebrale possono essere modificati temporaneamente o permanentemente da diversi fattori intrinseci ed estrinseci come l’ipertensione sistemica, l’attività del sistema parasimpatico, la pressione parziale di CO2 (PaCO2), l’ipertensione endocranica, gli agenti farmacologici.
Fig. 22.15 - Variazioni del flusso ematico cerebrale (CBF) in rapporto ai valori della pressione arteriosa media.
Il meccanismo impiegato per mantenere il flusso entro valori relativamente costanti al variare della pressio-
Malattie vascolari ne di perfusione è rappresentato principalmente da variazioni di resistenze vascolari locali (rCVR: regional cerebral vascular resistance), secondo la formula: Flusso ematico = regionale (rCBF)
Pressione di perfusione cerebrale (CPP) Resistenze cerebrovascolari regionali (rCVR)
Quindi, in condizioni fisiologiche e nell’ambito di una autoregolazione normofunzionante, per mantenere costante il flusso, ad una riduzione della pressione di perfusione, corrisponde una riduzione delle resistenze vascolari, cioè una vasodilatazione, e viceversa, ad un aumento della pressione di perfusione, si verifica un aumento delle resistenze vascolari cerebrali, cioè vasocostrizione. Al di fuori dei limiti dell’autoregolazione (Fig. 22.15) il flusso è passivamente dipendente dalla pressione di perfusione, provocando ipossia se essa si riduce o edema se aumenta. L’autoregolazione cerebrale può quindi essere interpretata come un meccanismo omeostatico che agisce in serie ed in parallelo rispetto ai barocettori arteriosi, allo scopo di mantenere il più costante possibile il flusso ematico cerebrale, assicurando così il corretto rifornimento di substrati energetici come l’ossigeno ed il glucosio. Per spiegare l’autoregolazione sono stati chiamati in causa differenti meccanismi, tra cui quello cosiddetto miogenico, secondo cui le arterie di piccolo calibro e le arteriole (ossia i vasi maggiormente responsabili della resistenza vascolare) si costringono o si dilatano in risposta ad un aumento o riduzione del gradiente pressorio transmurale. Anche fattori biochimici endoteliali sembra abbiano un ruolo regolatore sul tono muscolare vasale, contribuendo così al meccanismo miogenico dell’autoregolazione. Un altro meccanismo, spesso chiamato in causa, è quello metabolico, secondo cui le variazioni di disponibilità dei substrati metabolici, nel microambiente tessutale, sono responsabili di adattamenti regolatori regionali, esistendo una relazione diretta tra valori di CBF e metabolismo cerebrale, in condizioni fisiologiche. Per ultimo anche l’innervazione vascolare sembra essere coinvolta nel fenomeno dell’autoregolazione. Al momento non esistono dimostrazioni che possano suffragare la priorità di uno di questi meccanismi ed è probabile che l’autoregolazione cerebrale sia il risultato di differenti meccanismi omeostatici, che possono agire isolatamente o in parallelo fra loro. Alcuni dei più importanti parametri emodinamici e metabolici possono essere misurati in vivo tramite PET, la SPECT ed ultimamente anche con la RM funzionale. In condizioni cerebrali fisiologiche esiste una stretta concordanza tra i valori di consumo metabolico di ossigeno
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(CMRO2: Cerebral Metabolic Rate for Oxygen), flusso ematico cerebrale e volume ematico cerebrale (CBV); e cioè aree cerebrali ad alto dispendio energetico mostrano un alto flusso ematico cerebrale ed un elevato volume ematico cerebrale rispetto ad altre aree con attività funzionale ridotta. Questa differenza può essere strutturale, dovuta ad esempio, ad una differente densità capillare in aree cerebrali funzionalmente diverse (ad esempio: sostanza grigia e bianca), oppure temporanea (ad es.: area corticale attivata rispetto ad un’altra in quel momento inattiva). Provvedere al flusso adeguato alla richiesta metabolica, momento per momento, è una delle funzioni dell’autoregolazione. Nei limiti dell’autoregolazione, un’inattesa riduzione di perfusione viene immediatamente compensata da una riduzione discreta e modulata delle resistenze vascolari locali, che è causa di una vasodilatazione del distretto interessato dal fenomeno (aumento del CBV; Fig. 22.16), al fine di preservare costanti il CBF e CMRO2. Se la perfusione si abbassa ulteriormente, cosa che accade distalmente ad un vaso stenotico o occluso, si arriva ad una vasodilatazione massimale, raggiungendo il limite inferiore dell’autoregolazione: da questo punto in poi il flusso ematico cerebrale diventa pressione-dipendente, così che, per ulteriori riduzioni della pressione di per fusione, il flusso decresce e il parenchima di quell’area va incontro a oligoemia. Alla riduzione di flusso il tessuto cerebrale, per mantenere invariato il proprio
Fig. 22.16 - Modalitá di compenso alla riduzione della pressione di perfusione: aumento del volume ematico cerebrale e dell’estrazione di ossigeno. Quando queste modalitá di compenso non sono piú realizzabili, il flusso ematico cerebrale diminuisce fino a causare ischemia.
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metabolismo ossidativo, risponde con una maggiore estrazione di ossigeno (OEF: Oxygen Extraction Fraction) dal compartimento vasale (CBV massimale, flusso discretamente ridotto, OEF aumentato, CMRO2 normale), condizione solitamente definita di «perfusione di miseria». Se la perfusione si riduce ulteriormente (intorno al 5045% dei valori iniziali), l’estrazione di ossigeno raggiunge valori massimali ed essendo esauriti i meccanismi di compenso (riserva emodinamica), ulteriori riduzioni di perfusione comportano riduzione del metabolismo ossidativo, ischemia del tessuto e sintomi neurologici. Queste variazioni dei parametri emodinamici e metabolici cerebrali, già documentate sperimentalmente, sono state confermate nell’uomo mediante studi PET.
Cenni di fisiopatologia del danno cerebrale ischemico EFFETTI METABOLICI DELL’ISCHEMIA L’ischemia cerebrale focale interrompe l’apporto di ossigeno e glucosio in una certa zona del cervello. Conseguentemente quest’area non è più in grado di ricostituire le proprie scorte energetiche (ATP) attraverso il metabolismo ossidativo. Poiché il cervello deve obbligatoriamente utilizzare ATP per mantenere il potenziale di membrana dei neuroni (v. pag. 000), le scorte di ATP tendono a esaurirsi rapidamente. Due meccanismi di compenso possono per breve tempo ed entro certi limiti diminuire gli effetti dannosi della carenza energetica: (1) il cervello può rifosforilare l’ADP usando la fosfocreatina (PCr), risintetizzando così ATP anche in condizioni di ipossia1 ; le scorte di fosfocreatina peraltro si esauriscono assai rapidamente e tale meccanismo può essere efficace solo per un arco di tempo limitato; (2) se l’interruzione di flusso ematico non è totale, il cervello può ottenere ATP per via anaerobica; la glicolisi anaerobica ha, peraltro, una efficienza limitata; inoltre causa la produzione di grandi quantità di acido lattico, che può di per sé essere responsabile di un danno cerebrale. È quindi evidente che, essendo questi meccanismi di compenso scarsamente efficaci, l’area ischemica diventa ben presto priva di ATP. In condizioni di normalità circa i tre quarti dell’ATP prodotto dal cervello vengono utilizzati per far funzionare la “pompa del sodio”, cioè la Na/K-ATPasi di membrana. Questo enzima usa energia (fornita dall’ATP) per estrudere Na+ dal neurone e immettervi K+, mantenendo così il poten-
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ADP+PCr → ATP+Cr
ziale di membrana a riposo. L’inattivazione funzionale della Na/K-ATPasi causa un graduale riequilibrio dei gradienti di Na+ e di K+ attraverso la membrana neuronale. Il potenziale di membrana a riposo diminuisce gradualmente ed il neurone inizia a depolarizzarsi. Proseguendo questa depolarizzazione, in molte aree encefaliche (corteccia cerebrale, ippocampo, corpo striato) con un meccanismo a tutt’oggi poco chiaro viene generato, da parte del parenchima ischemico, un fenomeno noto come “depolarizzazione anossica”. Si tratta di un evento simile per molti versi alla “spreading depression” di Leão2 (Leão, 1944), che consiste in una rapida (1-2 sec) depolarizzazione neuronale, accompagnata da imponenti alterazioni metaboliche: riequilibrio pressoché totale dei gradienti ionici attraverso la membrana neuronale, entrata di grandi quantità di calcio all’interno del neurone, entrata di acqua nel neurone con suo successivo rigonfiamento (“edema citotossico”), acidosi tissutale. Queste alterazioni rimangono per breve tempo reversibili. Oltre un certo limite tuttavia queste alterazioni diventano irreversibili anche se il flusso ematico viene ristabilito, per cui il tessuto va incontro a necrosi.
“CORE” E “PENUMBRA” Quando un’arteria cerebrale viene occlusa, l’irrorazione arteriosa nel territorio a valle diminuisce. Tale diminuzione non è uniforme in tutto il territorio irrorato dall’arteria. Alla periferia di tale territorio infatti vi sono anastomosi inter-arteriolari attraverso le quali il sangue può affluire dalle arterie viciniori, compensando così, entro certi limiti, l’occlusione arteriosa. Si crea quindi una situazione per cui: nella parte centrale del territorio dell’arteria occlusa il flusso ematico è quasi totalmente annullato; nella zona periferica di tale territorio il flusso ematico è in parte mantenuto grazie alle anastomosi di cui si è detto. La parte centrale viene chiamata col termine inglese “core”, la parte periferica viene chiamata “penombra”3 .
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Il fenomeno della “spreading depression” (SD) è costituito da una transitoria depolarizzazione dei neuroni corticali, con arresto dell’attività elettrica corticale, che dal punto di origine tende a diffondersi “a macchia d’olio” alle zone corticale circostanti, alla velocità di 3-5 mm/sec. Essa può essere determinata da varie cause (trauma meccanico, applicazione di soluzioni concentrate di K+, stimolazione elettrica ripetitiva, ischemia parziale) e si risolve spontaneamente nel giro di alcuni minuti. Un fenomeno analogo è stato ipotizzato, nell’uomo, anche nell’aura emicranica, nella amnesia globale transitoria, nella commozione cerebrale (v. pag. 000). 3 Così come l’area di ombra parziale che si crea intorno ad un corpo celeste oscurato da un’eclissi che, in inglese, viene definita “penumbra”.
Malattie vascolari I cambiamenti metabolici ed elettrofisiologici descritti nel paragrafo precedente avvengono tipicamente nel “core” dell’infarto, in cui l’apporto di ossigeno e glucosio è totalmente o parzialmente interrotto. Nella “penombra” i cambiamenti sono meno drammatici e più reversibili. Essi ci sono noti principalmente attraverso i dati ottenuti sull’animale da esperimento. In particolare, poiché nella ”penombra” un certo flusso sanguigno è conservato, l’ATP è meno diminuito e di conseguenza la Na/KATPasi può funzionare meglio. Non si verifica quindi la massiva “depolarizzazione anossica” descritta nel “core”. Si osservano, invece, onde di depolarizzazione seguite da onde di ripolarizzazione che, partendo dal “core”, si irradiano verso la periferia dell’infarto. Queste onde di “depolarizzazione peri-infartuale” (“peri-infarct depolarizations”) sono in tutto simili alla “spreading depression” di Leao e sono, come questa, accompagnate da drammatiche alterazioni metaboliche: annullamento dei gradienti ionici attraverso la membrana cellulare (le differenze nella concentrazione intra- ed extra-cellulare di sodio, potassio e calcio tendono ad annullarsi: il sodio ed il calcio entrano nel neurone, mentre il potassio ne fuoriesce), acidosi, edema cellulare. Dopo ogni ondata di depolarizzazione, il tessuto si ripolarizza e recupera, almeno in parte, le proprie caratteristiche metaboliche. Tuttavia, se la condizione di ipoafflusso di sangue non viene corretta le ondate di depolarizzazione peri-infartuale diventano sempre meno reversibili finché (dopo alcune ore) il tessuto va incontro a depolarizzazione irreversibile e infine a necrosi. L’esistenza di una “penombra” nell’uomo è ammessa da tutti i ricercatori. Conviene tuttavia precisare che le ondate ricorrenti di depolarizzazione peri-infartuale, così come i fenomeni tipo “spreading depression” non sono stati ancora documentati nell’uomo.
MORTE NEURONALE RITARDATA (“DELAYED DEATH”) Quando nell’animale da esperimento si provoca ischemia cerebrale per un periodo di tempo breve i neuroni ischemici possono non mostrare alcun danno morfologico immediatamente dopo la riperfusione. In alcuni casi, tuttavia, il tessuto nervoso può andare successivamente incontro a fenomeni involutivi che portano i neuroni a morte nel giro di 3-5 giorni. Tale fenomeno è stato osservato principalmente nell’ippocampo, ed è stato chiamato “delayed death”. È stato dimostrato sul piano neurofisiologico che i neuroni destinati a morire in questo modo presentano, nei giorni successivi all’ischemia, frequenti e anormali scariche di potenziali d’azione. Ciò ha portato alla convinzione che il continuo rilascio da parte dei terminali presinaptici, nei giorni successivi all’ischemia, di neurotrasmettitori eccitatori sia una delle principali cause del fenomeno. Più recentemente si è ipotizzato
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che la morte neuronale ritardata sia causata dall’attivazione patologica del meccanismo di apoptosi. Con questo termine si indica un processo dipendente dall’attivazione di specifiche sequenze geniche. Tale processo è fisiologico durante lo sviluppo embrionale, quando i neuroni in eccesso si autodistruggono per lasciare spazio ai neuroni destinati a sopravvivere. Si è ipotizzato che una patologica attivazione del processo di apoptosi sia alla base di alcune malattie neuronali dell’età adulta, fra cui le malattie di Alzheimer e di Parkinson. L’ipotesi che essa sia alla base anche della “delayed death” ischemica è stata oggetto di valutazioni contrastanti.
MEDIATORI DEL DANNO NEURONALE L’esistenza della “penombra” e della “delayed death” suggerisce che vi è un periodo, compreso fra il momento in cui avviene l’occlusione arteriosa e il momento in cui i neuroni muoiono, in cui il danno neuronale può essere, almeno teoricamente, reversibile. In accordo con tale ipotesi, nell’animale da esperimento è stato ripetutamente dimostrato che la somministrazione di certi farmaci, anche in un tempo successivo all’occlusione arteriosa, è in grado di ridurre grandemente le dimensioni della necrosi ischemica sperimentale. Sul piano fisiopatologico questi studi hanno contribuito a farci conoscere quali sono le modificazioni biochimiche che, innescate dalla mancanza di ossigeno e glucosio, sono responsabili della successiva morte neuronale. Mentre una completa descrizione di questi studi oltrepassa lo scopo di questa trattatazione, è giusto ricordare le principali alterazioni biochimiche responsabili del danno ischemico: a) Rilascio di aminoacidi eccitatori. Nella zona ischemica vi è un rilascio anormale di glutammato, il principale neurotrasmettitore eccitatorio. Se si bloccano farmacologicamente i recettori postsinaptici del glutammato4 si previene in misura molto significativa la necrosi ischemica nell’animale. b) Formazione di radicali liberi5 . Queste sostanze si formano normalmente nel corso del metabolismo ossidativo e vengono fisiologicamente rimosse da sistemi enzimatici quali la superossido-dismutasi. In condizioni patologiche 4
I recettori del glutammato appartengono a tre diverse categorie, chiamate rispettivamente recettore NMDA, recettore AMPA/ kainato e recettore metabotropo. Per maggiori particolari si rinvia ai testi di farmacologia. 5 I radicali liberi sono molecole che contengono elettroni liberi. I più comuni sono basati sull’ossigeno e si formano quando singoli elettroni vanno ad aggiungersi ad un atomo di ossigeno, come nelle molecole anione superossido, acqua ossigenata, ossido nitrico.
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quali l’ischemia la loro formazione aumenta notevolmente ed i meccanismi della loro eliminazione si dimostrano insufficienti. Queste molecole, altamente reattive, sono in grado di degradare varie molecole tissutali generando un grave danno. La loro formazione, possibile anche durante un’ischemia incompleta, è specialmente favorita dalla riperfusione di un’area ischemica. Anche in questo caso il trattamento con farmaci (“free radicals scavengers”) che rimuovono dai tessuti i radicali liberi migliora sensibilmente il danno nell’ictus ischemico sperimentale. c) Acidosi. Il tessuto cerebrale ischemico va incontro ad acidosi, principalmente a causa dell’acido lattico generato durante la glicolisi anaerobica. È stato dimostrato sperimentalmente che prevenendo l’acidosi tissutale si riduce significativamente l’estensione dell’area necrotica postinfartuale. Inoltre, è stato dimostrato sperimentalmente che la necrosi neuronale è minore nei ratti tenuti a digiuno nelle ore precedenti l’ischemia rispetto a quelli che hanno avuto libero accesso al cibo. Questo dato è stato spiegato con il fatto che i primi avevano una glicemia più bassa e quindi minore possibilità di formare acido lattico. Questa correlazione positiva fra glicemia ed entità del danno è stata rilevata anche in studi retrospettivi su popolazioni di pazienti con ictus ischemico, ed è alla base della raccomandazione di normalizzare la glicemia nella fase acuta dell’ictus. d) Aumento del calcio intracellulare. Normalmente i neuroni controllano molto efficacemente il loro contenuto di calcio, impedendone l’accumulo6 . Ciò si comprende facilmente se si pensa che minime variazioni di calcio intraneuronale hanno normalmente una funzione attivante su vari enzimi e processi metabolici. Nei neuroni ischemici questa fine regolazione viene a mancare ed il calcio può entrare nei neuroni. Studi sperimentali in vitro hanno dimostrato che incubando il tessuto ischemico in assenza di calcio si riduce grandemente il danno neuronale. Il controllo in vivo dei flussi di calcio intraneuronale è assai difficile in quanto questo ione entra nei neuroni durante l’ischemia non solo attraverso i canali che possono essere bloccati dai calcio-antagonisti, ma anche per esempio attraverso i canali accoppiati al recettore dell’NMDA. Inoltre il calcio intracellulare puòaumentare, in corso di ischemia, anche per il rilascio nel citoplasma del calcio contenuto in vari organelli citoplasmatici. e) Depolarizzazione anossica e “spreading depression”. Questi fenomeni elettrofisiologici sono stati brevemente descritti più sopra. Si è dimostrato in vitro che ritardando la deplezione di ATP tramite il pretrattamento del tessuto con creatina7 si riduce significativamente il danno dovuto ad anossia cerebrale. Questa protezione 6
Si pensi che la concentrazione di calcio nello spazio extracellulare è circa 1,5 mM, mentre all’interno del neurone non supera 0,1 µM. 7 Precursore della fosfocreatina, che è in grado di rigenerare ATP durante l’ischemia, v. nota 1
correla con la prevenzione della depolarizzazione anossica. Questo fenomeno è dannoso per il tessuto nervoso a causa delle alterazioni metaboliche che vi determina (v. pag. 000). Il possibile effetto terapeutico della creatina non è finora stato testato nell’uomo. f) Citochine. Nel tessuto cerebrale ischemico diverse citochine possono aumentare con due meccanismi. In primo luogo esse sono sintetizzate ex novo dalle cellule gliali e dai neuroni stessi, con un meccanismo che è stimolato dall’ischemia. In secondo luogo esse sono secrete dai leucociti che invadono rapidamente l’area ischemica provenendo dal torrente circolatorio attraverso il danno nella parete vasale. È stato dimostrato sperimentalmente che bloccando con idonei antagonisti il recettore di alcune citochine (interleukina 1β, TNF-α) la necrosi tissutale si riduce significativamente.
RILEVANZA CLINICA Gli studi sperimentali hanno dimostrato due fatti di grande rilevanza clinica: a) Il danno neuronale ischemico non è immediato, ma in alcuni casi avviene dopo ore (come nella “penombra”) o dopo giorni (come nella “delayed death”) dall’occlusione arteriosa. b). È possibile con adeguati trattamenti farmacologici rallentare o bloccare gli eventi che portano dalla carenza di ossigeno e glucosio alla morte neuronale. Sulla base di queste considerazioni sono state proposte varie terapie “neuroprotettrici” peraltro con risultati deludenti. Una notevole eccezione è rappresentata dall’ipotermia corporea. Questo trattamento, di estrema efficacia in tutti i modelli animali, è stato applicato anche a pazienti con ictus ischemico, con incoraggianti risultati. Ciò sta a dimostrare che anche nell’uomo, come nell’animale, è possibile rallentare e prevenire la cascata di eventi che vanno dall’occlusione arteriosa alla necrosi neuronale ischemica. In ogni caso è giusto sottolineare che gli studi sperimentali, dimostrando che il danno ischemico si instaura, almeno in parte, nelle ore successive all’occlusione arteriosa, hanno offerto una importante giustificazione fisiopatologica all’uso della trombolisi arteriosa dopo ictus ischemico.
FENOMENO DELLA DIASCHISI Nel corso di una lesione ischemica acuta è stata dimostrata una riduzione del metabolismo energetico e della funzionalità di aree cerebrali lontane («remote») rispetto alla regione lesa. Questo fenomeno sarebbe dovuto a un’improvvisa interruzione del flusso di segnali dalla zona lesa alle zone lontane e questa interruzione di afferenze produce, nelle aree che normalmente le rice-
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vono, una temporanea situazione di shock, con conseguente ipometabolismo e ridotta funzionalità, denominata «diaschisi». Esempi classici sono l’ipometabolismo corticale omolaterale nell’infarto talamo-capsulare e l’ipometabolismo cerebellare controlaterale nell’ischemia del territorio della cerebrale media (diaschisi cerebellare crociata).
trali del territorio colpito, ove l’ischemia è più grave. L’edema vasogenico solitamente si manifesta dopo alcune ore ed è provocato dall’alterazione vasale e della barriera emato-encefalica, e dalla vasodilatazione. Il fenomeno è più evidente, ma non esclusivo, nelle zone periferiche del territorio infartuato e nei casi di riperfusione.
RIPERFUSIONE E DANNI DA RIPERFUSIONE
L’attacco ischemico transitorio (TIA)
L’estensione del tessuto irreversibilmente danneggiato è strettamente legata a due fattori: il livello di perfusione durante il periodo ischemico, e la durata dell’ischemia. Rendendo possibile la perfusione del tessuto ischemico l’apporto di ossigeno e glucosio dovrebbe arrestare il processo ischemico e recuperare le zone di tessuto non ancora irreversibilmente danneggiate. Osservazioni sperimentali e cliniche hanno dimostrato che la ricanalizzazione spontanea di un vaso occluso non è un fenomeno raro, e che esiste la possibilità di riperfondere farmacologicamente un vaso occluso. Nonostante le premesse favorevoli, il fenomeno di riperfusione non è scevro da rischi come dimostra il «danno da riperfusione» che, in alcuni casi, può aggravare e ulteriormente danneggiare il tessuto ischemico, a causa di alcuni fattori, tra cui il sangue stesso (che sembra non essere il perfuso ideale per un tessuto ischemizzato). Come già illustrato, nelle aree ischemiche la perfusione è pressione dipendente, e la riperfusione può risolversi in un’«ondata catastrofica» ad alta pressione idrostatica, con peggioramento dell’edema vasogenico e stravasi ematici in un tessuto in cui elasticità e resistenza strutturale sono già compromesse. Ed ancora, l’improvvisa disponibilità di ossigeno, non pienamente sfruttabile dal sistema energetico cellulare danneggiato, può risultare in un incremento di ioni superossido. Infine, l’arrivo massivo di elementi figurati del sangue, attraverso una barriera ematoencefalica danneggiata, può provocare un ulteriore danno tessutale mediato dai leucociti. Oggi si ritiene che la riperfusione di un tessuto ischemico per poter arrecare più vantaggi che danni dovrebbe essere attuata il più precocemente possibile.
Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il TIA è un episodio caratterizzato da “improvvisa comparsa di segni e/o sintomi riferibili a deficit focale cerebrale o visivo, attribuibile ad insufficiente apporto di sangue, di durata inferiore alle 24 ore”. Il termine di 24 ore è del tutto arbitrario. La maggioranza degli Autori ritiene che nel 50% dei casi il deficit neurologico si risolva entro un’ora e che nel 90% dei casi scompaia completamente entro 4 ore. Ciò significa che se un paziente, a 4-5 ore dall’esordio, presenta ancora segni e sintomi anche se sfumati, la probabilità che si tratti di un attacco ischemico transitorio è molto bassa, a meno che non si constati che il disturbo sia in via di rapido miglioramento. Comunque la pratica di attendere alcune ore per valutare l’evoluzione della sintomatologia, prima di indirizzare il malato al ricovero ospedaliero è senz’altro da rifiutare, soprattutto in considerazione della necessità di immediate scelte terapeutiche. L’incidenza e la prevalenza aumentano con l’età. Episodi ischemici transitori che si risolvono in un periodo di tempo compreso tra 24 ore e 23 settimane, sono indicati con diverse terminologie: Attacchi Ischemici Reversibili (RIA) o TIA protratti (PTIA); talora sono inglobati nel gruppo degli ictus minori (minor stroke). Attualmente, specie nel mondo neurologico anglosassone, prevale l’opinione che l’evoluzione clinica e la prognosi dei TIA, degli episodi transitori protratti, dei TIA con lesioni dimostrabili alla neuroimmagine, e dei minor stroke ischemici siano simili, anche se mancano prove sicure a suffragio di questa affermazione. È indubbio peraltro che i soggetti con TIA e con
EDEMA CEREBRALE ISCHEMICO Un’importante complicazione in corso di ischemia cerebrale, è l’edema cerebrale sia citotossico che vasogenico (v. pag. 000). L’edema citotossico (provocato dallo spostamento di acqua dallo spazio extra- allo spazio intracellulare, conseguentemente all’ingresso massivo degli ioni calcio e sodio ed in seguito alle alterazioni, inizialmente funzionali e poi strutturali, delle membrane neuronali) si instaura sin dai primi minuti che seguono l’insulto ischemico e colpisce maggiormente le aree cen-
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minor stroke ischemico sono molto simili per distribuzione per età e sesso, prevalenza di fattori di rischio vascolari, patogenesi, ed hanno una prognosi molto simile per futuri incidenti vascolari sia cardiaci che cerebrali e per mortalità da ogni causa (Whisnant et al., 1999). Il rilievo di una lesione ischemica cerebrale congrua con i sintomi presentati dal malato non esclude necessariamente la diagnosi di TIA, essendo tale diagnosi di tipo clinico (Landi, 1992). La diagnosi di TIA, come quella di ictus ischemico, non necessitano del dato di imaging (che può essere negativo) per essere poste, tuttavia una TC o una RM vanno effettuate sempre per la diagnosi differenziale con l’emorragia cerebrale e con altre patologie che possono mimare il TIA o l’ictus. Il rilievo diretto o anamnestico di un episodio di questo tipo è comunque importante in quanto è noto che si tratta di una sindrome clinica che si associa ad aumentato rischio di ictus ischemico e rappresenta, perciò, un “campanello di allarme” che deve indurre malato e medico ad esperire gli opportuni accertamenti per conferma diagnostica e al fine di chiarire il meccanismo causale per poter operare la migliore strategia di prevenzione. Nel corso del primo anno successivo all’episodio di TIA, il rischio di un infarto cerebrale è circa il 10% per scendere al 5% per anno nei successivi 5 anni, ovvero circa sei volte più del rischio della popolazione generale (Dennis et al., 1993). Lo stesso vale per il rischio di eventi cardiaci gravi (infarto miocardico fatale e non, morte cardiaca improvvisa). Va ricordato infine che circa il 30% dei malati presenterà altri TIA. Il quadro clinico dell’attacco ischemico transitorio è diverso a seconda che l’episodio ischemico riguardi il territorio carotideo o il territorio vertebro-basilare. Se il medico non è presente al fatto, i sintomi possono essere riferiti dal paziente o dai parenti in maniera approssimativa, con conseguen-
te difficoltà a discriminare con sicurezza il TIA carotideo da quello vertebro-basilare. L’attacco ischemico transitorio in territorio carotideo può manifestarsi con disturbi del visus dell’occhio omolaterale alla carotide interessata: perdita improvvisa del visus (amaurosis fugax), spesso descritta come un velo che cala dall’alto o che sale dal basso, meno frequentemente come una luce intensa. Se il paziente non ha provato a chiudere alternativamente i due occhi, può accadere che riferisca come amaurosi quella che in realtà è un’emianopsia laterale omonima (dell’emicampo corrispondente all’occhio ritenuto sofferente), che può dipendere da deficit transitorio del circolo carotideo ma è più spesso attribuibile ad ischemia vertebrobasilare. Raramente l’amaurosi fugax si manifesta contemporaneamente ad un deficit neurologico focale, più spesso lo precede di ore o giorni. È chiaro che il soggetto che ha sofferto di un episodio di amaurosi mono-oculare transitoria deve sottoporsi ad una visita specialistica oculistica, dato che molte malattie oculari possono manifestarsi con questo sintomo (trombosi venosa retinica, glaucoma, emorragia retinica, corioretinite). Il deficit focale del TIA carotideo è costituito spesso da ipostenia o sensazione di pesantezza o impaccio motorio di un arto, o in varia combinazione di emifaccia, arto superiore o inferiore, fino al coinvolgimento di un intero emisoma, sempre controlaterale all’emisfero colpito. Il disturbo del movimento è in effetti il più comune sintomo del TIA (Tabella 22.2) colpendo circa metà dei casi. In oltre un terzo dei casi, si possono rendere manifesti disturbi sensitivi: parestesie, ipoestesie con la stessa distribuzione dei deficit motori, coi quali peraltro possono coesistere. Talvolta il paziente o i parenti riferiscono transitoria afasia, espressiva o di ricezione o globale, in associazione con eventuale deficit focale sensitivo-motorio, o emianopsia laterale omonima. La cefalea può precedere o concomitare nel 30% dei casi (v. pag. 000).
Malattie vascolari Tabella 22.2 - Sintomi neurologici più frequenti in corso di TIA. Sintomo
%
Disturbo della forza (debolezza, pesantezza, impaccio) unilaterale Disturbi sensitivi (ipoestesia, parestesia) unilaterali Disartria Amaurosi transitoria unilaterale Afasia
35 23 18 18
Disturbo della coordinazione motoria (atassia) Vertigine Emianopsia laterale omonima Diplopia
12 5 5 5
50
(da Dennis, 1988, modificata)
Il disturbo transitorio del circolo vertebrobasilare si manifesta con vertigini, diplopia verticale o orizzontale, disartria, atassia, deficit motori e sensitivi di un arto o più arti, fino ad una tetraparesi talora con emianopsia laterale omonima; non è infrequente la comparse di una sindrome alterna (v. pag. 000). La cefalea è più frequente nei TIA vertebro-basilari che in quelli carotidei. Sintomi da non considerare come espressione di TIA, se compaiono isolatamente, sono: disartria, disfagia, diplopia, acufeni, vertigini, e soprattutto episodi di perdita di coscienza, stati confusionali, fenomeni lipotimici o pre-sincopali (v. Tab. 22.4). Diagnosi differenziale Un deficit neurologico focale transitorio può essere causato da patologie diverse dal disturbo ischemico. Un attacco emicranico, specie se non seguito da tipico dolore emicranico (aura senza cefalea), può simulare un TIA per la presenza di disturbi del campo visivo o di deficit focali motori, sensitivi, fasici. Tuttavia l’età abitualmente giovanile, il dato anamnestico di attacchi analoghi ricorrenti, il fatto che i sintomi sono
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più frequentemente visivi, e hanno generalmente carattere «positivo» (flash luminosi, parestesie), a differenza di quelli di un attacco ischemico transitorio che sono più spesso di tipo «negativo» (amaurosi, ipostenia, ipoestesia), sono elementi discriminanti. Una crisi epilettica parziale sensitiva può talvolta porre un problema di diagnosi differenziale, ma, in questo caso, i dati anamnestici possono, in genere, essere dirimenti. Inoltre la durata del disturbo è abitualmente molto breve, e può verificarsi una marcia jacksoniana; la crisi parziale può essere seguita da crisi generalizzata con perdita di coscienza; ed infine l’eventuale presenza di una patologia encefalica responsabile può essere documentata dalle neuroimmagini. Una crisi parziale motoria a sintomatologia elementare è di solito caratterizzata da “scosse” che tendono talora ad estendersi (marcia) e sono seguite da una paresi transitoria dovuta ad esaurimento funzionale (paralisi di Todd). Occorre però rilevare che anche un TIA, seppur raramente, può manifestarsi con “movimenti involontari patologici” (v. pag. 000). Un episodio di sclerosi multipla raramente può simulare un attacco ischemico transitorio, e, comunque, la durata dei sintomi e segni è molto più prolungata e si tratta, di solito, di soggetti giovani, in cui l’accurata valutazione dei dati anamnestici, clinici e strumentali è in grado di risolvere il problema di diagnosi differenziale (v. pag. 000). Talora deficit neurologici focali conseguono ad ipoglicemia o iponatriemia, ma la storia clinica e gli esami di laboratorio sono generalmente sufficienti a dirimere il dubbio. Raramente un tumore cerebrale, soprattutto metastatico o un meningioma, può dar luogo a sintomatologia transitoria isolata o multipla, ma la diagnostica per immagini è risolutiva. Il drop attack consistente in una improvvisa caduta a terra, generalmente durante la deambulazione piuttosto che nella semplice stazione eretta, senza segni o sintomi premonitori, sen-
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za perdita di coscienza, senza segni piramidali agli arti inferiori, si manifesta più frequentemente in donne di età superiore ai 50 anni. È stato, nel passato, considerato come un tipico sintomo di un disturbo transitorio del circolo vertebro-basilare. Oggi si ritiene che possa dipendere da varie cause e, laddove si verifichi isolatamente, non possa essere attribuito ad una patologia ischemica vertebro-basilare. Le principali patologie che possono mimare un TIA sono elencate nella Tabella 22.3, mentre i sintomi che non sono attribuibili a TIA, se isolati o non focali, sono mostrati nella Tabella 22.4.
Esami complementari in caso di TIA La diagnosi di attacco ischemico transitorio è puramente clinica ma deve essere completata con esami strumentali che saranno più ampiamente discussi nella sezione dedicata all’infarto cerebrale. La ricerca eziologia include la dimostrazione di una eventuale patologia aterosclerotica carotidea o vertebro-basilare o delle arterie intracraniche mediante esecuzione di ecodoppler dei tronchi sopraaortici e doppler transcranico; lo studio cardiologico (ECG, ECG dinamico secondo Holter, Ecocardiogramma transtoracico e, in casi selezionati, transesofa-
Tabella 22.3 - Eventi che possono mimare un TIA o un Ictus Deficit neurologici focali su base non ischemica
Emicrania, Epilessia
Lesioni cerebrali strutturali non ischemiche
Neoplasie, Ematoma sottodurale cronico, Malformazione vascolare
Altre cause non vascolari
Ipoglicemia, Malattia di Ménière, Sclerosi Multipla, Isteria
Sintomi transitori monoculari
Arterite a cellule giganti, Ipertensione maligna, Glaucoma, Papillite o altre patologie orbitarie e retiniche non vascolari
Tabella 22.4 - Sintomi non compatibili con la diagnosi di TIA Sintomi non focali
Perdita di coscienza Sensazione d’instabilità Astenia generalizzata Confusione mentale Perdita o calo del visus associati a ridotto livello di coscienza Incontinenza di feci ed urine
Uno dei seguenti sintomi, se isolati
Vertigine Diplopia Disfagia Perdita dell’equilibrio Acufeni Sintomi sensitivi confinati ad una parte di un arto o del volto Scotomi scintillanti Amnesia transitoria Caduta per improvviso cedimento degli arti inferiori senza disturbo di coscienza (drop attack) Disartria
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geo) è necessario per rilevare un disturbo del ritmo o una cardiopatia emboligena, elementi fondamentali per la strategia preventiva dell’ictus ischemico, sia farmacologica (antiaggreganti o anticoagulanti) che chirurgica (endoarterectomia). Anche questi aspetti saranno più ampiamente trattati a proposito dell’infarto cerebrale. La TC cerebrale o la RM debbono sempre essere eseguite nei casi di TIA, anche se sono abitualmente negative. Tuttavia l’uso sistematico delle neuroimmagini ha portato all’individuazione di lesioni ischemiche congrue con la sintomatologia presentata, circa nel 20-30% dei casi di TIA, in gran parte piccole lesioni lacunari. L’evoluzione clinica e la prognosi di questi casi di TIA, è ritenuta, come già detto, non diversa da quelli con TC o RM negative. D’altra parte, è noto che anche in soggetti completamente asintomatici, soprattutto se anziani e con fattori di rischio vascolari, sono talora riscontrabili, agli esami di neuroimmagini, lesioni ischemiche asintomatiche (infarti silenti); nei soggetti sintomatici (che hanno sofferto di TIA o ictus ischemico) è ancora più frequente l’osservazione di lesioni non congrue con la sintomatologia presentata.
Infarto cerebrale PATOGENESI L’insufficiente apporto ematico cerebrale può essere globale, o avere carattere focale. L’ischemia cerebrale globale, che abitualmente non determina ictus, è conseguenza di varie condizioni che determinano ipovolemia, o deficit della pompa cardiaca, oppure paralisi dei meccanismi riflessi vasoregolatori che adattano il letto vascolare al volume ematico. In funzione della durata e dell’entità della globale riduzione del flusso cerebrale, la sintomatologia, comunque caratterizzata da alterazioni della coscienza, si può esprimere con un episodio sinco-
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pale, o uno stato confusionale, o uno stato di coma più o meno prolungato, con o senza esiti permanenti. L’ischemia focale invece è il risultato di un ri-dotto apporto ematico distrettuale, che, dal punto di vista clinico, causa disturbi variabili in funzione della durata, entità, rapidità d’insorgenza, territorio vascolare interessato ed efficienza del circolo collaterale. Non sempre, pertanto, all’ischemia fa seguito l’infarto, e l’espressione clinica può, quindi, essere rappresentata da sintomi e segni completamente reversibili (TIA) (vedi sezione precedente), o da quadri di deficit persistente di funzioni neurologiche (ictus ischemico), che in alcuni casi raggiungono rapidamente la massima entità, in altri hanno una progressione peggiorativa o migliorativa (stroke in evolution) ad andamento graduale o fluttuante o remittente. DIAGNOSI NELLA FASE ACUTA L’esordio improvviso (ictale) di un deficit neurologico a focolaio, specie in soggetti di età relativamente avanzata e con presenza di uno o più fattori di rischio per malattie cerebrovascolari, deve sempre far sorgere il sospetto clinico di un infarto cerebrale. L’inquadramento clinico precoce è importante sia in rapporto all’eventuale possibilità di procedere ad una terapia trombolitica o neuroprotettiva, sia per poter agire in senso preventivo allo scopo di evitare un eventuale deterioramento del quadro neurologico, una recidiva a breve termine, o l’insorgenza di complicanze neurologiche e internistiche (Pessin et al., 1997). La visita neurologica è indispensabile per confermare l’esistenza del deficit neurologico, e stabilirne la sede e la gravità. Sul piano strumentale, l’esame da effettuare nella fase acuta di un sospetto ictus ischemico è la TC cerebrale, che viene eseguita per escludere la presenza di una emorragia cerebrale, rilevabile alla TC come immagine di aumentata densità (Fig. ?? ); la lesione ischemica sopratentoriale
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invece richiede un periodo più lungo (12-48 ore) per essere visualizzabile dalla TC nella sua interezza. Nelle prime ore che seguono un ictus ischemico è però possibile evidenziare in una percentuale di soggetti che si aggira intorno al 10-20% la presenza di quelli che si definiscono “segni precoci” di infarto, che sono rappresentati da: 1. ipodensità precoce: area di ridotta densità che coinvolge le strutture profonde, a contorni non ben delimitati (Fig. 22.17); 2. riduzione dei solchi corticali: minore rappresentazione dei solchi della corteccia cerebrale conseguente all’edema precoce (Fig. 22.18); 3. effetto massa: sempre in conseguenza dell’edema cerebrale è possibile osservare uno spostamento delle strutture della linea mediana verso il lato sano (Fig. 000) (Fieschi et al., 1989; von Kummer et al., 1994 e 1997). 4. segno della arteria cerebrale media iperdensa (Fig. 000); se la AMC è occlusa, appare Fig. 22.18 - M.S. anni 50, TC senza mdc, spianamento dei solchi corticali a destra come segno precoce di lesione ischemica.
iperdensa rispetto al tessuto cerebrale che la circonda per la presenza del trombo o embolo intraluminale. I vasi con sangue circolante sono invece isodensi rispetto al parenchima. Solo nel caso che la parete sia calcificato i vasi possono presentare un contorno iperdenso, ma il lume appare, se pervio, isodenso.
Fig. 22.17 - R.G. anni 29, TC senza mdc, lesione ischemica nucleo-capsulare destra in fase acuta.
La presenza di questi segni precoci all’esame TC effettuato tra le 3 e le 6 ore dall’esordio clinico ha un significato prognostico sfavorevole, poiché identifica quei soggetti che possono avere un peggioramento del quadro clinico o un infarcimento emorragico della lesione ischemica (Fig. 22.19). Peraltro l’infarcimento emorragico non è di per sé un elemento necessariamente sfavorevole, e nel 30-40% dei soggetti studiati con TC di ultima generazione o con RM è possibile rile-
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Fig. 22.19 - Z.B. anni 49, TC senza mdc, lesione ischemica con infarcimento emorragico in sede fronto-parietale sinistra.
vare la presenza spontanea (indipendente da eventuali trattamenti trombolitici o anticoagulanti) di una componente ematica all’interno della lesione ischemica. Esistono anche metodi clinici, per stabilire se un ictus è emorragico o ischemico, che possono diventare importanti nei contesti in cui si opera senza disporre di TC. I più noti sono la scala di Siriraj e la scala di Allen; ambedue hanno un’accuratezza del 90% rispetto alla TC. Le variabili cliniche più frequentemente associate all’ictus emorragico sono: 1. quadro clinico: nell’emorragia i segni di ipertensione endocranica sono più frequenti che nell’infarto; i segni meningei possono essere presenti in caso di emorragia cerebro-meningea; vi è più spesso perdita di coscienza; 2. profilo dei fattori di rischio: maggiore frequenza dell’ipertensione come fattore di rischio isolato nell’emorragia, al contrario dell’infarto dove sono frequentemente presenti,
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oltre all’ipertensione, altri fattori di rischio, come diabete, cardiopatie emboligene, abitudine al fumo di sigaretta. La fonte più comune di errore è scambiare per infarto una emorragia di piccole dimensioni. La TC cerebrale o la RM restano comunque importanti per la diagnosi differenziale tra ischemia ed emorragia e per l’identificazione della sede e del territorio vascolare della lesione anche a distanza di tempo dall’esordio. Occorre però tenere conto che la TC non è in grado di distinguere tra danno parenchimale esito di emorragia o di infarto se effettuata quando il sangue di una eventuale emorragia sia stato riassorbito (dopo alcune settimane, di solito, ma anche dopo solo 7 giorni in caso di emorragie di piccole dimensioni). La RM invece è più accurata nella diagnosi differenziale tra infarto ed emorragia nella fase post-acuta, in quando è in grado di dimostrare a distanza, negli esiti di emorragie, la presenza di emosiderina. La TC cerebrale resta quindi l’indagine di prima istanza per escludere la natura emorragica dell’evento cerebrovascolare nella fase acuta. La RM cerebrale può fornire maggiori informazioni nella fase molto precoce dell’ictus ischemico: infatti, grazie alle cosiddette sequenze in “Diffusione-Perfusione”, è possibile evidenziare aree di sofferenza ischemica anche a distanza di un’ora o meno dall’esordio clinico; è inoltre possibile rilevare la zona di ridotta perfusione ematica che, se più ampia dell’area di parenchima già danneggiato, è un indice di evoluzione peggiorativa del danno (Barber et al., 1998). L’uso della RM nella fase acuta dell’ictus ischemico è peraltro limitato dagli alti costi e dalla necessità di collaborazione da parte del soggetto, non sempre possibile nella fase acuta dell’ictus. L’indicazione alla RM nella diagnostica cerebrovascolare al di fuori della fase acuta è limitato alla ricerca di lesioni ischemiche di piccole dimensioni o localizzate nelle strutture della fossa cranica posteriore, spesso non viste dalla TC.
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Oltre all’emorragia cerebrale, altre possibili diagnosi differenziali di un infarto cerebrale sono rappresentate da: 1. lesioni tumorali primitive o metastatiche; 2. ematomi subdurali; 3. ascessi cerebrali ed encefaliti focali. Anche se le suddette lesioni si manifestano usualmente con esordio clinico ingravescente, non è infrequente che la sintomatologia che conduce il soggetto all’osservazione del medico venga descritto come improvviso. Nei soggetti più giovani l’ictus ischemico deve essere inoltre differenziato da una lesione demielinizzante in fase acuta.
DIAGNOSI EZIOLOGICA Dopo la prima fase diagnostica, in cui viene chiarita l’origine vascolare della lesione encefalica, e la natura ischemica della stessa, occorre affrontare il secondo quesito, che riguarda la causa dell’evento ischemico. Tale approfondimento diagnostico è di cruciale importanza per le conseguenti scelte terapeutiche, e si basa sullo studio dell’attività e della morfologia cardiaca, della condizione dei vasi epiaortici, della massa ematica circolante e della funzione coagulativa. Gli accertamenti diagnostici da effettuare sono pertanto: – Valutazione clinica del soggetto: mediante esame neurologico, eventuale quantificazione del deficit neurologico mediante l’uso di scale di gravità validate, come la Scandinavian Stroke Scale (SSS - Lindstrom et al., 1991) o la National Institutes of Health Stroke Scale (NIHSS – Brott et al., 1989), esame obbiettivo generale con particolare riguardo all’apparato cardiovascolare, con misurazione e monitoraggio della pressione arteriosa omerale (a entrambi gli arti superiori), valutazione della funzione cardiaca
(ritmo, soffi, segni di scompenso, etc.), dei polsi periferici e dell’eventuale presenza di soffi carotidei; – Valutazione cardiologia strumentale: i malati con ictus ischemico (o TIA) dovrebbero essere sottoposti ad un’accurata valutazione cardiologica in vista di una cardiopatia ischemica eventualmente silente (presente in circa il 2540% dei cerebrovascolari ischemici in grado di eseguire un test da sforzo). L’elettrocardiogramma è indispensabile e può pertanto consentire di rilevare chiari segni di ischemia miocardia in atto o pregressa ed alterazioni del ritmo cardiaco (in particolare la presenza di fibrillazione atriale). Nella fase acuta dell’ictus può essere utile il monitoraggio dell’ECG per il possibile riscontro di aritmie accessuali, possibile causa, ma talora conseguenza, dell’infarto cerebrale. L’obiettivo principale dello studio cardiologico nell’ictus ischemico è l’identificazione dei pazienti che presentano un’affezione cardioembolica come possibile causa dell’evento cerebrovascolare. Il solo riscontro di una sorgente cardioembolica non è peraltro sufficiente per porre diagnosi di ictus cardioembolico. Il cardine della diagnosi clinica di ictus cardioembolico è la dimostrazione di una sorgente cardioembolica in un malato con ictus non lacunare (v. pag. 000) in assenza di evidenza di malattia dell’aorta ascendente, dei vasi epiaortici o intracranici o di altra causa. In alcuni casi la diagnosi di possibile cardioembolismo può essere già posta sulla base dell’anamnesi (storia di fibrillazione atriale, recente IMA, valvulopatia). Il più delle volte è però necessario ricorrere a tecniche ecografiche di “imaging” cardiaco. L’ecocardiografia transtoracica (ETT) può rivelare la presenza di valvulopatie, di dilatazione di cavità cardiache, di zone di ipocinesia, o di potenziali sorgenti emboliche come trombi endocavitari, vegetazioni endocarditiche, o aumento dell’eco-contrasto spontaneo all’interno delle cavità atriali ma non è sempre sufficiente per la sua bassa sensibilità nel rilevare
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alcune possibili fonti di embolizzazione (in particolare i trombi situati nell’atrio sinistro o nell’auricola). L’ecocardiografia transesofagea (ETE) possiede maggior sensibilità nel valutare le possibili fonti di cardio-embolismo a prezzo di una maggiore invasività, per cui molti soggetti non tollerano la procedura. L’ecocardiografia transesofagea è particolarmente accurata nell’identificazione di anomalie del setto (Cabanes et al., 1993) interatriale (difetti interatriali e aneurisma del setto), trombi dell’auricola e vegetazioni della valvola mitralica (Tabella 22.5). Sempre con tale metodica è possibile studiare l’aorta ascendente e l’arco aortico, dove il rilievo di placche ateromasiche di spessore superiore ai 4 mm rappresenta un’altra possibile sorgente embolica (Amarenco et al., 1994). In considerazione dell’invasività della metodica e dei suoi costi, l’uso indiscriminato della ETE nei soggetti con ictus ischemico non è indicato. L’ American College of Cardiology - American Heart Association (ACC/AHA, 1997) suggerisce tre indicazioni principali: pazienti giovani (<45 anni); pazienti più anziani (>45 anni) in assenza di altre eziologie evidenti; pazienti per i quali una decisione terapeutica (terapia anticoagulante orale etc) è strettamente dipendente dai risultati dell’ecocardiografia. Il monitoraggio ECG delle 24 ore secondo Holter, da limitare ai pazienti in cui si sospetti (e non sia stata già altrimenti
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dimostrata) la natura cardioembolica dell’ictus o del TIA, potrebbe rivelare possibili condizioni emboligene ricorrenti quali una fibrillazione atriale intermittente o una malattia del nodo del seno con episodi di bradi-tachicardia. – Valutazione neurosonologica: una valutazione precoce del malato colpito da incidente cerebro-vascolare può essere di grande aiuto nella identificazione dei possibili fattori patogenetici dell’ictus ischemico. Tali aspetti sono rappresentati da: possibilità di evidenziare trombi (o emboli di grosse dimensioni) ancora mobili e, talora flottanti, all’interno dei vasi epiaortici, con maggiore frequenza a livello della biforcazione della carotide, oppure dalla possibilità di identificare un’eventuale dissecazione della carotide o dell’arteria vertebrale (evento patogenetico non del tutto infrequente nell’ictus ischemico giovanile). L’EcoColorDoppler delle arterie carotidi, succlavie e vertebrali è utile soprattutto per il rilievo di stenosi dei vasi epiaortici e la definizione delle caratteristiche delle pareti dei vasi (spessore intima-media) e delle placche (Fig. 000). Tale esame può, infatti, dimostrare una placca ateromasica, quantificare l’entità della stenosi, dare informazioni sulle caratteristiche più o meno irregolari della sua superficie. Il Doppler transcranico può, da parte sua, consentire di evidenziare la presenza di un’occlusione dell’arteria cerebrale media o della
Tabella 22.5 - Ecocardiografia transesofagea (ETE) ed ecocardiografia trans-toracica (ETT) per identificazione di sorgenti cardioemboliche (da Spread, 1999, modificata) sorgenti per cui è preferibile l’ecocardiografia transtoracica:
trombo ventricolare sinistro, valvulopatia mitralica mixomatosa con prolasso, calcificazione dell’anulus mitralico, stenosi mitralica, stenosi aortica, vegetazioni della valvola aortica, discinesia del ventricolo sinistro (caratteristica predittiva di trombosi intracardiaca ma non sorgente di emboli di per sé).
sorgenti per cui è preferibile l’ecocardiografia transesofagea:
aneurisma del setto interatriale, difetto del setto interatriale, forame ovale pervio, mixoma atriale, trombo atriale, trombo dell’auricola atriale, trombo/ateroma dell’arco aortico, vegetazioni della valvola mitralica: endocardite infettiva, endocardite marantica.
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basilare nella fase acuta dell’ictus ischemico, e di rivelare la presenza di una stenosi della cerebrale media, spesso associata ad una stenosi della carotide interna al collo. Inoltre, il monitoraggio del Doppler transcranico durante la fase acuta dell’ictus può documentare processi di ricanalizzazione delle arterie intracraniche maggiori (specie l’arteria cerebrale media) in rapporto a processi di trombolisi spontanea o farmacologica. Consente anche di ottenere informazioni sulla presenza di circoli collaterali intracranici in rapporto con l’ostruzione di vasi intra- o extra-cranici. Il Doppler transcranico consente, inoltre, con l’iniezione endovena di mezzo di contrasto gassoso, di evidenziare la presenza di shunt destro-sinistro da pervietà del forame ovale a livello cardiaco, causa non infrequente di ictus, specie nel soggetto di età giovanile in assenza di altre cause evidenti (Serena et al., 1998). Il Doppler transcranico, infine, è utile per una valutazione della microembolia cerebrale. I segnali microembolici sono presenti in varie situazioni cliniche come nella stenosi carotidea e nei portatori di valvole cardiache protesiche. Negli ultimi anni sta poi emergendo, come ulteriore esame complementare, l’Eco-Color-Doppler transcranico, abbinato, eventualmente, all’uso di contrasto ultrasonoro (si tratta di preparati iniettabili in vena, che attraversano agevolmente il filtro polmonare, in grado di aumentare l’ecogenicità del sangue). Tali tecniche permettono di ridurre il numero di soggetti non esplorabili per impervietà agli ultrasuoni della finestra temporale (vedi pag….) e consentono una migliore localizzazione e quantificazione di stenosi o occlusioni intracraniche. – Valutazione angiografica: l’angiografia digitale sottrattiva (ADS) mediante cateterismo arterioso è un’indagine non scevra di rischio e va riservata allo studio dei soggetti con stenosi carotidea, superata la fase acuta dell’ictus, laddove vi sia l’indicazione all’intervento di endoarteriectomia carotidea a scopo profilattico,
sempre che il chirurgo lo richieda. In effetti l’accresciuta precisione delle indagini ecografiche, unitamente alle informazioni derivanti da indagini poco invasive come l’angiografia in RM e l’angio-TC spirale delle arterie del collo ha reso sempre più infrequente in questi anni il ricorso all’ADS. Va comunque riportato che l’angiografia cerebrale resta l’esame di elezione per la diagnosi, anche in fase acuta, di una dissecazione carotidea, causa non frequente di ictus ischemico nell’età giovanile, e per la diagnosi di vasculite intracranica. L’angiografia rimane inoltre un esame indispensabile se si prevede di sottoporre il soggetto ad un trattamento con trombolisi loco-regionale ovvero ad una procedura di angioplastica percutanea con applicazione o meno di “stent” (Connors et al., 1999). – Esami bioumorali, tra cui emocromo, glicemia, profilo glicemico e dosaggio dell’emoglobina glicata, valutazione dello stato lipidico, prove emocoagulative: tali indagini aiutano nel definire il profilo dei fattori di rischio del soggetto (diabete, ipercolesterolemia), e ad individuare possibili cause meno frequenti di infarto cerebrale, come le malattie ematologiche. Occorre comunque precisare che nella fase acuta dell’ictus ischemico elevati valori di glicemia possono essere semplicemente espressione di una aspecifica reazione allo stress, e non sempre di una sottostante condizione diabetica. Anche la valutazione dello stato lipidico in fase acuta non fornisce elementi certi per cui è preferibile effettuarla, o ripeterla, quando la situazione clinica si è stabilizzata. Nei soggetti di età giovanile ed in quelli in cui una causa dell’evento non sia stata evidenziata, vanno indagati alcuni indici di vasculite o di trombofilia, fra cui: a) la ricerca di anticorpi antinucleo, antiDNA, anti-muscolo liscio, anti-mitocondri, nel sospetto di lupus eritematoso sistemico o di altre malattie del connettivo o vasculiti; b) il dosaggio di proteina C, proteina S e antitrombina III, che, se deficitari, costituisco-
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no un rischio trombofilico ereditario; c) il dosaggio plasmatico dell’omocisteina, basale e dopo carico orale di metionina, che, se elevata, rappresenta un fattore di rischio vascolare; d) la ricerca del polimorfismo del gene per la MTHFR (mutazione C677T) che predispone ad elevati valori di omocisteinemia; e) la ricerca di lupus anticoagulant (LAC) e di anticorpi antifosfolipidi (APA), specie nei soggetti con anamnesi di emicrania e di aborti ripetuti; f) lo studio genetico di polimorfismi che predispongono a stati di ipercoagulabilità ematica: resistenza alla proteina C attivata (fattore V Leiden; mutazione G1691A) e polimorfismo del gene per la Protrombina (mutazione G20210A) g) lo studio genetico per la ricerca del gene della CADASIL (Cerebral Autosomal Dominant Arteriopathy with Subcortical Infarcts and Leukoencephalopathy): malattia ereditaria autosomica dominante, caratterizzata da infarti lacunari multipli ad esordio in età giovanile o adulta, reperto alla TC e RM di grave leucoaraiosi, ed evoluzione a gradini verso un quadro pseudobulbare con demenza, dovuta ad una mutazione puntiforme del gene Notch 3 sul cromosoma 19 (Joutel et al., 1996). Al completamento dell’iter diagnostico è possibile identificare una eziologia dell’evento cerebrovascolare ischemico nel 85-90% dei casi. Gli eventi più frequentemente responsabili sono: – La Tromboembolia aterosclerotica (genesi aterotromboembolica) osservabile in soggetti con patologia aterosclerotica dei grossi vasi epiaortici o dell’arco aortico. Le complicazioni tromboemboliche da lesioni aterosclerotiche dei vasi del collo rappresentano la causa più frequente di ischemia cerebrale (circa il 50% degli ictus ischemici) per cui un cenno sulla storia naturale delle placche aterosclero-
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tiche e sui loro rapporti con la patologia cerebrovascolare appare particolarmente opportuno. I principali fattori di rischio correlati all’insorgenza di aterosclerosi sono: l’età, il sesso maschile, le dislipidemie, il diabete, l’ipertensione, il fumo, fattori che hanno anche un ruolo preminente nell’incidenza di complicanze tromboemboliche secondarie. Determinanti anatomiche hanno valore fondamentale nella localizzazione delle placche, che tendono a formarsi più facilmente a livello dell’arco aortico, delle biforcazioni carotidee, delle tortuosità fisiologiche (sifone carotideo) e patologiche, all’origine ed alla confluenza delle arterie vertebrali, in cui le condizioni di flusso sottopongono a più frequente ed intenso microtraumatismo la parete vasale. L’interazione tra predisposizione genetica e fattori di rischio è responsabile della maggior probabilità di formazione delle placche e della frequenza della polidistrettualità delle lesioni. La sequenza che va dalla precoce deposizione lipidica intimale alla proliferazione delle fibrocellule muscolari lisce, all’invasione macrofagica, alla deposizione di colesterolo e fibrosi, si conclude con la formazione della placca. Il destino successivo della lesione è variabile, ed è frequente la parziale necrosi-calcificazione della placca, con fissurazioni della superficie rigida, e successive riapposizioni di materiali costitutivi. Può avvenire così un progressivo aumento di dimensioni della placca, fino a determinare un restringimento del lume vasale sufficiente a ridurre il flusso in modo significativo. Non meno importante è l’eventuale irregolarità della superficie della placca, in quanto favorisce l’aggregazione piastrinica con successiva formazione di trombi anche se la placca non è voluminosa. Il trombo può causare ischemia cerebrale con le seguenti modalità: a) accrescendosi e restringendo progressivamente il lume vasale, fino ad occluderlo, b) propagandosi fino ad occludere l’origine di rami che si dipartono dal vaso trombotico,
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c) frammentandosi spontaneamente, e dando luogo ad emboli in grado di occludere vasi distali di minor calibro. Quest’ultimo meccanismo, definito dagli Autori di lingua inglese «artery-to-artery embolism», è usualmente implicato nell’occlusione completa ed improvvisa dell’arteria cerebrale media o dei suoi rami, laddove esista una placca complicata da trombosi a livello della biforcazione carotidea o della carotide interna. In altri casi sono i circoli collaterali a trasportare emboli di origine trombotica dalla CI all’ACM, o provenienti dall’estremo distale del moncone cieco («stump» degli anglosassoni) di una carotide interna occlusa, o da una carotide esterna stenotica, tramite l’oftalmica, al sifone. La complicanza tromboembolica non è però l’unico meccanismo da considerare ed è nota la possibilità che piccoli emboli di materiale non trombotico, di natura mista lipo-fibro-calcifica, si distacchino e si arrestino in vasi terminali, come viene postulato per i TIA retinici. L’angiografia e l’ecodoppler hanno altresì dimostrato il verificarsi di emorragie a partenza dall’intima perilesionale, con protrusione della placca e rapida insorgenza di stenosi vasale di variabile entità, fino all’occlusione. – L’Embolia cardiogena: da cardiopatie o condizioni cardiache emboligene. Dopo le complicanze tromboemboliche correlate all’aterosclerosi, il ruolo di maggior rilievo nel determinismo dell’ischemia cerebrale focale spetta alle embolie cardiogene, invocate nel 20% circa del totale dei casi, ma la percentuale sale ulteriormente (oltre il 30%) ove si consideri la fascia giovanile (15-44 anni) della popolazione con ictus. La responsabilità di talune patologie cardiache nella genesi dell’ischemia cerebrale è oggetto di discussione. La disponibilità di tecniche di indagine speciali, come l’ecocardiografia transesofagea (TEE), ha certamente potenziato le capacità diagnostiche nell’ambito delle relazioni tra cuore e danno cerebrovasco-
lare. Tuttavia è difficile dimostrare l’effettiva rilevanza di talune lesioni cardiache potenzialmente emboligene, nella popolazione dei soggetti cerebrovascolari ischemici; ad esempio, la valutazione di singoli casi, frequenti soprattutto nella popolazione anziana, in cui quando patologie cardiache potenzialmente emboligene concomitano con quadri trombotici a livello dei vasi del collo, appare particolarmente complessa. Le patologie cardiache, generalmente accettate come emboligene, vengono distinte dalle cardiopatie, la cui potenzialità emboligena è verosimile (Tab.22.6); tale inquadramento, suscettibile di future revisioni in rapporto a nuove metodiche di indagine, è utile per sottolineare il maggiore rischio di embolia in certe forme di cardiopatia rispetto ad altre.
Tabella 22.6 – Cardiopatie emboligene.
Ad alto rischio: protesi valvolari stenosi mitralica endocardite batterica infarto miocardico acuto cardiopatie congenite cardiomiopatia dilatativa A basso rischio o possibili: fibrillazione atriale isolata malattia del nodo senoatriale sindrome di Wolff-Parkinson-White tachicardia parossistica ventricolare valvulopatie aortiche (stenosi, insufficienza, calcificazione) placche calcifiche dell’aorta ascendente prolasso mitralico endocarditi marantiche e di Libman-Sacks difetti atrio- e ventricolo-settali pervietà del forame ovale dilatazione atriale sin. mixoma aneurisma ventricolare sin. fistola artero-venosa polmonare
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L’origine degli emboli varia nelle diverse cardiopatie: nelle patologie dell’atrio, sia disritmiche, come la fibrillazione atriale (FA) e la malattia del nodo del seno, sia su base anatomica come il mixoma o l’aneurisma del setto, il denominatore comune è il rallentamento del flusso ematico nella cavità che porta alla formazione di trombi ed al successivo distacco di emboli, che sarebbe favorito dal variare delle condizioni emodinamiche locali, per cui, ad esempio, la FA intermittente è emboligena soprattutto nelle fasi di ripristino del ritmo sinusale. Le varie alterazioni valvolari rappresentano altrettante sedi di apposizione di materiale trombotico; il prolasso mitralico, da alcuni considerato responsabile di una maggior incidenza di ischemia cerebrale nei giovani adulti, non sembra rappresenti un fattore rilevante nel determinismo dell’ischemia cerebrale, a meno che altre possibili cause non siano state escluse o esista una rilevante insufficienza valvolare o un’associazione con endocardite o fibrillazione atriale. Nelle cardiopatie ventricolari, come l’infarto miocardico acuto, l’aneurisma ventricolare e la cardiomiopatia dilatativa, in cui la formazione di trombi parietali locali è legata a fattori emodinamici, la possibile associazione con l’embolia cerebrale è indiscussa. Non meno importante è il possibile ruolo delle embolie paradosse, in cui giungono al cuore emboli originati a livello degli arti inferiori, del distretto pelvico o polmonare. In tal caso, infatti, la presenza di anomale comunicazioni tra sezione destra e sinistra del cuore, dovute a fistole arterovenose, difetti settali atriali o ventricolari o presenza di forame ovale pervio, rende possibile l’embolizzazione cerebrale. A conclusione della valutazione dei rapporti cuore-cervello, va ricordato che, secondo dati recenti, la chirurgia cardiaca comporta un rischio di ischemia cerebrale nel 2% dei casi, da addebitare a meccanismi embolici connessi all’intervento (distacco di aggregati trombotici, particelle grasse o materiali del sistema di cir-
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colo extracardiaco) o alla fase post-operatoria (complicanze aritmiche od ischemiche, materiale di protesi, trombi suturali). – La Patologia delle piccole arterie cerebrali è sostenibile nei soggetti in cui, oltre all’assenza delle condizioni suddette, esista almeno uno dei fattori di rischio per microangiopatia quali ipertensione e diabete mellito. L’occlusione delle piccole arterie penetranti nel parenchima cerebrale come le lenticolo-striate, le talamo-perforate o le perforanti del tronco cerebrale, è ritenuta la causa di piccoli infarti definiti «lacune», che sarebbero responsabili del 1025% degli episodi cerebrovascolari ischemici (Fig. 22.20). La lipoialinosi o necrosi fibrinoide della parete arteriosa delle piccole arterie, nei soggetti ipertesi, comporta la sostituzione della membrana elastica, muscolare e dell’avventizia con
Fig. 22.20 - L.G. anni 78, RM T1 pesata, multiple aree infartuali di tipo lacunare a livello della sostanza bianca periventricolare bilateralmente.
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depositi ialini, che conducono a stenosi per formazione di microateromi ed, eventualmente, ad occlusione del lume vasale. Tuttavia, le lacune cerebrali non compaiono soltanto in soggetti con ipertensione arteriosa, per cui si ritiene possibile che esista una minoranza di casi in cui la causa della lesione è rappresentata da emboli originati dal cuore o dai vasi extracranici. – Eziologia mista: quando concorrano due o più degli eventi suddetti. – Altre cause: Esiste una numerosa serie di patologie che agendo a livello dei vasi o dei costituenti del sangue portano alla formazione di trombi occludenti od embolizzanti. Sono cause rare di ictus ischemico e la loro valutazione deve essere riservata ai casi criptogenetici o di età inferiore ai 45 anni (ictus giovanile) a) Arteriti ed arteriopatie displastiche. Le vasculiti cerebrali sono processi infiammatori acuti o cronici della parete vasale che si manifestano in numerose malattie (Tab. 22.7) e co-
Tabella 22.7 - Vasculopatie infiammatorie responsabili di ischemia cerebrale.
Arteriti in collagenopatie Lupus eritematoso sistemico (LES) Artrite reumatoide M. di Sjögren Panarterite nodosa Arteriti gigantocellulari M. di Takayasu Arterite temporale Arterite gigantocellulare intracranica Vasculiti sistemiche M. di Wegener M. di Churg-Strauss M. da siero M. di Behçet M. di Buerger Angioite in sarcoidosi
stituiscono una rara causa di ischemia cerebrale, che interessa in prevalenza la popolazione giovanile. In particolare, la proliferazione cellulare, seguita da fibrosi e spesso da necrosi, restringe la parete vasale e ne altera la struttura favorendo la trombosi, cui può seguire embolia; è anche possibile che si verifichi dissezione del vaso, formazione di aneurismi, soluzioni di continuo della parete vasale con emorragia. Alcune vasculiti colpiscono primariamente arterie extracraniche, come l’arterite granulomatosa della carotide esterna o la malattia di Takayasu, localizzata a livello dell’arco aortico, con stenosi od occlusioni delle arterie a partenza dall’arco aortico. Viceversa la poliarterite nodosa colpisce le arterie di medio e piccolo calibro; il lupus eritematoso e l’angite granulomatosa non infettiva interessano arteriole, capillari e venule. Va ricordato, infine, che altre malattie, quali l’artrite reumatoide e la sindrome di Sjiögren, raramente sono complicate da vasculite. Arterie di medio e piccolo calibro di vari distretti corporei possono essere sede di displasia fibromuscolare, caratterizzata dall’alternanza di tratti di parete vasale atrofica e segmenti ispessiti da iperplasia muscolare e fibrosi; la carotide interna è l’arteria più colpita, con predilezione per il sesso femminile, ed è caratteristico il restringimento concentrico con aspetti a collana di perle, che i vasi colpiti assumono nelle immagini angiografiche. Clinicamente si osservano, circa nel 30% dei casi, episodi tipo TIA o infarto di probabile genesi tromboembolica. Talora si associa la presenza di aneurismi. b) Traumi e dissecazioni vasali. Lesioni traumatiche con e senza penetrazione della parete vasale, di varia origine, possono complicarsi con trombosi ed eventuale successiva embolia. Penetrazione parziale nella parete si può verificare accidentalmente da parte di schegge o per ferita della regione del collo o per manipolazioni chirurgiche; traumi non penetranti sono riportati, per dislocazioni o fratture delle vertebre cervicali, della base cranica, della cla-
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vicola, per manipolazioni fisioterapiche, per brusche torsioni del collo in seguito a cadute, urti, rotazioni del capo durante attività sportiva o perfino nella guida, ed in manovre diagnostiche, come la compressione carotidea. I traumi possono altresì causare dissecazione dei vasi del collo, patologia che rappresenta globalmente una rara causa di ictus. Si verificano anche dissecazioni spontanee, in casi di arteriti e displasia fibromuscolare, e in patologie ancor più rare dei tessuti connettivali, quali la necrosi cistica della media, la sindrome di Marfan, la sindrome di Ehler-Danlos, lo pseudoxantoma elastico. Frequente e caratteristica per l’insorgenza di dolore al collo o al viso, è la dissecazione della carotide interna. Il meccanismo dell’ischemia cerebrale conseguente a dissecazione è quello della stenosi, per aumento di spessore della parete vasale, eventualmente complicata da trombosi ed embolia. c) Altre patologie arteriose. Possono essere menzionate condizioni rare, ad eziologia diversa, quali neoplasie maligne con embolie metastatiche, infiltrazioni della parete vasale, tromboembolie da vasi danneggiati nel corso di terapia radiante; possibilità di embolie grassose, conseguenti a fratture, in pazienti con shunt cardiaco destro-sinistro; ed ancora embolizzazione da aneurismi congeniti od acquisiti, nell’interno dei quali le condizioni emodinamiche favoriscono la formazione di trombi. d) Malattie ematologiche (Tab. 22.8). I meccanismi responsabili possono essere: trombosi-occlusione vasale, dovuta ad infiltrazione o invasione cellulare, proprie delle patologie proliferative (malattia di Vaquez); aumentata viscosità ematica, per alterata morfologia globulare come l’anemia falciforme o per eccesso di proteine circolanti, come nel mieloma; ipercoagulabilità ematica, specifica di varie patologie, tra cui le sindromi paraneoplastiche e le diverse condizioni in cui si verifica coagulazione intravascolare disseminata (C.I.D.). Di particolare rilievo nell’ischemia cerebrale giovanile sono i deficit di molecole coinvolte nella
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Tabella 22.8 - Patologie ematologiche causa di ischemia cerebrale.
Malattie proliferative delle cellule circolanti leucemia linfoma policitemia trombocitopenia idiopatica porpora trombotica trombocitopenica Malattie con iperviscosità ematica anemia falciforme paraproteinemie (mieloma, m. di Waldenström) Coagulopatie coagulazione intravascolare disseminata (C.I.D.) deficit di antitrombina III, proteina C, proteina S sindromi da anticorpi antifosfolipidi (ACLA, LAC)
cascata emocoagulativa, come l’antitrombina III (AT III), le proteine C ed S, oppure la presenza di anticorpi antifosfolipidi (APA) come l’anticardiolipina (ACLA) ed il lupus anticoagulant (LAC). Questi ultimi, inizialmente individuati in pazienti con lupus, possono presentarsi indipendentemente dalla collagenopatia. e) Spasmo cerebrale. L’ipotesi dello spasmo cerebrale per spiegare soprattutto episodi ischemici transitori ha goduto larga popolarità nel passato, ma la disponibilità di tecniche più avanzate, per lo studio del flusso cerebrale e dei vasi intra ed extracranici con metodiche diverse, ha fortemente limitato la possibile correlazione tra ischemia e spasmo cerebrovascolare. Attualmente si ritiene che un’ischemia o un infarto cerebrale possano essere dovuti a spasmo solo in seguito ad emorragia subaracnoidea e lo spasmo sarebbe, in questi casi, provocato dall’azione sulla parete vasale dei prodotti di degradazione del sangue. f) Meccanismi emodinamici. La topografia degli infarti cerebrali, in molti casi di occlusione di grassi vasi arteriosi epiaortici, è talora simile a quella riscontrata in situazioni di marcata ipotensione, quali l’arresto cardiaco. Si ritiene
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pertanto che, in condizioni di ridotto apporto ematico, ed in presenza di gravi stenosi o occlusioni arteriose o di anomalie congenite o acquisite del circolo di Willis, si possano raggiungere valori critici di perfusione nelle aree di parenchima irrorate dai rami arteriosi più periferici (insufficienza di circolo degli «ultimi prati» con infarti cosiddetti “di confine”) (Fig. 22.21). Un esempio di ischemia cerebrale su base emodinamica (di solito transitoria, con quadri quindi a tipo TIA) è la sindrome da furto della succlavia. L’occlusione della succlavia all’origine si può compensare attraverso il flusso in via retrograda della vertebrale omolaterale. Pertanto in condizioni di aumentata richiesta di sangue da parte dell’arto superiore il compenso può avvenire a scapito del circolo vertebrobasilare, determinando sintomi di sofferenza del circolo posteriore, e realizzando il quadro denominato furto della succlavia (Fisher, 1961) (Fig. 22.22). La causa più comune di occlusione della succlavia è l’aterosclerosi, ma non sono da escludere traumi, embolia ed arteriti, e occasionalmente lesioni congenite. Negli ultimi decenni le metodiche non-invasive di studio di flusso con eco-doppler hanno rivelato che il furto della succlavia è presente in un gran numero di individui, peraltro asintomatici, ridimensionando la rilevanza clinica inizialmente attribuita a tale condizione.
Fig. 22.21 - B.S. anni 99, TC senza mdc, infarto in sede temporo-parietale-occipitale, nel territorio di confine posteriore tra territori di distribuzione dell’arteria cerebrale media e posteriore di sinistra, in fase stabilizzata.
Eziologia indeterminata: quando esiste la dimostrazione della natura ischemica dell’ictus, ma la ricerca delle cause e dei fattori di rischio è negativa, si parla di ictus ischemico criptogenetico che, a tutt’oggi, rappresenta circa il 1015% dei soggetti affetti.
Sintomatologia Esordio. – Il quadro clinico dell’infarto cerebrale è caratterizzato da un deficit neurolo-
Fig. 22.16 - Rappresentazione schematica del circolo collaterale attraverso le arterie vertebrali in caso di occlusione dell’arteria succlavia (A) e del tronco anonimo (B) (da C. Loeb, Atti Giornate Mediche Triestine, 1972).
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gico focale ad esordio improvviso, spesso brutale. Il deficit neurologico può essere completo e stabile sin dall’inizio, oppure avere un andamento evolutivo. In quest’ultimo caso il deficit può presentare una tendenza al peggioramento in maniera fluttuante, graduale o progressiva, che si completa generalmente entro 12-24 ore, ovvero tendere al miglioramento spontaneo. L’esordio clinico tende a manifestarsi durante le ore di veglia, con picchi di incidenza in corrispondenza delle prime ore del mattino (dopo il risveglio) e primo pomeriggio. Meno frequente, ma non inconsueto il fatto che il soggetto presenti al risveglio un deficit neurologico instauratosi nel corso della notte. Va ricordata l’esistenza di modalità di esordio clinico meno frequenti con una crisi epilettica parziale o generalizzata tonico-clonica, talvolta anche con andamento di tipo subentrante (sintomo d’esordio nell’1%-5% circa dei casi). Il deficit neurologico è, usualmente, ben distinguibile per entità e soprattutto dalla paralisi post-critica di Todd (v. pag. 000). Un’evoluzione graduale dei sintomi in più giorni o settimane è inusuale, tranne che nel caso della trombosi dei seni venosi (v. pag. 000) o in alcuni casi di ictus vertebrobasilare. Circa il 20-40% dei pazienti con ictus ischemico possono presentare un peggioramento spontaneo nelle ore successive e fino ad una settimana dall’esordio dei sintomi. Circa il 10-20% dei casi presenta un peggioramento del quadro neurologico entro le prime 24 ore (Hachinski, 1985). Una progressione dei sintomi è più frequente nei soggetti con ischemia nel territorio vertebrobasilare. L’insieme dei sintomi riflette il territorio vascolare cerebrale colpito. Raramente sono presenti sintomi riferibili a territori vascolari differenti. Al deficit neurologico focale possono accompagnarsi nausea, vomito, cefalea, crisi convulsive o alterazioni dello stato di coscienza.
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Fig. 22.23 - R.L. anni 55, TC senza mdc, associazione nello stesso caso di lesioni differenti; una lesione lacunare piccola, una lacuna “gigante”, ed un infarto in sede temporooccipitale mediale a sinistra, nel territorio dell’arteria cerebrale posteriore.
L’insieme dei segni e dei sintomi rilevabili al momento dell’esame neurologico permette classicamente di configurare tre grandi raggruppamenti sindromici, legati al territorio di distribuzione del vaso interessato dall’occlusione o dal deficit di perfusione (carotideo o vertebro-basilare) o al tipo di vaso colpito (arterie perforanti profonde): 1) Sindrome del circolo anteriore o carotideo. 2) Sindrome del circolo posteriore o vertebrobasilare. 3) Sindrome lacunare. È necessario sottolineare che la localizzazione della lesione sulla base della sintomatologia clinica è più precisa quando il quadro è stabilizzato, cioè quando l’esame avviene almeno 24
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ore, e talora 24-96 ore dopo l’esordio. Entro poche ore dall’ictus il giudizio diagnostico è più impreciso e la prognosi meno attendibile, se non si associa un’accurata ricerca anamnestica dei fattori di rischio e la rapida esecuzione di indagini strumentali che meglio permettono d’individuare i meccanismi responsabili e indirizzare le scelte terapeutiche. La identificazione corretta della sede lesionale ha importanti risvolti prognostici e terapeutici ed è utile per la scelta degli esami strumentali necessari nel singolo caso. Una classificazione semplice che sembra prestarsi abbastanza allo scopo di un inquadramento rapido e sufficientemente preciso del malato con ictus ischemico è quella proposta da Bamford et al. (1991) basata sui criteri adottati nello Oxfordshire Community Stroke Project, OCSP) e riportata in dettaglio nella Tabella 22.9. Una più completa ma anche più complessa suddivisione sindromica è stata proposta da Bogousslavsky et al. (1988). Tale classificazione ha codificato con precisione le diverse sindromi dovute ad occlusione ed infarto nel territorio dei principali rami dell’arteria cerebrale media (ACM), dell’arteria cerebrale anteriore (ACA) e dell’arteria cerebrale posteriore (ACP). Una classificazione così dettagliata è peraltro applicabile solo in soggetti in grado di fornire un livello di collaborazione molto elevato. Sindromi del circolo anteriore o carotideo L’occlusione unilaterale (talora anche bilaterale) della arteria carotide interna (CI), se il circolo di Willis è ben funzionante, può essere del tutto asintomatica. Se, invece, non vi è alcuna possibilità di compenso circolatorio, si manifesta abitualmente con un grave quadro neurologico, di solito indistinguibile rispetto a quello della occlusione completa dell’arteria cerebrale media (ACM), a meno che non vi sia stata una amaurosi transitoria controlaterale al deficit
sensitivo-motorio; talora l’infarto interessa anche il territorio dell’arteria cerebrale anteriore o, più raramente, anche quello della arteria cerebrale posteriore, che, in una minoranza di casi, può essere funzionalmente dipendente dal circolo anteriore. Se le possibilità di compenso circolatorio esistono, ma sono insufficienti, si possono manifestare infarti parziali nell’ambito dell’ampio territorio di distribuzione del circolo anteriore. L’ischemia di tutto il territorio della CI o della ACM si manifesta con un’improvvisa emiparesi o emiplegia controlaterale, interessante almeno due dei tre segmenti corporei (faccia, arto superiore, arto inferiore), con deficit sensitivo controlaterale, accompagnata da emianopsia laterale omonima controlaterale, da disturbi delle funzioni nervose superiori: afasia per lesioni dell’emisfero dominante per il linguaggio o emidisattenzione, emisomatoagnosia e anosodiaforia per lesioni dell’emisfero non dominante; spesso si può osservare deviazione coniugata dello sguardo verso il lato opposto al deficit motorio (il malato “guarda la lesione”) e un grado variabile di disturbo della coscienza (tabella 22.10 ) (Fig. 22.24, 22.25, 22.26). Se l’occlusione trombo-embolica riguarda solo rami dell’arteria cerebrale media (ACM), oppure l’arteria cerebrale anteriore (ACA) o l’arteria corioidea anteriore (AChA) avremo quadri neurologici meno drammatici. La presenza poi di un buon circolo collaterale, può circoscrivere l’area dell’infarto ad una zona sottocorticale striato-capsulare o al territorio di confine fra rami profondi e rami penetranti superficiali della ACM (infarto di confine interno, internal borderzone, fig. 22.27), anche in caso di occlusione completa della cerebrale media. In questi casi la sintomatologia è meno grave e spesso manca l’emianopsia laterale omonima. L’ischemia delle aree corticali irrorate dall’ACM, per occlusione di uno o più rami terminali, si manifesta con un deficit sensitivo-motorio controlaterale, che può essere limitato an-
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Tabella 22.9 - Classificazione degli infarti cerebrali adottata nello OCSP (Oxfordshire Community Stroke Project), Bamford et al., 1991) Sindrome completa del circolo anteriore (total anterior circulation syndrome o TACS o TACI). Tutti i seguenti segni: • emiplegia controlaterale alla lesione • emianopsia controlaterale alla lesione • disturbo di una funzione corticale superiore (per esempio afasia o agnosia visuospaziale o altri disturbi delle funzioni simboliche) Sindrome parziale del circolo anteriore (partial anterior circulation sindrome: PACS o PACI). Uno dei seguenti segni o combinazioni di segni, riferibili allo stesso emisfero: • deficit sensitivo/motorio + emianopsia • • • •
deficit sensitivo/motorio + compromissione di una funzione corticale superiore compromissione di una funzione corticale superiore + emianopsia deficit motorio/sensitivo puro meno esteso che in una sindrome lacunare (per esempio monoparesi) deficit di una funzione corticale superiore isolata
Sindromi del circolo posteriore (posterior circulation syndromes: POCS o POCI) Uno dei seguenti segni: • paralisi di almeno un nervo cranico omolaterale con deficit motorio e/o sensitivo controlaterale • deficit motorio e/o sensitivo bilaterale • paralisi coniugata dello sguardo (orizzontale o verticale) • disfunzione cerebellare senza deficit di vie lunghe omolaterale (come visto nell’emiparesi atassica) • emianopsia laterale omonima isolata o cecità corticale. I casi con disturbi di funzione corticale ed uno dei punti sopra considerati devono essere considerati POCS Sindromi lacunari (lacunar syndromes: LACS o LACI): Ictus (o, talora, TIA) senza afasia, disturbi visuospaziali e senza compromissione definita del tronco encefalico e della vigilanza. Principali forme:
• • • •
ictus motorio puro: deficit motorio puro che deve coinvolgere almeno metà faccia e l’arto superiore o l’arto superiore e quello inferiore ictus sensitivo puro: deficit sensitivo, anche solo soggettivo, che deve coinvolgere almeno metà faccia e l’arto superiore o l’arto superiore e quello inferiore ictus sensitivo-motorio: ictus sensitivo+ictus motorio emiparesi atassica: incluse la sindrome della mano goffa-disartria e la sindrome emiparesi brachio-crurale con atassia omolaterale
Tabella 22.10 - Sindrome completa del circolo anteriore Emiparesi o Emiplegia facio-brachio-crurale controlaterale Emi-ipoestesia o Emi-anestesia controlaterale Emianopsia laterale omonima controlaterale Rotazione preferenziale o forzata di capo ed occhi verso il lato della lesione cerebrale Disturbi delle funzioni simboliche: •
afasia, se è colpito l’emisfero dominante per il linguaggio
•
emisomatoagnosia, emidisattenzione, e anosodiaforia se è leso l’emisfero “minore”
Fig. 22.24 - R.G. anni 29, Angio-RM, occlusione dell’arteria cerebrale media di destra, proiezione antero-posteriore.
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Malattie del sistema nervoso
Fig. 22.25 - R.G. anni 29, Angio-RM, occlusione dell’arteria cerebrale media di destra, proiezione trasversale.
Fig. 22.26 - M.S. anni 50, TC senza mdc, lesione ischemica nel territorio dell’arteria cerebrale media di sinistra in fase acuta.
che ad un solo segmento corporeo, o con un deficit del senso di posizione di un arto, o con un disturbo isolato delle funzioni superiori (afasia), cui si può associare un’emianopsia o una quadrantanopsia laterale omonima controlaterale, superiore o inferiore. Da notare, peraltro, che l’associazione di un’emisindrome sensitivo-motoria con un’emianopsia laterale omonima controlaterale si può riscontrare anche nel caso, poco frequente, di infarto nel territorio dell’AchA per interessamento del braccio posteriore della capsula interna, del tratto ottico e del nucleo genicolato laterale. L’infarto nel territorio dell’ACA si manifesta con un deficit prevalente, e talora isolato, dell’arto inferiore controlaterale, eventualmente accompagnato da lievi disturbi sensitivi o da afasia. Si potranno anche evidenziare disturbi cognitivi propri della sindrome frontale (v. pag. 000) (apatia, tendenza al pensiero «concreto» con incapacità all’astrazione, atteggiamento moriatico), particolarmente evidenti in caso di
Fig. 22.27 - G.A. anni 79, TC senza mdc, internal borderzone infarct a destra.
Malattie vascolari
lesione bilaterale dei lobi frontali. L’interessamento bilaterale può verificarsi quando entrambe le ACA nascono dalla stessa CI ovvero per vasospasmo conseguente ad emorragia subaracnoidea da rottura di un aneurisma della comunicante anteriore. L’interessamento bilaterale determina paraparesi degli arti inferiori e disturbi sfinterici per cui può porsi un problema di diagnosi differenziale con una lesione del midollo spinale. Sindromi del circolo posteriore o vertebro-basilare Comportano una sintomatologia da lesione del lobo occipitale, del talamo, del cervelletto, del tronco dell’encefalo. Nel caso di infarto di un lobo occipitale da occlusione dell’arteria cerebrale posteriore (ACP) (Fig. 22.28)il soggetto presenta una emianopsia laterale omonima controlaterale, che, peraltro, può passare inosservata, essen-
Fig. 22.28 - B.S. anni 99, TC senza mdc, infarto in sede temporo-occipitale destra da occlusione dell’arteria cerebrale posteriore.
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do spesso attribuita ad una semplice riduzione del visus. Può coesistere confusione mentale. Se la lesione è di maggiori dimensioni, all’emianopsia può associarsi una sindrome sensitivo-motoria controlaterale e un deficit cognitivo, soprattutto disturbi visuo-spaziali, o, ancora, disturbi delle funzioni simboliche così da simulare un infarto nel territorio dell’ACM. Un embolismo all’estremità rostrale della basilare può comportare una emianopsia bilaterale omonima (cecità corticale) con visione a cannocchiale e conservazione della reazione pupillare alla luce, spesso associata a una sindrome confusionale. In altre occasioni si sviluppa un infarto bilaterale delle zone mediali del talamo associato ad infarto mesencefalico, con paralisi bilaterale del III nervo cranico (ptosi bilaterale), stato soporoso, tetraparesi (Finocchi et al., 1996). L’occlusione delle arterie talamoperforanti che originano dal tratto iniziale della ACP determina un piccolo infarto talamico, caratterizzato da una sindrome sensitiva o sensitivo-motoria controlaterale, talora con iperpatia. Se la lesione talamica è di dimensioni maggiori sono possibili quadri più complessi, con disturbi di coscienza, apatia, allucinazioni visive, deficit della motilità oculare verso l’alto, afasia (se a carico dell’emisfero dominante per il linguaggio), amnesia e disturbi visuo-spaziali. Una lesione cerebellare (Fig. 22.29, 22.30) comporta: vertigine, nausea, disturbi dell’equilibrio; se l’infarto è di dimensioni medio-grandi, si evidenzia anche atassia statica e segmentale, ipsilaterale alla lesione, e disartria. Può accadere che l’edema sia responsabile di una compressione del tronco cerebrale con disturbi dei nervi cranici e alterazioni della coscienza fino al coma. Questa evenienza rappresenta una indicazione per un intervento di craniotomia decompressiva. Il cervelletto è irrorato dalle lunghe arterie circonferenziali che nascono dalle arterie vertebrali e dalla arteria basilare ed i territori relativi (come pure i relativi deficit in caso di lesio-
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ne infartuale) sono suddivisibili in base alla distribuzione dei rami corrispondenti: • sindrome dell’arteria cerebellare superiore: atassia del tronco o degli arti, lateropulsione omolaterale, disartria, nistagmo; • sindrome della arteria cerebellare postero-inferiore (branca mediale): sindrome pseudovestibolare con vertigine rotatoria, atassia del tronco, nistagmo, dismetria segmentale omolaterale, disartria, e (branca laterale): atassia segmentale omolaterale, lateropulsione omolaterale, instabilità posturale; • sindrome dell’arteria cerebellare anteroinferiore: atassia omolaterale, lateropulsione, nistagmo, segni di coinvolgimento pontino (nervo facciale, nervo trigemino).
Fig. 22.29 - R.L. anni 55, RM T1 pesata, infarto emisferico cerebellare sinistro.
I quadri clinici da ischemia del tronco cerebrale dovuti a ischemia nel territorio delle art. cerebellari postero-inferiori, antero-inferiori, art. cerebellari superiori, arteria basilare e art. cerebrali posteriori sono descritti particolareggiatamente a pag. 000. Nel caso di occlusione completa della basilare, si instaura un quadro clinico drammatico con coma, tetraplegia e paralisi respiratoria. Talora, nelle 48-72 ore precedenti, possono verificarsi diplopia, disartria, disfagia, deficit di forza e di sensibilità ad andamento fluttuante o con alternanza di lato. L’adeguata valutazione di questa sintomatologia può consentire di intervenire tempestivamente con terapia anticoagulante ovvero trombolitica, meglio se per somministrazione intrarteriosa in corso di angiografia. Va sottolineato che, spesso, gli infarti del circolo vertebro-basilare sono multipli, a differenti livelli, con quadri clinici che derivano dalla varia combinazione di quelli sopra descritti. Sindromi lacunari
Fig. 22.30 - R.L. anni 55, RM T2 pesata, infarto emisferico cerebellare sinistro.
L’occlusione di una arteria perforante profonda determina costantemente un infarto di piccole dimensioni e di forma tondeggiante detto “la-
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cuna” (Fig. 22.31); le arterie perforanti sono infatti rami terminali. Le lesioni lacunari spesso colpiscono zone poco espressive sul piano clinico (per esempio il nucleo lenticolare) per cui possono essere asintomatiche (infarti “silenti”: v. pag. 000). Se, invece, la lacuna è localizzata in zone strategiche (come capsula interna, talamo, ponte), si potranno osservare quadri clinici anche importanti ed abbastanza stereotipati, definiti sindromi lacunari. Le dimensioni sono abitualmente sotto 1,5 cm di diametro, ma possono talora raggiungere dimensioni anche superiori (lacune giganti, fig. 22.32). In senso generale si può affermare che le sindromi lacunari sono caratterizzate da un quadro clinico ad esordio acuto e rapidamente stabilizzato, in assenza di cefalea, disturbi visivi, disturbi delle funzioni corticali (afasia, aprassia, emidisattenzione, agnosia, crisi epilettiche) e della coscienza. Le principali sindromi lacunari sono: a) L’Emiparesi motoria pura (pure motor stroke): deficit motorio esteso ad almeno due
Fig. 22.31 - L.G. anni 78, RM T1 pesata, multiple aree infartuali lacunari a livello della sostanza bianca biemisferica.
Fig. 22.32 - R.G. anni 80, TC senza mdc, infarto lacunare di grandi dimensioni in corrispondenza del talamo e del braccio posteriore della capsula interna a sinistra.
segmenti corporei su tre (faccia, arto superiore, arto inferiore). È determinata da una lesione nella capsula interna o nel piede del ponte, meno frequentemente nella corona radiata o nel peduncolo cerebrale. Non sono presenti disturbi sensitivi (anche se sono ammessi transitori sintomi sensitivi). La coscienza è conservata, il deficit ha scarsa evolutività nella fase acuta, può associarsi disartria, mentre non sono mai presenti disturbi fasici. b) L’Ictus sensitivo puro (pure sensory stroke): disturbi soggettivi ed obbiettivi delle sensibilità ad un emisoma o a parte di esso, con distribuzione e intensità varia, in genere dovuti a lesione del talamo. Può coesistere una atassia segmentale sensitiva accentuata dalla chiusura degli occhi. c) L’Ictus sensitivo-motorio (sensory motor stroke): associazione di una emiparesi motoria pura con un ictus sensitivo puro donde un deficit
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motorio e sensitivo ad emilato corporeo o a parte di esso. È determinato da una lesione nel talamo o nel nucleo lenticolare, nella capsula interna, meno frequentemente nella corona radiata. d) L’Emiparesi atassica (ataxic hemiparesis): è caratterizzata da una lieve paresi motoria, più evidente all’arto inferiore, associata ad un’atassia segmentale soprattutto dell’arto superiore (dismetria alla prova indice-naso) in assenza di disturbi sensitivi (da non confondersi quindi con il disturbo atassico da interessamento delle sensibilità profonde). È causata da una lesione a livello del braccio posteriore della capsula interna, o della porzione ventrale del tegmento pontino o del talamo, che interrompe il circuito cortico-ponto-cerebello-talamo-corticale. e) La Disartria – mano goffa (dysarthria clumsy hand): è caratterizzata da un lieve impaccio motorio nei movimenti fini della mano accompagnato da disartria. Attualmente si tende a considerarla parte della sindrome precedente. Circa il 10-20% dei casi con TIA presentano alle indagini CT e RM una lesione lacunare congrua con la sintomatologia transitoria (The Harvard Cooperative Stroke Registry, 1978). Sindrome pseudobulbare Descritta e ampiamente illustrata alla fine dell’ottocento e all’inizio del novecento, è stata successivamente dimenticata per circa cinquant’anni. Il quadro è da ascrivere a lesioni ischemiche multiple localizzate a livello emisferico, nella sostanza bianca, nei nuclei della base e nel tronco encefalico. Alla denominazione classica si è tentato di sostituire, sulla base di considerazioni cliniche e neuropatologiche, quella di «sindrome soprabulbare». SINTOMATOLOGIA Si distinguono due forme cliniche: la forma pura e la forma striata (la forma opercolare, classicamente descritta, è molto rara e discussa):
1. Forma pura: si riscontrano segni di paralisi sopranucleare (disfagia, disartria, paralisi labio-glosso-faringea, dissociazione automatico-volontaria dei muscoli facciali) spesso associati con: emiparesi o tetraparesi, andatura a piccoli passi, iperreflessia profonda, e solo nel 20% circa dei casi, riso e pianto spastico, considerati nel passato sintomi costanti e caratteristici. 2. Forma striata: ipercinesia, rigidità con evoluzione graduale, e, come segni associati, andatura a piccoli passi, riflessi primitivi, iperreflessia profonda, amimia, deterioramento mentale, riso e pianto spastico. Il più frequente fattore di rischio è l’ipertensione arteriosa, seguita da aritmia, fibrillazione atriale, insufficienza cardiaca congestizia. La TC e la RM dimostrano nell’85% dei casi infarti cerebrali multipli, abitualmente di tipo lacunare, biemisferici. Infarti silenti Lesioni ischemiche asintomatiche sono di frequente rilievo in soggetti anziani che eseguono studi morfologici encefalici (TC o RM) per le più diverse motivazioni. La RM è molto più sensibile nell’evidenziare tale tipo di lesioni. Gli infarti silenti sono più frequenti nei soggetti con infarto cerebrale sintomatico in altra sede o con fattori di rischio per malattia vascolare. Sono abitualmente di piccole dimensioni e dislocati in zone profonde, a livello della sostanza bianca del centro semiovale, o in sede periventricolare o nei nuclei della base, ma talora hanno diensioni ragguardevoli e possono interessare anche zone corticali associative (Gandolfo et al., 1994). L’evidenza di infarti silenti rappresenterebbe comunque un fattore di rischio per future lesioni sintomatiche e di decadimento cognitivo di origine vascolare. (Masuda et al., 2001).
Malattie vascolari
Quadri clinici rari Moya–moya. – Il termine (in giapponese nuvola di fumo) descrive un reperto radiologico osservabile in casi di stenosi od occlusione di una o, più spesso, di entrambe le arterie carotidi interne, con eventuale coinvolgimento di arterie del circolo di Willis, caratterizzato da una rete di sottili vasi collaterali delle arterie perforanti e dei vasi piali alla base del cervello, delle branche orbitali e frontali dell’arteria carotide esterna e dei vasi leptomeningei. Limitata al Giappone e ad altre popolazioni asiatiche, la patogenesi di tale alterazione è sconosciuta, ma in taluni casi è stata individuata una familiarità, e in altri alterazioni fibrose generalizzate delle arterie. Nei soggetti di razza caucasica è eccezionale. La sindrome può manifestarsi fin dall’infanzia con episodi ricorrenti di ischemia ed infarto cerebrale, ritardo mentale, cefalea, crisi epilettiche e talvolta movimenti involontari. Negli adulti più frequentemente esordisce con un’emorragia subaracnoidea o emorragie intraparenchimali da rottura di vasi dei circoli collaterali. MELAS (Mitochondrial-myopathy Encephalopathy Lactic Acidosis and Stroke-like episodes, v. pag. 000). – Si può complicare con episodi simil-ictali caratterizzati da aree di ipodensità alla TC, specie nelle regioni occipitali. Gli episodi di ischemia, generalmente preceduti da prolungati attacchi di emicrania con aura, sono stati definiti di ischemia non-territoriale e non associata ad occlusione vascolare, anche se sono state descritte alterazioni dell’intima dei vasi cerebrali (microangiopatia mitocondriale). Generalmente sono presenti altre manifestazioni cliniche più evidenti e caratteristiche, come emicrania, calcificazioni dei gangli della base, sordità e crisi epilettiche. Il meccanismo con cui si determina l’ischemia potrebbe essere legato alla sottostante alterazione del metabolismo energetico, definitivamente compromesso da situazioni di ridotto apporto ematico.
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Crisi ipoglicemiche. – Frequentemente indotte dall’assunzione di ipoglicemizzanti orali o d’insulina in diabetici mal controllati, o più raramente dalla presenza di insulinomi, possono essere rara causa di disturbi neurologici focali a carattere transitorio, specie alla notte o al risveglio, talora con alternanza di lato dei sintomi anche in tempi brevi, facilmente scambiati per TIA (v. pag. 000).
Prevenzione della malattia cerebrovascolare ischemica La conoscenza dei fattori di rischio per malattia cerebrovascolare ischemica consente di approntare adeguate strategie di prevenzione dell’ictus ischemico. Classicamente si distingue una prevenzione primaria, che si attua quando la persona non ha ancora manifestato alcun sintomo cerebrovascolare, ed una prevenzione secondaria, da realizzare in soggetti che hanno già presentato almeno un evento cerebrovascolare (TIA o ictus). Esiste infine la prevenzione terziaria, che consiste in interventi volti alla riduzione dell’invalidità o della limitazione funzionale conseguente agli esiti neurologici deficitari. In linea generale si può affermare che il soggetto che ha già manifestato sintomi cerebrovascolari ha un rischio di recidiva superiore al rischio di un primo episodio di un soggetto asintomatico. Prevenzione Primaria L’obiettivo è di diminuire l’incidenza di manifestazioni cerebrovascolari ischemiche nei soggetti che non ne abbiano mai sofferto, ed è diretta quindi alla popolazione generale, in cui viene attuata una riduzione dei fattori di rischio noti; la prevenzione primaria può essere inoltre programmata nel singolo soggetto, attraverso l’esame del “profilo di rischio” individuale. I fattori di rischio per malattia cerebrovascolare
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ischemica possono essere classificati come esposto nella tabella 22.11. La prevenzione primaria è rivolta ai soggetti portatori dei fattori di rischio, con l’attuazione di strategie di controllo degli stessi. In particolare è consigliabile l’astensione dal fumo di sigaretta, la riduzione del consumo di alcool al di sotto di due bicchieri di vino al giorno, la riduzione dell’apporto di sale nella dieta, una moderata attività fisica, il trattamento medico dell’ipertensione arteriosa e del diabete mellito. Alcune considerazioni particolari devono essere fatte sui soggetti affetti da fibrillazione atriale cronica non valvolare o da stenosi carotidea. La fibrillazione atriale non valvolare ha una prevalenza dello 0.4% nella popolazione generale, e del 3% nella popolazione al di sopra dei 60 anni. La sua presenza aumenta il rischio di ictus di 5-6 volte. La fibrillazione atriale “valvolare” (associata cioè a patologia della valvola mitrale) è più rara ma aumenta il rischio di ictus di circa 15 volte. Ciò giustifica il ricorso alla profilassi con anticoagulanti orali nei sogTabella 22.11 - Fattori di rischio per ictus ischemico Fattori non modificabili: età; sesso; familiarità; razza Fattori modificabili: sicuramente documentati: ipertensione arteriosa cardiopatie (fibrillazione atriale, infarto miocardico, endocardite, valvulopatie, pervietà del forame ovale) fumo di sigaretta diabete mellito iperomocisteinemia ipertrofia ventricolare sinistra stenosi carotidea asintomatica
non completamente documentati: ipercolesterolemia uso di contraccettivi orali abuso di alcool e droghe obesità emicrania ematocrito elevato ispessimento medio-intimale della carotide
getti di ogni età con fibrillazione atriale valvolare ed in quelli di età superiore ai 65 anni con fibrillazione atriale non valvolare, previa valutazione del rischio emorragico, mantenendo i valori di I.N.R. tra 2 e 3. Nei soggetti con controindicazioni alla terapia anticoagulante orale è consigliabile una profilassi antiaggregante piastrinica, con acido acetilsalicilico (ASA) 325 mg die. Nei pazienti di età inferiore a 65 anni con fibrillazione atriale non valvolare e senza altri fattori di rischio non è indicata la profilassi anticoagulante. Il rischio di ictus in un soggetto con stenosi carotidea asintomatica (superiore al 60%) è di circa il 2% all’anno. In tali soggetti vi è l’indicazione ad una profilassi antiaggregante piastrinica (ASA 325 mg die) ed, in casi selezionati, all’intervento di endoarteriectomia carotidea. A tale proposito, in considerazione del rischio di ictus non elevato, l’intervento è da consigliare solo se effettuato in Centri con rischio operatorio di complicanze maggiori inferiore al 3%; l’utilizzo di tecniche di monitoraggio intraoperatorio con EEG, potenziali evocati e soprattutto Doppler transcranico, ha consentito negli ultimi anni di ridurre il rischio di complicanze maggiori perioperatorie. Prevenzione Secondaria Si rivolge ai soggetti che hanno già manifestato un evento cerebrovascolare ischemico (TIA o ictus minore), e viene realizzata dopo la fase acuta. L’obiettivo è quello di impedire nuovi episodi transitori, ma soprattutto di evitare l’occorrenza di un ictus maggiore definitivo. Oltre alla correzione dei fattori di rischio già descritti, la prevenzione secondaria si avvale di trattamenti antitrombotici con antiaggreganti piastrinici o anticoagulanti orali: 1. Negli eventi cerebrovascolari di origine non cardioembolica è indicata la profilassi a lungo termine con ASA 100-300 mg die; in alternativa a tale farmaco può essere utilizzata, in casi selezionati, l’associazione di ASA 50 mg
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e Dipiridamolo 400 mg die; altri antiaggreganti quali la Ticlopidina ed il Clopidogrel sono impiegati specialmente nei soggetti intolleranti per l’ASA o affetto da ulcera peptica. Infine nei TIA o ictus da aterosclerosi carotidea in soggetti con ipercolesterolemia è indicato il trattamento con statine, perché riduce l’incidenza di ictus e di infarto miocardico. 2. In caso di TIA o ictus ischemico non cardioembolico in soggetto con stenosi carotidea, è indicato l’intervento chirurgico di endoarteriectomia purché la stenosi superi il 70%. In caso di stenosi comprese tra il 50% ed il 70%, l’intervento viene consigliato solo in presenza di ischemia cerebrale recente, sintomi emisferici e non oculari, placca carotidea ulcerata, età non avanzata, sesso maschile, assenza di diabete mellito. Per stenosi sintomatiche inferiori al 50% non vi è l’indicazione all’intervento chirurgico. Altri interventi chirurgici di rivascolarizzazione, come il by-pass tra carotide esterna e cerebrale media in soggetti con occlusione della carotide interna (by-pass intra-extracranico) si sono dimostrati inefficaci nella prevenzione di eventi cerebrovascolari. L’angioplastica per via percutanea con applicazione di stent può essere presa in considerazione in casi di restenosi carotidea post-endoarteriectomia, o in casi in cui l’endoarteriectomia non può essere praticata; le precise indicazioni e controindicazioni di tale tipo di procedura di rivascolarizzazione sono peraltro ancora non definite. 3. Negli ictus e nei TIA di origine cardioembolica è indicata la profilassi a lungo termine con anticoagulanti orali, mantenendo valori di I.N.R. compresi tra 2 e 3. Nei soggetti con controindicazioni a tale terapia, o con scarsa possibilità di monitoraggio dei valori di I.N.R., è preferiible l’uso di ASA 325 mg die o, in alternativa, di Indobufene 200-400 mg die. Prevenzione Terziaria (Terapia Riabilitativa) Per riabilitazione si intende il complesso di strategie poste in atto per sfruttare il potenziale
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di recupero del paziente al fine di ottenere l’autonomia o comunque la riduzione della dipendenza. Tale approccio prevede l’intervento di più figure professionali coordinate già nella fase acuta (medici, infermieri, terapisti della riabilitazione). L’obiettivo, nella fase acuta, è la prevenzione delle complicanze quali ulcere da decubito, traumi alla spalla nell’emiplegico, polmoniti “ab ingestis”, infezioni delle vie urinarie. Tale programma prevede la valutazione precoce della integrità cutanea, della articolazione della spalla, della funzione deglutitoria e vescicale. Il trattamento riabilitativo, adattato alle possibilità del singolo soggetto, va iniziato il più precocemente possibile, con il coinvolgimento di familiari ed amici, ed eventualmente con supporti organizzativi volti al miglior reinserimento possibile del soggetto nel proprio ambiente (v. pag. 000).
Terapia dell’ictus cerebrale ischemico in fase acuta La terapia dell’ictus cerebrale ischemico va iniziata con la massima rapidità. Nei Paesi in cui la trombolisi per via e.v. è già in uso (per es. USA e Germania), è imperativo che il paziente sia ospedalizzato con estrema urgenza: tale terapia infatti va somministrata non oltre tre ore dall’insorgenza dell’ictus, secondo i risultati dello studio NINDS (National Institute of Neurological Disorders and Stroke, 1995) che ha utilizzato il farmaco r-tPA (attivatore tissutale del plasminogeno, prodotto con tecniche ricombinanti) alla dose di 0,9 mg/kg, di cui il 10% in bolo per via e.v. ed il rimanente in infusione per 60 minuti. L’uso della Streptochinasi nell’ictus ischemico è stato abbandonato per l’eccesso di mortalità legato alla insorgenza di emorragia cerebrale. L’r-tPA somministrato dopo 3 ore (tra 3 e 6 ore dopo l’esordio dei sintomi) risulta meno efficace per l’eccessivo rischio di emorragie sin-
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tomatiche (Wardlaw et al., 1999). È ormai chiaro però che la trombolisi va effettuata in centri qualificati, in grado di ridurre al massimo i tempi che intercorrono tra l’arrivo del malato e l’inizio del trattamento e che assicurino la possibilità di monitoraggio neurologico e pressorio del paziente anche dopo il trattamento. Per la necessità di accurata selezione dei soggetti e per la complessità organizzativa del trattamento, la trombolisi e.v. rimane una terapia destinata ad una minoranza dei soggetti colpiti da ictus ischemico. Promettenti risultati si possono ottenere anche con la trombolisi loco-regionale per via intra-arteriosa, sia in casi di occlusione dell’arteria cerebrale media (Studio PROACT II, Furlan et al., 1999), sia nell’occlusione dell’arteria basilare, anche se in questo ultimo caso mancano ancora studi controllati. È evidente che le procedure per via intra-arteriosa richiedono necessariamente lo studio angiografico in fase iperacuta, procedura diagnostico-terapeutica non priva di rischio e che richiede l’esistenza di un team con esperienza di radiologia interventistica. Il rapporto rischio/beneficio di tali approcci deve ancora essere stabilito definitivamente. Nel prossimo futuro è prevedibile che la trombolisi venga autorizzata anche nel resto dell’Europa e quindi in Italia, con tutte le esigenze organizzative connesse. Anche adesso tuttavia è importante che il malato con ictus ischemico venga curato al più presto possibile. Ciò richiede in linea di principio l’ospedalizzazione urgente, cercando di evitare, salvo casi molto particolari, che il malato venga tenuto a domicilio per ore o giorni come tuttora non di rado accade. Esiste un farmaco (Ancrod), derivato dal veleno di un serpente, che abbassa la fibrinogenemia e può essere utile se somministrato entro 3 ore dall’esordio di un ictus ischemico (Sherman et al., 2000). L’Ancrod agirebbe con duplice meccanismo, da un lato impedendo l’evoluzione progressiva della trombosi, dall’altro, riducendo la viscosità ematica e favorendo così il circolo collaterale.
Molti clinical trials sono poi stati effettuati nell’ictus ischemico acuto con diversi farmaci a funzione neuroprotettiva (antagonisti del recettore NMDA, farmaci anti-radicali liberi, anticorpi anti-proteine di adesione), ma nessuno di essi ha fino ad ora ottenuto risultati positivi, per cui non vi è al momento alcuna indicazione in tal senso (Brott e Bogousslavsky, 2000). Un sicuro effetto positivo sulla prognosi dell’ictus cerebrale, indipendentemente da terapie farmacologiche specifiche, ha il ricovero precoce in una struttura dedicata al trattamento dell’ictus (stroke unit: S.U.) dove opera personale medico e paramedico specificatamente addestrato nella gestione di questa patologia (Stroke Unit Trialists’ Collaboration, 2000). Il trattamento in S.U. comporta una significativa riduzione di mortalità e disabilità residua, sia a breve che a lungo termine. Le metanalisi in particolare indicano una riduzione della mortalità di circa il 20% e una riduzione cumulativa di morte + dipendenza di circa il 30%. Vantaggi indiretti sono inoltre la ridotta durata del ricovero ed il maggiore numero di rientri al proprio domicilio anziché ricoveri presso strutture di lungodegenza. Tale risultato è ottenuto grazie al più rapido recupero dei pazienti trattati in S.U., a sua volta dovuto all’organizzazione della riabilitazione: i pazienti trattati in S.U. trascorrono meno tempo a letto, hanno più frequenti interazioni con infermieri e fisioterapisti, sono più spesso ben posizionati, rispetto ai pazienti seguiti in reparti di degenza ordinaria. Tali condizioni comportano, tra l’altro, una riduzione delle complicanze secondarie dell’ictus. I principali fattori considerati responsabili del beneficio del trattamento in S.U. sono: • l’organizzazione multidisciplinare • le informazioni ed il coinvolgimento dei familiari • l’inizio precoce del trattamento riabilitativo • l’intensità della fisiochinesiterapia e della terapia occupazionale
Malattie vascolari
• la presenza di un “team” specializzato nel trattamento del malato con ictus. La terapia dell’ictus ischemico in fase acuta comprende inoltre: Acido acetilsalicilico (ASA). Alla dose di 160-300 mg/die per via orale, proseguita per 14 giorni, l’acido acetilsalicilico è in grado fornire una sia pur modesta riduzione della mortalità quando somministrato entro 48 ore dall’ictus (studi IST - 1997 - e CAST –1997). Il meccanismo d’azione non è sicuro, anche se può verosimilmente essere ricondotto all’azione antiaggregante piastrinica del farmaco e quindi alla prevenzione di eventuali recidive a breve termine. Non va tuttavia dimenticato che l’ASA ha dimostrato un’azione protettiva contro il danno neuronale da eccitotossicità anche in vitro, dove ovviamente il meccanismo antiaggregante non può essere invocato (Grilli et al., 1996). In pazienti che non possono assumere terapia orale può essere somministrato acetilsalicilato di lisina alla dose di 100-250 mg/die e.v. Vanno ovviamente tenute presenti le controindicazioni di questi farmaci, prima fra tutti la presenza di ulcera peptica. In ogni caso, poiché il paziente con ictus cerebrale in fase acuta è a rischio di ulcere peptiche da stress (cosiddette ulcere di Cushing) è comunque prudente associare un gastroprotettore. In caso di intolleranza, allergia, pseudoallergia o altre controindicazioni all’uso dell’ASA, si può utilizzare la Ticlopidina (250 mg × 2) ovvero il Clopidogrel (75 mg/die); una ulteriore alternativa all’ASA sono altri inibitori della ciclo-ossigenasi come il Trifusal e l’Indobufene, che peraltro hanno le stesse controindicazioni dell’ASA. Eparina. La terapia con eparina sodica, endovena o sottocute, non apporta un significativo beneficio, se non a costo di un eccessivo rischio di emorragie, e pertanto non viene consigliata. Importanti eccezioni sono rappresentate dalla trombosi basilare evolutiva e dalla dissecazione carotidea. Nel primo caso si ritiene, pur in assenza di studi clinici controllati randomizzati,
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che la terapia anticoagulante con eparina e.v. riduca il tasso di mortalità di questa grave sindrome (Zetterling et al., 2000). Nel secondo caso, si pratica di solito tale terapia al fine di interrompere la progressione del trombo che si localizza fra le tuniche vascolari della carotide (Masuhr e Einhaupl, 1999). La terapia eparinica per essere efficace deve portare ad un raddoppio del tempo basale di APTT. Uno degli schemi più usati consiste nella somministrazione di 5.000 U e.v. in bolo, seguite da un’infusione continua alla velocità di 1.000 U/ora, variando la velocità di infusione in funzione dell’APTT. Terapia anticoagulante orale in fase acuta. Studi clinici controllati hanno chiaramente dimostrato che la terapia anticoagulante orale è di grande efficacia nella prevenzione primaria e secondaria dell’ictus ischemico cardio-embolico (v. pag. 000). Più discusso è l’atteggiamento terapeutico da adottare nella fase acuta di un ictus cardio-embolico, se, cioè, iniziare subito il trattamento anticoagulante (con rischio di trasformazione emorragica dell’infarto) o procrastinare la profilassi ad una fase successiva, dopo stabilizzazione della lesione ischemica. La recidiva cardio-embolica precoce (prime 2 settimane) è stimata intorno al 12% dei casi (Cerebral Embolism Task Force, 1986). In assenza di studi specifici sull’argomento, tenuto conto che la trasformazione emorragica non sempre si associa a peggioramento clinico e che essa è tanto più frequente e grave, quanto più ampia è la lesione ischemica, si consiglia abitualmente di iniziare subito la terapia anticoagulante (con eparina e.v. e poi con dicumarolici) nei soggetti con lesione ischemica di dimensioni piccole o medie (convenzionalmente inferiori ad 1/3 dell’intero territorio dell’arteria cerebrale media). In caso di lesione più ampia si consiglia terapia con antiaggreganti piastrinica nelle prime 2 settimane, passando poi ai dicumarolici. Nadroparina calcica. È stato dimostrato da un unico studio (Kay et al., 1995), peraltro non confermato da successivi trial, che la nadroparina calcica alla dose di 4100-8200 U/die s.c.
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entro 48 ore dall’ictus per 10 giorni è in grado di ridurre la mortalità e la gravità degli esiti dell’ictus ischemico. L’associazione di nadroparina e acido acetilsalicilico non è mai stata oggetto di studio sperimentale controllato. Nella pratica clinica l’acido acetilsalicilico e la nadroparina vengono frequentemente associate, eventualmente con riduzione della dose di nadroparina per ridurre il rischio emorragico. Andrà in particolare considerata la comparsa di ematuria, non infrequente nei casi in cui sia stato necessario posizionare catetere vescicale. In presenza di ematuria la terapia con nadroparina andrà ridotta o eventualmente sospesa. L’uso di eparine a basso peso molecolare sembra invece indicato nella profilassi delle trombosi venose profonde e dell’embolia polmonare (vedi oltre). Terapia antiedema cerebrale. L’uso di farmaci anti-edema nell’ictus ischemico acuto è ancora discusso. L’edema cerebrale insorge 24-48 ore dopo l’esordio clinico dell’ictus ischemico e spesso è causa di decesso nella fase acuta della malattia (prima settimana) (Hacke et al. 1996). Se da un lato l’uso degli steroidi è ritenuto non indicato per la scarsa efficacia sull’edema citotossico e per il dimostrato aumento di complicanze infettive, l’uso di diuretici osmotici (Glicerolo o Mannitolo e.v.) è largamente diffuso, anche se non esistono, al momento, sicure dimostrazioni di efficacia (Righetti et al., 2002). Anche l’uso di Furosemide e.v. (40 mg) è ampiamente diffuso. Tali provvedimenti terapeutici possono comunque essere adottati di fronte ad un paziente in rapido peggioramento clinico per edema cerebrale. Provvedimenti accessori. Oltre alle terapie sopra descritte un certo numero di provvedimenti aspecifici devono essere attuati: 1. Mobilizzazione precoce e materassino antidecubito. Le ulcere cutanee da decubito sono una delle complicanze possibili dell’ictus cerebrale. La mobilizzazione passiva del paziente ogni 2-3 ore da parte del personale infermie-
ristico e l’uso di materassini antidecubito sono sicuramente efficaci. 2. Controllo della pressione arteriosa. Una moderata ipertensione arteriosa, frequente nella fase acuta dell’ictus ischemico, non è dannosa e può al contrario essere utile nel migliorare la perfusione sanguigna nell’area ischemica. Bisogna infatti considerare che nell’area ischemica l’autoregolazione del flusso ematico è gravemente compromessa e pertanto la pressione di perfusione diventa cruciale. Alla comparsa dell’ipertensione arteriosa, questa non va trattata nella fase acuta (Lisk et al., 1993) a meno che: (a) non vi siano patologie cardiache (grave scompenso cardiaco, infarto miocardico in fase acuta) che di per sé ne indichino la riduzione, oppure (b) la pressione sistolica superi i 220 mmHg o la pressione media superi i 130 mmHg. In caso di ipotensione arteriosa, è consigliabile assicurarsi che il paziente non sia in stato di ipovolemia. In assenza di controindicazioni (cardiologiche, o di altro tipo) è bene, se possibile, correggere l’ipotensione. 3. Nutrizione e idratazione. È necessario garantire fin dal primo-secondo giorno un adeguato apporto di calorie e di elementi essenziali. È inoltre importante assicurare un apporto idrico adeguato, al fine di prevenire l’ipotensione arteriosa da ipovolemia e l’insufficienza renale acuta, complicanze entrambe possibili nei pazienti con ictus cerebrale in fase acuta. 4. Disfagia. Spesso i pazienti con ictus cerebrale presentano disfagia, specialmente nella fase acuta. Questa condizione è estremamente rischiosa in quanto: (a) impedisce un normale apporto calorico e spesso la somministrazione stessa dei farmaci; (b) aumenta il rischio di polmonite ab ingestis. Nei casi di gravità moderata bastano accorgimenti molto semplici quali la somministrazione di alimenti semisolidi e la somministrazione di acqua lontano dai pasti (per evitare che l’acqua eventualmente aspirata nell’albero tracheo-bronchiale possa trascinare nelle vie respiratorie frammenti di cibo, veicoli di infezione ab ingestis) o sotto forma ge-
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lificata. Nei casi più gravi sarà indifferibile il posizionamento di un sondino nasogastrico o la nutrizione parenterale. Se la disfagia non regredisce, possono rendersi necessari provvedimenti più definitivi come il ricorso ad una gastrostomia percutanea endoscopica (PEG). 5. Controllo della funzione vescicale. Molto spesso i pazienti con ictus cerebrale in fase acuta presentano incontinenza urinaria. In questi casi il posizionamento di un catetere vescicale a permanenza offre molteplici vantaggi: a) adeguato controllo del bilancio idrico; b) mantenere asciutta la cute perineale e sacrale, prevenendo così la macerazione cutanea che favorisce le ulcere da decubito. Tale catetere andrà periodicamente cambiato e rimosso non appena il paziente riacquisti il controllo sfinterico. 6. Controllo della temperatura corporea. Gli studi sperimentali in modelli animali di ictus ischemico hanno dimostrato un notevole effetto protettivo dell’ipotermia, che è in grado di ridurre il fabbisogno di ossigeno del cervello, e quindi la discrepanza fra apporto ematico e richiesta energetica. Per contro l’innalzamento della temperatura corporea peggiora il danno ischemico. Anche nell’uomo (Schwab et al., 1998) è stato osservato che la riduzione della temperatura corporea nella fase acuta di un ictus ischemico può essere in grado di ridurre la mortalità e la morbidità di questa malattia. L’ipotermia non è entrata nell’uso a causa della difficoltà della sua applicazione. È comunque verosimile che nei pazienti febbrili la semplice somministrazione di antipiretici possa ridurre il danno cerebrale. 7. Controllo delle infezioni. Infezioni specie urinarie e polmonari sono frequenti nei pazienti con ictus cerebrale in fase acuta. Esse possono compromettere sia le condizioni generali del paziente, sia gli organi ed apparati in cui si localizzano. Inoltre è verosimile che la febbre peggiori il danno ischemico cerebrale (v. sopra). Infine è noto che le infezioni favoriscono una condizione ematica procoagulativa, attraverso fenomeni di attivazione leucocitaria, di rilascio
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di citochine, di iperfibrinogenemia. Per tutti questi motivi è indicato un attento controllo delle complicanze infettive fin dal loro primo manifestarsi. 8. Controllo della glicemia. È stato osservato sia in studi sull’animale che in casistiche cliniche che l’iperglicemia peggiora la prognosi dell’ictus ischemico (Siesjo et al., 1995; Pulsinelli et al. 1983). Perciò, pur in assenza di studi clinici che ne forniscano la dimostrazione definitiva, è consigliabile correggere l’iperglicemia durante la fase acuta dell’ictus ed evitare la somministrazione immotivata di soluzioni glucosate per via e.v. 9. Prevenzione della trombosi venosa profonda (TVP). Sia l’immobilità a letto, sia lo stato ipercoagulativo non di rado associato all’ictus ischemico, predispongono alla TVP e al conseguente rischio di embolia polmonare. La prevenzione è indispensabile. I farmaci più efficaci sembrano le eparine a basso peso molecolare (Counsell e Sandercock, 2001); si possono inoltre adottare semplici accorgimenti fisici come le calze elastiche, la posizione rialzata degli arti inferiori e la mobilizzazione precoce del paziente. Prognosi La prognosi a 30 giorni dei malati con infarto cerebrale prevede una mortalità media del 1015% e un’invalidità residua nel 30-40% dei casi. La mortalità precoce (prima settimana dall’esordio) è dovuta generalmente ad ernia cerebrale transtentoriale, in caso di esteso infarto sopratentoriale con progressiva sofferenza compressiva del tronco cerebrale (deterioramento rostrocaudale, v. pag. 000), oppure ad un infarto primitivo esteso del tronco cerebrale. Dalla seconda settimana, invece, la mortalità è legata soprattutto a scompenso cardiaco in soggetti cardiopatici o a complicanze ischemiche miocardiche che possono accompagnare l’infarto cerebrale. Dalla terza settimana in poi, sono soprattutto le complicanze infettive, renali e pol-
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monari che possono portare al decesso. Fra queste ultime va ricordata soprattutto l’embolia polmonare, conseguente a tromboflebite o a flebotrombosi delle vene profonde degli arti inferiori, favorita dall’immobilità e spesso precipitata dai primi movimenti dell’arto in via di recupero. Va sottolineato che le stime prognostiche variano all’interno di sottogruppi identificabili in base alla gravità del deficit neurologico al momento del ricovero, al decorso clinico nei primi giorni dall’esordio dei sintomi e alla presenza di eventuali fattori generali aggravanti. La prognosi è particolarmente grave nei pazienti con disturbo di coscienza presente all’esordio, per infarto sopratentoriale molto esteso e sofferenza secondaria da ernia transtentoriale con elevata mortalità (v. pag. 000), oppure in caso di lesione primitiva del tronco cerebrale, il cui esempio più drammatico è rappresentato dall’infarto da occlusione della basilare. Se all’esordio la coscienza è conservata, un peggioramento progressivo si può verificare nel 25-40% dei casi, rispettivamente con infarto nel territorio carotideo ed in quello vertebro-basilare, che si completa nelle prime 48-96 ore, configurando così il sottogruppo dei cosiddetti ictus ingrediens o progressing stroke. La prognosi di questi malati è significativamente più grave rispetto alla media, con una mortalità fino al 40% ed un’invalidità residua fino al 50% dei casi. Si ipotizza che l’origine di tale peggioramento risieda soprattutto nell’estensione progressiva di un trombo all’interno della ACI o dell’AB, con graduale ostruzione di vasi collaterali e conseguente estensione dell’area infartuata, donde il suggerimento di una terapia anticoagulante di emergenza, allo scopo di bloccare la progressiva trombosi; tale trattamento, tuttavia, non si è mai dimostrato veramente efficace. Del resto, almeno per quanto concerne l’infarto in territorio carotideo, è stato di recente dimostrato che la causa principale della progressione dei sintomi è l’edema cerebrale, sviluppato attorno a lesioni di medie e grosse dimensioni
(tali da coinvolgere buona parte o tutto il territorio dell’ACM), con secondaria alterazione della coscienza fino al coma o con peggioramento del deficit sensitivo-motorio o delle funzioni superiori con alterazioni modeste dello stato di coscienza. Scarsa influenza sul deterioramento precoce è invece da ascrivere al sanguinamento secondario all’interno dell’area infartuata (infarcimento emorragico), una evenienza che, grazie alla TC di ultima generazione e soprattutto alla RM, risulta essere più frequente di quanto si ritenesse in passato, riscontrandosi fino nel 5070% dei casi. Da notare, peraltro, che l’infarcimento emorragico è tanto più frequente quanto più estesa ed edematosa è la lesione sottostante e che quest’ultima è, di per sé, responsabile della prognosi sfavorevole, indipendentemente dal sanguinamento secondario (fatta eccezione, naturalmente, per i rarissimi casi di ematoma massivo). Una prognosi peggiore viene segnalata anche in pazienti diabetici, verosimilmente a causa di un’alterazione del microcircolo cerebrale che favorisce lo sviluppo di acidosi lattica in presenza di elevati livelli glicemici, e in soggetti con fibrillazione atriale a causa della ridotta ed irregolare gittata cardiaca, che può essere responsabile di un flusso cerebrale insufficiente, qualora i meccanismi di autoregolazione siano deficitari. Prognosi migliore, invece, è quella degli infarti lacunari, con una mortalità acuta del 3-5% ed un’invalidità residua del 20% circa. In genere, vale la regola che più piccolo è l’infarto, migliore è la prognosi, anche se piccoli infarti strategicamente localizzati nella capsula interna possono comportare un importante deficit funzionale residuo. I soggetti che presentano un infarto lacunare, legato di solito a sofferenza atero-arteriosclerotica dei piccoli vasi arteriosi cerebrali (arterie perforanti) su base ipertensiva, hanno comunque una prognosi a lungo termine peggiore rispetto alla popolazione generale, anche se non più grave rispetto ai pazienti con
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TIA o altri tipi di ictus con lievi esiti. Per la prognosi a lungo termine, è opportuno ricordare che, indipendentemente dalle dimensioni della lesione, alcuni deficit neurologici possono influire negativamente sulla ripresa funzionale: in particolare, un’afasia recettiva ed un’emidisattenzione possono interferire con la riabilitazione, così come un banale stato depressivo che si può osservare in un 30-40% dei casi. In caso di recupero motorio parziale, il paziente sviluppa una progressiva spasticità, con atteggiamento in flessione dell’arto superiore ed in estensione dell’arto inferiore, con piede equino-varo ed andatura di tipo falciante. Non è infrequente la comparsa di una periartrite scapolo-omerale, con dolore all’articolazione della spalla, talvolta associato anche a dolore della mano, che può costituire un ostacolo alla riabilitazione. Alcune sequele neurologiche si possono manifestare anche in presenza di un buon recupero funzionale: crisi epilettiche di tipo parziale motorio con secondaria generalizzazione, spesso con le caratteristiche della marcia jacksoniana, si riscontrano a distanza di settimane o mesi fin nel 20% dei casi; nelle lesioni talamiche si instaura, spesso a distanza di mesi dall’ictus, una sindrome caratterizzata da ipoestesia ed iperpatia di intensità variabile e di difficile trattamento. L’eventualità di nuovi ictus è più elevata nei soggetti già colpiti rispetto alla popolazione generale, specie se coesistono fattori di rischio come ipertensione, diabete, cardiopatie ad elevato rischio emboligeno. Il ripetersi di infarti cerebrali, anche se clinicamente silenti o di piccole dimensioni, può comportare l’instaurarsi, nel tempo, di una demenza multinfartuale o di una sindrome pseudobulbare. Il rischio di ictus in soggetti con TIA o minor stroke è di oltre 10 volte più alto rispetto alla popolazione generale di pari età e sesso nel primo anno seguente all’episodio iniziale. È inoltre presente un aumentato rischio per eventi vascolari importanti anche in altri distretti vasco-
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lari (coronarie, arti inferiori, morte improvvisa, etc.), trattandosi per lo più di soggetti affetti da vasculopatie pluridistrettuali o portatori di multipli fattori di rischio per aterosclerosi. Il rischio assoluto di ictus nei soggetti con TIA o minor stroke varia dal 7 al 12% il primo anno e dal 4% al 7% per anno nei primi 5 anni dopo l’evento iniziale. Anche la mortalità generale è significativamente aumentata nei soggetti con TIA, anche se la causa principale è la cardiopatia ischemica e non l’ictus. Nell’ambito dei vari tipi di infarto, quelli a prognosi acuta peggiore, sia in termini di mortalità che di entità di esiti, sono quelli globali del circolo anteriore, mentre meno grave è la prognosi di quelli parziali del circolo anteriore e di quelli del circolo posteriore, con esclusione delle trombosi della basilare. Per quanto riguarda la prognosi a lungo termine dopo ictus ischemico, il rischio assoluto di recidiva varia dal 10 al 15% il primo anno, e dal 4 al 9% per ogni anno nel primo quinquenio. La mortalità ad 1 anno dei pazienti con ictus ischemico è pari a circa il 30%. Demenza multinfartuale: v. pag. 000 Emorragia cerebrale L’emorragia intraparenchimale cerebrale rappresenta circa il 10% della totalità degli ictus; facendo riferimento ai dati epidemiologici italiani, possiamo calcolare in 15.000-20.000 all’anno i nuovi casi di emorragia cerebrale; la mortalità acuta è più alta rispetto alle forme ischemiche, raggiungendo il 25-30% entro 30 giorni; in circa il 50% dei sopravviventi residuano esiti permanenti più o meno gravemente invalidanti. La frequenza è circa doppia rispetto all’Emorragia sub-aracnoidea (Broderik et al., 1993). Come per l’ictus ischemico, la incidenza di emorragia cerebrale aumenta con l’età e dopo i 55 anni raddoppia ogni decade fino ad 80 anni. L’età media di insorgenza è leggermente inferiore a quella dell’ictus ischemico.
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L’emorragia cerebrale è, abitualmente, dovuta alla rottura di un vaso arterioso con conseguente stravaso di sangue nel parenchima cerebrale e possibile invasione degli spazi subaracnoidei o del sistema ventricolare. L’esordio clinico è indistinguibile da quello di un ictus ischemico ed è caratterizzato dall’insorgenza improvvisa di un deficit neurologico focale, spesso con perdita di coscienza. L’emorragia cerebrale può essere “a sede tipica” o “profonda” ed a sede “atipica” o “lobare”. L’emorragia a sede tipica è ritenuta una complicanza dell’ipertensione arteriosa e si localizza, in ordine di frequenza, nelle seguenti sedi: • striato (spesso putamen, o zona putamino-capsulare, fig. 22.33) • talamo • cervelletto • ponte • caudato
Nel caso di emorragie di grandi dimensioni, ovviamente, più strutture tra quelle sopraelencate possono essere coinvolte; nelle localizzazioni a livello dei nuclei della base è abitualmente coinvolta la capsula interna con importanti conseguenze funzionali sulla motilità e sensibilità; in quelle talamiche è molto frequente l’invasione del sistema ventricolare. L’emorragia a sede atipica o lobare (Fig. 22.34) colpisce in ordine di frequenza: • lobo parietale • lobo occipitale • lobo frontale • lobo temporale Anche in questo caso l’emorragia, se estesa, può coinvolgere più lobi; frequente l’invasione degli spazi sub-aracnoidei pericefalici. La distinzione tra emorragie a sede tipica o atipica può essere utile, poiché queste ultime possono essere dovute a cause diverse dall’ipertensione e quindi richiedere un approfondimento delle indagini strumentali e una terapia possibilmente diversa.
Fig. 22.33 - P.G. anni 62, TC senza mdc, emorragia cerebrale a sede tipica (nucleo-capsulare sinistra).
Fig. 22.34 - F.D. anni 80, TC senza mdc, emorragia cerebrale a sede atipica (ematoma parieto-occipitale destro).
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ETIOPATOGENESI L’esistenza di uno stretto legame tra emorragia cerebrale ed ipertensione arteriosa è suggerita da osservazioni epidemiologiche, cliniche ed autoptiche. All’esame autoptico, i pazienti deceduti per emorragia cerebrale mostrano una più elevata frequenza di ipertrofia ventricolare sinistra, e l’emorragia si verifica nella maggioranza dei casi a livello dei nuclei della base, per rottura di una ramo dell’arteria lenticolo-striata. Secondo l’antica teoria di Charcot e Bouchard (1868), l’origine del sanguinamento sarebbe da attribuirsi alla rottura di microaneurismi, piccole dilatazioni delle arterie perforanti, particolarmente frequenti negli ipertesi. Tuttavia l’azione distruttiva del sanguinamento non ha mai permesso di mettere in evidenza una relazione diretta tra l’origine dell’emorragia cerebrale e la rottura di un microaneurisma, il cui loro ruolo rimane quindi incerto. Più recentemente la rottura arteriosa in caso di emorragia è stata messa in rapporto con specifiche lesioni, frequenti nei soggetti anziani, consistenti in ispessimento omogeneo della parete vasale, specie dell’intima e della media, con fenomeni degenerativi denominati ialinosi o ialinizzazione (termine che qualifica solo l’apparenza della lesione, senza individuare la sostanza responsabile), molto spesso associata a ipertensione arteriosa e angionecrosi (necrosi fibrinoide). Tali alterazioni predisporrebbero sia alla occlusione trombotica delle arteriole (con conseguente insorgenza di un infarto lacunare) sia alla loro lacerazione, con emorragia intraparenchimale. L’emorragia lobare è invece più spesso secondaria ad altra patologia. Le principali cause delle emorragie cerebrali secondarie sono: • Le malformazioni vascolari (aneurismi, malformazioni artero-venose, angiomi venosi, cavernomi, teleangectasie capillari), responsabili di circa il 5% dei casi. La rottura di una
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malformazione vascolare criptica è verosimilmente la causa di numerosi sanguinamenti apparentemente primitivi, nel giovane non iperteso; • L’angiopatia amiloide, caratterizzata da un deposito di sostanza amiloide nella parete delle arterie cerebrali di piccolo o medio calibro, soprattutto a livello corticale o leptomeningeo, donde la localizzazione superficiale. Il quadro clinico completo dell’angiopatia amiloide associa emorragie lobari recidivanti ad una demenza ad andamento “a gradini” in soggetto anziano non iperteso; la diagnosi di certezza si può fare con l’autopsia o la biopsia cerebrale che dimostra un diffuso accumulo di betaamiloide nei vasi corticali e leptomeningei (Labovitz e Sacco, 2001). La diagnosi è considerata “sicura” in presenza di emorragia cerebrale lobare senza altra causa e dimostrazione autoptica di grave angiopatia amiloide diffusa; si considera “probabile” in presenza di una singola emorragia lobare e dimostrazione neuropatologica di amiloidosi ovvero in presenza di due o più emorragie lobari rivelate dalla RM; “possibile” in caso di emorragia lobare unica senza conferma neuropatologica di amiloidosi (Greenberg et al., 1995). • I tumori cerebrali possono dar luogo ad un’emorragia cerebrale, ma alcuni oncotipi ne sono più spesso responsabili, come i glioblastomi, i meningiomi, le metastasi di carcinoma bronchiale, renale, di melanoma o di coriocarcinoma. I meccanismi per cui si verifica il sanguinamento comprendono la presenza di vasi neoformati assai fragili, la necrosi spontanea della massa tumorale e l’invasione diretta della parete vascolare da parte del tumore; • La trasformazione emorragica di un infarto cerebrale si verifica all’incirca nel 30-40% di tutti gli infarti sopratentoriali non lacunari ed avviene di solito nei primi 3-10 giorni dall’ictus (Figg. 9.81 e 9.82). Nella grande maggioranza dei casi il sanguinamento è modesto e privo di significato clinico, ma nel 2-10% dei casi gli infarti sopratentoriali vanno incontro ad una tra-
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sformazione emorragica massiva, spesso indistinguibile da un’emorragia cerebrale. L’evento può provocare un peggioramento del deficit neurologico, una compromissione dello stato di coscienza o addirittura il decesso. Il rischio di emorragia cerebrale è più elevato quando l’infarto è di origine cardioembolica, soprattutto se l’area ischemica è vasta; • Le coagulopatie possono provocare sanguinamenti intracranici, ma i disturbi coagulativi iatrogeni sono di gran lunga più frequenti. Il rischio di emorragia cerebrale legato alla somministrazione cronica di anticoagulanti orali è pari all’1% all’anno, il che corrisponde a circa 8 volte l’incidenza nei soggetti non trattati. Studi recenti, tuttavia, dimostrano che il rischio di sanguinamento intracerebrale può essere significativamente ridotto utilizzando regimi di anticoagulazione meno aggressivi; infatti, i tre quarti delle emorragie cerebrali in corso di un trattamento con anticoagulanti orali sarebbero associate ad un allungamento del tempo di protrombina oltre il limite superiore; • Il trattamento con ASA quadruplica il rischio di emorragia cerebrale (Kronmal et al. 1998). Tale dato non contraddice l’utilità dell’ASA nella prevenzione delle malattie tromboemboliche, ma rimane un argomento importante contro la prescrizione sistematica di tale farmaco nei soggetti a basso rischio. Lo stesso vale per il trattamento con Ticlopidina. Anche nel trattamento fibrinolitico per ischemia cardiaca, sono state riscontrate tre-quattro emorragie cerebrali ogni 1000 pazienti con infarto acuto del miocardio trattati per via endovenosa; • L’abuso (o anche il semplice uso) di sostanze simpaticomimetiche può essere responsabile di emorragia cerebrale verosimilmente per l’associazione tra vasculite necrotizzante e crisi ipertensiva. Ciò vale particolarmente per la cocaina (Petitti et al. 1998), le amfetamine e loro derivati, tra cui anche prodotti ampiamente utilizzati come anoressizzanti e come vasocostrittori nasali tipo la Fenilpropanolamina (Kernan et al. 2000) • I traumi cranici (v. pag. 000)
SINTOMATOLOGIA Le manifestazioni cliniche sono in rapporto con la sede e l’estensione della lesione. Tipicamente, la sintomatologia compare all’improvviso, in un soggetto in piena attività, con peggioramento rapido e progressivo. Cefalea, vomito, perdita di coscienza sono frequenti, ma non rappresentano la regola: di fronte a un deficit neurologico focale improvviso, l’assenza di tali segni non deve mai portare ad escludere la diagnosi di emorragia cerebrale. La durata del sanguinamento è generalmente dell’ordine di decine di minuti e, occasionalmente, l’espansione della raccolta ematica può proseguire per parecchie ore, anche in assenza di malformazioni vascolari o di un’anomalia evidente della coagulazione. Una crisi epilettica all’esordio è più frequente rispetto all’ictus ischemico essendo segnalata in circa il 10% dei casi. Anche l’epilessia tardiva, post-apoplettica, è una complicanza non infrequente dopo un ictus emorragico (Bladin et al. 2000). Emorragia a sede tipica putaminale o putamino-claustrale o capsulo-lenticolare. – È la più frequente raggiungendo circa il 50% dei casi. Esordisce brutalmente con un deficit sensitivomotorio facio-brachio-crurale controlaterale e una deviazione del capo e degli occhi verso il lato della lesione emisferica. In circa il 30% dei casi si verifica perdita di coscienza. Nel giro di minuti od ore, i sanguinamenti di grosse dimensioni (parecchi centimetri di diametro) provocano una compressione del tronco cerebrale, con deterioramento della coscienza ad andamento ingravescente (sindrome da deterioramento rostro-caudale, v. pag. 000), a prognosi quasi sempre infausta. Le lesioni di dimensioni più piccole (1-2 centimetri di diametro) hanno un’evoluzione meno drammatica: il deficit motorio è costante, i disturbi della coscienza sono transitori o addirittura assenti, e si evidenziano, più facilmente, eventuali disturbi sensitivi, del campo visivo e delle funzioni nervose superiori. La prognosi a
Malattie vascolari
lungo termine è determinata soprattutto dagli esiti motori. Nelle emorragie massive e nei rari casi in cui l’emorragia è limitata al nucleo caudato, l’invasione ventricolare è costante, e i segni associati all’emiparesi controlaterale e alla paralisi transitoria dello sguardo verso il lato opposto alla lesione, possono essere cefalea, vomito, rigidità nucale. Emorragia talamica (10-20% dei casi). – È caratterizzata da una emi-ipoestesia controlaterale alla lesione, e spesso da un’emianopsia laterale omonima, afasia (per lesione a sinistra) o emidisattenzione (per lesione destra) con tendenza alla regressione. Il resto del quadro clinico è condizionato dal coinvolgimento delle strutture adiacenti e include un’emiplegia in caso di interessamento della capsula interna e alterazioni oculo-motorie o pupillari in caso di estensione mesencefalica. A distanza di tempo è frequente l’insorgenza di una tipica sindrome talamica con iperpatia (vedi pag. 000). Emorragie pontine (circa 5% dei casi). – Causano un quadro di tetraplegia, pupille miotiche, coma con prognosi infausta. I sanguinamenti di piccole dimensioni possono dare luogo ad una sindrome alterna (v. pag. 000), senza disturbi di coscienza, o alterazioni della motilità oculare coniugata, o a paralisi dei nervi cranici. Le lesioni del piede del ponte possono provocare un’emiplegia o una paraplegia. Emorragia cerebellare (circa 10% dei casi). – Si verifica generalmente a livello del nucleo dentato. Le manifestazioni iniziali sono: disturbi dell’equilibrio rapidamente progressivi, cefalea, vomito, disartria e disfagia; l’evoluzione successiva dipende dall’eventuale sviluppo di una compressione del tronco, il cui segno più precoce è la comparsa di disturbi della coscienza (indicazione allo svuotamento chirurgico). Una varietà rara è l’emorragia a localizzazione vermiana, con un quadro clinico simile a quello di un ematoma pontino: tetraplegia e coma all’esordio con prognosi infausta. Emorragia atipica (lobare) o ematoma intracerebrale (20-30% dei casi). – La sintomato-
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logia è in rapporto con la localizzazione; la raccolta ematica si sviluppa nella sostanza bianca sottocorticale, soprattutto a livello frontale, parietale ed occipitale; la lesione dei nuclei della base e l’invasione ventricolare si verificano solo se lo stravaso ematico è di grosse dimensioni. La prognosi degli ematomi intracerebrali è generalmente migliore degli altri tipi di emorragia cerebrale. L’esordio è abitualmente ictale, ma non è infrequente un andamento bifasico, con un esordio acuto seguito da una fase di stazionarietà ed infine un nuovo peggioramento; il decorso è talora ingravescente nel giro di ore o giorni (andamento pseudotumorale). Emorragie intraventricolari primitive. – Sono rare e derivano probabilmente dalla rottura di piccole malformazioni vascolari paraventricolari, non visualizzabili con gli esami strumentali. Il quadro clinico è simile a quello dell’emorragia subaracnoidea e può essere precocemente complicato da un idrocefalo. ESAMI COMPLEMENTARI La TC senza mezzo di contrasto permette la diagnosi di emorragia cerebrale con una sensibilità e una specificità vicina al 100% (Fig. 9.86): appare come una lesione spontaneamente iperdensa, dai contorni netti, che può comprimere e spostare le strutture adiacenti secondo la sede e le dimensioni. La TC mostra fedelmente l’eventuale presenza di sangue nel sistema ventricolare o negli spazi subaracnoidei. Nei giorni successivi compare l’edema perilesionale, e il sangue comincia ad essere riassorbito. In fase cronica la lesione appare, alla TC, completamente ipodensa, e può quindi risultare indistinguibile da una necrosi ischemica di vecchia data. La RM rivela, invece, con notevole sensibilità, la presenza di prodotti di degradazione dell’emoglobina (emosiderina) ed è quindi esame di scelta nella diagnosi di emorragia in fase subacuta o cronica, ma la sua affidabilità è minore nelle prime ore, poiché la raccolta ematica
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può risultare indistinguibile da quella di una ischemia focale, specie se la lesione è di piccole dimensioni (Fig. 9.88). Trascorse le prime ore, la RM è complementare o alternativa alla TC, soprattutto in caso di emorragia della fossa posteriore, e in caso di dubbio sulla natura (primaria o secondaria) dell’emorragia. L’aspetto disomogeneo della raccolta ematica, la presenza di lesioni multiple, il coinvolgimento della corteccia e la presenza di edema già nelle prime ore dall’esordio sono le spie di una emorragia secondaria. La ricerca mediante TC o RM di eventuali malformazioni vascolari viene generalmente effettuata dopo la fase acuta, che potrebbe occultarle. Le malformazioni artero-venose possono apparire alla TC come ipo- o iperdensità circoscritte, a volte con calcificazioni, adiacenti alla raccolta ematica, e la somministrazione di contrasto può mettere in evidenza i vasi dilatati. Comunque, nel sospetto di una malformazione artero-venosa, l’esame d’elezione rimane l’angiografia. Gli angiomi venosi sono più facilmente evidenziati alla TC dopo la somministrazione di contrasto, mentre all’esame angiografico verranno visualizzati durante la fase venosa. I cavernomi e le teleangectasie capillari sono malformazioni a basso flusso che non vengono opacizzate dal mezzo di contrasto né alla TC né all’angiografia. La RM è l’esame di elezione soprattutto per i cavernomi, mentre le teleangectasie capillari possono sfuggire a causa delle piccole dimensioni (Fig. 9.127). DIAGNOSI Nessun criterio clinico differenzia in modo soddisfacente un’emorragia cerebrale da una ischemia cerebrale focale. La comparsa improvvisa di una emiplegia associata a cefalea violenta, vomito, deviazione del capo e dello sguardo verso il lato della lesione e, soprattutto, a disturbi della coscienza con aggravamento progressivo, suggerisce la presenza di un’emorragia, ma l’occlusione massiva dell’arteria cerebrale me-
dia può provocare un quadro clinico identico; d’altra parte un deficit neurologico lieve o tendente alla regressione, abituale espressione di un’ischemia, può essere provocato da un sanguinamento di piccole dimensioni, limitato ad una area circoscritta della sostanza bianca, al ponte o, più raramente, ai nuclei della base. È fondamentale, pertanto, sottolineare che solamente la TC, senza mezzo di contrasto, permette una diagnosi differenziale certa tra ischemia ed emorragia. L’esame del liquor, praticato in passato, non dà indicazione certa per una diagnosi differenziale tra emorragia ed ischemia, potendo essere limpido in caso di emorragia senza invasione ventricolare, ed ematico in caso di infarto cerebrale con trasformazione emorragica. Si deve perciò evitare la rachicentesi, anche per il rischio di incuneamento. PROGNOSI In passato, quando la diagnosi era autoptica o clinica, l’emorragia cerebrale è stata considerata sinonimo di decesso o di esiti gravi. Numerosi studi sulla popolazione generale registravano tassi di mortalità superiori al 50%. L’avvento delle tecniche di Neuroimaging ha modificato la prognosi, soprattutto perché ha consentito la diagnosi corretta di numerose emorragie cerebrali di piccole dimensioni, a prognosi benigna, in cui, precedentemente, la diagnosi non veniva correttamente posta. Ciononostante rimane una malattia ad alto tasso di mortalità e disabilità residua. Circa il 30% dei soggetti muore entro un mese dall’esordio; metà dei decessi si verifica durante i primi giorni (sanguinamenti più massivi) ed è dovuta a cause neurologiche (deterioramento rostro-caudale); la restante metà è legata alle complicazioni infettive, cardiache, respiratorie, frequenti nei pazienti più gravemente colpiti ed avviene più tardivamente (tra il 10º ed il 30º giorno). La recidiva è rara in caso di emorragia primitiva, più frequente in caso di emorragia secon-
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daria, specie se la causa è una malformazione vascolare. Lo stato di coscienza all’inizio e l’estensione della lesione sono i più affidabili predittori di mortalità o di invalidità grave. A parità di livello di coscienza e di dimensioni della lesione, l’invasione ventricolare sembra essere associata ad una peggiore evoluzione; al contrario, la sede della lesione non ha valore predittivo indipendente.
Terapia dell’emorragia cerebrale Consiste nell’applicare i presidi terapeutici descritti nel paragrafo del trattamento comune a tutti gli ictus acuti. A differenza dell’ictus ischemico, però, l’ipertensione arteriosa va trattata in maniera più aggressiva. In caso di alterazione della coagulazione indotta da terapia dicumarolica, va somministrata vitamina K per via parenterale e, eventualmente plasma fresco o concentrati di fattore VII. Se l’emorragia si manifesta in corso di trombolisi occorre interrompere l’infusione del farmaco, sospendere gli antiaggreganti, somministrare plasma fresco o sangue in toto, o concentrati di piastrine. La terapia chirurgica, che consiste nello «svuotamento» dell’emorragia utilizzando diverse tecniche (approccio craniotomico diretto transcorticale; aspirazione con ago-cannula inserito manualmente o con tecnica stereotassica, intervento endoscopico, rimozione del coagulo mediante puntura stereotassica e lavaggio con Urochinasi o r-tPA), ha certamente un solido razionale, basato sui benefici che possono derivare dalla riduzione della pressione intracranica in generale e della pressione sul tessuto sano che circonda la lesione emorragica. Occorre però ricordare che le emorragie di dimensioni non molto grandi, hanno un’evoluzione spontanea favorevole in termini di sopravvivenza ed invalidità; gli ematomi lobari da angiopatia amiloide spesso recidivano in rapporto al trauma chirur-
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gico per la intrinseca fragilità vascolare e spesso sono multicentrici. In linea di massima si può affermare che le emorragie piccole (volume inferiore a 10 ml) non vanno operate, mentre, in ogni caso, le emorragie di grandi dimensioni, con alterazione della coscienza, hanno comunque una prognosi infausta, anche se operate. Le emorragie cerebellari, di diametro superiore a 3 cm o in presenza di segni di compressione tronco-encefalica, vanno invece operate. Le emorragie lobari grandi (volume = o > 50 ml) in soggetti non anziani, in condizioni di peggioramento clinico progressivo vanno evacuate. Negli altri casi non vi sono precise indicazioni, anche perché mancano studi controllati randomizzati, peraltro molto difficili da organizzare in considerazione delle caratteristiche di estrema gravità ed acuzie della patologia (Broderik et al., 1999).
Emorragia subaracnoidea Per emorragia subaracnoidea (ESA) s’intende un versamento di sangue nello spazio subaracnoideo, compreso tra l’aracnoide e la pia madre, ove si trova liquor. L’ESA rappresenta circa il 5% di tutti gli ictus cerebrali (8-9.000 nuovi casi all’anno, in Italia), e può far seguito alla rottura di un aneurisma sacculare o di una malformazione artero-venosa; oppure essere la conseguenza di un trauma cranico; o, ancora, riconoscere altre cause (rare) di sanguinamento periencefalico. Non è infrequente il raggiungimento degli spazi sub-aracnoidei o del sistema ventricolare da parte di un’emorragia primariamente intraparenchimale (v. pag. 000); in questi casi si parla di emorragia “cerebro-meningea”; d’altra parte, anche un’ESA, per la forza lacerante del getto ematico può danneggiare direttamente anche il parenchima, determinando così una emorragia “meningo-cerebrale”. La rottura di un aneurisma sacculare è implicata in circa l’85% dei casi di ESA. La frequen-
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za di riscontro di aneurismi sacculari nella popolazione tende ad aumentare con l’età; studi autoptici confermano la estrema rarità di aneurismi nei neonati e nei bambini, mentre è stato calcolato che circa il 5% degli individui sviluppa, durante la vita, almeno un aneurisma sacculare, che solo in una minoranza di casi va incontro a rottura (Linn et al., 1996). Gli aneurismi sacculari si sviluppano in rapporto alla presenza di un difetto della lamina elastica e media delle arterie; tale anomalia è più frequente a livello delle biforcazioni arteriose dei vasi alla base del cranio (circolo di Willis) (vedi tabella 22.12); esiste tutta una serie di fattori ereditari (malattie del connettivo, come la sindrome di Ehlers-Danlos, la displasia fibromuscolare, la malattia di Marfan e la deficienza di alfa1-tripsina; il rene policistico; la coartazione aortica) e acquisiti (ipertensione, fumo, abuso etilico, aterosclerosi) che ne facilita lo sviluppo e la rottura. Nel 25% dei casi sono multipli e la localizzazione preferenziale è nel circolo anteriore a livello della biforcazione dei grossi tronchi arteriosi intracranici o delle diramazioni del poligono del Willis (Fig. 22.35). Il sangue fuoriuscito nello spazio sub-aracnoideo tende a depositarsi, a coagulare e lisare nelle cisterne o tra le fessure dello spazio subaracnoideo della base. Tabella 22.12 - Sede preferenziale degli aneurismi causa di ESA (Vermeulen et al., 1984) Sede Complesso della Comunicante Anteriore Carotide interna Cerebrale media Circolazione posteriore
N
%
134 101 60 31
41 31 18 10
Fig. 22.35 - Sede e frequenza percentuale degli aneurismi malformativi del circolo cerebrale.
aneurismi aterosclerotici (anche detti dolicoectasici), localizzati preferenzialmente nel circolo vertebro-basilare, sono raramente causa di ESA; gli aneurismi neoplastici, rari, sono dovuti, in genere, ad invasione della parete arteriosa da parte di emboli originati da un mixoma atriale. Gli aneurismi possono aumentare di dimensioni prima della rottura, causando talora sintomi compressivi. Sono ad alto rischio di rottura gli aneurismi con diametri compresi tra i 5 ed i 7 mm. Cause scatenanti possono essere gli sforzi fisici, o qualsiasi condizione che provochi un aumento improvviso della pressione arteriosa, sebbene non di rado l’ESA si verifichi senza una causa apparente. Va sottolineato che circa nel 15% dei casi le indagini non sono in grado di dimostrare un aneurisma per cui l’ESA resta, infine, di origine sconosciuta. SINTOMATOLOGIA
Altri tipi di aneurismi sono: gli aneurismi micotici, che si formano nelle diramazioni più distali delle arterie intracraniche e quindi determinano più frequentemente emorragie a livello della corteccia cerebrale o cerebellare; gli
Gli aneurismi intracranici possono rimanere silenti tutta la vita, oppure svelarsi con la compressione di strutture adiacenti, o, ancora, manifestarsi improvvisamente con una ESA. A
Malattie vascolari
volte si tratta di piccoli sanguinamenti che preludono la rottura completa dell’aneurisma («emorragie sentinella») e sono clinicamente così discreti da passare inosservati. Ne consegue che le cefalee violente ed improvvise che insorgono per la prima volta in età adulta devono sempre destare sospetto. Per quanto riguarda la possibile compressione delle strutture adiacenti, si ricorda che sono caratteristici i sintomi di un aneurisma dell’arteria comunicante posteriore, che può determinare paralisi del III omolaterale, dapprima solo intrinseco (midriasi e perdita dei riflessi alla luce all’accomodazione) ed in seguito anche estrinseco (ptosi palpebrale), accompagnato da episodi ripetuti di dolore di intensità crescente in regione sopracciliare o retroauricolare; un aneurisma del seno cavernoso può essere causa di paralisi isolata del VI; un aneurisma della carotide interna nel tratto sopraclinoideo può essere causa di compressione sul nervo ottico o sul chiasma, con alterazioni del campo visivo. Al momento della rottura, talora in relazione al torchio addominale o a uno sforzo prolungato, si manifesta una cefalea intensa con dolore acuto e lancinante, a tutto il capo, spesso ma non sempre, localizzato alla nuca. Tale dolore può persistere diversi giorni ed accompagnarsi a nausea e vomito a getto. Rigidità nucale e papilla da stasi sono segni frequenti, ma possono comparire anche tardivamente. A volte, nelle prime ore, possono manifestarsi crisi comiziali parziali o generalizzate. La comparsa di disturbi della coscienza, non riferibile alle crisi comiziali, è sempre di valore prognostico sfavorevole. Nelle prime tre settimane dopo la rottura dell’aneurisma, il rischio di complicazioni cerebrali, come il vasospasmo, il risanguinamento e l’idrocefalo è molto elevato. Anche le complicanze mediche generali (v. pag. 000) sono relativamente frequenti. Il risanguinamento è la complicanza più temibile, essendo la mortalità in questi casi doppia rispetto a quella dei pazienti con un solo
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sanguinamento. Il rischio di un nuovo sanguinamento è del 2-3% durante le prime 24 ore per scendere all’1-2% al giorno durante il primo mese ed al 2% annuo dopo 3 mesi dalla prima emorragia. Il vasospasmo è un fenomeno che interessa le arterie della base cranica ed è causato dalla presenza nello spazio subaracnoideo ed intorno ai vasi, di sostanze vasocostrittrici, prodotti di degradazione del coagulo; il vasospasmo si verifica mediamente in 1 caso su 2, può essere diffuso a tutto il circolo del Willis, segmentario, o circoscritto alla parete adiacente all’aneurisma; nel 30% dei casi al vasospasmo fa seguito un infarto cerebrale di dimensioni e localizzazione estremamente variabili. La sintomatologia deficitaria che ne consegue dipende dalla sede ed dall’estensione dell’infarto. L’idrocefalo può essere una complicanza precoce, entro 72 ore, come idrocefalo ostruttivo nel 20-30% dei casi; oppure complicanza tardiva, nel 20% dei casi come idrocefalo comunicante, con manifestazioni cliniche tipo idrocefalo normoteso (v. pag. 000). Le complicazioni mediche generali sono del tutto analoghe a quelle che colpiscono gli altri malati con ictus e in particolare complicazioni cardiologiche, come aritmie, segni ECG di danno miocardico di tipo ischemico ed episodi di edema polmonare non cardiogeno. Questi quadri clinici sembrano essere in rapporto con uno squilibrio del sistema neurovegetativo, secondario a lesione ipotalamica, analogamente a quanto si ipotizza per la genesi delle ipertemie non infettive e della sindrome da iposodiemia con emoconcentrazione. DIAGNOSI Il primo accertamento da effettuare in caso di sospetta ESA è la TC cerebrale senza mezzo di contrasto, che dimostra, abitualmente, iperdensità nello spazio subaracnoideo e negli spazi cisternali prossimi alla sede dell’aneurisma (Fig. 9.130 e 22.36)
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La diagnosi strumentale di vasospasmo può avvalersi del doppler transcranico, che dovrebbe essere ripetuto ad intervalli regolari durante le prime due-tre settimane dal sanguinamento in tutti i pazienti per porre precocemente diagnosi di vasospasmo. PROGNOSI
Fig. 22.36 - C.O. anni 88, TC senza mdc. Emorragia subaracnoidea con spandimento ematico a livello delle cisterne optochiasmatiche di sinistra e pre-troncale paramediana sinistra.
Se la quantità di sangue è esigua, la TC può essere negativa e, in tal caso, la diagnosi deve avvalersi dell’esame liquorale, che dimostra un liquor ematico, xantocromico dopo centrifugazione, con un elevato numero di emazie. Durante le prime 12 ore dopo il sanguinamento la puntura lombare può però essere falsamente negativa. In presenza di una TC cerebrale e di un esame liquorale (eseguito oltre 12 ore dopo l’esordio e completo di spettrofotometria o cromatografia su colonna) normale, la diagnosi di ESA può essere ragionevolmente esclusa. L’angiografia digitale sottrattiva (ADS) dei vasi cerebrali è l’unico esame in grado di dare adeguate informazioni su morfologia, sede e rapporti dell’aneurisma con le strutture circostanti per cui deve essere sempre effettuata, immediatamente prima dell’eventuale trattamento chirurgico (Fig. 9.133; 9.134). Una angiografia in RM o una TC con contrasto possono essere di aiuto per studiare le caratteristiche della malformazione arteriosa e l’entità del versamento ematico (Fig. 9.128; 9.129).
Varia a seconda della natura e dell’entità del sanguinamento, della gravità del quadro clinico e delle complicanze. Sulla base di questi dati Hunt ed Hess hanno proposto una scala di valutazione che viene sempre utilizzata, insieme con i dati strumentali, per valutare la strategia terapeutica più appropriata (Tab. 22.13). La mortalità pre-ospedaliera è pari a circa il 15%; un altro 10% circa muore nelle prime 24 ore dopo il ricovero, portando la mortalità precoce al 25% (Schievink et al., 1995); dei sopravvissuti un terzo circa decede nei successivi tre mesi; la mortalità a tre mesi supera perciò il 50%, anche se tende nel tempo a diminuire progressivamente, in relazione ai miglioramenti nell’assistenza e nella cura della malattia. Il 50% circa dei sopravvissuti perde l’autosufficienza. La frequenza di risanguinamento tardivo nei soggetti sopravvissuti non operati è di circa 3,5% all’anno.
Tabella 22.13 Scala di Hunt e Hess Grado
Condizione neurologica
I
Assenza di sintomi
II
Cefalea intensa o segni meningei in assenza di segni neurologici (fatta esclusione di paralisi di nervi cranici)
III
Lieve disturbo di coscienza o lievi deficit neurologici
IV
Lieve disturbo di coscienza e emiparesi di entità medio-grave
V
Coma ed atteggiamento in decerebrazione
Malattie vascolari
TERAPIA Può essere chirurgica, endovascolare e medica. • Terapia chirurgica: il clippaggio dell’aneurisma è il trattamento di elezione, dato che è in grado di fermare l’emorragia, di prevenire il risanguinamento, di ridurre il rischio a medio termine di vasospasmo e di ridurne l’estensione. Per tale motivo deve essere effettuato al più presto, non appena le condizioni del paziente lo consentano. L’intervento precoce (entro 3 giorni dal primo sanguinamento) è raccomandato in tutti i casi senza disturbi della coscienza (grado I-II della Scala di Hunt e Hess) e senza segni di vasospasmo. L’intervento precoce nei casi con grado III-IV-V di Hunt e Hess è considerato da molti troppo rischioso (Drake, 1981), da altri invece ritenuto utile (Suzuki et al., 1978; Sano e Saito, 1980). • Trattamento endo-vascolare: lo sviluppo delle tecniche di intervento endovascolare ha determinato una profonda evoluzione della terapia degli aneurismi sacculari e delle malformazioni artero-venose. La tecnica più diffusa è quella che utilizza le spirali di Guglielmi (1992), che, limitata in passato agli aneurismi non aggredibili chirurgicamente, sta diffondendosi rapidamente come tecnica di prima scelta per la terapia degli aneurismi, sia che abbiano sanguinato che no, pur in assenza di studi clinici controllati conclusivi (Brilstra et al., 1999). Per i trattamenti di neuroradiologia interventistica si rinvia a pag. 000. • Prevenzione del risanguinamento: nei pazienti in cui non è praticabile il clippaggio dell’aneurisma, o l’intervento endovascolare, sono stati proposti, essendo alto il rischio di una nuova emorragia, numerosi trattamenti alternativi di efficacia incerta. Sono ormai in disuso le terapie pro-coagulanti (come la Vit. K) e gli anti-fibrinolitici che sembrano favorire il vasospasmo. Possono essere consigliati presidi di carattere generale, come l’assoluto riposo a letto ed il monitoraggio della pressione arteriosa.
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• Prevenzione e trattamento del vasospasmo e dell’ischemia cerebrale: nessun trattamento si è dimostrato in grado di prevenire o contrastare il vasospasmo. Sono in corso di sperimentazione tentativi terapeutici basati sull’angioplastica transluminale o sulla rimozione, in sede operatoria, del sangue subaracnoideo per aspirazione o mediante lavaggi con trombolitici, ma i risultati ottenuti sono ancora controversi. L’American Heart Association, raccomanda comunque, in caso di vasospasmo, il trattamento con ipertensione, ipervolemia ed emodiluizione in associazione, sebbene sottolinei la necessità di agire con particolare cautela nei pazienti non ancora sottoposti ad intervento chirurgico. L’emodiluizione deve portare l’ematocrito intorno al 35%; l’aumento indotto della pressione arteriosa sistemica non deve far superare 160 mmHg di pressione massima nei pazienti non ancora sottoposti ad intervento chirurgico, mentre la pressione massima può giungere fino a 240 mmHg nei casi già operati; per ciò che riguarda l’ipervolemia, si deve avere cura di mantenere la pressione venosa centrale tra 5 e 18 mm Hg. Per prevenire il danno ischemico secondario è stato riconosciuto utile l’uso della Nimodipina (360 mg/die), somministrata per via orale, per 21 giorni (Pickard et al., 1989). • Drenaggio dell’idrocefalo: i casi con idrocefalo ostruttivo acuto vengono sottoposti a ventricolostomia, nonostante i rischi di infezione e di risanguinamento. Nei casi con idrocefalo comunicante sintomatico viene praticato il drenaggio ventricolo-peritoneale, ma non sempre con esito positivo. • Terapia delle complicanze generali: il malato con ESA è spesso colpito da complicanze di ordine medico che ne mettono a rischio la sopravvivenza; in particolare, sono frequenti: – iponatriemia (spesso erroneamente attribuita a sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico) dovuta abitualmente ad eccesso di perdita urinaria di sodio con alterazione dell’equilibrio idro-elettrolitico; l’iponatriemia va corretta, se inferiore a 125 mmol/L,
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mediante un apporto supplementare di sodio per via orale o e.v. – disturbi del ritmo cardiaco; si possono manifestare alterazioni del tratto S-T e allungamento del tratto Q-T; la fibrillazione ventricolare e la torsione di punta sono le forme più gravi, ma fortunatamente rare. È stato consigliato l’uso di beta-bloccanti. – edema polmonare neurogenico; è una complicanza grave che colpisce circa il 10% dei soggetti con ESA, e va trattata con farmaci che aumentino la pressione sanguigna.
Encefalopatia ipertensiva e Leucoencefalopatia posteriore Soggetti gravemente ipertesi non trattati adeguatamente, qualora sviluppino valori pressori molto elevati (pressione diastolica superiore a 150 mmHg), possono presentare un quadro neurologico particolarmente drammatico, denominato Encefalopatia Ipertensiva, caratterizzato da cefalea ingravescente con nausea e vomito, edema della papilla, annebbiamento del visus, confusione mentale, crisi epilettiche focali o generalizzate e coma. Eventuali deficit neurologici focali (in genere assenti) indicano la presenza di complicanze emorragiche o ischemiche. L’encefalopatia ipertensiva è oggi fortunatamente molto rara, essendo il trattamento dell’ipertensione diffuso e abitualmente efficace. Raramente un quadro analogo si può manifestare in soggetti abitualmente normotesi che sviluppino una improvvisa puntata ipertensiva non necessariamente drammatica (P.A. diastolica anche solo pari a 100 mmHg), come in corso di eclampsia, glomerulonefrite acuta, feocromocitoma, tumori secernenti renina, assunzione di amfetamine o cocaina, assunzione di tiramina in corso di trattamento con farmaci IMAO, endoarteriectomia carotidea bilaterale con abolizione dei riflessi barocettori del glomo carotideo).
In ogni caso il meccanismo causale è il brusco superamento delle capacità autoregolatorie dei vasi cerebrali con edema cerebrale diffuso vasogenico causato da necrosi fibrinoide dei vasi cerebrali “di resistenza” (arteriole). La TC è generalmente normale, a parte la minore evidenza degli spazi subaracnoidei e i ventricoli più piccoli; più raramente si evidenziano aree ipodense, dovute all’edema, soprattutto nella sostanza bianca, meglio evidenziabili con la RM. Questo ultimo esame può talora rivelare un edema diffuso che coinvolge le zone posteriori degli emisferi cerebrali; i malati presentano cecità corticale, cefalea intensa, vomito, e crisi comiziali. Tale sindrome, a decorso abitualmente benigno è stata denominata posterior leukoencephalopathy syndrome (PLES) (Hinchey et al., 1996). Si tratterebbe, comunque, di una forma non grave di encefalopatia ipertensiva. Il trattamento consiste nella riduzione dei valori pressori, che si può ottenere con la somministrazione di calcioantagonisti o ace-inibitori per via sublinguale o beta-bloccanti per via e.v.. È molto importante che la riduzione dei valori pressori avvenga gradualmente nel corso di alcune ore, poiché, in ipertesi cronici, con limite inferiore di autoregolazione cerebrale più elevato della norma, un abbassamento brusco della pressione arteriosa può determinare l’insorgenza di un’importante ischemia cerebrale ed oculare.
Trombosi venosa cerebrale Si distinguono rare forme primarie o idiopatiche e più frequenti forme secondarie a diverse situazioni patologiche o fisiologiche accomunate abitualmente da una esagerata tendenza coagulativa ematica. Le trombosi venose cerebrali secondarie possono essere dovute o associate ad una serie di fattori causali o predisponenti (vedi tabella 22.14). Nella pratica clinica è frequente osservare la concomitanza di più di uno dei fattori predispo-
Malattie vascolari Tabella 22.14 - Situazioni in cui può svilupparsi una trombosi venosa cerebrale – – – – – – – – – – – – –
Gravidanza Puerperio Interventi chirurgici Uso di contraccettivi orali Traumi cranici Tumori (Meningiomi, tumori maligni, metastasi) Malnutrizione e disidratazione (trombosi marantiche) Infezioni con tromboflebite (batteriche, fungine) Disturbi ematologici (policitemia, anemia a cellule falciformi, leucemia, piastrinosi) Coagulazione intravascolare disseminata Malattia di Behçet Sindromi paraneoplastica con stato ipercoagulativo Trombofilie ereditarie o acquisite
nenti o causali nel singolo soggetto affetto, per esempio puerperio e Fattore V Leiden, oppure uso di contraccettivi orali e deficit di proteina S o di Antitrombina III (Martinelli et al., 1996; Bousser e Kittner, 2000). L’origine infettiva è ancora la più frequente nei paesi in via di sviluppo. La diffusione avviene generalmente per contiguità, attraverso un’osteite, meno frequentemente per via ematica e nel contesto di una meningite suppurativa, o di un empiema extra- o subdurale o di un ascesso cerebrale. Talvolta un trauma cranio-facciale o persino un intervento neurochirurgico possono favorire l’ingresso di germi piogeni, in genere stafilococchi e streptococchi. Meno frequente è una diffusione settica a partire da un focolaio suppurativo a distanza, ma ultimamente le infezioni da HIV e da citomegalovirus stanno assumendo sempre maggior importanza. Al contrario, nei paesi industrializzati, la trombosi è più frequentemente asettica e può conseguire a tutte quelle condizioni chirurgiche, ostetrico-ginecologiche e mediche notoriamente connesse con lo sviluppo di trombosi venosa profonda. Un rischio particolare è rappresentato dal periodo postoperatorio e dal puerperio, caratterizzati da trombocitemia ed iperfibrino-
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genemia. L’uso della pillola contraccettiva è ancor più frequentemente chiamato in causa. Fra le malattie sistemiche vanno considerate soprattutto le neoplasie maligne, le malattie del connettivo, i disturbi ematologici (policitemia, anemia falciforme, trombocitemia essenziale, emoglobinuria parossistica notturna), le patologie della coagulazione (acquisite o ereditarie) per cui si rinvia a pag. 000, e tutte le condizioni che determinano grave disidratazione. Infine, l’eziologia resta indefinita nel 25-35% dei casi anche se, talvolta, la causa di trombosi venose definite idiopatiche si rende manifesta solo dopo alcuni mesi. La sintomatologia si limita, talora, ad un quadro di ipertensione endocranica, con episodi di cefalea diffusa di tipo gravativo più o meno intensa, associata a paralisi del VI nervo cranico, talvolta con vomito; più spesso, invece, si evidenziano sintomi focali che, qualora insorgano acutamente, possono simulare il quadro di un infarto arterioso. Nella trombosi del seno sagittale superiore si manifestano crisi convulsive, deficit sensitivomotorio generalmente ad un arto inferiore, più raramente ad entrambi e, ancora, emianopsia laterale omonima, afasia, paralisi coniugata dello sguardo, incontinenza sfinterica, stato confusionale e coma di profondità variabile. I segni focali sono dovuti ad un’estensione della trombosi alle vene cerebrali superiori con conseguente infarto venoso, di aspetto molto edematoso e spesso infarcito di sangue. I sintomi focali, che spesso si instaurano in maniera graduale, impongono una diagnosi differenziale con i tumori, con un’encefalite o un ascesso cerebrale, cui, peraltro, le trombosi di origine infettiva possono essere associate. Quadri sindromici particolari si osservano per trombosi del seno trasverso e del seno cavernoso. Il seno trasverso può essere coinvolto da una tromboflebite, oggi meno frequente grazie agli antibiotici, conseguente alla riacutizzazione di una otite o di una mastoidite cronica. La sinto-
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matologia è quella di un dolore auricolare o mastoideo seguito, per diffusione del processo infiammatorio al bulbo giugulare, da una sindrome del forame giugulare con sofferenza del IX, X, XI nervo cranico. La trombosi del seno cavernoso, invece, si manifesta con chemosi congiuntivale, proptosi ed edema della palpebra ipsilaterale al seno interessato (da ostruzione delle vene oftalmiche). Si può avere riduzione del visus per ostruzione delle vene retiniche e conseguenti emorragie della retina. Il III, IV e VI nervo cranico e la branca oftalmica del V si trovano nella parete laterale del seno ed il loro coinvolgimento si manifesta con ptosi palpebrale, deficit della motilità oculare, dolore ed ipoestesia attorno all’occhio e nella regione frontale. È possibile la diffusione della trombosi al seno cavernoso controlaterale con comparsa di sintomi bilaterali e persino stenosi del tratto intracavernoso della carotide interna. Nei casi di trombosi asettica, gli esami complementari sono in genere negativi, ed il liquor è normale o evidenzia solo un lieve aumento delle cellule e del contenuto proteico, oltre ad un aumento di pressione. Nei casi di origine infettiva, invece, sono presenti segni indicativi del processo settico con leucocitosi neutrofila, velocità di sedimentazione elevata, pleiocitosi liquorale e febbre di tipo settico. La TC può essere del tutto normale, soprattutto nei casi che si manifestano con semplice ipertensione endocranica, oppure può evidenziare ipodensità diffusa dovuta all’edema cerebrale. Qualora presenti, sono ben visibili le aree infartuali mono- o bilaterali, con infarcimento emorragico nel 50% dei casi, generalmente a sede sottocorticale, da trombosi del seno sagittale superiore, meno frequentemente a livello dei nuclei basali da trombosi delle vene profonde. A volte si può evidenziare una iperdensità triangolare a livello del seno sagittale superiore, corrispondente al trombo fresco, e, dopo iniezione di contrasto, può comparire il segno
del «delta vuoto», dovuto all’opacizzazione delle vene collaterali nella parete del seno a fronte della mancata opacizzazione del trombo. Questo segno, molto importante sul piano diagnostico, si evidenzia solo quando il trombo è nella parte posteriore del seno e la malattia è tra la seconda settimana ed il secondo mese. Il contrasto, inoltre, può rivelare un’iperdensità a livello della falce e del tentorio, dovuta a stasi venosa ed iperemia della dura. L’angiografia cerebrale, con studio delle fasi venose tardive, permette di dimostrare il difetto di riempimento del seno o delle vene ostruite, oltre all’eventuale presenza di circoli venosi collaterali. La RM sta acquisendo un ruolo di primo piano nella diagnosi di trombosi venosa, per quanto sussistano ancora limiti tecnici e possibilità di falsi positivi. La trombosi si evidenzia per la mancanza dell’effetto “vuoto” da flusso ematico, al posto del quale si trova un’immagine inizialmente isointensa in T1 ed ipointensa in T2 ed in seguito iperintensa in entrambe le sequenze. La progressiva ricanalizzazione, in caso di trattamento efficace, sarà segnalata dalla ricomparsa dell’effetto “vuoto”. La terapia consiste nel trattamento dell’ipertensione endocranica con antiedemigeni osmotici, acetazolamide ed eventualmente ripetute sottrazioni di liquor, utili in particolare nei casi con ipertensione endocranica isolata e disturbi del visus. La ricanalizzazione del seno ostruito, o quanto meno il blocco dell’estensione del trombo, si possono ottenere con il trattamento anticoagulante (eparina endovena), che va intrapreso anche se alla TC sono evidenti immagini di infarcimento emorragico; ai primi segni di miglioramento si può passare alla somministrazione di anticoagulanti orali che va proseguita per alcuni mesi. Qualora alla sospensione degli anticoagulanti orali si osservi una ripresa del quadro clinico, si deve nuovamente iniziare un trattamento anticoagulante che va poi proseguito indefinitamente. La recente segnalazione di ricanalizzazioni ottenute con il ricorso a tratta-
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mento fibrinolitico deve ancora essere controllata. Nei casi di origine settica deve essere effettuata un’adeguata terapia antibiotica; nei pazienti con episodi epilettici va, ovviamente, instaurata una terapia anticonvulsivante. La mortalità si aggira fra il 7% ed il 10%, e una invalidità riscontra si ritrova nel 15-25% dei sopravvissuti. Fra gli indici prognostici vanno considerati la rapidità di evoluzione della trombosi, la presenza di coma o di sintomi focali, la topografia delle strutture venose interessate, con il massimo rischio connesso alla trombosi delle vene cerebrali profonde e di quelle cerebellari. Anche la natura dell’eventuale malattia sistemica sottostante ha un significato prognostico, l’evoluzione peggiore essendo registrata nei pazienti affetti da empiema subdurale, ascesso cerebrale, emoglobinuria parossisitica notturna o lupus eritematoso sistemico in fase terminale.
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Appendice Amnesia globale transitoria C. Gandolfo L’amnesia globale transitoria (AGT) è una sindrome accessuale ed episodica dell’età media o avanzata, caratterizzata dall’improvvisa e temporanea insorgenza di un grave disturbo della memoria anterograda per incapacità specifica a ritenere nuove informazioni mnesiche, con scarsa tendenza a recidivare. Si associa amnesia retrograda di durata variabile. Recenti dati epidemiologici italiani (Lauria et al., 1997) indicano una incidenza di circa 10 nuovi casi all’anno su 100.000 soggetti, con maggior frequenza nel sesso femminile e nell’età presenile e senile.
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La sindrome è stata descritta nella seconda metà degli anni 50 come «ictus amnesico» (Guyotat e Courjon, 1956) e come «singolo episodio di confusione con amnesia» (Bender, 1956). Il termine di AGT è stato coniato da Fisher e Adams nel 1958 ed è stato subito largamente accettato anche se non del tutto appropriato. Il disturbo della memoria, infatti, anche se grave, non è globale in quanto la memoria a breve termine e, in parte, la memoria retrograda sono conservate durante l’attacco.
EZIOLOGIA Dalla fine degli anni 50 ad ora molte centinaia di casi sono stati analizzati e appare chiaro che la sindrome può essere suddivisa in due principali forme, una detta «pura o idiopatica», in cui non è evidente, fino ad oggi, un preciso meccanismo eziologico, ed una seconda detta «sintomatica» in cui la storia clinica o gli esami strumentali dimostrano una causa o una lesione più o meno probabilmente responsabili del disturbo. Solo la forma pura o idiopatica deve essere considerata come AGT, mentre la forma sintomatica indicherebbe semplicemente che l’encefalo può rispondere con tale tipo di sintomi a svariate situazioni ed a differenti lesioni. La causa della forma pura non è chiara. Tre sono le ipotesi più accreditate: a) Attacco cerebrovascolare ischemico transitorio in territorio vertebro-basilare. La sindrome sarebbe causata da una sofferenza ischemica reversibile bilaterale delle porzioni mediali del lobo temporale o delle strutture talamiche dorso-mediali, principalmente irrorate dal circolo vertebro-basilare attraverso l’a. corioidea posteriore. Tale ipotesi sembra ricevere supporto dal riscontro angiografico di occlusioni o stenosi spesso bilaterali dell’a. cerebrale posteriore, dalla documentata riduzione del flusso ematico cerebrale nelle regioni temporali medie e posteriori (Heiss et al., 1992) durante o subito dopo l’attacco, dalla possibile esistenza di fattori di rischio per patologia trombo-embolica. Stanno invece contro tale ipotesi: la più frequente assenza di evidenti fattori di rischio per malattia cerebrovascolare (Hodges e Warlow, 1990), la prognosi a lungo termine sostanzialmente favorevole (Gandolfo et al., 1992), la scarsa tendenza del disturbo a ripetersi o a complicarsi con altri segni cerebrali ischemici, l’abituale assenza di episodi di AGT nella storia di pazienti con disturbi ischemici acuti in territorio vertebro-basilare e l’assenza di alterazioni di tipo ischemico alla Risonanza Magnetica (Ay et al., 1999). Nel filone “vascolare” si inseriscono invece il riscontro di aumentata frequenza di pervietà del forame ovale (PFO) nei soggetti affetti (Klotzsch et al., 1996) e l’ipotesi che il meccanismo causale sia una insufficienza delle valvole delle vene giugulari che, in condizioni parti-
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Malattie del sistema nervoso
colari (sforzi, manovra di Valsalva, rapporto sessuale), causerebbe una “congestione” venosa con ipossia relativa in regione ippocampale bilaterale innescando una reazione tipo “spreading depression” (Sander et al., 2000). b) Episodio di tipo epilettico. Tale ipotesi è stata presa in considerazione per la ben nota esistenza di crisi epilettiche temporali in cui l’unico o il sintomo prevalente è rappresentato da un transitorio disturbo della memoria (Kapur, 1993). Si tratta però di episodi di durata breve, ricorrenti, di regola associati ad altre manifestazioni cliniche più chiaramente epilettiche. L’EEG nel corso dell’episodio di AGT non ha aspetti irritativi, anche se esistono sporadiche segnalazioni in tal senso. c) Episodio tipo crisi emicranica con aura. L’ipotesi di una relazione fisiopatogenetica con l’emicrania nasce dal rilievo che la cefalea, talora intensa e pulsante, è frequente sintomo di accompagnamento e che l’emicrania viene ritenuta una malattia in cui un coinvolgimento circolatorio vertebro-basilare è molto frequente; la forma con aura infatti è spesso caratterizzata da sintomi suggestivi di disturbo circolatorio transitorio vertebro-basilare (per lo più emianopsia laterale omonima, talora emiipoestesia o afasia), come per molti Autori potrebbe essere l’AGT (Caplan, 1985). Anche alcuni dati PET deporrebbero in tal senso (Eustache et al., 1997). Infine, in alcuni studi, l’emicrania è risultata un fattore di rischio significativamente associato. D’altra parte, l’emicrania è una malattia caratteristica del soggetto giovane e gli attacchi sono destinati a ripetersi.
SINTOMATOLOGIA Durante l’episodio il soggetto non riesce a fissare nuovi ricordi (amnesia anterograda), non ricorda un periodo del recente passato per una estensione temporale variabile (da qualche ora a qualche anno); la memoria a breve termine, la coscienza, l’identità personale e l’orientamento autobiografico sono conservati. Anche le persone ed i luoghi, conosciuti dal paziente precedentemente rispetto al periodo di amnesia retrograda, vengono riconosciuti senza incertezze per cui l’orientamento spaziale e nelle persone è abitualmente conservato. È tipicamente presente una reiterata ripetizione delle domande “repetitive questioning”, per cui il paziente chiede preoccupato agli astanti informazioni su quanto stia avvenendo e su come sia arrivato dove si trova, salvo dimenticarsi quasi subito sia delle domande che delle
risposte ottenute, per cui il soggetto ripropone poco dopo le stesse identiche richieste. L’attacco può durare da qualche minuto a qualche ora, fino ad un massimo convenzionalmente stabilito di 24 ore, e regredisce spontaneamente e gradualmente con recupero completo, salvo una residua lacuna mnesica permanente relativa all’intera durata dell’episodio (durata media 3-6 ore). L’esame neurologico è negativo (a parte, ovviamente, i disturbi della funzione mnesica) durante e dopo l’attacco; in particolare, non sono presenti alterazioni della coscienza, delle funzioni simboliche, deficit sensitivi o sensoriali, disturbi della motilità. Il comportamento è di solito adeguato, anche se è quasi sempre presente un evidente stato d’ansia. Frequente la cefalea talora intensa, spesso pulsante. Gli episodi sono di solito isolati; solo una minoranza di casi (dal 10 al 20%) va incontro ad un secondo o a più nuovi episodi a varia distanza di tempo dal primo. In una buona parte dei casi (30-40%) sono evidenziabili fattori scatenanti consistenti per lo più in violenti o prolungati sforzi fisici, rapporti sessuali, movimenti inusuali del capo, esposizione improvvisa al freddo od al caldo, emozioni o dolori intensi, procedure diagnostiche fastidiose o vissute dal soggetto con particolare apprensione. DIAGNOSI ED ESAMI COMPLEMENTARI Caplan (1985) ha formulato una serie di criteri diagnostici di inclusione e di esclusione ampiamente accettati. Criteri di inclusione: a) osservazione diretta dell’episodio da parte dell’esaminatore o disponibilità di un valido «testimone» che abbia assistito all’episodio e ne possa dare un resoconto attendibile (il paziente, superato l’episodio, non ne serba alcun ricordo e quindi non può riferirlo al medico); b) esordio acuto di un grave disturbo della memoria a lungo termine (ad esempio, la capa-
Malattie vascolari
cità di ripetere un breve racconto alcuni minuti dopo averlo ascoltato); c) presenza di una amnesia retrograda di durata variabile; d) conservazione della memoria a breve termine, detta anche “working memory” (ripetizione di cifre, per esempio), della coscienza e dell’identità personale; e) transitorietà dei sintomi, con regressione completa dell’episodio al massimo nel giro di 24 ore; f) amnesia residua definitiva dell’accaduto. Criteri di esclusione: a) recente trauma cranico; b) afasia o altri disturbi delle funzioni simboliche; c) segni di deficit neurologico focale (emiparesi, monoparesi, atassia, diplopia, emiipoestesia, emianopsia, ecc.); d) manifestazioni di tipo chiaramente epilettico durante l’episodio o anamnesi positiva per pregressi episodi epilettici ricorrenti; e) evidenza di deterioramento delle funzioni mentali o di gravi malattie psichiche funzionali preesistenti. Utilizzando questi criteri, è possibile eliminare tutta una serie di episodi spuri. La diagnosi, quindi, è già formulabile solo osservando attentamente il malato o in base ad un preciso resoconto anamnestico, ma ciò non esime da un’accurata valutazione clinica, strumentale e laboratoristica. La diagnosi di forma pura, infatti, deve sempre essere confortata dalla negatività degli esami strumentali di studio morfologico e funzionale cerebrale (TC, RM, EEG) indispensabili per escludere che si tratti di un episodio sintomatico. Altri esami (esame duplex dei tronchi sopraaortici, doppler transcranico, studio del flusso cerebrale, studio dei potenziali evocati encefalici, EEG quantitativo, esami bioumorali ematologici e liquorali) sono ovviamente utili, e talora indispensabili, ai fini della diagnosi differenziale nei confronti di altre forme di disturbo cerebrale transitorio oppu-
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re per la valutazione degli aspetti fisiopatologici. La diagnosi differenziale si pone, ovviamente, nei confronti delle forme “secondarie” di cui le più frequenti sono: • Amnesia post-traumatica: colpisce abitualmente soggetti giovani, per traumi cranici anche banali, talora senza perdita di coscienza; il disturbo comporta un’amnesia antero-retrograda di durata variabile a decorso spontaneamente favorevole, diretta conseguenza dell’evento traumatico; • Amnesia transitoria da ischemia cerebrale: un deficit di perfusione ematica interessante bilateralmente le regioni ippocampali può causare un episodio tipo AGT; sono spesso presenti altri segni neurologici (emianopsia laterale omonima o cecità corticale, afasia, emi-ipoestesia, emiparesi, etc.) talora con esiti permanenti. • Amnesia transitoria epilettica: l’epilessia temporale può causare crisi amnestiche; la durata dell’amnesia è però abitualmente breve, l’esordio si associa a disturbi di coscienza, è frequente la presenza di altri fenomeni tipici dell’epilessia parziale a sintomatologia complessa (automatismi motori), l’EEG è spesso alterato in maniera specifica. • Amnesie transitorie da altre cause: neoplasie cerebrali primarie e secondarie, ematomi intraparenchimali e sub-durali, emorragie subaracnoidee ed altre, svariate, patologie intracraniche possono esordire con un quadro di amnesia transitoria; il risultato degli esami strumentali, la non negatività dell’esame neurologico, il decorso clinico caratterizzato dall’evoluzione peggiorativa e dalla comparsa di altri segni, indirizzano verso la corretta diagnosi. PROGNOSI Il singolo episodio ha, per definizione, un decorso spontaneamente favorevole con regressione completa ed anche la prognosi a lungo termine è del tutto benigna. In particolare la mortalità a lungo termine non è diversa da quel-
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Malattie del sistema nervoso
la della popolazione normale di pari età e sesso e la frequenza di episodi cerebrovascolari sembra molto inferiore a quella osservata negli studi di prognosi dei pazienti con attacchi ischemici transitori o altri disturbi cerebrovascolari ischemici. Anche la memoria e le capacità intellettive non sembrano modificate e l’insorgenza di demenza non è aumentata rispetto a quanto atteso nella popolazione generale anziana (Gandolfo et al., 1992). TERAPIA L’incertezza eziologica, la benignità della sindrome, la scarsa tendenza a ripetersi e la prognosi a lungo termine assolutamente favorevole, rendono conto del fatto che non appare consigliabile alcun trattamento curativo o preventivo specifico per la forma pura. La situazione è diversa nei casi in cui la AGT sia sintomatica di qualche patologia encefalica particolare, ed allora la terapia sarà, ovviamente, scelta in rapporto alla patologia riscontrata. Riferimenti bibliografici
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Secondo la schematizzazione classica il midollo spinale è percorso in tutta la sua lunghezza da tre arterie che ne garantiscono la vascolarizzazione: l’arteria spinale anteriore e le due arterie spinali posteriori.
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Sistema arterioso
1. Arteria spinale anteriore. Nasce a livello intracranico (occipito-cervicale) da due rami che si staccano rispettivamente dall’arteria vertebrale destra e dall’arteria vertebrale sinistra. Entrambi questi rami decorrono in direzione caudale e si uniscono poco dopo sulla linea mediana, dando origine ad un’unica arteria, appunto l’arteria spinale anteriore. Questa decor-
Malattie vascolari
re in direzione caudale sulla linea mediana lungo la faccia ventrale del midollo e termina a livello del cono midollare dove si anastomizza con i rami terminali delle due arterie spinali posteriori. Lungo il suo decorso l’arteria spinale anteriore si anastomizza con diverse arterie da cui riceve sangue. Durante la vita embrionale essa riceve sangue dalle arterie radicolari, rami arteriosi che accompagnano tutte le radici dei nervi spinali e proseguono verso il midollo fino ad anastomizzarsi con l’arteria spinale anteriore. Nell’adulto la maggior parte delle arterie radicolari è atrofica e si limita ad irrorare la radice ed il ganglio spinale corrispondenti. Solo poche di esse (in numero di circa 3-9 a seconda dei soggetti) proseguono fino ad irrorare il midollo spinale e ad anastomizzarsi con l’arteria spinale anteriore. Queste arterie, che vengono chiamate arterie radicolo-midollari, si staccano da grandi arterie extravertebrali, accompagnano una radice spinale, penetrano con essa nel canale vertebrale attraverso il forame intervertebrale e, dopo aver irrorato la radice ed il ganglio spinali, proseguono fino ad anastomizzarsi con l’arteria spinale anteriore. Esse sono: A livello cervicale rami arteriosi che si staccano dalle arterie vertebrali nel loro tratto intratrasversario, dalle arterie costocervicali (rami della succlavia) o dalle arterie cervicali ascendenti (rami del tronco tireocervicale, anch’esso originato dalla succlavia). A livello toracico uno o più rami arteriosi che si staccano dall’aorta circa a livello della vertebra T7. A livello lombare la cosiddetta arteria del rigonfiamento lombare (arteria di Adamkievicz), un grosso vaso che si stacca dall’aorta e accompagna una radice lombare (variabile, a seconda dei soggetti, fra T10 ed L1 circa) e, in alcuni casi, altri rami analoghi che si staccano dall’aorta. Normalmente il sangue fluisce nell’arteria spinale anteriore in senso cranio-caudale. Secondo la descrizione classica l’arteria spinale anteriore può, eventualmente invertendo il suo flusso, assicurare l’irrorazione del midollo an-
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che quando una delle sue tributarie si occluda, in maniera analoga a quanto può fare il circolo di Willis a livello intracranico. È peraltro oggi noto che, come e più del circolo di Willis, l’arteria spinale anteriore è soggetta a numerose varianti anatomiche. In pratica essa presenta quasi sempre una o più interruzioni del suo decorso, ed inoltre il suo calibro varia grandemente nei vari punti del suo decorso, limitando così la sua capacità di compenso. L’irrorazione midollare risulta quindi, in pratica, dipendente dalle descritte arterie radicolo-midollari, la cui occlusione non sempre può essere compensata dall’arteria spinale anteriore. Questo è particolarmente vero a livello del midollo toracico, che è di fatto la porzione di midollo più vulnerabile all’ischemia. L’arteria spinale anteriore dà origine a: (1) rami perforanti (arterie sulcali) che penetrano lungo il solco anteriore del midollo e vanno ad irrorare il midollo stesso; (2) rami circonferenziali che si dirigono lateralmente lungo la convessità del midollo per unirsi con analoghi rami provenienti dalle arterie spinali posteriori; da questi rami circonferenziali nascono altri rami perforanti che penetrano all’interno del midollo spinale. Nel complesso il sistema dell’arteria spinale anteriore irrora i due terzi ventrali del midollo spinale (principalmente i cordoni ventrale e laterale e la sostanza grigia). 2. Arterie spinali posteriori (destra e sinistra). Esse nascono a livello intracranico dalle arterie vertebrali o dalle arterie cerebellari postero-inferiori (a loro volta rami delle vertebrali) e decorrono, senza unirsi, lungo la faccia posteriore del midollo spinale, rispettivamente a destra e sinistra della linea mediana. Terminano a livello del cono midollare anastomizzandosi fra di loro e con l’arteria spinale anteriore. Queste due arterie presentano un decorso ancora più variabile di quello dell’arteria spinale anteriore: possono interrompersi, attraversare la linea mediana, trasformarsi in un plesso arterioso. In
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Malattie del sistema nervoso
esse il sangue decorre in senso caudale a livello cervicale e toracico, in senso craniale a livello lombare e sacrale. Anche dalle arterie spinali posteriori hanno origine rami perforanti e rami circonferenziali, analogamente a quanto descritto per l’arteria spinale anteriore. Nel complesso il sistema delle arterie spinali posteriori irrora il terzo dorsale del midollo spinale (principalmente i cordoni posteriori del midollo). Sistema venoso Una vena spinale posteriore percorre il midollo per tutta la sua lunghezza sulla linea mediana della sua faccia dorsale. Una vena spinale anteriore lo percorre sulla linea mediana della sua faccia anteriore. La vena spinale posteriore riceve vene che drenano il sangue dalle corna posteriori e dai cordoni posteriori, la vena spinale anteriore riceve vene che drenano il sangue dalle regioni midollari più ventrali. Entrambe le vene spinali sono a loro volta drenate da vene radicolari maggiori, che accompagnano le radici spinali. Queste, che rappresentano il corrispettivo venoso delle arterie radicolomidollari, non accompagnano tutte le radici spinali, tuttavia sono molto più numerose delle loro controparti arteriose. Le vene radicolari maggiori sfociano nei plessi venosi paravertebrale e intervertebrale, a loro volta confluenti caudalmente nei plessi venosi pelvici. Esiste una ricca rete anastomotica fra i grandi tronchi venosi midollari.
Ischemia midollare acuta: sindromi cliniche 1. Sindrome dell’arteria spinale anteriore. L’arteria spinale anteriore vascolarizza, come si è detto, i due terzi ventrali del midollo lungo tutta la sua lunghezza. Nonostante le grandi possibilità di compenso che in linea di principio questa arteria possiede (tanto che è
stata paragonata ad una sorta di circolo di Willis spinale) le sue frequenti variazioni anatomiche fanno sì che l’occlusione di una delle grandi arterie radicolo-midollari, o dell’arteria spinale stessa, non sempre possa essere compensata e anzi spesso causi una necrosi del midollo a livello del metamero midollare in cui avviene l’ostruzione. Ne restano danneggiate le corna anteriori del midollo, la sostanza grigia midollare tranne le corna posteriori, il fascio piramidale, i cordoni antero-laterali del midollo. La sintomatologia clinica è abitualmente bilaterale, insorge in modo ictale o rapidamente ingravescente (nell’arco di una-due ore). La localizzazione dei sintomi dipende dal livello a cui è avvenuto il rammollimento. I sintomi consistono in: a) Dolore all’esordio della sintomatologia, localizzato a seconda del livello della lesione al dorso o all’addome con irradiazione agli arti b) Paraparesi o tetraparesi, a seconda del livello di lesione. Per lesioni cervicali si può avere paresi degli arti inferiori che dopo la fase acuta assume caratteri di spasticità (dovuta alla lesione dei fasci piramidali) e paresi degli arti superiori che resta flaccida anche dopo la fase acuta (dovuta a lesione delle corna anteriori del midollo). Per lesioni lombari la paraparesi può restare flaccida anche dopo la fase acuta, essendo dovuta alla lesione delle corna anteriori. c) Anestesia dissociata a carico dei metameri sottostanti la lesione. Sono compromesse le sensibilità termica e dolorifica (portate dai fasci spino-talamici, che decorrono nei cordoni antero-laterali) mentre vengono risparmiate le sensibilità tattile e propriocettiva (portate dai cordoni posteriori del midollo, irrorati dalle arterie spinali posteriori). d) Paralisi sfinterica che usualmente dà origine a ritenzione urinaria e fecale. La prognosi è variabile, e non si può escludere un recupero anche importante. 2. Sindrome dell’arteria spinale posteriore. Non tutti gli autori sono concordi nell’am-
Malattie vascolari
mettere l’esistenza di tale sindrome. In effetti le varianti anatomiche delle arterie spinali posteriori sono tali e tante che non sempre è agevole distinguere queste arterie sul piano anatomico. La sindrome dell’arteria spinale posteriore, così come è classicamente descritta, causa lesione del terzo dorsale del midollo, con lesione dei cordoni posteriori e delle corna posteriori. La localizzazione dei sintomi dipende anche qui dal livello a cui è avvenuto il rammollimento. Si osservano: a) Dolore all’inizio della sintomatologia, come nel caso precedente. b) Ipoestesia tattile e propriocettiva nei metameri al di sotto del livello della lesione, dovute a lesione dei cordoni posteriori del midollo. c) Paraparesi o tetraparesi, a seconda del livello di lesione. Poiché come si è visto le vie motorie non sono irrorate da questa arteria, questi segni motori sono di solito transitori. Essi infatti non sono dovuti a necrosi delle strutture corrispondenti, ma a loro interessamento da parte dell’edema perilesionale, e scompaiono con la regressione di questo. d) Paralisi sfinterica che usualmente dà origine a ritenzione urinaria e fecale. Anche questo sintomo è usualmente transitorio e riconosce la stessa patogenesi del precedente. Il decorso è di solito favorevole, residuando abitualmente solo la descritta ipoestesia tattile e propriocettiva. 3. Altre sindromi di ischemia midollare. Sono descritte in letteratura anche altre sindromi da ischemia midollare fra cui: – Rammollimento centrale, “a matita”. È dovuto all’occlusione di una delle arterie perforanti che si staccano dalle arterie radicolomidollari, e causa un rammollimento della parte centrale della sostanza grigia. In fase acuta si può avere una sindrome come da sezione trasversa del midollo (totale o parziale) a causa della lesione ischemica della sostanza grigia as-
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sociata a compressione sulle vie lunghe midollari da parte dell’edema citotossico. Passata la fase acuta, e regredito l’eventuale edema, i sintomi sono simili a quelli della siringomielia, con localizzazione che varia a seconda del livello leso. – Rammollimenti lacunari, secondari ad ostruzione delle piccole arterie intramidollari. Sono rari perché queste arteriole raramente presentano i microateromi e la degenerazione della parete frequenti a livello delle arteriole cerebrali, probabilmente per il fatto che non debbono sopportare gli elevati valori di pressione intravascolare presenti a livello intracranico, nemmeno devono sopportare le alte pressioni intravascolari. In genere sono dovuti a vasculiti in corso di connettiviti o a neurosifilide. La sintomatologia varia a seconda dell’area colpita. È più frequentemente legata alla lesione delle vie lunghe anche se possono associarsi paralisi da lesione lacunare ischemica del secondo motoneurone, con un quadro che può somigliare alla sclerosi laterale amiotrofica. – “Claudicatio” midollare. Si tratta di una sindrome caratterizzata da parestesie, ipoestesia ed ipostenia agli arti inferiori che insorgono solo dopo la deambulazione e scompaiono col riposo. A differenza della “claudicatio intermittens” delle arteriopatie ostruttive agli arti inferiori, nella claudicatio midollare non vi è dolore. La “Claudicatio midollare” fu inizialmente spiegata da Dejérine con un’ischemia midollare transitoria. Pur non potendosi, almeno in alcuni casi, escludere del tutto questa spiegazione, si tende oggi a considerare questa sindrome non una sindrome vascolare ma piuttosto la conseguenza di una stenosi del canale vertebrale a livello dorso-lombare. – Attacchi ischemici transitori. Analogamente a quanto accade nella circolazione intracranica vi è la possibilità che infarti midollari siano preceduti da TIA. – Infarti da trombosi venosa. L’occlusione di una vena midollare è rara e si osserva in genere in corso di gravi malattie sistemiche o di
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Malattie del sistema nervoso
lesioni occupanti spazio nel canale midollare. La sintomatologia è subacuta, con progressione dei sintomi in 1-2 giorni. Il sintomo iniziale è un dolore localizzato al torace, all’addome o agli arti inferiori. Compaiono quindi con decorso rapidamente ingravescente disturbi motori (paraparesi o tetraparesi), ipoestesia al di sotto del livello di lesione e disturbi sfinterici. La prognosi è generalmente infausta, anche a causa della patologia abitualmente associata. A livello anatomopatologico si osserva un infarto emorragico del midollo. La grave stasi venosa determina infatti, ostruendo e rallentando il circolo a livello capillare, sia sofferenza ipossica del midollo che uno stravaso emorragico. In tutti i casi di rammollimento midollare il liquor può essere normale, o può mostrare una lieve iperalbuminorrachia. La TAC o la RM midollare, eseguite al livello metamerico appropriato in base alla sintomatologia, in fase acuta possono essere negative o possono dimostrare un rigonfiamento del midollo, segno di edema. Trascorsa la fase acuta la necrosi parenchimale può diventare visibile con entrambe le metodiche, analogamente a quanto avviene nei rammollimenti intracranici. A livello midollare tuttavia le ridotte dimensioni sia del midollo spinale che delle lesioni ischemiche rendono non sempre agevole il riconoscimento di una lesione ischemica. La RM offre, rispetto alla TAC, una migliore definizione e un numero minore di artefatti dovuti alla vicinanza delle strutture ossee. È stato riportato in letteratura che la dimostrazione con RM dell’infarto di un corpo vertebrale può confermare la diagnosi di rammollimento midollare in casi in cui la lesione midollare non sia dimostrabile.
Ischemia midollare acuta: patogenesi L’ischemia midollare è di solito dovuta alla occlusione di una arteria radicolo-midollare. Queste raramente sono interessate da processi
trombotici di origine arteriosclerotica. Più frequentemente si occludono a seguito di processi patologici a carico delle grosse arterie da cui originano. L’origine delle arterie radicolomidollari toraciche o dell’arteria di Adamkievicz può essere occlusa da placche aterosclerotiche, da trombosi o da dissecazione dell’aorta toracica o lombare. Le arterie radicolo-midollari toraciche possono restare escluse dalla circolazione, con conseguente ictus midollare, in corso di legatura dell’aorta toracica durante interventi di chirurgia vascolare. In questo caso il distretto più colpito è di solito quello toracico, meno vascolarizzato e meno fornito di circoli di compenso. Nel corso di tali interventi si possono monitorare i potenziali evocati sensitivi o i potenziali evocati motori per avere indicazioni su eventuali ischemie critiche midollari nel corso dell’intervento. Parimenti, il midollo specie nella regione toracica (che, come si è detto, è meno riccamente vascolarizzata di quelle cervicale e lombare) può essere sede di ischemia e rammollimento a seguito di grave e prolungata ipotensione arteriosa sistemica. Altre cause di ictus midollare comprendono embolie sia a partenza dal cuore, sia formate da materiale fibrocartilagineo a partenza dai dischi intervertebrali (la patogenesi di questi ultimi emboli non è chiara, ed è comunque indipendente dall’esistenza di ernie discali). Nella malattia da decompressione dei sommozzatori (un tempo nota come “malattia dei cassoni”) gli emboli sono formati da bolle di gas. Infatti il gas inalato durante l’immersione entra in soluzione nel sangue a causa dell’alta pressione esercitata dall’acqua sul corpo nell’ambiente sottomarino. Quando poi il sommozzatore risale in superficie tale pressione diminuisce ed il gas, non più sciolto, viene liberato in circolo. Se la risalita e quindi la decompressione sono sufficientemente lente il gas liberatosi ha tempo di essere eliminato con la respirazione. Se la risalita in superficie è troppo rapida il gas forma nel letto circolatorio delle bolle che occludono le arteriole. Normalmente i distretti più colpiti sono le
Malattie vascolari
grosse articolazioni (donde artralgie) ed il midollo spinale, specie nel distretto toracico.
Emorragie midollari Abitualmente l’emorragia nel canale vertebrale (sia intra- che extra-midollare) è di genesi traumatica oppure sintomatica, in quest’ultimo caso dovuta a rottura di malformazioni vascolari, a sanguinamento nell’ambito di neoplasie o ad alterazioni coagulative (per esempio terapia anticoagulante orale o emofilia). Quasi mai essa è dovuta a ipertensione arteriosa come invece frequentemente succede nel distretto intracranico. Anche l’angiopatia congofila, causa non infrequente di emorragie nel distretto intracranico, non è mai stata descritta a livello midollare. Si possono distinguere: 1. Emorragie intraparenchimali (ematomielia). Causano una compressione acuta del midollo spinale, con sintomatologia che varia a seconda del metamero colpito e della localizzazione dell’emorragia. Normalmente è presente dolore, riferito al dorso, al torace o all’addome, che può essere irradiato agli arti. Sono inoltre presenti deficit motori (paraparesi o tetraparesi a seconda del livello lesionale), turbe sfinteriche (di solito ritenzione urinaria e fecale), deficit sensitivi nei dermatomeri sottostanti il livello di lesione (da compromissione dei fasci spinotalamici o delle vie lemniscali, o di entrambe le vie, a seconda della localizzazione dell’emorragia). La puntura lombare può dare origine a liquor ematico o xantocromico, se il sangue è in parte fuoriuscito dal parenchima. La TAC e la RM dimostrano l’ematoma intraparenchimale. La formazione ictale di un ematoma intraparenchimale causa una compressione acuta del midollo spinale, costretto entro il canale midollare, inestensibile. Per tale motivo può essere indicato un intervento chirurgico d’urgenza a scopo decompressivo.
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2. Emorragie extraparenchimali. a) Nello spazio subaracnoideo. L’emorragia subaracnoidea spinale è dovuta di solito a rottura di una malformazione artero-venosa midollare, o più raramente a traumi o coagulopatie. È caratterizzata da dolore spesso riferito al rachide (“coup de poignard rachidien”) seguito da sindrome meningea. Contrariamente all’emorragia subaracnoidea intracranica non vi è cefalea, a meno che il sangue non penetri nella teca cranica. Normalmente il liquido cefalorachidiano diluisce il sangue stravasato ed impedisce la formazione di un ematoma. Tuttavia, in caso di emorragie massive o di ostacoli alla circolazione liquorale si può formare un ematoma che può comprimere il midollo, originando paralisi e ipoestesia al di sotto del livello di lesione. La rachicentesi dà esito a liquor ematico o xantocromico (ematorrachia). Se un voluminoso ematoma blocca la circolazione liquorale la puntura lombare può non dare esito a liquior (“dry lumbar puncture”). In caso di emorragia spinale subaracnoidea è necessaria la ricerca di una malformazione artero-venosa, mediante TAC, RMN, angiografia. La compressione del midollo spinale da parte di un ematoma può indicare la decompressione chirurgica d’urgenza. b) Nello spazio subdurale. Questo quadro, piuttosto raro, è di solito dovuto a coagulopatie o a traumi. Non vi sono infatti, nello spazio subdurale midollare, quelle vene la cui rottura causa di solito l’ematoma subdurale cerebrale. Può essere sequela di una puntura lombare, particolarmente quando questa venga effettuata in un paziente con alterazioni della coagulazione del sangue (ad esempio in corso di terapia anticoagulante orale). La sintomatologia può avere inizio acuto o subacuto, e consiste principalmente in dolore al rachide associato a paraparesi o tetraparesi. Il liquor è normale, a meno che il sangue non sia fuoriuscito dallo spazio subdurale. La TAC cerebrale e la RM evidenziano l’ematoma. Anche in questo caso vi può essere, a seconda del grado di compressione sul midollo, l’indicazione ad un intervento decompressivo in urgenza.
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c. Nello spazio epidurale. Si tratta di emorragie che si verificano nello spazio epidurale posteriore del midollo. Anche questo quadro è di solito dovuto a coagulopatie, a puntura lombare (specie se eseguita in pazienti con alterazioni della coagulazione del sangue), o a rottura di malformazioni artero-venose. L’inizio, acuto, è caratterizzato da dolore, associato a sintomi motori (paraparesi o tetraparesi), sensitivi e sfinterici a seconda del grado di compressione midollare. La rachicentesi dà esito a liquor normale a meno che il sangue non sia stravasato nello spazio subaracnoideo. La diagnosi può essere fatta con TAC o con RM. L’intervento chirurgico evacuativo deve essere eseguito d’urgenza in caso di compressione midollare.
Malformazioni vascolari Comprendono sia malformazioni venose, sia malformazioni arterovenose. La sintomatologia, a parte i quadri da rottura di cui si è detto sopra, consiste in dolore ed in sintomi da compressione delle radici spinali o del midollo (vie piramidali o sensitive, disturbi sfinterici). La diagnosi può essere fatta con TAC, RM o angiografia. In particolare l’angiografia in RM può, con adeguate tecniche, consentire la visualizzazione dei peduncoli vascolari da cui le malformazioni traggono origine, con ciò rendendo superfluo il ricorso ad indagini invasive, come l’angiografia tradizionale. Le malformazioni vascolari del midollo possono anche causare sintomi dovuti a ischemia del midollo stesso, la cui patogenesi può essere emodinamica (storno di sangue da parte della malformazione) o embolica (formazione di coaguli nella malformazione che si trasformano in emboli).
Malattia dei cassoni Colpisce soggetti esposti per tempo prolungato a pressione gassosa elevata e successiva-
mente riportati rapidamente a pressione atmosferica, come accade per i subacquei, quando non seguono i tempi necessari ad una adeguata decompressione. Durante la fase di decompressione i gas, precedentemente disciolti nel sangue, ritornano allo stato gassoso formando delle bolle; se la decompressione è lenta le bolle vengono rapidamente eliminate a livello del circolo polmonare, ma se è troppo rapida, le bolle intravascolari non vengono eliminate determinando un ostacolo alla normale circolazione. Il midollo, particolarmente nel tratto toracico, è l’organo più frequentemente leso per le sue caratteristiche di vascolarizzazione, ma anche l’encefalo può essere colpito. I sintomi neurologici compaiono nelle prime 24 ore in due terzi dei casi, più tardivamente nel restante terzo. L’esordio è con dolore, radicolare o cordonale, seguono sintomi motori, sensitivi e disturbi sfinterici; si possono associare sintomi psichici. L’evoluzione clinica è spesso benigna, con regressione completa del quadro clinico dopo alcuni giorni (75% dei casi). La terapia consiste nella ricompressione e successiva lenta decompressione in camera iperbarica. In attesa della terapia in camera iperbarica, è abituale il ricorso alla terapia steroidea ed antiaggregante piastrinica.
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Tumori
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23. Tumori Tumori cerebrali R. Spaziante, C. Rivano, E. Bruzzone
Considerazioni generali Le finalità di questo capitolo sono quelle di dare schematiche nozioni, indispensabili per un corretto inquadramento della patologia tumore cerebrale e delle sue implicazioni chirurgiche. L’approccio schematico è in relazione al fatto che molte delle nozioni fisiopatologiche e cliniche quì riportate sono oggetto di trattazione in altri capitoli. EPIDEMIOLOGIA La patologia tumorale primitiva del SNC nell’adulto è un’evenienza relativamente rara occupando il 10° posto tra le neoplasie, con un’incidenza che è circa l’1,5-2% (Tab. 23.1), rappresentando, per i Paesi Occidentali, 10-15 nuovi casi/anno ogni 100.000 abitanti (in Italia circa 5.000 casi/anno, negli U.S.A. circa 15.000 casi/ anno).
Il 50% sono di origine gliale, cui seguono per frequenza i meningiomi (15%), gli adenomi ipofisari (10%) ed i neurinomi dell’acustico (8%). Solo pochi altri superano valori dell’1% come craniofaringiomi, tumori dermoidi ed epidermoidi ed emangioblastoma (Tab. 23.2). Se si considerano anche le metastasi l’incidenza aumenta notevolmente (5-15 nuovi casi/ anno ogni 100.000 abitanti), considerando che in caso di tumori polmonari, mammari e del sistema digerente, nel 25% dei casi è interessato il SNC (nel 50% dei casi come lesione unica), determinando spesso i primi segni della malattia neoplastica. L’incidenza dei tumori del SNC varia con l’età cui deve essere anche correlata l’incidenza per oncotipo. Tra le fasce di età vi sono due Tabella 23.2 – Incidenza degli oncotipi con le età più caratteristiche. Tipo
Tabella 23.1 – Incidenza dei vari tipi di tumore in base alla sede ed al sesso. Maschio
%
Prostata 32 Polmone 16 Grosso intestino 12 Tratto urinario 9 Leucemie e Linfomi 7 Bocca 3 Cute 3 Stomaco 2 Laringe 1,5 SNC 1,5 Altri 13
Femmina
%
Mammella Polmone Grosso intestino Utero Leucemie e Linfomi Ovaio Tratto urinario Cute Bocca SNC Altri
32 13 13 8 6 4 4 3 2 2 13
%
Età
Gliomi Astrocitomi I-II Astrocitoma pilocitico Glioblastoma e Astrocitoma anaplastico Oligodendroglioma Ependimoma
50% 30% 3% 55%
30-40 10-30 50-60
5% 2,5%
30-50 0-30
Meningiomi Adenomi ipofisari Neurinomi dell’acustico
15% 10% 8%
20-60 30-40
Tumori intraventricolari (vari tipi istologici) 10% Craniofaringioma 2% Dermoidi ed Epidermidi 1% Altri
4%
10-50
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Malattie del sistema nervoso
picchi, tra i 45 ed i 65 anni per i tumori primitivi gliali e tra i 40 ed i 60 anni per i tumori metastatici. Pur non rappresentando il sesso una variabile determinante, vi sono alcuni oncotipi (adenomi ipofisari, meningiomi) con una lieve prevalenza nel sesso femminile. Nonostante alcune patologie ereditarie che rientrano nelle facomatosi (neurofibromatosi di Recklinghausen, sclerosi tuberosa di Bourneville, malattia di Hippel-Lindau) possano associarsi a neoplasie intracerebrali di vario tipo (neurinomi, gliomi, meningiomi, amartomi, emangioblastomi), i tumori endocranici non hanno caratteristiche di ereditarietà anche se nel 15% dei casi può riconoscersi una familiarità neoplastica. Piuttosto rara è anche l’evenienza di multicentricità dei tumori primitivi. Nei bambini i tumori cerebrali hanno un’incidenza relativamente alta; nel 50% dei casi sono maligni. I 2/3 sono a sviluppo sottotentoriale con prevalenza dell’astrocitoma cerebellare che precede con uno scarto minimo il medulloblastoma ed i gliomi del tronco. Tra i tumori sopratentoriali il più comune è l’astrocitoma benigno (13%). ETIOLOGIA La precedente decade ha portato grandi progressi nella conoscenza delle basi genetiche della patogenesi tumorale. Fondamentalmente sono stati identificati due diversi tipi di variazione nell’espressione genetica (delezioni o mutazioni del DNA congenite o in seguito ad insulti ambientali radianti, chimici o virali) che sono considerati eventi primari: la perdita dell’espressione di geni tumore-soppressori (TSGs tumor suppressor genes), come nella neurofiaumento di volume Tumore
bromatosi ed in alcuni gliomi, e la sovra-espressione di oncogeni o l’espressione di forme alterate di oncogeni, come in alcuni gliomi. ASPETTI BIOLOGICI, BIOCHIMICI E FISIOPATOLOGICI Le cellule nervose sono elementi perenni (raggiunta la maturazione funzionale i neuroni perdono la capacità riproduttiva) mentre le cellule gliali mantengono la loro capacità duplicativa. Le caratteristiche peculiari dei tumori del S.N.C. sono: • assenza di metastasi al di fuori del S.N.C. • assenza di linfatici (per cui i prodotti di necrosi non vengono rimossi) • presenza della B.E.E. (Barriera Emato Encefalica) Si devono sempre distinguere una malignità clinica (sede del tumore) ed una malignità istologica (alta cellularità, polimorfismo cellulare, mitosi, necrosi, proliferazioni vasali) da cui dipende la malignità biologica (infiltrante, destruente, recidivante, metastatizzante). Dal punto di vista della replicazione cellulare è importante considerare anche la configurazione spaziale del tumore che può essere definita da tre zone differenti: zona centrale, periferica e B.A.T. (brain adiacent to the tumor) • zona centrale (cellule in attività proliferante e in riposo proliferativo temporaneo o permanente, aree di necrosi) • zona periferica (predominano le cellule in ciclo proliferante, cellule in riposo proliferativo, necrosi scarse) • B.A.T. o zona di tessuto cerebrale sano adiacente al tumore con cellule infiltranti. Le ripercussioni fisiopatologiche definite dalla neoplasia possono essere così condensate:
compressione cerebrale
alterazione della BEE alterazione della dinamica liquorale
edema idrocefalo
ipertensione endocranica
Tumori
BEE e tumori cerebrali La B.E.E. è un’entità anatomo-funzionale costituita dalla giustapposizione delle cellule dell’endotelio capillare e di quelle della glia tra cui è interposta una membrana basale ed ha la funzione di garantire un costante e rigoroso controllo dell’omeostasi delle cellule nervose e di mantenerle in condizioni ottimali di funzionamento. Il tumore altera la B.E.E. con meccanismo diretto ed indiretto e la conseguenza è l’incapacità di discriminare le sostanze filtrate. Nelle zone centrali del tumore si ha una notevole alterazione della funzionalità della B.E.E. con significativa riduzione del flusso ematico. Nelle zone periferiche le alterazioni della B.E.E. sono presenti ma in misura minore e parzialmente ridotti sono il flusso ematico ed il metabolismo glucidico. Nella B.A.T. il flusso ematico ed il metabolismo glucidico sono quasi normali con minime o assenti alterazioni della B.E.E. Edema cerebrale Nonostante la confusione derivante dall’uso impreciso di vari termini (soprattutto nella lingua anglosassone) quali “rigonfiamento cerebrale” (brain swelling), “congestione cerebrale” (brain congestion), “ingorgo cerebrale” (brain engorgement), il termine edema cerebrale in senso stretto è definibile come l’aumento di volume cerebrale secondario all’incremento di acqua e sodio con differente distribuzione nelle varie forme di edema (v. pag. 000). Quando l’edema cerebrale è localizzato e di grado lieve, si associa a scarsa o nulla evidenza di disfunzione cerebrale. Quando è grave, è causa di importanti segni di sofferenza cerebrale focale e/o generale, compresi vari tipi di ernia cerebrale con successivo collasso dei centri del respiro e di circolo. A volte gli effetti dell’edema sono predominanti rispetto ai segni e/o ai sintomi della patologia che l’ha generato.
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L’edema cerebrale accompagna un gran numero di processi patologici che ne determinano la fisiopatologia. In genere si distinguono tre tipi fondamentali di edema: – cellulare o citotossico, caratterizzato da rigonfiamento di tutti gli elementi cellulari (glia, neuroni e cellule endoteliali) con concomitante riduzione dello spazio extracellulare per collasso della pompa del sodio ATP-dipendente e conseguente accumulo intracellulare di Na e quindi di acqua al fine di mantenere l’equilibrio osmotico. Le cause dell’edema citotossico sono: ipossia, iponatremia, secrezione inappropriata di ormone antidiuretico, deplezione sodica acuta, squilibri osmotici della chetoacidosi diabetica o in corso di emodialisi, intossicazioni esogene. – vasogenico, forma di edema più facilmente osservabile nella pratica clinica ed è caratterizzato da un’aumentata permeabilità delle cellule endoteliali dei capillari cerebrali a varie macromolecole con conseguente aumento dell’acqua extracellulare. Questa forma di edema si riscontra in molti quadri morbosi: tumori, traumi, infiammazioni, emorragie e nelle fasi tardive dell’ischemia. – interstiziale (idrocefalico), accumulo extracellulare di fluidi che si osserva in caso di idrocefalo per trasudamento transependimale di liquor dai ventricoli allo spazio periventricolareextracellulare. L’edema che accompagna lo sviluppo dei tumori cerebrali è prevalentemente di tipo vasogenico ed è conseguente ad una lesione della B.E.E. soprattutto a livello della vascolarizzazione tumorale. Nel tessuto peritumorale l’edema si diffonde specialmente nella sostanza bianca e può interferire con il flusso ematico incrementando la pressione intracranica e innescando così una globale riduzione della pressione di perfusione cerebrale. Nei tumori che determinano compromissione del circolo liquorale (tumori in fossa posteriore, tumori della regione pineale, tumori intraventricolari) può esserci anche una quota di edema interstiziale.
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Malattie del sistema nervoso
La terapia farmacologia dell’edema è basata sui glucocorticoidi e sui diuretici osmotici. Altri provvedimenti possibili sono la sottrazione di liquor, la iperventilazione ed il coma barbiturico (in terapia intensiva) e la decompressiva osteo-durale (trattamento chirurgico in caso di edemi “maligni” resistenti ad ogni precedente trattamento) anche se quest’ultimo resta ancora un trattamento controverso. ASPETTI CLINICI Le manifestazioni cliniche sono in relazione alla compressione e/o alla lesione di strutture nervose e variano secondo la sede del tumore (sintomi e segni di lesione focale) e al quadro di ipertensione endocranica. In termini generali tumori a sviluppo lento sono meglio tollerati di tumori a sviluppo rapido, ovviamente in rapporto alla sede e alle strutture limitrofe interessate. Gli accessi epilettici rappresentano anche il 50% dei segni d’esordio di un glioma o di un meningioma. La cefalea può essere considerato il sintomo in assoluto più frequente anche se spesso, in considerazione della sua frequente aspecificità, sottovalutato. È in relazione alle forze tensive che la lesione provoca sulle strutture algogene cerebrali (soprattutto meningi e vasi). Solitamente esordisce in modo banale e fugace per poi aggravarsi progressivamente fino a divenire tenace, sorda e persistente o lancinante. Può essere notturna (tanto da risvegliare il paziente) ma più spesso mattutina e può evolvere con parossismi anche in relazione alla posizione. Spesso può essere accompagnata da nausea e/o vomito. Se alla cefalea e al vomito si associano declino del sensorio e deficit dei nervi cranici, la diagnosi di ipertensione endocranica diventa esplicita. A tali segni ed in genere ai segni di ipertensione endocranica, si possono associare i vari segni e sintomi focali in relazione alla sede della lesione fino a definire le varie sindromi:
– Sindrome rolandica: turbe motorie piramidali con vari gradi di emiparesi controlaterale, crisi epilettiche parziali, motorie o sensitive. – Sindrome frontale: turbe psichiche oltre alla sindrome moriatica, atassia frontale, afasia motoria, turbe sfinteriche, deviazione coniugata omolaterale degli occhi e del capo. – Sindrome del carrefour temporo-occipitale: nell’emisfero dominante afasia amnestica, turbe dello schema corporeo, agrafia, acalculia, aprassia. Nell’emisfero non dominante anosognosia, emisomatoagnosia. – Sindrome temporale: turbe fasiche, quadrantanopsie, crisi epilettiche parziali a sintomatologia complessa, allucinazioni. – Sindrome occipitale: emianopsia laterale omonima controlaterale, disturbi gnosici, allucinazioni visive. – Sindrome talamica: turbe sensitive e motorie controlaterali, turbe psichiche senza evidenti turbe sensitive e motorie, narcolessia, alterazioni termiche, alterazioni del metabolismo. – Sindrome mesencefalica: sindrome di Parinaud, anisocoria, perdita del riflesso pupillare alla luce, paralisi del III nervo cranico, tremori, dismetria controlaterale. – Sindrome pontina: paralisi uni o bilaterale dal V al VII n.c., deviazione dei globi oculari, emiparesi controlaterale, dismetria, tremori, emianestesia controlaterale, anestesia trigeminale omolaterale. – Sindrome bulbare: paralisi della lingua, del velo pendulo, della faringe, delle corde vocali, emiparesi, emianestesia unilaterale o alterna, vertigine, nistagmo, vomito, turbe cardiache. – Sindrome cerebellare: dismetria, ipotonia, disturbi della coordinazione, tremore intenzionale, turbe dell’equilibrio, atassia I caratteri di insorgenza (generalmente lenti nei tumori) consentono in molti casi di fare diagnosi differenziale fra tumori e lesioni vascolari tranne l’eccezione delle emorragie nei tumori.
Tumori
Ipertensione endocranica L’aumento della pressione intracranica causata dal tumore può essere considerato un segno della malattia da cui ha avuto origine e di cui potrebbe rappresentare il segno premonitore più grave ma va anche considerata come sindrome con complicanze proprie che impongono al neurochirurgo decisioni terapeutiche urgenti. Ogni lesione espansiva è suscettibile di creare un’ipertensione endocranica non solo per gli effetti direttamenti legati al suo volume ma anche per gli effetti sul circolo venoso e liquorale (che in forma diversa sono implicati nei meccanismi di compenso) e per la proprietà di indurre edema. La comparsa e l’entità dell’ipertensione endocranica possono tuttavia non avere un rapporto diretto con le dimensioni e/o la malignità della lesione in quanto bisogna anche considerare una terza variabile, definita dalla velocità di accrescimento della lesione o della formazione dell’edema. Lesioni benigne anche piccole (vedi meningiomi) possono creare ipertensione endocranica tardiva per la presenza di importante edema perilesionale che può formarsi in tempi anche lunghi; lesioni maligne (vedi gliomi) possono essere scarsamente edemigene ma acquistare notevole volume in breve tempo e quindi portare ad una sindrome di ipertensione endocranica acuta. I fattori principali per l’istituirsi della sindrome di ipertensione endocranica possono quindi essere così schematizzati: – tipo di lesione, più (alcuni gliomi, meningiomi, metastasi, ascessi) o meno edemigena (alcuni gliomi) – volume della lesione – rapidità di accrescimento della lesione e/ o dell’edema perilesionale – efficacia dei meccanismi di compenso. Il compartimento intracranico è particolarmente vulnerabile in quanto, una volta avvenuta la saldatura delle suture e la chiusura delle fontanelle, i tre elementi incomprimibili, ence-
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falo, sangue e liquor, sono situati all’interno della scatola cranica che è considerato un involucro inestensibile. È stato dimostrato che la variazione di volume di uno dei tre elementi non modifica la pressione intracranica solo a patto che sia compensata da una modificazione di volume in senso opposto di uno o di ambedue gli altri elementi (Teoria di Monroe-Kelly). Se il processo patologico che provoca l’aumento di uno o più d’uno dei tre elementi contenuti nella scatola cranica evolve in modo lentamente progressivo, si ha una sindrome di ipertensione endocranica cronica; se invece l’aumento del contenuto endocranico si verifica in breve tempo, si ha una sindrome di ipertensione endocranica acuta. Nel vecchio e nell’infante vi sono alcuni fattori che permettono un più lungo periodo di compenso; nel vecchio i ventricoli e gli spazi subaracnoidei, a causa dell’atrofia cerebrale, sono più ampi della norma; nell’infante si ha una certa cedevolezza del cranio che ha suture e fontanelle ancora aperte o non completamente saldate. Dal punto di vista fisiopatologico bisogna ricordare che l’aumento della pressione intracranica provoca compressione dei vasi cerebrali, la quale inizia dalle vene e dai piccoli vasi leptomeningei; la compressione arteriolare provoca un aumento delle resistenze vascolari cerebrali con conseguente riduzione del flusso ematico cerebrale. Spesso si hanno gravi alterazioni del microcircolo dovute alla liberazione di sostanze vaso-attive che provocano spasmo vascolare, con conseguente ulteriore ischemia cerebrale, accumulo di cataboliti acidi, edema. Quando i meccanismi di compenso vengono meno e la pressione endocranica aumenta, la massa cerebrale compressa tende a farsi strada nelle uniche direzioni consentitele dalle sepimentazioni della cavità cranica. Si assiste quindi alla formazione di vere e proprie “ernie” di tessuto cerebrale, che nel loro prolasso vanno però a comprimere le strutture con cui vengono in contatto, con conseguente ostacolo alla circolazione ematica e liquorale.
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Malattie del sistema nervoso
Vari sono i segni e sintomi che si possono riscontrare nelle varie fasi della Sindrome di Ipertensione Endocranica: 1) Cefalea: intermittente; continua; mattutina; vaga; localizzata; saltuaria; esacerbata dagli sforzi, dai colpi di tosse; dal torchio addominale; associata a vomito o oscuramento del visus. 2) Vomito: occasionale; capriccioso; più frequente al mattino; concomitante alla cefalea; a getto e non associato a nausea. 3) Papilla da stasi, a volte associata a restringimento del campo visivo. 4) Bradicardia e bradipnea. 5) Alterazione dello stato di coscienza graduale o ad insorgenza acuta 6) Sintomi psichici: modificazione del carattere; irritabilità; apatia; alterazioni dell’umore; riduzione dell’interesse verso l’ambiente; diminuzione della capacità di concentrazione; deficit mnesici; indifferenza; riduzione del rendimento lavorativo. 7) Sindrome psicorganica: decadimento mentale; stato confusionale; disorientamento temporo/spaziale; obnubilazione; sonnolenza. 8) Senso di instabilità e vertigine. 9) Paralisi del VI nervo cranico (abducente): uni- o bilaterale con conseguente strabismo convergente e diplopia. 10) Paralisi del III nervo cranico: unilaterale con midriasi (segno di ernia trans-tentoriale). 11) Singhiozzo. Per poter intraprendere immediati provvedimenti terapeutici al variare della pressione intracranica (PIC), si rende necessario un suo monitoraggio in tempo reale. Questo può essere ottenuto posizionando un trasduttore nello spazio intracranico, collegato ad un monitor sul quale si possa rilevare sia l’onda di pressione che il dato numerico corrispondenti alla PIC del momento. Il trasduttore può essere collocato nello spazio subdurale (dopo craniotomia o foro di trapano), a livello intraparenchimale, o all’interno del sistema ventricolare. Con trasduttori sistemati a livello parenchimale è inoltre possibile la valutazione del flusso ematico regionale
(rCBF) e della temperatura del tessuto cerebrale circostante; con l’impianto intraventricolare si rende invece possibile un’eventuale sottrazione liquorale. La pressione intracranica (PIC), la pressione arteriosa media sistemica (PAM) e la pressione di perfusione cerebrale (PPC) sono correlate come segue: PPC = PAM-PIC È pertanto evidente che a parità di PAM, un aumento della PIC comporta una riduzione della PPC, con turbe e successiva perdita dell’autoregolazione del flusso cerebrale e conseguenti danni ischemici e livello parenchimale. PIC: PPC: PAM:
5-15 mm Hg pari a 100-180 cm H2O (valori fisiologici) 75 mm Hg valore medio; 55 mm Hg valore critico per l’autoregolazione 50/70 – 150/180 mm Hg valori limite per l’autoregolazione
Ernie Cerebrali Le ernie cerebrali interne sono: a) Ernia dei giri retti: nelle lesioni occupanti spazio site in regione frontale anteriore, la parte posteriore dei giri retti può erniare verso la cisterna chiasmatica, con compressione del chiasma, dell’ipotalamo e del II nervo cranico. b) Ernia del girus cinguli o cingolata o sottofalciale: per aumento di volume di un emisfero cerebrale (edema, focolaio contusivo-emorragico, neoplasia etc.) o del contenuto di un emicranio (ematoma epidurale e subdurale), il girus cinguli tende ad insinuarsi al di sotto della falce, con compressione dei rami collaterali dell’arteria cerebrale anteriore contro il margine libero della falce. c) Ernie transtentoriali: si verificano quando una porzione degli emisferi cerebrali tende a farsi strada attraverso il grande forame tentoriale: 1) Ernia della circonvoluzione dell’ippocampo: si forma se la lesione occupante spazio è localizzata in regione temporale; una porzione della circonvoluzione dell’ippocampo si insinua
Tumori
fra il bordo tentoriale ed il tronco dell’encefalo, con conseguente distorsione e compressione del mesencefalo contro il margine tentoriale del lato opposto, compressione e spostamento verso il basso della parte inferiore del talamo, del pavimento del III ventricolo, del mesencefalo e del ponte; conseguenze circolatorie sono rappresentate da stasi per compressione venosa ed ischemia per compressione arteriosa nel tegmento mesencefalo-pontino e nella regione talamica posteriore; si ha inoltre compressione del III nervo cranico omolaterale con conseguente riflesso pupillare torpido e midriasi (anisocoria); si possono osservare anche compressioni a carico dei rami dell’arteria basilare e del tronco dell’arteria cerebrale posteriore. 2) Ernia trastentoriale centrale: si forma quando tutto il sistema diencefalo-talamo-gangli basali viene spinto verso il basso e tende ed erniare attraverso il grande forame tentoriale. d) Ernia delle tonsille cerebellari: si ha quando le tonsille cerebellari, spinte in basso, si insinuano nel forame magno, facendosi strada verso il canale vertebrale; è tipica degli ematomi e dei tumori in fossa cranica posteriore. Una volta discese in basso ed incarcerate nel forame magno, le tonsille comprimono la regione dorso-laterale del bulbo, schiacciato a sua volta contro il clivus ed il margine anteriore del forame magno. e) Ernia transtentoriale cerebellare: per la presenza di un processo occupante spazio in fossa cranica posteriore, il tessuto cerebellare ed il mesencefalo tendono ad erniare verso l’alto attraverso il grande forame tentoriale, con conseguente compressione e distorsione del mesencefalo e del talamo; anche l’arteria cerebellare superiore viene interessata dai fenomeni di compressione. ASPETTI CHIRURGICI Nella grande maggioranza dei casi di tumori cerebrali la terapia è chirurgica anche se le indicazioni chirurgiche sono in relazione all’età,
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all’oncotipo, al quadro clinico, alla sede ed alle dimensioni della lesione (non necessariamente in questo ordine di importanza). Importante è sottolineare che non esiste solamente una malignità istologica ma anche di sede, per cui neoplasie di per sé benigne, possono presentare una “malignità” relativa in considerazione della sede, delle dimensioni e dei rapporti con le strutture vascolari o nervose vicine ed essere quindi difficilmente asportabili “in toto” . I principi della terapia chirurgica nei tumori cerebrali benigni (con i limiti di cui sopra) è la resezione completa rispettando al massimo le aree cerebrali ad alto contenuto funzionale quali ad esempio l’area motoria o l’area del linguaggio e le strutture vascolari. Da considerare, in casi particolari, l’approccio chirurgico in piu’ tempi e/o con vie d’accesso differenti. Le indicazioni chirurgiche nei gliomi maligni, in considerazione della loro prognosi infausta e della frequente impossibilità della resezione completa per le loro caratteristiche infiltranti, nella maggior parte dei casi sono finalizzate al mantenimento di un’adeguata qualità di vita senza peraltro poter influire sulla storia naturale della malattia. Per tale motivo le indicazioni chirurgiche sono solitamente relative e sono soprattutto legate al principio di una riduzione volumetrica come tempo preparatorio alla successiva radio e chemio-terapia. Il trattamento delle recidive è altamente condizionato dalle caratteristiche biologiche del tumore (grado di malignità), dalla sede e soprattutto dalle condizioni cliniche del paziente in rapporto alle possibilità di recupero. Le indicazioni chirurgiche delle metastasi sono legate oltre alle condizioni cliniche, all’età, alla presenza di metastasi extra-craniche e alla possibilità di trattamento della lesione primitiva. La presenza di idrocefalo da blocco delle vie liquorali, soprattutto per tumori in fossa cranica posteriore e quando non si preveda uno sblocco del deflusso liquorale in seguito all’interven-
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Malattie del sistema nervoso
to, richiede spesso una derivazione liquorale (ventricolo-peritoneale od atriale) prima della terapia chirurgica specifica. TERAPIE DI SUPPORTO (RADIO E CHEMIO-TERAPIA, TERAPIA MEDICA) Molte volte la terapia radiante completa il trattamento chirurgico o si sostituisce ad esso in quei casi in cui l’intervento è troppo rischioso od inutile. Per talune lesioni l’uso della radiochirurgia (radioterapia in unica dose strettamente collimata sul bersaglio, di diametro inferiore a 25 mm, erogata con centraggio stereotassico mediante “gamma knife” o acceleratore lineare) può ridimensionare drasticamente od eliminare la massa tumorale ponendosi in alternativa alla chirurgia. Sono tumori sensibili i gliomi, le metastasi, i linfomi, i pinealocitomi, gli adenomi ipofisari, i craniofaringiomi, i sarcomi, i meningiomi maligni. La radioterapia interstiziale trova applicazione per tumori cistici, più raramente in quelli solidi e presenta il vantaggio di somministrare una dose massiccia di radiazione direttamente nella neoplasia, limitando gli effetti sul tessuto circostante. Alcuni recenti progressi fanno supporre un ruolo per agenti chemoterapeutici somministrati in loco (polimeri di BCNU etc.) e per la terapia genica. La chemioterapia trova scarsa applicazione tanne nel caso di gliomi di alto grado, medulloblastoma, metastasi e linfomi. La terapia medica serve a ridurre l’edema, controllare la pressione endocranica, controllare e prevenire crisi convulsive ed eventualmente ridurre la produzione liquorale. I farmaci più impiegati sono il desametazone, il mannitolo, la furosemide, l’acetazolamide, la idantoina, il fenobarbitale o più raramente altri farmaci per il controllo delle crisi convulsive. La terapia antibiotica viene usata perioperatoriamente e per il trattamento delle complicanze settiche.
ASPETTI
DIAGNOSTICI
Neuroradiologia La diagnostica strumentale nella patologia tumorale cerebrale si affida a varie metodiche neuroradiologiche. L’avvento della TC (anni settanta) e successivamente della RM (anni ottanta) hanno reso superate alcune tecniche (ventricolografia, pneumoencefalografia) che sono state abbandonate, mentre altre metodiche datate (Rx diretta, stratigrafia, scintigrafia) rivestono ancora un ruolo anche se limitato a casi molto definiti. In molti casi, per meglio definire i rapporti vascolari, è indicata l’angiografia cerebrale. L’uso della PET e della SPECT (utili per ottenere informazioni riguardanti il metabolismo e la fisiologia cerebrale e dei tumori) potrà essere incrementato solamente con l’aumento del numero delle apparecchiature. Indagini complementari L’esame del campo visivo (per i tumori in vicinanza del chiasma), l’EEG (per lo studio e la monitorizzazione pre e post operatoria delle crisi epilettiche), i Potenziali Evocati e l’Audiometria (per i tumori dell’angolo ponto-cerebellare), l’esame del liquor (a volte per definire la diagnosi di Linfoma o per ricercare cellule metastatiche o particolari markers tumorali nelle neoplasie di origine embrionale), la valutazione ormonale (per i tumori della regione ipofisaria) possono essere esami complementari alla diagnostica neuroradiologica. Biopsia stereotassica Parallelamente ai progressi della neuroradiologia, anche la tecnica e le indicazioni della biopsia stereotassica hanno avuto notevole evoluzione negli ultimi anni.
Tumori
La metodica stereotassica consiste nell’applicare al cranio un sistema rigido di riferimento spaziale (un anello o un parallelepipedo) rispetto al quale è possibile definire tutti i punti dello spazio endocranico non più in maniera approssimativa e descrittiva ma in maniera geometricamente perfetta secondo i tre assi cartesiani. Ciò permette di avere una collimazione tridimensionale della lesione (o di un qualunque bersaglio) visualizzata mediante TC ed identificata rispetto al sistema di riferimento (“casco stereotassico”) anch’esso visualizzato alla TC. Il principale interesse è quello di potere ottenere una diagnosi istologica tutte le volte che l’approccio chirurgico classico è ritenuto inopportuno o potenzialmente non necessario o quando l’intervento è giudicato impossibile. È comunque da considerarsi una tecnica invasiva non esente da complicanze e non sempre risolutiva. ASPETTI PROGNOSTICI I fattori decisivi nella formulazione prognostica sono: • localizzazione (più favorevole nelle lesioni emisferiche) • oncotipo e grading • età • quadro clinico • possibilità di chirurgia radicale. In genere la sopravvivenza media per gli astrocitomi di basso grado è di circa 10 anni con un tasso di sopravvivenza a 5 anni del 65% dei casi. Una eccezione è da considerare la forma pilocitica il cui tasso di guarigione può essere anche del 100%. Nelle forme più anaplastiche il tasso di sopravvivenza scende al 30% a 5 anni. Nonostante tutti i progressi diagnostici e terapeutici, resta ancora drammatica la sopravvivenza dei glioblastomi e delle metastasi che si valuta nell’ordine di pochi mesi. La prognosi è nettamente migliore per i tumori extra-assiali (o extra-parenchimali). Da
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considerare però la possibilità di recidiva in caso di exeresi sub-totale o parziale. CLASSIFICAZIONE Pur non essendoci ancora una universale e omogenea classificazione istologica dei tumori cerebrali, il sistema a tutt’oggi più seguito è quello proposto dalla W.H.O. (World Health Organisation) la cui più recente formulazione risale al 1993 essendo in continuo aggiornamento in relazione all’affinamento delle tecniche istologiche ed immunoistochimiche. Per una migliore comprensione degli istotipi più frequenti, può essere utile una classificazione ridotta. Per una migliore classificazione di malignità, si utilizza il sistema elaborato da C. Daumas-Duport (CDD) detto anche “sistema della Mayo Clinic” che permette una eccellente riproducibilità e che distingue quattro gradi di malignità in relazione alla presenza di quattro diversi parametri: atipie nucleari, mitosi, proliferazione endotelio-capillare, necrosi. • I grado: nessun parametro • II grado: presenza di un parametro • III grado: presenza di due parametri • IV grado: presenza di tre-quattro parametri L’integrazione delle classificazioni WHOCDD e del Labeling Index permette una buona comprensione sia del tipo di tumore sia della sua malignità relativa (Tab. 23.3). Oltre alla classificazione istologica, le neoplasie possono essere definite dalla loro sede: tumori della base, della volta, dell’angolo ponto-cerebellare, sopra e sottotentoriali, intra e/o paraventricolari etc. I paragrafi seguenti saranno dedicati all’esposizione degli aspetti fondamentali per una conoscenza di base dei tumori cerebrali più frequenti dal punto di vista istologico (gliomi, neurinomi, meningiomi, adenomi, metastasi) o caratteristici per sede.
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Malattie del sistema nervoso
Tabella 23.3 - Classificazione W.H.O.: Tumori cerebrali e grading di malignità. Origine
ASTROCITARI
OLIGODENDROGLIALI
EPENDIMALI E DEL PLESSO CORIOIDEO
1. Neuroepiteliali
GLIALI
MISTI
PINEALOCITICI
NEURONALI E NEUROGLIALI
DI
ORIGINE INCERTA
EMBRIONALI
2. Cellule delle guaine dei nervi
Tipo e Varianti
Grading
Astrocitoma (Fibrillare, Protoplasmatico, Gemistocitico) Astrocitoma pilocitico Astrocitoma subependimale Xantoastrocitoma pleiomorfo Glioblastoma multiforme (A cellule giganti, Gliosarcoma) Oligodendroglioma Oligodendroglioma anaplastico
I – II I I II – III IV II III
Ependimoma (Papillare, Cellulare, Epiteliale, a cellule chiare, Tanicitico) Ependimoma anaplastico Ependimoma mixopapillare Subependimoma Papilloma del plesso corioideo Carcinoma del plesso corioideo
I – II III - IV I I I III - IV
Oligo-astrocitoma Oligo-astrocitoma anaplastico
II III
Pineocitoma o Pinealocitoma Pineoblastoma o Pinealoblastoma A differenziazione intermedia
II IV III
Gangliocitoma Ganglioglioma Gangliocitoma anaplastico cerebellare Tumore neuroepiteliale disembrioplastico Ganglioma anaplastico Neurocitoma centrale Liponeurocitoma cerebellare Paraganglioma del filum terminale
I I – II
Astroblastoma Glioma cordoide del III ventricolo Gliomatosi cerebrale
III - IV
PNET – primitive neurpoectodermal tumor (Neuroblastoma, Ganglioneuroblastoma) Medulloblastoma (Desmoplastico, a grandi cellule, Medullomioblastoma, Melanotico) Medulloepitelioma Ependimoblastoma Tumore atipico Teratoide/Rabdoide MPNST - malignant peripheral nerve sheat tumors – (Epitelioide, a differenziazione divergente, Melanotico, Melanotico-psammomatoso) Neurinoma o Schwannoma o Neurilemmoma (Cellulare, Plessiforme, Melanotico) Perineuroma (Intraneurale, Del tessuto molle) Neurogenico
IV IV IV IV
I III - IV
(continua Tabella 23.3)
Tumori
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(continua Tabella 23.3)
Origine
Tipo e Varianti
MENINGOTELIALI
Meningioma (Meningoendoteliomatoso o Endoteliomatoso, Fibroso o Fibroblastico, Transizionale o Misto, Psammomatoso, Angiomatoso, Microcistico, Secretorio, A cellule chiare, Cordoide, Anaplastico, Ricco di linfoplasmaciti, Metaplastico, Papillare, Atipico, Rabdoide)
NON-MENINGOTELIALI BENIGNI
3. Mesenchimali
NON-MENINGOTELIALI MALIGNI
6. Cisti e Lesioni simil-tumorali
Condrosarcoma Leiomiosarcoma Osteosarcoma Istiocitoma fibroso maligno Rabdomiosarcoma Fibrosarcoma Liposarcoma Angiosarcoma Sarcoma Kaposi
MELANOCITICI
Melanocitoma Melanosi diffusa Melanoma maligno (Melanomatosi Meningea)
DI
Emangioblastoma
4. Linfomi e Sistema emopoietico
5. Cellule germinali
Emangioendotelioma Emangioma Ibernoma Condroma Rabdomioma Lipoma Angiolipoma Emangiopericitoma Leiomioma Osteoma Tumore fibroso solitario
ORIGINE INCERTA
Linfoma maligno Plasmocitoma Sarcoma granulocitico Germinoma Carcinoma embrionario Tumore del seno endodermico Coriocarcinoma Teratoma (Maturo, Immaturo) Tumore a cellule germinali miste Cisti della tasca di Rathke Cisti epidermoide o Colesteatoma Cisti dermoide Cisti colloide del III ventricolo Cisti enterogena (o Cisti Neuroenterica) Cisti neurogliale Altre cisti
Grading
I
I
IV
I - IV
I II – III II – III III III III III III
I I I I I I I (continua Tabella 23.3)
1000 Malattie del sistema nervoso (continua Tabella 23.3)
Origine
Tipo e Varianti
Grading
Lipoma 6. Cisti e Lesioni simil-tumorali
Tumore a cellule granulari (o Coristoma o Pituicitoma) Amartoma neuronale ipotalamico Eterotopia gliale nasale
7. Ipofisi anteriore
8. Estensione da tumori locali
Adenoma ipofisario Carcinoma ipofisario Craniofaringioma Paraganglioma o Chemodectoma o Tumore del glomo giugulare Cordoma Condroma Condrosarcoma Carcinoma cistico adenoideo o Cilindroma Neuroblastoma olfattorio o estesioneuroblastoma Altri
I IV
I – II I I III – IV III – IV III - IV
9. Metastasi
Tumori neuroepiteliali (o gliomi) Sono inclusi in questa categoria i tumori che originano da astrociti, oligodendrociti, cellule ependimali, microglia, epitelio dei plessi corioidei, cellule pineali nonché tumori scarsamente differenziati-embrionali e neuronali. I più tipici ed i più comuni sono i gliomi e soprattutto quelli di origine astrocitaria. Seguono gli oligodendrogliomi, gli ependimomi e i gliomi misti. A parte vanno considerati l’astrocitoma del nervo ottico, il glioma ipotalamico e l’astrocitoma del tronco, perché si riscontrano prevalentemente in età pediatrica. I gliomi rappresentano i tumori cerebrali primitivi più frequenti e sono caratterizzati, pur nella loro omogeneità, originando tutti da tessuto neuroepiteliale, da una grande diversità istotipica che ne influenza fortemente la prognosi. Mentre infatti la sopravvivenza in quelli di
Grado I può essere di circa 10 anni (e oltre, in non pochi casi), nelle forme più aggressive (Grado IV) la sopravvivenza è solitamente inferiore ad un anno, con forme ad andamento rapidissimo. Considerazioni generali Cefalea, crisi convulsive, alterazioni psichiche e deficit motori sono i sintomi più frequenti, con percentuali che vanno dal 40% al 70%. Tra questi prevale la cefalea (>70%). Si presenta come sintomo iniziale nel 40% dei pazienti con glioblastoma multiforme (GBM) e nel 35% dei casi di astrocitoma. È prevalentemente mattutina forse per un moderato aumento della CO2 notturna e la conseguente vasodilatazione. Le crisi convulsive possono essere di vario tipo, ma prevalgono, con frequenza pressoché uguale, quelle generalizzate e quelle focali. Le crisi convulsive si osservano spes-
Tumori 1001
so per lungo tempo prima della diagnosi nell’astrocitoma I. Le radiografie standard del cranio sono ormai di importanza limitata dal momento che al massimo mostrano reperti aspecifici indicativi di un aumento della pressione endocranica (erosione ossea, erosione del dorsum sellae etc.) o di spostamento della linea mediana. L’indice di positività in caso di documentati tumori endocranici è solo del 17%. L’indagine più importante (per la sua facile disponibilità e la rapidità di esecuzione) è ovviamente la TC del cranio che può dimostrare aree ipodense, iperdense e commistione di aree ipodense con altre iperdense (oltre all’incremento del tessuto del tessuto tumorale nell’esame con m.d.c.). La RM è più sensibile e specifica rispetto alla TC soprattutto per i gliomi di basso grado senza effetto massa ed ipodensi. Le immagini tipiche sono di ipointensità in T1 e di iperintensità in T2. La distinzione tra edema e tumore, difficile in queste condizioni di base, si risolve con l’uso del mezzo di contrasto paramagnetico (gadolinio) che opacizza la massa tumorale. Le aree cistiche o pseudocistiche sono evidenziabili per il loro aspetto rotondeggiante che risalta con un segnale ipointenso in T1 ed iperintenso in T2. L’angiografia è oramai ristretta ai pochi casi in cui bisogna definire l’anatomia vascolare. Tipico del glioblastoma è l’aspetto ipervascolare con larghi vasi afferenti e rapidi “shunts” arterovenosi. Rispetto alle MAV il calibro dei vasi è più irregolare e la distribuzione è più rada. La PET si sta rivelando un mezzo diagnostico importante per la evidenziazione delle recidive e per la differenziazione con la radionecrosi. Un aumento del metabolismo nell’area tumorale è indice di una recidiva. Il trattamento è di solito chirurgico (per definizione non radicale) ed il trattamento radiante è per ora la sola valida alternativa all’intervento. La terapia frazionata con cobalto o con acceleratore lineare è la più comune metodica di irradiazione. La radiochirurgia stereotassica [terapia radiante concentrata su un bersaglio di
non più di 25 mm. di diametro ottenuto mediante centraggio stereotassico ed utilizzando come fonte ionizzante o un acceleratore lineare o una sorgente di Cobalto multifascio (“Gamma knife”)] risulta più efficace nelle forme circoscritte per la capacità di scaricare la massima energia radiante nei confini della massa neoplastica con rispetto del parenchima circostante. È peraltro possibile l’impianto di radioisotopi direttamente (per via stereotassica) nella massa tumorale. Ciò deve essere sempre considerato nei pazienti in buone condizioni con recidiva, già irradiati e con possibilità di danno neurologico da un nuovo intervento. La mortalità operatoria è del 3%. Nelle forme maligne la terapia radiante aumenta la sopravvivenza, così per il glioblastoma la sopravvivenza post-operatoria media di 4 mesi si allunga a 9,2 mesi con l’irradiazione. A 2 anni l’11% di sopravvivenza degli irradiati si contrappone al più modesto 3% dei non irradiati. La chemioterapia, eventualmente a base di nitrosurea, trova scarsa applicazione. Più di recente, l’introduzione di nuovi chemioterapici efficaci sulle neoplasie cerebrali e con migliore compliance ne ha ampliato le indicazioni. Le recidive dimostrano una maggiore malignità in circa 2/3 degli astrocitomi già al primo episodio. Circa il 33% degli astrocitomi di grado 1 ed il 50% di quelli di grado 2 diventano glioblastomi. I tumori ricorrenti vanno rioperati quando siano di bassa malignità, si verifichino dopo molto tempo ed in pazienti giovani in buone condizioni neurologiche. La sede della neoplasia è da tenere comunque in considerazione. C’è chi è particolarmente aggressivo con le recidive riportando un prolungamento del tempo di sopravvivenza anche per i glioblastomi (4,5 mesi). Molto, naturalmente, dipende dalle condizioni preoperatorie. L’impianto di radioisotopi o di “wafers” caricati con citostatici, specie BCNU, è l’alternativa di scelta nelle recidive di tumori maligni che abbiano già ricevuto un trattamento chirurgico e radiante adeguato.
1002 Malattie del sistema nervoso
Il problema più delicato nella classificazione dei gliomi è costituito dalla corretta differenziazione delle forme cosiddette benigne da quelle maligne e quindi della definizione di criteri prognostici affidabili. Una classificazione semplificata dei tumori neuroepiteliali può essere così definita: ASTROCITOMA (propriamente detto) e relative FORME ANAPLASTICHE (compreso il Glioblastoma), Astrocitoma pilocitico OLIGODENDROGLIOMA e sua forma anaplastica, Oligo-astrocitoma EPENDIMOMA e sua forma anaplastica PAPILLOMA DEL PLESSO CORIOIDEO e sua forma anaplastica SCARSAMENTE DIFFERENZIATI ED EMBRIONALI, Medulloblastoma PINEOCITOMA E PINEOBLASTOMA Forme più rare: Astroblastoma, Astrocitoma a cellule subependimali giganti, Gliomatosi cerebrale, Medulloepitelioma, Spongioblastoma polare primitivo, Gangliocitoma, Ganglioglioma, Neuroblastoma
Astrocitomi Sono relativamente frequenti costituendo il 515% dei tumori cranici ed il 30% circa dei gliomi venendo subito dopo il Glioblastoma. Hanno il massimo dell’incidenza tra la III e la IV decade di vita. Nell’adulto prevalgono le forme emisferiche sopratentoriali (Fig. 23.1 AB). In media la durata dei sintomi è di 21 mesi per quelli di basso grado e si dimezza per quelli di grado II. I sintomi più frequenti sono nell’ordine, la comizialità e la cefalea, i deficit focali ed i segni di ipertensione endocranica. Sono tumori comunque infiltranti e tendono quindi sempre a recidivare. Solitamente l’accrescimento è lento (Fig. 23.2) permettendo in molti casi (in relazione ai vari fattori prognostici) di porre indicazione chirurgica differita, ma in ogni momento della storia della malattia è possibile
Fig. 23.1 - Astrocitoma di basso grado frontale paramediano dx. RM SE-T1, A) s. sagittale; B) s. assiale. Ampia area di ipointensità che non incrementa dopo contrasto.
la progressione verso l’anaplasia e quindi un quadro clinico anche rapidamente ingravescente. Istologicamente possono essere suddivisi in Fibrillare, Protoplasmatico, Gemistocitico e misti. Le forme anaplastiche sono caratterizzate da un’evoluzione più rapida ed hanno una prognosi chiaramente peggiore (Fig. 23.3 A-B). In considerazione della loro diversa età di maggior incidenza e della sede preferenzialmente sottotentoriale, nonché della loro evolu-
Tumori 1003
Fig. 23.2 - Astrocitoma di basso grado temporale sin., scoperto occasionalmente. RM con mdc SE-T1, s. assiale. In sede temporale sinistra si evidenzia un’area sferica di ipointensità che non assume contrasto, a margini molto regolari, senza effetto massa significativo.
zione più benigna, a parte devono essere considerati gli Astrocitomi Pilocitici (Fig. 23.4). Sono prevalentemente tumori giovanili e soli-
Fig. 23.3 - A) Astrocitoma di basso grado. Si rileva una cellularità di media densità con lievi atipie cellulari e cellule gemistocitiche B) Astrocitoma IV. Si evidenzia una cellularità a media densità, con presenza di isolate cellule fortemente atipiche.
Sommario ASTROCITOMI (I-II) Incidenza: 5% circa dei tumori cerebrali primitivi, 30% circa dei glomi Età media di insorgenza: 40 anni, soprattutto maschi Sede: emisferi cerebrali (frontale 40%, temporale 25%, parietale 25%), ma anche talamo e tronco (10%) Clinica: cefalea e comizialità (65%), segni di ipertensione endocranica (40%), deficit comportamentali (15%), deficit focali (10%) Aspetto TC-RM: area solitamente omogenea ipo-isodensa (ipo-isointensa alla RM), margini parzialmente definiti, non significativo effetto massa e/o edema, raro ce (contrast-enhancement o presa di contrasto) Patologia: originano dall’astroglia, la forma mista è più frequente delle varianti pure (fibrillare, protoplasmatico, gemistocitico), scarsa cellularità, assente pleiomorfismo nucleare, assenza di proliferazione vascolare, rare necrosi ed emorragie, cellule tumorali isolate nel parenchima “sano” contiguo alla lesione, accrescimento lento, infiltrante ed espansivo Trattamento: chirurgico (differibile anche per molti anni, in relazione alla sede ed al quadro clinico), exeresi spesso incompleta, radioterapia controversa, no chemioterapia Outcome: sopravvivenza media 4 anni circa, a 5 anni 30 % circa Commenti: in caso di recidiva la progressione verso l’anaplasia può raggiungere anche l’85% dei casi, la prognosi è in relazione all’estensione dell’exeresi, all’età, al quadro clinico e alla sede Diagnosi differenziale: rammollimenti, epidermoidi, cisti aracnoidee, metastasi, ascessi
1004 Malattie del sistema nervoso Sommario ASTROCITOMI
ANAPLASTICI
(III)
Incidenza: 5% circa dei tumori cerebrali primitivi, 15% circa dei gliomi Età media di insorgenza: 45 anni, soprattutto maschi Sede e Clinica: simili agli Astrocitomi di basso grado Aspetto TC-RM: iso-ipodensità disomogenea, ce positivo in più dell’80% dei casi, margini frequentemente poco definiti, segni di effetto massa ed edema Patologia: moderata ipercellularità, moderato pleomorfismo cellulare e nucleare, aree anaplastiche focali, possibili necrosi ed emorragie, neovascolarizzazione, accrescimento infiltrante e destruente Trattamento: chirurgico, radioterapia e chemioterapia Outcome: sopravvivenza dopo chirurgia-radioterapia-chemioterapia a 2 anni 50% circa, a 5 anni 20% circa Commenti: vedi Astrocitomi
Sommario ASTROCITOMA
PILOCITICO
(I)
Incidenza: 5% circa dei tumori primitivi in età giovanile, 2% circa dei gliomi Età media di insorgenza: 13 anni circa, nessuna evidente prevalenza di sesso Sede: prevalentemente cerebellare ma anche chiasma ed emisferi cerebrali Clinica: in quelli sottotentoriali prevalgono i segni cerebellari e di ipertensione endocranica (soprattutto in relazione all’idrocefalo), deficit visivo-campimetrici, comizialità e deficit focali per le altre sedi Aspetto TC-RM: prevalentemente ipodenso-ipointenso con nodulo murale e cercine periferico con ce, frequentemente cistico, con rare calcificazioni Patologia: moderata cellularità, assenti le mitosi, frequenti aree cistiche o macro-cisti, possibili emorragie Trattamento: chirurgico, asportazione totale frequentemente ottenibile, RT controversa e comunque solo dopo exeresi incompleta Commenti: guarigione completa in caso di asportazione completa, sopravvivenza a 20 anni del 50% se exeresi subtotale
tamente (soprattutto per quelli cerebellari) completamente asportabili garantendo una guarigione completa. Nelle forme chiasmatiche e ipotalamiche la rimozione può non essere totale e ancora controversa è l’efficacia della RT e CT.
Glioblastomi
Fig. 23.4 - Astrocitoma pilocitico in sede paraventricolare sin (III ventricolo). RM con mdc SE-T1, s. coronale. Si nota un nucleo fortemente iperintenso che assume intensamente contrasto associato ad una quota cistica.
È la forma di glioma più maligno con una prognosi invariabilmente infausta e purtroppo è la forma tumorale più frequente in ambito encefalico. La sede è la più variabile potendo presentarsi in un qualunque punto del SNC (Fig. 23.5 A-B). Nonostante la loro dimostrata capacità a metastatizzare attraverso il sistema liquorale, la loro evoluzione clinica è talmente rapida che solo in una piccola percentuale di casi le meta-
Tumori 1005 A
B
Fig. 23.5 Glioblastoma multiforme frontale sinistro. RM con mdc SE-T1, A) s. sagittale, B) s. coronale. In regione frontale sinistra si rileva un’estesa area di disomogenea iperintesità che assume contrasto e con un’ampia quota cistico-necrotica al suo interno. Sommario GLIOBLASTOMI (IV) Incidenza: 25% circa dei tumori cerebrali primitivi, fino al 50% dei gliomi Età media di insorgenza: 50 anni, soprattutto maschi Sede: simile agli Astrocitomi Clinica: prevalgono i segni di ipertensione endocranica, i deficit motori, meno frequente l’epilessia Aspetto TC-RM: molto disomogeneo, ce positivo, margini indistinti Patologia: alta cellularità e pleomorfismo citoplasmatico e/o nucleare, proliferazione vascolare, aree di necrosi ed emorragiche Trattamento: chirurgico in casi selezionati, utile RT e CT Commenti: accrescimento rapido, infiltrante e destruente, prognosi invariabilmente infausta (mesi) con alcune sopravvivenze a distanza (10% a due anni) nei casi più favorevoli per sede, estensione, quadro clinico, età e dopo ciclo terapeutico completo. La diagnosi differenziale neuroradiologica con le metastasi a volte può essere difficile
stasi danno segni clinici. Appare carnoso, di colorito grigiastro, con aree necrotiche variegate di rosso, bruno e giallastro. In genere è molto vascolarizzato, per la presenza di vasi anomali indotti da un fattore di crescita espresso dalle cellule tumorali. L’aspetto istopatologico caratteristico è l’addensamento cellulare a “palizzata” al confine delle aree di necrosi (Fig. 23.6). Diffonde lungo i fasci di fibre, da cui il classico aspetto a farfalla quando si estende attraverso il corpo calloso nell’emisfero controlaterale. Spesso induce una reazione connettivale, talora con proliferazione fibroblastica di tipo tumo-
Fig. 23.6 - Glioblastoma multiforme. Cellularità polimorfa, atipica, con presenza di spiccata anaplasia, gigantismi nucleari.
1006 Malattie del sistema nervoso
Fig. 23.7 - Oligodendroglioma in sede rolandica sinistra. TC senza mdc (A) e dopo mdc (B). Si osserva la caratteristica calcificazione in sede sottocorticale circondata da un’area di tenue ipodensità, che non assume mezzo di contrasto.
rale. Altre rare volte può apparire eccessivamente soffice simulando un linfoma od un rammollimento cerebrale.
Oligodendroglioma L’oligodendroglioma costituisce il 5% dei tumori gliali e origina dalla oligodendroglia. Si sviluppa prevalentemente nella sostanza bianca a livello dei lobi frontali (50%), mentre è raro nel cervelletto, nel tronco cerebrale o nel midollo spinale (Fig. 23.7 A-B). È un tumore a lento accrescimento ma infiltrante e può simulare un astrocitoma. All’esame istologico anche estemporaneo presenta però caratteristiche granulazioni calcifiche microscopiche (73%). All’esame istologico tipico (Fig. 23.8) è l’ alone chiaro perinucleare (un artefatto dovuto alla fissazione) che mette in risalto i nuclei (aspetto ad “uovo fritto”). Si tratta di solito di giovani adulti. Si caratterizza per l’alta incidenza di convulsioni (86%), nel 36% di tipo generalizzato. Seguono nell’ordine alterazioni psichiche (38%), cefalea (23%) ed emiparesi. L’esame obiettivo
rivela la presenza di emiparesi nel 58% dei casi. Alterazioni dei nervi cranici, papilledema e disturbi psichici si riscontrano rispettivamente nel 42%, 50% e 53%. L’esame radiografico standard rivela calcificazioni intracraniche in oltre la metà dei casi. L’esame principale è la RM, nettamente superiore alla TC soprattutto per la migliore definizione della massa neoplastica e per la definizione del contesto tissutale. Sia alla RM che alla TC risalta la disomogeneità della massa con grossolane aree calcifiche granulari (l’elemen-
Fig. 23.8 - Oligodendroglioma. Tipiche cellule a citoplasma chiaro non colorabile, nucleo di piccola taglia linfocito-simile, pattern ad alveare.
Tumori 1007 Sommario OLIGODENDROGLIOMI Incidenza: 5% circa dei gliomi Età media di insorgenza: 45 anni Sede: solitamente emisferici, soprattutto frontali, temporali e parietali, rare le forme occipitali Clinica: crisi epilettiche, cefalea ma anche turbe comportamentali, deficit visivi, deficit di forza Aspetto TC-RM: iso-ipodenso alla TC, iso-ipointensa alla RM, con frequenti aree calcifiche, aspetti involutivi solitamente nelle forme anaplastiche Trattamento: chirurgico, radioterapia in caso di asportazione parziale Commenti; progressione verso l’anaplasia nel 50% delle recidive, a 5 anni sopravvivenza del 50% circa dei casi, a 10 anni dal 25-30%
to distintivo del tumore). Dal punto di vista angiografico non si riscontrano peculiarità. Il trattamento anche in questo caso è chirurgico. È da ribadire l’importanza della copertura antiepilettica pre e post-operatoria. Le recidive tendono a mostrare una maggiore malignità nel 50% dei casi; il 20% degenera in glioblastoma.
Ependimoma Origina dall’ependima e si sviluppa in rapporto coi ventricoli, il canale midollare o il filum terminale. La superficie di impianto sulla parete ventricolare è di solito ampia. La grande maggioranza (75%) è a sviluppo sottotentoriale (Fig. 23.9 A-B-C) e solo il 25% è a sviluppo sopratentoriale. Nei bambini si sviluppa tipicamente nel 4o ventricolo ed aderisce al tronco cerebrale. Le forme spinali si osservano soprattutto nell’adulto a livello del filum terminale. Si riconoscono 2 tipi fondamentali: la forma classica e la forma
mixopapillare del filum terminale. La forma classica si presenta nelle varie fasi di differenziazione dalla più benigna alla più maligna. È possibile ma rara una disseminazione metastatica attraverso le vie liquorali. Non esistono forme mixopapillari anaplastiche. Le manifestazioni cliniche sono aspecifiche. Prevalgono i segni focali (tardivi) nelle localizzazioni sopratentoriali, i segni di ipertensione endocranica nelle forme infratentoriali. La diagnosi si basa su TC ed RM. Il primo elemento diagnostico è la localizzazione: 4o ventricolo nei bambini, ventricoli laterali o 3o ventricolo ma affondato negli emisferi nella più rara forma dell’adulto. Alla TC si presentano come una massa di ipodensità che si impregna di contrasto omogeneamente ma modicamente. La terapia è chirurgica. Per le forme di grado 2 e 3 dovrà seguire un ciclo di radioterapia. Quando la rimozione sia stata totale o subtotale con irradiazione post-operatoria, la sopravvivenza a 5 anni è dell’80% per le forme sopratentoriali e del 90% per le forme sottotentoriali.
Sommario EPENDIMOMI Incidenza: 4% circa dei gliomi Età media di insorgenza: 25 anni Sede: intraventricolare con possibile estensione parenchimale Clinica: cefalea, nausea, vomito ma anche sintomi cerebellari e segni di idrocefalo acuto Aspetto TC-RM: densità-intensità miste, c.e. positivo, possibile riscontro di calcificazioni e cisti Trattamento: chirurgico, radio e chemioterapia post-chirurgica Commenti; fino all’80% di sopravvivenza a 5 anni, possibili recidive con viraggio alla malignità
1008 Malattie del sistema nervoso
Fig. 23.9 - Ependimoma del IV ventricolo. RM con mdc SET1, A) s. sagittale, B) s. coronale, C) s. assiale. Formazione prevalentemente cistica con parete che assume intensamente m.d.c., che occupa la parte inferiore del IV ventricolo, che appare dilatato, con una quota aggettante nella cisterna magna.
Le recidive sono suscettibili di reintervento anche quando il tumore mostri caratteri di accentuata malignità, a condizione che il paziente sia in buone condizioni neurologiche.
Gliomi in età pediatrica Astrocitoma cerebellare È una variante astrocitaria benigna caratterizzata dall’aspetto spesso cistico, con nodulo murale nel 50%, ed un’età di incidenza più bassa rispetto al resto degli astrocitomi; infatti è tipico dei bambini. Costituisce il 12% dei tumori pedia-
trici, ed 1/3 di quelli in fossa cranica posteriore. L’esordio clinico è tardivo e la progressione lenta. Il liquido cistico è proteinaceo, appena più denso rispetto al liquor. Le forme nodulari sono caratterizzate da una parete cistica non neoplastica, le forme non nodulari hanno invece una parete neoplastica con scarse cellule tumorali, che assume contrasto alla TC ed alla RM. Si distinguono due tipi, un tipo A caratterizzato dalla presenza di fibre di Rosenthal, microcisti, depositi leptomeningei e foci di oligodendroglia, un tipo B da pseudorosette, alta densità cellulare, mitosi e calcificazioni. La terapia è chirurgica, limitata al solo nodulo nelle forme nodulari, alla rimozione della cisti nelle forme cistiche, in cui la parete si impregna alla CT o RM. La sopravvivenza a 10 anni è alta raggiungendo il 94% nel tipo A e il 29% nel tipo B. La radioterapia è riservata alle forme ricorrenti con chiara componente maligna.
Tumori 1009
Gliomi del tronco cerebrale Sono tumori rari nell’adulto, ma rappresentano oltre il 10% dei tumori intracranici pediatrici con un’età di massima incidenza tra i 3 ed i 9 anni, senza predilezione di sesso. Il ponte è il sito di origine più frequente. Il tumore causa di solito un ingrossamento diffuso del tronco, talora asimmetrico. L’estensione attraverso i fasci di fibre in direzione craniale, caudale o dorsale verso il cervelletto è comune. L’espansione della massa tumorale produce noduli esofitici verso il 4o ventricolo ed il clivus inglobando o dislocando la basilare, o l’angolo ponto-cerebellare. Molto spesso questo tipo di tumore degenera in una forma più maligna. Il 60-70% presenta aspetti emorragici, necrotici o pleomorfi tipici del glioblastoma. Dal punto di vista clinico si manifestano con una compromissione delle vie sensitive e motorie contemporaneamente alla presenza di deficit cerebellari e dei nervi cranici della regione (in ordine di frequenza: VII, VI, IX e V). Il sintomo più frequente è l’alterazione della deambulazione, cui segue la diplopia. I disturbi fasici e della deglutizione sono tardivi. Il deficit del VII è bilaterale nel 25% dei casi. Le alterazioni oculari consistono in nistagmo, per lo più orizzontale, paresi, per lo più nello sguardo laterale. Una lenta progressione dei sintomi e l’assenza di compromissione dei nervi cranici depongono per la benignità della neoplasia. La sensibilità della TC in questa sede è piuttosto limitata. Ovviamente la RM permette uno studio più accurato sui tre piani e con maggiori dettagli morfostrutturali. La differenziazione dalle malformazioni artero-venose, l’encefalomielopatia necrotizzante subacuta, l’ematoma, il tubercoloma e la cisti epidermoide è talora difficile. Sono lesioni difficilmente operabili. Spesso ci si limita ad una resezione parziale della quota esofitica extrassiale o nel 4o ventricolo. L’intervento è favorito dalla presenza di componenti
cistiche. Nella maggior parte dei casi è indicato il solo trattamento radiante. La morbidità conseguente a biopsia stereotassica raggiunge il 40%. La sopravvivenza media dall’inizio dei sintomi è di 4-10 mesi e di 49 mesi, rispettivamente per lesioni poco differenziate o ben differenziate. La radioterapia migliora il quadro clinico con una percentuale di sopravvivenza a 5 anni del 20-30%. Il trattamento radiante delle recidive non è indicato. Una quota minore, nei bambini, si caratterizza per l’uniformità istologica, l’impregnazione netta alla TC con eventuale area cistica e per la netta demarcazione che ne favorisce l’asportazione totale con lunghe sopravvivenze. I risultati sono migliori per le lesioni mesencefaliche.
Medulloblastoma Rappresenta il 7% dei tumori cerebrali, ma è tipico dell’età pediatrica, incidendo per 1/3 sui tumori della fossa cranica posteriore. L’incidenza massima è nella prima decade di vita, prevalendo nei maschi (2:1). Origina da cellule neuroepiteliali sul tetto del IV ventricolo, senza infiltrare il pavimento, ma diffondendo negli spazi sub-aracnoidei circostanti (Fig. 23.10). L’idrocefalo è molto comune, con cefalea, nausea, vomito ed atassia a completare il quadro. La TC mostra una lesione ipo o iperintensa. La RM mostra invece una lesione di basso segnale in T1, ma di alto segnale in T2 e soprattutto rivela la presenza di metastasi “a goccia” lungo gli spazi subaracnoidei anche spinali. Il trattamento di scelta è chirurgico. Il tumore è di per sé molle e facilmente asportabile, ma talora aderisce al pavimento del IV e richiede cautela. Il trattamento radioterapico deve consolidare il risultato chirurgico, soprattutto in presenza di metastasi a goccia. Quando si consideri l’irradiazione per bambini sotto i 3 anni, le dosi vanno ridotte del 20-25%. La chemioterapia è
1010 Malattie del sistema nervoso
Fig. 23.10 - Medulloblastoma. Cellularità monomorfa, stipata, con nuclei ad aspetto blastico, vasi esili e frequenti.
molto efficace ed è indicata in tutti i casi, soprattutto in caso di recidive tumorali. La sopravvivenza a 5 anni supera il 65%, in caso di metastasi il 50%. Dopo un eventuale reintervento, il 50% vive oltre i 2 anni.
Gliomi ottico-chiasmatici ed ipotalamici dell’infanzia I gliomi delle vie ottiche sono rari, si verificano nel 75% dei casi prima dei 12 anni, con un'incidenza di circa il 3% sul totale delle neoplasie cerebrali in età pediatrica. Spesso (60%) si estendono a chiasma ed ipotalamo. Il sintomo fondamentale è il calo del visus, ma la disfunzione ipotalamica complica quasi invariabilmente il quadro clinico. Statisticamente risulta un calo del visus nel 29%, cefalea nel 23%, ritardo nella crescita nel 20%, nausea e vomito nel 14%, anormalità dei movimenti oculari nel 14%, e disfunzione endocrina nel 14%. L’esame neurologico conferma la rilevanza dei deficit visivi manifesti con calo del visus, alterazioni campimetriche (33%), atrofia ottica. Seguono deficit della motilità oculare, sindrome diencefalica, anomalie endocrine (21%
ognuno) atassia e papilledema (rispettivamente nel 4 e 9%). Le anomalie endocrine più frequentemente osservate sono un deficit di ormone della crescita (24%), pubertà precoce (20%) ritardo della pubertà (12%), ed altri (32%). L’idrocefalo è presente nel 60% dei casi e nell’85% richiede uno shunt. La diagnosi avviene di solito nei primi 5 anni di vita, quando il tumore ha già un diametro di parecchi centimetri e coinvolge le strutture mediane profonde. Il decorso clinico è variabile, talora con una progressione lenta nel corso di molti anni, talora con un'aggressività rapidamente mortale. Recentemente si è visto che vi è una correlazione tra età, decorso clinico e prognosi. I tumori della prima infanzia (fino ad un anno) si manifestano in genere con macrocefalia, difficoltà della crescita e severo deficit visivo. Da 1 a 5 anni vi è soprattutto pubertà precoce, ed infine, al di sopra dei 5 anni, predominano le alterazioni visive. In assoluto le alterazioni visive sono le più frequenti, non solo per il calo del visus, ma anche per le alterazioni campimetriche e della motilità oculare. Nel 40% dei casi si ha una sindrome diencefalica e più raramente (20-30%) si osservano convulsioni ed alterazioni del comportamento. La radiografia standard del cranio dimostra di solito alterazioni sellari, per erosione delle clinoidi anteriori, con sella a “J” coricata. La TC dimostra una lesione isodensa o leggermente iperdensa che però si demarca con la somministrazione di contrasto e talora presenta calcificazioni globulari. La RM va sempre praticata, per valutare l’estensione verso i nervi ottici ed il rapporto col diencefalo. Inoltre si evidenzia bene il rapporto con i vasi, rendendo inutile l’angiografia. La diagnosi differenziale include il craniofaringioma, il tumore a cellule germinali ed il papilloma dei plessi coroidei. I tumori di piccole dimensioni asintomatici vanno seguiti clinicamente prima di iniziare
Tumori 1011
qualsiasi trattamento fino a che non vi sia una chiara espansione volumetrica o non compaiano sintomi. La prognosi tende ad essere migliore per i pazienti con neurofibromatosi. Il tumore ipotalamico è in genere più piccolo e delimitato e spesso rimane di volume costante nel tempo. In questo caso non vi è indicazione al trattamento. La probabilità di una progressione tumorale è di circa il 50% a 5 anni. Esistono 3 indicazioni all’intervento: prelievo di tessuto tumorale per la diagnosi, riduzione della massa tumorale e trattamento dell’idrocefalo. Il quadro istologico prevalente è quello di astrocitoma pilocitico (37%) o di astrocitoma moderatamente anaplastico (49%). Solo raramente si riscontra una marcata anaplasia o un altro glioma. La lesione può essere classificata in rapporto all’estensione: T1 se limitata ad un nervo ottico, T2 se interessa entrambi i nervi, T3 se è estesa al chiasma ed infine T4, se la lesione invade l’ipotalamo. Nei bambini al di sotto dell’anno il tumore è grande ed invade l’ipotalamo precocemente nel corso della malattia. Nei bambini più grandi il tumore si localizza prevalentemente a livello del nervo ottico e del chiasma con una crescita molto lenta ed una prognosi relativamente buona per la sopravvivenza. Una resezione radicale allunga il corso della malattia ed in alcuni casi comporta una guarigione completa. Eventualmente anche le ricorrenze sono da trattare chirurgicamente in associazione, qualora ciò non basti, alla chemioterapia ed alla radioterapia. La radioterapia da sola è inefficace ed il tumore progredisce in oltre il 50% dei casi. Inoltre bisogna considerare gli effetti collaterali delle radiazioni (soprattutto nel primo anno di vita): l’alta incidenza di ritardo intellettuale, calcificazioni cerebrali progressive, occlusioni vascolari con conseguenti aree infartuali, ed infine Moya-Moya.
Le probabilità di sopravvivenza a distanza sono maggiori per i gliomi confinati al nervo ottico (44% a 19 anni contro 85% a 17 anni).
Tumori delle guaine dei nervi Il più frequente è il neurinoma dell’VIII nervo cranico mentre i neurofibromi (solitamente facenti parte della neurofibromatosi di Recklinghausen) sono rari.
Neurinoma dell’acustico È un tumore benigno, a lento accrescimento e non invasivo, con un’incidenza del 5% sui tumori intracranici primitivi. Si sviluppa in rapporto al canale acustico (Fig. 23.11 A-B-C), il 95% dei casi direttamente nel canale originando dalle cellule di Schwann (Fig. 23.12), alla giunzione tra mielina centrale e periferica e poi si espande verso l’angolo ponto-cerebellare, allargando il forame acustico. Nel 66% origina dal nervo vestibolare, quasi sempre la divisione superiore. È unilaterale in oltre il 95% dei casi, ma può essere bilaterale. Clinicamente si presenta con perdita dell’udito, lentamente progressiva, senza remissioni (al contrario della sindrome di Ménière), alterazione della discriminazione verbale, specialmente rivelata al telefono, e tinnitus a tonalità acuta. Con la crescita del tumore (oltre i 2 cm) compaiono cefalea, parestesie facciali da compressione del V e da ultimo paresi faciale, per una maggiore resistenza delle fibre motorie del VII rispetto alle sensitive del V. Solo in una terza fase, per espansione della massa tumorale, si osservano i segni di compressione sul tronco (atassia, cefalea, nausea, vomito, diplopia), sul cervelletto (dismetria etc.) e sui nervi misti (IX, X e XII con raucedine e disfagia). La comparsa dell’idrocefalo suggerisce il superamento dei 4 cm di diametro. L’esame neurologico rivela il solo deficit dell’VIII nel 66% dei casi. Seguono nell’ordi-
1012 Malattie del sistema nervoso
Fig. 23.11 - Neurinoma dell’VIII nervo cranico di dx. RM con mdc SE-T1, A) s. assiale, B) s. coronale, C) s. sagittale. Nella regione dell’angolo ponto-cerebellare di dx è evidente una formazione di forma sferica, che assume intensamente contrasto e che occupa la cisterna, comprime parzialmente il ponte e si sviluppa in direzione del canale acustico interno che è dilatato.
Fig. 23.12 - Schwannoma. Aspetto vorticoso, cellule allungate, vasi a parete jalinizzata
ne: alterazione del riflesso corneale 33%, nistagmo 26%, ipoestesia faciale 26%, deficit del VII 12% e deficit dell’oculomozione nel 10%. Gli esami audio-vestibolari servono ad obiettivare la funzionalità del nervo per una valutazione comparata pre e post-operatoria, e sono rilevanti per la diagnosi precoce, quando il tumore è intracanalicolare. La RM dimostra bene il tumore già nella fase intracanalicolare con una sensibilità del 98%. Con il mezzo di contrasto il tumore si impregna marcatamente ed è possibile evidenziare l’estensione intracanalicolare anche in assenza di
Tumori 1013
allargamento del foro acustico. La TC ha una risoluzione minore rispetto alla RM, ma può rilevare con più chiarezza l’allargamento del canale acustico e la pneumatizzazione delle cellule mastoidee, utile nella programmazione dell’approccio. La lesione appare anche in questo caso eterogenea, ipo o isointensa, con netta impregnazione contrastografica. Vanno operati i tumori di diametro superiore ai 3 cm, e quelli di diametro inferiore, anche piccolissimi, nei pazienti giovani in cui si voglia preservare l’udito (sono ritenuti funzionali valori percettivi tonali sotto i 50 dB, ed un capacità discriminativa verbale superiore al 50%). La possibilità di preservare l’udito è correlata alla dimensione del tumore, mentre solitamente è più concreta la possibilità di risparmiare il faciale. Negli altri casi, specie nelle persone anziane o ad alto rischio anestesiologico bisogna considerare che il tumore cresce lentamente, si osser-
va una riduzione spontanea di volume nel 6% dei casi, e le probabilità di preservare l’udito dal lato interessato sono basse. In questi casi si richiede un periodico follow-up con RM (ed esame audiometrico se un udito funzionante è presente). La radiochirurgia stereotassica con l’acceleratore lineare o il gamma knife rappresenta una valida alternativa terapeutica, specie per tumori di piccoli dimensioni ed in pazienti ad alto rischio chirurgico.
Altri Tumori È qui opportuno ricordare brevemente che l’angolo ponto-cerebellare non è sede esclusiva del neurinoma dell’acustico ma può essere sede di svariati tipi di tumore con cui a volte puo’ essere difficile la diagnosi differenziale. Tali tumori possono essere così schematizzati:
Lesioni
Caratteristiche salienti
Neurinoma (schwannoma) dell’ VIII
Rappresenta il 70-80% dei tumori dell’angolo, più frequente nelle donne tra i 40 ed i 50 anni. La perdita progressiva dell’udito è presente nel 98% dei pazienti. Un sintomo precoce è il tinnito con senso di instabilità, senza vertigini rotatorie. Bilaterale nel 5% dei casi.
Schwannoma degli altri nervi cranici
I più comuni sono quelli del V e del VII. Quello del V comporta dolore costante e bruciante (non accessuale come nella nevralgia tipica) e deficit sensitivo. Quello del VII origina per il 50% dalla porzione intrapetrosa. Si associa a deficit faciale o a spasmo; se a livello del ganglio genicolato comporta deficit della secrezione lacrimale; se prossimale alla corda del timpano provoca alterazioni del gusto. Quello del glossofaringeo comporta raucedine.
Meningioma
Il 30-52% dei tumori della fossa c. posteriore, ma solo il 3-12% dei tumori dell’angolo. La maggior parte origina anteriormente al meato acustico e comporta deficit del VII.
Epidermoidi
2-6% dei tumori dell’angolo, crescono lentamente e i deficit sono tardivi.
Cisti aracnoidee
L’1% delle lesioni dell’angolo, si manifestano con vertigini, parestesie e spasmo faciale.
Lipomi
Non dolenti, una resezione parziale è sufficiente.
Tumori glomici
Originano dall’orecchio medio, sono molto vascolarizzati e possono avere una notevole componente intracranica.
Altri e lesioni vascolari
Gliomi del tronco cerebrale a crescita esofitica verso l’angolo e metastasi. Le lesioni vascolari, AVM ed aneurismi non superano l’1% delle lesioni dell’angolo
1014 Malattie del sistema nervoso
Meningiomi Originano dalle cellule aracnoidali con un’età di massima incidenza tra i 20 ed i 60 anni (picco a 40 anni). Rappresentano il 30% dei tumori cerebrali ed il 25% dei tumori spinali. Il loro aumento percentuale rispetto all’era pre-TC è dovuto essenzialmente all’aumento della vita media e all’affinamento delle tecniche diagnostiche (TC e RM). Prevalgono nel sesso femminile con un rapporto di 3:1, che aumenta ulteriormente per quelli spinali (9:1). Meningiomi multipli su base ereditaria si osservano nella malattia di Recklinghausen. Le sedi tipiche e la relativa vascolarizzazione principale, sono quelle della Tabella 23.4. Percentualmente prevalgono quelli della convessità (20%), seguono quelli dell’ala dello sfenoide e del tubercolo sellare (15%), della doccia olfattiva (10%) (Fig. 23.13 A-B), della falce (8%) (Fig. 23.14 A-B). Altrove i valori sono al di sotto del 4% (quelli a sede spinale sono l’1.2% del totale). Sono tumori benigni irregolarmente nodulari, rotondeggianti od ovalari, i cui limiti, ben demarcati, favoriscono la rimozione totale. Quasi tutti hanno un impianto durale. Sono di consistenza dura con un colorito tipico grigio giallastro. Nella variante “en plaque” si svilup-
pano stimolando quasi esclusivamente una reazione osteogenica diffusa con effetto massa trascurabile e di conseguenza scarsi fenomeni compressivi sul parenchima cerebrale. Alcuni meningiomi invadono i tessuti cranici ed extracranici quali osso, muscolo, etc. e recidivano più facilmente. Esistono forme maligne. Dal punto di vista istologico si distinguono le varietà: – meningoendoteliale: detto anche sinciziale o endoteliale, si caratterizza per la presenza di cellule dai contorni citoplasmatici indistinti organizzati in lobuli di media grandezza, talora con accumuli xantomatosi o psammomatosi e calcificazioni – transizionale: si distingue per la tipica presenza di vortici cellulari che degenerando formano psammomi, con la variante psammomatosa (Fig. 23.15) quando i vortici cellulari siano particolarmente abbbondanti – fibroblastico: caratterizzato da una particolare abbondanza di fibre reticoliniche – angioblastico: caratterizzato dall’abbondanza di vasi di piccolo calibro e con maggiore aggressività biologica, distinto in un tipo emangioblastico e in un tipo emangiopericitico – Altre forme: forma xantomatosa, condromatosa, papillare, atipica.
Tabella 23.4 - Sedi tipiche e vascolarizzazione dei meningiomi Sede
Vascolarizzazione
Convessità (volta e parasagittali) Falce Doccia olfattoria Ala sfenoidale Diaframma sellare Fossa c. media Tentorio Fossa posteriore porzione Anteriore porzione Posteriore Intraventricolare
Arteria meningea media Arteria Oftalmica-Meningea media Arteria Oftalmica Arteria Oftalmica, meningea media Arteria Carotide interna Arteria Carotide interna-meningea media Arteria Carotide interna Arteria Carotide interna ed esterna Arteria Vertebrale Arteria Corioidea anteriore o posteriore
Tumori 1015
Fig. 23.13 - Meningioma della doccia olfattoria. RM con mdc SE-T1 A) s. sagittale, B) s. coronale. Formazione semisferica con ampia area di impianto sul pavimento della fossa cranica anteriore (doccia olfattoria), a sviluppo bilaterale simmetrico, che assume intensamente m.d.c., con marcato spostamento in direzione posteriore delle strutture cerebrali frontali.
Fig. 23.14 - Meningioma della falce bilaterale. RM con mdc SE-T1, A) s. sagittale, B) s. assiale. In regione paramediana frontale si sviluppa una formazione che assume nettamente m.d.c., ben delimitata, di forma bilobata (maggiore a sinistra) che perfora la falce.
È possibile un decorso maligno, seppure solo occasionalmente, per le forme meningoendoteliale e fibroblastica. Tutt’altra cosa è il sarcoma maligno di origine meningea. I meningiomi possono restare asintomatici per lungo tempo oppure caratterizzarsi per una
lenta progressione del quadro clinico. La sintomatologia riflette fondamentalmente la sofferenza dell’area funzionale interessata. Tipiche alterazioni ossee sono spesso osservabili all’esame radiografico standard del cranio. Si tratta di aree di sclerosi, lisi, dilatazio-
1016 Malattie del sistema nervoso
Fig. 23.15 - Meningioma psammomatoso Presenza di corpi psammomatosi tondeggianti acellulari e cellularità di tipo meningoendoteliale.
ne dei canali vascolari. In particolare le aree di lisi sono indicative di invasione ossea. ll tumore si dimostra bene alla TC, apparendo come una massa iperdensa, dai margini ben delimitati, talora plurilobata. Appare tuttavia isodenso nel 10% dei pazienti ed ipodenso in un altro 4%. La somministrazione di contrasto incrementa uniformemente la massa tumorale. L’edema è presente nel 50% circa dei casi. La RM dimostra la massima sensibilità e specificità, specie nelle immagini T2. Il tumore appare omogeneamente iperintenso, multilobato, tipicamente con ampio impianto durale, contornato da solchi, circonvoluzioni o cisterne dilatate. Nei meningiomi la RM, dando informazioni sulla pervietà dei seni venosi e sui rapporti con le strutture vascolari, può rendere superflua l’angiografia. Il gadolinio impregna bene ed omogeneamente la massa tumorale, esaltando la specificità dell’esame. L’angiografia risulta di utilità, oltre che per i pochi casi in cui vi sia ancora un dubbio diagnostico, per studiare dettagliatamente i rapporti vascolari. Ciò riguarda i seni venosi in caso di sospetta invasione tumorale, i rapporti con i grossi vasi della base e la necessità di evidenziare il polo nutritizio. Essendo un tumore benigno, la rimozione deve essere quando più possibile radicale e
atraumatica. Il tumore deve essere dissecato lungo il naturale piano di clivaggio costituito dall’aracnoide cercando di raggiungere il suo polo vascolare, disinserendolo contemporaneamente dall’impianto durale. Nelle forme sopratentoriali gli anticonvulsivanti vanno continuati per 6 mesi o più, soprattutto se vi sono state crisi nel periodo pre o postoperatorio. Le complicanze post-operatorie immediate sono di tipo emorragico ed è possibile una recrudescenza dei fenomeni edemigeni. La frequente necessità di un’estesa rimozione durale predispone all’insorgenza di fistole liquorali. I risultati sono generalmente buoni (84% eccellenti o buoni) con una mortalità dell’1%. Tale situazione ovviamente varia con le dimensioni e con la sede: i meningiomi del terzo medio dello sfenoide, dell’angolo ponto cerebellare e del clivus danno maggiori problemi per la rimozione e sono quindi gravati da una morbidità più elevata. La probabilità di un’eventuale recidiva è bassa se la rimozione del tumore è stata totale: del 9% se la dura di impianto è stata asportata, del 19% se è stata solo cauterizzata, e del 29% se l’attaccamento durale non è stato trattato. Per una rimozione incompleta l’indice di recidiva è del 40%. L’incidenza di ricorrenze per la variante emangiopericitica è pero molto più alta, nell’ordine dell’80% col 23% di metastasi. Siti metastatici preferenziali sono i polmoni per i 2/3 e l’addome per 1/3 dei casi. Anche un elevato indice mitotico indica un’aumentata tendenza alla recidiva, ma con valori più bassi. La terapia radiante post-operatoria è indicata per il trattamento della forma emangiopericitica e di quella ad elevato indice mitotico, altrimenti è sconsigliata essendo di nulla o scarsa efficacia e per il pericolo (limitato) di tumori indotti. Molto piu’ efficace si sta invece rivelando la radiochirurgia stereotassica per meningiomi (o per residui post-chirurgici) di dimensioni adeguate (< 2,5 cm) ed in sede critica (seno cavernoso, clivus, etc.).
Tumori 1017
Adenomi ipofisari Originano dall’adenoipofisi (ipofisi anteriore di origine epiteliale) ed incidono per il 10% sulle neoplasie cerebrali primitive, con un’incidenza di 1,5-2/100.000 /anno. Prevalgono nella donna con un rapporto di 2:1 rispetto al maschio. Possono distinguersi in non-secernenti o secernenti e caratterizzarsi per le loro manifestazioni funzionali endocrine. Vengono distinti in micro e macroadenomi, in rapporto al diametro massimo (Fig. 23.16 A-B-C). Il limite di demarcazione corrisponde ad 1 cm di diametro. I microadenomi rappresentano il 50% del tota-
le. I macroadenomi, in rapporto all’estensione, vengono distinti in intrasellari, soprasellari ed invasivi, verso i seni cavernosi ed il parenchima cerebrale. Clinicamente si presentano per i disturbi endocrini, per l’effetto massa o per una combinazione dei due. Raramente si manifestano con un’apoplessia ipofisaria. La diagnosi differenziale è spesso trascurata (Tab. 23.5). A seconda del comportamento endocrino, gli adenomi si possono suddividere in: prolattinomi (PRL-secernenti), adenomi GH-secernenti, adenomi ACTH-secernenti e adenomi nonsecernenti (Tab. 23.6).
Fig. 23.16 - Adenoma ipofisario. A) TC senza mdc, scansione assiale. B) RM con mdc SE-T1, sezione coronale, C) RM con mdc SE-T1, sezione sagittale. Neoformazione intrasellare spontaneamente iperdensa per fenomeni emorragici, con componente cistica al suo interno e parete che assume intensamente mezzo di contrasto. La formazione si sviluppa all’interno della sella turcica (di volume aumentato) e si spinge verso l’alto sollevando il chiasma.
1018 Malattie del sistema nervoso Tabella 23.5 - Diagnosi differenziale delle regioni sellari. Empty sella
Carcinoma ipofisario
Tumori ipotalamici
Metastasi ipofisaria
Gliomi
Cisti di Rathke
Craniofaringiomi
Cisti epidermoide
Amartomi
Ascessi ipofisari
Metastasi
Germinoma
Istiocitosi X
Cordoma
Ganglioneuroma
Choristoma
Craniofaringioma
Ipofisite linfocitica
Meningioma parasellare Glioma dell’ottico Aneurismi giganti sopraclinoidei Iperplasia ipofisaria
Tabella 23.6 - Frequenza dei vari tipi di adenoma. Prolattinoma
25-50%
GH
20-25%
ACTH
5-10%
Non secernenti
25-40%
TSH e LH/FSH
<1%
• Adenomi a Prolattina: sono i più numerosi e si caratterizzano per un’elevazione dei livelli di Prolattina (oltre 150 ng/ml) che comporta una sindrome di amenorrea-galattorrea nella donna ed impotenza nell’uomo. L’infertilità completa il quadro clinico in entrambi i casi. A parte i cromofobi, è quello che più facilmente si associa a patologia compressiva. • Adenomi a GH: sono secondi per frequenza tra gli adenomi secernenti, ma forse molti degli effetti sono dovuti alla somatomedina C, prodotta dal fegato per effetto del GH. Si manifestano con gigantismo in età prepubere o con acromegalia in età adulta. L’acromegalia si caratterizza con ingrossamento delle estremità (spesso rivelato dalle difficoltà a indossare l’anello o calzare le scarpe), craniomegalia con
accentuazione delle bozze frontali, prognatismo, macroglossia, visceromegalia, neuropatie da intrappolamento, cefalea, dolori articolari ed iperidrosi. Predispongono al diabete, ipertensione e cardiopatie. • Adenomi ad ACTH: si tratta quasi sempre di microadenomi con sella normale, rivelati precocemente dall’imponenza del quadro clinico. Si parla in questo caso di morbo di Cushing, ma si manifesta con un quadro del tutto simile all’ipercortisolismo secondario, detto più propriamente sindrome di Cushing. Valori patologici di ACTH (20% dei pazienti) si osservano anche nel contesto della sindrome di Nelson, conseguente ad adrenalectomia per il trattamento della sindrome di Cushing. La riduzione della produzione steroidea comporta un eccesso di ACTH, con iperpigmentazione per un’azione melanocito-stimolante (analogia strutturale con l’ACTH). • Adenomi non funzionanti (ex cromofobi): sono quelli che raggiungono i volumi più cospicui e si manifestano più frequentemente per l’effetto massa. In passato venivano identificati con gli adenomi cromofobi, ma ciò si è rivelato inesatto perchè alcuni cromofobi contengono granuli secretori (Prolattina, GH, TSH). Oltre ai sintomi ed ai segni in rapporto alle disfunzioni endocrine, le più tipiche manifestazioni compressive sono le alterazioni campimetriche (emianopsia bitemporale incongrua) da compressione sul chiasma (le fibre che decussano a livello del chiasma per la metà nasale della retina). Ovviamente c’ è la compressione sull’ipofisi, con ipopituitarismo più o meno marcato ed a volte diabete insipido. La possibile invasione del seno cavernoso si rivela con deficit degli oculomotori, parestesie in V1 e V2, e da ultimo, occlusione del seno con proptosi e chemosi. Il quadro clinico è molto suggestivo, ma per la diagnosi è necessario uno screening ormonale e la dimostrazione radiologica dell’adenoma.
Tumori 1019 Tabella 23.7 - Diagnosi differenziale. IPERPROLATTINEMIA
ACROMEGALIA
MORBO DI CUSHING
CLINICA Deformazione acromegalica della faccia
Obesità centripeta, gobba di bufalo, ipotrofia mu-
Galattorrea-amenorrea
e delle estremità, cefalea nel 50-70%
scolare ed ipostenia, apparenza pletorica, strie
irregolarità mestruali
per tensione sul diaframma sellare e per
rubre, alterazioni mentali, infezioni ricorrenti e
infertilità
sinusite, iperidrosi e seborrea, neuropa-
scarsa cicatrizzazione delle ferite, porpora e fra-
tie da intrappolamento (soprattutto tun-
gilità capillare, acne e pigmentazione cutanea,
nel carpale), artralgie, miopatie, splancno-
virilismo, osteoporosi, effetto massa, ipertensio-
alterazioni della libido ed im-
megalie tra cui cardiomegalia, diabete
ne arteriosa (85%), edema, alterata tolleranza al
potenza
mellito nel 10%
glucosio, ipokaliemia, eritrocitosi, linfopenia,
ginecomastia (galattorrea)
Gigantismo in età prepubere
eosinopenia.
Eccesso di GH dopo stimolazione con
Ipercortisolismo (>21 µg/dl)
TRH
Aumento del cortisolo libero urinario (24h)
Mancata soppressione sotto i 2 ng/ml o
Assenza ritmo circadiano cortisolo ed ACTH Man-
aumento paradosso del GH dopo carico
cata soppressione del cortisolo sierico dopo 2 mg
di glucosio
di desametasone e.v.
Eccesso di Somatomedina (Insulin like
Soppressione del cortisolo sierico sotto il 50% del
growth factor I o IGF-I)
livello basale con 8, 16 o 32 mg di desametasone
Nella donna premenopausale
Nell’uomo
DIAGNOSTICA PRL > 200 µU/ml
ACTH normale o poco elevato (v.n. 20-50 pg/ml) Risposta conservata alla somministrazione di CRH e. v. dell’ACTH e del cortisolo Cataterismo del seno petroso per escludere una sorgente extraipofisaria di ACTH Le immagini anche MR da sole non sono diagnostiche DIAGNOSI DIFFERENZIALE Gravidanza, farmaci che eleva-
Adenoma GH ectopico (sfenoidale o pa-
Sindrome di Cushing
no la PRL (reserpina, metildo-
rafaringeo)
Sindrome di Nelson
pa, tranquillanti maggiori, anta-
Produzione ectopica neoplastica (pol-
gonisti della dopamina, anti H2,
monare, ovarica, mammaria),
oppiacei); iperprolattinemia
Eccesso di fattore di liberazione RF-GH
funzionale (altri tumori ipofisari
(amartoma o coristoma ipotalamico, tu-
e parasellari), empty sella, ipo-
more delle isole pancreatiche, carcinoidi
tiroidismo
bronchiali o intestinali)
L’esame più appropriato è la RM che mostra l’adenoma in rapporto all’ipofisi normale, ai seni cavernosi, alle carotidi, al diaframma sellare, al chiasma ed al pavimento sellare. Permette inoltre un esame accurato della morfologia e delle condizioni del seno sfenoidale (meglio definite alla TC) necessario per l’approccio transfenoi-
dale. La massa adenomatosa è ipodensa in T1 ed iperdensa in T2 nel 75% dei casi. La somministrazione di Gadolinio dà un’immagine negativa del microadenoma per la diffusione del contrasto nel contesto ghiandolare normale e privo di barriera emato-encefalica. Dopo 30 minuti anche il tessuto adenomatoso si impregna.
1020 Malattie del sistema nervoso
La TC deve comprendere dei tagli coronali in caso di microadenomi e per chiarire meglio i rapporti locali. Anche in questo caso la ghiandola si impregna più precocemente del tessuto adenomatoso, ma l’incremento contrastografico dei macroadenomi è netto. Tuttavia, anche in caso di microadenomi risulta suggestiva la deviazione controlaterale del peduncolo e lo slivellamento omolaterale del pavimento sellare. La radiografia standard del cranio è evocativa in presenza di aumento del diametro A-P (normalmente 9 mm, ma 11 mm nelle donne tra i 13 e i 35 anni), l’erosione del dorsum e lo slivellamento del pavimento. L’angiografia è stata sostituita dalla RM per escludere la presenza di aneurisma a proiezione intrasellare, mentre risulta ancora utile la flebografia retrograda del seno petroso per la valutazione dei livelli di ACTH rilasciato dall’ipofisi nel caso si sospetti una sua produzione ectopica (specie carcinoma bronchiale). L’esame del campo visivo va praticato in tutti i casi di adenoma ad estensione soprasellare per quantificare il deficit campimetrico. Il reperto tipico è costituito da emianopsia bitemporale. La terapia è chirurgica con alcune eccezioni. L’approccio transfenoidale è possibile nel 90% dei casi, ma presenta delle limitazioni per i tumori extrasellari o a sviluppo parasellare subfrontale, subtemporale o retrosellare, tumori soprasellari senza capsula (che non elevano il segmento A1 della cerebrale anteriore), accesso sellare angusto o infezioni paranasali. La mortalità è dello 0,9%, la morbidità include fistola liquorale, meningite (1%), sinusite (5%), ipopituitarismo (4%), e più raramente diabete insipido. È possibile danneggiare la carotide, l’ipotalamo, i nervi cranici adiacenti. Si usa l’approccio transcranico se l’approccio transfenoidale è controindicato e comunque quando la componente intracranica dell’adenoma è prevalente e non rimovibile per via transfenoidale. È necessaria l’osservazione in terapia intensiva in caso di severe alterazioni endocrine, come nel m. di
Cushing, di diabete insipido, disturbi elettrolitici, cardiomiopatie da acromegalismo, diabete mellito grave ed in caso di approccio transcranico. La terapia medica rappresenta un’alternativa reale solamente per i prolattinomi e, in misura nettamente minore, per gli adenomi GH secernenti, mentre integra la terapia chirurgica o radiante negli altri casi. La bromocriptina, viene usata a partire da 2,5 mg giornalieri con incrementi progressivi fino a 15 mg per i prolattinomi e 30 mg per gli adenomi a GH. Più recentemente è stata introdotta nella terapia dei prolattinomi la Cabergolina in somministrazioni bi-settimanali, con dosaggi iniziali di 1 mg. Il trattamento farmacologico degli adenomi GH-sec. ha avuto inizio, nella pratica clinica, con l’introduzione degli analoghi della somatostatina con emivita più lunga (Octreotide); più di recente un notevole passo avanti si è ottenuto con preparazioni a più lento rilascio quali Lanreotide (1 fl/ogni 15 gg) e Somatostatina LAR (1 fl/ ogni 30 gg). Tali trattamenti si sono rivelati efficaci nel controllare l’iperincrezione di LH e quindi la sindrome ormonale, molto meno nello stabilizzare o ridurre la massa tumorale. La loro utilizzazione è pertanto da considerare ancora complementare alla chirurgia. La terapia sostitutiva in caso di ipopituitarismo richiede Cortone® (25-50 mg/die) e Tiroxina (50-100 µg/die (valori normali della cortisolemia sono > a 9 µg/dl). La radioterapia convenzionale (4500-5000 rads in 25 sedute) o ad alta energia completa il trattamento chirurgico negli adenomi invasivi e se c’è evidenza di persistente attività ormonale non controllabile con la terapia medica, anche in assenza di residui tumorali evidenti alla RM. Essa riduce l’incidenza di recidive, con un controllo della crescita tumorale ottenibile nel 93% dei casi contro l’83% della chirurgia da sola. Il diabete insipido post-operatorio recede in genere entro la 2-3ª giornata, altre volte dura
Tumori 1021 Tabella 23.8 - Terapia Adenomi. NON SECERNENTI
ADENOMI GH
ADENOMI ACTH
SECERNENTI
SECERNENTI
La terapia medica con Bromo-
Octreotide (Sandostatin®) o
Ciproeptadina (Periactin®)
Qualche effetto della San-
criptina (Parlodel®) deve essere
derivati a lento rilascio Lan-
preoperatoriamente o in at-
dostatina, che comunque
sempre considerata specie nei
reotide o Sandostatina LAR
tesa dei risultati della radio-
non è indicata come terapia
microadenomi perchè inibisce la
in preparazione dell’interven-
terapia (2-4 anni) nei pa-
di scelta.
secrezione di prolattina e arresta
to o nelle iperincrezioni resi-
zienti ad alto rischio.
la crescita tumorale nel 99% dei
due.
casi permettendo il concepimen-
La Bromocriptina (Parlodel®)
to senza variazioni significative
è efficace solo per gli adeno-
dell’incidenza di anomalie con-
mi misti GH -PRL.
PROLATTINOMI
A. TERAPIA MEDICA
genite (3,3%), ma con l’11% di aborti spontanei. Dopo la sospensione della terapia il tumore ricresce. B. TERAPIA CHIRURGICA Possibilità di guarigione definiti-
Trattamento di scelta, deve
Trattamento di scelta ma di
Trattamento di scelta, com-
va (PRL < 500 mU/ml),
essere istituito precocemente.
difficile esecuzione per la
pletato dalla radioterapia in
miglioramento immediato della
Il risultato va consolidato con
diffcile localizzazione del-
caso di rimozione incom-
vista quando sia compromessa,
la radioterapia per i tumori
l’adenoma (molto piccolo
pleta o di ricorrenza.
nel 30% dei pazienti che non
invasivi, dopo reintervento o
nel 75% dei casi o non lo-
tollerano i dopamino-agonisti,
per la persistenza di valori
calizzabile).
quando il tumore non regredisca
elevati di GH.
In caso di insuccesso con-
con la terapia medica.
siderare l’ipofisectomia, la
Bisogna considerare che anche
radioterapia convenzionale,
quando il tumore è stato rimos-
la radiochirurgia e l’adrena-
so è comunque probabile l’uso
lectomia (possibile sviluppo
della Bormocriptina per control-
di S. di Nelson).
lare i livelli di prolattina. C. RISULTATI La guarigione definitiva è pro-
Guarigione se GH < 1 ng/ml
Guarigione per soppressio-
porzionale alle dimensioni del-
dopo test di soppressione col
ne (2 mg di Desametaso-
l’adenoma.
glucosio, GH basale < 2ng/
ne) del cortisolo < 2 mg/dl
Per i microadenomi è del 70-
ml, IGF –I normale,
ed un deficit post-operato-
80% per PRL< a 4000, del 40-
Tasso di remissione a 5 anni
rio acuto di ACTH per ca-
50% per PRL> 4000.
dell’80-90% per i microade-
renza di CRF (releasing
Per i macroadenomi i valori van-
nomi, 45% per i macroade-
factor).
no dal 25-35% se intra/sopra-
nomi.
75-80% di remissione.
sellari, al 15% se parasellari
La ricorrenza è 0% se GH
10-25% di ricorrenza.
e 0% se invasivi.
<1ng/ml dopo test di soppressione.
1022 Malattie del sistema nervoso
mesi, ancora con la possibilità di regressione. Raramente si osserva una risposta trifasica, in cui dopo una recessione iniziale, ricompare il diabete insipido. È sempre preferibile sollecitare le possibilità di compenso dell’organismo semplicemente rimpiazzando le perdite idriche al 90-95% per un flusso urinario inferiore ai 500 ml/ora. L’apoplessia ipofisaria interviene come complicanza di un adenoma ipofisario (nel 2% circa dei casi) per un’emorragia tumorale, spesso sotto forma di infarto emorragico. Nel 25% dei casi vi è una causa scatenante farmacologica (bromocriptina), ormonale (estrogeni), o traumatica (sia trauma psichico che fisico). Fortunatamente non sempre l’emorragia tumorale comporta un quadro di apoplessia ed un certo numero di casi passa inosservato. L’incidenza è massima nella 5ª decade di vita. Il quadro clinico si caratterizza per l’improvvisa comparsa di cefalea (88%), nausea (56%), diminuzione dell’acuità visiva (56%), alterazioni del campo visivo (69%), deficit del III paio (44%), diminuzione della vigilanza (25%) e meningismo (13%). La TC rivela l’emorragia nel 50% dei pazienti circa, talora con un livello ematico, ma è necessaria la somministrazione di contrasto per identificare il tessuto adenomatoso residuo. Tranne che nella prime ore, la RM è più sensibile e specifica (accuratezza del 90% a 12 ore), col sangue che appare iperdenso sia nelle immagini T1 che T2. Inoltre la superiorità della RM risulta dai precisi dettagli della sella e dei limiti dell’adenoma, in cui emerge l’area emorragica. La terapia medica deve essere istituita immediatamente (Decadron® 8mg × 4 ev o im), ma il trattamento è chirurgico (via transfenoidale) per la decompressione urgente del chiasma e del seno cavernoso. Più precoce è l’intervento maggiori sono le possibilità di recupero soprattutto per la vista (un recupero della vista si è osservato anche dopo 7 giorni). Il termine empty sella o sella vuota identifica una situazione caratterizzata dalla presenza di un diverticolo aracnoideo intrasellare. La for-
ma primitiva è dovuta in circa la metà dei casi ad un difetto del diaframma sellare, si verifica soprattutto nelle donne tra i 40 ed i 49 anni di età ed è causata da una discesa intrasellare dell’aracnoide. La quota rimanente viene spiegata sulla base di una pregressa iperplasia, una pregressa apoplessia, un’ipofisite autoimmune o una pregressa s. di Sheehan o necrosi postpartum dell’ipofisi. La forma secondaria è dovuta all’esito di un pregresso intervento, alla terapia radiante per adenoma o alla terapia con bromocriptina. Il sintomo preminente è la cefalea frontale con eventuale irradiazione alla radice del naso ed alle orbite, tipicamente aumentata dalla manovra di Valsalva. Sono possibili alterazioni campimetriche, la cui incidenza però è alta solo nelle forme secondarie con emianopsia bitemporale incongrua, oscuramento della vista, scotoma centrale, etc. Da un punto di vista ormonale è possibile osservare iperprolattinemia < 250 µU/ml ed ancora più raramente altri disturbi endocrini. La Rx standard del cranio tipicamente dimostra un allargamento simmetrico della sella, con eventuale demineralizzazione del dorso, mentre la CT e la RM evidenziano il diverticolo sellare con la tipica densità liquorale. Alla RM si possono osservare bene il tessuto ghiandolare schiacciato, le condizioni del peduncolo ed il rapporto con il chiasma.
Craniofaringiomi Rappresentano l’1,2-3% dei tumori cerebrali con un’incidenza di 0,5-2 casi/milione/anno. Benchè la quota percentuale sia più alta nel bambino, quasi la metà dei casi si osserva nell’adulto. Si distinguono 2 tipi fondamentali, la classica forma adamantinosa (calcificata con noduli di cheratina e con frequente componente cistica) (Fig. 23.17 A-B) ed una forma più rara costituita da epitelio solido papillare squamoso, solido nel 50% dei casi. Quest’ultima forma non si osserva in età pediatrica. Il tumore si sviluppa dal-
Tumori 1023
Fig. 23.17 - Craniofaringioma. A) TC con mdc scansione assiale; B) RM con mdc SE-T1, s. sagittale. Formazione cistica bilobata, a partenza dalla sella turcica ma con maggiore sviluppo in sede soprasellare, con sollevamento delle strutture otticochiasmatiche e della parete anteriore del III ventricolo. Il secondo nodulo, di aspetto solido, si sviluppa al polo superiore del nodulo principale comprimendo e spostando posteriormente il mesencefalo. Lo studio TC dimostra le caratteristiche calcificazioni della parete cistica.
l’organo dello smalto o da residui epiteliali della tasca di Rathke nella regione sellare e parasellare. Si distinguono varie forme, in rapporto alla cavità sellare ed ai ventricoli. Queste sono: la intrasellare infradiaframmatica, la intra e soprasellare o infra e sopradiaframmatica, la sopradiaframmatica parachiasmatica extraventricolare, la intraventricolare ed, occasionalmente, la epidurale o extracranica. I sintomi sono fondamentalmente di 3 tipi: alterazioni visive, alterazioni ipotalamo-ipofisarie ed alterazioni mentali. Le alterazioni visive presenti nella maggioranza dei pazienti (circa i 2/3) sono per lo più del tipo emianoptico bitemporale. Seguono deficit omonimi emianoptici o quadrantoptici. In un cospicuo numero di pazienti si verifica cecità uni o bilaterale. I sintomi correlati alla disfunzione ipotalamo-ipofisaria sono: per il bambino, in ordine di frequenza, ritardo della crescita, diabete insipido ed obesità; per l’adulto, obesità, amenorrea od impotenza e diabete insipido. Molti dei pazienti hanno un idrocefalo conclamato, il 40% circa richiede l’impianto di uno shunt prima o dopo l’intervento.
La diagnosi neuroradiologica è agevole per le caratteristiche peculiari della neoplasia. Alla TC il tumore è tipicamente disomogeneo con elementi calcifici o cistici ed assume poco o nulla il materiale contrastografico. La RM esalta le caratteristiche strutturali del tumore (il contenuto delle forme cistiche è fortemente paramagnetico) e soprattutto permette un’analisi dettagliata dei rapporti con le formazioni contigue. Si considera piccolo un tumore <2 cm, medio uno tra 2 e 4 cm, grande uno tra 4 e 6 cm e gigante uno superiore a 6 cm. Idealmente la resezione chirurgica deve essere totale e ciò è possibile nell’80-90% dei casi. Il 70-80% dei pazienti è autonomo dopo l’intervento. I risultati sono leggermente migliori negli adulti. Circa l’80% degli operati avrà un diabete insipido permanente, con un incremento di circa il 60% sulla percentuale preoperatoria. Al contrario l’acuità visiva ed i defici campimetrici miglioreranno nel 65-70% dei casi, con un ulteriore aggravamento nel 5-15%. La morbidità e la mortalità operatoria sono del 16-25% e del 15-20% rispettivamente. I risultati tendono ad essere migliori nei pazienti operati per la pri-
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ma volta. L’indice di recidiva è del 7-10% dopo rimozione totale, mentre è quasi nullo per le forme papillari squamose. Quando la resezione non è totale si associa un ciclo di radioterapia anche interstiziale. Nelle forme prettamente cistiche ha dato buoni risultati la marsupializzazione della cisti nel seno sfenoidale o verso un reservoir di Ommaya, svuotato periodicamente o secondo necessità.
Tumori intraventricolari A livello intraventricolare possono presentarsi i seguenti tipi istologici di tumore, cui vanno aggiunti i tumori ad origine pineale, descritti nella Tabella 23.9.
Solitamente i tumori intraventricolari vengono però suddivisi in relazione alla loro sede.
Ventricoli laterali Costituiscono meno dell’1% dei tumori intracranici, sono per la maggior parte benigni (alcuni a bassa malignità), con lunghe sopravvivenze, ma raggiungono dimensioni notevoli prima della manifestazione clinica, con difficoltà di exeresi. La scelta della via d’approccio dipende dalla posizione del tumore. I principi guida possono essere così sintetizzati: minima retrazione, massima esposizione, esposizione precoce del polo vascolare.
Tabella 23.9 - Tumori intraventricolari Tipo istologico
Caratteristiche salienti
Astrocitoma
Ben differenziato ma infiltrante, può contenere delle cisti; in forma fibrillare, protoplasmatico e gemistocitico. Solo la forma fibrillare è Glial Fibrillar Acid Protein (GFAP) positiva. Rara trasformazione maligna in astrocitoma anaplastico o glioblastoma. Astrocitoma circoscritto, senza infiltrazione, benigno (grado I), GFAP negativo. Astrocitoma circoscritto e calcifico, si sviluppa dalle pareti ventricolari laterali, GFAP variabile. Moderatamente cellulare, poche mitosi, si caratterizza per la presenza di calcificazioni. Raramente si presenta anaplastico. Si caratterizza per la presenza di pseudorosette perivascolari e si distingue in: cellulare, papillare (GFAP +) e a cellule chiare. Assenza di rosette. Nidi di cellule ependimali in una matrice fibrillare, con microcisti e calcificazioni. È ben circoscritto. Benigno, caratterizzato da membrana basale su un asse connettivocapillare. Anche in forma maligna, come carcinoma dei plessi. Cellule con caratteristiche neuronali. Medulloepitelioma, struttura ghiandolare a cellule colonnari. Neuroblastoma, a cellule tonde e proteine neuronali (es. Sinaptosina). Ependimoblastoma, cellule indifferenziate con rosette e mitosi. Origina dai plessi coroidei. Possibili atipie cellulari. Specie dai bronchi, mammella e reni. Si caratterizzano per la necrosi centrale. Infiltrati perivascolari ad anelli concentrici.
A. pilocitico A. Subependimale a cellule giganti Oligodendroglioma Ependimoma E. Anaplastico Sub-ependimoma Papilloma dei plessi coroidei Neurocitoma Tumori embrionari (neuro-ectodermici primitivi, Grado IV) Meningioma Metastasi Linfoma
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Le possibili complicanze sono: danno parenchimale, infarto venoso per chiusura di scarichi venosi nel seno sagittale o della vena di Trolard, che incrocia il campo in regione parietale, il sanguinamento intraventricolare e l’idrocefalo post-operatorio.
sull’ipotalamo. Talora si osserva un deterioramento acuto in seguito a malfunzione. Lo scopo dell’intervento chirurgico è quello di ripristinare la circolazione liquorale, stabilire la diagnosi e possibilmente rimuovere la lesione.
IV ventricolo III ventricolo I tumori più comuni nell’adulto sono: cisti colloide, metastasi, linfoma, meningioma, glioma e tumori pineali; nel bambino invece sono: astrocitoma sub-ependimale a cellule giganti ed atrocitoma pilocitico, neurofibroma, germinoma, glioma, craniofaringioma, papilloma dei plessi coroidei e tumori pineali. Le cisti ependimali e la cisticercosi hanno la stessa incidenza sia negli adulti che nei bambi ni. La manifestazione più comune è l’idrocefalo. La cisti colloide è peculiare del III ventricolo, è di natura benigna e costituisce lo 0,5-1% dei tumori intracranici. Istologicamente risulta costituita da epitelio colonnare secretorio, eosinofilo, ed è situata nel quadrante antero-superiore del ventricolo. La scoperta è spesso occasionale e, a parte l’idrocefalo, si associa a cefalea, talora sensibile ai cambiamenti di posizione, e meno frequentemente a disturbi della deambulazione, dell’ideazione, nausea ed altri connessi con l’idrocefalo. È iperdensa alla TC nel 50% dei casi, ma quasi sempre assume contrasto. Alla RM si caratterizza per un cercine iperintenso in T1 ed è marcatamente ipointensa in T2. Il trattamento è conservativo per cisti sotto i 0,5 cm asintomatiche, ma aggressivo per quelle sintomatiche. La resezione chirurgica è difficoltosa, più agevole e sicura è la resezione endoscopica o aspirazione ed ampia fenestrazione. L’aspirazione stereotassica comporta la recidiva quasi certa. Il solo trattamento dell’idrocefalo con shunt risulta efficace per il controllo della pressione endocranica, ma non risolve i sintomi dovuti alla pressione sul fornice e
Sono comuni nei bambini, e molto spesso si tratta di ependimomi (il 30% dei tumori intracranici prima dei 3 anni, i 2/3 nel IV ventricolo). Seguono medulloblastomi, astrocitomi e dermoidi. Nell’adulto i tumori del IV sono rari, e si tratta di ependimomi, papillomi dei plessi coroidei, meningiomi, astrocitomi, dermoidi e metastasi. Si manifestano con idrocefalo e segni di compressione in fossa cranica posteriore. Particolare rilievo acquista il vomito per irritazione del pavimento ventricolare.
Papilloma dei plessi coroidei Questo tumore è molto raro (0,4-0,5% dei tumori cerebrali), con maggiore incidenza in età pediatrica (4% dei tumori pediatrici). Negli adulti si sviluppa prevalentemente nel IV ventricolo, talora con estensione nell’angolo pontocerebellare, nei bambini prevale nei ventricoli laterali. Talora infiltra la parete ventricolare. Spesso si manifesta con idrocefalo da ostruzione ma anche la iperproduzione di liquor può contribuire alla dilatazione ventricolare. I sintomi sono aspecifici; prevale la cefalea, ma sono possibili deficit dei nervi cranici e crisi sincopali. Nei bambini possono comparire deficit del campo visivo, emiparesi e convulsioni. La TC e più ancora la RM evidenziano la lesione coi suoi rapporti. Peraltro, la RM aggiunge dei dettagli sulla vascolarizzatione, che altrimenti deve essere studiata angiograficamente. Caratteristica è l’ ipertrofia delle arterie coroidee. La rimozione deve essere totale con recidive intorno al 10%. Per una resezione subto-
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tale, l’incidenza di recidive è più alta senza che la terapia radiante migliori la prognosi. La radioterapia nelle sue varie forme va riservata alle recidive, ma dopo il reintervento, anche questo idealmente radicale.
tomici del tumore ed è utile nella diagnosi differenziale col papilloma. La prognosi è ottima trattandosi di un tumore con scarsa tendenza alla recidiva (1 di 16 casi). Non necessita radioterapia.
Neurocitoma
Tumori della regione pineale
È un tumore raro a sviluppo intraventricolare (Fig. 23.18) con massima incidenza intorno ai 28 anni. Spesso viene confuso con l’oligodendroglioma o l’ependimoma. Si manifesta nel 77% dei casi con ipertensione endocranica, idrocefalo ed eventualmente perdita di memoria, apatia e disorientamento. L’aspetto TC è quello di una massa intraventricolare che occupa uno od entrambi i ventricoli, di densità normale od aumentata, moderatamente incrementata dal contrasto, con piccole cisti periferiche ed eventuali piccole calcificazioni. La RM precisa meglio i rapporti ana-
Rappresentano circa l’1% dei tumori endocranici, per la maggior parte sotto i 30 anni. Comprendono 4 gruppi : 1) Tumori delle cellule germinali (germinomi), circa il 70% del totale, originano da cellule germinali bloccate nel processo di migrazione. Tumori simili si riscontrano nella regione soprasellare, nel mediastino e nel retroperitoneo, sono più comuni nei giovani maschi. Sono molto maligni, ed hanno una spiccata tendenza alla disseminazione sub-aracnoidea ma sono altamente radiosensibili. Segue nel gruppo il teratoma (20%), lentamente evolutivo, capsulato, lobulato e cistico (muco, sebo o materiale acquoso), talora con capelli, denti, osso, cartilagine, etc. La forma maligna viene indicata come teratocarcinoma. Del gruppo fanno parte anche il carcinoma a cellule embrionali, il coriocarcinoma ed il carcinoma del sacco vitellino. 2) Seguono i tumori parenchimali della pineale col 25%, distinti in pinealocitoma, pinealoblastoma e tumore pineale misto. Il pinealocitoma è ben differenziato, ad evoluzione lenta e ben circoscritto, è scarsamente radiosensibile, costituisce il 25% di questo gruppo. Invece il pinealoblastoma è indifferenziato, simile al medulloblastoma, molto invasivo e con tendenza alla disseminazione sub-aracnoidee, è anche spiccatamente radiosensibile. 3) Tumori gliali, circa il 25%, soprattutto astrocitomi cistici o solidi, raramente ependimomi ed oligodendrogliomi. Gli astrocitomi cistici sono facilmente dissecabili con buona prognosi. Gli astrocitomi solidi sono invasivi e sono di difficile rimozione, con prognosi peggiore.
Fig. 23.18 - Neurocitoma centrale. RM con mdc SE-T1, s. assiale. Neoplasia a sviluppo intraventricolare (ventricolo laterale dx), con inserzione sulla parete laterale ed aspetto disomogeneo con irregolare assunzione di contrasto. Le strutture mediane appaiono dislocate controlateralmente; il corno occipitale e quello frontale del ventricolo laterale dx appaiono dilatati.
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4) Altri, spesso cisti della ghiandola pineale silenti e benigne, scoperte solo casualmente, possono però causare idrocefalo per pressione sull’acquedotto. In questa regione si trovano inoltre menigniomi, emangioblastomi, papillomi dei plessi coroidei, adenocarcinomi, chemodectomi, linfomi e metastasi. Si manifestano con idrocefalo per compressione dell’acquedotto e sindrome di Parinaud, alterazioni pupillari e della motilità oculare specie dei movimenti coniugati. La compressione sul cervelletto determina atassia, ipotonia e dismetria. Caratteristica è la pubertà precoce, specie nei maschi ed in presenza di teratoma. Si osservano inoltre ipogonadismo e diabete insipido. Per la diagnosi anche la radiografia standard del cranio conserva il suo valore perché permette di valutare la ghiandola pineale, calcifica nel 60% della popolazione adulta, che in caso di lesione appare ingrossata, sopra i 10 mm, o lateralizzata. La calcificazione prima dei 10 anni di età deve essere considerata patologica. La TC mostra alcuni caratteri peculiari: i germinomi sono iperdensi ed incrementano marcatamente col contrasto, con limiti netti, ma possono confondersi col coriocarcinoma o carcinoma a cellule embrionali, ed il carcinoma del sacco vitellino; i teratomi appaiono disomogenei, con aree a contenuto “grasso”, i pinealocitomi ed i pinealoblastomi sono isodensi, talora calcificati ed incrementano moderatamente. La RM dimostra molto bene le relazioni anatomiche, in particolare con le vene cerebrali interne, ma la distinzione tra grasso, emorragia e calcificazioni è ingannevole, per cui può risultare comunque utile la TC. Dimostra bene, dopo la somministrazione di Gadolinio, la eventuale espansione sub-aracnoidea del tumore. La diagnosi differenziale con l’aneurisma della vena di Galeno è agevole. L’angiografia è indicata per differenziare tra aneurisma della vena di Galeno, angioma e meningioma. Gli esami di laboratorio servono per la diagnosi e per il follow-up post-operatorio. L’esa-
me citologico sul liquor serve ad accertare la diffusione sub-aracnoidea dei tumori maligni, con una sensibilità di circa il 50%. Il tasso ematico o liquorale della beta HCG (gonadotropina corionica) risulta elevato nei coriocarcinomi, carcinoma a cellule embrionali e germinomi. L’assenza di melatonina in circolo conferma la completa resezione della pineale. Il 30-40% delle lesioni sono benigne e rimovibili, ma l’approccio non è facile. La radioterapia è specialmente indicata per i germinomi, meno per teratomi maligni, pinealoblastomi ed astrocitomi solidi. La riduzione della massa tumorale favorisce sempre la risposta terapeutica. La disseminazione spinale va trattata con radioterapia. La presenza di uno shunt favorisce la disseminazione del tumore. La chemioterapia è indicata in caso di recidiva dopo radioterapia o prima della radioterapia per ridurre il volume tumorale e nei bambini sotto i 2 anni invece della radioterapia. La mortalità operatoria è del 10-25% ed è naturalmente connessa al tipo di tumore, al tipo di approccio ed al rischio di danno del diencefalo e del tronco.
Tumori orbitari Numerosi processi patologici, non solo neoplastici, interessano l’orbita, con effetto massa a sviluppo intra o extraconico. La presentazione è simile e caratterizzata da esoftalmo con o senza alterazioni visive e chemosi. Le lesioni intraconiche tendono a produrre esoftalmo con precoce alterazione del visus e diplopia, al contrario delle forme extraconiche. Lo sviluppo nel canale ottico comporta una perdita precoce del visus ed edema del disco ottico. Tumori invasivi dell’apice orbitario quali meningiomi e carcinomi comportano una sindrome della fessura orbitale superiore. La Rx standard deve valutare il diametro del canale ottico in rapporto al controlaterale, mettendo in evidenza eventuali erosioni o deformazioni. La TC con finestra ossea dà informazioni
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più precise sulle condizioni del canale osseo. Naturalmente permette la visualizzazione della massa tumorale ed il rapporto con i muscoli. Questi appaiono nettamente edematosi nel caso di m. di Graves. In caso di meningioma è osservabile l’ “ombra” del nervo ottico nel contesto della massa tumorale. La RM permette l’esame multiplanare del contenuto orbitario; l’angiografia è necessaria in caso di lesioni vascolari, specie fistolose. L’ecografia è utile specialmente nel m. di Graves per la valutazione dei muscoli.
Glioma del nervo ottico (vedi anche neoplasie pediatriche) Rappresenta circa il 3% dei tumori orbitari ed è comune specialmente in età pediatrica. Si osserva una aumentata incidenza con la neurofibromatosi, talora in associazione ad altri tumori intracranici. Può interessare un solo nervo ottico, ma più frequentemente invade il chiasma ed eventualmente l’ipotalamo. Solo eccezionalmente sono interessate le radiazioni ottiche. Si sviluppa tra le fibre che vengono sostituite da tessuto tumorale, ma in caso di neurofibromatosi determina una dilatazione fusiforme del nervo e lo circonda con un setto fibroso. Istologicamente si caratterizza per l’aspetto pilocitico ed il lento sviluppo, solo eccezionalmente con caratteri di malignità. Il trattamento è chirurgico nei casi a sviluppo unilaterale senza invasione del chiasma e consiste nella resezione del nervo. Se si rileva la presenza di tessuto tumorale residuo ai margini della resezione è necessario un trattamento radiante integrativo. Nei bambini bisogna però evitare gli effetti deleteri delle radiazioni e si useranno chemioterapici tra i quali vincristina e deossirubicina.
IV e V decade di vita ed è spesso di tipo sinciziale o transizionale. Alcuni casi si presentano prima dei venti anni spesso in associazione a neurofibromatosi e con una prognosi peggiore. I meningiomi primitivi dell’ottico si sviluppano dalla guaina nervosa, all’estremità craniale del canale per cui richiedono un’esposizione intracranica. I meningiomi della fessura orbitale superiore si caratterizzano per l’invasione della periorbita, invece i meningiomi della cresta sfenoidale possono espandersi nella cavità orbitaria attraverso il canale ottico e confondersi con un meningioma dell’ottico. Il tratto diagnostico più caratteristico è la eventuale presenza di iperostosi e calcificazioni a nuvola. L’approccio più indicato è l’orbitotomia transcranica che permette di esporre tutto il tumore e di visualizzare il canale ottico.
Tumori dei nervi periferici Rappresentano il 5-15% dei tumori orbitari, spesso originando dalla branca ciliare del nervo nasociliare. Si possono riconoscere: il neurofibroma semplice (usualmente nel quadrante orbitario laterale), il neurofibroma diffuso (che invade il tessuto orbitario e che è di difficile resezione), il neurofibroma plessiforme (che si caratterizza per la presenza di fascicoli nervosi abnormemente dilatati, con difetti ossei sfenoidali, talora associati a glaucoma o a glioma dell’ottico o meningioma) e lo schwannoma o neurilemmoma (che molto più raramente degenera rispetto ai neurofibroma). Per l’intervento risultano ugualmente appropriate sia l’orbitotomia laterale che transcranica.
Tumori fibro-ossei Meningioma orbitario L’esoftalmo unilaterale è dovuto nel 5-15% a meningioma. Esso prevale nelle donne nella
Comprendono: 1) L’osteoma dell’orbita, dai resti embrionali delle cellule etmoidali anteriori, peduncolato;
Tumori 1029
2) La displasia fibrosa, sia dell’ala sfenoidale che del tetto dell’orbita. È caratteristica dei bambini e dei giovani adulti. Il trattamento è chirurgico. Non risponde alla radioterapia. Può produrre cecità per compressione del nervo ottico. 3) Altri: cisti aneurismatica, sarcoma osteogenico e fibroma ossificante.
Altri TUMORI METASTATICI Sia dei tessuti molli, sia con invasione ossea, l’origine più comune è mammaria o polmonare. Si caratterizzano per il dolore ed edema palpebrale, esoftalmo e diplopia. LESIONI DEI SENI PARANASALI
Tumori di origine vascolare Comprendono: 1) Emangioma cavernoso. Si osserva soprattutto tra i 30 ed i 50 anni, cresce lentamente in posizione retrobulbare o intracanalicolare. Si presenta come una massa rotonda o ovale incrementata dal contrasto. È di facile escissione attraverso un’orbitotomia laterale. L’emangioblastoma capillare si osserva in età pediatrica. 2) Linfangioma. Benché benigno è clinicamente aggressivo. Si osserva nei giovani e può progredire rapidamente per una emorragia intratumorale o infezione delle vie aeree superiori. Assume contrasto irregolarmente ed è di difficile escissione totale per mancanza di una capsula. 2) Altri: emangioma capillare, emangiopericitoma e malformazioni artero-venose.
Tumori mesenchimali Comprendono: 1) Rabdomiosarcoma. È il tumore orbitario più comune in età pediatrica, con un picco intorno ai 7 anni. La diagnosi è urgente perché la radioterapia e la chemioterapia eradicano il tumore nel 70% dei casi. L’approccio transcranico è controindicato per il rischio di diffusione intracranica. 2) Istiocitoma fibroso. È tipico degli adulti; benché benigno può recidivare.
Mucocele dei seni paranasali. Dolore, esoftalmo e chemosi sono i segni principali, con l’occhio spinto lateralmente. La CT con finestra ossea e la RM dimostrano la continuità con i seni paranasali. ENCEFALOCELE E MENINGOCELE Può essere di origine post-traumatica per difetto osseo, oltre che congenito. Si caratterizza per l’esoftalmo pulsante. Il trattamento è intracranico con ricostruzione del tetto orbitario e riparazione della dura. CISTI DERMOIDE Di solito anteriore nel quadrante nasale o temporale. Si presenta ipointensa alla CT e iperintensa in T1. Deve essere escissa totalmente; il contenuto può risultare irritante per le strutture orbitarie. TUMORI DELLA GHIANDOLA LACRIMALE Si tratta di tumori epiteliali benigni e maligni tra cui il cilindroma (maligno). In presenza di invasione si richiede l’exenterazione oculare. ALTRE LESIONI NON NEOPLASTICHE 1) Esoftalmo endocrino. È una delle più comuni cause di esoftalmo nell’adulto, più spesso nelle donne. Si caratterizza per la retrazione palpebrale ed i segni di ipertiroidismo, ma ta-
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lora gli ormoni tiroidei sono nella norma. I severi fenomeni infiammatori possono produrre fibrosi dei muscoli oculari. La terapia corticosteroidea è efficace, ma talora si richiede orbitotomia decompressiva. Alla TC ed alla RM si osserva iperplasia muscolare. 2) Pseudotumor orbitario. Si manifesta con edema palpebrale, chemosi, proptosi e limitazione dei movimenti oculari. Da un punto di vista istologico si caratterizza per i segni di un’infiammazione aspecifica o quelli di un granuloma linfocitico. La CT e la RM non riescono a differenziare questa condizione da un processo neoplastico, per cui l’esplorazione orbitaria è spesso necessaria. Si richiede una lunga terapia steroidea e talora 1000 o 2000 rad di radioterapia. ALTRI • Tessuto linfoide e ematogeno, tipici linfoma e infiltrati leucemici. • Tumori retinici: retinoblastoma e melanoma.
Tumori glomici o paragangliomi Derivano dalle cellule paragangliari, per cui il termine “paraganglioma” è più appropriato. Si sviluppano dall’orecchio medio o nel foro giugulare in rapporto al glomo giugulare o più raramente (10%) vagale. Sono tumori molto vascolarizzati, nutriti dalla faringea ascendente, con attività secretoria di tipo catecolaminico nel 5%. Sono benigni con scarse mitosi e crescono lentamente ma con un’invasività ed un’aggressività locale. Il 10% ha un’origine multicentrica (ganglio carotideo, nodoso, tiroide o surrenali, talora nel contesto di un’adenomatosi multipla) con una certa familiarità. Quando il tumore si sviluppa nell’orecchio medio si manifesta con ipoacusia, talora con secrezione siero-ematica auricolare, ed è visi-
bile una massa retrotimpanica. L’espansione del tumore verso la base cranica, corrisponde alla comparsa di dolore auricolare con deficit del faciale e dei nervi misti (sindrome del forame giugulare con alterazioni del timbro vocale e disfagia) e la massa è eventualmente palpabile nel collo. L’esame audiometrico evidenzia l’eventuale ipoacusia. La radiografia standard del cranio dimostra l’eventuale erosione ossea. La diagnosi viene fatta con la TC, che rivela la massa e più ancora l’aspetto delle strutture ossee, e la RM, che precisa i rapporti anatomici del tumore, specie coi grossi vasi del collo, ed aiuta a capire l’estensione del tumore rispetto alla dura (di solito è extradurale). Lo studio vascolare può essere completato con l’angiografia, che eventualmente permette la chiusura preoperatoria della faringea ascendente. Il dosaggio delle catecolamine è fondamentale per conoscere la situazione secretiva del tumore e quindi prevenire con fentolamina crisi ipertensive intraoperatorie. La diagnosi differenziale più importante riguarda la patologia dell’angolo ponto-cerebellare e più raramente lesioni della base cranica quali cordoma del clivus, carcinoma della base, tubercolosi, osteomielite, colesteatoma, istiocitosi X, linfoma e lesioni granulomatose. Il trattamento è chirurgico. Se il tumore è piccolo le strutture dell’orecchio medio possono essere salvate. Tra le complicanze post-operatorie bisogna considerare la polmonite ab ingestis, le fistole liquorali, e le alterazioni corneali da deficit del faciale (cheratite). Il valore della radioterapia è controverso, ma può servire nei tumori voluminosi nel tentativo di ridurne la massa.
Emangioblastomi Sono benigni, tipici dell’età adulta, rappresentano l’1,5% dei tumori intracranici, ma l’85% sono a sede cerebellare, costituendo il 9%
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dei tumori in fossa cranica posteriore. Il 3% dei casi interessa il midollo spinale (2% dei tumori midollari). Nel 20% dei casi è associato alla malattia di Von Hippel-Lindau (caratterizzata da angioma encefalico o retinico, ed evidenza di lesioni viscerali - neoplastiche o cistiche a sede pancreatica o renale, incluso il feocromocitoma, da incidenza familiare). Da ricordare il frequente esordio in gravidanza. Talora si presenta con localizzazioni multiple. Il tumore nel 70% dei casi è cistico con un nodulo murale, molto vascolarizzato, rosso, immerso in un fluido giallo. La parete cistica non contiene cellule neoplastiche. Le manifestazioni cliniche sono aspecifiche, con segni di lesione in fossa cranica posteriore, ma talora può presentarsi con emorragia. Può accompagnarsi ad eritrocitosi. Deve essere considerata la presenza di un feocromocitoma (sbalzi pressori ed altri segni di eccessiva stimolazione simpaticomimetica), richiedendo eventualmente il dosaggio delle catecolamine e dei prodotti di degradazione (acido vanilmandelico, metanefrina) nelle urine delle 24 ore. Alla TC il tumore cistico è ipodenso, con la parte nodulare che si impregna intensamente. Il tumore solido appare isodenso, con marcato incremento dopo contrasto. La RM mostra aspetti morfologici simili, ma rivela il polo vascolare per la presenza di vuoti di segnale e mostra i residui emosiderinici di precedenti perdite ematiche. Il trattamento è chirurgico: nel caso di tumore cistico si rimuove solo il nodulo coagulando bene il picciuolo vascolare, nel caso di tumore solido l’emostasi è più difficile, simile a quella di una MAV, ed il tumore viene isolato lavorando in periferia e prestando particolare attensione alle affluenze vascolari.
Tumori dermoidi ed epidermoidi Sono tumori rari (1%, vedi tavola) originanti da isole di epitelio ectopico. L’epidermoide è anche conosciuto col nome di colesteatoma. Gli
epidermoidi sono 10 volte più frequenti dei dermoidi, hanno una massima incidenza nella V decade di vita, e sono più frequenti nel maschio. I dermoidi prevalgono tra la I e la II decade. La sede tipica dei dermoidi è la linea mediana (sopra e sotto-tentoriale), o spinale, a livello della cauda equina, spesso in associazione a stigmate cutanee quali seno dermico, ciuffi di peli, pigmentazione focale, o spina bifida. Talora vengono interessati lo scalpo, l’orbita o la regione paranasale. A parte va considerato il colesteatoma dell’orecchio medio, il cui sviluppo sarebbe influenzato da processi infiammatori cronici. È stato peraltro osservato lo sviluppo di colesteatomi intratecali per dislocazione involontaria di frammenti cutanei in seguito a punture lombari seriali (questa eventualità si associa all’uso di aghi senza mandrino). Hanno un’apparenza rotondeggiante, multilobata e liscia dal colore perlaceo. Entrambi contengono strutture cutanee: gli epidermoidi sono costituiti solo da epitelio dermico con uno strato connettivale, i dermoidi includono gli annessi cutanei quali follicoli piliferi, ghiandole sebacee e sudoripare, occasionalmente denti. All’interno degli epidermoidi si riscontra materiale caseoso, secco, costituito dall’accumulo di residui epidermici cheratinizzati. I dermoidi si caratterizzano invece per la presenza di materiale sebaceo e peli in aggiunta ai residui cheratinizzati. Sono tumori a lento accrescimento. I sintomi dipendono dalla sede della neoplasia. Occasionalmente la rottura della cisti negli spazi liquorali determina la comparsa di segni meningei per una meningite chimica. È uno dei casi in cui la radiografia standard del cranio può fornire informazioni preziose. Tipicamente, lesioni a sviluppo intradiploico si manifestano con un’area osteolitica dal sottile orlo sclerotico. Lesioni intrapetrose dell’orecchio medio appaiono in modo simile. Se il rapporto col cranio è solo di contiguità si rileva invece un’impronta osteolitica con margini
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sclerotici che interessa il tavolato esterno od interno, a seconda del punto di appoggio. La tomografia computerizzata del cranio evidenzia una lesione molto ipodensa, a margini ben delimitati, non impregnabile. I dermoidi a volte includono un abbozzo dentario di densità ossea. A differenza di altre lesioni, anche in presenza di uno sviluppo ventricolare o paraventricolare, raramente compare idrocefalo poichè il tumore si modella nello spazio disponibile senza deformare le strutture circostanti. La RM genera immagini compatibili con l’alto contenuto lipidico della lesione: ipointense in T1 ed iperintense in T2. I margini sono anche in questo caso molto ben definiti. La terapia è ovviamente chirurgica e la rimozione del tumore deve essere idealmente completa. Ciò è possibile nel 100% delle forme extracraniche ma solo nel 50-80% delle forme spinali ed intracraniche.
Cordomi Sono tumori rari che rappresentano lo 0,2% dei tumori cranici e l’1-4% dei tumori ossei maligni. Crescono lentamente in forma progressiva, originati dai resti della notocorda embrionale, a livello del basicranio (35%) o della colonna vertebrale (sacrococcigei 50%, vertebrali 15%, soprattutto cervicali). Il sintomo più frequente è il dolore, con disfunzione rettale nelle localizzazioni sacro-coccigee. Nella localizzazione cranica il tumore si manifesta con cefalea e deficit dei nervi cranici, con segni cerebellari e di compressione delle vie lunghe, talora con segni di aumentata pressione endocranica o di ostruzione rinofaringea. La Rx standard è molto importante ai fini diagnostici perchè rivela distruzione ossea con l’ombra tumorale. Ovviamente la TC evidenzia tali alterazioni e permette una visione più diretta della massa, disomogenea, in rapporto col clivus e con la sella, o l’aspetto caoticamente
osteolitico a livello della colonna, con l’immagine della massa tumorale. La RM precisa i rapporti anatomici del tumore, in T1 la massa appare ipo-isointensa, in T2 iperintensa. Il contrasto viene assunto in modo omogeneo, ed il tumore appare settato o lobulato nel 70% dei casi. Il condroma condroide si impregna molto più marcatamente. A livello sierologico si può osservare un aumento della fosfatasi alcalina e della VES, che possono essere usati per il follow-up. La diagnosi differenziale deve includere: condroma, condrosarcoma, tumori ipofisari, carcinoma nasofaringeo con invasione ossea e tumori dell’angolo ponto-cerebellare.
Linfomi primitivi Rappresentano l’1% dei tumori primitivi intracranici, spesso multifocali (30-50%) e la loro incidenza è in crescita sia nei pazienti normali che immunodepressi. Questi sono particolarmente a rischio e comprendono gli ammalati di AIDS, quelli in terapia immunosoppressiva e quelli con immunodeficienza congenita o con altre condizioni acquisite. L’origine è incerta dal momento che il SNC non possiede tessuto linfatico, si sviluppano però negli spazi perivascolari. La sede tipica è paraventricolare, nella profondità dei lobi frontali con invasione dei gangli della base, talora con aspetto a farfalla. La consistente possibilità di lesioni cerebrali multiple, può indurre il sospetto di metastasi. Si associano ad edema, ma invadono più che comprimere il tessuto circostante. È possibile una disseminazione meningea o sub-ependimale, con possibile ispessimento dei nervi cranici e/ o spinali. Meno del 5% presenta un linfoma non Hodgkin sistemico preesistente, mai successivo alla localizzazione cerebrale. Si manifestano nel giro di pochi mesi con cefalea o deficit focali, spesso in rapporto ad una localizzazione frontale e quindi con associate alterazioni della personalità e dell’umore.
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Per possibili localizzazioni retiniche, si osservano con una certa frequenza anche disturbi visivi. La diagnosi si basa sulla TC con aspetto iperdenso per l’elevata ipercellularità e il marcato incremento dopo contrasto. La RM in T2 evidenzia una lesione iso o iperintensa rispetto alla sostanza grigia. L’esame del liquor è diagnostico nel 10%, particolarmente nel caso di lesioni periventricolari e sub-ependimali e/o diffusione sub-aracnoidea, per la presenza di cellule linfatiche monoclonali (immunoistochimica) con elevazione del contenuto proteico e senza alterazione del glucosio. La differenziazione più importante è con la toxoplasmosi nei pazienti immunodepressi. Il linfoma si caratterizza per la regressione completa con terapia steroidea da effetto citotossico diretto. La differenziazione va fatta per altri versi, con le metastasi, i gliomi, i meningiomi, e gli ascessi, in cui la terapia steroidea modifica l’ipodensità perilesionale ma non la massa tumorale. La dimostrazione istologica della lesione quando l’esame del liquor sia inconclusivo, si basa sulla biopsia stereotassica. La terapia di scelta è il trattamento steroideo. La resezione chirurgica non migliora la prognosi, con una sopravvivenza di 1-5 mesi. La radioterapia migliora la prognosi con sopravvivenze di 10-18 mesi, con dosi su tutto il cervello fino a C2. Spesso si associa la chemioterapia sistemica, intratecale o intraventricolare (reservoir di Ommaya) con Metotrexate ma, benchè migliori ulteriormente la sopravvivenza, comporta il rischio di leucoencefalopatia quando sia usato dopo la radioterapia. La sopravvivenza a 5 anni raggiunge al massimo il 5%, con il 734% di disseminazione sistemica.
Metastasi Le metastasi cerebrali sono molto frequenti, al 2o posto dopo i gliomi; infatti il 25% dei pazienti con tumori maligni sviluppa una metasta-
si cerebrale. Le più comuni sono quelle che originano da tumori polmonari o da tumori che comunemente metastatizzano ai polmoni quali il cancro del seno ed i melanomi. La probabilità di metastasi cerebrale per i vari tumori è riportata nella tabella. Sede o tipo del tumore primitivo Cute Polmone Mammella Tiroide Sarcoma Rene Sangue Prostata e Colon Fegato e Pancreas, Linfoma Genitali femminili
Frequenza % 48 32 21 19 15 11 8 6 5 2
La localizzazione intraparenchimale (Fig. 23.19 A-B) è la più frequente (soprantentoriali 80%, cerebellari 16%, tronco cerebrale 3%), con un’unica localizzazione nel 40-45% dei casi. La localizzazione leptomeningea è comune in caso di leucemia, specie acuta, linfomi non Hodgkin, carcinoma mammario. Il cancro della prostata predilige il cranio e la dura e talora simula un meningioma, perché è possibile una reazione osteoaddensante. Le manifestazioni cliniche si caratterizzano per la rapida progressione dei sintomi. Un esordio di tipo ictale si osserva nel 10% dei casi. Il 50-60% dei pazienti lamenta cefalea. Seguono nell’ordine: deficit motorio focale (40%), atassia (20%) e convulsioni (15-20%). Nella localizzazione leptomeningea i sintomi sono spesso di difficile interpetazione. L’aspetto tomografico caratteristico è quello di una lesione ipodensa (90%), che incrementa con la somministrazione di contrasto, con notevole edema. Tumori con diametro maggiore di 2 cm. sono più spesso eterogenei. Un aspetto cistico con opacizzazione del contorno ad anello pone problemi di diagnosi differenziale con
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Fig. 23.19 - Metastasi parietale posteriore sin. A) RM con mdc SE-T1, s. sagittale; B) RM T2 FLAIR, s. assiale. Neoformazione di forma sferica, ben delimitata, associata a notevole edema perilesionale, con intensa assunzione di m.d.c. Il tumore primitivo era un carcinoma polmonare a grandi cellule.
l’ascesso cerebrale e talora col glioblastoma. In taluni casi l’aspetto iperdenso e la contiguità con la dura simula un meningioma. Il meningioma peraltro è il più frequente dei tumori associati. Le lesioni emorragiche o ischemiche sono relativamente frequenti nei pazienti cancerosi (15% all’autopsia) e bisogna evitare di confondere l’occasionale incremento contrastografico nell’area infartuata con una metastasi. All’altro estremo ci sono metastasi, tipo il melanoma, che possono manifestarsi con un
ematoma nel cui contesto si cela la massa neoplastica, di solito svelata dall’iniezione di contrasto. Un altro problema riguarda la differenziazione di un’area radionecrotica da una ricorrenza metastatica, tenendo conto che anche un’area radionecrotica può avere a volte un effetto massa. La terapia è spesso solo medica ed a base di steroidi (desametasone 10 mg iniziali e 4 mg ogni 6 ore) per il controllo dell’edema. Nei linfomi vi sarebbe un effetto citolitico diretto di questo composto. La chirurgia è indicata nelle metastasi cerebrali uniche ed in pazienti con un aspettativa di vita al di sopra dei 6 mesi (15-20% del totale). La mortalità operatoria è del 2% ma se siano presenti metastasi in altre sedi sale al 30%. La radioterapia (o la radiochirugia) viene usata da sola o più spesso a consolidamento del risultato chirurgico. Deve essere centrata sul focolaio metastatico dal momento che ha la stessa efficacia sulla sopravvivenza dell’irradiazione generalizzata ma con minore danno all’encefalo senza il rischio del decadimento demenziale post-radionecrotico. Tra l’altro una successiva metastasi potrà essere tranquillamente trattata. La sopravvivenza a 1 anno è del 75%, a 2 anni del 24%. La terapia è solo palliativa nei pazienti con metastasi multiple. La radioterapia da sola è indicata qualora vi sia una aspettativa di vita superiore ai 3 mesi ma a dosi concentrate di 2000-3000 rads in 1 settimana.
Tumori rachidei e midollari Rappresentano il 15% dei tumori del sistema nervoso centrale. A seconda dello sviluppo si distinguono in: intramidollari (5%), intraduraliextramidollari (40%) ed extradurali (55%). Il 90% delle forme intradurali sono benigne e potenzialmente asportabili. Nel gruppo dei tumori extradurali sono incluse le metastasi ed i
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linfomi che non sempre giungono all’osservazione neurochirurgica.
Tumori Intramidollari Sono molto rari e prevalgono nell’adulto. Si tratta quasi sempre di ependimomi (45%) (Fig. 23.20) ed astrocitomi (35%). L’ependimoma si manifesta di preferenza tra la 3a e la 6a decade di vita con una leggera prevalenza nei maschi. Gli astrocitomi sono soprattutto benigni (rapporto di 3:1 nei confronti dei maligni), sono 1,5 volte più frequenti nei maschi e hanno un picco di incidenza tra la 3a e la 5a decade di vita. L’emangioblastoma ed il lipoma rappresentano rispettivamente il 2-3% delle neoplasie intramidollari. Gli angiomi cavernosi, i tumori dermoidi ed epidermoidi, i teratomi, le metastasi, sono molto più rari. L’ 1% dei neurofibromi sono a localizzazione intramidollare. Il riscontro di oligodendrogliomi è solo occasionale. La localizzazione prevalente è toracica e cervico-toracica. Ciò non vale per l’ependimoma che nel 50% dei casi si localizza nel filum terminale.
Presentazione e diagnosi La latenza clinica è in genere lunga, intorno ai 7 anni nelle casistiche più datate, ma tende a ridursi con l’uso sempre più diffuso della RM che ha permesso una diagnosi più precoce. I sintomi principali consistono di algie al collo, alla schiena, o anche di tipo radicolare, con parestesie, perdita della sensibilità, atrofia dei muscoli delle estremità, ed ipostenia. Nella maggior parte dei casi è presente un deficit motorio agli arti inferiori anche se con deambulazione spesso mantenuta. In epoca pre-TC la diagnosi si basava sull’esame mielografico dove era evidente uno slargamento della silhouette midollare con eventuale erosione dei peduncoli vertebrali. Oggi l’esame di scelta è la RM che dimostra con chiarezza la lesione ed i rapporti col midollo, non solo in proiezione assiale, ma anche sagittale. La eventuale cisti viene inevitabilmente visualizzata, non solo, ma viene chiarita la posizione rispetto alla neoplasia. Infatti una quota di questi tumori sono cistici solo in apparenza, dal momento che la dilatazione cistica si produce nel midollo, in posizione polare rispetto alla neoplasia. La lunghezza media dei tumori midollari è tra i 4 ed i 5 segmenti midollari, simile per astrocitomi ed ependimomi. La TC si può ritenere esame di seconda scelta o per approfondire lo studio dell’osso.
Trattamento e risultati
Fig. 23.20 - Ependimoma della cauda. RM SE-T2, s. sagittale. Neoplasia isointensa che occupa l’intero canale spinale nella sua parte terminale.
L’intervento dà buoni risultati con stabilizzazione o miglioramento delle condizioni cliniche. Esso consiste in una mielotomia longitudinale con tecnica microchirurgica. L’ependimoma è ben dissecabile dal circostante tessuto midollare e deve essere rimosso totalmente in quanto in questi casi si ha una percentuale di guarigione che supera l’80%. Una rimozione subtotale comporta invece una recidiva quasi certa della neoplasia.
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Diverso è il discorso per l’astrocitoma che anche a livello midollare si comporta come un tumore infiltrante. La sopravvivenza in questo caso non sembra dipendente dalla radicalità della resezione, ma piuttosto dal grado istologico della neoplasia. La terapia radiante è indicata per tutti i casi di astrocitoma e per gli ependimomi quando la resezione non sia completa.
Tumori Extramidollari Intradurali Il più comune dei tumori extramidollari intradurali è il neurinoma (Fig. 23.21) (30%) seguito dal meningioma (Fig. 23.22) (25%). Altri tumori sono più rari. I sintomi dipendono dalla localizzazione del tumore. Circa l’80% dei meningiomi ed il 40% dei neurinomi interessano il segmento toracico. I meningiomi sono 3 volte più comuni nelle donne, tra la 5a e la 7a decade di vita. Non c’è un’età tipica di incidenza del neurinoma e non vi è differenza nei due sessi.
Fig. 23.21 - Meningioma spinale. RM con mdc SE-T1, s. sagittale. In corrispondenza dello spazio D12-L1 si evidenzia una massa nodulare, che assume contrasto, originando dalla dura madre postero-laterale, spostando in direzione controlaterale il midollo spinale.
Fig. 23.22 - Neurinoma spinale. RM con mdc SE-T1, s. sagittale. Neoformazione fortemente iperintensa che si sviluppa all’altezza del corpo di L4, in direzione del forame di coniugazione, originando dalla radice L5.
Presentazione e diagnosi Il quadro clinico iniziale evolve lentamente ed il dolore appare spesso precocemente. Si irradia al torace o all’addome ed è tipicamente più intenso durante la notte, tanto che impedisce il sonno, e per il neurinoma ha una distribuzione radicolare. Spesso compaiono anche difficoltà della deambulazione e disturbi sfinterici a tipo “minzione imperiosa” od incontinenza. È spesso possibile evidenziare segni compressivi del tratto piramidale con una paraparesi spastica ed un livello sensitivo. Poichè questi tumori tendono ad occupare una posizione eccentrica nel canale spinale, con un effetto compressivo asimmetrico, l’incidenza della sindrome di Brown-Sequard è alta ed è un elemento differenziale importante nei confronti delle lesioni intramidollari. L’esame radiografico standard della colonna vertebrale talora mostra un’erosione dei peduncoli e, nel caso di neurinoma, un allargamento del forame di coniugazione. L’esame più completo è ancora la RM, capace di dimostrare la posizione della lesione rispetto al midollo ed
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agli involucri durali, la reale estensione della lesione, i rapporti con le radici e gli aspetti del tessuto neoplastico, che col gadolinio risalta nettamente.
Trattamento e risultati La rimozione deve essere completa, ma talora (quasi sempre per i neurinomi), si richiede il sacrificio di una o più radici. Il midollo non va retratto né in alcun modo danneggiato, specie a livello toracico. Residui tumorali potranno essere irradiati, o meglio, seguiti con controlli TC o RM seriali ed irradiati solo quando aumentino di volume. Il recupero è migliore per coloro che preoperatoriamente avevano i deficit più lievi. Talora il miglioramento della deambulazione e del deficit sfinterico è immediato. Le complicazioni sono rare e tra queste la fistola liquorale.
Tumori extradurali Metastasi Rappresentano la maggioranza dei tumori spinali ma solo una parte giunge alla osservazione neurochirurgica. Si verificano nel 5% dei casi di carcinoma, di solito dal polmone o dalla mammella, ed una quota è di origine linfomatosa. L’intervallo tra lo sviluppo del tumore primitivo e la metastasi può raggiungere anche 20 anni, specie per il cancro della mammella. L’età di massima incidenza è tra i 40 ed i 65 anni. Caratteristicamente il disco intersomatico viene rispettato, pur in presenza di estensione della lesione al corpo vertebrale contiguo (al contrario, nella discite la lesione interessa preminentemente il disco) (Fig. 23.23). Anche la dura è quasi sempre rispettata, con eccezione dell’ 1-4%. Nel 17% dei casi le lesioni, anche con un intervallo libero tra una manifestazione clinica e l’altra, sono multiple.
Fig. 23.23 - Metastasi spinale. RM TSE-T2, s. sagittale. Estesa area isointensa che coinvolge il soma di D11-D12L1, con aspetto destruente. L’aspetto è quello di una localizzazione secondaria con invasione dello spazio epidurale e conseguente compressione del cono midollare.
Il dolore è il sintomo iniziale nel 96% dei casi e precede gli altri sintomi di almeno 2 mesi nel 50% dei casi. Un’ipostenia agli arti, specie inferiori, si osserva nel 76% dei pazienti; il 15% è paraplegico alla diagnosi. Più della metà dei pazienti lamenta disturbi sfinterici ed una percentuale analoga lamenta parestesie agli arti, quale segno di sofferenza delle vie lunghe. Il deficit motorio, data l’acuzie dello sviluppo, è solitamente di tipo flaccido. Il livello motorio è più attendibile del deficit sensitivo, il quale spesso è asimmetrico. Spesso si osserva dolore provocato a livello della lesione. La ritenzione urinaria viene verificata con la cateterizzazione post-minzionale (residuo > 150 ml). La radiografia standard della colonna vertebrale dimostra tipiche erosioni ossee, a carico del corpo o dei peduncoli, ma con rispetto dei piatti discali (elemento differenziale importante nei confronti dell’osteomielite). Caratteristico è l’aspetto iperostotico, detto “eburneo” delle metastasi da carcinoma prostatico. La RM dà un quadro d’insieme, dimostrando l’estensione
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della lesione, il livello ed il rapporto coi tessuti paravertebrali. Eventuali altre lesioni vertebrali asintomatiche sono spesso visibili ed il rapporto della lesione coi piatti discali è più chiaro. Di solito la metastasi interessa il peduncolo vertebrale e non invade il piatto discale. La scintigrafia orienta la scelta terapeutica, dimostrando eventuali metastasi scheletriche associate. Il trattamento mira al recupero della motilità e del controllo sfinterico. L’intervento deve essere fatto il più precocemente possibile per un risultato ottimale. L’approccio è di solito posteriore, ma la decompressione può essere estesa anteriormente se il peduncolo è malacico ed il tessuto tumorale facilmente asportabile. Bisogna però considerare un approccio anteriore o antero-laterale per lesioni strettamente anteriori, specie a livello toracico, con sostituzione (acrilato e/o supporto metallico) del corpo vertebrale. Il 60% dei pazienti che deambulano al momento dell’intervento rimangono tali, ma solo il 35% di quelli paraparetici riescono poi a camminare. Il dolore tende a ridursi. La mortalità post-operatoria è alta perchè è soprattutto in rapporto all’evoluzione del processo tumorale primitivo (12% il primo mese). Nell’ 11% vi è un peggioramento delle condizioni neurologiche. Un trattamento cortisonico perioperatorio è sempre necessario, specie in corso di radioterapia. L’intervento è necessario qualora intervenga un peggioramento per instabilità vertebrale, compressione ossea, mancata regressione del tumore nonostante il trattamento radiante, peggioramento intervenuto dopo un lungo periodo di benessere e quando la diagnosi sia dubbia. La radioterapia ha talora risultati sorprendentemente buoni, con effetti positivi sulla motilità e sul dolore. I tumori fortemente radiosensibili (linfoma di Hodgkin, linfomi non Hodgkin, mieloma multiplo, seminoma, neuroblastoma) devono essere trattati solo con la radioterapia poiché i risultati sono migliori anche rispetto ad un trattamento combinato (50% di risultati positivi).
Tumori benigni Il neurilemmoma ed il neurofibroma sono chiaramente extradurali nel 15% dei casi. In un altro 15% assumono una configurazione a clessidra, con estensione intra e/o extradurale ed occupano il canale di coniugazione. I meningiomi sono extradurali nel 15% dei casi. Per tutti questi tipi, la localizzazione più frequente è quella toracica (1/2 dei neurilemmomi e neurofibromi, 2/3 dei meningiomi).
Altre lesioni vertebrali Angioma vertebrale Può essere considerata la lesione vertebrale di riscontro più comune, sia nella forma capillare che cavernosa. Si riscontra nel 2% od oltre dei casi autoptici routinari. L’incidenza massima è a livello toracico. Nel 75% dei casi interessa solo un corpo vertebrale e nel restante 25% è multiplo, interessa fino a 5 corpi vertebrali. Prevale oltre la 4ª decade di vita. Alterazioni tipiche si riscontrano già all’indagine radiografica standard. Appare come un’area di rarefazione ossea con trabecolature verticali sclerotiche, a volte con allargamento e/o collasso del corpo vertebrale. I piatti discali sono di solito conservati. A volte l’alterazione dei peduncoli vertebrali e la presenza di una massa paravertebrale simula una metastasi. La TC chiarisce questi dettagli mostrando il grado di interessamento del canale vertebrale. L’angiografia permette la diagnosi definitiva, ma la RM mostrando, oltre la lesione, la ricca vascolarizzazione, rende spesso superflua l’angiografia. Il sintomo fondamentale è il dolore con deficit motori e/o sensitivi in relazione al livello compressivo. Il trattamento è chirurgico. Da considerare il rischio di emorragie e la necessità di ricostituire la colonna vertebrale con osso autologo, fibula o cresta iliaca, o metacrilato, spesso con barre intervertebrali di supporto.
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L’embolizzazione preoperatoria riduce il sanguinamento durante l’intervento. La radioterapia costituisce una valida alternativa al trattamento chirurgico nei casi in cui questo non sia di facile realizzazione.
lità di una comunicazione con gli spazi durali, come nel caso del teratoma, del meningocele e del lipoma, le lesioni più comuni del neonato. Il trattamento è spesso plurispecialistico. Riferimenti bibliografici
Cordomi Sono di origine embrionaria (dalla notocorda) e rappresentano circa l’1% dei tumori ossei. L’incidenza è massima tra la 4a e la 5a decade di vita, con un rapporto uomo donna di 2:1. Il 50% circa si riscontra a livello della regione sacro-coccigea, il 35% alla base del cranio ed il 15% nel resto della colonna vertebrale. Il dolore è il sintomo più frequente (72%). Alterazioni dell’alvo sono state riscontrate nel 17% dei pazienti. Appaiono segni aspecifici di compressione midollare per i tumori della regione cervicale e toracica. All’esame radiografico standard si rilevano marcate alterazioni morfologiche dei corpi vertebrali, estesi per più metameri contigui attraverso lo spazio discale, talora con aree marginali sclerotiche. La TC mostra la massa neoplastica con la densità dei tessuti molli e con varie calcificazioni. Si può ben apprezzare l’estensione nello spazio epidurale. L’infusione di contrasto non modifica le caratteristiche tomodensitometriche della massa. Il trattamento è chirurgico. Le recidive entro il primo anno sono frequenti e solo il 10% ottiene una guarigione definitiva. Indicata anche la Radioterapia come provvedimento integrativo.
Masse presacrali Eventuali masse presacrali possono essere di natura congenita, neurogenica, ossea, neoplastica varia, ed infiammatoria. La sintomatologia è spesso sfumata al punto che posssono raggiungere dimensioni notevoli prima della diagnosi. Bisogna sempre considerare la possibi-
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Le demenze 1041
24. Le demenze C. Loeb, M. Tabaton
La demenza è un disturbo delle funzioni intellettive, acquisito e di natura organica, caratterizzato da: compromissione della memoria a breve e a lungo termine e, almeno, di una delle attività mentali primarie, cioè il pensiero astratto, la capacità critica, il linguaggio, l’orientamento topografico, in assenza di alterazioni della coscienza, e con significativa interferenza nell’attività lavorativa e nelle relazioni interpersonali (Manuale diagnostico dei disturbi Mentali- DSM IV-1994). La prevalenza di demenza grave si aggira sul 4-5% della popolazione sopra i 65 anni e cresce in funzione dell’età: è di circa l’1% nella fascia d’età 65-70 anni, ma supera il 30% sopra gli 85 anni (Rocca et al., 1990). Il numero dei casi è destinato ad aumentare con la crescita della popolazione anziana, che entro il 2030 è prevista crescere del 250% nei paesi industrializzati. La demenza può essere causata da numerose malattie, ma l’incidenza delle diverse patologie responsabili è difficilmente precisabile, perché la diagnosi clinica ha una attendibilità variabile, ma certamente non superiore al 70-80%, e la diagnosi neuropatologica rappresenta solo una parte dell’intero gruppo dei dementi. Comunque, viene usualmente accettato che il 50-55% dei dementi sia affetto da malattia di Alzheimer, il 15% circa da demenza vascolare e un altro 15-20% da forme miste, casi in cui coesistono alterazioni tipo Alzheimer e infarti multipli. I restanti casi, circa il 10-15%, sono da ascrivere a demenza di varia natura: degenerativa, carenziale, metabolica, endocrina, tossica, infettiva, traumatica, tumorale, da idrocefalo normoteso (v. Tab. 24.1). Alcune di queste malattie sono curabili, con terapia medica o chirurgica, e rappresentano, perciò, demenze cosiddette reversibili.
Recentemente è stata proposta la distinzione tra demenza corticale e demenza sottocorticale, termine del resto già utilizzato negli anni trenta. La demenza corticale paradigmatica sarebbe rappresentata dalla demenza tipo Alzheimer, ove le lesioni sono, come vedremo, nettamente predominanti a livello corticale, mentre la demenza sottocorticale si riscontrerebbe in malattie con lesioni sottocorticali (gangli della base, talamo, tronco dell’encefalo rostrale, comprese le proiezioni di queste strutture alle aree frontali) (Cummings, 1990). La demenza corticale è caratterizzata da precoci alterazioni delle funzioni simboliche (disfasia, turbe prassiche e gnosiche), alterazioni della memoria di rievocazione, difficoltà a immagazzinare informazioni, anche utilizzando strategie che facilitano la codificazione, incapacità di pensiero astratto, mentre la demenza sottocorticale sarebbe contraddistinta da un precoce rallentamento dei processi cognitivi, alterazione meno accentuata della memoria di rievocazione, con buoni risultati dell’impiego di strategie di arricchimento per l’immagazzinamento dei dati, alterazione della personalità con apatia e inerzia, depressione, rallentamento motorio. Le critiche a questa impostazione sono state numerose: la sintomatologia descritta può essere riscontrata in ambedue le forme, corticale e sottocorticale, nell’evoluzione del processo morboso; le alterazioni neuropatologiche non sono limitate alle strutture corticali o sottocorticali in nessun caso, per cui molti AA. ritengono che l’esame critico dei dati neurochimici, neuropatologici e clinici non consenta, al momento, di proporre una distinzione tra demenze corticali e sottocorticali (Whitehouse,1986).
1042 Malattie del sistema nervoso Tabella 24.1 - Demenze in diversi quadri morbosi. 1(a). Demenze primarie Malattia di Alzheimer Demenza fronto-temporale a) Malattia di Pick b) Afasia primaria progressiva c) Demenza semantica d) Demenza fronto-temporale con amiotrofia e) Demenza fronto-temporale e parkinsonismo associata al cromosoma 17 f) Degenerazione cortico-basale Malattia dei corpi di Lewy diffusi 1(b). Demenza associata a malattia con degenerazione neuronale primaria M. di Parkinson Corea di Huntington Paralisi Sopranucleare Progressiva Degenerazione spino-cerebellare Malattia di Hallerworden-Spatz Epilessia mioclonica progressiva 2.
3.
Demenza vascolare Infarti multipli Stato lacunare Infarti di confine Malattie dell’aorta e dei vasi sopraaortici Malattia di Binswanger Aneurismi e malformazioni arterovenose Anossia ed ipossia Demenze e malattie da prioni M. di Creutzfeldt-Jakob Kuru M. di Gerstmann-Straussler-Scheinker Insonnia fatale familiare Variante della m. Creutzfeldt-Jakob
4.
Demenza da disturbi endocrini e metabolici Patologia tiroidea Patologia paratiroidea Patologia ipopituitarica Malattie epatiche Uremia Malattia di Wilson Demenza dialitica
5.
Demenza da idrocefalo normoteso
6.
Demenza da malattie carenziali Sindrome di Korsakoff-Wernicke Pellagra Malattia di Marchiafava-Bignami Deficit di vitamina B12 e di folati
7.
Demenza da encefalopatie tossiche e da farmaci
8.
Demenza da malattie cerebrali di varia genesi Tumori cerebrali Traumi cranici Infezioni Sindromi paraneoplastiche Altri disturbi cerebrali
9.
Demenza da encefaliti, meningiti, m. autoimmuni Criptococcosi Neurosifilide AIDS
10.
Demenza da altre malattie Sclerosi multipla (v. pag. 000) M. di Whipple (v. pag. 000)
(Modificata da C. Loeb, in Vascular and Multi-Infarct Dementia, Futura Pubbl. Co. Inc., Mount Kisco, New York, 1988)
In breve: la demenza è una sindrome, dovuta a un processo cerebrale organico, caratterizzata da deterioramento delle funzioni intellettive, il cui riconoscimento è basato su criteri clinici e neuropsicologici, mentre le neuroimmagini possono contribuire alla formulazione di una diagnosi differenziale fra le varie forme di demenza.
1. Demenze primarie Malattia di Alzheimer Nel 1907 Alois Alzheimer descrisse il caso di una donna di 51 anni, affetta da una demenza progressiva, caratterizzata sul piano neuropato-
Le demenze 1043
logico da peculiari alterazioni cerebrali. Per lungo tempo la malattia di Alzheimer fu considerata una rara demenza presenile. Negli anni ’70 una serie di studi dimostrarono che la demenza presenile di Alzheimer e la demenza senile avevano la medesima sintomatologia e il medesimo substrato patologico, per cui attualmente si ritiene che esista un’unica entità nosologica, denominata «demenza di Alzheimer», diagnosi possibile, quando, al quadro clinico caratteristico, si aggiunge la conferma istopatologica. La denominazione «demenza tipo Alzheimer» o «demenza primaria degenerativa tipo Alzheimer» sono denominazioni ampiamente utilizzate sulla base della sola diagnosi clinica, priva cioè della conferma istopatologica. EPIDEMIOLOGIA L’incidenza della malattia è molto elevata, e si ritiene rappresenti circa il 55% di tutti i casi di demenza, con una prevalenza variabile dall’1 al 6%, se si considerano tutte le fasce d’età, e si calcola che circa 400.000 persone ne siano attualmente affette in Italia. La malattia colpisce entrambi i sessi, con predilezione per le donne, indipendentemente dalla loro maggiore durata di vita, e si ipotizza che la carenza post-menopausale di estrogeni sia il fattore biologico che rende il sesso femminile più vulnerabile. In accordo con questa interpretazione, la terapia sostitutiva con estrogeni costituirebbe un fattore protettivo nei confronti della malattia. Il maggiore fattore di rischio è l’età, seguito dalla familiarità, che si presenta in due diverse forme. In una minoranza dei casi, valutabile intorno all’ 1-2%, la malattia è trasmessa in modo dominante, a penetranza completa e tutte le generazioni sono pesantemente colpite da una forma ad esordio precoce (30-35 anni in casi estremi) ed aggressiva. Nel 50-60% dei casi esiste una familiarità debole che si esprime nella presenza di due individui affetti in generazioni diverse, suggerendo l’esistenza di polimorfismi genetici che predispongono alla malattia. Altri fattori di rischio, che richiedono peraltro una conferma, sono la bassa scolarità e i traumi cranici. Nel primo caso si ipotizza che la scolarità sia direttamente proporzionale al numero di sinapsi corticali, per cui gli individui con alta scolarità avrebbero una riserva biologica più consistente, e un conseguente ritardo nella comparsa di una eventuale demenza. I traumi cranici favorirebbero l’accumulo e la deposizione di β-proteina, attraverso meccanismi ancora sconosciuti.
EZIOPATOGENESI Le attuali conoscenze suggeriscono che la malattia sia eziologicamente eterogenea. L’accumulo anomalo e progressivo di β-proteina, componente della sostanza amiloide (Glenner e Wong, 1984), è ritenuto il primo evento della malattia, seguito, a distanza di molti anni, dalla degenerazione neuronale, secondo l’ipotesi denominata dell’amiloide o della cascata. La βproteina, peptide di 40-42 aminoacidi, ha la proprietà, insita nelle sue caratteristiche fisico-chimiche, di aggregare spontaneamente in fibre di amiloide, proporzionalmente alla sua concentrazione. La β-proteina è il fisiologico prodotto metabolico di un precursore, una glicoproteina transmembrana denominata APP (Amyloid Precursor Protein), particolarmente espressa nei neuroni, il cui gene è localizzato nel cromosoma 21. La β-proteina è prodotta per l’azione sull’APP di due proteasi intracellulari, chiamate β- e γ-secretasi, con conseguente formazione di due frammenti di β-proteina da 40 e 42 aminoacidi. Le due varianti sono secrete all’esterno degli spazi extracellulari, e si ritrovano a basse concentrazioni, ed in forma solubile, nei fluidi biologici (plasma e liquor) in condizioni fisiologiche. Per contro, nel cervello di soggetti normali la β-proteina è completamente assente, e ciò dipenderebbe da meccanismi fisiologici, in gran parte ancora ignoti, che consentono la rapida eliminazione della molecola tossica dagli spazi cerebrali extracellulari. Secondo l’ipotesi dell’amiloide, per effetto di un’aumentata produzione o di un diminuito smaltimento, la concentrazione di β-proteina “42” aumenta progressivamente fino a raggiungere una concentrazione critica di polimerizzazione (Selkoe, 1999). Lo stato di polimerizzazione, raggiunto nel corso di una fase che dura molti anni, innesca nei neuroni uno stress ossidativo, che induce una degenerazione accompagnata da alterazioni del citoscheletro e termina con la morte neuronale programmata. La degenerazione dei neuroni è potenziata dalla produzione, sempre primaria-
1044 Malattie del sistema nervoso mente indotta dai polimeri di β-proteina, di citochine infiammatorie da parte delle cellule microgliali. Questa sequenza di eventi, che indica nell’accumulo di β-proteina il primo ed unico fattore eziologico, è sostenuta dal fatto che alterazioni cromosomiche e genetiche che determinano una congenita, primaria, aumentata produzione di β-proteina sono invariabilmente connesse ad un quadro di Alzheimer. Ciò accade solamente in due condizioni: a) nella sindrome di Down, in cui tutti i soggetti che superano i 35 anni hanno le alterazioni cerebrali caratteristiche della malattia di Alzheimer, con aumentata produzione di β-proteina totale per il sovradosaggio del gene dell’APP, a causa del triplice cromosoma 21; b) nelle forme di Alzheimer familiare sostenute da alterazioni genetiche che si esprimono producendo una aumentata produzione di β-proteina 42. Le alterazioni che sottendono forme familiari di Alzheimer interessano i geni dell’APP e delle Preseniline 1 e 2, due proteine omologhe che sono implicate nell’attivazione di molteplici sistemi di segnali cellulari e nella maturazione e trasporto intracellulare dell’APP. In tutti i geni sono state descritte diverse mutazioni puntiformi che facilitano l’attività delle secretasi (β e γ), alterando la conformazione di APP o esponendo maggiormente le molecole di APP alla loro azione (Hardy, 1997). Le mutazioni dei tre geni sono state descritte in circa il 60% dei casi di malattia di Alzheimer familiare presenile analizzati (mutazioni della Presenilina 1 nel 90% delle famiglie). Si deduce, quindi, che una larga quota di forme familiari sia causata da alterazioni genetiche ancora ignote. Forme familiari di malattia ad esordio tardivo e penetranza incompleta sono associate alla presenza dell’allele 4 dell’apolipoproteina E, un carrier del colesterolo espresso in quattro differenti alleli. Il medesimo allele è un fattore di rischio della malattia sporadica, ed esercita il suo effetto anticipando di circa 20 anni l’esordio della malattia (Blacker e Tanzi, 1998). Le cause di questo effetto sono solamente ipotetiche: l’apolipoproteina E, presente nel tessuto nervoso e prodotta dalle cellule gliali, è coinvolta fisiologicamente nella clearance della β-proteina. La forma codificata dall’allele 4 sembra essere meno efficiente in questa funzione, con conseguente facilitato accumulo di β-proteina. Inoltre l’isoforma 4 dell’apolipoproteina E accresce il grado di polimerizzazione della β-proteina, inibendo quindi la sua degradazione da parte di proteasi extracellulari. Numerosi polimorfismi genetici sono stati associati alla malattia di Alzheimer sporadica e familiare, e sospettati essere ulteriori fattori di rischio. Fra questi, la significatività più convincente è stata trovata per varianti alleliche dei geni delle interleuchine 1° e 1B, e dell’α2macroglobulina. Comunque il significato di questi polimorfismi in funzione del processo patologico non è stato dimostrato.
L’ipotesi della cascata non è peraltro applicabile alla maggioranza dei casi sporadici di malattia, dove non esistono elementi che giustificano una primaria aumentata produzione di bproteina. Recentemente sono emerse ipotesi alternative, secondo le quali fattori in gran parte legati all’invecchiamento accelerano la degenerazione e la morte neuronale e contemporaneamente modificano il metabolismo dell’APP favorendo la produzione di β-proteina. In particolare, sia lo stress ossidativo che l’ischemia determinano, nei neuroni in coltura, una accentuazione del grado di morte programmata, che, a sua volta, induce un aumento della quantità di β-proteina prodotta dalle cellule (Galli et al., 1998). Secondo questa ipotesi il processo patologico è l’espressione del diverso peso di svariati fattori che sono in grado di creare neurodegenerazione e accumulo di β-proteina, al centro di un circolo vizioso tossico autoalimentato (neurodegenerazione ⇒ accumulo di β-proteina ⇒ ulteriore neurodegenerazione). I dati epidemiologici e biologici e le osservazioni morfologiche hanno rivalutato la relazione fra demenza vascolare e malattia di Alzheimer. La correlazione clinico-patologica in gruppi di popolazione molto omogenee e ad alta scolarità (Snowdon et al., 1977) ha dimostrato che la demenza insorge solo quando alle alterazioni tipo Alzheimer si associano lesioni cerebrali ischemiche, suggerendo una sinergia fra danno vascolare e danno neuronale che va oltre la semplice sommazione delle lesioni. Fattori di rischio per la demenza vascolare (diabete, ipertensione, malattia coronarica e ipercolesterolemia) sono stati recentemente associati ad una maggiore incidenza di malattia di Alzheimer, ed alcuni di essi sembrano favorire le alterazioni molecolari tipiche della malattia. Le modificazioni delle proteine, causate da cronica iperglicemia, provocano un'alterazione del citoscheletro neuronale sovrapponibile alla degenerazione neurofibrillare, e nel contempo sono fonte di stress ossidativo (Smith et al., 1994). La concentrazione di colesterolo nel mezzo di coltura è
Le demenze 1045
proporzionale alla produzione di β-proteina neuronale, e una dieta ricca di colesterolo aumenta la quantità di depositi di amiloide nel modello animale di malattia di Alzheimer. Nell’Alzheimer esiste, inoltre, a causa dell’angiopatia amiloidea (che restringe il lume delle arteriole della corteccia cerebrale e della sostanza bianca sottocorticale) una condizione di ischemia cronica responsabile di microinfarti cerebrali e di un effetto stimolante il processo di morte neuronale programmata. NEUROPATOLOGIA Il cervello è di peso inferiore al normale ed è diffusamente atrofico; l’assottigliamento della corteccia cerebrale è più accentuato nella parte anteriore dei lobi temporali, e le cavità ventricolari sono diffusamente dilatate. Le alterazioni microscopiche principali sono: i depositi di amiloide; le alterazioni del citoscheletro; la rarefazione neuronale e sinaptica. a) Depositi di amiloide. – Appaiono in tre forme diverse: – le placche neuritiche, composte ultrastrutturalmente da una parte centrale compatta di fibre di amiloide, circondata da neuriti in degenerazione, rigonfi di corpi densi, da astrociti e microglia (Fig. 24.1 e 24.2); – le placche diffuse, visibili soprattutto con tecniche immunocitochimiche, composte da materiale amorfo, scarsamente strutturato in fibre di amiloide; – l’angiopatia congofila, dovuta all’infiltrazione di amiloide nella tunica muscolare delle arterie meningee e corticali (Joachim e Selkoe, 1992). b) Alterazioni del citoscheletro. – Caratterizzate dalla formazione di filamenti anormali intraneuronali, differenti dai normali componenti del citoscheletro, denominati filamenti ad elica per la loro configurazione tridimensionale, che li fa apparire come fibre di circa 20 millimicron aventi restringimenti periodici ogni 80 millimicron (Terry, 1963) (Fig. 24.3). Quando i filamenti ad elica si accumulano nel corpo cellulare configurano la degenerazione neurofibrillare, quando si formano negli assoni e nei dendriti determinano i cosiddetti «neuropil threads», cioè filamenti incurvati di dendriti e di assoni a livello corticale, che appaiono microscopicamente come una fitta rete di processi neuronali che tappezza la corteccia cerebrale (Braak et al., 1986). I filamenti ad elica sono polimeri di proteina tau, una proteina che fisiologicamente promuove la polimerizzazione della tubulina in microtubuli. Nei filamenti ad elica la proteina tau è, con meccanismi non noti, iperfosforilata rispetto alla forma normale, potendo interferire, per-
Fig. 24.1 - Malattia di Alzheimer: numerosi neuroni in degenerazione neurofibrillare e placche senili sono sparsi per tutta la corteccia cerebrale (Von Braunmühl x 160).
Fig. 24.2 - Malattia di Alzheimer: le placche senili al microscopio elettronico appaiono formate da un centro di amiloide circondato da processi neuronali degenerati ripieni di corpi osmiofili e lamellari (citrato di piombo e acetato di uranile 11.000).
ciò, con il normale legame della tau alla tubulina, impedendo quindi la formazione dei microtubuli. Fra i fattori che determinano l’iperfosforilazione della tau sembra
1046 Malattie del sistema nervoso triche, rappresentate dall’accumulo di filamenti ad elica in corteccia cerebrale, sia sotto forma di degenerazione neurofibrillare che di neuropil threads, che sembrano in relazione con la gravità della demenza (Tabaton et al., 1989). La quantità di amiloide non è invece correlata con la demenza ed è presente, soprattutto in forma di placche diffuse, in un’alta percentuale di soggetti non dementi, a partire dalla quinta decade di vita. Si ipotizza che l’amiloide si accumuli nell’encefalo senza danno funzionale, che comincia a manifestarsi solo quando i neuroni sono lesi con la formazione di filamenti ad elica. Secondo alcuni la degenerazione sinaptica esprime un correlato anatomico con la demenza, più significativo delle alterazioni del citoscheletro (Terry et al., 1991).
SINTOMATOLOGIA Fig. 24.3 - Malattia di Alzheimer: al microscopio elettronico le degenerazioni neurofibrillari appaiono formate da un accumulo intracitoplasmatico di filamenti elicoidali appaiati, con periodo di 600-800 Å circa, che misurano 200-300 Å nel punto di maggior diametro e 80-120 Å nel punto più ristretto (citrato di piombo e acetato di uranile x 81.000).
avere un ruolo primario l’ingresso di calcio nei neuroni. Un altro possibile meccanismo di formazione dei filamenti ad elica è l’accumulo di tau libera, non legata ai microtubuli, come suggerito dal riscontro di alterazioni molecolari da mutazioni del gene della tau, in forme familiari di demenza frontotemporale (v. pag. 000.). D’altra parte la formazione di filamenti ad elica è un fenomeno aspecifico, presente in numerose patologie croniche del SNC, ed è quindi la risposta ad una sofferenza neuronale di varia natura (Perry e Smith, 1993). c) Rarefazione neuronale. – Si osserva nella corteccia cerebrale, soprattutto per i neuroni del III e V strato del lobo frontale e temporale, che dimostrano una riduzione di circa il 40%. Più marcata è la perdita di neuroni in alcuni nuclei sottocorticali, come il nucleo basale, il locus coeruleus e il nucleo dorsale del rafe. La degenerazione di questi nuclei, che hanno una proiezione corticale diffusa, contribuisce alla riduzione del contenuto dei neurotrasmettitori nella corteccia cerebrale. L’arborizzazione dendritica è fortemente rarefatta in corteccia, con notevole diminuzione delle spine dendritiche; con tecniche immunocitochimiche è stato accertato recentemente una riduzione del 50% delle sinapsi in ogni strato corticale (Masliah et al., 1989). Gli studi per stabilire una correlazione fra demenza e alterazioni neuropatologiche (Blessed et al., 1968) riportarono, all’inizio, una relazione fra il numero di placche senili e il grado di deterioramento mentale, ma in questi ultimi anni, l’impiego di markers antigenici ha permesso di ipotizzare una correlazione tra demenza e alterazioni citoschele-
Viene classicamente distinta in tre fasi, anche se grande è la variabilità nella comparsa dei sintomi, e non sempre è possibile il riconoscimento delle diverse fasi. In una prima fase si osserva: calo degli interessi, indifferenza verso i problemi familiari e lavorativi, turbe della memoria che, in genere, vengono minimizzate e attribuite a superlavoro e affaticamento. È spesso presente, all’esordio, la consapevolezza del calo delle funzioni intellettive e dell’aumentata difficoltà nel mantenimento di accettabili relazioni interpersonali. Ne consegue una reazione depressiva, che, in questo stadio iniziale, può porre problemi di diagnosi differenziale tra depressione e deterioramento mentale. Nella fase successiva il calo della memoria si rende molto evidente, così come la modificazione della personalità: l’attenzione, la capacità di critica e di giudizio, la partecipazione agli avvenimenti sono ridotte, con chiaro scadimento del rendimento lavorativo e della presenza in famiglia, ove le scelte e le decisioni sono evitate o sono incerte e occasionali. Il malato non mostra interessi, diventa apatico e ritirato, sciatto e incurante della propria toilette quotidiana; diventano evidenti i disturbi del linguaggio e delle funzioni simboliche, con difficoltà a reperire le parole, a scrivere, ad eseguire calcoli e ad orientarsi; si possono riscontrare riflessi primitivi (v. pag. 00).
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Nella terza fase, l’evoluzione peggiorativa diventa consistente: il soggetto dimostra gravi turbe mnesiche, anche della memoria a lungo termine; si accentua progressivamente la mancanza di cura dei propri affari, della propria famiglia, il soddisfacimento dei bisogni corporali avviene in modo inopportuno e sedi occasionali e inadeguate; gli oggetti e i famigliari spesso non vengono riconosciuti; si può manifestare un «affaccendamento inoperoso» con apparente e impropria attività, oppure un comportamento apatico, indifferente ad ogni sollecitazione. In fase ancor più avanzata subentrano: disturbi motori, quali segni extrapiramidali (rigidità e ipocinesia); crisi convulsive generalizzate; mioclonie. Il quadro finale è quello di una tetraparesi in flessione, e il decesso avviene in stato di marcato scadimento delle condizioni generali, per complicanze infettive e broncopolmonari. Valutazione neuropsicologica. Si somministrano innanzitutto tests di valutazione generale (Blessed Dementia Scale e Mini Mental State) e, successivamente, tests per la valutazione di deficit settoriali e plurisettoriali. Si rimanda, per la trattazione di questo tema, a pag. 000.
ESAMI COMPLEMENTARI Gli esami bioumorali e l’esame liquorale non forniscono dati significativi. L’elettroencefalogramma è alterato, per la presenza di attività lenta e diffusa, e per rallentamento del ritmo alfa a 4-5 c/s, che diventa più evidente con il progredire della malattia; nelle fasi terminali può comparire un’attività delta in regione frontale bilateralmente. La TC mostra, in genere, un ampiamento dei solchi corticali e una dilatazione dei ventricoli laterali, aspetto che, entro certi limiti, si riscontra anche in soggetti anziani senza deterioramento mentale; talora l’idrope ventricolare è molto rilevante e così l’ampliamento degli spazi subaracnoidei e dei solchi. Analogo è il rilievo per la RM che, tuttavia, può dimostrare anche segni di atrofia dell’ippocampo e dilatazione del corno temporale (v. Fig. 9.69). Sia alla TC che
alla RM si osserva una ipodensità e ipointensità diffusa della sostanza bianca che circonda i ventricoli laterali, più frequentemente nei soggetti con malattia di Alzheimer che nei controlli, ma il substrato patologico di questa alterazione, denominata leucoaraiosi, è incerto e comunque non ancora definito. La SPET e la PET (v. pag. 000-000) sono in grado di evidenziare precocemente le aree corticali alterate, dimostrando la SPET una riduzione di perfusione ematica cerebrale, e la PET una riduzione dell’attività metabolica, più evidente a livello temporo-parieto-occipitale. Nelle forme con afasia precoce, la PET è anche in grado di evidenziare un’asimmetria della ridotta attività metabolica, più evidente nell’emisfero dominante. DIAGNOSI Non esiste attualmente la possibilità di formulare una diagnosi certa in vita. La ricerca di un marker biologico diagnostico della malattia si è rivolta ad evidenziare nei tessuti extracerebrali variazioni quantitative e qualitative delle proteine implicate nel processo patologico. Lo studio di casi, confermati patologicamente, ha dimostrato che la quantità di β-proteina “42” è mediamente ridotta del 50% nel liquor, verosimilmente a causa della sua trasformazione in forma insolubile depositata nel tessuto cerebrale. La quantità media di proteina tau liquorale è invece raddoppiata nei casi di Alzheimer, perché la forma libera, non aggregata in filamenti ad elica, viene rilasciata dai neuroni in degenerazione neurofibrillare. Tuttavia, poiché i valori di entrambe le molecole sono molto variabili, e largamente sovrapposti a quelli riscontrati nei controlli normali e in altre malattie, la loro valutazione nel liquor non fornisce una significativa sensibilità e specificità diagnostica. Gli stessi limiti ha l’uso del genotipo dell’apolipoproteina E a scopo diagnostico, essendo l’allele 4 presente in soggetti anziani non dementi, e assente in una larga quota di soggetti affetti. Recentemente è stato riportato che, nelle piastri-
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ne di casi sporadici di malattia, una isoforma di APP sia costantemente aumentata rispetto ai controlli, ma questa osservazione richiede una conferma su casistiche più ampie accertate patologicamente (Di Luca et al., 1998) Anche le neuroimmagini non offrono elementi diagnostici certi: la riduzione di volume dell’ippocampo, evidenziabile con RM, è il parametro più costantemente e precocemente associato alla malattia, ma presenta un’ampia variabilità e può essere osservato anche in soggetti sani. Attualmente, la diagnosi di malattia di Alzheimer non può contare sulla conferma di reperti di laboratorio e strumentali, e si affida all’applicazione di criteri diagnostici, fondati sull’esclusione di altre cause di demenza utilizzando un protocollo standardizzato (McKahn et al, 1984). Ne consegue una diagnosi di Alzheimer possibile, probabile, certa o definita. 1. Diagnosi di Alzheimer possibile. Prevede: – una sindrome demenziale, senza disturbi di coscienza, in assenza di altre cause neurologiche o psichiatriche o sistemiche capaci di causare demenza; è anche possibile che il malato presenti in associazione una patologia neurologica o sistemica, ovviamente ritenuta non in relazione con la sindrome demenziale. 2. Diagnosi di Alzheimer probabile. Richiede la presenza di: – una sindrome demenziale, comprovata dall’osservazione clinica, e dall’esecuzione di test quali il Mini Mental State e la scala di Blessed, facilmente applicabili e molto utili per una valutazione generale (v. pag. 000), e la possibile esecuzione di una batteria di test neuropsicologici (v. pag. 000). Si possono escludere, clinicamente e sulla base di esami complementari, demenze di genesi endocrina, metabolica, infiammatoria, carenziale, da encefalopatia tossica e da farmaci, da malattie cerebrali di varia genesi (incluse encefalopatie da AIDS) e idrocefalo normoteso (Tab. 24.1). 3. Diagnosi di Alzheimer certa o definita. Rispecchia le caratteristiche della diagnosi di
probabilità, associata alla diagnosi istopatologica, ottenuta su materiale autoptico. Controlli anatomo-clinici hanno verificato che questo protocollo ha una accuratezza diagnostica dell’88%, comprendendo il restante 12% demenze di più raro riscontro. I due quadri clinici più sotto riportati si presentano, clinicamente, in modo molto simile alla demenza in fase iniziale, e rappresentano, quindi, un problema di diagnosi differenziale. – Mild cognitive impairment (Disturbo cognitivo di grado lieve). Questo termine, coniato recentemente, sostituisce la definizione “Amnesia senile benigna” e si riferisce a soggetti sopra i 65 anni con disturbi di memoria significativamente maggiori rispetto ai soggetti della stessa fascia d’età, in assenza di alterazioni di altre funzioni cognitive, e senza un’evidente compromissione dell’espletamento delle attività quotidiane. L’evoluzione verso una demenza conclamata avviene nel 10-15% dei soggetti entro un anno. I pochi casi con diagnosi clinica di Mild cognitive impairment, studiati postmortem, sono patologicamente disomogenei: un gruppo presenta placche senili e degenerazioni neurofibrillari nella neocorteccia, in quantità insufficiente per la diagnosi istologica di Alzheimer; un altro gruppo dimostra unicamente degenerazioni neurofibrillari limitate alle aree limbiche. È quindi possibile che il quadro clinico possa essere l’espressione sia di un accentuato fisiologico invecchiamento cerebrale sia di una fase precoce di malattia di Alzheimer scarsamente aggressiva. A favore dell’eterogeneità fisiopatogenetica di questo quadro depone l’aumentata frequenza dell’allele 4 dell’apolipoproteina E nei casi che evolvono verso una demenza con caratteristiche di Alzheimer probabile. – Depressione: comune negli anziani, frequentemente manifesta un deficit della memoria, dell’attenzione e dell’iniziativa che può con difficoltà essere distinta dai segni iniziali di una m. di Alzheimer. Possono indirizzare verso la depressione: i dati anamnestici con il rilievo di un precedente episodio depressivo, la più rapi-
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da progressione dei sintomi, la variazione mattino sera, le oscillazioni periodiche delle prestazioni mentali. Utile strumento di suffragio ai dati clinici è la scala di Hamilton, usata per valutare sintomi di depressione ed è positiva quando il punteggio supera 17. La risposta positiva ai farmaci antidepressivi può essere di appoggio per la diagnosi di depressione, ma si deve tener presente che anche nelle fasi iniziali di m. di Alzheimer si può riscontrare una risposta alla terapia antidepressiva. La diagnosi differenziale è comunque complicata dal complesso rapporto che lega depressione e demenza. Nel 50% dei casi di Alzheimer esistono sintomi depressivi, concomitanti all’esordio dei sintomi cognitivi, probabile reazione psicologica del soggetto alla constatazione del calo delle proprie prestazioni intellettive. Per contro, in circa il 10% dei casi di Alzheimer il deficit cognitivo è preceduto da una sindrome depressiva, che ha le caratteristiche di depressione maggiore; in questo caso la depressione appare come un disturbo prodromico di lunga durata del processo patologico neuronale. Inoltre una depressione ad esordio tardivo, sopra i 65 anni, associata ad un deficit cognitivo reversibile (pseudodemenza), ha un’alta probabilità di evolvere verso una demenza entro 5-8 anni. Da questi dati si deduce che la depressione rappresenta sia un sintomo precoce del danno organico, che un fattore di rischio biologico per la demenza. TERAPIA. – Pur non esistendo attualmente terapie in grado di arrestare il decorso della malattia, esistono strategie efficaci nel trattare le alterazioni affettive e comportamentali e nel migliorare i disturbi cognitivi. Nel primo caso l’uso degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) consente di migliorare l’ansia e l’irrequietezza nelle fasi iniziali ed intermedie di malattia anche in assenza di depressione, e di ridurre l’agitazione nei casi più avanzati. Questi farmaci, essendo privi di effetto anticolinergico, non alterano l’attenzione, che è
già compromessa, e sono quindi preferibili alle benzodiazepine e ai neurolettici. La terapia cognitiva è basata sugli inibitori dell’acetilcolinesterasi cerebrale ad azione protratta. Le molecole attuamente disponibili in Italia (Donepezil 5-10 mg/die, Rivastigmina 6-12 mg/die, Galantamina 8-16 mg/die) migliorano significativamente il deficit cognitivo nel 30-40% dei malati con compromissione lieve-moderata, senza sostanziali effetti collaterali colinergici periferici. L’efficacia del trattamento è confermata dall’assenza di ulteriore deterioramento durante 6-8 mesi di decorso naturale della malattia. L’azione degli inibitori dell’acetilcolinesterasi sulla progressione della malattia non è nota; questa eventualità è, tuttavia, suggerita dalla ridotta produzione di β-proteina ottenuta in vitro stimolando il recettore muscarinico dell’acetilcolina. Sono in corso di sperimentazione varie strategie di terapia patogenetica, mirate sia ad inibire i fattori coinvolti nel processo degenerativo innescato dall’accumulo di β-proteina (sostanze anti-ossidanti; farmaci anti-infiammatori), sia a verificare l’effetto protettivo degli estrogeni nelle donne in menopausa (v. pag. 000.). Di particolare interesse è il risultato ottenuto nel modello animale di malattia (un topo transgenico portatore del gene di APP umana mutata, che sviluppa in 8-10 mesi una grande quantità di depositi cerebrali di amiloide) attraverso immunizzazione con β-proteina “42”: gli animali immunizzati dalla nascita non formano amiloide, mentre l’immunizzazione tardiva riduce il volume dei depositi già formati. La rimozione della β-proteina è dovuta alle cellule microgliali, che assumono attività macrofagica in seguito alla stimolazione degli anticorpi anti-β-proteina che passano la barriera emato-encefalica. È iniziata nel 2000 la sperimentazione di tale strategia terapeutica in casi con malattia di grado lieve-moderato.
Demenza frontotemporale La demenza frontotemporale ha un ampio spettro clinico e neuropatologico, e comprende entità descritte nel passato sotto vari termini:
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malattia di Pick, demenza priva di caratteristiche istologiche specifiche (altrimenti definita malattia di Pick senza corpi di Pick), gliosi sottocorticale progressiva, demenza frontale con amiotrofia, afasia primaria progressiva e demenza semantica (v. pag. 000). Si tratta, quindi, di un gruppo di demenze degenerative nonAlzheimer, eterogenee sul piano clinico e neuropatologico, caratterizzate da disfunzione dei lobi frontali e della porzione anteriore dei lobi temporali, che si manifestano prevalentemente con alterazioni del comportamento, della personalità, della condotta sociale e dell’espressione verbale, con relativa conservazione della memoria, dell’orientamento topografico e delle funzioni prassiche. Il gruppo di studio di LundManchester (Neary e coll., 1994) ha proposto criteri diagnostici per la demenza frontotemporale, indicando sia i sintomi e segni che suggeriscono una diagnosi di probabilità, sia le turbe cognitive che, costanti nella malattia di Alzheimer, sono assenti in questi casi. Hanno peso diagnostico i disturbi comportamentali, come il disinteresse per la cura della persona, la disinibizione, gli atteggiamenti stereotipati e perseverativi; segni che precedono talora di anni il deficit cognitivo, soprattutto nelle forme familiari di malattia. Altri segni distintivi precoci sono l’amimia e la progressiva riduzione della fluenza verbale, associata a stereotipie. L’orientamento spaziale intatto è un elemento che orienta verso la demenza frontotemporale e non verso la malattia di Alzheimer. A differenza dell’Alzheimer, la demenza frontotemporale è prevalentemente presenile (esordio nella quarta e quinta decade di vita), ed ha un’alta incidenza di familiarità (circa il 50% dei casi). Le neuroimmagini dimostrano un’atrofia dei lobi frontali e dei poli temporali, asimmetrica nei casi con precoci e prevalenti turbe del linguaggio, con una rarefazione della sostanza bianca sottocorticale maggiore di quella riscontrata nell’Alzheimer. Le neuroimmagini funzionali (PET; SPECT) confermano un ipometabolismo nelle stesse regioni cerebrali.
L’uso recente di tecniche immunocitochimiche ha dimostrato che in un’alta percentuale di casi che rientrano nella definizione di demenza frontotemporale si ritrovano aggregati intracellulari di proteina microtubulare tau, apparentemente simili a quelli che formano le degenerazioni neurofibrillari nella malattia di Alzheimer. Le inclusioni tau positive interessano sia i neuroni che la glia, ed assumono forme diverse che sono prevalentemente dipendenti dalla topografia e dal tipo cellulare: i corpi rotondeggianti di Pick nei neuroni della corteccia insulare e temporale anteriore, cellule a ciuffo negli astrociti, cellule a spirale negli oligodendrociti. Gli aggregati di tau formano filamenti anomali rettilinei di 20-25 millimicron, con restringimenti irregolari, differenti dai filamenti ad elica che compongono le degenerazioni neurofibrillari della malattia di Alzheimer. Recentemente è stato osservato che forme familiari di demenza frontotemporale sono causate da alterazioni del gene della proteina tau (Hong et al., 1998). In particolare, le diverse mutazioni puntiformi identificate alterano sia il legame della proteina tau con i microtubuli che il rapporto fra le diverse isoforme della proteina, determinandone quindi un accumulo che favorisce la formazione delle inclusioni intracellulari. Questa condizione ha indotto a coniare un nuovo termine, “Taupatie”, che indica un gruppo di malattie sporadiche e familiari causate da un’alterazione primaria della proteina tau, e fra le taupatie è stata compresa la demenza frontotemporale. In realtà il 60% dei casi sporadici, e una quota non precisata di casi familiari, non presentano inclusioni intracellulari tau positive, ma unicamente alterazioni aspecifiche, come una vacuolizzazione microscopica nel secondo e terzo strato della corteccia cerebrale, che è il corrispettivo della rarefazione neuronale e dendritica, isolati neuroni rigonfi negli strati più profondi, e gliosi corticale diffusa. In molti casi coesiste una atrofia del nucleo caudato e una depigmentazione della sostanza nera.
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La grande variabilità del tipo e della distribuzione delle lesioni patologiche che caratterizzano la demenza frontotemporale si esprime nel frequente riscontro di forme atipiche di passaggio, che comprendono anche la degenerazione corticobasale. MALATTIA DI PICK - Rappresenta il 10-15% delle demenze frontotemporali, ed è un’entità definibile unicamente sul piano neuropatologico. Il quadro clinico è paradigmatico della demenza frontotemporale: l’esordio è nella 4°-5° decade, sono prevalenti i disturbi del comportamento e del linguaggio con relativa conservazione della memoria e dell’orientamento spaziale. Precocemente possono comparire sintomi della sindrome di Kluver-Bucy, quali bulimia, iperoralità, ipersessualità. I riflessi primitivi sono presenti e coesiste una sindrome acineticoipertonica. Le neuroimmagini dimostrano un’atrofia fronto-temporale. Neuropatologicamente si ritrova una marcata atrofia (a “lama di coltello”) dei lobi frontali e temporali, con risparmio della circonvoluzione temporale superiore e dell’ippocampo. Sono frequenti l’atrofia dell’amigdala e del nucleo caudato, e una modesta depigmentazione della sostanza nera. L’elemento essenziale per la diagnosi è la presenza di inclusioni argentofile intracitoplasmatiche, i corpi di Pick, nei neuroni delle regioni atrofiche. Sono costituite dall’accumulo di filamenti rettilinei di 20 millimicron di diametro composti da aggregati di proteina tau che ha un pattern molecolare differente da quello dei filamenti ad elica caratteristico dell’Alzheimer. Forme clinicamente sovrapponibili, prive però di corpi di Pick e di inclusioni tau positive, vengono attualmente definite “demenze frontotemporali prive di caratteristiche patologiche specifiche”, perché, a fronte della medesima topografia dell’atrofia cerebrale, istologicamente sono riscontrabili solo alterazioni aspecifiche, quali rarefazione neuronale, microvacuolizzazione e gliosi.
AFASIA PRIMARIA PROGRESSIVA - È un disturbo isolato e progressivo del linguaggio, caratterizzato da difficoltà nel reperimento di parole, riduzione della fluenza verbale, con elevata consapevolezza di malattia e conservazione delle altre funzioni cognitive (Mesulam et al., 1982). I pazienti mantengono per anni la capacità di svolgere le normali attività quotidiane, anche se invariabilmente scivolano verso una demenza conclamata. Le neuroimmagini evidenziano un’atrofia e le neuroimmagini funzionali un ipometabolismo in sede fronto-temporale nell’emisfero dominante. Neuropatologicamente si riscontrano forme con corpi di Pick e forme con rarefazione neuronale semplice. DEMENZA SEMANTICA - L’esordio è caratterizzato da alterazioni del linguaggio che differiscono da quelle ritrovate nell’afasia primaria progressiva. L’afasia è fluente, con parafasie e perdita del significato delle parole, ed è associata alla compromissione del riconoscimento di oggetti e facce. Frequentemente coesistono alterazioni del comportamento, quali stereotipie, compulsività e perdita degli interessi. Il decorso progressivo comporta il coinvolgimento di altre funzioni cognitive. Il processo patologico, che prevede anche in questo caso la presenza o meno dei corpi di Pick, colpisce bilateralmente i lobi temporali. DEMENZA FRONTOTEMPORALE CON AMIOTROFIA- Una demenza di tipo frontotemporale può essere raramente associata ad una malattia del motoneurone. Nella maggioranza dei casi i disturbi del comportamento e del linguaggio precedono i sintomi di compromissione del primo e secondo motoneurone tipo Sclerosi Laterale Amiotrofica (v. pag. 000). L’esordio è presenile, la durata di malattia è breve, circa 2-3 anni, determinata dall’insufficienza respiratoria. Istologicamente, oltre alla rarefazione neuronale della corteccia fronto-temporale e delle
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cellule delle corna anteriori, sono rilevabili, nelle medesime aree, inclusioni intracitoplasmatiche reattive all’ubiquitina (v. pag. 000). DEMENZA
PARKINSO 17 - Le forme familiari causate da mutazioni del gene della proteina tau, localizzato nel cromosoma 17, hanno un fenotipo differente dalla classica demenza frontotemporale, e sono indicate come un’entità a sè stante. L’esordio è molto precoce, nella terza-quarta decade, ed è costituito da turbe comportamentali con gravi alterazioni della condotta sociale che possono precedere di molti anni il deficit cognitivo. Successivamente compaiono: afasia fluente e una sindrome acinetico-ipertonica asimmetrica, associata a fenomeni distonici e mioclonie da stimoli propriocettivi. L’evoluzione comporta una sindrome pseudobulbare, con disfagia e limitazione della motilità oculare coniugata. Neuropatologicamente l’atrofia non è limitata alla corteccia fronto-temporo-parietale ma si estende ai nuclei della base, al mesencefalo e al ponte. L’aspetto più rilevante è quello immunocitochimico, caratterizzato da una estesa ed imponente patologia della proteina tau, che, accumulata nel citoplasma e nei prolungamenti dei neuroni e della glia, configura inclusioni di aspetto multiforme. FRONTOTEMPORALE E
NISMO, ASSOCIATA AL CROMOSOMA
Il difetto genetico, dominante con penetranza completa, è di due tipi: nella maggioranza delle famiglie si riscontrano mutazioni puntiformi negli esoni del gene della proteina tau, esoni che codificano la porzione della molecola che realizza il legame funzionale con la tubulina; oppure sono presenti mutazioni della porzione non codificante, la quale regola la trascrizione dell’esone 10. Nel primo caso le mutazioni alterano la funzione della proteina, impedendo la formazione dei microtubuli, nel secondo caso le mutazioni del secondo tipo accentuano la produzione di una forma più lunga di proteina tau, causandone l’accumulo, cui conseguirebbe un effetto neurotossico.
DEGENERAZIONE CORTICOBASALE - È una malattia molto eterogenea, difficilmente diagnosticabile a causa della variabilità di presentazione clinica. La forma tipica è caratterizzata, all’esordio, da una sindrome acinetico- ipertonica asimmetrica non rispondente al trattamento con L-Dopa, da disturbi prassici ad un arto superiore, mantenuto in atteggiamento distonico, e definito con il termine di “arto o mano alieni”. L’evoluzione progressiva comporta mioclonie parcellari evocate da stimoli propriocettivi, alterazioni posturali con turbe dell’andatura, alterazione della motilità oculare coniugata e una demenza di tipo frontale. Le forme atipiche presentano, fin dall’esordio, alterazioni del linguaggio e del comportamento, oppure sintomi pseudobulbari . Neuropatologicamente è presente nella forma tipica, un’atrofia corticale, spesso asimmetrica, preminente nella regione prerolandica ed estesa ai lobi frontali e temporali nei casi con precoci turbe cognitive. Lo striato, il talamo, la sostanza nera, il grigio periacquedottale, il nucleo dentato e l’oliva bulbare sono le strutture sottocorticali maggiormente coinvolte. Nella corteccia cerebrale e nello striato si osservano neuroni acromatici e rigonfi, in passato ritenuti caratteristici ed esclusivi della malattia, ma in realtà osservabili in altre patologie con degenerazione neuronale. L’aspetto microscopico tipico della degenerazione corticobasale è invece un’accumulo di proteina tau, prevalente nei prolungamenti dei neuroni e degli astrociti piuttosto che nei corpi cellulari. Ne deriva l’aspetto di una fitta trama di sottili strutture tau positive e la formazione delle cosiddette “placche gliali”. La sovrapposizione di aspetti clinici e patologici nei frequenti casi atipici ha suggerito che la degenerazione corticobasale, la malattia di Pick e la paralisi sopranucleare progressiva rappresentino lo spettro della medesima malattia. A parziale sostegno di questa ipotesi è stato dimostrato che la degenerazione corticobasale e la paralisi sopranucleare hanno un comune
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substrato genetico, identificato in uno specifico aplotipo del gene della proteina tau (Di Maria et al., 2000).
Demenza con Corpi di Lewy I corpi di Lewy sono inclusioni neuronali intracitoplasmatiche, eosinofile, osservate originalmente in nuclei sottocorticali, quali la sostanza nera, il locus coeruleus, la sostanza innominata e il nucleo dorsale del vago, e considerati classicamente caratteristici della malattia di Parkinson. L’identificazione dell’ubiquitina come determinante antigenico dei corpi di Lewy ha consentito di rilevare casi in cui questi sono presenti anche nella corteccia cerebrale, soprattutto nelle aree limbiche (corteccia del cingolo, corteccia entorinale ed amigdala) e negli strati profondi della neocorteccia temporale e frontale. La demenza con corpi di Lewy configura due quadri patologici: (a) la malattia dei corpi di Lewy diffusi pura, nella quale le inclusioni cortico-sottocorticali non sono associate ad altre alterazioni cellulari o tessutali. (b) la variante della malattia di Alzheimer con corpi di Lewy, in cui le alterazioni sopradescritte coesistono con quelle caratteristiche della malattia di Alzheimer La forma con corpi di Lewy diffusi corrisponde ad un quadro di demenza con aspetti peculiari, rappresentati soprattutto da una sindrome parkinsoniana senza tremore, che spesso precede di pochi mesi l’esordio del deficit cognitivo, allucinazioni visive complesse, e una notevole fluttuazione dello stato mentale. La compromissione dell’attenzione e della capacità visuospaziale prevale su quella delle altre funzioni cognitive, ed è frequentemente preceduta da uno stato depressivo. Possono verificarsi sincopi, per l’alterazione del sistema autonomico, ed esiste una spiccata sensibilità ai neurolettici, in particolare l’aloperidolo, che inducono un marcato peggioramento sia della demenza che delle
turbe motorie. Questi aspetti corrispondono soprattutto alla forma patologica pura, la cui incidenza non è stata valutata con precisione, ma è sicuramente inferiore alla malattia di Alzheimer con corpi di Lewy. Globalmente le due entità rappresentano il 20-25% di tutte le demenze degenerative. La distinzione clinica fra le due forme non è agevole, anche se è stato suggerito, come elemento discriminante, il momento di esordio della sindrome parkinsoniana, che precederebbe la demenza nella forma pura e la seguirebbe nella forma associata. La difficoltà diagnostica è testimoniata anche dalla bassa sensibilità dimostrata dai criteri diagnostici proposti da un Comitato di studio internazionale per la malattia di Alzheimer e per i parkinsonismi atipici associati a demenza (Lopez et al., 1999). Più facile è la diagnosi differenziale con la malattia di Parkinson con demenza, considerato che la demenza insorge solo nelle fasi avanzate di malattia e prevalentemente nei casi con esordio tardivo. La patogenesi della malattia non è nota. Un ruolo possibile è giocato dall’alterazione del metabolismo dell’alfa-sinucleina, una proteina localizzata nelle membrane sinaptiche, che risulta essere il maggiore componente dei corpi di Lewy corticali e sottocorticali. L’immunocitochimica con anticorpi specifici ha dimostrato la presenza di una estesa compromissione dei prolungamenti neuronali (denominati corpi di Lewy neuritici) costituita da aggregati di alfa-sinucleina, sia nella demenza con corpi di Lewy che nella malattia di Parkinson. Si ipotizza che l’accumulo intracellulare della proteina sia la causa della degenerazione neuronale (Glasson et al., 2000).
2. Demenza vascolare Il termine «demenza vascolare» ha sostituito attualmente il termine «demenza multinfartuale», introdotto da Hachinski et al. nel 1974, poichè gli infarti multipli sono solo una parte, anche se rilevante, di tutte le demenze dovute a patologia vascolare ( Loeb, 1985).
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I rilievi epidemiologici sono limitati dal fatto che, come vedremo, la diagnosi clinica di demenza vascolare è raggiungibile al massimo nell’ 85% dei casi. L’incidenza di demenza nei malati con lesione cerebrovascolare raggiunge l’8.4/100 soggetti/anno, mentre nei controlli è dell’1.3/100 soggetti/anno. L’insieme dei dati raccolti fa ritenere che la demenza vascolare raggiunga, come abbiamo già segnalato, la percentuale di circa il 15% di tutte le demenze, rappresentando il secondo più comune tipo di demenza dopo la demenza di Alzheimer. Le demenze miste, dovute a patologia vascolare associata a malattia di Alzheimer, incidono per un altro 15% circa, in casi controllati istologicamente.
tante rilevare che il danno funzionale causato dall’ischemia può essere molto più ampio di quanto visualizzato dalla tomografia cerebrale, come viene dimostrato dalla PET e dalla SPECT, e che, a parità di volume infartuato, il grado di demenza è correlato con la presenza di atrofia cerebrale La dimostrazione che solamente la lesione vascolare sia responsabile dello stato demenziale manca: solo il 47% dei pazienti con infarti multipli e il 23% dei malati con stato lacunare sviluppano una demenza. La conclusione attuale è che il deterioramento mentale sia espressione, nei malati con lesione vascolare, di una patologia multifattoriale. NEUROPATOLOGIA
EZIOPATOGENESI La causa della demenza vascolare era considerata, nel recente passato, in relazione con il volume dell’area infartuata, e, pertanto, si riteneva che la demenza si manifestasse in rapporto diretto con l’entità della perdita di sostanza cerebrale. Le neuroimmagini hanno, invece, dimostrato che la demenza può manifestarsi anche in casi in cui la perdita di sostanza è piuttosto ridotta (può essere ampiamente al di sotto dei 4 ml di parenchima cerebrale). Si ritiene quindi che altri fattori debbano essere presi in considerazione e in particolare: la localizzazione dell’infarto in aree ritenute strategiche per la comparsa della demenza, quali le aree di irrorazione di confine tra i rami superficiali e profondi delle arterie cerebrali anteriori, medie e posteriori, il talamo (area paramediana dorsale e polare, specie bilateralmente), il nucleo caudato, il lobo temporale mediale (in particolare l’ippocampo bilateralmente), l’area irrorata dalle arterie fronto-polare e calloso-marginale. Tuttavia i casi di demenza per lesione di queste aree strategiche sono piuttosto rari. Le lesioni lacunari multiple e gli infarti multipli di grandi o moderate dimensioni sono le lesioni che si riscontrano più frequentemente. È impor-
Come è già stato in parte indicato, le alterazioni vascolari associate a demenza sono molteplici: in primo luogo, lacune multiple o stato lacunare, infarti multipli di grandi o moderate dimensioni, infarti in sedi strategiche (vedi “eziopatogenesi”), ma anche angiopatie infiammatorie, aneurismi, angiomi, emorragie subaracnoidee, emorragie cerebrali. In questi ultimi anni sono stati individuati quadri di demenza vascolare ereditaria, in particolare l’arteriopatia cerebrale autosomica dominante con infarti subcorticali e leucoencefalopatia, usualmente indicata con l’acronimo “CADASIL” (Cerebral autosomal dominant arteriopathy with subcortical infarcts and leukoencephalopathy), e i più rari casi di angiopatia amiloide (congofila) familiare. Un pallore più o meno marcato della sostanza bianca sottocorticale viene riscontrato molto spesso e rispecchia il rilievo di aree ipodense alla TC, o di aree iperintense alla RM, che circondano il margine dei ventricoli laterali o che costituiscono focolai confluenti abbastanza simmetrici, nella sostanza bianca centrale, senza rapporti di continuità con le ipo/iperintensità periventricolari. È indispensabile rilevare che queste alterazioni, rilevate alle neuroimmagini,
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indicate spesso come “leucoaraiosi” (diradamento della sostanza bianca), possono essere ritrovate in soggetti anziani normali, in diversi tipi di demenza e in lesioni cerebrali ischemiche. Lo studio delle relazioni tra leucoaraiosi e deterioramento mentale ha dato risultati contrastanti ed ulteriori approfondimenti sono necessari per chiarire la questione. Si può solo affermare che la leucoaraiosi aumenta significativamente con l’età, con la presenza di ipertensione arteriosa e con l’aumento dei fattori di rischio per episodi cerebrovascolari acuti. La diagnosi definitiva di demenza vascolare (vedi pag. 000) si può raggiungere solamente sulla base dei rilievi neuropatologici, i quali devono fondarsi sui seguenti elementi : 1) conferma neuropatologica delle lesioni vascolari, già segnalate alle neuroimmagini, 2) assenza, al riscontro istologico, di alterazioni ascrivibili a demenza di Alzheimer, a malattia di Pick, a demenza con corpi di Lewy o ad altri più rari tipi di demenza. SINTOMATOLOGIA L’esordio è spesso improvviso, con un decorso a scalini, classicamente riportato, in relazione a successivi episodi ictali. Comunque il quadro è contraddistinto da fluttuazioni della sintomatologia, da confusione notturna, labilità emotiva e turbe cenestopatiche. Il declino intellettuale è rivelato dalla ridotta capacità di adeguarsi all’ambiente, ridotto interesse per la famiglia e le relazioni interpersonali, riduzione delle capacità intellettive, specie nella funzione critica e nel giudizio, difficoltà nell’affrontare nuovi problemi, disturbi di memoria specie a breve termine, frequente disorientamento nel tempo, spazio e persone, frequente inversione del ciclo sonno-veglia. Progressivamente si manifesta un deterioramento sempre più grave, con notevole riduzione del giudizio e della critica, mancanza di iniziativa, impossibilità a prendere decisioni e fare scelte, mancanza della capacità di provvedere autonomamente alla propria persona
(toilette personale quotidiana, capacità di vestirsi, etc). L’esame generale evidenzia spesso una ipertensione arteriosa ed una cardiopatia. L’esame neurologico dimostra gli esiti dei pregressi episodi ictali, talora segni di tipo pseudobulbare puro o di tipo extrapiramidale. I sintomi che contraddistinguono la demenza vascolare sono stati codificati in una «scala per il punteggio ischemico» (Hachinski et al., 1974), che fornisce un punteggio per ogni sintomo, e in una scala modificata con l’aggiunta dei dati forniti dalla TC (Tab. 24.2). La demenza vascolare può essere distinta in otto tipi diversi, in rapporto con le alterazioni vascolari riscontrate alle neuroimmagini (Meyer e Rauch, 2001). E precisamente : – tipo 1 : demenza associata a infarti multipli di varie dimensioni – tipo 2 : demenza associata a infarti in sede strategica – tipo 3 : demenza associata a infarti lacunari sottocorticali multipli – tipo 4 : demenza da encefalopatia subcorticale arteriosclerotica (tipo Binswanger) (v. pag. 000) – tipo 5 : demenza da CADASIL, da angiopatia amiloide familiare e coagulopatie – tipo 6 : associazione dei tipi 1,2,3 – tipo 7 : demenza associata a emorragie cerebrali singole o multiple – tipo 8 : demenze miste : demenza primaria e vascolare, demenza primaria con lesioni emorragiche, incluse quelle da angiopatia amiloide. ESAMI COMPLEMENTARI Gli usuali esami biochimico-umorali possono escludere l’esistenza di una patologia dismetabolica, endocrina, tossica o da farmaci, da malattie carenziali, cioè, permettono di escludere, insieme ai dati clinici, diverse cause che possono essere responsabili di uno stato demenziale (Tab. 24.1).
1056 Malattie del sistema nervoso Tabella 24.2 - Punteggi ischemici. A. Punteggio ischemico («Ischemic Score», Hachinski et al., 1975) Sintomi 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.
Punteggio
Esordio improvviso Deterioramento a gradini Andamento fluttuante Confusione notturna Personalità relativamente preservata Depressione Disturbi somatici Labilità emotiva Ipertensione Ictus in anamnesi Sintomi soggettivi di deficit focali Sintomi obbiettivi di deficit focali Altri segni di aterosclerosi
2 1 2 1 1 1 1 1 1 2 2 2 1
Punteggio massimo 18; malattia di Alzheimer probabile: punteggio non superiore a 4; demenza vascolare probabile: punteggio superiore a 7; punteggio di 5-6 non permette attribuzione. B. Punteggio ischemico modificato («Modified Ischemic Score», Loeb e Gandolfo,1983) Sintomi 1. 2. 3. 4. 5.
Punteggio
Esordio improvviso Ictus in anamnesi Sintomi soggettivi di deficit focale Sintomi obiettivi di deficit focale Aree ipodense alla TC: isolate multiple
2 1 2 2 2 3
Punteggio massimo: 10; malattia di Alzheimer probabile: punteggio inferiore o uguale a 2; demenza vascolare probabile: punteggio uguale o superiore a 5, punteggio di 3-4 non permette attribuzione.
Le neuroimmagini (TC e RM) permettono di evidenziare aree ipodense o iperintense, espressione di infarti ischemici pregressi e attuali: specialmente la RM è in grado di rilevare lesioni lacunari di volume molto ridotto (1 ml). Se altre cause sono in gioco, le neuroimmagini permettono di evidenziare la possibile esistenza di un idrocefalo normoteso o di altre patologie organiche cerebrali. DIAGNOSI La demenza è una sindrome e pertanto la diagnosi è raggiunta esclusivamente sul piano cli-
nico, mentre per una diagnosi eziologica, cioè per l’identificazione delle cause responsabili della demenza, è necessario procedere nel modo seguente (Loeb, 1990): a) identificazione della sindrome demenziale sulla base dei dati anamnestici, dell’esame neurologico, dell’intervista psichiatrica e dei tests neuropsicologici; b) identificazione delle lesioni cerebrali vascolari sulla base dei dati anamnestici, neurologici, e delle neuroimmagini (TC e RM); c) esclusione delle cause di demenza diverse dalla malattia di Alzheimer e dalla demenza
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vascolare che includono: demenza da encefalopatia metabolica, endocrina, tossica o da farmaci, da malattie carenziali, da idrocefalo normoteso e da diverse malattie cerebrali organiche (Tab. 24.1); d) diagnosi differenziale tra malattia di Alzheimer e demenza vascolare sulla base dei dati clinici, del punteggio ischemico e del punteggio ischemico modificato. La sensibilità e specificità diagnostica del punteggio ischemico, applicato dopo l’esecuzione di quanto indicato ai punti a,b,c, eccede il 70%. Il punteggio ischemico modificato include nella valutazione diagnostica la documentazione della lesione infartuale o lacunare. Deve essere sottolineato che l’uso del punteggio ischemico prima di aver espletato quanto indicato ai punti a,b,c, rappresenta un procedimento scorretto, foriero di errori diagnostici. L’esame clinico generale e neurologico, corredato dai tests neuropsicologici, dai dati delle neuroimmagini e dai punteggi ischemici permette di raggiungere un’accuratezza diagnostica vicina all’85%. Per questi motivi è stato proposto di utilizzare, come per altre malattie neurologiche, criteri atti a rilevare il differente grado di affidabilità diagnostica e precisamente (Loeb, 1988; Roman et al., 1993): 1. Demenza vascolare possibile: la demenza è accertata dall’esame clinico e dal test di Blessed e dal Mini Mental State ed è associata a sintomi cerebrali focali. 2. Demenza vascolare probabile: ai dati precedenti si aggiungono tests neuropsicologici capaci di evidenziare deficit cognitivi settoriali o plurisettoriali, e i dati di neuroimmagine comprovanti l’esistenza di infarti o lacune o altra, più rara, patologia vascolare. I dati di laboratorio devono escludere l’esistenza di altre patologie, possibile causa di demenza ed elencate nella Tabella 24.1. A questo punto la diagnosi differenziale si pone tra malattia di Alzheimer e demenza vascolare o mista. Il punteggio ischemico può es-
sere dirimente in un’alta percentuale di casi. La diagnosi clinica di demenza mista appare al momento non raggiungibile. 3. Demenza vascolare certa: la diagnosi certa può essere raggiunta solo su base neuropatologica (v. pag. 000). TERAPIA Il controllo dei fattori di rischio cerebrovascolare può rappresentare una via per attenuare e in parte prevenire i sintomi di deterioramento mentale, poiché il trattamento consente un aumento della perfusione cerebrale (Meyer e Rauch, 2001). I fattori di rischio che si ritrovano più frequentemente nei soggetti con demenza vascolare, rispetto ad altre forme di demenza, sono: l’età avanzata, il sesso maschile, l’ipertensione arteriosa, l’iperlipemia, il diabete, la fibrillazione atriale, lo scompenso cardiaco congestizio, le malattie coronariche, la patologia dell’arteria carotide, il fumo e l’abuso di alcoolici. Altri fattori da tenere in considerazione sono: il basso livello di istruzione, il lavoro manuale, e fattori genetici. Il trattamento dell’ipertensione arteriosa è importante soprattutto per prevenire l’insorgenza di infarti lacunari (demenza vascolare tipo 3). L’embolismo da patologia cardiaca, per fibrillazione atriale, o da placche carotidee ulcerate, da stenosi o occlusione vertebrale, da trombi murali aortici, può essere utilmente affrontato con la terapia anticoagulante o, se non attuabile, con somministrazione di aspirina o ticlopidina. Anche l’infarto cardiaco con o senza aritmia può essere causa di una ipoperfusione cerebrale e la terapia anticoagulante riduce il rischio di ulteriori ictus (v. pag.000). La endoarterectomia carotidea è indicata in soggetti con placche ulcerate o con stenosi emodinamicamente significativa maggiore del 70%. Nell’impossibilità di eseguire l’intervento, la terapia con aspirina o ticlopidina trova indicazione.
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Il controllo dell’ipercolesterolemia, dell’ipertrigliceridemia, del diabete e l’abolizione del fumo sono particolarmente importanti per la demenza vascolare di tipo 3. La terapia con estrogeni, in donne in fase post-menopausale, ha una funzione protettiva poiché riduce l’aggregazione piastrinica, favorisce un adeguato livello lipidico nel siero, riduce gli effetti trombotici e vasocostrittivi del tromboxano, stimola la produzione di prostaglandine a livello del’endotelio vascolare cerebrale. In conclusione: le terapie indicate possono tentare di controllare eventuali recidive ictali, e possono fornire una protezione da possibili aggravamenti della patologia cerebrovascolare. La possibilità di migliorare il profilo emoreologico e lipidico ematico e quindi aumentare la perfusione è stata sperimentata, con risultati clinici buoni, soprattutto con il sistema HELP (precipitazione delle lipoproteine a bassa densità, indotta dall’eparina), che permette di rimuovere le lipoproteine a bassa densità e ridurre il livello di fibrinogeno (Lechner, 2001).
Encefalopatia subcorticale arteriosclerotica (SAE) (tipo Binswanger) Attualmente questo quadro morboso, considerato, fino a pochi anni fa, estremamente raro e di esclusivo interesse neuropatologico, gode, grazie ai dati forniti dalle neuroimmagini, di un rinnovato e crescente interesse. Successivamente allo studio, solo macroscopico, del cervello del caso di Binswanger (1894), nel 1962 apparve una accurata revisione dei dati della letteratura insieme all’analisi istopatologica di due nuovi casi da parte di Olszewski. Poiché i dati forniti da Binswanger erano insufficienti per una adeguata definizione della malattia, Olszewski propose di indicare il quadro come ”Encefalopatia subcorticale arteriosclerotica (tipo Binswanger)”.
NEUROPATOLOGIA.- Le alterazioni più rilevanti sono rappresentate da demielinizzazione della sostanza bianca, da alterazioni delle arteriole cerebrali e da lacune e infarti. La sostanza bianca centrale è marcatamente pallida, per distruzione mielinica, talora più evidente nelle regioni temporali e occipitali, con preservazione delle fibre ad U (fibre sottocorticali di associazione che connettono circonvoluzioni adiacenti); la parete vasale delle arteriole cerebrali è ipertrofica e dimostra marcata ialinosi o necrosi fibrinoide; gli infarti sono, in genere, di modeste dimensioni, ma più frequentemente si riscontrano lacune, in genere multiple, a livello dei gangli della base, del talamo e del ponte. SINTOMATOLOGIA Il quadro clinico è rappresentato da : – sindrome demenziale, – segni di deficit cerebrale focale (emiparesi, emianestesia, emianopsia), sintomi di compromissione soprabulbare (disfagia, disartria, ecc.), segni extrapiramidali, incontinenza urinaria. – ipertensione arteriosa, anche molto marcata, nella gran maggioranza dei casi. La malattia debutta usualmente tra i 54 e i 66 anni, talora anche dopo i 75 anni. Il quadro si manifesta usualmente in maniera insidiosa, con la comparsa graduale di segni neurologici focali ma, in un terzo dei casi circa, il primo sintomo può essere rappresentato da un episodio cerebrovascolare ictale. Circa nel 30% dei casi, la demenza può svilupparsi anche due anni dopo la comparsa della sintomatologia neurologica focale. In sintesi: l’andamento può essere graduale o a gradini, con periodi, quindi, in cui il quadro è stabilizzato o anche, temporaneamente, migliorato. L’analisi più approfondita del quadro clinico chiarisce i seguenti aspetti: – deterioramento mentale. È usualmente considerato un segno sempre presente, caratteriz-
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zato da mancanza di iniziativa, abulia, riduzione di interesse nel lavoro, nella vita sociale e nell’attività casalinga o di lavoro, rallentamento psicomotorio, disturbi della memoria e del giudizio, incapacità a eseguire calcoli, difficoltà nell’orientamento. Talora si possono manifestare disturbi depressivi o episodi di agitazione con comportamento aggressivo. Da rilevare, tuttavia, che il deterioramento si può manifestare anche due anni dopo i segni neurologici focali. – segni neurologici. I più rilevanti sono : emiparesi (specie motoria pura) o emiplegia con afasia; monoplegia, segni cerebellari (dismetria e atassia), emianopsia laterale omonima. Si possono riscontrare anche attacchi ischemici transitori a intervalli di settimane, con emiparesi, turbe del linguaggio, diplopia e più raramente deficit sensitivi, ma anche segni pseudobulbari (disartria, disfagia, riso e pianto spastico, andatura a piccoli passi). Possono essere presenti anche segni extrapiramidali : bradicinesia, riduzione delle sincinesie fisiologiche, difficoltà posturali nella stazione eretta, rigidità. – segni associati. Nella gran maggioranza dei casi (94%) esiste una ipertensione arteriosa, anche marcata. Considerato che, contrariamente a quanto ritenuto nel passato, un 6% dei malati può non dimostrare ipertensione arteriosa, il peso di questo sintomo, come fattore di rischio, dovrà essere, almeno parzialmente, rivalutato. Sindromi cliniche incomplete. Soggetti con lesioni neuropatologiche tipiche della malattia possono non presentare segni ritenuti essenziali per la diagnosi, e in particolare: – assenza di ogni segno clinico, “casi asintomatici”, – assenza di segni neurologici, – assenza di segni di demenza, – assenza di ipertensione arteriosa. Altre malattie con lesioni neuropatologiche simili. In questi ultimi anni è stata individuata una malattia ereditaria usualmente indi-
cata con l’acronimo “CADASIL” (vedi pag. 000) . Le lesioni patologiche sono simili a quelle della SAE, con perdita diffusa di mielina nella sostanza bianca centrale, piccoli infarti multipli. Il segno istologico distintivo è rappresentato dall’accumulo nella tunica media delle arteriole di materiale osmiofilico granulare elettrodenso. Clinicamente si riscontrano: demenza, episodi cerebrovascolari ictali, segni pseudobulbari, cefalea emicranica, mentre i livelli pressori sono nella norma nella maggioranza dei casi. Il CADASIL è una malattia genetica, causato da mutazioni del gene Notch 3, che si trova sul braccio lungo del cromosoma 19. Le alterazioni della sostanza bianca centrale si ritrovano, oltre che nel CADASIL, anche in altre più rare malattie ereditarie, quali lo pseudoxantoma elasticum e, inoltre, nella sindrome da anticorpi antifosfolipidi e nella leucoencefalopatia subcorticale associata ad amiloidosi. Esami complementari. La TC e la RM possono evidenziare lesioni lacunari a livello dei gangli basali, talamo e tronco dell’encefalo, o anche aree ischemiche, in genere di modeste dimensioni, ed una spiccata ipodensità (TC) o iperintensità (RM) periventricolare simmetrica, e in focolai confluenti abbastanza simmetrici, nella sostanza bianca centrale definita, come già detto, con il termine di «leucoaraiosi»(v. pag 000). La diagnosi di “ malattia di Binswanger” sulla base esclusiva dei rilievi neuroradiologici non è accettabile perché la leucoaraiosi, in focolai confluenti, piuttosto simmetrici a livello della sostanza bianca centrale, rappresenta un rilievo non specifico e non può, quindi, essere ritenuto elemento che di per sé permetta una diagnosi di “malattia di Binswanger” (v. pag. 000). Del resto, la spettrografia protonica in risonanza magnetica (P-MRS) dimostra che immagini RM di leucoaraiosi del tutto simili e sovrapponibili, possono avere differenti caratteristiche biochimiche.
1060 Malattie del sistema nervoso
CONCLUSIONE Il quadro patologico, identificato da Olszewski (1962), può essere adeguatamente definito, secondo Caplan (1995), come “ leucoencefalopatia microvascolare cronica”, e può essere riscontrato sia in condizioni acquisite, come nella SAE (tipo Binswanger), sia in malattie ereditarie (CADASIL, Pseudoxantoma elastico etc). Il quadro acquisito, quando è associato a demenza, costituisce un subtipo di demenza vascolare (v. pag. 000).
3. Demenze e malattie da prioni Sono un gruppo di malattie, precedentemente denominate “encefalopatie spongiformi trasmissibili”, che hanno un comune meccanismo patogenetico, basato sull’alterazione di una proteina, chiamata prione (“prion”, libero acronimo di “proteinaceous infectious particle”), che assume particolari caratteristiche chimico-fisiche, causando una degenerazione neuronale. Le malattie sono trasmissibili e l’agente infettante sospettato è la proteina prionica alterata. L’attuale classificazione delle malattie da prioni include: – la malattia di Creutzfeldt-Jakob, – la malattia di Gerstmann-StrausslerScheinker, – l’insonnia fatale familiare, – nuova variante della malattia di Creutzfeldt-Jakob, forma patologica recente che origina dalla contaminazione con tessuto di encefalopatia spongiforme bovina. Una ulteriore forma clinica, ormai scomparsa, era il Kuru, endemico nella Nuova Guinea e derivante dal cannibalismo tribale che causava la trasmissione interumana dell’agente infettante. Nel 1959 Hadlow notò la somiglianza tra il Kuru (atassia cerebellare progressiva del gruppo linguistico Fore della Nuova Guinea) con lo Scrapie, una malattia letale delle pecore, di cui era già stata dimostrata la trasmissibilità, e sug-
gerì di studiarne la trasmissibilità nei primati. Poco dopo Gajdusek et al. (1966-1968) furono in grado di produrre nello scimpanzè una encefalopatia letale, sovrapponibile a quella umana tramite l’inoculazione di estratti di encefalo di malati di Kuru e di malattia di CreutzfeldtJacob, da cui nacque il concetto di encefalopatia da virus lento, per definire un gruppo di malattie letali, caratterizzate da uno stato spongioso cerebrale, e dovute a virus con inusuali caratteristiche chimico-fisiche. Nel 1981 Prusiner et al. osservarono che la frazione infettante del tessuto cerebrale di scrapie corrispondeva ad una proteina, che denominarono prione, proposero che la proteina stessa fosse l’agente trasmissibile delle encefalopatie spongiformi e suggerirono il nuovo termine “malattie da prioni”. Questa ipotesi rivoluzionaria è confortata da numerosi dati emersi negli ultimi anni (Prusiner, 1998). La proteina prionica (denominata PrP scrapie o PrP resistente) è un forma alterata di una normale proteina glicosilata di membrana (chiamata PrP cellulare), particolarmente espressa nei neuroni e codificata da un gene localizzato nel cromosoma 20. La PrP cellulare è una proteina della membrana sinaptica, coinvolta nella trasmissione gabaergica. La PrP scrapie assume una parziale resistenza alle proteasi, derivante dalla trasformazione della sua struttura secondaria da alfa elica a foglietto beta ripiegato. La presenza della PrP scrapie è esclusiva e tipica delle encefalopatie spongiformi, e il suo riscontro nel tessuto cerebrale è anche l’unico mezzo di diagnosi certa postmortem. La modificazione conformazionale della PrP è l’evento centrale delle malattie da prioni ed è casuale nelle forme sporadiche, mentre è indotta dall’interazione con la PrP scrapie esogena nelle forme iatrogene o trasmesse, oppure è la conseguenza dell’instabilità strutturale della proteina mutata nelle forme familiari, geneticamente determinate. Il meccanismo di trasformazione della proteina non è noto e sono state proposte due ipotesi: la prima prevede che una molecola di PrP scrapie si leghi alla PrP
Le demenze 1061 cellulare trasformandone la conformazione, con conseguente formazione di due molecole di PrP scrapie ed innesco di un processo di conversione che ha andamento esponenziale. Alternativamente la trasformazione sarebbe secondaria alla necessaria formazione di un primitivo nucleo di 8-10 molecole di PrP scrapie. La conversione è favorita dall’omologia di sequenza aminoacidica, della PrP scrapie e di quella cellulare. Questo fatto giustifica la predisposizione per le forme sporadiche e iatrogene determinata da un comune polimorfismo Metionina/ Valina al codone 129 del gene della PrP: il 90% dei pazienti affetti è omozigote per questo locus, contro il 55% della popolazione normale. Lo stesso polimorfismo condiziona il fenotipo clinico-patologico in tutte le forme di malattia, perché verosimilmente media la formazione di differenti conformazioni della PrP scrapie, come è suggerito dall’esistenza di PrP resistente alle proteasi di vari pesi molecolari. L’ipotesi della proteina infettante, che indica nella PrP scrapie l’elemento etiopatogenetico necessario e sufficiente, che non necessita per propagarsi di un acido nucleico, è suffragata da dati consolidati. Le forme familiari, causate da mutazioni del gene della PrP, sono trasmissibili, e topi transgenici portatori di queste mutazioni sviluppano un’encefalopatia spongiforme trasmissibile. Topi transgenici privi di PrP (topi knock out) non sviluppano la malattia, né sono in grado di trasmetterla se sono inoculati con preparati infettanti. La presenza di proteine simil-prioniche che, assumendo una diversa conformazione e una parziale resistenza alle proteasi, modificano la propria funzione è stata dimostrata nei lieviti, suggerendo l’affascinante ipotesi che le malattie da prioni siano l’aberrazione di una via fisiologica di produzione proteica finora sconosciuta. Ci sono ancora aspetti oscuri e, soprattutto, manca la prova definitiva a favore dell’ipotesi della proteina infettante: cioè la produzione artificiale di una PrP scrapie in grado di produrre sperimentalmente la malattia nei modelli animali.
MALATTIA DI CREUTZFELDT-JAKOB - La forma sporadica ha una incidenza costante di circa un caso per milione per anno. L’età media è di circa 60 anni. Clinicamente è spesso presente una breve fase prodromica, costituita da sintomi non specifici, quali irritabilità, insonnia, astenia. Nella maggioranza dei casi si sviluppa un rapido deterioramento mentale, accompagnato da disturbi visivi, turbe cerebellari, e più tardivamente da mioclonie, segmentarie e massive. Nel 10% dei casi la malattia inizia con una sindrome cerebellare seguita da demenza. Il decorso medio è di
4-5 mesi; il 5% dei casi, con un esordio motorio, hanno una sopravvivenza superiore ai 2 anni. La diagnosi è suffragata dal riscontro delle caratteristiche alterazioni EEG, rappresentate da onde trifasiche bilaterali e sincrone, ad andamento pseudoritmico, presenti nel 85% dei casi, e dalla presenza nel liquor della proteina 14.3.3, un peptide di origine neuronale rilevabile nel 93% dei casi ed assente nelle demenze degenerative. La RM dimostra iperintensità di segnale in T2 a livello del putamen nell’ 85% dei casi. Neuropatologicamente l’elemento saliente è lo stato spongioso, che coinvolge i prolungamenti neuronali e gliali, accompagnato da astrocitosi e rarefazione neuronale, specialmente a livello della corteccia cerebrale, dello striato, del talamo e del cervelletto. La certezza diagnostica necessita dello studio immunocitochimico e biochimico. L’uso di anticorpi contro la proteina prionica rivela l’accumulo della PrP scrapie sotto forma di una fine punteggiatura intorno a vacuoli di spongiosi nei casi a decorso rapido, e di depositi di amiloide, prevalentemente cerebellari nelle forme a decorso più lento. L’analisi con immunoblotting dimostra la PrP resistente alla proteasi K, considerata la prova definitiva della malattia. Questo metodo consente inoltre di distinguere con assoluta certezza la Creutzfeldt-Jakob sporadica dalla nuova variante, derivante dalla contaminazione con tessuto di encefalopatia bovina, nella quale è costantemente presente una PrP resistente alla proteasi K maggiormente glicosilata. Il polimorfismo al codone 129 del gene della PrP, combinato con le varianti molecolari della PrP resistente rilevabile con immunoblotting, corrisponde a precise variazioni fenotipiche della malattia sporadica. I più frequenti casi con omozigosi metionina al codone 129 hanno una PrP resistente di minor peso molecolare e una breve durata di malattia; i casi con eterozigosi metionina/valina hanno un lungo decorso, superiore ad 1 anno, con frequente deposizione della PrP in forma di
1062 Malattie del sistema nervoso
amiloide nella corteccia cerebrale; i casi con omozigosi valina presentano una PrP resistente di maggiore peso molecolare, prevalenti segni cerebellari, e formazione di amiloide nel cervelletto. Le forme familiari di malattia di CreutzfeldtJakob sono costantemente associate ad alterazioni del gene della PrP. La mutazione puntiforme al codone 200 è l’alterazione più comune, e corrisponde ad un quadro clinico e patologico sovrapponibile alla forma sporadica. Mutazioni più rare, ai codoni 180, 208, 210, 211 e 232 si esprimono con il medesimo fenotipo. Una mutazione al codone 178, associata alla presenza di valina al codone polimorfico 129, produce un quadro di malattia caratterizzata da un esordio più precoce (45 anni), una durata media di 2 anni e l’assenza di EEG periodico. Forme familiari di Creutzfeldt-Jakob sono causate anche da inserzioni di un numero variabile di copie (da 1 a 8) di sequenze ripetute di octapeptidi tra i codoni 51 e 91 del gene della PrP.
La forma iatrogena è stata descritta, per la prima volta, nel 1974, conseguente a un trapianto corneale. La trasmissione accidentale è avvenuta anche per impianto di elettrodi elettroencefalografici profondi (2 casi), in seguito ad interventi neurochirurgici con strumenti contaminati (1 caso), e più frequentemente da impianto di dura madre (12 casi) e , soprattutto, per somministrazione di ormone della crescita estratto da ipofisi di cadaveri di soggetti deceduti per malattia di Creutzfeldt-Jakob (oltre 40 casi). La malattia insorta per contaminazione diretta del SNC ha un quadro clinico sovrapponibile alla forma sporadica. L’infezione periferica, come nel caso dell’ormone della crescita, ha causato una sindrome cerebellare solo tardivamente accompagnata da demenza, molto simile a quella del kuru. Anche nelle forme iatrogene il codone 129 del gene della PrP è un fattore predisponente, con una prevalenza di casi con omozigosi valina. KURU- Per molti anni endemica nella popolazione Fore delle isole orientali della Nuova Guinea, questa forma storica di malattia da
prioni è andata progressivamente diminuendo, fino a scomparire, dopo che è cessato il rito cannibalico di cibarsi del cervello dei familiari defunti. Questo era il mezzo di propagazione interumana della malattia, che aveva un periodo di incubazione molto variabile, tra i 5 e i 20 anni. L’età media d’esordio era sui 30 anni, e la sintomatologia era dominata da una sindrome cerebellare seguita, tardivamente, da demenza con un decorso della durata di circa 1 anno. L’alterazione cerebrale più rilevante era la formazione di placche compatte di amiloide, denominate placche tipo kuru, nello strato delle cellule del Purkinje della corteccia cerebellare. L’omozigosi valina al codone 129 del gene della PrP era il predominante fattore genetico predisponente. MALATTIA DI GERSTMANN-STRAUSSLER-SCHEINKER - È una malattia esclusivamente familiare, rara (1 caso su 10 milioni per anno), descritta originariamente come una sindrome cerebellare progressiva, con segni piramidali e demenza tardiva, e decorso variabile fra 5 e 15 anni. L’alterazione neuropatologica caratteristica è la formazione di placche di amiloide in corteccia cerebrale e cerebellare, composte da aggregati di PrP. La forma classica è causata da una mutazione al codone 102 del gene della PrP. Sono descritte varianti della malattia: con prevalente demenza e segni extrapiramidali corrispondenti a mutazioni ai codoni 198, 217, 117, e da inserzioni di sequenze ripetute di octapeptidi nella porzione aminoterminale della proteina; con paraparesi spastica progressiva e demenza tardiva da mutazione al codone 105.
INSONNIA FATALE FAMILIARE - È una malattia familiare, ma sono stati riportati anche rari casi sporadici. L’esordio clinico è costituito da insonnia globale, resistente ai farmaci, cui fanno seguito disautonomia, mioclonie e demenza. Il decorso varia da 6 a 30 mesi (Lugaresi et al. 1986). Istologicamente è presente una grave rarefazione neuronale del talamo medio-dorsale, cui si associa uno stato spongioso corticale nei casi a decorso protratto. La malattia è causata da una
Le demenze 1063
mutazione al codone 178, identica a quella riscontrata in una forma familiare di malattia di Creutzfeldt-Jakob. La differenza fenotipica è dettata dal polimorfismo al codone 129, che, nell’allele mutato, è sempre metionina o valina rispettivamente nell’Insonnia fatale familiare e nella malattia di Creutzfeldt-Jakob. NUOVA
CREUTZ- Con questo termine, peraltro improprio e equivoco, è stata definita una forma di malattia da prioni identificata nel 1996 quando furono descritti i primi dieci casi in Gran Bretagna (Will et al., 1996). Clinicamente insorge ad un’età media di 30 anni, è caratterizzata da alterazioni dell’umore o del comportamento, frequentemente associate a parestesie agli arti inferiori. Successivamente si sviluppa una sindrome cerebellare, seguita da mioclonie e da un rapido deterioramento mentale, senza la comparsa di EEG periodico. La durata della malattia è superiore ad un anno. La proteina 14.3.3 è positiva nel liquor in una minoranza dei pazienti. La RM evidenzia focolai di iperintensità in T2, nel talamo. Neuropatologicamente appare saliente il reperto di placche compatte di amiloide, composte da PrP resistente, circondate da un alone di spongiosi, che si ritrovano in gran numero nella corteccia cerebrale, nel cervelletto e nel talamo. La PrP resistente, evidenziata nell’encefalo con immunoblotting, è prevalentemente glicosilata, ed ha quindi caratteristiche diverse e distinguibili dalla malattia di CreutzfeldtJakob sporadica e dalle altre malattie umane da prioni. Le medesime caratteristiche di PrP si riscontrano nell’encefalopatia spongiforme bovina, identificata nel 1986 ed esplosa epidemicamente in Gran Bretagna negli anni novanta. L’identità della PrP resistente e la riproduzione nei primati di un quadro patologico e biologico sovrapponibile alla nuova variante con l’inoculazione di omogenato di encefalo bovino patologico suggereiscono che questa nuova forma di malattia origini dalla contaminazione VARIANTE DELLA MALATTIA DI
FELDT-JAKOB
con materiale bovino affetto. A sostegno di una sorgente extracerebrale dell’infezione, nei casi di nuova variante, sta il fatto che la PrP resistente è rilevabile anche in sedi del sistema reticolo-endoteliale come le tonsille e la milza, laddove è assolutamente assente nella malattia di Creutzfeldt-Jakob e nelle forme familiari. Fino al dicembre 2000 sono stati identificati 83 casi di nuova variante in Gran Bretagna, 3 in Francia, 1 in Irlanda e nessun caso negli altri paesi europei e negli Stati Uniti, dove dal 1996 sono stati attivati centri di sorveglianza deputati al controllo e alla registrazione dei dati clinico-patologici di tutti i casi di malattie da prioni umane.
4. Demenze endocrine e metaboliche Demenze endocrine. – Sono in genere riconoscibili per i segni clinici associati di compromissione ormonale. Tuttavia appare rilevante sottolineare che talvota i segni clinici di un mixedema possono mancare, mentre sono in primo piano il rallentamento e il deterioramento mentale. Per questo appare necessario valutare la funzionalità tiroidea in tutti i soggetti con demenza. Demenza epatica, Demenza uremica. – Spesso precedute da episodi di confusione mentale, si riconoscono facilmente per i segni clinici e biochimico-umorali, che rivelano la patologia causale. Malattia di Wilson – (v. pag. 000) Demenza dialitica - (v. pag. 0000)
5. Idrocefalo normoteso – (v. pag. 0000) 6. Malattie carenziali Sindrome di Korsakoff-Wernicke – (v. pag. 0000). Pellagra – (v. pag. 0000).
1064 Malattie del sistema nervoso
Malattia di Marchiafava-Bignami – (v. pag. 000). Deficit di vit. B12 e folati – (v. pag. 0000)
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Tumori cerebrali, sindromi paraneoplastiche. – I tumori cerebrali possono provocare un deterioramento mentale in rapporto alla localizzazione, specie in sede temporale, frontale, diencefalica o per localizzazione diffusa, come in caso di metastasi multiple. Per una localizzazione frontale, temporale e diencefalica, i sintomi sono quelli già descritti (v. pag. 000). Anche tumori localizzati al di fuori del sistema nervoso possono essere responsabili di effetti secondari a livello del nevrasse che si identificano nel quadro denominato encefalo-mielite paraneoplastica. L’encefalite limbica, quadro pertinente alle encefaliti paraneoplastiche e frequentemente associata a microcitomi polmonari, si manifesta con ansietà, depressione, turbe mnesiche, deficit cognitivi, e talora allucinazioni e convulsioni. Traumi cranici - (v. pag. 000)
9. Malattie infettive (encefaliti, meningiti) Malattie autoimmuni (v. pag. 000) Criptococcosi – (v. pag. 000) Neurolue – (v. pag. 000) AIDS – Leucoencefalite multifocale progressiva (v. pag. 000)
10. Demenze da altre malattie Sclerosi multipla – (v. pag. 000) M. di Whipple – (v. pag. 0000)
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Malattie del sistema extrapiramidale 1067
25. Malattie del sistema extrapiramidale G. Abbruzzese
Le malattie del sistema extrapiramidale sono principalmente caratterizzate, sul piano clinico, dalla compromissione della funzione motoria che può spaziare dalla riduzione del movimento (acinesia), accompagnata da un aumento del tono muscolare (rigidità), sino alla comparsa di movimenti involontari patologici (ipercinesie). Le sindromi acinetico-ipertoniche e le sindromi ipercinetiche rappresentano pertanto gli estremi opposti dello spettro di continuità che caratterizza queste malattie. Il sistema extrapiramidale è costituito da un gruppo di nuclei di sostanza grigia (gangli della base) posti nella porzione ventro-mediale degli emisferi cerebrali, comprendenti: lo striato (nucleo caudato e putamen), il globo pallido, il nucleo subtalamico e la sostanza nera (v. pag. 000). I gangli della base sono dotati di una ricca rete di connessioni internucleari (Fig. 2.17, 2.18, pag. 22-23): lo striato e la sostanza nera presentano reciproche connessioni (vie nigro-striata e strio-nigrica), così come il pallido ed il nucleo subtalamico. Le principali vie afferenti ai gangli della base raggiungono lo striato (ed in parte il nucleo subtalamico) dalle aree corticali (oltre che dai nuclei intralaminari talamici e dal tronco encefalico), mentre l’efferenza striatale è diretta al globo pallido. Le principali connessioni efferenti, organizzate somatotopicamente, originano dal pallido e dalla sostanza nera (pars reticolata) e sono dirette al talamo e, quindi, alla corteccia cerebrale, al collicolo superiore ed alla formazione reticolare. L’anatomo-fisiologia dei gangli della base è estremamente complessa, tuttavia gli studi sperimentali neurofisiologici e neurochimici hanno consentito di formulare ipotesi circa la loro organizzazione funzionale. È generalmente accettato che i gangli della base svolgano, attraverso il circuito «cortico-striato-pallido-talamo-corticale», principalmente una funzione inerente al controllo motorio (Marsden, 1982). Tuttavia, questo stesso circuito, ed in particolare le connessioni dei gangli della base con le aree prefrontali ed il sistema limbico, risulta coinvolto anche in funzioni di tipo cognitivo.
Secondo i modelli anatomo-funzionali (Alexander e Crutcher, 1990) (Fig. 25.1), lo striato costituisce la porzione afferente dei gangli della base che riceve dalla corteccia cerebrale proiezioni eccitatorie somatotopicamente organizzate; la via cortico-striata utilizza come neurotrasmettitore l’acido glutammico. Inoltre, sono dirette allo striato le proiezioni dopaminergiche dalla pars compacta della sostanza nera (via nigro-striata) che rappresenta il principale sistema di modulazione. Lo striato contiene, oltre ad interneuroni colinergici, neuroni GABAergici
Fig. 25.1 - Rappresentazione schematica dell’organizzazione funzionale del circuito gangli basali-talamo-corteccia con indicazione delle due vie parallele («diretta» e «indiretta») e dei neurotrasmettitori utilizzati. Le linee in grassetto indicano proiezioni facilitatorie, le linee normali indicano proiezioni inibitorie. Abbreviazioni: PMC, area premotoria; SMA, area supplementare motoria; SMC, area sensitivo-motoria primaria; GP, globo pallido; SN, sostanza nera (pars compacta e pars reticolata); STN, nucleo subtalamico; PPN, nucleo peduncolo-pontino; VLo, nucleo ventrale-laterale (pars oralis); VA, nucleo ventrale anteriore; glu, glutammato; GABA, acido aminogammabutirrico; encef., encefaline; DA, dopamina; sost. P, sostanza P (mod. da Alexander G.E., Crutcher M.D.: Functional architecture of basal ganglia circuits: neural substrates of parallel processing. TINS, 13, 266-271, 1990 (Elsevier).
1068 Malattie del sistema nervoso che inviano le loro proiezioni al globo pallido (esterno ed interno) ed alla sostanza nera (pars reticolata) che costituiscono le più importanti stazione efferenti, controllate a «feedback» dal nucleo subtalamico. L’ouput del sistema, infine, utilizza proiezioni GABAergiche inibitorie dirette principalmente ai nuclei talamici, in grado di modulare l’eccitabilità delle diverse aree corticali. La porzione afferente (putamen – caudato) ed efferente (pallido interno – sostanza nera reticolata) del sistema risultano connesse sia tramite proiezioni «dirette» (mediate da GABA e sostanza P ed attivate dai recettori dopaminergici D1) che tramite proiezioni «indirette» attraverso il pallido esterno ed il subtalamo (mediate da GABA ed encefaline ed inibite dai recettori D2). Si ipotizza che le vie «diretta» ed «indiretta» siano in una sorta di equilibrio funzionale dalla cui alterazione dipendono rispettivamente l’insorgenza di manifestazioni bradi-acinetiche ed ipercinetiche. Il mantenimento di costanti rapporti topografici consente al sistema di operare sulla base di circuiti paralleli ed indipendenti. La visione moderna della funzione dei gangli della base prevede, oltre all’esistenza di proiezioni organizzate somatotopicamente in circuiti paralelli (primariamente responsabili della selezione, preparazione ed esecuzione dei movimenti), anche la presenza di circuiti interni deputati alla stabilizzazione funzionale (Obeso et al., 2000). Il complesso delle connessioni estrinseche ed intrinseche dei gangli della base utilizza numerosi neurotrasmettitori (catecolamine, aminoacidi, peptidi), il più noto dei quali è rappresentato dalla dopamina (proiezioni nigro-striatali a partenza dalle cellule pigmentate ricche di dopamina della pars compacta della sostanza nera, con terminazioni assoniche diffuse nel caudato e nel putamen) e rende il sistema extrapiramidale una struttura eterogenea dal punto vista biochimico.
Sindromi acinetico-ipertoniche (Parkinsonismo) Molte affezioni dei gangli della base si manifestano con una sindrome acinetico-ipertonica, cui può associarsi la presenza di tremore. Il più frequente di questi quadri clinici è la malattia di Parkinson, da cui deriva il termine anglosassone «parkinsonismo» usato per descriverne gli aspetti fondamentali. Il parkinsonismo può dipendere da un processo degenerativo da causa ignota (cosiddetto idiopatico), più raramente risulta geneticamente determinato o può essere espressione sintoma-
tica di processi patologici noti. Si presenta in forma pura nella malattia di Parkinson ed in alcune rare condizioni o può associarsi a segni o sintomi neurologici addizionali («parkinsonplus») (Jankovic, 1989). Le principali cause di sindrome acinetico-ipertonica sono riportate nella Tabella 25.1.
1. Malattia idiopatica di Parkinson È una malattia a decorso cronico progressivo, definita clinicamente dall’associazione di tremore, rigidità, bradi-acinesia ed instabilità posturale, e neuropatologicamente caratterizzata da gravi alterazioni degenerative della sostanza nera (pars compacta) e dei nuclei pigmentati del tronco cerebrale, con presenza di specifiche inclusioni cellulari (corpi di Lewy) nei neuroni residui. Descritta inizialmente come «paralisi agitante» da James Parkinson («Essay on the Shaking Palsy», 1817) ed in seguito da Charcot (18721873) che ne precisò le caratteristiche cliniche, la malattia ha trovato la sua prima identità neuropatologica con gli studi di Tretiakoff (1919) che sottolineò la costanza delle alterazioni della sostanza nera. Gli studi biochimici hanno permesso di dimostrare l’esistenza di una grave deplezione in dopamina dello striato, come conseguenza del depauperamento neuronale della sostanza nera, fornendo in tal modo un’interpretazione fisiopatologica della malattia (Ehringer e Hornykiewicz, 1960). EPIDEMIOLOGIA. – La malattia esordisce insidiosamente nella seconda metà della vita (solitamente tra i 50-60 anni); i casi che iniziano prima dei 40 anni di età sono relativamente rari. La frequenza è elevata: si calcola che ogni anno compaia un nuovo caso ogni 4000 abitanti e, se riferito a soggetti che hanno superato i 50 anni d’età, un nuovo caso ogni 1000. In Italia la prevalenza è stata indicata tra 95 e 199/100.000 in differenti studi epidemiologici (Chiò et al., 1998), con una crescita progressiva al di sopra dei 50 anni. Si può ritenere che attualmente esistano in Italia circa 100.000 parkinsoniani. La malattia colpisce maschi e femmine (con una lieve preponderan-
Malattie del sistema extrapiramidale 1069 Tabella 25.1 – Classificazione eziologica delle sindromi acinetico-ipertoniche (parkinsonismo) 1.
Malattia di Parkinson (idiopatica)
2.
Parkinsonismi monogenici (ereditari)
3.
Parkinsonismi sintomatici (secondari a cause note) – Postencefalitico (encefalite letargica, altre enecefaliti virali) – Da farmaci: antagonisti dopaminergici (fenotiazine, butirrofenoni, sulpitridi); depletori delle riserve di dopamina (reserpina, tetrabenazina); antagonisti del trasporto di calcio (flunarizina, cinnarizina); litio; metoclopramide; alfa-metildopa – Da tossici (manganese, mercurio, MPTP, metanolo, cianuro, disolfuro di carbonio, solventi idrocarburici) – – – – – –
4.
Encefalopatia anossica (incluso avvelenamento da ossido di carbonio) Vascolare (encefalopatia ipertensiva-aterosclerotica, angiopatia amiloide, encefalopatia di Binswanger) Traumi cranici (inclusa la demenza pugilistica) Tumori cerebrali Idrocefalo (normoteso ed iperteso) Metabolico (degenerazione epatocerebrale acquisita, ipoparatiroidismo)
Parkinson-plus A.Forme Sporadiche: – Atrofie multisistemiche (atrofia olivo-ponnto-cerebellare, degenerazione strio-nigrica, sindrome di Shy-Drager) – Paralisi sopranucleare progressiva – Degenerazione corticobasale (o cortico-dentato-nigrica) – Degenerazione pallidale – Parkinsonismo-demenza-SLA complex di Guam – Malattia di Alzheimer con Parkinsonismo – Malattia da corpi di Lewy diffusi B. Forme Familiari: – In corso di malattie degenerative ereditarie (malattia di Wilson, malattia di Huntington, malattia di HallervordenSpatz, neuroacantocitosi, malattia di Joseph) – Calcificazione familiare dei gangli della base – Deficienza di glutamato-deidrogenasi – Distonia DOPA-responsiva e parkinsonismo giovanile
za per il sesso maschile) ed è ubiquitariamente diffusa, seppur con una minor frequenza in Cina ed Africa rispetto alle nazioni occidentali. EZIOLOGIA. – La causa della malattia è sconosciuta, nonostante gli studi sulla sua eziologia si siano intensificati soprattutto dopo la scoperta di una sostanza tossica (1-metil-4-fenil-1,2,3,6-tetraidropiridina o MPTP) in grado di riprodurre, nell’uomo ed in alcune specie animali, un quadro clinico e neuropatologico analogo a quello parkinsoniano (Langston et al., 1983). La tossicità della MPTP si sviluppa in conseguenza della sua metabolizzazione ad opera delle monoamino-ossidasi B gliali (MAO B) con formazione del composto MPP+ che viene trasportato all’interno dei neuroni dopaminergici, ove
si accumula nei mitocondri inibendo il complesso I della catena respiratoria e determinando una deplezione di ATP e, quindi, l’inizio della morte cellulare (Fig. 25.2). La scoperta del parkinsonismo da MPTP ha avvalorato l’ipotesi che la malattia idiopatica di Parkinson possa dipendere dall’esposizione a sostanze tossiche di origine ambientale con distribuzione variabile (il rischio di malattia sarebbe più elevato in ambiente rurale, in rapporto all’uso di pesticidi e diserbanti). Tuttavia, le ricerche in questa direzione non sono risultate probanti ed è stata, quindi, avanzata l’ipotesi che le sostanze tossiche responsabili siano più diffusamente distribuite, ma che solo alcuni individui risultino vulnerabili al potenziale danno tossico in relazione ad una predisposizione genetica. Alternativamente, è stato suggerito che l’azione tos-
1070 Malattie del sistema nervoso In conclusione, l’eziologia della malattia di Parkinson è da considerarsi eterogenea ed esprime verosimilmente una complessa interazione tra fattori di tipo genetico ed ambientale.
Fig. 25.2 - Ipotesi sul meccanismo d’azione neurotossica esercitata dalla MPTP sui neuroni dopaminergici nigrostriatali. L’MPTP viene ossidata dalle MAO-B astrocitarie con formazione del composto MPP+ che, successivamente, si accumula all’interno dei neuroni dopaminergici in concentrazioni tali da inibire l’attività dei mitocondri, determinando la morte cellulare (modificata da Heikkila R.E. et al.: MPTP and animal models of parkinsonism , in: Handbook of Parkinson’s disease, W.C. Koller (ed.), M. Dekker, New York, 1987).
sica sulle cellule nigrali possa essere di origine endogena: in particolare, alcuni prodotti del normale catabolismo della dopamina (analogamente alle eventuali tossine ambientali) sarebbero responsabili della formazione di radicali liberi ed indurrebbero un danno da «stress ossidativo». La teoria dei «radicali liberi» è stata oggetto di accese controversie (Fahn e Cohen, 1992; Calne, 1992), ma è indubbio che nella sostanza nera di soggetti parkinsoniani è stato documentato uno specifico deficit del complesso I mitocondriale ed un aumento dei livelli di ferro, non compensato da incrementi della ferritina (Jenner et al., 1992). Inoltre, è stato recentemente dimostrato che i meccanismi tossici sopra ricordati sono in grado di indurre il fenomeno dell’apoptosi («morte cellulare programmata») che potrebbe rappresentare il principale fattore responsabile della morte neuronale. Anche il possibile ruolo dell’ereditarietà nella malattia di Parkinson è stato oggetto di opinioni contrastanti: il riscontro di una positività dell’anamnesi familiare solo nel 10-15 % dei casi ha suggerito l’esistenza di una predisposizione su base autosomica dominante con ridotta penetranza, che risulta di difficile evidenziazione a causa della spiccata variabilità della fase preclinica di malattia (Duvoisin, 1993). Il recente studio di Tanner et al. (1999) sul grado di concordanza tra gemelli monozigoti e dizigoti suggerisce che i parkinsonismi ad esordio precoce sarebbero caratterizzati da una forte componente genetica, mentre nei parkinsonismi con esordio oltre i 50 anni quest’ultima sarebbe da considerarsi non rilevante. L’analisi delle rare forme mendeliane di parkinsonismo («parkinsonismi monogenici», (v. pag. …) potrà offrire indicazioni importanti anche sul ruolo della componente genetica nella patogenesi delle forme sporadiche.
PATOGENESI. – La conseguenza della perdita di neuroni dopaminergici della sostanza nera è la riduzione di dopamina a livello striatale, principale alterazione biochimica della malattia di Parkinson (Ehringer e Hornykiewicz, 1960). Esiste uno stretto parallelismo tra l’entità del depauperamento neuronale, il grado di deplezione della dopamina striatale e la gravità della sintomatologia clinica (Fig. 25.3): la fase preclinica di malattia ha una durata variabile, verosimilmente inferiore a 7 anni secondo recenti dati PET (Morrish et al., 1998), durante la quale la perdita dei neuroni dopaminergici e la riduzione del contenuto striatale di dopamina sono accompagnati da una riduzione di grado minore dell’acido omovanillico (e degli enzimi tirosin-idrossilasi e dopa-decarbossilasi) in rapporto ad un aumentato «turnover» dopaminergico ed allo sviluppo compensatorio di una ipersensibilità recettoriale da denervazione (cioè un incremento del numero di recettori dopaminergici). La sintomatologia parkinsoniana si manifesta quando il numero di neuroni dopami-
Fig. 25.3 - Correlazioni biochimiche, neuropatologiche e cliniche nel decorso della malattia di Parkinson. Durante la fase presintomatica, di durata variabile, la riduzione del numero di neuroni dopaminergici si accompagna alla riduzione della quantità di dopamina striatale (ed in misura minore del suo principale catabolita, l’acido omovanillico), parzialmente compensata dall’incremento dei recettori dopaminergici. La sintomatologia parkinsoniana si manifesta quando il numero dei neuroni dopaminergici è ridotto almeno del 75%. Col progredire della fase sintomatica di malattia, si verifica un’ulteriore progressiva riduzione del numero di neuroni dopaminergici e della disponibilità di dopamina (modificata da Jankovic J., Calne D.B.: Parkinson’s disease: etiology and treatment, in: Current Neurology, vol.7, S.H. Appel (ed.), Year Book, Chicago, 1987.
Malattie del sistema extrapiramidale 1071 nergici ed il contenuto di dopamina striatale sono scesi al di sotto di un livello critico (70-80 %) (Hornykiewicz, 1982). Col progredire della malattia la riduzione di neuroni dopaminergici si associa ad una progressiva riduzione del numero dei recettori postsinaptici. Tuttavia, le alterazioni biochimiche che caratterizzano la malattia di Parkinson sono assai più complesse e diffuse, indicando una compromissione prevalente, ma non esclusiva, dei sistemi dopaminergici. Partendo dall’osservazione che i neuroni striatali ricevono oltre all’innervazione dopaminergica anche una innervazione colinergica, è stato ipotizzata l’esistenza di un’alterazione del normale equilibrio neurotrasmettitoriale tra dopamina ed acetilcolina per cui alla ridotta attività dei neuroni dopaminergici sarebbe associata una relativa iperfunzione dei neuroni colinergici. Seppur non priva di importanti riscontri pratici, la teoria dell’alterata «bilancia dopaminaacetilcolina», basata su dati anatomici ormai superati, non è più ritenuta valida. Altri neurotrasmettitori (noradrenalina, serotonina) risultano ridotti, seppur in minor grado. La concentrazione dell’enzima decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD), responsabile della sintesi del GABA, è ridotta nella sostanza nera e nella corteccia dei soggetti parkinsoniani: ciò depone per una compromissione funzionale delle proiezioni GABAergiche strio-nigriche coinvolte nella regolazione inibitoria dei neuroni dopaminergici. Allo stato attuale, quindi, la malattia di Parkinson non può essere messa in relazione esclusivamente ad una carenza di dopamina secondaria alla degenerazione dei neuroni pigmentati della sostanza nera e del tronco encefalico, ma deve piuttosto essere considerata come una malattia complessa, caratterizzata sul piano biochimico da uno squilibrio dei rapporti tra i vari neurotrasmettitori. NEUROPATOLOGIA. – Le principali alterazioni riguardano la regione mesencefalica, ove già al taglio appare evidente un assottigliamento ed un diffuso pallore della sostanza nera (Fig. 25.4). Le alterazioni istopatologiche più caratteristiche e costanti sono localizzate nella pars compacta della sostanza nera (regione ventro-laterale), ove è presente una grave rarefazione neuronale con scomparsa pressoché completa dei neuroni pigmentati, cui segue una reazione gliale di entità lieve o moderata (Jellinger, 1987). Il pigmento melaninico si trova libero nel parenchima nervoso oppure fagocitato da macrofagi. Nei neuroni superstiti si osservano, in numero variabile, inclusioni citoplasmatiche ialine (di forma arrotondata con alone periferico chiaro ed una parte centrale fortemente acidofila) denominate «corpi di Lewy», nella cui composizione spicca la presenza di polimeri di a-sinucleina (Spillantini et al., 1998).
Fig. 25.4 - A: Mesencefalo normale. B: Mesencefalo di soggetto affetto da morbo di Parkinson con depigmentazione pressoché completa della sostanza nera.
Simili alterazioni si osservano anche nelle formazioni pigmentate del tronco cerebrale, in particolare nel locus coeruleus e nel nucleo motore dorsale del vago, così come nella sostanza innominata, nel nucleo basale di Meynert e nelle cellule della colonna intermediolaterale del midollo spinale. I «corpi di Lewy» non costituiscono un reperto patognomonico della malattia di Parkinson, essendo presenti anche in altre malattie degenerative e in circa il 5 % dei cervelli di persone normali con età superiore a 65 anni, ma di fattto rappresentano un aspetto neuropatologico così caratteristico (sono presenti in circa il 76 % dei cervelli di pazienti parkinsoniani) da essere ritenuti indispensabili per confermare la diagnosi di malattia idiopatica (Forno, 1982).
1072 Malattie del sistema nervoso I «corpi di Lewy» caratterizzano anche una rara forma morbosa, definita «malattia dei corpi di Lewy» (v. pag. 000), in cui si localizzano in grande numero nella corteccia cerebrale e nei nuclei grigi sottocorticali conferendo a questa condizione un’identità nosografica su base neuropatologica. Alterazioni più discrete e di incerto significato (alcune delle quali possono rappresentare modificazioni di tipo senile) si riscontrano nello striato e nel pallido e possono riflettere una degenerazione transinaptica legata alla grave e perdurante compromissione della via dopaminergica nigro-striata. Neuroni in degenerazione neurofibrillare e placche senili sono stati descritti nella corteccia frontale e nell’ippocampo di pazienti parkinsoniani in misura superiore rispetto ai controlli di pari età: non è ancora certo, tuttavia, se queste alterazioni rappresentino il substrato patologico del deterioramento mentale che, dopo anni di malattia, è possibile riscontrare in una variabile percentuale di casi (Jellinger, 1987).
SINTOMATOLOGIA La malattia si instaura in modo insidioso e nel 60 % circa dei casi il sintomo di esordio è rappresentato dal tremore; altre manifestazioni iniziali possono essere costituite da impaccio motorio o sensazione di irrigidimento di un arto, ma anche disturbi aspecifici (dolori, faticabilità, depressione del tono dell’umore, turbe dell’andatura, modificazioni del timbro vocale o della scrittura) possono essere presenti per mesi prima che la malattia si sviluppi compiutamente. La sintomatologia all’esordio tende ad essere unilaterale (o asimmetrica) e può rimanere tale per molti anni (assai di rado definitivamente), anche se minimi segni obiettivi controlaterali possono essere evidenziati dall’esame neurologico. I segni cardinali della malattia sono rappresentati dalla triade: tremore, rigidità, acinesia, e più tardivamente da alterazioni della postura e dell’equilibrio, variamente combinati per intensità ed ordine di comparsa. Tremore. – Il tremore parkinsoniano si manifesta a riposo ed è causato dalla contrazione ritmica di tipo alternante di muscoli antagoni-
sti con una frequenza di 4-6 scosse al secondo (Hz.). Scompare durante l’esecuzione di movimenti volontari, anche se nelle forme più gravi ed avanzate, il movimento volontario, attenua, ma può non sopprimere completamente il tremore. Circostanze esterne sono in grado di influenzarlo e modificarlo: la fatica, le emozioni, il calcolo mentale e tutte le situazioni in cui il paziente crede di essere osservato, determinano un aumento dell’intensità del tremore, che si attenua invece in condizioni di tranquillità, per scomparire completamente durante il sonno. Si localizza preferenzialmente, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, agli arti ed in particolare ai segmenti distali dell’arto superiore: il pollice presenta movimenti di abduzioneadduzione e le altre dita di flesso-estensione, realizzando un movimento descritto come «contare monete» o «confezionare pillole». Anche la mano può essere sede di movimenti di flessoestensione e prono-supinazione; l’arto inferiore è colpito meno frequentemente, raramente in fase iniziale, con movimenti distali di flessoestensione del piede. Il capo è raramente coinvolto, anche se il tremore può diffondere alla mandibola ed alle labbra. I meccanismi fisiopatologici responsabili del tremore a riposo sono tuttora oggetto di controversia. Si ipotizza che alla genesi del tremore a riposo concorrano meccanismi segmentali (fenomeni di oscillazione trasmessi da circuiti riflessi «long-loop» iperfunzionanti) e meccanismi sovraspinali (attività ritmica di un generatore centrale, identificato nel nucleo ventralis intermedius del talamo) influenzati dalle afferente periferiche, in particolare di tipo Ia.
Occorre ricordare che nei parkinsoniani si osservano comunemente tremori posturali (con varie frequenze: 6-7 e 9.5-11 Hz.) durante il mantenimento di specifiche attitudini degli arti superiori, spesso nelle fasi iniziali di malattia ed anche in assenza del tipico tremore a riposo, che possono porre problemi diagnostici differenziali rispetto alle varie forme di «tremore essenziale» (v. pag. …).
Malattie del sistema extrapiramidale 1073
Rigidità. – Sintomo caratteristico e costante, la rigidità può costituire per lungo periodo di tempo il solo segno clinico della malattia. Consiste in un aumento del tono muscolare apprezzato dal paziente come «irrigidimento» muscolare e dall’esaminatore come una resistenza continua al movimento passivo, d’intensità analoga in gruppi muscolari antagonisti, costante per tutto l’ambito della manipolazione, definita «plastica» (ricorda la flessibilità della cera o di un tubo di piombo). Queste caratteristiche semeiologiche contrastano con la distribuzione selettiva e la dipendenza dalla velocità di stiramento della «spasticità» (v. pag. 25). I meccanismi fisiopatologici responsabili della rigidità non sono al momento del tutto noti. L’ipotesi prevalente è che la rigidità derivi da un alterato controllo corticale dei circuiti segmentali spinali (ove sarebbero principalmente coinvolti gli interneuroni Ib), responsabile della modificazione della soglia, del guadagno e della durata dell’attività EMG correlata allo stiramento muscolare. Le modificazioni dell’ouput pallidale diretto al nucleo peduncolopontino svolgerebbero un ruolo rilevante.
La rigidità colpisce tutti i gruppi muscolari: inizialmente localizzata alla muscolatura assiale, cervicale e prossimale degli arti, tende successivamente ad interessare anche le estremità distali ed a prevalere nei gruppi muscolari flessori ed adduttori, determinando il particolare atteggiamento posturale del parkinsoniano, definito «camptocormia»: il capo ed il tronco in lieve flessione, le spalle in avanti, le braccia aderenti al torace, gli avambracci semiflessi ed intraruotati, le cosce addotte e in modesta flessione rispetto al tronco, le gambe leggermente flesse ed i piedi in posizione d’iniziale varismo (v. Fig. 000). Sovrapposti alla rigidità, si apprezzano durante la mobilizzazione passiva (specie al polso ed al gomito) piccoli, regolari e ritmici cedimenti dell’ipertonia muscolare descritti da Negro come fenomeno della «ruota dentata» o «troclea», attribuito ad una reazione di allungamento-accorciamento, anche se recentemente è stato suggerito che tale fenomeno possa espri-
mere la sovrapposizione di scariche di attività di un tremore d’azione subclinico. Anche la rigidità parkinsoniana, come il tremore, può essere influenzata da numerosi fattori: è aumentata dalle emozioni, dal freddo, dalla fatica e dallo sforzo, mentre si attenua durante il sonno. Acinesia. – Questo termine è semeiologicamente riferito ad una globale riduzione della motilità (volontaria, automatica, associata e riflessa), mentre il termine bradicinesia si riferisce alla lentezza e alla faticabilità con cui sono eseguiti i movimenti volontari. I movimenti associati ed automatici, che normalmente vengono eseguiti in modo regolare ed armonioso senza l’intervento della volontà, sono compromessi e richiedono attenzione e concentrazione. Ad esempio, i movimenti spontaneamente eseguiti durante una conversazione quali l’uso delle mani, incrociare le gambe, modificare la posizione sulla sedia, sono ridotti o assenti. Il movimento volontario è quantitativamente ridotto ed alterato in tutte le fasi della sua realizzazione: movimenti ripetitivi, di tipo rapido alternato, come battere ritmicamente le dita della mano o del piede, aprire e chiudere il pugno, pronare e supinare l’avambraccio sono eseguiti lentamente con una graduale riduzione in ampiezza ed in completezza. Le basi fisiopatologiche della bradi-acinesia sono state identificate nel deficit di facilitazione talamo-corticale dell’area supplementare motoria e nell’inappropriata attivazione delle aree motorie primarie che farebbe seguito all’iperattività della «via indiretta» dal putamen al pallido (segmento esterno) ed al nucleo subtalamico (Fig. 25.1).
La deambulazione avviene lentamente ed a piccoli passi, i piedi sono strisciati al suolo prevalentemente con la punta, i movimenti pendolari degli arti superiori sono notevolmente ridotti od aboliti. L’avvio alla marcia è particolarmente difficoltoso: il paziente avverte i piedi come incollati al pavimento e solo dopo ripetuti
1074 Malattie del sistema nervoso
tentativi di messa in moto inizia a camminare. Analogamente, nei tentativi di cambiare direzione (dietro-front), quando incontra un ostacolo, nel passaggio attraverso spazi ristretti (ad esempio, il vano di una porta) il paziente esita e si blocca (fenomeno dell’acinesia paradossa o «freezing»). Nelle fasi più avanzate di malattia, l’atteggiamento spontaneo in flessione del tronco favorisce una tendenza costante all’anteropulsione, che può evidenziarsi con una progressiva accelerazione dell’andatura, «come se inseguisse il proprio centro di gravità» (fenomeno della «festinazione»). La perdita della normale espressione facciale (ipo-amimia) è spesso un segno precoce: i tratti fisionomici sono fissi (avendo perduto la capacità espressiva di emozioni e sentimenti) conferendo al soggetto un aspetto impassibile ed inespressivo, la rima palpebrale è leggermente più allargata della norma, l’ammiccamento è raro. Il linguaggio è monotono, lento, senza inflessione; il discorso perde la sua normale prosodia, l’articolazione è irregolare ed intercisa, la voce è ipofonica. In alcuni casi, dopo l’inizio difficoltoso e lento, il discorso mostra una tendenza alla progressiva accelerazione, fenomeno detto «festinazione del linguaggio». Più raramente, nelle forme avanzate, compare palilalia, cioè ripetizione iterativa per più volte di una parola, o più spesso di una sillaba o di un frammento sillabico. Con il progredire della malattia, la disartria può rendere la parola inintellegibile. Anche le alterazioni della scrittura rappresentano spesso uno dei segni clinici iniziali: i caratteri grafici sono irregolari, ineguali, disturbati dal tremore e vanno facendosi sempre più piccoli, realizzando la tipica micrografia del parkinsoniano. Nelle fasi avanzate la scrittura può divenire totalmente illegibile. Alterazioni posturali. – Il prevalere dell’ipertonia nei gruppi muscolari flessori ed adduttori comporta lo sviluppo di uno specifico atteggia-
mento posturale («camptocormia») che può associarsi, col tempo, ad alterazioni scheletriche (cifo-scoliosi); talora la prevalenza unilaterale della sintomatologia condiziona lo sviluppo di alterazioni posturali sul piano frontale (inclinazione laterale della colonna). Deformazioni posturali si verificano anche alle mani (flessione delle articolazioni metacarpo-falangee con iperestensione delle articolazioni interfalangee) ed ai piedi (estensione dell’alluce con atteggiamento «a martello» delle altre dita, che costituisce il c.d. «piede striatale», erroneamente interpretato, talora, come una risposta plantare estensoria). Col progredire della malattia alle deformazioni sopra descritte si associa una progressiva compromissione dei meccanismi riflessi di fissazione posturale: nell’alzarsi, ad esempio, dalla posizione seduta il paziente tende a ricadere all’indietro sulla seggiola. Tale instabilità posturale (evidenziabile semeiologicamente con la «prova della spinta») può divenire responsabile di antero-retropulsione e di cadute a terra, limitando gravemente l’autonomia. Altri segni o sintomi. – Mentre le sensibilità obiettive non sono compromesse, i malati lamentano spesso disturbi sensitivi soggettivi, quali: parestesie o disestesie di vario tipo, dolori e crampi muscolari (assai fastidiosi, ma spesso indefiniti e mal localizzati). I movimenti oculari risultano normali, tranne per un deficit della convergenza, una limitazione dello sguardo coniugato di verticalità verso l’alto ed una ridotta velocità dei movimenti saccadici. È possibile la presenza di blefarospasmo. La scialorrea è sintomo frequente nelle fasi avanzate di malattia ed è espressione di un’inadeguata deglutizione spontanea. Talora può essere presente disfagia di grado lieve. Un’importante disfunzione vegetativa è sempre presente: aumento della sudorazione (iperidrosi), con secrezione sebacea della cute (specie del volto), costipazione; più rare le turbe
Malattie del sistema extrapiramidale 1075
della minzione (pollachiuria, nicturia, incontinenza) e possibili le alterazioni della termoregolazione. L’ipotensione ortostatica si manifesta clinicamente in circa il 10% dei casi con vertigini e fenomeni presincopali, senza assumere la gravità e la precocità che contraddistingue la sindrome di Shy-Drager (v. pag. 000). I disturbi del sonno (v. pag….) possono essere considerati un’evenienza frequente (6090% dei casi di parkinsonismo) (Trenkwalder, 1998) e comprendono, tra l’altro, parasonnie (sogni vividi, incubi, disturbi comportamentali del sonno REM) e disturbi motori (mioclono, sindrome delle gambe senza riposo, movimenti periodici del sonno). Alterazioni cognitive. – Il riscontro di turbe dell’affettività (stati disforici, crisi d’ansia, stati depressivi, astenia, abulia, inerzia) è osservazione frequente e da tempo nota. Più complesso, invece, è il problema della compromissione delle funzioni cognitive: la presenza di deficit cognitivi è stata dimostrata da studi epidemiologici e neuropsicologici, ma restano importanti controversie circa la precisa natura delle alterazioni neuropsicologiche, il loro substrato neuropatologico e neurochimico, l’effettiva prevalenza. Nonostante le ampie differenze percentuali riportate in letteratura, si può ritenere che circa il 20 % dei soggetti parkinsoniani presentino anche un quadro di demenza (Brown e Marsden, 1984). In considerazione del possibile sviluppo di una compromissione delle funzioni cognitive, l’uso dei farmaci anticolinergici (specie nei malati di età più avanzata) deve essere sempre considerato con cautela. Le caratteristiche neuropsicologiche del deterioramento intellettivo parkinsoniano sono state analizzate non solo rispetto a soggetti normali di controllo, ma soprattutto rispetto ai dementi con malattia di Alzheimer (v. pag. 000). Pur in presenza di alcune somiglianze, il tipo di compromissione neuropsicologica risulta assai diverso in queste due patologie suggerendo nella malattia di Parkinson un prevalente interes-
samento delle funzioni legate ai lobi frontali (compromissione visuo-spaziale, alterata fluenza verbale, deficit di attenzione, ridotta capacità di ricordo tardivo, perseverazione, alterazioni dell’ordinamento sequenziale e temporale) (Brown e Marsden, 1990). Le basi neuropatologiche e neurochimiche del deterioramento intellettivo sono assai controverse. L’ipotesi di una correlazione tra deterioramento mentale ed alterazioni neuropatologiche tipiche della malattia di Alzheimer (presenza di neuroni in degenerazione neurofibrillare e placche senili) non riscuote attualmente consensi, anche se è accettata la possibile concomitanza tra malattia di Alzheimer e malattia di Parkinson. Ipotesi alternative sono costituite dalla deafferentazione dopaminergica della corteccia frontale e dalla deafferentazione corticale conseguente alla deplezione di neuroni colinergici nel nucleo basale di Meynert e noradrenergici nel locus coeruleus.
È possible che, più che di un’unica forma di demenza, i parkinsoniani soffrano di differenti compromissioni intellettuali, legate a differenti sedi lesionali ed a specifici deficit neurotrasmettitoriali. Occorre, tuttavia, ricordare che una corretta valutazione della compromissione cognitiva nei parkinsoniani è resa difficile dall’esistenza di numerosi fattori di variabilità legati alla compromissione motoria, alla bradifrenia, agli effetti della terapia, all’isolamento socio-ambientale. DIAGNOSI La diagnosi di malattia di Parkinson è clinica e si basa sull’identificazione di alcune combinazioni di sintomi o segni motori cardinali (Gelb et al., 1999). Tuttavia la diagnosi clinica può non essere confermata dai riscontri autoptici in circa il 25% dei casi (Hughes et al., 1992) per cui occorre prendere in considerazione l’esclusione di forme di parkinsonismo atipico o secondario. Tra i criteri clinici fondamentali va sempre inclusa la verifica della responsività al trattamento farmacologico con levodopa. Le indagini di laboratorio contribui-
1076 Malattie del sistema nervoso
scono solo parzialmente alla diagnosi. La TC e la RM non evidenziano alterazioni specifiche, ma devono considerarsi indagini fondamentali al fine di escludere possibili cause secondarie di parkinsonismo; la PET (utilizzando come marcatore la [18F]-fluorodopa o la [11C]-raclopride) e la SPECT (con marcatori il [123I]-FB-βCIT o il [123I]IBZM) sono in grado di dimostrare una ridotta captazione dei traccianti a livello nigrostriatale. La diagnosi differenziale deve porsi principalmente nei confronti di altre patologie del sistema extrapiramidale, in particolare con i quadri di tremore essenziale, di parkinsonismo atipico o «parkinson-plus» e di parkinsonismo sintomatico (v. pag. 000). L’esordio unilaterale, la presenza del classico tremore a riposo, il decorso lentamente progressivo, la risposta positiva al trattamento con levodopa rappresentano elementi probativi per la diagnosi di Parkinson idiopatico. Al contrario, la mancata risposta al trattamento dopaminergico od il riscontro precoce di turbe della sfera cognitiva, grave compromissione autonomica, alterazioni posturali o cadute, alterazioni della motilità oculare o di segni associati cerebellari o piramidali orienta la diagnosi verso patologie diverse (paralisi sopranucleare progressiva, atrofia multisistemica, degenerazione cortico-basale, malattia da corpi di Lewy diffusi, demenze). DECORSO Il decorso della malattia è variabile: nella maggioranza dei casi l’evoluzione è lentamente, ma inesorabilmente progressiva; in una percentuale minore di casi il decorso è particolarmente benigno, con sintomatologia confinata ad un emilato per molti anni e scarsamente invalidante o, viceversa, estremamente maligno con rapida instaurazione di una grave disabilità. Sulla base di tale variabilità è stato ipotizzato che la malattia di Parkinson rappresenti una condizione clinica «eterogenea», in cui possono essere distinte due forme:
a) una forma ipercinetica, dominata clinicamente dal tremore, spesso unilaterale, caratterizzata da un’età d’insorgenza più precoce, minor incidenza di demenza ed evoluzione clinica più lenta, benigna e meno invalidante; b) una forma acinetico-ipertonica, più rara, dominata clinicamente da grave rigidità ed acinesia, con precoce instaurazione di turbe posturali e dell’andatura, ad evoluzione più rapidamente invalidante. In epoca precedente l’avvento della terapia con levodopa, la storia naturale della malattia era caratterizzata da una durata media inferiore ai 10 anni con mortalità (specie per complicanze vascolari o broncopneumoniche) tre volte superiore a quella della popolazione normale. L’avvento della terapia con levodopa ha notevolmente prolungato l’aspettativa di vita, rendendola solo lievemente inferiore a quella dei soggetti di controllo di pari età (Morgante et al., 2000). Sindrome da trattamento prolungato con levodopa. – L’introduzione della terapia sostitutiva con levodopa (che rimane il farmaco più affidabile ed efficace nel trattamento sintomatico della malattia di Parkinson) ha profondamente modificato la storia naturale della malattia. Accanto agli effetti benefici (attenuazione dei sintomi principali, preservazione dell’autonomia, prolungamento dell’aspettativa di vita), la grande maggioranza dei malati sviluppa dopo alcuni anni di trattamento (in media almeno 5) una serie di complicazioni e fluttuazioni cliniche, globalmente indicate col termine «longterm levodopa syndrome» (Barbeau, 1971; Marsden e Parkes, 1976) (Tab. 25.2). La più precoce e comune delle fluttuazioni cliniche è il fenomeno del deterioramento di fine dose («wearing off»): col passare degli anni la durata dell’effetto terapeutico di ogni singola dose si accorcia (dalle 4 ore iniziali fino ad 1-2 ore) ed il soggetto sperimenta una ricorrente disabilità (in particolare: acinesia, rigidità, sudorazione) prima della dose successiva.
Malattie del sistema extrapiramidale 1077 Tabella 25.2 – Sindrome da trattamento protratto con levodopa. 1. Riduzione di efficacia del trattamento e fluttuazioni motorie – aumentata latenza della risposta alla singola dose (“delayed on”) – deterioramento o acinesia di fine dose (“wearing off”) – acinesia al risveglio – fluttuazioni “on-off” – periodi “off” resistenti al trattamento – fluttuazioni casuali 2. Discinesie – distonia al risveglio – distonia in fase “off” – distonia di picco-dose – disicnesie di picco-dose – discinesie di inizio-dose, fine-dose e difasiche – discinesie ad onda quadra – mioclonie 3. Turbe psichiche – alterazioni del sonno, incubi notturni – allucinazioni (visive) – psicosi paranoidi (di riferimento e persecuzione) – stati maniformi 4. Turbe vegetative – scialorrea – iperidrosi – costipazione – disturbi minzione – disfagia – ipotensione ortostatica
Progressivamente s’instaura, con frequenza crescente, una periodica ed improvvisa alternanza di periodi di conservata mobilità (fasi «on», in cui il malato risente degli effetti positivi del trattamento) e periodi di marcata acinesia con accentuazione del tremore e della rigidità (fasi «off», talora del tutto insensibili alla somministrazione di levodopa), che risultano estremamente penosi. Tali oscillazioni possono divenire del tutto casuali ed imprevedibili, senza rapporto temporale con la somministrazione del farmaco (e pertanto non piàù ovviabili con semplici variazioni della posologia) ed assai complesse sul piano semeiologico.
Durante i periodi di conservata mobilità («on») si può osservare la presenza di movimenti involontari patologici (discinesie), che più frequentemente si manifestano in coincidenza con il picco ematico di levodopa, oppure bifasicamente all’inizio ed alla fine dell’effetto di ciascuna dose. Si tratta di movimenti con caratteristiche simili a quelle dei movimenti coreici, localizzati prevalentemente agli arti ed al distretto oro-facciale, che possono estendersi ad altri distretti o prolungare la propria durata per tutta la fase «on» («discinesie ad onda quadra»). Talora, in particolare nei soggetti giovani, possono assumere caratteristiche di tipo distonico, producendo spasmi protratti responsabili di posture bizzarre ed associati a dolore e turbe vegetative. Caratteristico, infine, è il quadro clinico che si può presentare al risveglio con acinesia e rigidità, spesso associate a distonia unilaterale dolorosa del piede, e che regredisce dopo l’assunzione della prima dose mattutina. Il trattamento cronico con levodopa può essere responsabile anche dell’emergere di turbe neuropsichiatriche: disturbi del sonno e fenomeni di tipo allucinatorio sono frequenti, soprattutto nei soggetti anziani. Si tratta, per lo più, di allucinazioni visive serali o notturne, sensibili alla riduzione del dosaggio. Talora, tuttavia, si può sviluppare un franco stato confusionale o psicotico. Le fluttuazioni motorie ed i fenomeni che caratterizzano la «sindrome da trattamento prolungato con levodopa» riconoscono una genesi complessa e, tuttora, oggetto di controversie. Ad essa contribuiscono, verosimilmente, gli effetti combinati della progressione naturale della malattia e del trattamento prolungato. Non a caso, i fattori di rischio principali sono costituiti dall’età, dalla durata e gravità di malattia, dalla durata e dal dosaggio del trattamento. L’importanza delle modificazioni della farmacocinetica periferica della levodopa (alterazioni dell’assorbimento per ritardato svuotamento gastrico, alterazioni del trasporto per competizione con gli aminoacidi aromatici di derivazione alimentare, accumulo di cataboliti quali la 3-O-metildopa) è stata in larga parte ridimensionata e sembra rilevante solo in alcuni casi specifici di mancata risposta terapeutica («off»-resistenti).
1078 Malattie del sistema nervoso L’attenzione è stata, invece, focalizzata sui possibili meccanismi cerebrali: la progressiva degenerazione dei neuroni nigrostriatali compromette la capacità di accumulare e liberare con modalità fisiologiche la dopamina sintetizzata a partire dalla levodopa, ne consegue una marcata oscillazione del livello cerebrale di dopamina ed una stimolazione intermittente o pulsante dei recettori postsinaptici che vanno incontro a fenomeni di alterata sensibilità (in particolare: iper-regolazione dei recettori D2 ed ipo-regolazione dei D1). Tali modificazioni sono responsabili soprattutto dei fenomeni di deterioramento della risposta clinica («wearing off») e comportano un restringimento della «finestra terapeutica», cioè dell’intervallo tra la dose di farmaco che induce discinesie e quella necessaria alla risoluzione della sintomatologia parkinsoniana. Recentemente, tuttavia, è stato valorizzato il ruolo dei meccanismi glutamatergici nello sviluppo delle fluttuazioni cliniche ed in particolare delle discinesie (Metman et al., 2000). Altre manifestazioni, quali l’acinesia paradossa («freezing») vengono attribuite ad un deficit noradrenergico, secondario alla degenerazione del locus coeruleus.
TERAPIA La mancata identificazione della causa della malattia rende impossibile, allo stato attuale delle conoscenze, una terapia di tipo causale. Il trattamento è, quindi, sintomatico, indirizzato cioè a compensare il deficit dopaminergico alla base dei sintomi principali. Accanto ad esso, sono state recentemente prospettate terapie di tipo neuroprotettivo, tese a rallentare la progressione della malattia, ed approcci neurochirurgici (v. Linee Guida per il Trattamento della Malattia di Parkinson, 2000). Trattamento sintomatico. – Molti farmaci possono esercitare un effetto positivo sulla sintomatologia parkinsoniana (Tab. 25.3), tra questi la levodopa resta il farmaco più affidabile ed efficace. Un’accesa controversia, tuttavia, è sorta (in
Tabella 25.3 – Principali farmaci anti-parkinsoniani. Farmaci
Meccanismo
1. Anticolinergici – Triesifenidile – Biperidene – Orfenadrina – Bornaprina
Blocco recettori muscarinici (interneuroni striatali)
2. Amantadina
Aumento della liberazione di DA Antagonismo recettori NMDA
3. Levodopa (*)
Incremento sintesi di DA
4. DA-agonisti – Apomorfina (**) – Bromocriptina – Lisuride – Pergolide – Cabergolina – Ropinirolo – Pramipexolo
Stimolazione diretta DA-recettori postsinaptici
5. Inibitori MAO-B – Selegilina
Inibizione della degradazione della DA
6. Inibitori COMT – Entacapone
Incremento biodisponibilità della DA
DA = dopamina, NMDA = n-metil-d-aspartato, MAO-B = monoamino-ossidasi tipo B, COMT = catecol-metil-transferasi. (*) in associazione con carbidopa/benserazide (preparati standard e ritardo) (**) per iniezione sottocutanea o infusione
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conseguenza del possibile sviluppo della «sindrome da trattamento prolungato con levodopa») e sul tipo di farmaci e sul tempo di utilizzazione. In generale, le scelte terapeutiche debbono essere adattate al singolo individuo in rapporto alle sue specifiche condizioni ed aspettative. Nelle fasi iniziali di malattia (quando la compromissione motoria è di grado lieve, tale da non interferire con le attività quotidiane) il trattamento sintomatico può essere non necessario, oppure possono essere utilizzati farmaci a potenziale significato neuroprotettivo (selegilina), anticolinergici ed amantadina. Gli anticolinergici (triesifenidile, biperidene, orfenadrina, bornaprina) sono stati i primi farmaci impiegati nel trattamento della malattia: bloccando i recettori muscarinici a livello degli interneuroni striatali sono in grado di attenuare l’iperfunzione colinergica relativa ed inducono un beneficio clinico (quantificabile, tuttavia, in misura non superiore al 20%), in particolare, sulla rigidità, il tremore, la scialorrea. Gli effetti collaterali più frequenti delle sostanze anticolinergiche sono xerostomia, nausea, sensazioni vertiginose, turbe dell’accomodazione, talora ritenzione urinaria e stati confuso-allucinatori; inoltre è frequente l’ipersensibilizzazione. L’impiego degli anticolinergici, attualmente assai meno diffuso, può interferire con l’assorbimento della levodopa, è controindicato nel glaucoma e sconsigliato nei soggetti di età superiore ai 6570 anni per la possibilità di indurre turbe mnesiche, cognitive e psichiche. L’amantadina è dotata di una modesta azione anticolinergica ed esplica, inoltre, un parziale effetto dopamino-agonista indiretto favorendo la liberazione di dopamina dai siti di accumulo. L’effetto terapeutico è precoce, interessando sia acinesia che rigidità, ma solitamente di entità e durata limitata. Infrequenti gli effetti collaterali (edemi, livedo reticularis). Il suo impiego attuale è legato alla dimostrazione di un netto effetto antidiscinetico. Col progredire della malattia diviene necessario un trattamento sintomatico più adeguato,
e si pone, pertanto, il problema della scelta tra l’impiego della levodopa e quello dei dopamino-agonisti (o della loro associazione). La levodopa che, come detto, costituisce l’immediato precursore naturale della dopamina in cui viene convertita dall’enzima decarbossilasi aromatica, viene attualmente somministrata in associazione con inibitori periferici della decarbossilasi (carbidopa o benserazide) che hanno consentito una notevole riduzione degli effetti collaterali gastro-enterici (nausea, vomito) e cardiocircolatori (ipotensione ortostatica, turbe del ritmo). La levodopa induce nella grande maggioranza dei pazienti un rapido e significativo miglioramento (quantificabile in misura superiore al 50%) della sintomatologia, in particolare, della rigidità e dell’acinesia, assai meno del tremore. Il limite all’impiego della levodopa è costituito dal fatto, già ricordato, che una larga percentuale di pazienti (con un’incidenza compresa tra il 5-10% per anno di trattamento) va incontro dopo un numero variabile di anni, alla «sindrome da trattamento protratto con levodopa» (inadeguata e declinante risposta terapeutica, fluttuazioni cliniche, discinesie). A questo riguardo, l’introduzione in commercio dei preparati di levodopa a dismissione ritardata può consentire una stimolazione dopaminergica più fisiologica, ma non sembra in grado di ridurre il rischio di sviluppare fluttuazioni cliniche. Gli agonisti dopaminergici sono in grado di stimolare direttamente i recettori postsinaptici (con diversa specificità verso i cinque sottotipi, D1-D5), non inducono la formazione di radicali liberi, sono caratterizzati da una maggiore durata d’azione e alcuni possono essere somministrati per via parenterale. Si dividono in ergotderivati (bromocriptina, pergolide, lisuride, cabergolina) e non-ergolinici (apomorfina, piribedil, pramipexolo, ropinirolo). Tali farmaci dimostrano un’efficacia sicuramente inferiore a quella della levodopa se utilizzati in monoterapia: solo una minoranza di pazienti, intorno al 25 %, conserva nel tempo un sufficiente
1080 Malattie del sistema nervoso
beneficio sintomatico dal loro impiego. Gli agonisti dopaminergici diretti, tuttavia, sono associati ad un minor rischio di fluttuazioni cliniche o discinesie ed anzi il loro impiego precoce può prevenirne o ritardarne la comparsa (Rascol et al., 2000). È possibile anche una strategia terapeutica basata sull’associazione precoce di levodopa ed agonisti dopaminergici. Tra i principali effetti collaterali degli agonisti dopaminergici occorre ricordare: nausea, ipotensione ortostatica, turbe psichiche, edemi degli arti inferiori, eritromelalgie. La comparsa dei fenomeni clinici associati all’uso protratto di levodopa ed alla lunga durata di malattia rappresenta sempre un’evenienza penosa (e talora drammatica per i malati) ed un problema terapeutico di assai difficile soluzione. La riduzione delle singoli dosi di levodopa, aumentando il numero delle somministrazioni, nonostante l’apparente iniziale beneficio accentua l’instabilità dei livelli plasmatici di levodopa (favorendo la formazione di concentrazioni subterapeutiche) e rende il paziente maggiormente esposto alle fluttuazioni legate a fattori farmacocinetici periferici (ritardato svuotamento gastrico, competizione con le proteine alimentari). Parziali risultati possono essere ottenuti con i preparati di levodopa a dismissione ritardata, l’associazione con agonisiti dopaminergici, l’infusione di lisuride e di apomorfina o l’associazione con farmaci inibitori delle catecol-metil-transferasi (COMT) (tolcapone, entacapone) che determinano un aumento dell’emivita plasmatica della levodopa. Nonostante queste strategie, molti pazienti evolvono verso un quadro conclamato di fluttuazioni cliniche, non adeguatamente gestibile sul piano farmacologico. Il problema delle discinesie può essere affrontato con la riduzione della dose di levodopa, ma spesso a spese di un’accentuazione dell’acinesia, solo in parte compensabile con l’incremento della dose degli agonisti dopaminergici. Recentemente è stato proposto l’impiego dell’amantadina (Metman et al., 1999) al fine di ridurre le discinesie. La scialorrea può essere attenuata dall’impiego di anticolinergici o dal ricorso all’infiltrazione delle ghiandole salivari con la tossina botulinica, l’ipotensione ortostatica può richiedere l’impiego di fluoroidrocortisone (non in commercio in Italia), le alterazioni delle condotte sfinteriche comportano provvedimenti specifici. Altri sintomi delle fasi più avanzate di malattia risultano insensibili al trattamento farmacologico, in particolare: l’accentuazione dei fenomeni di «freezing», l’ingravescente compromissione posturale (con eventuali cadute a terra), le alterazioni dell’articolazione della parola.
Alcuni quadri neuropsichiatrici, che si manifestano frequentemente, possono essere trattati efficacemente. La sintomatologia depressiva (non solo reattiva alla propria condizione di disabilità) risente positivamente dell’impiego di farmaci triciclici e serotoninergici; le manifestazioni ansiose possono essere attenuate dal diazepam o dai betabloccanti. I fenomeni allucinatori possono essere controllati con neurolettici atipici (clozapina, olanzapina, quetiapina) che agiscono sui recettori D4) e sono caratterizzati da una minore incidenza di effetti collaterali extrapiramidali. La comparsa di stati confusionali può essere tentativamente affrontata con la sospensione dei preparati anticolinergici ed, eventualmente, con brevi transitorie sospensioni della terapia dopamino-sostitutiva (c.d. «vacanze terapeutiche»). Non esistono, invece, al momento presidi terapeutici per fronteggiare la progressiva comparsa delle turbe cognitive.
Trattamento neuroprotettivo. – La neuroprotezione è un intervento terapeutico finalizzato a rallentare o bloccare la progressione della degenerazione neuronale agendo sui meccanismi patogenetici. Numerosi farmaci (antiossidanti, antieccitotossici, antiapoptotici, neurotrofici) sono stati proposti o sperimentati. In particolare, è stato suggerito che l’impiego della selegilina (Deprenyl), un inibitore irreversibile dell’enzima monoaminoossidasi tipo B, potrebbe modificare la naturale evoluzione della malattia, posticipando l’impiego della levodopa; è verosimile, tuttavia, che i risultati osservati siano in larga parte attribuibili ad un effetto sintomatico ritardato. Altre sostanze (ad esempio antagonisti NMDA, dopamino-agonisti) sono attualmente in fase di studio. Trattamento chirurgico. – In epoca pre-levodopa la chirurgia stereotassica è stata ampiamente utilizzata, avendo come «bersaglio» i nuclei talamici (ventrolaterale, ventrale-intermedio). La talamotomia unilaterale era in grado di abolire o ridurre significativamente il tremore controlaterale (ed in minor misura la rigidità), ma non l’acinesia, e dimostrava un’incidenza di effetti collaterali di tipo emiparetico pari a circa il 10 %. Dopo l’introduzione della
Malattie del sistema extrapiramidale 1081
terapia con levodopa l’approccio neurochirurgico è stato progressivamente abbandonato, ma l’insorgenza delle complicazioni legate all’impiego cronico delle terapie farmacologiche ne ha rinnovato l’interesse. La disponibilità di moderni modelli sperimentali della malattia (iperattività del nucleo subtalamico e del globo pallido interno) con la conseguente identificazione di nuovi «target» anatomici, la dimostrazione sperimentale che l’inattivazione di tali strutture è in grado di attenuare o risolvere il parkinsonismo sperimentale e l’introduzione di metodiche neuroradiologiche (TC-RM) ad alta definizione che consentono la precisa localizzazione delle strutture «target», hanno favorito lo sviluppo dell’approccio neurochirurgico. Interventi stereotassici di pallidotomia posteriore si sono dimostrati in grado di migliorare globalmente il quadro clinico parkinsoniano (ed in particolare le manifestazioni discinetiche indotte da levodopa) (Lang et al., 1997). Infine lo sviluppo di tecniche di stimolazione cerebrale profonda («deep brain stimulation», DBS) ha consentito un ulteriore miglioramento dell’approccio chirurgico grazie alla reversibilità ed alla minor incidenza di effetti collaterali. Attualmente si ritiene che la DBS del nucleo subtalamico rappresenti il trattamento chirurgico più efficace, in grado di determinare un miglioramento globale della sintomatologia parkinsoniana ed una netta riduzione del dosaggio di levodopa (Limousin et al., 1998). La chirurgia stereotassica funzionale costituisce una valida opzione terapeutica per la fase avanzata di malattia, complicata da fluttuazioni cliniche ed ipercinesie (v. Linee Guida per il Trattamento della Malattia di Parkinson, 2000). Importanti aspettative sono riposte, infine, sulle sperimentazioni in corso relative all’impianto nello striato di cellule di sostanza nera fetale per via stereotassica al fine di riattivare la funzione dopaminergica: questa tecnica rimane al momento solo sperimentale e non priva di problemi etici e pratici.
Occorre, infine, ricordare che col progredire della malattia può essere necessario, ai fini di una migliore gestione dei malati, il ricorso a terapie alternative e di supporto quali: terapia fisica (Marchese et al., 2000), suggerimenti dietetici, psicoterapia.
2. Parkinsonismi monogenici L’approccio genetico molecolare ha consentito negli ultimi anni l’identificazione di alcune rare forme mendeliane della malattia di Parkinson (Tabella 25.4) ed è verosimile che altre forme monogeniche possano essere identificate in futuro a dimostrazione di una spiccata eterogeneità eziologica. Una prima forma di malattia a trasmissione autosomica dominante ad elevata penetranza (PARK1) è stata identificata in un gruppo di famiglie di origine mediterranea (Italia e Grecia). La malattia è causata da mutazioni puntiformi del gene dell’α-sinucleina, localizzato sul braccio lungo del cromosoma 4 (Polymeropoulos et al., 1997). Questi casi risultano estremamente rari e la mutazione è stata esclusa in altre famiglie o casi sporadici. La malattia è caratterizzata da un esordio precoce e decorso più aggressivo, risponde alla levodopa e sul piano istopatologico vi è una massiccia presenza di corpi di Lewy. Una seconda forma di malattia (PARK2), autosomica recessiva, è causata da mutazioni del gene «parkina» sul braccio lungo del cromosoma 6 (Kitada et al., 1998). Le mutazioni possono esser varie e lo «screening» diagnostico risulta difficile. Fenotipicamente la malattia ha un esordio precoce, ottima risposta alla levodopa, decorso lento ed alcuni aspetti clinici caratteristici (esordio con distonia, miglioramento dopo il sonno, vivacità dei riflessi osteotendinei). Le mutazioni del gene «parkina» possono essere una causa importante di parkinsonismo anche nei casi sporadici, in particolare con esordio prima dei 30 anni (Lucking et al., 2000).
1082 Malattie del sistema nervoso Tabella 25.4 – Parkinsonismi ereditari (‘monogenici’). Trasmissione
Locus
Esordio
Corpi di Lewy
Gene
PARK1
autosomico
4q21 dominante
40 anni
+
alfa-sinucleina
PARK2
autosomico recessivo
6q25
20-50 anni
-
parkina
PARK3
autosomico dominante
2p13
60 anni
+
?
PARK4
autosomico
4p15
30-40 anni
(+)
?
dominante PARK5
autosomico dominante
4p14
50 anni
?
ubiquitin-idrolasi-L1
PARK6
autosomico recessivo
1p35
30 anni
?
?
PARK7
autosomico recessivo
1p36
30 anni
?
?
3. Parkinsonismi sintomatici Una sintomatologia analoga a quella che caratterizza la malattia idiopatica di Parkinson può riscontrarsi in molti quadri clinici, sintomatici di cause eziologiche diverse (infettive, tossiche, metaboliche, traumatiche, vascolari, farmacologiche) (Tab. 25.1). Parkinsonismo post-encefalitico. – L’encefalite letargica di Von Economo è una malattia infettiva, di presumibile origine virale, che ha avuto tre focolai epidemici negli anni tra il 1916 ed il 1927. Circa un terzo dei malati colpiti presentavano nel corso dell’episodio encefalitico acuto, o più frequentemente dopo un periodo di latenza da alcuni mesi a molti anni, una sindrome parkinsoniana. Sebbene le manifestazioni cliniche extrapiramidali siano state comunemente attribuite ad un processo encefalitico vero e proprio, il presunto agente causale virale non è mai stato identificato. Il quadro neuropatologico acuto, tuttavia, era caratterizzato da infiammazione perivascolare e necrosi neuronale principalmente delle strutture mesencefaliche e dei gangli della base. Nei casi cronici, la sostanza nera appariva atrofica ed uniformemente depigmen-
tata, con rarefazione neuronale e riscontro di degenerazione neurofibrillare nei neuroni residui. Infiltrati mononucleati perivascolari erano osservabili anche a distanza di molti anni dal processo encefalitico. Alterazioni analoghe potevano riscontrarsi nel pallido, nel tronco encefalico (sostanza reticolare) e nella corteccia.
Il quadro clinico del parkinsonismo postencefalitico è caratterizzato, analogamente a quello della malattia idiopatica, dalla classica triade sintomatologica (tremore a riposo, rigidità, bradiacinesia), ma ad esso si possono associare una serie di fenomeni clinici particolari, espressione dell’interessamento più diffuso delle strutture troncali e corticali. Tipiche le crisi oculogire, caratterizzate dalla rotazione forzata degli occhi verso l’alto (più raramente in direzione laterale), con consensuale rotazione del capo, ad insorgenza improvvisa (talora scatenate o accompagnate da alterazioni emozionali), di durata e frequenza variabile. Altri aspetti clinici comprendono: alterazioni dell’oculomozione (paralisi della convergenza, turbe della reflettività pupillare), vari tipi di movimenti involontari (discinesie facio-buccolinguali, corea, mioclonie e, soprattutto, distonie della muscolatura cervicale, troncale e degli arti
Malattie del sistema extrapiramidale 1083
superiori), importanti turbe vegetative (iperidrosi, seborrea, scialorrea), turbe psichiche (alterazioni della personalità, sindromi maniacali, stati ebefreno-catatonici), turbe del sonno (letargia). Il quadro clinico del parkinsonismo postencefalitico è caratterizzato da una minore progressività rispetto alla malattia idiopatica, una migliore risposta ai farmaci anticolinergici ed una ridotta tolleranza alla levodopa. Il numero dei casi di parkinsonismo postencefalitico è attualmente minimo ed in costante diminuzione (non sono state riportate nuove epidemie di encefalite letargica dopo il 1930); tuttavia, altre encefaliti di origine virale (encefalite equina americana, encefalite giapponese B, encefaliti da virus influenzale) possono essere responsabili di una sindrome parkinsoniana post-encefalitica. Tale eventualità diagnostica deve, quindi, essere presa in considerazione in ogni soggetto, specie di giovane età, che presenti un quadro parkinsoniano atipico, successivo ad una malattia febbrile acuta con o senza letargia. Il parkinsonismo può in rari casi essere uno delle manifestazioni cliniche di altre condizioni infettive (neurosifilide, encefalopatia subacuta spongiforme di Creutzfeldt-Jacob, AIDS). Parkinsonismo vascolare. – La possibilità che una sindrome parkinsoniana possa insorgere in conseguenza di una encefalopatia vascolare (arteriosclerotica, ipertensiva, da angiopatia amiloide) è da lungo tempo (Critchley, 1929) oggetto di un’accesa discussione. Tale eventualità dovrebbe sempre essere considerata con prudenza per la possibile fortuita associazione di una malattia idiopatica di Parkinson con lesioni vascolari cerebrali. Classicamente sono state descritte due forme cliniche: la «sindrome lacunare striata di Lhermitte» e la «rigidità arteriosclerotica di Forster». Si tratta di soggetti anziani, ipertesi e iperdislipidemici, che presentavano un quadro acinetico-ipertonico associato a segni di deterioramento psichico, labilità emotiva, turbe della deglutizione e del controllo sfinterico, e segni piramidali (assenti nella forma di Forster). L’aspetto anatomopatologico era co-
stituito da aree di degenerazione perivascolare con focolai lacunari ischemici multipli, prevalenti nella regione striocapsulare.
Tuttavia, lo sviluppo delle tecniche di neuroimmagini ha avvalorato l’identificazione di un sottogruppo di sindromi parkinsoniane di origine vascolare. Il quadro clinico è solitamente dominato da disturbi della marcia e dell’equilibrio, con frequenti fenomeni di acinesia paradossa («freezing»), rigidità agli arti inferiori, assenza di tremore. L’interessamento degli arti superiori è minimo o del tutto assente, al punto che la sintomatologia è stata descritta come «lower body parkinsonism» (Fitzgerald e Jankovic, 1989). Occasionalmente possono associarsi manifestazioni pseudobulbari, lievi segni piramidali, note di decadimento intellettuale. Il decorso è solitamente progressivo e la risposta al trattamento con levodopa è modesta. Questo quadro clinico è osservabile in soggetti ipertesi, con evidenza radiologica di lesioni ischemiche sottocorticali prevalentemente della sostanza bianca periventricolare, analoghe a quelle descritte col termine di leucoaraiosi e riscontrabili nella encefalopatia di Binswanger (v. pag. 000). Assai più rara risulta, invece, l’evenienza di una sindrome parkinsoniana ad insorgenza ictale, secondaria ad una lesione ischemica focale dei gangli basali. Parkinsonismo da farmaci. – I quadri clinici di compromissione del sistema extrapiramidale, conseguente all’impiego di farmaci, costituiscono un capitolo nosografico rilevante ed in espansione. Le prime descrizioni di sindromi parkinsoniane secondarie all’impiego di farmaci, riguardavano pazienti con disturbi psichici, sottoposti a trattamento con derivati fenotiazinici (in particolare cloropromazina) o pazienti in trattamento antipertensivo con reserpina. Tutti i farmaci neurolettici (fenotiazine, butirrofenoni, tioxanteni, benzamidi) sono in grado di determinare una sintomatologia parkinsoniana, in
1084 Malattie del sistema nervoso
rapporto alla loro capacità di occupare in modo competitivo i recettori dopaminergici postsinaptici D2, bloccandone l’attività. Circa il 15% dei malati psichici in trattamento cronico con neurolettici sviluppano un parkinsonismo entro 2-10 settimane dall’inizio del trattamento, in rapporto ad una possibile suscettibilità su base genetica. L’elenco dei farmaci potenzialmente responsabili di un parkinsonismo comprende, oltre a farmaci d’impiego in ambito psichiatrico (neurolettici, derivati della sulpiride, sali di litio), anche preparati di largo uso nella pratica medica, quali antiemetici (metoclopramide), antivertiginosi (tietilperazina), calcio antagonisti vasoattivi (flunarizina, cinnarizina), antipertensivi (alfa-metildopa).
La differente incidenza di effetti collaterali parkinsonizzanti è solo in parte legata alle specifiche proprietà farmacologiche (gli effetti sono più frequenti con l’impiego di fenotiazine piperaziniche e butirrofenoni), non è correlata alla quantità totale di farmaco assunta, ma è largamente influenzata dalla suscettibilità individuale (l’incidenza è maggiore nel sesso femminile ed aumenta con l’età). I sintomi possono comparire a breve distanza dall’inizio della terapia neurolettica (entro tre mesi nel 90 % dei casi) e scompaiono generalmente entro alcune settimane dalla sospensione della terapia; tuttavia, sono stati descritti casi in cui la sindrome extrapiramidale può durare a lungo o risultare irreversibile. Il quadro clinico è analogo a quello della malattia idiopatica, ma l’esordio è generalmente subacuto e la distribuzione della sintomatologia per lo più bilaterale; il tremore ha spesso caratteristiche di tipo posturale; sono frequenti l’acatisia (che spesso precede l’esordio) e le discinesie bucco-linguo-facciali, ed è possibile l’insorgenza di crisi neurodislettiche acute. Dal punto di vista terapeutico, il parkinsonismo farmacologico può essere trattato (oltre che con la riduzione o sospensione dei farmaci responsabili) anche utilizzando farmaci antiparkinsoniani. I più comunemente utilizzati in tal senso sono i preparati anticolinergici (anche
se è stato ipotizzato che il loro impiego possa favorire l’insorgenza di discinesie croniche tardive), mentre la levodopa è scarsamente efficace, essendo il danno iatrogeno a livello postsinaptico.
Tra le complicanze del trattamento cronico con neurolettici occorre ricordare anche le discinesie tardive (v. pag. 000) e la «sindrome maligna da neurolettici». Quest’ultima è una condizione clinica che può manifestarsi con modalità improvvise ed imprevedibili, in qualsiasi momento del trattamento (più frequentemente all’inizio o in coincidenza con un incremento di dose). Fattori predisponenti sono la presenza di precedenti danni cerebrali, gli stati di defedamento, la disidratazione. Sono maggiormente colpiti i soggetti giovani di sesso maschile. Il quadro, di rapida instaurazione, è costituito da marcata rigidità, ipertermia, turbe vegetative, alterazioni della coscienza, talora distonia o discinesie. La diagnosi è confortata dal riscontro di un elevato livello sierico di CPK. Il trattamento (in assenza del quale circa il 25 % dei casi vanno rapidamente incontro all’exitus) comprende: la sospensione dell’agente farmacologico responsabile, un intenso supporto assistenziale (talora è richiesta la respirazione assistita), l’impiego di farmaci antiparkinsoniani (levodopa, dopamino-agonisti) o di dantrolene. Parkinsonismo da tossici. – Può manifestarsi per l’azione neurotossica di diverse sostanze (manganese, ossido di carbonio, solfuro di carbonio, cianuro, MPTP). Tra le cause più frequenti: – Manganese: l’intossicazione cronica, quale può riscontrarsi nei minatori e nei lavoratori dell’industria, è in grado di determinare una sofferenza encefalica diffusa, con predilezione per il pallido. Il quadro clinico acinetico-ipertonico (solitamente il tremore è assente) si caratterizza per gli aspetti distonici, particolarmente evidenti agli arti inferiori durante la deambulazione («andatura da gallo»).
Malattie del sistema extrapiramidale 1085
– Ossido di carbonio: l’intossicazione acuta da ossido di carbonio (ed anche l’esposizione cronica in assenza di stato di coma) può essere seguita, con intervallo variabile da una sindrome parkinsoniana prevalentemente acineticoipertonica ad evoluzione progressivamente ingravescente, associata a movimenti involontari coreo-atetosici, segni piramidali, decadimento intellettuale. Il reperto neuropatologico è una necrosi bilaterale del pallido e una massiva demielinizzazione degli emisferi cerebrali. – Tossici industriali: l’esposizione in particolare a solventi idrocarburici può determinare l’insorgenza di parkinsonismo (Pezzoli et al., 2000). Parkinsonismo da idrocefalo. – È stato descritto in associazione con idrocefali ostruttivi (comunicanti e non-comunicanti). Può presentare un esordio subacuto (per lo più nelle forme non-comunicanti in rapporto ad ostruzione ventricolare acuta ricorrente) o progressivo e predomina agli arti inferiori (rigidità, turbe della marcia con «freezing», instabilità posturale), associandosi talora a turbe cognitive e del controllo sfinterico. La sintomatologia può risolversi con l’intervento chirurgico decompressivo e recidivare in caso di obliterazione dello shunt. Il riscontro di una risposta positiva al trattamento con levodopa suggerisce una possibile disfunzione delle vie nigro-striatali, su base compressivo-ischemica (Curran e Lang, 1994). Parkinsonismo tumorale. – Può, talora, verificarsi in conseguenza di un tumore cerebrale; più frequentemente per tumori della linea mediana (III ventricolo, corpo calloso) o meningiomi sopratentoriali (lobi frontali), che determinano una compressione delle strutture profonde con interruzione delle vie nigro-striatali, mentre assai rara è l’invasione diretta delle strutture grigie della base. La sintomatologia può regredire con l’ablazione della neoplasia.
Parkinsonismo post-traumatico. – È eccezionale per un trauma cranico singolo (emorragie mesencefaliche post-traumatiche); più frequentemente può svilupparsi in soggetti che hanno subito traumi cranici ripetuti e protratti, quali ad esempio i pugilatori. Il quadro clinico è solitamente associato a segni d’interessamento delle vie piramidali ed a deterioramento mentale («dementia pugilistica») (v. pag. 000).
4. Atrofia multi-sistemica Il termine «atrofia multisistemica» (AMS), introdotto da Graham e Oppenheimer (1969), viene riferito ad una sindrome caratterizzata clinicamente dalla combinazione variabile di segni parkinsoniani, autonomici, piramidali e cerebellari. Di fatto una grande parte dei casi inquadrabili come atrofia multisistemica sono stati descritti in passato sotto diverse etichette diagnostiche (atrofia olivo-ponto-cerebellare, ipotensione ortostatica idiopatica o insufficienza autonomica pura, sindrome di Shy-Drager, degenerazione strio-nigrica) e molti casi vengono erroneamente diagnosticati come malattia di Parkinson idiopatica (Quinn, 1994). Il termine «sindrome di Shy-Drager» è stato impropriamente utilizzato per descrivere l’associazione tra parkinsonismo e compromissione autonomica (possibile sia nella malattia idiopatica di Parkinson che nell’atrofia multisistemica) nonostante i due casi originariamente descritti da Shy e Drager (1960) presentassero un quadro clinico assai più complesso ed incompatibile con la diagnosi di malattia di Parkinson. EPIDEMIOLOGIA. – L’eziologia dell’atrofia multi-sistemica è sconosciuta e l’assenza di sicuri criteri diagnostici clinici non consente di disporre di dati epidemiologici affidabili. Sulla base dei riscontri autoptici è possibile ipotizzare un’incidenza relativa pari al 10 % circa dei pazienti con «parkinsonismo» (Quinn, 1994). Un recente studio indica la prevalenza in 3.0/100.000 (Bower et al., 1997). La malattia esordisce mediamente tra 45 e 59 anni (meno del 4 % dei casi sono stati descritti prima dei 39 anni e dopo i 70 anni). La durata media di malattia è di circa 7 anni, ma la comparsa dei sintomi autonomici può essere precoce e per lungo tempo misconosciuta.
1086 Malattie del sistema nervoso NEUROPATOLOGIA. – Pur ricoprendo clinicamente un ampio spettro di disturbi neurologici, le atrofie multi-sistemiche sono accomunabili ed identificabili sulla base di precisi criteri neuropatologici, costituiti da: a) riscontro di degenerazione primaria sporadica (con rarefazione neuronale e gliosi) di almeno due strutture tra putamen, caudato, pallido, sostanza nera, locus coeruleus, olive inferiori, nuclei pontini, cellule del Purkinje, colonna intermediolaterale e nucleo di Onuf midollari; b) presenza di specifiche inclusioni citoplasmatiche oligodendrogliali, costituite da proteine acide fibrillari (Daniel, 1992), tra cui è presente l’a-sinucleina. Quest’ultimo riscontro suggerisce una possibile associazione tra AMS e malattie da corpi di Lewy nell’ambito delle c.d. «a-sinucleinopatie» (Spillantini et al., 1998).
SINTOMATOLOGIA Il quadro clinico è caratterizzato dalla combinazione variabile di segni parkinsoniani, cerebellari, piramidali, ed autonomici (lo spettro sintomatologico completo è riscontrabile solo in un quarto circa dei casi). I segni parkinsoniani sono quelli di più frequente riscontro (87%) e predominano nella variante «strio-nigrica»: prevale l’aspetto acinetico-ipertonico, ma il classico tremore a riposo può essere presente e la distribuzione della sintomatologia può essere asimmetrica (Wenning et al., 1997). La sintomatologia parkinsoniana può presentarsi isolatamente rendendo la diagnosi differenziale nei confronti della malattia idiopatica di Parkinson difficile e dipendente dalla sola risposta terapeutica alla levodopa, che può essere inizialmente presente ma tende rapidamente a scomparire in rapporto alla marcata degenerazione dello striato. I segni cerebellari (54%) sono meno frequenti, predominano nella variante «olivo-pontocerebellare» e sono rappresentati principalmente da tremore intenzionale, disartria, nistagmo, atassia della marcia. Le forme familiari (con ereditarietà autosomica recessiva o dominante) di atrofia olivo-ponto-cerebellare (Berciano, 1982) debbono essere considerate separatamente dall’atrofia multisistemica. Da questa sono distinte per alcuni aspetti
neuropatologici, la precoce età di esordio, il lungo decorso a carattere progressivo. Anche i segni piramidali sono meno frequenti (49%) e sono costituiti da iperreflessia osteotendinea, risposte plantari in estensione, spasticità. La disfunzione autonomica rappresenta, invece, un sintomo quasi costante (fino al 97%) nel decorso della malattia, più frequentemente con il coinvolgimento della sfera genito-urinaria (impotenza nell’uomo, incontinenza nella donna), mentre l’ipotensione ortostatica sintomatica è presente in circa il 68% dei casi e nel 15% risulta di notevole gravità I sintomi autonomici usualmente non si manifestano isolatamente, ma possono talora passare inosservati e quindi risultare sottostimati. Il loro riscontro precoce costituisce uno dei più sicuri segni predittivi di una diagnosi corretta. Sono possibili, inoltre, disturbi comportamentali del sonno REM (‘REM Behaviour Disorders’) e stridor laringeo. DIAGNOSI Come detto la diagnosi clinica può risultare difficile e riposa su alcuni criteri essenziali (tra cui la sporadicità della sintomatologia, l’età d’esordio superiore ai 30 anni, la mancata risposta alla terapia dopaminergica), recentemente identificati (Gilman et al., 1999). La diagnosi differenziale va posta principalmente con la malattia idiopatica di Parkinson (da cui può essere differenziata per l’esordio bilaterale, l’assenza di tremore, le frequenti manifestazioni distoniche, la rapida progressione e, soprattutto, la mancata od incompleta risposta al trattamento con levodopa), le forme familiari di atrofia olivo-ponto-cerebellare, la paralisi sopranucleare progressiva (verso cui orienta il riscontro di una paralisi verticale dello sguardo), la degenerazione cortico basale (verso cui orienta il riscontro di aprassia segmentale). Le indagini strumentali risultano scarsamente discriminanti: la TC può documentare un quadro aspecifico di atrofia (soprattutto delle strutture sottotentoriali), la RM (sequenze T2 pesate) può evidenziare ipointensità putaminali (at-
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tribuite ad aumentato deposito di ferro), l’elettromiografia degli sfinteri (uretrale e rettale) può evidenziare segni di denervazione e reinnervazione (potenziali di unità motoria di durata ed ampiezza aumentate con elevata incidenza di polifasici), la cui specificità appare tuttavia ancora incerta. TERAPIA Non esiste un trattamento specifico per la compromissione cerebello-piramidale. La sintomatologia parkinsoniana può rispondere positivamente alla terapia con levodopa (o agonisti dopaminergici), ma la risposta è di norma incompleta, di breve durata (1-2 anni) e declinante nel tempo. L’ipotensione ortostatica può essere alleviata dall’impiego di fluoroidrocortisone.
5. Paralisi sopranucleare progressiva (PSP) Descritta originariamente come entità nosografica indipendente da Steele, Richardson e Olszewski (1964), è caratterizzata da una degenerazione progressiva acquisita di strutture troncali che si manifesta clinicamente con: oftalmoplegia sopranucleare, distonia assiale, marcata disartria, segni pseudobulbari e decadimento mentale (Brusa e Peloso, 1993). EPIDEMIOLOGIA– La malattia è relativamente rara, la prevalenza è stata stimata pari a circa l’1% dei casi di malattia di Parkinson (5.3/100.000 secondo un recente studio) (Bower et al., 1997), con una lieve prevalenza nel sesso maschile (3:2). È per lo più sporadica, anche se sono stati descritti casi familiari. L’età media d’esordio risulta intorno ai 60 anni e la sopravvivenza media è di circa 6 anni. NEUROPATOLOGIA, GENETICA E BIOCHIMICA. – Le alterazioni degenerative (rarefazione neuronale, gliosi astrocitica, degenerazione neurofibrillare, fenomeni vacuolari) riguardano principalmente il pallido (segmento interno), il nucleo subtalamico, la sostanza nera (pars compacta), il collicolo superiore, le aree pretettali, la sostanza grigia periacquedottale ed i nuclei pontini; meno intensa-
mente colpiti il nucleo dentato, il nucleo rosso, lo striato, il talamo, le olive bulbari. La degenerazione neurofibrillare (sia di tipo «globoso» che «a fiamma») presenta aspetti ultrastrutturali (nonostante la prevalenza dei filamenti rettilinei su quelli elicoidali) ed antigenici analoghi a quelli che caratterizzano la malattia di Alzheimer. La causa della malattia è sconosciuta. Tuttavia, è stato dimostrato che i filamenti abnormi inclusi nei neuroni e nelle cellule gliali sono caratterizzati dalla presenza di isoforme iperfosforilate della «proteina tau», associata ai microtubuli. Tale riscontro accomuna la PSP ad altre condizioni cliniche (degenerazione cortico-basale, demenza fronto-temporale, malattia di Alzheimer) nell’ambito delle c.d. «taupatie» (v. pag. …). Un marcatore genetico della PSP, recentemente identificato nell’allele A0 del gene «tau», risulta associato anche alla degenerazione cortico-basale (Di Maria et al., 2000). Gli studi biochimici hanno evidenziato una marcata riduzione dei livelli di dopamina nel caudato e nel putamen ed i dati ottenuti con la PET hanno documentato la riduzione dei recettori dopaminergici (D2) postsinaptici nello striato (inversamente correlata alla presenza di degenerazione neurofibrillare). Inoltre, a differenza della malattia di Parkinson, è stata osservata una compromissione degli interneuroni colinergici striatali (con riduzione dell’attività dell’enzima colin-acetiltransferasi), mentre più discussa è l’esistenza di una compromissione colinergica corticale.
SINTOMATOLOGIA Può esordire in modo aspecifico (modificazioni della personalità e del comportamento), ma nei 2/3 dei casi il sintomo d’esordio è costituito da disturbi dell’equilibrio con instabilità e cadute a terra immotivate; più raro il riscontro iniziale di oftalmoplegia, disartria, disfagia. Progredendo la malattia, la comparsa delle caratteristiche alterazioni neuro-oftalmologiche rende l’aspetto del paziente inconfondibile. L’oftalmoplegia sopranucleare può, tuttavia, manifestarsi più tardivamente (ed eccezionalmente mancare), per cui la diagnosi clinica si basa su specifici criteri (Litvan et al., 1996). – Sintomi neuro-oftalmologici: l’oftalmoplegia s’instaura gradualmente con paresi dello sguardo coniugato verticale, dapprima verso l’alto, ma successivamente assai più grave verso il basso. La natura sopranucleare dell’oftalmoplegia è dimostrata dalla mancanza di movi-
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menti oculari volontari, con relativa integrità di quelli riflessi (ad esempio, il «fenomeno degli occhi di bambola» è conservato). Concomita generalmente una compromissione della convergenza oculare e, talora, alterazioni della motilità oculare intrinseca. I movimenti saccadici sono i primi ad essere compromessi, così come il nistagmo ottico-cinetico e le componenti rapide del nistagmo da stimolazione calorica. Anche i movimenti oculari orizzontali possono deteriorarsi nella fasi più tardive di malattia. Altre non rare manifestazioni sono costituite da: rarità dell’ammiccamento, ptosi palpebrale, blefarospasmo, aprassia oculo-palpebrale (per inibizione dell’elevatore delle palpebre). L’oftalmoplegia, le frequenti retrazioni palpebrali con corrugamento frontale e l’ipomimia conferiscono al paziente (nonostante l’assenza di deficit campimetrici o dell’acuità visiva) una caratteristica espressione fissa ed attonita («staring gaze»), con necessità di ruotare il capo per fissare i presenti. – Sintomi extrapiramidali: è presente una sindrome acinetico-ipertonica con distribuzione solitamente simmetrica e assenza del tremore a riposo ma, al contrario della postura flessoria che caratterizza i pazienti parkinsoniani, nel 6070 % dei casi prevale una distonia assiale in estensione: il collo è estremamente rigido ed iperesteso, mentre il paziente assume nella stazione eretta un attegiamento in iperlordosi. Questo atteggiamento posturale, unitamente alla compromissione dei riflessi di raddrizzamento, rende ragione della tendenza alle cadute all’indietro. – Sintomi pseudobulbari: sono presenti in tutti i pazienti (talora anche nelle fasi iniziali) ed il più importante è costituito dalla disartria di tipo cortico-bulbare, con parola rallentata e talora disfonia, che può evolvere fino all’anartria. La disfagia, per i solidi ed i liquidi, compare più tardivamente; il riso ed il pianto spastico sono di frequente riscontro. I riflessi facciali sono vivaci e si possono osservare altri segni piramidali (fenomeno di Babinski).
– Disturbi cognitivi: possono manifestarsi modificazioni della personalità, turbe comportamentali (apatia, irritabilità) ed un processo di decadimento delle funzioni mentali, di entità variabile, caratterizzato principalmente da: rallentamento ideativo, deficit di attenzione, turbe del pensiero astratto, ridotta fluenza verbale. Il tipo di disturbo neuropsicologico è compatibile con l’ipotesi (suffragata anche dai dati ottenuti con la PET) di una compromissione delle connessioni afferenti dai gangli basali (caudato) ai lobi frontali. Questa ipotesi ben si accorda con l’osservazione di segni clinici di sofferenza frontale (prensione forzata, perseverazione motoria).
DECORSO E DIAGNOSI Il decorso è inesorabilmente ingravescente, confinando il paziente a letto in penose condizioni (impossibilità ad alimentarsi, rigidità in opistotono, postura emiplegica bilaterale, anartria, labilità emotiva, deterioramento intellettivo) e la morte interviene costantemente entro 12 anni dall’esordio, in genere per complicanze infettive broncopolmonari. Incertezze diagnostiche possono porsi solo quando il quadro clinico è incompleto; la presenza di una oftalmoplegia può essere confermata da un accurato esame neuro-oftalmologico. La diagnosi differenziale può riguardare la malattia di Parkinson, le sindromi pseudobulbari, la sindrome di Parinaud. Le tecniche di neuro-immagine (TC e RM) possono evidenziare un quadro di atrofia troncale (in particolare del tegmento mesencefalico) con allargamento del III ventricolo e della cisterna interpeduncolare. L’esame liquorale e gli esami di laboratorio sono normali, mentre l’EEG può dimostrare aspecifici rallentamenti diffusi. TERAPIA Risulta largamente insoddisfacente, probabilmente in rapporto alla compromissione di molteplici sistemi neurotrasmettitoriali. Anche gli aspetti parkinsoniani sono assai scarsamente
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influenzati dalla terapia dopamino-sostitutiva (i dati biochimici e neuropatologici giustificano la mancata o scarsa risposta al trattamento con levodopa o dopamino-agonisti).
6. Degenerazione cortico-basale (DCB) Originariamente descritta da Rebeiz et al. (1967) come «degenerazione cortico-dentatonigrica con acromasia neuronale», costituisce un’entità nosografica distinta caratterizzata clinicamente da un parkinsonismo, ad esordio tardivo e non rispondente alla levodopa, associato a movimenti involontari e segni precoci di compromissione corticale. Lo spettro fenotipico della malattia si è recentemente allargato includendo anche presentazioni con demenza o alterazioni del comportamento. EPIDEMIOLOGIA ED EZIOLOGIA Seppur riconosciuta più frequentemente, la DCB rimane una condizione rara; colpisce entrambi i sessi e compare con modalità sporadiche nell’età medio-avanzata della vita (sesta-ottava decade). L’eziologia è sconosciuta, tuttavia la malattia fa parte del gruppo delle «taupatie» con possibili affinità molecolari con la paralisi sopranucleare progressiva (Di Maria et al., 2000).
NEUROPATOLOGIA Il quadro neuropatologico evidenzia alcune somiglianze con la malattia di Pick (Watts et al., 1994) e la PSP. È presente un’atrofia corticale asimmetrica soprattutto delle regioni fronto-parietali e rolandiche con degenerazione dei tratti corticospinali ed ingrandimento ventricolare. È presente depauperamento dei neuroni corticali, con rigonfiamento, acromasia ed inclusioni di quelli residui. La sostanza nera appare depigmentata con perdita di neuroni e gliosi nella pars compacta, ma senza corpi di Lewy; sono presenti, invece, inclusioni neuronali basofile (Gibb et al., 1989). Altre strutture sottocorticali, troncali e cerebellari possono essere variamente compromesse.
SINTOMATOLOGIA Il quadro clinico è costituito da una sindrome acinetico-ipertonica (ma il tremore può essere
presente), ad esordio insidioso con spiccata asimmetria e variabile progressione controlaterale, cui costantemente si associano aprassia ideomotoria (meno comuni risultano l’aprassia segmentale e bucco-linguale). Turbe sensitive (astereognosia, ridotta grafestesia, estinzione tattile), turbe del linguaggio (parafasie) e segni piramidali (iperreflessia, risposta plantare estensoria) sono infrequenti nelle fasi iniziali di malattia. Altri segni clinici frequentemente presenti sono rappresentati da tremore posturale irregolare (6-8 Hz.), mioclonie focali d’azione o stimolo-dipendenti, posture distoniche in flessione degli arti superiori, movimenti coreo-atetosici. Possono essere presenti alterazioni dell’oculomozione (paralisi sopranucleare, blefarospasmo o aprassia oculo-palpebrale) e nel 50% dei pazienti si manifesta il caratteristico fenomeno dell’«arto alieno» (Doody e Jankovic, 1992). Il decorso progressivo, con comparsa di una sindrome disesecutiva (analoga a quella della paralisi sopranucleare progressiva) e turbe bulbari, conduce ad una condizione di immobilità rigida entro 5-7 anni ed all’exitus per complicanze respiratorie. Recentemente è emerso che che la DCB può manifestarsi con presentazioni atipiche (afasia primaria progressiva, demenza del lobo frontale, atrofia corticale posteriore, aprassia progressiva) che possono rendere problematica la diagnosi clinica (Litvan et al., 1997).
DIAGNOSI Il quadro clinico completo è sufficientemente caratteristico, altrimenti risultano non semplici i quesiti diagnostico-differenziali nei confronti di altre patologie extrapiramidali (malattia idiopatica di Parkinson, parkinsonismo in corso di PSP o AMS, malattia di Wilson, malattia di Huntington) o di forme atipiche di malattia di Pick. Gli esami bioumorali risultano normali, mentre le indagini neuroradiologiche (TC, RM) sono in grado di documentare nel tempo l’ingravescente processo di atrofia corticale frontoparietale asimmetrica, con cui si correlano i re-
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perti di tipo funzionale (PET con [18F]-fluorodopa ). Le manifestazioni miocloniche possono essere associate a specifiche alterazioni elettrofisiologiche (Thompson et al., 1994). Non esiste un trattamento farmacologico efficace dal momento che la malattia non risponde alla levodopa o agli agonisti dopaminergici; il clonazepam può essere utilizzato per il controllo del tremore e delle mioclonie; le infiltrazioni con tossina botulinica possono controllare le manifestazioni distoniche.
7. Calcificazione dei gangli della base (Sindrome di Fahr) Depositi di calcio intracerebrali si possono osservare nel corso di numerose encefalopatie focali o diffuse e la loro identificazione è divenuta assai più frequente dopo l’introduzione della TC. La distribuzione simmetrica di calcio nei gangli della base (in particolare nei nuclei lenticolari) si può riscontrare in associazione con l’ipoparatiroidismo o altre malattie metaboliche, come condizione familiare o, sporadicamente, in assenza di alterazioni del metabolismo del calcio. Quest’ultima condizione è di gran lunga la più frequente (piccoli depositi nel segmento mediale del globo pallido) e decorre solitamente in modo asintomatico. La forma idiopatica familiare, ad ereditarietà autosomica dominante o recessiva, esordisce nella terza o quarta decade della vita con un quadro di parkinsonismo (con movimenti involontari di tipo distonico o coreico) associato ad epilessia, turbe psichiche, segni piramido-cerebellari e demenza. Il decorso è lentamente progressivo.
8. Malattia di Hallervorden-Spatz È un’entità nosografica, originariamente descritta nel 1922, che comprende casi familiari a trasmissione autosomica recessiva. Le manifestazioni cliniche iniziano in modo subdolo
nell’infanzia o adolescenza con turbe della deambulazione e dell’articolazione della parola. Compaiono successivamente distonia, rigidità, tremore, segni piramidali, e decadimento intellettuale. La combinazione di distonia, rigidità e spasticità rende ragione della grave e progressiva immobilizzazione (specie degli arti inferiori) che caratterizza questa condizione. Il decorso è progressivo (eventualemnte complicato da manifestazioni epilettiche, retinite pigmentosa ed atrofia ottica) e conduce invariabilmente all’exitus. Il quadro neuropatologico evidenzia alterazioni del globo pallido e della sostanza nera (pars reticulata) con perdita di neuroni e di fibre mieliniche, gliosi, rigonfiamenti assonali (sferoidi) a tipo distrofia neuroassonale. La patogenesi è sconosciuta; sono state ipotizzate alterazioni enzimatiche (perossidazione lipidica) e del metabolismo del ferro, supportate dal riscontro alla RM (sequenze T2 pesate) di una riduzione del segnale nel pallido, con piccola zona d’iperintensità, da accumulo di ferro. Il reperto RM (‘segno dell’occhio di tigre’) assume valore diagnostico. La terapia chelante del ferro, tuttavia, non ha fornito risultati ed i farmaci dopaminergici offrono solo un parziale e transitorio beneficio sintomatico.
9. Parkinson-demenza-SLA complex di Guam Nel 1961 è stata descritta nella popolazione indigena Chamorro dell’isola di Guam una elevata incidenza di associazione (tale da far supporre una genesi endemica) tra parkinsonismo, demenza e sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Le caratteristiche cliniche del parkinsonismo erano analoghe a quelle delle malattia idiopatica (solo in alcuni casi erano presenti aspetti tipici della paralisi sopranucleare progressiva); la compromissione cognitiva era costante, mentre i segni di sofferenza del motoneurone erano riscontrabili nel 50 % circa dei casi.
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I reperti neuropatologici (atrofia cerebrale con depauperamento neuronale diffuso nella corteccia, nei gangli della base, nel tronco encefalico e cervelletto) erano caratterizzati dalla presenza di diffusa degenerazione neurofibrillare e granulo-vacuolare, senza placche senili e corpi di Lewy. Tra le varie ipotesi patogenetiche è stato proposto un’origine tossico-ambientale (legata al ridotto contenuto idrico di calcio e magnesio o all’ingestione alimentare di sostanze tossiche contenute nei semi della palma Cycas circinalis) e la progressiva riduzione di questa condizione clinica è stata, infatti, attribuita alle mutate abitudini alimentari della popolazione. Tuttavia, non sono mai state raggiunte conclusive evidenze a favore dell’origine ambientale e sono, attualmente, in corso studi alla ricerca di possibli mutazioni genetiche.
Sindromi ipercinetiche Sindromi coreiche La presenza di movimenti involontari patologici di tipo coreico rappresenta l’elemento caratterizzante di numerosi quadri clinici, a decorso acuto o cronico, ad eziologia ignota, talora geneticamente determinata, o sintomatici di cause note. La classificazione eziologica delle principali sindromi coreiche è riportata nella Tabella 25.5.
1. Corea degenerativa cronica (Malattia di Huntington) Nel 1872 George Huntington descrisse una malattia progressiva, caratterizzata dall’associazione di movimenti involontari coreici con alterazioni comportamentali e demenza, di cui riconobbe la natura ereditaria. EPIDEMIOLOGIA – Si tratta di una malattia rara (prevalenza 4-10/100.000) distribuita ubiquitariamente,
anche se sono state identificate aree geografiche ad elevata prevalenza (Venezuela), ed altre a bassa prevalenza (Giappone, Africa), verosimilmente in relazione al diverso tasso di immigrazione nord-europea. La malattia viene trasmessa con modalità autosomica dominante a penetranza completa: ciò significa che tutti i soggetti portatori del gene della malattia (sia maschi che femmine) svilupperanno il quadro clinico (tranne in caso di morte prematura), e che ciascun discendente di un soggetto affetto presenta il 50% di probabilità di ereditare, con il gene, la malattia, senza risparmio di alcuna generazione. GENETICA ED EZIOPATOGENESI. – Il gene responsabile della malattia (IT15) è stato identificato sul braccio corto del cromosoma 4 (Gusella et al., 1983) e clonato solo 10 anni dopo. È espressione di una mutazione altamente specifica, caratterizzata dall’espansione di una sequenza trinucleotidica nella parte codificante del gene (la tripletta CAG è ripetuta da 36 a 141 volte, mentre il 99% dei soggetti normali presenta meno di 35 ripetizioni); il numero di ripetizioni della tripletta CAG, pur con una certa approssimazione, risulta inversamente correlato con l’età d’esordio della malattia. Inoltre, nella malattia è descritto il fenomeno dell’anticipazione, cioè un’espansione di triplette CAG da un individuo alla progenie, in particolare se la mutazione è di origine paterna. Questo fenomeno spiega i casi definiti “sporadici” in cui l’analisi del DNA del genitore ha evidenziato la presenza di 30-35 ripetizioni nel gene codificante (c.d. “alleli intermedi”). La clonazione del gene ha permesso di sviluppare il test diagnostico genetico che consente, tramite la tecnica PCR, di identificare il numero di triplette CAG presenti nel DNA. Il gene IT15 codifica una proteina (“huntingtina”) espressa ubiquitariamente anche al di fuori dei tessuti di origine neuronale o gliale, anche se le alterazioni neuropatologiche colpiscono la regione dello striato (in particolare, i neuroni spinosi medi). L’huntingtina mutata sarebbe responsabile di un “gain of function” di tipo tossico che si esprimerebbe grazie all’interazione anomala con altre proteine che renderebbero specifiche popolazioni neuronali suscettibili all’effetto tossico. Tale effetto sarebbe determinato dall’azione dei frammenti di huntingtina mutata (derivati dall’azione proteolitica degli enzimi caspasi) che sarebbe responsabile della formazione di aggregati nucleari e citoplasmatici che alterano in modo irreversibile la normale architettura cellulare (Di Figlia et al., 1997). Recenti dati, tuttavia, valorizzano anche il ruolo dell’huntigtina normale che avrebbe un effetto anti-apoptotico (Rigamonti et al., 2000). Inoltre, è stata ipotizzata una componente eccitotossica, legata ad un’eccessiva e prolungata attivazione dei recettori del glutammato.
1092 Malattie del sistema nervoso Tabella 25.5. Distonie: classificazione eziologica (modificata da Jankovic e Fahn, 1987). 1. Forme Idiopatiche A. Familiari Distonia generalizzata ereditaria (autosomica dominante, autosomica recessiva, eterosomica X recessiva)
B. Familiari o Sporadiche Distonia sensibile alla L-DOPA Distonia parossistica (cinesigenica e non cinesigenica) Parkinsonismo distonico C. Sporadiche Generalizzate, Segmentali, Focali, Multifocali (distonia cervicale o torcicollo spasmodico, crampi occupazionali, distonia oromandibolare, blefarospasmo, distonia laringea o disfonia spasmodica) 2. Forme Sintomatiche A. In corso di malattie neurologiche degenerative: Morbo di Wilson Malattia di Huntington Malattia di Steele-Richardson-Olszewski Atrofia pallidale progressiva Malattia di Hallervorden-Spatz Malattia di Joseph Atassia-teleangectasia Neuroacantocitosi Sindrome di Rett Malattia da inclusioni intraneurali Necrosi striatale bilaterale infantile Calcificazioni familiari dei gangli basali
NEUROPATOLOGIA E BIOCHIMICA. – Macroscopicamente si osserva un’atrofia con ampliamento delle scissure e dei solchi, soprattutto a livello delle circonvoluzioni frontali, mentre nelle sezioni coronali è possibile apprezzare l’atrofia dello striato, in particolare del nucleo caudato. La degenerazione neuronale, con gliosi reattiva, interessa prevalentemente le cellule di piccole dimensioni (neuroni «spinosi» medi di secondo tipo). Il depauperamento neuronale si associa alla compromissione di diversi sistemi neurotrasmettitoriali. Nono-
B. In corso di malattie metaboliche: Alterazioni del metabolismo proteico (acidemia glutarica, aciduria metilmalonica, omocistinuria, malattia di Hartnup, tirosinosi) Alterazioni del metabolismo lipidico (leucodistrofia metacromatica, ceroido-lipofuscinosi, gangliosidosi GMl-GM2, lipidosi distonica giovanile) Alterazioni metaboliche diverse (sindrome di Leigh, malattia di Leber ed encefalopatie mitocondriali, sindrome di Lesh-Nyhan, carenza di vitamina E) C. Da cause specifiche Danno cerebrale perinatale (ipossia, ittero nucleare) Infezioni (encefaliti virali, encefalite letargica, tubercolosi, sindrome di Reye, malattia di Jakob-Creutzfeldt, sifilide, AIDS) Traumi cranici e periferici Dislocazione atlanto-epistrofea, sublussazione Ischemie cerebrali focali Tumori cerebrali Malformazioni arterovenose Mielinolisi pontina centrale Sostanze tossiche (manganese, ossido di carbonio, disolfuro di carbonio, metanolo) Farmaci (neurolettici, metoclopramide, levodopa, bromocriptina, ergotaminici, anticomiziali) 3. Forme psicogene
stante gli antagonisti dopaminergici siano i farmaci più frequentemente utilizzati nel trattamento sintomatico della corea, i livelli di dopamina risultano normali. Le alterazioni principali riguardano, invece, la riduzione dei livelli di GABA ed acetilcolina e dei relativi enzimi glutammico-decarbossilasi (GAD) e colin-acetil-transferasi (CAT). Le modificazioni dei recettori per il GABA ed il glutammato indicano negli interneuroni striatali e nei neuroni a proiezione pallidale la sede delle alterazioni primarie. È verosimile, quindi, che la relativa preponderanza dopaminergica striatale rappresenti un fenomeno secondario alla perdita dell’inibizione GABAergica strionigrica. Infatti, la selettiva compromissione dei neuroni spinosi medi (di proiezione) compromette la normale inibizione GABAergica esecitata sul globo pallido la-
Malattie del sistema extrapiramidale 1093 terale. Di conseguenza l’output dello striato (globo pallido mediale, sostanza nera reticolata) è ridotto con conseguente sovrastimolazione glutamatergica talamocorticale (Fig. 25.1).
SINTOMATOLOGIA E DECORSO La malattia può esordire a qualsiasi età (più frequentemente tra i 30-40 anni, assai raramente prima dei 10 o dopo i 70 anni). I sintomi iniziali sono assai polimorfi e possono riguardare sia la sfera motoria che quella psichica. Più frequentemente si tratta di mutamenti della personalità, irrequietezza, disturbi della memoria, turbe psichiche (stati depressivi, psicosi). La progressiva compromissione motoria si manifesta con movimenti involontari rapidi della muscolatura facciale e degli arti. Inizialmente si tratta di movimenti assai fugaci, prevalentemente distali, evidenti in particolare durante il cammino o nel corso di attività gestuali (paracinesie), ma talora osservabili anche a riposo. Successivamente le ipercinesie divengono più ampie e brusche, frequenti a riposo, mentre la loro insorgenza durante il movimento volontario determina un’evidente asinergia ed una modificazione dell’andatura che appare caratterizzata da arresti improvvisi, barcollamenti e torsioni del tronco, atteggiamenti «bizzarri». Esistono differenze individuali nella rapidità d’instaurazione e diffusione topografica dei movimenti coreici: in alcuni casi i movimenti rimangono limitati a determinati distretti muscolari (il viso, le spalle, gli arti superiori); in altri casi, invece, nel corso di pochi anni i movimenti coreici diventano così diffusi e grossolani da rendere impossibile la stazione eretta ed assumono progressivamente caratteristiche di tipo distonico. Le ipercinesie coreiche coesistono, tuttavia, con manifestazioni di tipo bradicinetico (Berardelli et al., 1999). Solitamente è presente impersistenza motoria ed ipotonia muscolare; s’instaurano disartria con voce monotona e, talora, parola esplosiva ed una grave disfagia. La compromissione della motilità oculare è precoce e costituita dal rallen-
tamento dei movimenti saccadici e da anomalie della fissazione. È stata occasionalmente descritta la presenza di segni piramidali. Accanto alla sintomatologia motoria, si manifestano o si accentuano alterazioni psichiche e cognitive di vario tipo: alterazioni caratteriali e comportamentali: apatia, irritabilità, suscettibilità; improprietà del linguaggio, turbe della memoria (sia di fissazione che di rievocazione) e dell’attenzione; disturbi affettivi uni- o bipolari, talora con idee deliranti a contenuto persecutorio o di gelosia e con aumentato rischio suicidiario; franche psicosi di tipo schizofrenico. Progressivamente, infine, si instaura uno stato demenziale. Sebbene il decadimento intellettuale sia pressochè costante, il grado di compromissione risulta talora assai modesto. Il deterioramento non appare globale ed omogeneo e presenta caratteristiche cosiddette di tipo «sottocorticale», assai diverse da quelle riscontrabili nella malattia di Alzheimer: le prove verbali sono meno compromesse di quelle pratiche, i disturbi simbolici (afasia, agnosia, aprassia) sono infrequenti, le funzioni visuospaziali e le capacità di organizzazione e programmazione sono elettivamente colpite.
La malattia evolve progressivamente (anche se i vari aspetti clinici possono presentare una diversa progressione) e la durata media di malattia è compresa tra 15 e 25 anni. I pazienti divengono incapaci di mantenere la stazione eretta e sono costretti a letto, spesso con una ingravescente postura rigido-distonica; il decadimento intellettuale e la marcata disartria (talora anartria) ne compromettono le capacità di comunicazione; le difficoltà ad alimentarsi giustificano un progressivo calo ponderale e l’exitus interviene per cause secondarie (pneumopatie, marasma terminale). In circa il 10% dei casi la sintomatologia esordisce precocemente (prima dei 20 anni). Questi pazienti sono contraddistinti da un quadro clinico dominato da aspetti acinetico-ipertonici di tipo parkinsoniano (con ridotte o assenti ipercinesie coreiche, ma possibili sintomi associati quali manifestazioni miocloniche e comiziali, segni piramidali e cerebellari) e presentano un’evoluzione as-
1094 Malattie del sistema nervoso sai più rapida con precoce demenza. Nel 90% dei casi, la variante «giovanile» (forma rigida di Westphal) è caratterizzata da un più elevato numero di ripetizioni CAG e viene ereditata per via paterna.
DIAGNOSI La diagnosi, suggerita dalla tipica associazione tra discinesie coreiche e turbe psichiche, riposa sul riscontro di una familiarità, eventualmente confermata dall’analisi genetica quando la storia familiare è inadeguata (Mandich et al., 1996). È necessario che il test genetico venga effettuato sempre fornendo un adeguato supporto psicologico al probando ed a tutto il gruppo familiare. La TC può dimostrare un’atrofia del nucleo caudato (scomparsa dell’impronta sul corno frontale dei ventricoli); l’EEG può evidenziare un tracciato desincronizzato di bassa ampiezza e caratteristiche alterazioni dei potenziali evocati somatosensoriali sono riscontrabili anche precocemente (Abbruzzese et al., 1990); gli studi PET hanno dimostrato un ipometabolismo striatale del glucosio che può precedere le alterazioni morfologiche. Nessuna di queste indagini, tuttavia, presenta una specificità assoluta e la diagnosi resta clinico-genetica e comporta sempre l’esclusione delle possibili cause secondarie di corea (v. Tabella 25.5). Nella diagnosi differenziale deve essere considerata anche la ‘degenerazione dentato-rubro-pallido-luysiana’ (DRPLA), una malattia rara a trasmissione autosomicodominante con esordio giovanile-adulto e fenotipo variabile (corea, mioclono, epilessia, atassia cerebellare e demenza). Il quadro neuropatologico è caratterizzato da perdita cellulare e gliosi a livello dei nucleo dentato, nucleo rosso, globo pallido e nucleo subtalamico. L’alterazione genetica, recentemente individuata, consiste in un’espansione CAG sul cromosoma 12.
TERAPIA Le terapie farmacologiche hanno un significato puramente sintomatico e non influenzano l’evoluzione della malattia o del relativo processo neurodegenerativo. Le discinesie coreiche
possono essere attenuate dalla somministrazione di antagonisti della dopamina (reserpina, tetrabenazina, perfenazina, aloperidolo, sulpiride), il cui impiego, tuttavia, è limitato dai possibili effetti collaterali (sedazione, depressione, acatisia, parkinsonismo). I farmaci antiparkinsoniani, invece, possono influenzare positivamente le forme giovanili dominate da rigidità. Le turbe psicotiche possono richiedere un adeguato trattamento psicofarmacologico (neurolettici, sali di litio), mentre i sintomi depressivi possono essere attenuati dall’impiego di farmaci specifici (triciclici, serotoninergici); non esistono trattamenti documentati per i disturbi cognitivi. Sperimentazioni terapeutiche sono attualmente in corso sul possibile effetto «neuroprotettivo» (rallentamento della degenerazione neuronale e del declino clinico) di farmaci antiglutammatergici (ad esempio, riluzolo). Sono in corso innovative sperimentazioni basate sul trapianto intracerebrale di cellule cerebrali di origine fetale (Bachoud-Levi et al., 2000) e sull’impiego di inibitori delle caspasi e fattori neurotrofici (CNTF). Cruciale risulta un’adeguato programma d’informazione ed istruzione (inclusa la consulenza genetica) dei pazienti e dei loro familiari sulle conseguenze fisiche, psicologiche e sociali della malattia.
2. Corea benigna ereditaria Sono state descritte alcune famiglie, i cui membri possono presentare una corea in età giovanile senza segni di progressione clinica di malattia (Bruyn e Myrianthopoulos, 1986). L’ereditarietà risulta di tipo autosomico dominante a penetranza incompleta. L’esordio è solitamente caratterizzato da disturbi dell’andatura, che precedono l’insorgenza di una corea generalizzata di lieve entità, con distribuzione simmetrica distale. Possono essere presenti, talora, disartria, atassia e modesti disturbi cognitivi, ma non si manifestano turbe psichiatriche maggiori o decadimento intellettuale progressivo. La diagnosi differenziale si pone con la malattia di Huntington, ma l’autonomia nosografica di questa forma è discussa.
Malattie del sistema extrapiramidale 1095
3. Corea-acantocitosi Gli acantociti sono globuli rossi di aspetto irregolare per la presenza di appendici spinose della superficie cellulare (verosimile espressione di un difetto della membrana lipidica). La loro presenza caratterizza numerose condizioni morbose prive di sintomi neurologici. È stata descritta un’associazione (frequente soprattutto in Giappone e trasmessa con modalità autosomica recessiva) tra la presenza di acantociti (in misura pari a circa il 10% dell’emazie periferiche esaminate «a fresco») e disordini del movimento. La malattia esordisce nella seconda-terza decade della vita con discinesie bucco-linguo-facciali (tali da causare mutilazioni e gravi difficoltà nell’alimentazione). Il quadro clinico, complesso e polimorfo, può presentare, inoltre: tic (vocali o motori), corea generalizzata, manifestazioni distoniche, parkinsonismo, decadimento intellettuale (di tipo frontale), crisi comiziali, neuropatia motoria periferica con amiotrofia ed innalzamento dei livelli di CPK. Il quadro neuropatologico dimostra un’atrofia con degenerazione neuronale dello striato e del pallido ed un quadro misto di demielinizzazione e degenerazione assonale dei nervi motori. L’evoluzione è variabilmente progressiva ed il trattamento puramente sintomatico.
4. Corea reumatica (Malattia di Sydenham) L’associazione tra corea e malattia reumatica è nota da molto tempo (Thomas Sydenham la descrisse nel 1686); tale quadro clinico è noto anche come ‘ballo di San Vito’ o ‘corea minor’. Attualmente, tuttavia, la larga disponibilità di terapie antibiotiche per l’infezione da streptococco A ha reso questa evenienza del tutto eccezionale. La corea reumatica si manifesta in infanti o adolescenti (tra i 5-15 anni d’età, con predilezione per il sesso femminile dopo la pubertà), solitamente a distanza di alcuni mesi dall’infezione streptococcica, con esordio subdolo e andamento progressivo per alcune settimane. I disturbi iniziali sono spesso di natura psichica (irritabilità, agitazione, turbe dell’attenzione, sindrome ossessivo-compulsiva). Le discinesie coreiche presentano una distribuzione generalizzata (con prevalenza alla faccia ed agli arti superiori ove possono causare difficoltà nel ma-
nipolare gli oggetti), ma è possibile anche una distribuzione unilaterale nel 20% dei casi. Il linguaggio può essere compromesso (disartria), possono essere presenti debolezza muscolare ed ipotonia o, nelle forme più gravi, flaccidità. Dal punto di vista neuropatologico la malattia è caratterizzata da un processo encefalitico diffuso e sono stati descritti anticorpi IgG antineuronali (diretti contro il caudato ed il nucleo subtalamico). Studi neuroradiologici con RM hanno evidenziato un incremento delle dimensioni del pallido, putamen e caudato, suggestivo di un processo infiammatorio. L’evoluzione della corea reumatica è spontaneamente migliorativa nel corso di 1-3 mesi, ma possono verificarsi recidive. Va ricordato a questo proposito, che i pazienti con una storia pregressa di corea reumatica infantile risultano maggiormente predisposti a sviluppare, anche a distanza di molti anni, movimenti involontari coreici spontanei o sintomatici (in corso di gravidanza, da farmaci). Al trattamento di base della malattia reumatica può associarsi l’impiego di benzodiazepine, o eventualmente neurolettici (pimozide, aloperidolo) per controllare la sintomatologia neurologica. 5. Coreo-atetosi parossistiche Sono descritte sotto la denominazione di “discinesie parosisstiche” (v. pag. …).
6. Altre coree Movimenti involontari di tipo coreico possono manifestarsi come espressione sintomatica di diverse condizioni cliniche (v. Tabella 2.2 a pag. 00). Coree immunologiche Tra le patologie sistemiche che causano una sindrome coreica, il lupus erythematosus systemicus (LES) costituisce la causa più comune, verosimilmente in
1096 Malattie del sistema nervoso
rapporto a meccanismi immunitari legati alla presenza di anticorpi circolanti in grado di modificare l’emocoagulazione, prolungando il tempo di tromboplastina. Compare prevalentemente in giovani donne con esordio precoce della patologia autoimmune e nel 25% dei casi può manifestarsi prima della diagnosi di lupus. Le ipercinesie coreiche, a distribuzione per lo più unilaterale, si presentano con attacchi ricorrenti e risultano sensibili al trattamento farmacologico con steroidi ed acido acetilsalicilico. Un’altra patologia autoimmune che può presentare un quadro coreico è la ‘sindrome da anticorpi antifosfolipidi’ (PAPS). Corea vascolare. Movimenti involontari coreici possono manifestarsi in soggetti anziani, per lo più ipertesi, per lesioni lacunari ischemiche dello striato e della regione talamica. Si tratta solitamente di un’emicorea (controlaterale alla sede lesionale) con caratteristiche semeiologiche talora atipiche (i movimenti involontari possono ricordare l’atetosi o l’emiballismo), ma sono stati descritti anche casi bilaterali (Tabaton et al., 1985). L’esordio è acuto e l’evoluzione, in genere, spontaneamente migliorativa; in alcuni casi, tuttavia, il decorso può essere cronico progressivo ed associarsi a demenza (Bathia et al., 1994) ponendo problemi diagnostici differenziali nei confronti della corea degenerativa. Analoghe manifestazioni cliniche possono essere legate a patologie emocoagulative (ad esempio, policitemia rubra vera). Corea senile. È un disturbo raro, ad esordio insidioso, generalizzato e caratterizzato da primario coinvolgimento degli arti. Colpisce individui di età superiore ai 60 anni, integri sul piano cognitivo e senza una storia familiare positiva. Si tratta di un’entità clinica controversa, interpretata da alcuni come variante della forma tardiva di malattia di Huntington (anche se l’analisi genetica non ha evidenziato la tipica espansione trinucleotidica). Corea gravidica. È una condizione clinica che si manifesta più frequentemente in donne
con precedenti anamnestici di malattia di Sydenham o di immunopatie (ad esempio, LES). Si manifesta dopo il parto e si risolve spontaneamente e senza sequele. Un quadro similare alla corea gravidica può riscontrarsi in rapporto all’uso di contraccettivi orali. Studi sperimentali su animali hano dimostrato come gli estrogeni possono influenzare la sensibilità dei recettori dopaminergici suggerendo un ipotetico meccanismo della corea ormone-indotta. Coree dismetaboliche, disendocrine, iatrogene. La corea può rappresentare una manifestazione clinica occasionale di alterazioni metaboliche (iper- e iponatriemia, ipocalcemia, ipomagnesemia, iper- e ipoglicemia), della funzionalità epatica (encefalopatia epatica e degenerazione epato-cerebrale acquisita), e dell’ipertiroidismo (2% dei casi). Una sindrome coreica, infine, può manifestarsi conseguentemente all’impiego di farmaci neurolettici (o anche in occasione della loro sospensione) e di altri farmaci, quali: dopamino-agonisti, anticolinergici, dintoina.
Sindromi distoniche Con il termine “distonia” si definisce una sindrome caratterizzata da contrazioni muscolari protratte, diffuse o localizzate a specifici gruppi muscolari, che causano movimenti involontari (per lo più a carattere torsionale) e posture anomale (Fahn et al., 1987). Il termine «distonia», originariamente introdotto da Oppenheim (1911) per la condizione clinica da lui descritta come «distonia muscolorum deformans», è stato variamente utilizzato nel corso degli anni e, tuttora, viene impiegato sia con riferimento alla specifica entità nosografica descritta da Oppenheim, sia per indicare i movimenti involontari patologici che caratterizzano altre analoghe condizioni cliniche.
Le sindromi distoniche possono essere classificate in rapporto all’età d’esordio, la causa e la distribuzione topografica dei movimenti in-
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volontari. La classificazione in base all’età d’esordio (infantile: 0-12 anni, adolescenziale: 13-20 anni, adulta: superiore ai 20 anni) risulta particolarmente importante ai fini prognostici, dal momento che le forme ad esordio più precoce sono caratterizzate da una maggiore gravità (rapida evoluzione e distribuzione diffusa). La classificazione eziologica (Fahn et al., 1998) suddivide le sindromi distoniche in: distonie primarie (in cui la distonia costituisce l’unica manifestazione clinica), 2. distonie ‘plus’ (in cui la distonia è associata ad altre manifestazioni neurologiche), 3. distonie secondarie (sintomatiche di cause note), 4. distonie in corso di altre patologie neuro-degenerative (Tabella 25.6). Dal punto di vista topografico le sindromi distoniche possono colpire qualsiasi parte del corpo con distribuzione: a) focale, interessa una sola regione corporea, b) segmentale, interessa due regioni contigue (craniale, assiale, brachiale, crurale), c) multifocale, interessa due regioni non contigue, d) generalizzata, combinazione di una forma segmentale crurale con interessamento di qualunque altra regione; a queste occorre aggiungere e) l’emidistonia, che colpisce un lato del corpo. PATOGENESI. - La mancanza di precisi riscontri neuropatologici e l’apparente alterazione di più sistemi neurotrasmettitoriali (noradrenergico, serotoninergico, dopaminergico) non hanno consentito di identificare una specifica base strutturale. L’ipotesi di una disfunzione biochimico-funzionale dei gangli della base e del tronco encefalico è stata avanzata per analogia con il frequente coinvolgimento di tali strutture nelle forme di distonia sintomatica (Marsden et al., 1985). Di fatto, le diverse forme sembrano condividere un comune substrato fisiopatologico contraddistinto dall’eccessiva coattivazione della muscolatura antagonista e dalla presenza di movimenti volontari lenti e goffi, con coinvolgimento afinalistico di muscoli distanti (c.d. «overflow») (Rothwell et al., 1983). Tali fenomeni sono stati posti in relazione con la presenza di un deficit dei meccanismi inibitori spinali (ad esempio, l’inibizione reciproca), troncali ed intracorticali che farebbe seguito all’alterazione delle connessioni anatomo-funzionali tra gangli della base e specifiche aree corticali (inclusa l’area supplementare motoria), con iperattività della «via diretta» (Fig. 25.1)
(Berardelli et al., 1998). Questa ipotesi sembra avvalorata dai dati ottenuti con la PET che dimostrano un ipometabolismo striatale (a riposo) ed un’iperattivazione delle aree associative frontali (con ridotta attivazione della corteccia sensitivo-motoria primaria) durante il movimento. Recentemente è stato, inoltre, valorizzato il ruolo delle alterazioni dell’integrazione sensori-motoria, in particolare nelle forme di distonia focale di natura ‘occupazionale’ (Abbruzzese et al., 2001). Il recente sviluppo delle tecniche di genetica molecolare ha condotto ad importanti acquisizioni sulla patogenesi della distonia, consentendo l’identificazione di alterazioni genetiche responsabili di alcuni specifici quadri fenotipici.
1. Distonia generalizzata primaria (distonia generalizzata, distonia muscolorum deformans) EPIDEMIOLOGIA E GENETICA. – La prevalenza della distonia generalizzata idiopatica è stata calcolata in 3.4/ 100.000 (con un’incidenza particolarmente elevata negli Askenaziti) (Nutt et al., 1988). Tuttavia studi recenti suggeriscono come tali dati siano largamente sottostimati. La distonia può comparire sia in forma sporadica che ereditaria, ma gli studi genetici hanno evidenziato che la distonia primaria ad esordio precoce è determinata da un’ereditarietà autosomica dominante con ridotta penetranza (30-40 %) ed espressività variabile, sia nella razza ebraica che in altri gruppi etnici (Bressman et al., 1989). Il primo di tali geni (DYT1) è stato identificato sul braccio lungo del cromosoma 9 (Ozelius et al., 1989). È stato ipotizzato che la mutazione responsabile sia insorta circa 350 anni fa nelle famiglie Askenazi della regione Lituania-Bielorussia. Il gene DYT1 è stato clonato e la mutazione identificata in una delezione di 3 bp nella sequenza codificante con perdita di un acido glutammico in prossimità del terminale carbossilico di una nuova proteina denominata “torsina A”, la cui funzione rimane ancora sconosciuta. L’identificazione del gene può consentire una più accurata consulenza genetica: se un genitore è portatore del gene DYT1, ciascun discendente avrà 50 % di probabilità di ereditarlo, ma il rischio per i congiunti di primo grado è stato calcolato pari al 21%.
SINTOMATOLOGIA Esordisce solitamente nell’infanzia (6-12 anni) con una distonia d’azione localizzata ad un arto inferiore: il soggetto inizia a camminare sulle punte con atteggiamento equino-varo del piede. A questo specifico esordio focale fa
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seguito una caratteristica progressione del quadro clinico, per cui le manifestazioni distoniche si diffondono dapprima alle regioni adiacenti all’arto colpito e, successivamente, ad ogni parte del corpo. La distonia assiale e degli arti inferiori comporta ingravescenti turbe della deambulazione che, infine, diviene impossibile. I movimenti distonici si manifestano diffusamente, anche a riposo, determinando l’assunzione di posture grottesche.
via intratecale -, carbamazepina, dopaminoagonisti, neurolettici). Procedure chirurgiche stereotassiche (talamotomia, pallidotomia) sono state utilizzate in passato, per attenuare la sintomatologia distonica, nei casi più gravi e non rispondenti ad alcun trattamento farmacologico. Attualmente sono in corso protocolli di valutazione sperimentale della stimolazione cerebrale profonda (globo pallido).
In alcuni casi, specie nelle forme più tardive, la distonia può esordire interessando un arto superiore o la regione cranio-cervicale. Tali manifestazioni fenotipiche sono considerate possibile espressione di diverse alterazioni genetiche (DYT6 sul cromosoma 8; DYT7 sul cromosoma 18).
2. Distonie primarie focali (o segmentali)
L’evoluzione clinica è assai variabile (anche in membri della stessa famiglia), ma nella maggior parte dei casi dopo 5-10 anni (seppure, talora, con parziali e transitorie fasi di remissione) si raggiunge un livello di compromissione assai invalidante e tale da limitare gravemente l’autonomia. Non esistono altri sintomi o segni neurologici associati ed anche le indagini paracliniche (incluse le neuroimmagini) risultano non informative; la registrazione EMG di superficie documenta l’eccessiva ed inadeguata coattivazione di gruppi muscolari a funzione antagonista. TERAPIA Le scarse conoscenze fisiopatologiche e biochimiche giustificano la mancanza di uno specifico trattamento farmacologico. I risultati più soddisfacenti sono stati ottenuti coll’impiego di elevati dosaggi di farmaci anticolinergici (triesifenidile, 20-50 mg/die) (Fahn e Marsden, 1987). Tale approccio terapeutico è limitato, tuttavia, dall’elevata incidenza di effetti collaterali (confusione mentale, turbe mnesiche, ritenzione urinaria, turbe del visus), in particolare negli adulti. Parziali benefici sono stati ottenuti in singoli casi con altri farmaci (baclofen – anche per
A differenza delle forme generalizzate primarie, le distonie focali esordiscono nel 70 % dei casi dopo i 40 anni d’età (con picchi nella quinta-sesta decade e prevalenza nel sesso femminile), interessando specifiche aree corporee, più frequentemente la muscolatura cranio-cervicale o degli arti superiori), isolatamente (forme «focali») o con qualsiasi combinazione (forme «multifocali» e «segmentali»). EPIDEMIOLOGIA E GENETICA. – La prevalenza delle forme focali (24.8/100.000) è assai maggiore rispetto alle distonie generalizzate (Nutt et al., 1988). Nonostante la lunga diatriba riguardo alla possibilità che le distonie focali costituiscano forme nosografiche autonome, l’indirizzo attualmente prevalente è quello che distonie generalizzate e focali siano tra loro correlate. Il contributo genetico alle forme di distonia focale dell’adulto è ancora poco definito, ma sembra probabile l’esistenza di uno o più geni a trasmissione autosomica dominante (verosimile espressione di una mutazione comune a quella delle forme generalizzate). Tuttavia il gene DYT1 è stato escluso nelle forme focali, mentre un ‘linkage’ con altri cromosomi (DYT6 sul cromosoma 8; DYT17 sul cromosoma 18) è stato descritto in alcune famiglie (Warner e Jarman, 1998). La comparsa spesso a carattere sporadico e la spiccata variabilità fenotipica degli aspetti clinici sarebbe legata maggiormente a fattori di rischio ambientale (ad esempio, i traumi) che genetici (Fletcher et al., 1991; Defazio et al., 1998).
Le più frequenti forme di distonia focale sono elencate nella Tabella 25.6. Distonie craniche: il blefarospasmo esordisce spesso con aumentata frequenza dell’ammiccamento, per progredire verso la chiusura forzata (dapprima clonica e successivamente tonica)
Malattie del sistema extrapiramidale 1099 Tabella 25.6 – Distonie: classificazione eziologica (modificata da Jankovic e Fahn, 1998). 1. Distonia idiopatica (primaria) A. Sporadica: – generalizzata – focale, segmentale (blefarospasmo, distonia oromandibolare, distonia cervicale o torcicollo spasmodico, distonia laringea o disfonia spasmodica, crampi occupazionali) B. Ereditaria: – autosomica dominate classica (DYT1)
4. Distonie sintomatiche A. In corso di malattie metaboliche: – Alterazioni del metabolismo proteico (acidemia glutarica, acidemia metilmalonica, omocistinuria, malattia di Hartnup, tirosinosi) – Alterazioni del metabolismo lipidico (leucodistrofia metacromatica, ceroido-lipofuscinosi, gangliosidosi GM1-GM2, lipidosi distonica giovanile, deficienza di esosaminidasi A e B) – Alterazioni metaboliche diverse (malattia di Leigh, malattia di Leber, encefalopatie mitocondriali, sindrome di Lesch-Nyhan, carenza di vitamina E, deficit di biopterina)
– autosomica dominante (non DYT1) – autosomica recessiva (deficit tirosin-idrossilasi) 2. Distonia-plus – distonia dopa-responsiva (DYT5, GTP-cicloidolasi I) – distonia mioclonica – parkinsonismo ad esordio precoce con distonia – distonie parossistiche (coreo-atetosi parossistiche cinesigeniche, PKC; coreo-atetosi parossistiche distoniche, PDC; distonia parossistica indotta dall’esercizio, PED) 3. Distonia in corso di patologie neuro-degenerative A. Sporadiche (malattia di Parkinson, paralisi sopranucleare progressiva, atrofia multisistemica, degenerazione corticobasale) B. Ereditarie: malattia di Wilson, malattia di Huntington, parkinsonismo giovanile, atrofia pallidale progressiva, malattia di Hallervorden-Spatz, malattia di Joseph, atassia-teleangectasia, neuroacantocitosi, sindrome di Rett, malattia da inclusioni intraneuronali, necrosi striatale bilaterale infantile, calcificazioni familiari dei gangli della base, sindrome di HARP, degenerazione spino-cerebellare, paraplegia spastica ereditaria con distonia, malattia di Lubag)
delle palpebre, conseguente alla contrazione involontaria del muscolo orbicolare dell’occhio, con possibile diffusione ai muscoli corrugatore del sopracciglio e frontale. Può essere accentuato dall’esposizione alla luce intensa o al vento, dalle emozioni e dall’affaticamento e, spesso, si associa ad una sensazione di fastidio (secchezza, corpo estraneo) endo-oculare. Il disturbo può raggiungere un’intensità tale da causare una «cecità funzionale».
B. Da cause specifiche: – Danno cerebrale perinatale (ipossia, ittero nucleare) – Infezioni (encefaliti virali, encefalite letargica, tubercolosi, sindrome di Reye, malattia di JakobCreutzfeldt, sifilide, AIDS – Lesioni demielinizzanti (sclerosi multipla, mielinolisi pontina centrale) – Traumi cranici e periferici – Ischemie cerebrali focali – Tumori cerebrali – Malformazioni arterovenose – Sostanze tossiche (manganese, ossido di carbonio, disolfuro di carbonio, metanolo) – Farmaci (neurolettici, metoclopramide, levodopa, bromocriptina, fenfluramina, ergotaminici, anticomiziali, bloccanti del canale del Ca) C. Psicogena D.
Pseudodistonia.
Frequentemente si associa alla distonia oromandibolare, consistente in smorfie, movimenti distonici di chiusura o apertura della bocca e protrusione della lingua, difficoltà nella masticazione e deglutizione, configurando una distonia segmentale cranica, nota con l’eponimo di «sindrome di Meige». La disfonia spasmodica (distonia laringea) è una distonia focale, che colpisce la muscolatura laringea, causando una peculiare alterazione
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della fonazione che dimostra, spesso, brusche interruzioni, con voce aspra, tremula o soffiata. Questi sintomi derivano da una riduzione della mobilità delle corde vocali, con eccessiva contrazione dei muscoli tiro-aritenoidei (disfonia in adduzione) o, più raramente, del muscolo cricoaritenoideo posteriore (disfonia in abduzione). Distonia cervicale: il torcicollo spasmodico rappresenta la più frequente forma focale e si presenta con contrazioni distoniche dei muscoli cervico-nucali e conseguenti anomalie della posizione del capo e del collo. La deviazione del capo può avvenire in qualsiasi piano dello spazio (torcicollo rotazionale, laterocollo, retrocollo, antecollo), a seconda dei muscoli coinvolti, ed assumere un aspetto tonico, ma, nella maggior parte dei casi, le contrazioni involontare appaiono intermittenti («spasmodiche» o d’azione) ed irregolari, spesso con la contemporanea presenza di un tremore del capo di tipo posturale. Frequente è il dolore, anche di intensità notevole, causato dalla contrazione muscolare e dall’artrosi cervicale secondaria. Il torcicollo può essere transitoriamente alleviato ricorrendo a gesti antagonisti (ad esempio, toccarsi leggermente il viso), mentre può accentuarsi in situazioni ad elevato contenuto emozionale o durante specifiche attività motorie (camminare, scrivere). Sono state anche descritte transitorie remissioni spontanee, ma il decorso è solitamente cronico. Distonia degli arti: quadri distonici focali possono svilupparsi in relazione a specifiche attività motorie, detti distonie occupazionali. La forma più nota è il crampo dello scrivano, caratterizzato da un’eccessiva tensione muscolare e da anomale posture della mano durante l’atto di scrivere (Sheehy e Marsden, 1982). Inizialmente compare un impaccio ed un rallentamento nella scrittura, progressivamente si manifestano svariati atteggiamenti distonici della mano che rendono problematico l’uso della penna; la contrazione muscolare involontaria può diffondersi ai muscoli prossimali causando il sollevamento del gomito o della spalla. Soli-
tamente non è presente dolore, mentre può riscontrarsi un tremore associato. Simili distonie d’azione sono state descritte in soggetti che per motivi professionali svolgono attività manuali specializzate (dattilografi, musicisti, sportivi). Le distonie localizzate all’arto inferiore (frequenti come manifestazione d’esordio delle forme generalizzate) sono rare nell’adulto e spesso espressione sintomatica di quadri parkinsoniani (v. pag. 000). TERAPIA Il trattamento farmacologico per via generale si ispira agli stessi principi ricordati a proposito delle distonie idiopatiche generalizzate. L’approccio farmacologico con neurolettici, baclofen, benzodiazepine, levodopa e dopaminomimetici è, per lo più, insoddisfacente ed i risultati migliori si ottengono con l’impiego di farmaci anticolinergici ad elevato dosaggio (Fahn e Marsden, 1987). Solo una limitata percentuale di soggetti, tuttavia, trae beneficio o è in grado di sopportare questo tipo di terapia. Gli approcci chirurgici periferici (miectomie, rizotomie, denervazioni selettive) già utilizzati in passato, sono attualmente poco praticati, sia per la ridotta efficacia che per l’elevata incidenza di effetti collaterali. Il trattamento delle distonie focali è stato rivoluzionato dallo sviluppo della terapia con iniezioni locali di tossina botulinica. Si tratta di una potente neurotossina prodotta dal Clostridium botulinum (dei 7 sierotipi antigenici identificati, viene generalmente utilizzato il tipo A e, più recentemente, il tipo B) che si lega alle terminazioni presinaptiche a livello della giunzione neuromuscolare, inibendo la liberazione di acetilcolina e provocando una transitoria paralisi muscolare da denervazione chimica con atrofia reversibile. Quest’azione neurotossica, previa utilizzazione locale in dosi adeguate, può essere sfruttata a scopo terapeutico. I risultati migliori (Berardelli et al., 1997) sono stati ottenuti nel blefarospasmo, ove più del 90 % dei
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pazienti presentano un marcato miglioramento che si protrae mediamente per 2-4 mesi dopo ciascuna iniezione, con infrequenti e transitori effetti collaterali (ptosi palpebrale). Il trattamento risulta assai efficace anche nelle altre forme di distonia focale (cervicale, laringea e, in misura minore, oromandibolare e degli arti). L’infiltrazione locale con tossina botulinica A è da considerarsi attualmente il trattamento di elezione per le principali distonie focali.
3. Sindromi distoniche ‘plus’ In questo gruppo va principalmente annoverata la “distonia levodopa-responsiva”, originariamente descritta da Segawa et al. (1976), che rappresenta circa il 5-10% delle forme distoniche ad esordio infantile o giovanile (6-16 anni). Questa condizione prevale nel sesso femminile (4:1), è trasmessa con modalità autosomica dominante a penetranza incompleta ed il gene responsabile (DYT5) è stato recentemente individuato sul cromosoma 14 (mutazioni puntiformi dell’enzima GTP-cicloidrolasi I, tappa limitante della formazione di tetraidrobiopterina, cofattore della biosintesi dopaminica). Tuttavia, sono state descritte anche forme a trasmissione autosomica recessiva da deficienza dell’enzima tirosin-β-idrossilasi (cromosoma 21).
Si tratta di una distonia progressiva con iniziale e prevalente interessamento degli arti inferiori, responsabile di disturbi della deambulazione e di instabilità posturale con tendenza alle cadute. L’esordio, tuttavia, può essere atipico e nel 70 % dei casi esistono evidenti fluttuazioni diurne e si associano lievi segni parkinsoniani (rigidità con troclea, amimia, bradicinesia, tremore posturale); possibili le manifestazioni distoniche focali e l’iperreflessia osteotendinea. L’importanza del riconoscimento di questo quadro clinico risiede nella drammatica rispo-
sta terapeutica al trattamento farmacologico con bassi dosaggi (100-300 mg/die) di levodopa, con pressochè completa remissione del quadro clinico (Nygaard et al., 1988). In considerazione di questo fatto è opportuno un tentativo terapeutico con levodopa in tutti i casi di distonia idiopatica ad esordio infantile. Occorre, inoltre, ricordare la “distonia mioclonica” che costituisce una forma clinica rara, caratterizzata dall’associazione di movimenti distonici, lenti e protratti, con «scatti» costituiti da contrazioni rapide di tipo mioclonico. Può presentarsi in forma sporadica o ereditaria (autosomica dominante, legata al cromosoma 18) con esordio infantile, interessamento degli arti superiori e del tronco e, talora, peculiare sensibilità all’assunzione di alcool (Quinn e Marsden, 1984). L’autonomia nosografica di questa forma è discussa.
4. Distonie in corso di patologie eredodegenerative Le diverse forme sono elencate nella tabella 25.5. I principali aspetti clinici delle distonie in corso di malattie neurologiche con degenerazione primaria sono già stati descritti (paralisi sopranucleare progressiva, pag. 000; corea di Huntington, pag. 000; neuroacantocitosi, pag. 000; calcificazione dei gangli della base, pag. 000; morbo di Wilson, pag. 000). Merita di essere sottolineta la “malattia di Lubag” costituita da una distonia idiopatica generalizzata (associata a segni di tipo parkinsoniano) originariamente descritta in soggetti maschi delle isole Filippine, con trasmissione ereditaria recessiva legata al sesso (DYT3Xq13).
5. Distonie parossistiche Sono descritte sotto la denominazione di “discinesie parosisstiche” (v. pag. …).
1102 Malattie del sistema nervoso
6. Distonie sintomatiche Circa un terzo dei distonici presenta sindromi distoniche (generalizzate o focali) espressione sintomatica di numerose condizioni legate a malattie metaboliche od a cause specifiche (Tabella 2.5 a pag. 000). Nelle forme sintomatiche, si associano solitamente altre turbe neurologiche quali spasticità o segni piramidali, atassia, compromissione del trofismo muscolare, alterazioni retiniche, turbe dell’oculomozione, demenza, comizialità, assenti nelle forme idiopatiche. Tra le malattie metaboliche in cui possono manifestarsi sintomi distonici occorre ricordare: a) le ganliosidosi GM1-GM2 (v. pag. 0000), b) la sindrome di Lesch-Nyhan (v. pag. 0000), c) l’omocistinuria (v. pag. 0000), d) la lipidosi distonica giovanile (v. pag. 000). La distonia è presente in circa 2/3 dei casi di sindrome di Leigh, un’encefalomielite necrosante subacuta con alterazioni spongiotiche nei gangli della base, che si ritiene possibile espressione di un’alterazione del metabolismo del piruvato. Analoghi casi familiari sono stati descritti (Marsden et al., 1986) in pazienti con reperto TC di ipodensità bilaterali dello striato e, tentativamente, inquadrati come una variante clinica della sindrome di Leigh. Sindromi distoniche sintomatiche si riscontrano, inoltre, in rapporto ad encefalopatie perinatali (anossia ed ittero nucleare) spesso in associazione ad altri segni neurologici quali rigidità, spasticità, ritardo mentale. Lesioni cerebrali focali possono essere responsabili dell’insorgenza di quadri distonici, per lo più in lesioni ischemiche (putamen, talamo, caudato), ma anche in corso di lesioni neoplastiche, traumatiche, demielinizzanti. L’emidistonia, in particolare, riconosce quasi sempre un’origine sintomatica e, nel 75 % dei casi, è documentabile con la TC o la RM, una lesione controlaterale dei gangli della base (Marsden et al., 1985) o una storia di precedente emiparesi.
Tra le cause più frequenti di distonia sintomatica, infine, vanno ricordate la somministrazione acuta o cronica di farmaci, in particolare neurolettici, e le complicanze legate alla terapia con levodopa (v. pag. 000).
Morbo di Wilson Descritta nel 1912 da Kinnier Wilson (e per lungo tempo considerata una rara curiosità medica) la «degenerazione epato-lenticolare familiare progressiva» costituisce una malattia del metabolismo del rame che si manifesta con disturbi epatici e neurologici (principalmente del sistema extrapiramidale) ed è sensibile al trattamento farmacologico, in assenza del quale è inevitabile la progressione del quadro clinico fino al decesso. GENETICA ED EZIOPATOGENESI. – La malattia, trasmessa con modalità autosomica recessiva, è ubiquitariamente diffusa con prevalenza dei soggetti omozigoti pari a circa 3/100.000, mentre la prevalenza dei soggetti eterozigoti (portatori di un solo gene della malattia ed in cui non compaiono i segni clinici) è approssimativamente l’1,1 % (Scheinberg e Sternlieb, 1984). Il gene responsabile della malattia è stato localizzato sul braccio lungo del cromosoma 13, rendendo possibile la diagnosi preclinica e prenatale. La malattia è causata da un difetto nell’escrezione biliare del rame che, essendo normale l’assorbimento intestinale, determina un bilancio positivo di questo metallo con aumento del rame libero circolante e conseguente accumulo a livello del fegato (con progressivo danno epatico) e, successivamente, di altri organi (encefalo, cornea, rene, apparato osteo-articolare). La ridotta escrezione biliare del rame si accompagna, pressochè costantemente, alla difettosa incorporazione del rame in una specifica glico-proteina plasmatica, la ceruloplasmina, e ad un’aumentata escrezione urinaria. Il difetto biochimico specifico è dovuto all’alterata funzione di una proteina legante il rame e dotata di attività ATPasica. Il gene codificante tale proteina è stato localizzato sul cromosoma 13q14.3, comprende una sequenza di circa 30 Kb ed è espresso a livello epatico e renale. Sono state individuate svariate mutazioni (la più frequente di tipo puntiforme) responsabili della malattia. Pur essendo indubbia la dipendenza della malattia dall’alterazione del metabolismo del rame, è importante
Malattie del sistema extrapiramidale 1103 sottolineare che la correlazione tra gli aspetti clinici ed i reperti patologici (epatici e cerebrali) e bioumorali è tutt’altro che lineare. ANATOMOPATOLOGIA. – Uno dei danni primari riguarda il rene con degenerazione delle cellule dell’epitelio tubulare e depositi di rame nel citoplasma. Le alterazioni epatiche compaiono anche molti anni prima che l’azione tossica del rame si manifesti in altri distretti. L’iniziale steatosi epatica può progredire in una forma di cirrosi mista (micro e macronodulare), cui corrisponde clinicamente un quadro clinico di epatite (acuta, subacuta o cronica) che può costituire anche causa di morte. Il deposito di rame a livello cerebrale è ubiquitario, ma le alterazioni secondarie si rilevano in particolare nei gangli della base (putamen) sotto forma di rammollimento, atrofia con allargamento ventricolare, pigmentazione e degenerazione cistica. Le alterazioni, tuttavia, possono riguardare anche la sostanza bianca, il cervelletto ed il tronco encefalico. Gli aspetti istopatologici prevalenti sono costituiti da demielinizzazione, gliosi, presenza di cellule di Opalski.
SINTOMATOLOGIA È caratterizzata dall’associazione di segni neurologici e psichiatrici con segni d’interessamento internistico, in particolare, insufficienza epatica. È possibile, quindi, osservare sia quadri clinici completi che forme incomplete con sintomi solo neurologici od epatici. Le modalità d’esordio sono assai variabili ed accanto alla classica presentazione con sintomi neurologici (54% dei casi) possono osservarsi presentazioni con insufficienza epatica (31%), manifestazioni psichiatriche (14%) e, più raramente, disturbi osteo-articolari, oftalmologici, cardiologici ed anemia emolitica. I sintomi epatici esordiscono precocemente (tra gli 8 e 16 anni, con predominanza femminile) e sono costituiti da ittero, vomito, ipostenia e faticabilità, associati ad alterazione delle prove di funzionalità epatica (aumento della bilirubina diretta). L’insufficienza epatica assume un decorso progressivo, talora fulminante e, se non trattata, progredisce fino alla cirrosi, cui possono associarsi episodi emolitici e turbe della coagulazione.
I sintomi neurologici non esordiscono prima dei 12 anni (solitamente tra i 20 e 30 anni, con predominanza maschile) e, seppur assai proteiformi, riguardano principalmente la funzione motoria. La disartria è uno dei sintomi più frequenti e precoci e può presentarsi con caratteristiche «parkinsoniane» (parola monotona, ipofonia) o «cerebellari» (parola scandita o esplosiva), ma spesso è espressione di una distonia della muscolatura facciale e laringea responsabile di alcuni fenomeni caratteristici, quali: l’impossibilità a fischiare o a sollevare il palato molle, la limitazione dei movimenti linguali, il «riso sardonico», lo «stridor» inspiratorio. La disartria può evolvere verso una completa anartria ed associarsi a scialorrea e disfagia d’entità tale da richiedere l’alimentazione per mezzo di sondino naso-gastrico. Sono presenti movimenti involontari distonici anche agli arti, accentuati o scatenati dai movimenti volontari e responsabili della compromissione dell’andatura. Possibile anche il riscontro di movimenti coreo-atetosici. Le alterazioni del tono muscolare presentano le caratteristiche della rigidità extrapiramidale, e possono associarsi ad altri segni parkinsoniani come bradicinesia e micrografia. La rigidità, prevalentemente assiale e spesso asimmetrica, può accentuarsi conferendo al malato particolari atteggiamenti statuari («pose ginniche» di De Lisi) (Fig. 2.34). Caratteristica è la presenza di tremori di vario tipo: più frequentemente si tratta di un tremore d’azione, spesso associato a dismetria ed incoordinazione cerebellare, meno comune il tremore a riposo od il classico tremore «a battito d’ala». Disturbi psichiatrici di varia natura sono presenti nella quasi totalità dei pazienti: nevrosi ansiose, ossessive o fobiche; psicosi paranoidi o maniaco-depressive; turbe della personalità con comportamenti impulsivi ed antisociali (aggressività, alcoolismo); quadri di deterioramento mentale (turbe mnesiche, difficoltà alla concentrazione, confusione mentale).
1104 Malattie del sistema nervoso
Oltre alle già ricordate manifestazioni epatiche ed ematologiche sono possibili: alterazioni renali (calcolosi da inadeguata acidificazione delle urine secondaria al danno tubulare, sindrome di Fanconi), alterazioni scheletriche (artralgie da osteoporosi ed osteomalacia), anomalie cardiache. Seppur non patognomonica, la presenza dell’anello corneale di Kayser-Fleischer è considerata un importante segno della malattia. Si tratta di un anello periferico di color giallo-brunastro (visibile mediante lampada a fessura e, talora, anche ad occhio nudo), dovuto ad un accumulo di proteinato di rame sulla membrana di Descemet. DIAGNOSI A causa della spiccata variabilità di presentazione, il sospetto diagnostico deve porsi per numerose condizioni neurologiche, caratterizzate da disturbi del movimento, oltre che per i casi di epatopatia cronica in giovani pazienti. Ciò risulta tanto più importante, in quanto il morbo di Wilson rappresenta una condizione adeguatamente trattabile. Il sospetto clinico deve essere confermato da un’accurata indagine anamnestica familiare e dai riscontri di laboratorio. Oltre alla ricerca dell’anello di Kayser-Fleischer, i possibili reperti probatori sono costituiti da: a) riduzione della concentrazione sierica di ceruloplasmina (inferiore a 20 mg/100 ml nel 96% dei casi), b) aumento della concentrazione del rame in prelievi bioptici epatici (superiore a 100-250 µg/g.) con anomalie istologiche, c) difettosa incorporazione del rame marcato con radioisotopo. Il riscontro di un aumento della cupremia e della cupruria può, invece, spesso mancare. Occorre ricordare, tuttavia, che sono state descritte varianti della malattia di Wilson caratterizzate da basssi livelli ematici di rame e ceruloplasmina (con assenza dell’anello corneale) in cui la concentrazione del rame a livello epatico può essere bassa od elevata.
Le indagini neuroradiologiche (TC, RM) possono documentare frequentemente la presenza di ipodensità a livello dei gangli basali e del cervelletto, atrofia corticale e troncale, dilatazione ventricolare. Le alterazioni EEG e dei potenziali evocati, talora presenti, sono del tutto aspecifiche. Accertata la diagnosi, è importante sottoporre ad una adeguata valutazione gli altri membri probandi della famiglia. TERAPIA Si basa sulla rimozione del rame in eccesso a livello encefalico ed epatico, in grado di determinare la regressione della sintomatologia neurologica ed epatica. Ciò è reso possibile dall’impiego di sostanze chelanti ed, attualmente, il farmaco di più largo impiego è rappresentato dalla penicillamina somministrata per via orale (1-1,5 g/die in dosi frazionate, a stomaco vuoto ed in associazione a piridossina), con monitoraggio dell’escrezione urinaria del rame (1-2 mg/die). In assenza di effetti collaterali, questa terapia deve essere continuata indefinitamente e consente ai pazienti di condurre una vita pressoché normale, senza la necessità di ricorrere a gravi restrizioni dietetiche; è sconsigliata, comunque, l’assunzione di fegato, funghi, crostacei, frutta secca, cioccolato. La terapia con penicillamina può causare un iniziale peggioramento e possono essere necessari anche 3-6 mesi prima che i benefici clinici si manifestino. Inoltre sono possibili effetti collaterali tossico-immunologici sia precoci (reazioni allergiche con febbre, eritema, leucopenia) che tardivi (dermatopatie, nefrite da immunocomplessi, sindrome di Goodpasture, miastenia, lupus eritematoso sistemico). Una ridotta percentuale di pazienti può essere intollerante o non rispondere al trattamento con penicillamina, richiedendo il ricorso a terapie alternative: dimercaprolo (BAL 0,3 g/die) (Walshe, 1982), trietilenetetramina (1 g/die), sali di zinco (450 mg/die). Il trapianto di fegato costi-
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tuisce, infine, l’unico provvedimento terapeutico possibile nei casi a decorso progressivo e resistenti alle terapie farmacologiche.
Discinesie parossistiche Il termine “discinesie parosisstiche” viene utilizzato per descrivere movimenti involontari patologici con caratteristiche intermedie tra corea, atetosi e distonia che si manifestano con modalità intermittenti od accessuali. Queste condizioni costituiscono un gruppo geneticamente e clinicamente eterogeneo, che pone problemi di diagnosi differenziale e sovrapposizione nosografica con le manifestazioni comiziali. La classificazione delle forme parossistiche si basa sulla durata degli attacchi (breve, intermedia, lunga) e sulla presenza o meno come evento scatenante del movimento volontario (cinesigeniche, non cinesigeniche) (Lance, 1977; Demirkiran e Jankovic, 1995). Coreo-atetosi parossistiche cinesigeniche (PKC) Rappresentano le forme più frequenti e sono caratterizzate da attacchi parossistici di coreo-atetosi o distonia, uni- o bilaterali, scatenati da movimenti volontari rapidi o da reazioni di soprassalto (raramente anche dall’iperventilazione), di durata breve e sempre inferiore a 5 minuti (per lo più pochi secondi). Gli attacchi, talora preceduti da vaghe sensazioni parestesiche, possono essere di intensità tale da provocare caduta a terra (senza perdita di coscienza), sono seguiti solitamente da un intervallo libero e possono ripetersi con frequenza variabile (fino a 100 al giorno). Rispondono in modo drammatico al trattamento con farmaci anticomiziali (dintoina, carbamazepina, valproato), tanto da far sospettare (nonostante l’usuale assenza di alterazioni EEG) possibili legami eziopatogenetici con l’epilessia. L’eziologia è idiopatica, spesso con familiarità di tipo autosomico dominante, con esordio nell’infanzia o adolescenza e predilezione per il sesso maschile (con rapporto 4:1). Una forma simile è costituita dalle ‘convulsioni infantili e coreo-atetosi parossistiche’. Sebbene un’origine epilettica non possa essere del tutto esclusa, non vi sono evidenze neurofisiologiche a supportare tale ipotesi. Studi genetici hanno evidenziato un linkage sul cromosoma 16 (16p11.2-q12.1 e 16p12-q12) e la mutazione riguarderebbe i canali ionici per il sodio.
Coreo-atetosi parossistiche distoniche (PDC) Si tratta di forme non cinesigeniche, i cui attacchi sono caratterizzati da una combinazione di posture distoniche, corea e ballismo. Semeiologicamente simili alle precedenti, si distinguono per alcuni aspetti clinici: la durata degli attacchi è maggiore (da 10 minuti fino a 4 ore) con effetti, quindi, assai più invalidanti, ma la frequenza è limitata (non più di 3 attacchi al giorno, spesso con lunghi periodi liberi) ed il ruolo scatenante non è svolto dal movimento, ma da altri fattori (stress, fatica, assunzione di alcool o caffè). Solitamente non rispondono positivamente al trattamento anticomiziale con parziale eccezione per il clonazepam ed il gabapentin. Sono forme familiari autosomiche dominanti ad alta penetranza (meno frequenti i casi sporadici), con esordio nell’infanzia o adolescenza e predilezione per il sesso maschile (rapporto 1.4:4). In alcune famiglie il gene responsabile è localizzato sul cromosoma 2q31-36 suggerendo una totale diversità genetica tra PKc e PDC.
Distonia parossistica indotta dall’esercizio (PED) Originariamente descritta da Lance (1977) si caratterizza per la presenza di attacchi distonici della durata di 5-30 minuti indotti dall’esercizio fisico prolungato (camminare, correre). Si tratta per lo più di casi sporadici, con prevalente interessamento degli arti inferiori e scarsa risposta ai farmaci anticomiziali. Accanto alle forme idiopatiche, sono stati descritti casi di discinesie parossistiche ad origine sintomatica (sclerosi multipla, traumi cranici, encefalopatie perinatali, turbe endocrino-metaboliche) (Vidailhet, 2000). La diagnosi differenziale delle discinesie parossistiche deve porsi principalmente con certe forme di epilessia frontale (Provini et al., 1997), con forme psicogene e con le ‘atassie episodiche familiari’. Una condizione clinica particolare è rappresentata dalla c.d. «distonia parossistica notturna ipnogenica», costituita da ripetuti attacchi di movimenti involontari (prevalentemente distonici, ma anche coreo-atetosici) che si verificano con durata variabile (breve: 15-45 secondi, protratta: 2-50 minuti) durante il sonno desincronizzato, spesso risvegliando il soggetto. Descritta in forma sporadica (Lugaresi e Cirignotta, 1981) e familiare (Lee et al., 1985) questa condizione ha sollevato discussioni circa il suo preciso inquadramento nosografico e la possibile origine comiziale.
Sindromi tremorigene Il tremore costituisce un sintomo di numerose condizioni neurologiche (Tab. 2.3), eredo-dege-
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nerative, idiopatiche o acquisite. La presenza di un tremore isolato, senza altri segni neurologici maggiori, può raramente riscontrarsi come espressione sintomatica di lesioni a carico del talamo, nucleo rosso, mesencefalo (Vidailhet et al., 1998) (v. pag. …). Una condizione clinica piuttosto frequente è rappresentata, invece, dal tremore essenziale.
Tremore essenziale Spesso impropriamente etichettato come «benigno», «familiare», «senile», il tremore essenziale può essere considerato il più frequente disturbo del movimento (la prevalenza al di sopra dei 40 anni risulta compresa, in studi diversi, tra 0.4 e 5.55%). Esordisce prima dei 40 anni in almeno il 50% dei casi ed è possibile documentare una frequente familiarità (17.4 – 96 % dei casi); la trasmissione risulta di tipo autosomico dominante con penetranza elevata e pressoché completa all’età di 65 anni (Brin e Koller, 1998). In alcune famiglie è stato descritto un ‘linkage’ con due differenti localizzazioni cromosomiche (3q13.1 e 2p25-p22) che, tuttavia è stato recentemente escluso nella popolazione italiana (Pigullo et al., 2001). Si manifesta interessando elettivamente le mani (per lo più bilateralmente, anche se può esordire nella mano preferita), nel mantenimento di una postura (ma può riscontrarsi anche durante movimenti finalizzati o a riposo) con frequenza tra 4-12 Hz. (flesso-estensione del polso, adduzione-abduzione delle dita, meno frequentemente prono-supinazione dell’avambraccio). Può interessare isolatamente o in associazione anche la muscolatura cranica, in particolare il capo (orizzontale o di negazione nel 75% dei casi), meno frequentemente la lingua ed il palato (Bain et al., 1994). Il tremore essenziale è caratterizzato da una lenta, seppur variabile, progressione che si traduce clinicamente con un aumento di ampiezza, una riduzione di frequenza ed una distribu-
zione corporea più estesa, tale da determinare una rilevante disabilità fisica, psicologica e sociale. Oltre all’età, è accentuato dalle emozioni, dalle variazioni termiche e dallo stato emozionale. La diagnosi si basa su precisi criteri (Deuschl et al., 1998), ma va ricordato che il tremore essenziale non infrequentemente è confuso con la forma tremorigena del morbo di Parkinson: in realtà la distinzione può risultare difficile solo nei casi in cui le due forme morbose coesistano, o quando sia presente una rilevante componente posturale del tremore parkinsoniano (v. pag. 58). Un problema diagnostico differenziale è rappresentato, inoltre, dalle forme di tremore del capo che accompagnano la distonia cervicale (‘tremore distonico’). Esistono, infine, alcune varianti cliniche cui viene riconosciuta una indipendenza nosografica (tremore ortostatico, tremore isolato del mento, tremore idiopatico della scrittura). Il trattamento del tremore essenziale si basa sull’impiego di alcune sostanze farmacologiche potenzialmente in grado di esercitare un effetto antitremorigeno: i beta-bloccanti (propranololo: 120-240 mg/die), il primidone (240-600 mg/die), il fenobarbitale (100-200 mg/die), il gabapentin (900-1200 mg/die). Occorre ricordare che esiste un sottogruppo di pazienti con una spiccata sensibilità all’effetto benfico dell’alcool sul tremore (con possibile rischio di etilismo secondario). Le forme di particolare gravità possono essere affrontate con il ricorso alla chirurgia stereotassica funzionale (stimolazione cerebrale profonda del nucleo ventrale-intermedio del talamo).
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Malattie demielinizzanti 1111
26. Malattie demielinizzanti G.L. Mancardi, A. Uccelli
Molte malattie del sistema nervoso centrale (SNC) sono responsabili di una sofferenza della mielina, ma il termine “malattia demielinizzante” si riferisce convenzionalmente ad un gruppo ben preciso e limitato di malattie di natura infiammatoria caratterizzate, sul piano neuropatologico, dalla perdita primitiva della guaina mielinica cui può conseguire o meno la conservazione dell'assone. Non prenderemo in considerazione pertanto le malattie della mielina secondarie ad un processo infettivo, quali ad esempio la leucoencefalopatia multifocale progressiva e le leucodistrofie in cui la degenerazione mielinica è secondaria ad un difetto genetico primitivo della mielina stessa. Saranno anche escluse tutte le malattie in cui una qualunque causa determina una degenerazione mielinica, secondaria ad un danno del soma o dell'assone del neurone, come ad esempio accade nei traumi cranici o nelle malattie cerebrovascolari. Più rare sono le condizioni in cui la sofferenza del SNC, sotto forma di una demielinizzazione periassiale compare nell'ambito di una malattia sistemica o di una malattia nota. Il termine “malattie demielinizzanti” viene pertanto convenzionalmente utilizzato per individuare un gruppo di malattie caratterizzate da una sofferenza della mielina secondaria ad un processo infiammatorio di probabile natura autoimmunitaria ed il cui decorso può essere cronico, come nella sclerosi multipla, o acuto, come nella encefalomielite acuta disseminata, o iperacuto, come nella encefalomielite acuta emorragica.
Sclerosi multipla Dopo i traumi cranici, la Sclerosi Multipla (SM) è la malattia più frequentemente responsabile di disabilità neurologica nell'età giovanile-adulta. Per le difficoltà di comprensione dei meccanismi eziopatogenetici, per i problemi terapeutici e il profondo impatto che ha sui pazienti e sulla loro vita, la SM rappresenta una delle malattie con cui è più difficile confrontarsi. Descritta inizialmente da Cruveilhier (1835), nel 1868 Charcot ne delineava già con precisione gli aspetti clinici e neuropatologici quali le multiple aree di demielinizzazione sparse nel SNC, con predilezione per le vie lunghe e la sostanza bianca periventricolare, midollo spinale, nervi ottici, tronco encefalico e cervelletto. Il decorso è variabile e imprevedibile, ma più spesso la malattia si manifesta con ricorrenti episodi di sofferenza focale del SNC che tendono inizialmente alla regressione spontanea, ma che con il passare del tempo sono responsabili di deficit neurologici non più reversibili. Dopo anni dall'esordio la malattia assume frequentemente un andamento progressivo, con o senza esacerbazioni. Anche se la causa è a tutt'oggi sconosciuta, la SM viene considerata, sulla base di dati clinici, di laboratorio e sperimentali, una malattia autoimmune secondaria ad una risposta diretta contro un evento “trigger”, verosimilmente un patogeno ubiquitario, che determina il riconoscimento a bassa affinità di auto-antigeni, probabilmente mielinici, da parte di linfociti T
1112 Malattie del sistema nervoso
autoreattivi che hanno eluso il processo di selezione negativa nel timo. La suscettibilità individuale dipenderebbe altresì dal “background” genetico da cui potrebbero dipendere le modalità della risposta immune, forse in relazione all'aplotipo MHC.
servare il rischio della zona di origine quando la migrazione avviene dopo il 15° anno di vita, mentre al contrario acquistano il rischio del nuovo paese di residenza quando la migrazione avviene prima del 15° anno di vita. Questi ultimi dati suggerirebbero pertanto l'esistenza di fattori ambientali che agirebbero in epoca infantile o nella prima adolescenza.
EPIDEMIOLOGIA
EZIOPATOGENESI
La SM è più frequente nel sesso femminile, essendo il rapporto femmine/maschi di circa 2:1 (variabile da 1,9 a 3,1). L'esordio è raro prima della pubertà e dopo i 65 anni, situandosi in genere fra i 20 e i 45 anni, con un picco di incidenza per età intorno ai 30 anni, anche se ben documentati sono casi in età infantile o tardivi. La prevalenza più alta è nelle isole Orcadi (300/100.000), mentre nel Nord Europa la prevalenza è intorno a circa 100 casi/100.000 abitanti. La tesi che l'Italia rappresenti una zona a rischio relativamente basso rispetto al Nord Europa è stata rivista da studi epidemiologici accurati effettuati in questi ultimi anni, che hanno permesso di evidenziare tassi di circa 50-80 casi /100.000 abitanti, collocando quindi il nostro fra i paesi ad alto rischio di malattia. La maggior parte degli studi epidemiologici ha evidenziato un rapporto fra SM e latitudine: la malattia è molto rara intorno ai tropici (dal 23 N al 23 S), e aumenta di frequenza con l'aumentare della latitudine fino a diventare comune fra il 50 e il 60 N e in minor misura fra il 50 e il 60 Sud, per poi diminuire nuovamente. Questi dati sembrano suggerire l'esistenza di fattori ambientali legati in modo particolare al “mondo occidentale”, con un gradiente di frequenza in rapporto al variare della latitudine. Tale ipotesi è stata tuttavia recentemente messa in dubbio dagli studi di genetica che hanno dimostrato un'associazione tra la distribuzione geografica e fattori genetici della popolazione. In Sardegna, per esempio, un'alta prevalenza della malattia (superiore a 100 casi/ 100.000 abitanti) si associa con un particolare aplotipo del sistema maggiore di istocompatibilità (DR4). In tal senso va interpretato il dato di una scarsa incidenza di malattia in popolazioni quali i Giapponesi, gli asiatici che vivono in Gran Bretagna, gli zingari di Ungheria, gli afroamericani degli USA, i maori della Nuova Zelanda o gli africani del Sud Africa, gruppi razziali che vivono in zone geograficamente definite ad alto rischio. Le differenze osservate nella distribuzione geografica sono quindi in gran parte dovute alle caratteristiche genetiche della popolazione anche se altri fattori, per esempio ambientali, potrebbero giustificare la presenza di epidemie di SM, documentate nelle isole Faroe dopo la seconda guerra mondiale probabilmente in seguito all'occupazione delle truppe britanniche. Inoltre, studi di migrazione hanno evidenziato che le popolazioni migranti tendono a con-
Benché la causa della SM sia tuttora ignota numerose evidenze suggeriscono la possibilità che si tratti di una malattia autoimmunitaria in cui fattori immunologici, ambientali e genetici svolgono un ruolo. In tal senso, quest'ipotesi si basa su evidenze cliniche e sperimentali che derivano da: • studi di genetica ed in particolare dall'associazione con molecole del MHC di classe II • somiglianza con il modello sperimentale animale, encefalite autoimmune sperimentale (EAS) • produzione di immunoglobuline clonali all'interno del SNC • studi immunologici su pazienti con SM • neuropatologia della placca di demielinizzazione • risposta clinica a trattamenti immunomodulanti o immunosoppressivi Fattori genetici. - L'esistenza di una suscettibilità geneticamente determinata a contrarre la malattia è avvalorata da numerosi studi su gruppi etnici, su cluster famigliari e sui gemelli: in alcune razze la malattia è rara, mentre in altre, in particolare nella razza caucasica, è particolarmente frequente; è nota la possibilità di casi familiari, supportata dal fatto che il rischio di contrarre la malattia è più alto nei fratelli di soggetti con SM e gradualmente diminuisce nei figli e più ancora nei cugini. Si può ritenere che per i parenti di primo grado esista un rischio di circa l'1-3% di contrarre la malattia rispetto al rischio di 1/1000 -2000 nella popolazione generale. Studi su gemelli hanno rilevato una concordanza per la presenza di SM tra il 25 ed il 30% nei monozigoti, contro il 25% nei dizigoti. Il concetto di ereditarietà per questa malattia non è basato sull'ipotesi di un singolo gene causale, ipotesi in contrasto con le stime di concordanza famigliare e con l'osservazione di una riduzione non lineare del rischio nei soggetti geneticamente più lontani dal probando. È probabile invece che la suscettibilità sia determinata da molteplici loci indipendenti l'uno dall'altro (ereditarietà poligenica), ciascuno dei quali contribuisce in modo limitato al rischio complessivo. Studi di linkage e di associazione hanno indicato il complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) sul cromosoma 6 come uno dei determinanti genetici della SM. Questo complesso codifica per gli antigeni di istocompatibilità
Malattie demielinizzanti 1113 (sistema HLA) che presentano gli antigeni proteici ai linfociti T. Gli antigeni di classe II sono stati più frequentemente associati alla malattia ed in particolare, nella popolazione caucasica, gli aplotipi DRB1 *1501, DQA1 * 0102, DQB1 * 0602 dell'allele DR2. In altre razze tuttavia la malattia è associata a differenti aplotipi HLA, quali ad es., in Sardegna, l'HLA-DR4 e DQW3. È stata riportata inoltre un'associazione fra la malattia e alcuni loci della catena Vb del recettore del linfocita T sul cromosoma 7, delle immunoglobuline sul cromosoma 19 e nella popolazione finlandese ad un gene legato alla proteina basica della mielina sul cromosoma 18. Agenti infettivi. - Studi epidemiologici suggeriscono la possibilità che individui con SM siano stati esposti nell'infanzia a fattori ambientali, probabilmente patogeni virali e non. Inoltre, un rischio aumentato di contrarre la malattia è stato associato con migliori condizioni socioeconomiche, cosa che potrebbe suggerire un miglioramento delle condizioni igienico sanitarie della popolazione e pertanto una ritardata esposizione a certi patogeni. Numerosi agenti infettivi sono stati correlati alla SM ma in nessuno caso si è arrivati ad una dimostrazione conclusiva di associazione. Tra i molti agenti studiati vi è il virus del morbillo, l'Epstein Barr virus (EBV), il virus Simian 5 (SV5), gli Herpes virus tra cui l'HSV6, alcuni retrovirus compreso l'HTLV1 e recentemente la Chlamydia pneumoniae. La possibilità di una origine virale della malattia è suggerita anche da studi sperimentali sull'animale. Infatti, l'infezione con alcuni ceppi virali quali per esempio il virus Theiler è in grado di provocare in alcune specie murine una forma di encefalomielite demielinizzante cronica somigliante alla SM alla cui patogenesi contribuiscono linfociti T CD8+ diretti verso l'agente infettante e le proteine mieliniche. Una forte associazione tra agenti infettivi e SM scaturisce da importanti dati ottenuti nell'EAS dove cellule autoreattive presenti nel repertorio periferico degli animali possono essere attivate attraverso un meccanismo di mimetismo molecolare tra autoantigeni e proteine microbiche o attraverso una stimolazione superantigenica. In conclusione, numerosi dati sperimentali suggeriscono la possibilità che, in soggetti geneticamente predisposti, un agente infettivo probabilmente non unico, sia in grado di scatenare una risposta autoimmunitaria a seguito di un meccanismo di mimetismo molecolare. Alla propagazione di questo meccanismo contribuirebbero poi altri fattori che amplificherebbero la risposta verso altri antigeni del SNC, provocando così un danno tissutale e la cronicizzazione della malattia (Fig. 26.1). Fattori immunologici. - Molte delle nostre conoscenze sull'immunologia della SM derivano da studi sperimentali sull'EAS, il modello animale della malattia.
L'EAS è una malattia autoimmunitaria del SNC caratterizzata da infiltrati linfo-monocitari, gliosi e, in alcune specie, da demielinizzazione e talora remielinizzazione. Il tipo di malattia dipende dalla specie e dal ceppo animale (per esempio specie “inbred”, quali i roditori utilizzati in laboratorio, animali geneticamente identici tra loro, oppure specie “outbred”, quali i primati, animali geneticamente eterogenei e quindi simili all'uomo) utilizzato e dal protocollo di immunizzazione. Tipicamente, la malattia è indotta in specie “inbred” suscettibili attraverso l'immunizzazione con omogenato mielinico o con singole frazioni proteiche quali MBP (“myelin basic protein”), MOG (“myelin oligodendrocyte glycoprotein”) e PLP (“proteolipid protein”). Tali proteine sono “processate” a livello dei linfonodi regionali e presentate da cellule (APC) professionali, quali le cellule dendritiche, a linfociti T CD4+ reattivi verso l'antigene immunogenico. Alcune di queste cellule attivate sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica (BEE) e migrare nel SNC dove riconoscono le proteine mieliniche “self” presentate nell'ambito di molecole MHC di classe II su cellule presentanti l'antigene quali macrofagi, microglia e forse astrociti. Il rilascio di citochine (IL-1, TNF-α, IL-12 ed altre ancora) e chemochine (per esempio IP-10, RANTES, MIP1a) pro-infiammatorie produce una cascata di fenomeni immunologici che inducono l'espressione di molecole di adesione sull'endotelio dei piccoli vasi capillari alterando perciò la permeabilità della BEE e richiamando una seconda ondata di linfociti T nel sito di infiammazione (Fig. 26.1). Nei roditori, durante le fasi iniziali della malattia, la risposta T è generalmente focalizzata verso un epitopo immunodominante dell'antigene mielinico ed è mediata da popolazioni linfocitarie clonali. Nelle fasi più tardive della malattia altri epitopi nell'ambito della stessa molecola e di altre molecole risultano esposte in seguito al danno tissutale e pertanto diventano il bersaglio della risposta autoimmune, un fenomeno noto come “epitope spreading”. Il ruolo patologico di questi linfociti T antigene-specifici è stato dimostrato dagli esperimenti di trasferimento passivo che hanno permesso di indurre la malattia grazie al trasferimento di cellule T da un animale malato ad un altro sano singenico. Nell'uomo così come in altri modelli animali “outbred” la risposta cellulare periferica verso le proteine mieliniche è risultata tuttavia più complessa ed eterogenea, non permettendo così l'utilizzo di quelle strategie terapeutiche atte colpire le popolazioni encefalitogeniche clonali che erano state usate con successo nei modelli “inbred”. Almeno tre possono essere le spiegazioni di questi diversi risultati tra l'uomo e le specie animali studiate. Innanzitutto le diverse caratteristiche genetiche delle specie, “outbred” i primi, “inbred” le seconde. In secondo luogo un'iniziale restrizione
ICAM
BBB
HLA DR
Linfociti Linfociti TT attivati attivati CD4 CD4
VCAM
ICAM
VCAM
M∅
HLA DR
M∅
LFA2
VLA4
1114 Malattie del sistema nervoso
IP-10 MIP-1α
IP-10 RANTES
IL-12, IL-1 MMPs
CD28/B7
TNF-α
NK
IFN-γ
TCR/Ag/MHC
Neuron
IL-10
Th1 CD4+
Microglia
Astrocita
TNF-β
Th2 CD4+
Cellula NK
IL-4 NO
TGF-β ROI
MMPs
IL-12, IL-1
CD8+
C
C C
Assone
NO
C C
TNF-α, IFN-γ
Oligodendrocita
M∅
ROI
Linfocita B
TNF-α, IFN-γ
MMPs
Figura 26.1 - Ipotesi patogenetica della sclerosi multipla Linfociti T CD4+ circolanti nel sangue periferico sono attivati da un evento "trigger", verosimilmente un patogeno ubiquitario, che ne determina la migrazione attraverso la barriera ematoencefalica. Il passaggio della barriera è mediato dall'interazione tra recettori sulle cellule endoteliali, selectine ed integrine, ed i loro ligandi sulla superficie dei linfociti. All'interno del sistema nervoso centrale avviene il riconoscimento, da parte dei linfociti attivati, di auto-antigeni mielinici presentati da macrofagi e microglia, attraverso un meccanismo di mimetismo molecolare tra la proteina mielinica e la proteina del patogeno. L'innesco della risposta autoimmunitaria comporta un aumento della permeabilità della barriera causata dal rilascio di metalloproteasi con il conseguente richiamo di nuovi linfociti dalla periferia mediato da chemochine quali RANTES, MIP-1α ed IP-10. Il propagarsi dell'infiammazione determina il coinvolgimento di nuovi attori quali i linfociti T CD8 ad azione citotossica, i linfociti B, i macrofagi, la microglia e, in minor misura, gli astrociti. L'attivazione locale di molteplici meccanismi effettori risulterà in un danno sulla guaina mielinica, sugli oligodendrociti e, in un secondo tempo anche sui neuroni, che è mediato da citochine, complemento, anticorpi specifici per antigeni mielinici, proteasi, derivati dell'ossido nitrico e radicali liberi dell'ossigeno. Il propagarsi o l'arresto della cascata autoimmune dipenderà, almeno in parte, dal bilancio netto tra stimoli pro-infiammatori rilasciati dai linfociti T helper 1, ed in minor misura da macrofagi e microglia, quali INFγ, TNF-α, TNF-β e stimoli anti-infiammatori quali per esempio TGF-β, IL-10, IL-4 prodotti dai linfociti T helper 2. Abbreviazioni: CD4: linfocita T CD4; CD8: linfocita T CD8 citotossico; M∅: macrofago; Th1: linfocita CD4 T-helper; BEE: barriera ematoencefalica; NK: cellule Natural Killer; NO: ossido nitrico; MMPs: metalloproteasi; ROI: radicali dell'ossigeno; C: complemento; TCR/Ag/MHC: complesso trimolecolare recettore linfocitario per l'antigene/antigene/complesso maggiore di istocompatibilità; CD28/B7: complesso di costimolazione; VCAM, ICAM: integrine; VLA4, LFA2: recettori per le integrine
della risposta autoimmune potrebbe andare perduta nell'uomo, specie nella quale gli studi vengono eseguiti solo dopo la diagnosi, momento probabilmente lontano dalla fase iniziale subclinica del processo autoimmune. Allo stesso modo, un'eventuale restrizione della risposta potrebbe non essere osservabile nel sangue periferico e pertanto risultare perduta per l'impossibilità di studiare “in vivo” la risposta immune nell'organo bersaglio, cioè nel SNC. L'utilizzo di primati “outbred”
(per esempio il macaco ed il marmoset) ha permesso di superare i limiti dovuti al background genetico delle specie utilizzate fornendo un modello sperimentale più simile all'uomo. Molteplici meccanismi effettori sono probabilmente alla base del danno mielinico nella EAS (Fig. 26.1). Tra questi giocano un ruolo fondamentale oltre ai linfociti T e alle cellule “Natural Killer” ad azione citotossica, anche autoanticorpi verso le proteine mieliniche, nonchè
Malattie demielinizzanti 1115 fattori solubili quali citochine, radicali liberi dell'ossigeno e fattori del complemento. Esistono dati sperimentali nell'EAS che dimostrano che la demielinizzazione richiede l'uso sinergico di anticorpi, e cellule T sensibilizzate contro antigeni mielinici. Recentemente è stato dimostrata la presenza di anticorpi anti-MOG attaccati alla mielina in fase di degenerazione nelle lesioni di soggetti con SM. L'importanza di una risposta immunitaria mediata dai linfociti B è indicata inoltre dalla presenza di immunoglobuline IgG oligoclonali, presenti nel liquor in più del 90% dei casi di SM. Un ruolo fondamentale nella propagazione e nella modulazione della risposta immunitaria nel SNC è poi svolto da un complesso network di molecole solubili chiamate citochine e chemochine. Benchè su quest'argomento nuovi dati siano continuamente segnalati dai laboratori di tutto il mondo in base a ricerche sull'animale e sull'uomo, è probabile che il risultato delle complesse interazioni tra diverse popolazioni cellulari a livello del SNC sia dovuto all'effetto netto di stimoli pro- e anti-infiammatori mediati da citochine e chemochine. Le prime sono prodotte da molte cellule del SNC (per esempio microglia ed astrociti) e praticamente da tutte le cellule del sistema immunitario. In base alla loro azione si dividono schematicamente in citochine pro-infiammatorie, quali ad esempio l'interferone gamma (IFN-γ) e il tumor necrosis factor alfa (TNF-α) e citochine antiinfiammatorie, quali l'interleuchina 4 (IL-4), il IL-10 ed il tumor growth factor beta (TGF-β). L'utilizzo di strategie sperimentali atte a bloccare l'azione pro-infiammatoria di alcune citochine o di potenziare l'azione anti-infiammatoria di altre ha permesso di trattare con successo l'EAS. Molte di queste terapie sono ora in fase di studio nell'uomo. Le maggiori difficoltà nell'utilizzo di queste molecole derivano dalla loro azione sistemica che comporta effetti spesso indesiderati su altri organi, e nella loro grande ridondanza biologica per cui lo stesso effetto viene mediato da molteplici citochine rendendo così scarsamente efficace l'intervento sulla singola sostanza. L'utilizzo di tecnologie, quali la terapia genica, atte a rilasciare la molecola desiderata direttamente nel SNC potrebbe risolvere, almeno, in parte questi problemi. Recentemente l'attenzione si è concentrata sulle chemochine, una popolazione eterogenea di sostanze capaci di regolare l'attivazione e le migrazione di cellule immunocompetenti. In particolare, è stato osservata la presenza di alcune chemochine quali RANTES e IP-10 nelle placche di animali con EAS e di soggetti con SM. Analogamente, le cellule infiltranti le lesioni esprimono i recettori per tali chemochine, rispettivamente CCR5 e CXCR5. L'utilizzo di molecole in grado di bloccare l'interazione tra chemochina ed il suo ligando potrebbe essere utilizzata a scopo terapeutico per impedire la migrazione di cellule patogeniche dalla periferia al SNC.
NEUROPATOLOGIA La malattia si caratterizza per la presenza di numerose aree di demielinizzazione nella sostanza bianca o placche. Al taglio dell'encefalo le placche di antica data hanno un'aumentata consistenza, bordi ben delimitati e un colorito grigiastro, mentre le placche più recenti hanno una diminuita consistenza e un colorito più roseo del tessuto circostante. Le placche sono preferenzialmente distribuite intorno ai ventricoli laterali, al pavimento dell'acquedotto e al quarto ventricolo, anche se talvolta possono avere sede sottocorticale o sconfinare in parte nella sostanza grigia. Il corpo calloso, i nervi ottici, il tronco cerebrale sono costantemente interessati, così come il midollo spinale, specie nel suo tratto cervicale, con aree di demielinizzazione distribuite nelle colonne dorsali, nelle regioni subpiali e intorno al solco anteriore. Istologicamente le placche sono rappresentate da aree di demielinizzazione con un variabile grado di infiltrazione cellulare, perdita di oligodendrociti, astrogliosi reattiva, variabile nella sua intensità a seconda della fase di evoluzione (Fig. 26.2). Le lesioni precoci sono caratterizzate da un infiltrato infiammatorio perivascolare, formato da linfociti T e B, plasmacellule cui segue la comparsa di macrofagi che iniziano ad aggredire la guaina mielinica. Gli oligodendrociti, nelle fasi iniziali, possono proliferare, verosimil-
Fig. 26.2 - Placca di grosse dimensioni che circonda il corno occipitale del ventricolo laterale (Colorazione Spielmeyer).
1116 Malattie del sistema nervoso mente nel tentativo di ricostruire la mielina e riparare la lesione, in alcuni casi con successo e parziale remielinizzazione (placca ombra). Con il passare del tempo, al centro della placca gli oligodendrociti e la mielina scompaiono completamente, gli astrociti proliferano ed iniziano a formare un denso intreccio di processi fibrillari cicatriziali, i macrofagi carichi di detriti mielinici si dispongono a sede perivascolare, mentre ai margini della lesione si osserva un bordo attivo ipercellulare formato da astrociti, linfociti, cellule mononucleate, macrofagi, responsabili della progressione centrifuga della lesione. Nelle fasi più tardive la placca diventa inattiva e si trasforma in una cicatrice nettamente demarcata dal tessuto circostante, nell'ambito della quale si evidenzia una densa gliosi fibrillare, una completa perdita di oligodendrociti con associata perdita assonale. In tale fase gli infiltrati infiammatori sono molto modesti. Il danno assonale tuttavia non caratterizza solo le placche più vecchie ma è presente anche nelle lesioni acute, come dimostrato recentemente, ed è probabilmente secondario agli stessi meccanismi infiammatori che inducono demielinizzazione. Dal punto di vista immunoistochimico macrofagi e linfociti predominano nelle placche in fase attiva. Cellule T α/β CD4+ ed in minor misura CD8+, linfociti γ/δ, B e plasmacellule sono riconoscibili negli infiltrati perivascolari. I macrofagi sono numericamente le cellule più rilevanti nelle placche. Recenti studi di microscopia elettronica hanno permesso di visualizzare i macrofagi nell'atto di distruggere la mielina attraverso un meccanismo che, almeno in parte, è mediato da anticorpi specifici per proteine mieliniche quali la MOG e dalla liberazione di fattori solubili quali l'ossido nitrico (NO) ed altri radicali liberi dell'ossigeno. Grande attenzione è stata dedicata all'identificazione delle cellule che esprimono gli antigeni di istocompatibilità di I e II classe, poichè attraverso tali molecole le cellule immunocompetenti presentano le proteine mieliniche alle cellule T e sono quindi in grado di innescare e propagare nel tempo una risposta autoimmune. La microglia attivata, i macrofagi e particolari cellule a disposizione perivascolare esprimono molecole HLA-DR, mentre solo più raramente lo fanno le cellule endoteliali e gli astrociti. Recenti studi hanno dimostrato che in talune circostanze anche i neuroni danneggiati e pertanto elettricamente inattivi sono in grado di esprimere antigeni di classe I. La presenza a livello del SNC di cellule con capacità di presentare l'antigene (APC) “professionali”,quali le cellule dendritiche, è tuttora discusso. Alcune varianti della SM, che si caratterizzano per la presenza di un particolare decorso clinico e per peculiari alterazioni neuropatologiche, sono da molti anni conosciute e rappresentano varianti anatomo-cliniche. Nella SM acuta di Margburg, la sintomatologia ha un decorso
tumultuoso della durata di pochi mesi e le alterazioni neuropatologiche consistono in marcati infiltrati infiammatori con edema ed estesa distruzione assonale, espressione dell'acuzie e della gravità del processo infiammatorio. Nella neuromielite ottica, descritta da Devic, le lesioni interessano i nervi ottici e il midollo spinale. L'esordio è acuto e il decorso rapidamente ingravescente, anche se è possibile in alcuni casi un recupero. Sul piano neuropatologico la neuromielite ottica dimostra una maggiore gravità del processo infiammatorio, che può portare ad una distruzione tissutale con necrosi midollare. Nella sclerosi diffusa di Schilder, che colpisce soggetti in età infantile, la demielinizzazione è estesa e interessa diffusamente la sostanza bianca degli emisferi cerebrali, del tronco, e del cervelletto, e non deve essere confusa con le leucodistrofie, e in particolare con la adrenoleucodistrofia. Clinicamente si manifesta con segni di ingravescente compromissione diffusa e focale del SNC. Nella sclerosi concentrica di Balò zone di demielinizzazione si alternano a zone di normale mielinizzazione, assumendo spesso una disposizione concentrica. Tale variante della SM ha spesso, ma non costantemente, un decorso rapidamente evolutivo.
DEMIELINIZZAZIONE, DANNO ASSONALE E CONDUZIONE NERVOSA
La mielina è formata dai concentrici avvolgimenti della membrana plasmatica degli oligodendrociti lungo l'assone ed ha la funzione di isolare l'impulso nervoso che si propaga rapidamente dal corpo cellulare lungo l'assone, passando da un nodo di Ranvier al successivo con modalità saltatoria. Studi sperimentali hanno dimostrato che la demielinizzazione ha importanti effetti sulla conduzione nervosa. Nelle fibre demielinizzate la conduzione saltatoria non è più possibile e l'impulso nervoso procede con più lentezza, per propagazione continua o viene cortocircuitato nelle aree denudate dell'assone. Il rallentamento della conduzione nervosa nella via piramidale è responsabile della fatica, costantemente presente nei malati di SM, e il blocco della conduzione nervosa della perdita di funzione. Gli assoni demielinizzati diventano sensibili a fattori ambientali quali l'aumento della temperatura che peggiora la conduzione nervosa, le variazioni metaboliche del “milieu” extra-cellulare e gli stimoli meccanici, con comparsa di potenziali di azione improvvisi dovuti, ad es., alla flessione del capo, come nel fenomeno di Lhermitte, o con spasmi tonici secondari al movimento. La demielinizzazione può inoltre generare impulsi ectopici, all'origine del fenomeno di trasmissione efaptica tra assoni demielinizzati contigui. Tali meccanismi di conduzione anomala sono alla base di fenomeni parossistici sensitivi o motori, quali la nevral-
Malattie demielinizzanti 1117 gia trigeminale, le parestesie, le contrazioni muscolari toniche prolungate. Nelle fasi acute ed iniziali della malattia la presenza di infiltrati infiammatori, edema e demielinizzazione sono responsabili di una sofferenza assonale che trova riscontro in una perdita di funzione che può essere parzialmente recuperata con la regressione dell'infiammazione, l'utilizzo di vie di conduzione alternative ed attraverso un tentativo di rimielinizzazione. A tale condizione fisiopatologica corrisponde probabilmente la fase clinica di malattia caratterizzata da ricadute e remissioni. La cronicizzazione della lesione implica un processo di tipo gliotico cicatriziale, a cui corrisponde una marcata riduzione della componente infiammatoria e si associa ad una sofferenza duratura dell'assone cui segue un danno cellulare irreversibile. Al danno assonale corrisponde la mancata regressione dei sintomi e la stabilizzazione del deficit neurologico ovvero la fase cronicoprogressiva della malattia.
SINTOMATOLOGIA I sintomi iniziali sono variabili, a seconda della sede lesionale, ma alcuni sintomi ricorrono più frequentemente, poiché le aree di demielinizzazione si distribuiscono in sedi preferenziali. I disturbi si manifestano e raggiungono il loro acme in poche ore o in alcuni giorni. Nella maggior parte dei casi il sintomo iniziale è un'ipostenia ad uno o più arti (40% dei casi), una neurite ottica (22%), un disturbo soggettivo della sensibilità (tipo parestesie e disestesie) (21%), diplopia, vertigine o disturbi della minzione. Tali sintomi possono comparire isolatamente (esordio monosintomatico) o in associazione (esordio polisintomatico). I disturbi iniziali tendono nella maggior parte dei casi a regredire dopo un periodo di tempo variabile ed in seguito possono ripresentarsi o possono comparire altri sintomi e segni di sofferenza focale del SNC. Virtualmente ogni sintomo può rappresentare l'esordio così come verificarsi successivamente nel corso della malattia. Poche malattie sono così variabili ed imprevedibili come la SM, e diversi per ogni singolo caso saranno l'età di esordio, il sintomo iniziale, la frequenza delle ricadute, il decorso della malattia, la disabilità e la sua progressione. Nei casi avanzati, tuttavia, i disturbi motori, la spasticità,
l'atassia, le turbe della sensibilità, i deficit visivi e le turbe sfinteriche sono pressoché costantemente presenti. Disturbi piramidali. - L'interessamento del sistema piramidale con conseguente ipostenia e spasticità, localizzata ad uno o più arti, è un evento costante e rappresenta una importante causa di disabilità. Al suo esordio la compromissione piramidale si può manifestare con varie modalità, talvolta in maniera insidiosa, con una ipostenia agli arti inferiori, molto spesso solo dopo affaticamento o lunghe camminate, e tendenza al recupero dopo un periodo di riposo, altre volte in maniera subacuta con una paraparesi o emiparesi. L'ipostenia colpisce più spesso gli arti inferiori, in genere in maniera asimmetrica, o un solo arto inferiore o un emilato corporeo; meno frequente è la compromissione isolata di un arto superiore e rara quella isolata di ambedue gli arti superiori. L'obiettività neurologica evidenzia oltre all'ipostenia anche la presenza di riflessi osteotindinei vivaci o policinetici, riflessi patologici quali l'Hoffmann e il fenomeno di Babinski, clono del piede e più raramente della rotula; i riflessi addominali sono diminuiti o aboliti, spesso precocemente. In alcuni casi la spasticità agli arti inferiori può essere utilie per mantenere la stazione eretta e per camminare, ma in altri casi, specie quando l'arto inferiore è iperesteso e il piede flesso plantarmente, può al contrario impedire la marcia. In rari casi, quando la lesione interessa l'ingresso delle radici posteriori o anche la bianca adiacente le corna posteriori o anteriori, i riflessi profondi possono essere diminuiti o aboliti e possono comparire segni di atrofia muscolare. La fatica. - La fatica è un sintomo molto comune (circa l'80% dei soggetti) e la maggior parte dei pazienti si lamenta di un eccessivo affaticamento che compare anche dopo limitate e banali attività: tale disturbo, di notevole importanza pratica, correla con la presenza di una
1118 Malattie del sistema nervoso
compromissione della via piramidale, come dimostrato dagli studi del tempo di conduzione centrale. La fatica deve essere distinta dai più frequenti sintomi associati alla depressione. Disturbi della sensibilità. - Sono spesso il sintomo di esordio e la loro comparsa lungo il corso della malattia è costante. Sono dovuti a lesioni dei cordoni posteriori, delle vie spino-talamiche o delle zone d'ingresso delle radici posteriori, e vengono descritti dai pazienti come sensazione di “intorpidimento”, di “carne morta”, di formicolio, di fasciatura, di gonfiore, ecc. La sede dei disturbi sensitivi è la più varia: spesso iniziano ad un piede, per poi interessare l'altro piede e propagarsi ai settori prossimali degli arti inferiori, al perineo e all'addome; talvolta sono interessate una o ambedue le mani, con una sensazione come “avere i guanti”; in altri casi ancora una lesione al midollo sacrale è responsabile di una ipo-anestesia perineale con associata perdita della sensazione del passaggio di urine e feci o, in caso di lesione a livello del midollo toracico, di una sensazione di “cintura” o di “corsetto che stringe” al torace. Il dolore somatico non è un sintomo raro e spesso è erroneamente sottovalutato. Il dolore neuropatico ha spesso un andamento parossistico come, ad esempio, nel caso della nevralgia trigeminale e degli spasmi tonici dolorosi notturni. In altri casi il dolore, per esempio lombare, è dovuto ad una abnorme postura o ad ipertonia della muscolatura dorso-lombare. Sensazioni dolorose di stiramento agli arti inferiori, sono più frequenti durante le ore notturne e si associano con la spasticità. All'esame obiettivo, specie nelle fasi iniziali, non si evidenziano marcate alterazioni, ma il paziente può avvertire lo stimolo tattile o termico o dolorifico come “diverso” e “lontano” o fastidioso. Nelle fasi più avanzate residuano spesso parestesie e disestesie alle dita delle mani e dei piedi, ipoestesia distale agli arti inferiori e molto frequentemente si evidenzia una compromissione delle sensibilità profonde, e in particolare della pallestesia agli arti inferiori.
Disturbi cerebellari. - Non sono un sintomo frequente all'esordio, ma diventano comuni successivamente. I sintomi ed i segni cerebellari hanno una scarsa tendenza alla regressione e quando aprono la malattia hanno un cattivo significato prognostico. Il tremore intenzionale e la dismetria agli arti sono particolarmente invalidanti, sono scarsamente sensibili alle terapie sintomatiche, e causano grave disabilità e importante limitazione dell'autonomia. La disartria cerebellare, poco frequente all'inizio della malattia, non è rara nelle fasi più tardive così come l'andatura atasso-spastica che è un sintomo pressochè costante nel corso della malattia. Il nistagmo può essere espressione di lesione delle vie cerebellari o delle vie internucleari nel tronco encefalico. Nervo ottico. - Il nervo ottico è particolarmente vulnerabile: una neurite ottica è il sintomo d'esordio nel 22% dei casi. Il rischio che una neurite ottica evolva in SM clinicamente definita aumenta progressivamente con il passare degli anni fino a diventare circa il 50% a 10 anni. Il riscontro al momento della diagnosi di una RM encefalica positiva, aumenta la possibilità di conversione in malattia conclamata. Nella maggior parte dei casi di SM di lunga durata una compromissione del nervo ottico, anche clinicamente non manifesta, si può evidenziare con l'allungamento di latenza dei potenziali evocati visivi (PEV). La neurite ottica, in genere unilaterale, raramente bilaterale, è spesso associata o preceduta da dolore sopraorbitario o del globo oculare, aggravato dai movimenti oculari. Il calo della acuità visiva è spesso rapido ed i pazienti riferiscono di avere la vista “annebbiata” o di vedere come attraverso un vetro “appannato” o “smerigliato”. Il calo della vista è variabile, da pochi decimi fino, raramente, alla completa cecità, e non è correggibile con lenti. L'esame del fundus oculare può evidenziare una papilla ottica normale nella neurite ottica retrobulbare, o una sfumatura dei margini papillari (papillite) quando è colpita la
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porzione anteriore del nervo ottico. Successivamente la papilla ottica diventa pallida, specie nei margini temporali, anche quando il recupero è completo. Una papilla ottica pallida e atrofica è di comune riscontro nei casi avanzati di SM. L'esame del campo visivo evidenzia in genere uno scotoma centrale, poiché è colpita la parte centrale del nervo ottico ove decorrono le fibre di origine maculare; talvolta il deficit campimetrico può essere più ampio e presentare difetti parziali. Il fenomeno di Uhthoff si caratterizza per una diminuzione dell'acuità visiva con l'aumento della temperatura corporea, che segue un esercizio fisico o la comparsa di febbre, ed esprime il peggioramento della conduzione nervosa nelle fibre demielinizzate, secondario all'elevazione della temperatura corporea. Il recupero, dopo una neurite ottica, è lento e variabile e talora permangono esiti, come una diminuita sensibilità ai colori. Il chiasma e le vie ottiche sono frequenti sedi di demielinizzazione, ma deficit campimetrici quali emianopsie sono rari. Nervi oculomotori. - Una lesione del VI, del III o più raramente del IV nervo cranico può essere responsabile dell'insorgenza di diplopia, spesso a decorso favorevole. Più frequente è la paralisi internucleare, che si manifesta con un deficit della adduzione e nistagmo orizzontale nell'occhio abdotto, dovuta a una lesione del fascicolo longitudinale mediale. La paralisi internucleare è caratteristica, anche se non patognomonica, della SM. Altri nervi cranici. - Una nevralgia trigeminale non è evento infrequente e quando insorge in un individuo di età inferiore ai 50 anni, soprattutto se associata ad un disturbo obiettivo delle sensibilità, deve comunque far pensare alla possibilità di un origine demielinizzante. È causata da una lesione della zona di ingresso del nervo trigeminale nel ponte, ma anche da placche interessanti i tratti trigeminali discendenti o il nucleo del trigemino. Ipoestesia e disestesie nel territorio trigeminale possono es-
sere associate. Una paralisi periferica del facciale e talvolta miochimie in tale territorio sono possibili e indicano l'esistenza di una lesione intratroncale. Vertigini soggettive possono comparire nel 30% dei casi così come un'ipoacusia, espressione di un interessamento delle vie cocleari del nervo acustico, spesso con scarsa tendenza alla guarigione. Il nistagmo è frequente, tende a persistere e può essere pendolare, fasico o tonico e spesso è associato a sintomi cerebellari. Nei soggetti con estese lesioni troncali e nelle fasi tardive della malattia riso e pianto spastico possono essere presenti. Disturbi affettivi e cognitivi. - La depressione è un sintomo frequente. In effetti la profonda e totale modificazione della vita, la consapevolezza di essere affetto da una malattia progressivamente invalidante, l'assenza di terapie capaci di modificare in modo significativo il decorso, l'incertezza del futuro, il timore di dovere dipendere da altri in un periodo di tempo non lontano, rendono ampiamente conto della frequenza di disturbi depressivi. La depressione è quindi, nella maggior parte dei casi, di tipo “secondario”. Aree di demielinizzazione a sede periventricolare e localizzate nella sostanza grigia possono essere responsabili di veri e propri disturbi cognitivi, recentemente evidenziati e valorizzati: la memoria, l'attenzione visuo-spaziale, la capacità di calcolo, possono essere compromesse; un vero deterioramento mentale non è frequente, salvo in alcuni casi di malattia in fase avanzata. In certi casi può essere presente un' euforia inadeguata, espressione di una compromissione psicorganica. Episodi psicotici maniacali, anche al di fuori della terapia steroidea, o turbe dissociative, sono stati descritti, e possono in alcuni rari casi essere il sintomo d'esordio della malattia. Disturbi sfinterici e sessuali. - Molto frequenti sono i disturbi sfinterici: la minzione imperiosa è spesso sintomo precoce e talora si associa ad incontinenza; in altri casi è presente
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difficoltà ad iniziare il mitto con incapacità a svuotare la vescica e conseguente residuo urinario da cui derivano frequenti infezioni delle vie urinarie. Nei casi avanzati i disturbi della minzione sono di tipo misto. Un rallentato transito intestinale è comune ed è scarsamente sensibile alle usuali terapie. Frequente è il rilievo di turbe sessuali, con diminuizione della libido o vera e propria impotenza, dovute a lesioni dei centri spinali, anche se aspetti psicologici e depressivi sono un'importante concausa. Altri sintomi. - Molto caratteristici, anche se non particolarmente frequenti, sono i "sintomi parossistici", che si manifestano con un esordio improvviso, ripetizione del sintomo con le stesse caratteristiche a breve distanza di tempo, spesso scatenati da movimenti o da stimoli sensitivi. Fra questi sono: il “segno di Lhermitte” consistente nell'improvvisa comparsa di una sensazione a tipo “scossa elettrica” per flessione o più raramente estensione del capo, con irradiazione lungo la schiena fino agli arti inferiori o più raramente agli arti superiori; la “nevralgia trigeminale”, con caratteristiche simili a quella idiopatica, ma ad insorgenza più precoce; le crisi di disartria e atassia parossistica, brevi attacchi della durata di 20-30 secondi, ripetentisi ogni 30-60 minuti, di disartria o di turbe della coordinazione, in genere localizzate agli arti inferiori; contrazioni toniche, con assunzioni di una postura in flessione all'arto superiore e in estensione all'arto inferiore, spesso precedute da sintomi sensitivi, scatenate dai movimenti, della durata di 1 o 2 minuti; dolori improvvisi o parestesie interessanti il volto o uno degli arti. Tali sintomi parossistici sono in genere l'espressione di una lesione troncale o, come nel caso del “segno di Lhermitte”, del midollo cervicale, durano per un periodo di tempo variabile, da alcuni giorni ad alcuni mesi, e tendono a regredire spontaneamente o con terapia sintomatica. In generale si può dire che, proprio per le caratteristiche di disseminazione
spaziale delle placche, numerosi altri sintomi neurologici si possono riscontrare quali: sintomi tipo “narcolessia”, per lesioni a livello ipotalamico o della sostanza reticolare; movimenti involontari patologici, quali tremore e coreoatetosi; cefalea, in genere priva di caratteristiche particolari; crisi convulsive generalizzate o parziali, per altro ben controllate dalla terapia. Raro è l'interessamento del sistema nervoso periferico. L'assenza di compromissione periferica in una malattia in cui il bersaglio è la guaina mielinica, presente nel SNC e SNP, può sorprendere. È probabile che le differenze strutturali nella composizione proteolipidica della mielina periferica e centrale giochi un ruolo nella diversa suscettibilià al processo autoimmune. Rari casi in cui coesistono segni di sofferenza centrale e periferica sono stati segnalati, ma non è chiaro se si tratti o meno di una concomitanza casuale. È ben noto infine il rapporto tra SM ed altre malattie di origine autoimmune, quali le tiroiditi, la spondilite anchilosante, il diabete mellito di tipo I, anche se tali associazioni non sono per la verità più numerose di quelle prevedibili. L'associazione con l'uveite è stata raramente segnalata, ma i possibili motivi della presenza contemporanea di uveite e SM sono ancora oscuri. ESAMI COMPLEMENTARI La diagnosi si basa sui dati clinici e in particolare sulla disseminazione temporale e spaziale dei disturbi e dei segni neurologici. La necessità di una diagnosi certa ha assunto una rilevanza particolare in questi ultimi anni di fronte alla possibilità di utilizzare precocemente terapie capaci di modificare il decorso naturale della malattia. Tuttavia, in assenza di caratteristiche cliniche patognomoniche o di un esame di laboratorio definitivo, la SM rimane in ultima analisi una diagnosi di esclusione basata su indagini paracliniche. Analisi del liquor cerebro-spinale. - Benchè in molti paesi sia considerata una indagine non
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più necessaria a fronte di una documentazione neuroradiologica probativa, l'analisi del liquor a nostroavviso fornisce a tutt'oggi dati indispensabili alla diagnosi. Sebbene vi possa essere un modesta pleiocitosi fino ad un massimo di 50 cellule/mm3, nella maggior parte dei casi il numero di cellule, prevalentemente mononucleati, è normale (1-5 cellule/mm3). Il reperto più frequente è l'aumento delle immunoglobuline liquorali che testimonia una sintesi intratecale di IgG e in minor misura di IgA e IgM. Tale reperto risulta da un aumento dell'indice di Link, un semplice rapporto matematico che misura le immunoglobuline rispetto all'albumina del liquor. La prova più sicura per evidenziare una risposta umorale nel SNC è tuttavia il riscontro, mediante isoelectrofocusing o immunoblot, di bande oligoclonali di IgG su liquor, dimostrabile in circa il 95% di pazienti con SM. Tali bande rappresentano verosimilmente una risposta cellulare B aspecifica diretta contro un ampio pannello di antigeni, espressione di una generica attivazione immunitaria. La presenza di bande oligoclonali non è tuttavia specifica della SM, osservandosi anche in altre malattie infiammatorie a carico del SNC, quali, ad esempio, l'infezione da HIV o la malattia di Lyme. Potenziali evocati - Il rallentamento della conduzione nervosa, dovuto alla perdita della guaina mielinica, può essere dimostrato dai potenziali evocati, ottenuti dalla stimolazione delle vie visive, uditive, somatosensoriali o della via motoria centrale. Il difetto di conduzione si evidenzia come un aumento della latenza mentre l'ampiezza del potenziale è in genere invariata. I potenziali evocati permettono il riconoscimento di una lesione subclinica, in sedi diverse da quelle clinicamente evidenti, e possono dimostrare quindi la disseminazione spaziale della malattia. In un paziente con una paraparesi, ad esempio, il rallentamento della conduzione nelle vie visive dimostra l'esistenza di una compromissione di almeno due sistemi, e quindi almeno due sedi lesionali. I potenziali
evocati visivi (PEV) sono alterati circa nel 90% dei pazienti con una storia clinica di neurite ottica e in più dei 2/3 dei casi definiti di SM, anche in assenza di una precisa storia clinica di turbe visive. I potenziali evocati somestesici (PES), espressione della conduzione nei cordoni posteriori del midollo, sono rallentati circa nel 70-90% dei casi. I potenziali evocati uditivi hanno una minor percentuale di positività, pari a circa il 50% dei casi. Il tempo di conduzione centrale della via motoria esprime il grado di integrità del fascio piramidale. I potenziali evocati hanno inoltre una loro particolare importanza nell'evidenziare una compromissione di vie nervose in casi dubbi, in cui l'organicità o la funzionalità dei disturbi appare incerta. Neuroimmagini. - La TC è stata diffusamente utilizzata negli anni ’70, sia per escludere altre possibili cause di malattia, sia perché può evidenziare ipodensità parenchimali, specie nei casi di lesioni estese e confluenti. In seguito è stata completamente soppiantata dall'uso della risonanza magnetica nucleare (RM). La RM e le tecniche correlate rappresentano la metodica più sensibile, benchè scarsamente specifica, per definire la diagnosi e monitorare l'evoluzione della malattia. La capacità della RM di visualizzare lesioni clinicamente asintomatiche ha condotto all'uso di questa tecnica per documentare la disseminazione spaziale delle lesioni in pazienti con sintomi altamente suggestivi di SM. Nelle sequenze in densità protonica/T2 si evidenzia tipicamente la presenza di aree iperintense nella sostanza bianca degli emisferi cerebrali. Nelle immagini in DP/T2, alcuni criteri aumentano sensibilmente l'accuratezza della diagnosi. Tra questi la presenza di aree periventricolari, di lesioni in fossa cranica posteriore e nella corona radiata sopra il corpo calloso, di lesioni di diametro > 6mm. In T1 è possibile riscontrare aree ipointense che identificano placche croniche; al contrario, lesioni acute visibili in DP/T2 spesso non sono visualizzabili in T1. Le lesioni visualizzate in T1 appaiono
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come “buchi neri” (“black holes”) nella sostanza bianca e correlano parzialmente con la disabilità e con la progressione della malattia soprattutto nelle forme secondariamente progressive, essendo il deficit neurologico espressione di marcata demielinizzazione, perdita assonale e gliosi. L'utilizzo di un mezzo di contrasto paramagnetico (gadolinio) nelle sequenze T1, permette di evidenziare lesioni attive, espressione di un aumento della permeabilità della barriera emato-encefalica e misura di attività di malattia. Le lesioni che assumono contrasto possono presentare un “enhancement” omogeneo o ad anello. Il numero e la dimensione delle lesioni “enhancing” è variabile e dipende dalla dose di gadolinio somministrata essendo la tripla dose in grado di aumentare grandemente la sensibilità dell'esame. La RM con mezzo di contrasto, effettuata frequentemente, ha rivelato che la malattia è attiva anche quando clinicamente silente e possiede una sensibilità di circa 10-15 volte maggiore rispetto alle semplice osservazione clinica (Fig. 26.3). L'avvento di metodiche sempre più sofisticate ha permesso una cor-
relazione sempre più stretta tra clinica e RM. Per esempio, la quantità totale di lesioni dell'encefalo e l'atrofia del corpo calloso correlano abbastanza bene con alterazioni neuropsicologiche. Meno evidente è la correlazione tra RM e disabilità fisica anche se l'atrofia del midollo spinale correla con la progressione di malattia. Inoltre, il numero di lesioni ed il carico lesionale all'esordio di malattia è in grado di predire la conversione in SM clinicamente definita ed il grado di compromissione clinica dopo 10 anni di malattia. La possibilità di eseguire indagini RM sull'encefalo di soggetti appena deceduti ha permesso di documentare una marcata correlazione tra singole lesioni e reperti alle neuroimmagini. Ciò nonostante le immagini convenzionali, come le sequenze T2 pesate, non sono in grado di distinguere tra iperintensità dovute ad infiammazione, edema, demielinizzazione, danno assonale o gliosi. L'avvento di nuove metodiche ha fornito nuovi mezzi per indagare questi eventi fisiopatologici. Tra le nuove tecniche sono da menzionare il “magnetization transfer” o MT, la spettroscopia, la misura dell'atrofia
Correlazione tra MRI e decorso clinico nella SM Fase preclinica
Remittente-recidivante
Secondaria progressiva
Decorso clinico
Atrofia assonale
Soglia clinica Attività di malattia in RM
1 2
4
5
8
6
Numero di lesioni
Carico lesionale in RM
Figura 26.3 - Correlazione tra RM encefalica e decorso clinico. Nella figura viene arbitrariamente illustrato il rapporto tra il numero di lesioni, l'area totale delle lesioni (carico lesionale) riscontrabili alla RM, l'atrofia assonale ed il decorso clinico.
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cerebrale e più recentemente la tecnica di “diffusion” e la risonanza magnetica funzionale. Il 'MT misura lo scambio di magnetizzazione tra protoni legati alle macromolecole e protoni liberi. Fattori che influenzano l'equilibrio tra i due pool di protoni modificano il MT e pertanto influenzano il rapporto (MTR o “magnetization transfer ratio”) tra l'intensità di segnale di immagini ottenute con o senza un impulso di radiofrequenze. L'edema e l'infiammazione che determinano un aumento del pool di protoni liberi, causano una riduzione del 3-5% del'MTR. La demielinizzazione, il danno assonale e, più in generale, le lesioni che recano danno in modo sostanziale alla struttura del parenchima, riducono in modo più marcato il'MTR. Il'MTR è pertanto in grado di documentare l'eterogeneità delle lesioni e addirittura di evidenziare un'alterazione di segnale nella sostanza bianca apparentemente normale. La spettroscopia in RMN misura i metaboliti tissutali e quindi le le modificazioni biochimiche del tessuto patologico e normale. È possibile identificare quattro principali picchi di risonanza: quello del N-acetilaspartato (NAA) presente esclusivamente nei neuroni, quello della colina che misura i fosfolipidi di membrana, ed i picchi della creatina e del lattato. Una riduzione del NAA è indicativa di danno assonale e correla con la disabilità clinica mentre un aumento della colina suggerisce una danno della guaina mielinica. Sulla base delle metodiche più tradizionali schematicamente si può immaginare che l'evoluzione di una singola lesione inizi con l'alterazione della barriera emato-encefalica, che si associa a presa di contrasto, seguita dalla comparsa di una lesione infiammatoria visibile in DP/T2 e nelle immagini T1 senza contrasto. La risoluzione della componente infiammatoria esita in un'iperintensità nelle immagini DP/T2 talora associata alla presenza di “buchi neri” in T1. Tali lesioni, inizialmente stabili, possono poi aumentare di volume, presentando aspetti confluenti ed eventualmente assumere nuovamente contrasto come segno di riattivazione infiammatoria.
L'utilizzo e l'elaborazione di tecniche sempre più sofisticate permetterà una più accurata documentazione del danno. DIAGNOSI Si basa sulla presenza anamnestica di almeno due episodi di sofferenza focale del SNC, sul riscontro obiettivo di almeno due diverse sedi di compromissione della sostanza bianca o delle vie lunghe di connessione, su un decorso a ricadute o cronico progressivo da almeno 6 mesi, sull'età di esordio, in genere fra i 15 e i 50 anni, e sulla esclusione di altre possibili cause di malattia neurologica. I dati clinici sono essenziali e spesso sufficienti per una diagnosi di certezza, ma gli esami complementari, quali i potenziali evocati e la RM, capaci di evidenziare sedi lesionali clinicamente silenti, e l'esame del liquor, che dimostra una sintesi di IgG oligoclonali, sono necessari per convalidare il giudizio clinico. Nella tabella 26.1 sono riportati i criteri diagnostici clinici e di laboratorio proposti da Poser. Nella diagnosi differenziale sono da considerare innanzitutto le malattie che possono causare una sofferenza multifocale del SNC con un decorso remittente, quali ad esempio, le vasculiti sistemiche o primitivamente cerebrali, il lupus eritematoso sistemico, la malattia di Behçet, la malattia di Sjogren e la sarcoidosi. La compromissione viscerale e l'alterazione degli esami ematochimici possono essere indicativi di una malattia autoimmune sistemica. Malattie infettive, quali la neurosifilide, l'AIDS, la malattia di Lyme possono manifestarsi con una compromissione multifocale del SNC, con bande oligoclonali e sintesi intratecale di IgG, ma gli esami di laboratorio specifici permettono, in genere, di risolvere il problema. Nelle aree endemiche per la malattia di Lyme una discreta percentuale della popolazione generale ha una positività sierologica, e può quindi capitare di osservare pazienti con una storia clinica tipica di SM e con anticorpi anti-Borrelia nel siero. La compromissione del SNC in corso di malattia di Lyme è estremamente rara, e pertanto il
1124 Malattie del sistema nervoso Tabella 26.1 - Criteri diagnostici della sclerosi multipla. A. Sclerosi multipla clinicamente definita. A1 Due episodi ed evidenza clinica di due diverse e separate sedi lesionali A2 Due episodi, evidenza clinica di una sede lesionale ed evidenza paraclinica di un’altra separata lesione B. Sclerosi multipla definita da esami di laboratorio. B1 Due episodi; evidenza clinica o paraclinica di una sede lesionale; presenza di bande oligoclonali o di una aumentata sintesi intratecale di IgG all’esame del liquor B2 Un episodio; evidenza clinica di due diverse sedi lesionali; presenza di bande oligoclonali o di una aumentata sintesi intratecale di IgG all’esame del liquor B3 Un episodio; evidenza clinica di una sede lesionale e paraclinica di un’altra separata lesione; presenza di bande oligoclonali o di una aumentata sintesi intratecale di IgG all’esame del liquor C. C1 C2 C3
Sclerosi multipla clinicamente probabile. Due episodi ed evidenza clinica di una sede lesionale Un episodio ed evidenza clinica di due sedi lesionali separate Un episodio, evidenza clinica di una sede lesionale ed evidenza paraclinica di un’altra separata lesione
D. Sclerosi multipla probabile da esami di laboratorio. D1 Due episodi e presenza di bande oligoclonali o di una aumentata sintesi intratecale di IgG all’esame del liquor Nota: l’evidenza paraclinica di sedi lesionali può essere dimostrata con lo studio dei potenziali evocati, la TC, la RM o con le prove urodinamiche.
sospetto di neuroborreliosi deve essere sempre confermato dalla positività dei tests diagnostici su liquor. L' adrenoleucodistrofia si può presentare nell'età adulta con una paraparesi spastica progressiva. La malattia è legata al sesso, ma casi lievi sono stati descritti anche nelle femmine portatrici. La diagnosi può essere correttamente stabilita dal dosaggio ematico degli acidi grassi a catena lunga. La malattia di Leber, dovuta a mutazioni interessanti il DNA mitocondriale, deve essere tenuta in considerazione quando si verifichi una perdita acuta della vista con atrofia ottica bilaterale in adolescenti o giovani adulti. La familiarità e l'esame oftalmologico sono utili per indirizzare la diagnosi. Particolarmente difficile può essere la diagnosi differenziale con l'arteriopatia cerebrale autosomica dominante con infarti sottocorticali e leucoencefalopatia (CADASIL). L'ereditarietà, la frequente associazione con l'emicrania, il quadro RM rapidamente evolutivo, l'assenza di alterazioni liquorali e l'assenza di interessamento del midollo sono elementi di differenza tra le malattie.
L'esordio ictale della sintomatologia può indirizzare verso una malattia cerebrovascolare, mentre un decorso progressivo impone l'esclusione di una lesione tumorale. Nei casi con una paraparesi ingravescente le indagini di laboratorio e strumentali devono escludere mielopatie spondilogenetiche, malformazioni della cerniera atlo-occipitale, lesioni compressive intra o extramidollari, malattie carenziali. Alcune malformazioni vascolari intramidollari possono mimare la SM, presentandosi con un decorso subacuto e con remissione, e alcune mielopatie infettive, come la paraparesi spastica tropicale dovuta ad una infezione da virus HTLV1, eccezionale nel nostro paese, ma diffusa nei Caraibi, nel Sud America e nel Giappone, hanno un decorso molto simile alle forme midollari cronico progressive di SM. Va infine ricordato che spesso la diagnosi differenziale più complessa è con un disturbo psichiatrico di conversione. I dati clinici, associati alla RM e all'esame del liquor permettono nella maggior parte dei casi una diagnosi certa. L'errore attualmente più frequente è quello di porre una diagnosi sulla base
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della RM, esame di alta sensibilità ma non specifico, in soggetti in cui la storia e l'obiettività clinica non siano adeguate e manchi un esame del liquor cerebrospinale. DECORSO E PROGNOSI Il decorso della malattia è variabile e nel singolo caso è spesso imprevedibile anche se, in generale, le modalità di decorso più comuni e frequenti sono ben note. Nell'80% circa dei casi la malattia si presenta e procede per ricadute, con comparsa acuta e subacuta di un sintomo clinico che raggiunge il suo acme in giorni o settimane, per poi regredire parzialmente o completamente in circa 1 o 2 mesi. La minima durata di una ricaduta è convenzionalmente stabilita in 24 ore e fluttuazioni di sintomi preesistenti o la comparsa di nuovi sintomi con durata inferiore non hanno rilevanza clinica. Il secondo episodio di deficit neurologico si può verificare entro un periodo di tempo molto variabile che generalmente si aggira intorno ai 2 anni ma che in un 10-15% dei casi può durare
per molti anni configurando una forma di malattia a decorso benigno con modesta o nessuna distabilità anche dopo i 15 anni dal primo sintomo. La frequenza delle ricadute è variabile ma generalmente meno di una per anno; tendono comunque ad essere più frequenti nei primi anni della malattia per poi diminuire. L'intervallo libero fra una ricaduta ed un'altra può essere di poche settimane oppure di molti anni. Le ricadute possono guarire completamente o lasciare esiti che si sommano nel tempo. Quando la malattia ha un decorso a ricadute viene definita a “ricadute e remissioni” (SM RR). Circa il 50% dei pazienti entra nella forma “secondariamente progressiva” entro 10 anni dalla diagnosi (SM SP). Il 90% dei pazienti raggiunge tale fase dopo 25 anni dall'esordio. In alcuni individui il decorso secondariamente progressivo si associa ancora a ricadute (SM secondariamente progressiva con recidive). Circa nel 10-15% dei casi la malattia è progressiva fin dall'inizio, senza peggioramenti improvvisi (SM Progressiva Primaria o SM PP) (Fig. 26.4). L'elemento essenziale di questa forma è il peg-
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Fig. 26.4 - Tipi di decorso clinico possibili nella SM
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gioramento graduale talora con modeste fluttuazioni ma senza precedenti recidive. Se l'esordio è in età giovanile, il decorso è in genere a ricadute e remissioni, mentre se la malattia inizia più tardivamente, intorno ai 45-50 anni, si osserva spesso una lenta progressione dei disturbi, prevalentemente a carico del midollo spinale. Nel 5% dei casi il decorso è maligno fin dall'inizio, con rapida comparsa di gravi segni neurologici e compromissione dell'autonomia. Anche se è particolarmente difficile, in una malattia così imprevedibile, formulare una prognosi corretta, alcuni fattori possono essere presi in considerazione: il decorso appare più favorevole nel sesso femminile rispetto al sesso maschile, l'esordio precoce è associato ad una prognosi migliore, mentre l'esordio tardivo è spesso seguito da un decorso progressivo con rapida comparsa di disabilità. Sintomi d'esordio di tipo sensitivo e interessamento dei nervi cranici, quali il nervo ottico, sono associati ad un decorso più favorevole rispetto ai casi in cui sintomi piramidali o cerebellari segnano l'inizio della malattia. Il numero e la frequenza di ricadute nei primi anni di malattia sembra determinare una più rapida progressione verso una disabilità grave. La comparsa di un decorso di tipo progressivo riveste certamente un significato prognostico sfavorevole e l'insorgenza di una disabilità neurologica diventa probabile nel volgere di pochi anni. Circa il 50% dei casi raggiunge in 15 anni un livello tale in cui la deambulazione autonoma non è più possibile, ma necessita di appoggio uni o bilaterale. Nello stesso periodo, il 10% è costretto sulla sedia a rotelle. Ciò nonostante, le attuali terapie ed il miglioramento generale della assistenza medica hanno reso migliore la qualità della vita e ne hanno prolungato la durata che sembra essere solo lievemente ridotta rispetto alla popolazione generale.
tutto il mondo ha imposto la creazione di criteri non soltanto diagnostici ma anche valutativi, comuni tra gli operatori che trattano e gestiscono questa malattia. Di qui è nata l'esigenza di avere a disposizione, oltre che parametri paraclinici come la RM, anche scale cliniche di valutazione che permettano un confronto relativamente obiettivo di un esame neurologico tra esaminatori diversi, e, soprattutto, il confronto delle condizioni cliniche di uno stesso paziente a distanza di tempo. L'enorme diffusione di “trials” clinici con il coinvolgimento di Centri in tutto il mondo ha fatto sì che queste scale avessero una vasta diffusione tra i neurologi. In particolare, la scala di disabilità di Kurtzke (Expanded Disability Status Scale o EDSS), benché poco sensibile, è ormai uno strumento necessario per la valutazione routinaria di qualunque paziente con SM (Tabella 26.2). La scala si basa su “Sistemi Funzionali”, per esempio “funzione piramidale”, “funzione cerebellare” etc cui viene attribuito un punteggio da 0 a 5. Sulla base dei punteggi per ciascun sistema funzionale viene quindi attribuito uno score totale che va da 0, quando il paziente è asintomatico e privo di segni patologici, a punteggi via via più alti a seconda della gravità della malattia. Il 6 è uno dei punteggi più importanti per la sua rilevanza clinica, in quanto è indicativo della perdita di autonomia clinica e della necessità di utilizzare un appoggio per deambulare. Un'altra scala di facile utilizzo è l' “Ambulation Index” che misura sostanzialmente le capacità di deambulazione del paziente. La “Scripps Scale” e la “MS Functional Composite” sono scale più complesse che al momento sono utilizzate soltanto nell'ambito di studi clinici al fine di valutare l'impatto di una terapia su parametri clinici più fini. TERAPIA
SCALE DI VALUTAZIONE L'impatto sociale della malattia, nonché l'enorme impatto economico che la SM suscita in
La classica affermazione che non esiste alcuna terapia in grado di influenzare il decorso della malattia è stata smentita nell'ultima decade
Malattie demielinizzanti 1127 Tabella 26.2 - Kurtzke Extended Disability Status Scale (EDSS) 0.0 1.0 1.5 2.0 2.5 3.0 3.5 4.0
4.5
5.0
5.5
6.0
6.5 7.0
7.5
8.0
8.5
9.0 9.5 10.0
Esame neurologico normale [tutti i sistemi funzionali (SF) sono di grado 0]. Non c’e disabilità, segni minimi in un SF (cioè, grado 1). Non c’e disabilità, segni minimi in più di un SF (più SF di grado 1). Disabilità minima in un SF (un SF di grado 2, altri di grado 0 o 1). Disabilità minima in due SF (due di grado 2, altri di grado 0 o 1). Disabilità moderate in un SF (uno di grado 3, altri di grado 0 o 1), o disabilità lieve in tre o quattro SF (tre o quattro di grado 2, altri di grado 0 o 1), il paziente è del tutto autonomo nella deambulazione. Il paziente è del tutto autonomo nella deambulazione ma ha una disabilità moderate in un SF (di grado 3) e uno o due SF di grado 2; oppure due SF di grado 3; oppure cinque SF di grado 2 (altri di grado 0 e 1). Il paziente è del tutto autonomo nella deambulazione senza aiuto, autosufficiente, anche per 12 ore al giorno nonostante una disabilità relativamente marcata consistente in un SF di grado 4 (altri di grado 0 e 1), o combinazioni di gradi inferiori che superano i limiti precedenti; il paziente è in grado di camminare senza aiuto o senza fermarsi per circa 500 metri. Il paziente è del tutto autonomo nella deambulazione senza aiuto, anche per tutto il giorno; in grado di lavorare durante tutto il giorno, ma puo avere qualche limitazione per un’attività completa e richiedere un minimo di assistenza; si caratterizza per una disabilità relativamente marcata consistente in un SF di grado 4 (altri di grado 0 e 1) o combinazioni di gradi inferiori che superano i punteggi precedenti; è in grado di camminare senza aiuto o senza fermarsi per circa 300 metri. Il paziente è in grado di camminare senza aiuto e senza fermarsi per circa 200 metri; la disabilità è sufficientemente marcata da intralciare una completa attività quotidiana (per esempio lavorare per tutto il giorno senza provvedimenti particolari). (Di solito i SF equivalenti sono uno solo di grado 5, altri di grado 0 e 1, oppure combinazioni di gradi inferiori.) II paziente deambula per circa 200 metri senza aiuto o senza fermarsi. Il paziente è in grado di camminare senza aiuto o senza fermarsi per circa 100 metri; la disabilità è sufficientemente marcata da impedire una complete attività quotidiana (di solito i SF equivalenti sono uno solo di grado 5, altri di grado 0 e 1, o combinazioni di gradi inferiori). Il paziente necessita di assistenza saltuaria o costante da un lato (bastone, gruccia, cinghie) per camminare per circa 100 metri con o senza fermarsi (di solito i SF equivalenti sono combinazioni con piu di due SF di grado 3). Il paziente necessita di assistenza bilaterale costante (bastoni, grucce, cinghie) per camminare per circa 20 metri senza fermarsi (di solito i SF equivalenti sono combinazioni con piu di due SF di grado 3). Il paziente è incapace di camminare per oltre 5 metri anche con aiuto, ed è essenzialmente obbligato su una sedia a rotelle, è in grado si spostarsi da solo sulla sedia a rotelle e di trasferirsi da essa ad altra sede (letto, poltrona); passa in carrozzella circa 12 ore al giorno (di solito i SF equivalenti sono combinazioni con più di un SF di grado 4+, raramente il SF piramidale e solo di grado 5). Il paziente è incapace di fare piu di qualche passo, è obbligato sulla sedia a rotelle; può aver bisogno di aiuto per trasferirsi; si sposta da solo sulla carrozzella standard per un giorno intero. Può aver bisogno di una carrozzella a motore (di solito i SF equivalenti sono combinazioni con piu di un SF di grado 4+; molto raramente il solo SF piramidale è di grado 5). Il paziente è essenzialmente obbligato a letto o su una sedia a rotelle o viene trasportato sulla carrozzella, ma può stare fuori dal letto per gran parte del giorno; mantiene molte funzioni di assistenza personale; ha generalmente un uso efficace degli arti superiori (di solito i SF equivalenti sono combinazioni, con piu sistemi di grado 4). Il paziente è essenzialmente obbligato a letto per una buona parte del giorno; ha un qualche uso efficace di uno (o di tutti e due) gli arti superiori; mantiene alcune funzioni di assistenza personale (di solito i SF equivalenti sono combinazioni di grado 4 in piu di un SF). Paziente obbligato a letto e dipendente; puo solo comunicare e mangiare (viene alimentato). (Di solito i SF equivalenti sono combinazioni, per la maggior parse di grado 4+.) Paziente obbligato a letto e totalmente dipendente; incapace di comunicare efficacemente o di mangiare/ deglutire (di solito i SF equivalenti sono combinazioni, quasi tutti di grado 4+). Decesso dovuto a SM.
1128 Malattie del sistema nervoso
dall'ingresso sul mercato di farmaci in grado di modificarne la storia naturale. Tuttavia, mentre il riconoscimento del ruolo svolto dall'attacco autoimmunitario nella patogenesi dalla malattia ha determinato l'utilizzo di terapie immunomodulanti e immunosoppressive in grado di influenzare il decorso della malattia nelle sue fasi precoci, sono tuttora carenti i farmaci in grado di agire sulle conseguenze di questo attacco e pertanto di determinare un recupero funzionale una volta che si sia instaurata la disabilità. Le scelte terapeutiche a disposizione permettono, a seconda della fase della malattia e del suo decorso, di trattare efficacemente l'episodio acuto, ridurre la frequenza delle ricadute e, parzialmente, la disabilità e di migliorare alcuni sintomi. Terapia dell'attacco acuto - Il trattamento delle ricadute consiste nell'uso di steroidi, generalmente per infusione endovenosa in bolo, ma talora anche per via intramuscolare o per os. Avendo tuttavia l'episodio acuto una spontanea tendenza alla regressione, qualora i disturbi siano lievi, è possibile non somministrare alcuna terapia in considerazione dei potenziali effetti collaterali del cortisone che, se usato ripetutamente, tende a perdere efficacia. Le ricadute più gravi vanno trattate con steroidi. Benchè in letteratura siano descritti numerosi schemi terapeutici è ormai ampiamente accettato l'utilizzo di metilprednisolone endovena 1000 mg per 5 giorni seguito da una riduzione graduale del farmaco (tapering) per os per 15 giorni. L'uso di ACTH è ormai poco diffuso e scarsamente supportato da studi clinici. Gli steroidi eserciterebbero la loro azione riducendo l'infiammazione attraverso un'azione pro-apoptotica sugli elementi cellulari mononucleati e stabilizzando la barriera emato-encefalica, come dimostrato anche dagli studi in RM. Il loro uso determina una più rapida regressione dei sintomi, ma la loro utilità, a lungo termine, e in particolare la loro capacità di influenzare il decorso della malattia non sono mai state dimostrate.
Terapia diretta a prevenire le ricadute e a rallentare la progressione - L'ipotesi che la SM sia una malattia immunomediata è alla base dei trattamenti volti ad influenzarne il decorso attraverso una azione immunomodulante e/o immunosoppressiva. Il progredire delle conoscenze sui meccanismi patogenetici della malattia e la possibilità di ridurre e controllare gli effetti collaterali delle immuno-terapie ne ha permesso un utilizzo sempre più precoce e mirato. Trattamenti immunomodulanti - L' interferone beta (IFNβ) è stato il primo farmaco ad essere approvato dalla Food and Drug Administration e dell'EMEA Europeo quale terapia nella SM a ricadute e remissioni. Gli interferoni sono una classe di glicoproteine ad azione antivirale prodotte da cellule del sistema ematopoietico. Gli interferoni di tipo I includono l'IFNα e l'IFNβ prodotti rispettivamente dai leucociti e dai fibroblasti mentre l'INFγ (tipo II) è prodotto dalle cellule NK e dai linfociti T effettori. Nelle pratica commerciale sono disponibili 2 formulazioni commerciali. Il primo, l'IFNβ1b è lievemente modificato rispetto al naturale, l'INFβ1a, non essendo glicosilato e contenendo una serina in posizione 17 al posto di una cisteina. Nel 1993 sono stati pubblicati i dati del primo studio che dimostrava una riduzione della frequenza di ricadute in pazienti affetti da SM a ricadute e remissioni trattati con INFβ1b. I dati RM evidenziavano una diminuzione del carico lesionale ed una riduzione del numero di lesioni nuove identificabili con la RM. Da allora altre 2 formulazioni commerciali di IFN sono disponibili sul mercato: esse differiscono per le modalità di somministrazione (sottocute vs intramuscolare), la posologia (una volta alla settimana vs giorni alterni), la frequenza di comparsa di anticorpi anti-IFN e la dose. Indipendentemente dalle formulazioni, la cui efficacia non è ancora stata efficacemente analizzata in un serio studio comparativo, è possibile
Malattie demielinizzanti 1129
affermare che l'enorme mole di studi pubblicati negli ultimi anni ha confermato l'efficacia dell' INFβ per i pazienti con SM a ricadute e remissioni sulla frequenza, riduzione di circa il 30%, gravità delle ricadute nonché su quasi tutti i parametri di attività di malattia (riduzione di circa il 70%) misurati in risonanza magnetica. Meno certi sono al momento i dati riguardanti l'efficacia sulla disabilità cumulativa. Altrettanto controverso è, sulla base della letteratura più recente, l'efficacia dell'INFβ sulle forme secondariamente progressive. Al contrario, recentissime evidenze sembrano suggerire l'utilità dell'INFβ, anche a basse dosi, nel ridurre o rallentare la conversione in malattia conclamata di pazienti con un singolo episodio monosintomatico, suggestivo di malattia demielinizzante. Il cumulo delle evidenze raccolte negli ultimi anni sembra pertanto suggerire che l'INFβ sia efficace sia nelle forme iniziali di malattia che in quelle più avanzate, sempre che sia comunque documentabile, clinicamente o con la RM, attività di malattia. Il glatiramer acetato (GA) è un polimero lungo circa 40-100 aminoacidi, composto da quattro aminoacidi (L-acido glutamico, L-alanina, Ltirosina, L-lisina) disposti tra loro in modo casuale ma in costante rapporto molare, in grado di legarsi in modo specifico con molecole DR del MHC. GA è in grado di sopprimere l'EAE. L'utilizzo subcutaneo giornaliero è in grado di ridurre, con risultati sovrapponibili a quelli dell'IFN, il numero di ricadute in pazienti con SM. Il GA riduce inoltre in modo significativo l'attività di malattia misurata in RM. Recenti lavori suggerirebbero che il GA funzionerebbe come “antigene universale” la cui continua somministrazione indurrebbe un “riconoscimento degenerato” da parte di linfociti T specifici per proteine mieliniche, con conseguente induzione di una risposta di tipo anti-infiammatoria Th2. La plasmaferesi è stata utilizzata in associazione a farmaci immunosoppressori, in particolare la ciclofosfamide. Il razionale del suo uso risiede nella rimozione di anticorpi circolanti,
immunocomplessi, complemento, citochine ed altri fattori solubili dell'infiammazione. Nonostante non manchino lavori che ne sostengono l'efficacia, la sua utilità non è stata documentata con sufficiente certezza per cui viene considerato un trattamento di seconda scelta delle ricadute resistenti alla terapia cortisonica. Due studi recenti hanno dimostrato l'efficacia delle immunoglobuline ad alte dosi (IGEV) nel ridurre significativamente il numero di ricadute. Dubbio è invece l'effetto sulla risonanza e sulla disabilità. Il meccanismo di azione delle IGEV consisterebbe sia in una azione immunomodulante sia in un'ipotetica capacità di promuovere la remielinizzazione. A dispetto dei modesti effetti collaterali e dei sopra citati risultati, per alcuni aspetti comparabili a quelli dell'IFNβ e del glatiramer acetato, le IGEV trovano modesta applicazione pratica anche a causa degli altri costi. Farmaci immunosoppressori aspecifici - L'azatioprina (AZA) è rapidamente metabolizzata in 6-mercaptopurina che ha un effetto inibente la sintesi degli acidi nucleici, particolarmente evidente su cellule a rapida replicazione come i linfociti. L'AZA viene impiegata da molto tempo nella terapia della SM ma, nonostante il suo lungo uso, ancora incerta è la sua utilità e le opinioni dei ricercatori sono discordanti. Poco usata negli USA, l'AZA è più utilizzata in Europa: una meta-analisi delle esperienze effettuate ha evidenziato che l'AZA è in grado di ridurre la frequenza delle ricadute e di rallentare la progressione della malattia, sebbene in misura modesta. L'AZA deve essere utilizzata al dosaggio di 2,5-3 mg/kg/die, considerando che la azione immunosoppressiva inizia dopo 3-6 mesi. Seppure potenzialmente cancerogena, l'utilizzo cronico di AZA non è mai stato associato ad un'aumentata incidenza di neoplasie nei soggetti trattati rispetto ai controlli. Uno studio recente suggerisce un possibile effetto anche sui parametri di RM. Per la sua scarsa tossicità, la sua efficacia, anche se modesta, e il suo basso costo, l'AZA trova ancora oggi applicazione.
1130 Malattie del sistema nervoso
La ciclofosfamide (CY) è un agente alchilante il DNA ad azione citotossica ed immunosoppressiva. La disponibilità negli ultimi anni di farmaci in grado di ridurne gli effetti collaterali quali il vomito, la nausea, l'amenorrea, la cistite emorragica, la suscettibilità ad infezioni opportunistiche e l'alopecia ha prepotentemente riproposto questo farmaco per il trattamento delle forme di SM più gravi. Benché in letteratura non vi sia un univoco consenso sulle dosi da utilizzare, nella nostra esperienza la somministrazione per 6 mesi di 1 grammo/m2 endovena di CY in boli mensili è in grado di ridurre la rapida progressione di quelle forme di malattia resistenti ai comuni immunomodulanti. In alcune particolari situazioni di estrema gravità è possibile utilizzare in ambiente sterile dosi fino 4 grammi/m2. Un'amino-antraciclina, il Mitoxantrone, è probabilmente il farmaco immunosoppressivo che ha dato i risultati più incoraggianti negli ultimi anni. È stata dimostrato che, alla dose di 12 mg/mg per 6 mesi, può rallentare la progressione di malattia nelle forme secondariamente progressive e di ridurre l'attività di malattia misurata alla risonanza magnetica con singola dose di gadolinio di circa il 90%. La sua relativa maneggevolezza, pur limitata da un'importante cardiotossicità cumulativa (non è possibile superare la dose totale di 120 - 140 mg), lo ha reso uno dei farmaci più utilizzati nelle forme secondariamente progressive dove vi siano ancora importanti segni di attività clinica e radiologica di malattia. Altre terapie immunosoppressive per la sclerosi multipla ma ormai scarsamente utilizzate o addirittura abbandonate a causa dell'inefficacia o degli effetti collaterali, includono la linomide, la cladribina, la ciclosporina, il methotrexate, e l'irradiazione linfonodale totale (TLI). Il trapianto di cellule ematopoietiche staminali autologhe, procedura che comporta ancora importanti rischi di mortalità (5-8%), rappresenta al momento l'ultima frontiera per quelle forme particolarmente gravi in cui le terapie tradi-
zionali non abbiano sortito effetto. I risultati preliminari sembrano suggerire la soppressione completa dell'attività di malattia misurata in risonanza ma l'utilità clinica di tale trattamento è ancora dubbia. Immunoterapia selettiva - Per immunoterapia selettiva intendiamo un insieme di approcci con cui si tenta di bloccare in modo relativamente selettivo l'interazione tra le supposte cellule effettrici del danno e l'organo bersaglio. Sebbene un'analisi approfondita di questi trattamenti esuli dagli scopi di questo capitolo è utile menzionare alcune terapie che sono al momento già in fase di studio nell'uomo e il cui possibile utilizzo potrebbe rappresentare un ulteriore passo avanti nella cura della SM. Esistono terapie sperimentali indirizzate a bloccare o modificare l'azione dei linfociti T effettori: in particolare: 1) gli "altered peptide ligand o APL" sono proteine modificate strutturalmente in grado di alterare la risposta autoaggressiva verso le proteine della mielina; 2) i peptidi del recettore per l'antigene dei linfociti T (TCR) inducono una risposta immune contro le cellule autoaggressive che esprimono sulla loro superficie questo stesso recettore; 3) la somministrazione di mielina orale aumenta la produzione da parte di cellule del sistema immunitario di citochine ad azione anti-infiammatoria; 4) l'utilizzo di citochine ad azione anti-infiammatoria, come l'interleuchina IL-10 e l'IL-4 oppure di anticorpi contro le citochine ad azione pro-infiammatoria quali il TNFa, IL-1, IL-12 potrebbe modulare la risposta autoimmunitaria; 6) il complesso solubile costituito dalla proteina basica della mielina (MBP) legata al suo recettore MHC di classe II (AG284) riduce la risposta autoimmunitaria nei confronti della stessa MBP; 7) gli anticorpi contro il complesso B7/CD28 e CD40/ CD40L inibiscono la costimolazione necessaria per l'attivazione delle cellule T autoaggressive. Esistono inoltre farmaci che inibiscono l'ingresso delle cellule autoaggressive nel SNC ed hanno principalmente lo scopo di inibirne il
Malattie demielinizzanti 1131
passaggio dal sangue periferico attraverso la barriera ematoencefalica. Sono oggi in fase di studio anticorpi anti-molecole d'adesione come il VLA-4 e l'antigene CD11/CD18 ed inibitori delle metalloproteasi, enzimi necessari alle cellule del sistema immunitario per attraversare la barriera ematoencefalica. Tra le nuove frontiere della terapia per la sclerosi multipla citiamo ancora gli agenti volti a promuovere la riparazione del danno e la rimielinizzazione della lesione, nella speranza che ciò conduca anche al recupero della funzione danneggiata. Inoltre sono in fase di studio alcuni farmaci ad azione neuroprotettiva come i fattori di crescita (IGF-1), il riluzolo, l'eliprodil e altri (Pirfenidone) che riducono il processo cicatriziale gliotico secondario alla demielinizzazione. Infine, si guarda con grande attenzione alla possibilità in un prossimo futuro di trapiantare direttamente nella lesione gli oligodendrociti, cioè le cellule che normalmente formano la mielina. Infine una delle grandi sfide nella cura della SM è di arrivare a rilasciare le sostanze terapeutiche direttamente a livello del SNC invece che nel sangue periferico dove esse sono probabilmente assai meno efficaci. A questo scopo i ricercatori stanno cercando di modificare geneticamente cellule o virus in grado di trasportare nell'organo bersaglio, in modo innocuo per il paziente, molecole che possano spegnere la malattia (ad esempio una citochina ad azione anti-infiammatoria) e promuovere la riparazione del danno (ad esempio un fattore di crescita). Terapia sintomatica - Con il passare del tempo le ricadute non regrediscono completamente e gli esiti neurologici tendono a sommarsi. Una terapia solo sintomatica non è da sottovalutare, se è in grado di migliorare alcuni disturbi, in particolar modo nelle forme più avanzate di malattia allorchè le terapie in grado di modificarne il decorso naturale sono ormai inefficaci.
Non sempre la spasticità necessita di essere trattata, poiché in molti casi l'aumento del tono muscolare può essere utile per mantenere la stazione eretta. Il baclofen, al dosaggio di 50-75 mg al dì è in grado di ridurre la spasticità, ma spesso può accentuare l'ipostenia e la finestra terapeutica è piuttosto stretta. Il dantrolene (25100 mg al dì) può essere utile ma non va dimenticata la sua possibile epatotossicità. Il diazepam (5-20 mg al dì) può dare sedazione, ma può essere utile assumerlo alla sera, prima di coricarsi, per diminuire gli spasmi notturni e il clono indotto dai movimenti durante il sonno. La tinazidina, al dosaggio di 12-18 mg al dì, è particolarmente attiva, ma per il suo effetto sedativo non è ben sopportata da tutti i pazienti. Nei casi avanzati, in cui coesistono gravi disturbi sfinterici e la motilità agli arti superiori è marcatamente compromessa, possono essere presi in considerazione trattamenti più aggressivi, quali l'installazione di pompe intratecali a rilascio controllato di baclofen, la somministrazione mirata di tossina botulinica a livello dei distretti muscolari più colpiti da spasticità. Le manifestazioni parossistiche della malattia, quali la nevralgia del trigemino, gli spasmi tonici e i disturbi sensitivi parossistici, rispondono molto bene ai farmaci antiepilettici quali la carbamazepina (400-1200 mg/die), il gabapentin (300-1200 mg/die) e la lamotrigina (50-200 mg/die). La stessa terapia, così come l'amitriptilina alle dosi di 30-50 mg/die, può essere utilizzata per i dolori muscolari, la sensazione di stiramento e le parestesie. Il tremore cerebellare e l'atassia sono sintomi particolarmente invalidanti e poco sensibili alla terapia sintomatica. Di qualche utilità, peraltro modesta, possono essere i beta-bloccanti, come il propranololo e gli antidepressivi serotoninergici quali il trazodone ed altri farmaci quali il primidone ed il buspirone. La sensazione di fatica che frequentemente viene allegata dai pazienti può trarre lieve beneficio dall'impiego di amantadina, 4diaminopiridina e, come recentemente descritto, di modafenil (200 mg/die).
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I disturbi sfinterici sono particolarmente difficili da trattare e richiedono spesso l'esecuzione di prove urodinamiche, al fine di chiarire il meccanismo e l'importanza della dissinergia fra detrusore e gli sfinteri. La minzione imperiosa può essere parzialmente controllata dagli anticolinergici come la propantelina o l'oxibutina, od anche dall'amitriptilina. Le difficoltà a svuotare la vescica possono essere al contrario migliorate da farmaci colinomimetici. Particolarmente utile, quando il residuo di urina è superiore ai 200 ml, è la cateterizzazione intermittente, che il paziente può eseguire da solo, e che ha parecchi vantaggi, innanzitutto di impedire infezioni urinarie. La stipsi, disturbo frequente anche in casi iniziali, può essere trattata con dieta ricca in scorie, emollienti, microclismi. Il trattamento fisioterapico ha particolare rilevanza nella terapia sintomatica e di supporto. Il fisioterapista deve evitare di affaticare eccessivamente il paziente, deve combattere l'ipertonia di determinati gruppi muscolari, consigliare l'uso di particolari protesi. Alcune modificazioni nell'abitazione possono essere consigliate, per facilitare la deambulazione, la pulizia personale, l'attività in cucina. Il calore eccessivo, quale quello di un bagno caldo, deve essere evitato, mentre particolarmente utile è la fisioterapia in piscina, dove possono essere effettuati alcuni movimenti altrimenti impossibili. L'abbassamento della temperatura corporea, ottenibile con bagni freddi o anche con particolari apparecchi, migliora, specie nei pazienti termosensibili, la conduzione nervosa e può essere un semplice metodo utilizzato per migliorare le prestazioni motorie, per la durata di circa 1-2 ore dopo il raffreddamento.
nella mancanza di una terapia sicuramente efficace, esistono alcune linee guida di comportamento. L'episodio acuto, se lieve, non va trattato, mentre se di gravità moderata o marcata va curato con terapia steroidea, ed in particolare con un bolo di metilprednisolone e.v. La disponibilità corrente di terapie in grado di modificare significativamente il decorso naturale della malattia quali l'IFNβ in primo luogo, e, in alternativa, il glatiramer acetato, l'AZA, l'IGEV suggeriscono di trattare precocemente il paziente con SM. Qualora tali trattamenti siano inefficaci, è utile trattare il paziente ancora clinicamente attivo con un farmaco immunosoppressore, mitoxantrone o ciclofosfamide in modo tanto più aggressivo quanto più tumultuoso è il decorso della malattia. A questo proposito vale la pena ricordare che la maggior parte delle terapie attualmente disponibili possono rallentare il decorso della malattia e pertanto la comparsa di un danno, che la RM ha dimostrato essere spesso clinicamente silente. Al contrario, una volta che il deterioramento neurologico si è stabilizzato e la disabilità è diventata permanente, non vi sono terapie in grado di far regredire e riparare il danno. In questa fase bisogna effettuare soprattutto terapia sintomatica, associata ad un prolungato e personalizzato trattamento fisioterapico. Purtroppo in molti casi la malattia progredisce nonostante le più varie strategie terapeutiche, ma il profondo scetticismo del passato sembra svanire, per lasciare il posto alla convinzione che sia possibile incidere sul decorso della malattia, anche se la meta è ancora lontana.
Encefalomielite acuta disseminata (EAD)
Conclusioni Le strategie terapeutiche in una malattia così difficile e imprevedibile sono in costante divenire, in rapporto ai progressi della ricerca di base e applicata, ed all'enorme interesse economico che questa malattia suscita. Pur nell'incertezza e
L'encefalomielite acuta disseminata è stata classicamente descritta come una sindrome a decorso monofasico, secondaria ad una vaccinazione (“encefalomielite post-vaccinica”) oppure ad un'infezione(“encefalomielite post-infettiva”), caratterizzata da diffuse aree perive-
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nulari di infiammazione, edema e demielinizzazione. In rari casi, è stata descritta una forma iperacuta, clinicamente tumultuosa, caratterizzata istologicamente da infiltrati perivenulari necrotico-emorragici o leucoencefalite acuta emorragica di Weston Hurst. Talora, non è possibile associare una sindrome clinica di EAD ad un episodio infettivo o alla somminstrazione di vaccino ed allora il quadro è definito “encefalomielite acuta disseminata idiopatica”.
virale. Complicazioni neurologiche secondarie ad infezione morbillosa si verificano in circa 1 su 500-1000 soggetti. Relativamente frequente è la comparsa di un quadro di EAD dopo infezione con il virus della varicella (1 su 4.00010.000); più raramente è stata descritto come complicazione di rosolia, parotite, influenza, mononucleosi o infezione da virus coxsackie o da mycoplasma. EZIOPATOGENESI
A)
ENCEFALOMIELITE ACUTA DISSEMINATA POST-
VACCINICA
I primi casi di EAD vennero descritti in seguito alla somministrazione di vaccini contro la rabbia e contro il vaiolo (vaccino di Semple). In particolare, venne dimostrato che la comparsa di encefalomielite in seguito a somministrazione di vaccino anti-vaioloso, estratto da cervello di coniglio, non era dovuto all'effetto citopatico del virus sulle cellule del SNC, ma ad una risposta abnorme del sistema immunitario contro certi componenti delle guaine mieliniche. Tali studi dimostrarono, per la prima volta, la possibilità che meccanismi immunitari potessero danneggiare strutture cerebrali, e furono alla base della successiva creazione di un modello animale di autoimmunità del sistema nervoso centrale (encefalite autoimmune sperimentale). L'introduzione di vaccini preparati senza utilizzare tessuto neurale ha notevolmente diminuito l'incidenza di questa malattia. Negli ultimi anni, sono state riportate sporadiche osservazioni di EAD dopo vaccinazione anti-influenzale, antivaiolosa, anti-pertosse, anti-difterite, anti-rosolia, anti-rabbia e anti-morbillo. È stata inoltre segnalata la comparsa di una sindrome tipo EAD dopo la somministrazione di alcuni antibiotici. B)
ENCEFALOMIELITE ACUTA DISSEMINATA POST-
Dati clinici, epidemiologici e sperimentali depongono per una reazione autoimmunitaria diretta contro antigeni mielinici. Infatti l'encefalite autoimmune sperimentale rappresenta il modello ottimale di malattia autoimmunitaria indotta da un'immunizzazione o da un'infezione. A conferma di quest'ipotesi, è stata segnalata un'aumentata risposta verso la proteina basica della mielina (MBP) nel sangue e nel liquor di pazienti con EAD. Tale risposta potrebbe essere indotta dalla somiglianza molecolare tra proteine del virus infettante e componenti mieliniche del SNC (“molecular mimicry”), oppure dal danno cerebrale indotto dall'infezione cui seguirebbe una sensibilizzazione verso nuovi antigeni cerebrali. Il rapporto di questo gruppo di malattie con la SM, benché difficilmente inquadrabile, appare per molti aspetti molto stretto ed è ben nota la possibilità che si verifichi una cronicizzazione della malattia il cui decorso diventa spesso indistinguibile da quello di una tipica SM. Neuropatologia - L'EAD è una sindrome caratterizzata dalla presenza di infiltrati perivenulari di cellule mononucleate, prevalentemente macrofagi e linfociti, cui si associano edema e marcata demielinizzazione caratteristicamente perivascolare.
INFETTIVA
L'EAD post-infettiva si associa più frequentemente ai comuni esantemi infantili di origine
Sintomatologia e decorso - L'esordio è spesso improvviso, l'evoluzione rapida e la prognosi estremamente variabile. Nell'EAD post-in-
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fettiva l'insorgenza dei sintomi neurologici può essere preceduta da cefalea, febbre, sonnolenza e talora da modesti segni meningei. Il quadro clinico è invariabilmente caratterizzato da segni di sofferenza focale del SNC che evolvono nel corso di ore e raggiungono l'acme in pochi giorni. I sintomi possono riflettere una sofferenza cortico-sottocorticale con emiparesi, disturbi delle sensibilità, del tronco encefalico con deficit multipli dei nervi cranici, del cervelletto con atassia, dei gangli della base con movimenti involontari e del midollo spinale con paraparesi, disturbi sfinterici. Frequente è l'insorgenza di crisi comiziali. Il miglioramento del quadro clinico, quando occorre, si verifica nell'arco di giorni, ma, più spesso, di settimane. La mortalità può raggiungere il 10-25% dei casi. Spesso sono presenti esiti quali crisi epilettiche o ritardo nello sviluppo psico-motorio dell'individuo. È possibile che si verifichino ricadute o addirittura una cronicizzazione del quadro clinico. Diagnosi - È semplice quando sia possibile stabilire un rapporto temporale tra pregressa infezione virale o somministrazione di vaccino e la sintomatologia neurologica multifocale ad esordio acuto o sub-acuto. In circa l'80% dei casi è possibile osservare una pleiocitosi liquorale con cellule mononucleate (fino a 200 cellule/mmc); talora possono essere presenti anche polimorfonucleati, espressione di un processo acuto di tipo necrotizzante, e un modesto aumento delle proteine (50-150 mg/dl). È stata descritta la presenza di bande oligoclonali nel liquor, per lo più, a carattere transitorio. Indagini elettrofisiologiche sono spesso in grado di dimostrare, accanto ad una sofferenza del SNC, anche un interessamento del SNP. La RM dimostra, nella maggior parte dei casi, aree disseminate a livello della sostanza bianca cerebrale che assumono contrasto nelle sequenze T1 pesate, a dimostrazione di un danno di barriera. La diagnosi differenziale tra EAD e una forma acuta di sclerosi multipla (SM) può essere
difficile. Sono suggestivi dell'EAD la presenza di un simultaneo coinvolgimento dei nervi ottici (neurite ottica bilaterale), di mielite trasversa completa, segni meningei, convulsioni e coma. L'esame del liquor nella SM non evidenzia generalmente un aumento delle proteine liquorali e di polimorfonucleati; la pleiocitosi inoltre, raggiunge raramente valori superiori a 50 cellule/mmc. Infine, l'EAD ha un decorso monofasico, spesso tumultuoso, e più frequentemente colpisce l'età infantile. In casi ad esordio particolarmente rapido e grave con prevalente interessamento emisferico, è necessario prendere in considerazione l'ipotesi di un'encefalite virale (ad esempio, da Herpes Simplex). Terapia - Consiste nella somministrazione di metilprednisolone e.v. ad alto dosaggio, secondo i protocolli comunemente utilizzati nella terapia della SM. in fase acuta. Leucoencefalite acuta emorragica di Wenston-Hurst - Questa rara forma di EAD è generalmente preceduta da una comune infiammazione delle vie aeree superiori benchè talora non sia possibile identificare anamnesticamente alcun episodio infettivo. L'esame neuropatologico rivela aree perivascolari disseminate di necrosi fibrinoide, infiltrati cellulari, edema e stravasi emorragici mentre non è mai presente demielinizzazione. La malattia, più comune nei maschi, è caratterizzata da un esordio brusco e tumultuoso con febbre, convulsioni e coma. Talora, l'insorgenza di segni focali è mascherata dalla rapida insorgenza di disturbi dello stato di coscienza. L'evoluzione è rapida e frequentemente fatale. L'esame del liquor nella maggior parte dei casi rivela un aumento della pressione intrarachidea, proteinorrachia, marcata pleiocitosi con cellule mononucleate e polimorfonucleati. La diagnosi differenziale include malattie cerebrali focali a rapida evoluzione quali l'encefalite da herpes simplex, gli ascessi e le neoplasie cerebrali a rapida crescita.
Malattie demielinizzanti 1135
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Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1137
27. Le epilessie e le crisi epilettiche occasionali E. Favale, A. Seitun
Le crisi epilettiche sono manifestazioni accessuali clinicamente polimorfe, con o senza perdita di coscienza, dovute alla scarica eccessiva di una popolazione più o meno vasta di neuroni cerebrali. Se tali crisi insorgono occasionalmente, in rapporto a situazioni patologiche contingenti, si definiscono crisi epilettiche occasionali, se ricorrono ad intervalli di tempo più o meno prolungati, in maniera apparentemente spontanea, esse configurano le epilessie propriamente dette. Complessivamente si ritiene che circa il 9% delle persone possa presentare in un momento o l’altro della propria vita una crisi epilettica, e tale percentuale non deve sembrare eccessiva considerando che le sole convulsioni febbrili colpiscono circa il 3% dei bambini di età inferiore ai 5 anni. I casi in cui la ricorrenza delle crisi è scatenata da circostanze di per sé non epilettogene (fattori precipitanti), saranno trattati a parte come sindromi epilettiche speciali. Le epilessie non rappresentano una malattia vera e propria, poiché riconoscono innumerevoli cause comprendenti sia fattori lesionali che fattori genetici, senza contare i non pochi casi (oltre il 50%) in cui l’eziologia sfugge a qualunque indagine. Ne consegue che le epilessie possono essere definite come sindromi caratterizzate da un disturbo delle funzioni cerebrali che si manifesta con episodi accessuali, ricorrenti, variamente caratterizzati dal punto di vista clinico. L’incidenza delle epilessie è tale per cui, ove si eccettui la malattia cerebrovascolare, possono essere considerate il disturbo neurologico di osservazione più comune (Hopkins, 1987). Basti pensare che in Italia, così come negli altri
paesi industrializzati, il 6 per mille della popolazione soffre di epilessia (Granieri et al., 1983). Le epilessie possono influire pesantemente sulla vita di un individuo, sia per la loro cronicità che per gli ostacoli che creano all’inserimento nel mondo della scuola o del lavoro, soprattutto a causa di radicati pregiudizi sociali. Le crisi epilettiche occasionali, al contrario, sono eventi isolati, destinati a rimanere tali a patto che non si riproponga la condizione patologica responsabile della loro comparsa, per cui le loro implicazioni sociali sono assai scarse. Qualora la patologia sottostante (ad es. infarto cerebrale) produca esiti cicatriziali epilettogeni, ad esse può fare tuttavia seguito una epilessia vera e propria.
Classificazione L’inquadramento nosografico moderno delle epilessie è iniziato con la Classificazione Clinica ed Elettroencefalografica delle Crisi Epilettiche (ICES) (Gastaut, 1970), successivamente modificata nel 1981 da una apposita Commissione sulla Classificazione e Terminologia della Lega Internazionale contro l’Epilessia (ILAE). Nel 1989, la Classificazione delle Crisi è stata affiancata da una parallela Proposta di Classificazione delle Epilessie e delle Sindromi Epilettiche (1989). Da allora, l’acquisizione di nuove conoscenze (soprattutto Video-EEG, Stereo-EEG, neurochirurgiche, cliniche e genetiche) ha motivato una ulteriore revisione delle Epilessie, che ha portato ad una nuova, recente Proposta di Schema Diagnostico per i soggetti
1138 Malattie del sistema nervoso
con Crisi Epilettiche e con Epilessia (ILAE Task Force on Classification and Terminology, Engel, 2001 1). Questo lungo iter, che nel frattempo ha visto anche nascere altre proposte di classificazione (Lüders e Lessers, 1987; Lüders et al., 1998), è approdato non solo ad una revisione della terminologia, ma anche alle nuove proposte di: a) non suddividere più le crisi epilettiche in base alla presenza o meno di un’alterazione della coscienza; b) non dicotomizzare rigidamente le epilessie generalizzate e parziali (da ridenominarsi “focali”, senza con questo intendere un epicentro ben definito e di piccole dimensioni) in funzione della patogenesi idiopatica (su base genetica) e sintomatica (su base lesionale strutturale acquisita); c) denominare le crisi in precedenza definite “criptogenetiche” come “probabilmente sintomatiche”; d) allargare l’elenco delle sindromi epilettiche ed infine e) utilizzare nuove modalità di diagnosi basate su 5 assi: fenomenologia ictale, tipo di crisi, tipo di sindrome, eziologia e peggioramento, in funzione di apposita scala (ancora da prepararsi) adattata dal WHO ICIDH2. Data la notevole complessità di questa impostazione, che ne ostacola l’applicazione completa, la Proposta esplicitamente prevede sia versioni semplificate a scopo didattico e medico, che versioni anche molto differenti e più sofisticate, da adattare alla ricerca di base, agli studi epidemiologici, farmaco-clinici, prechirurgici e genetici, onde rendere omogeneo il campionamento dei casi selezionati per questi scopi (Engel, 2001). Mancando per ora la versione semplificata per scopo didattico, sembra opportuno mantenere ancora una impostazione tradizionale, ispirata ai classici criteri elettroclinici suggeriti del 1970 e mantenuti fino al 1989 dalla ILAE. In base ad essi, se la scarica neuronale responsabile dello scatenamento della crisi è riferibile ad un sistema o ad una popolazione di neuroni di un solo emisfero le crisi epilettiche sono definite parziali (focali) se la scarica è diffusa ad ambedue gli emisferi, esse sono definite generalizzate. Questa impostazione, peraltro, non deve considerarsi assoluta poiché alcune crisi epilettiche parziali, analogamente alle crisi epilettiche generalizzate, possono coinvolgere ambedue gli emisferi, sia pure con modalità diverse ed in misura più limitata (Engel, 2001), come ad esempio accade nelle crisi epilettiche parziali a sintomatologia complessa a partenza dal lobo temporale, in cui la comparsa degli automatismi comporta spesso una diffusione della scarica epilettogena ad ambedue le strutture ippocampo-amigdaloidee. 1
Disponibile in rete sul sito dell’ILAE al seguente URL: http:// www.epilepsy.org/ctf/over_frame.html
Crisi epilettiche parziali. - Sono classicamente distinte in crisi a sintomatologia semplice o elementare ed in crisi a sintomatologia complessa, a seconda che, durante la crisi, lo stato di coscienza resti integro o meno. Operativamente si considera che lo stato di coscienza sia alterato quando il soggetto non è in grado di reagire normalmente ad uno stimolo esterno, per diminuita o temporaneamente abolita consapevolezza di sé o dell’ambiente circostante. Molti preferiscono riferirsi al grado di reattività del soggetto, che si presta ad una valutazione obiettiva, o più spesso alla presenza o meno di una “perdita di contatto”, piuttosto che al livello di consapevolezza, difficilmente quantificabile. Tuttavia, una perdita di responsività può anche essere causata da afasia, da impossibilità af effettuare movimenti, da disturbi mnesici ictali o post-ictali (talora con conservazione della memoria durante la crisi) o dal semplice fatto che l’attenzione del soggetto può interamente concentrarsi sulle esperienze soggettive connesse a certi tipi di crisi (ad es. allucinazioni) (Gloor, 1986). Inoltre, il progredire delle conoscenze sui substrati anatomici della fenomenologia ictale 2 ha dimostrato che i meccanismi fondamentali delle crisi a partenza dalla paleocorteccia limbica differiscono da quelli delle crisi a partenza neocorticale, ed ha anche permesso di appurare che sia l’uno che l’altro tipo di crisi possono evolvere con o senza disturbo della coscienza. La distinzione puramente fenomenologica delle crisi parziali in funzione dello stato di coscienza, inoltre, si è rivelata insoddisfacente a scopo diagnostico, portando ad una nuova proposta di classificazione delle crisi in quanto “entità diagnostiche” con implicazioni eziologiche, prognostiche e terapeutiche, utilizzabili nella definizione di sindromi epilettiche o in caso di impossibilità, anche isolatamente (Engel, 2001). Come è stato già spiegato, è per ora prematuro adottare questa impostazione a fini didattici, mancando una versione adatta allo scopo. Sia le crisi epilettiche parziali semplici che quelle a sintomatologia complessa possono sfociare in una crisi convulsiva tonico-clonica generalizzata realizzando una generalizzazione secondaria. Se la scarica epilettogena interessa diffusamente ambedue gli emisferi cerebrali fin dall’inizio della crisi, si parla di generalizzazione primaria. Crisi epilettiche primitivamente generalizzate. - Si caratterizzano per la presenza di scariche elettroencefalografiche bilaterali, non necessariamente simmetriche, e per la compromissione dello stato di coscienza, che peraltro può anche rimanere integro come, ad esempio, 2
In gran parte dovuta all’attività di ricerca svolta nei Centri specializzati per la chirurgia dell’epilessia
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1139 nelle crisi miocloniche e nelle crisi atoniche, ciò nondimeno incluse fra le crisi epilettiche generalizzate. Le crisi epilettiche generalizzate possono essere convulsive, come le crisi di Grande Male, o non convulsive, come le crisi di Piccolo Male. Qualche autore ammette che una crisi di Piccolo Male possa sfociare in una crisi di Grande Male, donde l’affermazione che la crisi epilettica generalizzata tonico-clonica rappresenta la "massima" espressione neuronale di un attacco epilettico. Pur con qualche incertezza sui limiti fra i vari tipi di crisi, l’attuale impostazione consente di classificare la grande maggioranza degli attacchi, eccezion fatta, naturalmente, per le crisi epilettiche cosiddette non classificabili, o per carenza di dati anamnestici o per l’effettiva atipia delle crisi (come accade, ad esempio, per certe crisi epilettiche dell’età neonatale). Sia le crisi epilettiche parziali che le crisi epilettiche generalizzate possono prolungarsi oltre misura, oppure ripetersi ad intervalli estremamente ravvicinati, verificandosi, in tal caso, uno stato di male epilettico, rispettivamente parziale o generalizzato.
o anche in associazione, unitamente ad una scarica elettroencefalografica localizzata nell’emisfero controlaterale, in assenza di turbe della coscienza. In realtà, come vedremo fra poco, la sintomatologia clinica non sempre consente di lateralizzare il focolaio epilettogeno e l’elettro-encefalogramma non sempre appare alterato nel corso della crisi. Fra le varie possibili manifestazioni illustrate nei paragrafi successivi, le più comuni sono sicuramente rappresentate dalla comparsa di scosse cloniche localizzate ad un arto; oppure dall’insorgenza di disturbi sensoriali, come un odore sgradevole o un sapore cattivo; o ancora, da una manifestazione vegetativa caratteristica, consistente in una sensazione fastidiosa che dall’epigastrio risale fino alla bocca. 1) Crisi parziali con fenomeni motori
Crisi epilettiche parziali Crisi parziali a sintomatologia semplice o elementare Conviene premettere che fino all’inizio degli anni ottanta le crisi con sintomi psichici venivano incluse fra le crisi epilettiche parziali a sintomatologia complessa, indipendentemente dal fatto che durante la crisi lo stato di coscienza fosse alterato o meno. Secondo l’attuale classificazione, le crisi epilettiche parziali a sintomatologia semplice comprendono, oltre alle crisi con fenomenologia motoria, sensitivo-sensoriale e vegetativa, anche le crisi con fenomenologia psichica, purché la coscienza sia integra. Poiché accade solo di rado ciò, le crisi con sintomi psichici rientrano quasi sempre nelle crisi epilettiche parziali a sintomatologia complessa, di cui segnano spesso l’inizio. Riassumendo, le crisi epilettiche parziali a sintomatologia elementare sono caratterizzate da una sintomatologia polimorfa, i cui vari aspetti (motorio, sensitivo-sensoriale, vegetativo e psichico) possono presentarsi singolarmente
– Crisi parziali motorie, talora di grande valore localizzatorio, caratterizzate dalla comparsa di scosse cloniche ad una emifaccia, all’arto superiore (specie la mano) o all’arto inferiore, che indicano la presenza di un focolaio epilettogeno a livello della circonvoluzione frontale ascendente controlaterale. Non altrettanto affidabili sono i movimenti clonici della bocca, della lingua o del faringe, potendo essere causati da una scarica localizzata nel lobo temporale (contro o ipsilaterale). La localizzazione del focolaio in corrispondenza della circonvoluzione frontale ascendente deve considerarsi al di là di ogni dubbio qualora, nell’ambito di un emicorpo, le scosse cloniche diffondano da un gruppo muscolare all’altro, secondo la sequenza prevista dalla rappresentazione somatotopica corticale (Fig. 27.1), realizzando così la cosiddetta “marcia jacksoniana” (crisi parziali motorie con marcia). – Crisi posturali, di scarso valore localizzatorio, caratterizzate da contrazioni muscolari globali (non segmentali, come nelle crisi parziali motorie) che determinano l’assunzione di atteggiamenti abnormi come, ad esempio, l’ele-
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vazione e l’abduzione di un arto superiore. Classicamente sono attribuite ad una scarica localizzata nell’area supplementare motoria del lobo frontale, mentre a volte può trattarsi dell’area 22 del lobo temporale, in ambedue i casi nell’emisfero controlaterale. – Crisi versive, di significato incerto ai fini localizzatori, sono caratterizzate da una rotazione forzata del capo, degli occhi e talora anche del tronco, tradizionalmente riferite ad una scarica localizzata nell’area premotoria del lobo frontale controlaterale. In realtà una fenomenologia analoga può verificarsi anche per scariche partite dal lobo temporale, dal lobo parietale o dal lobo occipitale o addirittura per una distribuzione asimmetrica della scarica epilettogena, responsabile delle crisi generalizzate tonico-cloniche. Per quanto concerne poi i rapporti fra lato della rotazione forzata e lato della localizzazione cerebrale si ritiene che la rotazione forzata ipsilaterale sia non meno comune della rotazione controlaterale, a ulteriore scapito, evidentemente, del valore localizzatorio della fenomenologia accessuale. A questo proposito è opportuno ricordare che: a) la rotazione del capo è dovuta all’attivazione della popolazione neuronale a funzione motoria per i muscoli del collo; b) tale popolazione è collegata a una serie di strutture nervose sottocorticali, e c) queste ultime, a loro volta, dipendono da svariate aree corticali, sia ipsi che controlaterali. Se a tutto questo si aggiunge che il percorso della scarica epilettogena non è necessariamente costante, ne consegue che sia la sede che il lato del focolaio sono difficilmente individuabili sulla base della sola rotazione del capo, a meno che non coesistano altri elementi clinici utili ai fini localizzatori. La cosiddetta paralisi post-accessuale o “paralisi di Todd”, spesso rilevabile alla fine di una crisi parziale motoria, ha un significato fisiopatologico attualmente contestato: tale fenomeno,
infatti, non dipenderebbe da un “esaurimento” neuronale post-accessuale, bensì da una vera e propria inibizione “attiva” (dovuta cioè all’attivazione di circuiti inibitori), dei neuroni della corteccia motoria. Se questo fosse vero, diventerebbe molto difficile distinguere sul piano fisiopatologico la paralisi di Todd dal temporaneo deficit motorio che caratterizza le cosiddette crisi inibitorie somatiche (rarissime!), peraltro non incluse nella classificazione 1981-1989. – Crisi fonatorie, rappresenterebbero un altro esempio di crisi epilettica caratterizzata da fenomeni motori “negativi”. Abitualmente, infatti, si tratta di un temporaneo arresto della capacità di parlare (speech arrest) senza alcun disturbo della capacità di comprendere. Tali crisi sarebbero causate da una scarica epilettogena localizzata nella circonvoluzione frontale inferiore dell’emisfero dominante oppure da una scarica nelle aree supplementari motorie dell’emisfero dominante, o anche non dominante. – Crisi vocalizzatorie, caratterizzate dalla emissione di vocalizzi abitualmente non strutturati, non riferibili ad una localizzazione specifica. Infatti la scarica può partire da svariate sedi come la regione rolandica, l’area supplementare motoria, la porzione mesiale e orbitale del lobo frontale, e non necessariamente dal lato dominante. Ai fini pratici, si può ritenere che l’arresto della parola abbia un valore localizzatorio superiore alla semplice emissione di vocalizzi. 2) Crisi parziali con fenomeni sensitivosensoriali – Le crisi epilettiche sensitive sono abitualmente caratterizzate da parestesie localizzate ad una emifaccia o ad una mano. Tali sintomi, inizialmente circoscritti, possono estendersi al restante emicorpo secondo la sequenza prevista dalla rappresentazione somatotopica corticale (crisi epilettiche sensitive con marcia), e sono riferibili ad una scarica partita dalla circonvolu-
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1141
zione parietale ascendente. Talvolta, negli stessi distretti corporei la sintomatologia sensitiva è associata ad una crisi motoria (crisi sensitivo-motoria), a causa della stretta contiguità fra circonvoluzione parietale ascendente e circonvoluzione frontale ascendente. La sintomatologia sensitiva deficitaria post-accessuale, talora presente può essere considerata come il corrispettivo fisiopatologico della paralisi di Todd a livello della corteccia sensitiva. Anche le crisi con sintomi somatognosici (impressione di aumento di volume e di lunghezza di un arto, impressione di movimento o di postura anomala, ecc.) rinviano al lobo parietale, senza indicare con sicurezza il lato del focolaio, anche se esistono maggiori probabilità per l’emisfero non dominante. – Crisi visive, hanno un preciso valore localizzatorio solo se si tratta di allucinazioni visive elementari (lampi, macchie, strisce, scintille generalmente colorate e in movimento, ecc.) limitate ad un emicampo. In tal caso, infatti, il focolaio è sicuramente localizzato nell’area visiva primaria controlaterale. Le allucinazioni estese ad entrambi i campi visivi, hanno un valore localizzatorio assai minore. Il significato diagnostico delle allucinazioni visive complesse è descritto a pag. 165. – Crisi uditive, caratterizzate da brusii, soffi, fischi, ronzii, scampanellii, ecc., in una o entrambe le orecchie, depongono per un focolaio epilettogeno localizzato nel lobo temporale (area uditiva primaria), senza peraltro indicarne il lato. – Crisi olfattive, caratterizzate da folate di odori inconsueti, generalmente sgradevoli, come gomma bruciata, uova marce, escrementi, ecc.; dipendono da un focolaio nel lobo temporale mediale. – Crisi gustative, consistenti in sapori elementari, quali amaro, marcio, acido, salato, dolce, aromatico, ecc., talvolta descritte anche come crisi uncinate, sono abitualmente riferibili ad una scarica partita dalla regione temporale mediale o dalla regione fronto-orbitaria, senza alcuna indicazione di lato.
– Crisi vertiginose, caratterizzate da sensazioni di rotazione, di levitazione o di caduta, (da non confondere con la generica sensazione di stordimento che spesso accompagna le crisi epilettiche parziali a sintomatologia elementare), sono particolarmente eccezionali e di scarsissimo valore localizzatorio. 3) Crisi parziali con fenomeni vegetativi I fenomeni vegetativi accessuali rappresentano uno degli aspetti più comuni delle crisi epilettiche parziali a sintomatologia elementare, e si possono considerare espressione di una scarica localizzata nelle strutture limbiche del lobo temporale e/o del lobo frontale, senza peraltro indicarne il lato. La manifestazione vegetativa di gran lunga più frequente nell’adulto e, in assoluto, uno dei sintomi epilettici più comuni, è la crisi epigastrica, consistente in una sensazione fastidiosa di peso, costrizione o tensione, raramente dolorosa, localizzata in regione epigastrica, spesso risalente fino alla gola o addirittura alla bocca, talora accompagnata da borborigmi, eruttazioni o vomito. Le crisi epilettiche possono insorgere isolatamente oppure essere accompagnate da altre manifestazioni vegetative (a loro volta isolate o in varia associazione) quali pallore, rossore, sudorazione, piloerezione, midriasi, modificazioni del ritmo cardiaco (che possono creare problemi diagnostici differenziali di non facile soluzione rispetto alle sincopi seguite da perdita di coscienza), arresto del respiro, enuresi o encopresi (queste ultime, non rare nel corso di crisi epilettiche con perdita di coscienza, sono eccezionali come fenomeno isolato), erezione del pene. 4) Crisi parziali con fenomeni psichici Nella maggior parte dei casi, la fenomenologia psichica è seguita da perdita di coscienza, configurando una crisi epilettica parziale a sintomatologia complessa con aura psichica, ma
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può accadere che le funzioni mentali vengano accessualmente perturbate in assenza di modificazioni della coscienza, determinando così una crisi epilettica parziale a sintomatologia elementare. Le crisi psichiche sono abitualmente causate da una scarica epilettogena nelle strutture limbiche del lobo temporale o nel lobo frontale, per cui è frequente l’associazione con fenomeni olfattivi, gustativi e vegetativi. – Crisi dismnesiche, caratterizzate da incapacità a rievocare i ricordi oppure da distorsione del senso del tempo con sensazione di familiarità (déjà vu) o di estraneità (jamais vu), o ancora dall’evocazione di una serie di episodi della vita passata (visione panoramica dell’esistenza), sono probabilmente le più frequenti. – Crisi cognitive, costituite da esperienze del tutto particolari, come l’impressione di vivere in un sogno, o "stato sognante" (dreamy state); come perdita della propria identità o depersonalizzazione; come perdita della realtà o derealizzazione; come il ritorno improvviso e irresistibile di un’idea o di un ricordo, o "pensiero forzato", ed ancora, l’accelerazione incontrollabile del flusso del pensiero o fuga delle idee. – Crisi illusionali, rappresentate da percezioni distorte: macropsie, gli oggetti possono apparire più grandi e ravvicinati; micropsie, oggetti più piccoli e distanziati; metamorfopsie, la forma è diversa; dismorfopsie, la forma è alterata; poliopsie, il numero degli oggetti è maggiore. Analogamente microacusia e macroacusia si riferiscono all’improvvisa attenuazione o amplificazione dei rumori; teleacusia quando i rumori sembrano allontanarsi, ecc. – Crisi allucinatorie, percezioni accessuali senza oggetto, riguardano abitualmente la sfera visiva o uditiva, e sono talmente vivide che il paziente si sente calato in una sorta di realtà virtuale, come la visione di tavole imbandite, accompagnata dai rumori delle stoviglie e dalle voci dei commensali. – Crisi affettive, esperienze emozionali di cui la più frequente è rappresentata da una paura intensa e paralizzante; molto più rare le emozio-
ni piacevoli (gioia o addirittura estasi) o spiacevoli (depressione); del tutto eccezionali, almeno come espressione di una scarica epilettogena, le crisi di rabbia. Le varie esperienze descritte possono costituire altrettanti aspetti della stessa crisi, per cui il “già visto” può essere accompagnato da alterazioni percettive ben strutturate e comportare, al tempo stesso, una intensa partecipazione emotiva. – Crisi disfasiche. Sono incluse, nell’attuale classificazione, nelle manifestazioni psichiche accessuali e non devono essere confuse con l’arresto della parola. Sono quasi sempre originate da una scarica nell’emisfero dominante e spesso sono accompagnate da turbe della comprensione. In realtà questa distinzione è tutt’altro che netta, per cui alcuni giustamente preferiscono escludere la disfasia dall’elenco dei sintomi psichici e, in accordo con la vecchia classificazione, lasciare le crisi disfasiche fra le crisi parziali con fenomenologia motoria, senza peraltro precisare adeguatamente la differenza fra arresto della parola e disfasia. La cosiddetta aura epilettica. - Tutte le crisi parziali a sintomatologia elementare, qualora seguite da una perdita di coscienza, configurano altrettante “aure”. Ciò può accadere quando ad una crisi parziale semplice segue una crisi parziale complessa oppure una crisi generalizzata tonico-clonica. Dal punto di vista pratico può essere interessante ricordare che gli sviluppi di una crisi parziale semplice (ad esempio, le crisi convulsive tonico-cloniche) sono usualmente più sensibili alla terapia antiepilettica dell’aura stessa, ovvero del segmento iniziale della crisi, che può persistere nel tempo nonostante le cure.
Crisi parziali a sintomatologia complessa Hanno una particolare importanza nell’adulto non solo per la loro frequenza, essendo riscontrabili circa nel 40% degli epilettici, ma anche
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per la loro refrattarietà alle terapie farmacologiche, poiché solo nel 50% dei casi si possono ottenere remissioni durevoli. Come vedremo, le terapie chirurgiche avrebbero particolarmente successo proprio in questo tipo di epilessia. Un ulteriore problema ai fini del trattamento è rappresentato dalla frequente coesistenza di turbe psichiche. Il denominatore comune di queste crisi, che ne giustifica la classificazione separata, è rappresentato dalla compromissione della coscienza, evento che può essere o no preceduto da un’aura, donde la distinzione fra “crisi con inizio parziale semplice seguito da disturbo di coscienza” e “crisi con coscienza alterata fin dall’inizio”. In ambedue i casi, mentre la coscienza è alterata, può verificarsi, ma non sempre, la comparsa dei cosiddetti automatismi, cioè movimenti o comportamenti che il paziente compie automaticamente, senza conservarne alcun ricordo, da cui la distinzione fra crisi complesse solo con disturbo di coscienza o “crisi confusionali”, e crisi complesse con automatismi o “crisi psicomotorie”, queste ultime di gran lunga più frequenti. 1) Crisi confusionali Caratterizzate unicamente dalla perdita di coscienza, vengono denominate anche pseudoassenze, per la loro somiglianza con gli episodi di assenza Piccolo Male di cui, peraltro, sono più prolungate. La scarica epilettogena responsabile delle crisi parziali complesse origina più comunemente dal lobo temporale, ma anche dal lobo frontale, o occasionalmente, addirittura dal lobo parietale o dal lobo occipitale. Ne consegue anzitutto che, contrariamente a quanto si credeva un tempo, il termine crisi parziale complessa non può essere considerato sinonimo di crisi del lobo temporale. In secondo luogo appare evidente che la correlazione fra origine della scarica epilettogena e fenomenologia clinica, già problematica nelle
crisi parziali semplici, diventa ancora più ardua nelle crisi parziali complesse. 2) Crisi psicomotorie Il tipo più comune è caratterizzato da un’aura olfattiva, gustativa, viscerale o psichica riferibile all’interessamento del lobo temporale, cui fa seguito un temporaneo arresto dell’attività del soggetto che appare immobile, con lo sguardo fisso, incapace di mantenere il contatto con il mondo esterno, verosimilmente per una perdita di coscienza più o meno completa. A questo punto subentrano gli automatismi che, nel singolo soggetto, sono quasi sempre uguali: può accadere che il paziente muova la bocca come se gustasse o deglutisse il cibo, “automatismi orali”; oppure tocchi gli oggetti, riassetti gli abiti, si frughi nelle tasche, afferri chi gli sta vicino, “automatismi gestuali”; o ancora cambi espressione, come se fosse profondamente emozionato, “automatismi mimici”. Meno spesso il malato muove qualche passo, ma può anche uscire dalla stanza e camminare per lunghi tratti, “automatismi ambulatori”; oppure può emettere suoni inarticolati o pronunciare frasi convenzionali, “automatismi verbali”. Questi comportamenti automatici, abitualmente stereotipati, sono seguiti da una fase di confusione mentale accompagnata da altri automatismi cosiddetti reattivi, poiché il loro contenuto, ad esempio, il riprendere l’attività in corso prima della crisi oppure il rivolgersi in qualche modo all’ambiente circostante, a differenza di quelli descritti in precedenza, è collegabile alla situazione contingente. I tentativi di immobilizzare il soggetto in questa fase della crisi possono dar luogo ad una reazione violenta. La scarica epilettogena responsabile di questo tipo di crisi partirebbe dall’ippocampo, senza alcuna indicazione di lato, almeno nella maggioranza dei casi. Un secondo tipo di crisi, meno frequente, si caratterizza per l’inizio improvviso, senza alcun preavviso, e per l’immediato passaggio alla fase
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degli automatismi, senza il preambolo dell’immobilità inespressiva. Gli automatismi sono prevalentemente bilaterali e consistono in movimenti di rotolamento, pedalamento, scalciamento, percussione, nuoto, ecc. Si possono osservare anche veri e propri automatismi sessuali, con inarcamento del dorso e avanzamento del bacino, per cui questi soggetti vengono spesso considerati isterici, ma si deve rilevare che questi episodi insorgono prevalentemente durante il sonno. In questi casi, la fase di confusione mentale, con cui abitualmente si concludono le crisi del primo tipo, spesso manca del tutto. La scarica epilettogena responsabile partirebbe dalla regione fronto-orbitaria e, non raramente, può dar luogo ad uno stato di male complesso. Un terzo tipo di crisi complesse, denominato anche “sincope del lobo temporale” è, a differenza dei precedenti, caratterizzato da una improvvisa risoluzione del tono posturale con caduta a terra. La sua rilevanza pratica, per la verità, è assai scarsa, trattandosi di una manifestazione piuttosto rara. Riassumendo, le crisi epilettiche parziali a sintomatologia complessa comprendono: a) le crisi confusionali, senza automatismi; b) le crisi psicomotorie del primo o del secondo tipo, che costituiscono la varietà più frequente; c) le c.d. sincopi del lobo temporale.
Crisi parziali con secondaria generalizzazione della scarica epilettogena Sia le crisi epilettiche parziali a sintomatologia semplice che le crisi epilettiche parziali a sintomatologia complessa possono sfociare in una crisi generalizzata convulsiva, abitualmente tonico-clonica. Dal punto di vista pratico è importante sottolineare che la fase iniziale può passare del tutto inosservata, o perché l’attacco è esploso men-
tre il paziente dormiva (a questo proposito conviene ricordare che i casi di crisi tonico-cloniche ad esordio tardivo che insorgono durante il sonno dovrebbero essere sempre considerati di origine focale, almeno fino a prova contraria); oppure perché la generalizzazione della scarica è avvenuta con estrema rapidità (crisi parziali a pronta generalizzazione); o ancora perché la scarica epilettogena è partita da una zona della corteccia clinicamente muta. Le crisi epilettiche secondariamente generalizzate sono più frequenti nel bambino che nell’adulto (16% e 9% rispettivamente) e si caratterizzano per la grande sensibilità alla terapia farmacologica, anche quando l’effetto sul segmento iniziale (focale) della crisi è scarso, come accennato in precedenza.
Crisi epilettiche primitivamente generalizzate Comprendono le assenze tipiche ed atipiche, le crisi miocloniche, le crisi convulsive tonicocloniche, oppure toniche o cloniche, e le crisi atoniche. Tutte le crisi epilettiche generalizzate, ad eccezione delle crisi miocloniche e delle crisi atoniche, sono accompagnate da perdita di coscienza. Durante la crisi, l’EEG può essere caratterizzato da: a) ritmo reclutante, inizialmente a 10 o più Hz, che progressivamente diminuisce di frequenza e aumenta di ampiezza nelle crisi convulsive tonico-cloniche, toniche o cloniche); b) scariche di complessi punta-onda a 3-4 Hz con ritmo di fondo normale nella assenza tipica; c) scariche di complessi puntaonda "lenti" a 2,5 Hz, con ritmo di fondo rallentato nella assenza atipica; d) scariche di complessi polipunta-onda nelle crisi miocloniche ed atoniche. Nei periodi intercritici il tracciato può essere normale, ad eccezione delle assenze atipiche in cui il ritmo di fondo appare rallentato, oppure presentare occasionalmente scariche di complessi punta-onda (“lenti” nel caso delle assenze atipiche) o polipunta-onda. Sia nei
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periodi critici che nei periodi intercritici, la distribuzione delle alterazioni EEG è bilaterale e tendenzialmente simmetrica (Fig. 27.1). Anche le manifestazioni motorie, sempre presenti tranne che nell’assenza semplice, sono bilaterali e usualmente simmetriche. Come sarà ulteriormente spiegato più avanti (v. pag. 1171), è rimasto a lungo incerto se la scarica epilettogena responsabile delle crisi generalizzate origini da un “pacemaker” situato nella sostanza reticolare mesencefalotalamica, dotata di proiezioni diffuse all’intera corteccia cerebrale (ipotesi centroencefalica), o alternativamente, dalla neocorteccia, soprattutto da aree frontali o parietali (ipotesi corticale). Il problema sembra avere trovato una soluzione nella ipotesi cortico-reticolare (Gloor e Fariello, 1988), in base alla quale le normali afferenze reticolo e talamo-corticali, raggiungendo una corteccia congenitamente ipereccitabile, attiverebbero massivamente i circuiti riverberanti cortico-talamici e talamo-corticali a proiezione diffusa, permettendo così una repentina diffusione della scarica epilettogena all’intera neocorteccia.
Assenze tipiche o "Piccolo Male" Corrispondono ad improvvise e fugaci perdite di coscienza (4-20 sec) a frequenza plurigiornaliera (fino a varie decine), caratterizzate da arresto comportamentale senza evidenti modificazioni del tono posturale, sguardo “fisso nel vuoto” o deviato verso l’alto, talora automatismi o fenomeni vegetativi e immediato ritorno alla normalità al termine della crisi senza alcun esito post-accessuale. Le assenze possono essere semplici, caratterizzate unicamente da perdita di coscienza, o complesse, con perdita di coscienza accompagnata da altri fenomeni, quali: a) contrazioni cloniche, più o meno evidenti, dei muscoli delle palpebre, dell’angolo della bocca e della radice degli arti nelle “assenze cloniche”; b) ipotonia dei muscoli del capo, del tronco o anche degli arti, talora con caduta a terra nelle “assenze atoniche”; c) ipertonia dei muscoli assiali per cui, se il paziente è in piedi, può verificarsi una caduta rigida, “a statua” nelle “assenze toniche”; d) automatismi non molto diversi da quelli che accompagnano le crisi
psicomotorie, nelle “assenze con automatismi”; in questo caso la diagnosi differenziale è possibile solo con l’aiuto dell’EEG anche se, di solito, le crisi psicomotorie sono più prolungate; e) fenomeni vegetativi di vario tipo come rossore, pallore, enuresi nelle “assenze con componente vegetativa”; f) marcata fotosensibilità alla stimolazione luminosa intermittente. Tale distinzione attualmente viene ritenuta importante per distinguere dall’Epilessia tipo Assenza Infantile (caratterizzata esclusivamente da assenze semplici, v. pag. 1148) sindromi molto simili - e precedentemente accomunate ad essa, ma con implicazioni eziologiche e cliniche molto probabilmente differenti (v. recente Proposta ILAE, Engel, 2001).
Assenze atipiche Differiscono dalle assenze tipiche non solo perché la durata è maggiore, l’inizio e la fine meno repentini e le componenti motorie (toniche, atoniche o cloniche) più marcate, ma anche per le caratteristiche elettroencefalografiche, sia durante le crisi che nei periodi intercritici, che possono rivelarsi determinanti ai fini diagnostici.
Crisi miocloniche Sono caratterizzate da scosse di brevissima durata dei muscoli degli arti, più raramente dei muscoli assiali, che possono provocare il lancio in aria degli oggetti o la caduta a terra del soggetto, a seconda che siano interessati gli arti superiori o gli arti inferiori. La coscienza, solitamente, non è perturbata.
Crisi tonico-cloniche o “Grande Male” Costituiscono la varietà più drammatica delle crisi epilettiche. Abitualmente iniziano con perdita di coscienza e contrazione tonica gene-
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ralizzata o “fase tonica”, per cui, se il malato è in piedi, cade rovinosamente a terra, con possibilità di traumi e ferite; a causa della violenta espulsione dell’aria dalla cassa toracica, può verificarsi l’emissione di un grido o di un mugolio; a causa dell’apnea provocata dalla “immobilizzazione” tonica dei muscoli respiratori il paziente diventa cianotico; per la contrazione serrata dei muscoli masticatori può morsicarsi la lingua. Dopo 10-30 secondi lo spasmo muscolare cede e, per il ritmico rilasciamento della muscolatura, subentrano scosse cloniche sempre più ampie, che scuotono violentemente il corpo o “fase clonica”, per poi diradarsi progressivamente fino a cessare del tutto. Nel frattempo la respirazione riprende, sia pure con difficoltà, e dalla bocca scola saliva, spesso mista a sangue. Il tutto dura meno di un minuto. Il soggetto poi si rilascia, respira in modo profondo e rumoroso (“respiro stertoroso”) e resta incosciente per 5-10 minuti. In questa fase il riflesso plantare è in estensione bilateralmente ed è frequente il riscontro di perdita di urine, più raramente di feci. Il risveglio è graduale ed è generalmente preceduto da una parentesi confusionale, spesso accompagnata da automatismi, “automatismi post-accessuali”. Le varie fasi: tonica, clonica e post-accessuale, sono accompagnate da alterazioni EEG caratteristiche (Fig. 27.1). Quando il paziente riprende coscienza accusa quasi sempre cefalea e dolenzia muscolare diffusa.
Crisi convulsive toniche e crisi convulsive cloniche Non sono altro che crisi di Grande Male incomplete per la mancanza o della fase clonica o della fase tonica, sempre accompagnate da perdita di coscienza e da una fenomenologia vegetativa più o meno marcata, del tutto analoga a quella osservabile nelle crisi tonico-cloniche.
Crisi atoniche Sono caratterizzate da una temporanea risoluzione del tono muscolare di durata variabile, senza perdita di coscienza se il fenomeno dura solo 1 o 2 secondi; con perdita di coscienza se la crisi è più prolungata, da alcuni secondi a vari minuti. In tal caso il paziente resta a terra immobile, rilasciato e, naturalmente, incosciente per poi riprendersi gradualmente attraversando una breve fase di confusione, eventualmente accompagnata da automatismi reattivi. In altri casi la risoluzione del tono muscolare, anziché essere globale e completa con caduta a terra ed eventuale perdita di coscienza, può essere parziale, per cui la crisi può risultare unicamente costituita da una improvvisa caduta del capo sul tronco.
Crisi non classificabili Rientrano in questo gruppo le crisi epilettiche che non trovano posto nelle tipologie precedenti. Tutte le crisi epilettiche illustrate fino ad ora, parziali e generalizzate, possono presentarsi in maniera ricorrente, configurando così altrettante sindromi epilettiche o epilessie propriamente dette. Le crisi epilettiche occasionali, invece, comprendono unicamente le crisi epilettiche generalizzate tonico-cloniche e, meno spesso, le crisi parziali motorie. In realtà non si può escludere l’occorrenza di crisi epilettiche parziali occasionali a sintomatologia complessa, soprattutto quando, a causa dell’encefalopatia causale (metabolica, tossica o strutturale), il paziente è confuso, o addirittura in coma, donde l’impossibilità di rilevare eventuali fenomeni accessuali che non siano caratterizzati da una visibile fenomenologia motoria (bilaterale o unilaterale). Pur con queste riserve, si può ritenere che determinati tipi di crisi, ad esempio le crisi epilettiche generalizzate non convulsive, siano praticamente sinonimo di epilessia, mentre altri tipi di crisi, ad esempio le crisi epilettiche convulsive parziali o generalizzate, possono sottintendere sia una condizione epilettogena occasionale che una epilessia propriamente detta.
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Classificazione delle epilessie e delle sindromi epilettiche Seguendo l’impostazione proposta dalla Commissione per la Classificazione e Terminologia della Lega Internazionale contro l’Epilessia (1981-1989), viene adottata una classificazione semplificata delle epilessie e sindromi epilettiche ispirata ad un duplice criterio, patogenetico ed eziologico. In particolare, in base al criterio patogenetico esse possono suddividersi in localizzate (sinonimi: focali, locali, parziali), con semeiologia iniziale deponente per una attivazione di parte di un solo emisfero, e generalizzate, con semeiologia iniziale deponente per un coinvolgimento simultaneo di entrambi gli emisferi. Nello stesso tempo, in base al criterio eziologico, le stesse forme possono ulteriormente suddividersi in idiopatiche o primarie (epilessie senza alcuna lesione strutturale cerebrale e senza altri sintomi o segni neurologici, di probabile origine genetica) ed in sintomatiche o secondarie (epilessie causate da una o più lesioni cerebrali documentabili). Qualora la lesione non sia documentabile, ma se ne sospetti fortemente l’esistenza, l’epilessia è definita criptogenetica. Saranno invece considerate a parte le Epilessie Riflesse (a modalità di provocazione specifica), le Epilessie del Sonno, le Convulsioni Febbrili, le Crisi Epilettiche Occasionali e gli Stati di Male epilettico.
1. - Epilessie e Sindromi epilettiche localizzate A. Idiopatiche Sono epilessie a prognosi benigna ad esordio fra i 5 e i 15 anni, caratterizzate da fenomeni intercritici e critici localizzati in particolari aree corticali, con alternanza di lato. La forma più comune (15-25% di tutte le epilessie infan-
tili) è l’epilessia a punte rolandiche, caratterizzata da crisi parziali elementari motorie, convulsioni toniche o cloniche con topografia emifaciale, emifacio-brachiale, più raramente emifacio-brachio-crurale, talora con secondaria generalizzazione. Le crisi, ad insorgenza prevalentemente notturna, non sono molto frequenti, solo qualche attacco all’anno, e tendono ad estinguersi spontaneamente entro i 15-20 anni. L’EEG intercritico è caratterizzato da punte di grande ampiezza localizzate nella regione rolandica. Data la rarità delle crisi e la benignità della prognosi, la terapia può essere superflua. Esistono altre forme, più rare, di epilessia localizzata idiopatica, caratterizzate da crisi visive semplici, o “epilessia a punte occipitali”; da crisi affettive o “epilessia a punte temporali”, molto vicine all’epilessia a punte rolandiche sia per l’età di insorgenza che per la prognosi. B. Sintomatiche Pur insorgendo più spesso nell’adulto, presentano un’età di esordio estremamente dispersa, dalla prima infanzia alla vecchiaia, essendo legate all’epoca di comparsa della patologia responsabile del focolaio epilettogeno. Conseguentemente anche la prognosi è molto variabile, ed in rapporto con la natura della lesione epilettogena. Se a ciò si aggiunge che le forme localizzate sintomatiche includono tutte le tipologie “parziali” semplici e complesse descritte, appare evidente che, mentre le epilessie localizzate idiopatiche formano un raggruppamento relativamente omogeneo, le epilessie localizzate sintomatiche costituiscono un insieme estremamente eterogeneo. Per questo motivo, molti epilettologi contestano l’effettiva utilità di questo raggruppamento ai fini della classificazione di un caso clinico, poichè l’attribuzione a un gruppo così vasto e composito come le epilessie localizzate sintomatiche non aiuta molto a caratterizzare il caso. Nè sembra avere molto senso l’ulteriore suddivisione, prevista dalla Classificazione
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ILAE 1989, in epilessie frontali, temporali, parietali e occipitali, ove si consideri la scarsa affidabilità delle correlazioni anatomo-cliniche di cui si è ripetutamente discusso nel paragrafo dedicato alla fenomenologia delle crisi epilettiche parziali. Coloro che hanno tentato di individuare la localizzazione del focolaio epilettogeno sulla base dei soli dati clinici, hanno dovuto constatare che ciò era possibile in meno del 25% dei casi. Tuttavia, riunendo le epilessie localizzate sintomatiche in un unico raggruppamento, è possibile mettere a fuoco il problema non eludibile, delle cosiddette epilessie criptogenetiche, da causa non determinata. Infatti, circa il 50% di tutte le epilessie è rappresentato da casi in cui la lesione epilettogena può essere solo postulata ma non documentata, almeno con gli esami diagnostici attualmente disponibili; in questi casi, non appare corretto parlare di epilessia idiopatica, poichè clinicamente le forme criptogenetiche sono assai più vicine alle epilessie localizzate sintomatiche, da lesione cerebrale identificata, che alle forme localizzate idiopatiche. Questa considerazione vale anche per le epilessie generalizzate sintomatiche, di cui una larga quota è criptogenetica.
2. - Epilessie e Sindromi epilettiche generalizzate A. Idiopatiche Si tratta di forme ad impronta eredo-familiare e di natura geneticamente determinata (v. Predisposizione familiare, pag. 1174), che si manifestano in soggetti con sviluppo intellettivo normale, in assenza di altre manifestazioni neurologiche o malattie sistemiche. Le epilessie generalizzate idiopatiche sono caratterizzate da una buona risposta terapeutica, ma, purtroppo, anche da una spiccata tendenza a recidivare qualora la terapia venga sospesa; una cospicua percentuale di casi, soprattutto
quelli di epilessia tipo assenza infantile, tendono ad evolvere in una guarigione completa e definitiva. Comprendono (oltre alle convulsioni benigne neonatali per cui si rimanda ai testi di neurologia pediatrica) varie forme cliniche distinte in rapporto all’età di insorgenza, alla sintomatologia ed alla modalità di comparsa delle crisi. Molto spesso si verifica una transizione da un tipo di epilessia all’altro: il caso più classico è sicuramente rappresentato dall’epilessia tipo assenza infantile che può trasformarsi in un’epilessia Grande Male con crisi generalizzate tonico-cloniche. 1. - EPILESSIA TIPO ASSENZA INFANTILE (O "PICNOLESSIA") Costituisce circa il 10-12% di tutte le epilessie in età scolare; dopo 5-10 anni dall’inizio, nel 40-60% dei casi, in particolare quelli meno sensibili alle cure, possono insorgere crisi convulsive generalizzate Grande Male. Si manifesta in età compresa fra 4 e 10 anni (con picco fra 5 e 7 anni) in soggetti normali, più frequentemente di sesso femminile e con forte predisposizione famigliare. È tipicamente caratterizzata da improvvise e fugaci assenze tipiche di tipo semplice (4-20 sec) (v. pag. 1145), a frequenza plurigiornaliera (fino a varie decine). La scarica bilaterale e simmetrica di complessi punta-onda ritmici a 3 Hz, classicamente associata con questo tipo di crisi, non necessariamente è accompagnata da perdita di coscienza se non dura almeno 5 secondi, per cui tanto più essa si prolunga, tanto maggiori sono le probabilità che l’assenza sia clinicamente manifesta. Poiché l’attività EEG di fondo risulta normale, la possibilità di documentare l’insorgenza di alterazioni intercritiche talvolta rimane limitata a condizioni particolarmente favorenti, quali iperpnea e sonno non REM. Pertanto, la registrazione videoEEG è diffusamente considerata l’indagine di scelta a fine diagnostico. L’evoluzione nel tempo delle assenze vere e proprie registra, nel 6% circa dei casi, il perdu-
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rare dello stesso tipo di crisi, anche in età adulta. La percentuale di casi in cui si verifica una remissione completa e definitiva è verosimilmente compresa fra il 30 e il 40%. 2. - EPILESSIA TIPO ASSENZA GIOVANILE. - È una forma meno comune che insorge in età compresa fra 10 e 17 anni (picco fra 10 e 12), in cui le crisi tipo assenza sono meno numerose (e per questo motivo definite “spaniolettiche”), ed in cui la sovrapposizione di crisi convulsive tonico-cloniche, soprattutto al momento del risveglio, è molto più frequente, circa l’80% dei casi. In una percentuale non trascurabile di casi (16%), inoltre, possono verificarsi anche crisi miocloniche. 3. - EPILESSIA MIOCLONICA GIOVANILE (SINDROME DI JANZ). - Si tratta di una varietà di epilessia tutt’altro che rara, circa il 6% delle crisi insorgenti in età giovanile, caratterizzata dalla comparsa improvvisa di mioclonie bilaterali, singole o ripetitive, abitualmente aritmiche, irregolari e prevalenti agli arti superiori, osservabili soprattutto poco dopo il risveglio (v. pag. 1145). Altri fattori precipitanti sono la privazione del sonno, gli stress psicofisici, l’abuso di alcoolici e la stimolazione luminosa intermittente. Insorgono soprattutto fra i 12 e i 18 anni, possono associarsi con crisi di assenza dal 10 al 30% dei casi; e ancor più frequentemente, fino al 90% dei casi, con crisi convulsive tonico-cloniche. Poichè non di rado le mioclonie passano inosservate, spesso l’insorgenza delle crisi tonico-cloniche consente di riconoscere l’intera sintomatologia. L’EEG intercritico è caratterizzato da complessi punta-onda o polipunta-onda irregolari e rapidi (> 3 Hz), bilaterali, che durante le crisi non risultano strettamente in fase con le mioclonie. Questa forma di epilessia è molto sensibile alle cure ma, sfortunatamente, anche alla loro sospensione, che comporta recidive nel 90% dei casi: ne consegue che una guarigione completa deve considerarsi molto rara.
4. - EPILESSIA CON CRISI TONICO-CLONICHE GENERALIZZATE AL RISVEGLIO. - È caratterizzata da crisi (v. pag. 1145) insorgenti fra i 5 e i 30 anni. Occasionalmente coesistono crisi miocloniche o crisi di assenza. Le crisi insorgono preferibilmente al risveglio, e possono essere scatenate da vari fattori fra cui la fatica, lo stress, l’abuso di alcoolici, la stimolazione luminosa intermittente. L’insorgenza delle crisi tonico-cloniche può essere preceduta da fenomeni prodromici generici, come alterazioni del tono dell’umore, cefalea, turbe digestive, poliuria, tachicardia, polluzioni notturne, ecc., o specifici, come aumento di frequenza delle mioclonie che, a differenza dell’aura, non fanno parte integrante della crisi epilettica. B. Sintomatiche (o criptogenetiche) Sono rappresentate da un gruppo di epilessie infantili a prognosi generalmente maligna e con elevata mortalità. Tuttavia, fatta eccezione per i casi in cui la sintomatologia epilettica è legata ad un errore congenito del metabolismo, il cui decorso è inesorabilmente progressivo e quasi sempre si conclude con l’exitus, non è raro che questi malati sopravvivano, magari con esiti importanti (paralisi cerebrale, insufficienza mentale, ecc.). In tal caso capita spesso di assistere ad un cambiamento del tipo di attacchi per cui alle crisi miocloniche, toniche, atoniche, assenze atipiche, si sostituiscono crisi parziali a sintomatologia semplice o a sintomatologia complessa che si caratterizzano per la molteplicità clinica ed elettroencefalografica dei focolai epilettogeni. Il capitolo è estremamente vasto, privo di un inquadramento nosografico soddisfacente ed è di interesse prevalentemente neuropediatrico, per cui la trattazione è volutamente limitata ai quadri di osservazione più rilevanti o frequenti, ed in particolare (in ordine di età d’insorgenza): sindrome di West; sindrome di LennoxGastaut; Epilessia con crisi Mioclonico-Astatiche; Epilessia con Assenze Miocloniche; Epilessia Mioclonica grave dell’infanzia .
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Le encefalopatie epilettogene infantili riconoscono un complesso di cause piuttosto eterogeneo, quali malformazioni cerebrali, anossie perinatali, malattie mitocondriali o da accumulo lisosomiale, aminoacidopatie, encefaliti postvacciniche e virali, ecc., ma in una cospicua percentuale di casi, designati come forme criptogenetiche, le crisi possono manifestarsi anche in assenza di una causa documentabile, verosimilmente una patologia organica che sfugge agli attuali mezzi di indagine. Ciò comporta non pochi problemi di classificazione anche perché i casi criptogenetici dimostrano una prognosi globalmente migliore rispetto alle forme sintomatiche. Per tali quadri si rimanda a testi specializzati di neurologia pediatrica. SINDROME DI WEST (1841). - Inizia entro il primo anno di vita, con picco fra 4 e 7 mesi, in bambini fino ad allora apparentementi normali, su base sintomatica o criptogenetica. È caratterizzata da una triade comprendente: 1) spasmi in flessione, consistenti in contrazioni muscolari brusche e brevi (miocloniche) o prolungate (toniche), che interessano i muscoli del collo, del tronco e degli arti determinando una flessione del capo e del tronco ed una proiezione degli arti; altre volte gli spasmi possono essere in estensione o anche misti, flesso-estensori; 2) arresto dello sviluppo psicomotorio non facilmente individuabile all’inizio, data l’età del paziente: il bambino perde il contatto con la madre, smette di sorridere e diventa apatico. Con il passare del tempo il difetto mentale si aggrava e diventa sempre più evidente; 3) un quadro EEG caratterizzato da una estrema disorganizzazione del ritmo di fondo designata “ipsaritmia” (Gr. hypsi =alto + arhytmòs= aritmico, Gibbs e Gibbs, 1952), con onde lente e punte di elevato voltaggio, che - in coincidenza con gli spasmi - presenta una improvvisa e globale riduzione di ampiezza del tracciato (“suppression burst”) dovuta alla comparsa di ritmi rapidi a basso voltaggio. In una minoranza di casi (10%) l’evoluzione è favorevole, con cessazione delle crisi e normalizzazione dello stato mentale: ciò avviene, in genere, nelle forme “criptogenetiche” che possono trarre vantaggio dal trattamento precoce con ACTH e corticosteroidi. Nella maggioranza dei casi, purtroppo, l’evoluzione è sfavorevole con persistenza del difetto mentale e delle manifestazioni epilettiche, la cui fenomenologia, peraltro, si modifica nel corso degli anni assumendo i caratteri di una sindrome di Lennox-Gastaut (40% dei casi) o anche di crisi epilettiche parziali con eventuale generalizzazione. Una percentuale non trascurabile (10-20%) dei casi va incontro all’exitus.
SINDROME DI LENNOX-GASTAUT. - Si sviluppa tra 1 e 8 anni, con picco fra 3 e 7 anni, a seguito di una pregressa encefalopatia nel 60% dei casi, oppure in assenza di una patologia cerebrale documentata nel 40%. Rappresenta più del 10% delle epilessie infantili e si caratterizza per tre aspetti, e precisamente: 1) crisi epilettiche di vario tipo, spesso pluriquotidiane, costituite prevalentemente da assenze atipiche, crisi atoniche e crisi toniche, ma anche da crisi parziali o generalizzate tonico-cloniche; a volte possono verificarsi veri e propri stati di male; 2) un ritardo mentale di grado medio o grave, talora accompagnato da difetti neurologici focali; 3) un quadro EEG caratterizzato da un diffuso rallentamento del ritmo di fondo, su cui insorgono scariche parossistiche di complessi punta-onda lenti (> 3 Hz), spesso associate ad assenze atipiche. La risposta alla maggior parte dei farmaci antiepilettici, anche in associazione, è quasi sempre scarsa (fatta eccezione per il Felbamato), e ciò si associa ad una evoluzione abitualmente sfavorevole, soprattutto nelle forme sintomatiche, con persistenza delle crisi, prevalentemente di tipo focale ma spesso con pronta generalizzazione, e limitato sviluppo intellettivo. EPILESSIA CON CRISI MIOCLONICO-ASTATICHE. - Insorge in età comprese fra 7 mesi e 6 anni (soprattutto fra 2 e 5, con prevalenza maschile 2:1) manifestandosi con una notevole varietà di crisi in associazione: miocloniche, astatiche o mioclonico-astatiche, assenze con componenti cloniche o toniche, crisi tonico-cloniche, ed infine, nei casi più gravi, con crisi toniche tardive. L’EEG, inizialmente caratterizzato da predominante attività a 4-7 Hz, dimostra successivamente la comparsa di complessi punta-onda irregolari, o da complessi polipunta-onda a frequenza > 3 Hz. Il decorso di queste forme è assai variabile, e la prognosi, almeno all’inizio, impossibile. EPILESSIA CON ASSENZE MIOCLONICHE. - Esordisce generalmente all’età di circa 7 anni con crisi tipo assenza accompagnate da scosse miocloniche ritmiche bilaterali, ricorrenti più volte al giorno. Il quadro EEG è simile a quello dell’epilessia tipo assenza infantile, ma la prognosi è meno favorevole. EPILESSIA MIOCLONICA GRAVE DELL’INFANZIA (SINDROME DI DRAVET, 1978). - Si tratta di una malattia rara (incidenza
1:20.000-30.000) che insorge entro il 1° anno di vita con crisi cloniche generalizzate o unilaterali, molto spesso insorgenti in presenza di febbre, cui successivamente si associano: a) crisi miocloniche parcellari, parziali o segmentali, a distribuzione multifocale, che tendono a diventare massive e generalizzate; b) crisi tipo assenza atipica; c) crisi parziali complesse (adversive, con automatismi, vegetative). Il decorso è caratterizzato dall’insorgenza di ritardo psicomotorio ingravescente con turbe
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1151 comportamentali, talora ad impronta psicotica; quadri atassici o piramidali; stati di male epilettico convulsivo (spesso febbrili) o stati di male non convulsivo con mioclonie, causa di morte nel 14% dei casi. La prognosi, pertanto, risulta in genere molto grave (Dravet et al., 1992).
Epilessie Riflesse (con crisi indotte da specifiche modalità di attivazione) Comprendono particolari forme cliniche in cui le crisi compaiono solo a seguito di determinati stimoli psicosensoriali e, più comunemente, a causa di stimoli visivi intermittenti. In realtà, questa definizione è ingiustificatamente restrittiva, in quanto esclude tutte le situazioni in cui le crisi possono comparire anche in maniera apparentemente spontanea. Nel 3% dei casi affetti da crisi epilettiche “spontanee”, le crisi possono anche essere scatenate da una adeguata stimolazione luminosa intermittente; inoltre, circa la metà dei soggetti con epilessia riflessa da qualsivoglia stimolo è anche “fotosensibile”. Questa forma di sensibilità è particolarmente frequente nelle assenze idiopatiche, sia infantili che giovanili, nell’epilessia mioclonica giovanile e in alcune forme di epilessia mioclonica progressiva, mentre è molto più rara nelle epilessie generalizzate sintomatiche e nelle epilessie localizzate, idiopatiche o sintomatiche. Stimoli luminosi intermittenti possono essere prodotti non solo mediante apposite apparecchiature utilizzate nei laboratori di elettroencefalografia clinica, ma anche dalla TV, dai videogiochi, dalle luci psichedeliche o più banalmente dall’attraversamento veloce di un viale alberato. Esiste una frequenza critica di stimolazione, abitualmente compresa fra 15 e 20 stimoli al secondo. Il correlato elettroencefalografico della fotosensibilità è rappresentato dalla cosiddetta risposta fotoconvulsiva, caratterizzata dalla comparsa di scariche di complessi punta-onda a 3-5 Hz bilaterali e sincroni. La protezione visiva (occhiali cromatici) può rivelarsi molto utile.
Circa 1/3 di questi soggetti è sensibile anche alla presentazione di particolari disegni geometrici (patterns) come, ad esempio, una successione di strisce (orizzontali o verticali) chiare e scure. Questo fenomeno è responsabile della cosiddetta epilessia televisiva: l’immagine TV, infatti, è formata dall’alternanza di tracce più o meno luminose create sullo schermo dal passaggio del raggio catodico. Onde prevenire lo scatenamento delle crisi può essere sufficiente suggerire ai soggetti con epilessia televisiva (o comunque sensibili ai patterns) di mantenersi ad una adeguata distanza dal televisore e di ridurre opportunamente sia la luminosità che il contrasto. Oltre agli stimoli visivi, esiste una vasta gamma di circostanze scatenanti (dal calcolo mentale alla lettura, dal gioco delle carte al gioco degli scacchi, dalla musica all’atto di mangiare, ecc.), ma la relativa casistica è assai scarsa. Anche le epilessie parziali, meno spesso delle generalizzate, possono essere scatenate da particolari stimoli psicosensoriali. Questo vale sia per le forme parziali idiopatiche, come l’epilessia da lettura (reading epilepsy) che per certe forme parziali sintomatiche, come l’epilessia scatenata dall’atto di mangiare (eating epilepsy); l’epilessia da stimoli sensitivo-sensoriali con reazione di sorpresa (épilepsie sursaut o startle epilepsy o iperrekplexia); l’epilessia da stimoli tattili o propriocettivi, senza reazione di sorpresa. In ogni caso è opportuno sottolineare che il valore pratico di queste informazioni, fatta eccezione per il concetto di fotosensibilità che rappresenta un evento tutt’altro che eccezionale, è decisamente scarso, data l’estrema rarità di questi casi. Molti includono le circostanze responsabili delle cosiddette epilessie riflesse fra i fattori precipitanti della crisi epilettica. Ma esistono anche fattori precipitanti non specifici, come il ciclo sonno-veglia (si è ripetutamente accennato a crisi che insorgono preferibilmente al risveglio, oppure durante il sonno o l’addormentamento, v. pag. 1173); il ciclo mestruale; alcune cause tossiche,
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come l’assunzione di alcool a dosi eccessive; e perfino i fattori emotivi, il cui effetto scatenante è stato segnalato in oltre il 20% dei soggetti con crisi parziali complesse e focolaio epilettogeno localizzato nel lobo temporale.
Epilessie del Sonno Alcune particolari e relativamente infrequenti sindromi epilettiche infantili o giovanili, di cui verrà fornita una semplice elencazione, hanno la caratteristica di manifestarsi prevalentemente, o quasi esclusivamente, durante il sonno (Coccagna, 2000). Si tratta di un gruppo eterogeneo di forme, alcune delle quali ad impronta genetica più o meno definita, altre di natura sconosciuta, la cui diagnosi richiede tassativamente uno studio poligrafico del sonno notturno. Tali forme non debbono essere confuse con i casi in cui il sonno svolge un ruolo genericamente favorente l’insorgenza delle crisi. A questo proposito, va ricordato che il sonno viene utilizzato come tecnica di attivazione delle alterazioni parossistiche nei casi in cui l’EEG sia scarsamente espressivo durante lo stato di veglia. EPILESSIA
CON SCARICHE PUNTA-ONDA CONTINUE DURAN-
TE IL SONNO AD ONDE LENTE.
- Definita anche come "Stato di Male Elettrico durante il Sonno ad Onde Lente" (ESES) è di genesi sconosciuta, può insorgere in una età compresa fra 2 mesi e 12 anni, sia in bambini con normale sviluppo psicomotorio che in bambini con segni neurologici di pregressa encefalopatia (emiparesi, tetraparesi, ipotonia diffusa, atassia), manifestandosi con crisi generalizzate o parziali di vario tipo (cloniche unilaterali o bilaterali, tonico-cloniche, assenze, parziali elementari motorie o a sintomatologia complessa, con caduta), che si manifestano durante la veglia o il sonno. Nella metà dei casi questa forma esordisce con crisi unilaterali notturne; l’evoluzione è assai variabile, poiché nel 60% dei casi possono associarsi differenti tipi di crisi. L’intensificarsi delle crisi diurne e notturne e la comparsa di crisi con caduta annuncia la transizione verso il tipico quadro EEG notturno, unitamente all’insorgenza di un rapido e progressivo deterioramento delle funzioni cognitivomentali, del comportamento e del linguaggio. Il trattamento di scelta è rappresentato dall’associazione di Valproato con benzodiazepine (Diazepam), queste ultime somministrate in cicli di 3-4 settimane (De Negri, 1997).
SINDROME DI LANDAU-KLEFFNER. - Definita da questi Autori come “Sindrome di Afasia acquisita con Disturbo Convulsivo nei bambini” (1957), esordisce, a volte anche acutamente, con una agnosia uditiva verbale e per i suoni famigliari che simula una perdita di udito, con successiva comparsa di afasia espressiva; crisi tipo assenza atipica e crisi motorie, parziali o generalizzate, nettamente più frequenti nel sonno, con EEG notturno dominato nelle fasi non REM da un’attività continua di complessi punta-onda bilaterali (Stato di Male Elettrico); disturbi comportamentali (ipereccitabilità, iperattività), senza il grave deterioramento mentale presente nel quadro precedentemente descritto. A questo proposito, il trattamento con Valproato più benzodiazepine e corticosteroidi è fondamentale (vedi sopra). I rapporti fra questa forma e la precedente sono molto stretti, suggerendo l’esistenza di un “continuum” con differenti modalità espressive (De Negri, 1997). EPILESSIA AUTOSOMICA DOMINANTE NOTTURNA DEL LOBO (ADNFLE).- Identificata in un gruppo fenotipicamente omogeneo di famiglie australiane, inglesi e canadesi (Scheffer et al., 1995) e più recentemente anche in una famiglia italiana (Gambardella et al., 2000), questa rara forma geneticamente determinata (v. Tab. 27.1) è caratterizzata da grappoli di brevi crisi parziali notturne con manifestazioni motorie ipercinetiche o toniche di tipo “frontale” (v. pag. 1144), spesso precedute da aura, durante le quali il soggetto rimane vigile. I grappoli di crisi (in media 8 per notte) si presentano tipicamente nelle fasi di addormentamento ed in quelle immediatamente precedenti il risveglio. Le crisi iniziano generalmente in età infantile e persistono nell’età adulta esprimendosi con gravità variabile nell’ambito di una stessa famiglia. Trattandosi di manifestazioni notturne, ed essendo l’EEG non dimostrativo nei periodi intercritici, le crisi possono essere erroneamente interpretate come parasonnie notturne benigne o disturbi di natura psichiatrica, tenendo anche conto della normalità dei reperti RM. La diagnosi richiede la registrazione videoEEG delle crisi, che, pur potendo variare notevolmente da un soggetto all’altro, si ripetono quasi sempre in maniera stereotipata in ciascuno di essi. Il trattamento di scelta è basato sull’impiego di Carbamazepina. FRONTALE
Convulsioni febbrili Sono crisi epilettiche a semeiologia elettroclinica variabile che insorgono in bambini neurologicamente normali, non epilettici, di età compresa tra 6 mesi e 5 anni in presenza di feb-
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bre (usualmente oltre i 39 °C) ed in assenza di affezioni cerebrale acute. Le convulsioni febbrili (CF) 3 sono il disturbo neurologico più frequente dell’infanzia, poiché colpiscono il 2-5% dei bambini di età < 5 anni, manifestandosi nel 90% dei casi entro il 3° anno di vita, nel 50% entro il 2° anno con picco fra 18° e 24° mese, essendo molto più rare entro il 3° mese (4%) e dopo i 3 anni (6%). Sono più frequenti nel sesso maschile (rischio relativo pari a 1,2-1,7). Sebbene siano incluse nella Classificazione delle Crisi Epilettiche e delle Epilessie (1989), non dovrebbero considerarsi una forma di epilessia né le CF occasionali né quelle familiari, insorgenti in nuclei ove esse rappresentano l’unico tipo di manifestazione accessuale, a differenza di un terzo gruppo caratterizzato dalla coesistenza di crisi generalizzate tonico-cloniche, configurante un particolare tipo di epilessia generalizzata famigliare, la “Generalized Epilepsy with Febrile Seizures Plus” o GEFS+ (Berkovic e Sheffer, 1998; Engel, 2001). Semeiologicamente le CF si manifestano sotto forma di due tipi di crisi, definite rispettivamente crisi o CF “semplici” e crisi o CF “complesse”. Le prime (70-80%) sono abitualmente caratterizzate da manifestazioni tonico-cloniche di breve durata, e non sono seguite da sequele immediate né da altre crisi entro le prime 24 h, ma possono recidivare (30% circa dei casi) fino all’età di 5 anni in occasione di nuovi episodi febbrili. Le seconde (20-30%) perdurano almeno 15 min, configurando per durate > a 30 min Stati di Male Febbrile (SMF: 5% circa di tutte le CF), e sono caratterizzate da convulsioni generalizzate o parziali. Queste ultime possono essere seguite da una paralisi post-accessuale transitoria (0,4%); qualora si presentino in maniera subentrante, realizzano il quadro di un SMF uni3
Ridefinite Crisi Febbrili dalla ILAE Task Force on Classification and Terminology (Engel, 2001).
laterale con emiplegia, o sindrome HH (ovvero “Hémiconvulsion + Hémiplegie”), che può risolversi favorevolmente o meno. Se l’emiplegia persiste, testimoniando così l’esistenza di una lesione cerebrale residua, può successivamente insorgere la cosiddetta sindrome HHE (“Hémiconvulsion + Hémiplegie + Épilepsie”) in cui alla preesistente sindrome HH sovrappongono crisi parziali motorie in corrispondenza degli arti paretici. – Rischio di ricorrenza di CF. Esistono stime assai variabili a questo riguardo (Berg et al., 1990-1992), ma si può ragionevolmente ritenere che le CF rimangano una manifestazione isolata nel 70% circa dei casi, essendo il rischio cumulativo di recidive a distanza di 1 anno pari al 25%, ed a distanza di 2 anni pari al 30% (Berg et al., 1992). In caso di recidiva, verificantesi nel 75% dei casi entro l’anno successivo alla prima crisi, possono seguirne altre, ma solo il 9% circa dei soggetti va incontro a tre o più recidive. I fattori di rischio più importanti per la ricorrenza di CF sono la febbre elevata (T ≥ 39 °C ) ed eventuali antecedenti familiari per CF (Rantala et al., 1995). Altri fattori predittivi sono rappresentati da: a) età d’insorgenza < 15-18 mesi; b) breve intervallo fra inizio della febbre e comparsa di CF e c) soglia febbrile più bassa (“trend” negativo per T comprese fra 38.3 e 40.6 °C). Per contro, non sarebbe rilevante la presenza di epilessia in consanguinei di 1° o 2° grado (Berg et al., 1990-1992). – Rischio di una successiva epilessia a distanza di mesi o anni. È pressoché raddoppiato rispetto a quella della popolazione generale (incidenza del 2-5% contro lo 0,5-1,4%), comprendendo la possibilità d’insorgenza di a) una epilessia sintomatica (di una lesione cerebrale preesistente alla prima CF o di lesioni causate da uno SMF), b) una epilessia precoce che esordisce con crisi in corso di febbre (epilessia mioclonica grave del primo anno o sindrome di Dravet), e c) una epilessia generalizzata o parziale idiopatica. In quest’ultimo caso, corrispondente al sottogruppo GEFS+, le CF non sa-
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rebbero né l’espressione di una soglia convulsiva abbassata dalla febbre, né la causa di una successiva epilessia, ma, più semplicemente, il segnale di una predisposizione a sviluppare una epilessia idiopatica (v. pag. 1148). I fattori di rischio più importanti per epilessia sono rappresentati dalla presenza di a) epilessia in consanguinei di 1° o 2° grado, b) deficit neuropsichici e c) antecedenti CF “complesse”. Il rischio passerebbe dal 6,8% per un solo fattore al 17-22% per due fattori, raggiungendo il 49% per i tre fattori associati. Fattori di rischio aggiuntivi sono lo SMF, l’età inferiore ai 18 mesi alla prima CF ed un numero di recidive di CF > 5. In conclusione, si può ritenere che le convulsioni febbrili siano espressione di entità eziologicamente eterogenee, implicanti differenti tipi di predisposizione famigliare e di relativo rischio per una successiva epilessia, fermo restando che, indipendentemente dalla loro eziologia, possono di per sé stesse diventare la causa di una successiva epilessia sintomatica (specie di una forma parziale a sintomatologia complessa da sclerosi temporale mesiale (v. pag. 1163) qualora subentri uno Stato di Male Febbrile prolungato.
Sono generalmente caratterizzate da una fenomenologia motoria, circoscritta o generalizzata; le crisi possono essere isolate oppure ripetersi a brevi intervalli nel corso della stessa giornata fino a sfociare in un vero e proprio stato di male. Spesso viene segnalata la coesistenza di segni di sofferenza cerebrale localizzata (ad esempio una emiplegia) o diffusa turbe della coscienza, deficit neurologici multifocali, ecc.). Le strategie terapeutiche sono abitualmente estemporanee e si basano sull’impiego di farmaci antiepilettici ad azione limitata nel tempo, come le benzodiazepine e, naturalmente, sulla correzione del disturbo metabolico o tossico responsabile; qualora si tratti di lesioni cerebrali organiche, dovranno essere affiancati altri presidi terapeutici. Le uniche situazioni in cui sia le manifestazioni epilettiche che la loro causa sono di competenza esclusivamente o prevalentemente neurologica, si riferiscono alle lesioni cerebrali parenchimali, ma quando la sofferenza cerebrale è legata a cause tossiche o metaboliche il problema compete solo marginalmente al neurologo, trattandosi di malati che riguardano primariamente altri specialisti.
Gli Stati di Male Epilettico (SME) Crisi epilettiche occasionali Sono eventi sporadici, la cui insorgenza in soggetti non epilettici è legata a sofferenza cerebrale acuta di varia natura (metabolica, tossica, traumatica, etc.), e che abitualmente non comportano recidive a distanza di tempo, fatta eccezione per le patologie cerebrali organiche con esiti cicatriziali, che possono essere responsabili della successiva comparsa di un’epilessia vera e propria. Le crisi epilettiche occasionali sono relativamente comuni, con incidenza complessiva del 15-20% all’anno (Tetto et al., 2002) ed incidenza nettamente prevalente negli anziani (80%).
In accordo con le raccomandazioni dell’Epilepsy Foundation of America, per Stato di Male Epilettico (o Stato Epilettico) si dovrebbe intendere una condizione caratterizzata da una crisi epilettica, generalizzata o focale, che si prolunga ininterrottamente per oltre 30 min, o da due o più crisi consecutive senza recupero della coscienza (o di altre funzioni) fra una crisi e l’altra (Working Group on Status Epilepticus, 1993). Considerato l’elevato rischio di conseguenze anche molto gravi che tale condizione comporta, esiste oggi una diffusa tendenza a spostare verso il basso (dai classici 30 min a 10-20 min, ed addiritttura fino 5 min) il limite massimo della durata di una crisi, oltrepassando il quale si configura uno stato di male epilettico (Lowenstein, 1999).
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Come si è già detto, il parametro di valutazione può essere rappresentato non solo dallo stato di coscienza, cui abitualmente si fa riferimento negli SME generalizzati convulsivi o non convulsivi, ma anche da singole funzioni come la motilità, la sensibilità, il linguaggio ecc., qualora si tratti di SME parziali a sintomatologia elementare. La definizione di SME parziali a sintomatologia complessa prevede che fra una crisi e l’altra non si verifichi un recupero completo della coscienza o della memoria. L’incidenza di SME non è particolarmente rara ove si consideri che negli USA vengono segnalati 100-150.000 casi all’anno, associati ad un consistente tasso di morbilità e mortalità (0,03-0,05% della popolazione; Lowenstein, 1999), ovvero circa 20-30.000 casi rapportando questi dati all’Italia. Le età estreme sono quelle più colpite: primo anno di vita, oltre i 60 anni. L’indice di mortalità degli SME convulsivi generalizzati, pari al 50% fino alla fine del secolo scorso, è sceso attualmente al 22-25%, secondo alcuni addirittura al 5%, sempre che il trattamento sia sufficientemente tempestivo. Lo stesso vale, sia pure in termini meno drammatici, anche per gli stati di male unilaterali. Nelle altre forme di SME le possibili complicanze sono rappresentate da un danno cerebrale permanente di entità variabile, dovuto al protrarsi dell’attività parossistica. In ogni caso la prognosi dipende non solo dalla tempestività delle cure che, secondo alcuni, dovrebbero essere intraprese ogni qualvolta l’attività parossistica si protragga per più di 5-10 minuti, ma anche dalla causa dello SME. In termini generali, si può affermare che uno SME insorge allorquando, per ragioni che attualmente ci sfuggono, i meccanismi inibitori che abitualmente promuovono l’estinzione della scarica epilettogena non intervengono con la dovuta efficacia. Il protrarsi dell’attività parossistica può comportare un danno neuronale irreversibile, al cui determinismo contribuiscono sia le alterazioni sistemiche (particolarmente drammatiche negli SME generalizzati tonico-clonici) come l’ipossia, l’ipo-
glicemia, l’acidosi lattica, l’iperpiressia, ecc., sia l’accumulo di neurotrasmettitori aminoacidergici eccitatori nel parenchima cerebrale, con innesco di una catena di eventi intracellulari Ca2+- mediati ad effetto distruttivo (v. pag. 1173). LA possibilità di esiti neurologici o neuropsicologici persistenti è quindi tutt'altro che remota, anche per uno SME non convulsiva.
Gli SME possono insorgere occasionalmente a causa di una patologia cerebrale acuta oppure presentarsi in soggetti già sofferenti di epilessia, spesso a seguito di una incauta sospensione del trattamento antiepilettico. Una recente casistica rivela che, addirittura nel 50% dei casi, una sindrome epilettica può esordire direttamente con uno stato di male anziché con una singola crisi. Nel 30% circa dei casi gli SME sono di natura idiopatica o criptogenetica e nel restante 70% sono sintomatici, dipendendo, in ordine di frequenza, da: sospensione di farmaci antiepilettici o di alcool, lesioni cerebrovascolari ischemiche o emorragiche, encefalopatie dismetaboliche ed infezioni sistemiche, traumi cranici, intossicazione da farmaci, infezioni del SNC, tumori, lesioni congenite. Va sottolineato che i casi di SME scatenati dalla sospensione della terapia antiepilettica, per alcuni la causa più frequente, o dall’assunzione di alcool, comporterebbero una mortalità molto inferiore rispetto ai casi dovuti a patologia cerebrale organica. Fra le cause più "recenti", vanno ricordati l’abuso di droghe e l’infezione da virus HIV. La tipologia degli SME comprende forme generalizzate e forme parziali, sia convulsive che non convulsive, di cui saranno illustrate solo le varietà di osservazione più frequente. Dal punto di vista pratico, può essere utile distinguere gli SME convulsivi dai non convulsivi. Siccome sia gli SME convulsivi generalizzati che quelli unilaterali (da non confondere con l’epilessia parziale continua, v. oltre) possono mettere in pericolo la vita, è sempre consigliabile il ricovero presso un reparto di terapia intensiva.
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SME convulsivi Comprendono SME convulsivi generalizzati e parziali a sintomatologia elementare motoria. 1) SME convulsivi generalizzati o Stato di Grande Male. È la varietà più comune e può insorgere: – nell’ambito di una sindrome epilettica consolidata, con una frequenza compresa fra l’1 e il 3% dei casi. In questo caso, i fattori precipitanti più comuni sono rappresentati da una brusca sospensione della terapia o da stress psicofisici conseguenti alla privazione di sonno ed all’abuso di alcool; – in soggetti senza precedenti epilettici, come espressione di una patologia cerebrale acuta o di un tumore cerebrale. Grazie al miglioramento delle terapie farmacologiche, i casi senza precedenti sarebbero percentualmente più numerosi rispetto a quelli che intervengono in una sindrome epilettica preesistente. Non raramente, infine, uno SME può segnare l’inizio di una sindrome epilettica idiopatica o criptogenetica, in assenza cioè di cause organiche dimostrabili con le tecniche diagnostiche disponibili. La sintomatologia è caratterizzata dall’insorgenza di crisi tipo Grande Male che si susseguono ad intervalli sempre più ravvicinati, per culminare in uno stato di coma persistente nel corso del quale le manifestazioni motorie diventano sempre meno evidenti, mentre si aggravano i disturbi vegetativi, quali l’insufficienza cardio-respiratoria, e metabolici, come l’ipossia con acidosi. Lo SME convulsivo generalizzato può assumere un aspetto tonico-clonico, mioclonico, o clonico (Bleck, 1983). La ripresa della coscienza, comunque non è immediata, soprattutto nei casi in cui lo SME convulsivo è seguito da uno “stato di male elettrico” non convulsivo, durante il quale possono osservarsi sfuggenti o quasi impercettibili movimenti rit-
mici, focali o multifocali, a carattere intermittente. Nei casi ad evoluzione mortale, il decesso avviene quasi sempre per collasso cardiocircolatorio. La grande maggioranza dei casi, circa il 70%, sarebbe collegata ad una epilessia parziale con secondaria generalizzazione, mentre l’innesto su una epilessia generalizzata primaria o su un grave disturbo metabolico si aggirerebbe attorno al 30%. Questi valori, peraltro, variano notevolmente da una casistica all’altra. Si verificano quasi esclusivamente nella prima infanzia, soprattutto nell’ambito della sindrome di Lennox-Gastaut, ove rappresentano il 50-80% di tutti i casi. La forma generalizzata mioclonica, osservabile unicamente nei bambini e negli adolescenti, merita di essere ricordata, nonostante la sua rarità, rappresentando l’unica forma di SME generalizzato convulsivo a coscienza integra. 2) SME convulsivi parziali a sintomatologia elementare motoria. La forma tradizionalmente più citata è quella motoria, rappresentata dall’epilessia parziale continua di Kojevnikow (1895), caratterizzata dalla presenza di contrazioni muscolari ripetitive (mioclonie) localizzate in una parte ristretta di un emicorpo, soprattutto la faccia o la mano, da cui di tanto in tanto possono diffondere, con marcia jacksoniana, all’intero emicorpo. L’epilessia parziale continua, ancorchè notissima, è un fenomeno piuttosto raro le cui cause più frequenti sono le lesioni cerebrovascolari e, assai meno spesso, l’iperglicemia iperosmolare non chetonica; talora può verificarsi anche per un processo encefalitico acuto (sindrome di Rasmussen, 1958) o cronico. In genere, è piuttosto refrattaria agli AED tradizionali, a meno che non vengano somministrati a dosi elevate. In casi particolari può essere indicata una resezione chirurgica del focolaio corticale. Non meno importanti, limitatamente all’età infantile, sono gli SME convulsivi unilaterali, abitualmente sotto forma di stati emiclonici, cui
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può far seguito una emiplegia transitoria o permanente designata come sindrome HH (v. pag. 1153) e che, sia pure eccezionalmente, possono concludersi con il decesso. SME non convulsivi Possono esplodere a cielo sereno in un soggetto che non ha mai presentato una crisi epilettica, oppure insorgere in soggetti affetti da epilessia. Quando sono accompagnati da alterazioni della coscienza, la loro identificazione può essere impossibile o comunque assai ardua in assenza di una registrazione EEG, potendo simulare stati confusionali o di coma a genesi non epilettica (Kaplan, 1999; Krumholz, 1999). Questi casi rimangono molto spesso misconosciuti, o diagnosticati e trattati in ritardo. Gli SME non convulsivi possono essere suddivisi in rapporto alla presenza o meno di disturbi della coscienza. COSCIENZA INTEGRA Corrispondono a SME parziali a sintomatologia sensitiva sensoriale, vegetativa o psichica protratta del tutto analoga a quella che caratterizza le crisi parziali a sintomatologia elementare (v. pag. 1139) o le fasi iniziali delle crisi parziali a sintomatologia complessa, simulando una "aura epilettica" prolungata anche per molte decine di minuti. A questo proposito, non si comprende perché il termine "aura", sinonimo improprio di una vera e propria crisi e quindi da abbandonarsi (Kaplan et al., 1995), sia stato conservato per definire gli stati di male parziale a sintomatologia elementare non convulsiva ed a coscienza integra con la dizione "Aura Continua" (Engel, 2001; Wieser, 1997-2001). COSCIENZA ALTERATA I criteri diagnostici da usare nei malati con ottundimento della coscienza, confusi o in co-
ma, sono ancora piuttosto controversi, così come la scelta della terapia, ciò che forse può spiegare una incostante risposta agli usuali trattamenti farmacologici. L’eventualità di uno SME non convulsivo dovrebbe essere sempre considerata, di fronte ad una compromissione più o meno grave dello stato di coscienza senza altri segni neurologici, ai fini della diagnosi differenziale, specie se questa condizione è stata preceduta da uno SME generalizzato convulsivo (v. sopra). L’EEG è fondamentale a scopo diagnostico, potendo dimostrare la presenza continua o subcontinua di a) scariche epilettiche periodiche lateralizzate (PLED), b) scariche periodiche bilaterali ed indipendenti (BIPLED), c) scariche epilettiformi periodiche focali o generalizzate (PEDS) e d) onde trifasiche generalizzate (TW) (Brenner, 2002). In questo ambito, possono distinguersi: 1) SME non convulsivi generalizzati. Comprendono: a) Stato di Piccolo Male. Osservabile soprattutto nei bambini sofferenti di crisi di assenza tipica o atipica, può consistere semplicemente in una serie di crisi di assenza ravvicinate o Stato di Piccolo Male propriamente detto, oppure in uno stato ininterrotto di confusione mentale o Stato di male confusionale, che può protrarsi per ore o giorni. In ambedue i casi l’EEG è caratterizzato dalla presenza di scariche generalizzate di complessi punta-onda. Negli stati di male confusionale, l’entità del disturbo di coscienza può variare anche notevolmente da caso a caso, oscillando da un semplice obnubilamento con parziale reattività agli stimoli, a un vero e proprio stato stuporoso in cui è difficile ottenere reazioni, anche facendo ricorso a stimoli energici e ripetuti. Il riscontro di mioclonie a livello delle palpebre, degli angoli della bocca e delle estremità può far sospettare l’origine epilettica della sintomatologia, che peraltro può essere definitivamente confermata solo dal riscontro EEG di un continuo susseguirsi di complessi punta-
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onda, più o meno ritmici, su tutto l’ambito encefalico. Questo reperto consente altresì di distinguere lo Stato di Piccolo Male e, in particolare, la varietà confusionale, dallo Stato di Male complesso. I quadri qui descritti rispondono prontamente alla somministrazione di Diazepam per via rettale o di Lorazepam iv (v. pag. 1196). b) Altri tipi di SME. Sono caratterizzati da quadri EEG variabili (BIPLED, PEDS, TW), insorgenti in corso di encefalopatie acute, subacuta o croniche di varia natura. 2) SME non convulsivo parziale o Stato di male complesso. Può consistere in una serie di crisi psicomotorie o confusionali ravvicinate, cioè crisi con o senza automatismi, oppure in un vero e proprio stato di confusione mentale con disturbi del comportamento e, sia pure eccezionalmente, allontanamento del soggetto dal proprio domicilio, o “fuga epilettica”. Può protrarsi per ore o addirittura settimane, e può essere diagnosticato solo con l’EEG, che rivela scariche parossistiche localizzate in regione temporale, uni o bilateralmente. Tale reperto consente, fra l’altro, di differenziare lo stato di male complesso dallo stato di Piccolo Male e più particolarmente, dalla sua varietà confusionale. Si verifica soprattutto nei casi in cui il focolaio epilettogeno è situato, come spesso accade, nel lobo frontale. La sua rarità, meno del 3% di tutti gli stati di male, potrebbe essere solo apparente considerato che la relativa sintomatologia può anche passare inosservata. Gli SME parziali non convulsivi comprendono alcune altre condizioni, fra cui lo stato di male afasico, che non meritano particolare menzione. Anche se generalmente si ritiene che gli SME non convulsivi, generalizzati o parziali, non comportino danni neurologici permanenti (Drislane, 1999), in alcuni casi possono residuare disturbi più o meno importanti delle capacità attentivo-mnesiche, e ciò deve spingere ad una
loro identificazione tempestiva per porre in atto gli adeguati provvedimenti terapeutici (v. pag. 1196). DIAGNOSI La diagnosi degli SME convulsivi non presenta particolare difficoltà, specie per le forme parziali, ancorché per le forme generalizzate si potrebbe equivocare, per inesperienza, fra uno SME generalizzato convulsivo e una serie di crisi "convulsive" isteriche ravvicinate (v. pag. 1179). Assai meno agevole può rivelarsi la distinzione fra gli SME non convulsivi e gli episodi confusionali su base non epilettica (v. pag. 1178): in questi casi, l’apporto dell’EEG deve considerarsi insostituibile (Kaplan, 1999). In ogni caso, a meno che non si tratti di soggetti notoriamente sofferenti di epilessia, non appena le condizioni del paziente lo consentano, occorre effettuare tutti gli accertamenti necessari per poter escludere una eventuale origine sintomatica, locale o sistemica, riscontrabile in oltre la metà dei casi.
Disturbi psichici in corso di epilessia È indubbio che la percentuale di soggetti psichicamente disturbati è significativamente maggiore fra gli epilettici, globalmente considerati, rispetto alla popolazione normale. Si tratta di manifestazioni cliniche estremamente eterogenee in cui trovano posto, oltre alle comprensibili reazioni psicologiche in rapporto con l’affezione, i disturbi psichici collegati alle crisi e quelli che possono insorgere durante i periodi intercritici. Infine vanno considerate le manifestazioni psichiche della malattia cerebrale responsabile delle crisi, ed anche i disturbi dovuti agli effetti collaterali della terapia antiepilettica. Il disagio psicologico è connesso non solo al tipo di crisi, per cui è importante stabilire, ad esempio, se le crisi comportano o meno perdi-
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ta di coscienza, ma anche alla loro imprevedibilità, di fronte alla quale gli individui affetti si sentono molto spesso completamente indifesi; finchè è possibile, essi cercano di tenere nascosto il proprio disturbo, tendono a chiudersi sempre più in sè stessi, donde la perdita delle vecchie amicizie e l’incapacità a contrarne nuove. Si aggiungono le difficoltà lavorative, specie se si tratta di lavori completamente inadatti a una persona con crisi di perdita di coscienza, che creano una crescente sfiducia nelle proprie capacità, eventualmente accentuata dalle difficoltà finanziarie per cui si genera ansia, depressione, e, nei casi più gravi, anche il suicidio, il cui rischio fra gli epilettici “temporali” sarebbe ben 5 volte più elevato rispetto al resto della popolazione. A differenza della maggior parte delle malattie invalidanti, il 99% della giornata degli individui epilettici può considerarsi normale, e ciò non fa che aumentare il senso di frustrazione. I disturbi psichici direttamente legati alle crisi comprendono non soltanto la fenomenologia psichica accessuale, che può caratterizzare certe crisi parziali semplici o precedere la perdita di coscienza nelle crisi parziali complesse; i prolungati episodi di confusione mentale che caratterizzano gli stati di Piccolo Male e gli stati di Male “complesso”; ma anche le modificazioni del comportamento con irritabilità, ansia, depressione che si può presentare prima delle crisi generalizzate, nell’ambito dei c.d. prodromi. In particolare, queste manifestazioni (da non confondere con l’aura) possono insorgere qualche minuto o qualche ora, a volte anche qualche giorno, prima delle crisi, per cessare subito dopo. I relativi meccanismi fisiopatologici sono sconosciuti, tranne che per una piccola percentuale di casi in cui sarebbe stato dimostrato un rapporto fra l’insorgenza dei prodromi e l’assetto ormonale. Ancora più arduo è il problema dei disturbi psichici durante i periodi intercritici: a volte semplici forme di tipo neurotico con aspetti depressivi, talora veri e propri episodi psicotici,
soprattutto di tipo schizofrenico, più frequenti nei portatori di lesioni epilettogene del lobo temporale. È stata ripetutamente segnalata, soprattutto in passato, l’esistenza di un rapporto mutuamente esclusivo fra turbe psichiche e sintomatologia accessuale per cui, in concomitanza con la sintomatologia psicotica, si assisterebbe ad una remissione completa delle crisi con normalizzazione del quadro elettroencefalografico (la cosiddetta “normalizzazione forzata”), laddove si verificherebbe il fenomeno opposto in connessione con la ripresa della sintomatologia accessuale. I disturbi psichici direttamente connessi alla patologia cerebrale epilettogena sono rappresentati più frequentemente dall’insufficienza mentale, spesso riferibile a una patologia cerebrale perinatale (v. pag. 1163), da cui la vecchia credenza che gli epilettici siano anche oligofrenici, ciò che accade solo in una minoranza di casi. Altre più rare sindromi psicorganiche sono connesse alle diverse patologie cerebrali. Tutti i gli AED, ed in particolar modo quelli tradizionali (in ordine descrescente il Fenobarbital, la Fenitoina, il Valproato e la Carbamazepina) possono compromettere in qualche misura le funzioni intellettive, specie in caso di sovradosaggio (v. pag. 1189). La cosiddetta personalità epilettica, intesa come una alterazione della personalità tipica degli epilettici, non esiste. Infatti, ove la casistica venga depurata dalle problematiche psicologiche peraltro non infrequenti e dalle psicosi intercritiche precedentemente descritte, i test di personalità non evidenziano significative differenze fra i soggetti affetti da epilessia e il resto della popolazione.
L’epilessia nella donna L’insorgenza di crisi epilettiche nella donna può essere legata a particolari condizioni funzionali come il ciclo mestruale, la fertilità, la contraccezione, la gravidanza con i relativi ri-
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schi per il feto, il parto e il periodo dell’allattamento. Non esiste la certezza che il menarca possa scatenare l’inizio della sintomatologia epilettica, ma è indubbio che in alcune donne gli attacchi si verificano solo nei giorni che precedono immediatamente la mestruazione o durante la mestruazione, condizione definita epilessia catameniale. Ciò avviene, tuttavia, solo in una piccola minoranza, meno del 5% dei casi. Il ricorso a trattamenti ormonali per il controllo delle crisi di epilessia catameniale deve essere considerato con estrema cautela. Meno nota, ancorchè innegabile, è la possibilità che le crisi siano connesse ad alterazioni del ciclo mestruale: al momento non è dato di sapere se uno dei due fenomeni è responsabile dell’altro oppure se ambedue dipendono da una terza causa. Stando ai dati attualmente disponibili, i possibili rapporti fra andamento delle crisi e menopausa sarebbero del tutto casuali. In genere si ritiene che le donne affette da epilessia siano significativamente meno fertili delle altre donne, ma dati più recenti, indicherebbero che questa differenza sta scomparendo: se ciò dipenda da un cambiamento delle strategie terapeutiche o da una diminuzione dei pregiudizi sociali non è accertato. Nelle donne in trattamento con AED (specie Fenitoina e Carbamazepina), l’efficacia dei contraccetivi orali è sensibilmente ridotta, per cui si raccomanda o un adeguato aumento del dosaggio degli estrogeni o una diversa strategia anticoncezionale; oppure prospettare una sostituzione con Valproato di sodio, che non comporterebbe un aumentato rischio di gravidanza. I possibili rischi connessi alla gravidanza sono diventati oggetto di attenzione solo nel corso degli ultimi 30 anni, e ciò è singolare ove si consideri che circa il 40% della popolazione epilettica è costituito da donne in età fertile. In passato, tuttavia, anche a causa di radicati pregiudizi circa la capacità di una donna epilettica di allevare un bambino, le occasioni di procreare per una paziente epilettica erano assai meno
numerose rispetto ai nostri giorni. Oggi la gravidanza di una donna epilettica non è più un fatto straordinario. Le strategie terapeutiche in rapporto a una gravidanza non potranno che essere flessibili, e in particolare: – se la paziente è asintomatica da almeno 2 anni e non è portatrice di lesioni cerebrali, si può sospendere gradualmente la terapia, prima di programmare una gravidanza; – se la terapia è indispensabile per un adeguato controllo delle crisi, e ciò nondimeno la gravidanza è desiderata, è preferibile puntare su una monoterapia, la cui dose potrà essere opportunamente aggiustata nel corso della gestazione; – qualora la gravidanza non sia stata programmata, bisognerà decidere se modificare o meno la terapia, tenendo conto del fatto che le eventuali malformazioni si verificano entro le prime otto settimane di gestazione. In ogni caso, è opportuno sottolineare che la gravidanza nelle donne epilettiche comporta sempre un certo margine di rischio, e non solo per il nascituro, prevalentemente per l’aumento della frequenza delle crisi nel 25-33% dei casi. Questi ultimi, purtroppo, non possono essere identificati preventivamente, neanche facendo riferimento ad eventuali gravidanze precedenti. I rischi connessi all’aumento di frequenza delle crisi dipendono anche dalla loro tipologia; ad esempio, le crisi generalizzate tonico-cloniche comportano un rischio maggiore, ai fini dell’incolumità della paziente e del feto, rispetto alle crisi parziali o non convulsive, e qualcuno ritiene che si potrebbe anche tollerare un aumento di frequenza di queste ultime senza aumentare il dosaggio. Peraltro non si può escludere il rischio che le crisi parziali, a loro volta, sfocino in una crisi generalizzata tonico-clonica. Qualora si tratti di crisi convulsive generalizzate, la terapia preesistente dovrebbe essere mantenuta o all’occorrenza potenziata, anche se ciò dovesse comportare la somministrazione contemporanea di vari farmaci, invece della preferibile monoterapia.
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L’aumento di frequenza delle crisi dipende quasi sempre dal progressivo calo dei tassi plasmatici degli AED che si verifica con l’avanzare della gravidanza, salvo la possibilità che la paziente abbia operato una autoriduzione dei farmaci. La diminuzione dei tassi viene abitualmente imputata ad un aumento del volume plasmatico, ma non è improbabile che il fenomeno dipenda, in qualche misura, anche da un aumento della clearance dei farmaci antiepilettici, o di alcuni di essi. In ogni caso, data la scarsa prevedibilità delle modificazioni dei tassi in corso di gravidanza, è opportuno un loro frequente controllo e possibilmente il loro mantenimento entro i limiti considerati "ottimali". Qualcuno tuttavia sostiene che, se la frequenza delle crisi è invariata rispetto al periodo anteriore alla gravidanza, non conviene modificare la dose iniziale, anche se i tassi scendono al di sotto dei livelli ottimali. In caso contrario si provvederà ad aumentare adeguatamente la dose, così come si procederebbe in una donna non gravida. Tutti i farmaci antiepilettici attualmente in uso sono in grado di attraversare la placenta ed entrare nel circolo fetale. Ciò può spiegare, almeno in parte, l’aumentata frequenza di malformazioni congenite nei bambini nati da madri epilettiche, circa il triplo rispetto alla popolazione generale. Tale rischio sarebbe maggiore se i farmaci vengono somministrati in politerapia, anzichè in monoterapia. È anche vero però che circa il 5% delle madri epilettiche non trattate rischia, comunque, di generare feti malformati, e ciò può accadere anche quando il padre, e non la madre, è affetto da epilessia. Pur con queste riserve, è indubbio che tutti gli AED hanno un potere teratogeno e possono essere responsabili di malformazioni congenite (v. pag. 1198). Conviene ancora ricordare che i figli di madri epilettiche, sarebbero maggiormente a rischio di nascere prematuramente, eventualmente sottopeso, talora con microcefalia e ritardo mentale, con aumento del tasso di mortalità prenatale, neonatale e perinatale, rispetto alla popolazione generale.
In rapporto con questi rilievi, è indispensabile sottolineare che oltre il 90% delle donne epilettiche partorisce felicemente bambini sani e privi di malformazioni. Fra gli inconvenienti cui può andare incontro il neonato va ricordata la tendenza al sanguinamento, conseguente alla riduzione dei livelli dei fattori di coagulazione vitamina K dipendenti, evento che può essere evitato somministrando vitamina K sia alla madre, a partire dalla 36° settimana di gestazione, che al neonato, subito dopo la nascita. L’assunzione di fenobarbital da parte della madre, in corso di gravidanza, comporterebbe nel neonato sedazione con ipotonia muscolare e incapacità di attaccarsi al seno; d’altra parte, nei bambini nutriti artificialmente deve essere considerata l’eventualità di una vera e propria sindrome da astinenza con tremore e agitazione. E poichè tutti i farmaci antiepilettici vengono secreti nel latte, sia pure in concentrazione minore rispetto a quella presente nel plasma materno, il compromesso più ragionevole per l’alimentazione del neonato sembra essere rappresentato dall’allattamento al seno (consigliabile per tutti i motivi per cui solitamente viene suggerito) alternato all’allattamento artificiale, onde evitare una sedazione del neonato, tutt’altro che improbabile qualora la madre faccia ricorso a dosi elevate di Fenobarbital o di Benzodiazepine. Ma c’è anche chi, più prudentemente, consiglia di arricchire il latte artificiale con piccole dosi di fenobarbital, almeno per un breve periodo di tempo, al fine di prevenire un’eventuale sindrome da astinenza.
Eziologia Ai fini didattici può essere utile trattare separatamente le cause delle crisi epilettiche occasionali e le cause delle crisi epilettiche propriamente dette, ma questa suddivisione non deve considerarsi assoluta, potendo accadere che le stesse patologie cerebrali (ad esempio, i traumi cranici, l’ictus ischemico o emorragico, i processi infiammatori) siano responsabili sia di crisi epilettiche occasio-
1162 Malattie del sistema nervoso nali che, a distanza di tempo, di crisi epilettiche ricorrenti. È opportuno sottolineare, inoltre, che mentre le crisi epilettiche occasionali sono invariabilmente sintomatiche, le epilessie propriamente dette possono essere sia sintomatiche che idiopatiche. Esiste poi un grosso contingente di casi, verosimilmente sintomatici, anche se gli attuali mezzi diagnostici non sono in grado di fornire una prova definitiva, convenzionalmente raggruppato sotto la denominazione epilessie criptogenetiche. Questa tripartizione eziologica in forme idiopatiche, forme sintomatiche e forme criptogenetiche, vale per le epilessie parziali e generalizzate.
Cause delle crisi epilettiche occasionali CAUSE METABOLICHE. - Comprendono le alterazioni delle seguenti funzioni: – bilancio idrico, iper e ipo-osmolarità plasmatica; – ricambio elettrolitico, iper e iponatriemia, iper e ipocalcemia; ipomagnesiemia, ipofosfatemia; – metabolismo glucidico: nel 7% delle situazioni ipoglicemiche (da eccessiva somministrazione o eccessiva increzione di insulina) possono verificarsi crisi epilettiche, generalmente tonico-cloniche; – funzionalità renale: il 30% dei malati con insufficienza renale può manifestare crisi motorie parziali o generalizzate; anche l’encefalopatia dialitica può essere responsabile di manifestazioni epilettiche; – funzionalità epatica, i cui effetti epilettogeni sono più o meno rilevanti a seconda delle casistiche; – funzionalità tiroidea, soprattutto in caso di ipotiroidismo, ove si consideri che circa 1/4 dei soggetti in coma mixedematoso può presentare crisi epilettiche, mentre ciò accade piuttosto raramente in caso di ipertiroidismo; – funzionalità respiratoria, le cui complicazioni epilettogene, peraltro, sarebbero assai rare; – carenza di Vit. B6 (piridossina), il cui possibile ruolo epilettogeno è limitato al periodo neonatale o all’impiego di isoniazide a dosi elevate; – alterazioni della sintesi delle porfirine, non solo per l’alta percentuale di casi (circa il 15%) che possono presentare crisi epilettiche durante gli episodi di porfiria acuta intermittente; ma anche per il possibile ruolo scatenante di farmaci antiepilettici di largo consumo come la fenitoina, il fenobarbital e la carbamazepina la cui somministrazione può, a sua volta, essere responsabile dell’insorgenza di attacchi di porfiria. CAUSE TOSSICHE. - L’elencazione dei casi legati all’assunzione di farmaci richiederebbe troppo spazio, rivelando che i farmaci potenzialmente epilettogeni appartengono alle categorie più svariate: dagli anestetici agli analettici; dagli analgesici agli antibiotici; dagli antidepres-
sivi agli antipsicotici, ed infine i mezzi radiografici di contrasto. È rilevante soffermarsi sul possibile ruolo epilettogeno dell’alcoolismo, sia in rapporto ad una assunzione eccessiva, per cui si parla di "ebbrezza convulsiva", che a seguito dell’ interruzione improvvisa dell’apporto di bevande alcooliche in un etilista cronico. Ciò infatti può determinare l’insorgenza delle cosiddette "crisi da sospensione". Manifestazioni analoghe possono verificarsi per interruzione della somministrazione di barbiturici, o anche di benzodiazepine o di meprobamati. In effetti, così come i barbiturici, anche le benzodiazepine, i meprobamati e l’alcool stesso hanno proprietà antiepilettiche, da cui il possibile effetto epilettogeno della loro sospensione, specie se in precedenza venivano assunti in dosi eccessive. A proposito di epilessia e alcool va ricordato che le crisi epilettiche occasionali provocate da assunzione eccessiva o sospensione inopinata non hanno nulla a che fare con la vera epilessia alcoolica, che può verificarsi per danni cerebrali provocati dall’alcolismo cronico, e neanche con l’eventuale precipitazione delle crisi in un epilettico per occasionali bevute. STRUTTURALI (VASCOLARI, INFIAMMATORIE, TRAU- L’ictus ischemico o emorragico può accompagnarsi a crisi epilettiche parziali o generalizzate, e perfino ad uno stato di male, generalmente parziale. L’encefalopatia ipertensiva, oltre alla cefalea, alle alterazioni della coscienza, ai deficit neurologici multifocali, spesso presenta anche crisi epilettiche; nel coma post-anossico, da arresto cardiaco o respiratorio, la comparsa di manifestazioni convulsive, piuttosto frequente, ha un significato prognostico decisamente sfavorevole. Le cause infiammatorie comprendono tutti i processi infiammatori acuti dell’encefalo (encefaliti, meningiti, ascessi e tromboflebiti) nel corso dei quali, oltre alla nota sintomatologia, possono manifestarsi crisi epilettiche parziali o generalizzate. I traumi cranici possono essere seguiti, entro la 1°settimana, da crisi epilettiche “precoci”, la cui rilevanza non è puramente contingente considerando che la loro occorrenza aumenta di circa sei volte il rischio di epilessia posttraumatica tardiva, rispetto ai casi in cui si è verificata unicamente una amnesia post-traumatica di durata inferiore a 24 ore.
CAUSE
MATIche).
Cause delle epilessie propriamente dette Comprendono le lesioni cerebrali organiche e la predisposizione costituzionale, che complessivamente danno conto di circa il 50% dei casi; nel restante 50% la causa resta sconosciuta e i casi vengono indicati come “epilessie criptogenetiche”.
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1163 EPILESSIE LESIONALI. - Rappresentano verosimilmente il 40-45% della totalità dei casi di epilessia, assumendo che il 5-10% sia di origine esclusivamente genetica e il restante 50% da causa indeterminata o criptogenetica. Secondo l’epoca di insorgenza le lesioni possono essere suddivise in prenatali, perinatali e post-natali. – le lesioni prenatali, cui viene attribuito l’1-2% dei casi, comprendono le malformazioni congenite non ereditarie, come, ad esempio, la sindrome di Sturge-Weber o angiomatosi encefalo-trigeminale, e le embrio-fetopatie, come le infezioni da cytomegalovirus, herpes simplex, rosolia e toxoplasma, causate da agenti patogeni trasmessi dalla madre al feto durante la gravidanza. – lesioni perinatali, che globalmente rappresentano la causa più comune di epilessia, circa il 15-20%, possono dipendere da vari fattori (Berger e Garnier, 1999): anossia, trauma da parto, emorragia intracranica, ecc., i cui effetti possono essere ulteriormente aggravati dalla prematurità. La patologia anossica perinatale rappresenta anche la causa più comune di handicap psicofisico e la grande maggioranza dei soggetti con handicap psicofisici va soggetto a epilessia con insorgenza, in genere, precoce, e solo nel 15% dei casi, dopo i 15 anni. La sclerosi cicatriziale dell’uncus dell’ippocampo (“sclerosi temporale mesiale”), un tempo inclusa fra le lesioni epilettogene perinatali, attualmente viene attribuita soprattutto agli stati di male convulsivo generalizzato (v. pag. 1156) ed agli stati di male febbrili protratti (v. pag. 1153) e sarebbe responsabile di una larga percentuale, circa il 20% dei casi di epilessia parziale a sintomatologia complessa. – lesioni postnatali che, unitamente alle lesioni perinatali, giustificano la stragrande maggioranza dei casi di epilessia sintomatica, sarebbero rappresentate dalla malattia cerebrovascolare (15%), dai tumori cerebrali (6%), dai traumi cranici (3%) e dalle infezioni del SNC (2%) (Sander et al., 1990). A seconda delle casistiche di riferimento, le cifre sopra riportate possono variare anche sensibilmente, e il peso rispettivo delle patologie può mutare notevolmente in rapporto alla fascia di età considerata: la malattia cerebrovascolare, ad esempio, rappresenta la causa di gran lunga più frequente nell’anziano (49%), mentre i tumori - rari nei soggetti di età inferiore ai 30 anni (1%) raggiungono il 19% nella fascia fra i 50 e i 60 anni. Saranno illustrati solo alcuni dati essenziali. Malattie cerebrovascolari. - Il ruolo epilettogeno delle lesioni cerebrovascolari è stato particolarmente valorizzato nel corso degli ultimi anni, sia come causa di crisi occasionali che ricorrenti. Non si tratta solo di epilessie post-apoplettiche, dovute cioè agli esiti cicatriziali di un infarto o di una emor-
ragia, ma anche di epilessie premonitrici, la cui insorgenza, cioè, preannuncia, spesso con notevole anticipo, l’insorgenza di un ictus, abitualmente di tipo ischemico. Un numero non trascurabile di casi di malattia cerebrovascolare documentata, si manifesta unicamente con crisi epilettiche a insorgenza tardiva. Altri esempi di patologia cerebrovascolare eventualmente epilettogena sono le malformazioni artero-venose, gli esiti di emorragia subaracnoidea, le vasculiti cerebrali. Neoplasie. - Le probabilità che si tratti di una epilessia tumorale sono particolarmente elevate nei casi di epilessia parziale ad esordio tardivo, soprattutto quando coesistono segni neurologici di sofferenza cerebrale a focolaio accompagnati da un rallentamento circoscritto dell’attività elettroencefalografica. I tumori cerebrali più epilettogeni sono, in ordine di frequenza, gli oligodendrogliomi (80-90%), gli astrocitomi (60-70%), i meningiomi (40-60%) e i glioblastomi (30-40%); le localizzazioni più epilettogene sono, in ordine decrescente, la regione centro-parietale, frontale, temporale e occipitale, sia pure con qualche variazione in rapporto all’istotipo. Nel 40% dei casi di epilessia tumorale le crisi epilettiche rappresentano la prima manifestazione clinica e l’intervallo di tempo trascorso fra la prima crisi e la comparsa di altri segni neurologici può essere anche prolungato: ciò dimostra, evidentemente, che i casi di epilessia tumorale isolata sono legati prevalentemente a neoplasie benigne, abitualmente più epilettogene delle neoplasie maligne, con una prognosi, in genere, "relativamente" favorevole, almeno per l’attesa di vita. Sfortunatamente la rimozione del tumore appare tutt’altro che risolutiva ove si consideri che, nonostante l’intervento, le crisi possono persistere in oltre il 50% dei casi. Per cui molti si chiedono se valga la pena di intervenire qualora l’unico disturbo sia rappresentato dalle crisi ed esistano fondate ragioni per prevedere una lunga sopravvivenza con buona qualità di vita. Ciò non toglie che esistano anche casi fortunati in cui la rimozione totale della neoplasia si accompagna ad una cessazione completa delle crisi. Traumi cranici. - Rappresentano, forse, la causa di epilessia investigata più a fondo, ed è stato così dimostrato che il rischio di epilessia post-traumatica, a distanza di tempo, varia in rapporto al tipo di trauma. – I traumi cranici aperti (ad esempio, da arma da fuoco), specie se interessano la corteccia prerolandica e comportano una perdita di sostanza cerebrale piuttosto estesa, possono sviluppare una epilessia post-traumatica nel 50% dei casi, con rischio significativamente più elevato nel primo anno successivo al trauma che dopo 10 anni (rispettivamente 580 volte e 25 volte più spesso rispetto ad una popolazione normale di pari età). Fattori quali un deficit neurologico residuo, una infezione locale, specie
1164 Malattie del sistema nervoso se determina un ascesso, un intervento per la rimozione di eventuali frammenti metallici, accentuano ulteriormente il margine di rischio di epilessia post-traumatica. Nel 75% dei casi, si tratta di crisi epilettiche parziali semplici o complesse. – I traumi cranici chiusi comportano un rischio assai minore. In particolare, dopo un trauma cranico di lieve o media gravità l’incidenza di epilessia sale di poco rispetto all’incidenza dell’epilessia nella popolazione normale, mentre in una minoranza di traumi cranici gravi aumenta sensibilmente fino a circa il 17 %. Il rischio relativo per crisi epilettiche risulta per i traumi lievi pari a 1.5 (1-2,2), senza ulteriore aumento dopo 5 anni; per i traumi medi 2.9 (1,9-4,1); per i traumi gravi 17.2 (12.323,6). Significativi fattori di rischio sono rappresentati dalla presenza di contusioni cerebrali con ematoma subdurale, fratture cranica, perdita di coscienza o amnesia > 24 h. e da un’età ≥ a 65 anni (Annegers, 2000). Le crisi epilettiche post-traumatiche ad insorgenza precoce sono leggermente più frequenti di quelle tardive (4,2% entro 7 giorni verso 3,7% entro 3 anni) ma comportano percentuali di epilessia stabilizzata di gran lunga inferiori (17% verso 48% ) (Schultze et al., 1999). Gli AED di 1° generazione (Fenitoina, Fenobarbital, Carbamazepina, Valproato) impiegati subito dopo il trauma possono ridurre l’incidenza di crisi epilettiche (generalizzate o parziali) o di eventuale stato di male epilettico solo a breve termine, mentre non riescono a prevenire l’insorgenza di crisi tardive, per cui il loro impiego dovrebbe essere valutato caso per caso, poiché potrebbero addirittura peggiorare la prognosi quoad vitam nei malati più gravi (Temkin et al., 1999). L’impiego degli AED può quindi avere solo motivazioni tattiche, giustificate dai traumi con più alto rischio di crisi o di stato di male epilettico precoci (Brain Injury Special Interest Group of the American Academy of Physical Medicine and Rehabilitation, 1998; Schierhout G, Roberts I., 2001; Temkin, 2001), non essendo in grado di incidere significativamente sul rischio a lungo termine. Le stesse considerazioni dovrebbero valere anche per la profilassi di un trauma operatorio neurochirurgico (sopratentoriale), intrinsecamente meno epilettogenetico di qualunque altro tipo di lesione non chirurgica (grazie all’accurato controllo dell’emostasi e dell’asepsi): tuttavia, è ancor oggi molto diffusa negli ambienti neurochirurgici l’abitudine di "profilassare" per anni i soggetti operati, la maggioranza dei quali resterebbe comunque immune da crisi epilettiche, non solo precoci, ma anche tardive. – Encefaliti e Meningiti. - Possono essere causa di epilessia, soprattutto se durante la fase acuta si erano verificate crisi epilettiche occasionali. Se l’infezione ha avuto luogo prima della nascita, oltre all’epilessia può residuare anche un ritardo mentale.
L’infezione da HIV può comportare l’insorgenza di crisi epilettiche non per eventuali infezioni opportunistiche, ma anche per gli effetti neurotropi diretti del virus. – Patologie epilettogene "minori". Una miriade di malattie neurologiche che coprono, praticamente, tutta la patologia cerebrale, e fra cui sta assumendo crescente importanza la malattia di Alzheimer, hanno un possibile ruolo epilettogeno di cui sarà data notizia nei rispettivi capitoli. Dal punto di vista pratico si ritiene utile distinguere le patologie cerebrali evolutive, ad esempio, i tumori cerebrali, da quelle non evolutive, ad esempio, una cicatrice cerebrale o cerebro-meningea, in quanto nel primo caso l’epilessia è solo uno dei segni della malattia, mentre nel secondo caso rappresenta la manifestazione più importante, se non l’unica. PREDISPOSIZIONE COSTITUZIONALE. - Occorre preliminarmente distinguere i casi in cui l’insorgenza delle crisi è dovuta alla trasmissione di una malattia epilettogena, dai casi in cui è legata unicamente alla trasmissione della predisposizione all’epilessia, in assenza di patologie cerebrali ereditarie. Esistono almeno 140 malattie legate ad un singolo gene, per lo più autosomiche recessive, nei 2/3 delle quali è presente anche un ritardo mentale, che possono essere accompagnate da crisi epilettiche. Queste malattie, fra cui la più comune è la Sclerosi tuberosa, hanno una scarsa rilevanza statistica essendo, complessivamente, responsabili di meno dell’1% di tutte le epilessie. La predisposizione a epilettizzare in assenza di patologie cerebrali ereditarie ha un ruolo primario nelle epilessie idiopatiche, ma le relative alterazioni cromosomiche non sono state ancora individuate, fatta eccezione per l’epilessia mioclonica giovanile il cui gene sarebbe localizzato nel cromosoma 6. Le nostre attuali conoscenze sulla trasmissione della predisposizione all’epilessia si basano su studi famigliari da cui emerge, anzitutto, che il rischio di ammalare è sicuramente maggiore per i parenti di chi è affetto da epilessia che per la popolazione generale. In particolare, i fratelli nati dagli stessi genitori di un soggetto affetto da epilessia rischiano di ammalare 3-5 volte più spesso rispetto ai fratelli dei controlli non epilettici; nei gemelli monozigoti si rileva una concordanza per l’epilessia fra il 60 e il 95%, mentre nei gemelli dizigoti la percentuale è compresa fra il 5 e il 15%. Il rischio di sviluppare un’epilessia sarebbe maggiore per i discendenti di donne epilettiche rispetto agli epilettici maschi. Se ciò sia legato ad una ereditarietà autosomica dominante o poligenico-multifattoriale non è stato ancora chiarito, ma la seconda ipotesi è verosimilmente la più probabile.
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1165 La predisposizione svolgerebbe un ruolo non trascurabile anche nelle epilessie sintomatiche, e infatti l’incidenza di crisi nei parenti dei soggetti con epilessie localizzate organiche è pari al 5%, ossia 10 volte più frequente che nella popolazione normale. Emerge, in ultima analisi, che la predisposizione epilettica può tradursi in una sindrome epilettica sia in assenza di lesioni epilettogene, come nelle epilessie idiopatiche, ove la predisposizione è la causa stessa, che in presenza di una lesione epilettogena, come nelle epilessie sintomatiche, ove la predisposizione costituzionale può rappresentare al massimo una concausa.
Epilettogenesi CONCETTI GENERALI. - Qualunque cervello, sano o malato, può produrre scariche epilettiche, purchè venga superata la cosiddetta soglia epilettogena. Ciò può accadere per stimolazione cerebrale diffusa particolarmente intensa, come un elettroshock, oppure per un temporaneo e globale aumento dell’eccitabilità cerebrale da somministrazione di un farmaco convulsivante, come il Cardiazol. Paradossalmente si può affermare che l’insorgenza di una crisi epilettica generalizzata rappresenta una "normale" modalità di reazione del parenchima cerebrale che si manifesta ogni qual volta intervengano determinate condizioni. Meccanismi del tutto analoghi possono verificarsi anche in rapporto a eventi patologici, come nelle crisi epilettiche occasionali. In particolare, si può ritenere che una lesione cerebrale acuta, così come uno stimolo elettrico particolarmente intenso, sia in grado di provocare una attivazione neuronale eccessiva; e che una sofferenza neuronale acuta di natura tossica o metabolica possa tradursi in un abnorme aumento dell’eccitabilità cerebrale, analogo a quello provocato dalla somministrazione di un farmaco convulsivante. In effetti, sia in un caso che nell’altro, può insorgere una crisi epilettica abitualmente, ma non necessariamente, di tipo generalizzato tonico-clonico, purchè venga superata la soglia convulsiva, soggetta a notevoli differenze interindividuali, per cui accade che lo stesso evento si riveli epilettogeno in certi individui e non in altri. Peraltro, il concetto di epilettogenesi in senso stretto si applica unicamente all’epilessia vera e propria, che è una condizione caratterizzata da crisi ricorrenti ad insorgenza spontanea, apparentemente non riferibili a cause esterne di alcun tipo. A partire da Jackson, 1888 (Jackson e Taylor, 19311932), le manifestazioni accessuali epilettiche sono considerate l’espressione clinica di una scarica neuronale parossistica abnorme di una parte, o di tutti i neuroni dell’encefalo, ed in primo luogo della corteccia cerebrale. Tale scarica può essere documentata mediante la re-
gistrazione dell’attività elettrica cerebrale (EEG) e in maniera assai più precisa, mediante la registrazione elettrica dell’attività EEG focale o anche di singoli neuroni per mezzo di elettrodi posti all’interno di un focolaio epilettico. La ricerca dei meccanismi patogenetici alla base delle varie forme di epilessia, a partire dalle prime osservazioni clinico-EEG di Gibbs et al. (1935-1936) può complessivamente paragonarsi ad un’opera di interminabile, e tutt’ora incompleto, sminamento di un campo di vastissime dimensioni che ha visto sistematicamente coinvolte, nel secolo scorso, le menti più brillanti delle neuroscienze. Nonostante ciò, la patogenesi delle epilessie, in quanto tema conoscitivo, è risultato probabilmente quello più sfuggente, o comunque più complesso della neurologia, data la grande eterogenicità delle crisi e la grande varietà di meccanismi potenzialmente epilettogeni finora identificati. Non a torto l’epilessia è stata paragonata ad un quadrivio fra neuroanatomia, neurobiologia, neuropatologia e neurofarmacologia, testimone di un impressionante flusso di ricerche di base rispetto a quelle, assai più scarse, su tessuto epilettico umano, sia in vivo (registrazioni stereotassiche da elettrodi profondi) che in vitro ("slices" di tessuto neurochirurgicamente asportato, in prevalenza dal lobo temporale). Sarebbe troppo lungo, e quindi improponibile a scopo didattico, tracciare la cronistoria delle ipotesi sull’epilettogenesi basate sui numerosi e differenti modelli di epilessia sperimentale finora studiati, e lo stesso vale anche per la sintesi delle principali e più recenti rassegne sull’argomento, cui si rimanda il lettore (Engel e Pedley, 1997; Avoli et al., 2000; de Curtis e Avazini, 2001; Crunellis et al., 2002). Perciò, sia pure a costo di un’eccessiva semplificazione, saranno presentate soltanto quelle evidenze di base che sembrano più utili ai fini clinico-diagnostici e terapeutici, chiarendo subito che non esiste un’equazione generale valida per tutte le epilessie, e nemmeno per le differenti aree cerebrali che più frequentemente sono coinvolte in crisi parziali. Alcuni problemi concettuali devono tuttavia essere preliminarmente affrontati. Una prima difficoltà è quella di accettare l’idea che la ricorrenza delle crisi epilettiche esprime una momentanea disregolazione funzionale di un certo "network" neuronale e gliale, non necessariamente prodotta da neuroni strutturalmente anormali, costantemente "epilettici" (epilessie sintomatiche), ma anche da neuroni apparentemente normali, propensi a sincronizzare in maniera parossistica la loro scarica (epilessie idiopatiche). Perciò, accanto al classico concetto virchoviano: [lesione → disfunzione], è necessario affiancare quello più moderno: [alterazioni molecolari o disconnettività → saltuaria, ricorrente disfunzione]. Un’altra difficoltà, che complica la precedente, nasce dal fatto che l’espressione genetica - così come la plasti-
1166 Malattie del sistema nervoso cità funzionale - possono variare sensibilmente da zona a zona o addirittura nell’ambito di una stessa area o complesso nucleare, e possono inoltre essere modificate dall’impatto di fattori epigenetici. Fermi restando questi assunti, può aver senso vedere ogni tipo di crisi epilettica, parziale o generalizzata che sia, come il risultato di un momentaneo e patologico prevalere l’uno sull’altro, ed in un numero variabile di neuroni, di due fenomeni complementari ma di segno opposto, eccitazione ed inibizione. In questa ottica, è necessario considerare brevemente: 1) le caratteristiche di scarica dei neuroni corticali in condizioni normali in rapporto ai meccanismi sincronizzanti e desincronizzanti dell’attività elettrica cerebrale (scarica fisiologica); 2) il numero dei neuroni ipereccitabili necessari per causare una crisi (“massa critica”); 3) le caratteristiche della scarica neuronale epilettica; 4) i suoi meccanismi di sincronizzazione e diffusione; 5) l’impatto delle crisi sul SNC; 6) il ruolo dei fattori scatenanti; 7) l’epilessia “sine materia”; 8) la scarica epilettogena come via finale comune di patologie cerebrali diverse: un problema irrisolto; 9) la predisposizione individuale ed il ruolo dell’età; 10) i principali modelli sperimentali di epilessia, utilizzabili a finalità farmacoterapeutiche. 1. - LA SCARICA FISIOLOGICA DEI NEURONI CORTICALI. I neuroni principali di proiezione (piramidali) presentano tre differenti modalità di scarica: occasionale, ritmica ed in raffiche ad alta frequenza o “burst”. Durante la veglia, le cellule più grandi (come i neuroni corticospinali di Betz) tendono a scaricare fasicamente raggiungendo frequenze di scarica molto elevate (200-300 spikes/sec), mentre quelle di medie-piccole dimensioni sono maggiormente propense a scaricare tonicamente a frequenze inferiori. Nel sonno sincronizzato non-REM (ad onde lente), la frequenza di scarica media decresce sensibilmente in entrambe le classi, in rapporto all’insorgenza di un peculiare “pattern” di scarica periodica talamocorticale, caratterizzato da brevi burst ad alta frequenza (13 spikes) separati da prolungati intervalli silenti (iperpolarizzazione GABAA-B-mediata). In questa fase, la trasmissione corticale dei messaggi è, in media, nettamente ostacolata. Nel sonno desincronizzato, la frequenza media di scarica raggiunge i valori più elevati, specie durante la fase REM, e la trasmissione sinaptica risulta quindi tonicamente e fasicamente agevolata rispetto alla veglia. Gli interneuroni inibitori corticali comprendono varie classi, alcune delle quali caratterizzate da una scarica in burst ad alta frequenza, e sono inseriti in circuiti di feed-back negativo verticali (neuroni “double bouquet”) e orizzontali (neuroni “basket” e “chandelier”) responsabili dell’inibizione ricorrente e laterale. Tali neuroni, oltre a contribuire all’elaborazione dei messaggi in tran-
sito durante la veglia, sono attivamente e globalmente coinvolti nell’innesco e nel mantenimento del sonno allorché le cellule piramidali sono reclutate dal talamo in un particolare "pattern" di scarica costituito da brevissimi burst (1-3 spikes) ritmicamente intervallati da prolungati silenzi inibitori (sonno non REM). Data la presenza di connessioni cortico-talamiche (VI strato) che scaricano preferenzialmente in burst, neocorteccia e talamo formano nel loro insieme un vasto sistema riverberante in grado di sincronizzarsi ed oscillare spontaneamente (bloccando in tal modo le afferenze sensitive e sensoriali ascendenti) non appena l’azione desincronizzante prodotta della formazione reticolare ascendente si riduca a sufficienza (sonno sincronizzato). Nell’epilessia generalizzata tipo assenza (Piccolo Male), ad esempio, il sistema reticolo-talamo-corticale risulta particolarmente instabile, per cui durante la veglia, specie nella fase di transizione verso il sonno sincronizzato, il suo “pattern” di scarica desincronizzato può repentinamente trasformarsi in un “pattern” auto-oscillante ritmico per brevi periodi (al massimo, decine di secondi), più volte al giorno (Fig. 27.2). Analoghe considerazioni possono valere per le epilessie parziali o focali, la cui espressione clinica (focale o con secondaria generalizzazione) è più o meno suscettibile di essere modulata dal livello di vigilanza. 2. - “MASSA CRITICA”. Ammettendo che un singolo neurone diventi "epilettico" (v. oltre), esso quasi mai è in grado di reclutare da solo altri neuroni normali circostanti ed innescare una crisi 4. In pratica, solo una scarica parossistica ipersincrona di un aggregato neuronale epilettico corticale di sufficienti dimensioni (massa critica) riesce a produrre manifestazioni focali intecritiche e critiche. L’aggregato minimo capace di generare scariche epilettiche focali ricorrenti non può intendersi in semplici termini di modulo colonnare talamo-corticale (diametro circa 1 mm, 60-80 neuroni piramidali) e di interazioni monosinaptiche accitatorie fra questo ed altri moduli adiacenti, ma piuttosto in termini di “cooperatività” polisinaptica laterale anche con altri moduli più lontani. Perciò, anche limitate e parziali sezioni subpiali verticali effettuate attorno ad un modulo contenente neuroni ipereccitabili riesce a bloccarne la scarica ricorrente conservando una piena connettività anatomo-funzionale con il talamo (Holmes, 1994). Ciò ha notevole importanza pratica nell’approccio neurochirurgico a certe forme di epilessia causata da focolai corticali che, per via di una loro localizzazione “critica”, non possono essere asportati (aree sensitivo-motoria, sensoriali, del linguaggio). 4
Solo nella regione CA3 dell’ippocampo è stata occasionalmente osservata questa possibilità.
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1167 Le dimensioni dell’area iperattiva possono funzionalmente allargarsi per reclutamento dei neuroni delle aree vicine o delle aree simmetriche controlaterali (“mirror focus”) comportando crisi parziali a sintomatologia complessa, fino ad espandersi all’intera corteccia (crisi secondariamente generalizzate tonico-cloniche). 3. - LA SCARICA NEURONALE EPILETTICA. Inizialmente studiata in vivo su differenti modelli sperimentali di epilessia focale e generalizzata, è stata successivamente indagata anche nella corteccia cerebrale cronicamente epilettica dell’uomo mediante registrazioni extra o intracellulari dell’attività spontanea di singoli neuroni in rapporto all’attività EEG di superficie (v. Fig. 27.1). È stato così possibile dimostrare che nel cosiddetto focolaio epilettogeno esistono neuroni più o meno rigidamente dotati di proprietà anomale di scarica, e che questa scarica varia drasticamente in rapporto alle fasi temporali che la ricorrenza delle crisi epilettiche permette di distinguere: la fase
intercritica, compresa fra una crisi e l’altra; la fase critica, corrispondente alla crisi, e la fase post-accessuale o postcritica, immediatamente successiva alla precedente. Quanto verrà di seguito esposto vale anche per le condizioni caratterizzate da una scarica epilettica diffusa all’intera neocorteccia (epilessie generalizzate), fatta eccezione per il particolare caso dell’epilessia generalizzata con crisi tipo assenza (e relativi modelli sperimentali), di cui saranno descritte le caratteristiche elettrofisiologiche più avanti (v. pag. 1171). 1. - Fase intercritica. Gli studi extra ed intracellulari effettuati in corrispondenza del focolaio epilettogeno offrono una visionie integrata della scarica neuronale parossistica intercritica, sia in termini di popolazione e di caratteristiche temporali della scarica unitaria (registrazioni extracellulari), che in termini fenomenologici riguardanti le fluttuazioni del potenziale di membrana (registrazioni intracellulari).
Fig. 27.1 - Rappresentazione schematica dell'attività elettrica di un focolaio epilettogeno neocorticale (area motoria) in due momenti diversi, e precisamente: (A) nella fase intercritica e (B) durante una crisi focale con successiva generalizzazione, articolata in tre fasi: tonica (a-b), clonica (c) e post-accessuale (d). In particolare, in corrsipondenza del focolaio sono stati registrati simultaneamente il potenziale integrato superficiale (EEG), il potenziale extracellulare di un singolo neurone piramidale (EXTRA) ed il corrispettivo potenziale intracellulare (INTRA). Durante il periodo intercritico (A), l'insorgenza di una punta EEG seguita da una onda più lenta, o SWD, (riquadro 1) coincide cronologicamente con una scarica unitaria ad alta frequenza (riquadro 2) generata da un PDS (riquadro 3). Durante la fase critica (B), a partire dall'inizio (a) fino alla conclusione della fase tonica (b) si verifica una una depolarizzazione sostenuta del potenziale di membrana che causa una scarica ad alta frequenza, la cui durata - rispetto a quella del PDS appare notevolmente più prolungata. Nel corso della fase clonica (c), sia la depolarizzazione che la frequenza di scarica cedono progressivamente, per azzerarsi completamente durante la fase post-accessuale (d).
1168 Malattie del sistema nervoso a) Registrazioni extracellulari (Wyler e Ward, 19821986). Hanno dimostrato che nel focolaio esistono: – neuroni fortemente epilettici, dotati di scarica ricorrente stereotipata spontanea o evocata da stimolazioni afferenti, costituita da burst di 8-15 spikes ad elevata frequenza, molto spesso con primo intervallo inter-spike “lungo” (“long first interval” o LFI); – neuroni solo parzialmente epilettici (come sopra), suscettibili di una certa modulazione in rapporto alle modificazioni funzionali dell’area interessata (prodotte da stimolazioni afferenti o dallo stato di sonno o di veglia); - neuroni normali circostanti, suscettibili tutttavia di rapido reclutamento in un “pattern” di scarica patologica ipersincrona ad alta frequenza in particolari circostanze favorenti. Solo in quest’ultimo caso (reclutamento di un sufficiente numero di neuroni) è possibile registrare in prossimità del focolaio - e quale correlato extracellulare multiunitario integrato della scarica parossistica - un potenziale EEG di superficie ben distinguibile dall’attività di base (v. Fig. 27.1, EEG ed EXTRA), esso generalmente assume la forma di una “punta” (< 70 msec) o di un’onda “puntuta” (70-200 msec) di voltaggio >50 µV seguita da un’onda più lenta (a 3-4 Hz), complessivamente configuranti una “scarica punta-onda” (spike and wave discharge, SWD) di morfologia, ampiezza e durata variabili. Le SWD intercritiche di per sé non sono specifiche di un particolare tipo di epilessia, a meno che non insorgano repentinamente, in un tracciato EEG altrimenti normale, sotto forma di complessi punta-onda stereotipati e di notevole ampiezza su entrambi gli emisferi, suggerendo una forma di epilessia generalizzata tipo assenza (v. pag. 1171). b) Registrazioni intracellulari (soma). Hanno portato all’identificazione del fenomeno streotipato di base che genera le scariche epilettiche intercritiche, il cosiddetto “Paroxysmal Depolarization Shift” o PDS (Matsumoto et al., 1964; Prince, 1968; Ayala, 1983), illustrato nella Fig. 27.1 (INTRA). Il PDS è una repentina depolarizzazione di notevole ampiezza (20-40 mV) e durata (fino a 250 msec) che inizialmente genera una breve scarica ad alta frequenza di spikes “rapidi” al Na+ (50-100 msec), quindi un’ulteriore scarica di spikes rigenerativi più lenti al Ca2+, per terminare infine dopo 100-250 msec con una iperpolarizzazione molto più marcata e protratta (fino ad 800 msec) rispetto a quella che si osserva dopo scariche normali. Questo tipo di sequenza, che nell’EEG di superficie si traduce in una SWD, può generarsi in differenti tipi di neuroni piramidali (neocorticali del IV-V strato, ippocampali CA1-CA3 e della corteccia prepiriforme profonda), è indipendente dal modello sperimentale usato e può anche osservarsi nel tessuto cronicamente epilettico uma-
no, dimostrando che esiste, sia all’interno che tutt’attorno al focolaio iperattivo, una “barriera” inibitoria altrettanto attiva, messa in azione dagli interneuroni inibitori GABAergici locali, massivamente attivati dai neuroni principali tramite collaterali assoniche ricorrenti. Si è discusso a lungo se il PDS costituisca una risposta esasperata a normali afferenze eccitatorie da parte di neuroni intrinsecamente propensi a scaricare in burst (ipotesi endogena, Schwartzkroin e Wyler, 1980), oppure una risposta “secondaria” ad un massivo ed ipersincrono input sinaptico (ipotesi del PDS quale EPSP 5 gigante, Johnston e Brown, 1984 e 1986). Non pochi studi sulle correnti ioniche responsabili del PDS indicano che il burst primario è principalmente causato dal potenziamento dei normali EPSP (AMPA/Ka) da parte di una conduttanza persistente al sodio 6 presente nei dendriti distali, capace di propagarsi al soma/segmento iniziale utilizzando anche modalità rigenerative, specie in condizioni di bassi livelli di Ca2+ extracellulare (Segal, 1994; Su et al., 2001). La scarica secondaria appare invece prodotta da circuiti riverberanti eccitatori attivati dalla stessa scarica primaria, capaci di generare, in condizioni depolarizzanti, spikes al Ca2+/Na+ causati dall’attivazione dei recettori NMDA dendritici prossimali. L’iperpolarizzazione, infine, dipende dalla massiva e sequenziale attivazione di vari tipi di conduttanze ioniche, rapide (K+ V-dipendente, ClGABA A-mediata) e lente (K+Ca2+ e GABA B-mediata) (Witte, 1994). Tale iperpolarizzazione tende a decrescere nel periodo immediatamente precedente una crisi, ove può anche essere bruscamente interrotta, specie nei neuroni piramidali dell’ippocampo, da ulteriori ed irregolari depolarizzazioni (“afterdischarges”). L’adenosina, derivante dalla scissione dell’ATP idrolizzato durante il PDS, essendo liberamente diffusibile all’esterno della membrana funge da ulteriore modulatore negativo dell’eccitabilità, poiché blocca presinapticamente la neurotrasmissione eccitatoria (tramite i recettori presinaptici A1) 7. Ciò potrebbe spiegare il motivo per cui nella fase intercritica l’intervallo fra le SWD (e relativi PDS) è generalmente superiore alla durata della 5
EPSP= potenziale eccitatorio postsinaptico («excitatory postsinaptic potential»). Usualmente inteso come glutammatergico, può dipendere dall’attivazione di recettori tipo AMPA/Ka, e in condizioni depolarizzanti, anche di recettori tipo NMDA. 6 Sono mediate da varietà di canali del Na+ V-dipendenti ad inattivazione molto lenta, presenti nei dendriti ed anche nel soma, che, analogamente a quelli rapidamente inattivanti, possono essere parzialmente bloccati da vari farmaci antiepilettici a concentrazioni terapeutiche: fenitoina, carbamazepina, acido valproico, topiramato (v. pag. 1187). 7 L’eventuale inibizione dell’esocitosi di GABA via recettori A2a, osservata nello striato, non sembra avere conseguenze rilevanti in presenza di un simultaneo blocco presinaptico delle sinapsi eccitatorie.
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1169 inibizione GABA-mediata, potendo durare da qualche decina di secondi fino vari minuti. In conclusione, il PDS deriva dalla somma sequenziale di correnti inzialmente al sodio, causate da un’amplificazione abnorme delle normali afferenze eccitatorie nei dendriti distali, quindi da correnti al calcio NMDAmediate, causate da un diffuso, massivo riverbero eccitatorio sui dendriti principali. Ne consegue una scarica prolungata ad alta frequenza per molte decine di msec, che s’interrompe allorquando le difese inibitorie entrano drasticamente in funzione. Nel tracciato EEG, l’intero fenomeno si esprime sotto forma di scariche intercritiche, spesso con morfologia a tipo punta-onda irregolare (SWD). 2. - Fase critica. La ricorrenza dei PDS (e corrispondenti SWD) si protrae usualmente per molte ore, giorni o anche settimane prima che si manifesti, apparentemente in maniera occasionale, un progressivo cedimento delle barriere inibitorie difensive messe in atto dallo stesso PDS. In particolare, se viene reclutato un numero sufficientemente elevato di neuroni, insorge una crisi parziale, e se l’attività parossistica si estende all’intera corteccia, una crisi generalizzata tonico-clonica. Il passaggio alla crisi è segnalato dal prolungamento oltre misura del PDS e dall’intensificazione della relativa scarica neuronale, con progressiva riduzione dell’iperpolarizzazione GABA-mediata post-PDS. Come e perché ciò avvenga non è del tutto chiaro, anche se non è improbabile intervengano complessi meccanismi di fosforilazione Ca2+- PKC mediata dei recettori, potenziandosi simultaneamente la classe NMDA (Ben-Ari et al., 1992) ed inibendosi quella GABAA (Steltzer et al., 1987, Swope et al., 1992; Cupello e Robello, 1995): ciò si traduce in una progressiva prevalenza dell’eccitazione sull’inibizione. Al termine di questa fase di transizione, l’EEG dimostra molto spesso una transitoria sospensione della scarica intercritica con appiattimento del tracciato (Fig. 27.1, A), fenomeno che è assai più evidente nelle registrazioni stereo-EEG (di profondità). La crisi vera e propria inizia con una fase tonica, annunciata dalla comparsa di un’attività EEG ad alta frequenza caratterizzata da "punte" 8 ritmiche di ampiezza progressivamente crescente e di frequenza via via decrescente (ritmo reclutante) (v. Fig. 27.1, B). A livello intracellulare si osserva una persistente depolarizzazione dei neuroni corticali associata ad una sca8
la “punta” EEG, o “spike”, è un potenziale extracellulare sommato, e non dev’essere confusa con lo spike propriamente detto, o potenziale d’azione tutto-o-nulla prodotto da singoli neuroni.
rica massimale protratta dei rispettivi assoni (non dimostrata in Fig. 27.1). Se l’intera corteccia è coinvolta, il massivo bombardamento eccitatorio sui motoneuroni spinali (via fascio corticospinale ed altre vie sovraspinali discendenti) causa una contrazione tonica della muscolatura corporea in opistotono con iperestensione degli arti superiori ed inferiori, semeioticamente molto simile alla rigidità da decerebrazione, il cui meccanismo, peraltro è completamente diverso (v. pag. 34). La fase tonica è seguita da una successiva fase clonica perdurante decine di secondi, caratterizzata da intermittenti interruzioni della scarica tonica riferibili alla comparsa di tentativi ripolarizzanti progressivamente sempre più efficaci e prolungati. Clinicamente, questa fase "convulsiva" inizia con una specie di tremore che evolve in scosse cloniche diffuse, di ampiezza crescente e frequenza decrescente, fino al raggiungimento di una completa atonia muscolare. Nell’epilessia parziale, è del tutto ovvio che le manifestazioni motorie “toniche” e “cloniche” possono osservarsi solo quando il focolaio è localizzato nella corteccia prerolandica controlaterale (crisi motorie): tale distinzione, peraltro, rimane valida anche quando il focolaio è localizzato in aree non motorie, ove la fase critica si traduce in fenomeni soggettivi irritativi controlaterali di vario tipo (o con una perturbazione di funzioni correlate ad una specifica dominanza emisferica, ad esempio il linguaggio), oppure in una sintomatologia non riferibile ad un lato preciso (ad esempio, aura epigastrica, automatismi motori). 3. - Fase post-accessuale (depressione post-critica). È caratterizzata da una sospensione dell’attività spontanea neuronale che comporta i) nelle crisi generalizzate tonico-cloniche, atonia, immobilità (eccettuata la respirazione) e breve stato di coma post-accessuale e ii) nelle crisi parziali, una perdita della funzione che generalmente passa inosservata (o in alcuni casi può confondersi con i fenomeni critici), tranne in particolari casi, quali ad esempio la paralisi post-accessuale di Todd (v. pag. 1140). Il corrispettivo EEG è caratterizzato da un tracciato di basso voltaggio con presenza di oscillazioni lente, su tutte o solo alcune derivazioni. Questa fase coincide con un’iperpolarizzazione neuronale favorita da una marcata riduzione dell’attività sinaptica, cui fa seguito dopo vari minuti una graduale ripresa della scarica spontanea. L’iperpolarizzazione è sostenuta da una massiva attivazione delle pompe ioniche neuronali ed anche gliali, specie della Na+/K+-ATPasi, che ripristinano lentamente i normali gradienti ionici extra-intracellulari idrolizzando una notevole quantità di ATP. In tal modo, l’intensa produzione di adenosina garantisce ai neuroni sottoposti ad eccessivo sovraccarico funzionale un sufficiente ed indisturbato periodo di re-
1170 Malattie del sistema nervoso cupero, ostacolando fra l’altro gli effetti proconvulsivanti dell’acidosi tissutale e dei complessi fenomeni di ossidazione radicalica (favorenti l’influsso di Ca2+ NMDAmediato) insorti nel frattempo. Questa azione protettiva è bloccata dagli antagonisti dell’adenosina (xantine: caffeina, teofillina, etc.), che, a dosi elevate, possono favorire l’insorgenza di nuovi cicli depolarizzanti a carattere subentrante (stato di male generalizzato tonico-clonico). A recupero avvenuto, l’attività spontanea dei neuroni ritorna gradualmente alle condizioni "quo ante". Limitatamente al focolaio stabilmente epilettogeno, la ricorrenza di scariche intercritiche nelle ore successive alla crisi generalmente si accentua, sia in frequenza che in espressività. Tale fenomeno si può prestare ad aumentare la probabilità di una diagnosi elettroclinica, soprattutto quando precedenti EEG intercritici non erano stati dirimenti. 4. - MECCANISMI DI SINCRONIZZAZIONE E DIFFUSIONE DELUna volta che il PDS si genera in un ristretto numero di neuroni corticali, esso tende a propagarsi ad altri neuroni attraverso meccanismi sinaptici e non sinaptici. – Interazioni sinaptiche eccitatorie. Sono rese possibili dalle connessioni eccitatorie ricorrenti e laterali locali (focolaio), dalle connessioni associative con altre aree corticali (ipsi e controlaterali) e dalle connessioni con strutture sottocorticali a proiezione corticale diffusa (formazione reticolare, regione subcollicolare mesencefalica-sostanza nera, nuclei talamici mediani). Nell’ippocampo, sono amplificate da uno “sprouting” assonale auto-eccitatorio dei granuli del giro dentato, con ogni probabilità secondario a denervazione (dimostrato in modelli sperimentali e nell’uomo: Sutula et al., 19881989). Le interazioni eccitatorie possono inoltre essere favorite da una maggior espressione funzionale dei recettori al glutammato tipo NMDA e da fenomeni di potenziamento a lungo termine della trasmissione sinaptica nelle aree cronicamente iperstimolate (come nei modelli di epilessia temporale sperimentale da “kindling”, v. oltre). La propagazione della scarica epilettogena ad aree circostanti o ad aree lontane, ipsi o controlaterali, è un’evenienza piuttosto frequente, che si traduce spesso nella trasformazione di una crisi epilettica parziale a sintomatologia elementare (con coscienza conservata) in una crisi a sintomatologia complessa (con coscienza alterata). In questo caso, il fatto che le funzioni attentivo-mnesiche e di orientamento siano rallentate o compromesse in maniera più o meno rilevante, comportando una perdita di reattività all’ambiente (“perdita di contatto”), può dipendere non solo dall’estensione e dalla localizzazione, ma anche dalla bilateralità delle aree corticali diventate sede di attività parossistica. Per tale motivo, come è già stato detto, la convenzionale distinzione delle crisi in funzio-
LA SCARICA EPILETTOGENa.
ne dello stato di coscienza (rimasta per ora adottata) appare poco utile. La diffusione della scarica epilettogena all’intera corteccia comporta la trasformazione delle crisi parziali (semplici e complesse) in crisi secondariamente generalizzate tonico-cloniche. La rapidità con cui spesso una scarica circoscritta neocorticale riesce a diffondere all’intera corteccia è permessa dalla presenza dalle reciproche connessioni fra corteccia e nuclei talamici (specifici, a proiezione diffusa e nucleo reticolare talamico), costituenti un circuito riverberante capace di attivarsi rapidamente in maniera massiva non solo per via transinaptica, ma anche attraverso un “back-firing” degli assoni transcallosali (Schwartzkroin et al., 1975a) e talamo-corticali (Schwartzkroin et al., 1975b; Noebels e Prince, 1978; Divac et al., 1984). L’immediata propagazione antidromica dell’attività parossistica focale corticale alle aree corticali controlaterali omologhe ed alle rispettive regioni talamiche ipsilaterali di interconnessione può quindi tradursi, per via delle collaterali assoniche eccitatorie locali, in una massiva attivazione di tutte le zone proiettanti sul focolaio e, nel caso del talamo a proiezione diffusa, sull’intera corteccia. Il problema di come si generino le crisi generalizzate tonico-cloniche idiopatiche, apparentemente prive di un vero e proprio punto di partenza (come nel caso delle crisi indotte da elettroshock massimale), è rimasto a lungo dibattuto, e le uniche ipotesi disponibili derivano essenzialmente da osservazioni sperimentali. Le più accettate si riferiscono ad un progressivo, diffuso declino dell’attività inibitoria GABAergica intracorticale fino ad un repentino sopravvento dei meccanismi di feed-back eccitatorio in porzioni bilaterali di neocorteccia, ritenute il requisito anatomico minimo per l’innesco di questo tipo di crisi, ma di per sé insufficienti (senza la partecipazione talamo-reticolare) per produrre le crisi vere e proprie. Ciò sottolinea l’importante ruolo che alcune strutture sottocorticali (come il talamo, la formazione reticolare, la sostanza nera, il collicolo superiore ed altri nuclei del tetto mesencefalico) possono avere nell’estrinsecazione dei vari tipi di crisi generalizzate, così come quello favorente o determinante di possibili mutazioni di alcune classi di canali ionici, di recettori o di trasportatori di vario tipo. – Interazioni sinaptiche inibitorie. Dipendono da reti di interneuroni GABAergici locali che, in virtù delle reciproche interconnessioni e di singole connessioni con un numero anche elevato di neuroni principali circostanti (vedi cellule “chandelier” della neocorteccia e cellule GABAergiche dell’ilo dell’ippocampo), permettono di sincronizzare l’attività corticale e sottocorticale secondo particolari pattern oscillanti ritmici.
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1171
Fig. 27.2 - Schema dei circuiti riverberanti cortico-talamo-reticolari (a sinistra) e dei rapporti fra quadro EEG e scarica cortico-talamo-reticolare (a destra) registrata a livello intracellulare durante la crisi di assenza. Abbreviazioni: CORT: corteccia sensitivo-motoria; EEG: elettroencefalogramma; VB: complesso nucleare ventrobasale del talamo; nRT: nucleo reticolare del talamo; 1: neurone piramidale; 2: neurone talamo-corticale; 3: interneurone inibitorio reticolo-talamico. La punta del complesso punta-onda EEG coincide con una scarica piramidale in brevi burst (1), mentre la successiva onda lenta coincide con la fase inibitoria post-burst. Come si può notare osservando le linee verticali tratteggiate, la scarica piramidale (1) è immediatamente preceduta e causata da un'analoga scarica talamo-corticale (2), ed insorge spontaneamente per attivazione dei canali del Ca2+ di tipo T a bassa soglia dopo una marcata iperpolarizzazione prodotta da una serie di IPSP (frecce). Gli IPSP sono causati da una scarica reticolo-talamica in burst prolungati (3).
– Ritmo a 3 Hz (2,5-4 Hz). Contraddistingue le crisi generalizzate tipo assenza, spontanee o sperimentalmente indotte (mediante somministrazione sistemica di γ-idrossibutirrato o γ-butirrolattone) e si manifesta con ampi complessi punta-onda 9 (SWD) generalizzati e stereotipati, usualmente più ampi sulle regioni frontali. A differenza di ogni altro tipo di scarica parossistica, questi complessi non sono sottesi da PDS, ma sono evocati nella neocorteccia da una ritmica scarica in burst dei neuroni talamo-corticali, che induce nei neuroni piramidali una brusca depolarizzazione (da sommazione di EPSP rapidi) con scarica di 1-3 spikes (“punta”), seguita da prolungata iperpolarizzazione GABA-mediata (“onda”). Le SWD generalizzate interrompono bruscamente e senza preavviso un’attività EEG intercritica normale, non mostrano alcuna evolutività (salvo un lieve rallentamento al termine dell’episodio), perdurano in media per 10 sec (4-20 sec) comportando sospensione del-
9
la punta è tipicamente singola, ma può variare di numero (da 1 a 3), configurando complessi polipunta-onda a 3 Hz.
la coscienza, e non sono seguite da alcuna fase di depressione post-critica (la ripresa della coscienza, infatti, è immediata). La genesi di questo particolare tipo di epilessia è rimasta a lungo dibattuta in relazione a due ipotesi contrastanti, quella “centroencefalica” basata sull’inducibilità dei complessi punta-onda mediante stimolazione a bassa frequenza dei nuclei talamici mediani, e quella "corticale" basata sull’inducibilità dello stesso fenomeno mediante applicazione bilaterale di convulsivanti sulla corteccia frontale. Tali ipotesi sono attualmente unificate nell’ipotesi “corticoreticolare” (Gloor e Fariello, 1988). Ferma restando l’importanza delle interconnessioni cortico-talamo-corticali e di quelle fra neuroni talamici specifici - interneuroni GABAergici del nucleo reticolare del talamo (dimostrata funzionalmente mediante PET durante le assenze), finora non è stato chiarito il reale meccanismo d’innesco delle scariche ritmiche di SWD, e nemmeno perché l’epilessia con SWD generalizzate sia appannaggio dell’età infantile (a partire dai 4-6 anni), prediliga il sesso maschile, e, a partire dall’adolescenza, possa evolvere in epilessia generalizzata tonico-clonica.
1172 Malattie del sistema nervoso Studi elettrofisologici, genetici e di biologia molecolare, sia in modelli animali che nell’uomo, hanno permesso di sospettare l’occorrenza di una esasperazione delle intrinseche proprietà pace-maker dei neuroni talamici (soprattutto del nucleo reticolare talamico), principalmente attribuite ad una specifica dotazione di canali del Ca2+ a bassa soglia (tipo T) 10 e di canali del Na+ non inattivanti, responsabili di correnti al Na+ persistenti. Le correnti di entrambi i canali contribuirebbero a fare evolvere l’iperpolarizzazione inibitoria in una depolarizzazione post-inibitoria sufficiente a generare brevi scariche in burst, a loro volta responsabili di un nuovo ciclo punta-onda spontaneo (“post-anodal exaltation” o “post-inhibitory rebound” di Eccles, 1964 e 1969; Avoli et al., 2001). Qualora si considerino nel loro insieme tutte le forme di epilessia caratterizzate da crisi di assenza (siano esse tipiche o atipiche, isolate o associate ad altri tipi di crisi), l’argomento diventa ben più complesso e sfuggente, e la natura poligenica rimane l’ipotesi più probabile, ove si consideri la quantità di mutazioni puntiformi finora riportate, traducentisi in anomalie molecolari e funzionali di particolarti canali ionici, recettori e trasportatori neurotrasmettitoriali (Crunelli e Leresche, 2002). A questo proposito, non meno importante è la recente osservazione che uno stato di male epilettico generalizzato può indurre una stabile “sovraespressione” dei canali del Ca2+ di tipo T dei neuroni piramidali dell’ippocampo e trasformare la loro scarica spontanea regolare in scarica periodica in burst a tipo “pace-maker”, innescando così una successiva epilessia “limbica” (Su et al., 2002). Ciò permette di affiancare al convenzionale concetto di “trasmissione” genetica quello di “acquisizione” di nuove - ed in questo caso abnormi - modalità espressive genetiche. – Ritmo gamma (30-100 Hz) e “ripples” (100-500 Hz). Si riferiscono a rapide e ritmiche oscillazioni del potenziale di membrana (e di campo elettrico non visibili nel comune tracciato EEG a bassa velocità), insorgenti in particolari circostanze funzionali, prodotte da interazioni interneuronali su larga scala che insorgono nell’ambito dei network interneuronali GABAergici e si trasmettono a popolazioni di neuroni principali. Tali fenomeni esprimono la sincronizzazione dell’attività di aree anatomicamente distribuite, fra loro anche lontane ma entrate in fase (su particolari bande di frequenza) per elaborare in maniera coerente i segnali momentaneamente 10
Sono canali V-dipendenti «low threshold-transient» bloccati da Ni2+ ed etosuccimide, normalmente inattivi. Per diventare attivabili richiedono una marcata iperpolarizzazione della membrana, quindi si attivano nel successivo graduale ritorno al potenziale di riposo (attorno a -65, -70 mV), per disattivarsi una volta raggiunto un potenziale sufficientemente depolarizzante.
in transito. I meccanismi che ne stanno alla base, normalmente devoluti ai processi attentivi, associativi e mnesici, curiosamente sarebbero coinvolti nell’innesco delle scariche intercritiche esclusivamente nell’ambito del focolaio epilettogeno, ma non nelle aree ove esso diffonde. Tale rilievo, ove confermato, assumerebbe particolare importanza pratica nell’identificazione preoperatoria del tessuto realmente da asportare nella terapia chirurgica dell’epilessia (de Curtis e Avanzini, 2001). – Interazioni non sinaptiche. Possono essere così brevemente sintetizzate: a) effetti di campo elettrico (efaptici), insorgenti per massiva attivazione di regioni ad alta densità neuronale (alcune aree neo e paleocorticali, specie l’ippocampo); b) effetti ionici depolarizzanti esercitati dal “milieu” extracellulare, in particolare dipendenti da un massivo efflusso di K+ con riduzione di Ca2+ al di sotto della normale concentrazione 5mM (per influsso intracellulare), capaci di reclutare aree contigue nell’attività parossistica. Nell’ippocampo, l’abbassamento del Ca2+ extracellulare indotto da sovrastimolazioni accentua grandemente le correnti dendritiche di Na+ (persistenti, non inattivanti ): ciò si traduce nella generazione di “rimbalzi” eccitatori spontanei post-scarica (“afterdischarge”) che causano ulteriori scariche di spikes. Queste “afterdischarge” tendono a ricorrere spontaneamente, trasformando in neuroni generanti burst cellule che in origine non lo erano (de Curtis e Avanzini, 2001; Su et al., 2001); c) accoppiamento elettrico via “gap-junctions” intercellulari, sia fra neuroni principali che fra interneuroni inibitori, meccanismo quest’ultimo suscettibile di variazioni funzionali importanti 11, ma anche di modulazione farmacologica specifica; d) riduzione massiva dei siti “redox” dei recettori NMDA, tale da comportare patologico aumento dell’influsso di Na+ e Ca2+ da essi mediato: questo meccanismo di potenziamento non farebbe altro che accentuare quello già descritto, prodotto da fosforilazione del complesso NMDA (v. pag. 1169), aumentando la probabilità di una la transizione della crisi in uno Stato di Male epilettico generalizzato (Sanchez et al., 2000). È assai probabile che, nell’insieme, queste interazioni causino una sincronizzazione della scarica neuronale anche attraverso la generazione di un “backfiring” sostenuto da parte delle terminazioni assoniche (v. sopra). 5. - IMPATTO DELLE CRISI SUL SNC. A tutt’oggi, non esiste alcuna prova che singole crisi epilettiche, parziali o 11
Nel tessuto ippocampale epilettico l’espressione della connessina-43, proteina costituente le «gap junctions», è invariata (Elisevich et al., 1997)
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1173 generalizzate, possano arrecare di per sé un danno strutturale permanente ad un SNC “normale”, anche se ripetute quotidianamente per molti giorni (vale il caso emblematico delle crisi generalizzate tonico-cloniche da elettroshock massimale, vedi oltre) (Meldrum e Bruton, 1992). Non vi sono prove sperimentali, tuttavia, che ciò valga anche nei casi in cui esiste un’attività parossistica intercritica sostenuta, con frequenti crisi ricorrenti per anni. Al contrario sia nell’uomo (Norman, 1964; Meyer et al., 1955; Lothman, 1990; Meldrum e Bruton, 1992; Payne e Bleck, 1997; Fujikawa et al., 2000a) che nell’animale sono ben noti i danni che il SNC subisce in seguito all’insorgenza di crisi generalizzate subentranti (Stato di Male convulsivo). Quando non coesistano concomitanti fattori peggiorativi anossico-ischemici, dismetabolici o da ipertermia, il danno è proporzionale alla durata dello SME, ed inizia a manifestarsi dopo 60-90 in zone di vulnerabilità selettiva, assumendo a seconda della sede due differenti aspetti: – neocorteccia (strati III-IV-VI), ippocampo (CA1, CA4, ilo), amigdala, corteccia periamigdaloidea (piriforme) ed entorinale, talamo (n. mediale dorsale) → preferenziale danno dendritico precoce con risparmio assonale, che può evolvere in necrosi neuronale selettiva (Auer e Siesjö, 1988). – globo pallido, sostanza nera (pars reticulata), cervelletto (strato delle cellule di Purkinje e molecolare) → preferenziale danno assonale precoce con risparmio somato-dendritico. Nel ratto coesiste un danno glioastrocitario con pan-necrosi nella sostanza nera, eventualità talvolta riscontrata nel primate ma non nell’uomo. L’alta densità di recettori neuronali glutamatergici tipo NMDA (Cotman, e Iversen, 1987) presente sui pericari neuronali di queste aree comporta un più elevato rischio di danno neuronale eccitotossico transinaptico da iperstimolazione, mediato da un sovraccarico intracellulare di Ca++ (Rothman e Olney, 1986-1995). A seconda dello stato metabolico ed energetico individuale dei neuroni sovrastimolati, il danno funzionale può lentamente regredire, o evolvere in morte neuronale immediata per necrolisi o ritardata di ore o giorni per apotosi (Ankacrona et al., 1995). Nello stato di male epilettico prolungato per ore o giorni, ove esiste un forte e continuo consumo di substrati energetici (ATP), i neuroni vanno rapidamente incontro ad una frammentazione del DNA, indice di innesco di un processo apoptotico, ma i fenomeni necrolitici da crollo delle riserve energetiche predominano, impedendo a quelli apoptotici di manifestarsi (Fujikawa, 2000; Fujikawa et al., 2000b). Il risultato più appariscente a distanza di tempo è probabilmente quello che si osserva nell’ippocampo, ove particolarmente sensibili al danno si rivelano gli interneuroni contenenti GABA+Neuropeptide Y dell’ilo del giro dentato (Sloviter, 1987). Se il depauperamento di queste cellule raggiunge o oltrepassa il 50%, i granuli del
giro dentato denervati iniziano ad emettere nuove collaterali assoniche eccitatorie che progressivmente reinnervano diffusamente non solo gli stessi granuli, ma anche le altre regioni ippocampali rimaste denervate (Sutula et al., 1988-1989): questa condizione, che si associa ad atrofia con gliosi reattiva più o meno importante, sta alla base della cosiddetta “sclerosi temporale mesiale”, responsabile della maggior parte delle epilessie parziali sintomatiche a sintomatologia complessa. A questo proposito, un recente studio prospettico RM delle regioni temporali mesiali (ippocampo, nell’amigdala e della corteccia peri ed entorinale) di 8 soggetti con pregresso stato di male epilettico generalizzato tonico-clonico (1-2 ore) e di 1 paziente con pregresso stato di male parziale complesso perdurato 4 giorni ha dimostrato in tutti i casi l’assenza di esiti atrofici a 3, 6, 12 mesi di distanza (Salmenpera et al., 2000). Anche se non si conosce quale è stata in questi casi la durata dello stato di male “prima” dell’inizio della terapia (Diazepam iv, seguito da Fenitoina iv, ed eventualmente anestesia generale con Tiopentale), e quanto ciò possa fare differenza, sembra di poter concludere che un’attività critica continua per 1-2 ore non causi lesioni almeno macroscopicamente documentabili. 6. - FATTORI SCATENANTI. Si tratta di fattori o eventi transitori e sporadici endogeni o esogeni capaci di aumentare l’incidenza delle crisi in soggetti cronicamente affetti da epilessia o di indurre crisi in soggetti non epilettici ma particolarmente suscettibili. Una elencazione esauriente di tutti i possibili fattori predisponenti e degli eventi in grado di abbassare la soglia epilettogena di parti o dell’intero SNC e quindi di scatenare una crisi epilettica non è mai stata tentata, tenuto conto della grande difformità espressiva delle sindromi e delle crisi epilettiche finora descritte. Limitatamente ai fattori scatenanti più noti, si segnalano: – particolari stati fisiologici, quali il sonno (ed in particolare le fasi di transizione, specie fra veglia e sonno sincronizzato) il cui ruolo, genericamente favorente, può diventare scatenante in particolari forme di epilessia geneticamente determinate (v. pag. 1152); – cause fisiche, in particolare la febbre, in bambini geneticamente predisposti (v. pag. 1152); – cause biochimiche, comprendenti modificazioni dell’equilibrio acido-base ematico (alcalosi), del metabolismo (ipossiemia, ipoglicemia, uremia, grave ipocalcemia ed iponatriemia acute) e dell’assetto ormonale (ciclo estro-progestinico); azione di farmaci o sostanze proconvulsivanti 12 (antibiotici beta-lattamici e chinolonici, 12
Poco attivi alle dosi cui sono abitualmente assunti, e non comprendenti i veleni convulsivanti più potenti: bicucullina, picrotossina, stricnina, pentilenetetrazolo, analoghi “rigidi” del glutamato (acido kainico, domoico ed ibotenico), pilocarpina, 4- e 6-aminopiridina, tetanotossina, ouabaina, flurothyl, esteri fosforici, etc.
1174 Malattie del sistema nervoso analettici cardio-respiratori, xantine e psicostimolanti (Zagnoni e Albano, 2002); carenze vitaminiche, alimentari o indotte da farmaci, specie di piridossina (Vit. B6) (v. pag. 1162); – brusca sottrazione di sostanze neuroattive, ed in particolare, farmaci antiepilettici, benzodiazepine ed alcool (etilismo cronico). – modalità di stimolazione specifiche (visive, uditive, vestibolari, psichiche etc.), talora anche molto complesse (come ad esempio particolari scene di videogames), responsabili delle cosiddette epilessie riflesse. Fra le varietà finora segnalate, solo poche sono assimilabili a modelli animali spontanei (topo audiogenico, babbuino fotosensibile Papio Papio), suggerendo fortemente che le epilessie riflesse abbiano una origine geneticamente determinata, esprimentesi con selettive modificazioni della normale dotazione cellulare o molecolare - o anche della connettività - di particolari aree o di determinati sistemi neuronali del SNC. Le modalità di innesco delle crisi, ovvero il meccanismo per cui dalla fase intercritica si passa a quella critica, rappresentano un aspetto sconosciuto. In una minoranza di casi è possibile identificare l’evento precipitante, senza peraltro comprenderne il meccanismo di azione, poichè, in un soggetto normale, tale evento non avrebbe alcun effetto. Nella gran maggioranza dei casi le crisi insorgono in maniera apparentemente spontanea, per cui nessuno è attualmente in grado di capire per quale motivo la crisi si è verificata ieri e non oggi; o perché si ripeterà fra un mese e non fra una settimana. 7. - LA SCARICA EPILETTOGENA COME VIA
FINALE COMU-
NE DI PATOLOGIE CEREBRALI DIVERSE: UN PROBLEMA IRRISOLTO.
- Quali che siano i meccanismi responsabili della scarica epilettogena, resta sempre da chiarire il complesso di eventi per cui da un gruppo eterogeneo di patologie cerebrali (tumore, cicatrice, malformazione, ecc.) possono trarre origine le alterazioni funzionali descritte, realizzando una sorta di via finale comune il cui risultato ultimo è rappresentato dall’insorgenza di crisi epilettiche. Non è improbabile che, così come esistono varie cause, esistano anche varie patogenesi che dipendono non tanto dal tipo di lesione, quanto dalla sede, dall’estensione e dalle modalità di propagazione della scarica epilettogena. In altre parole, il risultato finale, ovvero la crisi, è condizionato non tanto dall’eziologia quanto dalla fisiopatologia della scarica epilettogena. A sostegno dell’ipotesi per cui potrebbero anche esistere varie patogenesi depone, indirettamente, il fatto che i meccanismi responsabili della depolarizzaione parossistica non sarebbero necessariamente uguali nelle diverse forme di epilessia e nelle differenti aree corticali, ma di questo problema, almeno per ora, sappiamo assai poco.
8. - L’EPILESSIA “SINE MATERIA” E LA TERMINOLOGIA MIGLIORE PER DEFINIRLA. - La soluzione data in passato a que-
sto antico problema contrapponendo il termine “idiopatico” (= comportato da una affezione di origine spontanea → geneticamente determinata) al termine “criptogenico” o “criptogenetico” (= di natura nascosta, oscura) è stata un’operazione di fantasia e tale da prestarsi ad ambiguità, all’epoca giustificata solo dall’impossibilità di identificare la reale eziologia di un notevole numero di epilessie, una minoranza delle quali a più o meno chiara impronta famigliare, ed una netta maggioranza delle quali molto simili a quadri di epilessia sintomatica. Fra i suggerimenti indicati dalla nuova Proposta ILAE (Engel 2001), vi è quello di abbandonare l’uso del termine criptogenetico a favore della più chiara designazione probabilmente sintomatico, considerando che il termine “criptogenetico” si presta ad etichettare, oltre alle epilessie simil-sintomatiche caratterizzate da una negatività dell’anamnesi famigliare e dei reperti clinici e di laboratorio (a parte l’EEG), anche tutte quelle epilessie che non rientrano precisamente nei concetti di idiopatico e sintomatico. Ciò ha spinto anche a puntualizzare che la presenza di famigliarità non è sufficiente per definire un’epilessia idiopatica, considerando che non poche malattie neurogenetiche sono sottese da processi patogeni che comportano, quale unica via finale comune, l’insorgenza di epilessia (v. sindromi epilettiche miocloniche progressive). Queste condizioni dovrebbero essere considerate a parte come vere e proprie malattie autonome. Con queste esclusioni, ed usato accortamente, il termine idiopatico può essere utile a definire provvisoriamente quelle epilessie dipendenti da alterazioni genomiche ancora non identificate, tali da comportare esclusivamente l’insorgenza di crisi epilettiche spontaneamente ricorrenti, mentre il termine “sine materia” deve essere senz’altro abolito. 9. - PREDISPOSIZIONE INDIVIDUALE E RUOLO DELL’ETÀ. Esistono due fattori individuali di notevole rilevanza ai fini dell’epilettogenesi, e precisamente la predisposizione ad epilettizzare e il grado di maturazione cerebrale legata all’età. a) Predisposizione individuale. È ormai ampiamente dimostrato che, a parità di altre condizioni, la possibilità di sviluppare crisi epilettiche dipende dalla soglia convulsiva individuale, diversa a sua volta da soggetto a soggetto, essendo geneticamente determinata. Incidentalmente, le probabilità che una lesione cerebrale diventi epilettogena aumentano significativamente, se esiste una predisposizione congenita all’epilessia. In effetti è stato osservato che le epilessie sintomatiche di tumori o di focolai contusivi post-traumatici, si sviluppano più facil-
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1175
Fig. 27.3 - Possibile sovrapposizione di mutazioni genetiche nelle principali Epilessie Idiopatiche (modificata da Crunelli e Leresche, 2002). 1: Epilessia generalizzata tipo assenza Piccolo Male dell'età infantile; 2: Epilessia generalizzata tipo assenza dell'età giovanile; 3: Epilessia primitivamente generalizzata tipo tonico-clonico; 4: Epilessia mioclonica giovanile (sindrome di Janz).
mente nei soggetti con famigliarità epilettica, ed anche l’incidenza di crisi nei parenti di soggetti affetti da epilessie localizzate sintomatiche è maggiore (5% contro 5 ogni 10.000) rispetto alla popolazione generale. Il ruolo della predisposizione emerge prevalentemente nelle epilessie idiopatiche generalizzate o parziali, di cui ben il 10-30% presenta una famigliarità positiva per l’epilessia, a volte dello stesso tipo, altre volte di tipo simile. Attualmente si assiste ad un incessante fiorire di scoperte nell’ambito della genetica delle epilessie che non è possibile descrivere succintamente. Limitatamente alle principali forme idiopatiche di epilessia generalizzata (quali 1: Assenza Piccolo Male dell’età infantile, 2: Assenza dell’età giovanile; 3: Tonico-Clonica; 4: Mioclonica giovanile o sindrome di Janz), è stato notato che certe mutazioni genetiche sono comuni a più di una forma (v. Fig. 27.3; Tab. 27.1). Nella successiva Tabella 27.1, che utilizza parte dei dati riportati da Crunelli e Leresche (2002) e da Kullmann (2002) sono riportate le principali mutazioni finora identificate mediante analisi di “linkage” e localizza-
Tabella 27.1 - Principali patologie di canale o di recettore associate ad epilessia (e ad altre malattie neurologiche) Gene Canali V-dipendenti K+ KCNA1 KCNQ2
Loci
Proteina
Funzione
Fenotipi
12p13 20q13.3
Ripolarizzazione (assoni)
EA1
IK tipo M (muscarinica, persistente)
BFNC BFNC FHM, EA2, SCA6, JME GEFS+, SMEI FS GEFS+
FS, GEFS+
KCNQ3
8q24
Ca2+
CACNA1A
19p13
KV1.1 subunità α KCNQ2 subunità α partner di KCNQ3 KCNQ3 subunità α partner di KCNQ2 CaV2.1 subunità α1A
Na+
SCN1A SCN2A SCN1B
2q24 2q23-q24.3 19q13.1
NaV1.1 subunità α NaV1.2 subunità α SCN1-2 subunità β1
IK tipo M (muscarinica, persistente) IP/Q terminazioni sinaptiche (release) somi (Purkinje, granuli) INa p persistente (dendriti e somi) INa f rapida, inattivante (assoni) Modula le subunità α
GABAA-R subunità β3 GABAA subunità γ2
GABA-inibizione rapida GABA-inibizione rapida (BDZ↓)
GABAA-R, subunità γ2
GABA-inibizione rapida (GABA ↓)
CHRNA4
15q11-q13 5q31.1-q33.1 (K289M) 5q31.1-q33.1 (R43Q) 20q13.2-q13.3
Presinaptici (release)
CHRNB2
1p21 5q32
nACh-R subunità α4 partner di subunità β2 nACh-R subunità β2 partner di subunità α4 GLI-R subunità α4
6q24-25
recettore µ
Recettori GABAA GABRB3 GABRG2 GABRG2 nACh
Glicina GLRA1 (GLI) Oppioidi OPRM1
Presinaptici (release) GLI-inibizione rapida inibita da stricnina: midollo, troncoencefalo inibizione (G-proteina mediata)
CAE, FS GEFS+ ADNFLE, CAE, JAE, JME ADNFLE FH CAE
ABBREVIAZIONI. ADNFLE = Epilessia autosomica dominante notturna del lobo frontale;. BDZ= Benzodiazepine; BFNC = Convulsioni neonatali famigliari benigne; CAE = Crisi tipo assenza infantili; JAE = Crisi tipo assenza giovanili; JME = Crisi miocloniche giovanili; EA2 = Atassia episodica tipo 2; EA1 = Atassia episodica e neuromiotonia; FH = Epilessia "sursaut" o Iperrekplexia famigliare; FHM = Emicrania emiplegica famigliare; FS= Convulsioni febbrili; GEFS+ = Epilessia generalizzata con convulsioni febbrili plus; SCA6 = Atassia spinocerebellare tipo 6; SMEI = Epilessia mioclonica infantile grave (sindrome di Dravet).
1176 Malattie del sistema nervoso zione genomica, responsabili dell’anomalo funzionamento di alcuni tipi di canali ionici, alcuni dei quali voltaggio-dipendenti, altri modulati da recettori associati a canali ionici (GABAA, Glicina) o accoppiati a G-proteine. Queste condizioni possono comportare vari tipi di epilessia idiopatica, ove è possibile notare fenomeni di convergenza o divergenza fenotipica (rispettivamente, quadri identici per mutazione di due geni diversi, quadri dissimili per mutazioni di porzioni diverse dello stesso gene), ed anche malattie neurologiche in cui l’epilessia è assente, o al contrario domina un quadro sindromico, come nel caso della sindrome di Angelman (delezione del locus 15q11-13, gene GABRB3, che codifica per la subunità β3 del recettore GABAA). Come è già stato detto, la trasmissione della predisposizione all’epilessia non deve essere confusa con la trasmissione di eventuali malattie epilettogene ereditarie (ad es., encefalopatie metaboliche, degenerative o malformative) per cui si rinvia ai rispettivi capitoli. b) L’età può avere un notevole effetto patoplastico, che si manifesta soprattutto nelle epilessie a forte carico genetico. In particolare è verosimile che il modificarsi del tipo di crisi in un determinato soggetto con il passaggio dall’infanzia all’adolescenza e da questa alla giovinezza, sia dovuto al fatto che - con il progredire del processo maturativo cerebrale, che si completa verso il ventesimo anno - la scarica epilettogena utilizzerebbe organizzazioni neuronali differenti, con tutte le modificazioni che ciò può comportare sulla fenomenologia accessuale. Non va dimenticato, infine, che oltre alla tipologia delle crisi, anche la soglia convulsiva individuale può variare nelle diverse fasi della vita. 10. - MODELLI SPERIMENTALI E “SCREENING” DI NUOVI FARMACI ANTIEPILETTICI. Probabilmente nessuna altra affezione
neurologica può essere paragonata all’epilessia in quanto a varietà di modelli sperimentali animali acuti e cro-
nici utilizzabili sia per lo studio dei meccanismi fisiopatogenetici di base (Tab. 27.2) (Engel, 1995; Avanzini et al., 1997), che per l’identificazione di nuovi e più efficaci farmaci antiepilettici (AED) capaci di bloccare la ricorrenza dei vari tipi di crisi senza comportare effetti collaterali e possibilmente anche di farmaci “antiepilettogenici”, in grado cioè di bloccare la trasformazione del tessuto cerebrale sano in un tessuto stabilmente epilettico. Conviene ricordare che ogni anno i laboratori chimico-farmaceutici progettano e sintetizzano molte migliaia di molecole teoricamente promettenti, la cui attività richiede tuttavia una precisa valutazione attraverso idonei protocolli sperimentali. A questo proposito, dagli inizi degli anni ’70 il National Institute of Healt (USA) ha complessivamente accettato da oltre 300 produttori, e sperimentalmente studiato, più di 23.000 composti sostanzialmente privi di neurotossicità e letalità, di cui solo 25 (pari ad 1 composto su 1000) hanno trovato sviluppo clinico dopo una lunga attesa (in media 10 anni). La parte attuativa di tale disegno (“Anticonvulsant Screening Project”, ASP) prevede la combinazione di vari approcci sperimentali a complessità e costi crescenti (Stables e Kupferberg, 1997), basati su diverse strategie: – non-meccaniscistico, adatto ad una generica valutazione primaria dell’efficacia anticonvulsivante di un nuovo AED in due modelli acuti di epilessia generalizzata causata nel ratto da: i) elettroshock massimale (MES) → blocco della fase tonica (= blocco dei meccanismi di propagazione); ii) pentilenetetrazolo (PTZ) sottocutaneo → blocco degli spasmi clonici (= innalzamento della soglia convulsiva). Somministrato intravena a dosi crescenti nel momento della massima efficacia di AED attivi sul modello MES, il PTZ è usato per rivelare una loro eventuale azione pro-mioclonica; – crisi-specifico, in due modelli sperimentali murini: i) “kindling“ ippocampale, cioè “innesco” di crisi spontaneamente ricorrenti miocloniche (muso, arti ante-
Tabella 27.2 - Principali modelli sperimentali di epilessia. Tipi di Crisi
Modelli acuti
Parziali semplici Penicillina-Bicucullina Parziali complesse (limbiche) Generalizzate tonico-cloniche MES-Bicucullina-PicrotossinaKainato - Flurothyl Miocloniche Pentetrazolo Generalizzate tipo Assenza (Pentetrazolo) - GHB/GBL1
1 2
Modelli cronici o spontanei Al3+- Co2+-Fe3+ - “Freezing” Pilocarpina+Litio - Tetanotossina -“Kindling” Pollo fotosensibile - Babbuino Papio Papio fotosensibile - Topi audiogenici - Gerbillo xenosensibile – Ratto GAERS2; topo mutante “lethargic”, “tottering”, “ducky”, “mocha”, “stargazer”
γ-idrossibutirrato/g-butirrolattone. Genetically Absence Epilepsy-prone Rats from Strasbourg (Marescaux et al., 1992)
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1177 riori) con assenze e cadute, conseguente ad adeguati cicli di stimolazione ad alta frequenza di particolari strutture (oltre all’ippocampo, amigdala, corteccia piriforme). Questo modello simula le crisi parziali a sintomatologia complessa a partenza dal lobo temporale mesiale (v. pag. 1142), che rappresentano un esito frequente di pregresse convulsioni febbrili prolungate, di trauma cranico grave e di stati di male convulsivo generalizzato: esso quindi si presta a valutare sia l’azione antiepilettica (= blocco delle crisi) che antiepilettogena degli AED (= blocco del processo di “apprendimento” a produrre delle crisi); ii) crisi generalizzate tipo assenza da γ-idrossibutirrato (GHB) o γ-butirrolattone (GBL), per verificare l’azione antiassenza degli AED, o viceversa, verificare una eventuale azione pro-assenza di AED attivi in altri tipi di crisi. – meccanicistico, orientato in funzione di precise ipotesi fiopatogenetiche (ad esempio, controllo GABAergico carente) o specifici meccanismi d’azione (ad esempio, su certi tipi di canali ionici), si basa su sofisticate tecniche di registrazione (intracellulari, “voltage clamp”), ed utilizza appropriati modelli in vitro finalizzati alla ricerca di azioni di blocco “voltaggio, uso e frequenza” dipendenti esercitate dagli AED sulla scarica tonica evocata da rampe depolarizzanti rettangolari. Quest’ultimo approccio ha dimostrato che numerosi AED efficaci nelle crisi parziali e generalizzate tonico-cloniche (Fenitoina, Carbamazepina, Valproato, Lamotrigina, Topiramato, Etosuccimide) allungano il periodo di “rimozione dell’inattivazione” dei canali del Na+ (corrispondente al periodo refrattario assoluto), ed in tal modo riducono sensibilmente la frequenza massima di scarica. L’impiego di particolari modelli di epilessia su sezioni di tessuto nervoso in vitro (in condizioni di basso calcio e/ o basso magnesio) e l’uso di strategie di blocco specifico di classi di recettori o canali ionici ha inoltre permesso di apprezzare la loro relativa importanza nella genesi della scarica epilettogena, e nel contempo, di delucidare ulteriormente il meccanismo d’azione di numerosi AED di 1° e di 2° generazione (v. Tab. 27.4).
Riassumendo: lo studio dell’attività elettrica dei neuroni cerebrali ha dimostrato che l’insorgenza di una crisi epilettica è legata ad una scarica neuronale eccessiva che può verificarsi in maniera occasionale o ricorrente. Nell’epilessia ricorrente è possibile rilevare, anche al di fuori delle crisi, una abnorme instabilità del livello di eccitabilità dei neuroni corticali, che si esprime sotto forma di scariche intercritiche focali o diffuse. Le cause di tale fenomenologia possono essere molteplici, e dipendere sia da fattori con-
geniti (canalopatie, alterazioni di subunità recettoriali geneticamente determinate, alterazioni del differenziamento e della migrazione neuronale), che da fattori acquisiti postlesionali (gliosi reattiva, alterazioni del “milieu” extracellulare e delle molecole di adesione, riduzione delle sinapsi inbitorie, abnorme reinnervazione eccitatoria, modificazioni dell’espressione recettoriale e dei neurotrasportatori, progressiva amputazione dell’albero dendritico e conseguente alterazione della costante di lunghezza elettrotonica del neurone). Nell’insieme, tali condizioni causano, o predispongono in maniera più o meno marcata, ad un occasionale o ricorrente prevalere delle influenze sinaptiche, inibitorie su quelle eccitatorie (epilessia generalizzata tipo assenza) o eccitatorie su quelle inibitorie (le altre forme di epilessia, sottese da PDS). Gli aspetti isto e citomorfologici del tessuto nervoso cronicamente “epilettico” possono ampiamente variare, dalla normalità (epilessia generalizzata tipo assenza) a vari gradi di sovvertimento strutturale (v. sopra), alcuni dei quali potrebbero dipendere dalla sommar cumulativa degli effetti Ca2+-mediati delle scariche parossistiche intercritiche e critiche, particolarmente massivi durante gli stati di male generalizzato tonico-clonico. Il significato di alcune di queste modificazioni, peraltro, è attualmente dibattuto, specie lo “sprouting” di fibre eccitatorie in certe regioni dell’ippocampo, che almeno inizialmente potrebbe rappresentare una risposta “protettiva” o vicariante, e solo successivamente, per motivi non ancora chiari, acquisirebbe un ruolo francamente epilettogeno. Fra i molti quesiti non ancora risolti, vi è il mistero dell’apparente casualità, e quindi imprevedibilità, di moltissimi tipi di crisi, e del perché innumerevoli patologie cerebrali potenzialmente epilettogene comportino epilessia solo in alcuni soggetti, il che spingerebbe ad ipotizzare una sorta di via finale comune, i cui meccanismi neurobiologici, tuttavia, restano ancora oscuri.
1178 Malattie del sistema nervoso
Esiste inoltre il problema della soglia convulsiva individuale, variabile in rapporto all’età, in base al grado di maturazione o di involuzione del sistema nervoso, il cui ruolo appare determinante nelle epilessie idiopatiche, ove la soglia convulsiva è talmente bassa da consentire l’insorgenza di una scarica epilettogena anche in assenza di una lesione cerebrale (epilessie idiopatiche). Ciò è compatibile con l’ipotesi di alterazioni geniche di tipo germinale o mutazionale, o di alterazioni trasduzionali o post-trasduzionali, l’elenco delle quali, a partire dagli anni ’90 (Dichter e Buchhalter, 1993), si è notevolmente allungato. È auspicabile che le conoscenze di base, in gran parte basate su modelli sperimentali di epilessia spontanea o artificialmente indotta, permettano di progettare e sperimentare non soltanto nuovi farmaci antiepilettici più maneggevoli ed efficaci, ma anche nuove strategie per la prevenzione, la profilassi e la terapia non farmacologica delle epilessie.
Diagnosi Oltre alle crisi epilettiche, esistono altre manifestazioni accessuali causate da sofferenza cerebrale transitoria localizzata o diffusa, e non va
dimenticato che, anche episodi critici non epilettici possono comportare perdita di coscienza, disturbi motori, sensitivi, sensoriali, vegetativi e perfino turbe psichiche di breve durata, con remissione completa al termine dell’episodio. Di fronte ad una fenomenologia neurologica transitoria, con o senza perdita di coscienza, si deve pertanto stabilire: 1) se si tratta di una crisi epilettica e di che tipo; 2) se si tratta di una crisi epilettica occasionale o di una epilessia propriamente detta; 3) se l’epilessia è idiopatica o sintomatica, e, in ogni caso, bisogna escludere la possibile esistenza di lesioni cerebrali a focolaio, suscettibili di un trattamento chirurgico. 1) CRISI EPILETTICA O DI ALTRA NATURA. - Una crisi epilettica potrebbe essere confusa con una serie di episodi critici non epilettici, fra cui vanno ricordate: le sincopi ischemiche; le crisi psicogene, dette anche crisi pseudo-epilettiche; gli attacchi ischemici transitori; le crisi di emicrania classica; le crisi ipoglicemiche; l’amnesia globale transitoria; i disturbi parossistici del sonno. – Le sincopi neurogene, che nell’ambito degli episodi sincopali rappresentano la grande maggioranza, si differenziano per un complesso di caratteristiche elencate nella Tabella 27.3.
Tabella 27.3 - Criteri diagnostici differenziali fra crisi epilettica e crisi sincopali.
Fattori precipitanti Posizione del soggetto Pallore e sudorazione Esordio Traumi da caduta Scosse cloniche agli arti Incontinenza sfinterica Durata perdita di coscienza Confusione post-accessuale Recupero Frequenza delle crisi Alterazioni EEG durante la crisi Prolattinemia (*) Luoghi affollati, circostanze stressanti, digiuno, ecc. (**) In ambedue i casi, ma con caratteristiche diverse.
Crisi epilettica rari indifferente inusuali improvviso relativamente frequenti comuni comune minuti comune spesso lento talora elevata presenti (**) aumentata
Crisi sincopale frequenti (*) eretta costanti graduale rari rare rara secondi rara graduale bassa presenti (**) invariata
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1179 Tabella 27.4 - Criteri diagnostici differenziali fra crisi epilettica e crisi psicogena.
Esordio Scatenamento da suggestione Protezione manuale della faccia al momento della caduta Cianosi Morsicatura della lingua e altri traumi Movimenti asincroni degli arti Inarcamento del dorso con avanzamento della pelvi Movimenti di rotolamento del corpo Resistenza ai tentativi di mobilizzazione passiva degli arti e di apertura degli occhi Conservazione della coscienza in caso di attacco prolungato Durata Sonnolenza o confusione post-accessuale Fenomenologia della crisi Alterazioni EEG durante la crisi
– Le crisi psicogene con caduta a terra e manifestazioni motorie (corrispondenti alle crisi “convulsive” isteriche della psichiatria classica) si distinguono per una serie di caratteristiche riportate nella Tabella 27.4. Anche gli attacchi di panico sono talora erroneamente interpretati come crisi epilettiche parziali a sintomatologia complessa; e così gli attacchi di rabbia, tutt’altro che rari nei soggetti psicopatici, talora sono interpretati come crisi epilettiche sebbene, in realtà, le crisi epilettiche parziali con fenomenologia psichica caratterizzata da esplosioni di rabbia siano estremamente rare. Le crisi psicogene rappresentano circa il 20% dei casi di “epilessia” refrattaria alle cure. – Gli attacchi ischemici transitori (TIA) potrebbero essere confusi con le crisi epilettiche parziali a sintomatologia elementare, soprattutto perché non si accompagnano mai a perdita di coscienza. In realtà il dubbio diagnostico sorge tutt’altro che spesso, sia perché in genere i TIA si instaurano più lentamente e durano più a lungo; sia perchè, a differenza di quanto accade nelle crisi epilettiche, la fenomenologia clinica è di tipo paralitico e non irritativo. La distinzione può rivelarsi tutt’altro che agevole qualora si
Crisi epilettica improvviso raro rara comune comuni rari raro rari
Crisi psicogena talora graduale frequente frequente rara inusuali comuni comune comuni
inusuale rara secondi o minuti usuale stereotipata quasi sempre
comune comune qualche decina di minuti spesso assente variabile quasi mai
tratti soltanto di parestesie o, ancor più, di turbe del linguaggio, giacchè a parte la durata, classicamente più breve negli episodi di origine irritativa, la sintomatologia può risultare non particolarmente dissimile rispetto alle crisi epilettiche parziali con fenomenologia sensitiva o afasica (v. pag. 1140, 1142). – Prodromi dell’emicrania classica possono rendere ancora più ardua la diagnosi differenziale, non solo perché la cefalea può essere talmente lieve da passare inosservata, ma soprattutto perché è stato osservato più volte che i due tipi di crisi possono inspiegabilmente coesistere. Episodi di tipo emicranico possono alternarsi con manifestazioni epilettiche in presenza di una malformazione artero-venosa intracranica. – Le crisi ipoglicemiche, osservabili soprattutto nei diabetici in trattamento con insulina, possono creare notevoli difficoltà diagnostiche sia per l’insorgenza di episodi confusionali, non molto dissimili da una crisi epilettica focale a sintomatologia complessa, sia perché l’ipoglicemia può dar luogo a vere e proprie crisi epilettiche occasionali. – L’amnesia globale transitoria (AGT) (v. pag. 977) pone problemi diagnostici qualora
1180 Malattie del sistema nervoso
l’episodio amnesico sia di durata molto limitata e si ripeta dopo un breve periodo di tempo. In tal caso, infatti, potrebbe effettivamente trattarsi di una manifestazione epilettica essendo stato dimostrato che esiste una minoranza di casi, circa il 7%, in cui l’amnesia è dovuta non già ad una ischemia, come avverrebbe nella maggioranza dei casi di AGT, ma ad una autentica scarica epilettogena a livello delle strutture ippocampali. – I disturbi parossistici del sonno che potrebbero essere confusi con una crisi epilettica sono soprattutto gli episodi di sonnambulismo, possibilmente equivocabili con gli automatismi post-accessuali di una crisi epilettica insorta durante il sonno; gli attacchi di cataplessia, per la loro somiglianza con le crisi atoniche; e ancora certi episodi “incompleti” di narcolessia, caratterizzati da un comportamento di tipo automatico non molto diverso da quello osservabile nelle crisi psicomotorie. 2) INDIVIDUAZIONE DEL TIPO DI CRISI. - (v. pag. 1138). Operativamente sarà utile indagare: – sulle modalità di inizio della crisi (ad esempio: l’eventuale perdita di coscienza è insorta senza alcun preavviso o è stata preceduta da un aura?); – sulle caratteristiche delle manifestazioni critiche con particolare riferimento alla presenza di: a ) contrazioni muscolari involontarie toniche o cloniche, possibilmente lateralizzate o addirittura circoscritte ad un singolo segmento corporeo; b ) allucinazioni olfattive o gustative; c ) vissuti “indescrivibili”, tipici di certe forme di epilessia temporale; – sull’eventuale fenomenologia post-critica accusata dal paziente dopo la ripresa della coscienza (esempio: una paralisi post-accessuale). – altri elementi utili ai fini diagnostici sono: il letto bagnato di urine, se la crisi è intervenuta durante il sonno, la morsicatura della lin-
gua, la presenza di cefalea e di dolori muscolari. Eventuali testimoni oculari devono essere accuratamente interrogati; chiunque è in grado di fornire una descrizione attendibile di una crisi Grande Male, mentre non è altrettanto facile descrivere le crisi non convulsive. Può essere utile stimolare la memoria del testimone mediante domande dirette, per aiutarlo a ricordare eventuali aspetti caratteristici (ad esempio: uno sguardo fisso, inespressivo, seguito da automatismi consistenti in movimenti ripetitivi delle mani; oppure movimenti della bocca e della faccia come masticazione). Infine il testimone dovrà essere accuratamente interrogato su un eventuale stato di confusione post-accessuale di cui il paziente, ovviamente, non potrebbe serbare alcun ricordo. 3) EPILESSIA RICORRENTE O CRISI EPILETTICHE - Le crisi epilettiche occasionali si differenziano dall’epilessia propriamente detta perché, abitualmente, insorgono in una encefalopatia acuta con confusione mentale e alterazioni sistemiche rilevabili anche dopo la cessazione delle crisi. Le crisi epilettiche occasionali provocate da una lesione cerebrale acuta, si verificano quasi sempre nel contesto di una sindrome cerebrale deficitaria focale o diffusa, eventualmente associata a segni di irritazione meningea, o di un trauma cranico recente. Le epilessie propriamente dette si distinguono per il loro andamento ricorrente, peraltro non dimostrabile al momento della prima crisi, per il carattere apparentemente spontaneo, cioè non riferibile ad una lesione cerebrale acuta in atto. OCCASIONALI?.
4) EPILESSIA IDIOPATICA O SINTOMATICA?. - Nel caso di una sindrome epilettica vera e propria bisognerà stabilirne la causa. Nel 60-70% dei casi non è possibile documentare una causa precisa. Se il malato è di età compresa fra 5 e 25 anni, l’anamnesi dovrà essere centrata su una eventuale famigliarità epilettica, potendo trattarsi di una epilessia su base genetica; per i precedenti personali, potenzialmente epilettogeni,
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1181
sarà opportuno chiedere notizie sullo svolgimento del parto, in vista di possibili danni cerebrali perinatali; su eventuali ritardi dello sviluppo psicofisico; su pregressi traumi cranici (specie se complicati da una prolungata amnesia post-traumatica, una frattura cranica depressa o un ematoma intracerebrale) e su eventuali infezioni del SNC. Infine, occorre procedere agli accertamenti diagnostici strumentali comprendenti: l’EEG, da praticare in ogni caso, e le neuroimmagini, sul cui uso indiscriminato non tutti sono d’accordo, specie per la RM. 5) IL RUOLO DELL’ELETTROENCEFALOGRAFIA. L’EEG può rafforzare il sospetto suggerito dai dati anamnestici; può contribuire ad una corretta classificazione delle crisi epilettiche, e ancora, può rivelare la presenza di alterazioni eventualmente riferibili ad una lesione cerebrale parenchimale. L’effettivo valore dell’EEG intercritico come marker diagnostico è stato largamente ridimensionato, così come le cosiddette tecniche di attivazione, sia per il non raro riscontro di “falsi positivi” nella popolazione normale, sia per la frequente occorrenza di “falsi negativi” fra i soggetti epilettici, non solo quando viene effettuato un singolo controllo (in tal caso la percentuale di tracciati positivi non supererebbe il 50%) ma anche facendo ricorso a ripetute registrazioni. La percentuale di casi in cui la negatività persiste sarebbe non inferiore al 15%: dal punto di vista pratico, comunque, il danno maggiore deriva non tanto dalle false negatività, quanto dalle false positività. L’EEG può dare, ai fini di una corretta classificazione della crisi, un contributo rilevante, e precisamente per: – la diagnosi differenziale fra una assenza Piccolo Male e una pseudo-assenza, non sempre agevole sul piano clinico, considerato che il primo caso comporta la presenza di complessi punta-onda a 3-4 Hz bilaterali e sincroni, mentre il secondo è abitualmente ca-
ratterizzato da un focolaio di punte, spesso localizzate in regione temporale, uni o bilateralmente; – stabilire se una crisi tonico-clonica apparentemente non preceduta da aura (come spesso accade nel sonno) sia una crisi epilettica primitivamente o secondariamente generalizzata: è evidente, infatti, che la presenza di alterazioni EEG localizzate depone inequivocabilmente a favore della seconda possibilità. Le potenzialità diagnostiche dell’EEG possono essere incrementate con il prolungamento della durata di registrazione fino a 24 ore o più, che consentono ampia libertà di movimento al paziente, o EEG dinamico, con la videoregistrazione simultanea del paziente e del tracciato elettroencefalografico o Video-EEG, e con la polisonnografia durante il sonno notturno (v. pag. 332). L’EEG, infine, può avvalorare il dubbio che le crisi siano dovute ad una lesione cerebrale parenchimale, qualora metta in evidenza un focolaio di onde lente. L’avvento delle neuroimmagini, peraltro, ha praticamente vanificato il contributo dell’EEG ai fini della diagnosi di natura della lesione epilettogena, a parte alcuni casi particolari ove l’EEG può risultare patognomonico, come in caso di scariche periodiche lateralizzate (Gross et al., 1999) o generalizzate (Husain et al., 1999). 6) IL RUOLO DELLE NEUROIMMAGINI. - Dopo l’avvento della RM ad alta risoluzione, il ruolo della TC è passato drasticamente in secondo piano nella diagnosi di lesioni strutturali encefaliche responsabili di epilessia sintomatica. Infatti, il potere discriminativo della TC, anche con contrasto, è sensibilmente inferiore a quello della RM quando si tratti di localizzare piccole lesioni normodense, prive di connotati vascolari specifici o di danno di barriera perilesionale. Alcune casistiche TC riportano che almeno il 60-80% dei soggetti con epilessia accertata presenterebbe alterazioni strutturali, soprattutto di tipo atrofico, e solo il 10% lesioni
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tumorali. Nelle forme iniziali, l’incidenza globale di alterazioni TC è notevolmente minore, meno del 20% della casistica, con prevalenza di aspetti di tipo atrofico, nettamente più frequenti nelle epilessie parziali rispetto a quelle generalizzate. Tuttavia, nei casi con crisi parziali associate a segni neurologici ed elettroencefalografici di lesione cerebrale a focolaio, la percentuale di alterazioni TC può salire fino al 7080%. Nonostante la TC non sia l’indagine per neuroimmagini più sensibile, è ormai diffusamente disponibile, ha basso costo e si può effettuare velocemente, per cui ancor oggi rimane indicata soprattutto nei casi acuti, ove è essenziale identificare l’eventuale presenza di lesioni di recente comparsa (ischemiche, emorragiche, traumatiche, neoplastiche ed infiammatorie). La RM produce eccellenti immagini in ogni tipo di ricostruzione, e si presta particolarmente bene per visualizzare la presenza di malformazioni o displasie corticali anche di piccole dimensioni, e le modificazioni d’intensità, spesso molto modeste, di zone cruciali come la porzione mediale del lobo temporale, in particolare la formazione ippocampale, l’amigdala, la corteccia entorinale ed il lobo paraippocampale. Contrariamente alla TC, la RM può essere utilizzata anche in corso di gravidanza, una volta trascorsi i primi tre mesi. La RM, inoltre, permettendo di visualizzare dettagliatamente parenchima cerebrale e vasi, si presta assai bene allo studio prechirurgico dell’epilessia, soprattutto nella sua versione fMRI, che, sebbene abbastanza onerosa in termini di costi ed impegno, ha un netto vantaggio rispetto ad ogni altra tecnica di “neuroimaging”, permettendo fra l’altro di integrare e visualizzare i risultati neuromorfologici con quelli ottenuti mediante EEG, stereo-EEG o magnetoencefalografia (MEG). Tale moderno approccio, peraltro, rimane riservato a pochi Centri nazionali di eccellenza. Il ruolo della SPECT è pressoché limitato allo studio preoperatorio di quei malati candidati
all’intervento in cui le altre indagini non abbiano permesso di ottenere informazioni abbastanza accurate sulla localizzazione, l’estensione e la vascolarizzazione di una lesione cerebrale. Analoghe considerazioni valgono per la PET, il cui utilizzo è limitato, oltre che da costi non indifferenti, anche dalla necessità di accedere a quelle pochissime strutture attrezzate per questo scopo. In conclusione, poiché la RM risulta un esame diagnostico elettivo ed oggi abbastanza facilmente realizzabile, essa dovrebbe sempre essere proposta alle persone epilettiche che non abbiano avuto ancora accesso a questo tipo d’esame.
Prognosi Considerato che le epilessie non rappresentano una malattia, ma un complesso di sindromi dovute ad una diversità di cause, non stupisce che la risposta alle terapie, quasi sempre sintomatiche, vari notevolmente da caso a caso. Ne consegue che la valutazione prognostica deve essere particolamente cauta, non solo nei casi in cui la sintomatologia è in atto da tempo, ma anche in quelli in cui il disturbo è appena esordito, e soprattutto nei casi in cui, essendo cessate le crisi, occorre decidere se proseguire o meno la cura. Un cenno a parte verrà dedicato, infine, alla prognosi delle crisi epilettiche occasionali. Nell’epilessia in cui la sintomatologia è consolidata, non esiste un singolo criterio clinico su cui basare la prognosi, ma una serie di parametri indicativi: l’età di inizio della sintomatologia, la prognosi essendo forse più favorevole nei casi in cui le crisi sono iniziate prima dei 20 anni; il tempo trascorso fra l’esordio e l’inizio del trattamento, la prognosi essendo forse migliore nei casi in cui la terapia è stata instaurata più tempestivamente; la frequenza delle crisi, poichè la prognosi sarebbe peggiore nei casi in cui la frequenza delle crisi è più elevata; il tipo delle crisi, poichè le crisi a sintomatologia complessa hanno una prognosi decisamente peggiore rispetto alle crisi generalizzate tonico-cloniche, e qualora ambedue i tipi di crisi siano presenti nello stesso soggetto, la risposta terapeutica delle crisi tonico-cloniche sarà sempre migliore; l’eziologia, poiché la prognosi, in genere, è peggiore nei casi sintomatici; inoltre, la prognosi è sempre più favorevole per le assenze tipiche rispetto alle assenze atipiche.
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1183 Il valore di questi parametri è tutt’altro che univoco, risentendo largamente della composizione delle varie casistiche, che comprendono casi diversi per gravità, per modalità di reclutamento e per la durata del periodo di osservazione. Contrariamente a quanto molti credono, infine, non esistono prove convincenti a favore dell’utilità dei dati elettroencefalografici ai fini prognostici. Da tutto questo si può agevolmente dedurre che una valutazione prognostica individuale è tutt’altro che agevole, tanto più che, da un attento esame della letteratura, emerge chiaramente che i criteri di valutazione del “controllo delle crisi” variano notevolmente da un autore all’altro, da cui una ulteriore fonte di indeterminatezza. Tuttavia si può ritenere che i casi che non traggono vantaggio dalle cure rappresentino solo una minoranza relativamente modesta (20-25%); in effetti, la percentuale di probabilità di un significativo controllo delle crisi sarebbe compresa fra il 60 e l’80% e circa nella metà dei casi le crisi potrebbero anche cessare del tutto. A questo proposito non va dimenticato che per alcune forme di epilessia (ad esempio, l’epilessia a punte rolandiche e il Piccolo Male semplice) è addirittura prevista la remissione spontanea. La linea di comportamento da adottare di fronte alla prima crisi epilettica deve tener conto che esiste un certo numero di casi in cui il fenomeno può non avere alcun seguito per tutto il resto della vita, per cui non avrebbe molto senso intraprendere un trattamento antiepilettico. Bisognerebbe quindi poter distinguere questi casi dagli altri per evitare la somministrazione di cure superflue. Premesso che la percentuale di ricadute varia notevolmente, dal 25 all’80% a seconda della casistiche, è innegabile che le probabilità che intervengano nuove crisi sono sicuramente maggiori qualora si avverino una o più delle seguenti condizioni: famigliarità epilettica; età del soggetto inferiore a 16 o superiore a 60 anni; presenza in anamnesi di una causa potenzialmente epilettogena (ad esempio, un trauma cranico o un ictus cerebrale); riscontro di scariche elettroencefalografiche generalizzate di complessi punta-onda; crisi focale; presenza di una paralisi di Todd o, peggio ancora, di un deficit neurologico persistente. Può essere interessante notare, infine, che mentre in Inghilterra non viene quasi mai intrapreso un trattamento antiepilettico dopo una sola crisi, negli Stati Uniti probabilmente al fine di evitare possibili vertenze medico-legali - si preferisce instaurare immediatamente una copertura terapeutica. In effetti è stato recentemente osservato che nei soggetti non trattati il rischio di recidive è più che raddoppiato rispetto ai casi trattati. Ancora più ardua appare la decisione relativa ad una possibile sospensione della terapia, qualora il paziente
non sia più affetto da crisi da un congruo periodo di tempo, almeno 2 o 3 anni. A questo proposito l’orientamento dei neuropediatri è alquanto diverso da quello del neurologo: quest’ultimo, infatti, è assai più riluttante a sospendere le cure per il timore che una eventuale ricaduta comporti la perdita della patente di guida o, peggio ancora, del posto di lavoro (per non dire dei possibili incidenti che potrebbero verificarsi sia alla guida che sul lavoro); mentre il neuropediatra, incoraggiato dal fatto che in molti casi la sospensione della cura è coronata da successo, probabilmente anche in rapporto al fatto che alcune forme di epilessia dell’infanzia hanno una prognosi intrinsecamente benigna, sembra assai più preoccupato dalla possibilità che le capacità di apprendimento del bambino possano risentire negativamente del trattamento antiepilettico. Anche in questo caso conviene tener conto di una serie di elementi che possono aumentare le probabilità di una eventuale ricaduta, fra cui l’età del soggetto, poichè l’adulto, rispetto al bambino, rischia 2-3 volte di più; la tipologia delle crisi, rischiando maggiormente chi è affetto da vari tipi di crisi rispetto a chi ne presenta solo un tipo, sia che si tratti di bambini che di adulti; la durata della malattia prima che avesse inizio il periodo di remissione, essendo il rischio direttamente proporzionale alla durata; lo stesso vale per la frequenza delle crisi prima della loro remissione e la durata del trattamento; la coesistenza di eventuali handicap. Al contrario, avrebbero una influenza prognostica favorevole la durata del periodo trascorso senza crisi, il rischio di ricaduta essendo inversamente proporzionale alla durata della remissione, anche se ciò potrebbe dipendere dalla maggiore benignità del caso (Specchio et al., 2002), e la gradualità con cui si è proceduto alla sospensione della cura: tanto maggiore è la gradualità, tanto minore sarebbe il rischio. Non è chiaro invece se la persistenza di alterazioni EEG dopo la cessazione delle crisi influisca negativamente sul risultato finale. In definitiva, la risposta al quesito: “dopo 2 o 3 anni senza crisi si può sospendere la terapia antiepilettica?”, può variare da caso a caso in rapporto ai parametri precedentemente illustrati. Per quanto concerne le eventuali ricadute e il loro trattamento, va sottolineato che nel 20-30% dei casi (in genere adulti) la recidiva può verificarsi dopo uno o più anni dalla sospensione della cura; e non è detto che riprendendo la cura precedente i risultati siano altrettanto favorevoli. Talora, queste riacutizzazioni sono del tutto transitorie per cui la remissione potrebbe riprendere anche senza cure. Ad ogni buon conto chi sospende la cura rischia di ricadere circa 2-3 volte più spesso di chi la prosegue per cui, quando la terapia è ben tollerata, è legittimo chiedersi se valga o meno la pena di sospenderla.
1184 Malattie del sistema nervoso Anche la tipologia delle crisi può essere rilevante ai fini prognostici, ove si consideri che la perdita di coscienza, specie se accompagnata da caduta a terra, rappresenta una concreta minaccia per l’incolumità potendo provocare incidenti di varia natura, talvolta anche mortali (traumi, ustioni, annegamento). Ciò tuttavia giustificherebbe solo in parte l’aumento dell’indice di mortalità negli epilettici, che sarebbe legato non tanto alla gravità o alla frequenza delle crisi, quanto alla loro eziologia, essendo più elevato nelle forme sintomatiche rispetto alle forme idiopatiche. Anche gli stati di male epilettico, pur costituendo una temibile emergenza, specie gli stati di male tonico-clonico, non contribuiscono significativamente all’aumento dell’indice di mortalità, probabilmente in quanto rappresentano una complicanza relativamente rara. Le cause più probabili di morte improvvisa durante le crisi convulsive generalizzate sarebbero le aritmie cardiache ictali e il soffocamento, specie se le crisi intervengono durante il sonno. La prognosi delle crisi epilettiche occasionali dipende unicamente dalla natura e dalla gravità della lesione cerebrale acuta responsabile (metabolica, tossica o parenchimale). Per la prognosi delle convulsioni febbrili v. pag. 1153.
Prevenzione Considerata la molteplicità eziologica delle sindromi epilettiche, si può ragionevolmente affermare che non esiste una prevenzione primaria dell’epilessia come tale, ma piuttosto una prevenzione delle patologie congenite o acquisite che possono essere responsabili delle crisi epilettiche. Molto più importante, ai fini pratici, è la prevenzione secondaria, che “idealmente” dovrebbe consentire la cessazione completa delle crisi. Le relative strategie possono limitarsi alla rimozione di eventuali fattori precipitanti, dall’abuso di alcool alla privazione di sonno; dall’uso improprio di farmaci potenzialmente epilettogeni ai rialzi termici, qualora si tratti di soggetti con convulsioni febbrili; dalla sospensione improvvisa di farmaci con proprietà antiepilettiche (come ad esempio le benzodiazepine) all’esposizione a stimoli luminosi intermittenti. È assai raro, tuttavia, che la sola prevenzione secondaria determini la cessazione completa delle crisi, per cui è quasi sempre indispensabile far ricorso alla terapia specifica. Ritenere che, laddove esistano condizioni potenzialmente epilettogene, ad esempio, un pregresso trauma cranico, possa essere instaurato un trattamento antiepilettico anche in assenza di crisi, non gode attualmente alcun credito. Così come resta da dimostrare che la terapia antiepi-
lettica dovrebbe essere intrapresa con la massima tempestività per poter così influire favorevolmente sulla prognosi a lungo termine. Nell’ambito delle strategie preventive rientrano, sia pure impropriamente, tutti i suggerimenti intesi ad evitare che il malato si esponga a situazioni potenzialmente dannose (a cominciare dalla guida!) quando le crisi comportano perdita di coscienza. È importante sottolineare che questo problema assume particolare rilevanza qualora i rischi siano connessi all’attività lavorativa, soprattutto nei casi in cui non è possibile offrire una soluzione alternativa.
Terapia È volta a bloccare le crisi, e tale obbiettivo è giustificato da almeno due distinte ragioni: a) ripristinare una condizione di normalità, eliminando inoltre i rischi connessi ai vari tipi di crisi e b) impedire l’eventuale sommazione di possibili effetti epilettogenetici infraclinici, che potrebbero trasformare un’epilessia inizialmente ben curabile in un’epilessia più grave o refrattaria ai farmaci (Lynch et al., 1996; Berg e Shinnar, 1997; Theodore e Wasterlain, 1999). La terapia è basata sull’impiego di farmaci antiepilettici e sull’osservanza di semplici norme, ma contempla anche altre opzioni utilizzabili sia nel bambino che nell’adulto in caso di farmacoresistenza, fra i quali l’impiego di una particolare alimentazione (dieta chetogena), il trattamento neurochirurgico di lesioni epilettogene ben circostritte ed identificate, ed infine la stimolazione del nervo vago di sinistra (VNS) mediante endoprotesi elettroniche impiantate sottocute. 1. - Terapia con farmaci antiepilettici (“antiepileptic drugs”, AED). È essenzialmente sintomatica, riuscendo ad eliminare o ridurre le crisi senza incidere sulla loro causa, ed in quanto tale impone una somministrazione cronica ed ininterrotta (quotidiana o pluriquotidiana) degli AED per anni, o addirittura per tutta la vita. Ciò comporta problematiche simili a quelle di ogni altra terapia a carattere cronico, che
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1185
comprendono: a) necessità di una diagnosi preliminare accurata; b) necessità di un’alleanza terapeutica fra il paziente ed i suoi famigliari ed il medico curante; c) buona “compliance” (piena osservanza del protocollo terapeutico) da parte del paziente; d) consapevolezza da parte del paziente di possibili effetti collaterali e della necessità di periodici controlli bioumorali; e) nella donna in età fertile, consapevolezza di un maggior rischio di malformazioni fetali in corso di terapia con AED, e quindi della necessità di programmare adeguatamente in anticipo un’eventuale gravidanza. L’efficacia di un AED viene tradizionalmente ritenuta soddisfacente quando esso, assunto in maniera appropriata ed a dosi terapeutiche, riesce a ridurre la frequenza delle crisi di almeno il 50% (dal 50% allo 0% di crisi). Tale concetto, apparentemente ovvio, non è semplice da applicare. Prima di iniziare una terapia con AED, infatti, bisognerebbe verificare la reale frequenza media delle crisi nell’arco di un adeguato periodo di tempo ed in assenza di ogni terapia (usualmente molti mesi), cosa impossibile nei nuovi casi giunti all’osservazione dopo una prima o seconda crisi, ed altrettanto improponibile per coloro che stanno già assumendo un AED (rivelatosi poco efficace). Nei casi di prima osservazione, e a diagnosi accertata, si propone usualmente l’avvio di una terapia con AED, i cui risultati, però, non potranno essere valutati secondo un confronto obiettivo "prima-dopo" (mancanza del "prima"). Il paragone può invece essere fatto se esiste già una storia di crisi non curate al momento della prima osservazione o alternativamente, ma in maniera approssimativa, considerando la frequenza delle crisi residue dopo vari mesi di terapia scarsamente soddisfacente.
Almeno il 70% dei casi ottiene una remissione delle crisi relativamente rapida: in particolare, circa il 50% diventa privo di crisi con un AED di prima scelta, ed un addizionale 20% ottiene un controllo soddisfacente delle crisi con ulteriori aggiustamenti della terapia. Escludendo una piccola percentuale di casi in cui è possibile ottenere nel tempo una certa remissione delle crisi, rimane tuttavia un 20-30% di casi eterogenei non responsivi agli AED, definiti come refrattari, farmacoresistenti o intrattabi-
li. A questo proposito va ricordato che l’efficacia della terapia può essere vanificata, o comunque notevolmente ridotta da una serie di fattori (v. pag. 1173) QUANDO INIZIARE LA TERAPIA. - Limitatamente alla prima crisi, si pone un dilemma irrisolvibile: è una crisi destinata a rimanere unica, oppure ad essere seguita da altre crisi? Infatti, è solo dopo una seconda crisi (verificatasi ovviamente in assenza di copertura terapeutica) che prendono corpo il concetto di ricorrenza, ed in funzione dell’intervallo osservato, di frequenza delle crisi successive. Tuttavia, anche in questo secondo caso si profila un ulteriore dilemma: quale frequenza minima (di crisi) giustifica il trattamento? È evidente che il significato della terapia cambia a seconda del tipo di epilessia, per cui la decisione di iniziare una terapia cronica per crisi anamnestiche sporadiche, distanziate fra loro di anni, può essere opinabile. Analoghe considerazioni valgono per certe forme cliniche particolari (ad esempio, l’epilessia a punte rolandiche) abitualmente destinate ad una guarigione spontanea. In base ai criteri di probabilità disponibili, ognuna di queste eventualità implica decisioni terapeutiche non prive di un certo azzardo, talora motivabili solo da una attenta valutazione dei rapporti rischio/beneficio, caso per caso. Dopo una prima crisi, l’inizio della terapia con AED si impone quando esistono forti probabilità che la crisi si ripeta a breve distanza di tempo, e ciò è suggerito dalla presenza di fattori di rischio, quali: a) evidenti alterazioni EEG intercritiche; b) una lesione cerebrale epilettogena documentabile; c) prima crisi molto intensa e prolungata; d) fattori, malattie o trattamenti farmacologici predisponenti non eliminabili o controllabili (v. pag. 1173); e) condizioni particolari, quali ad esempio la gravidanza o certe attività lavorative a rischio (Madhusudanan, 2000):
1186 Malattie del sistema nervoso
In mancanza di questi elementi, e soprattutto in presenza di un EEG normale, può essere invece prudente procrastinare ogni decisione terapeutica al momento in cui dovesse verificarsi una seconda crisi. Questa decisione può trovare sostegno nell’evidenza statistico-epidemiologica che non vi è differenza di risposta terapeutica fra soggetti trattati precocemente (dopo la 1°-2° crisi) e soggetti trattati dopo un massimo di 12 crisi, mentre se il numero delle crisi è superiore, aumenta concretamente il rischio di una scarsa responsività ai farmaci. Se ciò da un lato tranquillizza, dall’altro non consola quando si pensi alle gravi carenze medico-assistenziali di vaste aree del pianeta. GLI AED DISPONIBILI. - Accanto agli AED diffusamente usati dai primi decenni del secolo scorso fino al 1993, considerati classici o tradizionali o di prima generazione, si è recentemente affiancato un numero ragguardevole di nuovi AED, o AED di seconda generazione. Seguendo questa distinzione ed un ordine alfabetico, la Tab. 27.5 illustra gli AED attualmente inseriti nel Prontuario del SSN, i loro principali meccanismi d’azione (Macdonald et al., 1985; Avoli et al., 1977; Mutani et al., 1977; Coulter, 1997; Stefani et al., 1997; Rho e Sankar, 1999; White, 1999; Cunningham e Jones, 2000; Freiman et al. 2001), il loro spettro d’azione sui vari tipi di crisi, il dosaggio medio pro die più comunemente usato in soggetti di età superiore a 16 anni e, limitatamente agli AED convenzionali, l’intervallo (“range”) terapeutico delle rispettive concentrazioni plasmatiche. Il ruolo delle benzodiazepine nella terapia "cronica" dell’epilessia è secondario 13, ed è limitato all’uso, spesso per periodi non prolungati di 1,4-benzodiazepine (Clonazepam e, limitatamente al bambino Diazepam) o di 1,5-benzodiazepine (Clobazam), di solito associati ad AED di prima o seconda generazione. L’opposto vale 13
Essenzialmente per l’insorgenza di “tolleranza” in una consistente percentuale di soggetti (almeno il 40%).
per gli Stati di Male, ove il Lorazepam (o il Delorazepam) ed il Diazepam (nei bambini) sono considerati farmaci di prima scelta (v. pag. 1196). La Tab. 27.4 ha un significato puramente orientativo, poiché essa non informa sulla farmacocinetica degli AED, ma solo sulle loro potenzialità farmacodinamiche, che possono così riassumersi: 1. - Canali V-dipendenti del Na+. Molti AED (CBZ, PHT, FBM, LTG, OXC, TPM, VPA ed anche ESX) agiscono stabilizzando e prolungando lo stato di inattivazione per cui, riducendo l’entità delle correnti del Na+ rapide e lente (scarsamente inattivanti), riducono complessivamente l’eccitabilità e la frequenza di scarica massima raggiungibile dalla cellula (blocco di tipo “voltaggio, uso e frequenza dipendente”) (v. pag. 1177). Quest’azione di freno non incide sensibilmente sulla normale attività spontanea dei neuroni, il che spiega perché, a dosi terapeutiche, questi AED siano quelli che meno interferiscono con le funzioni attentivo-mnesiche, e più in generale sull’attività mentale. 2. - Canali V-dipendenti del Ca2+. Molti AED (PB, PRM, PHT, CBZ, LTG, OXC, LVT) esercitano, specie a dosi alte, anche un’azione di blocco sui canali presinaptici di tipo N o P/Q (GBP), responsabili principalmente della neurotrasmissione (esocitosi); altri AED (FBM, GBP, LTG, LVT) agiscono sui canali postsinaptici L, ed altri ancora (ESM e VPA) bloccano (parzialmente) i canali T postsinaptici a bassa soglia, contribuendo a ridurre nel talamo (specie nel nucleo reticolare) quei fenomeni di rimbalzo eccitatorio postinibitorio che stanno alla base dell’epilessia generalizzata tipo assenza (Piccolo Male) (v. pag. 1171). 3. - Trasmissione glutammatergica. L’FBM sembra modulare negativamente i recettori tipo NMDA (sito della glicina), ed avendo tale azione luogo solo quando questi sono attivi (intensa depolarizzazione), essa può anche esprimere significato “neuroprotettivo”. Il TPM risulta invece antagonista sui recettori AMPA/Ka, deputati alla trasduzione glutammatergica “rapida”, ed in tal modo è potenzialmente in grado di attenuare l’impatto di un bombardamento sinaptico eccitatorio abnorme. Quale rovescio della medaglia, entrambi i farmaci tendono a comportare un certo grado di rallentamento delle normali attività cerebrali, specie a dosi elevate. 4. - Trasmissione GABAergica. Molti AED di 1° e 2° generazione potenziano in maniera più o meno selettiva e complessa l’inibizione Cl-/GABAA-mediata (Czuczwar e Patsalos, 2001), ed in particolare: – i barbiturici PB e PRM aumentano la durata di apertura dei canali del Cl- modulando positivamente un
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1187 Tabella 27.4 - Meccanismi d'azione, indicazioni e dosaggio pro die nell'adulto degli AED in commercio (in ordine alfabetico). !"#$
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È il sale fra PB e 1-propilexedrina, contenente in peso il 60% di PB. È un analogo del PB a tutti gli effetti e viene dosato sia come tale che come PB (metabolita). 3 Le dosi più alte* riguardano la LTG in in associazione ad AED induttori enzimatici. 2
ABBREVIAZIONI. AMPA/Ka= recettori-ionofori (Na+/Ca2+) al glutammato; Canali ionici V-dipendenti: Na+ (inattivanti e non inattivanti); K+ATP presinaptici (attivati da ATP e glibenclamide); Ca2+ tipo L= pre e postsinaptici (alta soglia, "long-lasting", bloccati da diidropiridine), N= presinaptici (alta soglia, "transient", bloccati da ω-conotossina GVIA), P/Q= presinaptici (come N, bloccati da ω-agatossina IVA); T= postsinaptici (bassa soglia, bloccati da Ni2+, etosuccimide, mibefradil); CpT= concentrazione plasmatica terapeutica; EC= epilessia catameniale; ER= epilessie riflesse; GABA= ac. γ-amino-butirrico; GAD65= enzima presinaptica GABA-sintetico; GABAA= recettore GABAA/Cl-; GABA-T= GABA-transaminasi (neuronale e gliale); (GABA→SSA, succinico-semialdeide); GAT1= cotrasportatore GABA/NaCl neuronale (reuptake); GHB= γ-idrossibutirrato; GLU= glutammato; GM= crisi generalizzate tonico-cloniche tipo Grande Male; LG= S. di Lennox-Gastaut; M= crisi generalizzate miocloniche; P= crisi focali; PM= crisi generalizzate tipo Piccolo Male-assenza; SSADH= succinico-semialdeide deidrogenasi; W= sindrome di West.
1188 Malattie del sistema nervoso sito allosterico specifico del recettore GABAA (subunità β), analogamente alle 1-4 (CZP) ed 1-5 (CLB) benzodiazepine (interfaccia fra subunità α1-2-3-5 e γ2 del recettore GABAA). Questa azione, dose-dipendente, è responsabile del noto “effetto barbiturico”, caratterizzato nel bambino da ipereccitabilità, distraibilità e difficoltà attentivomnesiche, e nell’adulto di sonnolenza, sedazione, rallentamento e riduzione dell’efficienza mentale; – il FBM modula positivamente un sito allosterico specifico del recettore GABAA (probabilmente lo stesso per l’etanolo), per cui valgono in parte le considerazioni di cui sopra; – il VGB aumenta soprattutto concentrazioni presinaptiche ed extracellulari di GABA inattivando in modo irreversibile l’enzima catabolico GABA-transaminasi (neuronale ed anche gliale, permettendo un maggior “reuptake” neuronale); l’inattivazione enzimatica, sebbene piuttosto specifica, sembra peraltro comportare un certo rischio di effetti tossici a lungo termine (subdola insorgenza di deficit visivi campimetrici); – il VPA esercita azione analoga, anche se non così intensa e specifica come il VGB (inibizione della GABAT), ma a dosi più elevate potenzia anche l’attività dell’enzima di sintesi del GABA, GAD65 (isoforma presinaptica), aumentando complessivamente il contenuto presinaptico di GABA; inoltre, inibendo la succinicosemialdeide deidrogenasi, riduce la sintesi di γ-idrossibutirrato (in parte agonista GABAB), per cui, riducendo la durata dell’inibizione GABAB-mediata, predominante nell’epilessia con SWD ed assenze, tende ad ostacolare l’innesco dell’abnorme sincronizzazione talamocorticale responsabile di queste crisi; – la TGB è un antagonista selettivo del “reuptake” presinaptico di GABA (blocco del trasportatore neuronale GAT1), per cui innalza la concentrazione extracellulare (subsinaptica) di GABA. Questa azione, che è dose-dipendente, si è rivelata utile in molte forme di epilessia generalizata e parziale, ma può tuttavia accentuare una tendenza spontanea a produrre SWD con assenze e stati di male non convulsivo; 5. - Altre azioni. La Fenitoina, oltre alle azioni descritte, stimola anche l’attività della pompa ionica Na+/ K+-ATPasi, favorendo i processi di iperpolarizzazione e di omeostasi ionica extra-intracellulare; analogamente, il GBP sembra capace di attivare i canali del K+ ATP-dipendenti come la glibenclamide, favorendo in tal modo i processi di iperpolarizzazione neuronale. In conclusione: seppur sommarie, queste speculazioni inducono a non considerare ciascun AED come fornito di un unico meccanismo d’azione, anche se il suo bersaglio cellulare è molto specifico come nel caso del VGB e TGB, e spingono a valutare complessivamente l’azione primaria di un farmaco assieme alle sue altre azioni
secondarie, talora non meno importanti ai fini dello "spettro terapeutico". Il continuo progresso della conoscenza sui meccanismi d’azione dei vari AED, inoltre, impone prudenza nel ritenere toccasana certe azioni farmacodinamiche assurte a dogma o a stendardo (anche sotto le spinte dell’industria), ed invita ad identificare sempre in ogni AED, o nelle loro eventuali associazioni, un possibile rovescio della medaglia. A questo proposito, appare ovvio che la scelta di un AED da affiancare ad un altro dovrebbe quanto meno tener conto della complementarietà delle rispettive azioni farmacodinamiche: non sembra avere motivo, ad esempio, l’associazione di due AED entrambi attivi sul canale del Na+ o sul sistema GABAergico, quando il primo dei due si sia ampiamente rivelato inefficace.
SCELTA DELLA STRATEGIA. - Qualora si decida di intraprendere una cura con AED, occorre innanzi tutto scegliere un farmaco adatto ad essere somministrato in monoterapia: si prestano a ciò tutti gli AED di 1° generazione (tranne le benzodiazepine), e fra quelli di di 2° generazione, solo la Lamotrigina ed il Vigabatrin (limitatamente alla sindrome di West), essendo gli altri nuovi AED ufficialmente consigliati come farmaci “add-on”, ovvero da aggiungere ad un AED già in uso qualora si renda necessaria una bi- o politerapia. In secondo luogo, si dovrebbero scegliere quegli AED che, in base a studi controllati, risultino più efficaci e a parità di efficacia, meno tossici, evitando così “drop-out” (necessità di sospensione) e permettendo una buona compliance (Kwan e Brodie, 2001). L’esperienza accumulata da oltre 80 anni sugli AED di 1° generazione continua a fare preferire questi ultimi rispetto a quelli più moderni (Browne e Holmes, 2001), tanto più che non esistono ancora prove convincenti di una loro superiore efficacia (Avanzini e Canger, 2002), secondo le seguenti indicazioni di massima: a) crisi focali: Carmabamazepina e Fenitoina, o Oxcarbazepina e Lamotrigina (dotate di minori effetti collaterali all’inizio della terapia rispetto ai precedenti farmaci), essenzialmente equivalenti fra loro come efficacia; b) crisi generalizzate tipo assenza (Piccolo Male): Etosuccimide e Valproato, tenendo conto
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1189
che, a parità di efficacia, l’Etosuccimide comporta minori effetti collaterali rispetto al Valproato, ma quest’ultimo è anche efficace nel controllare eventuali crisi generalizzate tonicocloniche associate alle assenze; c) crisi miocloniche: Valproato (specie per l’epilessia mioclonica giovanile); d) crisi generalizzate tonico-cloniche (primitivamente e secondariamente generalizzate): Fenobarbital (o analoghi), Fenitoina, Valproato, Lamotrigina. A questo proposito, è necessario ricordare che nei Paesi Anglosassoni esiste una tradizionale preferenza per la Fenitoina rispetto al Fenobarbital (motivata essenzialmente da un minor impatto della Fenotoina sulle funzioni attentive-cognitive), mentre l’opposto succede nel nostro ed in altri Paesi Europei, ove è generalmente preferito il Fenobarbital per il timore di effetti tossici e collaterali a lungo termine da Fenitoina (v. oltre). A questo riguardo, l’opzione per il Primidone non sembra apportare sostanziali vantaggi rispetto al Fenobarbital, mentre quella per il Barbexaclone comporterebbe minori effetti collaterali barbiturici attentivocognitivi; e) sindrome di West: ACTH, Vigabatrin. In ogni caso, questo schema non ha alcuna pretesa vincolante, fatta eccezione per l’epilessia generalizzata tipo assenza Piccolo Male, l’epilessia mioclonica giovanile e la sindrome di West, poiché tutti i farmaci attualmente disponibili possono risultare ugualmente efficaci sia nelle epilessie localizzate che nelle epilessie generalizzate. Perciò, in mancanza di linee guida internazionalmente accettate (Brodie et al., 1997) e di AED “ideali” (Walker e Patsalos, 1995), la scelta di un dato AED dovrà tener conto di parametri come la completezza delle conoscenze esistenti sul suo grado di efficienza, di tossicità cronica, di tollerabilità e di maneggevolezza complessiva, quali possono emergere solo da studi a lungo termine su vaste popolazioni.
Una possibile ed auspicabile soluzione al problema potrà forse derivare dall’accettazione di una classificazione sintetica degli AED secondo il concetto “Monostars“, che attribuisce ad ogni AED un punteggio complessivo derivante dalla somma dei punteggi parziali (+1, 0, -1) ottenuti in numerosi settori: meccanismo d’azione, cinetica prevedibile, entità delle interazioni farmacologiche, spettro d’azione e di efficacia, esistenza di schemi di dosaggio, reazioni idiosincrasiche, impatto sedativo, profilo neuropsichiatrico, potenziale teratogeno, effetti a lungo termine, maneggevolezza nell’uso (Brodie, 1999; Brodie e Kwan, 2001). Da una prima classificazione degli AED, Lamotrigina, Gabapentin ed Oxcarbazepina sono risultati in testa con 5 punti, seguiti da Vigabatrin (4 punti), Carbamazepina e Valproato (3 punti), Fenitoina (2 punti) e, in ultimo, Fenobarbital (1 punto). Ciò appare alquanto sorprendente, considerando il largo uso che continua ad essere fatto dei barbiturici, almeno nel nostro Paese (Fenobarbital, Primidone, Barbexaclone), ad onta di un punteggio così sfavorevole. A questo proposito, vale la pena di segnalare che da qualche anno è in corso una intensa campagna di svalutazione, particolarmente attiva nel mondo anglosassone, nei confronti del Fenobarbital, il più antico, e quindi anche il più “prevedibile” ai fini di eventuali inconvenienti, fra i farmaci antiepilettici attualmente in commercio. Senza voler in alcun modo negare che le facoltà intellettive del soggetto possono risentire negativamente, ma anche reversibilmente, dell’impiego del Fenobarbital (specie se si tratta di bambini o di anziani, o di cerebrolesi con handicap mentale; assai meno se si tratta di soggetti adulti e per dosi efficaci, come spesso accade, non elevate), non si può disconoscere che altri fattori, non strettamente farmacologici, giocano a sfavore di questo farmaco, efficace in molte epilessie generalizzate (salvo quelle a tipo assenza) e parziali: da un lato il basso costo di vendita, da cui il progetto di limitarne l’uso ai paesi del terzo mondo, dall’altro le crescenti pressioni delle industrie farmaceutiche volte ad accrescere il consumo dei farmaci più recenti, e quindi più remunerativi. A giudizio degli Autori il Fenobarbital deve tuttora considerarsi un farmaco antiepilettico di prima scelta ed a vasto spettro, eccessivamente penalizzato per ragioni non prettamente scientifiche.
Si può ritenere che il risultato di un trattamento con AED dipenda, oltre che dal tipo di farmaco, anche e soprattutto da fattori “farmacogenetici” intrinseci al soggetto (Patsalos et al., 2002). La preliminare valutazione di questi fattori, per ora ben lontana della routine di ogni giorno, potrebbe essere in futuro di rilevante aiuto prognostico.
1190 Malattie del sistema nervoso
In ogni caso, come è stato già ampiamente sottolineato, qualunque sia il prodotto utilizzato si dovrà sempre evitare, almeno preliminarmente, l’associazione con altri AED. In particolare, la bi o politerapia dovrebbe essere riservata unicamente ai casi in cui la monoterapia si è rivelata inefficace, senza mai perdere di vista l’aumentato rischio di effetti collaterali ed a lungo termine, direttamente proporzionale al numero dei farmaci assunti. Per poter stabilire se un farmaco è efficace o meno occorre che: a) il farmaco sia assunto regolarmente; b) siano trascorse almeno 1-4 settimane affinchè il farmaco raggiunga una concentrazione ematica sufficientemente stabile (o “steady state”) fra una dose e l’altra: ciò dipende sia dalla durata dell’emivita del farmaco che dall’età del soggetto (nel bambino, infatti, il tempo necessario è sensibilmente più breve che nell’adulto); c) sia trascorso un tempo adeguato per effettuare un bilancio attendibile dell’andamento delle crisi (è fin troppo evidente, infatti, che se le crisi ricorrono ad intervalli di uno o più mesi, può occorrere anche un anno per esprimere un giudizio). Un risultato che in genere si può ritenere più che soddisfacente è una completa remissione delle crisi per un anno o più, o alternativamente, una riduzione delle crisi pari o superiore al 75% della loro frequenza iniziale (Perucca, 1997b). Nei casi di nuova diagnosi, circa la metà diventa completamente privo di crisi a partire già dalla prima monoterapia (indipendentemente da quale AED sia stato scelto fra quelli sopraelencati), e tale risultato si può quasi sempre ottenere (in oltre il 90% dei casi responsivi) con dosi medie o addirittura modeste (Kwan e Brodie, 2001).
a) il paziente ha rispettato il protocollo terapeutico (“compliance”), ed in caso contrario bisogna appurarne i motivi (non di rado legati all’insorgenza di effetti collaterali); b) la dose pro die del farmaco è inadeguata, ed il relativo tasso plasmatico non rientra nei limiti ottimali (“range terapeutico”) (Tab. 27.4). Se le concentrazioni terapeutiche non sono state raggiunte, può essere opportuno, prima di abbandonare il farmaco e sempre che gli effetti collaterali non siano importanti, aumentare ulteriormente la dose anche oltrepassando il limite superiore del “range terapeutico”. Il vero e unico obiettivo, infatti, è rappresentato non già dal raggiungimento di concentrazioni di AED ottimali, ma dal controllo delle crisi, con assenza o sufficiente tollerabilità degli effetti indesiderati 14. A questo proposito, tuttavia, è bene ricordare che l’impiego di alcuni AED tradizionali (come Fenitoina e Carbamazepina) anche a dosi terapeutiche può paradossalmente esacerbare un’epilessia generalizzata idiopatica con crisi miste (tonico-cloniche ed assenze), aumentando anche l’incidenza di stati di male refrattari (Osorio et al., 2000); c) le crisi sono state erroneamente classificate, con il risultato di una prescrizione non idonea. Ad esempio, l’Etosuccimide può favorire o accentuare l’occorrenza di crisi generalizzate tonico-cloniche nell’ambito di un’epilessia generalizzata tipo assenza, e quest’ultima può essere peggiorata da Vigabatrin, Tiagabina, Carbamazepina ed Oxcarbazepina. Analogamente, Fenitoina, Carbamazepina, Oxcarbazepina, Gabapentin e Vigabatrin possono aggravare certe forme di epilessia mioclonica, specie se coesistono crisi generalizzate tonico-cloniche non controllate (Cocito e Primavera, 1998; Murphy e Delanty, 2000; Perucca, 2001). Il Vigabatrin,
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Qualora il farmaco risulti inefficace, o addirittura sembri peggiorare la situazione, prima di sostituirlo è necessario verificare se:
Reciprocamente, se il controllo delle crisi fosse stato ottenuto con un dosaggio inferiore a quello considerato ottimale, nessun medico di buon senso riterrebbe, per questo, necessario aumentare la dose somministrata, dato che la terapia non è destinata a curare né l’EEG, né i tassi plasmatici degli AED.
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1191
inoltre, può aggravare le forme di epilessia generalizzata sintomatica (Berkovic, 1998). d) le crisi riportate dopo l’inizio della cura non sono di natura epilettica, o vi è associazione fra crisi epilettiche e non epilettiche. In questo caso può essere di grande aiuto la tecnica Video-EEG, l’induzione delle crisi per via suggestiva, ed il dosaggio post-accessuale della prolattina, marcatore plasmatico delle crisi epilettiche generalizzate. Se i vari tentativi falliscono o gli effetti collaterali sono intollerabili, si deve scegliere un altro farmaco. Si sconsiglia una sostituzione brusca per impedire che, dopo qualche tempo, il paziente si trovi completamente “scoperto” sia dalla protezione del primo che del secondo AED. Questi inconvenienti si possono evitare iniziando ad azzerare gradualmente le dosi del primo AED, a partire dal momento in cui il secondo ha raggiunto il tasso plasmatico terapeutico, pur con tutti i limiti insiti in questo dato. Solo quando i vari tentativi in monoterapia siano risultati inefficaci, secondo Hopkin (1987) circa nel 30% dei casi, si potrà intraprendere una biterapia o, eventualmente una politerapia, senza dimenticare il maggior rischio di esporre la persona ad effetti indesiderati o ad una intossicazione cronica. In una certa percentuale di soggetti poco responsivi alla monoterapia vale sicuramente la pena di ricorrere ad una politerapia, le cui linee guida sono state recentemente discusse (Wilder, 1995). Resta fermo che la validità di questa scelta potrà essere stabilita solo dopo una attenta valutazione dei pro e dei contro, previo accordo con il soggetto e/o i suoi congiunti. Il ricorso alla politerapia solleva il problema dell’interazione farmacologica, sia per l’assunzione di due o più farmaci antiepilettici, sia per interferenza con l’azione di altri farmaci assunti contemporaneamente per altri motivi. Il PROBLEMA dell’interazione FARMACOLOGICA. - L’interazione farmacologica si manifesta quando l’effetto di un
farmaco e/o la sua concentrazione sui liquidi biologici vengono modificati da un altro farmaco. Classicamente si distinguono le interazioni farmacodinamiche dalle interazioni farmacocinetiche. a) Le interazioni farmacodinamiche, che riguardano i siti di azione del farmaco, possono essere sfruttate utilizzando farmaci che agiscono su "siti" differenti, e pertanto possono tradursi in un sinergismo d’azione tale da giustificare, almeno teoricamente, un eventuale ricorso ad una bi- o politerapia. Sono stati segnalati vari esempi di sinergismo che potrebbero giustificare, almeno teoricamente, il ricorso alle politerapie: – l’associazione Fenitoina o Carbamazepina + Fenobarbital, sarebbe indicata nelle crisi parziali e generalizzate tonico-cloniche; – l’associazione Valproato di sodio + Etosuccimide o Lamotrigina, particolarmente indicata nelle assenze atipiche; – l’associazione Carbamazepina + Valproato di sodio, inspiegabilmente più efficace nelle crisi da focolaio temporale destro; – l’associazione Clonazepam o Clobazam + Valproato di sodio, indicata in vari tipi di crisi; – analoghe considerazioni valgono per l’associazione di un nuovo AED con AED tradizionali (come Valproato+Lamotrigina e Vigabatrin+Tiagabina), o di nuovi AED fra loro (come Lamotrigina+Topiramato) (Patsakos et al., 2002). Il ricorso a queste associazioni, in gran voga, anche a livello commerciale, fino ad una trentina di anni fa, è stato a lungo criticato, ma attualmente viene accettato con debite riserve. Oggi questa strategia viene riservata ai casi refrattari a varie monoterapie ma responsivi ad una politerapia, ed a patto che gli eventuali benefici non siano gravati da effetti collaterali cumulativi fra i vari AED. b) Le interazioni farmacocinetiche causate dai processi di assorbimento, di distribuzione e di eliminazione dei farmaci comportano sempre una modifica della loro concentrazione nei liquidi biologici (plasma, saliva, ecc.). Le interazioni farmacocinetiche possono realizzarsi anche fra sostanze estremamente disparate, ma solo raramente assumono una rilevanza clinica. Si distinguono le interazioni che implicano una modificazione dei tassi plasmatici dei farmaci antiepilettici ad opera di altri farmaci, da quelle in cui i farmaci antiepilettici sono responsabili di variazioni dei livelli plasmatici di altre sostanze assunte per eventuali patologie concomitanti. Per quanto concerne la prima eventualità ricordiamo, a titolo esemplificativo, che la Fenitoina, sicuramente il farmaco più coinvolto in interazioni clinicamente rilevanti, può risentire dell’effetto:
1192 Malattie del sistema nervoso – degli antiacidi, specie quelli contenenti bicarbonato o solfato di calcio), in grado di ridurne l’assorbimento a livello gastro-intestinale; – del fenilbutazone 15, che può spiazzare la Fenitoina dalle proteine plasmatiche, cui il farmaco è normalmente legato per il 90% circa, con aumento della frazione libera che, come è noto, è l’unica in grado di diffondere nei tessuti e pertanto di agire sull’organismo; a questo proposito va altresì ricordato che gli agenti spiazzanti, fra cui lo stesso Fenilbutazone, sono in grado di inibire il metabolismo del farmaco spiazzato, che si accumula nei tessuti aumentando il rischio di insorgenza di effetti tossici; – di una serie estremamente eterogenea di prodotti, in grado di interagire con la Fenitoina a livello metabolico inibendone, come nel caso del cloramfenicolo e del dicumarolo, o accelerandone, come nel caso dell’acido folico e della nitrofurantoina, i processi di trasformazione, con conseguente aumento o riduzione dei relativi tassi plasmatici. Fenomeni più o meno simili a quelli elencati a proposito della Fenitoina, con interazione a livello delle proteine plasmatiche o a livello metabolico, sono stati segnalati anche per la Carbamazepina, il Fenobarbital, il Primidone, il Valproato di sodio, l’Etosuccimide e il Diazepam. Un cenno a parte merita il caso del Valproato di sodio, capace, da un lato, di spiazzare la Fenitoina dalle proteine plasmatiche, potenziandone così l’efficacia, dall’altro di essere a sua volta spiazzato ad opera dell’acido acetilsalicilico, che determina così un potenziamento dell’azione del Valproato di sodio. Per quanto concerne l’eventualità che gli AED provochino una modificazione dei livelli plasmatici di altri farmaci conviene, sia pure a titolo esemplificativo, ricordare che: – sia il Fenobarbital che la Fenitoina possono interagire a livello gastrointestinale con la griseofulvina e la furosemide, riducendone l’assorbimento; – la Fenitoina può spiazzare dalle proteine plasmatiche sia il metotrexate che la tiroxina; – il Fenobarbital, il Primidone, la Fenitoina e la Carbamazepina sono induttori di enzimi catabolici, principalmente di specifiche isoforme del citocromo P450, emoproteine microsomiali e mitocondriali 16 coinvolte nei processi enzimatici di idrossilazione, demetilazione e Nossidazione delle sostanze xenobiotiche. L’induzione può riguardare sia l’isoforma (o le isoforme) specifiche per
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Ancor oggi utilizzato nella terapia della spondilite anchilosante Ubiquitarie, ma presenti in grande quantità nel fegato e nella midollare surrenale, ed espresse anche nel SNC. 16
l’AED in questione (autoinduzione) che isoforme specifiche per altri farmaci, ivi compresi uno o più AED. Ciò comporta il rischio di una loro più rapida metabolizzazione, con conseguente riduzione delle rispettive concentrazioni plasmatiche (e probabilmente anche cerebrali) e graduale perdita di efficacia nel tempo. Il Valproato ed il Topiramato, invece, sono inibitori enzimatici che tendono a provocare effetti opposti, innalzando le concentrazioni di altri AED (specie Fenitoina, Lamotrigina e Carbamazepina) a livelli potenzialmente tossici. Altri AED ancora, sono simultaneamente inibitori di un’isoforma ed induttori di un’altra, come il Felbamato e la Oxcarbazepina, per cui il segno dell’interazione può drasticamente cambiare a seconda dell’AED cui sono associati (Patsalos et al., 2002). A questo proposito va ricordato, sempre a titolo esemplificativo, che fra i farmaci la cui efficacia può diminuire in presenza di farmaci antiepilettici rientrano: – i contraccettivi orali, da cui la possibilità di gravidanze indesiderate (v. pag. 1159); – gli anticoagulanti orali, da cui la possibilità di gravi emorragie, qualora una determinata dose di anticoagulante, tollerabile in presenza di farmaci antiepilettici che ne accelerano l’eliminazione, diventi eccessiva a seguito della loro sospensione; – i corticosteroidi, da cui la possibilità di aggravamento dei malati affetti da artrite reumatoide o da asma bronchiale trattati con prednisolone, qualora coesista una assunzione di Fenobarbital. Riassumendo, le interazioni relative ai farmaci antiepilettici sono tutt’altro che rare, e possono dar luogo sia ad eventi favorevoli con un migliore controllo delle crisi, che a reazioni avverse, sfortunatamente più frequenti, con riduzione della loro efficacia. Il principio generale per cui l’incidenza di reazioni indesiderate aumenta parallelamente al numero dei farmaci impiegati, vale anche per la terapia antiepilettica, per cui è sempre preferibile programmare fin dall’inizio l’uso di un solo farmaco (Perucca, 1997a e b; Perucca, 2001). IL PROBLEMA DEGI EFFETTI COLLATERALI. - In mancanza di significative differenze di efficacia fra i vari farmaci comunemente impiegati, un criterio di scelta alternativo potrebbe emergere dal confronto fra i rispettivi effetti collaterali, classicamente distinti in precoci e tardivi. 1. EFFETTI COLLATERALI PRECOCI . - Comprendono a) effetti idiosincrasici, la cui insorgenza non dipende dal dosaggio impiegato, ma dalla sensibilità individuale al farmaco, da cui la loro frequente insorgenza fin dal primo contatto e l’assoluta imprevedibilità, e b) effetti tossici, dovuti a un eccesso di concentrazione plasmatica e pertanto dose-dipendenti (Smith e Bleck, 1991).
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1193 a) Effetti idiosincrasici. - La manifestazione più comune è rappresentata da una eruzione esantematica maculo-papulare che abitualmente si verifica entro 1-2 mesi dall’inizio del trattamento, specie, se a base di Fenitoina o di Fenobarbital (10% dei soggetti). Per la loro gravità, anche se assai meno frequenti, devono essere ricordate la temibile sindrome cutaneo-mucosa pluriorifiziale di Stevens-Johnson, e la ancor più drammatica necrolisi epidermica tossica, o sindrome di Lyell, segnalate soprattutto entro le prime 8 settimane di terapia con Fenitoina, Fenobarbital, Carbamazepina e Lamotrigina (Rzany et al., 1999). Altre complicanze meno frequenti sono: – una anemia aplastica, abitualmente, ma non esclusivamente, determinata dall’assunzione di Fenitoina e di Carbamazepina; – una agranulocitosi, usualmente associata con altre manifestazioni di ipersensibilità, che può verificarsi entro i primi mesi di trattamento, soprattutto, ma non esclusivamente, se a base di Fenitoina o di Carbamazepina. Ambedue i farmaci sono spesso responsabili di una transitoria leuco-piastrinopenia, che peraltro non ha nulla a che fare con l’agranulocitosi testè descritta; – una epatite tossica, eccezionalmente mortale, con febbre, linfoadenopatie ed eruzioni cutanee, segnalata soprattutto in corso di trattamento con Fenitoina, Carbamazepina e talora anche con Fenobarbital. Il Valproato di sodio, a sua volta, può essere, eccezionalmente, responsabile di una insufficienza epatica acuta mortale. Questa complicanza si verifica quasi esclusivamente nei bambini e insorge 3-6 mesi dopo l’inizio del trattamento. – una linfoadenopatia, sia come singolo aspetto di una ipersensibilità generalizzata che come manifestazione esclusiva o prevalente, legata, in genere, all’assunzione di Fenitoina o di Fenobarbital. Qualora la sospensione del farmaco non sia seguita da regressione, occorrerà procedere ad una biopsia data la possibilità, sia pure rara, che si tratti di un linfoma. Riassumendo, quasi tutti i farmaci antiepilettici abitualmente utilizzati possono essere responsabili, sia pure con diverse accentuazioni, di effetti collaterali di tipo idiosincrasico. b) Effetti tossici. - Per un eccesso di concentrazione plasmatica del farmaco, può verificarsi una encefalopatia aspecifica, caratterizzata, secondo un “crescendo” di gravità, da astenia, nistagmo oculare, atassia, disartria, tremore posturale, confusione mentale e sonnolenza. Tale sintomatologia può essere provocata da tutti gli AED con la sola eccezione, forse, del Valproato di sodio, che peraltro, sia pure con modalità diverse, può essere responsabile di manifestazioni di sofferenza encefalica.
Le alterazioni delle capacità intellettive e del comportamento possono verificarsi anche alle usuali concentrazioni terapeutiche, dal che si deduce ancora una volta che, dal punto di vista pratico, i tassi plasmatici hanno un valore puramente indicativo, specie nei bambini, e più particolarmente in quelli con quoziente intellettuale basso o con segni di cerebropatia. Anche questi inconvenienti, così come quelli descritti nel paragrafo precedente, sono comuni a tutti gli AED, con maggior frequenza per la Fenitoina e il Fenobarbital. In sintesi, gli effetti collaterali precoci, idiosincrasici e tossici non sembrano fornire elementi sufficienti per la scelta del farmaco da usare. 2. EFFETTI COLLATERALI TARDIVI. - Sono difficilmente evitabili, essendo il trattamento antiepilettico, per definizione, destinato a protrarsi per anni o addirittura per decenni. Gli effetti collaterali a lungo termine possono coinvolgere svariati organi, apparati o sistemi, e la loro insorgenza è legata non solo alle dosi, ma anche al numero dei farmaci somministrati contemporanamente. In caso di politerapia, evidentemente, l’identificazione del farmaco eventualmente responsabile può rivelarsi tutt’altro che agevole. Tuttavia solo raramente gli effetti collaterali a lungo termine sono clinicamente rilevanti. Possono riguardare: – il sistema nervoso: alterazioni del comportamento, pseudo-demenza, atrofia cerebellare, neuropatie periferiche; – l’apparato emopoietico: anemia megaloblastica da carenza di acido folico, trombocitopenia, linfomi maligni; – il tessuto connettivo: ipertrofia gengivale, ispessimento delle labbra e del tessuto sottocutaneo del viso con alterazione dei tratti fisionomici, sindrome di Dupuytren; – la cute: acne, irsutismo, alopecia, cloasma; – l’apparato endocrino: diminuzione dei livelli plasmatici di tiroxina; aumentata escrezione dei metaboliti steroidei con conseguente diminuzione di efficacia dei contraccettivi; – il sistema immunitario: deficienza di immunoglobuline A; insorgenza di Lupus eritematoso sistemico; – l’apparato osteoarticolare: periartrite scapoloomerale; osteomalacia da aumentato metabolismo della vitamina D; – il fegato: aumento del tasso plasmatico o dell’attività degli enzimi epatici. Gli effetti collaterali a lungo termine, a differenza di quelli a breve termine (imputabili, sia pure in diversa misura, a quasi tutti gli AED) sono prevalentemente legati a tre prodotti: Fenobarbital, Fenitoina e Vigabatrin, que-
1194 Malattie del sistema nervoso st’ultimo limitatamente ad alterazioni del campo visivo. Questa prevalenza, in realtà, potrebbe essere solo apparente ove si consideri che gli altri AED, più recenti, sono relativamente meno conosciuti, almeno per quanto si riferisce agli effetti collaterali a lungo termine. Pertanto, sulla base dei dati attualmente disponibili, sembrerebbe che la valutazione comparativa degli effetti collaterali, soprattutto a breve termine, non sia in grado di fornire un criterio di scelta sul farmaco da usare. Ne consegue che molto spesso, in mancanza di norme consolidate, tale scelta resta affidata al personale giudizio del medico, il quale dovrà decidere caso per caso, tenendo conto anche della sensibilità individuale. Il problema della scelta diventa particolarmente acuto in corso di gravidanza, programmata o imprevista (v. pag. 1159)
In conclusione, l’impostazione di un trattamento antiepilettico cronico è tutt’altro che semplice, data la massa di nozioni super-specialistiche che implica, per cui, analogamente ad altri campi della medicina, è ampiamente giustificata l’istituzione di appositi Centri destinati a farsi carico delle problematiche spesso molto complesse ed eterogenee che frequentemente emergono dalla vasta popolazione delle persone epilettiche, possibilmente in conformità a standard Europei di trattamento (Avanzini e Canger, 2002).
Terapia dell’epilessia farmacoresistente È riservata a quel 25-30% di soggetti epilettici in cui sia la mono che la politerapia con AED (a dosaggi o livelli non associati ad effetti collaterali inaccettabili) non riescono a controllare in maniera soddisfacente le crisi. Le opzioni terapeutiche sono la stimolazione del nervo vago, la dieta chetogena e la chirurgia dell’epilessia. DIETA CHETOGENA. È basata su un regime alimentare con rapporto di grassi/carboidrati-proteine compreso fra 2:1 - 5:1, che deve essere preliminarmente provato ed iniziato gradualmente sotto attento controllo delle costanti me-
taboliche in idoneo ambiente ospedaliero. L’effetto si manifesta con gradualità, sia nel bambino (Vining, 1999) che nell’adulto (Sirven et al., 1999), attraverso una riduzione di frequenza delle crisi, che nel 40-50% dei bambini può addirittura dimezzarsi dopo un anno di dieta, permettendo così una riduzione del dosaggio degli AED e dei relativi effetti collaterali. I problemi principali della dieta chetogena sono rappresentati dalla necessità di un coinvolgimento del paziente nell’ottimizzazione personalizzata delle scelte dietetiche (onde evitare imposizioni alimentari che possono essere prima o poi rifiutate, specie quando i risultati sono scarsi), e dall’insorgenza di una calcolosi renale (5-8%) che ne può richiedere la sospensione. TERAPIA CHIRURGICA. - È riservata ad un limitato gruppo di casi farmacoresistenti, sostenuti da patologie cerebrali non evolutive, o comunque a evoluzione lentissima, con particolare preferenza per i casi in cui il focolaio è unico ed occupa un’area la cui rimozione può essere effettuata senza gravi conseguenze. In genere si tratta di portatori di lesioni epilettogene del lobo temporale, che può essere asportato in blocco o limitatamente alle strutture ippocampo-amigdaloidee, o del lobo frontale, soprattutto a livello della regione fronto-orbitaria. In alternativa alla resezione corticale, che si prefigge la rimozione del focolaio epilettogeno, si può cercare di neutralizzare la propagazione della scarica epilettogena interrompendo chirurgicamente le vie cerebrali che essa percorre. A tale scopo possono essere indicati sia la sezione del corpo calloso e della commessura dell’ippocampo, che il ricorso a sezioni subpiali multiple. Nei casi di epilessia refrattaria alle cure, associata ad emiplegia infantile, può essere anche consigliabile la rimozione totale o focale dell’emisfero colpito tramite emisferectomia. Il tipo di intervento più comunemente effettuato è la lobectomia temporale anteriore, seguita, in ordine, dalle resezioni corticali extratem-
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porali, (specie in sede frontale), dalla sezione del corpo calloso e dall’emisferectomia. La farmacoresistenza è una condizione necessaria ma non sufficiente per giustificare il ricorso al trattamento chirurgico, essendo la scelta dei candidati subordinata ai risultati di una serie di accertamenti anamnestici, elettrofisiologici, neuroradiologici e neuropsicologici che debbono essere effettuati presso centri altamente specializzati. Ne consegue che, anche nei paesi più progrediti, le casistiche sono assai limitate: non più di 300 casi operati annualmente in USA; fra 50 e 100 casi nel Regno Unito; solo qualche decina in Italia. Ove si consideri che circa il 25% delle persone epilettiche non ottiene sensibili vantaggi dalla terapia farmacologica, appare evidente che, per quanto rigorosa sia la selezione, il numero dei soggetti potenzialmente suscettibili di trarre vantaggio da un trattamento chirurgico dovrebbe essere sicuramente più alto. Non è improbabile che questa situazione, apparentemente paradossale, dipenda non solo dalla carenza di Centri specializzati, ma anche da un obiettivo problema di costi. È importante sottolineare che i risultati ottenuti, ancorché numericamente modesti, sono oltremodo incoraggianti, considerato che non meno di 2/3 dei casi operati migliorano o guariscono. È sempre buona norma, comunque, proseguire il trattamento farmacologico per un lungo periodo dopo l’intervento chirurgico, anche se il paziente è diventato completamente asintomatico. STIMOLAZIONE DEL NERVO VAGO (VNS). Rappresenta un’interessante alternativa per i soggetti farmacoresistenti non tolleranti la dieta chetogena, o giudicati non idonei al trattamento neurochirurgico, o rimasti senza beneficio da tale trattamento. Richiede l’impianto di una protesi elettronica toracica sottocutanea dotata batteria a lunga vita e di speciali elettrodi avvolti attorno al tronco del nervo vago di sinistra, e la successiva messa a punto di un adeguato protocollo di stimolazione. Concettualmente, la tecnica
si basa sull’azione “soppressiva” sull’insorgenza dell’attività parossistica e sulla sua diffusione a distanza, svolta dalle afferenze vagali attraverso le proiezioni bilaterali ascendenti dal nucleo del tratto solitario alle regioni ipotalamoamigdaloidee e cingolate. L’effetto della stimolazione vagale in tali aree si esprime anche attraverso un’attivazione di proto-oncogeni (c-fos) (Naritoku et al., 1995), capaci di indurre neuroprotezione e fenomeni di tolleranza (con innalzamento della soglia epilettogena). Il risultati finora ottenuti dimostrano che un terzo circa dei soggetti farmacoresistenti ottiene una riduzione di incidenza delle crisi di almeno il 50% ed un altro terzo fra il 30 e 50%, mentre nel rimanente terzo i risultati sono modesti o nulli (Hadforth et al., 199, Vonck et al., 1999). Terapia delle convulsioni febbrili (CF) Le convulsioni febbrili richiedono un trattamento particolare che si propone un triplice obiettivo: a) limitare la durata della CF in atto, per ridurre le lesioni cerebrali epilettogene che potrebbero derivare da un suo prolungamento oltre misura; b) prevenire la comparsa delle convulsioni, qualora si verificassero ulteriori rialzi termici, e c) impedire la ricorrenza delle crisi mediante profilassi intermittente o cronica. Nella maggior parte dei casi il medico entra in scena quando la situazione si è ormai risolta spontaneamente, e non richiede alcun intervento immediato, a parte il trattamento dello stato febbrile. Qualora invece le convulsioni si protraggano per vari minuti, è indispensabile somministrare un farmaco anticonvulsivo ad azione pronta, come ad esempio il Diazepam per via rettale (0,30-0,50 mg/Kg), e se le convulsioni persistono è necessario il ricovero presso un reparto di terapia intensiva, per fronteggiare adeguatamente eventuali complicanze cardio-respiratorie e prevenire possibili danni cerebrali derivanti dal protrarsi delle crisi (v. pag. 1173). Risolto in qualche modo il primo episodio, occorrerà predisporre una opportuna profilassi per impedire eventuali ricadute. Esistono attualmente due diverse strategie: la prima, intermittente ed a breve termine, da utilizzare unicamente qualora si verifichi un nuovo episodio febbrile; la seconda, a lungo termine, da realizzare anche indipendentemente dall’occorrenza di nuovi episodi febbrili. 1. - Profilassi intermittente. Questa strategia presuppone, ovviamente, che i congiunti siano in grado di rilevare
1196 Malattie del sistema nervoso prontamente un eventuale rialzo termico, giacchè un intervento tardivo sarebbe praticamente inefficace. In particolare, non appena venga riscontrato un rialzo termico, si cercherà, in primo luogo, di abbassare la temperatura corporea utilizzando tutte le risorse tradizionali, dagli antipiretici alla borsa di ghiaccio; dal ventilatore alle spugnature con alcool. Con questi limiti, tuttavia, rimane una scelta d’elezione molto spesso ben applicabile e, soprattutto, di minimo impatto sullo sviluppo mentale del bambino. Essa prevede che, in caso di comparsa di febbre che non si riesca a far scendere al di sotto di 38,5 °C, venga somministrato Diazepam per via rettale (Micronoan, microclismi da 5 e 10 mg; dose: 0,5 mg×kg-1 ogni 12 h per un massimo di 4 somministrazioni; via orale: EN gt 0,1%, dose: 0,33 mg×kg-1 ogni 8 h per 48 h). In tal modo è possibile ridurre del 75% le possibili recidive. Se nonostante questi provvedimenti insorgono nuovamente convulsioni, si rende indispensabile il ricovero d’emergenza presso un reparto di terapia intensiva, onde trattare il piccolo paziente con AED iv. 2. - Profilassi cronica. Dev’essere considerata per quella ristretta minoranza di casi in cui il rischio di recidive è particolarmente elevato. Si basa sulla somministrazione quotidiana e continuativa di Fenobarbital o di Valproato a dosi tali da garantire una concentrazione plasmatica non inferiore a 15 mcg×ml-1 nel primo caso e a 40 mcg×ml-1 nel secondo. Il limite di questa scelta è rappresentato dalla possibile insorgenza di importanti effetti collaterali. La somministrazione continuativa di Fenobarbital durante i primi anni di vita può determinare, infatti, la comparsa di turbe del comportamento tali da richiedere la sospensione del farmaco nel 50% circa dei soggetti. In tal caso si potrà fare ricorso al Valproato che, sia pure eccezionalmente, può provocare una insufficienza epatica irreversibile, talora addirittura mortale. Al momento non sembrerebbero esistere altre alternative, considerato che sia la Fenitoina che la Carbamazepina si sono rivelate inadatte. Tenuto conto dell’entità dei possibili effetti collaterali derivanti da un trattamento continuativo con AED, è indispensabile che questa scelta sia accuratamente discussa con i genitori. In ogni caso va ricordato che la profilassi antiepilettica, sia essa cronica o intermittente, dovrà essere protratta fino all’età di 4 anni.
Terapia degli stati di male Gli stati di male epilettico (SME) costituiscono una grave emergenza neurologica e i relativi provvedimenti terapeutici debbono essere instaurati con la massima urgenza, anche a costo di posticipare eventuali accertamenti diagnostici. Infatti, gli SME possono insorgere anche in soggetti senza alcun precedente di tipo epilettico, e pertanto essere causati da ogni possibile eziologia.
La strategia terapeutica prevede che i farmaci vengano somministrati per via endovenosa (iv), sia per ottenere l’effetto terapeutico più rapido, che per evitare ritardi di assorbimento, dovuti a possibili alterazioni del grado di perfusione del distretto corporeo ove il farmaco viene introdotto. Ne consegue la necessità di predisporre immediatamente un catetere venoso profondo, possibilmente fino alla cava superiore, che mette al riparo da eventuali flebiti chimiche, consente di infondere soluzioni ipertoniche, e garantisce la conservazione dell’accesso venoso anche in caso di ipotensione grave. La terapia della forma più drammatica e più frequente, lo SME generalizzato tonico-clonico, deve procedere su quattro fronti: interrompere lo SME, prevenirne la recidiva, eliminare o combattere le possibili eventuali cause precipitanti, e per quanto possibile, correggere le alterazioni sistemiche abitualmente associate. Numerose sono state le strategie terapeutiche che sono state finora proposte, non poche delle quali basate su protocolli abbastanza complessi implicanti l’impiego sequenziale - laddove il primo tentativo fallisse - di vari farmaci antiepilettici somministrabili endovena e commercializzati esclusivamente per uso ospedaliero, per approdare in caso di insuccesso ad anestetici generali di vario tipo. Tali protocolli, tuttavia, sono praticamente applicabili solo in ambienti di terapia intensiva (Reparti di Anestesia e Rianimazione), dotati di AED somministrabili endovena e di possibilità di monitoraggio continuo ECG-EEG, ove peraltro il paziente riesce ad approdare quando lo SME è ormai conclamato e perdura da molte decine di minuti. Poiché la probabilità di successo è in gran parte legata alla precocità del primo intervento farmacologico, questo dovrebbe invece essere applicabile ovunque senza particolari difficoltà. In tal modo è possibile recuperare tempo prezioso per l’inizio della terapia, che fra l’altro, usando le benzodiazepine, tende a perdere efficacia già dopo 15-20 minuti dall’inizio dello SME generalizzato tonico-clonico (desensibilizzazione dei recettori GABAA). Anche nel caso di risposte di breve durata, ciò permette di avere il tempo necessario per ricoverare urgentemente un paziente "già trattato" e di ridurre per quanto possibile la durata complessiva della fase critica ed il rischio di lesioni cerebrali permanenti o esito infausto: tali rischi cominciano a diventare molto elevati quando uno SME generalizzato tonico-clonico si protrae ininterrottamente per oltre un’ora e mezza senz’alcun tipo di neuroprotezione. È indispensabile innanzi tutto garantire che i farmaci che si è in procinto di somministrare esercitino pienamente la loro azione, che può anche drammaticamente ridursi nelle seguenti circostanze: – coma ipoglicemico (infusione di soluzione glucosata ipertonica);
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1197 – eclampsia gravidica (infusione di sali di magnesio), ipocalcemia grave ed iponatriemia (da correggere in maniera analoga); – grave ipovitaminosi B1 (sindrome di WernickeKorsakoff: Benerva o Vit B1, 1 f 100 mg im); – grave ipovitaminosi B6 (da uso continuativo dell’antitubercolare Isoniazide: Benadon 1 f 100 mg iv); – intossicazione da esteri organo-fosforici (atropina solfato, 1 f da 1 mg iv). TERAPIA D’EMERGENZA CON AED. - I farmaci più comunemente usati sono in ordine di scelta sequenziale (Payne e Bleck, 1997): 1) Lorazepam (Tavor fiale im iv da 4 mg; dose d’attacco 0,1 mg·kg-1 iv, tempo d’infusione: 2 min) o, in mancanza, dell’analogo Delorazepam (EN fiale da 5 mg, stessi parametri), onde ottenere la massima efficacia e rapidità d’azione. Bisogna ricordare che il Lorazepam, come le altre benzodiazepine iv, in alcuni soggetti tende ad inibire la respirazione, per cui eventuali ulteriori dosi dovrebbero essere somministrate per infusione lenta continua, controllando la pressione arteriosa ed il respiro. In passato, il Diazepam iv e soprattutto il Clorazepam iv sono stati diffusamente usati con successo per lo stesso scopo 17, ma da tempo non sono più disponibili, essendo stati sostituiti dal Lorazepam, dimostratosi più sicuro ed anche più efficace nel prevenire possibili recidive (Cock e Schapira, 2002). 2) Fenitoina (sale sodico, Aurantin, f 5 ml, 50 mg·ml-1; dose d’attacco 15-18 mg×kg-1 iv velocità d’infusione <50 mg×min-1 onde evitare aritmie cardiache gravi ed ipotensione). Nonostante il picco plasmatico del farmaco libero sia raggiunto solo 15-20 minuti dopo la fine dell’infusione, la Fenitoina presenta alcuni interessanti vantaggi sul Lorazepam, non solo perché garantisce un effetto terapeutico relativamente indipendente dal momento della somministrazine e maggiormente prolungato (con minor rischio di recidive), ma anche perché non deprime né il livello di vigilanza né la funzione respiratoria, anche se possono invece verificarsi bradiaritmia ed ipotensione. La Fenitoina iv può essere somministrata in associazione al Lorazepam (attraverso infusioni distinte) per sfruttare la complementarietà delle rispettive caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche. Un effetto più rapido (6-10 minuti) ed una assai migliore tollerabilità contraddistinguono il derivato idrosolubile (somministrabile anche per via im) Fosfenitoina, idrolizzabile in Fenitoina (emivita di 15 min), che gra17
Va ricordato anche il Clormetiazolo dimetansulfonato (Emineurina), non commercializzato in Italia (anche se reperibile), che come le benzodiazepine è un potente agonista GABAA, ma a breve durata d’azione ed utilizzabile solo in infusione continua.
zie ad un altissimo legame con l’albumina plasmatica (95%) aumenta il tasso di Fenitoina libera dal 12 al 30%. Il famaco (Proaurantin e MAR01PD registrati ma non ancora commercializzati in Italia; Cerebyx negli USA) è dosato in flaconi da 2 e 5 ml contenenti 75 mg×ml-1 di Fosfenitoina sodica equivalente a 50 mg di Fenitoina (1,5 equivalenti o PE), da infondere a dosi equivalenti di 22.530 mg·kg-1, con velocità d’infusione < 150 mg×min-1 (ad esempio, soggetto di 67 kg, Fosfenitoina 1000mg PE da infondere iv nel giro di 10 minuti). Il controllo del tasso plasmatico raggiunto (Fenitoina) dev’essere effettuato trascorse almeno 2 ore dall’inizio della somministrazione, tempo necessario per la completa idrolisi della Fosfenitoina. 3) Fenobarbital S (sale sodico, f 30 e 100 mg iv-im; dose nell’adulto: 10 mg×kg-1, nel neonato e bambino 1520 mg×kg-1, velocità di infusione iv <100mg×min-1). Può causare seri effetti collaterali, quali ipotensione, laringospasmo ed apnea, e data la lunga emivita e lo scarso divario fra dose terapeutica/dose anestetica non deve superare il dosaggio massimo di 600 mg×24 h-1. Le percentuali di successo ottenibili con questi tre AED somministrati isolatamente sono abbastanza soddisfacenti: Lorazepam (64,9%), Fenobarbital (58,2%), Fenitoina (43,6%). Essi non aumentano con l’associazione benzodiazepine/Fenitoina (55,8%). L’impiego di un secondo AED permette il recupero di un ulteriore 7% di casi, ma quello di un terzo AED solo del 2,3%: ciò indica che quando il primo, ed al massimo il secondo AED non risultassero efficaci, lo SME è quasi sicuramente farmaco-resistente, e richiede un rapido trattamento con farmaci anestetici in un Reparto di Anestesia-Rianimazione (Bleck, 1999). In conclusione, il Lorazepam è attualmente l’AED di prima scelta più sicuro ed efficace, idoneo anche a trattare i casi di SME tonico-clonico senza inutili attese anche fuori dall’ospedale (Alldredge et al., 2001). L’anestesia generale può essere effettuata sia con infusione iv di Propofol (Diprivan) o Midazolam (Ipnovel) (Prasad et al., 2001), sia con i classici barbiturici anestetici Tiopentale (Pentothal) e Pentobarbital (Nembutal), ed in caso di porfiria (ove questi farmaci sono assolutamente controindicati), con anestetici volatili (Isoflurane) laddove ne sia possibile l’uso. Il paziente, inoltre, dev’essere curarizzato e sottoposto a ventilazione artificiale per impedire l’aggravamento dell’acidosi lattica e prevenire una eventuale rabdomiolisi/ipertermia da sforzo, comportante un alto rischio di mioglobinuria con tubulonefropatia acuta. In questa situazione, poiché la forzata soppressione delle manifestazioni motorie dello SME tonico-clonico (da curarizzazione) non attesta minimamente la sua fine “elettrica”, il paziente dev’essere sottoposto a monitoraggio EEG continuo.
1198 Malattie del sistema nervoso ALTRI PROVVEDIMENTI TERAPEUTICI. - Gravi alterazioni nel corso di uno SME convulsivo possono riguardare la funzione respiratoria, la pressione arteriosa, la funzione cardiaca, la temperatura corporea, la glicemia, il pH del sangue e il bilancio idroelettrolitico; a parte, infine, va considerata la possibile insorgenza di un edema cerebrale. Tre sono i fattori responsabili delle alterazioni della funzione respiratoria e precisamente, l’effetto meccanico provocato dalle convulsioni sulla dinamica respiratoria, l’alterazione funzionale dei centri respiratori del tronco encefalico e il coinvolgimento del SNA, cui conseguono aumento delle secrezioni bronchiali, broncospasmo ecc. Tutto questo può sommarsi all’effetto deprimente sulla funzione respiratoria provocato dall’impiego di AED ad alte dosi, per cui può esser necessaria una intubazione endotracheale, specie se il trattamento prevede la somministrazione iv di barbiturici ad alte dosi o l’infusione continua di Lorazepam. Il monitoraggio della pressione arteriosa diventa cruciale allorché (come spesso accade dopo le prime 2-3 crisi di uno SME convulsivo) si verifica la perdita dell’autoregolazione del flusso ematico cerebrale, per cui l’afflusso di sangue al cervello diventa completamente dipendente dai valori della pressione arteriosa. Un progressivo calo di quest’ultima può avverarsi nella seconda fase dello SME tonico-clonico (durante la prima fase, al contrario, la pressione arteriosa aumenta), fino ad un vero e proprio stato di shock per cui può rendersi necessaria una infusione controllata di Dopamina iv. Da non trascurare, inoltre, l’eventualità che nello SME convulsivo compaiano aritmie cardiache tali da richiedere un trattamento farmacologico specifico, e la temperatura corporea salga eccessivamente, provocando un ulteriore aumento del metabolismo cerebrale ed un conseguente aggravamento. Nel corso della fase precoce dello SME si verifica una marcata iperglicemia, mentre nella fase più tardiva si osserva l’evento opposto, per cui può essere giustificato il ricorso ad una infusione di glucosio al 10%, in quanto concentrazioni inferiori potrebbero favorire l’insorgenza di edema cerebrale. La diminuzione del pH ematico dipende anzitutto dalla iperproduzione di acido lattico e, in minor misura, dall’acidosi respiratoria, per cui è necessario un trattamento con soluzioni tampone, il cui dosaggio dovrà essere particolarmente prudente sotto curarizzazione, pena l’insorgenza di una alcalosi. Alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico sono tutt’altro che rare a causa della frequente occorrenza di ipertermia con eccessiva sudorazione, senza contare l’effetto delle alterazioni dell’equilibrio acido-base e della prolungata attività motoria. Fra le eventualità più temibili vanno segnalate l’ipernatriemia e soprattutto la iperkaliemia, che devono essere rapidamente corrette per evi-
tare l’insorgenza o l’aggravamento di aritmie cardiache (tutt’altro che rare, specie sotto trattamento con Fenitoina iv) ed un peggioramento dello stato di ipereccitabilità già presente nel SNC. L’insorgenza di un edema cerebrale da danno della barriera può verificarsi qualora uno SME si prolunghi per ore o giorni, sia esso generalizzato o parziale (Amato et al., 2001). A questo riguardo, anche se non esistono specifiche indicazioni per un trattamento antiedemigeno, l’impiego di Furosemide o Idroclorotiazide potrebbe essere complessivamente utile, essendo questi natriuretici dotati anche di attività anticonvulsivante (Hesdorffer et al., 2001). Gli SME non convulsivi, generalizzati o parziali, comportano alterazioni metaboliche e cardiocircolatorie assai meno importanti di quelle descritte. Ma, anche in assenza di convulsioni, il protrarsi dell’attività parossistica può produrre l’insorgenza di alterazioni cellulari irreversibili, e pertanto un danno cerebrale persistente, specie nei casi di SME generalizzati non convulsivi, rendendo necessario un rapido intervento farmacologico da effettuare con modalità analoghe a quelle descritte per gli SME convulsivi.
Possibili effetti teratogeni È noto che i farmaci antiepilettici (come moltissimi altri farmaci, d’altronde), qualora siano somministrati nel 1° trimestre di gravidanza, possono comportare un certo rischio di embriopatie responsabili di malformazioni fetali più o meno gravi. La quantificazione degli innumerevoli parametri concorrenti a costituire questo rischio è rimasta per molto tempo approssimativa, in mancanza di studi epidemiologici prospettici accuratamente progettati e svolti su campioni sufficientemente rappresentativi (Battino, 2001). Ciò ha comportato, come inevitabile conseguenza, una diffidenza diffusa verso gli AED - o comunque un rapporto non sereno - soprattutto da parte della classe ostetrica, che continua ancor oggi a ritenere (e forse non a torto, vedi oltre) che l’AED “più sicuro” sia il Fenobarbital. In questi ultimi anni, fortunatamente, le conoscenze sulla potenziale teratogenicità di alcuni AED di 1° generazione sono state ampliate da studi accurati, ai quali è bene riferirsi direttamente. a) Un recente studio italiano prospettico su 517 neonati nati da madri epilettiche in terapia con AED ha dimostrato che l’incidenza globale di malformazioni è pari al 9,7%, di cui un 5,3% costituito da forme strutturalmente gravi, un 2,2% da forme minori, un 1,8% da deformità ed uno 0,4% da forme cromosomiche o genetiche (Canger et al., 1999).
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1199 b) Tali dati hanno trovato conferma in un analogo e più vasto studio su 983 neonati (giapponesi, italiani e canadesi) nati da madri in terapia con AED o da madri non esposte a farmaci (Kaneko et al., 1999), dal quale è emerso che l’incidenza globale di malformazioni congenite sale dal 3,1% della popolazione non esposta al 9% nella popolazione esposta ad AED. L’incidenza di malformazioni relative all’assunzione di singoli AED in monoterapia è risultata in ordine decrescente: Primidone (14,3%); Valproato (11.1%); Fenitoina (9,1%); Carbamazepina (5,7%); Fenobarbital (5,1%). Circa il Valproato, sia la dose quotidiana che i relativi tassi plasmatici sono risultati positivamente correlati con l’incidenza di malformazioni, e ciò ha finalmente permesso di identificare una soglia critica da non oltrepassare, rispettivamente 1000 mg pro die e 70 mg×ml-1. Lo stesso studio è servito anche a dimostrare che l’incidenza di malformazioni cresce in caso di politerapia, sia in rapporto al numero degli AED che alla dose globale di AED quotidianamente assunti. In particolare, è stato osservato che specifiche combinazioni di AED come [Valproato + Carbamazepina] o [Fenitoina + Primidone + Fenobarbital] si associano ad una più alta incidenza di malformazioni congenite. Fra gli altri fattori di rischio presi in considerazione nello stesso studio, l’unico dato significativamente correlato con l’incidenza di malformazioni è la presenza di malformazioni in fratelli nati dagli stessi genitori. Nell’insieme, questo due studi indicano che: – l’aumentata incidenza di malformazioni congenite è causata principalmente dagli AED; – il rischio in eccesso di malformazioni può essere minimizzato (o eliminato) adottando appropriati regimi terapeutici ed evitando politerapie; limitatamente al Valproato, cercando di non oltrepassare le soglie di rischio di cui sopra. Anche se mancano ancora dati precisi per gli AED di 2° generazione, per analogia questo principio dovrebbe essere applicato anche ad essi, utilizzandoli, qualora non se ne possa fare a meno, solo in monoterapia ed a dosi minime efficaci. c) Un più recente e largo studio di confronto fra neonati di madri epilettiche esposte ad AED e neonati di donne epilettiche e non epilettiche non esposte ad AED (Holmes et al., 2001) ha confermato che solo nel gruppo esposto ad AED il rischio di embriopatia (causa di malformazioni gravi, ipoplasia facciale e delle dita, microcefalia, microsomia) aumenta del 2,8% per 1 solo AED, e sale al 4,2% per 2 o più AED, mentre rimane invariato nel gruppo di casi con antecedenti epilettici ma non esposti ad AED. Oltre a confermare la teratogenicità degli AED, questo studio contribuisce ulteriormente a sfatare la leggenda che l’epilessia di per sé (in quanto “affezione” o attraverso le crisi epilettiche che comporta) possa favorire l’instaurarsi di malformazioni fetali.
Circa le altre misure di prevenzione da attuare, è particolarmente importante che il medico affronti assieme alla paziente epilettica non solo le tematiche riguardanti i rischi teratogeni aggiuntivi connessi all’esposizione agli AED e le decisioni da assumere al riguardo, ma, in accordo a recenti linee guida (Morell, 1988) spieghi anche l’opportunità di: 1) programmare con adeguato anticipo una gravidanza (evitando cioè gravidanze impreviste); 2) verificare l’eventuale possibilità di sospendere o ridurre gradualmente l’AED assunto ed in caso di politerapia, tentare una progressiva riduzione del numero di AED, iniziando da quelli che comportano un rischio teratogeno aggiuntivo maggiore; 3) aderire strettamente alle cure prescritte (evitando così variazioni di dose o associazione con altri farmaci potenzialmente teratogeni), e soprattutto, non sospendere spontaneamente la terapia dopo il 1° trimestre nell’ottica errata di evitare rischi per il feto; 4) controllare periodicamente il tasso farmacologico plasmatico (specie nel 1° trimestre); 5) assumere ininterrottamente, a partire da un mese prima dell’inizio fino a termine della gravidanza, acido folico (Vit. Bc) 5 mg pro die per os. Questa vitamina, che come coenzima serve a trasferire molecole monocarboniose e la cui carenza causa inibizione della sintesi del DNA, è considerata di importanza fondamentale per ridurre grandemente il rischio di embriopatia da AED indipendentemente dal tipo di AED assunto, sempre che possa agire continuativamente ed a dosi piene dal momento della fecondazione in poi; 6) assumere, nell’ultimo mese di gravidanza, un’adeguata integrazione di Vit K e sali di magnesio (rivelatisi utili nel ridurre un eventuale rischio iposso-ischemico fetale da alterato scambio placentare, ed anche dotati di proprietà anti-eclamptiche). 7) verificare sempre la possibilità di un allattamento al seno, nella maggior parte dei casi considerato sicuro, prima di passare a quello artificiale.
Problemi sociali e assicurativi Tradizionalmente la società tende ad escludere chi è affetto da epilessia da ambiti più o meno vasti della vita pubblica, per un atteggiamento pregiudiziale che non tiene conto del fatto che, a seconda della tipologia e della frequenza delle crisi, le possibilità di intregrazione sociale di molte persone affette da epilessia sono praticamente sovrapponibili a quelle della popolazione normale. Ancora oggi, purtroppo, la legislazione vigente non prevede una normativa differenziata in rapporto alla gravità del caso: può accadere così che un soggetto che ha presen-
1200 Malattie del sistema nervoso tato una sola crisi in tutta la sua vita venga sottoposto agli stessi provvedimenti che sono previsti per le forme più gravi. Se a ciò si aggiunge che la sintomatologia accessuale può essere efficacemente controllata nel 75% circa dei casi, ne consegue che una applicazione indiscriminata delle norme legislative diventerebbe ingiustamente punitiva ed emarginante nei confronti di una grossa quota di questi malati. Per completezza di informazione va anche detto che, oltre alle disposizioni di legge intese a difendere gli interessi della collettività, anche a costo di una coartazione della vita sociale del soggetto, attualmente esistono anche norme volte a tutelare i diritti e le necessità delle persone epilettiche. Le problematiche con cui il soggetto affetto da epilessia deve confrontarsi riguardano situazioni molto disparate come la scuola, il servizio militare, la guida degli automezzi, le attività sportive, oltre ad alcune scelte personali, come la donazione di sangue e il sacerdozio. Sarebbe troppo lungo elencare in questa sede i lavori da sconsigliare; in termini generali basti dire che in qualunque tipo di attività potenzialmente pericolosa per chi la svolge o per chi gli sta vicino o per gli eventuali utenti (si pensi, ad esempio, ai danni che può provocare un capostazione, un macchinista, un conduttore di autobus, ecc.) dovrebbe essere tassativamente proibita alle persone affette da crisi che comportano una temporanea perdita di coscienza o anche una semplice riduzione del livello di coscienza. Per quanto concerne gli altri tipi di crisi occorre decidere caso per caso. Nei paragrafi che seguono il lettore troverà notizie aggiornate anche a proposito del trattamento assistenziale e delle norme assicurative che si applicano a questi malati. LA SCUOLA. - Conviene precisare che oltre il 5 per mille dei bambini che frequentano la scuola dell’obbligo sono affetti da epilessia; e che almeno il 20% può presentare crisi anche durante l’orario delle lezioni per la scarsa efficacia della terapia. In vista di questa possibilità gli insegnanti debbono essere opportunamente informati, sia per ridimensionare timori e pregiudizi, sia perché sappiano come comportarsi in presenza di una crisi. Qualora invece il controllo terapeutico sia soddisfacente, è senz’altro preferibile tutelare il segreto professionale e il diritto alla riservatezza del bambino e dei suoi famigliari. Non meno rilevante è il problema del rendimento scolastico che può risultare compromesso, oltre che dalla sintomatologia accessuale pura e semplice e dalla eventuale patologia cerebrale sottostante, anche dall’assunzione di farmaci che possono interferire con il livello di coscienza, l’attenzione, la memoria, ecc., specie se la dose giornaliera e il ritmo di somministrazione non sono stati
opportunamente aggiustati. E ancora non vanno sottovalutati i problemi comportamentali, spesso causati da inadeguate risposte ambientali. Non è raro, infatti, che il bambino epilettico sia aggredito dall’ambiente piuttosto che esser egli aggressivo verso gli altri. IL SERVIZIO MILITARE. - L’epilessia, quale che sia la tipologia o la causa delle manifestazioni accessuali, rientra nell’elenco delle infermità che comportano un giudizio di non idoneità al servizio militare. Un tempo la causa dell’esonero era integralmente trascritta sul foglio di congedo, e ne veniva data anche comunicazione ai carabinieri, con notevole danno per il soggetto. Per tale motivo molti giovani preferivano prestare il servizio di leva pur di tenere nascosta la propria condizione. Al fine di ovviare a questi inconvenienti la nuova normativa prevede che il foglio di congedo sia redatto in modo tale da non far riferimento alla causa di non idoneità al servizio militare. Ciò non impedisce al datore di lavoro di richiedere, tramite il soggetto stesso, il motivo del congedo, o addirittura il controllo dell’idoneità fisica del candidato. LA PATENTE DI GUIDA. - L’ordinamento attuale prevede che i soggetti epilettici che non abbiano più presentato crisi da almeno 2 anni (indipendentemente dal fatto che assumano o meno AED) possano conseguire la patente A o B. L’assenza di crisi dovrà essere certificata sia dal medico di fiducia, che da un sanitario operante presso una struttura pubblica. Analoga certificazione viene richiesta per la conferma della patente, che dovrà essere rinnovata ogni 2 anni. In ambedue i casi le certificazioni dovranno essere non anteriori a 30 giorni rispetto al momento in cui la pratica sarà valutata dalla commissione medica provinciale. In ogni caso non si può sottacere che il medico certifica nulla più di quanto gli viene riferito dal paziente o dai suoi famigliari, con tutte le riserve che ciò comporta circa l’affidabilità della dichiarazione. LO SPORT. - Un tempo le attività sportive venivano controindicate a causa del presunto effetto scatenante dell’alcalosi, peraltro compensata dalla produzione di acido lattico, possibilmente indotta dall’iperpnea. Oggi si preferisce decidere caso per caso, tenendo conto della tipologia delle crisi, della loro frequenza e del tipo di sport; e lasciando, in ogni caso, una certa discrezionalità al medico sportivo. Ne consegue che le decisioni assunte dalle diverse commissioni mediche del CONI sono tutt’altro che uniformi. Resta fermo comunque che il soggetto ha facoltà di ricorrere (entro 30 giorni) contro un eventuale giudizio di non idoneità, presso la Commissione Regionale. Per certe attività sportive (come il pugilato, l’automobilismo, il paracadutismo, i tuffi e alcune specialità alpi-
Le epilessie e le crisi epilettiche occasionale 1201 ne) è previsto che anche la semplice presenza di alterazioni EEG possa comportare un giudizio di non idoneità alla pratica agonistica, nonostante l’assenza di manifestazioni cliniche. LE NORME ASSISTENZIALI. - Nel 1966 l’epilessia è stata inserita fra le malattie sociali, donde l’istituzione di appositi "Centri per la diagnosi e la cura dell’epilessia" presso le strutture ospedaliere. Qualora la malattia comporti una limitazione permanente delle capacità lavorative, al soggetto epilettico può essere riconosciuta l’invalidità civile con conseguente diritto - a seconda della gravità del danno - alla pensione di invalidità (la cui corresponsione dipende anche dall’entità del reddito personale annuo) e, qualora il grado di invalidità raggiunga il 100%, anche all’indennità di accompagnamento, sempre che sussistano determinate condizioni. Dal 1989, infine, i soggetti affetti da epilessia sono esonerati dal pagamento del ticket sugli AED e sulle prestazioni diagnostiche correlate, purchè venga esibito un apposito certificato che dovrà essere registrato presso la USL di appartenenza. LE NORME ASSICURATIVE. - Nel nuovo statuto della Compagnia Nazionale Assicurazioni l’elenco delle condizioni “non assicurabili” non comprende più il termine “epilessia”, che ha lasciato il posto a una etichetta più ambigua, quale “sindrome organica cerebrale”, che apparentemente dovrebbe escludere le epilessie idiopatiche. Resta fermo, tuttavia, che sia in Italia come nel resto nel mondo, un paziente affetto da epilessia incontra sempre notevoli difficoltà a stipulare una polizza assicurativa per infortuni sulla vita o per responsabilità civile, se non a costo di premi molto elevati. LA DONAZIONE DI SANGUE. - Nel nostro Paese i soggetti epilettici non sono autorizzati a donare il sangue per due discutibili motivi: (a) la presenza di AED nel sangue, senza tener conto del fatto che, abitualmente, i pool di sangue per trasfusione provengono da vari donatori (di cui al massimo, solo uno potrebbe essere un epilettico in trattamento) per cui è prevedibile che le concentrazioni dei farmaci eventualmente presenti sarebbero comunque irrilevanti; (b) la possibilità che si verifichi una crisi al momento della donazione: in realtà gli episodi di perdita di coscienza talora osservabili, in ogni caso con una frequenza non superiore a quella registrata nei soggetti normali, non sono altro che banali crisi sincopali. Per ridurre al minimo la possibilità, peraltro remota, che il momento del prelievo coincida casualmente con l’insorgenza di una crisi, sarebbe opportuno comunque preferire i soggetti che non presentano crisi da almeno due anni, lo stesso periodo di tempo che si richiede per l’autorizzazione al conseguimento della patente o al suo rinnovo.
L’ORDINAZIONE SACERDOTALE. - Fino al 1993 il Diritto Canonico escludeva le persone affette da epilessia dal sacerdozio. L’attuale legislazione preclude il sacerdozio solo a coloro che sono affetti da "qualche forma di pazzia o da altra infermità psichica" mentre, a differenza della normativa precedente, non menziona più "coloro che sono o sono stati epilettici".
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Le sincopi 1207
28. Le sincopi A. Primavera, M. Brignole
Con il termine sincope si indicano episodi accessuali di perdita di coscienza, generalmente con caduta a terra, di breve durata, in rapporto ad una improvvisa e globale riduzione del metabolismo cerebrale, nella maggior parte dei casi da ipoperfusione. Gli episodi sincopali (synkoptein= spezzare, interrompere) rappresentano la più frequente causa di perdita di coscienza di breve durata. Sono generalmente dovuti ad una transitoria e critica riduzione del flusso ematico cerebrale. Rappresentano una importante causa di ricovero ospedaliero (1-6%) e di circa il 3% delle visite mediche effettuate nei dipartimenti di emergenza (Day et al., 1982, Martin et al., 1997, Crane, 2002). Dato che raramente tali pazienti vengono esaminati durante la sincope, un’attenta valutazione clinica, un’accurata anamnesi e se possibile una descrizione dell’episodio da parte di un testimone, risultano generalmente più utili di ogni altro approccio per quanto riguarda la diagnosi
differenziale con altri episodi di perdita di coscienza di breve durata Negli ultimi 20 anni sono stati fatti progressi nella valutazione e nel trattamento delle sincopi: 1) è stata valorizzata l’importanza dell’approccio clinico; 2) si è messo in evidenza che un sottogruppo di pazienti presenta una maggiore mortalità (sincope cardiogena); 3) è stato enfatizzato il ruolo del tilt test nelle sincopi vaso-vagali; 4) è stato osservato che l’origine, specie negli anziani, è spesso multifattoriale, in rapporto a patologie cardiovascolari e a cause iatrogene; 5) è stato comunque dimostrato che spesso l’eziologia della sincope non è identificabile; 6) sono state proposte linee guida nella diagnostica e nel trattamento. Fisiopatologia (Tab. 28.1) Il quadro clinico dell’accesso sincopale è in rapporto ad un unico meccanismo patogenetico: l’anossia (o ipossia) cerebrale, globale e transitoria. Nella grande maggio-
Tabella 28.1 - Fisiopatologia e clinica delle sincopi Sincopi ischemiche
Sincopi metaboliche
Fisiopatologia
Modificazione quantitativa del sangue circolante e riduzione del flusso ematico cerebrale
Modificazioni qualitative del sangue circolante e ridotta disponibilità energetica del tessuto cerebrale
Cause
Ipovolemia acuta, esaltazione dei riflessi vaso e cardio depressori, difetto dei riflessi vaso-regolatori clino ed ortostatici, aumento della pressione intracranica, turbe del ritmo cardiaco, cardiopatie.
Ipossiemia e ipoglicemia
Sintomatologia
Perdita di coscienza completa ed improvvisa con incostante fenomenologia presincopale; possibile presenza di movimenti involontari (“sincopi convulsive”); recupero rapido e completo.
Alterazione dello stato di coscienza ad inizio graduale ed a decorso protratto.
1208 Malattie del sistema nervoso ranza dei casi l’episodio sincopale è determinato da una riduzione quantitativa, generalmente acuta, del flusso ematico cerebrale al di sotto dei valori critici per un «metabolismo di funzione» che è calcolato intorno ai 30 ml/ 100 g/min; si parla in questo caso di sincopi “ischemiche”. In un soggetto sano, in ortostatismo, i valori del flusso cerebrale scendono ai valori critici per asistolie superiori ai 4-7 secondi o per caduta della pressione arteriosa sistemica massima sotto a 70 mmHg. Tuttavia, cadute pressorie assai meno rilevanti possono diventare critiche, specie nei soggetti anziani, in particolari condizioni generali (anemia, ipoglicemia, ridotta saturazione ossiemoglobinica) o in situazioni locali di difetto di canalizzazione delle grosse arterie del collo (come nella sindrome dell’arco aortico) o del circolo di Willis. La posizione clinostatica per evidenti ragioni gravitazionali consente, senza conseguenze, anche asistolie di 8-12 sec. e cadute pressorie sotto ai 50 mmHg. Le sincopi, generalmente, sono più frequenti in ortostatismo ed ogni episodio di perdita di coscienza che si verifica in posizione sdraiata deve far sospettare una causa cardiogena o un disturbo neurologico. Una diffusa ed eccessiva vasodilatazione periferica gioca un ruolo cruciale nel calo della pressione arteriosa ed è da considerare una delle principali cause di perdita di coscienza nelle cosiddette sincopi riflesse. Diversi possono essere i meccanismi alla base dell’ipoperfusione cerebrale. La classificazione delle sincopi su base fisiopatologica comprende: 1) sincopi “rilesse neuromediate” (su base riflessa si verifica la comparsa di vasodilatazione e bradicardia, che, sebbene in modo differente nei diversi casi, contribuiscono all’ipotensione sistemica ed all’ipoperfusione cerebrale) 2) Sincopi cardiogene su base aritmica (nelle quali si verifica una riduzione della gittata cardiaca, a prescindere dalle richieste del circolo periferico) 3) Sincopi cardiogene su base strutturale (si verificano quando la richiesta circolatoria supera la capacità cardiaca di aumentare la gittata) 4) Sincopi “ortostatiche” (quando a causa di una disautonomia sono alterati i meccanismi vasocostrittori, con conseguente ipotensione ortostatica. L’ipovolemia è un altro importante fattore causale dell’ipotensione ortostatica). 5) Sincopi da furto della succlavia. Da ricordare tuttavia che nel singolo soggetto più di un fattore può contribuire alla comparsa della sintomatologia sincopale. Ad esempio nelle sincopi cardiogene associate a bradi-tachiaritmia è spesso presente anche una componente riflessa neuromediata. Gli episodi sincopali devono essere differenziati da episodi di altra natura, nei quali vi può essere un’alterazione o perdita di coscienza (sindrome da iperventi-
lazione, ipoglicemia, epilessia) e da episodi accessuali (cataplessia, “drop attack”, crisi psicogene) in cui la perdita di coscienza è solo apparente. Da segnalare che queste condizioni non sono legate ad una riduzione globale del flusso ematico cerebrale. In una ridotta percentuale di casi, inoltre, l’anossia si realizza per modificazioni qualitative del sangue (per es. ridotta saturazione emoglobinica, ipoglicemia), che determinano una minore disponibilità energetica del tessuto cerebrale; più raramente ancora può essere in causa una vasocostrizione distrettuale da ipocapnia o alcalosi respiratoria per iperventilazione. Si parla in questi casi di sincopi “metaboliche” benché raramente in tali evenienze si arriva alla perdita di coscienza completa e, comunque, sempre in modo graduale, progressivo e protratto nel tempo.
1) SINCOPI RIFLESSE (VASO-VAGALI O NEUROMEDIATE) (TAB. 28.2) Rappresentano la forma più comune di episodi di perdita di coscienza di breve durata. Interessano prevalentemente soggetti giovani e sono precedute da malessere, pallore ed annebbiamento visivo, caratteristici segni della fase presincopale, che è in rapporto con un’intensa attività alfa e beta adrenergica. Il termine di sincope vasovagale è stato introdotto da Lewis (1932), per indicare che sia la bradicardia, su base vagale, che la perdita del tono vascolare periferico, sono alla base di tali disturbi: sebbene con la somministrazione di atropina si possa abolire la bradicardia, può persistere l’ipotensione arteriosa da vasodilatazione periferica. Barcroft et al. (1944) descrivevano, studiando la gittata cardiaca e il flusso del sangue a livello muscolare, durante i prelievi venosi, le modificazioni fisiologiche, ritenute tipiche delle sincopi riflesse: iniziale graduale riduzione della gittata cardiaca e dei valori pressori, nonostante un incremento delle resistenze periferiche e della frequenza cardiaca, fino a un punto critico, raggiunto il quale la pressione arteriosa non è più valutabile (per vasodilatazione e marcata bradicardia) e si verifica la perdita di coscienza. I muscoli, più che gli organi interni risultano la sede dove si ha la maggiore vasodilatazione, con silenzio elettrico delle fibre vasocostritrici, precedentemente attive (Wallin, 1981). Risultati analoghi sono stati ottenuti col tavolo del Tilt test, nei soggetti predisposti ad episodi sincopali ed è risultato evidente che il meccanismo riflesso era lo stesso nelle crisi vaso-vagali provocate dalla stazione eretta, dalle emorragie, dall’anossia e da fattori psicogeni (ansia e paura ). Recenti osservazione ecocardiografiche e col Tilt test hanno dimostrato nei soggetti sincopali, una marcata riduzione dei volumi ventricolari telesistolico e telediastolico.
Le sincopi 1209 Tabella 28.2 - Classificazione delle sincopi.
Sincopi riflesse: Vaso-vagali Seno carotideo Sincopi situazionali: in rapporto ad emorragie acute, tosse, singhiozzo, eccessiva stimolazione gastrointestinale (deglutizione, defecazione, dolori viscerali), post-minzionale, post-esercizio fisico. Nevralgie trigeminali e glossofaringee Sincopi ortostatiche: Da disautonomia: Sindromi da disautonomia primaria (pura, in corso di atrofia multisistemica, morbo di Parkinson Sindromi da disautonomia secondaria (ad esempio in corso di neuropatia diabetica, alcolica ed amiloidea) Su base iatrogena (farmaci) Da ipovolemia: emorragia, diarrea, morbo di Addison, feocromocitoma Sincopi cardiogene da aritmia Malattia del nodo del seno ( comprendendo la sindrome da bradi-tachiaritmia) Disfunzioni della conduzione atrio-ventricolare Tachicardie parossistiche sopra ventricolari e ventricolari Sindrome del QT lungo Malfunzionamento del pace-maker Sincopi cardiogene da alterazioni strutturali Vizi valvolari Infarto ed ischemia miocardica Cardiomiopatia ostruttiva Mixoma atriale Dissezione acuta dell’aorta Pericardite e tamponamento pericardico Embolia polmonare ed ipertensione polmonare Sincopi cerebrovascolari Furto della succlavia
attraverso il nervo glossofaringeo, raggiungendo i nuclei troncali. Il cuore stesso è dotato di meccanorecettori, che sono stati identificati nei ventricoli, negli atri e nell’arteria polmonare (fibre C cardiache ) e che inviano segnali afferenti al nucleo dorsale del vago. Vi sono inoltre vie afferenti connesse a circuiti emozionali (giro del cingolo e sistema limbico) e le vie specifiche della sensibilità somatica o viscerale, in particolare dolorifica. Le vie efferenti sono costituite dalle fibre vagali al nodo del seno con funzione cardioinibitoria e dalle vie multisinaptiche reticolo-spinali alle strutture ortosimpatiche della colonna intermedio-laterale del midollo, responsabili del tono vascolare periferico. Le sincopi riflesse sono determinate dalla stimolazione delle strutture vaso-depressive e cardio-inibitorie del tronco encefalico: l’aumento del tono parasimpatico determina bradicardia, mentre la vasodilatazione è in rapporto alle vie reticolo-spinali, inibitorie dell’attività simpatica della colonna intermedia laterale. Sebbene l’attivazione dei meccano recettori cardiaci, attivati dalle violente contrazioni del ventricolo sinistro, non completamente pieno per un ridotto ritorno venoso, rappresenti lo stimolo inibitore più importante sui centri vaso e cardioregolatori del tronco-encefalico, la complessità della fisiopatologia di tali disturbi è dimostrata dal fatto che episodi vaso-vagali sono stati riportati in soggetti già sottoposti a trapianto cardiaco, durante crisi epilettiche del lobo frontale e che la stimolazione del giro del cingolo e del sistema limbico può determinare analoghe modificazioni cardiocircolatorie. Studi sulla risposta emodinamica e neuroendocrina all’ipovolemia acuta hanno dimostrato l’esistenza di un contributo delle strutture centrali nella genesi della sincope riflessa, mediata dagli oppioidi endogeni e dalla serotonina. Studi col doppler transcranico hanno evidenziato, durante gli episodi sincopali indotti col tilt test, una vasocostrizione paradossa a livello cerebrale, invece della prevista vasodilatazione. Tale fenomeno è stato tuttavia messo in rapporto con l’ipocapnia indotta dall’iperventilazione che usualmente presentano i pazienti con sincopi vasovagali, più che con una alterazione dell’autoregolazione.
2) SINCOPI CARDIOGENE (Tab. 28.2) La frequenza cardiaca e il tono vascolare periferico (da cui in gran parte dipendono portata cardiaca e pressione sistemica) sono controllati da attività riflesse complesse. I centri di tali riflessi sono situati nella formazione reticolare bulbo-pontina in contiguità con i nuclei motori del IX-X nervi cranici. Le afferenze sono trasmesse dai barorecettori dell’arco aortico, attraverso il nervo vago, e del seno carotideo,
Le cardiopatie rappresentano la causa più importante, dal punto di vista prognostico, di episodi sincopali . Si possono osservare per: a) Turbe del ritmo cardiaco: disfunzione del nodo del seno (compresa la sindrome bradi-tachicardica), blocco atrioventricolare (sindrome di Morgagni-Adams-Stokes), tachicardia parossistica sopraventricolare e ventricolare, flutter, fibrillazione atriale. Nei giovani una tachicardia,
1210 Malattie del sistema nervoso con torsione di punta, può complicare una sindrome del QT lungo che può essere sia su base genetica che farmacologica. La perdita di coscienza nelle sincopi su base aritmica deve essere sempre sospettata quando le sincopi si verificano in posizione sdraiata ed è generalmente improvvisa, ponendosi problemi di diagnosi differenziale con le crisi epilettiche. Spesso inoltre la registrazione ECG può essere praticata solo dopo la risoluzione dell’episodio: il riscontro di un’aritmia può talora essere diagnostico, ma nella maggior parte dei casi non spiega con sicurezza la natura cardiogena della perdita di coscienza (Tab. 28.3). È stato poi dimostrato che in pazienti con aritmie potenzialmente sincopali, come la fibrillazione atriale parossistica e la tachicardia parossistica sopraventricolare, il meccanismo della sincope può essere riflesso. Anche nei portatori di pacemaker gli episodi sincopali, solitamente messi in rapporto con un mal funzionamento dell’apparecchio, sono frequentemente su base riflessa e nel 30% circa dei casi la causa non è identificabile. b) Cardiopatie e malattie cardio-polmonari: turbe valvolari endocardiache, tali da costituire un ostacolo al deflusso sistolico e al riempimento ventricolare (stenosi aortica, stenosi polmonare, embolia polmonare, tetralogia di Fallot, insufficienza ventricolare sinistra acuta, generalmente da insufficienza coronarica acuta, voluminose vegetazioni polipoidi valvolari, trombi endocavitari e mixoma atriale) Anche il tamponamento pericardico, può facilitare la comparsa di episodi sincopali. Nei giovani episodi sincopali possono essere in rapporto anche ad una cardiomiopatia ipertrofica e a dissezione aortica secondaria a sindrome di Marfan. Nei casi di vizi valvolari, di malformazioni e di coronaropatie, raramente l’episodio sincopale si determina spontaneamente, ma richiede l’intervento facilitante dello sforzo fisico (sincopi da sforzo) che, aumentando le richieste periferiche, sottrae sangue al circolo encefalico. Nel caso di trombi o vegetazioni polipoidi ostruenti gli
osti valvolari, l’elemento scatenante più spesso in gioco è rappresentato da cambiamenti di posizione del soggetto che possono favorire l’effetto a «valvola» dei trombi.
3) SINCOPI ORTOSTATICHE Il passaggio dal clino all’ortostatismo, in caso di mancato aggiustamento cardio-vascolare posturale, non è seguito dai fenomeni di adattamento emodinamico (vasocostrizione, tachicardia e liberazione di catecolamine) per cui si verifica ipotensione arteriosa, con conseguente acuta ipoperfusione cerebrale e perdita di coscienza. In questi episodi sincopali è caratteristica l’assenza della fenomenologia presincopale da attivazione simpatica adrenergica, onde la definizione di forme «asimpaticotoniche» definite anche “sincopi a polso fisso” (Tab. 28.2). Una modesta e fugace ipotensione sistemica nel passaggio dal clino all’ortostatismo è fisiologica: la normale risposta all’assunzione della stazione eretta consiste in una riduzione della pressione arteriosa sistolica di 10 mmHg, unitamente ad un lieve incremento della pressione diastolica e della frequenza cardiaca (10-20 bpm). Le sindromi da ipotensione ortostatica su base neurogena possono essere dovute a disautonomie primarie (forme croniche: disautonomia pura e atrofia multisistemica, con le sue varianti extrapiramidali e cerebellari, v. pag. 1085; forma acuta: la neuropatia panautonomica acuta di Low e McLeod, 1993) e secondarie. Le disautonomie secondarie possono essere in rapporto a patologie encefaliche (tumori in fossa cranica posteriore, siringobulbia), del midollo spinale (mielite trasversa, siringomielia, neoplasie) e del sistema nervoso periferico (Sindrome di Guillain-Barrè, tabe dorsale, diabete, amiloidosi, porfiria). L’ipotensione ortostatica, specie negli anziani, può essere su base multifattoriale: disautonomica, ipovolemica (disidratazione, emorragie interne), farmacologica
Tabella 28. 3 - Criteri “diagnostici” o “suggestivi” di sincope cardiogena. Criteri diagnostici
Criteri suggestivi
Presenza all’ECG di.: Bradicardia con fc< 30 bm Pause sinusali > 3 sec BAV II° Motibtz II o BAV di III ° Tachicardia con fc> 180 bpm e/o ipotensione arteriosa Tachicardia ventricolare sostenuta e/o torsione di punta
Palpitazioni presincopali Presenza all’ECG di: Bradicardia con FC>30 bpm Blocco seno-atriale isolato BAV I° o II°, tipo Mobitz I Ritardo della conduzione ventricolare Durata del QRS >0.12 sec BBd con sopraslivellamento ST in V1-V3 Intervallo QT allungato
Le sincopi 1211 (antiipertensivi, barbiturici, antidepressivi triciclici, fenotiazine, antistaminici, betabloccanti, levodopa). Si può inoltre manifestare in corso di insufficienza renale cronica, patologia tumorale e A.I.D.S.
4) SINCOPI DA
FURTO DELLA SUCLAVIA
Nell’insufficienza vertebro-basilare dovuta al furto della succlavia l’attività fisica di un arto superiore può precipitare la sintomatologia neurologica (annebbiamento visivo, parestesie, cefalea e sincope). Il “furto della succlavia” si verifica in pazienti con occlusione o stenosi dell’arteria succlavia, prossimalmente all’origine della vertebrale, ed è dovuto all’inversione del flusso ematico dal sistema vertebro-basilare a vantaggio della succlavia. ( v. pag. 000). Del tutto eccezionale è la comparsa di brevi episodi di perdita di coscienza di tipo sincopale, in assenza di segni di sofferenza troncoencefalica, in pazienti con grave stenosi o occlusione carotidea bilaterale. Ovviamente deve essere esclusa in questi casi la presenza di alterazioni EEG parossistiche, deponenti per un’origine epilettica del disturbo (Yanagihara et al., 1989). Lo studio Doppler TSA dovrebbe essere intrapreso soltanto in casi selezionati.
Epidemiologia La frequenza degli episodi sincopali e l’associata mortalità variano in rapporto ad età, sesso e fattore causale. Nello studio di Framingham è stato riportato che il 3% della popolazione maschile ed il 3,5% di quella femminile nel corso della vita presenta almeno un episodio sincopale con una più elevata frequenza nei soggetti anziani. Nello stesso studio l’incidenza annuale nei soggetti con età superiore ai 75 anni è pari al 6% e la prevalenza nella stessa fascia d’età è del 5.6% rispetto allo 0.7% nei soggetti di età compresa tra i 35 ed i 44 anni. Sincopi ed episodi presincopali sono riportati rispettivamente in circa il 5 e il 28% delle gravidanze (Gibson et al., 2001). Una maggiore incidenza è associata con l’emicrania, la scarsa assunzione di sali minerali ed alti livelli d’ansia. Del resto i pazienti con disturbi psichiatrici (attacchi di panico e depressione) presentano più frequentemente sincopi vaso-vagali su base emotiva (Linzer et al., 1999). I soggetti anziani sono
quelli, che oltre ad avere una maggiore probabilità di presentare episodi sincopali, riportano più frequentemente sequele traumatiche, e devono ricorrere alla valutazione medica ed al ricovero ospedaliero. Nella maggior parte dei casi l’episodio sincopale rimane un fenomeno isolato, ma nei pazienti con follow-up, nel 35% dei casi può verificarsi una nuova sincope nei primi tre anni. Alcuni studi degli anni ’80 hanno dimostrato che la mortalità ad un anno nei pazienti affetti da sincope cardiogena è significativamente più alta (1833%) che nei pazienti con sincopi riflesse o di natura non determinata. A 5 anni i pazienti con sincope cardiogena presentano un tasso di mortalità del 50.5%, rispetto al 30% di quelli con sincope non cardiogena ed al 24.1% di quelli con sincope di natura non determinata; inoltre l’incidenza di morte improvvisa con sincope cardiogena è del 33.1%, rispetto al 4.9% di quelli con sincope non cardiogena ed all’ 8.5% di quelli con sincope di natura non determinata. Come dimostrato, nei pazienti con patologia cardiaca il più importante fattore prognostico negativo è rappresentato dalla malattia di base, a prescindere dagli episodi sincopali. Una diagnosi definitiva riguardo alla natura degli episodi sincopali non è sempre possibile variando dal 50-60% all’83% dei casi, a seconda dei diversi studi, in rapporto alla popolazione esaminata ed, in parte, alle indagini praticate. La natura degli episodi sincopali valutata in pazienti osservati presso i dipartimenti di emergenza risulta più frequentemente di tipo riflesso (3035%). Sincopi cardiogene così come episodi da ipotensione ortostatica sono diagnosticate in circa il 20 % dei casi. L’importanza di identificare una eventuale causa cardiaca dell’episodio sincopale deriva dal fatto che molte aritmie e patologie cardiache sono oggi trattabili.
Sintomatologia La modalità di comparsa, eventuali fattori scatenanti e la sintomatologia dell’episodio
1212 Malattie del sistema nervoso
sincopale possono orientare sulla natura del disturbo (Tab. 28.4) Nelle sincopi riflesse la perdita di coscienza può essere preceduta da una sintomatologia prodromica, caratterizzata da astenia, sensazione di mancamento e di vuoto epigastrico o di nausea, ronzii auricolari, vertigini, annebbiamento visivo, restringimento del campo visivo, sensazione di mancanza di controllo dei movimenti oculari, sudorazione, sciallorrea. Alcuni sintomi sono espressione del tentativo di compenso al venir meno dei riflessi vegetativi e mancano nelle sincopi ortostatiche asimpaticotoniche. Si possono osservare episodi abortivi (per es., se il soggetto si sdraia tempestivamente), in cui la sintomatologia vegetativa
può restare isolata e in tal caso si parla di “presincope”. In molti casi però il quadro si completa con la perdita di coscienza, che può determinare caduta a terra: il respiro è superficiale, la cute pallida, i muscoli ipotonici, il polso raro, i globi oculari sono deviati in alto e all’esterno. Il recupero della coscienza avviene, in genere, dopo alcuni secondi (6-8 sec.). Residua spesso astenia più o meno marcata, vago senso di nausea e talora il soggetto non ha piena coscienza di quanto è avvenuto. Nel 30% circa dei casi, dopo due-tre secondi dalla perdita di coscienza, compare uno spasmo tonico generalizzato in opistotono (più ra-
Tabella 28.4 - Aspetti clinici suggestivi delle diverse cause di episodi sincopali. Modalità di comparsa
Possibile eziologia
Insorgenza dopo: ! Improvviso rumore, eventi inaspettati, paure ! prolungata stazione eretta in ambienti affollati e caldi ! sforzo ! pasto (in media dopo 30-60 minuti) ! assunzione della stazione eretta ! sensazione di cardiopalmo ! dolore alla gola o alla faccia (nevralgia glossofaringea o trigeminale)
Vaso-vagale Vaso-vagale o disautonomica Vaso-vagale o disautonomica Disautonomica Ortostatica Cardiogena (tachiaritmia) Riflessa
Insorgenza in rapporto con: ! sforzo fisico ! condizione di riposo ! inizio o cambiamento dei trattamenti farmacologici ! rotazione del capo e compressione del seno carotideo ! esercizio fisico di un arto superiore ! minzione, colpi di tosse, deglutizione o defecazione
Cardiogena Cardiogena Iatrogena Riflessa (sindrome del seno carotideo) Furto della succlavia Riflesse (situazionali)
Insorgenza in associazione con: ! nausea e vomito ! vertigine, disartria, diplopia
Vaso-vagale TIA vertebro-basilare
Riscontro di asimmetria della pressione arteriosa e del polso
Furto della succlavia o dissezione aortica
Anamnesi familiare positiva per morte improvvisa Sindrome di Brugada Displasia ventricolare destra Cardiomiopatia ipertrofica
Sindrome del QT lungo
Le sincopi 1213
ramente in emprostotono), spesso seguito da 23 scosse cloniche generalizzate; può esservi anche perdita di urine e, in questi casi, la durata della crisi si protrae per 10-12 secondi. Tale quadro è stato definito in passato sincope “convulsiva”; al fine di evitare confusione con un disturbo epilettico, oggigiorno viene consigliata la definizione di sincope con movimenti involontari o mioclonie (Brignole et al., 2001). Secondo recenti osservazioni (Lempert et al., 1994, 1996) si osservano sempre movimenti involontari a tipo mioclonie focali o multifocali, aritmiche. Talora si associano rotazione del capo e degli occhi verso l’alto o verso un lato e più raramente vocalizzazione, allucinazioni visive elementari e allucinazioni uditive, rendendo difficile la diagnosi differenziale con gli episodi epilettici. Del tutto eccezionalmente, infine, la sintomatologia è dissociata: cadute senza completa perdita di coscienza, perdite di coscienza vere e complete senza caduta. I fenomeni pre-sincopali non sono accompagnati da alcuna modificazione dell’attività elettrica cerebrale; la perdita di coscienza è accompagnata da sequenze di onde lente (3-5 c/s) di voltaggio progressivamente crescente, diffuse a tutto l’ambito encefalico, con prevalenza nelle regioni frontali; in coincidenza temporale con lo spasmo tonico, quando questo si osserva, si registra una notevole depressione dell’attività elettrica (transitorio silenzio elettrico); la comparsa delle clonie muscolari alla fine della fase tonica si associa alla ricomparsa delle onde lente, ma non ad attività EEG parossistiche, e il ricupero della coscienza è accompagnato da una normalizzazione del tracciato, che può tardare qualche secondo. La sequenza degli eventi sincopali esprime la differente suscettibilità delle strutture cerebrali all’ipossia. Secondo Gastaut (1974) nel caso dell’accesso sincopale, la perdita di coscienza e l’attività lenta dell’elettroencefalogramma esprimono la inattivazione funzionale della corteccia e del talamo. Un’ipossia più prolungata o più marcata, determina una sofferenza funzionale
delle strutture ipotalamo-mesencefaliche con una «liberazione» dei centri tonigeni reticolari ponto-bulbari, più resistenti all’anossia. Tali fenomeni sono responsabili nella sincope convulsiva della temporanea e marcata depressione dell’attività elettrica cerebrale (silenzio elettrico) e delle mioclonie massive, che rappresenterebbero ritmici rilasciamenti dell’ipertonia estensoria da decerebrazione funzionale, conseguente all’inattivazione ipotalamo-mesencefalica.
Si sottolinea l’unità patogenetica (ipossia) della sincope con o senza movimenti involontari e la fondamentale differenza con le manifestazioni convulsive di natura epilettica in concomitanza delle quali l’EEG presenta alterazioni elettriche di tipo parossistico. Forme cliniche A fini didattici e pratici, nonostante la classificazione fisiopatologica, appare importante ricordare alcuni dei principali tipi di episodi sincopali distinguendoli in forme primitive (in assenza di patologie associate) e in forme secondarie ad altre patologie. Sincopi in assenza di patologie associate (primitive) – Si presentano primitivamente in soggetti apparentemente sani, rappresentando il disturbo prevalente: si tratta per lo più di sincopi riflesse, nelle quali possono essere presenti sia la componente vasodepressiva, che quella cardioinibitoria o entrambe. Circa il 60% delle sincopi riflesse spontanee documentate con l’ECG ha una componente cardioinibitoria grave, caratterizzata da bradicardia inferiore a 40 bpm o asistolia prolungata. Riconoscono fattori scatenanti e facilitanti numerosi e complessi. Annoverano quadri clinici abbastanza peculiari.
a) Sindrome da ipersensibilità del seno carotideo. Tale quadro clinico può essere considerato paradigmatico delle sincopi vaso-vagali riflesse. La sintomatologia si compendia nella comparsa di tipici accessi sincopali (semplici o “convulsivi”) conseguenti alla stimolazione meccanica della zona reflessogena del seno carotideo. La sollecitazione può essere anche lievissima (classicamente descritti il trauma del colletto troppo stretto o quello del passaggio del rasoio nel radersi sulla zona cutanea corrispondente al seno), ma in realtà sembrano più frequenti le crisi intervenute nei movimenti forzati di rotazione o estensione del capo, in cui il seno carotideo viene compresso dallo stiramento dei tessuti circostanti. Mentre tali episodi sono rari, circa 1% di tutte le sincopi, un’ipersen-
1214 Malattie del sistema nervoso sibilità del seno carotideo è dimostrabile nel 26- 60% dei casi di sincopi di natura non determinata. La sindrome compare in genere dopo i 45 anni. È stato postulato in passato che all’origine dell’ipereccitabilità sinusale vi sarebbe l’irritazione cronica esercitata da placche ateromatose sulle terminazioni nervose dei pressocettori sinusali, ma se la disfunzione sia a livello centrale (nuclei troncoencefalici) o periferico è ancora oggetto di discussione. Gli episodi sincopali possono essere riprodotti e documentati in laboratorio sotto il controllo poligrafico (ECG, P.A.) mediante compressione digitale al collo della zona reflessogena. La risposta viene ritenuta positiva solo in caso di riproduzione della sintomatologia sincopale associata a bradicardia e/o ipotensione. Qualora si induca una significativa cardio-inibizione il test viene ripetuto dopo somministrazione di atropina al fine di valutare l’entità dell’ eventuale componente vaso-depressiva. L’inibizione vagale sembra essere la causa degli episodi sincopali negli atleti con aumentato tono parasimpatico e bradicardia a riposo.
b) Sincopi minzionali La sincope da minzione si manifesta all’inizio o subito dopo lo svuotamento della vescica: rappresenta una delle cosidette forme “situazionali”, generalmente su base autonomica (s. da deglutizione, da accesso di tosse, da defecazione ). È più frequente nei soggetti anziani, di sesso maschile, si verifica generalmente durante i risvegli notturni e può essere ricorrente. Sono coinvolti differenti meccanismi: una componente posturale, con ipotensione ortostatica legata all’assunzione della stazione eretta; un calo dell’attività simpatica in rapporto allo svuotamento della vescica e un’attivazione parasimpatica durante la contrazione della muscolatura vescicale. Episodi sincopali durante la cistoscopia e l’esplorazione rettale sono riportati più frequentemente nei pazienti con anamnesi positiva per sincopi da minzione.
c) Sincope tussiva Descritta già nel 1876 da Charcot è stata definita in passato epilessia laringea, convulsione della tosse o tosse obnubilante e ictus laringeo. Sebbene si verifichi generalmente in soggetti anziani affetti da broncopneumopatia cronica ostruttiva, in soggetti asmatici, nei forti fumatori, raramente si osserva anche in soggetti sani (ad esempio cantanti e suonatori di strumenti a fiato). Le crisi sono scatenate da accessi ripetuti di tosse. L’accesso tussivo, analogamente alla manovra di Valsalva, determina l’aumento della pressione intratoracica, la riduzione del ritorno venoso e quindi della gittata cardiaca con ipoperfusione cerebrale. Studi col doppler transcranico hanno dimostrato una marcata riduzione del flusso a livello della cerebrale media durante la manovra di Valsalva e i
colpi di tosse. I parossismi espiratori inoltre sono associati a significativi rialzi pressori, con stimolazione dei barorecettori dei grandi vasi e secondaria vasodilatazione. Sotto controllo poligrafico è possibile riprodurre la manifestazione accessuale mediante la manovra di Valsalva. Un simile meccanismo può anche determinare crisi sincopali nel corso della defecazione o durante accessi di riso o in concomitanza ad uno sforzo, come nel sollevamento di pesi.
d) Sincopi da nevralgia del glossofaringeo Nei soggetti anziani un violento dolore alla gola o alla radice della lingua può determinare bradicardia e conseguentemente perdita di coscienza. Gli attacchi possono essere sporadici o ricorrenti; la prossimità del nervo glossofaringeo al nervo vago può causare un’importante attivazione vagale. La possibile presenza di una depressione transitoria del tono simpatico può giustificare la ricorrenza di episodi sincopali in soggetti portatori di pacemaker. Sebbene nella maggior parte dei casi si tratti di forme idiopatiche, occorre sempre escludere la presenza di cause organiche (neoplasie dell'angolo pontocerebellare, sclerosi multipla, tumori laringei o nasofaringei e della base cranica). Anche altre nevralgie (ad es. la nevralgia trigeminale), sebbene meno frequentemente, possono determinare episodi sincopali.
e) Sincopi da deglutizione Sebbene nella maggior parte dei casi la sincope sia associata a sintomatologia dolorosa determinata dall’atto deglutitorio, a volte la perdita di coscienza può verificarsi anche in assenza di dolore ed è solitamente in rapporto con turbe della conduzione atrio-ventricolare.
f) Sincopi “da stiramento” La perdita di coscienza preceduta generalmente da disturbi visivi e dell’equlibrio, si verifica durante l’iperestensione del capo e della nuca, prevalentemente in soggetti giovani di sesso maschile, con anamnesi familiare positiva per episodi sincopali. Studi sulla risposta cardiaca all'iperestensione del capo ed alla manovra di Valsalva ed osservazioni al doppler transcranico depongono per una genesi multifattoriale: effetto da manovra di Valsalva e compressione delle arterie vertebrali. L’interessamento dei giovani sarebbe in rapporto alla riduzione della motilità del rachide cervicale che si verifica con l'invecchiamento.
g) Sincopi post-traumatiche Si tratta di crisi vaso-vagali tipiche, ortostatiche o emozionali, che insorgono in circa il 6% dei traumatizzati cranici nei primi sei mesi dopo un trauma cranico, in assenza di segni obbiettivi di lesione cerebrale. Sono più fre-
Le sincopi 1215 quenti nelle ore e nei giorni successivi al trauma; differiscono dall’epilessia post-traumatica per il quadro clinico, per l’insorgenza più precoce, per la normalità dell’elettroencefalogramma intercritico e per la positività dei riflessi vaso-vagali. Tuttavia poiché la traumatologia cranica si svolge prevalentemente in regime assicurativo va tenuta presente la possibilità di simulazione. Nei pugili la perdita di coscienza, talora associata a movimenti involontari, può essere direttamente legata al trauma cranico, ma può anche insorgere su base riflessa in rapporto al dolore, alla rotazione e all’estensione del capo. Il compito del neurologo in questi casi è quello di valutare l’evoluzione del disturbo ed in caso di perdita di coscienza prolungata di programmare una valutazione neuroradiologica urgente.
h) Sincopi da immersione Sono generalmente su base riflessa. L’immersione può infatti determinare in via riflessa una bradicardia fino ad un arresto cardiaco. Da considerare inoltre l’inibizione indotta dalla bassa temperatura sui centri cardio-respiratori e l’occasionale comparsa anche in soggetti sani, di edema polmonare durante l’immersione ed il nuoto, verosimilmente per un‘accentuazione della normale risposta vasocostrittiva (specie in acque molto fredde), in grado di causare uno scompenso cardiaco. I pazienti affetti da sincopi, così come da epilessia, dovrebbero sempre evitare di nuotare da soli. Si segnala che l’assunzione di pasti, specie se ricchi di carboidrati facilita la comparsa, soprattutto negli anziani e nei soggetti con turbe disautonomiche, di un’ipotensione post-prandiale con il nadir tra i 30 ed i 60 minuti dall’inizio del pasto, che a sua volta rappresenta un fattore di rischio. La patogenesi dell’ipotensione post-prandiale sembrerebbe ascriversi a molteplici fattori, fra cui ricordiamo: l’effetto ipotensivo dell’insulina, il sequestro ematico a livello splancnico, la riduzione delle resistenze vascolari periferiche. Sincopi secondarie. Sono descritte sincopi in corso di: a) disturbi del ritmo cardiaco, b) cardiopatie ; c) affezioni respiratorie (embolie polmonari); d) malattie del sistema nervoso centrale o periferico (sindrome da ipertensione endocranica, insufficienza vertebro-basilare e furto della succlavia, siringobulbia, sclerosi laterale amiotrofica, sclerosi a placche, poliomielite anteriore acuta, tumori del tronco enecefalico e del cervelletto, sindromi catatoniche acute, polineuropatie); e) emopatie (anemie ipocromiche od ipercromiche, primitive o sintomatiche); f) endocrinopatie (m. di Addison, panipopituitarismo). Nel 5% dei casi gli episodi sincopali possono essere in rapporto, invece che ad una ridotta perfusione cerebrale, ad alterazioni metaboliche (ad esempio crisi ipoglicemiche). Vengono riportate solo alcune forme secondarie rimandando per le altre ai trattati di medicina interna e di cardiologia.
Sincopi cardiogene. – Fra le forme su base aritmica vanno ricordate soprattutto la sindrome di Morgagni-Adams-Stokes, la tachicardia parossistica sopra-ventricolare e ventricolare, le disfunzioni del nodo del seno, la sindrome del Q-T lungo, il malfunzionamento del pacemaker. Nei disturbi della conduzione atrio-ventricolare le sincopi sono secondarie ad un blocco A-V completo con frequenze ventricolari basse (< 30/min), che può comparire in forma stabile e definitiva (salvo interventi terapeutici) o in modo transitorio all’instaurarsi di una fibrillazione atriale o al passaggio da questa ad un ritmo sinusale. Sono tipiche dell’età avanzata. Nella tachicardia parossistica sopraventricolare e ventricolare la comparsa di episodi sincopali è in rapporto alla frequenza cardiaca, alla volemia, alla postura all’inizio dell’aritmia, a concomitanti patologie cardiache ed all’integrità dei riflessi vascolari compensatori. Le disfunzioni del nodo del seno (inclusa la “sick sinus syndrome”) comportano la comparsa di bradi/tachiaritmie persistenti o transitorie che si associano a sincopi, capogiri e cardiopalmo. Nella maggior parte dei casi l’episodio sincopale si associa a bradiaritmia. La sindrome del Q-T lungo (Jervell e Lange-Nielsen, 1957) è di osservazione più rara: è caratterizzata da episodi sincopali conseguenti a tachicardie ventricolari polimorfe secondarie a disfunzioni di ripolarizzazione ventricolare che si manifesta appunto con un allungamento dell’intervallo Q-T. Può essere anche secondaria a turbe elettrolitiche, ischemia miocardica e farmaci. La forma su base genetica, sindrome di Brugada, è stata descritta in un gruppo di pazienti a rischio di episodi di fibrillazione ventricolare “idiopatica”, con un pattern ECG caratterizzato da un blocco di branca destra ed un sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni precordiali. Tale sindrome interessa prevalentemente la popolazione maschile, può comparire a riposo e durante il sonno ed è stata correlata ad un’alterazione del canale del sodio. La sua importanza deriva dal fatto che rappresenta un fattore di rischio di morte improvvisa. Nei soggetti anziani le sincopi cardiogene sono spesso associate a patologie cardiache e polmonari. Fra queste ultime vanno ricordate l’infarto del miocardio, l’embolia polmonare ed il tamponamento pericardico. La causa della sincope è spesso legata sia ad una componente emodinamica che ad una componente riflessa. Da ricordare che circa il 13% dei pazienti colpiti da embolia polmonare, presenta all’esordio della sintomatologia un episodio sincopale. Nei casi di vizi valvolari e di malformazioni l’episodio sincopale compare solitamente in rapporto ad uno sforzo fisico. Sincopi ortostatiche. - La principale caratteristica, a prescindere dal fattore eziologico, è l’alterata regolazione
1216 Malattie del sistema nervoso cardiovascolare con conseguente ipotensione nel passaggio dal clino all’ortostatismo. Arbitrariamente l’ipotensione ortostatica si definisce per un calo dei valori della pressione sistolica superiore a 20 mmHg, che si verifica entro 3 minuti dall’assunzione della stazione eretta. Tuttavia, specie negli anziani cadute pressorie anche minori possono diventare sintomatiche. Generalmente la perdita di coscienza si verifica dopo l’assunzione della stazione eretta, specie al mattino, o mentre il paziente cammina: l’episodio può essere preceduto da annebbiamento visivo e capogiri. A differenza che nelle sincopi vasovagali non è presente sudorazione, nausea e bradicardia: fattori facilitanti sono gli ambienti caldi e la prolungata stazione eretta. Le sincopi da ipotensione ortostatica, oltre che su base neurogena (disautonomie primarie e secondarie) possono manifestassi in soggetti allettati per molto tempo, in pazienti ipovolemici sottoposti a trattamento farmacologico (diuretici, antiipertensivi, sedativi). In tali casi è solitamente presente nelle fasi iniziali dell’episodio, una tachicardia compensatoria. In assenza dei prodromi si pone il problema della diagnosi differenziale con i “drop-attack”. L’ipotensione posturale può diventare causa di una ridotta autonomia nella vita quotidiana.
Diagnosi Riconoscere e documentare la natura sincopale di un episodio di perdita di coscienza può essere problema delicato e complesso.
La diagnosi si pone su più livelli (Tab 28.5). In primo luogo si tratta di differenziare la sincope da altri episodi di perdita di coscienza di breve durata e da episodi vertiginosi (crisi epilettiche, insufficienza vertebro-basilare, episodi cataplettici, emicrania della basilare, ipoglicemia, attacchi di panico, crisi da iperventilazione, pseudocrisi su base psicogena) (Tab. 28.6). Solo in caso di natura imprecisata dell’episodio qualora esista il sospetto clinico di epilessia, è consigliato lo studio EEG standard o dinamico, considerato il basso potere diagnostico di tale indagine nei pazienti sincopali. La valutazione neuroradiologica è indicata in presenza di segni neurologici focali o nei casi in cui non è stato possibile porre una sicura diagnosi di esclusione con una crisi epilettica o con episodi su base cerebrovascolare. Data l’importanza dell’anamnesi bisogna segnalare che i pazienti sincopali solo nel 60% dei casi ricordano gli eventi che hanno preceduto la perdita di coscienza: mentre un’amnesia retrograda è piuttosto frequente, una confusione post-critica è solitamente breve, eccezion fatta per i soggetti più anziani. Inoltre nell’anamnesi
Tabella 28.5 - Valutazione clinica della perdita di coscienza di sospetta natura sincopale. Valutazione iniziale
Storia ed esame clinico accurati; ECG; esami bioumorali
Esami utili per un approfondimento nel sospetto diagnostico di:
a) sincope riflessa: massaggio del seno carotideo e tilt test b) sincope cardiogena : ecocardiogramma, test da sforzo, ECG dinamico; in caso di episodi ricorrenti : studio elettrofisiologico endocavitario, test all’ATP, intermittent loop recorder. c) embolia polmonare: esami emocoagulativi, emogasanalisi, scintigrafia polmonare. d) sincope ortostatica: test autonomici, monitoraggio Holter della PA, valutazione neurologica. e) Furto della succlavia o di altre patologie neurologiche: EEG, Ecodoppler TSA, imaging cerebrale
Esami utili nei casi di incerta classificazione:
In caso di alterazioni ECG valutazione cardiologica ed indagini relative. Qualora la valutazione cardiologica risultasse negativa, utile praticare nei pazienti con episodi ricorrenti massaggio del seno carotideo e tilt test e considerare l’opportunità di visita psichiatrica e neurologica.
Le sincopi 1217 Tabella 28.6 - Brevi episodi accessuali non sincopali. a) Disturbi con alterazione dello stato di coscienza Epilessia Intossicazioni Episodi di insufficienza vertebro-basilare Ipoglicemia Ipossiemia Sindrome da iperventilazione b) Disturbi senza alterazione dello stato di coscienza Cataplessia “Drop-attack” Disturbi psicogeni Emicrania vertebro-basilare
devono essere particolarmente valorizzate le caratteristiche e la durata degli episodi, l’età, la presenza di patologie concomitanti (cardiopatia, diabete) e di altri sintomi a carico dell’apparato cardiovascolare o del sistema nervoso, i fenomeni premonitori ed eventuali fattori precipitanti: ad esempio le sincopi riflesse possono essere scatenate dalla minzione, dalla defecazione, da eventi stressanti; le sincopi nei pazienti con vizi valvolari e malformazioni cardiache sono usualmente scatenate da uno sforzo. Sintomi quali la sudorazione, il pallore e la nausea
sono fortemente suggestivi di un episodio sincopale, mentre una perdita di coscienza della durata di qualche minuto, la presenza di scosse tonico-cloniche per 20-30 secondi, così come la morsicatura della lingua ed un respiro stertoroso subito dopo l’episodio, depongono per una crisi epilettica (Tab 28.7). Solo in rari casi la sintomatologia presincopale pone in discussione crisi epilettiche parziali complesse a prevalente sintomatologia vegetativa; oppure la caduta che accompagna quasi invariabilmente la sincope può creare dubbi con quadri di epilessia piccolo male acinetico o mioclonico. Quando gli episodi sincopali, associati a disturbi visivi, vertigini, disartria, si presentano in rapporto all’attività fisica di un arto superiore, e si riscontra una differenza nei valori pressori e del polso fra i due arti superiori, può essere posta la diagnosi di furto della succlavia, che deve essere confermata mediante la flussimetria Doppler, l’angioRM o l’angiografia. Un secondo livello diagnostico richiede la precisazione sul piano eziopatogenetico. Nella maggior parte dei casi la diagnosi emerge dai dati dell’anamnesi, che deve utilizzare le informazioni fornite dal soggetto, ma soprattutto, se possibile, da chi era presente all’evento.
Tabella 28.7 - Diagnosi differenziale degli episodi accessuali di perdita di coscienza.
In rapporto con la postura Rapporto con eventi emotivi Morsicatura della lingua Sintomi premonitori Aspetto cutaneo Manifestazioni motorie Traumatismi secondari Turbe sfinteriche Confusione post-accessuale Segni neurologici focali Segni cardio-vascolari Anomalie EEG intercritiche Alterazioni bioumorali
Episodi sincopali
Crisi epilettiche
Pseudocrisi
+++ ++ + ++ Pallore + + + + + +++ -
+ ++ + Cianosi +++ ++ ++ ++ + + ++ +++
+++ + Indifferente +++ -
1218 Malattie del sistema nervoso
Oltre all’anamnesi, l’esame obiettivo e l’elettrocardiogramma risultano importanti per classificare il tipo di episodio sincopale; l’ECG è raccomandato in quasi tutti i pazienti nonostante il suo limitato valore nella diagnosi eziologica in quanto può dimostrare la presenza di una cardiopatia, di turbe del ritmo cardiaco e suggerire ulteriori indagini elettrofisiologiche, oltre che l’appropriato trattamento. Gli esami bioumorali, emocromo, ionogramma, glicemia, creatininemia, andrebbero praticati solo quando suggeriti dai dati anamnestici e dall’esame obiettivo. Nel 18-34% dei casi, l’interpretazione diagnostica può restare dubbia e le successive indagini strumentali diventano indispensabili, in particolare, per escludere una patologia cardiaca, data la sua rilevanza prognostica. Il sospetto di sincope riflessa può essere avvalorato mediante il massaggio del seno carotideo ed il tilt test. Il massaggio del seno carotideo non deve essere praticato in presenza di un soffio e nei malati con ictus recente deve essere monitorato l’ECG e la P.A. Il suo valore diagnostico è legato alla riproducibilità della sintomatologia sincopale (specificità del 95% e sensibilità del 50%): un’asistolia di 3 o più secondi ed un calo pressorio di 50mmHg suggerisce un’ipersensibilità del seno carotideo. In caso di marcata cardio-inibizione il test può essere ripetuto dopo somministrazione di atropina (0,02 mg/kg) al fine di evidenziare anche una componente vaso-depressiva. È da ricordare che una bradicardia anche marcata, in assenza di sintomi associati è di frequente riscontro negli anziani e quindi di scarsa rilevanza clinica. Sono riportate del tutto eccezionalmente complicanze neurologiche, usualmente transitorie (Munro et al., 1994). Il Tilt-test consente di svelare la natura vasovagale della sincope anche in assenza di criteri clinici suggestivi. Vi può essere ipotensione, bradicardia od entrambe le condizioni. Il protocollo italiano prevede un ortostatismo passivo a 60° per 20 minuti, seguito dalla somministrazione di nitroglicerina (400 µg spray s.l.) e da un
ulteriore periodo di osservazione in ortostatismo per 15 minuti (sensibilità del 60%; specificità dell’86%), con ottima tollerabilità. Il test deve essere sospeso qualora si ripresenti la sintomatologia sincopale descritta in anamnesi. Una riduzione dei valori pressori durante il passaggio dal clino all’ortostatismo superiore a 20 mmHg potrà orientare verso una diagnosi di sincope su base ortostatica. Le alterazioni autonomiche sono confermate dall’assenza di modificazioni della frequenza cardiaca, nonostante l’ipotensione. Il modo più semplice per valutare clinicamente il tono simpatico è monitorare la frequenza cardiaca dopo una manovra di Valsalva protratta per circa 30 secondi. La normale risposta consiste in un rallentamento della frequenza cardiaca e in un aumento dei valori pressori da 10 a 30 mmHg. L’Holter pressorio può essere utilizzato per diagnosticare disturbi ipotensivi su base iatrogena ed è di particolare importanza nei soggetti anziani con episodi sincopali post-prandiali. Nei soggetti con ipotensione ortostatica è utile una valutazione neurologica per escludere segni di interessamento del SNC o di neuropatia periferica. In caso di sincope di sospetta natura cardiogena oltre all’ECG, se la presenza di una patologia organica non può essere confermata, all’esame obiettivo è consigliabile eseguire un’ecocardiografia e l’ECG da sforzo; in presenza di ripetuti episodi di perdita di coscienza, di natura non determinata, preceduti da cardiopalmo, è indicato l’ECG dinamico secondo Holter. Fondamentale è la valutazione cardiologica nella programmazione di ulteriori indagini: studio elettrofisiologico endocavitario, test all’ATP (Brignole et al., 1997) ed “intermittent loop recorder”. Nel sospetto di episodi di perdita di coscienza ricorrenti su base funzionale (pseudocrisi) oltre ai dati anamnestici appare utile la valutazione psichiatrica. Al Tilt-test questi pazienti possono presentare ripetute “perdite di coscienza su base psicogena”, in assenza di modificazioni ECG, EEG e dei valori pressori.
Le sincopi 1219
Nella maggior parte dei casi con isolati episodi sincopali, in assenza di malattie cardiache, la diagnosi più probabile è, quella di sincope riflessa, che è caratterizzata da una prognosi favorevole. Le indagini e gli eventuali trattamenti possono essere praticati in regime ambulatoriale. In presenza di una patologia cardiaca o di sincopi di natura non determinata il ricovero può essere considerato in rapporto alle indagini strumentali ed alla terapia. Quando la causa è già evidente sin dal primo approccio la decisione del ricovero dipende dalla malattia sottostante (patologia cardiaca strutturale, importanti turbe del ritmo cardiaco, anamnesi familiare positiva per morte improvvisa, grave ipotensione ortostatica). Come già ricordato nel 20-30% dei casi la sincope rimane di natura non determinata, ma qualora si escluda la presenza di una cardiopatia, la prognosi è favorevole. Pertanto nei casi di episodi singoli, non appare ragionevole sottoporre i pazienti a procedure diagnostiche invasive, mentre è utile un controllo prolungato da cui spesso può emergere il fattore causale.
Terapia Il trattamento delle sincopi varia in rapporto al fattore causale e deve essere considerato nel caso di episodi ricorrenti, nei pazienti a rischio di complicanze traumatiche ed, in particolare nei pazienti cardiopatici e con ipotensione ortostatica. Nelle sincopi riflesse il trattamento non è indicato nei soggetti con episodi isolati e sporadici, a meno che non si siano verificate gravi complicanze traumatiche o nel caso di attività lavorative ad alto rischio (ad es. guida di veicoli commerciali). Nel caso di episodi sincopali ricorrenti vi è l’indicazione al trattamento farmacologico o con l’impianto di un pacemaker, previa valutazione dell’importanza delle componenti cardioinibitorie e vasodepressive. In ogni caso, oltre al tentativo di evitare gli eventi sca-
tenanti e all’adozione di manovre in grado di far abortire l’episodio o di ridurne la durata (porre il soggetto in clinostatismo o meglio ancora in Tredelenburg), è sempre opportuno tranquillizzare il paziente sulla natura “benigna” del disturbo ed informarlo sulla possibilità di recidive. Fra i numerosi farmaci usati nel trattamento delle sincopi riflesse ricordiamo: beta-bloccanti (propranololo, atenololo), agenti vasocostrittori (midodrina, efedrina, etilefedrina), disopiramide, teofillina, clonidina, inibitori selettivi del reuptake della serotonina (fluoxetina, sertralina ed, in particolare, paroxetina), vagolitici (alcaloidi della belladonna, atropina e derivati). I beta-bloccanti, impiegati per il loro effetto inotropo negativo, nel tentativo di ridurre l’attivazione dei meccanorecettori cardiaci, bloccano fra l’altro gli effetti delle catecolamine circolanti. Tuttavia recenti studi a lungo termine non hanno confermato la loro utilità ed, in particolare, non sono indicati, facilitando la comparsa di bradicardia, nella sindrome del seno carotideo, nelle altre forme cardioinibitorie su base riflessa e nelle sincopi ortostatiche. I farmaci vasocostrittori possono ridurre la predisposizione alle sincopi, aumentando il ritorno venoso al cuore, per un minore ristagno del sangue a livello venoso. Il posizionamento del pacemaker deve essere riservato a malati con ricorrenti episodi sincopali, generalmente di tipo cardioinibitorio, in caso di mancato beneficio dal trattamento farmacologico. Nelle sincopi ortostatiche il trattamento può migliorare la qualità della vita e comprende: misure di ordine generale (informazioni sui fattori che influenzano i valori pressori, come ad es. gli sforzi e la temperatura ambientale, le modificazioni diurne della P.A., il possibile effetto del cibo e dei farmaci vasoattivi), la dieta (aumentando l’introduzione di sali), l’uso di calze elastiche, il sollevamento della testata del letto durante la notte e la terapia farmacologica. L’uso di steroidi mineraloattivi, in particolare del fluorcortisone, può risultare utile. Buoni risul-
1220 Malattie del sistema nervoso
tati sono riportati con farmaci che aumentano le resistenze periferiche (midodrina, efedrina). Ricordiamo inoltre l’opportunità di ricorrere a centri specializzati nella diagnostica e nel trattamento dei disturbi autonomici. La desmopressina può risultare utile in caso di poliuria notturna; l’octreotide nell’ipotensione post prandiale e l’eritropoietina nei soggetti anemici. L’appropriato trattamento dei soggetti con sincope su base aritmica deve mirare alla prevenzione di ulteriori episodi, al miglioramento della qualità della vita ed alla riduzione del rischio di mortalità. Nei pazienti con sincopi in rapporto a cardiopatie e a malattie cardiopolmonari il trattamento è diretto al miglioramento della patologia di base e alla prevenzione delle sue complicanze, ricordando che spesso sono presenti sia una componente emodinamica che un effetto neuromediato. Riferimenti bibliografici AMMIRATI F., COLIVICCHI F., SANTINI M.: Diagnosing syncope in clinical practice. Implementation of a semplified diagnostic alghorythm in a multicentric prospective trial- The OESIL2 study (Osservatorio epidemiologico della sincope nel Lazio). Eur. Heart J. 21, 935-940, 2000. AMMIRATI F., COLIVICCHI F., SANTINI M. ET AL.: Permanent cardiac pacing vs medical treatment for the prevention of recurrent vaso-vagal syncope. Circulation 104, 52-57, 2001.
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Cefalee e nevralgie del capo e della faccia 1223
29. Cefalee e nevralgie del capo e della faccia G.C. Manzoni, C. Finocchi
Per cefalea si intende un dolore, di qualsiasi genesi, localizzato al capo; nell’uso comune, tuttavia, questo termine non include i dolori di tipo nevralgico, che sono menzionati esplicitamente nel titolo. La cefalea, come altri tipi di dolore, è un sintomo che riconosce varie cause ma a differenza del dolore al di fuori del capo, che è solitamente il segnale di un danno, in atto o potenziale, la cefalea, nella grande maggioranza dei casi, è un disturbo «primitivo», non espressione di possibili rischi per l’individuo. Si tratta di un sintomo così frequente che una cefalea occasionale, insorta per circostanze particolari fisiche o psicologiche, viene considerata alla stregua di una reazione fisiologica a determinate sollecitazioni. In una certa percentuale di casi, tuttavia, la cefalea si manifesta con frequenza relativamente elevata, incidendo in modo importante sulla vita dell’individuo. Nonostante gli studi epidemiologici non siano perfettamente concordi, per differenze metodologiche, si può ritenere che la prevalenza annuale di cefalea non occasionale si aggiri, in Europa, attorno al 50 % della popolazione. Questo dato permette di comprendere come la cefalea rappresenti non solo un fastidioso disturbo per il singolo individuo, ma anche una patologia rilevante per l’intera società, con spese ingenti per la diagnosi e la terapia e con gravi danni economici per le ore di lavoro perdute.
Classificazione Disporre di una adeguata classificazione dei molti tipi di cefalee e nevralgie craniche esisten-
ti è il presupposto fondamentale per una loro adeguata conoscenza. Per ora, le nostre conoscenze sull’eziopatogenesi sono limitate ad ipotesi, e non possiamo affermare se ad una determinata sintomatologia corrisponde una causa specifica. È quindi inevitabile che attualmente una classificazione si debba basare sui sintomi piuttosto che su criteri eziopatogenetici, come sarebbe auspicabile. La classificazione attualmente utilizzata, e da alcuni anni in fase di revisione, è stata elaborata dall’apposito comitato della Società Internazionale per le Cefalee (International Headache Society - IHS). Essendo frutto di anni di lavoro di un comitato composto dai migliori specialisti del settore ha riscosso, sin dall’origine, un vasto consenso tra i ricercatori nel campo delle cefalee ed ha quindi rappresentato, pur non essendo priva di difetti, uno strumento di lavoro prezioso sia in clinica che nella ricerca. Le cefalee sono state suddivise in tredici gruppi principali, ciascun gruppo formato da vari sottogruppi, secondo una gerarchia a quattro livelli. I livelli 1 e 2 sono i più grossolani, con la diagnosi più semplice da porre mentre successivamente aumentano le difficoltà di inquadramento diagnostico. Per brevità e semplicità saranno riportati qui soltanto i principali raggruppamenti dei primi due livelli, menzionando i livelli 3 e 4 solo nei pochi casi ritenuti utili (Tab. 29.1). Prima di addentrarci nei dettagli della classificazione, è necessario premettere alcuni concetti fondamentali riguardanti le cefalee primitive e secondarie. Il primo dato da accertare di fronte ad un sintomo è se possa essere il segnale di un poten-
1224 Malattie del sistema nervoso Tabella 29.1 Classificazione della Società Internazionale per le Cefalee IHS (1988). 1 – Emicrania 1. 1 – Emicrania senza aura 1. 2 – Emicrania con aura 1. 2. 1 – Emicrania con aura tipica 1. 2. 2 – Emicrania con aura prolungata 1. 2. 3 – Emicrania emiplegica familiare 1. 2. 4 – Emicrania basilare 1. 2. 5 – Aura emicranica senza cefalea 1. 2. 6 – Emicrania con aura ad inizio improvviso 1. 3 – Emicrania oftalmoplegica 1. 4 – Emicrania retinica 1. 5 – Sindromi periodiche dell’infanzia associate ad emicrania o suoi eventuali precursori 1. 6 – Complicanze dell’emicrania 1. 6. 1 – Stato emicranico 1. 6. 2 – Infarto emicranico 1. 7 – Disturbi di tipo emicranico che non rientrano nelle categorie precedenti 2 – Cefalea tensiva 2. 1 – Cefalea tensiva episodica 2. 2 – Cefalea tensiva cronica 2. 3 – Cefalea di tipo tensivo che non rientra nelle categorie precedenti 3 – Cefalea a grappolo ed emicrania cronica parossistica 3. 1 – Cefalea a grappolo 3. 1. 1 – Cefalea a grappolo con periodicità non determinata 3. 1. 2 – Cefalea a grappolo episodica 3. 1. 3 – Cefalea a grappolo cronica 3. 2 – Emicrania cronica parossistica 3. 3 – Cefalea con caratteristiche simili alla cefalea a grappolo o alla emicrania cronica parossistica, ma che non soddisfa i criteri per l’inserimento in tali categorie 4 – Cefalee varie non associate a lesioni strutturali 4. 1 – Cefalea idiopatica puntoria 4. 2 – Cefalea da compressione 4. 3 – Cefalea da freddo 4. 3. 1 – Cefalea da applicazione di freddo dall’esterno 4. 3. 2 – Cefalea da ingestione di cibi o bevande freddi 4. 4 – Cefalea benigna da tosse 4. 5 – Cefalea benigna da sforzo 4. 6 – Cefalea associata ad attività sessuale 5 – Cefalea associata a trauma cranico 5. 1 – Cefalea acuta post-traumatica 5. 2 – Cefalea cronica post-traumatica 6 – Cefalea associata a malattie vascolari 6. 1 – Malattia cerebrovascolare ischemica acuta 6. 2 – Ematoma intracranico 6. 3 – Emorragia subaracnoidea 6. 4 – Malformazioni vascolari integre 6. 5 – Arteriti 6. 5. 1 – Arterite a cellule giganti 6. 5. 2 – Altre arteriti sistemiche
(segue)
Cefalee e nevralgie del capo e della faccia 1225 (continua Tabella 29.1) 6. 5. 3 – Arterite intracranica primitiva 6. 6 – Dolore da patologia specifica dell’arteria carotide o vertebrale 6. 6. 1 – Dissezione carotidea o vertebrale 6. 6. 2 – Carotidodinia (idiopatica) 6. 6. 3 – Cefalea post-endoarterectomia 6. 7 – Trombosi venosa 6. 8 – Ipertensione arteriosa 6. 9 – Cefalea associata ad altri disturbi vascolari 7 – Cefalea associata a malattie intracraniche di natura non vascolare 7. 1 – Pressione liquorale elevata 7. 2 – Pressione liquorale ridotta 7. 3 – Processo infettivo intracranico 7. 4 – Sarcoidosi intracranica e altri disturbi infiammatori intracranici non infettivi 7. 5 – Cefalea in relazione ad iniezione intratecale di sostanze estranee 7. 6 – Neoplasie intracraniche 7. 7 – Cefalee associate ad altre malattie intracraniche 8 – Cefalea associata all’assunzione o alla privazione di sostanze 8. 1 – Cefalea indotta da uso o esposizione acuti 8. 1. 1 – Cefalea da nitrati o nitriti 8. 1. 2 – Cefalea da glutamato monosodico 8. 1. 3 – Cefalea da monossido di carbonio 8. 1. 4 – Cefalea da alcool 8. 1. 5 – Cefalea da altre sostanze 8. 2 – Cefalea indotta da uso o esposizione cronici 8. 2. 1 – Cefalea da ergotaminici 8. 2. 2 – Cefalea da abuso di analgesici 8. 2. 3 – Cefalea da altre sostanze 8. 3 – Cefalea da privazione di sostanze dopo loro uso acuto 8. 3. 1 – Cefalea da privazione di alcolici (hangover headache) 8. 3. 2 – Cefalea da privazione di altre sostanze 8. 4 – Cefalea da privazione di sostanze dopo loro uso cronico 8. 4. 1 – Cefalea da privazione di ergotaminici 8. 4. 2 – Cefalea da privazione di caffeina 8. 4. 3 – Cefalea nella sindrome di astinenza da narcotici 8. 4. 4 – Cefalea da privazione di altre sostanze 8. 5 – Cefalea associata ad altre sostanze, ma con meccanismo incerto 9 – Cefalea associata a processi infettivi non cefalici 10 – Cefalea associata a disturbi metabolici 10. 1 – Ipossia 10. 1. 1 – Cefalea da altitudine 10. 1. 2 – Cefalea ipossica 10. 1. 3 – Cefalea da apnea nel sonno 10. 2 – Ipercapnia 10. 3 – Cefalea da combinazione di ipossia e ipercapnia 10. 4 – Ipoglicemia 10. 5 – Dialisi 10. 6 – Cefalea associata ad altri disturbi metabolici 11 – Cefalea associata a malattie del cranio, collo, occhi, orecchie, naso, seni, denti, bocca o altre strutture facciali o craniche
(segue)
1226 Malattie del sistema nervoso (continua Tabella 29.1) 11. 1 – Ossa craniche 11. 2 – Collo 11. 2. 1 – Colonna cervicale 11. 2. 2 – Tendinite retrofaringea 11. 3 – Occhi 11. 3. 1 – Glaucoma acuto 11. 3. 2 – Alterazioni dei mezzi di rifrazione 11. 3. 3 – Eteroforia o eterotropia 11. 4 – Orecchio 11. 5 – Naso e seni 11. 5. 1 – Cefalea da sinusite acuta 11. 5. 2 – Altri disturbi del naso e seni 11. 6 – Denti, mascelle e strutture correlate 11. 7 – Articolazione temporo-mandibolare 12 – Nevralgie craniche, dolore tronculare e dolore da deafferentazione (questo capitolo segue una classificazione non aggiornata con le attuali conoscenze sul dolore neurogeno; tuttavia si è ritenuto opportuno riportarlo per omogeneità con il precedente contesto e per mantenere fede alla convenzione internazionale di seguire la classificazione proposta) 12. 1 –Dolore persistente originato da malattie di nervi cranici o cervicali 12. 1. 1 – Dolore da compressione o distorsione del 2°e 3° paio di radici cervicali 12. 1. 2 – Demielinizzazione di nervi cranici 12. 2. 2. 1 – Neurite ottica 12. 1. 3 – Malattia vascolare di nervi cranici 12. 1. 3. 1 – Neurite diabetica 12. 1. 4 – Infiammazione dei nervi cranici 12. 1. 4. 1 – Herpes zoster 12. 1. 4. 2 – Nevralgia cronica post-erpetica 12. 1. 5 – Sindrome di Tolosa-Hunt 12. 1. 6 – Sindrome collo-lingua 12. 1. 7 – Altre cause di dolore persistente da malattie dei nervi cranici 12. 2 – Nevralgia trigeminale 12. 2. 1 – Nevralgia trigeminale idiopatica 12. 2. 2 – Nevralgia trigeminale sintomatica 12. 3 – Nevralgia del glossofaringeo 12. 3. 1 – Nevralgia idiopatica 12. 3. 2 – Nevralgia sintomatica 12. 4 – Nevralgia del nervo intermedio 12. 5 – Nevralgia del nervo laringeo superiore 12. 6 – Nevralgia del nervo occipitale 12. 7 – Cause centrali per dolore cranico, diverse dalla nevralgia trigeminale 12. 7. 1 – Anestesia dolorosa 12. 7. 2 – Dolore talamico riferito alla faccia 12. 8 – Dolore nevralgico o comunque neurogeno che non rientra nelle categorie precedenti del gruppo 12 13 – Cefalee non classificabili nelle precedenti 12 categorie
ziale pericolo per chi ne è affetto e questo concetto vale anche per le cefalee. Una prima grande suddivisione, quindi, può essere operata tra cefalee «primitive» o «essenziali», che non
riconoscono alcuna causa organica o funzionale dannosa o potenzialmente tale, e cefalee «secondarie», dovute invece ad una causa specifica. Nella classificazione dell’IHS i raggruppa-
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menti 1-4 e 13 riguardano le cefalee primitive, mentre i raggruppamenti 5-12 si riferiscono alle cefalee secondarie. ELEMENTI DI ANATOMIA E FISIOPATOLOGIA DEL DOLORE CRANICO
Esistono basi anatomiche e fisiopatologiche comuni ai vari tipi di cefalea, sia primitiva che secondaria, anche se le eziopatogenesi possono essere diverse. Prima di analizzarle in dettaglio nelle parti dedicate ai singoli tipi di cefalea, è utile esporre alcuni principi basilari riguardanti la percezione dolorifica in generale, quindi riferita a tutto il corpo. I dolori si possono distinguere in due categorie principali: 1) – dolori da cause periferiche, a seguito di stimolazione dei recettori dolorifici o delle loro fibre (ad esempio, il dolore da infiammazione tissutale appartiene a questa categoria, così come anche il dolore da compressione di un tronco nervoso periferico); 2) – dolori da cause centrali, in cui le vie e stazioni del SNC che sono preposte alla trasmissione ed elaborazione degli impulsi dolorifici non funzionano in maniera corretta e trasmettono ai livelli superiori, ove si verifica la percezione del dolore, informazioni errate su ciò che avviene in periferia. Solitamente tali informazioni portano ad interpretare come dolorifici stimoli che normalmente non lo sono, oppure a percepire dolori, in totale assenza di stimoli periferici. Esempi tipici sono il dolore talamico o pseudotalamico, e il dolore dell’arto fantasma. È lecito pensare che anche le cefalee possano rientrare in queste due categorie, pur presentando caratteristiche peculiari che le differenziano dalle altre sindromi dolorose. Consideriamo dapprima quali sono le strutture del capo che hanno un’innervazione tale da provocare, con adeguata stimolazione, un dolore cefalico. Le strutture che rispondono a questi requisiti sono: – la cute, i muscoli e le loro fasce tendinee, l’articolazione temporo-mandibolare, i globi oculari, l’orecchio esterno e medio, il naso, i seni paranasali, la mucosa buccale e del faringe, i denti; – le grosse arterie extra ed intracraniche; – le grosse vene extra ed intra craniche, compresi i seni venosi; – i tronchi sensitivi dei nervi cranici e delle prime tre paia dei nervi spinali; – le porzioni della dura madre vicine ai grossi vasi (quella della fossa anteriore è innervata dalle branche trigeminali I e II, quella della fossa media è innervata dalla II e III branca, mentre quella della fossa posteriore
è innervata sia dal trigemino che dai segmenti cervicali superiori e dal vago); – esiste poi, nell’ambito cranico, la situazione peculiare, che non si riscontra in altre parti del corpo, di strutture ad esclusiva innervazione dolorifica, quali la polpa dentaria e la cornea, per cui stimoli di qualsiasi natura e anche di modesta intensità, portati in tali sedi, sono percepiti soltanto come dolore e possono innescare la comparsa di cefalea attraverso meccanismi di convergenza centrale. Tali meccanismi sono stati documentati recentemente nell’animale, e offrono la spiegazione per svariati dolori cefalici. Fibre dolorifiche di provenienza vascolare, cutanea, mucosa, corneale e dentaria, convergono in notevole grado su neuroni del troncoencefalo e del talamo, per cui la percezione del dolore è riferita non solo alla struttura sede dell’attivazione dei nocicettori, ma anche a tutte le altre strutture funzionalmente collegate, tramite il meccanismo della convergenza degli impulsi nocicettivi. Al contrario, non sono dotati di nocicettori il parenchima cerebrale, le meningi (eccetto alcune parti della dura madre), e la teca cranica. La motilità della parete dei grossi vasi arteriosi del cranio ha un’importanza rilevante nella catena dei fenomeni che provocano e mantengono nel tempo la cefalea. I fattori che regolano la motilità delle arterie craniche possono essere raggruppati in cinque grandi sistemi, non tutti identificabili con strutture anatomiche: sistema simpatico, parasimpatico, sensitivo, endoteliale e serotoninergico. Le fibre simpatiche innervano densamente le arterie craniche e, tramite la liberazione di noradrenalina e neuropeptide Y, provocano vasocostrizione; una loro ipofunzione, come nella cefalea a grappolo, determina vistosi fenomeni di vasodilatazione. Le fibre parasimpatiche, vasodilatatrici, innervano molto scarsamente i vasi cranici, quindi la loro rilevanza funzionale è trascurabile. Alcune sostanze con potente azione vasodilatatrice (la sostanza P, il peptide gene-correlato con la calcitonina, la neurochinina A e la galanina) possono essere liberate dalle terminazioni delle fibre nervose sensitive, che hanno quindi un ruolo ben più complesso di quello di semplici conduttori degli impulsi afferenti. Le terminazioni sensitive trigeminali sono particolarmente ricche di queste sostanze, e la loro funzione vasoregolatrice ha una tale rilevanza funzionale che è stato coniato il termine di «sistema trigemino-vascolare». A questo sistema sono collegati gran parte dei fenomeni vasodilatatori che si verificano nell’ambito cranico e la cui azione, inoltre, si esplica anche aumentando la permeabilità della parete vascolare, con conseguente edema della parete stessa e dei tessuti circostanti, realizzando un processo denominato «infiammazione sterile», o per la sua origine, «infiammazione neurogena».
1228 Malattie del sistema nervoso Anche le cellule endoteliali prendono parte alla regolazione del tono della parete vasale mediante la produzione di ossido nitrico, potente vasodilatatore, e delle endoteline, sostanze ad azione vasocostrittrice, che vengono liberate dalle cellule endoteliali per stimolazioni di tipo chimico o fisico. La serotonina, o 5-idrossitriptamina (5-HT), è una sostanza endogena presente in tutto l’organismo, con azioni complesse e talvolta contrastanti, a seconda dei vari territori. La serotonina con azione sui vasi cranici proviene dalle piastrine ematiche, che la possono liberare in grandi quantità e da fibre nervose che originano da nuclei del troncoencefalo (locus coeruleus e nuclei del rafe); essa ha effetto vasocostrittore, ma rappresenta anche uno degli elementi responsabili del processo di infiammazione sterile della parete vasale, che si verifica all’inizio dell’attacco emicranico.
Emicrania EPIDEMIOLOGIA La classificazione della International Headache Society (IHS), riportata nella tabella 29.1, identifica sette sottotipi di emicrania, di cui l’emicrania senz’aura (la più frequente, in precedenza denominata emicrania comune) e l’emicrania con aura (in precedenza denominata emicrania classica) rappresentano le forme che si incontrano più frequentemente nella pratica clinica. I dati di epidemiologia sono assai variabili. Gli studi condotti su casistiche cliniche sono poco attendibili perché solo il 15-30 % degli emicranici si rivolge ad un medico, meno del 15% viene visitata da un neurologo e solo il 2% circa consulta un Centro Cefalee. Gli studi di popolazione, meno recenti anche se più affidabili, risentono di problemi metodologici determinati dai diversi criteri adottati per porre la diagnosi di emicrania. Con l’introduzione della classificazione della IHS, nel 1988, è stato possibile calcolare con maggiore accuratezza la prevalenza calcolata sull’intera vita, che è compresa tra il 12 e il 25 % nelle donne e tra il 4 e l’8 % negli uomini e sarebbe in progressivo aumento per cause non ancora identificate (Lipton,
1997). Gli studi epidemiologici hanno messo in evidenza una comorbilità tra emicrania, disturbi depressivi e di ansia, ed epilessia, che è ancora oggetto di indagine ed assume comunque importanti implicazioni terapeutiche. L’impatto socio-economico dell’emicrania è estremamente rilevante in termini di spese sanitarie e giornate lavorative perdute (5,5 giorni ogni 100 persone all’anno). L’età di esordio in genere interessa l’età giovanile e adulta. Circa un terzo dei casi si manifesta nella prima decade di vita. Frequentemente insorge nella seconda e nella terza decade mentre è raro che cominci a manifestarsi dopo i 50 anni. Solitamente la frequenza degli attacchi è all’inizio piuttosto ridotta, ma tende ad aumentare con il passare degli anni con ampia variabilità individuale, e curiosamente, con tendenza alla remissione in occasione di gravi malattie organiche, di interventi chirurgici e, in modo abbastanza caratteristico, in corso di gravidanza, anche se, dopo tali eventi, il disturbo si ripresenta spesso anche più insistentemente di prima. Un miglioramento è descritto in molti casi attorno ai 50 anni, e coincide, nel sesso femminile, con la menopausa. Esiste tuttavia un sottogruppo di emicranici che dimostra un progressivo incremento nel corso della vita della frequenza degli attacchi con graduale trasformazione verso una cefalea cronica quotidiana, la cui insorgenza spesso coincide con l’abuso di farmaci analgesici. GENETICA L’importanza dei fattori genetici nella fisiopatologia delle forme più frequenti di emicrania (emicrania con e senz’aura), è supportata da numerosi studi clinici: a seconda delle metodologie utilizzate la percentuale di emicranici con familiari affetti oscilla tra il 50 ed il 90% tanto che alcuni autori hanno proposto di inserire l’anamnesi familiare positiva per l’emicrania come criterio aggiuntivo per la diagnosi. Per le
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forme di emicrania più frequenti le modalità di trasmissione non sono ancora state chiarite. Al contrario è noto che l’emicrania emiplegica familiare (una forma rara descritta a pag. 1233) è una malattia autosomica dominante associata nel 50% delle famiglie a mutazioni del gene CACNA1A, posto sul cromosoma 19p13, che codifica per la subunità 1a dei canali del calcio di tipo P/Q, presenti sulle cellule nervose. Altre famiglie con emicrania emiplegica familiare presentano un linkage genetico con il cromosoma 1q. Altre patologie in cui il difetto genetico è conosciuto, e che includono nell’ambito di uno spettro clinico più complesso anche attacchi di tipo emicranico, sono la CADASIL (Cerebral Autosomal Dominant Arteriopathy with Subcortical Infarcts and Leukoencephalopaty, pag. 1059) e la sindrome MELAS (Mythocondrial Encephalopathy with Lactic Acidosis and Stroke, pag. 1486). FISIOPATOLOGIA Per molti decenni si è creduto che alla base dell’attacco emicranico esistesse una vasodilatazione delle diramazioni della carotide esterna e che il dolore fosse dovuto all’impatto dell’onda sfigmica sulle pareti atoniche di queste arterie (Graham e Wolff, 1938). Questa teoria vascolare, era supportata, tra l’altro, dal frequente riscontro di una dilatazione dell’arteria temporale superficiale durante l’attacco, dal carattere pulsante del dolore e dalla capacità dell’ergotamina, un vecchio farmaco vasocostrittore, di bloccare il dolore. Ciò non spiegava però il fatto che la somministrazione di farmaci vasodilatatori può scatenare un attacco negli emicranici ma non negli altri soggetti; e neppure la presenza di una serie di sintomi e segni che accompagnano e, a volte, addirittura precedono il dolore. Un contributo di grande importanza nelle conoscenze della fisiopatologia dell’emicrania, in particolare della forma con aura, è venuto dalle ricerche condotte in Danimarca da Olesen
che, attraverso iniezione intracarotide o inalazione di Xenon-133 e per mezzo di sofisticate attrezzature atte a rilevare contemporaneamente da 254 punti diversi del capo il flusso ematico cerebrale regionale nel corso di attacchi di emicrania con aura e senza aura, riuscì a dimostrare che: 1) all’inizio del caratteristico disturbo visivo di una crisi di emicrania con aura si verifica una oligoemia in corrispondenza della regione occipitale controlaterale alla localizzazione nel campo visivo del disturbo stesso; 2) questa ipoperfusione diffonde sulla corteccia cerebrale in senso postero-anteriore alla velocità di 2-3 millimetri al minuto e 3) la sua entità è pari a circa il 30% dei valori basali o comunque rispetto alla corrispondente regione dell’emisfero controlaterale; 4) la diffusione di questo fenomeno non sembra seguire il territorio d’irrorazione di qualche arteria particolare, ma avviene piuttosto a cerchi concentrici; 5) solo in alcuni casi una breve, transitoria iperperfusione precede la comparsa dell’aura e la corrispondente oligoemia; 6) non esistono variazioni del flusso circolatorio cerebrale regionale nella fase algica dell’attacco di emicrania con aura, e neppure nel corso dell’attacco di emicrania senza aura (Olesen et al., 1981). Olesen notò inoltre che l’andamento del flusso circolatorio cerebrale regionale nell’emicrania con aura presenta sorprendenti analogie con un fenomeno denominato “spreading cortical depression” che Leao descrisse nel 1944. Secondo questo dato, una riduzione della perfusione consegue alla depressione dell’attività elettrica che a) si verifica nel punto della corteccia cerebrale dove viene applicato uno stimolo di qualsivoglia natura (meccanico, chimico o termico) e che b) si propaga a cerchi concentrici alla velocità di 2-3 millimetri al minuto. Le analogie con la spreading depression di Leao, unitamente alla constatazione che una riduzione del 30% del flusso circolatorio cerebrale, cioè della stessa entità di quella riscontrata da Olesen durante l’aura, non dovrebbe essere sufficiente a causare alcuna sintomatologia, fanno
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ritenere che nell’emicrania con aura l’ipoperfusione rappresenti unicamente un fenomeno secondario ad un’ipotetica depressione dell’attività elettrica cerebrale (ischemia neurogena) che, per motivi non ancora chiariti, si verificherebbe in modo improvviso e ricorrente a partenza dalle aree visive del lobo occipitale. Secondo questa interpretazione, la spreading depression sarebbe la causa diretta dei diversi sintomi che caratterizzano l’aura emicranica. Per quanto riguarda l’emicrania senza aura, gli studi di Olesen mostrano notevoli differenze rispetto all’emicrania con aura, tanto da far supporre che le due forme debbano essere considerate entità separate non solo sul piano clinico, ma anche su quello patogenetico. Alla patogenesi dell’emicrania senza aura concorrerebbero da una parte un terreno di predisposizione forse geneticamente determinato, dall’altra fattori scatenanti che, agendo sul terreno predisponente, provocano le singole crisi. Molti progressi sono stati compiuti negli ultimi anni relativamente alle strutture e vie anatomiche, ai sistemi neurotrasmettitoriali ed ai siti recettoriali coinvolti nell’attacco emicranico mentre, per quanto riguarda il substrato del terreno di predisposizione, sussistono ancora dubbi sul preciso livello della disfunzione del sistema nervoso centrale e sull’esatta natura della disfunzione stessa. Secondo l’interpretazione oggi prevalente, alla base dell’attacco di emicrania senza aura vi sarebbe un alterato funzionamento degli apparati normalmente deputati a gestire gli stimoli endogeni ed esogeni e le fluttuazioni dell’ambiente interno e di quello esterno. In presenza di questa disfunzione, per comodità espositiva indicata come generatore dell’emicrania, i fattori scatenanti dell’attacco sarebbero in grado d’indurre una vasodilatazione delle arterie intracraniche extracerebrali. La dilatazione di questi vasi darebbe il via alla trasmissione dell’impulso doloroso attraverso un duplice meccanismo: a) uno stiramento dei rami trigeminali addossati alla parete esterna delle arterie in causa, b) un passaggio all’esterno dei vasi
di sostanze algogene che, abbassando la soglia dolorifica, attivano ulteriormente il sistema trigeminale. L’impulso doloroso così generato, per essere percepito come tale, deve raggiungere la corteccia cerebrale dopo aver fatto importanti tappe a livello del tronco encefalico ed a livello talamico. A sostegno di questa ipotesi trigeminovascolare vi sono non solo dati clinici e neurofisiologici, ma anche recenti rilievi PET che hanno dimostrato l’attivazione di nuclei troncoencefalici durante attacchi spontanei di emicrania. Questa ipotesi è indirettamente supportata dalla constatazione che l’attacco di emicrania può essere bloccato con i triptani, sostanze con azione selettiva sui recettori 5HT1B e 5-HT1D che sono specificamente collocati a livello dei vasi intracranici extracerebrali e dei nuclei trigeminali del tronco encefalico.
Emicrania senz’aura: caratteristiche cliniche I criteri per la diagnosi di emicrania senz’aura sono riportati nella tabella 29.2. Caratteristiche tipiche dell’attacco sono la localizzazione unilaterale del dolore, la qualità pulsante, l’intensità moderata o grave, il peggioramento causato dall’attività fisica abituale e l’associazione con nausea, vomito, fono e fotofobia. Dal punto di vista temporale l’attacco di emicrania senza aura comprende tre fasi: prodromica, cefalalgica e risolutiva. I prodromi, che non devono essere confusi con l’aura, si manifestano con anticipo di alcune ore o giorni, sotto forma di alterazioni del tono dell’umore, dell’appetito, del ritmo del sonno e della cenestesi in generale; nell’infanzia la fase prodromica sarebbe facilmente caratterizzata da disturbi addominali. In molti soggetti la fase prodromica può essere completamente assente. La seconda fase è rappresentata dalla cefalea, che si manifesta con andamento ingravescente, spesso durante le prime ore del mattino. L’intensità del dolore aumenta nel corso di 1-2 ore, per arrivare al livello massimo, che si stabilizza per la restante du-
Cefalee e nevralgie del capo e della faccia 1231 Tabella 29.2 - Criteri diagnostici per l’emicrania senza aura. A. Almeno cinque attacchi che soddisfino i punti B-D B. Attacchi di cefalea della durata compresa tra 4 e 72 ore C. La cefalea dimostra almeno due delle seguenti caratteristiche: 1) localizzazione unilaterale 2) qualità pulsante 3) intensità moderata o grave tale da ridurre o impedire l’attività quotidiana 4) peggioramento provocato dal salire le scale o altra attività fisica usuale D. La cefalea è accompagnata da almeno uno dei seguenti fenomeni: 1) nausea o vomito 2) fonofobia e fotofobia. E. Deve verificarsi almeno uno di questi eventi: 1) L’anamnesi, l’obiettività generale o neurologica non depongono per alcuna delle patologie elencate nelle categorie 5-11 della classificazione dell’IHS. 2) L’anamnesi, l’obiettività generale o neurologica possono indicare l’esistenza di tali disturbi, che però sono esclusi da esami mirati. 3) Tali disturbi esistono, ma non si verificano in stretta correlazione temporale per la prima volta con la cefalea.
rata dell’attacco, in genere protratta per almeno una giornata (60% dei casi), e talora anche per 48-72 ore. Nella fase di risoluzione, la cefalea decresce lentamente, anche se in alcuni, soprattutto giovani, il riposo a letto, il sonno o un episodio di vomito possono mettere rapidamente termine all’attacco. La localizzazione unilaterale del dolore, molto caratteristica, non è tuttavia presente in tutti i soggetti: molti presentano, sin dall’inizio, dolore diffuso a tutto il capo. I disturbi vegetativi possono non limitarsi a nausea e vomito; sono infatti comuni l’ipotensione arteriosa, il pallore cutaneo, la sudorazione e talora diarrea. In questi casi il quadro generale è di grave malessere e spossatezza, ed il soggetto è costretto a letto. La diagnosi di emicrania senza aura non si può avvalere di alcun dato strumentale, e si basa unicamente sui criteri clinici sopra riportati. Gli attacchi emicranici possono prediligere alcune ore della giornata (spesso iniziano nella prima mattinata o addirittura nella notte), alcuni giorni della settimana (emicrania del week-end) o del mese. In quest’ultimo caso è abbastanza fre-
quente nel sesso femminile la concomitanza con il ciclo mestruale, tanto che alcuni parlano di una vera e propria «emicrania catameniale». La frequenza degli attacchi può variare da pochi all’anno sino a 7-8 al mese. Un certo numero di soggetti può presentare una progressivo aumento della frequenza degli attacchi sino ad evolvere verso una cefalea cronica quotidiana che alcuni autori designano con il termine di “emicrania trasformata”.
Emicrania con aura: caratteristiche cliniche Ha una prevalenza nella popolazione generale di circa l’1%, e coloro che ne sono affetti spesso presentano anche altri attacchi di cefalea, secondo alcuni attacchi di emicrania senza aura, solitamente in numero decisamente maggiore a quelli con aura. L’emicrania con aura, i cui criteri diagnostici sono riportati nella tabella 29.3, è caratterizzata dalla presenza di “una disfunzione focale emisferica e/o troncoencefalica completamente reversibile” che solitamente precede l’insorgenza del dolore e si manifesta clinicamente con
1232 Malattie del sistema nervoso Tabella 29.3 - Criteri diagnostici per l’emicrania con aura. A. Almeno 2 attacchi che soddisfino B. B. Almeno 3 delle seguenti caratteristiche: 1. Uno o più sintomi dell’aura, completamente reversibili, indicativi di disfunzione cerebrale corticale o del troncoencefalo. 2. Almeno uno dei sintomi dell’aura si sviluppa gradualmente in un tempo superiore ai 4 minuti, oppure 2 o più sintomi si manifestano in successione temporale. 3. Nessun sintomo dell’aura perdura più di 60 minuti. Se è presente più di un sintomo, la durata massima dell’aura è aumentata proporzionalmente al numero dei sintomi. 4. La cefalea segue l’aura con un intervallo libero di meno di 60 minuti (può iniziare anche contemporaneamente all’aura o precederla). C. Almeno uno dei punti seguenti: 1. L’anamnesi, l’obiettività generale o neurologica non depongono per alcuna delle patologie elencate nelle categorie 5-11 della classificazione dell’IHS. 2. L’anamnesi, l’obiettività generale o neurologica possono indicare l’esistenza di tali disturbi, che però sono esclusi da esami mirati. 3. Tali disturbi esistono, ma non si verificano in stretta correlazione temporale per la prima volta con la cefalea.
il fenomeno dell’aura. La durata dell’aura tipica è di circa 10-30 minuti (al massimo 60 minuti) per ciascun tipo di sintomi e se, in rari casi, la durata è maggiore, si parla allora di «aura prolungata». Generalmente l’aura può essere costituita da un solo tipo di sintomi, di solito visivi, oppure si può verificare un’evoluzione nel tempo, con interessamento dapprima visivo, successivamente sensitivo e, se è coinvolto il lato dominante, anche disturbi del linguaggio. Questa progressione temporale corrisponde topograficamente ad un’ipofunzione di aree corticali contigue, per cui l’aura ha una «marcia», che si sviluppa in senso postero-anteriore. I sintomi visivi, essendo di origine corticale, interessano parti omonime dei campi visivi; l’inizio dell’aura visiva è rappresentato solitamente da un piccolo scotoma scintillante, che si ingrandisce prendendo la forma delle mura a zig-zag di una fortificazione medievale, assumendo talora anche colorazioni varie, indicate come «spettri di fortificazione» o «teicopsie». Dopo alcuni minuti, lo scotoma scintillante lascia il posto ad un deficit visivo dapprima di dimensioni limitate, ma che può estendersi fino a diventare una emianopsia laterale omonima;
molto rari sono disturbi più complessi della percezione visiva. Nei casi in cui la marcia dell’aura progredisce, dopo la risoluzione dei sintomi visivi, si manifestano disturbi sensitivi, solitamente parestesie, che rispettano la rappresentazione corticale sensori-motoria, interessando l’arto superiore, più spesso la mano, ed eventualmente il viso, e difficilmente si diffondono al tronco o all’arto inferiore. La progressione rostrale della marcia comporta il successivo coinvolgimento delle aree motorie, per cui si può manifestare, assai raramente, ipostenia, più spesso dell’arto superiore. Se il lato interessato è quello dominante, si può verificare anche afasia, solitamente di tipo espressivo. La cefalea che segue l’aura è usualmente meno intensa e di minore durata di quella dell’emicrania senz’aura. Il problema della localizzazione dei sintomi dell’aura e della cefalea è stato a lungo dibattuto e ad oggi si sostiene che nella maggior parte dei casi il dolore si sviluppi dallo stesso lato dell’emisfero cerebrale interessato dall’aura, per cui il soggetto avverte i disturbi neurologici da un lato e il dolore dal lato opposto. Con una certa frequenza si possono presentare episodi di aura tipica non seguiti da cefalea,
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alternati ad episodi in cui quest’ultima è presente. Solo in soggetti in cui il disturbo esordisce in età adulta o avanzata e non si alterna a episodi normalmente seguiti da cefalea, l’aura senza emicrania può essere confusa con un attacco ischemico transitorio. Sono possibili, ma rare, manifestazioni diverse dall’aura tipica sia per sede che per durata. – Emicrania con aura prolungata, denominata in passato anche emicrania complicata. I sintomi dell’aura hanno una durata superiore a 60 minuti, ma inferiore a 7 giorni. Gli attacchi si verificano per lo più in soggetti che già da qualche tempo soffrono di emicrania con aura tipica. Questo dato fornisce un utile ausilio diagnostico, ma spesso sono necessarie neuroimmagini per escludere altre patologie. – Emicrania basilare. In precedenza denominata anche emicrania di Bickerstaff o emicrania sincopale. Il termine emicrania basilare deriva dall’ipotesi di una costrizione dell’arteria basilare durante gli attacchi, in realtà mai evidenziata dalle indagini strumentali. Si ritiene attualmente che la condizione si verifichi solo in bambini o, comunque, in soggetti giovani e che si alterni ad episodi con aura tipica. L’aura dell’emicrania basilare è caratterizzata da due o più dei seguenti sintomi: disturbi del campo visivo, disartria, vertigini, acufeni, diminuzione dell’udito, diplopia, atassia, parestesie bilaterali, ipostenia bilaterale, disturbi della coscienza fino al coma. – Emicrania con aura ad esordio acuto. I sintomi neurologici focali si sviluppano rapidamente, entro quattro minuti, e rimangono generalmente immodificati per tutta la durata dell’aura; la diagnosi può essere posta se all’aura segue una cefalea che rispecchia le caratteristiche diagnostiche abitualmente utilizzate per l’emicrania senz’aura. L’identificazione di questa forma è tutt’altro che agevole in quanto, se non vengono poste domande specifiche ai soggetti questi possono non ricordare o non riferire lo sviluppo graduale dei sintomi dell’aura. È comunque necessario escludere la possibilità di attacchi ischemici transitori.
EMICRANIA OFTALMOPLEGICA L’emicrania oftalmoplegica, nella classificazione dell’IHS comporta attacchi di cefalea di lunga durata, solitamente 4-7 giorni, localizzata inizialmente in una regione orbitale, e associata a paresi di uno o più nervi oculomotori, abitualmente omolaterali. I disturbi della motilità oculare possono persistere a lungo dopo il cessare della cefalea e talvolta possono lasciare esiti permanenti. La diagnosi può essere posta solo una volta che appropriate indagini strumentali abbiano escluso lesioni compressive dei nervi oculomotori e si siano verificati almeno due attacchi. Con l’avvento delle neuroimmagini un numero sempre maggiore di casi è stato ascritto a patologia cerebrale, specialmente aneurismi dell’arteria comunicante posteriore o a patologia infiammatoria tipo sindrome di Tolosa-Hunt (v. pag. 239). La reale esistenza dell’emicrania oftalmoplegica è stata quindi messa in dubbio. EMICRANIA RETINICA I disturbi visivi che precedono l’attacco emicranico, in rari casi, non hanno la tipica distribuzione omonima nei due campi visivi, che suggerisce l’origine del disturbo a livello centrale, potendosi verificare un deficit del campo visivo di un solo occhio. Solitamente si presentano ripetuti attacchi di scotoma o cecità monoculare, in assenza di altri sintomi neurologici, di durata inferiore a 60 minuti, seguiti da cefalea. L’elevata probabilità che la sintomatologia sia dovuta a cause organiche, in particolare a patologia steno-occlusiva della carotide interna omolaterale, impone il ricorso ad indagini diagnostiche strumentali per accertare la diagnosi. EMICRANIA EMIPLEGICA FAMILIARE Si tratta, come già indicato (v. pag. 1229) di una malattia familiare caratterizzata dalla com-
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parsa durante la fase di aura di episodi di emiparesi o emiplegia reversibili. Gli episodi hanno abitualmente una durata di 30-60 minuti e sono seguiti da una cefalea pulsante controlaterale, ma in alcuni casi sono più prolungati e possono persistere per giorni o addirittura settimane. I disturbi motori che caratterizzano l’aura di questa particolare forma di emicrania possono essere accompagnati da altri sintomi reversibili quali emianestesia, disturbi del campo visivo a distribuzione emianoptica, afasia, stato confusionale o coma. La forma in cui il difetto genetico è stato identificato sul cromosoma 19 è allelica alla atassia episodica di tipo 2 e ad una forma di atassia autosomica dominante ad esordio tardivo (SCA 6, v. pag. 1292). Esistono famiglie di emicrania emiplegica familiare in cui alcuni soggetti possono presentare modesti segni di atassia e nistagmo, anche nei periodi intercritici. SINDROMI PERIODICHE DELL’INFANZIA ASSOCIATE AD EMICRANIA
Nell’età infantile, tutti i fenomeni vegetativi ed i disturbi addominali associati alle crisi emicraniche sono particolarmente accentuati. Crisi di nausea o vomito e dolori addominali, con ricorrenza frequente e senza causa organica (talora in passato identificati come “crisi acetonemiche”), sono stati interpretati come “equivalenti emicranici”, ma i dati raccolti sono, molto spesso, semplicemente anamnestici ed il grado di accuratezza con cui sono state condotte le indagini strumentali è incerto. Le «sindromi periodiche» dell’infanzia sono espressione di un’alterazione transitoria e funzionale del SNC, di natura poco conosciuta, e ritenute assimilabili alle crisi emicraniche dell’adulto. Le più caratteristiche sono: – la vertigine parossistica benigna dell’infanzia. Attacchi di vertigine oggettiva accompagnata da nistagmo, nausea e vomito, senza altra patologia dimostrabile. Una forma di vertigine ricorrente benigna dell’adulto, da consi-
derarsi come equivalente emicranico, non è ancora sufficientemente validata, ma sarebbe piuttosto frequente. – l’emiplegia alternante dell’infanzia. Episodi transitori di emiplegia con alternanza di lato che insorgono prima dei 18 mesi di età. Associati agli episodi emiplegici o al di fuori di essi, si verificano altri fenomeni parossistici, quali crisi toniche, atteggiamenti distonici, movimenti coreo-atetosici, nistagmo e alterazioni della motilità oculare. Le cause di questi quadri clinici non sono chiare, e la relazione con l’emicrania è ipotizzata soltanto perché la sintomatologia è transitoria, e per la somiglianza con disturbi presenti durante alcune particolari crisi emicraniche dell’adulto. COMPLICANZE DELL’EMICRANIA Stato emicranico. Viene designata con questo termine una condizione in cui la fase cefalalgica perdura più di 72 ore durante le ore di veglia, malgrado il trattamento; non vi sono periodi di remissione del dolore superiori alle 4 ore. Si tratta di una condizione fortunatamente rara, che si può verificare in soggetti che soffrono usualmente di attacchi emicranici tipici. Il prolungamento della cefalea e dello stato di malessere generale (che può durare sino a 7-10 giorni) e la difficoltà a riposare ed alimentarsi possono condurre ad una condizione di notevole prostrazione. Talora il quadro viene complicato dall’assunzione ripetuta di analgesici o di ergotaminici che, dopo avere prodotto un breve periodo di benessere, hanno come effetti collaterali sintomi analoghi a quelli dell’emicrania, e quindi sono indifferenziabili dal disturbo originale. Infarto emicranico. Con questo termine la Classificazione dell’IHS definisce una condizione in cui almeno uno dei sintomi dell’aura non regredisce entro 7 giorni e/o la TC o la RM cerebrale dimostrano una lesione ischemica in aree congrue con la sintomatologia. Ovviamen-
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te devono essere escluse con appropriate indagini altre cause di ictus ischemico. Data l’elevata prevalenza di entrambi i disturbi, la presenza contemporanea di ictus ischemico ed emicrania può essere spiegata in diversi modi: 1. Presenza coincidentale di infarto cerebrale da altra causa, in soggetto affetto da emicrania 2. Infarto cerebrale da altra causa che si manifesta con sintomatologia simil-emicranica 3. Infarto emicranico Rimane infine da affrontare la questione se l’emicrania ed in particolare l’emicrania con aura debba essere considerata un fattore di rischio per ictus ischemico al di là dei rari infarti emicranici propriamente definiti. Diversi importanti studi hanno indicato che l’emicrania è un fattore di rischio per infarto cerebrale nelle donne giovani, con un rischio relativo di circa 3 volte, maggiore nell’emicrania con aura rispetto all’emicrania senz’aura, aumentato dall’assunzione di contraccetivi orali e dal fumo. Recentemente l’IHS (IHS task force, 2000) ha pubblicato delle raccomandazioni sull’uso dei contraccettivi orali nelle donne affette da emicrania, indicando che non esiste controindicazione a tale somministrazione unicamente nei soggetti che presentano emicrania senz’aura in assenza di fattori di rischio vascolare aggiuntivi (è comunque consigliata una rivalutazione periodica per escludere l’insorgenza di fattori di rischio precedentemente assenti). In tutti gli altri casi l’uso di contraccettivi non è consigliato e va comunque valutato attentamente caso per caso. TERAPIA DELL’EMICRANIA L’approccio terapeutico al soggetto affetto da emicrania prevede una serie di misure generali di prevenzione, una terapia per l’attacco acuto ed un’eventuale terapia preventiva. Misure di prevenzione In alcuni pazienti gli attacchi di emicrania possono essere indotti da fattori scatenanti
(variazioni del ritmo sonno-veglia, turni di lavoro, situazioni che causano ansia, alcool, digiuno, determinati alimenti) o condizioni favorenti (ciclo mestruale, uso di contraccettivi orali). Nei soggetti in cui la soglia di suscettibilità a tali fattori sia bassa, una corretta igiene di vita e comportamenti di evitamento possono contribuire a ridurre la frequenza degli attacchi. Terapia dell’attacco La terapia sintomatica degli attacchi di emicrania è abitualmente consigliabile in tutti. Il farmaco prescelto deve essere assunto il più precocemente possibile ed a dosi adeguate. Nei casi in cui la nausea ed il vomito sono particolarmente intensi è consigliabile utilizzare vie di somministrazione alternative a quella orale ed associare un farmaco antiemetico. L’adozione di misure supplementari (riposo a letto, in ambiente buio e silenzioso) facilita abitualmente la remissione dei sintomi. Qualora il soggetto arrivi all’osservazione clinica utilizzando già un farmaco sintomatico efficace (riduzione significativa del dolore e dei sintomi associati entro un’ora) non è opportuno effettuare variazioni. Un’eccezione a questa regola è rappresentata dai pazienti che assumono più di due volte la settimana farmaci contenenti principi che possono indurre assuefazione/ dipendenza (barbiturici o neurolettici) e che sono potenzialmente in grado di provocare una cefalea da rimbalzo ed una conseguente trasformazione dell’emicrania in una cefalea cronica quotidiana. In tutti coloro che presentano crisi di emicrania di gravità lieve o moderata i farmaci di prima scelta sono rappresentati dagli analgesici e dagli antinfiammatori non steroidei (FANS) (i principali utilizzati sono elencati nella Tab. 29.4). Tali farmaci possono essere anche utili nei soggetti con crisi di intensità elevata, in associazione ad altri farmaci più specifici o qualora questi ultimi siano controindicati.
1236 Malattie del sistema nervoso Tabella 29.4 Principio attivo
Via di somministrazione
Dose abituale
Dose massima consigliata in 24 ore
os, im o ev os rettale/im os/rettale os/rettale os/rettale/im
500-1000 mg 25-50 mg 50-100 mg 550-1100 mg 600-1200 mg 50-100 mg
4g 200 mg 200 mg 1650 mg 1800 mg 200 mg
os rettale/im os/rettale
50 mg 100 mg 1000 mg
200 mg 200 mg 2g
Ac acetilsalicilico: Indometacina: Naproxene sodico: Ibuprofene: Diclofenac: Ketoprofene: Paracetamolo:
I triptani costituiscono una classe di farmaci sintomatici specifici per l’attacco emicranico introdotti in commercio in tempi relativamente recenti. Si tratta di farmaci agonisti dei recettori serotoninergici 5HT1 in particolare dei sottotipi 5HT1B e 5HT1D. Il loro effetto sull’attacco di emicrania, che consiste in una remissione del dolore e dei sintomi associati (nausea, vomito, fono e fotofobia), può essere spiegato in vari modi, non essendo ancora chiaro il meccanismo d’azione prevalente. Il principale sito d’azione potrebbe infatti essere rappresentato dai recettori 5HT1B vasali, la cui stimolazione causa vasocostrizione, dai recettori 5HT1D presinaptici dei prolungamenti periferici dei neuroni trigeminali del ganglio di Gasser, la cui stimolazione inibisce l’infiammazione neurogena durale e lo stravaso plasmatico, o, infine, dai recettori
5HT1B e 5HT1D del tronco encefalico, la cui stimolazione inibisce la scarica dei neuroni dei nuclei sensitivi trigeminali. I triptani sono da considerare come farmaci di prima scelta per la terapia sintomatica dell’attacco grave di emicrania con e senza aura. Sono inoltre indicati negli attacchi di grado moderato quando gli analgesici ed i FANS risultano inefficaci o controindicati. La tabella 29.5 indica i principali triptani disponibili in commercio o in fase di avanzata sperimentazione clinica, ed i dosaggi abitualmente utilizzati per le differenti vie di somministrazione. Il sumatriptan è il farmaco capostipite; i dati relativi alla sua efficacia ed ai suoi effetti collaterali sono ormai ben noti e rappresentano i parametri di riferimento per le altre molecole della stessa famiglia. La somministrazione di 6
Tabella 29.5 Principio attivo Sumatriptan Zolmitriptan Rizatriptan Naratriptan* Eletriptan Almotriptan * Disponibile in alcuni Paesi esteri
per os
per os solubile
nasale
rettale
sottocute
50-100 mg 2,5 mg 10 mg 2,5 mg 20-40-80 mg 12, 5 mg
/ 2,5 mg 10 mg
20 mg
25 mg
6 mg
Cefalee e nevralgie del capo e della faccia 1237
mg di sumatriptan sc determina remissione o netto miglioramento della cefalea entro un ora nel 60-80 % dei soggetti, mentre solo il 20-30% ottiene lo stesso risultato con placebo. La somministrazione di 50-100 mg per os determina una percentuale di risposte inferiore del 10-20 % ma con minori effetti collaterali. Lo spray nasale (20 mg) ha una rapidità d’azione probabilmente superiore alla formulazione per os ma l’efficacia a due ore è praticamente identica. La formulazione rettale risulta un po’ meno efficace delle formulazioni per os e per spray nasale. Un limite del sumatriptan è rappresentato dal fatto che in circa il 30% dei soggetti che rispondono inizialmente si verifica una recidiva della cefalea entro 24 ore, indipendentemente dalla via di somministrazione. I principali effetti collaterali del sumatriptan sono rappresentati da parestesie e flushing, più raramente da senso di costrizione toracica, nausea e sonnolenza. Il senso di costrizione toracica che rappresenta l’effetto collaterale potenzialmente più preoccupante non sarebbe, comunque, causato da vasocostrizione coronarica. Il sumatriptan è controindicato nei soggetti con storia di ischemia coronarica e di ipertensione arteriosa non controllata e non è stato a tutt’oggi sperimentato ad età inferiore ai 18 anni e superiore ai 65 anni. Anche gli altri triptani sono farmaci sicuramente efficaci nella terapia dell’attacco di emicrania. In particolare, zolmitriptan e rizatriptan hanno forse una rapidità d’azione lievemente maggiore a quella del sumatriptan orale, differenza dovuta ad una maggiore rapidità di assorbimento più che a una differente azione a livello dei recettori anche se i dati relativi all’efficacia a due ore sono paragonabili. Il naratriptan viene assorbito più lentamente degli altri triptani, il suo picco di efficacia (risponde il 68% dei pazienti) è a 4 ore. A 24 ore il 48% mantiene il beneficio. Gli effetti collaterali del naratriptan sono paragonabili al placebo. L’eletriptan, al dosaggio di 80 mg, determina una risposta positiva a due ore nel 77% dei casi. L’incidenza degli effetti collaterali è
paragonabile a quella del sumatriptan. L’almotriptan avrebbe un efficacia lievemente inferiore a quella della compressa di sumatriptan 100 mg, ma avrebbe minori effetti collaterali. Nell’uso pratico il farmaco di prima scelta è rappresentato dal sumatriptan per os alla dose di 50 mg da aumentare a 100 mg se è stato ben tollerato ma inefficace. L’uso degli altri triptani è indicato in tutti coloro che non abbiano beneficio dal sumatriptan. Quando disponibile in commercio, il naratriptan potrà essere utile soprattutto nei soggetti con recidiva della cefalea entro le 24 ore o con rilevanti effetti collaterali da triptani. I farmaci ergotaminici (ergotamina tartrato e diidroergotamina) sono stati ampiamente utilizzati in passato nella terapia sintomatica dell’attacco di emicrania. Oggi sono stati in gran parte sostituiti dai triptani, farmaci più efficaci e con minori effetti collaterali. L’ergotamina tartrato viene utilizzata ai seguenti dosaggi: 1 mg per os, 2 mg per via rettale, 0,25 mg im (in Italia la formulazione parenterale è stata però ritirata dal commercio), con dose massima giornaliera di 4 mg per os e per via rettale e di 0,5 mg im, e dose massima settimanale di 10 mg per os e per via rettale e di 1 mg im. Il farmaco non deve essere riutilizzato nei 4 giorni successivi alla somministrazione, e non può essere associato con i triptani (l’intervallo deve essere di almeno 24 ore). Le indicazioni dell’ergotamina sono ormai limitate alla terapia sintomatica degli attacchi gravi o moderati resistenti sia agli analgesici comuni che ai triptani. I suoi principali effetti collaterali sono: nausea, vomito, diarrea, dolori addominali (opportuna quasi sempre l’associazione con un antiemetico) gangrena (soggetti arteriopatici), parestesie, cefalea da rimbalzo, dipendenza. È controindicata in gravidanza e nei soggetti affetti da arteriopatie periferiche, coronaropatie ed ipertensione. La formulazione spray nasale della diidroergotamina, recentemente introdotta in commercio (12 mg, con dose massima di 4 mg nelle 24 ore e di 12 mg alla settimana), è piuttosto manegge-
1238 Malattie del sistema nervoso
vole, ha pochi effetti collaterali ma la sua efficacia è chiaramente inferiore a quella dei triptani. La diidroergotamina per via sc o ev (0,5-1 mg), benchè non più disponibile in commercio in Italia, mantiene una indicazione nello stato di male emicranico, nei casi in cui la terapia combinata con triptani, analgesici comuni ed antiemetici non ottenga buoni risultati. I farmaci antiemetici antagonisti dopaminergici quali la proclorperazina e la metoclopramide oltre a correggere la nausea, migliorano l’assorbimento e quindi l’efficacia degli analgesici. Vi sono inoltre dati che depongono per una loro azione diretta sul miglioramento del dolore. In uno studio di confronto l’azione della proclorperazina sul dolore dell’attacco emicranico si è rivelata superiore a quella della metoclopramide. Terapia preventiva Un trattamento preventivo della durata di 6 mesi o più è consigliato in tutti coloro che presentano più di due crisi al mese, parzialmente o totalmente disabilitanti, della durata complessiva di almeno 4 giorni. Nei casi in cui una indagine anamnestica accurata non faccia emergere informazioni attendibili sulla frequenza degli attacchi è consigliabile prima di intraprendere una terapia preventiva, un periodo di osservazione di tre mesi durante i quali il numero, la durata e l’intensità degli attacchi e l’utilizzo di farmaci analgesici vengano registrati su un apposito diario. Per verificare in modo obbiettivo l’efficacia della terapia preventiva è opportuno utilizzare analogamente un diario clinico che riporti per almeno tre mesi gli stessi parametri sopraindicati. I betabloccanti sono considerati da molti autori i farmaci di prima scelta nel trattamento profilattico dell’emicrania. Sono particolarmente indicati se coesistono ipertensione arteriosa o tachicardia. Sono controindicati in presenza di disturbi depressivi, asma bronchiale, diabete mellito, arteriopatie periferiche e devono essere usati con particolare cautela nei soggetti an-
ziani. È controindicata l’associazione con l’ergotamina. Il dosaggio opportuno deve essere raggiunto gradualmente per minimizzare gli effetti collaterali ed anche la sospensione deve essere graduale per evitare fenomeni di rimbalzo. La tabella 29.6 riporta i principali beta-bloccanti utilizzati nella prevenzione dell’emicrania. Tabella 29.6 Principio attivo
Dose giornaliera consigliata
Propranololo
40-240 mg (disponibili capsule a lento rilascio da 80 mg) 100-200 mg 50-100 mg 40-240 mg 10-20 mg
Metoprololo Atenololo Nadololo Timololo
Tra i calcioantagonisti vengono considerati efficaci nel trattamento preventivo dell’emicrania: 1. Flunarizina (schema consigliato: cicli di 20-25 giorni al mese di 5-10 mg/die in monosomministrazione serale) 2. Cinarizina (75-150 mg/die) Questi due farmaci sono considerati di prima scelta se sono presenti ansia ed insonnia; sono controindicati in caso di obesità, disturbi depressivi (anche anamnestici) e parkinsonismi. Un parkinsonismo iatrogeno è stato correlato con l’uso cronico di flunarizina o cinarizina, specie in soggetti anziani, anche in assenza di precedenti sintomi extrapiramidali. 3. Verapamile (160-320 mg/die, di cui è disponibile una formulazione a lento rilascio da 120 mg). Il verapamile è considerato farmaco di seconda scelta; è particolarmente utile se coesistono ipertensione e tachicardia e non è controindicato in presenza di disturbi depressivi. Non deve essere associato ai beta-bloccanti. L’amitriptilina (25-100 mg/die, preferibilmente in monosomministrazione serale) è da
Cefalee e nevralgie del capo e della faccia 1239
considerare farmaco di prima scelta se si associano disturbi depressivi, ansia, insonnia e se coesiste una cefalea di tipo tensivo. I dosaggi consigliati devono essere raggiunti molto gradualmente per minimizzare gli effetti collaterali, verso i quali viene sviluppato abitualmente una adeguata tolleranza. L’amitriptilina può essere associata sia con i beta-bloccanti che con i calcioantagonisti (facendo attenzione a non causare eccessiva sedazione) ed è controindicata in presenza di ipertrofia prostatica e di glaucoma. Sono probabilmente utili nella profilassi dell’emicrania anche altri antidepressivi triciclici pur non esistendo studi controllati disponibili. In particolare può essere utilizzata la nortriptilina (25-100 mg/die) nei soggetti che presentano una buona risposta all’amitriptilina ma che lamentano effetti collaterali. Il valproato sodico (500-1500 mg/die) è stato recentemente dimostrato efficace nella prevenzione dell’emicrania, ed è utilizzato attualmente nei malati resistenti ai trattamenti tradizionali e se esiste tendenza all’evoluzione verso una cefalea cronica quotidiana. È controindicato in coloro che sono affetti da diatesi emorragiche, epatopatie o con anamnesi familiare positiva per epatopatie da farmaci. Nei primi mesi di trattamento sono consigliati controlli della funzionalità epatica (inclusa l’ammoniemia) dell’emocromo, della coagulazione e dei tassi ematici del farmaco. Il pizotifene (0,5/3 mg/die) è un farmaco antagonista dei recettori serotoninergici 5HT2 ed è utilizzato da molti anni nella terapia preventiva dell’emicrania. Attualmente viene riservato a casi selezionati, resistenti alle altre terapie preventive. Non deve essere utilizzato negli obesi. La metisergide al dosaggio di 2-4 mg/die è un altro farmaco serotoninergico con effetto preventivo antiemicranico, attualmente non disponibile in Italia. Il suo uso è stato limitato dalla segnalazione di casi (assai rari ma potenzialmente gravissimi) di fibrosi retroperitoneale. La diidroergotamina a lento rilascio (5 mg × 2 /die) ed il naprossene sodico (550 mg × 2/die)
trovano impiego nelle profilassi cicliche delle emicranie del week-end (36-48 ore) e dell’emicrania catameniale (da – 3 a + 3 giorni rispetto al prevedibile inizio dell’attacco). In quest’ultima indicazione ha trovato recentemente spazio anche il sumatriptan alla dose di 50-100 mg/ die. Dopo l’inizio della terapia preventiva è opportuno effettuare una visita di controllo dopo 2-3 mesi per verificare l’efficacia del trattamento e gli eventuali effetti collaterali. Quando, dopo aver utilizzato vari farmaci in monoterapia (a dosi adeguate e per almeno 3 mesi) non si sono ottenuti risultati significativi (riduzione delle crisi di almeno il 50 %) possono essere indicate terapie di associazione. Quando efficace, la terapia preventiva deve essere protratta per almeno 6 mesi, ed una sua sospensione è consigliata quando le crisi sono ridotte a una-due al mese da almeno due mesi. La terapia preventiva può essere prolungata a 12 anni o più dove necessario, anche se non esistono dati sull’efficacia della profilassi a lungo termine.
Cefalea Tensiva INTRODUZIONE, EPIDEMIOLOGIA, GENETICA La cefalea tensiva, che in passato è stata anche denominata cefalea da contrazione muscolare, cefalea muscolo-tensiva, cefalea psicomiogenica o psicogena, cefalea da stress, è la cefalea di gran lunga più comune, e, se si manifesta solo in rare occasioni, può essere ritenuta una modalità quasi fisiologica di reazione a fattori esterni, per lo più collegati ad affaticamento fisico o psichico, con tendenza a recedere spontaneamente con il riposo. In alcuni soggetti si presenta con elevata frequenza interferendo con la normale vita di relazione ed acquisendo, quindi, caratteristiche di malattia: si ritiene che la linea di demarcazione tra cefalea occasionale e cefalea tensiva vera e propria sia rappresen-
1240 Malattie del sistema nervoso
tata da un numero di giorni di cefalea all’anno superiore a 14. Anche a causa di queste considerazioni i dati epidemiologici disponibili sono molto incerti ed indicherebbero nella popolazione generale una prevalenza circa dell’11 % con una certa preferenza per il sesso femminile. I dati relativi alla esistenza di una familiarità per il disturbo sono, a loro volta, assai variabili, ma, secondo la maggior parte degli autori, sarebbero paragonabili a quelli della popolazione generale. FISIOPATOLOGIA Nonostante la cefalea di tipo tensivo sia la forma di gran lunga più diffusa nella popolazione generale, restano a tutt’oggi ancora in larga parte oscuri gli intimi meccanismi che la sottendono. Probabilmente la carenza di conoscenze fisiopatologiche deriva anche dal fatto che la poco definita caratterizzazione clinica di questo particolare tipo di cefalea non ha certo contribuito a fornire elementi utili alla formulazione di ipotesi patogenetiche ed anzi ha comportato il rischio che le diverse casistiche oggetto d’indagine fossero disomogenee e quindi scarsamente attendibili. Un aiuto rilevante a tal proposito è venuto dalla comparsa nel 1988 della classificazione delle cefalee della International Headache Society che ha fornito, tra l’altro, anche i criteri clinici necessari per la diagnosi di cefalea di tipo tensivo che, pur essendo sostanzialmente formulati in negativo (dolore non pulsante, non unilaterale, non di forte intensità, non aggravato dall’attività motoria, non associato a sintomi neurovegetativi), hanno avuto comunque il grande merito di stabilire ed offrire ai ricercatori una definizione clinica precisa ed inequivocabile. Nel passato la cefalea di tipo tensivo veniva attribuita ad una contrazione, involontaria e protratta, della muscolatura del capo e/o della faccia e/o del collo, tanto è vero che, prima della nuova classificazione del 1988, veniva chiamata cefalea muscolo-tensiva o addirittura cefalea da
contrazione muscolare; il dolore, secondo questa vecchia interpretazione, sarebbe dovuto alla contrazione muscolare stessa o all’ischemia muscolare da essa indotta. Oggi si ritiene che, accanto ad un indiscutibile interessamento della muscolatura pericranica, un ruolo indubbiamente importante venga svolto dal sistema nervoso centrale; rimangono però da chiarire il rispettivo peso dei fattori periferici e centrali e le loro interconnessioni. Per una migliore comprensione dello stato attuale delle conoscenze in grado di consentire la formulazione di un’interpretazione fisiopatologica, è opportuno rifarsi ai dati clinici e sperimentali che, come vedremo, rivelano elementi distintivi tra la forma episodica e quella cronica. Dal punto di vista clinico, è importante tenere presente che la cefalea di tipo tensivo episodica riconosce due principali situazioni favorenti: a) il mantenimento prolungato di una postura scorretta a livello del capo e del collo, indipendentemente dalle motivazioni che l’hanno provocata; b) le situazioni stressanti specie nei soggetti che, non essendo caratterialmente portati ad esternare facilmente quello che provano, finiscono per trattenere ed accumulare l’eventuale tensione indotta dai fattori ambientali ed in particolare dalle relazioni interpersonali. In entrambe le situazioni si realizza uno stato di contrazione della muscolatura cranica e pericranica, nel primo caso a partenza periferica, nel secondo caso a partenza centrale. Nella cefalea di tipo tensivo cronica le implicazioni cliniche sono molto più complesse e l’andamento temporale stesso, quotidiano o quasi quotidiano, con la sua uniformità riduce le possibilità di deduzioni utili ai fini di un’interpretazione patogenetica. Alcuni recenti studi sperimentali, riguardanti la dolorabilità alla palpazione dei muscoli pericranici, la soglia e la tolleranza al dolore in seguito a stimoli pressori o termici e l’EMG, hanno fornito interessanti elementi di discussione.
Cefalee e nevralgie del capo e della faccia 1241
La dolorabilità muscolare, misurata per mezzo di una metodica standardizzata di palpazione manuale di 14 paia di muscoli pericranici ed inserzioni tendinee, è risultata, in studi differenti, sempre significativamente aumentata nei soggetti con cefalea di tipo tensivo, sia nelle forme episodiche che, ed ancor più, in quelle croniche, rispetto ai soggetti senza cefalea. La dolorabilità risultava ulteriormente aumentata quando la registrazione era effettuata in corso di cefalea. Meno univoci risultano i dati presenti in letteratura sulla soglia dolorifica pressoria misurata con algometro computerizzato. Infatti, mentre la maggior parte delle indagini effettuate non rivela alcuna significativa differenza a livello delle regioni temporale e parietale tra soggetti con cefalea di tipo tensivo, sia episodica che cronica, e soggetti senza cefalea, alcune altre mostrano una soglia ridotta in coloro che sono affetti da cefalea di tipo tensivo cronica rispetto ai controlli sani. A cefalea in corso, non si evidenziano variazioni della soglia dolorifica pressoria, ma la tolleranza al dolore appare diminuita in corrispondenza della regione parietale ed invariata alla mano. Poiché una diminuita tolleranza dolorifica pressoria rappresenta una risposta iperalgesica, questi dati suggeriscono che, durante un episodio di cefalea di tipo tensivo, si verificherebbe una sensibilizzazione segmentale centrale e/o una riduzione della modulazione antinocicettiva. Inoltre, i soggetti con forma cronica di cefalea di tipo tensivo risulterebbero più sensibili anche ad altre modalità di stimolo sensoriale, come quello termico. Per quanto riguarda gli studi EMG, un’indagine condotta nella popolazione generale ha rivelato livelli aumentati di attività elettromiografica a riposo nei muscoli temporali e frontali dei soggetti con cefalea di tipo tensivo cronica, ma non in quelli con cefalea di tipo tensivo episodica. Analogo aumento dei livelli di attività EMG, indicativo di insufficiente rilassamento muscolare, è stato registrato, in studi clinici, nei muscoli temporali e trapezio di pazienti con
cefalea di tipo tensivo episodica ad alta frequenza di crisi. In corso di cefalea, i livelli di attività EMG registrati in corrispondenza dei muscoli temporali appaiono immodificati, mentre risultano lievemente aumentati a livello dei muscoli frontali. Questo dato, troppo modesto per interpretare il dolore muscolare sulla base di un’ischemia provocata dalla contrazione muscolare, pare da attribuire più ad una disfunzione centrale che ad una reazione mimica al dolore, dal momento che non si apprezza alcuna relazione tra attività EMG ed intensità della cefalea e stato d’ansia. L’insieme dei dati clinici e sperimentali fanno ritenere che il substrato patogenetico della cefalea di tipo tensivo episodica e della cefalea di tipo tensivo cronica sia almeno in parte differente. Infatti il riscontro durante la cefalea, rispetto al periodo libero, di aumento della dolorabilità muscolare e di lieve diminuzione della tolleranza dolorifica pressoria a livello cranico e della soglia e tolleranza dolorifica termica, depone per la presenza di un’iperalgesia solo in fase critica e, pertanto, transitoria e reversibile nella forma episodica di cefalea di tipo tensivo, permanente ed irreversibile nella forma cronica. Così come, da un punto di vista clinico, la cefalea di tipo tensivo può manifestarsi con frequenza ed intensità estremamente variabili non solo in soggetti diversi, ma anche nello stesso soggetto con il passare del tempo, anche i meccanismi che sono alla sua base non possono che essere altamente dinamici. Secondo l’attuale concezione patogenetica, in seguito ad uno stimolo iniziale, che può essere sia una condizione di stress, che un’alterata postura, che un processo irritativo locale con rilascio di vari peptidi, o una loro combinazione, si attivano i nocicettori dei tessuti profondi che danno origine ad una scarica afferente alle corna posteriori o al nucleo trigeminale. A questo punto, nella maggior parte dei soggetti, le strutture sovraspinali deputate alla percezione del dolore si attivano e, grazie ad una modu-
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lazione centrale dello stimolo, il processo si autolimita. Può succedere, invece, che una componente di tipo mentale o affettivo, attraverso il sistema limbico, induca un’ulteriore attivazione muscolare e quindi un’ulteriore attivazione dei nocicettori con conseguente mantenimento del dolore. In soggetti predisposti, questa cascata di iperattività nocicettiva può indurre una sensibilizzazione centrale nelle corna posteriori o nel nucleo trigeminale. La percezione nocicettiva centrale e la modulazione possono così alterarsi, dando luogo ad un’iperalgesia secondaria prolungata. Quando la sensibilizzazione centrale raggiunge una certa entità, il dolore diviene cronico a causa dell’alterazione della percezione del dolore che si autoalimenta. In questo modo, s’innesta un circolo vizioso e si verifica un’anomala reazione allo stimolo periferico che può persistere ancora per molto tempo dopo che il primitivo fattore scatenante è cessato. Questa concezione patogenetica può spiegare sia l’aumentata dolorabilità muscolare con normale sensibilità dolorifica rilevata nei pazienti con cefalea di tipo tensivo episodica, sia la dolorabilità muscolare molto aumentata, l’attività EMG lievemente aumentata e la sensibilità dolorifica alterata nei pazienti più gravi con cefalea di tipo tensivo cronica. MANIFESTAZIONI CLINICHE La cefalea tensiva inizia spesso nell’adolescenza o nell’età giovanile con una età media di esordio di 30,6 anni, non infrequentemente in concomitanza con difficoltà di adattamento ambientale, e la sua prevalenza raggiunge l’acme attorno ai 35-50 anni, per declinare successivamente. Vi sono molti fattori esterni in grado di scatenare ed influenzare il dolore, ed in particolare la tensione emotiva, l’ansia, l’impegno sostenuto, il mantenimento di posture forzate. Questo tipo di cefalea viene talora considerata una patologia occupazionale di alcune categorie di lavoratori sedentari (in passato sarti
e calzolai ed oggi coloro che lavorano al computer nella stessa posizione per tempi prolungati), ma non vi sono dati epidemiologici a sostegno di tale osservazione. Il dolore è di grado lieve/moderato, di tipo gravativo o costrittivo, mai pulsante (caratteristica tipica dell’emicrania) e si può manifestare in qualsiasi ora del giorno, ma gli episodi iniziano spesso alla mattina, recedendo usualmente alla sera e permettendo un sonno normale. La localizzazione è diffusa, spesso a livello nucale o frontale, con interessamento abitualmente bilaterale (dal 75 al 90 % dei soggetti). Gli episodi non sono accompagnati da altra sintomatologia di rilievo ma, nel sesso femminile, un fenomeno di accompagnamento piuttosto frequente è l’inappetenza. La durata del singolo episodio di cefalea è piuttosto variabile (compreso tra 30 minuti e 7 giorni), abitualmente di alcune ore. A differenza dell’emicrania, la cefalea tensiva non migliora durante la gravidanza, e non sembra sia negativamente influenzata dal ciclo mestruale. Possono essere identificate, più facilmente che in altre forme di cefalea, possibili concause quali: – disfunzione oro-mandibolare, (in precedenza denominata sindrome temporo-mandibolare o sindrome di Costen, e anche disfunzione cranio-mandibolare) evidenziata dall’esame della masticazione e dell’occlusione dentaria; si associa frequentemente a spiccata dolorabilità dei muscoli masticatori o dell’articolazione temporo-mandibolare di uno o entrambi i lati; – stress psicosociale. – ansia. – depressione. – cefalea come «allucinazione cenestesica o idea ossessiva». In precedenza denominata cefalea psicogena o di conversione, si diversifica dalle altre forme di cefalea tensiva per la scarsa intensità del dolore, per essere riferita prevalentemente al vertice, con dolore spesso di tipo urente, esacerbato dal semplice contatto, e
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talora per la scarsa partecipazione emotiva del soggetto alla sintomatologia lamentata; il disturbo rispetta i criteri del DSM IV per il disturbo somatoforme. – fatica muscolare: cefalea in stretto collegamento con posture insolite, sforzi muscolari, riposo inadeguato; – cefalea indotta da abuso di analgesici. È una cefalea subcontinua, provocata dagli stessi farmaci antidolorifici assunti in quantità elevate e per periodi prolungati. La frequenza con cui si ripetono gli attacchi è estremamente variabile. A seconda delle caratteristiche temporali si distinguono una «cefalea tensiva episodica» in cui la cefalea si presenta per meno di 150 giorni all’anno ed una «cefalea tensiva cronica» in cui il dolore compare per più di 150 giorni all’anno. Molto frequente è il riscontro di dolorabilità alla palpazione dei muscoli pericranici; per tale ragione, l’IHS ha proposto la definizione delle seguenti sottocategorie: «cefalea tensiva episodica associata a disturbi dei muscoli pericranici», e «cefalea tensiva cronica non associata a disturbi dei muscoli pericranici». I criteri di valutazione rimangono prevalentemente clinici, basati sull’individuazione di precise zone di dolorabilità, chiamate anche punti “trigger”. Per punti trigger si intendono specifiche e ristrette aree muscolari la cui palpazione causa dolore, spesso piuttosto acuto, che oltre al punto specifico il paziente riferisce ad una area muscolare adiacente in genere riproducibile. Si rilevano spesso nell’ambito di una cosiddetta “fascia tesa” cioè di un fascio di fibre muscolari, che alla palpazione risultano apparentemente contratte ed accorciate. La palpazione dei punti trigger può scatenare una contrazione muscolare riflessa. Più generico è il concetto di punto tender, termine con cui si indicano aree più diffuse di dolorabilità che si localizzano nei tessuti molli: muscolo, tendini, legamenti, tessuto sottocutaneo, tessuto adiposo. Occorre evitare una confusione, che è esclusivamente terminologica, con le cosiddette aree trigger, riscontrabili nella nevralgia trigeminale,
che sono aree cutanee, la cui stimolazione meccanica, anche superficiale, scatena il dolore nevralgico tipico (v. pag. 1268).
DIAGNOSI La diagnosi si basa prevalentemente sulle notizie anamnestiche, che dovranno soddisfare i criteri esposti nella Tabella 29.7. Non esistono mezzi strumentali in grado di confermare la diagnosi. TERAPIA Prima di intraprendere qualunque trattamento sintomatico o preventivo della cefalea tensiva occorre prendere in considerazione e tentare di eliminare i numerosi fattori predisponenti o scatenanti il dolore. Questo approccio è difficile nella maggior parte dei casi perché, quando anche tali fattori siano identificati, raramente sono correggibili, perché spesso intimamente correlati con la struttura di personalità o il tipo di occupazione del paziente. Comunque è bene sottolineare la necessità di una riorganizzazione su basi più razionali delle attività di lavoro e studio, di un approccio più efficace e tranquillo alle attività quotidiane e di una attività fisica regolare. È ovvio che disturbi psichici concomitanti e rilevanti (ansia o depressione) andranno adeguatamente inquadrati e trattati (con terapia farmacologica o, ove indicata, psicoterapia). Quando la cefalea persiste, nonostante la correzione dei fattori predisponenti o questi non sono correggibili, verrà presa in considerazione una terapia sintomatica e/o preventiva. Terapia sintomatica A differenza degli attacchi di emicrania, gli episodi di cefalea tensiva possono essere di intensità lieve e non richiedere un trattamento sintomatico. Quando questo sia necessario, si utilizzano abitualmente gli analgesici comuni o gli antinfiammatori non steroidei (Tab. 29.4). A differenza di quanto abitualmente si crede il dolo-
1244 Malattie del sistema nervoso Tabella 29.7 - Criteri diagnostici per la cefalea tensiva. Forma episodica A. Almeno 10 episodi che soddisfino i criteri B-D sottoelencati, con un numero di giorni di cefalea all’anno inferiori a 180 (ma, secondo alcuni autori, superiori a 14). B. Cefalea che perduri da 30 minuti a 7 giorni. C. Almeno due delle seguenti caratteristiche del dolore: 1. Gravativo, costrittivo, non pulsante. 2. Lieve o moderato; può ostacolare ma non impedire le normali attività. 3. Localizzazione bilaterale. 4. Non si aggrava con sforzi fisici. D. Si devono verificare entrambe le seguenti condizioni: 1. Assenza di nausea o vomito. 2. Assenza di fono e fotofobia. E. Almeno una delle condizioni seguenti: 1. L’ anamnesi, l’obiettività generale o neurologica non depongono per alcuna delle patologie elencate nelle categorie 5-11 della classificazione dell’IHS. 2. L’ anamnesi, l’obiettività generale o neurologica possono indicare l’esistenza di tali disturbi, esclusi da esami mirati. 3. Tali disturbi esistono, ma non si verificano in stretta correlazione temporale per la prima volta con la cefalea. Forma cronica A. Si devono verificare episodi cefalalgici per un totale superiore a 180 giorni all’anno, che soddisfino i criteri B-D sottoelencati. B. Almeno due delle seguenti caratteristiche del dolore: 1. Gravativo, costrittivo. 2. Lieve o moderato; può ostacolare ma non impedire le normali attività. 3. Localizzazione bilaterale. 4. Non si aggrava con sforzi fisici. C. Si devono verificare entrambe le seguenti condizioni: 1. Assenza di vomito. 2. Non più di uno dei seguenti sintomi: nausea, fono o fotofobia. D. Almeno uno dei seguenti: 1. L’ anamnesi, l’obiettività generale o neurologica non depongono per alcuna delle patologie elencate nelle categorie 5-11 della classificazione dell’IHS. 2. L’ anamnesi, l’obiettività generale o neurologica possono indicare l’esistenza di tali disturbi, esclusi da esami mirati. 3. Tali disturbi esistono, ma non si verificano in stretta correlazione temporale per la prima volta con la cefalea.
re della cefalea tensiva risponde poco alla terapia analgesica e questo spiega perché una buona percentuale di pazienti non ne faccia uso. In alcuni casi può essere utile l’uso di ansiolitici benzodiazepinici, il ricorso ai quali dovrebbe essere comunque sporadico. Terapia preventiva La terapia preventiva è consigliabile nelle forme episodiche con elevata frequenza e nelle forme croniche. Tale terapia si basa sull’utiliz-
zo di alcuni farmaci e su alcuni approcci non farmacologici. Nell’ambito della terapia preventiva farmacologica l’amitriptilina è il farmaco classicamente considerato più efficace. I dosaggi abitualmente utilizzati e le precauzioni relative alla somministrazione sono gli stessi indicati per la terapia preventiva dell’emicrania. L’efficacia dell’amitriptilina nella cefalea tensiva è documentata da vari studi clinici: a dosaggi compresi tra 50 e 75 mg determinerebbe una riduzione di
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oltre il 50% degli attacchi in circa il 60% dei soggetti (Lance et al., 1964), ma anche dosaggi più bassi, compresi tra 10 e 30 mg al giorno sarebbero efficaci (Holland et al., 1983). Gli altri antidepressivi triciclici non presenterebbero la stessa azione. Più recente è l’utilizzo nella terapia preventiva della cefalea tensiva di altre categorie di farmaci antidepressivi appartenenti alla classe dei serotoninergici. In particolare alcuni studi clinici, per lo più non controllati, hanno documentato l’efficacia della dotiepina (75 mg al giorno in una unica somministrazione serale, Nappi e Manzoni, 1998), della fluoxetina (20 mg al giorno, Oguzhanoglu et al., 1999) e della venlafaxina (dose media 150 mg/giorno, Adelman et al., 2000). Sono stati inoltre riportati risultati promettenti sull’uso del ritanserin come terapia preventiva della cefalea tensiva (Nappi e Manzoni, 1998) un farmaco inibitore dei recettori per la serotonina 5HT2. Tra i trattamenti non farmacologici particolarmente utile risulta essere il biofeedback una tecnica che utilizzando particolari strumenti elettronici consente al soggetto di controllare ed imparare ad influenzare volontariamente alcune funzioni fisiologiche, in particolare lo stato di contrazione della muscolatura. Altre tecniche utilizzate, ma di efficacia non ancora provata sono la massoterapia, le elettrostimolazioni, l’agopuntura, la terapia con infiltrazioni con farmaci analgesici, steroidi o senza alcun farmaco (“dry needing”) dei cosiddetti punti trigger. Esistono infine alcune segnalazioni sull’efficacia del trattamento con tossina botulinica (Schmitt, 2001).
Cefalea a grappolo (Cluster Headache) INTRODUZIONE, EPIDEMIOLOGIA, GENETICA La cefalea a grappolo (CG), abitualmente considerata come la più dolorosa delle cefalee primarie, è conosciuta sin dagli anni ’30 del se-
colo scorso ed è stata per molti anni denominata cefalea di Horton (da non confondere con l’arterite temporale di Horton, v. pag. 1263), in ricordo del primo studioso che se ne occupò diffusamente (Horton et al., 1939). L’attuale definizione è da correlare con l’andamento temporale assolutamente caratteristico del disturbo, che comporta un numero elevato di attacchi dolorosi di durata relativamente breve che, per lo meno nella forma episodica, la più frequente, si raggruppano in un periodo di tempo limitato, mediamente 1-2 mesi circa. L’insieme degli attacchi che si verificano nel periodo viene definito «grappolo» o «cluster». I criteri della “International Headache Society” per la diagnosi di cefalea a grappolo sono riportati nella tabella 29.8. La prevalenza media nella popolazione generale è stata stimata in circa 0.5-1 caso per mille abitanti. Tradizionalmente viene riportata una nettissima predilezione per il sesso maschile con un rapporto di circa 6:1 nei confronti di quello femminile; tuttavia studi più recenti (Manzoni, 1997) hanno segnalato un rapporto maschi/femmine pari a 3,5 a 1. L’analisi delle più ampie casistiche descritte in letteratura negli ultimi 50 anni permette di ipotizzare una progressivo aumento della frequenza della cefalea a grappolo nel sesso femminile, permanendo a tutt’oggi una chiara predominanza maschile. L’età di insorgenza nel maschio è quella adulta giovanile con un picco unico di incidenza intorno ai 30 anni. Nelle donne si osservano due picchi di esordio della malattia (seconda e sesta decade). Le caratteristiche somatiche di alcuni soggetti affetti, descritte come peculiari e riconoscibili a prima vista, sono oggi da considerare solo segnalazioni aneddotiche: la cute del viso spessa, con aspetto a buccia d’arancio e rughe profonde, la conformazione delle ossa del viso piuttosto grossolana, gli zigomi alti. Per quanto riguarda le pazienti è stato osservato, con una certa frequenza, un generico aspetto “mascoli-
1246 Malattie del sistema nervoso
no”. Un’anamnesi positiva per fumo è stata riportata nell’85 % dei soggetti affetti da cefalea a grappolo. È stata inoltre riportata una elevata incidenza di ulcera peptica che, in passato veniva correlata ad un presunto abuso alcolico attualmente non confermato . In passato la cefalea a grappolo non è stata considerata una condizione ereditaria, tuttavia studi più recenti hanno dimostrato un rischio di insorgenza della malattia 14 volte maggiore nei parenti di primo grado dei soggetti affetti ed una concordanza del 100 % nelle coppie di gemelli omozigoti studiate. Alcuni autori (Russel, 1997) ritengono che un gene autosomico dominante possa svolgere un ruolo nell’ereditarietà della cefalea a grappolo, per lo meno in alcune famiglie. FISIOPATOLOGIA Nonostante i notevoli progressi tecnologici degli ultimi anni, la precisa eziopatogenesi di questa forma di cefalea rimane ancora non del tutto chiarita e soprattutto non esiste un modello unitario che giustifichi tutti gli elementi della sua presentazione clinica. I principali aspetti clinici da tenere in considerazione per una possibile interpretazione patogenetica sono: – la distribuzione strettamente unilaterale e la prevalente localizzazione nel territorio della prima branca trigeminale del dolore; – i fenomeni neurovegetativi associati alla sintomatologia algica; – la periodica e regolare presentazione nel tempo degli attacchi e dei periodi attivi. Il dolore Il dolore è generalmente localizzato a livello oculare, retro-orbitario e temporale e questo presuppone un coinvolgimento della prima branca del trigemino. Gli studi classici di Wolff nei primi anni ’40 dimostrarono che, a livello cranico, solo le grandi arterie della base e i vasi durali sono dotati di fibre nervose in grado di trasdurre i segnali dolorifici.
Il tono vasale nel distretto cranico è regolato da tre sistemi principali: 1) il sistema trigemino-vascolare. Il V nervo cranico, grazie al contingente di fibre sensitive localizzate nella branca oftalmica, costituisce nell’uomo l’unico sistema sensitivo-nocicettivo intracranico conosciuto. Il primo neurone ha sede nel ganglio di Gasser ed è di tipo bipolare. Le fibre afferenti sono in grado di condurre gli stimoli elettrici sia in senso anterogrado che retrogrado. Fattori centrali o periferici sono in grado di attivare la conduzione retrograda e il principale neurotrasmettitore liberato è rappresentato dal CGRP (calcitonin gene related peptide) che esplica una potente azione di vasodilatazione. Altre sostanze implicate in questo processo sono la sostanza P, la neurokinina A, la dinorfina e la galanina. Il rilascio di neuropeptidi a livello dei vasi determina una infiammazione sterile cosiddetta neurogena che si traduce in vasodilatazione, edema della parete, fuoriuscita di proteine sieriche a livello durale e sensibilizzazione dei terminali nervosi. Gli stimoli dolorosi così generati arrivano al corpo cellulare e le fibre gangliari centripete contraggono sinapsi di primo ordine a livello del nucleo della radice discendente o caudale del trigemino, compresa la sua estensione spinale (C1- C2) – complesso trigemino–cervicale (TCC)– e sinapsi di secondo ordine a livello talamico donde gli impulsi nocicettivi raggiungono la corteccia, in una sede non ancora identificata, determinando la percezione del dolore. Sperimentalmente la stimolazione del sistema trigeminale porta ad un aumento bilaterale del flusso ematico corticale, più marcato in sede omolaterale allo stimolo. La concentrazione di CGRP aumenta a livello della vena giugulare esterna, ipsilaterale alla sintomatologia algica, durante l’attacco di CG e si normalizza in concomitanza con la cessazione del dolore determinata da inalazione di ossigeno oppure da iniezione sottocutanea di sumatriptan che lega i recettori serotoninergici 5HT1D a livello dei terminali nervosi. Il CGRP può essere considerato un marcatore del sistema trigemino-vascolare.
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2) il sistema parasimpatico. Le fibre nervose originano nel nucleo salivatorio superiore (SSN) nel tronco encefalico, decorrono con i nervi faciale (VII) e glossofaringeo (IX) e contraggono sinapsi a livello dei gangli sfenopalatino e otico. L’acetilcolina è il neurotrasmettitore principale, ma sono stati individuati altri peptidi ad azione vasoattiva: il VIP (vasoactive intestinal peptide), il PACAP (pituitary adenylate cyclase activating peptide) e l’elospectina. Grande interesse ha suscitato la scoperta che la maggior parte delle fibre nervose contenenti l’ossido nitrico sintetasi (NOS) sono localizzate nei gangli parasimpatici. In questo distretto il sistema svolge principalmente un’azione di vasodilatazione e il VIP è considerato il marcatore elettivo di attivazione. Durante gli attacchi di CG la concentrazione del VIP aumenta in modo significativo nel sangue venoso della vena giugulare esterna. 3) il sistema simpatico. Il corpo cellulare del primo neurone è situato a livello ipotalamico e le fibre decorrono nella colonna intermedio-laterale del midollo spinale contraendo sinapsi nel ganglio cervicale superiore. Le fibre postgangliari costituiscono il plesso pericarotideo che ha una funzione prevalentemente vasocostrittoria. I neurotrasmettitori implicati sono la noradrenalina, il neuropeptide Y (NPY) e forse l’adenosintrifosfato (ATP). Durante gli attacchi di CG non si rileva un aumento di NPY, segnale di una mancata attivazione del sistema simpatico. I sintomi neurovegetativi La maggior parte degli autori concordano nell’attribuire i sintomi neurovegetativi associati al dolore durante gli attacchi di cefalea a grappolo in parte ad un’iperattività parasimpatica e in parte ad un deficit dell’attività simpatica. Rimane da chiarire però la sede di origine della disfunzione di entrambi i sistemi. – Sistema parasimpatico. L’aumento contemporaneo di CGRP e di VIP nel sangue della vena giugulare esterna ipsilaterale al dolore durante gli attacchi di CG suggeriscono l’atti-
vazione di un riflesso del tronco «trigeminoparasimpatico»: il braccio afferente sarebbe rappresentato da fibre trigeminali che, oltre a contrarre sinapsi nel TCC, inviano collaterali al SSN attivando il braccio afferente dato dalle fibre parasimpatiche che decorrono nel VII nervo cranico. L’attivazione parasimpatica potrebbe essere responsabile della lacrimazione, della sudorazione frontale, dell’iniezione congiuntivale e della rinorrea che compaiono durante l’attacco. – Sistema simpatico. La maggior parte delle evidenze suggeriscono che la compromissione sia verosimilmente di origine periferica. La vasodilatazione della carotide interna e l’edema della parete vasale determinato dall’infiammazione neurogenica potrebbero compromettere attraverso una trazione meccanica la funzionalità del plesso simpatico perivascolare con la conseguente comparsa una sindrome di Bernard-Horner ispilateralmente. Non è escludere però che l’ipoattività simpatica sia determinata da una disfunzione centrale ipotalamica. In ultima analisi i disturbi autonomici, siano essi di origine parasimpatica o simpatica, sarebbero entrambi conseguenza dell’attivazione trigeminale. Cosa determina l’attivazione del sistema trigemino-vascolare e del riflesso trigeminoparasimaptico? Al fine di rispondere a questi quesiti alcuni ricercatori hanno rivolto grande interesse al seno cavernoso che rappresenta un punto di incontro tra carotide interna, fibre trigeminali e fibre craniche simpatiche e parasimpatiche. Secondo l’«ipotesi periferica», infatti, l’origine primaria del dolore e dei sintomi neurovegetativi associati potrebbe derivare da un processo infiammatorio locale o vasculitico a livello del seno cavernoso che determina l’attivazione di fibre nocicettive trigeminali con conseguente percezione della sensazione dolorosa, disordini emodinamici locali sia sul versante arterioso che venoso, la compromissione funzionale del plesso autonomico simpatico
1248 Malattie del sistema nervoso
pericarotideo ipsilaterale e l’attivazione del nucleo salivatorio superiore e del ganglio pterigopalatino con conseguente iperfunzione parasimpatica. Tale interpretazione patogenetica, benché suggestiva, non chiarisce però la ricorrenza periodica della sintomatologia, caratteristica peculiare della CG. Periodicità della cefalea La CG presenta l’alternanza di periodi attivi, caratterizzati da episodi accessuali, a periodi di remissione completamente liberi dalla cefalea. Alla fine degli anni ’70 il rilievo di minori livelli di testosterone in pazienti con CG solo durante il periodo attivo e la diminuita riposta al TRH (thyrotropin-releasing hormon) forniscono le prime dimostrazioni di un possibile coinvolgimento ipotalamico. A sostegno di questa ipotesi vi è l’interessante osservazione della perdita, in pazienti affetti, di altri ritmi circadiani endogeni quali la ritmica secrezione di cortisolo, di melatonina, di prolattina ed altri ormoni. La concentrazione della melatonina prodotta dalla ghiandola pineale, inoltre, è sottoposta ad un rigido controllo regolato dalla regione soprachiasmatica dell’ipotalamo che rappresentano notoriamente un pace-maker endogeno. Anche alcuni studi neurofisiologici supportano l’ipotesi di una disfunzione centrale: l’uso di stimoli con effetto soppressorio sulla componente R2 del Blink Reflex ha evidenziato sia una sensibilizzazione del nucleo spinale del trigemino ipsilateralmente al dolore, che si riflette in un aumento degli input ascendenti mediato dalla sostanza P, sia una iporeattività bilaterale dei nuclei reticolari per diminuzione del tono oppioide centrale. Altri autori hanno individuato una disfunzione degli impulsi inibitori discendenti sui neuroni nocicettivi trigeminali, una maggiore eccitabilità di questi ultimi e una compromissione di varie funzioni integrative inclusi, presumibilmente, i sistemi di controllo del dolore trigeminale. I progressi nell’ambito del neuroimaging hanno permesso di visualizzare ulteriori aspet-
ti. Recentemente è stato condotto uno studio con Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) in 9 pazienti maschi affetti da CG cronica e le registrazioni sono state effettuate prima e dopo l’induzione di un attacco di CG mediante somministrazione di nitroglicerina. È stata rilevata l’attivazione aspecifica di varie aree quali la corteccia anteriore del giro del cingolo, che riflette la componente affettiva conseguente alla percezione di differenti stimoli dolorosi, la corteccia frontale, la corteccia dell’insula e il nucleo talamico ventro-posteriore. L’attivazione dei gangli della base potrebbe spiegare la compulsione al movimento che caratterizza il comportamento dei pazienti durante la crisi di CG. L’aspetto di maggiore interesse emerso dalla PET è sicuramente rappresentato dall’attivazione di un’area ipotalamica, ipsilaterale al dolore, localizzata alla base del terzo ventricolo, che non è mai stata osservata in studi analoghi condotti in pazienti affetti da altri tipi di dolore cranico. L’attivazione selettiva e specifica durante gli attacchi di CG di questa regione diencefalica, che ha un ruolo importante nel controllo dei ritmi circadiani, potrebbe spiegare la ricorrenza periodica della cefalea e le alterazioni neuroendocrine rilevate. L’applicazione della Risonanza Magnetica Funzionale ha messo in evidenza alterazioni strutturali permanenti a livello dell’ipotalamo inferiore in soggetti affetti da CG. Il dato attende conferme in quanto molti elementi, tra i quali la ricorrenza episodica delle crisi, fanno ritenere che disfunzioni centrali siano solo transitorie. Questi dati sposterebbero pertanto il primum movens a livello del sistema nervoso centrale («ipotesi centrale»), attribuendo a lesioni funzionali ipotalamiche la genesi primaria della CG e considerando l’attivazione del sistema trigeminovascolare un fenomeno secondario. MANIFESTAZIONI CLINICHE I criteri diagnostici per la cefalea a grappolo sono riportati in tabella 29.8. La forma clinica
Cefalee e nevralgie del capo e della faccia 1249 Tabella 29.8 - Criteri diagnostici per la cefalea a grappolo. Cefalea a grappolo A. Almeno due attacchi che soddisfino le condizioni B-D. B. Dolore intenso a localizzazione orbitale, sovraorbitale o temporale che perduri da 15 a 180 minuti senza provvedimenti analgesici. C. La cefalea è associata ad almeno uno dei seguenti sintomi che devono essere presenti dal lato del dolore: 1. iniezione congiuntivale 2. lacrimazione 3. congestione nasale 4. rinorrea 5. sudorazione della regione frontale e della faccia 6. miosi 7. ptosi 8. edema palpebrale. D. La frequenza degli attacchi deve essere compresa tra uno ogni due giorni e otto al giorno. Cefalea a grappolo a periodicità non determinata A. Devono essere soddisfatti i criteri per la diagnosi di cefalea a grappolo (vedi sopra).
più comune di cefalea a grappolo è la forma episodica (90% degli individui affetti) che si presenta con un numero di attacchi compreso tra 1 ogni due giorni e 8 al giorno (più frequentemente 1-3 attacchi al giorno) per un periodo di tempo definito (per lo più 1-2 mesi), seguito da remissioni in genere di lunga durata (mesi o anni). La frequenza dei grappoli è molto variabile; nelle fasi iniziali della malattia usualmente 1-2 all’anno, spesso con cadenza stagionale. Dopo alcuni anni la periodicità tende a divenire meno definita. L’accorciamento progressivo dei periodi di remissione può essere indicativo della trasformazione verso una cefalea a grappolo cronica, in cui non esistono più periodi di remissione, che viene detta secondaria (5% degli individui affetti). Nel 5% dei casi la cefalea a grappolo è cronica ab initio. Il singolo attacco è di breve durata, in media circa 30 minuti, e talora ad orari fissi più spesso nelle ore notturne, e nel primo pomeriggio. L’attacco notturno ha la tendenza a presentarsi
B. Stadio troppo precoce per decidere se classificare nell’ambito di uno dei sottogruppi seguenti. Cefalea a grappolo episodica A. Devono essere soddisfatti tutti i criteri enunciati sopra per la diagnosi generale di cefalea a grappolo. B. Devono essersi verificati in passato almeno due periodi di grappolo che, in assenza di trattamento, abbiano avuto durata compresa tra 7 giorni e 1 anno, intervallati da remissioni della sintomatologia di almeno 14 giorni. Cefalea a grappolo cronica A. Devono essere soddisfatti tutti i criteri enunciati sopra per la diagnosi generale di cefalea a grappolo. B. Assenza di periodi di remissione di durata superiore a 14 giorni per un tempo superiore ad 1 anno.
circa un ora e mezza dopo l’addormentamento ed è stato correlato con il sonno REM. Il dolore è estremamente intenso, solitamente riferito come il dolore più violento mai sperimentato nella vita. Durante l’attacco il soggetto è notevolmente irrequieto, e, fatto molto caratteristico, preferisce affrontare l’evento restando in piedi, camminando appoggiando il capo contro una parete. Il dolore ha una distribuzione rigorosamente unilaterale, inizia frequentemente in sede retro-oculare, è rapidamente ingravescente con diffusione attorno all’orbita, sino alle regioni mascellare o temporale, potendo raggiungere l’arcata dentaria superiore ed essere confuso con un’odontalgia. Una localizzazione insolita è a livello occipitale, con possibile diffusione alla regione cervicale o a quella temporale. Talora il dolore si trasferisce al lato opposto in “cluster” successivi (15%), o, più raramente, nel corso dello stesso “cluster”(5%). Il dolore raggiunge l’acme molto rapidamente, termina in maniera piuttosto brusca e si ac-
1250 Malattie del sistema nervoso
compagna a fenomeni vegetativi, espressione di ipofunzione del sistema simpatico ed iperfunzione di quello parasimapatico, dal lato del dolore: miosi, restringimento della rima palpebrale, edema palpebrale, vasodilatazione congiuntivale e cutanea, lacrimazione, ostruzione della narice omolaterale al dolore, per edema della mucosa e talora, verso il termine dell’attacco, si può verificare rinorrea. Circa nel 10% dei casi una sindrome di Bernard-Horner parziale, soprattutto una lieve miosi, permane anche nei periodi intercritici, durante tutto il grappolo e, in alcuni casi, anche nelle fasi di remissione del disturbo. Circa il 3% dei soggetti, con attacchi per altro tipici di cefalea a grappolo, non presentano fenomeni vegetativi. Ricordiamo, tuttavia, che in tali casi la diagnosi deve essere posta con particolare cautela non rispecchiando i criteri definiti dall’International Headache Society. Manifestazioni autonomiche sistemiche (bradicardia, talora così grave da indurre una sincope, ipertensione, aumento della increzione acida gastrica) possono essere osservate in alcuni. Altri sintomi di accompagnamento non rari sono nausea, foto e fonofobia, anche se la loro presenza non è richiesta come criterio diagnostico a differenza dell’emicrania senz’aura. Le caratteristiche cliniche dell’attacco nelle donne sarebbero lievemente differenti. In particolare, gli attacchi sono in media più brevi, i sintomi associati autonomici locali meno evidenti e più frequenti nausea, vomito, foto e fonofobia. Durante il “grappolo” il dolore può essere scatenato dall’assunzione di quantità anche modeste di bevande alcooliche o di vasodilatatori come la nitroglicerina o l’istamina (caratteristica che giustifica il termine cefalea istaminica, utilizzato in passato per la cefalea a grappolo). DIAGNOSI DIFFERENZIALE La forma tipica della cefalea a grappolo è inconfondibile. Nei casi atipici la diagnosi dif-
ferenziale si pone con le cefalee secondarie e con altre forme di cefalea primaria in particolare con l’emicrania senz’aura, la nevralgia trigeminale e le altre cefalee di breve durata con segni autonomici. Nella maggior parte dei casi l’anamnesi e l’esame neurologico sono in grado di rilevare caratteristiche distintive che consentono di differenziare agevolmente una cefalea secondaria da una cefalea a grappolo. In particolare manca abitualmente la stereotipata periodicità di fasi di attacchi e fasi di remissione. Sono stati riportati, tuttavia, rari casi di cefalea a grappolo, clinicamente tipica, “secondari” a patologia intracranica o dei seni paranasali. Uno studio TC cerebrale con m.d.c., una volta nella vita, è pertanto consigliato da alcuni autori nei pazienti con cefalea a grappolo. Gli attacchi di emicrania (disturbo che può porre problemi di diagnosi differenziale se gli attacchi sono molto frequenti) si differenziano da quelli della cefalea a grappolo per la maggiore durata (4-72 ore), la minore evidenza dei segni autonomici locali, l’assenza di una tipica periodicità. La nevralgia trigeminale si differenzia per la presenza di accessi dolorosi brevissimi (pochi secondi), anche se subentranti, con caratteristica di scossa elettrica localizzati nell’area di distribuzioni di una o più branche del V nervo cranico. Gli attacchi possono essere scatenati dal stimolazione delle aree trigger, caratteristica che manca nella cefalea a grappolo. Conviene ricordare che il medico non specialista confonde spesso la cefalea a grappolo con la nevralgia trigeminale, cui vengono addebitati quasi tutti i dolori cranio-facciali. La diagnosi differenziale più ardua è tra la cefalea a grappolo e le altre forme di cefalea parossistica unilaterale associata a fenomeni autonomici, in particolare l’emicrania parossistica cronica ed episodica e la sindrome SUNCT (Short-lasting Unilateral Neuralgiform pain with Conjunctival injection and Tearing, v. pag. 1255). Tali sindromi, tuttavia, sono assai poco
Cefalee e nevralgie del capo e della faccia 1251 Tabella 29.9 - Caratteristiche differenziali tra cefalea a grappolo e altre cefalee parossistiche unilaterali. CG
EPC
EPE
SUNCT
Genere (M:F)
4:1
1:3
1:1
8:1
Numero attacchi al giorno
1-8
1-40
3-30
1/-30/ora
Durata singolo attacco (min)
15-180
2-45
1-30
<5
Effetto scatenante alcool
si
scarso
scarso
scarso
Risposta indometacina
- (*)
++
++
-
EPC = emicrania parossistica cronica EPE = emicrania parossistica episodica SUNCT = Short-lasting Unilateral Neuralgiform pain with Conjunctival injection and Tearing CG = cefalea a grappolo (*) vi sono segnalazioni di pazienti i cui “grappoli” rispondono efficacemente all’indometacina; ciò avviene però raramente e la risposta non è comunque “esclusiva” come nell’emicrania parossistica.
frequenti e quindi nella pratica clinica il problema si pone raramente. La Tabella 29.9 riporta le principali caratteristiche differenziali riguardanti l’andamento temporale del dolore, i sintomi associati e la diversa risposta all’indometacina. TERAPIA Consigli generali al paziente Per tutto il “grappolo” è opportuno evitare l’assunzione di alcool anche in minime quantità. Altitudini superiori ai 1500 metri possono facilitare l’insorgenza degli attacchi durante il “grappolo”. Tale effetto può essere prevenuto dalla somministrazione orale di acetazolamide (250 mg due volte al giorno per 4 giorni, iniziando due giorni prima del trasferimento). Variazioni prolungate del ritmo di sonno possono scatenare il grappolo nei periodi di remissione. Terapia dell’attacco Il dolore dell’attacco di cefalea a grappolo non è abitualmente sensibile agli analgesici comuni e agli antinfiammatori non steroidei, che
procurano solo ad alcuni pazienti un sollievo per altro parziale e comunque tardivo. La somministrazione sottocutanea di sumatriptan (6 mg), capostipite dei triptani, una classe di farmaci di recente introduzione ad azione agonista 5HT1B e 5HT1D, determina la regressione completa del dolore nel 74 % dei pazienti entro 15 minuti dalla somministrazione. La somministrazione di sumatriptan per spray nasale (20 mg) o per via orale (50-100 mg) è abitualmente meno efficace. Sebbene genericamente ben tollerato, il farmaco è controindicato nei pazienti affetti da patologia ischemica cardiaca e cerebrale ed ipertensione arteriosa non controllata. Una certa cautela, specialmente per somministrazioni ripetute dovrebbe essere osservata in tutti i soggetti con fattori di rischio vascolare. L’inalazione di ossigeno (7/10 litri al minuto per 15 minuti) è efficace nel 85% circa dei maschi e nel 60% circa delle femmine. In alcuni soggetti il dolore si riduce notevolmente pur senza scomparire, in altri l’attacco viene solo ritardato di alcune decine di minuti. Tale terapia ha ovvie limitazioni pratiche anche se sono disponibili piccole bombole portatili.
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Tra gli altri triptani attualmente disponibili (v. pag. 1236) solo lo zolmitriptan, somministrato per via orale alla dose di 10 mg, ha dimostrato una efficacia superiore al placebo anche se non raggiunge (mancano peraltro studi di comparazione diretta) l’efficacia del sumatriptan per somministazione sottocutanea o dell’inalazione di ossigeno. Effetti collaterali e controindicazioni sono analoghe a quelle del sumatriptan. Gli ergotaminici, molto utilizzati in passato nel trattamento sintomatico della cefalea a grappolo, trovano oggi scarso impiego per varie ragioni. In particolare, il tartrato di ergotamina e la diidroergotamina per via parenterale non sono più disponibili in Italia, il tartrato di ergotamina (2 mg) per via rettale è superato, per efficace e tollerabilità, dal sumatriptan s.c. e la diidroergotamina (1 mg) per via intranasale non si è dimostrata efficace. Terapia preventiva L’importanza della terapia preventiva in presenza di crisi frequenti e violente come quelle della cefalea a grappolo è ovvia. La terapia preventiva della cefalea a grappolo episodica deve essere instaurata soltanto durante il “cluster”, la cui durata ha notevole variabilità interindividuale, ma è frequentemente conosciuta e prevedibile da parte del paziente. L’obbiettivo primario è quello di indurre una remissione completa, rapida e duratura delle crisi o, quanto meno ridurne la frequenza, l’intensità e la durata. Alcuni farmaci, utili per la rapidità della loro azione, non possono essere somministrati per più di alcune settimane per il rischio di effetti collaterali. Altri, iniziano ad esercitare il loro effetto più tardivamente, ma agiscono in modo persistente e soprattutto senza effetti collaterali importanti. I farmaci utilizzati come terapia preventiva devono essere iniziati sin dall’esordio dei sintomi e mantenuti per tutta la durata prevedibile del “cluster” ad eccezione degli steroidi e dell’ergotamina che non possono essere somministrati a lungo e che perciò non trovano indica-
zione in caso di grappoli di durata superiore a 2 mesi. Nella cefalea a grappolo cronica, una volta controllati i sintomi, non è nota la durata consigliabile della terapia di mantenimento. Tuttavia non sono ingiustificati tentativi di sospensione dopo che la remissione completa è in atto da vari mesi. Il verapamile è il farmaco di prima scelta (dose iniziale 80 mg tre volte al giorno o 240 mg in una sola somministrazione, per le formulazioni a lento rilascio). Nelle forme refrattarie, un buon controllo dei sintomi è stato ottenuto solo con dosaggi superiori a quelli consigliati (sino a 720 mg/die). I principali effetti collaterali sono: stipsi, vertigini soggettive, astenia, nausea, ipotensione, bradicardia. I corticosteroidi rappresentano, per la loro rapidità di azione, una delle terapie preventive tra le più utilizzate nella forma episodica con durata prevedibile del grappolo inferiore a 2 mesi o all’inizio del grappolo per indurre una regressione rapida dei sintomi. Il trattamento può essere effettuato con prednisone alla dose iniziale di 1 mg/Kg/die per una settimana, con successiva graduale riduzione della dose (di 10 mg/die ogni 2-3 giorni) sino a totale sospensione. Altrettanto efficace è il desametasone abitualmente somministrato per due settimane alla dose di 8 mg al giorno per la prima settimana, e di 4 mg al giorno per la seconda settimana. Gli effetti collaterali di una terapia steroidea a lungo termine sono ben noti e quindi l’uso prolungato di tali farmaci nei pazienti con cefalea a grappolo cronica deve essere scoraggiato. Il carbonato di litio, alla dose di 600-900 mg/ die, ha una elevata efficacia sia nella cefalea a grappolo episodica che in quella cronica, ma il suo margine di sicurezza è piuttosto ridotto, e questo impone un controllo frequente dei tassi plasmatici che devono mantenersi al di sotto di 1 mEq/litro, oltre a controlli delle funzioni cardiaca, renale, epatica e tiroidea. La terapia è spesso efficace a concentrazioni sieriche comprese tra 0.4-0.8 mEq/l, in media inferiori a quelle richieste nella ciclotimia.
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L’ergotamina tartrato (2-4 mg/die) per via orale è da molto tempo utilizzata per indurre una remissione rapida della sintomatologia nella cefalea a grappolo. Tuttavia questo farmaco è spesso mal tollerato per gli effetti collaterali (principalmente la nausea) e aumenta il rischio di ricadute dopo 2-3 settimane di somministrazione. È inoltre controindicato l’uso simultaneo di un triptano per il trattamento dell’attacco. Per tali motivi l’ergotamina tartrato è attualmente poco utilizzata. La metisergide alla dose media di 4-6 mg/die suddivisi in tre somministrazioni ha una buona efficacia; tuttavia, per il rischio, sia pure assai raro, di induzione di fibrosi retroperitoneale, il farmaco non va utilizzato in modo continuativo per più di 6 mesi. Attualmente, non è più in vendita in Italia. L’acido valproico (600-1500 mg/die) ha dimostrato, in studi recenti, di poter essere efficace inducendo nel 70% circa dei pazienti una remissione delle crisi in 1-4 giorni. Sembrano rispondere più brillantemente i soggetti che presentano nausea, fono e fotofobia come sintomi associati al dolore. Gli effetti collaterali possibili sono nausea, sonnolenza, tremore, incremento ponderale e perdita di capelli. Esistono studi non controllati o casi clinici riportati che documentano l’efficacia di altri farmaci abitualmente meno utilizzati, quali: pizotifene, flunarizina, diltiazem e baclofene. In un recente studio clinico in aperto (Wheeler, 1999) il topiramato (50-125 mg/die) ha determinato un rapido miglioramento dei sintomi in 10 pazienti, di cui due affetti da una forma cronica. Terapia delle cefalee a grappolo refrattarie Circa il 10% dei soggetti sviluppa una cefalea a grappolo cronica resistente alla monoterapia. In tali casi può rivelarsi efficace l’associazione di due o tre farmaci. Per coloro in cui tutte le misure sopra indicate si rivelino inefficaci i trattamenti chirurgi-
ci possono rappresentare un’opzione praticabile. La procedura di scelta è a tutt’oggi la termocoagulazione con radiofrequenza del ganglio trigeminale, che dà buoni risultati in oltre il 70% dei pazienti, abitualmente in quelli in cui si è ottenuta una ipoestesia piuttosto marcata. Effetti collaterali descritti sono diplopia, iperacusia, e, a lungo termine anestesia corneale (è sempre necessaria una cura particolarmente attenta dell’occhio per evitare complicazioni) e, in meno del 4 % dei casi, anestesia dolorosa. In piccoli gruppi la radiochirurgia con gammaknife ha dato risultati soddisfacenti con scarsi effetti collaterali. Infine, l'impianto di elettrodi stimolanti in regione ipotalamica posteriore ha indotto una remissione completa dei sintomi in un caso di cefalea a grappolo intrattabile (Leone et al., 2001).
Cefalee unilaterali di breve durata con segni autonomici omolaterali Questo capitolo riguarda un gruppo di cefalee piuttosto rare accomunate dal fatto che il dolore, in genere molto intenso, è strettamente unilaterale ed è accompagnato da segni autonomici. Come si può desumere dalla tabella 29.10 alcune di queste non sono incluse nella classificazione dell’Intenational Headache Society attualmente in uso, ma è probabile che verranno in-
Tabella 29.10. Cefalee unilaterali di breve durata con segni autonomici Cefalea a grappolo episodica e cronica * Emicrania parossistica episodica e cronica * Sindrome SUNCT** Sindrome cluster-tic Emicrania continua *incluse nella classificazione dell’IHS ** Short-lasting Unilateral Neuralgiform headache with Conjunctival injection and Tearing
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cluse nella prossima classificazione in fase di elaborazione. Per la trattazione della cefalea a grappolo si rimanda allo specifico capitolo. EMICRANIA PAROSSISTICA Si tratta di una cefalea rara, che ha un picco di incidenza intorno ai vent’anni, più frequente nel sesso femminile con un rapporto di 3:1. I criteri diagnostici dell’IHS per questa forma sono riportati nella tabella 29.11. Il dolore compare abitualmente in regione orbitaria, sopraorbitaria o temporale, ma è stato riportato anche in regione occipitale; è strettamente unilaterale (un solo caso di dolore bilaterale con caratteristiche cliniche per altro tipiche, riportato in letteratura) e ha una durata compresa tra 2 e 45 minuti. Gli attacchi si presentano con una frequenza elevata, compresa tra 1 e 40 al giorno e per rispettare i criteri diagnostici dell’IHS devono avere una frequenza superiore a 5 al giorno per più della metà dei giorni. Il dolore è accompagnato da almeno un segno autonomico omolaterale: iniezione congiuntivale, lacrimazione, congestione nasale,
rinorrea, ptosi palpebrale, edema palpebrale. Gli attacchi rispondono in modo assai caratteristico alla terapia con indometacina alla dose di 150 mg/die (o inferiore), tanto che questo criterio ex-adjuvantibus viene abitualmente utilizzato a conferma della diagnosi, anche se è stato criticato da alcuni autori. Sebbene la frequenza degli attacchi possa notevolmente variare nel tempo, l’emicrania cronica parossistica non presenta, per definizione, remissioni in assenza di terapia. Tuttavia, lo stadio cronico può essere preceduto da una fase episodica, analoga a quella della cefalea a grappolo, che presenta remissioni spontanee. Tale evenienza sarebbe, però, assai rara, e la maggioranza dei pazienti presenta una forma cronica ab initio. La fisiopatologia dell’emicrania parossistica non è nota nei dettagli. I dati disponibili, e riguardanti lo studio di alcuni neuropeptidi (calcitonine-gene related peptide, vasoactive intestinal polypeptide), e del comportamento delle funzioni autonomiche e del flusso ematico cerebrale durante l’attacco suggeriscono qualche somiglianza con la cefalea a grappolo.
Tabella 29.11 - Criteri diagnostici per l’emicrania cronica parossistica. Emicrania cronica parossistica A. Almeno cinquanta attacchi che soddisfino le condizioni B-E. B. Attacchi di dolore intenso, orbitario, sovraorbitario o temporale, sempre dallo stesso lato, della durata compresa tra 2 e 45 minuti. C. Frequenza degli attacchi superiore a cinque per giorno. D. Il dolore deve essere associato ad almeno 1 dei seguenti segni o sintomi dal medesimo lato: 1. iniezione congiuntivale 2. lacrimazione 3. congestione nasale 4. rinorrea 5. ptosi 6. edema palpebrale. E. Efficacia dell’indometacina al dosaggio di 150 mg/die o meno. F. Almeno uno dei seguenti: 1. l’anamnesi, l’obiettività generale o neurologica non depongono per alcuna delle patologie elencate nelle categorie 5-11 della classificazione dell’IHS; 2. l’anamnesi, l’obiettività generale o neurologica possono indicare l’esistenza di tali disturbi, che però sono esclusi da esami mirati; 3. tali disturbi esistono, ma non si verificano in stretta correlazione temporale per la prima volta con la cefalea.
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La diagnosi differenziale si pone con le altre forme di cefalea unilaterale di breve durata e si basa sulle caratteristiche cliniche (Tab. 29.9). Considerato che è stato segnalato un certo numero di casi di cefalee con caratteristiche cliniche tipiche per emicrania parossistica associate a lesioni intracraniche e a patologie extracraniche (tumori della sella turcica, frontali e intracavernosi, patologia cerebrovascolare, ipertensione endocranica benigna, tumore di Pancoast, collagenopatie) tutti i pazienti dovrebbero essere sottoposti ad accertamenti diagnostici che includano: esami ematochimici (compresi indici di flogosi e accertamenti per vasculiti), radiografia del torace, TC cerebrale, e, nei casi in cui il dolore diventa atipico e bilaterale una puntura lombare con misurazione della pressione liquorale. I pazienti con forme di emicrania parossistica secondarie rispondono spesso in modo parziale alla terapia con indometacina, di cui sono spesso necessari dosaggi superiori a 200 mg/die. La terapia si basa, come già detto, sulla somministrazione giornaliera di indometacina, iniziando con 25 mg tre volte al giorno per os ed aumentando gradualmente la dose sino a 50 mg tre volte al giorno se non si ottiene la risposta clinica. In alcuni pazienti possono risultare efficaci altri farmaci quali il naprossene sodico (550-1110 mg/die) ed il verapamile (120-240 mg/die). SINDROME SUNCT La sindrome SUNCT (Short-lasting Unilateral Neuralgiformic headache with Congiuntival injection and Tearing) o cefalea unilaterale neuralgiforme con iniezione congiuntivale e lacrimazione è una rara cefalea primaria caratterizzata da episodi di dolore molto frequenti e di breve durata, che hanno abitualmente una localizzazione unilaterale, per lo più in regione orbitaria e temporale. La sindrome è molto rara, non ha una incidenza ben definita e sembra più frequente nel sesso maschile con un rapporto di
17 a 2. Il dolore compare in modo parossistico, è piuttosto intenso, di qualità pulsante o trafittiva e di durata compresa tra i 15 e i 120 secondi. Gli attacchi si ripetono molte volte al giorno (in media 5-6 all’ora) e sono costantemente associati a segni autonomici omolaterali di cui l’iniezione congiuntivale è il più comune. Il dolore rimane abitualmente unilaterale anche se sono riportati casi in cui gli attacchi si sono presentati alternativamente dai due lati. In molti casi il dolore può essere precipitato da movimenti del collo, caratteristica descritta anche per altre cefalee unilaterali di breve durata associate a segni autonomici. La tabella 29.12 riporta i criteri proposti per la diagnosi di sindrome SUNCT. La fisiopatologia della sindrome SUNCT è sconosciuta anche se, come per la cefalea a grappolo e l’emicrania parossistica, si suppone una attivazione del sistema trigemino-autonomico. La diagnosi differenziale si pone con le altre forme di cefalea unilaterale di breve durata e si basa sulle caratteristiche cliniche (tabella 29.9). Poiché sono stati descritti rari casi di sindrome SUNCT sintomatica di lesioni della fossa cranica posteriore (in due casi malforma-
Tabella 29.12 Criteri diagnostici per la Sindrome SUNCT A. Almeno 3 attacchi che soddisfino le condizioni B-D. B. Dolore moderatamente grave orbitario o temporale pulsante o trafittivo di durata compresa tra 15 e 120 secondi. C. La frequenza degli attacchi è compresa tra 3 e 100 al giorno. D. Il dolore è associato ad almeno uno dei seguenti segni o sintomi presenti dallo stesso lato del dolore (di cui comunque il primo è il più frequente e il più evidente): 1. iniezione congiuntivale 2. lacrimazione 3. congestione nasale 4. rinorrea 5. ptosi palpebrale 6. edema palpebrale.
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zioni arterovenose dell’angolo ponto-cerebellare, in un caso un emangioma cavernoso del tronco enfefalico), uno studio con RM è consigliato in tutti i casi in cui la sindrome viene sospettata. Tutte le terapie proposte in passato si sono rivelate inefficaci. Segnalazioni recenti indicherebbero l’utilità della lamotrigina a dosaggi compresi tra 50 e 200 mg al giorno. CLUSTER-TIC Il termine cluster-tic è stato introdotto nel 1978 da Green e Apfelbaum per descrivere alcuni casi in cui coesistono attacchi tipici di cefalea a grappolo e nevralgia trigeminale. Nei pazienti riportati in letteratura i due tipi di dolore possono presentarsi nello stesso periodo di tempo oppure alternarsi fra loro. A tutt’oggi questo tipo di cefalea ha caratteristiche troppo poco precise per essere inclusa nella classificazione della IHS. EMICRANIA CONTINUA L’emicrania continua, da non confondere con lo stato emicranico, è caratterizzata da un dolore cefalico continuo (caratteristica che la differenzia dalle altre forme di cefalea unilaterale con segni autonomici) unilaterale, di intensità moderata o grave. Circa la metà dei pazienti presenta inoltre esacerbazioni dolorose più intense, abitualmente di breve durata, che però in alcuni possono durare sino ad alcuni giorni. Le esacerbazioni dolorose sono associate alla comparsa di segni autonomici omolaterali, in genere meno intensi che nella cefalea a grappolo. La tabella 29.13 riporta i criteri proposti per la diagnosi di emicrania continua. La diagnosi di emicrania continua è difficile. Il disturbo va differenziato soprattutto dalle varie forme di cefalee croniche eventualmente complicate da abuso di analgesici. Il criterio ex-adjuvantibus di completa risposta
Tabella 29.13 Criteri diagnostici per l’emicrania continua. A. Cefalea presente da almeno 1 mese B. Dolore unilaterale C. Il dolore ha le seguenti caratteristiche: 1. continuo ma fluttuante 2. di intensità moderata 3. manca di fattori scatenanti D. Il dolore ha almeno una delle seguenti due caratteristiche: 1. risponde in modo completo alla terapia con indometacina 2. almeno uno dei seguenti segni o sintomi autonomici accompagna le esacerbazioni dolorose: iniezione congiuntivale lacrimazione congestione nasale rinorrea ptosi palpebrale edema palpebrale.
del dolore alla terapia con indometacina (150 mg/die), riportato nella tabella 29.12, è di indubbia utilità.
Cefalee varie non associate a lesioni strutturali È un gruppo di cefalee spesso di modesto significato clinico, la cui conoscenza, tuttavia, è utile ai fini di una diagnosi differenziale, e per rassicurare i soggetti circa la benignità del disturbo lamentato. Cefalea puntoria idiopatica. – Si tratta di dolori trafittivi, molto brevi, più comuni in soggetti ansiosi, già affetti da emicrania, nella stessa sede della cefalea abituale (per lo più in regione parietale, temporale e orbitaria); piuttosto frequenti nell’adolescenza, si presentano ad intervalli irregolari, da ore a giorni. La sintomatologia dolorosa può rispondere assai bene a brevi cicli di terapia con indometacina alla dose di 25 mg tre volte al giorno.
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Cefalea da compressione esterna. – Si verifica per compressione dei rami nervosi cutanei del cranio ed è particolarmente frequente in coloro che usano una fascia elastica per tenere in sede occhiali per il nuoto. Cefalea da freddo. – Dolore diffuso che si manifesta per esposizione del capo, non coperto, a basse temperature. Analoga è la cefalea da ingestione di cibi freddi (gelati), localizzata prevalentemente in regione frontale, che dura meno di 5 minuti. Cefalea benigna da tosse – Cefalea benigna da attività fisica – Cefalea benigna da attività sessuale. – Si tratta di tre tipi di cefalea accomunati dal fatto di essere provocati, almeno in alcuni casi, dall’azione della muscolatura addominale, tipo manovra di Valsalva. Devono essere valutati con attenzione, dal momento che la cefalea potrebbe non essere di natura idiopatica, ma secondaria a patologia espansiva intracranica, con alterata dinamica liquorale (v. pag. 1259 diagnosi differenziale delle cefalee secondarie). La cefalea benigna da tosse segue immediatamente il colpo di tosse, è bilaterale e recede abitualmente entro 5 minuti. La cefalea benigna da attività fisica può essere precipitata da qualunque tipo di esercizio, soprattutto se effettuato in clima caldo e in altitudine. È abitualmente bilaterale e di qualità pulsante, ma può essere unilaterale specie nei pazienti affetti da attacchi spontanei di emicrania. La durata della cefalea varia da pochi minuti a 24 ore e può essere prevenuta, in alcuni casi, dall’assunzione di propranololo prima dell’inizio dell’attività fisica. La cefalea benigna da attività sessuale inizia abitualmente durante l’eccitamento sessuale con un dolore sordo diffuso che diventa molto violento durante l’orgasmo. In alcuni casi il dolore può iniziare in modo improvviso durante l’orgasmo o seguirlo con la riassunzione della stazione eretta analogamente alla cefalea posturale.
Cefalea cronica quotidiana Con questo termine vengono abitualmente indicati quei pazienti che, al momento della visita, soffrono di cefalea tutti o quasi tutti i giorni da parecchi mesi. La classificazione della International Headache Society (Tab. 29.1) trascura questo capitolo prevedendo (se si eccettuano alcune forme assai particolari quali la cefalea a grappolo e l’emicrania parossistica) una forma cronica unicamente per la cefalea tensiva. In realtà le osservazioni compiute negli ultimi anni hanno permesso di rilevare che la maggior parte dei soggetti affetti da cefalea cronica quotidiana sono originariamente degli emicranici, solo una minoranza presenta una cefalea tensiva cronica e una certa percentuale una cefalea cronica quotidiana ab inizio. I soggetti affetti da cefalee frequenti tendono inoltre ad abusare di analgesici comuni, narcotici, ergotamina e anche di farmaci triptanici. L’abuso farmacologico facilita il passaggio verso una cefalea cronica quotidiana, con il meccanismo della cefalea da rebound, complicato da una sindrome da dipendenza da farmaci. Tenendo conto di queste osservazioni è stata proposta per le cefalee croniche quotidiane la classificazione illustrata nella tabella 29.14. Tabella 29.14 Classificazione delle cefalee croniche quotidiane. Cefalea che si presenta tutti i giorni o che, comunque, si presenta per più di 15 giorni al mese da oltre 6 mesi e dura più di 4 ore al giorno. 1. Emicrania trasformata a. con abuso farmacologico b. senza abuso farmacologico 2. Cefalea tensiva cronica a. con abuso farmacologico b. senza abuso farmacologico 3. Cefalea cronica quotidiana senza storia precedente di cefalea a. con abuso farmacologico b. senza abuso farmacologico 4. Emicrania continua a. con abuso farmacologico b. senza abuso farmacologico
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La fisiopatologia delle cefalee croniche è ancora sconosciuta, con probabili differenze nelle diverse forme. Lavori recenti suggeriscono che i meccanismi implicati nella genesi del dolore potrebbero essere: a) eccitazione anomala delle fibre nocicettive periferiche con sensibilizzazione periferica (forse causata da infiammazione neurogena cronica), b) aumentata eccitabilità dei neuroni del nucleo della radice discendente del V (sensibilizzazione centrale), c) alterati meccanismi di modulazione del dolore, d) dolore centrale spontaneo, e) attività continua del cosiddetto “generatore di emicrania troncoencefalico”. Le caratteristiche cliniche della cefalea tensiva cronica e dell’emicrania continua sono state descritte nei rispettivi capitoli. Coloro che presentano una emicrania trasformata hanno per lo più una anamnesi positiva per una forma episodica di emicrania senz’aura o, più raramente, con aura. In genere nel corso degli anni gli attacchi sono divenuti sempre più frequenti e resistenti alle terapie farmacologiche, anche se spesso l’intensità del singolo attacco e la presenza di fotofobia, nausea e vomito sono divenute più lievi. Possono persistere spontaneamente o in rapporto a fattori scatenanti (ciclo mestruale, per esempio) attacchi con caratteristiche tipiche per episodi di emicrania. Circa l’80 % dei soggetti con emicrania trasformata abusa di farmaci analgesici di vario tipo ed una percentuale analoga soffre anche di un disturbo depressivo. Perché una cefalea cronica quotidiana possa essere classificata come emicrania trasformata deve essere presente almeno uno dei seguenti criteri: • storia pregressa di emicrania con o senz’aura secondo i criteri IHS • storia di una cefalea con incremento progressivo di frequenza e parallela riduzione della gravità delle caratteristiche emicraniche dell’attacco in un periodo di tempo di almeno 3 mesi • cefalea cronica associata con attacchi i cui criteri corrispondono a quelli previsti dall’IHS per una diagnosi di emicrania
In una percentuale non ancora ben definita di casi la cefalea cronica quotidiana inizia bruscamente, senza una storia precedente di emicrania o cefalea tensiva episodica. Spesso la cefalea si sviluppa in meno di tre giorni e, anche a distanza di tempo, i pazienti sono in grado di riportare il momento o il periodo di esordio. La cefalea cronica senza storia precedente di cefalea è una entità clinica ancora poco conosciuta e forse eterogenea. Per tutti i malati con queste caratteristiche sono consigliati accertamenti strumentali per escludere una cefalea secondaria. La terapia della cefalea cronica quotidiana è particolarmente complessa e, per lunghi periodi, l’assenza di risultati o la comparsa di recidive possono causare sconforto sia al medico che al paziente. Oltre a porre una diagnosi corretta e ad escludere, ove sia necessario con accertamenti strumentali, una cefalea secondaria è indispensabile identificare la comorbilità psichiatrica o internistica eventualmente presenti e fornire un adeguato sostegno psicologico. Il trattamento si basa su due punti fondamentali: 1) eliminazione o prevenzione dell’abuso farmacologico 2) terapia preventiva. 1) Tutti i farmaci analgesici devono essere limitati con la possibile eccezione degli antinfiammatori non steroidei a lunga azione. L’uso di analgesici o farmaci specifici per l’attacco emicranico è consentito nei pazienti senza abuso farmacologico per trattare gli attacchi emicranici associati alla cefalea cronica. La assunzione continuativa di farmaci sembra avere maggior rilievo della quantità totale mensile e, sebbene non vi sia ancora un accordo sulla definizione di abuso, il termine si utilizza abitualmente per coloro che assumono: • narcotici o ergotamina più di 2 volte la settimana • tre o più analgesici comuni al giorno per più di 5 giorni la settimana
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• associazioni di analgesici + sedativi o barbiturici più di tre volte la settimana. La disintossicazione è difficile e se il soggetto assume narcotici o preparati contenenti barbiturici può essere pericolosa e richiede l’ospedalizzazione, che viene consigliata anche per coloro in cui programmi di disintossicazione graduale a domicilio (con una riduzione del 10 % circa alla settimana) hanno fallito. 2) La terapia preventiva ha lo scopo di ridurre l’intensità della cefalea e riportare ad una condizione di cefalea episodica. Difficilmente è efficace (e questo punto va spiegato al malato) se non viene interrotto l’abuso farmacologico. I farmaci antidepressivi ed in particolare l’amitriptilina, sono tra i più utilizzati, anche in considerazione della frequente coesistenza di disturbi d’ansia e depressione. Altri farmaci utilizzati (specialemente se la diagnosi orienta verso una emicrania trasformata) sono il propranololo e i calcio-antagonisti (verapamile e flunarizina) anche se dati sulla loro efficacia nella cefalea cronica quotidiana provengono unicamente da studi non controllati. Il sodio-valproato, la cui efficacia preventiva nella emicrania è stata dimostrata con studi controllati, sembra utile anche nelle cealee croniche quando altri agenti abbiano fallito. Anche la metisergide, (che, tuttavia, in Italia, non è più disponibile in commercio) è stata impiegata con beneficio.
i soggetti in cui la cefalea può rappresentare il sintomo, talora unico, di una patologia intra o extracranica più o meno grave. Nella classificazione della International Headache Society (Tab. 29.1) tutte le cefalee riportate nei punti dal 5 all’11 sono cefalee secondarie, cioè cefalee attribuibili a specifiche cause patologiche che, come si può constatare, sono straordinariamente numerose. In alcuni casi la causa della cefalea risulta immediatamente evidente dalla storia clinica e dall’analisi dei precedenti anamnestici, mentre in altri capire che la cefalea nasconde una patologia di rilievo può essere molto complicato. L’unico elemento che può ragionevolmente guidare il medico alla prescrizione di accertamenti adeguati è un quadro clinico che suggerisca una cefalea secondaria in assenza di una storia pregressa di cefalea o l’insorgenza di segnali di allarme in un paziente con una storia pregressa di cefalea primaria. Tali segnali comprendono: • Insorgenza di una cefalea grave o ingravescente. • Insorgenza di una cefalea con caratteristiche inusuali per qualunque forma di cefalea primaria. • Insorgenza di una cefalea anche con caratteristiche tipiche per una cefalea primaria dopo i 50 anni. • Esordio acuto della cefalea. • Presenza di segni obiettivi all’esame neurologico.
Cefalee secondarie Oltre il 90% dei soggetti che vengono valutati presso un Centro Cefalee presenta un tipo di cefalea primaria. In questo caso la normalità dell’esame obiettivo generale e neurologico è costante, il quadro clinico è sufficientemente chiaro da permettere al medico una diagnosi corretta senza ricorrere a accertamenti strumentali. Una valutazione strumentale o di laboratorio non serve infatti a confermare la diagnosi di cefalea primaria bensì ad identificare
Se è già stata posta una diagnosi di cefalea primaria, l’uso di accertamenti è indicato in caso di: • Variazioni delle caratteristiche della cefalea: 1. andamento ingravescente, 2. insorgenza durante sforzi fisici, attività sessuale, manovra di Valsalva, 3. modificazione dei sintomi dell’aura, 4. comparsa di altri sintomi potenzialmente indicativi di patologia del SNC (disturbi in-
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gravescenti del visus, dello stato di coscienza, dell’equilibrio, sintomi motori o sensitivi non transitori), 5. associazione con mialgie, artralgie o febbricola, 6. comparsa di segni obbiettivi all’esame neurologico. • Emicrania che si presenta costantemente dallo stesso lato ed è accompagnata da segni neurologici anche transitori dal lato opposto. • Ripetuti episodi di aura senza cefalea. • Cefalea resistente o divenuta resistente alle terapie. Da sottolineare infine che accertamenti strumentali sono consigliati per le seguenti forme in genere rare, di cefalee primarie e nevralgie craniche, considerata la segnalazione di casi clinicamente tipici associati a patologia intra o extracranica: • emicrania basilare • emicrania oftalmoplegica • emicrania emiplegica familiare • emicrania con aura prolungata • sindrome SUNCT • emicrania parossistica • cefalea benigna da tosse, da attività fisica, da attività sessuale • nevralgia trigeminale (limitatamente ai casi ad insorgenza in età non tipica o in caso di resistenza alle terapie mediche). Se esiste il sospetto clinico di una patologia intracranica è opportuno richiedere esami di neuroimmagine (TC con mezzo di contrasto o RM), mentre l’uso di routine dell’elettroencefalogramma non fornisce informazioni utili e viene quindi sconsigliato, con l’eccezione di quei casi in cui sia utile per la diagnosi differenziale con altre patologie ed in particolare in presenza di 1) alterazioni dello stato di coscienza durante attacchi emicranici, 2) manifestazioni di aura emicranica che pongono problemi di diagnosi differenziale con crisi epilettiche parziali, 3) abuso di analgesici contenenti barbiturici, specie durante la fase di disintossicazione, 4)
sospetto di una cefalea secondaria ad una encefalopatia metabolica.
Cefalee associate a un trauma cranico La cefalea post-traumatica è una forma di cefalea secondaria che insorge dopo un trauma cranico, anche di entità lieve o moderata e senza perdita di coscienza, e che spesso è parte di una più complessa sindrome post-traumatica, che include i seguenti sintomi: depressione, irritabilità, disturbi della memoria, dell’attenzione, della capacità di concentrazione, vertigini, alterazioni della libido. Una analoga sindrome post-traumatica può presentarsi anche in pazienti che hanno riportato un trauma cervicale tipo “colpo di frusta”. Il concetto che un trauma cranico o anche un intervento neurochirurgico possano essere seguiti da una cefalea che persiste a lungo non è accettato da tutti gli esperti ed il dibattito in quest’ambito è ulteriormente complicato dalle implicazioni medico-legali spesso presenti. La rilevanza numerica del problema è difficile da precisare, poiché i diversi studi dedicati all’argomento riportano percentuali di prevalenza molto variabili: in particolare, un mese dopo un trauma cranico lieve lamenta cefalea una percentuale di soggetti compresa tra 31 e 90 %, dopo 2 mesi tra 32 e 78 %, dopo un anno tra 8 e 32% e dopo 3 anni tra 20 e 24 %. Il sesso femminile, l’età avanzata, una storia pregressa di cefalea rappresentano fattori di rischio noti per la cefalea post-traumatica, che è, inoltre, più frequente dopo traumi in cui la testa sia stata inclinata o ruotata prima dell’impatto. La persistenza della cefalea dopo un trauma non correla con la durata della perdita di coscienza o dell’amnesia post-traumatica, con la presenza di frattura all’RX cranio o di alterazioni EEG. I criteri proposti dalla IHS per la cefalea posttraumatica, che sono riportati nella tabella 29.15, non sono centrati sulle caratteristiche del
Cefalee e nevralgie del capo e della faccia 1261 Tabella 29.15 - Criteri dell’IHS per la cefalea post-traumatica. Cefalea post-traumatica acuta 1. con trauma cranico grave e/o con positività paraclinica a. La gravità del trauma cranico è documentata da almeno uno dei seguenti criteri: – perdita di coscienza – amnesia post-traumatica di durata superiore a 10 minuti – alterazioni in almeno due dei seguenti accertamenti: esame neurologico, Rx cranio, neuroimmagini, potenziali evocati, esame del liquor, esame vestibolare, test neuropsicologici. b. La cefalea compare entro 14 giorni dal trauma o dal recupero dello stato di coscienza. c. La cefalea scompare entro 8 settimane dal trauma o dal recupero dello stato di coscienza. 2. con trauma cranico lieve e senza positività paraclinica a. Il trauma non soddisfa i criteri per trauma cranico grave precedentemente elencati. b. La cefalea compare entro 14 giorni dal trauma. c. La cefalea scompare entro 8 settimane dal trauma. Cefalea post-traumatica cronica 1. con trauma cranico grave e/o con positività paraclinica a. La gravità del trauma cranico è documentata da almeno uno dei seguenti criteri: – perdita di coscienza – amnesia post-traumatica di durata superiore a 10 minuti – alterazioni in almeno due dei seguenti accertamenti: esame neurologico, Rx cranio, neuroimmagini, potenziali evocati, esame del liquor, esame vestibolare, test neuropsicologici. b. La cefalea compare entro 14 giorni dal trauma o dal recupero dello stato di coscienza. c. La cefalea persiste oltre 8 settimane dal trauma o dal recupero dello stato di coscienza. 2. con trauma cranico lieve e senza positività paraclinica a. Il trauma non soddisfa i criteri per trauma cranico grave precedentemente elencati. b. La cefalea compare entro 14 giorni dal trauma. c. La cefalea persiste oltre 8 settimane dal trauma.
dolore ma riguardano soprattutto i rapporti temporali e patogenetici con l’evento traumatico. La cefalea può essere, infatti, di tipo diffuso e gravativo, simile ad una cefalea tensiva, o essere localizzata, o di tipo pulsante ed associata a nausea come una forma di emicrania senz’aura. È possibile inoltre che un trauma aggravi una cefalea primaria preesistente che mantiene le sue caratteristiche tipiche ma diventa più intensa e più frequente. La diagnosi implica la necessità di collegare la sintomatologia all’evento traumatico e di escludere alterazioni strutturali post-traumatiche (ematomi epidurali o subdurali, emorragie intraparenchimali, trombosi dei seni venosi, dissezione delle arterie cervicali, ipotensione
liquorale, idrocefalo) che potrebbero essere responsabili dei sintomi. Il trattamento della cefalea post-traumatica è complicato da una serie di fattori psicologici (che hanno probabilmente anche una rilevanza patogenetica). Si tratta di pazienti che richiedono supporto e comprensione e spesso il semplice riconoscimento della sindrome può avere un effetto benefico, così come è essenziale consigliare una risoluzione rapida delle vertenze legali o assicurative eventualmente pendenti. Nei casi in cui gli aspetti di ansia e depressione siano particolarmente manifesti, una terapia farmacologica ed un supporto psicoterapico possono essere utili. I farmaci abitualmente utilizzati nella cefalea post-traumatica sono l’amitripti-
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lina (e altri antidepressivi triciclici) e, più recentemente, il sodio valproato. Tale approccio è stato mutuato dal trattamento delle cefalee croniche in quanto non esistono molti studi farmacologici specificamente dedicati alla cefalea post-traumatica. Deve essere inoltre corretta una tendenza all’abuso di analgesici eventualmente presente, che può contribuire al mantenimento del dolore.
Cefalee associate a malattie vascolari Compaiono per la prima volta in coincidenza con una malattia vascolare cerebrale. L’IHS elenca otto tipi di disturbi vascolari che possono causare cefalea. Malattia cerebrovascolare ischemica acuta. – La cefalea si verifica più spesso in caso di ischemia da trombosi dei grossi vasi arteriosi, meno frequentemente nell’ictus embolico e, ancora meno frequentemente, negli infarti lacunari. Globalmente la frequenza con cui la cefalea accompagna in qualche modo l’attacco ischemico varia tra il 10 e il 60% circa, e tali cifre testimoniano la difficoltà di una raccolta omogenea dei dati. La cefalea sarebbe dovuta alla liberazione di serotonina e prostaglandine da parte delle piastrine che tendono ad aggregarsi nel corso dell’attacco ischemico. È solitamente di intensità media e può essere di tipo pulsante o gravativo; si può verificare prima, contemporaneamente o dopo l’ictus e sarebbe più frequente nei casi di ischemia nel territorio vertebro-basilare. Ematomi intracranici. – La cefalea si manifesta circa nel 25-70% dei casi di emorragia intraparenchimale ed è legata alle dimensioni, essendo i piccoli versamenti solitamente non accompagnati da cefalea. L’incidenza di cefalea non si modifica in rapporto alla sede dell’emorragia. La cefalea è molto frequente e rappresenta un sintomo precoce ed importante, sia nell’e-
matoma subdurale (60-80% dei casi) che nell’ematoma epidurale (dove, tuttavia, si associa precocemente ad altri sintomi e segni neurologici). Il meccanismo di produzione del dolore è in rapporto con gli effetti meccanici dello stravaso ematico sulle strutture dotate di nocicettori, soprattutto le pareti dei grossi vasi e le meningi. Emorragia subaracnoidea. – Nei casi in cui l’emorragia si presenta con una costellazione sintomatologica tipica (cefalea violenta ed esordio acuto, nausea, vomito, fotofobia, rigidità nucale, alterazioni dello stato di coscienza) la diagnosi corretta non costituisce abitualmente un problema e viene confermato dalle neuroimmagini. Questa presentazione drammatica è spesso preceduta da emorragie minori che possono manifestarsi unicamente con cefalea nei giorni, settimane o mesi precedenti. In tali casi il dolore può anche essere di entità modesta, ponendo notevoli difficoltà diagnostiche. Con il termine di “thunderclap headache” si definisce una cefalea violenta ed improvvisa che raggiunge la massima intensità in un minuto. Accertamenti urgenti vengono consigliati in tutti i pazienti con una cefalea che ha questa modalità di esordio, che viene considerata assai sospetta di rottura di aneurisma intracranico. La TC encefalica è l’esame di scelta ma, specialmente se ritardata di qualche giorno, è negativa nel 25% circa delle emorragie subaracnoidee di piccole dimensioni. Per tale motivo la maggior parte degli autori consiglia anche l’esecuzione di una rachicentesi con ricerca dei pigmenti ematici nel liquor in tutti i pazienti con “thunderclap headache” e TC encefalica normale. Malformazioni vascolari senza sanguinamento. – La presenza di aneurismi o altre malformazioni vascolari, soprattutto se di notevole volume o in rapido accrescimento, può provocare cefalea, anche in assenza di sanguinamento.
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Arteriti. – Il processo arteritico più frequente che si manifesta con cefalea, è l’arterite a cellule giganti, denominata in precedenza arterite temporale o arterite di Horton (da non confondere con la cefalea di Horton, sinonimo, anch’esso in disuso, di cefalea a grappolo), malattia con patogenensi autoimmune, che è praticamente esclusiva dell’età avanzata. Dopo i 50 anni ha una incidenza di 3-9 casi ogni 100000 all’anno ed è circa tre volte più frequente nel sesso femminile. La sintomatologia è caratterizzata da una cefalea continua o subcontinua, spesso di intensità elevata, localizzata prevalentemente in regione fronto-temporale uni o bilaterale. In una certa percentuale di soggetti si osserva arrossamento della cute sovrastante i rami dell’arteria temporale (di uno o entrambi i lati) che risulta di consistenza aumentata e dolorabile alla palpazione. La cefalea può esser associata a febbricola e, nel 25 % dei casi, a mialgie con impaccio motorio localizzato prevalentemente al cingolo scapolare, che configurano un quadro di polimialgia reumatica (v. pag. 1498), che può precedere l’arterite di mesi o anni. La diffusione progressiva del processo arteritico alle arterie ciliari anteriori causa nel 30-40% dei casi una neuropatia ottica ischemica anteriore (v. pag. 227) con conseguente cecità uni o bilaterale (abitualmente irreversibile), che rappresenta la complicazione più temibile dell’arterite a cellule giganti. Talora l’ischemia nel territorio dei rami della carotide esterna può provocare la cosiddetta “claudicatio masticatoria”, caratterizzata da un dolore che compare nella regione dei muscoli masticatori durante la masticazione. Più rare, ma possibili, sono altre complicazioni: neuropatie ischemiche dei nervi oculomotori, ischemia cerebrale, coronarica, enterica, renale. In presenza di un quadro clinico suggestivo, la diagnosi può essere confermata dalla presenza di segni di flogosi cronica (aumento della velocità di eritrosedimentazione, della proteina C reattiva, del fibrinogeno, leucocitosi) e di anemia ipocromica microcitica agli esami di labo-
ratorio. Una diagnosi di certezza è fornita esclusivamente dalla biopsia dell’arteria temporale. Tuttavia, poiché il processo infiammatorio è strettamente segmentario, può accadere che il prelievo bioptico, essendo effettuato in un segmento sano del vaso, dia un risultato falsamente negativo. Questa possibilità aumenta se è stata instaurata una terapia cortisonica prima dell’effettuazione del prelievo. La terapia con corticosteroidi (deltacortene alla dose di 1 mg/Kg/die) ha effetti positivi con remissione pressoché totale della sintomatologia entro 24-48 ore, purché, naturalmente, non si siano già instaurate complicanze ischemiche oculari. La rapidissima azione dei corticosteroidi può rappresentare anche un discreto criterio diagnostico ex-adjuvantibus. La terapia cortisonica deve essere, dopo alcune settimane, progressivamente ridotta, controllando periodicamente gli indici di flogosi e adeguando il dosaggio se questi aumentano nuovamente. In molti casi basse dosi di steroide devono essere mantenute cronicamente. Nei pazienti in cui la risposta allo steroide non è soddisfacente, oppure in cui questo sia controindicato, sono stati proposti vari tipi di farmaci immunosoppressivi. Recenti studi clinici sostengono la superiorità di una associazione metotrexate + corticosteroide rispetto alla sola terapia steroidea (Levine et al., 2000). Dolore da patologia specifica delle arterie carotide o vertebrale. – Sia l’occlusione acuta, che, più tipicamente la dissezione della parete di una di queste arterie (v. pag. 940) si possono presentare con dolore cefalico e cervicale ipsilaterale. La porzione extracranica della carotide può anche essere sede di dolore dopo endoarteriectomia, che si manifesta solitamente entro i due giorni successivi all’intervento e si esaurisce in breve tempo, anche se talvolta può perdurare alcuni mesi. Trombosi venosa. – La trombosi venosa dei seni durali comporta in modo pressoché co-
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stante un aumento della pressione intracranica. Sia l’infiammazione della parete vasale, che l’ipertensione intracranica sono elementi determinanti per la comparsa della cefalea, solitamente diffusa, spesso il primo e talora l’unico sintomo. Nel caso della trombosi delle vene corticali, peraltro frequentemente associata a quella dei seni durali, la cefalea tende ad essere più intensa e soprattutto localizzata ad un solo lato. Nel caso della trombosi del seno cavernoso, il dolore è intenso, localizzato in sede retrorbitaria. L’interessamento di un seno cavernoso e della vena oftalmica superiore omolaterale da parte di un probabile processo infiammatorio cronico, non infettivo, sembrano alla base della sindrome di Tolosa-Hunt (vedi pag. 239), caratterizzata da dolore gravativo retrorbitario e da paralisi dei nervi oculomotori. Ipertensione arteriosa. – Uno stato di ipertensione arteriosa cronica lieve o moderata non causa cefalea, che può essere provocata soltanto da una pressione diastolica costantemente superiore ai 120 mm Hg e associata a retinopatia ipertensiva. Tali criteri tuttavia sono talora considerati troppo restrittivi: alcuni, infatti, ritengono che la cefalea possa essere associata ad ipertensione arteriosa anche di grado più modesto. La cefalea in rapporto con l’ipertensione arteriosa cronica si manifesta soprattutto nelle primissime ore della mattina, probabilmente in rapporto a picchi ipertensivi, e tende a migliorare dopo che il soggetto si alza e assume per lungo periodo la posizione ortostatica. È quindi consigliabile chiedere che i valori della pressione arteriosa siano misurati nelle ore in cui è presente la cefalea. Il dolore si può manifestare anche per aumenti improvvisi della pressione arteriosa, ed allora è sufficiente che la pressione diastolica aumenti bruscamente anche solo del 25% del valore di base.
Cefalea associata a patologie intracraniche di natura non vascolare Elevata pressione del liquido cefalo-rachidiano. – Determina spostamenti e trazioni che, se coinvolgono strutture intracraniche sensibili al dolore, provocano cefalea. La cefalea da ipertensione intracranica si manifesta per lo più al risveglio, dopo un lungo periodo di clinostatismo, con un dolore gravativo o pulsante, diffuso, non continuo, la cui intensità varia con la posizione assunta dal paziente; può essere esacerbata dall’inclinazione del capo verso il basso, da sforzi addominali, dalla tosse o dallo starnuto e può presentare brusche intensificazioni in rapporto ad ostacoli nella circolazione liquorale; è accompagnata da vomito, che, nei casi più gravi, assume la caratteristica «a getto». La localizzazione del dolore e quella di un’eventuale massa espansiva intracranica non sono di solito correlate, ma può accadere che un aumento della pressione intracranica da lesione nella fossa posteriore possa provocare cefalea prevalentemente in sede occipitale e cervicale, esacerbata in modo particolare dai movimenti del capo. Ridotta pressione del liquido cefalo-rachidiano. – Il meccanismo di produzione del dolore è in rapporto agli spostamenti e alle trazioni da perdita di liquido cefalo-rachidiano a livello delle strutture intracraniche con nocicettori. La causa più frequente è la rachicentesi, a scopo diagnostico o terapeutico (cefalea da rachicentesi) che compare entro la prima settimana dal prelievo di liquor, e si aggrava con la posizione eretta; la durata non supera abitualmente le 2 settimane. Cefalea da infezione intracranica. – Tutti i processi infettivi intracranici (v. pag. 741) possono provocare cefalea (meningiti, encefaliti, ascessi cerebrali, empiema subdurale), sia per il processo infiammatorio che stimola i nocicettori, che per l’aumentata pressione intracranica.
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Sarcoidosi intracranica e altri processi infiammatori intracranici. – La cefalea si verifica in una piccola percentuale di casi ed è in rapporto con la reazione infiammatoria granulomatosa a livello meningeo. Inizialmente ha le caratteristiche della cefalea tensiva, salvo divenire più violenta e localizzata nel caso di aggravamento dell’infiammazione meningea o di ostruzione delle vie liquorali. Deficit neurologici, soprattutto dei nervi cranici, fanno parte del quadro clinico. Cefalea associata ad introduzione intratecale di sostanze varie. – Può essere dovuta ad un effetto vasodilatatore diretto della sostanza introdotta, oppure ad una infiammazione sterile. La cefalea è sempre accompagnata da segni di irritazione meningea. Cefalea da neoplasie intracraniche. – Le neoplasie intracraniche (v. pag. 989), a parte la sindrome da ipertensione endocranica, possono provocare cefalea in relazione al loro volume, alla loro sede, alla velocità di accrescimento e alla interferenza con il normale deflusso liquorale; le localizzazioni in fossa posteriore o nelle vicinanze delle vie liquorali sono più facilmente responsabili di cefalea.
Cefalee associate ad uso o privazione di sostanze varie Per stabilire se effettivamente una sostanza è responsabile dell’insorgenza di cefalea in un determinato individuo, è necessario che il dolore si verifichi almeno nel 50% delle assunzioni ed entro definiti limiti di tempo e di dosaggio. Coloro che sono già affetti da cefalea primitiva, soprattutto emicrania, sono più suscettibili agli agenti esterni. I meccanismi responsabili non sono noti: certamente molti agenti chimici implicati provocano dilatazione dei vasi cranici; un fenomeno per altro non sufficiente, di per se, a giustificare l’in-
sorgenza della cefalea. È probabile che in molti casi siano implicate modificazioni nella produzione e nel metabolismo delle amine vasoattive endogene, che hanno la proprietà di indurre o facilitare i fenomeni di infiammazione sterile della parete vasale; alcune sostanze, inoltre possono indurre un modesto edema cerebrale, fattore sufficiente per provocare la cefalea. Sicuramente molti farmaci possono indurre cefalea, e, considerata l’assunzione occasionale, è possibile stabilire un rapporto di causalità; più difficile se si tratta di sostanze presenti nei cibi o nell’ambiente, o comunque assunte in maniera continua per fini terapeutici o non. Nitriti e nitrati contenuti soprattutto nelle carni conservate, il monoglutammato di sodio, utilizzato come esaltatore di sapore in salse e prodotti conservati (“sindrome del ristorante cinese”), la feniletilamina, presente nel cacao e in alcuni vini rossi, rappresentano gli esempi più comuni di sostanze, presenti nei cibi, capaci di scatenare una crisi cefalalgica entro breve tempo dall’assunzione. Tra le sostanze tossiche potenzialmente presenti nell’ambiente, il monossido di carbonio ha le maggiori probabilità di essere responsabile di dolore cefalico. Alcool e sostanze stupefacenti possono provocare cefalea per l’assunzione acuta o per l’induzione di una sindrome da astinenza, che si può verificare anche in pazienti che hanno abusato di ergotaminici, caffeina o ipnotici. È possibile che la cefalea nelle sindromi da astinenza sia indotta da alterazioni nella produzione e nel metabolismo di sostanze endogene quali le endorfine, la serotonina ed altre amine, ma un ruolo fondamentale spetta anche a fattori psicogeni.
Cefalee associate ad infezioni extracraniche o a disturbi metabolici Per stabilire la relazione tra una cefalea e una infezione a localizzazione extracranica, è necessaria la positività di segni clinici e di laborato-
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rio, e una stretta concomitanza temporale tra la cefalea e l’infezione. Generalmente il dolore è in relazione con lo stato febbrile; nei processi infettivi varie componenti batteriche e dell’organismo ospite concorrono a formare un insieme di sostanze «pirogene», esogene ed endogene, che agisce sul sistema serotoninergico del troncoencefalo, responsabile di disturbi del sonno e della cefalea. Anche alcuni disturbi metabolici quali l’ipossia da caduta della pressione parziale dell’O2 arterioso al di sotto dei 70 mmHg, l’ipoglicemia, per livelli ematici di glucosio inferiori a 2 mmol/ l, l’ipercapnia, per livelli arteriosi di pCO2 superiori a 50 mmHg, possono indurre cefalea.
Cefalee o dolori facciali associati a malattie del cranio, collo, occhio, orecchio, naso, seni paranasali, denti, bocca o altre strutture cranio-facciali Molte malattie della teca cranica, ivi incluse le fratture, possono non essere accompagnate da dolore; provocano invece dolore l’osteomielite, il mieloma multiplo e il morbo di Paget. Patologia cervicale. – Il dolore è solitamente localizzato al collo o alla regione occipitale, ma può diffondersi a tutto il capo, scatenato o aggravato da particolari movimenti del collo. Non sempre si evidenzia radiologicamente una patologia ossea, dal momento che il dolore cervicale può essere semplicemente sostenuto da alterazioni funzionali dei muscoli, delle fasce o dei tendini. Malattie oculari. – Il glaucoma acuto ad angolo chiuso può provocare dolore persistente ed estremamente intenso in sede orbitaria, mentre i difetti di rifrazione, l’eteroforia e l’eterotropia solo raramente possono essere la causa di cefalee, peraltro di modesta entità, in sede frontale. Nella neurite retrobulbare la cefalea è un sintomo molto frequente, anche se poco ri-
levante per il soggetto, ovviamente preoccupato per il disturbo visivo. Malattie dell’orecchio medio. – I processi infettivi purulenti possono provocare dolore e se il processo patologico dell’orecchio medio invade la cavità cranica una compressione diretta dei nervi trigemino e facciale. I processi infiammatori del naso e dei seni paranasali provocano dolore inizialmente localizzato e successivamente diffuso a zone anche relativamente distanti, come il vertice del capo. Si ritiene che soltanto i processi sinusitici acuti, e non quelli cronici, possano realmente essere causa di cefalea. Dolore di origine dentaria. – È in genere sufficientemente localizzato per essere riconoscibile con facilità; talvolta può essere irradiato alla parte inferiore del viso o addirittura diffuso. Disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare. – Rappresentano un’importante causa di cefalea, anche diffusa a tutto il capo. Spesso il dolore origina dai muscoli della masticazione, in soggetti con malocclusioni dentali.
Nevralgia trigeminale La caratteristica clinica distintiva della nevralgia trigeminale è rappresentata dalla comparsa di crisi dolorose improvvise e molto violente nel territorio di distribuzione del V paio di nervi cranici o nervo trigemino. L’incidenza del disturbo, che aumenta con l’età, si aggira intorno ai 3-5 casi per anno ogni 100000 persone. La nevralgia trigeminale sarebbe più frequente nelle donne con un rapporto femmina/maschio corretto per età compreso tra 1,2 e 1,7. EZIOLOGIA E FISIOPATOLOGIA Classicamente si distinguono una nevralgia trigeminale essenziale senza cause identificabili, che si manifesta principalmente tra i 50 e i 60 anni ed una nevralgia trigeminale seconda-
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ria o sintomatica dipendente da svariate cause, che può insorgere a qualsiasi età. Con la diffusione delle tecniche di neuroimmagine ed in particolare della RM e della AngioRM capita sempre più spesso di reperire, nelle nevralgie trigeminali cosiddette essenziali, una compressione della radice del nervo trigemino nel punto di entrata nel tronco encefalico da parte di una ansa arteriosa o venosa aberrante. È quindi venuta meno la tradizionale distinzione tra forme essenziali e sintomatiche e la causa più comune di nevralgia trigeminale è considerata oggi la compressione della radice del nervo da parte di strutture vascolari. È opportuno comunque notare che una compressione vascolare della radice del nervo trigemino è osservabile alla RM in una percentuale compresa tra il 6-32% di soggetti di controllo asintomatici. Cause meno comuni sono rappresentate dalla sclerosi multipla e da lesioni compressive neoplastiche del nervo trigemino nella zona di ingresso nel tronco encefalico, o a livello dell’angolo ponto-cerebellare, o del ganglio di Gasser. Sono segnalati rari casi di nevralgia trigeminale sintomatica correlata a piccole lesioni ischemiche o angiomi del tronco encefalico, o a infiltrazione carcinomatosa o amiloidosica del nervo. Eccezionalmente la nevralgia trigeminale può rappresentare una delle manifestazioni cliniche della malattia di Charcot-MarieTooth. Abitualmente la nevralgia trigeminale è una patologia sporadica, ma sono stati segnalati anche alcuni casi familiari. Rimane una certa percentuale di pazienti in cui anche le più sofisticate tecniche di neuroimmagine non rivelano alcuna anomalia. Sul piano fisiopatologico è stato postulato che la compressione da parte di una struttura vascolare pulsatile degli assoni centrali del nervo trigemino nell’area di ingresso della radice nel ponte causi una zona focale di demielinizzazione che altera l’attività elettrica dei neuroni trigeminali. Effettivamente una area di demie-
linizzazione segmentale, con affastellamento degli assoni privi di rivestimento mielinico, è il reperto patologico più comunemente riscontrato e che accomuna le compressioni di origine vascolare, a quelle di altra natura e alle lesioni trigeminali in corso di sclerosi multipla. Anche in quest’ultimo caso l’area del nervo abitualmente colpita è quella situata nelle immediate vicinanze della zona di ingresso nel tronco encefalico. Rimane da chiarire come tale alterazione strutturale dia origine alla sintomatologia clinica, tenendo presente che, sul piano fisiopatologico, occorre giustificare sia l’anomala generazione di impulsi nervosi (che da origine al dolore parossistico), che la diffusione di impulsi nervosi da fibre per la sensibilità tattile a fibre coinvolte nella percezione del dolore (dolore scatenato da stimolazione di aree cutanee “trigger”, v. pag. 1268). La stretta apposizione degli assoni demielinizzati potrebbe favorire una diffusione degli impulsi agli assoni adiacenti con modalità efaptica: questa teoria è sostenuta da alcuni dati sperimentali e potrebbe spiegare la particolare suscettibilità della zona di ingresso del nervo nel ponte dove le fibre per la sensibilità tattile e quelle coinvolte nella generazione del dolore decorrono molto vicine. Le teorie che spiegano la generazione spontanea degli impulsi dolorosi sono varie: ciò potrebbe avvenire a livello del ganglio trigeminale oppure più centralmente, e i meccanismi proposti includono attività epilettogenica, circuiti riverberanti e modificazioni nella connettività centrale. Le teorie più recenti ipotizzano che la compressione della radice del nervo trigemino causi la comparsa di una ristretta popolazione neuronale ipereccitabile nel ganglio trigeminale in grado di generare una “scintilla” di attività capace poi di diffondersi alle altre regioni del ganglio stesso. CARATTERISTICHE CLINICHE La distribuzione del dolore rispetta in modo netto il territorio di innervazione trigeminale ed
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è strettamente unilaterale, almeno per quanto riguarda il singolo attacco e solo eccezionalmente si verifica la diffusione a tutte e tre le branche del nervo: solitamente è più colpita la II branca, da sola o insieme alla III o alla I. Il dolore è più spesso localizzato al lato destro del viso (circa 3 volte più che a sinistra). Il dolore è tipicamente parossistico, ha le caratteristiche di scarica elettrica di durata molto breve, pochi secondi, ma gli attacchi si ripetono con elevata frequenza per alcuni minuti o per un tempo più lungo, e possono essere così numerosi che il soggetto può essere indotto a riferire un dolore continuo. Spesso si può osservare un atteggiamento mimico di intensa sofferenza, con contrazione della muscolatura facciale dal lato colpito tanto da giustificare la definizione tradizionale di «tic douloureux». Gli attacchi si verificano più facilmente alla mattina, dopo il risveglio, mentre sono rari durante il sonno. All’inizio, il dolore si manifesta per periodi di settimane o mesi, cui succedono remissioni spontanee anche di lunga durata, sino ad alcuni anni. Con il passare del tempo, le remissioni si fanno sempre più brevi, sino a scomparire del tutto. Una caratteristica pressoché esclusiva della nevralgia trigeminale, e delle rare nevralgie che possono colpire altri nervi cranici, è rappresentata dal fatto che gli attacchi sono spesso scatenati dalla stimolazione meccanica della cute o delle mucose innervate dal trigemino. Tale fenomeno si manifesta soltanto in alcune zone, di limitata estensione, chiamate zone «trigger» o zone grilletto, particolarmente frequenti nell’ambito della II branca, soprattutto a livello del labbro superiore, dell’ala del naso o della mucosa gengivale. Curiosamente, gli stimoli più efficaci nello scatenare le crisi sono di tipo tattile superficiale e forse anche propriocettivi, e devono avere un’intensità moderata, mentre gli stimoli termici o dolorifici sono solitamente inefficaci: il lavarsi il viso, il toccarsi la faccia, farsi la barba possono scatenare le crisi in modo tipico. Anche la contrazione della muscolatura masticatoria o
facciale può scatenare le crisi, per cui l’articolazione della parola o la stessa alimentazione possono diventare problematiche. Dopo che l’attivazione delle zone trigger ha scatenato il parossismo doloroso, può subentrare un periodo di refrattarietà di breve durata, in cui temporaneamente il dolore non è provocabile. DIAGNOSI La diagnosi è clinica, non esistendo esami diagnostici di conferma, ed è basata sulle specifiche caratteristiche del dolore: unilaterale, limitato al territorio trigeminale, avvertito come scossa elettrica della durata di pochi secondi, eventualmente scatenato da stimolazioni della zona «trigger». La nevralgia del nervo glossofaringeo si differenzia da quella trigeminale soltanto per il territorio interessato (base della lingua, loggia e pilastri tonsillari), diverso anche se strettamente contiguo. Tutti gli altri dolori in territorio trigeminale si differenziano dalla nevralgia per la maggiore durata, per la mancanza del fenomeno «trigger» e per la diversa qualità (il dolore a “scossa elettrica” si riscontra praticamente solo nella nevralgia). La diagnosi di nevralgia “essenziale” presuppone tradizionalmente una normale funzione motoria e sensitiva del trigemino. La presenza di alterazioni della sensibilità superficiale a livello di una o più branche o di segni di compromissione di altri nervi cranici solleva immediatamente il sospetto di una forma sintomatica da patologia compressiva neoplastica, o, specialmente nelle forme ad insorgenza giovanile, da sclerosi multipla. Uno studio con RM encefalica viene attualmente considerato necessario in tutti i giovani affetti da nevralgia trigeminale per escludere le forme da cause meno consuete e per evidenziare la presenza del cosiddetto conflitto neurovascolare, quando presente. Nei casi in cui l’età di insorgenza è tipica (oltre la quinta decade) e l’esame neurologico è normale, l’esecuzione dello studio di neuro-
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immagine può essere riservato ai casi refrattari alla terapia medica. I potenziali evocati trigeminali ottenuti con la stimolazione del nervo infraorbitario hanno dimostrato che circa nel 50% dei casi delle forme cosiddette essenziali, esistono alterazioni della conduzione delle fibre sensitive di mediogrande diametro a livello del punto di ingresso della radice nel ponte (Leandri e Favale, 1991), confermando così che i limiti fra nevralgie trigeminali primitive e nevralgie secondarie sono tutt’altro che netti. TERAPIA Nelle nevralgie trigeminali senza cause identificabili e da compressione vascolare la terapia di prima scelta è quella farmacologica che determina una risposta soddisfacente in circa l’80% dei casi. La terapia farmacologica sintomatica è comunque utile anche nelle forme secondarie a sclerosi multipla o patologia compressiva neoplastica del nervo dove, naturalmente, quando possibile, deve essere associata una terapia della patologia di base. Terapie farmacologiche Il dolore risponde in modo molto rapido ad alcuni farmaci antiepilettici che agiscono sia a livello della fibra periferica come stabilizzatori di membrana, sia a livello della trasmissione sinaptica nel nucleo trigeminale. Tra questi la carbamazepina è il farmaco di elezione e al dosaggio di 600-1200 mg/die è efficace nel 6080 % dei casi; il dosaggio del farmaco deve essere aumentato assai lentamente in considerazione degli effetti collaterali, in particolare la sonnolenza e le alterazioni dell’equilibrio e della coordinazione che, specialmente nei soggetti di età avanzata, possono rappresentare una limitazione all’utilizzo. Con il passare del tempo può essere necessario aumentare il dosaggio e la risposta terapeutica può divenire insoddisfacente. La difenilidantoina è un altro antiepilettico che può essere utilizzato con qualche vantaggio,
in monoterapia al dosaggio di 300-600 mg/die con successo in meno della metà dei casi, oppure in associazione alla carbamazepina quando la terapia con questo farmaco non sia sufficientemente efficace. Il baclofen, normalmente utilizzato per combattere la spasticità, ha un meccanismo d’azione simile ai due farmaci precedenti ed è stato usato con qualche beneficio. Il dosaggio iniziale è di 10 mg due volte al dì, con aumento graduale sino a 60-80 mg/die; può essere utilmente associato sia alla carbamazepina che alla difenilidantoina. Gli antidepressivi triciclici ed in particolare l’amitriptilina a dosi comprese tra 25 e 75 mg, da raggiungere gradualmente, sono da tempo utilizzati con buoni risultati nella terapia della nevralgia trigeminale da soli o in associazione con la carbamazepina o la difenilidantoina. Studi clinici più recenti hanno documentato l’efficacia, nelle nevralgie trigeminali refrattarie alle terapie farmacologiche tradizionali, di altri farmaci antiepilettici. In particolare si sono rivelati utili: a) la lamotrigina a dosaggi compresi tra 100 e 200 mg/die in tre somministrazioni giornaliere, b) il gabapentin a dosaggi compresi tra 600 e 1200 mg/die in tre somministrazioni giornaliere, e c) il topiramato a dosaggi compresi tra 200 e 300 mg/die in due somministrazioni giornaliere. Una volta instaurata la terapia farmacologica ed aumentato gradualmente il dosaggio sino ad ottenere la risposta terapeutica, ogni 2 - 3 mesi può essere utile tentare una diminuzione graduale della terapia, per accertare se sia iniziato un periodo di remissione spontanea, essendo in tal caso inutile protrarre ulteriormente la somministrazione dei farmaci, tenendo conto anche della possibile necessità, nella successiva evoluzione della malattia, di incrementi di dosaggio. I malati di sclerosi multipla presentano una risposta alla terapia farmacologica analoga a quella dei soggetti affetti da nevralgia trigeminale da altre cause. Nei casi refrattari può essere utile l’impiego di un bolo di steroidi.
1270 Malattie del sistema nervoso
Terapie chirurgiche Varie opzioni chirurgiche sono disponibili per i pazienti che sono refrattari sin dall’inizio o che sviluppano insensibilità alla terapia farmacologica, o in cui gli effetti collaterali dei farmaci siano intollerabili. Tali opzioni chirurgiche riguardano circa il 30% dei casi di nevralgia trigeminale. Non esistono studi clinici controllati e randomizzati che paragonino le diverse procedure chirurgiche e quindi i relativi vantaggi e svantaggi sono ancora oggetto di discussione. Sino a pochi anni fa, per la relativa semplicità e scarsità di effetti collaterali, venivano utilizzati soprattutto gli interventi neurolesionali sintomatici, ma con l’aumentata rilevanza eziologica attribuita ai conflitti neurovascolari, l’intervento di microdecompressione viene ormai considerato da alcuni il provvedimento di elezione quando la compressione della radice del trigemino da parte di un’ansa venosa o arteriosa sia chiaramente dimostrabile. Interventi di neurolesione, di tipo sintomatico. – Numerosi tipi di intervento possono essere eseguiti per via percutanea, con traumatismo molto modesto e con rischio operatorio molto basso. I più semplici si limitano alla iniezione di alcool o altre sostanze neurolitiche a livello dei nervi sovraorbitario, infraorbitario o mentale, con efficacia molto limitata nel tempo, e solo se le zone «trigger» o le aree in cui diffonde il dolore sono di estensione ridotta e sono localizzate nel territorio d’innervazione del nervo che si intende aggredire. Tali procedure, un tempo utilizzate abbastanza frequentemente, devono essere considerate con cautela, dal momento che un danno dei tronchi periferici del trigemino preclude la successiva possibilità di effettuare un adeguato monitoraggio neurofisiologico necessario per l’effettuazione degli interventi più impegnativi e più risolutivi sulla radice retrogasseriana. Gli interventi percutanei a livello del ganglio di Gasser o della radice retrogasseriana si effettuano introducendo un lungo ago nel forame ovale e spingendolo ad una profondità compresa tra 5 e 15 mm oltre il bordo interno del forame, con traumatismo molto modesto, e rischio operatorio mi-
nimo. Con tale tecnica si effettuava, in passato, la neurolisi, iniettando piccole quantità di alcool. La metodica, denominata «alcolizzazione trigeminale», provocava però estese lesioni delle fibre afferenti, lasciando spesso come reliquato una grave anestesia dell’emifaccia, talvolta più fastidiosa del dolore iniziale, e talora una vera e propria «anestesia dolorosa», ovvero un grave dolore da deafferentazione particolarmente resistente a qualsiasi terapia. Per questi inconvenienti l’alcolizzazione trigeminale è stata ora abbandonata. Attualmente, i due interventi di neurolisi retrogasseriana più usati sono la termorizotomia e la glicerolizzazione. Con la termorizotomia si producono lesioni di entità molto limitata (ottenuta riscaldando la punta dell’ago, per mezzo di una corrente a radiofrequenza) nelle fibre della radice che innervano le aree dove si irradia il dolore o dove si verifica il fenomeno del «trigger». Con tale tecnica è possibile ottenere remissioni del dolore in una percentuale molto elevata di casi, con ipoestesie molto limitate. Una moderna versione, basata sulla registrazione intraoperatoria dei potenziali evocati trigeminali, ha reso questo intervento ancora più preciso e selettivo. La glicerolizzazione del ganglio di Gasser consiste nell’introduzione nella cisterna gasseriana di una soluzione di glicerolo, meno neurotossico dell’alcool. Residuano, tuttavia, ipoestesie anche gravi, e non esiste attualmente possibilitá alcuna di ledere in modo selettivo una determinata porzione della radice. Altri interventi neurolesionali utilizzati, la cui efficacia è ancora dibattuta, sono la neurolisi gasseriana o retrogasseriana con palloncino e la radiochirurgia con gamma knife. Interventi causali. – L’intervento di microdecompressione vascolare viene considerato da alcuni l’intervento di elezione per i pazienti resistenti alla terapia farmacologica, in cui sia dimostrabile un chiaro conflitto neurovascolare. Spesso l’intervento è seguito da una rapida remissione dei sintomi, talora duratura o addirittura permanente. Rimane tuttavia da stabilire quali sono coloro che si giovano maggiormen-
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te di tale procedura, se questa può essere estesa anche ad un certo numero di soggetti che rispondono bene alla terapia medica, ed in quale momento del decorso. Fattori predittivi per la ricomparsa del dolore dopo un tempo variabile dall’intervento sarebbero il sesso femminile, una storia clinica di durata superiore a 8 anni e la natura venosa della compressione vascolare. Nei casi in cui la nevralgia trigeminale è causata da piccoli tumori a lento accrescimento che comprimono la radice retrogasseriana, la terapia di elezione è rappresentata, ovviamente, dalla rimozione del tumore. La tecnica per gli interventi di esplorazione della fossa posteriore, mirati alla regione in cui la radice penetra nel ponte, è ormai abbastanza semplice e a rischio relativamente modesto.
Nevralgia glossofaringea La prevalenza è molto inferiore a quella della nevralgia trigeminale, con un rapporto di circa 1 a 100; purtroppo esistono casi in cui le due patologie sono associate. Il dolore è localizzato nei territori di innervazione sensitiva dei nervi glossofaringeo e vago, si irradia alla base della lingua, alla regione tonsillare, in corrispondenza dell’angolo della mandibola e all’interno dell’orecchio. Ha caratteristiche analoghe a quello della nevralgia trigeminale, a parte l’intensità, meno violenta, e le modalità di scatenamento collegato alla deglutizione, all’articolazione della parola, a colpi di tosse; se il dolore è di modesta entità può semplicemente dare la sensazione di corpo estraneo in faringe. Le crisi possono provocare bradicardia o sincope di origine riflessa. Si possono riscontrare periodi di remissione spontanea. Come per la nevralgia trigeminale esiste una forma «primitiva» e una «secondaria». Le cause identificabili più frequenti sono la compressione della zona di ingresso del nervo nel tronco encefalico da parte di strutture vascolari, o, più raramente di parte di neoplasie e la sclerosi multipla. La terapia
farmacologica sintomatica utilizzata è quella della nevralgia trigeminale. Nei casi refrattari sono stati tentati sia interventi sintomatici neurolesionali che interventi di microdecompressione.
Nevralgie del nervo intermediario e del nervo laringeo superiore Sono molto rare e consistono in crisi di dolore parossistico, nei rispettivi territori di innervazione. La nevralgia del nervo intermediario è localizzata all’interno del canale uditivo esterno e si associa spesso ad una zona «trigger» nella parete posteriore del canale auditivo; talvolta il dolore è accompagnato da disturbi della lacrimazione, della salivazione e del gusto. La nevralgia del nervo laringeo superiore, ramo periferico del glossofaringeo, si manifesta con dolore a livello della parete laterale del faringe e del laringe, della regione sottomandibolare e sottoauricolare. La crisi dolorosa è scatenata dalla deglutizione, dall’articolazione della parola o da movimenti laterali del capo.
Nevralgia del nervo grande occipitale Si manifesta con accessi dolorosi parossistici, di qualità urente o tipo “scossa elettrica”, di breve durata e con andamento subentrante, che originano in regione cervicale e si irradiano in regione nucale laterale destra o sinistra talora sino al vertice del capo. Possono essere scatenati da movimenti del collo. La causa più frequente è rappresentata da una compressione da parte di una ipertrofia fibrosa cicatriziale (spesso posttraumatica) del tessuto che circonda il nervo. Altre cause sono la compressione del nervo da parte di becchi osteofitosici nell’ambito di una spondilartrosi cervicale da parte di neoplasie ed il diabete mellito. La sindrome è rara, ed il dolore risponderebbe in maniera soddisfacente ai farmaci abitualmente utilizzati nella terapia della nevralgia trigeminale.
1272 Malattie del sistema nervoso
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Malattie primitive del motoneurone 1273
30. Malattie primitive del motoneurone C. Loeb, C. Caponnetto
Aran descrisse, nel 1848, un nuovo quadro clinico caratterizzato da un deficit motorio progressivo agli arti superiori, specie alle mani, associato ad atrofia muscolare, che denominò “ atrofia muscolare progressiva “. Successivamente, Duchenne, nel 1853, riportò le caratteristiche di un’altra malattia, distinta dalla precedente per la rapidità della compromissione bulbare, che indicò come “ paralisi spinale generalizzata “. Charcot nel 1873 e Charcot e Joffroy nel 1869, differenziarono dalla malattia di Aran, per la precoce compromissione bulbare e per la presenza di spasticità, un quadro denominato “Sclerosi laterale amiotrofica” (SLA). In effetti la SLA o malattia di Charcot, è il quadro clinico più comune nel gruppo delle malattie primitive del motoneurone, denominazione che semplicemente esprime la nostra ignoranza sulle cause della malattia. La SLA verrà descritta per prima, poiché si manifesta più frequentemente e perchè rappresenta un utile supporto per la trattazione di altre malattie di più raro riscontro. Queste e altre malattie vengono usualmente indicate con il termine “malattie degenerative“, definizione che raggruppa malattie estremamente diverse tra loro e la cui etiologia è sconosciuta.
c) Atrofia muscolare spinale ereditaria: tipo 1: forma infantile o m. di Werdnig-Hoffmann; tipo 2: forma intermedia; tipo 3: forma giovanile o m. di Kugelberg-Welander; tipo 4: forma dell’adulto e) Paralisi bulbare progressiva (infantile o m. di Fazio-Londe; forma dell’adulto, associata a sordità o m. di Vialetto-van Laere). f) Neuronopatia spinobulbare X-linked (sindrome di Kennedy)
Malattie sporadiche del motoneurone
a) Sclerosi laterale amiotrofica sporadica (“forma tipica” di Charcot) b) Atrofia muscolare progressiva c) Sclerosi laterale primaria d) Paralisi bulbare progressiva e) Sclerosi laterale amiotrofica endemica del Pacifico occidentale.
Il disturbo, ad andamento progressivo, comporta la degenerazione del motoneurone superiore (e via cortico-spinale) e del motoneurone inferiore, ed è clinicamente espresso da deficit piramidale agli arti, atrofia muscolare specie alle mani, fascicolazioni e segni di compromissione dei nervi cranici bulbari. L’età media di comparsa è, in uno studio di popolazione (Norris, 1992), di 57 anni, lievemente prevalente nei maschi (M/F =1,3), la sopravvivenza media è sui 36-45 mesi e solo il 25% dei casi arriva ai 5 anni. La prevalenza, cioè la percentuale di ammalati in una determinata popolazione in un anno, è di 4-6 casi su 100.000 abitanti, mentre l’incidenza (numero di nuovi casi in un anno) in Italia è di 2.5/100.000 abitanti (PARALS, 2001).
Malattie ereditarie del motoneurone
EZIOPATOGENESI
a) Sclerosi laterale amiotrofica familiare b) Paraplegia spastica familiare (m. di Strumpell-Lorraine).
La causa della malattia è sconosciuta, ma recentemente è stato compiuto un intenso lavoro di ricerca e diverse ipotesi sono state elaborate.
Il gruppo delle malattie primitive del motoneurone comprende i seguenti quadri, distinti in: Malattie sporadiche del motoneurone
1274 Malattie del sistema nervoso
Al momento attuale, una conclusione accettabile è che la degenerazione e la morte neuronale siano il risultato di meccanismi diversi, spesso variamente embricati ed intercorrelati, identificabili, principalmente, nel danno ossidativo, nell’eccitotossicità e nelle alterazioni mitocondriali e dei neurofilamenti.
derato che i neurofilamenti determinano il calibro assonale ed i neuroni con assoni di maggior calibro, particolarmente ricchi di neurofilamenti, sono preferibilmente lesi nella SLA. Del tutto recentemente è stata riproposta, ma non ulteriormente confermata, l’ ipotesi infettiva da enterovirus (Berger, 2000).
L’ipotesi del danno ossidativo, indotto da radicali liberi, è suggerita dalla similarità del quadro clinico con quello della forma familiare. In circa il 2% delle forme sporadiche e nel 15-20% delle forme familiari di SLA è stata identificata una mutazione del gene localizzato nel braccio lungo del cromosoma 21, codificante l’isoenzima citoplasmatico della superossido dismutasi (SOD-1), un detossificatore cellulare capace di eliminare uno dei principali radicali liberi con attività tossica su lipidi, proteine e DNA. L’eterogeneità genetica o l’interazione di diversi geni potrebbe spiegare l’esistenza di diversi fenotipi. L’ipotesi eccitotossica si fonda su una serie di evidenze sperimentali: il glutamato, l’aspartato e forse altri aminoacidi con funzione di neurotrasmettitori eccitatori sono in grado di provocare la morte neuronale; il baccello di una leguminosa (Lathirus sativus) contiene una eccitossina (oxalilamino-alanina) capace di determinare nei primati non umani una degenerazione della via cortico-spinale; il glutamato sarebbe aumentato nel sangue e nel liquor di pazienti con SLA, mentre il suo trasporto sarebbe ridotto nel cervello e nel midollo spinale (Rothstein, 1992),esprimendo così un’alterazione metabolica di questa sostanza. Recentemente è stata descritta una alterazione del mRNA per una proteina trasportatrice del glutamato in aree cerebrali lese nel 65% dei pazienti (Lin, 1998). Tuttavia sono stati rilevati dati contrastanti e al momento l’ipotesi eccitotossica rimane da provare, anche se appare particolarmente interessante. L’ipotesi autoimmune si basa sul riscontro, nel 10% dei casi (che sale al 30% se esiste iperproteinorrachia), di una associazione con linfoma Hodgkin e non-Hodgkin e con paraproteinemia, e sul rilievo che, nel 10-20% dei soggetti con malattie del motoneurone, si ritrovano anticorpi anti GM1, cioè un ganglioside che è un costituente della membrana neuronale. È stato ipotizzato, sulla base di ricerche sperimentali, che l’alterazione dei neurofilamenti (responsabili del trasporto assonale lento) nel corpo cellulare dei motoneuroni e nella parte prossimale dell’assone, che costituisce un aspetto caratteristico della SLA, possa rappresentare un fattore nella genesi della malattia (Williamson, 1998). L’accumulo di neurofilamenti potrebbe spiegare anche la vulnerabilità selettiva dei motoneuroni, consi-
Neuropatologia Gli aspetti neuropatologici essenziali sono: a) perdita dei motoneuroni delle corna anteriori, del tronco encefalico e della corteccia; b) degenerazione del fascio cortico-spinale (Fig. 30.1). La perdita neuronale comporta aumento della lipofuscina (atrofia pigmentaria), perdita della sostanza di Nissl, perdita e frammentazione dei dendriti. Alcuni motoneuroni sono più colpiti di altri e le alterazioni usualmente non sono simmetriche. Nel tronco encefalico sono colpiti il nucleo del XII e poi il n. ambiguo (IX, X, XI) e più raramente il V e il VII, mentre sono risparmiati i nuclei dei nervi oculomotori. Nel midollo sono preferibilmente colpiti i motoneuroni del gruppo postero-laterale e talora anche del gruppo antero-mediale. Si ritrovano abbondanti inclusioni citoplasmatiche, in particolare inclusioni eosinofile o corpi di Bunina, inclusioni basofile, inclusioni ialine e inclusioni conglomerate. Le inclusioni potrebbero essere responsabili di una turba del trasporto assonale oppure, al contrario, la primitiva alterazione del trasporto assonale potrebbe predisporre alla formazione di inclusioni. La degenerazione della via cortico-spinale può essere asimmetrica e il suo grado non correlato all’intensità delle manifestazioni cliniche.
Fig. 30.1 - Evidente degenerazione delle corna anteriori e dei cordoni laterali del midollo in un caso di SLA.
Malattie primitive del motoneurone 1275 La degenerazione delle colonne posteriori si ritrova nel 5% dei soggetti normali oltre i 65 anni di età e la maggioranza degli Autori è del parere che il ritrovamento di alterazioni delle colonne posteriori nella SLA sia un evento coincidente. I muscoli interessati presentano il classico quadro dell’atrofia neurogena, caratterizzato da gruppi di fibre normali frammisti a fibre muscolari in vari stadi di degenerazione con aumento del connettivo e del tessuto adiposo (Fig. 30.2).
Fig. 30.2 - Esempio di atrofia muscolare neurogena: gruppi di fibre atrofiche accanto ad aree con fibre normali.
SINTOMATOLOGIA La malattia è caratterizzata clinicamente dalla coesistenza di segni di compromissione del I e del II motoneurone con ipostenia, atrofia muscolare, fascicolazioni, spasticità, variabilmente associati negli stessi gruppi muscolari, con tendenza ad estendersi progressivamente a nuovi distretti e con relativo risparmio di alcune funzioni (sensibilità, controllo sfinterico, oculomozione). Classicamente vengono descritte: a) la forma “comune” o “tipica”, b) la forma pseudopolineuropatica, c) la forma bulbare, accanto a rari quadri clinici caratterizzati dall’esclusivo interessamento dei soli muscoli bulbari (paralisi bulbare progressiva), del solo primo motoneurone (sclerosi laterale primaria) o del solo secondo motoneurone (atrofia muscolare progressiva). Le forme indicate in a,b,c, anche se, talora, si protraggono a lungo nel tempo, frequentemente rappresentano solo moda-
lità cliniche che caratterizzano le manifestazioni iniziali della SLA tipica. SLA TIPICA O COMUNE. – Rappresenta circa il 45-50% dei casi e si manifesta con un debutto insidioso e progressivo, eccezionalmente piuttosto improvviso, di riduzione di forza alle mani (difficoltà a far girare la chiave nella toppa, nell’usare la penna ecc.) associata ad atrofia che realizza una mano a scimmia e successivamente una mano di Aran-Duchenne (v. pag. 40). In fase avanzata l’atrofia si diffonde anche agli avambracci e talora ai muscoli della spalla (deltoide, gran dentato, sopra e sottospinoso) e poi agli arti inferiori. Il deficit motorio, può esser limitato per un tempo, anche relativamente lungo, ad un arto o ad un emilato, ed è in genere associato all’ipotrofia ed alle fascicolazioni che talvolta sono rare e devono essere attentamente ricercate. Specie negli stadi iniziali possono essere frequenti crampi muscolari, in tutti i distretti corporei, specialmente alle mani. I segni di compromissione della via corticospinale sono rappresentati in fase iniziale da iperreflessia ai quattro arti, particolarmente utile per la diagnosi se associata a ipotrofia muscolare. Successivamente si può rilevare clono della rotula e del piede e, in fasi più avanzate di malattia, ipertonia piramidale agli arti inferiori, e andatura paretico-spastica. Il segno di Babinski è presente circa nel 20% dei casi. Anche se un certo numero di malati con SLA si lamenta di turbe soggettive della sensibilità (ipersensibilità per una o due sensibilità somatiche), l’esame oggettivo delle sensibilità è negativo e la totalità degli Autori ritiene che l’esistenza di turbe oggettive della sensibilità metta in serio dubbio la diagnosi. Turbe vasomotorie (dita del piede «fredde», cianotiche) sono abbastanza frequenti, inusuali le turbe vescicali. Una demenza di tipo “frontale” è presente circa nel 10% dei casi (v. pag. 1051).
1276 Malattie del sistema nervoso
La malattia, nella sua evoluzione, interessa gradualmente gruppi muscolari contigui di arti, tronco e settore cranico con la comparsa di disartria, disfagia e infine di insufficienza respiratoria di tipo restrittivo che è spesso la causa di morte. PARALISI BULBARE PROGRESSIVA – La forma bulbare o paralisi bulbare progressiva si manifesta come sindrome isolata per un lungo periodo nel 25% dei casi, anche se, come già detto, segni bulbari possono comparire lungo il decorso della forma tipica. I primi sintomi sono usualmente: difficoltà a pronunciare fonemi consonantici (labiali e linguali), ipotrofia e fascicolazioni specialmente evidenti ai margini linguali.(Fig. 30.3). In fase più avanzata la protrusione della lingua diventa impossibile, la disartria diventa sempre più rilevante, la motilità del velo palatino si riduce e la voce diventa nasale. Si instaurano difficoltà crescenti della deglutizione, inizialmente per i liquidi, fino alla totale incapacità a deglutire.
La compromissione delle corde vocali prevale sui muscoli costrittori laringei e si manifesta con disfonia e con voce flebile fino all’afonia, o sui muscoli dilatatori, ciò che può comportare una crisi brutale di dispnea laringea, talora rivelatrice del quadro. Il deficit eventuale a livello del VII si manifesta, preferibilmente nella regione inferiore, con riduzione della mimica, debolezza nella chiusura delle labbra e nel gonfiare le gote, con scolo di saliva; e con possibili fascicolazioni a livello del mento.Si può verificare, ma raramente, deficit masticatorio, caduta della mandibola, atrofia masseterina e temporale. Esiste anche una ridotta capacità ventilatoria, ma raramente si verifica una dispnea evidente. SLA PSEUDOPOLINEUROPATICA O FORMA AGLI ARTI INFERIORI. – Rappresenta circa il 25-30% dei casi ed è caratterizzata da un deficit motorio ai muscoli della loggia antero-esterna della gamba, talora unilaterale, ma in breve tempo bilaterale. Il soggetto inciampa per caduta del piede oppure, se il disturbo ha inizio prossimale, ha difficoltà a sollevarsi dalla posizione seduta. Il disturbo motorio appare in genere prima dell’atrofia. I crampi sono molto comuni e così le fascicolazioni e, talora, ambedue precedono il deficit motorio e l’atrofia di parecchi mesi. I riflessi profondi sono, in un primo tempo, ridotti o aboliti e i segni piramidali sono tardivi e spesso mascherati; le turbe vasomotorie possono essere piuttosto importanti. ATROFIA MUSCOLARE PROGRESSIVA – SCLEROSI LATERALE PRIMARIA
Questi due tipi clinici di malattia primaria del motoneurone sono stati riconosciuti da oltre un secolo, ma la discussione è aperta nei riguardi della loro appartenenza al gruppo delle SLA oppure ad un gruppo clinico autonomo. Fig. 30.3 - Cospicua atrofia bilaterale della muscolatura linguale in un caso di SLA bulbare.
ATROFIA MUSCOLARE PROGRESSIVA – Ha un debutto giovanile, con prevalenza nei maschi, e un
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decorso protratto di qualche decennio. Si manifesta con fascicolazioni, atrofia agli arti superiori e alle mani, riflessi profondi deboli o assenti e senza segni piramidali; sintomi bulbari si possono riscontrare negli stadi molto avanzati. Questo quadro veniva nel passato definito come poliomielite anteriore cronica. SCLEROSI LATERALE PRIMARIA. – Il quadro compare dopo la quinta decade di età, ha un decorso gradualmente progressivo che si prolunga per decenni e la sintomatologia consiste in una paraparesi spastica che in breve diventa una tetraparesi, con iperreflessia profonda e Babinski, cui si associano segni bulbari, quali disartria e labilità emotiva. Sul piano neuropatologico esisterebbe una selettiva scomparsa delle grandi cellule piramidali di Betz, che potrebbe essere rilevata da segni di atrofia del giro precentrale alla Risonanza Magnetica. Esami complementari Lo studio neurofisiologico rappresenta un elemento cruciale per raggiungere la diagnosi ed escludere altre possibilità diagnostiche, rilevando i dati qui sotto riportati, e che talora, nelle fasi del tutto iniziali della malattia, possono non essere riscontrabili. Per sostenere la diagnosi clinica di SLA, l’EMG deve dimostrare la presenza combinata di segni di attiva e cronica denervazione, talora non uniformemente rappresentati nei vari gruppi muscolari. Le alterazioni devono essere registrate in almeno due dei quattro distretti muscolari considerati (bulbare, cervicale, toracico, lombo-sacrale). Per i distretti cervicale e lombo-sacrale le alterazioni devono essere presenti in almeno due muscoli innervati da due diversi nervi e radici. I segni di attiva denervazione consistono in: – potenziali di fibrillazione – potenziali positivi di denervazione
I segni di cronica denervazione consistono in: – potenziali di unità motoria di ampiezza e durata aumentate, con aumento della percentuale di polifasici, – ridotta attività interferenziale, con aumento della frequenza di scarica oltre ai 10 Hz (a meno di una importante componente di degenerazione del I motoneurone), – potenziali di unità motoria instabili (modificano, cioè, le caratteristiche morfologiche nel corso di scariche consecutive). La velocità di conduzione motoria può dimostrare un rallentamento di circa il 10% rispetto ai controlli, attribuibile alla perdita dei grossi assoni a conduzione rapida, quando si verifica una grave atrofia. Non si devono riscontrare blocchi di conduzione. La latenza nella conduzione nelle porzioni distali dei nervi motori è allungata in rapporto al grado di atrofia. La velocità di conduzione dei nervi sensitivi è normale, e così sono normali i potenziali evocati sensitivi. La registrazione dei potenziali motori evocati (PEM), da stimolazione magnetica transcranica (v. pag. 365) è in grado di documentare una compromissione funzionale della via corticospinale, anche clinicamente silente. In una elevata percentuale di soggetti con SLA, è stata riscontrata l’assenza o la riduzione dell’ampiezza o l’aumento della latenza delle risposte evocate da stimolazione corticale (Eisen et al., 1990). Analoghe alterazioni sono state riscontrate anche per registrazione da muscoli innervati dal trigemino motorio, quali il massetere (Trompetto, Caponnetto et al., 1998). Tali alterazioni esprimono la degenerazione degli assoni cortico-spinali e cortico-bulbari e la riduzione di eccitabilità delle cellule di Betz, ma non possono essere considerate specifiche della malattia del motoneurone. Altri esami di laboratorio possono fornire, in determinati casi (v. diagnosi differenziale), aiuto diagnostico, per cui si possono controllare: velocità di sedimentazione, esame morfologico del sangue, elettroforesi sierica, immunoelettroforesi,
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conteggio delle piastrine, tempo di protrombina, glicemia e Hb glicosilata, elettroliti (Na, K, Cl, Ca, Mg), funzione renale, creatinchinasi (aumento non superiore a 5 volte il valore normale), elettroforesi delle proteine seriche, ed, eventualmente, valutazione degli ormoni tiroidei e, se il Ca è elevato, del livello di ormone paratiroideo. L’esame del liquor cerebrospinale in molti centri non è eseguito di abitudine. Un elevato livello di proteine (sopra i 0,75 mg) e l’eventuale presenza di bande oligoclonali suggeriscono l’esistenza di un’altra patologia (linfoma, immunopatie), ma circa nel 45% dei casi esiste un aumento delle proteine rispetto ai controlli, probabile espressione di una aumentata permeabilità della barriera ematoencefalica (Leonardi et al., 1984). La RM potrà essere eseguita se la diagnosi è incerta e se si sospetta una mielopatia spondilotica o eventualmente un tumore. Sebbene non esistano, alle neuroimmagini, segni che permettano di sostenere la diagnosi di SLA, talora, nelle sequenze RM encefaliche T2 pesate, sono presenti immagini iperintense a livello dei tratti corticospinali. La biopsia di nervo e di muscolo possono essere importanti specie per una diagnosi di esclusione di neuropatie periferiche e miopatie. Diagnosi Secondo i criteri di El Escorial (1994) e la successiva revisione del 1998 (Brooks et al., 1999) la diagnosi di SLA richiede: – evidenza di segni di degenerazione del II motoneurone (clinici, neurofisiologici, o neuropatologici) – evidenza clinica di degenerazione del I motoneurone – progressione anamnestica od obiettiva dei segni e dei sintomi con diffusione nello stesso o in altri distretti. Esclusione di: – altre patologie, capaci di spiegare i segni di compromissione del I e II motoneurone, sulla base di dati elettrofisiologici o neuropatologici,
– altri processi patologici, evidenziabili agli esami per immagini, in grado di spiegare i segni clinici e neurofisiologici In base a tali presupposti sono stati riconosciuti, specie a fine di ricerca clinica e terapeutica, diversi gradi di “certezza” della diagnosi: 1. «SLA sospetta», quando esistono segni di lesione del motoneurone inferiore in due o più distretti corporei (e cioè: distretto bulbare, cervicale, toracico, lombosacrale). 2. «SLA possibile», che comporta segni di compromissione del motoneurone superiore o inferiore in un solo distretto corporeo o segni di lesione del motoneurone superiore sono presenti solamente in due o più regioni. 3. «SLA probabile», quando la compromissione del motoneurone superiore e inferiore è presente in almeno due distretti, e, almeno alcuni segni di lesione del motoneurone superiore, devono essere rostrali ai segni di lesione del motoneurone inferiore. 4. «SLA definita o certa» è identificata dalla presenza di segni di lesione del motoneurone superiore e inferiore sia nel distretto bulbare che, almeno, in due distretti corporei oppure da segni di lesione del motoneurone superiore e inferiore in almeno tre distretti corporei. Questi diversi livelli di certezza diagnostica, basati esclusivamente su dati clinici, sono stati, nell’ultima revisione del 1998, arricchiti dall’apporto dei rilievi neurofisiologici, con la definizione di una «SLA clinicamente probabile, con supporto di laboratorio». La diagnosi differenziale va posta soprattutto in rapporto alla mieloradiculopatia da spondiloartrosi. I casi tipici si differenziano per la presenza di segni sensitivi e per l’assenza di segni clinici ed elettromiografici in distretti diversi e molteplici. La diagnosi può diventare difficile, se la spondiloartrosi è cervicale e lombare e se non esistono disturbi sensitivi. La RM può essere di notevole aiuto, anche se rimane cruciale la valutazione clinica della correlazione tra dati ra-
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diologici e sintomatologia. Se, tuttavia, si addivenisse a decidere un intervento chirurgico il paziente deve essere informato che la diagnosi finale sarà fatta in rapporto all’andamento postchirurgico. Nelle forme con interessamento esclusivo del II motoneurone è importante escludere polineuropatie di varia origine ed, in particolare, la neuropatia motoria multifocale, forma curabile, caratterizzata dalla presenza di blocchi di conduzione all’elettroneurografia motoria e di anticorpi anti GM1 (v. pag. 1407). Nella diagnosi differenziale bisogna anche tener conto di sindromi tipo SLA associate ad altri disturbi, quali: gammopatia monoclonale (gammopatie di significato non conosciuto, macroglobulinemia di Waldenstrom, mieloma osteosclerotico); turbe endocrine non maligne (ipertiroidismo, iperparatiroidismo, ipogonadismo, ecc.); linfoma (Hodgkin e non Hodgkin) e, molto più raramente, infezioni (in particolare HIV-1, lue, brucellosi), intossicazioni esogene (piombo, mercurio, manganese, alluminio, pesticidi ecc).
Terapia Fino alla metà degli anni novanta non si conosceva alcuna terapia per la malattia. La possibilità, dimostrata con sperimentazione clinica controllata, di rallentarne l’evoluzione progressiva con un farmaco ad azione antiglutamatergica, il Riluzolo, ha determinato entusiasmo per la ricerca di nuovi approcci terapeutici. A tutt’oggi, tuttavia, le sperimentazioni cliniche con altri agenti antiglutamatergici (Gabapentin) e fattori di crescita (Brain Derived Neurotrophic Factor, Ciliary Neurotrophic Factor, Insulin-like Growth Factor) hanno fornito risultati deludenti. Dati del tutto recenti attribuirebbero qualche efficacia allo Xaliproden, farmaco che agirebbe stimolando la produzione di fattori di crescita. Sono inoltre di uso comune, anche se esistono solo esperienze sull’animale, la Vitamina E
(per il noto effetto antiossidante) e la creatina. Un interesse per ora solo speculativo ha la ricerca su possibili trapianti di cellule staminali, come proposto per altre malattie con degenerazione neuronale. Accanto all’impiego di farmaci che si propongono come terapia eziopatogenetica, grande spazio hanno oggi le terapie sintomatiche e palliative che prevedono l’intervento integrato di numerose figure professionali accanto al neurologo quali, il fisioterapista, il nutrizionista, il chirurgo, il pneumologo, lo psicologo. In particolare, il decorso della malattia si prolunga significativamente grazie alla gastrostomia percutanea endoscopica (PEG), eseguita nei casi con importante disfagia e la ventilazione non invasiva instaurata a domicilio in una fase della malattia precedente la dispnea clinicamente evidente. Oltre alla correzione di sintomi quali la spasticità (Baclofen da 30 a 75 mg/die), scialorrea (amitriptilina da 30 a 60 mg/die, irradiazione o infiltrazione di tossina botulinica delle ghiandole salivari), labilità affettiva (antidepressivi triciclici o serotoninergici), stipsi (lassativi) una particolare attenzione va prestata alle fasi terminali della malattia, alleviando la sofferenza della insufficienza respiratoria terminale anche con l’uso di oppiacei. La comunicazione, al paziente e ai familiari, della diagnosi e della prognosi della malattia implica problemi etici e pratici di non facile soluzione e che devono essere adattati alle singole situazioni. L’Associazione Nazionale per la Sclerosi Laterale Amiotrofica offre un utile supporto alle famiglie e ai pazienti (v. pag. 730). SLA ENDEMICA DEL PACIFICO OCCIDENTALE. – Il quadro di una SLA associato con il complesso Parkinson-Demenza è descritto nel Pacifico Occidentale (nell’isola di Guam, nella popolazione Chamorro, nella penisola giapponese di Kii e nella Nuova Guinea occidentale), anche se dati recenti indicano una notevole riduzione di casi, con una incidenza che dall’87% su 100.000 abitanti del 1962, è scesa al 5% nel 1985.
1280 Malattie del sistema nervoso
Il debutto è anticipato rispetto alla forma sporadica (età media 46 anni), i segni agli arti inferiori, superiori e i segni bulbari coesistono con segni extrapiramidali e demenza. Il complesso SLA-Parkinson-Demenza (v. pag. 1090) non è geneticamente determinato, anche se ha un’alta incidenza familiare nella popolazione Chamorro. La presenza nella farina ottenuta dai semi di una specie di palma di una eccitotossina (metilaminoalanina) è stata prospettata come causa della malattia, ma si fa rilevare che le quantità di farina da ingerire per ottenere la malattia dovrebbero essere enormemente elevate. Una dieta a tenore di Calcio estremamente basso sarebbe per alcuni responsabile di un quadro neuropatologico analogo nelle scimmie.
Malattie ereditarie del motoneurone SLA FAMILIARE. – La forma giovanile è rara e si trasmette prevalentemente con modalità autosomica recessiva. Il debutto è in età infantile con segni piramidali agli arti inferiori, amiotrofia distale agli arti superiori e segni bulbari. La malattia è geneticamente eterogenea, così come il decorso clinico: in alcune forme la sopravvivenza può essere superiore ai 15 anni. La forma degli adulti che rappresenta circa il 10% di tutti i casi di SLA, si trasmette prevalentemente con modalità autosomica dominante ad alta penetranza o con penetranza ed espressività variabili. Clinicamente è simile alla forma sporadica, ma il debutto agli arti inferiori è più frequente e il deterioramento mentale è presente nel 15% dei casi. Come già accennato in circa il 15-20% dei casi è stata riscontrata una mutazione del gene della SOD-1 nel cromosoma 21 (Rosen, 1993). Un quadro simile alla SLA, di tipo autosomico recessivo è stato osservato in famiglie di ebrei Ashkenazi.
Si tratta di una sintomatologia che compare tra la 3ª e la 5ª decade di età, con andamento progressivo e dovuta a deficienza di esosaminidasi A. Talora si associano anche atassia, disartria, deterioramento mentale ed talora segni di neuropatia. PARAPLEGIA SPASTICA FAMILIARE (MALATTIA DI STRUMPELL-LORRAINE). – v. pag. 1297. ATROFIE MUSCOLARI SPINALI EREDITARIE Si tratta di un gruppo di forme ereditarie caratterizzate dalla degenerazione del motoneurone spinale, usualmente distinte per l’ epoca dell’esordio nelle seguenti forme: a) Forma infantile acuta o tipo I o m. di Werdnig-Hoffman, che si manifesta entro 3 mesi dalla nascita. b) Forma intermedia o tipo II, che compare dopo 1-2 anni di vita. c) Forma giovanile o tipo III o m. di Wolfhart -Kugelberg-Welander, con esordio tra i 2 e i 19 anni,( che può anche comprendere la forma dell’adulto.) d) Forma dell’adulto o di tipo IV con esordio tra i 15 e i 50 anni Esiste tuttavia discussione e controversia nella classificazione dei singoli sottogruppi: si potrebbe trattare di un’unica malattia con uno spettro diverso di espressioni cliniche o un raggruppamento di malattie diverse con alterazioni patologiche similari (Emery et al., 1976). Infatti, per quanto riguarda l’eziologia, è stato dimostrato che si tratta di una malattia ereditaria, a modalità di trasmissione recessiva, e il gene responsabile, per tutte le forme del gruppo, distinte sulla base dell’età del debutto e del decorso clinico, è stato localizzato nel cromosoma 5 e codifica per una proteina denominata “survival motor neuron” (Lefebvre,1995). FORMA INFANTILE ACUTA (M. DI WERDNIG-HOFFMANN) (TIPO I). – Malattia descritta da Werdnig (1891) e da Hoffmann (1893), ha il suo debutto acuto entro i primi
Malattie primitive del motoneurone 1281 tre mesi dalla nascita, ed è caratterizzata da atrofia muscolare progressiva, a decorso fatale, espressione di una degenerazione dei motoneuroni spinali. Neuropatologia. – Degenerazione e scomparsa dei motoneuroni alfa, gliosi fibrillare a tutti i livelli del midollo spinale. Anche diversi nuclei dei nervi cranici sono compromessi (n. del XII, del VII, VI, IV, III, e n. ambiguo). Raramente esiste demielinizzazione dei fasci piramidali ed eccezionalmente dei cordoni posteriori. Nei muscoli striati si reperisce il quadro di un’atrofia neurogena. Sintomatologia. – Il quadro classico è rappresentato da ipostenia muscolare che si riscontra alla nascita o nei primissimi mesi di vita (talora il debutto è in periodo prenatale), a distribuzione in genere prossimale (dal cingolo scapolare o pelvico) con successiva estensione distale. I riflessi profondi sono assenti. Talora a livello della lingua sono visibili fascicolazioni. L’atteggiamento del neonato è caratteristico: posizione supina, braccia e gambe abdotte e flesse; espressione facciale fissa e pianto debole. Durante la fase inspiratoria, si osserva abbassamento del torace e spiccata protrusione dell’addome (aspetto a «pallone»). FORMA INTERMEDIA (TIPO II). – È forse la forma più frequente, con inizio tra i 3 mesi e i 15 anni di età, in media sui 5 anni.Comporta una ritardata e parziale acquisizione della funzione motoria, se il debutto è precoce. Il bambino può star seduto, ma non è in grado di mantenere la stazione eretta o di marciare senza aiuto. L’ipostenia e l’amiotrofia sono rilevanti, inizialmente a prevalenza prossimale, e poi diffuse; in fase avanzata l’alterazione colpisce anche la muscolatura innervata dai nervi bulbari, specialmente dal XII. MALATTIA DI WOHLFART-KUGELBERG-WELANDER (TIPO III). – L’età di esordio è di regola infanto-giovanile e ha un decorso molto lento. Neuropatologia. – Per la benignità della forma è opportuno ricordare che la biopsia muscolare rivela un quadro tipico di atrofia neurogena. Sintomatologia. – Il debutto, nella seconda infanzia o nell’adolescenza, è caratterizzato da una progressiva astenia prossimale degli arti inferiori, con improvvisi cedimenti durante la marcia, facilità a cadere, difficoltà particolarmente evidente nello scendere o salire le scale. Successivamente l’ ipostenia diffonde anche agli arti superiori e alle porzioni distali, e si associa ipo-atrofia. I riflessi profondi sono assenti e solo eccezionalmente esiste compromissione a livello bulbare (Fig. 30.4).
Fig. 30.4 - Atrofia di Wohlfart-Kugelberg-Welander (tipo III). A: evidente ipotrofia del cingolo scapolare; B: ipotrofia dei muscoli delle cosce.
In tutte le tre forme indicate l’esame elettromiografico dimostra una lesione neurogena, caratterizzata da un notevole aumento di ampiezza e durata dei potenziali di
1282 Malattie del sistema nervoso unità motoria, potenziali di fascicolazione e di denervazione. FORMA DELL’ADULTO: è una forma relativamente benigna, che esordisce tra i 15 e i 50 anni con ipostenia ed ipotrofia prossimale agli arti che progredisce molto lentamente e talora si arresta. Spesso la possibilità di deambulare è mantenuta a decine di anni dall’esordio.
PARALISI BULBARE PROGRESSIVA FORMA INFANTILE (MALATTIA DI FAZIO-LONDE). – Si tratta di una rara malattia, caratterizzata da un debutto in età infantile, adolescenziale o giovanile con segni clinici di paralisi bulbare progressiva: diplegia facciale, disartria, disfagia, disfonia che si aggravano nel tempo e conducono a morte pochi anni dopo il debutto. Talora si possono aggiungere segni di compromissione piramidale ed eccezionalmente compromissione della motilità oculare. Neuropatologia. – Nei pochi casi esaminati si ritrova perdita neuronale a livello del XII, n. ambiguo, VII, e V motorio, ed eccezionalmente dei nervi oculomotori. La diagnosi clinica necessita il conforto di mezzi diagnostici di neuroimmagine (TC e RM) per escludere altre patologie (ad es., glioma pontobulbare; sclerosi multipla). FORMA DELL’ADULTO (PARALISI-BULBO-PONTINA CRONICA -VAN LAERE). – Il debutto è in età adulta e ai sintomi sopra indicati si aggiunge sordità, e in qualche caso ineccitabilità labirintica La malattia è molto rara (circa 10 casi riportati in letteratura) e mancano controlli autoptici.
CON SORDITÀ-MALATTIA DI VIALETTO
N EURONOPATIA SPINOBULBARE “X- LINKED” (M. DI KENNEDY). - È una malattia familiare legata al cromosoma X che si manifesta intorno ai 50 anni con ipostenia ed ipotrofia prossimale agli arti superiori e paralisi bulbare. Sono caratteristici la presenza di ginecomastia, tremore posturale agli arti superiori e turbe sensitive agli arti inferiori. È stata riconosciuta una mutazione nel gene per il recettore degli androgeni con aumento del numero di triplette CAG.
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Atassie e paraparesi spastiche ereditarie 1283
31. Atassie e paraparesi spastiche ereditarie A. Filla, C. Finocchi, G. De Michele
Atassie cerebellari congenite Costituiscono un gruppo eterogeneo di malattie rare e probabilmente sottodiagnosticate in cui l'atassia è presente sin dalla nascita. La valutazione della funzione cerebellare è difficile nei primi anni di vita, quando il cervelletto e le vie cerebellari non hanno ancora completato la loro maturazione. Un ritardo nell'acquisizione delle tappe motorie può quindi rappresentare il segno più precoce di un'atassia congenita. Ipotonia, nistagmo e tremore intenzionale possono essere evidenti prima dell'atassia. Ritardo mentale, spasticità e microcefalia sono spesso presenti. L'atassia non è progressiva e talora può esservi miglioramento nel corso degli anni. Il
Tabella 31.1. Classificazione delle eredoatassie Atassie cerebellari congenite Atassie associate a difetti metabolici noti Atassie metaboliche intermittenti Atassie metaboliche progressive Atassie associate a difetti di riparazione del DNA Atassie degenerative ad esordio precoce Atassia di Friedreich EOCA Atassia cerebellare con ipogonadismo Atassia mioclonica progressiva Altre atassie ad esordio precoce Atassie degenerative ad esordio tardivo ADCA I ADCA II ADCA III Altre atassie cerebellari dominanti Atassie episodiche dominanti ILOCA
50% dei casi è ereditario, per lo più a trasmissione autosomica recessiva. Spesso le forme sporadiche vengono erroneamente considerate casi di paralisi cerebrale infantile. La presentazione clinica dell'ipoplasia pontocerebellare, dell'ipoplasia delle cellule dei granuli e della sindrome con disequilibrio è piuttosto aspecifica. Più caratteristico il quadro della sindrome di Gillespie con aniridia parziale, e della sindrome di Joubert con episodi di iperpnea ed apnea, anomalie dei movimenti oculari, facies dismorfica ed agenesia del verme. Un'atrofia olivopontocerebellare ad esordio neonatale può essere dovuta alla sindrome da glicoproteine deficienti in carboidrati, tipo 1, in cui molte glicoproteine difettano in acido sialico, galattosio e acetilglucosamina. La sindrome, causata da mutazioni del gene della fosfomannomutasi-2 o del gene della fosfomannosio isomerasi-1, è caratterizzata da ritardo psicomotorio e di crescita, atassia non progressiva, episodi tipo stroke, neuropatia demielinizzante ed epatopatia. Le forme sopra esposte sono autosomiche recessive. È invece X-legata la sindrome di Paine con microcefalia, ritardo psicomotorio, convulsioni, mioclonie, atrofia ottica, spasticità e ipoplasia olivoponto-cerebellare.
Atassie associate a difetti metabolici noti Harding (1984) ha distinto le atassie cerebellari da difetto metabolico noto in forme intermittenti e progressive. Sono entità cliniche rare, con esordio precoce e trasmissione per lo più autosomica recessiva. Una diagnosi accurata è
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importante in quanto trattamenti dietetici e farmacologici possono essere utili (Scriver et al., 1995). L'atassia può essere anche sintomo di altre malattie metaboliche come leucodistrofie, lipidosi sfingomieliniche, ceroidolipofuscinosi, sialidosi e m. di Wilson.
Atassie metaboliche intermittenti I difetti enzimatici del ciclo dell'urea sono associati ad iperammoniemia. La forma più frequente è il deficit di ornitin-carbamil-transferasi, enzima mitocondriale che catalizza la sintesi di citrullina. La malattia, X-legata, si presenta nei maschi come una grave encefalopatia iperammoniemica, spesso fatale in età neonatale. Nelle femmine il quadro clinico può variare dalla normalità ad una grave sintomatologia con ritardo psicomotorio e di crescita unitamente a episodi di vomito, atassia, confusione, convulsioni, precipitati da eccessiva assunzione alimentare di proteine o infezioni. Per la diagnosi è possibile misurare l'attività enzimatica nel fegato, nella mucosa del digiuno o nei leucociti. Nei maschi l'attività enzimatica è assente, variabilmente ridotta nelle femmine. La terapia consiste in dieta ipoproteica integrata con citrullina, benzoato e fenilbutirrato di sodio e nella somministrazione di liquidi durante gli attacchi. Hanno un simile quadro clinico e trasmissione autosomica recessiva le altre rare iperammoniemie causate da difetti del ciclo dell'urea (deficit di argininosuccinico sintetasi; deficit di arginino-succinasi; deficit di arginasi) e la sindrome iperornitinemia-iperammoniemia-omocitrullinuria che è invece dovuta a deficit del trasporto dell'ornitina nei mitocondri. Tra i disordini del metabolismo degli aminoacidi sono causa di atassia intermittente due forme ad esordio infantile e trasmissione autosomica recessiva. Nella m. di Hartnup vi è un difetto nel trasporto intestinale e renale di aminoacidi monoamino-monocarbossilici. Le carat-
teristiche cliniche sono eritema fotosensibile, atassia cerebellare, disturbi psichiatrici, talora ritardo mentale, aminoaciduria. Episodi di atassia sono precipitati da infezioni, stress, restrizioni dietetiche. La terapia consiste in somministrazione di nicotinamide e dieta ricca di proteine. La chetoaciduria a catene ramificate intermittente è una variante della malattia dello sciroppo d'acero dovuta a deficit del complesso multienzimatico mitocondriale deidrogenasi degli alfa chetoacidi a catena ramificata. É caratterizzata da attacchi di atassia, vomito, confusione, acidosi metabolica ed aumentata escrezione urinaria di chetoacidi. Il metabolismo energetico cerebrale dipende largamente dalla decarbossilazione ossidativa del piruvato operata dal complesso enzimatico piruvato-deidrogenasi che presenta livelli critici nel verme. Questo spiega le prominenti manifestazioni cerebellari nel deficit di questo enzima. Il deficit di piruvato-deidrogenasi è un raro disordine di solito X-legato, con possibilità di espressione variabile anche nelle femmine portatrici. I pazienti più gravi presentano acidosi lattica, ritardo mentale, convulsioni e morte in età infantile. Se il difetto enzimatico è relativamente modesto si hanno episodi acuti di atassia e coreo-atetosi. Una dieta chetogenica può essere utile.
Atassie metaboliche progressive Sia l'abetalipoproteinemia che l'atassia con deficit isolato di vitamina E sono associate a deficit di vitamina E; l'instaurarsi di un precoce trattamento può prevenirne la progressione o finanche migliorare il quadro clinico. L'abetalipoproteinemia (m. di Bassen-Kornzweig) è una malattia autosomica recessiva, più frequente tra gli ebrei Ashkenazi, causata da difetto del trasporto intestinale dei lipidi. Sono state identificate mutazioni del gene di una subunità della proteina microsomiale di trasporto dei trigliceridi da cui consegue ridotta produ-
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zione epatica delle VLDL che sono le proteine di trasporto della vitamina E. Il quadro neuropatologico è caratterizzato da degenerazione dei cordoni posteriori e dei fasci spino-cerebellari e da perdita di fibre mieliniche nei nervi periferici. La malattia può esordire con segni di malassorbimento e difficoltà di crescita. A partire dalla prima o seconda decade di vita inizia un quadro che ricorda l'atassia di Friedreich, con atassia progressiva, assenza dei riflessi profondi e riduzione delle sensibilità vibratoria e propriocettiva. Altri possibili segni sono retinite pigmentosa, ptosi, oftalmoplegia, Babinski, scoliosi, piede cavo, cardiomiopatia. Gli esami complementari dimostrano steatorrea, acantocitosi, riduzione della colesterolemia, delle beta-lipoproteine, delle LDL, delle VLDL, della vitamina E e delle altre vitamine liposolubili. Dosi elevate di vitamina E e supplementi di vitamine A e K possono migliorare il quadro clinico. Nell'ipobetalipoproteinemia gli eterozigoti presentano ipocolesterolemia e gli omozigoti hanno un profilo lipidico ed una sintomatologia simile alla abetalipoproteinemia. L'atassia con deficit isolato di vitamina E (Ataxia with isolated Vitamin E Deficiency; AVED) è una rara forma di atassia descritta, per lo più, in pazienti nord-africani. L'assorbimento intestinale e l'incorporazione nei chilomicroni dell'alfa-tocoferolo è normale, ma vi è un difetto di incorporazione nelle VLDL per la presenza di mutazioni della proteina di trasporto dell'alfatocoferolo. Vi sono bassi livelli plasmatici di vitamina E ed un quadro clinico simile alla atassia di Friedreich. L'esordio è nelle prime due decadi di vita con atassia progressiva, areflessia, deficit delle sensibilità profonde, ipostenia e Babinski, talora scoliosi, piede cavo, tremore del capo, cardiomiopatia. Il quadro neurofisiologico e neuropatologico è quello di una neuropatia sensitiva assonale. L'integrazione con vitamina E (600 UI due volte al giorno) può normalizzare il livello plasmatico e fermare la progressione della malattia.
Le encefalomiopatie mitocondriali sono un gruppo eterogeneo di malattie, causate da difetti del genoma nucleare o mitocondriale, e caratterizzate da alterazioni morfologiche e biochimiche derivanti dalla disfunzione del metabolismo mitocondriale. L'interessamento clinico è multisistemico ed il muscolo scheletrico e cardiaco, il sistema nervoso ed il sistema endocrino sono più frequentemente coinvolti. Le forme causate da mutazioni puntiformi mitocondriali presentano trasmissione matrilineare. L'epilessia mioclonica con raggedred fibers (MERRF) è caratterizzata da esordio spesso tardivo, mioclono d'azione, epilessia mioclonica, atassia, sordità, demenza e atrofia ottica. Vi è aumento del lattato e della CPK nel siero e la biopsia muscolare mostra accumulo di mitocondri anormali in sede subsarcolemmale ed intermiofibrillare (ragged-red fibers). La sindrome è causata prevalentemente da mutazione del tRNA della lisina. La sindrome neuropatia, atassia, retinite pigmentosa (NARP) può anche comprendere epilessia, demenza, miopatia prossimale, ritardo di sviluppo. É causata da mutazione del gene dell'ATPasi 6 del DNA mitocondriale. Quando il tasso di mutazione è molto elevato si ha una sindrome di Leigh. L'atassia è una delle caratteristiche principali della sindrome di Kearns-Sayre (KSS), un'oftalmoplegia cronica progressiva sporadica con esordio entro i 20 anni, retinite pigmentosa, atassia, blocco di conduzione cardiaca, iperproteinorrachia, bassa statura, sordità neurosensoriale, presenza di ragged-red fibers. In quasi tutti i pazienti si rinvengono macrodelezioni del DNA mitocondriale. La sindrome di Leigh è geneticamente eterogenea, per lo più associata a deficit di citocromo c-ossidasi, ma anche di NADH-deidrogenasi, piruvatodeidrogenasi o piruvato-carbossilasi. Sono state recentemente identificate mutazioni del gene SURF-1, che ha un ruolo nell'assemblaggio della citocromo c-ossidasi, nella forma associata a deficit di questo complesso enzimatico. L'esordio è in genere nella prima infanzia, ma
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può essere più tardivo con ritardo di sviluppo, regressione psicomotoria, atassia, epilessia, atrofia ottica, oftalmoplegia, vomito, disturbi respiratori, neuropatia periferica, ipercinesie. Lo studio neuropatologico mostra necrosi simmetrica di talamo, ponte, olive inferiori, cordoni posteriori. Malattie da accumulo, a trasmissione autosomica recessiva, possono provocare atassia progressiva. Il deficit di esosaminidasi A causa in età infantile la m. di Tay-Sachs. Forme ad esordio più tardivo, dai 3 ai 30 anni, con atassia cerebellare, segni di interessamento del primo e del secondo motoneurone, demenza, psicosi e oftalmoplegia sono state descritte in pazienti ebrei. Lo studio neuroradiologico evidenzia atrofia del cervelletto e del tronco; la biopsia rettale inclusioni citoplasmatiche lamellari. La m. di Niemann-Pick tipo C è geneticamente eterogenea ed un locus è stato localizzato sul cromosoma 18. Nei fibroblasti in coltura c'è blocco dell'esterificazione del colesterolo esogeno. L'esordio è tra i 6 mesi ed i 18 anni con atassia, deficit intellettivo, paralisi sopranucleare dello sguardo verticale, distonia, convulsioni, segni piramidali, disfagia, organomegalia, pneumopatia. Macrofagi infarciti di lipidi (cellule schiumose) sono presenti nel midollo osseo e nel fegato. Il gene mutato nella xantomatosi cerebrotendinea (colestanolosi) è quello della sterolo 27-idrossilasi, un enzima della sintesi degli acidi biliari. Precocemente compaiono xantomi, soprattutto a livello del tendine di Achille, e cataratta. Il quadro neurologico, con atassia spastica, paralisi pseudobulbare, demenza, mioclono palatino e neuropatia periferica, è più tardivo. Nel siero si rileva incremento del colestanolo, un metabolita del colesterolo; nei tessuti accumulo di colestanolo e colesterolo. La risonanza magnetica mostra frequentemente lesioni cerebellari simmetriche iperintense in T2. Per il trattamento viene utilizzato l'acido chenodeossicolico che riduce i livelli di colestanolo e migliora il quadro clinico.
Atassie associate a difetti della riparazione del DNA L'atassia teleangectasia (sindrome di Louis Bar) è una malattia autosomica recessiva con una prevalenza stimata di 0,5-1 × 10-5. Il gene mutato (ATM) codifica per una proteina con un dominio che presenta omologia per l'enzima fosfatidilinositol-3 chinasi, un mediatore della trasduzione di segnale, ed un altro dominio simile ad una proteina di lievito che ha un ruolo nella riparazione del DNA. La malattia è caratterizzata da una triade sintomatologica: una complessa progressiva sindrome neurologica, teleangectasie e deficit immunitari. L'esordio è per lo più tra 1 e 3 anni con atassia cerebellare, disartria, tremore intenzionale e del capo, coreoatetosi, ipomimia, scialorrea. L'aprassia oculomotoria è un segno tipico: il paziente, nel tentativo di fissare un oggetto posto lateralmente, volge eccessivamente il capo mentre gli occhi seguono con un movimento più lento. Nistagmo rotatorio, ipostenia, deficit della sensibilità, areflessia possono comparire in stadi avanzati. In epoca puberale la maggioranza dei pazienti perde la deambulazione autonoma e la morte si verifica nella seconda-terza decade di vita per infezioni broncopolmonari o neoplasie. Le teleangectasie si sviluppano successivamente, verso i 3-6 anni, e sono più evidenti sulle congiuntive ed il volto, ma anche sul collo e gli arti. Altri segni clinici sono: progeria, bassa statura, ritardo mentale, ipogonadismo ed intolleranza al glucosio. É presente deficit immunitario umorale e cellulare con riduzione delle Ig circolanti (specialmente le IgA), atrofia di timo, linfonodi e tonsille, infezioni respiratorie ricorrenti con sviluppo di bronchiectasie, aumentato rischio di neoplasie. I carriers eterozigoti possono presentare aumentato rischio di tumore, specialmente mammario. I linfociti ed i fibroblasti sono ipersensibili alle radiazioni ionizzanti ed ai farmaci radiomimetici con aumentata fragilità dei cromosomi. La radioterapia e l'abuso di test radiologici devono essere evitati. Utile per la diagnosi è il dosaggio dell'alfa-fetoproteina su sie-
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ro che risulta aumentata nel 95% dei casi. L'atrofia è cerebellare nei casi iniziali ed anche cerebrale in quelli avanzati. Lo studio delle velocità di conduzione del nervo periferico evidenzia una neuropatia assonale soprattutto sensitiva. L'autopsia mostra perdita neuronale nel cervelletto, perdita di fibre mieliniche nei fasci spinocerebellari, nelle colonne posteriori e nei nervi periferici. Lo xeroderma pigmentosum è una malattia cutanea autosomica recessiva geneticamente eterogenea. I pazienti presentano anomala sensibilità alla luce solare per un difetto di riparazione del DNA danneggiato dalla luce ultravioletta. Ne derivano lesioni cutanee ad esordio infantile quali lentiggini, cheratosi e teleangectasie. Nella sindrome di De Sanctis-Cacchione si associano segni neurologici, che compaiono in genere prima dei 30 anni, quali deficit intellettivo, neuropatia periferica, atassia, coreoatetosi, convulsioni, tetraparesi spastica, sordità, microcefalia, bassa statura ed ipogonadismo. Può esservi decesso precoce per la comparsa di neoplasie cutanee, ma nei casi più lievi la sopravvivenza è normale. L'autopsia mostra perdita neuronale nel cervelletto, nel tronco cerebrale e nel cervello. La sindrome di Cockayne è una malattia autosomica recessiva ad esordio tardo-infantile caratterizzata da ritardo di crescita e mentale, microcefalia, dismorfismo facciale, atassia, segni extrapiramidali, sordità, retinopatia pigmentosa, dermatite fotosensibile e neuropatia periferica. In genere la morte è prima dei 20 anni. Il cervello è ipoplasico e presenta leucodistrofia e calcificazioni dei nuclei della base.
Atassie degenerative ad esordio precoce Atassia di Friedreich L'atassia di Friedreich (FRDA) è un'atassia spinocerebellare autosomica recessiva. É la forma più frequente di atassia ereditaria e rappre-
senta il 50% delle principali casistiche. Il tasso di prevalenza è di 2 × 10-5 e la frequenza dei portatori è di 1/100. La malattia è presente nelle popolazioni caucasiche con piccole variazioni di prevalenza, mentre è assente in Cina e Giappone e nella popolazione negra sub-sahariana. Friedreich ha descritto la malattia nel 1863 differenziandola dalla tabe dorsale. L'idea che la malattia da lui descritta fosse un'entità distinta non fu immediatamente accettata. Charcot considerò i pazienti descritti da Friedreich come affetti da sclerosi multipla, ma rivide la sua posizione quando osservò un caso di FRDA nel 1884, due anni dopo la morte di Friedreich. Neuropatologia. La malattia colpisce più il midollo spinale che il cervelletto ed il tronco. Il reperto più importante è l'atrofia delle vie lunghe ascendenti (i cordoni posteriori ed i tratti spinocerebellari) e discendenti (la via corticospinale) con assottigliamento del midollo. Il tronco mostra atrofia dei nuclei gracile e cuneato; il cervelletto perdita delle cellule del Purkinje, atrofia del nucleo dentato e dei peduncoli cerebellari medio e superiore. Sono ancora presenti perdita di cellule di Betz e alterazioni degenerative nei nervi ottici. Nei gangli annessi alle radici posteriori c'è una perdita costante di cellule a T. Nel nervo periferico c'è una perdita marcata delle fibre mieliniche di grosso diametro (Fig. 31.1). Eziologia e patogenesi. Il locus FRDA mappa sul cromosoma 9. Il gene ha sette esoni, ma il trascritto maggiore deriva soltanto dai primi cinque ed è presente in diversi tessuti con massima espressione, nel sistema nervoso, nel midollo spinale e nei gangli dorsali (Campuzano et al., 1996). Il gene codifica per la fratassina, proteina di 210 aminoacidi localizzata nel mitocondrio, che interviene nell'omeostasi del ferro. Il 98% dei cromosomi affetti ha un'espansione anomala della tripletta guanina-adeninaadenina (GAA) all'interno del primo introne del gene e mutazioni missense e troncanti sono presenti nel rimanente 2%. L'espansione GAA inibisce l'espressione del gene, causando in omo-
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A
B
Figura 31.1 - Biopsia di nervo surale, A) Atassia di Friedreich, B) Controllo. Si nota la marcata perdita di fibre mieliniche di grosso calibro. Sezioni semifini. Blu di Toluidina, 370´. Barra = 30 mm (per gentile concessione del prof. Fabrizio Barbieri, Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università Federico II, Napoli).
zigosi una marcata riduzione della sintesi della proteina. Gli alleli espansi hanno un'instabilità intergenerazionale con tendenza alla contrazione nel passaggio dai genitori ai figli. Il sesso del genitore influenza l'instabilità, con contrazione nella trasmissione paterna e possibilità sia di espansione che di contrazione nella trasmissione materna. Le ipotesi patogenetiche derivano da un modello lontano. Il lievito S. cerevisiae, "knock-out" per il gene omologo della fratassina, mostra una riduzione del consumo di ossigeno, deficit della fosforilazione ossidativa, perdita del DNA mitocondriale ed un incremento di 10 volte del ferro intramitocondriale con riduzione di quello citoplasmatico. Nell'uomo un accumulo di ferro è stato dimostrato nel cuore e una riduzione dei complessi I-II-III della catena respiratoria e dell'aconitasi citosolica e mitocondriale in biop-
sie endomiocardiche. Dal momento che questi enzimi e complessi contengono dei gruppi ferrozolfo, che sono sensibili ai radicali liberi, si è pensato che lo stress ossidativo possa avere un ruolo nell'inattivazione delle proteine ferro-zolfo e nella patogenesi della malattia (Pandolfo, 1999; Puccio e Koenig, 2000). La maggior parte dei pazienti è omozigote per l'espansione GAA. Il numero delle ripetizioni GAA varia da 110 a 1400 sugli alleli patologici. L'espansione, che in genere non è identica sui due alleli, è in media di 860 negli alleli maggiori e 660 negli alleli minori. L'età di esordio varia tra 2 e 45 anni con una media di 15 e un picco tra 10 e 15. C'è una correlazione inversa tra il numero di ripetizioni GAA sull'allele minore e l'età di esordio (Filla et al., 1996; Fig. 31.2) e una correlazione diretta con la gravità della malattia.
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Sintomatologia. L'atassia della deambulazione, il più frequente sintomo iniziale della malattia, ha una componente spinale e cerebellare. La chiusura degli occhi peggiora la stazione eretta (segno di Romberg). L'atassia interessa il tronco e gli arti. La parola è rallentata, scandita, nasale ed alla fine difficile da comprendere. Nistagmo nello sguardo laterale è presente in un terzo dei pazienti. Le anomalie dei movimenti oculari, quasi costanti, consistono in instabilità della fissazione, frammentazione saccadica dei movimenti lenti di inseguimento e dismetria dei movimenti saccadici. Segni della compromissione corticospinale sono il segno di Babinski, che è molto frequente (75%), e l'ipostenia prossimale, presente nel 50% dei pazienti in fase precoce di malattia. I riflessi osteotendinei sono in genere assenti per la grave neuropatia sensitiva. In circa il 10% dei pazienti la compromissione corticospinale si esprime anche con la vivacità o, comunque, la conservazione dei riflessi rotulei, talora associata a spasticità. La riduzione della sensibilità vibratoria e chinestesica è presente nella maggior parte dei pazienti all'esordio e diviene costante nel corso della malattia. Nel 90% dei pazienti sono presenti scoliosi e deformità del piede usualmente di tipo cavo-equino-varo. Comu-
ni sono la disfagia per i liquidi, le estremità fredde e cianotiche. Possono essere presenti atrofia ottica ed ipoacusia, mentre cecità e sordità sono eccezionali. Le funzioni cognitive sono normali anche in fase avanzata di malattia. Anomalie elettrocardiografiche sono presenti nell'80% dei pazienti e consistono usualmente in anomalie della ripolarizzazione con alterazioni del tratto ST e inversione dell'onda T. L'ecocardiogramma è alterato nel 40% dei pazienti ed usualmente mostra ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro. Il diabete mellito, presente nel 12% dei pazienti, è causato da ridotta increzione di insulina ed aumentata resistenza all'insulina e compare in genere tardivamente, in pazienti relegati sulla sedia a rotelle. La progressione dell'atassia e soprattutto dell'ipostenia sono responsabili del confinamento sulla sedia a rotelle che avviene dopo un tempo mediano di 15 anni dall'esordio. La sopravvivenza mediana è di 36 anni dall'esordio della malattia. La presenza di diabete e di cardiomiopatia ipertrofica riducono la sopravvivenza (De Michele et al., 1996). Una piccola percentuale dei pazienti è eterozigote composto per l'espansione GAA su un allele ed una mutazione puntiforme, missense o troncante, sull'altro allele. Le mutazioni missen-
50
età di esordio (anni)
40
30
20
10
0 0
200
400
600
800
1000
numero di triplette GAA
Fig. 31.2 - Correlazione tra numero di triplette GAA sull'allele minore ed età di esordio nei pazienti con atassia di Friedreich.
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se sono concentrate nella porzione COOH-terminale della proteina, codificata dagli esoni 4 e 5a. Il fenotipo è quello tipico di FRDA nelle mutazioni troncanti e più variabile nelle mutazioni missense, dove può essere tipico o atipico ed il decorso aggressivo o lento. L'esordio medio è più precoce e la disartria è meno frequente nei pazienti eterozigoti composti che negli omozigoti. Diagnosi: 1. Il test molecolare per la ricerca dell'espansione GAA nel gene FRDA è il gold standard per la diagnosi. Sono possibili il test di carrier e la diagnosi prenatale. 2. La risonanza magnetica mostra frequentemente una precoce atrofia del midollo cervicale; una modesta atrofia cerebellare e del tronco sono frequenti in fase avanzata di malattia. 3. Lo studio dei potenziali evocati mostra una compromissione costante dei potenziali somatosensitivi; i potenziali del tronco e i potenziali evocati motori possono essere normali negli stadi precoci di malattia ma sono sempre alterati in fase avanzata; i potenziali evocati visivi sono alterati nel 60% dei pazienti. 4. Lo studio della conduzione nervosa periferica mostra una neuropatia assonale prevalentemente sensitiva. Terapia. Il trattamento con idebenone ha ridotto l'ipertrofia del miocardio in un numero esiguo di pazienti. Il diabete, l'aritmia e lo scompenso cardiaco richiedono specifici trattamenti. La chirurgia della scoliosi e delle deformità del piede può giovare ad alcuni pazienti, ma è necessario ridurre al minimo il periodo di allettamento. Il trattamento riabilitativo migliora la qualità della vita e può prolungare l'autonomia del paziente. Atassia cerebellare ad esordio precoce con conservazione dei riflessi osteotendinei Harding (1981a) ha proposto il termine di Early Onset Cerebellar Ataxia with retained tendon reflexes (EOCA) per questa categoria
caratterizzata, oltre alla conservazione dei riflessi, da assenza di cardiomiopatia, diabete, atrofia ottica e gravi anomalie scheletriche ed una migliore prognosi rispetto a FRDA, ma sono riportabili a Marie (1893) le prime descrizioni di famiglie con atassia spastica. EOCA è seconda in frequenza tra le atassie ad esordio precoce con prevalenza vicina a 1 × 10-5. Neuropatologia. Quattro autopsie, effettuate tra la fine dell'800 e l'inizio del 900, hanno mostrato quadri variabili di atrofia cerebellare, cerebello-olivare, olivopontocerebellare talora associata ad atrofia della corteccia cerebrale e del midollo. Eziologia. La trasmissione è usualmente autosomica recessiva anche se non si può escludere che alcune forme siano fenocopie non ereditarie. Non si tratta di una malattia ma di una sindrome ed i progressi della genetica molecolare hanno soltanto parzialmente risolto l'eterogeneità genetica di questa forma. Dopo la scoperta del gene FRDA alcuni pazienti con il fenotipo EOCA sono stati diagnosticati come atassia di Friedreich. Un locus è stato identificato su 10q in alcune famiglie finlandesi con una grave forma infantile di atassia, denominata IOSCA (Infantile-Onset Spinocerebellar Ataxia). Mutazioni del gene della sacsina sono state identificate in una serie di famiglie nella regione dello Charlevoix-Saguenay, nel Quebec nord-orientale, affette da atassia spastica e neuropatia periferica (ARSACS, Autosomal Recessive Spastic Ataxia of Charlevoix-Saguenay; Engert et al., 2000). In alcune famiglie tunisine il difetto genetico mappa sullo stesso locus. Sintomatologia. L'esordio medio è all'età di 10 anni e circa il 50% dei pazienti ha esordio nei primi quattro. La deambulazione è atassica o atasso-spastica. La disartria, molto frequente, è generalmente modesta. Nistagmo è presente in 3/4 dei pazienti. La frammentazione saccadica dei movimenti lenti di inseguimento è costante. I movimenti saccadici sono dismetrici, ma di normale velocità. Non c'è paralisi dello sguar-
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do. I segni di compromissione piramidale (Babinski e/o riflessi vivaci con spasticità) sono presenti in 2/3 dei pazienti ed i segni di neuropatia periferica (riduzione della pallestesia e achilleo ridotto/assente) in 1/3. Le anomalie scheletriche, scoliosi e piede cavo, sono frequenti ma in genere di lieve entità. Il decorso è usualmente lentamente progressivo. Il tempo mediano per il confinamento sulla sedia a rotelle è, in genere, 22 anni dall'esordio. L'attesa di vita è ridotta (Chiò et al., 1993). Diagnosi: 1. Il test per FRDA è consigliabile, dal momento che il 15% dei pazienti con il fenotipo EOCA è portatore di una mutazione del gene della fratassina. 2. La risonanza magnetica mostra nella maggior parte, ma non in tutti i pazienti, atrofia cerebellare, usualmente moderata, soprattutto vermiana ed associata ad atrofia del tronco e/o del midollo in 1/3 dei pazienti. 3. I potenziali evocati somatosensitivi per stimolazione del nervo tibiale mostrano un aumento della conduzione centrale nell'80% dei pazienti; 2/3 dei pazienti hanno alterazioni dei potenziali del tronco; la metà ha un rallentamento della conduzione dei potenziali motori centrali e di quelli visivi. 4. Neuropatia periferica, di tipo assonale e prevalentemente sensitiva, è presente nel 50% dei pazienti.
razione cerebello-olivare "tipo Holmes" anche ad atassie dominanti e in assenza di ipogonadismo. Sintomatologia. L'età di esordio della atassia è variabile, ma usualmente nelle prime tre decadi. L'ipogonadismo è di tipo ipogonadotropo o ipergonadotropo. Il primo è più frequente con un possibile difetto a livello ipotalamico. Anche il quadro clinico è variabile: ai costanti segni cerebellari si accompagnano frequentemente segni di compromissione corticospinale, demenza, neuropatia assonale. La variabilità dell'età di esordio, dei dati clinici ed endocrinologici suggeriscono che l'atassia con ipogonadismo sia una sindrome eterogenea. Delezione del DNA mitocondriale e deficit del complesso IV della catena respiratoria sono stati dimostrati in casi isolati. La sindrome di Boucher-Neuhauser si accompagna a ipogonadismo ipogonadotropo e distrofia corioretinica. Diagnosi: 1. La risonanza magnetica mostra atrofia cerebellare che può essere associata ad aumentato segnale della sostanza bianca nelle immagini T2-dipendenti. 2. Dosaggio degli ormoni sessuali, e delle gonadotropine per distinguere le forme ipogonadotrope ed ipergonadotrope. Il test di stimolazione con LHRH nelle forme ipogonadotrope può essere utile per distinguere le forme primitive da quelle secondarie a deficit ipotalamico.
Atassia cerebellare con ipogonadismo
Atassia mioclonica progressiva
L'associazione di atassia cerebellare ed ipogonadismo è rara ed è stata per la prima volta descritta da Holmes nel 1907 in una famiglia recessiva composta da tre fratelli ed una sorella con atassia progressiva ad esordio nella quarta decade. I tre fratelli avevano anche ipogonadismo. L'esame autoptico di un paziente ha mostrato una marcata atrofia del cervelletto, più evidente nella porzione superiore, e delle olive inferiori. Successivamente, in base ai reperti patologici, è stato applicato il nome di degene-
L'eponimico di sindrome di Ramsay-Hunt o dissinergia cerebellare mioclonica è stato ampiamente utilizzato per indicare il gruppo eterogeneo dei pazienti caratterizzati dall'associazione di atassia progressiva, mioclonie ed epilessia ed ha generato confusione nella letteratura. Più razionale appare la distinzione in due grandi categorie: epilessia mioclonica progressiva (EMP) ed atassia mioclonica progressiva (AMP), a seconda della prevalenza del disturbo epilettico o di quello atassico. Comunque il
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limite tra le due categorie è mal definito. Membri della stessa famiglia si possono presentare con EMP o AMP, e AMP può evolvere in una tipica EMP. L'AMP è rara e comprende mioclono, atassia progressiva con infrequenti o assenti crisi epilettiche e modesta o assente compromissione cognitiva. Possibili cause sono la degenerazione spinocerebellare, m. di Unverricht-Lundborg, MERRF, m. di Lafora, celiachia, ceroidolipofuscinosi neuronale e sialidosi. Frequentemente non si riesce ad arrivare ad una specifica diagnosi. La m. di Unverricht-Lundborg è una malattia autosomica recessiva caratterizzata da mioclono, crisi tonico-cloniche, segni cerebellari e modesto deterioramento cognitivo. L'esordio è all'età di 6-15 anni ed il decorso è progressivo. Un'espansione patologica di una sequenza dodecanucleotidica all'estremità 5' del gene della cistatina B, nella regione del promotore, è la mutazione più frequentemente associata a questa malattia (Lalioti et al., 1997).
Altre atassie ad esordio precoce La sindrome di Marinesco-Sjögren è caratterizzata da ritardo mentale, atassia cerebellare, cataratta, bassa statura e ritardo nello sviluppo sessuale. La sindrome di Behr è caratterizzata da atrofia ottica, spasticità, atassia e ritardo mentale. Alcune famiglie sono state descritte con atassia, aprassia oculare, coreo-atetosi ed ipoalbuminemia (9p); atassia, aprassia oculare, neuropatia periferica, elevate creatinchinasi, gamma-globuline e alfa-fetoproteina (9q); atassia spinale e retinite pigmentosa (1q). Altre rare forme di atassia ad esordio precoce sono associate a sordità e segni extrapiramidali. Tutte queste forme hanno una trasmissione autosomica recessiva. Sono state descritte rare forme X-legate. Il fenotipo è caratterizzato da esordio nell'infanzia o adolescenza e da paraparesi spastica che precede la comparsa di atassia e disartria.
Atassie degenerative ad esordio tardivo Atassie dominanti La prima descrizione di un'atassia cerebellare dominante (Autosomal Dominant Cerebellar Ataxia, ADCA) è stata fornita da Menzel (1891) in Germania. Il paziente aveva un'atassia progressiva con esordio a 28 anni, riflessi vivaci agli arti inferiori e movimenti coreiformi. L'esame autoptico dimostrò atrofia olivopontocerebellare e degenerazione dei tratti lunghi del midollo spinale. Sono state proposte numerose classificazioni, basate principalmente sui dati patologici, peraltro risultate insoddisfacenti. Harding (1982) ha proposto una classificazione clinica che è stata ampiamente accettata (Tab. 31.2). ADCA tipo I è la forma più frequente ed è caratterizzata da atassia cerebellare progressiva, variamente associata con oftalmoplegia, demenza, atrofia ottica, amiotrofia e segni piramidali ed extrapiramidali. ADCA tipo II è caratterizzata da una degenerazione retinica pigmentaria. ADCA tipo III è una forma cerebellare "pura" ad esordio più tardivo, in cui sono assenti segni oculari, demenza e segni extrapiramidali. Nell'ultimo decennio la genetica molecolare ha documentato una notevole eterogeneità genetica nell'ambito delle atassie dominanti che sono state denominate SCA (spinocerebellar ataxia). Il locus è stato identificato in 16 forme ed il gene è stato clonato in dieci. Le SCA rientrano nell'ambito delle malattie da triplette e la patogenesi è simile a quella della m. di Huntington. Un'espansione patologica di una sequenza citosina-adenina-guanina (CAG) è stata inizialmente identificata in SCA1 (Orr et al., 1993). Tale espansione, presente nella parte codificante del gene, viene tradotta in una sequenza di poliglutamine. Un'espansione CAG è stata successivamente identificata in altre sette forme: SCA2, 3, 6, 7, 12, 17 e DRPLA o atrofia dentato-rubro-pallido-Luysiana (Di Donato, 1998; Dürr e Brice, 2000; Subramony e Filla, 2001). Un'espansione citosina-timina-guanina
Atassie e paraparesi spastiche ereditarie 1293 Tabella 31.2 - Classificazione delle atassie dominanti. Classificazione Classificazione OMIM genetica di Harding
Locus Mutazione
Numero di triplette Frequenza Fenotipo Normale Patologico
SCA 1
ADCA I
601556
6p
CAG
6-44
39-82
SCA 2
ADCA I
601517
12q
CAG
14-31
33-64
SCA 3
ADCA I
109150
14q
CAG
12-40
54-86
SCA 4
ADCA III
600223
16q
Sconosciuta
SCA 5
ADCA III
600224
11cen
Sconosciuta
SCA 6
ADCA III
601011
19p
CAG
4-18
20-30
SCA 7
ADCA II
164500
3p
CAG
4-27
37-200
SCA 8 SCA 10 SCA 11
ADCA I
13q 22q 15q
CTG 16-91 ATTCT 10-22 Sconosciuta
107-127 800-4500
ADCA III
603680 603516 604432
SCA 12
ADCA I
604325
5q
CAG
<29
66-78
605259 605361
19q 19q 8
Sconosciuta Sconosciuta Sconosciuta
6
CAG
12p
CAG
7-35
49-88
SCA 13 SCA 14 SCA 16
ADCA III
SCA 17 DRPLA
125370
3-15%
Saccadi ipometriche, segni piramidali precoci 6-15% Saccadi lente, iporeflessia 30-40% Diplopia, spasticità, neuropatia 7 famiglie Prevalentemente cerebellare 2 famiglie Prevalentemente cerebellare 5-15% Prevalentemente cerebellare ~ 5% Degenerazione maculare pigmentaria Spasticità 5 famiglie Epilessia 1 famiglia Prevalentemente cerebellare 1 famiglia Tremore, bradicinesia e demenza 1 famiglia Ritardo mentale 1 famiglia Mioclono 1 famiglia Prevalentemente cerebellare 4 famiglie Demenza, segni extrapiramidali, epilessia Comune in Epilessia, coreoatetosi, Giappone demenza
Modificata da Subramony e Filla (Neurology, 2001).
(CTG) è stata trovata in SCA8, ma la sua patogenicità non è ancora accertata. Un'espansione intronica di un pentanucleotide, adenina-timinatimina-citosina-timina (ATTCT), è associata a SCA10. Nel 25% delle famiglie il gene non è stato ancora localizzato. In SCA1-3, 7 e DRPLA nel passaggio dai genitori ai figli c'è una tendenza ad allungamento delle sequenze CAG e le espansioni maggiori sono trasmesse dai maschi. Tale instabilità intergenerazionale rappresenta il substrato biologico dell'anticipazione, ovvero un esordio più precoce nelle generazioni più recenti. In queste forme è presente una correlazione inversa tra il
numero di ripetizioni CAG ed età di esordio. Con l'esclusione di SCA6, che codifica per la subunità α1A del canale del calcio delle cellule neuronali, di SCA12, che codifica per una subunità regolatoria di una fosfatasi, e di SCA17, che codifica per un fattore di trascrizione, le proteine associate alla malattia hanno una funzione sconosciuta e sono dissimili tra loro. É possibile che la proteina mutata acquisisca una nuova funzione, totalmente differente rispetto alla proteina normale e tossica per alcune popolazioni neuronali. In queste forme, ad eccezione di SCA6 e 12, sono state evidenziate inclusioni intranucleari. La penetrazione della
1294 Malattie del sistema nervoso
proteina patologica all'interno del nucleo è necessaria per lo svolgimento della sua azione patologica (Klement et al 1998). Atassia cerebellare dominante tipo I La prevalenza varia da 0,3 a 1,2 × 10-5 in Europa. Prevalenze maggiori sono state riportate nelle Azzorre, nella regione di Holguin (Cuba) ed in Calabria, probabilmente per la presenza di un effetto fondatore. Neuropatologia. Si possono trovare quadri patologici di atrofia olivopontocerebellare, degenerazione cerebello-olivare o atrofia cerebellare corticale. Il quadro più frequente è quello di un'atrofia olivopontocerebellare, caratterizzato da atrofia del peduncolo cerebellare medio, assottigliamento della parte ventrale del ponte, atrofia della corteccia cerebellare, delle olive inferiori e dei nuclei pontini. A livello spinale, la degenerazione dei cordoni posteriori e delle vie spinocerebellari è molto frequente. Le colorazioni per la mielina mostrano pallore delle fibre pontine trasverse del ponte e della sostanza bianca cerebellare. La perdita di cellule dei granuli e di cellule del Purkinje è pressoché costante e la perdita di cellule nella sostanza nera e nello striato è frequente. Eziologia. Espansioni patologiche CAG in SCA 1-3, 12 e CTG in SCA8 sono associate ad ADCA tipo I. Sintomatologia. L'età media all'esordio è 34 anni con range dalla 1a alla 7a decade. Circa il 10% dei pazienti ha esordio prima dei 20 anni e il 95% ha manifestato la malattia all'età di 65 anni. L'anticipazione è comune e più pronunciata nella trasmissione paterna. L'età di esordio ed il quadro clinico sono estremamente variabili non solo tra famiglie, ma anche all'interno della stessa famiglia. Il quadro clinico è caratterizzato da una costante atassia della deambulazione, che è il sintomo di esordio più frequente, disartria quasi costante e dismetria molto frequente. Anomalie dei movimenti oculari sono presenti in più del 70% dei pazienti. L'oftalmo-
plegia sopranucleare si evidenzia inizialmente con una paralisi dello sguardo verticale e può portare nel corso della malattia ad una paralisi dello sguardo in tutte le direzioni. Può essere presente rallentamento dei movimenti saccadici. Un terzo dei pazienti presenta nistagmo. I segni di compromissione corticospinale (vivacità dei riflessi osteotendinei, spasticità e Babinski) sono presenti in circa il 50% dei pazienti. In fase avanzata di malattia sono frequenti deterioramento cognitivo, in genere modesto, disfagia prevalentemente per i liquidi, disturbi sfinterici (usualmente minzione imperiosa) e riduzione della sensibilità vibratoria. Possono essere presenti fascicolazioni periorali, crampi ed atrofia muscolare e raramente segni extrapiramidali quali ipomimia, rigidità, corea, atetosi e distonia. L'atrofia ottica è rara e tardiva. La maggior parte dei pazienti perde la deambulazione autonoma dopo 15-20 anni di malattia. L'attesa di vita è ridotta, con decesso usualmente nella 6a decade. A causa della grande variabilità intra e interfamiliare dei reperti clinici e patologici non è possibile fare una diagnosi clinica di tipo di SCA. É vero tuttavia che alcuni segni clinici sono preferenzialmente associati con la mutazione di uno specifico gene. La Tabella 32.2 riassume queste caratteristiche. Le diverse mutazioni hanno anche una differente distribuzione geografica: SCA3, o m. di Machado-Joseph, è in assoluto la forma più frequente nel mondo, ma è pressoché assente in Italia, dove SCA1 e 2 (responsabili del 70% delle forme dominanti) sono le più frequenti. Diagnosi: 1. Il test per l'espansione patologica della tripletta CAG/CTG nei geni SCA1, SCA2, SCA3, SCA8, SCA12 è il gold standard per la diagnosi. È possibile eseguire la diagnosi predittiva e prenatale. 2. La risonanza magnetica mostra costante atrofia cerebellare, usualmente associata ad atrofia della parte ventrale del tronco (Fig. 31.3). Le fibre pontine trasverse mostrano un aumento del segnale in T2. Frequentemente sono associate atrofia della corteccia e del midollo.
Atassie e paraparesi spastiche ereditarie 1295
A
B
Fig. 31.3 - Paziente con SCA2: A) immagine sagittale T1-pesata che mostra atrofia del cervelletto e del ponte; B) immagine assiale attraverso il peduncolo cerebellare medio, T2-pesata, che mostra atrofia del ponte, dilatazione del IV ventricolo e delle cisterne prepontine e iperintensità del rafe mediano.
3. Circa l'80% dei pazienti presenta alterazioni dei potenziali evocati del tronco, della via centrale somatosensitiva e della via motoria centrale; il 50% dei potenziali evocati visivi. 4. Circa il 60% è affetto da una neuropatia assonale prevalentemente sensitiva. Atassia cerebellare dominante tipo II ADCA tipo II è caratterizzata da distrofia maculare pigmentaria e rappresenta circa il 5% delle famiglie dominanti. I reperti patologici sono quelli di un'atrofia olivopontocerebellare. Un'espansione patologica CAG nel gene SCA7 è causa della malattia. Sintomatologia. L'età di esordio è usualmente più precoce che nella ADCA tipo I, ma può variare da 6 mesi a 60 anni. Sono descritti casi di penetranza incompleta. La malattia esordisce usualmente con atassia, preceduta da disturbo visivo in un terzo dei casi. Il quadro clinico non è specifico ed è caratterizzato da atassia, segni piramidali, oftalmoplegia sopranucleare, saccadi rallentate, occasionali movimenti coreiformi
e talora demenza. I sintomi visivi consistono in ridotta acuità visiva centrale con conservazione delle visione periferica, con progressione verso la cecità. L'esame del fundus mostra granuli di pigmento nella macula. Negli stadi tardivi di malattia è presente atrofia ottica. Diagnosi: 1. Il test molecolare per l'espansione CAG nel gene SCA7 rappresenta il gold standard diagnostico. 2. I reperti di risonanza magnetica non sono differenti da quelli della ADCA tipo I. Atassia cerebellare dominante tipo III Rappresenta il 5-15% di ampie casistiche di atassie dominanti. Il reperto patologico è usualmente quello di un'atrofia cerebellare corticale. Eziologia. Espansioni CAG nel gene SCA6 sono causa frequente di ADCA tipo III. In un numero esiguo di famiglie è stato dimostrato un linkage con i loci SCA4, 5, 11 e 16. Sitnomatologia. L'età di esordio, più tardiva che nelle altre forme di ADCA, cade più comu-
1296 Malattie del sistema nervoso
nemente nella 5a e 6a decade. Il quadro clinico è quello di un'atassia cerebellare pura in assenza di oftalmoplegia, amiotrofia, segni extrapiramidali e demenza. Vivacità dei riflessi e spasticità sono presenti in un terzo dei pazienti e riduzione della pallestesia nella metà. Il decorso è usualmente mite e l'attesa di vita normale. Diagnosi: 1. Test molecolare per l'espansione CAG nel gene SCA6 ; studi di linkage per SCA4, 5, 11, 16 in famiglie di dimensioni adeguate. Espansioni CAG in altri geni SCA, usualmente causa di ADCA tipo I, se di piccole dimensioni, possono essere associate a forme cerebellari pure ad esordio tardivo. 2. La risonanza magnetica mostra atrofia cerebellare vermiana ed emisferica. 3. Segni neurofisiologici di neuropatia assonale sensitiva non sono rari. Altre atassie cerebellari dominanti Alcune SCA non trovano corrispondenza con la classificazione clinica proposta da Harding (1982). Tali sono SCA10 che è stata esclusivamente descritta in famiglie messicane ed è caratterizzata da crisi epilettiche; SCA13 caratterizzata da ritardo mentale; SCA14 da mioclono, SCA17 da demenza, segni extrapiramidali ed epilessia. L'atrofia dentatorubropallidoluysiana (DPRLA) è particolarmente frequente in Giappone, pochi casi sono stati descritti in Europa e Nord-America. Le alterazioni neuropatologiche consistono in una degenerazione combinata dei sistemi dentatorubrico e pallidoluysiano. L'età di esordio è compresa tra la 1a e la 7a decade con un'anticipazione marcata specialmente quando la malattia è trasmessa per via paterna. La malattia è caratterizzata da una combinazione di atassia, coreoatetosi, mioclono, epilessia e demenza. I pazienti con esordio prima dei 20 anni hanno un fenotipo di epilessia mioclonica progressiva, caratterizzata da mioclono, crisi epilettiche, atassia e demenza, mentre le forme ad
esordio più tardivo sono caratterizzate da atassia cerebellare, coreoatetosi e demenza talora non distinguibile dalla m. di Huntington. La risonanza magnetica mostra atrofia marcata cerebrale e cerebellare, e del tronco. Nelle immagini T2-dipendenti possono essere presenti lesioni simmetriche di elevato segnale della sostanza bianca, globo pallido, talamo, mesencefalo e ponte. La m. di Gerstmann-Sträussler-Scheinker si presenta con atassia e demenza con esordio nell'età adulta ed è usualmente dovuta ad una mutazione al codone 102 del gene della proteina prionica. L'età di esordio è compresa tra la 3ª e la 6ª decade e la durata media di malattia è 5 anni. Atassie episodiche dominanti Le atassie episodiche sono forme rare trasmesse in maniera autosomica dominante e caratterizzate da improvvisi attacchi di atassia. L'età di esordio varia dalla 1a alla 5a decade. Gli attacchi sono precipitati da stress fisici, emozioni, esercizio, alcol, mestruazioni. L'acetazolamide rappresenta il trattamento di elezione. L'atassia episodica-1 è causata da mutazioni puntiformi nel gene del canale del potassio (KCNA1) ed è caratterizzata da brevi episodi di atassia della durata da secondi a minuti. L'esame neurologico mostra la presenza di miochimie nei muscoli palpebrali e nelle mani anche nelle fasi intercritiche. L'atassia episodica-2 è generalmente causata da mutazioni troncanti del gene codificante per la subunità a1A del canale del calcio (CACNA1A) ed è allelica a SCA6 e a una forma di emicrania emiplegica familiare. Gli attacchi durano da ore a giornate e si accompagnano a vertigini, nausea e cefalea. Può coesistere una atassia progressiva. La risonanza magnetica può mostrare atrofia cerebellare nell'atassia episodica-2. È possibile in laboratori di ricerca effettuare l'analisi delle mutazioni dei geni KCNA1 e CACNA1A e, in famiglie di dimensioni adeguate, lo studio di linkage.
Atassie e paraparesi spastiche ereditarie 1297
Atassia cerebellare idiopatica ad esordio tardivo Harding (1981b) ha proposto la denominazione di Idiopathic Late Onset Cerebellar Ataxia (ILOCA) per le forme di atassia cerebellare ad esordio tardivo ed eziologia sconosciuta. Tale definizione comprende le forme precedentemente descritte come atrofia olivopontocerebellare di Dejerine e Thomas e l'atrofia cerebellare corticale di Marie, Foix, Alajouanine. La distinzione tra ILOCA e atrofia multisistemica non è possibile in fase precoce di malattia. Il 25% dei pazienti con ILOCA evolve in una atrofia multisistemica entro cinque anni dall'esordio. La malattia è rara, ma presumibilmente sottodiagnosticata. La frequenza è probabilmente simile a quella delle atassie dominanti. La diagnosi di ILOCA è una diagnosi di esclusione di cause genetiche ed acquisite. Una storia familiare negativa non esclude forme recessive o anche forme dominanti in casi di ridotta penetranza, precoce scomparsa del portatore del gene, adozione o non paternità. Possibili cause di degenerazione cerebellare sono alcolismo, terapia cronica con farmaci antiepilettici, sindrome paraneoplastica in corso di tumori ginecologici e linfoma di Hodgkin, celiachia e ipotiroidismo. Sintomatologia. L'esordio avviene nella 5a-6a decade nella maggior parte dei pazienti, ma varia dalla 4a all'8a con prevalenza del sesso maschile. L'atassia della deambulazione è il primo disturbo. La dismetria è pressoché costante, la disartria molto frequente, i riflessi rotulei possono essere normali, vivaci o ridotti, l'achilleo è assente in un terzo dei pazienti. Il segno di Babinski è presente nel 50% dei pazienti e la sensibilità vibratoria è frequentemente diminuita. Alcuni pazienti hanno tremore intenzionale o posturale, nistagmo, disfagia, compromissione cognitiva e disturbi sfinterici. Segni parkinsoniani, ipercinesie, oftalmoplegia sopranucleare e amiotrofia sono rari. Sono assenti atrofia ottica e degenerazione retinica pigmentaria. La
malattia è progressiva con perdita della deambulazione autonoma dopo 5-20 anni dall'esordio. L'attesa di vita è ridotta. I pazienti con una forma cerebellare pura hanno una prognosi migliore rispetto ai pazienti con altri segni aggiuntivi la sopravvivenza mediana essendo, rispettivamente, di 21 e 8 anni dall'esordio. Diagnosi: 1. Lo screening di esclusione di forme sintomatiche deve includere anticorpi antigliadina e antiendomisio, ormoni tiroidei, anticorpi paraneoplastici (anti-Hu, anti-Yo, anti-Ri), ricerca dell'HIV. Rare positività per l'espansione GAA del gene FRDA e per l'espansione CAG, prevalentemente nel gene SCA6, sono state riportate in alcune casistiche. 2. La risonanza magnetica mostra una atrofia cerebellare vermiana ed emisferica pressoché costante, associata con atrofia del tronco o della corteccia cerebrale nel 50% dei casi. Può essere presente un elevato segnale delle fibre pontine trasverse. La risonanza è utile per escludere forme progressive di sclerosi multipla. 3. La ricerca di bande oligoclonali nell'esame del liquor può essere utile in casi dubbi per escludere una patologia demielinizzante.
Le paraparesi spastiche ereditarie Studi recenti hanno riportato una prevalenza delle paraparesi spastiche ereditarie (PSE) compresa tra 2,7 e 9,6 × 10-5 in Europa ed è possibile che la reale frequenza della malattia sia sottostimata per la sua frequente benignità. La trasmissione dominante è la più frequente. Strümpell (1880) ha dato la prima chiara descrizione di PSE dominante in due fratelli con esordio nella quarta e sesta decade. Un simile disturbo era stato descritto da Seeligmüller quattro anni prima. Harding (1981c) ha distinto le PSE in forme pure, se la compromissione neurologica è limitata ad ipostenia e spasticità progressiva degli arti inferiori, vescica spastica e riduzione della sensibilità vibratoria e chine-
1298 Malattie del sistema nervoso
stesica agli arti inferiori; e forme complicate se ci sono altri segni neurologici o di interessamento di altri sistemi: epilessia, ritardo mentale o demenza, atassia, amiotrofia, segni extrapiramidali, neuropatia periferica, sordità, atrofia ottica, retinopatia, ittiosi e depigmentazione cutanea. Neuropatologia. Il numero degli studi patologici è modesto. I segni principali sono a livello del midollo spinale e consistono in una degenerazione assonale che è più pronunciata nei tratti distali delle vie lunghe discendenti (tratto corticospinale) ed ascendenti (cordoni dorsali) senza evidente spopolazione delle cellule da cui tali fibre originano. Tale degenerazione è stata attribuita ad un processo di "dying-back", caratterizzato da una degenerazione che inizia distalmente e poi procede verso il pirenoforo. Le vie più interessate sono i tratti corticospinale diretto e crociato diretti agli arti inferiori e le fibre del fascicolo gracile, che origina dagli arti inferiori. I tratti spinocerebellari sono interessati nel 50% dei pazienti. In alcuni casi è stata inoltre
riportata riduzione delle cellule di Betz, nella colonna di Clarke, nel cervelletto e nei nuclei della base. Usualmente normali sono i gangli delle radici posteriori, le radici posteriori, i nervi periferici e le corna anteriori. Eziologia e patogenesi. Quattordici forme di PSE sono state localizzate, otto con trasmissione autosomica dominante, quattro recessive e due X-legate (Tab. 31.3). Quattro geni sono stati identificati, che codificano per proteine differenti per localizzazione e funzione. Mutazioni missense del gene della spastina (SPG4) sono presenti fino al 40% delle famiglie con trasmissione autosomica dominante (Hazan et al., 1999). Tali mutazioni potrebbero causare una perdita di funzione. La spastina appartiene al gruppo delle ATPasi associate a diverse attività cellulari (AAA). La spastina, la cui localizzazione è probabilmente nucleare, ha omologia con il proteasoma 26S e potrebbe intervenire nella regolazione genica, inducendo attivazione proteolitica o degradazione dei fattori di trascrizione. Tre mutazioni sono state descritte nel gene
Tabella 31.3 - Classificazione delle paraparesi spastiche ereditarie. OMIM
Eredità
Locus
Gene
Frequenza
Forma
Fenotipo
SPG1 SPG2
308840 312080
X-linked X-linked
Xq Xq
L1CAM PLP
1-2%
Complicata Pura o complicata
MASA, CRASH Segni cerebellari e ritardo mentale
SPG3 SPG4 SPG5 SPG6 SPG7 SPG8 SPG9
182600 604277 270800 600363 602783 603563 601162
AD AD AR AD AR AD AD
14q 2p 8p 15q 16q 8q 10q
4 famiglie 13-40% 4 famiglie 2 famiglie 3 famiglie 2 famiglie 2 famiglie
Pura Pura o complicata Pura Pura Pura o complicata Pura Complicata
SPG10 604187 SPG11 604360
AD AR
12q 15q
1 famiglia 8 famiglie
Pura Pura o complicata
SPG12 604805 SPG13 605280 SPG14 605229
AD AD AR
19q 2q 3q
1 famiglia 1 famiglia 1 famiglia
Pura Pura Complicata
Spastina
Paraplegina
Deficit cognitivo
Disartria, atrofia ottica Cataratta, reflusso esofageo, neuropatia motoria Ritardo mentale, neuropatia, ipoplasia corpo calloso, alterato segnale sostanza bianca
Ritardo mentale, neuropatia motoria
Atassie e paraparesi spastiche ereditarie 1299
della paraplegina (SPG7, Casari et al., 1998) in famiglie a trasmissione autosomica recessiva. Anche la paraplegina appartiene al sottogruppo della famiglia di proteine AAA. La paraplegina si localizza nel compartimento subcellulare mitocondriale ed una sua carenza potrebbe causare un'alterazione della fosforilazione ossidativa mitocondriale. Mutazioni del gene di una glicoproteina transmembranaria (L1 cell adhesion molecule, L1CAM) sono responsabili di SPG1 (Jouet et al., 1994). L1CAM è espressa nelle cellule nervose e di Schwann, e interviene nella migrazione neuronale e nella mielinizzazione e rigenerazione dei nervi periferici. Mutazioni del gene della proteina proteolipidica (PLP) sono responsabili di SPG2 (Willard e Riordan, 1985). La PLP è una delle principali proteine mieliniche, e interviene nella maturazione e nella conservazione della mielina nel sistema nervoso centrale. Forme dominanti. Nelle forme pure l'età di esordio della malattia varia dall'infanzia all'8a decade con elevata variabilità sia tra famiglie sia all'interno della stessa famiglia. Il disturbo iniziale è a carico della deambulazione e nei casi ad esordio infantile può essere riferito un ritardo nella deambulazione. Circa il 25% degli affetti è asintomatico. I segni principali sono spasticità, iperreflessia, Babinski ed ipostenia agli arti inferiori. C'è in genere una discrepanza tra la spasticità (marcata) e l'ipostenia (modesta o assente). Disturbi della sensibilità vibratoria sono presenti nel 10-65% dei pazienti e sono più comuni in pazienti con maggiore durata di malattia. L'achilleo è talora assente. I disturbi sfinterici consistono in minzione imperiosa, pollachiuria e talora difficoltà alla minzione. Disfunzioni sessuali sono usualmente assenti. Una modesta ipotrofia che interessa i piccoli muscoli del piede ed il tibiale anteriore è relativamente frequente in pazienti con maggiore durata di malattia. L'interessamento degli arti superiori è infrequente e usualmente si limita ad una modesta iperreflessia. I caratteri differenziali tra le varie forme dominanti sono riportate in Tabella 31.3. L'età di
esordio in SPG4 varia dalla 1a alla 5a decade. La malattia si può presentare come forma pura o complicata con deficit cognitivo. C'è una notevole variabilità intra e interfamiliare dell'età di esordio e di gravità di malattia. SPG3, 6, 8, 10, 12 e 13 si manifestano come forme pure con esordio dalla prima alla terza decade. SPG9 ha un fenotipo particolare con cataratta, reflusso esofageo e neuropatia motoria. Forme recessive. Sono più rare rispetto alle forme dominanti e rappresentano circa il 30% del totale. L'età di esordio è compresa tra la 1a e 5a decade, rispetto alle forme dominanti sono più frequenti le forme complicate con segni bulbari (disfagia e disartria), disturbi cognitivi e atrofia ottica. Delle quattro forme recessive, SPG5 si mostra come forma pura, SPG7 come forma pura o complicata, SPG11 potrebbe essere non rara e si può associare ad ipoplasia o agenesia del corpo calloso, alterazioni della sostanza bianca periventricolare, ritardo mentale e neuropatia sensitivo-motoria, SPG14 è una forma complicata da ritardo mentale e neuropatia motoria. Forme X-legate. Sono estremamente rare e rappresentano l'1-2% del totale. Sono stati identificati due loci, SPG1 e SPG2. Le mutazioni del gene L1CAM sono responsabili della sindrome MASA (Mental retardation, Aphasia, Shuffling gait and Adducted thumbs; ritardo mentale, afasia, deambulazione 'a forbice', pollici addotti), idrocefalo ed agenesia del corpo calloso. Tali malattie sono attualmente viste come parte della sindrome CRASH (Corpus callosum hypoplasia, Retardation, Adducted thumbs, Spastic paraplegia and Hydrocephalus). Anche SPG2 si presenta generalmente come forma complicata da segni cerebellari e ritardo mentale. Allelica a SPG2 è la m. di Pelizaeus-Merzbacher, che si manifesta con segni cerebellari e piramidali con esito letale nell'infanzia. Diagnosi: 1. L'analisi molecolare può essere eseguita presso laboratori di ricerca e consiste nell'analisi mutazionale diretta per i geni di spastina,
1300 Malattie del sistema nervoso
paraplegina, L1CAM e PLP e studio di linkage nelle famiglie di dimensioni adeguate. 2. La risonanza magnetica può evidenziare una modesta atrofia del midollo, raramente atrofia del cervelletto e alterato segnale in T2 della sostanza bianca. L'ipoplasia o agenesia del corpo calloso è caratteristica di SPG11. 3. Alterazioni della via motoria centrale sono pressoché costanti all'arto inferiore e rare all'arto superiore. Anche la via somatosensitiva centrale è più frequentemente interessata all'arto inferiore che a quello superiore. 4. Una neuropatia assonale è presente in una minoranza dei pazienti e potrebbe caratterizzare alcune forme (SPG9, SPG11, SPG14).
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Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1303
32. Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali C. Albano
Malattie tossiche e da agenti fisici
a) Intossicazioni da composti chimici
Le intossicazioni possono dare origine a quadri clinici acuti, spesso di competenza del rianimatore, oppure a quadri clinici ad andamento cronico o subacuto, in cui possono essere prevalenti le manifestazioni neurologiche. Le sostanze tossiche responsabili possono provenire da varie fonti: (a) composti chimici impiegati prevalentemente in attività lavorative, (b) tossine batteriche, (c) tossine presenti in piante e funghi, (d) tossine animali inoculate tramite morsi o punture, (e) sostanze voluttuarie come l’alcool, (f) farmaci. L’ultima parte del capitolo, inoltre, sarà dedicata alle manifestazioni neurologiche causate da agenti ambientali sia fisici che tossici (g) e da radiazioni ionizzanti (h). I quadri clinici da cause tossiche sono spesso aspecifici e la possibilità di collegarli ad un determinato tipo di intossicazione e basata su: a) la coesistenza di particolari aspetti internistici, b) la presenza di dati anamnestici significativi (particolari ambienti industriali, attività agricola, uso di sostanze psicotrope, abuso di alcool, disponibilità per uso domestico di determinate sostanze), c) l’eventuale scomparsa della sintomatologia dopo un tempo, seppure variabile, di mancata esposizione al tossico e d) i risultati di indagini paracliniche (non disponibili per tutti i tossici trattati). Verranno descritti solo i quadri di maggior interesse neurologico, rimandando per una trattazione completa ai trattati di tossicologia.
Metalli pesanti ALLUMINIO. – Scarsamente tossico nei soggetti sani, mentre nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica e sottoposti a dialisi è stata segnalata una grave encefalopatia causata probabilmente da un eccesso di alluminio nel fluido dialitico. Le principali manifestazioni cliniche sono: demenza (associata a mioclonie), epilessia e neuropatia periferica prevalentemente motoria. L’interesse per tale quadro è aumentato dal rilievo neuropatologico di una degenenerazione neurofibrillare simile a quella osservata nella malattia di Alzheimer (v. pag. 000). PIOMBO. – Elementi anamnestici importanti sono l’attività lavorativa in una industria, produttrice di pitture o di accumulatori o di manufatti per la canalizzazione, o l’ingestione occasionale di acqua contaminata da tubi in piombo (oggi non più utilizzati), o l’inalazione, spesso di tipo tossicomanico, di benzina. I quadri neurologici correlati all’intossicazione da piombo sono l’encefalopatia saturnina e la neuropatia saturnina. – Encefalopatia saturnina. – È più grave nel bambino, in cui l’eccesso di piombo può interagire negativamente con i sistemi di trascrizione genetici, ed è caratterizzata dalla coesistenza di una compromissione dello stato di coscienza (dalla sonnolenza al coma), da ipertensione endocranica e da manifestazioni epilettiche focali o generalizzate. L’esame del liquido cerebrospinale, la cui pressione è elevata, dimostra
1304 Malattie del sistema nervoso
un’iperalbuminorrachia con pleiocitosi. La neuropatologia rivela un edema interstiziale, per alterazione della permeabilità dell’endotelio capillare. – Neuropatia saturnina. – costituisce la manifestazione più frequente del saturnismo (oggi peraltro relativamente rara) ed è rappresentata da una polineuropatia distale, più evidente agli arti superiori, frequentemente asimmetrica, con deficit motorio della muscolatura dell'avambraccio e della muscolatura intrinseca della mano. L'elettroneurografia motoria evidenzia una riduzione della velocità di conduzione e diminuzione di ampiezza dei potenziali. Esistono anche forme subcliniche, caratterizzate unicamente dalle alterazioni neurofisiologiche. La comparsa del danno è possibile solo se il livello plasmatico di Pb supera i 70 microgrammi/l. La diagnosi si fonda sulla presenza di (a) sicuri elementi anamnestici, (b) disturbi dell'apparato gastrointestinale (vomito, dolori addominali), ipertensione arteriosa, depositi gengivali di piombo; (c) elevato tasso ematico ed urinario di piombo (rispettivamente > 70 microgrammi/ l e > 150 mg/l); depositi radiopachi nel tubo gastroenterico, nelle metafisi tibiali e nelle creste iliache; anemia ipocromica microcitica con sideropenia; (d) riduzione della velocità di conduzione motoria dei nervi periferici. Elemento definitivamente probativo è la piomburia provocata: in particolare la somministrazione di etilen-tetra-amicno-acetato calcico (EDTA) provoca una eliminazione di oltre 500 mg di piombo nelle urine delle 24 ore, anche il livello ematico di Zn-protoporfirina (ZPP) è un indice di esposizione al piombo, ma può essere aumentato anche in caso di sideropenia. L'aumento plasmatico dell'acido delta-amino-levulinico, del coproporfobilinogeno III e della protoporfirina IX, (risultato del blocco dell'attività enzimatica dell'ala-deidrasi), documentano la somiglianza della patogenesi tra i danni da saturnismo e la porfiria acuta intermittente, e non sono specifici del saturnismo.
La terapia si fonda sull'uso di chelanti: EDTA a dosi crescenti, da 25 a 75 mg/die nel corso di 5 giorni. ARSENICO. – Essendo ormai scomparsi i casi di origine iatrogena (terapia della sifilide con derivati organici arsenicali) l’avvelenamento da arsenico può essere causato o da ingestione a scopo suicidiario o da esposizione professionale all’arseniato di rame o all’ossido arsenioso, utilizzati come pesticidi in agricoltura, come disinfettanti per pelli e pellicce, e come componenti di vernici e smalti. L’effetto tossico è verosimilmente determinato dall’interazione con enzimi sulfidrilici, indispensabili per il metabolismo cellulare. Le manifestazioni neurologiche sono rappresentate da un’encefalopatia e da una polineuropatia. – L’encefalopatia, relativamente poco frequente (15-20 % dei casi), è di lieve entità rispetto a quella da piombo, ed è caratterizzata da stato confusionale e, talora, da crisi epilettiche. – La polineuropatia, a differenza di quella saturnina, è mista (sensitivo-motoria) si estende ai 4 arti e, caratteristicamente, insorge assai rapidamente (da 1 a 10 giorni), ricordando, per questo aspetto, la poliradiculoneuropatia di Guillain-Barré. La prognosi è buona nelle forme lievi, mentre il recupero è lento e incompleto nelle forme gravi (dal 10 al 40% dei casi). Il sospetto diagnostico, oltre che sui rilievi anamnestici (tipo di attività lavorativa, sospetto di assunzione volontaria), si basa sulla presenza di segni clinici generali rappresentati da turbe gastrointestinali e da manifestazioni cutanee, (50-60% dei casi) quali ipercheratosi desquamante palmoplantare, strie bianche ungueali, zone di depigmentazione a goccia. Hanno valore dirimente il rilievo di un tasso plasmatico di arsenico > 7ng/ml e l’aumento di arsenico nei capelli (> 0.1 mg per 100 mg di capelli) e nelle urine (> 0.1 mg/l). Segni indirettamente significativi sono l’eosinofilia (40% dei casi) e una modesta iperproteinorrachia.
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1305
Il trattamento più efficace è rappresentato dalla D-penicillamina alla dose di 100 mg/die. MERCURIO. – Potenzialmente esposti sono i lavoratori di industrie produttrici di termometri, barometri, specchi, di cappelli di feltro (nitrato di mercurio), carta (fenil-mercurio), amalgama dentario, erbicidi e fungicidi (composti organici di mercurio). La sublimazione del mercurio a temperatura ambiente può comportare l’avvelenamento per inalazione; la contaminazione di acque e pesci da parte di derivati industriali, può essere causa di avvelenamento per ingestione. L’intossicazione acuta è rara; più frequente è l’intossicazione cronica, responsabile di una encefalopatia, le cui caratteristiche semeiotiche sono relativamente peculiari: modesta compromissione dello stato di coscienza, segni di sofferenza cerebellare con atassia, tremore cinetico e spesso posturale, coreoatetosi, parkinsonismo e restringimento concentrico del campo visivo. Si associano, infine, i segni di una polineuropatia sensitiva. La diagnosi, orientata da eventuali elementi anamnestici, implica il riscontro spettrofotometrico di mercurio nel sangue o nelle urine. L’unico trattamento efficace in caso di intossicazione cronica, è quello con D-penicillamina. TALLIO. – È impiegato come pesticida ed insetticida, costituisce uno dei componenti di diversi preparati cosmetici ed è utilizzato per la produzione di lenti. L’ingestione accidentale o a scopo autosoppressivo di pesticidi o insetticidi rappresenta percentualmente la modalità di intossicazione più comune. La sindrome neurologica più usuale è una polineuropatia mista (prevalentemente sensitiva), più marcata agli arti inferiori, spesso associata a deficit di nervi cranici (neurite ottica, sordità, sindrome vestibolare periferica). Assai più raramente, l’intossicazione da tallio causa
una encefalopatia, caratterizzata da compromissione dello stato di coscienza fino al coma e segni di ipertensione endocranica. Il sospetto diagnostico, oltre che sui dati anamnestici, si fonda sul riscontro di alopecia, che compare circa un mese dopo l’insorgenza del danno neurologico. La presenza di tallio nelle urine fornisce la diagnosi di certezza. I chelanti (EDTA, BAL, dietilcarbammato di sodio) non risultano efficaci; più utile è la somministrazione di blu di Prussia colloidale alla dose di 250 mg/kg/die in 4 somministrazioni orali. MANGANESE. – Si tratta di una intossicazione esclusivamente professionale (minatori, lavoratori delle fonderie), causata da inalazione di vapori. I disturbi neurologici sono inizialmente rappresentati da una sindrome psicorganica, con fenomeni allucinatori, sintomi parkinsoniani e sintomi tipo morbo di Wilson. Paradossalmente il trattamento con L-dopa si dimostra più efficace nella sindrome wilsoniana che in quella parkinsoniana. Derivati organici IDROCARBURI ALIFATICI (metil-butil-chetone, metil-etilchetone). – Impiegati come solventi per le colle e nell’industria della plastica, possono determinare un’intossicazione per inalazione, provocando così una polineuropatia mista subacuta, a lenta regressione spontanea. IDROCARBURI AROMATICI (benzina e toluene). – Impiegati nell’industria della colla e delle pitture e, limitatamente al toluene, come veicolo per insetticidi, provocano avvelenamento per inalazione, cui consegue una sindrome neuropsichitrica caratterizzata da una polineuropatia, disturbi cerebellari e disturbi psichici similschizofrenici. Sono possibili anche intossicazioni voluttuarie di tipo tossicomanico (inalazione di colle).
1306 Malattie del sistema nervoso
COMPOSTI ALOGENATI a) cloruro di metile, impiegato per la produzione di colle, pitture, laminati plastici, cellophane, è responsabile di turbe intellettive e del visus; b) tricloroetilene, impiegato nella produzione di lacche e vernici, provoca una compromissione plurima dei nervi cranici (neuropatia trigeminale bilaterale, neurite ottica), e una atassia mista da compromissione dei cordoni posteriori e dei fasci spinocerebellari; c) esaclorofene (pesticida), provoca crisi convulsive, con un meccanismo simile alla picrotossina (gaba-antagonista); d) bromuro di metile, utilizzato come refrigerante industriale e come insetticida, può determinare una intossicazione acuta, responsabile di un’encefalopatia con alterazioni della coscienza, atassia, diplopia, vertigini e crisi epilettiche. L’intossicazione cronica provoca una polineuropatia sensitivo-motoria associata a segni di sofferenza midollare e cerebellare. Non esiste un trattamento specifico.
pi); più tardiva è la comparsa di una polineuropatia mista, talora associata a disturbi cerebellari con atassia, e disturbi piramidali per alterazione delle via corticospinale. L’atropina (2-4 mg/die e.v.) antagonizza i sintomi muscarinici, mentre la pralidoxima-metil-solfato, che riattiva le colinesterasi, costituisce l’antidoto per quelli nicotinici (dose giornaliera massima di 12 g refratta in somministrazioni e.v. di 1-2 gr, in 4 minuti alla velocità di 0.5 gr/min). Al momento non esiste un trattamento per le complicanze neurologiche tardive. ACRILAMIDE. – Ha impiego industriale (processi di impermeabilizzazione, produzione di cartone) e può essere responsabile di una polineuropatia mista assonale, con caratteristiche sovrapponibili a quella da triortocresilfosfato. La diagnosi è indirizzata dalla presenza di un eritema con desquamazione palmo-plantare.
COMPOSTI ORGANOFOSFORICI
SOLFURO DI CARBONIO. – L’intossicazione, in genere professionale (industria del cellophane), è responsabile di polineuropatia, con possibile coinvolgimenti dei nervi cranici (specie del nervo ottico), cefalea e disturbi del sonno.
Impiegati per la produzione di insetticidi, sono assorbiti prevalentemente per via cutanea e possono danneggiare il sistema nervoso (specie il triortocresilfosfato) anche a dosi molto modeste, essendo praticamente impossibile identificare la dose minima lesiva. La latenza di comparsa dei sintomi è inversamente correlata alla dose di veleno assorbito, a sua volta proporzionale alla durata dell’esposizione al veleno stesso. I composti organofosforici sono potenti anticolinesterasici ed i primi segni di intossicazione sono la nausea, il vomito e le coliche addominali, che rappresentano altrettanti effetti muscarinici causati dalla caratteristica azione acetilcolinomimetica. La protratta stimolazione dei recettori nicotinici è invece responsabile di segni di sofferenza muscolare (astenia e cram-
OSSIDO DI CARBONIO. – L’avvelenamento è usualmente accidentale (stufe a carbone difettose o scaldabagni a gas, in cui un eccesso di vapor acqueo riduce notevolmente la pressione parziale di ossigeno). L’intossicazione, in fase acuta, si manifesta con alterazione della coscienza, dallo stato confusionale al coma, frequentemente preceduta o associata a nausea e vomito. La principale complicazione tardiva delle intossicazioni gravi è una sindrome extrapiramidale acinetico-ipertonica, usualmente a comparsa relativamente precoce (3-4 giorni), con andamento ingravescente per 2-3 mesi dopo l’esordio. A differenza del Morbo di Parkinson, questa sintomatologia non presenta carattere evolutivo ed è più sensibile agli anticolinergici che alla L-dopa.
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1307
Dopo 1-4 settimane, inoltre, possono comparire sintomi neurologici espressivi di compromissione multifocale della sostanza bianca (la cosiddetta «Mielinopatia di Grinker»), a patogenesi ignota, fra cui stato confusionale, atassia cerebellare, spasticità o rigidità extrapiramidale. Non esiste trattamento specifico. In rari casi l’andamento è caratteristicamente bifasico, essendo caratterizzato dalla comparsa di sintomi neurologici, dopo un periodo di apparente remissione di giorni o settimane. Il rilievo di un tasso ematico di carbossiemoglobina superiore al 33% può considerarsi sinonimo di intossicazione da ossido di carbonio; l’esito rischia di essere fatale quando il tasso di carbossiemoglobina supera il 60%. Nei casi con complicazioni neurologiche tardive, la TC cerebrale può evidenziare la presenza, caratteristica (anche se non patognomonica) e prognosticamente negativa, di un’ipodensità bilaterale del nucleo pallido. Il trattamento si propone di portare il tasso di carbossiemoglobina plasmatica al di sotto del 10%; l’ossigenoterapia iperbarica a 2-3 atmosfere, è utile poiché diminuisce l’emivita del monossido di carbonio a 15-30 minuti, produce ossigeno in concentrazione tale da prevenire i danni ischemici e riduce la durata dell’eventuale coma e la possibilità di complicanze tardive.
b) Intossicazioni da tossine batteriche Tetano La tossina lesiva per le strutture nervose (tetanospasmina) è prodotta dal Clostridium Tetani (per maggiori particolari si rinvia ai trattati di microbiologia). Le spore tetaniche abitualmente trovano terreno per la conversione in forma vegetativa e per la produzione della tossina nell’ambito di una ferita. Il sistema nervoso può essere interessato, dopo un variabile periodo di incubazione (da 24
ore ad 1 mese), per invasione diretta (migrazione centripeta della tossina lungo i nervi periferici) o indiretta (per via linfatica ed ematica). La tossina tetanica agisce mediante inattivazione degli interneuroni inibitori spinali e direttamente sulla fibra muscolare. Dal punto di vista clinico, si distinguono un «tetano localizzato», uno «cefalico» ed uno «generalizzato». Il tetano localizzato è caratterizzato da intensa rigidità dei muscoli limitata alla regione della ferita, con spasmi brevi e dolorosi. In genere si risolve spontaneamente senza reliquati, ma può evolvere in tetano «generalizzato». La forma «cefalica», dovuta ad una ferita al capo è caratterizzata da una breve incubazione (24 ore), e causa una paralisi dei muscoli facciali ed oculomotori (in preda a spasmi frequenti e dolorosi) e, talora, dei muscoli della fonazione e della deglutizione. Abitualmente evolve verso il tetano «generalizzato», con esito spesso letale. Nella forma generalizzata (ab initio o a seguito di una forma localizzata o cefalica) l’intera muscolatura corporea dimostra una marcata rigidità, con spasmi brevi e dolorosi. L’interessamento iniziale tipico è a livello della muscolatura masticatoria con trisma. Gli spasmi della muscolatura laringo-faringea e respiratoria comportano un elevato rischio di apnea o soffocamento, cause principali del decesso. La diagnosi si basa sul dato anamnestico recente ferita (nell’ambito della quale possono talora essere evidenziate ancora le spore tetaniche) e sulle caratteristiche del quadro clinico. L’EMG fornisce un utile ausilio alla diagnosi dimostrando la presenza di attività di unità motoria spontanea, che non può essere soppressa volontariamente e l’accorciamento o l’assenza del periodo silente dopo stimolazione elettrica del nervo. La terapia prevede l’uso di farmaci sintomatici (barbiturici o d-tubo-curarina) per ridurre la rigidità e gli spasmi muscolari, la pronta somministrazione di antitossina tetanica, da 3.000 a
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6.000 Unità (singola dose, per l’elevata emivita), antibioticoterapia con penicillina (1,2 milioni di Unità/die per 10 giorni) e revisione chirurgica della ferita, per eliminare la fonte di produzione della tossina. In fase acuta è ovviamente indispensabile l’assistenza respiratoria. Difterite La esotossina del Corynebacterium diphteriae viene liberata dalla sede infiammatoria laringotracheale ed ha un singolare tropismo per la mielina; le complicanze neurologiche (20 % dei casi) coinvolgono i nervi cranici (abolizione dell’accomodazione e deficit del V, VII, X e XII) ed i nervi periferici con polineuropatia, prevalentemente motoria, talora a decorso ascendente, e rischio di paralisi respiratoria. Salvo l’evenienza di quest’ultima complicanza, la prognosi è buona, con restitutio ad integrum, anche spontanea. La caratteristica evoluzione del quadro clinico, con una iniziale fase bulbare, eventualmente seguita da una polineuropatia ad andamento subacuto, consente l’orientamento diagnostico. La somministrazione tempestiva (entro 24-48 dall’esordio dei sintomi primari di infezione) di antitossina difterica sembrerebbe limitare sia l’incidenza che la gravità delle manifestazioni neurologiche. Botulismo Responsabile della malattia è il Clostridium botulinum, contenuto in cibi conservati, soprattutto verdure; l’esotossina, nel giro di 12-36 ore, agisce sulla giunzione neuromuscolare acetilcolinica a livello presinaptico, determinando una marcata inibizione della dismissione di acetilcolina e, a differenza della malattia di LambertEaton (v. pag. 000), coinvolge anche le sinapsi colinergiche muscariniche. Il legame presinaptico della esotossina (peso molecolare 150.000 kDa) con i terminali colinergici è irreversibile ed il recupero è connesso alla comparsa di nuovi terminali assonici e alla
formazione di nuove giunzioni neuromuscolari. Esistono 7 tipi di esotossina botulinica (A, B, C, D, E, F, G): implicate nella malattia umana sarebbero solo le forme A, B ed E. I sintomi della malattia compaiono usualmente dopo 18 - 36 ore dall’ingestione del cibo contaminato. Rari sono i sintomi tipo gastroenterite acuta quali, nausea, vomito e diarrea, mentre appare più usuale la stipsi, connessa alla paralisi della muscolatura intestinale, che può esordire precocemente e persistere per tutta la durata della malattia. Altrettanto precoce è la compromissione dei nervi cranici e, soprattutto, dell’oculomozione (sia estrinseca che intrinseca), della fonazione e della masticazione, cui fa rapidamente seguito (2-4 giorni) una tetraparesi flaccida, con elevato rischio di paralisi respiratoria; nella maggior parte dei casi si riscontrano anche gravi turbe del ritmo cardiaco. Il sospetto diagnostico si pone in relazione all’esordio acuto di una tetraparesi flaccida, dopo ingestione di cibo sospetto, con contemporanea compromissione dei nervi cranici motori, eventualmente associata a sintomi gastrointestinali. La conferma diagnostica verrà dall’isolamento del Clostridium Botulinum dal cibo sospetto, o dalle feci del paziente e dalla dimostrazione della presenza di tossina nel siero o nelle feci. Il soggetto affetto da botulismo deve essere ricoverato in reparti di rianimazione in grado di far fronte all’evenienza di un arresto respiratorio e di possibili complicanze cardiologiche. Utile, anche se discussa, la somministrazione di antitossina polivalente (15.000 unità in una unica somministrazione endovenosa o intramuscolare) ed, eventualmente, di antibiotico (anzitutto la penicillina) per eliminare i Clostridi presenti a livello intestinale ed interrrompere la produzione di tossina. La prognosi, se viene superata la fase acuta, che può richiedere una degenza in reparto di rianimazione protratta per diversi mesi, è usualmente buona, tranne la persistenza, anche per
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1309
anni, di sintomi minori (stipsi, secchezza delle fauci e delle congiuntive).
c) Intossicazioni da tossine presenti in piante e funghi ERGOTISMO. – L’ergotamina è uno degli alcaloidi della Segale Cornuta. L’ergotismo «neurogenico» (differenziato da quello «gangrenoso») è responsabile di episodi convulsivi, preceduti da fascicolazioni, mioclonie e spasmi muscolari. Nei casi non mortali può istituirsi un quadro simile alla tabe dorsale, con compromissione della sensibilità profonda e riduzione dei riflessi osteotendinei; sia le basi neuropatologiche che la fisiopatologia sono chiarite solo in parte. LATIRISMO. – Interessa solo quei paesi in cui si fa largo consume di un particolare legume, il Latirus Sativus (India e Nord-Africa) e comporta, dopo un esordio caratterizzato da intense algie agli arti inferiori, la comparsa, subacuta, di una paraparesi spastica (v. pag. 000). AVVELENAMENTO DA FUNGHI. – L'Amanita falloide è responsabile del 90% dei casi mortali di avvelenamento da funghi. Le manifestazioni neurologiche propriamente dette occupano un posto solo secondario, essendo rappresentate da manifestazioni convulsive nell’ambito di una grave insufficienza renale. Tremore e crisi convulsive costituiscono le complicanze neurologiche dell’avvelenamento grave da muscarina (specie Inocybe e Clitocybe). Non esistono antidoti specifici ed i rimedi sono solo sintomatici.
d) Intossicazioni da tossine animali inoculate tramite morsi o punture Oltre l’evenienza, relativamente rara in Italia di morsi di serpenti, lucertole velenose e
scorpioni, caratterizzata da una depressione respiratoria con tetraparesi flaccida (effetto curarosimile dei veleni iniettati), va ricordata la paralisi da puntura di zecche (tick paralisys), causata dalla inoculazione di una tossina: si tratta di una paralisi flaccida, con parestesie, senza compromissione delle sensibilità obiettive, ad andamento ascendente, fino alla compromissione, in soli due giorni, della muscolatura respiratoria e del settore cranico (frequente è il rilievo di ptosi); il liquor è nella norma; i reperti neurofisiologici attestano una compromissione assonale. La rimozione della zecca comporta usualmente una restitutio ad integrum in meno di una settimana.
e) Alcolismo L’alcool esercita un effetto lesivo diretto sulle membrane neuronali, solo in minima parte imputabile al primo catabolita dell’alcool, l’acetaldeide o ad altre sostanze come l’alcool amilico. L’alcool stesso svolgerebbe, infatti, un effetto fluidificante sulle membrane neurali, aumentando la permeabilità agli ioni Cl– ed inibendo, in persone prive di tolleranza, l’ingresso degli ioni Ca++. L’aumento della permeabilità agli ioni Cl– sarebbe connessa ad un’alterazione del complesso recettoriale gaba-benzodiazepine-barbiturico e spiegherebbe l’effetto sedativo dell’alcool sul SNC. Nei consumatori abituali si svilupperebbe un aumento del numero dei canali per il Ca++ che sarebbe alla base della «tolleranza», cioè della capacità degli alcolisti cronici di assumere elevate quantità di alcool senza manifestare contestualmente alcun segno neurologico. L’alcool inibirebbe anche i recettori NMDA nell’ippocampo e ridurrebbe la formazione di AMP ciclico, causando una ridotta funzionalità delle sinapsi monoaminiche per la sottoregolazione dei recettori per l’adenosina, che risultano pertanto iperstimolati dall’alcool.
1310 Malattie del sistema nervoso
I segni neurologici da intossicazione alcolica sono diversi in rapporto alla tolleranza ed in relazione al tasso ematico di alcool: 30 mg/100 ml determinano una leggera euforia; 50 mg/100 ml una lieve incoordinazione motoria; 100 mg/ 100 ml causano una netta atassia cerebellare; 200 mg/100 ml compromettono le funzioni intellettive superiori, comportando confusione mentale; 300 mg/100 ml inducono torpore e 400 mg/100 ml coma fino al decesso. Il fenomeno della tolleranza giustifica il fatto che alcolisti cronici con un tasso di 400-500 mg/ml possano non presentare segni neurologici. Raro e paradossale è l’effetto eccitante, anzichè depressore, fino alla produzione di un atteggiamento sociopatico e criminale la cui genesi non è chiara. ALCOLISMO ACUTO EPISODI AMNESTICI ALCOLICI. – Compaiono durante una grave intossicazione acuta e sono del tutto sovrapponibili all’amnesia globale transitoria (v. pag. 977), essendo caratterizzati da compromissione della memoria a breve termine per alcune ore. La patogenesi è incerta: esisterebbe una transitoria alterazione dei tassi di serotonina (sono stati segnalati bassi livelli plasmatici del precursore della serotonina) unitamente ad una abolizione della funzione dei recettori NMDA dell’ippocampo, la cui eccitazione avrebbe un ruolo rilevante per l’apprendimento e la funzione mnesica. COMA. – Una alcolemia molto elevata, superiore a 400 mg /ml, può comportare stato di coma, praticamente identico a quello provocato dagli anestestici con un più marcato effetto depressogeno sulla funzione respiratoria. La diagnosi di certezza presuppone la determinazione dell’alcolemia. ALCOLISMO CRONICO ENCEFALOPATIA DI WERNICKE – È un quadro neurologico la cui causa più frequente è l’alco-
lismo cronico, sebbene possa essere osservato anche in corso di gravi epatopatie e nefropatie, malnutrizione e dialisi. Le relative lesioni consistono in rarefazione neuronale con proliferazione gliale e vasale e, talora, piccole emorragie, localizzate soprattutto nei corpi mamillari, ma anche nel pavimento del IV ventricolo, nel talamo e nell’ipotalamo. La forma conclamata è caratterizzata dalla classica triade clinica: – compromissione della coscienza con stato confusionale, talora associata a confabulazioni, – atassia assiale da atrofia vermiana, – deficit dell’oculomozione estrinseca per paralisi del III e del VI nervo cranico. Spesso il sintomo di esordio è l’atassia, seguita, dopo qualche giorno, da stato confusionale e paresi oculare; si riscontrano anche forme fruste o prodromiche, in cui l’unico sintomo è rappresentato da una lieve compromissione della coscienza. Può essere presente nistagmo e spesso coesiste una polineuropatia. La RM evidenzia una caratteristica atrofia dei corpi mamillari. L’encefalopatia è dovuta a carenza di tiamina (vitamina B1) da deficit nutrizionale o da alterazioni dell’assorbimento intestinale, con conseguente rallentamento delle reazioni enzimatiche indispensabili al metabolismo dei carboidrati e degli aminoacidi, in cui è implicata la vitamina B1e sono coinvolti i seguenti enzimi: piruvato deidrogenasi, alfachetoglutarico-deidrogenasi, alfachetoacido-deidrogenasi e transchetolasi di cuo può un deficit geneticamente determinato. La terapia consiste nella somministrazione di B1 (100 mg per via parenterale). Una somministrazione parenterale di glucosio che preceda la terapia vitaminica può determinare un peggioramento dei sintomi neurologici o addirittura rappresentare l’evento scatenante dell’encefalopatia in soggetti predisposti. La remissione della sintomatologia nei casi trattati precocemente è completa, salvo la persistenza di una sindrome amnestica.
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1311
SINDROME DI KORSAKOFF. – Definita anche sindrome amnestico-confabulatoria, è caratterizzata da una grave compromissione della memoria di fissazione, da turbe nella rievocazione di eventi ben fissati prima dell’esordio della malattia e da confabulazioni, senza altri deficit delle funzioni cognitive e dello stato di coscienza. Sono presenti alterazioni neuropatologiche nelle porzioni mediali dei nuclei dorsomediali talamici e nelle formazioni ippocampali (giro dentato, ippocampo, giro paraippocampale). La TC cerebrale rivela una ipodensità bilaterale e simmetrica dei nuclei dorso-mediali del talamo, la cui natura non è chiara. La genesi neurochimica del difetto è da ascrivere ad un deficit del sistema serotoninergico a proiezione corticale diffusa, la cui correzione mediante inibitori selettivi dell’uptake della serotonina, può determinare un miglioramento clinicamente rilevante. Solo nel 20% circa dei pazienti, peraltro, si può osservare una graduale remissione (in 1-3 mesi) del quadro clinico. ATROFIA CEREBRALE E DEMENZA ALCOLICA. – L’alcolismo cronico può provocare una atrofia cortico-sottocorticale ben visibile alla TC o alla RM, che può regredire nei soggetti che interrompono precocemente l’assunzione di alcool. Sono presenti inoltre, deficit cognitivi, non necessariamente correlati con il grado di atrofia cerebrale. S INDROME DI M ARCHIAFAVA B IGNAMI . – È un’entità clinica polimorfa, caratterizzata da progressivo deterioramento mentale (fino alla demenza), associato ad agitazione psicomotoria o apatia, allucinazioni e turbe affettive, con possibili manifestazioni convulsive ed evoluzione verso il coma. L’eziologia non è nota: può essere una complicanza rara dell’alcolismo cronico (più precisamente nei soggetti maschi di mezza età avvezzi a diversi tipi di bevande alcoliche), ma non è esclusiva degli alcolisti cronici. Le neuroimmagini dimostrano una demielinizzazione simmetrica del corpo calloso e del-
l’adiacente sostanza bianca. Non esiste trattamento specifico ed l’evoluzione è usualmente irreversibile. DEGENERAZIONE CEREBELLARE ALCOLICA. – Si caratterizza per una atassia cerebellare, prevalentemente vermiana, simile a quella osservata nella sindrome di Wernicke e si associa in circa metà dei casi a polineuropatia. Non esiste una correlazione tra quantità di alcool ingerito o durata dell’alcolismo e comparsa della degenerazione cerebellare, che presuppone, forse, una predisposizione genetica. La sintomatologia, ad andamento subacuto o lentamente ingravescente, trae beneficio, talora strepitoso, dal trattamento con vitamina B1, oltre che dalla sospensione dell’abuso alcolico. MIELINOLISI PONTINA CENTRALE. – È una complicanza dell’alcolismo cronico, osservabile peraltro anche in pazienti affetti da grave squilibrio idro-elettrolitico in corso di morbo di Addison, malattie epatiche, anoressia, sepsi e da morbo di Wilson. La patogenesi del disturbo non è chiara, ma sembra importante una iponatriemia protratta e troppo rapidamente corretta. Il quadro neuropatologico è caratterizzato dalla comparsa di un focolaio di demielinizzazione nella parte centrale della base pontina, con possibilità di estensione sia rostrale che caudale. La sintomatologia clinica (eventualmente sovrapposta a quella di una encefalopatia di Wernicke) consiste in una tetraplegia con anartria. La mortalità è elevata, ma sono stati descritti casi ad evoluzione migliorativa. NEUROPATIE PERIFERICHE. – È frequente nell’alcolismo cronico la comparsa di una polineuropatia mista (v. pag. 1391) inizialmente caratterizzata da una degenerazione assonale dovuta all’effetto tossico diretto dell’etanolo sulle fibre nervose periferiche, cui si associa, in tempi successivi, una demielinizzazione, verosimilmente dovuta allo stato di malnutrizio-
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ne. La sospensione dell’abuso alcolico può determinare un miglioramento parziale della polineuropatia. Gli alcolisti cronici, inoltre, presentano una aumentata incidenza di neuropatie da intrappolamento nei siti più esposti ad una danno da compressione (nervo ulnare al gomito e nervo peroneo comune in corrispondenza della testa del perone) a causa della permanenza prolungata in posizioni viziate durante le fasi di intossicazione acuta e/o di un danno subclinico dei nervi periferici causata dall’alcolismo stesso. MIOPATIE. – Negli alcolisti cronici può essere osservata una grave miopatia acuta (talora mortale) con rabdomiolisi massiva e conseguente mioglobinuria, iperKaliemia, donde il rischio di insufficienza renale acuta. SINDROMI DA ASTINENZA Questo termine include una serie di manifestazioni neuropsichiatriche che usualmente compaiono nell’alcolista cronico, dopo un breve periodo di astinenza relativa o assoluta. Esse comprendono tremore, allucinazioni visive ed uditive, crisi convulsive e delirium tremens. Il sintomo da astinenza più frequente è un tremore prevalentemente posturale (frequenza 6-8 Hz; intensità variabile, a volte tale da impedire il mantenimento della stazione eretta) che compare nelle 24 - 36 ore successive all’ingestione di una quantità (elevata) di alcool. Può essere associato a turbe intestinali e vegetative (nausea, vomito, arrossamento della cute del volto, tachicardia), può perdurare da 14 giorni a 1 mese. In circa un quarto dei pazienti che presentano tremore, la sindrome da astinenza alcolica può complicarsi con: – allucinazioni visive; – allucinazioni uditive, consistenti in voci minacciose e diffamatorie, con risposta emotiva e comportamentale adeguate («follia allucinatoria degli ubriachi»);
– crisi convulsive per lo più crisi convulsive generalizzate, con tendenza a ripetersi fino a sfociare in uno stato di grande male (v. pag. 000). Le crisi compaiono abitualmente entro 748 ore dall’inizio dell’astinenza con un massimo tra la 13a e la 24a ora. Sono state, tuttavia osservate crisi a comparsa precoce che si manifestano poche ore dopo una intossicazione acuta. Il Delirium tremens è la più grave tra le complicanze da astinenza, comportando una mortalità compresa tra il 5 ed il 15%. L’esordio è più facilmente acuto e la durata relativamente limitata con remissione usualmente brusca nell’80% dei casi, ma con possibilità di ricadute dopo 72 ore circa. La sintomatologia è caratterizzata da grave stato confusionale, tremore, allucinazioni (più frequentemente microzooptiche) ed iperattività simpatica con midriasi ed intensa sudorazione, responsabile di una marcata disidratazione alla quale è da attribuire il collasso cardio-circolatorio terminale che si riscontra nel 515% dei casi. Il trattamento si basa: – sulla correzione della perdita idrica, con somministrazione fino a 4-10 litri di liquidi/die, controllando la diuresi; – sulla sedazione, con somministrazione endovenosa di benzodiazepine, in particolare di diazepam alla dose di 10 mg. e.v. ogni 15 minuti fino alla sedazione, per poi passare ad una dose e.v. di 10 mg ogni 1-4 ore; non è affatto inusuale un dosaggio diazepam pari 1200 mg/ die nei primi 3-4 giorni); – sulla correzione dell’eventuale ipoglicemia; con contemporanea infusione e.v. di glucosio e vitamina B1, pena il rischio di provocare, col solo glucosio, un rapido esaurimento delle scarse scorte residue di B1, creando i presupposti per l’evoluzione in una encefalopatia di Wernicke. Estremamente efficace (ma non disponibile in Italia) è il clormetiazolo (Emineurina) alla dose di 1-2 gr nella prima giornata, per proseguire con una riduzione graduale nei successivi
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quattro giorni, non oltrepassando i 9 giorni di trattamento.
f) Intossicazioni da farmaci Diversi farmaci possono comportare disturbi neurologici. L’attribuzione di una sintomatologia ad una genesi iatrogena deve, tuttavia, essere estremamente cauta. In particolare è indispensabile attenersi a provati criteri di causaeffetto, quali: a) comparsa dei sintomi successivamente alla assunzione della terapia, b) impossibilità di un’interpretazione alternativa (ad esempio: mutamento del quadro clinico per evoluzione spontanea), c) suffragio di dati di letteratura che confermino la possibilità che i sintomi rilevati possano essere causati dal farmaco incriminato e d) rilievo di una attenuazione fino alla scomparsa dei disturbi dopo sospensione del farmaco in questione. Saranno trattate separatamente le principali sindromi neurologiche da farmaci, e quindi le specifiche manifestazioni cliniche dovute a intossicazione da farmaci psico-attivi e non psico-attivi. Sindromi neurologiche da farmaci MIOPATIE PROSSIMALI CRONICHE. – La causa più frequente delle miopatie prossimali croniche da farmaci sono gli steroidi, soprattutto i glicocorticoidi come il prednisolone, che - se impiegati a dosaggio superiore a 7 mg/die per mesi, senza osservare periodi di sospensione di 1 mese ogni 2 di trattamento - possono causare una sofferenza muscolare bilaterale, limitata alla muscolatura del cingolo pelvico ed al quadricipite della coscia. La remissione entro in 1-2 mesi dalla sospensione o dalla riduzione della terapia steroidea costituisce il criterio di attribuzione più certo. Assai più rara è la miopatia prossimale da clorochina, che può comparire se il farmaco viene impiegato a dosi elevate (500-700 mg/kg/die) e per lunghi periodi, generalmente più di 20 mesi.
Alla miopatia caratteristicamente si associa, per somministrazioni prolungate, una polineuropatia con parestesie distali agli arti inferiori, riduzione dei riflessi profondi e segni di danno neurogeno all’elettromiografia. La prognosi è benigna, con regressione in 3-6-mesi, dopo la sospensione del trattamento. Le statine sono farmaci ipocolesterolemizzanti introdotti recentemente in terapia, il cui uso è stato correlato con: a) quadri acuti di rabdomiolisi anche massiva, b) miopatie croniche con mialgie ed aumento della CPK, forse collegate a disfunzioni della catena respiratoria mitocondriale, c) quadri simili alla polimialgia reumatica, associati ad incremento degli indici di flogosi, forse su base allergica. Mentre queste sindromi sono relativamente rare, un aumento asintomatico della CPK nei pazienti in trattamento con statine è relativamente frequente. L’associazione delle statine con i fibrati (anch’essi utilizzati nelle iperlipemie) aumenterebbe il rischio di danno muscolare. Tutti questi quadri sono reversibili purchè il trattamento venga sospeso. Eccezionalmente si possono riscontrare miopatie prossimali croniche riferibili all’assunzione di anti-convulsivanti (difenilidantoina, fenobarbitale) o di beta-bloccanti (in questo caso sono presenti anche fenomeni miotonici). MIOPATIE PROSSIMALI SUBACUTE. – Caratterizzate da intensi dolori muscolari e da spiccata dolenzia alla compressione delle masse muscolari, possono avere una genesi iatrogena estremamente varia, potendone essere responsabili: il clofibrate (specie se impiegato per lungo tempo), la vincristina (che comporta un contemporaneo deficit neurogeno), l’acido ε-aminocaproico, la D-penicillamina, la cimetidina, il litio e la guanetidina. RABDOMIOLISI ACUTA. – Può insorgere non solo in corso di miopatia da alcool (v. pag. 1506) o come rarissima complicanza della terapia con
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statine, ma anche durante la sindrome da ipertermia maligna da neurolettici (v. pag. 1468) e la sindrome maligna da sospensione di l-dopa. NEUROPATIE DEI NERVI CRANICI E SPINALI. – I farmaci potenzialmente responsabili di neuropatie periferiche sono assai numerosi. Il nervo periferico può essere danneggiato con un meccanismo allergico (ad es. scatenato da sulfamidici), con un meccanismo ischemico (ad es. nell’ergotismo) o con un meccanismo tossico diretto (ad es. vincristina e vinblastina). Per alcuni farmaci sono state inoltre identificate varianti genetiche degli enzimi implicati nella metabolizzazione (ad es. per l’isoniazide, metabolizzazione lenta a carattere autosomico recessivo) che favoriscono la comparsa di fenomeni tossici determinando la necessità di variare il dosaggio e la durata della terapia. Vari farmaci antineoplastici possono causare una polineuropatia in genere mista, alla quale (nel caso della vincristina) può associarsi deficit di nervi cranici (particolarmente il VI ed il VII); il cisplatino può provocare una polineuropatia mista associata a sordità percettiva e, più raramente, a neurite ottica bilaterale. Tra gli antibatterici, la nitrofurantoina, provoca una polineuropatia mista, assonale (spes-
so a remissione incompleta) molto raramente se impiegata a dosi superiori a 7 mg/kg/die per più di 14 giorni. Tra gli antitubercolari l’isoniazide può essere responsabile di una polineuropatia prevalentemente sensitiva da carenza iatrogena di piridossina (vitamina B6), che può essere prevenuta mediante una adeguata somministrazione di quest’ultima. La polineuropatia si associa talora a neuropatia ottica, appannaggio esclusivo di soggetti predisposti («acetilatori lenti») in quanto portatori della variante enzimatica genetica che rallenta la metabolizzazione del farmaco. La neuropatia ottica non è migliorata dalla somministrazione di vitamina B6 ma può regredire con la sospensione del trattamento. Tra i farmaci antiparassitari merita particolare menzione il cliochinolo, che oltre ad una polineuropatia prevalentemente sensitiva ai quattro arti, può determinare una compromissione midollare (cordoni laterali) ed una neurite ottica bilaterale, con remissione incompleta ed esiti sensitivi (ipoestesia profonda) e visivi. Anche il disulfiram può essere responsabile di una polineuropatia mista che si manifesta nel 15% dei casi per una dose giornaliera tra i 250 mg ed i 500 mg; la comparsa del danno periferico può avvenire entro pochi giorni, così come
Tabella 32.1 - Neuropatie iatrogene. Farmaci
Neuropatia sensitiva
Parestesie isolate
Neuropatie miste
Neuropatie motorie
Antibiotici
Cloramfenicolo
Colistina, Streptomicina, Ac. nalidixico
Aminoglicosidi, Tetracicline Nitrofurantoina
Sulfamidici, Anfotericina
Antitubercolari
Etambutolo
Etambutolo, Isoniazide
Antiparassitari
Cliochinolo
Cardiotropi Psicotropi
Tioridazina
Propranololo
Idralazina
Imipramina
Amitriptilina
Antireumatici Altri
Imipramina
Sali d’oro, Indometacina Clorochina, Fenilbutazone Ergot, Sulfoni
Metisergide, Sultiame
Colchicina, Idantoina, Disulfiram, Clorpropamide
Clofibrate
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1315
dopo diversi mesi. È evidente la difficoltà diagnostica, considerato che il farmaco è utilizzato nell’alcolismo cronico che può essere responsabile, di per sé, di una polineuropatia. Frequente è la sofferenza del nervo ottico o di quello cocleo-vestibolare da disulfiram, isoniazide, etambutolo, cloramfenicolo, nistatina e penicillamina. La vincristina e la nitrofurantoina possono, inoltre, comportare un deficit dell’oculomozione estrinseca. L’impiego prolungato (oltre 7-10 giorni) di aminoglicosidi (es.: streptomicina) a dosi elevate, tali da superare un tasso plasmatico di 5 microgrammi/ml, o in soggetti con insufficienza renale (che va quindi sistematicamente accertata prima della terapia) comporta spesso una compromissione irreversibile del nervo acustico. I farmaci responsabili di neuropatia sono indicati nella Tabella 32.1. ENCEFALOPATIE. – Sono escluse da questo paragrafo le complicanze extrapiramidali iatrogene (v. pag. 1083) e le intossicazioni volontarie da farmaci. I farmaci responsabili di encefalopatia sono indicati nelle Tabelle 32.2, 32.3 Tabella 32.2 – Farmaci responsabili di encefalopatie (in caso di abuso).
Anticonvulsivanti Antiparkinson
Tabella 32.3 – Farmaci responsabili di encefalopatia con convulsioni per: * brusca sospensione o ** abuso. Anticonvulsivanti * Barbiturici, Fenitoina. Psicotropi ** Tri e tetraciclici, IMAO in associazione a triciclici, Neurolettici. Altri psicotropi ** Anfetamine, Anorressizzanti, Anticolinergici, Benzodiazepine. Antibatterici e antifungini ** Colestina, PAS, Polimixina B. Altri ** Acido Folico, ACTH, Aminofenazone, Steroidi, Digitale, Glucagone, Levamisole, Lidocaina, Methotrexate, Propranololo, Probenecid, Teofillina, Vincristina, Vitamina K.
e 32.4, in cui per «abuso» si intende l’impiego di un dosaggio notevolmente superiore a quello massimo consigliabile in relazione alle specifiche proprietà farmacocinetiche con conseguente accumulo progressivo. I quadri clinici variano in rapporto al tipo di farmaco ed alla dose impiegata. Sono tuttavia riconoscibili alcuni elementi comuni quali l’esordio dei sintomi dopo un tempo estremamente variabile dall’inizio dell’assunzione del farmaco; la frequente comparsa di uno stato confusionale, associato, talora, a crisi epilettiche tipo grande male; movimenti involontari di va-
Tranquillanti minori Anfetamine Anoressizzanti Analgesici centrali Ipnoinducenti Psicotropi: Tri e tetraciclici, IMAO, Litio in associazione a Butirrofenoni, Fenotiazine e derivati. Antibatterici e antifungini: Cefaloridina, Colistina, Isoniazide, Penicilline, Streptomicina, Sultanilamide. Altri: ACTH, Anestetici locali, Atropina, Cimetidina, Steroidi, Antidiabetici orali, Methotrexate, Metisergide, Fenacetina, Digitale, Glicerolo, Salbutamolo, Sali d’Oro, Teofillinici.
Tabella 32.4 – Farmaci responsabili di encefalopatia con mioclonie per: * brusca sospensione o ** abuso.
Neurotropi * Barbiturici, Carbamazepina, Acido Valproico ** Anfetamina, Triciclici, Litio, Amantadina, 5-Idrossitriptofano, Stricnina, Antibatterici ** Cefalotina, Colistina, Cicloserina, Carbenicillina, Sulfamidici, Isoniazide Altri ** Codeina, Diuretici, Ipoglicemizzanti, Sulfamidici, Teofillina, Piperazina
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rio tipo quali mioclonie, tremore d’azione o attitudinale, coreo-atetosi; alterazioni vegetative (ipertermia, ipersudorazione, iper- iposcialorrea, turbe della frequenza cardiaca e della respirazione). L’esame neurologico non dimostra segni di deficit focale. Il dato anamnestico di assunzione del farmaco, unitamente al suo riscontro a livello plasmatico sono notevolmente orientativi. Gli studi di neuroimmagine, effettuati per escludere altre cause di encefalopatia, sono normali. Il trattamento è sintomatico. Spesso è indispensabile sospendere gradualmente il farmaco responsabile, salvo i casi in cui la sospensione stessa potrebbe risultare dannosa (ad esempio, insorgenza di uno stato di male da sospensione dei farmaci antiepilettici). Un cenno particolare meritano gli antimitotici che possono frequentemente causare una encefalopatia, anche se le dosi ed i tempi sono adeguati. In particolare, la vincristina ed il cisplatino possono causare encefalopatie acute diffuse con un meccanismo tossico diretto, mentre i danni da l-asparaginasi sarebbero da imputare ad una grave sofferenza epatica. Una sindrome cerebellare (causata da un meccanismo ischemico e talora associata a deficit focali) può essere determinata dal 5-fluoruracile a dalla citosina arabinoside (ARA-C, per grave degenerazione delle cellule del Purkinje). La tossicità di alcuni chemioterapici dipende dalla via di somministrazione: è noto, ad esempio, che l’uso intrarachideo di metotrexate può causare una reazione meningea talora seguita da paraplegia; la carmustina (BCNU) somministrata per via endocarotidea può determinare uno stato confusionale acuto e crisi epilettiche focali. SINDROMI EXTRAPIRAMIDALI – Discinesie da L-dopa (v. pag. 1076). – Sindrome parkinsoniana da neurolettici (v. pag. 1083). Una sindrome parkinsoniana acinetico-ipertonica è un effetto collaterale dose-dipendente e reversibile (so-
prattutto nelle prime fasi del trattamento) comune a tutti i farmaci neurolettici tradizionali e, sia pure con frequenza assai più bassa, anche ai farmaci neurolettici di ultima generazione, quale il risperidone, tanto che da molti anni alcuni specialisti usano affiancare preparati anticolinergici per attenuare i sintomi extrapiramidali. L’effettiva utilità di tale associazione, tuttavia, è discussa in quanto potrebbe favorire l’insorgenza di discinesie tardive croniche. Rare, ma possibili sono le sindromi parkinsoniane da uso prolungato di farmaci antiemetici quali la metoclopramide ed il domperidone, e di calcio-antagonisti quali la flunarizina e la cinarizina. – Discinesie acute da neurolettici. Sono rappresentate da movimenti forzati della bocca e della lingua (trisma, protrusione) o dei bulbi oculari (crisi oculogire) o degli arti e del tronco, che compaiono usualmente per l’impiego di dosi moderate di neurolettici e di alcuni antiemetici (metoclopramide), antivertiginosi (tietilperazina) ed antidepressivi (sulpiride). Generalmente si risolvono con la sospensione del farmaco. Può essere utile, in fase acuta, l’impiego di anticolinergici per via parenterale. – Discinesie tardive da neurolettici. Coinvolgono abitualmente la muscolatura bucco-linguo-facciale, ma possono verificarsi in tutti i distretti muscolari, con eventuale coinvolgimento della muscolatura fonatoria, della deglutizione e della respirazione. In tal caso il quadro clinico è particolarmente drammatico Spesso la sospensione del trattamento non è efficace e paradossalmente, in alcuni casi, solo un aumento della dose dei neurolettici può determinare un certo miglioramento. – Sindrome maligna da neurolettici. Ha una incidenza compresa tra lo 0,07% e lo 0,15%. È caratterizzata da elevata ipertermia (al di sopra dei 38°C), sindrome piramido-extrapiramidale, mutismo, disfagia, compromissione della coscienza, tachicardia, leucocitosi, elevazione della creatin-chinasi (nel 70% dei casi) e da una evoluzione, spesso fatale. La sindrome può comparire subito dopo l’inizio della terapia oppure a seguito di un incremento del dosaggio; non è in rapporto preciso con il tipo di neurolettico impiegato, ma può aumentarne l’incidenza l’associazione della terapia neurolettica con timoanalettici o con carbonato di litio. La patogenesi di questa sindrome è verosimile correlata ad una eccessiva carenza di stimolazione dei recettori dopaminici di tipo 2, potendo comparire anche nel Morbo di Parkinson a seguito di una brusca sospensione del trattamento dopamino-stimolante. Il trattamento prevede la sospensione del farmaco responsabile, la riduzione della temperatura con mezzi fisici, una
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1317 adeguata idratazione e la correzione di eventuali squilibri elettrolitici. Possono essere utili, per ridurre la rigidità, i seguenti farmaci: amantadina, l-dopa, bromocriptina, dantrolene sodico, impiegati singolarmente o in associazioni. – Ipertensione endocranica idiopatica. (v. pag. 614): può essere determinata da uso eccessivo di vitamina A, dall’acido nalidixico, dalle tetracicline, dalla sospensione improvvisa di un trattamento protratto con steroidi. La prognosi è spontaneamente benigna.
BARBITURICI. – L’intossicazione acuta, per lo più a scopo autosoppressivo, è diventata relativamente rara dopo l’obbligatorietà della prescrizione medica. È caratterizzata da uno stato di coma con grave depressione respiratoria, compromissione dell’inotropismo cardiaco, ipotermia, ipotensione e frequente atteggiamento in rigidità decerebrata. L’intossicazione cronica si manifesta con rallentamento psicomotorio, labilità’ emotiva, e atassia cerebellare. La brusca sospensione di questi farmaci può scatenare la comparsa di crisi convulsive fino allo stato di male, cui, può far seguito uno stato allucinatorio delirante, indistinguibile dal delirium tremens.
INTOSSICAZIONI DA FARMACI PSICOATTIVI OPPIACEI ED ANALGESICI SINTETICI.- Per oppiacei si intendono derivati dall’oppio (morfina, diacetilmorfina o eroina, codeina, idrocodone, oximorfone, oxicodone) o farmaci di sintesi ad azione morfino-simile (meperidina, anelirina, metadone, racemorfano, levorfanolo, pentazocina ed altri). L’avvelenamento da oppiacei può avvenire a scopo suicida, per errore di dosaggio, o per ipersensibilità (bambini, adulti affetti da mixedema, malattia di Addison, epatite cronica, polmonite), ma l’evenienza più frequente si verifica nei soggetti tossicodipendenti per l’assunzione di una dose eccessiva o di una dose in passato ben tollerata, dopo un periodo di astinenza. Le più precoci manifestazioni cliniche dell’intossicazione acuta sono rappresentate da stato di coma, rallentamento del ritmo respiratorio (2-4 atti al minuto), pupille intensamente miotiche, bradicardia ed ipotermia. Successivamente insorgono midriasi, cianosi ed arresto cardiorespiratorio, con conseguente decesso. Il trattamento elettivo è la somministrazione di naloxone (0,4 mg e.v. ogni 5-10 minuti fino al ritorno della coscienza), che è un antagonista specifico degli oppiacei, la cui somministrazione, essendo priva di effetti collaterali (in particolare sull’attività respiratoria) può fornire anche un criterio diagnostico ex adiuvantibus. Le complicanze strettamente neurologiche sono rare e sono costituite da ictus ischemici causati da occlusione arteriolare su base allergica (più verosimilmente scatenata dagli additivi, come il chinino) o da un processo embolico-infettivo conseguente ad una endocardite batterica. In questo caso i responsabili diretti non sono gli oppiacei, bensì le infezioni batteriche veicolate dagli additivi e causate dall’assenza di elementari norme igieniche nel praticare l’iniezione endovenosa. Nei tossico-dipendenti da oppiacei sono descritte, infine, una mielite trasversa generalmente a livello toracico (con necrosi della sostanza bianca e grigia) e polineuropatie (in alcuni casi poliradiculoneuropatie acute tipo Guillain-Barré) che riconoscono una genesi autoimmune verosimilmente scatenata dagli additivi.
CARBONATO DI LITIO. – È un farmaco utilizzato per la terapia e la prevenzione della psicosi maniaco-depressiva e della cefalea a grappolo; l’intossicazione non è frequente se i livelli plasmatici del farmaco vengono periodicamente controllati. Per valori di litiemia ai limiti superiori dell’intervallo terapeutico (0,7-1,3 mEq/l) può comparire un tremore posturale a frequenza elevata (asterixis) mentre solo valori superiori a 1,5 mEq/l comportano vere manifestazioni tossiche, rappresentate da uno stato confuso-allucinatorio, associato a una sindrome cerebellare ed a mioclonie spontanee diffuse; livelli plasmatici pari o superiori a 3,5 mEq/l determinano uno stato di coma con possibili manifestazioni convulsive. La diagnosi è relativamente semplice qualora si disponga di sicuri dati anamnestici e della valutazione della litiemia. Il trattamento si diversifica in relazione alla gravità del quadro clinico, potendo variare dalla riduzione o temporanea sospensione del trattamento, nei casi più lievi (caratterizzati unicamente di asterixis), alla somministrazione di sostanze che accelerino l’eliminazione del carbonato di litio (acetazolamide, cloruro di sodio, aminofillina) o addirittura all’emodialisi nei casi più gravi. BENZODIAZEPINE. – L’intossicazione acuta è evenienza rara, se non per volontaria eccessiva assunzione, considerato l’enorme divario tra dose terapeutica e dose tossica. Il coma che può derivarne è privo di aspetti peculiari per cui la diagnosi si basa sul dato anamnestico (prove certe di una eccessiva assunzione), sulla determinazione del tasso plasmatico e sulla risposta terapeutica pressochè immediata al flumazenil, antagonista specifico delle benzodiazepine (da 1 a 10 mg e.v. sono usualmente sufficienti a provocare un ripristino dello stato di coscienza entro 10-15 minuti). SOSTANZE ALLUCINOGENE (acido lisergico, usualmente noto come LSD, mescalina e psilocibina). – Provocano gli stessi effetti, con differente durata d’azione: fino a 24 ore per l’LSD, 12 ore per la mescalina e 4-5 ore per la psilocibina. Ad eccezione della possibilità, rara, di crisi
1318 Malattie del sistema nervoso convulsive, segnalate soprattutto per l’LSD, le manifestazioni sono esclusivamente psichiche: alterazioni dell’ideazione, allucinazioni visive, turbe dell’affettività sia depressive che maniformi. La diagnosi si basa sui dati anamnestici, non essendo abitualmente disponibili metodiche per il dosaggio dei tassi plasmatici.
ne endocranica, e peggiorare l’epilessia ed il morbo di Parkinson. Tra gli altri antinfiammatori segnaliamo il ciclofenac che può causare una rara encefalopatia mioclonica e l’acido mefenamico che può determinare crisi epilettiche e coma, solo in caso di sovradosaggio.
D ELTA - TETRA- IDRO - CANNABINOLO (marijuana o hashish). –L’assunzione di tetraidrocannabinolo provoca abitualmente uno lieve stato ipertimico ma in alcuni casi l’intossicazione acuta può comportare una sindrome psicorganica con stato allucinatorio (uditivo e visivo), associata ad atassia cerebellare. Il quadro neurologico è rapidamente reversibile. La diagnosi, anche in questo caso si basa sui dati anamnestici, non essendo abitualmente disponibili metodiche per il dosaggio dei tassi plasmatici.
ANTI-H1 ISTAMINICI. - Gli effetti sul sistema nervoso centrale non sono gravi e sono usualmente rappresentati da sedazione; da segnalare tuttavia la possibilità di discinesie bucco-linguo-facciali in caso di uso cronico.
PSICOSTIMOLANTI. – (cocaina, destroamfetamina, metamfetamina, metilfenidato). A questo gruppo, caratterizzato dalla somiglianza della farmacodinamica e, quindi, dell’effetto, appartiene anche il cosiddetto «crack», il cui riscaldamento a 100° libera vapori inalabili di cocaina. Oltre alle complicanze strettamente psichiatriche quali depressioni maggiori, stato disforico con agitazione psicomotoria ed allucinazioni, si possono verificare gravi complicazioni neurologiche. Una delle più frequenti è rappresentata dalle crisi epilettiche, sia generalizzate che parziali, fino allo stato di male epilettico. A causa dell’ipertensione e di una vasculite necrotizzante queste sostanze possono essere responsabili di accidenti cerebrovascolari (emorragia subaracnoidea, emorragia parenchimale, ischemia cerebrale). È stata, inoltre, descritta l’insorgena di neurite ottica bilaterale, di cefalea con caratteristiche simili all’emicrania e di compromissione dello stato di coscienza fino al coma (rara). La diagnosi, oltre che dal rilievo anamnestico, può essere confermata dalla ricerca di queste sostanze nelle urine.
INTOSSICAZIONI ED EFFETTI COLLATERALI DA FARMACI NON PSICOATTIVI
FANS. -Ad eccezione dell’acido acetil-salicilico che nel bambino può essere responsabile della sindrome di Reye (encefalopatia non itterica, che si manifesta con segni di sofferenza focale, seguiti da coma e convulsioni), nessun altro antinfiamamtorio non steroideo determina danno del sistema nervoso centrale se non per sovradosaggio. L’indometacina, usata cronicamente, può causare una cefalea simil-emicranica, probabilmente dovuta a ritenzione idrica con vera e propria ipertensio-
ANTI-H2 ISTAMINICI. - Sono meno lipofili degli anti-hl per cui gli effetti sul sistema nervoso centrale sono meno frequenti (fanno eccezione le persone anziane, in cui, una diminuita clearance per scarsa perfusione renale, eleva notevolmente i tassi plasmatici). Per gli anti-h2, in particolare per la la cimetidina e la ranetidina, è importante segnalare, inoltre, l’interazione con altri farmaci a causa dell’inibizione ch’essi svolgono sul citocromo P450, con conseguente aumento dell’emivita di molti antiepilettici, delle benzodiazepine, dei barbiturici, degli antidepressivi triciclici e del dicumarolo. L’omeprazolo può essere talora responsabile di una neuropatia prossimale associata ad una contemporanea miopatia (documentata dall’aumento della CPK) ANTITUSSIGENI. - Hanno quasi tutti (ad eccezione del destrometorfano) un effetto collaterale di tipo sedativo sul sistema nervoso centrale, specie se contenenti oppiacei. CARDIOTROPI. – La nitroglicerina è frequentemente responsabile di cefalea. I glicosidi cardioattivi possono causare uno stato confusionale in associazione a disturbi visivi (neuropatia ottica); tali effetti si dimostrano tra il 25 ed il 65% dei pazienti, risultando dipendenti dal livello ematico di digossina (sono più frequenti con livelli ai limiti superiori del range terapeutico ≥ 2 µg/ml). Sono, invece, rari gli effetti collaterali neurologici di tutti gli antiaritmici. I betabloccanti maggiormente lipofili (es. propanololo) possono comportare turbe dell’affettività, scatenando o peggiorando una depressione maggiore. I calcio-antagonisti hanno in genere effetti irrilevanti sul sistema nervoso centrale. ANTIIPERTENSIVI. - Gli ace-inibitori possono determinare ipo-ageusia. La reserpina e la metildopa possono slatentizzare e/o peggiorare una sindrome parkinsoniana; la clonidina può causare sedazione. DIURETICI. - Tutti i diuretici senza risparmiatori di potassio possono causare miopatie ipopotassiemiche (v. capitolo relativo).
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1319 ANTIBIOTICI.- La penicillina g può causare una encefalopatia con crisi epilettiche parziali o generalizzate, specie a dosi elevate (> 40 milioni di U/die). Gli aminoglicosidi (soprattutto neomicina e kanamicina) oltre all’ototossicità: possono svolgere un potenziale effetto di blocco neuromuscolare, con grave rischio per i pazienti affetti da miastenia gravis. Abitualmente privi di neurotossicità sono i macrolidi, ad eccezione della eritromicina (ototossicità e disturbo della conduzione neuromuscolare). Il polimixine, infine, può causare vertigini (7% dei pazienti) e, raramente, crisi epilettiche tipo Grande Male. ANTIMICOTICI. - Tutti (soprattutto la griseofulvina) comportano cefalea. SULFAMIDICI. - Comportano raramente neuropatie periferiche e non hanno, in genere, effetti tossici sul sistema nervoso centrale. ANTISETTICI URINARI La nitrofurantoina (soprattuttto in pazienti con insufficienza renale) può determinare una polineuropatia mista (secondo alcune segnalazioni addirittura nel 90% dei pazienti trattati), mentre l’acido nalidixico può rendersi responsabile di pseudotumor cerebri e peggiorare una epilessia preesistente. ANTIVIRALI. - È segnalata neurotossicità da aciclovir (specie se somministrato ad alte dosi, per via venosa, a soggetti con insufficienza renale). Vertigini, cefalea, sonnolenza, distubi psicotici, epilessia e neuropatie sensitive sono possibili a seguito di trattamento con interferoni. ANTIPROTOZOARI. – La clorochina, ad alte dosi, comporta frequentemente la comparsa di disturbi psichici. Cefalea, vertigini ed atassia cerebellare, talora associata a crisi epilettiche, possono invece, essere determinate dal metrimidazolo. SOVRADOSAGGI VITAMINICI.- Da ricordare, infine che il sovradosagio di diverse vitamine può comportare effetti collaterali neurologici anche gravi: Vit A: reazioni psicotiche acute Vit D: depressione VIT B6: neuropatia sensitiva e, talora, atassia cerebellare. Acido folico: possibile il peggioramento di una preesistente epilessia. CORTICOSTEROIDI. Possono causare ansia, depressione/ mania, crisi epilettiche e miopatie. VARI. - Crisi epilettiche possono essere determinate dai tireostatici; neurite ottica dalle sulfaniuree. Stati confusionali agitati con allucinazioni possono essere causati dalla scopolamina, specie in soggetti anziani.
g) Fattori di tossicità ambientale Colpo di calore L’elevata temperatura ambientale può causare varie manifestazioni cliniche; la descrizione sarà qui limitata al «colpo di calore», per l’interesse neurologico che riveste, rinviando ai testi di medicina interna o d’urgenza per gli altri possibili quadri clinici (crampi da calore, collasso o prostrazione da calore e sindrome ipertermica da sforzo). I soggetti affetti da “colpo di calore” presentano una temperatura rettale uguale o superiore ai 40°, cute calda e secca e disturbi neurologici consistenti in alterazione dello stato di coscienza (dallo stato confuso-delirante) al coma con marcata miosi pupillare. Complicanze frequenti sono la rabdomiolisi con insufficienza renale acuta e la coagulazione intravascolare disseminata Nei soggetti che sopravvivono alla fase acuta, possono manifestarsi atassia cerebellare da lesione vermiana e segni di rarefazione dei motoneuroni spinali, quali atrofia, ipo-areflessia e ipotonia. Il sospetto diagnostico si fonda anzitutto sul dato anamnestico di una protratta esposizione ad elevate temperature e può essere indirettamente corroborato dall’elevazione dei livelli serici di tutti gli enzimi epatici e muscolari, specie della creatin-fosfo-chinasi, fino ad un profilo biochimico probativo per una grave compromissione epatica. Il colpo di calore costituisce una emergenza medica che impone immediati provvedimenti per ottenere una riduzione della ipertermia, al di sotto dei 38,5 ° (rettale) mediante raffreddamento corporeo per cui si può fare ricorso a mezzi fisici e a antiinfiammatori non steroidei; nel corso del raffreddamento possono comparire manifestazioni convulsive. L’evoluzione è fatale nel 10% dei casi: elementi prognostici negativi sono una ipertermia superiore ai 42° (rettale) e l’eventuale ritardo
1320 Malattie del sistema nervoso
nell’intraprendere il raffreddamento corporeo (oltre un’ora dopo l’instaurazione della sintomatologia). Mal di montagna È determinato da una sofferenza ipossica dell’encefalo (ipossia ipossica) che si manifesta per una rapida ascesa dal livello del mare ad altitudini abitualmente superiori ai 2500 m, senza acclimatamento (sosta di 2-4 giorni ad altitudini comprese tra 1700 e 2500 m). I sintomi compaiono con modalità subacuta e sono rappresentati da cefalea, nausea e vomito, riferibili alla comparsa di edema cerebrale; ad altitudini superiori, per il peggiorare dell’edema, si manifestano anche atassia cerebellare, turbe cognitive, allucinazioni; eventualmente possono comparire anche emorragie della retina e segni di sofferenza focale, connessi ad emorragie della sostanza bianca cerebrale (per altitudini di almeno 5.000 m). I sintomi sono ovviamente peggiorati dall’eventuale coesistenza di ipercapnia (malattie cardiorespiratorie, sonno con riduzione della ventilazione polmonare). Il trattamento con acetazolamide può prevenire, almeno in parte, i sintomi del mal di montagna, la cui regressione è determinata da un rapido ritorno ad altitudine inferiore a 2500 m e, eventualmente, dalla somministrazione di desametasone. Sindrome da decompressione o Malattia dei cassoni Si verifica spesso nei lavoratori posti in cassoni alimentati ad aria compressa, per lavori sottomarini. Le complicanze neurologiche, che compaiono in circa un quarto dei soggetti, sono di natura ischemica, e sono determinate dall’improvvisa liberazione nel sangue di bolle di azoto che ostruiscono il circolo arterioso. Ciò avviene a causa di una troppo brusca decompressione, che non consente la persistenza dei gas stessi in so-
luzione e la loro progressiva eliminazione mediante respirazione. La manifestazione neurologica più frequente è rappresentata dalla comparsa (dopo 1-36 ore dalla decompressione) di una sintomatologia da lesione midollare, di entità variabile da una lieve paraparesi fino ad una tetraplegia; più rare le manifestazioni da danno sopraspinale (disartria, diplopia, sordità). La localizzazione preferenziale del danno a livello midollare può essere spiegata dal minor flusso ematico e dalla relativa maggior ricchezza tissutale di lipidi (prevalenza di fibre mieliniche in rapporto alla sostanza grigia), in cui l’azoto si scioglie più facilmente. Il trattamento consiste nell’attuazione di una rapida ricompressione (camera iperbarica) con successiva lenta decompressione. Elettrocuzione Può essere conseguenza di incidenti domestici o di folgorazione naturale (fulmini). La gravità delle conseguenze dipende non già dal voltaggio, ma dall’intensità di corrente transitata attraverso l’organismo. La conseguenza più temibile è rappresentata dalla morte immediata per arresto cardiaco permanente; frequenti e spesso invalidanti sono anche i danni neurologici, connessi alla zona di ingresso della corrente e determinati da un meccanismo ischemico (necrosi delle arteriole o ispessimento ialino delle loro pareti con occlusione del lume). L’esordio può essere immediato o, per motivi non chiariti, ritardato rispetto al momento dell’elettrocuzione e i sintomi possono essere transitori o permanenti. I danni midollari, consistenti nella comparsa immediata o tardiva (ore o settimane dopo l’incidente) di una sindrome da sezione trasversa del midollo o da emisezione midollare, sono i più frequenti. L’elettrocuzione a livello del capo, può causare manifestazioni convulsive immediate e, con comparsa precoce o tardiva, emiparesi o sindromi extrapiramidali (talora unilaterali).
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1321
Sono possibili, infine, danni diretti a carico dei nervi periferici coinvolti nella zona della elettrocuzione e danni muscolari, con intenso edema sottofasciale, che impone una rapida fascectomia per prevenire ulteriori danni da compressione ed ischemia dei nervi periferici.
do con i processi di riparazione); c) il volume totale di strutture nervose irradiate, d) il tempo di sopravvivenza dopo il trattamento, e) la coesistenza di malattie sistemiche (diabete mellito, ipertensione arteriosa) che possano accentuare i danni della terapia radiante.
Gas urbani
ENCEFALO. – L’encefalopatia causata dalla terapia radiante si può presentare in maniera immediata, precoce (da 2 settimane a 4 mesi) e tardiva (da 4 mesi a vari anni). L’encefalopatia acuta si presenta per lo più in pazienti sottoposti a radioterapia a dosi frazionate elevate, portatori di neoplasie del sistema nervoso centrale, non sottoposti a terapia antiedemigena con corticosteroidi. È caratterizzata da una sindrome da ipertensione endocranica di varia gravità, solitamente limitata a cefalea e nausea lievi, ma che talora può comportare cefalea grave, vomito, alterazione dello stato di coscienza sino al coma e, raramente, decesso per deterioramento rostro-caudale. L’encefalopatia acuta può essere efficacemente prevenuta limitando il trattamento a 200 rad per applicazione nei soggetti affetti da neoplasie cerebrali, che devono, inoltre, essere protetti con dosi di desametasone comprese tra 8 e 16 mg al giorno (da aumentare progressivamente se compaiono segni clinici di ipertensione endocranica), che, secondo alcuni autori, avrebbero un effetto preventivo anche nei confronti dell’encefalopatia ritardata precoce. L’encefalopatia ritardata precoce compare tra il secondo ed il terzo mese successivo alla terapia radiante ed è sostenuta da un danno demielinizzante focale o diffuso. Nei soggetti precedentemente sottoposti a radioterapia a causa di un tumore cerebrale, l’encefalopatia ritardata precoce può mimare una recidiva neoplastica sia clinicamente (comparsa di cefalea e sonnolenza, peggioramento dei sintomi focali) che radiologicamente (comparsa o peggioramento di una lesione TC ipodensa spesso con contrast enhancement). Il quadro clinico ed i segni neuroradiologici hanno un decorso spontaneamente
Estremamente attiva è la ricerca sugli effetti tossici da esposizione cronica ad atmosfera ricca di anidride carbonica o di gas provenienti da una combustione incompleta, (come il monossido di carbonio), o da difettoso funzionamento delle marmitte catalitiche (come l’acido cianidrico). I risultati di studi sperimentali sulla scimmia, indicano la possibilità di un effetto tossico che si estrinseca con turbe delle funzioni cognitive (memoria ed attenzione) e del tono timico (sindrome ipomanica). Tuttavia, non sono ancora note la durata dell’esposizione e la pressione parziale di tali gas a livello alveolare necessarie per raggiungere nell’uomo una effettiva tossicità neurologica a seguito di esposizione cronica; né è stato ancora stabilito il ruolo di un eventuale sinergismo tra gas differenti.
h) Manifestazioni neurologiche da radiazioni ionizzanti Terapia radiante I danni neurologici causati dalla terapia radiante possono presentarsi acutamente o con un ritardo di settimane, mesi, o anni e possono riguardare l’encefalo, il midollo spinale o i nervi periferici. La probabilità che l’irradiazione danneggi il sistema nervoso dipende da vari fattori, tra i quali vanno ricordati: a) la quantità totale di radiazioni somministrata al tessuto nervoso; b) la quantità somministrata durante ogni singola applicazione (è noto, infatti, che dosi più elevate per trattamento singolo danneggiano maggiormente le strutture normali, interferen-
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migliorativo (accelerato da una eventuale terapia steroidea) e questo fornisce un elemento utile per distinguere l’encefalopatia da radiazioni da una recidiva della neoplasia. Nei soggetti (specialemente bambini) sottoposti a terapia radiante preventiva per una forma di leucemia, l’encefalopatia ritardata precoce si presenta con sonnolenza (la cosiddetta “sindrome letargica da raggi”), cefalea, nausea e talora febbre. L’EEG mostra rallentamenti diffusi in assenza di alterazioni focali. Anche questa sindrome presenta una evoluzione migliorativa, accelerata dai corticosteroidi. Una terza forma (rara) di encefalopatia ritardata precoce colpisce il tronco encefalico e si può manifestare, dopo irradiazione di strutture della fossa posteriore, con atassia, disartria, diplopia e nistagmo. La maggior parte dei pazienti migliora nel giro di 6-8 settimane, ma sono descritti alcuni casi con evoluzione sfavorevole per comparsa di turbe dello stato di coscienza e successivo decesso. La encefalopatia (radionecrosi) ritardata tardiva compare abitualmente uno o due anni dopo la terapia radiante, causando la comparsa di segni di ipertensione endocranica e di segni focali dipendenti dalla sede ed inducendo il sospetto clinico di una lesione neoplastica (recidiva se il trattamento radiante era stato prescritto per un tumore cerebrale). La TC cerebrale raramente è in grado di differenziare le lesioni da radionecrosi dalle lesioni neoplastiche (entrambe ipodense, spesso con contrast enhancement). La RM può essere più sensibile, ma in alcuni casi è inevitabile ricorrere ad una biopsia cerebrale. Recentemente è stato suggerito che la PET possa distinguere la radionecrosi dalla recidiva neoplastica, dimostrando la prima riduzione e la seconda aumento della captazione di glucosio. Una atrofia cerebrale a lenta evoluzione può, infine, comparire in soggetti sottoposti a panirradiazione encefalica, rimanendo asintomatica o associandosi ad un certo grado di deterioramento cognitivo. L’encefalo dei bambini è particolarmente sensibile al danno da radiazioni ionizzanti ed il rischio della comparsa gradua-
le negli anni di un certo grado di ritardo mentale è piuttosto elevato. MIDOLLO SPINALE. - La terapia radiante può causare una mielopatia ritardata precoce o tardiva. La mielopatia ritardata precoce è comune nei pazienti sottoposti a radioterapia del collo e determina la comparsa, dopo alcune settimane, di un segno di Lhermitte che viene attribuito ad un danno demielinizzante dei cordoni posteriori. Tale sintomo regredisce spontaneamente e non rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di una mielopatia tardiva. La mielopatia ritardata tardiva si può presentare in due forme: la prima, più frequente, è una mielopatia trasversa progressiva che determina inizialmente una sindrome di Brown-Sequard per poi progredire verso una paraparesi o una tetraparesi nel giro di alcuni mesi o anni. La maggior parte dei casi si stabilizza con deficit di forza di grado lieve o moderato, ma in alcuni pazienti il deficit può progredire sino ad una paraplegia. Non vi sono trattamenti specifici ma la terapia steroidea può rallentare il decorso. Sul piano neuropatologico, la lesione midollare è caratterizzata da aree di necrosi che interessano prevalentemente la sostanza bianca profonda dei cordoni posteriori e superficiale dei cordoni laterali. La RM dimostra una lesione iperintensa in T2 senza effetto massa e permette la diagnosi differenziale con altre cause di mielopatia, in particolare con un tumore intramidollare. La seconda forma, più rara, di mielopatia ritardata coinvolge i motoneuroni delle corna anteriori. Fa seguito abitualmente ad una irradiazione pelvica e si manifesta, dopo una latenza molto variabile (da 3 mesi a 14 anni), con la comparsa subacuta di una paraparesi flaccida con amiotrofia, ipotonia, areflessia e fascicolazioni. Non sono presenti disturbi sensitivi o sfinterici. La RM e l’esame del liquor non sono significativi, mentre lo studio elettrofisiologico dimostra diffusi segni di denervazione agli arti inferiori, con velocità di condu-
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zione motoria e sensitiva normali. La diagnosi differenziale con una malattia del secondo motoneurone è particolarmente difficile e, talora, è suggerita solo dal decorso clinico. Nella forma da radiazioni ionizzanti, infatti, il deficit tende a stabilizzarsi con conservazione della capacità di deambulare: nei casi più sfortunati, che evolvono verso una paraplegia flaccida, non si osserva, peraltro, diffusione dei disturbi agli arti superiori o alla muscolatura bulbare. NERVI CRANICI E SPINALI. - (Tab. 32.5) Una irradiazione panencefalica o oculare può causare una sindrome da secchezza congiuntivale o un deficit visivo da cause oculari (glaucoma, cataratta, retinopatia) o neuropatia ottica. Que-
Tabella 32.5 - Lesioni da radiazioni ionizzanti dei nervi cranici e spinali e degli organi sensoriali. Nervi cranici Sistema visivo Retinopatia Neuropatia ottica Occlusione arteria centrale retinica Gusto ed olfatto Compromissione acuta transitoria durante radioterapia Anosmia tardiva permanente (rara) Udito e sistema vestibolare Otite da radiazioni ionizzanti (precoce) Danno vascolare cocleare (tardivo) Neuropatia (vascolare?) dell’VIII nervo cranico (tardiva) Nervi cranici inferiori Neuropatia del XII (fibrosi tardiva) Plessopatie brachiali Acuta (?) Ritardata precoce (rara) Ritardata tardiva (fibrosi) Plessopatia tardiva lombosacrale Neuropatia tardiva del nervo sciatico
st’ultima si manifesta, dopo una latenza compresa tra 7 e 26 mesi, con un deficit visivo progressivo mono o binoculare. Inizialmente si possono osservare edema papillare ed emorragie retiniche, più tardivamente una atrofia della papilla ottica. La neuropatia ottica da radiazioni può essere prevenuta con opportune schermature del globo oculare. Una compromissione tardiva permanente di gusto e olfatto dopo terapia radiante per neoplasie frontali è stata descritta solo raramente, mentre sono frequenti transitori disturbi gustativi o olfattivi nel corso delle applicazioni. Una progressiva compromissione dell’udito può seguire la terapia radiante applicata per neoplasie cerebrali o del capo e del collo e può essere di tipo conduttivo per la comparsa, con una latenza di poche settimane, di una otite media fibrotica, o di tipo neurosensoriale per una compromissione più tardiva, su base vascolare, della coclea o del VIII nervo cranico. Una neuropatia dei nervi cranici più caudali, in particolare dell’ipoglosso, può essere l’effetto tardivo di una irradiazione del collo e sembra causata da una fibrosi da radiazioni ionizzanti. Il disturbo può coinvolgere anche il nervo vago, il nervo laringeo ricorrente e le fibre simpatiche cervicali (con comparsa di una sindrome di Bernard-Horner). Alcuni autori hanno descritto sintomi sensitivi transitori attribuiti ad un danno acuto da irradiazione delle strutture periferiche. Abitualmente, tuttavia, queste ultime, in particolare il plesso brachiale, vengono interessate solo tardivamente, dopo una latenza di alcuni mesi o addirittura di anni. La plessopatia brachiale ritardata precoce si caratterizza per la comparsa di parestesie alla mano e all’avambraccio e di ipostenia ed amiotrofia nei territori di distribuzione delle radici da C6 a T1. I deficit neurologici in genere migliorano spontaneamente. La plessopatia ritardata tardiva compare a distanza di un anno o più da una terapia radiante con una dose totale superiore a 6000 rad, determinando una ipostenia che interessa inizialmente
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i muscoli della spalla, il bicipite ed il muscolo brachioradiale, associandosi a parestesie ed ipoestesia superficiale in corrispondenza delle prime due dita e a linfedema con indurimento dei tessuti molli sovraclaveari. Spesso il deficit stenico e sensitivo si estendono interessando in modo grave tutto l’arto superiore. La principale diagnosi differenziale riguarda una recidiva neoplastica a livello del plesso brachiale. In tal caso, una TC o RM mirate possono una massa comprimente il plesso. Più spesso, però, rivelano una diffusa perdita dei normali piani di clivaggio dei tessuti della fossa sovraclaveare, compatibile sia con una fibrosi post-irradiazione che con una neoplasia infiltrante. In questi casi per la diagnosi differenziale può richiedere una esplorazione chirurgica con prelievi bioptici. Sul piano clinico depongono per una plessopatia da radiazioni l’assenza di dolore e l’esordio prossimale dell’ipostenia. Mancano terapie efficaci. La plessopatia tardiva lombosacrale è assai più rara e si caratterizza per la comparsa di un deficit di forza ad uno o talora entrambi gli arti inferiori, prevalente a livello distale ed associato a disturbi sensitivi, che evolve lentamente nel giro di alcuni anni. Anche in questo caso il dolore è abitualmente assente o assai lieve. Le difficoltà diagnostiche differenziali sono sovrapponibili a quelle descritte per la plessopatia brachiale. È stata infine descritta una neuropatia isolata del nervo sciatico successiva a radioterapia intraoperatoria utilizzata per neoplasie pelviche.
Malattie carenziali Oggi le sindromi neurologiche carenziali sono meno frequenti che in passato, poiché l’alimentazione quotidiana soddisfa abbondantemente il modesto fabbisogno giornaliero vitaminico, ma esistono particolari condizioni patologiche che possono provocare sindromi carenziali, per malassorbimento o inattivazione dei principi vitaminici.
Carenza di Vitamina B12 Sclerosi combinata subacuta del midollo.- È un quadro clinico (in passato usualmente associato ad anemia perniciosa), denominato anche «mielosi funicolare», dovuto alla degenerazione dei cordoni posteriori e laterali del midollo spinale e caratterizzato da segni di lesione piramidale associati a disturbi delle sensibilità profonde, in corrispondenza degli arti inferiori. La sua associazione con l’anemia perniciosa fu evidenziata da Lichteim nel 1887; nel 1948 venne isolata nel fegato la vitamina B12, e la malattia venne attribuita alla sua carenza nel 1958. NEUROPATOLOGIA. – Si osserva una degenerazione delle guaine mieliniche, prevalentemente localizzata a livello del midollo spinale medio-toracico, con tendenza alla diffusione ad altri segmenti, che può determinare rigonfiamenti e vacuolizzazione dei cordoni posteriori e, successivamente, dei cordoni laterali. In rari casi è rilevabile anche una degenerazione spongiosa dei nervi ottici, del chiasma e della sostanza bianca emisferica. È possibile una contemporanea demielinizzazione dei nervi periferici, in particolare della porzione più distale delle fibre sensitive. EZIOPATOGENESI. – La carenza di apporto di vitamina B12 è eccezionale ed anche nei soggetti vegetariani è molto rara (i legumi infatti contengono Vitamina B12), poichè il fabbisogno giornaliero è molto basso (circa 5 microgrammi), e l’entità della scorta vitaminica dell’organismo piuttosto rilevante (da 1 a 10 milligrammi). Più frequentemente, invece, si osserva una compromissione dell’assorbimento intestinale, a livello dell’ileo, per a) carenza, genetica o acquisita, di una particolare glicoproteina, il «fattore intrinseco di Castle», prodotta dalle cellule parietali gastriche ed indispensabile per l’assorbimento della vitamina B12 (Tab. 32.6), b) per una sindrome da malassorbimento (Tab. 32.7),
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1325 Tabella 32.6 – Patologie che determinano un ridotto assorbimento di B12. – – – – – –
Antivitamine: anticorpi anti-fattore intrinseco di Castle; Resezione gastrica parziale o totale: riduzione del fattore intrinseco di Castle; Resezione ileale: riduzione della elettiva superficie di assorbimento della B12; Aumentato fabbisogno di B12: gravidanza e tumori; Alterato microbismo intestinale: furto di B12 da parte di batteri; Presenza di Diphyllobothrium latum: parassita che attua furto di B12.
c) a causa di farmaci in grado di interferire negativamente con l’assorbimento della B12 (Tab. 32.8). La modalità con cui la carenza di vitamina B12 determina il danno del sistema nervoso è tuttora discussa. Le reazioni enzimatiche di cui la Vitamina B12 rappresenta un cofattore indispensabile sono: a) la formazione di succinil-coA (catalizzata dalla metil-malonil-coA mutasi), che avvia le reazioni indispensabili per la sintesi di acidi grassi. In caso di carenza di B12 si ha formazio-
ne di acidi grassi anomali nella porzione fosfatidica di fosfatilcolina, con conseguente difetto nella sintesi delle membrane cellulari, e delle guaine mieliniche in particolare. Va ricordato, tuttavia, che anche se il rilievo di un’elevata eliminazione di acido malonico viene considerato come un indice affidabile di una carenza di B12, esistono casi in cui la carenza congenita di metil-malonil-mutasi non è causa di disturbi neurologici; b) la reazione di demetilazione dell’acido tetrametil-idrofolico (Fig. 32.1), per la formazione di metionina da omocisteina: in particolare, la carenza di B12 determinerebbe sia carenza di acido tetraidrofolico, «intrappolato» sotto forma di metiltetraidrofolato, che di metionina, indispensabile per la sintesi di fosfatidilcolina, ritenuto fattore protettivo per le membrane cellulari e, in particolare, per le guaine mieliniche. Questa ultima ipotesi è avvalorata dal fatto che l’intossicazione da ossido nitroso, un inibitori della sintesi di metionina, causa polineuropatia ed una sofferenza dei cordoni laterali e posteriori del midollo spinale. L’associazione con l’anemia megaloblastica, oggi di più raro riscontro, non è facilmente interpretabile. L’anemia potrebbe non dipen-
Tabella 32.7 - Sindromi da malassorbimento.
Malassorbimento
Gastrogeno
Pancreatogeno
Epatogeno
Enterogeno
Gastrectomia
Pancreatite cronica
Ostruzione biliare
M. celiaco
Atrofia mucosa
Tumore
Atresia biliare
Steatorrea idiopatica
Stenosi pilorica
Pancreatectomia
Cirrosi
Sprue
Tumore
Mucoviscidosi
Resezione ileale M. di Wipple Amiloidosi Sclerodermia Enterite regionale
1326 Malattie del sistema nervoso Tabella 32.8 – Farmaci che inibiscono l’assorbimento di B12. Farmaco
Uso
Disturbo
Paraminosalicilico
Tubercolosi
Assorbimento ileale
Neomicina
Antibiotico
Assorbimento intestinale
Colchicina
Citostatico
Donatori di K
Formazione di KCl
Acidificaz. dell’ileo
Metformina
Antidiabetico
Assorbimento intestinale
“
”
Vinblastina
Citostatico
“
”
EDTA
Abbassamento calcemia
“
”
Fenobarbitale
Antiepilettico
dere unicamente dalla carenza vitaminica, ma essere strettamente collegata con la gastrite atrofica, ed essere, come questa, di origine autoimmune. SINTOMATOLOGIA. – I segni clinici sono inizialmente rappresentati da parestesie ai quattro arti, in assenza di segni neurologici obiettivi e, più raramente, da disturbi visivi (in particolare scotoma centrale bilaterale). Successivamente compaiono alterazioni delle sensibilità profonde (prima fra tutte, in ordine di tempo, la sensibilità vibratoria) con atassia sensitiva e quindi segni di compromissione motoria rappresentati
Disturbo metabol. acido folico
da una paraparesi o da una tetraparesi spastica, configurando, così in fase conclamata il classico quadro della «sclerosi combinata». È possibile, ma rara, (4-5% dei casi) la sovrapposizione tardiva di una polineuropatia mista. Da segnalare, in ultimo, la possibile comparsa di una sindrome psicorganica, all’esordio con sintomi simil-depressivi e successiva evoluzione verso una sindrome demenziale. Possono coesistere sintomi da malassorbimento o, nel 15 % dei casi, anemia perniciosa da gastrite atrofica, di origine autoimmune, con compromissione della produzione di fattore intrinseco di Castle.
Fig. 32.1 - B12: vie metaboliche.
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1327
DIAGNOSI. – Il dosaggio ematico della vitamina B12 si effettua con metodo radioimmunologico. Il rilievo di una significativa riduzione, tuttavia, è possibile solo tardivamente, in considerazione delle elevate scorte dell’organismo, che giustificano un normale livello ematico, anche dopo svariati anni dall’inizio della carenza; un livello plasmatico inferiore a 100 picogrammi/ml risulta, comunque, probativo per una deficienza di vitamina B12. La carenza intracellulare è, invece, documentata dalla valutazione serica dell’acido metil-malonico (livelli superiori a 270 nanomoli/L). TERAPIA. – Il trattamento consiste nella somministrazione parenterale di vit. B12: almeno 1000 microgrammi/die inizialmente, e quindi 1000 microgrammi al mese fino alla completa risoluzione dei sintomi. È importante ricordare che la somministrazione di acido folico, determinando un ulteriore consumo di B12 (già deficitaria) può peggiorare la sintomatologia neurologica (Fig. 32.1). Carenza di vitamina E L’organismo è fornito di ricchi depositi di vitamina E, e solo una carenza di assorbimento in atto da almeno 15-20 anni, può essere clinicamente manifesta. EZIOPATOGENESI. – Trattandosi di una vitamina liposolubile, le cause di carenza coincidono con un malassorbimento dei grassi (Tabella 32.9), oltre alla rara possibilità di un deficit genetico selettivo dell’assorbimento. L’origine del danno neurologico è verosimilmente connessa al potere antiossidante della Vitamina E, che svolgerebbe un ruolo protettivo nei confronti degli ossidanti e dei radicali liberi, con stabilizzazione degli acidi grassi poliinsaturi e conseguente stabilizzazione dei lipidi di membrana. NEUROPATOLOGIA. – Nei rari casi giunti al riscontro autoptico è stata osservata una degenerazione delle grosse fibre mieliniche dei nervi periferici, delle radici dorsali e dei fasci spinocerebellari.
Tabella 32.9 – Carenza di vit. E: cause. Malattie Gastrointestinali: Atresia biliare, colostasi cronica Resezione intestinale Malattia di Crohn Insufficienza pancreatica Altre cause di steatorrea Morbo celiaco Altre Malattie: Sindrome di Bassen-Kornzweig (=difettosa sintesi di chilomicroni) Malassorbimento selettivo di Vit. E
SINTOMATOLOGIA. – Consiste in una atassia cerebellare, spesso associata a segni di polineuropatia prevalentemente sensitiva. In circa metà dei casi può coesistere una paralisi oculare estrinseca e, in meno della metà, una sindrome piramidale. DIAGNOSI. – Non è particolarmente difficile, qualora coesistano i caratteristici aspetti clinici ed una sindrome da malassorbimento, con basso livello plasmatico di vitamina E (inferiore a 5 mg/l); quest’ultimo deve essere comunque rapportato alla quantità totale di lipidi plasmatici, di colesterolo e di lipoproteine a bassa densità. TERAPIA. – Somministrazione di 10 mg/die Vit. E per almeno 30 giorni. Carenza di acido Nicotinico - Pellagra EZIOPATOGENESI. – Un adeguato apporto giornaliero di acido nicotinico o niacina (pari a circa 6 mg/ kcal), rappresenta spesso un problema nelle popolazioni sottosviluppate, con particolari abitudini alimentari (consumo prevalente di grano, assai povero in niacina, con rischio di un deficit vitaminico; sono possibili, infine, casi di avvelenamento da un topicida, il «vacor», antagonista della niacina. L’acido nicotinico nell’organismo è convertito in nicotinamide adenin-dinucleotide o
1328 Malattie del sistema nervoso
nicotinamide adenin-dinucleotide fosfato, coenzimi implicati nelle reazioni di ossido-riduzione e, quindi, essenziali per la respirazione cellulare. NEUROPATOLOGIA. – I neuroni delle grandi cellule piramidali della corteccia motoria, e, in minor grado, le grosse cellule dei gangli della base, le cellule dei nuclei motori dei nervi cranici, i neuroni del nucleo dentato e i motoneuroni spinali appaiono rigonfi, tondeggianti, con nuclei eccentrici e perdita delle zolle di Nissl. Sono rilevabili anche lesioni della sostanza bianca midollare con degenerazione simmetrica dei cordoni posteriori ed, in minor misura, dei tratti corticospinali. Esistono pochi dati sui nervi periferici ove le alterazioni sarebbero paraltro sovrapponibili a quelle rilevate nella polineuropatia alcolica. SINTOMATOLOGIA. – Il deficit di acido nicotinico causa la pellagra, con compromissione contemporanea di cute, intestino e sistema nervoso. La manifestazione neurologica più precoce e frequente consiste in una sindrome psicorganica, tipo psicosi confusionale acuta o, più raramente, in una sindrome neurasteniforme; possono coesistere segni di compromissione midollare (tetraparesi spastica) ed atassia cerebellare; poco comune è il riscontro di una polineuropatia. DIAGNOSI. – Le premesse anamnestiche di un inadeguato apporto dietetico o di alcolismo o di una sindrome da malassorbimento, oltre alla presenza dei sintomi cutanei (eruzione eritematosa simmetrica al dorso delle mani) e gastrointestinali (diarrea), avvalorano il sospetto diagnostico laddove il quadro neurologico sia compatibile. La somministrazione parenterale di 100 mg di acido nicotinico provoca una regressione assai precoce della sintomatologia psicorganica, confermando la diagnosi. TERAPIA. – Dopo una singola dose parenterale di 100 mg di nicotinamide, vanno somministrati, per almeno 1 mese, 15-30 mg/die per bocca.
Carenza di vitamina B6 La vitamina B6 si trova in natura sotto forma di piridossina, piridossamina e piridossale e nell’organismo umano, in forma attiva (piridossalfosfato), come coenzima delle decarbossilasi e delle transaminasi. EZIOPATOGENESI. – Nell’adulto la carenza da ridotto apporto di B6 è rara ed il deficit vitaminico è, per lo più, connesso all’assunzione di sostanze che inattivano la vitamina stessa come l’isoniazide, le idrazidi e la desossipiridina. La vitamina B6 è indispensabile per l’attività della glutammico-decarbossilasi; per tale motivo la sua carenza determina una riduzione nella formazione di Gaba; esiste anche, in taluni casi, una iposensibilità congenita dell’apoenzima gaba-decarbossilasi al piridossalfosfato. SINTOMATOLOGIA. – La carenza alimentare di B6 si traduce, nell’infanzia, in manifestazioni convulsive, fino allo stato di male, non controllabili dai comuni antiepilettici, ma unicamente mediante la somministrazione di B6. Alcuni bambini presentano una condizione di «dipendenza dalla B6», geneticamente determinata che richiede fabbisogni giornalieri più elevati con aumentato rischio di carenza vitaminica. La manifestazione clinica più usuale nell’adulto è una polineuropatia, inizialmente sensitiva, e solo tardivamente mista. DIAGNOSI. – Importanti sono i rilievi anamnestici relativi all’uso di farmaci che inattivano la vitamina, come l’isoniazide. La certezza diagnostica si acquisisce mediante il dosaggio plasmatico della vitamina, la cui carenza è indicata da valori inferiori a 25 nanogrammi/ml. TERAPIA. – Consiste nella somministrazione di 50 mg/die di vitamina per mesi, ricordando però che una somministrazione protratta di dosi elevate, (tra 500 mg e 2 g/die), può determinare, a sua volta, una polineuropatia sensitiva con necrosi delle cellule gangliari.
Malattie tossiche e da agenti fisici. Malattie carenziali 1329
Carenza di vitamina B1 La tiamina pirofosfato è un coenzima 1) della glicolisi, essendo indispensabile per la formazione di acetato attivo, tappa iniziale del ciclo di Krebs, 2) dello shunt dei pentosi, con produzione di un coenzima per una transchetolasi, 3) di altre reazioni di ossidoriduzione. EZIOPATOGENESI. – Il fabbisogno giornaliero, di circa 0,5 mg/1000 chilocalorie, è correlato all’apporto di zuccheri, con una massima capacità di assorbimento giornaliero di 5-10 mg; la riserva dell’intero organismo ammonta a circa 25 mg. La carenza di vitamina, quindi, si osserva solo per stati di malnutrizione marcati o per diete grossolanamente sbilanciate, per eccessiva assunzione di carboidrati e scarsa introduzione di vitamina B1. Il rischio di danni carenziali, nei nostri paesi, riguarda soprattutto gli alcolisti cronici. In taluni soggetti è possibile l’esistenza di difetti genetici ed, in particolare, di una scarsa affinità, geneticamente determinata, della vitamina per la transchetolasi. La carenza di tiamina pirofosfato è causa di (a) beriberi e (b) sindrome di Wernicke (v. pag. 1310). BERIBERI. – Si tratta di una degenerazione dei nervi periferici primitivamente assonale, con secondaria sofferenza mielinica, che determina un quadro di polineuropatia mista, prevalentemente sensitiva, ad evoluzione subacuta; la compromissione dei nervi cranici è inusuale. La maggioranza dei pazienti presenta, inoltre, segni di cardiopatia congestizia. Da segnalare la rara forma di beriberi infantile, in soggetti di età inferiore ad un anno, che sviluppano una condizione morbosa completamente diversa dal beriberi dell’adulto, essendo prevalentemente caratterizzata da deficit emodinamico cardiogeno, compromissione plurima dei nervi cranici (III, IX, X,) ed episodi accessuali tipo grande male. DIAGNOSI. – Il sospetto diagnostico si basa sui dati anamnestici (alcolismo cronico, marcata malnutrizione). Sono dirimenti la riduzione del
tasso plasmatico della B1 (inferiore a 3 microgrammi/100 ml) e l’aumento dell’attività transchetolasica delle emazie (superiore al 16% dopo somministrazione di vitamina B1 o “effetto tiaminico”). TERAPIA. – È consigliabile un iniziale carico vitaminico endovenoso di almeno 100 mg, seguito dalla somministrazione imtramuscolare, dello stesso dosaggio, per due settimane, con una dose successiva di mantenimento di 5 mg/ die. Usualmente la regressione degli eventuali sintomi cardiaci si verifica entro 24 ore, mentre i disturbi neurologici migliorano in un periodo di tempo estremamente variabile, da poche settimane ad anni. La condotta terapeutica deve prevedere inizialmente l’astensione dalla somministrazione di glucosio, che, causando un ulteriore consumo di tiamina, determina un peggioramento del quadro. Carenza di vitamina A Il deficit di vitamina A non si associa a manifestazioni neurologiche, ma provoca disturbi di interesse oculistico a causa della scarsa formazione di rodopsina (per sintesi del retinolo, forma aldeidica della vitamina, con l’opsina) con conseguente compromissione della visione notturna. Di interesse neurologico è, invece, l’intossicazione da vitamina A, per ingestione giornaliera di quantità superiori a 25.000 UI, cui consegue un quadro di ipertensione endocranica (v. pag. 608). Un livello di retinolo plasmatico superiore a 100 mg/cc ha significato diagnostico. Carenza di vitamina D EZIOPATOGENESI. – Può essere dovuta ad un deficit dietetico, ad una sindrome da malassorbimento o, soprattutto, ad una scarsa esposizione ai raggi solari responsabili, a livello cutaneo, della trasformazione fotochimica del 7-diidrocalciferolo in colicalciferolo, che a sua volta viene trasformato dall’epatocita in 25-diidrocalciferolo, forma attiva della vitamina D3.
1330 Malattie del sistema nervoso
SINTOMATOLOGIA. – È caratterizzata da una miopatia dolorosa prossimale, pressoché circoscritta agli arti inferiori. La sintomatologia neurologica può essere blanda e mascherata dalla più evidente osteomalacia. DIAGNOSI. – Il rilievo di una miopatia prossimale, confermata dall’EMG, con determinate premesse anamnestiche, può giustificare il sospetto diagnostico, senza fornirne peraltro la certezza. Assai più specifici sono i rilievi radiografici ossei, (strie di radiotrasparenza definite «pseudofratture»), e la presenza di calcemia e fosfatemia ridotte, con contestuale aumento della fosfatasi alcalina; un livello serico di 25idrossicalciferolo inferiore ai 5 ng/ml rappresenta una prova diretta e definitiva. Malnutrizione calorico-proteica Si tratta di patologie esclusive dei paesi sottosviluppati: il marasmus ed il kwashiorkor. Il primo si manifesta assai precocemente, nel corso del primo anno di vita ed è caratterizzato da una magrezza estrema e da un evidente ritardo di crescita; è determinato da un insufficiente apporto calorico. Il secondo, a insorgenza lievemente più tardiva (2°-3° anno di vita) è caratterizzato da una grave epatomegalia con ascite, ed è determinato da un deficit dell’apporto proteico. I sintomi neurologici più precoci (oltre l’80% dei casi) sono rappresentati da una grave compromissione delle funzioni intellettive, usualmente insensibile alla reintegrazione dietetica, associata a tetraparesi ipotonica ed iporeflessica, di entità tale, nel 15% dei soggetti, da impedire la deambulazione. La TC cerebrale dimostra, in oltre il 25% dei casi, un’atrofia corticale. Sindrome di Strachan Descritta per la prima volta nell’area caraibica, e nota anche come «neurite giamaicana», è stata descritta in centinaia di casi anche in altre parti del mondo.
Classicamente attribuita ad un difetto dietetico multiplo, consiste in un caratteristico insieme di sintomi rappresentati da polineuropatia prevalentemente sensitiva con atassia, ambliopia per atrofia ottica bilaterale, compromissione dell’udito, stomatoglossite e degenerazione dell’epitelio corneale. Malattia di Whipple Si tratta di una malattia che colpisce prevalentemente l’intestino tenue, nella cui genesi è stata recentemente dimostrata l’importanza di un bacillo Gram + (Tropheruma Whippely). La malattia determina una sindrome da malassorbimento, artralgie e linfoadenopatie. La presenza di segni neurologici è stata variamente valutata (tra il 6 e il 43 %) a seconda delle diverse casistiche. Essi consistono in: demenza, disturbi visivi, crisi epilettiche, mioclonie, segni piramidali e miopatia. La somministrazione di tetraciclina è seguita dalla regressione dei sintomi neurologici con possibilità di ricadute qualora il trattamento venga sospeso. Riferimenti bibliografici ASBURY A.K., MCKHANN G.M., MCDONALD W.: Diseases of Nervous System - Clinical Neurobiology. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1992. A DAMS R.D., V ICTOR M.: Principles of Neurology. McGraw-Hill, New York, 1998. BRADLEY W. G., DAROFF R. B., FENICHEL G. M., MARSDEN C.D.: Neurology in Clinical Practice. Butterword-Heinemann, Oxford, 1998. CHANG L.W., DYER R.S.: Handbook of Neurotoxicology. M. Dekker, New York, 1995. DEROUESNÈ C.: Pratique Neurologique. Flammarion Medicine-Sciences, Paris, 1981. DESCORES J., TESTUD F., FRANTZ P.: Les Urgences en Toxicologie. Maloine, Paris, 1992. GOODMAN GILMAN A., RALL T.W., NIES A.S., TAYLOR P.: The Pharmacological Basis of Therapeutics. Pergamon Press, New York, 1990. REYNOLDS E.F.: Martindale. The Extra Pharmacopoea. The pharmaceutical Press, London, 1993.
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Malattie dai nervi periferici 1333
33. Malattie dei nervi periferici Nervi cranici C. Loeb
Gli aspetti essenziali di anatomia, semeiotica, patologia dei nervi cranici sono stati trattati nel capitolo 7 pag. 185, cui si rimanda. Quadri patologici in cui si associano sintomi da lesione dei nervi cranici ad altri segni neurologici sono descritti anche in altri capitoli, e precisamente: – nervo olfattorio: capitolo sui tumori cerebrali (v. pag. 989); traumi cranici (v. pag. 867); – nervo ottico: capitolo sulle malattie demielinizzanti (v. pag. 1111); neurosifilide (v. pag. 833); tumori cerebrali (v. pag. 989). Per ulteriori particolari si rimanda ai trattati di oculistica; – nervi oculomotori: capitolo sui traumi cranici (v. pag. 867); tumori cerebrali (v. pag. 989), aneurismi intracranici (v. pag. 965); encefalopatie infiammatorie (v. 1333); neuropatie diabetiche (v. pag. 1376); – nervo trigemino: capitolo sui tumori cerebrali (v. pag. 989), aneurismi intracranici (v. pag. 965); malattie cerebro-vascolari in territorio vertebro-basilare (v. pag. 947); siringobulbia (v. pag. 1532). La nevralgia trigeminale è trattata a pag. 1266; – nervo faciale: capitolo sui tumori cerebrali (v. pag. 989), aneurismi intracranici (v. pag. 965); malattie cerebrovascolari in territorio vertebro-basilare (v. pag. 1947); sarcoidosi (v. pag. 1698); polineuropatia di Guillain-Barré (v. pag. 1400). Qualche nota particolare sulla paralisi periferica del faciale sarà aggiunta in questo capitolo; – nervo acustico-vestibolare: capitolo sulle intossicazioni del sistema nervoso (v. pag. 1383), tumori cerebrali (v. pag. 989); malattie cerebro-vascolari in territorio vertebro-basilare (v. pag. 947); malattie demielinizzanti (v. pag. 1111); – nervo glossofaringeo: capitolo sui tumori cerebrali (v. pag. 989); encefalopatie infiammatorie (v. pag. 741); malattie cerebro-vascolari in territorio vertebro-basilare (v. pag. 947); siringobulbia (v. pag. 1532); malattie demielinizzanti (v. pag. 1111); sclerosi laterale amiotrofica bulbare (v. pag. 1276). La nevralgia del glosso-faringeo è trattata a pag. 1271; – nervo vago: capitolo sulle malattie cerebro-vascolari in territorio vertebro-basilare (v. pag. 947); malformazioni vascolari (v. pag. 965); traumi cranici (v. pag. 867);
paralisi pseudobulbare (v. pag. 950); polineuropatia di Guillain-Barré (v. pag. 1400); sclerosi laterale amiotrofica (v. pag. 1273). – nervo spinale accessorio: capitolo sui traumi cranici (v. pag. 867); malattie cerebro-vascolari in territorio vertebro-basilare (v. pag. 947); – nervo ipoglosso: capitolo sui traumi cranici (v. pag. 867); malattie cerebro-vascolari in territorio vertebro-basilare (v. pag. 947); tumori cerebrali (v. pag. 989); sclerosi laterale amiotrofica (v. pag. 1273); siringobulbia (v. pag. 1532); polineuropatia di Guillain-Barré (v. pag. 1400).
Paralisi periferica del faciale (Paralisi «a frigore» o «idiopatica»; « paralisi di Bell » degli AA. anglossassoni) Paralisi o paresi, a debutto acuto, in tutto il territorio innervato dal n. faciale (superiore e inferiore), ad etiologia non conosciuta. EZIOPATOGENESI L’incidenza è tra 14 e 25 casi su 100.000 soggetti adulti, specie nella quarta, quinta e sesta decade, mentre è più rara nei bambini. L’eziologia è sconosciuta. Il diabete è per alcune casistiche una malattia di associazione abbastanza rilevante (dal 10 al 14%), e una intolleranza al glucosio sarebbe rilevata in oltre la metà dei soggetti con paralisi del faciale. L’ipertensione arteriosa si riscontrerebbe nell’8% dei casi e un’alta percentuale di soggetti con paralisi del faciale, di età superiore ai 40 anni, riporta in anamnesi ipertensione arteriosa. L’ipotesi che il freddo sia la causa responsabile è oggi da scartare, anche se nel 73% dei casi viene riferita in anamnesi una esposizione al freddo (sonno all’aperto; guida con il finestrino aperto, etc.). I pochi dati riguardanti biopsie (Kettel, 1959) ed esami autoptici dimostrano l’esistenza di un processo infiammatorio del nervo, con edema e conseguente compressione e ischemia del tronco nervoso.
1334 Malattie del sistema nervoso Circa nel 5-10% di soggetti con neuroborreliosi (v. pag. 000), si può riscontrare una neurite dei nervi cranici, ivi compreso il nervo faciale. Talora, specie in adulti giovani, si può trattare di un segno precoce di sclerosi multipla.
SINTOMATOLOGIA La paresi è talora preceduta, per qualche giorno, da un dolore localizzato alla regione auricolare (anteriormente e posteriormente all’orecchio), ed eventualmente a livello mascellare, alla nuca e alla regione occipitale. La paralisi ha un debutto acuto e improvviso e spesso sono i famigliari o i conoscenti che al mattino informano il paziente che «la bocca è storta». La paralisi è completa circa nei 2/3 dei casi e parziale nel restante terzo. La paralisi investe tutti i muscoli innervati dal faciale, sia quelli del faciale superiore che quelli del faciale inferiore (v. per la descrizione semeiotica pag. 275) (Fig. 33.1). Se la lesione è localizzata nel tratto compreso tra il poro acustico interno e il ganglio ge-
nicolato, alla paralisi faciale si associano turbe del gusto dei 2/3 anteriori della lingua, e della secrezione lacrimale e salivare (v. pag. 275). Se la lesione è nel canale del faciale a monte del ramo per lo stapedio, si osserva iperacusia, dovuta appunto a paralisi dello stapedio. Se esiste l’associazione con herpes zoster a livello del meato acustico esterno e del palato anteriore, si tratta di una sindrome di RamseyHunt (v. pag. 277). Paralisi faciale bilaterale o diplegia faciale – È piuttosto rara. In 43 casi accuratamente valutati (Keane, 1994) l’etiologia è, circa nel 50% dei casi, ascrivibile a paralisi faciale bilaterale idiopatica, con evoluzione benigna, o a sindrome di Guillain-Barré; nel 20% a tumore (intraparenchimali o meningei, linfomi), e nel restante 30%, infine, a processi infettivi (borelliosi nelle aree endemiche; soggetti affetti da sarcoidosi, circa il 10% ne è colpito; lue; mononucleosi infettiva; leucemia). ESAMI COMPLEMENTARI Potenziali di denervazione all’EMG compaiono precocemente, entro la terza settimama dal debutto. Va sottolineato che i potenziali di unità motoria, di breve durata nel normale, possono essere indistinguibili dai potenziali di fibrillazione. Poiché l’EMG di registrazione non apporta elementi utili a fini prognostici, la valutazione dell’ampiezza della risposta evocata dalla stimolazione del n. faciale alla 4°-5° giornata, rappresenta l’elemento più adatto per un giudizio prognostico. Un’ampiezza maggiore della metà del valore di controllo (o della risposta dell’altro lato) indica una buona prognosi DIAGNOSI
Fig. 33.1 - Paralisi periferica del facciale a sinistra.
La diagnosi di paralisi periferica del faciale è in genere semplice, ma non si deve dimenticare che, talora, può esser uno dei segni di altri quadri morbosi: tumore dell’angolo ponto-cere-
Malattie dai nervi periferici 1335
bellare; trauma cranico; otite; esito di intervento per mastoidite; sindrome di Melkersson (v. pag. 000); sindrome di Heerfordt (paralisi faciale con uveo-parotite). Naturalmente in questi casi, la paralisi del faciale non è o non rimane segno isolato, se non per breve tempo. PROGNOSI Circa il 70-80% dei casi va incontro a un buon recupero funzionale, anche se, talora, è necessario un certo numero di mesi. Se nel giro di 2-3 settimane inizia il ricupero, la prognosi ha alte probabilità di essere buona nel giro di alcune settimane. La presenza di iperacusia, ridotta lacrimazione, diabete, ipertensione arteriosa ed età superiore ai 60 anni, rende la prognosi più incerta. TERAPIA L’uso dei cortisonici è controverso; sembra tuttavia ragionevole utilizzarli, in particolare entro i primi due-tre giorni dal debutto, nel tentativo di ridurre l’edema e gli effetti della compressione e dell’ischemia. Si impiega prednisone 75-100 mg/die in due prese giornaliere per 5 -7 giorni. Recentemente, però, l’utilizzazione dei corticosteroidi, possibilmente entro i primi tre giorni dal debutto, a dosaggi anche più elevati viene raccomandato (Sittel et al, 2000; Ramsey et al., 2000). L’intervento chirugico di decompressione a livello del canale di Falloppio è molto discusso e, se eseguito nella 2° o 3° settimana dal debutto, non apporterebbe vantaggi (Adour e Wingerd, 1974). L’anastomosi facio-ipoglosso, l’autotrapianto del n. faciale, non comporterebbero effetti favorevoli. L’elettroterapia, anche perchè favorisce le contratture, è oggi unanimemente considerata misura terapeutica da abbandonare. La protezione dell’occhio durante il sonno o durante le uscite, e la massoterapia per mante-
nere il tono muscolare, rappresentano un utile coadiuvante in vista di una ripresa spontanea. Il massaggio deve essere condotto verso l’alto, dal mento alle labbra, dalle labbra alla parte inferiore dell’orbita e dalla regione sopracigliare alla parte superiore della fronte, dall’interno verso l’esterno. Movimenti associati e massivi dopo paralisi faciale periferica La contrazione volontaria o riflessa di un muscolo precedentemente paralizzato può produrre la contrazione di uno o più muscoli viciniori. Il fenomeno è ascritto a imperfetta rigenerazione e direzione delle fibre. Clinicamente si osservano: – movimenti associati: la chiusura degli occhi provoca il sollevamento della rima labiale; nel mostrare i denti l’occhio si chiude; – contrattura faciale: i muscoli dell’emifaccia sono parzialmente contratti; – spasmo faciale secondario: nel territorio del faciale paretico, specie se la risoluzione è parziale, si possono verificare fini contrazioni muscolari ripetitive, spesso con inizio all’orbicolare delle palpebre; – sindrome delle lacrime da coccodrillo: durante la masticazione, specie di cibi con spezie, si ha lacrimazione dall’occhio del lato già paralizzato. Spasmo faciale primitivo o idiopatico Il termine spasmo è generico e ambiguo e il suo impiego limitato, per tradizione, ad alcune specifiche condizioni tra cui lo spasmo del faciale. Si tratta di un disturbo che colpisce ambedue i sessi, ma specialmente le donne anziane (6:4) caratterizzato da contrazioni muscolari intermittenti e aritmiche nei muscoli innervati dal faciale, non precedentemente colpiti da paresi, e per questo, quindi, definito «primitivo».
1336 Malattie del sistema nervoso
EZIOPATOGENESI È oscura e viene prospettata una genesi centrale o nei nuclei del faciale dovuta, come nella paralisi primitiva, a un processo di tipo compressivo da parte dell’arteria cerebellare antero o postero-inferiore, dell’arteria vertebrale e della basilare. Anche se l’efficacia terapeutica della decompressione microvascolare è riconosciuta, altri fattori sarebbero necessari per produrre la sintomatologia e, in particolare, viene rivolta l’attenzione alla iperattività e ipereccitabilità del nucleo del nervo (Moller, 1999). Occasionalmente è stato osservato in caso di ipotiroidismo primitivo. SINTOMATOLOGIA Le contrazioni muscolari, intermittenti e di regola unilaterali (emispasmo faciale), hanno spesso inizio a livello del muscolo orbicolare delle palpebre, per poi diffondersi ai muscoli della porzione inferiore della faccia (specie il muscolo retrattore dell’angolo della bocca) e a tutta l’emifaccia. Le contrazioni persistono nel sonno. Le contrazioni sono spontanee, possono avere modalità di contrazione clonica della durata di pochi secondi o di contrazione tonica, che persiste anche per decine di secondi. Possono essere indotte dall’attività muscolare volontaria, da movimenti mimici quali ammiccare, sorridere ecc. Lo spasmo bilaterale (paraspasmo faciale) è del tutto eccezionale. La diagnosi differenziale con le discinesie faciali è agevole (v. pag. 72), ed anche le miochimie faciali, attività a tipo fascicolazioni continue possono essere distinte senza difficoltà. In qualche raro caso può essere il segno iniziale di un tumore o di una malformazione vascolare, che produce una compressione sul nervo. Si ritrova anche dopo paralisi periferica del faciale, quando la remissione è parziale.
Lo spasmo faciale non trattato è lentamente progressivo e spontaneamente non è suscettibile di modificazioni. Esami complementari. La cisternografia in RM ad alta risoluzione può individuare con una sensibilità dell’88% la compressione neurovascolare (Yamamoto et al, 2000) TERAPIA Qualche effetto benefico è stato segnalato con l’impiego della carbamazepina alla dose di 600800 mg/die, e, seppure più incertamente, del clonazepam alla dose di 4-8 mg/die. Anche il Gabapentin alla dose di 900-1600 mg/die avrebbe un buon effetto terapeutico. La tossina botulinica, iniettata localmente nei muscoli affetti, ha un’ottima azione terapeutica, ma l’iniezione deve essere ripetuta ogni tre mesi circa. L’intervento chirurgico di decompressione del nervo nel canale del faciale, non ha portato miglioramenti. Interventi di microchirurgia decompressiva del tronco nervoso, per compressione da parte dell’arteria cerebellare anteroinferiore, o dell’arteria cerebellare postero-inferiore, dell’arteria vertebrale ed anche della basilare, sono stati coronati da successo (Jannetta et al., 1977; McLaughlin et al, 1999)
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Il SNP comprende pertanto tutti i nervi cranici ad esclusione del 2° nervo cranico, estroflessione del SNC, le radici nervose spinali, i gangli della radice dorsale, i nervi spinali e le loro diramazioni o nervi periferici, i plessi, brachiale e lombosacrale, ed infine le ramificazioni periferiche del sistema nervoso vegetativo.
MOLLER A.R.: Vascular compression of cranial nerves: II: pathophysiology. Neurol Res. 21, 439-443, 1999.
Premesse anatomiche
NIELSEN V.K.: Pathophysiology of the facial spasm I-IIIII. Neurology 34, 418-426; 427-431, 891-897, 1984.
I nervi spinali, da cui si formano i nervi periferici veri e propri, originano a livello del forame intervertebrale dalla fusione delle radici anteriori motorie, con le radici posteriori sensitive. Le radici emergono dal midollo spinale e, circondate nel primo tratto dalla pia madre, decorrono nello spazio subaracnoideo accompagnate fino al forame intervertebrale dall’aracnoide; attraversano quindi la dura madre, che si continua nel connettivo che circonda le radici stesse o perinevrio, e si impegnano nel forame intervertebrale all’uscita del quale si riuniscono a formare il nervo spinale. Le radici posteriori, prima di riunirsi alle radici anteriori, presentano un rigonfiamento, il ganglio spinale o della radice dorsale (Fig. 33.2), nel quale sono contenuti i pirenofori ed il primo tratto dei prolungamenti centrifughi e centripeti del neurone sensitivo a T o primo neurone sensitivo. I nervi spinali emettono subito un ramo ricorrente o meningeo, che rientra nello speco per innervare le meningi, e quindi si dividono in un ramo anteriore ed un ramo posteriore (Fig. 33.2). I rami anteriori provvedono alla innervazione motoria e sensitiva degli arti e del tron-
RAMSEY M.J., ET AL.: Corticosteroid treatment for idiopathic facial nerve paralysis: a meta-analysis. Laryngoscope 110, 335-341, 2000. SANTOS-LASAOSA S. ET AL.: Peripheral facial paralysis : etiology, diagnosis and treatment. Rev. Neurol. 30, 10481053, 2000. SITTEL C. ET AL.: Bell’s palsy: a 10-year experience with antiphlogistic-rheologic infusion therapy. Am. J. Otol. 21, 425-432, 2000. WOLF S.M., WAGNER J.H., DAVIDSON S., FORSYTHE A.: Treatment of Bell’s palsy with prednisolone: a prospective, randomized study. Neurology 28, 158-163, 1978. YAMAMOTO S., RYU H., TANAKA T., TAKEHARA Y.: Usefulness of high-resolution magnatic resonance cisternography in patients with hemifacial spasa. Acta Otolaryngol. Suppl. 542, 54-57, 2000.
Nervi spinali G.L. Mancardi, A. Schenone
Il Sistema Nervoso Periferico (SNP) può essere anatomicamente definito come l’insieme delle strutture nervose nelle quali i neuroni ed i loro prolungamenti periferici prendono rapporto con le cellule periferiche satelliti o cellule di Schwann. La transizione fra SNC e SNP avviene al punto di emergenza dei nervi cranici o delle radici nervose spinali dal nevrasse, ove le cellule di Schwann sono rimpiazzate dagli oligodendrociti, che svolgono la funzione di cellule satelliti nel SNC.
Fig. 33.2 - Radici spinali, ganglio dorsale, nervo spinale e sue diramazioni (modificata con permesso da R. Bairati).
1338 Malattie del sistema nervoso co, e a livello cervicale e lombosacrale formano i plessi brachiale e lombosacrale. A livello dei nervi toracici e dei primi quattro lombari, i rami anteriori emettono un ramo comunicante bianco che porta fibre vegetative pregangliari alla catena del simpatico; da questa ricevono, a tutti i livelli, rami comunicanti grigi che arricchiscono il nervo di fibre simpatiche postgangliari. I rami posteriori si distribuiscono alla regione paravertebrale, innervando così anche la muscolatura paravertebrale. Microscopicamente i nervi periferici (Fig. 33.3) sono costituiti da fascicoli separati, all’interno dei quali decorrono le fibre nervose costituite dal neurite o assone dei motoneuroni spinali, dei neuroni sensitivi del ganglio spinale e di quelli simpatici (nervi misti), avvolto dalla guaina mielinica prodotta dalle cellule di Schwann (Fig. 33.4). Alcuni nervi, cosiddetti puri, sono costituiti dalle sole componenti motoria, sensitiva o vegetativa. Tre strutture anatomiche di origine mesodermica fanno parte integrante dei nervi periferici: l’epinevrio, il perinevrio, e l’endonevrio (Fig. 33.3A). L’epinevrio è un connettivo piuttosto lasso che circonda e tiene insieme i diversi fascicoli per formare un unico tronco nervoso. All’interno dell’epinevrio sono contenute anche strutture vascolari (vasa nervorum) arteriose e venose. Il perinevrio è un connettivo che avvolge ed individua ciascun fascicolo; è costituito da cellule allungate ed appiattite strettamente connesse le une alle altre a circondare concentricamente il tessuto endonevriale.
A
B
Fig. 33.3 - Diagramma nervo periferico (modificata con permesso da Schaumburg et al.); (A), foto microscopica nervo surale a piccolo ingrandimento (100 ×) (B).
Fig. 33.4 - Nervo normale. Fibra mielinica. All’esterno della fibra si può osservare il citoplasma della cellula di Schwann (ME, Citrato di piombo e Acetato di Uranile × 30000).
L’endonevrio è costituito prevalentemente da fibroblasti e fibrille collagene che formano una trama in cui corrono le fibre nervose, ed è ricco di vasi capillari e venule. Le fibre nervose si distinguono in fibre mieliniche e fibre amieliniche, a seconda che siano dotate o no della guaina mielinica, prodotta dalle cellule di Schwann. Le fibre mieliniche, variabili in calibro da 2 a 20 micron, si caratterizzano per la presenza di un avvolgimento mielinico intorno all’assone. L’assone, prolungamento periferico del citoplasma neuronale, a causa della lunghezza talora considerevole, possiede un volume citoplasmatico assai superiore a quello del corpo cellulare. La cellula di Schwann svolge funzione di sostegno e protezione dell’assone, ma soprattutto provvede alla formazione della guaina mielinica, che riveste un ruolo fondamentale nella trasmissione dell’impulso nervoso. Diverse cellule di Schwann si dispongono l’una dopo l’altra lungo l’assone avvolgendolo e formando intorno all’assone stesso, mediante giustapposizione della propria membrana, la guaina mielinica. La guaina mielinica appare pertanto come una struttura costituita da numerose lamelle disposte concentricamente attorno all’assone e dotate di una periodicità fissa (18 nm). Un lembo residuo del citoplasma della cellula di Schwann può essere osservato nello spazio fra l’assone e l’inizio dell’avvolgimento mielinico (spazio adassonale) e all’esterno della guaina mielinica (spazio abassonale). L’arrangiamento longitudinale delle cellule di Schwann lungo il decorso dell’assone è tale che nel punto di incontro fra due cellule di Schwann consecutive si trova un piccolo spazio (1 µm), in cui l’assone è privo di mielina, denominato nodo di Ranvier (Fig. 33.5). Le fibre amieliniche, variabili in calibro fra 0,2 e 2 micron, sono disposte fra le fibre mieliniche e sono costituite dall’assone avvolto da uno o più processi del
Malattie dai nervi periferici 1339
Fig. 33.5 - Foto in microscopia ottica di singole fibre preparate con la tecnica del teasing. Nodi di Ranvier.
citoplasma schwannico. Abitualmente una singola cellula di Schwann avvolge più assoni per formare un piccolo gruppo («cluster») di fibre amieliniche.
Premesse fisiologiche Le fibre nervose periferiche svolgono due funzioni essenziali: a) trasmissione o conduzione dell’impulso nervoso, che avviene in senso centrifugo e cioè dal 2° motoneurone spinale agli effettori periferici (muscoli, ghiandole, ecc.) ed in senso centripeto dai recettori sensitivi al 1° neurone sensitivo nei gangli dorsali e di qui al SNC; b) trasporto assonale anterogrado, dal corpo cellulare alle strutture periferiche, e retrogrado, da effettori e recettori al corpo cellulare. LA CONDUZIONE NERVOSA. – La capacità di condurre l’impulso nervoso è prerogativa fondamentale della fibra nervosa. La membrana assonale agisce come una membrana semipermeabile, capace di impedire la diffusione di alcuni ioni, come i grossi anioni proteici, e di permettere, sia pure in modesta misura, il passaggio di altri, come il Na+ e il K+, la cui concentrazione viene attivamente regolata, per cui il K+ si accumula all’interno, mentre il Na+ prevale all’esterno della membrana della fibra. La diversa ripartizione degli ioni ai due lati della membrana, ha come risultato che l’interno della cellula è mantenuto ad un potenziale da -50mV a -90mV rispetto all’esterno, denominato potenziale di polarizzazione o di riposo. La stimolazione locale della fibra modifica la permeabilità della membrana agli ioni Na+, che penetrano rapidamente all’interno della fibra (circa in 0,5 msec), veicolando un numero di cariche positive tale da variare la polarizzazione della membrana e da invertire il potenziale di riposo. Si verifica così una depolarizzazione, cioè l’inversione di polarità di membrana, con positività all’in-
terno, e la nascita del potenziale di azione. Immediatamente dopo, si realizza un flusso inverso di K+ che, unitamente ad un’inattivazione della permeabilità al Na+, ristabilisce in circa 5 msec il potenziale di riposo; successivamente interviene una pompa metabolica, la pompa sodio-potassio, che ristabilisce attivamente la normalità dei gradienti chimici, riportando quindi lentamente Na+ all’esterno e K+ all’interno. La trasmissione dell’impulso nervoso è dovuta alla propagazione del potenziale di azione lungo la fibra nervosa, fenomeno che si basa su un meccanismo di autoeccitazione grazie al quale il punto della membrana in cui si verifica il potenziale di azione depolarizza il segmento adiacente ancora a riposo. Questo meccanismo generale di propagazione dell’impulso nervoso si applica alle fibre amieliniche, ove il potenziale d’azione viaggia ad una velocità proporzionale al diametro dell’assone. Nelle fibre mieliniche, invece, i circuiti locali e la diffusione dell’impulso nervoso vengono modificati dalla presenza, a livello internodale, dell’avvolgimento mielinico. Il processo di autoeccitazione e l’inversione di polarizzazione che caratterizza il potenziale di azione si verificano solo a livello dei nodi di Ranvier, ove la fibra, per l’interruzione della guaina mielinica, offre una minore resistenza. L’impulso «salta» così da un nodo all’altro, mentre l’internodo si comporta in modo del tutto passivo; si realizza così la «conduzione saltatoria». Tale modalità di diffusione dell’impulso aumenta notevolmente la velocità di conduzione nelle fibre mieliniche rispetto alle amieliniche. Un elettrodo posto sulla fibra registra il passaggio dell’impulso come una breve variazione di potenziale. Nei tronchi nervosi, ove sono contenute fibre di diverso calibro e diversa eccitabilità, il potenziale d’azione del nervo aumenta di ampiezza aumentando l’intensità di stimolazione, parallelamente all’attivazione di un numero sempre maggiore di fibre. Inoltre, ad una certa distanza dal punto stimolato, il potenziale appare costituito da differenti deflessioni, corrispondenti a gruppi di fibre che differiscono per diametro e velocità di conduzione. Sulla base delle caratteristiche anatomiche ed elettrofisiologiche le fibre nervose si possono suddividere in tre gruppi A, B e C (Tab. 3.2 a pag. 89). TRASPORTO ASSONALE. – Un flusso di sostanze nutritizie, molecole strutturali e fattori trofici, viaggia dal corpo cellulare alle estremità più distali dei prolungamenti neuronali periferici per consentire alla cellula nervosa di inviare impulsi, liberare neurotrasmettitori e contribuire al trofismo dei tessuti bersaglio. A questa forma di trasporto assonale anterogrado si aggiunge un flusso retrogrado preposto al trasporto centripeto di fattori neurotrofici, il più delle volte prodotti dalle stesse strutture bersaglio.
1340 Malattie del sistema nervoso In base alla velocità del trasporto, il flusso assonale anterogrado si divide in flusso rapido, intermedio e lento. Il flusso rapido viaggia a 400 mm/die e convoglia proteine e lipidi di membrana, neurotrasmettitori come acetilcolina, norepinefrina, serotonina, ecc., ed enzimi quali l’acetilcolinesterasi o la dopamina beta idrossilasi. Il flusso intermedio ha una velocità compresa fra 40 e 200 mm/die ed è devoluto al trasporto di proteine di membrana e componenti mitocondriali. Il flusso lento, compreso fra 1 e 8 mm/die convoglia proteine citoscheletriche (actina, miosina, neurofilamenti, alfa e beta tubulina), calmodulina ed enzimi glicolitici. Il flusso assonale retrogrado è preposto al trasporto dalla periferia al corpo cellulare, di molecole neurotrofiche (fattori neurotrofici) prodotte dalle strutture bersaglio. I fattori neurotrofici o neurotrofine definite come «macromolecole polipeptidiche, solubili, a prevalente distribuzione extracellulare, che influenzano proliferazione, crescita e differenziazione di selezionate popolazioni neuronali, attraverso un meccanismo di interazione con recettori specifici», vengono prodotte dai tessuti bersaglio (ad es. il muscolo), captati dall’assone, internalizzati e trasportati in senso retrogrado verso il corpo cellulare ove esplicano la loro azione (Windebank, 1993). Le neurotrofine note sono il «nerve growth factor» (NGF) o fattore di crescita nervosa, il «brain derived neurotrophic factor» (BDNF) o fattore neurotrofico di derivazione cerebrale, la neurotrofina 3 (NT-3) e la neurotrofina 4/5 (NT-4/5). Ciascuno di questi fattori agisce su popolazioni neuronali selezionate, attraverso un meccanismo mediato da molecole recettoriali specifiche a bassa e ad alta affinità di legame. Il recettore a bassa affinità, anche conosciuto con il nome di p75 per il suo peso molecolare di 75,000 dalton, lega con eguale affinità le diverse neurotrofine e sembra avere la funzione di concentrarle sulla superficie delle cellule che le hanno prodotte, per presentarle in questo modo agli assoni e ai neuroni stessi. Il recettore ad alta affinità appartiene alla famiglia delle tirosin-chinasi (trk A, B, C che reagiscono rispettivamente con NGF, BDNF e NT-3) ed è ritenuto il vero mediatore della trasduzione del messaggio neurotrofico all’interno del neurone bersaglio. L’NGF agisce prevalentemente sui neuroni colinergici dei nuclei basali ventrali, sui neuroni del SNA e su un sottogruppo di neuroni sensitivi gangliari; il BDNF agisce sui motoneuroni spinali, i neuroni dopaminergici della sostanza nera ed un sottogruppo dei neuroni sensitivi dei gangli dorsali; NT-3 favorisce il trofismo dei neuroni del locus coeruleus, dei neuroni colinergici dei nuclei cortico-basali e di un sottogruppo di neuroni sensitivi dei gangli dorsali; NT-4/5 esplica più o meno le stesse azioni del BDNF. Da quanto illustrato si desume che la continuità dell’assone è condizione essenziale per il funzionamento
della fibra nervosa, ed ogni alterazione della continuità della fibra si riflette non solo sulla capacità di condurre l’impulso nervoso, ma anche sulla sua funzione di sostegno trofico sia del proprio corpo cellulare che delle strutture bersaglio. D’altra parte, il funzionamento delle fibre nervose dipende anche dalle cellule di sostegno cioè dalle cellule di Schwann, e dalla loro capacità di formare l’avvolgimento mielinico. Infatti, oltre a fornire una protezione meccanica all’assone, le cellule di Schwann sono in grado di sintetizzare proteine, necessarie alla sopravvivenza assonale (fattori neurotrofici), contribuiscono a fornire localmente l’energia necessaria per gli scambi ionici (alla base della conduzione dell’impulso nervoso) e sono indispensabili, in quanto produttrici della guaina mielinica, per la conduzione saltatoria. Le strutture di derivazione mesodermica cioè l’epinevrio, il perinevrio e l’endonevrio fungono da sostegno delle strutture nervose vere e proprie e, attraverso la loro ricca vascolarizzazione, forniscono l’apporto ematico necessario. Una lesione traumatica o infiammatoria di tali formazioni si ripercuote pertanto sul funzionamento delle fibre, sia per danno diretto che per sofferenza ischemica.
Patologia del Sistema Nervoso Periferico Le lesioni del SNP possono essere classificate nei seguenti quattro aspetti elementari: a) degenerazione neuronale primitiva o neuronopatia, b) degenerazione walleriana c) degenerazione o assonopatia, detta anche atrofia assonale, d) demielinizzazione segmentale. DEGENERAZIONE NEURONALE PRIMITIVA O NEURONOPATIA. – Si intende la degenerazione del corpo della cellula nervosa e la conseguente sofferenza dei prolungamenti periferici e centrali (Fig. 33.6A). Possono essere colpiti sia il secondo motoneurone (nelle corna anteriori) che il primo neurone sensitivo (nel ganglio dorsale). Sebbene le malattie da degenerazione delle cellule delle corna anteriori, inquadrate nell’ambito delle atrofie muscolari spinali o delle malattie del secondo motoneurone, siano nosograficamente separate dalle neuropatie periferiche, esistono alcuni processi patologici che, pur coinvolgendo principalmente il pirenoforo del secondo motoneurone, si possono classificare come neuropatie periferiche (ad esempio, le neuropatie ereditarie motorie). Le neuropatie sensitive da danno primitivo del neurone sensitivo periferico sono rappresentate dalle forme paraneoplastiche, dalle neuropatie in corso di malattia di Sjögren, dalla neuropatia della malattia di Fabry e da alcune neuropatie tossiche (isoniazide, vitamina B6). DEGENERAZIONE WALLERIANA. – Si intendono fenomeni degenerativi dell’assone e della mielina, che si svilup-
Malattie dai nervi periferici 1341
Fig. 33.6 - Lesioni del SNP: A) degenerazione neuronale primitiva o neuronopatia (ad es., da insulto tossico); B) degenerazione walleriana (da lesione traumatica); C) assonopatia distale, denominata anche degenerazione o atrofia assonale; D) demielinizzazione segmentale e rimielinizzazione.
pano entro 48 ore dalla completa sezione dell’assone, distalmente alla sede di lesione (Fig. 33. 6B); la guaina mielinica si segmenta in ovoidi che diventano via via più piccoli e maggiormente separati gli uni dagli altri, l’assone si assottiglia e si frammenta fino a scomparire (Fig. 33.7). Immediatamente dopo la transezione si verifica una perdita della funzione motoria e sensitiva, distribuita nel territorio di innervazione del tronco o dei tronchi nervosi interessati. Dopo 3-9 giorni il nervo diventa elettricamente ineccitabile e la conduzione nervosa si arresta. I potenziali evocati motori decrescono in ampiezza fra il terzo ed il quinto giorno postlesionali e diventano inevocabili fra il settimo ed il nono giorno dopo il danno del nervo. La scomparsa dei potenziali evocati sensitivi avviene con un ritardo di 2-3 giorni rispetto a quelli motori. L’elettromiografia mostra segni di denervazione dopo 10-14 giorni dalla lesione nervosa. Si verificano anche alterazioni morfologiche del pirenoforo, definite “cromatolisi centrale”, e riduzione di calibro del tratto prossimale dell’assone (atrofia assona-
le). Distalmente alla sede di lesione, le cellule di Schwann iniziano a proliferare formando le cosiddette “bande di Büngner” che costituiscono la base della rigenerazione dell’assone, che inizia già 24 ore dopo la transezione. L’entità della rigenerazione nervosa dipende dall’integrità delle cellule di Schwann e delle guaine del nervo (epinevrio e perinevrio), e dalla distanza della sede di lesione dal corpo cellulare. La degenerazione walleriana è tipica di molte neuropatie periferiche, prevalentemente dovute a sezione, compressione o strappamento del nervo. Altri possibili meccanismi responsabili di degenerazione walleriana sono il danno da radiazione dei nervi periferici e il danno ischemico. DEGENERAZIONE ASSONALE O ASSONOPATIA. – È rappresentata dalla frammentazione della parte distale dell’assone, morfologicamente simile alla degenerazione walleriana, ma secondaria ad un danno, usualmente metabolico, del corpo cellulare. Tale processo è anche conosciuto con la
1342 Malattie del sistema nervoso
Fig. 33.7 - Teasing delle fibre mieliniche. A) Aspetti di degenerazione walleriana lungo il decorso di una singola fibra (tetrossido di osmio). B) Aspetti di demielinizzazione segmentale e rimielinizzazione lungo il decorso di una singola fibra mielinica (tetrossido di osmio).
denominazione di neuronopatia «dying back» (morte a ritroso), intendendo in questo modo sottolineare l’andamento disto-prossimale del processo patologico (Fig. 33.6C). I fenomeni di distruzione mielinica ed assonale procedono in maniera sincrona e prossimalmente si possono osservare aspetti di atrofia dell’assone e demielinizzazione secondaria. In taluni casi, alterazioni del calibro assonale quali atrofia o rigonfiamento, possono precedere la degenerazione distale dell’assone. La conduzione nervosa può essere conservata a lungo, ma l’ampiezza del potenziale evocato è tipicamente e precocemente ridotta. L’elettromiografia mostra segni di denervazione acuti o cronici o l’associazione di entrambi. Clinicamente le assonopatie si presentano con compromissione della funzione motoria o sensitiva, a distribuzione distale e simmetrica, andamento lentamente ingravescente e progressione disto- prossimale. Tipiche sono l’ipoestesia «a calza» e «a guanto», la perdita dei riflessi, soprattutto quelli più distali, e l’ipostenia in gruppi muscolari distali. Il recupero è solitamente lento e difficoltoso. Generalmente una assonopatia è secondaria a fattori metabolici, tossici e, raramente, a patologie eredodegerative.
DEMIELINIZZAZIONE SEGMENTALE. – È dovuta ad un danno selettivo delle cellule di Schwann, e della mielina stessa, con conseguente perdita dell’avvolgimento mielinico e relativo risparmio dell’assone (Fig. 33.6D), che solo successivamente sarà danneggiato, a meno che non si verifichi una ricostruzione dell’avvolgimento mielinico (Fig. 33.7). La rimielinizzazione è caratterizzata da una proliferazione di nuove cellule di Schwann, che ricostruiscono la mielina intorno all’assone precedentemente demielinizzato, e richiede alcune settimane per realizzarsi.. Tipicamente, i segmenti mielinici neoformati hanno una mielina più sottile e tratti internodali più brevi rispetto ai precedenti internodi. Talora un processo di demielinizzazione può essere secondario ad un danno primitivamente assonale (demielinizzazione secondaria). Ne consegue che, in talune assonopatie, coesistono aspetti di degenerazione assonale e demielinizzazione. La demielinizzazione segmentale si manifesta neurofisiologicamente con un blocco della conduzione nervosa e clinicamente con precoce perdita di funzione motoria e sensitiva, ipo-areflessia osteotendinea diffusa, e ipotrofia muscolare relativamente modesta, talvolta i nervi periferici si ipertrofizzano per la proliferazione reattiva delle cellule di Schwann e diventano palpabili. Istologicamente la proliferazione delle cellule di Schwann determina la comparsa dei cosiddetti “bulbi di cipolla” che sono costituti da prolungamenti del citoplasma schwannico intorno ad un assone demielinizzato o sottilmente mielinizzato. Tale fenomeno è espressione di ripetuti episodi di demielinizzazione e rimielinizzazione. Fra le neuropatie demielinizzanti ricordiamo le tipiche poliradiculoneuriti infiammatorie acute e croniche e le polineuropatie ereditarie sensitivo-motorie. Un danno mielinico primitivo può inoltre essere prodotto da agenti tossici come la tossina difterica o da un danno compressivo del nervo.
Classificazione Una classificazione soddisfacente delle neuropatie periferiche non è ancora disponibile e appare utile seguire una semplice classificazione clinica, basata sulla distribuzione del deficit neurologico periferico, che fornisce spesso importanti suggerimenti per una diagnosi etiologica (Thomas and Ochoa, 1994), e sul coinvolgimento prevalente o associato delle componenti motoria, sensitiva o vegetativa.
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In base al criterio di distribuzione del deficit neurologico si distinguono: 1) le mononeuropatie, 2) le multineuropatie, e 3) le polineuropatie. MONONEUROPATIE O NEUROPATIE FOCALI. – Si tratta del danno focalizzato di un singolo tronco nervoso, da intrappolamento del nervo entro un canale osteolegamentoso (neuropatie da intrappolamento), da agente meccanico (compressione, trazione, ferite penetranti), termico, elettrico, da irradiazione, da lesione vascolare ischemica o più raramente emorragica, da infiltrazione granulomatosa o neoplastica ed infine per tumori primitivi dei nervi periferici. I segni neurofisologici tipici della neuropatia da intrappolamento sono un ritardo di conduzione a livello di un breve tratto del nervo interessato o un blocco di conduzione in corrispondenza del sito di intrappolamento. Nei casi più gravi si verifica degenerazione walleriana a valle del tratto di nervo danneggiato, con segni di denervazione nei muscoli colpiti. Le caratteristiche del deficit neurologico variano in rapporto al nervo coinvolto (vedi pag. 1354). Una particolare forma di neuropatia ereditaria, la neuropatia ereditaria con tendenza alla paralisi da compressione, è responsabile di una aumentata suscettibilità dei nervi periferici al danno compressivo o meccanico e può manifestarsi con la comparsa di mononeuropatie. In questo caso, tuttavia, lo studio elettrofisiologico potrà rivelare un interessamento più esteso del sistema nervoso periferico. Altre patologie che predispongono alle neuropatie da intrappolamento sono il diabete, l’alcolismo, l’acromegalia e l’ipotroidismo. La lesione traumatica di un nervo periferico può determinare, in ordine di gravità, a) neuroaprassia, b) assonotmesi, c) neurotmesi. a) La neuroaprassia è un disturbo temporaneo della funzione del nervo, senza interruzione di continuità delle fibre, e con rapido ritorno alla norma. Si osserva dopo lesioni compressive acute o subacute, specie se comportano ischemia e/o danno della componente mielinica del nervo. Le caratteristiche cliniche della neuroaprassia sono: deficit motorio più marcato del disturbo sensitivo, laddove si tratti di un nervo misto; scarsa compromissione del trofismo muscolare; recupero motorio entro 2 settimane - 4 mesi, simultaneamente in tutti i muscoli deficitari; ipoestesia superficiale molto modesta; fenomeni sensitivi irritativi, quali parestesie, prurito, dolore, molto frequenti. Si associa spesso un blocco di conduzione nel tratto coinvolto, con eccitabilità conservata nella porzione del nervo prossimale e distale alla sede di lesione.
b) La assonotmesi si riferisce all’interruzione della fibra nervosa con conservazione delle strutture connettivali di sostegno del nervo. Gli effetti immediati sono analoghi a quelli della neurotmesi, ma la rigenerazione è spontanea e l’integrità del connettivo fornisce una guida anatomica alle fibre, riducendo al minimo i fenomeni di confusione assonica. Il recupero è strettamente legato alla distanza che gli assoni in rigenerazione debbono coprire per raggiungere il tessuto bersaglio essendo la velocità di crescita di circa 1 mm al giorno e la capacità di sopravvivenza delle fibre muscolari denervate di circa 1820 mesi. c) La neurotmesi rappresenta la sezione completa di un nervo, associata clinicamente alla perdita totale delle relative funzioni motorie, sensitive e trofiche. La rigenerazione spontanea è impedita dal divaricamento e dalla distanza dei monconi, dall’interposizione di tessuto connettivale cicatriziale, ed è necessaria, per un possibile recupero, la sutura chirurgica dei monconi. La rigenerazione è rapida nel primo anno dopo l’intervento, ma il recupero usualmente non è completo, specie nei muscoli distali, sia per il tempo della rigenerazione, sia per la maggiore frequenza di fenomeni di confusione assonica, sia perchè i muscoli distali hanno funzioni specifiche e le alterazioni di innervazione sono più appariscenti. MULTINEUROPATIE O MONONEUROPATIE MULTIPLE. – Si caratterizzano per l’interessamento multifocale, simultaneo o in tempi successivi, di più nervi periferici non contigui. Una multineuropatia che interessi in tempi successivi, un numero sufficiente di nervi, può mimare una polineuropatia, e solo l’anamnesi consente di individuare il progressivo coinvolgimento dei diversi nervi. Stabilire se il danno dei tronchi nervosi è secondario a sofferenza assonale o mielinica, tramite adeguato studio neurofisiologico, può fornire importanti informazioni patogenetiche. Le multineuropatie con segni di sofferenza assonale sono abitualmente dovute a vasculiti sistemiche e nonsistemiche, a malattie infettive come la lebbra o l’infezione da HIV, a malattie infiammatorie sistemiche quali la sarcoidosi o metaboliche come il diabete. Un interessamento multiplo dei nervi periferici a carattere demielinizzante è tipico delle neuropatie ereditarie con aumentata suscettibilità alla compressione e delle neuropatie motorie multifocali a genesi immunomediata. Raramente, una neuropatia infiammatoria demielinizzante cronica può assumere l’aspetto di una multineuropatia. POLINEUROPATIE. – Sono caratterizzate da un deficit bilaterale e simmetrico di nervi periferici; se esiste una contemporanea alterazione delle radici spinali, il quadro è denominato poliradiculoneuropatia. Nei casi di compro-
1344 Malattie del sistema nervoso missione diffusa del SNP stabilire il grado di interessamento dei sistemi motorio, sensitivo e vegetativo è importante per orientarsi sulle possibili cause della polineuropatia. Anche in questo caso è essenziale un adeguato studio neurofisiologico per definire il grado di sofferenza assonale o mielinica. In genere una polineuropatia è dovuta a fattori ereditari o ad agenti eziologici che agiscono diffusamente sul SNP, quali sostanze tossiche, stati carenziali, malattie metaboliche sistemiche e, talora, patologie infiammatorie immunomediate.
SINTOMATOLOGIA GENERALE I sintomi possono essere motori, sensitivi o vegetativi e all’interno di ciascuna categoria si riconoscono sintomi negativi e sintomi positivi. Sintomi motori Negativi: paresi o paralisi. Un blocco di conduzione per demielinizzazione segmentale o un’interruzione delle fibre motorie determinano paralisi flaccida, con abolizione dei riflessi superficiali e profondi. La valutazione del deficit, nel caso sia interessato un solo muscolo, va effettuata mettendo l’arto in posizione adeguata affinché, laddove possibile, il solo muscolo in esame, e non i muscoli sinergici, entri in azione. L’ipotrofia muscolare o atrofia da denervazione, è più o meno precoce, a seconda che la lesione sia demielinizzante o assonale. Paresi o paralisi, ipotrofia muscolare, iporeflessia e deficit di forza nel territorio di innervazione di uno o più nervi periferici, costituiscono l’insieme clinico caratteristico della paralisi periferica. Un esempio tipico di paralisi flaccida successiva a neuropatia demielinizzante è la sindrome di Guillain-Barré, dove, tuttavia, un importante deficit motorio precede le alterazioni del trofismo muscolare e i segni elettromiografici di denervazione. Al contrario, una paralisi flaccida per patologia assonale, secondaria, ad esempio, a danno meccanico quale sezione o ischemia del nervo, si accompagna precocemente ad atrofia e segni EMG di denervazione. Positivi: fibrillazioni, fascicolazioni e miochimie. Le fascicolazioni (v. pag. 42), compaiono più frequentemente nella patologia primitiva del soma del secondo motoneurone, ma talora anche nelle assonopatie. Miochimie generalizzate o focali si possono osservare nelle poliradiculoneuropatie infiammatorie demielinizzanti (Albers et al., 1981), miochimie focali nelle mononeuropatie compressive o traumatiche.
Sintomi sensitivi Negativi: ipo-anestesia. Le ipo-anestesie sono frequenti nelle neuropatie periferiche, sia demielinizzanti che assonali, e possono coinvolgere le sensibilità superficiali e profonde, oppure solo alcune modalità sensitive, consentendo così di riconoscere il tipo di fibre coinvolte. L’ipoestesia termodolorifica esprime la sofferenza delle piccole fibre sensitive (<2 micron); una perdita selettiva di piccole fibre mielinizzate si verifica in caso di lebbra, in alcune neuropatie ereditarie sensitive, nell’amiloidosi familiare, nelle malattie di Tangier e di Fabry, ed in alcune forme di neuropatia diabetica. Una perdita selettiva delle fibre mieliniche di grosso calibro, come si può osservare nelle neuropatie periferiche di alcune eredoatassie, determina una tipica perdita del senso di posizione con atassia, ipopallestesia, ipoestesia tattile e conservazione delle sensibilità termo-dolorifiche. Positivi: parestesie e dolore spontaneo (in assenza di stimolazione del recettore) disestesie, iperalgesia, causalgia da risposta eccessiva a stimolazione naturale (v. pag. 102). Parestesie. – Consistono in sensazioni di intorpidimento, fasciatura, formicolio, che insorgono spontaneamente, in assenza di stimolazione dei recettori periferici e che si localizzano a livello degli arti e del tronco. Le parestesie rappresentano una generica disfunzione delle vie afferenti, fra il recettore periferico e la corteccia sensitiva. Nelle neuropatie periferiche le parestesie sono dovute a scariche ectopiche spontanee di unità sensitive primitive (prolungamento periferico della cellula sensitiva a T e recettori sensitivi periferici). Anche il prolungamento centrale del neurone sensitivo nelle radici posteriori potrebbe dare origine ad analoghi impulsi ectopici spontanei e spiegare la presenza di parestesie nelle radiculopatie. Disestesie – Consistono in sensazioni fastidiose o sgradevoli in risposta ad uno stimolo abitualmente non avvertito come tale. Dolore neuropatico, iperalgesia e causalgia (v. pag. 102)
Sintomi vegetativi La presenza di sintomi riferibili ad una disfunzione vegetativa può indirizzare fortemente la diagnosi verso alcune forme di neuropatia periferica in cui i sintomi vegetativi sono preminenti. È pertanto importante ricercare sintomi quali alterazioni della motilità pupillare, cadute a terra secondarie ad ipotensione ortostatica, turbe della sudorazione e disfunzioni sessuali o sfinteriche.
Malattie dai nervi periferici 1345 I sintomi vegetativi correlati al 3, 4° e 6° paio dei nervi cranici sono descritti a pag. 162. Turbe della motilità pupillare non sono di frequente riscontro, salvo nella neuropatia diabetica ed amiloidosica, in cui si può osservare miosi ed iporeflettività pupillare. Sintomi cardiovascolari, specie ipotensione ortostatica e tachicardia a riposo, si osservano principalmente nella neuropatia diabetica ed in quella amiloidosica, ma alterazioni cardiovascolari si possono osservare in neuropatie in corso di alcolismo, nelle poliradiculoneuropatie infiammatorie demielinizzanti, nelle neuropatie paraneoplastiche ed in alcune neuropatie autonomiche familiari. Alterazioni della sudorazione, specialmente anidrosi, espressione di un danno post-ganglionare delle fibre simpatiche, possono comparire nel territorio di distribuzione di un unico nervo periferico (ad es., mononeuropatia traumatica) e più spesso, con distribuzione simmetrica e distale, nella neuropatia diabetica o amiloidosica. Disturbi della funzioni urogenitale (atonia vescicale, impotenza erigendi) e gastrointestinale (vomito postprandiale, diarrea notturna) sono tipici delle neuropatie diabetica ed amiloidosica.
Turbe trofiche Si tratta di alterazioni cutanee, ossee e genericamente connettivali, da denervazione. La cute diviene liscia, sottile, anelastica, ipercheratosica e fragile, tanto da ulcerarsi facilmente, con comparsa delle cosiddette ulcere trofiche. Il connettivo dei polpastrelli si riduce, le unghie appaiono assottigliate, fragili, con striature longitudinali, abnormemente brillanti. Le alterazioni ossee, specie a sede distale, consistono in osteoporosi, fratture patologiche, talora complicate da osteomieliti. Turbe trofiche si osservano tipicamente nella neuropatia diabetica, amiloidosica, lepromatosa ed in alcune forme di neuropatia sensitivo-vegetativa familiare. Altri sintomi. – I più rilevanti sono rappresentati da: a) deformità scheletriche (piede cavo, cifoscoliosi), tipiche di alcune neuropatie ereditarie, da interpretare come secondarie al danno neuropatico, già manifestatosi durante il periodo di accrescimento; b) ispessimento dei nervi periferici, che diventano palpabili o addirittura visivamente apprezzabili, come può accadere nella neuropatia lepromatosa, in alcune neuropatie ereditarie sensitivomotorie e, più raramente, nelle poliradiculoneuropatie infiammatorie croniche, nelle neuropatie con deposizione di amiloide nei nervi periferici e nella malattia di Von Recklinghausen per formazione di schwannomi.
Esistono poi alcune alterazioni della cute e degli annessi cutanei che non sono direttamente correlate alla sofferenza dei nervi periferici, ma che possono indirizzare la diagnosi: la presenza di petecchie o di una vera e propria porpora suggerisce una vasculite o una crioglobulinemia, una alopecia si osserva nelle intossicazioni da tallio, la malattia di Fabry si può presentare con teleangectasie sull’addome, iperpigmentazioni cutanee si possono vedere nel mieloma osteosclerotico, capelli anormalmente ricci si trovano nella neuropatia ereditaria giganto-assonale.
ESAMI COMPLEMENTARI E DIAGNOSI Il primo livello del procedimento diagnostico, rappresentato dalla raccolta dell’anamnesi e dall’esame neurologico, dovrebbe consentire di distinguere una neuropatia periferica rispetto ad altre condizioni patologiche che possono mimare un interessamento del SNP. Inoltre, storia ed esame clinico forniscono elementi per identificare come focale, multifocale o diffusa, la patologia periferica. Per precisare adeguatamente il quadro clinico è necessario l’ausilio degli esami elettrodiagnostici (elettromiografia ed elettroneurografia) e dei tests di valutazione strumentale di alcune sensibilità superficiali e profonde, e del sistema nervoso vegetativo che rappresentano il secondo livello diagnostico. Gli esami elettrodiagnostici possono fornire informazioni definitive sulla natura demielinizzante o assonale del processo neuropatico. A completamento dello studio elettrofisiologico la valutazione iniziale del paziente affetto da neuropatia periferica prevede una batteria di esami bioumorali di routine (emocromo, glicemia, azotemia, creatininemia, elettroforesi delle proteine sieriche, ormoni tiroidei, trigliceridi, VES, tests reumatici, esame delle urine), per indagare le cause più comuni di sofferenza del SNP. A questo punto del procedimento diagnostico alcune situazioni possono essere già individuate o fortemente sospettate, come le mononeuropatie meccaniche o traumatiche, la neuropatia diabetica, alcolica, tossica da farmaci o da tossici ambientali, e le forme demielinizzanti ereditarie o acquisite (ad
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es., le poliradiculopatie infiammatorie demielinizzanti acute che hanno un andamento clinico ed un quadro elettrofisiologico tipico). Il terzo ed ultimo livello del procedimento diagnostico è costituito da esami bioumorali più specifici (dosaggio di IgG-IgA-IgM, immunoelettroforesi delle proteine sieriche e delle urine, dosaggio di anticorpi anti-componenti mieliniche o gangliosidi, studio del metabolismo delle porfirine o del piombo), dall’esame del liquor cefalorachidiano, dalla biopsia di nervo periferico ed eventualmente di muscolo, e dagli studi di genetica molecolare. ELETTROMIOGRAFIA (EMG) (v. pag. 344). – Consente di differenziare la patologia propria del muscolo da quella a genesi nervosa, e in questo ambito, anche se con minor sicurezza, permette la distinzione tra compromissione del nervo o delle corna anteriori. I segni EMG di lesione del nervo (v. pag. 270) sono: attività spontanea di denervazione (potenziali positivi di denervazione, potenziali di fibrillazione; occasionalmente potenziali di fascicolazione); tracciato di singole oscillazioni o stato intermedio a massimo sforzo; aumento di durata dei potenziali di azione; aumento dei potenziali polifasici prevalentemente del tipo a punte lunghe. ESAME DELLA VELOCITÀ DI CONDUZIONE NERVO(VCN) o ELETTRONEUROGRAFIA (ENG). – (v. pag. 353). Ha un ruolo fondamentale nel confermare la presenza di una sofferenza dei nervi periferici, nel differenziare mono, multi e polineuropatie e nella diagnosi eziologica. È indispensabile valutare numerosi nervi, anche quelli clinicamente normali, per precisare la distribuzione del deficit e appurare se esiste coinvolgimento prevalente dei nervi sensitivi, dei nervi motori o di entrambi. La VCN consente di differenziare un quadro di degenerazione assonale da un quadro di demielinizzazione: nella degenerazione assonale la velocità di conduzione è normale o scarsamente rallentata, la riduzione di ampiezza del
SA
potenziale evocato motorio o sensitivo è significativa ed esistono segni di denervazione; nella demielinizzazione la VCN è notevolmente ridotta con aumento della latenza distale e minima riduzione di ampiezza del potenziale evocato sensitivo o motorio e i segni di denervazione sono usualmente tardivi. Un altro segno di demielinizzazione è la dispersione temporale del potenziale di azione, che risulta di durata aumentata e forma polifasica; ciò si verifica per perdita di sincronia dei potenziali di azione conseguente alla variabile entità della demielinizzazione nelle diverse fibre. Esistono ovviamente quadri in cui coesistono entrambi i processi, per cui si hanno diverse combinazioni di rallentamento della VCN e riduzione di ampiezza del potenziale evocato. Nella condizione estrema di demielinizzazione focale, si verifica un blocco completo della conduzione nervosa, che ha il suo corrispettivo nell’improvvisa e significativa riduzione di ampiezza (< 20%) del potenziale evocato da stimolazione prossimale e distale del nervo. I blocchi di conduzione sono tipici di alcune patologie demielinizzanti acquisite, di tipo infiammatorio acuto o cronico, e di alcune neuropatie immunodipendenti, quali le neuropatie motorie pure multifocali. Segni di demielinizzazione si osservano tipicamente in alcune neuropatie ereditarie, quali la malattia di Charcot-Marie-Tooth, in alcune neuropatie da paraproteinemia e nella neuropatia da difterite. Un quadro di prevalente degenerazione assonale è invece tipico delle neuropatie tossicocarenziali (ad es., la neuropatia alcolica), delle neuropatie ischemiche (vasculitiche), delle neuropatie paraneoplastiche, ecc. ONDA F (v. pag. 358). – È un’onda tardiva, che può essere registrata dai muscoli, dopo stimolazione sopramassimale del nervo e rappresenta il risultato della diffusione antidromica dell’impulso e della successiva risposta delle cellule delle corna anteriori e fornisce una valutazione dell’integrità del contingente motorio
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per tutta la sua lunghezza, ed è utilizzata per valutare la presenza di lesioni prossimali fino alla radice anteriore. È tipicamente alterata nelle poliradiculoneuropatie infiammatorie acute o croniche. RIFLESSO H (O DI HOFFMANN) (v. pag. 357). – È l’equivalente elettrico di un riflesso profondo, e misura la conduzione nelle fibre afferenti ed efferenti dell’intero arco riflesso monosinaptico. Nell’uomo viene agevolmente evocato nel muscolo gastrocnemio, stimolando elettricamente il nervo tibiale al poplite. È di solito assente quando siano compromessi l’onda F e gli altri studi di velocità di conduzione. POTENZIALI EVOCATI SOMESTESICI (PES). – Possono essere utili quando altri esami di conduzione sono negativi, ma permane il sospetto clinico di neuropatia periferica. Non vi è tuttavia accordo sulla reale utilità di questi esami per la valutazione delle malattie del SNP. ESAME QUANTITATIVO DELLE SENSIBILITÀ. – Le tecniche computerizzate di esame quantitativo delle sensibilità superficiali (tattile e termica) e profonde (sensibilità vibratoria) sono attualmente in uso presso alcuni laboratori specializzati, e possono essere utilizzate per la valutazione periodica di soggetti esposti a fattori tossici o ambientali, o per soggetti inclusi in programmi terapeutici speciali e per studi epidemiologici. VALUTAZIONE STRUMENTALE DELLA FUNZIONE – I tests più comunemente usati e di più facile realizzazione sono la valutazione delle variazioni della frequenza cardiaca con la respirazione, della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa con la manovra di Valsalva, con l’assunzione della stazione eretta, e della risposta sudomotoria cutanea (v. pag. 664). I tests vegetativi, unitamente alla valutazione quantitativa della sensibilità termica e alla
VEGETATIVA
biopsia di nervo periferico rappresentano l’esame più specifico per la diagnosi di neuropatia delle piccole fibre mielinizzate. Di solito la compromissione vegetativa è piuttosto lieve, salvo in alcuni casi, come nelle neuropatie ereditarie sensitivo-autonomiche, nelle neuropatie amiloidosiche ereditarie o acquisite, nel diabete, nella porfiria e, talora, nella stessa poliradiculoneuropatia infiammatoria demielinizzante acuta tipo Guillain-Barré. LIQUOR CEREBROSPINALE (v. pag. 317) – L’esame del liquor è negativo o non fornisce informazioni significative in caso di neuropatie assonali, ma è utile in casi di neuropatie demielinizzanti. Le poliradiculoneuropatie infiammatorie demielinizzanti acute e croniche determinano alterazioni liquorali tipiche, con aumento delle proteine senza aumento delle cellule, realizzando una dissociazione albumino-citologica. L’aumento della cellularità, osservata nel 10% dei casi, deve far considerare la diagnosi di neuropatia in corso di infezione da HIV o di malattia di Lyme. In caso di poliradiculoneuropatie infiammatorie demielinizzanti acute (6% dei casi) e croniche (16% dei casi) si può anche osservare la presenza di bande oligoclonali di IgG. BIOPSIA DI NERVO PERIFERICO . – Il prelievo bioptico di un nervo periferico dovrebbe avere indicazione solo per raggiungere una diagnosi eziologica. Usualmente si effettua biopsia di un nervo sensitivo, (il nervo surale) nel punto il cui il nervo, dopo essersi costituito da due rami provenienti dal peroneo profondo e dal tibiale, corre superficialmente in posizione mediana nella porzione distale del polpaccio. In rari casi la scelta del nervo da biopsiare può ricadere sul nervo peroneo superficiale, la cui biopsia, associata a quella del muscolo peroneo breve, migliora la possibilità di diagnosi in caso di vasculite, in quanto che il nervo peroneo viene colpito più frequentemente del nervo surale e so-
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litamente anche i vasi muscolari sono interessati dal processo vasculitico Gli esiti della biopsia del n. surale sono generalmente costituiti da una transitoria ipoestesia superficiale soggettiva nel territorio di distribuzione del nervo (circa 6 mesi). La biopsia di nervo può essere considerata diagnostica nelle neuropatie vasculitiche, amiloidosiche acquisite o ereditarie, nelle neuropatie in corso di malattie da accumulo (leucodistrofie, malattia di Fabry, ecc.), nella distrofia neuroassonale, nella neuropatia sarcoidosica, nella neuropatia da lebbra ed in alcune forme di neuropatia paraproteinemica. La biopsia può confermare la diagnosi di poliradiculoneuropatia infiammatoria acuta o cronica, quando evidenzia un quadro di demielinizzazione con infiltrati infiammatori, o di neuropatia ereditaria sensitiva o sensitivomotoria, se dimostra una selettiva soffererenza di alcune classi di fibre o ipertrofia. Non è infine di aiuto nelle neuropatie metaboliche e tossico- carenziali ove le alterazioni sono in genere aspecifiche. BIOPSIA DI CUTE. – Recentemente nella diagnostica delle polineuropatie sensitive pure, in particolare con normalità degli esami elettrofisiologici, è stata introdotta la biopsia di cute, che viene eseguita mediante “punch”, normalmente sulla superficie volare dell’avambraccio. Questa tecnica prevede la valutazione qualitativa e quantitativa dell’innervazione dell’epidermide, sfruttando la immunoreattività delle fibre nervose intra-epidermiche al marcatore “protein gene product 9.5”. Riveste una discreta utilità nella valutazione delle neuropatie sensitive con interessamento delle piccole fibre mielinizzate (ad esempio in corso di diabete mellito). GENETICA MOLECOLARE. (v. pag. 671) – Recentemente sono state individuate una serie di neuropatie ereditarie in cui è noto il difetto genetico.
Due diversi approcci genetici possono essere d’aiuto: a) studi di «linkage», nei casi in cui il gene responsabile sia stato localizzato su un cromosoma specifico, ma il gene affetto non sia stato ancora clonato, b) analisi diretta mediante Southern blotting, pulsed field gel electrophoresis (PFGE) o FISH (fluorescent in situ hybridization) della duplicazione o delezione di un segmento cromosomico, c) analisi diretta del gene mutato mediante sequenziamento.
Patologia delle radici Lesioni radicolari possono interessare una radice, e sono lesioni localizzate, con possibilità di interessare anche radici contigue, oppure le radici colpite sono numerose e vengono indicate come lesioni diffuse. Le lesioni localizzate sono generalmente dovute a compressione da tumori intra ed extradurali, da malattie primitive delle vertebre (morbo di Pott, tumori vertebrali) e, soprattutto, da ernie del disco intervertebrale. Le radici posteriori sensitive, e anteriori motorie possono essere lese indipendentemente o insieme, ciò che accade più facilmente nella regione lombosacrale, ove decorrono accollate per un lungo tratto. I sintomi sensitivi più frequenti sono di tipo irritativo, in particolare dolore, che tipicamente si accentua in tutte le condizioni che provocano aumento della pressione liquorale (colpi di tosse, starnuti, premito addominale, compressione delle vene giugulari). I sintomi deficitari sensitivi sono, per lesione di una sola radice, assenti o scarsi, per la sovrapposizione dei territori di innervazione delle radici contigue, per cui il deficit si manifesta quando sono lese due o più radici contigue. Il dolore, al contrario, può manifestarsi anche per lesione di una singola radice. La distribuzione del dolore e dell’eventuale anestesia segue la disposizione metamerica, a bande orizzontali al tronco, verticali agli
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arti. Il deficit motorio e l’abolizione dei riflessi si evidenziano nei gruppi muscolari innervati da quella determinata radice. Le lesioni diffuse sono più spesso dovute ad una patologia infiammatoria, acuta o cronica, a carattere immunomediato. Usualmente si associano ad una compromissione diffusa dei nervi periferici (poliradiculoneuropatia) ed allora la sofferenza radicolare è segnalata da alterazioni del liquor cefalorachidiano, con una dissociazione albuminocitologica e con alterazione di alcuni parametri neurofisiologici (ad es. onda F). Al contrario, in caso di interessamento diffuso delle radici nervose da meningoradicolite si osserva un aumento della cellularità. Fra le sindromi da lesione diffusa delle radici un posto a parte spetta alla sindrome della cauda equina (v. pag. 471).
Patologia del ganglio spinale I gangli della radice posteriore sono selettivamente e tipicamente compromessi in caso di infezione da herpes zoster. Sono inoltre descritte patologie ganglioneuritiche, responsabili di neuropatie sensitive pure, che verranno descritte insieme alle polineuropatie. Herpes zoster L’Herpes zoster o «zona» è una malattia infettiva dovuta al virus varicella-zoster; si tratta di un virus a DNA di diametro di 150-200 millimicron, che si localizza nei gangli delle radici posteriori e provoca dolori ed eruzioni vescicolari nei metameri cutanei corrispondenti. La malattia è sicuramente contagiosa, tuttavia la patogenesi dell’interessamento gangliare è tuttora poco conosciuta. In termini generali si ritiene che il virus, dopo aver penetrato l’organismo e aver determinato, quale prima manifestazione, un’eruzione varicellosa, sopravviva allo stato latente nei gangli sensitivi, ove giunge per via ematica o per tra-
sporto retrogrado lungo i tronchi nervosi. Successivamente, in concomitanza con malattie sistemiche o terapie particolari che determinino una condizione di relativa immunosoppressione, il virus entra nuovamente in fase replicativa determinando la comparsa della malattia. NEUROPATOLOGIA. – Le cellule gangliari appaiono rigonfie e presentano fenomeni necrotico-emorragici; nei gangli si osserva infiltrazione perivascolare di cellule polinucleate, linfociti e plasmacellule. Il processo infiammatorio, che di solito interessa uno o due gangli sensitivi adiacenti, si può estendere alle meningi e talora ai metameri midollari corrispondenti. Nei neuroni gangliari si possono osservare, al microscopio elettronico, particelle virali. Talora sono compromessi i gangli di Gasser (V n. cranico) e genicolato (VII n. cranico). Le alterazioni cutanee consistono in degenerazione e necrosi delle cellule dello strato basale dell’epidermide, edema, infiltrato infiammatorio e secondaria formazione di vescicole.
SINTOMATOLOGIA La malattia può esordire a qualsiasi età, senza prevalenza di sesso con sintomi generali quali astenia, anoressia, febbre, cefalea, ma abitualmente il primo sintomo è costituito da iperalgesia e dolori piuttosto intensi a distribuzione metamerica, più frequentemente al torace e al viso. Dopo 3-4 giorni compaiono, nella stessa sede, chiazze eritematose leggermente rilevate, ovalari, a margini netti, in genere ben separate le une dalle altre, che successivamente diventano vescicole della grandezza di un grano di miglio, contenenti un liquido chiaro e sieroso, e con risentimento linfonodale regionale. Le vescicole tendono a confluire, e successivamente il liquido si intorbida e diviene talvolta purulento o emorragico (herpes zoster emorragico); nel tempo le vescicole si essicano formando una squama-crosta, che si stacca lasciando cicatrici superficiali iperpigmentate alla periferia, depigmentate al centro, molto spesso indelebili. L’evoluzione si compie in 10-12 giorni, ma non è simultanea nei vari elementi. I dolori possono persistere anche dopo l’eruzione; la cute dei metameri lesi rimane generalmente ipoestesica. L’affezione colpisce con frequenza crescente i gangli sacrali, cervicali, lombari e toracici; nel 20% dei casi sono colpiti gangli dei nervi cranici (ganglio di Gasser e genicolato). In genere la sintomatologia è unilaterale e localizzata ad una sola radice; ma talora sono colpite più radici, anche bilateralmente.
1350 Malattie del sistema nervoso Raramente si osserva diffusione del processo alle meningi, con relativa sintomatologia. Eccezionali sono la compromissione delle corna anteriori con paralisi segmentali e l’estensione al SNC con quadri di encefalomielite. Il liquor dimostra frequentemente ipercitosi ed aumento delle proteine. La localizzazione del virus nel ganglio di Gasser si manifesta con eruzione cutanea nel territorio di distribuzione del trigemino. Nella maggioranza dei casi è colpito il territorio della branca oftalmica e, se l’eruzione si estende alla cornea, possono residuare cicatrici opache permanenti; a volte si manifestano quadri di iridociclite o anche di panoftalmite, con esiti assai gravi. La localizzazione del virus nel ganglio genicolato si manifesta con eruzione sulla membrana timpanica, nel condotto uditivo esterno e sull’arcata anteriore del palato (sindrome di Ramsay-Hunt). Vi può essere perdita della sensibilità gustativa nella metà anteriore della lingua omolaterale, e quasi sempre una paresi periferica del facciale, tipo paralisi di Bell, dovuta all’infiammazione ed alla compressione del nervo nel canale facciale da parte del ganglio genicolato, in genere con regressione completa. L’evoluzione dell’herpes zoster comporta complicazioni rappresentate dalla nevralgia post-herpetica, da cicatrici corneali e da gravi quadri di iridociclite, fino alla panoftalmite, nelle forme trigeminali. La neuralgia post-herpetica si sviluppa più frequentemente nei soggetti anziani, specie per localizzazioni toraciche o trigeminali. I dolori sono violenti, subcontinui, con esacerbazioni accessuali, persistono per mesi ed anni, e risultano difficili da trattare. Una rara complicazione è la generalizzazione della eruzione a tutto il corpo, con un quadro simile a quello della varicella; più frequente è il reperto di qualche vescicola aberrante, specie nel territorio simmetrico controlaterale. Infine, da una settimana a qualche mese dopo l’eruzione cutanea, può comparire una poliradiculoneuropatia acuta tipo Guillain-Barré (v. pag. 1400). DIAGNOSI. – È facile quando il quadro clinico è completo, ed è basata sulla associazione di dolori o parestesie ad esordio improvviso e a distribuzione metamerica, seguite da eruzione eritemato-vescicolosa nella stessa area. Le difficoltà sorgono nei primi giorni, se l’eruzione non si è ancora manifestata, poiché i dolori possono indirizzare la diagnosi verso una patologia addominale o toracica, ciò che può anche accadere quando l’eruzione è abortiva o, molto raramente, completamente assente (“herpes zoster sine erpete”). La ricerca delle vescicole deve essere perciò molto accurata in tutti i casi di dolori segmentali a esordio improvviso.
TERAPIA. – La terapia con Acyclovir avrebbe una azione diretta sulla replicazione virale. Localmente conviene servirsi di polveri inerti o blandamente antisettiche (polveri all’acido borico e all’ossido di zinco), o creme antibiotiche nell’intento di prevenire sovrapposizioni infettive. La somministrazione di prednisone o di ACTH potrebbe, secondo alcuni, diminuire le complicazioni dolorose; nei dolori molto intensi può essere indicata la roentgen-terapia (200 R a giorni alterni, per 3 applicazioni) centrata sui gangli colpiti. La nevralgia post-herpetica deve essere trattata con amitriptilina (50-100 mg al dì) o con farmaci antiepilettici ad azione analgesica come carbamazepina (400-800 mg al dì), difenilidantoina (200-400 mg al dì), lamotrigina (200-800 mg al dì) e gabapentin (400-1200 mg al dì).
Patologia dei plessi Plesso brachiale (C5-D1) La costituzione del plesso è schematicamente la seguente: le branche anteriori dei nervi spinali relativi alla 5° e 6° radice cervicale formano il tronco primario superiore; il nervo spinale anteriore della 7° radice procede indipendente formando il tronco primario intermedio; i nervi spinali anteriori dell’8° cervicale e 1° toracica formano insieme il tronco primario inferiore (Fig. 33.8). I tronchi primari si dividono in rami posteriori e anteriori: i tre rami posteriori si fondono formando la corda secondaria posteriore; i primi due rami anteriori formano assieme la corda secondaria laterale; il ramo anteriore del tronco primario inferiore procede indipendente formando la corda secondaria mediale. Per ulteriori specificazioni si rimanda ai trattati di anatomia. Le cause di lesione del plesso brachiale sono spesso di origine traumatica, per stiramento diretto, e molto più raramente per ferite penetranti. Le porzioni prossimali del plesso possono essere stirate per violento spostamento del capo e del collo dalla spalla, per forzato movimento della spalla verso il basso o per trazione del braccio addotto verso il basso; le porzioni distali del plesso possono essere lese da trazione del braccio abdotto verso l’esterno e verso l’alto. Questi eventi sono frequenti nei motociclisti, per incidenti stradali, negli infortuni di lavoro, o per la caduta di oggetti pesanti sulla spalla, ed anche nei traumi ostetrici. Alterazioni indirette si possono verificare per lussazione anteriore della testa dell’omero o per fratture della clavicola, ma anche per infiltrazione da neoplasie localizzate in strutture anatomiche contigue, per danno da irradiazione, per complicanze post-operatorie o nell’am-
Malattie dai nervi periferici 1351 braccio (fibre posteriori del deltoide, grande dorsale, grande rotondo), e la flessione e supinazione dell’avambraccio (bicipite, brachiale, brachioradiale e supinatore), mentre i movimenti del polso e delle dita sono validi. I riflessi bicipitale e radioflessore sono aboliti; il territorio di ipo-anestesia superficiale comprende la superficie esterna del braccio e dell’avambraccio. TIPO MEDIO (C7). – Il deficit motorio interessa l’estensione della mano e delle dita (estensori lunghi), e parzialmente l’estensione dell’avambraccio (tricipite); il riflesso tricipitale è ridotto o assente; il deficit della sensibilità riguarda il 2°, 3° e 4° dito. La lesione isolata di tipo medio è molto rara, e simula una lesione del nervo radiale; ma il muscolo brachioradiale (C5-C6) è risparmiato, e la flessione dell’avambraccio, mantenuto in posizione intermedia fra pronazione e supinazione, dimostra il profilo del muscolo lungo il bordo radiale dell’avambraccio.
Fig. 33.8 - Plesso brachiale.
bito di una sindrome dello stretto toracico superiore. Uno spazio a parte merita l’amiotrofia neuralgica o neuropatia idiopatica del plesso brachiale. La lesione totale è rara e si manifesta con plegia di tutti i muscoli della spalla e dell’arto superiore, abolizione dei riflessi profondi all’arto superiore, anestesia superficiale della porzione distale dell’arto fino circa a metà del braccio e anestesia profonda alla mano e alle dita.
Lesioni dei tronchi primari È il tipo più comune di paralisi del plesso brachiale. TIPO SUPERIORE O DI DUCHENNE-ERB (C5-C6). – L’arto pende inerte lungo il tronco, esteso al gomito, in adduzione e rotazione interna, per azione dei muscoli sottoscapolare, grande rotondo e grande dorsale, innervati da C7, e della parte sterno-costale del grande pettorale, innervata da C7-C8-T1. L’atrofia del cingolo scapolare e della parte anteriore del braccio, è particolarmente marcata a carico del deltoide, sopraspinato, sottospinato e bicipite. I movimenti della spalla e del gomito sono aboliti o ridotti, soprattutto l’abduzione (deltoide e sopraspinato), la rotazione esterna (sottospinato e piccolo rotondo) e l’estensione del
TIPO INFERIORE O DI DEJERINE-KLUMPKE (C8-D1). – La paralisi dei piccoli muscoli della mano le fa assumere un atteggiamento ad artiglio, per il prevalere degli estensori e flessori lunghi che estendono la falange prossimale e flettono le distali; l’ipo-atrofia è evidente a livello degli interossei e delle eminenze tenar e ipotenar. L’abduzione e l’adduzione delle dita, la flessione della falange prossimale e l’opposizione del mignolo e pollice sono abolite; l’anestesia superficiale interessa il margine ulnare della mano e dell’avambraccio. Talora si associa una sindrome di Bernard-Horner (restringimento della rima palpebrale e miosi).
Lesione dei tronchi secondari Realizza sindromi di lesione associata di due o più nervi dell’arto superiore. DIAGNOSI . – Una adeguata valutazione del plesso brachiale richiede, oltre ad un esame clinico, anche l’esecuzione di esami elettrofisiologici e di neuroimmagine. Esami elettrofisiologici. – Una estesa indagine EMG a livello dei muscoli dell’arto superiore consente di valutare la distribuzione del deficit neurologico, la presenza o meno di segni di reinnervazione, la cronicizzazione del danno e, con l’esame dei muscoli paravertebrali, la esclusione di un danno radicolare. Infatti, in caso di danno radicolare, si osservano segni di denervazione sui muscoli paravertebrali a livello del dermatomero corrispondente alla/alle radici interessate. Ciò è dovuto alla innervazione della muscolatura paravertebrale da parte del ramo posteriore del nervo spinale.
1352 Malattie del sistema nervoso La VC non è abitualmente compromessa, mentre l’ampiezza del potenziale evocato sensitivo, per una lesione assonale post-ganglionare anche incompleta, come accade in una plessopatia, si riduce sensibilmente, raggiungendo il picco massimo dopo 10-11 giorni. Al contrario, in caso di interessamento pregangliare, l’ampiezza del potenziale evocato sensitivo non si modifica. I potenziali evocati motori sono meno sensibili. Altri esami neurofisiologici utili sono i potenziali evocati somestesici, la registrazione intraoperatoria dei potenziali del nervo (nel caso il paziente sia sottoposto ad intervento chirurgico esplorativo o riparativo) e lo studio del riflesso assonale, mediante il test dell’istamina e il test del raffreddamento, che forniscono informazioni sulla natura pre o post-ganglionare del danno. Gli studi radiologici della colonna cervicale, della scapola e dell’omero sono informativi soprattutto nelle lesioni traumatiche del plesso; inoltre, possono evidenziare una costa sovranumeraria,come può accadere nella sindrome dello stretto toracico. Lo studio radiologico dei polmoni e del mediastino può evidenziare lesioni occupanti spazio (neoplasie dell’apice polmonare, masse linfonodali) che comprimono o infiltrano il plesso. La mielografia è particolarmente utile nel valutare eventuali avulsioni radicolari, nelle quali si ha la classica immagine del «meningocele traumatico»: il mezzo di contrasto passa attraverso il forame intervertebrale e si raccoglie in un diverticolo extraforaminale. Lo studio in tomografia assiale computerizzata, pur non consentendo un’adeguata visualizzazione delle strutture del plesso, può mettere in evidenza una patologia con effetto compressivo. La RM si è imposta come tecnica di elezione, anche per valutare le strutture nervose, differenziandole, ad esempio, da quelle vascolari; le radici nervose sono ben visibili, per cui eventuali avulsioni radicolari possono essere dimostrate.
PROGNOSI E TERAPIA Nei primi giorni dopo il trauma, la paralisi, l’ipotonia muscolare, l’areflessia e l’anestesia possono dipendere sia da una neuroaprassia, con blocco transitorio della conduzione nervosa, che da una assono-neurotmesi, eventualità più infauste. Nella neuroaprassia i deficit tendono ad essere incompleti e i primi segni di recupero compaiono nei giorni o nelle settimane consecutive al trauma. La persistenza dei deficit al di là dei due mesi indirizza la diagnosi verso una assono-neurotmesi, e allora le possibilità di recupero sono in relazione con l’entità, il tipo e la sede del danno: le lesioni iuxtamidollari, soprattutto se associate ad avulsione delle radici, con distacco dei monconi, e importanti reazioni fibro-ci-
catriziali, consentono una ripresa funzionale molto limitata dei muscoli distali, che necessitano della rigenerazione di un tratto di fibra molto lungo. Controversa è l’indicazione della esplorazione chirurgica, che, in caso non esistano lesioni compressive rimovibili, va rinviata oltre il terzo-quinto mese, quando il recupero spontaneo si è ormai esaurito, e va comunque subordinata ad una diagnosi precisa, che escluda una contemporanea lesione radicolare, che renderebbe vano ogni tentativo di ricostruzione. Il trattamento conservativo consiste, come per le lesioni traumatiche di altri tronchi nervosi, nella fissazione dell’arto in posizione idonea per evitare contratture e nella mobilizzazione passiva. Quando il deficit è stabilizzato, il che avviene entro 1-2 anni dal trauma, vanno considerate le possibilità di interventi ortopedici.
Sindrome dello stretto («outlet») toracico superiore o dello scaleno anteriore Il termine è stato coniato da Peet e collaboratori (1956), i quali hanno riunito sotto un’unica denominazione, quadri clinici diversi attribuibili a compromissione di rami del plesso brachiale e dei vasi adiacenti, nell’area cervicale e toracica superiore. Recentemente la sindrome dello stretto toracico superiore è stata distinta, in base alle strutture colpite, in una forma vascolare e una forma neurologica (Wilbourn e Porter, 1988). Nell’ambito delle forme vascolari se ne riconosce una variante arteriosa (maggiore e minore) e una variante venosa. La forma neurologica comprende una variante classica o vera e una variante non specifica. La forma arteriosa maggiore è, in genere, dovuta ad una costa cervicale sovrannumeraria, che determina compressione dell’arteria succlavia con formazione di dilatazione aneurismatica. Clinicamente si manifestano segni di ischemia alla mano, dolore risalente all’avambraccio, in relazione con l’ischemia più che con la sofferenza di strutture nervose. La forma arteriosa minore si caratterizza per una compressione sull’arteria succlavia, solo in condizioni di iperabduzione del braccio. Di solito non si osservano anormalità ossee e l’ischemia non è progressiva. La forma venosa, rara, è dovuta a trombosi delle vene succlavia ed ascellare dopo intenso affaticamento dell’arto superiore. Si manifesta con cianosi, tumefazione e dolore all’arto coinvolto. La forma neurologica classica è causata dalla sofferenza prossimale dei rami primari anteriori da C8 e T 1 o del tronco inferiore, per compressione e stiramento delle fibre nervose ad opera di una banda fibrosa che si estende dalla prima costa ad una costa cervicale sovran-
Malattie dai nervi periferici 1353 numeraria, oppure ad un processo trasverso di C7 abnormemente pronunciato. Sintomi caratteristici sono: l’ipostenia e l’ipotrofia dei muscoli della mano, e tutti i muscoli intrinseci possono essere colpiti, ma più spesso la paralisi e l’atrofia sono localizzate ai muscoli dell’eminenza tenar. La maggior parte dei pazienti lamenta dolori e parestesie sulla superficie mediale del braccio, avambraccio e mano. L’ipoestesia, meno caratteristica, si distribuisce sulla superficie interna dell’arto superiore, interessando talora aree cutanee circoscritte ed estendendosi, in alcuni casi, fino al 4°-5° dito. L’indagine elettrofisiologica dimostra segni di sofferenza assonale cronica del tronco inferiore, con bassa ampiezza dei potenziali evocati motori sul nervo mediano e, talora, sul nervo ulnare, associati a potenziali evocati sensitivi di bassa ampiezza sul nervo ulnare, ma normali sul nervo mediano sensitivo (Wilbourn 1993). La diagnosi di certezza emerge da uno studio radiologico della colonna cervicale e delle coste, che dimostra una costa cervicale sopranumeraria o un abnorme processo di C 7. Il trattamento è chirurgico con sezione delle bande fibrose cervicali e rimozione della costa sovrannumeraria.
I muscoli sono dolenti alla palpazione, alla mobilizzazione passiva il dolore aumenta, mentre le manovre che aumentano la pressione endorachidea (colpi di tosse, sforzi addominali, ecc.) sono senza effetto. I deficit sensitivi sono infrequenti e spesso limitati ad una piccola area. Solo in un terzo dei casi, i sintomi sono bilaterali, ma quasi mai simmetrici. Il liquor è negativo, così come gli esami bioumorali. L’EMG, di solito, mostra segni di sofferenza assonale nei muscoli affetti e lo studio elettroneurografico una riduzione di ampiezza del potenziale evocato sensitivo o motorio. La prognosi è buona ed il recupero usualmente completo, anche se avviene lentamente: 6 mesi-1 anno nelle lesioni a distribuzione prossimale, 1-3 anni se la lesione è distale. La terapia è antiinfiammatoria ed immunosoppressiva e si basa sull’uso di steroidi e, nei casi resistenti, di Ig e.v. Le forme ereditarie si distinguono da quelle acquisite oltre che per una anamnesi familiare positiva, anche per una maggiore tendenza alla recidiva. Recentemente in famiglie affette da amiotrofia neuralgica studi di “linkage” hanno consentito di mappare il locus per la malattia al cromosoma 17q25 (Stogbauer 2000).
La “forma neurogena aspecifica” è caartterizzata da sintomi mal definiti, quali dolori e parestesie nel territorio del tronco inferiore del plesso brachiale e succulenza sovraclavicolare, in assenza di sicuri segni obiettivi e elettrofisiologici di plessopatia. Per i suddetti motivi l’identità di tale sindrome è stata recentemente messa in discussione (Wilbourn, 1993). Ciò non di meno, numerosi pazienti continuano ad essere sottoposti a trattamento chirurgico (scalenotomia e resezione della 1° costa cervicale).
Plesso lombare (L1-L4) (Fig. 33.9)
Neuropatia idiopatica del plesso brachiale Questa forma, relativamente poco comune, nota anche come «amiotrofia neuralgica», o «sindrome di Parsonage-Turner», prevale nel sesso maschile e può comparire a tutte le età. Se ne conosce una variante sporadica e una variante familiare ad ereditarietà autosomica dominante. L’esordio è rapido, con dolori alla spalla, al cingolo scapolare o all’arto superiore, (spesso preceduto di 1015 giorni da un episodio similinfluenzale, da una vaccinoterapia, o dal parto), che si prottaggono per 1-3 settimane, seguiti da paresi e ipotrofia muscolare, che compaiono quando il dolore tende a diminuire e interessano i muscoli innervati dai rami del plesso. Sono soprattutto coinvolti il deltoide, il sopra e il sottospinoso, il dentato anteriore, il bicipite e il tricipite brachiale; occasionalmente sono presenti fascicolazioni.
Le lesioni traumatiche indirette sono rare, poichè il plesso è protetto da solide strutture ossee e muscolari, mentre nei traumi diretti la sintomatologia specifica è oscurata dalle concomitanti lesioni viscerali. Le lesioni isolate sono più frequenti nei tumori degli organi del piccolo bacino, e come conseguenza di parti laboriosi o interventi ginecologici. La lesione delle radici più alte (L 1-L2) determina un deficit della flessione della coscia sul bacino (ileopsoas, nervo femorale) e dell’estensione della gamba sulla coscia (quadricipite, nervo femorale) con difficoltà specialmente nel salire le scale; il deficit sensitivo interessa la superficie anteriore e mediale della coscia; il riflesso rotuleo è abolito. La lesione delle radici più basse (L3-L4) determina, oltre al deficit dell’estensione della gamba (quadricipite), un grave deficit dell’adduzione della coscia (adduttori grande, breve e lungo; pettineo e gracile) e scomparsa del riflesso adduttore della coscia.
Plesso sacrale (L5-S5) (Fig. 33.9) Le lesioni traumatiche indirette sono rare, e quelle dirette si verificano usualmente in corso di parti prolungati e difficili, specie quando il peso del neonato è superiore alla norma, e per tumori del piccolo bacino.
1354 Malattie del sistema nervoso NERVO TORACICO LUNGO (C5-C6-C7). – Il nervo toracico lungo prende origine dal tronco superiore. La lesione si verifica nei soggetti che compiono lavori che comportano un abbassamento forzato della spalla per trasporto di oggetti pesanti e trazioni prolungate a livello della spalla, per trazioni improvvise della spalla, per incidenti motociclistici, per errata posizione della spalla durante interventi chirurgici (specie in posizione di Trendelenburg) o per ferite penetranti. Si manifesta con dolore acuto alla spalla e riduzione di forza nei movimenti di elevazione del braccio oltre il piano orizzontale (muscolo dentato anteriore); un segno caratteristico è la «scapola alata»: in particolare l’elevazione anteriore o l’abduzione dell’arto superiore solleva la scapola e determina una rotazione verso l’esterno del suo margine vertebrale che si distanzia dalla linea mediana e dalla parete toracica. Il fenomeno si pone in maggiore evidenza facendo appoggiare con forza le mani ad una parete ad arti superiori estesi (Fig. 33.10). NERVO SOPRASCAPOLARE (C5-C6). – È un nervo prevalentemente motorio che origina dal tronco superiore. Le Fig. 33.9 - Plesso lombosacrale
Il quadro clinico è simile a quello che si rileva per lesione del nervo sciatico.
Sindromi da lesione di singoli tronchi nervosi NERVO FRENICO (C3-C4-C5). – Innerva il diaframma e può essere leso per interventi chirurgici al collo, o compresso da aneurismi dell’aorta, da tumori del mediastino, e da neoplasie con metastasi ai linfonodi mediastinici. L’esordio consiste in tosse stizzosa, più raramente singhiozzo, associato a dolore localizzato alla regione sopraclaveare; successivamente la paralisi del diaframma, rendendo impossibile l’abbassamento della base polmonare durante l’inspirazione, è causa di una ridotta escursione della base polmonare, di un mancato abbassamento del fegato e della retrazione della parte superiore della parete addominale. Se la paralisi è unilaterale, la dispnea è avvertita solo dopo sforzo. La diagnosi di paralisi del diaframma è facilmente confermata in scopia. NERVO DORSALE DELLA SCAPOLA (C4-C5-L6). – È un nervo prevalentemente motorio, che origina dal tronco superiore e si distribuisce all’elevatore della scapola ed al romboide. La lesione isolata è rara e clinicamente poco apprezzabile ed è in genere associata alle malformazioni costo-cervicali responsabili della sindrome dello stretto toracico.
Fig. 33.10 - Esiti di lesione post-sieroterapica del nervo toracico lungo. «Scapola alata» da deficit del muscolo grande dentato (osservazione Millefiorini).
Malattie dai nervi periferici 1355 lesioni isolate sono dovute, in genere, a trauma occupazionale, nei lavori che comportano ampi spostamenti della spalla, specialmente la adduzione forzata del braccio oltre la linea mediana, che provoca uno spostamento della scapola lateralmente e in avanti e lo stiramento del nervo a livello dell’incisura soprascapolare. La sintomatologia consiste in deficit nell’abduzione dell’arto superiore (m. sopraspinoso), compensata dal deltoide, e nella rotazione esterna dell’arto (m. sottospinoso) compensata dal piccolo rotondo e dal deltoide. Il dolore, specie nei movimenti della scapola, è il sintomo dominante, soprattutto nelle lesioni traumatiche dirette o indirette della spalla (fratture da caduta dello scafoide, fratture di Colles, fratture della testa del radio). La conseguente immobilità dell’arto riduce l’escursione dell’articolazione scapolo-omerale, impone alla scapola spostamenti più ampi determinando così un ulteriore stiramento del nervo. L’esistenza di una neuropatia del soprascapolare va tenuta sempre presente nelle cosiddette «artralgie posttraumatiche» della spalla: oltre ai segni sopra indicati si osserva una riduzione della motilità della spalla, con dolore a riposo specie notturno, ma accentuato ad ogni movimento. Per sbloccare l’articolazione scapolo-omerale occorre un trattamento fisioterapico, eventualmente con sezione chirurgica del legamento coraco-acromiale, e con infiltrazioni anestetiche o cortisoniche a livello del forame soprascapolare. NERVO ASCELLARE O CIRCONFLESSO (C5-C6). – È un nervo misto che origina dalla corda posteriore del plesso brachiale. La lesione isolata è rara e si osserva dopo ferite penetranti o traumi alla spalla, specie se con frattura o con lussazione inferiore della testa dell’omero, o per pressione prolungata sull’ascella, ad esempio per uso di stampelle. La lesione si manifesta con ipofunzione dell’abduzione, flessione e estensione della spalla (muscoli deltoide e piccolo rotondo) e con ipo-atrofia del deltoide, facilmente rilevabile all’esame obiettivo. Può coesistere ipoestesia superficiale in corrispondenza della cute della porzione prossimale esterna della spalla. NERVO MUSCOLOCUTANEO (C5-C6-C7) (33.11) – È un nervo misto, che origina dalla corda laterale del plesso brachiale. Le lesioni isolate del nervo muscolocutaneo sono rare e si manifestano con paresi della flessione e supinazione dell’avambraccio (muscolo bicipite e brachiale); il deficit è parzialmente compensato dall’azione del pronatore rotondo e del brachioradiale. Le alterazioni del trofismo muscolare sono invece più facili da evidenziare per la localizzazione dei muscoli relativi sulla faccia anteriore dell’avambraccio. Le turbe sensitive a causa della sovrapposizione del territorio di innervazione
Fig. 33.11 - Anatomia del n. muscolocutaneo.
con i nervi limitrofi, consistono in una ipoestesia superficiale limitata ad una ristretta area cutanea lungo il margine radiale dell’avambraccio. NERVO MEDIANO (C5-C6-C7-C8-T1). – È un nervo misto che origina con due capi, l’esterno e l’interno, dalla corda laterale e media del plesso brachiale (Fig. 33.12). Il nervo mediano, decorre in posizione mediale nel braccio, attraversa il gomito anteriormente, si dispone, nell’avambraccio, fra i due capi del muscolo pronatore e si dirige così verso il polso, ove si impegna, insieme con i legamenti flessori, sotto il legamento carpale trasverso che forma il tetto del tunnel carpale. Al braccio il nervo può essere leso per fratture dell’omero, o per alterazioni vascolari (aneurismi dell’arteria ascellare, legatura chirurgica dell’arteria brachiale). Spesso, in tale sede, la compromissione del nervo mediano è associata alla sofferenza dei nervi radiale e ulnare. Al gomito e all’avambraccio il nervo può essere danneggiato da fratture sopracondiloidee e lussazioni anteriori dell’omero o fratture del radio o dell’ulna; oppure può essere compresso nel suo passaggio attraverso i due capi del muscolo pronatore. Tuttavia il nervo mediano è più frequentemente leso al polso, per ferite da taglio o fratture del radio, ma soprattutto per compressione del nervo nel canale carpale
1356 Malattie del sistema nervoso
Fig. 33.12 - Anatomia del n. mediano.
(sindrome del tunnel carpale). Infine, alla mano, si possono verificare lesioni occupazionali del mediano, per l’uso di strumenti che esercitano una pressione ripetuta sulla superficie palmare (martelli pneumatici, ecc.). Le lesioni del nervo al braccio determinano compromissione di tutti i muscoli innervati dal nervo mediano e si manifestano con: paralisi della pronazione dell’avambraccio (muscoli pronatore rotondo e pronatore quadrato); paralisi della flessione del polso (flessore radiale del carpo e palmare lungo) che può essere, in parte, compensata quando la mano viene deviata verso il lato ulnare, dal muscolo flessore ulnare del carpo, innervato dal n. ulnare; paralisi della flessione della seconda falange delle ultime quattro dita (flessore superficiale delle dita); paralisi della flessione delle falangi prossimali e distali del 2° e 3° dito. In corrispondenza della mano sono compromessi il muscolo abduttore del pollice, l’opponente del pollice e il flessore lungo del pollice cui consegue deficit di abduzione e opposizione e difficoltà nella flessione delle falangi distali del pollice (Fig. 33.13 e 33.14). I movimenti di flessione della falange distale del pollice e di opposizione e abduzione palmare del pollice (quest’ultimo va esaminato su un piano ad angolo retto con la superficie palmare della mano) sono fortemente compromessi per la paralisi dei muscoli flessore lungo,
Fig. 33.13 - Atteggiamento della mano nella lesione del nervo mediano sinistro. Impossibilità all’opposizione del pollice.
Malattie dai nervi periferici 1357
Fig. 33.14 - Atteggiamento della mano nella lesione del nervo mediano sinistro. Impossibilità a serrare il pugno.
opponente e abduttore breve del pollice. Il paziente può afferrare un oggetto fra la base del pollice e dell’indice, ma non avvicinare l’estremità del pollice all’estremità di un altro dito. L’ipotrofia muscolare si distribuisce tipicamente alla massa muscolare inserita sull’epicondilo mediale dell’omero e all’eminenza tenar. Le turbe sensitive interessano la metà radiale della superficie palmare della mano e delle prime tre dita, e le falangi distali dell’indice e medio; si ha inoltre perdita della sensibilità profonda delle falangi terminali dell’indice e del medio (Fig. 33.15). La sindrome del tunnel carpale, che si manifesta soprattutto nel sesso femminile, nell’età adulta e spesso bilateralmente, è la più comune neuropatia da intrappolamento. Può essere causata da varianti anatomiche che
Fig. 33.15 - Territorio di distribuzione cutanea del nervo mediano.
restringono il tunnel carpale, ma più spesso è dovuta a cause acquisite: infiltrazioni infiammatorie dei tessuti costituenti il tunnel carpale e dei tendini (tenosinoviti isolate o in corso di artrite reumatoide o altre connettiviti); tumefazione dei tessuti molli in corso di dialisi, ipotiroidismo, acromegalia, amiloidosi primaria o secondaria, gravidanza; presenza di tofi gottosi, aumentata suscettibilità del nervo alla compressione per diabete mellito o neuropatia ereditaria. Spesso tuttavia la causa non è apparente. Un importante ausilio diagnostico può essere fornito dalla ecografia del tunnel carpale con tradsuttori ad elevata frequenza e dalla RM, che forniscono immagini sufficientemente nitide delle strutture anatomiche del tunnel carpale e della sua vascolarizzazione (figura), consentendo in taluni casi l’individuazione della patologia responsabile (figura). Il deficit motorio è limitato ai movimenti di opposizione e abduzione palmare del pollice, e l’ipotrofia alla eminenza tenar (Fig. 33.16). I disturbi sensitivi, assai caratteristici, sono inizialmente costituiti da parestesie e dolori nel territorio di distribuzione cutanea del nervo, ad insorgenza soprattutto notturna. I pazienti riferiscono “sensazione di formicolio e addormentamento”, abitualmente alle prime tre dita della mano, che spesso sono causa di risveglio notturno. Può anche essere presente dolore che risale fino all’avambraccio e raramente alla spalla. I disturbi oggettivi delle sensibilità compaiono in genere più tardivamente e sono costituiti da ipoestesia in corrispondenza della superficie palmare delle prime tre dita. La sindrome del tunnel carpale è frequentemente bilaterale.
1358 Malattie del sistema nervoso
Fig. 33.16 - Sindrome del canale carpale di destra. Atrofia dell’eminenza tenar (osservazione Millefiorini).
Diagnosi. – I disturbi più tipici sono l’impossibilità a flettere la seconda falange dell’indice e del medio tenendo ferma la prossimale e l’impossibilità ad afferrare un oggetto tra la punta del pollice e la punta di un altro dito. Se si invita il malato a serrare il pugno, il pollice che normalmente si sovrappone, leggermente flesso, alla seconda falange dell’indice e del medio, rimane a causa della paralisi dell’opposizione e della flessione, esteso e posto lateralmente al dito indice, a sua volta incompletamente flesso (Fig. 33.14). In circa il 60% dei pazienti si osserva il segno di Tinel: la percussione del nervo al tunnel carpale provoca parestesie nel territorio di distribuzione del mediano (Bradley et al 2000). L’esame neurofisiologico più sensibile per la diagnosi di sindrome del tunnel carpale è la determinazione della velocità di conduzione sensitiva del nervo mediano che rivela un rallentamento della trasmissione del potenziale evocato sensitivo attraverso il polso nel 90% circa dei pazienti. Come detto, il nervo mediano può esser compresso anche in altre sedi connotando le seguenti sindromi da intrappolamento: 1) sindrome del nervo interosseo anteriore, 2) sindrome del muscolo pronatore quadrato, 3) sindrome da intrappolamento del nervo mediano al legamento di Struthers. Terapia. – La terapia chirurgica va riservata ai casi più gravi e consiste nella resezione chirurgica del legamento palmare del carpo.
NERVO ULNARE (C7 E SOPRATTUTTO C8-T1). – È un nervo misto che origina dalla corda media del plesso brachiale. Decorre nel braccio in posizione mediale per poi impegnarsi al gomito nella doccia olecranica, ed entrare nel tunnel ulnare, formato dal legamento mediale del gomito e dall’aponeurosi del muscolo flessore ulnare del carpo. Al polso il nervo ulnare passa tra l’osso piriforme e l’uncinato nel canale di Guyon (Fig. 33.17). Una sede di frequente lesione del nervo ulnare è al gomito, nella doccia olecranica o nel tunnel cubitale. Le lesioni del nervo si possono avere per fratture dell’omero, soprattutto se interessano l’epicondilo mediale o per sua compressione conseguente al callo osseo di una vecchia frattura (paralisi ulnare tardiva); al mantenimento prolungato del gomito in iperflessione; a compressione da parte di tessuti molli tumefatti per processi infiammatori; e infine per lesione del nervo da traumi minori nei punti in cui lo stesso decorre più superficialmente. Al polso e alla mano (canale di Guyon) il nervo ulnare può infine essere leso per ferite superficiali o per traumi occupazionali. La lesione completa del nervo determina: paresi della flessione del polso (flessore ulnare del carpo) in parte compensata dal flessore radiale del carpo innervato dal mediano; paresi della flessione delle falangi distali dell’anulare e del mignolo (flessore profondo delle dita) più accentuata per il mignolo (parte delle fibre destinate all’anulare sono innervate dal mediano); paralisi della flessione della falange prossimale e dell’estensione del-
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Fig. 33.17 - Anatomia del n. ulnare.
le falangi distali delle dita (muscoli interossei e 3° e 4° lombricale; in realtà solo i movimenti del mignolo e dell’anulare sono paralizzati, poichè per il medio e l’indice vi è un parziale compenso da parte del primo e secondo lombricale, innervati dal mediano); paralisi dell’abduzione e adduzione delle dita (muscoli interossei); paralisi dell’abduzione e dell’opposizione del mignolo (abduttore e opponente del quinto dito); paralisi dell’adduzione del pollice (adduttore del pollice) in parte compensata dall’azione del flessore lungo (n. radiale) del pollice. L’atrofia muscolare è visibile in corrispondenza del lato ulnare della faccia anteriore dell’avambraccio, degli spazi interossei, dell’eminenza ipotenar, della metà ulnare dell’eminenza tenar (adduttore del pollice). La mano assume un atteggiamento caratteristico, con l’anulare e il mignolo iperestesi alle articolazioni metacarpo-falangee, e flessi alla prima articolazione interfalangea (mano ad artiglio cubitale) (Fig. 33.18). L’atteggiamento, parzialmente evidente anche per il dito medio, è dovuto all’azione incontrastata degli estensori lunghi (n. radiale) che estendono la prima falange, e del muscolo flessore superficiale delle dita (n. mediano) che flette la seconda falange. Vi è perdita della sensibilità profonda del mignolo, ed ipoestesia sul bordo ulnare della mano, sul mignolo
e metà dell’anulare (Fig. 33.19). Nelle lesioni del nervo al polso solo i piccoli muscoli della mano sono compromessi. Fra le sindromi da intrappolamento quelle del nervo ulnare, nel loro insieme, possono ritenersi, in termini di frequenza, seconde solo alla sindrome del tunnel carpale. Diagnosi. – I sintomi tipici della paralisi ulnare sono: la caratteristica posizione della mano; l’incapacità a flettere la prima falange delle dita tenendo le falangi distali estese; la perdita dei movimenti di abduzione e adduzione delle dita, che va saggiata con la mano appoggiata su una superficie piana per evitare un compenso da parte dei flessori ed estensori lunghi. La paralisi dell’adduzione del pollice si mette in evidenza con il segno di Froment: in particolare, si chiede al paziente di trattenere un foglio di carta tra pollice ed indice, mentre ciò viene fatto normalmente afferrando il foglio fra la falange distale del pollice, che è mantenuto esteso, e la superficie radiale della prima e della seconda falange dell’indice, che è mantenuto flesso, nella lesione ulnare questo non è possibile, ed il paziente è costretto a flettere la falange distale del pollice, mettendo in azione il flessore lungo (n. mediano) (Fig. 33.20). Tuttavia in alcuni casi il test può risultare falsamente negativo, poiché l’adduzione può essere attuata, a pollice esteso, per azione dell’estensore lungo (n. radiale). Terapia. – Nei casi più lievi va sempre tentata una terapia conservativa evitando ripetute flessioni od estensioni del gomito eventualmente utilizzando apposite ortesi che proteggano anche il gomito dagli urti. Se la sintomatologia persiste, dopo il trattamento conservativo va considerata la terapia chirurgica che consiste nella decompressione del nervo nel tunnel cubitale mediante sezione della aponevrosi del muscolo flessore ulnare del carpo. In casi complicati (ad esempio per compressione del nervo da parte di strutture patologiche ossee o articolari, si può effettuare una trasposizione del nervo sulla faccia anterolaterale dell’avambraccio, al di fuori del tunnel cubitale. NERVO RADIALE (C5-C6-C7-C8 T1). – È un nervo prevalentemente motorio, che origina come prolungamento della corda posteriore del plesso brachiale e dopo aver attraversato l’ascella avvolge l’omero, dirigendosi verso la faccia laterale del braccio ove si divide in due rami terminali: il nervo interosseo posteriore e il nervo radiale superficiale (Fig. 33.21). Il nervo interosseo posteriore emerge all’avambraccio passando tra il ventre superficiale e profondo del muscolo supinatore, per distribuirsi ai muscoli estensori del polso e delle dita. Il nervo radiale superficiale scende lungo il margine laterale dell’avambraccio e si distribuisce alla cute di una parte del dorso della mano. Lesioni all’ascella del nervo radiale si possono avere per l’uso prolungato di stampelle o in occasione di frat-
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Fig. 33.18 - Atteggiamento «en griffe» della mano nella lesione del nervo ulnare sinistro.
ture del terzo superiore dell’omero. Al braccio, il nervo può essere compresso per il prolungato mantenimento di posizioni anomale (ad esempio, sul bordo del tavolo, o su un bracciolo di una poltrona). Infine il nervo può essere leso al gomito in occasione di fratture sopracondiloidee dell’omero, o fratture e lussazioni della testa del radio. La lesione completa determina: paralisi della estensione dell’avambraccio (muscolo tricipite); paralisi della
flessione dell’avambraccio (muscolo brachio-radiale) in parte compensata dall’azione del bicipite (nervo muscolo-cutaneo); paresi della supinazione dell’avambraccio (muscolo supinatore e brachio-radiale); il segno è evidente ad avambraccio esteso, poichè ad avambraccio flesso sopperisce il bicipite; paralisi della estensione della mano (estensori radiali lungo e breve e estensore ulnare del carpo): il movimento può essere parzialmente vicariato dalla flessione delle dita, che, stirando i tendini dell’esten-
Malattie dai nervi periferici 1361
Fig. 33.19 - Territorio di distribuzione cutanea del nervo ulnare.
Fig. 33.21 - Anatomia del n. radiale.
Fig. 33.20 - Atteggiamento della mano nella lesione del nervo ulnare destro. Il paziente non riesce ad afferrare il foglio a pollice esteso (segno di Froment).
sore comune delle dita, porta la mano in estensione; paralisi della abduzione radiale della mano (abduttore lungo del pollice); paralisi dell’abduzione radiale del pollice, che va esaminata sul piano del palmo della mano (abduttore lungo e estensore breve del pollice); paralisi dell’estensione della falange prossimale delle dita (estensore comune delle dita, estensore proprio dell’indice, estensore proprio del mignolo). I muscoli della faccia dorsale dell’avambraccio vanno incontro ad atrofia e il riflesso tricipitale è assente. La mano, ad avambraccio pronato e flesso al gomito, pende in flessione (Fig. 33.22). L’ipoestesia è generalmente limitata al dorso del pollice e al primo spazio interosseo. Diagnosi. – Il radiale è un nervo essenzialmente estensore, e il sintomo più tipico di lesione è l’incapacità ad estendere dorsalmente mano e dita. La mano appare in
posizione cadente. Per differenziare le lesioni del nervo da quelle della 7° radice spinale si valuta la contrazione del brachio-radiale (il muscolo è palpabile in corrispondenza del margine radiale, ad avambraccio flesso contro resistenza in posizione intermedia tra la pronazione e la supinazione) innervato dalle radici C5-C6, che è risparmiato nella lesione della 7° radice cervicale, mentre è compromesso nelle affezioni del nervo all’altezza dell’omero. NERVO CUTANEO LATERALE DELLA COSCIA (L2-L3). – È un nervo esclusivamente sensitivo che origina dal plesso lombosacrale ed esce dalla fossa iliaca, medialmente e al di sotto della spina iliaca anteriore superiore, attraversando il legamento inguinale. Il nervo cutaneo laterale della coscia innerva la superficie supero-esterna della natica e la superficie laterale della coscia (Fig. 33.23). Le cause più comuni di lesione del nervo cutaneo laterale della coscia sono intrappolamenti nel punto in cui il nervo si impegna nel legamento inguinale. Ciò può accadere per compromissione prolungata contro un piano rigido o per malposizionamenti durante interventi chirurgici. Talvolta un rapido aumento di peso o una gravidanza possono causare una sofferenza di questo nervo, che può essere anche compresso da neoplasie addomi-
1362 Malattie del sistema nervoso
Fig. 33.22 - Atteggiamento cadente della mano e delle dita nella lesione del nervo radiale destro.
nali, ematomi dell’ileopsoas, cinti erniari troppo stretti. Spesso tuttavia non si riesce ad evidenziare alcuna causa apparente. Una lesione del nervo cutaneo laterale della coscia causa una neuropatia sensitiva, detta meralgia parestesica. La sintomatologia è caratterizzata da parestesie, come sensazione di intorpidimento o formicolio, o da dolori (bruciori, punture di spillo, ecc.) localizzati sulla superficie esterna della coscia. I sintomi compaiono o sono aggravati dalla stazione eretta prolungata e dalla marcia, e dalla estensione forzata della coscia; sono alleviati o scompaiono in posizione seduta o con il riposo a letto. Possono rilevarsi disturbi obiettivi delle sensibilità superficiali nel territorio cutaneo di distribuzione del nervo; la compressione in corrispondenza del legamento inguinale, medialmente alla spina iliaca anteriore superiore, risulta dolorosa. Terapia. – Nella maggior parte dei casi non sintomatici i disturbi regrediscono spontaneamente, e non sono in genere invalidanti. Se la sintomatologia è intensa e realmente fastidiosa, sono indicate le infiltrazioni di
Fig. 33.23 - Territorio di distribuzione del nervo cutaneo laterale della coscia.
procaina in corrispondenza del legamento inguinale, vicino alla spina iliaca. Nei casi resistenti, dopo aver escluso che il nervo sia compresso nella cavità addominale, può essere indicato l’intervento di neurotomia, decompressione o trasposizione del nervo. NERVO FEMORALE (L2-L3-L4). – È un nervo misto, che origina dal plesso lombo-sacrale, decorre nel muscolo psoas, ed esce dal bacino al di sotto del legamento inguinale, per dividersi in alcuni rami collaterali per il muscolo quadricipite e per l’innervazione sensitiva della coscia anteriore (Fig. 33.24). Il nervo femorale si continua quindi in un unico ramo terminale, il nervo safeno, che si distribuisce alla faccia mediale della gamba, assicurandone l’innervazione sensitiva (Fig. 33.25). Il ner-
Malattie dai nervi periferici 1363
Fig. 33.25 - Territorio di distribuzione cutanea del nervo safeno, ramo cutaneo del nervo femorale.
Fig. 33.24 - Anatomia del n. femorale.
vo femorale può essere leso a causa di ematomi o ascessi freddi del muscolo psoas, per tumori del piccolo bacino, per fratture della pelvi o del femore; nel corso di interventi chirurgici riparativi di ernie inguinali o femorali. Il nervo safeno è occasionalmente leso negli interventi di safenectomia. Il nervo femorale è talora sede di emorragie in corso di malattie del sangue o terapie anticoagulanti o viene compresso da ematomi retroperitoneali. La lesione completa si manifesta con paresi della flessione della coscia sul bacino (muscoli ileo-psoas, sartorio, retto anteriore del quadricipite femorale), in parte compensata dal fatto che il muscolo ileo-psoas riceve in genere una innervazione collaterale; e paralisi della estensione della gamba sulla coscia (quadricipite femorale), che rende gravemente difficoltoso o impossibile il salire le scale. L’atrofia del quadricipite è visibile sulla faccia anteriore della coscia. Il riflesso rotuleo è abolito. L’anestesia interessa la superficie antero-mediale dell’arto.
NERVO OTTURATORIO (L2-L3-L4). – È un nervo prevalentemente motorio, che si forma entro il muscolo ileopsoas dal plesso lombosacrale e fuoriesce dal bacino attraverso il forame otturatorio. Innerva i muscoli adduttori della coscia (Fig. 33.26) ed una piccola area cutanea sulla faccia interna della coscia (Fig. 33.27). Può essere leso da tumori del piccolo bacino e da ernie, ma la causa più frequente è la prolungata pressione della testa del feto in parti laboriosi. La lesione si manifesta con paralisi della adduzione della coscia (adduttore lungo, breve e grande; gracile) e atrofia della faccia interna della coscia. I disturbi sensitivi obiettivi sono assenti o interessano la superficie mediale della metà inferiore della coscia. NERVO SCIATICO (L4-L5-S1-S2-S3). – È un nervo misto, ed è il più lungo e voluminoso del corpo. Origina dal plesso lombosacrale, e fuoriesce dal bacino attraverso la parte inferiore del forame ischiatico. Lungo tutto il decorso è diviso in due tronchi, uno mediale e l’altro laterale, uniti dall’epinervio; la divisione definitiva avviene all’angolo superiore della fossa poplitea: originano così il nervo peroneo comune (sciatico popliteo esterno) ed il nervo tibiale (sciatico popliteo interno) (Fig. 33.28). Il tronco dello sciatico innerva i muscoli semitendinoso, bicipite, semimembranoso, e parte del grande adduttore.
1364 Malattie del sistema nervoso
Fig. 33.26 - Anatomia del n. otturatorio.
Una lesione del tronco comune del nervo sciatico si può verificare per fratture o lussazioni dell’anca, per complicazioni da interventi chirurgici sull’anca, per compressione esterna durante uno stato di coma o un prolungato allettamento, da masse neoplastiche o durante la gravidanza, da ematomi in regione glutea o da endometriosi. La lesione completa del nervo produce la paralisi di tutti i movimenti del piede e delle dita e grave paresi della flessione della gamba sulla coscia (bicipite, semimembranoso, semitendinoso), in piccola parte compensata dai muscoli gracile (nervo otturatorio), e sartorio (nervo femorale). Nella marcia si osserva la caduta del piede in avanti (steppage), meno evidente che nelle lesioni isolate del nervo peroneo comune poichè manca l’azione degli antagonisti innervati dal tibiale. Tutta la muscolatura della gamba e della faccia posteriore della coscia si atrofizza. Il riflesso rotuleo è conservato, mentre mancano l’achilleo e il medioplantare. Vi è ipoestesia superficiale sulla faccia antero-esterna della gamba e di tutto il piede (Fig. 33.29), tranne una piccola zona sotto il malleolo interno, innervata dal safeno, ramo del nervo femorale. Si verificano inoltre im-
Fig. 33.27 - Territorio di distribuzione cutanea del nervo otturatorio.
ponenti disturbi vasomotori e trofici: per cui la gamba, in posizione declive, appare congesta ed edematosa e si possono sviluppare ulcere plantari. Spesso il sintomo più evidente è il dolore (sciatalgia) la cui intensità può essere tale da rendere totalmente inabile il paziente. Il dolore può essere confinato alla natica o alla regione sacro-iliaca; o estendersi lungo la superficie posteriore della coscia fino al ginocchio; o arrivare al polpaccio e alla superficie esterna del piede. Ogni movimento che stira il nervo, come la flessione della coscia a gamba estesa, evoca dolore (segno di Lasègue). La causa più frequente di dolori nel territorio sciatico è comunque la compressione delle radici L5-S1 per ernie discali, e viene trattata in un capitolo a parte. Diagnosi. – La diagnosi di compromissione del nervo sciatico non è difficile ed è basata sulla localizzazione del dolore e dei deficit. Clinicamente può essere difficile distinguere una sciatalgia da lesione radicolare (L5S1) rispetto ad una sciatalgia da lesione del nervo sciatico; nella prima, tuttavia, uno studio EMG evidenzia, abitualmente, segni di denervazione in corrispondenza
Malattie dai nervi periferici 1365
Fig. 33.29 - Territorio di distribuzione cutanea dell’intero nervo sciatico.
Fig. 33.28 - Anatomia del n. sciatico.
della muscolatura paravertebrale lombosacrale. Nella meralgia parestesica il dolore è sulla superficie esterna della coscia. NERVO PERONEO COMUNE O SCIATICO POPLITEO ESTERNO (L4-L5-S1). – Questo nervo staccatosi dallo sciatico percorre obliquamente la fossa poplitea, gira attorno la testa del perone e raggiunge la loggia anterolaterale della gamba ove rilascia un ramo collaterale (n. cutaneo laterale della gamba) per l’innervazione sensitiva della superficie esterna della gamba e quindi si divide nei rami peroneo profondo e peroneo superficiale (Fig. 33.30). Il primo corre anteriormente nella gamba fino alla caviglia e al dorso del piede. Innerva i muscoli flessori dorsali del piede e delle dita (tibiale anteriore, estensore lungo dell’alluce, estensore lungo delle dita, ed estensore breve delle dita) e assicura l’innervazione sensitiva di una piccola area cutanea compresa fra l’alluce e il 2° dito. Il nervo peroneo superficiale si distribuisce ai muscoli peronei lungo e breve ed innerva la cute della parte laterale e distale della gamba e il dorso del piede. Il nervo peroneo comune è il nervo più esposto a lesioni traumatiche, soprattutto in corrispondenza della
Fig. 33.30 - Anatomia del n. peroneo comune.
1366 Malattie del sistema nervoso fossa poplitea e della testa del perone, per ferite, lussazioni interne della testa della tibia, lussazioni e fratture della testa del perone, traumi locali, applicazione di bendaggi gessati, compressione fra la testa del perone e la superficie del letto in lunghe degenze. Talvolta un importante dimagrimento (ad esempio per interventi di diversione biliopancreatica nei grandi obesi) rende il nervo meno protetto rispetto alle strutture osteoligamentose circostanti, e pertanto più suscettibile al danno da compressione anche lieve. In questi casi un fattore favorente l’insorgenza della mononeuropatia può anche essere lo stato di relativa denutrizione con ipovitaminosi B o E. Inoltre il nervo peroneo comune è particolarmente sensibile all’ischemia, probabilmente perchè i vasi nutritizi sono superficiali e facilmente vulnerabili dalla compressione. Infine, le fibre del peroneo comune sono compromesse preferenzialmente nelle lesioni del tronco dello sciatico. La lesione completa determina: paralisi della flessione dorsale del piede (muscoli tibiale anteriore, estensore lungo delle dita, estensore lungo dell’alluce); paralisi della flessione dorsale dell’alluce (estensore lungo dell’alluce ed estensore breve delle dita); paralisi del movimento di sollevamento del margine mediale del piede (tibiale anteriore); paralisi del movimento di sollevamento del margine laterale del piede (muscoli peroneo lungo e breve). I muscoli della loggia anteriore della gamba vanno incontro ad ipotrofia. Le turbe sensitive sono in genere limitate al dorso del piede, poichè quando la lesione è a livello della testa del perone, come avviene nella maggioranza dei casi, il ramo cutaneo laterale della gamba si è già staccato. Sono inoltre relativamente frequenti i disturbi trofici. La sindrome da intrappolamento del nervo peroneo comune è la neuropatia compressiva più frequente a livello degli arti inferiori. Diagnosi. – All’esame obiettivo la sindrome da lesione del nervo peroneo comune è facilmente individuabile per la caratteristica andatura: il paziente non è capace di sollevare la punta del piede e, nel fare il passo, deve alzare esageratamente la coscia per evitare di inciampare («steppage»). Non è capace di camminare sui talloni; nè di sollevare la punta del piede quando è in piedi o quando è seduto. Un posto a parte spetta alla sindrome del tibiale anteriore (sindrome compartimentale), che è dovuta ad una lesione ischemica e compressiva delle strutture muscolari e nervose della loggia anteriore della gamba (muscoli tibiale anteriore, estensore comune delle dita, nervo peroneo profondo). Si verifica in seguito a sforzi prolungati come lunghe camminate in soggetti non allenati; o per traumi locali. Tutto ciò è causato dal fatto che essendo la loggia anteriore una cavità osteo-fasciale non estensibile, l’aumento improvviso di volume del conte-
nuto (in genere per edema da sforzo del muscolo tibiale anteriore) provoca un’occlusione dei vasi tibiali anteriori e una necrosi ischemica e compressiva del tessuto muscolare e del nervo. La rigenerazione delle fibre del peroneo profondo è, nei casi conclamati, scarsa, poiché il nervo va incontro ad un’imponente fibrosi. La sintomatologia, ad insorgenza acuta, è costituita da dolore intenso al terzo medio ed inferiore della faccia anteriore della gamba, esacerbato dai movimenti e dalla palpazione, con arrossamento, calore e tensione della cute corrispondente, salienza turgida e dura del tibiale anteriore che appare notevolmente ingrossato, paralisi della dorsiflessione del piede e ipoestesia del territorio soprastante il primo spazio interosseo del piede. Il quadro acuto si esaurisce in pochi giorni, mentre il deficit funzionale rimane di solito invariato, o appena compensato dal frequente risparmio del muscolo estensore comune delle dita. La terapia consiste nella incisione longitudinale precoce della fascia allo scopo di decomprimere la loggia. NERVO TIBIALE O SCIATICO POPLITEO INTERNO (L5-S1-S2S3). – Il nervo tibiale è la continuazione del tronco dello sciatico; attraversa la fossa poplitea e si dispone profondamente al muscolo gastrocnemio fino alla caviglia, ove si impegna nel tunnel tarsale per dividersi poi nei rami calcaneale e in due nervi plantari. Lesioni isolate di questo nervo sono piuttosto rare, dato il suo decorso profondo e si possono verificare in occasione di fratture delle ossa della gamba. Inoltre il nervo può essere compresso al di sotto del malleolo interno, nel punto ove passa sotto il retinacolo dei flessori (sindrome del canale tarsale). La lesione completa si manifesta con paralisi della flessione plantare del piede (muscoli tricipite della sura, soleo, flessore lungo delle dita, flessore lungo dell’alluce, tibiale posteriore); paralisi del movimento di spostamento della punta del piede all’interno (tibiale posteriore) in parte corretta dall’azione del muscolo tibiale anteriore (nervo peroneo profondo); paralisi della flessione plantare delle dita (flessore lungo delle dita) e dell’alluce (flessore lungo dell’alluce), paralisi della separazione delle dita (interossei). I riflessi achilleo e medio-plantare sono aboliti. Si verifica inoltre ipoestesia sulla superficie posteriore della gamba e sulla pianta del piede e atrofia del polpaccio. La sindrome del canale tarsale si caratterizza per l’insorgenza di dolore al piede e alla caviglia e parestesie alla pianta del piede. Diagnosi. – Sul piano obiettivo si osserva che il paziente coricato non riesce a flettere plantarmente il piede; seduto non riesce a sollevare il tallone dal pavimento; in piedi non riesce a mettersi sulla punta del piede e camminando non stacca il tallone dal suolo.
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Forme cliniche secondo l’eziologia Malattie del Sistema Nervoso Periferico. Mononeuropatie, Polineuropatie e Multineuropatie Per le mononeuropatie si rimanda alla sezione precedente. Le multineuropatie sono in rapporto con la compromissione del SNP in tempi successivi, interessando in maniera multifocale i tronchi nervosi, e sono in genere dovute a malattie infettive, o processi ischemici o infiammatori quali, ad es., le vasculiti. Dopo un certo periodo di tempo le multineuropatie , se colpiscono numerosi nervi periferici, si presentano tuttavia, sul piano clinico, come una polineuropatia e solo una accurata indagine anamnestica può permettere di individuarne il diverso decorso. Le polineuropatie si caratterizzano per una compromissione bilaterale, simmetrica e sincrona dei tronchi nervosi periferici e sono in genere causate da fattori eziologici che agiscono diffusamente sul SNP, quali sostanze tossiche, malattie sistemiche o metaboliche o immunomediate o malattie geneticamente determinate. La classificazione delle diverse forme di polineuropatia e multineuropatia può basarsi sul decorso, sulla prevalente compromissione del versante sensitivo o motorio, sulla più accentuata compromissione della componente assonale o mielinica. In mancanza di precisi criteri generali, la classificazione delle malattie del SNP è necessariamente empirica e fa riferimento quindi ai fattori eziopatogenetici più evidenti (Tabella 33.1).
Tabella 33.1 - Classificazione delle neuropatie periferiche. NEUROPATIE
GENETICHE
Neuropatie motorie Neuropatie sensitivo-motorie Neuropatie sensitive o sensitivo-autonomiche Neuropatie associate a degenerazione spinocerebellare Neuropatia giganto-assonale Neuropatie metaboliche NEUROPATIE ASSOCIATE A MALATTIE SISTEMICHE Neuropatia diabetica Neuropatia associate a neoplasie Neuropatia associate a discrasie ematiche Neuropatia uremica Neuropatia in corso di malattie epatiche Neuropatia in corso di paraproteinemia Neuropatia in corso di vasculite Neuropatia alcolica e e neuropatie carenziali Neuropatia in ricoverati nelle unità di terapia intensiva Neuropatia in corso di malattie endocrine Neuropatia in corso di insufficienza respiratoria cronica NEUROPATIE TOSSICHE NEUROPATIE
INFETTIVE
Neuropatia in corso di lebbra Neuropatia in corso di infezione da HIV Neuropatia in corso di infezione da HCV Neuropatia in corso di malattia di Lyme Neuropatia difterica Neuropatia in corso di malattia di Chagas NEUROPATIE
INFIAMMATORIE DEMIELINIZZANTI
Sindrome di Guillain-Barrè Poliradiculoneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica Neuropatia motoria multifocale
Neuropatie genetiche Le neuropatie ereditarie costituiscono un gruppo complesso ed eterogeneo di malattie del SNP, abitualmente caratterizzate da esordio insidioso e decorso cronico. L’inquadramento nosografico delle neuropatie geneticamente determinate, reso difficile proprio dalla loro ete-
rogeneità genetica, clinica, neurofisiologica e neuropatologica, è stato rivoluzionato dalle recenti acquisizioni di genetica molecolare, che hanno consentito di identificare numerosi geni responsabili di specifici quadri clinici.
1368 Malattie del sistema nervoso
Classicamente venivano distinte le neuropatie ereditarie con difetto metabolico noto (neuropatie metaboliche) (v. pag. 1573) e le neuropatie ereditarie cosiddette degenerative, a difetto metabolico ignoto. Queste ultime si classificavano, in base al fenotipo clinico/ neurofisiologico, alla modalità di trasmissione ed al gruppo di neuroni prevalentemente coinvolti, in neuropatie ereditarie motorie, sensitivo-motorie e sensitivo-autonomiche. Per le forme motorie pure e per le forme sensitivoautonomiche tale classificazione conserva ancora significato. Le forme sensitivo-motorie che, per la predominanza dei disturbi motori, dovrebbero in realtà essere definite motoriosensitive (donde la definizione anglosassone “hereditary motor and sensory neuropathies o HMSN”), sono state recentemente identificate con il classico eponimo di Malattia di Charcot-Marie-Tooth, che può in pratica essere considerato sinonimo di HMSN. Forme motorie pure Sono caratterizzate da progressiva atrofia muscolare neurogena, in assenza di disturbi sensitivi e sono di difficile distinzione ripetto alle atrofie muscolari spinali, con le quali sono descritte (v. pag. 1280). Forme sensitivo-motorie MALATTIA DI CHARCOT-MARIE-TOOTH (CMT) E NEUROPATIE CORRELATE
Denominate anche neuropatie ereditarie sensitivomotorie (NESM), atrofie muscolari peroneali o con l’acronimo HMSN, costituiscono il gruppo più vasto di neuropatie genetiche, ad eredità autosomica dominante o recessiva, rappresentano circa il 90% di tutte le neuropatie ereditarie, con una prevalenza, negli Stati Uniti, di 40:100.000 abitanti. La CMT è pertanto più comune di malattie come la miastenia gravis o la distrofia muscolare di Duchenne (Lovelace e Rowland,1995). Le neuropatie ereditarie sensitivo-motorie sono caratterizzate da un deficit periferico distale, prevalentemente motorio con ipostenia, ipo/atrofia peroneale, ipore-
flessia osteotendinea, associato a modeste alterazioni sensitive quali ipoestesia superficiale e profonda a distribuzione distale. Le turbe delle sensibilità profonde si manifestano soprattutto con ipopallestesia e disequilibrio (Dyck et al., 1994). Poiché un corretto inquadramento nosografico deve essere funzionale all’utilizzo nella pratica clinica quotidiana e non fine a se stesso, recentemente è stata proposta una semplice classificazione in CMT a carattere demienilizzante e CMT a carattere assonale (Schenone e Mancardi, 1999; Reilly, 2000). Questa divisione è effettuata in base alle caratteristiche neurofisiologiche e riprende la classica distinzione fra HMSN demielinizzante con VC dei nervi periferici <38 m/sec e HMSN assonale con VC dei nervi periferici >38 m/sec. (Harding e Thomas, 1980; Dyck, 1993). In base alle caratteristiche cliniche e genetiche nell’ambito delle forme demielinizzanti si distinguono sei sottogruppi ed in quelle assonali si individuano tre sottogruppi (Reilly 2000) (Tab. 33.2). Il ruolo del neurologo nell’approccio ad un paziente affetto da sospetta neuropatia ereditaria sensitivo-motoria è pertanto quello di rispondere al quesito fondamentale se si tratti di una forma demielinizzante o assonale e se dalla storia familiare si possano trarre informazioni sulla modalità di trasmissione ereditaria. Queste informazioni sono infatti indispensabili per orientare la diagnostica genetico-molecolare, che spetta al genetista. Passeremo ora in rassegna le singole forme cliniche, cercando di sottolineare gli elementi diagnositici differenziali più importanti.
FORME DEMIELINIZZANTI CMT 1 Ad ereditarietà autosomica dominante o legata al cromosoma X, a seconda del locus coinvolto, comprende le seguenti forme: forma 1A, 1B, 1C e 1X. La 1A è la forma più frequente, associata ad una duplicazione di 1.5 Mb, situata sul cromosoma 17p11.2 (Lupsky et al., 1991), all’interno della quale è contenuto, fra gli altri, il gene di una proteina correlata alla mielina, la proteina mielinica periferica 22 (PMP-22) (Matsunami et al., 1992). La presenza del gene per la PMP-22 all’interno della regione duplicata e la successiva osservazione che in alcune famiglie lo stesso quadro clinico era sostenuto da mutazioni puntiformi in tale gene, hanno indotto a concludere che una aumentata espressione della PMP-22, secondaria alla presenza nei soggetti affetti di tre copie del gene che codifica per questa proteina, sia responsabile della malattia. La CMT 1A può anche manifestarsi in maniera sporadica; la maggior parte di tali casi è dovuta alla comparsa di duplicazioni «de novo» nella regione 17p11.2 (Hogendijk et al., 1992).
Malattie dai nervi periferici 1369 Tabella 33.2 - Neuropatie ereditarie sensitivo-motorie a tipo Charcot-Marie-Tooth (CMT) e neuropatie correlate. Tipo clinico
Ereditarietà
1. Demielinizzanti Charcot-Marie-Tooth tipo 1 autosomica dominante (CMT1/HMSNI) CMT 1A AD CMT 1B CMT 1C CMT 1D
AD AD AD
Locus/gene
Duplicazione 17p11.2/PMP22 Mutazione puntiforme PMP22 Mutazione puntiforme P0 Sconosciuto Mutazione puntiforme EGR2
Charcot-Marie-Tooth tipo 1 x-linked (CMT1X) CMT 1X X-linked
Mutazione puntiforme Cx32
Dejerine-Sottas Disease (DSD/HMSN III) DSD A AD (AR) DSD B AD (AR) DSD C AD DSD D AD DSD E AD
Mutazione puntiforme PMP22 Mutazione puntiforme P0 Mutazione puntiforme EGR2 Legato al locus 8q23-24 Mutazione puntiforme Periassina
Neuropatia Ipomielinizzante Congenita (NIC) NIC A AD NIC B AD NIC C AD (AR)
Mutazione puntiforme PMP22 Mutazione puntiforme P0 Mutazione puntiforme EGR2
Neuropatia ereditaria con aumentata suscettibilità dei nervi al danno da compressione (HNPP) HNPP A AD Delezione 17p11.2/PMP22 Mutazione puntiforme PMP22 HNPP B AD Sconosciuto Forme autosomiche recessive di Charcot-Marie-Tooth tipo 1 (CMT1 AR) CMT1 AR A (CMT4A) AR CMT1 AR B1 (CMT4B1) AR CMT1 AR B2 (CMT4B2) AR CMT1 AR C AR CMT1 AR D (HMSNL) AR CMT1 AR E (CCFDN) AR CMT1 AR F (CMT4F) AR
Legata al locus 8q13-21.1 Mutazione puntiforme MTMR2 Legata al locus 11p15 Legata al locus 5q23-q33 Mutazione puntiforme NDRG1 Legata al locus 18q Legata al locus 19q13.1-13.3
2. Forme Assonali Charcot-Marie-Tooth tipo 2 autosomica dominante (CMT2/HMSNII) CMT 2A AD CMT 2B AD CMT 2C AD CMT 2D AD CMT 2E AD CMT 2F AD CMT 2G AD
Legata al locus 1p35-p36 Legata al locus 3q13-q22 Sconosciuta Legata al locus 7p14 Mutazione puntiforme NF-L Mutazione puntiforme P0 Legata al locus 3q13.1
Charcot-Marie-Tooth tipo 2 X-linked (CMT2X) CMT 2X X-linked
Legata al locus Xq24-q26
Forme autosomiche recessive di Charcot-Marie-Tooth tipo 2 CMT2 AR A AR CMT2 AR B AR
Legata al locus 1q21.2-21.3 Sconosciuta
AD: autosomica dominante; AR: autosomica recessiva; PMP22: proteina mielinica periferica di 22kD; P0: proteina mielinica zero; EGR2: “early growth response 2 gene”; Cx32: connessina 32; MTMR2: “myotubularin related protein 2”; NDRG1: “Nmyc downstream regulated gene 1”; NF-L: “neurofilament-light gene”.
1370 Malattie del sistema nervoso La CMT 1B, assegnata mediante studi di «linkage» al cromosoma 1, è stata recentemente associata a mutazioni puntiformi nel gene di un’altra proteina correlata alla mielina, la P0, che mappa sul cromosoma 1 nella regione 1q22.q23 (Hayasaka, 1993). La CMT 1C, piuttosto rara, viene definita dall’assenza di rapporto sia con i markers per il cromosoma 1 che con quelli per il cromosoma 17. Debbono pertanto esistere altri loci, per il momento sconosciuti, responsabili di queste forme. La CMT 1D, rara, è legata a mutazioni puntiformi nel gene che codifica per un fattore di trascrizione che controlla le fasi inziali del processo di mielinizzazione, l’ “early growth response gene 2” (EGR2) (Warner, 1998) La CMT 1X ha ereditarietà caratteristica, collegata al cromosoma X (trasmissione materna, maschi affetti e femmine portatrici, assenza di trasmissione maschiomaschio), ed è stata recentemente collegata a mutazioni puntiformi nel gene per la connessina 32, che mappa nella regione Xq13.1 (Bergoffen et al., 1993). Sintomatologia. – Le diverse forme non differiscono fra loro in maniera sostanziale. Si manifestano nella 2ª-3ª decade di età, con ipostenia distale a carattere lentamente progressivo; i muscoli più usualmente colpiti sono: i tibiali anteriori, gli estensori propri dell’alluce, i gastrocnemi. L’esordio dimostra disturbi della marcia, impacciata ed incerta, e di solito il malato riferisce, come disturbo iniziale, la difficoltà a correre; successivamente l’andatura diventa steppante, e le cadute sono frequenti; i muscoli distali degli arti inferiori diventano atrofici, realizzando un’atrofia peroneale. Gli arti superiori possono essere normali o solo lievemente affetti, sempre con una distribuzione prevalentemente distale di ipostenia ed ipotrofia. I disturbi sensitivi, consistenti in parestesie, ipoestesia superficiale e profonda, sono abitualmente lievi o del tutto assenti. Coesistono malformazioni osteomuscolari: piede cavo, deformazione delle dita del piede che assumono forma «a martello». Talora esiste ipertrofia dei nervi periferici, che raggiunge proporzioni tali da rendere palpabili i nervi più superficiali (ad es., il nervo retroauricolare). I malati più gravemente affetti possono presentare un tremore intenzionale ed attitudinale (tremore periferico: v. pag. 65). Esami complementari. – L’elettrofisiologia dimostra una velocità di conduzione motoria e sensitiva diffusamente e gravemente alterata; una velocità di conduzione motoria inferiore ai 38 m/sec. sui nervi mediano ed ulnare, costituisce il criterio diagnostico fondamentale, rispetto alle forme cosiddette assonali di CMT, in cui la velocità di conduzione motoria è invariabilmente superiore ai 38 m/sec. Agli arti inferiori spesso non è registrabile alcun potenziale di azione motoria. Anche la velo-
cità di conduzione sensitiva è tipicamente gravemente alterata e talora non è registrabile alcun potenziale di azione sensitiva. I comuni esami bioumorali e l’esame del liquor cefalorachidiano sono normali. La biopsia di nervo periferico può considerarsi diagnostica poichè mostra il quadro tipico di una neuropatia ipertrofica, con iperplasia del connettivo endonevriale, grave perdita di fibre mielinizzate, de e rimielinizzazione sulle fibre superstiti e proliferazione concentrica del citoplasma delle cellule di Schwann intorno a fibre con guaina mielinica sottile, a formare immagini chiamate «onion bulbs», per la somiglianza con «i bulbi di cipolla» (Fig. 33.31). Nella CMT 1X si possono osservare anche segni neuropatologici di sofferenza assonale, quali “clusters” di piccole fibre mielinizzate o assoni di diametro ridotto rispetto allo spessore mielinico. Recentemente gli studi di genetica molecolare, con un semplice prelievo di sangue, consentono tuttavia di evidenziare il quadro genetico tipico delle diverse forme di CMT 1, rendendo superflua la biopsia di nervo a scopo diagnostico.
Fig. 33.31 - Malattia di Charcot Marie Tooth tipo 1. Marcati aspetti di ipertrofia Schwannica a «bulbo di cipolla» (blu di tolouidina, × 250).
Decorso e prognosi. – Il decorso è assai lentamente, progressivo con fasi di stato che durano anche anni. La prognosi «quoad vitam» può esser pertanto considerata ottima e quella «quoad valetudinem» assai favorevole, visto che l’evoluzione verso una forma disabilitante è piuttosto rara. I pazienti affetti da CMT sviluppano con maggiore frequenza, rispetto ai soggetti normali, neuropatie infiammatorie demielinizzanti acute e croniche. Terapia. – Non è disponibile al momento alcun presidio terapeutico specifico. In prospettiva futura non appare azzardato considerare le neuropatie geneticamente determinate forme in cui una terapia genica potrebbe avere successo.
Malattie dai nervi periferici 1371
Malattia di Dejerine-Sottas (DSD) Classicamente ritenuta ad ereditarietà autosomica recessiva e clinicamente sovvrapponibile ad una forma particolarmente grave di CMT 1, è abitualmente associata a mutazioni puntiformi nei geni per due proteine mieliniche, la PMP-22 (DSD A) e la P0 (DSD B) (Chance and Reilly, 1994). Recentemente sono stai osservati casi di DSD associati a mutazioni puntiformi di EGR 2 (DSD C) , legati al cromosoma 8q23-24 (DSD D) o da mutazione puntiforme del gene che codifica per la periaxina (DSD E) (Reilly, 2000). Le mutazioni fino ad ora descritte, si manifestano allo stato eterozigote e presuppongono pertanto un’ereditarietà di tipo autosomico dominante, anche se non si può escludere l’esistenza di forme di DSS tipo 3 a carattere autosomico recessivo. Sintomatologia. – L’esordio avviene tipicamente nella prima o primissima infanzia. I bimbi affetti sono globalmente ipotonici e mostrano grave ritardo nello sviluppo motorio, areflessia profonda, ed ipertrofia dei nervi periferici. L’evoluzione è verso una grave invalidità, fino alla impossibilità a deambulare. Esami complementari. – La velocità di conduzione motoria è inferiore ai 12 m/sec. su tutti i nervi esaminati ed i potenziali di azione sensitivi in genere non sono evocabili. Il contenuto proteico del liquor è talvolta aumentato. La biopsia di nervo surale mostra una gravissima perdita di fibre mieliniche con formazione di evidenti «bulbi di cipolla». A differenza di quanto si osserva nella CMT 1A, nella DSD i “bulbi di cipolla” sono costituiti da avvolgimenti della membrana basale delle cellule di Schwann attorno a fibre non mielinizzate o dotate di guaina mielinica sottile. Diagnosi e decorso. – Nelle forme sporadiche o autosomiche recessive non sempre è facile una diagnosi differenziale rispetto ad una poliradiculoneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica. Tuttavia, l’andamento clinico gravemente invalidante, la grossolana ipertrofia dei nervi periferici, e le indagini genetiche consentono, usualmente, una corretta diagnosi
Neuropatia ipomielinizzante congenita (NIC). Clinicamente e neurofisologicamente indistinguibile dalla DSD, ne differisce per la neuropatologia che mostra nervi periferici pressoché privi di fibre mielinizzate fin dalla nascita e con pochi “onion bulbs”, che invece contraddistinguono CMT 1A e DSD. Geneticamente si individuano forme da mutazione puntiforme dei geni per la PMP22 (A), P0 (B) ed EGR 2 (C).
Neuropatia con aumentata suscettibilità dei nervi al danno da compressione o neuropatia tomaculare Denominata anche HNPP, da “hereditary neuropathy with liability to pressure palsies”, la neuropatia tomaculare si caratterizza per un’aumentata sensibilità dei nervi periferici al danno meccanico da compressione o intrappolamento e si trasmette con modalità di tipo autosomico dominante. Viene anche classificata insieme alla plessopatia brachiale ereditaria (v. pag. 1353) fra le neuropatie ereditarie focali e mutifocali, per l’interessamento multiplo di diversi tronchi nervosi. Recentemente è stato osservato che la maggior parte delle famiglie con neuropatia da aumentata suscettibilità alla compressione è caratterizzata da una delezione di un segmento di 1,5 Mb nello stesso locus coinvolto nella CMT 1A, sul cromosoma 17p11.2 (Chance et al., 1993). È pertanto probabile che la neuropatia tomaculare sia patogeneticamente correlata ad una perdita del gene per la PMP-22 (contenuto all’interno dell’area deleta), ipotesi suffragata anche dal riscontro di una famiglia con una mutazione «frameshift» nel gene per la PMP-22 (Nicholson et al 1994). Sintomatologia. – Si caratterizza per la comparsa di paralisi periferiche transitorie di singoli nervi (radiale, ulnare, peroneo, ecc.) nelle sedi più esposte alla compressione; la sintomatologia è sovrapponibile a quanto descritto a proposito della patologia di un singolo nervo (v. pag. 1354). Tipicamente le prime manifestazioni compaiono acutamente nella 2ª-3ª decade di vita, non sono accompagnate da dolore e regrediscono in maniera usualmente completa in pochi giorni o alcune settimane. Il ripetersi degli episodi di paralisi focale, soprattutto se con recupero non del tutto completo, può dar luogo con il passar del tempo a un quadro tipo multi o polineuropatia diffusa. L’assenza di dolore rappresenta un importante criterio diagnostico per distinguere gli episodi paralitici della neuropatia tomaculare rispetto a quelli della plessopatia brachiale ereditaria che sono sempre accompagnati da una violenta sintomatologia dolorosa. Se gli episodi hanno una sintomatologia così modesta da non essere rilevata dal paziente stesso, la malattia può apparentemente esordire come una polineuropatia sensitivo-motoria, eventualmente in età avanzata (Mancardi et al., 1995). Esami complementari. – L’elettrofisiologia rivela alterazioni della velocità di conduzione sensitiva e/o motoria, con ridotta ampiezza dei potenziali sensitivi e motori e loro dispersione temporale, soprattutto evidenti sui nervi affetti, ma talora anche su tronchi nervosi clinicamente indenni. La biopsia del surale mo-
1372 Malattie del sistema nervoso stra rarefazione delle fibre mielinizzate, presenza di occasionali «onion bulbs» e, soprattutto, ispessimenti focali della guaina mielinica che determinano un aspetto «a salsiccia» delle singole fibre, da cui deriva il termine «tomaculo» (salsiccia, in greco). Comunque, la diagnosi va confermata con studio genetico («Southern blotting» o «pulsed field gel electrophoresis») per la dimostrazione della delezione sul cromosoma 17p11.2.
Forme autosomiche recessive di CMT 1 (CMT 1 AR) Classificate anche come CMT 4, queste forme di CMT 1 si caratterizzano per la ereditarietà autosomica recessiva e per la notevole gravità. Sono assai rare e spesso appannaggio di particolari gruppi etnici. La sintomatologia e l’elettrofisilogia sono assimilabili a quelle delle forme AD di CMT 1, ma di gravità decisamente maggiore, avendo un esordio precoce, abitualmente in età infantile, con grave ipostenia ed ipotrofia distali, malformazioni osteoscheletriche, sordità ed importante rallentamento della velocità di conduzione nervosa. In base al gene mutato o al locus convolto si distinguono al momento sette sottotipi di CMT 1 AR (Tab. 33.2).
FORME ASSONALI CMT 2 A trasmissione, in genere, autosomica dominante, è assai meno frequente della forma demielinizzante, da cui risulta anche geneticamente distinta. Si caratterizza per l’esordio di solito nella 3°-4° decade di vita, spesso senza sintomi precedenti, anche di lieve entità, riferibili a sofferenza del SNP. Alcune famiglie di CMT 2 sono state assegnate, mediante studi di «linkage» ad un locus sul braccio corto del cromosoma 1 (1p36) e sono state classificate come CMT 2A (Ben Othmane et al., 1993). Recentemente in una famiglia classificata come CMT 2A è stata identificata una mutazione puntiforme nel gene KIF1B, appartenente alla famiglia delle chinesine. La mancanza di «linkage» con questo locus, in alcune famiglie, suggerisce eterogeneità genetica all’interno della CMT 2 ed ha consentito di identificare una seconda forma della malattia (CMT 2B), legata al cromosoma 3q13-q22. Esistono tuttavia famiglie in cui non è stato possibile identificare alcun «linkage» con loci noti (CMT 2C), ed altre legate ai cromosomi 7p14 (CMT 2D) (Keller e Chance, 1999) e 3q13.1 (CMT2G). Recentemente, in una famiglia della Sardegna affetta da CMT 2 è stata identificata una mutazione nel gene che codifica per la P0 (CMT 2F) ed in al-
cune famiglie provenienti dalla Russia e dal Belgio sono state individuate mutazioni nel gene per la subunità leggera dei neurofilamenti (CMT 2E) (Reilly, 2000). Raramente sono anche state segnalate forme X-linked ed autosomiche recessive di CMT a carattere assonale (rispettivamente CMT 2X e CMT 2AR). Sintomatologia. – Compaiono ipostenia ed ipotrofia muscolare a distribuzione tipicamente distale, di solito localizzate agli arti inferiori; più raramente anche agli arti superiori; tipica è l’incertezza nella marcia con frequenti cadute. I riflessi osteotendinei sono ridotti o assenti e sono presenti malformazioni osteoarticolari, quali piede cavo o dita a martello. I disturbi sensitivi sono spesso assenti e comunque lievi; rari i dolori crampiformi agli arti inferiori. Esistono inoltre alcune varianti caratterizzate da particolari caratteristiche cliniche, quali paralisi delle corde vocali (CMT 2C), sordità e segno di Argyll-Robertson (CMT 2F da mutazione Thr124Met nel gene per la P0), e ipostenia prossimale (CMT 2G). Esami complementari. – L’EMG evidenzia segni di denervazione, mentre la velocità di conduzione può essere solo lievemente rallentata o normale e rappresenta un valido criterio diagnostico differenziale rispetto alla CMT 1. L’ampiezza dei potenziali di azione motori e sensitivi è abitualmente ridotta. Esami bioumorali e liquor sono normali. La biopsia di nervo periferico mostra segni, assai meno tipici che nella CMT 1, consistenti in lieve rarefazione delle fibre mieliniche, rare formazioni «a bulbo di cipolla» ed occasionali raggruppamenti di piccole fibre mielinizzate, espressione di rigenerazione assonale. Decorso, prognosi e terapia non differiscono significativamente rispetto alla forma tipo 1.
Forme complesse di CMT Oltre alle forme precedentemente descritte, che sono relativamente tipiche, sono state individuate alcune varianti particolari di neuropatia ereditaria sensitivo-motoria (Dyck et al., 1993; Bosch e Smith, 1996) che si possono definire come forme complesse di CMT e che si caratterizzano per l’associazione con paraparesi spastica (HMSN 5 o paraparesi spastica di Strumpell-Lorrain) (v. pag. 000), atrofia ottica (HMSN 6), retinite pigmentosa (HMSN 7). Infine va ricordato che nelle classificazioni precedenti (Dyck et al., 1993) veniva erroneamente inclusa fra le HMSN anche la malattia di Refsum (HMSN 4), che in realtà è una neuropatia a deficit metabolico noto (v. pag. 000).
Malattie dai nervi periferici 1373
Neuropatie ereditarie sensitive (NES) o sensitivo-autonomiche Conosciute anche come “hereditary sensory and autonomic neuropathies” (HSAN), le NES sono caratterizzate da preminente degenerazione o atrofia del 1° neurone sensitivo e si caratterizzano per un selettivo deficit delle sensibilità superficiali, in assenza di disturbi motori, ma frequentemente associate a sintomi vegetativi. Sulla base dei dati genetici, clinici, elettrofisiologici e neuropatologici vengono distinte cinque forme di NES. Nel loro insieme, le neuropatie ereditarie sensitivo-autonomiche sono comunque meno frequenti delle CMT. I progressi della genetica molecolare hanno consentito di identificare alcuni loci legati a forme particolari di NES, e recentemente sono stati individuati i geni responsabili della malattia in alcune famiglie.
NES Tipo 1 È una forma ad ereditarietà autosomica dominante, con esordio nella seconda-terza decade di vita. Recentemente, in una famiglia con NES 1, è stata identificata una mutazione puntiforme nel gene che codifica per la subunità-1 a catena lunga della serina palmitoyltransferasi (SPTLC1), una proteina coinvolta nella apoptosi indotta da ceramide (Dawkins, 2001). Sintomatologia. – Le alterazioni sensitive coinvolgono primariamente la sensibilità termodolorifica, mentre le sensibilità tattile e profonde sono relativamente conservate; spesso coesistono dolori lancinanti. Si possono osservare callosità ed ulcere alla pianta dei piedi, che, se trascurate, possono complicarsi con processi infettivi, eventualmente responsabili di osteomieliti, fratture patologiche e mutilazioni distali (acropatia ulcero-mutilante). L’atrofia peroneale o la paraparesi spastica sono di raro riscontro; i riflessi osteotendinei sono usualmente ridotti o assenti. I disturbi vegetativi (ridotta sudorazione nelle aree colpite) non sono, di solito, molto pronunciati. Esami complementari. – L’elettroneurografia mostra una tipica riduzione di ampiezza, fino all’assenza, dei potenziali sensitivi, soprattutto a livello del surale; più rare le alterazioni della conduzione motoria, la riduzione di ampiezza dei potenziali motori e i segni EMG di denervazione. Gli esami bioumorali e del liquor sono normali. La biopsia del nervo surale evidenzia una grave perdita di piccole fibre mieliniche ed amieliniche, con relativa conservazione delle fibre di calibro maggiore.
Prognosi e terapia. - Può anche essere favorevole, purché si abbia cura di evitare la comparsa di ulcere trofiche ai piedi, con l’uso di scarpe comode e morbide, e di pomate emollienti per i piedi. I dolori possono essere mitigati con l’impiego di amitriptilina (75-100 mg al dì), aspirina (300-600 mg al dì), carbamazepina (400-1000 mg al dì).
NES Tipo 2 È una grave neuropatia sensitiva ad ereditarietà autosomica recessiva, che esordisce nella prima infanzia. Le alterazioni delle sensibilità riguardano tutte le modalità sensitive, a livello dei quattro arti, rendendo il malato particolarmente suscettibile all’acropatia ulceromutilante, eventualmente responsabile di automutilazioni per analgesia; i riflessi osteotendinei sono assenti. Le alterazioni vegetative sono minime, principalmente rappresentate dalla riduzione della sudorazione in sede distale, senza disturbi quali impotenza e ipotensione ortostatica, tipici della neuropatia amiloidosica. Si possono associare : paraplegia spastica, retinite pigmentosa, cheratite neurotrofica. A tutt’oggi non sono disponibile dati sul legame di questa forma di NES con alcun locus o gene specifico. Esami complementari. – L’elettroneurografia rivela una gravissima riduzione di ampiezza o assenza del potenziale sensitivo e un evidente rallentamento della velocità di conduzione sensitiva, cui possono raramente associarsi minime alterazioni della conduzione motoria. La biopsia del nervo surale mostra una gravissima perdita di fibre mielinizzate, con relativo risparmio delle fibre amieliniche, ridotte di numero ma in misura meno importante. Prognosi. – È peggiore rispetto alla forma tipo 1, in quanto l’insorgenza in età infantile, oltre a determinare una più lunga durata di malattia con possibilità, quindi, di maggiori complicazioni, rende più difficile un’assidua cura della cute.
NES Tipo 3 (Malattia di Riley Day) L’ereditarietà è di tipo autosomico recessivo; si manifesta, soprattutto, in fanciulli di razza ebrea Ashkenazi senza prevalenza di sesso. Studi di «linkage» hanno consentito di mappare il locus per la NES 3 al cromosoma 9q31-q33. Sintomatologia. – L’esordio si manifesta immediatamente dopo la nascita o nella primissima infanzia con difficoltà nell’alimentazione, vomito, frequenti infezioni polmonari (spesso «ab ingestis»), ed episodi di febbre per
1374 Malattie del sistema nervoso alterazioni della termoregolazione. Coesistono xeroftalmia, assenza di papille fungiformi sulla lingua, iperidrosi, iporeflessia pupillare, areflessia osteotendinea, insensibilità al dolore e comparsa di chiazze cutanee eritematose. Esami complementari. – Il test all’istamina evidenzia una mancata risposta cutanea al farmaco; il tasso della dopamina beta-idrossilasi è ridotto nel siero, con aumento del suo metabolita nel sangue e nelle urine; il test dei colliri dimostra ipersensibilità pupillare da denervazione per comparsa di risposta miotica alla somministrazione di pilocarpina allo 0,1% o di metacolina al 2,5%. La velocità di conduzione motoria è spesso normale, ma l’ampiezza dei potenziali sensitivi è abitualmente ridotta. L’esame bioptico del nervo surale evidenzia grave perdita di fibre amieliniche. Rilievi autoptici hanno dimostrato una riduzione numerica di neuroni sensitivi nei gangli spinali e vegetativi, degenerazione dei fasci ascendenti e discendenti del midollo spinale e aree di demielinizzazione focale della sostanza reticolare del tronco encefalico.
NES Tipo 4 Si tratta di una forma rara, ad ereditarietà apparentemente autosomica recessiva, caratterizzata da insensibilità congenita al dolore, anidrosi, difetti nella termoregolazione e lieve ritardo mentale; forza muscolare e riflessi osteotendinei sono normali. La biopsia del nervo surale evidenzia perdita selettiva di fibre amieliniche e, seppur in misura inferiore, di piccole fibre mielinizzate. Il locus genetico della malattia è stato mappato in corrispondenza del cromosoma 1q2122. In alcuni pazienti sono stae identificate mutazioni puntiformi nel gene che codifica per il recettore ad alta affinità per l’NGF (trkA).
si manifesta con ipo-areflessia diffusa, turbe delle sensibilità profonde, mentre le sensibilità superficiali sono usualmente conservate. Nel 90 % circa dei casi sono presenti dita a martello e piede cavo. L’elettroneurografia dimostra tipicamente una ridotta ampiezza o assenza dei potenziali sensitivi con velocità di conduzione motoria normale o ai limiti della norma. La biopsia del nervo surale rivela un quadro piuttosto tipico di modesta perdita di fibre mielinizzate di calibro maggiore, con globale riduzione del diametro delle fibre mieliniche per diffusa atrofia assonale. L’esame delle singole fibre evidenzia notevole demielinizzazione segmentale e rimielinizzazione secondaria all’atrofia assonale (Dyck, 1993).
NEUROPATIA GIGANTO-ASSONALE È una neuropatia periferica, ad ereditarietà autosomica recessiva (Berg, 1972) caratterizzata da esordio infantile con ipostenia ed ipotrofia muscolare, prevalente agli arti inferiori, ipo-areflessia osteotendinea ed ipoestesia superficiale e profonda. Successivamente compaiono atrofia ottica, turbe cerebellari e deterioramento mentale. I bambini affetti mostrano tipiche alterazioni dei capelli che hanno aspetto finemente attorcigliato («kinky hair»). La biopsia del surale è patognomonica e dimostra rigonfiamento degli assoni, occupati da neurofilamenti (Fig. 33.32). La malattia è legata ad una disfunzione generalizzata della organizzazione dei neurofilamenti sia nei neuroni che nelle cellule gliali. Il gene resonsabile per la neuropatia giganto-assonale è stato mappato sul cromosoma 16q24 (Flanigan, 1998). Recentemente, all’interno di questa regione, è stato identificato un gene che codifica per una proteina chiamata gigassonina, portatore di diverse mutazioni in soggetti affetti da neuropatia giganto-assonale (Bomont, 2000)
NES Tipo 5 È una forma molto rara, descritta per la prima volta da Low (1978) e caratterizzata da: selettiva insensibilità al dolore, mentre sensibilità tattile e termica, forza muscolare, riflessi osteotendinei sono normali. L’elettrofisiologia fornisce reperti solo apparentemente normali, in quanto il contingente non è elettrofisiologicamente esaminabile. La biopsia del nervo surale evidenzia una selettiva perdita di fibre amieliniche.
NEUROPATIE ASSOCIATE A DEGENERAZIONE SPINOCEREBELLARE
Nella malattia di Friedreich (v. pag. 1287) è costantemente presente un interessamento diffuso del SNP, che
Fig. 33.32 - Neuropatia giganto-assonale. Numerosi assoni sono abnormemente distesi da accumuli di neurofilamenti.
Malattie dai nervi periferici 1375
NEUROPATIE EREDITARIE METABOLICHE Le neuropatie ereditarie con deficit metabolico noto comprendono: 1) le neuropatie amiloidosiche familiari o FAP (“familial amyloid polyneuropathy”); 2) la neuropatia porfirica; 3) la neuropatia in corso di malattia di Fabry; 4) la neuropatia in corso di leucodistrofia metacromatica; 5) la neuropatia in corso di leucodistrofia a cellule globoidi; 6) la adrenomieloneuropatia; 7) la malattia di Refsum (anche nota come HMSN tipo 4); 8) la neuropatia in corso di malattia di Tangier; 9) la neuropatia in corso di abetalipoproteinemia; 10) la neuropatia in corso di CDG; 11) la neuropatia da deficit di cobalamina; 12) la neuropatia in corso di NARP. Per la descrizione dettagliata delle malattia metaboliche che comportano la comparsa di una neuropatia periferica, si rimanda alle malattie metaboliche del sistema nervoso (v. pag. 1573). La FAP, ove la neuropatia è un elemento caratterizzante della malattia, sarà descritta nel paragrafo seguente.
Neuropatia amiloidosica familiare (NAF) Si tratta di un gruppo di neuropatie ad ereditarietà autosomica dominante, caratterizzate da depositi extracellulari di amiloide nei nervi periferici ed in altri organi interni. Esistono anche forme di amiloidosi del SNP a carattere acquisito che verranno descritte nell’ambito delle neuropatie paraproteinemiche. L’amiloide è una proteina fibrillare, a distribuzione extracellulare, che ha un aspetto tipicamente omogeneo ed amorfo quando osservata con le colorazioni convenzionali (ematossilina-eosina) al microscopio ottico; sezioni colorate con il Rosso Congo mostrano, all’osservazione in luce polarizzata, una tipica birifrangenza verde; in microscopia elettronica l’amiloide appare costituita
da un reticolo di fibrille che mostrano periodicità di 10 nm e lunghezza indefinita; ai raggi X le fibrille di amiloide appaiono tipicamente ripiegate ed assumono una struttura «elicoidale». Eziopatogenesi. – La maggior parte delle forme note sono dovute a mutazioni della transtiretina (TTR); il gene che codifica per questa proteina è localizzato sul cromosoma 18q11.2-18q12.1, e sono state documentate almeno otto diverse mutazioni puntiformi, tutte responsabili di quadri patologici. La più frequente di queste mutazioni è la sostituzione di metionina per valina in posizione 30 (Nakazato et al., 1987). Più raramente sono state osservate forme da mutazione puntiforme nei geni che codificano per la apolipoproteina A-1 e per la gelsolina. Il meccanismo attraverso il quale la deposizione di amiloide danneggia i nervi periferici non è chiaro, tuttavia è stato proposto che una deposizione preferenziale di amiloide nei gangli sensitivi e simpatici, ove non è attiva la barriera ematoencefalica, sarebbe in grado di interferire con la normale funzione dei neuroni fino a determinare una degenerazione assonale tipo «morte a ritroso» («dying back»). In alternativa i depositi di amiloide a livello dei nervi periferici o delle radici possono indurre lesioni ischemiche, come risultato o di una infiltrazione diretta dei vasa nervorum o dell’edema endonevriale, associato alla deposizione di amiloide. Classificazione. – Grazie alle acquisizioni della genetica molecolare, è stato possibile migliorare la classificazione delle FAP, che, in base alla sintomatologia ed ai gruppi etnici prevalentemente colpiti veniva originariamente distinta in 4 tipi: 1) forma portoghese (Andrade), 2) Rukavina, 3) Van Allen e 4) forma finnica. Attualmente si distinguono: 1) forme correlate a mutazioni della TTR (tipi 1 e 2); 2) forme da mutazioni della apolipoproteina A-1 (tipo 3) e 3) della gelsolina (tipo 4).
FORME CORRELATE A MUTAZIONI DELLA TTR (TIPI 1 E 2) Tipo 1
Fig. 33.33 - Neuropatia tomaculare. Numerose fibre mieliniche di un singolo fascicolo appaiono abnormemente ispessite (frecce) (blu di toluidina).
La mutazione di gran lunga più frequente è la Val30Met, che prevede una sostituzione di un aminoacido in posizione 30 sul gene TTR (valina per metionina). È praticamente l’unica mutazione osservata nella cosiddetta variante portoghese o di Andrade (tipo 1), descritta per la prima volta in Portogallo (Andrade 1952). Fenotipi simili, con mutazione Val30Met sono stati peraltro descritti anche in pazienti giapponesi, svedesi e, raramente, italiani (Ferlini et al., 1988).
1376 Malattie del sistema nervoso I sintomi esordiscono in maniera insidiosa nella 3ª-4ª decade di vita e si manifestano con ipoestesia termodolorifica, parestesie e dolori lancinanti, soprattutto agli arti inferiori, e imponenti turbe autonomiche, che rappresentano sicuramente l’elemento maggiormente invalidante e consistono in: impotenza, grave ipotensione ortostatica, turbe delle funzioni sfinteriche con importante diarrea o stipsi ostinata, incontinenza urinaria, anidrosi distale e turbe della motilità pupillare. L’ipoestesia progredisce in senso prossimale verso il tronco e gli arti superiori e tende con il tempo ad interessare tutte le modalità sensitive superficiali. In fase tardiva compaiono ipostenia ed ipotrofia muscolare ai quattro arti. Tipicamente l’amiloide si deposita anche in altri organi interni, quali cuore, reni e corpo vitreo, risultando così potenzialmente fatale. La malattia è, infatti, progressiva e conduce in 10-15 anni al decesso per scompenso cardiaco o insufficienza renale. Esami complementari. – L’elettroneurografia evidenzia un’assonopatia distale, prevalentemente sensitiva, con riduzione di ampiezza o assenza dei potenziali sensitivi e normalità o minime alterazioni della velocità di conduzione motoria e dei potenziali motori. Talora sono presenti segni di denervazione all’EMG. Il 90 % dei casi presenta anormalità elettrocardiografiche, con bassa ampiezza dei complessi QRS e turbe della conduzione atrio-ventricolare. La biopsia del nervo surale, esame fondamentale per la diagnosi, evidenzia chiari depositi di sostanza amiloide a sede extracellulare, talora perivascolare (Fig. 33.35); coesiste un quadro pressochè patognomonico perdita selettiva delle fibre amieliniche e delle piccole fibre mielinizzate. Sul piano immunoistochimico si può impostare una diagnosi differenziale fra depositi di amiloide acquisiti (da catene leggere lambda o kappa) e familiari (da transtiretina) utilizzando anticorpi diretti contro le rispettive frazioni proteiche. La sequenziazione diretta del gene per la transtiretina, effettuabile solo in centri specializzati, offre un valido supporto diagnostico nelle forme di FAP. Terapia. – L’unico trattamento attualmente disponibile è il trapianto di fegato, il cui razionale è legato alla normalizzazione del metabolismo della transtiretina a livello epatico.
Tipo 2 È anche nota come forma “Rukavina” perché descritta da Rukavina et al. nel 1956. Nella maggior parte dei casi di FAP tipo 2 sono state osservate mutazioni, serina in posizione 84 o istidina in posizione 58 nel gene TTR. Si differenzia per lo sviluppo di una sindrome del tunnel
carpale nella 4ª-5ª decade di vita, con decorso lentamente ingravescente; la compressione dei nervi è dovuta a deposti di amiloide nella componente muscolo-tendinea del tunnel carpale. Sono possibili tardive complicazioni per la comparsa di segni di sofferenza diffusa del SNP. Sono presenti, inoltre, opacità vitreali da deposizione di amiloide nel corpo vitreo. Sono invece assenti turbe autonomiche o alterazioni di altri organi interni.
Tipo 3 (Van Allen) È causata da una sostituzione arginina per glicina nel gene apoliproteina A1. Le manifestazioni cliniche sono sovrapponibili a quelle del tipo 1, tranne una precoce insufficienza renale ed un’elevata incidenza di ulcera duodenale.
Tipo 4 Questa variante, dapprima descritta in Finlandia e quindi negli Stati Uniti e in Danimarca, è dovuta a mutazioni puntiformi (sostituzione asparagina o tirosian in posizione 187) nel gene che codifica per la gelsolina. Si caratterizza, clinicamente, per esordio nella 3° decade, opacità corneali seguite, dopo alcuni anni, da neuropatia craniale lentamente ingravescente, in particolare diplegia faciale, e lieve neuropatia periferica ai quattro arti. Neuropatia porfirica e neuropatie in corso di malattie metaboliche v. pag. 1573.
Neuropatie associate a malattie sistemiche La neuropatia diabetica Il diabete mellito può essere considerato la malattia endocrina più comune con una frequenza difficile da stabilire per i diversi criteri diagnostici utilizzati ma non inferiore al 1-2% della popolazione generale (Foster, 1991). Anche se l’alterazione metabolica principale è rappresentata dalla iperglicemia, sono presenti anche disturbi del metabolismo proteico e lipidico. Micro e macroangiopatia, nefropatia, retinopatia e neuropatia sono le complicanze più frequenti del diabete di lunga durata. Il diabete mellito idiopatico viene classificato in: a) diabete tipo I (insulino-dipendente); b) diabete tipo II (non insulino-dipendente).
Malattie dai nervi periferici 1377
La forma tipo I esordisce tipicamente in età giovanile ed è usualmente mediata da anticorpi diretti contro le cellule pancreatiche; la forma tipo II è più frequente in soggetti adulti ed obesi, e la sua eziopatogenesi è ignota. Per entrambe le forme gioca un ruolo fondamentale la predisposizione genetica. L’interessamento diffuso o multifocale del SNP è una complicanza tipica del diabete tipo I e II. La frequenza della neuropatia diabetica, calcolata sulla base dei dati anamnestici, dell’esame obiettivo neurologico e degli esami elettrofisiologici (velocità di conduzione, tests vegetativi, valutazione quantitativa delle sensibilità superficiali e profonde) è valutabile intorno al 50% di tutti i diabetici (Dyck et al., 1992), di cui il 15% presenta una neuropatia sintomatica, (sintomi di neuropatia e almeno un esame elettrofisiologico alterato); il 35% una neuropatia asintomatica (segni elettrofisiologici o segni obiettivi di neuropatia, in assenza di sintomatologia clinica riferita dal paziente); solo una percentuale irrilevante presenta una neuropatia inabilitante (impossibilità a deambulare per i deficit motori o sensitivi o grave compromissione del sistema nervoso vegetativo). I diabetici di tipo I sono lievemente più suscettibili a sviluppare una neuropatia periferica, rispetto ai diabetici di tipo II, nei quali anche la gravità della neuropatia tende ad essere minore (Jakobsen e Sidenius, 1994). L’unico fattore di rischio accertato, oltre naturalmente all’iperglicemia scarsamente controllata, è la durata di malattia, che correla significativamente con incidenza e gravità della neuropatia (DCCT Research Group, 1988). Inoltre, nei diabetici insulino-dipendenti, il sesso maschile e l’ipertensione arteriosa costituiscono fattori predisponenti allo sviluppo di una neuropatia diabetica. Infine, l’incidenza di neuropatia diabetica è statisticamente associata con la comparsa di retinopatia e nefropatia e recentemente è stata segnalata una possibile predisposizione genetica a sviluppare complicazioni del nervose periferiche.
CLASSIFICAZIONE (Tab. 33.3) Sul piano clinico, il diabete può colpire in maniera assai variabile il SNP, fino alla comparsa di quadri sindromici specifici e distinti. Una classificazione soddisfacente non è facile, anche in relazione alla frequente coesistenza di forme differenti nello stesso paziente. La classificazione più accettata (Thomas, 1973; Bosch e Smith, 1996) si basa sulla distribuzione del deficit neurologico e distingue le neuropatie diabetiche in: 1) forme simmetriche, che includono: a) la classica polineuropatia sensitiva o sensitivo-motoria distale, b) la neuropatia vegetativa, in cui la compromissione del sistema nervoso vegetativo può ritenersi diffusa e simmetrica e che spesso si associa alla forma sensitivo-motoria, e c) la neuropatia motoria simmetrica prossimale degli arti inferiori; 2) forme asimmetriche (focali o multifocali), più probabilmente sostenute da una patogenesi «ischemica», che includono: a) le mononeuropatie craniali, b) le mononeuropatie del tronco e degli arti, e c) la neuropatia motoria asimmetrica degli arti inferiori (radiculoplessopatia lombosacrale), la cui distinzione dalla forma simmetrica è incerta e può risultare difficile da stabilire. NEUROPATIE SIMMETRICHE Neuropatia sensitiva e neuropatia sensitivomotoria – Rappresentano le forme più frequenti, e, nell’insieme, possono colpire fino al 50% dei Tabella 33.3 - Classificazione della neuropatia diabetica. Forme simmetriche Polineuropatia sensitiva e sensitivo-motoria Neuropatia vegetativa Neuropatia motoria prossimale degli arti inferiori Forme asimmetriche Mononeuropatie craniali Mononeuropatia gli arti e al tronco Neuropatia motoria asimmetrica agli arti inferiori
1378 Malattie del sistema nervoso
soggetti diabetici. In alcuni studi, tuttavia, l’incidenza di neuropatia sensitivo-motoria simmetrica è inferiore e si attesta sul 32% di tutti i diabetici (Fedele et al., 1997). L’esordio può essere acuto, in soggetti con diabete non ancora diagnosticato o dopo un episodio di coma diabetico, ma più frequentemente l’esordio è subacuto. I sintomi soggettivi sensitivi, consistenti in parestesie a tipo «intorpidimento» o «fasciatura», dolori profondi o brucianti e disestesie dolorose, iniziano tipicamente nei settori distali degli arti inferiori, assumendo spesso una distribuzione «a calza», meno frequentemente agli arti superiori con distribuzione «a guanto», e procedono poi in direzione sempre più prossimale ai 4 arti, ma nella maggior parte dei casi i disturbi sono relativamente lievi. Esiste ipoestesia superficiale con distribuzione «a calza o a guanto», iporeflessia osteotendinea, soprattutto rotulea e achillea, ipopallestesia distale. L’ipostenia distale simmetrica è usualmente lieve, e, se marcata ed invalidante, suggerisce la sovrapposizione con altra patologia, quale una poliradiculoneurite demielinizzante cronica (v. pag. 1405). Sulla base dei sintomi, ma soprattutto della classe di fibre mieliniche colpite, si possono distinguere due tipi di polineuropatia sensitiva: una forma con preminente compromissione delle piccole fibre, e una forma con lesione delle fibre di grosso calibro (Brown et al., 1984). La lesione delle fibre di piccolo diametro (Aδ e C) si manifesta clinicamente con dolori profondi o brucianti e disestesie dolorose. Le sensibilità superficiali sono compromesse, mentre le sensibilità profonde e i riflessi profondi possono essere normali; spesso si associa a neuropatia vegetativa. La lesione delle fibre di calibro maggiore, classicamente conosciuta come neuropatia pseudotabetica o pseudotabe dorsale, si manifesta con parestesie non dolorose a distribuzione distale, compromissione della sensibilità pro-
fonda fino ad una significativa atassia sensitiva e diffusa iporeflessia osteo-tendinea. Una complicanza particolarmente temibile della neuropatia sensitiva o sensitivo-motoria è la comparsa di ulcere ai piedi (il cosiddetto “piede diabetico”). Si distinguono ulcere acute e croniche. Le prime sono abitualmente dovute ad abrasioni cutanee in aree ipoestesiche e spesso conseguono all’uso di scarpe non adatte. Le seconde sono causate dalla combinazione di deficit sensitivi, motori e vegetativi. Per le une e per le altre si raccomanda ai soggetti diabetici una attenzione particolare nella cura del piede (vedi terapia). Neuropatia vegetativa. – Una compromissione diffusa del sistema vegetativo può comparire come forma a sè stante, o più frequentemente, in associazione con una polineuropatia sensitivo-motoria simmetrica; una compromissione neurovegetativa subclinica, evidenziabile unicamente con appropriati tests vegetativi è comunque presente in un’elevata percentuale di soggetti diabetici. La sintomatologia consiste in: a) alterazioni della motilità pupillare e della lacrimazione; b) sintomi cardiovascolari; c) alterazioni della termoregolazione; d) disturbi gastrointestinali; e) turbe genitourinarie. Le turbe pupillari si manifestano con iporeflettività alla luce in una pupilla tendenzialmente miotica. Frequenti e talora invalidanti sono i disturbi cardiovascolari quali ipotensione ortostatica e tachicardia a riposo. L’ipotensione ortostatica, presumibilmente secondaria ad una incapacità del Sistema Nervoso Vegetativo ad aumentare le resistenze vascolari periferiche nell’assunzione della postura eretta, può essere responsabile di episodi presincopali o sincopali. Appare rilevante sottolineare che, a causa della compromissione vegetativa, un infarto del miocardio si può presentare senza dolore. I disturbi della termoregolazione consistono in: alterazioni della sudorazione, per lo più anidrosi, per lesione postganglionare delle fibre
Malattie dai nervi periferici 1379
nervose sudomotorie, ed in anormalità delle reazioni vasomotorie (vasocostrizione e vasodilatazione). Le turbe gastrointestinali consistono in alterazioni della motilità esofagea, gastrica, colica e rettale, a carattere principalmente atonico con conseguente nausea e vomito postprandiali, e soprattutto in episodi di diarrea incoercibile, ad esordio per lo più notturno, talora con alternanza di diarrea e stipsi. La diarrea sembra essere dovuta, oltre che a turbe della motilità intestinale, anche a sviluppo di batteri per stasi fecale in un intestino atonico. Le alterazioni genitourinarie tipiche sono: l’atonia vescicale secondaria a denervazione parasimpatica del detrusore vescicale, caratterizzata inzialmente da diminuita frequenza minzionale e successivamente da ritenzione urinaria fino alla incontinenza paradossa, e, nel maschio, turbe della erezione e della eiaculazione. Va, infine, rilevato che a causa della compromissione vegetativa può verificarsi un mancato riconoscimento dei sintomi che precedono ed accompagnano gli episodi ipoglicemici, essendo così il soggetto esposto al pericolo di incorrere nelle conseguenze di un’ipoglicemia protratta. Nuropatia motoria prossimale simmetrica – È caratterizzata da progressiva ipostenia dei muscoli del cingolo pelvico e della coscia, colpisce più frequentemente i diabetici scompensati o in età avanzata (> 60 anni), può essere confusa con una neuropatia infiammatoria demielinizzante acuta e cronica, dalla quale si può distinguere per la minore gravità del quadro clinico ed elettrofisiologico e per l’assenza di blocchi di conduzione. NEUROPATIE FOCALI E MULTIFOCALI Mononeuropatie craniali. – Le neuropatie dei nervi cranici consistono nell’interessamento di un singolo nervo cranico o, meno frequente-
mente, di più nervi cranici contemporaneamente. Si manifestano con maggiore frequenza nei malati più anziani, talora in assenza di altri segni di neuropatia periferica, e possono rappresentare il primo sintomo di malattia. I nervi oculomotori, e specialmente il III paio, sono più frequentemente colpiti; più rara, ma possibile, è la lesione isolata del VII nervo cranico. La neuropatia dell’oculomotore comune (v. pag. 238) merita un breve richiamo: si caratterizza, infatti, per un coinvolgimento selettivo della muscolatura oculare estrinseca (ptosi, diplopia per paresi del muscolo retto interno), abitualmente con risparmio della muscolatura intrinseca (motilità pupillare conservata). La lesione del III paio è classicamente ritenuta secondaria ad una sofferenza ischemica che, a causa della distribuzione prevalentemente subperinevriale dei vasa nervorum, prevarrebbe in sede centrofascicolare, ove transitano le fibre destinate all’innervazione della muscolatura oculare estrinseca. Recentemente, tuttavia, la RM ha, in alcuni casi, evidenziato piccoli infarti mesencefalici, a livello del nucleo del nervo oculomotore (Hopf and Gutmann, 1990). Mononeuropatie agli arti e al tronco. – Sono espressione dell’interessamento di un singolo tronco nervoso, più frequentemente l’ulnare, il mediano (usualmente come sindrome del tunnel carpale), il radiale, il femorale, il cutaneo laterale della coscia e il peroneo comune. Talora alcuni nervi sono colpiti simultaneamente o in tempi successivi, realizzando il quadro di una multineuropatia. La patogenesi di tali forme si ritiene ischemica, per occlusione dei vasa nervorum. Il quadro clinico ed elettrofisiologico è simile a quello descritto a pag. 1354. Neuropatia motoria asimmetrica agli arti inferiori (amiotrofia diabetica di Garland). – Generalmente colpisce soggetti affetti da diabete di tipo II, ultra 60enni, ma la sua comparsa non è legata alla durata di malattia. Si caratterizza
1380 Malattie del sistema nervoso
per la comparsa, in maniera acuta, di ipostenia ed ipotrofia asimmetrica nei settori prossimali degli arti inferiori, spesso con dolore ai muscoli della coscia e alla regione lombare o perineale. Spesso si associano i segni di una neuropatia generalizzata: iporeflessia osteotendinea e segni elettrofisiologici di compromissione periferica distale. Frequentemente si accompagna a importante perdita di peso. La sede della lesione è stata localizzata a livello del plesso lombosacrale o delle radici motorie, come suggeriscono i segni elettrofisiologici di denervazione nei muscoli paravertebrali; si osservano, inoltre, segni di denervazione nei muscoli prossimali degli arti inferiori e aumento di latenza del potenziale evocato motorio da stimolazione del nervo femorale. La possibile associazione, in qualche caso, di un plantare in estensione sembra suggerire, in alcuni pazienti, una concomitante sofferenza midollare. Il recupero, una volta ottenuto un buon controllo glicometabolico, può essere soddisfacente. PATOGENESI Esistono diverse ipotesi patogenetiche: a) vascolare; b) metabolica; c) immunologica; e) defict di fattori trofici. L’ipotesi vascolare si basa sull’esistenza di tipiche alterazioni dei «vasa nervorum» caratterizzate da ispessimento delle pareti ed iperplasia endoteliale che inducono restringimento del lume vascolare ed ischemia del nervo. Tale ipotesi è universalmente accettata come causa diretta delle mono-multineuropatie diabetiche e della neuropatia motoria asimmetrica degli arti inferiori. Nelle polineuropatie simmetriche hanno un ruolo importante i fattori metabolici secondari all’iperglicemia, quali l’aumentata attività dell’aldoso reduttasi con accumulo dei polioli, l’autoossidazione del glucosio, la glicosilazione non-enzimatica delle proteine e la attivazione della protein-kinasi C. Il ruolo diretto dell’iperglicemia nella patogenesi delle neuropatie è confermato dall’osservazione che la neuropatia dolorosa migliora sensibilmente con un buon controllo glicemico; è stato osservato, inoltre, che il trapianto di pancreas, determinando un migliore controllo metabolico, arresta la progressione della neuropatia. La teoria dell’accumulo di polioli, quali il sorbitolo, si basa sull’osservazione che nei nervi periferici il glucosio, disponibile in eccesso per la iperglicemia, viene trasfor-
mato, per opera dell’enzima aldoso-reduttasi, in sorbitolo e quindi in fruttosio. Infatti è stato dimostrato che la quantità di sorbitolo accumulata nei vasi periferici correla significativamente con la gravità della neuropatia (Dyck, 1988). L’accumulo di sorbitolo e fruttosio a livello endonevriale e nelle cellule di Schwann sembra provocare edema endonevriale, difetti funzionali per inibizione della pompa Na-K ed aumento di radicali liberi con ulteriore danno cellulare e mitocondriale (Feldmann et al., 1999). La produzione di superossidi per autoossidazione del glucosio e la formazione di “prodotti finali di glicosilazione” contribuiscono a danneggiare i nervi periferici inducendo anche sofferenza endoteliale, che, a sua volta, provoca ulteriore riduzione del flusso endoneuriale e relativo danno ischemico del nervo (Feldmann et al., 1999). Le teorie immunologiche sono sostenute dall’osservazione che in alcune forme di neuropatia diabetica, come ad esempio le radiculoplessopatie lombosacrali asimmetriche, si osservano, talvolta, infiltrati infiammatori endonevriali (Bosch e Smith, 1996). La sofferenza selettiva di fibre mieliniche di piccolo calibro, che dipendono da neuroni responsivi al NGF, suggerisce che un deficit di tale fattore neurotrofico può svolgere un ruolo rilevante nella patogenesi di alcune forme di neuropatia diabetica. Tuttavia un deficit di NGF, o di altri fattori neurotrofici, non è mai stato dimostrato in maniera convincente nei nervi periferici di pazienti con neuropatia diabetica.
NEUROPATOLOGIA Nelle forme di mono-multineuropatie predominano le alterazioni vascolari con iperplasia intimale, restringimento del lume vascolare, ispessimento della parete del vaso per duplicazione della membrana basale (Fig. 33.34), e perdita multifocale di fibre mielinizzate.
Fig. 33.34 - Neuropatia diabetica: marcata rarefazione delle fibre mieliniche di piccolo calibro e ispessimento della parete dei vasi endoneurali (blu di toluidina).
Malattie dai nervi periferici 1381 Nelle forme simmetriche spesso si osserva una preminente compromissione delle fibre di piccolo calibro, espressione della genesi prevalentemente metabolica.
TERAPIA Il trattamento è largamente insoddisfacente, non essendo disponibili farmaci specifici e basandosi unicamente sul controllo glicemico; altri fattori importanti sono il controllo del metabolismo lipidico e del peso corporeo. Sono stati proposti farmaci capaci di inibire l’enzima aldoso-reduttasi (sorbinil, tolrestat), l’efficacia dei quali non è stata tuttavia dimostrata, e che hanno presentato effetti collaterali tali da sconsigliarne l’uso. Il dolore viene controllato sintomaticamente con farmaci antiinfiammatori non steroidei, quali l’acido acetilsalicilico (300-500 mg al dì), eventualemnte in associazione con antiepilettici come la carbamazepina (400-1000 mg al dì), e il gabapentin (600-1200 mg al dì), o con antidepressivi triciclici quali l’amitriptilina (50-100 mg al dì). L’ipotensione ortostatica si può affrontare con misure igienico-sanitarie (dormire con due cuscini sotto la testa, attendere seduti prima di alzarsi in piedi da una posizione supina, uso di calze elastiche), con l’aumento dell’assunzione giornaliera di sale e soprattutto con il fludrocortisone acetato (0,05-0,1 mg al dì). Il rallentato svuotamento gastrico può trarre beneficio dalla metoclopramide e le diarree dalla somministrazione di tetracicline. Le ulcere trofiche, particolarmente al piede, vanno prevenute con un’attenta cura della pelle con creme alla vaselina e l’uso di scarpe comode e morbide; l’applicazione topica di capsaicina appare efficace nelle ulcere dolorose. Recentemente sono state proposte nuove terapie sperimentali basate sull’uso di fattori neurotrofici (NGF), molecole antiossidanti (acido alfa lipoico), antagonisti dei recettori NMDA (destrometorfano) ed acidi grassi essenziali (acido gamma linoleico).
NEUROPATIE IN CORSO DI IPOGLICEMIA La grave e prolungata ipoglicemia osservata in vari casi di insulinoma può essere responsabile di ipostenia ed ipotrofia muscolare, in parte imputabile a sofferenza dei nervi periferici. In condizioni sperimentali l’insulina può danneggiare i nervi periferici, ma non esiste una documentazione sicura di una neuropatia periferica in diabetici insulino-trattati (Jakobsen e Sidenius, 1987).
Neuropatie associate a neoplasia Lesioni del SNP possono essere determinate da infiltrazione diretta o compressione tumorale
di uno o più nervi periferici o radici nervose, da effetto a distanza dellla neoplasia (in questo caso si parla di «neuropatia paraneoplastica») (Henson e Urich, 1982), oppure da sofferenza tossica dei nervi periferici per chemioterapie antiblastiche (v. pag. 1396). Le caratteristiche cliniche delle lesioni radicolari, dei plessi, e dei singoli nervi periferici sono già state descritte. Neuropatie paraneoplastiche. – Si riscontrano con frequenza decrescente in carcinomi del polmone, dello stomaco e dell’intestino, della mammella, della tiroide ed in genere in qualsiasi forma di neoplasia epiteliale maligna. EPIDEMIOLOGIA Le neuropatie paraneoplastiche hanno frequenza variabile, fra l’1,7 e il 5,5% di tutti i casi con neoplasia; le forme subcliniche, caratterizzate solo da alterazione dei parametri elettrofisiologici, sono osservabili nel 37-50 % dei pazienti con carcinoma.
SINTOMATOLOGIA Si distinguono forme sensitive pure, forme sensitivo-motorie, multineuropatie. Inoltre, in corso di neoplasie, è anche favorito lo sviluppo di neuropatie infiammatorie demielinizzanti acute o croniche. Neuropatia sensitiva pura. – Rappresenta la forma tipica, descritta nella sua forma classica da Denny-Brown (1948), spesso associata a carcinomi a piccole cellule del polmone e caratterizzata dalla comparsa, in maniera subacuta, di disestesie e dolori urenti agli arti, ed ipoestesia superficiale e profonda ai settori distali dei quattro arti. Oltre alla sintomatologia dolorosa, spesso preponderante, sono presenti areflessia osteotendinea, atassia e talora lieve ipostenia ai quattro arti, assai meno intensa rispetto ai disturbi sensitivi. La neuropatia sensitiva pura, talora, si presenta in associazione con una encefalomielite
1382 Malattie del sistema nervoso
paraneoplastica, con la quale condivide il meccanismo patogenetico (Grisold and Drlicek, 1999). L’elettrofisiologia dimostra una grave sofferenza assonale, con importante riduzione di ampiezza dei potenziali evocati sensitivi e relativo risparmio della ampiezza dei potenziali evocati motori; è inoltre possibile evidenziare minime alterazioni EMG nei muscoli distali degli arti inferiori. Fra gli esami di laboratorio consigliati spicca la ricerca di autoanticorpi diretti contro il nucleo neuronale (vedi paragrafo successivo), che tuttavia sono negativi in una elevata percentuale di casi (fino al 18%) (Grisold and Drlicek, 1999). Le proteine liquorali sono abitualmente aumentate, e gli elementi figurati sono normali o lievemente aumentati. Lo studio bioptico del surale mostra una grave ed attiva sofferenza assonale, con numerose fibre in degenerazione simil-walleriana. In circa nel 30% dei casi, i segni di sofferenza del SNP precedono i sintomi della neoplasia primitiva, per cui in ogni caso di neuropatia sensitiva pura, a decorso subacuto e con imponenenti dolori, si deve procedere ad accertamenti clinici, bioumorali e radiologici per evidenziare una possibile neoplasia occulta, specie a livello polmonare. Patogenesi. – Recentemente, in alcuni casi sono stati osservati autoanticorpi diretti contro il nucleo neuronale (anti-Hu), conosciuti anche con l’acronimo ANNA-1 (“antineuronal nuclear autoantibodies”), la cui rilevanza patogenetica è confermata dal riscontro, a livello dei gangli dorsali, di grave spopolamento neuronale, di infiltrati infiammatori e deposizione di anticorpi sui neuroni superstiti, dimostrabili con l’immunofluorescenza indiretta. La terapia causale, è rappresentata dalla rimozione della neoplasia primitiva; nell’impossibilità di raggiungere questo obiettivo l’uso di steroidi, plasmaferesi o immunoglobuline endovena ad alte dosi può trovare indicazione, ma, ovviamente, la prognosi rimane infausta.
Neuropatia sensitivo-motoria. – È assai più frequente della forma sensitiva pura, ma le sue caratteristiche cliniche e patogenetiche sono
meno definite. È caratterizzata da ipostenia, ipoestesia superficiale a distribuzione distale ad esordio subacuto, con segni elettrofisiologici di sofferenza assonale. La diagnostica differenziale, soprattutto se predomina il deficit motorio ed il decorso è acuto o cronico, deve considerare le poliradiculoneuropatie infiammatorie demielinizzanti acute o croniche; queste ultime, la cui frequenza è tuttavia aumentata in corso di neoplasia, presentano rispetto alle altre forme paraneoplastiche una demielinizzazione più marcata, un maggior incremento delle proteine del liquor e un andamento più spesso remittente. La terapia con plasmaferesi e steroidi o l’asportazione chirurgica della neoplasia di base ha un effetto benefico più accentuato che nelle altre forme. Compromissione vegetativa. – Segni di sofferenza del sistema nervoso vegetativo (gastroparesi, acalasia esofagea, spasticità anale) sono stati talora osservati in associazione con una neuropatia sensitiva paraneoplastica (Grisold and Drlicek, 1999). Multineuropatie. – Non molto frequenti, sono secondarie ad una vasculite paraneoplastica, con interessamento dei vasa nervorum e conseguente neuropatia ischemica. In questi casi esitono maggiori probabilità di successo terapeutico con farmaci steroidei o immunosoppressori (Grisold and Drlicek, 1999). Neuropatie in corso di discrasie ematiche Si verificano nel caso di linfomi di Hodgkin o nonHodgkin, di leucemie e di policitemia vera (Mc Leod, 1993), anche se, in questi casi, esiste un’aumentata suscettibilità a sviluppare poliradiculoneuropatie infiammatorie demielinizzanti acute o croniche, e si può verificare una infiltrazione neoplastica delle radici motorie. In corso di linfomi o leucemie si può osservare una neuropatia sensitivo-motoria e più raramente una neuropatia sensitiva pura, caratterizzate elettrofisiologicamente da segni associati di demielinizzazione e sofferenza assonale, patologia ritenuta secondaria ad un effetto a di-
Malattie dai nervi periferici 1383 stanza della neoplasia, anche se un auto-anticorpo specifico o meccanismi tossico-metabolici e carenziali non sono stati ancora individuati. In casi di linfoma di Hodgkin sono state riportate neuropatie motorie pure, con sofferenza del secondo motoneurone, associata a demielinizzazione ed infiltrazione infiammatoria delle radici anteriori. La diagnosi differenziale va posta con la SLA (v. pag. 1273), che assai raramente è associata a neoplasie. Raramente, si manifesta una infiltrazione diffusa dei nervi cranici e periferici da parte di cellule linfomatose (neurolinfomatosi) La policitemia vera si accompagna spesso a parestesie alle estremità degli arti, ma una vera e propria neuropatia periferica è assai rara.
Neuropatia uremica Si sviluppa nel 50-60 % dei casi di insufficienza renale, ma l’emodialisi ed il trapianto renale, hanno determinato una notevole riduzione di questa complicanza. La neuropatia uremica, inesplicabilmente più frequente nei maschi che nelle femmine, si osserva in pazienti con insufficienza renale di maggiore gravità e durata (Asbury, 1993). Si osservano mononeuropatie e polineuropatie sensitivo-motorie simmetriche. La mononeuropatia più comune in corso di insufficienza renale cronica, è la sindrome del tunnel carpale (v. pag. 1357), in relazione all’accumulo di ß2-microglobulina e al conseguente deposito di amiloide nel tessuto connettivo e nei tendini del tunnel carpale. L’emodialisi non sempre rimuove efficacemente dal circolo la ß2microglobulina, ciò che può spiegare la possibile comparsa di segni di compromissione periferica anche in emodializzati. Occasionalmente, la sindrome del tunnel carpale può essere dovuta ad una fistola arterovenosa nell’avambraccio, e, pertanto, essere secondaria a danno ischemico. Le polineuropatie si caratterizzano per la comparsa subacuta o cronica di parestesie, disestesie, dolori ed ipostenia a distribuzione distale e simmetrica e, talora, di crampi; i riflessi osteotendinei sono deboli o assenti, le sensibilità profonde (vibrazione e posizione) sono più compromesse delle superficiali. Assai raramente il disturbo motorio può essere prevalente avendo decorso acuto tipo poliradiculoneurite infiammatoria demielinizzante acuta. La diagnosi di neuropatia uremica va fatta, comunque, quando i valori di clearance della creatinina sono inferiori a 10 ml/min e l’insufficienza renale data da almeno 4-6 mesi. La diagnosi differenziale deve prendere in considerazione patologie (diabete mellito, tossici, farmaci, vasculiti
o connettiviti, amiloidosi) che associno un danno renale ad una specifica compromissione del SNP. L’elettrofisiologia rivela segni di denervazione all’EMG, rallentamento delle velocità di conduzione motoria e sensitiva, aumento delle latenze distali dei potenziali evocati sensitivi e motori e precoci alterazioni dell’onda F e del riflesso H, quando le velocità di conduzione sono ancora normali. Le proteine liquorali sono aumentate, ma raramente oltre 1g/l. La biopsia del nervo periferico mostra perdita di fibre, atrofia assonale e demielinizzazione segmentale secondaria alla sofferenza dell’assone. La causa della neuropatia uremica è tuttora incerta; l’ipotesi più probabile è che si accumuli una sostanza tossica, forse anche in relazione ai diversi tipi di dialisi utilizzati. Il trattamento è, ovviamente, il controllo della funzione renale, fino ad arrivare al trapianto di rene, che rappresenta, forse, la terapia migliore, almeno per arrestare la progressione della malattia.
Neuropatia periferica in corso di malattie epatiche Sono rare, ma in corso di epatiti virali A e B, in particolare nella fase itterica, sono state segnalate poliradiculopatie infiammatorie demielinizzanti acute. Le epatiti croniche attive B o C si associano spesso con crioglobulinemie o immunopatie a tipo vasculite, che possono a loro volta essere responsabili di una sofferenza diffusa o multifocale del SNP. Neuropatia in corso di infezione da virus dell’epatite C: in soggetti affetti da epatite C si osserva con relativa frequenza una polineuropatia sensitiva o sensitivo-motoria, talora anche in assenza di crioglobulinemia e pertanto di vasculite, che potrebbe essere in relazione con la localizzazione diretta del virus nel SNP, anche se una dimostrazione convincente in tal sneso non è ancora disponibile (Tembl et al., 1999). Il trattamento della neuropatia da virus dell’epatite C prevede, in caso di dimostrata vasculite, la combinazione di un terapia antivirale (interferone alfa) e di farmaci immunosoppressori (abitualmente steroidi). Infine, l’elettrofisiologia evidenzia una neuropatia demielinizzante subclinica in una elevata percentuale di casi di cirrosi epatica cronica.
Neuropatie in corso di paraproteinemia Le paraproteinemie sono malattie caratterizzate da un’abnorme produzione, da parte di un singolo clone di plasmacellule, di grandi quantità di un’unica immunoglobulina, che si evidenzia in genere con un picco ristretto
1384 Malattie del sistema nervoso all’elettroforesi del siero e delle urine. La compromissione del SNP rappresenta spesso un aspetto clinico rilevante. Frequentemente la neuropatia precede la comparsa dei sintomi dovuti alla malattia di base e se consideriamo i casi di «polineuropatia di origine non determinata», un’accurata ricerca permette di evidenziare nel 10% circa dei casi l’esistenza di una paraproteinemia (Kelly et al., 1981).
MIELOMA MULTIPLO Patogenesi La neuropatia periferica in corso di mieloma si manifesta con differenti quadri clinici e non è uniforme sul piano neuropatologico, per cui è molto probabile l’intervento di diversi fattori eziologici e differenti meccanismi patogenetici. Anche se il 19% circa dei casi di mieloma multiplo si complica con un’amiloidosi diffusa, raramente la neuropatia in corso di mieloma multiplo è dovuta ad amiloidosi. Tale evenienza, anche se non frequente, è comunque possibile, e deve essere ricercata con accuratezza, specie nei mielomi a catene leggere, considerato che la neuropatia amiloide è meno sensibile al trattamento terapeutico convenzionale e la prognosi è peggiore. In analogia a quanto riportato nella gammopatia monoclonale benigna IgM, è possibile che l’immunoglobulina abnorme prodotta dal clone di plasmacellule abbia un’attività anticorpale diretta contro un antigene del nervo periferico. Tale ipotesi è avvalorata dalla possibilità di causare una neuropatia periferica nell’animale da esperimento iniettando l’immunoglobulina monoclonale purificata, proveniente da pazienti con polineuropatia mielomatosa, e dal saltuario riscontro, con tecniche di immunofluorescenza, delle immunoglobuline M nell’endonevrio o lungo le guaine mieliniche; tuttavia, in molti casi di neuropatia in corso di mieloma, l’immunofluorescenza è negativa e, d’altra parte, la presenza di immunoglobuline nel nervo periferico non è necessariamente espressione di una reazione immune, ma può rappresentare un evento secondario, dovuto ad una diffusione passiva delle paroproteine in un nervo danneggiato. La maggior parte di neuropatie in corso di mieloma sono prevalentemente assonali, senza infiltrati plasmacellulari, simili a quelle che si osservano in corso di carcinoma viscerale. Analogamente alle neuropatie paraneoplastiche è quindi probabile che intervengano anche fattori carenziali, tossici o metabolici. Il mieloma multiplo si caratterizza per una proliferazione tumorale di plasmacellule, derivate da un unico clone cellulare che produce un’immunoglobulina monoclonale che in più della metà dei casi è una IgG e in un quarto dei casi una IgA. Più rare sono le paraproteinemie
IgD,IgM o IgE. Le catene leggere vengono prodotte in eccesso e, a causa del loro peso molecolare, vengono escrete nelle urine ed evidenziate all’elettroforesi delle urine come un picco monoclonale (proteina di Bence Jones). La compromissione del SNP non è frequente, e solo nel 3-5% dei casi la neuropatia periferica diventa clinicamente rilevante. L’incidenza aumenta tuttavia fino al 13% negli studi prospettici, per arrivare al 40-60% quando la sofferenza del SNP viene ricercata con metodiche elettrofisiologiche o neuropatologiche. Diversa è sul piano clinico e istologico la compromissione nervosa periferica nel tipico mieloma multiplo osteolitico senza amiloidosi; nel plasmocitoma solitario; nel mieloma multiplo con amiloidosi; nel mieloma osteosclerotico che, talvolta, come nella sindrome di Crow Fukase, può essere associato a segni di interessamento viscerale diffuso.
Mieloma multiplo osteolitico La diagnosi si basa sulla presenza di un’infiltrazione plasmacellulare del midollo osseo (più del 10% di plasmacellule), di lesioni osteolitiche all’esame radiografico dello scheletro e sulla presenza nelle urine o nel siero di una componente monoclonale (M). Le complicanze neurologiche sono in gran parte dovute a fenomeni compressivi locali sul midollo spinale o sulle radici nervose. In un limitato numero di casi la sofferenza del SNP, non dovuta ad infiltrazione della neoplasia o ad amiloidosi secondaria, nè alla secrezione di una particolare classe di immunoglobuline, compare quando il mieloma è ormai manifesto ed avanzato, o può essere il sintomo di esordio della paraproteinemia. Clinicamente si manifesta una polineuropatia sensitivo-motoria, una neuropatia sensitiva o una poliradiculoneuropatia acuta o cronica demielinizzante. Polineuropatia sensitivo-motoria. – Esordisce, in genere, agli arti inferiori e presenta un decorso lentamente ingravescente. Non sembra esistere una chiara relazione con l’evoluzione del mieloma, dato che la neuropatia può progredire, nonostante il miglioramento clinico della paraproteinemia. Il liquor può evidenziare, in alcuni casi, un lieve aumento delle proteine e all’isoelettrofocusing o all’immunoelettroforesi, la presenza dell’immunoglobulina anomala che può provenire dal siero, attraverso una barriera alterata, o essere direttamente secreta nel compartimento liquorale dalle plasmacellule abnormemente proliferate in sedi a diretto contatto con il liquor. L’EMG evidenzia spesso segni di denervazione, specie nei settori distali dei quattro arti; l’esame della conduzione nervosa periferica motoria e sensitiva dimostra
Malattie dai nervi periferici 1385 aumento significativo della latenza e riduzione dell’ampiezza del potenziale di azione. Il quadro neuropatologico non è caratteristico e costante, non evidenziando infiltrazioni di plasmacellule, ma solo aspetti generici di perdita di fibre mieliniche e di degenerazione assonale, più accentuati nelle porzioni distali dei nervi. Neuropatia sensitiva. – È simile a quella che si osserva nelle neoplasie viscerali: ha esordio repentino ed un decorso subacuto, con parestesie dolorose e marcata compromissione delle sensibilità superficiali e profonde, e modesta compromissione motoria. Poliradiculoneuropatia acuta o cronica demielinizzante. – È clinicamente sovrapponibile alla malattia di Guillain Barré acuta o alla classica poliradiculoneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica. Il decorso può quindi essere monofasico, con rapido peggioramento in meno di quattro settimane, successiva stabilizzazione e miglioramento, o, più raramente, può cronicizzare con andamento remittente o lentamente ingravescente. Il liquor dimostra una dissociazione albumino-citologica, mentre l’elettrofisiologia indirizza verso una prevalente compromissione della componente mielinica del nervo.
Plasmocitoma solitario Talvolta il mieloma può essere localizzato a singole strutture ossee, senza plasmocitosi midollare diffusa (plasmocitoma solitario) o può avere sede extramidollare, in genere nei tessuti linfatici del nasofaringe o dei seni paranasali (plasmocitoma extramidollare). La compromissione del SNP, spesso a tipo poliradiculoneuropatia cronica, è più frequente che nel mieloma multiplo classico e può colpire fino al 20% dei pazienti con plasmocitoma solitario. Solitamente si osserva un aumento delle proteine liquorali e prevalenti aspetti di demielinizzazione all’esame istologico del nervo. Talvolta, tuttavia, sembra che all’origine della neuropatia vi sia una vasculite.
Mieloma multiplo con amiloidosi Circa nel 15% dei casi di mieloma multiplo il decorso può essere complicato da un’amiloidosi diffusa. Clinicamente si osserva una polineuropatia o una multineuropatia sensitivo-motoria, con marcata compromissione del SNA; si può associare una sindrome del tunnel carpale, talora bilaterale, per infiltrazione locale dell’amiloide. L’elettrofisiologia dimostra una neuropatia prevalentemente assonale, più evidente nei settori distali.
La neuropatologia dimostra depositi diffusi di amiloide nel SNP, anche nelle radici e nei gangli dorsali. L’ immunocitochimica rivela che i depositi di amiloide sono formati da catene leggere o frammenti di catene leggere, di tipo lambda o di tipo kappa; la prognosi è grave, poichè la risposta alla chemioterapia è scarsa.
Mieloma osteosclerotico e sindrome di CrowFukase Il mieloma osteosclerotico è relativamente raro ed incide solo per l’1-3% di tutti i casi di mieloma multiplo. Tuttavia, mentre solo il 3-5% dei pazienti con mieloma multiplo sviluppa una neuropatia periferica, circa la metà dei soggetti con mieloma ostesclerotico presenta segni di compromissione del SNP, suggerendo quindi una particolare relazione fra lesioni osteosclerotiche e neuropatia periferica, anche se i meccanismi patogenetici non sono ancora del tutto chiariti. La catena leggera dell’immunoglobulina monoclonale secreta è quasi sempre di tipo lambda. La sofferenza periferica, che in genere precede di molto tempo la comparsa delle alterazioni ossee, si manifesta con una radiculoneuropatia prevalentemente motoria a evoluzione piuttosto lenta con associati segni di compromissione vegetativa. In alcuni casi si ritrovano segni di diffuso interessamento viscerale con epatosplenomegalia, linfoadenopatia, endocrinopatia con iperglicemia, ipogonadismo, ipotiroidismo, ginecomastia, ipergmentazione cutanea, edema distale e anasarca; se tali casi rientrano nella sindrome di Crow-Fukase, più frequente nella popolazione giapponese, e nota anche con l’acronimo POEMS, ovvero «polyneuropathy, organomegaly, endocrinopathy, M protein, skin changes». Si tratta in genere di maschi, di età media inferiore rispetto a quella del tipico mieloma multiplo osteolitico, in cui, spesso, i segni clinici della polineuropatia precedono la comparsa del mieloma. La compromissione del SNP nella POEMS, simile a quella che si osserva nel mieloma osteosclerotico, si manifesta in genere con una poliradiculoneuropatia sensitivo-motoria a predominanza distale, con frequente aumento delle proteine liquorali, riduzione delle velocità di conduzione motoria e sensitiva associata a diminuzione dell’ampiezza dei potenziali evocati motori e sensitivi. Tipicamente mancano segni di compromissione dei nervi cranici. L’elettrofisiologia sottolinea la prevalente compromissione delle fibre mieliniche, e fa ritenere la neuropatia periferica in corso di POEMS e in corso di mieloma osteosclerotico di tipo prevalentemente demielinizzante. I dati neuropatologici, al contrario, depongono per una lesione prevalentemente assonale, con secondari aspetti di demielinizzazione e rimielinizzazione.
1386 Malattie del sistema nervoso La causa dell’interessamento del SNP in corso di mieloma osteosclerotico e nella sindrome di Crow-Fukase non è chiara. Recentemente, il riscontro di elevati livelli sierici di fattore di crescita endoteliale in pazienti con POEMS, ha suggerito che tale fattore, aumentando la permeabilità della barriera emato-nervosa determini una esposizione delle strutture endonevriali a molecole tossiche, come citochine o complemento (Simmons, 1999).
Amiloidosi Si tratta di un gruppo di malattie caratterizzate dall’accumulo in numerosi organi di amiloide, una sostanza omogenea e finemente fibrillare, con manifestazioni cliniche variabili, in rapporto all’organo maggiormente compromesso. L’amiloide è lievemente eosinofila e metacromatica, con il cresil violetto ed il blu di metilene; si colora con il rosso congo (Fig. 33.35) ed è riconosciuta con certezza per la sua birifrangenza verde alla luce polarizzata. L’amiloidoisi può essere familiare, trasmessa con modalità autosomica dominante, dovuta a una mutazione puntiforme nel gene della transtiretina, localizzato nel cromosoma 18, con conseguente sostituzione amminoacida della proteina che si deposita nei vari organi e tessuti; oppure può essere dovuta all’abnorme accumulo di catene leggere delle immunoglobuline prodotte da una anomala proliferazione di un clone plasmacellulare.
Neuropatia amiloidosica familiare (v. pag. 1375).
Amiloidosi primaria
È dovuta al deposito di catene leggere e immunoglobuline. Al momento della diagnosi
Fig. 33.35 - Amiloidosi primaria. Accumulo di amiloide (freccia) nel tessuto endoneuriale (rosso congo, × 100).
l’età media è di 64 anni, con prevalenza nei maschi; e in circa il 17% dei pazienti si osserva una neuropatia periferica. La polineuropatia è prevalentemente sensitiva, con associati gravi segni vegetativi; si associano macroglossia, epatosplenomegalia, sindrome nefrosica. La diagnosi si basa nel riscontro di depositi di amiloide nel nervo periferico o anche nella mucosa rettale, documentabile attraverso una biopsia. Inoltre, lo studio neuropatologico del nervo surale mostra i segni di una sofferenza assonale con selettiva perdita delle piccole fibre mielinizzate e delle fibre amieliniche. Deve essere differenziata dall’amiloidosi secondaria, in cui il deposito di amiloide si verifica durante malattie croniche infettive e debilitanti, ma in tali casi l’amiloide è diversa dall’amiloidosi primaria, essendo formata da frammenti di una proteina sierica circolante diversa dalla prealbumina (transtiretina) e dalle immunoglobuline. Crioglobulinemia La crioglobulinemia si caratterizza per la presenza nel siero di immunoglobuline che precipitano a bassa temperatura e si solubilizzano nuovamente a 37°C. Le crioglobuline sono in genere IgG o IgM, ma in alcune forme possono essere presenti ambedue le frazioni. Le crioglobulinemie possono essere classificate in tre gruppi: a) crioglobulinemia di tipo I, caratterizzata dalla presenza di una proteina monoclonale e tipicamente associata con malattie come il mieloma multiplo, la macroglobulinemia o altre malattie linfoproliferative; b) crioglobulinemia di tipo II, caratterizzata dalla presenza contemporanea di proteine monoclonali (IgMk) e di IgG policlonali, c) crioglobulinemia di tipo III, caratterizzata da IgM ed IgG policlonali. Le forme miste (II e III) possono manifestarsi in maniera isolata (criglobulinemie essenziali) o essere secondarie a malattie infettive croniche debilitanti o a malattie del connettivo, con componen-
Malattie dai nervi periferici 1387
te policlonale. Circa il 30% dei casi è essenziale, mentre più frequenti sono le forme secondarie. La infezione da epatite C è la causa più frequente di crioglobulinemia. Clinicamente si rileva spesso il fenomeno di Raynaud alle estremità degli arti, porpora cutanea, artralgie, ulcerazioni agli arti inferiori, insufficienza renale. I disturbi sono solitamente scatenati dal freddo, ma spesso la criosensibilità non emerge dai dati anamnestici. La prevalenza di neuropatia in corso di crioglobulinemia varia dal 7 all’86% a seconda dei diversi studi. Nella maggior parte dei casi si osserva una multineuropatia o una neuropatia più accentuata agli arti inferiori, con prevalenti disturbi sensitivi soggettivi, come dolori e disestesie, oppure una polineuropatia sensitivo-motoria progressiva e simmetrica con preminenti turbe motorie. La terapia della neuropatia crioglobulinemica consiste in steroidi, farmaci immunosoppressori (azatioprina, ciclofosfamide) e plasmaferesi.
L’elettrofisiologia evidenzia segni di denervazione e rallentamento della velocità di conduzione nervosa. Il quadro neuropatologico non è uniforme: in alcuni casi predomina l’aspetto infiammatorio con infiltrati endonevriali e perinevriali di mononucleati e plasmacellule; in altri casi (circa 50%) è prevalente l’aspetto demielinizzante (Fig. 33.36) con un quadro del tutto simile a quello che si può osservare nelle gammopatie monoclonali benigne IgMk. In tal caso la immunoglobulina M monoclonale possiede attività anticorporale diretta contro la glicoproteina associata alla mielina (MAG), proteina della guaina mielinica, identificata quale antigene nella neuropatia demielinizzante in corso di gammopatia monoclonale benigna IgMk.
Macroglobulinemia di Waldenström È una paraproteinemia, che si caratterizza per la presenza all’elettroforesi del siero di un picco monoclonale formato da IgM. Contrariamente al mieloma IgM, in cui sono evidenti alterazioni osteolitiche, nella macroglobulinemia non si osservano lesioni scheletriche, ma sono presenti una linfoadenopatia diffusa, epatosplenomegalia e anemia. Circa nel 5-8% dei casi si rileva una neuropatia periferica, che compare in genere quando il quadro della macroglobulinemia è manifesto, ma talvolta può essere il primo segno. L’esordio è insidioso con prevalenti disturbi sensitivi come parestesie, disestesie dolorose e deficit di forza inizialmente asimmetrici, che con il passare del tempo, configurano un quadro di polineuropatia sensitivo-motoria; talvolta l’esordio è acuto ed il decorso rapidamente ingravescente tipo poliradiculoneuropatia di Guillain Barré.
Fig. 33.36 - Macroglobulinemia di Waldenström. Allargamento delle lamelle mieliniche nella parte più esterna di una guaina mielinica (ME, citrato di piombo e acetato di uranile × 45.000).
In alcuni casi la neuropatia periferica è causata da crioglobuline circolanti, e quindi è analoga sul piano clinico e neuropatologico alla neuropatia crioglobulinemica (v. pag. 1386), o ancora si possono osservare depositi di amiloide nell’endonevrio, spesso a sede perivascolare. In conclusione, la diversità dei dati neuropatologici suggerisce l’azione di differenti meccanismi patogenetici responsabili della neuropatia.
1388 Malattie del sistema nervoso
Pazienti con polineuropatie demielinizzanti possono essere trattati con chemioterapia antiblastica, plasmaferesi o entrambi, ma i risultati sono spesso insoddisfacenti. Gammopatie monoclonali di incerto significato Si tratta di una serie di condizioni, in cui è presente una paraproteina sierica monoclonale senza altra evidenza di una proliferazione maligna di plasmacellule, quali lesioni osteolitiche, anemia, insufficienza renale o ipercalcemia. Le gammopatie monoclonali di incerto significato sono piuttosto frequenti, e sono presenti circa nell’1% della popolazione sopra i 50 anni e nel 3% sopra i 70 anni di età. Poichè circa l’11% di tali soggetti sviluppa, negli anni successivi, una trasformazione maligna, con interessamento plurisistemico, si preferisce la definizone «gammopatia monoclonale di incerto significato» anziché «gammopatia monoclonale benigna», per sottolineare l’incertezza dell’evoluzione clinica. La compromissione del SNP è relativamente frequente, comparendo in circa il 6% dei casi. Paraproteinemia IgG. – La sofferenza del SNP si manifesta con una polineuropatia sensitivo-motoria cronica, lentamente ingravescente o più raramente con una polineuropatia a decorso remittente, simile alle forme infiammatorie croniche demielinizzanti o CIDP. La biopsia nervosa evidenzia aspetti di demielinizzazione segmentale e rimielinizzazione, associati a segni di degenerazione assonale. In alcuni casi è possibile osservare IgG adese alle guaine mieliniche; tale dato, peraltro, non è costante e pertanto non appare chiaro il ruolo dell’immunoglobulina nella patogenesi della neuropatia. Paraproteinemia IgA. – Sono stati descritti casi di neuropatia in corso di gammopatia monoclonale benigna IgA; in alcuni, tuttavia, erano prevalenti i segni di compromissione dei motoneuroni delle corna anteriori.
Paraproteinemia IgM. – La neuropatia periferica è frequente e piuttosto omogenea sul piano clinico e neuropatologico. In un gruppo numeroso di casi la paraproteina monoclonale circolante possiede un’attività anticorpale contro la mielina ed in particolare contro la glicoproteina associata alla mielina (MAG). Tali forme morbose possiedono un notevole interesse teorico generale, rappresentando un esempio di malattia demielinizzante dell’uomo da anticorpi specificatamente diretti contro un autoantigene. La neuropatia è più frequente nel sesso maschile e nella popolazione in età superiore ai 60 anni. Nella maggior parte dei casi i sintomi neurologici insorgono molto prima del riscontro della paraproteina sierica e il decorso è molto lento e insidioso, con una durata intorno ai 10-20 anni. I disturbi sensitivi sono predominanti e sono caratterizzati da parestesie ed ipoestesia superficiale e profonda diffuse, ma più accentuate nei settori distali dei quattro arti, specie agli arti inferiori, mentre il dolore è in genere assente. Frequenti sono l’atassia, prevalente agli arti inferiori, ed il tremore posturale ed intenzionale, non sempre correlati con la compromissione delle sensibilità propiocettive. Alterazioni vasomotorie come il fenomeno di Raynaud sono state spesso descritte. La compromissione motoria è in genere modesta rispetto ai disturbi sensitivi e si manifesta con una lieve ipostenia ed amiotrofia a distribuzione distale. Nel tempo si configura un quadro di polineuropatia sensitivomotoria, con prevalenti turbe sensitive soggettive e obiettive, atassia e talvolta tremore posturale, con modesta compromissione dell’autonomia del paziente, durata prolungata e decorso assai lentamente ingravescente. In alcuni pazienti la neuropatia è assimilabile, per decorso e caratteristiche cliniche, ad una polineuropatia infiammatoria cronica demielinizzante o CIDP, a carattere prevalentemente sensitivo. Il rapporto fra neuropatia demielinizzante in corso di
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gammopatia di incerto significato e CIDP con paraproteinemia non è chiaro. La presenza della IgM monoclonale nella maggior parte dei casi è evidente alla elettroforesi e all’immunoelettroforesi del siero. L’aumento della proteina M è in genere modesto, e più frequentemente la IgM è a catene leggere kappa, anche se sono stati descritti casi di neuropatia in corso di gammopatia monoclonale benigna IgM lambda. L’elettrofisiologia sottolinea la prevalente compromissione mielinica del nervo, con rallentamento della velocità di conduzione, aumento della latenza e diminuzione di ampiezza del potenziale evocato. La neuropatologia del nervo periferico mostra una neuropatia prevalentemente demielinizzante, con aspetti di demielinizzazione segmentale e rimielinizzazione. In più della metà dei casi, al microscopio elettronico, si evidenzia un allargamento delle lamelle mieliniche, caratterizzato da una dilatazione regolare delle bande chiare, con conseguente ampliamento dello spazio periodico fra le linee dense maggiori. L’ immunofluorescenza diretta, in numerosi casi, mostra l’immunoglobulina monoclonale adesa alla superficie delle guaine mieliniche (Fig. 33.37), suggerendo un’attività anticorpale dell’immunoglobulina monoclonale contro la mielina periferica, e, in particolare, contro una
glicoproteina associata alla mielina (MAG). Tale proteina di peso molecolare pari a circa 100.000 daltons rappresenta un costituente minore fra le proteine del SNC e del SNP, ed è situata, nel SNP, a livello delle incisure di Schmidt-Lanterman e delle regioni paranodali. Circa nel 40% delle neuropatie in corso di gammopatia IgM è possibile evidenziare con la tecnica dell’immunoblotting un’attività della paraproteina diretta contro la MAG. È possibile che alla reazione antigene-anticorpo faccia seguito un’attivazione della via del complemento con successiva degenerazione della guaina mielinica. Non sempre tuttavia la proteina M ha attività anticorpale diretta contro la MAG. In alcuni casi ad esempio la immunoglobulina monoclonale reagisce contro altri antigeni glicolipidici del nervo o l’attività anticorporale è diretta contro i filamenti intermedi delle cellule di Schwann o contro i gangliosidi del nervo periferico. Inoltre in una discreta percentuale di neuropatie in corso di paraproteinemia IgM gli studi all’immunofluorescenza o gli studi immunocitochimici non evidenziano l’immunoglobulina adesa alle guaine mieliniche del nervo. Talvolta si può osservare un deposito di IgM nell’endonevrio o a livello degli assoni. In alcuni di questi casi la proteina M sierica ha dimostrato di possedere attività anticorpale diretta contro il condroitin solfato, presente nel connettivo endonevriale e nell’assone. È quindi evidente che la patogenesi non è identica in tutte le neuropatie in corso di paraproteinemia IgM, ma che intervengono diversi anticorpi diretti contro differenti antigeni tissutali. NEUROPATIE IN CORSO DI VASCULITI
Fig. 33.37 - Gammopatia monoclonale IgM. Immunofluorescenza diretta. Utilizzando anticorpi fluoresceinati anti IgM umane si evidenziano accumuli di IgM lungo le guaine mieliniche (IF, × 150).
La compromissione del SNP è frequente nella maggior parte delle vasculiti necrotizzanti, descritte nel 1866 da Kussmaul e Maier con il termine di «periarterite nodosa». In seguito si è riconosciuto che l’infiltrato infiammatorio non è perivascolare, ma infiltra la parete del vaso e il disturbo è generalizzato a molti distretti e organi, per cui la malattia venne indicata come «panarterite nodosa»
1390 Malattie del sistema nervoso (PAN). Nel corso degli anni sono state aggiunte altre forme di vasculite, e la nosografia si è fatta complicata per l’esistenza di forme simili, ma differenti solo per alcuni aspetti, o di forme con una completa autonomia anatomoclinica. Una recente classificazione (Churg, 1991) divide le vasculiti in forme idiopatiche, forme secondarie e forme non sistemiche (Tab. 33.4). La neuropatia periferica in corso di vasculite è di tipo ischemico-ipossico, dovuta a una stenosi od occlusione dei vasi arteriosi, secondaria alla necrosi della parete vasale, e rientrano quindi nel gruppo delle neuropatie ischemiche con meccanismi patogenetici simili nelle diverse forme.
Tabella 33.4 - Vasculiti che possono causare una compromissione del SNP. Vasculiti idiopatiche Panarterite Nodosa Granulomatosi di Wegener Granulomatosi allergica (sindrome di Churg-Strauss) Vasculiti secondarie Vasculiti secondarie a infezioni Vasculiti in corso di malattie del tessuto connettivo (Lupus, Artrite Reumatoide, Sindrome di Sjögren, Febbre Reumatica, Sclerodermia) Vasculiti da farmaci Vasculiti in corso di neoplasia Vasculiti non sistemiche
Le vasculiti in cui più frequente ed importante è la comparsa di segni di sofferenza del SNP sono: la PAN, l’angite granulomatosa allergica (sindrome di ChurgStrauss), le vasculiti secondarie a malattie del connettivo, la granulomatosi di Wegener, le vasculiti in corso di neoplasia o di malattie infettive (come la epatite da virus C) e le vasculiti non sistemiche del SNP. In alcuni casi la vasculite sembra essere causata dalla presenza di complessi antigene-anticorpo che si depositano sull’endotelio, attivano il complemento che richiama i neutrofili, i quali rilasciano enzimi lisosomiali che determinano la necrosi della parete cellulare con successiva occlusione vasale e sofferenza ischemica a valle. In altri casi sono stati dimostrati anticorpi diretti contro gli antigeni citoplasmatici o perinucleari dei neutrofili (cANCA o pANCA). In particolare i cANCA sono abbastanza specifici per la granulomatosi di Wegener e le
sue forme meno gravi, mentre i pANCA sono stati evidenziati nella PAN, nella sindrome di Churg-Strauss e in altre malattie autoimmuni, ma la loro importanza patogenetica è ancora incerta. Un terzo meccanismo è quello di una attivazione linfocitaria cellulare T, diretta contro antigeni non ancora identificati, presenti sulla superficie delle cellule endoteliali che sono in grado di esprimere antigeni di istocompatibilità di II classe. La reazione delle cellule T con l’antigene determinerebbe la produzione di citochine che richiamano linfociti B e macrofagi, che sono gli effettori del danno vasale, in uno scenario quindi simile a quello generale della immunità cellulo-mediata ritardata. Comunque qualunque sia la patogenesi del danno vasale, le vasculiti causano, in genere, multineuropatie, con interessamento di diversi tronchi nervosi periferici in successione temporale. Circa nel 20% dei casi, tuttavia, il quadro è quello di una polineuropatia sensitivomotoria, simmetrica fin dall’inizio. L’elettrofisiologia evidenzia una neuropatia prevalantemente assonale, con denervazione e diminuzione dell’ampiezza del potenziale motorio o sensitivo e con velocità di conduzione relativamente conservata. In alcuni casi può essere evidenziato un blocco di conduzione dei tronchi nervosi, in genere transitorio, che potrebbe indirizzare erroneamente verso una forma demielinizzante. Tale blocco è dovuto verosimilmente al fatto che nelle prime fasi dell’ischemia le fibre nervose possono attraversare uno stadio transitorio in cui è prevalente la perdita mielinica focale. La biopsia del nervo periferico è spesso diagnostica e si caratterizza per la presenza di una vasculite necrotizzante, interessante le arteriole e le vene epineuriali (Fig. 33.38), (Chalk et al., 1993). I vasi endo e perinevriali sono, in genere, risparmiati: il lume vasale può essere obliterato o marcatamente ridotto, l’endotelio è ispessito,
Fig. 33.38 - Vasculite. Infiltrazione infiammatoria e ricanalizzazione di una piccola arteriola epineuriale (blu di toluidina, × 250).
Malattie dai nervi periferici 1391 la media e l’avventizia sono infiltrate da cellule mononucleate, prevalentemente T linfociti e macrofagi, e meno frequentemente B linfociti e polimorfonucleati. La parete vasale è necrotica e spesso in sede perivasale si osservano macrofagi con granuli di emosiderina, segno di pregresse emorragie o trombosi e ricanalizzazione dei vasi, o piccoli vasi neoformati, espressione di un processo di angioneogenesi. Il nervo interessato presenta segni di sofferenza assonale multifocale (Fig. 33.39), specie in alcuni fascicoli e più gravemente in alcuni settori dei singoli fascicoli. Alla dissezione delle singole fibre è caratteristica la degenerazione walleriana. Gli aspetti neuropatologici, peraltro, non permettono di risalire alla forma morbosa, anche se viene riportato che l’infiammazione e la necrosi dei vasi arteriosi epinevriali più grandi (100-250µ) è caratteristica della PAN, della sindrome di Wegener e della artrite reumatoide, mentre l’interessamento dei vasi arteriosi più piccoli è più suggestivo della sindrome di Sjögren, del lupus e delle vasculiti del SNP non sistemiche.
nemia. Nelle vasculiti non sistemiche sono interessati solo i tronchi nervosi periferici, mentre gli organi viscerali e le articolazioni sono risparmiate, non vi sono in genere alterazioni sierologiche evidenti e la malattia ha un decorso piuttosto indolente. La biopsia del nervo surale è diagnostica e in tali casi, in genere, vengono interessati i piccoli vasi epinevriali. La prognosi e la risposta alla terapia steroidea sono piuttosto buone. La prognosi è completamente cambiata con l’uso degli steroidi e della terapia immunosoppressiva: la PAN non trattata ha una mortalità dell’85% a 5 anni, mentre la terapia steroidea ha ridotto la percentuale al 30-40% e, se associata a ciclofosfamide o azatioprina, al 20-25%; in generale, si inizia con 1-1,5 mg al dì di prednisone, che deve essere proseguito per molto tempo fino alla scomparsa dei sintomi per poi calare gradualmente. Se non si ottiene risposta o compaiono segni di interessamento viscerale è necessario associare la ciclofosfamide (1-2 mg/kg/die) o l’azatioprina (1-2 mg/kg/die). L’associazione cortisonici-immunosoppressori è indicata in forme particolarmente gravi, ad esempio nella granulomatosi di Wegener, mentre in altre forme, come la sindrome di Churg-Strauss o le neuropatie vasculitiche non sistemiche, lo steroide è spesso sufficiente. Incoraggianti risultati sono stati riportati con l’uso della plasmaferesi e delle Ig ev ad alto dosaggio nella PAN e in altre vasculiti, ma mancano studi controllati. Nelle forme di vasculite secondarie a patologia infettiva o a farmaci, la terapia si indirizza al trattamento della infezione e alla sospensione della sostanza che ha precipitato la malattia. Nelle neuropatie da vasculite in corso di infezione da virus dell’epatite C si può usare una associazione di farmaci immunosoppressori (steroidi) ed antivirali (Interferone α).
Fig. 33.39 - Vasculite. la maggior parte delle fibre mieliniche di un fascicolo è in attiva degenerazione assonale.
NEUROPATIA ALCOLICA E NEUROPATIE CARENZIALI
La diagnosi della forma di vasculite risiede sui sintomi di associazione: nella PAN sono frequenti la febbre, l’interessamento cutaneo, renale e cardiaco, l’ipertensione, e gli esami strumentali, quali l’angiografia, possono rivelare arterie a corona di rosario o con microaneurismi; nella sindrome di Churg-Strauss si trova eosinofilia, asma, rinite vasomotoria e interessamento polmonare; nella granulomatosi di Wegener si osserva compromissione polmonare e delle alte vie aeree, e la sofferenza di altri visceri è grave e precoce; nell’artrite reumatoide la compromissione periferica si instaura, in genere, in un paziente che già da molti anni soffre di tale malattia; nella sindrome di Sjögren si associano xeroftalmia e xerostomia, e la neuropatia è prevalentemente sensitiva. Nelle vasculiti da virus dell’epatite C è presente crioglobuli-
Polineuropatia alcolica. – È una delle più comuni neuropatie periferiche, anche se l’incidenza è molto variabile nelle diverse casistiche, in relazione alle abitudini alimentari e sociali. L’azione dell’alcool sul SNP è verosimilmente dovuta alle carenze alimentari e vitaminiche proprie dell’alcolismo cronico, e in particolare alla carenza di tiamina e delle altre vitamine del gruppo B, ma è possibile anche una diretta azione tossica dell’etanolo e dei suoi metaboliti, quali l’acetaldeide. Clinicamente la neuropatia si inserisce nel complesso quadro dell’alcolismo cronico e si associa
1392 Malattie del sistema nervoso
allo scadimento delle condizioni generali, alla sofferenza epatica su base steatosica o cirrotica, alle turbe affettive e alle difficolà nei rapporti sociali. Può essere uno dei sintomi dell’encefalopatia di Wernicke e di Korsakoff (v. pagg. 1310-1311). Si tratta, in genere, di una polineuropatia con prevalenti disturbi disestesici e della sensibilità profonda, con atassia sensitiva e frequenti dolori muscolari crampiformi o «brucianti»; il deficit motorio ha distribuzione prevalentemente distale e la compromissione vegetativa, specie cardiaca o pressoria, è frequente. La diagnosi si basa sul dato anamnestico di un prolungato consumo di alcool, spesso negato o minimizzato, e sulla presenza di sofferenza epatica agli esami biochimico -umorali o di macrocitosi dei globuli rossi, espressione di una carenza vitaminica che perdura da tempo. L’elettrofisiologia evidenzia, in genere, una prevalente compromissione assonale, con riduzione dell’ampiezza dei potenziali sensitivi e relativa conservazione della velocità di conduzione motoria; l’EMG rivela, spesso, diffusi segni di denervazione. La biopsia del nervo periferico conferma la degenerazione assonale prevalentemente distale (Fig. 33.40). La terapia si fonda sulla sospensione completa del consumo di alcool, sulla somministrazione prolungata di vitamine del complesso B, e, in particolare, di tiamina (vit B1). Nella maggior
Fig. 33.40 - Neuropatia alcoolica Gravissima rarefazione delle fibre mieliniche nei fascicoli del n. surale.
parte dei casi è necessario iniziare il trattamento in regime di ricovero, per avere possibilità di successo, e associare un adeguato programma di riabilitazione fisica e sociale e di appoggio psicoterapeutico. Neuropatia in corso di malassorbimento. – Polineuropatie sensitivo-motorie possono comparire in corso di malassorbimento, in rapporto con differenti malattie gastrointestinali, dopo interventi di resezione gastrica o interventi sull’intestino per obesità. Il morbo celiaco si associa, in una bassa percentuale di casi, a complicazioni neurologiche fra cui neuropatie periferiche prevalentemente sensitive, multineuropatie e sindromi atassiche. In caso di neuropatia prevalentemente sensitiva con atassia da causa ignota, è consigliabile effetuare accurate ricerche per malassorbimento intestinale e celiachia. La terapia polivitaminica è spesso in grado di migliorare i sintomi polineuropatici. Neuropatia in corso di Beri-beri. – Il Beriberi («debolezza») si è sviluppato, nei secoli scorsi, con l’alimentazione di riso brillato, privo cioè dell’involucro ricco in vitamina B1 o tiamina. I marinai che dall’Europa navigavano verso le Americhe o le Indie si nutrivano per mesi con cibo conservato, privo di un adeguato contenuto vitaminico, e sviluppavano frequentemente la malattia, attualmente molto rara. Clinicamente si manifesta con una polineuropatia sensitivo- motoria, talvolta con interessamento dei settori cranici ad innervazione bulbare, associata ad edema diffuso e cardiopatia congestizia. La neuropatia in corso di Beri-beri è molto simile a quella alcolica ed è caratterizzata da una prevalente degenerazione assonale. Neuropatia in corso di Pellagra. – La pellagra è dovuta alla carenza di acido nicotinico nella dieta ed è attualmente molto rara nei paesi «sviluppati»: si manifesta con la triade dermatite, diarrea e demenza e può essere associata, nel 50% dei casi circa, ad una polineuropatia
Malattie dai nervi periferici 1393
sensitivo motoria. L’arricchimento del pane con l’acido nicotinico ne ha determinato la pressoché totale scomparsa. Neuropatia in corso di carenza di Vitamina B6. – La carenza di vitamina B6 (pirodossina) può essere determinata dall’uso dell’idrazide dell’acido nicotinico, nella terapia antitubercolare, o della idralazina nell’ipertensione arteriosa. La polineuropatia che si manifesta è prevalentemente sensitiva. Deve essere sottolineato che dosaggi eccessivi di piridossina (più di 500 mg al dì) possono, a loro volta, causare una neuropatia periferica, per cui, in caso di trattamento con isoniazide, la vitamina B6 viene somministrata al dosaggio di circa 50-100 mg al dì. Neuropatia in corso di carenza di vitamina B12. – La carenza di vitamina B12 è dovuta al mancato assorbimento, per carenza di fattore intrinseco, per parassitosi intestinale o grave steatorrea. Si può manifestare, oltre alla sclerosi combinata (v. pag. 1324) una polineuropatia sensitivomotoria, in genere oscurata dai prevalenti sintomi di lesione midollare. Neuropatia in corso di carenza di vitamina E. – Può comparire in alcune sindromi di malassorbimento dovute a epatopatia colostatica, nella fibrosi cistica o nella abetalipoproteinemia. Clinicamente una sindrome spino-cerebellare si associa ad oftalmoplegia, retinopatia pigmentosa e neuropatia periferica, con atassia e turbe propriocettive, dovute alla perdita di fibre mieliniche di calibro maggiore. I neuroni dei gangli dorsali ed i loro prolungamenti centrali e periferici sono la sede principale del processo patologico. POLINEUROPATIA NEI RICOVERATI DELLE UNITÀ DI TERAPIA INTENSIVA («CRITICAL ILLNESS POLYNEUROPATHY») È stata recentemente descritta in ricoverati in rianimazione, per molti giorni sottoposti a ventilazione meccanica assistita, che hanno sofferto di sepsi ricorrenti, e
compromissione di organi viscerali. Questa polineuropatia, prevalentemente motoria, è più frequente di quanto si creda (fino al 50% dei soggetti ricoverati in rianimazione con segni di insufficienza multipla d’organo) ed è spesso responsabile delle difficoltà a svezzare il paziente dalla repsirazione assistita. Si tratta di una polineuropatia assonale diffusa con degenerazione walleriana all’esame neuropatologico. Spesso si associano anche segni di sofferenza muscolare primitiva. La causa non è ancora chiarita, ma è possibile che diversi fattori, settici, tossici e carenziali, abbiano importanza rilevante. Il recupero, possibile, è lento e richiede molti mesi.
NEUROPATIE ENDOCRINE Ipotiroidismo. – Una sindrome del tunnel carpale è complicanza non rara, dovuta alla compressione del tessuto mixedematoso sul nervo mediano nel tunnel carpale. Il trattamento chirurgico spesso non è necessario, poichè la terapia tiroidea sostitutiva può essere sufficiente. Più rara la comparsa di una polineuropatia, prevalentemente sensitiva, con parestesie, dolore muscolare distale ed ipoestesia. Si tratta di una neuropatia prevalentemente demielinizzante, con rallentamento della velocità di conduzione nei tronchi nervosi sensitivi. La terapia sostitutiva è efficace anche in questo caso. Acromegalia. – Può causare una sindrome del tunnel carpale o, più raramente, una polineuroptia sensitivo-motoria, con accentuati disturbi della sensibilità, parestesie ed ipoestesia distale. Spesso è associato un diabete mellito ma la neuropatia non è dovuta alla turba del metabolismo glucidico, bensì all’edema endonevriale e subperinevriale, con associata perdita di fibre mieliniche ed amieliniche.
Sarcoidosi È una malattia granulomatosa multisistemica, con prevalente compromissione dei polmoni, della cute, dei linfonodi e degli occhi. L’interessamento del SNP non è raro e si può manifestare come neuropatia craniale, prevalentemente del nervo facciale, associato talvolta a compromissione della sensibilità al volto, disfagia e disfonia; come multineuropatia, con alterazioni delle sensibilità a livello del torace, o dell’addome o del territorio di innervazione della cauda equina; come multineuropatia sensitivo-motoria lentamente evolutiva. La compromissione dei nervi cranici e delle radici nervose è dovuta ad una infiltrazione granulomatosa delle meningi e delle radici e, nei casi di polineuropatia, a una infiltrazione diffusa di granulomi sarcoidi associata ad una angite linfocitaria. Il riscontro di livelli elevati di ACE nel
1394 Malattie del sistema nervoso siero possono indirizzare verso una diagnosi di sarcoidosi in fase attiva. La presenza nel liquor cefalorachidiano di aterazioni infiammatorie (ipercitosi, aumento delle proteine, sintesi intratecale di IgG, talora riduzione della glicorrachia) depone per una infiltrazione leptomeningea. La terapia steroidea è spesso efficace. In pazienti che non rispondono a questa terapia si posssono usare altri immunosoppressori come ciclofosfamide, ciclosporina, azatioprina.
POLINEUROPATIA NELLA INSUFFICIENZA RESPIRATORIA CRONICA
Può rappresentare una complicanza di una broncopatia cronica ostruttiva. Usualmente si tratta di malati con grave pneumopatia, dimagrimento e compromissione delle condizioni generali. La polineuropatia è prevalentemente sensitiva o sensitivo-motoria, con rallentamento della conduzione nervosa. Neuropatie tossiche Numerose sostanze di origine ambientale o metalli pesanti o diversi farmaci hanno azione tossica diretta sul SNP (v. pag. 1303), e la maggior parte causa una assonopatia distale, con un meccanismo tipo «dying back», prevalente interessamento delle fibre di maggior diametro e propagazione del deficit sensitivo-motorio in direzione disto-prossimale; più rara è l’azione lesiva diretta primitivamente contro la guaina mielinica. Le sostanze tossiche possono anche determinare una primitiva degenerazione dei neuroni dei gangli dorsali o, più raramente, del II motoneurone. Per affermare il rapporto di causa-effetto è necessario che vi sia stata esposizione ad agenti lesivi o assunzione di farmaci potenzialmente dannosi per il SNP. Deve inoltre esistere una relazione temporale fra comparsa dei sintomi ed esposizione al tossico, ma è frequente che i sintomi seguano, anche con una latenza di alcune settimane, il periodo dell’assunzione del farmaco o il contatto con sostanze lesive. Inoltre l’allontanamento dalla sorgente del danno o la sospensione della terapia incriminata deve essere
seguita, anche a distanza di tempo, da un arresto della progressione o da un miglioramento dei sintomi. TOSSICI INDUSTRIALI Acrilamide. – Nella forma monomerica è usata nell’industria mineraria e della plastica e la tossicità si manifesta prevalentemente attraverso il contatto con la cute, ove è causa di una dermatite esfoliativa, raramente per via inalatoria. A dosaggio alto, come può accadere bevendo, ad esempio, acqua contaminata, può causare una grave encefalopatia, mentre l’intossicazione cronica, per continua e prolungata esposizione a quantità modeste, è responsabile di una polineuropatia sensitivo-motoria con atassia e precoce areflessia profonda. La neuropatologia dimostra una assonopatia distale prevalente per le fibre di maggior calibro, accumulo di neurofilamenti nei larghi assoni mielinizzati e compromissione del trasporto assonale rapido e lento. Esacarboni. – L’N-esano e il metil-butil-chetone, metabolizzati a 2,5 esanedione, sono le sostanze responsabili della neurotossicità; sono usati nell’industria come solventi della colla e possono causare intossicazioni nei lavoratori che usano collanti in locali poco ventilati. In alcuni casi intossicazioni da esacarboni possono verificarsi in individui che hanno l’abitudine di inalare solventi a scopo euforizzante («glue sniffing»). La polineuropatia è prevalentemente sensitiva per coinvolgere, con il perdurare dell’esposizione, anche il versante motorio, e può peggiorare anche per mesi dopo l’allontanamento dal tossico. La biopsia nervosa mostra rigonfiamenti assonali focali, ripieni di neurofilamenti. Esteri organofosforici. – Causano un’assonopatia distale sia nel SNP che nel SNC, non dovuta all’inibizione della acetilcolinesterasi
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(l’usuale meccanismo di azione tossica acuta dei composti organofosforici) ma causata dall’inibizione irreversibile di una esterasi specifica del sistema nervoso. I composti organofosforici sono usati nell’industria come pesticidi, additivi dei derivati del petrolio e nella lavorazione della plastica, e tra questi il tri-orto-cresil-fosfato è la sostanza più frequentemente responsabile di una polineuropatia. I casi di intossicazione sono in realtà rari nell’industria, ma si riscontrano per ingestione accidentale di bevande contaminate o per l’uso di olio adulterato. La polineuropatia è prevalentemente motoria, con grave compromissione della forza e atrofia muscolare, e meno rilevanti disturbi sensitivi; si possono associare segni piramidali e spasticità, per compromissione della via piramidale. La neuropatia è di tipo assonale, con segni di degenerazione walleriana. Numerose altre sostanze di uso industriale possono causare alterazione prevalente sulla componente assonale del nervo: i diserbanti (2,4 di cloro-acido fenossiacetico), il dimetil-amino proprio-nitrile, usato nell’industria del poliuretano, il PNU (N piridil-metil-nitrofenilurea), usato come ratticida. METALLI PESANTI Arsenico. – L’intossicazione è attualmente dovuta, nella maggior parte dei casi, a tentativi di suicidio o di omicidio. L’arsenico, un tempo usato in medicina in svariate malattie quali la sifilide, l’artrite, la tubercolosi, viene usato ora come insetticida, diserbante o come sottoprodotto nel processo di fusione di alcuni metalli. I sintomi neurologici compaiono 10-20 giorni dopo una sindrome gastrointestinale acuta, e sono caratterizzati da parestesie e distesie, seguiti da grave compromissione motoria. L’azione lesiva dell’arsenico è diretta contro la componente assonale del nervo. La diagnosi può essere sospettata per la comparsa di una dermatite desquamativa e di linee orizzontali biancastre sulla superficie ungueale
(linee di Mee); l’arsenico si deposita anche nella cheratina dei capelli e nei peli ed il dosaggio del metallo in tali sedi può essere decisivo per la diagnosi. La terapia chelante con BAL (dimercaptopropranolo i.m., dose di 3 mg/kg, 6 volte al giorno per 2 giorni, 4 volte al giorno per 3 giorni e 2 volte al giorno per 10 giorni) può essere efficace se iniziata nelle prime ore dell’intossicazione, spiazzando il metallo dalle proteine enzimatiche e formando un composto che può essere eliminato. Quando la neuropatia si è manifestata, il miglioramento è lento, e gli esiti sono pressochè costanti (v. pag. 1304). Piombo. – L’intossicazione può avvenire nell’industria bellica, nella lavorazione degli accumulatori e nei processi di fusione di vari metalli, talora accidentalmente per ingestione protratta di cibi o bevande contaminate. Clinicamente la polineuropatia da piombo è quasi esclusivamente motoria, con prevalente interessamento dell’estensione del polso e delle dita, e conseguente caduta della mano e del piede; talvolta i riflessi possono non essere aboliti, e il quadro clinico può mimare una malattia del I e II motoneurone. Si associano in genere, altri sintomi quali: coliche addominali, anemia, alterazioni di organi viscerali, quali ad es., il rene. La diagnosi si basa sull’aumento dei livelli sierici e urinari di piombo, sull’aumento della protoporfirina eritrocitaria e sulla escrezione urinaria di ALA e di coproporfirina, poichè il piombo inibisce la deidrasi dell’acido deltaaminolevulinico e altri enzimi della sintesi delle porfirine. Mentre nell’animale da esperimento il piombo determina una neuropatia prevalentemente demielinizzante, nell’uomo la neuropatia comporta una primitiva sofferenza assonale (Fig. 33.41). La terapia utilizzata è quella chelante: calcio e acido etilendiaminico tetracetico (CA-EDTA; 40-80 mg/Kg/die per 5 gg), BAL e penicillamina (25 mg/kg, e non più di 1g/die per 3gg) (v. pag. 1304).
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siede nella dimostrazione di tallio nelle urine o nei tessuti. Il recupero è in genere solo parziale, a meno che il trattamento con agenti chelanti o l’emodialisi non siano utilizzati subito dopo l’ingestione del metallo (v. pag. 1305). FARMACI
Fig. 33.41 - Neuropatia da piombo. Modesta rarefazione delle fibre mieliniche e atrofia assonale diffusa (blu di toluidina, × 250).
Mercurio – L’esposizione ai vapori di mercurio o ai sali inorganici di mercurio si può verificare nei lavoratori di industrie elettrochimiche, mentre l’intossicazione di composti organici di mercurio può essere di origine alimentare, per consumo di pesce contaminato da scarichi industriali o di cibo trattato con etile di mercurio come fungicida. Il mercurio è una potente neurotossina, responsabile di una degenerazione dei neuroni cerebellari e dei gangli dorsali. Una polineuropatia sensitivo-motoria, con marcata atassia, si può associare a una compromissione del campo visivo; talvolta una diffusa amiotrofia può simulare una malattia del motoneurone. La terapia chelante con penicillamina e il BAL (v. pag. 1305) sono indicati, ma nei gravi avvelenamenti l’efficacia è scarsa. Tallio – L’intossicazione è dovuta, in genere, all’ingestione accidentale o a tentativi di suicidio od omicidio, utilizzando insetticidi o ratticidi. Una grave gastroenterite, con compromissione epatica e cardiaca, può essere seguita, a distanza di due settimane circa, da una polineuropatia sensitivo-motoria, e possibile interessamento di nervi cranici, con ptosi palpebrale e atrofia ottica. L’alopecia è un segno piuttosto caratteristico, ma la diagnosi definitiva ri-
Numerosi farmaci sono in grado di determinare una neuropatia periferica, in genere reversibile con la sospensione del trattamento. In alcuni casi, ad esempio i farmaci antineoplastici, si tratta di un effetto collaterale ben noto e accettabile, considerata la malattia di base da trattare; in altre situazioni la neuropatia compare solo quando sono utilizzate dosi abnormemente alte oppure solo in soggetti con particolare ipersensibilità individuale al farmaco. È importante conoscere la potenziale neurotossicità di un determinato farmaco, poiché la sospensione all’apparire dei primi segni di neuropatia periferica è, in genere, seguita da un completo recupero funzionale. Nella maggior parte dei casi si tratta di una neuropatia per azione lesiva sulla componente assonale; altrimenti è possibile ipotizzare un meccanismo da ipersensibilità immuno-mediata. Farmaci antineoplastici – Cisplatino: usato nel trattamento dei carcinomi, è responsabile di una neuropatia periferica prevalentemente sensitiva, talvolta associata ad ipoacusia e acufeni, per lesione dell’acustico. I sintomi compaiono solo dopo il raggiungimento di una dose cumulativa di 350 mg/m2, e si tratta di una neuropatia assonale, con frequenti immagini di degenerazione walleriana alla biopsia del nervo surale e prevalente compromissione delle fibre mieliniche di largo diametro. – Vincristina: usata nel trattamento delle leucemie e dei linfomi, ha una neurotossicità dosedipendente.
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Inizialmente la neuropatia si manifesta con perdita dei riflessi profondi, parestesie distali, e quindi ipostenia, amiotrofia muscolare e compromissione vegetativa. L’elettrofisiologia mostra segni diffusi di denervazione e i potenziali evocati sensitivi sono ridotti di ampiezza, mentre la velocità di conduzione motoria può essere normale. La vincristina causa una degenerazione assonale legandosi alla tubulina e inibendo la formazione dei microtubuli, con conseguente alterazione del trasporto assonale. – Taxoidi (Placlitaxel, Docetaxel): Placlitaxel (Taxolo) e Docetaxel ((Taxotere) sono utilizzati per il trattamento di alcuni tumori solidi, in particolare neoplasie ovariche e mammarie. Il taxolo legandosi alla tubulina può causare una polimerizzazione dei microtubuli con conseguente danno del trasporto assonale. Entrambi i farmaci determinano, in maniera dose-dipendente, la comparsa di una neuropatia periferica prevalentemente sensitiva. – Suramina: è talvolta utilizzata nel trattamento di tumori refrattari alle terapie convenzionali. Può determinare la comparsa di una polineuropatia assonale a tipo «dying back» (morte a ritroso) o di una polineuropatia demielinizzante subacuta. Farmaci antimicrobici Molti sono in grado di causare una neuropatia periferica, e in particolare: – Clorochina: utilizzata nel trattamento della malaria e della amebiasi, è responsabile di una polineuropatia sensitivo-motoria, spesso associata a miopatia; – Dapsone: utilizzato nella dermatite erpetiforme e nella lebbra, può causare una polineuropatia prevalentemente motoria, talvolta associata ad atrofia ottica. – Isoniazide: usata nella terapia antitubercolare, causa una carenza di vitamina B6, responsabile di una neuropatia prevalentemente sensitiva, attualmente rara grazie al-
l’associazione isoniazide-vitamina B 6 comunemente utilizzata. – Etambutolo: è un farmaco antitubercolare che può causare una neuropatia periferica sensitiva o una neuropatia ottica – Nitrofurantoina: di frequente uso nelle infezioni urinarie, può causare una neuropatia prevalentemente sensitiva, per lesione degli assoni e delle cellule dei gangli dorsali. – Metronidazolo: usato per il trattamento delle infezioni da protozoi o germi anaerobi, può causare una neuropatia prevalentemente sensitiva. – Cloramfenicolo: può determinare, per uso prolungato, neuropatie ottiche o neuropatie periferiche – Didesossinucleotidi: sono farmaci antiretrovirali che inibiscono la trascrittasi inversa e possono causare una neuropatia sensitiva a carattere doloroso. Farmaci cardiovascolari – Amiodarone: utilizzato da anni per le aritmie cardiache, provoca nel 6% dei casi in trattamento cronico una polineuropatia sensitivo motoria, ed altri effetti collaterali sulla tiroide, la cute, il fegato e i polmoni. Infatti si deposita a livello dei lisosomi, si lega in maniera irreversibile ai lipidi polari e causa una demielinizzazione del nervo periferico con accumulo di lisosomi nelle cellule di Schwann. – Perexilina: usata nell’angina pectoris è, come l’amiodarone, una sostanza che si lega ai lisosomi e può causare una neuropatia periferica sensitivo-motoria, con compromissione vegetativa e aumento delle proteine liquorali. La neuropatia è dovuta ad un primitivo processo di demielinizzazione segmentale, con accumulo di inclusioni lipidiche nelle cellule endoteliali, nei fibroblasti e nelle cellule di Schawnn. Altri farmaci. – Molti altri farmaci possono causare una neuropatia periferica: – Almitrina, utilizzata nel trattamento delle broncopatie croniche-ostruttive, responsabile di una polineuropatia prevalentemente sensitiva;
1398 Malattie del sistema nervoso – Colchicina, utilizzata nella gotta, si lega alla tubulina e causa una polineuropatia, in genere di entità modesta, associata a una miopatia; – Disulfiram, ampiamente usato nella cura dell’alcolismo, può causare una neuropatia assonale con accumulo di neurofilamenti; – Oro, che fa parte del corredo terapeutico dell’artrite reumatoide, può causare una neuropatia periferica con associate miochimie diffuse; – Fenitoina, che è un farmaco ad azione anticonvulsivante, può essere responsabile di una polineuropatia, per la verità piuttosto rara. – Piridossina, dosi molto elevate di vitamina B6 (300600 mg/die) per periodi prolungati possono causare una grave neuropatia periferica sensitiva. – Talidomide, introdotto come ansiolitico e ritirato dal mercato per i suoi effetti terastogeni, viene occasionalme nte usato in alcune forme di lebbra e nella reazione “graftvs-host”. Tale farmaco può essere responsabile di una neuropatia sensitiva dolorosa. – Anfetamine, possono determinare la comparsa di vasculiti necrotizzanti e quindi di multineuropatie. – Eroina: in soggetti che ne abusano può indurre la comparsa di plessopatie brachiali e lombosacrali dolorose.
Neuropatie infettive Con questo termine si intendono le neuropatie causate da una azione diretta di agenti infettivi o delle loro tossine. La lebbra, la malattia di Lyme e la difterite sono le più frequenti. Le neuropatie in corso di infezione da HIV sono più spesso causate da meccanismi immunomediati o da infezioni virali opportunistiche. In Sud America sono frequenti le neuropatie da Trypanosoma cruzi (Malattia di Chagas). NEUROPATIA DA LEBBRA. – La lebbra è una malattia infettiva cronica causata dal microrganismo «mycobacterium leprae», endemica e comune in numerosi paesi delle regioni tropicali o subtropicali, interessando più di 10 milioni di persone. La malattia si trasmette dopo contatto prolungato con soggetti affetti ed ha un lungo periodo di incubazione (3-10 anni). Per quanto raramente, non è eccezionale riscontrare casi di lebbra anche nel nostro paese, sia in soggetti provenienti da aree endemiche, sia in cittadini italiani che hanno soggiornato in aree a rischio. A seconda della situazione immune dell’ospite la lebbra si può manifestare in una forma tubercoloide, in cui la reazione infiammatoria cellulo mediata è vigorosa e tende a circoscrivere l’infezione in una o poche sedi; e
una forma lepromatosa, in cui le reazioni immuni di difesa sono inefficaci e il bacillo tende a riprodursi ed a diffondere, con scarsa risposta infiammatoria. Molti casi presentano caratteristiche intermedie alle due forme morbose (forma intermedia o dimorfica). Il mycobacterium leprae ha particolare tendenza a determinare lesioni cutanee e nervose associate. Nella lebbra tubercoloide un’area cutanea ipopigmentata, chiaramente limitata dalla cute circostante, diventa ipoestesica, con perdita della sensibilità termica e dolorifica. Per la marcata reazione infiammatoria tronchi nervosi adiacenti possono essere coinvolti dal danno flogistico, con edema, distruzione del tessuto nervoso e comparsa di un deficit sensitivo e motorio nel territorio di distribuzione del nervo affetto. Il nervo grande auricolare, l’ulnare, il radiale, il peroneo comune sono frequentemente affetti. Nella forma lepromatosa la cute è diffusamente interessata, con predilezione per le aree a temperatura più basse, comparsa di «facies leonina» e, in alcuni casi, perforazione del setto nasale. Diversi tronchi nervosi possono essere coinvolti, con comparsa di un quadro multineuropatico; i riflessi profondi sono in genere conservati, rappresentando un segno importante nella diagnosi differenziale con altre polineuropatie. In casi avanzati si possono osservare mutilazioni distali e ulcere trofiche. In alcuni pazienti possono presentarsi all’inizio della terapia reazioni infiammatorie particolarmente intense («reazione reversal»), caratterizzata da edema acuto dei nervi periferici con dolori violenti, cui segue perdita della sensibilità e della funzione motoria nei territori di innervazione. Diagnosi. – Si basa sull’esame delle lesioni cutanee nelle quali si può evidenziare con la colorazione di ZiehlNeelsen il Mycobacterium. La biopsia del nervo può essere utile in casi selezionati, ed evidenzia un completo sovvertimento della struttura nervosa nella forma tubercoloide e numerosi bacilli, con relativa conservazione della morfologia nervosa, nella forma lepromatosa (Fig. 33.42). Terapia. – Si basa sulla associazione di dapsone (100 mg al dì), clofazimina (50 mg al dì) e rifampicina (600 mg al dì), prolungata talvolta per anni, fino alla negativizzazione della biopsia cutanea.
NEUROPATIA PERIFERICA HIV (v. pag. 851)
NELLA INFEZIONE DA
Il SNP è frequentemente interessato nelle infezioni da HIV, sia nelle fasi iniziali, che nelle fasi conclamate e tardive della malattia.
Malattie dai nervi periferici 1399
Fig. 33.42 - Neuropatia in corso di lebbra. Numerosi mycobacteri sono presenti lungo le fibre mieliniche in un caso di neuropatia lepromatosa (Ziehl-Neelsen, × 250).
Sindrome di Guillain Barré. – Può comparire precocemente nel periodo della infezione primaria, quando gli anticorpi anti HIV non sono ancora presenti. Clinicamente è del tutto analoga alla forma idiopatica, ma spesso l’esame del liquor rivela un aumento cellulare, anche 20-30 cellule x mm3, oltre all’usuale incremento delle proteine; l’aumento della cellularità in un quadro di sindrome di Guillain-Barrè deve sempre far sorgere il sospetto di una possibile infezione da HIV. Il trattamento è basato sulla plamasferesi, che determina in genere un buon recupero funzionale. Poliradiculoneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica. – È di non raro riscontro nelle prime fasi della infezione. La terapia si basa sulla plasmasferesi o sulle Ig ev, tralasciando l’uso dello steroide. Poliradiculoneuropatia lombosacrale da infezione opportunistica. – Può essere causata dal citomegalovirus e si caratterizza per la perdita di sensibilità in regione sacrale, ritenzione urinaria e paraparesi flaccida a decorso subacuto. In altri casi il cytomegalovirus può causare una multineuropatia prevalentemente sensitiva con dolori e disestesie. Il cytomegalovirus può essere isolato dal liquor o evidenziato nel nervo periferico biopsiato.
Polineuropatia prevalentemente sensitiva. – Può comparire circa nel 30% dei casi avanzati di AIDS. Sul piano clinico predominano i dolori e le parestesie e l’elettrofisiologia conferma il prevalente interessamento dei tronchi nervosi sensitivi. Il decorso è in genere progressivo. In ogni paziente HIV positivo con neuropatia sensitiva, trattato con farmaci inibitori della trascrittasi inversa (didesossinucleotidi), va consoderata anche la possibilità che si tratti di una neuropatia tossica. La diagnosi differenziale non è ovviamente agevole, anche perché normalmente non è consigliabile sospendere i farmaci antiretrovirali e pertanto si suggerisce di seguire il paziente nel tempo per stabilire quanto invalidante è la neuropatia e modificare atteggiamento terapeutico solo in caso di grave sintomatologia sensitivo-dolorosa. NEUROPATIA IN CORSO DI EPATITE DA VIRUS C (v. pag. 1383) NEUROPATIA IN CORSO DI MALATTIA DI LYME (v. pag. 845) Dopo un periodo di circa quattro settimane dalla prima fase della malattia, possono comparire segni di interessamento del SNP, caratterizzati da neurite craniale, radiculopatia, neuropatia periferica. Neurite craniale. – Frequente è la paralisi periferica del nervo facciale, spesso bilaterale. La paralisi bilaterale del nervo facciale deve essere considerata molto suggestiva della malattia di Lyme, che ne rappresenta, se si esclude la sindrome di Guillain Barré, la causa più frequente. Più rara la compromissione di altri nervi cranici. Radiculopatia. – I dolori radicolari possono essere localizzati nel territorio sede della puntura dell’insetto o in altre aree, hanno distribuzione radicolare, sono in genere di tipo trafittivo, spesso si associano a disestesie e pareste-
1400 Malattie del sistema nervoso
sie, a sintomi motori, come ipostenia e perdita di riflessi profondi. Alcune aree sono più frequentemente interessate, specie la regione cervicale. La distribuzione radicolare, i dolori, una lieve diminuzione della sensibilità nel dermatomero colpito, sono simili a quelli che si osservano nell’herpes zoster, ma l’intensità del dolore è in genere minore. Neuropatia periferica. – Può manifestarsi con una multineuropatia; con una sofferenza di un unico tronco nervoso a tipo mononeurite; con un interessamento diffuso a un intero plesso nervoso, più spesso il plesso brachiale, tipo neurite brachiale. Recentemente sono state segnalate, nel 36% dei casi, parestesie e distesie diffuse ai quattro arti, in assenza di deficit motori. Talvolta la sintomatologia tende a cronicizzare, o ad avere un decorso recidivante. L’elettrofisiologia può dimostrare un rallentamento della velocità di conduzione, per compromissione prevalente della componente mielinica. Il liquor dimostra, in genere, un aumento delle cellule. NEUROPATIA DIFTERICA La difterite, infezione localizzata alle alte vie aeree dovuta al «Corynebacterium difteriae», produce una esotossina con particolare affinità per i nervi periferici, e causa di una demielinizzazione segmentale delle radici e dei tronchi nervosi. L’esordio è costituito da una infezione faringea, cui segue, nel 20% circa dei casi, a distanza di alcuni giorni o settimane, una paralisi del palato molle con voce nasale e disfagia, e associata paralisi dell’accomodazione, per compromissione del muscolo ciliare, e conservazione della reattività pupillare alla luce e alla convergenza. Nella difterite cutanea, in genere, la neuropatia interessa i nervi adiacenti alla sede di infezione. La neuropatia faringea e palatale può essere seguita da una polineuropatia generalizzata sensitivo-motoria. I disturbi sensitivi sono spesso rilevanti e possono essere responsabili di una marcata atassia sensitiva. È frequente il riscontro di una cardiomiopatia, dovuta all’azione lesiva della tossina. Il liquor può mostrare un aumento delle proteine. Sul piano neuropatologico si evidenzia una demielinizzazione segmentale dei tronchi nervosi, con conse-
guente rallentamento della velocità di conduzione. La terapia consiste nella somministrazione di antibiotici (penicillina, 1.000.000 unità al dì per 20 gg) e di antitossina (100.000-200.000 unità per via intramuscolare).
MALATTIA DI CHAGAS È una malattia causata da infezione da un protozoo, il Tripanosoma cruzi, che si osserva prevalemente in Sud America e negli stati del sud degli Stati Uniti d’America. In fase terminale (10-20 anni dopo le prime manifestazioni), si possono osservare complicazioni neurologiche, fra cui una neuropatia sensitivo-motoria.
Neuropatie infiammatorie demielinizzanti Le poliradiculoneuropatie infiammatorie demielinizzanti sono malattie acquisite del SNP a carattere immunomediato. In base al decorso si distinguono forme acute (“acute inflammatory demyelinating polineuropathy” o AIDP) e forme croniche (“chronic inflammatory demyelinating polyneuropathy” o CIDP). Le forme acute vengono tuttavia più frequentemente definite come sindrome di GuillainBarrè, dal nome degli autori che le hanno descritte per primi. SINDROME DI GUILLAIN BARRÉ La sindrome di Guillain-Barré (SGB) descritta da Guillain, Barré e Strohl nel 1916, è una poliradiculoneuropatia infiammatoria, generalmente demielinizzante, che si caratterizza per l’esordio acuto o subacuto di un deficit motorio, in genere a distribuzione distale e simmetrica, accompagnato da ipo o areflessia osteotendinea, che raggiunge la massima gravità entro quattro settimane dall’esordio. La diagnosi è pertanto prevalentemente clinica. I reperti neurofisiologici, suggestivi per una sofferenza dei nervi periferici, e la presenza di dissociazione albuminocitologica all’esame del liquor rappresentano un supporto alla diagnosi, ma non sono elementi diagnostici indispensabili. In particolare, lo studio neurofisiologico è importante per definire le caratteristiche, demielinizzanti o assonali, del
Malattie dai nervi periferici 1401
processo patologico nel singolo paziente. L’origine immuno-mediata è molto probabile, considerati: a) il riscontro, in alcuni pazienti, di autoanticorpi diretti contro antigeni del SNP, b) l’esordio successivo ad un evento infettivo, c) la presenza, talora, di infiltrati infiammatori formati da linfociti attivati e macrofagi sparsi nei nervi periferici, e d) le analogie cliniche e neuropatologiche con la neurite allergica sperimentale. Dati epidemiologici. – L’incidenza è di 0,6-2,4 nuovi casi ogni 100 mila abitanti per anno; la malattia è più frequente fra i 50 e i 74 anni e, in minor misura, fra i 15 ed i 35 anni, ma si può riscontrare in ogni età. Alcuni giorni o alcune settimane prima dell’esordio l’anamnesi rivela che, nel 60% dei casi, si è verificata una infezione respiratoria o gastrointestinale, oppure una malattia infettiva mal definita. Le infezioni da virus del gruppo herpes, come il cytomegalovirus ed il virus della mononucleosi infettiva, sono le più frequenti, ma possibili sono anche malattie infettive causate dal virus del morbillo, della parotite, della varicella zoster, dell’epatite, dell’influenza, del gruppo Coxsackie ed Echo. Il quadro può essere anche preceduto da una infezione da agenti non virali, come il Mycoplasma pneumoniae o, in particolare il Campylobacter jejuni, responsabile di una enterite acuta, la cui presenza è documentata circa nel 20% dei casi. I meccanismi causali che legano il Campylobacter jejuni e la SGB, non sono noti, ma sembrano esistere somiglianze antigeniche fra i glicolipidi mielinici e i complessi carboidratici della capsula batterica. Il Campylobacter jejuni produce inoltre una enterotossina che si lega al ganglioside GM1 e anticorpi circolanti anti GM1 sono di frequente riscontro nella SGB che segue una enterite da Campylobacte. Il 5-10% dei casi può seguire di qualche settimana un intervento chirurgico o una vaccinazione. In particolare, nel 1976, negli USA, una massiccia vaccinazione di massa con il virus dell’influenza New Jersey A, fu seguita, nelle settimane immediatamente successive, da un aumento significativo dell’incidenza della SGB nella popolazione vaccinata. Può infine comparire in soggetti affetti da neoplasie viscerali, linfomi, malattia di Hodgkin o in corso di infezione da HIV. Recentemente sono stati riportati casi successivi a trapianto di midollo osseo (Wen et al 1997). Agenti infettivi molto diversi tra loro o situazioni patologiche differenti sono quindi in grado di scatenare nell’ospite una reazione di probabile natura autoimmune che conduce ad un identico quadro clinico e patologico.
Eziopatogenesi Esistono sufficienti dati per ritenere che la malattia sia di origine autoimmune, mediata da cellule T autoreattive e anticorpi diretti contro antigeni specifici del SNP. E’ possibile, infatti, ottenere una neurite allergica sperimentale, a decorso acuto monofasico, del tutto simile sul piano clinico e morfologico alla SGB, immunizzando animali di laboratorio con estratti di nervo periferico omologo o con una proteina della mielina, la P 2, e trasferire la malattia iniettando linfociti provenienti da animali affetti. È nota inoltre l’associazione fra SGB e altre malattie autoimmuni, quali il lupus o la tiroidite di Hashimoto. I linfociti T di pazienti con SGB si attivano in coltura, in presenza di estratti di mielina del nervo periferico, e sono in grado di attaccare e distruggere la mielina in vitro. Anticorpi circolanti diretti contro componenti del SNP e adesi «in vivo» lungo le guaine mieliniche del nervo periferico sono stati evidenziati nella SGB. In particolare, sono stati descritti anticorpi IgM circolanti diretti contro glicolipidi del nervo periferico, contro il ganglioside GM1, GD1b, GD1a, Lm1, contro la proteina P0 e P2 della mielina periferica, contro la glicoproteina associata alla mielina (MAG). È possibile riscontrare nel siero di malati con SGB numerosi anticorpi circolanti diretti contro antigeni mielinici, ma tali anticorpi non sono specifici, e si possono trovare anche in alcuni controlli normali o in altre malattie neurologiche. Si ritiene, quindi, che nella patogenesi intervengano sia meccanismi autoimmuni cellulo-mediati che fattori umorali, ma a tutt’oggi l’antigene non è stato identificato, e non si è ancora stabilito se sia lo stesso nei diversi casi. Appare possibile che un agente infettivo possa danneggiare le cellule di Schwann o le fibre mieliniche dei nervi, con rilascio di materiale antigenico cellulare in grado di innescare una reazione autoimmune, oppure che l’agente infettivo incorpori, nel proprio rivestimento, materiale proveniente dalla guaina mielinica dell’ospite e che la reazione immune sia erroneamente diretta contro le strutture cellulari dell’ospite stesso. La natura di questo epitopo non è al momento chiara, ma potrebbe trattarsi di un glicolipide espresso nella membrana delle cellule di Schwann nelle forme demielinizzanti e di un ganglioside (GM1) presente nell’assolemma, nelle forme assonali. Riguardo alla sequenza di eventi che conducono alla sviluppo della GBS, si pensa che all’esordio della malattia, i linfociti T attivati rivestano un ruolo fondamentale nell’apertura della barriera emato-nervosa e che fenomeno sia fondamentale nel dare accesso all’endoneurio agli anticorpi diretti contro determinanti mielinici o del plasmalemma assonale. Neuropatologia. – Infiltrati infiammatori sparsi nel SNP ed una demielinizzazione segmentale delle fibre
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Fig. 33.43 - Sindrome di Guillain-Barré. Una radice anteriore infiltrata da cellule mononucleate accanto a radici apparentemente indenni (EE, x 40, da: Mancardi G.L.: La Sindrome di Guillain-Barré. Quaderni di neuropatologia, 1987).
nervose rappresentano le caratteristiche neuropatologiche della malattia. Gli infiltrati infiammatori, formati da linfociti, linfociti attivati, monociti, e cellule macrofagiche, disposte in genere intorno ai piccoli vasi endonevriali, più raramente intorno ai vasi perinevriali ed epinevriali, sono in tutto il SNP, in genere in focolai dispersi, relativamente circoscritti; di regola, infatti, alcune radici, gravemente infiltrate, sono accanto a radici apparentemente indenni (Fig. 33.43), vasi endonevriali circondati da cellule mononucleate si ritrovano accanto a vasi assolutamente normali. Tutte le formazioni del SNP possono essere interessate: le radici anteriori, le radici posteriori, i gangli, i plessi, i nervi periferici anche nelle porzioni più distali, ma l’infiltrazione predomina nelle radici anteriori nei casi, la maggior parte, ove i deficit motori sono più ac-
centuati; nelle radici posteriori, quando i sintomi sensitivi sono particolarmente evidenti; nei nervi cranici, in caso di polineuropatia craniale; nei gangli simpatici, se l’interessamento del sistema nervoso vegetativo rappresenta il sintomo più rilevante. Le fibre mieliniche sono precocemente danneggiate dai macrofagi (Fig. 33.44), con iniziale retrazione della guaina mielinica a livello dei nodi di Ranvier, successiva perdita della mielina in tutto un internodo e comparsa quindi di numerose fibre in demielinizzazione segmentale. Il «teasing» (dissezione) delle singole fibre, conferma che il reperto più frequente è la demielinizzazione segmentale (Fig 33.7) ma non è raro riscontrare anche fibre in attiva degenerazione walleriana. Nei casi, infatti, ove il processo infiammatorio è più grave, alla perdita della guaina mielinica segue una compromissione dell’assone, con successiva degenerazione walleriana del segmento distale del nervo. Nei casi più gravi, quando è preminente la degenerazione walleriana, si possono osservare alterazioni del midollo spinale, secondarie alla patologia radicolare e periferica. I motoneuroni spinali ed i neuroni dei nervi cranici possono allora presentare una cromatolisi centrale (v. pag. 1341) e quando l’interruzione assonale è così grave e diffusa da non consentire una adeguata ricostruzione fa seguito un raggrinzimento del corpo cellulare, con successiva morte del motoneurone. La biopsia del nervo surale può evidenziare infiltrati infiammatori endonevriali, ma è spesso normale, oppure evidenzia alterazioni aspecifiche per cui, attualmente, la sua esecuzione non appare giustificata, se non in casi particolari, quando i dati clinici e di laboratorio non permettono una diagnosi di certezza.
Sintomatologia
Fig. 33.44 - Sindrome di Guillain-Barré. Un macrofago (M) situato tra la cellula di Schwann (S) e la guaina mielinica, in apparente attività fagocitaria (ME, citrato di piombo e acetato di uranile x 16500) (da: Mancardi G.L.: La Sindrome di Guillain-Barré. Quaderni di neuropatologia, 1987).
L’esordio consiste in un’ipostenia dapprima agli arti inferiori, con successiva estensione ai muscoli del tronco e degli arti superiori; più raramente, il deficit di forza inizia agli arti superiori per discendere agli arti inferiori. Talvolta l’esordio compromette i nervi cranici, il nervo facciale bilateralmente o gli oculomotori, o il IX o X nervo cranico, con successivo interessamento degli arti. Le turbe soggettive della sensibilità (parestesie, dolori) sono molto frequenti, a fronte di una obiettività sensitiva spesso poco significativa. L’ipostenia può rapidamente estendersi ai muscoli intercostali e diaframmatici, con com-
Malattie dai nervi periferici 1403
parsa di insufficienza respiratoria e necessità di ventilazione meccanica assistita (17-33% dei casi). Sul piano obiettivo si evidenziano i segni di una diffusa compromissione del SNP, con ipostenia e areflessia profonda e, non costantemente, ipotrofia muscolare associata. Il quadro clinico si completa in due (50% dei casi) o in quattro settimane (90% dei casi). Inizia allora un periodo di stazionarietà clinica per alcuni giorni o alcune settimane. Possono comparire: segni vegetativi, con turbe sfinteriche (13% dei casi), aritmie cardiache, ipotensione, turbe vasomotorie, tachicardia sinusale; nel 5%, edema papillare, dovuto verosimilmente all’aumento delle resistenze all’assorbimento del liquor. Varianti cliniche Fisher, nel 1956, descrisse una variante caratterizzata da oftalmoplegia, atassia ed areflessia. La sindrome di Miller Fisher rappresenta circa il 5% di tutte le varianti di GBS. In una elevata percentuale di casi di sindrome di Miller Fisher si trovano, nella fase acuta, anticorpi diretti contro il ganglioside GQ1b. La sindrome di Miller Fisher ha una buona prognosi, con recupero dopo in media 10 settimane. Fra le varianti di GBS, vanno ricordate le forme cosiddette assonali, per la presenza di segni, in gran parte neurofisiologici, di grave e precoce compromissione assonale. Queste forme hanno abitualmente un andamento iperacuto, con evoluzione fino alla insufficienza respiratoria in meno di 7 giorni, ed una prognosi peggiore rispetto alle classiche forme demielinizzanti. Per lo più è presente un interessamento contemporaneo della forza e delle sensibilità, tanto che questa variante viene definita “acute motor sensory axonal neuropathy” (AMSAN). In alcuni rari casi le turbe della sensibilità sono assenti per cui questa variante viene definita “acute motor axonal neuropathy” (AMAN, descritta quasi unicamente in Cina). Infine, esistono
casi in cui è presente un marcato interessamento vegetativo che rappresenta il segno più rilevante della compromissione del SNP. In questi soggetti la malattia, variante della GBS, viene definita “pandisautonomia acuta”. Esami complementari Esame del liquor. – Nei primi giorni di malattia è normale, ma subito dopo le proteine aumentano fino a raggiungere, 4-6 settimane dopo l’esordio, anche alcuni gr%, mentre il numero delle cellule è normale o solo modestamente aumentato, realizzando una dissociazione albumino-citologica. L’iperproteinorrachia è espressione dell’interessamento radicolare, ma può mancare circa nel 10% dei casi. Un aumento moderato della cellularità liquorale indirizza fortemente la diagnosi verso una forma di GBS HIV-correlata. Bande oligoclonali di IgG sono in genere presenti sia nel siero che nel liquor, ma non sono costanti e tendono a scomparire con il tempo. Elettroneurofisiologia. – Potenziali positivi di denervazione non sono frequenti e la loro presenza, espressione di una concomitante compromissione assonale, non ha un buon significato prognostico. Nella maggior parte dei casi si osserva una riduzione della velocità di conduzione motoria ed un aumento delle latenze distali; la latenza dell’onda F può essere di latenza aumentata, o addirittura assente. Può inoltre essere presente riduzione di ampiezza dei MAP distali. Poichè le lesioni sono rappresentate da focolai infiammatori dispersi spazialmente, non è sempre possibile evidenziare una correlazione fra gravità della compromissione clinica e dati elettrofisiologici. Inoltre, essendo le aree di demielinizzazione focali lungo il decorso dei nervi periferici, si rilevano spesso blocchi di conduzione, che rappresentano un importante elemento diagnostico. Il blocco di conduzione motoria (v. pag. 356), caratterizzato da una riduzione di ampiezza del potenziale di azione muscolare del 20-60% per stimolazione prossimale del tronco nervoso rispetto alla stimolazione distale, viene ricercato in genere lungo il nervo peroneale, fra il malleolo esterno e la testa del perone, o lungo il nervo mediano e ulnare fra il polso e il gomito. Risonanza magnetica. – La risonanza magnetica lombosacrale può mostrare un anomala impregnazione delle radici dorsali dopo somministrazione di gadolinio. Esami di laboratorio – La ricerca di anticorpi antiganglioside o anti-campilobacter jejeuni riveste un significato diagnostico limitato. La presenza di tali anticorpi, infatti, rappresenta un supporto alla diagnosi di GBS, ma la loro assenza non la esclude affatto.
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Diagnosi La diagnosi si basa sul riscontro di una poliradiculoneuropatia, prevalentemente motoria, a decorso subacuto, che si completa nel giro di 24 settimane, associata o no ad un aumento delle proteine del liquor ed a segni neurofisiologici di sofferenza mielinica o assonale. I criteri diagnostici, stabiliti da Asbury et al. (1978), sono qui di seguito riportati. 1. Criteri clinici indispensabili: – ipostenia progressiva in almeno due arti; il grado di ipostenia è variabile, da una modesta diminuzione di forza agli arti inferiori fino a una completa paralisi dei quattro arti, con compromissione dei muscoli troncali, facciali, ed oftalmoplegia; – areflessia profonda; in alcuni casi è possibile che ad una areflessia distale, si associ solo una diminuzione dei riflessi bicipitali e rotulei.
2. Criteri clinici e paraclinici fortemente indicativi. a) Criteri clinici
– Progressione: l’ipostenia si sviluppa rapidamente e cessa di progredire, nel 90% dei casi, in 4 settimane dall’esordio. – I disturbi sono relativamente simmetrici. – I disturbi sensitivi sono modesti. – Nervi cranici: l’ipostenia facciale, spesso bilaterale, è presente nel 50% dei casi; possono essere interessati i muscoli ad innervazione bulbare e talvolta i muscoli oculari estrinseci. – Miglioramento clinico: comincia 2-4 settimane dopo il termine della progressione dei sintomi. Il recupero completo si osserva nella maggioranza dei casi. – Turbe vegetative: può essere presente tachicardia, aritmia cardiaca, ipotensione posturale, turbe vasomotorie, ipertensione arteriosa. – Assenza di febbre all’esordio. – In alcuni casi la febbre può essere presente, le turbe sensitive con dolori muscolari ai quattro arti possono essere rilevanti; i sintomi possono peggiorare per più di 4 settimane, possono residuare importanti deficit neurologici, possono essere presenti turbe sfinteriche; molto raramente possono comparire segni di sofferenza del SNC, quali turbe dello stato di coscienza ed alterazioni EEG. b) Criteri liquorali
– Dopo la prima settimana dall’esordio le proteine sono elevate.
– Le cellule sono inferiori a 10 × mm3. – In alcuni rari casi le proteine rimangono normali e, in altri, le cellule aumentano fino a un massimo di 50 × mm3 (in questi casi va consiedrata la diagnosi di GBS HIV-correlata). c) Criteri elettrofisologici
Circa l’80% dei pazienti presenta una velocità di conduzione rallentata o blocchi di conduzione motoria. La velocità di conduzione è ridotta di più del 60%, ma non tutti i tronchi nervosi sono interessati nella stessa misura. Le latenze distali sono aumentate fino a tre volte il normale. L’onda F è frequentemente alterata ed esprime un rallentamento della conduzione nervosa nelle porzioni prossimali del SNP. In circa il 20% dei casi, tuttavia, la velocità di conduzione nervosa appare normale.
3. Criteri clinici e paraclinici che rendono dubbia la diagnosi. – Asimmetria persistente della ipostenia. – Turbe sfinteriche all’esordio. – Turbe sfinteriche persistenti. – Aumento superiore alle 50 cellule/mm3 nel liquor. – Polimorfonucleati nel liquor cerebrospinale. – Presenza di un livello sensitivo.
4. Criteri clinici e paraclinici che escludono la diagnosi – Anamnesi positiva per intossicazione da esacarboni. – Abnorme metabolismo delle porfirine. – Infezione difterica. – Intossicazione da piombo. – Turbe esclusivamente sensitive. – Diagnosi possibile di poliomielite, botulismo o neuropatia tossica.
Decorso e prognosi Dopo il periodo di stato inizia la fase di recupero che si completa, in 4-6 mesi, nell’80% dei casi. La mortalità, nonostante la terapia intensiva, arriva al 5%; il 5% non recupera e permangono gravi esiti invalidanti. I casi con prognosi più grave sono quelli con più rapido e grave deficit motorio diffuso e con insufficienza respiratoria, e quelli che non mostrano segni di miglioramento entro tre settimane dal periodo
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di stato. Il 3-5% può presentare a distanza di settimane o anni, una recidiva. Terapia La terapia della GBS presuppone una attenta osservazione clinica, monitorando, oltre che le funzioni motorie e sensitive, anche la capacità respiratoria, l’attività cardiaca e la pressione arteriosa. In caso di importante compromissione di tali funzioni (aumento della frequenza respiratoria, conteggio espiratorio massimo <20, uso di muscoli respiratori accessori) si raccomanda una valutazione frequente (ogni 4 ore) del paziente per un suo eventuale trasferimento in una unità di terapia intensiva. Il ricorso alle unità di terapia intensiva e alla respirazione assistita hanno consentito di ridurre al 5% o meno il tasso di mortalità. Riguardo alle terapie specifiche, numerosi studi clinici controllati hanno dimostrato che la plasmaferesi è efficace, e se effettuata precocemente, abbrevia il periodo di ricovero, riduce il numero dei giorni in cui è necessario effettuare una respirazione meccanica assistita, e anticipa il ritorno ad una deambulazione autonoma. Sono necessarie in genere almeno 3-5 sedute, in 7-10 giorni, scambiando circa 3-3,5 litri di plasma per trattamento, utilizzando preferenzialmente apparecchiature a flusso continuo. In caso di ricaduta alla sospensione del trattamento, è necessario effettuare un secondo ciclo. I rischi, per la verità modesti, della plasmaferesi sono quelli di una insufficienza cardiaca o di complicanze infettive, quali l’epatite C. Questo trattamento non è consigliabile in pazienti con un marcato interessamento del sistema nervoso vegetativo e con gravi turbe del ritmo cardiaco. L’efficacia della plasmaferesi risiede verosimilmente nella rimozione di anticorpi circolanti diretti contro non ancora identificati antigeni mielinici, di citochine e fattori del complemento e dell’infiammazione. Recentemente sono state utilizzate le immunoglobuline endovena ad alto dosaggio (0,4 g/
kg/al dì per 5 giorni), con risultati sovrapponibili alla plasmaferesi. Il loro meccanismo d’azione non è noto, anche se è possibile che nel pool di immunoglobuline somministrate vi siano anticorpi antiidiotipo degli anticorpi circolanti patogeneticamente rilevanti. Il trattamento è in genere ben tollerato, ma è necessario il controllo dei parametri di funzionalità renale e va accertato se esiste carenza di IgA, onde evitare una reazione anafilattica. Gli steroidi non sembrano essere efficaci in studi controllati, anche se la loro inefficacia in una malattia infiammatoria a genesi autoimmune, appare poco comprensibile. Recentemente uno studio pilota ha utilizzato uno schema terapeutico che associa le Ig ev al metilprednisolone e.v. (500 mg e.v. al dì per 5 gg), con buoni risultati, superiori a quelli delle sole Ig e.v. (The Dutch Guillain Barrè Study Group, 1994), ma sono necessarie ulteriori studi clinici controllati, per confermare questo dato. Infine, fra le terapie di supporto va ricordato l’uso di eparine a basso peso molecolare per la prevenzione delle trombosi venose profonde. POLIRADICULONEUROPATIA INFIAMMATORIA DEMIELINIZZANTE CRONICA
È stata denominata in passato «GuillainBarré cronica», polineuropatia ricorrente sensibile alla terapia steroidea, neurite ipertrofica recidivante, polineuropatia cronica recidivante. È anche chiamata “chronic inflammatory demyelinating neuropathy” (CIDP). Ha in comune con la SGB, la compromissione radicolare e periferica, la dissociazione albumina-citologica, la prevalente compromissione mielinica e l’origine infiammatoria; se ne differenzia per l’esordio subacuto, il peggioramento dei sintomi per più di due mesi, il decorso recidivante, con ricadute e miglioramenti, o talvolta lentamente progressivo, la frequente assenza di precedenti episodi infettivi, la buona risposta clinica alla terapia cortisonica.
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Sul piano neuropatologico, all’infiltrato infiammatorio costituito da cellule mononucleate e macrofagi si associano i segni di una cronica demielinizzazione e rimielinizzazione. Eziopatogenesi È considerata una neuropatia periferica di origine immunomediata, per le somiglianze cliniche e neurofisiologiche con la forma cronica di neurite allergica sperimentale indotta negli animali di laboratorio mediante iniezioni di mielina periferica; per la presenza di infiltrati infiammatori formati da linfociti T e macrofagi nei nervi periferici; e per la favorevole risposta alla terapia con steroidi, plasmaferesi, Ig ev o immunosoppressori. È probabile che intervengano sia meccanismi immunocellulari che umorali, ma non è stato ancora identificato l’antigene mielinico verso il quale è diretta la risposta cellulare T, anche se le proteine P2 o P0 sono possibili candidati. Anticorpi circolanti diretti contro la tubulina, il gangloside GM1, i sulfatidi, o la proteina P0 sono stati segnalati, ma la loro reale importanza rimane incerta.
Sintomatologia Tutte le età possono essere colpite e non sembrano esistere differenze significative fra i due sessi. Generalmente mancano, in anamnesi, infezioni recenti. La malattia non deve essere considerata una cronicizzazione di un episodio acuto di SGB. L’esordio è insidioso o subacuto e il peggioramento si protrae per un periodo superiore alle otto settimane; possono seguire periodi di remissione spontanea, di mesi o anni, con successive ricadute che tendono ad essere più gravi dell’episodio iniziale. Il decorso è monofasico, lentamente peggiorativo per un periodo superiore a 6 mesi nel 15% dei casi, recidivante nel 34%, progressivo a gradini nel 34% e lentamente progressivo nel 15% dei casi (Dyck et al., 1993). La compromissione motoria è in genere il sintomo più rilevante, ma la perdita della sensibilità è spesso importante, e configura un quadro di poliradiculoneuropatia mista sensitivomotoria; l’areflessia profonda è la regola.
La compromissione dei nervi cranici è meno frequente rispetto alla SGB, ma è possibile la diplegia facciale, o l’ipostenia dei muscoli facciali o masticatori e la disartria; non raro un fine tremore posturale e un edema papillare. Talora è possibile palpare i tronchi nervosi periferici ipertrofici (11% dei casi). La prognosi è molto più grave della SGB: l’11% decede per complicanze legate alla malattia, e dei rimanenti pazienti il 4% guarisce, il 60% è in grado di riprendere il lavoro malgrado evidenti segni neurologici, l’8% è autonomo, ma non è più in grado di riprendere il lavoro, il 28% è confinato a letto o alla sedia a rotelle. Talvolta si associano segni di compromissione focale del SNC, come avviene nei rari casi in cui si osservano anche lesioni demielinizzanti centrali. Diagnosi La possibilità di una CIDP deve essere ricercata con cura, poichè tali forme morbose sono frequentemente sensibili alla terapia. La diagnosi si basa sullo studio elettrofisiologico, sui dati liquorali e sulla biopsia del nervo surale. La velocità di conduzione motoria è rallentata in più tronchi nervosi, blocchi di conduzione nervosa si possono evidenziare con la stimolazione prossimale dei nervi motori, la latenza dell’onda F è allungata e i potenziali di azione sensitiva sono di ampiezza ridotta (v. pag. 356). Le proteine liquorali sono in genere elevate, spesso con valori superiori al grammo/litro, anche se in alcuni casi possono essere normali o solo lievemente aumentate. All’isoelectrofocu-sing o all’immunoblotting nel liquor si possono evidenziare bande oligoclonali, talvolta presenti anche nel sangue. La biopsia del nervo surale è spesso necessaria per la diagnosi: il quadro è caratterizzato da un cronico processo di demielinizzazione e rimielinizzazione, associato alla presenza di infiltrati infiammatori, costituiti da macrofagici e linfociti, un edema subperinevriale ed endonevriale (Fig. 33.45).
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Fig. 33.45 - Poliradiculoneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica. Un piccolo infiltrato infiammatorio si evidenzia in sede subperineuriale. Sono presenti inoltre aspetti di ipertrofia e iperplasia a «bulbo di cipolla» delle cellule di Schwann (EE, × 100).
Il processo patologico può interessare tutti i distretti, ma, è più accentuato in alcune aree piuttosto che in altre. L’infiltrato infiammatorio è perivascolare, in genere endonevriale o, più raramente perinevriale o epinevriale, è formato da linfociti, cellule mononucleate con citoplasma abbondante, alcune plasmacellule e macrofagi. La cronicità del processo è sottolineata da aspetti di rimielinizzazione con frequente disposizione delle cellule di Schwann a bulbo di cipolla. In alcuni casi la proliferazione concentrica delle cellule di Schwann è così marcata da creare un quadro di neuropatia ipertrofica, molto simile, sul piano morfologico, a quello che si osserva nelle neuropatie ereditarie sensitivomotorie. Non sono rari i segni di sofferenza assonale, con degenerazione walleriana delle fibre nervose e gruppi (clusters) di piccoli assoni, finemente rimielinizzati, espressione di un processo rigenerativo in atto. Spesso si osserva un edema subperinevriale ed endonevriale. La dissezione delle singole fibre (teasing) evidenzia un prevalente processo di demielinizzazione segmentale o di rimielinizzazione. Terapia La terapia steroida è in genere efficace ed è in grado di produrre un miglioramento signifi-
cativo dopo alcune settimane, alla dose iniziale di 60-100 mg di prednisone al giorno, per scalare successivamente a 40-50 mg. a giorni alterni, dopo almeno 1 mese di terapia. Il trattamento steroideo deve essere mantenuto a lungo, almeno per alcuni mesi e, nei casi più resistenti, può essere associato a terapia immunosoppressiva, utilizzando come prima scelta l’azatioprina. La plasmaferesi è di efficacia dimostrata, è ben tollerata e può essere ripetuta nel tempo. Più recentemente sono state utilizzate le Ig e.v., con ottimi risultati, al dosaggio di 0,4 mg/ kg/die per 5 giorni eventualmente ripetibili ogni 30-40 giorni. La durata del trattamento è variabile in rapporto alla risposta clinica, ed in alcuni casi il trattamento può essere prolungato per molti mesi o addirittura per anni. Molti schemi posologici possono essere utilizzati e spesso l’associazione steroidi /Ig- e.v. ha fornito risultati eccellenti anche in casi particolarmente gravi. NEUROPATIA MOTORIA MULTIFOCALE (NMM) Si tratta di una neuropatia che, pur essendo abbastanza rara, ha grande rilevanza pratica, poichè assomiglia molto sul piano clinico alle malattie degenerative primitive del II motoneurone tipo «amiotrofia spinale», dalle quali si differenzia per la possibilità di essere curata con relativo successo (Donaghy, 1993). L’età di esordio è molto variabile, ma in genere si situa nell’età adulta, anche se sono stati descritti casi in età pediatrica. L’ipostenia muscolare ha in genere un decorso lentamente evolutivo, anche di molti anni, interessando prevalentemente le estremità distali degli arti a distribuzione in genere asimmetrica, spesso predominando agli arti superiori. I riflessi sono diminuiti o assenti nelle sedi affette, ma possono essere presenti nei segmenti degli arti risparmiati. L’atrofia è spesso evidente, talvolta con fascicolazioni, rendendo il quadro clinico davvero molto simile a quello di una patologia degenerativa spinale. Le sensibilità sono risparmiate, anche ad un esame accurato.
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Lo studio della velocità di conduzione dei tronchi nervosi sensitivi è in genere normale, mentre sui tronchi motori affetti si possono evidenziare blocchi di conduzione motoria. Tale reperto, presente quindi solo sui nervi motori, è di grande importanza diagnostica e va ricercato con cura in tutti i casi sospetti. La velocità di conduzione motoria può essere rallentata in alcuni casi, ma spesso è normale mentre la latenza dell’onda F può essere allungata. In molti casi di NMM si riscontrano elevati valori sierici di anticorpi anti GM1, anche se non tutti i pazienti presentano tale reperto. Il loro significato patogenetico è ancora incerto, essendo presenti in altre situazioni patologiche (Nobile Orazio et al 1990), quali ad esempio alcuni casi di Guillain-Barré con prevalente compromissione assonale. È possibile che tali anticorpi si depositino a livello dei nodi di Ranvier, contribuendo alla creazione del blocco di conduzione, ma tale dato, riportato in letteratura, va confermato. La biopsia del nervo surale è generalmente normale, anche se aspetti generici di sofferenza di tale nervo, privi di corrispettivo clinico e neurofisiologico, sono stati descritti. La NMM non risponde alla terapia steroidea o alla plasmaferesi, ma un buon miglioramento clinico si può ottenere con la ciclofosfamide (3 g/m2 in dosi frazionate per un periodo di 5 giorni, seguito da un regime di mantenimento per via orale). Ultimamente sono state utilizzate con buoni risultati clinici le IgG e.v. ad alto dosaggio, che devono però essere ripetute nel tempo.
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Malattie muscolari 1413
34. Malattie muscolari M. Abbruzzese, L. Reni
In questo capitolo vengono descritti i disturbi che colpiscono primitivamente la fibra muscolare striata. Il termine “miopatia” è riferito a qualsiasi malattia o sindrome in cui sintomi e segni sono attribuibili ad alterazioni anatomopatologiche, biochimiche o elettrofisiologiche delle fibre muscolari o dei tessuti interstiziali del muscolo volontario e non sono in alcun modo secondari ad una disfunzione del sistema nervoso centrale o periferico (Walton, 1988). PREMESSE ANATOMICHE, BIOCHIMICHE E FISIOLOLa muscolatura striata scheletrica, costituita in più di 600 muscoli, rappresenta circa il 45% del peso totale del corpo di un soggetto adulto. Il tessuto muscolare striato è strutturato in modo da convertire energia chimica in lavoro meccanico. Nell’embriogenesi muscolare le prime cellule a differenziarsi sono i mioblasti che derivano dalle stesse cellule embrionali mesenchimali da cui hanno origine anche osso, cartilagine e tessuto connettivale. Intorno alla settima settimana inizia il processo di aggregazione e fusione dei mioblasti che formano aggregati multinucleati (miotubi); alla nona-decima settimana si verifica il primo contatto neuromuscolare. La differenziazione nei vari tipi di fibra muscolare inizia intorno alla diciottesima settimana, procede per tutta la gestazione ed alla nascita è pressoché completa. Il muscolo scheletrico consiste in un “fascio” di fibre muscolari che possono estendersi per tutta la lunghezza del muscolo, oppure essere unite in serie da ponti connettivali. Le fibre muscolari presentano un diametro variabile da 10 a 100 µ: i muscoli prossimali, più voluminoGICHE.
si, sono prevalentemente costituiti da fibre con un diametro medio maggiore. Nell’età pediatrica e nel sesso femminile il diametro delle fibre muscolari è minore. Le singole fibre muscolari sono avvolte dall’endomisio, costituito da fini fasci di tessuto connettivale, tra cui sono situati anche vasi e nervi; un tessuto reticolare e collagene, inoltre, avvolge insieme fascicoli di fibre (perimisio) e l’intero muscolo (epimisio). L’importanza del tessuto connettivo è notevole: infatti, una necrosi muscolare massiva, ottenuta con metodi chimici o fisici, che risparmi il connettivo, può essere seguita da rigenerazione del muscolo tale da renderlo virtualmente indistinguibile da un muscolo normale. Inoltre le guaine dell’endomisio, normalmente molto “attenuate”, cioè chiare al microscopio elettronico, divengono più marcate in numerose condizioni patologiche (per esempio nei processi infiammatori cronici). La fibra muscolare è una cellula polinucleata in cui i nuclei, di forma allungata, sono disposti parallelamente all’asse longitudinale della fibra stessa, al di sotto della membrana sarcolemmale. Rispetto ad altre cellule epiteliali, oltre ai comuni organuli intracitoplasmatici (reticolo endoplasmatico, mitocondri, lisosomi, apparato di Golgi, etc.), il sarcoplasma della fibra muscolare presenta due componenti citologiche proprie: 1) le miofibrille, composte da filamenti sottili di actina e spessi di miosina, disposte a formare i sarcomeri, le unità contrattili del muscolo, compresi fra due dischi Z, 2) un sistema assai esteso di tubuli trasversi che presenta punti di contatto specializzato (triadi) con le cisterne terminali del reticolo sarcoplasmatico. Una schematizzazione morfologica della giunzione
1414 Malattie del sistema nervoso
neuromuscolare e della fibra muscolare è presentata nelle Figg. 34.1, 34.2 e 34.3.
Fig. 34.1 - Ultrastruttura della giunzione neuromuscolare; 1: assone; 2: guaina mielinica; 3: fibra muscolare; 4: fessura sinaptica primaria; 5: fessura sinaptica secondaria; 6: terminazione assonica; 7: spazio sinaptico; 8: mitocondri muscolari; 9: vescicole sinaptiche; 10: cellula di Schwann.
Fig. 34.2 - Rappresentazione schematica del sarcomero: 1: miofilamento actinico; 2: miofilamento miosinico. A: banda A; banda I; zona H, con linea centrale M; Z: linea Z. Sono visibili i ponti miosinici.
Gli eventi principali che portano alla contrazione muscolare sono: 1) la depolarizzazione del sarcolemma e del sistema T, 2) l’accoppiamento eccitazione-contrazione tramite il reticolo sarcoplasmatico, 3) lo scivolamento delle molecole di miosina su quelle di actina con la formazione dei ponti trasversali.
Fig. 34.3 - Rappresentazione tridimensionale dell’ultrastruttura della fibra muscolare: 1: reticolo sarcoplasmatico; 2: cisterna terminale; 3: tubulo trasversale, o sistema T.; 4: triade; 5: miofibrilla; 6: sarcolemma; 7: mitocondrio (situato nel sarcoplasma interfibrillare).
In particolare, la depolarizzazione della membrana della terminazione nervosa determina l’ingresso di ioni Ca all’interno della terminazione nervosa stessa attraverso specifici canali voltaggio-dipendenti (“voltage gated calcium channel”) con conseguente avvicinamento alla membrana delle vescicole sinaptiche, loro rottura e liberazione di acetilcolina all’interno dello spazio sinaptico. L’acetilcolina si lega ai recettori acetilcolinici postsinaptici, i canali ionici associati ai recettori si aprono, gli ioni Na penetrano e depolarizzano la fibra muscolare producendo una depolarizzazione locale della membrana di placca (potenziale di placca) che, quando supera un certo valore soglia, dà origine al potenziale d’azione nella fibra muscolare. Questo potenziale d’azione si propaga lungo la superficie della fibra muscolare e da qui si inoltra verso il suo interno lungo il sistema dei tubuli a T: in tal modo la contrazione indotta da un singolo potenziale d’azione si diffonde a tutta la fibra.
Malattie muscolari 1415 Tabella 34.1 - Tipi di fibre muscolari e loro principali caratteristiche. Tipo istochimico
Diametro
Metabolismo energetico
Contenuto di mioglobina
Velocità di contrazione
Resistenza alla fatica
Tipo I Tipo IIA
piccolo medio
elevato elevato
lenta veloce
elevata intermedia
Tipo IIB
grande
ossidativo ossidativo glicolitico glicolitico
basso
veloce
bassa
La depolarizzazione del sistema dei tubuli a T agisce sui canali voltaggio-dipendenti delle cisterne terminali del reticolo sarcoplasmatico (adiacenti ai tubuli a T), provocando la liberazione di Ca++ da parte della membrana dello stesso reticolo sarcoplasmatico. A sua volta, il rapido aumento della concentrazione dei Ca++ in prossimità dell’apparato contrattile permette l’interazione tra actina e miosina. Questa interazione è resa possibile dall’unione degli ioni Ca a particolari siti. dotati di elevata affinità, posizionati su molecole di troponina (importante proteina “regolatrice” contenuta nei filamenti fini): questa unione agisce come un interruttore sbloccando altri siti su molecole di actina e permettendo l’ interazione di queste ultime con la “testa” delle molecole di miosina. Lo stabilirsi di questo legame, tanto specifico quanto di breve durata, fa si che il filamento sottile scivoli sul filamento spesso, con conseguente accorciamento del sarcomero. Di fatto il ciclo contrazione-rilasciamento si svolge in cinque fasi: 1) aumento dei Ca++ intracellulare, 2) esposizione di siti ove i ponti trasversali si attaccano all’actina grazie all’unione degli ioni Ca con la troponina, 3) legame dei ponti trasversali in tutti i siti esposti; alla cessazione della stimolazione, 4) dissociazione dalla troponina dei Ca++, 5) i filamenti sottili riassumono la configurazione che impedisce ulteriori interazioni con i ponti trasversali. Sia la formazione che il distacco dei ponti trasversali sono processi attivi che richiedono energia derivante da idrolisi di ATP. Le fibre muscolari sono distinguibili in diversi tipi in base alle caratteristiche strutturali, fi-
siologiche, biochimiche e istochimiche. In particolare l’istochimica muscolare che utilizza varie tecniche di colorazione consente l’identificazione dei diversi tipi di fibre nelle sezioni congelate. La tecnica più usata perché più affidabile è quella che si basa sul rilevamento dell’attività enzimatica dell’ATPasi miosinica con incubazione a diversi pH e che consente la distinzione di due tipi fondamentali di fibra: tipo I e tipo II (Tab. 34.1). Le fibre di tipo I mostrano una debole attività nella preparazione con ATPasi alcalina ed una marcata attività a pH acido (4.3), mentre le fibre di tipo II reagiscono intensamente con l’ATPasi alcalina e debolmente con quella acida. Utilizzando una preincubazione a pH 4.6, le fibre di tipo II possono essere suddivise in due sottotipi (IIA e IIB). È stato descritto anche descritto un terzo sottotipo (IIC) che corrisponde alle fibre muscolari non differenziate, come quelle fetali e quelle immature o non completamente maturate dopo reinnervazione. Le fibre di tipo I, più ricche di mitocondri, contengono una maggior quantità di enzimi (come la succino-deidrogenasi) connessi con il metabolismo aerobico, mentre nelle fibre di tipo II è presente una maggiore quantità di glicogeno e di enzimi (fra cui la fosforilasi e l’adenosintrifosfatasi miofibrillare) connessi con il metabolismo anaerobico. Alcuni muscoli (come il soleo) sono prevalentemente costituiti da fibre di tipo I. Questi muscoli (detti muscoli “rossi”), caratterizzati da lentezza sia della contrazione che del rilasciamento, intervengono nel mantenimento della
1416 Malattie del sistema nervoso
postura. Altri muscoli (detti muscoli “bianchi”) sono invece costituiti principalmente da fibre di tipo II: si tratta di muscoli a contrazione più rapida, coinvolti nell’attività motoria fasica. La maggior parte dei muscoli è costituita da un insieme di entrambi i tipi di fibre: le fibre di tipo II tendono a predominare nelle porzioni più superficiali, le fibre di tipo I nelle porzioni più profonde, con un rapporto di 1: 2 tra fibre di tipo I e fibre di tipo II. Un’ampia serie di dati sperimentali ha dimostrato che in una unità motoria le proprietà del motoneurone e quelle delle fibre muscolari sono strettamente correlate, per cui tutte le fibre muscolari appartenenti ad un'unità motoria hanno caratteristiche fisiologiche, biochimiche ed istochimiche simili. Le indagini genetiche effettuate nel corso degli ultimi quindici anni hanno permesso di chiarire l’eziopatogenesi di molte malattie muscolari e di ampliare le conoscenze circa l’organizzazione molecolare della fibra muscolare. A tale proposito è stata fondamentale l’identificazione di un gene localizzato sulla banda 21 del braccio corto (p) del cromosoma X (posizione Xp21). Tale gene codifica per una proteina, denominata distrofina (Hoffman et al, 1987), che è costituita da 3685 aminoacidi e pesa 427 Kd. La distrofina è presente nel muscolo striato, liscio e cardiaco; è localizzata nella regione subsarcolemmale ed esplica la sua azione a livello delle bande I e delle linee M del sarcomero. Uno dei suoi ruoli è quello di stabilire un legame tra cellula e matrice extracellulare. Studi successivi hanno documentato (in sede extra cellulare, intracellulare ed a livello della membrana) l’esistenza di altre proteine e glicoproteine i cui ruoli ed interazioni sono ancora oggetto di studio; è prevedibile che in futuro verranno identificate nuove isoforme. Numerose proteine, implicate nella patogenesi di alcune miopatie, sono state identificate a livello di una struttura (il rivestimento nucleare) deputata a separare il nucleoplasma dal
compartimento citoplasmatico. Tale struttura è formata dalle membrane nucleari (esterne ed interne) e dal complesso dei pori nucleari (ove le membrane si fondono per permettere il trasporto molecolare tra nucleo e citoplasma) e delle lamine nucleari. La membrana nucleare esterna, inoltre, è connessa direttamente con il reticolo endoplasmatico: in tal modo il rivestimento nucleare funge da compartimento intermedio tra reticolo endoplasmatico ed apparato di Golgi. Il rivestimento nucleare, grazie ai suoi numerosi rapporti, svolge anche un ruolo nella determinazione della posizione del nucleo e, verosimilmente, partecipa agli interscambi tra nucleo e matrice extracellulare. A livello della membrana nucleare interna sono state evidenziate sei molecole: due proteine associate alla lamina (LAP1 e LAP2), il recettore B della lamina (LBR), un antigene (denominato MAN1), l’emerina e la nurina. Le lamine nucleari sono localizzate a livello della membrana nucleare interna ove formano una struttura a maglia costituita da molte proteine. Esistono, fondamentalmente, tre tipi (A, B, e C) di lamine. Le lamine A e C sono codificate, alternativamente, dal medesimo gene (LMNA). A livello del sarcoplasma e della membrana alcune proteine, capaci di interagire tra loro e di associarsi con la distrofina, costituiscono un unico complesso denominato “complesso distrofina-glicoproteine” (Fig. 34.4). Tale complesso (DGC) è costituito da distrofina, distroglicani (α e β), sarcoglicani (α, β, γ e δ), sintrofine e da una proteina di membrana, chiamata caveolina, che svolge un ruolo nella transduzione di segnale. Gli α-distroglicani si legano alle proteine della matrice extracellulare (laminina/agrina) e possono interagire con i sarcoglicani, mentre la parte citoplasmatica dei β-distroglicani entra in contatto (attraverso uno specifico sito particolarmente ricco di cisteina) con la distrofina, che viene così ancorata al complesso.
Malattie muscolari 1417
Fig. 34.4 - Rappresentazione schematica della varie proteine coinvolte in differenti forme di distrofia muscolare. bm: membrana basale; pm: plasmalemma; NMJ, giunzione neuromusculare; AchR: recettore acetilcolinico. (Riprodotta da Neuromuscular Disorders 2000, 10:228-32, per gentile concessione della Elsevier Science).
A sua volta la distrofina interagisce, attraverso plurimi siti di contatto, con i filamenti di F-actina. È verosimile che il legame esistente tra distrofina, distroglicani, sarcoglicani e sintrofine da un lato e proteine extracellulari dall’altra, contribuisca a stabilizzare la membrana della fibra muscolare proteggendola dagli effetti dannosi della contrazione. Altre strutture, che mediano l’associazione tra matrice extracellulare e proteine del citoscheletro, sono rappresentate dai recettori transmembrana chiamati integrine. Sempre a livello della membrana è stata documentata la presenza di disferlina, ritenuta essenziale per il mantenimento strutturale del sarcolemma. La classificazione delle malattie muscolari adottata in questo capitolo distingue preliminarmente le forme ereditarie dalle forme acquisite.
Miopatie ereditarie DISTROFIE MUSCOLARI • • • • • • • • • • •
Distrofinopatie Distrofia muscolare di Emery –Dreifuss Miopatia X-legata con eccessiva autofagia Sindrome di Barth Miopatia di McLeod Distrofie dei cingoli Distrofie muscolari congenite Distrofia muscolare facio-scapolo-peroneale Distrofie muscolare oculofaringea Distrofia muscolare scapolo-peroneale Distrofie distali
MIOPATIE CONGENITE • • • •
Miopatie da alterazione di strutture intrinseche al sarcomero Miopatie con corpi inclusi Miopatie da alterazione della posizione del nucleo Miopatie con alterazioni istochimiche in assenza di anomalie strutturali
1418 Malattie del sistema nervoso
CANALOPATIE E MIOTONIE • • • • •
Canalopatie cloriche Canalopatie sodiche Canalopatie calciche Canalopatie potassiche Distrofie miotoniche
MIOPATIE METABOLICHE • • •
Miopatie da alterazioni del metabolismo dei carboidrati Miopatie da alterazioni del metabolismo purinico Miopatie da alterazioni del metabolismo lipidico
MIOPATIE MITOCONDRIALI Miopatie acquisite MIOPATIE INFIAMMATORIE • • • •
Miopatie infiammatorie idiomatiche Miopatie associate a collagenopatie vascolari Miopatie infiammatorie Altre forme
MIOPATIE ASSOCIATE A MALATTIE SISTEMICHE • • •
Miopatie endocrine Miopatie associate a disionie Altre forme
MIOPATIE TOSSICHE • • • • • • • •
Miopatie necrotizzanti Miopatie autofagiche Miopatie mitocondriali Miopatie antimicrotubulari Miopatie infiammatorie Miopatie da compromissione della sintesi proteica Miopatie ipotassiemiche Altre forme
Miopatie di incerta classificazione • • • • • •
Sindrome compartimentale Assenza congenita di muscoli Artrogriposi multipla complessa Miosite ossificante Neuromiotonie Sindrome dell’uomo rigido
Approccio al paziente con miopatia Le malattie muscolari, nonostante la loro grande varietà eziopatogentica, hanno in comune molti aspetti clinici e paraclinici, che saranno descritti nei paragrafi successivi.
Valutazione clinica L’indagine clinica deve sempre iniziare con una dettagliata raccolta anamnestica che potrà fornire anche informazioni utili sulla natura della miopatia. In particolare dovranno essere attentamente valuati: familiarità, assunzione cronica di alcool, uso di farmaci noti per l’azione miotossica, precedenti interventi di tiroidectomia e paratiroidectomia, condizioni responsabili di perdita di potassio, neoplasie, malattie sistemiche del tessuto connettivo, malattie autoimmunitarie, stati di immunodeficienza. La sintomatologia comune alle diverse miopatie include deficit di forza, fatica, variazioni della massa muscolare (ipotrofia o ipertrofia), dolore, contratture, crampi, irrigidimento, ipotonia, alterazione dei riflessi profondi. DEFICIT DI FORZA Il deficit di forza rappresenta la manifestazione di gran lunga più frequente anche se talvolta è confuso dal paziente con la fatica. Dopo aver stabilito, sia sulla base della storia che dell’esame obbiettivo, che il paziente presenta un deficit di forza, tale disturbo deve essere precisato in termini di decorso e di topografia. Per quanto concerne il decorso, l’ipostenia può anzitutto essere “fluttuante” o “episodica” con forza normale nei periodi intercritici, come avviene nelle paralisi periodiche dovute a canalopatie o nelle miopatie metaboliche per disturbi della via glicolitica (in cui il deficit compare anche in seguito ad attività fisica) o nei disturbi della trasmissione neuromuscolare; oppure “costante” come avviene nella maggior parte dei casi. L’ipostenia costante viene ulteriormente distinta in “non progressiva” e “progressiva”. Il deficit di forza non progressivo è tipico delle miopatie congenite e delle distrofie muscolari congenite anche se, in questo caso, la gravità iniziale del deficit può nascondere la mancanza di progressione. Resta fermo che la stragrande maggioranza delle malattie muscolari è ca-
Malattie muscolari 1419
ratterizzata da un deficit di forza costante e progressivo il cui decorso può essere “acuto” o “subacuto”, come in alcune miopatie infiammatorie (dermatomiosite, polimiosite) oppure “cronico”, con lenta progressione negli anni (la maggioranza delle distrofie muscolari). Le miopatie acute o subacute possono avere un decorso monofasico o recidivante. La definizione della distribuzione del deficit di forza consente di formulare un preliminare orientamento diagnostico: a tale scopo devono essere esaminate la muscolatura oculare, facciale, faringea, laringea, cervicale, oltre a quella dei cingoli scapolare e pelvico, del tronco e degli arti.
Fig. 34.5 - Distribuzione del deficit di forza in diversi tipi di distrofia muscolare (DM) A: Duchenne e di Becker; B: Emery-Dreifuss; C: cingoli; D: facio-scapolo-omerale; E: distale F: oculofaringea. Le aree tratteggiate sono quelle affette (Riprodotta da BMJ 1998; 317: 991¯995, per gentile concessione del BMJ Publishing Group).
La Fig. 34.5 riporta alcune delle distribuzioni del deficit di forza. La distribuzione più frequente, che si incontra in molte miopatie ereditarie ed acquisite (risultando quindi scarsamente specifica sul piano diagnostico), è quella che comporta l’interessamento simmetrico dei muscoli prossimali degli arti (distribuzione tipo “cingoli”). Una distribuzione del deficit prevalentemente distale, meno rara di quanto comunemente si pensa, si riscontra, oltre che nelle miopatie distali, in altre malattie muscolari (Tab. 34.4) nelle quali l’interessamento della muscolatura della loggia antero-esterna della gamba si associa a quello del cingolo scapolare (distribuzione “scapolo-peroneale”, osservabile nella distrofia omonima, nella distrofia di Emery-Dreyfuss, in alcune miopatie congenite, nella miopatia da deficit di maltasi acida). È possibile anche un interessamento del settore facciale (distrofia facio-scapolo-omerale, distrofia miotonica). La topografia del deficit non sempre è simmetrica: una distribuzione asimmetrica si osserva, ad esempio, nella distrofia facio-scapolo-omerale, nella miopatia di McArdle, nella miopatie distali; ancora, una debolezza asimmetrica distale agli arti superiori e prossimale agli arti inferiori è caratteristica della miosite a corpi inclusi. Un interessamento focale è raro e, di fatto, riguarda solo il muscolo quadricipite che può risultare isolatamente compromesso nella Distrofia muscolare di Becker (sia con diminuzione di forza che con forza relativamente conservata), in alcune forme di distrofia dei cingoli (LGMD2A, LGMD2B, LGMD2C), nella miosite a corpi inclusi, nella miosite focale e nella miopatia distale di Nonaka. L’interessamento dei muscoli extraoculari e dell’elevatore della palpebra, oltre ad essere presente nelle affezioni del giunzione neuromuscolare (miastenia grave e botulismo) e del sistema nervoso periferico, può essere osservato nelle seguenti: distrofie muscolari (distrofia muscolare oculofaringea, miopatia oculofaringodistale, miopatia ereditaria a corpi inclusi tipo
1420 Malattie del sistema nervoso
3), miopatie congenite (miopatia centronucleare, miopatia nemalinica, miopatia con alterazione multi-minifocale della fibra), miopatie mitocondriali (miopatia di Kearns-Sayre, oftalmoplegia esterna progressiva, encefalomiopatia mitocondriale neurogastrointestinale) ed endocrine (miopatia tiroidea). Una marcata ipostenia dei muscoli estensori del collo comporta la “sindrome del capo cadente” (dropped head syndrome) che, oltre a verificarsi nella sclerosi laterale amiotrofica e nella miastenia grave, può essere presente nelle miopatie infiammatorie idiopatiche (specie nella polimiosite, in cui può rappresentare la sintomatologia d’esordio), nella distrofia facio-scapolo-omerale, nella distrofie miotoniche, nelle miopatie congenite, nella miopatia da deficit di carnitina e nelle miopatie in corso di iperparatiroidismo e di ipotirodismo. Disfagia (oltre che nella miastenia grave e nelle malattie del motoneurone) si può verificare anche nelle miopatie infiammatorie idiopatiche (polimiosite e miosite a corpi inclusi), nella distrofia muscolare oculofaringea e in una forma particolare di miopatia distale (Miopatia distale con deficit delle corde vocali e del faringe). L’interessamento della muscolatura respiratoria può verificarsi sia nell’età adulta che in quella infantile nel corso di diversi quadri miopatici (oltre che per danno del sistema nervoso periferico o della giunzione neuromuscolare). In particolare vanno ricordate la miopatia acuta da rianimazione, i difetti congeniti del diaframma, le desminopatie, le glicogenosi, le miopatie mitocondriali, le distrofie miotoniche (inclusa la forma congenita), le miopatie infiammatorie (in particolare la polimiosite associata ad anticorpi anti-Jo-1) e le miopatie congenite. Una lunga lista di malattie muscolari, dalla malattia di Emery-Dreifuss alle distrofie miotoniche oltre a vari disordini da alterazioni delle proteine muscolari, può essere associata con alterazioni cardiache più o meno gravi. In tutti i pazienti con disturbi muscolari geneticamente
determinati è utile, pertanto, l’effettuazione di uno studio ECG di base. Fatica Anche se parole come “fatica”, “affaticamento” e simili spesso compaiono nel racconto del paziente, il sintomo fatica raramente fa parte del quadro clinico del paziente con disturbi muscolari, essendo più frequentemente presente nei pazienti affetti da malattie croniche sistemiche o da sindromi ansiose-depressive. Per quanto riguarda la patologia muscolare è più corretto parlare di intolleranza all’esercizio dovuta ad alterazioni biochimiche muscolari che comportano un difetto di disponibilità di energia. La fatica dovuta a deficit della trasmissione neuromuscolare ha caratteristiche particolari come si può osservare nel paziente miastenico che descrive una sintomatologia inconfondibile durante il periodo di fatica. Variazioni della massa muscolare Nelle malattie muscolari sono osservabili sia aumento che diminuzione del volume della massa muscolare. L’ipertrofia muscolare più nota è quella delle distrofinopatie (Distrofia muscolare di Duchenne e di Becker), localizzata soprattutto ai polpacci. Un aumento, anche diffuso, del volume della massa muscolare è presente anche in altre miopatie come nella miotonia congenita di Thomsen, in alcune forme di distrofie dei cingoli (LGMD1C, LGMD2D, LGMD2E, LGMD2I), in alcune Distrofie muscolari congenite merosinadeficienti, nella miopatia amiloidosica, nelle glicogenosi, nell’ipotiroidismo, nella sarcoidosi e nella cisticercosi. L’ipertrofia muscolare è dovuta in genere sia ad infiltrazione di grasso e di tessuto connettivo che ad una reale ipertrofia delle fibre (come si può osservare nelle fibre di tipo II anche per iperuso muscolare). Il termine peseudoipertrofia è da alcuni autori impiegato per quelle condizioni in cui l’aumento di volume della massa muscolare si associa a riduzione della forza.
Malattie muscolari 1421
La riduzione del volume della massa muscolare (ipo-atrofia muscolare) è in genere consensuale al deficit di forza, essendo localizzata nei gruppi muscolari paretici; in alcune forme l’ipotrofia prevale sull’ipostenia (miopatie endocrine), in altre si verifica il contrario (miopatie infiammatorie, paralisi periodiche, miastenia grave). Dolore muscolare, contratture, crampi, irrigidimento Il dolore è probabilmente il sintomo più comune riferito dai pazienti che si rivolgono ad un ambulatorio specializzato in patologia neuromuscolare. Il dolore muscolare è un sintomo di per sé aspecifico in quanto può essere osservato in diverse condizioni mediche generali, reumatologiche, neurologiche, ortopediche. Anche se la descrizione da parte del paziente del sintomo “dolore” è spesso confusa (anche perché obbiettivamente non facile), appare utile distinguere quattro tipi principali di dolore muscolare: dolore muscolare profondo (deep muscle aching) o mialgia, contrattura, crampo, rigidità o irrigidimento (stiffness) muscolare.
Le mialgie sono il tipo più comune di dolore muscolare e possono essere localizzate a un singolo muscolo o a un gruppo muscolare oppure diffuse (Tab. 34.2). Anche se le mialgie possono essere predominanti in alcune miopatie metaboliche e infiammatorie, il dolore muscolare è quasi sempre associato ad altri sintomi e segni: in particolare i livelli di creatinchinasi (CK) e l’EMG sono più frequentemente alterati rispetto al deficit di forza. Il tipo di dolore muscolare meno comune è quello provocato da una contrattura che rappresenta una persistente (in genere dura più a lungo dei crampi), attiva contrazione muscolare elettricamente silente. Le contratture, spesso assai dolorose, si verificano quasi sempre dopo esercizio e sono tipiche delle miopatie da deficit enzimatici della via glicolitica; in queste affezioni le contratture sono probabilmente dovute al livello elevato di adenosin-difosfato libera e all’assenza di acidosi intracellulare durante lo sforzo. Questo tipo di contrattura (osservabile anche nella paramiotonia congenita e nella miopatia ipotiroidea con mioedema) non va confuso con le contratture croniche (denominate anche
Tabella 34.2 - Miopatie in cui le mialgie possono rappresentare un aspetto preminente. Mialgie generalizzate
Infiammatorie Miosite virale Polimiosite/dermatomiosite Fascite eosinofila Sindrome esoinofilia-mialgia Tossiche Miopatia alcoolica acuta Miopatie da farmaci Endocrine Miopatia ipotiroidea Miopatia da iperpartiroidismo Miopatia da carenza di vitamina D Ereditarie Glicogenosi Deficit di carnitina palmitil transferasi Deficit di mioadenilato deaminasi Miopatie mitocondriali
Distrofinopatie Ipertermia maligna Miotonia dolorosa Altre o rare Polimialgia reumatica Fibromialgia Miopatie con aggregati tubulari Mialgie e crampi legati al cromosoma X Mialgie localizzate Mialgie dopo esercizio fisico Mionecrosi da compressione focale Miosite granulomatosa Miosite focale Piomiosite Miosite da parassiti Miosite localizzata nodulare Traumi
1422 Malattie del sistema nervoso
pseudocontratture o contratture miostatiche o fibrose), scarsamente dolorose, dovute ad accorciamento muscolare e tendineo, comunemente riscontrate nelle distrofie muscolari. I crampi muscolari sono contrazioni muscolari involontarie, dolorose, improvvise, di breve durata, visibili ed apprezzabili alla palpazione. Sono solitamente localizzati ad un muscolo o a parte dello stesso. A differenza dalle contratture, i crampi possono verificarsi anche a riposo, sono spesso risolti da un vigoroso stiramento passivo e l’EMG, lungi dall’essere silente, evidenzia scariche di attività di unità motoria ad elevata frequenza, simili a quelle della contrazione massimale volontaria. I crampi sono spesso benigni (“ordinary cramps”, Layzer, 1982) e non riflettono una specifica patologia. Possono comparire nel corso di varie condizioni generali come disidratazione da eccessiva sudorazione, perdita di elettroliti (iponatriemia), turbe metaboliche (uremia, ipocalcemica, ipomagnesiemia), ipotiroidismo. I crampi sono raramente dovuti ad una miopatia (rari casi di distrofia muscolare di Becker e di miopatie congenite; sindrome con mialgie e crampi da distrofinopatia X-legata). La presenza diffusa di crampi indica, di solito, una malattia del sistema nervoso periferico (malattia del 2° motoneurone, neuropatia motorie). L’irrigidimento (stiffness) muscolare viene solitamente riferito dai pazienti ad una tensione muscolare dolorosa con resistenza allo stiramento passivo e difficoltà al rilasciamento normale. L’irrigidimento muscolare può derivare da numerose malattie neurologiche; le sindromi più note sono prevalentemente dovute a iperattività continua di unità motorie, come la sindrome dell’uomo rigido e la sindrome di Isaacs. Le malattie muscolari che possono comportare questo sintomo sono l’ipotiroidismo, i disturbi miotonici, la polimialgia reumatica e la fibromialgia. L’irrigidimento muscolare va comunque differenziato dalla miotonia che è una contrazione muscolare protratta per ritardato rilasciamento (v. pag. 41).
Alterazione del tono muscolare e dei riflessi profondi L’esame del tono muscolare non riveste particolare rilievo diagnostico nel paziente sospetto di miopatia se non nella prima infanzia (“floppy baby”) a causa della difficoltà di valutare la forza. Ciò non toglie che l’ipotonia muscolare sia presente in molte miopatie al pari delle neuropatie. Una forma di ipertonia muscolare esclusivamente miopatica è di raro riscontro con l’eccezione del tetano e della tetania ipocalcemica. I riflessi profondi possono essere diminuiti o assenti nelle miopatie acute e negli stadi avanzati delle forme croniche, sempre in proporzione con il deficit di forza e con comportamento consensuale a quello del tono muscolare. Indagini di laboratorio Valutazione enzimatica L’indagine biochimica più comunemente utilizzata è la misurazione dell’attività serica degli enzimi sarcoplasmatici: infatti, le proteine enzimatiche si riversano nel torrente circolatorio in seguito a necrosi della fibra muscolare o ad alterazione della sua membrana. Dei diversi enzimi (transaminasi, latticodeidrognasi, aldolasi, piruvato chinasi, creatinchinasi o CK) che possono presentare aumento dei loro livelli serici in corso di miopatie, la CK si è rivelato il più sensibile indicatore del danno muscolare: il suo livello può risultare, infatti, elevato anche quando quello degli altri enzimi è normale. Nel valutare il livello serico di CK va tenuto presente che i valori normali sono più alti nei maschi e nella popolazione nera rispetto a quella bianca. La CK è un dimero di cui esistono tre forme o isoenzimi: l’enzima presente nel muscolo scheletrico è costituito da due unità M (CK-MM), la forma prevalente nel cervello (ma presente anche nel muscolo liscio e nel nervo) è costituita da due unità B (CK-BB), mentre nell’isoenzima cardiaco sono presente una unità M ed una B (CKMB). Un incremento del livello dell’isoenzima MM è tipico delle malattie muscolari, specie se
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acute; nei pazienti con malattie muscolari necrotizzanti di lunga durata può risultare aumentato anche l’isoenzima MB senza che ciò indichi necessariamente la presenza di una cardiopatia. Tale reperto non è espressione di danno miocardico, ma deriva dalla presenza dell’isoenzima MB nelle fibre muscolari immature e in via di rigenerazione. Va sottolineato che l’assenza di aumento della CK serica non esclude una miopatia e, d’altro canto, l’aumento della CK serica non sempre indica una miopatia (il livello di CK può essere normale nella maggioranza delle miopatie congenite, nelle sindromi miotoniche, nella miopatie steroidea e tireotossica). Il livello di CK è molto aumentato, anche 10 volte i valori normali, in malattie con necrosi delle fibre muscolari come le distrofie muscolari, la polimiosite, la rabdomiolisi (v. pag. 1509), mentre si innalza modestamente in pazienti con atrofia spinale muscolare progressiva o con sclerosi laterale amiotrofica e tende a mantenersi nella norma in corso di neuropatie periferiche. Valori oltre 1.000 U.I. si riscontrano solo nelle miopatie. L’aumento maggiore del livello di CK si verifica nelle fasi precoci delle miopatie, tendendo a diminuire con il progredire della malattia. Nei soggetti normali un esercizio fisico faticoso o un danno muscolare anche circoscritto, come quello prodotto da terapia intramuscolare, esame elettromiografico e traumi contusivi, possono provocare un aumento del livello serico di CK. Concentrazioni aumentate di CK possono essere trovate anche in soggetti senza segni clinici di miopatia e possono essere utili per identificare soggetti a rischio di ipertermia maligna, casi con distrofia muscolare presintomatica, portatrici di distrofia muscolare di Duchenne e di Becker (Tab. 34.4). Nel 1980 Rowland coniò il termine di iperCKemia idiopatica per indicare una condizione in cui i pazienti erano asintomatici ma presentavano un aumento persistente della CK senza cause riconosciute. A distanza di più di 20 anni si discute ancora (Reijneveld et al., 2001) se l’iperCKemia
Tabella 34.4 - Possibili cause di iperCKemia. Con segni di interessamento neuromuscolare
Senza segni di interessamento neuromuscolare
Distrofie muscolari (DM) Distrofie miotoniche Miopatie infiammatorie Miopatie metaboliche Miopatie congenite Miopatie tossiche
Esercizio fisico Trauma muscolare Rabdomiolisi Intossicazione alcolica Ipopotassiemia Suscettibilità all’ipertermia
Miopatie da farmaci Miopatie endocrine Malattia di CharcotMarie-Tooth Malattie del motoneurone Atrofia muscolare spinale progressiva
maligna Portatrice di distrofinopatia Condizione presintomatica di DM Discinesie Psicosi acute IperCKemia idiopatica
idiopatica, di cui si continua a ignorare il meccanismo fisiopatologico, rappresenti o meno una entità autonoma. Il riscontro di una iperCKenia senza cause apparenti impone almeno la determinazione dell’attività alfa-glucosidasica leucocitaria e l’esecuzione della biopsia muscolare con analisi della distrofina e dei sarcoglicani. Mioglobinemia e mioglobinuria La mioglobina, pigmento formato da una proteina e da un nucleo tetrapirrolico contenente ferro, analogo a quello dell’emoglobina, è presente nel sarcoplasma delle fibre muscolari scheletriche e cardiache, cui conferisce gran parte del colore. La concentrazione serica di mioglobina è aumentata in pazienti con miopatie infiammatorie e necrotizzanti ma non aggiunge informazioni utili a quelle fornite dal livello di CKemia. In condizioni fisiologiche la concentrazione di mioglobina nelle urine è troppo bassa per poter essere individuata ad occhio nudo. Per mioglobinuria s’intende una condizione patologica in cui la mioglobina è presente in eccesso nelle urine che assumono un caratteristico colore rossobrunastro. Bowden e coll. (1956) hanno proposto il termine di “rabdomiolisi” (v. pag. 1509) anziché quello di “mioglobinuria”, sia per sotto-
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lineare il ruolo causale primario della necrosi muscolare, sia perché in tale caso la mioglobina non è l’unico componente muscolare presente nel plasma e nelle urine. Il riscontro macroscopico di mioglobinuria significa la distruzione di almeno 200 grammi di muscolo. La colorazione rosso-scuro delle urine può dipendere anche dalla presenza di porfirine e di emoglobina, ma la ricerca di sangue nelle urine risulta negativa nelle porfirie, positiva nel caso di emoglobinuria. Acido lattico La concentrazione venosa di lattato, a riposo o dopo un esercizio di lieve entità, è aumentata nelle miopatie mitocondriali e nei difetti della catena enzimatica respiratoria. Al contrario la produzione di lattato è assente o diminuita nelle miopatie metaboliche da difetto della glicogenolisi (ad esmpio nella malattia di McArdle dovuta a deficit di miofosforilasi) o della via glicolitica (ad esempio, deficit di fosfofruttochinasi, fosfoglicerato mutasi, fosfoglicerato chinasi, lattato deidrogenasi). L’assenza o riduzione della produzione di lattato è messa in evidenza con l’esercizio dell’avambraccio (forearm exercise test) in cui vengono fatti prelievi venosi dopo 1, 2, 4, 6 e 10 minuti dalla fine di un periodo della durata di 1 minuto di ripetuta contrazione massimale isometrica dei muscoli flessori dell’avambraccio. Questa prova è da alcuni eseguita anche in condizione di ischemia: tuttavia, questa procedura presenta dei rischi in quanto in alcuni pazienti è stata osservata rabdomiolisi. Il test si considera positivo quando l’aumento del lattato, sotto esercizio, è inferiore a 3-6 volte rispetto ai valori basali. Con la stessa procedura può essere determinata la concentrazione serica dell’ammonio: un mancato aumento di quest’ultimo (di 5-10 volte rispetto ai valori basali) indica alterazione del metabolismo purinico (ad esempio, deficit della mioademilato deaminasi). I risultati dell’esercizio sono normali nei disturbi del metabolismo lipidico ed in alcune malattie
del metabolismo glucidico con debolezza muscolare permanente, come il deficit di maltasi acida (in questa condizione il deficit di α-glicosidasi è direttamente documentabile nei leucociti). Alterazioni della fosforilazione ossidativa nei mitocondri può causare deficit secondari nella via glicolitica, del metabolismo del piruvato, nel ciclo di Krebs e nei metabolismi proteico e degli acidi grassi. Segni di possibili deficit della fosforilazione ossidativa sono l’aumento del lattato o del piruvato o un rapporto lattato/piruvato >20, l’acidosi metabolica, l’aumento di alanina e di sostanze intermedie del ciclo tricarbossilico, la presenza di aminoacidi nelle urine. Studi di immagine e spettroscopici Gli studi di immagine (ultrasuoni, scintigrafia, TC, MRI), pur non fornendo informazioni valide per una specifica diagnosi, possono essere utili per definire estensione e distribuzione del processo miopatico, delineando con precisione atrofia ed ipertrofia muscolari, particolari distribuzioni dell’interessamento muscolare (miosite a corpi inclusi), lesioni muscolari suppurative. L’utilizzo della scintigrafia muscolare permette di differenziare aree di infiammazione da arre con lesione necrotica e di documentare anche la calcinosi subcutanea della dermatomiosite. In casi particolari l’indagine MRI può essere utile anche per scegliere la sede della biopsia muscolare. La spettroscopia a risonanza magnetica consente di valutare modificazioni metaboliche nel corso dell’esercizio rivelandosi così utile nello studio di pazienti con disturbi della glicolisi o del metabolismo mitocondriale. Indagini elettrodiagnostiche L’elettromiografia (v. pag. 344) convenzionale ad ago è una indagine essenziale nei pazienti con sospetta miopatia. Lo scopo principale dell’indagine è quello di differenziare le affezioni neurogene (da danno del sistema nervoso periferico) da quelle primitivamente miogene (e-
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sempio tipico, la diagnosi differenziale fra miopatie prossimali e atrofie muscolari spinali). L’EMG non fornisce ulteriori informazioni nei pazienti in cui la diagnosi è già certa (ad esempio, in casi in cui è stato precedentemente accertato deficit di distrofina). Gli studi elettroneurografici (v. pag. 353) sono abitualmente negativi nelle miopatie. La loro esecuzione può essere utile per escludere la possibilità che la sintomatologia sia dovuta ad un interessamento del sistema nervoso periferico o, al contrario, per documentare la coesistenza di una neuropatia periferica, come può accadere in casi di distrofia miotonia, miopatia mitocondriale, miopatia da farmaci, miosite a corpi inclusi, miopatie infiammatorie associate a neoplasie o a collagenopatie. In alcune miopatie acute (esempio tipico, la miopatia da rianimazione) la riduzione dell’ampiezza del potenziale evocato muscolare può essere, almeno inizialmente, l’unica alterazione. Diagnosi molecolare Sono ormai molte le miopatie ereditarie in cui la biologia molecolare ha potuto identificare i geni mutati e le proteine deficitarie. Lo studio del DNA è diventato pertanto una indagine irrinunciabile nel processo diagnostico del paziente miopatico. Diversi possono essere gli scopi dello studio del DNA: identificare con precisione la malattia che colpisce il paziente o la famiglia, identificare i soggetti asintomatici in una famiglia con individui affetti, effettuare diagnosi prenatali semplici ma accurate e diagnosi presintomatche. Il raggiungimento di questi scopi è alla base di una consulenza genetica appropriata ed attendibile.
Biopsia muscolare C. Minetti L’introduzione negli anni sessanta delle tecniche istochimiche applicate allo studio del musco-
lo umano ha rappresentato una tappa fondamentale per l’ampliamento delle conoscenze sull’inquadramento nosografico delle malattie muscolari. A partire dagli anni novanta, l’applicazione delle tecniche immunoistochimiche nello studio delle biopsie muscolari ha rappresentato un ulteriore passo avanti di enorme importanza che ha permesso di definire su base eziologica molte forme di malattie muscolari. Il notevole progresso delle metodiche di genetica molecolare negli ultimi anni ha consentito infine di definire in diversi casi una diagnosi precisa di diverse forme di miopatie senza necessità di ricorrere ad un prelievo bioptico muscolare. Tuttavia lo studio accurato della biopsia muscolare rappresenta ancora oggi un importante mezzo per giungere ad un approfondimento diagnostico, ed in alcuni casi anche prognostico, in molte forme di malattie neuromuscolari nelle quali il quadro clinicolaboratoristico e l’indagine genetica non permettono un inquadramento eziologico. In questo capitolo tratteremo pertanto delle modalità della biopsia muscolare e delle principali tecniche laboratoristiche applicate allo studio della stessa. Inoltre verranno discussi i principali quadri patologici che possono emergere da tale studio. LA BIOPSIA MUSCOLARE La biopsia muscolare può essere di tipo chirurgico “a cielo aperto” od essere svolta mediante uno speciale ago. I muscoli generalmente sede della biopsia muscolare sono il quadricipite femorale (ed in particolare il vasto laterale) od il bicipite brachiale. Più raramente sono sede di biopsia il muscolo deltoide ed il gastrocnemio. La tecnica chirurgica prevede l’incisione della cute e della fascia muscolare in anestesia locale (od in sedazione profonda nei bambini) e l’asportazione di un frammento bioptico di circa 100-200 mg. La tecnica della biopsia muscolare mediante ago fu proposta già intorno al 1870 dallo stesso Duchenne di Boulogne, il quale descrisse un ago simile per molti aspetti al moderno ago tipo Bergstrom. Tale tecnica
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permette, anche a più riprese, il prelievo di frammenti di circa 10-20 mg. I limiti della biopsia con ago sono rappresentati dalla scelta obbligata della sede di prelievo, limitata al muscolo quadricipite femorale in seguito al pericolo di lesioni di vasi o nervi in altre sedi dovuto all’introduzione dell’ago “a cielo coperto”, e dalle ridotte dimensione del frammento bioptico, che può risultare inadatto per alcuni dosaggi biochimici che necessitano di una maggiore quantità di tessuto. I vantaggi di tale tecnica sono peraltro rappresentati da una minore traumaticità e dalla possibilità di proporla a quei soggetti che necessitano di essere ricontrollati a distanza da una punto di vista morfologico, a fini diagnostici o terapeutici. Indipendentemente dalla tecnica di prelievo, il frammento bioptico va immediatamente congelato in isopentanoazoto liquido al fine di mantenere le attività enzimatiche e le caratteristiche di antigenicità. Da tale frammento, che può essere mantenuto in azoto liquido od in ultrafreezer, si ottengono sezioni di 5-10 micron al microtomo criostato, sulle quali verranno successivamente realizzate le metodiche istologiche, istochimiche ed immunoistochimiche. Un frammento del prelievo bioptico di piccole dimensioni verrà fissato e processato per le tecniche ultrastrutturali. ISTOLOGIA L’indagine istologica di base della biopsia muscolare riveste ancora oggi, a prescindere dalle tecniche istoenzimatiche ed immunochimiche che ad essa sono sempre associate, una notevole importanza dal punto di vista diagnostico e rappresenta sempre il primo momento dell’esame morfologico. Le principali colorazioni istologiche utilizzate nello studio della biopsia muscolare sono l’Ematossilina-Eosina, la Tricromica di Gomori modificata, l’Oil red O per i lipidi e la PAS (Periodic acid-Schiff) per il glicogeno. Durante l’osservazione di un preparato istologico di una sezione muscolare trasversa, generalmente più utilizzata della sezione longitudinale perché più ricca di dati, dovremo valutare se vi sia va-
riabilità del calibro delle varie fibre muscolari, se vi siano fibre ipo od ipertrofiche, se i nuclei siano nella normale posizione subsarcolemmale e se abbiano una normale conformazione, se le fibre contengano inclusioni o materiale di accumulo, se vi siano fibre in fase necrotico-degenerativa o rigenerativa, se vi siano ed in quale grado infiltrati cellulari od un aumento di tessuto connettivo ed adiposo. Nel caso di una distrofia muscolare progressiva, ed in particolare nella forma di Duchenne, da un punto di vista istologico abbiamo un completo scompaginamento della normale architettura muscolare con notevole variabilità del calibro delle fibre, con presenza di fibre ipertrofiche affiancate da molte fibre più o meno atrofiche, presenza di numerose fibre ipercontratte “a stampo”, presenza di numerose fibre necrotiche e di aree cosiddette basofile, costitute da fibre muscolari ravvicinate, per lo più di dimensioni ridotte e di intensa basofilia, indicative di un processo degenerativo-rigenerativo a carico del muscolo, ed infine proliferazione massiva del tessuto connettivo peri- ed endomisiale (Fig. 34.6, B). Non tutte le forme di distrofia muscolare, tuttavia, presentano un quadro di tale intensità. Nella forma di Becker, per esempio, il quadro istomorfologico evidenzia minori alterazioni, rilevando prevalentemente una variabilità del calibro delle fibre, con presenza di fibre in fase degenerativa e di fibre basofile, con moderato aumento del tessuto connettivo (Fig. 34.6, C). Nella cosiddetta distrofia muscolare congenita, che colpisce il bambino già a partire dalla nascita e di cui si conoscono diversi tipi, la caratteristica morfologica comune è rappresentata dalla presenza di un quadro distrofico, con notevole prevalenza della proliferazione del tessuto connettivale sull’aspetto necrotico degenerativo (Fig. 34.6, D). In altre forme di distrofie muscolari, quali la forma facio-scapoloomerale, il quadro morfologico può rivelare esclusivamente una variabilità del calibro delle fibre, con rare fibre in fase degenerativa.
Malattie muscolari 1427
A
B
C
D
E
F
G
H
Fig. 34.6 - Sezioni trasverse di biopsie muscolari. A: muscolo normale, E&E 25x; B: distrofia muscolare di Duchenne, quadro miopatico primitivo grave, E&E, 25x; C: distrofia muscolare di Becker, quadro di sofferenza miopatica primitiva di minore entità, E&E, 25x; D: distrofia muscolare congenita, quadro miopatico con significativa proliferazione connettivale, E&E, 25x; E: miosite a corpi inclusi, quadro di grave sofferenza muscolare con presenza di alcune fibre con inclusioni, E&E, 25x; F: miopatia congenita nemalinica, presenza intracitoplasmatica di corpi nemalinici in molte fibre, tricromica di Gomori, 25x; G: miopatia mitocondriale con “ragged red fibers”,tricromica di Gomori, 25x; H: miopatia metabolica con aumento di lipidi all’interno delle fibre muscolari, Oil red O, 25x.
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Nella miosite a corpi inclusi, una rara forma di miopatia che colpisce generalmente l’adulto e che porta ad una graduale degenerazione muscolare, il quadro morfologico evidenza una gravissima destrutturazione della normale architettura muscolare, con presenza di campi di fibre degenerate e di caratteristiche inclusioni citoplasmatiche in diverse fibre (Fig. 34.6, E). Nelle miopatie infiammatorie (polimiosite e dermatomiosite), si rileva un quadro degenerativo muscolare associato alla presenza di infiltrati cellulari, distribuiti sia in aree perivasali che endomisiali. Nella dermatomiosite, forma caratteristica dell’età pediatrica, si evidenzia una atrofia delle fibre con una caratteristica distribuzione perifascicolare e presenza di fibre di diametro normale all’interno dello stesso fascicolo. La colorazione Tricromica di Gomori è particolarmente utile per l’identificazione della cossiddetta miopatia nemalinica, una forma di miopatia congenita nella quale si ha la presenza intracitoplasmatica di corpi “nemalinici” (dal greco nema = bastoncello) (Fig. 34.6, F), e delle varie forme di miopatie mitocondriali, la cui caratteristica morfologica è rappresentata dalle cosiddette fibre “ragged red”, indice di proliferazione mitocondriale (Fig. 34.6, G). L’indagine istologica è infine importante per l’identificazione di processi di accumulo intracitoplasmatico di materiale di natura lipidica (Fig. 34.6, H) e glicogeno simile, caratteristica di diverse miopatie metaboliche. ISTOCHIMICA A partire dalla fine degli anni sessanta si sono andate sviluppando nuove tecniche istoenzimatiche per lo studio delle biopsie muscolari che hanno fornito un contributo fondamentale per il riconoscimento e l’inquadramento di molte forme di malattie muscolari. I primi studi di istochimica muscolare si soffermarono in particolare sulla possibilità di differenziare istochimicamente le cosiddette fibre rosse e fibre bianche. In effetti la presenza nell’animale di muscoli rossi (quali il muscolo soleo nel ratto e nella cavia) e
di muscoli bianchi (quali il muscolo extensor digitorum longus, sempre nel ratto e nella cavia) era già conosciuta da tempo. Studi più approfonditi rivelarono tuttavia che anche nell’uomo, pur non esistendo muscoli interamente omotipici, ciascun muscolo è composto sia da fibre rosse a contrazione lenta e metabolismo prevalentemente mitocondriale ossidativo, che da fibre bianche a contrazione rapida ed a metabolismo prevalentemente glicogenolitico. Attualmente si preferisce parlare di fibre di tipo I e di fibre di tipo II tipo: tra queste si distinguono poi fibre di tipo IIa e fibre di tipo IIb, queste ultime con caratteristiche metaboliche ed istoenzimatiche intermedie. L’alterazione patologica della normale distribuzione delle fibre del muscolo umano ci fornisce, come vedremo, importanti criteri di valutazione morfodiagnostica. La metodica istochimica che maggiormente permette di distinguere i vari tipi di fibre è rappresentata dall’ATPasi miofibrillare, grazie alla quale, mediante pre-incubazione a vari pH, siamo in grado di riconoscere i vari tipi di fibre. In particolare con l’ATPasi a pre-incubazione a pH 9,4 le fibre di tipo I risultano scarsamente positive, mentre quelle di tipo II appaiono intensamente colorate; con l’ATPasi a pH 4,3 abbiamo invece un’inversione della colorazione, con una intensa impregnazione delle fibre di tipo I ed una quasi completa assenza di impregnazione di quelle di tipo II; con l’ATPasi a pH 4,6, infine, siamo in grado di apprezzare i tre tipi di fibre muscolari: intensamente colorate le fibre di tipo I, quasi completamente non impregnate le fibre di tipo IIa, con una colorazione di intensità intermedia le fibre di tipo IIb (Fig. 34.7, A). Nel muscolo umano normale vi è in genere una buona differenziazione tra i diversi tipi di fibre, ed in particolare nei muscoli generalmente sede di biopsie muscolari, quali il quadricipite femorale, il gastrocnemio ed il bicipite brachiale, il rapporto tra la distribuzione delle fibre di tipo I e di tipo II è di circa uno a due, con fibre di un tipo frammiste a fibre dell’altro tipo in tutto il preparato. Una ridotta differenziazione tra i tipi di fibre
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Fig. 34.7 - Sezioni trasverse di biopsie muscolari. A: ATPasi miofibrillare a pH 4,6 in muscolo normale, con differenziazione dei tre tipi di fibre (I,IIa e IIb), 25x; B: raggruppamenti tipologici sia del I che del II tipo in una miopatia neurogena, ATPasi 9,4, 25x; C: miopatia con disproporzione congenita delle fibre, ATPasi 4,3, 25x; D: atrofia muscolare spinale di tipo II, quadro di atrofia diffusa con ipertrofia di un gruppo di fibre del I tipo, ATPasi 9,4, 25x; E: miopatia primitiva, aumento della colorazione per la fosfatasi acida, 25x; F: miopatia congenita “central core”, NADH tetrazolio-reduttasi, 25x; G-H: miopatia mitocondriali; su sezioni seriate alcune fibre fortemente positive con l’SDH (G) risultano deficitarie di attività COX (H).
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muscolari è generalmente una caratteristica della distrofia muscolare di Duchenne. Si definisce invece predominanza tipologica, rispettivamente delle fibre di I o di II tipo, quando la distribuzione dei vari tipi è quantitativamente alterata con presenza di più del 55% di fibre del primo tipo o di più dell’80% di fibre del secondo tipo. La predominanza delle fibre di tipo I è generalmente indicativa di una forma primitivamente miogena, mentre la predominanza delle fibre del secondo tipo si ha più frequentemente nelle miopatie di origine neurogena, e soprattutto nelle malattie del motoneurone. Un quadro morfologico per alcuni aspetti non sempre distinguibile dalla predominanza di un tipo di fibre muscolari è rappresentato dal cosiddetto raggruppamento tipologico, definito dalla presenza contigua di numerose fibre muscolari appartenenti allo stesso tipo, ed indicativo di una patologia cronica da denervazione (Fig. 34.7, B). Il raggruppamento tipologico corrisponderebbe ad un processo di reinnervazione di fibre muscolari, che hanno perso il loro precedente controllo neurale, da parte di altre fibre nervose contigue di tipo opposto, che a loro volta determinerebbero una modifica delle caratteristiche metaboliche ed istochimiche della fibra reinnervata, con il risultato di avere numerose fibre contigue dello stesso tipo, formanti appunto un raggruppamento tipologico. Un altro quadro di particolare interesse da un punto di vista istochimico è rappresentato dall’atrofia o dalla ipertrofia selettiva di un tipo di fibre muscolari. L’atrofia selettiva delle fibre di tipo II è un’alterazione comune a molte malattie con interessamento muscolare e può essere riscontrata in molte condizioni di sofferenza muscolare dovute a danno del primo motoneurone, nell’atrofia da non uso, nelle collagenopatie, nella miopatia iatrogena da corticosteroidi e nella miastenia gravis. L’atrofia selettiva delle fibre di tipoI è invece osservabile nella distrofia miotonica di Steinert ed in alcune miopatie congenite, quali la miopatia centronucleare e la miopatia con disproporzione congenita delle fibre (Fig. 34.7, C).
Nella forma infantile dell’atrofia muscolare spinale, una malattia genetica nella quale si assiste ad una progressiva degenerazione degli alfa-motoneuroni spinali, a livello della biopsia muscolare si ha un caratteristico quadro di grave atrofia con presenza di isolati gruppi di fibre ipertrofiche, generalmente tutte appartenenti al tipo I, indice di un tentativo di reclutamento da parte dei motoneuroni contigui rimasti ancora indenni (Fig. 34.7, D). Al di là della patologia dovuta ad una alterazione della distribuzione delle fibre, particolarmente riconoscibile con le ATPasi miofibrillari, l’indagine istochimica fornisce altri importanti contributi alla diagnosi delle malattie muscolari, permettendo di evidenziare alterazioni non evidenziabili con le comuni colorazioni istologiche. Con l’indagine istochimica è possibile verificare morfologicamente la presenza nel campione muscolare di alcune attività enzimatiche. Per esempio con la colorazione istochimica per la fosfatasi acida che, come è noto, è un enzima lisosomiale, si evidenzia un aumento di tale attività in quelle condizioni in cui vi sia un processo degenerativo in atto e quindi, in particolare, nelle distrofie muscolari (Fig. 34.7, E). Infine si può studiare con metodiche istochimiche la presenza o meno nel frammento bioptico di attività enzimatiche quali la fosforilasi, assente nella malattia di McArdle o glicogenosi tipo V, o la fosfofruttochinasi, assente nella glicogenosi tipo VII. Tra le più importanti metodiche istochimiche vi sono infine quelle per le attività ossidative quali la NADH tetrazolio-reduttasi, la succinico-deidrogenasi (SDH) e la citocromo-Cossidasi (COX). Con la colorazione per la NADH si possono evidenziare alcune figure morfologiche indicative da un punto di vista diagnostico, quali le “fibre mangiate dalle tarme” (“moth eaten fibers” degli autori anglosassoni) riscontrabili in molti casi di sofferenza muscolare primitiva e caratterizzate da una alterazione aspecifica della trama intermiofibrillare, le “fibre a bersaglio” osservabili soprattutto in forme di atrofia da denervazione, oppure
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le alterazioni descritte come “central core” caratteristiche dell’omonima miopatia congenita “central core” e caratterizzate da una mancanza di colorazione più o meno nella zona centrale della fibra (Fig. 34.7, F). Un’alterazione distributiva nella fibra muscolare delle colorazioni istochimiche per l’SDH e per la COX è indicativa di una miopatia mitocondriale. In particolare le già accennate fibre “ragged red” risulteranno molto intensamente colorate con l’SDH (Fig. 34.7, G). In molti casi, quali nella sindrome di Kearns-Sayre dovuta ad una delezione del DNA mitocondriali o nella cosiddetta sindrome MELAS (mitochondrial myopathy, encephalopathy, lactic acidosis, stroke) dovuta ad una mutazione del DNA mitocondriale) queste fibre, nelle quali vi è un’abnorme proliferazione mitocondriale, presenteranno una forte riduzione od anche un’assenza di attività COX (Fig. 34.7, H). INDAGINE IMMUNOISTOCHIMICA Con l’applicazione delle tecniche immunoistochimiche alla biopsia muscolare, a partire dalla fine degli anni 80, e grazie al notevole sviluppo negli ultimi anni delle tecniche geneticomolecolari, che hanno permesso l’identificazione di difetti genetici in molte malattie neuromuscolari ed il riconoscimento in molte di queste forme di uno specifico deficit proteico, è attualmente possibile una diagnosi eziologica di diverse malattie muscolari di origine genetica. Lo studio immunoistochimico si basa sul riconoscimento a livello tessutale di uno specifico antigene, attraverso una reazione antigene-anticorpo e ad un sistema di rilevazione che permetta di identificare la presenza o meno dell’antigene “in situ”. La tecnica maggiormente utilizzata è rappresentata dall’immunofluorescenza diretta od indiretta, che prevede l’utilizzo di un fluorocromo, generalmente la fluoresceina o la rodamina, a sua volta coniugato con un anticorpo primario o secondario che andrà a localizzarsi nella sede dell’antigene. Attraverso un microscopio dotato di fluorescenza sarà pertanto possibile localizzare la sede
dell’antigene e verificare l’eventuale deficit di espressione dello stesso. Attualmente è possibile, mediante tecniche immunoistochimiche, riconoscere l’espressione nel muscolo di numerose proteine responsabili di specifiche patologie muscolari. La condizione necessaria per eseguire uno studio immunoistochimico specifico per una malattia muscolare è rappresentata dal riconoscimento del difetto di una specifica proteina in tale forma e dalla disponibilità di anticorpi poli- o monoclonali contro quella proteina. Attualmente siamo in grado di riconoscere oltre 20 tra le più comuni forme di miopatie primitive mediante studi imunoistochimici. Molte proteine responsabili di miopatie primitive sono localizzate a livello della membrana sarcolemmale (v. Fig. 34.4), entrando a far parte di un complesso proteico costituito da diverse proteine direttamente od indirettamente legate fra di loro. La prima proteina che è stata riconosciuta quale causa di una malattia muscolare è stata la distrofina, identificata alla fine degli anni 80 quale prodotto del gene della Distrofia Muscolare di Duchenne (DMD) e di Becker (DMB), localizzato sul cromosoma Xp21. Lo studio immunoistochimico della biopsia muscolare dimostra che la distrofina, normalmente espressa a livello della membrana sarcolemmale, è assente nella DMD, mentre è ridotta di intensità nella DMB (Fig. 34.8, A-C). Essendo la distrofina codificata da un gene situato sul cromosoma X, la DMD si manifesta solamente nel maschio. Tuttavia nei rari casi di una portatrice manifesta di DMD, lo studio immunoistochimico della biopsia muscolare evidenzia un mosaico di fibre positive e negative per la distrofina (Fig. 34.8, D). INDAGINE ULTRASTRUTTURALE Un frammento della biopsia muscolare viene generalmente fissato in glutaraldeide al 2% e successivamente incluso in resina al fine di procedere allo studio ultrastrutturale. Le sezioni ultrafini ottenute all’utramicrotomo sono colorate con
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Fig. 34.8 - Immunofluorescenza per la distrofina su sezioni trasverse di muscolo. A: nel muscolo normale la distrofina è espressa a livello della membrana sarcolemmale; B: nella DMD la distrofina è assente; C: nella DMB la distrofina è ridotta di intensità; D: nella portatrice manifesta per la DMD la distrofina evidenzia un mosaico di fibre positive e negative.
citrato di piombo ed acetato di uranile ed esaminate al microscopio elettronico a trasmissione. Lo studio ultrastrutturale della biopsia muscolare permette di documentare l’integrità della struttura sarcomerica della miofibrilla muscolare, evidenziando i filamenti di actina e di miosina, la stria Z al centro della banda I e la linea M al centro della banda A. Inoltre permette di riconoscere l’integrità della membrana sarcolemmale e della lamina basale e la presenza delle strutture sub-sarcolemmali (Fig. 34.9, A). In particolare con la microscopia elettronica si potranno riconoscere alterazioni patognomoniche quali i corpi nemalinici, i corpi “riducenti”, le alterazioni caratteristiche dei “cores”. Inoltre sarà possibile documentare la proliferazione mitocondriale, caratteristica delle fibre “ragged red” (Fig. 34.9, B), e l’accumulo di materiale abnorme di natura lipidica o glicogeno-simile (Fig. 34.9, C).
L’applicazione di nuove tecnologie allo studio ultrastruturale, più propriamente utilizzate ai fini di ricerca che non ai fini diagnostici, permette tuttavia di acquisire informazioni utili anche ad una definizione diagnostica maggiormente approfondita. Per esempio, mediante utilizzo di una specifica colorazione con lantanio, che è un metallo particolarmente pesante ed elettrodenso, è possibile studiare l’organizzazione del sistema Ttubulare a livello sub-sarcolemmale, che può essere alterato in alcune miopatie primitive (Fig. 34.9, D). Con l’utilizzo di tecniche di criofratture applicate alla microscopia elettronica è inoltre possibile studiare la conformazione della membrana sarcolemmale ed evidenziare la presenza sulla stessa delle cosiddette caveole, che sono delle microinvaginazioni di 50-100 nanometri di diametro, che rappresentano una sorta di continuazione della membrana stessa (Fig. 34.9, E).
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Fig. 34.9 - Indagini ultrastrutturali su sezioni di biopsie muscolari. A: muscolo normale in sezione longitudinale: si evidenzia la banda I sarcomerica (linea continua), al centro della quale si trova la stria Z. Si noti la presenza dei tubuli t e la presenza di numerose caveole a livello sub-sarcolemmale. B: miopatia mitocondriale in sezione traversa, si rilevano numerosi mitocondri di dimensioni abnormi alternati a miofibrille; C: malattia di Danon, o glicogenosi lisosomiale con normale maltasi acida; in sezione longitudinale si evidenziano particolari vacuoli circondati da membrana, di verosimile origine lisosomiale; D: distrofia muscolare dei cingoli tipo 1C, mediante colorazione con lantanio si evidenzia una dilatazione ed una proliferazione dei tubuli T; E-F: mediante tecnica di criofratture si evidenzia la presenza di numerose caveole nella membrana del muscolo normale (E), mentre nella distrofia muscolare con difetto di caveolina-3 il numero delle caveole a livello della membrana appare quasi assente o molto ridotto (F).
Nella miopatia dei cingoli tipo 1C (LGMD1C) nella quale vi è una carenza di caveolina-3, che costituisce la componente proteica principale delle caveole, la significativa riduzione del numero delle caveole acquista un significato patognomonico (Fig. 34.9, F).
CONCLUSIONI Lo studio della biopsia muscolare comporta una serie di indagini tecnicamente complesse, che possono essere attuate solamente in centri altamente specializzati e devono comprendere l’insieme delle tecniche istologiche, istochi-
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miche, immunoistochimiche ed ultrastrutturali. La valutazione complessiva dei dati emergenti da tali indagini combinate rappresenta ancora oggi un mezzo formidabile per l’identificazione diagnostica delle malattie muscolari, fornendoci gli elementi di valutazione morfologica e le indicazioni evolutive prognostiche necessarie all’inquadramento clinico della malattia. È prevedibile infine che, in futuro, questa tecnica potrà indirizzare in modo mirato verso l’indagine geneticomolecolare, permettendo così un definitivo inquadramento eziologico della patologia in esame.
Distrofie muscolari Le distrofie muscolari (DM) costituiscono un ampio ed eterogeneo gruppo di miopatie geneticamente determinate, caratterizzate da progressivo deficit di forza e trofismo muscolare sulla base di un processo degenerativo primario del tessuto muscolare scheletrico. Sino a pochi anni or sono, la classificazione delle DM si basava sulle caratteristiche istologiche, cliniche (età di esordio, distribuzione topografica del deficit, modalità di evoluzione) e sulla modalità di trasmissione ereditaria delle malattie. L’identificazione del difetto genetico responsabile (a partire da quello della DM di Duchenne nel 1987) in un numero crescente di forme di DM ha progressivamente spostato il criterio classificativo da quello clinico a quello molecolare, nel tentativo di identificare ogni malattia attraverso la mutazione genica e la patogenesi molecolare al fine, non ancora completamente raggiunto, di definire una correlazione genotipo-fenotipo. Pazienti con difetti molecolari simili mostrano un’ampia differenza nella gravità clinica tuttora inspiegata. Pur rispettando il criterio di “malattia degenerativa, progressiva, geneticamente determinata” molte miopatie congenite e alcune miopatie mitocondriali non sono tradizionalmente considerate distrofie; al contrario, condizioni classicamente incluse nelle distrofie (come la distro-
fia miotonica) possono non essere in - senso stretto - “degenerative”. Anche la progressività del decorso è un criterio non sempre rispettato (per esempio in alcune forme di Distrofia muscolare congenita). Gli aspetti istologici caratteristici (Fig. 34.10) delle distrofie muscolari sono la notevole variazione della dimensione delle fibre, la divisione delle stesse, la migrazione centrale dei nuclei sarcolemmali talora disposti in catena lineare, aree di atrofia e di necrosi con fagocitosi del sarcoplasma necrotico, segni di rigenerazione abortiva (basofilia del sarcoplasma con ingrandimento dei nuclei sarcolemmali), l’iperplasia del tessuto connettivo interstiziale con infiltrazione di cellule adipose.
Fig. 34.10 - Quadro istologico della distrofia muscolare. Appaiono evidenti le cospicue variazioni del diametro delle fibre muscolari per la coesistenza di fibre muscolari ipertrofiche accanto a fibre atrofiche (A) di cui alcune in avanzata degenerazione, lo spostamento centrale dei nuclei del sarcolemma (B); l’aumento del connettivo interstiziale (C) con, in alcuni punti, ricchezza di elementi cellulari (D).
Distrofinopatie Le distrofinopatie sono quadri clinico-patologici la cui eziopatogenesi consiste in un difetto qualitativo o quantitativo di distrofina dovuto a mutazioni di un gene localizzato nel cromosoma X. Come in altre miopatie legate al cromosoma X (la forma principale della sindrome di EmeryDreyfuss, la sindrome di McLeod, la sindrome di Barth e la miopatia con eccessiva autofagia), la trasmissione è recessiva, per cui i maschi emi-
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zigoti si ammalano mentre le femmine eterozigoti sono normali o solo lievemente affette. Insieme alle sarcoglicanopatie (sottogruppo delle distrofie muscolari dei cingoli) le distrofinopatie fanno parte delle DM da deficit di proteine sarcolemmali. Il gene della distrofina, costituito da 2,4 milioni di paia di basi e 79 esoni, è stato localizzato (Monaco et al., 1986) nella banda 21 del braccio corto (p) del cromosoma X (posizione Xp21). La distrofina (Hoffman et al., 1987) è una proteina dal peso molecolare di 427 kD, composta da 3685 aminoacidi, localizzata nella regione subsarcolemmale, soprattutto in corrispondenza delle bande I e delle linee M del sarcomero. È presente in tutti i tre tipi di muscolo: scheletrico, cardiaco e liscio. Studi successivi al 1988 hanno documentato che altre proteine e glicoproteine con sede intracellulare, extracellulare e a livello della membrana sono associate alla distrofina costituendo un unico complesso, denominato “dystrophin-associated glycoprotein complex” (Ervasti e Campbell, 1991). Tale complesso comprende come componenti integrali, oltre alla distrofina (che con il dominio N-terminale si lega con la F-actina), i distroglicani a e b (legati da un lato al dominio, ricco in cisteina della distrofina e dall’altro al dominio G della laminina a2 o merosina della matrice extracellulare), le sintrofine (proteine intracellulari legate al dominio C-terminale della distrofina), e il complesso di quattro sarcoglicani (α, β, γ, δ), glicoproteine transmembrana, che interagisce con la distrofina a livello della superficie interna del sarcolemma. La funzione principale della distrofina è quella di operare un legame transarcolemmale tra citoscheletro subsarcolemmale e matrice extracellulare: fungendo da supporto strutturale per la membrana, ne assicura stabilità e flessibilità così come fa la spectrina nei confronti della membrana eritrocitaria. In tal modo il complesso distrofina-glicoproteine protegge la cellula muscolare dal danno indotto dalla contrazione. Ogni qual volta si verifichi una rottura od un’alterazione
funzionale del complesso distrofina-glicoproteine si determina una marcata instabilità sarcolemmale cui segue necrosi delle fibre muscolari. Tale condizione si verifica non solo nella DM di Duchenne (e nella forma più benigna di Becker), ma anche nelle sarcoglicanopatie. I fenotipi clinici di distrofinopatia includono: • distrofia muscolare di Duchenne (DMD), • distrofia muscolare di Becker (DMB), con la variante della miopatia dei quadricipiti, • sindrome con mialgie e crampi e della mioglobinuria ricorrente, • femmine portatrici sintomatiche di DMD, • miocardiopatie pure o associate a deficit della muscolatura prossimale • forme di iperCKemia Distrofia muscolare di Duchenne Epidemiologia e genetica - La distrofia muscolare di Duchenne (DMD) ha un’incidenza media di 1 su 3500 maschi nati vivi con una prevalenza di circa 50 casi per milione. Pur essendo un’affezione a trasmissione recessiva legata al cromosoma X, la DMD può esprimersi in femmine in caso di sindrome di Turner (genotipo XO), nelle portatrici “manifeste” e nei rari casi in cui il padre è affetto e la madre portatrice. Le mutazioni responsabili della mancata sintesi della distrofina sono soprattutto delezioni (evidenziabili con tecniche standard nei 2/3 dei casi) riguardanti esoni compresi tra il 43° ed il 52° (in particolare gli esoni 44 e 49). Le delezioni nella DMD comportano, nel 96 % dei casi, uno scorrimento della “cornice di lettura” (“frameshift mutation”). Le duplicazioni sono assai rare (limitate all’1-2% dei casi) così come le mutazioni puntiformi che, a causa della notevole dimensione del gene, non sono dimostrabili con le tecniche consuete. I 2/3 circa dei casi sono familiari, 1/3 origina da nuove mutazioni di cui il 10%-20% è costituito da mosaicismi gonadici. Sintomatologia - Anche se sin dalla nascita può essere presente un notevole aumento della CK serica, la malattia esordisce clinicamente tra i 3 e i 5 anni con iniziale interessamento della
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muscolatura pelvica cui ben presto segue quello della muscolatura del cingolo scapolare; il coinvolgimento dei muscoli prossimali e dei flessori del collo è comunque precoce. Il bambino presenta difficoltà nel camminare, nel salire le scale ed è soggetto a frequenti cadute; l’andatura da goffa diviene, per interessamento dei muscoli glutei, basculante (“andatura anserina”) e, per retrazione dei tendini di Achille, sempre più sulla punta dei piedi. Compaiono accentuazione della lordosi lombare, protrusione addominale ed il paziente, per assumere la stazione eretta quando si alza da terra, deve porre la propria mano sul ginocchio o, in casi di maggior compromissione, effettuare un’iniziale rotazione del tronco in posizione prona, quindi inginocchiarsi con le mani poste a terra per poi raddrizzare il tronco con l’aiuto delle mani appoggiate in tempi successivi, prima sulle gambe, poi sulle ginocchia, infine sulle por-
zioni media e superiore della coscia (segno di Gowers o dell’arrampicata). In alcuni casi il segno iniziale consiste in ipotonia muscolare. In circa il 90% dei pazienti vi è un ingrossamento della muscolatura dei polpacci (Fig. 34.11), talora dei deltoidi e dei quadricipiti, denominato “pseudoipertrofia”. Tale aspetto, che tende ad aumentare con l’età, nelle fasi precoci è determinato da una vera ipertrofia delle fibre muscolari, cui successivamente si sovrappongono aumento del tessuto connettivo e accumulo di grasso. Il decorso è rapidamente progressivo: la maggior parte dei casi diventa incapace di camminare tra i 10 e 12 anni di età. Con il sopravvenire dell’immobilizzazione (il bambino è rilegato alla sedia a rotelle) si sviluppano contratture muscolari (nell’ordine alle caviglie, anche, ginocchia), alterazioni scheletriche con deformità articolari e cifoscoliosi. Mentre alcuni bambini assumono un aspetto cachettico per la
Fig. 34.11 - Distrofia di Duchenne. Si noti l’ipotrofia della muscolatura del cingolo scapolare e delle cosce, contrastante con la pseudo-ipertrofia delle sure.
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progressione dell’atrofia, altri divengono obesi in misura marcata per la forzata immobilità. L’interessamento cardiaco è costante, ma non è dimostrabile nella fasi precoci della malattia. Nella maggioranza dei casi viene documentata la presenza di tachicardia sinusale, aritmie atriali, difetti di conduzione e, caratteristicamente, onde R di grande ampiezza nelle derivazioni precordiali destre associate a onde Q molto profonde nelle derivazioni degli arti e nelle precordiali sinistre. Possibile è il riscontro ecocardiografico di alterazioni della contrattilità della parete posterolaterale del ventricolo sinistro per un’estesa fibrosi Una condizione di insufficienza cardiaca è presente solo nelle fasi avanzate della malattia. Il quoziente intellettivo (QI) medio è più basso del 10% o in misura maggiore rispetto ai gruppi di controllo (in un terzo di pazienti il QI è inferiore a 75), con maggior compromissione ai tests che richiedono attenzione per informazioni verbali complesse; non esiste correlazione tra entità del danno muscolare e grado di deficit intellettivo. La morte in genere interviene per inanizione, complicazioni polmonari o insufficienza cardiaca verso la fine della seconda decade od anche nel corso della terza nei casi sottoposti a trattamento di supporto. Diagnosi - La diagnosi di certezza si ottiene ricercando la delezione nel gene della distrofina: l’analisi del DNA, effettuata con i metodi di polymerase chain reaction (PCR) nei linfociti del sangue periferico, può rapidamente individuare la delezione in pazienti sospetti. Quando l’alterazione genetica non risulta dimostrabile (30% dei casi) è necessario ricorrere alla biopsia muscolare per dimostrare l’assenza di distrofina con metodiche immunoistochimiche (sono disponibili idonei anticorpi monoclonali) e di immunoblotting. Il livello serico di CK può raggiungere valori superiori a 10.000 mU/ml ed è invariabilmente aumentato in misura marcata all’esordio della malattia, raggiungendo il picco nello spazio di uno o due anni per poi gradualmente scendere a valori quasi normali negli stadi avanzati. An-
che la mioglobina ed altri enzimi (aldolasi, transaminasi, lattico-deidrogenasi) sono sensibilmente aumentati. Il reperto bioptico muscolare è caratterizzato, oltre che dall’assenza di distrofina, dalla presenza di fibre di diversa dimensione, fibrosi, gruppi di fibre basofile e fibre opache e “ipercontratte” accanto a foci di necrosi e miofagia; contrassegno istologico della malattia è la presenza di fibre ialine, frapposte a fibre necrotiche ed a fibre in rigenerazione. Lo studio EMG mette in evidenza le tipiche alterazioni miopatiche, compresa la presenza di potenziali di fibrillazione originanti o da fibre muscolari separate dalla loro innervazione per effetto della necrosi segmentale o da fibre muscolari in rigenerazione. Terapia - La terapia fisica, in genere iniziata all’età di 3-4 anni, potrà prolungare la fase ambulatoriale della malattia mediante il ricorso, non a programmi di esercizio attivo (inutili quando il bambino cammina ancora), ma all’impiego di idonei tutori ed a provvedimenti chirurgici mirati. Così l’uso sistematico, peraltro non sempre ben tollerato, di tutori notturni è più efficace dello stiramento passivo nel prevenire le contratture del tendine di Achille; il confezionamento di bendaggio rigido all’arto inferiore (ortosi ginocchiopiede) può aiutare a ridurre le cadute causate dal deficit del quadricipite. Lo scopo della chirurgia è quello di mantenere l’arto inferiore in estensione e di prevenire contratture della fasce ileotibiali e dei flessori dell’anca. Una procedura chirurgica utile a ritardare la perdita della deambulazione consiste nelle tenotomie percutanee dei tendini di Achille, dei flessori del ginocchio e dell’anca e delle fasce ileotibiali. Le tecniche di stabilizzazione del rachide, con conseguente miglioramento della funzione respiratoria, sono indicate per correggere la scoliosi con curvature superiori ai 35 gradi. Nelle fasi tardive della malattia sono necessarie terapie di supporto e la respirazione va opportunamente assistita. Studi prospettici randomizzati, controllati in doppio cieco, hanno dimostrato nei pazienti af-
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fetti da DMD l’efficacia di due corticosteroidi (prednisone e deflazacort) nel migliorare la funzione respiratoria, aumentare la forza prolungando da 2 a 3 anni la possibilità di deambulare. Il prednisone viene somministrato alla dose di 0,75 mg/kg/dì; il deflazacort a quella di 0,9-1,2 mg/kg/dì. Il preciso meccanismo di azione di questi farmaci non è noto. Sono in corso promettenti tentativi di terapia genica. Dall’attuale mancata disponibilità di una terapia specifica discende l’importanza della prevenzione da attuarsi con l’identificazione delle portatrici e la diagnosi prenatale. Tuttavia, poiché in un terzo dei casi la malattia origina da una nuova mutazione, la DMD non può essere eliminata neanche con la totale identificazione delle portatrici e da un completo controllo degli embrioni o dei feti. Se la mutazione è già nota, la diagnosi prenatale, condotta nel nascituro a rischio con l’analisi del DNA su amniociti o villi coriali, ha una accuratezza vicina al 100%. Nel caso che la mutazione non sia nota è necessario procedere all’analisi di associazione genetica individuando i polimorfismi noti adiacenti o interni al gene DMD sia nel parente affetto che negli altri componenti della famiglia, in particolare nella madre. In tal modo la ricostruzione dell’aplotipo dei membri affetti permette di riconoscere il cromosoma portatore del gene mutato nei soggetti a rischio. Sfortunatamente, la certezza di questa analisi indiretta non raggiunge mai il 100% per la possibilità di ricombinazione tra i marcatori analizzati o all’interno del gene mutato. Distrofia muscolare benigna di Becker (BMD) Descritta per la prima volta nel 1955, è una variante allelica della DMD, in cui mutazioni dello stesso gene producono una ridotta quantità di distrofina che, risultando alterata (“troncata”), non è in grado di mantenere l’integrità del sarcolemma. Le mutazioni, tuttavia, sono diverse da quelle responsabili della DMD: solo nel 16% dei casi si tratta di mutazioni “frameshift”, mentre nella maggioranza (70%) dei
pazienti vengono rinvenute delezioni “in frame”. Ad oggi sono state identificate più di 70 mutazioni puntiformi; le nuove mutazioni sono rare. Nella BDM le mutazioni riguardano esoni compresi tra il 45° e 55°; la prevalenza di delezioni del tipo “in frame” fa sì che la distrofina non sia assente (come nella DMD) ma presente, seppure in quantità ridotta ed in forma alterata (“troncata”); le mutazioni vicine al dominio Nterminale comportano quadri clinici più gravi. Il danno e la conseguente perdita di fibre muscolari avviene più lentamente rispetto alla DMD e pertanto il quadro clinico è meno grave. Sebbene l’incidenza della BMD sia da un quinto ad un decimo rispetto a quella della DMD, la prevalenza è più alta sia per la storia naturale (più benigna) sia perché gli uomini affetti sono capaci di procreare, con conseguente possibilità di trasmissione dai maschi affetti ai nipoti attraverso le figlie che sono portatrici obbligate. L’ipertrofia muscolare, le contratture e la distribuzione del deficit sono simili a quelli della DMD, ma l’esordio è più tardivo, di solito tra i 5 e i 25 anni di età (occasionalmente nella quarta decade ed oltre) ed il decorso è più lento: il deficit dell’andatura non inizia mai prima dei 15 anni, potendo comparire anche a 80 anni. La durata della vita può risultare nella norma. I crampi e i dolori muscolari, soprattutto ai polpacci, in rapporto ad esercizio sono precoci, frequenti e più marcati rispetto alla DMD. L’interessamento cardiaco (al pari del deficit intellettivo) è meno frequente rispetto alla DMD, ma può essere marcato in alcune famiglie e talora clinicamente evidente già nelle fasi precoci della malattia, precedendo la comparsa del deficit muscolare. La diagnosi differenziale si propone soprattutto con l’atrofia spinale muscolare (dovuta ad alterazione del cromosoma 5), con cui in passato la BMD veniva spesso confusa:in tal senso l’analisi del DNA e la quantificazione della distrofina risultano determinanti. Gli accertamenti diagnostici e l’approccio terapeutico sono identici a quelli impiegati per la DMD.
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Portatrici sintomatiche di DMD In una malattia X-legata, quale la DMD, le femmine eterozigoti sono portatrici talora sintomatiche. Le portatrici sane sono distinte in obbligate, probabili e possibili. Sono considerate portatrici “obbligate” femmine con un figlio affetto ed una precedente storia familiare positiva; portatrici “probabili” femmine con due o più figli affetti senza una precedente storia familiare positiva; mentre madri di un solo figlio affetto e senza precedente storia familiare sono considerate portatrici “possibili”, così come lo sono sorelle o parenti femmine (da parte materna) di un paziente di DMD se prive di figli affetti. Accanto alle portatrici sane sono state descritte portatrici sintomatiche in cui, per una manacata inattivazione del cromosoma X, si crea deficienza di distrofina. In questi soggetti compare, con esordio tra i 16 e 48 anni, deficit di forza a decorso progressivo, da lieve a marcato, con distribuzione in genere prossimale e asimmetrica e prevalente interessamento degli arti superiori (limitazione dell’abduzione della spalla e della flessione del gomito), configurando un quadro clinico simile a quello di una lieve BMD. L’uso combinato della determinazione dell’attività serica di CK unitamente alla biopsia muscolare e all’esame EMG ha consentito in passato l’individuazione della condizione di portatrice sana o sintomatica in un’elevata percentuale di casi. Lo studio del DNA ed il test della visualizzazione immunoistochimica della distrofina consentono oggi una puntuale individuazione delle femmine portatrici. Miocardiopatie pure o associate a deficit della muscolatura prossimale L’interessamento cardiaco è comune nella DMD e nella BMD: l’ECG è alterato nel 60% dei casi all’età di 10 anni e nella stragrande maggioranza, al pari dell’ecocardiogramma, all’età di 18 quando, nel 57% dei casi, la cardiopatia diviene sintomatica. Esiste inoltre una condizione di cardiomiopatia dilatativa, associata a lieve o modesto
coinvolgimento della muscolatura scheletrica prossimale, ad andamento progressivo e fatale, che si manifesta tra la seconda e terza decade di vita. Il livello serico di CK è notevolmente aumentato ed è stata dimostrata l’assenza di distrofina nel muscolo cardiaco. Una grave forma di cardiomiopatia è stata correlata con una alterazione dell’esone 1 e del promotore. Forme di iperCKemia Pazienti con aumento asintomatico della CK sono stati trovati affetti da mutazione del gene della distrofina. Questo quadro clinico, corredato da alterazioni EMG o morfopatologiche rientrerebbe nella “iperCKemia idiopatica”. Sindromi crampiche e mialgiche Sono stati descritti diversi pazienti che presentavano, con esordio nell’adolescenza, intolleranza all’esercizio, dolore muscolare, forza normale o quasi, occasionale rabdomiolisi e livello ematico di CK persistentemente aumentato (da 2.000 a 20.000 mU/ml). Sembra che difetti della zona centrale della distrofina si associno frequentemente con questo quadro clinico.
Distrofia muscolare di Emery-Dreifuss È una miopatia progressiva di cui si descrive una forma legata al cromosoma X (XEDMD) e, con minor frequenza, una forma autosomica dominante (AD-EDMD). Poiché, nonostante la diversa base genetica, le due forme sono clinicamente quasi indistinguibili tra loro, è stato introdotto il termine di sindrome di Emery-Dreyfuss a indicare la comune espressione clinica. Il gene (STA) per la forma X-EDMD, localizzato nel cromosoma Xq28, codifica per l’emerina, proteina transmembrana posta sulla superficie interna della membrana nucleare; le mutazioni del gene dell’emerina più frequentemente riscontrate sono mutazioni puntiformi (49%) seguite da piccole delezioni (33%) che
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spesso comportano codoni di stop. Un caso su 10 è dovuto ad una nuova mutazione. La X-EDMD, la cui incidenza è valutata circa 1:100.000, è una forma relativamente benigna che esordisce all’inizio dell’adolescenza. Il quadro clinico è caratterizzato dalla triade: 1) contratture precoci (spesso presenti prima della comparsa del deficit di forza) al ginocchio, al tendine di Achille e alla muscolatura cervicale posteriore con successivo interessamento di tutta la muscolatura dorsale del tronco e limitazione dell’antiflessione; 2) deficit del trofismo muscolare e della forza lentamente progressivo, bilaterale, con distribuzione predominante omeroperoneale e successiva estensione alla muscolatura dei cingoli; 3) difetti di conduzione cardiaca (varianti dalla bradicardia sinusale, aumento dell’intervallo P-R al completo blocco cardiaco). L’interessamento cardiaco, in genere già presente all’età di 30 anni, rappresenta l’aspetto più grave della malattia potendo condurre ad una cardiomiopatia generalizzata. Nei soggetti a rischio è fondamentale il monitoraggio elettrocardiografico (registrazione Holter) anche al fine di una eventuale applicazione di pacemaker. Il riscontro di alterazioni cardiache in età avanzata può rappresentare l’unica manifestazione clinica in femmine portatrici che possono andare incontro a morti improvvise. Non sembra esistere una stretta correlazione tra genotipo e fenotipo: infatti, anche in presenza della stessa mutazione, la variabilità intra- e inter-famigliare del quadro clinico è notevole. I rari casi (secondari a mutazione “missense”) in cui la proteina è presente, seppure in quantità ridotta, presentano un fenotipo meno grave. Il ritardo mentale non rientra fra gli aspetti della malattia. La concentrazione serica di CK è normale o moderatamente aumentata. Il quadro bioptico muscolare può essere di tipo francamente distrofico ma spesso non presenta alterazioni di rilievo; in almeno il 95% dei casi descritti è stata documentata perdita completa dell’emerina nel muscolo, cute, cellule esfoliative orali e leuco-
citi. L’EMG può risultare indicativa di miopatia, ma non contribuisce significativamente alla diagnosi. La diagnosi differenziale si pone nei confronti della sindrome della colonna rigida e della distrofia scapolo-peroneale. Come in altre distrofie, il trattamento è basato su provvedimenti generali quali limitazioni delle deformità e conservazione della funzione respiratoria. Purtroppo la prevenzione delle contratture (non dovute, come in altre distrofie, all’immobilizzazione) è assai difficoltosa e l’approccio chirurgico è di scarso aiuto. Il gene (LMNA) per la forma AD-EDMD, localizzato nel cromosoma 1 (1q21), codifica attraverso uno “splicing” alternativo per due proteine chiamate lamine A e C che, come l’emerina, sono localizzate sulla superficie interna della membrana nucleare. Al momento le mutazioni del gene LMNA nell’AD-EDMD non possono essere colte con tecnica istochimica, così come avviene per l’emerina. Il quadro clinico è sovrapponibile a quello della forma X-EDMD: rispetto a quest’ultima l’interessamento isolato cardiaco è più frequente, l’insorgenza di fibrillazione ventricolare e la cardiopatia dilatativa più comuni.
Miopatia X-legata con eccessiva autofagia È dovuta a mutazioni del cromosoma Xq28 localizzabili in un locus prossimo a quello correlato con la miopatia di Emery-Dreyfuss. La malattia esordisce nella maggior parte dei casi tra i 5 e i 10 anni con lieve e simmetrico deficit di forza, prevalente agli arti inferiori, con distribuzione tipo cingoli, in assenza di ipertrofia muscolare, interessamento cardiaco e del SNC. Il decorso è assai lento. La CK serica è aumentata (da 2 a 10 volte la norma), l’EMG è espressivo di danno miogeno, la biopsia muscolare rivela eccessiva attività autofagica delle fibre muscolari che non presentano necrosi.
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Sindrome di Barth (cardiomiopatia dilatativa X-legata) Dovuta a mutazioni del gene G4-5, situato nel cromosoma Xp28, che codifica per proteine denominate tafazzine, è allelica con la cardiomiopatia dilatativa 3A (infantile fatale X-legata). L’esordio avviene nell’infanzia con ipotonia e cardiomiopatia che compare prima dei 6 mesi di vita. La miopatia è relativamente lieve, non progressiva, con ritardato sviluppo motorio, riduzione delle masse muscolari, interessamento della muscolatura facciale, andatura anserina, segno di Gowers; coesistono ridotta capacità di apprendimento ed immunodeficienza. L’interessamento cardiaco è molto più grave di quello muscolare scheletrico per cui pochi pazienti sopravvivono sino all’età adulta.
Miopatia di McLeod La sindrome di McLeod, dovuta ad alterazione di un gene (XK) localizzato nel cromosoma Xp21, è uno dei diversi disturbi neuromuscolari associato ad acantocitosi. È caratterizzata da miopatia, movimenti coreiformi, aumento della concentrazione serica di CK, emolisi persistente dovuta ad assenza della proteina codificata dalla membrana eritrocitaria; coesistono neuropatia periferica, cardiomiopatia ed atrofia del nucleo caudato evidenziata con la MRI. I reperti della biopsia muscolare sono simili a quelli osservabili nelle distrofie muscolari.
Distrofie dei cingoli Le distrofie muscolari dei cingoli (LGMD) derivano il loro dal termine “limb-girdle muscular dystrophy” introdotto nel 1954 da Walton e Natrass per definire quadri caratterizzati da progressivo deficit di forza e di trofismo con prevalente interessamento della muscolatura dei
cingoli pelvico e scapolare, risparmio della muscolatura cardiaca e di quella a innervazione bulbare, aumento della CK serica, aspetti miopatici all’EMG e alla biopsia muscolare. Per molti anni la diagnosi di LGMD è stata una diagnosi di esclusione: in particolare venivano escluse miopatie su base metabolica e mitocondriale, miopatie con trasmissione legata al cromosoma X (oggi definite distrofinopatie) e la distrofia facio-scapolo-omerale. Nell’ultima decade la situazione è profondamente cambiata: anche se la diagnosi per esclusione mantiene la sua importanza, oggi esiste la possibilità di una precisa diagnosi molecolare. Quando è diventato evidente che l’eterogeneità clinica all’interno delle LGMD è grande e che diversi ed indipendenti sono i loci identificati è nata una nuova classificazione basata sugli aspetti molecolari che, tra l’altro, ha comportato l’abbandono di designazioni come “Distrofia muscolare autosomica recessiva grave dell’adolescenza (SCARMD)” che, dopo l’identificazione del suo locus, è stata incorporata nelle LGMD. La variabilità nel difetto genetico, negli aspetti clinici e nel tipo di ereditarietà non consente una descrizione succinta di queste complesse miopatie. Oggi si descrivono due gruppi principali di distrofie muscolari dei cingoli: le LGMD1, meno frequenti, ad ereditarietà dominante, e le LGMD2, a trasmissione autosomica recessiva. Sono state riportate anche rare forme X-legate. Forme autosomiche dominanti (AD-LGMD) Diversi geni sono stati riconosciuti responsabili di queste forme che, descritte peraltro in una o in poche famiglie, ammontano a non più del 10% di tutte le forme di LGMD. Un importante aspetto distintivo rispetto alle più frequenti forme recessive è il minor aumento della concentrazione serica di CK; oltre alla tipica distribuzione del deficit di forza, vengono segnalate alterazioni cardiache nelle LGMD1B e LGMD1D e disartria con anticipazione clinica nella LGMD1A.
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LGMD1A – Osservata in una unica grande famiglia, è dovuta a mutazioni del gene della miotilina con sede nel cromosoma 5q22.3q31.3. La miotilina è una proteina sarcomerica, localizzata nella linea Z, che si lega alla actina. L’età media di esordio è 27 anni, con anticipazione da 13 a 18 anni nella generazione successiva. L’ipostenia agli arti superiori è sempre associata a quella degli arti inferiori, l’interessamento distale è tardivo nell’ambito di una lenta progressione. Altri aspetti fenotipici sono rappresentati da disartria secondaria a deficit della muscolatura del palato, da contratture articolari alla caviglia, riduzione dei riflessi profondi rotulei ed achillei. La CK è aumentata (da 1,6 a 9 volte), l’EMG e la biopsia muscolare rivelano aspetti miopatici ma l’esame immunocitochimico dimostra normali livelli di miotilina. LGMD1B – È una forma dovuta a mutazioni del gene LMNA della laminina A/C situato nel cromosoma 1q11-q21. Alterazioni in domini diversi dello stesso gene originano malattie, da considerarsi varianti alleliche: la forma autosomica dominante della sindrome di Emery-Dreifuss, la cardiomiopatia dilatativa con blocchi A-V (CMDIA), la lipodistrofia familiare parziale (Sindrome di Köbberling-Dunningan). L’esordio, compreso fra i 4 e 38 anni, in genere avviene prima dei 20 anni. Il fenotipo è caratterizzato da ipostenia simmetrica della muscolatura prossimale degli arti inferiori con difficoltà a correre e salire le scale; l’interessamento degli arti superiori è tardivo. A differenza della sindrome di Emery-Dreifuss le contratture sono assenti o tardive e comunque limitate al gomito ed al tendine di Achille. La cardiomiopatia è presente nel 62% dei casi con disturbi della conduzione atrio-ventricolare, bradicardia, attacchi sincopali, possibilità di morte cardiaca improvvisa e, occasionalmente, cardiomiopatia dilatativa. La concentrazione di CK è normale o lievemente aumentata; al-
l’EMG e alla biopsia muscolare si evidenziano modesti segni miopatici. LGMD1C – È dovuta a mutazioni (missense e microdelezioni) del gene CAV3, situato nel cromosoma 3p25, che codifica per la caveolina 3; varianti alleliche sono la rippling muscle disease e casi di iperCKemia sporadica. La caveolina 3 è una proteina caveolinica specifica del muscolo, probabilmente coinvolta nella transduzione di segnali, localizzata nel sarcolemma dove forma un complesso con la distrofina e le glicopropteine associate con quest’ultima. È possibile che le mutazioni interferiscano con l’oligomerizazione della caveolina 3 che risulta in tal modo presente in quantità ridotta. L’esordio della malattia è intorno ai 5 anni con dolori muscolari crampiformi scatenati da attività motoria, lieve o moderata ipostenia prossimale e ipertrofia dei polpacci; talora la sintomatologia è più lieve sino a casi asintomatici ma con aumento della CK. I dati di laboratorio principali sono costituiti da aumento della CK (da 4 a 25 volte), da un reperto miopatico alla biopsia e, soprattutto, da una ridotta quantità di caveolina 3 documentabile con tecniche di immunocolorazione dei campioni bioptici. LGMD1D – È legata ad alterazione del cromosoma 6q23, ma il prodotto genico resta ancora sconosciuto. A causa del significativo coinvolgimento cardiaco che la caratterizza il suo nome originario era “Cardiopatia dilatativa familiare con difetti di conduzione e distrofia muscolare”. L’esordio avviene nella seconda decade o in quelle successive, l’ipostenia ha distribuzione prossimale associata ad occasionale ipertrofia dei polpacci. Il segno più precoce di interessamento cardiaco si evidenzia a 20-25 anni ed è costituito dall’insorgenza di aritmie, mentre l’insufficienza congestizia cardiaca insorge nella IV-V decade. La capacità deambulatoria è conservata per tutta la vita. Il livello serico della CK è 2-4 volte la norma e risulta più facilmente aumentato nei maschi.
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LGMD1E – È dovuta ad alterazione del cromosoma 7q, ma anche in questo caso il prodotto genico è ancora sconosciuto. Esordisce nell’età adulta con maggior compromissione ai muscoli prossimali degli arti superiori, contratture e disfagia (20% dei casi). La CK è aumentata tre volte rispetto alla norma, la biopsia muscolare evidenzia aspetti miopatici. Miopatia di Bethlem – Si tratta di una miopatia autosomica dominante che, forse a causa di difficoltà classificative, viene descritta accanto alle forme autosomiche dominanti di LGMD. È dovuta a mutazioni in uno dei tre geni (COL6A1, COL6A2 e COL6A3) che codificano per subunità del collagene VI (proteina della matrice extracellulare); i primi due geni sono stati localizzati sul cromosoma 21q22.3, il terzo sul cromosoma 2q37. Mutazioni del gene COL6A2 causano anche la distrofia muscolare congenita scleroatonica di Ullrich. L’età di esordio è variabile, dal periodo neonatale alla VI decade di vita, ma in genere collocato intorno ai 2 anni. E’ una miopatia non grave, caratterizzata da ipostenia ed atrofia diffuse, a prevalenza prossimale, comunemente associate a contratture articolari multiple (precoci le contratture in flessione alle ultime quattro dita), in assenza di ipertrofia muscolare ed interessamento cardiaco. Il valore serico di CK è normale o lievemente aumentato. Forme autosomiche recessive (AR-LGMD) Ad oggi almeno nove diversi geni (LGMD2A-LGMD2I) sono stati riconosciuti responsabili di queste forme; tutti i prodotti genici sono stati identificati tranne che per le forme LGMD2H e LGMD2I. CALPAINOPATIA (LGMD2A) – È il tipo più comune delle forme autosomiche recessive di LGMD (9% di tutti i casi). È dovuta a mutazioni del gene CAPN3, situato nel cromosoma 15q15.1-q21.2, che codifica per la proteina calpaina 3, una proteasi calcio-sensibile. L’età
di esordio varia dai 2 ai 45 anni, con una mediana di 14. Il fenotipo caratteristico è quello di un atrofia muscolare con precoce interessamento pelvico, relativo risparmio degli adduttori dell’anca (i pazienti hanno difficoltà a correre con tendenza a camminare sulle dita), presenza di scapola alata e lassità addominale per interessamento dei retti addominali; il ricorso alla sedia a rotelle si verifica da 10 a 30 anni dall’esordio. Possono coesistere, precocemente, contratture e scoliosi e può essere presente un lieve ritardo mentale; non è segnalato coinvolgimento cardiaco. La CK serica è aumentata da 7 a 80 volte il livello normale. L’immunocolorazione per la calpaina non è sempre affidabile per cui la diagnosi di certezza si raggiunge solo testando direttamente la mutazione. DISFERLINOPATIA (LGMD2B) – È dovuta a mutazioni del gene DYSF, situato nel cromosoma 2p13, che codifica per la disferlina, proteina di membrana, ritenuta essenziale per il mantenimento dell’integrità strutturale del sarcolemma. Identiche mutazioni, anche all’interno della stessa famiglia, possono causare verosimilmente per l’azione di geni modificatori - la miopatia di Miyoshi (v. pag. 1451), una rara miopatia distale. L’esordio è stato descritto tra i 12 e i 39 anni. Il quadro clinico, pur nell’ambito di una consistente variabilità intra e interfamigliare, è solitamente meno grave rispetto ad altre forme di AR-LGM e consiste in una ipostenia prossimale che inizia agli arti inferiori e successivamente (in media dopo 9 anni) si estende a quelli superiori. La progressione è lenta; solo circa il 10% dei pazienti ricorre alla sedia a rotelle. La CK serica è assai elevata (10 – 72 volte la norma). A causa della grande dimensione (55 esoni) del gene sono state identificate poche mutazioni, per cui la diagnosi è basata sull’analisi della disferlina effettuata con la tecnica del western immunoblot su campioni bioptici muscolari. Peraltro l’assenza completa di disferlina è diagnostica, di per sé, di disferlinopatia: l’analisi
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dei dati clinici consentirà di distinguere tra LGMD2B e miopatia di Miyoshi. Pazienti con diagnosi di polimiosite, che non rispondono agli steroidi, devono essere valutati come possibili disferlinopatici. SARCOGLICANOPATIE (LGMD2C, 2D, 2E, 2F) – L’esistenza di questo gruppo come entità fisiopatologica separata è stata per lungo tempo posta in dubbio per la sovrapponibilità del quadro clinico con quello di altre patologie (BMD, portatrici sintomatiche di DMD, miopatie metaboliche e mitocondriali, atrofia muscolare spinale). Le sarcoglicanopatie derivano da mutazioni di geni codificanti per quattro differenti sarcoglicani (proteine associate alla distrofina), rispettivamente γ (LGMD2C, cromosoma 13q12), α (LGMD2D, cromosoma 17q12-q2133), β (LGMD2E, cromosoma 4q12), δ (LGMD2F, cromosoma 5q33-q34). La mutazione di uno di questi geni comporta una perdita parziale o totale del complesso eterotetromerico costituito dai sarcoglicani in associazione con la distrofina e i distroglicani. L’entità di compromissione del tetramero sarcoglicanico è direttamente proporzionale alla gravità del quadro clinico; anche l’età di esordio correla (inversamente) con il danno biochimico, variando da 3 a 15 anni (media 8 anni) per i soggetti con completa deficienza, dall’adolescenza alla prima età adulta quando il deficit è parziale. Gli individui affetti presentano ipostenia prossimale, variante da una limitazione funzionale con crampi per intolleranza allo sforzo ad una marcata difficoltà a camminare e correre: nei casi più gravi si ricorre alla sedia a rotelle intorno ai 15 anni. Può essere presente pseudoipertrofia dei polpacci. Due sono i fenotipi principali: uno con un quadro Duchenne-simile, il secondo ricorda la BMD ad esordio tardivo. La forma più frequente è la α-sarcoglicanopatia (LGMD2D, chiamata anche in passato “adalinopatia”), diffusa in tutto il mondo, con una sintomatologia costituita da difficoltà a correre, salire le scale, crampi e intolleranza
allo sforzo; obiettivamente quadricipite e tricipite surale sono interessati in eguale misura, a differenza di quanto accade nelle distrofinopatie dove prevale l’interessamento del quadricipite. L’interessamento degli arti superiori non è presente all’esordio, ma successivamente può comparire scapola alata di grado più evidente di quello osservato nelle distrofinopatie. Nella maggioranza dei casi non vi sono segni di cardiopatia. La CK serica è assai elevata (oltre 5.000 U.I). La β-sarcoglicanopatia è, per frequenza, la seconda sarcogliconopatia. Un effetto fondatore è stato osservato in Italia. Oltre al fenotipo tradizionale (spesso grave, con esordio dai 3 ai 10 anni, ricorso alla sedia a rotelle entro 25 anni, marcato aumento della CK), recentemente è stato descritto un quadro clinico con ricorrenti episodi di mioglobinuria indotti da attività fisica. La γ-sarcoglicanopatia (LGMD2C) corrisponde alla “Distrofia muscolare autosomica recessiva grave dell’adolescenza (SCARMD)”. È una forma prevalente nei paesi arabi del Nord Africa e del Medio Oriente, forse in relazione alla diffusa consanguineità. La malattia presenta aspetti sovrapponibili a quelli della DMD ma, rispetto a questa, interessa entrambi i sessi; il fenotipo può essere anche più lieve con aspetti compresi tra quelli della DMD e della BMD. L’età media di esordio è 5 anni. Il deficit di forza prevale nei settori prossimali, con risparmio del quadricipite; ipertrofia dei polpacci e cardiopatia sono occasionali. I livelli serici di CK sono assai elevati. Nei casi gravi la perdita della capacità deambulatoria interviene tra i 10 e 13 anni di età. La δ-sarcoglicanopatia (LGMD2F) è la sarcoglicanopatia meno comune; indipendentemente dalla mutazione identificata, il fenotipo è sempre grave: l’esordio avviene tra i 2 e i 10 anni, la perdita della capacità deambulatoria tra i 9 e 16 anni, la morte tra i 9 e 19 anni. Il livello serico di CK è aumentato da 10 a 50 volte la norma.
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L’analisi di campioni bioptici muscolari con anticorpi specifici per i singoli sarcoglicani è diventato lo strumento diagnostico principale: se si usa una batteria completa di anticorpi è possibile effettuare nelle donne la diagnosi differenziale tra LGMD e stato di portatrici di DMD. A differenza di quanto avviene nella calpainopatia e nella disferlinopatia si può avere una riduzione anche della distrofina (di entità peraltro inferiore alla gravità del fenotipo) così come la maggior parte di pazienti con distrofinopatia presentano deficit parziale di sarcoglicani. TELETONINOPATIA (LGMD2G) – È dovuta a mutazioni di un gene, localizzato nel cromosoma 17q11-12, codificante per una proteina sarcomerica denominata teletonina, apparentemente localizzata nel disco Z del muscolo striato adulto. I casi descritti, che appartengono solo a famiglie brasiliane, manifestano un ampio spettro di variabilità clinica inter- ed intrafamiliare. L’età di esordio varia da 9 a 15 anni (media 12 anni). L’ipostenia è marcata ed interessa sia i settori prossimali che quelli distali ove si può evidenziare il fenomeno del “footdrop” (caduta del piede). La CK è aumentata da 3 a 30 volte. Può coesistere una cardiopatia. La diagnosi si fonda sull’assenza della teletonina in campioni bioptici muscolari documentata dall’immunofluorescenza e dall’analisi Western Blot. Alle sette forme di autosomiche recessive di LGMD sopradescritte vanno aggiunte: a) la LGMD2H, descritta nelle popolazioni di Manitoba, dovuta a mutazioni del gene TRIM32 collocato nel cromosoma 9q31-33, esordisce tra gli 8 e i 27 anni con ipostenia prossimale agli arti inferiori e successivo interessamento anche agli arti superiori (trapezio e deltoide) e lenta progressione (la capacità deambulatoria è conservata a lungo), e b) la LGMD2I, osservata in Tunisia, legata ad alterazioni del cromosoma 9q13-3, con esordio tra i 2 e i 27 anni, coinvolgimento solo prossimale sia degli arti supe-
riori (prevalente) che di quelli inferiori, ipertrofia dei polpacci. In queste due forme la CK serica può variare da valori normali a valori assai elevati.
Distrofie muscolari congenite Il temine di “distrofie muscolari congenite” (CMD) si riferisce a un gruppo eterogeneo di miopatie, a trasmissione autosomica recessiva che, per l’insieme delle loro caratteristiche, non rientrano in altre categorie di distrofia muscolare (quali distrofinopatie e LGMD). I sintomi sono in genere già presenti alla nascita, il decorso clinico è variabile e il quadro istologico muscolare ricalca quello tipico delle distrofie muscolari progressive. All’anamnesi spesso risulta riduzione dei movimenti fetali; il quadro clinico alla nascita è quello di una grave ipotonia generalizzata seguita da atrofia muscolare e deficit di forza, a distribuzione simmetrica e prevalentemente prossimale, associati a contratture muscolari diffuse che, unitamente ad alterazioni articolari, concorrono a determinare un aspetto artrogriposico. Può coesistere ritardo mentale di entità variabile. Le CMD si differenziano dalle “miopatie congenite (CM)”, oltre che per l’aspetto istopatologico muscolare (gli aspetti degenerativo-necrotici sono assenti), per l’elevato livello di CK e per l’interessamento del SNC. La recente identificazione dei difetti genici ha fatto intravedere anche per queste forme la possibilità di una classificazione genetico-molecolare. CMD DA DEFICIT DI LAMININA α2 – Il gene (LAMA2) responsabile della malattia è stato localizzato nel cromosoma 6q22-23 e codifica per la α 2 laminina. La catena pesante α 2 (chiamata anche merosina) unitamente alle catene leggere β1 e γ forma il complesso eterotrimerico glicoproteico della laminina 2 (laminina specifica della membrana basale della fibra muscolare
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adulta, così come della cellula di Schwann). Circa il 50% dei pazienti diagnosticati affetti da CMD hanno un deficit primario della catena α2 della laminina. Il deficit di α2 laminina, che in condizioni normali serve da ligando all’α-distroglicano del complesso distrofina-glicoproteine, altera l’ancoraggio extracellulare di quest’ultimo: da ciò si evince che la patogenesi di questa forma di CMD è assai simile a quella delle distrofinopatie e delle LGMD. La malattia (CMD1A) esordisce alla nascita o nei primi mesi di vita con ipotonia e grave deficit di forza agli arti e tronco; frequentemente sono presenti marcate contratture (alle caviglie e, nelle forme più gravi, anche, ginocchia, gomiti) e la disabilità è elevata. Malgrado la presenza di alterazioni (ipomielinizzazione) della sostanza bianca documentate dalla risonanza magnetica in immagini T2-pesate, la maggior parte dei pazienti non presenta deficit intellettivo; nel 20% dei casi sono riportate crisi epilettiche. Può coesistere una neuropatia documentata dalle indagini elettrofisiologiche. La gravità clinica correla con l’entità dell’alterazione di base. La CK è elevata, specie nelle prime fasi di malattia. La diagnosi si basa sulla dimostrazione, effettuata mediante anticorpi specifici, di alterazioni dell’α 2 laminina su campioni bioptici muscolari o cutanei. Sono state descritte anche forme pure di CMD non connesse al gene dell’a2 laminina che si manifestano con una sintomatologia analoga a quella della CMD1A in assenza di ritardo mentale o segni di interessamento del SNC. Tra le forme di CMD merosina-deficienti non legate al cromosoma 6q rientra una variante (CMD1B) in cui è stato evidenziato deficit secondario di merosina, posto in rapporto ad alterazione del cromosoma 1q42, caratterizzata sul piano clinico da ipostenia prossimale, ipertrofia muscolare generalizzata, rigidità della colonna e grave coinvolgimento diaframmatico. Recentemente è stato trovato un nuovo locus genico (RSMD1) sul cromosoma 1p35-36 responsabile di una forma particolare di CMD non-merosina defi-
ciente con rigidità precoce della colonna, scoliosi e insufficienza respiratoria. La rigidità della colonna (in passato era stato proposto il termine di “sindrome della colonna rigida”) non è, tuttavia, specifica di questa condizione, ma rappresenta un aspetto importante nelle forme di distrofia muscolare di Emery-Dreifuss ed è stata riportata nella miopatia nemalinica ed in altre miopatie congenite. CMD DA MUTAZIONE DELL’INTEGRINA α-7 – Le integrine sono una famiglia di recettori cellulari transmembrana eterodimerici che mediano l’associazione tra la matrice extracellulare e le proteine del citoscheletro. L’integrina α7β1 è il principale recettore legato alla laminina. Il gene dell’integrina α-7 è localizzato nel cromosoma 12q13. Il quadro clinico comporta ipotonia, ritardo delle tappe motorie, ipostenia prossimale; la CK è lievemente aumenta, la risonanza magnetica fornisce un reperto encefalico normale. DISTURBI MUSCOLO-OCULO-ENCEFALICI – Comprendono tre forme: la CMD di Fukuyama, la malattia di Walker-Warburg e la malattia muscolo-oculo-encefalica. La CMD di Fukuyama (FCMD) è la forma più nota e rappresenta la seconda forma di distrofia muscolare dell’infanzia e una delle più comuni malattie autosomiche recessive in Giappone, dove l’incidenza è di 7-12/100.000. Il gene responsabile della malattia è stato individuato nel cromosoma 9q31-33 e codifica per una proteina extracellulare denominata fukutina. La FCMD è caratterizzata dall’associazione di distrofia muscolare congenita e disgenesia corticale (sotto forma di micropoligiria ed altre alterazioni). Il deficit di forza e l’ipotonia generalizzata compaiano solitamente prima dei nove mesi di vita, le tappe motorie sono ritardate: la maggior parte dei pazienti non impara a camminare, diviene confinata a letto per l’atrofia muscolare e le contratture articolari entro i 10 anni e muore intorno a 20 anni. Il ritardo mentale, pre-
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sente in tutti i pazienti, è marcato (QI compreso tra 30 e 50). In metà dei casi si verificano crisi comiziali e si riscontrano alterazioni EEG. I sintomi oculari, relativamente lievi, includono miopia, cataratta, alterazione dei movimenti oculari, atrofia ottica, ipoplasia retinica. La CK serica è moderatamente aumentata. La malattia di Walker-Warburg (WWS) e la malattia muscolo-oculo-encefalica (MEB) si caratterizzano anch’esse per interessamento del SNC e per la coesistenza, in misura maggiore rispetto alla FCMD, di malformazioni oculari. La MEB, presente soprattutto in Finlandia, è dovuta ad alterazioni del cromosoma 1p32-p34 e si caratterizza per ipotonia neonatale, lento sviluppo motorio, grave ritardo mentale e disturbi oculari quali glaucoma, displasia retinica, cataratta giovanile. Le alterazioni encefaliche consistono in pachiria, agiria e polimicrogiria. I potenziali evocati visivi sono di ampiezza nettamente aumentata. La WWS non è stata ancora geneticamente definita ed è la più grave tra le tre forme, conducendo al decesso entro i primi 2 anni di vita. DISTROFIA MUSCOLARE CONGENITA SCLEROATONICA DI ULLRICH – È una forma di CMD caratterizzata da contratture prossimali, lassità distale, rigidità della colonna vertebrale e complicanze respiratorie. Al pari della miopatia di Bethlem è dovuta a mutazioni del gene COL6A2, situato sul cromosoma 21q22.3 (Mercuri et al., 2002), che codifica per la subunità a2 del collagene VI (proteina della matrice extracellulare).
Altre distrofie muscolari autosomiche dominanti Distrofia muscolare facio-scapolo-omerale (FSH) Epidemiologia e genetica – Ha una prevalenza di 1-5 per 100.000 abitanti ed una incidenza di 1:20.000; per la sua frequenza nella pratica
ambulatoriale è la terza forma di distrofia muscolare, dopo la DM di Duchenne e la distrofia miotonica. La trasmissione è autosomica dominante nel 70%-90% dei casi; la mutazione sporadica si osserva nel 10%-30% dei casi. Il gene è stato localizzato (Wijmenga et al., 1990) nella porzione distale del braccio lungo del cromosoma 4 (4q35) dove il 95%-98% dei pazienti presenta un frammento corto di DNA. Tale frammento, situato all’estremo opposto della sede del gene responsabile della malattia di Hungtinton, deriva da una delezione di entità variabile di una sequenza DNA ripetuta di 3,3 kb. Il prodotto genico non è ancora stato identificato. La dimensione della delezione del cromosoma 4q35 è correlata con la gravità clinica: delezioni più grandi causano frammenti corti più piccoli ed espressioni fenotipiche più gravi. Nel 5%-10% delle famiglie la FSH non è legata al cromosoma 4q35. La malattia compare in entrambi i sessi, trasmessa sia dai maschi che dalle femmine affetti. In alcune famiglie esiste una apparente preferenza sessuale: i maschi sono più frequentemente sintomatici, la penetranza all’età di 30 anni è del 95% per i maschi e del 69% per le femmine, nei maschi l’esordio è più precoce e il deficit dell’estensione del piede è più comune. Sintomatologia - Fino a un terzo dei soggetti è asintomatico e l’espressione fenotipica è assai variabile anche all’interno della stessa famiglia. La malattia può esordire dall’infanzia all’età adulta, tipicamente nella seconda o terza decade; il 90% dei pazienti sintomatici presentano ipostenia all’età di 20 anni. L’esordio infantile (2% dei casi) si associa con una ipostenia facciale più grave e diffusa e presenza di deficit sensoriali (udito e vista) più frequente. L’interessamento della muscolatura facciale, solitamente il segno più precoce e predominante, si manifesta con incapacità a gonfiare un pallone e a bere attraverso una cannuccia, tendenza a dormire con gli occhi semiaperti. La facies è tipica: il sorriso appare appiattito e trasversale
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per il deficit del risorio e il risparmio del platisma, le labbra, a riposo, sono protruse con conseguente atteggiamento della bocca (“bocca di tapiro”). Il deficit muscolare all’arto superiore ha una distribuzione simile a quello della distrofia scapolo-omerale, con maggior compromissione del bicipite, tricipite, serrato anteriore, pettorale, estensori del polso e risparmio del deltoide (talora persino pseudoipertrofico) e dei flessori dell’avambraccio. In particolare, nell’adduzione degli arti si può evidenziare il segno della scapola alata dovuto al deficit dei fissatori della scapola. A differenza di quanto indicato nel nome, anche la muscolatura degli arti inferiori è compromessa per la presenza di ipostenia della muscolatura dell’anca e del quadricipite femorale e, soprattutto, del tibiale anteriore con caduta bilaterale del piede; inoltre è possibile osservare pseudoipertrofia dei polpacci. Contratture muscolari e deformità scheletriche sono rare anche se, nei pochi casi a rapida evoluzione, si può determinare una marcata accentuazione della lordosi lombare. Il decorso è tipicamente caratterizzato da una lenta progressione “discendente” del deficit (faccia ➛ arto superiore ➛ arto inferiore). Tranne che nei casi ad esordio precoce, la distrofia muscolare facio-scapolo-omerale di rado porta ad una grave invalidità prima della quarta o quinta decade (solo il 20% dei pazienti viene costretto all’uso della sedia a rotelle) ed è in genere compatibile con una durata normale della vita. I casi ad esordio precoce, oltre a presentare marcata ipostenia con incapacità alla deambulazione intorno ai 9-10 anni, spesso presentano anche una sordità percettiva ed una associazione con teleangiectasia essudativa o distacco della retina (malattia di Coat). Nei casi con le delezioni più ampie esiste un interessamento del SNC sotto forma di ritardo mentale (89% dei casi) e di epilessia (40% dei casi). La concentrazione serica di CK può essere normale (25% dei casi) o aumentata sino a 5 volte la norma, così come l’EMG può risultare
normale o dimostrare alterazioni di tipo miopatico. La biopsia muscolare (raramente necessaria) mostra lievi alterazioni distrofiche associate a tipiche fibre atrofiche angolate o rotonde; in alcuni casi può essere presente un cospicuo essudato infiammatorio simile a quello della polimiosite. La diagnosi differenziale va posta nei confronti di miopatie congenite (nemalinica, centronucleare), delle sindromi scapolo-peroneali, della malattia di Emery-Dreifuss, della miopatia prossimale miotonica (PROMM), della miopatia associata a malattia di Paget, e di una variante della stessa FSH, indicata come FSH1B (ipostenia prossimale, deficit facciale, scapola alata, assenza di infiammazione muscolare). Il ritrovamento del frammento corto conferma la diagnosi. La diagnosi prenatale e presintomatica oggi è possibile nel 98% dei casi. Distrofia muscolare oculofaringea La distrofia muscolare oculofaringea (OPMD) è una miopatia lentamente progressiva caratterizzata da esordio tardivo (oltre i 40 anni), trasmissione autosomica dominante a penetranza quasi completa ed espressione variabile, ptosi palpebrale, disfagia e deficit della muscolatura prossimale degli arti. Riconosciuta in tutto il mondo, anche se con distribuzione geografica disomogenea, prevale nella popolazione canadese di lingua francese. La base genetica dell’OPMD è stata recentemente identificata (1998) nel cromosoma 14q11.2-q13 e consiste nella espansione stabile di una tripletta GCG nell’esone 1 del gene codificante per una proteina legante poliadenilato (PABP2). A differenza di altre malattie da espansione trinucleotidica, nell’OPMD l’espansione numerica di GCG è modesta (da 6 a 8-13) e con relativa stabilità durante la meiosi (per cui non si osserva il fenomeno dell’anticipazione). In Canada sono state descritte anche famiglie a trasmissione autosomica recessiva legate ad una condizione di omozigosi per il polimorfismo con sette replicazioni GCG.
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All’esordio la sintomatologia consiste in ptosi palpebrale (spesso asimmetrica) e disfagia; successivamente si instaura limitazione progressiva dei movimenti dei globi oculari e, con frequenza minore, dei muscoli facciali, masticatori, linguali, laringei ed anche dei muscoli del tronco e prossimali degli arti inferiori (71%) e superiori (38%). Il coinvolgimento degli arti appare in rapporto con il numero maggiore di triplette. La ptosi palpebrale è solitamente tale da richiedere intervento chirurgico correttivo (61% dei pazienti), mente la disfagia può interferire con la nutrizione e richiedere dilatazione esofagea o gastrostomia percutanea solo nel 22% dei pazienti. La concentrazione serica di CK può essere normale o solo leggermente aumentata; la biopsia muscolare rivela eccessiva variabilità della dimensione delle fibre, aumento della fibrosi endomisiale, vacuoli basofili citoplasmici “orlettati” simili a quelli della miosite a corpi inclusi e, all’esame ultrastrutturale, inclusioni filamentose intranucleari ritenute specifiche dell’OPMD. L’OPMD va differenziata dalla miopatia oculofaringodistale, malattia con cui condivide taluni aspetti (esordio tardivo, trasmissione autosomica dominante, presenza di ptosi, disfagia e d ipostenia agli arti) ma da cui si differenzia per la distribuzione distale del deficit motorio, il maggior interessamento della muscolatura oculomotoria, l’assenza di inclusioni intranucleari filamentose ed il differente meccanismo genetico. Distrofia scapolo-peroneale La sindrome scapolo-peroneale non è un’entità ben definita. Gli aspetti clinici (ipostenia della muscolatura scapolare e peroneale) possono sovrapporsi a quelli della FSHD e delle LGMD. Una distribuzione scapolo-peroneale del deficit è stata riportata anche nella distrofia di Emery-Dreifuss, nel deficit di maltasi acida e nella miopatie centronucleare e nemalinica. In altri pazienti la sintomatologia scapoloperoneale ha una chiara origine neurogena, come nella Neuropatia periferica scapolo-peroneale o sindrome di Davidenkow. Attualmente si de-
scrivono alcuni quadri di distrofie muscolari sia a trasmissione autosomica dominante (Distrofia muscolare scapolo-peroneale tipo 1 – legata al cromosoma 12q13.5-q15 – e tipo 2) che X-legata (Distrofia muscolare scapolo-peroneale con ritardo mentale e cardiomiopatia letale). Distrofia oculare Il termine “distrofie oculari” appartiene alla vecchia letteratura. All’interno di questo gruppo la forma più nota era la malattia di Kiloh e Nevin (1951), con presunto interessamento selettivo della muscolatura oculare esterna, con ptosi e oftalmoplegia progressiva, in generale senza diplopia. Oggi si ritiene che un interessamento isolato della muscolatura oculare sia del tutto improbabile e che si inserisca nel contesto di quadri quali la distrofia oculofarigea e le miopatie mitocondriali (vedi pag. 1482).
Miopatie distali Le miopatie distali sono un gruppo di disturbi genetici, eterogeneo sul piano clinico ed anatomopatologico, in cui i muscoli distali degli arti Tabella 34.4 - Altre miopatie con deficit distale. Distrofia miotonica Distrofia facio-scapolo-omerale Distrofia oculofaringea Miopatia (sindrome) scapolo-peroneale Distrofia di Emery-Dreifuss Teletoninopatia (LGMD2G) Miopatie infiammatorie Miosite a corpi inclusi Polimiosite Miopatie metaboliche Deficit di enzima deramificante Deficit di maltasi acida Deficit di fosforilasi b chinasi Miopatia da accumulo di lipidi Miopatie congenite Miopatia nemalinica Miopatia central core Miopatia centronucleare
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superiori o inferiori sono colpiti selettivamente o in misura sproporzionata. Vengono descritte in questo capitolo perché la maggior parte di esse sono in realtà distrofie muscolari ereditarie. È importante ricordare che l’interessamento distale, anche se meno frequente rispetto a quello prossimale, è presente in altre forme di miopatie (Tab. 34.4). Sul piano istologico molte delle miopatie distali sono caratterizzate dalla presenza di vacuoli “orlettati” autofagici e di inclusioni tubulofilamentose per cui, secondo alcuni, ricadono anche nel capitolo delle “miopatie ereditarie a corpo inclusi”. Mancano stime certe dell’incidenza e della prevalenza per la maggior parte di queste malattie. Miopatia distale a esordio adulto tardivo tipo 1 (Miopatia distale di Welander) Forma ad ereditarietà autosomica dominante, considerata come la più comune delle miopatie distali ma quasi solamente osservata in Svezia ed in certe zone della Finlandia, è caratterizzata da ipostenia iniziale nei settori distali degli arti superiori (tipicamente, gli estensori delle dita e del polso), con esordio in genere nella quinta decade (media 45 anni, range 3077). Con il progredire della malattia vengono interessati anche i muscoli flessori delle dita e del polso con successiva diffusione al settore distale anteriore degli arti inferiori (deficit dell’estensione dell’alluce e della caviglia); l’interessamento prossimale è assai raro, anche in fase tardiva. I riflessi profondi sono conservati ad eccezione degli achillei che scompaiono con il tempo. Non è stato descritto coinvolgimento cardiaco. La progressione del deficit è lenta, con limitata invalidità e normale durata di vita. I livelli di CK sono normali o lievemente aumentati (2-3 volte la norma). La conduzione nervosa è normale ma l’esame elettromiografico può mettere in evidenza, oltre al più frequente quadro miopatico, anche un quadro misto miopatico-neurogeno che, insieme al reperto di lievi alterazioni alla biopsia del nervo surale, suffraga l’ipotesi che i pazienti con miopatia di Welander
possano avere anche una neuropatia asintomatica, da prevalente danno delle fibre di piccolo diametro. La biopsia muscolare rivela aspetti distrofici con nuclei centrali, splitting delle fibre ed aumento di tessuto connettivo; alcune fibre muscolari possono presentare vacuoli “orlettati” e filamenti citoplasmici e nucleari. La miopatia di Welander è stata associata al cromosoma 2p13, vicino allo stesso locus identificato per la miopatia distale di Miyoshi e della LGMD2B, forme considerate tra loro alleliche, che condividono nella proteina disferlina il gene responsabile. Non esistono, tuttavia, prove che consentano di ritenere che anche la miopatia di Welander sia dovuta a una mutazione di tale gene. Miopatia distale a esordio adulto tardivo tipo 2 (Miopatia distale di Markesbery-GriggsUdd) È anch’essa una forma ad ereditarietà autosomica dominante, descritta in famiglie francesi e inglesi (Markesbery, Griggs et al., 1974) e finlandesi (Udd et al., 1993). Il difetto genico è stato localizzato nel cromosoma 2q31-33 e sembra coinvolgere la titina, una proteina cui è stato attribuito un ruolo importante nell’assemblaggio e nell’integrità del sarcomero. La sintomatologia ha inizio, dopo i 40 anni, con deficit di forza nel compartimento anteriore della gamba; la lenta progressione porta dapprima all’interessamento della muscolatura distale degli arti superiori e solo tardivamente dei muscoli prossimali dei quattro arti. Nei casi descritti da Udd l’interessamento degli arti superiori e dei settori prossimali è infrequente e, in ogni modo, tanto lieve da meritarsi il nome di “distrofia muscolare tibiale”. Alcuni Autori distinguono la miopatia distale a esordio adulto tardivo tipo 2 in due forme: tipo 2A (Markesbery-Griggs) e tipo 2B (Udd), considerate tra loro alleliche. I livelli di CK sono normali o lievemente aumentati (3-4 volte la norma). L’EMG evidenzia un quadro miopatico. La biopsia muscolare mo-
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stra un processo distrofico con presenza di vacuoli “orlettati” in misura maggiore rispetto alla miopatia di Welander. Miopatia distale a esordio adulto precoce tipo 1 (Miopatia distale di Nonaka) Inizialmente ritenuta limitata al Giappone, è stata descritta anche nel Nord America, Sud Africa ed in Italia. L’ereditarietà è autosomica recessiva; studi genetici hanno mostrato un legame con il cromosoma 9p1-q1. La malattia esordisce nella seconda-terza decade (in media all’età di 25 anni) con “caduta del piede” ed andatura steppante da deficit dei flessori dorsali della caviglia e degli estensori delle dita. Può essere presente piuttosto precocemente anche ipostenia distale agli arti superiori, peraltro poco accentuata; nelle fasi più avanzate compare ipostenia prossimale con relativo risparmio del quadricipite. Spesso è presente deficit della muscolatura cervicale. È stato descritto un quadro di blocco cardiaco completo, causa di sincope, che richiede il ricorso al pacemaker. La maggior parte dei pazienti è confinata sulla sedia a rotella entro 10-15 anni dall’inizio della malattia. I livelli di CK sono aumentati (3-4 volte la norma). L’EMG evidenzia un quadro miopatico. La biopsia muscolare mostra un quadro di miopatia vacuolare in cui la abbondante presenza di vacuoli “orlettati” si associa ad aspetti distrofici. I vacuoli autofagici costituiscono un aspetto istologico importante nella diagnosi differenziale dalla miopatia di Miyoshi, ma va notato che i vacuoli sono considerati un aspetto distintivo anche di altre forme di miopatia che includono, oltre alla miopatia di Nonaka, anche la distrofia oculofaringea (peraltro con un differente tipo di filamenti intranucleari), le forme sporadica e familiare di miopatie a corpi inclusi, la miopatia di Welander e la miopatia miofibrillare. Inoltre gli aspetti clinici, di laboratorio e istologici della miopatia di Nonaka sono simili a quelli osservati nella “miopatia vacuolare con risparmio dei quadricipiti” e nella “miopatia familiare a corpi inclusi”; è verosimile che queste tre miopatie,
tutte legate al cromosoma 9p1-q1, rappresentino forme tra loro alleliche. Miopatia distale a esordio adulto precoce tipo 2 (Miopatia distale di Miyoshi) Inizialmente descritta in Giappone, è stata successivamente segnalata anche nei paesi occidentali. Forma a ereditarietà autosomica recessiva, è causata da mutazioni del gene per la disferlina, situato nel cromosoma 2p13, ovvero le stesse mutazioni che causano una delle forme (LGMD2B) di distrofia muscolare dei cingoli, con variabilità fenotipica all’interno della stessa famiglia, verosimilmente per azione di geni modificatori. Al contrario delle altre miopatie distali, l’ipostenia nella miopatia di Miyoshi inizia, tra i 15 e i 30 anni, nel compartimento posteriore della gamba, con atrofia dei gastrocnemi, per cui i pazienti denunciano difficoltà a salire le scale e a camminare sulla punta dei piedi. Può coesistere dolore ai polpacci ed i riflessi achillei sono assenti. L’esordio può essere asimmetrico. Successivamente si ha anche interessamento del compartimento anteriore della gamba e, con il progredire della malattia, anche dei settori prossimali degli arti inferiori (in particolare dei flessori del ginocchio) e degli arti superiori (parziale interessamento del bicipite). L’entità della compromissione appare correlata con la durata della malattia piuttosto che con l’età di esordio; circa un terzo dei pazienti necessita della sedia a rotelle dopo 10 anni di malattia. A differenza dalle altre miopatie distali, i livelli serici di CK sono marcatamente aumentati (20-150 volte la noma). L’EMG può evidenziare, accanto potenziali di unità motoria di tipo miopatico, anche potenziali di durata aumentata. La biopsia muscolare rivela alterazioni distrofiche senza vacuoli. Miopatia distale a esordio adulto precoce tipo 3 (Miopatia distale di Laing) Nel 1995 Laing et al. descrissero una nuova miopatia distale (denominata anche MPD1), con esordio tra i 4 e i 25 anni, ad ereditarietà autoso-
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mica dominante, caratterizzata da ipostenia nel compartimento anteriore della gamba e dei muscoli flessori del collo e, successivamente, da deficit degli estensori delle dita agli arti superiori. I livelli serici di CK sono aumentati sino a tre volte la norma, la biopsia muscolare mostra aspetti miopatici senza vacuoli. Gli studi genetici hanno dimostrato associazione con il cromosoma 14q11. Miopatia distale con deficit delle corde vocali e del faringe Feit et al. (1998) hanno descritto una famiglia numerosa con una miopatia ad ereditarietà autosomica dominante (denominata anche MPD2) caratterizzata da ipostenia distale ai quattro arti (all’inizio è in genere coinvolta la muscolatura della loggia anteriore della gamba) associata a debolezza delle corde vocali e del faringe. L’esordio varia da 35 a 57 anni (media 45); il deficit delle corde vocali e del faringe compare solitamente dopo quello agli arti. I livelli serici di CK sono normali o lievemente aumentati. Alla biopsia muscolare si riscontra la presenza di vacuoli “orlettati” senza inclusioni nucleari. Lo studio genetico ha rivelato associazione con il cromosoma 5q31. Desminopatie La desmina è un filamento proteico intermedio presente in tutti i tipi di fibra muscolare il cui ruolo è quello di mantenere l’integrità strutturale e funzionale delle miofibrille connettendo i dischi Z alla membrana plasmatica. La presenza di una eccessiva quantità di desmina nelle fibre muscolari è stata riportata in varie miopatie che presentano, tra gli altri, anche il fenotipo distale: per questa ragione la maggior parte degli autori inserisce la descrizione di queste forme nel capitolo delle miopatie distali; altri autori descrivono queste miopatie all’interno delle miopatie congenite con corpi inclusi, al pari della miopatia nemalinica. La desmina non è l’unica proteina muscolare che si accumula in queste miopatie ma la de-
gradazione miofibrillare è il denominatore comune di queste forme per cui è stato introdotto il termine di “miopatia miofibrillare” in sostituzione di quello di “miopatia da accumulo di desmina” o simili. Gli aspetti clinici sono eterogenei e verosimilmente la miopatia miofibrillare comprende diverse entità. L’inizio deficitario molto spesso interessa la muscolatura delle gambe ma in alcuni pazienti può avvenire nelle mani o al collo. Frequentemente sono colpiti anche i settori prossimali e i muscoli a innervazione bulbare (faringei e respiratori). Una cardiomiopatia (blocchi di conduzione, scompenso cardiaco congestizio) è presente nel 50% dei casi, talora anche in assenza di segni neuromuscolari. L’EMG mostra un quadro miopatico, talora anche neurogeno. Il livello serico di CK è normale o aumentato sino a 5 volte la norma. L’esordio può verificarsi a qualsiasi età, di solito tra i 25 e i 45 anni. La trasmissione è di solito autosomica dominante, anche se vi sono segnalazioni di famiglie con trasmissione autosomica recessiva. Anche i dati genetici sono eterogenei: si descrivono forme da alterazioni della desmina, dominanti o recessive, legate al cromosoma 2q35, forme da alterazioni della ab-cristallina, dominanti, legate al cromosoma 11q22.3-q23.1 ed una forma con cardiomiopatia ventricolare destra aritmogenica, dominante, legata al cromosoma 10q22.3. Miopatie ereditarie a corpi inclusi (HIBM) Di questo tipo di miopatie vengono attualmente descritte tre forme, incluse sempre nell’ambito delle miopatie distali. Miopatia ereditaria a corpi inclusi tipo 1 (HIBM1): forma autosomica dominante, con esordio tra i 25 e i 40 anni caratterizzato da deficit della dorsiflessione del piede seguito da precoce interessamento del quadricipite. La CK serica è normale o lievemente aumentata. Miopatia ereditaria a corpi inclusi tipo 2 (HIBM2): è una forma recessiva, considerata allelica con la Miopatia distale a esordio adulto precoce tipo 1 (Miopatia distale di Nonaka),
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dovuta a mutazione di un gene (GNE) localizzato nel cromosoma 9p12-p11. L’espressione, tipica in famiglie iraniane-Jewish, comporta esordio nella II-III decade, con precoce compromissione della muscolatura peroneale e successivo interessamento di altri gruppi muscolari, anche prossimali ed anche a livello degli arti superiori, ma con risparmio del quadricipite. Miopatia ereditaria a corpi inclusi tipo 3 (HIBM3): forma autosomica dominante con oftalmoplegia e contratture articolari di entità variabile, dovuta a mutazioni del gene per la catena pesante, tipo IIa, della miosina, legata al cromosoma 17p13.1 Le contratture rappresentano il dato clinico dominante alla nascita (presenti nel 75% dei neonati) con progressiva risoluzione nel corso dello sviluppo. Al contrario l’oftalmoplegia, limitata nell’infanzia ad una lieve paresi dello sguardo verso l’alto, diviene completa nell’adulto. Il deficit di forza è più marcato nei settori prossimali dei quattro arti interessati in uguale misura. Terapia Diversi protocolli farmacologici sono stati impiegati nelle distrofie muscolari senza apprezzabili risultati. In attesa che la terapia genica risulti praticabile, l’unica forma di trattamento resta il ricorso all’esercizio fisico e l’applicazione di tutori ortopedici. L’esercizio fisico appare in grado di rallentare la progressione del deficit e di ritardare la comparsa delle contratture. Non va trascurato il trattamento delle concomitanti patologie cardiache e respiratorie per cui può rendersi necessario ad esempio, in pazienti con sindrome di Emery-Dreifuss, il ricorso all’installazione di pacemaker e/ o alla fisioterapia respiratoria.
Miopatie congenite Si tratta di un gruppo di miopatie non ben definite, caratterizzate clinicamente da un esordio per lo più precoce (nel periodo neonatale o nella
prima fanciullezza), ipotonia muscolare generalizzata ed ipostenia di entità variabile, andamento in genere scarsamente progressivo, alterazioni morfologiche di diverso tipo. Si differenziano dalle distrofie muscolari congenite per l’assenza di alterazioni necrotiche o degenerative, per il modesto aumento serico della CK e per l’assenza di interessamento del SNC. In passato queste forme erano incluse nella “ipotonia congenita benigna”, termine, introdotto da Walton (1956) in sostituzione di quello di “amiotonia congenita” (Oppenheim, 1890), che può essere ragionevolmente conservato per quelle forme in cui l’ipotonia non è dovuta ad una specifica alterazione delle fibre muscolari o a lesioni del SNC che, peraltro, sono la causa più comune di ipotonia congenita. Nei casi dovuti a danno cerebrale l’ipotonia in genere è con il tempo rimpiazzata da ipertonia associata a ritardo dello sviluppo intellettuale; alla biopsia muscolare può essere osservata atrofia selettiva delle fibre di tipo II, aspetto ritenuto non indicativo di una lesione muscolare primaria. Per il resto il reperto bioptico, al pari di quello EMG, è nella norma, così come il livello serico di CK. Con il passare del tempo lo sviluppo motorio avviene normalmente. Come “ipotonia congenita con predominanza delle fibre di tipo I” viene descritto un disturbo simile: i soggetti, in cui i riflessi profondi possono essere assenti, raggiunta l’età dell’adolescenza, presentano minor agilità. Le cause neuromuscolari più comuni di iponia-ipostenia congenita sono, oltre alle miopatie congenite, le distrofie muscolari congenite, l’esordio congenito di distrofie muscolari che abitualmente insorgono nell’età adulta (distrofia miotonica, distrofia facio-scapolo-omerale), sindromi miasteniche e sindromi neuropatiche (atrofia muscolare spinale, neuropatia ipomielinizzante congenita). Il quadro clinico delle miopatie congenite è quello del cosiddetto “bambino che cade” (floppy child) contrassegnato da ipotonia muscolare, ritardo più o meno marcato dello sviluppo
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motorio, ipotrofia muscolare e deficit di forza prossimali o generalizzati agli arti, diminuzione o assenza dei riflessi profondi. L’esordio precoce è la regola con riduzione o assenza dei movimenti fetali nei casi più gravi (miopatia nemalinica, miopatia miotubulare X-legata) che possono richiedere ventilazione meccanica e alimentazione tramite sondino nasogastrico. Più spesso, i pazienti presentano già al primo anno di vita ipotonia, ipostenia (in genere diffusa o prossimale) e ritardo nelle tappe motorie. Sono elementi comuni del quadro clinico un grave deficit dei muscoli mimici, palato ogivale con parola nasale, ipo-arefelessia profonda; ptosi e lieve oftalmoparesi sono possibili; le funzioni intellettive sono in genere normali. Lievi miopatie congenite possono non dare segni di se fino all’età adulta. L’interessamento cardiaco è infrequente nelle miopatie congenite (tranne che in quella nemalinica) a differenza dalle complicanze polmonari di cui la pneumopatia restrittiva è la forma più comune. L’esame EMG e la determinazione del livello serico della CK non risultano determinanti, mentre lo studio istochimico ed ultrastrutturale di campioni bioptici muscolari è in genere dirimente. La classificazione di queste forme è sempre stata problematica, sia per il loro numero crescente (oggi se ne contano una quarantina), sia per la possibile marcata variazione fenotipica all’interno delle famiglie o per esordio tardivo o per una prognosi più grave di quella consueta. Una possibile classificazione delle miopatie congenite è quella che fa riferimento al tipo di alterazioni morfologiche grossolanamente distinte in quattro categorie: 1) alterazioni di strutture intrinseche, specie del sarcomero (ad esempio, central core miopatia e minicore miopatia); 2) inclusioni anomale all’interno della fibra derivanti o no da strutture preesistenti; 3) alterazione della posizione dei nuclei (miopatia miotubulare e miopatia centronucleare); 4) alterazioni istochimiche in assenza di anomalie strutturali (ad esempio, congenita disproporzione del
tipo di fibra o congenita uniformità del tipo di fibra).
Miopatie da alterazione di strutture intrinseche al sarcomero Malattia con alterazione centrale della fibra (“Central core disease”) È la prima miopatia congenita descritta (Shy e Magee, 1956). La malattia, trasmessa con modalità autosomica dominante a penetranza variabile (anche se casi sporadici non sono rari), è caratterizzata dalla presenza al centro della fibre esclusivamente di tipo I di ben demarcati, non in rapporto con la membrana, “cores” (foci) privi di mitocondri e di reticolo sarcoplasmico e deficitari di enzimi ossidativi. La malattia è associata con mutazioni del recettore rianodinico (RYR1), localizzato sul cromosoma 19q13.1. Le mutazioni di questo gene, codificante per il canale di rilascio di calcio nell’accoppiamento eccitazione-contrazione, sarebbero la spiegazione della suscettibilità all’ipertemia maligna (v. pag. 1468) osservata nella maggioranza dei casi di questa miopatia. La suscettibilità all’ipertemia maligna è peraltro condivisa da altri cinque distinti loci, oltre alla localizzazione 19q13.1. Gli aspetti clinici più tipici sono deficit prossimale della forza (più marcato agli arti inferiori), ipotonia muscolare dalla nascita, assenza dei riflessi profondi, ritardo delle acquisizioni motorie; può coesistere modesto interessamento della muscolatura facciale e cervicale, mentre l’oculomozione è sempre indenne. Possibili i crampi muscolari e comuni le deformità scheletriche, rappresentate soprattutto da dislocazione congenita dell’anca, cifoscoliosi, piede cavo. Il quadro clinico è di fatto non progressivo, rimanendo i pazienti normalmente attivi per tutta la vita. Altre possibili espressioni fenotipiche sono la distribuzione tipo cingoli del deficit con decorso lentamente progressivo e l’aumento asintomatico, anche se elevato, della CK.
Malattie muscolari 1455
Nei casi tipici i livelli serici di CK sono normali, l’EMG può dimostrare potenziali di unità motoria polifasici, di breve durata e ridotta ampiezza. Ai fini diagnostici è indispensabile lo studio istochimico ed ultrastrutturale di campioni bioptici muscolari. Il reperto tipico consiste nella dimostrazione di aree (“cores”) circolari, isolate, in posizione centrale, ma talora multiple e eccentriche, prive di mitocondri e di reticolo sarcoplasmico, con alterazione del sistema tubulare T, carenti di enzimi ossidativi e di attività fosforilasica. Il meccanismo di formazione di queste aree è sconosciuto, anche se è verosimile che esista carenza di proteine deputate al mantenimento spaziale delle strutture miofibrillari. La malattia con alterazione centrale della fibra e la miopatia nemalinica sono generalmente considerate entità geneticamente e istologicamente distinte; va tuttavia segnalato che del tutto recentemente è stata riportata la contemporanea presenza in campioni bioptici di cores e di bastoncelli che sarebbero un aspetto secondario della malattia con alterazione centrale della fibra. Malattia con alterazione multi-minifocale della fibra (“Multi-mini core disease”) Originalmente descritta da Engel et al. (1971) come “multicore disease” (malattia con alterazione multifocale) è una miopatia congenita morfologicamente caratterizzata dalla presenza di multiple piccole zone di disorganizzazione sarcomerica e mancanza di attività ossidative. Si differenzia dalla malattia con alterazione centrale della fibra per l’assenza di selettività per un particolare tipo di fibra e per il fatto che le alterazioni (cores) non si estendono per tutta la lunghezza della fibra. La modalità di trasmissione ereditaria autosomica recessiva è probabile nella maggioranza delle famiglie, ma sono state descritte anche famiglie con trasmissione dominante e molti casi sono sporadici; è una delle poche miopatie congenite in cui il difetto genico resta sconosciuto.
Nella forma tipica la sintomatologia esordisce precocemente con ipotonia ed ipostenia a distribuzione assiale e prossimale cui frequentemente si aggiungono interessamento della muscolatura extraoculare e cardiomiopatia; il quadro clinico è spesso complicato da scoliosi e turbe respiratorie. Altre forme sono caratterizzate, di volta in volta, da interessamento faringolaringeo, esordio prenatale con artrogriposi, e ipostenia lentamente progressiva con marcata amiotrofia della mano. La CK serica è normale o lievemente (20%) aumentata; l’EMG rivela alterazioni di tipo piogeno, specie dopo 4 anni.
Miopatie con corpi inclusi Sono da alcuni autori descritte anche con il termine di “miopatie da eccesso di proteine” (protein surplus myopathies) per indicare la causa in un deficit del catabolismo proteico in contrapposizione al deficit di anabolismo di altre miopatie (distrofinpatie, emerinopatie, ecc.). Sono suddivise in due sottogruppi a seconda che i corpi inclusi derivino (esempio principale, la miopatia nemalinica) oppure no (miopatia con inclusioni a impronta digitale, miopatia con inclusioni a capacità riduttiva) da strutture preesistenti. In questo gruppo di miopatie congenite alcuni autori includono anche le desminopatie (o miopatie miofibrillari) descritte tra le miopatie distali. Miopatia nemalinica Descritta nel 1963 da Shy, è una condizione eterogenea sul piano sia clinico che genetico, caratterizzata dalla presenza nelle fibre muscolari di numerose, minute strutture a forma di bastoncello, chiamate corpi nemalinici, che si colorano di rosso alla tricromica modificata di Gomori, costituite da proteine derivanti dal disco Z e dal filamento fine di actina. L’espressione clinica varia da casi gravi con esordio pre- o
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neonatale e morte precoce, a casi lentamente evolutivi che esordiscono nell’età adulta. Gli aspetti clinici di maggior rilievo sono costituiti da ipostenia della muscolatura flessoria del collo, masticatoria, facciale e prossimale degli arti; possono coesistere problemi respiratori (paralisi del diaframma, nei casi ad esordio precoce) ed interessamento muscolare distale. Aspetti dismorfici sono comuni (artrogriposi nei casi gravi), mentre anomalie cardiache sono raramente sintomatiche ma non infrequenti. La morbidità da infezioni respiratorie e problemi nutrizionali diminuisce con l’età. L’attuale classificazione comprende tre forme congenite (grave, intermedia e tipica), una forma ad esordio nella fanciullezza ed una nell’età adulta. Nella forma congenita grave alla nascita si ha assenza di movimenti spontanei, inclusi quelli respiratori, contratture e fratture; nella forma congenita intermedia alla nascita sono possibili respiro e movimenti spontanei, l’esordio è infantile con incapacità a mantenere l’indipendenza respiratoria dopo la prima fanciullezza, epoca in cui si instaurano contratture, incapacità a sedere o camminare senza aiuto, il ricorso alla sedia a rotelle prima degli 11 anni; nella forma congenita tipica l’esordio avviene nell’infanzia o nella prima fanciullezza, l’ipostenia è più accentuata nei muscoli facciali, respiratori e flessori del collo, il deficit di forza agli arti interressa prima i settori prossimali, le tappe motorie sono raggiunte seppur con ritardo. Nelle forme ad esordio più tardivo non viene descritta ipotonia muscolare. Forme particolari di miopatia nemalinica sono costituite da cardiomiopatia e oftalmoplegia isolate. Il tipo di trasmissione ereditaria può essere sia autosomica recessiva che autosomico dominante. Sono state sino ad oggi identificate mutazioni in cinque geni codificanti per proteine dei filamenti fini: a-tropomiosina lenta (TPM3) sul cromosoma 1q21-1q23, nebulina (NEB) sul cromosoma 2q21-2q22, α-actina (ACTA1) sul cromosoma 1q421, β-tropomiosina (TMP2) sul cromosoma 9p13, troponina T1 (TNT1) sul cro-
mosoma 19q13.4. Le mutazioni della TPM3 danno origine a quadri ad ereditarietà sia dominante (inizio tra i 5 e 15 anni, lenta progressione con ricorso alla sedia a rotelle anche dopo i 40 anni) che recessiva (esordio alla nascita, sviluppo motorio assai ritardato e compromesso, morte prima dei 2 anni di vita). Le mutazioni della NEB danno origine, unicamente con modalità recessiva, a quadri clinici caratterizzati da riduzione dei movimenti alla nascita, ipostenia ad esordio infantile al tronco, alla faccia e ai dorsiflessori della caviglia, difficoltà respiratorie, aspetti dismorfici (palato arcuato, micrognatismo, contrattura delle dita, deformità toracica, ipermobilità articolare), scarsa progressione. A mutazioni della ACTA1 sono ascritti quadri a trasmissione dominante (esordio variabile, fenotipo sia con compromissioni lievi che gravi), a trasmissione recessiva (per lo più a decorso grave) e sporadici. Le mutazioni della TMP2 determinano rari quadri a trasmissione dominante con esordio dall’infanzia alla fanciullezza, scarse contratture e talora insufficienza respiratoria. Infine la miopatia dovuta a mutazioni della TNT1, recentemente identificata, è ereditata in via autosomica recessiva. Una variante dovuta a mutazioni della α-actina consisterebbe nella miopatia congenita con eccesso di filamenti fini, di cui però l’autonomia dalla miopatia nemalinica non è accettata da tutti. L’EMG dimostra alterazioni miopatiche non specifiche; il livello serico di CPK può essere normale o lievemente aumentato. È stata descritta l’esistenza di gammopatie monoclonali e, nella forma adulta, aumento della VES. La biopsia muscolare, indispensabile per la diagnosi, dimostra la presenza, esclusivamente nelle fibre di tipo I, di corti bastoncelli nelle sezioni longitudinale e di granuli nelle sezioni trasverse che si colorano di rosso alla tricromica modificata. Miopatia con inclusioni a impronta digitale (“Fingerprint body myopathy”) Il quadro clinico, a decorso non progressivo, consiste in ipostenia ed atrofia muscolari a pre-
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valenza prossimale, simmetriche con assenza dei riflessi profondi, risparmio della muscolatura facciale ed oculare, intelligenza occasionalmente al di sotto della norma. Alla biopsia muscolare si evidenzia prevalenza delle fibre di tipo I, con inclusione periferica subsarcolemmale di numerosi corpi ovoidali, lunghi pochi micron, costituiti da lamelle osmiofile convolute che ricordano l’aspetto di un impronta digitale. Inclusioni simili sono state descritte anche in altre malattie (distrofia miotonica, distrofia oculofaringea, miopatie infiammatorie). Esistono casi sporadici accanto a casi a trasmissione recessiva. Miopatia con inclusioni a capacità riduttiva (“Reducing body myopathy”) Il nome di questa miopatia è dovuto alla presenza di formazioni rotonde, subsarcolemmali, capaci di ridurre i sali di tetrazolio senza l’aggiunta di un substrato e che all’esame ultrastrutturale risultano costituite da granuli o filamenti tubulari. Si descrive una forma maligna ad esordio tra 1 e 4 anni, con ipostenia prevalentemente prossimale ed esito fatale prima dei 5 anni, una forma congenita con ritardo nelle tappe motorie ma con decorso benigno ed una forma ad esordio tardivo-adulto con distribuzione iniziale scapolo-peroneale del deficit, aumento della CK sino a tre volte. I corpi inclusi a capacità riduttiva sono presenti anche in altre miopatie (da deficit di maltasi acida, miopatie distali con vacuoli orlati).
Miopatie da alterazione della posizione del nucleo In questo gruppo di miopatie rientrano due forme, entrambe caratterizzate dalla presenza di nuclei al centro di piccole, rotonde fibre muscolari e da altre alterazioni suggestive di arresto dello sviluppo delle fibre, che configurano un quadro simile ai miotubi osservabili nel corso dello sviluppo fetale e nell’adulto quando alla necrosi segue rigenerazione della fibra.
Miopatia miotubulare È una miopatia congenita X-legata, dovuta a mutazioni del gene MTM1, situato sul cromosoma Xq28, che codifica per la miotubularina, una fosfatasi che defosforilizza il fosfatidilinositolo 3-fosfato ed è implicata nella via della fosfatidilinositolo 3-chinasi. Ad oggi sono state riconosciute più di 130 mutazioni: quelle che causano uno stop codonico sono solitamente associate ad un fenotipo più grave. I maschi affetti nascono con grave ipotonia muscolare e solitamente necessitano di respirazione assistita in sala parto; l’ipostenia è diffusa, simmetrica e può interessare anche la muscolatura facciale. Il decorso è caratterizzato dalla precoce comparsa di oftalmoplegia con ptosi palpebrale. La morte interviene assai precocemente (in media 5 mesi) nella maggioranza dei casi. Alcune mutazioni sono tuttavia associate con un fenotipo assai più lieve con una periodo di sopravivenza che può arrivare fino ai 65 anni. Nell’87% di pazienti con mutazione di MTM1 (inclusi alcuni pazienti con fenotipo meno grave) il livello di miotubularina è risultato alterato. È possibile la diagnosi prenatale e della condizione di portatrice. Miopatia centronucleare È oggi riconosciuta come entità distinta dalla miopatia miotubulare con cui un tempo veniva confusa e di cui è meno frequente. Si descrive una forma autosomica recessiva ed una forma autosomica dominante per mutazione del gene MYF6 localizzato sul cromosoma 12q21. La sintomatologia è a comparsa più tardiva rispetto alla miopatia miotubulare (dall’infanzia sino ai 30 anni) caratterizzata da costante interessamento della muscolatura extraoculare, con ptosi e limitazioni dei movimenti di lateralità degli occhi; la presenza di sintomi da danno del sistema nervoso centrale, tra cui crisi comiziali ed alterazioni EEG, non è stata più riportata
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nelle recenti segnalazioni. Il livello di miotubularina in linee linfoblastoidi o derivate da fibroblasti dei pazienti risulta normale, a conferma della distinzione con la miopatia miotubulare.
Miopatie con alterazioni istochimiche in assenza di anomalie strutturali Rientrano in questo gruppo miopatie che si caratterizzano solo per una alterazione dimensionale o numerica delle fibre. Sproporzione congenita di tipi di fibre muscolari Descritta per la prima volta nel 1973, a trasmissione sia dominante che recessiva, è caratterizzata da ipotonia congenita, ritardo nelle acquisizioni motorie, spesso in associazione con aspetti dismorfici (faccia piatta, palato arcuato), deformità scheletriche (cifoscoliosi, dislocazione congenita dell’anca), contratture muscolari. Raggiunta l’età adulta i soggetti affetti, di statura e peso inferiori alla norma, possono continuare a presentare deficit di forza. Istologicamente, la biopsia muscolare è caratterizzata da fibre di tipo I più piccole (almeno del 45%) di quelle di tipo II, ipertrofia di quest’ultime e netta prevalenza numerica (più del 75% delle fibre di tipo I. In realtà tale quadro istologico potrebbe costituire un reperto aspecifico, comune a diverse miopatie congenite, per cui da alcuni l’esistenza di tale quadro come entità clinico-istologica autonoma è posta in dubbio. Miopatia uniforme delle fibre di tipo I Denominata in passato “ipoplasia delle fibre di tipo II”, è la forma speculare della miopatia appena descritta per la diffusa riduzione delle dimensioni delle fibre di tipo II; gli aspetti clinici (ipostenia ed ipotonia muscolare senza carattere progressivo) sono del tutto aspecifici.
Patologia dei canali ionici muscolari, paralisi periodiche e disturbi miotonici Le paralisi periodiche (PP) sono disturbi caratterizzati da episodi di ipostenia, di durata variabile da poche ore a diversi giorni, localizzata o generalizzata, associata ad ipotonia e riduzione dei riflessi profondi. Le varie forme di PP vengono distinte in familiari e acquisite e, secondo il livello serico di potassio rilevabile al momento dell’attacco, in forme iper, ipo e normopotassiemiche. Il termine miotonia (letteralmente dal greco, “rigidità muscolare”) definisce una contrazione muscolare protratta che, per ritardato rilasciamento, persiste dopo contrazione volontaria (“miotonia di azione”) o stimolazione elettrica del muscolo, oppure insorge dopo stimolazione meccanica (“miotonia da percussione”). La miotonia è clinicamente documentata dalla lentezza nel rilasciamento di una presa (Fig. 34.12) o da un “infossamento” muscolare che permane per pochi secondi in seguito a percussione di particolari distretti muscolari come la lingua, la muscolatura estensoria dell’avambraccio o dell’eminenza tenar. In particolare, la percussione dell’eminenza tenar (Fig. 34.13) produce una brusca abduzione del pollice con una contrazione che progressivamente diminuisce in maniera graduale, permettendo al pollice di ritornare alla posizione di riposo. Si distingue una miotonia classica, in cui il fenomeno migliora con il caldo (nella miopatia miotonica prossimale, tuttavia, il riscaldamento ha un effetto negativo) e diminuisce con la ripetizione delle contrazioni; una miotonia paradossa (osservabile nella paramiotonia), in cui il ripetersi delle contrazioni ha effetto opposto sino all’incapacità alla mobilizzazione del distretto muscolare interessato; e una miotonia ritardata che compare dopo un periodo di contrazione (osservabile nella miotonia fluttuante). Il corrispettivo elettrofisiologico della miotonia è costituito da potenziali di fibra e da potenziali positivi, la cui
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A
Fig. 34.13 - Miotonia meccanica: la percussione della muscolatura tenar determina un’intensa e persistente contrazione della stessa.
B
Fig. 34.12 - Miotonia volontaria. In A) chiusura energica del pugno. In B) all’apertura improvvisa dello stesso, impossibilità alla completa decontrazione.
frequenza di scarica aumenta bruscamente per diminuire poi gradualmente (waxing and waning “dive-bomber” discharge). I disturbi miotonici possono essere primitivi o acquisiti. I disturbi primitivi, su base genetica, comprendono forme non distrofiche e forme distrofiche, talora incluse nelle distrofie muscolari. La persistenza del fenomeno miotonico sia dopo sezione o blocco novocainico delle fibre nervose motorie che dopo blocco curarico del-
la trasmissione neuromuscolare ha permesso di ipotizzare che alla base del fenomeno esista un’alterazione della fibra muscolare. In epoca più recente, la sede dei difetti molecolari responsabili dei disturbi miotonici è stata identificata nella membrana della miocellula, e studi di biologia molecolare hanno definitivamente messo in rapporto il disturbo con loci cromosomici che codificano per specifici canali ionici (donde la definizione di malattie dei canali ionici o “canalopatie” muscolari) nelle forme miotoniche non distrofiche e nelle PP e per certe proteine chinasi nelle forme miotoniche distrofiche. I canali ionici sono grandi proteine transmembrana essenziali per il normale funzionamento di tutte le cellule eucariote. Infatti, funzioni come trasporto epiteliale, regolazione del volume cellulare, equilibrio acido base ed eccitabilità cellulare dipendono da rapidi movimenti di ioni inorganici attraverso i canali ionici; per quanto riguarda le cellule eccitabili (come quelle nervose e quelle muscolari) i canali ionici determinano il potenziale di membrana, sia a riposo che durante l’attività, ed hanno un ruolo critico anche nella liberazione di neurotrasmettitori. I canali ionici si distinguono in due grande gruppi: voltaggio-dipendenti (voltage gated) e ligando-dipendenti (ligand gated). Le canalopatie neurologiche riguardano sia il SNC che il
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muscolo; le canalopatie muscolari rientrano per la massima parte nella patologia dei canali ionici voltaggio dipendenti; solo le forme dominanti e recessive di miastenia congenita sono dovute ad alterazione del secondo tipo di canale ionico. Tradizionalmente le miotonie non distrofiche venivano tenute separate dalle PP. Oggi miotonie non distrofiche e PP vengono raggruppate assieme in quanto le nuove acquisizioni genetiche hanno dimostrato che disturbi allelici dello stesso canale ionico possono causare sia miotonia che PP. In altre parole, mutazioni del canale del cloro causano miotonia congenita ma possono anche essere associate ad ipostenia transitoria insorgente dopo riposo (come nella miotonia generalizzata autosomica recessiva di Becker); analogamente, la maggior parte delle forme iperpotassiemiche di PP sono dovute a mutazioni del canale del sodio, ma mutazioni alleliche dello stesso gene possono causare anche miotonie “particolari” o “fluttuanti”. Le canalopatie voltaggio-dipendenti muscolari ereditarie riguardano i canali del sodio, calcio, cloro e potassio (Tab. 34.5). Per opportunità espositiva e possibilità di raffronto verranno incluse in questo capitolo anche patologie non imputabili ad alterazione dei ca-
nali ionici quali la condrodistrofia miotonica, la paralisi episodica X-legata, le forme acquisite di PP e di disturbi miotonici e le distrofie miotoniche.
Canalopatie Cloriche Miotonia congenita Comprende due forme a trasmissione autosomica, l’una dominante e l’altra recessiva, a eziopatogenesi comune. L’ipereccitabilità della membrana della fibra muscolare, responsabile del fenomeno miotonico, è riconducibile ad una ridotta conduttanza al cloro a riposo che, a sua volta, determina un accumulo di K+ nei tubuli traversi con una aumentata depolarizzazione della membrana (10 volte la norma): l’aumento della depolarizzazione postuma consente di raggiungere la soglia dando origine alla scarica spontanea di potenziali di azione (scarica miotonica). Entrambe le forme sono dovute a mutazioni del gene CLCN1, posto sul cromosoma 7q35, che codifica per la proteina CLC-1 del canale ionico voltaggio-dipendente del cloro. Sono state riportate più di 50 mutazioni del gene
Tabella 34.5 – Canalopatie muscolari. Canale
Malattia
Ereditarietà
Canale del cloro
Miotonia congenita di Thomsen Miotonia congenita di Becker Miotonia levior Paramiotonia congenita Paralisi periodica iperpotassiemica Miotonia aggravata dal potassio Paralisi periodica ipotassiemica Paralisi periodica normopotassiemica Paralisi periodica ipotassiemica Ipertemia maligna
CLCN1 CLCN1 CLCN1 SCN4A SCN4A SCN4A SCN4A SCN4A CACNA1S RYR1 dominante KCNJ2 dominante ?? KCN3 dominante ?? KCN3
Canale del sodio
Canale del calcio Canale del potassio
Sindrome di Andersen Paralisi periodica ipotassiemica Paralisi periodica iperpotassiemica
dominante recessiva dominante dominante dominante dominante dominante dominante dominante dominante
Gene
Cromosoma 7q35 7q35 7q35 17q23-25 17q23-25 17q23-25 17q23-25 17q23-25 1q31-1q32 19q13.1 17q 11q 11q
Malattie muscolari 1461
CLCN1: anche se certe regioni del gene (esone 8) sono state messe più frequentemente in rapporto con la forma dominante, non è stata ancora dimostrata una sicura correlazione genotipo-fenotipo. A differenza dei canali del sodio e del calcio, il canale del cloro è un tetrametro omodimero (formato, cioè, da quattro subunità uguali): secondi alcuni la natura omodimera farebbe sì che la malattia possa essere sia dominante che recessiva, a seconda del tipo di mutazione che interferisce con la formazione del tetrametro (mutazioni di tipo “frame shift” o “missense” nella forma dominante, mutazioni puntiformi o delezioni in quella recessiva). Le mutazioni alla base della forma recessiva comportano una perdita di funzione di entrambi i monomeri, mentre le forme dominanti sarebbero dovute a mutazioni che comportano un aploinsufficienza (in effetti, una produzione di solo il 50% del prodotto genico non consente una conduttanza normale) o che hanno un effetto dominante negativo in cui le subunità mutanti e “selvatiche” (wild-type) naturali dimerizzano, dando origine a canali anormali o non funzionanti. Miotonia congenita autosomica dominante Thomsen (1876), medico danese, descrisse per la prima volta questa forma di cui egli stesso ed altri membri della sua famiglia erano affetti. Dati epidemiologici sicuri sono carenti e limitati a studi nazionali (Germania). La miotonia può essere già presente alla nascita e manifestarsi con difficoltà nell’alimentazione e con il caratteristico “pianto strozzato”; comunemente l’inizio è tra i 6 e gli 8 anni di età. Il disturbo è in genere diffuso, con conseguente rigidità non dolorosa1 , accentuata da riposo, stress, soprassalto emotivo, freddo e migliorata dall’esercizio (fenomeno del “riscaldamento”). Possono indurre miotonia la rapidità stes1
Vedi, tuttavia, la "miotonia aggravata dal potassio" (pag. 1465).
sa del movimento, ad esempio l’inizio della corsa, ed il cambiamento del tipo di movimento, come iniziare a salire le scale mentre prima si camminava in piano. La sintomatologia tende ad essere meno grave nelle donne (gli uomini sono più frequentemente affetti delle donne, con un rapporto di 3:1), ma la gravidanza può aggravare il disturbo, mentre un’ipertrofia muscolare diffusa è più frequente negli uomini (Fig. 34.14). Recentemente, sono stati descritti una famiglia in cui la miotonia presentava caratteristiche fluttuanti, tipiche delle miotonie aggravate da potassio, e un caso esordito con un quadro simile a quello della sindrome di SchwartzJampel, in cui sono state trovate due diverse mutazioni del gene CLCN1. La concentrazione serica di CPK è di solito nella norma o appena aumentata. Le alterazioni istologiche muscolari sono caratterizzate dalla presenza di fibre ipertrofiche accanto ad isolate fibre necrotiche ed assenza delle fibre di tipo IIB; l’esame elettromicroscopico spesso evidenzia la presenza di aggregati tubulari. All’esame EMG i parametri dei potenziali di unità motoria sono normali, a differenza di quanto si osserva nella forma recessiva e nella distrofia miotonica; si registrano solo scariche miotoniche (più frequentemente nei settori distali, anche in assenza di espressione clinica) e, frequentemente, alla fine di una contrazione volontaria, la presenza di una “scarica postuma” (after discharge) costituita da potenziali di unità motoria realizzanti un tracciato interferenziale di ampiezza anche maggiore di quello ottenuto durante la contrazione volontaria. La stimolazione nervosa ripetitiva evidenzia, specie a frequenze elevate (30 Hz), una risposta decrementale, mentre non si osserva facilitazione nel corso della stimolazione tetanica.
1462 Malattie del sistema nervoso
Fig. 34.14 - Miotonia di Thomsen: si noti lo sviluppo delle masse muscolari, soprattutto del cingolo scapolare, dell’addome, degli arti inferiori.
Miotonia congenita autosomica recessiva Descritta per la prima volta da Becker (1966), si verifica con maggior frequenza in famiglie con consanguineità, e in Germania è più comune (con una frequenza di 1:50.000) della forma dominante. Di solito non esordisce prima dei 12 anni di età; spesso gli arti inferiori sono interessati per primi, ed in misura più marcata, degli arti superiori che possono essere risparmiati per molti anni. Rispetto alla forma dominante, la miotonia è solitamente più grave ed invalidante e l’ipertrofia muscolare più evidente (specie agli arti inferiori ed ai glutei), dando luogo al cosiddetto “aspetto erculeo”. Sempre rispetto alla forma dominante, nel 30%-50% dei pazienti i ri-
flessi profondi sono diminuiti o assenti e, con gli anni, compare deficit di forza, in particolare dei muscoli dell’avambraccio e dello sternocleidomastoideo, che possono andare incontro ad atrofia, anche quando la miotonia non è presente. L’ EMG può mettere in evidenza un quadro lievemente miopatico mentre identico è l’effetto della stimolazione nervosa ripetitiva. Rispetto alla forma dominante, la concentrazione di CK può essere più aumentata e le alterazioni istologiche più marcate, con maggior tendenza alla necrosi delle fibre e presenza di turbe distrofiche. Tuttavia, sia nella forma recessiva che in quella dominante, il reperto bioptico non è patognomonico e quindi non utile a fini diagnostici.
Malattie muscolari 1463
Il trattamento della miotonia trova la sua indicazione nel carattere spesso invalidante che la miotonia presenta in entrambe le forme congenite. Il chinino (0,2-1,2 g/die) è generalmente efficace e ben tollerato nel trattamento intermittente, mentre la mexiletina (0,150-1g/die), farmaco antiaritmico dotato di rapido effetto bloccante sul canale del sodio, e la difenilidantoina (0,3-0,6 g/die, livello terapeutico 1020 mg/mL) sono i farmaci di prima scelta nel trattamento cronico. Altri farmaci impiegati sono la procainamide (0,125-1g/die) e l’acetazolamide 125-750 mg/die). Miotonia levior Forma dominante, dovuta anch’essa a mutazioni del gene CLCN1 (cromosoma 7q35), è caratterizzata da lieve miotonia ad esordio tardivo, assenza di ipertrofia muscolare. L’autonomia di questa forma è discussa.
Canalopatie Sodiche Le malattie del canale del sodio sono la paramiotonia congenita, la PP iperpotassiemica, la miotonia aggravata da potassio e forme di PP ipopotassiemica. Sono tutte causate da mutazioni del gene SCN4A, che codifica per la subunità a del canale voltaggio-dipendente del sodio, localizzato nel cromosoma 17q23 e sono da considerarsi varianti alleliche dello stesso disturbo, ad ereditarietà autosomica dominante. Per alcune mutazioni esiste una costante correlazione genotipo-fenotipo (ad esempio la stessa mutazione causa sempre paramiotonia congenita), mentre altre mutazioni si associano ad una variabilità fenotipica sia intra- che interfamigliare. La maggior parte delle mutazioni determinano un guadagno eccessivo del canale per il sodio, per lo più danneggiando la rapida inattivazione del canale stesso ma anche (in questo caso il fenotipo più frequente è quello della paralisi iperpotassiemica) compromettendo la lenta inattivazione del canale stesso.
Le canalopatie sodiche sono sottese da una riduzione dell’eccitabilità della membrana muscolare. In queste forme è stata documentata un’aumentata conduttanza al sodio che può essere bloccata dalla tetrodotossina, sostanza nota per essere un potente inibitore del canale del sodio. Paramiotonia congenita In questa condizione, descritta per la prima volta da Eulenburg (1886), con esordio assai precoce, la miotonia è accentuata dall’esercizio (“miotonia paradossa”), peggiorata dal freddo e frequentemente associata ad episodi di ipostenia generalizzata scatenati anche essi dal freddo. Il deficit di forza può persistere per ore, anche se i muscoli vengono riscaldati. Esiste una certa variabilità clinica: in alcuni pazienti il freddo provoca solo miotonia, al contrario di altri in cui il freddo causa una paralisi immediata, mentre in alcune famiglie i membri malati presentano episodi di paralisi flaccida più marcata, simili a quelli della PP iperpotassiemica, indipendenti dalle variazioni di temperatura, che possono essere indotti dalla somministrazione di potassio. La muscolatura più colpita è quella della faccia e della porzione distale degli arti superiori con tipica postura in flessione ed abduzione delle dita, ma possono essere colpiti anche la lingua, i muscoli masticatori, i muscoli oculari estrinseci e i muscoli degli arti inferiori. La ritardata apertura delle palpebre dopo chiusura ripetuta è un reperto costante. Il deficit di forza è dovuto ad alterazione della inattivazione del canali lenti del sodio o ad una marcata depolarizzazione, mentre una depolarizzazione lieve causa unicamente scariche ripetitive miotoniche. L’EMG mette in evidenza, accanto ai segni miotonici, una risposta decrementale alla stimolazione ripetitiva del nervo. Caratteristico è il pattern elettrofisiologico osservabile con il raffreddamento: ad un’iniziale diminuzione di ampiezza del potenziale d’azione composto associata alla comparsa di attività spontanea
1464 Malattie del sistema nervoso
ripetitiva segue, con l’aumentare del raffreddamento, depolarizzazione e paralisi con la scomparsa delle scariche miotoniche. La biopsia muscolare può risultare alterata dimostrando una marcata variabilità della dimensione delle fibre con nuclei centrali e alcuni vacuoli. Attualmente il farmaco più utile nel prevenire sia la miotonia che il deficit di forza è la mexiletina (0,150-1 g/die). Paralisi periodica iperpotassiemica familiare In questa condizione, nota anche come “adinamia episodica ereditaria” (Gamstorp, 1956), il quadro clinico è dominato da attacchi transitori di ipostenia o di paralisi. Non in tutte le famiglie i pazienti affetti presentano miotonia. L’età di esordio è di solito la prima decade; gli attacchi di ipostenia (di solito prossimale e simmetrica) sono più brevi (da pochi minuti a 2-3 ore), meno gravi ma più frequenti rispetto alla PP ipopotassiemica, generalmente diurni e precipitati dal riposo dopo esercizio ma anche da stress, freddo, digiuno (tipico l’attacco prima della colazione), ingestione di elevate quantità di potassio e somministrazione di glicocorticoidi; la gravidanza può aggravare il disturbo. L’ipostenia è migliorata da apporto di carboidrati e da una lieve attività fisica. Con il procedere dell’età gli attacchi tendono ad essere più frequenti e si può instaurare un’ipostenia permanente (forse in associazione con determinate mutazioni). Il fenomeno miotonico, quando è presente, si verifica nell’intervallo tra episodi di ipostenia, interessa elettivamente la muscolatura delle mani e quella oculomotoria, facciale e palpebrale. In quest’ultima sede il fenomeno miotonico può essere provocato con l’apposizione di cubetti di ghiaccio (anche se la miotonia da freddo è meno comune rispetto alla paramiotonia) e facilmente dimostrato chiedendo al paziente di guardare verso il basso dopo essere stato per alcuni secondi con lo sguardo rivolto verso l’alto: con tale manovra le palpebre rimangono sollevate lasciando in vista la sclera
al di sopra dell’iride (“lid-lag”). In taluni casi il fenomeno miotonico può divenire l’aspetto clinico prevalente con conseguente stretta somiglianza con la paramiotonia congenita. Le aritmie cardiache da iperpotassiemia, sebbene occasionali, possono essere fatali; la loro presenza impone la diagnosi differenziale con la sindrome di Andersen (v. pag. 1470). La diagnosi si basa su una storia familiare positiva e sul riscontro di iperpotassiemia (> 4,5 mEq/l) ed aumentata escrezione urinaria di potassio nel corso di episodi di paresi, con o senza miotonia, spontanei o provocati; peraltro alcuni pazienti presentano deficit di forza anche in assenza di una potassiemia significativamente alterata. Un valore intercritico di potassiemia stabilmente elevato orienta verso la natura secondaria del disturbo. Gli attacchi deficitari possono essere provocati da esercizio, tipicamente entro 90-180 minuti dalla somministrazione orale di cloruro di potassio (1 mEq/kg di peso, in soluzione fisiologica, subito dopo un esercizio in condizioni di digiuno). In genere l’ECG mostra segni di iperpotassiemia, il livello serico di CK può risultare normale o aumentato (sino a 300 U/L) durante un attacco e anche tra un attacco e l’altro, soprattutto nei casi in cui si è sviluppata una paresi permanente. L’EMG può mostrare alterata attività d’inserzione e scariche miotoniche (anche in assenza di miotonia clinicamente evidente) oltre ad un tracciato di reclutamento dell’attività di unità motoria impoverito, e diminuzione di ampiezza e di durata dei potenziali di unità motoria. L’ampiezza del potenziale evocato muscolare composto è aumentata subito dopo una contrazione massimale volontaria protratta (5 minuti) per poi ridursi, di circa il 40%, a seguito di 20-40 minuti di riposo dopo l’incremento iniziale. La biopsia muscolare rivela un quadro di miopatia vacuolare, con presenza di aggregati tubulari interni alle fibre, più evidente nei soggetti con paresi permanente. La maggior parte degli attacchi, brevi e lievi, non richiede interventi particolari e, in ogni
Malattie muscolari 1465
modo, può essere di beneficio una semplice assunzione di bevande o alimenti ricchi di carboidrati. Il trattamento solitamente efficace per porre fine ad un attacco è costituito dalla somministrazione di glucosio (2 g/kg/os) eventualmente associato ad insulina (15-20 U, sottocute); la somministrazione di glucosio per via endovenosa, limitata ai casi gravi con disfagia, nausea e vomito, deve essere associata ad un monitoraggio elettrocardiografico. Nei casi con grave paresi, anche la somministrazione per via venosa di calcio gluconato (0,5-2 g) può essere utile. La prevenzione degli attacchi si basa su una dieta ricca di carboidrati o sulla restrizione di sodio, evitando esposizione al freddo, digiuno od eccessivo esercizio fisico. Farmaci favorenti l’escrezione di potassio come l’acetazolamide (750 mg/die) e la clorotiazide (5001000 mg/die) hanno mostrato una efficacia preventiva. Anche la somministrazione di agonisti beta-adrenergici, come il metaproterenolo, è risultata utile nella profilassi. Miotonia aggravata da potassio Il termine di “Miotonia aggravata da potassio” raduna condizioni spesso sovrapposte tra loro, note come “Miotonia fluttuante”, “Miotonia permanente”, “Miotonia congenita rispondente all’acetazolamide” e “Miotonia dolorosa”. La miotonia aggravata da potassio è caratterizzata da una miotonia che spesso fluttua nel tempo e che può essere lieve o gravemente invalidante. Come indica il termine, la somministrazione di potassio provoca spesso un drammatico peggioramento della rigidità miotonica; la paramiotonia non è un aspetto tipico e non sono presenti episodi di ipostenia. Il freddo non costituisce un fattore peggiorativo o scatenante. Il carattere doloroso della miotonia, pur frequente, non è esclusivo di queste forme perché una significativa proporzione (20%) di pazienti con miotonia da patologia del canale per il cloro possono lamentare dolore. In alcuni casi la miotonia può interferire con la respirazione.
Paralisi periodica normopotassiemica È un raro disturbo (Poskanzer e Kerr, 1961), a trasmissione autosomica dominante, con elevata penetranza in ambedue i sessi. Da alcuni autori viene ritenuta una variante della forma iperpotassiemica. Gli attacchi di deficit di forza, ad esordio nella prima decade, sono più gravi e protratti, anche per settimane, rispetto a quelli della forma iperpotassiemica, senza miotonia, provocati o scatenati dal riposo dopo esercizio, esposizione al freddo, carico di potassio. La normalità della potassiemia, la ritenzione urinaria di potassio, l’assenza di beneficio con il carico di glucosio distinguono questa forma dalla PP iperpotassiemica primaria. Va segnalato tuttavia che in almeno una famiglia è stata evidenziata una mutazione nel gene SCN4A, che codifica per la subunità a del canale voltaggio-dipendente del sodio, comunemente associata alla PP iperpotassiemica (LehmanHorn e Rudel, 1996). La somministrazione di sali di potassio ha un effetto peggiorativo, mentre quella di cloruro di sodio (in grande quantità), acetazolamide e fluoroidrocortisone può risultare terapeutica. Paralisi periodica ipopotassiemica familiare Le PP ipopotassiemiche sono geneticamente eterogenee. La maggioranza è causata da mutazioni del gene del canale del calcio (v. pag. 1460), ma una minoranza (variabile, nelle diverse casistiche dal 3% al 9% dei soggetti con difetto genico identificato) sono dovute a mutazioni del gene SCN4A. Il meccanismo con cui tali mutazioni causano PP ipopotassiemiche non è noto: è verosimile che l’alterazione dell’eccitabilità della membrana sia in rapporto ad un aumento dell’inattivazione lenta e ad una riduzione della densità del canale sodico. La sintomatologia non sembra variare in funzione del gene mutato; recentemente è stata tuttavia descritta una famiglia numerosa con caratteri distintivi: completa penetranza negli uomini e nelle donne, esordio precoce (9 anni), mialgie postcritiche, ipostenia permanente nel 45% dei
1466 Malattie del sistema nervoso
casi, aumento indotto dall’acetazolamide del numero e della gravità delle crisi, aspetto istologico peculiare con aggregati tubulari nelle fibre di tipo2.
Canalopatie calciche Mutazioni del canale del calcio muscolare causano forme di PP ipopotassiemiche e di ipertemia maligna, mentre mutazioni del canale del calcio cerebrale comportano quadri di emicrania emiplegica e di atassia episodica o progressiva (v. pag. 1296). Paralisi periodica ipopotassiemica familiare È un disturbo caratterizzato da episodi di riduzione della forza, associata a diminuzione del livello ematico di potassio; i fenomeni miotonici sono rari e limitati alle palpebre. È una forma a trasmissione autosomica dominante, con ridotta penetranza nelle femmine, per cui i maschi sono affetti più frequentemente e più gravemente. Un terzo dei casi è sporadico. È dovuta a mutazioni del gene CACNA1S codificante per la subunità α-1 sensibile alla diidropiridina (o recettore per la diidropiridina, DHPR) del canale voltaggio dipendente per il calcio tipo L (“long-lasting” o duraturo), localizzato nel cromosoma 1q31-1q32. Oltre a tali mutazioni la PP ipopotassiemica è dovuta anche, ma in percentuali inferiori, a mutazioni del geni codificanti per il canale del sodio e per il canale del potassio (v. pag. 1460). Il meccanismo molecolare con cui alterazioni del canale del calcio causano PP è sconosciuto, anche perché non risulta che il canale del calcio eserciti un’azione diretta sull’eccitabilità della membrana mentre svolgerebbe un ruolo rilevante nell’accoppiamento eccitazione-contrazione. È stato ipotizzato che si determini una interazione negativa con un altro canale ionico, in particolare con il canale per l’adenosin-trifosfato sensibile al potassio: la diminuita conduttanza di questo canale comporterebbe un accumulo intracellulare di potassio
responsabile della depolarizzazione della membrana e dell’ipopotassiemia extracellulare. L’esordio è in genere nella prima o nella seconda decade. Gli attacchi sono tipicamente scatenati da condizioni capaci di determinare un flusso di potassio dal siero alle cellule: il riposo dopo un intenso esercizio; i pasti copiosi, ricchi di carboidrati, soprattutto se consumati nella seconda parte della giornata; gli stress emotivi; l’assunzione di alcool; l’esposizione al freddo; i traumi; le infezioni; la gravidanza. La durata degli episodi varia da poche ore a più giorni, così come variabile è la loro frequenza che diviene minore con l’età (gli attacchi scompaiono dopo i 40 anni quando, peraltro, può instaurarsi un deficit permanente che, secondo alcuni autori, si instaura nel 100% dei casi). L’attacco inizia per lo più nelle prime ore del mattino, al risveglio, probabilmente perché il sonno comporta un movimento di potassio attraverso la membrana muscolare. Il sintomo di esordio è costituito, in genere, da un senso di pesantezza e di dolorabilità agli arti inferiori che, gradualmente, lascia il posto a deficit di forza, prima prossimale e successivamente distale. Negli attacchi più gravi il paziente non è in grado di alzarsi da letto e, al limite, di sollevare la testa dal cuscino. Possono coesistere disfagia, nausea e vomito, anche di entità rilevante. Nel momento di massima compromissione è presente ineccitabilità muscolare a stimoli elettrici e meccanici, associata ad areflessia profonda; può concomitare bradicardia con anomalie elettrocardiografiche. Durante l’attacco la concentrazione serica di potassio scende sino a 1,5 mEq/L, ma di solito il deficit di forza inizia a livelli più alti (3 mEq/l), talora a livelli appena inferiori alla norma. Studi istopatologici hanno dimostrato la presenza di vacuoli, dovuti a dilatazione del reticolo sarcoplasmatico, e di aggregati tubulari. La diagnosi si basa su una storia familiare positiva e sul riscontro di ipopotassiemia durante l’attacco; la presenza intercritica di un ridotto livello serico di potassio suggerisce una for-
Malattie muscolari 1467
ma secondaria. I livelli serici di CPK e di mioglobina sono spesso aumentati anche tra un attacco e l’altro e in alcuni portatori sani. Durante la crisi è importante la registrazione elettrocardiografica che può rivelare bradicardia sinusale, aumento degli intervalli PR e QT, appiattimento delle onde T con aumento di voltaggio delle onde U. L’EMG durante la crisi è caratterizzato da impoverimento del tracciato di reclutamento a massimo sforzo volontario, talora da riduzione della durata dei potenziali di unità motoria e, raramente, da attività spontanea patologica. Dopo una protratta (5 minuti) contrazione volontaria massimale, la stimolazione elettrica sopramassimale del nervo motorio corrispondente al muscolo indagato evoca un potenziale muscolare più ampio della norma, ma che va incontro ad una progressiva riduzione di ampiezza, anche al di sotto dei valori pre-contrazione. Se non sono stati osservati attacchi spontanei, la diagnosi può essere confermata inducendo un attacco e valutando il livello della potassiemia e la risposta terapeutica alla somministrazione orale di KCl. La modalità più comune per provocare un attacco è la somministrazione orale di glucosio (2 g/kg) unitamente ad insulina (20 U sottocute); in caso di negatività, questa prova - che non deve es-
sere eseguita in presenza di ipopotassiemia o di insufficienza renale o surrenale - può essere ripetuta dopo esercizio e carico salino. La moderna analisi del DNA ha fatto venir meno la necessità di ricorrere a rischiose procedure di induzione della crisi. Devono essere sempre escluse eventuali cause di ipopotassiemia secondaria, come la PP ipopotassiemica tireotossicosica (v. pag. 1500). La diagnosi differenziale va ovviamente posta nei confronti della PP iperpotassiemica (Tab. 34.6). Un confronto tra le principali forme di PP e di sindromi miotoniche è riportato nella Tabella 34.7. Il trattamento di elezione dell’attacco acuto è la somministrazione orale di KCl (5-10 g in soluzione al 10-25%), eventualmente ripetuta dopo qualche ora; il ricorso alla somministrazione per via endovenosa va limitato ai casi con disfagia, nausea e vomito, ed associato a monitoraggio continuo dell’elettrocardiogramma e della potassiemia. La prevenzione si attua attraverso una dieta ricca di potassio e povera di carboidrati e sodio. Azione profilattica può essere svolta da inibitori dell’anidrasi carbonica (acetazolamide, 250 mg 3 volte/die; diclorofenamide, 100-150 mg/die) o da diuretici risparmiatori di potassio (spironolattone, 5-20 mg/ die; triamterene, 150 mg/die).
Tabella 34.6 – Confronto tra paralisi periodica iperpotassiemica e ipopotassiemica. Paralisi periodica iperpotassiemica Paralisi periodica ipopotassiemica Età di esordio
Prima decade
Seconda decade
Fattori scatenanti
Riposo dopo esercizio, freddo
Riposo dopo esercizio, freddo, carico di carboidrati
Durata degli attacchi
Minuti/ore
Ore/giorni
Gravità degli attacchi Ipostenia lieve/moderata
Ipostenia moderata/grave
Miotonia
Presente (miotonia o paramiotonia)
Rara, limitata alle palpebre
Potassio serico
Di solito alto, anche normale
Di solito basso, di rado normale
EMG intercritica
Talora scariche miotoniche
Assenza di scariche miotoniche
Trattamento
Acetazolamide, tiazidi
Diclorofenamide, acetazolamide
Canale ionico
Canale del sodio, canale del potassio
Canale del calcio (tipo L), canale del sodio, canale del potassio
1468 Malattie del sistema nervoso
Ipertermia maligna L’ipertermia maligna (MHS) è una sindrome, la cui suscettibilità è trasmessa con modalità autosomica dominante, da danno muscolare acuto, potenzialmente mortale, consistente in ipermetabolismo muscolare provocato dall’esposizione ad anestetici volatili (alotano, isoflurano) o da miorilassanti ad azione depolarizzante (sucinilcolina, susametonio). Nell’adulto si verifica approssimativamente in 1 su 50.000 anestesie generali; l’incidenza nell’età pediatrica scende a 1 su 15.000. Almeno la metà dei pazienti ha avuto una precedente anestesia in assenza di manifestazioni cliniche. Il quadro clinico è dominato da marcata rigidità muscolare, rabdomiolisi (v. pag. 1509), tachicardia, ipercapnia, acidosi, iperpotassiemia e shock. A differenza di quanto suggerisce il nome, l’ipertermia è tardiva e rappresenta un indice poco affidabile di questa patologia. Di fatto le sostanze scatenanti causano un aumento nel citoplasma delle fibre muscolari della concentrazione di Ca++ libero derivante dal reticolo sarcoplasmico attraverso il recettore rianodinico (il canale di rilascio del calcio). L’aumento della concentrazione di Ca++ è a sua volta causa della rigidità muscolare (inizialmente a carico dei masseteri, poi diffusa), produzione di calore, ipermetabolismo e rabdomiolisi. L’attivazione del ciclo ossidativo produce elevato consumo di O2, deplezione di ATP ed alterazioni sistemiche quali acidosi, ipercapnia e ipossiemia. La rabdomiolisi comporta aumento della CK, iperpotassiemia (potenzialmente responsabile di aritmie ed anche di arresto cardiaci) e mioglobinuria, possibile causa di insufficienza renale. Malattie sicuramente associate alla MHS sono la malattia con alterazione centrale della fibra (v. pag. 1454) e la sindrome di King Denborough, a trasmissione autosomica dominante, caratterizzata dall’associazione di alterazioni scheletriche (bassa statura, petto carenato, cifoscoliosi vertebrale), dimorfismi facciali, criptoorchidismo, ipostenia prevalentemente
prossimale oltre che dalla MHS. Altre condizioni (distrofinopatie, miotonie non distrofiche, PP, deficienza di calcio-ATPasi) possono essere associate alla MHS. La MHS deve essere considerata una sindrome anche a causa dell’eterogeneità genetica. Le prime mutazioni geniche individuate, alla base della forma oggi chiamata MHS1, sono quelle che riguardano il gene codificante il canale voltaggio-dipendente di rilascio del calcio, noto anche come recettore rianodinico (RYR1), situato sul cromosoma 19q13.1. Questo recettore, posto nel reticolo sarcoplasmico, libera Ca++ in risposta all’apertura del canale del calcio voltaggio dipendente tipo L (recettore diidropridinico, DHPR, situato nei tubuli T) determinata dalla depolarizzazione della membrana. Da segnalare che mutazioni di RYR1 sono responsabili anche della malattia con alterazione centrale della fibra, frequentemente associata alla MHS, suffragando l’ipotesi che le due condizioni morbose siano tra loro alleliche. E’ verosimile, in base a modelli animali, che anche la sindrome di King Denborough condivida le stesse mutazioni. Le mutazioni del gene RYR1 sono state riscontrate solo in una parte, variante dal 20% al 50%, di pazienti con MHS. Sono stati individuati altri 5 loci associati alla suscettibilità alla MHS, ciascuno dei quali è stato descritto unicamente in 1-2 famiglie. Il locus MSH2 è stato localizzato sul cromosoma 17q11.2-q24 ed ha come gene candidato lo stesso gene (subunità a del canale del sodio SCN4A) responsabile della PP iperpotassiemica; il locus MSH3 è stato associato al gene che codifica per la subunità a2/ d del recettore diidropridinico (DHPR) localizzato nel cromosoma 7q21-q22. Il loci MHS4 e MSH5 sono stati associati rispettivamente ai cromosoma 3q13.1 e 5p, ma il loro gene non è ancora stato identificato, mentre il locus MSH5 è stato localizzato nel cromosoma 1q32 ed ha come gene candidato lo steso gene (subunità a del canale del calcio tipo L del DPHR) responsabile della PP ipopotassiemica.
! inattivazione
?
?
1/2 - 4 ore lieve - marcata ± " paralisi
" paralisi
Ore - giorni
lieve-moderata
± " paralisi
! paralisi
2 -24 ore
marcata
± " paralisi
! paralisi
Carboidrati
Durata ipostenia
Gravità ipostenia
Esposizione al freddo
Carico di K+
Fattori precipitanti
Tiazide Acetazolamide Diclor-fenamide
! Tireotossicosi bloccanti
β-adrenergici
K+ Acetazolamide Diclor-fenamide
farmacologico
Trattamento
presenti
assenti
assenti
Sintomi
assente
assente
± Presente
presente
Esercizio: !
Ipertrofia muscolare
assente
Rara, limitata palpebre
Miotonia
Attività ➛ Riposo Attività ➛ Riposo
digiuno
< 10 anni
20 - 40 anni
5 - 35 anni
Esordio
Carboidrati
elevata
! femmine
! femmine
Penetranza
funzionale
rapida e lenta
Na+ α-subunità SCN4A
" pompa Na+-K+
subunità α1 CACNA1S
Canale alterato
Difetto
Dominante 17q23-q25
? Suscettibilità dominante
Dominante 1q31-q32 Cl– CLCN1
SCN4A
7q35
17q23-q25 Na+ α-subunità
Dominante
Dominante
di Thomsen
CLCN1
Cl–
7q35
Recessiva
di Becker
Miotonia congenita
KCNJ2
K+
Dominante 17q23
Andersen
Sindrome di
Mexiletina Tiazide
Mexiletina
assenti
presente
presente
?
Moderata Esercizio: "
freddo; ! K+
" K+
Lieve-marcata Esercizio: "
! paralisi
" paralisi
lieve
2 - 24 ore
< 10 anni
elevata
" paralisi
" paralisi
assente
assente
< 10 anni
elevata
assenti
presente
Marcata e costante
Nessuno
Diversi farmaci Diversi farmaci
assenti
presente
Moderata e costante
Nessuno
nessuno effetto
effetto nessuno effetto
nessuno
effetto
lieve
transitoria
congenita
elevata
nessuno
assente
assente
congenita
elevata
?
assenti
assente
assente
K+
" paralisi
Moderata
1 - 36 ore
2 – 18 anni
variabile
lieve ! inattivazione ! inattivazione !conduttanza !conduttanza !conduttanza rapida al Cl– rapida al Cl– al K+
Na+ α-subunità SCN4A
Dominante 17q23-q25
Paralisi periodica Paralisi periodica Miotonia aggravata Paramiotonia tireotossica congenita iper K+ da potassio* + ipo K
Ereditarietà/ Cromosoma
periodica ipo K+
Paralisi
Tabella 34.7 - Principali paralisi periodiche ereditarie e sindromi miotoniche. Paralisi
?
assenti
assente
assente
malattia virale
effetto
nessuno
nessuno effetto
Lieve - marcata
1 die - 1 anno
0.5 - 8 anni
? elevata
?
?
Xp22
Recessiva
periodica X-legata
Malattie muscolari 1469
1470 Malattie del sistema nervoso
La diagnosi si basa sul test della contrazione in vitro, consistente nella misurazione della tensione muscolare osservabile in un congruo campione muscolare che, pressoché immediatamente dopo il prelievo bioptico, viene esposto in vitro ad uno od entrambi gli agenti scatenanti classici (caffeina, alotano): nei pazienti con ipertermia maligna la contrazione muscolare viene prodotta con concentrazioni molto più basse di quelle richieste nel muscolo normale. I pazienti a rischio non devono assumere agenti eventualmente in grado di scatenare la crisi; vanno preferite a scopo anestetico sostanze come barbiturico, benzodiazepine e propofolo, e come miorilassanti vecuronio e atracurio. In caso di crisi l’anestesia va interrotta immediatamente ed iniziata terapia endovenosa con dantrolene (2-3 mg/kg ogni 5 minuti per un totale di 10mg/kg) che, inibendo la fuoriuscita di calcio dal reticolo sarcoplasmico, induce rilasciamento muscolare. Il paziente deve essere iperventilato in 100% di ossigeno; inoltre devono essere attuate procedure di raffreddamento e somministrato bicarbonato per correggere l’acidosi.
Canalopatie potassiche Comprendono la sindrome di Andersen, forme di PP iperpotassiemiche, forme di PP ipopotassiemiche. Sindrome di Andersen È caratterizzata dall’associazione di PP, aritmie ventricolari, dimorfismi. Le PP posso essere sia ipo che iperpotassiemiche ma, in ogni caso, sono provocate da carico di potassio. Le aritmie, inizialmente asintomatiche, possono esprimersi con palpitazioni e sincopi; l’ECG può evidenziare bigeminismo, allungamento dell’intervallo Q-T, tachicardia bidirezionale. I dismorfismi, spesso poco marcati, includono bassa statura, clinodattilia o sindattilia, scoliosi, ipertelorismo, ipoplasie mandibolare e malare.
È una malattia a trasmissione autosomica dominante con marcata variabilità fenotipica intrafamigliare. Nella maggioranza delle famiglie studiate sono state evidenziate mutazioni nel gene KCNJ2 che codifica per un canale voltaggio-indipendente del potassio (Kir 2.1), localizzato nel cromosoma 17q. Il canale Kir 2.1 contribuisce a stabilizzare il potenziale di membrana a riposo del muscolo cardiaco e alla fase tardiva della ripolarizzazione della muscolatura scheletrica e cardiaca. Paralisi periodiche ipo e iperpotassiemiche Sono state descritte due famiglie, entrambe con mutazioni del KCN3, localizzato sul cromosoma 11q, codificante per il canale del potassio voltaggio dipendente Kv3.4, una con PP iperpotassiemica l’altra con PP ipopotassiemica. L’alterazione di Kv3.4 comporta riduzione del flusso verso l’esterno di potassio con conseguente aumento del potenziale di membrana a riposo e diminuzione della capacità di ripolarizzazione.
Forme di incerta patogenesi Miotonia condrodistrofica È una rara sindrome (di Schwartz-Jampel, SJS), a trasmissione autosomica recessiva (legata in alcune famiglie al cromosoma 1p), che è caratterizzata da una marcata miotonia generalizzata, statura bassa, anomalie oculari, facciali e scheletriche quali lussazione dell’anca e torace carenato. Tipico l’aspetto del viso con stiramento delle labbra, blefarospasmo e restringimento della rima palpebrale. Alcuni casi presentano ritardo mentale. La sindrome è stata suddivisa in 3 sottotipi: SJS1A, con esordio dopo i 7 mesi ma prima dei 3 anni e lieve displasia ossea; SJS2B, con esordio alla nascita e displasia ossea più marcata; SJS2, grave forma neonatale con difficoltà respiratorie e deglutitorie. Sono state descritte mutazioni in un gene che codifica per un componente (perlecano, un eparano solfato proteoglicano) della membrana
Malattie muscolari 1471
basale e della cartilagine e di cui è stata ipotizzata una interazione negativa con un canale ionico adiacente. Paralisi X legata Si tratta di un nuovo disturbo caratterizzato da episodi di debolezza muscolare, della durata da 1 giorno a 12 mesi, dovuta ad alterazioni di un gene localizzato nel cromosoma Xp22.3 (Ryan et al., 1999). Il fenotipo clinico presenta aspetti suggestivi sia delle sindromi miasteniche congenite che delle PP da disturbi dei canali ionici. Gli episodi di ipostenia marcata, tipicamente precipitati da malattia febbrili, interessano la muscolatura facciale, oculomotoria oltre a quella del tronco e degli arti e si risolvono spontaneamente nello spazio di settimane o mesi. I pazienti più giovani sono asintomatici tra un episodio ed un altro; quelli più anziani, al contrario, presentano ipostenia cronica e faticabilità.
Forme acquisite Paralisi periodiche ipopotassiemiche secondarie Riconoscono diverse cause comportanti perdita urinaria di potassio (iperaldosteronismo primario, acidosi tubulare renale, sindrome di Sjögren, sindrome di Fanconi, acidosi renale tubulare distale, iperplasia dell’apparato iuxtaglomerulare, alcoolismo, assunzione eccessiva di liquirizia, diuretici, PAS, anfotericina B, corticosteroidi) o gastrointestinale (sprue non tropicale, abuso di lassativi, diarrea o vomito marcati). Il trattamento è rivolto contro le turbe causali. Paralisi periodiche iperpotassiemiche secondarie Sono forme abbastanza comuni, dovute ad insufficienza renale, eccessiva somministrazione di potassio, uso di diuretici risparmiatori di potassio, morbo di Addison, insufficienza isolata di aldosterone. In queste forme gli attacchi di ipostenia si verificano per aumenti della potas-
siemia molto più elevati rispetto a quanto si verifica nella forma geneticamente determinata. Disturbi miotonici acquisiti Farmaci ipocolesterolemici possono indurre miotonia interferendo con la sintesi di colesterolo nella membrana della miocellula. In particolare, il 10,25 diazocolesterolo, oggi non più utilizzato, era in grado di causare ipostenia e spasmi muscolari con difficoltà alla decontrazione, accentuata dal freddo e attività miotonica all’EMG. La miotonia può essere dovuta, anche se raramente, all’assunzione di farmaci ß-adrenergici (propranololo) e di triparanolo o di clofibrato. Questi ultimi due farmaci sono chimicamente analoghi al diazocolesterolo e all’acido diclorofenossiacetico, altra sostanza in grado di indurre sperimentalmente miotonia. Infine, farmaci come esametonio, suxametonio, colchicina e clorochina possono scatenare o accentuare una miotonia già esistente. Una miotonia sintomatica, sia clinica che elettrofisiologica, è stata occasionalmente descritta nel corso di polineuropatie e polimiositi. In una più ampia serie di malattie neuromuscolari, quali la sclerosi laterale amiotrofica, lesioni traumatiche dei nervi periferici, distrofie muscolari, glicogenosi, polineuropatie e polimiositi, è stata riportata la presenza di fenomeni similmiotonici, comunemente indicati con il termine di “pseudomiotonia” e caratterizzati da un quadro elettromiografico diverso da quello descritto per la miotonia (v. pag. 1458). Il termine di pseudomiotonia è stato impiegato anche per indicare la lentezza sia della contrazione che della decontrazione muscolare presente nell’ipotiroidismo, particolarmente evidente nell’elicitazione del riflesso achilleo. Un fenomeno similmiotonico è infine presente nella neuromiotonia (v. pag. 1513).
Distrofie miotoniche Le distrofie miotoniche sono disturbi multisistemici, ad ereditarietà autosomica dominan-
1472 Malattie del sistema nervoso
te, in cui miotonia, ipostenia e cataratta costituiscono i i sintomi cardinali. Comprendono anzitutto la Distrofia miotonica di Steinert, nota da più di cento anni, la cui base genetica è stata riconosciuta in un’espansione della ripetizione trinucleotidica CTG (citosina-timina-guanina) localizzata sul cromosoma 19q13.3. Negli anni ’90 sono stati descritti nuovi disturbi miotonici multisistemici non legati al cromosoma 19q: nel 1994 Thornton et al. hanno descritto un disturbo simile alla distrofia miotonica senza espansione della ripetizione CGT e Ricker et al. un disturbo chiamato Miopatia miotonica prossimale (PROMM) per il prevalente interessamento della muscolatura prossimale; Udd et al. (1997) hanno suggerito il termine di Distrofia miotonica prossimale (PDM) per definire una variante della PROMM con insoliti aspetti miotonici e miopatici e perdita dell’udito; Ranum et al. (1998) hanno individuato un secondo locus, oltre a quello responsabile della Distrofia miotonica di Steinert, legato al cromosoma 3q21.3 in una famiglia numerosa del Minnesota i cui membri presentavano una marcata ipostenia distale. Questo secondo locus ha ricevuto il nome di DM2 riservando quello di DM1 al locus responsabile della Distrofia miotonica di Steinert. La scoperta del locus DM2 ha portato a riconsiderare le famiglie con PROMM e PMD giungendo alla conclusione che la maggior parte delle PROMM e tutte le PMD presentavano un legame con il cromosoma 3q. Non è ancora definito se le forme connesse con il cromosoma 3q (DM2, PROMM, PDM) esprimano differenze alleliche o variazioni fenotipiche interfamiliari; l’eventuale conferma che si tratti di condizioni alleliche sarebbe un altro esempio che differenti mutazioni dello stesso gene possono comportare una forma distale o prossimale di distrofia (come accade anche per le disferlinopatie, v. pag. 1443). In letteratura sono state segnalate infine alcune famiglie con PROMM che non sono connesse al locus DM2. Di fatto, anche sulla base di quanto deciso dal Comitato dell’organizzazione del Genoma uma-
no e accolto dal Consorzio internazionale della Distrofia miotonica (IDMC, 2000): a) tutti i disturbi miotonici multisistemici (Distrofia miotonica di Steinert o DM1, PROMM, DM2, PDM) sono chiamati “distrofie miotoniche”; b) i loci identificati o in via di identificazione sono chiamati DM1, DM2, DMn indipendentemente dal fenotipo; c) al momento attuale solo due loci sono stati identificati: DM1 (cromosoma 19q13.3, Distrofia miotonica di Steinert) e DM2 (cromosoma 3q21.3). Distrofia miotonica tipo 1 (DM1) Descritta da Steinert (1909), è al tempo stesso la più comune forma di sindrome miotonica e di distrofia muscolare, anche se molte caratteristiche cliniche e patologiche sono uniche e atipiche per una distrofia in senso classico. La modalità di trasmissione è autosomica dominante a penetranza completa in entrambi i sessi, con una prevalenza di 5 per 100.000 nella popolazione bianca europea (da 2,1 a 14,3 nella popolazione mondiale) e un’incidenza di 1315 su 100.000 nati vivi. È una malattia sistemica in cui miotonia, ipotrofia ed ipostenia muscolare prevalentemente distali si accompagnano ad interessamento di tessuti non muscolari, per cui la sintomatologia contempla disturbi oculari (cataratta, ptosi, degenerazione retinica, riduzione della pressione intraoculare, paresi asintomatica dei muscoli oculomotori), endocrini (ipogonadismo da degenerazione tubulare, deficit di testosterone, resistenza all’insulina, aumento dell’ormone follicolo stimolante, abnorme regolazione dell’ormone della crescita, elevata frequenza di aborti spontanei), gastroenterici (disfagia, alterata motilità colica, lassità dello sfintere anale), cardiaci (difetti di conduzione con extrasistoli, tachiaritmia, morte improvvisa e, nelle fasi tardive, cardiomiopatia), respiratori (ipoventilazione con un quadro simil-Pickwick), cerebrali (specie da alterazioni temporali e frontali con turbe della personalità, ipersonnia, ritardo mentale congenito non progressivo), alterazio-
Malattie muscolari 1473
ni ossee (riduzione della sella turcica, iperostosi cranica), cutanee (calvizie frontale), ematiche (riduzione delle immunoglobuline seriche). La variabilità clinica è notevole: i pazienti con DM1 possono essere asintomatici, presentare minimi segni (cataratta e miotonia asintomatica), mostrare ipostenia e ipotrofia di grado moderato-marcato alla faccia e agli arti, o essere affetti dalla grave forma congenita. Uno degli aspetti caratteristici è il fenomeno della “anticipazione”, per cui il quadro clinico diviene più marcato e ad esordio più precoce di generazione in generazione; si descrive il fenomeno contrario (contrazione) per i rari pazienti ad ereditarietà paterna. Forma congenita – È quasi sempre ereditata da madri (in letteratura sono riportati solo quattro casi ereditati da padre affetto) talora affette anche in misura lieve o addirittura asintomatiche. Si tratta di una forma di notevole gravità, con marcata e generalizzata ipotonia e diplegia facciale. La caduta delle palpebre, il labbro superiore a tenda (o a V invertita), con conseguente aspetto a “bocca da carpa”, la mandibola
aperta configurano un insieme caratteristico che consente un facile riconoscimento. Possono anche essere presenti deformità articolari, specie al piede, difficoltà nell’alimentazione per deficit faringeo e problemi respiratori, possibile causa di morte nel 25 % dei neonati. Nei soggetti che sopravvivono si osserva ritardo mentale (presente nel 75% dei casi), delle funzioni motorie e del linguaggio; la miotonia, assente alla nascita, compare di solito intorno ai 10 anni. Forma classica – L’esordio, tra i 20 e i 50 anni, avviene nei casi tipici con deficit di forza alle mani e alla loggia antero-esterna della gamba, con caduta del piede, o con difficoltà nel rilasciare una presa; altri territori frequentemente interessati sono i muscoli posteriori del collo e lo sternocleidomastoideo. Non sono però pochi i casi ad esordio insidioso con riduzione del visus, apatia, modificazione della personalità, sterilità maschile. L’ipostenia e l’ipotrofia della muscolatura facciale e di quella masticatoria determinano un’espressione caratteristica (Fig. 34.15): lo
Fig. 34.15 - Distrofia miotonica di Steinert: si noti la facies caratteristica.
1474 Malattie del sistema nervoso
spianamento delle rughe, la modica ptosi bilaterale, assai raramente associata a turbe dell’oculomozione, e l’enoftalmo conferiscono al viso un aspetto piuttosto cadente, emaciato, inespressivo, definito anche “lugubre”. Nel sorridere il paziente solleva gli angoli della bocca con arricciamento del labbro superiore e conseguente caratteristico digrignamento. La parola è spesso “legata”, per l’ipostenia dei muscoli facciali e per la miotonia della lingua; può divenire monotona, debole e con tono nasale negli stadi avanzati, quando si sviluppa anche deficit della muscolatura ad innervazione bulbare, con possibile disfagia. La miotonia, in genere più evidente nella muscolatura della mano, dell’avambraccio e della lingua, è un fenomeno piuttosto precoce e può precedere anche di molti anni la debolezza muscolare, per attenuarsi con il progredire dell’atrofia, rimanendo localizzata alla muscolatura meno deficitaria (deltoide). L’interessamento della muscolatura respiratoria è relativamente precoce; negli stadi avanzati della malattia può verificarsi insufficienza respiratoria dovuta ad ipoventilazione alveolare, talora responsabile di ipersonnia diurna. Alterazioni cardiache sono frequenti ma non sempre sintomatiche. Le forme più comuni sono i difetti di conduzione atrioventricolare (evidenziabili con allungamento del tratto P-R all’ECG) che possono causare attacchi di Morgagni-AdamsStoke ed anche “morti improvvise” dovute a marcata bradicardia. Eventualità meno comuni sono costituite dal prolasso mitralico e dalla disfunzione del ventricolo sinistro. Il cristallino è il tessuto non muscolare più frequentemente interessato dal processo distrofico. La cataratta, ricercata con la lampada a fessura, è presente in più del 90% dei pazienti, in genere sotto forma di opacità puntute, iridescenti, di diversi colori situate negli strati sottocapsulari del cristallino. Tra le altre patologie oculari va segnalata la degenerazione retinica; le alterazioni elettroretinografiche e dei potenziali evocati visivi sono relativamente frequenti.
L’alopecia frontale progressiva, ad esordio generalmente precoce, è un altro segno caratteristico, presente sia nei maschi che nelle femmine. Le alterazioni endocrine includono disturbi della tiroide, del pancreas e delle gonadi. Tipica è l’atrofia testicolare, con scomparsa dei tubuli seminiferi, riduzione dei livelli serici di testosterone e conseguente sterilità; la biopsia testicolare mostra alterazioni simili alla sindrome di Klinefelter, ma la cromatina sessuale è generalmente normale. Nella femmina non si ha sterilità ma irregolarità mestruali e facilità all’aborto. La maggior parte dei pazienti mostra iperinsulinemia da carico di glucosio, ma l’incidenza di una condizione franca di diabete non sembra essere superiore a quella della popolazione normale. È stato riportato un aumento dell’incidenza di gozzo e di noduli tiroidei. Le alterazioni della muscolatura liscia si manifestano con turbe della motilità dell’esofago e del faringe, dilatazione gastrica, stipsi, difficoltoso svuotamento vescicale, dilatazione ureterale e alterazione della contrazione uterina nel parto. La DM1 è caratterizzata anche da disturbi cognitivi ed alterazioni comportamentali; sono state riportate alterazioni EEG ed ingrandimento dei ventricoli cerebrali alla TC. Le principali anomalie della funzione immunitaria consistono nella diminuzione del livello plasmatico di immunoglobuline (IgG) e in una ridotta risposta anticorpale, peraltro senza evidente aumento di incidenza di malattie autoimmunitarie. I pazienti con esordio nell’età adulta hanno una ridotta sopravvivenza (vita media: 60 anni); la morte interviene per alterazioni cardiache (30%) o infezioni respiratorie (30%). Il 50% dei pazienti viene confinato sulla sedia a rotelle poco prima della morte. Eziopatogenesi – La DM1 è causata da un’espansione della ripetizione CTG localizzata nel cromosoma 19q13.3 nella regione che è contemporaneamente l’estremità 3’ della regione
Malattie muscolari 1475
non tradotta del mRNA del gene che codifica per la miotonina proteina chinasi (DMPK) (Brook et al., 1992) e la sede del promotore dell’adiacente gene SIX5. Malgrado le diverse ipotesi avanzate, il meccanismo molecolare alla base della DM1 non è ancora chiarito. La prima ipotesi prevedeva che una insufficiente produzione di DMPK (aploinsufficienza) fosse il principale meccanismo patogenetico: successivamente è stato tuttavia dimostrato che il topo eterozigote DMPK ottenuto per “knockout” non presentava segni patologici. Anche l’alterata espressione dei geni adiacenti, incluso SIX5, potrebbe spiegare alcune caratteristiche cliniche della malattia: infatti i topi “SIX5 knockout” manifestavano cataratta. La più recente ipotesi suggerisce che l’espansione CTG abbia un effetto dominante in quanto l’incrementato numero delle ripetizioni CUG (citosina-urifina-guanidina) nel mRNA del gene DMPK avrebbe la capacità di sequestrare proteine nucleari leganti CUG (CUGBP1); queste proteine sono coinvolte nella maturazione di molti mRNA che risulterebbe pertanto alterata: a riprova di ciò, è stato dimostrato che un modello di topo che esprime mRNA con molte ripetizioni CUG manifesta miotonia e aspetti miopatici tipici della DM1. Ulteriori dati suggeriscono, inoltre, una complessa relazione tra le CUGPB1 e la maturazione del mRNA del gene DMPK, per cui si creerebbe una alterata traduzione del gene: il topo “DMPK knockout” presenta anormalità cardiache. Questi dati, presi nel loro complesso, suggeriscono che ciascuno dei diversi meccanismi prospettati potrebbe contribuire alla patogenesi della DM1, che potrebbe così essere interpretata come una sindrome multigenica: la natura multigenica spiegherebbe a sua volta l’interessamento multisistemico della malattia. Il numero di ripetizioni CTG nel locus DM1 è molto variabile nella popolazione. Gli individui sani hanno alleli contenenti da 5 a 35 ripetizioni: in questo intervallo gli alleli sono stabili e non vanno incontro ad amplificazione.
Quando si superano le 50 ripetizioni gli alleli diventano instabili e l’instabilità causa la patologia. Gli alleli con un numero di ripetizioni compreso fra 36 e 49 devono essere considerati come alleli premutati, potenzialmente instabili. La sintomatologia è correlata al grado di espansione delle triplette, in base alla quale si distingue (IDMC, 2000) la forma lieve (da 50 a 150 ripetizioni), la forma classica (da 100 a 1000 ripetizioni), la forma congenita (le ripetizioni possono essere superiori a 2000). Il numero di ripetizioni non consente, tuttavia, una precisa previsione dell’età di esordio e della gravità della malattia a causa della sovrapposizione fenotipica e del mosaicismo somatico, responsabile della marcata variabilità clinica caratteristica della DM1. Infatti, l’instabilità mitotica fa si che diversi tessuti (e, all’interno dello stesso tessuto, le diverse cellule) dello stesso individuo affetto possano avere gradi di espansione diversa e che tale espansione con il procedere degli anni tenda ad aumentare. Il tessuto muscolare, l’encefalo ed il cuore presentano cellule con espansioni di grado maggiore rispetto ai leucociti. Del resto il numero di triplette è simile nei muscoli nonostante il loro diverso grado di compromissione, così come il numero di triplette non correla né con i disturbi cognitivi e comportamentali né con i difetti di conduzione cardiaca (la maggior causa di morte improvvisa nella DM1). Per contro, la documentata correlazione significativa fra età di esordio ed aumento delle ripetizioni è la base molecolare del fenomeno della “anticipazione” da una generazione all’altra. Inoltre, il livello d’instabilità intergenerazionale dovuto al numero delle triplette dipende dal sesso del genitore affetto: l’incremento risulta maggiore nella trasmissione materna che predomina nettamente nelle forme congenite. Ad ulteriore spiegazione del fatto che quasi tutti i casi congeniti derivano da madre affette sta il dato che gli oociti, a differenza dei gameti maschili, rimangono vitali anche in casi con diverse migliaia di triplette.
1476 Malattie del sistema nervoso
La diagnosi si basa in primo luogo su: 1) l’analisi molecolare del DNA leucocitario per la ricerca di una alterata espansione delle replicazioni di CTG (la combinazione di Southern blotting e della polymerase chain reaction PCR - permette di documentare il 100% di mutazioni senza falsi positivi); 2) l’esame clinico diretto all’evidenziazione di manifestazioni muscolari e non muscolari; 3) l’EMG per svelare una miotonia subclinica oltre ad eventuali segni di miopatia; 4) l’esame con la lampada a fessura per dimostrare la presenza di cataratta. Procedure diagnostiche di valore accessorio sono costituite da 1) la determinazione del livello serico di CK, spesso lievemente aumentata; 2) la biopsia muscolare, che frequentemente mostra aumento dei nuclei in posizione centrale, atrofia delle fibre di tipo I e fibre ad anello per la presenza di un anello periferico di sarcoplasma.
L’analisi molecolare è utile anche nella valutazione dei casi asintomatici o preclinici al fine sia di identificare il progenitore portatore della mutazione che di effettuare una diagnosi prenatale in un feto a rischio da genitore affetto. Terapia – Per il trattamento della miotonia sono stati impiegati chinino, difenilidantoina, procainamide ed acetazolamide. Studi controllati, anche se condotti in casistiche ridotte, hanno affermato la maggior efficacia della mexiletina (400-600 mg/die) e della tocainide (1200 mg/die). Con il progredire della malattia il sintomo più invalidante è costituito dal deficit di forza, ma per esso non esiste alcuna terapia se non il ricorso a protesi ortesiche. Possono essere invece trattati con beneficio diversi sintomi non miotonici, tra cui le alterazioni di conduzione cardiaca, la cataratta ed il deficit di testosterone.
Tabella 34.8 - Distrofie miotoniche DM1,PROMM e DM2: aspetti clinici.
Età di esordio Cromosoma Anticipazione
DM 1
PROMM
DM 2
0 - 50
8 - 50 anni
20 - 60 anni
19q13.3
3q21
3q21
+
±
±
++
–
+ ±
Ipostenia Faccia Ptosi
+
–
Prossimale
±
++
+
Distale
++
±
+
-
+
+
EMG: miotonia
++
+
+
Dolore muscolare
+
+
+
Cataratta
+
+
+
Calvizie
+
+
+
Aritmie cardiache
++
±
++
Insufficienza gonadica
+
±
±
Iperglicemia
+
±
±
Ipersonnia
+
±
+
Iperidrosi
±
+
+
Disturbi cognitivi
+
±
-
Ipertrofia polpacci
Malattie muscolari 1477
Distrofia miotonica tipo 2 (DM2) Vengono attualmente descritti sotto il termine di “Distrofia miotonica tipo 2 (DM2)” quadri clinici (PROMM, PMD, DM2) dovuti al alterazione del cromosoma 3q21 (Moxley et al., 2002). Recentemente (Liquori. et al., 2001) hanno dimostrato che la causa della DM2 è una espansione di CCTG (in media circa 5000 ripetizioni) localizzata nell’introne 1 del gene codificante la proteina a “dito di zinco” 9 (ZNF9). Il meccanismo patogenetico resta completamente da chiarire. Gli aspetti clinici caratteristici della DM2 sembrano essere rispetto alla DM1 un decorso più benigno con fenomeno dell’anticipazione meno marcato, assenza della forma congenita, minor coinvolgimento della muscolatura facciale e di quella ad innervazione bulbare, disturbi cognitivi e ritardo mentale meno rappresentati. I principali aspetti clinici sono riassunti nella Tabella 34.8. I sintomi cardinali obbligatori per la diagnosi di PROMM-DM2, sono: 1) l’ipostenia del flessori del collo e della muscolatura del cingolo pelvico talora associata a deficit del muscolo flessore profondo delle dita; 2) la miotonia, anche subclinica; 3) la presenza di cataratta posteriore capsulare, simile a quella osservabile nella DM1, con esordio prima dei 50 anni. La famiglia inizialmente classificata come DM2 (Ranum et al., 1998; Day et al., 1999) presentava aspetti clinici sovrapponibili a quelli della PROMM tranne la presenza di marcata ipostenia distale precoce e di gravi aritmie cardiache: ciò nonostante si è raggiunto il consenso che le famiglie con PROMM legate al cromosoma 3q21 e le famiglie con DM2 abbiano lo stesso disturbo (Moxley et al., 2002). Il quadro clinico della famiglia descritta da Udd et al. (1977) come PMD si differenzia dalla PROMM per un più grave coinvolgimento muscolare e per la perdita di udito: tuttavia la successiva dimostrazione dell’esistenza anche in questa famiglia di legame con il cromosoma 3q21 porta a considerare questa famiglia come
una variante allelica della PROMM stessa (Meola, 2000). Terapia – Non esiste trattamento specifico per ipostenia; la presenza di dolore può occasionalmente giovarsi di farmaci antinfiammatori steroidei e non; la miotonia può richiede un trattamento analogo a quello suggerito per la DM1.
Miopatie metaboliche Il termine “miopatia metabolica” indica condizioni dovute ad una alterazione nota del metabolismo energetico del muscolo scheletrico. Le miopatie metaboliche possono essere divise in tre gruppi: i disturbi del metabolismo del glicogeno, i disturbi del metabolismo dei nucleotidi, i disturbi del metabolismo dei lipidi. Le miopatie mitocondriali, secondarie ad errori biochimici situati all’interno della matrice mitocondriale, vengono discusse separatamente. Sintomo comune delle miopatie metaboliche è il deficit di forza agli arti che può associarsi a mialgie, contratture muscolari, intolleranza allo sforzo, mioglobinuria. L’espressione clinica è polimorfa ed è determinata da vari fattori quali natura, entità, distribuzione tessutale del difetto metabolico; deficit di enzimi non tessuto-specifici possono causare malattie a carattere multisistemico.
Miopatie da alterazioni del metabolismo dei carboidrati Le miopatie da accumulo di glicogeno sono caratterizzate da anomalie strutturali delle molecole di glicogeno e/o da aumentata concentrazione di glicogeno nel tessuto muscolare. Il glicogeno, sintetizzato a partire dal glucosio, è presente in grande quantità nel fegato e, in misura variabile, in quasi tutte le cellule; dal glicogeno, che rappresenta il suo deposito, vie-
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ne idrolizzato e rilasciato il glucosio in relazione con le esigenze metaboliche dell’organismo. Il tessuto muscolare dispone infatti di due fonti di energia, il glicogeno e gli acidi grassi, utilizzabili contemporaneamente o alternativamente in relazione con il tipo di sforzo richiesto e quindi con le caratteristiche della contrazione; a riposo vengono utilizzati prevalentemente gli acidi grassi, l’esercizio di bassa intensità richiede l’utilizzo sia di acidi grassi liberi che di glucosio ematico, mentre il glicogeno acquista un ruolo fondamentale durante lo sforzo di intensità maggiore in cui l’energia deriva dall’ossidazione dei carboidrati; infine lo sforzo massimale richiede l’utilizzo della glicolisi anaerobica. Il danno muscolare in corso di glicogenosi può essere secondario a difetti enzimatici propriamente muscolari o a difetti enzimatici generalizzati. La prima di queste due condizioni si esprime clinicamente, con l’eccezione della glicogenosi tipo IX, in forme caratterizzata da mioglobinuria ed intolleranza allo sforzo che vengono pertanto definite “dinamiche” in quanto il disturbo è indotto dall’esercizio. Nei casi in cui il difetto enzimatico è generalizzato, l’ipostenia risulta permanente e le forme cliniche vengono definite “statiche” (Di Mauro e Lamperti, 1999). A carico dei dati di laboratorio si segnala che il livello serico di CK risulta stabilmente elevato nelle glicogenosi tipo II, tipo III (ove peraltro esiste variabilità potendo i valori superare da 2 fino a 20 volte la norma), tipo V, tipo IX; risulta normale o lievemente aumentato nelle glicogenosi tipo IV e tipo VIII e può aumentare solo in corso di mioglobinuria come nella glicogenosi tipo XI. Generalmente è possibile dimostrare il difetto dell’attività enzimatica che determina le varie forme di glicogenosi mediante l’analisi biochimica di muscolo, fibroblasti, linfociti, nervo periferico ed anche valutare l’attività enzimatica residua.
La biopsia muscolare può evidenziare l’abnorme accumulo di glicogeno all’interno di lisosomi (glicogenosi tipo II) o vacuoli (glicogenosi tipo III), l’accumulo di polisaccaridi (glicogenosi tipo VII) e segni aspecifici come variabilità nel calibro delle fibre, fibre necrotiche, fibre con aspetti di rigenerazione. L’EMGrafia è frequentemente alterata per la presenza di attività spontanea patologica (potenziali positivi e di fibrillazione, scariche complesse ripetitive), i potenziali sono di durata ed ampiezza ridotta eventualmente associati, nelle forme lentamente progressive, a potenziali di lunga durata che riflettono il tentativo di rigenerazione delle fibre muscolari. Sotto il profilo genetico, oltre alle indagini deputate al riconoscimento dei siti colpiti da mutazione e delle loro caratteristiche, si ricorda che per le forme di glicogenosi II e III è possibile effettuare la diagnosi prenatale mediante amniocentesi o prelievo dei villi coriali. Oltre alla terapia di supporto, necessaria a correggere le complicanze cardio-respiratorie, un trattamento medico specifico di fatto non esiste, nella malattia di Cori Forbes può essere di aiuto una dieta idonea a prevenire l’ipoglicemia e nella malattia di McArdle l’integrazione con vitamina B6. Vengono escluse dalla trattazione le glicogenosi tipo I e tipo VI poiché non comportano alterazioni a carico dell’apparato muscolare. Deficit di maltasi acida (glicogenosi tipo II) È una malattia a trasmissione autosomica recessiva, causata da difetto della maltasi acida lisosomiale (alfa-glucosidasi), enzima deputato a scindere il legame alfa-1,4 e alfa1,6 degradando il glicogeno a glucosio; la riduzione dell’enzima conduce ad accumulo di glicogeno all’interno dei vacuoli lisosomali e nel citoplasma con conseguente danno delle fibre muscolari. Solitamente esiste una correlazione inversa tra attività enzimatica residua e gravità clinica; a questo proposito va detto peraltro che l’ipo-
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stenia muscolare sarebbe secondaria non tanto all’insufficiente utilizzo del substrato quanto al danno causato dall’accumulo di glicogeno sia nelle fibre muscolari (con conseguente interessamento del sistema contrattile) che nelle cellule delle corna anteriori (con conseguente perdita di motoneuroni e sovrapposizione di manifestazioni neurogene documentabili all’elettrofisiologia ed alla biopsia). Il gene deputato a codificare la maltasi acida è localizzato sul cromosoma 17 q 21-23; in esso sono state evidenziate differenti mutazioni, alcune definite “missense”, altre “nonsense” (rispettivamente responsabili di alterare e bloccare il senso di lettura), altre ancora definite “frame-shift” (cioè che mantengono il registro di lettura). La glicogenosi tipo II rappresenta il 15% dei casi con malattia da accumulo di glicogeno, clinicamente si evidenziano tre forme che differiscono per l’esordio che può collocarsi in epoca infantile, giovanile o nell’età adulta e per il livello di gravità. – La forma infantile (malattia di Pompe) si manifesta nelle prime settimane o mesi di vita con cardiomegalia, epatomegalia, macroglossia, deficit muscolare associato ad ipotonia ed interessamento della muscolatura respiratoria che conduce all’exitus entro i due anni di vita. – La forma giovanile si manifesta nella prima decade con ipostenia muscolare più evidente nei settori prossimali; a differenza della forma infantile, cardiomegalia, epatomegalia e macroglossia sono meno frequenti, l’insufficienza respiratoria è invece presente e di entità tale da condurre al decesso nel corso della seconda o terza decade. – La forma ad esordio in età adulta si manifesta, con grande variabilità, tra i trenta ed i cinquanta anni. L’ipostenia, frequentemente simmetrica, è più evidente nei settori prossimali e nel 20% dei casi si associa ad ipotrofia. È descritta la presenza di alterazioni cardiache (per esempio aritmie), mentre cardiomegalia ed epatomegalia risultano assenti. Anche in questa
forma esiste interessamento della muscolatura respiratoria ed in circa il 15% dei casi il paziente giunge all’osservazione ed alla diagnosi proprio per sintomi correlabili all’insufficienza respiratoria. Glicogenosi tipo III Conosciuta anche come malattia di CoriForbes, rappresenta circa il 25% di tutti i tipi di glicogenosi; è causata da deficit dell’enzima deramificante che consiste in una singola proteina codificata da un gene localizzato sul cromosoma 1p21. A seconda che venga interessata la prima o la seconda parte della reazione enzimatica, esistono due varianti biochimiche della malattia che si riflettono in due forme cliniche. Nella così detta GSD IIIa il deficit dell’enzima deramificante è presente nel fegato e nel muscolo e pertanto la malattia si esprime clinicamente con la miopatia, mentre nel tipo GSD IIIb l’attività enzimatica risulta alterata solo a livello del fegato con conseguente risparmio del muscolo. La forma GSD IIIa esordisce nell’infanzia con epatomegalia, ipoglicemia, ritardo della crescita; la miopatia si manifesta successivamente, nella terza e quarta decade, con ipostenia ed ipotrofia muscolare spesso più evidente nei settori distali degli arti piuttosto che in quelli prossimali, per cui la diagnosi differenziale si pone nei confronti della malattia del motoneurone o delle neuropatie motorie. Ulteriori difficoltà diagnostiche derivano dalla possibile coesistenza di una lieve polineuropatia sensitivomotoria. Ad oggi nei portatori della variante IIIa sono state individuate numerose mutazioni genetiche, ma restano ancora da chiarire i meccanismi genetici che determinano il diverso coinvolgimento tessutale nelle due forme della malattia. Glicogenosi tipo IV La glicogenosi tipo IV, conosciuta anche come malattia di Andersen, è causata da difetto dell’ enzima ramificante (deputato a forma-
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re le molecole dei rami del glicogeno) codificato da un gene localizzato sul cromosoma 3. Clinicamente la malattia è polimorfa: il difetto enzimatico può essere silente oppure interessare, a partire dall’infanzia ed in misura variabile, fegato, cuore, cervello e muscoli scheletrici. Esiste anche una forma, definita malattia da poliglucosani, che si manifesta nell’adulto con demenza, disturbi sfinterici, interessamento progressivo del I e II neurone motore e dei nervi sensitivi. Glicogenosi tipo V È chiamata comunemente malattia di McArdle ed è causata da deficit di miofosforilasi, enzima codificato da un gene posizionato sul cromosoma 11q12. Il quadro clinico è rappresentato dall’intolleranza allo sforzo cui si associano mialgia, rigidità, ipostenia muscolare che regrediscono con il riposo e, nella metà dei pazienti adulti, mioglobinuria. Talora dolore e crampi possono attenuarsi se il soggetto ha l’accortezza, dopo la loro comparsa, di ridurre l’intensità dello sforzo modificando quindi il substrato utilizzato dai muscoli che passa dal glicogeno ai lipidi (fenomeno definito del “second wind” ). La malattia, trasmessa con tratto autosomico recessivo, è geneticamente eterogenea, infatti a carico del gene che codifica la miofosforilasi sono state identificate numerose mutazioni la cui frequenza varia nei differenti gruppi etnici. Glicogenosi tipo VII È conosciuta anche come malattia di Tarui: si tratta di un disturbo secondario a deficit di fosfofruttochinasi, enzima formato da tre subunità isoenzimatiche (M, L, P). Il deficit biochimico della sub-unità M è più grave nella cellula muscolare ove l’attività enzimatica è assente rispetto all’eritrocita che, disponendo anche della sub-unità L, presenta una quota di attività enzimatica residua.
Clinicamente la malattia si esprime con tre varianti: una forma caratterizzata da anemia emolitica senza interessamento miogeno, una forma infantile ad esito infausto per la gravità della miopatia e della cardiomiopatia, una forma ad esordio tardivo che si manifesta con sintomi molto simili a quelli presenti in corso di malattia di Mc Ardle ( intolleranza allo sforzo, dolore muscolare) da cui si distingue per la minor frequenza della mioglobinuria. Geneticamente il disturbo si trasmette con modalità autosomica recessiva e, per motivi non chiariti, sono più frequentemente colpiti i maschi; il gene che codifica l’isoforma M della fosfofruttochinasi è localizzato sul cromosoma 1q32, al suo interno sono state evidenziate numerose mutazioni probabilmente responsabili , attraverso differenti difetti molecolari, dell’eterogeneità del fenotipo. Glicogenosi tipo VIII È una malattia autosomica recessiva secondaria a deficit di fosforilasi b chinasi. Le manifestazioni cliniche sono eterogenee, generalmente l’esordio, in età infantile o adulta, consiste in intolleranza allo sforzo con mioglobinuria. Glicogenosi tipo IX È un disturbo causato da deficit di fosfoglicerato chinasi la cui trasmissione è legata al cromosoma X. Tipicamente si manifesta nei maschi con anemia emolitica e disturbi del sistema nervoso centrale, talora miopatia per lo più caratterizzata da intolleranza allo sforzo e mioglobinuria ricorrente. Glicogenosi tipo X È una malattia rara correlata al deficit di fosfogliceratomutasi, trasmessa per via autosomica recessiva, il cui esordio si colloca nell’adolescenza, clinicamente caratterizzata da attacchi ricorrenti di mioglobinuria con mialgie indotte dall’attività fisica.
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Glicogenosi tipo XI È una condizione rarissima secondaria a carenza di lattato deidrogenasi, la trasmissione è di tipo autosomico recessivo. Clinicamente si manifesta con intolleranza allo sforzo e mioglobinuria.
Miopatie da alterazioni del metabolismo purinico L’unico disturbo del metabolismo dei nucleotidi che interessa il muscolo è rappresentato da un quadro clinico, che insorge tra l’età adolescenziale e quella adulta e consiste in dolore muscolare, intolleranza allo sforzo, talora mioglobinuria. Il livello serico di CK è lievemente aumentato, l’EMGrafia risulta normale. Tale disturbo è stato posto in relazione con il deficit di adenilato deaminasi (MAD), errore biochimico che comporta ridotta formazione di ATP. In realtà la riduzione di MAD è un difetto enzimatico relativamente frequente essendo stato osservato nell’1-2% di tutte le biopsie muscolari (Di Mauro et al, 1980) e non sembra rivestire carattere di specificità poiché lo si rinviene in numerose malattie neuromuscolari; sulla base di questi reperti è stata ipotizzata l’esistenza di forme primarie e forme secondarie della malattia. L’osservazione di soggetti portatori di deficit di MAD asintomatici rende ulteriormente problematica la correlazione tra il quadro clinico descritto e l’errore biochimico.
Miopatie da alterazioni del metabolismo lipidico Gli acidi grassi, distinguibili in acidi grassi a catena corta, media, lunga, molto lunga, costituiscono un’indispensabile sorgente di energia da utilizzarsi in condizioni di scarsa disponibilità di glicogeno epatico o muscolare come, ad esempio, nell’attività muscolare protratta eseguita in condizione di digiuno.
Gli acidi grassi a catena lunga (LCFA) differiscono da quelli a catena corta e media per l’impossibilità di superare la membrana mitocondriale interna, passaggio indispensabile per l’espletamento della beta ossidazione e la conseguente formazione di ATP. Perché ciò avvenga gli acidi grassi a catena lunga devono subire una modificazione che inizia con la loro attivazione ad Acil Coenzima A (AcilCoA) che, mediante una reazione enzimatica catalizzata dalla carnitin-palmitoiltransferasi 1 (CPT 1), si unisce alla carnitina. Come esteri della carnitina gli LCFA passano attraverso la membrana mitocondriale e raggiungono la matrice mitocondriale ove la carnitin-palmitoiltransferasi 2 (CPT II) opera il processo inverso rendendo disponibili gli LCF-AcilCoA al processo beta-ossidativo. Deficit di Carnitina Le sindromi da deficit di carnitina sono tre: deficit di carnitina primario sistemico, deficit di carnitina primario muscolare, deficit di carnitina secondario. – La miopatia correlata a deficit di carnitina primario sistemico si manifesta con ipostenia prossimale ingravescente, anche se spesso la gravità delle manifestazioni sistemiche può mascherare la sintomatologia muscolare. La malattia, talora ereditata con tratto autosomico recessivo, risulta più frequentemente sporadica, ha inizio nell’infanzia con episodi acuti, simili a quelli osservati in corso di malattia di Reye, caratterizzati da vomito ed alterazioni dello stato di coscienza sino al coma. Il livello di carnitina è diminuito nel muscolo, nel sangue ed in altri tessuti. La biopsia muscolare evidenzia abnormi accumuli di materiale lipidico soprattutto a livello delle fibre di tipo I. L’EMGrafia presenta alterazioni miopatiche aspecifiche. – Il deficit muscolare di carnitina è trasmesso con modalità analoghe alla forma sistemica, esordisce nell’adolescenza o nella prima età
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adulta con ipotrofia ed ipostenia prevalentemente prossimale ad evoluzione lentamente progressiva. Fatica e dolore muscolare in rapporto con l’attività fisica sono rari, la mioglobinuria è pressochè assente. Il livello di carnitina è molto ridotto nel muscolo, mentre è normale nel plasma ed in altri tessuti. I reperti della biopsia muscolare e della EMGrafia sono sovrapponibili a quelli riscontrabili nella forma sistemica. Alcuni pazienti rispondono alla somministrazione orale di L-carnitina(2-6 g/die) in assenza, tuttavia, di apprezzabili modificazioni del livello muscolare della carnitina stessa. – La forma secondaria della malattia è controversa: il deficit secondario di carnitina può essere infatti osservato in corso di malattie sistemiche e muscolari e non esiste la certezza di una sua espressione clinica sul muscolo. Il livello di carnitina è ridotto (circa 25-50% del normale), ma meno rispetto alle forme primarie ove sono raggiunti livelli pari al 2-4% della norma.
nuto lipidico soprattutto nelle fibre muscolari tipo I.
Deficit di carnitin-palmitoil-transferasi È una malattia trasmessa ad ereditarietà autosomica recessiva che, tipicamente, si manifesta in età giovanile con attacchi ricorrenti di mialgie, ipostenia, mioglobinuria in relazione con l’esercizio intenso o prolungato; svolgono un ruolo scatenante anche il digiuno, l’esposizione al freddo, infezioni intercorrenti, diete ricche di grassi e povere di carboidrati. La malattia è di fatto la causa più frequente di mioglobinuria seguita dal deficit di miofosforilasi (Tonin et al, 1990). Il livello serico di CK , normale nei periodi intercritici, aumenta nel periodo immediatamente successivo l’episodio di mioglobinuria. Nonostante i tessuti non muscolari siano clinicamente risparmiati, il difetto enzimatico è documentabile anche nella cellula epatica, nei leucociti, nelle piastrine e nei fibroblasti; la biopsia può evidenziare un aumento del conte-
Miopatie mitocondriali
Deficit di Acil-CoA deidrogenasi Il difetto biochimico può interessare l’enzima acil-CoA deidrogenasi dei grassi a catena molto lunga (VLCAD), a catena lunga (LCAD), a catena media (MCAD), a catena corta (SCAD). I disturbi clinici che ne derivano sono eterogenei, la malattia esordisce nella prima infanzia con episodi di ipoglicemia non chetosica, manifestazioni encefalopatiche, associate, in alcune forme, a cardio ed epatomegalia. I pazienti affetti da deficit di LCAD e di MCAD che raggiungono l’età adulta presentano episodi ricorrenti di mialgie e mioglobinuria ed ipostenia prossimale; nella forma correlata a deficit di MCAD la risoluzione delle crisi metaboliche, che generalmente si verifica nella seconda infanzia, è seguita dall’instaurarsi di una miopatia di entità lieve. L’interessamento muscolare è raro e di entità lieve nei pazienti portatori di deficit di VLCAD e di SCAD.
Le miopatie mitocondriali comprendono un gruppo di malattie caratterizzate da difetti strutturali, biochimici e genetici dei mitocondri (Di Mauro et al., 1985). Poiché queste strutture sono presenti in ogni cellula del corpo umano la miopatia rappresenta frequentemente solo una parte dell’espressione fenotipica di un disturbo che può essere definito multisistemico. Una possibile classificazione delle miopatie secondarie a difetti del metabolismo mitocondriale è quella biochimica che si basa sul riconoscimento della fase di produzione aerobica di energia ove si situa l’errore primario; questo, a grandi linee, può collocarsi nella fase di trasporto del substrato, nella fase del suo utilizzo, nel ciclo di Krebs, nella catena respiratoria. Le alterazioni evidenziate lungo le vie metaboliche mitocondriali, peraltro, spesso risulta-
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no prive di specificità; per esempio, il difetto di un complesso o di un coenzima può essere comune a più forme cliniche senza ricoprire un ruolo causale, rivestendo unicamente un significato aspecifico di epifenomeno (Larsson e Oldfors, 2001). La classificazione più moderna si fonda sulla genetica molecolare che negli ultimi decenni ha fornito un contributo essenziale allo studio di queste miopatie. Ogni mitocondrio contiene il proprio DNA e può usufruire di propri meccanismi di replicazione e trascrizione; pertanto ogni cellula contiene migliaia di molecole di DNA diverse dal genoma nucleare. Il DNA mitocondriale (mtDNA) umano è una molecola circolare, a doppio filamento, con 16529 paia di basi; codifica per 13 polipeptidi della catena enzimatica respiratoria, incluse 7 subunità di NADH-ubiquinone ossidoreduttasi (complesso I), 1 subunità di diidroubiquinonecitocromo c ossidoreduttasi (complesso III), 3 subunità di citocromo c ossidasi (complesso IV) e 2 subunità di ATPasi sintetasi (complesso V). Solo i polipeptidi della succinato-ubiquinone ossidoreduttasi (complesso II) non sono codificati dal mtDNA. Nonostante i geni mitocondriali codifichino solo per il fabbisogno dei mitocondri stessi, per il funzionamento della catena respiratoria è necessario l’apporto del genoma nucleare che codifica gran parte delle proteine mitocondriali (più del 90%). Questa simbiosi tra i due genomi spiega la peculiarità e la complessità dei meccanismi genetici che sottendono le miopatie mitocondriali. La disparità tra i due genomi, farebbe ipotizzare un numero maggiore di mutazioni nel contesto del genoma nucleare. In realtà le mutazioni del mtDNA sono più comuni ed hanno maggiori possibilità di manifestarsi sul fenotipo a causa della mancanza di introni e del numero ridotto di meccanismi di riparazione di cui può usufruire il DNA propriamente mitocondriale. Anche la classificazione genetica, così come quella biochimica, possiede limiti che in questo
caso nascono dalla complessità dell’origine genetica dei mitocondri. Nonostante le acquisizioni bio-molecolari siano in continuo accrescimento le mutazioni del mtDNA attualmente conosciute ammontano a meno del 50% dei casi clinici negli adulti e non sempre rivestono un carattere di specificità. Da un lato, in quadri clinici ben definiti sono stati infatti documentate plurime possibilità di danno genetico e nel contempo mutazioni specifiche sono state evidenziate in sindromi differenti. Inoltre, a fronte dell’aumento di malattie collegabili a mutazioni del mtDNA, esistono scarse notizie circa le conseguenze molecolari di tali mutazioni, soprattutto per quanto concerne la relazione genotipo-fenotipo. Una volta presente, la mutazione genetica del DNA mitocondriale passa casualmente alle generazioni successive di cellule somatiche e germinali così che alcune cellule riceveranno genoma mutante (omoplasia mutante), altre genoma integro (omoplasia normale), altre ancora - la maggior parte - un “misto” di genoma mutante e normale (eteroplasia). Pertanto l’espressione fenotipica dipende dal tipo di danno biochimico relativo alla mutazione, dal rapporto, all’interno della cellula, tra mitocondri mutanti e normali e dal diverso effetto che questo riveste a seconda dell’ età e del tipo di tessuto cui la cellula appartiene (effetto soglia); l’interazione di questi fattori spiega il notevole polimorfismo clinico anche all’interno di uno stesso gruppo familiare. La teoria che le malattie mitocondriali vengano trasmesse solo per via materna non si applica a tutti i casi. Nelle fasi di fertilizzazione i mitocondri sono forniti dalle cellule materne; studi recenti (effettuati grazie alla fertilizzazione in vitro) volti a rivelare l’eventuale presenza di mtDNA paterno replicato nel prodotto del concepimento, hanno ribadito l’impossibilità della trasmissione per via paterna (Schapira, 2000). È logico, pertanto, aspettarsi una trasmissione materna per le miopatie secondarie a mu-
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tazioni del mtDNA (per esempio la miopatia mitocondriale con encefalopatia, acidosi lattica ed episodi tipo ictus). Tuttavia, qualora sia interessato il genoma nucleare, la trasmissione non avverrà necessariamente per via materna. Questa possibilità è emersa dallo studio di alcune famiglie con varianti fenotipiche della oftalmoplegia cronica progressiva ove sono state identificate delezioni mitocondriali multiple la cui modalità di trasmissione (autosomica dominante) consente di ipotizzare un difetto genetico nucleare (Warner e Schapira, 1977). Biopsia Muscolare Poiché il coinvolgimento muscolare, a livello clinico o subclinico, è pressochè comune a tutti i disordini mitocondriali, la biopsia muscolare è tuttora indispensabile ai fini di una precisazione diagnostica. Le “ragged red fibers” (“fibre rosse raggiate”) vengono considerate un segno tipico delle miopatie mitocondriali nonostante la loro presenza non sia esclusiva, né risulti documentata in tutte le miopatie mitocondriali. Si tratta di fibre muscolari contenenti un numero eccessivo di mitocondri per lo più a struttura anomala che, con la colorazione di Gomori, appaiono di color viola o rosso da cui il termine. La proliferazione abnorme di mitocondri, che si traduce nella presenza di ragged red fibers, correla con l’alterazione della sintesi proteica mitocondriale ed è di comune riscontro nelle forme secondarie a deplezioni del mtDNA, a delezioni e mutazioni puntiformi dei geni che codificano per i tRNA. La microscopia elettronica può evidenziare differenti cambiamenti ultrastrutturali dei mitocondri che, peraltro, non correlano con i diversi fenotipi. Esami paraclinici Il carattere multisistemico delle miopatie mitocondriali rende indispensabile, al fine di escludere il coinvolgimento di più apparati, uno studio ematico ed urinario, una valutazione strumentale cardiologica, otoiatrica ed oculistica,
l’elettroencefalogramma, i potenziali evocati, le neuro-immagini (Vladutiu, 2002). Per quanto riguarda il danno propriamente muscolare è necessario dosare il livello ematico di CK (che può risultare normale o lievemente aumentato), i livelli di lattato e piruvato che sono frequentemente aumentati, in particolare nel bambino e dopo sforzo; in molte forme il lattato risulta aumentato anche nel liquido cefalo-rachidiano. L’elettromiografia può risultare normale o mostrare potenziali di unità motoria di ridotta ampiezza e breve durata e, raramente, presenza di attività spontanea patologica (potenziali positivi e potenziali di fibrillazione). L’EMGrafia di singola fibra può evidenziare aumentata densità delle fibre o aumento del jitter. L’ENGrafia motoria è alterata nei casi in cui coesiste una neuropatia e generalmente il danno è di tipo assonale, più raramente, demielinizzante. Clinicamente le miopatie mitocondriali sono eterogenee potendosi esprimere in modo paucisintomatico e scarsamente invalidante come nelle forme con mioglobinuria ricorrente o nella forma definita SDH (deficit di succinato deidrogenasi) ove la mioglobinuria si associa a ridotta tolleranza all’esercizio fisico, ovvero con modalità assai complesse per l’ impegno di più organi . L’ubiquitarietà dei mitocondri fa si che il danno di questi organi si possa esprimere clinicamente in forme multisistemiche tanto che, sul piano pratico, proprio l’interressamento di differenti apparati può suggerire l’ ipotesi diagnostica di una miopatia mitocondriale. Frequentemente coesistono, con il danno propriamente muscolare, manifestazioni sistemiche che possono essere a carico del cuore come cardiomiopatia e disturbi della conduzione, dell’occhio come la retinite pigmentosa (presente in 1/3 dei pazienti), dei sistemi endocrino, renale, gastrointestinale e cutaneo, oltre ad aspetti meno specifici come la bassa statura.
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Sono frequenti anche le manifestazioni a carico del sistema nervoso periferico (disturbi sia motori che sensitivi) e del sistema nervoso centrale (episodi simil-ictali, crisi epilettiche, neuropatia ottica, atassia, movimenti involontari patologici). Abbiamo scelto di trattare per esteso in questo capitolo alcuni tipi di miopatie mitocondriali caratterizzate da buona correlazione tra genotipo e fenotipo e da una espressione clinica discretamente riproducibile. Alcune di queste forme, caratterizzate da interessamento, clinico o subclinico, del sistema nervoso centrale, vengono definite anche “encefalomiopatie” Oftalmoplegia cronica progressiva (CPEO) È la forma più comune delle malattie mitocondriali; l’esordio, abitualmente in età giovaA
B
Fig. 34.16 - Distrofia muscolare oculare. Ptosi con contrazione compensatoria della muscolatura frontale (A) ed oftalmoparesi estrinseca (B); concomita un atteggiamento lievemente protruso delle labbra.
nile, è caratterizzato da ptosi ed oftalmoplegia esterna progressiva, mentre più raramente si manifesta isolatamente solo uno dei due segni. La ptosi risulta frequentemente asimmetrica, la diplopia è presente nel 40% circa dei casi. Ptosi ed oftalmoplegia esterna progressiva (Fig. 34.16) possono formare l’intero quadro clinico o associarsi a disfagia, disartria, deficit di forza degli arti; risultano assenti segni e sintomi di interessamento cardiaco, oculare, endocrino. Va ricordato che gli individui affetti possono presentare disturbi respiratori se sottoposti a farmaci anestestici. La biopsia muscolare evidenzia le caratteristiche “ragged red fibers” e, talora, deficit di citocromo C ossidasi. Geneticamente la CPEO è eterogenea, si riconoscono forme autosomiche dominanti a trasmissione materna e forme sporadiche in cui sono state evidenziate ampie delezioni singole del mtDNA analoghe a quelle osservate nella sindrome di Kearns-Sayre (vedi oltre). Sindrome di Kearns-Sayre (KSS) È una forma che esordisce prima dei venti anni, caratterizzata da oftalmoplegia esterna progressiva cui si associano retinite pigmentosa e blocco cardiaco di conduzione. L’espressione fenotipica della malattia è complessa, per cui i pazienti, oltre alla triade precedentemente citata, possono manifestare ipostenia dei cingoli, bassa statura, atassia, sordità neurosensoriale e disturbi endocrinologici multipli quali diabete, ipotiroidismo, ipoparatiroidismo, ritardo nello sviluppo dei caratteri sessuali secondari. Anche in questa malattia l’uso di anestetici può condurre a grave ipoventilazione. La biopsia muscolare evidenzia alterazioni del tutto sovrapponibili a quelle evidenziate nella CPEO. La maggioranza dei casi si presenta in maniera sporadica e si associa a singole delezioni di mtDNA le cui dimensioni variano da caso a caso; quella più frequentemente osservata ha
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una dimensione di 4,9 Kb. La sporadicità della KSS si spiega con il fatto che tali delezioni rappresentano nuove mutazioni all’interno delle cellule somatiche piuttosto che di quelle germinali; inoltre l’eventuale delezione di mtDNA all’interno dell’oocita è destinata ad autolimitarsi determinando la mancata funzionalità dell’oocita stesso e, nel caso questo venga fertilizzato, l’incapacità di raggiungere un normale sviluppo embrionario. Miopatia mitocondriale con encefalopatia, acidosi lattica ed episodi tipo ictus (MELAS) L’esordio avviene generalmente prima dei 15 anni, la sintomatologia più frequente consiste in deficit di forza nei settori prossimali, intolleranza allo sforzo ed episodi ricorrenti, talora scatenati dallo sforzo, caratterizzati da cefalea, clinicamente simile ad emicrania, accompagnata da emiparesi e deficit del campo visivo. La precisa patogenesi di questi episodi simil ictali non è conosciuta, anche se si ammette che essi possano essere espressione dell’insufficiente produzione di energia nel tessuto cerebrale. L’osservazione, in alcuni pazienti, di mioclono, crisi comiziali ed atassia, ha reso possibile l’individuazione di forme particolari che si sovrappongono alla mioclono epilessia con fibre rosse raggiate (v. pag. 1486). Analogamente, anche se con minor frequenza (circa il 10% dei casi), altre forme sembrano embricarsi, per lo meno clinicamente, con la KSS per la presenza di ptosi, oftalmoparesi e retinite pigmentosa. La biopsia muscolare è sovrapponibile alle altre forme di miopatia mitocondriale. L’interessamento del sistema nervoso centrale trova riscontro nella TAC e nella NMR che evidenziano atrofia corticale, alterazioni focali, calcificazioni simmetriche nei gangli della base. La malattia è trasmessa per via materna, il gene più frequentemente interessato è quello per il tRNA Leu in cui sono stati evidenziati numerosi siti suscettibili a mutazione (3243, 3252, 3260, 3271, 3291); di queste la più frequente è
rappresentata da una transizione A➛G (sostituzione di Adenina con Guanina) al nucleotide 3243. Altre mutazioni sono state evidenziate nei geni per il tRNAVal e tRNACys. Mioclono epilessia con fibre rosse raggiate (MERRF) L’età di esordio è variabile (dall’infanzia all’età adulta) e la sintomatologia è inizialmente caratterizzata da crisi miocloniche generalizzate cui successivamente si associano, nella forma tipica, miopatia prevalente ai cingoli, sindrome cerebellare, atrofia ottica, sordità neuro sensoriale, demenza. Come in altre miopatie mitocondriali anche nella MERRF il fenotipo è eterogeneo e, forse per una differente ripartizione dei mitocondri patologici nei diversi tessuti, la malattia non si manifesta in tutti i soggetti con il corteo sintomatologico tipico. Alcuni pazienti presentano inoltre lipomatosi multipla, altri cardiomiopatia, altri ancora sviluppano una polineuropatia sensitivo-motoria con piede cavo. L’ereditarietà avviene per via materna, la mutazione più frequente è una transizione A➛G (sostituzione di adenina con guanina) al nucleotide 8344 del gene per il tRNA Lys. Altre possibili mutazioni riguardano il gene tRNAleu, (lo stesso gene che risulta frequentemente alterato nella MELAS). Cardiomiopatia recessiva con oftalmoplegia È una rara sindrome ad esordio in epoca infantile, clinicamente simile alla PEO per la presenza di ptosi ed oftalmoparesi, cui si associano ipostenia muscolare e grave cardiomiopatia dilatativa. L’ereditarietà è di tipo autosomico recessivo. Sindromi da deplezione del DNA mitocondriale Tale disturbo comprende due forme, entrambe ad esordio precoce. La più grave, miopatia infantile fatale, è caratterizzata da ipostenia ed ipotonia, spesso as-
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sociata a cardiomiopatia ed alla sindrome di De Toni-Fanconi-Debrè, più raramente a ptosi ed oftalmoparesi. L’insufficienza respiratoria e le difficoltà dell’alimentazione conducono all’exitus che avviene generalmente nel corso del I anno di vita. La meno grave, miopatia infantile benigna, si differenzia per l’assenza di danno renale tubulare e soprattutto per l’ evoluzione del disturbo motorio che tende a migliorare dopo il I anno di vita tanto da permettere il raggiungimento dell’età adulta. Il disturbo genetico che più frequentemente è stato descritto in associazione a queste sindromi è rappresentato da un difetto quantitativo del mtDNA, la cui entità sembra correlare con la gravità del fenotipo. Encefalomiopatia mitocondriale neurogastrointestinale (MNGIE) definita anche sindrome POLIP (polineuropatia, oftalmoplegia, leucoencefalopatia, pseudo-ostruzioni intestinali) L’esordio avviene prima dei 20 anni con sintomi riferibili ad alterazione della motilità intestinale (dolore, dispepsia, nausea, vomito diarrea) che successivamente condizioneranno il decorso della malattia. La forma conclamata, nella maggior parte dei casi, comprende ptosi ed oftalmoplegia, talora anche degenerazione pigmentosa retinica, sordità, disfonia, disartria. I disturbi sensitivi con tipica distribuzione a calza e l’atrofia muscolare nei settori distali sono frequenti, e rappresentano l’espressione di una polineuropatia sensitivo-motoria che elettrofisiologicamente evidenzia un danno con caratteristiche non solo di tipo assonale (riduzione in ampiezza del potenziale sensitivo) ma anche demielinizzante (rallentamento di velocità delle fibre sensitive e motorie, alterazioni dell’onda F). Nonostante le neuroimmagini mostrino segni di leucoencefalopatia, generalmente nei pazienti non vengono documentati aspetti clinici di interessamento del SNC.
Sindrome di Leigh È una encefalo-mielopatia necrotizzante subacuta che esordisce generalmente nell’infanzia ed è clinicamente è caratterizzata da alterazioni neuromuscolari come oftalmoplegia, atrofia ed ipostenia muscolare, insufficienza respiratoria e segni di lesione del sistema nervoso centrale quali spasticità, movimenti involontari, episodi comiziali, atrofia ottica. La sindrome è eterogenea sia sotto il profilo genetico che biochimico. Sono infatti descritte, delezioni singole e mutazioni puntiformi del mtDNA, mutazioni, legate al cromosoma X nel gene che codifica la subunità E1alfa del PDC (complesso piruvato deidrogenasi) e varie mutazioni a carico del gene mitocondriale per l’ATPasi 6. Queste ultime rivestono particolare interesse poiché il gene in cui sono locate è lo stesso che risulta colpito in un altro disturbo mitocondriale definito NARP (“neuropatia, atassia e retinite pigmentosa”).
Miopatie infiammatorie Il più ampio gruppo di miopatie acquisite dell’età adulta è costituito dalle miopatie infiammatorie che, peraltro, possono verificarsi anche nell’infanzia e nell’adolescenza. Il dato anatomopatologico comune a queste miopatie è rappresentato dalla presenza di infiltrati infiammatori (Fig. 34.17), fibrosi e perdita di fibre muscolari. Si distinguono forme idiopatiche a probabile meccanismo immuno-mediato, in cui nessun agente patogeno è stato identificato con certezza, e forme a dimostrata eziologia infettiva. Una possibile classificazione delle miopatie infiammatorie è riportata nella Tabella 34.9.
Miopatie infiammatorie idiopatiche Costituiscono un gruppo di miopatie acquisite, subacute o croniche, ad eziologia scono-
1488 Malattie del sistema nervoso Tabella 34.9 - Miopatie infiammatorie.
Forme infiammatorie idiopatiche Dermatomiosite Polimiosite Miosite a corpi inclusi Forme associate a collagenopatie vascolari Lupus eritematoso sistemico Connetivopatie miste Scleroderma Sindrome di Sjögren Artrite reumatoide Forme infettive virali batteriche fungine parassitarie
Fig. 34.17 - Reperto istologico muscolare nella polimiosite. In A), sezione trasversale, dimostrante degenerazione delle fibre muscolari (ialina, granulo-vacuolare) con qualche spostamento centrale dei nuclei del sarcolemma ed infiltrati interstiziali mononucleati; in B), sezione longitudinale, dimostrante abbondanti infiltrati cellulari ed estesa necrosi e frammentazione delle fibre.
sciuta e a probabile patogenesi autoimmune, caratterizzate da ipostenia progressiva ed infiammazione muscolare che si esprime con alterazioni dell’istologia muscolare, del livello serico di CK e del reperto elettromiografico. Sulla base degli aspetti clinici, istologici e patogenetici le miopatie infiammatorie idiopatiche vengono distinte in tre forme principali: dermatomiosite (DM), polimiosite (PM) e miosite a corpi inclusi (IBM). Peraltro, alcuni autori sostengono che quest’ultima condizione dovrebbe essere considerata separatamente per alcuni aspetti distintivi, in particolare per la diversa risposta terapeutica. Accanto ai tre quadri principali vengono descritte le forme associate a malattie del tessuto connettivo, chiamate anche “overlap syndromes” (sindromi da sovrap-
Altre forme miositi granulomatose miosite eosinofilica miositi da farmaci miosite focale miosite orbitale polimialgia reumatica sindrome “mialgia-eosinofilia” malattia da innesto (graft versus host disease) miofascite macrofagica
posizione) in cui PM o DM si sovrappongono ad un’altra malattia connettivale (lupus eritematoso sistemico, connetivopatie miste, sclerodermia, sindrome di Sjögren, artrite reumatoide). Cifre attendibili dell’incidenza e prevalenza delle miopatie infiammatorie idiopatiche non sono disponibili: si ritiene che l’incidenza annuale della DM e PM (la prima è più frequente), globalmente considerate, si aggiri intorno a 1 caso su 100.000 soggetti. Eziopatogenesi – L’eziologia autoimmune delle miopatie infiammatorie idiopatiche é indirettamente sostenuta dalla loro associazione con altre malattie autoimmuni, dalla dimostrazione di autoanticorpi di vario tipo diretti contro antigeni nucleari e citoplasmatici, dalla risposta all’immunoterapia. Una prova più diretta è costituita dalla dimostrazione istologica di miocitotossicità nella PM e nella IBM e di una
Malattie muscolari 1489
microangiopatia complemento-mediata nella DM. In particolare, PM e IBM sarebbero il risultato di un processo immunitario cellulo-mediato, consistente in una azione citotossica mediata da cellule T CD8 + e diretta con modalità antigene-specifica contro le fibre muscolari, limitatamente a quelle fibre che esprimono sulla loro superficie l’antigene di classe I del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC-I). Diversi dati depongono a favore di tale meccanismo patogenetico: (a) linee cellulari derivate da biopsie muscolari esercitano azione citotossica nei confronti di miotubuli autologhi; (b) la dimostrazione che cellule T CD8+ attraversano la membrana basale e liberano sostanze (perforina, TNF-a, granzime) che inducono morte non per apopotosi, ma per necrosi; (c) i recettori delle cellule T che si localizzano nell’endomisio mostrano un pattern oligoclonale di riarrangiamento genico suggestivo del carattere antigene-specifico della risposta immunitaria; (d) cloni di cellule T invadono fibre muscolari esprimenti antigene della classe MHC-I, un prerequisito per il riconoscimento antigenico da parte delle cellule CD8+. Non sono tuttavia noti né la natura dell’antigene, né il fattore scatenante l’attacco immunitario, anche se l’ipotesi virale appare la più accreditata. Nella forma sporadica di IBM la biopsia muscolare mostra, oltre alla infiammazione endomisiale, depositi di amiloide all’interno di fibre muscolari vacuolate accompagnata da varie proteine correlate all’amiloide (b-APP, apoE, proteina Tau fosforilata). Il ruolo e l’origine dell’amiloide nella IBM non sono noti: in particolare resta ancora da stabilire se la presenza di amiloide sia secondaria alla persistente e cronica infiammazione o, al contrario, sia l’indice della natura primariamente degenerativa dell’IBM, tenuto anche conto delle notevole somiglianza con le alterazioni anatomopatologiche encefaliche osservabili nella malattia di Alzheimer: di qui l’ipotesi, avanzata da alcuni, che il primo evento nell’IBM sia costituito da una
iperespressione del precursore b dell’amiloide. Altri Autori hanno sostenuto l’ipotesi, basata sulla documentata presenza di fibre “raggedred” oltre che di fibre prive di citocromo ossidasi e di delezioni multiple del DNA mitocondriale, che alla base dell’IBM vi sia un’alterazione mitocondriale. A differenza della polimiosite e della miosite a corpi inclusi, la dermatomiosite presenta un meccanismo immunopatologico prevalentemente umorale, suggerito dal fatto che gli infiltrati cellulari, principalmente perimisiali e perivascolari, sono costituiti soprattutto da cellule B a scapito delle cellule T: tra queste ultime, poi, le cellule CD4+ (“helper”) prevalgono su quelle CD8+ (cellule citotossiche). L’attivazione precoce del complemento porta alla formazione del complesso di attacco membranolitico (membranolytic attack complex, MAC) che si deposita sui capillari endomisiali. Il deposito di MAC sui capillari rappresenta la più precoce e specifica lesione della dermatomiosite e comporta alterazione osmotica delle cellule endoteliali, cui segue lisi e distruzione dei capillari intramuscolari. La perdita dei capillari, a sua volta causa, ischemia, necrosi delle fibre muscolari con quadri di microinfarti, infiammazione, ipoperfusione endofascicolare ed atrofia perifascicolare. La microangiopatia di base spiega, di fatto, anche l’interessamento cutaneo ed il coinvolgimento di altri organi (polmone, cuore e tratto gastro-enterico). Allo stato attuale non sono ancora noti i fattori che determinano la precocce attivazione del complemento: si presume che lo stimolo antigenico iniziale nella DM vada ricercato in una componente dell’endotelio vascolare. Un dato comune alle tre forme (DM, PM, IBM) è la presenza del MHC-I sulle fibre muscolari non necrotiche. Anche sulla base di dati sperimentali (in giovani topi l’induzione ad esprimere MHC-I è seguita da un quadro simile alla miosite umana) è stata avanzata l’ipotesi che le alterazioni infiammatorie e la produzione di anticorpi siano secondarie all’espres-
1490 Malattie del sistema nervoso
sione (normalmente assente) del MHC-I. Anche le citochine proinfiammatorie (in particolare le interleuchine 1α e 1βb) svolgerebbero un ruolo centrale nella patogenesi delle miopatie infiammatorie (Lundberg, 2001) Sintomatologia generale – Le miopatie infiammatorie idiopatiche hanno in comune una ipostenia prossimale, spesso simmetrica, che nella PM e DM ha uno sviluppo generalmente subacuto, nello spazio di settimane o mesi, raramente acuto, mentre nella IBM si sviluppa insidiosamente in mesi o anni, analogamente alla distrofia “tipo cingoli”, con cui talora può essere confusa. La compromissione della muscolatura distale insorge più precocemente nella IBM rispetto alle altre forme. La muscolatura oculare e facciale sono solitamente risparmiate, a differenza della muscolatura faringea con conseguente disfagia, dei muscoli flessori del collo con difficoltà a mantenere il capo eretto e, nei casi avanzati, della muscolatura respiratoria. Una grave ipostenia é quasi sempre associata ad ipotrofia muscolare. Nella fase precoce della malattia, e con maggior frequenza nella DM, possono verificarsi mialgie, mentre le sensibilità non sono mai compromesse. I riflessi profondi, inizialmente conservati, possono risultare aboliti qualora i muscoli diventino gravemente ipotrofici e ipostenici. Possono riscontrarsi sintomi extramuscolari sia generali che da interessamento di singoli apparati. I sintomi generali sono costituiti da febbre, malessere, calo ponderale, artralgie e, soprattutto ove coesistano altre patologie del tessuto connettivo, dal fenomeno di Raynaud. I disturbi cardiaci sono presenti circa nel 40% dei pazienti sotto forma di difetti di conduzione atrioventricolare, tachiaritmie, cardiopatia dilatativa, insufficienza cardiaca congestizia e miocardite. L’interessamento polmonare (dispnea, tosse non produttiva, polmonite ab ingestis) può dipendere da insufficienza della muscolatura toracica, da farmaci (metotrexate) o, nel 10% dei casi di PM e di DM, da una interstiziopatia
polmonare che può precedere l’esordio della miopatia stessa. Le turbe gastrointestinali, oltre che dalla disfagia, presente nella metà dei pazienti, sono rappresentate da ulcere, possibili cause di melena ed ematemesi, anche se queste ultime sono divenute molto più rare dopo l’introduzione delle più recenti terapie immunosoppressive. Dermatomiosite – La DM è una entità clinica in cui i sintomi muscolari si associano a caratteristiche manifestazioni cutanee, in genere precedenti o contemporanee (ma talora anche successive) al deficit di forza. L’interessamento cutaneo può essere assente in alcuni casi, così come sono possibili rari casi senza coinvolgimento muscolare clinicamente apprezzabile (dermatomiosite amiopatica o “dermatomiosite senza miosite”). La DM si può presentarsi ad ogni età ed è tanto comune nell’età adulta quanto in quella pediatrica, prediligendo sempre il sesso femminile, soprattutto nell’età adulta. L’esordio è tipicamente subacuto (diverse settimane); sono possibili anche quadri che si sviluppano più acutamente (in pochi giorni) con rara rabdomiolisi e mioglobinuria o insidiosamente (diversi mesi). La malattia ha spesso un decorso con “ricadute e remissioni” (relapsingremitting) e occasionalmente monobasico, talora con guarigione spontanea. I gruppi muscolari più precocemente e gravemente colpiti sono i flessori del collo ed i muscoli dei cingoli scapolare e pelvico; l’ipostenia distale, quando presente, è in genere poco marcata. L’infiammazione della muscolatura orofaringea ed esofagea comporta disfagia in un terzo circa dei pazienti; difficoltà nella masticazione e disartria sono possibili ma rare. Il dolore, incostante, è provocato dall’attività muscolare. Le manifestazioni cutanee costituiscono un importante elemento diagnostico ed includono il classico rash eliotropo, consistente in una colorazione blu-porpora, che si scolora alla pressione, alle palpebre superiori e alle guance, con
Malattie muscolari 1491
frequente distribuzione “a farfalla” (Fig. 34.18), spesso associato ad edema periorbitale ed il segno di Gottron (lesioni papulari, eritematose, rilevate sulle nocche). Un’eruzione piatta, eritematosa, fotosensibile può comparire sulla faccia, sul collo, sul petto (segno a V) oppure sulle spalle e sulla parte superiore del dorso (segno dello scialle) o, infine, sui gomiti, sulle ginocchia e sui malleoli. I letti ungueali spesso presentano capillari dilatati, occasionalmente con trombi od emorragie, a dimostrazione che l’alterazione dei capillari costituisce un aspetto peculiare della DM. Il fenomeno di Raynaud, presente in circa un terzo dei pazienti, può precedere di anni l’esordio della sintomatologia muscolare. Una fascite ed alterazioni cutanee simili a quelle osservabili nella dermatomiosite sono state notate nella sindrome “mialgia-eosinofilia” (v. pag. 1499). Altri organi oltre al muscolo e alla cute possono essere interessati a causa della sottostante alterazione vascolare. Alterazioni elettrocardiografiche (difetti di conduzione e aritmie) sono frequenti; più rari lo scompenso cardiaco
A
congestizio, pericarditi e miocarditi. Almeno il 10% dei pazienti con DM (così come con PM) presenta una polmonite interstiziale che nel 80% dei casi si manifesta in soggetti con anticorpi contro la istidil-RNA messaggero sintetasi (detti anche anticorpi anti-Jo-1). Sintomi (dispnea, tosse non produttiva) dell’affezione polmonare possono svilupparsi improvvisamente o insidiosamente e spesso precedono l’esordio delle manifestazioni cutanee e muscolari. Il ricorso a studi tomografici ad elevata definizione e alle prove di funzionalità polmonare porta sino al 50% l’incidenza dell’interstiziopatia polmonare il cui significato prognostico non è stato ancora chiarito. L’interessamento vasculopatico della muscolatura liscia del tratto gastrointestinale, più frequente in età infantile, comporta ulcere, perforazioni ed emorragie oltre ai più comuni disfagia e ritardo dello svuotamento gastrico. L’interessamento articolare con o senza artrite è frequente, simmetrico, coinvolgente sia le grandi che le piccole articolazioni ed è responsabile di contratture in flessione: nell’età infan-
B
Fig. 34.18 - Alterazioni cutanee del viso A) e delle mani B) in un caso di dermatomiosite.
1492 Malattie del sistema nervoso
tile le contratture in flessione causano un andatura digitigrada. Le alterazioni vascolari possono comportare anche danno oculare, in particolare a carico della retina e della congiuntiva. Sia la DM che la PM possono essere associate a neoplasie maligne, ma il rischio è nettamente più elevato per la DM (Hill et al., 2001): 4,4 per la DM, 1,3 per la PM. I tumori più frequentemente associati con la DM sono quello ovarico, polmonare, gastrico, colonrettale, pancreatico ed il linfoma di Hodgkin. Il rischio di neoplasia è più elevato al momento della diagnosi di miosite (sia di DM che PM) anche se nella DM il rischio di neoplasia persiste elevato anche per anni dopo la diagnosi. Le neoplasie più frequentemente riscontrate nei pazienti con PM sono quelle polmonari e vescicali ed il linfoma non-Hodgkin. Nei pazienti con DM associata a neoplasia il livello di CK è di solito nella norma e gli anticorpi miosite-specifici sono evidenziabili più raramente rispetto ai pazienti senza neoplasie. La DM, in alcuni pazienti, rappresenta probabilmente una manifestazione paraneoplastica. L’incidenza di neoplasie maligne aumenterebbe con l’età. La maggior parte dei casi di DM infantile esordisce tra i 5 ed i 14 anni ma la DM può svilupparsi anche nei primi anni di vita. Spesso il primo segno di malattia è un cambiamento del comportamento del bambino che diviene irritabile con diminuzione del rendimento scolastico. Nel 30-70% dei casi infantili si sviluppano calcificazioni sottocutanee, alquanto rare nell’adulto, che tendono a prodursi sopra i punti di pressione (natiche, caviglie, gomiti) e che si manifestano come noduli duri e dolenti, con ulcerazione della cute sovrastante nei casi più gravi. La calcinosi cutanea risente scarsamente del trattamento. La DM infantile può avere un decorso monofasico o cronico: nelle forme croniche le alterazioni cutanee sono preminenti su quelle muscolari. La DM infantile si differenzia dalla forma dell’adulto per una maggior frequenza delle manifestazioni extramuscolari.
Nella “dermatomiosite senza miosite” i pazienti presentano, per 3-5 anni, manifestazioni cutanee senza riduzione della forza muscolare: le turbe muscolari sono assenti o limitate a mialgie e fatica, ma il reperto muscolare istologico è sovrapponibile a quello della tipica dermatomiosite. La diagnosi richiede anche la determinazione del livello serico della CK, gli studi elettrodiagnostici e la biopsia muscolare. Il livello serico di CK può essere normale, ma in oltre il 90% dei pazienti è aumentato (sino a 50 volte la norma) senza, peraltro, correlare con l’entità dell’ipostenia; i possibili aumenti di aldolasi, latticodeidrogenasi, mioglobina e transferasi non aggiungono informazioni utili. La CK può aumentare diverse settimane prima che si abbia una ricaduta. A differenza degli anticorpi antiJo1, spesso presenti nei pazienti con polmonite interstiziale, altri anticorpi miosite-specifici, associati con altrettanto specifici aplotipi HLA, (il più noto è l’anticorpo anti Mi-2) hanno scarso rilievo diagnostico. L’esame EMG mette in evidenza un quadro miopatico (potenziali di unità motoria di bassa ampiezza, durata diminuita e polifasici) associato a segni di iperirritabilità muscolare (potenziali di fibrillazione e potenziali positivi e scariche pseudomiotoniche o ripetitive complesse). Il quadro istologico della DM è caratterizzato dalla presenza di atrofia perifascicolare che non si riscontra in altre patologie ed ha significato diagnostico anche in assenza di infiammazione che, tipicamente, si verifica in sede perivascolare ed interfascicolare. Polimiosite – È una miopatia infiammatoria subacuta o cronica, caratterizzata da ipostenia simmetrica della muscolatura prossimale degli arti e del tronco in assenza delle manifestazioni cutanee che caratterizzano la DM. La diagnosi di PM è una diagnosi di esclusione che può essere posta in pazienti che non presentino, oltre a rash cutaneo: a) storia familiare di affezioni neuromuscolari, b) storia di esposizione a far-
Malattie muscolari 1493
maci miotossici o tossine, c) qualsiasi alterazione muscolare dovuta a cause endocrine o metaboliche, d) miosite a corpi inclusi, e) distrofie a possibile espressione sporadica (distrofinopatie, sarcoglicanopatie, disferlinopatie), f) neuropatie, g) interessamento della muscolatura oculare o facciale. La PM è più frequente nelle donne (2:1) e può verificarsi ad ogni età, anche se la sua incidenza è maggiore dopo i 20 anni. È probabile che molti casi infantili siano in realtà distrofie muscolari congenite con infiammazione secondaria; quando la PM si verifica nei bambini è associata spesso con altri disturbi connettivali (sindromi da sovrapposizione). Del tutto recentemente (McNeil et al., 2002) è stata confermata l’esistenza di miopatie congenite infiammatorie. Il deficit di forza non presenta caratteristiche diverse da quelle osservate nella DM. Anche se mialgie sono presenti nella metà dei pazienti, più marcato è il dolore più è improbabile che si tratti di PM. Disfagia è presente in un terzo dei pazienti. Le complicanze polmonari e cardiache della PM sono simili a quelle della DM. Al momento della diagnosi quasi il 50% dei pazienti ha una poliartrite. Le indagini di laboratorio forniscono risultati simili a quelli riscontrabili nella DM con livello serico di CK aumentato sino a 50 volte la norma, anticorpi anti Jo-1 presenti in un quinto dei pazienti e ANA positivi nel 30%. Anche l’EMG fornisce un reperto simile a quella della DM mentre il quadro istologico muscolare alla biopsia è del tutto diverso espressione della diversa patogenesi e caratterizzato da variabilità del diametro delle fibre, con sparse fibre necrotiche e in rigenerazione ed infiammazione endomisiale con invasione di fibre non necrotiche. Difficoltà diagnostiche insorgono quando a) l’infiammazione è minima o assente per cui vanno prese in considerazione condizioni dovute a difetti di proteine come distrofina, sarcoglicani, disferlina, emerina; b) sono presenti molte cellule necrotiche invase da macrofagi ma poche cellule T per cui va esclusa una miopatia
necrotica su base tossica, c) l’infiammazione è accompagnata da aspetti indicativi di una miopatia cronica quale è l’IBM la cui occorenza va considerata soprattutto in mancanza di una risposta terapeutica. La polimiosite é una sindrome che riconosce diverse cause e che può verificarsi isolatamente o in associazione con malattie autoimmuni sistemiche o del tessuto connettivo ed infezioni virali o batteriche. Tranne la penicillamina e la procainamide, che causano una infiammazione endomisiale simile a quella della polimiosite, gli altri farmaci miotossici non causano una polimiosite. Sono state descritte anche polimiositi di origine parassitaria. Miosite a corpi inclusi – La forma sporadica di miosite a corpi inclusi (s-IBM) è la più comune delle miopatie infiammatorie al di sopra dei 50 anni di età. La sua prevalenza varia a secondo delle casistiche: da 4,9/milione di abitanti in Olanda a 9,3/milione di abitanti in Australia. La malattia è più frequente nei maschi (3:1) e predilige la razza bianca. Sono colpiti sia i distretti prossimali che distali degli arti, con il caratteristico interessamento precoce dei flessori delle dita all’avambraccio, dei quadricipiti e della muscolatura flessoria dorsale del piede; l’ipostenia e l’atrofia muscolare possono essere asimmetriche, con interessamento selettivo di alcuni gruppi muscolari, quali bicipite e tricipite brachiali, quadricipite femorale e ileopsoas (deltoide, pettorale e muscolatura della mano e del viso sono abitualmente risparmiati). Il dolore muscolare è solitamente assente. La disfagia è presente nel 30% dei casi e può anche costituire il sintomo di esordio nel 10% dei casi precedendo l’ipostenia agli arti, per cui la miosite a corpi inclusi deve sempre essere presa in considerazione nei soggetti anziani che presentano come unico sintomo la disfagia. Può coesistere una neuropatia periferica, di solito subclinica, prevalentemente sensitiva. L’IBM è associata con malattie autoimmuni sistemiche o del tessuto connettivo nel 15% dei casi e, a
1494 Malattie del sistema nervoso
differenza dalla PM e dalla DM, non comporta interessamento polmonare e cardiaco. Il decorso, lentamente progressivo (ma la progressione è tanto più rapida quanto più tardivo è l’esordio), può condurre ad una marcata invalidità e ad insufficienza respiratoria. L’esordio insidioso e la lenta progressione della malattia sono la probabile causa del ritardo nella diagnosi che avviene in media, dopo 6 anni dall’esordio. L’ipostenia distale, asimmetrica, lentamente progressiva può simulare una malattia degenerativa del 2° motoneurone (Dabby et al., 2001). La diagnosi di certezza é bioptica: il reperto istologico è caratterizzato da infiltrazione endomisiale di cellule T citotossiche che invadono fibre non necrotiche (come nella
PM), inclusioni citoplasmatiche eosinofile e presenza di fibre vacuolate contenenti tubulofilamenti di 15-21 nm di diametro nel citoplasma e nei nuclei. La CK serica è normale od aumentata sino a 10 volte la norma. L’EMG mette in evidenza un quadro miopatico sovrapponibile a quello osservabile nella PM e nella DM che, in un terzo dei casi, si associa a potenziali polifasici di grande ampiezza, espressione della cronicità della malattia piuttosto che di un danno neurogeno. L’IBM va considerata quando una presunta polimiosite non risponde alla terapia: almeno il 50% dei casi di polimiosite che non rispondono alla terapia sono affetti da IBM. Esiste anche una forma di IBM famigliare consistente in una miosite vacuolare infiamma-
Tabella 34-10. Caratteristiche principali delle miopatie infiammatorie idiomatiche.
Età di esordio
Dermatomiosite
Polimiosite
Miosite a corpi inclusi
qualsiasi età con due picchi: 5-15 e 45-65 anni
> 18 anni
> 50 anni
1:2
1:2
3:1
presente
assente
assente
prossimale > distale, simmetrico
prossimale > distale, simmetrico
distale > prossimale, asimmetrico
Rapporto maschi / femmine Rash cutaneo Interessamento muscolare Atrofia muscolare
(+)
+
++
Dolore muscolare
+
(+)
(+)
normale - 50 volte aumentata
50 volte aumentata
normale -10 volte aumentata
reperto miogeno
reperto miogeno
reperto miogeno o misto
atrofia perifascicolare con infiammazione (CD4+ e cellule B) perivascolare e
infiammazione peri e endomisiale (CD8+ e macrofagi)
infiammazione endomisiale (CD8+), vacuoli orlettati, interfascicolare inclusioni eosinofile, depositi di amiloide
CK serica EMG Biopsia muscolare
Condizioni associate
miocardite, interstiziopatia miocardite, interstiziopatia polmonare, neoplasie, polmonare, altre malattie altre malattie del connettivo del connettivo
Associazione con virus Associazione con parassiti o batteri
neuropatia, disturbi autoimmuni
non provata
HIV,HTLV-1
non provata
esclusa
provata
esclusa
da farmaci
provata
provata
esclusa
Familiarità
assente
assente
in alcuni casi
Risposta alla terapia immunosoppressiva presente
presente
assente o scarsa
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toria che si verifica in diversi membri di una sola generazione con lo stesso fenotipo clinico ed istologico della forma sporadica (Sivakumar et al., 1997). Le miopatie ereditarie a corpi inclusi (miopatie vacuolari non infiammatorie a trasmissione dominante o recessiva) sono state descritte nel capitolo delle distrofie muscolari. La Tabella 34.10 riassume le caratteristiche principali delle miopatie infiammatorie idiopatiche. Terapia – La terapia corticosteroidea rappresenta il trattamento di prima scelta nella DM e nella PM. Il regime più tradizionale prevede un’unica somministrazione mattutina orale di prednisone (1,5 mg/kg/die sino a 100 mg/die) per passare, dopo 2-4 settimane, all’assunzione a giorni alterni della stessa dose. Nei casi con maggior compromissione il trattamento iniziale può consistere in metilprednisolone per via venosa (1 g/die o a giorni alterni per 3-6 giorni). Un miglioramento clinico obiettivo si verifica di solito dopo 3-6 mesi e il dosaggio viene mantenuto invariato sino a che la forza (piuttosto che il livello di CK) è tornata nella norma od il suo miglioramento ha raggiunto un plateau stabile. Successivamente la dose viene diminuita di 5 mg ogni 2-4 settimane. La maggior parte dei pazienti (60-100% dei casi di DM, più dell’80% di quelli con PM) migliora. In caso di assenza di risposta dopo 3-6 mesi di terapia, il farmaco va sospeso. Una terapia prednisonica protratta può causare, oltre ai consueti effetti collaterali, una miopatia steroidea (vedi pag. 000), con ulteriore peggioramento della forza, che non deve essere confusa con una possibile riacutizzazione del processo miositico. Il ricorso a farmaci immunosoppressivi non steroidei, come azatioprina (3mg/kg/die per 4-6 mesi) o methotrexate (15-25mg/settimana), é motivato, oltre che dall’insuccesso della terapia corticosteroidea, dall’esigenza di evitare gravi effetti collaterali da prolungato uso di steroidi o da ricadute da riduzione del dosaggio di prednisone. Attualmente si preferisce, in caso di insucces-
so della terapia steroidea, effettuare cicli di terapia endovenosa con immunoglobuline (0,4 g/ kg/die per 5 giorni) prima di intraprendere un trattamento con azatioprina o methotrexate. Anche la ciclofosfamide (1-2 mg/kg/die,) e la ciclosporina (2-7,5 mg/kg/die) sono state utilizzate con qualche beneficio. In caso di insuccesso terapeutico va riesaminato l’orientamento diagnostico, prendendo in considerazione la miosite a corpi inclusi, la distrofia muscolare sporadica dei cingoli, le miopatie metaboliche (ad esempio, da deficit di fosforilasi), le endocrinopatie, le atrofie muscolari neurogene. Nessuna delle terapie precedenti, da sola o in associazione, è risultata sicuramente efficace nell’IBM (Dalakas et al., 2001).
Forme associate a collagenopatie vascolari Nei pazienti con lupus eritematoso, sclerodermia, artrite reumatoide e sindrome di Sjögren la debolezza muscolare è relativamente comune, a causa del disuso antalgico e dell’atrofia delle fibre 2 da assunzione protratta di steroidi. In pazienti con queste affezioni può insorgere una vera miosite (sia DM che PM), che va documentata mediante la determinazione dei livelli serici di CK, studi EMG e, se necessario, biopsia muscolare. Per questi quadri, in cui PM o DM sono associate ad un’altra malattia connettivale, è stato adottato il termine di “sindromi da sovrapposizione” fra cui va inclusa anche la “malattia mista del tessuto connettivo” che presenta contemporaneamente aspetti clinici dello scleroderma, lupus eritematoso, artrite reumatoide e di miosite (più comunemente DM) ed è caratterizzata da un elevato titolo di anticorpo anti-U1 ribonucleoproteina. In questi casi il trattamento immunosoppresivo sarebbe più efficace che nella DM o nella PM. La prognosi è verosimilmente correlata con la gravità della collagenopatia.
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Miositi da infezioni Forme virali. Numerose malattie virali sono caratterizzate da mialgie e debolezza muscolare, peraltro di breve durata. Fra le infezioni virali che possono causare una miosite acuta va ricordata la malattia di Bornholm o pleurodinia epidemica dovuta a virus coxsackie di tipo B: si tratta, in particolare, di una miopatia infiammatoria localizzata, di breve durata, più frequente nei bambini, con interessamento della muscolatura toracica ed addominale, con dolore nella respirazione profonda e nel tossire. Una polimiosite acuta e fulminante, con rabdomiolisi e mioglobinuria, è stata riportata a seguito di infezioni da diversi virus (coxsackie, echo, adeno, influenza A e B). Quadri clinici sempre in rapporto ad infezioni influenzali A e B, ma di minor entità, sono la miosite influenzale e la cosiddetta miosite postinfluenzale. La sindrome mialgica post-virale è un disturbo debilitante di incerta eziologia, più comune nelle donne giovani che si rivolgono al medico per cefalea, disturbi del sonno, linfoadenopatia, febbre, mialgie e fatica generalizzata, con un deficit di forza obiettivamente minore rispetto ai sintomi. Infezioni da retrovirus – Miopatie, anche se meno ben definite e frequenti delle neuropatie, possono comparire in tutti gli stadi dell’infezione, variando da un aumento asintomatico del livello di CK ad una polimiosite. I retrovirus noti per associarsi nell’uomo a polimiosite sono l’HIV-1 (human immunodeficiency virus type 1) e l’HTLV-1 (human T cell lymphotrophic virus). Nei pazienti HIV positivi una miopatia infiammatoria può verificarsi, sia inizialmente come fenomeno clinico isolato, o più tardivamente in associazione ad altre manifestazioni da AIDS. La HIV sieroconversione può anche coincidere con mioglobinuria palese e mialgie acute. Sono descritti quadri clinico-morfologici di miopatia osservabili nei pazienti HIV positivi. La forma più tipica è una miopatia infiamma-
toria, sovrapponibile alla PM idiopatica, che si manifesta con una ipostenia prossimale, simmetrica, non dolorosa, spesso più frequente agli arti inferiori, che può anche costituire la sintomatologia di esordio della infezione da HIV. Il quadro istopatologico non è dissimile da quello della forma idiopatica, la CK serica è elevata ed il reperto EMG alterato (attività spontanea patologica e potenziali miopatici di unità motoria). Il meccanismo patogenetico è ancora oscuro: i retrovirus, e in particolare l’HIV-1, determirebbero la miopatia non per infezione diretta del muscolo, ma a seguito di un processo citotossico mediato da cellule T e limitato all’antigene del complesso maggiore di istocompatibilità di classe I (analogamente a quanto teorizzato per le polimiositi non HIV). La terapia è quella delle forme non-HIV, ma immunoglobuline ev. e plasmaferesi possono essere preferibili in caso di marcata immunodepressione. Varianti istologiche sono la “miopatia necrotizzante” e la “mioptia nemalinica”. La miopatia infiammatoria associata da infezione da HIV va distinta dalla miopatia da AZT (zidovudina) (vedi miopatie tossiche, pag. 1504). Accanto alla PM da HIV abbiamo, per frequenza, la “sindrome atrofica da HIV”, tipica delle popolazioni africane, in cui i pazienti sviluppano una grave atrofia diffusa con ipostenia generalizzata senza mialgie con livelli di CK entro i limiti superiori della norma; la biopsia spesso rivela atrofie delle fibre di tipo II. La condizione di immunodeficienza può infine favorire la localizzazione muscolare di altri agenti patogeni, batteri o parassiti (criptococco, citomegalovirus, toxoplasma). Anche l’infezione da HTLV-1 può causare una polimiosite talora associata ad una mieloneuropatia, comunemente nota come paraparesi spastica tropicale, con meccanismo citotossico mediato da cellule T. Forme batteriche. Le infezioni muscolari batteriche sono rare al di fuori dei paesi tropicali, anche se la loro frequenza è in aumento nei
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soggetti con immunodeficienza acquisita (HIV). L’agente patogeno più frequentemente coinvolto, per disseminazione ematogena da tessuti circostanti, è lo stafilococco aureo; altri possibili agenti patogeni sono streptococchi, Escherichia Coli, Yersinia e Legionella. Solitamente sono colpiti i grossi gruppi muscolari, come quelli della coscia; il muscolo è caldo, gonfio, sede di dolore spontaneo ed esacerbato dal movimento. In caso di miosite generalizzata il quadro comprende anche febbre, mialgie, leucocitosi neutrofila, VES elevata, aumento serico del CK. L’agente patogeno è difficilmente identificabile all’interno della lesione, malgrado il ricorso a speciali colorazioni. La remissione è, in genere, completa dopo terapia antibiotica sistemica. La muscolatura scheletrica può essere interessata anche dagli organismi anaerobi della gangrena gassosa. Forme fungine. Interessamento muscolare, in genere sotto forma di ascessi, è raramente riportato nel corso di actinomicosi, sporotricosi ed istoplasmosi. Spesso una condizione di “malignità sistemica” comporta una candidiasi disseminata con coinvolgimento muscolare diffuso. Forme parassitarie. Toxoplasmosi, tripanosomiasi (malattia di Chagas), cisticercosi e trichinosi possono interessare il muscolo, sia pure raramente. La trichinosi è la più comune infezione muscolare parassitaria in cui sintomi generali, quali malessere e febbre, si associano a dolori e rigidità muscolari e possibile contemporaneo interessamento cutaneo con edema periorbitale, talora accompagnato da edema congiuntivale e dermatosi petecchiale od orticarioide.
Altre forme MIOSITI GRANULOMATOSE Sarcoidosi sistemica – È la forma più comune. L’interessamento muscolare è nella maggio-
ranza dei casi (50%-60%) asintomatico, dimostrato solo dal rilievo istologico di granulomi microcitici, ma in alcuni soggetti comporta la presenza di noduli palpabili, non sempre associati ad algie e dolorabilità muscolari. Il quadro più espressivo è quello di una miopatia lentamente progressiva con distribuzione prossimale, talora asimmetrica, dell’atrofia e dell’ipostenia, ma in alcuni casi con pseudoipertrofia e con tipici granulomi sarcoidi, composti da cellule epitelioidi, cellule giganti di Langhans e linfociti alla biopsia muscolare. La miopatia può anche essere il sintomo di esordio della sarcoidosi. Con il termine di miopatia granulomatosa viene anche descritta una forma idiopatica, apparentemente non correlata alla sarcoidosi, ma con aspetti istologici simili a quelli della sarcoidosi muscolare, in particolare nelle donne di media età, con ipostenia lentamente progressiva e disfagia. Miositi granulomatose sono state descritte anche in corso di timoma, miastenia grave, tiroidite autoimmune, lebbra, tubercolosi, malattia di Crohn, malattia di Wegener e infezioni parassitarie. Miosite eosinofilica È una rara forma di miopatia infiammatoria che si verifica nell’ambito della “sindrome ipereosinofilica”, malattia sistemica caratterizzata da eosinofilia (in assenza di qualsiasi causa responsabile nota), anemia, ipergammaglobulinemia, interessamento cardiopolmonare, alterazioni cutanee, encefalopatia e neuropatia periferica, e di cui costituisce talora l’aspetto dominante. La sintomatologia muscolare, ad esordio insidioso, consiste in una ipostenia, prossimale o generalizzata, con dolorabilità, ad inizio talora localizzato ai polpacci e aumento, talora anche marcato, del livello serico di CK. La biopsia mostra fibre muscolari necrotiche ed un infiltrato infiammatorio perivascolare ed endomisiale costituito soprattutto da eosinofili con alcuni linfociti e plasmacellule. L’eziologia e la patogenesi
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sono sconosciute; la diagnosi differenziale va posta nei confronti della trichinosi e di altre infestazioni muscolari parassitarie. La risposta alla terapia corticosteroidea non è univoca. Accanto alla miosite viene descritta la fascite eosinofilica (sindrome di Shulman) in cui l’ispessimento similsclerodermico del tessuto sottocutaneo (“peau d’orange”) porta a contratture dolorose ed ipostenia. Compare tra i 30 e 60 anni, con prevalenza maschile (2:1). I prodromi sono costituiti da febbre, mialgie, artralgie, fatica. A differenza dalla miosite l’EMG ed i livelli serici di CK sono solitamente normali e la biopsia rivela solo atrofia delle fibre di gruppo II. La fascite eosinofilica può essere anche una rara complicanza del trattamento con L-triptofano. Miositi da farmaci Il trattamento (nell’artrite reumatoide e nella malattia di Wilson) con D-penicillamina può indurre una miopatia infiammatoria necrotizzante con ipostenia, disfagia, alterazioni “miopatiche” all’EMG. In genere la sospensione del farmaco comporta la regressione del quadro, ma talora può essere necessaria la somministrazione di prednisolone. La procainamide causa una miosite interstiziale senza necrosi, con aspetti che ricordano un processo arteritico simile a quello del lupus eritematoso sistemico, caratterizzata clinicamente da mialgie, lieve deficit di forza in assenza di aumento del livello serico di CK. Miosite focale La miosite focale (FM) è una rara affezione che può svilupparsi in qualsiasi momento (dall’infanzia all’età adulta avanzata). Si manifesta come una massa muscolare solitaria, dolorosa, a rapida espansione, localizzata più frequentemente alla gamba (quadricipite e gastrocnemio). La FM deve essere distinta da neoplasie del tessuto molle (sarcomi), amiloidosi, miosite granulomatosa, fascite eosinofila, miosite ossificante, miosite nodulare localizzata, miosite proliferativi (Smith et al., 2000). La storia naturale in-
dica una patologia autolimitantesi nello spazio di mesi con regressione spontanea, quasi mai con ricadute. Gli aspetti istologici sono quelli di una miopatia infiammatoria con ipertrofia delle fibre; lo studio istochimico mostra prevalenza di cellule T negli infiltrati intersitiziali. Il trattamento corticosteroideo anticiperebbe la regressione spontanea riducendo l’incidenza delle ricadute. Miosite orbitale È una rara ma ben documentata malattia infiammatoria dei muscoli extraoculari, da causa sconosciuta, che inizia acutamente nell’adolescenza o nella prima età adulta con oftalmoplegia dolorosa, non associata, di solito, ad esoftalmo. Le donne sono colpite più dei maschi (2:1), l’età media di esordio è intorno ai 30 anni. Più del 50% dei pazienti va incontro a ricadute. Il quadro clinico include, oltre alla riduzione della motilità extraoculare e al dolore nei movimenti oculari residui, edema palpebrale, iperemia congiuntivale e chemosi. Nella maggioranza dei casi è interessato solo un muscolo extraoculare che alla TAC risulta aumentato di volume. La diagnosi differenziale va posta nei confronti dell’oftalmopatia tiroidea, di localizzazioni parassitarie e di miopatie infiammatorie oculari nel corso di lupus eritematoso sistemico ed altre malattie del tessuto connettivo. Recentemente è stato descritto un caso diagnosticato erroneamente e trattato per 6 anni come una cefalea a grappolo. La risposta alla terapia corticosteroidea è pronta, ma la riduzione precoce del dosaggio può causare ricadute. Polimialgia reumatica La polimialgia reumatica (PMR) si verifica quasi sempre in soggetti oltre i 50 anni di età ed è caratterizzata da dolore e sensazione di irrigidimento muscolare, particolarmente evidente al collo e alle spalle, di norma senza deficit di forza anche se il movimento può essere sensibilmente limitato dal dolore. Circa nel 50% dei casi si riscontra un’arterite a cellule giganti dei vasi cranici (ar-
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teria temporale) o di altri vasi. La PMR può anche essere la manifestazione iniziale di un’areterite muscolare a cellule giganti (Perez et al., 2001) La velocità di eritrosedimentazione, in genere, è assai aumentata, mentre il livello degli enzimi serici è nella norma. Nella maggioranza dei casi la biopsia muscolare è normale o mostra alterazioni non specifiche, come atrofia delle fibre di tipo II o presenza di corpi citoplasmatici all’interno delle miocellule, per cui la natura infiammatoria di questa condizione non è da tutti condivisa. Dati recenti (Shintani et al., 2002) suggeriscono, tuttavia, che immuno-complessi giochino un ruolo nella patogenesi della PMR che va interpretata come un processo infiammatorio interstiziale. La risposta alla terapia steroidea (prednisone a bassi dosaggi) è di solito immediata e drammatica. Sindrome mialgia-eosinofilia Descritta per la prima volta nel 1989, è caratterizzata da mialgie, artralgie, rash cutanei ed alterazioni cutanee di tipo sclerodermico, alopecia, edema distale agli arti, tosse, febbre e marcata eosinofilia ematica; nel 27% dei casi si associa anche una polineuropatia. L’interessamento sistemico consente di distinguere questi casi dalla sindrome di Shulman. Le alterazioni anatomopatologiche muscolo-fasciali sono costituite da un marcato infiltrato cellulare (plasmacellule, linfociti, eosinofili) perimisiale, epimisiale e perivascolare. Nella quasi totalità dei casi è segnalata assunzione di triptofano, aminoacido impiegato nel trattamento dell’insonnia, depressione e turbe mestruali; l’ipotesi più probabile prevede la contaminazione del triptofano durante il processo produttivo. Miofascite macrofagica La miofascite macrofagica è un nuovo tipo di miopatia infiammatoria descritta a partire dal 1993 e riscontrata prevalentemente in Francia con frequenza crescente. I pazienti affetti lamentano mialgie diffuse (nell' 80 % dei pazienti, a prevalente distribuzione prossimale), astenia marcata, artralgie (nel 60% dei pazienti, specie
a carico delle grosse articolazioni) e, meno frequentemente, debolezza muscolare (43% dei casi) e febbre. Maschi e femmine sono ugualmente colpiti; l’età di esordio varia dalla terza alla quinta decade; la durata della malattia da 3 a 48 mesi. In alcuni pazienti sono presenti segni di interessamento del sistema nervoso centrale (Authier et al., 2001). Le indagini di laboratorio mostrano talora lieve aumento della CK serica ed alterazioni elettromiografiche (miopatiche nel 30% e neuropatiche nel 15% dei casi) La biopsia muscolare evidenza un quadro particolare caratterizzato da infiltrazione focale dell’epimisio, del perimisio e dell’endomisio perifascicolare da parte di strati di grandi macrofagi non-epitelioidi (CD68+, CD1A-, S100-), rare cellule T CD8+, senza necrosi delle fibre muscolari o danno del tessuto connettivo. Il quadro istologico è facilmente distinguibile dalle altre forme infiammatorie. È stato suggerito che la miofascite macrofagica sia secondaria alla somministrazione intramuscolare di vaccini contenenti idrossido di alluminio (Gherardi et al., 2001). La sintomatologia migliora con terapia steroidea, associata o no con trattamento antibiotico aspecifico.
Miopatie associate a malattie sistemiche L’interessamento dell’apparato muscolare scheletrico può essere una complicanza delle patologie endocrine. Meno frequentemente il danno muscolare si verifica in concomitanza con disturbi elettrolitici, carenze vitaminiche , neoplasie e malattie infettive.
Miopatie endocrine Miopatie associate a disturbi della tiroide Ipertiroidismo – Una sintomatologia caratterizzata da mialgie, ipostenia ed atrofia nei set-
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tori prossimali degli arti può manifestarsi, con eguale distribuzione tra i due sessi, in corso di ipertiroidismo, sia nelle forme lievi e di vecchia data, che nei quadri più severi (in tal caso l’evoluzione della miopatia appare più rapido). I riflessi osteo-tendinei possono essere conservati o apparire addirittura vivaci; alcuni autori segnalano tremore sotto sforzo, miochimie e fascicolazioni, la cui presenza, non congrua con la patologia muscolare, viene giustificata ipotizzando una azione della tireotossicosi sui neuroni delle corna anteriori o sui nervi periferici. Può verificarsi interessamento della muscolatura ad innervazione bulbare: in tal caso la diagnosi differenziale si pone nei confronti della miastenia gravis (a questo proposito si ricorda che i pazienti ipertiroidei hanno una prevalenza di casi di miastenia gravis più elevata rispetto al resto della popolazione). I valori serici di CK si mantengono normali, l’EMGrafia può mostrare segni assai lievi di danno miogeno, la biopsia muscolare è scarsamente espressiva. I farmaci beta-bloccanti si sono dimostrati efficaci come sintomatici (forse per l’ effetto di modulazione sulla richiesta di produzione di energia muscolare da parte delle catecolamine), ma solo la terapia atta a ripristinare il compenso tiroideo può condurre gradualmente alla restitutio ad integrum. La patogenesi di questa miopatia è ancora sconosciuta e, verosimilmente, multifattoriale; si ipotizza che l’aumentato metabolismo di base indotto dalla tireotossicosi possa causare, unitamente alla resistenza all’insulina, l’impoverimento dei depositi muscolari di glicogeno. Paralisi periodica in corso di ipertiroidismo – Si tratta di episodi di durata variabile, da minuti a giorni, caratterizzati da ipostenia muscolare associata ad abbassamento dei livelli serici di potassio. Il quadro clinico è più frequente nelle razze asiatiche, sono colpiti soprattutto soggetti di sesso maschile, di età superiore ai venti anni, la sintomatologia è scatenata da si-
tuazioni che richiedano disponibilità di carboidrati, dall’esposizione al freddo, dal riposo che segue un esercizio intenso. Il deficit di forza può essere generalizzato, ed in tal caso è più marcato prossimalmente con risparmio della muscolatura cranica e respiratoria, ma può colpire isolati distretti muscolari. La patogenesi non è conosciuta; si ipotizza che l’aumento numerico delle pompe sodiopotassio indotto dall’ipertiroidismo sia responsabile dell’ipocaliemia e della compromissione dell’eccitabilità di membrana. Oftalmopatia di Graves – Conviene premettere che il paziente ipertiroideo può manifestare, anche contemporaneamente, due tipi di alterazioni a differente patogenesi, entrambi espressione dell’oftalmopatia da ipertiroidismo: i segni secondari ad iperattività adrenergica vanno differenziati da quelli associati ad aumento del tessuto orbitario. Al primo gruppo appartiene la retrazione palpebrale che si manifesta in tutti i tipi di ipertiroidismo e che correla con l’entità del danno endocrinologico, mentre i segni di oftalmopatia propri della malattia di Graves sono invece compresi nel secondo gruppo. La malattia di Graves (o malattia di FlaianiBasedow o malattia di Parry) è una patologia autoimmune caratterizzata da eccessiva sintesi e secrezione di ormone tiroideo e da un gozzo diffuso. Tra i suoi segni clinici si colloca l’oftalmoparesi, anch’essa secondaria all’azione di anticorpi che, nel caso specifico, si legano a recettori situati nel tessuto connettivale retroorbitario e nella muscolatura extraoculare. I soggetti affetti da oftalmopatia di Graves sono frequentemente ipertiroidei, ma talora l’alterazione può precedere l’evidenza clinico-strumentale dell’ipertiroidismo o manifestarsi nella fase di ipotiroidismo iatrogeno. Mentre i casi subclinici, rilevati con l’ausilio dell’ultrasonografia, ammontano al 90%, disturbi oculari clinicamente evidenti si manifestano nel 2040% dei casi e solo il 5% dei pazienti presenta un’oftalmopatia grave.
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L’oftalmopatia, pur essendo spesso bilaterale, rappresenta la causa più frequente di esoftalmo unilaterale; nella fase conclamata è caratterizzata da limitazione dei movimenti oculari , diplopia, edema e retrazione delle palpebra, chemosi, esoftalmo talora doloroso e di entità tale da impedire la chiusura degli occhi favorendo così gravi ulcerazioni corneali. Qualora il nervo ottico venga compresso all’apice dell’orbita dall’aumento di volume dei muscoli oculari, possono insorgere edema papillare ed atrofia ottica. La diagnosi differenziale si pone essenzialmente con lo “pseudotumor” infiammatorio dell’orbita (processo flogistico idiopatico) e con la miosite orbitale. La patogenesi di questa oftalmopatia è verosimilmente mediata dall’azione di anticorpi specifici diretti contro antigeni localizzati sui fibroblasti retro-orbitari e sulle cellule muscolari. A questo evento fanno seguito l’edema interstiziale, l’infiltrazione di cellule infiammatorie nel grasso retro-bulbare e nei muscoli extra-oculari (in particolare i retti mediale ed inferiore) che, aumentando di volume, vanno incontro a limitazione meccanica. Ipotiroidismo – La condizione di ipotiroidismo esplica una marcata alterazione sul metabolismo proteico, lipidico e dei carboidrati. In particolare il consumo di ossigeno ed il turnover proteico si riducono, la glicogenolisi muscolare è compromessa, il catabolismo proteico aumenta. Non stupisce, pertanto, che la maggioranza dei pazienti ipotiroidei riferisca lieve riduzione di forza e rigidità e che, in alcuni casi, insorga una franca miopatia ugualmente distribuita tra i due sessi. L’ipostenia è localizzata ai settori prossimali, si associa a mialgie, ridotta resistenza alla fatica, indebolimento dei riflessi osteo tendinei; meno frequenti sono i crampi e l’ aumento del volume muscolare. È possibile, seppur raramente, che la miopatia (così come la rabdomiolisi) rappresenti l’esordio del disturbo endocrino.
In corso di miopatia i valori serici di CK (di per sé frequentemente alterati nel paziente ipotiroideo) aumentano fino a dieci volte la norma, l’EMGrafia può risultare normale o indicativa di un danno miogeno. Brevemente si ricorda che in corso di ipotiroidismo, l’esame obiettivo può evidenziare la presenza di mioedema (contrattura muscolare localizzata, non dolorosa, in risposta a percussione riscontrabile in 1/3 circa dei pazienti ipotiroidei) e miochimie, alla cui patogenesi sembra concorre la perdita di sodio. Miopatie associate a disturbi delle ghiandole surrenali Ipercortisolismo – Un danno muscolare, secondario ad aumento dei corticosteroidi, si osserva in corso di malattia di Cushing e nei casi di produzione ectopica di ormone adrenocorticotropo (ACTH). Per quanto riguarda la miopatia connessa all’ ipercortisolismo iatrogeno, si rimanda al capitolo delle miopatie tossiche. Lo stesso Cushing aveva notato, in alcuni pazienti affetti dalla malattia che avrebbe poi preso il suo nome, la presenza di ipostenia muscolare. In effetti in una percentuale elevata di casi di malattia di Cushing, i cui valori sono stimati intorno al 50-80% (Urbanic 1981), si evidenzia, nelle fasi avanzate della malattia, una sintomatologia caratterizzata da ipostenia muscolare e, talora, mialgie. L’esordio è insidioso, i settori maggiormente compromessi sono quelli prossimali, in particolare agli arti inferiori; la muscolatura cranica e quella degli sfinteri sono generalmente risparmiate. La regressione del quadro clinico è possibile qualora si ristabiliscano i livelli fisiologici di glucocorticoidi. Gli enzimi muscolari non sono aumentati, l’EMG è scarsamente espressivo, la biopsia può evidenziare atrofia selettiva delle fibre di tipo II. Il meccanismo eziopatogenetico resta ancora oscuro: anche se i glucocorticoidi potrebbe-
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ro danneggiare indirettamente il muscolo attraverso l’induzione di squilibri elettrolitici (in particolare ipocaliemia ed ipofosfatemia), generalmente si tende ad attribuire un ruolo specifico ai livelli elevati di ACTH che determinerebbero inibizione della sintesi proteica muscolare ed aumento del suo catabolismo. Insufficienza surrenalica – Il 25-50% dei pazienti affetti da malattia di Addison accusa ipostenia muscolare, mialgie, facile faticabilità (Mor et al., 1987). La sintomatologia regredisce rapidamente con il ripristino dei valori di cortisolo. L’EMGrafia e la biopsia non evidenziano alterazioni di rilievo. Alla patogenesi di questo quadro clinico concorrono numerosi elementi indotti dall’ insufficienza surrenalica quali la compromissione del metabolismo dei carboidrati e del bilancio elettrolitico, nonché l’alterata sensibilità adrenergica vascolare e la riduzione di flusso sanguigno a livello muscolare. Inoltre, i pazienti affetti da malattia di Addison in particolari condizioni (per esempio dopo sforzo prolungato) possono andare incontro ad ipercaliemia. Ad essa, analogamente a quanto si verifica nella paralisi periodica ipercaliemica, può fare seguito un quadro clinico caratterizzato da un grave diffuso deficit di forza. La diagnosi, oltre che sull’evidenza della patologia di base che predispone alla disionia, si fonda sui dati anamnestici (assenza di pregressi episodi e di familiarità). Miopatie associate a disfunzioni ipofisarie Acromegalia – Ipostenia e ridotta tolleranza allo sforzo si manifestano in circa il 50% dei casi di acromegalia, talora in associazione con ipertrofia muscolare (peculiare di questa miopatia). L’esordio della sintomatologia è graduale, l’andamento è progressivo, il quadro clinico generalmente si risolve con il ritorno alla norma del tasso di ormone della crescita (GH). Ai segni della miopatia possono sovrapporsi
quelli del danno a carico del sistema nervoso periferico secondario ad intrappolamento. I livelli serici di CK e di aldolasi possono essere lievemente aumentati. L’EMGrafia esprime un danno di natura miogena. La biopsia muscolare evidenzia aumento di glicogeno e di lipofuscina, talora ipertrofia delle fibre di tipo I e II, nonché un danno vascolare (ispessimento delle membrane basali dei capillari, restringimento del lume delle arteriole) determinato in parte dall’ipertensione, in parte dall’ azione diretta del GH. L’aumento di GH, inoltre, esplica una azione sul tessuto muscolare favorendo l’ossidazione degli acidi grassi, inibendo il metabolismo dei carboidrati, esaltando la sintesi proteica e ritardandone il catabolismo. Inoltre la perdita di modulazione del metabolismo proteico indotta dal GH è verosimilmente responsabile dell’ ipertrofia muscolare tipica del paziente acromegalico . La coesistenza di aumento della massa muscolare ed ipostenia costituisce un problema che attende ancora una spiegazione definitiva. Ipopituitarismo – L’ormone della crescita (GH) è indispensabile per la replicazione delle cellule muscolari: infatti, la riduzione numerica di fibre muscolari associata a carenza di GH (isolata o nel contesto di un panipopituitarismo), è correggibile, indipendentemente dall’età del soggetto, con la terapia sostitutiva. La funzione del GH sul tessuto muscolare si modifica con l’età: ne consegue che l’espressione clinica dell’ipopituitarismo differisce in relazione all’epoca di insorgenza. Il panipopituitarismo che si manifesta in epoca pre-puberale determina un quadro clinico dominato da ritardato sviluppo muscolare, sessuale e staturale. La terapia sostitutiva a base di cortisolo ed ormoni tiroidei (analogamente a quanto accade nei quadri di difetto selettivo di GH) può indurre la ripresa di un fisiologico accrescimento del tessuto muscolare solo se viene associata la somministrazione di ormone della crescita.
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Nell’età adulta il quadro clinico è caratterizzato da ipostenia, talora severa, con relativo risparmio del volume muscolare. Alcuni elementi suggeriscono che nell’adulto il danno muscolare dipenda soprattutto dalla carenza di ormoni tiroidei ed adrenocorticotropi e solo in parte dalla riduzione di GH. Miopatie associate a disfunzione delle paratiroidi Iperparatiroidismo primario – Nel corso di questa malattia si può manifestare una miopatia caratterizzata da ipostenia ed atrofia prossimali con risparmio della muscolatura ad innervazione bulbare. L’entità della lesione non correla con l’alterazione serica dei livelli di calcio e fosfato (rispettivamente aumentati e ridotti nell’iperparatiroidismo). Iperparatiroidismo secondario – Una miopatia analoga a quella sopra descritta può evidenziarsi nelle forme di iperparatiroidismo secondario ad insufficienza renale. Viene ipotizzata una patogenesi multifattoriale cui concorrono l’aumento di ormone paratiroideo, la carenza di vitamina D e di carnitina e la gravità dell’uremia. Ipoparatiroidismo e Pseudoipoparatiroidismo – L’ipoparatiroidismo idiopatico è raro ed è abitualmente causato da lesioni (chirurgiche o vascolari) delle paratiroidi; il pseudoiperparatiroidismo è connesso, non già ad una insufficienza paratiroidea, bensì ad alterata risposta periferica al paratormone. In entrambe le forme può manifestarsi, seppure raramente, una miopatia di entità lieve accompagnata da modesto aumento di CK, la cui patogenesi non è conosciuta. Il disturbo che più facilmente si associa all’ipoparatiroidismo è la tetania, verosimilmente causato dall’ipereccitabilità delle fibre nervose indotta dalla carenza di calcio e magnesio.
Miopatie associate a disionia L’ipermagnesiemia può accompagnarsi ad una ipostenia generalizzata, grave ma reversibile, di ipostenia generalizzata talora associata ad insufficienza respiratoria. L’ipomagnesiemia, che frequentemente si presenta in associazione con la ipocalciemia, può provocare iperceccitabilità nervosa e muscolare con insorgenza di contrazioni tetaniche. La correzione va sempre effettuata con cautela al fine di non incorrere in una ipermagnesiemia che, seppure transitoria, può condurre a paralisi della muscolatura respiratoria. Un grave abbassamento dei valori serici di fosforo (con livelli inferiori a 0.4 mM/l) può provocare ipostenia, rabdomiolisi e mioglobinuria, oltre a disturbi a carico del sistema nervoso centrale. La tetania è un disturbo muscolare indotto dall’abbassamento del livello serico di calcio ionizzato, indipendentemente dalla eziologia. La sintomatologia può manifestarsi spontaneamente oppure può essere indotto dall’alcalosi metabolica e respiratoria e dall’ischemia. Il quadro clinico è di entità variabile potendo consistere in isolate parestesie (inizialmente localizzate alle mani e alla regione periorale) fino ai quadri conclamati caratterizzati da crampi muscolari, “spasmi” carpopedali , stridor laringeo, opistotono. I sintomi riflettono non solo il grado di ipocalcemia, ma anche la rapidità della caduta del livello serico di calcio. Tra le manovre atte a rivelare uno stato di tetania latente ricordiamo l’iperventilazione (che abbassa il calcio ionizzato inducendo alcalosi) ed il segno di Trousseau (l’ischemia indotta sul braccio del paziente mediante la pressione del manicotto dello sfigmomanometro, mantenuto a livelli di poco superiori alla pressione arteriosa massima per alcuni minuti, induce lo spasmo carpale).
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Miopatie in corso di altre malalttie internistiche Diabete – L’infarto muscolare è un evento che va annoverato fra le complicanze tardive del diabete. Può manifestarsi, seppure raramente, in pazienti affetti da diabete scompensato che già presentano segni di vasculopatia. La sintomatologia, che esordisce acutamente, consiste nella comparsa di dolore ed edema generalmente localizzati nella muscolatura di una coscia ove si può apprezzare palpatoriamente una massa di consistenza morbida. Tipicamente le alterazioni EMGrafiche (espressive di danno miogeno) sono limitate alla regione affetta; qualora l’infarto sia molto grave, il muscolo può risultare elettricamente “silente”. Carenza di vitamina D – Indipendentemente dall’eziologia della carenza (ridotta biodisponibilità, malassorbimento, alterato metabolismo della vitamina D), l’ipovitaminosi D può accompagnarsi ad una miopatia (documentabile con l’EMGrafia), caratterizzata da mialgie ed ipostenia prossimale. La patogenesi è verosimilmente connessa con l’aumento di PTH capace di indurre, nel muscolo scheletrico, eccessiva degradazione delle proteine. Neoplasie – La cachessia è una condizione caratterizzata da perdita di peso corporeo che complica numerose malattie gravi, tra cui il cancro. Il paziente cachettico presenta riduzione delle masse muscolari ma può mantenere la forza relativamente conservata fino alle fasi più avanzate. La patogenesi non è conosciuta; sicuramente concorrono molteplici fattori tra cui l’alterata nutrizione, l’atrofia da non uso, l’effetto tossico dei chemioterapici; viene inoltre ipotizzato che alcune citochine (prodotte dalle cellule cancerose o dalla risposta immunologica alla neoplasia) possano modificare la proteolisi a livello del tessuto muscolare.
Nel novero delle sindromi paraneoplastiche, oltre alle dermatomiositi (vedi pag. 000) vengono incluse due possibili lesioni a carico del sistema muscolare: la miopatia da carcinoide e la miopatia acuta necrotizzante (Rudnicki e Dalmau, 2000). Miopatia da carcinoide - Si tratta di una forma non frequente (0.5% dei casi) che si manifesta in pazienti affetti da tumori di tipo carcinoide. La sintomatologia è caratterizzata da ipostenia nei settori prossimali che si manifesta a distanza di mesi o anni dalla diagnosi della neoplasia. I livelli serici di CK possono essere lievemente aumentati; l’EMGrafia evidenzia alterazioni di tipo miogeno; talora coesiste interessamento del sistema nervoso periferico. Miopatia acuta necrotizzante – È un quadro clinico che si manifesta nel corso di neoplasie solide quali il tumore a piccole cellule del polmone, neoplasie del tratto gastrointestinale, della mammella, del rene e della prostata (Levin et al., 1998). La sintomatologia consiste, inizialmente, in mialgie ed ipostenia nei settori prossimali con successivo rapido interessamento della muscolatura respiratoria fino al decesso che può manifestarsi dopo poche settimane. Il trattamento della neoplasia può condurre all’arresto del decorso della miopatia ed al miglioramento dei sintomi connessi. I livelli serici di CK sono significativamente aumentati e la biopsia muscolare mostra segni di necrosi.
Miopatie tossiche Numerosi farmaci e sostanze tossiche possono danneggiare il tessuto muscolare scheletrico mediante differenti meccanismi eziopatogenetici. Il danno può realizzarsi attraverso l’effetto diretto della tossina oppure indirettamente, mediante un processo immunologico o una alterazione metabolica secondaria quale l’ipopotassiemia.
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Clinicamente le miopatie tossiche si manifestano più facilmente in soggetti con preesistenti malattie neuro-muscolari; l’esordio, acuto o subacuto, è caratterizzato da dolore e dolorabilità muscolare, deficit di forza, talora miotonia e mioglobinuria con eventuale insufficienza renale. L’uso di un singolo farmaco può essere responsabile del danno muscolare, ma il rischio aumenta con la somministrazione simultanea di più sostanze potenzialmente dannose (per esempio lovastatina e gemfibrozil, lovastatina e ciclosporina) o allorché coesistono malattie internistiche (patologie renali ed epato-biliari). Il livello serico di CK è frequentemente aumentato in misura elevata; l’esame EMGrafico indica un quadro miopatico, la biopsia può evidenziare necrosi muscolare diffusa associata ad attività rigenerativa. È importante riconoscere questi disturbi poiché la pronta rimozione dell’agente causale determina generalmente la regressione del quadro clinico. Il meccanismo di azione responsabile del danno muscolare è multifattoriale come dimostrano i casi in cui il rischio di miopatia è aumentato dall’assunzione di più molecole o dalla presenza di malattie intercorrenti. Le vie patogenetiche ipotizzate, essendo correlate con differenti agenti tossici, sono numerose: alcune molecole interferiscono con la sintesi e la degradazione proteica, altre possono innescare un meccanismo di degenerazione autofagica, altre ancora interagiscono con la membrana muscolare. Un posto a parte meritano gli antibiotici aminoglicosidici che possono interferire con la trasmissione neuromuscolare. La necrosi muscolare, via finale dell’azione tossica di numerose sostanze, sembra essere dovuta ad alterata permeabilità della membrana plasmatica agli ioni cui consegue un eccessivo ingresso di calcio all’interno delle fibre ed iniziale contrattura delle fibrille con necrosi finale. Considerata la continua evoluzione della materia, non è possibile offrire una classificazio-
ne su base rigidamente eziologica e pertanto le miopatie tossiche vengono generalmente raggruppate e discusse sulla base delle differenti possibilità patogenetiche. Miopatie necrotizzanti Questo gruppo comprende le forme in cui l’agente eziologico, operando modificazioni della membrana muscolare, predispone le fibre alla necrosi (processo comune a numerose miopatie su base tossica). La necrosi muscolare, pertanto, oltre a rappresentare l’aspetto morfologico bioptico caratteristico di queste miopatie, deve essere considerata parte integrante della loro patogenesi. Numerose sostanze danneggiano il muscolo mediante un meccanismo di questo tipo. L’acido epsilon amino caproico, farmaco antifibrinolitico impiegato in corso di emorragia subaracnoidea, può essere responsabile di una miopatia che insorge dopo 4-6 settimane di trattamento; sono stati riportati quadri clinici in cui la miopatia è insorta in relazione con l’assunzione di eroina e di fenciclidina e rari casi in cui il danno miogeno è stato correlato all’uso di niacina. Diverse sostanze usate comunemente nel trattamento dell’iperlipidemia ed ipercolesterolemia (rispettivamente i derivati dell’acido fibrico e gli inibitori della HMG-CoA reduttasi) sono potenzialmente dannose per il muscolo scheletrico. Poiché queste molecole sono di uso frequente nella pratica medica, le relative forme cliniche saranno trattate separatamente anche in considerazione del fatto che la reazione avversa può esprimersi con quadri assai sfumati o addirittura subclinici per cui possono giungere anche all’attenzione dell’internista, al quale spetterà il compito di valutare parallelamente rischi e benefici connessi con la terapia in questione. La miopatia causata dai derivati dell’acido fibrico (clofibrato ed altri analoghi esteri di acidi grassi ramificati) si manifesta entro due tre mesi dall’inizio della terapia con ipostenia, do-
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lore muscolare, frequente riscontro di elevati valori di CK, talora mioglobinuria. L’EMGrafia è lievemente alterata (presenza di attività spontanea patologica, possibile riduzione di durata dei potenziali di unità motoria). Il rischio di miopatia da clofibrato aumenta qualora il farmaco venga somministrato in associazione con gemfibrozil o inibitori della HMG-CoAl e soprattutto se coesistono patologie renali (Rush et al, 1986) il clofibrato, infatti, è veicolato dall’albumina ed è escreto per via renale; ne consegue che la sua emivita aumenta considerevolmente in corso di uremia). I farmaci appartenenti al gruppo degli inibitori della 3HMG-CoA reduttasi (3-idrossimetil-glutaril-coenzima A reduttasi) vengono usati per la loro proprietà di ridurre la sintesi di colesterolo. Sostanzialmente tutte le sostanze appartenenti a questo gruppo sono potenzialmente miotossiche: lovastatina, simvastatina, erivastatina (quest’ultima attualmente, non è più disponibile in commercio proprio per l’elevato numero di segnalazioni di rabdomiolisi connesse con il suo uso). Nonostante la variabilità dei dati casistici, si ritiene che le statine possano essere responsabili di un danno muscolare la cui entità varia da un aumento asintomatico del CK fino a quadri conclamati, di differente entità, caratterizzati da mialgia, ipostenia e meno frequentemente (0,04% dei casi), rabdomiolisi (Tolbert, 1988). L’aumento isolato (cioè asintomatico) dei valori di CK in corso di trattamento con statine è un fenomeno la cui frequenza è stimata intorno allo 0.1-0.5% e che regredisce con la sospensione della terapia. Resta aperta la discussione su quanto sia lecito tollerare tale incremento enzimatico e, più specificamente, se esista un valore di “allarme” che giustifichi la sospensione del farmaco. A questo proposito alcuni autori consigliano di tollerare aumenti fino a tre volte il valore massimo (Argov, 2000). Circa la patogenesi, è stata ipotizzata una azione delle statine sulla membrana muscolare che predisporrebbe alla rabdomiolisi. La coesi-
stenza di malattie intercorrenti (insufficienza renale, patologia epatobiliari) e l’uso contemporaneo di altre sostanze (acidi fibrici, eritromicina, ciclosporina, niacina) aumentano la probabilità di miopatia. In particolare è risultata pericolosa l’associazione con ciclosporina, forse poiché entrambe le sostanze (statine e ciclosporina) sono escrete nella bile; l’aumento di acidi biliari correlato ad assunzione di statine, accresce ulteriormente in presenza di ciclosporina con conseguente incremento della concentrazione plasmatica e della biodisponibilità delle statine i cui livelli tessutali aumentano a livello del muscolo. Anche la miopatia alcolica rientra nel gruppo delle forme di danno muscolare secondario a necrosi; si tratta di una entità clinico-patologica, indotta dall’assunzione eccessiva di alcol, la cui frequenza è maggiore di quanto comunemente ritenuto, e che può manifestarsi in forma acuta o cronica. La forma acuta insorge in etilisti cronici, specie di sesso maschile, dopo abbondante assunzione di alcolici; l’esordio è brusco e consiste in mialgie più evidenti agli arti inferiori (ove si può porre la diagnosi differenziale con una trombosi venosa profonda), tumefazioni muscolari, ipostenia, febbre, mioglobinuria, transitorio aumento dei valori serici di CK. La complicanza più temibile è rappresentata dalla necrosi tubulare acuta indotta dalla mioglobinuria, con conseguente insufficienza renale. Sono stati descritti anche casi di gravità intermedia e casi asintomatici in cui l’unico elemento rilevatore è rappresentato dall’aumento del CK. La forma cronica, che si manifesta con incidenza analoga tra i due sessi, è caratterizzata da ipostenia ed atrofia muscolare estesa ai settori prossimali degli arti, occasionalmente mialgie. La malattia colpisce con maggiore frequenza i pazienti portatori di altre manifestazioni di danno d’organo, riferibili all’abuso etilico, fra cui cardiomiopatia dilatativa, cirrosi epatica, neuropatia. Il CK è aumentato nel 10-30% dei
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casi, l’EMGrafia è alterata nel 10-50% dei pazienti. La biopsia muscolare evidenzia segni aspecifici (miocitolisi, atrofia delle fibre, in particolare delle IIB) e pertanto non è dirimente per la diagnosi, che va formulata sulla base dei dati clinici e sull’esclusione di altre possibili cause di miopatia. L’eziopatogenesi è complessa; la molecola etanolica stessa è considerata il fattore patogenetico più importante il cui meccanismo d’azione si esplica attraverso differenti vie (variazioni della permeabilità di membrana, modificazione dei transienti ionici, interferenza con il metabolismo muscolare dei carboidrati e dei lipidi). Miopatie autofagiche I farmaci dotati di proprietà cationiche amfifiliche (ossia capacità di interagire con i fosfolipidi anionici di membrana) quali clorochina, amiodarone, perexilina possono talora interferire con la digestione lisosomiale, con conseguente degenerazione autofagica ed accumulo muscolare di fosfolipidi. Anche la colchicina possiede effetto amfifilico, seppure di entità lieve, ma le miopatie correlate al suo uso, avendo differente patogenesi, sono inserite in un altro gruppo (vedi oltre). La clorochina è usata nel trattamento antimalarico ed antireumatico; il paziente teoricamente a rischio è quello che assume la sostanza per un periodo di tempo di settimane o anni al dosaggio di 200-500 mg/die. Il quadro clinico consiste in ipostenia ed atrofia prossimali che insorgono gradualmente in assenza di dolore, associate talora a cardiomiopatia. In alcuni soggetti al danno miogeno si sovrappone una neuropatia sensitivo-motoria, per cui il deficit motorio si accompagna a quello sensitivo. Sia la miopatia che la neuropatia regrediscono dopo sospensione del farmaco. L’alterazione del CK è generalmente modesta, l’EMGrafia può essere indicativa di danno miogeno (potenziali di unità motoria di ampiezza e durata ridotte, presenza di attività spontanea patologica che può accompagnarsi alla
comparsa di scariche ripetitive complesse). Il quadro istopatologico consiste in una miopatia vacuolare (presenza di vacuoli contenenti prodotti di degradazione cellulare e denominati pertanto “vacuoli autofagici”). Miopatie antimicrotubulari Rientrano in questo gruppo le forme provocate all’uso di vincristina e di colchicina. Si ritiene che la loro azione patogenetica sia secondaria al legame tra le due molecole e la tubulina con conseguente inibizione del processo di polimerizzazione della tubulina stessa. La vincristina è un farmaco chemioterapico, per lo più responsabile di una polineuropatia sensitivo-motoria di tipo prevalentemente assonale. In alcuni casi al danno del sistema nervoso periferico si associa un interessamento muscolare, che si manifesta con ipostenia prossimale e mialgie. La miopatia può essere misconosciuta poiché i relativi segni e sintomi si sovrappongono a quelli della neuropatia. Anche gli esami neurofisiologici sono di scarso aiuto poiché, analogamente a quanto si verifica nell’esame obiettivo, le alterazioni dovute al danno neurogeno mascherano i segni del danno muscolare. La Colchicina è una sostanza usata nei pazienti gottosi potenzialmente dannosa sia per il nervo periferico che per il muscolo. Quando queste due azioni si embricano, il quadro clinico che ne deriva consiste in ipostenia prossimale associata a disturbi sensitivi ed evolve nell’arco di mesi parallelamente ad un significativo aumento del CK serico. Analogamente a quanto segnalato in corso di trattamento con statine, anche la colchicina può essere responsabile di aumento dei valori di CK in pazienti peraltro asintomatici. Miopatie mitocondriali La zidovudina (azidotimidina o AZT) è una sostanza capace di inibire la replicazione del virus HIV ed è pertanto usata nel trattamento dell’AIDS. Il farmaco può indurre una miopatia,
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la cui eziopatogenesi resta ancora controversa, anche se viene definita mitocondriale per l’immancabile riscontro di alterazioni a carico dei mitocondri. L’effetto clinico della zidovudina dipende dalla sua proprietà di inibire la transcrittasi inversa virale fungendo da falso trasmettitore; peraltro questa non è la sola modificazione cellulare indotta dalla molecola, che possiede anche la capacità di agire sulla polimerasi del DNA mitocondriale riducendone l’attività. Questo dato può spiegare le alterazioni mitocondriali indotte dal farmaco; infatti nei pazienti sottoposti a terapia con AZT si evidenzia riduzione della quantità di DNA mitocondriale ed alterazione dell’attività enzimatica all’interno della catena respiratoria. Peraltro mentre è accettata l’ipotesi che il farmaco possa essere responsabile delle alterazioni mitocondriali, resta ancora dibattuto il significato di queste ultime nel contesto della miopatia. La biopsia muscolare si caratterizza per la coesistenza di aspetti di tipo degenerativo e necrotico; sono presenti fibre rosse raggiate (che depongono per una alterazione mitocondriale) ed una grande varietà di alterazioni ultrastrutturali (corpi citoplasmatici, bastoncelli nemalinici, vacuoli autofagici, mitocondri giganti). Il quadro clinico insorge generalmente ad un anno di distanza dall’inizio del trattamento e consiste in ipostenia e mialgia nei settori prossimali, spesso associate a lieve aumento del CK. Sia la sintomatologia che l’alterazione enzimatica regrediscono qualora la terapia venga ridotta o sospesa; il recupero funzionale, associato alla discesa dei valori serici di CK, si verifica generalmente nell’arco di uno - due mesi. La diagnosi di miopatia da AZT non è semplice; infatti nei pazienti portatori di infezione da HIV una ipostenia muscolare diffusa può essere espressione di neuropatia demielinizzante, di miastenia gravis o di miopatia. Escluse le prime due possibilità, la diagnosi differenziale si pone nei confronti dei vari tipi di miopatia che possono insorgere nel corso di questa infezione (per esempio miopatia infiammatoria,
miopatia necrotizzante non infiammatoria, danno muscolare da microvasculiti). Peraltro l’uniformità dell’espressione clinica nelle varie forme e l’aspecificità dei reperti elettrofisiologici fanno si che frequentemente la diagnosi di miopatia da AZT si basi sulla risposta clinica al wash - out terapeutico. Miopatie infiammatorie Raramente alcune sostanze (D-penicillamina, triptofano, cimetidina, procainamide, L-Dopa, fenitoina, lamotrigina) possono essere responsabili di una miopatia infiammatoria le cui caratteristiche (cliniche e paracliniche) sono sovrapponibili a quelle delle polimiositi. Si ricorda che la D-penicillamina può dare origine sia ad una miopatia infiammatoria che ad un quadro simile alla miastenia gravis, conseguente alla formazione di anticorpi antirecettore acetilcolinico. Miopatie da compromissione della sintesi proteica Rientrano in questo gruppo le forme secondarie ad uso di emetina e steroidi. L’emetina è una sostanza impiegata nel trattamento dell’amebiasi che può provocare una grave miopatia con interessamento non solo dei settori prossimali degli arti, ma anche della muscolatura ad innervazione bulbare. La miopatia da steroidi si manifesta in pazienti, più frequentemente di sesso femminile, che assumono cronicamente alte dosi di steroide somministrate quotidianamente per via orale (la terapia a giorni alterni ridurrebbe il rischio). Clinicamente si presenta con ipostenia ed ipotrofia a distribuzione prossimale; i valori di CK sono normali; l’esame EMGrafico è scarsamente espressivo; la biopsia evidenzia atrofia delle fibre di tipo II. L’eziopatogenesi di questa miopatia non è completamente conosciuta. L’azione terapeutica della molecola si esplica nel nucleo attraverso la modulazione della trascrizione di alcuni geni; per spiegare l’azione miotossica è stata pertan-
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to ipotizzata la possibilità che lo steroide induca una anomalia del metabolismo proteico (riduzione della sintesi ed aumento del catabolismo). Miopatie ipopotassiemiche L’abbassamento dei valori serici di potassio al di sotto di 2 mM rientra tra gli effetti collaterali di alcuni farmaci che, attraverso tale meccanismo, possono indurre una miopatia. Le sostanze potenzialmente nocive sono: diuretici, lassativi, amfotericina B, litio, carbonexolone, liquirizia in quantità molto elevate. Il quadro clinico consiste in marcata ipostenia diffusa, ipotonia, riduzione dei riflessi osteotendinei e sensibile aumento dei valori di CK. Miopatie a patogenesi ignota Le miopatie tossiche, la cui patogenesi non è stata ancora chiarita, sono numerose. Ricordiamo la miopatia correlata all’uso di omeprazolo, la forma (generalmente considerata benigna) che può verificarsi durante il trattamento con isotretinoina (farmaco usato per l’acne), la sindrome indotta da L-triptofano caratterizzata da eosinofilia e mialgia, la miopatia acuta in corso di rianimazione che necessita particolare menzione. La prima descrizione clinica di un caso di miopatia acuta da rianimazione risale Mac Farlane e Rosenthal (1977); da allora ed in particolare nel corso dell’ultimo decennio, le segnalazioni di quadri analoghi sono diventate sempre più frequenti consentendo così di precisare le caratteristiche di questa entità clinica clinico-patologica. La diagnosi non è facile, soprattutto per le difficoltà oggettive di valutare un paziente sottoposto a ventilazione assistita. E’ possibile che in passato molti casi siano stati erroneamente interpretati come neuropatia partendo dall’ assunto che riduzione di forza ed abolizione dei riflessi debbano necessariamente esprimere interessamento del sistema nervoso periferico. In ogni caso, anche qualora la miopatia venga so-
spettata, il suo riconoscimento può essere difficoltoso per la possibile concomitanza, nel paziente, di danno miogeno e neuropatico periferico. La miopatia acuta da rianimazione (o miopatia quadriplegica acuta) insorge in pazienti che necessitano di supporto ventilatorio prolungato cui vengono somministrati corticosteroidi per via endovenosa e/o bloccanti neuromuscolari non depolarizzanti (pancuronio, vencuronio, atracurio) per lunghi periodi. Il disturbo si rende evidente con la sospensione della paralisi farmacologica (il primo sospetto può nascere dalla difficoltà del paziente a respirare autonomamente); il deficit di forza è diffuso e grave, raramente compare oftalmoplegia, i valori di CK possono essere normali o aumentati. In questa fase il tasso di mortalità è elevato, più per l’insufficienza multiorganica e l’eventuale sepsi che per la miopatia; qualora il paziente riesca a sopravvivere si può assistere a un completo recupero motorio nell’arco di settimane o mesi. La biopsia muscolare rivela vari tipi di alterazioni: il riscontro di atrofia delle fibre di tipo II è frequente ma non costante; in alcune biopsie è stata evidenziata necrosi delle fibre muscolari; in altre perdita selettiva dei filamenti spessi (miosina). La mancata univocità dei dati bioptici può spiegare, in parte, le difficoltà insorte nella comprensione della patogenesi, verosimilmente multifattoriale, di questa miopatia.
Appendice Rabdomiolisi La rabdomiolisi è una sindrome caratterizzata da distruzione massiva e rapida delle fibre del muscolo striato con conseguente immissione in circolo e successiva escrezione urinaria di enzimi muscolari, fosfati, potassio, creatina e proteine muscolari, quali la mioglobina (Warren et al., 2002). La mioglobinuria (aumento del-
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l’escrezione urinaria di mioglobina) per il danno che provoca a livello tubulare rappresenta, tra le conseguenze della rabdomiolisi, l’evento più grave; per tale motivo il termine mioglobinuria viene impiegato da alcuni autori in luogo di rabdomiolisi. La rabdomiolisi provoca una serie di danni metabolici sistemici la cui gravità e reversibilità dipende dalla estensione del danno muscolare nonché dalla presenza di elementi aggravanti quali l’ipotensione, l’ipovolemia, la sepsi, la riperfusione successiva a prolungata ischemia. Indipendentemente dall’eziologia della rabdomiolisi, al danno muscolare (diretto o indiretto) fa seguito la perdita della regolazione del flusso ionico attraverso il sarcolemma ed il sarcoplasma con aumento del calcio intracellulare, contrazione delle miofibrille, eccessivo consumo di energia, distruzione delle proteine di membrana e del citoscheletro. La prima fase degli eventi indotti dalla rabdomiolisi consiste nella liberazione dei costituenti della cellula muscolare compresa la mioglobina il cui gruppo eme, dopo essere stato filtrato attraverso il glomerulo, si arresta nei tubuli causando proteinuria ed ematuria. L’insorgenza dell’insufficienza renale è favorita dall’ipotensione, dall’acidosi, dall’ipovolemia. In presenza di crescente compromissione della funzione renale compaiono iperfosfatemia, ipercaliemia, ipocalcemia (sostituita nelle fasi più tardive da ipercalcemia), ipovolemia, ipoalbuminemia, anemia. La sintomatologia della rabdomiolisi, indipendentemente dalla eziologia, è caratterizzata da tumefazione, mialgia e ipostenia muscolare. Va ricordato che talora (per esempio nelle vittime di gravi traumatismi) può esistere un periodo intervallare tra l’evento traumatico e l’inizio della sintomatologia. Il dosaggio della concentrazione di mioglobina nel sangue e nell’urina è determinante per la diagnosi precoce in quanto rappresenta il primo parametro bioumorale in significativo movimento. La tipica
colorazione brunastra delle urine si osserva quando l’escrezione urinaria di mioglobina supera il valore di 250 microg/ml (v.n. < 5 ng/ml); va ricordato, peraltro, che una necrosi di entità lieve può liberare piccole quantità di mioglobina, non sufficienti ad alterare il colore dell’urina. Questo tipo di pigmento può essere differenziato con metodiche immunochimiche dall’emoglobina e dalle porfirine. Altre alterazioni bioumorali sono rappresentate dal rapido innalzamento degli enzimi muscolari (in particolare la CK), del potassio, della creatinina, dell’uricemia, della fosfatemia. I valori serici di calcemia sono inizialmente ridotti e tendono ad aumentare nelle fasi tardive; sono presenti acidosi metabolica, ipoalbuminemia, ipovolemia, anemia e può verificarsi coagulazione intravascolare disseminata. Qualora la rabdomiolisi sia secondaria a gravi traumatismi o a prolungata immobilizzazione, oppure si accompagni ad una sindrome compartimentale (v. pag. 1511), possono verificarsi mononeuropatie di natura compressiva. La prognosi della rabdomiolisi può essere infausta nei casi più gravi; altrimenti si assiste, nell’arco di alcuni giorni, a diminuzione della mioglobinuria e proteinuria, successivamente a graduale riduzione del valore serico degli enzimi muscolari ed a ripristino della forza muscolare. Va tenuto presente che, accanto all’espressione clinica più drammatica della rabdomiolisi, esistono forme subcliniche meno gravi rilevate dall’aumento isolato di CK. La rabdomiolisi può costituire un evento occasionale, oppure essere secondaria ad una patologia muscolare congenita; in tal caso può facilmente ripetersi nel tempo qualora si presentino le condizioni predisponenti (mioglobinuria ricorrente). Rabdomiolisi occasionali – La rabdomiolisi rappresenta una delle maggiori cause di mortalità nelle vittime di gravi traumatismi, ma può verificarsi anche in individui che subiscono
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traumi di minore entità o costretti a una prolungata immobilità. Numerosi farmaci e sostanze tossiche possono indurre rabdomiolisi attraverso due meccanismi di azione: il danno diretto e, come si diceva precedentemente, l’induzione di disturbi protratti dello stato di coscienza e prolungata immobilità, con conseguente compressione muscolare, ischemia e necrosi. In particolare vanno ricordati l’alcool, gli oppiacei, le amfetamine, la cocaina, i farmaci ipocolesterolemizzanti, gli anticolinergici, le benzodiazepine. Alcune associazioni farmacologiche (molecole inibenti il “reuptake” della serotonina ed inibitori delle monoamino-ossidasi, antidepressivi triciclici e litio) possono essere responsabili di una eccessiva attività serotoninica e di inibizione della via dopaminergica; ne consegue una sindrome che comporta rigidità muscolare e che può complicarsi con mioglobinuria acuta ed insufficienza renale. La rabdomiolisi può essere indotta dall’esercizio protratto; ciò accade soprattutto nel maschio, poiché la femmina è relativamente protetta dall’azione estrogenica sul metabolismo muscolare. Anche l’attività muscolare abnorme propria di alcune patologia, può essere responsabile di rabdomiolisi; è il caso dei movimenti involontari della corea e della persistente contrazione muscolare che si verifica in corso di ipertermia maligna, nella sindrome maligna da neurolettici e nella sindrome serotoninergica (vedi sopra). La rabdomiolisi, infine, può complicare lo stato epilettico e lo stato asmatico, malattie infettive virali e batteriche, malattie metaboliche e vascolari. Rabdomiolisi ricorrenti – Gli episodi ricorrenti di mioglobinuria sono indice di patologia muscolare metabolica. Le miopatie ereditarie metaboliche possono infatti manifestarsi, non solo nel bambino, ma anche nell’adulto, con mioglobinuria indotta per lo più dallo sforzo, talora da eventi infettivi. Non sempre il difetto
enzimatico può essere identificato: nei casi diagnosticati, le patologie più frequenti sono rappresentate dal deficit di carnitina palmitoil transferasi e dalla malattia di Mc Ardle. Per ulteriori informazioni si rimanda al capitolo delle miopatie metaboliche.
Sindrome distrettuale (o compartimentale) La sindrome distrettuale è un quadro clinico provocato dall’aumento di pressione all’interno di uno spazio anatomo-funzionale (“distretto”) limitato da fasce e scarsamente estensibile, occupato da muscoli, vasi sanguigni e nervi. L’evento iniziale è rappresentato dall’ aumento di pressione tessutale secondario a riduzione dello spazio distrettuale o ad aumento del suo volume per edema e/o emorragia; la conseguente compromissione della circolazione determina ischemia tissutale, necrosi muscolare, e danno dei tronchi nervosi. La sindrome distrettuale frequentemente si sviluppa nel periodo di riperfusione che segue ad un evento ischemico. L’ischemia comporta graduale perdita dei depositi di glicogeno e di fosfati ed accumulo di acido lattico; la riossigenazione può correggere tale squilibrio e ristabilire la normale attività metabolica ma può anche essere responsabile di ulteriore sofferenza a carico del tessuto muscolare. La patogenesi del danno secondario a riperfusione è complessa, verosimilmente determinata da (a) la rimozione dei precursori della risintesi di adenin nucleotide; (b) l’aumento della perossidazione lipidica e (c) l’eccessivo afflusso di calcio con conseguente danneggiamento del metabolismo mitocondriale. Alcuni elementi suggeriscono inoltre che la perdita della modulazione della adesività endoteliale nei confronti dei neutrofili e dei leucociti possa rivestire un importante ruolo provocando un aumento dei globuli bianchi nel muscolo con prolungamento del danno da riperfusione.
1512 Malattie del sistema nervoso
Anche se teoricamente qualsiasi “distretto” corporeo può essere interessato, le sindromi compartimentali si manifestano più frequentemente agli arti inferiori in relazione con sforzi eccessivi, ostruzioni tromboemboliche e traumi. La sindrome del tibiale anteriore è la forma più frequente; si può manifestare negli atleti o comunque in soggetti obbligati a lunghe marce. La fase acuta è caratterizzata da edema, arrossamento cutaneo, dolore, impotenza funzionale (inizialmente solo meccanica) nel movimento di flessione dorsale del piede e dell’alluce e frequente scomparsa del polso arterioso; seppur raramente, la necrosi muscolare può essere di entità tale da condurre a mioglobinuria e coinvolgimento renale. L’esito, la cui gravità dipende dall’intensità della noxa patogena e dalla tempestività della terapia (in particolare la fasciotomia), consiste nella sostituzione del tessuto muscolare necrotico con tessuto fibroso e nell’eventuale deficit neurogeno delle fibre superstiti secondario a lesione del tronco nervoso. Sempre agli arti inferiori possono essere colpiti il muscolo soleo ed i flessori delle dita; agli arti superiori, in particolare per fratture sopracondiloidee del braccio o come conseguenza di bendaggi compressivi, può residuare una contrattura in flessione delle dita (sindrome di Volkmann). Un cenno a parte merita la sindrome compartimentale addominale in cui l’aumento rapido di pressione intra-addominale può determinare il danno di più organi. La sindrome, inizialmente descritta nei politraumatizzati, è stata verosimilmente sottostimata; attualmente la forma addominale è riconosciuta come una temibile complicanza negli ustionati e nei pazienti sottoposti ad interventi chirurgici in sede addominale e pelvica.
Assenza congenita di alcuni muscoli Nel contesto di questo raro disturbo i muscoli più frequentemente interessati sono il serrato
anteriore, i pettorali, il trapezio, lo sternocleidomastoideo. Frequentemente l’agenesia muscolare si associa ad altre anomalie congenite (ipoplasia o aplasia della ghiandola mammaria, sindattilia, scoliosi).
Artrogriposi multipla complessa Questo termine, introdotto da Stern (1923), indica una condizione caratterizzata da fissità articolari multiple congenite associate ad atrofia dei muscoli inerenti le articolazioni interessate. L’artrogriposi multipla complessa è, di fatto, una sindrome con differenti possibili patogenesi. La gravità del quadro clinico può variare dalla sola presenza del piede torto al coinvolgimento di più articolazioni con conseguente grave deformazione degli arti. La forma più comune è quella dovuta a deficit di sviluppo delle cellule delle corna anteriori e consiste in riduzione irregolare del volume di alcuni muscoli degli arti; spesso coesistono malformazioni somatiche e del sistema nervoso centrale. In questo caso le rigidità articolari dipendono dalla contrazione isolata dei muscoli indenni la cui azione non viene contrastata dalla muscolatura denervata. Meno frequentemente le deformità artrogripotiche si manifestano nel contesto di malattie muscolari (la distrofia muscolare congenita e la forma neonatale di distrofia miotonica), nei rari casi di miastenia grave neonatale o nelle alterazioni intrauterine (oligoidramnios) responsabili di ridotta motilità fetale.
Miosite ossificante Consiste nella formazione ectopica di tessuto osseo nel muscolo scheletrico e nel tessuto sottocutaneo di cui si conoscono due forme: localizzata e diffusa. Nella forma localizzata, conseguente a traumi, singoli o ripetuti, una regione muscolare (ti-
Malattie muscolari 1513
picamente gli adduttori della coscia) viene sostituita da una massa di consistenza cartilaginea che successivamente acquista le caratteristiche del tessuto osseo. La formazione è apprezzabile palpatoriamente e documentabile con l’esame radiografico. Se l’insulto traumatico viene eliminato, il fenomeno tende a regredire nell’arco di alcuni mesi. La forma diffusa, nota anche con il termine di miosite ossificante progressiva introdotto da Munchmeyer (1869), è verosimilmente una forma ereditaria a trasmissione autosomica dominante, anche se sono stati descritti molti casi sporadici. Circa il 75% dei casi presenta anomalie congenite, soprattutto alterazioni delle dita della mano e del piede (tipica quella dell’alluce). I pazienti affetti, solitamente prima dei quattro anni di età, presentano inizialmente ripetuti episodi di rigonfiamento della muscolatura cervicale, quindi di quella toracica e dei cingoli, con successivo aumento della consistenza muscolare per la formazione di tessuto osseo che si sostituisce ai tendini, alle fasce ed al tessuto muscolare. La muscolatura cardiaca, linguale, diaframmatica e degli sfinteri è risparmiata. In corrispondenza delle zone di ectopia ossea possono prodursi ulcerazioni cutanee. In alcuni casi la somministrazione di difosfonato ha determinato il riassorbimento del tessuto osseo ectopico.
Miopatia amiloidosica Nelle varie forme di amiloidosi il coinvolgimento muscolare è solitamente sub clinico, pur essendo frequente il riscontro di depositi di amiloide nei muscoli. In alcuni casi si può manifestare una miopatia caratterizzata da ipostenia nei settori prossimali, aumento volumetrico dei muscoli (in particolare macroglossia), innalzamento dei valori serici degli enzimi muscolari. Gli esami elettrofisiologici evidenziano alterazioni di tipo miogeno, talora sovrapposte ai segni di una neuropatia assonale. La biopsia dimostra la presenza di
depositi di amiloide (identificabili per la metacromasia e l’affinità per il rosso Congo) intorno ai piccoli vasi e negli spazi interstiziali tra le singole fibre muscolari. La diagnosi, ralativamente semplice nella forma tipica, diviene più ardua quando la pseudoipertrofia muscolare è assente ed il quadro clinico può essere interpretato come una forma di polimiosite.
Sindrome dell'uomo rigido (Sindrome di Moerssch e Woltman) Esordisce nell’età adulta con spasmi dolorosi intermittenti (spontanei o scatenati da stimoli improvvisi) e grave rigidità alla muscolatura assiale ed a quella prossimale degli arti inferiori. I movimenti volontari sono assai difficoltosi, l’andatura è caratteristica per l’iperlordosi lombare. A differenza del tetano i muscoli facciali sono raramente interessati e non si verifica trisma. La sindrome di Moersch e Woltman si associa frequentemente a malattie autoimmuni, soprattutto diabete mellito insulino-dipendente, ed a neoplasie di vario tipo. La patogenesi va probabilmente ricercata nella compromissione delle vie inibitorie GABAergiche. È stata infatti dimostrata la presenza, nel liquor cefalorachidiano, di auto anticorpi contro la decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD) che interferirebbero con la sintesi o l’azione dell’acido gammaaminobutirrico (GABA), con conseguente ipereccitabilità delle cellule delle corna anteriori.
Neuromiotonia Con il termine “neuromiotonia” o “sindrome di Isaacs” (1961) viene indicato un gruppo eterogeneo di condizioni caratterizzate da “attività continua della fibra muscolare”. Frequentemente il sintomo iniziale è costituito da miochimie (lente “ondulanti” contrazioni di gruppi adiacenti di fibre muscolari), seguite da rigidi-
1514 Malattie del sistema nervoso COHN R.D., CAMPBELL K.P.: Molecular basis of muscular dystrophies. Muscke Nerve 1456-1471, 2000.
tà muscolare (presente a riposo e peggiorata dall’attività) e da lentezza nel rilasciamento dopo contrazione volontaria. Il quadro elettromiografico evidenzia una attività di unità motoria diffusa e protratta associata a scariche ricorrenti ad alta frequenza. Sono stati descritti sia casi familiari, talora associati a quadri clinici o elettrofisiologici di sofferenza nervosa periferica, che acquisiti: idiopatici, da esposizione a tossici e farmaci, paraneoplastici, di origine autoimmunitaria o in associazione a neuropatie infiammatorie. La sintomatologia può trarre beneficio dalla somministrazione di carbamazepina e dintoina; alcuni pazienti rispondono favorevolmente al trattamento con plasmaferesi.
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Miastenia gravis e sindromi miasteniche 1517
35. Miastenia gravis e sindromi miasteniche C. Caponnetto
Miastenia gravis La Miastenia Gravis (MG) è il più comune disordine della giunzione neuromuscolare, è un prototipo di patologia autoimmune nonché una delle malattie neurologiche trattabili con maggior successo. Tutte queste caratteristiche la rendono particolarmente interessante sia sotto il profilo speculativo e sperimentale che per le implicazioni pratiche diagnostico-terapeutiche. NOTE STORICHE La prima riconosciuta descrizione della malattia risale al 1672 ad opera di Thomas Willis. Questi descrisse il caso di una donna con un disturbo di forza fluttuante interessante soprattutto le funzioni bulbari: la paziente diveniva “…muta come un pesce…” dopo una prolungata conversazione e recuperava dopo qualche ora di riposo. Una descrizione ancora precedente sembra interessare un anziano capo tribù nativo americano dei primi del seicento di cui viene citata una debolezza muscolare che recedeva dopo un periodo di inattività: peraltro le facoltà mentali ed il coraggio in battaglia erano invariati nonostante la malattia. Il vero riconoscimento di una individualità nosografica è stato variamente attribuito a Wilhelm Erb (1873), K. Samuel Goldflam (1893) and Friedrich Jolly. È quest’ultimo comunque che nel 1895 coniò la denominazione della malattia, definendola “myasthenia gravis pseudoparalytica”. Notò anche che nei casi mortali l’esame autoptico non dimostrava alterazioni a carico del Sistema Nervoso Centrale. Solo più tardi, infatti, venne riconosciuta l’origine periferica del disturbo. L’era della terapia cominciò negli anni ’30 con il lavoro pionieristico di Mary Walker che, riconosciuta la somiglianza dei sintomi della miastenia con quelli dell’intossicazione da curaro, intraprese il trattamento con i farmaci anticolinesterasici: questi rimasero l’unica terapia fino agli anni ’60.
Una associazione tra miastenia e patologia timica fu intuita fino dall’inizio del ‘900: esistono descrizioni aneddotiche di miglioramenti clinici dopo interventi di timectomia, ma dobbiamo una trattazione sistematica dell’argomento a Blalock che cominciò a trattare chirurgicamente pazienti con e senza timoma. Negli anni ’60 John Simpson propose la teoria di una patogenesi autoimmune della MG, dimostrata sperimentalmente su un modello animale da Patrick e Lindstrom nel 1973. Questa dimostrazione condusse negli anni successivi a sviluppare una terapia fisiopatologica con vari farmaci autoimmuni, fino ai giorni nostri, quando gli sviluppi di tali terapie hanno permesso un ottimo controllo dei sintomi nella maggior parte dei pazienti, tanto che da molti si propone di eliminare il termine “gravis” dalla denominazione della malattia.
EPIDEMIOLOGIA La malattia colpisce tutte le razze. In Italia la prevalenza è pari a circa 10-11 casi su 100.000 abitanti (Aiello et al., 1997), paragonabile a quella americana e nordeuropea (Robertson et al., 1998). La fascia di età più colpita è quella tra i 20 e i 40 anni per le donne e oltre i 60 anni negli uomini. Le femmine sono più affette dei maschi. Recentemente, tuttavia, con l’invecchiamento della popolazione e con l’aumento del numero di soggetti con esordio in età avanzata, gli uomini sembrerebbero più colpiti delle donne (Sanders e Howard, 2000). EZIOPATOGENESI La trasmissione neuromuscolare si verifica quando un potenziale d’azione arriva a liberare un numero adeguato di quanta di acetilcolina a livello della terminazione del nervo motorio. L’acetilcolina diffonde attraverso il vallo sinaptico e si lega ai recettori sulla membrana
1518 Malattie del sistema nervoso
postsinaptica, inducendo l’apertura di canali ionici e la locale depolarizzazione della zona di placca. La liberazione simultanea di numerose molecole di acetilcolina genera un potenziale di placca (end-plate potential o EPP) a livello postsinaptico. Quando questo raggiunge o supera la soglia per l’eccitazione del potenziale d’azione, esso si trasmette all’intera membrana producendo la contrazione della fibrocellula muscolare. La differenza tra ampiezza dell’EPP e soglia per il potenziale d’azione è definita margine di sicurezza della trasmissione neuromuscolare. L’ampiezza dell’EPP può essere ridotta sia per alterazioni presinaptiche (ridotta liberazione di acetilcolina) che postsinaptiche (difettoso legame con il recettore). L’azione dell’ acetilcolina, inoltre, è molto breve per l’intervento dell’enzima acetilcolinesterasi che la inattiva immediatamente: l’inibizione dell’attività dell’enzima aumenta ampiezza e durata dell’EPP. Il margine di sicurezza della trasmissione neuromuscolare, molto ampio nel soggetto normale, viene quindi ridotto dai difetti preo post-sinaptici e può essere, almeno in parte, ristabilito dai farmaci inibitori dell’acetilcolinesterasi. Nella MG la membrana postsinaptica è distorta e semplificata con scomparsa della normale plicatura e riduzione della concentrazione dei recettori cui sono adesi specifici anticorpi. La MG è infatti un classico esempio di malattia anticorpo-mediata. Gli autoanticorpi interferiscono con la funzionalità del recettore attraverso tre meccanismi: accelerata degradazione, interferenza sui siti di legame, lisi complementomediata. Sebbene la produzione di autoanticorpi sia direttamente attribuibile ai linfociti B, nella MG è stata dimostrata una rilevante responsabilità dei linfociti T nell’induzione del processo autoimmune e nel suo mantenimento. Il ruolo essenziale dei linfociti T è suggerito dal riscontro di alterazioni timiche presenti in circa il 75% dei casi, di cui l’85% presenta una iperplasia con formazione di centri germinativi, mentre nel re-
stante 15% esiste un timoma. Lo sviluppo abnorme di questa popolazione linfocitaria potrebbe avvenire all’interno del timo, forse in risposta ad una alterazione del suo microambiente. Da segnalare che è nota la presenza di recettori per l’acetilcolina a livello delle cellule mioidi timiche sia in soggetti normali che in pazienti affetti da MG. Il recente riscontro di un’alta percentuale di linfociti T “natural killer” nei miastenici potrebbe suggerire che un meccanismo patogenetico sia la produzione di citochine: queste sarebbero essenziali nell’iniziare il processo di crescita e differenziazione delle cellule B con conseguente produzione di specifici autoanticorpi. [Reinhardt e Melms] Lo squilibrio del sistema immune verso una esagerata produzione di anticorpi, sarebbe favorito da fattori genetici individuali (nei pazienti miastenici ad esordio precoce, infatti, sono stati riscontrati con maggiore frequenza antigeni HLA B8 e DRw3). L’intervento di fattori genetici sarebbe anche suggerito dall’aumentata incidenza di altre malattie autoimmuni nei pazienti e nei familiari. SINTOMATOLOGIA La diagnosi di MG è anzitutto clinica per cui è fondamentale una attenta raccolta anamnestica della sintomatologia descritta dal paziente. Sintomo cardinale è la faticabilità, cioè il progressivo esaurimento della forza con l’esercizio fisico. Il termine “faticabilità” può essere talora confuso con quello più vago di “fatica”, inteso come “astenia diffusa”. Tuttavia, mentre quest’ultima consiste in una percezione di mancanza di energia e coinvolge tutti i distretti muscolari, l’ipostenia del miastenico è un vero esaurimento della forza muscolare, connesso all’esercizio ripetuto e spesso limitato ad alcuni specifici gruppi di muscoli. Le fluttuazioni temporali sono quindi caratteristiche, così come la topografia dei deficit motori. Il paziente lamenta spesso un accentuazione dei sintomi durante la giornata ed una attenua-
Miastenia gravis e sindromi miasteniche 1519
zione con il riposo. Ciò è particolarmente evidente quando è coinvolta la muscolatura oculare estrinseca (sede di esordio in circa il 60 % dei casi ed interessata prima o poi nel 90 % dei casi): la diplopia o la ptosi palpebrale, spesso assenti al risveglio, compaiono durante la giornata e sono accentuate dall’affaticamento muscolare, ad esempio dalla lettura prolungata o dalla guida, specie se la luce è intensa. La ptosi palpebrale è spesso unilaterale o comunque asimmetrica e la diplopia e l’eventuale strabismo non configurano generalmente deficit di singoli nervi oculomotori. Qualora venga coinvolta la muscolatura bulbare (compromessa all’esordio in circa il 20% dei casi), l’effetto dell’affaticamento viene descritto come difficoltà crescente alla deglutizione o alla masticazione nel corso di un pasto (in alcuni casi di ipostenia del massetere il paziente è costretto a sostenere con la mano la mandibola) o, durante un discorso, come ipofonia e modificazione del timbro della voce che tende a divenire più nasale. Il paziente nota che il riposo per qualche minuto ristabilisce la normale forza di contrazione muscolare. La facies del miastenico, specie se la malattia è di lunga data, può apparire caratteristica, per un abbassamento degli angoli della bocca, mantenuta talora semiaperta, ed un appiattimento delle pieghe naso-labiali e fronto-nasali che conferiscono al soggetto un aspetto “depresso”. L’ipostenia può colpire la muscolatura del collo, specie estensoria, con caduta del capo in avanti. Il dolore, sintomo non caratteristico della malattia, può essere in questi casi presente nella regione cervicale posteriore, per lo sforzo muscolare prolungato richiesto per mantenere il capo eretto. A livello degli arti, l’ipostenia è generalmente più marcata nei settori prossimali. In particolare: agli arti superiori si manifesta come esauribilità nel mantenerli sollevati e protesi, come nell’atto di pettinarsi o stendere i panni o appoggiare oggetti in alto; agli arti inferiori come faticabilità nel salire le scale, correre o cammi-
nare. L’andatura può assumere caratteristiche francamente anserine. L’insufficienza respiratoria da deficit contrattile della muscolatura intercostale e diaframmatica, evento drammatico nel corso della malattia, può anche esserne sintomo di esordio. Il riscaldamento corporeo, per malattie febbrili o per l’aumento della temperatura ambientale è un fattore aggravante i sintomi miastenici così come altre condizioni quali stress psichici o fisici, anestesie, interventi chirurgici, gravidanza, puerperio. OBIETTIVITÀ
NEUROLOGICA
La MG interessa esclusivamente l’attività motoria e, come già detto, è caratterizzata dalla fluttuazione di gravità dei sintomi e dal peggioramento di questi con l’affaticamento: l’esame neurologico deve pertanto essere orientato ad evidenziare tale aspetto. Esame della muscolatura oculare estrinseca: già all’osservazione clinica si può notare che la ptosi palpebrale è spesso asimmetrica. Per compensare la ptosi, il paziente tende a contrarre la muscolatura frontale, assumendo un’espressione preoccupata o sorpresa. Il soggetto viene quindi invitato a guardare verso l’alto per un minuto. Durante l’esame o al termine di questo si potrà verificare una riduzione di ampiezza della rima palpebrale, misurata al centro del globo oculare. Al deficit del muscolo elevatore della palpebra corrisponde generalmente una ipostenia del muscolo orbicolare dell’occhio che può essere saggiato tentando di vincere manualmente la chiusura forzata delle palpebre. La diplopia, assente a riposo, può essere evidenziata invitando il p. a mantenere lo sguardo verso una posizione di estrema lateralità per alcuni secondi. Esame della muscolatura ponto bulbare: viene eseguito valutando soprattutto la resisten-
1520 Malattie del sistema nervoso
za nella masticazione di un cibo solido, la forza di spinta laterale della lingua contro il dito dell’esaminatore che esercita una certa pressione contro la parete della guancia, la capacità di deglutire senza segni di disfagia una quantità stabilita di acqua (ad esempio mezza tazza), la comparsa di disfonia numerando progressivamente ad alta voce da uno a cinquanta. Esame della muscolatura respiratoria: una valutazione affidabile può essere fornita solo dalle prove spirometriche. Al letto del malato è possibile solo una grossolana quantificazione con il cd “conteggio espiratorio massimo”. Si invita il paziente a compiere una profonda inspirazione e a contare a voce alta durante l’espirazione finchè non sia costretto a riprendere fiato. Il conteggio è generalmente inferiore a 20 nei soggetti con insufficienza respiratoria. Esame della muscolatura degli arti e del collo: la faticabilità muscolare viene valutata misurando per quanto tempo il p. è in grado di mantenere gli arti superiori addotti a 90° , gli arti inferiori o la testa sollevati a 45° dal piano del letto in posizione supina. Su tali parametri è stata elaborata una scala di gravità di malattia (Tab 35.1), utilizzata soprattutto per la classificazione dei pazienti in gruppi omogenei negli studi clinici (Jaretzki et al., 2000). FORME CLINICHE Secondo la storica, ma tutt’ora utilizzata, classificazione di Osserman vengono distinti, in base alla topografia dei deficit, con diverse implicazioni prognostiche, 4 stadi clinici: • Stadio I: interessamento esclusivamente oculare. Presente all’esordio in circa il 60 % dei casi, permane esclusivamente tale per tutto il decorso della malattia in circa il 15 %. • Stadio II A: forma generalizzata lieve (30 %) senza compromissione respiratoria e con buona risposta alla terapia anticolinesterasica.
• Stadio II B: forma generalizzata moderata (20%), simile alla precedente ma con maggior rapidità di esordio, maggiore compromissione della muscolatura bulbare e minore risposta alla terapia anticolinesterasica. • Stadio III: miastenia acuta fulminante con insufficienza respiratoria (crisi miastenica) ad insorgenza entro sei mesi dall’esordio (11%). Coesiste spesso timoma, la risposta alla terapia è scarsa e maggiore la mortalità. • Stadio IV: miastenia tardiva grave (9%) con quadro di aggravamento generalizzato, fino all’insufficienza respiratoria, di forme tipo I o II, dopo almeno due anni dall’esordio. Anche in questa forma la risposta terapeutica non è ottimale e la prognosi non buona. A fini di ricerca clinica, una task force ad hoc ha recentemente consigliato l’utilizzo della MGFA (MG Foundation of America) Clinical Classification (Tab. 35.2) (Jaretzki et al., 2000) che, non correlata a criteri di decorso temporale, ma alla sola gravità di interessamento di gruppi muscolari avrebbe implicazioni prognostiche più precise. DECORSO E PROGNOSI L’evoluzione naturale della malattia è stata nettamente modificata dal largo uso delle terapie sintomatiche ed immunosoppressive ed i recenti studi epidemiologici non possono certamente prescindere da esse. Il decorso della malattia appare fluttuante, potendo oscillare dalla completa remissione, abitualmente transitoria, anche in assenza di terapia, più frequente in pazienti senza timoma sottoposti a timectomia (25 % circa), fino alle crisi miasteniche, condizioni di emergenza caratterizzate dalla comparsa di insufficienza respiratoria a rapida insorgenza, talora scatenate da eventi infettivi, traumatici, iatrogeni (Tab. 35.3) o dalla gravidanza o anche in assenza di fattori favorenti riconoscibili. Nel 75% circa dei pazienti la malattia tende a generalizzare dopo un periodo di tempo varia-
Miastenia gravis e sindromi miasteniche 1521 Tabella 35.1 - Scala quantitativa di gravità della MG . Parametro Testato
Negativo
lieve
moderato
grave
Grado
0
1
2
3
Diplopia nello sguardo di lateralità, (secondi di affaticamento)
61
11-60
1-10
spontanea
Ptosi nello sguardo verso l’alto (secondi di affaticamento)
61
11-60
1-10
spontanea
Muscolatura faciale
Normale chiusura Completa ma della rima debole, qualche palpebrale resistenza
Completa, ma nessuna resistenza
Incompleta
Deglutizione di 1/2 tazza di acqua
Normale
Accenno a tosse o a schiarirsi la gola
Grave disfagia con tosse e/o rigurgito nasale
Impossibile (non tentato)
Parola dopo aver contato ad alta voce da 1 a 50 (inizio della disartria)
Assente al 50
Compare tra 30 e 49
Compare tra 10 e 29
Compare a 9
Abbassamento dell’AS ds sollevato (a 90° seduto) in secondi
240
90-239
10-89
0-9
Abbassamento dell’AS sn sollevato (a 90° seduto) in secondi
240
90-239
10-89
0-9
Capacità vitale, % del previsto
≥80
65-79
50-64
<50
Forza presa mano ds in Kg !
=45
15-44
5-14
0-4
Forza presa mano ds in Kg !
=30
10-29
5-9
0-4
Forza presa mano sn in Kg !
=35
15-34
5-14
0-4
Forza presa mano sn i in Kg !
=25
10-24
5-9
0-4
Testa sollevata (45° supino), in sec
120
30-119
1-29
0
AI ds sollevato (45° supino), sec
100
31-99
1-30
0
AI sn sollevato (45° supino), sec
100
31-99
1-30
0
punteggio
Punteggio tot. (0-39)
1522 Malattie del sistema nervoso Tabella 35.2 - Classificazione clinica MGFA.
Classe I Classe II IIa IIb
Classe III IIIa IIIb
Classe IV IVa IVb
Classe V
Ipostenia muscolare eclusivamente oculare (compresa la chiusura degli occhi) Lieve ipostenia di muscoli diversi da quelli oculari. Può coesistere ipostenia oculare di qualunque entità Interessa prevalentemente la muscolatura degli arti e/o assiale. Può coesistere in minor misura coinvolgimento orofaringeo Interessa prevalentemente la muscolatura orofaringea e/o respiratoria. Può coesistere in misura minore o equivalente coinvolgimento assiale e/o degli arti Ipostenia moderata che interessa un settore muscolare diverso da quello oculare. Può coesistere ipostenia oculare di qualunque entità Interessa prevalentemente muscolatura degli arti e/o assiale. Può coesistere in minor misura coinvolgimento orofaringeo Interessa prevalentemente la muscolatura orofaringea e/o respiratoria. Può coesistere in misura minore o equivalente coinvolgimento assiale e/o degli arti Ipostenia grave che interessa un settore muscolare diverso da quello oculare. Può coesistere ipostenia oculare di qualunque entità Interessa prevalentemente la muscolatura degli arti e/o assiale. Può coesistere in minor misura coinvolgimento orofaringeo Interessa prevalentemente muscolatura orofaringea e/o respiratoria. Può coesistere in misura minore o equivalente coinvolgimento assiale e/o degli arti Definita dalla necessità di intubazione, con o senza ventilazione meccanica, a meno che non venga praticata come trattamento di routine postoperatorio. L’uso di sondino naso-gastrico senza intubazione pone il paziente in classe IVb
Tabella 35.3 - Farmaci con potenziali effetti dannosi sulla trasmissione neuromuscolare Antibiotici: streptomicina,kanamicina, neomicina, gentamicina, lincomicina, viomicina, clindamicina, bacitracina, polimixina A e B, colistina. tetraciclina, oxitetraciclina, rolitetraciclina, ampicillina, ciprofloxacin. Anticolinergici: triesifenidile, clorpromazina,propantelina Ormoni: corticosteroidi, ACTH, tiroxina Sedativi: fenotiazine, narcotici Farmaci cardiologici: chinidina, procainamide, lidocaina, propranololo, ossiprenololo, practololo, timololo, trimetafano, bretilio, diltiazem. Antiepilettici: fenitoina, trimetadione Stabilizzatori di membrana: clorochina, chinino, xilocaina Inibitori del trasporto assonale: cisplatino, colchicina Ioni: magnesio, litio, ipokaliemia Mezzi di contrasto: meglumina lotalamato, gadolinio
bile, fatti salvi i casi di miastenia oculare in cui dopo i primi due anni dall’esordio tale evento può considerarsi assai improbabile. In circa il 10% dei pazienti (con maggior frequenza nei maschi) è presente un timoma. La MG si associa ad altre malattie autoimmuni, quali artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico e soprattutto tiroiditi, con frequenza statisticamente maggiore rispetto alla popolazione generale, soprattutto nel sesso femminile,. Benché la prognosi sia generalmente buona, la sopravvivenza dei pazienti è ridotta rispetto alla popolazione generale in ambedue i sessi con un tasso di mortalità media annuale di 1.4 per milione ed il decorso è mediamente più grave nei pazienti ad insorgenza più tardiva, classificati in stadio IIb o III di Osserman e con timoma (Christiansen et al., 1998). DIAGNOSI
Curarici ed altri miorilassanti non depolarizzanti D-penicillamina
La diagnosi si basa essenzialmente su quattro criteri:
Miastenia gravis e sindromi miasteniche 1523
• Criterio clinico: sintomi e segni già descritti con particolare attenzione alle fluttuazioni, alla faticabilità e al recupero funzionale dopo il riposo. • Criterio farmacologico: rapido e fugace miglioramento (tra i 30" e i 5 ‘) dei segni clinici obiettivi dopo somministrazione e.v. di Edrofonio Cloruro (2-5 mg), farmaco anticolinesterasico che ripristina rapidamente la trasmissione a livello delle sinapsi neuromuscolari (Test al Tensilon). Il test deve essere sempre valutato con cautela, in quanto lievi e soggettivi miglioramenti possono essere osservati anche in svariate condizioni cliniche diverse dalla MG ed in controlli normali. • Criterio elettrofisiologico: lo studio elettrofisiologico consente di escludere altre patologie neuromuscolari e/o di confermare, se positivo e caratteristico, la diagnosi di MG. Permette inoltre di ottenere un criterio obiettivo di gravità da seguire nel tempo anche in rapporto alle terapie praticate. I test più utilizzati sono la stimolazione ripetitiva del nervo motorio e l’elettromiografia di singola fibra (SFEMG) (v. 352). La stimolazione ripetitiva viene eseguita stimolando con intensità di corrente sopramassimale il nervo motorio e registrando i potenziali d’azione muscolare complessi derivati da un muscolo da esso innervato. Il test è considerato positivo quando, rispetto al primo di una serie di 8-10 risposte, il decremento di ampiezza di un successivo potenziale supera il 10%. Nella MG il decremento è massimo alla frequenza di stimolazione di 2-3 Hz ed interessa generalmente il 4° o 5° potenziale. Caratteristica è la cosiddetta “forma ad U” del tracciato con parziale recupero di ampiezza dei potenziali successivi il 4° o 5°, allorchè vengono fisiologicamente mobilizzati i depositi di Ach contenuti nelle vescicole (Fig.35.1). La sensibilità del test è massima quando registrata da gruppi muscolari clinicamente affetti e nei distretti prossimali rispetto a quelli distali; il test può essere ulteriormente sensibilizzato dalla contrazione vo-
Fig. 35.1 - Esempio di risposta decrementale in un paziente affetto da miastenia gravis. Risposte ottenute per stimolazione ripetitiva del nervo ulnare a 3 Hz, registrando dal muscolo abduttore del V dito.
lontaria massimale mantenuta per circa 10-30" prima della stimolazione. Stimolazione a frequenze maggiori (10-20 Hz) può provocare nella MG un aumento di ampiezza dei potenziali con diminuzione della durata degli stessi (pseudofacilitazione) dovuta all’aumentata sincronizzazione della propagazione dei potenziali muscolari, piuttosto che un aumento dell’area dei potenziali, come avviene invece nei disturbi presinaptici (fino al 200-1000 % di facilitazione nella sindrome di Lambert-Eaton). L’elettromiografia di singola fibra (SFEMG) (v. pag. 352) consente, attraverso la registrazione di un jitter aumentato e della presenza di blocchi intermittenti, di evidenziare l’esistenza di una alterazione funzionale della giunzione neuromuscolare. Posizionando un elettrodo da singola fibra e registrando scariche consecutive di potenziali derivati da due o più singole fibre muscolari, è possibile misurare la variazione negli intervalli di tempo tra le scariche di un potenziale rispetto ad un altro usato come trigger. Tale variabilità (jitter neuromuscolare) è causata dalle fluttuazioni nel tempo necessario ai potenziali di placca per raggiungere la soglia per l’evocazione del potenziale d’azione a livello della giunzione neuromuscolare. Il jitter è aumentato sia per difetti pre- che post-sinaptici, essendo cioè il fattore di sicurezza della trasmissione neuromuscolare ridotto in ambedue i casi. Nel caso di alterazioni funzionali rilevanti, alcuni impulsi nervosi non riescono ad evocare un potenziale d’azione: si registrano pertanto blocchi intermittenti alla SFEMG.
1524 Malattie del sistema nervoso
La SFEMG può essere registrata nel corso di una contrazione muscolare volontaria minima o in risposta a microstimolazione assonale. In entrambi i casi l’esame presenta non poche difficoltà tecniche: è pertanto necessario un esaminatore esperto ed il paziente, specie nella attivazione volontaria del muscolo, deve essere molto collaborante. Inoltre il test non è specifico per i difetti della giunzione, può essere infatti alterato anche in malattie primitive del nervo e del muscolo. I risultati vanno quindi valutati criticamente e globalmente. • Criterio immunologico: La MG è una malattia immunomediata, con alterazioni a livello della membrana postsinaptica caratterizzate da riduzione numerica e funzionale del recettore nicotinico per l’acetilcolina (AchR). Il AchR è una proteina pentamerica composta da 4 subunità. Ne esistono due isoforme: dell’adulto e fetale. La forma fetale, a sviluppo completato, è presente solo nei muscoli extraoculari e denervati, mentre la forma dell’adulto è presente in tutti gli altri muscoli, a livello della giunzione neuromuscolare. Gli anticorpi anti AchR, riscontrabili nel 80-85% dei casi di MG generalizzata e nel 50-70% dei casi oculari, hanno rilevanza patogenetica e rappresentano il test diagnostico più specifico. Agiscono attraverso il legame e l’interferenza con il recettore, determinando una sua più rapida degradazione e la lisi complemento-mediata del versante muscolare della placca. Ne vengono riconosciuti tre tipi: anticorpi legantiAchR (sono i più comuni e sensibili e soprattutto quelli routinariamente testati), anticorpi modulanti-AchR (accelerano la degradazione del recettore ed andrebbero ricercati se i primi sono negativi), anticorpi bloccanti-AchR (impediscono il legame con la bungarotossina; sono poco sensibili ma molto specifici). Il titolo anticorpale non sembra essere correlato alla severità della sintomatologia clinica: pertanto il monitoraggio del livello anticorpale è solitamente inutile.
Del tutto recentemente (Hoch et al., 2001) nel 70% dei pazienti sieronegativi per anticorpi anti AchR, ma non in quelli sieropositivi, è stata dimostrata la presenza di anticorpi sierici contro il recettore muscolo-specifico tirosina kinasi (MuSK). Tale recettore presente nella giunzione muscolare matura potrebbe quindi essere il bersaglio di autoanticorpi patogenetici delle cd forme sieronegative. Esistono inoltre altri autoanticorpi, diretti contro proteine localizzate all’interno del muscolo striato, riscontrati prevalentemente in casi associati a timoma o ad esordio tardivo, quali quelli antititina (Yamamoto et al., 2001) ed anti-recettore per la rianodina. Benchè il loro significato patogenetico sia ancora dubbio, è stata recentemente suggerita una relazione tra il titolo di tali anticorpi e la gravità di malattia (Romi et al., 2000). Nello screening diagnostico del paziente miastenico vanno inoltre incluse le immagini del distretto mediastinico (TC o RM) ai fini di escludere un timoma, oltreché un dosaggio di ormoni tiroidei ed anticorpi anti tireoglobulina ed antitireoperossidasi, vista l’elevata concomitanza di patologie tiroidee. DIAGNOSI DIFFERENZIALE La MG può essere confusa con altre condizioni morbose. La diplopia può essere dovuta ad altre cause, quali lesioni troncoencefaliche vascolari, demielinizzanti, tossico-carenziali (come la malattia di Wernicke) o a malattie dei nervi periferici, quali la variante di Miller Fisher della sindrome di Guillain-Barré o a malattie muscolari come la distrofia oculo-faringea e le miopatie mitocondriali. Devono anche essere escluse malattie non neurologiche quali la ptosi congenita, l’oftalmopatia ipertiroidea e la presenza di masse endoorbitarie. Una causa comune di ptosi palpebrale, specie nell’anziano, è la deiscenza del piatto tarsale o ptosi aponeurotica, che può essere più accentuata dall’affaticamento nelle ore serali.
Miastenia gravis e sindromi miasteniche 1525
In caso di interessamento bulbare o della muscolatura cervicale la diagnosi differenziale deve essere posta talvolta con la sclerosi laterale amiotrofica. Altre malattie che determinano ipostenia prossimale sono alcune miopatie, certe forme di atrofia muscolare spinale e la sindrome miastenica di Lambert Eaton. Quest’ultima si distingue per la rarità del coinvolgimento oculare, per la riduzione dei riflessi osteotendinei, il frequente riscontro di anomalie autonomiche e la minima risposta agli anticolinesterasici, oltre che per le peculiarità diagnostiche elettrofisiologiche (v.oltre). Vanno inoltre ricordate le sindromi miasteniche congenite, quelle iatrogene (da farmaci) ed il botulismo. TERAPIA Le attuali strategie terapeutiche della miastenia si basano su quattro approcci fondamentali: • farmaci anticolinesterasici per il miglioramento della trasmissione neuromuscolare • timectomia • immunosoppressione • immunosoppressione a breve termine (plasmaferesi ed immunoglobuline e.v.) Farmaci anticolinesterasici Continuano ad essere i farmaci di prima scelta nella MG. Tra essi quello di uso più comune è la Piridostigmina, che, somministrata per os, agisce con una latenza di circa 30', ha un picco di effetto a circa 2 h per poi declinare gradualmente. Il dosaggio e la frequenza di somministrazione vanno individualizzati, ma raramente vengono richiesti dosaggi superiori a 120 mg ogni 3 h. Gli effetti collaterali da alte dosi sono rappresentati dai cd effetti muscarinici (scialorrea, crampi addominali da aumentata peristalsi, diarrea, fascicolazioni) oltre che dal possibile peggioramento della forza muscolare (crisi colinergiche). Raramente tuttavia la terapia
anticolinesterasica riesce da sola a controllare la sintomatologia miastenica (in particolare a livello oculare), per cui vengono associate altre strategie terapeutiche. Timectomia La timectomia viene eseguita nella MG per rimuovere un timoma ed evitarne la diffusione o nel tentativo di indurre una remissione clinica tale da permettere di ridurre la necessità di farmaci immunosoppressivi. Sebbene studi clinici controllati non siano mai stati condotti e non ci sia quindi una certezza conclusiva circa l’efficacia di tale approccio nei casi di MG senza timoma, la timectomia è generalmente consigliata in pazienti con forma generalizzata di età inferiore ai 60 anni e particolarmente in quelli con esordio entro i 40 anni. Secondo una recente revisione della letteratura, tuttavia, i dati disponibili permetterebbero unicamente di proporre ai pazienti la timectomia quale “una opzione per aumentare la probabilità di remissione o il miglioramento clinico” (Gronseth e Barohn, 2000). Anche sui tempi e sulla tecnica operatoria preferibili non ci sarebbe accordo. La mortalità operatoria in centri specializzati è attualmente molto bassa, pari a quella dell’ anestesia generale. In pazienti critici la terapia deve essere ottimizzata prima dell’intervento: in particolare, se la capacità vitale è inferiore a due litri è opportuno un ciclo di plasmaferesi preoperatorio per ridurre il rischio di prolungata dipendenza dal respiratore nella fase postoperatoria. In tale fase la necessità di anticolinesterasici può essere inferiore a quella precedente l’intervento: in particolare la terapia può essere somministrata per via endovenosa ad un dosaggio pari a circa i 3/4 del corrispondente dosaggio per os preoperatorio. Il beneficio della timectomia può verificarsi dopo mesi o anni dall’intervento e non è chiaro quale ne sia il meccanismo; secondo alcuni, sembrerebbe tuttavia che il titolo anticorpale si abbassi dopo l’intevento.
1526 Malattie del sistema nervoso
Terapie immunosoppressive Gli immunosoppressori sono indicati qualora gli anticolinesterasici non controllino adeguatamente i sintomi e questi ultimi siano disabilitanti in misura tale da controbilanciarne i rischi. Generalmente vanno continuati a lungo, spesso per sempre, e pertanto i pazienti devono essere seguiti assiduamente in vista di eventuali effetti collaterali. Corticosteroidi I corticosteroidi sono i farmaci immunosoppressori più largamente utilizzati nella MG: tuttavia la terapia a lungo termine è gravata da molti effetti collaterali. Nelle prime settimane di trattamento i sintomi miastenici possono peggiorare ed è opportuno pertanto ospedalizzare i pazienti o cominciare con dosi ridotte (15-20 mg di prednisone per os) per poi aumentarle gradualmente di 5 mg ogni due o tre giorni fino ad una risposta ottimale o a un massimo dosaggio di 50-60 mg/die. Dopo circa tre mesi di prednisone ad alte dosi si riduce progressivamente il dosaggio fino al minimo mantenimento efficace, possibilmente a giorni alterni. Pochi pazienti possono farne completamente a meno senza ricadere. Azatioprina L’azione dell’azatioprina, attraverso il suo metabolita 6-mercaptopurina, avviene prevalentemente sui linfociti T. È utilizzata nei pazienti che non tollerano gli steroidi o, in associazione con essi, per poterne ridurre le dosi e minimizzare gli effetti collaterali. È un farmaco maneggevole, ma ha due svantaggi: l’inizio dell’efficacia è molto ritardato (da mesi fino ad un anno) e non è tollerato da circa il 10% dei pazienti a causa di una sindrome simil-influenzale idiosincrasica. La terapia viene iniziata a dosi ridotte (50 mg/die) per qualche giorno, per valutarne la tollerabilità, e successivamente aumentata fino alla dose di mantenimento di 2-3 mg/kg/die. I valori emocromocitometrici e la funzionalità e-
patica dei pazienti devono essere successivamente monitorati. Ciclosporina Inibisce la produzione di interleukina-2 da parte delle cellule T helper ed è utilizzata in misura crescente nella MG, avendo un’efficacia simile a quella dell’azatioprina, ma un’azione più rapida di questa. Effetti collaterali più frequenti sono la nefrotossicità e l’ipertensione. Viene somministrata alla dose di 5 mg/kg/die in due dosi giornaliere e ne va successivamente monitorato il tasso plasmatico. Una volta raggiunto un buon controllo clinico, la dose può essere gradualmente ridotta fino alla minima efficace. Ciclofosfamide La ciclofosfamide è stata utilizzata sporadicamente nella MG, sia per via e.v. che per via orale. Effetti collaterali possono essere mieloinibizione, alopecia, nausea, anoressia, discromie cutanee ed ungueali. Micofenolato Mofetile Esistono recenti segnalazioni dell’efficacia del Micofenolato Mofetile, alla dose di 2g/die per os, in casi di MG complicati da altre patologie o resistenti alle comuni terapie. Si tratta di un farmaco che interferisce con il metabolismo delle purine, attivo sui linfociti T e B, già utilizzato come immunosoppressore nei trapianti d’organo ed in altre malattie autoimmuni, il cui uso viene proposto in alternativa ai comuni immunosoppressori a causa dei loro effetti collaterali (Caponnetto et al., 2001) o in associazione ad essi per ridurne i dosaggi. Immunoterapie a breve termine: plasmaferesi ed immunoglobuline e.v. La plasmaferesi rimuove gli anticorpi circolanti e produce un miglioramento clinico di breve durata nella MG. Classicamente viene utilizzato a cicli di 5 sedute in circa 7-10 gg nelle crisi
Miastenia gravis e sindromi miasteniche 1527
miasteniche e per ottimizzare la situazione clinica prima della timectomia. Il miglioramento si ottiene in pochi giorni, ma i benefici durano poche settimane. Le stesse indicazioni della plasmaferesi valgono anche per le immunoglobuline ev che vengono somministrate alla dose di 0.4 g/kg/die per 5 giorni. Rispetto alla plasmaferesi non esistono i problemi di accesso venoso, di ipotensione ed embolia polmonare; tuttavia cefalea, sovraccarico di fluidi, reazioni allergiche ed alto costo ne possono limitare l’uso.
Sindromi miasteniche Accanto alla forma classica e più frequente di Miastenia Gravis a patogenesi autoimmune fin qui descritta, si riconoscono sindromi miasteniche comprendenti: • La sindrome miastenica di LambertEaton • Le sindromi miasteniche congenite • Altre sindromi miasteniche (da farmaci e tossine) Sindrome miastenica di Lambert-Eaton La sindrome miastenica di Lambert-Eaton è una rara malattia della giunzione neuromuscolare sul versante presinaptico, che si associa, in circa metà dei casi, a neoplasie maligne, specialmente carcinoma polmonare a piccole cellule. È causata dalla presenza di autoanticorpi IgG diretti contro il canale del calcio voltaggio-dipendente delle terminazioni presinaptiche cui consegue una riduzione della liberazione di quanta di Acetilcolina a livello delle vescicole sinaptiche, fenomeno calcio-dipendente. La malattia esordisce generalmente dopo i 40 anni e colpisce con uguale frequenza i due sessi. La sintomatologia neurologica può spesso precedere anche di anni le manifestazioni cliniche della neoplasia, nel 80% dei casi un carci-
noma polmonare a piccole cellule. In tale caso si può associare ad altre manifestazioni neurologiche paraneoplastiche, in particolare all’atassia cerebellare. La sintomatologia consiste in una debolezza localizzata prevalentemente alla muscolatura prossimale degli arti, in minor misura orofaringea e respiratoria ed assai raramente extraoculare. La forza muscolare può essere momentaneamente aumentata dal mantenimento della contrazione, per poi esaurirsi dopo un esercizio più prolungato. Spesso coesistono segni di disautonomia, caratterizzati soprattutto da xerostomia meno spesso da turbe sfinteriche, impotenza, ipotensione ortostatica. I riflessi osteotendinei sono generalmente ridotti o assenti, ma possono essere accentuati dall’esercizio muscolare o dalla loro elicitazione ripetuta. È talora presente ipotrofia muscolare. La somministrazione di anticolinesterasici non produce un miglioramento sensibile della sintomatologia, come quello osservabile nella MG. La diagnosi può essere confermata neurofisiologicamente grazie alla EMG di singola fibra e alla stimolazione ripetitiva del nervo motorio. La EMG di singola fibra non fornisce risultati diversi rispetto alla MG. Anche in questo caso si riscontrano aumenti del jitter (talora anche più sensibili che nella MG) e blocchi intermittenti. Alterazioni più caratteristiche sono invece evidenziabili alla stimolazione ripetitiva. L’ampiezza della risposta muscolare in condizioni di base è in genere notevolmente ridotta e può ulteriormente diminuire a basse frequenze di stimolazione (1-3 Hz). Essa invece aumenta sensibilmente (fino a 200-1000% e comunque più del 100%) ad alta frequenza (20-50 Hz) o dopo esercizio massimale mantenuto per 10-20'’ (facilitazione post-attivazione) (Fig.35.2). La diagnosi può essere ulteriormente confermata dal riscontro di anticorpi IgG anti canali del calcio voltaggio-dipendenti. La terapia consiste nella asportazione della neoplasia quando presente e se possibile. Le
1528 Malattie del sistema nervoso
Fig.35.2 - Classica risposta alla stimolazione ripetitiva nella sindrome miastenica di Lambert-Eaton. Nella traccia superiore risposta decrementale ottenuta per stimolazione ripetitiva a 3 Hz del nervo mediano al polso e registrazione dall’abduttore del pollice. Nella traccia inferiore si dimostra marcata facilitazione post-attivazione dopo 10 secondi di contrazione volontaria massimale
terapie sintomatiche consistono nell’uso della 3,4 diaminopiridina, in grado di prolungare la durata di azione dell’acetilcolina a livello sinaptico, eventualmente in associazione agli anticolinesterasici. Può essere inoltre indicata la terapia steroidea, eventualmente affiancata ad immunosoppressori (azatioprina, ciclosporina) quando la sindrome non si associ a neoplasia.
dalla MG transitoria neonatale, trasmessa dal passaggio prenatale di anticorpi materni attraverso la placenta, che si esaurisce entro poche settimane dalla nascita, mentre possono essere confuse con rare forme precoci di MG sieronegative o con miopatie mitocondriali. Le più comuni sono causate da un difetto postsinaptico dell’AchR per mutazione della subunità e. Altri più rari difetti postsinaptici determinano alterazioni della cinetica di apertura dei canali del AchR. Tra queste la sindrome del canale lento, che può anche manifestarsi nell’adulto, è trasmessa con modalità autosomica dominante ed interessa soprattutto la muscolatura scapolare e dell’avambraccio. L’apertura del canale dell’AchR è prolungata e la sintomatologia è peggiorata dalla somministrazione di anticolinesterasici e 3,4 diaminopiridina. Elettrofisiologicamente, in questa forma così come nel difetto sinaptico da deficienza dell’enzima colinesterasi, caratterizzato clinicamente da ipostenia ed ipotrofia muscolare e da lenta risposta pupillare alla luce, tipicamente si evocano potenziali muscolari multipli in risposta a singoli stimoli elettrici applicati al nervo motore.
Altre sindromi miasteniche Sindromi miasteniche congenite Le sindromi miasteniche congenite sono rare ma devono essere differenziate dalla MG in quanto, benché possano giovarsi della terapia con anticolinesterasici e/o con 3,4 diaminopiridina, non devono essere sottoposti a terapie immunosoppressive o a timectomia (Vincent et al., 2001). Non sono infatti forme immunomediate ma geneticamente determinate, in genere secondo modalità autosomiche recessive. Comprendono forme presinaptiche, sinaptiche e postsinaptiche. Si manifestano generalmente entro i primi due anni di vita con sintomi analoghi a quelli della MG. Vengono facilmente distinte
– Da ricordare, per la sua importanza anestesiologica, il deficit (genetico od acquisito) di pseudocolinesterasi, possibile causa di apnea prolungata dopo blocco depolarizzante con succinilcolina; il difetto può essere identificato misurando l’attività della dibucaina nel siero. – Molte sostanze diverse possono indurre disturbi al livello pre- o postsinaptico della giunzione neuromuscolare: a) antibiotici, aminoglicosidici e tetraciclici, possono provocare un blocco dell’entrata degli ioni Ca++ nella terminazione nervosa; b) tossina botulinica (blocca il rilascio acetilcolinico) (v. pag. 1100)
Miastenia gravis e sindromi miasteniche 1529
c) veleno della vedova nera (blocco depolarizzante da eccessiva liberazione di acetilcolina); d) d-tubocurarina (blocco competitivo recettoriale); e) decametonio e suxametonio; f) malathion e parathion (inibiscono l’acetilcolinesterasi); g) penicillamina, può indurre una forma autoimmune di miastenia in cui sono reperibili autoanticorpi antirecettore nel siero. Da segnalare inoltre il recente riscontro di una forma tipica di MG immunomediata quale complicanza del trapianto di cellule staminali ematopoietiche (Zaja et al., 2000).
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Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1531
36. Malattie congenite - Encefalopatie infantili
Malattie da difetto di chiusura del tubo neurale (stato disrafico) C. Gandolfo, A. Primavera
solo scarsi movimenti ed un atteggiamento in decerebrazione. L’anencefalia può essere diagnosticata durante la gestazione, valutando il livello di alfafetoproteina nel siero materno o nel liquido amniotico, o dosando l’acetilcolinesterasi plasmatica, e, soprattutto, con l’impiego dell’ecografia.
Oloprosencefalia
Stato disrafico Con questo termine si indicano malformazioni mediane dovute a un difetto di chiusura della doccia neurale e, quindi, alterata formazione del tubo neurale, e ad errori di sviluppo delle strutture mesodermiche in rapporto col sistema nervoso centrale. Le malformazioni possono interessare indipendentemente il sistema nervoso, le meningi, il cranio e la colonna vertebrale o essere variamente combinate. I quadri clinici da illustrare sono: l’anencefalia, l’oloprosencefalia, il mielomeningocele, la siringomielia e la siringobulbia e le diverse forme di malformazione di Arnold-Chiari. Anencefalia È la più grave espressione dello stato disrafico, incompatibile con la vita. È dovuta alla mancata chiusura della porzione più craniale della doccia neurale con difetto di formazione delle ossa della volta cranica e di saldatura mediana dello scheletro facciale e mancato sviluppo del telencefalo. Ha una frequenza variabile in popolazioni diverse (da 0,65 a 3 ogni 1.000 nascite) e i fattori genetici, forse associati a fattori acquisiti (farmaci, malattie materne, ecc.), hanno rilevanza cruciale (Lemire, 1987). Circa il 50% dei feti anencefalici va incontro ad aborto spontaneo. La malformazione interessa lo scheletro cranio-facciale, il cervello, il tronco cerebrale, il cervelletto ed il midollo spinale. Gli occhi sono normali, ma i nervi ottici sono assenti. Se il feto arriva alla nascita mostra
Sarebbe dovuta a mancata o parziale divisione mediana della vescicola telencefalica e degli abbozzi oculari. Nella forma completa ne risulta un cervello monoventricolare, olosferico, con unico occhio mediano, ciclopico. Forme meno gravi sono l’arrinencefalia, in cui la malformazione coinvolge prevalentemente la parte anteriore del telencefalo ed è espressa da un’unica cavità ventricolare, senza scissura interemisferica, scissura di Silvio, opercolo rolandico e bulbi olfattori. L’assenza di questi ultimi, che dà il nome alla malformazione, contrasta con la persistenza del sistema rinencefalico. All’arrinencefalia sono probabilmente da collegare le malformazioni commissurali, le cui più frequenti espressioni sono l’agenesia del corpo calloso, spesso peraltro clinicamente asintomatica, e le malformazioni del setto pellucido. Altre manifestazioni dell’oloprosencefalia sono la lissencefalia (mancato sviluppo delle circonvoluzioni per difetto di migrazione neuronale con malformazione della corteccia che rimane sottile, con aspetto istologico di tipo embrionale) nelle sue varie forme: lissencefalia propriamente detta, pachigiria, schizencefalia, sindrome di Miller-Dieker.
Mielo-meningocele (spina bifida) È l’espressione più frequente dello stato disrafico (da 1 a 4 casi ogni 1.000 nati) ed è dovuto a difetto di chiusura della parte caudale della doccia neurale, con protrusione del midollo e delle meningi attraverso una schisi vertebrale posteriore. Le cause sono prevalentemente genetiche, anche se alcune sostanze farmacologiche (valproato di sodio) assunte nel primo trimestre di gravidanza, carenze vitamiche materne (acido ascorbico e acido folico) ed il diabete materno sembrano aumentare il rischio di insorgenza (Welch e Winston, 1987). La
1532 Malattie del sistema nervoso malformazione ha sede più frequente a livello del midollo lombare e sacrale, ma può interessare qualsiasi segmento midollare con varia estensione, e coinvolge soprattutto la sostanza grigia midollare con segni clinici motori, sensitivi e trofici, frequentemente associati a segni clinici dovuti a complicazioni ischemiche radicolo-midollari secondarie all’ernia attraverso la schisi vertebrale. Il quadro neurologico comporta usualmente gravi disturbi sfinterici, paraparesi o paraplegia flaccida, ipo-anestesia con livello superiore lombare o sacrale; molto frequenti sono le complicazioni infettive dell’apparato urinario e le ulcere da decubito. L’ascesa del midollo nel rachide durante la crescita è impedita e, conseguentemente, il tronco e il cervelletto tendono ad erniarsi attraverso il forame occipitale, evento che può condurre al decesso; nei casi che sopravvivono è frequente lo sviluppo di idrocefalo e di epilessia. Se attraverso la schisi vertebrale erniano solo gli involucri meningei si realizza il meningocele; se si verifica solo un difetto di chiusura dell’arco vertebrale il quadro è quello di una spina bifida occulta, di solito asintomatica, limitata ad un’unica vertebra o, più spesso, estesa a diversi archi vertebrali, eccezionalmente alla totalità delle vertebre ed al cranio, realizzando una cranio-rachischisi totale.
Siringomielia e Siringobulbia La siringomielia (sirinx = cavità) è una malattia a decorso lentamente progressivo, caratterizzata dalla presenza di cavità poste in prossimità del canale centrale del midollo o nel bulbo. Dalla localizzazione e dall’estensione di queste lesioni dipende la sintomatologia, che comporta disturbi della sensibilità termodolorifica a topografia sospesa, della motilità e del trofismo. EZIOPATOGENESI. – È certo che la siringomielia e la siringobulbia sono espressione di una malformazione che rientra nell’ambito dello stato disrafico. Tuttavia l’origine e l’evoluzione della cavità intramidollare e intrabulbare è legata anche all’azione di fattori idrodinamici dovuti a turbe della circolazione liquorale. Nel corso dell’embriogenesi il tubo neurale, dopo la sua completa chiusura, comincia a distendersi sotto la pressione del liquor secreto dai plessi corioidei a partire dalla quinta settimana. Verso la fine della sesta settimana, il tetto del quarto ventricolo si perfora, il liquor entra negli spazi subaracnoidei e il canale centrale si riduce di calibro, fino a diventare pressoché virtuale. Se la perforazione del tetto del ventricolo non avviene o avviene in maniera imperfetta, il canale centrale, soprattutto a livello di certi neuromeri, continua a dilatarsi. Secondo la teoria proposta da Gardner (1965), se la dilatazione interessa prevalentemente il quarto ventricolo con conseguente atrofia del
verme cerebellare si osserva la malformazione di DandyWalker; quando la dilatazione è più accentuata a livello dei ventricoli laterali, le strutture della fossa posteriore subiscono una spinta in senso caudale con discesa parziale del tronco e delle tonsille cerebellari nel canale midollare e si configura la malformazione di ArnoldChiari. Se la perforazione del tetto del quarto ventricolo avviene tardivamente o in modo incompleto, l’idrocefalomielia fisiologica si riduce o si compensa; ciò nondimeno l’impegno del tronco e delle tonsille cerebellari nel forame occipitale e nei primi segmenti del canale cervicale impedisce il corretto drenaggio liquorale quando la tensione liquorale aumenta. L’aumento critico della tensione liquorale, in rapporto col polso arterioso dei plessi corioidei (Gardner, 1965) e coi bruschi aumenti della pressione venosa intracranica provocati da colpi di tosse, starnuti, torchio addominale, manovra di Valsalva (Williams, 1990), si ripercuote sul canale centrale del midollo con possibile rottura della parete ependimale e formazione di cavità intraassiali di volume progressivamente crescente (Fig. 36.1 A e B). In molti casi di siringomielia, peraltro, non esiste alcuna comunicazione tra canale midollare e cavità siringomielica. Secondo teorie più recenti, basate sulle osservazioni dinamiche dei flussi liquorali a livello della cerniera atlanto-occipitale mediante RM in cinematografia, la progressiva dilatazione della cavità siringomielica sarebbe dovuta a meccanismi idrodinamici, che agiscono non attraverso la via del canale centro-midollare, ma attraverso gli spazi subaracnoidei perimidollari (Ostfield et al., 1994). Nel soggetto normale durante la sistole il liquor è spinto, dalla pulsazione dei plessi corioidei e dell’encefalo, dal 4° ventricolo alla cisterna magna e dalle cisterne della base agli spazi subaracnoidei perimidollari attraverso il forame magno (Fig. 36.1 C); durante la diastole si osserva un flusso inverso di liquor verso l’alto (Fig. 36.1 D). Se il passaggio a questo livello è impedito dalla tonsille cerebellari impegnate posteriormente e dal tronco cerebrale spinto ventralmente, durante la sistole l’espansione cerebrale determina un brusco movimento caudale delle tonsille cerebellari che a sua volta causa un aumento della pressione liquorale negli spazi perimidollari cervicali. La cavità siringomielica, se presente, viene compressa ed il liquido intracavitario, spinto in basso e contro la parete, (Fig. 36.1 E), favorisce l’ampliamento della cavità stessa. Il meccanismo lesionale sarebbe anche legato ad un disturbo microcircolatorio midollare determinato dalla ipertensione endocavitaria (Milhorat et al., 1997; Young et al., 2000). Sarebbe quindi indicato un intervento chirurgico di decompressione a livello del forame magno e dell’atlante per consentire un libero passaggio dei flussi liquorali (Fig. 36.1 F e G). Dopo l’intervento si può assistere ad un collabimento della cavità siringomielica e ad un arresto
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1533
Fig. 36.1 - Rappresentazione schematica delle teorie patogenetiche idrodinamiche della siringomielia ed effetto auspicato del trattamento chirurgico. A. Schema del circolo liquorale normale a livello del IV ventricolo e della cisterna magna. B. Circolazione liquorale nella malformazione di Arnold-Chiari tipo I, con formazione di una cavità siringomielica, secondo la teoria idrodinamica di Gardner. C. e D. Movimenti fasici del liquor a livello del passaggio atlanto-occipitale nel soggetto normale (durante la sistole: C., e la diastole: D.). E. Occlusione degli spazi subaracnoidei a livello del passaggio atlanto-occipitale durante la sistole in caso di malformazione di Arnold-Chiari. Effetto di compressione sulla cavità siringomielica e meccanismo di suo ampliamento, secondo la teoria di Ostfield. F. e G. Effetto positivo sulla circolazione liquorale della decompressione a livello del passaggio atlanto-occipitale in caso di malformazione di Arnold-Chiari - Tipo I. Collabimento della cavità siringomielica. (Sistole: F.; Diastole: G.)
della progressione peggiorativa della malattia, grazie anche al miglioramento della micro-circolazione ematica midollare (Ypoung et al., 2000). La formazione di cavità intramidollari di tipo siringomielico può verificarsi anche nel contesto di un glioma midollare, come sequela di una mielomalacia, spesso traumatica, di un’emorragia centromidollare, e in casi di aracnoiditi peri-midollari. In tali casi si parla di siringomielia secondaria o acquisita, da contrapporre alla forma precedente, primitiva o malformativa. NEUROPATOLOGIA. – La lesione è in genere localizzata nei segmenti cervicali del midollo e si estende talvolta fino al bulbo e a qualche segmento toracico (Fig. 36.2); la localizzazione esclusivamente bulbare è più rara. In corrispondenza della lesione, il midollo appare fusiforme o schiacciato ed appiattito, ma può anche conservare un aspetto normale. Il processo cavitario può essere indipendente dal canale centrale oppure comunicare o coincidere con esso. Le cavità contengono liquido di composizione eguale o simile al liquor (Fig. 36.3). La compromissione delle corna posteriori e delle commessure spiega il caratteristico disturbo dissociato e a topografia sospe-
sa della sensibilità termodolorifica, per l’interruzione delle fibre che si incrociano prima di impegnarsi nel fascio spino-talamico dorsale controlaterale. Il processo può interessare anche le corna anteriori o comprimere i cordoni midollari. Nella localizzazione bulbare la cavità occupa la regione postero-laterale del bulbo coinvolgendo la radice discendente del trigemino, le fibre del simpatico paratrigeminale, il fascicolo longitudinale mediale, il nucleo ambiguo e quello dell’ipoglosso.
SINTOMATOLOGIA La malattia si manifesta nel terzo o nel quarto decennio di vita; non rari, peraltro, i casi ad inizio più precoce. L’esordio è insidioso e il decorso cronico, potendo protrarsi per alcuni decenni, con periodi di aggravamento alternati a periodi di stabilizzazione. La forma più frequente è in relazione alla presenza di cavità nel midollo cervicale inferiore o a livello del passaggio cervico-toracico.
1534 Malattie del sistema nervoso
Fig. 36.3 - Siringomielia. Immagine in RM del midollo spinale. Sezione trasversale T2 pesata a livello di C2-C3. Il midollo cervicale, ridotto ad un sottile anello (di colore grigio nell’immagine) appare dilatato da un’ampia cavità cistica centromidollare ripiena di liquor (di colore bianco); liquor è anche presente negli spazi sub-aracnoidei perimidollari. Stesso caso della Fig. 25.2. [Gentilmente fornita dal Dott. G. Michelozzi - Osp. Santa Corona, Pietra Ligure (SV)].
Fig. 36.2 - Siringomielia. Immagine in RM del midollo spinale. Sezione sagittale mediana T1 pesata. Un’ampia cavità siringomielica che si estende dai primi segmenti cervicali ai primi segmenti toracici è evidente in regione centromidollare. [Gentilmente fornita dal Dott. G. Michelozzi - Osp. Santa Corona, Pietra Ligure (SV)].
I sintomi principali sono i seguenti: Disturbi sensitivi. – I sintomi più caratteristici consistono in una ipoestesia o anestesia di tipo dissociato, delle sensibilità termiche, per il caldo e per il freddo, e della dolorifica nella parte alta del torace e degli arti superiori, con conservazione delle sensibilità tattile profonde e combinate. La caratteristica fondamentale è rappresentata dalla distribuzione «sospesa» dell’ipoanestesia (con un livello superiore ed uno inferiore). Ciò si verifica poiché la lesione è limitata a pochi mielomeri, e colpisce le fibre della sensibilità termodolorifica in corrispondenza delle corna posteriori o della linea mediana, ove è mantenuta l’organizzazione metamerica delle radici posteriori attraverso cui gli impulsi sensi-
tivi arrivano al midollo. Soltanto nei casi, eccezionali, in cui la cavità siringomielica comprima e faccia degenerare uno o ambedue i fasci spinotalamici, l’area di ipo-anestesia termodolorifica perderà la caratteristica della distribuzione di tipo «sospeso». L’area di ipo-anestesia è quasi sempre asimmetrica, talvolta localizzata ad un solo emicorpo. Nel caso di lesioni particolarmente estese compare anche un’ipoestesia tattile. Molto rara invece la presenza di alterazioni delle sensibilità profonde e combinate. L’anestesia termodolorifica alle mani favorisce ovviamente il verificarsi di ustioni indolori. Disturbi trofici e motori. – Spesso è presente un’ipotrofia ai muscoli delle mani, che tende a estendersi agli avambracci: le mani assumono talvolta l’aspetto di «mano a scimmia» o «mano da predicatore». All’amiotrofia si associa la compromissione della motilità sotto forma di paresi o paralisi che rende difficoltosi i movimenti fini delle dita; i disturbi della motilità sono spesso asimmetrici e talvolta unilaterali. I riflessi profondi sono deboli o aboliti agli arti superiori, mentre agli arti inferiori è spesso presente un’iperreflessia profonda di tipo piramidale.
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La pelle degli arti superiori, soprattutto quella delle mani, appare tesa, secca, screpolata, talvolta con edema duro e infiltrante. Sono frequenti le ulcere e i paterecci torpidi e indolori, che coinvolgono lo scheletro e possono provocare amputazioni spontanee delle falangi. Le ossa infatti, specie quelle delle dita, vanno incontro a decalcificazione. Alle mani si segnalano ancora turbe vasomotorie (vasodilatazione, acrocianosi) ed iperidrosi. Non è raro l’interessamento delle piccole e delle grandi articolazioni degli arti superiori. Tali lesioni, talvolta acute, sono indolori. Se il processo cavitario è localizzato nel bulbo, la sintomatologia, temporaneamente unilaterale, è in rapporto con l’interessamento degli ultimi cinque nervi cranici e della radice discendente del trigemino. La lesione del V, precocemente colpito, determina ipoestesia o anestesia, a volte di tipo dissociato, del viso, con perdita del riflesso corneale e possibile cheratite neuroparalitica; oppure parestesie, disestesie e algie facciali. La compromissione dei nuclei vestibolari comporta vertigini, nausea e vomito; da segnalare, in tal caso, la presenza di un nistagmo spontaneo rotatorio, in senso orario nelle lesioni a destra, in senso antiorario nelle lesioni a sinistra. La lesione del glossofaringeo e del vago provoca disturbi della deglutizione e della fonazione; più rara, ma possibile, un’atrofia linguale con fascicolazioni in rapporto con l’interessamento del nucleo dell’ipoglosso. Possono anche essere presenti disturbi trofici, sotto forma di una emiatrofia facciale associata a sindrome di Bernard-Horner e turbe vasomotorie. Da segnalare, infine, la possibile insorgenza di crisi dispnoiche e di aritmie cardiache. DIAGNOSI. – Il sospetto diagnostico di siringomielia può essere posto con sicurezza in presenza di amiotrofie distali agli arti superiori, ipoanestesia termodolorifica a topografia sospesa, turbe del trofismo cutaneo con ustioni indolori alle mani. Possono essere d’aiuto per la diagnosi il reperto di un liquor normale o il rilievo di un blocco parziale della circolazione liquorale, ta-
lora con dissociazione albumino-citologica, e la dimostrazione di un allargamento dei diametri midollari a livello della lesione, spesso in associazione con anomalie dello scheletro craniovertebrale. Di fondamentale ausilio si dimostra la TC midollare con o senza introduzione di contrasto radio-opaco negli spazi subaracnoidei perimidollari e, ancor più, la RM del tronco e del midollo cervicale. La cavità siringomielica è in genere agevolmente dimostrabile così come la presenza o meno di malformazione di ArnoldChiari (Fig. 36.4 e Fig. 36.5). Lo studio neurofisiologico può rappresentare un utile complemento degli studi morfologici: in particolare, l’analisi dei potenziali evocati somatoestesici da arto inferiore e dei potenziali evocati motori possono quantificare l’eventua-
Fig. 36.4 - Siringomielia e malformazione di Arnold-Chiari - Tipo I. Immagine in RM dell’encefalo e del midollo spinale cervicale. Sezione sagittale mediana T1 pesata. Le tonsille cerebellari e parte del bulbo sono dislocati verso il basso ed occupano parte del canale vertebrale cervicale a livello di C1-C2. Il midollo cervicale contiene una cavità cistica siringomielica centromidollare ripiena di liquor. [Gentilmente fornita dal Dott. G. Michelozzi - Osp. Santa Corona, Pietra Ligure (SV)].
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so più rapido e per la relativa frequenza di un blocco liquorale con iperproteinorrachia, ma possono dare quadri clinici indistinguibili da quello della siringomielia. L’aspetto della lesione alla RM o alla TC può essere dubbio solo in caso di gliomi cistici. I tumori extramidollari si diversificano clinicamente sia per la presenza di una sintomatologia dolorosa, eccezionale nella siringomielia, sia per le alterazioni liquorali e la positività delle prove manometriche che spesso denunciano il blocco. Lo studio RM o TC è ovviamente dirimente. Nella sclerosi laterale amiotrofica mancano sempre, per definizione, i disturbi della sensibilità e l’iperreflessia coinvolge, almeno per un lungo periodo di tempo, anche gli arti superiori. Nella lebbra gli eventuali disturbi della sensibilità hanno una distribuzione tronculare e i disturbi trofici sono di solito molto accentuati. L’ematomielia è una lesione acuta, abitualmente in rapporto con un trauma a livello cervicale, che dà origine a liquor ematico o xantocromico. Fig. 36.5 - Siringomielia e malformazione di Arnold-Chiari - Tipo I. Immagine in RM dell’encefalo e del midollo spinale cervicale. Sezione sagittale mediana T1 pesata. Le tonsille cerebellari e parte del bulbo, dislocati verso il basso, occupano parte del canale vertebrale cervicale a livello di C1-C2. Il midollo cervicale contiene per tutta la sua estensione longitudinale un’ampia cavità cistica siringomielica centromidollare ripiena di liquor che si prolunga anche a livello dei primi metameri toracici. [Gentilmente fornita dal Dott. G. Michelozzi - Osp. Santa Corona, Pietra Ligure (SV)].
le danno delle vie lunghe midollari ascendenti e discendenti anche in assenza di manifestazioni cliniche (Masur et al., 1992). Lo studio EMG può dimostrare l’esistenza di una sofferenza delle cellule radicolari anteriori, frequente a livello dei metameri midollari del passaggio cervico-dorsale. L’esame EMG dei muscoli interessati mostra i tipici segni di lesione neuroperiferica cronica (Nogués and Stalberg, 1999). Nelle forme iniziali si pone un quesito di diagnosi differenziale con numerose altre affezioni: tumori intra e extramidollari, sclerosi laterale amiotrofica, ematomielia e lebbra. I tumori intramidollari si caratterizzano per il decor-
TERAPIA. – Il probabile ruolo patogenetico delle variazioni della tensione liquorale su un nevrasse malformato ha modificato l’atteggiamento terapeutico nei confronti della siringomielia. Sulla base delle teorie idrodinamiche sono stati proposti interventi tendenti a ristabilire chirurgicamente un drenaggio del liquor dal quarto ventricolo alla cisterna magna, o di apertura della cavità siringomielica negli spazi sub-aracnoidei perimidollari, con risultati alterni. Più utilizzati attualmente e ritenuti più efficaci sono gli interventi che eliminano l’ostacolo al flusso liquorale a livello del forame magno, nei casi associati a malformazione di Arnold-Chiari, consistente in una decompressione chirurgica a livello della cerniera atlanto-occipitale (Fig. 36.1 F e G). Malformazione di Arnold-Chiari Questa complessa malformazione comprende di tre componenti, che possono manifestarsi variamente associate fra loro oppure isolate:
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Fig. 36.6 - Malformazione di Arnold-Chiari - Tipo I. Immagine in RM dell’encefalo e del midollo spinale cervicale. Sezione sagittale mediana T1 pesata. Le tonsille cerebellari e parte del bulbo, dislocati verso il basso, occupano parte del canale vertebrale cervicale a livello di C1-C2. Il midollo cervicale non presenta alterazioni significative. [Gentilmente fornita dal Dott. G. Michelozzi - Osp. Santa Corona, Pietra Ligure (SV)].
a) malformazioni delle ossa della base del cranio, costituite dall’appiattimento della base (platibasia), o dalla fusione dell’atlante con l’osso occipitale (assimilazione atlanto-occipitale) con o senza invaginazione della colonna cervicale e del forame occipitale nella fossa cranica posteriore (impressione basilare), o dal rimpicciolimento, rispetto alla norma, del forame magno o della fossa cranica posteriore stessa. Queste lesioni possono associarsi a una spina bifida cervicale o all’anomalia di Klippel-Feil, caratterizzata dalla fusione di alcune vertebre cervicali, o alla presenza di vertebre cervicali sovrannumerarie; b) malformazioni del cervelletto, che è ipoplasico e allungato in senso verticale, con rad-
drizzamento del pavimento del IV ventricolo e dislocazione della parte inferiore degli emisferi e del verme nel canale cervicale, talora fino a C3. La malformazione cerebellare può associarsi a meningocele, meningo-encefalocele cervicale o encefalocele occipitale; c) persistenza della fessura cervicale embrionaria, con accorciamento del tronco e contrapposizione del piede del ponte alle olive bulbari. La malformazione di Arnold-Chiari è spesso associata a mielo-meningocele lombare, idrocefalo, siringomielia, siringobulbia, stenosi dell’acquedotto, malformazione di Dandy-Walker (dilatazione del IV ventricolo con atrofia del verme cerebellare, probabilmente legata a mancata apertura del forame di Magendie), in varie combinazioni. Essa viene suddivisa in 3 forme di diversa gravità (Naidich et al., 1994): Tipo I: caratterizzata dalla discesa delle tonsille cerebellari negli spazi subaracnoidei midollari cervicali alti (Fig. 36.6); Tipo II: il bulbo, il IV ventricolo, parte del cervelletto e talora anche il ponte, sono dislocati in basso, nel canale cervicale. Frequente l’associazione con il mielo-meningocele lombare (Fig. 36.7); Tipo III: presenza di una schisi cervicale con encefalocele cerebellare. EZIOPATOGENESI. – La più accreditata ipotesi patogenetica della malformazione di Arnold-Chiari attribuisce lo stiramento del bulbo e del cervelletto verso il basso alla trazione esercitata dall’ancoraggio del cono midollare alle pareti di un mielo-meningocele, per cui non si verificherebbe, come di norma, durante l’accrescimento l’ascesa del midollo il quale, anziché risalire fino alla seconda vertebra lombare, resta fissato più in basso dislocando caudalmente anche il resto del nevrasse. Un’altra ipotesi interpreta la malformazione come un’ernia del cervelletto attraverso il forame occipitale provocata da un idrocefalo ipertensivo dovuto a un insufficiente drenaggio del liquor attraverso i forami di Luschka e Magendie. Secondo una terza ipotesi, la malformazione è dovuta a un difetto dei processi d’induzione embrionaria, che coinvolge non solo la doccia neurale ma anche gli annessi di origine mesodermica.
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Se sintomatica, i disturbi possono comparire a qualsiasi età, anche senile. Possono essere presenti tre principali sindromi anche variamente combinate tra loro: a) quadri a tipo siringomielia o siringobulbia; b) segni di compressione del nevrasse a livello del forame magno con atassia cerebellare, tetraparesi spastica, deficit sensitivi, paralisi degli ultimi nervi cranici; c) sindrome cerebellare isolata con atassia assiale e segmentale e nistagmo. Frequenti e talora isolati i sintomi soggettivi tipo cefalea, algie cervicali, parestesie a distribuzione cervico-nucale e brachiale e senso di instabilità nella stazione eretta e nella marcia. Arnold-Chiari tipo II e III: la sintomatologia, spesso drammatica, si manifesta precocemente dopo la nascita con segni di disfunzione troncale fra cui disturbi respiratori, crisi di apnea, disfagia, episodi di broncopneumopatia «ab ingestis», nistagmo, ipotonia o spasticità, tetraparesi. Possono essere presenti crisi di ipertensione endocranica. Esistono anche rare forme pauci- o asintomatiche. Fig. 36.7 - Malformazione di Arnold-Chiari - Tipo II. Immagine in RM dell’encefalo e del midollo spinale cervicale. Sezione sagittale paramediana T1 pesata. Buona parte del cervelletto, il bulbo e parte del ponte sono dislocati verso il basso nel canale vertebrale cervicale fino a C2-C3. Il IV ventricolo è ampio e stirato verso il basso. È presente un evidente idrocefalo interno anche a livello sopratentoriale. Paziente sottoposto ad intervento neurochirurgico di decompressione cervico-occipitale. [Gentilmente fornita dal Dott. G. Michelozzi - Osp. Santa Corona, Pietra Ligure (SV)].
SINTOMATOLOGIA È espressione della sofferenza delle strutture coinvolte (midollo cervicale, cervelletto, bulbo, ultime cinque coppie di nervi cranici, prime radici cervicali, ponte) e riconosce, fra le sue cause, non solo la dinamica dei movimenti compressivi, ma anche gli ostacoli ai circoli arterioso e venoso e la compromissione della circolazione liquorale. Arnold-Chiari tipo I: può essere del tutto asintomatica e rappresentare perciò un reperto occasionale.
DIAGNOSI Si basa sull’indagine radiografica diretta ma, soprattutto, sulla TC e RM cerebrali (Fig. 36.6 e 36.7) che dimostrano l’eventuale concomitanza di malformazioni scheletriche e la cisterna magna distesa e spostata verso il basso, con una parte del tronco e del cervelletto trascinati nel canale midollare cervicale. TERAPIA Alcuni casi di malformazione di Arnold-Chiari possono trarre beneficio dalla terapia chirurgica, che consiste in interventi decompressivi a livello del passaggio atlanto-occipitale. Riferimenti bibliografici GARDNER W.J.: Hydrodynamic mechanism of syringomyelia: its relationship to myelocele. J. Neurol. Neurosurg. Psychiat. 28, 247-259, 1965.
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Facomatosi A. Seitun Le facomatosi comprendono differenti gruppi di malattie che si manifestano nella prima infanzia con lesioni cutanee seguite dallo sviluppo di tumori in molti altri organi. Il termine facomatosi (gr. phacos lenticchia, placca piatta o macchia congenita), coniato da van der Hoeve nel 1923, ha oggi completamente soppiantato le nume-
rose altre definizioni successivamente proposte, quali: displasie neuro-ectodermiche congenite (Van Bogaert, 1935); neuro-ectodermosi e neuro-ectodermatosi; amartosi; amartoblastomatosi sistemiche famigliari; dermatosi geno-neuro-splancniche; malattie neuro-cutanee.
Per la maggior parte, le facomatosi sono di origine geneticamente determinata e possono considerarsi sindromi da alterata espressione dei geni soppressori dei tumori; alcune di esse, come la sindrome di Proteo e la malattia di Sturge-Weber, si presentano esclusivamente in maniera sporadica. Le informazioni ottenute in questo ultimo decennio mediante analisi di «linkage» e clonaggio genetico posizionale hanno permesso di identificare e localizzare i geni responsabili delle principali facomatosi ed hanno permesso di delucidare un crescente numero di meccanismi molecolari responsabili della proliferazione, del differenziamento, della migrazione neuronale e della neuro-oncogenesi.
Neurofibromatosi In base a criteri genetico-clinici si distinguono due differenti forme di neurofibromatosi (Martuza e Elridge, 1988): periferica o di primo tipo o NF1, causata da alterazioni del gene NF1 situato sul cromosoma 17, e centrale o di secondo tipo o NF2, causata da alterazioni del gene NF2 situato sul cromosoma 22. 1) Neurofibromatosi tipo 1, NF1 (Neurofibromatosi di Von Recklinghausen, 1882) È una malattia autosomica dominante a penetranza completa e ad espressione variabile, indipendente da fattori etnici e dal sesso e con prevalenza variabile da 1/2000 ad 1/5000 a seconda degli studi di popolazione, che si presenta nel 50% dei consanguinei e si esprime con manifestazioni in gran parte età dipendenti. L’attesa di vita dei soggetti affetti è probabilmente ridotta di 10-15 anni, e la causa di morte più
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frequente è rapportabile all’insorgenza di neoplasie maligne (Rasmussen e Friedman, 2000). È causata da alterazioni del gene NF1 localizzato in regione pericentromerica sul cromosoma 17 (Barker et al., 1987), ed in particolare 17q11.2 (60 esoni di 350 kb), e si esprime con alterazioni tissutali più o meno gravi prevalenti nelle linee derivanti dalla cresta neurale. Sebbene sia stato accertato che esiste una grande varietà di mutazioni di NF1, non sono finora emerse mutazioni particolarmente ricorrenti, né associazioni particolari fra ciascuna di esse e le relative manifestazioni cliniche. Il fatto che i soggetti portatori della stessa mutazione possano essere portatori di manifestazioni dissimili suggerisce che esse dipendano anche da altri fattori, per ora sconosciuti. EZIOPATOGENESI L’importanza della NF1 è dovuta al fatto che è una delle malattie genetiche più frequenti della specie umana. La sua insorgenza sembra richiedere l’associazione di una predisposizione a sviluppare la malattia, tratto trasmesso in maniera autosomica dominante (mutazione germinale ereditaria di una copia del gene NF1), con una successiva mutazione somatica acquisita, tale da inattivare la seconda copia allelica del gene NF1. Perciò la NF1 può considerarsi un’affezione autosomica dominante solo relativamente ai ceppi famigliari, essendo recessiva a livello cellulare. È perciò probabile che l’incidenza nella popolazione di alterazioni ereditarie del gene NF1 sia ben più alta di quanto stimato in base all’incidenza di casi conclamati. Il 50% dei discendenti dei pazienti affetti da NF1 sviluppa la malattia, ma a causa dell’estremo polimorfismo della sua espressione clinica e dell’alta variabilità della penetranza è impossibile, almeno per ora, prevederne la gravità. Le tipiche manifestazioni sembrano riconducibili ad una mancata produzione di neurofibromina, proteina citoplasmatica ubiquitaria codificata dal gene NF1 in 2 isoforme età-dipendenti, e prevalentemente espressa nel parenchima nervoso, ove si localizza in gran parte a livello microtubulare. Appartenente alla superfamiglia delle proteine attivanti l’idrolisi del guanosin-trifosfato (GTP) o GAP-proteine (o più genericamente proteine GRD, ad esse riconducibili), la neurofibromina frena e regola l’espressione di proto-oncogeni cellulari (specie RAS) responsabili dei processi di proliferazione, accrescimento e differenziamento cellulare, i quali sono atti-
vati dal legame con GTP ed inattivati dal legame con GDP. In neurofibrosarcomi maligni insorti in pazienti con neurofibromatosi tipo 1, è stata infatti dimostrata un’assenza di neurofibromina, correlata ad un marcato aumento della proteina p21, codificata dal gene RAS (Gutmann e Collins, 1993). La neurofibromina è dunque da considerare come una proteina chiave dotata di importante azione onco-soppressiva.
SINTOMATOLOGIA Comprende iperpigmentazioni cutanee, tumori cutanei e lungo il decorso dei nervi periferici ed altre displasie ed anomalie associate. 1. –Iperpigmentazioni. Comprendono macchie e nevi pigmentari. – Le macchie, o chiazze pigmentarie, sono aree cutanee non rilevate di colore caffellatte, a contorno abbastanza regolare e di estensione variabile da 1-2 mm2 a 2 o più cm2. Sono più frequenti e più visibili nelle zone di cute coperta, e in particolare alla base del collo, alle ascelle, al tronco e alla cintura. Il loro colore marrone è dovuto ad un aumento del numero e delle dimensioni dei melanosomi dello strato malpighiano della cute. – I nevi pigmentari non differiscono dai comuni nevi, e possono coesistere con lentiggini multiple, iperpigmentazioni delle principali pieghe cutanee (ascellari, sottomammillari, inguinali). – Macule angiomatose blu-rossastre e fusco-cerulee possono rappresentare un segno diagnostico isolato ed assai precoce (età infantile) (Vabres et al., 1998). La coesistenza di numerose macchie caffellatte con iperpigmentazioni delle principali pieghe cutanee (ascellari, sottomamillari, inguinali) e la simultanea presenza di piccole macchie rotondeggianti depigmentate sono ritenute altamente patognomoniche. 2. – Tumori. Comprendono localizzazioni dermiche e sottodermiche.
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1541
a) Derma. È sede di fibromi di consistenza molle e colore carnicino-violaceo, che possono assumere una forma piatta, sessile, lobulare o peduncolata («mollusco pendulo»). I fibromi sono formati da tessuto connettivo molto lasso ricoperto da cute sottile, per cui, mancando una base d’impianto consistente, sono suscettibili di invaginazione nel derma sottostante. Presenti ubiquitariamente in numero variabile da pochi elementi a molte centinaia, si localizzano soprattutto alla base del collo ed al tronco, con disposizione preferenziale a collana ed a cintura (Figg. 36.8 e 36.9); b) Sottocutaneo. Questo tessuto è sede di neurofibromi nodulari e di tumori regali. – Neurofibromi nodulari. Si sviluppano lungo il tronco dei nervi periferici, causati da notevole proliferazione ed infiltrazione dei fibroblasti di sostegno del nervo e delle cellule
Fig. 36.9 - Neurofibromatosi multipla. Particolare dei neurofibromi cutanei: tumori peduncolati e tumori nodulari sottocutanei.
Fig. 36.8 - Neurofibromatosi multipla. Neurofibromi della cute del dorso.
di Schwann, con sovvertimento della normale architettura fascicolare del nervo. Di grandezza variabile da pochi millimetri a molti centimetri e di consistenza duro-elastica alla palpazione, tendono ad allinearsi a grani di rosario lungo i nervi periferici. In particolare, i nervi più colpiti sono: agli arti superiori, il mediano, l’ulnare ed il cutaneo brachiale; agli arti inferiori, il crurale, lo sciatico ed il tibiale anteriore. Anche i nervi viscerali possono essere coinvolti, ma non è ovviamente possibile scoprirlo mediante l’esame ispettivo e palpatorio. – Tumori regali. Si tratta di masse neoformate d’aspetto quasi sempre mostruoso, causate da un coinvolgimento neurofibromatoso diffuso e massivo delle terminazioni nervose cutanee e mucose. Si distinguono tre varietà: il cosiddetto neuroma plessiforme, di consistenza nodosa, lo-
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calizzato preferenzialmente al capo (palpebre, labbro superiore, regione temporale), alla nuca ed agli arti, sede in cui si associa a linfangiomatosi elefantiasica; la dermatolisia, o pachidermatocele (displasia cutanea costituita da una serie di pliche sovrapposte, situate sul dorso, sulle natiche e alla radice degli arti); e il cosiddetto mixoglioma gelatiniforme, enorme neoformazione di consistenza molle, localizzata al terzo inferiore di una gamba e associata a linfangiomatosi e ipertrofia elefantiasica del sottocute. Le localizzazioni alla nuca ed al dorso, qualora associate ad iperpigmentazione, sono altamente evocative di un tumore intrarachideo sottostante.
lungo il decorso del nervo ottico o attorno all’acquedotto del IV ventricolo, con possibile ostruzione e formazione di idrocefalo interno non comunicante; g) siringomielia.
2. –Displasie.Di particolare importanza diagnostica sono i noduli di Lisch, amartomi melanocitici dell’iride. Probabilmente non visibili alla nascita, la loro prevalenza nei pazienti con NF1 gradualmente aumenta fino al 50% a 5 anni, al 75% a 15 anni ed al 95-100% oltre i 30 anni. Si presentano come piccole lesioni sporgenti di colore bruno pallido e d’aspetto variabile in rapporto al colore dell’iride, facilmente documentabili all’esame oftalmoscopico con la lampada a fessura..
DIAGNOSI
3. –Altre anomalie associate. Sono rappresentate da: a) disgenesie craniche: macrocefalia, difetti sfenoidali con possibile comparsa di evaginazioni ed esoftalmo pulsante; b) disgenesie spinali: spina bifida e meningocele; c) malformazioni scheletriche: cifoscoliosi in almeno il 40% dei casi, pectus excavatum, cisti ossee, fratture patologiche, pseudoartrosi, ipertrofia ossea localizzata; d) la cosiddetta schwannosi intrarachidea da invasione nodulare perivascolare di cellule di Schwann; e) angiomi simili a quelle della malattia di Sturge-Weber; f) eterotopie gliali astrocitarie, localizzate
La NF1 comporta un aumento del 20% dell’incidenza di epilessia rispetto alla popolazione normale e nel 5% circa dei pazienti, l’epilessia si associa ad un modesto difetto intellettivo. Nel 2-5% dei pazienti si possono osservare ganglioneuromi, feocromocitomi e degenerazioni maligne, con evoluzione sarcomatosa di preesistenti neurofibromi, o astrocitomi e glioblastomi nel SNC.
A scopo diagnostico, l’identificazione di forme troncate di neurofibromina, attualmente possibile grazie ad un test commerciale, non ha ancora trovato sufficiente validazione circa la specificità e sensibilità predittiva del metodo per cui, essendo l’identificazione di mutazioni o alterazioni di NF1 piuttosto complessa, la diagnosi di NF1 rimane tuttora fondata su criteri clinici, ed in particolare sulla ricerca di almeno due fra i criteri diagnostici proposti in Tabella 36.1 (Rubenstein, 1986; National Institutes of Health Consensus Development Conference, 1988; NHI Consensus Statements, 1991). Le macchie caffellatte tipiche dell’NF1 sono rotondeggianti o ovalari, e si distinguono agevolmente da quelle a contorni frastagliati della sindrome di Albright (displasia fibrosa poliostotica) e dalle iperpigmentazioni della sindrome da lentiggini multiple di Bannayan-Riley-Ruvalcaba. Se si manifestano isolatamente in maniera ereditaria, possono suggerire una forma famigliare di macchie caffellatte, causata da alterazioni genetiche non legate ad NF1 (Charrow J. et al., 1993). Dalla nascita fino ai 6 anni la diagnosi non è agevole, anche quando si osservano le tipiche macchie caffellatte in numero > 6.
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1543 Tabella 36.1 – Criteri diagnostici indicativi di NF1 nei soggetti caucasici (due o più criteri sono richiesti per la diagnosi). • • • •
Sei o più macchie caffellate di diametro > 5 mm (soggetti prepuberi) o > 15 mm (soggetti post-puberi) Due o più neurofibromi di qualunque tipo o un neurofibroma plessiforme Iperpigmentazione tipo lentigginosità diffusa delle regioni ascellari o inguinali Lesioni ossee distintive, quali displasia sfenoidea o assottigliamento corticale delle ossa lunghe, con o senza pseudoartrosi • Glioma ottico • Due o più noduli di Lisch (amartomi dell’iride) • Un consanguineo di I grado (genitore, fratello germano, figlio) con NF1 diagnosticata in base ai precedenti criteri
Utilizzando i criteri di cui sopra, 151 bambini (94%) su un campione di 160 di età < 6 anni, inizialmente classificati come affetti da NF1, si riducevano a 112 (74%) correttamente diagnosticati e 39 (26%) non affetti (asintomatici nel follow-up). Dei 9 non classificati, 3 (33%) erano successivamente riconosciuti affetti da NF1. Le manifestazioni cliniche includevano, in ordine di frequenza: macchie caffellatte (97%), iperpigmentazione lentigginosa ascellare o inguinale (81%), noduli di Lisch (30%), neurofibromi (15%), pseudoartrosi (6%), e gliomi ottici (4%). Più di due criteri minimi diagnostici erano presenti nell’80% dei bambini con positività di storia famigliare e nel 32% di quelli con negatività di storia (Obringer et al., 1989).
Di fronte al sospetto diagnostico di NF1 è opportuno ricercare la presenza di noduli di Lisch nell’iride, di eventuali alterazioni dell’EEG o dei vari potenziali evocati somestesici e sensoriali, e di eventuali deficit mentali (valutazione psicometrica). La RM encefalica e spinale con mezzo di contrasto paramagnetico è molto utile in fase diagnostica, rivelando nel 74% dei pazienti anormalità dei segnali pesati in T2 in varie strutture sopra- e sottotentoriali. La RM e la TC, così come altri esami strumentali (EMG, ecc.), identificano le complicanze tumorali endocraniche o endorachidee (Fig. 9. 62). Se compare ipertensione arteriosa prima dei 18 anni, si deve ricercare una stenosi aortica o delle arterie renali. Dopo i 18 anni, la causa più frequente è un feocromocitoma, diagnosticabile per l’elevata escrezione di catecolamine nelle 24 ore e, meglio ancora, per l’abnorme aumento del rapporto noradrenalina: adrenalina (normalmente < 1) sul sangue refluo ottenuto da ciascu-
na ghiandola surrenale mediante cateterismo venoso selettivo. La localizzazione del tumore viene ulteriormente stabilita mediante scintigrafia con particolari radiotraccianti (m-iodobenzilguanidina, MIBG) e TC-RM dell’addome e del mediastino, indagini che permettono di dimostrare localizzazioni extrasurrenaliche (para-aortiche, ecc.). PROGNOSI Varia in rapporto all’evolutività ed alla localizzazione delle lesioni. Accanto a forme fruste o paucisintomatiche scarsamente evolutive, altre presentano un progressivo peggioramento. Su casistiche rappresentative, la NF1 rimane asintomatica nel 41% dei pazienti, e nei rimanenti casi comporta complicanze neurologiche (35.2%), estetiche (13.2%), ortopediche (6.8%) e sarcomi (3.6%) (Rubenstein, 1986). La trasformazione sarcomatosa dei neurofibromi è più frequente nei tumori regali, specie nei mixogliomi gelatiniformi, e può essere precipitata dai tentativi di exeresi chirurgica. Poiché non esistono terapie atte ad arrestare l’evoluzione della malattia, la prognosi rimane subordinata alla sede delle lesioni ed alla loro natura, ed è ovviamente più grave nel caso di lesioni endocraniche o spinali a carattere evolutivo. TERAPIA È sintomatica, dato che l’affezione non è suscettibile di trattamento eziologico.
1544 Malattie del sistema nervoso
Gli interventi di chirurgia plastica dovrebbero essere considerati solo in forme con particolari necessità estetiche, ma sempre con estrema cautela, dato il rischio di peggioramenti funzionali causati da lesioni neuroperiferiche iatrogene. Il trattamento dei neuromi plessiformi può risultare particolarmente difficile o anche impossibile, specie nelle localizzazioni al volto, e comporta un aumentato rischio di degenerazione maligna. Speciali problemi, infine, comportano le forme rapidamente ingravescenti, in cui il sospetto di un’evoluzione sarcomatosa spinge all’intervento bioptico e ad eventuali exeresi del tronco nervoso e dei tessuti e linfonodi circostanti. 2) Neurofibromatosi tipo 2, NF2 (Neurofibromatosi acustica bilaterale) Assai più rara di NF1, è un’affezione ereditaria autosomica monogenica dominante che predispone i portatori alla formazione di tumori multipli nel SNC e SNP, fra i quali i più caratteristici sono i neurinomi o schwannomi vestibolari, tumori causati da un’abnorme proliferazione delle cellule di Schwann delle radici dei nervi cranici e spinali. EZIOPATOGENESI È causata da alterazioni del gene NF2 situato sul cromosoma 22q (Rouleau et al., 1989), che può presentare traslazioni costituzionali t(4;22)(q12;q12.2) o un punto di rottura traslazionale q12.2. Monosomia completa o parziale è stata riscontrata nel 22% delle manifestazioni neoplastiche acustiche, e nel 55% delle altre localizzazioni. Il gene NF2 sembra appartenere ad una nuova classe di geni oncosoppressori, codificando per la produzione di una proteina di 587 aminoacidi, che presenta strette omologie con quelle dell’interfaccia fra membrana plasmatica e citoscheletro cellulare, sito ove in precedenza non si presupponeva che i geni oncosoppressori esercitassero qualche azione (Rouleau et al., 1993; Trofatter et al., 1993).
SINTOMATOLOGIA È tipicamente dominata da sintomi e segni di compromissione bilaterale dell’VIII, poiché mancano i segni cutanei ed i noduli di Lisch tipici di NF1. Le localizzazioni ad altri nervi cranici (specie V e VII) sono molto meno frequenti. A differenza del neurinoma unilaterale dell’VIII, che non è associato a mutazioni NF2 ed usualmente si manifesta nella quinta-sesta decade di vita, i neurinomi bilaterali dell’VIII causati da mutazioni NF2 diventano sintomatici nella terza-quarta decade, manifestandosi con un’ipoacusia bilaterale ingravescente associata a paracusie ed acufeni e, nelle fasi più avanzate, con una sindrome dell’angolo cerebellopontino. In una minoranza di soggetti, l’ipoacusia può anche esordire repentinamente senza alcuna avvisaglia. Quando il neurinoma insorge nella porzione extradurale di una radice spinale causa una sindrome radicolare isolata, mentre se la sua localizzazione è intradurale, esso può facilmente causare una sindrome radicolo-midollare. Le localizzazioni ad organi e apparati non nervosi non sono infrequenti: tumori di dimensioni anche cospicue possono svilupparsi nella cavità toracica e in quella addominale, provocando lesioni scheletriche secondarie osteoclastiche od osteoblastiche, e in questo caso la diagnosi di NF2 rimane subordinata ad reperto istopatologico. La tendenza blastomatosa è confermata dall’associazione, peraltro non frequente, con altri tumori del SNC, in particolare gliomi, fra i quali i più comuni sono: a) gli astrocitomi pilocitici della regione del terzo ventricolo, frequenti nei pazienti giovani, spesso responsabili di sindromi disendocrine per coinvolgimento dell’asse ipotalamo-ipofisario; b) i gliomi del nervo ottico, che talora emergono dalla papilla e si rendono visibili all’osservazione del fondo oculare; c) le gliomatosi diffuse degli emisferi cerebrali e soprattutto cerebellari. Fra gli altri
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1545
tipi di tumore, si possono osservare meningiomi cerebrali e spinali, molto spesso associati con lo schwannoma bilaterale dell’acustico, ependimomi multipli, a preferenziale localizzazione midollare, tumori epifisari responsabili di pubertà precoce ed infine il feocromocitoma. Recenti studi prospettici hanno documentato in NF2 un’elevata frequenza di cataratta posteriore subcapsulare-capsulare (80%) e perifero-corticale (37,8%) (Bouzas et al., 1993). DIAGNOSI È molto agevolata qualora si identifichi la presenza di almeno uno dei due criteri diagnostici proposti in Tab. 36.2 (Rubenstein, 1986; National Institutes of Health Consensus Development Conference, 1988; NHI Consensus Statements, 1991) Di fronte ad un’ipoacusia ingravescente mono- o bilaterale, accompagnata o meno da acufeni e paracusie, l’esplorazione otoiatricoaudiologica può far sospettare una lesione dell’VIII, la cui natura neoplastica neurinomatosa viene documentata mediante RM con mezzo di contrasto. La stessa indagine è cruciale per identificare precocemente l’esistenza di eventuali altre localizzazioni tumorali, ad esempio gliomi del n. ottico o periacqueduttali, piccoli meningiomi
Tabella 36.2 – Criteri diagnostici indicativi di NF2 (un solo criterio è sufficiente per la diagnosi). • Tumore bilaterale dell’VIII nervo documentato mediante RM+ gadolinio. • Un consanguineo di I grado (genitore, fratello germano, figlio) affetto da NF2 ed un tumore unilaterale dell’VIII nervo oppure, in alternativa, uno dei seguenti criteri: – neurofibroma – meningioma – glioma – schwannoma – cataratta capsulare posteriore o opacità del cristallino in età infanto-giovanile.
isolati o multipli, neurofibromi spinali, tumori blastici splancnici (Fig. 9.63). Nei consanguinei stretti di un paziente affetto da NF2 può rivelarsi utile lo studio audiovestibolare e dei potenziali evocati acustici, e la ricerca oftalmologica di opacità del cristallino. TERAPIA È basata sull’exeresi chirurgica ed in alternativa, sulla radioterapia, onde ribaltare una prognosi «quoad vitam» di per sé infausta, ma purtroppo non offre prognosi «quoad functionem» molto soddisfacenti per l’alta percentuale di esiti in sordità e lesioni deficitarie trigeminali o facciali ipsilaterali (Evans et al., 1993). La prognosi è migliore nei pazienti con buone risposte evocate acustiche prima dell’intervento; i migliori risultati ai fini della qualità della vita sembrano inoltre dipendere dalla precocità dell’intervento e dalla sua effettuazione presso centri altamente specializzati, presso alcuni dei quali vi è anche la possibilità di impiantare contestualmente neuroprotesi acustiche nei pazienti in cui l’asportazione del tumore comporti la sordità bilaterale completa. La radiochirurgia con isocentri singoli o multipli mediante «gamma-knife» o acceleratore lineare può rappresentare un’alternativa all’intervento, comportando una morbilità accettabile che secondo alcuni potrebbe essere ulteriormente abbassata trattando precocemente i piccoli neurinomi con cicli di irradiazioni isocentriche multiple. La trasformazione maligna degli schwannomi sembra controllata dalla radioterapia associata a chemioterapia con doxorubicina-vinblastina (Bruckner H.W. et al., 1992). L’efficacia del trattamento radiante è dimostrata ormai da numerosi contributi che dimostrano che sia la radiochirurgia sterotassica mediante acceleratore lineare che la radio-chirurgia «gamma-knife» (singola ed unica irradiazione) producono buoni risultati (Flickinger et al., 1993; Andrews et al., 2001; Flickinger et al., 2001; Spiegelmann et al. 2001). Le indicazioni
1546 Malattie del sistema nervoso
principali sono costituite da: 1) diametro del neurinoma < 30 mm, 2) udito ipsilateralmente compromesso in maniera grave e 3) rischio di compressioni o disfunzioni del tronco encefalico. In questi casi, il trattamento con singola dose massimale di 26 Gy permette di ottenere una buona riduzione volumetrica e buon controllo del tumore a 3 anni (Kida et al., 2000). La terapia delle altre eventuali localizzazioni rimane prettamente chirurgica. Sclerosi tuberosa, malattia di Bourneville La sclerosi tuberosa (TSC) è una malattia autosomica dominante caratterizzata da lesioni nervose, cutanee e spesso anche splancniche (renali, cardiache e polmonari) costituite da amartomi1 di derivazione ecto-mesodermica. È causata da mutazioni inattivanti in uno dei due geni TSC, TSC1 (18%) e TSC2 (82%), presenti sulla parte distale del braccio lungo del cromosoma 9 (Fryer et al., 1987; cfr. Gomez et al., 1999, Jones et al., 1999 e McCollin e Kwiatowski, 2001). In un terzo dei casi è famigliare ed imputabile ad una trasmissione autosomica dominante, con estrema variabilità di penetranza e di espressione (incidenza 1:50.000-100.000), mentre nei rimanenti due terzi è sporadica, causata da mutazione genetica (incidenza 1:20.000-50.000). La stima corretta della reale incidenza è resa difficile dalla presenza di forme fruste di difficile identificazione, anche a causa della bassa percentuale di antecedenti famigliari identificabili, potenzalmente utili per la diagnosi. EZIOPATOGENESI Rimasta a lungo poco conosciuta, è ora attribuibile ad una prima mutazione germinale in un allele TSC1 o TSC2, seguita da una seconda mutazione somatica nell’altro corrispondente allele, comportante uno sconvol1
Amartoma indica una lesione simil-tumorale biologicamente benigna, costituita da cellule normalmente presenti nel tessuto colpito, con prevalenza di un tipo cellulare.
gimento dei processi di crescita cellulare e la formazione di amartomi. TSC1 e TSC2 codificano per due proteine ubiquitarie rispettivamente denominate amartina (TSC1) e tuberina (TSC2): legandosi fra loro, ed entrando a far parte di un più largo assemblamento proteico, esse modulano la rap1 e rab5 GTPasi e regolano l’organizzazione dell’actina citoscheletrica (Cheadle et al., 2000). La sovraespressione di amartina o di tuberina causa arresto dell’accrescimento cellulare.
NEUROPATOLOGIA Le lesioni presentano un carattere iperplastico tumorale, e sono formate da elementi cellulari di derivazione ecto-mesodermica abnormi per numero e morfologia, che solo raramente vanno incontro a trasformazione maligna. L’aspetto più spettacolare delle lesioni è dato comunque dalla presenza di numerosi elementi cellulari di enormi dimensioni e di morfologia mostruosa, sia nelle localizzazioni encefaliche che miocardiche (rabdomiomi). Manifestazioni cutanee. – Sono rappresentate dall’adenoma di Pringle, impropriamente definito «adenoma sebaceo», ma in realtà corrispondente ad un angiofibroma e dai corrispondenti tumori di Koenen periungueali. Manifestazioni nervose. – Comprendono due caratteristici tipi di lesione: 1) «tuberi» superficiali e 2) noduli periventricolari. 1. – Tuberi. Sono piccole masse a contorno irregolare di tessuto bianco-grigiastro consistente,a superficie liscia, che affiorano sulla superficie della corteccia. Quasi sempre multiple ed ubiquitarie, tendono tuttavia a localizzarsi in maggior numero nelle aree fronto-temporali, ma possono riscontrarsi anche nel cervelletto. Istologicamente presentano le seguenti gravi anomalie: a) completo sovvertimento cito-architettonico, con demielinizzazione; b) gliosi fibrillare anisomorfa periferica a carattere anarchico; c) presenza di cellule giganti mostruose, di derivazione neuronale e gliale; d) calcificazioni più o meno abbondanti ed irregolari. A questo tipo di lesione sono imputabili le manifestazioni epilettiche ed i difetti intellettivi che caratterizzano la malattia, oltre le più rare manifestazioni deficitarie focali (quadri piramidali e cerebellari). 2. – Noduli periventricolari. Sono masse dure, sessili o peduncolate che in numero variabile aggettano bilateralmente nelle cavità ventricolari, soprattutto in vicinanza dei forami di Monro, ma possono localizzarsi anche attorno al III e IV ventricolo. Ricoperti dall’ependima, sono formati da spongioblasti, astrociti giganti mostruosi e
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1547 calcificazioni abbondanti. Come nei tuberi, talvolta si possono osservare aspetti degenerativo-necrotici. Localizzazioni endo-oculari possono coesistere, configurando tipici facomi retinici multipli. A queste lesioni si possono attribuire soprattutto le non infrequenti complicanze idrocefaliche di tipo ostruttivo non comunicante, tipo manifestazioni extrapiramidali e sindromi ipotalamo-ipofisarie. Nel 10-15% dei casi, i noduli subependimali assumono le caratteristiche istologiche di veri e propri astrocitomi differenziati, che peraltro non presentano evidenti segni di malignità.
SINTOMATOLOGIA L’affezione è già presente alla nascita, ma quasi sempre viene sospettata nella prima infanzia per l’occorrenza di epilessia o ritardo mentale. Si stima che la malattia sia responsabile dello 0,6% di tutte le oligofrenie e dello 0,3% di tutte le epilessie. Nei casi conclamati, si presenta con la classica triade di Vogt: epilessia, oligofrenia, manifestazioni cutanee, rappresentate dall’adenoma sebaceo di Pringle. 1. –Epilessia. Esordisce precocemente, più spesso entro i primi due anni di vita, talvolta anche nelle prime settimane. In epoca neonatale e per tutto il primo anno di vita predomina la s. di West o ipsaritmia (60%). Successivamente, per tutta la prima infanzia, prevale la s. di Lennox-Gastaut (53%) (Debard et al., 1979), configurando quadri di encefalopatia epilettica con ritardo mentale, per cui si rinvia al Cap. 000. Il 67% dei piccoli pazienti epilettici presenta solo macchie ipocromiche, meno frequentemente (33%) la triade di Vogt al completo. L’evoluzione è di solito peggiorativa, con comparsa di farmacoresistenza ed associazione di crisi generalizzate o parziali di vario tipo. Complessivamente, in ordine di frequenza, si osservano: crisi generalizzate nell’85% dei pazienti (tonico-cloniche: 41%; sindrome di West o ipsaritmia 30%; miocloniche: 16%; assenze atipiche: 7%; toniche 6%; acinetiche 4%), e crisi parziali nel 29% (jacksoniane motorie 16%, complesse 10%) (Gomez, 1999). Il polimorfi-
smo delle crisi, la loro successione nel tempo e la frequente farmacoresistenza rappresentano una tipica caratteristica della malattia. 2. –Ritardo mentale. Spesso si associa a disturbi psico-affettivi più o meno rilevanti (autismo, schizofrenia). Sebbene non esistano chiare correlazioni fra manifestazioni cutanee, neurologiche e psichiche, in presenza di epilessia il difetto mentale è di solito tanto più grave quanto più precocemente questa è iniziata. L’entità dell’oligofrenia risulta comunque ben correlata all’entità delle alterazioni EEG. 3. –Manifestazioni cutanee. Sono tipicamente rappresentate dagli «adenomi di Pringle», riscontrabili nel 90% dei pazienti oltre i 4 anni (Fig. 36.10). All’inizio si rivelano come eruzione papulosa giallo-rosa alle guance, al naso, al solco naso-
Fig. 36.10 - Sclerosi tuberosa. Adenoma di Pringle.
1548 Malattie del sistema nervoso
labiale ed al mento, e più raramente alla fronte ed al cuoio capelluto, causata da iperplasia nodulare delle ghiandole sebacee, dei capillari e dei follicoli piliferi. L’adenoma di Pringle vero e proprio compare fra il terzo e il sesto anno di vita, e può essere preceduto nel tempo da un adenoma pallido (c.d. adenoma tipo Balzer), quasi avascolare. Il volume e l’estensione degli adenomi sono correlati alla gravità della malattia. Altrettanto tipici sono i «tumori di Koenen», piccoli angiofibromi localizzati lungo il bordo ungueale delle dita della mano, e la cosiddetta «peau de chagrin» (pelle di zigrino) in regione lombosacrale. Angiofibromi, macchie caffè-latte, macchie di vitiligine e di leucodermia, sono riscontrabili anche in altri distretti cutanei. 4. –Manifestazioni viscerali. La comparsa di una sintomatologia non neurologica rivela la comparsa di lesioni splancniche a carattere displastico. Si possono osservare: a) nel cuore (rabdomioma, tumori del tessuto di conduzione o purkinjeomi, lipomi, fibrosi e fibroelastosi subendocardica); b) nel rene (amartomi misti, cisti, teratomi); c) nel polmone (cisti sottopleuriche, adenoma alveolare, displasia fibromusco-
lare, leiomiomatosi diffusa) e d) nello scheletro (noduli periostei, osteoporosi, cisti, spina bifida, sindattilia, polidattilia). Emangiomi e altri tumori benigni possono essere presenti nella tiroide, nella milza, nel timo, nel fegato e nel duodeno. DIAGNOSI E PROGNOSI La diagnosi clinica è ardua nelle fasi iniziali e nelle forme mono- o paucisintomatiche, spesso caratterizzate solo da epilessia, per cui appaiono quanto mai utili i criteri diagnostici suggeriti nella Tabella 36.3 (Gomez, 1999). La TC e la RM forniscono elementi diagnostici fondamentali nel 96% circa dei pazienti (v. Fig. 9.64). Cruciale è il reperto di iperdensità TC e, meglio ancora, di iperintensità RM circoscritte, suggestive per calcificazioni in fase iniziale o avanzata, localizzate alla corteccia (tuberosità) o in sede periventricolare (noduli). La diagnostica per neuroimmagini permette inoltre di documentare precocemente l’eventuale presenza di un idrocefalo ostruttivo o di astrocitomi subependimali ancora asintomatici, e di valutare la possibilità e l’opportunità di interventi stereotassici in caso di grave epilessia farmacoresistente.
Tabella 36.3 - Criteri diagnostici indicativi di sclerosi tuberosa. 1. Uno dei seguenti segni è sufficiente: – tuberosità corticali confermati con biopsia (in USA) – noduli periventricolari – facomi retinici multipli – adenoma sebaceo di Pringle – angiofibroma periungueale o tumore di Koenen. 2. Almeno due dei segni seguenti sono sufficienti: – sindrome di West – macchie ipocromiche – placche «peau de chagrin» – facoma retinico isolato – neuroimmagini deponenti per: a) tuberosità corticali b) noduli periventricolari – tumori renali multipli – rabdomioma cardiaco – sclerosi tuberosa in un immediato consanguineo del paziente.
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1549
L’EEG dimostra alterazioni aspecifiche più o meno gravi, compatibili con un’epilessia o un’encefalopatia epilettica. La diagnosi delle localizzazioni viscerali rimane di stretta competenza internistica. La prognosi è grave: 2/3 dei pazienti decedono prima dei 20 anni, e di questi 1/3 prima dei 5 anni per malattie intercorrenti, stato di male epilettico, lesioni renali, cardiache e polmonari. TERAPIA. – È strettamente sintomatica: comprende il trattamento antiepilettico (v. pag. 1184), un eventuale supporto psichiatricopsicofarmacologico ed un’eventuale trattamento neurochirurgico precoce degli astrocitomi subependimali o delle complicanze idrocefaliche. Sindrome di Proteo È una affezione molto rara di cui non si conosce la reale incidenza (si ritiene esistano non più di poche centinaia di casi nel mondo) originariamente descritta per la prima volta da da Treves nel 1885, quindi identificata da Cohen e Hayden nel 1979 ed infine denominata «sindrome di Proteo» da Wiedemann nel 1983 a causa delle polimorfe manifestazioni presentate dai primi quattro giovani pazienti descritti. La sindrome è diventata universalmente nota grazie alla narrazione letteraria e cinematografica della storia di Joseph Merrick, «The Elephant Man» (Howell e Ford, 1980), riconosciuto affetto da una grave sindrome di Proteo anziché da neurofibromatosi 1 come erroneamente si pensava (Cohen, 1987). L’estrema rarità della sindrome di Proteo, reale prototipo delle malattie «orfane», ha motivato la creazione di un apposita Fondazione dotata di sito Web2 , onde agevolarne il riconoscimento ed aiutare i famigliari dei bambini colpiti dall’affezione nella gestione delle complesse problematiche ad essa connesse.
2
http://www.proteus-syndrome.org/
La malattia sembra riferibile alla presenza, fra le cellule somatiche normali, di cellule andate incontro ad una mutazione, capaci di indurre un accrescimento patologico in ogni parte del corpo e con qualunque tipo di combinazione: l’ipotesi principale è quella di un’alterazione post-zigotica a mosaico in un gene letale nello stato di non mosaicismo (cfr. Biesecker, 2001). Poiché la sindrome può essere confusa con la neurofibromatosi 1, la malattia di KlippelTrenauney (ipertrofia emiangiectasica), la sindrome di Maffucci, la malattia di Paget e la displasia fibrosa poliostotica, in Tab. 36.4 sono riportati i correnti criteri d’identificazione (Biesecker et al., 1999, Biesecker, 2001). Facomatosi angiomatose Sono caratterizzate da angiomi capillari cutanei ed angiomi cavernosi (arteriosi o venosi) localizzati nel SNC. ANGIOMATOSI
MENINGOFACCIALE O ENCEFALOFAC-
CIALE O ENCEFALO-TRIGEMINALE CON CALCIFICAZIONI (MALATTIA DI
STURGE-WEBER)
È una rara malattia congenita a carattere non ereditario ed a patogenesi sconosciuta, caratterizzata dall’associazione di un nevo vascolare cutaneo del volto con un angioma leptomeningeo ipsilaterale e con lesioni calcifiche della corteccia sottostante neurologicamente sintomatiche. 1. –Nevo cutaneo vascolare del volto. Classicamente definito «macchia color vino Porto», nevo flammeo o volgarmente «voglia», è piano o solo lievemente ed irregolarmente rilevato per la presenza di ectasie vasali, ed è caratterizzato da un vivace colore rosso rubino, un’estensione variabile ed una preferenziale localizzazione al volto, più frequentemente sul lato sinistro. Una recente analisi di 121 pazienti (Bioxeda et al., 1993) ha dimostrato che: 1) l’angioma cutaneo predilige il territorio di distribuzione della
1550 Malattie del sistema nervoso Tabella 36.4 - Criteri diagnostici per la sindrome di Proteo Criteri generali
Categoria A
Categoria B
Distribuzione a mosaico
1. Nevo connettivale o 1. Nevo epidermico iperplasia cerebriforme
Decorso progressivo
2. Crescita spoporzionata in due dei seguenti distretti: – arti (in ogni distretto) – cranio (iperostosi) * – canale uditivo esterno – vertebre (megaspondilodisplasia) – visceri (milza, timo) *
Incidenza sporadica
3. Tumori specifici (< 20 aa.) * – cistoadenomi ovarici bilaterali – adenoma parotideo monomorfico
Categoria C 1. Distrofie adipose: – lipoatrofia – lipomi 3. Facies fenotipica *: – volto allungato – dolicocefalia – rime palpebrali cadenti (o lieve ptosi) – basso profilo nasale – narici ampie, anteroverse 2. Malformazioni vascolari: – capillari – venose – linfatiche
* manifestazioni rare La diagnosi richiede tutti e 3 i criteri generali ed inoltre, a scelta: un criterio appartenente alla categoria A, o due criteri della categoria B, o tre criteri della categoria C.
branca mascellare del trigemino; 2) se bilaterale, aumenta la frequenza di localizzazioni extrafacciali; 3) le localizzazioni extrafacciali aumentano il rischio di glaucoma; 4) solo i pazienti con localizzazione nel territorio della branca oftalmica trigeminale sviluppano glaucoma o epilessia, con rischio maggiore nel sesso maschile. Nelle localizzazioni nel territorio della branca oftalmica, solo l’estensione ai tessuti orbitari ed alla palpebra superiore sembrano comportare un elevato rischio di angioma meningeo ipsilaterale. In questi casi, è molto frequente l’associazione con angioni congiuntivali, episclerali, coroidei e con glaucoma. 2. –Angioma e calcificazioni intracraniche. Si tratta di un angioma cavernoso o arterovenoso leptomeningeo congenito, non evolutivo ed a preferenziale localizzazione parieto-occipitale, associato nel 50% dei pazienti a lesioni
necrotico-calcifiche della sottostante corteccia cerebrale, ed a basso rischio di sanguinamento (emorragia subaracnoidea). La malattia si manifesta generalmente in età infantile con crisi epilettiche parziali focali o generalizzate, emiparesi spastica controlaterale ingravescente con ipotrofia degli arti e ritardo mentale. La diagnosi delle forme complete è suggerita dalla coesistenza di angioma cutaneo a distribuzione fronto-palpebrale, epilessia ed emiparesi. La presenza dell’angioma leptomeningeo viene documentata dalla TC, dall’angio-TC e dalla RM, che dimostrano anche la coesistenza di strie calcificate corticali (Fig. 9.65). Calcificazioni simili, associate ad epilessia parziale con crisi focali occipitali, possono essere causate anche dalla malattia celiaca, sospettabile quando manca l’angioma facciale: questa ma-
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1551
lattia non infrequente può essere diagnosticata in base a segni clinici (diarrea, steatorrea, calo ponderale, ritardo dell’accrescimento, marcata apatia ed astenia, crampi muscolari e tetania) e conferme di laboratorio deponenti per una intolleranza al glutine (Gobbi et al., 1992). La terapia è sintomatica e comprende, ove possibile, l’escissione neurochirurgica dell’angioma. SINDROME DI DIVRY-VAN BOGAERT È costituita dall’associazione di teleangectasie cutanee con aspetti a tipo livedo reticularis o cutis marmorata diffusa con un’angiomatosi corticomeningea accompagnata da sclerosi cerebrale diffusa senza calcificazioni. Si manifesta con deterioramento mentale ingravescente, epilessia e segni di sofferenza piramidale diffusa. ANGIOMATOSI DISCONDROPLASTICA (SINDROME DI MAFUCCI-KAST) Si tratta di una rara angiomatosi cutanea diffusa, a possibile estensione viscerale, associata a discondroplasia con marcata tendenza ad evoluzione condro- angio- o fibrosarcomatosa (20% dei pazienti) e, talvolta, a gliomi cerebrali ed adenomi ipofisari.
36.000), caratterizzata da emangioblastomi multipli cerebellari, spinali e retinici, variabilmente associati a carcinoma a cellule chiare del rene e feocromocitoma. Possono coesistere rene e pancreas policistici, ed associarsi adenomi cistici dell’epididimo o del ligamento lato uterino, e tumori del sacco endolinfatico. È causata da mutazioni o delezioni del gene vhl (da von Hippel-Lindau), mappato mediante studi genetici di «linkage» sul braccio corto del cromosoma 3 (segmento di 50 kb su 3p25-p26) (Richards et al., 1993). Il gene vhl è un classico «tumor suppressor gene» che richiede un’inattivazione biallelica quale prerequisito perché s’inneschi un processo neoplastico. La soppressione della corrispondente proteina (pVHL), formante complessi multimerici con l’elongina B/C, CUL2, Rbx1 ed E3 ubiquitina-ligasi, comporta una sovraespressione del fattore inducibile da ischemia (HIF) ed una «up-regulation» dei suoi bersagli: fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF), di trasformazione (TGF-beta e TGF-alfa) ed eritropoietina. Esistono anche prove che la mancanza di pVHL altera la formazione della matrice extracellulare di fibronectina, e che la pVHL partecipa al differenziamento ed al controllo del ciclo cellulare. Tuttavia, la pVHL sembra principalmente fungere da specifico «sensore di ossigeno», modulando geni coinvolti nell’angiogenesi e nell’apoptosi. L’inattivazione di pVHL da ischemia o da danno genetico selettivo comportano entrambe aumentata angiogenesi; la delezione VHL– / – anche sovraespressione di TGF-alfa ed aumentata proliferazione cellulare (cfr. Sims, 2001).
ANGIOMATOSI CEREBELLO-RETINICA O MALATTIA DI VON HIPPEL-LINDAU (VHL)
La VHL può manifestarsi con differenti associazioni sindromiche, descritte nella Tabella 36.5.
È una malattia tumorale ereditaria a trasmissione autosomica dominante molto rara (1:31-
1. –Emangioblastoma retinico. Noto come «tumore di von Hippel», insorge spesso quale
Tabella 36.5 - Associazioni sindromiche della malattia di Von Hippel-Lindau Tumore Feocromocitoma Emangioblastoma del SNC Emangioblastoma retinico Tumore del sacco endolinfatico Carcinoma renale Tumore pancreatico
Tipo 1
Tipo 2a
Tipo 2b
Tipo 2c
– + + + + +
+ + + + – –
+ + + + + +
+ – – – – –
1552 Malattie del sistema nervoso
prima manifestazione e nel 50% dei pazienti verso i 20 anni. Frequentemente bilaterale e multiplo, si localizza alla periferia della retina. I vasi retinici da cui prende origine, ed in cui drena, sono in genere assai dilatati; in assenza di chiare evidenze oftalmoscopiche, può tuttavia essere identificato mediante fluoroangiografia retinica. La sua progressiva espansione comporta cecità per distacco di retina, cataratta o glaucoma secondario, per cui dev’essere precocemente laser-coagulato. 2. –Emangioblastoma cerebellare. È un tumore vascolare murale biologicamente non maligno, delle dimensioni di un bottone di 1-2 cm, formato da un grappolo di piccoli vasi e di tipo cistico (66,4%) o solido (33,6%) (Resche et al., 1985). Si manifesta unilateralmente nell’8088% dei casi (Resche et al., 1985; Huson et al., 1986), si localizza quasi sempre nel cervelletto (90-96%), specie negli emisferi (78%), diventando sintomatico verso i 50 anni. Spesso chirurgicamente inaccessibile e tendente alle recidive, comporta un alto rischio di emorragia spontanea. Si manifesta generalmente con una sindrome d’ipertensione intracranica ingravescente, che solo nel 36-51,2% dei casi si arricchisce di segni cerebellari quali incoordinazione assiale e segmentale, disturbi della marcia, vertigine, atteggiamento viziato del capo, crisi toniche cerebellari. Nel 10-20% dei pazienti può comparire una poliglobulia causata da abnorme produzione di eritropoietina da parte dei mastociti locali presenti nel tumore. La poliglobulia usualmente recede dopo asportazione della neoplasia, a meno che non coesistano ipernefromi secernenti fattori eritropoietici, ma può tuttavia successivamente ricomparire quale unica manifestazione di recidive neurologicamente asintomatiche. Le localizzazioni multifocali del tumore (troncoencefaliche, sopratentoriali, midollari) non sono infrequenti, e possono esprimersi isolatamente o più spesso in associazione ad un
emangioblastoma cerebellare (56% dei casi), dimostrando una predominante famigliarità e precocità d’esordio. 3. –Carcinoma renale a cellule chiare. Multiplo e bilaterale, dipende da mutazioni (57%) o da perdita dell’eterozigosi (98%) del gene VHL (Gnarra et al., 1994). La coesistenza in alcuni pazienti di altre alterazioni genetiche (5q21, 13q, 17q) associate alla mutazione del gene VHL, sembra suggerire che queste mutazioni siano necessarie, ma insufficienti alla cancerogenesi (Crossey et al., 1994). 4. –Feocromocitoma surrenalico. Valgono le stesse considerazioni di cui sopra. La diagnosi segue l’iter già descritto in precedenza. 5. –Tumori del sacco endolinfatico. Sono adenocarcinomi papilliferi non metastatici a partenza dall’ectoderma del labirinto membranoso, che si manifestano all’età media di 22 anni nell’11% dei pazienti affetti da VHL e sono clinicamente caratterizzati da una poliennale storia (fino a 15 anni) di ipoacusia subacuta per i toni puri, tinnito, acufeni, vertigini, ed in ultimo. 6. –Tumori pancreatici. Comprendono insulinomi ed adenomi microcistici e sono presenti nel 56% circa dei pazienti. Possono precedere di molti anni ogni altra manifestazione della malattia, rappresentandone nel 22% l’unica manifestazione viscerale (Hough et al., 1994). Analoghe lesioni cistiche possono riscontrarsi anche nel fegato e nell’epididimo. La ricerca di lesioni pancreatiche appare pertanto un passo obbligato nella diagnosi precoce dei sospetti portatori della malattia di von Hippel-Lindau. SINDROME DI BONNET-DECHAUME-BLANC O DI WYBURN-MASON Comprende un nevo flammeo o una marcata ectasia vascolare in un’emifaccia e malformazioni congenite
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1553 ipsilaterali: aneurisma cirsoide della retina o aneurisma cirsoide del SNC, specie del talamo e del mesencefalo.
IPERTROFIA EMIANGIECTASICA (SINDROME DI KLIPPEL-TRENAUNAY-WEBER) È una rara malattia displastica a carattere sporadico, caratterizzata da un nevo vascolare cutaneo a distribuzione metamerica, ipertrofia delle corrispondenti parti del corpo sottostanti (ad esempio un arto), e possibile associazione con un angioma spinale. Il trattamento è chirurgico.
ANGIOMATOSI CUTANEO-MENINGO-MIDOLLARE (MALATTIA DI COBB) Comprende angiomi cutanei a distribuzione segmentale, associati ad emangiomi intramidollari o a malformazioni angiomatose extramidollari localizzati allo stesso livello metamerico.
TELEANGIECTASIA FAMIGLIARE (MALATTIA DI OSLER-RENDU-WEBER) È una rara affezione ereditaria autosomica dominante, causata da un difetto della parete dei piccoli vasi, che si dilatano progressivamente formando, nella cute e nelle mucose, nevi teleangiectasici aracnoidei che, a partire dall’adolescenza, progressivamente aumentano di numero e di dimensione. Nell’encefalo e nel midollo spinale queste teleangiectasie assumono l’aspetto di veri e propri angiomi localizzati. La fragilità della parete vasale comporta un’ingravescente tendenza a manifestazioni emorragiche cutaneomucose (ematomi sottocutanei, epistassi), gastrointestinali e genitourinarie, per cui può facilmente insorgere un’anemia sideropenica da microperdite ematiche croniche occulte. Le complicanze neurologiche più gravi sono rappresentate da emorragie intracraniche o intrarachidee, o da ascessi cerebrali a partenza polmonare, causati dalla maggiore suscettibilità alle infezioni connessa alla presenza di fistole artero-venose polmonari.
ATASSIA-TELEANGECTASIA (MALATTIA DI LOUIS-BAR) È una rara malattia eredofamiliare a trasmissione autosomica recessiva causata da difettosa riparazione del DNA. Si manifesta nella prima infanzia dopo il 1° anno di vita, con un quadro ingravescente atassico-discinetico, comprendente incoordinazione motoria di tipo cerebellare assiale e segmentale con disartria.
Elementi accessori del quadro clinico, presenti in varia percentuale, si possono associare nella seconda infanzia e nell’adolescenza: a) alterazioni della motilità oculare coniugata, con nistagmo spontaneo ed abolizione del nistagmo ottico-cinetico; b) aprassia dello sguardo; c) movimenti involontari coreo-atetosici, ticchiosi, mioclonie; d) facies con aspetto vecchieggiante della cute e dei capelli e ritardo dello sviluppo somatico; e) agenesia ovarica; f) frequente insorgenza di diabete insulino-resistente durante l’adolescenza. Le tipiche lesioni cutanee si manifestano solo verso i 3 anni sotto forma di teleangiectasie capillaro-venose della congiuntiva e di alcune regioni cutanee particolarmente esposte a danno meccanico o alla luce (parti esposte della nuca, naso e guancie, padiglione auricolare e pieghe articolari). Coesiste un grave difetto delle difese immunitarie, espresso dall’aplasia o dall’ipoplasia del timo e dei follicoli linfonodali, da linfopenia, da insufficienti reazioni di ipersensibilità ritardata e da mancata o ridotta sintesi delle IgA, IgE ed IgG seriche.
La conseguente suscettibilità alle infezioni, responsabile di bronco-pneumopatie recidivanti ad evoluzione bronchiectasica e l’aumentato rischio di tumori del sistema linfo-reticolare rendono la prognosi infausta a partire dalla seconda decade di vita. FACOMATOSI PIGMENTARIE Le forme di interesse neurologico comprendono: 1. –Melanosi neurocutanea nevica. Molto rara, a carattere sporadico ed appannaggio del neonato, comporta nevi pigmentari melanocitici spesso pelosi, ed infiltrazione melanocitaria delle meningi che può evolvere in senso neoplastico, con frequente idrocefalia precoce; 2. –Sindromi del nevo epidermico. Spesso a trasmissione famigliare autosomica dominante, sono caratterizzate dalla coesistenza di un nevo a cellule basali o di un nevo sebaceo lineare (di Jadassohn) localizzato al volto o al capo con anomalie nervose multiple ipsilaterali fra loro variamente associate: poroencefalia o atrofia cerebrale con dilatazione del ventricolo laterale, cisti del III ventricolo e dei ventricoli laterali, emangioma leptomeningeo, malformazio-
1554 Malattie del sistema nervoso
ni o atresie vascolari endocraniche. Frequentemente coesistono epilessia e ritardo mentale. 3. –Sindrome «blue rubber bled naevi» (sindrome di Bean). Si tratta di una rara sindrome cutaneo-gastrointestinale, in cui si possono associare medulloblastomi cerebellari e meningiomi.
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Le encefalopatie infantili non evolutive M. De Negri Il concetto di encefalopatia infantile non evolutiva è assai ampio e comprende quadri morbosi che vanno dalla patologia neurologica macroscopica delle Paralisi Cerebrali Infantili, o delle gravi Insufficienze Intellettive, sino a quadri più sfumati delle insufficienze mentali e motorie lievi, o della «Disfunzione Cerebrale Minima». L’etiologia può essere analoga, ma diversa l’epoca dello sviluppo in cui la noxa ha agito e l’estensione e sede della lesione anatomopatologica, e quindi la gravità dei sintomi. I principi terapeutici hanno la loro comune base nei trattamenti abilitativi, attraverso tecniche ortopedagogiche e rieducative motorie, psicomotorie, psicosensoriali, logopediche, ecc.; tecniche ispirate ad analoghi principi e ad analoghe basi neuro e psico-fisiologiche, anche se interessano condizioni clinicamente diverse. Saranno trattati più diffusamente due quadri: 1) le encefalopatie malformative a eziologia prenatale precoce; 2) le paralisi cerebrali infantili (PCI) a eziologia lesionale fetale tardiva o perinatale. EZIOLOGIA Le cause delle encefalopatie infantili vengono abitualmente suddivise in tre grandi categorie: prenatali, perinatali, e postnatali.
1556 Malattie del sistema nervoso
Cause prenatali – Fattori genetico-ereditari: una incidenza relativamente alta di etiologia genetica viene ammessa per le atassie non evolutive e soprattutto per le encefalopatie prenatali malformative non lesionali; la incidenza di questi fattori è invece modesta per le paralisi cerebrali infantili. – Fattori acquisiti: fra questi hanno sicura importanza l’esposizione ai raggi X durante la gravidanza, specialmente nel primo trimestre. Questo fattore ha soprattutto importanza storica, in quanto rappresenta la causa messa per prima in evidenza nella patogenesi esogena delle malformazioni cerebrali (Murphey, 1909). Tuttavia i casi affetti da encefalopatia infantile, riconosciuti con sicurezza come dovuti a radiazioni, riguardano solo pochi soggetti nati da madri che avevano ricevuto forti dosi di radiazioni perché affette da tumore addominale maligno. Oggi, comunque, si tende per quanto possibile a evitare che le donne in stato di gravidanza eseguano esami radiografici ripetuti, specie durante le prime settimane. – Infezioni virali: hanno un ruolo ben riconosciuto se intervengono nei primi mesi di gravidanza. Massimo rilievo ha la rubeola, che, se si manifesta durante i primi 60 giorni di gravidanza, produce con grande frequenza malformazioni cerebrali, associate spesso a malformazioni extracerebrali (cataratta, palatoschisi, malformazioni cardiache, sordità; Gregg, 1944). Il virus può essere messo in evidenza nel malformato alla nascita e spesso anche dopo alcuni mesi, insieme agli anticorpi specifici. Poichè l’infezione materna viene riconosciuta quando l’infezione fetale è già avvenuta, e per la scarsa efficacia delle terapie antivirali all’infezione in atto, si consiglia la vaccinazione preventiva, in età prepubere o pubere (10-15 anni), ovvero prima del matrimonio. Anche i citomegalovirus possono essere teratogeni: l’encefalite intrauterina da essi provocata può interferire con il successivo sviluppo. Nella forma conclamata si ha microcefalia con corioretinite; ma vengono ammesse anche forme minori e atipiche, con sintomi «minori» a manifestazione tardiva (Longson, 1979). Alla pregressa infezione da citomegalovirus corrisponde una tipica immagine neuroradiografica. Tra le altre infezioni virali, è ammesso che svolgano un ruolo etiologico, sia pure con minore incidenza, la varicella, l’epatite virale, l’erpes zoster, la grippe, la parotite. – La toxoplasmosi può dare sintomi gravi, definiti nella classica «tetrade» idrocefalo, convulsioni, calcificazioni endocraniche, corioretinite; ma anche quadri dissociati o «minori» (forme «paucineurologiche»). Per la sua frequenza, e considerato che nell’adulto il decorso è spesso silente, sarebbero giustificate indagini sierologiche sistematiche prima e durante la gravidanza. Se l’infezione
materna ha luogo durante il primo trimestre di gravidanza sono colpiti il 3O% dei feti; se ha luogo durante il 3° trimestre l’8O%. – Carenze alimentari: le carenze alimentari gravi, soprattutto proteiche, possono influire sulla morbilità intrauterina e sulla prematurità. Sono accertate condizioni microencefalopatiche da carenze nutritive, che agiscono elettivamente nelle prime settimane di gravidanza; ma sono però ammesse azioni dannose anche successivamente, fino al 2° anno di vita extrauterina, parallelamente al massimo periodo di sviluppo neuronale. Sono particolarmente sensibili i neuroni del sistema cerebellare. – Farmaci neuropsicotropi: possono avere azione teratogena, particolarmente gli antiepilettici. L’ipervitaminosi E può provocare post-maturità; l’ipervitaminosi D può dare calcificazioni placentari e ipercalcificazione delle ossa del feto con difficoltà del parto; l’idrazide dell’acido isonicotinico può dare carenza di vit. B6 e conseguente convulsività neonatale. Oggi viene rivalutata anche l’importanza dell’alcoolismo materno, quale responsabile di malformazioni (sindrome alcool-fetale: insufficienza mentale, dismorfie facciali e dei dermatoglifi, talora ipoplasia o atrofia del nervo ottico). – Anossia fetale: può verificarsi in gravidanza per alterazioni placentari (scollamento placentare spontaneo o consecutivo a manovre abortive, placenta previa, infarti placentari dovuti a tossiemia gravidica, ecc.). Poichè la tensione di O2 nel sangue placentare è inferiore a quella del sangue materno tutti gli stati ipossici della madre si traducono in stati ipossici o anossici fetali. L’anossia fetale in gravidanza può essere dovuta a gravi ipotensioni arteriose materne, ad asfissia ossicarbonica, da shock traumatico, da allergia a farmaci somministrati durante il travaglio, da azione di analgesici o anestetici, ecc. – Emorragie cerebrali del feto: possono essere dovute a traumi, ad anossia prolungata, a tossiemia o a sindromi emorragiche materne. – Ittero nucleare: è classicamente espressione della malattia emolitica neonatale da incompatibilità ematica materno-fetale (eritroblastosi o malattia emolitica del neonato).
Cause perinatali Si prendono in considerazione tre ordini di fattori sovente complementari: a) la prematurità; b) i fattori meccanici o cause producenti lesione parenchimale diretta (soprattutto emorragica o infartuale); c) i fattori che producono anossia.
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1557 a) La prematurità e immaturità: la condizione di «immaturità» comporta una vulnerabilità neurologica. Le percentuali degli esiti cerebropatici «maggiori» appare oggi ridotta, per il grande progresso dell’assistenza ostetrica e neonatologica. Viene però dato sempre maggior rilievo ai deficit «minori» concernenti l’organizzazione psicomotoria e lo sviluppo cognitivo, emergenti soprattutto in età scolare. La prematurità e immaturità neonatale possono essere causa di encefalopatia per vari ordini di motivi. È particolarmente facile nel prematuro l’ittero grave neonatale; il distacco placentare parziale o altri tipi di emorragie placentari possono essere responsabili tanto dell’inizio precoce del travaglio (e conseguentemente della nascita prematura), quanto di uno stato di anossia del feto. Nell’immaturo esiste inoltre una fragilità vasale spiccata, che induce più facilmente trombosi ed emorragie cerebrali durante il parto: sindrome ipossico-emorragica, con prevalente danno periventricolare nell’immaturo («leucomacia periventricolare»), e «parasagittale» nel nato a termine; emorragie ventricolari e parenchimali. A questo ordine di cause lesionali possono essere probabilmente correlate condizioni cerebropatiche più gravi, di tipo tetra o emiplegico, mentre le forme lievi di paraparesi spastica o le diplegie lievi (rappresentate clinicamente solo da un ritardo motorio con modesta ipertonia e iperreflessia profonda, soprattutto agli arti inferiori, con abnorme persistenza di risposta estensoria allo stimolo plantare), verrebbero attribuite all’immaturità nervosa per se stessa, cioè alla mancata maturazione strutturale e funzionale del sistema nervoso dell’immaturo. Oltre all’immaturità, predispone alla sofferenza cerebrale del feto anche la post-maturità (parto dopo 2-3 settimane dal termine). In tal caso si associa alla macrosomia fetale anche una insufficienza placentare per invecchiamento. b) I fattori meccanici riguardano le modalità del parto, e hanno perso molta della loro importanza per la diffusione dell’assistenza ostetrica e neonatale qualificata. È comunque necessario richiamare le condizioni ancor oggi rilevanti, seppure in misura ridotta. Il travaglio prolungato (oltre 18-20 ore) è responsabile di sofferenza fetale e talora di trauma cerebrale con emorragia, sottodurale o sottoaracnoidea o intraventricolare, oppure parenchimale. I tipi di parto che, nell’ordine, possono essere responsabili di paralisi cerebrale sono: l’applicazione del forcipe alto, il parto podalico, l’applicazione di ventosa, il forcipe medio, il parto cesareo, il forcipe basso, e infine il forcipe basso con efisiotomia. Nei casi in cui si verifichino i suddetti meccanismi traumatici, con implicazione vasale, è facile trovare san-
gue nel liquor, ma il reperto di un liquor ematico è evenienza frequente anche nel neonato normale (10% dei casi circa). Se l’emorragia è abbastanza cospicua, si possono avere raccolte ematiche sottodurali, bilaterali, o più spesso, monolaterali, con esito in igromi o anche in idrocefalo per ostacolo al riassorbimento liquorale. c) L’anossia o asfissia neonatale viene considerata una delle cause più importanti di PCI. Il cervello infantile avrebbe una resistenza all’anossia assai superiore a quella dell’adulto, e danni irreversibili sono prodotti soltanto quando l’anossia è di considerevole intensità e soprattutto di considerevole durata. La corteccia e le strutture emisferiche sottocorticali sono maggiormente colpite nelle asfissie parziali, in particolare il 5° strato cellulare corticale e la sostanza bianca. Tra le principali cause perinatali di anossia o asfissia vanno annoverate le ostruzioni respiratorie meccaniche (aspirazione del liquido amniotico, atelettasia o pneumonia congenita, formazione di membrana jalina, particolarmente frequente negli immaturi e nei nati da parto cesareo); la somministrazione di farmaci ossitocici, di analgesici o l’anestesia generale alla madre, con alterazione del ritmo delle contrazioni uterine, o ipotensione arteriosa, e depressione dei centri respiratori del feto; la torsione o trazione eccessiva del cordone ombelicale. I quadri di cerebropatia da causa perinatale sono rappresentati da sindromi di tipo distonico-atetosico (presumibilmente legate a danni ipossiemici elettivi per i nuclei della base); e da sindromi emi o tetraplegiche conseguenti a lesioni più diffuse, infartuali ed emorragiche.
Cause post-natali Le cause post-natali con incidenza ridotta rispetto alle precedenti, valutata dal 10 al 30% del totale, sono rappresentate da processi infiammatori encefalo-meningei, primitivi, o secondari a stati tossici o infettivi generali, che agiscono principalmente attraverso meccanismi circolatori diretti (flebiti e trombosi arteriose cerebrali), o indiretti (edema e reazioni gliali secondarie). Ma anche lesioni cerebrali di altra natura possono verificarsi, quali traumi, lesioni vascolari, tumorali, tossiche, discrasiche e asfissia da CO o da altre cause.
NEUROPATOLOGIA Le lesioni del cervello in evoluzione sono di due tipi, talora coesistenti e difficilmente differenziabili: malformative e cicatriziali. a) Lesioni malformative (Fig. 36.11; 36.12 A, B): fattore essenziale nel determinare la natura e l’ estensione
1558 Malattie del sistema nervoso delle alterazioni disrafiche; se si verifica in periodi più avanzati (dopo il 3° mese) dello sviluppo embrionale la migrazione dei neuroblasti dalla matrice paraventricolare verso le future zone corticali può essere pervertita e abnorme, e ne risultano le cosiddette eterotopie ed una ipoevoluzione deficitaria delle circonvoluzioni cerebrali (pachigiria-agiria). Infine, se lo stimolo teratogenetico si manifesta a migrazione neuroblastica completa o pressoché completa (dal 5° mese in poi), si hanno alterazioni nel processo di differenziazione delle cellule embrionali corticali, che frequentemente si estrinsecano nel quadro macroscopico della microgiria. Un quadro malformativo particolare correlato all’arresto della migrazione neuroblastica è quello detto della «doppia corteccia». Le malformazioni cerebrali, spesso associate, hanno un’epoca di insorgenza (o momento teratogenetico) preferenziale: cataratta nella 5ª settimana; anomalie dell’orecchio interno nella 7ª-10ª settimana; malformazioni vascolari nel contesto del sistema nervoso nella 7ª-11ª settimana. Le alterazioni malformative, inoltre sono responsabili di alterazioni secondarie in regioni cerebrali funzionalmente connesse con le prime (alterazioni «correlative»).
Fig. 36.11 - RM. Oloprosencefalia. Fusione degli emisferi cerebrali a livello frontale, ove manca la scissura interemisferica, con ventricoli laterali rudimentali ed ampiamente comunicanti fra loro e con il III ventricolo (forma semilobare) (da M. De Negri, Manuale di Neuropsichiatria Infantile, Piccin, Padova, 1995).
b) Lesioni cicatriziali: conseguono a processi distruttivi avvenuti dopo il 5° mese della vita intrauterina, o durante il parto, o la vita extrauterina (Fig. 36.13), e agi-
delle malformazioni è il periodo di tempo in cui si manifesta l’alterazione dello sviluppo cerebrale (momento «teratogenetico»). Se l’alterazione si istituisce nel primo periodo della vita fetale (prima che la doccia neurale si chiuda formando il canale midollare), ne risulta la serie
A
B
Fig. 36.12. A-B - RM. Agenesia del corpo calloso. La sezione sagittale mediana (A) dimostra direttamente l’assenza del corpo calloso, con la convergenza dei solchi della superficie emisferica mesiale verso il III ventricolo. Nella sezione assiale (B) è evidente il caratteristico decorso parallelo dei ventricoli laterali (da M. De Negri, Manuale di Neuropsichiatria Infantile, Piccin, Padova, 1995).
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1559 caratterizzata dalla tipica localizzazione (gangli della base) e dalla particolare alterazione tissutale (necrosi incompleta di una parte del corpo striato con scomparsa delle cellule neuronali e gliosi), ad etiologia variabile (anossia, encefaliti fetali, tossi-infezioni). Consegue a insulti (soprattutto anossici) sopravvenuti entro il primo anno di vita. L’aspetto particolare, «marmorizzato», è dovuto al fatto che le cicatrici gliali restano mielinizzate, con distribuzione aberrante delle fibre mieliniche.
Encefalopatie prenatali
Fig. 36.13 - RM. Emiatrofia cerebrale. Riduzione di volume dell’emisfero sinistro con esiti malacici parenchimali, associata ad ampliamento consensuale del ventricolo laterale e degli spazi subaracnoidei corticali omolaterali. Anche la volta cranica presenta dimensioni ridotte rispetto alla controlaterale (da M. De Negri, Manuale di Neuropsichiatria Infantile, Piccin, Padova, 1995).
scono attraverso due meccanismi patogenetici: il disturbo circolatorio (necrosi ischemiche ed emorragie) e l’ipossia. Ne risultano quadri anatomo-patologici polimorfi e difficilmente differenziabili in rapporto alla causa che li ha provocati. È appunto dopo il 5° mese di vita intrauterina che l’encefalo in via di sviluppo è in grado di rispondere con reazioni edemigene e gliosclerotiche capaci di produrre cicatrici. Le poroencefalie (encefalopatie cistiche e multicistiche) e le cicatrici gliali sclerotiche costituiscono i reperti anatomici fondamentali dei danni cerebrali più massivi e localizzati a mediazione vascolare (Fig. 36.14). Per contro le lesioni anatomo-patologiche più diffuse prodotte dalla condizione anossica esordiscono con edema cerebrale e conseguente difficoltà di circolazione per compressione dei capillari, dapprima regionale, poi diffusa fino alla cessazione totale della circolazione e alla necrosi. Tale processo può interessare l’intero cervello, o prevalentemente determinate aree, come le parasagittali e le periventricolari. Lo «stato marmorato» rappresenta una lesione particolare ritenuta un tempo espressione di malattia specifica (C. e O. Vogt) e oggi riconosciuta come condizione
Si intendono come «prenatali» le condizioni encefalopatiche in cui la noxa ha interferito nel corso della morfogenesi, dando luogo a difetti puramente o prevalentemente agenesici o malformativi. Anche se non sono possibili distinzioni nette, ma solo riferimenti orientativi, il termine di tale periodo viene collocato intorno alla 28ª settimana di vita endouterina. Da tale periodo va tenuto distinto quello perinatale che va (convenzionalmente) dalla 29ª
Fig. 36.14 - RM. Poroencefalia connatale. Area liquorale emisferica destra, comunicante con gli spazi subaracnoidei corticali, esito di pregresso processo distruttivo avvenuto in epoca prenatale (da M. De Negri, Manuale di Neuropsichiatria Infantile, Piccin, Padova, 1995).
1560 Malattie del sistema nervoso
settimana di vita intrauterina alla 1ª settimana extrauterina. Al di fuori di taluni gruppi (percentualmente meno rappresentati), i quadri clinici delle encefalopatie prenatali, non sono identificabili in sindromi ben definite, e quadri clinici analoghi possono riconoscere etiologie diverse. Si possono avere indicazioni etiologiche più precise soprattutto per certe forme di origine infettiva, tossica o farmacologica, o per certe cromosomopatie. Altri casi possono essere riconosciuti in sindromi malformative specifiche, e per alcune di esse, è nota la natura genetica (ad es., le sindromi di Williams, di Noonan, di Rubinstein-Taybi, ecc.), ma nella grande maggioranza dei casi manca la possibilità di una individuazione eziologica. Per tutte le forme di questo ordine si pone (sia pure con diversa incidenza) il problema della possibile natura genetica, e della possibile ricorrenza. I riferimenti percentuali alla etiologia possono essere così indicati: causa genetica circa nel 25%, da noxae esogene note nel 10%, non determinabile per il 65%. Le encefalopatie non evolutive a etiologia prenatale possono essere comprese in due gruppi: – gruppo a nosografia definita: sindromi malformative note, cromosomopatie, encefalopatie da causa esogena riconosciuta; – gruppo a nosografia non definita, la cui connotazione può essere rapportata all’aspetto clinico più saliente: malformazioni cerebrali strutturali, e insufficienze mentali (I.M.) con o senza dismorfie somatiche associate. Le condizioni di gran lunga prevalenti sono quelle connotate dalla I.M. senza alterazioni cerebrali strutturali. In questo capitolo restano molte zone di incertezza per quanto riguarda l’individuazione etiologica, la possibilità di ricorrenza e i criteri per la prevenzione.
Vanno aumentando le possibilità di ridurre tali zone di incertezza, applicando più sistematicamente gli strumenti diagnostici di cui attualmente si dispone. I fondamentali criteri diagnostico-preventivi possono essere sintetizzati nel quadro sinottico che segue: A) nelle forme a eziologia definita: cromosomopatie accertate: esame citogenetico dei genitori (anche sulle cellule del liquido amniotico in caso di altra gravidanza); infettive accertate: esami immunologici alla madre. B) nelle forme a etiologia non definita: – verifica condizioni metaboliche materne; – esami immunologici precoci (entro il III-IV mese); – TC e RM; se esistono dismorfie multiple: – esame citogenetico; – verifica della loro databilità; negli I.M. di sesso maschile senza dismorfie: – ricerca sito fragile dell’X; per microcefalie, idrocefalie, anencefalie, rachischisi: – controllo ecotomografico delle gravidanze successive; per anencefalie e rachischisi: – controllo dell’alfa-fetoproteina nel liquido amniotico nelle gravidanze successive.
Paralisi cerebrali infantili E. Veneselli Si definisce paralisi cerebrale infantile (PCI o PC; “Cerebral palsy” nella letteratura anglosassone) un disturbo persistente del movimento e della postura, dovuto a difetti o lesioni non progressive del cervello immaturo.
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1561
Le lesioni cerebrali precoci in oggetto sono peculiarmente considerate non progressive o “fisse”, ma possono modificarsi nel tempo, in rapporto a processi di cicatrizzazione, atrofia, gliosi o cavitazione, come oggi è possibile rilevare con il contributo delle neuroimmagini. Inoltre, se è vero che i sintomi clinici non progrediscono in senso assoluto, anche essi si modificano durante il primo sviluppo e divengono stabili in un periodo variabile di tempo; infine, risentono a lungo dei fattori correlati alla crescita, potendosi modificare ancora durante l’adolescenza. Le PC costituiscono un gruppo di condizioni eterogenee (Aicardi 1988; De Negri 1996; Ponsot 1998; Swaiman 1999), i cui limiti concettuali non sono unanimemente condivisi, soprattutto rispetto all’inclusione delle forme prenatali a carattere malformativo o ad eziologia metabolica. La loro incidenza è variata nel tempo: negli anni 1950-70 è gradualmente diminuita grazie ai progressi dell’assistenza in gravidanza e al
parto; successivamente è nuovamente aumentata, specialmente nell’ambito dei neonati “grandi pretermine” e/o di peso neonatale molto basso, in rapporto allo sviluppo delle tecniche di rianimazione e di terapia intensiva neonatale, parallelamente ad una marcata riduzione della mortalità. Nei paesi occidentali l’incidenza delle PC ammonterebbe a 1,5-2,5 per 1000 nati (Aicardi 1988; Ponsot 1998; Swaiman 1999). Eziologia e fattori di rischio Le eziologie in causa sono molteplici e sovente agiscono in modo associato nel determinare la singola condizione clinica (Tab. 36.6). In relazione al fenomeno della vulnerabilità selettiva del cervello nello sviluppo, esse conducono a differenti conseguenze a seconda dell’epoca in cui intervengono: prima della 20a settimana di età concezionale si realizzano malformazioni cerebrali, tra la 26a e la 30a settimana si ha soprattutto una peculiare sofferenza della sostanza bianca periventricolare, sia nel feto che
Tabella 36.6 - Cause principali delle paralisi cerebrali infantili. Emiplegia
Diplegia
Tetraplegia
preT
aT
preT
aT
(in passato) grave pre T ventilato
50% an. sviluppo fetopatie genetiche
Prenatale
70% ictus, ± PVL
rara PVL in TORCH
genetiche, malformative, an. gravidiche
Perinatale
15% complicanze parto
90% PVL, IPH
asfissia in predisposti
Postnatale
rara infezioni, traumi
rara IPH, IVH idrocefalo
infezioni, idrocefalo
PVL = periventricular leukomalacia, leucomalacia periventricolare IPH = intraparenchymal hemorrhage, emorragia parenchimale IVH = intraventricular hemorrhage, emorragia intraventricolare IUGR = intrauterin growth retard, ritardo di crescita intrauterino TORCH = toxoplasmosi, rubeola, citomegalovirus, herpes simplex preT = pre-termine aT = a termine
30% asfissia ± IUGR gravi emorragie
20% infezioni, traumi
1562 Malattie del sistema nervoso
nel neonato pretermine; alla fine del terzo trimestre e nel periodo perinatale nel neonato a termine si osserva un danno prevalente a livello corticale e dei nuclei della base. A seconda dell’età in cui si realizzano, si distinguono: – fattori prenatali, di ordine genetico, includenti in particolare le cromosomopatie e le malformazioni cerebrali, e di ordine acquisito, quali le infezioni - specie del complesso TORCH (toxoplasmosi, rubeola, citomegalovirus, herpes simplex) - disturbi vascolari, insufficienza placentare, diabete e alcolismo materni, intossicazioni, ecc.; – fattori perinatali, quali soprattutto le condizioni che determinano trauma ed asfissia da parto (con encefalopatia anosso-ischemica ed emorragie intraparenchimali), infezioni, ipoglicemia severa, ittero nucleare; – fattori post-natali, quali encefaliti e meningoencefaliti, traumi cranici maggiori, stato di male convulsivo, incidenti cerebro-vascolari. La cause genetiche prevalgono nei neonati a termine. I fattori prenatali in senso lato hanno un ruolo preminente in tutti i casi di PC con anamnesi perinatale e post-natale non significativa. Se la loro attenta ricerca non permette di identificare una causa nota, occorre valutare la possibilità di un’encefalopatia metabolica, anche in presenza di segni dismorfici (come è noto, varie malattie metaboliche possono agire nel periodo fetale anche sulla morfogenesi) e quindi conviene effettuare uno screening metabolico completo (Watanabe 1992). La cause perinatali sono importanti soprattutto nei neonati pretermine o dismaturi, in ragione del fatto che in essi il cervello è particolarmente sensibile all’asfissia e al trauma. Per contro, nel neonato a termine una severa encefalopatia anosso-ischemica con stato di male convulsivo, costituisce un importante fattore di rischio di PC (55-70%) (Graham 1987), in particolare di tetraplegie spastiche. Ciò nonostante, va rilevato che in circa l’80% delle PC non si è verificata un’asfissia neonatale significativa. La cause post-natali sono divenute infrequenti, con
un’incidenza minore del 10%, in relazione al miglioramento dell’assistenza sanitaria (Aicardi 1988; Arens 1989; Blair 1982). In generale, nel determinare PC concorrono più condizioni piuttosto che un singolo evento (Ellenberg 1988; Hagberg 1976). Nell’ambito di questa cofattorietà patogenetica, vanno considerati due fattori predisponenti: la prematurità e il ritardo di crescita intrauterina, cui attualmente si attribuisce il ruolo maggiore, anche se di per sé non sono determinanti. La prematurità è oggi la causa prevalente delle PC spastiche: in particolare è stata osservata una significativa correlazione tra grande prematurità (età concezionale inferiore a 32 settimane e peso neonatale inferiore a 1500 gr.) e diplegie spastiche (Krageloh-Mann 1993), verosimilmente riferibile alla particolare vulnerabilità della sostanza bianca (SB) periventricolare immatura alla sofferenza anossica. Non è noto invece il meccanismo patogenetico per cui il ritardo di crescita intrauterino può essere responsabile di PC in una significativa percentuale di bambini a termine (Hagberg 1976). Esistono poi altri fattori di rischio, definiti anche “predittivi”: in particolare, a) prima della gravidanza, aborti ripetuti, bambini nati morti; b) durante la gravidanza, condizioni sociali particolarmente disagiate che possono agire con meccanismi plurimi (in primis malnutrizione/ iponutrizione e scarsa sorveglianza ostetrica); diabete, cardiopatie, nefropatie, alcolismo materni; stato pre-eclamptico; assunzione di estrogeni o di ormone tiroideo; gravidanza gemellare (specie in caso di monozigosi, di morte intrauterina di un gemello e di sindrome da trasfusione tra gemelli); c) nel periodo neonatale, distress respiratorio importante, policitemia e altre importanti patologie internistiche. I fattori di rischio “predittivi” hanno maggior rilievo quando si associano e si prolungano nel tempo. Non vi è invece la certezza che abbiano un ruolo patogenetico o predittivo altri fattori, quali la decelerazione del battito cardiaco nel travaglio, il pH neonatale, il punteggio Apgar.
Malattie congenite - Encefalopatie infantili 1563
Quindi al di là delle franche condizioni di encefalopatia anosso-ischemica, può essere significativo il riscontro di “cluster” di anomalie neonatali, più che di fattori isolati. La conoscenza dei fattori di rischio ha due conseguenze operative assai importanti. Innanzitutto, quando se ne riscontra la presenza, è opportuno programmare un follow-up clinico, senza allarmare i genitori, per una pronta presa in carico di una eventuale devianza patologica. Per contro, dinanzi ad una condizione encefalopatica, il loro riscontro anamnestico può indirizzare l’iter diagnostico ad esami mirati, qualora si verifichi una stretta congruenza tra dati anamnestici, clinici e laboratoristici. Anche anomalie agli esami strumentali eseguiti in epoca neonatale possono avere un significato prognostico sfavorevole. L’ecografia cerebrale in particolare può essere altamente predittiva di sequele neuromotorie in caso di lesioni cistiche o emorragiche, mentre ha minore rilievo il riscontro di dilatazione ventricolare o di aumento degli spazi pericerebrali (Bouza 1994; Graham 1987; Guzzetta 1986; Tortori-Donati 1996). La TAC cerebrale ha meno valore, anche se è risultata alterata nella maggior parte dei casi evoluti in PC (Kotlarek 1981). Più significativa appare la RM, specie per le informazioni sulla sostanza bianca e in caso di malformazioni corticali (Candy 1993; Watanabe 1992). In ambito neurofisiologico, molti studi sostengono il valore prognostico dell’EEG (Watanabe 1992) e perfino dei potenziali evocati cerebrali (Willis 1989). Più limitati sono i dati sulla SPECT, che può evidenziare anomalie di flusso ematico cerebrale (Taudorf 1989) e sulla PET, che può rivelare un abnorme metabolismo cerebrale del glucosio (Kerrigan 1991). Rispetto ai primi mesi di vita, l’esame neurologico e la valutazione del primo sviluppo psicomotorio necessitano di grande prudenza nella loro interpretazione, per due differenti motivi. In primo luogo va considerata una possi-
bile ipervalutazione di segni che mimano una PC, a carattere transitorio, di significato definito “dismaturativo”, in bambini che successivamente sviluppano disturbi di apprendimento, deficit di attenzione, iperattività. Esiste inoltre la possibilità di una Distonia transitoria del lattante (Angelini 1988). Infine va ricordato che molti lattanti presentano un quadro di PC, dopo un periodo apparentemente “silente”. CLASSIFICAZIONE Le classificazioni delle PC differiscono a seconda che venga utilizzato un criterio: – anatomopatologico, che evidenzia i principali quadri sottostanti; – topografico, che, per sede di deficit, individua emiparesi, paraparesi, diplegia, tetraparesi; – semeiologico, che, per tipo di disturbo motorio, distingue forme spastiche, distoniche, atassiche, miste; – clinico, che privilegia particolari entità neurologiche, quali le emiplegie infantili, le diplegie spastiche, le tetraplegie spastiche, le PC discinetiche (o extrapiramidali, o atetoidi), le PC atassiche (o atassie cerebellari congenite, o non progressive), le forme miste, le forme inusuali quali le PC ipotoniche o atoniche e le PC di tipo pseudobulbare o variante bulbare o sindrome di Warster-Drought. Al di là dell’aspetto strettamente motorio, l’handicap del paziente si connota per un complesso di disturbi variamente associati e di differente intensità, quali la compromissione cognitiva, l’epilessia, i disturbi comportamentali (Aicardi 1988; De Negri 1996; Ponsot 1998; Stanley 2000). A questo punto conviene effettuare una breve sintesi della classificazione anatomopatologica e degli aspetti patogenetici ad essa correlati, per poi privilegiare la classificazione clinica, che include ed integra l’approccio topografico e semeiologico, (Aicardi 1988; Neville 2000; Ponsot 1998; Stanley 2000; Swaiman 1999 ).
1564 Malattie del sistema nervoso
A- Classificazione anatomopatologica Merita particolare attenzione, in quanto fornisce importanti elementi conoscitivi, utili alla comprensione delle differenti condizioni cliniche. In tale ottica, è utile associare alla descrizione dei principali aspetti specifici, alcune annotazioni sulla rispettiva fisiopatologia e sulle relative neuroimmagini (Tortori-Donati 1996; Volpe 2001). Nel neonato pretermine, la sofferenza anosso-ischemica agisce nel cervello immaturo con diversi meccanismi fisiopatologici: diminuita efficienza di autoregolazione del flusso ematico; maggiormente sensibilità all’ipoperfusione delle aree “spartiacque”, al confine tra arterie della convessità e arterie periventricolari; maggiore vulnerabilità della sostanza bianca periventricolare a causa dell’attività metabolica più intensa. Il quadro anatomo patologico principale è rappresentato dalla Leucomalacia periventricolare, che prevale a livello paratrigonale e dei corni frontali. Nella fase acuta, si realizzano aree di necrosi colliquativa della sostanza bianca periventricolare, con varia estensione verso la sostanza bianca sottocorticale. In fase subacuta, la proliferazione gliale delimita le aree necrotiche, con la formazione di cavità uni- o multiloculate. In fase cronica, queste ultime vengono inglobate dalla cavità ventricolare o si collassano, con il risultato di una riduzione della sostanza bianca ed un aspetto irregolare e squadrato delle pareti ventricolari. L’Ecografia cerebrale seriata permette di visualizzare e seguire questi eventi. In fase acuta le cisti periventricolari appaiono come aree iperecogene, ben evidenti; in fase tardiva, si osserva soprattutto una ventricolomegalia a pareti irregolari, e in una minoranza di casi, la persistenza di immagini riferibili a cisti. La RM consente di evidenziare con maggiore precisione l’entità e la topografia delle lesioni; in particolare l’iperintensità in T2 della so-
stanza bianca circoscritta a livello periventricolare o, nei casi più gravi, diffusa, può persistere a lungo, in accordo con la durata dei processi conseguenti all’insulto anossico. La leucomalacia periventricolare può essere isolata o essere concomitante a emorragie della matrice germinativa. Esse si realizzano anche in occasione di sbalzi pressori veramente modesti, su vasi immaturi, le cui pareti sono rese fragili dallo stato anossico. I vari tipi di emorragie sono stati schematizzati in rapporto al loro corrispettivo ecografico, con una progressività in buona correlazione con la prognosi. Nel grado I si ha un’emorragia subependimale isolata, evidenziabile come area iperecogena principalmente situata nel pavimento del corno frontale dei ventricoli laterali. Nel grado II si ha un’emorragia intraventricolare, che appare difficilmente distinguibile dall’iperecogenicità del liquor. Nel grado III, all’emorragia intraventricolare con iperecogenicità del liquor si associa una dilatazione ventricolare (talora si possono visualizzare anche coaguli). Nel grado IV l’emorragia intraventricolare si associa ad un’emorragia intraparenchimale. Nel neonato a termine la sofferenza anosso - ischemica si configura in differenti quadri anatomo - patologici. La necrosi neuronale selettiva è caratterizzata dalla perdita di determinate popolazioni neuronali, a livello delle seguenti strutture: talamo, braccio posteriore della capsula interna, nuclei lenticolari, corteccia rolandica, radiazioni ottiche, cervelletto, tronco; ed è rivelata dall’Ecografia cerebrale come area iperecogena più o meno estesa; dalla TAC come ipodensità diffusa o aree ipodense isolate nel contesto della sostanza grigia; dalla RM come aree iperintense in T1 e in T2, difficilmente differenziabili dal tessuto cerebrale. L’ischemia parasaggitale consiste in una lesione a carico della sostanza grigia e della sostanza bianca, prevalente lungo il profilo supero-mediale della convessità, in particolare a li-
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vello parieto-occipitale. Usualmente è difficile da documentare all’Ecografia, mentre la TAC e più ancora la RM sono particolarmente sensibili. In fase di esiti la RM può dimostrare una zona di atrofia focale. L’infarto cerebrale prevale nel settore dell’arteria cerebrale media; è ben evidente in Ecografia come iperecogenicità della sostanza bianca, interessante talvolta anche la sostanza grigia; è rilevabile alla TAC solo più tardivamente; alla TAC e alla RM può essere presente con un effetto massa e con successivo esito di tipo cistico. Nei quadri emorragici, l’Ematoma subdurale, unilaterale o bilaterale, prevale al vertice o nella parte medio-posteriore della convessità; l’Emorragia subaracnoidea, uni- o pluri- focale, può invadere gli spazi liquorali della scissura interemisferica o della base; l’Emorragia intraparenchimale (non di rado associata ad un’emorragia subaracnoidea) ha sede soprattutto frontale o parietale. Mentre sussistono difficoltà di riscontro di un ematoma subdurale all’Ecografia, la TAC è, come sempre, estremamente sensibile per le lesioni emorragiche. Una condizione più rara, molto severa, è lo Status marmoratus, caratterizzato da strie biancastre a carico del talamo e dello striato (specie a livello della testa del nucleo caudato e della parte rostrale del putamen). È ben evidente in tutti i tipi di neuroimmagini. Si definisce Ulegiria il raggrinzimento sclerotico settoriale di alcune circonvoluzioni cerebrali, con aspetto gliotico - cicatriziale, in profondità, che può essere rivelata dalla RM come un’atrofia corticale focale, talvolta accompagnata da una sottostante iperintensità in T2. A distanza di tempo, le lesioni distruttive si possono organizzare in formazioni cavitarie, distruttive, tipo Poroencefalia, caratterizzata da cavità comunicanti con gli spazi liquorali; tipo Encefalopatia (o Encefalomalacia) multicistica, con multiple cavità separate da setti gliali; tipo Idranencefalia, quando gli emisferi cerebrali sono sostituiti da ampie cavità liquorali. Le
neuroimmagini rappresentano la tecnica diagnostica di elezione. B - Classificazione clinica Definisce alcuni contesti clinici, accomunati dall’omogeneità degli aspetti semeiologici.
Emiplegia o emiparesi La disabilità motoria è unilaterale ed è prevalentemente di tipo spastico. L’emiplegia congenita è dovuta a fattori che agiscono entro il termine del periodo neonatale. Nel 75% dei casi si tratta di un insulto vascolare prenatale tardivo (in genere, un’ischemia tra la 28a e la 35a settimana di età gestazionale), sovente con porencefalia nel territorio silviano, o con emiatrofia cortico-sottocorticale o con dilatazione ventricolare unilaterale. Le cause prenatali su base malformativa comprendono l’emimegalencefalia, la schizencefalia e la polimicrogiria. La causa perinatale più frequente, è rappresentata da una emorragia intraparenchimale in un soggetto pretermine. L’emiplegia congenita, per ragioni non note, interessa prevalentemente l’emisoma destro. In caso di un evento vascolare acuto neonatale, dopo un breve intervallo libero, dalla nascita si osservano crisi motorie focali ad un emisoma e poi il deficit motorio unilaterale. La forma prenatale invece sfugge alla diagnosi alla nascita e nei primi mesi: infatti solitamente è la madre che tra i 4 e i 9 mesi osserva una precoce preferenza manuale, quando il bambino inizia ad afferrare gli oggetti, oppure una mano sempre chiusa “a pugnetto”, o una difficoltà unilaterale nel vestire il bambino; più tardivamente, all’inizio della deambulazione, può osservare il coinvolgimento dell’arto inferiore. Alla valutazione neurologica, in caso di emiparesi sono segni precoci: l’ipotonia e l’ipomobilità, soprattutto dell’arto superiore;
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l’incurvamento del tronco; il controllo del capo in epoca pressocchè normale; la tendenza alla rotazione del capo verso il lato sano; a 4-6 m., l’evidenza dell’anomalia all’arto superiore, specie alla mano. Successivamente il quadro clinico si definisce e si possono osservare i seguenti segni conclamati: la difficoltà alla deambulazione quadrupede; l’asimmetria nella postura eretta; un’iniziale scoliosi; l’arto superiore intraruotato, addotto, semiflesso; uno “steppage” unilaterale, più che una tendenza a “falciare”, con iperflessione del ginocchio; la tendenza a far perno sempre sullo stesso arto per cambiare direzione; la presenza di sincinesie patologiche unilaterali. Con il trascorrere degli anni, si evidenziano i segni tardivi: l’ipotrofia e l’ipoplasia dell’emilato deficitario; una scoliosi, il valgismo dell’anca omolaterale, una zoppia; contratture ai muscoli della sura e conseguentemente una retrazione del tendine di Achille; un alterato allineamento dell’articolazione medio-tarsica; la medializzazione dell’astragalo; alcune contratture all’arto superiore, con mano “a cigno”; assenza o scarsità di movimenti di bilanciamento. Le caratteristiche semeiologiche sono simili a quelle dell’adulto, con l’aggravante della minore lunghezza di uno o di entrambi gli arti colpiti (elemento importante in quanto il suo riscontro in età evolutiva attesta una genesi remota); è possibile riscontrare inoltre un atteggiamento delle dita “a baionetta”, nei casi con mano ipotonica, e un piattismo del piede, oltre a equinismo. A differenza delle forme acquisite, la compromissione del nervo facciale è lieve o assente. Possono coesistere movimenti involontari patologici, coreoatetosici o distonici. Nelle forme non complicate, la deambulazione viene acquisita prima dei 2 anni di età. Possono coesistere: turbe prassiche e gnosiche, in particolare emisomatoagnosia e astereognosia; una sindrome pseudobulbare; un’emianopsia laterale omonima; uno strabismo.
Possono insorgere le deformazioni tipiche della spasticità, oltre ad un’asimmetria del bacino, e ad una modesta scoliosi. L’epilessia è presente in oltre un terzo dei casi. Alterazioni elettroencefalografiche sono evidenti nei due terzi dei casi. A seconda delle casistiche, la frequenza di ritardo mentale varia dal 28% al 55% dei pazienti; e prevale nei soggetti con epilessia. Possono associarsi turbe del comportamento, deficit di attenzione, instabilità psicomotoria. La diagnosi differenziale deve considerare le emisindromi neonatali transitorie e le paralisi ostetriche del plesso brachiale. Le emiplegie acquisite dipendono da varie eziologie, anzitutto gli incidenti cerebro-vascolari acuti e la sindrome HH o HHE (hémiconvulsion - hémiplegie± épilepsie), in secondo luogo le neoplasie, le malattie infiammatorie o demielinizzanti, i traumi cranici complicati. Rispetto alle forme congenite, in caso di lesioni non evolutive, il deficit del facciale è palese e può essere presente un’afasia, che regredisce in pochi mesi o al massimo in un anno. Diplegia spastica o sindrome di Little È caratterizzata da spasticità ai quattro arti, nettamente prevalente agli arti inferiori. È la forma tipica del bambino pretermine o del grande pretermine, e si verifica a causa di una leucomalacia periventricolare, dovuta ad una vulnerabilità selettiva della sostanza bianca (SB) periventricolare alla sofferenza anossica/anosso-ischemica. In fase acuta, ciò comporta la formazione di aree cavitate o cisti, che successivamente si collassano e scompaiono: ne risulta una perdita della sostanza bianca periventricolare, cui corrisponde una riduzione di spessore della sostanza bianca stessa alle neuroimmagini, con aumento di volume dei ventricoli cerebrali, soprattutto posteriormente, ed irregolarità dei margini (“ad agrifoglio”). La peculiare compromissione periventricolare delle fibre provenienti dalla corteccia me-
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siale, sede dell’area degli arti inferiori, motiva la prevalenza distrettuale della spasticità. La storia naturale di questa forma è caratterizzata da una specie di segni precoci; come: difettoso controllo del capo, anche se esso è stato acquisito in epoca pressocchè normale, ipotonia assiale con motilità molto ridotta, postura seduta possibile con arti inferiori flessi sul ginocchio, fuori del piano di appoggio (infatti se essi sono estesi sul piano, si verifica una marcata cifosi dorsale oppure una caduta all’indietro), arti inferiori estesi “a forbice” alla manovra della sospensione ascellare, il carico sull’avampiede. I segni conclamati compaiono successivamente. La stazione eretta è caratterizzata da una iperlordosi lombare, con bacino spostato all’indietro; adduzione e semiflessione delle ginocchia; spostamento del carico sull’avampiede nella deambulazione, quindi sulla parte media, ed infine sul retropiede;, l’iperflessione dell’anca e la recurvazione del ginocchio se si ha appoggio completo del piede. La progressione avviene con oscillazioni latero-laterali del tronco; il ritmo e velocità di progressione sono variabili; l’arresto improvviso provoca una certa perdita di equilibrio; nel passaggio posturale da prono a seduto, si ha flessione dell’anca e del ginocchio; è impossibile la marcia quadrupede a schema alterno, mentre si osserva la cosiddetta marcia “a coniglietto”, con il carico sugli arti superiori ed il trascinamento degli arti inferiori mantenuti flessi; successivamente, il rotolamento ed il porsi in ginocchio avvengono in ritardo e con anomalie; la stazione eretta accentua il pattern della spasticità, globalmente, mentre la posizione “alla turca” (seduta, con arti inferiori flessi e incrociati) lo riduce; la deambulazione avviene sulle punte, saltellante, dopo i 3-4 anni nelle forme lievi, dopo i 6 anni nelle forme moderate, dopo i 7-10 anni nelle forme mediogravi, con possibilità di regressione con la pubertà, e può non divenire autonoma nelle forme gravi; con l’età maggiore, si possono apprezzare coesistenti turbe prassiche e gnosiche.
La compromissione è frequentemente asimmetrica. Nelle forme lievi e medie, l’intelligenza è normale o ai limiti inferiori; l’epilessia è infrequente. In tutte, la compromissione oftalmologica è importante, con rilievo di strabismo paralitico e di turbe della refrazione (soprattutto ipermetropia e astigmatismo) e con possibilità di atrofia ottica, difficoltà visive centrali, disturbi di riconoscimento di forme e di colori, e di orientamento spaziale). Nelle forme più importanti, può sussistere una disprassia linguo-bucco-fonatoria, con bocca mantenuta aperta e con scialorrea. Si possono avere turbe vescico-sfinteriche minori e segni di instabilità vasomotoria. Accanto alla forma spastica pura, si hanno contesti clinici con attitudini distoniche, movimenti atetosici, specie alle dita delle mani, discinesie intenzionali. Tetraparesi e tetraplegia spastica È la forma più severa, con compromissione globale, prevalente agli arti superiori. Più frequentemente costituisce l’esito di una sofferenza anosso-ischemica grave nel neonato a termine, a cui può far riscontro, nelle neuroimmagini, un quadro di encefalopatia multicistica o di atrofia cortico-sottocorticale diffusa. Si possono riscontrare anche segni di patologia prenatale distruttiva o malformativa. La diagnosi usualmente è agevole, dinanzi ad una sindrome neonatale ipotonico-apatica importante, sovente con stato di male convulsivo. I segni precoci comprendono: accessi di opistotono, ipotonia marcata e persistente a lungo, specie a livello assiale; la ridotta motilità spontanea; verso i 6 mesi, si osserva comparsa di spasticità agli arti, con i pugni persistentemente chiusi e talvolta arti inferiori a forbice; l’assenza di movimenti di pedalamento; la accentuazione dei riflessi tonici del collo simmetrici o asimmetrici; evidenti soprassalti ai rumori; ipertonia nei passaggi posturali passivi.
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Con il passare del tempo, compaiono i segni conclamati quali: motilità poco finalizzata ed asimmetrica; difficoltà nei movimenti segmentari; cospicuo ritardo dello sviluppo psicomotorio; prensione a rastrello, con difficoltà al rilascio; iperestensione del capo e adduzione delle scapole; la postura seduta talvolta possibile solo ad arti mantenuti fuori del piano (o alla “turca”); progressione quadrupede “a canguro”; stazione eretta (se possibile) con tronco anteflesso, arti inferiori semiflessi e con carico sull’avampiede o sul mediopiede; tendenza a sviluppare una deambulazione con sostegno, a forbice, con carico anteriore, velocità variabile, difficoltà di arresto e/o nel cambio di direzione, con oscillazioni latero-laterali del tronco; cifosi/cifoscoliosi, deformità osteo-articolari, retrazioni articolari. Nei casi di maggiore gravità, il quadro motorio, sovente “aposturale”, si associa frequentemente a ritardo mentale grave, epilessia, microcefalia, strabismo, disturbi visivi, anartria o disartria grave, sindrome pseudobulbare, con difficoltà nella masticazione. Conseguentemente il livello di autonomia è spesso assai limitato. In questo contesto si possono riscontrare forme miste, spastico-distoniche o spastico-discinetiche. In alcune di esse si possono evidenziare lesioni troncali e dei nuclei della base (talamici in particolare). Paralisi cerebrale discinetica Le forme discinetiche o extrapiramidali o atetoidi costituiscono un gruppo ben definito per eziologia e aspetti clinici, con un’incidenza del 10-20 per cento rispetto al totale. In passato la causa più frequente era rappresentata dall’ittero nucleare, con accumulo di bilirubina - elevata a livello sierico - nei nuclei grigi centrali. I programmi di prevenzione attuati con l’isoimmunizazione Rh hanno consentito la scomparsa pressoché totale dell’ittero neonatale.
Attualmente la causa più frequente è identificabile nella sofferenza anosso-ischemica neonatale dei nuclei della base, che può verificarsi nei bambini a termine con asfissia severa e nei pretermine con ipossia associata a iperbilirubinemia. In alcuni casi, non sono riscontrabili fattori causali e si ipotizza un’origine genetica; talora sono riscontrabili calcificazioni dei nuclei della base. Il quadro anatomo-patologico della forma severa è lo status marmoratus, già riconoscibile alla nascita con TC o RM, mentre nei pretermine le lesioni sono meno evidenti. I segni precoci comprendono: apatia; ipotonia non paralitica; difficoltà di suzione e di deglutizione; crisi di opistono, sovente scatenate da rumori improvvisi; persistenza dei riflessi tonici del collo; ipomimia, la scialorrea; presenza di pursuit oculare in assenza o riduzione di movimenti di lateralità del capo; persistente estensione dorsale all’alluce. Tra i 12 e i 17 mesi divengono ben apprezzabili: i movimenti anomali agli arti, alle mani, al volto; gli spasmi tonici, accentuati da fattori emotivi; i disturbi di masticazione e della parola. Con il tempo aumenta l’ipertonia muscolare e diminuiscono l’ipotonia segmentaria e l’ampiezza dei movimenti abnormi. L’intensità dei disturbi consente di distinguere forme gravi, medie, lievi. Nell’ittero nucleare isolato l’intelligenza è sovente normale, l’epilessia è rara e le difficoltà visive sono relativamente frequenti. Semeiologicamente prevale la forma coreoatetosica, ma si possono riscontrare anche forme distoniche e forme miste, con segni piramidali. Talvolta il quadro clinico si arricchisce con il tempo, come nella Distonia ad esordio ritardato in encefalopatie “statiche”, da danno cerebrale neonatale o infantile precoce, in cui la distonia compare in un secondo tempo e può progredire a lungo. Le PC distoniche o discinetiche poi devono essere differenziate da quadri secondari ad al-
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cuni errori congeniti del metabolismo, quali soprattutto la malattia di Lesch-Nyhan, la glutarico-aciduria I ed altre organico-acidurie, la malattia di Pelizaeus-Merzbacher, il deficit del cofattore molibdeno.
Questa sindrome comporta un grave disturbo dell’eloquio, dei movimenti volontari della lingua, della fonia e della deglutizione, con scialorrea.
Paralisi cerebrale atassica
Nelle PC alcuni accertamenti sono di particolare utilità. La radiografia delle anche permette di evidenziare una lussazione dell’anca, specie nei soggetti spastici e non deambulanti. L’esame oftalmologico completo è assai importante, data l’elevata incidenza e l’ampia variabilità dei disturbi visivi associati, centrali e periferici. L’esame elettroencefalografico durante il ciclo sonno-veglia è utile per evidenziare la presenza di anomalie epilettiche. Le neuroimmagini forniscono una documentazione interessante a fini diagnostici e correlazionistici. I potenziali evocati cerebrali possono documentare alterazioni uditive o a carico delle vie visive. L’opera dell’Ortopedico e del Fisiatra consente un programma di sorveglianza di complicanze e di interventi, con eventuale ricorso a vari ausilii. Il relativo “calendario” varia a seconda delle forme e della loro gravità, in base al “timing” della maturazione delle funzioni e dell’evidenza delle complicazioni.
Rappresenta il 10-15% dei casi totali ed è riferibile ad una molteplicità di condizioni con atassia cerebellare non progressiva. Per la maggior parte dei casi, si tratta di forme congenite, su base genetica, spesso difficile da definire, talvolta a carattere familiare. Possono essere sottese da patologie malformative. Inizialmente, il contesto clinico è dominato dall’ipotonia e dal ritardo motorio successivamente, con il controllo del capo, l’acquisizione della postura seduta e delle funzioni manipolatorie, è possibile evidenziare una sintomatologia cerebellare. La deambulazione può divenire autonoma a 4-6 anni, a volte anche successivamente, soprattutto nelle forme di atassia statica, come nella così detta “Sindrome da disequilibrio”. Coesiste un certo grado di compromissione mentale, talvolta anche rilevante e con tratti autistici, mentre l’associazione con l’epilessia è infrequente. Forme inusuali Le forme atoniche o ipotoniche non paralitiche possono precedere altre forme: in particolare da una fase ipotonica persistente, può emergere, nel II semestre di vita una patologia spastica; nel II anno un quadro extrapiramidale, successivamente una sintomatologia atassica. Talvolta sono correlate a gravi malformazioni cerebrali, come nell’agiria-pachigiria. Il tipo pseudobulbare o Sindrome di WorsterDrought è sottesa da anomalie bilaterali delle regioni opercolari, da disturbo focale della migrazione, da encefalite erpetica o da danno anossico focale.
Esami di laboratorio
Assistenza L’assistenza di un bambino con PC comporta un complesso di attività che sono finalizzate a promuovere in lui e nella sua famiglia la migliore qualità di vita possibile. Ciò richiede un team multidisciplinare che integri i vari interventi in una progettazione globale, proiettata longitudinalmente in una ottica di maturazione, tenedo conto della molteplicità dei disturbi presenti (motori, cognitivi, epilettici, visivi, affettivi, comunicativi, relazionali), in rapporto all’età.
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È essenziale rivolgersi non solo al bambino, ma anche alla sua famiglia, con supporto precoce e con “counselling”. La presa in carico ha vari obiettivi: abilitazione/riabilitazione da parte degli operatori sanitari, educazione guidata da parte della famiglia e degli operatori scolastici e sanitari, supporto assistenziale. Il primo momento è costituito dalla diagnosi che presuppone una accurata indagine sui dati anamnestici patologici e la presenza di fattori di rischio; lo stato neurologico neonatale e gli esami laboratoristici; lo sviluppo psicomotorio ed il suo ritardo; l’emergenza dei disturbi motori e dei disturbi associati, quali l’epilessia, il ritardo mentale o i disturbi di apprendimento, i disturbi visivi, gli aspetti emotivo-relazionali. La precocità della diagnosi consente interventi pronti e informazioni corrette: il suo raggiungimento può essere ritardato dal cosiddetto “periodo silente”, durante il quale i disturbi non sono ancora evidenti e solo personale più esperto può rilevare sottili anomalie. Dinanzi al disturbo motorio organizzato, la valutazione delle competenze specifiche si avvale di strumenti internazionali standardizzati, di cui il più utilizzato è la Gross Motor Function Measure. Si tratta di una scala in 5 dimensioni, quali la postura seduta, lo striscio e il cammino carponi, la stazione eretta ed il cammino. Ogni item è valutato con un punteggio che va da 0 a 3, a seconda del grado di autonomia con cui la funzione viene attuata. Per misurare la spasticità usualmente si ricorre alla Modified Ashworth Scale, in cui si dà un punteggio al Range of Motion (R.O.M.) rilevabile mediante la mobilizzazione passiva. A scopo di ricerca, può essere interessante la Gait Analysis, che permette analizzare le varie componenti dell’atto motorio nella deambulazione. Inoltre, il Gruppo Italiano Paralisi Cerebrali Infantili ha elaborato una valutazione qualitativa delle competenze motorie globali del bambino, utile per la messa a punto del programma terapeutico.
Le funzioni manipolatorie possono essere ben valutate con la “Melbourne Assessment of Unilateral Upper Limb Function” e, sia pure più approssimativamente, con la Bayley Motor Scale e con la Peabody Fine Motor Scale. Lo studio delle attività prassiche richiede particolari procedure, come i cubi di Kohs per le abilitàcostruttive e i test di Bender e di Rey per le abilità grafo-motorie. Il livello di autonomia raggiunto è determinante ai fini della qualità di vita del disabile motorio. Le scale di valutazione di sviluppo come la Griffith (0-8 anni), valutano diversi settori quali l’alimentazione, l’abbigliamento, l’igiene personale, il controllo sfinterico, gli aspetti sociali e gli spostamenti. Non meno utile è la Functional Indipendence Measure for Children (6mesi-7anni), che permette il follow-up delle acquisizioni funzionali. Terapia Si propone il raggiungimento di tre obiettivi principali: facilitare il “care”, migliorare la funzione, prevenire lo sviluppo di contratture. Il programma di trattamento deve essere modificato nel tempo. Nei primi anni di vita, occorre soprattutto effettuare interventi di stimolazione del bambino verso l’acquisizione delle principali tappe di sviluppo e coinvolgere i genitori nel piano di lavoro, ad es. con l’insegnamento dei posizionamenti più idonei, e promuovendo un’adeguata interazione con il bambino. In epoca prescolare, vengono privilegiati il miglioramento delle funzioni e la prevenzione o il contenimento delle contratture. Nel periodo scolare vanno valutate le indicazioni alla correzione chirurgica delle contratture. Durante l’adolescenza, sfruttando la maggiore collaborazione del soggetto, si devono promuovere il miglioramento delle funzioni e delle autonomie e facilitare ulteriormente l’assistenza da parte dei familiari. La fisioterapia tende a promuovere lo sviluppo psicomotorio ed il raggiungimento delle au-
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tonomie motorie fondamentali; in particolare persegue l’apprendimento di pattern motori funzionali, la riduzione delle alterazioni del tono muscolare, l’inibizione di schemi patologici, la prevenzione delle deformità. Durante l’età evolutiva si utilizza prevalentemente la metodologia dei Bobath, che sfrutta le cosiddette tecniche facilitatorie. I farmaci antispastici più usati per via orale nella clinica, sono il baclofen e la tizanidina, mentre il diazepam ed il dantrolene sono impiegati più raramente. La tossina botulinica, tramite infiltrazioni intramuscolari, è utilizzata per il trattamento della spasticità distrettuale (come accade ad es. nei muscoli gastrocnemi in caso di piedi equini), e consente di ritardare l’insorgenza di contratture e do facilitare la compliance ai tutori. Gli interventi chirurgici ortopedici mirano a ridurre le contratture, prevenire/trattare la displasia dell’anca, e le complicanze della scoliosi. Sono usualmente effettuati nel bambino più grande. La rizotomia dorsale selettiva, specie a livello di L2-S1, diminuisce la spasticità agli arti inferiori, ma non la distonia. È indicata soprattutto tra i 4 e i 16 anni. Nella stessa fascia di età, l’infusione intratecale di baclofen è indicata nelle tetraparesi spastiche di maggior gravità, nelle forme in cui l’ipertono ostacola la deambulazione, laddove la presenza di ipostenia controindichi la rizotomia. Tutte queste metodologie possono essere organizzate in un algoritmo differenziato a seconda dell’età del paziente e con protocolli definiti in rapporto ai differenti problemi clinici, nell’ambito di programmi di trattamento modulati individualmente. Riferimenti bibliografici
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Malattie metaboliche genetiche 1573
37. Malattie metaboliche genetiche R. Gatti
Le malattie metaboliche genetiche del sistema nervoso sono un ampio gruppo di condizioni differenti per aspetti genetici, clinici, diagnostici e terapeutici, aventi in comune un riconosciuto difetto del metabolismo. È abbastanza diffuso il preconcetto che le malattie genetiche del metabolismo siano malattie rare, peculiari dell’età pediatrica, senza segni clinici evocativi difficilmente diagnosticabili e, soprattutto, che lo sforzo diagnostico sia di scarsa utilità pratica in quanto tali malattie sono in ogni caso incurabili. Se è vero che tali malattie prevalgono nell’età infantile e che, in considerazione della diversità delle vie metaboliche interessate, la diagnosi è spesso non facilmente accessibile, è altrettanto vero che alcune malattie ritenute esclusive dell’infanzia possono esordire in età successive e che un’accurata semeiotica clinica e alcuni iniziali esami di laboratorio possono selezionare ristretti settori del metabolismo su cui concentrare gli accertamenti diagnostici appoggiandosi a centri dotati di specifiche competenze. La diagnosi, soprattutto quella precoce, è importante in primo luogo per fornire alle famiglie un corretto consiglio genetico, ma anche per ottenere le terapie disponibili. Il medico ha la responsabilità di non trascurare quanto è in suo potere per offrire al paziente le strategie terapeutiche più aggiornate e alle famiglie gli elementi per la prognosi e la prevenzione della patologia in questione. Considerata l’estensione dell’argomento, è stata scelta una classificazione utile ad un orientamento diagnostico sulla base dei dati clinici e di laboratorio da confermare con specifici accertamenti.
Le malattie metaboliche genetiche sono state arbitrariamente distinte in: – Malattie da accumulo: – Malattie del metabolismo intermedio – Disordini vari Nell’ambito dei primi due gruppi sono stati individuati sottogruppi in base alla sede subcellulare del difetto genetico (gruppo 1) o alla differente area metabolica coinvolta (gruppo 2). Il terzo gruppo raccoglie patologie che non possono afferire ai due gruppi principali. Una trattazione più esaustiva è stata dedicata alle malattie relativamente più frequenti e ad esordio anche oltre l’età infantile.
Malattie da accumulo Le malattie lisosomiali rappresentano la maggior parte delle malattie da accumulo del sistema nervoso. Le malattie da accumulo extralisosomiale comprendono malattie molto rare (xantomatosi cerebrotendinea, malattia di Lafora, malattia di Tangier) e alcuni disturbi del metabolismo dei carboidrati ad espressione prevalentemente epatica e muscolare (v. pag. 1477).
Malattie da accumulo lisosomiale Le malattie lisosomiali sono un gruppo di malattie ereditarie con una incidenza complessiva di 1:5000 nati. La distribuzione è panetnica ad eccezione di alcune malattie che sono più frequenti in selezionati gruppi etnici. I lisosomi sono strutture subcellulari costituiti di membrana che racchiude una trentina di enzimi attivi a pH acido destinati alla trasforma-
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zione delle molecole complesse in molecole semplici. L’interruzione del complesso meccanismo di degradazione dei diversi substrati risulta nell’accumulo di materiale parzialmente degradato che distende progressivamente i lisosomi con danno funzionale della cellula. Il concetto di malattia lisosomiale è tradizionalmente legato al difetto dell’attività di sintesi di enzimi lisosomiali destinati alla degradazione di differenti substrati da cui la classica suddivisione in malattie da difetto di degradazione di mucopolisaccardidi (mucopolisaccaridosi), degli sfingolipidi (sfingolipidosi), delle glicoproteine (glicoproteinosi) e di altri substrati (difetto di lipasi acida, glicogenosi II). Il progresso delle conoscenze relative alla fisiopatologia dei lisosomi ha evidenziato che l’accumulo lisosomiale può essere causato, oltrechè dal difetto degli enzimi contenuti nei lisosomi, dal difetto del trasporto a livello della membrana lisosomiale, da quello delle proteine strutturali della membrana e dal difetto in strutture subcellulari extralisosomiali. In base alla sede del difetto genetico le malattie lisosomiali possono essere classificate in malattie da difetto degli enzimi intralisosomiali (mucopolisaccaridosi, sfingolipidosi, glicoproteinosi, Glicogenosi II, difetto di lipasi acida) da difetto di trasporto a livello della membrana (malattia da accumulo di acido sialico libero, cistinosi, difetto di trasporto di cobalamina) e da difetto di proteine strutturali della membrana (malattia di Danon e Mucolipidosi IV) Le lipofuscinosi costituiscono attualmente un gruppo a parte delle malattie lisosomiali in quanto l’accumulo è causato sia da difetto di attività enzimatiche contenute nei lisosomi sia dal difetto di proteine di membrana sia da difetti ancora sconosciuti. La terminologia di “malattie prelisosomiali” è stata proposta per quelle condizioni in cui l’accumulo lisosomiale è causato da un difetto situato nel citosol, nel reticolo endoplasmatico o nell’apparato del Golgi (CDG o malattia da difetto di glicosilazione delle glicoproteine, difet-
to di glucosidasi I, mucolipidosi II e III, malattia di Niemann Pick tipo C) In linea generale i disturbi lisosomiali esordiscono in modo subacuto oltre i primi mesi di vita ed hanno un decorso lentamente progressivo. Le manifestazioni cliniche sono nella o nelle sedi di degradazione abituale del composto e sono più gravi nel periodo della vita in cui la sostanza implicata ha il più rapido turnover. L’espressione di ogni singolo difetto è variabile sia per età di presentazione e durata della malattia (variante neonatale, infantile, giovanile, adulta) sia per sintomatologia (tipo neurologico, tipo generalizzato, ecc.) in rapporto a differenti mutazioni alleliche o extralleliche. Per contro esistono situazioni in cui uno stesso fenotipo clinico corrisponde a differenti difetti enzimatici. La diagnosi clinica di una malattia lisosomiale non è quasi mai affidabile in considerazione dell’ampia eterogeneità clinica e biochimica, e il sospetto clinico, eventualmente sostenuto dai risultati delle indagini paracliniche, deve essere confermato dalla dimostrazione del difetto enzimatico e dalla presenza del rispettivo materiale non degradato. La diagnosi molecolare può integrare la diagnosi biochimica in quelle condizioni in cui è possibile una correlazione genotipo-fenotipo ai fini di una corretta prognosi, delle scelte terapeutiche e della consulenza genetica. Tutte le malattie lisosomiali possono essere diagnosticate nel primo e nel secondo trimestre di gravidanza, mentre la diagnosi della condizione di eterozigosi non è sempre completamente affidabile. I recenti successi clinici della terapia enzimatica sostitutiva nella malattia di Gaucher, hanno rinnovato l’interesse per la terapia delle malattie lisosomiali, considerate incurabili fino a non molti anni fa. Il lungo percorso di ricerca biochimica e sperimentale, culminato nella dimostrazione dell’efficacia terapeutica dell’enzima sostitutivo, ha contribuito ai progressi nell’appplicazione di altri interventi terapeutici basati sull’apporto dell’informazione mancante tramite il trapianto di cellule o tessuti o il trasferimento genico. La barriera emato-liquorale non appare più un ostacolo insormontabile alla terapia delle malattie con segni neurologici. Infatti è stato dimostrato, in corso di trapianto di midollo osseo, che i leucociti del donatore, raggiunto il tessuto nervoso per diapesi, attraverso i capillari, proliferano e liberano l’enzima carente che esplica l’attività idrolitica nelle cellule che lo hanno fagocitato. Sono inoltre disponibili strategie differenti per favorire il passaggio di macromolecole terapeutiche del plasma al tessuto nervoso. Nonostante i numerosi problemi che ancora attendono una soluzione, esistono le premesse affinché la diagnosi di un paziente con malattia lisosomiale possa essere seguita da misure terapeutiche, oltre a misure di prevenzione, come è fino ad ora avvenuto.
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Malattie da difetto di enzimi lisosomiali Mucopolisaccaridosi Sono causate dal difetto degli enzimi lisosomiali che intervengono nella degradazione dei mucopolisaccaridi o glicosaminoglicani, molecole complesse costituite da una parte proteica e una parte glucidica, ampiamente distribuite nella sostanza fondamentale del tessuto connettivo e nelle membrane cellulari. I mucopolisaccaridi più rappresentati sono dermatansolfato (DS), eparansolfato (HS) e cheratansolfato (KS). In base agli aspetti biochimici si distinguono sette tipi di mucopolisaccaridosi, le cui principali caratteristiche sono elencate nella Tab. 37.1. Non esistono sicuri dati epidemiologici; sono riferite incidenze di 1:100.000 per i tipi I e IV; di 1:60.000 per il tipo II e di 1:25.000 per il tipo III; raro è il tipo VI e rarissimo il tipo VII. Nell’ambito di ciascun tipo esiste una ampia variabilità di espressione dei sintomi, ad eccezione del tipo III in cui un fenotipo abbastanza omogeneo corrisponde a quattro differenti difetti enzimatici. Non sono al momento attuale disponibili dati per una correlazione genotipofenotipo, eccetto due mutazioni al gene dell’a-iduronidasi e delezioni al gene della iduronato solfatasi, responsabili di fenotipi gravi del tipo I e II, rispettivamente. Le manifestazioni neurologiche riconoscono differenti momenti eziopatogenetici; il progressivo deterioramento mentale è dovuto all’accumulo neuronale di macromolecole parzialmente degradate. L’ispessimento delle membrane meningee, per deposito di mucopolisaccaridi non degradati, si può esprimere con una sindrome di ipertensione endocranica per ostacolo alla circolazione liquorale oppure con una sindrome da compressione midollare, specie a livello cervicale. Le alterazioni morfologiche dei corpi vertebrali contribuiscono alla patologia da compressione midollare. I reperti neuroradiologici sono aspecifici e comprendono atrofia corticale e sottocorticale, ridotto contrasto sostanza grigia-sostanza bianca, alterazioni di segnale diffuse o lacunari della sostanza bianca, ispessimento della dura madre (Fig. 37.1). La sorveglianza neurofisiologica e neuroradiologica è molto importante per l’indicazione ad interventi ortopedici o neurochirurgici prima di un danno irreversibile. Gli aspetti clinici e radiologici suggeriscono la diagnosi di mucopolisaccaridosi, che deve essere confermata dall’aumentata escrezione urinaria di mucopolisaccaridi e dalla precisazione del difetto enzimatico. Si sottolinea che solo il tipo III, a causa delle modeste alterazioni dismorfiche e ossee, può sfuggire al sospetto diagnostico; pazienti con il tipo III B sono stati diagnosticati in età adulta nel corso di accertamenti in istituti per ritardati mentali.
I risultati del trapianto di midollo osseo nei diversi tipi sono discordanti, in rapporto verosimilmente all’età in cui è stato eseguito, al tipo di donatore, ai criteri clinici e biochimici impiegati per la valutazione e, soprattutto, all’eterogeneità genetica. La possibilità di prevedere, in base al genotipo, se si tratta di una forma lieve o grave, appare indispensabile per la decisione del trapianto e per la valutazione dei suoi effetti. In linea generale i risultati sono riferiti soddisfacenti nel tipo I trapiantato prima del secondo anno di vita, negativi nel tipo II, variabili nel tipo III e assenti, sulle manifestazioni ossee, nei tipi IV e VI.
Sfingolipidosi Sono affezioni dovute al difetto di degradazione degli sfingolipidi, lipidi complessi ampiamente distribuiti nell’organismo, che consiste nel distacco graduale, ad opera di specifiche idrolasi lisosomiali, di singoli componenti fino al ceramide, che viene scisso in sfingosina ed acido grasso. I fenotipi clinici conseguenti ai singoli difetti enzimatici riflettono la distribuzione nei diversi organi e tessuti degli sfingolipidi non degradati. Si possono distingure due gruppi: forme con sintomi riferibili ad accumulo nella sostanza bianca (per difetto di enzimi deputati al catabolismo di componenti mielinici) e forme con interessamento neuronale e extranervoso, per difetto di enzimi che degradano sfingolipidi a più ampia distribuzione.
Leucodistrofia metacromatica (sulfatidosi). – È una malattia ad ereditarietà autosomica recessiva causata dal difetto dell’enzima cerebrosidesulfatasi, più comunemente chiamato arilsulfatasi A (ASA), in riferimento al substrato artificiale usato per il dosaggio, deputato alla degradazione del cerebroside solfato, glicolipide presente nelle guaine mieliniche e, in scarsa quantità, in strutture extranervose (rene, colecisti, fegato, pancreas, surrene). L’accumulo del sulfatide non degradato, colorabile metacromaticamente con alcuni coloranti, interessa pertanto pressoché esclusivamente il sistema nervoso. La demielinizzazione è dovuta al deposito del sulfatide nei lisosomi delle cellule di Schwann e negli oligodendrociti, e colpisce preferibilmente i tratti lunghi. Il danno neuronale è successivo e secondario al rallentamento della velocità di conduzione; l’accumulo nei tessuti
Hurler Scheie
Hunter
Sanfilippo
Morquio
MaroteauxLamy
Sly
I
II
III
IV
VI
VII
α-iduronidasi
Difetto enzimatico
AR
AR
AR
AR
0-4 a
1-3 a
2-6 a
2-6 a
1-3 a
0-6 a
Esordio
DS= dermatansolfato
β-glicuronidasi
N-acetilgalattosamina-4 solfatasi (Arilsulfatasi B)
A: N-acetilgalattosamina 6-solfatasi B: β-galattosidasi
A: eparan N-solfatasi B: α-N-acetilglucosaminidasi C: acetil CoA: αglucosaminide acetil transferasi D: N-acetil-glucosamina-6-solfatasi
X-legata iduronato solaftasi
AR
Ereditarietà
MPS= mucopolisaccaridi
Eponimo
Tipo
Tabella 37.1 - Classificazione delle mucopolisaccaridosi.
DS
DS
KS
HS
DS HS
DS HS
MPS urine
+→+++
++→++++
+
++
+++
++→++++
Dismorfismo
HS= eparansolfato
10-20 a adulto
adulto
10-20 a adulto
10-20 a adulto
<10 a adulto
Exitus
KS= cheratansolfato
+→+++
++++
++→++++
+→++
++→+++
++→++++
Alterazioni ossee e viscerali
(+)
+
+
–
(+)
+
Opacità corneale
AR= autosomica recessiva
difetto mentale: ++→+++
difetto mentale o→+ s. tunnel carpale (idrocefalia), mielopatia
mielopatia
difetto mentale: ++++ aggressività, ipercinesia, convulsioni
difetto mentale: o→++++ (convulsioni, idrocefalia, s. tunnel carpale)
difetto mentale: +→++++ s. tunnel carpale (convulsioni, idrocefalia), mielopatia
Aspetti neurologici
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Forma tardo-infantile. – È la più frequente con una incidenza di 1:40.000 nati circa. Raramente preceduta da ritardo dello sviluppo psicomotorio, esordisce alla fine del primo o nel corso del secondo anno di vita con difficoltà alla deambulazione, cui seguono perdita della stazione eretta autonoma, disartria e, talvolta, strabismo e nistagmo. La progressione è in genere abbastanza rapida ed entro 12-24 mesi il bambino non mantiene più la posizione seduta, presenta tremore del tronco e delle mani, spesso dolore alla movimentazione passiva degli arti, difficoltà all’alimentazione e deterioramento mentale. Durante il decorso che può prolungarsi per alcuni anni, il bambino dimostra un’iniziale tetraparesi ipotonica con riflessi profondi diminuiti o assenti, e gradualmente una tetraparesi spastica con segni piramidali; macrocrania, cecità, disturbi della deglutizione e del respiro, crisi toniche spontanee o provocate, crisi tonico-cloniche generalizzate; atrofia ottica. Le funzioni mentali sono compromesse più tardivamente, comunque sono gravi, con completa perdita di contatto con l’ambiente.
Fig. 37.1 - Mucopolisaccaridosi forma VI (m. di MaroteauxLami), femmina aa 7. (A, RM T1 sezione sagittale); (B, RM T2 sezione assiale). Tipiche piccole aree ipointense nella parte anteriore del corpo calloso, da riferire verosimilmente a dilatazione di spazi perivascolari contenenti mucopolisaccaridi. In B, dilatazione del sistema ventricolare, con spiccata alterazione di segnale della sostanza bianca. (Osservazione Dr. Tortori Donati, Ist. G. Gaslini, Genova).
extranervosi sembra invece riflettere un difetto del turnover locale del solfatide presente nelle membrane plasmatiche. La tolleranza del rene e della colecisti per l’accumulo è verosimilmente legata al fatto che, trattandosi di cellule con funzione escretoria, riversano il solfatide non degradato nelle urine e nella bile. In rapporto all’età di esordio e alla progressione dei sintomi si distinguono tre forme.
Forma giovanile. – È meno comune (1:150.000 nati circa), inizia tra 4 e 12 anni. In genere nelle forme ad inizio tra 4 e 6 anni i sintomi motori (disturbi della deambulazione, tremori) precedono il deterioramento mentale, mentre nelle forme ad inizio successivo avviene il contrario e il disturbo del rendimento scolastico è il sintomo di allarme. Frequenti sono le crisi convulsive. Il decorso ricalca quello della forma tardoinfantile, ma è più lento, con durata anche fino ai 20 anni. Forma dell’adulto. – È considerata molto rara, ma una estensione dell’analisi enzimatica alla popolazione adulta con patologia neurodegenerativa è senz’altro destinata ad aumentare il numero dei casi. La malattia esordisce, in genere, tra 18 e 30 anni, con difficoltà scolastiche o professionali
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e, spesso, disturbi del comportamento (turbe della sfera affettiva, della personalità, della memoria, ecc.). I disturbi della coordinazione dei movimenti e le crisi convulsive, raramente sintomi iniziali, compaiono dopo un lungo periodo di latenza (anche 20 anni); segni piramidali e cerebellari sono variamente presenti, sempre associati a segni di neuropatia periferica. In tutte le forme, le neuroimmagini sono indicative di alterazioni della sostanza bianca periventricolare di intensità correlabile alla durata della malattia (Fig. 37.2). La riduzione della velocità di conduzione motoria testimonia la neuropatia periferica; frequente l’iperproteinorrachia. La variabilità fenotipica della sulfatidosi è stata correlata alla differente percentuale di attività enzimatica residua nelle tre forme. Questa interpretazione ha ricevuto conferma dall’analisi molecolare: in circa la metà dei pazienti sono stati identificati due alleli chiamati A e I; l’allele A codifica per una ASA attiva ma instabile e l’allele I, invece, non dà origine a proteina enzimatica. La correlazione genotipo-fenotipo ha dimostrato che i pazienti omozigoti per l’allele I, che non sono in grado di sintetizzare
Fig. 37.2 - Leucodistrofia metacromatica, maschio aa 10, forma infantile tardiva. (A, B: RM T2 sezioni assiali). Diffusa tenue aspecifica iperintensità in T2 della sostanza bianca, secondaria a demielinizzazione. (Osservazione Dr. Tortori Donati, Ist. G. Gaslini, Genova).
l’ASA, corrispondono alla forma tardo-infantile, mentre i pazienti omozigoti per l’allele A, che producono un enzima instabile, corrispondono alla forma dell’adulto. I casi con la forma giovanile sono spesso composti genetici con entrambe le mutazioni. L’identificazione delle mutazioni ancora sconosciute dovrebbe completare le conoscenze della base molecolare dell’eterogeneità clinica. La diagnosi è affidata alla dimostrazione del difetto dell’ASA nelle cellule (leucociti o fibroblasti) e dell’eccesso di sulfatide nelle urine. La documentazione dell’accumulo del sulfatide non degradato è indispensabile per escludere la condizione di bassa attività dell’ASA in soggetti fenotipicamente normali, chiamata «pseudodeficienza». Si tratta di una condizione, presente circa nel 2% della popolazione, dovuta ad una particolare mutazione (allele pd) al locus dell’ASA, che codifica per una ridotta attività enzimatica, sufficiente, tuttavia, per un normale catabolismo in vivo del sulfatide. Poichè il dosaggio enzimatico usuale con il substrato artificiale non consente la distinzione rispetto all’ASA residua nei soggetti affetti, la pseudodeficienza deve sempre essere tenuta presente per non incorrere in errori diagnostici,
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soprattutto nella diagnosi prenatale. Il riscontro della pseudodeficienza in soggetti con manifestazioni neurologiche differenti dalla leucodistrofia metacromatica e, soprattutto, in pazienti psichiatrici, ha posto il problema della relazione tra bassa attività di ASA e danno neurologico. Se è possibile una associazione casuale, non si può tuttavia escludere un suo ruolo nel determinare o favorire i sintomi neuropsichiatrici. È infatti possibile che l’attività enzimatica residua possa raggiungere una soglia critica per l’idrolisi del sulfatide e possa quindi aver implicazioni, soprattutto per le forme ad esordio tardivo. L’esperienza del trapianto di midollo ha dimostrato modificazioni cliniche ed elettrofisiologiche a distanza di 8-12 mesi dal trapianto. Tale latenza corrisponde al tempo necessario affinchè i monociti del donatore, penetrati per diapedesi nel tessuto nervoso del ricevente, si moltiplichino in modo da liberare una quantità di ASA sufficiente per un effetto metabolico. Sono pertanto candidati al trapianto di midollo i pazienti pre o pauci sintomatici e le forme a decorso più lento. Mucosulfatidosi.- È molto rara, caratterizzata dall’assenza di differenti solfatasi. Il difetto dell’arilsulfatasi A e delle solfatasi che intervengono nella degradazione di mucopolisaccaridi risulta nell’accumulo di solfatidi e mucopolisaccaridi. Il fenotipo clinico associa i sintomi della leucodistrofia metacromatica e delle mucopolisaccaridosi. Frequente l’ittiosi. L’ereditarietà è autosomica recessiva. Leucodistrofia a cellule globoidi (malattia di Krabbe). – È un raro (1:100-200.000 nati) disturbo del metabolismo della mielina ad ereditarietà autosomica recessiva causato dal difetto dell’enzima galattosilceramidasi (galattocerebroside-β-galattosidasi), che idrolizza il galattosilceramide a ceramide e galattosio. Le manifestazioni sono limitate al sistema nervoso, perchè il galattosilceramide è assente in altri
distretti, con l’eccezione di una piccola quantità nel rene. Le peculiarità chimiche e metaboliche del galattosilceramide sono critiche per la comprensione degli aspetti morfologici e biochimici della malattia. Il galattosilceramide è sintetizzato negli oligodendrociti e nelle cellule di Schwann, è localizzato pressochè esclusivamente nella mielina e sperimentalmente dà origine a grosse cellule chiamate «cellule globoidi». È pertanto virtualmente assente prima della nascita, aumenta parallelamente alla mielinizzazione ed è scarso nelle situazioni patologiche di grave perdita mielinica. Le cellule globoidi, la cui comparsa è stimolata dal galattosilceramide non degradato che viene da esse fagocitato, man mano che procede la mielinizzazione, sostituiscono le cellule dell’olidendroglia e, quando sono completamente infiltrate, il processo di mielinizzazione si arresta e si assiste alla distruzione della mielina formata. L’accumulo del substrato non degradato nella malattia di Krabbe, scarso in contrasto con i classici canoni delle malattie da accumulo lisosomiale, è limitato dalla quantità di mielina sintetizzata prima della distruzione delle cellule oligodendrogliali da parte delle cellule globoidi. Clinicamente si distinguono una forma infantile e una forma ad esordio tardivo. Forma infantile. – Esordisce tra 3 e 6 mesi, talvolta anche prima, con irritabilità e crisi di pianto inconsolabile. Il bambino ha le mani a pugnetto, non segue con lo sguardo, manifesta ipertonia spontanea o provocata, frequenti convulsioni, microcefalia. Dopo un periodo di fluttuazione del tono muscolare si instaura una tetraparesi spastica con segni piramidali, che si attenua nello stadio terminale, in cui i riflessi tendinei sono ridotti o assenti. Il decorso è rapido con exitus entro il secondo anno. Forma ad esordio tardivo. – È rara e costituisce circa il 15% di tutti i casi. L’esordio è tra 1
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e 10 anni e nella maggior parte dei casi entro il quinto anno. Molto rari sono i casi ad esordio nella seconda-terza decade, indicati anche come malattia di Krabbe dell’adulto. Il quadro clinico è meno omogeneo di quello della forma infantile e può variare nell’ambito della stessa famiglia. I segni neurologici più comuni sono una paraplegia spastica, atrofia ottica e deterioramento mentale; rara l’atassia cerebellare e le distonie, mentre la neuropatia periferica non è costante. I disturbi mentali compaiono ad intervalli variabili dall’inizio, ed il decorso è rapido nei casi che esordiscono prima del terzo anno e prolungato, anche molti anni, nei casi ad esordio successivo. Le neuroimmagini differiscono nelle due forme cliniche: nella forma infantile la TC evidenzia atrofia generalizzata e aree simmetriche iperdense della sostanza grigia dei nuclei basali e del tronco, e nella sostanza bianca periventricolare e capsulare. La RM dimostra nelle stesse aree un basso segnale in T1, e ampie aree
iperintense nel centro semiovale in T2 (Fig. 37.3). Nella forma ad esordio tardivo predominano accentuazione dei solchi corticali e ipodensità simmetriche della sostanza bianca periventricolare a distribuzione prevalentemente parieto-occipitale, come nella adrenoleucodistrofia. La malattia può presentare remissioni temporanee o indotte dal trattamento cortisonico. L’eventuale efficacia del trapianto di midollo è limitata alle forme ad esordio tardivo in fase pre o paucisintomatica. Gangliosidosi GM1 – Il difetto della β-galattosidasi, enzima deputato al distacco del galattosio dal ganglioside GM1 e da glicoproteine e mucopolisaccaridi contenenti galattosio in posizione terminale, è responsabile dell’accumulo tessutale di questi substrati. I differenti fenotipi clinici, ereditati secondo modalità autosomica recessiva, che spaziano dalla più frequente forma grave ad esordio infantile o addirittura neonatale alla forma rara dell’adulto, sono riconducibili a differenti mutazioni al locus della β-galattosidasi, che risultano in una attività residua dell’enzima mutante maggiore per un substrato piuttosto che per un altro. In attesa che gli stu-
Fig. 37.3 - M. di Krabbe (leucodistrofia a cellule globoidi), femmina 2, 6 aa. (A, TC sezione assiale senza contrasto); (B, RM T2 sezione assiale); (C, RM T2 sezione coronale). TC: Aree tenuamente iperdense a livello della sostanza bianca da riferire a depositi calcifici e all’alta cellularità secondaria alla presenza di astrociti reattivi (frecce). RM: diffusa tenue iperintensità in T2 della sostanza bianca, con tipica perdita di segnale in T2 delle aree iperdense in TC (frecce B,C). Le fibre ad “U” sono risparmiate. (Osservazione Dr. Tortori Donati, Ist. G. Gaslini, Genova).
Malattie metaboliche genetiche 1581 di molecolari risultino conclusivi per la correlazione genotipo-fenotipo rimane valida la classica distinzione cronologica in forma infantile, giovanile e dell’adulto. Forma infantile (gangliosidosi generalizzata, lipidosi neuroviscerale familiare, malattia di Norman-Landing). – Si manifesta talvolta alla nascita con il quadro dell’idrope fetale, o con edemi limitati agli arti inferiori e, più solitamente, nel corso dei primi mesi, con ritardo o assenza delle acquisizioni psicomotorie. I pazienti presentano lineamenti grossolani, visceromegalia, disostosi, macchia maculare rosso ciliegia, ipotonia e, oltre il primo anno, quadriplegia, cecità e, talvolta, convulsioni. L’exitus avviene generalmente entro il secondo anno. Forma giovanile (tipo II). – Differisce dalla precedente per l’esordio tra 6 e 18 mesi, l’assenza di visceromegalia e le scarse alterazioni scheletriche. Il quadro clinico è quello di un deterioramento neurologico a lenta progressione, fino alla cecità e rigidità decerebrata; frequenti sono le crisi convulsive. La macchia maculare rosso ciliegia e la risposta esagerata ai rumori possono comparire nell’ultimo stadio della malattia, che si conclude entro la prima decade. Forma dell’adulto (tipo III). - Si manifesta nell’adolescenza o in età adulta con movimenti involontari patologici o con disturbi della marcia e disartria. La disostosi è modesta, manca la visceromegalia e le funzioni mentali sono quasi sempre preservate. I segni neurologici sono quelli di una sindrome distonica ipercinetica o di una sindrome spino-cerebellare. Gangliosidosi GM2. -Si tratta di un gruppo di malattie ad ereditarieta’ autosomica recessiva, caratterizzate dal difetto di degradazione del ganglioside GM2 che si accumula, pressochè esclusivamente, nei neuroni sotto forma di inclusioni citoplasmatiche lamellari denominate «corpi zebrati». La degradazione del ganglioside GM2 avviene ad opera di un enzima lisosomiale, b-esosaminidasi che distacca la N-acetilgalattosamina terminale in presenza di un attivatore proteico necessario per l’interazione enzima-substrato. La b-esosaminidasi consta di due isoenzimi, A e B, derivati dalla aggregazione di 2 differenti subunità proteiche (a e b). L’isoenzima A consta di 2 subunità a e 2 b e l’isoenzima B di 4 subunità b. Poichè le tre differenti proteine (subunità a, subunità b, attivatore proteico) partecipanti alla degradazione del ganglioside GM2 sono codificate da geni differenti, ne conseguono tre forme di gangliosidosi GM2, geneticamente distinte. Le mutazioni a livello del locus a risultano in difetto dell’isoenzima A (gangliosidosi GM2 variante B), quelle a livello del locus b in difetto di entrambi gli isoenzimi A
e B (gangliosidosi GM2 variante O), e quelle a livello del locus dell’attivatore proteico in difetto di degradazione con normale attività degli isoenzimi A eB (gangliosidosi GM2 variante AB). Lo spettro delle manifestazioni cliniche è ampio e complesso, spaziando da quadri neurologici gravi, a decorso rapidamente mortale, a soggetti fenotipicamente normali. Metodi sofisticati e sensibili di valutazione della degradazione del ganglioside GM2 nella coltura dei fibroblasti, hanno documentato una sufficiente correlazione tra entità della attività enzimatica residua ed aspetti clinici. Poichè una attività della β-esosaminidasi pari al 10-20% della media dei controlli sembra ancora compatibile con una normale capacità di degradazione del substrato, piccole variazioni dell’attività enzimatica appaiono critiche per il tempo di comparsa e la gravità della malattia. Lo studio delle mutazioni a livello del gene codificante per la subunità a della β-esosamindasi sembra confermare questa interpretazione teorica. Mutazioni che producono mRNA altamente instabile o non lo producono affatto causano le forme più gravi, mentre le forme a decorso tardivo e decorso prolungato sono dovute a mutazioni puntiformi, che generano mRNA stabile e βesosaminidasi mutante. In attesa di definitive correlazioni genotipo-fenotipo per una classificazione molecolare, la classificazione biochimica ha il vantaggio, rispetto ai termini tradizionali di malattia di Tay-Sachs e di malattia di Sandhoff, di evitare equivoci diagnostici, facendo riferimento allo specifico difetto enzimatico.
Gangliosidosi GM2 variante B e variante B1 È assente o quasi la β-esosaminidasi A. Si distinguono tre fenotipi: il fenotipo infantile, corrispondente alla descrizione originaria della malattia di Tay-Sachs, è frequente tra gli Ebrei Ashkenazi (1:2.000), e raro nelle altre etnie. Nei primi 2-3 mesi di vita si evidenzia una esagerata risposta ai rumori, cui seguono arresto e perdita delle acquisizioni psicomotorie: il soggetto non mantiene per lo più la stazione seduta, non manipola gli oggetti ed infine perde anche il controllo del capo ed il contatto con l’ambiente. Nel corso del secondo anno compare macrocefalia, si evidenzia il difetto visivo e si ha un progressivo peggioramento delle condizioni generali e neurologiche, per cui all’ipotonia iniziale succede una tetraparesi spastica. Caratteristica e precoce è la macchia rosso ciliegia della macula che risalta con un colorito rossastro nella zona di cellule gangliari retiniche di colore biancastro per l’accumulo lipidico. L’exitus avviene entro il 3°-4° anno. Il fenotipo giovanile è caratterizzato dalla comparsa, oltre il 3° anno, di disturbi della marcia e disartria; raro è un esordio con disturbi del comportamento. Durante il lento deterioramento motorio e mentale sono frequenti i
1582 Malattie del sistema nervoso movimenti involontari e le convulsioni. I segni piramidali e cerebellari si possono variamente associare a movimenti coreoatetosici, distonie e discinesie e nello stadio terminale si rileva una tetraparesi spastica. L’exitus avviene nella seconda decade. Nella categoria della variante B giovanile sono stati individuati pazienti con β-esosaminidasi A attiva verso l’usuale substrato artificiale fluorescente ed inattiva verso il substrato naturale. Questa variante, frequente in una limitata regione del Nord del Portogallo, viene indicata come variante B1. Il fenotipo cronico dell’adulto è molto eterogeneo e variabile anche in una stessa famiglia. I sintomi sono spesso sfumati fino all’adolescenza e si evidenziano alla fine della seconda o nella terza decade. Prevalgono disturbi della marcia, disartria, piede cavo, atrofia muscolare, fascicolazioni e fibrillazioni; meno comuni i movimenti involontari patologici, la demenza, le turbe del comportamento e le alterazioni neurovegetative, variamente associati tra loro. I segni neurologici sono in funzione della variabilità delle lesioni nei cordoni laterali, nelle cellule delle corna anteriori e nei neuroni della corteccia e dei gangli basali. La TC e la RM evidenziano un’atrofia cerebellare.
Gangliosidosi GM2 variante 0 (malattia di Sandhoff) È molto più rara della variante B, ed è caratterizzata dal difetto di entrambi gli isoenzimi A e B della βesosaminidasi. Si distinguono un fenotipo infantile, sovrapponibile a quello della classica malattia di Tay-Sachs salvo la predilezione etnica, la lieve visceromegalia e la modesta disostosi, un fenotipo giovanile e un fenotipo dell’adulto sovrapponibili a quelli descritti a proposito della variante B. Il fenotipo dei rarissimi casi di Gangliosidosi GM2, variante AB, corrisponde a quello della malattia di TaySachs. La diagnosi enzimatica della gangliosidosi GM2 implica sempre una stretta correlazione tra il risultato dell’analisi biochimica ed il fenotipo clinico. Una normale attività enzimatica, determinata con gli usuali substrati artificiali, in presenza di un fenotipo suggestivo, non esclude la malattia perchè si può essere in presenza della variante B1, che può essere diagnosticata con un substrato artificiale di uso non corrente, oppure di un deficit dell’attivatore, che può essere documentato tramite il catabolismo del ganglioside GM2 nella coltura di fibroblasti. Per contro, il difetto dell’isoenzima A o di entrambi gli isoenzimi A e B non è indicativo di malattia, in assenza di elementi clinici o paraclinici, perchè sono noti soggetti fenotipicamente normali portatori di questo difetto. Il dosaggio enzimatico su plasma consente l’individuazione degli eterozigoti ed è stato impiegato per valutazione di popolazione. Durante la gravidanza esiste una fisiologica riduzione della β-esosaminidasi A su siero.
Malattia di Niemann-Pick. A e B. La malattia di Niemann-Pick è un disordine del metabolismo lipidico a trasmissione autosomica recessiva causato dal difetto della sfingomielinasi. Il difetto enzimatico si esprime in una forma con interessamento viscerale e neurologico (tipo A) e in una forma solo viscerale (tipo B). Il tipo A, a prevalenza tra gli Ebrei Ashkenazi, esordisce nei primi mesi di vita con epatosplenomegalia, difetto dello sviluppio fisico e psicomotorio, infiltrazione polmonare, frequente macchia rosso ciliegia al fondo oculare ed exitus entro i primi 2-3 anni. Il tipo B, panetnico, comporta epatosplenomegalia, eventuali rallentamenti della crescita e non influenza la durata della vita. Sono noti fenotipi intermedi tra il tipo A e il tipo B. La presenza nel midollo osseo di tipiche cellule schiumose moriformi definite “a nido d’ape”, è il marker morfologico della malattia che deve essere confermata dal dosaggio enzimatico. Malattia di Gaucher. È la più frequente tra le sfingolipidosi ed è dovuta al difetto della β-glucosidasi che scinde il glucosilceramide, liberatosi nel corso del fisiologico turnover cellulare, in glucosio e ceramide. Il glucosilceramide non degradato si accumula nelle cellule del sistema reticolo endoteliale, conferendo al citoplasma un aspetto a «carta o seta stropicciata». Le cosiddette «cellule di Gaucher» sono suggestive, ma non specifiche della malattia perchè possono essere presenti anche in alcuni disturbi ematologici. La classificazione fenotipica riconosce tre gruppi ad ereditarietà autosomica recessiva. Il tipo 1 o dell’adulto o cronico è il più frequente (1:40.000-60.000) e prevale tra gli Ebrei Ashkenazi (1:350-450 nati). I sintomi essenziali sono visceromegalia, ipersplenismo, fratture ossee. Esistono rare segnalazioni di adulti con sintomatologia parkinsoniana. I tipi 2 e 3 associano interessamento neurologico differente per età di comparsa e manifestazioni. Il tipo 2 infantile o acuto, molto raro e panetnico, esordisce nei primi mesi di vita con disfagia, indifferenza all’ambiente, ipertonia piramidale e successivamente compaiono spasmi facciali, del collo e del tronco, strabismo convergente, più rare le convulsioni. La malattia termina entro il secondo anno di vita per crisi di apnea o broncopolmonite da aspirazione e nello stadio finale si osserva un quadro di rigidità decerebrata. Nel tipo 3 giovanile o subacuto, più frequente del tipo 2 soprattutto in una regione della Svezia (Gaucher tipo Norbottniano), l’interessamento neurologico si evidenzia al termine della prima decade o oltre, in genere con disturbi della motilità oculare e crisi convulsive. Nel periodo presintomatico si riscontrano alterazioni EEG e dei potenziali evocati, specie uditivi.
Malattie metaboliche genetiche 1583 I sintomi clinici sono rappresentati da: alterazioni della motilità oculare laterale, convulsioni, atassia cerebellare, sintomi extrapiramidali e deterioramento mentale. Sono stati segnalati casi con epilessia mioclonica, deterioramento mentale e modesta splenomegalia. L’eterogeneità clinica corrisponde ad una estesa eterogeneità molecolare. Sono state individuate oltre 100 mutazioni responsabili del difetto della β-glucosidasi, alcune delle quali frequenti, altre rare o addirittura uniche. Per alcune è stata dimostrata una sicura correlazione con il fenotipo clinico. L’analisi del genotipo ha implicazioni per la prognosi, la terapia e per la consulenza genetica. Il trattamento enzimatico sostitutivo è risultato efficace nel tipo 1, inutile nel tipo 2 ed è in attesa di verifica nel tipo 3 (Mc Cabe et al., 1996).
Malattia di Fabry – Il difetto dell’isoenzima A dell’α-galattosidasi (ceramide triesosidasi) trasmesso con modalità legata alla X, risulta nell’accumulo di glicosfingolipidi neutri, fra cui prevale il galattosil-glucosil-ceramide o triesoside, nei lisosomi delle cellule dei vasi sanguigni, della muscolatura liscia e striata, del sistema reticoloendoteliale, della cornea e del sistema nervoso autonomo. La malattia si manifesta nella tarda infanzia o nell’adolescenza con piccole lesioni angiomatose simmetriche a livello dello scroto e dei glutei e crisi dolorose agli arti o all’addome, talvolta con febbre. L’angiocheratoma si estende progressivamente a tutta la superficie cutanea, risparmiando il viso, e si associa a disturbi oculari, cardiaci, renali. I segni neurologici sono costituiti da segni focali conseguenti ad accidenti cerebrovascolari ischemici e da neuropatia periferica. L’exitus avviene per una insufficienza renale o accidenti vascolari. Le femmine portatrici possono essere asintomatiche oppure avere in modo più lieve gli stessi sintomi dei maschi affetti. Il sintomo più frequente è la distrofia corneale tipica, rilevabile solo all’esame con lampada a fessura, denominata «cornea verticillata». Il trattamento cronico con difenildantoina o carbamazepina sembra efficace nel prevenire ed alleviare le crisi dolorose, che non rispondono agli analgesici convenzionali.
La terapia enzimatica sostitutiva ha determinato la riduzione dell’accumulo tessutale e della frequenza delle crisi dolorose (Brady e Schiffmann, 2000). Lipogranulomatosi di Farber. - È una malattia molto rara ad ereditarietà autosomica recessiva, dovuta al difetto della ceramidasi acida che scinde il ceramide in sfingosina ed acido grasso. La forma classica della malattia è così tipica da consentire la diagnosi a prima vista: i pazienti presentano nei primi mesi di vita tumefazioni articolari dolorose, noduli sottocutanei in corrispondenza delle articolazioni colpite e delle parti del corpo sottoposte a pressione, pianto rauco, difficoltà respiratorie e all’alimentazione, scarsa crescita e febbre. L’interessamento neurologico prevale a livello del nervo periferico e del muscolo, e il ritardo psicomotorio è frequente. Possono essere presenti opacità corneale o lenticolare, macchia rosso ciliegia maculare meno tipica di quella della malattia di Tay-Sachs. L’exitus è entro i primi anni di vita. Le varianti includono forme con deterioramento mentale e convulsioni ed exitus entro i primi anni e forme lievi con sopravvivenza fino alla seconda-terza decade. Il coinvolgimento cutaneo della malattia è spiegato dall’elevato contenuto di ceramide nello strato corneo della cute, ma non esistono spiegazioni per la variabilità del coinvolgimento dei tessuti e dell’espressione clinica. Poichè il dosaggio della ceramidasi è limitato a pochi laboratori, probabilmente alcuni casi, soprattutto quelli con scarsi noduli sottocutanei, sfuggono alla diagnosi.
Glicoproteinosi La degradazione delle glicoproteine, costituenti ubiquitari delle cellule, delle strutture extracellulari e dei liquidi biologici, avviene ad opera di una endoglicosidasi che idrolizza il legame tra parte proteica e parte glucidica e di esoglicosidasi che rimuovono in modo sequenziale i carboidrati in posizione non riducente della catena oligosaccaridica. Sono noti difetti genetici delle singole esoglicosidasi che conducono all’accumulo tessutale e all’aumentata escrezione urinaria di oligosaccaridi specifici per ogni singolo difetto enzimatico, in quanto contengono lo zucchero che l’enzima carente avrebbe dovuto liberare. Per tale motivo i difetti di degradazione delle glicoproteine sono spesso indicati come «oligosaccaridosi» termine improprio poichè una oligosaccariduria patologica è presente anche in altre malattie lisosomiali (gangliosidosi GM1, mucolipidosi II e III, glicogenosi II, gangliosidosi GM2 variante 0). I difetti di degradazione delle glicoproteine, trasmessi con modalità autosomica recessiva, sono meno fre-
1584 Malattie del sistema nervoso quenti delle sfingolipidosi e delle mucopolisaccaridosi con cui hanno aspetti clinici in comune (Tabella 37.2). La aspartiglicosaminuria è frequente in Finlandia e in una zona della Norvegia sede di immigrazione finlandese, e molti pazienti con fucosidosi sono di origine italiana. Il sospetto clinico, sostenuto dalla assenza di aumentata escrezione urinaria di mucopolisaccaridi e dalla presenza di oligosaccariduria patologica, deve trovare conferma nel dosaggio enzimatico specifico.
Malattie da difetto di degradazione di altri substrati Difetto di lipasi acida
nonostante il ritardo prosegue lentamente e i pazienti possono pronunciare parole e frasi con disartria (Robinson et al., 1997) Le neuroimmagini dimostrano un difetto della mielinizzazione con particolare assotigliamento del corpo calloso come nei pazienti finlandesi (Sonninen et al., 1999). La diagnosi richiede la documentazione dell’accumulo di acido sialico libero nella coltura dei fibroblasti e la sua aumentata escrezione nelle urine. Il gene della malattia mappato in 6q14-15, codifica una proteina chiamata sialina. Lo studio mutazionale dei pazienti ha evidenziato un’ unica mutazione nei pazienti finlandesi probabilmente per un difetto fondatore, e differenti mutazioni nei pazienti con ISSD (Mancini et al., 2000).
Si esprime in due disordini allelici ad ereditarietà autosomica recessiva: la malattia di Wolman e la malattia da accumulo degli esteri del colesterolo (CESD), in cui i sintomi neurologici sono assenti o quasi. La malattia di Wolman è caratterizzata precocemente da epatosplenomegalia, diarrea, vomito, ittero; il sintomo patognomonico è la calcificazione delle ghiandole surrenali. L’exitus è entro il primo anno. La CESD è una condizione più benigna, caratterizzata da epatosplenomegalia, ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia e arteriosclerosi precoce. Esistono osservazioni di pazienti con fenotipi intermedi tra m. di Wolman e CESD.
Difetto del trasporto della cobalamina.
Malattie da difetto di trasporto a livello della membrana
Cistinosi. – Il deposito intralisosomiale è dovuto al difetto di un vettore specifico per il trasporto della cistina attraverso la membrana dei lisosomi. La sopravvivenza di pazienti, grazie alle misure di controllo dell’insufficienza renale, ha permesso di evidenziare nel decorso sintomi neurologici: insufficienza mentale e spasticità. La neuroradiologia dimostra atrofia cerebrale e calcificazioni a livello della capsula interna e della sostanza bianca periventricolare.
Malattia da accumulo di acido sialico libero (malattia di Salla) La malattia, ad ereditarietà autosomica recessiva, è caratterizzata dall’accumulo lisosomiale di acido sialico libero (non legato alle macromolecole) conseguente al difetto di un carrier specifico per il trasporto a livello della membrana lisosomiale. La malattia descritta in soggetti finlandesi e chiamata “Salla disease” in riferimento all’area geografica di origine dei primi pazienti, è stata successivamente riportata in rari casi di diversa nazionalità con la denominazione di Malattia da accumulo di acido sialico libero (ISSD). Sono noti due fenotipi di cui uno ad esordio neonatale con idrope feto-placentare ed exitus nei primi mesi di vita (Berra et al 1995) ed uno ad esordio nel primo anno. I pazienti presentano, come quelli finlandesi, ritardo dello sviluppo psicomotorio, frequente strabismo divergente, nistagmo e atassia che scompaiono verso il quinto anno sostituiti da spasticità. Lo sviluppo cognitivo,
Il difetto del passaggio della cobalamina dal lisosoma al citoplasma limita la disponibilità della vitamina per la sintesi dei coenzimi di attività enzimatiche implicate nel metabolismo dell’omocistina e dell’acido metilmalonico. L’esordio è neonatale con stomatite, difficoltà alla suzione, difetto di crescita, convulsioni, ritardo dello sviluppo psicomotorio. La macrocitosi e il modesto aumento di omocistinemia e di metilmalonicoacidemia sono evocativi della diagnosi che deve essere confermata dagli studi sulla coltura dei fibroblasti cutanei. Le manifestazioni cliniche e biologiche sono sensibili al trattamento con idrossicobalamina.
Malattie da difetto di proteine della membrana Malattia di Danon Nel 1981 Danon e coll. descrissero due pazienti con cardiomiopatia, miopatia, ritardo mentale e un quadro istochimico e ultrastrutturale della biopsia muscolare suggestivo della Glicogenosi II, ma normale attività della maltasi acida. In uno dei pazienti originari e in al-
MRC= macchia rosso ciliegia
glicopeptidi
1-2 a
α-N-acetil-galatto-
M. Schindler
saminidasi
0-25 a
galatto e sialooligosaccaridi
proteina 32K-Da
8-25 a
1-6 a
Galattosialidosi
sialoligosaccaridi
manno-β-N-Acglucosamina
1-4 a
<1 a
neuraminidasi
β-mannosidasi
3-12 m
mannoligo-
<1-2 a
1-5 a
Esordio
saccaridi mannoligosaccaridi
coniugati
fucoglico-
aspartilglicosamina
Metaboliti Urine
tipo II
tipo I
Sialidosi (Mucolipidosi I)
β-mannosidosi
tipo II
α-mannosidasi
α-fucosidasi
Fucosidosi
α-mannosidosi tipo I
aspartilglicosaminidasi
Difetto genetico
Aspartilglicosaminuria
Malattia
Tabella 37.2 - Principali aspetti delle glicoproteinasi.
–
++
++
–
(+)
+
+
+→++
+
–
++
++
–
(+)
+
++
+→++
(+)
cecità, mioclono, rigidità decerebrata
regressione psicomotoria,
MRC, ritardo mentale
difetto visivo, MRC, mioclono, convulsioni, neuropatia MRC, ritardo mentale
ritardo mentale
sordità ritardo mentale, sordità
ritardo mentale grave,
ritardo mentale, convulsioni
ipertonia, ritardo mentale
Dismorfismo Alter. ossee Aspetti neurologici e viscerali
quella della distrofia neuroassonale
ultrastruttura simile a
forma infantile, giovanile, adulto
exitus 1ª-2ª decade
età adulta
età adulta (angiocheratoma)
corneale cataratta, opacità corneale, età adulta
cataratta, opacità
angiocheratoma
exitus<10 a >20 a.
opacità lente età adulta
Altri rilievi
Malattie metaboliche genetiche 1585
1586 Malattie del sistema nervoso
tri 9 casi, perlopiù giapponesi, sono state identificate mutazioni a carico di una proteina strutturale della membrana lisosomiale denominata LAMP-2 il cui gene mappa sul cromosoma X. L’ereditarietà è X-legata e le madri portatrici hanno sintomi cardiaci più lievi ad esordio tardivo (Nishino et al., 2000). Mucolipidosi IV È un’affezione molto rara prevalente tra gli Ebrei Ashkenazi, caratterizzata da opacità corneale e ritardo dello sviluppo psicomotorio nei primi mesi di vita. Il decorso è prolungato oltre la 2°-3° decade con grave ritardo mentale, tetraparesi spastica e movimenti atetosici. L’esame ultrastrutturale della cute è ritenuto patognomonico. L’identificazione del gene-malattia codificante per una proteina lisosomiale non enzimatica, chiamata mucolipina-1, ha permesso di evidenziare 2 mutazioni responsabili del 95% degli alleli malattia nella popolazione degli Ebrei Ashkenazi. La disponibilità di una diagnosi molecolare potrà facilitare la diagnosi finora affidata agli aspetti clinici e ultrastrutturali (Bargal et al., 2000). Disordini prelisosomiali Malattia di Niemann-Pick tipo C La malattia di Niemann-Pick tipo C (NP-C) è una lipidosi ad ereditarietà autosomica recessiva caratterizzata da una alterazione della esterificazione del colesterolo esogeno associata ad accumulo di colesterolo non esterificato, sfingomielina, fosfolipidi e glicolipidi nel fegato e nella milza. Nel tessuto nervoso l’accumulo è limitato ai glicolipidi. Il difetto parziale della sfingomielinasi nella coltura dei fibroblasti, che ha portato in passato ad una errata classificazione, è secondario. La malattia è panetnica con elevata incidenza in due isolati genetici, in Nuova Scozia (classificata in passato come NP-D) e nel tratto su-
periore del Riogrande. La frequenza è superiore ai tipi A e B in quanto la malattia è probabilmente sottostimata poiché il test diagnostico è disponibile in pochissimi laboratori europei. L’eterogeneità clinica ha originato la distinzione in forma infantile, tardo-infantile, giovanile e dell’adulto (Vanier et al., 1991). La forma infantile si manifesta nel corso del primo anno con ritardo e perdita delle acquisizioni psicomotorie e termina entro il quinto anno. All’ipotonia iniziale si sostituisce la spasticità con segni piramidali. La deambulazione incerta e a basi allargate è il sintomo iniziale tra 2 e 4 anni nella forma tardo infantile e tra 4 e 15 anni nella forma giovanile. Seguono regressione mentale di diverso grado, disartria, alterazione della motilità oculare coniugata, epilessia, segni cerebellari ed extrapiramidali. La forma dell’adulto, più rara delle precedenti, inizia subdolamente oltre la seconda decade con riduzione delle performances prefessionali cui seguono deterioramento mentale, deambulazione incerta e a basi allargate, incoordinazione dei movimenti, tremore intenzionale, movimenti coreici e atetosici, disartria e convulsioni. La sequenza delle alterazioni oculomotorie è rappresentata da perdita dei movimenti volontari verticali, prevalentemente verso il basso, riduzione dei movimenti orizzontali, difetto di convergenza. Talvolta la malattia può esordire con turbe della sfera intellettiva, in particolare della memoria e del pensiero, o con turbe della sfera affettiva e della personalità. I segni cerebellari sono associati a segni extrapiramidali, lievi segni piramidali e oftalmologia verticale. La visceromegalia, spesso modesta o non rilevata, gli aspetti neurologici e la presenza di tipiche cellule di Niemann-Pick “a nido d’ape” nel puntato midollare suggeriscono l’esecuzione del test diagnostico consistente nella dimostrazione nella coltura dei fibroblasti del difetto della esterificazione di LDL-colesterolo e dell’accumulo di colesterolo non esterificato. Studi di complementazione e di linkage hanno evidenziato una eterogeneità genetica distin-
Malattie metaboliche genetiche 1587
guendo due gruppi, NPC1 e NPC2. Il gene NPC1, mappato in 18q11, codifica per una proteina localizzata nella membrana dell’endosoma tardivo implicato nel trasporto delle molecole ai lisosomi (Neufeld et al., 1999). La mutazione I1061T è frequente nei pazienti di origine europea e correla con una forma ad esordio tardo infantile o giovanile offrendo la possibilità di una diagnosi degli eterozigoti e facilitando la diagnosi molecolare prenatale (Millat et al., 1999). Il gene NPC2 non è stato ancora identificato. Difetto di Glucosidasi I È un nuovo disordine della biosintesi della componente glucidica delle glicoproteine caratterizzato da epatomegalia, convulsioni, dismorfismo ed exitus precoce (De Praeter et al., 2000). Mucolipidosi II e III La mucolipidosi II, nota anche come “I cell disease” (malattia da inclusioni nel citoplasma delle cellule in coltura), si manifesta nei primi mesi di vita con dismorfismi e disostosi evocativi della mucopolisaccaridosi tipo I grave, difetto dello sviluppo psimotorio e della crescita. I pazienti solitamente non sopravvivono oltre il terzo-quarto anno di vita. La mucolipidosi III esordisce nei primi anni di vita con rallentamento della crescita e sintomi comuni alle mucopolisaccaridosi (limitazioni articolari, disostosi, lineamenti grossolani del viso, valvulopatie cardiache) con l’eccezione dello sviluppo intellettivo che è quasi sempre integro. Il decorso è lentamente peggiorativo e i pazienti raggiungono l’età adulta con un grave handicap fisico. Il difetto genetico consiste nel difetto a livello dell’ultima tappa dellla glicosilazione delle glicoproteine. Il difetto di una fosfotransferasi nell’apparato del Golgi non fornisce il marker per la destinazione intralisosomiale alle proteine enzimatiche lisosomiali neosintetizzate che,
non fosforilate, abbandonano la cellula e si riversano nello spazio extracellulare, dove rappresentano il marker diagnostico delle due malattie. La diagnosi si basa infatti sull’aumento degli enzimi lisosomiali nel plasma e la riduzione o assenza nella coltura di fibroblasti cutanei. Sindromi da difetto di glicosilazione delle glicoproteine (CDG) Nel 1980 Jaken e coll. hanno individuato in soggetti belgi e svedesi una nuova malattia caratterizzata da difetto di glicosilazione della transferrina che hanno denominato CDG (carbohydrate deficient glycoprotein syndrome). La transferrina è una proteina presente in circolo in diverse isoforme a seconda dei residui terminali degli oligosaccaridi legati all’aspargina della proteina (N-oligosaccaridi). Mentre nei controlli prevalgono le isoforme della transferrina con 3-4 residui di acido sialico (tri e tetrasiolotransferrina), nei pazienti esiste un aumento delle isoforme con 1o 2 o senza residui di acido sialico (monosialo, disialo o asialo transferrina). Il difetto di glicosilazione è risultato comune ad altre molecole proteiche e anche non proteiche (ormoni polipeptidi) ma l’isoelettrofocusing della transferrina è rimasto il marker diagnostico della malattia (Patterson 2000). Risultati falsamente positivi dell’isoelettrofocusing della transferrina sono stati segnalati in pazienti con galattosemia o intolleranza al fruttosio non in trattamento dietetico e in alcolisti. Dalla originaria descrizione di Jaken e coll. sono stati resi noti circa 300 casi appartenenti a tutte le nazionalità (Jaken, 1997). In Italia sono stati raccolti 17 casi appartenenti a 13 famiglie provenienti da diverse regioni con una prevalenza dei pazienti di origine siciliana. L’età della diagnosi era compresa tra 6 mesi e 20 anni. Al momento dello studio 9 erano bambini e 8 adolescenti o giovani adulti (Di Rocco et al., 2000). Nel corso dell’ultima decade sono stati individuati differenti difetti enzimatici responsabi-
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li del caratteristico pattern isoelettroforetico della transferrina e sono stati isolati i rispettivi geni con il risultato di una classificazione della malattia in base al compartimento subcellulare sede del difetto della glicosilazione delle proteine (Grunewalde, 2000). Il gruppo CDGI comprende 5 difetti enzimatici localizzati nel citosol e nel reticolo endoplasmatico (CDG Ia,Ib,Ic,Id,Ie). A livello dell’apparato del Golgi è stato finora individuato un solo difetto (CDG II). Un terzo gruppo CDG X è proposto per includere i casi non ancora caratterizzati dal punto di vista biochimico e molecolare. Il gruppo CDG Ia, da difetto di fosfomannomutasi 2, è il più comune (circa l’80% dei casi di CDG) e corrisponde alla descrizione originaria di Jaken e coll. che distingue 4 stadi della malattia. Nello stadio infantile, relativo ai primi 3 anni di vita, sono presenti difetto di crescita, grave ritardo dello svuluppo psicomotorio, ipotonia, strabismo convergente, eventuali episodi di insufficienza epatica o cardiaca. Spesso sono evidenti dismorfismi minori del viso, cuscinetti d’adipe sull parte esterna dei glutei e pelle a buccia d’arancia. Tra i 3 e i 10 anni (secondo stadio) predominano la retinite pigmentosa, il ritardo mentale, l’atassia cerebellare e la neuropatia periferica con atrofia agli arti inferiori ed episodi tipo ictus cerebrale. Nel terzo stadio, corrispondente all’adolescenza, i pazienti presentano difetto staturale con tronco corto ed arti lunghi, ipogonadismo ipogonadotropo, accentuazione dell’ipotonia a livello degli arti inferiori e stabilizzazione delle funzioni mentali. Nel quarto stadio, dell’età adulta, si sviluppano precocemente i segni di invecchiamento (cute raggrinzita, osteoporosi, ecc.). Sono costanti la riduzione delle velocità di conduzione motoria del nervo, le alterazioni dell’elettroretinogramma e il vario grado di atrofia del cervelletto con le neuroimmagini. La neuropatologia è caratterizzata da marcata atrofia del cervelletto per rarefazione neuronale
nella corteccia con estesa perdita delle cellule di Purkinje e dei granuli, con gliosi fibrillare. Le fibre presentano guaina mielinica alterata e cellule di Schwann multivacuolate. Nella retina esiste perdita dei fotorecettori. La diagnosi enzimatica della CDG Ia può essere confermata dalla diagnosi molecolare con la possibilità della diagnosi degli eterozigoti e di quella prenatale. I fenotipi degli altri difetti enzimatici, considerata la scarsità delle osservazioni, sono meno definiti. In linea generale è consigliabile ricorrere all’isoelettrofocusing della transferrina in presenza di differenti sintomi neurologici (ritardo dello sviluppo, ipoplasia cerebellare, neuropatia periferica, retinopatia, atrofia ottica, esotropia, episodi strokelike) associati o no a sintomi extranervosi (ipoglicemia, proteino-dispersione intestinale, ipogonadismo, vomito ciclico, fibrosi epatica, coagulopatie, alterazioni tiroidee, patologia scheletrica, dismorfismo). Ceroidolipofuscinosi Il termine ceroidolipofuscinosi indica un gruppo di encefalopatie neurodegenerative, geneticamente e clinicamente eterogenee, aventi in comune l’accumulo lisosomiale intra ed extraneuronale di pigmento autofluorescente con le caratteristiche istochimiche del ceroide e della lipofuscina. L’eponimo malattia di Batten fa riferimento al nome del neurologo che descrisse i primi pazienti. La sigla di NCL (neuronal ceroid lipofuscinosis), in uso nella letteratura internazionale, sottolinea la prevalenza dell’accumulo neuronale rispetto a quello in altri tessuti. L’accumulo nei neuroni, soprattutto corticali, ne determina la distruzione che è alla base della progressiva atrofia che correla con la durata della malattia. Le NCL sono caratterizzate da deterioramento psicomotorio, perdita dell’acuità visiva ed epilessia. In base all’età di esordio, alla progressione dei sintomi e all’aspetto intrastrutturale dell’accumulo nei neuroni, sono state suddivi-
Malattie metaboliche genetiche 1589
se in 4 tipi e alcune varianti (Tab. 37.3). L’ereditarietà è autosomica recessiva eccetto per il tipo dell’adulto che può manifestarsi anche con ereditarietà dominante. Nonostante numerose ricerche il difetto genetico è rimasto sconosciuto fino allo sviluppo
delle tecniche molecolari che, durante l’ultima decade, hanno condotto all’individuazione di 8 geni, sei dei quali mappati e cinque di questi isolati (Gardiner, 2000; Tyynela, 2000). Nei pazienti con la forma infantile sono state identificate mutazioni a carico del gene CLN1
Tabella 37.3 - Caratteristiche genetiche, morfologiche e cliniche delle ceroidolipofuscinosi (NCL). Tipo
Eponimo
Gene Locus
Prodotto genico
Accumulo
Ultrastruttura
Aspetti clinici
Infantile
Santavuori Haltia Hagberg
CLN 1 1p 32
PPT 1
SAP s
GROD
Esordio 12-20 m Exitus < 10aa microcefalia, convulsioni, ERG estinto
Tardoinfantile
JanskyBielschowsky
CLN 2 11p 15
TPP 1
sub. c
CL
Esordio 2-3 aa exitus 10-15 aa deterioramento motorio, mentale e visivo, mioclono
Variante tardoinfantile finlandese
CLN 5 13 q21-32
Proteina CLN 5
sub c
RL + FP
Variante tardoinfantile
CLN 6 15 q21-23
?
sub. c
RL + FP
Esordio 4-5 aa Exitus 10-30 aa
Variante tardoinfantile turca
CLN 7 ?
?
?
RL + FP
Convulsioni e disturbi motori seguiti da disturbi visivi
CLN 3 16 p12.1
Proteina CLN 3
sub. c
CL + FP
Esordio 4-9 aa exitus 20-40 aa deterioramento motorio, mentale e visivo, mioclono (rigidità)
CLN 8 p23
Proteina CLN 8
sub. c
CL + GROD
Epilessia progressiva, RM
CLN 4
?
sub. c
CL + GROD + RL
Esordio 20-40 aa sintomi psicotici disturbi motori, discinesie facciali, demenza, epilessia mioclonica
Giovanile
SpielmeyerVogt-Sjogren
Protratta giovanile (EPMR) Adulta
Kufs
GROD = depositi granulari osmiofili; FP = impronte digitate SAPs = attivatori proteici del metabolismo degli sfingolipidi Sub c = subunità c ATPasi mitocondriale
CL = depositi curvilinei RL = depositi rettilinei
1590 Malattie del sistema nervoso
codificante per un enzima lisosomiale che idrolizza gli acidi grassi da alcuni peptidi. (palmitoil-proteina tioesterasi o PPT). Il tipo tardo infantile è clinicamente e geneticamente eterogeneo. Mutazioni a carico del gene CLN2 codificante per un enzima lisosomiale destinato all’idrolisi dei tripeptidi dall’Nterminale di oligopeptidi (pepstatina-insensibile aspartilproteasi o TPP1) sono state riscontrate nel tipo tardo infantile classico (Sleat et al., 1999). Una sola mutazione è presente nel 94% degli alleli della variante finlandese il cui gene CLN 5 codifica per una proteina transmembrana. Non è noto il prodotto genico dei geni CLN 6 e CLN 7 responsabili della variante precoce giovanile e della variante riscontrata nei pazienti di origine turca. Il gene CLN3 responsabile del tipo giovanile codifica per una proteina a funzione sconosciuta localizzata nella membrana dei lisosomi o dell’apparato del Golgi. Il gene CLN 8 è stato assegnato ad una condizione di epilessia e ritardo mentale (EPRM) i cui primi casi sono stati identificati in un’area del nord della Finlandia, da cui anche la terminologia “North epilepsy” risultata, in studi successi, una forma protratta di NCL (Herva et al., 2000). Il prodotto del gene CLN 8 è una proteina transmembrana a localizzazione e funzione sconosciuta. Esiste un modello animale di NCL (topo mnd/mnd) causato da una mutazione a carico dello stesso gene CLN 8. Le attuali acquisizioni genetico-molecolari delle NCL non appaiono definitive in quanto è stato dimostrato che alcuni casi ad esordio tardo infantile e giovanile con GROD sono causati da mutazioni del gene PPT (Hofmann et al., 1999) e che alcuni casi della variante tardo infantile turca hanno mutazione nel gene CLN 8 (Gardiner, 2000). I risultati finora ottenuti hanno comunque dato la possibilità di diagnosi enzimatiche e molecolari indispensabili per la prevenzione con la diagnosi di portatori e la diagnosi prenatale.
Le sfide del futuro sono la spiegazione dell’accumulo, il meccanismo della morte dei neuroni e la terapia. I modelli animali e artificiali (colture cellulari) delle NCL sono utili strumenti per le ricerche in questi settori.
Malattie da accumulo extralisosomiale Xantomatosi cerebrotendinea. – È un raro difetto (sono noti un centinaio di casi), finora non chiarito, della sintesi epatica degli acidi biliari, che risulta in aumento del colestanolo nel plasma, nella bile e nei tessuti, con prevalenza nel tessuto nervoso e cutaneo, bassi livelli plasmatici di colesterolo e ridotta produzione di acidi colico e chenodesossicolico. L’ereditarietà è autosomica recessiva. Il primo sintomo è la cataratta, in età giovanile, e quindi xantomi tendinei, disturbi della deambulazione, disartria, disfagia e demenza. Frequenti sono le manifestazioni psichiatriche (depressione, alterazioni della personalità), che possono anche essere sintomi di esordio. Il quadro neurologico è quello di una sindrome atasso-spastica con segni elettrofisiologici di lieve neuropatia motoria e sensitiva, alterazioni EEG e dei potenziali evocati visivi e incostanti alterazioni dei potenziali evocati somestesici. La TC evidenzia atrofia cerebrale e cerebellare e la RM aree multiple di alterato segnale. Il livello di colestanolo nel plasma è quasi sempre diagnostico, in casi dubbi si può ricorrere ad un test di provocazione, basato sulla somministrazione orale di colestiramina (12 mg/die per 5 giorni) che, stimolando la sintesi degli acidi biliari, provoca un anomalo aumento del colestanolo plasmatico nei soggetti affetti. Una diagnosi precoce, possibilmente preclinica, è essenziale per il successo terapeutico. Il trattamento con acido chenodesossicolico (750 mg/die), riduce il livello di colestanolo attraverso la soppressione dell’alterata sintesi degli acidi biliari e determina un netto miglioramento clinico ed elettrofisiologico.
Malattie metaboliche genetiche 1591
Malattia di Lafora. - È trasmessa con modalità autosomica recessiva. Si distingue nella categoria delle epilessie miocloniche progressive famigliari per la presenza di inclusioni citoplasmatiche, denominati corpi di Lafora, nei neuroni del nucleo dentato, corteccia cerebellare, sostanza nera, nuclei della base e, più raramente, corteccia cerebrale, e tessuti extranervosi (fegato, muscolo cardiaco e scheletrico, cute). Al microscopio elettronico si rilevano grandi vacuoli contenenti un materiale granulo-filamentoso, poco denso, PAS positivo al microscopio ottico e di natura polisaccaridica all’analisi chimica (polyglucosan bodies PB). Nel corso della seconda decade, con una età media di 14 anni, i pazienti, talvolta dopo un periodo di eccessiva irritabilità e di anomalie comportamentali o di allucinazioni visive, manifestano crisi convulsive generalizzate (tipo grande male o piccolo male) oppure scosse miocloniche con evoluzione, entro pochi mesi, in un quadro di epilessia mioclonica; le mioclonie sono accentuate o provocate dal movimento e da stimoli diversi (luce, rumore, emozioni). Successivamente compaiono: disartria, disturbi della coordinazione dei movimenti, segni piramidali ed extrapiramidali, atrofia ottica, sordità, turbe della personalità e delle funzioni cognitive. Alcuni casi eccezionali dimostrano inizio ritardato e decorso lieve prolungato. L’EEG, oltre che alterazioni generalizzate e fotosensibili, evidenzia spesso focolai epilettogeni occipitali. L’exitus avviene dopo circa 10 anni, con una media di 6 anni dall’esordio, in condizioni di cachessia. La dimostrazione delle caratteristiche inclusioni nei dotti delle ghiandole sudoripare, presenti nella biopsia cutanea eseguita in sede ascellare, è il procedimento più semplice e meno invasivo per l’accertamento diagnostico. La malattia è dovuta a mutazioni a carico del gene EPM2A codificante una proteina citoplasmatica con attività fosfatasica ma con funzioni ancora sconosciute (Minassian et al., 2000).
Malattia di Tangier È una rara malattia dovuta ad un difetto genetico, autosomico recessivo, con aumentata distruzione dei costituenti proteici delle lipoproteine ad alta densità (HDL). L’eccesso di lipidi conseguente alla deplezione delle HDL si accumula nelle cellule del sistema reticoloistiocitario, nella cornea, nella muscularis mucosa, nelle cellule di Schwann e nei neuroni dei gangli spinali. La sintomatologia generale (epatosplenomegalia, opacità corneale, ipertrofia tonsillare con macchie arancione), prevale sulla polineuropatia, che può decorrere asintomatica.
Disordini del metabolismo intermedio I difetti del metabolismo degli aminoacidi o aminoacidopatie e i difetti del ciclo dell’urea sono i capitoli più noti e di più semplice approccio diagnostico e il cui sviluppo, a parte le acquisizioni molecolari, non è stato rilevante. Per contro le alterazioni del metabolismo delle vitamine e degli acidi organici e, in maggior misura, le malattie mitocondriali e quelle perossisomiali sono i settori che sono stati oggetto di notevole preogresso e sono tuttora in espansione. Aminoacidopatie Le aminoacidopatie sono malattie ad ereditarietà autosomica recessiva con l’eccezione di un difetto di degradazione della tirosina a trasmissione dominante caratterizzate dal difetto nella via di degradazione degli aminoacidi. Sono state identificate dall’eccesso nel sangue e/o nelle urine dell’aminoacido non degradato o dei metaboliti a valle o a monte della via degradativa interrotta da cui il termine di fenilchetonuria, ominocistinuria, ecc. In seguito, malattie che sembravano un’unica entità clinica, quali ad esempio la fenilchetonuria, sono risultate geneticamente eterogenee. Poiché difetti genetici differenti possono avere differenti differenti implicazioni terapeutiche, la diagnosi di una aminoacidopatia richiede la documentazione del difetto genetico primitivo , quasi sempre un difetto enzimatico.
1592 Malattie del sistema nervoso
Non erano noti difetti nella sintesi degli aminoacidi fino alla recente individuazione di difetti enzimatici della sintesi della serina (de Koning et al 1999). Iperfenilalaninemie (HPA). – Sono un gruppo di malattie caratterizzate dal blocco del sistema di idrossilazione della fenilalanina (Phe) a tirosina, con elevazione dei livelli di fenilalanina nei liquidi biologici. Si distinguono l’iperfenilalaninemia da difetto della fenilalanina idrossilasi (PAH) e quelle da difetto del cofattore tetraidrobiopterina (BH4). L’iperfenilalaninemia da deficit di PAH è la più comune, con una incidenza compresa tra 1:4.000 in Irlanda, 1:100.000 in Giappone, e circa 1:10.000 nati in Italia. Sulla base della fenilalaninemia, della tolleranza dietetica alla Phe e del decorso, si distinguono tre forme: HPA I (fenilchetonuria classica), HPA II (fenilchetonuria ad aumentata tolleranza della fenilalanina), HPA III (iperfenilalaninemia benigna), che non richiede alcuna misura terapeutica. Lo studio del gene della fenilalanina idrossilasi, mappato sul braccio lungo del cromosoma 12, ha evidenziato una notevole eterogeneità molecolare e sono state, finora, descritte più di cento mutazioni differenti, con chiara distribuzione geografica. Mentre in alcune popolazioni del Nord Europa prevalgono due mutazioni, nelle popolazioni mediterranee si osserva una maggior eterogeneità; inoltre, nella popolazione italiana, esiste una notevole differenza nella distribuzione delle mutazioni fra le regioni del Nord e del Sud e solo per poche mutazioni è stata individuata una correlazione con il fenotipo clinico. Il danno neurologico è legato alla iperfenilalaninemia che altera la mielina e riduce la sintesi proteica intraneuronale e quella dei neurotrasmettitori. I bambini hanno capelli biondi, occhi azzurri, cute chiara o eczematosa, odore tipico delle urine, microcefalia e ritardo psicomotorio. Le crisi di grande male compaiono nel 25% dei casi. La valutazione neonatale, segui-
ta dall’inizio precoce delle misure dietetiche, ha pressochè eliminato il fenotipo clinico della fenilchetonuria in età adulta, caratterizzato da grave oligofrenia, crisi di agitazione psicomotoria e comportamenti autolesivi. Purtroppo alcuni soggetti sfuggono ancora alla diagnosi neonatale, perchè non è stato fatto il test, oppure perchè questo è risultato falsamente negativo. Il trattamento dietetico precoce è efficace per la prevenzione del danno neurologico. La dieta, calcolata individualmente in base alla fenilalaninemia, all’età e alla tolleranza dietetica alla Phe, deve assicurare una limitata assunzione di tale aminoacido che, in quanto essenziale, deve comunque essere somministrato per garantire la sintesi proteica. La prosecuzione del trattamento dietetico per tutta la vita non ha consenso unanime, ma sarebbe giustificato dall’osservazione di disturbi comportamentali e sintomi neurologici in adulti non in dietoterapia, che regrediscono con la ripresa della dieta. Il problema della prosecuzione della dieta è importante nelle donne fenilchetonuriche in età fertile per la prevenzione del danno fetale da iperfenilalaninemia. Con il termine di «sindrome da fenilchetonuria materna» si fa riferimento al fenotipo dei nati da donna fenilchetonurica non in dietoterapia. Il quadro clinico appare correlabile alla fenilalaninemia materna nel corso della gravidanza. Per valori superiori a 1200 µmol/l sono pressochè costanti microcefalia, ritardo mentale e, in minor percentuale, cardiopatia; per valori inferiori, il danno fetale è meno certo e comunque di grado minore; la circonferenza cranica alla nascita sembra essere utile indice predittivo dello sviluppo psicomotorio. Poichè la patologia fetale si instaura nei primi mesi della gravidanza, la prevenzione è legata a un controllo preconcezionale del livello della fenilalaninemia materna. Iperfenilalaninemie da difetto di tetraidrobiopterina (BH4). Rappresentano l’1-3% delle HPA. Sono noti tre difetti enzimatici: il difetto di guanosina trifosfato cicloidrolasi I (GTPCHI) e il difetto di 6-piruvoil tetraidropte-
Malattie metaboliche genetiche 1593 rina sintasi (6-PTS) comportano una ridotta sintesi, il difetto di diidropterina reduttasi (DHPR) comporta ridotta rigenerazione di BH4. Poichè la BH4 è il cofattore comune delle idrolasi degli aminoacidi aromatici, la sua carenza risulta in HPA e insufficiente produzione di neuromediatori dopamina e serotonina. Lo spettro delle manifestazioni cliniche spazia da casi gravi a casi lievi. Nei primi mesi di vita compaiono disturbi della suzione e della deglutizione, irritabilità, ipertermia inspiegabile, crisi miocloniche e ritardo dello sviluppo psicomotorio; sono frequenti distonie e movimenti coreoatetosici e si osserva microcefalia, ipotonia del tronco e paresi spastica. Le neuroimmagini dimostrano atrofia corticale o sottocorticale e, frequentemente, calcificazioni nella sostanza bianca e nei gangli basali. La diagnosi differenziale tra le forme da deficit di HPA e quelle da difetto di BH4, si basa sull’analisi delle pterine urinarie, la risposta alla somministrazione di BH4 (20 mg/kg) e la misurazione delle attività enzimatiche specifiche. Se non vengono messe in atto le misure terapeutiche, si realizza il quadro di una encefalopatia evolutiva. L’intervento terapeutico associa alla restrizione dietetica in fenilalanina, la somministrazione del cofattore sintetico e dei precursori dei neurotrasmettitori carenti. Tirosinemie.- Sono stati identificati quattro difetti enzimatici nella via catabolica della tirosina, responsabili del suo aumento nel sangue e dell’elevata escrezione urinaria dei suoi metaboliti. La tirosinemia I, dovuta al difetto della fumarilacetoacetato liasi, ha una espressione epatica e renale. Si distinguono una forma acuta, una forma subacuta ed una forma cronica. In alcuni casi sono descritte crisi dolorose agli arti e all’addome accompagnate da irritabilità, vomito, iperreflessia, e opistotono, cui può seguire una paralisi ascendente con insufficienza respiratoria ed exitus se non si interviene con la ventilazione assistita. Successivamente si instaura una neuropatia periferica con amiotrofia. Accanto alla limitazione dell’apporto dietetico in tirosina, recentemente è stato proposto un trattamento con 2-nitro4-trifluorometilbenzoil-1,3-cicloexanedione (NTBC), potente inibitore della 4-idrossi-fenilpiruvato diossigenasi, allo scopo di impedire la formazione di succinilacetone. Il trattamento delle crisi è sintomatico, evitando i farmaci controindicati nella porfiria. Nella tirosinemia II (sindrome di Richner-Hanhart) (tirosinosi oculo-cutanea), dovuta al difetto della tirosina aminotransferasi, l’ipercheratosi palmare e plantare e le lesioni corneali possono essere associate a ritardo mentale lieve, disturbi della coordinazione motoria, comportamenti autoaggressivi. I sintomi sono ben controllati dalla dieta a ridotto contenuto in tirosina.
La tirosinemia tipo III è dovuta al difetto della 4-idrossi fenilpiruvato diossigenasi epatica. Il quadro neurologico è variabile con atassia, convulsioni, tremori, e il ritardo mentale non è costante. L’Hawkinsinuria è un raro disturbo trasmesso con modalità autosomica dominante, che prende il nome dall’accumulo di un metabolita «hawkinsin», che si forma nella via catabolica della tirosina durante la conversione dell’acido 4-idrossifenilpiruvico ad acido omogentisico. I soggetti possono essere asintomatici o presentare difetto di crescita, ritardo mentale, microcefalia. Sono opportune le limitazioni dell’apporto di tirosina e apporti di acido ascorbico. Malattia dello sciroppo d’acero (leucinosi). – Più rara delle iperfenilalaninemie (1:125-300.000 nati), è dovuta al difetto della decarbossilazione degli aminoacidi a catena ramificata (leucina, isoleucina, valina) che si accumulano nel sangue e sono eliminati in eccesso nelle urine. Dopo un breve intervallo asintomatico, il neonato presenta un quadro di intossicazione acuta: difficoltà alla suzione, sopore e coma, durante il quale l’ipotonia del tronco contrasta con l’ipertonia degli arti. Sono frequenti le crisi di ipertono, tremori, movimenti ripetitivi di flesso-estensione degli arti, mioclonie. L’EEG spesso evidenzia attività di soppressione di scarica. Se non si interviene prontamente a correggere lo scompenso metabolico, il neonato giunge all’exitus. La precocità della diagnosi e del trattamento dietetico, con apporto calcolato degli aminoacidi ramificati, talvolta associato a tecniche depurative (dialisi peritoneale, ecc.), migliorano la prognosi immediata, mentre la prognosi a lungo termine dei soggetti in trattamento dietetico, deve essere prudente, sia per il rischio di episodi di scompenso acuto, sia per il livello intellettivo valutato nel tempo. Oltre alla forma acuta neonatale esistono rare forme a decorso cronico, diagnosticate tardivamente nell’ambito di accertamenti per ritardo psicomotorio e, ancora più rare forme intermittenti scatenate da elevato apporto di proteine o condizioni che stimolano il catabolismo proteico. Iperglicinemia non chetotica (NKH). - È causata dal difetto di degradazione epatica della glicina che si esprime con aumento della glicina nel sangue e nel liquor e aumento del rapporto glicina liquor-plasma. Il sistema di degradazione della glicina è un sistema multienzimatico costituito da quattro componenti chiamati proteine P,H,T,L cui corrispondono quattro difetti. Il difetto della proteina P sembra il più comune. In base ad osservazioni sperimentali, è stato ipotizzato che l’eccesso di glicina nel liquor agisca potenziando l’attività dei recettori Nmetil-D-aspartato (NMDA) (v. pag. 000). L’evidenza
1594 Malattie del sistema nervoso sperimentale della neurotossicità del NMDA, maggiore durante lo sviluppo cerebrale che nell’adulto, sarebbe in accordo con la precocità delle manifestazioni cliniche. Neuropatologicamente si osserva insufficiente mielinizzazione e spesso alterazioni morfologiche, quali anomalie delle circonvoluzioni, aplasia o ipoplasia del corpo calloso, colpocefalia o ipoplasia cerebellare. Nei primi giorni o nelle settimane di vita il neonato, apatico e indifferente ad ogni stimolo, presenta pause respiratorie, movimenti irregolari dei globi oculari, mioclonie spontanee diffuse e crisi epilettiche. Sono assenti le risposte motorie riflesse (Moro, riflesso della prensione, ecc.) e l’ipotonia è di grado elevato. La presenza di attività di soppressione di scarica all’EEG completa il sospetto clinico. La maggior parte dei pazienti muore entro i primi mesi per problemi respiratori, quelli che sopravvivono fino al 4-5° anno, sviluppano una grave encefalopatia con epilessia e paralisi cerebrale spastica. Le forme atipiche esordiscono nel corso del primo anno di vita con modesto ritardo dello sviluppo psicomotorio, cui possono associarsi tremori e convulsioni tonico-cloni-
che. Alcuni casi evolvono verso un quadro di ritardo mentale, disturbi dell’espressione verbale, scarsa coordinazione segmentale, aggressività; altri presentano perdita delle acquisizioni motorie, contrazioni irregolari della muscolatura del viso e degli arti, scosse miocloniche e convulsioni tipo grande male. L’EEG dimostra onde lente a voltaggio piuttosto elevato (200 µV). Molto rara è la presentazione in età tardiva con una degenerazione spinocerebellare. La neuroradiologia evidenzia atrofia cerebrale e ritardo di mielinizzazione della sostanza bianca emisferica. Sul piano diagnostico si sottolinea che la glicina nel plasma può essere anche solo ai limiti superiori della norma e che il criterio diagnostico più affidabile è l’aumento del rapporto glicina liquor-plasma (v.n. 0,02). Tutti i tentativi terapeutici sono risultati inefficaci, ad eccezione di una soddisfacente risposta alla somministrazione di sodio benzoato e destrometorfano, antagonista del NMDA. La diagnosi prenatale è limitata a pochissimi laboratori, in grado di valutare il sistema di degradazione della glicina sui villi coriali.
Fig. 37.4 - Schema del metabolismo della metionina e dell’omocisteina. La metionina è degradata a omocisteina, attraverso la via della transmetilazione, liberazione dei gruppi metilici trasferiti a vari composti. L’omocisteina può continuare la degradazone lungo la via della transolforazione, che conduce a SO4 , oppure essere rimetilata a metionina, utilizzando come donatori di metili la betaina e il 5-metiltetraidrofolato. Lo schema include la formazione dei coenzimi vitaminici della metionina sintetasi e metilmalonico mutasi. 1: adenosilmetionina transferasi 2: S-adenosilomosisteina idrolasi 3: cistationina-beta-sintetasi 4: N (5,10) - metilentetraidrofolato reduttasi 5: metionina sintetasi
6: sintesi metilcobalamina 7: sintesi adenosilcobalamina 8: metilmalonico mutasi 9: solfito ossidasi
Malattie metaboliche genetiche 1595
Disordini del metabolismo degli aminoacidi solforati. – La Fig. 37.4 schematizza le vie di degradazione e di sintesi della metionina. Il disordine genetico più comune è l’omocistinuria da difetto della cistationina-β-sintetasi; rarissimo è il difetto della adenosilomocisteina idrolasi, caratterizzato da ritardo psicomotorio, dismorfismo, miocardite ed epatopatia. I difetti del metabolismo dei folati e della vitamina B12 coinvolti nella via di rimetilazione della omocistina a metionina sono riportati nella Tab. 37.4. Il difetto della cistationina-β-sintasi o omocistinuria classica, per distinguerla dall’omocistinuria presente nei disturbi riportati nella Tab. 37.5, ha una incidenza di 1:300.000 nati circa. La cistationina-β-sintetasi catalizza la prima tappa della via di degradazione dell’omocistina utilizzando la vitamina B6 come cofattore. Studi in vitro sulla coltura di fibroblasti e risposta in vivo alla integrazione con vitamina B6, hanno evidenziato un’eterogeneità dell’enzima mutante. Circa la metà dei pazienti risponde infatti a dosi elevate di vitamina B6, una piccola parte risponde in modo parziale e la restante non è responsiva. Non è stata finora dimostrata una correlazione tra eterogeneità biochimica ed eterogeneità molecolare. Ancora oscuro è il meccanismo con cui il difetto della cistationina-β-sintetasi conduce ai sintomi clinici specifici. Per quanto riguarda le alterazioni neurologiche è stato indagato il ruolo patogenetico dell’accumulo di metaboliti a monte del blocco metabolico e del difetto della cistationina a valle, senza giungere a conclusioni definitive. L’omocistinuria classica è un disordine multisistemico che coinvolge in modo prevalente l’occhio, i sistemi scheletrico, nervoso e vascolare. Le manifestazioni hanno un decorso progressivo e sono più lievi nel gruppo dei soggetti vitamino responsivi. La dislocazione del cristallino è la lesione oculare più comune e compare in genere entro la prima decade; meno frequenti il glaucoma, l’atrofia ottica, la degene-
razione retinica, il distacco di retina e la cataratta. Le alterazioni scheletriche comprendono osteoporosi ed anomalie morfologiche (dolicostenomelia, petto carenato, valgismo delle ginocchia, ecc.). Il ritardo mentale è il sintomo preminente; sono riportate anche alterazioni psichiche (depressione, disturbi della personalità e del comportamento), convulsioni e sintomi neurologici focali, conseguenti ai disturbi vascolari. La diatesi tromboembolica può manifestarsi a livello di ogni vaso sanguigno ad ogni età (compresa l’infanzia) ed è la più frequente causa di morte. L’elevata eliminazione urinaria di omocistina e l’aumento della metionina nel sangue sono suggestivi per la diagnosi di omocistinuria, che richiede la conferma del difetto enzimatico nella coltura dei fibroblasti cutanei. Il trattamento ha due obiettivi: correzione delle alterazioni biochimiche per prevenire o migliorare i sintomi clinici e supporto delle complicazioni ossee, oculari, ecc. Nei soggetti piridossino-responsivi, l’inizio precoce della somministrazione vitaminica corregge le alterazioni biochimiche e previene i sintomi. Per dosi di vitamina B6 superiori a 500 mg/die sono stati riportati effetti tossici. I risultati della restrizione dietetica in metionina, nei pazienti non responsivi alla piridossina, sono poco soddisfacenti, in parte anche per la scarsa osservanza della dieta. In associazione o in alternativa alla dieta è stato proposto l’uso della betaina che, aumentando il tasso di metilazione dell’omocistina, dovrebbe ridurre l’accumulo di metaboliti, ma gli effetti a lungo termine di questa terapia non sono ancora valutabili. È tuttora in discussione il ruolo della lieve iperomocistinemia nei soggetti eterozigoti, come fattore di rischio per patologia vascolare. Difetto di sulfito ossidasi. – L’ultima tappa della degradazione dell’omocistina a solfato è catalizzata dalla sulfito ossidasi, con l’intervento di un cofattore contenente molibdeno. Il difetto dell’attività enzimatica consegue
Molto rara
<1:60.000
1:30.000
rara
rara
~ 50 casi
~ 30 casi
frequente in Finlandia
Deficit-N-acetilglutamato sintetasi
Deficit carbamil fosfato-sintetasi
Deficit ornitina carbamil transferasi*
Citrullinemia
Argininosuccinicoaciduria
Argininemia
Sindrome HHH (iperammoniemia, iperornitinemia, omocitrullinemia)
Intolleranza alle proteine con lisinuria
*Ereditarietà legata alla X
Frequenza
Malattia
Tabella 37.4 - Difetti del ciclo dell’urea.
trasporto epiteliale aminoacidi di basi
trasporto mitocondriale ornitina
arginasi
argininosuccinico sintetasi (ASL)
argininosuccinico sintetasi (ASS)
carbamil-transferasi (OCT)
carbamilfosfato sintetasi (CPS)
N-acetil-glutamato sintetasi (AGS)
Difetto genetico
Difetto crescita, visceromegalia, osteoporosi, eritrofagocitosi e opistotono, ritardo mentale. Sintomi polmonari in età adulta
Neonatale o tardiva
Diplegia spastica progressiva, convulsioni
Neonatale o tardiva, tricoressi nodosa
Neonatale o tardiva
M: neonatale o tardiva F: asintomatiche o crisi cefalea o epilessia, ecc.
Neonatale o tardiva
Neonatale
Presentazione clinica
↑dopo pasto
↑dopo pasto
↑
↑↑
↑↑
↑↑
↑↑
↑
NH3
↓Lys, ↑Gln, Ala, Ser, Pro, Gly
↑Orn, ↑Omocitr
↑↑Arg
↑↑Acido arginin. suc.
↑↑Cit
↓Cit ↑Gln
↓Cit ↑Gln
↑Arg ↑Orn
↑
↑
↑
↑
↑
↑
N
N
Fenotipo biologico Aminoacidi A. orotico plasma urine
–
–
eritrociti
leucociti
leucociti
fegato
fegato
fegato
Dosaggio enzima
1596 Malattie del sistema nervoso
Malattie metaboliche genetiche 1597 pertanto al difetto della sintesi della proteina enzimatica o del cofattore, e poichè il cofattore molibdeno è comune alla xantina ossidasi, il difetto della sintesi del cofattore molibdeno include il difetto della xantinossidasi. La neuropatologia dimostra atrofia cerebrale e cerebellare, lesioni multicistiche sottocorticali nella sostanza bianca, gravi alterazioni microscopiche della sostanza bianca e della sostanza grigia. I neonati presentano nelle prime settimane di vita dismorfismo facciale, microcefalia, nella metà dei casi dislocazione del cristallino, difetto di crescita e crisi convulsive non reagenti alla terapia; in seguito possono comparire movimenti coreoatetosici. L’obiettività neurologica è rappresentata da ipotonia assiale e spasticità agli arti. L’EEG può evidenziare attività di soppressione di scarica. La TC dimostra atrofia cerebrale, idrocefalia e alterazioni della sostanza bianca.
Difetto della sintesi di serina La riduzione di serina nel plasma e, soprattutto, nel liquor è il marker diagnostico di un gruppo di soggetti con microcefalia, convulsioni, ritardo psicomotorio o polineuropatia (de Koning et al., 1999). Si tratta del difetto di attività enzimatica a livello delle tappe della sintesi della serina che oltre a causare riduzione della serina determinano riduzione della glicina e di 5-metiltetraidrofolato, metaboliti con ruoli rilevanti a livello della SNC. La malattia risponde al trattamento con serina da cui l’importanza di una diagnosi precoce.
Iperammoniemie primitive Il difetto genetico di ciascuna delle sei attività enzimatiche che a livello epatico trasformano l’ammoniaca in urea (ciclo dell’urea) e due difetti del trasporto transmembranale di alcuni aminoacidi risultano in un accumulo di ammoniaca fortemente tossica nell’organismo e, soprattutto, nel sistema nervoso centrale (Tab. 37.4). Iperammoniemie secondarie sono quelle conseguenti all’inibizione del ciclo dell’urea da parte di metaboliti presenti in alcuni errori metabolici congeniti (acidosi organiche, difetto del metabolismo degli acidi grassi, difetto piruvato deidrogenasi, difetto piruvato carbossilasi) o in patologie acquisite. I dati sperimentali sostengono il ruolo dell’iperammoniemia nella patogenesi delle manifestazioni neurologiche. Il rigonfiamento degli astrociti, dovuto probabilmente al passaggio intracellulare di glutamina, determina alterazioni della microcircolazione cerebrale ed edema. Nelle forme a decorso prolungato non è escluso il ruolo dell’accumulo di composti tossici (ad es., i composti guanidici dell’argininemia) e di una alterata produzione di neurotrasmettitori.
La neuropatologia delle iperammoniemie gravi, a decorso breve, è limitata al rigonfiamento degli astrociti, mentre nelle forme a decorso prolungato si rileva perdita neuronale e gliosi a variabile distribuzione. Le manifestazioni cliniche sono in funzione del livello di iperammoniemia e dell’età. L’iperammoniemia grave è tipica delle forme ad esordio neonatale e si esprime con ipotonia, sopore e coma, decorso rapido con exitus per insufficienza cardiorespiratoria. L’iperammoniemia persistente, di grado variabile, delle forme ad esordio tardivo, dal primo anno di vita all’età adulta, associa sintomi neurologici, quali crisi di cefalea, confusione, agitazione notturna, ritardo mentale, e sintomi generali, quali: vomito, avversione per cibi proteici e anoressia, difetto di crescita, epatomegalia, o specifici (ad es., tricoressi nodosa). Le forme tardive a decorso cronico possono incorrere in episodi iperammoniemici acuti con coma e convulsioni. Nonostante le misure dietetiche e farmacologiche, la prognosi è riservata, sia per le condizioni neurologiche con possibile sviluppo di microcefalia, atrofia corticale o sottocorticale, sia per il rischio di episodi acuti irreversibili. L’orientamento diagnostico tra le differenti forme, sulla base dei risultati facilmente disponibili (Tab. 37.4), deve trovare conferma nel dosaggio enzimatico con l’eccezione della sindrome HHH (iperammoniemia, iperornitinemia e omocitrullinemia) e dell’intolleranza alle proteine con lisinuria, per le quali sono sufficienti le determinazioni degli aminoacidi nel plasma e nelle urine. La diagnosi prenatale è possibile con diversi metodi di prelievo di tessuti fetali (funicolocentesi, villocentesi, ecc.). La terapia deve essere distinta in terapia dell’iperammoniemia acuta e terapia di mantenimento. La crisi acuta richiede procedimenti per favorire una rapida disintossicazione (dialisi peritoneale, sodio benzoato, sodio fenilacetato, arginina) associati ad un appropriato apporto calorico per evitare il catabolismo proteico. La terapia di mantenimento si articola in riduzione dell’apporto proteico, integrazione con arginina o con citrullina, somministrazione cronica di benzoato o fenilacetato.
Acidurie organiche Sono un gruppo eterogeneo di condizioni, ad ereditarietà autosomica recessiva, definite dall’accumulo di acidi monoaminocarbossibilici nei liquidi biologici. È questa una definizione molto ampia, che porta ad includere affezioni
1598 Malattie del sistema nervoso
eterogenee e legate indifferentemente a disturbi congeniti del metabolismo degli aminoacidi, in particolare degli aminoacidi ramificati, lipidi ed idrati di carbonio. L’enorme sviluppo di questo capitolo è dovuto all’introduzione di nuove tecnologie quali la cromatografia capillare in fase gassosa, associata alla spettrometria di massa. Lo studio dello spettro di massa di un picco sconosciuto evidenziato alla cromatografia, può contribuire ad una maggiore conoscenza di malattie metaboliche note e, soprattutto, condurre all’individuazione di malattie metaboliche nuove. La presenza dell’acido N-acetil-aspartico in soggetti con macrocrania e leucodistrofia ha, ad esempio, condotto all’identificazione del difetto enzimatico nella malattia di Canavan. L’estensione di questa tecnica è senz’altro destinata ad aumentare la conoscenza delle organicoacidurie e ad individuare nuove malattie. Poichè l’eliminazione urinaria degli acidi organici è soggetta a variazioni in funzione della dieta e dell’introduzione di farmaci, nonchè a variazioni spontanee difficilmente spiegabili, è indispensabile che ogni organicoaciduria patologica sia correlata alla interruzione di una specifica via metabolica, tramite la documentazione del difetto di una attività enzimatica o del suo cofattore e al fenotipo clinico. Sono escluse dalla trattazione le organicoacidurie molto rare o limitate ad un’unica osservazione o che non soddisfano il precedente requisito. Propionicoacidemia (PPA).- Il propionil Coenzima A (CoA) che si forma nel corso della degradazione di alcuni aminoacidi essenziali (isoleucina, valina, metionina, treonina) e, in minor percentuale, del colesterolo e della ß-ossidazione degli acidi grassi a catena dispari, è convertito a metilmalonil CoA tramite la propionil CoA carbossilasi. Il difetto di questa attività enzimatica determina accumulo di acido propionico, dei suoi precursori e di metaboliti riconducibili alla utilizzazione di vie metaboliche alternative che risulta in acidosi, inibizione del ciclo dell’urea e di sistemi enzimatici intramitocondriali e sintesi di lipidi di membrane con una elevata quantità di acidi grassi a catena dispari. Le manifestazioni acute (letargia, coma, chetoacidosi, disidratazione) esordiscono in generale alla nascita, dopo
un intervallo libero di qualche giorno o qualche settimana. Sono note forme che esordiscono oltre il periodo neonatale con ritardo dello sviluppo psicomotorio, ipertonia, convulsioni e sintomi generali (vomito, rifiuto del cibo, difetto di crescita). È stato descritto un esordio in età adulta con corea e demenza. La TC dimostra atrofia cerebrale. La riduzione dell’apporto proteico promuove un soddisfacente sviluppo neurologico, ma i pazienti sono a rischio per squilibri metabolici acuti e sequele neurologiche. Metilmalonicoacidemia (MMA).- La metilmalonil CoA mutasi che catalizza la conversione del metilmalonil CoA a succinil CoA, richiede la vitamina B 12 come cofattore. Il difetto di questa attività enzimatica è pertanto conseguente a mutazioni a livello del gene codificante per la sintesi della proteina enzimatica, che può essere assente (mut°) o ridotta (mut-) o a mutazioni a livello dei geni codificanti per la sintesi del cofattore vitaminico (Cbl A, B) riportate nella Tabella 37.5. Le manifestazioni acute dell’accumulo di acido metilmalonico, sovrapponibili a quelle descritte per la propionicoacidemia, includono spesso ipoglicemia, iperammoniemia e pancitopenia e sono più gravi nel gruppo di soggetti mut° rispetto a gruppi mut- e vitamino B12 sensibili, che hanno una prognosi migliore. Sono stati osservati pazienti con sindrome extrapiramidale acuta e necrosi bilaterale del globo pallido. Anche per la MMA sono note forme ad esordio tardivo con decorso cronico. In rapporto al difetto genetico la terapia è dietetica o vitaminica. Glutarico acidemia I. – È dovuta al difetto della glutaril CoA deidrogenasi, che catalizza la degradazione del glutaril CoA, metabolita intermedio nella via catabolica della lisina e del triptofano. Il difetto enzimatico, dimostrabile nei leucociti e nella coltura dei fibroblasti, determina l’accumulo di acido glutarico, acido 3idrossiglutarico e, occasionalmente, acido glutaconico, eliminati in elevate quantità nelle urine. Poichè esistono dati sperimentali sulla tossicità dell’acido glutarico per le cellule dello striato in coltura, l’accumulo dell’acido glutarico è senza dubbio responsabile del danno neuronale, ma meno sicuri sono i meccanismi con cui agisce. La riduzione di Gaba, riscontrata nel tessuto nervoso di un paziente affetto, suggerisce una inibizione competitiva della glutamato decarbossilasi (Gad), che presiede alla sintesi del Gaba. Non si possono tuttavia escludere altri meccanismi, quali, ad esempio, l’inibizione dei recettori del glutammato o altri metaboliti tossici. La malattia è clinicamente eterogenea: perdita del controllo del capo, ritardo motorio, ipotonia, e distonia
Malattie metaboliche genetiche 1599 possono comparire durante il primo anno, dopo un episodio acuto intercorrente, o instaurarsi lentamente nel corso dei primi anni di vita. Nel decorso lentamente progressivo, dominato dalla distonia con relativo risparmio delle funzioni intellettive, si possono manifestare episodi acuti di vomito, chetoacidosi, convulsioni, coma a lenta risoluzione. Alcuni soggetti hanno megaencefalia senza rilevanti sintomi neurologici. Le neuroimmagini dimostrano dilatazione dei ventricoli laterali, atrofia cerebrale prevalentemente frontale e temporale, aree di alterata densità della sostanza bianca frontale e occipitale e del centro semiovale (Fig. 37.5). Le misure terapeutiche indirizzate alla riduzione dell’apporto dietetico di lisina e triptofano, alla stimolazione dell’enzima mutante attraverso la somministrazione del coenzima vitaminico (riboflavina 200-300 mg/die) e all’aumento della concentrazione del Gaba (baclofen, acido valproico) sono risultate insoddisfacenti, probabilmente perchè al momento della diagnosi il danno neuronale è irreversibile. Tutte queste strategie vanno comunque impiegate in associazione al trattamento sintomatico nel corso degli episodi acuti.
N-Acetil asparticoaciduria (degenerazione spongiosa dell’encefalo, malattia di Canavan-Von Bogaert) L’eponimo malattia di Canavan si riferisce ad uno specifico quadro neuropatologico, caratterizzato dall’aumento delle dimensioni e del peso dell’encefalo e dalla degenerazione spongiosa della sostanza bianca, prevalentemente a livello delle circonvoluzioni. L’osservazione di un aumento dell’acido N-acetilaspartico nel sangue, nel liquor e nelle urine di due pazienti ha condotto alla dimostrazione del difetto della aspartacilasi che viene considerato il difetto genetico della malattia di Canavan. L’acido N-acetilaspartico non è presente al di fuori del SNC ed un difetto del suo catabolismo può riflettersi sulla sintesi della mielina e sull’equilibrio dei neurotrasmettitori. La malattia esordisce verso il terzo mese, con perdita del controllo del capo, riduzione dell’attività motoria, apatia, crisi di pianto immotivato e disturbi della suzione. Seguono iperestensione delle gambe, flessione delle braccia, spasmi per stimoli tattili o acustici e movimenti coreoatetosici alle mani e ai piedi. Oltre il sesto mese si assiste ad aumento della circonferenza cranica, che continua fino circa al terzo anno, quando sopraggiunge l’exitus in un quadro di cecità e rigidità decerebrata; l’ipotonia iniziale è sostitutita da spasticità con segni piramidali. Oltre a questo fenotipo classico, sono stati segnalati casi neonatali e casi ad esordio tardivo e decorso prolungato. Le neuroimmagini rispecchiano la distribuzione anatomica delle alterazioni della sostanza bianca (Fig. 37.6). L’aumento dell’acido N-acetil-aspartico nelle urine rafforza la diagnosi clinica e neuroradiologica che deve essere confermata dalla documentazione del difetto enzimatico nei leucociti o nella coltura dei fibroblasti. La diagnostica molecolare ha evidenziato un’unica mutazione patogenetica nella popolazione degli Ebrei Ashkenazi e la prevalenza di due mutazioni nella popolazione europea non ebrea (Kaul et al., 1994). La diagnosi molecolare è importante per la diagnosi prenatale non affidabile solo con metodi biochimici.
Disordini del metabolismo delle vitamine
Fig. 37.5 - Glutarico-acidemia tipo I, femmina aa 3. (A, RM T2 sezione assiale); (B, RM T2 sezione sagittale) Diffuse settoriali alterazioni di segnale a livello delle fibre ad «U» e parzialmente della capsula interna.
Le vitamine, ed in particolare le vitamine idrosolubili, sono spesso precursori dei coenzimi di molte reazioni enzimatiche. Le condizioni di ridotta funzione del coenzima possono essere dovute a disordini genetici ai vari livelli dell’assorbimento e della utilizzazione delle vitamine. Ogni vitamina, dopo l’assorbimento intestinale ed il passaggio nella cellula, deve raggiungere la appropriata
M. Hartnup
Ac. nicotinico
RPM = ritardo psicomotorio
Piridossina dipendenza
Difetto biotinidasi
Atassia, RM lieve, disturbi del comportamento
Convulsioni neonatali
Convulsioni, ipotonia, RPM, stridore laringeo. Esordio anche >1 a
Letargia, ipotonia, convulsioni, precoce RPM
<1 a.: convulsioni, deterioramento, calcificazioni cerebrali
Difetto assorbimento
Difetto coenzima piruvato, propionil CoA, ß-metil crotonil CoA carbossilasi (Deficit multiplo carbossilasi)
<1 a.: letargia, RPM
Difetto sintesi coenzima metionina sintetasi (Cbl E, G)
<1 a.: ritardo mentale lieve, convulsioni, microcefalia, manifestazioni psichiatriche
<1 a.: letargia, RPM, convulsioni raro >1 a.: mielopatia, demenza, spasticità
Difetto sintesi coenzima MMCoA mutasi e metionina sintetasi (Cbl C, D, F)
Difetto N(5,10) metilen tetraidrofolato reduttasi*
<1 a.: ipotonia, RPM
<1 a: come sopra
Difetto Transcobalamina II (Tc II)
Difetto sintesi coenzima MMCoA mutasi (Cbl A, B)
>1-2 a.: RPM, neuropatia periferica, mielopatia, psicosi
Aspetti neurologici
Difetto assorbimento intestinale
Disordine genetico Disordine fattore intrinseco
Piridossina
Biotina
Folati
Cobalamina (Cbl)
Vitamina
Tabella 37.5 - Disordini del metabolismo delle vitamine a presentazione neurologica
rash cutaneo, pellagra-simile
–
Alopecia, rash cutanei, congiuntivite
Acidosi (iperammoniemia), vomito, difetto di crescita, rash cutanei
Trombosi, dislocazione del cristallino
Anemia macrocitica, stomatite, diarrea, difetto crescita
Anemia macrocitica, pancitopenia, vomito, difetto di crescita
Anemia macrocitica, crisi emolitiche, difetto di crescita
Acidosi, difetto di crescita
Anemia macrocitica, difetto di crescita, difetto immunologico
Anemia macrocitica, proteinuria
Altri sintomi Anemia macrocitica
ac. folico ac. folinico
OHCbl
OHCbl
OHCbl
biotina
biotina
↑aminoacidi neutri nelle urine
Acido nicotinico
risposta clinica ed EEG B6 B6 e.v. (50-200 mg)
↓biotinidasi siero
organicoaciduria specifica ↓enzima fibroblasti
↓folati plasma, B6, B12, omocistinuria, ac. folinico, ipo/normometioninemia betaina
↓folati plasma
omocistinuria, ipometioninemia
MM-aciduria, omocistinuria, ipometioninemia
MM-aciduria
Cbl
Cbl
↓B12 plasma
↓TcII plasma
Terapia
Diagnosi
1600 Malattie del sistema nervoso
Malattie metaboliche genetiche 1601 l’integrazione vitaminica. Per il difetto di biotinidasi, che ha una incidenza di circa 1:70-80.000 nati, è stato proposto un depistaggio neonatale per assicurare l’inizio precoce della terapia vitaminica nei casi affetti.
Disordini mitocondriali
Fig. 37.6 - M. di Canavan (degenerazione spongiforme di Von Bogaert-Bertrand), maschio aa 2. Megalencefalia. (A,B, RM T2 sezioni assiali). Diffusa alterazione di segnale di tutta la sostanza bianca, incluso la capsula interna e il corpo calloso. Il nucleo pallido bilateralmente non è riconoscibile e il talamo mostra una lieve alterazione di segnale. (Osservazione Dr. Tortori Donati, Ist. G. Gaslini, Genova).
localizzazione subcellulare ed essere convertita nel coenzima, che a sua volta si lega all’apoenzima per dare origine all’enzima cataliticamente efficace. Il blocco di ciascuna delle differenti tappe risulta nel difetto di una specifica attività enzimatica o, spesso, di più attività enzimatiche che hanno in comune lo stesso coenzima. La Tabella 37.5 riporta i più noti disordini genetici del metabolismo delle vitamine a presentazione neurologica. Si tratta di patologie rare, ad ereditarietà autosomico-recessiva, la cui diagnosi è gratificata dalla risposta favorevole alla terapia vitaminica essendo l’insuccesso terapeutico in alcuni casi probabilmente legato ad un ritardo del-
Questo capitolo comprende le malattie dovute ad un disturbo dei processi vitali che si svolgono all’interno dei mitocondri anche se il termine “malattie mitocondriali” è convenzionalmente limitato alle patologie causate da una alterazione dei geni, mitocondriali o nucleari, che regolano i complessi della catena respiratoria. Il mitocondrio è una struttura subcellulare costituita da quattro compartimenti: membrana esterna, membrana interna ripiegata in creste che ne aumentano la superficie, spazio intermembrana e matrice. Nella matrice i prodotti della combustione dei glucidi e dei lipidi, piruvato e acidi grassi sono convertiti in AcetilCoA che è ossidato nel ciclo dell’acido citrico con produzione dei coenzimi pirimidinici e flavinici nelle forme ridotte NADH e FADH2. Nella membrana mitocondriale interna NADH e FADH2 trasportano gli elettroni all’ossigeno molecolare lungo una catena di molecole trasportatrici (“catena respiratoria”) con formazione di ATP da ADP. Questo processo che converte una energia di legame chimico in una energia di legame fosfato si chiama “fosforilazione ossidativa” (OXPHOS). La catena repsiratoria consiste di quattro complessi enzimatici, complesso I (nicotinamide-adenindinucleotide-coenzima Q reduttasi), complesso II (succinato deidrogenasi), complesso III (coenzima Q-citocromo C reduttasi), complesso IV (citocromo C ossidasi) e di due carrier di elettroni, il coenzima Q10 (ubiquinone) e il citocromo C. I quattro complessi generano un gradiente protonico transmembrana che promuove la conversione di ADP e fosforo inorganico in ATP ad opera della ATP sintasi (complesso V). Il DNA mitocondriale (mtDNA) è costituito da una doppia elica circolare che continene geni codificanti per 2 RNA ribosomiali, per 22 RNA transfer e per 13 polipeptidi corrispondenti a subunità enzimatiche del complesso della catena respiratoria. Il DNA mitocondriale ha caratteristiche che lo differenziano dal DNA nucleare. Esso ha un codice genetico diverso da quello nucleare e ogni cellula contiene centinaia o migliaia di geni mitocondriali. Questi possono essere uguali (omoplasmia) o differenti (eteroplasmia). Una mutazione del mtDNA può interessare tutti i genomi mitocondriali oppure colpirne solo alcuni (eteroplasmia). Il fenotipo cellulare diventa patologico quando la proporzione del mtDNA mutato supera un valore
1602 Malattie del sistema nervoso critico per la fisiologica produzione di energia (effetto soglia) che è in funzione di vari fattori fra cui l’età e la richiesta energetica del tessuto. Nel corso dello sviluppo del bambino e nei tessuti a maggior fabbisogno energetico, quali encefalo e muscolo, la soglia per l’espressione patologica del fenotipo è teoricamente più bassa. Il DNA mitocondriale viene trasmesso esclusivamente dalla madre perchè durante la fertilizzazione soltanto la testa dello spermatozoo entra nella cellula-uovo (ereditarietà matrilineare o citoplasmatica). Nel corso dell’embriogenesi la ripartizione del patrimonio mitocondriale nei diversi stipiti cellulari che daranno origine ai diversi tessuti ed organi avviene a caso, per cui è prevedibile la comparsa di cloni cellulari con differente corredo mitocondriale (segregazione mitotica).
La classificazione biochimica delle malattie mitocondriali, in base all’area metabolica colpita, distingue: – difetti della utilizzazione del piruvato – difetti del trasporto degli acidi grassi – difetti della utilizzazione degli acidi grassi – difetti del ciclo di Krebs – difetti della catena respiratoria ai quali spetta per convenzione il termine di malattie mitocondriali Difetti del trasporto degli acidi grassi Gli acidi grassi mobilizzati dal tessuto adiposo sono trasportati nel sangue ed entrano nella cellula sia per diffusione passiva che per trasporto attivo. Una volta nel citosol sono attivati dalla tiochinasi ad esteri del coenzima A (acil CoA). Mentre gli acil CoA a catena media passano direttamente nella matrice mitocondriale, gli acil CoA a catena lunga sono trasportati nei mitocondri atttraverso il ciclo della carnitina, che comprende i due enzimi carnitina palmitoiltransferasi (CPT) I e II e la carnitina acilcarnitina translocasi. Difetto sistemico di carnitina. - La perdita funzionale di recettori ad alta affinità della membrana cellulare determina bassi livelli di carnitina nel plasma e nei tessuti ed elevata perdita nelle urine. In età infantile i malati presentano miopatia e crisi metaboliche acute, che rispondono in modo favorevole al trattamento orale con carnitina. Difetto di carnitina-acilcarnitina translocasi. – Esiste una sola osservazione ad esordio nei primi giorni di vita con ipoglicemia ipochetotica, seguita da miopatia, cardiomiopatia, insufficienza epatica ed exitus entro il terzo anno.
Difetto di CPT I. – Il difetto dell’isoenzima epatico della CPT I è caratterizzato da epatomegalia o crisi metaboliche gravi, talora letali. L’isoenzima muscolare e quello cardiaco non sono coinvolti. Difetto di CPT II. – La forma più comune è quella dell’adulto che si manifesta con episodi ricorrenti di rabdomiolisi e mioglobinuria parossistica, in genere in concomitanza con sforzi muscolari prolungati, digiuno o iperpiressia. Una forma più rara e più grave colpisce i soggetti in età neonatale e infantile con crisi ricorrenti di ipoglicemia ipochetotica associate a cardiomiopatia, disturbi dell’organogenesi (fegato e rene) e morte improvvisa. Sono state documentate differenti mutazioni corrispondenti ai differenti fenotipi clinici.
Difetti della β -ossidazione degli acidi grassi Gli acidi grassi sono una delle principali fonti di energia per i tessuti, muscolo scheletrico e miocardio, che svolgono un lavoro meccanico. Nel fegato l’ossidazione degli acidi grassi produce corpi chetonici che rappresentano un’importante fonte energetica alternativa per tutti i tessuti, incluso il cervello. Durante lo sforzo fisico e il digiuno prolungato la degradazione degli acidi grassi è essenziale per il mantenimento di livelli energetici adeguati. All’interno dei mitocondri gli acil CoA vanno incontro alla β-ossidazione, che consiste in cicli ripetuti di quattro reazioni, ciascuna catalizzata da enzimi specifici per la lunghezza della catena degli acidi grassi, che risultano nella formazione, per ogni ciclo di ossidazione, di un acetil CoA accorciato di due atomi di carbonio e di quattro equivalenti elettroni che vengono trasferiti alla catena respiratoria. (Fig. 37.7)
I difetti di utllizzazione degli acidi grassi si esprimono con episodi acuti di vomito, ipoglicemia ipochetotica e con manifestazioni muscolari e cardiache. In linea generale la presentazione acuta è tipica dell’infanzia e, se il bambino supera la crisi acuta, la malattia può evolvere in forme croniche con ipotonia, ritardo mentale, crisi comiziali, distonia. In età giovanile-adulta la presentazione più comune è quella con miopatia e cardiomiopatia dilatativa, a carattere progressivo, oppure con crisi acute di rabdomiolisi e mioglobulinuria.
Malattie metaboliche genetiche 1603 con mioglobinuria sono state riportate nel difetto di LCHAD.
Difetto di acilCoA deidrogenasi a catena media (MCAD) È il più comune dei difetti della ß-ossidazione: i soggetti sono asintomatici nei periodi tra gli episodi critici, che esordiscono in genere nei primi anni di vita, in seguito a digiuno prolungato o infezioni, con il quadro classico di vomito, ipotonia, sopore, coma e, raramente, con un quadro atipico costituito da convulsioni, opistotono, distonia ed edema cerebrale. Il depistaggio famigliare ha evidenziato soggetti asintomatici omozigoti per il difetto enzimatico. Difetto di acilCoA deidrogenasi a catena corta (SCAD) e difetto di idrossiacilCoA deidrogenasi a catena corta (SCHAD). – È rilevante l’interessamento muscolare cronico. Fig. 37.7 - Rappresentazione del trasporto intramitocondriale carnitina-mediato degli acidi grassi a catena lunga e della b-ossidazione degli acidi grassi. Non sono rappresentate le quattro reazioni di ogni ciclo della b-ossidazione. I numeri si riferiscono ai blocchi metabolici riportati nel testo. 1= difetto di trasporto della carnitina; 2= difetto carnitina palmitoil tranferasi 1; 3= difetto carnitina-acil carnitina translocasi; 4= difetto carnitina palmitoil transferasi 2; 5= difetto acil CoA e 3-idrossi acil CoA a catena lunga; 6= difetto acil CoA deidrogenasi a catena media; 7= difetto acil CoA e 3 idrossi acil CoA a catena corta; 8= difetto sistema trasporto elettroni.
La diagnosi è affidata all’esecuzione delle indagini (glicemia, chetonemia, lattacidemia, piruvicemia, carnitina plasmatica e urinaria, acidi organici urinari) nel corso degli episodi acuti. I tests di provocazione, quali ad esempio il digiuno prolungato, disturbano il paziente e comportano rischi. L’orientamento diagnostico, in base agli aspetti clinici e ai risultati delle indagini, deve essere confermato dal’’analisi enzimatica sulla coltura dei fibroblasti cutanei o sul tessuto muscolare. Difetto di acil CoA deidrogenasi a catena lunga (LCAD )e difetto di 3-idrossiacil CoA deidrogensi a catena lunga (LCHAD) Sono caratteristici l’interessamento epatico persistente, la cardiomiopatia ipertrofica e l’ipotonia muscolare. Neuropatia periferica ingravescente, retinopatia, miopatia
Difetto funzionale multiplo delle acil CoA deidrogenasi FAD dipendenti (MADD, glutaricoaciduria II). – Il difetto della proteina ETF o dell’ETF coenzima Q reduttasi, le due flavoproteine necessarie per il trasporto degli elettroni dalla forma ridotta del FAD alla catena respiratoria, blocca l’attività delle acil CoA deidrogenasi della ß-ossidazione e di quelle deputate alla degradazione degli aminoacidi a catena ramificata e dell’acido glutarico. Si distinguono una variante grave neonatale con o senza anomalie congenite (dismorfismo evocativo della sindrome di Zellweger, reni policistici, displasia nodulare della corteccia cerebrale) a prognosi infausta per exitus precoce o sopravvivenza con grave ipotonia, atassia, distonia, e una variante lieve, ad esordio tardivo, fino all’età adulta, con miopatia progressiva, episodi acuti di scompenso metabolico e sensibilità al trattamento con riboflavina.
Difetti dell’utilizzazione del piruvato Il piruvato è il prodotto terminale della via glicolitica e in presenza di ossigeno attraversa la parete mitocondriale con un meccanismo di trasporto comune ad altri acidi monocarbossilici. Nella matrice mitocondriale viene carbossilato ad ossalacetato, ad opera della piruvatocarbossilasi, o decarbossilato ad acetil CoA, per l’intervento della piruvato deidrogenasi. Queste reazioni hanno un ruolo fondamentale nel metabolismo energetico cellulare, regolando l’at-
1604 Malattie del sistema nervoso
tività del ciclo di Krebs, la gluconeogenesi e la sintesi dei lipidi. Entrambi i difetti enzimatici sono associati ad iperlattacidemia, aumento del rapporto lattato/piruvato e grave compromissione del sistema nervoso, refrattaria ad ogni approccio terapeutico e manipolazioni dietetiche. Difetto della piruvato deidrogenasi (PDH) Il difetto della piruvato deidrogenasi è una condizione clinicamente e biochimicamente eterogenea. La piruvato deidrogenasi è un complesso di tre unità proteiche con funzione catalitica (E1,E2,E3) e di una proteina chiamata “proteina x” con funzione di trasferimento di ioni o gruppi acetilici tra le tre unità. Ciascuna unità è costituita da subunità. La maggior parte del difetto della PDH è causata da mutazioni a carico del gene codificante per la subunità α dell’unità E1 (E1α) mappato nel cromosoma X (Lissen et al. 2000). In linea generale l’espressione clinica del difetto comprende una forma con acidosi lattica precoce e rapida evoluzione fatale, una forma con grave ritardo psicomotorio progressivo, in alcuni casi associato al quadro neuroradiologico della sindrome di Leigh, e una forma ad esordio più tardivo che sembra colpire solo i maschi con lieve ritardo psicomotorio e atassia. Quest’ultima forma sarebbe tiamino sensibile. In considerazione del ruolo essenziale della PDH nel metabolismo energetico del tessuto nervoso, la malattia colpisce sia i maschi che le femmine che hanno un solo allele mutato per cui l’ereditarietà viene definita X-linked dominante. Nelle femmine l’inattivazione random della X (Lyonizzazione) e la prevalenza di mutazioni strutturali (delezioni, inserzioni) rispetto a mutazioni nonsense e missense, comuni nei maschi affetti, giustificano la malattia e la diversa gravità nonostante la presenza di un allele normale. La mancanza di correlazione tra fenotipo clinico e fenotipo biochimico (attività enzimatica residua) nuoce all’affidabilità della diagnosi enzimatica e della prognosi. Rari sono i difetti a carico dell’unità E2 e della proteina-X che si accompagnano sempre a ritardo psicomotorio.
Difetto della piruvato carbossilasi (PC) La malattia ad ereditarietà autosomica recessiva si manifesta con tre fenotipi clinici. Un primo gruppo di pazienti presenta nei primi mesi di vita iperlattacidemia, disturbi dello sviluppo psicomotorio. L’exitus avviene entro i primi anni. Nel secondo gruppo con valori maggiori di lattacidemia, iperammoniemia, e citrullinemia, l’exitus è entro i tre mesi. Il terzo gruppo è caratterizzato da episodi di acidosi in assenza di manifestazioni neurologiche.
Difetti del ciclo di Krebbs In considerazione del suo ruolo centrale nel metabolismo intermedio è probabile che difetti enzimatici completi siano incompatibili con la vita. Sono stati identificati il difetto dell’achetoglutarato deidrogenasi, rarissimo, e caratterizzato da ritardo e regressione delle acquisizioni psicomotorie; il difetto di fumarasi, molto raro, e clinicamente assimilabile alla forma ad esordio precoce del deficit del componente E1 del complesso PDH.
Difetti della catena respiratoria o malattie mitocondriali La caratterizzazione della genetica mitocondriale e la scoperta alla fine degli anni ’80 delle prime mutazioni patogenetiche a carico del DNA mitocondriale, hanno aperto il campo delle malattie mitocondriali che, grazie allo sviluppo delle indagini di genetica molecolare, ha avuto uno straordinario sviluppo. I difetti della catena respiratoria hanno un ruolo essenziale nella produzione di energia per cui l’espressione clinica dei difetti è a livello della maggior parte degli organi. L’interessamento è maggiore per gli organi altamente dipendenti dal metabolismo ossidativo, muscolo e cervello (da cui il termine di encefalopatie mitocondriali) ma anche cuore, fegato, reni, organi emopoietici, ghiandole endocrine e isole di Langherans possono essere coivolti (Di Mauro e Bonilla, 1997). L’eterogeneità delle manifestazioni cliniche, le caratteristiche della ereditarietà mitocondriale ricordate (eteroplasmia, segregazione mitotica, effetto soglia) unitamente alla possibilità che difetti della catena respiratoria siano dovuti a difetti di geni nucleari (quindi a trasmissione mendeliana) o siano sporadici contribuiscono alla difficoltà dell’inquadramento diagnostico. Il sospetto deve nascere dalla presenza di segni e sintomi neurologici eventualmente associati a manifestazioni extraneurologiche e, re-
Malattie metaboliche genetiche 1605
lativamente all’ereditarietà matrilineare, da segni “sfumati” presenti nel ramo materno (bassa statura, cefalea, riduzione delle capacità visive e uditive, diabete mellito) (Di Mauro e Bonilla, 1999). Il laboratorio (in particolare l’aumento del rapporto lattato/piruvato), la neuroradiologia e l’analisi istologica e istochimica del muscolo possono avvalorare il sospetto clinico, ma la diagnosi deve essere affidata all’analisi biochimica e molecolare in laboratori specializzati. Si ricorda che la presenza di RRF (ragged red fibers o fibre rosse stracciate) non è un requisito per la diagnosi di malattia mitocondriale e che, inoltre, possono dipendere dal decorso della malattia. Poichè eguali fenotipi biochimici o molecolari si accompagnano a differenti genotipi clinici e viceversa, non è possibile una classificazione dei difetti della catena respiratoria che correli gli aspetti clinici, biochimici e molecolari. Al momento attuale è in uso la classificazione che distingue i difetti del DNA mitocondriale e quelli del DNA nucleare. Difetti del DNA mitocondriale (mtDNA) Si distinguono malattie da delezione o duplicazione del mtDNA e quelle da mutazioni puntiformi (Servidei, 2000; Di Mauro e Andreu, 2000). Malattie da delezioni o duplicazioni del mtDNA Sindrome di Kearns-Sayre (KSS) e Oftalmoplegia esterna progressiva (PEO) Sono caratterizzate da delezioni, più raramente duplicazioni, del mtDNA che colpiscono il muscolo scheletrico e, in proporzione variabile, altri tessuti. L’oftalmoplegia esterna sembra una forma attenuata e localizzata della KSS. Le lesioni sono in eteroplasmia e la regione deleta può variare da paziente a paziente interessando a seconda dei casi geni strutturali e tRNA. La natura sporadica suggerisce l’intervento di una mutazione somatica dopo la formazione dello zigote. La sindrome di Kearns-Sayre esordisce in genere nell’infanzia con ptosi palpebrale, alterazioni della motilità oculare, ritardo mentale, sordità e blocco di branca cardiaco. Incostanti le disfunzioni endocrine (bassa statura,
ipoparatiroidismo, diabete latente), renali (tubulopatia, prossimale o distale, glomeruolopatia, insufficienza renale) e le convulsioni. L’obiettività neurologica comprende: oftalmoplegie, retinite pigmentosa, atassia cerebellare, segni piramidali. Si osservano iperproteinorrachia e segni elettrofisiologici di neuropatia periferica. Le alterazioni dell’elettroretinogramma e dei potenziali evocati visivi possono precedere il reperto oftalmoscopico di retinopatia. La TC e la RM dimostrano una leucoencefalopatia progressiva, con atrofia corticale e cerebellare, ed eventuali calcificazioni nei gangli della base e nella sostanza bianca del centro semiovale. Il decorso è variabile; la possibilità di episodi sincopali, o di morte improvvisa richiede l’inserimento di pacemaker.
Malattie da mutazioni puntiformi Possono essere suddivise in due gruppi a seconda che colpiscano la sintesi proteica mitocondriale (geni codificanti per rRNA o tRNA) o specifici complessi della catena respiratoria (geni strutturali). Le patologie più comuni del primo gruppo sono le sindromi MELAS e MERRF, mentre quelle del secondo gruppo sono la NARP e l’atrofia ottica di Leber o LOHN.
Encefalomiopatia mitocondriale con acidosi lattica ed episodi di tipo ictale o MELAS. (Mithocondrial encephalomiopathy with lactic acidosis and strokelike episodes)
È una grave encefalopatia progressiva in cui si inseriscono episodi transitori evocativi di patologia cerebrovascolare. I soggetti hanno spesso una storia famigliare e personale di emicrania. L’esordio è in media nella seconda decade, con convulsioni, che con il tempo diventano intrattabili e successivamente scompaiono; ipotonia muscolare, scarsa tolleranza all’attività fisica, demenza. Possono essere presenti bassa statura, diabete mellito, perdita dell’udito, degenerazione retinica e compromissione cardiaca. Gli episodi intercorrenti, spesso preceduti da cefalea in sede occipitale, vomito, dolori addominali e torpore, esordiscono con episodi di tipo ictale (emiparesi motoria e sensitiva, emianopsia, afasia) e si risolvono inizialmente senza sequele. Sufficientemente caratteristiche sono l’epilessia parziale continua e la prevalenza di focolai epilettici occipitali. L’evoluzione neurologica è devastante e la malattia si conclude entro i 10-15 anni.
1606 Malattie del sistema nervoso
In circa la metà dei casi è presente una iperproteinorrachia; costanti sono le fibre muscolari frastagliate (RRF) e l’aumento dell’acido lattico nel sangue e nel liquor. La RM evidenzia immagini considerate specifiche e consistenti in multipli focolai di iperintensità di segnale (nelle sequenze T2 pesate) a distribuzione irregolare, corticale, sottocorticale e cerebellare. Le alterazioni neuropatologiche comprendono calcificazioni del gangli basali, focolai infartuali multipli, necrosi della corteccia e della sostanza bianca sottocorticale. Due sono le mutazioni più frequenti, la A3243T che colpisce l’80% dei pazienti e la T3271C. Le mutazioni sono in eteroplasmia e la porzione di mtDNA mutato si correla con il fenotipo clinico. Mioclono epilessia con fibre frastagliate o MERFF (Myoclonus epilepsy and ragged red fibers). La malattia ha esordio infanto-giovanile e l’obiettività neurologica comprende: incoordinazione prevalentemente statica, tremore, alterazioni della sensibilità superficiale, riflessi profondi ridotti o assenti, eventuale segno di Babinski, disartria, mioclonie specie di azione. Molti soggetti presentano mioclono-epilessia e demenza. Si possono associare: bassa statura, sordità ed atrofia ottica. Il decorso è spesso prolungato. Nel ramo materno dei soggetti malati esiste un’ampia variabilità delle manifestazioni che possono essere limitate ad alterazioni elettrofisiologiche o presenza di RRF in assenza di sintomi clinici. All’EEG si osserva una risposta parossistica alla fotostimolazione. I potenziali evocati visivi, uditivi e somatosensoriali hanno un tempo di latenza prolungato e l’EMG evidenzia alterazioni miogene. Alla TC e alla RM si osserva atrofia cerebrale e cerebellare. Neuropatologicamente si dimostra degenerazione spongiosa dell’encefalo, degenerazione delle colonne posteriori e dei tratti spinocerebellari. Le mutazioni più frequenti sono la A 8344G e la C8356T a carico del gene codificante per il tRNA della lisina.
Neuropatia, atassia, retinite pigmentosa o NARP. È dovuta ad una mutazione nel gene codificante per la subunità 6 della ATP sintasi del complesso V della catena respiratoria. Sono frequenti le mutazioni T8993G e T8993C. La mutazione si riscontra in eteroplasmia con una correlazione tra la percentuale del mtDNA mutato e la gravità clinica. I soggetti che portano una alta percentuale di mutazione manifestano in età infantile il fenotipo clinico e la neuropatologia della sindrome di Leigh. I soggetti in cui prevale il mtDNA non mutato, manifestano in varia combinazione ritardo psicomotorio, polineuropatia sensitivo-motoria, atassia, disturbi visivi e retinite pigmentosa, convulsioni. Le RRF nel muscolo scheletrico sono assenti e la lattacidemia è normale. Il decorso è prolungato. Atrofia ottica di Leber o LHON. È dovuta a differenti mutazioni puntiformi di geni codificanti per le subunità del complesso I della catena respiratoria. Tre mutazioni (G14459A, T14596A, A 11696G) sono responsabili della variante con distonia. La maggior parte dei soggetti al termine della seconda decade, presenta una perdita subacuta bilaterale della visione centrale; si possono associare disturbi della coordinazione dei movimenti e alterazioni della conduzione cardiaca, con alterazioni del ritmo. La degenerazione del nervo ottico e della retina è testimoniata da una caratteristica microangiopatia peripapillare al fundus oculi. Eventuali segni neurologici sono iperrflessia, Babinski e incoordinazione motoria. Le RRF (fibre rosse frastagliate) nel muscolo sono assenti, e il valore dell’acido lattico è nella norma nel sangue e nel liquor. Difetti del DNA nucleare A differenza dei difetti del DNA mitocondriale, sono ereditati secondo criteri mendeliani e sono distinti nei tre seguenti gruppi (DiMauro 1999; Sue, Schon 2000).
Malattie metaboliche genetiche 1607 Difetti in geni nucleari della catena respiratoria. Mutazioni in geni nucleari del complesso I sono state riscontrate nella S. di Leigh (Triepels et al., 1999) e in pazienti con leucodistrofia mioclonica. (Schuelke et al., 1999). In pazienti con sindrome di Leigh sono state trovate mutazioni a carico dei geni nucleari codificanti subunità del complesso II (Parfait et al., 2000).
Difetti in geni di assemblaggio di subunità mitocondriali. Mutazioni a carico di tre geni nucleari codificanti proteine necessarie per la funzione e l’assemblaggio del complesso IV (citocromo C ossidasi o COX) sono stati individuati in tre differenti condizioni cliniche. Mutazioni a carico del gene SURF1 mappato in 9q34 sono risultate associate alla sindrome di Leigh con deficit di COX (Zeviani et al., 1999). In pazienti con grave deficit di COX, cardiomiopatia ipertrofica ed encefalomiopatia neonatale sono state identificate mutazioni a carico del gene SCO2 codificante una proteina necessaria per l’incorporazione del rame nelle subunità I e II della COX (Papadopoulou et al., 1999). Infine mutazioni a carico del gene COX10 codificante una proteina a livello del gruppo prostetico della subunità 1della COX sono state riscontrate in tre fratelli, nati da genitori consanguinei, con manifestazioni neurologiche e tubulari prossimali e ridotta attività della COX nel muscolo (Valnot et al., 2000).
Difetti di comunicazione intergenomica Si tratta di un gruppo di malattie caratterizzate da delezioni multiple e deplezioni dal mtDNA causate da mutazioni in geni nucleari codificanti proteine con un ruolo di regolazione dell’integrità e della quantità del DNA mitocondriale. (Hirano, 2000; Zeviani et al., 1999).
L’oftalmoplegia esterna progressiva dominante (CPEO)caratterizzata da sordità, tremore, cataratta e disordini psichiatrici, è causata da mutazioni a carico del gene ANT1 codificante l’isoforma muscolare dell’adenina nucleotide traslocasi che sembra avere un ruolo nel mantenimento del mtDNA (Kaukonen et al., 2000). L’oftalmoplegia esterna progressiva recessiva è presente in due sindromi, una caratterizzata da miopatia e grave cardiopatia (Bohlega et al., 1995) e l’altra, nota come sindrome MNGIE, da miopatia, leucodistrofia e grave disfunzione intestinale (Nischino et al., 1999).
Sindrome di Leigh La sindrome di Leigh (encefalopatia necrotizzante subacuta) è una malattia neurodegenerativa progressiva geneticamente e clinicamente eterogenea con un comune substrato neuropatologico. Le lesioni del SNC sono focali e simmetriche, interessano in ordine decrescente di gravità i nuclei della base, il tronco, il cervelletto e la corteccia. Sono presenti demielinizzazione, glosi, necrosi, relativo risparmio dei neuroni, proliferazione capillare. La malattia insorge in genere dopo i primi sei mesi di vita con perdita o ritardo delle acquisizioni psicomotorie, spesso precedute da disturbi dell’apparato digerente (vomito, inappetenza, arresto della crescita). I segni neurologici includono atassia, paralisi dei nervi cranici, ipotonia, spasticità, disturbi del respiro. È frequente un peggioramento del quadro clinico in coincidenza di episodi infettivi intercorrenti. Il decorso può essere acutamente letale per insufficienza respiratoria, progressivo con remissioni o esacerbazioni o protratto con periodi di stabilizzazione. Rare sono le forme ad esordio tardivo in età giovanile o adulta spesso con manifestazioni extrapiramidali. Frequenti sono una iperprotenoracchia, a volte con profilo oligoclonale e una riduzione della velocità di conduzione motoria. L’acidosi lattica non è costante. Il sospetto clinico è rinforzato dalle neuroimmagini che dimostrano un particolare aspetto e distribuzione delle lesioni (Fig. 37.8). Uno studio neuroradiologico seriato correlato al followup clinico ha dimostrato uno sviluppo progressivo delle lesioni con interessamento del tronco in concomitanza dei disturbi respiratori senza, tuttavia, correlazione tra età dell’exitus e quadro clinico o neuroradiologico (Arii, 2000). La sindrome di Leigh riconosce una differente ereditarietà in funzione del differente difetto genetico. I difetti del DNA mitocondriale sono sporadici (delezione mtDNA con deficit enzi-
1608 Malattie del sistema nervoso
Fig. 37.8 - M. di Leigh (Encefalomielopatia subacuta necrosante). (A,B,C, RM T2 sezioni assiali). Alterazioni di segnale a livello del bulbo, del tegmento pontino, della testa del nucleo caudato e del putamen bilateralmente.
matici multipli della catena respiratoria) o ad ereditarietà materna (mutazioni T8993G e T8993 C a carico del gene codificante la subunità 6 della ATP sintetasi e altre meno frequenti). I difetti del DNA nucleare ad ereditarietà autosomica recessiva sono i difetti del complesso I (Triepels et al., 1999) e del complesso II (Parfait et al., 2000) della catena respiratoria e il difetto del gene SURF1. Il difetto della subunità E-1α della piruvato deidrogenasi è ad ereditarietà autosomica dominante ma, com’è spiegato nel paragrafo dedicato al difetto di PDH, colpisce in egual numero maschi e femmine. Sul piano biochimico solo le mutazioni a carico del gene SURF1si accompagnano al difetto di COX.
Disordini perossisomiali L’importanza dei perossisomi nel metabolismo cellulare è confermata da un gruppo di malattie causate dal disturbo di una o più funzioni. A distanza di 20 anni dalla descrizione dell’assenza dei perossisomi nella sindrome
cerebro-epatorenale di Zellweger (ZS) sono stati individuati una ventina di disturbi perissosomiali la maggior parte dei quali con sintomatologia neurologica. I perossisomi, organuli presenti in diversa misura nel citoplasma di tutte le cellule ad eccezione degli eritrociti, sono particolarmente abbondanti nel fegato. Nel tessuto nervoso prevalgono negli oligodendrociti rispetto ai neuroni e agli astrociti. Devono il loro nome alla presenza di perossido di idrogeno prodotto dalle ossidasi e degradato dalla catalasi. I perossisomi sono sede di importanti funzioni biochimiche: bossidazione di acidi grassi, di intermedi della sintesi degli acidi biliari, dell’acido pristanico, degli acidi grassi dicarbossilici; tappe iniziali della biosintesi di plasmologeni; b-ossidazione dell’acido fitanico; degradazione dell’acido pipecolico; detossificazione dell’acido gliossilico; biosintesi di colesterolo e dolicolo; allungamento della catena degli acidi grassi; biosintesi degli acidi grassi polinsaturi; metabolismo di alcuni aminoacidi; metabolismo del perossido di idrogeno.
L’identificazione delle malattie perossisomiali è avvenuta per somiglianza clinica o biochimica con la sindrome di Zellweger. Si tratta di un gruppo di malattie molto eterogenee ad ereditarietà autosomica recessiva, ad eccezione della adrenoleucodistrofia X-linked, prive di
Malattie metaboliche genetiche 1609
una stretta correlazione tra alterazioni strutturali, alterazioni biochimiche, fenotipo clinico e, viceversa, fenotipi clinici differenti per esordio e gravità possono corrispondere ad alterazioni biochimiche assolutamente sovrapponibili. Dal punto di vista delle alterazioni biochimiche le malattie perossisomiali sono suddivise in due categorie (Gartner, 2000). La prima è quella dei disturbi della biogenesi dei perossisomi che risulta nel difetto di numerose funzioni perossisomiali. Appartengono a questa categoria la Sindrome di Zellweger (ZS), la adrenoleucodistrofia neonatale (NALD), la malattia di Refsum infantile (IRD), che presentano quadri clinici diversi per natura e gravità dei sintomi, e la condrodistrofia rizomelica puntata (RCDP). La seconda categoria è quella dei difetti di un singolo enzima. Ne fanno parte i difetti della proteina bifunzionale, di DHAP-AT, di acilCoA ossidasi e di tiolasi con un quadro clinico evocativo della ZS, l’adrenoleucodistrofia Xlinked e la malattia di Refsum (Tab. 37.6). Gli altri difetti inclusi in questo gruppo (non presenti nella Tab. 37.6), hanno manifestazioni cliniche diverse. L’iperossaluria si accompagna a nefrolitiasi, l’acatalasemia a lesioni ulcerative soprattutto al cavo orale, la mevalonico aciduria a dismorfismi, cataratta e RM, la di e triossicolestanoico acidemia a lievi dismorfismi, grave ritardo psiocomotorio ed epatopatia e il difetto di glutaril CoA ossidasi a vomiti e ritardo della crescita. L’approccio diagnostico delle malattie perossisomiali viene condotto a livello dei metaboliti (VLCFA, acido fitanico, acido pristanico, plasmalogeni, acidi organici) il cui quadro consente un indirizzo sufficientemente specifico per quasi tutte le malattie che sarà confermato da studi enzimatici e molecolari, limitati a pochi laboratori specializzati. Sono trattate la sindrome di Zellweger e la RCDP come rappresentative dei disordini della biogenesi perossisomiale e la adrenoleucodistrofia X-linked e la malattia di Refsum come esempi di difetti perissosomiali singoli.
Sindrome di Zellweger I neonati manifestano dismorfismo cranio-facciale tipico (fronte alta, fontanella ampia, sopracciglia sottili, radice del naso allargata, epicanto, palato ogivale, micrognazia, cute del collo ridondante), deformità scheletriche (piede equino varo, contratture articolari), difetto di suzione, salivazione, motilità spontanea assente, convulsioni, ipotonia di grado estremo, riflessi assenti. Altri sintomi sono atrofia ottica, cataratta, (opacità corneale), anomalie del pigmento retinico, epatomegalia, cisti renali, criptorchidismo/ipertrofia clitoridea, calcificazioni puntiformi soprattutto a livello della rotula. Lo sviluppo psicomotorio è pressochè assente e l’accrescimento deficitario. L’exitus avviene entro il primo anno.Nella maggior parte dei soggetti si osservano alterazioni della funzione epatica ed aumento della sideremia prive di significato specifico. L’insufficienza surrenalica è stata documentata dal test di stimolazione con ACTH. Costanti sono le alterazioni dell’EEG, con attività parossistica multifocale, e dei potenziali evocati visivi ed uditivi. La neuroradiologia evidenzia pachigiria, ipodensità della sostanza bianca e talvolta ipoplasia del verme cerebellare. All’esame neuropatologico sono evidenti lesioni di tipo disontogenetico e da accumulo. Il disturbo della migrazione neuronale determina una alterazione citoarchitettonica degli emisferi cerebrali, del cervelletto e delle olive inferiori; l’accumulo è costituito da grassi neutri negli astrociti e glicogeno nei neuroni corticali, esistono anche inclusioni lamellari nelle colonne di Clarke e diffuse lesioni aspecifiche. Le alterazioni istopatologiche generali sono rappresentate da cirrosi epatica micronodulare, cisti renali e ipoplasia polmonare. Gli studi biochimici hanno dimostrato che le proteine della matrice perossisomiale sono sintetizzate ma rimangono nel citosol suggerendo un difetto a livello del meccanismo di trasporto all’interno dei perossisomi. Studi di complementazione e molecolari hanno identificato mutazioni a carico di differenti geni PEX codificanti per le proteine della biogenesi perissosomiale. Le mutazioni del gene PEX 1, codificante per una proteina della famiglia delle ATPasi, sono responsabili di circa la metà dei difetti della biogenesi. La mutazione E843D, presente in circa il 30% degli alleli malattia, è associata ai genotipi clinici più lievi, mentre inserzioni e delezioni sono responsabili dei fenotipi più gravi (Gärtner, 2000).
Condrodistrofia rizomelica puntata (RCDP) La malattia si esprime principalmente come una displasia ossea costituita da un accorciamento simmetrico della parte prossimale degli arti, difetto di nuclei di ossificazione, slargamento metafisario, fissurazione dei cor-
+ +++ +++ ++ ++ +++ ++ – ++ – ++ assenti ↑ ↑ ↑ ↑ ↓ alterata alterata multiplo
+++ +++ +++
+++ +++
+ ++
+++ +++ ++ +++ assenti
↑ ↑ ↑ ↑ ↓ alterata alterata multiplo PEX 1,5,6 10,12,13
++ ++ ++ ++ +++ ++
+++ +++ +++ +++ +++ –
PEX 1,2,5 6,10,12,13 16,19
nascita 1½-10 aa ++
nascita <1 a +++
NALD
PEX1
↑ ↑ ↑ ↑ ↓ alterata alterata multiplo
– + – + assenti
– +
+ +
– ++ +
+ + + + +++ +
1-16 m >10 aa +
IRD
normali normali normale ↑ ↓ alterata normale multiplo bifunz. PEX7
– – +++ – alterati
– –
– –
+++ – –
++ – – – ++ –
nascita 1->16 aa +++
RCDP
↑ ↑ normale normale normali normale alterata proteina
+++ presenti
–
+++ +++ +++
<1a –
Deficit proteina bifunz.
↑ ↑ normali normale normali normale alterata DHAPAT
+++ +++ ++ +++ presenti
+ ++
+++ +++
+++ +++ +++
+++ +++ +++ +++ +++ –
nascita <1a +++
Fenotipi
↑ ↑ normale normale normali normale alterata tiolasi
+ + – ++ presenti
+ +
+++ +
+++ +++ +++
+++ +++ +++ ++ +++
nascita <1 a +++
↑ normali normale normale normali normale alterata aCoss
– + – – presenti
– –
+ –
– +++ +++
+++ – +++ +++ +++ ++
nascita <5 aa –
Zellweger-like
Xq 28
↑ normali normali normali normali normale alterata primen
– – – – presenti
+++ +++
– –
– – ++
– – ++ + + +++
6 aa-adulto variabile –
ALDX-legata
normali normali normali ↑ normali normale normale fitoss
– – – – presenti
– –
– –
++ +++ +
– ++ – + ++ ++
10-15 aa Età adulta –
Refsum
ZS= sindrome Zellweger; NALD= adrenoleucodistrofia neonatale, IRD= malattia di Refsum infantile; RCDP= condrodistrofia rizomelica puntata; DHAPAT= diidrossiacetonfosfato aciltransferasi; aCoss = acil CoA ossidasi; pr. mem = proteino membrana perossisomiae; fit oss = fitassico ossidasi
gene o locus
Età esordio Età exitus – Dismorfismo facciale – Alterazioni neurologiche ipotonia ipo-, areflessia convulsioni nistagmo difetto uditivo deterioramento – Alterazioni oculari cataratta disturbi pigmento retinico atrofia/displasia n. ottico – Alterazioni epatiche epatomegalia fibrosi/cirrosi micronodulare – Alterazioni surrene atrofia ridotta risposta ACTH – Altre alterazioni cisti renali criptorichidsmo/clitoridemegalia condrodisplasia punctata – Difetto migrazione neuronale – Perossisomi – Metaboliti diagnostici VLCFA (plasma) acidi biliari (plasma) acido pipecolico (plasma) acido fitanico (plasma) plasmalogeni (G. rossi) – Sintesi plasmalogeno – β-ossidazione VLCFA – Difetto genetico
ZS
Tabella 37.6 - Aspetti clinici e biologici delle malattie perossisomiali.
1610 Malattie del sistema nervoso
Malattie metaboliche genetiche 1611 pi vertebrali. Le calcificazioni puntiformi, che contribuiscono a definire la sindrome, si evidenziano essenzialmente a livello della patella, dell’articolazione scapoloomerale, della colonna e della cartilagine tracheale e scompaiono entro pochi mesi. Fanno parte del quadro clinico cataratta bilaterale, contratture articolari, facies peculiare e grave ritardo psicomotorio. In alcuni pazienti sono riportate ittiosi e alterazioni dei genitali esterni (ipoplasia alle grandi labbra, ipospadia, criptorchidismo). Il fenotipo clinico RCDP è eterogeneo dal punto di vista biochimico. Accanto al tipo classico più frequente caratterizzato dal difetto delle prime tappe della sintesi dei plasmologeni (DHAPT e acil DHAP) e della fitanico ossidasi e dalla presenza della tiolasi perossisomiale nella forma immatura, sono segnalati pazienti con difetti isolati degli enzimi che intervengono nella sintesi dei plasmolageni. Il difetto genetico è a carico del gene PEX 7 codificante per il recettore PTS2 delle proteine della matrice perossisomiale.
Adrenoleucodistrofia X-linked Dopo la descrizione clinica nel 1923, sono stati riportati fino al 1979 pochi casi, corrispondenti al fenotipo del bambino e dell’adulto. La successiva possibilità di una diagnosi biochimica, tramite il dosaggio nel plasma degli acidi grassi a catena molto lunga (VLCFA), ha dimostrato che la malattia è relativamente frequente (1:50.000 circa) e che l’espressione clinica è molto più ampia di quanto fino ad allora ritenuto. Lo spettro clinico dell’adrenoleucodistrofia X-legata spazia da una forma rapidamente progressiva nel bambino in età scolare ad una for-
ma di paraparesi spastica nell’adulto, compatibile con una normale durata di vita (Gärtner et al., 1998). I diversi fenotipi sono stati osservati anche nello stesso gruppo famigliare. Poichè il difetto genetico interessa un singolo gene e poiché i membri di una stessa famiglia hanno presumibilmente lo stesso difetto genetico, è evidente il ruolo di fattori genetici e/o extragenetici nel determinare lo sviluppo e il decorso della malattia. In base all’età di esordio, alla durata della malattia, alla sede e al tipo di alterazioni sono stati distinti 6 fenotipi (Tab. 37.7). La forma cerebrale infantile è la più frequente: i sintomi di esordio, fra 4 e 11 anni, sono: lieve riduzione dell’attenzione e dell’apprendimento, disfasia, riduzione della visione e dell’udito e, raramente, epilessia focale. Ciascuno di questi sintomi può rimanere a lungo isolato, prima della comparsa di disturbi della coordinazione dei movimenti e di segni piramidali, talvolta unilaterali, di cecità di tipo corticale oppure secondaria a lesione del nervo ottico, e della netta evidenza del deterioramento mentale. L’insufficienza surrenalica non è quasi mai il sintomo di esordio, è quasi sempre latente e solo pochi malati manifestano iperpigmentazione cutanea. Il decorso progressivo ha una durata variabile, da pochi mesi ad alcuni anni. La forma cerebrale dell’adolescente è simile a quella infantile con l’eccezione dell’esor-
Tabella 37.7 – Fenotipo clinico dell’adrenoleucodistrofia X-linked. Fenotipo
Cerebrale infantile Cerebrale adolescente Cerebrale adulto Adrenomieloneuropatia (AMN)
Esordio (anni)
Decorso*
Natura delle lesioni
Sede prevalente delle lesioni
7 (4-11) 11-21 27-35 27 (14-60)
3 3 3 >13
Infiammatoria Infiammatoria Infiammatoria Degenerativa Tipo “dying-back” Accumulo
s. bianca emisferi s. bianca emisferi s. bianca emisferi Tratti spinali, n. periferico Cortico-surrene
Addison Asintomatico * Intervallo in anni tra esordio dei sintomi e stato vegetativo o exitus
1612 Malattie del sistema nervoso
dio tardivo. La forma cerebrale dell’adulto è rara e spesso non diagnostica. Si manifesta con turbe psichiche o demenza, o sintomi neurologici focali, suggestivi di una lesione cerebrale occupante spazio ed è rapidamente progressiva. Le indagini neuroradiologiche dimostrano aree simmetriche di ipodensità della sostanza bianca a localizzazione prevalentemente posteriore con rinforzo dopo contrasto al margine periferico dell’area ipodensa. (Figg. 37.9 e 37.10). L’adrenomieloneuropatia (AMN) è seconda per frequenza alla forma cerebrale infantile. Gli emizigoti affetti manifestano, in media alla fine della terza decade, ma con un ampio intervallo tra 14 e 60 anni, andatura paraparetico-spastica, disturbi della sensibilità profonda, soprattutto agli arti inferiori, disturbi sfinterici, vario grado di disfunzione sessuale. Circa nel 50% è presente una modesta compromissione delle funzioni cognitive: disturbi di memoria, soprattutto visiva, e disturbi da alterata funzione frontale. L’insufficienza surrenalica non è costante e il 30% dei casi ha una normale risposta alla stimolazione con ACTH. Frequente (circa la metà dei casi) è invece una insufficienza testicolare primaria conseguente ad alterazioni delle cellule di Leydig.
Il decorso è lento, salvo i casi con compromissione cerebrale, che sembrano costituire una categoria di “adrenomieloneuropatia cerebrale” distinta dalla “adrenomieloneuropatia pura”. La RM evidenzia alterazioni simili a quelle della forma cerebrale, ma più lievi e senza la predilezione parieto-occipitale. Il fenotipo biochimico ALD asintomatico e quello con sintomi di insufficienza surrenalica (ALD solo Addison) possono dimostrare lievi alterazioni alla RM e alle indagini neurofisiologiche, e sono comunque a rischio per sviluppare sintomi neurologici. Circa il 15% delle femmine portatrici, è neurologicamente sintomatico con aspetti simili a quelli dell’adrenomieloneuropatia, ma più lievi, ad esordio più tardivo e suscettibili di remissioni ed esacerbazioni. Raramente è presente insufficienza surrenalica. Nell’11% delle femmine sintomatiche è stata posta la diagnosi di sclerosi multipla. Gli aspetti neuropatologici sono differenti. Nella forma cerebrale è evidente un processo di disintegrazione della mielina, che determina aumento dei macrofagi con accumulo lipidico, risposta infiammatoria perivascolare e vaste aree di gliosi fibrillare. Nell’adrenomieloneuropatia sono interessate prevalentemente le parti distali degli assoni Fig. 37.9 - Adrenoleucodistrofia, maschio aa 12. (A,B, RM T1 e T2 sezioni assiali). Vasta area di alterato segnale sia in T1 che in T2 nella sostanza bianca temporo-occipito-parietale (sede tipica), con aspetto simmetrico, interessamento dello splenio del corpo calloso e risparmio delle fibre a “U”. (Osservazione Dr. Tortori Donati, Ist. G. Gaslini, Genova).
Malattie metaboliche genetiche 1613
Fig. 37.10 - Adrenoleucodistrofia, maschio aa 10, sede atipica. (A,B,C, T2 sezioni assiali); (D,E, T1 sezioni coronali, con contrasto); (f, T1 sezione sagittale, con contrasto). Vaste aree di alterato segnale nella sostanza bianca frontale bilateralmente, ginocchio del corpo calloso e braccia anteriori della capsula interna ed esterna. A livello del mesencefalo sono riconoscibili due aree iperintense (frecce, C) in relazione con l’interessamento dei tratti cortico-spinali. Dopo contrasto rinforzo alla periferia delle lesioni e lungo i tratti cortico-spinali a livello della capsula interna bilateralmente (E). Sia in T2 (A) che in T1 dopo contrasto (F) sono chiaramente identificabili le tre «zone di Schaumburg» che distinguono neuropatologicamente questa malattia: «zona 1»: assenza di assoni, guaine mieliniche e oligodendroglia, e presenza di glia fibrillare, astrociti, aree di cavitazione e depositi di calcio; «zona 2», perifericamente alla prima, con area di attiva demielinizzazione, accumuli di macrofagi e assoni demielinizzati, e anche assoni con guaina mielinica intatta, con rinforzo dopo contrasto; «zona 3», la più esterna, è il fronte avanzante di demielinizzazione; esiste un’attiva distruzione della mielina, senza segni di infiammazione. (Osservazione Dr. Tortori Donati, Ist. G. Gaslini, Genova).
con un processo degenerativo tipo “dyingback”, e la demielinizzazione appare secondaria al coinvolgimento assonale. L’accumulo lipidico è stato rilevato nelle cellule della corteccia surrenale, nelle cellule di Schwann e nelle cellule di Leydig.
Non del tutto chiara è la correlazione tra accumulo di acidi grassi a catena molto lunga e patogenesi delle lesioni. Mentre esiste l’evidenza sperimentale che gli acidi grassi a catena molto lunga riducono la risposta all’ACTH del corticosurrene, attraverso un aumento della
1614 Malattie del sistema nervoso
microviscosità della memebrana cellulare che ne riduce i recettori ormonali, più complesso è il problema a livello nervoso, anche in rapporto alle differenze tra forma cerebrale e adrenomieloneuropatia. L’evidenza di una importante infiltrazione linfocitaria perivascolare nelle aree di demielinizzazione del SNC di pazienti affetti dalla forma infantile e il riscontro di elevati livelli serici di anticorpi antimielinici ha suggerito un meccanismo autoimmune nel determinare l’evoluzione della malattia. Il dosaggio degli acidi grassi a catena lunga (VLCFA) nel plasma è affidabile per la diagnosi del paziente ma non per la diagnosi prenatale e per quella delle femmine portatrici. Il gene responsabile della malattia, mappato nella regione X q28, codifica per una proteina della membrana perossisomiale con funzione di trasporto ATP dipendente. Differenti mutazioni nel gene ALD sono state identificate nella maggior parte dei pazienti. La conoscenza della mutazione nel malato consente la diagnosi molecolare in occasione della diagnosi prenatale e della diagnosi di eterozigosi nelle famiglie a rischio. Esclusi differenti approcci terapeutici risultati inefficaci, sono da considerare la terapia endocrina e dietetica, e il trapianto di midollo. La sostituzione ormonale non modifica il decorso della malattia, ma porta un miglioramento ed è indispensabile nel fenotipo “solo Addison”. Il trattamento dietetico è basato sull’osservazione sperimentale che gli acidi grassi monoinsaturi riducono la sintesi degli acidi grassi a catena molto lunga, probabilmente per competizione inibitoria del sistema microsomiale di allungamento degli acidi grassi. Una dieta carente in acidi grassi a catena molto lunga con aggiunta glicerolo trioleato (GTO) e glicerolo trierucato (GTE) nel rapporto 4:1 (“olio di Lorenzo” a riconoscimento del ruolo di Augusto e Michela Odone nella preparazione della miscela per il proprio figlio) normalizza i livelli plasmatici degli acidi grassi in questione entro circa 4 settimane, ma senza sostanziali effetti clinici. La
progressione neurologica della forma cerebrale è eguale o lievemente rallentata rispetto a quella dei soggetti non in dietoterapia. Incoraggianti sono gli effetti sul nervo periferico nella adrenomieloneuropatia, ma in considerazione del lento decorso della malattia, è necessario un follow -up prolungato per la conferma. Non vi è quindi alcuna indicazione ad iniziare il trattamento nei pazienti affetti dalla forma infantile o giovanile con sintomi neurologici evidenti che hanno comportato perdita dell’autonomia a svolgere le attività quotidiane. L’assenza di effetti collaterali o tossici è un’indicazione al trattamento dietetico ai pazienti presintomatici o paucosintomatici e agli adulti affetti da AMN per acquisire dati su una maggior numero di pazienti e per tempi più lunghi. Il trapianto di midollo osseo ha ricevuto particolare attenzione a seguito della segnalazione della normalizzazione clinica e neuroradiologica in un paziente di 11 anni a distanza di tre anni dal trapianto. Il ragazzo è stato trapiantato in condizioni favorevoli rappresentate dal donatore famigliare compatibile e dall’esistenza di modesti segni neurologici. Considerato il rischio del procedimento, l’indicazione al trapianto di midollo richiede molta prudenza anche in considerazione del fatto che esiste una percentuale di pazienti con il fenotipo biochimico della malattia destinati a non sviluppare alcun danno neurologico nel corso della loro vita. Appaiono pertanto candidati al trapianto i pazienti con danni neurologici lievi o presintomatici con alterazioni certe alla RM in presenza di un donatore compatibile. I risultati migliori sembrano essere ottenuti nei pazienti che hanno eseguito la terapia dietetica per alcuni mesi. La terapia genetica farmacologica è recentemente apparsa un approccio promettente per migliorare o prevenire le manifestazioni della malattia. Nella coltura dei fibroblasti dei pazienti e nel topo knockout la lovastatina e il 4-fenilbutirrato hanno ristabilito la b.ossidazione perossisomiale (Kemp et al., 1998; Netik et al., 1999).
Malattie metaboliche genetiche 1615
Una risposta obiettiva alla efficacia delle diverse strategie terapeutiche potrebbe risultare dalla recente proposta di uno studio multicentrico interazionale controllato con placebo dei pazienti classificati con rigorosi criteri in base all’età di esordio e al grado di coinvolgimento neuroradiologico.Questa proposta che utilizzerebbe le vie elettroniche di comunicazione dovrebbe condutrre a risultati definitivi ovviando al problema della rarità dei casi e della imprevedibile variazione dell’espressione fenotipica (Moser et al., 2000). Malattia di Refsum La tetrade retinite pigmentosa, polineuropatia periferica, atassia cerebellare, iperproteinoracchia è diagnostica della sindrome di Refsum. Incostanti sono sordità neurogena, anosmia, ittiosi, displasie epifisarie e alterazioni elettrocardiografiche aspecifiche. La malattia inizia generalmente nella seconda decade con difetto della visione notturna e disturbi della deambulazione. Il decorso è progressivo con periodi di remissione spontanea in circa la metà dei casi con possibilità di esacerbazioni in occasione di situazioni varie (episodi febbrili, interventi chirurgici, gravidanza, rapido calo ponderale) e anche di morte improvvisa in assenza di cause apparenti. I nervi periferici si presentano uniformemente ingrossati con estesa demielinizzazione e si osserva degenerazione di alcuni tratti spinali e dei fasci olivo-cerebellari. Il difetto della fitanico ossidasi ad ereditarietà autosomica recessiva determina accumulo generalizzato dell’acido fitanico il cui elevato livello nel plasma ha valore diagnostico. Non è noto il ruolo patogenetico dell’eccesso di acido fitanico. Sono state ipotizzate una interferenza con la funzione delle vitamine liposolubili o con l’incorporazione degli acidi grassi nelle membrane oppure l’inserzione delle proteine nelle membrane per specifiche funzioni.
Poiché non esiste una produzione endogena di acido fitanico l’esclusione dalla dieta riduce l’accumulo con arresto o miglioramento dei sintomi preesistenti. L’efficacia del trattamento è correlato alla precocità dell’inizio delle misure dietetiche.
Disordini vari DISTURBI DELLA SINTESI DELL’EME Le porfirie congenite sono disordini della sintesi dell’eme, gruppo prostetico di proteine come emoglobina, mioglobina, catalasi perossidasi e citocromo C. A seconda della sede in cui è maggiormente espresso il difetto genetico, si distinguono in eritropoietiche ed epatiche. Ciascun difetto enzimatico è caratterizzato da uno specifico tipo di accumulo e di eliminazione di prodotti intermedi della sintesi dell’eme, alcuni dei quali polimerizzano a contatto dell’aria, risultando nel tipico colore rosso cupo delle urine. Solo quattro difetti enzimatici nella sintesi epatica si accompagnano a disturbi neurologici (Tab. 37.8). L’interessamento del sistema nervoso è da mettere in relazione con un effetto tossico di metaboliti in eccesso, alla produzione di una sostanza ad azione vasocostrittrice nelle arterie, nei nervi e alla mancanza di derivati porfirinici essenziali per il metabolismo della mielina. Le alterazioni del nervo sono scarse: rigonfiamento della guaina mielinica, con limitate zone di demielinizzazione e assoni pallidi. Le porfirie ad ereditarietà dominante hanno una variabile espressione clinica. Il difetto enzimatico può rimanere asintomatico per tutta la vita oppure manifestarsi con episodi ricorrenti, variabili per frequenza e gravità, scatenati da barbiturici, estrogeni, alcool, digiuno, infezioni o fattori sconosciuti. Porfiria acuta intermittente. – È la più comune tra le porfirie epatiche con una incidenza compresa tra
1616 Malattie del sistema nervoso Tabella 37.8 - Porfirie epatiche con espressione neurologica. Porfiria acuta intermittente (IAP) Ereditarietà Difetto enzimatico deaminasi
AD porfibilinogeno ossidasi
Coproporfiria ereditaria (HCP) AD
Porfiria variegata (PV)
AD
coproporfirinogeno ossidasi
protoporfirinogeno sintasi
Difetto porfobilinogeno sintasi
AR porfibilinogeno
Sintomi cutanei
–
rari
+
–
Sintomi neurologici
+
+
+
+
(+++) (+++) ++ N
(+++) (+++) + ++
(+++) (+++) + ++
(+++) + + +++
N N
+++ +
+ +++
N N
Urine: delta-aminolevulinico porfibilinogeno uroporfirina coproporfirina Feci: coproporfirina protoporfirina
Escrezione aumentata +; moderatamente aumentata ++; molto aumentata +++; solo in alcuni pazienti (+), solo durante gli episodi acuti (+++). AD= autosomica dominante; AR= autosomica recessiva
1:10.000 e 1:100.000 a seconda delle regioni. Il difetto genetico consiste nella riduzione dell’enzima porfobilinogeno deaminasi che trasforma il porfobilinogeno in uroporfirina I. I farmaci o le condizioni che accentuano l’attività dell’acido delta aminolevulinico sintasi, deputato alla sintesi del porfobilinogeno, producono un eccesso di questo composto che, non potendo essere degradato, viene eliminato, insieme ad altre uroporfirine, nelle urine. Il difetto enzimatico è espresso nei linfociti, nella coltura dei fibroblasti cutanei, negli eritrociti e negli amniociti oltrechè nel tessuto epatico. I sintomi clinici ricorrenti si manifestano solo in circa un terzo dei soggetti con il difetto enzimatico. La malattia colpisce soprattutto il sesso femminile oltre la pubertà e in alcune donne gli attacchi sono correlati al ciclo mestruale o si evidenziano durante la gravidanza o dopo il parto. Il dolore addominale moderato o intenso, colico, generalizzato o localizzato, è il sintomo iniziale, frequenti sono la stipsi, il vomito, la febbre e la leucocitosi che possono simulare una malattia infiammatoria intestinale, ma l’addome è sempre trattabile senza aree di resistenza. La compromissione del sistema nervoso periferico assume l’aspetto di una multineuropatia «a neuriti multi-
ple successive». I disturbi sono soprattutto motori e prediligono i muscoli degli arti superiori e quelli della loggia antero-esterna della gamba, e possono provocare una paraparesi o una quadriplegia. Frequente è la compromissione di nervi cranici che porta a disfagia, oftalmoplegia e atrofia ottica; non rara, e responsabile della maggior parte dei casi mortali, è la compromissione dei muscoli respiratori; eccezionali le crisi convulsive. I disturbi sensitivi sono rappresentati da parestesie, dolori e ipostesie. L’ipotensione posturale, la tachicardia parossistica, la ritenzione urinaria e l’ipersudorazione testimoniano l’interessamento del sistema nervoso autonomo. I disturbi psichici sono molto variabili e consistono in stato ansioso con insonnia e irritabilità, stato depressivo, allucinazioni. I sintomi clinici sono associati ad alterazioni di alcune costanti biologiche ed in particolar modo iposodiemia e ipomagnesemia. Gli attacchi variano in durata, da giorni a mesi, in frequenza e gravità; in genere la risoluzione è completa, ma alcuni deficit neurologici possono persistere per mesi o anni. La diagnosi deve essere sospettata di fronte ad una multineuropatia motoria ad esordio acuto. La concomitanza di disturbi addominali e psichici e del colore rosso
Malattie metaboliche genetiche 1617 bruno (colore del vino «Porto») delle urine è significativa. Le urine appena eliminate sono di colore chiaro e diventano scure successivamente, in quanto il porfobilinogeno polimerizza a uroporfirina e a un pigmento scuro. Il dosaggio dell’attività della porfobilinogeno deaminasi negli eritrociti, linfociti o fibroblasti cutanei delle forme latenti non è affidabile per la frequente sovrapposizione tra i valori di controllo e quelli dei soggetti affetti. Il trattamento è mirato al blocco della sintesi dell’eme tramite un elevato apporto di glucosio (infusione endovenosa alla dose di 20 g/ora). Se entro 48 ore non esiste miglioramento bisogna ricorrere all’infusione di ematina (4mg/kg infusi in 10-15 minuti ogni 12 ore per 3-4 giorni). Importante è la prevenzione degli episodi acuti istruendo i pazienti ad evitare i fattori scatenanti e nelle donne con crisi durante il ciclo mestruale è consigliata la somministrazione giornaliera per via sottocutanea o nasale, di antagonisti dell’ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante (LHRH).
Disordini del metabolismo purinico e pirimidinico
labbra fino a determinare mutilazioni e questo comportamento è associata ad agitazione psicomotoria e deterioramento mentale. La sintomatologia renale si evidenzia nella tarda infanzia o nell’adolescenza. Sono noti quadri parziali che si esprimono con segni clinici variabili ed incompleti. L’iperuricemia e, soprattutto, l’iperuricuria sono parametri suggestivi per la diagnosi, che deve trovare conferma nel dosaggio enzimatico nei globuli rossi o nei fibroblasti. L’enzima HGPRT è presente nei villi coriali e nelle cellule coltivate di liquido amniotico, per cui è possibile la diagnosi prenatale. Il trattamento con allopurinolo è efficace solo a livello della patologia renale. I risultati della terapia genica a livello sperimentale fanno sperare nella possibilità di trasferire il gene dell’HGPRT tramite un vettore retrovirale nelle cellule del midollo osseo dei malati. Difetto dell’adenilosuccinasi. - È stato riportato in soggetti con ritardo mentale grave, autismo, crisi convulsive, ipoplasia del verme cerebellare e movimenti patologici. Disordini del metabolismo pirimidinico a presentazione neurologica. – Vanno ricordati l’oroticoaciduria e due difetti enzimatici (pirimidino deidrogenasi e diidrossi piriminidasi) associati a ritardo mentale e convulsioni.
I disturbi congeniti del metabolismo purinico e pirimidinico sono meno numerosi di quelli in altre aree metaboliche e in considerazione del loro ruolo biologico fondamentale è possibile che alcuni difetti siano incompatibili con la vita.
Dislipoproteinemie
Sindrome di Lesch-Nyhan.- Il difetto della ipoxantino-guanina-fosforibosil transferasi (HGPRT), trasmesso con modalità X-linked, è il più comune dei difetti del metabolismo purinico. Esiste un’ampia eterogeneità molecolare documentata da differenti mutazioni puntiformi o microdelezioni a livello del gene, alcune delle quali correlate a definiti fenotipi clinici. L’ipoxantina non utilizzata per la sintesi purinica è catabolizzata ad acido urico o escreta. La deplezione in ipoxantina che svolge un ruolo di regolazione della sintesi dell’acido urico, si ripercuote in un aumento della produzione dell’acido urico che aumenta nel sangue e viene eliminato in eccesso nelle urine. La mancanza di adeguate lesioni istopatologiche, è in favore del ruolo di una possibile alterazione dei neurotrasmettitori nei gangli basali. L’iperuricemia è responsabile della nefropatia uratica. Il quadro neurologico classico esordisce nel primo anno, con ritardo dello sviluppo psicomotorio ed ipotonia; successivamente compaiono segni extrapiramidali (distonia e coreoatetosi) e piramidali e, in elevata percentuale di soggetti, un comportamento autolesivo. In assenza di dolore, il malato comincia a mangiarsi le dita e le
Le manifestazioni neurologiche delle iperlipoproteinemie sono riferibili alla patologia vascolare. Nel gruppo delle ipolipoproteinemie vanno ricordate due condizioni caratterizzate da neuropatia. Abetalipoproteinemia (sindrome di Bassen-Kornzweig). – È una condizione ad ereditarietà autosomica recessiva, dovuta al difetto della apoproteina B (Apo B), che presiede al trasporto dei lipidi nel sistema linfatico attraverso la mucosa intestinale. Il difetto di assorbimento dei lipidi comporta una carenza delle vitamine liposolubili ed in particolare della vitamina E, che ha un effetto antiossidante, principalmente a livello degli acidi grassi polinsaturi. L’alto tenore in acidi grassi insaturi dei fotorecettori retinici e del sistema nervoso spiegano, almeno in parte, la sensibilità di queste strutture ai fenomeni di lipoperossidazione. Gli aspetti neuropatologici consistono in estese demielinizzazioni dei tratti spino-cerebellari, dei cordoni anteriori del midollo e dei nervi periferici, perdita di neuroni nella corna anteriori e nel cervelletto. Nei primi anni di vita prevalgono i sintomi riferibili al malassorbimento dei grassi (steatorrea, difetto di crescita). L’interessamento del sistema nervoso compare
1618 Malattie del sistema nervoso oltre il secondo anno e si consolida in età adulta e comprende: ritardo mentale, riduzione delll’acutezza visiva e cecità notturna, con degenerazione tapeto-retinica, atassia statica, disartria cerebellare, areflessia profonda, ipoestesia profonda; sono presenti cifoscoliosi e piede cavo. La diagnosi, sospettata su base clinica ed oftalmoscopica, è confermata dall’ipocolesterolemia, dall’acantocitosi e, in ultima analisi, dall’assenza dell’apoproteina B. La somministrazione di dosi elevate di vit. E (100 mg/ kg/die per os) previene le manifestazioni della malattia, e migliora quelle in atto, in rapporto al momento in cui è iniziata. La somministrazione vitaminica per via intramuscolare non è più efficace di quella per via orale; è consigliabile associare la somministrazione di vitamine A e K. Ipobetalipoproteinemia. – È trasmessa con modalità dominante e allo stadio omozigote realizza un quadro sovrapponibile a quello dell’abetalipoproteinemia. Gli eterozigoti sono solitamente asintomatici.
Malattia di Pelizaeus-Merzbacher/ Paraplegia spastica 2 La malattia di Pelizaeus-Merzbacher (PMD) e la paraplegia spastica 2 (SPG 2) sono gli estremi dello spettro clinico delle malattie causate da mutazioni nel gene codificante la sintesi della proteina proteolipidica (PLP) che determinano un dosordine della mielinizzazione del sistema nervoso centrale (Inoue et al., 1999). Entrambe le malattie sono ereditate con modalità legata alla X e sono state trovate nei maschi di una stessa famiglia. La forma più grave è la PMD neonatale che esordisce alla nascita o nelle prime settimane di vita con ipotonia, nistagmo e spesso convulsioni. Lo sviluppo psicomotorio è gravemente compromesso e in genere i pazienti muoiono durante l’età infantile. La classica PMD si manifesta nei primi mesi di vita con nistagmo e ipotonia, seguita da ritardo psimotorio, paraplegia spastica, atassia cerebellare. I pazienti possono acquisire in età scolare la deambulazione con uso di tutori che è tuttavia perduta all’adolescenza per l’aumento della spasticità. Il controllo volontario delle braccia
è spesso discreto, possono comparire atetosi e distonie. Le funzioni cognitive sono meno compromesse di quelle motorie. La sopravvivenza è prolungata anche oltre la quarta decade. Esiste una variante della PMD classica, definita PMD null, in quanto causata dalla delezione del gene PLP, dalla quale si distingue per assenza di nistagmo, quadro neurologico meno grave e neuropatia periferica. La paraplegia spastica SPG2 non si accompagna a sintomi a carico del SNC ma può presentare talvolta disfunzioni del sistema nervoso autonomo che sono presenti in una variante di SPG2, detta SPG2 complicata, in associazione ad atassia, nistagmo e modesto deficit cognitivo. Questi soggetti hanno una normale aspettativa di vita. Le femmine portatrici possono manifestare sintomi neurologici soprattutto se appartenenti a famiglie con maschi affetti dalle varianti lievi di PMD. Le indagini neurofisiologiche ed in particolare i potenziali del tronco dimostrano il prolungamento o l’assenza della latenza della componente centrale. L’esame neuropatologico evidenzia l’ assenza della mielina a livello della sostanza bianca cerebrale con risparmio di isolotti perivascolari a livello dei quali si riscontra un accumulo di lipidi sudanofili (aspetto “tigroide” o “patchy”). Gli assoni sono relativamente conservati e gli oligodendrociti contengono inclusioni lamellari. Le neuroimmagini riflettono l’aspetto neuropatologico con un ipersegnale in T2 (Fig 37.11) L’analisi molecolare è essenziale per una diagnosi esatta nei soggetti con sospetto clinico, neurofisiologico e neuroradiologico. La duplicazione di una porzione del cromosoma X contenente il gene PLP è la mutazione più frequente essendo presente nel 50% circa dei pazienti. Le dimensioni del segmento duplicato variano da caso a caso (Inoue et al., 1999). La maggior parte dei fenotipi clinici causati dalla duplicazione corrispondono alla PMD classica, ma esistono anche casi con fenotipi gravi.
Malattie metaboliche genetiche 1619
Una doppia dose del gene PLP determina una sovraespressione della proteina che risulta in un danno degli oligodendrociti che sintetizzano la mielina (Garben et al., 1999). Le mutazioni puntiformi presenti nel 15-20% dei pazienti sono associate ad eterogeneità clinica comprendente la forma connatale e le forme lievi di paraparesi spastica. La delezione del gene PLP è molto rara e si accompagna a un quadro lieve di PMD chiamata “variante null”. In circa il 5-20% dei pazienti con fenotipo clinico suggestivo della diagnosi di PMD non sono state trovate mutazioni a livello del gene PLP. Malattia di Alexander La malattia è caratterizzata dalla presenza nel tessuto nervoso di astrociti contenenti inclusioni fibrillari denominati fibre di Rosenthal. L’espressione clinica di questo marker istopatologico è variabile. In genere l’esordio è nell’infanzia con macrocefalia, ritardo mentale, convulsioni ed exitus entro la prima decade. Esistono anche casi ad esordio giovanile o in età adulta con atassia, segni bulbari, spasticità e decorso lentamente progressivo. Il quadro RM è suggestivo evidenziando uuna iperintensità in T2 a carico della sostanza bianca prevalentemente frontale e parietale. Recentemente, in una limitata casistica di pazienti sono state individuate mutazioni a carico della regione codificante una proteina presente negli astrociti (GFAP) suggerendo un disordine primitivo degli astrociti (Brenner et al., 2001).
Malattia di Menkes È un raro disturbo dell’assorbimento e del trasporto del rame, trasmesso con modalità X-legata. Istologicamente si rileva estesa degenerazione della sostanza grigia con perdita dei neuroni e gliosi, spiccata perdita delle cellule di Purkinje nella corteccia cerebellare e demielinizzazione. La sintomatologia è riconducibile alla disfunzione dei numerosi sistemi enzimatici ramedipendenti; sono costanti: mancanza o arresto dello sviluppo psicomotorio, crisi epilettiche e particolare aspetto dei capelli, che sono scarsi, corti, fragili, decolorati e all’esame microscopico appaiono ritorti («pili torti»). Altri sintomi sono: microcefalia, lieve dismorfismo facciale (asimmetria, bozze frontali, guance paffute),
ipotermia, difetto di crescita, infezioni respiratorie, pallore della papilla ottica, nistagmo, malformazioni diverse (idrouretere, ernia, petto incavato, criptorchidismo, ecc.), ematomi sottodurali, alterazioni ossee (osteoporosi, ossa wormiane, allargamento a coppa delle metafisi delle ossa lunghe, reazione periostea diafisaria, ecc.) e tortuosità dei vasi sanguigni all’esame angiografico. La prognosi è negativa, i bambini non superano il secondo anno, ma esistono casi atipici con decorso meno grave. La somministrazione parenterale di rame normalizza la cupremia senza alcun effetto clinico. La diagnosi sospettata in base al ridotto livello della ceruloplasmina e del rame nel plasma deve essere confermata dall’accumulo dello stesso nella coltura dei fibroblasti cutanei. Lo studio del metabolismo del rame nella coltura dei fibroblasti, negli amniociti coltivati e nei villi coriali consente la diagnosi della condizione di portatrice e la diagnosi prenatale. Le femmine portatrici hanno spesso alterazioni dei capelli d’intensità minore di quella presente nei malati. La diagnosi molecolare è utile in quanto la conoscenza della mutazione nella famiglia a rischio, oltre a garantire la condizione di portatrice, abbrevia il tempo di risposta della diagnosi prenatale.
Difetto di sintesi di creatina Il difetto della guanidinoacetato metiltransferasi (GAMT) ad ereditarietà autosomica recessiva è il primo errore metabolico nella sintesi della creatina individuato nell’uomo (Van der Knaap et al., 1997). La creatina e il suo composto fosforilato creatina fosfato hanno un ruolo essenziale nell’accumulo e nel trasporto di gruppi fosforici ad alto livello energetico nel muscolo e nel cervello. La creatina è catabolizzata a creatinina che è eliminata nelle urine. La perdita giornaliera di creatinina deve essere sostituita dall’apporto esogeno e dalla sintesi endogena di creatina. I pochi casi riportati in letteratura manifestano ritardo dello sviluppo psicomotorio seguito da regressione, ipotonia, movimenti extrapiramidali, epilessia intrattabile, disturbi del comportamento. Considerata l’aspecificità del quadro clinico, l’estensione dei tests diagnostici è giustificata dalla favorevole risposta al trattamento con creatina. Lo screening tramite il dosaggio della creatinina nel sangue non è adeguato in quanto il valore può essere normale o ai limiti bassi. È suggestivo l’aumento generalizzato degli aminoacidi nelle urine riferiti alla creatinina. Sono diagnostici l’aumento nelle urine di composti guanidinici, precursori della creatina e il dosaggio dell’attività enzimatica (GAMT) nei leucociti. È possibile anche la diagnosi molecolare. La spettroscopia RM dimostra una importante riduzione di segnale in corrispondenza della creatina e l’aumento in corso della terapia orale sostitutiva.
1620 Malattie del sistema nervoso
Sindrome di Sjogren-Larsson È un disturbo autosomico recessivo comprendente ittiosi congenita, ritardo mentale, diplegia spastica o tetraplegia, degenerazione retinica in circa la metà dei casi e sopravvivenza fino all’età adulta. Il difetto biochimico, dimostrabile nei leucociti, nei fibroblasti, nei villi coriali e nelle cellule coltivate di liquido amniotico, consiste nel difetto dell’enzima nicotinamide adenina dinucleotide ossidoreduttasi (FAO), necessario per l’ossidazione dell’alcool grasso ad acido grasso. Le misure dietetiche sono risultate inefficaci.
Sindrome di Smith-Lemli-Opitz La sindrome, ad ereditarietà autosomica recessiva, descritta come un insieme di malformazioni congenite è diventata il prototipo delle sindromi malformative metaboliche. La malattia è causata dal difetto della 7-deidrocolesteroloreduttasi che conduce all’accumulo di 7-deidrocolesterolo e ipercolesterolemia. L’identificazione del gene ha dimostrato una estesa eterogeneità genetica. Clinicamente presenta dismorfismi multipli (microcefalia, facies caratteristica, anomalie dei genitali esterni, anomalie cardiachee delle dita degli arti), ritardo mentale e difetto fisico. Sono note varianti lievi in età adulta. L’efficacia di una dieta ricca di colesterolo non sembra significativa.
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Malattie del sistema nervoso vegetativo o disautonomie 1623
38. Malattie del sistema nervoso vegetativo (SNV) o disautonomie A. Schenone, N. Dagnino
La definizione dei confini e dei contenuti di questo capitolo appare tutt’altro che agevole, ove si consideri che, a rigor di termini, l’unica disautonomia caratterizzata esclusivamente da una sintomatologia di tipo vegetativo, in assenza di altri segni di sofferenza neurologica, è la cosiddetta Insufficienza Autonomica Pura (IAP). Tutte le altre disautonomie tradizionalmente riportate nei manuali di neurologia consistono quasi sempre in fenomeni di insufficienza vegetativa associati alla sintomatologia neurologica principale, sia essa primitiva (ovvero su base neurodegenerativa) oppure secondaria a patologie neurologiche da causa nota, acute o croniche. Le disautonomie secondarie, a loro volta, sono ulteriormente suddivise tenendo conto della localizzazione del processo morboso oppure del contesto clinico in cui sono insorti i disturbi neurovegetativi. Sia le disautonomie primarie che le disautonomie secondarie possono dipendere da un interessamento delle strutture vegetative centrali oppure delle strutture vegetative periferiche (post-gangliari), donde la suddivisione in disautonomie centrali e disautonomie periferiche. Esiste poi un gruppo di disautonomie estremamente eterogenee, il cui unico denominatore comune è rappresentato dalla particolare settorialità della sintomatologia le cui basi anatomo-fisiologiche, peraltro, sono solo parzialmente conosciute. Queste forme vengono comunemente denominate disautonomie focali. Al momento non esistono migliori criteri per un’adeguata classificazione delle malattie del sistema nervoso autonomo.
Disautonomie centrali A. Assini, M. Colucci Le aree del SNC che controllano le attività toniche, riflesse ed adattative del sistema vegetativo simpatico e parasimpatico includono: la parte anteriore del giro del cingolo, la corteccia insulare e prefrontale ventro-mediale, il nucleo centrale dell’amigdala, il talamo mediale, l’ipotalamo paraventricolare dorsomediale e laterale, la sostanza grigia periacqueduttale, il nucleo del tratto solitario, il nucleo motore dorsale del vago ed il bulbo ventro-laterale. Queste aree, ricevendo informazioni viscerali, regolano l’attività dei neuroni simpatici pregangliari della colonna intermediolaterale del midollo spinale tra T1 e L2 e dei neuroni parasimpatici pregangliari del tronco encefalico e del midollo sacrale. Qualsiasi lesione a carico di una di queste strutture anatomiche è in grado di determinare una disfunzione vegetativa. Spesso tali disfunzioni concorrono ad arricchire il quadro clinico di malattie neurodegenerative cronico-progressive, con la comparsa di ipotensione ortostatica, ipo-anidrosi, alterazioni della motilità gastrointestinale, della funzione sessuale e della continenza sfinterica. D’altra parte, lesioni traumatiche, patologie infiammatorie, vascolari e neoplastiche del SNC possono determinare una disfunzione autonomica ad esordio acuto, caratterizzata da iperattività vegetativa (ipertensione, tachiaritmie, iperidrosi e ipertermia). Classificazione In relazione alla loro eziopatogenesi, ovvero al loro carattere primitivo o secondario, le
1624 Malattie del sistema nervoso
disautonomie centrali possono essere distinte in: – primarie – secondarie (prevalentemente associate a lesioni focali della corteccia cerebrale, dell’ipotalamo, del tronco encefalico e del midollo spinale).
Disautonomie centrali primarie Queste entità nosografiche, ad eziologia sconosciuta, sono caratterizzate, sul piano neuropatologico, da un depauperamento neuronale a carico del nucleo dorsale del vago e delle strutture vegetative centrali, in particolare della colonna intermedio-laterale del midollo spinale. L’interessamento delle strutture neuronali centrali non è tuttavia esclusivo, potendo coinvolgere anche le strutture autonomiche periferiche, come nel caso della IAP. La relativa sintomatologia è prevalentemente di tipo deficitario per cui si distinguono le seguenti condizioni: – Insufficienza autonomica in corso di Atrofia Multisistemica (IA/AMS) – Insufficienza autonomica in corso di Malattia di Parkinson (IA/MP) – Insufficienza autonomica in corso di altre patologie neurodegenerative – Insufficienza autonomica pura (“IAP”, nota anche come “PAF”, dall’inglese “Pure Autonomic Failure”) Come è già stato detto, le manifestazioni disautonomiche che accompagnano le malattie degenerative del sistema nervoso centrale sono dovute a una sofferenza elettiva delle strutture neurovegetative centrali, mentre la IAP è a tutti gli effetti una forma mista in cui la prevalente sofferenza del sistema nervoso vegetativo postgangliare si associa a segni di disfunzione delle strutture pregangliari e intraassiali. Essa verrà trattata nell’ambito di questo capitolo unicamente per chiarezza espositiva.
A) Insufficienza autonomica primaria in corso di Atrofia Multisistemica (IA/AMS). In passato quadri clinici di insufficienza vegetativa a decorso cronico progressivo o di ipotensione ortostatica idiopatica erano considerati come varianti dell’AMS (v. pag. 000), nota anche come Malattia di Shy-Drager nelle forme in cui la disautonomia è associata a parkinsonismo. Queste dizioni sono da considerarsi superate in quanto è stato dimostrato che la presenza di un’insufficienza autonomica primaria rappresenta solo un aspetto del complesso spettro di presentazione della AMS, che comprende anche segni cerebellari, piramidali ed extrapiramidali. In particolare, è stato osservato che: a) la presenza di segni di disfunzione vegetativa si osserva nel 75% dei casi di AMS; b) la disautonomia può essere il primo sintomo di malattia (ed in questo caso è invariabilmente seguita dalla comparsa di altri segni neurologici tipici entro 5 anni) o comparire entro 2 anni dal suo esordio. NEUROPATOLOGIA Il substrato neuropatologico della disautonomia nella AMS è rappresentato, così come nella malattia di Parkinson, dal depauperamento neuronale a carico della colonna intermedio-laterale del midollo spinale; il riscontro di una perdita selettiva di fibre mieliniche di piccolo calibro a livello del cordone laterale permette di ipotizzare, inoltre, un coinvolgimento soprasegmentale. È frequente un interessamento del nucleo dorsale del vago e del nucleo parasimpatico sacrale di Onuf, mentre un depauperamento cellulare ipotalamico non è mai stato chiaramente documentato. Per maggiori dettagli sulla neuropatologia dell’AMS v. pag. 000. NEUROCHIMICA Studi condotti su tessuto cerebrale e sul liquor cefalorachidiano hanno dimostrato una compromissone di diversi sistemi neurotrasmettitoriali ed in particolare di
Malattie del sistema nervoso vegetativo o disautonomie 1625 quello colinergico, monoaminergico e peptidergico. Sono state, infatti, documentate: 1) deplezione di acetilcolintransferasi, Dopamina e norepinefrina nei gangli della base, nell’ipotalamo, nel setto e nel locus coeruleus. 2) deplezione di Sostanza P e del peptide correlato al gene della calcitonina nel corno dorsale e nella sostanza grigia intermedia del midollo spinale toracico. 3) riduzione del GABA a livello cerebellare. Nel liquor dei soggetti affetti da AMS si registra, inoltre, una riduzione dei livelli di Sostanza P, Acetilcolinesterasi e dei metaboliti di Dopamina, Norepinefrina (NE) e Serotonina, al contrario di quanto si osserva nella Insufficienza autonomica pura (Polinsky, 1990).
FISIOPATOLOGIA L’insufficienza vegetativa in corso di AMS dipende essenzialmente dall’alterazione di tre livelli neurovegetativi: A) neuroni efferenti pregangliari B) centro bulbare di controllo delle funzioni vasomotorie e respiratorie C) sistema centrale di controllo della funzione ipotalamica La diminuzione dell’attività efferente pregangliare determina alterazioni a carico del controllo vasomotorio, cardiaco, gastrointestinale, genitourinario e della sudorazione. Nelle fasi iniziali di malattia, le cellule dei gangli simpatici risultano per lo più risparmiate; ciò spiega il normale livello plasmatico di norepinefrina in clinostatismo ed il suo normale incremento in seguito a somministrazione di edrofonio (farmaco che potenzia l’attività colinergica nei gangli autonomici). Tuttavia, negli stadi più avanzati di malattia, si osserva costantemente una degenerazione delle strutture postgangliari, che comporta un incremento, peraltro inefficace, dei livelli plasmatici di NE nel passaggio dal clinostatismo all’ortostatismo. Questo test risulta di notevole interesse nella diagnosi differenziale tra le diverse forme di insufficienza autonomica primaria; come vedremo, infatti, nei pazienti con MP i tassi basali di norepinefrina in clinostatismo e il loro incremento in ortostatismo sono normali, mentre nella IAP, per la selettiva compromissione delle strutture simpatiche postgangliari, si registrano tassi plasmatici di NE inferiori alla norma già in clinostatismo.
La compromissione dei centri bulbari determina la comparsa di aritmie respiratorie e cardiache ed altera il controllo cardio-respiratorio riflesso in risposta a modificazioni dell’ossigenazione ematica e dei livelli di CO2. Le disfunzioni vasomotorie centrali si manifestano, oltre che col mancato incremento dei livelli plasmatici di norepinefrina in ortostatismo, anche con la “reazione ipertensiva paradossa”, che si genera in clinostatismo in risposta alla somministrazione di sostanze vasocostrittrici. Infine, nella AMS, si può osservare un alterato controllo centrale di alcune funzioni neuroendocrine ipotalamiche; in particolare, è stata documentata una riduzione della secrezione di vasopressina in risposta all’ipotensione ortostatica, mentre la disfunzione di alcuni circuiti colinergici ipotalamici sarebbe la causa della mancata secrezione di ACTH in risposta all’ipoglicemia (Polinski, 1987).
SINTOMATOLOGIA Ipotensione ortostatica Di regola piu’ marcata al mattino, è la piu’ importante manifestazione disautonomica in corso di AMS. Essa è determinata dal mancato incremento riflesso dell’attività simpatica nel passaggio dal clino- all’ortostatismo e può essere rivelata, inizialmente, da una eccessiva risposta ipotensiva alla terapia con L-Dopa. Lo spettro di manifestazioni cliniche conseguenti ad ipotensione ortostatica è molto ampio, variando da una semplice sensazione di capogiro ed instabilità posturale a veri e propri episodi lipotimici o addirittura sincopali. Non infrequentemente il paziente potrà riferire disturbi del visus o una sensazione di marcata astenia associata a facile faticabilità. Così come in altre disfunzioni autonomiche progressive, l’ipotensione può verificarsi anche in clinostatismo, specie durante il periodo post-prandiale, a causa della mancata risposta compensatoria alla vasodilatazione splancnica.
1626 Malattie del sistema nervoso
Disturbi della continenza sfinterica Minzione imperiosa, pollachiuria, nicturia e disuria costituiscono sintomi di frequente riscontro, specie nelle fasi iniziali di malattia, e sono connesse alla perdita del controllo inibitorio sull’attività del detrusore. Piu’ tardivamente insorge una grave incontinenza urinaria associata ad importante residuo vescicale, determinata dalla degenerazione del nucleo di Onuf nel midollo sacrale (segmenti S2-S3 e S3-S4), con perdita delle efferenze autonomiche e conseguente disfunzione sfinterica uretrale. La gravità dell’incontinenza urinaria nella AMS contrasta, caratteristicamente, con la rarità di tale fenomeno nella MP. La stipsi è il più importante disturbo gastrointestinale in corso di AMS; il ricorso prolungato al torchio addominale può, inoltre, determinare crisi ipotensive non controbilanciate da un’efficace risposta riflessa vasomotoria. Occasionalmente può manifestarsi incontinenza fecale, sebbene tale condizione sia rara e si verifichi esclusivamente nelle fasi più avanzate della malattia. Disfunzioni sessuali L’impotenza è presente all’esordio in circa il 40% dei soggetti di sesso maschile e può costituire l’unico sintomo di malattia per diversi anni; la sua prevalenza può raggiungere il 96% nelle fasi più avanzate. Normalmente esordisce con difficoltà nell’erezione e solo in un secondo momento si sviluppano turbe dell’eiaculazione. Disturbi cardio-respiratori La compromissione del centro cardio-respiratorio bulbare nelle fasi avanzate di malattia può rappresentare un’importante causa di mortalità. Si possono osservare, in circa il 15-20% dei pazienti, alterazioni della frequenza cardiaca e respiratoria, stridore laringeo (per paralisi dei muscoli abduttori) ed apnee ostruttive centrali o miste, più frequenti durante le fasi
REM e non-REM 1 e 2 del sonno (v. pag. 000 e pag. 000). Disturbi della motilità oculare Sono state descritte in corso di AMS alterazioni pupillari con anisocoria, sindrome di Bernard-Horner e presenza di movimenti saccadici orizzontali. Rarissimo il riscontro di una paralisi sopranucleare dello sguardo (comunente osservata nella PSP). Disturbi del sonno Le alterazioni del ciclo sonno-veglia (v. pag. 1645) ricorrono frequentemente nel contesto delle malattie vegetative primarie e secondarie; inoltre, come è ben noto, le fasi stesse del ciclo sonno-veglia sono caratterizzate da un ricco corteo di fenomeni vegetativi, specialmente in fase REM (“tempeste neurovegetative”). Ciò si verifica in quanto esiste una importante sovrapposizione fra i substrati anatomici e fisiopatologici coinvolti nel controllo del sonno e delle funzioni vegetative e neuroendocrine. Disturbi del sonno, rappresentati da alterazioni comportamentali connesse a frequenti e vividi incubi in fase REM (“RBD” dall’inglese “REM behaviour disorder”), si osservano nel 69% dei pazienti affetti da AMS. Questa fenomenologia, spesso presente già nelle prime fasi della malattia, può rimanere isolata per molti anni, tanto che alcuni autori considerano la presenza di RBD un valido criterio diagnostico differenziale, che permetterebbe di discriminare l’AMS dalla IAP (Plazzi, 1998). Disturbi della termoregolazione Si manifestano normalmente con ipertermia e sono determinati dalla disfunzione del sistema sudomotorio post-gangliare.
DIAGNOSI DI DISAUTONOMIA NELLA AMS Tra i tests utilizzati (per cui si rimanda al paragrafo specifico) ricordiamo:
Malattie del sistema nervoso vegetativo o disautonomie 1627
– Tests autonomici – Prove Urodinamiche – EMG dello sfintere esterno (il cui impiego è stato recentemente posto in discussione, poiché non è sufficientemente affidabile) – Registrazione polisonnografica (per valutare la presenza di eventuali apnee ostruttive morfeiche) – Studi neurochimici (dosaggio plasmatico della Norepinefrina in clino- ed ortostatismo e della Vasopressina in risposta al passaggio all’ortostatismo), il cui impiego non è ancora entrato nella routine.
B) Insufficienza autonomica primaria in corso di Malattia di Parkinson (IA/MP) DATI EPIDEMIOLOGICI L’incidenza di disfunzione vegetativa primaria nel Parkinson (v. pag. 1068) non è precisamente quantificabile, poiché frequentemente si sovrappongono segni di disautonomia associati all’uso di L-Dopa, dopamino-agonisti e anticolinergici. Ciò non di meno, il riscontro clinico di disturbi neurovegetativi è piuttosto frequente e si calcola che il 10% circa dei soggetti affetti da MP presenti ipotensione ortostatica. NEUROPATOLOGIA Il substrato neuropatologico della disfunzione vegetativa è rappresentato da una significativa perdita neuronale a carico delle colonne intermediolaterali del midollo spinale, peraltro meno grave rispetto alla AMS. SINTOMATOLOGIA Ipotensione ortostatica Si tratta di un disturbo ad eziologia multifattoriale conseguente, non solo alla disfunzione autonomica, ma anche all’età e all’effetto ipotensivo della L-Dopa e dei farmaci Dopa-
minoagonisti. L’ipotensione ortostatica interessa circa il 58% dei pazienti in fase avanzata di malattia (Senard, 1997) e la sua comparsa nelle fasi iniziali deve sempre porre il sospetto diagnostico differenziale di una AMS. Asintomatica nel 38% dei pazienti, viene riferita, nel 20% dei casi, come “sensazione di instabilità posturale”, “vertigine” o “disequilibrio”. Anche l’ipotensione post-prandiale è un sintomo di comune riscontro, così come nella AMS. Disturbi urinari Sono presenti in oltre il 75% dei casi e dipendono probabilmente dal coinvolgimento di due diverse strutture anatomiche deputate al controllo dell’attività del detrusore, situate nella corteccia frontale e nella formazione reticolare ponto-mesencefalica; i disturbi urinari sono dovuti all’iperattività del detrusore e consistono in minzione imperiosa, nicturia, pollachiuria e disuria. Molto meno frequente il riscontro di incontinenza urinaria, che può comparire nelle fasi più avanzate della malattia. Disturbi gastrointestinali Il sintomo di più frequente osservazione è rappresentato dalla stipsi, che si osserva nel 75% dei parkinsoniani ultrasessantenni. Spesso si assiste anche ad una alterazione della motilità gastroesofagea (documentata nel 70% dei pazienti). Sono stati, inoltre, segnalati casi di megacolon e di volvoli del sigma (Chaudhuri, 2000). Disturbi sessuali Possono essere direttamente correlati alla patologia di base o determinati dall’uso di farmaci ad effetto anticolinergico. Si possono osservare anche difficoltà di erezione e/o di eiaculazione. Il riscontro di una grave impotenza è, tuttavia, più frequente nella AMS. Scialorrea e disfagia Di frequente osservazione in corso di malattia di Parkinson, sono dovute al coinvolgimento
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della muscolatura faringea e tendono ad accentuarsi durante le fasi “off”. Seborrea ed alterazioni della termoregolazione Si ipotizza che la perdita del controllo dopaminergico inibitorio sulla secrezione dell’ormone melanina-stimolante (MSH) determini seborrea, un fenomeno di comune riscontro nei pazienti parkinsoniani. I disturbi della termoregolazione dipendono per lo più da una compromissione della sudorazione (ipoidrosi del tronco e degli arti inferiori ed iperidrosi compensatoria della faccia e degli arti superiori) e potrebbero essere causati dal coinvolgimento dell’ipotalamo, dove si osservano depauperamento neuronale e corpi di Lewy. La disautonomia termoregolatoria può determinare franchi quadri di ipertermia, specie in fase avanzata; nella genesi dell’ipertermia sarebbero implicate anche le discinesie indotte dal trattamento cronico con L-Dopa che non sono compensate da un adeguato riflesso sudomotorio (Chaudhuri, 2000). Calo Ponderale Spesso i pazienti affetti da MP presentano un progressivo calo ponderale, per cui viene ipotizzato un possibile ruolo ipotalamico (Oertel e Quinn, 1996).
sulla diversa evoluzione e gravità delle due malattie e sulla differente risposta alla L-Dopa (per maggiori dettagli vedi capitolo…), va qui ricordato che i disturbi vegetativi in corso di MP compaiono solitamente nelle fasi avanzate di malattia e sono meno pronunciati rispetto alla AMS. Di qualche utilità diagnostica può essere il ricorso al test di incremento della norepinefrina nel passaggio dal clinostatismo all’ortostatismo, in quanto esso risulta normale nella malattia di Parkinson ed alterato nella AMS (v. pag. 000). C) Insufficienza autonomica in corso di altre malattie neurodegenerative La presenza di una disfunzione autonomica, associata a ipotensione ortostatica, può manifestarsi, sebbene non tipicamente, anche in corso di Malattia di Huntington (v. pag. 1091), Sclerosi Laterale Amiotrofica (v. pag. 1273) e Paralisi Sopranucleare Progressiva (PSP) (v. pag. 1087). In particolare, sebbene il riscontro di una marcata disautonomia sia da alcuni autori considerato un criterio di esclusione per la diagnosi di PSP, studi neuropatologici hanno dimostrato un frequente coinvolgimento di numerose strutture autonomiche, come l’ipotalamo ed il locus coeruleus. Nella Paralisi Sopranucleare Progressiva sono stati segnalati quadri di incontinenza urinaria e disturbi del sonno, secondari ad una perdita neuronale nel nucleo peduncolo-pontino.
Disturbi del sonno Sono costituiti da insonnia, sonnolenza diurna ed incubi notturni. Il meccanismo fisiopatologico è tuttora oscuro. Sono state formulate diverse ipotesi nella genesi di tali disturbi, tra cui una possibile ipofunzione noradrenergica conseguente al depauperamento neuronale a carico del locus coeruleus (Seeman e Van Tol, 1993).
Recentemente è stata riscontrata una disfunzione autonomica anche in corso di Malattia a corpi di Lewy, con disautonomia cardiovascolare, ipotensione ortostatica, disfagia, stipsi, incontinenza, nicturia, turbe della sudorazione (specie durante i fenomeni allucinatori) e disturbi del sonno (RBD).
Diagnosi differenziale Di fronte alla associazione di disautonomia e parkinsonismo si pone un problema di diagnosi differenziale tra MP e AMS. Sebbene l’orientamento diagnostico si basi prevalentemente
D) Insufficienza autonomica pura (IAP) Descritta per la prima volta nel 1925 da Bradbury ed Eggleston, la IAP è stata successivamente ridefinita Sindrome da Ipotensione
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ortostatica Idiopatica da Thomas e Schirger nel 1970. Si tratta di una rara sindrome che usualmente esordisce in età medio-avanzata con una disfunzione diffusa e lentamente progressiva del sistema nervoso vegetativo centrale e periferico. Il “Consensus Committee della American Autonomic Society” e dell’”American Academy of Neurology” del 1996 l’ha definita “una malattia idiopatica sporadica, caratterizzata da ipotensione ortostatica, frequentemente associata ad una diffusa compromissione del sistema neurovegetativo, in assenza di altri segni di sofferenza neurologica. È riconosciuta la possibilità che alcuni pazienti con diagnosi iniziale di IAP risultino, in realtà, affetti da altre patologie neurodegenerative come l’Atrofia multisistemica. La caratteristica essenziale della malattia consiste nel riscontro di bassi livelli di norepinefrina in clinostatismo”.
SINTOMATOLOGIA Le manifestazioni cliniche della IAP sono estremamente eterogenee, essendo caratterizzate da i più disparati segni di compromissione del sistema nervoso vegetativo. In particolare, si possono osservare: – ipotensione ortostatica (che rappresenta il più frequente motivo di ricorso all’osservazione medica) – ipotensione postprandiale – perdita del controllo sfinterico – impotenza (che spesso costituisce il sintomo d’esordio della malattia nel sesso maschile) – ipo-anidrosi (che può coinvolgere fino al 90% della superficie corporea) – nicturia – ipertensione in clinostatismo – riduzione del metabolismo basale e della motilità gastrointestinale. L’esordio è spesso insidioso e la descrizione della sintomatologia fornita dal paziente può
essere vaga e fuorviante; potrà essere riferita una sensazione di malessere generale (specie post-prandiale), di astenia, o di disequilibrio. La perdita dei riflessi vasomotori rende i soggetti estremamente suscettibili agli stimoli pressori; ne consegue che le terapie con nitroderivati, l’iperventilazione, l’ingestione di cibo o alcool e l’esercizio fisico possono determinare una drammatica riduzione della pressione arteriosa. D’altra parte i farmaci simpaticomimetici, l’ipoventilazione e l’assunzione di cibi ricchi di tiramina possono provocare improvvise puntate ipertensive. È tuttavia frequente, in questi pazienti, il riscontro di ipertensione arteriosa in clinostatismo con marcata riduzione della concentrazione plasmatica di renina. La funzione cardiaca è relativamente conservata, nonostante si possa frequentemente riscontrare un’ipertofia ventricolare sinistra su base ipertensiva. Nei casi precocemente diagnosticati e opportunamente trattati la prognosi è relativamente buona, con una sopravvivenza media di circa 20 anni. La causa più comune di morte è rappresentata dall’embolia polmonare.
FISIOPATOLOGIA Evidenze farmacologiche ed istochimiche dimostrano in maniera convincente che la IAP dipende prevalentemente da una disfunzione del sistema nervoso vegetativo periferico; in particolare il deficit basale di norepinefrina suggerisce una sofferenza delle strutture adrenergiche postgangliari. Ne consegue che i precursori della NE (come la L-treo-3,4-diidrossifenilserina), che agiscono centralmente, non hanno alcun effetto ipertensivo nei pazienti con IAP, mentre producono sempre un rialzo pressorio nei casi di ipotensione ortostatica associata a AMS o ad altre malattie neurodegenerative centrali. Studi in immunofluorescenza hanno dimostrato una riduzione significativa delle vescicole sinaptiche noradrenergiche nella IAP e non nella AMS, a livello dei plessi nervosi simpatici perivascolari (Bannister, 1981). È stata documentata, inoltre, una riduzione della liberazione di norepinefrina a livello miocardico, verosimilmente dovuta ad una perdita di terminali sinaptici (Goldstein, 1997). Altri studi, riguardanti soprattutto la funzione sudomotoria e termoregolatoria, sembrano evidenziare una
1630 Malattie del sistema nervoso sofferenza delle strutture pregangliari. In particolare, test con iniezione intradermica di metacolina non determinano, nei pazienti affetti da IAP, una sudorazione eccessiva come avviene nei casi di denervazione sensitiva. Esistono, inoltre, casi in cui i livelli basali di NE sono normali e il profilo incrementale in ortostatismo è deficitario come nella AMS, evidenziando una sofferenza dell’attivazione simpatica pregangliare. Queste ipotesi sono suffragate dell’evidenza neuropatologica di un depauperamento cellulare a carico delle colonne intermediolaterali del midollo.
4 e il 33% ed è associata alla perdita parafisiologica di cellule neuronali delle colonne intermedio-laterali del midollo spinale. L’ipotensione ortostatica senile è per lo più moderata, stress-dipendente e reversibile, contrariamente alla IAP in cui l’ipotensione ortostatica è severa, persistente e generalmente associata ad altri segni di disautonomia.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
Disautonomie centrali secondarie
Negli stadi iniziali è difficile formulare una diagnosi di certezza e un giudizio prognostico attendibile. Spesso, infatti, è possibile solo una diagnosi di esclusione non essendo infrequenti i casi in cui al quadro clinico, inizialmente caratterizzato da una disautonomia pura, si aggiungono segni neurologici che possono configurare altre entità nosografiche, come la AMS. La comparsa di segni cerebellari, piramidali o extrapiramidali rappresenta un criterio di esclusione di IAP che può essere sospettata solo se l’insufficienza autonomica rimane un fenomeno isolato per almeno 5 anni. È importante anche escludere l’eventuale presenza di neuropatie autonomiche paraneoplastiche, di pandisautonomia acuta e di amiloidosi sistemica, condizioni che normalmente presentano un decorso clinico più rapido e si associano a segni o sintomi sensitivi conseguenti alla sofferenza distale delle piccole fibre nervose. Si ricorda, inoltre, che una insufficienza vegetativa isolata in un paziente di giovane età impone sempre l’esclusione di un’eventuale difetto congenito della Dopamina beta-idrossilasi, sebbene quest’ultima condizione sia estremamente rara. Nella diagnosi differenziale dovravanno essere poi considerate altre patologie di comune riscontro quali l’ipotensione iatrogena, la disfunzione corticosurrenalica, i vari distiroidismi, l’insufficienza venosa e la comune sindrome da ipotensione ortostatica senile. Questa ultima condizione ha una prevalenza che oscilla tra il
La comparsa di segni clinici di iper- o ipofunzione del sistema vegetativo può caratterizzare la fase acuta o cronica di svariate patologie del sistema nervoso centrale. Utilizzando un criterio anatomo-clinico, possiamo distinguere le seguenti forme: – Disautonomie corticali – Disautonomie ipotalamiche e diencefaliche – Disautonomie tronco-encefaliche – Disautonomie midollari – Disautonomie in corso di emergenze neurologiche.
A) Disautonomie corticali Le manifestazioni neurovegetative associate a sofferenza della corteccia cerebrale possono riconoscere una genesi irritativa o deficitaria e sono secondarie a molteplici patologie neurologiche (tumori, malattie cerebrovascolari, traumi cranici, sindromi demielinizzanti, etc). Al di là della sintomatologia viscero-sensitiva, che tipicamente caratterizza l’aura epigastrica (v. pag. 000), esistono poi vere e proprie crisi epilettiche vegetative in cui il quadro clinico è dominato da disturbi autonomici. In particolare, focolai epilettogeni localizzati in specifiche regioni cerebrali (circuito amigdaloippocampale, giro del cingolo, corteccia frontopolare anteriore ed orbito-frontale) possono
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dare luogo ad una grande varietà di fenomeni neurovegetativi. Non infrequentemente crisi epilettiche a sintomatologia parziale complessa si associano alla comparsa di disturbi del ritmo cardiaco, del controllo pressorio, dell’attività peristaltica gastro-intestinale o del comportamento sessuale; repentine aritmie cardiache possono essere causa di morte improvvisa in una percentuale non trascurabile di pazienti epilettici. Fenomeni di iperattività cardiovagale, associati ad asistolia e sincopi cardiogene, sono stati descritti in corso di epilessia del lobo temporale medio-basale (vedi pag. Seitun), così come crisi sudomotorie e pilomotorie, con orripilazione ed iperidrosi. Le manifestazioni disautonomiche a genesi deficitaria associate a lesioni corticali o, più genericamente, emisferiche cerebrali riguardano soprattutto le funzioni genito-urinarie. Per lesioni prefrontali e fronto-basali si possono realizzare turbe della condotta sfinterica con perdita del controllo inibitorio di tali funzioni, che vengono pertanto espletate in modo inopportuno ed intempestivo. Ciò si verifica, per esempio, nelle fasi avanzate della Malattia di Alzheimer e della Demenza Frontotemporale. Una vera e propria incontinenza sfinterica, dovuta alla perdita del controllo volontario, si verifica, invece, per lesioni del lobulo paracentrale (pre-o post-rolandico) e delle circonvoluzioni frontali superiori. La sofferenza di tali strutture è all’origine dell’incontinenza urinaria che caratterizza l’idrocefalo normoteso (v. pag. 625). La fase acuta o cronica delle lesioni cerebrali emisferiche può essere contraddistinta da alterazioni pressorie e vasomotorie, da turbe della termoregolazione, dei riflessi pilomotori e sudomotori, nonché da disturbi del trofismo cutaneo e mucoso e dell’attività peristaltica gastrointestinale. È frequente, per esempio, che nelle fasi acute di un ictus emisferico frontale od opercolare l’emiplegia controlaterale si ac-
compagni ad una sindrome ipertermica con ipoidrosi ed abolizione del riflesso pilomotorio; in fase subacuta e cronica tale sintomatologia può esitare in manifestazioni di segno opposto, con ipotermia ed iperidrosi. Gli infarti della regione mesiale del lobo frontale possono produrre incontinenza urinaria e fecale, febbre, tachicardia e, talora, morte improvvisa per aritmia cardio-respiratoria. Infine, va ricordato che la sofferenza del nucleo talamico mediodorsale e del circuito amigdalo-orbitofrontale, che si osserva nell’Insonnia Fatale Familiare, può generare una “Sindrome da iperattività autonomica”, caratterizzata da iperidrosi, ipertermia, tachicardia ed ipertensione. Tale sindrome può essere, talora, molto pronunciata e costituire un segno distintivo della malattia (Lugaresi et al., 1986).
B) Disautonomie ipotalamiche e diencefaliche Le disfunzioni ipotalamiche possono produrre una varietà di disturbi neurovegetativi, isolati o associati ad alterazioni neuroendocrinologiche. Le più importanti sindromi vegetative ipotalamiche coinvolgono il controllo della termoregolazione: in particolare, lesioni a carico del nucleo soprachiasmatico possono compromettere il controllo circadiano della temperatura corporea. Quadri di ipertermia persistente sono stati descritti in corso di patologie ipotalamiche neoplastiche, degenerative, infiammatorie e demielinizzanti. Una sindrome ipertermica può essere presente nelle fasi avanzate dell’Encefalopatia di Wernicke (v. pag. 1310). La comparsa di segni di iperattività autonomica può verificarsi, inoltre, per lesioni diencefaliche. Nel 1929 Penfield descrisse un paziente con una neoplasia a livello del forame di Monroe, che presentava segni di disautonomia acuta consistenti in improvvise puntate ipertensive, tachicardia, tachipnea, ipertermia, vasodilatazione cutanea, iperidrosi ed iperlacrimazione. Nota
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anche con il termine di “epilessia diencefalica”, tale condizione non è in realtà associata a segni elettroencefalografici di comizialità, né risponde al trattamento con farmaci antiepilettici. La sindrome vegetativa diencefalica è oggi considerata conseguente ad uno stato di decorticazione o di ipertensione endocranica acuta, quale si verifica, per esempio, nell’idrocefalo ostruttivo acuto.
– Siringobulbia: si associa piuttosto caratteristicamente ad ipotensione ortostatica e ad alterazione delle funzioni cardiovagali. In questa sindrome il coinvolgimento bilaterale del nucleo del tratto solitario può determinare, inoltre, frequenti fluttuazioni della pressione arteriosa. Sono stati descritti, infine, quadri di edema polmonare acuto neurogeno per lesioni demielinizzanti adiacenti al nucleo del tratto solitario in corso di Sclerosi Multipla.
D) Disautonomie midollari C) Disautonomie tronco-encefaliche Le lesioni tronco-encefaliche piu’ comunemente responsabili di disfunzioni autonomiche riguardano la sostanza grigia peri-acqueduttale, la regione parabrachiale ed il bulbo. Le lesioni a carico della regione parabrachiale possono determinare comparsa di vomito incoercibile e farmaco-resistente. Piu’ significativa, dal punto di vista clinico, risulta essere la sofferenza dei centri autonomici bulbari coinvolti nel controllo delle funzioni vasomotorie, cardiovagali e respiratorie. Verranno citate di seguito alcune situazioni in grado di compromettere, con meccanismo diretto (lesionale) o indiretto (compressivo), la funzionalità dei centri autonomici bulbari: – Tumori troncali o cerebellari: possono determinare, in fase iniziale, turbe della regolazione pressoria e cardiovagale. L’ipotensione ortostatica è un segno di comune riscontro in corso di lesioni espansive in fossa posteriore, mentre crisi ipertensive acute sono state descritte in associazione a tumori cerebellari o dell’angolo ponto-cerebellare. – Attacchi ischemici transitori in territorio vertebrobasilare: possono determinare quadri di ipertensione parossistica che simulano un feocromocitoma e che precedono la comparsa dei segni di sofferenza parenchimale bulbare. – Ictus ponto-bulbari: producono quadri drammatici di disautonomia acuta generalizzata che possono provocare il decesso del paziente per arresto cardio-respiratorio. – Sindrome di Wallenberg (lesioni bulbari laterali) (pag. 000): bradicardia, ipotensione in clinostatismo ed ipoventilazione centrale possono saltuariamente caratterizzare tale sindrome.
Qualunque tipo di lesione midollare è in grado di determinare l’insorgenza di turbe vegetative. Ciò avviene raramente in corso di lesioni vascolari e neoplastiche, mentre accade molto spesso in conseguenza di lesioni traumatiche e demielinizzanti. – Lesioni midollari traumatiche: occorre distinguere la sintomatologia neurovegetativa che si verifica in fase acuta da quella che caratterizza la fase cronica. Nel primo caso è sempre presente un disturbo della funzione sfinterica con ritenzione urinaria e stipsi ostinata; nel segmento corporeo sottostante alla lesione si osservano, inoltre, alterazioni della temperatura corporea (usualmente più elevata) e scomparsa dei riflessi pilomotore e sudomotore. Nei soggetti tetraplegici con lesioni sopra T5 può esservi una significativa riduzione della pressione arteriosa per la compromissione dell’attività simpatica. In fase cronica (o in corso di lesioni non traumatiche che evolvano in maniera progressiva) le suddette disfunzioni sfinteriche possono esitare in quadri di grave incontinenza; la temperatura nei settori corporei sottolesionali tende a diminuire e ricompare un vivace riflesso pilomotore ipsilateralmente allo stimolo. In corso di tetraplegie croniche, la stimolazione cutanea o muscolare sottolesionale determina la comparsa di risposte riflesse massive con orripilazione, sudorazione profusa e, talora, svuotamento automatico di retto e vescica (“mass reflex”). In questi casi la risposta riflessa può talvolta accompagnarsi a gravi puntate ipertensive, cefalea, crisi comiziali o emorragie intracraniche.
Malattie del sistema nervoso vegetativo o disautonomie 1633
– Lesioni midollari demielinizzanti: le disfunzioni autonomiche di più frequente riscontro per lesioni midollari demielinizzanti in corso di Sclerosi Multipla riguardano la continenza sfinterica e le funzioni sessuali (v. pag. 1119); i sintomi che riflettono, invece, una alterazione delle funzioni autonomiche cardiovascolari e termoregolatorie sono più rari, sebbene frequentemente riscontrabili come segni subclinici di malattia. Tra essi vanno ricordati: la riduzione della frequenza cardiaca in risposta a ventilazione profonda, la tachicardia parossistica nel passaggio dal clino all’ortostatismo e la riduzione della risposta pressoria e cardiaca allo sforzo fisico. Anche la termoregolazione può essere alterata, specie nelle forme di SM ad andamento cronico-progressivo. – Disfunzioni autonomiche in corso di Siringomielia (v. pag. 1532). Le manifestazioni disautonomiche più frequenti in corso di Siringomielia sono rappresentate dalla sindrome di Bernard Horner, da alterazioni della funzione sudomotoria e del trofismo cutaneo (specie delle estremità distali degli arti superiori). Nelle fasi più avanzate della malattia si osservano spesso ipotensione ortostatica e turbe della funzione genito-urinaria. – Disfunzioni autonomiche in corso di Tetano: la malattia può produrre una grave iperattività del sistema nervoso vegetativo ortosimpatico e parasimpatico, sia per l’effetto diretto della tossina sul controllo inibitorio midollare pregangliare, sia per azione a livello dei nuclei autonomici troncali. L’iperattivià parasimpatica si manifesta con bradicardia sino all’arresto cardiaco, scialorrea ed incremento delle secrezioni bronchiali. Al contrario, l’iperattività ortosimpatica comporta tachiaritmie, ipertensione arteriosa, vasocostrizione periferica, febbre e sudorazione profusa.
E) Disautonomie in corso di emergenze neurologiche
nare la comparsa di gravi manifestazioni disautonomiche a livello cardio-respiratorio, tra cui sofferenza miocardica acuta, tachiaritmie e bradiaritmie sopraventricolari (che possono esitare nell’arresto cardiaco o nella fibrillazione ventricolare), ipertensione neurogena refrattaria ed edema polmonare neurogeno (Drislane e Samuels, 1990). Tutte queste condizioni si associano ad una prognosi grave. L’iperattività ortosimpatica cardiovascolare sembra essere il meccanismo patogenetico principale sotteso alla disautonomia in corso di emergenza neurologica, e può essere sperimentalmente riprodotta con la stimolazione dell’ipotalamo anteriore e della formazione reticolare ventrolaterale bulbare (Talman, 1988).
Disautonomie focali N. Dagnino
Sindrome di Bernard-Horner Costituisce la disautonomia clinicamente più rilevante a causa della sua frequente insorgenza. Per la trattazione si rimanda a pag. 653.
Sindrome di Adie Descritta per la prima volta da Piltz e Konig nel 1900 e successivamente rivisitata da Adie nel 1931, la sindrome è caratterizzata da una alterazione della reattività pupillare (di regola unilaterale), associata nel 50-80% dei casi ad abolizione dei riflessi osteotendinei agli arti inferiori o, più raramente, ai quattro arti. EZIOPATOGENESI E NEUROPATOLOGIA
Numerose emergenze neurologiche, come l’emorragia subaracnoidea, l’emorragia cerebrale, i traumi cranici, lo stato di male epilettico e l’ipertensione endocranica, possono determi-
Gli studi neuropatologici documentano una degenerazione da causa ignota dei gangli ciliari e delle fibre parasimpatiche postgangliari coin-
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volte nel riflesso di miosi ed accomodazione. L’areflessia profonda (anch’essa ad eziologia sconosciuta) si associa nei casi di lunga durata di malattia ad una degenerazione dei cordoni posteriori del midollo spinale ed ad una rarefazione neuronale a carico dei gangli delle radici dorsali. In conseguenza dell’integrità del ramo efferente dell’arco riflesso, la sindrome non si rilevano deficit di forza agli arti o segni clinici di sofferenza del II motoneurone.
QUADRO CLINICO La malattia esordisce tipicamente durante la III-IV decade di vita e prevale nel sesso femminile. All’esordio è solitamente presente una midriasi monoculare. Il paziente può lamentarsi di un offuscamento visivo o di una scarsa resistenza alla vista della luce, oppure può presentarsi all’osservazione medica per aver notato una anisocoria pupillare. Le reazioni pupillari dirette e consensuali alla luce sono assenti o notevolmente ridotte, a meno che non si ricorra ad una stimolazione massimale prolungata. Nella pupilla di Adie vi è tipicamente una dissociazione tra risposta pupillare alla luce e risposta all’accomodazione. La miosi per accomodazione da vicino si protrae a lungo in quanto la pupilla torna a dilatarsi molto lentamente. La pupilla di Adie risponde prontamente ai comuni miotici ed è caratteristicamente sensibile alla somministrazione di soluzione alla pilocarpina allo 0,1%, una concentrazione i cui effetti sono solitamente minimi su una pupilla normale (cosiddetta sensibilità da denervazione) (v. pag. 1245). L’areflessia osteotendinea coinvolge più frequentemente gli achillei, più raramente i rotulei mentre i riflessi degli arti superiori sono interessati solo saltuariamente. TERAPIA È principalmente sintomatica e riguarda unicamente le alterazioni pupillari per cui si fa ri-
corso a colliri di pilocarpina nei casi in cui il paziente lamenti una sensazione di abbagliamento alla luce o nei casi in cui l’anisocoria comporti un inestetismo mal tollerato.
Causalgia e distrofia simpatica riflessa (DSR) Si tratta di due sindromi algiche, con dolore spontaneo di tipo bruciante associato a turbe trofiche dei tessuti superficiali o profondi (algodistrofie). Eziopatogenesi.– Il dolore causalgico è legato a lesioni di un nervo periferico, per lo più lesioni penetranti o chirurgiche; più frequentemente sono colpiti il nervo mediano e il tibiale posteriore. Viene descritta anche una causalgia della prima branca del trigemino, dopo enucleazione del globo oculare (sindrome di MonbrunBenitry). Anche la DSR è secondaria ad evento traumatico, ma senza evidente interessamento di tronchi nervosi maggiori; si tratta generalmente di lesioni superficiali lievi con o senza lesione di continuo, e, solo raramente, vi può essere un danno scheletrico con frattura. La causalgia dipende verosimilmente da vari meccanismi. Secondo un’ipotesi notevolmente accreditata si verificherebbe un’attivazione efaptica di vie afferenti somatosensoriali da parte di vie efferenti simpatiche (Blumberg e Janig, 1985). Secondo Roberts (1986) le vie efferenti simpatiche attiverebbero primariamente i meccanocettori tattili: in particolare, la lesione iniziale del nervo attiverebbe un flusso afferente in grado di sensibilizzare i neuroni delle corna posteriori, base anatomofunzionale del dolore, che risponderebbero con sensazioni dolorose alle afferenze dei meccanocettori periferici, attivati dalle efferenze simpatiche ed ovviamente dagli stimoli fisici consueti. La supersentività recettoriale riconoscerebbe una base bioumorale noradrenergica.
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Tale meccanismo non è in grado di spiegare la DSR, cui non sarebbero estranei meccanismi psicogeni, come nell’antica «paralisi fisiopatica» di Babinski-Froment, con la quale avrebbe molti aspetti semeiotici comuni.
Emiatrofia facciale progressiva
Sintomatologia. – Il dolore spontaneo, esacerbato dagli stimoli esterni fisici, meccanici ed anche emozionali, costituisce la manifestazione principale. Compare dopo 5-15 giorni dal trauma e successivamente presenta un andamento cronico. I caratteri del dolore che accompagna la DSR sono praticamente sovrapponibili a quelli della causalgia. In particolare il paziente accusa una sensazione urente la cui distribuzione corrisponde solo in parte all’area di competenza del nervo coinvolto. In entrambe le forme sono presenti turbe trofiche della cute e degli annessi; la pelle, arrossata nelle fasi precoci, è pallida e succulenta per lieve edema del derma; è costantemente presente iperidrosi e distrofia ungueale. Può comparire atrofia ossea tipo Sudeck.
Eziopatogenesi. – Si ipotizza una lesione dei centri trofici vegetativi. La malattia inizia classicamente in età giovanile, in genere nella seconda decade, ma sono stati osservati casi ad inizio tardivo, dopo i 40 anni. Non sembrano avere influenza fattori ereditari, infettivi o traumatici, mentre casi assolutamente tipici sono stati descritti in corso di siringomielia e di ematomielia cervicale, tumori della fossa media, tumori dell’angolo pontocerebellare.
Diagnosi .– Le caratteristiche tipiche del dolore e il precedente anamnestico del trauma rendono la diagnosi relativamente semplice. La presenza di altri segni di sofferenza periferica (ipoestesia, ipotrofia muscolare) consentono di differenziare la causalgia dalla DSR. Terapia. – Nella causalgia la simpaticectomia pregangliare si è dimostrata efficace almeno temporaneamente, ma può essere eseguita solo dopo aver constatato l’effetto positivo del blocco anestetico. Anche il trattamento con beta-bloccanti ha dato risultati soddisfacenti. Nella DSR la terapia chirurgica risulta del tutto inefficace; risultati favorevoli sono stati ottenuti con la somministrazione di ketanserina che agisce come alfa 2 e 5 HT 2 bloccante.
La malattia descritta da Romberg nel 1946, porta, in un periodo di tempo variabile, ad una atrofia di tutti i tessuti di metà della faccia.
Sintomatologia. – Di osservazione non rara, la malattia inizia con una ristretta zona di atrofia dei tessuti superficiali, in genere al mento o nei pressi dell’ala del naso o in regione malare, con cute più sottile, lucente, ipoelastica. In un variabile numero di mesi o anni, l’atrofia si estende a tutta la metà della faccia, interessando globalmente i tessuti superficiali, annessi compresi, o profondi, ma con risparmio del tessuto muscolare, per cui non si osservano disturbi della motilità. Sono state osservate discromie cutanee, in forma di chiazze iper- o ipopigmentate, e associazione di una sindrome di Bernard-Horner. L’estensione del processo è generalmente limitata ad una metà della faccia e comporta un danno estetico di rilievo. Assai spesso l’atrofia si estende anche alla regione anteriore del collo o addirittura a tutto un emicorpo. Sono stati anche descritti casi di atrofia crociata dell’emifaccia e dell’emicorpo controlaterale. Terapia. – Non esiste terapia; qualche risultato è stato segnalato con trattamento di ACTH.
1636 Malattie del sistema nervoso
Adiposità dolorosa Nell’adiposità dolorosa di Dercum, il disturbo fondamentale è costituito da un’alterata distribuzione del tessuto adiposo sottocutaneo. L’eziopatogenesi non è nota, sebbene si ipotizzi una alterazione, non meglio specificata, della funzione ipotalamica. Sintomatologia – La malattia, assai rara, colpisce quasi esclusivamente il sesso femminile dopo la menopausa e consiste nella formazione, nel tessuto sottocutaneo, di masse circoscritte di tessuto adiposo, di consistenza aumentata o normale. Oltre al danno estetico il caso è reso più drammatico dalla presenza di violente algie di tipo nevralgico, dovute alla compressione sui rami nervosi da parte dei lipomi.
Sindrome di Melkersson Un edema tipo Quincke localizzato alla faccia (specie alle labbra), associato a paralisi ricorrente del facciale di tipo periferico, in genere bilaterale, e ispessimento della mucosa linguale, con lingua scrotale, costituisce una sindrome rara e ad eziologia completamente sconosciuta. È essenziale, per la diagnosi, la ricorrenza dell’edema, mentre la paralisi del facciale può apparire indipendentemente e in tempi differenti (anche nell’infanzia). La frequente associazione con altri disturbi quali il megacolon, suggerisce la presenza di un difetto congenito, strutturale o funzionale, del sistema nervoso autonomo.
Disautonomie periferiche A Schenone Le fibre vegetative sono parte integrante dei nervi periferici. Le fibre ortosimpatiche e
parasimpatiche possono essere mieliniche di piccolo calibro (diametro: 2-6 mm) o amieliniche. Non stupisce pertanto che molte neuropatie periferiche possano presentarsi anche (o, in casi rari, esclusivamente) con una sintomatologia vegetativa. La maggiore compromissione vegetativa si ha nelle neuropatie periferiche con prevalente interessamento delle fibre di piccolo calibro (diabete, amiloidosi) (Mc Leod 1993). Fra i sintomi vegetativi più frequentemente osservati nelle patologie da compromissione del contingente vegetativo periferico, ricordiamo le alterazioni della sudorazione (per lo più anidrosi, meno spesso iperidrosi) e l’ipotensione ortostatica. Non mancano turbe gastroenteriche (stipsi, diarrea) e turbe genitourinarie (impotenza, incontinenza). L’anidrosi è dovuta ad una degenerazione delle fibre ortosimpatiche postgangliari amieliniche o a demielinizzazione delle fibre ortosimpatiche pregangliari. L’ipotensione ortostatica, il cui corredo sintomatologico è descritto a pag. 656, è causata dalla abolizione o dalla grave compromissione dei riflessi vasomotori (v. pag. 306), con conseguente ristagno ematico a livello mesenterico e degli arti inferiori, per danno delle fibre ortosimpatiche postgangliari che controllano il tono vascolare periferico. Sono inoltre state osservate lesioni in altri segmenti della via riflessa barorecettoriale, come il nervo vago ed il nervo del seno carotideo (o nervo di Hering). Le neuropatie periferiche possono, in generale, essere divise in forme con maggiore o minore interessamento vegetativo; le prime si distinguono poi, in base all’evoluzione, in neuro-patie vegetative acute o subacute e croniche (Tab. 38.1). In questa parte del testo verranno sinteticamente descritte solo le forma con preminente compromissione vegetativa. Per la sintomatologia specifica di ciascuna neuropatia periferica si rimanda a pag. 1637.
Malattie del sistema nervoso vegetativo o disautonomie 1637
Disautonomie periferiche acute o subacute Pandisautonomia Acuta – Si caratterizza per la comparsa acuta o subacuta di una grave disfunzione vegetativa, associata solo a lievi sintomi sensitivi. Può essere preceduta da un episodio similinfluenzale e, pertanto, avrebbe una base immunomediata, tanto da essere molto simile alla sindrome di Guillain-Barrè, da cui differisce unicamente per la mancanza di sintomi somatici. Secondo alcuni autori ne rappresenta solo una particolare variante. Ha decorso monofasico e si manifesta con segni di compromissione orto e parasimpatica, come ipotensione posturale, anidrosi, xerostomia, xeroftalmia, turbe gastroenteriche e genitourinarie. All’esame neurologico, oltre ai segni di sofferenza vegetativa, si possono evidenziare sfumati disturbi delle sensibilità superficiali a distribuzione distale. Le velocità di conduzione sensiti-ve e motorie sono per lo più normali. I tests neurovegetativi (v. pag. 664) sono caratteristicamente alterati e mostrano risposte anormali alla manovra di Valsalva, bassi livelli di NE a riposo supino e mancato incremento degli stessi con l’assunzione della posizione eretta, ridotta motilità gastrointestinale e anidrosi. La prognosi è variabile: circa un terzo dei pazienti recuperano completamente, mentre i due terzi restanti possono presentare esiti più o meno gravi (Suarez 1994). Neuropatia autonomica paraneoplastica acuta – Si accompagna, per lo più, a neoplasie polmonari o a linfomi, di cui può precedere l’individuazione anche di alcuni mesi. Il trattamento della malattia neoplastica può indurre remissione della sintomatologia. Sindrome di Guillain-Barrè – In corso di poliradiculoneuropatia infiammatoria acuta classica (v. pag. 1400) si possono osservare importanti sintomi vegetativi, quali aritmie cardiache, ipotensione o ipertensione parossistiche, disfunzioni vescicali e della sudorazione. La presenza di sintomatologia vegetativa rappre-
senta un criterio prognostico sfavorevole, poiché può condurre a morte improvvisa. La terapia è quella della sindrome di Guillain-Barrè: plasmaferesi o immunoglobuline e.v. La disautonomia può richiedere un trattamento specifico con alfa o beta bloccanti, o con un pacemaker a richiesta, per prevenire le bradiaritmie. Botulismo – Alla sintomatologia classica (ptosi, oftalmoparesi, altre neuropatie craniali, difficoltà respiratorie, talora paralisi generalizzata) (v. pag. 1308) si possono associare segni vegetativi quali anidrosi, xeroftalmia, gastroparesi, ileo paralitico, ritenzione urinaria, ipotensione posturale e aritmie cardiache. Porfiria – . Neuropatie autonomiche da tossici – Taluni farmaci, come cisplatino, vincristina, amiodarone e taxolo possono dare, oltre ad una neuropatia periferica sensitiva o sensitivo-motoria, anche una importante sintomatologia vegetativa. Fra i tossici ambientali che possono produrre segni di sofferenza vegetativa ricordiamo l’acrilamide, i solventi organici, il tallio e l’arsenico. Talora queste forme presentano un decorso cronico.
Disautonomie periferiche croniche Praticamente tutte le neuropatie periferiche a decorso cronico possono presentarsi con una sintomatologia vegetativa più o meno evidente. Fra le forme in cui tali aspetti sono particolarmente rilevanti fino a rappresentare un problema terapeutico ricordiamo: la neuropatia diabetica, alcune neuropatie ereditarie, fra cui la neuropatia amiloidosica, le forme infettive (HIV, lebbra, malattia di Chagas), le neuropatie tossico-carenziali, in particolare quella da etilismo, le forme paraneoplastiche e quelle da connettivite (Tab. 38.1). In tutte queste neuropatie la compromissione vegetativa si inserisce, normalmente, nell’ambito di una compromissione selettiva delle fibre amieliniche e delle piccole
1638 Malattie del sistema nervoso
fibre mielinizzate. Sintomi di accompagnamento sono pertanto dolori e disestesie. All’esame neurologico forza e riflessi sono tipicamente normali, mentre può esistere un deficit delle sensibilità superficiali (tattile, termica e dolorifica). Neuropatia diabetica – La compromissione vegetativa nella neuropatia diabetica è relativamente frequente (20-30% dei pazienti). Si caratterizza per una compromissione parasimpatica (turbe della risposta cardiaca alla respirazione profonda e delle risposte alla manovra di Valsalva) e, più tardivamente, ortosimpatica (alterazione della risposta presso ria alla postura e all’esercizio isometrico). Si osservano anche turbe della sudorazione (anidrosi), gastrointestinali (diarrea), genitourinarie (impotenza nel maschio, ritenzione urinaria) e della motilità pupillare. Per maggiori dettagli vedi pag. 000. Neuropatie ereditarie – Le forme ereditarie con maggiore compromissione vegetativa sono
la neuropatia amiloidosica familiare (NAF) e le neuropatie ereditarie sensitive o sensitivoautonomiche (NES). La prima è descritta a pag. 1375. Va ricordato, in questa sede, che la sintomatologia vegetativa, nella NAF, è di gran lunga la più importante sia per l’autonomia che per la sopravvivenza del paziente. Fra le seconde, ricordiamo, in particolare, la NES tipo 3 (o malattia di Riley-Day) e la NES tipo 4 (v. pagg. 1373-1374). Fra le neuropatie ereditarie con base metabolica va ricordata la compromissione vegetativa che può verificarsi nella malattia di Fabry (v. pag. 1583). Per tutte le altre neuropatie con compromissione vegetativa si rimanda al capitolo 33. Un posto a parte spetta alla Insufficienza Autonomica Pura (IAP), che per semplicità classificativa è stata inclusa fra le forme da compromissione primitiva del sistema nervoso vegetativo centrale, benché sia in gran parte dovuta ad una sofferenza delle strutture
Tabella 38.1 – Classificazione delle neuropatie periferiche autonomiche Forme acute Pandisautonomia acuta Neuropatia autonomica paraneoplastica acuta Sindrome di Guillain-Barrè Disautonomia parasimpatica Disautonomia ortosimpatica Botulismo Porfiria Neuropatie autonomiche tossiche
Forme croniche Neuropatie ereditarie Amiloidosi familiare Neuropatia ereditaria sensitivo-autonomica tipo 3 Neuropatia ereditaria sensitivo-autonomica tipo 4 Neuropatia ereditaria sensitivo-autonomica tipo 1 e 5 Malattia di Fabry Neuropatie infiammatorie Polineuropatia infiammatoria demielinizzante cronica Neuropatie infettive HIV Lebbra Malattia di Chagas Neuropatie associate a malattie sistemiche Neuropatia diabetica Amiloidosi primaria Insufficienza renale cronica Neuropatie paraneoplastiche Neuropatie in corso di malattie del connettivo Neuropatie carenziali Alcolismo Deficit di Vitamina B12 Neuropatie autonomiche tossiche
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adrenergiche postgangliari (v. pag. 1628). Ricordiamo poi, per completezza, la Neuropatia Adrenergica Pura, forma assai rara dovuta ad un deficit congenito di Dopamina-beta-idrossilasi, che può entrare in diagnosi differenziale con la IAP, e la Anidrosi Cronica Idiomatica, caratterizzata da intolleranza al calore per alterazione della sudorazione termoregolatoria, ma con conservazione della funzione vasomotoria, che può associarsi ad alterazioni pupillari (pupilla di Adie).
Terapia delle principali disfunzioni vegetative A Assini, M. Colucci, A.Schenone Ipotensione Ortostatica Il trattamento dell’ipotensione ortostatica prevede l’uso di specifiche terapie farmacologiche, oppure, specie nelle fasi iniziali di malattia, il ricorso a particolari accorgimenti non farmacologici quali l’adeguamento dietetico e l’esecuzione di specifici esercizi fisici (Freeman and Miyawaki, 1993). – Provvedimenti non farmacologici: è innanzitutto necessario istruire il paziente affinché il passaggio dal clino- all’ortostatismo avvenga in modo graduale, specie al mattino, quando il deficit di compensazione vasomotoria in posizione ortostatica è più marcato. Andranno limitate tutte le manovre che determinano una riduzione del ritorno venoso (torchio addominale, tosse, sollevamento degli arti superiori sopra la testa), così come il mantenimento prolungato della posizione supina, che riduce la tolleranza ortostatica, e gli esercizi isometrici o statici, che comportano la contrazione del muscolo in assenza di movimento articolare e si associano ad un aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna.
Può essere utile, invece, l’esecuzione di esercizi isotonici o dinamici, come camminare, correre, nuotare, andare in bicicletta; questi esercizi, in cui la contrazione del muscolo si associa al movimento articolare, aumentano la frequenza cardiaca senza determinare il rialzo pressorio. Tra le attività sportive è consigliabile il nuoto poiché la pressione idrostatica potenzia la tolleranza ortostatica. Frequenti bagni caldi possono essere di qualche utilità nei soggetti con ipotensione ortostatica associata a deficit della termoregolazione. Andrà sempre considerata la possibilità che l’ipotensione ortostatica dipenda, almeno in parte, dall’effetto indesiderato di particolari terapie farmacologiche, che dovranno pertanto essere interrotte. Non infrequentemente, infatti, i pazienti affetti da insufficienza autonomica presentano contemporaneamente ipotensione ortostatica e ipertensione clinostatica e sono sottoposti a terapie anti-ipertensive che possono peggiorare il controllo vasomotorio in ortostatismo. È opportuno ricordare che nella malattia di Parkinson l’ipotensione ortostatica, oltre a rappresentare un segno di disautonomia primaria associata alla malattia, può essere conseguente all’uso di L-Dopa e farmaci dopamino-agonisti. L’eccessiva natriuresi e la riduzione del volume ematico che spesso si associano ad ipotensione ortostatica potranno essere corrette incrementando l’apporto idrosalino. Il mantenimento periodico della posizione di Trendelemburg durante il giorno e della posizione inversa (col capo flesso di 10-20°) durante la notte, minimizza l’ipertensione supina e favorisce l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (Van Lieshout, 1992). L’uso di calze elastiche che determinino una compressione omogenea degli arti inferiori e dell’addome, riduce il volume ematico periferico e splancnico determinando un miglior compenso pressorio in ortostatismo; tali accorgimenti, tuttavia, sono spesso mal tollerati, specie se coesistono neuropatie dolorose o deficit motori.
1640 Malattie del sistema nervoso
È frequente, sia nell’“ipotensione ortostatica dell’anziano” che nelle altre forme associate ad insufficienza autonomica primaria, il riscontro di significative cadute pressorie in fase postprandiale. Questo fenomeno è probabilmente dovuto al rilascio di un neuropeptide vasoattivo ancora non identificato (Lipsitz, 1983) e può essere limitato con l’assunzione di piccoli pasti poveri in carboidrati e l’astensione completa dalle bevande alcoliche. – Provvedimenti farmacologici: I provvedimenti sin qui descritti risultano di una certa utilità solo in un piccolo numero di pazienti e nelle fasi più precoci di malattia; successivamente il ricorso ad una terapia farmacologica diventa quasi sempre necessario. Un ideale approccio farmacologico dovrebbe agire sulla capacità vascolare più che sulle resistenze, in modo da aumentare il ritorno venoso senza determinare ipertensione in clinostatismo. In realtà la risposta ai farmaci è spesso inconsistente e può essere complicata da effetti collaterali. Vengono di seguito riportati i farmaci abitualmente usati per il trattamento dell’ipotensione ortostatica. 1) Mineralcorticoidi Il fludrocortisone acetato è, in genere, il farmaco di prima scelta in molti pazienti con ipotensione ortostatica, avendo lunga durata d’azione e scarsi effetti collaterali. Il suo meccanismo d’azione consiste nell’incremento del volume plasmatico totale e nella sensibilizzazione del sistema vascolare alle catecolamine circolanti. La massima efficacia terapeutica si raggiunge solitamente con una dose di 0,5 mg/die. L’incremento delle resistenze vascolari periferiche ne controindica l’uso in caso di ipertensione in posizione supina. 2) Farmaci simpaticomimetici ad azione diretta o indiretta I simpaticomimetici ad azione diretta o indiretta sono stati a lungo utilizzati nel trattamento dell’ipotensione ortostatica. La loro efficacia
dipende, oltre che dalla stimolazione del sistema noradrenergico, dall’incremento del numero dei recettori e dalla modulazione della loro affinità. Gli alfa-1 agonisti più utilizzati possono avere contemporaneamente un’azione diretta e indiretta (Efedrina, Pseudoefedrina, Fenilpropanolamina), unicamente diretta (Fenilefrina) o unicamente indiretta (Metilfenidato). L’utilizzo di questi farmaci può determinare la comparsa di importanti effetti collaterali come tremori, ansia, tachicardia e ipertensione in posizione supina. La L-diidrossifenilserina (DOPS) è un precursore sintetico della norepinefrina che nell’uomo subisce una decarbossilazione ad opera della L-amino-decarobossilasi. L’uso di questo farmaco è specificamente indicato nei casi di “deficit congenito di dopamina idrossilasi”, una malattia in cui vi è l’impossibilità di sintetizzare Epinefrina e Norepinefrina a partire dalla Dopamina nel sistema nervoso centrale e periferico. La malattia si manifesta nel neonato con ipotermia, ipoglicemia ed ipotensione; i soggetti che raggiungono l’età adulta presentano sempre una grave ipotensione ortostatica. La somministrazione di DOPS e la sua conversione in norepinefrina da parte delle decarbossilasi permette di vicariare il deficit di idrossilasi e di correggere lo squilibrio neurotrasmettitoriale. 3) Inibitori della sintesi di prostaglandine Farmaci come l’Indometacina sono stati impiegati nel trattamento dell’ipotensione ortostatica in quanto limitano l’effetto vasodilatante determinato dalle prostaglandine circolanti e potenziano la sensibilità recettoriale alla norepinefrina. L’Indometacina, inoltre, sembra utile nella prevenzione dell’ipotensione postprandiale. 4) Farmaci ad azione anti-dopaminergica È stata dimostrata un’azione facilitatoria sul rilascio di norepinefrina in seguito a somministrazione di metoclopramide e domperidone, che inibiscono l’effetto natriuretico e vasodilatante della dopamina.
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5) Analoghi della Vasopressina Il rilascio di arginino-vasopressina è deficitario in condizioni basali nei soggetti con insufficienza autonomica, che sono tuttavia estremamente sensibili alla somministrazione di vaso-pressina esogena. La desmopressina (analogo sintetico della vasopressina) si è dimostrata efficace nel ridurre l’ipotensione ortostatica che si verifica nelle ore del mattino (Mathias, 1986). 6) Beta-bloccanti L’uso di beta-bloccanti non selettivi (propanololo, pindololo, xamoterolo etc.) determina un incremento delle resistenze vascolari periferiche ed attenua la caduta pressoria in ortostatismo attraverso il blocco della vasodilatazione mediata dai recettori Beta-2. L’approccio a questa classe di farmaci deve essere cauto, specie in pazienti cardiopatici che possano andare incontro, per la loro disautonomia, a bradiaritmie.
Disfunzioni urinarie In una significativa percentuale di pazienti con disturbi urinari su base disautonomica è possibile riscontrare la presenza di ipertrofia prostatica o di lassità del pavimento pelvico; l’approccio chirurgico, in questi casi, migliora significativamente il quadro clinico e permette di procrastinare il ricorso alle terapie farmacologiche. In tutti gli altri casi, si può ricorrere ai cataterismi intermittenti e/o all’uso di farmaci, cui possono tuttavia conseguire importanti effetti collaterali (frequenti infezioni urinarie, aggravamento dell’ipotensione ortostatica). Sul piano funzionale occorre ovviamente distinguere la terapia dell’incontinenza urinaria da quella della ritenzione; gli approcci farmacologici varieranno poi a seconda che si voglia agire sulla contrattilità del detrusore o sul tono sfinterico vescico-uretrale.
Incontinenza urinaria Può dipendere da una iperattività involontaria del detrusore oppure da una ipotonia del sistema trigono-sfinteriale. Nel primo caso è indispensabile ridurre la contrattilità del muscolo; lo scopo può essere raggiunto con l’uso di farmaci anticolinergici, di calcio-antagonisti o di inibitori della sintesi di prostaglandine. Qualora questi presidi farmacologici risultino inefficaci, può essere indicato il ricorso alla tossina Botulinica di tipo A. L’iniezione di tossina all’interno del muscolo detrusore è in grado, infatti, di ridurre l’iperreflessia muscolare, determinando una diminuzione degli episodi di incontinenza ed incrementando proporzionalmente la capacità funzionale vescicale. Quando, invece, l’incontinenza dipende unicamente da una diminuzione del tono del trigono vescicale e dello sfintere vescicouretrale, può essere utile il ricorso ad agonisti alfa-adrenergici come Efedrina, Pseudoefedrina o Fenilpropanolamina. Ritenzione urinaria Può verificarsi per un’ipoattività detrusoriale con normale tono sfinterico o per un’iperattività dello sfintere vescico-uretrale in condizioni di normale contrazione del detrusore. Nel primo caso la stimolazione dei recettori muscarinici postgangliari determina un aumento della contrattilità del muscolo detrusore. Tra i parasimpaticomimetici disponibili, il Betanecolo cloridrato presenta un’azione relativamente selettiva sull’innervazione vescicale e risulta prevalentemente efficace nelle condizioni di ipotonia o atonia detrusoriale cronica. Un’alternativa terapeutica è rappresentata in questi casi dall’uso delle prostaglandine che svolgono un’azione eccitatoria a livello della muscolatura liscia vescicale. Una ulteriore possibilità terapeutica, di più recente introduzione, è rappresentata dalla elettrostimolazione delle radici sacrali, che determina un rapido svuotamento vescicale per attivazione del muscolo detrusore. Quando invece la ritenzione
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urinaria sia conseguenza di una iperattività tonica del sistema adrenergico che innerva il trigono e lo sfintere vescico-uretrale, a fronte di una normale attività contrattile del detrusore, saranno indicati i farmaci alfa-antagonisti come la Fenossibenzamina o la Prazosina. Anche in questo caso, nei pazienti resistenti alle terapie farmacologiche, la risoluzione dell’ipertonia muscolare può essere ottenuta tramite infiltrazione con tossina botulinica.
Turbe respiratorie e del ritmo cardiaco Il posizionamento di un pacemaker è molto discusso, ove si consideri che nei casi di ipotensione ortostatica severa, per garantire un adeguato livello pressorio, è necessario mantenere frequenze cardiache superiori a 100. L’impiego di un supporto ventilatorio a pressione positiva nei soggetti che presentano apnee notturne prolungate (più di 15 minuti all’ora) può rivelarsi utile.
Riferimenti bibliografici Disfunzioni gastrointestinali Una dieta ricca di fibre ed un adeguato apporto idrico in associazione al moderato uso di lassativi possono preservare a lungo una normale attività gastro-intestinale. In caso di costipazione severa è indicato l’uso di procinetici come Metoclopramide e Domperidone. Quest’ultima è stata usata con successo in caso di gastroparesi, pseudo-ostruzione intestinale e costipazione cronica da abuso di lassativi. L’uso di Loperamide o anticolinergici è indicato nelle forme di diarrea in cui sia dimostrabile un’iperattività peristaltica intestinale. Tuttavia, la diarrea che si associa per esempio a disautonomia diabetica, sembra essere conseguenza di un’ipomobilità intestinale che predispone il paziente a proliferazione batterica; l’uso di farmaci procinetici può rivelarsi, in questi casi, paradossalmente benefico e normalizzare l’alvo.
Disfunzioni sessuali Tra le alternative terapeutiche utilizzate si ricordano l’iniezione intracavernosa di papaverina, la somministrazione estemporanea di Johinbina o di Sidenafil. Nei casi più gravi e farmaco-resistenti può essere indicato il ricorso al posizionamento di una protesi.
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Il sonno e le sue alterazioni 1645
39. Il sonno e le sue alterazioni F. Ferrillo
Il sonno è uno stato comportamentale che rispecchia mutamenti complessi degli equilibri fra i processi di autoregolazione del sistema nervoso centrale e cambiamenti dei rapporti fra ambiente, esterno ed interno al corpo, e cervello. Il sonno non è uno stato funzionale stabile ed omogeneo al suo interno, esso rappresenta momenti, variabili nel tempo, di equilibrio dinamico fra l’attività di diversi sistemi neurali connessi tra loro, in grado di modificarsi a vicenda e di interagire con l’ambiente extraneurale. Variazioni di questo equilibrio si riflettono in variazioni di parametri esplorabili e misurabili con metodi elettrofisiologici. Le tecniche neurofisiologiche hanno permesso di identificare i sistemi neurali che sottendono alle differenti condizioni funzionali che costituiscono il continuum sonno veglia e quelli attivi nella regolazione; l’applicazione longitudinale di alcune di loro, ed in particolare dell’elettroencefalogramma (EEG) ha consentito l’acquisizione di un quadro sufficientemente preciso della loro attività nel corso del sonno. Stadi dei sonno. Sono stati definiti (Rechtshaffen e Kales, 1968) cinque distinti stadi del sonno, riconducibili a due meccanismi fisiologici di base che si alternano. Lo stato di veglia rilassata a occhi chiusi si accompagna, all’EEG, a onde di forma sinusoidale con frequenza da 8 a 12 Hz (ritmo alfa) mista a un’attività rapida a basso voltaggio e di frequenza mista. Quando viene avvertito un senso di sonnolenza e si instaura il primo stadio del sonno, gli occhi possono muoversi lentamente da un lato all’altro (movimenti oculari lenti all’elettrooculogramma), i muscoli si rilassano e l’EEG assume un voltaggio progressivamente più basso,
con frequenze miste e perdita dell’attività alfa; (fase 1). Quando il sonno passa nella cosiddetta fase 2, appaiono salve di onde la cui frequenza è compresa tra 12 e 16 Hz (fusi del sonno o spindles) della durata di 0.5-2 secondi, associate a scariche EEGrafiche (denominati complessi K) costituite da onde lente e ripide trifasiche. Le fasi 3 e 4, caratteristiche del sonno profondo (sonno a onde lente), sono caratterizzate a livello EEG da una proporzione crescente di onde delta (0.5-2 Hz) di grande ampiezza (>75 uv). Lo stadio successivo di sonno è associato ad una riduzione quasi completa del tono muscolare, eccetto che nella muscolatura oculare estrinseca in cui si osservano salve di movimenti rapidi (rapid eye movement, REM) visibili attraverso le palpebre chiuse. Contemporaneamente l’EEG si desincronizza, vale a dire si osserva attività di basso voltaggio e ad alta frequenza in cui sono presenti rare salve di ritmo alfa rallentato. Le prime quattro fasi del sonno sono definite sonno senza movimenti oculari rapidi (NREM) oppure sonno sincronizzato; l’ultima fase è variamente definita come sonno con movimenti oculari rapidi (REM), e sonno desincronizzato (Fig. 39.1) Nella prima parte di una tipica notte di sonno in soggetti giovani e sani le fasi 1, 2, 3 e 4 del sonno NREM si succedono ordinatamente. Dopo circa 70-100 minuti, la gran parte dei quali è costituita da sonno in fase 3 e 4, si verifica il primo episodio di sonno REM, in genere annunciato da un cambiamento della posizione del corpo e da un passaggio nella registrazione EEG dalla fase 4 alla fase 2. Questo ciclo NREMREM si ripete, circa da quattro a sei volte per
1646 Malattie del sistema nervoso
Fig. 39.1 - Rappresentazione schematica dei meccanismi di sincronizzazione e desincronizzazione corticale.
notte, secondo la durata complessiva del sonno. I cicli successivi presentano una progressiva riduzione della componente in fase 4 (che nei cicli tardivi è addirittura assente). Nell’ultima parte di un normale sonno notturno, il ciclo consiste essenzialmente nell’alternarsi di due fasi, il sonno REM e la fase 2 (con fusi e complessi K). L’osservazione del ciclo sonno-veglia nella specie umana evidenzia che esso è legato all’età del soggetto. I neonati dormono dalle 16 alle 20 ore il giorno e i bambini dalle 10 alle 12 ore. Il periodo totale di sonno scende a 9-10 ore a 10 anni e a circa 7-7.5 ore durante l’adolescenza. Nell’età avanzata si osserva un’ulteriore riduzione a circa 6 ore e mezza. Il neonato a termine passa circa il 50% del sonno in fase REM. Il ciclo del sonno di un neonato dura circa 60 minuti, con l’età la durata del cielo si allunga fino
a 90-100 minuti. Nel giovane adulto il periodo REM comprende il 20-25% del periodo totale di sonno, mentre la fase 1 occupa dal 3 al 5%, la fase 2 dal 50 al 60% e le fasi 3 e 4, complessivamente, il 10-20%. La quota di sonno in fase 3 e 4 diminuisce con l’età e i soggetti d’età superiore a 70 anni virtualmente non presentano sonno in fase 4 e il sonno lento si riduce ad una percentuale minima di sonno in fase 3. Il ciclo di 90-100 minuti, conosciuto come ciclo di base attività-riposo (Kleitman 1967), è un fenomeno abbastanza stabile in ogni persona e si suppone che continui ad essere presente anche durante la veglia, seppur in modo meno percettibile, in relazione con i cicli della motilità gastrica, della fame, del grado di attenzione e della capacità di svolgere un’attività intellettuale. Il sonno è una funzione biologica elementare. Come l’alimentazione e la riproduzione appare necessario a tutti gli esseri viventi ed è indubbio che durante il sonno avvengono eventi importanti dal punto di vista biologico quale il ristoro delle forze, delle energie fisiche e mentali. Numerose teorie identificano la funzione del sonno nel ricupero fisico, nella facilitazione delle funzioni motorie, nel consolidamento dell’apprendimento della memoria. È ormai noto che le infezioni sistemiche attivano numerose citochine, molte delle quali hanno un effetto sul sonno. La natura e la funzione di questa relazione sonno/infezione/immunità è tuttavia non chiarita. È stato dimostrato che i neuroni termosensibili dell’ipotalamo preottico/anteriore influenzano il sonno e la veglia, mentre la deprivazíone totale di sonno negli animali da esperimento porta a gravi anomalie della termoregolazione. Bisogna tuttavia ammettere che il significato profondo della funzione sonno è tuttora largamente sconosciuto. Gli animali da esperimento deprivati di sonno muoiono in poche settimane in seguito al sopraggiungere di un’incapacità di mantenere la regolazione della temperatura corporea, dopo una perdita importante di peso, non compensa-
Il sonno e le sue alterazioni 1647
ta dall’aumentato apporto di cibo (Rectshaffen 1998). Gli esperimenti umani hanno messo in luce sonnolenza, senso di fatica, irritabilità progressivamente più intensa e grosse difficoltà nel mantenimento della concentrazione e nell’abilità manuale. Sono presenti inoltre disturbi percettivi, difficoltà d’orientamento, illusioni ed allucinazioni, soprattutto visive e tattili. Il ricupero del sonno avviene in tempi brevi, senza un rapporto temporale diretto con il tempo di deprivazione totale del sonno
le connessioni con i nuclei non specifici del talamo, con l’ipotalamo postero-laterale ed una terza via pontobasalo-corticale passante attraverso il nucleo di Meynert (Fig. 39.2). Quest’ultimo nucleo, facente parte dei sistema basale, partecipa all’attivazione corticale della veglia ma non può determinarla se non riceve afferenze di tipo colinergico dalla formazione reticolare. Dal punto di vista neurochimico il neuromediaSonno 1
Meccanismi del sonno e sistemi di regolazione La curva di propensione al sonno appare in stretta relazione con l’andamento della temperatura interna, essendo la massima propensione al sonno coincidente con i valori minimi di temperatura. Il nucleo soprachiasmatíco (NSC), localizzato nella regione ventro-mediale dell’ipotalamo immediatamente sopra il chiasma, gioca un ruolo fondamentale nella genesi e nel mantenimento del ritmo circadìano e nell’organizzazione temporale dei comportamenti. Il ritmo è sincronizzato sulle 24 ore in alternanza luce-buio, su 25 ore in condizioni di libero corso. Il NSC riceve stimolazioni in rapporto al ciclo luce-buio attraverso la via retino-ipotalamica. L’attività di alcuni gruppi neuronali all’interno del NSC risulta influenzata dalla Melatonina, ormone prodotto dalla ghiandola pineale la cui sintesi è stimolata dalla serotonina prodotta durante il giorno. La regolazione del ciclo sonno-veglia risulta dall’interazione continua fra i sistemi regolanti la veglia ed i sistemi regolanti il sonno. La veglia è controllata da un insieme complesso e ridondante di sistemi in cui nessuno svolge un ruolo indipendente. La formazione reticolare, localizzata a livello del tronco encefalico costituisce un sistema a proiezione diffusa che gioca un ruolo preponderante nell’attivazione corticale che caratterizza lo stato di veglia. Le proiezioni principalmente implicate nell’attivazione corticale sono costitute dal-
Sonno 4
Sonno REM
Fig. 39.2 - Quadri poligrafici paradigmatici di diverse fasi del sonno.
1648 Malattie del sistema nervoso
tore essenziale del sistema veglia è costituito dall’acetilcolina. Il locus coeruleus, innerva la corteccia cerebrale attraverso proiezioni noradrenergiche ubiquitarie. È implicato nei sistemi di attivazione corticale e riceve afferenze dall’ipotalamo posteriore e dai sistemi adrenergici bulbari. L’ipotalamo posteriore ventro-laterale interviene nella regolazione dello stato di veglia attraverso un sistema istaminergico. Invia proiezioni all’ipotalamo anteriore, al nucleo di Meynert, alla corteccia cerebrale ed ai nuclei del rafe. I suoi neuroni sono attivi durante la veglia. Il sistema del rafe, serotoninergico, gioca un ruolo complesso nella regolazione dello stato di veglia e di sonno. Infatti, i neuroni serotoninergici sono attivi durante la veglia ma, paradossalmente, la loro inattivazione determina insonnia. Si ritiene che la serotonina prepari il sonno, favorendo l’addormentamento attraverso la sintesi di sostanze ipnogene che a loro volta inibirebbero con un meccanismo a feedback la produzione di serotonina. L’intensità della luce è fondamentale nel modulare la sintesi di serotonina. Durante il sonno ad onde lente l’attività neuronale serotoninergica si riduce ed è totalmente inibita in sonno REM. L’ipotalamo anteriore è attivo nell’addormentamento, mentre l’ipotalamo posteriore ventrolaterale, implicato nella veglia, è inibito. I neuroni GABAergici del nucleo di Meynert inibirebbero sia i neuroni colinergici dello stesso nucleo che i neuroni dell’ipotalamo posteriore. L’attivazione dei neuroni GABAergici faciliterebbe la comparsa degli spindles e l’attività lenta corticale. L’attività spindling è generata a livello dei nuclei reticolari talamici e risulta modulata dall’interazione fra i neuroni GABAergici del nucleo di Meynert ed i neuroni talamo-corticali. L’attività delta è conseguente all’iperpolarizzazione dei neuroni talamo-corticali ed all’inibizione delle influenze colinergiche provenienti dal tronco cerebrale (Steriade et al., 2001). I principali meccanismi di regolazione del sonno REM sono relativamente ben conosciuti
(Mc Carley e Hobson, 1975). Due strutture principali intervengono nella regolazione: neuroni REM-on, colinergici e colinocettivi, attivi durante la fase REM e neuroni REM-off, monoaminergici, la cui attività si riduce durante il sonno REM. I neuroni REM-on sono situati nel nucleo magnicellulare, nel tegmento peduncolare pontino, nel tegmento latero-dorsale pontino e nel Locus Coeruleus. Le cellule REM-off, monoaminergiche, sono disposte più diffusamente a livello del tronco encefalico e sono rappresentate principalmente dai neuroni noradrenergici del nucleo Coeruleus e dai neuroni serotoninergici del rafe. Struttura del sonno Il ritmo circadiano di propensione al sonno (processo C) presenta una curva caratteristica che vede la crescita continua della propensione al sonno dalle ore 22.00 o alle ore 3.00 del mattino, una propensione crescente verso la veglia attiva nel corso della mattinata, un picco secondario di propensione al sonno nelle ore pomeridiane ed una zona di scarsissima propensione al sonno (zona proibita) tra le ore 17.00 e 21.00. Il ritmo circadiano di propensione al sonno si armonizza normalmente con un secondo importante fattore di regolazione, quello omeostatico (processo S). L’entità del bisogno di dormire è correlata alla durata della veglia precedente. Viene ipotizzata l’esistenza di un fattore omeostatico (processo S) esponenzialmente crescente ed accumulantesi nell’organismo durante la veglia, capace di indurre un bisogno di sonno crescente. Nel corso del sonno avverrebbe lo scarico progressivo ed esponenziale del processo S. L’intensità del sonno sarebbe funzione della quantità di processo S accumulato nel corso della veglia. Questa intensità avrebbe un correlato elettreoencefalografico evidente nel numero e nell’ampiezza delle onde lente, sincronizzate registrabili durante il sonno NREM (Borbely 1982). L’adenosina, un nucleoside endogeno,
Il sonno e le sue alterazioni 1649
riccamente distribuito nel cervello tende ad accumularsi nello spazio extracellulare a livello dell’ipotalamo basale durante la veglia ed ancor più durante la deprivazione di sonno, inibendo progressivamente l’attività dei neuroni colinergici; quando alla sonnolenza segue la fase consumatoria del sonno (sonno NREM) la concentrazione di adenosina si reduce rapidamente in proporzione alla quantità di onde lente prodotte dal sonno NREM (Porkka-Heiskanen et al 2000). Il decrescere dell’attività sincronizzata nel corso del sonno avviene in maniera progressiva ma non continua. Periodi progressivamente più lunghi di sonno desincronizzato (sonno REM) modulano questo processo. Recentemente è stato individuato un neuropeptide l’ipocretina o orexina. Prodotto da una ristretta popolazione di cellule ipotalamiche, soggette a influenze circadiane ed ultradiane; esso regolerebbe l’equilibrio fra sistemi colinergici e adrenergici, governando così la propensione al sonno e l’alternanza di sonno NREM e REM, una sua carenza sarebbe responsabile delle turbe del ritmo sonno veglia e dell’equilibrio fra REM e NREM riscontrabile nella narcolessia (Hungs
and Mignot 2000). L’insorgenza periodica di sonno REM, secondo lo schema proposta da McCarly e Hobson sarebbe dovuta all’interazione fra i sistemi REM-on e REM-off, legati fra loro da un rapporto reciproca di inibizione ed eccitazione ed autoeccitazione ed autoinibizione in bilanciamento continuo . La regolazione del ciclo sonno–veglia e quello interno del sonno tra REM e NREM sarebbe quindi interpretabile come la risultante dell’interazione tra fattori circadiani ,che determinano le zone temporali di facile inizio e fine di sonno, omeostatici regolanti l’intensità del sonno ed ultradiani, regolanti l’alternarsi di cicli di sonno NREM, la cui intensità decresce progressivamente nel corso della notte con episodi di sonno REM, la cui durata tende inversamente a crescere. L’azione di questi meccanismi di base si riflette nella struttura elettroencefalografica del sonno (Fig 39.3). All’equilibrio dinamico fra processi sincronizzanti e desincronizzanti partecipa in maniera evidente anche la microstruttura del sonno. All’interno del sonno NREM è possibile identificare una condizione di sonno instabile ed una condizione di sonno stabile. Il sonno instabile, che può
800
Potenza onde delta (!V²)
700 600 500 400 300 200 100
S3 S2
0
S1 Ve glia
0
S4
S3 S2 R EM
1
2
3
4
5
6
7
ore di sonno Fig. 39.3 - Modello rappresentante la regolazione dei cicli di sonno nel corso di una notte di sonno(Sinusoide smorzata). Sono implicati due processi. Il processo S, di natura omestatica, si carica durante la veglia e si scarica esponenzialmente durante il sonno (linea tratteggiata). Esso è espressione dei meccanismi di sincronizzazione corticale ed e riflesso dalla potenza delle onde delta( linea continua sottile).Un secondo processo. di natura oscillatoria con ritmo ultradiano, determina periodicamente il sonno REM. La struttura del sonno, e la successione delle fasi in cicli, dipende dal variare nel tempo dell’equilibrio fra i due processi.
1650 Malattie del sistema nervoso
essere presente in tutti gli stadi, si riconosce per la comparsa di ripetuti micro-risvegli che corrispondono ad alleggerimenti transitori (10-15 secondi) del sonno. Quando compaiono nel sonno NREM, i micro-risvegli tendono a raccogliersi in cluster ripetitivi ricorrendo con un periodismo di 20-40 secondi. La loro comparsa sull’EEG costituisce un tracciato alternante ciclico o CAP (cyclic alternating pattern) secondo un pattern bifasico composto da micro-risvegli (fase A) interrotto periodicamente dal ripristino delle attività di fondo (fase B). Il rate di CAP può essere considerata una misura della qualità del sonno (Terzano et al., 1988). Modificazioni fisiologiche nel sonno REM e NREM. La soglia di risveglio cresce progressivamente dal sonno 1 al 4 del sonno NREM per scendere nel sonno REM e progressivamente abbassarsi nel corso della notte, di ciclo in ciclo in parallelo con la potenza delle onde delta. E noto da molto tempo che la temperatura corporea scende durante il sonno. Durante il sonno, il calo della temperatura si registra prevalentemente nel periodo di sonno NREM e lo stesso avviene per la frequenza cardiaca ed il respiro, che in questo periodo divengono più lenti e regolari. Il flusso ematico cerebrale, il consumo d’ossigeno, il metabolismo del glucosio è notevolmente ridotto in tutto il cervello durante il sonno NREM; durante il sonno REM, invece, il metabolismo è uguale a quello che si registra nello stato di veglia. Nella fase REM tendono ad essere attivate le funzioni nervose vegetative. Il respiro è più irregolare; la pressione e la frequenza cardiaca tendono a fluttuare e aumentano il flusso ematico cerebrale ed il metabolismo basale. Circa ogni 90 minuti, solitamente nella fase REM, si verifica un’erezione del pene o del clitoride. Il ciclo sonno-veglia è correlato ad un certo numero di variazioni ormonali. La secrezione di cortisolo e in particolare il rilascio d’ormone tireo-stimolante diminuiscono all’inizio del sonno. Alte concentrazioni di cortisolo sono caratteristiche della fase di risveglio. La melatonina, elaborata dall’epifisi, è prodotta di not-
te e cessa di essere secreta quando la retina viene stimolata dalla luce. Durante le prime due ore di sonno vi è aumento dell’increzione d’ormone della crescita, principalmente nelle fasi 3 e 4. Questa caratteristica persiste fino alla tarda età adulta e poi scompare.
Disturbi del ritmo sonno veglia Molte funzioni del nostro organismo obbediscono ad una regolazione risultante di stimoli esterni agenti su un ritmo interno dettato da un «orologio biologico» il cui periodo è di circa 25 ore, quindi leggermente più lento di quello della rotazione della terra sul suo asse (ciclo circadiano). Una stimolazione luminosa molto intensa è in grado di modificare il sonno, ritardandolo se somministrata nella prima metà del periodo di buio per il soggetto, anticipandolo la sera dopo, se somministrata nella seconda metà di tale periodo. In tal modo è possibile sincronizzare l’orologio biologico (25 ore) con quello solare di 24 ore. Un’eccessiva richiesta di regolazione dell’orologio biologico, rispetto ala sua capacità di sincronizzarsi, è il meccanismo patogenetico fondamentale dei disturbi del ritmo sonno veglia. Sindrome della fase di sonno ritardata Caratterizzata da uno spostamento del periodo di sonno verso le ore del mattino comporta difficoltà o impossibilità di ottemperare agli impegni sociali (scuola, lavoro ecc.); se questi vengono forzatamente mantenuti, ne deriva una diminuzione delle ore di sonno quotidiano con conseguente sonnolenza diurna e successivo recupero del sonno nei giorni festivi. Inizia più frequentemente nell’adolescenza e si associa di solito a sindromi psicopatologiche o ad abuso d’alcol e/o sedativi. La dipendenza da queste sostanze è comunque spesso conseguenza dei tentativi di modificare il ritardo di inizio del sonno. Il diario del sonno dimostra un quadro caratteriz-
Il sonno e le sue alterazioni 1651
zato da un orario di inizio del sonno, costante, incoercibilmente ritardato rispetto alle regole sociali, di solito intorno alle 2 del mattino. Coricarsi più presto diventa inutile, il sonno, una volta iniziato è abitualmente di buona qualità Terapia. La cura specifica è la cronoterapia. Consiste nel ritardare progressivamente di 3 ore il momento di andare a letto e ugualmente l’orario del risveglio al mattino, seguito da immediato abbandono del letto. Così procedendo, si raggiunge l’orario desiderato in rapporto agli impegni sociali del paziente. Tale orario è raggiunto di solito in 5-7 giorni, ma ovviamente la fase iniziale del trattamento deve essere rinforzata da un periodo più lungo durante il quale il controllo dell’orario deve essere rigorosamente mantenuto. Non è consentito di derogare nemmeno un giorno a rischio di ricadere nella sindrome. Questo trattamento richiede che il paziente sia edotto sui concetti che sono alla base della terapia, che egli sia consenziente e sufficientemente motivato ad eseguirla. La collaborazione dei familiari o dei parenti è fondamentale al buon esito. L’esposizione del paziente alla luce nelle ore del mattino (2500 lux dello spettro totale dalle 7 alle 9) contribuisce in modo sensibile al buon risultato. Non vi è alcun’indicazione farmacologica per i casi puri con eccezione della melatonina Sindrome della fase di sonno anticipata
logico con il ritmo circadiano planetario. Essa si riscontra frequentemente in individui ciechi dalla nascita o in soggetti con lesioni del tratto retino ipotalamico. Questi pazienti alternano periodi asintomatici a periodi con insonnia notturna e sonnolenza diurna. Proprio per questo difficilmente riescono a programmare la loro attività in base al calendario. La sindrome è cronica. Si ritiene che la cecità, come tale, sia causa della sindrome, indipendentemente dalla sua natura. Sono però escluse le cecità da lesione postchiasmatica. Ciò avvalora quanto sembra ormai accertato sull’importanza del tratto retino-ipotalamico, che si distacca dal chiasma, nel fornire informazioni sui periodi luce-buio al nucleo sovrachiasmatico dell’ipotalamo (centro fondamentale dell’orologio biologico) e da qui ad altre strutture cerebrali. Tale lesione potrebbe spiegare da sola i casi nei quali la sindrome è presente in assenza di cecità, ma si associa invece a difetto mentale. L’elemento fondamentale di distinzione è rappresentato dal fatto che, mentre i pazienti con DSPS mantengono o riacquistano il loro ritardo fisso d’inizio del sonno nei periodi di vacanza, quelli con sindrome ipernictemerale proseguono nel loro progressivo ritardo. Terapia. Nei pochi casi studiati sembra che i migliori successi si ottengano con un programma di orario imposto e mantenuto per un tempo sufficientemente lungo. L’esposizione mattutina del soggetto alla luce del sole è risultato un buon coadiuvante dell’orario imposto. È riportata l’efficacia del trattamento con Vit- B12 solo in pochi casi e dunque l’indicazione necessita di ulteriori conferme. La somministrazione di melatonina è efficace nel riassetto del ritmo sonno-veglia.
Più rara della precedente, tendenzialmente cronica, è caratterizzata da un anticipo del periodo di sonno nelle ore serali e un risveglio precoce nelle ore del mattino. Dai pochi casi descritti in letteratura risulta ricorrere maggiormente nelle persone anziane. Il meccanismo che determina questa sindrome sarebbe speculare rispetto a quello della fase di sonno ritardata.
Dissonnie
Sindrome ipernictemerale
Insonnia
Questa sindrome si verifica a causa dell’impossibilità a riaggiustare il proprio orologio bio-
L’insonnia è il più comune di tutti i disturbi del sonno; spesso è un sintomo di patologie
1652 Malattie del sistema nervoso
mediche, psichiatriche e neurologiche. Può essere secondaria ad altri disturbi del sonno o indotta da farmaci, Un’approfondita conoscenza della causa più probabile dell’insonnia in un determinato paziente è essenziale prima di poter proporre un trattamento razionale ed efficace. È importante sottolineare che l’insonnia non è definita dalla durata totale del sonno, ma dall’incapacità di riconoscere il sonno come ristorativi e capace di dare la sensazione di sentirsi riposati il giorno successivo. Nelle società industrializzate lamenta insonnia il 40% della popolazione ogni anno. L’insonnia è considerata una significativa causa di morbilità e di mortalità. I costi diretti e indiretti dell’insonnia sono stati stimati intorno ai 100 miliardi per anno di $ negli USA (Leger, 1995). Fattori genetici sono coinvolti nell’insonnia determinando per ciascun individuo il fabbisogno ottimale di sonno (dormitori brevi e lunghi, gufi e allodole). La percezione di aver dormito è naturalmente una parte importante della valutazione delle lamentele d’insonnia. Le persone che presentano insonnia tendono a sovrastimare la latenza del sonno e a sottostimare il tempo totale trascorso dormendo. Studi sperimentali hanno accertato che, in soggetti normali, la sensazione soggettiva d’essere sveglio può persistere anche cinque minuti dopo la comparsa dei fusi, primi inequivocabili segni EEG di sonno profondo, si può quindi facilmente capire perché una notte con molti, anche se brevi, risvegli può essere percepita come una notte insonne. Si ritiene che le persone con insonnia cronica possono soffrire di un disturbo più generale di iperarousal che può essere responsabile sia dei sintomi diurni sia del sonno notturno poco soddisfacente. La grande maggioranza dei pazienti che riferiscono insonnia non richiede studi polisonnografici. Si devono sottoporre a test formali del sonno i soggetti che riferiscono grave ipersonnia diurna non spiegata o in cui si sospetta un disturbo della respirazione correlato al sonno.
Insonnia da adattamento o situazionale Viene definito disturbo del sonno «da adattamento» una situazione d’insonnia di relativamente breve durata (al massimo fino a qualche mese) che insorge successivamente e, conseguentemente, ad un evento stressante al quale è eziopatogeneticamente legata. Le situazioni responsabili dell’insorgenza della sindrome possono essere estremamente diverse, e anche banali, ma hanno tutte in comune la potenzialità stressante. A volte il paziente stesso è incapace di identificare l’evento responsabile. Il recupero della normalità si ottiene di solito nel giro di breve tempo o per la cessazione dell’evento stressante o per una riorganizzazione adattativa del soggetto ad un miglior livello psicologico. Se il disturbo persiste per un tempo prolungato può diventare l’innesco di un’insonnia psicofisiologica cronica. Insonnia psicofisiologica cronica L’insonnia psicofisiologica (IP) è una forma d’insonnia dipendente da fattori stressanti generici che somatizzano in maniera selettiva alterando il sonno notturno. Il termine indica un’insonnia indotta da una generica tensione emotiva in assenza di altri problemi psicopatologici o di ordine mentale. Condizionamenti individuali negativi nei confronti del sonno costituiscono la causa di consolidamento di un’insonnia in origine situazionale e reattiva, la quale, con il passar del tempo, diviene del tutto indipendente dall’occasione scatenante iniziale. Diventano insonni cronici quei soggetti che reagiscono allo stress con una reazione di allarme esagerata e che somatizzano la tensione emotiva. Spesso il ricordo preciso degli eventi che hanno determinato l’inizio dei problemi sfugge alla percezione critica del paziente e l’attenzione si polarizza unicamente sull’insonnia che diventa essa stessa l’unico problema. Si instaura un circolo vizioso fra la qualità della vita e delle attività diurne e la preoccupazione che
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ne deriva, e le aspettative negative legate al sonno potenziano sia gli effetti negativi dell’insonnia durante le attività diurne, sia il livello di tensione somatizzata che disturba oggettivamente il sonno. È tipica in questi pazienti la convinzione di poter vedere dissolvere ogni loro problema solo se riuscissero di nuovo a dormire bene. Ma quanto più si sforzano di dormire, tanto più diventano agitati e il sonno diventa difficile. Tipicamente questi pazienti si addormentano facilmente quando sono rilassati davanti alla TV e non quando sono a letto, e riescono a dormire meglio in ambienti non abituali, come le camere d’albergo o il laboratorio del sonno, piuttosto che in casa propria. I rilievi polisonnografici in questi pazienti mostrano un tempo di addormentamento prolungato e una quantità esagerata di veglia notturna che riducono la quantità e l’efficienza del sonno, convenzionalmente definita come il rapporto tra tempo trascorso a letto e effettiva durata del sonno. Sono aumentati gli stati di sonno leggero (stadi I e 2) a discapito del sonno profondo (stadi 3 e 4) che non può essere consolidato per l’eccessiva instabilità del sonno. Il deficit microstrutturale è a volte ancora più pronunciato, i microrisvegli diventano numerosi e l’indice di presenza di tracciato instabile (CAP-rate) è drasticamente aumentato. L’insonnia psicofisiologica è più frequente nelle donne, inizia normalmente dopo i 20-30 anni e peggiora progressivamente con l’età fino ad un livello di gravità stabile che corrisponde alla cronicizzazione definitiva del disturbo e porta spesso ad un uso prolungato o eccessivo di ipnotici o di alcol. Per una diagnosi corretta di IP occorre escludere altre cause di insonnia. In particolare vanno esclusi con cura i disturbi affettivi e l’ansia generalizzata perché spesso l’insonnia costituisce il sintomo d’esordio di una sindrome depressiva o il sintomo notturno più importante di un disturbo d’ansia. Terapia. Il trattamento dell’insonnia con tecniche di psicoterapia comportamentale può essere efficace ma comporta spesso un rilevante im-
pegno temporale. La restrizione del sonno, che consiste nella riduzione del tempo totale di sonno a poche ore ciascuna notte per migliorare l’efficienza del sonno, per poi aumentare gradualmente la quantità di tempo trascorso a letto, si è dimostrata utile. La terapia del controllo degli stimoli scoraggia l’associazione appresa tra la camera da letto e la veglia consigliando al paziente che non riesce a addormentarsi di alzarsi e di andare in un’altra stanza ad eseguire altre attività rilassanti fino a quando non sente nuovamente desiderio di dormire. La terapia cognitiva tende a rassicurare il paziente fornendogli notizie e spiegazioni circa la possibilità di recuperare sonno in termini di intensità, correggendo giudizi negativi basati sul convincimento erroneo che il sonno debba essere valutato solo in termini di ore dormite. I farmaci utilizzati per curare l’insonnia possono, invece, essere loro stessi responsabili della comparsa o dell’aggravamento di un quadro di insonnia, attraverso meccanismi diversi. La registrazione polisonnografica a seguito dell’uso prolungato di ipnotici evidenzia una riduzione dell’ampiezza delle onde delta, a favore di un incremento di attività più rapide. L’uso eccessivo e prolungato di un ipnotico conduce quasi costantemente ad una situazione di tolleranza, con una caduta dell’efficacia e una tendenza all’incremento della dose, deteriorando ulteriormente il sonno. L’evento opposto è costituito da un tentativo di riduzione o dalla sospensione totale del farmaco; in entrambi i casi è facile che ricompaiano segni di insonnia e spesso l’entità di questa insonnia «di ritorno» è maggiore (o è percepita comunque come più accentuata) di quella che caratterizzava il quadro di partenza; l’evento successivo è costituito spesso dalla ripresa dell’assunzione dell’ipnotico. Gli inconvenienti descritti vanno evitati ricorrendo ad un’accurata scelta del farmaco e ad una stretta sorveglianza del suo uso, in termini di quantità e di tempo; impegnando il paziente restare sotto controllo medico ed evitando l’autoprescrizione.
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Dissonnia da gambe senza riposo Nella classificazione internazionale dei disturbi del sonno (ICDS 90) la sindrome delle gambe senza riposo, restless legs syndrome (RLS), viene posta tra le dissonnie intrinseche. Essa è caratterizzata da una sensazione interna sgradevole, localizzata tipicamente tra il ginocchio e la caviglia, che insorge a riposo nella tarda serata e specialmente nella fase di rilassamento muscolare che usualmente precede il sonno. La sintomatologia viene alleviata solo dal movimento e a volte è talmente intensa da produrre la necessità di alzarsi, camminare, poggiare il piede su di una superficie fredda. Ciò interferisce severamente con la possibilità di dare inizio al sonno, causando un’insonnia particolarmente severa con disturbi emozionali tali da portare alla depressione e, in rari casi, al suicidio. La sintomatologia è in genere bilaterale ma può presentarsi prevalentemente da un lato; occasionalmente possono essere interessati anche gli arti superiori. La prevalenza nella popolazione generale è intorno al 5%. Incidenze più alte si ritrovano nelle donne in gravidanza (1127%) e nell’anemia sideropenica (24-42%). La severità dei sintomi varia ampiamente nel corso della vita essendo non infrequenti periodi di remissione totale. L’età d’insorgenza è estremamente variabile. Spesso i pazienti si rivolgono al medico molti anni dopo l’inizio della sintomatologia. La prevalenza è apparentemente più alta nel sesso femminile, in probabile rapporto con l’esacerbarsi dei sintomi che può verificarsi in gravidanza e in menopausa. In alcuni casi la sindrome è ereditaria con modalità di trasmissione autosomica dominante. La RLS si presenta spesso associata con mielopatie e neuropatie croniche, con l’anemia, il diabete, l’insufficienza respiratoria cronica, il cancro, l’insufficienza venosa e con l’assunzione d’alcuni farmaci (caffeina, ß-bloccanti, fenotiazine). Nei casi idiopatici gli esami di laboratorio e l’elettromiografia sono negativi. Il quadro
polisonnografico d’insieme mostra un sonno fortemente disturbato caratterizzato da: numerosi addormentamenti interrotti da risvegli, aumento della rappresentazione percentuale delle fasi di sonno leggero 1 e 2, diminuzione delle fasi di sonno profondo 3 e 4, frequenti cambiamenti di fase, tempo ed efficienza del sonno ridotti. La macrostruttura del sonno presenta un’irregolare distribuzione del sonno, con perdita della regolare dinamica ciclica delle attività EEGrafiche lente; la microstruttura è caratterizzata da un aumento dei periodi d’instabilità. Terapia. Farmaci benzodiazepinici. Alcune benzodiazepine, come l’alprazolam, il nitrazepam, il temazepam, il triazolam e il clonazepam, che è il più diffusamente studiato, sono state impiegate con apparente successo; in realtà i risultati appaiono alquanto contraddittori, in quanto il risultato positivo consisterebbe in una più rapida induzione del sonno e in una diminuzione dei risvegli legati ai movimenti periodici delle gambe piuttosto, che in un effettivo miglioramento della sintomatologia; inoltre, la permanenza dei benefici appare limitata nel tempo. Effetti collaterali, consistenti in un’eccessiva sonnolenza diurna e nell’induzione o nell’aggravamento di una sindrome da apnee morfeiche, sono stati segnalati specie nei pazienti più anziani. Studi controllati hanno dimostrato che ldopa, associata ad inibitori della decarbossilasi periferica, è efficace nel ridurre stabilmente i movimenti della RLS. Tuttavia si può assistere ad un incremento della sintomatologia diurna e ad un rebound dei PLMS nell’ultima parte della notte, qualora la l-dopa venga somministrata in una singola dose serale. L’uso di preparati a rilascio controllato però può risolvere tali problemi. Risultati benefici vengono riferiti per l’uso di farmaci dopaminergici. Dissonnia da movimenti periodici La sindrome da movimenti periodici delle gambe durante il sonno (PLMS), sinonimo mio-
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clono notturno, è classificata tra le dissonnie intrinseche. Essa è caratterizzata da contrazioni muscolari stereotipate, periodiche, in uno o in entrambi gli arti inferiori, che intervengono nel sonno, specialmente in quello leggero. Le scosse miocloniche consistono in movimenti d’estensione dell’alluce e dorsiflessione della caviglia, seguiti talora dalla flessione del ginocchio e dell’anca, che durano generalmente da 0,5 a 5 secondi e si manifestano periodicamente ogni 20-40 secondi circa. Essi tendono a raggrupparsi, in genere, in episodi che possono durare anche alcune ore, iniziando generalmente durante gli stadi di sonno 1 e 2 e salvo persistere durante il sonno lento e la fase REM. Durante il sonno REM sono di solito meno intensi, più corti e meno ritmici; nello stadio 2 sono frequentemente accompagnati da un microrisveglio. La sindrome da PLMS viene raramente diagnosticata negli individui giovani e la sua incidenza cresce con l’età al punto che può essere osservata in circa il 44% dei soggetti di età superiore ai 65 anni; pur rappresentando un’entità nosologica distinta dalla sindrome delle gambe senza riposo (Lugaresi et al 1986) si associa con essa in circa il 50% dei casi. La sindrome è presente in una vasta gamma di patologie come la corea di Huntington, la sclerosi laterale amiotrofica, le mielopatie croniche, le neuropatie periferiche, l’uremia e nel 30% circa dei pazienti con apnee morfeiche. Va inoltre ricordato che i movimenti periodici possono essere indotti da farmaci antidepressivi triciclici o dalla sospensione di farmaci anticonvulsivanti, benzodiazepine, barbiturici e altri ipnotici. È degno di nota il fatto che i PLMS sono stati incidentalmente riscontrati in soggetti del tutto sani, nella misura dell’11% circa. Non è nota una prevalenza legata al sesso. L’effettiva incidenza dei PLMS come causa di insonnia è ancora controversa; sembra però di poter concludere che i movimenti periodici delle gambe da soli, pur potendo indurre una frammentazione del sonno, non rappresentano
mai un fattore decisivo nella patogenesi dell’insonnia stessa Fisiopatologia. Alcune osservazioni suggeriscono che i PLMS e la RLS possono essere considerati manifestazioni cliniche di una stessa disfunzione del sistema nervoso centrale. Ad esempio, nei pazienti con RLS, durante l’esecuzione del test d’immobilizzazione forzata delle gambe, i movimenti assumono una componente periodica simile ai PLMS; inoltre, è facile osservare come i movimenti tipici della RLS nel passaggio tra la veglia e il sonno assumono gradualmente le caratteristiche dei PLMS, e infine, come quasi tutti i farmaci efficaci nel trattamento del RLS sopprimono anche i PLMS in quei pazienti affetti contemporaneamente dalle due sindromi. Di particolare interesse appaiono i legami tra la periodicità dei PLMS (20-40 secondi) e quella presentata da altri fenomeni durante il sonno, e in particolare la pressione sanguigna, la respirazione e il tracciato alternante ciclico. L’insieme di queste osservazioni suggerisce l’ipotesi di un comune pace-maker per tali fenomeni, di un’origine sottocorticale dei PLMS e dì una regolazione da parte di fluttuazioni ritmiche dell’eccitabilità della sostanza reticolare del tronco encefalico. Terapia. Nessun trattamento è consigliabile per la sindrome da PLMS che non comporti alterazioni della struttura e della continuità del sonno. Le benzodiazepine, specialmente il clonazepam, rappresentano il trattamento d’elezione nei casi meno gravi, la l-dopa e i dopagonisti appaiono nettamente più efficaci e indicati quindi nei casi più gravi. L’uso degli oppioidi dovrebbe essere limitato a quei pazienti con sintomatologia più severa e non responsivi alle precedenti terapie. Dissonnia da apnee ostruttive morfeiche La Sindrome delle apnee ostruttive in sonno (OSA) è caratterizzata da ripetuti episodi di occlusione delle vie aeree superiori durante il son-
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no. La prevalenza è del 3,3% tra i maschi con un picco che si colloca intorno a 55 anni, nelle femmine l’OSA può essere frequente, specie dopo la menopausa. Un altro picco di prevalenza si ritrova nei bambini di età inferiore di 6 anni (1,5-3,5%), soprattutto in alcuni gruppi a rischio, quali i portatori di macroglossia, dismorfismi cranio-facciali e ipertrofia adeno-tonsillare. L’occlusione parziale o totale delle vie aeree superiori è correlata allo sviluppo di pressione subatmosferica intratoracica durante l’inspirazione. Questa pressione subatmosferica è trasmessa alla regione faringea, creando una sorta di “aspirazione” sui tessuti molli e sui muscoli dilatatori delle vie aeree superiori che hanno il compito di mantenere pervie tali vie, contraendosi normalmente prima dell’inspirazione. Durante il sonno, in questi muscoli, ed in particolar modo nei muscoli genioglosso e genioioideo, la forza contrattile si riduce di molto, favorendo lo sviluppo di una resistenza inspiratoria anomala nelle vie aeree superiori, che può dar luogo a occlusione parziale o totale. Le anomalie anatomiche o fisiologiche delle vie aeree superiori riducono l’entità di pervietà oltre un livello critico o limitano l’attività dei relativi muscoli dilatatori, aumentando le resistenze delle vie aeree superiori e causando un collasso più o meno pronunciato. La ripresa della ventilazione dopo un’apnea si verifica solo attraverso un alleggerimento del sonno o un risveglio vero e proprio. Ciò comporta una frammentazione del sonno non solo a livello macrostrutturale (riduzione della percentuale delle fasi di sonno NREM 3 e 4 e della fase REM) ma anche a livello microstrutturale (elevata instabilità del sonno ed aumento del rate di tracciato alternante ciclico). Ciascuna apnea può inoltre accompagnarsi ad ipossia, talora particolarmente severa, con valori di SaO2 che possono raggiungere livelli intorno al 60 %. In questi pazienti, inoltre, si presenta un deficit di secrezione dell’ormone della crescita e di testosterone, correlato alla riduzione, talvolta anche alla scomparsa delle fasi profonde del sonno
NREM, in cui normalmente questo ormone viene prodotto. In 2/3 dei pazienti con OSA, inoltre, la secrezione del peptide natriuretico atriale è aumentato, e l’attività del sistema reninaangiotensina-aldosterone è depressa, aumentando la natriuresi e la diuresi con conseguente insorgenza di edemi periferici e di emoconcentrazione, con aumento della viscosità del sangue. In concomitanza alle apnee, ed in rapporto alla loro lunghezza, possono manifestarsi intense oscillazioni acute dei valori di pressione arteriosa sistemica e polmonare e frequenza cardiaca, per attivazione di riflessi neurovegetativi in risposta all’ipossia, alle modificazioni della pressione negativa intratoracica, ai meccanismi di arousal e, naturalmente , anche allo stadio del sonno in cui si verificano le apnee (più intense e prolungate durante il sonno REM). Gli eventi che si verificano acutamente in corso di apnea possono comportare conseguenze permanenti. A livello respiratorio si può sviluppare una ipoventilazione permanente con ipercapnia diurna. La riduzione della libido, riferita spesso dal paziente con OSA, potrebbe essere messa in relazione alla riduzione del tasso plasmatico del testosterone libero e totale. Lo sviluppo di ipertensione polmonare sembra legata ad un’alterata funzionalità polmonare con ipossiemia permanente; in questi casi si può manifestare anche una insufficienza cardiaca destra. Queste alterazioni emodinamiche sarebbero legate all’aumento di catecolamine circolanti e del tono simpatico conseguenti ai fenomeni di desaturazione di ossigeno ed ai frequeni risvegli, e ad un fenomeno di down-regulation dei barocettori a causa delle intense oscillazioni della pressione arteriosa in rapporto alle apnee. Generalmente, i pazienti si rivolgono al medico per la presenza di due sintomi maggiori: il russamento e la sonnolenza diurna. Nei pazienti con OSA il russamento assume caratteristiche peculiari: è un forte russamento di tipo gutturale, presente da lungo tempo, interrotto da pause respiratorie, seguite da una ripresa della
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ventilazione particolarmente rumorosa. Accanto ai segni maggiori il paziente riferisce segni minori, costituiti da risvegli frequenti per la necessità di urinare, da improvvise sensazioni di soffocamento o per abbondante sudorazione. Il risveglio mattutino è spesso caratterizzato da cefalea di breve durata e secchezza delle fauci. Si accompagnano disturbi cognitivi con difficoltà di concentrazione e di memorizzazione, problemi sessuali con riduzione della libido fino all’impotenza e talvolta modificazioni del carattere, generalmente nel senso dell’irritabilità (soprattutto nei bambini, dove si osserva spesso anche agitazione psicomotoria). I pazienti con OSA sono frequentemente obesi (70%); in particolare sembra di valore predittivo la presenza di valori elevati della circonferenza del collo (>43 cm) e la distribuzione assiale del tessuto adiposo. Principale causa, e/o concausa, responsabile dell’occlusione delle prime vie aeree può essere la presenza di anomalie cranio-facciali (retrognazia e micrognazia, angolazione del basicranio), ostruzioni nasali, ipertrofia tonsillare e/o adenoidea, palato ogivale, prolasso dell’ugola, macroglossia, edema della laringe. L’ipertensione, inizialmente solo diastolica, è spesso presente. L’OSA è frequentemente associata a broncopatia cronica ostruttiva, in questo caso si parla di Overlap Syndrome. In questi casi è possibile che si instauri rapidamente un ipoventilazione diurna, con aspetti clinici tipo cuore polmonare cronico. È fondamentale distinguere il russamento tipico dell’OSAS da uno spasmo laringeo, possibile espressione di altre patologie neurologiche di tipo degenerativo (p.e. Atrofia Multisistemica Progressiva, Sclerosi Laterale Amiotrofica). Per questo motivo è indispensabile sottoporre il paziente ad un esame neurologico completo. Per una diagnosi corretta è necessario eseguire indagini strumentali, quali la polisonnografia notturna (PSG) completa. Oltre ai canali EEG e poligrafici comuni è necessario registrare, per l’intera durata del sonno notturno, il flusso aereo oronasale, i movimenti respirartorii toraco-
addominali, l’elettromiogramma dei muscoli tibiali, l’elettrocardiogramma ed i livelli di saturazione di ossigeno. Ciò consente una valutazione quantitativa e qualitativa della severità della sindrome, indicando il tipo di apnea (ostruttiva, centrale o mista), permettendo di calcolare l’indice orario di apnea/ipopnea, l’entità delle desaturazioni di O2, le variazioni della frequenza cardiaca, la presenza di movimenti periodici durante il sonno e il sovvertimento dell’architettura ipnica. L’iter diagnostico, infine, andrebbe completato con le prove di funzionalità respiratorie, la rinomanometria e la cefalometria. L’OSA segue un evoluzione naturale dallo stadio 0 con il solo russamento associato a lieve sonnolenza diurna fino allo stadio 3, in cui l’ipoventilazione alveolare è presente anche durante la veglia e si evidenziano gravi disturbi cardiocircolatori. Terapia. Non esistono trattamenti farmacologici risultati efficaci. In caso di OSA di grado lieve, generalmente di tipo posizionale ed in relazione spesso al sovrappeso, sono sufficienti alcune raccomandazioni volte a promuovere la perdita di peso e ad evitare l’assunzione di sostanze che possono deprimere il sistema nervoso centrale come etanolo e sedativi. Se viene accertata una relazione con la posizione assunta durante il sonno, è bene raccomandare al paziente di evitare il decubito supino con opportuni accorgimenti (uso di palla da tennis posizionata fra le scapole, cuscino cuneiforme, dispositivo sonoro che viene attivato quando il paziente assume la posizione supina). CPAP e BIPAP. Questi dispositivi a pressione positiva continua (CPAP), o a pressione differenziata per inspirazione ed espirazione (BIPAP), rappresentano il trattamento più efficace nella terapia dell’OSA. Essi comprimono l’aria ambientale e la incanalano ad una data pressione in una maschera nasale o naso-bucale in modo da garantire la pervietà delle vie aeree superiori. L’entità della pressione deve essere stabilita individualmente per ciascun paziente, tenendo conto del fatto che la pressione
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ottimale è quella minima richiesta per eliminare completamente le apnee ostruttive, le ipopnee ed il russamento. La BIPAP viene principalmente utilizzata per trattare pazienti che richiedono valori pressori molto elevati, tali da rendere fastidiosa l’espirazione, oppure in caso di pazienti con Overlap Syndrome. Negli ultimi anni si sono resi disponibili dispositivi CPAP autotaranti in grado di riconoscere autonomamente gli eventi respiratori patologici e di erogare al soggetto pressioni variabili in relazione alle sue necessità. Risultano particolarmente utili in pazienti con OSA di grado medio-elevato, in cui i valori di pressione terapeutica variano molto in rapporto alla posizione assunta dal soggetto ed il tipo di sonno (NREM-REM). Gli svantaggi della CPAP consistono nella resistenza psicologica che il paziente oppone di notte nell’affidarsi ad una macchina, nella comparsa di claustrofobia o sensazioni di soffocamento in relazione all’apertura della bocca. La compliance (intorno al 60-80% dei pazienti) è in relazione con la gravità della sonnolenza diurna e viene enormemente aumentata mediante una paziente opera di persuasione e con intenso allenamento respiratorio. Approcci Chirurgici. I pazienti più adatti per un approccio chirurgico sono generalmente quelli di grado medio-lieve, oppure quelli che, anche se di grado severo, presentano anormalità cranio-facciali o faringee di entità tale da rappresentare la componente predominante tra le cause dell’OSA. Al fine di risolvere l’ostruzione delle vie aeree superiori, l’intervento viene personalizzato sulla base della valutazione globale dei tre livelli possibili di ostruzione potenziale: il naso (plastica del setto, polipectomia, o riduzione dei turbinati), il palato molle (resezione tramite uvolopalatofaringoplastica, uvolopalatoplastica, uvoloflap), la base della lingua (avanzamento dello ioide e della lingua). Spesso occorre intervenire su più livelli, in tempi diversi o contemporaneamente. Il russamento sottopone il faringe a continui sussulti vibratori, tali da causare negli anni, insieme agli eventi
respiratori ostruttivi, irritazione della mucosa faringea e edema del faringe. Per questo motivo tutti i pazienti indirizzati verso l’intervento chirurgico devono comunque essere stati trattati per alcuni mesi con un dispositivo CPAP per ridurre l’entità dell’edema faringeo. La tracheostomia ha rappresentato il primo trattamento chirurgico per l’OSA. Oggi questo tipo di intervento risulta necessario soltanto in casi disperati e molto particolari. Anche se praticata di rado, la tracheostomia consente un netto e immediato miglioramento ai soggetti con OSA severa. Applicazione dentarie. Questo tipo di terapia può essere applicata in pazienti con OSA di grado medio-lieve, quando le apnee sono principalmente dovute a retrognazia ed il paziente, in genere giovane, non riesce a sopportare (per motivi psicologici o fisici) un trattamento con un dispositivo CPAP. Tuttavia, lo spazio guadagnato è molto più limitato che nei procedimenti chirurgici. Il vantaggio di questi metodi rispetto alla chirurgia è che essi non comportano alcuna variazione anatomica permanente ne alcun rischio chirurgico.
Ipersonnie La più comune causa di eccessiva sonnolenza diurna, nella nostra società, è la carenza cronica di sonno. Dormiamo il 20% meno dei nostri antenati di un secolo fa. Circa il 20% dei lavoratori nelle società industrializzate è addetto a turni di notte. È stato dimostrato che i lavoratori turnisti con turni notturni dormono, in media, 8 ore in meno alla settimana dei lavoratori diurni, perdita pari a un’intera notte di sonno ogni settimana. Si dovrebbe sottolineare che la quantità sufficiente di sonno non è misurabile in termini di ore assolute di sonno ottenuto, ma dalla capacità di dormire in misura sufficiente per svegliarsi riposati e ristabiliti. La sonnolenza diurna eccessiva è la conseguenza inevitabile di un sonno notturno quantitativamente e/o qualitativamente insufficiente. L’eccessiva sonnolen-
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za diurna può essere legata a numerose cause, mediche, farmacologiche (farmaci neuropsicotropi ad azione depressiva sul SNC, antiistaminici, calcio-antagonisti immunosopressori etc.).La privazione di sonno, volontaria o determinata da fattori sociali, l’insonnia, i disturbi del sonno ed in particolare l’OSA, il “maladattamento” al lavoro notturno determinano costantemente sonnolenza diurna. L’impatto della sonnolenza ha serie conseguenze mediche e sociali, dati della letteratura mostrano come l’eccessiva sonnolenza può aumentare il rischio di errori umani ed in particolare di infortuni sul lavoro e di incidenti stradali (Garbarino et al 2001). In assenza di deprivazione di sonno, il lamento di eccessiva sonnolenza diurna deve essere considerato molto seriamente. Una sonnolenza non spiegabile è quasi senza eccezione la conseguenza di un disturbo del sonno identificabile e trattabile, più comunemente una sindrome da apnee morfeiche, una narcolessia o una ipersonnia idiopatica. Narcolessia La narcolessia venne inizialmente classificata come un disturbo psichiatrico primario e solo in un secondo tempo è stata infine riconosciuta come un disturbo neurologico organico del sonno; è caratterizzata dalla possibile dissociazione fra sonno e veglia per cui componenti di uno stato (sonno REM o NREM) appaiono in un altro (veglia). La narcolessia è un disturbo relativamente raro, con una prevalenza dello 0,09%, paragonabile a quella della sclerosi multipla. Presenta una forte componente genetica legata alla presenza del gene dell’antigene linfocitario umano (HLA)-DR2/DQBI*0602 e ad anomalie nella produzione e nell’utilizzo del neuropeptide hypocretina. In questi pazienti non sono state dimostrate anomalie strutturali costanti dell’encefalo. La grande maggioranza dei casi è pertanto idiopatica, ma sono stati descritti rari casi
di narcolessia sintomatica in pazienti con lesioni del diencefalo, dell’ipotalamo o del ponte. Il disturbo dì solito esordisce nell’ adolescenza o nella prima età adulta, con un’età di esordio che varia dall’infanzia alla senescenza (da 3 a 72 anni di età). Il disturbo, dopo un periodo relativamente breve di progressione immediatamente successivo all’insorgenza, tende a stabilizzarsi ma raramente, se mai, regredisce del tutto. La narcolessia può essere considerata come il risultato di un alterato controllo dei limiti fra gli stati di veglia sonno NREM e sonno REM. Soggetti narcolettici cui sia permesso di dormire ad libitum per un tempo lungo 32 ore non presentano quantità di sonno superiori ai soggetti di controllo. Risulta alterata la distribuzione circadiana del sonno che si presenta in episodi più brevi e più frequenti con un ritmo intorno alle 4 ore (Nobili et al 1995). Ciò sembra spiegabile con una iperfunzione relativa dei meccanismi REM-ON che rende ragione, almeno in parte, sia della frammentazione del sonno notturno, dell’esordio di esso con un episodio di sonno REM e dell’ intrusione di sonno REM, NREM o di loro componenti nella veglia diurna. Normalmente, tutti gli elementi del sonno REM (sogni, paralisi, movimenti oculari rapidi) appiano insieme e solo durante il sonno REM. Tuttavia, nei pazienti con narcolessia, i sogni e la paralisi possono apparire indipendentemente durante la veglia. La cataplessia e la paralisi da sonno rappresentano l’inappropriata intrusione o persistenza di atonia correlata al sonno REM nello stato di veglia; consequenzialmente le allucinazioni ipnagogiche o ipnopompiche rappresentano sogni correlati al sonno REM che si manifestano durante la veglia. La manifestazione clinica primaria della narcolessia è la presenza episodi di sonno incoercibile, non desiderati o non previsti che durano da secondi a minuti e si manifestano in momenti inappropriati, soprattutto durante periodi di ridotta stimolazione ambientale. Durante i periodi di eccessiva sonnolenza, un breve
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sonnellino (10-30 minuti) è spesso sufficientemente ristoratore. Oltre all’eccessiva sonnolenza, molti dei soggetti con narcolessia presentano un sonno notturno frammentato da risvegli di lunga durata. I sintomi accessori della narcolessia comprendono cataplessia, allucinazioni ipnagogiche e paralisi da sonno. La cataplessia, che si manifesta nel 65-70% dei pazienti con narcolessía, è caratterízzata da improvvisa perdita del tono muscolare, tipicamente scatenata da emozioni come il riso, la rabbia, l’eccitamento, la gioia o la sorpresa. La debolezza muscolare della cataplessia può essere completa, con conseguenti cadute a terra o la necessità di sedersi; molto più comunemente, tuttavia, la debolezza è più lieve e focale, e assume la forma di ipostenia al viso, disturbi dell’eloquio, debolezza localizzata ad un arto o semplicemente sensazione di cedimento delle ginocchia. Abitualmente un episodio di cataplessia dura alcuni secondi, ma un attacco può durare anche minuti; gli episodi più lunghi terminano solitamente in un franco episodio di sonno. Tali episodi ricorrenti di debolezza possono evocare attacchi ischemici transitori, crisi comiziali o isteria, mentre i sogni avvertiti durante l’episodio di cataplessia possono essere occasionalmente scambiati per allucinazioni e interpretati erroneamente come manifestazioni di sintomi psichiatrici. La cataplessía può manifestarsi prima dell’esordio della sonnolenza, oppure comparire dopo decenni; nel 30% dei pazienti con narcolessia non si sviluppa mai. La paralisi al risveglio dopo un episodio di sonno REM è descritta in circa il 60% dei pazienti. Consiste in una paralisi totale del corpo, con risparmio dei movimenti respiratori e degli occhi, che dura secondi o minuti, ed è generalmente assai terrorizzante per il paziente. Le allucinazioni ipnagogiche (all’inizio del sonno) o ipnopompiche (al risveglio) insorgono nel 12-50% dei casi. Queste allucinazioni sono sogni estremamente vividi, spesso terrorizzanti, che si manifestano durante la transizione tra veglia e sonno, e, occasionalmente, si associano a paralisi
totale del corpo e a sensazioni di oppressione e minaccia. Tali allucinazioni sono più spaventose dei sogni convenzionali perché le immagini del sogno sorgono dall’ambiente reale rendendo difficile la distinzione tra realtà e sogno. Può essere presente anche paralisi da sonno, con ulteriore aggravamento dell’ansia del paziente. Il comportamento automatico si manifesta molto frequentemente e riflette l’insorgenza simultanea o rapidamente oscillante di veglia e sonno NREM, durante la quale gli individui sembrano essere svegli, ma non hanno piena coscienza. Tali episodi di comportamento automatico possono essere erroneamente diagnosticati come crisi parziali complesse o stati di fuga psicogena; si dovrebbe tuttavia mettere in rilievo che non vi è relazione tra la narcolessia e l’epilessia. Meno di metà dei pazienti narcolettici presentano tutti i 4 sintomi, l’ipersonnia stessa può restare per molti anni l’unico sintomo presente. Nei bambini, la sonnolenza spesso si manifesta come deficit dell’attenzione o iperattività. Molti pazienti che da adulti hanno sviluppato narcolessia sono stati erroneamente interpretati come affetti da un disturbo di questo tipo nella fase iniziale del loro decorso. La diagnosi di narcolessia può essere sospettata dall’anamnesi, ma è necessaria una diagnosi obiettiva mediante studi nei laboratori del sonno. Gli esami di un paziente con possibile narcolessia devono comprendere una polisonnografia della durata di una notte eseguita la notte prima di un test multiplo di latenza del sonno. Nel test multiplo i pazienti con narcolessia tipicamente si addormentano entro 5 minuti e di solito presentano un sonno REM in almeno due dei sonnellini del test. Terapia. Il trattamento con stimolanti come l’anfetamina, la metanfetamina, metilfenidato, la pemolina o il mazindol è generalmente efficace nei pazienti narcolettici nella riduzione dell’ipersonnia, probabilmente attraverso un effetto di attivazione dopaminergica di questi agenti sul sistema reticolare attivante. La maggior parte di questi farmaci è soggetta a restri-
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zioni in Italia. Il modafinil, uno stimolante alfa1 adrenergico, solo recentemente disponibile nel nostro paese, sembra essere promettente. La dose necessaria varia ampiamente da caso a caso. Gli stimolanti che riducono l’ipersonnia hanno poco effetto sulle altre componenti della sindrome, cioè la cataplessia, le allucinazioni ipnagogiche o la paralisi da sonno. Questi sintomi rispondono agli antidepressivi triciclici, agli inibitori delle monoaminossidasi, agli inibitori specifici del reuptake della serotonina e ai farmaci anticolinergici. La gestione non farmacologica della narcolessia comprende il suggerimento di sonnellini disposti strategicamente nell’arco della giornata e, a tale proposito, è auspicabile una stretta cooperazione con il personale insegnante e i datori di lavoro. Il lavoro a turni, che è poco tollerato dai soggetti con narcolessia, dovrebbe essere scoraggiato. Ipersonnia idiopatica L’ipersonnia idiopatica comprende numerose condizioni, che si manifestano tutte come sonnolenza eccessiva diurna inspiegata. Non vi è storia di cataplessia, né presenza di antigene HLA. Vi può essere una storia positiva familiare di ipersonnia. Sono necessari studi formali per documentare l’assenza di anomalie non sospettate correlate al sonno e per confermare le lamentele soggettive di sonnolenza. Come per la narcolessia, le implicazioni terapeutiche, cioè l’uso per lunghi periodi di farmaci stimolanti, richiedono una diagnosi obiettiva. Gli studi formali del sonno documentano un’ipersonnia obiettiva, senza esordi in sonno REM al test multiplo di latenza del sonno in assenza di anomalie identificabili (come apnee morfeiche o deprivazione di sonno) nella poligrafia eseguita durante la notte precedente. La diagnosi differenziale comprende la narcolessia “monosintomatica” (ipersonnía senza sintomi accessori) ovvero una forma di narcolessia in
cui la cataplessia non sia ancora apparsa. La deprivazione cronica di sonno è probabilmente la causa più comune di ipersonnia e deve essere esclusa prima di formulare la diagnosi di ipersonnia idiopatica. Il trattamento si basa sull’uso di stimolanti come nella narcolessia. Sindrome di Kleine-Levin La sindrome di Kleine-Levin, è caratterizzata da ípersonnia periodica che dura giorni o settimane e si manifesta a intervalli di giorni o anni con periodi di normale funzione sonno/veglia e vigilanza. La classica forma idiopatica si manifesta soprattutto in maschi adolescenti, ma entrambi i sessi e tutti i gruppi di età possono essere colpiti. L’ipersonnia periodica può essere associata a iperfagia e ipersessualità. È probabile che il disturbo rappresenti una disfunzione ipotalamica ricorrente. Sono stati riportati casi in cui questa sindrome è occorsa dopo un lieve trauma cranico. Non sono disponibili studi terapeutici di sufficiente numerosità, per il periodo sintomatico sono stati proposti farmaci stimolanti. Stupor ricorrente idiopatico (SRI) Questa singolare condizione (Lugaresi et al 1998) è caratterizzata da ricorrenti episodi di stupor, generalmente con esordio nell’età adulta, che si manifestano ad intervalli variabili. La durata dello stupor varia da ore a pochi giorni. In tutti i casi descritti era presente un quadro EEG molto caratteristico, con attività diffusa, non reattiva a 13-18 Hz. Le manifestazioni cliniche ed EEG sono rapidamente, ma per un breve periodo, bloccate dal flumanezil, un antagonista delle benzodiazepine.
Parasonnie Sono eventi disfunzionali legati al sonno che non comportano una alterazione significativa della struttura del sonno, spesso interpretabili
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come attivazione del SNC, generalmente ad evoluzione benigna. Rappresentano un gruppo eterogeneo di disturbi, accomunati da alcune caratteristiche: eziologia non chiarita, familiarità, correlazione con l’età, mancanza di problemi medici, assenza di anomalie polisonnografiche, risoluzione spontanea. Sono distinte parasonnie in sonno NREM, in sonno REM, associate alla transizione sonno-veglia ed altre parasonnie. Parasonnie in sonno NREM Si tratta di disturbi dei meccanismi del risveglio, che avvengono più spesso nel primo terzo del sonno, generalmente al termine delle fasi NREM del primo ciclo al momento della transizione verso il sonno REM. Si verifica un risveglio incompleto, che può determinare comportamenti diversi; i soggetti (che presentano un sonno profondo molto ben rappresentato e hanno difficoltà ad essere risvegliati) non hanno memoria dell’accaduto. Insorgono tipicamente in età infantile e frequentemente riconoscono un pattern di familiarità. Si distinguono: Risvegli confusionali. Consistono di episodi (durata da 30 secondi a 5 minuti) di parziale risveglio, con confusione, disorientamento e reattività incompleta a stimoli esterni, non accompagnati da deambulazione e espressioni di terrore. Generalmente insorgono prima dei 5 anni. Pavor nocturnus. Gli episodi si verificano prevalentemente nel primo terzo della notte, anche se in alcuni casi possono insorgere in qualunque momento del sonno o anche durante i sonnellini pomeridiani. Il soggetto si siede sul letto e produce un urlo drammatico, associato ad espressioni di terrore sul volto; concomitano fenomeni autonomici quali aumento della frequenza cardiaca, tachipnea, midriasi, marcata sudorazione. Gli attacchi durano da 30 secondi a 5 minuti, ed insorgono prevalentemente tra i 5 e i 7 anni.
Sonnambulismo. Durante il primo terzo della notte il soggetto presenta complessi automatismi comportamentali, tra i quali alzarsi dal letto e camminare, gli automatismi includono il toccare e riassettare coperte o cuscino; i movimenti sono in generale più goffi del normale. I comportamenti automatici possono essere complessi (cucinare, mangiare, suonare uno strumento musicale, pulire la casa, addirittura guidare un’automobile), e accompagnarsi a vocalizzazioni o sonniloquio, ben diversi però dalle urla tipiche dei terrori notturni. La reattività a stimoli esterni è ridotta. La durata degli episodi è in genere di meno di 15 minuti, anche se sono stati descritti episodi di durata di oltre 1 ora. L’esordio avviene più spesso tra i 4 e gli 8 anni, con picco a 12. Spesso il disturbo è familiare. L’approccio terapeutico dipende dalla frequenza degli episodi e dal rischio di incidenti. In linea generale è bene adottare accorgimenti in casa per garantire la sicurezza del soggetto, favorire un ritmo sonno-veglia regolare, evitare la deprivazione di sonno, cercare di non svegliare il soggetto durante l’episodio critico. È possibile adottare tecniche di rilassamento, o comportamentali (risvegli programmati circa 15 minuti prima dell’orario previsto), o eventualmente psicoterapia, laddove sia richiesta. La farmacoterapia è consigliata solo in casi sintomatologia importante e nei casi più resistenti, l’utilizzo di benzodiazepine e antidepressivi triciclici si basa sugli effetti di stabilizzazione del sonno (riduzione degli arousal), diminuzione del sonno a onde lente e soppressione del sonno REM, anche se è frequente, soprattutto in età pediatrica, la comparsa di effetti collaterali (alterazioni del comportamento, memoria e attenzione; astenia; fenomeni allucinatori) legati all’uso di composti benzodiazepinici. Un’alternativa terapeutica (in età evolutiva) è rappresentata dall’L-5-idrossitriptofano (50-100 mg all’addormentamento), in quanto precursore della serotonina, un cui deficit è ipotizzato nella genesi di questi disturbi.
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Parasonnie del sonno REM Incubi notturni. Sogni a contenuto terrifico che avvengono nella seconda metà della notte e che possono determinare un risveglio del soggetto, che ricorda il contenuto del sogno e presenta sensorio integro. Raramente si associano a sintomi vegetativi e ad attività motoria. Sono prevalenti in età evolutiva, e comunque rappresentano un problema solo se gli incubi sono molto frequenti. L’approccio terapeutico dovrà tenere conto di questi fattori, specie in vista di un trattamento psicoterapeutico. L’imipramina può essere utile in quanto sopprime il sonno REM. Possono essere impiegati anche sedativi minori. REM behaviour disorder (RBD) Viene così definito un disturbo del comportamento motorio in sonno REM, determinato dalla assenza dell’atonia muscolare tipica di questa fase, mentre sono mantenute le caratteristiche dell’EEG e dei movimenti oculari. Il soggetto presenta movimenti complessi, apparentemente finalizzati, a volte anche violenti, che possono determinare lacerazioni, fratture etc. Se svegliato il soggetto spesso ricorda il contenuto del sogno e i movimenti appaiono coerenti con il contenuto del sogno stesso. Il disturbo può essere idiopatico o collegato a patologie neurologiche degenerative come la malattia di Parkinson, le demenze, la paralisi sopranucleare progressiva e l’atrofia multisistemica di cui può rappresentare il sintomo più precoce precedendo la comparsa dei disturbi diurni anche di 10 anni. Terapia: clonazepam (0,5-1 mg all’addormentamento) Parasonnie della transizione veglia sonno Movimenti ritmici in sonno. Tipici dell’età compresa fra 0 e 2 anni, sono fenomeni caratterizzati da movimenti ritmici, ripetitivi e stereotipati che interessano tutto il corpo (body rocking) o solo la testa e il collo (head banging o iactatio capitis o head rolling).Tali movimenti
possono risultare talmente violenti da provocare ematomi subdurali, emorragie retiniche, calli ossei frontali. Generalmente sono riscontrabili nelle fasi di sonno leggero, sia in soggetti normali sia in soggetti affetti da forme di ritardo mentale o da autismo. Terapia: terapia comportamentale e/o clonazepam (in casi di difficile risoluzione). Altre parasonnie Bruxismo. Consiste in contrazioni stereotipate e involontarie dei muscoli masseteri, temporali e pterigoidei che insorgono durante il sonno e generano un digrignamento dei denti con conseguente emissione di un rumore caratteristico e spiacevole. Gli episodi, che possono durare 5-15 secondi, sono parossistici e si ripetono più volte nel sonno; si verificano in tutte le fasi del sonno, con prevalenza nella fase 2 del sonno NREM. Al mattino può residuare dolore alle mascelle e, occasionalmente, cefalea. Il bruxismo può essere legato a condizioni quali malocclusioni, fattori psicologici (ansia), disturbi del movimento (discinesie orofacciali, morbo di Parkinson); è frequente in soggetti con ritardo mentale e paralisi cerebrale infantile. L’approccio terapeutico prevede interventi diversi tra loro (apparecchi ortodontici e tecniche di rilassamento, nei casi più gravi si può fare ricorso alla tossina botulinica e a stimolazioni elettriche locali). Enuresi notturna. Consiste nella presenza di episodi isolati o ripetuti di minzione involontaria durante il sonno, in soggetti di età superiore a 5 anni, in assenza di diabete, epilessia o infezioni delle vie urinarie. Può comparire in qualunque fase del sonno, e dipende dall’interazione di più fattori (immaturità dei sistemi di continenza vescicale, riduzione del picco notturno di ADH, ridotta o mancata risposta agli stimoli risveglianti, cause psicologiche). Può associarsi anche a OSA, malattie psichiatriche, parasonnie NREM. I fattori genetici rivestono notevole importanza nel determinismo di que-
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sto disturbo.Il trattamento può essere comportamentale (che va da norme igieniche generali a esercizi di condizionamento sfinterico, fino a psicoterapia al paziente e counseling alla famiglia) e/o farmacologico (desmopressina, per normalizzare la secrezione endogena di ADH, 20-40 mcg alla sera, imipramina 25-50 mg). Mioclonie ipniche. Mioclonie brevi, isolate o in sequenza, localizzate soprattutto agli arti inferiori, ma che possono estendersi a tutto il corpo, tipiche della transizione dalla veglia al sonno 1. A volte sono scatenate da stress fisici o emotivi, o anche da irregolarità del ritmo circadiano. Solitamente non richiedono trattamento, anche se possono essere talmente frequenti ed intense da determinare un disturbo cronico dell’addormentamento, e conseguentemente richiedere provvedimenti terapeutici. Sonniloquio. Verbalizzazioni (più o meno) strutturate non correlate a un particolare stadio del sonno (anche se sono più frequenti negli stadi 1 e 2 di sonno NREM), frequentemente associate ad altre parasonnie. Non richiedono trattamento. Paralisi del sonno. È legata alla persistenza dell’atonia del sonno REM in veglia e può fare parte del quadro clinico della narcolessia oppure presentarsi in forma isolata. Gli episodi, della durata di decine secondi e con risoluzione spontanea, compaiono tipicamente alla fine del sonno, e sono caratterizzati dall’impossibilità a compiere movimenti volontari, a coscienza mantenuta; la loro insorgenza è facilitata da deprivazione di sonno, stress e irregolarità del ritmo sonno-veglia. Nei casi più gravi può essere necessario un trattamento farmacologico (imipramina).
no parenchimale. Il tronco, il talamo e l’ipotalamo sembrano essere fondamentali a questo proposito. Le lesioni occupanti spazio possono provocare alterazioni del ritmo sonno/veglia sia direttamente, a causa della loro localizzazione, sia indirettamente, a causa dello sviluppo di ipertensione endocranica e/o idrocefalo. Le lesioni focali del tronco, come la siringobulbia, la malformazione di Arnold-Chiari, i tumori o le lesioni vascolari, possono causare disturbi del respiro correlati al sonno. Vanno ricordati inoltre, quali responsabili di gravi disturbi del sonno, i craniofaringiomi, gli infarti talamici paramediani e i tumori dell’ipotalamo. Esistono prove sempre più numerose che disturbi respiratori durante il sonno sono comuni dopo un incidente cerebrovascolare e che, reciprocamente, tali disturbi possono in realtà costituire un fattore di rischio per le malattie cerebrovascolari. La causa più importante d’istituzionalizzazione di pazienti con demenza è rappresentata dal grado di anomalia del ritmo sonno/veglia piuttosto che dal grado di decadimento mentale puro e semplice. Le cause di queste anomalie del ciclo sonno/veglia sono molteplici e includono, oltre alla disfunzione neurologica vera e propria, anche la mancanza di sufficiente esposizione alla luce per sincronizzare l’orologio biologico, i farmaci utilizzati e le condizioni psicologiche coesistenti, soprattutto la depressione. Possono essere responsabili di una riduzione dell’efficienza del sonno la presenza di movimenti periodici degli arti (PLMS), comportamento motorio in sonno REM e di apnee morfeiche. Raramente la sclerosi multipla può determinare una narcolessia sintomatica. Insonnia familiare fatale
Patologie neurologiche Poiché le manifestazioni del sonno, della veglia e della vigilanza sono funzioni primarie dell’encefalo, ne consegue che praticamente qualunque patologia encefalica può interferire con il sonno o la veglia, a seconda della sede del dan-
L’insonnia fatale familiare (IFF) rientra nel capitolo delle malattie da prioni (v. pag. 1062) disturbi dovuti alla produzione di una forma alterata della proteina prionica (PrP) codificata da un gene sul braccio corto del cromosoma 20. Tutte le forme (compresi lo scrapie e l’encefa-
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lopatia spongiforme bovina negli animali, il kuru, la malattia di Creutzfeldt-jakob, la malattia di Gerstmann-Straussler-Scheinker e la IFF negli esseri umani) sono caratterizzate da un metabolismo aberrante della PrP. Questa modificazione può essere familiare, sporadica o infettiva. La funzione della PrP è sconosciuta, ed è presumibile che sia l’accumulo di PrP anormale piuttosto che la mancanza di PrP normale a determinare lo sviluppo della malattia. La IFF è clinicamente caratterizzata da esordio nell’età adulta, decorso protratto, insonnia progressiva. Sono presenti disturbi autonomici (iperidrosi, ipertermia, tachicardia, ipertensione), dovuti a squilibrio dell’attivazione simpatica con preservazione del tono parasimpatico, anomalie neuroendocrine e disturbi motorii (atassía, mioclono, disfunzione delle vie piramidali).Il quadro polisonnografico è caratterizzato dalla precoce scomparsa dei fusi del sonno e dalla rapida transizione dall’EEG di veglia a quello di sonno ad onde lente.Nelle fasi terminali della malattia anche i rari frammenti di sonno tendono a scomparire (Sforza et al 1995). L’aspetto anatomopatologico, prevalente consiste in una atrofia del talamo, soprattutto del nucleo ventrale anteriore e di quello mediodorsale. Negli stadi terminali di questo disturbo si assiste ad una completa scomparsa di tutti i ritmi circadiani e della ritmicità neuroendocrina. La presenza di mioclonie e comportamenti simili a sogni allucinatori diurni richiama certi aspetti del comportamento motorio in sonno o dello stato dissociato. Non sono conosciute terapie efficaci. A scopo sintomatico possono essere usati il flumazenil, un antagonista delle benzodiazepine, che può transitoriamente indurre risveglio, e il gamma-idrossibutirrato che può aumentare il sonno a onde lente. Malattie extrapiramidali La malattia di Huntington (v. pag. 1091) è caratterizzata da una prolungata latenza del sonno, da veglia irregolare, da ridotta efficienza del sonno e da riduzione del
sonno ad onde lente. In particolare sono ridotti i complessi K. I fusi del sonno, contrariamente a ciò che avviene nel Parkinson sono invece aumentati e di notevole ampiezza (Puca et al., 1973). Il sonno REM può essere assente nei casi gravi. I movimenti coreici scompaiono in genere all’addormentamento e si presentano durante il sonno solo nei casi più gravi e comunque in coincidenza con microrisvegli e alleggerimenti del sonno.Le anomalie del sonno nella MH sembrano correlarsi meglio all’atrofia del nucleo caudato che al grado di atrofia cerebrale globale, indicando che il nucleo caudato può partecipare alla regolazione del sonno. Nella sindrome di Tourette si osservano un aumento del sonno a onde lente, un maggior numero di risvegli e una riduzione della percentuale di sonno REM. I tic, anche quelli coprolalici, persistono durante tutti gli stadi del sonno. I movimenti a scossa nel sonno REM sono aumentati
Parkinsonismi Sebbene la maggior parte delle alterazioni patologiche nel SNC nel morbo di Parkinson (MP) coinvolga la pars compacta della sostanza nera, il coinvolgimento è molto più ampio e spesso comprende il locus coeruleus, il nucleo dorsale del vago e il nucleo basale di Meynert, insieme a una diffusa atrofia corticale. Le alterazioni neurologiche diffuse e il coinvolgimento di più neurotrasmettitori e neuropeptidi probabilmente spiegano l’elevata prevalenza di disturbi del ciclo sonno/veglia nel MP. Frequenti sono anche i disturbi respiratorii dovuti probabilmente ad anormalità del tono muscolare e alla incoordinazione motoria a carico della muscolatura delle vie aeree superiori. Nel sonno NREM il tremore è nettamente attenuato e manca dell’aspetto alternante. Durante il sonno REM il tremore è abolito. La registrazione poligrafica evidenzia una riduzione marcata delle fasi di sonno profondo 3 e 4 e del sonno REM. Caratteristica è la drastica riduzione dei fusi. Il tono muscolare è più elevato che non di norma ed è spesso presente anche nelle fasi di sonno REM (REM dissociato). Molti pazienti con MP riferiscono rilevanti problemi legati al sonno (insonnia, eccessiva sonnolenza diurna, sogni alterati, mioclono, vocalizzazioni notturne e movimenti in rapporto con i sogni) non correlati all’età e alla durata della malattia, ma che aumentano con una maggiore durata di terapia con L-dopa. La bradicinesia notturna, che comporta una ridotta capacità di girarsi nel letto, è una fonte significativa di disagio e frustrazione nei pazienti con MP; la capacità della levodopa di alleviare questo sintomo costituisce un importante beneficio di questa terapia. L’aumento di attività motoria notturna potrebbe essere correlato alla dose giornaliera di L-dopa o dopaminoagonisti piuttosto che alla gravità della malattia in sé.La depressione è la più frequente alterazione mentale nel MP
1666 Malattie del sistema nervoso (è presente in almeno il 5 0 % dei casi). Questa questione è ulteriormente complicata dal fatto che la degenerazione del sistema dopaminergico mesocorticolimbico nel MP può condurre a disfunzioni metaboliche della corteccia frontale inferiore e della testa del caudato e che, pertanto, la depressione può essere una caratteristica biopsicologica del MP e una reazione a esso. È possibile che la depressione osservata nel MP sia correlata a un deficit di neurotrasmissione serotoninergica e a ridotti livelli corticali di dopanina e noradrenalina. Il comportamento motorio in sonno REM può essere un sintomo precoce o la sola manifestazione di esordio della malattia. Può essere precipitato (o esacerbato) dalla somministrazione di selegilina o di antidepressivi prescritti per la depressione associata. La poligrafia dimostra sonno REM senza atonia. La dissociazíone di stato caratteristica del RBD conferma l’ipotesi che le allucinazioni notate nel MP, sia trattato sia non trattato, rappresentino in realtà nient’altro che un’altra anomalia REM associata, cioè la comparsa di sogni nella veglia. Il clonazepam è il trattamento abituale di solito molto efficace. Atrofie multisistemiche (MSA) (v. pag. 1085). Anche le cosiddette atrofie multisistemiche, che comprendono la sindrome di Shy-Drager, l’atrofia olivopontocerebellare e la degenerazione nigrostriatale, possono essere associate a apnee ostruttive, ipoventilazione e stridore laringeo. La morte improvvisa durante il sonno non è infrequente in questi pazienti e viene messa in relazione alle difficoltà respiratorie. È stata pertanto raccomandata una tracheostomia precoce in presenza di apnee ostruttive anche se lievi ma concomitanti con stridor laringeo (Plazzi et al., 1998). Nella MSA è stato anche descritto il comportamento motorio in corso di sonno REM, che può rappresentarne il sintomo di esordio.
Malattie neuromuscolari Le malattie neuromuscolari comprendono un vasto gruppo di affezioni riguardanti primariamente i muscoli oppure la giunzione neuromuscolare, ad eziologia estremamente varia. Il sintomo più evidente è rappresentato dalla debolezza muscolare che influisce sul senso di benessere del paziente al risveglio. Quando vengono interessati i muscoli respiratori con conseguente ipoventilazione polmonare durante il sonno possono verificarsi frequenti risvegli notturni e conseguentemente eccessiva sonnolenza diurna. In altre parole, la debolezza dei muscoli inspiratori limita l’espansione della gabbia toracica e determinando così una forma di malattia restrittiva polmonare. Il quadro paradigmatico è rappresentato dalla paralisi diaframmatica: si tratta di una condizione patologica che può essere causata oltre che da miopatie come, ad esempio, la distrofia miotonica e la distrofia muscolare, anche da disturbi di circolo cerebrale e
mielopatie. Il riconoscimento precoce di disturbi respiratori in sonno ed il loro trattamento con CPAP o BPAP migliora la qualità della vita di questi pazienti, riduce la coomorbidità e aumenta i tempi di sopravvivenza.
Sonno ed epilessia Il sonno e l’epilessia sono spesso collegati. I disturbi del sonno possono simulare, causare o anche essere scatenati da fenomeni epilettici e viceversa. In alcuni individui, il sonno e/o la deprivazione di sonno potenziano le crisi comiziali, mentre, al contrario, i disturbi epilettici possono influenzare il ciclo sonno/veglia. Nella maggior parte dei casi, l’epilessia è altamente stato-dipendente: il sonno NREM favorisce l’insorgenza delle crisi, mentre il sonno REM solitamente le inibisce. Alcuni meccanismi neurali sincronizzanti l’EEG, attivi nel sonno NREM facilitano le scariche epilettiche. Una relazione facilitante tra fusi del sonno e gli scoppi di punta-onda nelle epilessie infantili sia generalizzate che focali stata dimostrata. Nelle epilessie focali dell’adulto il ruolo di facilitazione appare sostenuto dalle attività sincronizzate di banda delta (Ferrillo et al., 2000). I disturbi del sonno possono esacerbare o complicare la sintomatologia accessuale; le apnee, ad esempio, possono rendere più difficili da controllare le crisi a causa della frammentazione e della deprivazione di sonno correlate all’apnea e alla ipossiemia che può agire come elemento scatenante le crisi stesse. L’enuresi, le mioclonie notturne, gli incubi ricorrenti possono essere aspetti suggestivi di crisi notturne. I comportamenti motorii associati alle crisi in sonno sono spesso bizzarri, la raccolta di dati anamestici è spesso difficile, i racconti sono spesso confusi. I seguenti tipi di manifestazioni accessuali sono spesso fonti di dubbio: Le crisi con comportamento insolito (di solito di tipo frontale) possono presentare comportamenti notturni bizzarri, come correre, vocalizzare a voce alta, bestemmiare o presentare risvegli associati a movimenti come percuotere o ruotare le braccia. La natura di questi comportamenti e la loro tendenza a manifestarsi durante il sonno e a concentrarsi nel tempo favoriscono l’errore diagnostico, suggerendo un disturbo dell’arousal, un disturbo del comportamento motorio in sonno REM o episodi psicogeni. Il vagabondaggio episodico notturno (Provini et al., 1999) è indistinguibile da una storia di sonnambulismo e pavor nocturnus, ma risponde agli anticonvulsivanti. I pazienti descritti deambulavano, emettevano vocalizzi e presentavano un comportamento violento durante il sonno. Non tutti manifestavano anomalie dell’EEG nella veglia. Molti di questi episodi rappresentano fenomeni epilettici e sono in realtà automatismi ambulatori.
Il sonno e le sue alterazioni 1667 Lo stato epilettico elettrico nel corso del sonno (SEES) è un reperto polisonnografico. Può essere individuato durante una PSG eseguita per altre ragioni. Il SEES è caratterizzato da continua attività punta-onda durante il sonno NREM. Viene osservato nei bambini che di solito, ma non sempre, hanno una storia di crisi o disfunzioni neurologiche. La prognosi è variabile perché il SEES può essere un reperto asintomatico o comportare alterazioni nella maturazione dei processi cognitivi. La distinzione tra eventi epilettici notturni e altri disturbi del sonno è difficile, se non impossibile, poiché i fenomeni primari o secondari del sonno possono simulare perfettamente i fenomeni epilettici, e viceversa. Sia fenomeni epilettici sia disturbi primari del sonno dovrebbero essere tenuti in considerazione di fronte a tutti gli eventi correlati al sonno a carattere ricorrente e insolito. È possibile che né gli EEG in corso di veglia né quelli in corso di sonno rivelino la diagnosi e può essere necessario eseguire una polisonnografia notturna usando un montaggio EEG completo per l’epilessia (almeno 10-12 canali oltre a quelli dei normali montaggi per lo studio del sonno), con appropriata velocità di scorrimento della carta (almeno 15 mm/sec) e video registrazione continua. Possono essere necessari più registrazioni per individuare l’evento. Sebbene le crisi esclusivamente notturne siano rare, vengono in genere diagnosticate in modo errato e non dovrebbero mai essere trascurate nella diagnosi differenziale di qualsiasi comportamento correlato al sonno con caratteri di ricorrenza, stereotipia o bizzarria. L’erronea diagnosi di fenomeni di origine psicogena è incoraggiata dalla natura spesso bizzarra delle crisi e dalla frammentarietà ed inattendibilità del racconto degli eventuali testimoni. Può essere utile incoraggiare i pazienti e i familiari a videoregistrare gli episodi motori notturni di natura incerta anche con mezzi amatoriali.
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Complicanze neurologiche delle malattie internistiche 1669
40. Complicanze neurologiche delle malattie internistiche A.Primavera, A. Murialdo
Complicanze neurologiche delle malattie internistiche sono di frequente riscontro e possono manifestarsi con modalità diverse e talora dominano il quadro clinico, tanto che per il 20% dei pazienti ricoverati in reparti di Medicina Generale è richiesta una valutazione neurologica. Tra i motivi più comuni per cui viene richiesta una consulenza neurologica ricordiamo : – perdite di coscienza – stati confusionali – eventi cerebrovascolari – cefalea – vertigine – sintomi e segni riferibili a danno organico encefalico o midollare – disordini del movimento – sintomi e segni riferibili a patologia neuromuscolare La consulenza neurologica riveste pertanto un ruolo di fondamentale importanza, e dalla nostra esperienza è emerso che nel 64% dei casi la valutazione neurologica conduceva a una significativa modificazione dell’approccio diagnostico e terapeutico (Primavera et al 1998). Verranno qui descritte alcune delle principali complicanze neurologiche delle malattie internistiche.
Complicanze neurologiche delle malattie cardiovascolari 1. Embolizzazione di origine cardiaca Un terzo di tutti gli stroke ischemici riconosce una patogenesi cardioembolica. La formazione di trombi e la liberazione di emboli car-
diogeni sono favoriti da aritmie e da alterazioni strutturali delle valvole. I fattori di rischio principali per l’embolia cardiaca sono : – Fibrillazione atriale – Stenosi mitralica – Trombi intraatriali – Protesi valvolari – Mixoma atriale – Endocarditi infettive – Endocarditi non batteriche – Recente infarto del miocardio – Zone di miocardio ipocinetico – Prolasso della valvola mitrale – Calcificazioni dell’annulus della mitrale – Scompenso cardiocongestizio La disponibilità di alcune tecniche di indagine quali l’ecocardiogramma transesofageo e il doppler transcranico ha potenziato le capacità diagnostiche nell’ambito delle relazioni tra cuore e danno cerebrovascolare. La fibrillazione atriale non valvolare è associata a un rischio cinque volte maggiore di stroke. Tale rischio aumenta significativamente nei pazienti di età superiore ai 65 anni, con ipertensione arteriosa, diabete, pregressi eventi cerebrovascolari ischemici ed evidenza ecocardiografica di ingrandimento dell’atrio sinistro o disfunzione ventricolare. Il trattamento con anticoagulanti orali è in grado di ridurre del 68% il rischio di stroke nei pazienti con età inferiore ai 75 anni. Il rischio di embolia cerebrale è aumentato di 17 volte quando una patologia della valvola mitrale si associa a fibrillazione atriale, specie
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se a carattere parossistico. Il prolasso della valvola mitrale si associa a un rischio di embolia cerebrale relativamente basso, e la terapia a lungo termine con anticoagulanti orali viene raccomandata solo se si sono verificati precedenti fatti embolici o in caso di fibrillazione atriale. L’infarto miocardico, specie se apicale, anterolaterale e se esteso, si associa a un elevato rischio di embolia cerebrale. Il rischio è maggiore nella prima settimana, rimanendo tuttavia elevato nei due mesi successivi. I pazienti con maggiore rischio sono quelli con pregresso scompenso cardiocongestizio e residua ipocinesia ventricolare. In questi pazienti, oltre al rischi di embolizzazione, è stata dimostrata l’importanza dell’ipoperfusione cerebrale nel causare una sofferenza cronica responsabile di una compromissione potenzialmente reversibile delle funzioni cognitive. È ancora oggetto di studio il ruolo dei farmaci inibitori dell’ ACE (angiotensin-converting enzyme), in grado di aumentare il flusso ematico cerebrale nei pazienti con scompenso cardiaco. Nei pazienti con pregresso evento cerebrovascolare che presentano sia la pervietà del forame ovale sia un aneurisma sel setto interatriale, la concomitanza delle due patologie cardiache costituisce di per sé un fattore di rischio di recidiva cardioembolica, per cui in questi pazienti dovrebbero essere considerate altre terapie preventive, oltre a quella con antiaggreganti piastrinici. 2. Arresto cardiaco Al cervello affluisce circa il 15% della gittata cardiaca. La fibrillazione ventricolare o l’asistolia, in relazione alla loro durata, possono causare un danno cerebrale anossico-ischemico irreversibile. La patogenesi del danno cerebrale è legata verosimilmente all’accumulo intracellulare di calcio, all’aumento delle concentrazioni extracellulari di glutammato, aspartato e radicali liberi. La corteccia cerebrale è la zona più sensibile al danno ipossico. Se l’arresto cardiaco è di breve durata (< 5 minuti), si può avere una temporanea perdita di coscienza; un'ence-
falopatia demielinizzante si può tuttavia sviluppare anche 7-10 giorni dopo, con grave compromissione delle funzioni cognitive, segni piramido-extrapiramidali, convulsioni, alterazioni della personalità, mioclonie. Arresti cardiaci prolungati causano danni cerebrali diffusi e irreversibili, con coma e decesso. La compromissione del midollo spinale è più rara e generalmente interessa i territori al di sotto di T5. La prognosi generalmente dipende dall’età del paziente, dalla durata dell’arresto cardiaco e dal tempo trascorso prima che vengano instaurate le manovre di rianimazione cardiopolmonare e di defibrillazione ventricolare. Alcuni segni neurologici quali l’assenza di riflessi troncali nelle prime 24 ore rivestono un significato prognostico altamente sfavorevole. 3. Complicanze della cateterizzazione cardiaca e degli interventi cardiochirurgici In generale, le tecniche diagnostiche e terapeutiche di cateterizzazione coronarica e angioplastica possono complicarsi per l’insorgenza di: – Embolia – Anossia – Ipotensione – Effetti tossico-allergici legati all’iniezione di materiale radio-opaco – Lesione dei nervi periferici La cateterizzazione cardiaca è responsabile di embolia cerebrale in meno dell’1% dei casi. Per ragioni non chiare, le arterie maggiormente interessate sono quelle del circolo posteriore. Il cateterismo cardiaco effettuato con la tecnica di Sones (incisione a livello della piega del gomito) può comportare lesioni del nervo mediano, che può risultare danneggiato direttamente nella manovra di dissecazione o a seguito di compressione da parte di ematomi o pseudoaneurismi dell’arteria brachiale. Il cateterismo per via per cutanea attraverso l’arteria femorale può comportare la lesione per lacerazione del nervo femorale a seguito di puntura a livello della piega inguinale. La formazione di ematomi retroperitoneali
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può determinare la compressione del nervo femorale o del plesso lombare. Anche se molto rara, la neuropatia ischemica monomelica degli arti inferiori può conseguire all’occlusione acuta dell’arteria femorale superficiale o comune. Ipossia ed embolia sono le cause principali di encefalopatie e infarti cerebrali che possono verificarsi dopo interventi cardiochirurgici. L’embolia settica è complicanza non rara degli interventi cardiochirurgici (1% dei casi) e comporta un elevato rischio di mortalità (30%dei casi). Gli interventi di bypass coronarico sono complicati da ischemia cerebrale nel 5% dei casi, in relazione a meccanismi embolici o di ipoperfusione cerebrale. Crisi epilettiche a precoce comparsa nel periodo postoperatorio sono generalmente causate da ischemia focale o generalizzata, disordini metabolici o elettrolitici. La lesione dei nervi periferici (soprattutto del tronco inferiore del plesso brachiale, del nervo frenico e del ricorrente) può essere legata a manovre chirurgiche di trazione-compressione oppure dovuta all’ipotermia. L’utilizzo della circolazione extracorporea non è esente da rischi quali : – Embolizzazione di materiale gassoso, grasso, filtri – Inadeguata perfusione cerebrale – Aritmie cardiache nella fase di post-perfusione – Iperossigenazione – Emorragie da uso di anticoagulanti, deplezione di fibrinogeno o piastrine – Occlusione della vena cava da malposizionamento del catetere – Contaminazione batterica 4. Complicanze neurologiche iatrogene Tra gli agenti antiaritmici, l’amiodarone può causare tremore, polineuropatia sensitivo-motoria, miopatia, atassia e pseudotumor cerebri. La procainamide può slatentizzare una miastenia gravis subclinica o precipitare una sindrome lupica. La lidocaina può causare crisi epilettiche, tremore, parestesie, e stati confusionali. Raramente i calcio antagonisti possono provocare una ence-
falopatia, così come la digitale e i diuretici tiazidici. Complicanze neurologiche sia emorragiche che ischemiche sono riportate nel trattamento trombolitico dell’infarto miocardico. L’incidenza dell’ictus emorragico è lievemente maggiore rispetto a quella dello stroke ischemico, tuttavia tale discrepanza non si riflette in un’aumentata incidenza di eventi cerebrovascolari fatali.
5. Endocardite infettiva L’endocardite infettiva si sviluppa soprattutto in pazienti con preesistente patologia valvolare reumatica, malformazioni valvolari congenite, o in soggetti che fanno abuso di sostanze stupefacenti per via endovenosa. Generalmente gli agenti patogeni sono: Streptococco Viridans ed Emolitico, Stafilococo Aureo, più raramente Candida Albicans o Leptospira. L’incidenza delle complicanze neurologiche dell’endocardite infettiva è del 35% e i quadri più comuni sono l’ictus cardioembolico o emorragico (da rottura di aneurisma micotico) e le infezioni (meningiti e ascessi cerebrali). Gli aneurismi micotici possono rimanere clinicamente silenti e talora risolversi con terapia antibiotica. L’emorragia intracranica da rottura di un aneurisma micotico può essere il primo segno di una cardiopatia sottostante. L’embolizzazione di materiale infetto causa microascessi cerebrali e meningiti. Se l’embolizzazione di materiale settico è multipla, si può osservare una encefalopatia diffusa caratterizzata da stato confusionale, cefalea, segni meningei. La patogenesi non è unicamente su base infettiva, essendo legata anche a fenomeni di occlusione vasale, ad alterazioni metaboliche e a formazione di aneurismi micotici. In questi casi deve essere intrapresa una adeguata terapia antibiotica sistemica. 6. Infarto del miocardio Le complicanze neurologiche legate all’infarto del miocardio sono : – Embolismo – Sindrome spalla-mano – Ipoperfusione cerebrale
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La caduta della pressione sistolica sotto gli 80 mmHg determina una critica diminuzione della gittata cardiaca. Un quadro di shock è presente nell’8-20% dei pazienti con infarto del miocardio, con sintomi neurologici predominanti, quali alterazioni dello stato di coscienza e crisi epilettiche. 7. Ipertensione arteriosa L’ipertensione è di interesse per il neurologo in quanto : – determina modificazioni degenerative delle piccole arterie cerebrali; – può portare alla rottura di malformazioni arterovenose o aneurismi cerebrali; – può culminare in un quadro di encefalopatia acuta ipertensiva; – un eccesso di terapia anti-ipertensiva può essere causa di ipoperfusione cerebrale focale o generalizzata. L’encefalopatia ipertensiva è un disordine cerebrale ad insorgenza acuta o subacuta legato ad un aumento significativo della pressione arteriosa, ed in gran parte reversibile con trattamento anti-ipertensivo. Non esiste un valore soglia della pressione arteriosa al di sopra del quale si ha la comparsa dei sintomi , dato che il valore critico è in rapporto ai valori abituali del singolo paziente. Nell’encefalopatia ipertensiva si verifica un danno arteriolare con grave vasospasmo, arteriolite necrotizzante, endoarterite proliferativa ed edema, con sofferenza multiorganica (in particolare dei reni, del sistema nervoso centrale, del miocardio e della retina). Il quadro neurologico è caratterizzato dall’insorgenza di cefalea, disturbi visivi, deficit neurologici focali o multifocali, convulsioni, papilledema, alterazioni dello stato di coscienza fino al coma. Hinchey et al nel 1996 hanno descritto per la prima volta la leucoencefalopatia posteriore reversibile, che è una sindrome clinica e neuroradiologica in parte sovrapponibile all’encefalopatia ipertensiva. Tra i fattori scatenanti ricordiamo, oltre all’ipertensione arte-
riosa, all’insufficienza renale cronica e all’eclampsia, le emotrasfusioni, le terapie con cisplatino, eritropoietina e con farmaci immunosoppressori (ciclosporina, tacrolimus, interferone alfa, immunoglobuline).
Complicanze neurologiche delle malattie polmonari Le complicanze neurologiche della malattie polmonari interessano prevalentemente il sistema nervoso centrale, anche se sono descritte manifestazioni a carico dell’apparato neuromuscolare. 1. Insufficienza respiratoria Indipendentemente dalla malattia di base (bronchite cronica, silicosi, enfisema), l’insufficienza respiratoria cronica o acuta può determinare la comparsa di un’encefalopatia. La gravità delle manifestazioni neurologiche dipende dalla rapidità, dalla durata e dalla gravità dell’insufficienza respiratoria. Nelle forme acute l’ipossia è usualmente complicata da alterazioni dell’equilibrio acido base e da un aumento della viscosità ematica. L’insieme di piu’fattori, ed in particolare l’ipercapnia, determina vasodilatazione cerebrale, ipertensione endocranica e riduzione del pH liquorale, che conducono allo sviluppo dell’encefaloptia respiratoria, caratterizzata da cefalea, alterazioni dello stato di coscienza di vario grado, tremore posturale, mioclonie, iperreflessia profonda e talora edema della papilla ottica. La sintomatologia neurologica può regredire con la normalizzazione della ventilazione polmonare, talora ottenibile solo con l’uso della respirazione assistita, anche se una troppo rapida correzione dell’ipercapnia può determinare la comparsa di crisi epilettiche e di alterazioni dello stato di coscienza verosimilmente su base ischemica (Plum e Posner, 1980). L’insufficienza respiratoria cronica è caratterizzata da cefalea, specie notturna o al
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risveglio, sonnolenza diurna e disturbi della memoria di fissazione. La somministrazione di ossigeno è indicata in presenza di una persistente ipossiemia (PaO2 <55 mmHg, saturazione di ossigeno <88%), nel tentativo di raggiungere una saturazione superiore al 90%. La necessità della somministrazione continua deve essere monitorata con l’emogasanalisi, in quanto l’ipossia spesso costituisce l’unico stimolo respiratorio valido. Se somministrato in modo adeguato, l’ossigeno migliora la qualità della vita, le funzioni neuropsicologiche e riduce la pressione in arteria polmonare. Una modesta sofferenza del sistema nervoso periferico può essere presente nei casi di insufficienza respiratoria cronica, ed è evidenziata essenzialmente dai test neurofisiologici. Solo nel 20% dei casi tale quadro è clinicamente manifesto. Il significato prognostico di tale neuropatia è ancora da definire. Nei ricoverati in reparti di terapia intensiva e sottoposti a ventilazione meccanica e curarizzazione per lo stato di male asmatico, la somministrazione di steroidi può determinare una grave ma reversibile sofferenza miopatica, caratterizzata, alla biopsia muscolare, dalla presenza di filamenti spessi di miosina. In questi ultimi anni è stata valorizzata la sepsi come ulteriore fattore predisponente. 2. Sindrome da alta quota Sopra i 3500 metri di altitudine, la pressione barometrica determina modificazioni ventilatorie, dovute alla riduzione della pressione parziale di ossigeno nell’aria inspirata. La sindrome da alta quota è quindi legata principalmente all’ipossiemia e si manifesta con cefalea, astenia, anoressia, disturbi del sonno. La sintomatologia peggiora con lo sforzo fisico e in relazione all’altitudine: sopra i 5500 metri, si possono avere alterazioni dello stato di coscienza fino al coma, atassia, papilledema, emorragie retiniche, deficit focali, edema cerebrale. Se l’ipossia persiste, vi può essere un depressione
riflessa della funzione cardiaca, che a sua volta determina un’ipoperfusione cerebrale. L’esame del liquor rivela un’aumentata pressione liquorale, pleiocitosi e talora il liquor è emorragico. Il quadro neuropatologico è quello dell’edema cerebrale diffuso, associato ad aree di sofferenza focale, con danno capillare e aggregazione piastrinica. L’acetazolamide può essere usata a scopo preventivo. Vengono inoltre consigliati il riposo, un’adeguata idratazione, somministrazione di ossigeno e, non appena possibile, la discesa a quote inferiori. Nifedipina e steroidi possono essere utili. 3. Sindrome da iperventilazione Più frequente nelle donne, la sindrome da iperventilazione ha manifestazioni cliniche proteiformi, quali sensazione di malessere generalizzato, parestesie alle mani e peribuccali, cardiopalmo, crampi, fascicolazioni, fenomeni tetanici e perdita di coscienza. Esistono fattori predisponenti sia di tipo organico (insufficienza epatica, diabete, lesioni troncali) che di tipo psicogeno (depressione, ansia, attacchi di panico). Talora può essere difficoltosa la diagnosi differenziale con le crisi epilettiche, l’emicrania ed i TIA. La patogenesi è legata all’alcalosi respiratoria, che determina una modificazione nella curva di dissociazione dell’ossiemoglobina con ridotta disponibilità periferica di ossigeno e un’alterazione del bilancio del calcio. Parte della sintomatologia neurologica è in rapporto a una riduzione del flusso ematico cerebrale, probabilmente legata più alle modificazioni del pH liquorale che all’ipocapnia. A scopo diagnostico può essere utile la misurazione transcutanea della CO2 nelle 24 ore.
Encefalopatia epatica e altri disturbi neurologici in corso di malattie gastrointestinali Disturbi neurologici si possono osservare sia in corso di malattie epatiche che del tratto gastrointestinale, in relazione ad alterazioni tossico-metaboliche soprattutto nelle epatopatie e a disordini metabolico-carenziali nelle patologie gastroenteriche. Turbe neurologiche in corso di
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malattie carenziali, che verranno trattate nel capitolo specifico, sono divenute più rare grazie alla riduzione degli interventi chirurgici per ulcera gastrica e in relazione all’avvento di terapie farmacologiche efficaci. Di più frequente osservazione sono le complicanze neurologiche in corso di diete fortemente ipocaloriche o dopo gli interventi chirurgici per obesità grave. 1. Encefalopatia epatica Il termine encefalopatia epatica indica una sindrome neuropsichiatrica caratterizzata da disfunzione cerebrale reversibile che può insorgere quale complicanza di un’insufficienza epatica acuta, subacuta o cronica. L’encefalopatia epatica subclinica è caratterizzata da quadri di insufficienza epatica cronica con normale obiettività neurologica, ma in cui i test psicometrici o elettrofisiologici risultano alterati. Per encefalopatia portosistemica si intendono i quadri di encefalopatia epatica associati a importanti shunt portosistemici anche in assenza di segni di una vera e propria insufficienza epatocellulare. L’encefalopatia epatica può insorgere acutamente a seguito di emorragie gastrointestinali, eccessivo introito proteico, diarrea, vomito, ipossia, infezioni, anestesia generale, grave stipsi. In generale, tutti i fattori che possono incrementare lo shunt portosistemico (tra cui ricordiamo gli shunt chirurgici: transjugular intrahepatic porto systemic shunt, TIPSS), o determinare ulteriore alterazione della funzione epatocellulare possono precipitare l’encefalopatia. I principali fattori eziopatogenetici del danno cerebrale sono l’accumulo in circolo di sostanze incompletamente metabolizzate o detossificate, la carenza di amminoacidi normalmente prodotti dal fegato, il passaggio diretto nella circolazione sistemica di sostanze provenienti dall’intestino. La funzionalità cerebrale potrebbe essere inoltre compromessa per la presenza di falsi neurotrasmettitori sintetizzati da batteri intestinali, o per lo squilibrio fra gli aminoacidi aromatici e quelli a catena ramificata. Un ruolo sicuramente importante è inoltre giocato dal Gaba, che si accumula in circolo e raggiunge
l’encefalo grazie all’alterata permeabilità della barriera ematoencefalica. Anche l’ammoniaca, prodotta nell’intestino dall’attività batterica, si accumula in circolo ed esercita la sua azione tossica sul sistema nervoso centrale interferendo sul metabolismo proteico. Insieme all’ammoniaca agirebbero altre sostanze neurotossiche quali mercaptani, acidi grassi e fenoli. L’iperammoniemia contribuisce inoltre alla genesi dell’ipertensione endocranica e dell’edema cerebrale, in relazione all’incrementata trasformazione del glutamato in glutamina, dotata di azione osmotica sugli astrociti. L’iperammoniemia potrebbe inoltre essere responsabile dell’ipereccitabilità neuronale contribuendo alla genesi di agitazione psicomotoria, euforia, tremore.
Nell’encefalopatia epatica le manifestazioni cliniche sono polimorfe, tuttavia l’elemento dominante è rappresentato dalle alterazioni dello stato di coscienza. I primi segni sono di solito psichiatrici, con alterazioni comportamentali e della personalità, apatia, irritabilità e labilità emotiva cui si associano difficoltà di attenzione e alterazioni del ritmo sonno veglia (stadio I). Nello stadio II compaiono sonnolenza, saltuario disorientamento e incontinenza sfinterica. Successivamente (stadio III) il disorientamento diviene costante, insorgono amnesia e sopore. Nello stadio IV il paziente è in coma, con o senza reattività alla stimolazione algica. Inizialmente si possono osservare ipertonia, iperreflessia profonda, fenomeno di Babinski bilaterale, paratonia, atassia cerebellare, disartria, poi compaiono ipotonia e areflessia. Sono comuni anche i segni extrapiramidali come ipomimia, rigidità, bradicinesia, tremore, discinesie. Nei casi di insufficienza epatica secondaria ad alcolismo, sono state descritte crisi convulsive. Un segno tipico, l’asterixis, è presente negli stadi precoci, ed è caratterizzato da movimenti alternati a ritmo variabile di flessione ed estensione dei segmenti distali degli arti, particolarmente delle mani (“liver flap”). L’asterixis è un mioclono negativo ed è particolarmente evidente quando si fanno tenere al paziente le braccia protese in avanti o in abduzione. Tipicamente scompare durante il sonno o nel riposo. È un segno caratteristico, ma non patognomonico dell’insufficienza epatica, potendo comparire anche in cor-
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so di ipossia, ipercapnia, uremia. La diagnosi si avvale della storia clinica; tra gli esami di laboratorio è necessario valutare la glicemia, l’emogasanalisi arteriosa, la funzionalità renale per escludere altre cause di encefalopatia. L’ammoniemia plasmatica non è necessariamente molto elevata e i valori correlano scarsamente con la gravità del quadro clinico. La puntura lombare non è indicata per la coesistente coagulopatia e se è presente ipertensione endocranica. Le neuroimmagini sono poco specifiche, e la risonanza magnetica encefalica può dimostrare iperintensità nelle sequenze T1 pesate a livello pallidale, nella sostanza nera e nel nucleo dentato. Tali alterazioni sono tuttavia state descritte anche nei pazienti cirrotici in assenza di segni o sintomi di encefalopatia epatica, e sembrano legate a depositi di manganese. I test psicometrici possono essere utilizzati nel paziente epatopatico per valutare la presenza di segni subclinici di encefalopatia. Le alterazioni elettroencefalografiche non sono specifiche: generalmente si osserva una progressiva e simmetrica riduzione nella frequenza con un aumento di ampiezza. La comparsa di grafoelementi trifasici, sebbene suggestiva dell’encefalopatia epatica, è stata descritta anche in altre encefalopatie metaboliche. Le alterazionielettroencefalografiche sono state classificate come segue (Parsons-Smith et al 1957) A: Soppressione generalizzata del ritmo alfa, spesso con attività rapida di basso voltaggio B: Ritmo alfa instabile con scariche di onde a 5-7 Hz a focalità variabile, spesso a sede temporale, con occasionale sovrapposizione di attività rapida C: Scariche di onde di medio voltaggio a 5-6 Hz fronto-temporali bilaterali, non reagenti alle stimolazioni sensoriali; il ritmo alfa è presente solo occasionalmente D: Attività continua e diffusa a 5-6 Hz E: Onde a 2-3 Hz bilaterali e sincrone, di alto voltaggio, predominanti sui lobi frontali che diffondono posteriormente verso i lobi occipitali; occasionale e breve comparsa di attività più rapide (a 5-6 Hz). Possono essere presenti le classiche onde trifasiche. Nelle fasi preterminali il voltaggio dell’EEG si riduce.
Il ruolo dell’EEG in questi pazienti, oltre che per la stadiazione dell’encefalopatia (i pazienti
con e grado IV presentano tutti un quadro elettroencefalografico tipo D o E) facilita la diagnosi precoce, il monitoraggio della sofferenza cerebrale e quindi il trattamento di alcune complicanze, quali l’ipoglicemia e l’ipertensione endocranica. Il quadro neuropatologico è caratterizzato da un aumento del numero e delle dimensioni degli astrociti di tipo Alzheimer 2 a livello del nucleo lenticolare, del talamo, del dentato e dei nuclei rossi. Studi di immunoistochimica hanno dimostrato un incremento nell’attività glutammicodeidrogenasi e glutamina sintetasi. La terapia è quella della malattia epatica. È necessario inoltre ridurre l’assorbimento di sostanze azotate, favorire l’evacuazione e somministrare lattulosio e neomicina. Nei pazienti con danno epatico cronico è stata segnalata anche una compromissione del sistema nervoso periferico, prevalentemente sensitiva ed autonomica, correlata, più che col fattore causale dell’epatopatia, con la gravità del disturbo epatico (Chaudhry et al., 1999). 2. Insufficienza epatica fulminante Si tratta di casi di insufficienza epatica in cui l’encefalopatia si instaura entro 7 giorni nella forma iperacuta, tra 8 e 28 giorni nella forma acuta e tra 1 e 3 mesi nella forma subacuta. Le cause più frequenti sono le infezioni da virus epatotropi, soprattutto HBV, spesso in coinfezione con HDV. Anche i virus non epatotropi (HSV, VZV, EBV, CMV) possono essere responsabili, soprattutto nel soggetto immunocompromesso. Altre cause sono rappresentate da farmaci (paracetamolo, alotano, FANS), tossici (“ecstasy”) e amanita phalloides. Le cause vascolari sono rare. La patogenesi è multifattoriale e solo parzialmente conosciuta. La cascata di eventi nella maggioranza dei casi conduce all’edema cerebrale, che interessa in particolar modo gli spazi perivascolari e gli astrociti. L’edema riconosce una genesi principalmente citotossica, ma anche, in minor misura, vasogenica e osmoregolatoria
1676 Malattie del sistema nervoso ed è documentato in circa l’80% dei casi. Si ritiene che l’NH 3, aumentando la conversione del glutamato a glutamina negli astrociti, ne accresca il potere osmotico, senza che il compenso osmolare astrocitario (via mioinositolo) abbia il tempo di compiersi. L’edema è a sua volta causa di ischemia nel microcircolo, provocando necrosi dell’endotelio capillare con conseguente occlusione e mancata riperfusione anche quando l’edema si è risolto. Sia il metabolismo del glucosio che dell’O2 sono fortemente diminuiti, ma il flusso ematico cerebrale è ridotto in genere assai meno del metabolismo (disaccoppiamento flusso-metabolismo). Nelle fasi avanzate vi è la perdita dell’autoregolazione del flusso ematico cerebrale che diviene quindi dipendente dalla pressione di perfusione, che deve essere mantenuta sopra i 50 mmHg.
L’edema cerebrale determina ipertensione endocranica, i cui classici segni clinici possono mancare nelle fasi iniziali. Per tale motivo viene raccomandato il monitoraggio continuo della pressione endocranica (meglio con metodi non invasivi ancorchè indiretti, quali il doppler transcranico o la saturazione di O2 nel sangue prelevato dal bulbo giugulare). La diagnosi si avvale dei dati clinici, anamnestici e bioumorali. Il trattamento prevede misure specifiche a seconda dell’eziologia (N acetilcisteina nel caso di intossicazione da paracetamolo, acyclovir nelle infezioni da HSV). Per ridurre la pressione endocranica sono utili l’iperventilazione, la furosemide, il mannitolo, l’emodialisi. Il mannitolo dovrebbe essere utilizzato soltanto quando è possibile monitorare la pressione endocranica. Il ruolo degli steroidi non è stato dimostrato. Per favorire la diuresi ed evitare l’ipoperfusione renale è utile la somministrazione di Dopamina 2-4 µg/Kg. È inoltre necessario effettuare emo-urinocolture e instaurare profilassi antibiotica a largo spettro, somministrare gastroprotettori e monitorare la glicemia, gli elettroliti sierici, l’emogasanalisi arteriosa, l’emocromo. La mortalità è del 60-80% e la prognosi è più grave nei pazienti con encefalopatia di grado III o IV. Il trapianto epatico è in realtà l’unica possibilità terapeutica in grado di migliorare sensibilmente la prognosi di que-
sti pazienti. I criteri per sottoporre o meno un paziente al trapianto di fegato si basano su diversi fattori quali il tempo di protrombina, l’età, l’eziologia, il tempo trascorso dall’insorgenza dell’ittero e dell’encefalopatia, il grado dell’encefalopatia, i livelli di bilirubina e di fattore V. La sopravvivenza è del 36% nei pazienti trapiantati con forma iperacuta, del 7 % dei pazienti con forma acuta e del 14% nelle forme subacute. 3. Degenerazione epatocerebrale cronica non Wilsoniana Rappresenta la conseguenza di un’esposizione prolungata a tossine metaboliche che causano un’encefalopatia il cui quadro clinico è simile al morbo di Wilson. Dei 27 casi descritti da Victor et al. (1965), 23 presentavano gravi alterazioni dello stato di coscienza fino al coma, tutti avevano iperammoniemia. Le manifestazioni cliniche sono polimorfe e comprendono deterioramento mentale, disartria, atassia cerebellare, coreoatetosi, tremore posturale, rigidità. Le indagini neuropatologiche dimostrano, oltre a un’astrocitosi simile a quella descritta nell’encefalopatia epatica, una degenerazione polimicrocavitaria degli strati 5 e 6 della corteccia cerebrale, della sostanza bianca sottostante, dei gangli della base e del cervelletto. In alcuni casi sono state descritte mielopatie, caratterizzate dal punto di vista anatomopatologico da degenerazione polimicrocavitaria dei tratti corticospinali e dalla perdita delle cellule di Betz. La presenza di alterazioni neuroradiologiche encefaliche non controindica il trapianto epatico, essendo stato descritto un completo recupero dopo tale intervento (Stracciari et al., 2001).
4. Morbo di Wilson Si tratta di una malattia del metabolismo del rame, trasmessa con modalità autosomica recessiva, il cui gene è stato localizzato sul braccio lungo del cromosoma 13. La malattia è determinata da un difetto nell’escrezione biliare del rame, con accumulo di rame a livello epatico, encefalico, renale, corneale e osseo. Si rimanda al capitolo dedicato alle malattie extrapiramidali per una trattazione più dettagliata. Ricordiamo che tale malattia può manifestarsi sia con disturbi neurologici che solo con segni di disfunzione epatica: il riscontro in controlli seriati di un aumento delle transaminasi, non spiegabile con altre cause, deve condurre a uno studio del metabolismo del rame (Pratt e Kaplan, 2000)
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5. Sindrome di Reye
8. Encefalopatia pancreatica
È caratteristica dell’età infantile e sembra essere causata dall’utilizzo di acido acetilsalicilico. I sintomi prodromici sono di solito quelli legati all’infezione virale (malessere, tosse, rinorrea). Dopo un intervallo di tempo variabile dall’infezione e dalla somministrazione di salicilati, compaiono nausea, vomito, confusione, convulsioni e coma. Come conseguenza dell’edema cerebrale generalizzato, si possono verificare ernie cerebrali. È presente inoltre epatomegalia dolente. Tra gli esami paraclinici, è comune il riscontro di ipoglicemia, iperammoniemia, così come un’importante incremento delle transaminasi epatiche e un prolungamento del tempo di protrombina.
Un’encefalopatia è stata descritta in corso di pancreatite acuta. Data l’aspecificità dei sintomi, è necessario escludere altre cause metaboliche.
6. Morbo di Whipple Si tratta di un’affezione multisistemica di verosimile eziologia infettiva, caratterizzata clinicamente da malassorbimento, steatorrea, artralgia, artrite non deformante, linfoadenopatia e disturbi neurologici (presenti solo nel 10% dei casi). Recentemente è stato registrato un aumento dell’incidenza di questa rara malattia nei pazienti affetti da AIDS. Il quadro neurologico più comune è la demenza; sono stati descritti anche disturbi visivi, papilledema, oftalmoplegia sopranucleare, convulsioni, mioclono, atassia cerebellare, alterazioni dello stato di coscienza. Alla biopsia intestinale sono evidenti numerosi macrofagi attivati con granuli PAS positivi. Nei casi autoptici, le cellule PAS positive sono state dimostrate nel parenchima cerebrale e nel liquor. Anche in assenza di cellule PAS positive, il liquor può presentare pleiocitosi linfocitaria e iperproteinorrachia. Il trattamento prevede l’utilizzo di penicillina G, tetracicline o ampicillina.
7. Morbo celiaco È una malattia autoimmune caratterizzata da malassorbimento, steatorrea, perdita di peso e da lesioni a carico della mucosa del piccolo intestino. Diversi markers biologici (anticorpi antigliadina, anti-endomisio) possono essere associati a questa malattia, insidiosa e speso sottostimata. Le manifestazioni neurologiche descritte in corso di celiachia comprendono: epilessia (nel 25%dei casi), mioclono, calcificazioni occipitali, atassia, oftalmoplegie internucleari, demenza e neuropatie periferiche di tipo assonale e demielinizzate. Il meccanismo alla base di tali disturbi non è ancora chiarito, ma è verosimilmente legato a fenomeni disimmuni e a carenza di vitamine (acido folico, vitamina E). La maggior parte dei disturbi neurologici, tranne le neuropatie periferiche, non risente di una dieta priva di glutine.
Complicanze neurologiche in corso di nefropatie L’insufficienza renale comporta complicanze a carico del sistema nervoso centrale e dell’apparato neuromuscolare. La dialisi e i trapianti renali, pur permettendo una migliore qualità della vita ed una prolungata sopravvivenza, sono frequentemente associati a manifestazioni neurologiche. 1. Complicanze neurologiche in corso di insufficienza renale 1.1 ENCEFALOPATIA UREMICA Si manifesta con una sindrome psicorganica che tende a progredire più rapidamente nei pazienti con insufficienza renale acuta (IRA). Nelle fasi iniziali sono presenti turbe mnesiche e comportamentali, depressione, inversione del ciclo sonno veglia. Negli stadi più avanzati compaiono stati confusionali, allucinazioni visive ed alterazioni dello stato di coscienza. Sono inoltre presenti paratonia, iperreflessia profonda, mioclonie multifocali, asterixis, fascicolazioni e segni meningei. Le crisi epilettiche, più frequenti nei soggetti ipertesi, possono talora essere in rapporto all’uso di penicillina, cefalosporine o di altri antibiotici. Segni focali sono poco frequenti e possono essere presenti in modo transitorio. La valutazione neuroradiologica può servire per escludere altre cause di sofferenza focale (ematomi) o di deterioramento mentale (idrocefalo). La presenza di alterazioni elettroencefalografiche diffuse più marcate a livello frontale è tipica dell’insufficienza renale acuta, mentre nelle forme croniche è stata ri-
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scontrata una correlazione tra la presenza di attività lente (delta e theta) e l’aumento della creatinina. Complessi punta-onda, in assenza di manifestazioni cliniche, sono stati riportati in oltre il 14% dei pazienti con insufficienza renale cronica (IRC) (Hughes, 1980). Sebbene la fisiopatologia dell’encefalopatia uremica resti ancora da definire, è stato dimostrato un ridotto metabolismo cerebrale associato ad un minore consumo di ossigeno verosimilmente per un’alterazione a livello neurotrasmettitoriale. È stato inoltre considerato l’effetto neurotossico del paratormone e dell’alluminio. 1.2. NEUROPATIA UREMICA Una neuropatia periferica prevalentemente assonale è di frequente riscontro negli adulti con IRC, (Schaumberg et al., 1992) interessando particolarmente il sesso maschile. La neuropatia sensitivo motoria colpisce maggiormente gli arti inferiori (sindrome “dei piedi brucianti”, “delle gambe senza riposo”). Vi può essere un interessamento anche del sistema vegetativo con ipotensione ortostatica, impotenza e disturbi gastrointestinali. La sindrome delle gambe senza riposo può persistere anche dopo l’inizio della dialisi: da segnalare che le manifestazioni della neuropatia uremica non si sviluppano se il filtrato glomerulare rimane superiore a 12 ml/ min e che il trapianto renale produce una progressiva riduzione della sintomatologia periferica. La neuropatia è stata messa in rapporto all’accumulo di sostanze neurotossiche, ma una stretta correlazione fra i livelli plasmatici e tissutali delle sostanze potenzialmente coinvolte (composti guanidinici, poliammine, derivati fenolici, mioinositolo, paratormone) e la gravità della neuropatia non è stata dimostrata. È stata inoltre considerata la malnutrizione e l’ inibizione di diversi sistemi enzimatci (ad esempio transchetolasi, ATPasi NA/K). Nei pazienti in emodialisi viene frequentemente osservata una sindrome del tunnel carpa-
le, con interessamento anche del nervo ulnare nel 30% dei casi. Fra le neuropatie craniali la più frequente è quella a carico dell’ottavo paio di nervi cranici, spesso in relazione all’utilizzo di aminoglicosidi. 1.3 MIOPATIA UREMICA Fattori nutrizionali così come disturbi endocrini (iperparatiroidismo), elettrolitici e terapia steroidea possono contribuire allo sviluppo della miopatia nei pazienti con insufficienza renale cronica. I livelli di CPK sono generalmente nella norma, mentre la valutazione neurofisiologica può confermare la presenza di un pattern di tipo miopatico e la biopsia muscolare mostra segni aspecifici, con atrofia di fibre di tipo II. Alcuni pazienti rispondono al trattamento con vitamina D. Una sindrome polimiositica con elevati livelli di CPK è stata osservata nell’IRC in associazione con diversi farmaci: clofibrato, lovastatina, colchicina.
2. Complicanze della dialisi 2.1 SINDROME DA DISEQUILIBRIO DIALITICO Descritta negli anni ’60, è ora diventata rara in quanto era dovuta a trattamenti dialitici effettuati troppo rapidamente, con sviluppo di un gradiente osmotico tra plasma e liquor. Nei modelli sperimentali è stata dimostrata un’acidosi cellulare con aumento dell’osmolalità, edema cerebrale ed ipertensione endocranica. La sintomatologia (irrequietezza, crampi, cefalea, mioclonie, stato confusionale, crisi epilettiche, coma) si sviluppa generalmente verso la fine della seduta di dialisi e può persistere alcuni giorni. 2.2. DEMENZA DIALITICA È una rara encefalopatia, descritta per la prima volta negli anni ’70, a carattere progressivo ed evoluzione sfavorevole, specie nei soggetti sottoposti a trattamento dialitico da più di due anni (in media 35 mesi). Fa parte di un disordine multisistemico che include osteomalacia resistente alla vitamina D, miopatia prossimale,
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anemia microcitica ipocromica non sideropenica. Solitamente compaiono disartria, afasia, disgrafia e declino delle funzioni cognitive. Tali sintomi inizialmente si presentano solo durante o alla fine della dialisi. Con il progredire della malattia si manifestano apatia, depressione, compromissione persistente del linguaggio, mioclonie, atassia. Nella fase terminale vengono riportate convulsioni, allucinazioni uditive e visive, demenza e mutismo. Il decesso si verifica entro un anno dall’esordio. L’elettroencefalogramma è tipicamente caratterizzato da scariche parossistiche di onde lente di voltaggio elevato, intercalate da onde puntute più evidenti sui settori anteriori; tale quadro è transitoriamente reversibile dopo infusione di diazepam. Le neuroimmagini e l’esame del liquor, seppur fornendo reperti aspecifici, servono per escludere altre cause di sindrome psicoorganica. La contaminazione del liquido di dialisi con alluminio sembra alla base della demenza dialitica. Nei pazienti deceduti il tasso di alluminio nella sostanza grigia è aumentato di oltre 11 volte rispetto ai controlli. L’incidenza di tale complicanza si è ridotta notevolmente dopo che si è provveduto alla purificazione dell’acqua usata per la preparazione del dialisato ed è stata dimostrata una parziale riduzione della sintomatologia nei pazienti trattati con chelanti d’alluminio, in particolare della desferoxamina, che ha una maggiore affinità per l’alluminio rispetto alle proteine plasmatiche. Il complesso chelante-alluminio è rimosso con la dialisi. La desferroxamina determina un lento miglioramento in oltre il 50% dei casi e la terapia deve essere praticata una volta alla settimana per almeno un anno. Si segnala che con l’inizio del trattamento vi può essere un peggioramento clinico ed elettroencefalografico. L’uso dei chelanti può servire anche a scopo diagnostico. L’alluminio può favorire lo sviluppo dell’encefalopatia con numerosi meccanismi, quali alterazioni di funzioni enzimatiche e neurotrasmettitoriali, legame con i fosfati, ridotta idrolisi dei fosfoinositoli, alterazione della funzione micro-
tubulare. Materiale neurofibrillare è stato trovato nei neuroni corticali di pazienti deceduti per demenza dialitica, con differenza tuttavia sia nella composizione che nella distribuzione rispetto ai pazienti affetti da malattia di Alzheimer. 2.3 DIALISI ED ENCEFALOPATIA DI WERNICKE Sebbene raramente, l’encefalopatia di Wernicke è stata descritta nei pazienti sottoposti a dialisi. La tiamina è una vitamina idrosolubile che viene rimossa con la dialisi in quantità analoga a quella escreta con le urine. Pertanto lo sviluppo dell’encefalopatia sembra manifestarsi più facilmente in soggetti malnutriti o sottoposti ad alimentazione parenterale. Potendosi presentare anche in modo paucisintomatico, è verosimile che la frequenza di tale encefalopatia sia sottostimata nei pazienti dializzati. 2.4 EMATOMA SUBDURALE Sebbene sia più frequente nei soggetti sottoposti a dialisi (1-3% dei casi), tale complicanza sarebbe legata in realtà alle turbe della coagulazione, dovute all’insufficienza renale ed all’uso di anticoagulanti.
Complicanze neurologiche dei disturbi elettrolitici Disturbi elettrolitici sono associati a manifestazioni neurologiche centrali e periferiche (neuromuscolari), usualmente su base funzionale: l’attività del sistema nervoso risente delle concentrazioni elettrolitiche del plasma, del liquor e del parenchima cerebrale. Le complicanze neurologiche sono in genere secondarie e il loro trattamento richiede, oltre alla normalizzazione dei valori degli elettroliti, la correzione del disturbo di base. Fondamentale nella comparsa dei disturbi neurologici è la rapidità
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con cui si instaura il disordine elettrolitico e con cui lo stesso viene corretto.
da inappropriata secrezione di ADH, sindrome nefrosica, polidipsia psicogena).
1. Sodio
Lo spettro e la gravità delle manifestazioni neurologiche sono in relazione soprattutto alla rapidità dell’insorgenza dell’iponatriemia. I pazienti anziani ed i bambini sono quelli che manifestano sintomi anche per variazioni non consistenti della concentrazione plasmatica del sodio. I segni e i sintomi neurologici sono legati fondamentalmente all’edema cerebrale e all’aumento della pressione endocranica e possono variare dallo stato confusionale, all’agitazione psicomotoria, all’apatia. Il quadro clinico esordisce generalmente con alterazioni progressive dello stato di coscienza, cui si associa un rallentamento generalizzato all’elettroencefalogramma. Le crisi epilettiche insorgono quando la sodiemia è inferiore a 115 mEq/L e comportano un incremento del rischio di mortalità del 50%. In questi casi è consigliata la somministrazione di Soluzione Fisiologica 3% (4-6 ml/kg) che porta a un incremento della sodiemia di 3-5 mEq/l. Raramente l’iponatriemia può manifestarsi con sintomi neurologici a focolaio, tremore, atassia, nistagmo, disartria. I sintomi muscolari sono rari e generalmente sono rappresentati da fascicolazioni e crampi. Sono stati recentemente segnalati stati di coma con sindrome da deterioramento rostrocaudale in maratoneti, in relazione all’edema cerebrale da iponatriemia. Una correzione troppo rapida dell’iponatriemia (> 12 mEq/l/die) può portare a una Mielinolisi Centrale Pontina, caratterizzata clinicamente da paralisi pseudobulbare e tetraparesi spastica. Il quadro neuropatologico è caratterizzato da una demielinizzazione simmetrica della base del ponte, con relativo risparmio assonale. In questo senso, la correzione dell’iponatriemia deve essere fatta molto lentamente e non è giustificato l’utilizzo di soluzioni ipertoniche nei casi di iponatriemie gravi asintomatiche o nei casi sintomatici con una natriemia di 120-125 mEq/l.
L’Osmolalità plasmatica dipende principalmente dalla concentrazione sierica del sodio. I rapidi cambiamenti della sodiemia provocano manifestazioni neurologiche in relazione all’alterato equilibrio osmotico nel sistema nervoso centrale. Il quadro neurologico generalmente è dominato da disturbi dello stato di coscienza fino al coma; sono comuni anche tremore, mioclono e asterixis. 1.1 IPONATRIEMIA Iponatriemia ed ipo-osmolalità generalmente coesistono. Esistono tuttavia situazioni in cui, per aumento della concentrazione plasmatica di lipidi e proteine, la concentrazione sierica del Na rimane invariata, mentre la sua lettura effettuata con il fotometro a fiamma risulterà inferiore (pseudo-iponatriemia).Tale condizione si sviluppa i pazienti con iperlipidemia, mieloma multiplo, diabete mellito, sindrome nefrosica o in corso di alimentazione parenterale. L’iponatriemia può anche essere associata ad iperosmolalità, e tipicamente questo si verifica nel diabete mellito non controllato, in cui l’accumulo di glucosio nel compartimento extracellulare determina una fuoriuscita di acqua dalle cellule, nel tentativo di correzione omeostatica. In tal modo il Na viene “diluito”. Situazione analoga si verifica dopo somministrazione di glicerolo o mannitolo. La diagosi differenziale dell’iponatriemia comprende i seguenti casi: – Iponatriemia con deplezione del volume extracellulare (vomito, diarrea, sanguinamenti, pancreatiti, diuretici, insufficienza surrenalica). – Iponatriemia con normale volume extracellulare (ipotiroidismo, ipopitutitarismo). – Iponatriemia con volume extracellulare espanso (scompenso cardiocongestizio, sindrome
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1.2 IPERNATRIEMIA Generalmente il quadro clinico è dominato da sintomi riferibili a compromissione del sistema nervoso centrale e compare quando la natriemia è >160 mEq/L. L’ipernatriemia nel paziente anziano è di solito legata a disidratazione; altre cause possono essere il diabete insipido, lesioni ipotalamiche che colpiscano il centro della sete, diuresi osmotica. La gravità del quadro clinico dipende soprattutto dalla rapidità con cui si instaura lo squilibrio, piuttosto che dalla concentrazione serica del sodio. La sintomatologia è generalmente legata alla contrazione di volume (ipotensione, estremità fredde, tachicardia). I segni di interessamento del sistema nervoso centrale sono legati all’ipoperfusione e all’iponatriemia. Le manifestazioni neurologiche in corso di iponatriemia sono rappresentate da alterazioni dello stato di coscienza. A livello neuropatologico, si possono talora osservare piccoli ematomi subdurali, emorragie petecchiali e trombosi venose, la cui patogenesi sembra essere legata alla trazione esercitata sul parenchima cerebrale e sui vasi dalle forze osmotiche. 2. Potassio Circa il 98% del contenuto corporeo totale del potassio è intracellulare. Il gradiente di concentrazione del K tra il compartimento intra- ed extracellulare (di 30 a 1) è il maggiore determinante del potenziale di membrana. 2.1 IPOPOTASSIEMIA Quando la potassiemia è tra 3,0 e 3,5 mEq/l si possono osservare debolezza muscolare, faticabilità e mialgie. Al di sotto dei 2,5 mEq/l compaiono grave ipostenia prossimale, associata a rabdomiolisi e mioglobinuria. Il danno muscolare è caratterizzato da mionecrosi segmentale e degenerazione vacuolare. Se l’ipopotassiemia si associa ad alcalosi, può comparire tetania e, per contro, l’ipopotassiemia può ma-
scherare la comparsa di tetania in corso di ipocalcemia. Se l’ipopoatassiemia si associa ad alterazioni dell’equilibrio acido base compaiono letargia, confusione e coma. 2.2 IPERPOTASSIEMIA Le manifestazioni cardiache (fibrillazione ventricolare, asistolia) in corso di iperpotassiemia sono generalmente prevalenti e precedono la comparsa di disturbi neurologici. Nei casi di iperpotassiemia cronica (morbo di Addison, insufficienza renale cronica) il sintomo neurologico prevalente è la debolezza muscolare. Sia in corso di grave ipopotassiemia che di iperpotassiemia, sono stati descritti casi di paralisi ascendente tipo sindrome di Guillain-Barrè, onde l’opportunità di eseguire l’esame del liquor solo dopo aver valutato lo ionogramma. 3. CALCIO 3.1 IPERCALCEMIA Le cause principali di ipercalcemia sono l’iperparatiroidismo e l’osteolisi da metastasi di tumori mammari, polmonari o mieloma multiplo. Quando la calcemia supera i 14 mg/dl, possono comparire cefalea, letargia, confusione, convulsioni e coma. A causa della ridotta eccitabilità neuromuscolare, si osservano comunemente astenia ed affaticabilità. La miopatia in corso di iperparatiroidismo non presenta un quadro istologico ed elettromiografico caratteristico ed è simile alla miopatia da carenza di Vitamina D, osservabile in corso di uremia, terapia con fenitoina od osteomalacia. Nell’ipercalcemia cronica frequentemente si sviluppa una stenosi del tunnel carpale. 3.2 IPOCALCEMIA Una grave ed acuta ipocalcemia consegue generalmente a interventi sulla tiroide o paratiroidi o in corso di pancreatite acuta. Le manifestazione neurologiche più comuni sono rap-
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presentate da crisi epilettiche, parziali o generalizzate e da confusione, allucinazioni, psicosi. Una sindrome acinetico -ipertonica o la comparsa di movimenti coreici sono stati osservati in casi di ipocalcemia cronica. In questi casi sono state descritte calcificazioni dei gangli dell base. Quando la concentrazione di calcio ionizzato è particolarmente bassa, può comparire tetania. Tale fenomeno può essere slatentizzato dall’iperventilazione o dall’ischemia (test di Trousseau). I primi sintomi possono essere parestesie periorali e alle mani, successivamente compaiono spasmo muscolare (carpopedale), stridor laringeo e opistotono. 4. Magnesio 4.1 IPOMAGNESEMIA L’ipomagnesemia compare nel 10% dei pazienti ospedalizzati e non sempre riflette una reale deplezione del magnesio, essendo questo un elettrolita a distribuzione prevalentemente intracellulare. I sintomi neurologici sono simili a quelli dell’ipocalcemia, che spesso si associa all’ipomagnesemia. Per questo motivo è necessario valutare sempre la magnesemia nel paziente ipocalcemico che non risponda alla somministrazione di calcio. Per contro, nel paziente con normale calcemia e ipomagnesemia i sintomi neurologici possono essere legati a una deplezione della quota ionizzata del calcio. Irritabilità, agitazione, confusione, convulsioni, tremore, mioclono e tetania compaiono per concentrazioni inferiori a 0,8 mEq/l. La correzione dell’ipomagnesemia richiede la lenta somministrazione di magnesio e calcio gluconato, per contrastare transitori incrementi eccessivi della magnesemia, che possono provocare paralisi della muscolatura respiratoria. 4.2 IPERMAGNESEMIA L’ipo-areflessia osteotendinea è uno dei primi segni neurologici, e compare per concentra-
zioni di magnesio tra 5 e 6 mEq/l. Per concentrazioni superiori a 8 mEq/l compaiono rallentamento dell’attività elettrica cerebrale, letargia, confusione. Il sintomo neurologico prevalente in corso di ipermagnesemia cronica è tuttavia la debolezza muscolare (o la paralisi), dovuta al blocco della trasmissione neuromuscolare, con frequente interessamento della muscolatura respiratoria. 5 Fosforo 5.1 IPOFOSFATEMIA Per livelli di fosfatemia inferiori a 2.5 mg/dl, sono state descritte confusione, coma, convulsioni, oltre a disturbi neuromuscolari, specie in corso di alimentazione parenterale in soggetti malnutriti.
Manifestazioni neurologiche delle emopatie Nel corso delle malattie ematologiche, il sistema nervoso può essere interessato con modalità quanto mai diverse (vascolari, carenziali, immunologiche, infiltrative, iatrogene), a seconda del tipo di patologia. 1. Anemia ed emoglobinopatie Le manifestazioni neurologiche aspecifiche in corso di anemia sono costituite da cefalea, vertigini, scotomi, tinnito, astenia, apatia, anoressia e stati confusionali (frequenti negli anziani). Il nervo ottico è particolarmente sensibile all’ipossiemia, per cui, in corso di grave anemia, è frequente l’edema della papilla ottica che può progredire fino all’atrofia ottica, nel contesto di una retinopatia caratterizzata da essudati cotonosi, emorragie a fiamma e talora distacco retinico.Ogni forma di anemia può inoltre associarsi a manifestazioni neurologiche specifiche.
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1.1 ANEMIA SIDEROPRIVA Nell’anemia sideropriva cronica sono state descritte complicanze neurologiche specifiche, spesso in relazione all’associazione con ipertensione endocranica benigna. In questi pazienti spesso si ha un’importante trombocitosi, che può causare attacchi ischemici transitori o infarti cerebrali. 1.2 ANEMIA DA CARENZA DI VITAMINA B12 1.2.1 Neuropatia periferica Si tratta di una neuropatia assonale, prevalentemente sensitiva, a inizio distale agli arti inferiori, caratterizzata da parestesie, ipoestesia, areflessia. La patogenesi è quella della degenerazione assonale “dying back” e il quadro neuropatologico dimostra perdita delle grosse fibre mieliniche nei nervi sensitivi (v. pag. 1341). 1.2.2 Mielopatia Chiamata un tempo “mielosi funicolare”, la sclerosi combinata subacuta è legata alla degenerazione dei cordoni posteriori del midollo spinale e si manifesta clinicamente con l’associazione di segni di lesione piramidale (in particolare fenomeno di Babinski, mentre i riflessi profondi possono non essere vivaci) e disturbi delle sensibilità profonde. Il quadro neuropatologico è caratterizzato da una degenerazione delle guaine mieliniche, soprattutto a livello medio toracico, con rigonfiamenti e vacuolizzazioni dei cordoni posteriori e, successivamente, di quelli laterali. Talora è presente anche una degenerazione spongiosa dei nervi ottici, del chiasma e della sostanza bianca emisferica. I segni clinici sono inizialmente rappresentati da parestesie ai quattro arti, successivamente compaiono alterazioni delle sensibiltà profonde, prima fra tutte la vibratoria, con atassia sensitiva e poi para o tetraparesi spastica. Nel 4-5% dei casi può comparire tardivamente una polineuropatia mista non assonale e, raramente una sindrome demenziale. A livello diagnostico è ne-
cessario effettuare il dosaggio plasmatico della vitamina B12 e dell’acido metil-malonico. 1.2.3 Encefalopatia Anche a livello della sostanza bianca encefalica, si possono osservare multipli focolai di demielinizzazione, soprattutto a carico del corpo calloso o della sostanza bianca fronto-parietale. Il quadro clinco è quello di una sindrome psico-organica, con alterazioni dell’umore, difficoltà di attenzione, concentrazione, deficit mnesici, allucinazioni, incontinenza sfinterica. La risposta alla terapia con vitamina B12 è variabile e la presenza di sintomi neurologici residui è in relazione soprattutto alla durata e alla gravità dei sintomi. È utile la contemporanea somministrazione di folati. 1.2.4 Neuropatia ottica L’incidenza della neuropatia ottica in corso di anemia perniciosa è pari al 0,3% dei casi. 1.3 ANEMIA DA CARENZA DI FOLATI Nell’anemia da carenza di folati sono state descritte manifestazioni neuropsichiatriche (Shorvon et al., 1980), caratterizzate da disturbi dell’umore, associati spesso a neuropatia periferica, degenerazione subacuta combinata del midollo spinale, atrofia ottica.
1.4 ANEMIA A CELLULE FALCIFORMI Il 26% dei pazienti con anemia a cellule falciformi presenta diturbi neurologici, principalmente infarti o emorragie cerebrali. La patogenesi del danno cerebrale è legata alle anomalie emoreologiche e al danno endoteliale, in relazione all’insolubilità della deossiemoglobina. L’emorragia intraparenchimale o, più raramente, subaracnoidea, è legata all’endoarterite fibrotica e alla frammentazione della lamina elastica interna delle arterie cerebrali di medio calibro. Nel 15-30% dei casi con stroke sono riportate crisi epilettiche. Le crisi parziali nei bambini possono essere l’unica manifestazione
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di una vasculopatia non riconosciuta e il trattamento con meperidina cloridrato può a sua volta causare convulsioni. Raramente si possono osservare radicolopatie, neuropatie craniche, infarti spinali, atrofia ottica. In conseguenza dell’ipersplenismo funzionale, i pazienti con anemia a cellule falciformi sono particolarmente soggetti a infezioni pneumococciche, che si possono manifestare anche sotto forma di meningiti. La meningite batterica è associata ad un’incidenza pari al 15% di sequele neurologiche a lungo termine, comprese le convulsioni, l’ipoacusia neurosensoriale, i deficit neurologici focali e l’idrocefalo. Tra le complicanze neurologiche croniche ricordiamo la cefalea, spesso con le caratteristiche della cefalea muscolotensiva.
to alla popolazione generale. La trombosi arteriosa cerebrale si verifica nel 15-20% dei casi. La patogenesi è legata all’iperviscosità ematica e alla possibile concomitante coagulazione intravascolare disseminata. Le emorragie cerebrali sono molto più rare e sono causate da alterazioni piastriniche quantitative e qualitative. Oltre agli eventi cerebrovascolari, i pazienti lamentano frequentemente cefalea, vertigini, disturbi dell’equilibrio e scotomi. Questi sintomi sono in relazione all’aumentata pressione endocranica e all’alterata circolazione ematica della retina e dell’orecchio medio. Le mielopatie compressive da emopoiesi epidurale e le neuropatie periferiche sono rare.
1.5 TALASSEMIA
Si tratta di un raro disturbo emolitico acquisito da causa ignota, che spesso compare in associazione a ipoplasia midollare. Tipicamente, l’emolisi avviene di notte e comporta emoglobinuria al mattino. Una delle più comuni complicanze è la trombosi dei grossi vasi cerebrali, arteriosi e venosi.
In relazione all’aumentata sopravvivenza dei pazienti leucemici, si è assistito, negli ultimi 15 anni, a un aumento della frequenza delle complicanze neurologiche, che compaiono con un’incidenza del 3% circa dei casi. L’interessamento del sistema nervoso centrale (SNC) è dovuto, di solito, all’infiltrazione di cellule leucemiche, oppure a emorragie, infezioni, alterazioni metaboliche o a complicanze delle chemio- radioterapie. L’invasione del parenchima cerebrale da parte delle cellule leucemiche può avvenire attraverso la via emolinfatica, o per colonizzazione meningea o a partire da cellule perivasali con potenzialità ematopoietica a sede aracnoidea.
2. Emopatie proliferative
2.2.1 Leucemia meningea
A causa dell’ematopoiesi extramidollare a sede extradurale, si possono verificare sindromi da compressione spinale. In questi casi il trattamento chirurgico o l’ associazione steroidiradioterapia possono essere risolutive. 1.6 EMOGLOBINURIA PAROSSISTICA NOTTURNA
2.1 POLICITEMIA VERA (MORBO DI VAQUEZ) Caratterizzata da un progressivo aumento del numero degli eritrociti circolanti, si associa a leucocitosi, piastrinosi, iperplasia midollare, epato-splenomegalia, iperviscosità ematica e complicanze trombotiche. I pazienti policitemici presentano un rischio di eventi cerebrovascolari ischemici cinque volte superiore rispet-
2.2 LEUCEMIA
Complica più frequentemente la leucemia linfocitica acuta e talora può essere il quadro di esordio di una leucemia linfocitica cronica a cellule B. L’interessamento meningeo è una manifestazione tipicamente tardiva della leucemia e spesso si verifica come evento isolato durante la fase di remissione sistemica, ma può talora preannunciare lo sviluppo di una recidiva midollare. L’invasione delle meningi può determinare una meningite subacuta con cefalea, nausea, vomito, rigidità nucale, alterazione dello stato di coscienza, crisi epilettiche e papilledema. La circolazione o il riassorbimento del liquor possono essere compromesse, e si può sviluppa-
Complicanze neurologiche delle malattie internistiche 1685 re idrocefalo ostruttivo o comunicante. Frequentemente interessati, per compressione o invasione diretta, sono i nervi cranici e le radici spinali. I nervi cranici più spesso coinvolti sono il nervo ottico, i nervi oculomotori e il nervo facciale. La diagnosi si avvale della storia clinica e dei reperti liquorali, caratterizzati da pleiocitosi in più del 90% dei casi, con evidenza di blasti e figure mitotiche. La pressione liquorale è generalmente elevata, così come la glicorrachia e la concentrazione proteica. Nel 10% dei casi il liquor è normale. Una reperto liquorale normale non esclude tuttavia la diagnosi di leucemia meningea, per cui si consiglia di ripetere l’indagine. La citocentrifugazione è più sensibile rispetto all’esame citologico di routine. Le cellule maligne sono raramente presenti, specie se il numero totale di leucociti è inferiore a 10/mmc. Il trattamento comprende l’associazione di radioterapia e chemioterapia intratecale e sistemica. La terapia profilattica, generalmente con metotrexate intratecale, è divenuta oggi di routine nel trattamento iniziale di molti pazienti affetti da leucemia, particolarmente nei casi di leucemia linfoblastica acuta.
2.2.2 Infiltrazione parenchimale L’infiltrazione neoplastica del parenchima cerebrale può avvenire in maniera diffusa o sotto forma di depositi nodulari isolati. Nella maggior parte dei casi, la leucemia parenchimale è associata al coinvolgimento meningeo e probabilmente ne è la conseguenza. I sintomi e i segni sono quanto mai variabili, in relazione all’entità dell’infiltrazione e alla sede. L’infiltrazione delle cellule leucemiche può coinvolgere le pareti dei vasi cerebrali, portando a ischemie ed emorragie a sede generalmente intraparenchimale. L’infiltrazione neoplastica del midollo spinale è rara, più spesso si osservano masse leucemiche extradurali, di solito a sede toracica. L’interessamento del sistema nervoso periferico, con sindromi poliradicolari o monomultineuropatiche è piuttosto raro, e generalmente è legato a infiltrazioni neoplastiche diffuse o a sofferenza vascolare.
2.2.3 Emorragia intracranica Rappresenta la più comune delle complicanze neurologiche vascolari della leucemia. Compare di solito all’esordio o durante ricadute leucemiche, nei pazienti refrattari alla chemioterapia. L’emorragia intracranica “spontanea” si verifica frequentemente nel corso della crisi blastica, generalmente con un numero totale di globuli bianchi superiore a 100000/mmc, soprattutto nelle forme di leucemia mielocitica acuta. Altri fattori causali sono la trombocitopenia, la coagulazione intravascolare disseminata (CID), gli infarti emorragici su base embo-
lica e le infezioni da Aspergillus. Il sanguinamento nel sistema nervoso centrale avviene di solito in maniera multifocale, coinvolgendo meningi, encefalo e midollo spinale. Si possono osservare sia piccole emorragie petecchiali sia larghi sanguinamenti confluenti. La sede del sanguinamento è generalmente la sostanza bianca emisferica, anche se talora si possono osservare ematomi subdurali ed emorragie cisternali.
2.2.4 Infarto cerebrale Consegue a una trombosi arteriosa e venosa, allo stato di ipercoagulabilità, alla CID o a eventi embolici settici (in corso di infezioni micotiche) o asettici. La trombosi delle vene corticali e il conseguente infarto venoso (talora emorragico) si verificano come risultato di una stasi venosa oppure in seguito al trattamento chemioterapico (soprattutto con L- asparginasi).
2.2.5 Sindrome da iperviscosità Tutte le forme di leucemia, acute o croniche, possono causare questa sindrome, caratterizzata da sintomi neurologici, disturbi visivi ed emorragie. Spesso compare a seguito di emotrasfusioni in pazienti con importante leucocitosi. Le manifestazioni neurologiche più comuni sono: disturbi visivi e acustici, cefalea, atassia, letargia, sonnolenza, episodi cerebrovascolari e coma. La leucaferesi è spesso risolutiva.
2.2.6 Infezioni In tutte le forme di leucemia, ma in particolare nella leucemia linfoblastica del bambino, le infezioni del sistema nervoso centrale riconoscono come fattori eziologici comuni i virus (morbillo, varicella). Tra i funghi, il più frequente è l’aspergillo. L’incidenza è aumentata in relazione all’uso di corticosteroidi, chemioterapici ed antibiotici a largo spettro.
2.2.7 Leucoencefalopatia Oltre alla leucoencefalopatia multifocale progressiva, ricordiamo un’altra forma di leucoencefalopatia che può complicare quadri di leucemia linfoblastica dopo radioterapia cranica o somministrazione intratecale di metotrexate. Dal punto di vista neuropatologico, si caratterizza per la presenza di demielinizzazione, degenerazione assonale, gliosi, necrosi fibrinoide, microangiopatia e microcalcificazioni. La sostanza bianca periventricolare è costantemente interessata. Le manifestazioni cliniche, caratterizzate da agitazione, confusione, atassia, demenza, tetraparesi, afasia ed emianopsia possono comparire anche a mesi di distanza dal termine della terapia.
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2.3 MIELOMA MULTIPLO Il sistema nervoso è frequentemente interessato con varie modalità: – fenomeni compressivi del midollo spinale, cauda, radici – coinvolgimento dei nervi cranici – mieloma intracranico – neuropatia periferica – mieloma meningeo 2.3.1 Mieloma spinale Il mieloma multiplo è la seconda causa di compressione midollare dopo le metastasi da carcinoma. Nel 20% dei casi si riscontrano lesioni compressive del midollo e delle radici spinali dovute a infiltrazione mielomatosa extradurale a partenza dalle vertebre o a frattura vertebrale. Il segmento toracico è quello più frequentemente colpito. Il mieloma a sede extradurale può comparire anche in assenza di coinvolgimento osseo, e cellule mielomatose si possono localizzare a sede intradurale per migrazione lungo le radici attraverso il forame intervertebrale. Anche la deposizione di amiloide può determinare compressione midollare. Sono rare l’infiltrazione mielomatosa parenchimale e le mielopatie paraneoplastiche. 2.3.2 Compressione delle radici nervose Le radici spinali possono essere interessate per infiltrazione diretta, per compressione da parte di cellule mielomatose o di franamenti vertebrali.
2.3.3 Mieloma intracranico È un’evenienza rara. Le regioni più frequentemente interessate sono la sella e il seno cavernoso, il corpo dello sfenoide, l’apice della rocca petrosa e l’orbita. L’infiltrazione diffusa del parenchima encefalico è rara e si associa generalmente a coinvolgimento meningeo. Anche in assenza di localizzazioni intracraniche, in alcuni pazienti con mieloma IgG è stata descritta una sindrome da ipertensione endocranica benigna.
2.3.4 Neuropatia periferica Può conseguire a: – demielinizzazione in corso di sindrome paraneoplastica
– ischemia per deposizione di amiloide nei vasa vasorum – infiltrazione di amiloide – infiltrazione del nervo da parte di plasmacellule maligne Il quadro della forma paraneoplastica è quello di una neuropatia cronica, progressiva, sensorimotoria a evoluzione disto prossimale e inizio agli arti inferiori. Multi e -mononeuropatie, con frequente sindrome del tunnel carpale, sono più comuni nelle forme da infiltrazione di amiloide o di cellule neoplastiche.
2.4. MACROGLOBULINEMIA DI WALDESTRÖM È caratterizzata dall’aumento nel siero ematico di una gammamacroglobulina IgM, prodotta in seguito ad alterata funzione immunopoietica di linfoplasmacellule. Nel 25% dei casi si ha interessamento del sistema nervoso centrale di solito con un’encefalopatia diffusa o multifocale progressiva. Sono stati anche descritti casi di mono-multineuropatie craniche. Nel 50% dei casi è presente una retinopatia con riduzione del visus. In relazione alla sindrome da iperviscosità e alla diatesi emorragica, si possono verificare eventi cerebrovascolari. La neuropatia periferica, presente in percentuale variabile a seconda delle casistiche, (850%) è legata principalmente al legame della macroglobulina ad antigeni mielinici. In altri casi è stata dimostrata un’infiltrazione linfocitaria endoneurale con degenerazione focale della mielina e dei cilindrassi, accumulo di materiale PAS positivo nel perinervio e proliferazione endoteliale dei vasa vasorum. Il quadro clinico, in genere, è quello di una neuropatia mista sensitivo-motoria, simmetrica a inizio distale agli arti inferiori e associata ad algie e amiotrofia; meno comuni sono le mono o multineuropatie o le poliradicoloneuropatie infiammatorie acute. 2.5 LINFOMA Raramente si tratta di forme primitive del sistema nervoso centrale (SNC). Nonostante il 25% dei linfomi non Hodgkin abbia sede primi-
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tiva extranodale, solo l’1% origina nel SNC. La sintomatologia neurologica deriva di solito dall’azione compressiva o dall’infiltrazione di masse linfomatose sulle radici spinali e sul midollo. I fattori che più frequentemente sono associati con un interessamento del SNC sono il quadro istologico (linfoma linfoblastico a piccole cellule), la giovane età e lo stadio avanzato di malattia. La probabilità di sviluppare metastasi meningee è del 60% quando tutti e tre i fattori sono presenti. Nonostante la possibilità di identificare pazienti con maggiore rischio di sviluppare un interessamento del SNC, la necessità di effettuare profilassi, a differenza delle leucemie, è ancora oggetto di discussione. 2.5.1 Interessamento del midollo spinale e delle meningi La complicanza neurologica più frequente è costituita da sindromi compressive midollari: circa il 5% dei pazienti sviluppa una compressione epidurale del midollo spinale. Tale complicanza, specie nelle forme non Hodgkin, può costituire il sintomo di esordio. Il midollo spinale può essere compresso da masse linfomatose a sede extradurale, che si formano per diffusione dai linfonodi mediastinici o retroperitoneali e che raggiungono il canale vertebrale attraverso i forami di coniugazione. La massa tumorale tende ad estendersi lateralmente, coinvolgendo anche le radici, fino a circondare completamente il midollo. I segmenti più frequentemente coinvolti sono quelli compresi tra C5 e T8. L’interessamento meningeo si può verificare in qualsiasi momento del decorso della malattia. Il quadro clinico è caratterizzato da cefalea, alterazioni dello stato di coscienza, compromissione dei nervi cranici (soprattutto l’abducente e il facciale). La diagnosi definitiva richiede l’identificazione delle cellule neoplastiche nel liquor. Qualora non si riescano ad identificare le cellule neoplastiche nel liquor, sono indicate le indagini neuroradiologiche. Ulteriori indagini liquorali sono la determinazione della β2 microglobulina, l’analisi dei mar-
ker linfocitari e l’amplificazione genica in vitro mediante reazione polimerasica a catena (PCR). 2.5.2 Interessamento intracranico I linfomi possono invadere il sistema nervoso centrale in qualsiasi momento durante il decorso della malattia. Tale complicanza è più frequente nei casi di malattia non Hodgkin, verificandosi nel 10% dei pazienti non immunodepressi e nel 25% dei casi con sindrome da immunodeficienza acquisita. La patogenesi è legata all’infiltrazione di cellule neoplastiche dalla base cranica a partenza da linfonodi cervicali. La sede del tumore rimane di solito extradurale o talora subdurale. Il coinvolgimento delle meningi avviene per lo più in maniera diffusa, con compromissione di numerosi nervi cranici, cefalea, segni di irritazione e papilledema. Il linfoma meningeo tende ad avere un decorso clinico protratto con fasi di sponatenea remissione clinica e neuroradiologica. Il riscontro di infiltrazione linfomatosa del parenchima cerebrale è eccezionale. L’infiltrazione intracerebrale è più frequente nel linfoma istiocitico, mentre il linfoma linfocitico tende a interessare l’orbita, con quadri di oftalmoplegia dolorosa, proptosi e ipoestesia corneale. 2.5.3 Sindromi paraneoplastiche Si tratta di polineuropatie, encefalomielopatie, degenerazione cerebellare, polimiositi, mielopatia necrotizzante subacuta. Sono state anche descritte rare forme di disautonomia acuta e miastenia gravis. Sono stati inoltre riportati alcuni casi di linfoma con paraproteinemia e segni di interessamento del primo e secondo motoneurone.
2.5.4 Linfomatosi intravascolare È una complicanza rara del linfoma non Hodgkin, caratterizzata da sofferenza su base vascolare del sistema nervoso centrale, (ictus, encefalopatie, paraparesi). Poiché le caratteristiche cliniche e radiologiche sono aspecifiche, l’unica indagine dirimente è la biopsia cerebrale o meningea. La terapia steroidea, la plasmaferesi e la chemioterapia, possono risultare talora efficaci.
2.5.5 Linfoma cerebrale primitivo I linfomi primitivi del SNC sono rari, rappresentano infatti solo l’1% dei tumori cerebrali.
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Le forme più comuni sono i linfomi non Hodgkin ad alto grado a cellule B, di solito a diffusione multicentrica. Generalmente insorgono in soggetti sottoposti per lungo tempo a terapie immunosoppressive o con immunodeficienze ereditarie o acquisite. I linfomi primitivi del SNC si presentano come masse a sede biemisferica spesso intracorticale o a sede callosale, nei gangli della base o, più raramente, nel cervelletto. Frequente è anche l’interessamento bilaterale del chiasma ottico. La localizzazione spinale è eccezionale.
3. Disturbi della coagulazione ematica 3.1 EMOFILIA Nella maggioranza dei casi, i segni e i sintomi dovuti al coinvolgimento del sistema nervoso periferico sono prevalenti. La patogenesi è legata di solito alla compressione del nervo ad opera di sanguinamenti subperiostei o intramuscolari. Il nervo femorale viene frequentemente compresso da un ematoma dell’ileopsoas. L’emorragia intracranica è la principale causa di morte nei soggetti emofilici, e i fattori più frequentemente associati sono i traumi e l’ ipertensione arteriosa. L’utilizzo precoce di concentrati di fattore VIII ha sensibilmente migliorato la prognosi di questi pazienti. L’emorragia spinale è rara e si presenta clinicamente con dolore acuto e para o tetraparesi. 3.2 TROMBOCITOPENIA Al di sotto delle 20.000 piastrine/l si possono verificare emorragie spontanee, a sede cerebrale, subdurale o subaracnoidea. L’interessamento del midollo spinale e dei nervi periferici è raro. 3.2.1 Porpora trombotica trombocitopenica Si tratta di un disordine la cui eziologia non è nota, che colpisce più frequentemente le donne in età compresa tra i 20 e i 50 anni. Si caratterizza per l’associazione di trombocitopenia,
anemia emolitica microangiopatica, disordini neurologici, febbre e insufficienza renale. Nei piccoli vasi cerebrali e renali si può dimostrare iperplasia delle cellule endoteliali e avventiziali, con formazione di microaneurismi e di trombi ricchi di piastrine aggregate e materiale ialino. I disturbi neurologici sono presenti nel 90% dei casi e nel 60% rappresentano la prima manifestazione clinica. I sintomi neurologici sono quanto mai variabili, i più comuni sono cefalea, alterazioni dello stato di coscienza, crisi epilettiche e deficit focali, disturbi visivi e neuropatie craniche. I principali rilievi laboratoristici sono la trombocitopenia, l’anemia emolitica con iperbilirubinemia, l’uremia e l’aumentata attività megacariocitica midollare. La terapia deve essere effettuata in maniera tempestiva con plasmaferesi, corticosteroidi e vincristina. 3.3 Sindrome da ipercoagulabilità Può essere definita come la tendenza ad avere fenomeni trombotici, in rapporto a malattie ereditarie o difetti molecolari acquisiti (sindrome da anticorpi anti fosfolipididi, resistenza alla proteina C attivata, elevato fattore VIII, neoplasie, deficit di proteina C, deficit di proteina S). Le manifestazioni cliniche possono essere particolarmente gravi, anche letali, ed interessare il sistema nervoso (stroke, corea, mielopatie, trombosi retinica). Attualmente i disordini responsabili della sindrome da ipercoagulabilità vengono identificati nell’80-90% dei casi, consentendo quindi di stabilire il trattamento adeguato in rapporto alle diverse eziologie (Thomas 2001).
Sindromi paraneoplastiche di interesse neurologico Il termine “sindromi paraneoplastiche” si riferisce a un gruppo di disordini causati o associati a neoplasie, ma che non ne costituiscono l’effetto diretto o legato a metastasi o alle terapie. I tipi di tumori in causa sono per il 50% carcinomi broncogeni, soprattutto microcitomi, se-
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guiti dai carcinomi mammari, gastrici, dell’ovaio, retto e prostata. Le sindromi paraneoplastiche di interesse neurologico possono coinvolgere il sistema nervoso centrale (SNC), il sistema nervoso periferico (SNP), i muscoli e la giunzione neuromuscolare e possono pertanto essere così suddivise, a seconda del settore colpito: Encefalo e nervi cranici Degenerazione cerebellare subacuta Opsoclono mioclono Encefalite limbica Encefalite del tronco Neurite ottica Degenerazioni retiniche Midollo spinale Mielopatia necrotizzante Neuronopatia motoria subacuta Malattie del motoneurone Mieliti Neuronopatia sensitiva Nervo periferico Neuropatia periferica sensorimotoria subacuta o cronica Sindrome di Guillain-Barrè Mononeuriti multiple Neuriti brachiali Neuropatia autonomica Muscolo e giunzione neuro-muscolare Sindrome di Lambert-Eaton Miastenia gravis Dermatomiosite polimiosite Miopatia necrotizzante acuta Miotonia Sindrome dell’uomo rigido (Stiff man syndrome) Sistema nervoso centrale e sistema nervoso periferico Encefalomieliti Neuromiopatie Anche se la patogenesi non è nota, un meccanismo di tipo immunitario sembra essere implicato in molti casi. È infatti possibile che molecole antigeniche o epitopi (“antigeni onco-
neurali”) siano condivisi sia dal tumore che dal SNC o SNP, creando una risposta immune crociata. La sintomatologia neurologica può manifestarsi in qualsiasi momento e talora può anche precedere di mesi o di anni le manifestazioni cliniche proprie del tumore. La PET è risultata utile nell’evidenziare tumori di piccole dimensioni non dimostrabili con le comuni indagini neuroradiologiche (Ress et al., 2001). 1. Degenerazione cerebellare paraneoplastica Si tratta di un disturbo molto raro, di solito associato a carcinomi polmonari a piccole cellule, carcinomi mammari, dell’ovaio, o linfomi di Hodgkin. Le manifestazioni cliniche cerebellari precedono nel 60% dei casi quelle della neoplasia primitiva. Nel 50% dei casi sono presenti altri segni neurologici, quali ipoacusia, disfagia, segni extrapiramidali, neuropatia periferica, demenza. L’esame istologico mostra una riduzione o scomparsa delle cellule del Purkinje sia nel paleo che nel neo cerebello, scomparsa delle fibre che vanno dalle cellule del Purkinje al nucleo dentato, degenerazione dei fasci spinocerebellari, dei cordoni posteriori e talora focolai di demielinizzazione con infiltrati linfocitari perivascolari e meningei nella sostanza bianca di tutto il nevrasse. Nelle fasi avanzate l’atrofia cerebellare è evidente anche alle neuroimmagini, e la risonanza magnetica encefalica può mostrare iperintensità del segnale in T2 della sostanza bianca cerebrale e cerebellare. Nel liquor spesso è presente pleiocitosi linfocitaria, aumento delle proteine e della concentrazione di IgG con bande oligoclonali. In molti casi sono dimostrabili anticorpi anti cellule del Purkinje e anti neurone sia nel siero che nel liquor. 2. Opsoclono-mioclono È una encefalopatia caratterizzata da atassia, mioclono generalizzato ed opsoclono. L’opsoclono è costituito da movimenti oculari saccadici coniugati, involontari, aritmici, multidi-
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rezionali. Nel bambino è associato a neuroblastoma toracico (2% dei casi) e nell’adulto a carcinomi polmonari, mammari e ovarici. La presenza della sindrome nei bambini con neuroblastoma comporta generalmente una prognosi migliore. La risposta al trattamento con corticosteroidi è buona. Il quadro neuropatologico mostra alterazioni simili a quelle descritte nella degenerazione cerebellare paraneoplastica. La patogenesi è verosimilmente immuno-mediata, e in alcuni pazienti sono dimostrabili anticorpi diretti contro antigeni neuronali. Molto spesso sono presenti anticorpi anti Ri, immunoglobuline molto simili agli anti Hu, ma con diversa migrazione al Western Blot. 3. Encefalite limbica Si tratta di una rara sindrome paraneoplastica, di solito associata al microcitoma polmonare. L’esordio clinico è subdolo, con alterazioni della personalità e del comportamento, turbe della memoria a breve termine, confusione, agitazione, allucinazioni e crisi epilettiche, generalmente di tipo parziale a sintomatologia complessa. L’esame del liquor mostra, soprattutto nelle fasi precoci, un quadro infiammatorio, mentre le neuroimmagini sono generalmente negative. Il quadro istologico è caratterizzato da una importante perdita neuronale con gliosi reattiva e “cuffing” linfocitario perivascolare a livello della corteccia limbica e insulare. Sono riportati alcuni casi di remissione spontanea o di miglioramento con il trattamento della neoplasia. 4. Mielopatia necrotizzante Si tratta di un disordine raro, associato di solito a linfomi, leucemie e microcitoma polmonare. Il quadro clinico è caratterizzato da una paraplegia flaccida a rapida insorgenza e decorso ascendente e dolori radicolari. Nel liquor è presente pleiocitosi linfocitaria e talora iperpro-
teinorrachia. La risonanza magnetica midollare è di solito normale, solo occasionalmente sono stati descritti edema o assunzione di contrasto. L’esame istologico mostra necrosi diffusa del midollo spinale e scarsissimo infiltrato infiammatorio. 5. Neuronopatia subacuta sensori-motoria Si tratta di un disordine che riconosce una genesi paraneoplastica nel 33% dei casi, potendo insorgere come complicanza di diverse malattie quali la sindrome di Sjogren o altre patologie autoimmuni. Molto spesso si associa a una neuropatia autonomica, caratterizzata clinicamente da ipotensione ortostatica, oftalmoplegia intrinseca e disturbi sfinterici. Generalmente i sintomi neurologici precedono anche di anni la diagnosi del tumore, che nei due terzi dei casi è un microcitoma polmonare. I sintomi iniziali sono caratterizzati da disestesie, parestesie e incoordinazione motoria a inizio distale ai quattro arti. Nel liquor è presente pleiocitosi ed iperproteinorrachia. Le indagini neurofisiologiche evidenziano una notevole riduzione in ampiezza del potenziale d’azione sensitivo. Le alterazioni istologiche più precoci sono presenti nei gangli dorsali, in cui è evidenziabile perdita di neuroni e infiltrato linfocitario. Successivamente vengono coinvolte le radici dorsali, le colonne posteriori e i tronchi dei nervi periferici. Nel 65% dei casi sono presenti anticorpi anti Hu nel siero, il cui ruolo patogenetico è dubbio. Sia la plasmaferesi che la terapia immunosoppressiva si sono dimostrate poco efficaci.
6. Neuronopatia motoria subacuta Si tratta di una forma di atrofia muscolare spinale paraneoplastica, associata a linfomi e carcinomi. I pazienti sviluppano ipostenia progressiva agli arti inferiori, con amiotrofia e fascicolazioni e segni elettromiografici di denervazione. A differenza delle malattie del motoneurone, il quadro clinico spesso si stabilizza o talora migliora anche spontaneamente dopo mesi o anni e non porta a grave disabilità. Nel liquor è presente solo un lieve aumento delle proteine. Il quadro neuropatologico è caratterizzato da degenerazione dei neuroni delle corna anteriori e, talora, da focolai di demielinizzazione nelle colonne dorsali.
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7. Encefalomielite Generalmente è associata a microcitoma polmonare e alla presenza di anticorpi anti Hu. Il quadro istologico è caratterizzato da lesioni multifocali dell’encefalo e del midollo spinale, con rarefazione neuronale, gliosi, aree di necrosi e di infiltrazione linfocitaria perivasale. In alcuni casi viene interessato in maniera quasi esclusiva il tronco dell’encefalo (encefalite troncale), con frequente coinvolgimento dei nuclei dei nervi cranici. Il quadro clinico esordisce in modo subdolo, con diplopia, disfagia, disartria, vertigine, oscillopsia, ipoacusia. Talora sono presenti segni di interessamento dei gangli della base, con corea, distonia, bradicinesia e mioclono. 8. Mielite I quadri di mielite isolata, non necrotizzante, sono rari e spesso è difficile distinguerli dalle malattie del motoneurone, dalle sindromi compressive midollari o dalle mielopatie attiniche. Le neuroimmagini sono generalmente negative, anche se la risonanza può mostrare iperintensità in T2 e talora presa di contrasto. Il quadro neuropatologico è caratterizzato da rarefazione neuronale e infiltrato infiammatorio nelle corna anteriori e posteriori, con degenerazione secondaria delle radici e atrofia muscolare neurogena. Le mieliti paraneoplastiche in corso di microcitoma polmonare sono associate alla presenza di anticorpi anti Hu.
9. Neuropatia subacuta sensorimotoria La diagnosi di neuropatia subacuta sensorimotoria paraneoplastica presuppone l’esclusione di altre cause, quali deficit nutrizionali, esposizione a vincristina e cisplatino. Talora l’esordio della neuropatia precede anche di 5 anni la diagnosi del tumore. Il decorso clinico e l’evoluzione della neuropatia sono piuttosto rapidi e non è raro l’interessamento bulbare. Alcuni pazienti possono presentare un decorso a “ricadute e remissioni”, e in questi casi può essere difficile la diagnosi differenziale con una neuropatia infiammatoria cronica demielinizzante. L’esame elettrofisiologico mostra una sofferenza assonale, che peraltro è evidente anche nelle biopsie di nervo.
10. Sindrome miasteniforme di LambertEaton (LEMS) Circa il 60% dei pazienti con LEMS ha un microcitoma polmonare. Il quadro clinico esordisce con ipostenia e affaticabilità muscolari prossimali progressive. I riflessi osteotendinei sono diminuiti o assenti, ma possono ricomparire dopo lo sforzo fisico. Nel 50% dei casi si associa una disautonomia, con xerostomia e impotenza sessuale. La patogenesi è legata a una riduzione del rilascio presinaptico di acetilcolina. Nel 50% dei pazienti sono dimostrabili nel sangue autoanticorpi diretti contro i canali voltaggio dipendenti del terminale presinaptico. A differenza di altre sindromi paraneoplastiche, la LEMS risponde alla plasmaferesi e ai farmaci immunosoppressori. Altri trattamenti comprendono la guanidina cloridrato e la 4 aminopiridina. 11. Dermatomiosite-Polimiosite La forma paraneoplastica è simile a quella idiopatica e il quadro clinico è caratterizzato da ipostenia muscolare prossimale, incremento degli enzimi muscolari nel siero con evidenza di miopatia infiammatoria alla biopsia muscolare. Il trattamento con ciclosporina o corticosteroidi è di solito efficace. Le Immunoglobuline endovena sono state usate con discreto successo nei pazienti che non rispondono alle terapie immunosoppressive. 12. Neuromiotonia Il sintomo iniziale è costituito di solito da miochimie seguite da rigidità a riposo. Tale disturbo peggiora con l’attività e si associa a lentezza del rilasciamento dopo contrazione muscolare volontaria. Il quadro elettromiografico evidenzia una continua attività della fibra muscolare, con diffusa e protratta attività di unità motoria. In un caso di corea fibrillare di Morvan, caratterizzata da neuromiotonia, dolore, iperidrosi, perdita di peso, turbe del sonno e allucinazioni, sono stati riscontrati anticorpi anti canali del potassio voltaggio dipendente (Liguori et al., 2001).
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Manifestazioni neurologiche delle malattie endocrine Segni e sintomi neurologici sono frequentemente riscontrati nelle endocrinopatie e possono essere in rapporto ai disturbi ormonali, ad alterazioni elettrolitiche secondarie (ipo-iperparatiroidismo) e talora a fenomeni compressivi (interessamento del nervo frenico, sindrome di Claude Bernard-Horner) o di altra natura (pseudotumor cerebri nel corso di ipotiroismo). 1. Tiroide 1.1 IPERTIROIDISMO E TIREOTOSSICOSI I quadri neurologici presenti nei pazienti con ipertiroidismo comprendono: 1.1.1 Alterazioni mentali, dello stato di coscienza e crisi epilettiche Molti pazienti lamentano ansia, labilità emotiva, difficoltà di concentrazione, cefalea, insonnia. Nei pazienti con tireotossicosi si possono sviluppare psicosi floride, confusione agitata, acatisia, e alterazioni dello stato di coscienza. Circa il 10% dei pazienti ipertiroidei sviluppa una sindrome epilettica, con convulsioni generalizzate e l’elettroencefalogramma al di fuori delle crisi può mostrare un aumento delle attività rapide. Nei pazienti più anziani si possono osservare depressione, profonda apatia e stato letargico. La patogenesi dei disturbi psichici in corso di ipertiroidismo non è chiarita e non è giustificabile unicamente dalle coesistenti alterazioni sistemiche (febbre, diarrea, vomito iperpiressia, tachicardia, aritmie cardiache, disionie). 1.1.2 Disordini del movimento In alcuni ipertiroidei sono stati descritti movimenti involontari coreici o coreoatetosici, verosimilmente in relazione a un’aumentata sensibilità dei recettori beta adrenergici a livello dei gangli della base. Il movimento involon-
tario più comune è tuttavia il cosiddetto “tremore tireotossico”, che costituisce una “caricatura” del tremore fisiologico, con movimenti ritmici, regolari (8-10 Hz), di bassa ampiezza che coinvolgono le dita, le palpebre e la lingua, presenti a riposo e durante il movimento volontario. Da un punto di vista fisiopatologico, è presente coattivazione dei muscoli agonisti e antagonisti. 1.1.3 Alterazioni dei nervi cranici Molti dei segni caratteristici nell'ipertiroideo sono riconducibili a un’iperattività ortosimpatica: l’apertura della rima palpebrale (segno di Dalrymple), l’ammiccamento frequente (segno di Stellwag), il difetto di convergenza (segno di Moebius) e la ridotta contrazione del muscolo frontale nello sguardo verso l’alto (segno di Joffroy). Se è presente gozzo o una neoplasia tiroidea, si può sviluppare una compressione dei nervi laringei, con paralisi delle corde vocali e compromissione respiratoria. Una sindrome di Claude Bernard-Horner può risultare dalla compressione del simpatico cervicale. Nel Morbo di Graves, anche in caso di eutiroidismo, il tessuto orbitario è edematoso e infiltrato di linfociti e plasmacellule. La patogenesi non è chiara e ancora discusso è il ruolo degli anticorpi anti tiroide. Oltre alla congestione orbitaria e all’esoftalmo, i pazienti presentano iperemia congiuntivale, chemosi ed edema palpebrale. La muscolatura extraoculare appare ingrossata ed edematosa, con un importante infiltrato linfocitario e conseguente diplopia, di solito verticale, fino a vere e proprie oftalmoplegie. Il trattamento con corticosteroidi è indicato quando la proptosi oculare si associa a importanti disturbi della motilità oculare. In alcuni pazienti (8% dei casi) con importante oftalmopatia distiroidea si può sviluppare una neuropatia ottica, le cui manifestazioni di esordio sono generalmente costitute da disturbi nella visione dei colori, difetti campimetrici e alterazioni dei potenziali evocati visivi. La patogenesi è legata a feno-
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meni compressivi da parte della muscolatura oculare ipertrofica. In questi casi sono state descritte buone risposte all’impiego combinato di cortisone e ciclosporina o alla radioterapia. 1.1.4 Sindromi miasteniche e miopatie In corso di tireotossicosi si possono osservare sindromi miasteniche. In questi casi può risultare difficile distinguere l’ipostenia della muscolatura extraoculare di natura miastenica dall’oftalmopatia distiroidea, e spesso il test al tensilon non è dirimente, dal momento che la risposta agli anticolinesterasici può essere presente anche in alcune forme di oftalmopatia Basedowiana. Il trattamento della patologia tiroidea di solito non influenza il decorso della sindrome miastenica. Nei pazienti ipertiroidei sono molto frequenti i segni e i sintomi di miopatia, la cui gravità clinica non correla con quella del disturbo endocrino. La miopatia ha carattere lentamente progressivo, interessa prevalentemente i distretti prossimali in modo simmetrico (tipicamente il cingolo scapolare e pelvico) e si associa a una importante amiotrofia. Gli enzimi muscolari non sono generalmente aumentati. Il quadro elettromiografico non è specifico, ed è caratterizzato dalla presenza di potenziali polifasici di bassa ampiezza. La biopsia muscolare, talora normale, può presentare alterazioni aspecifiche quali atrofia, fibre di differenti dimensioni e fenomeni necrotici. L’ipertiroidismo può essere inoltre associato a forme di paralisi periodica ipopotassiemica. 1.2 IPOTIROIDISMO I pazienti ipotiroidei lamentano spesso cefalea, difficoltà di concentrazione, diminuzione dell’attenzione e della memoria, sonnolenza. Di frequente riscontro è un deterioramento cognitivo progressivo, con profonda sonnolenza, abulia, rallentamento dell’eloquio e del corso del pensiero. Si tratta di forme di demenza reversibile dopo terapia ormonale. Quadri psicotici con
irritabilità, sospettosità, allucinazioni e confusione agitata sono stati descritti nei casi di grave mixedema. Il trattamento sostitutivo con ormone tiroideo determina di solito una pronta regressione della psicosi. Nei pazienti con mixedema, spesso in relazione alle concomitanti alterazioni metaboliche ed elettrolitiche, le crisi epilettiche sono particolarmente frequenti e nel 20% dei casi costituiscono la prima manifestazione clinica del disturbo endocrino. Un incremento delle proteine liquorali e alcuni rari casi di pseudotumor cerebri sono stati descritti in pazienti ipotiroidei, le cause tuttavia non sono conosciute. In una percentuale variabile dal 5 al 10% dei casi sono stati descritti disturbi cerebellari con atassia e impaccio motorio. In questi casi le indagini neuropatologiche hanno evidenziato una perdita cellulare a livello vermiano anteriore. L’interessamento dei nervi cranici da parte del tessuto mixedematoso è raro, anche se frequentemente i pazienti lamentano ipoacusia e tinnito. Molto rari sono l’atrofia ottica o le paralisi facciali. Una frequente complicanza dell’ipotiroidismo è costituita dalle miopatie prossimali, con quadro elettromiografico e istologico aspecifico. L’incremento degli enzimi muscolari nel sangue è un reperto piuttosto frequente anche in assenza di chiari segni clinici di miopatia ed è legato a un rallentamento nel turnover enzimatico. Talvolta i pazienti lamentano difficoltà nel rilasciare la presa, con peggioramento dopo ripetute contrazioni muscolari, crampi e dolori. In questi casi, la percussione del muscolo determina un caratteristico rigonfiamento locale (mioedema). Sindromi miasteniche o rari casi di pseudomiastenia, con risposta variabile agli anticolinesterasici, sono stati descritti in pazienti con mixedema. A causa della deposizione di materiale mucoide negli spazi endo e perineurali, si possono osservare neuropatie periferiche e frequentemente i pazienti ipotiroidei hanno sindromi neuropatiche
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compressive. Una sindrome del tunnel carpale è presente nel 30% dei casi. Anche in assenza di evidenze elettrofisiologiche di neuropatia, i pazienti ipotiroidei presentano un’alterazione dei riflessi profondi, che appaiono caratterizzati da allungamento dei tempi di contrazione e rilassamento. Tale segno è legato verosimilmente a un disordine delle proprietà visco-elastiche del muscolo e non riflette un’alterazione dell’arco riflesso.
quali emianopsie bitemporali o quadrantopsie superiori bitemporali. 3.2 IPERALDOSTERONISMO Le manifestazioni neurologiche sono in relazione all’ipertensione arteriosa, all’ipopotassiemia e all’alcalosi. 3.3 FEOCROMOCITOMA
2. Paratiroidi Le complicanze neurologiche delle patologie paratiroidee sono generalmente legate alle alterazioni della calcemia e della fosforemia. Nell’iperparatiroidismo primario, si possono osservare astenia e fatica, difficoltà mnesiche, irritabiltà e depressione. In alcuni pazienti sono state descritte miopatie a esordio prossimale agli arti inferiori con quadri elettromiografici aspecifici. Alcuni pazienti sviluppano i segni e i sintomi dell’ipertensione endocranica. Tali quadri di pseudotumor cerebri si risolvono con il trattamento dell’ipocalcemia. La tetania e l’aumentata eccitabilità neuromuscolare sono sempre in relazione all’ipocalcemia. 3. Ghiandole surrenali 3.1 SINDROME DI CUSHING Le complicanze neurologiche più comuni sono costitute da miopatie e da disturbi psichiatrici quali labilità emotiva, ipomania, euforia, agitazione psicomotoria. Sintomi quali debolezza muscolare e fatica sono molto comuni (90% dei casi), i distretti più frequentemente interessati sono il cingolo scapolare e pelvico. Il quadro elettromiografico è aspecifico e la biopsia muscolare può risultare normale, anche se spesso sono evidenti necrosi e talora, alla microscopia elettronica, alterazioni mitocondriali. Sono stati descritti anche casi di sindrome di GuillainBarrè. Negli adenomi ipofisari di discrete dimensioni sono frequenti disturbi campimetrici,
Nel 90% dei casi è presente una grave ipertensione arteriosa, talora a carattere parossistico. La cefalea è pertanto molto comune, tuttavia non sono rari i casi di encefalopatia ipertensiva o di emorragia intracranica. Nel 5% dei casi sono state descritte crisi epilettiche. In relazione all’elevato livello di catecolamine circolanti, si può osservare tremore, posturale e cinetico, ad alta frequenza (7-12 Hz). Sono state riportate associazioni tra questi tumori e la malattia di Von Recklinghausen (nell’1% dei casi) e la malattia di Von Hippen Lindau. 3.4 MORBO DI ADDISON Apatia, depressione, sonnolenza, fatica, difficoltà di concentrazione e attenzione sono sintomi comuni nei pazienti con insufficienza corticosurrenalica cronica. In alcuni casi è stato descritto un progressivo declino della memoria e delle funzioni cognitive. In alcuni pazienti si può sviluppare un’encefalopatia, verosimilmente legata all’ipoglicemia, all’ipossia o all’iperpotassiemia. Complicanze rare sono le sindromi epilettiche, l’ipertensione endocranica benigna, la sindrome di Guillain-Barrè e le miopatie.
Complicanze neurologiche delle malattie del connettivo e delle vasculiti Sintomi e segni neuropsichiatrici, di variabile entità clinica, sono comuni in corso di malattie
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sistemiche autoimmuni e infiammatorie. Molti sintomi neurologici lamentati dai pazienti con malattie reumatiche possono avere diverse basi fisiopatologiche: per esempio la cefalea è un sintomo comune e può essere dovuta all’infiammazione meningea nella sindrome di Behvet o nella malattia di Lyme, oppure ad alterazioni strutturali del rachide cervicale nella spondilite anchilosante o nell’artrite reumatoide. I disturbi neurologici, prevalenti in alcuni disordini, possono occasionalmente precedere lo sviluppo dei segni e sintomi propri della malattia di base. 1. Lupus Eritematoso Sistemico (LES) È una malattia reumatica infiammatoria cronica dei connettivi, a eziologia ancora sconosciuta e patogenesi autoimmunitaria. Nel LES le manifestazioni neurologiche sono frequenti e si possono presentare in qualsiasi fase, anche se di solito sono di comune riscontro nelle fasi precoci e talora ne costituiscono l’esordio clinico. L’impegno del sistema nervoso può essere primitivo, cioè provocato direttamente dai fattori eziopatogenetici propri della malattia (immunocomplessi, autoanticorpi, vasculopatia) oppure secondario all’interessamento di altri organi o apparati, responsabili a loro volta di sindromi sistemiche (uremia, ipertensione) o infine in relazione alle infezioni e agli effetti indesiderati delle terapie. La cefalea è un sintomo comune e spesso ha le caratteristiche di un’emicrania classica. La presenza di cefalea può tuttavia essere in rapporto a una meningite asettica o preannunciare eventi cerebrovascolari. La cefalea e il papilledema, indicativi di pseudotumor cerebri, sono di frequente riscontro in questi pazienti. La meningite asettica è una complicanza piuttosto rara che, talora, può avere decorso cronico ricorrente. In presenza di febbre, cefalea e rigidità nucale è necessario escludere cause infettive o iatrogene. Tra i farmaci comunemente utilizzati nella terapia del LES, quelli più spes-
so responsabili sono l’Ibuprofen, l’azatioprina e il trimetoprim. Le crisi epilettiche sono frequenti (15-30%), e possono essere sia di tipo parziale che generalizzato. Di solito compaiono nelle fasi terminali e hanno pertanto significato prognostico sfavorevole. Spesso le crisi epilettiche si associano alla presenza di anticorpi antifosfolipidi o anticorpi anti strutture neuronali. Il trattamento viene di solito effettuato con i farmaci antiepilettici convenzionali, tuttavia, se sono presenti segni clinici e laboratoristici di attività di malattia, possono essere indicati steroidi e farmaci anti-infiammatori non steroidei. Da ricordare che la dintoina, la carbamazepina e il primidone possono essere responsabili di un sindrome lupica iatrogena. Le manifestazioni neuropsichiatriche sono frequenti (40-50% dei casi) e presentano un ampio spettro di espressione clinica, dalle psicosi floride a quadri di demenza e alterazioni dello stato di coscienza. Sindromi schizofreniformi sono frequenti, ma sono stati descritti anche quadri maniacali, paranoici, catatonici. Va sottolineato che spesso è difficile capire se tali manifestazioni sono la conseguenza diretta dell’utilizzo di steroidi. Molti pazienti con manifestazioni psicotiche presentano elevati livelli di anticorpi anti proteina P ribosomiale. Tra i disturbi del movimento, ricordiamo i movimenti coreici (presenti nell’1%), unilaterali o generalizzati, spesso associati a segni focali e declino mentale. La patogenesi non è ancora chiara, anche se di solito sono dimostrabili microinfarti nella testa del caudato e non è chiaro se la presenza degli anticorpi antifosfolipidi possa avere un ruolo patogenetico. Più rari sono l’emiballismo, il tremore, il blefarospasmo. Gli eventi cerebrovascolari, generalmente ischemici, sono presenti nel 5-16% dei casi e riconoscono molteplici meccanismi patogenetici, tra cui ricordiamo: gli anticorpi antifosfolipidi, l’embolia cardiogena, l’occlusione o la stenosi dei grossi vasi, la vasculite dei piccoli vasi intracranici, la porpora trombotica trombo-
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citopenica. I pazienti con LES a rischio cerebrovascolare sono candidati alla terapia anticoagulante cronica, soprattutto se sono presenti cardiopatia o anticorpi antifosfolipidi. Le emorragie intracraniche sono meno frequenti, e sono legate soprattutto all’ipertensione arteriosa, alla trombocitopenia e alla vasculite cerebrale. Nell’1-3% dei casi si possono avere trombosi venose cerebrali. Le neuropatie craniche sono di frequente riscontro. Il settimo nervo cranico è il più comunemente interessato (5% dei casi). Una neuropatia ottica è presente nell’1% dei casi, generalmente è su base ischemica o demielinizzante. Sono stati descritti casi di neuromielite ottica, con discreta risposta alla ciclofosfamide. L’interessamento dei nervi periferici è presente in una percentuale variabile (5-27%) dei casi. I quadri più comuni sono la neuropatia subacuta sensitiva o sensitivomotoria, la sindrome di Guillain-Barrè, le mononeuriti multiple e le neuropatie autonomiche. Mielopatie sono state descritte nell’1% dei casi, di solito su base ischemica, anche se possono dipendere da emorragie epidurali, sublussazioni atloassiali e cause infettive. Miopatie infiammatorie, spesso con il quadro istologico della polimiosite, sono di comune riscontro. È stata descritta inoltre un’associazione tra LES e miastenia gravis.
esercitata dall’infiltrato infiammatorio e dall’edema sui nervi, nei punti in cui essi sono contenuti in strutture inestensibili. La sindrome del tunnel carpale, spesso bilaterale, è presente nel 50% dei casi. Anche le mielopatie cervicali riconoscono di solito una genesi compressiva, ad opera delle prime vertebre cervicali sublussate. La neuropatia sensitiva distale ha inizio generalmente agli arti inferiori, ha un decorso lento e scarsamente evolutivo ed è dovuta alla vasculite dei vasa nervorum. La mononeurite multipla, decisamente più rara, è sostenuta da una vasculite a carattere necrotizzante e comporta una prognosi severa. Del tutto eccezionale è l’interessamento su base vasculitica dell’encefalo.
2. Artrite Reumatoide
4. Sclerosi Sistemica Progressiva
È una malattia infiammatoria cronica che colpisce prevalentemente le articolazioni diartrodiali, anche se potenzialmente può coinvolgere ogni distretto dell’organismo. Le complicanze neurologiche sono dovute in parte alla vasculite associata e in parte al danno meccanico articolare. I disturbi più frequenti sono a carico del sistema nervoso periferico e in particolare sono comuni le sindromi da intrappolamento e la neuropatia sensitiva distale, più rara è la mononeurite multipla. Le sindromi da intrappolamento sono dovute alla pressione
3. Spondilite Anchilosante La malattia colpisce elettivamente lo scheletro assiale, determinando una progressiva e diffusa rigidità, esito di un processo infiammatorio cronico del connettivo fibroso e dell’osso, nelle sedi di inserzione di tendini e legamenti. Le più comuni complicazioni neurologiche sono dovute al danno meccanico e comprendono radicolopatie e mielopatie da compressione. Le mielopatie conseguono a un’instabilità atlanto-assiale e talora alla sublussazione delle vertebre cervicali. Raramente è stata descritta una sindrome della cauda equina, soprattutto in pazienti con lunga storia di malattia, legata a un processo infiammatorio cronico delle meningi con importante fibrosi.
L'eziologia è sconosciuta. È caratterizzata dalla sclerosi tissutale diffusa e da danno endoteliale dei microvasi. Le complicanze neurologiche più comuni sono le neuropatie periferiche e craniche, la miopatia e la cefalea. La cefalea ha di solito le caratteristiche dell’emicrania classica e talora costituisce il sintomo di esordio insieme al fenomeno di Raynaud. I pazienti con importante danno renale e cardiaco sono particolarmente a rischio per le complicanze cerebrovascolari legate all’ipertensione arteriosa. I nervi cranici più frequentemente interessati sono il quinto, il settimo, il nono, l’ottavo, il quarto e il dodicesimo. La neuropatia del trigemino, che talora si presenta all’esordio, è di solito sensitiva e colpisce il 4% dei pazienti e nel 63% dei casi è bilaterale. Sono
Complicanze neurologiche delle malattie internistiche 1697 generalmente colpite la seconda e la terza branca. Le neuropatie periferiche sono rare, anche se le alterazioni elettrofisiologiche sarebbero presenti nel 16% dei pazienti asintomatici. Il quadro più comune è rappresentato da una neuropatia assonale distale simmetrica sensorimotoria. Tra le mononeuropatie non craniali, la più frequente è l’intrappolamento del nervo mediano nel tunnel carpale. Eccezionalmente rare sono le mononeuriti multiple. L’interessamento muscolare può manifestarsi con segni clinici e istologici della polimiosite, ma di solito si osservano forme di miopatia relativamente benigne, con elettivo interessamento del cingolo scapolare. La biopsia muscolare mostra fibrosi, alterazione del diametro delle fibre, in assenza di infiammazione.
Le miopatie, presenti nel 30 % dei casi, hanno decorso generalmente benigno e non si associano a importante incremento degli enzimi muscolari nel sangue. Molto spesso la SS si associa a polimiosite e dermatomiosite. Complicanze a carico del sistema nervoso centrale sono rare e comprendono cefalea, meningiti asettiche, disturbi psichiatrici e segni di sofferenza focale encefalica. La risonanza magnetica encefalica può evidenziare la presenza di multiple aree sottocorticali di piccole dimensioni, iperintense nelle immagini pesate in T2.
5. Sindrome di Sjogren (SS)
6. Poliarterite Nodosa
È una malattia infiammatoria cronica a patogenesi autoimmune, caratterizzata da xeroftalmia e xerostomia (sindrome sicca). Nelle forme secondarie, che costituiscono il 60% dei casi, la sindrome sicca è associata ad altre malattie autoimmuni. Le manifestazioni extraghiandolari, conseguenti all’estensione della flogosi linfoproliferativa agli altri distretti, sono frequenti nei pazienti con forma primaria (25% dei casi). Le complicanze neurologiche più comuni sono rappresentate da neuropatie periferiche e craniche e da miositi. Il nervo cranico più frequentemente colpito è il quinto. La neuropatia del trigemino è tipicamente solo sensitiva e talora può associarsi ad una neuropatia periferica. I sintomi di interessamento del sistema nervoso periferico possono costituire l’esordio della SS. Il quadro clinico più comune è quello della neuropatia sensitivomotoria simmetrica agli arti inferiori, a lenta evoluzione clinica. Nel 20% dei pazienti con neuropatia cronica assonale in assenza di segni clinici di sindrome sicca, la biopsia delle ghiandole salivari mostra un infiltrato linfoplasmacitario tipico. Alla biopsia del nervo surale si osserva un quadro di sofferenza assonale e scarsa demielinizzazione, talora sono evidenti infiltrati infiammatori attorno ai piccoli vasi epineurali. Più rare sono le forme autonomiche e le multineuropatie.
Si tratta di una malattia sistemica che colpisce soprattutto le arterie di medio calibro, con manifestazioni cliniche polimorfe dovute all’occlusione più o meno completa dei vasi o a emorragie. La parete arteriosa mostra edema, necrosi fibrinoide e ialinizzazione della media, marcata infiltrazione leucocitaria periavventiziale, proliferazione dell’intima, seguita da obliterazione del lume o raramente dilatazioni aneurismatiche. Le neuropatie periferiche costituiscono sia la manifestazione neurologica più frequente (presenti nel 50-75% dei pazienti) sia il quadro clinico più precoce. Generalmente si tratta di multineuropatie. Il nervo peroneo comune è di solito interessato. L’istologia mostra una vasculite dei vasa nervorum e degenerazione assonale con interessamento asimmetrico dei fascicoli. L’infiltrato cellulare è costituto principalmente da macrofagi e cellule CD4+, con iperespressione di antigeni MHC di classe II. L’interessamento del sistema nervoso centrale, presente nel 40% dei casi, è di solito tardivo, eccetto che per le crisi epilettiche e le emorragie subaracnoidee che possono comparire precocemente. Sono state descritte encefalopatie, ictus e neuropatie craniche.
7. Sindrome di Churg -Strauss È una forma di vasculite sistemica, simile alla poliarterite nodosa, ma caratterizzata da un’infiltrazione tissutale di eosinofili. Il processo vasculitico si estende alle venule ed ai capillari ed interessa prevalentemente il polmone. Un quadro multineuropatico si verifica nel 66% dei pazienti e compare in media 7 anni dopo l’inizio dei disturbi polmonari. Sono state riportate anche complicanze a carico del sistema nervoso centrale, sotto forma di sindromi psico-organiche, encefalopatie respiratorie, vasculopatie cerebrali sia ischemiche che emorragiche.
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8. Granulomatosi di Wegener È caratterizzata da lesioni granulomatose delle vie aeree superiori e inferiori, glomerulonefrite e vasculite necrotizzante disseminata. Le complicanze neurologiche, presenti in percentuale variabile dal 22 al 54% dei casi, risultano dall’estensione del processo granulomatoso dalle cavità nasali e paranasali all’orbita e all’osso temporale, cui può conseguire una compromissione dei muscoli extraoculari, del nervo ottico, dei nervi oculomotori, dell’orecchio medio, del settimo e ottavo nervo cranico. La vasculite necrotizzante è tuttavia la principale causa di complicanze neurologiche, quali lesioni cerebrali emorragiche intraparenchimali e subaracnoidee e trombosi dei seni durali. In alcuni casi sono state descritte polineuropatie o multineuropatie. 9. Arterite Temporale (a cellule giganti) Colpisce soggetti di età adulta-anziana, più spesso le donne e nell’80% si associa a polimialgia reumatica. Si tratta di una vasculite generalizzata, con flogosi della tunica media e iperplasia intimale, spesso con cellule giganti. Il coinvolgimento delle arterie carotidi e vertebrali è responsabile di fenomeni ischemici, soprattutto nel territorio vertebrobasilare. La cecità, che si verifica nel 50% dei casi, è dovuta all’occlusione dell’arteria centrale della retina. In questi casi è utile la terapia cortisonica, che, secondo alcuni autori, dovrebbe essere continuata per almeno un anno, date le possibili ricadute. La diagnosi si avvale dei dati clinici e laboratoristici, di cui il più importante è l’incremento della VES; la biopsia dell’arteria temporale può talora risultare normale. 10. Vasculiti isolate del sistema nervoso centrale Si tratta di forme di vasculite granulomatosa idiopatica, con interessamento dei piccoli vasi a sede durale. Le
manifestazioni cliniche sono proteiformi, anche se i quadri più comuni sono l’encefalopatia multifocale, gli eventi cerebrovascolari, le crisi epilettiche e le sindromi cefalagiche. A livello sistemico sono assenti segni laboratoristici di flogosi. In alcuni pazienti sono stati riscontrati vasculite retinica ed uveite. Le neuroimmagini non dimostrano alterazioni peculiari. Nel 50% dei casi il liquor mostra una lieve pleiocitosi. L’angiografia e la biopsia rimangono pertanto le indagini diagnostiche più sensibili. La terapia con ciclofosfamide e prednisone ha prodotto in molti casi significativo beneficio.
11. Sarcoidosi È una granulomatosi multi-sistemica a patogenesi immunitaria, caratterizzata dalla formazione di granulomi costituiti da cellule epitelioidi, cellule giganti e linfociti. Il quadro clinico è caratterizzato da linfoadenoaptia ilare, infiltrati polmonari, cutanei e lesioni oculari. L’interessamento del sistema nervoso centrale e periferico, legato alla diffusione dei granulomi a livello parenchimale, leptomeningeo e vasale, è presente in una percentuale variabile, dall’1 al 16% dei pazienti. La manifestazione neurologica più comune è la meningite asettica cronica granulomatosa della base. L’idrocefalo ostruttivo può conseguire all’invasione granulomatosa dei ventricoli o dei forami del quarto ventricolo. Molti pazienti presentano segni di disfunzione ipotalamica, con alterazioni del senso della sete, sindrome da inappropriata secrezione di ADH. Anche in questo caso la patogenesi è legata alla diffusione del processo granulomatoso. Le crisi epilettiche sono relativamente frequenti (18-22% dei casi) e sono dovute all’invasione granulomatosa del parenchima cerebrale. Sono state descritte inoltre encefalopatie multifocali con demenza. I nervi cranici sono comunemente coinvolti, soprattutto il settimo, che spesso è interessato bilateralmente. Le neuropatie periferiche, a carattere assonale e demielinizzante, sono causate da granulomi a sede epi- perineurale e dalla vasculite granulomatosa dei vasa nervorum. Le miopatie presenti nei pazienti con sarcoidosi hanno caratteristiche cliniche aspecifiche.
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La presenza di granulomi a sede muscolare è un reperto autoptico piuttosto comune, mentre la manifestazione clinica della miopatia è abbastanza rara. 12. Malattia di Behçet Si tratta di una malattia di origine non conosciuta, caratterizzata da uveite, ulcere orali e genitali. Meningiti asettiche e menigoencefaliti sono descritte nel 20% dei casi. L’interessamento dei nervi periferici è raro, usualmente sotto forma di polineuropatia o multineuropatia.
Complicanze neurologiche della sepsi Sepsi e SIRS (Systemic Inflammatory response syndrome) Le manifestazioni sistemiche delle infezioni vengono indicate come sepsi. Il termine SIRS enfatizza il fatto che la sepsi è un esempio di risposta infiammatoria, che può essere scatenata anche da processi non infettivi (traumi, ustioni, pancreatiti). Legate alla sepsi si possono osservare sia encefalopatie che neuropatie e miopatie (Bolton et al., 1993). La diagnosi di encefalopatia da sepsi è una diagnosi di esclusione e nei pazienti “critici” devono essere escluse le più comuni cause, quali meningiti, ascessi. L’encefalopatia si manifesta generalmente entro due settimane dal ricovero in unità di terapia intensiva, è reversibile e precede la comparsa di segni di sofferenza neuromuscolare. La neuropatia è prevalentemente assonale, ha un decorso più prolungato rispetto ai disturbi mentali ed è spesso caratterizzata da difficoltà nello svezzamento dalla respirazione assistita. Negli anni ‘90 è stato dimostrato che la sepsi rientra tra i fattori predisponenti, oltre ai curari e agli steroidi, anche della miopatia da rianimazione. Attualmente quest’ultima rappresenta la causa più frequente di valutazione neurofisiologica in terapia intensiva (Lacomis et al.,
1998). La risposta infiammatoria sistemica può culminare nella insufficienza multiorganica (MOF multi organ failure) e causare danni a carico di diversi organi, con molteplici meccanismi patogenetici (alterazioni microvascolari e della barriera ematoencefalica, liberazione di sostanze tossiche e malnutrizione, produzione di radicali liberi e formazione di microascessi). L’insufficienza epatica e renale possono a loro volta causare segni di sofferenza cerebrale diffusa; questi meccanismi non spiegano tuttavia l’encefalopatia precoce osservata in corso di sepsi.
Complicanze neurologiche della gravidanza Le modificazioni fisiologiche (ormonali, circolatorie, respiratorie, fisiche) o patologiche associate alla gravidanza possono causare complicanze neurologiche oppure precipitare o aggravare affezioni preesistenti. La neurologia della gravidanza comprende pertanto sia casi che sviluppano disturbi neurologici durante la gestazione (sindrome del tunnel carpale, corea), sia quelli in cui le manifestazioni neurologiche sono legate ad affezioni proprie della gravidanza (eclampsia). Talora disturbi neurologici preesistenti possono assumere un differente andamento clinico proprio durante questo periodo (sclerosi multipla, miastenia gravis). 1. Eclampsia La pre-eclampsia, che complica il 10% delle gravidanze, è caratterizzata da ipertensione, edema e proteinuria. Il quadro può aggravarsi con un ulteriore rialzo della pressione arteriosa, aumento dell’edema e della proteinuria, oliguria, cefalea, disturbi visivi, fino alla comparsa di alterazioni dello stato di coscienza e di crisi tonico cloniche generalizzate, che configurano l’eclampsia vera e propria. L’ipertensione gravidica si sviluppa in genere alla 20a settimana di gestazione in donne precedentemente nor-
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motese e tende a risolversi nei tre mesi successivi al parto. Nella pre-eclampsia e nell’eclampsia si possono verificare disturbi visivi, legati a spasmo arteriolare, ischemia retinica, edema della papilla o cecità corticale. Le crisi convulsive possono manifestarsi anche in assenza dei segni prodromici della pre-eclampsia. La comparsa delle crisi convulsive avviene generalmente al termine del terzo trimestre, tuttavia esse si possono manifestare anche durante il parto o entro 24 ore da questo e più raramente nelle prime due settimane di puepuerio. Talora le crisi possono diventare subentranti, sfociando in uno stato di male. La patogenesi delle crisi convulsive non è del tutto chiarita. Diversi meccanismi sarebbero implicati (emorragia cerebrale, encefalopatia ipertensiva, edema cerebrale, vasospasmo). In corso di eclampsia si possono osservare eventi cerebrovascolari, di cui il più frequente è l’emorragia cerebrale o subaracnoidea, che costituisce la principale causa di morte. La Risonanza Magnetica Encefalica mostra lesioni iperintense in T2 nella sostanza bianca biemisferica, particolarmente a livello occipitoparietale. Talora, le lesioni assumono contrasto nelle sequenze pesate in T1. La Risonanza Magnetica pesata per la diffusione può essere utile nel distinguere l’edema vasogenico da quello citotossico con importanti ripercussioni sul piano terapeutico, in analogia a quanto osservato nella leucoencefalopatia posteriore reversibile (Hinchey et al., 1996). Il quadro neuropatologico è caratterizzato da necrosi fibrinoide dei piccoli vasi, trombosi capillare, emorragie perivasali, emorragia subaracnoidea o intraparenchimale spesso petecchiale a sede corticale, edema cerebrale. 2. Eventi cerebrovascolari Durante la gravidanza e il puerpuerio, il rischio di eventi cerebrovascolari è aumentato di 13 volte. Nel 70% dei casi si tratta di eventi cerebrovascolari ischemici, dovuti a occlusione
arteriosa (trombosi o embolia), che si verificano più frequentemente nel secondo e terzo trimestre di gravidanza o nelle prime due settimane dopo il parto. L’embolia può essere cardiogena o paradossa da tromboflebite pelvica o degli arti inferiori. Più raramente possono essere responsabili arteriti, dissezione spontanea della carotide interna durante il travaglio e fattori emodinamici. Nella seconda e terza settimana di puerpuerio si possono verificare trombosi venose cerebrali, che interessano di solito il seno longitudinale superiore e le vene corticali. La patogenesi è legata a uno stato di ipercoagulabilità, dovuto a piastrinosi, incremento dei fattori V, VII, VIII della coagulazione e del fibrinogeno. Le emorragie intracraniche, conseguenti a rottura di aneurisma o malformazione arterovenosa, si verificano con frequenze variabili tra lo 0,01 e lo 0,03% di tutte le gravidanze. 3. Neuropatie Durante la gravidanza, in relazione a fattori meccanici e alla ritenzione idrica, si possono osservare frequentemente neuropatie da compressione o intrappolamento, fra cui la sindrome del tunnel carpale, le radicolopatie lombosacrali, la meralgia parestesica da comprensione del nervo cutaneo femorale. Il plesso lombosacrale può risultare compresso a seguito di viziature pelviche, macrosomia fetale. Durante la gravidanza sono state descritte anche paralisi ascendenti tipo sindrome di Guillain-Barrè e paralisi periferiche del nervo facciale. 4. Tumori Durante la gravidanza, donne affette da emangiomi spinali, meningiomi, neurinomi dell’acustico, possono presentare un andamento peggiorativo della sintomatologia, in relazione a un aumento volumetrico del tumore dovuto a influenze ormonali. Il coriocarcinoma è associato comunemente a metastasi cerebrali, che di
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solito si presentano con il quadro di un sanguinamento intraparenchiamle. 5. Disordini del movimento 5.1 COREA GRAVIDARUM Si tratta di un evento raro, che di solito colpisce giovani primipare nel primo trimestre di gravidanza e si risolve dopo il parto. Generalmente è presente una storia di corea di Sydenham. La patogenesi sarebbe legata a un’aumentata sensibilità dei recettori dopaminergici dello striato, indotta dagli ormoni sessuali. Nei casi più gravi può essere utile il trattamento con neurolettici. 5.2 SINDROME DELLE GAMBE SENZA RIPOSO È il più comune tra i disordini del movimento che possono insorgere durante la gravidanza, compare nel 20% delle gravidanze e generalmente si associa a deficit di folati. Se la somministrazione di folati non è sufficiente a controllare il disturbo, si possono utilizzare basse dosi di levodopa. 6. Epilessia Circa la metà delle epilettiche in gravidanza non mostrano modificazioni della fequenza delle crisi; nel 40% si ha un aumento e nel 10% una riduzione. La causa principale dell’aumento delle crisi è la modificazione dei livelli plasmatici dei farmaci antiepilettici in relazione all’aumentato metabolismo, al ridotto assorbimento, all’aumentato volume di distribuzione corporea o alla sospensione della terapia per timore di possibili effetti teratogeni. L’epilessia materna comporta un incremento del rischio di malformazioni fetali, soprattutto nelle pazienti in politerapia. Il rischio di spina bifida è dell’1% nelle donne che assumono carbamazepina e del 2% in quelle che assumono valproato. La somministrazione di folati
comporta una riduzione di tale rischio. La comparsa di crisi convulsive tonico-cloniche generalizzate può provocare nel feto una prolungata bradicardia, e, nei casi gravi, emorragia cerebrale. Lamotrigina e gabapentin si sono dimostrati non teratogeni negli studi condotti sull’animale; tuttavia non sono al momento disponibili studi clinici. 7. Sclerosi Multipla Numerosi studi hanno dimostrato che il rischio di ricadute o di progressione clinica durante la gravidanza non è aumentato, anzi l’incidenza di ricadute sarebbe diminuita , specialmente nell’ultimo trimestre. Nei primi 6 mesi successivi al parto, si possono invece osservare più frequentemente recidive o progressione di malattia. Tali effetti sono in relazione allo stato di relativa immunosoppressione che si verifica a seguito della produzione fetale e placentare di proteine quali AFP e HCG, dell’aumentato tasso cortisolemico, di progesterone ed estrogeni, e in relazione alla riduzione del numero delle cellule T helper nel sangue materno. Anche le neuroimmagini mostrano una riduzione dell’attività di malattia durante la gravidanza. 8. Miastenia gravis Di solito non si hanno modificazioni significative del quadro clinico. Nel 30% dei casi si può tuttavia osservare un miglioramento. Nelle settimane successive al parto sono stati osservati peggioramneti clinici.
Complicanze neurologiche dei trapianti Lo sviluppo dei trapianti d’organo e delle terapie immunosoppressive ha permesso il trattamento di molti pazienti in fase avanzata di malattia, con una sempre maggiore sopravvivenza,
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complicata tuttavia da frequenti problemi neurologici (30-60%) specie nei trapianti allogenici. Secondo lo schema di Patchell (1994) le complicanze neurologiche possono essere messe in rapporto alla terapia immunosoppressiva, ed in tal caso sono comuni a tutti i trapianti, oppure essere dovute alla malattia di base o alla tecnica operatoria, e quindi specifiche del singolo tipo di trapianto. Da ricordare, inoltre, che tali pazienti sono spesso in condizioni “critiche” (Wijdicks, 1995). 1. Complicanze neurologiche comuni a tutti i tipi di trapianto Tranne che nel trapianto autologo e in quello singenico, quasi sempre è richiesta una terapia immunosoppressiva cronica per prevenire il rigetto dell’organo trapiantato. I farmaci usati a tale scopo (ciclosporina, tacrolimus, OKT3, steroidi) possono avere un effetto neurotossico diretto, facilitare infezioni e lo sviluppo “de novo” di neoplasie. 1.1 EFFETTI COLLATERALI DELLA TERAPIA IMMUNOSOPPRESSIVA
1.1.1 Ciclosporina È il farmaco più usato sia per il mantenimento di una immunodepressione cronica, che per il trattamento del rigetto acuto; modula la funzione dei linfociti T e inibisce il rilascio di linfochine. I suoi più importanti effetti sistemici sono la tossicità a livello renale, epatico e l’ipertensione, che tendono a manifestarsi sin dalle prime settimane di trattamento. Il 15-40% dei pazienti trattati con ciclosporina presenta problemi neuropsichiatrici quanto mai vari e pur non essendoci una diretta correlazione con il livello plasmatico del farmaco, le complicanze neurologiche si verificano più frequentemente nei soggetti trattati con alte dosi. Sono a rischio di complicanze da ciclosporina, inoltre, i pazienti precedentemente sottoposti ad irradiazione cranica, terapia con antibiotici beta-lattamici
e con alte dosi di steroidi. Altri fattori di rischio sono : ipocolesterolemia, ipomagnesemia, uremia ed in particolare ipertensione arteriosa. Il tremore è il sintomo neurologico più frequentemente riscontrato e può essere causato da un’attivazione simpatica, da un’encefalopatia, ma anche da una sofferenza cerebellare. L’encefalopatia da ciclosporina è caratterizzata da tremore, disturbi motori (emiparesi, tetraparesi, paraparesi) cefalea, disartria, depressione e stati maniacali, mutismo, turbe della motilità oculare, allucinazioni visive, cecità corticale, atassia, crisi epilettiche e alterazioni dello stato di coscienza. Le indagini neuroradiologiche possono dimostrare un quadro di leucoencefalopatia, prevalentemente posteriore e talora reversibile (Hinchey et al., 1996). Nel trattamento è fondamentale la riduzione dei valori pressori, il controllo dei fattori di rischio e se possibile la riduzione del dosaggio o la sospensione della ciclosporina. Le crisi epilettiche possono essere un effetto diretto della tossicità da ciclosporina e usualmente si presentano all’inizio del trattamento; sono riportate nel 2-43% dei pazienti trapiantati sottoposti a terapia immunosoppressiva anche con altri farmaci, sono spesso occasionali e non richiedono una terapia specifica oltre al trattamento del fattore scatenante. Nel caso di crisi ripetute bisogna ricordare che i principali farmaci antiepilettici interferiscono con il metabolismo degli immunosoppressori a livello epatico, onde la necessità di aumentarne il dosaggio per mantenere un livello plasmatico soddisfacente. Nello stato di male epilettico le benzodiazepine sono i farmaci di prima scelta. Nella terapia a lungo termine è stato usato il sodio valproato e attualmente sembra promettente l’uso del gabapentin. Disturbi neuromuscolari nel periodo immediatamente successivo al trapianto sono raramente legati alla ciclosporina; si segnala tuttavia l’interazione tra il farmaco e alcune statine, per cui si può osservare un aumentata incidenza di mialgie, rabdomiolisi ed insufficienza renale.
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Un’atassia di tipo cerebellare è stata talora segnalata e può essere sia permanente che transitoria. Meno gravi sono le complicanze più tardive come la cefalea e l’insonnia per cui, oltre alla riduzione del dosaggio, deve essere considerato l’utilizzo di altri immunosoppressori. 1.1.2 Tacrolimus (FK 506) È un immunosoppressore, con meccanismo d’azione simile alla ciclosporina. Sebbene vi sia meno esperienza con tale farmaco, il profilo della sua tossicità appare più favorevole rispetto a quello della ciclosporina. Sono stati descritti tremore, ansia, fenomeno delle “gambe senza riposo”, insonnia, incubi, parestesie, cefalea, mutismo, allucinazioni visive, cecità corticale e crisi convulsive. Come nel caso della ciclosporina la maggior parte delle complicanze neurologiche regredisce completamente dopo la sospensione del trattamento. Una quota elevata di pazienti trapiantati sviluppa, de novo, cefalee durante il trattamento immunosoppressivo, specie durante la somministrazione parenterale dei farmaci. Oltre il 5% continua tuttavia a lamentare tale disturbo anche dopo il passaggio alla somministrazione orale. 1.1.3 OKT3 anticorpo monoclonale L’OKT3 è un anticorpo monoclonale che inattiva i linfociti CD3, causando anche la liberazione di citochine. Viene usato per il trattamento del rigetto acuto e per iniziare la terapia immunosoppressiva. La liberazione di citochine nelle 24 ore dopo l’inizio del trattamento è responsabile della maggior parte degli effetti sistemici (sindrome simil-influenzate) e neurologici (meningite asettica ed encefalopatia). La meningite asettica, caratterizzata da febbre, cefalea, rigidità nucale e pleiocitosi liquorale, interessa il 2-14% dei pazienti. La sintomatologia meningea tende a risolversi nel giro di pochi giorni: devono comunque essere escluse infezioni opportunistiche ed in particolare una meningite da criptococco.
Più raramente (1-10%) si sviluppa una encefalopatia fra il 1° e il 4° giorno dall’inizio del trattamento, caratterizzata da febbre, turbe psichiatriche, marcata sonnolenza, aumento del tono muscolare, mioclonie e crisi epilettiche. Le indagini neuroradiologiche mostrano un quadro di edema cerebrale. Sono segnalati anche casi di edema papillare bilaterale, di paralisi dell’abducente e calo visivo. Il quadro encefalopatico tende a risolversi nel giro di due settimane. Un effetto collaterale tardivo è lo sviluppo di una malattia linfoproliferativa, che sembra essere dose-dipendente. 1.1.4 Corticosteroidi Sono usati inizialmente ad alto dosaggio e quindi a dosi scalari, sia per l’immunosoppressione cronica che come farmaci antirigetto. Agiscono sia sulla immunità cellulare che umorale ed espongono ad infezioni opportunistiche. Le complicanze neurologiche della terapia steroidea cronica più frequenti sono i disturbi psicotici e la miopatia prossimale. Quando usati per via endovenosa, nella terapia antirigetto, possono incrementare il livello plasmatico della ciclosporina e facilitarne la neurotossicità. Più raramente è descritta una sindrome da compressione midollare secondaria ad una lipomatosi epidurale. 1.2 INFEZIONI DEL SISTEMA NERVOSO Le infezioni del sistema nervoso centrale si sviluppano nel 5-10% dei soggetti trapiantati ed hanno una prognosi sfavorevole, dato che in circa la metà dei casi risultano fatali. Oltre alla maggior frequenza rispetto all’interessamento della popolazione generale, presentano caratteristiche peculiari. In più dell’80% dei casi ne sono responsabili tre germi opportunistici come la Listeria monocytogenes, il Criptococco neoformans e l’Aspergillus fumigatus. Oltre all’immunodepressione, i soggetti trapiantati sono a rischio di infezione a seguito del posizionamento di cateteri, dell’intubazione endotra-
1704 Malattie del sistema nervoso
cheale e come conseguenza della patologia di base. La diagnosi è spesso tardiva dato che nel paziente immunodepresso i segni abituali del processo infettivo (febbre, reazione meningea) possono essere lievi o addirittura assenti e spesso non sono valorizzati per la concomitante presenza di molteplici fattori (rigetto, malfunzionamento dell’organo trapiantato, neurotossicità da farmaci). La comparsa di cefalea, febbre e di un deterioramento neurologico deve comunque fare sospettare una malattia infettiva. Possono risultare utili nell’identificazione dell’agente infettante i seguenti fattori: la presenza di infezioni a carico di altri organi ed apparati (lesioni cutanee in pazienti con meningite da Criptococco, infezioni dell’apparato respiratorio da Aspegillus fumigatus o Nocardiae), il quadro clinico e la latenza fra il trapianto e il peggioramento neurologico. La meningite acuta è nella maggioranza dei casi dovuta alla Listeria, mentre una meningite subacuta o cronica, specie se associata all’interessamento dei nervi cranici suggerisce una genesi tubercolare o fungina. Un’encefalite con segni di sofferenza multifocale, deterioramento mentale, disturbi visivi, atassia depone per una leucoencefalopatia multifocale progressiva dovuta al JC virus. In presenza di segni di sofferenza focale, nel paziente immunocompromesso, deve essere escluso un ascesso cerebrale, che nella maggior parte dei casi è dovuto ad infezioni da Aspergillus, Toxoplasma gondii, Listeria e Nocardia. Le differenti infezioni occorrono più frequentemente in tre diversi periodi, in rapporto allo stato di immunosoppressione: nel primo mese dopo il trapianto, periodo in cui sono tuttavia piu frequenti le complicanze su base tossicometabolica, le infezioni sono causate da riattivazione di microrganismi endogeni, onde l’importanza di riconoscerle e trattarle in via preventiva. Fra il primo e il sesto mese dopo il trapianto (il periodo più a rischio di complicanze infettive) sono particolarmente frequenti le infezioni virali, in particolare da Cytomegalovirus
e EBV (virus di Epstein-Barr) e quelle da germi opportunistici. Le infezioni tardive (dopo il 6° mese) sono generalmente legate al Criptococco e alla Listeria. 1.3 SINDROMI LINFOPROLIFERATIVE I soggetti trapiantati presentano una maggiore incidenza di neoplasie ed in particolare di sindromi linfoproliferative (dall’iperplasia linfatica policlonale benigna al linfoma nonHodgkin). Il sistema nervoso centrale è interessato nel 15-25% dei casi e nell’85% l’encefalo è l’unica sede di malattia. Le sindromi linfoprolifertive post-trapianto sono associate oltre che all’immunosoppressione alla presenza dell’EBV. I linfomi compaiono nella maggior parte dei casi fra il 1° e il 3° anno dopo il trapianto e costituiscono l’87% dei tumori cerebrali nei pazienti trapiantati. Clinicamente non vi sono differenze rispetto ai linfomi primitivi del sistema nervoso centrale, sono multicentrici nel 20-50% dei casi ed interessano le leptomeningi nel 25%. Alla risonanza magnetica encefalica, il linfoma si distingue dalle leucocefalopatia multifocale progressiva per la presenza di effetto massa e per la presa di contrasto. Per la diagnosi definitiva, è necessaria tuttavia la biopsia stereotassica della lesione. Il trattamento comprende l’uso di steroidi ad alto dosaggio per l’edema cerebrale, la riduzione della terapia immunosoppressiva e l’utilizzo di farmaci antivirali. In caso di mancato miglioramento può essere utilizzato l’interferone alfa per la sua azione antivirale ed antiproliferativa e, con estrema prudenza, la chemioterapia. 2. Complicanze neurologiche specifiche dei singoli trapianti Come già ricordato, queste complicanze possono essere legate a diversi fattori: malattie di base, tecnica operatoria, effetti collaterali dei farmaci immunodepressori.
Complicanze neurologiche delle malattie internistiche 1705
2.1 TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO Le complicanze neurologiche principali sono rappresentate da encefalopatie metaboliche, crisi epilettiche generalizzate e GVHD (“graft versus host disease”) a livello neromuscolare e possono essere differenziate in rapporto alla fase in cui insorgono. Nella fase di preparazione al trapianto, vengono riportate crisi epilettiche nel 3-10% dei casi e più raramente encefalopatie tossico-metaboliche in rapporto alla terapia con carmustina, busulfan, ifosfamide e mecloretamina. Il cisplatino ed il taxolo possono causare una neuropatia periferica, di tipo assonale, prevalentemente sensitiva, che può manifestarsi nel giro di settimane o mesi dopo il ciclo di chemioterapia. Alte dosi di citarabina causano invece una neuropatia prevalentemente demielinizzante, con importanti deficit motori associati talora a segni cerebellari. L’irradiazione corporea totale può provocare disturbi cognitivi a lungo termine, specie nei bambini, e la comparsa di neoplasie. Nei primi tre mesi dopo il trapianto le complicanze si verificano in rapporto alla pancitopenia, ai farmaci, alle condizioni critiche e alla reazione contro l’ospite (GVHD). Vengono riportate emorragie da piastrinopenia, infarti cerebrali su base embolica, anche da endocardite batterica, e leucoencefalopatie nei pazienti trattati con dosi elevate di metrotexate e sottoposti a radioterapia. La terapia con ciclosporina e tacrolimus, che viene iniziata nella prima settimana dopo il trapianto, può causare crisi epilettiche, segni neurologici focali, encefalopatie e disturbi visivi. La reazione contro l’ospite che si verifica nel 30% dei pazienti HLA compatibili ed in oltre il 60% dei soggetti HLA non compatibili, può essere acuta, comparendo in genere entro i primi tre mesi, e può comportare disfunzioni epatiche con secondaria encefalopatia metabolica. Sempre in questa fase si verificano complicanze su base infettiva da germi opportunistici, in particolare da Aspergillus e
Toxoplasma. Più raramente sono riportate encefaliti virali. Dopo il terzo mese, la comparsa di segni di sofferenza focale, specie nei pazienti sottoposti a trapianto autologo, può indicare una ripresa della malattia di base. Nei pazienti sottoposti a trapianto allogenico, in cui è necessario il proseguimento della terapia immunosoppressiva, si può verificare una GVHD cronica con manifestazioni neurologiche, a genesi autoimmune, che interessano l’apparato neuromuscolare: polimiositi, miastenia gravis e neuropatie infiammatorie croniche. Secondo Padovan e coll. (2001) il sistema nervoso centrale può essere direttamente interessato dalla GHVD cronica solo sotto forma di una vasculite cerebrale interessante i piccoli vasi. 2.2 TRAPIANTO DI RENE Circa il 5% dei pazienti trapiantati possono presentare una sofferenza a carico del sistema nervoso periferico, da formazione di ematoma e conseguente compressione, specie a livello del nervo femorale e del nervo cutaneo laterale. Infarti spinali con sindrome del cono midollare si possono sviluppare in quei pazienti in cui la parte caudale del midollo spinale riceve branche dall’arteria iliaca interna invece che dalle arterie intercostali. 2.3 TRAPIANTO CARDIACO Durante il trapianto viene usata, per un periodo di tempo variabile, la circolazione extracorporea che può essere complicata da una sofferenza cerebrale su base ipossica o da infarti cerebrali a genesi embolica. In conseguenza delle manovre chirurgiche nel 10-15% dei casi si può avere una danno compressivo a carico del sistema nervoso periferico ed in particolare del plesso brachiale. Dato che nel trapianto cardiaco sono usati dosaggi elevati di immunosoppressori frequentemente si osservano segni di tossicità a carico del sistema nervoso. Le infe-
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zioni da Toxoplasma sono più frequenti che negli altri trapianti, così come lo sviluppo di sindromi linfoproliferative. 2.4 TRAPIANTO POLMONARE Le complicanze sono legate essenzialmente alle procedure operatorie e al funzionamento dell’organo trapiantato: sono riportate encefalopatie ipossiche e metaboliche, interessamento del nervo frenico e del nervo laringeo ricorrente di sinistra.
2.6. TRAPIANTO PANCREATICO Il trapianto pancreatico viene spesso praticato insieme a quello renale. Complicanze neurologiche correlate alla tecnica chirurgica sono rare, sebbene in oltre il 25% dei casi si possano avere sofferenze ischemiche cerebrali diffuse o focali, in parte favorite dai disordini cardiovascolari legati al diabete. Il trapianto pancreatico permette di arrestare la sofferenza neuropatica periferica e di ridurre la mortalità a cinque anni.
2.5 TRAPIANTO EPATICO
Riferimenti bibliografici
Negli studi clinici complicanze neurologiche vengono riportate nel 20-30% dei casi, mentre in serie autoptiche l’incidenza di lesioni a carico del sistema nervoso sale ad oltre l’80%. Molte complicanze sono correlate con la patologia di base: l’encefalopatia metabolica dovuta ad insufficienza epatica può persistere se il trapianto fallisce e le alterazioni della coagulazione predispongono a sofferenze emorragiche sia prima che dopo l’intervento. La procedura chirurgica è traumatica, associata in passato a notevoli perdite ematiche e l’ipotensione può essere a sua volta responsabile di un danno cerebrale ipossico, specie in corrispondenza dei territori di confine. Infarti cerebrali intraoperatori possono verificarsi a causa di embolie gassose o arteriose. Con frequenza particolarmente elevata questo tipo di trapianto può essere complicato da una Mielinolisi Centrale Pontina (7-13% dei casi sottoposti a controllo autoptico). L’interessamento dei nervi periferici in rapporto alle procedure chirurgiche si verifica nel 6% dei casi. Le complicanze della terapia immunosoppressiva sono legate sia all’alto dosaggio dei farmaci che al fatto che i pazienti epatopatici presentano, solitamente, numerosi fattori predisponenti alla tossicità da ciclosporina.
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Complicanze neurologiche delle malattie internistiche 1709
Appendice La sindrome da stanchezza cronica C. Loeb
È un’entità morbosa caratterizzata da marcata astenia, di durata prolungata, almeno 6 mesi, particolarmente invalidante, non attribuibile a cause patologiche note, cui si aggiungono: dolori muscolo-scheletrici, disturbi del sonno, soggettiva riduzione delle capacità di prestazione intellettuale e soggettivi disturbi di memoria, cefalea, marcata riduzione dell’attività giornaliera rispetto alle prestazioni precedenti. Il termine «Chronic Fatigue Syndrome» (Sindrome da astenia cronica o Sindrome da stanchezza cronica, SSC) è stato proposto nel 1988 (Holmes et al., 1988). La sindrome non può essere considerata un quadro clinico nuovo e viene comunemente ritenuto che condizioni sovrapponibili, seppure con denominazioni diverse, fossero note anche duecento anni fa. Vengono riportate le seguenti antiche denominazioni: febricula, neurastenia, encefalopatia mialgica, fibromialgia (termine molto in uso nel Regno Unito), sindrome di Da Costa, brucellosi cronica, ipoglicemia, sindrome allergica totale, candidiasi cronica, infezione cronica di Epstein Barr, sindrome astenica post-virale (Straus, 1991). È certamente discutibile se queste diverse denominazioni si riferiscono a quadri clinici sovrapponibili o similari. Il termine neurastenia, introdotto da G. Beard nel 1869, e ampiamente usato fino a circa il 1960 in neuropsichiatria, si riferiva a una stanchezza fisica e psichica o mentale, turbe somatiche, attribuite alla mancanza di risorse «nervose», forse troppo stimolate e troppo intensamente utilizzate. Ma la neurastenia, includendo
tanti e in parte diversi sintomi, si poteva distinguere in neurastenia con cenestopatie, con ansia, ma anche in neurastenia riscontrabile dopo o durante malattie organiche gravi. Per queste ragioni molti negano l’esistenza della SSC, altri la sostengono «con ferocia», altri la correlano alla depressione e a stati ansiosi (Landay et al., 1992). Del resto anche il concetto di astenia e fatica deve essere definito: l’astenia interviene prima dello sforzo, ed esprime l’estrema difficoltà o l’impossibilità a produrre attività fisica o adempiere compiti cognitivi; la stanchezza e la fatica intervengono dopo lo sforzo e indicano l’impossibilità a mantenere la forza in una determinata attività fisica o in compiti cognitivi (Pelicier, 1994; Wessely, 1994). Il punto cruciale è che questo tipo di definizioni implica la non misurabilità di queste prestazioni, per cui il loro rilievo non è oggettivo, ma esclusivamente basato sulle dichiarazioni del soggetto. Recentemente, tuttavia, sarebbero stati rilevati alcuni dati obbiettivi : lo studio della misura della forza e della risposta fisiologica durante l’esercizio motorio in malati con SSC dimostrerebbe, rispetto ai controlli, una riduzione della forza (specie a livello del quadricipite femorale), un ridotto consumo di ossigeno, un ritmo cardiaco accelerato e un aumento del lattato plasmatico (Fulcher e White, 2000); le normali fluttuazioni dell’eccitabilità motoria corticale che accompagnano ripetuti e lievi movimenti delle dita della mano bilateralmente mancano nei malati con SSC (Starr et al., 2000). DATI EPIDEMIOLOGICI. – Oltre alle forme sporadiche, sono state descritte forme epidemiche, o ritenute tali (nel Nevada, nel 1980). Molto probabilmente si tratta di casi etiologicamente diversi, ma considerati similari sulla base dei dati clinici. Nell’ambito di uno studio trasversale di un vasto campione di soggetti che si rivolgevano a centri di medicina generale di primo livello, è
1710 Malattie del sistema nervoso
stato ritrovato circa l’11% di soggetti affetti da SSC, e il 17% in uno studio prospettico, in un campione di soggetti con pregressa diagnosi di affezione virale, nel periodo antecedente di almeno 6 mesi (Mann et al., 1994). L’esistenza della sindrome nei bambini è discussa, mentre negli adolescenti sono segnalati casi, specialmente associati a disturbi di personalità (Rangel et al., 2000). EZIOPATOGENESI. – Il sospetto più attendibile riguarda l’eziologia virale, anche se usualmente i sintomi non persisterebbero in questa patologia per un tempo così lungo. Molti e diversi virus sono stati prospettati come responsabili e precisamente: il Citomegalovirus, il virus di Epstein-Barr, l’HHV-6, l’Adenovirus, il Coxsackie B4, il Papovirus BK, lo Spumavirus umano, l’HTLV I-II, HIV-1 e 2. In particolare è stato prospettato un ruolo per il virus della Coxsackie B4, per gli enterovirus (RNA enterovirale sarebbe stato reperito nei muscoli di soggetti con SSC, in alcune ricerche, e negato in altre), il virus di Epstein-Barr. Ma i risultati delle diverse indagini sono contrastanti e bisogna ritenere che non esista, attualmente, la dimostrazione valida per una eziologia virale. La possibile genesi immunologica gode i favori di alcuni internisti e immunologi e, a riprova, si sottolinea la riduzione delle cellule «natural killer», dei macrofagi, alterazione della sottopopolazione dei linfociti B e attivazione delle cellule CD8. La conclusione, attualmente possibile, è che la sindrome sia associata ad un’attivazione del sistema immunitario (Landay et al., 1992). Gli aspetti psichiatrici, caratterizzati da segni depressivi e ansiosi, sono, per alcuni, sintomi che fanno parte del quadro della SSC, per altri rappresentano solo il quadro somatico della depressione (Wessely, 1994). Una ragionevole conclusione è che la SSC non è ancora chiaramente definita, l’eziologia è ritenuta ragionevolmente multifattoriale, e
appare probabile l’esistenza di quadri di SSC dovuti a cause diverse. SINTOMATOLOGIA La sintomatologia è caratterizzata da una marcata astenia che dura almeno da 6 mesi, particolarmente invalidante poiché riduce di almeno il 50% l’attività che il soggetto svolgeva precedentemente, associata a disturbi neuropsichiatrici e internistici. I disturbi di pertinenza psichiatrica sono rappresentati da: irritabilità spiccata, alterazioni del sonno, caratterizzate da iposonnia o ipersonnia, difficoltà nell’attività di apprendimento-memoria, disturbi di tipo depressivo con depressione del tono timico e ansia. I disturbi neurologici sono: cefalea, mioclonie, disturbi dell’equilibrio. I disturbi internistici più rilevanti si riferiscono a: artralgie e mialgie, dolori addominali e gastrointestinali, nausea, brividi e febbricola (in genere sui 37,5° C e comunque non superiore a 38,6° C), dolore linfonodale, faringodinia. Considerata la genericità dei sintomi sopra indicati, appare accettabile e utile l’elaborazione di alcuni criteri clinici utilizzati per individuare un caso di SSC (Holmes et al., 1988). Una diagnosi di SSC deve rispecchiare due criteri maggiori oltre a sei segni soggettivi e almeno 2 segni clinici obiettivi, oppure, oltre ai due criteri maggiori, almeno 8 segni clinici soggettivi. A. I criteri maggiori sono due: 1) astenia persistente, da almeno 6 mesi, con una riduzione di almeno il 50% delle capacità di attività precedente, 2) possibilità di escludere, attraverso gli esami clinici e gli esami complementari, l’esistenza di altre patologie responsabili della sintomatologia lamentata, e, in particolare, indagini clinico-laboratoristiche e radiologiche, capaci di escludere: neoplasie, malattie infiammatorie,
Complicanze neurologiche delle malattie internistiche 1711
malattie virali, malattie autoimmuni, malattie neurologiche dei nervi periferici e dei muscoli, alcoolismo cronico, tossico-dipendenza. B. I criteri minori si riferiscono ai sintomi soggettivi e sono i seguenti: 1) febbricola (riferita dal paziente) 2) dolore alla gola 3) dolore linfo-nodale (cervicale o ascellare) 4) stanchezza muscolare generalizzata e inspiegabile 5) debolezza rilevante dopo sforzo 6) mialgie 7) artralgie migranti (senza gonfiore e rossore) 8) cefalea (diversa da quella di cui il paziente eventualmente soffre) 9) sintomi neuropsichiatrici (fotofobia, scotomi transitori, difficoltà di apprendimento, di memoria, mioclonie, depressione, ansia, irritabilità eccessiva) 10) disturbi del sonno (ipo-ipersonnia). C. Sintomi oggettivi: 1) Febbricola registrata dal medico (tra 37, 6° C e 38,6° C; rettale tra 37,8° C e 38,8° C) 2) Faringite non essudativa 3) Linfonodi cervicali o ascellari palpabili (entro i 2 cm). DIAGNOSI ED ESAMI COMPLEMENTARI – Dopo quanto illustrato è evidente che la diagnosi di SSC comporta l’esclusione di una serie di quadri morbosi, e precisamente: neoplasie, patologia cronica di vari organi e apparati (polmoni, cuore, fegato, rene, sangue), malattie autoimmuni, patologia batterica subacuta o cronica (borreliosi, tbc, ecc.), patologia fungina e da parassiti (istoplasmosi, toxoplasmosi), malattie infiammatorie croniche (sarcoidosi, ecc.), malattie neuromuscolari (miastenia, polineuropatie, miodistrofie), patologia endocrina (tiroide, surrene), alcoolismo cronico e dipendenza da sostanze psicoattive o da farmaci, patologia tossica (da ambiente o alimenti).
Appare utile sul piano diagnostico anche la valutazione obbiettiva della temperatura e del peso corporeo (una riduzione maggiore del 10% del peso corporeo, in soggetto che non esegue dieta suggerisce una diagnosi diversa dalla SSC). Gli esami complementari da eseguire, ad un primo livello, sono: urine, morfocromocitometrico completo del sangue, glicemia, azotemia, creatininemia, elettroliti serici, calcemia, fosforemia, bilirubinemia, transaminasi seriche, gamma GT, elettroforesi, velocità di sedimentazione, test LE, esami della funzionalità tiroidea, radiografia del torace in due proiezioni ed eventualmente TC toracica, ecotomografia epatica e addominale. Sono state descritte alterazioni alla RM, caratterizzate da lesioni puntiformi della sostanza bianca sottocorticale, specie frontale, ma questo rilievo non permette alcuna considerazione conclusiva. Recentemente,viene segnalato che i malati con SSC, fibromialgia, patologia temporo-mandibolare hanno molti segni in comune (stanchezza, mialgie, turbe del sonno, riduzione della attività usuale) per cui anche questi quadri clinici devono esser presi in considerazione nel processo diagnostico differenziale (Aaron et al., 2000; White et al., 2000). PROGNOSI. – È considerata favorevole, ma il decorso è lungo. Se la sindrome dura ancora dopo 4 anni la prognosi diventa sfavorevole (Bonner et al., 1994). TERAPIA. – Il trattamento di prima scelta è quello con gli antidepressivi, anche se studi controllati esistono solo per la denominazione «fibromialgia». Uno studio recente, non controllato, riporta benefici effetti con la sertralina, un inibitore della ricattura della serotonina. Tra le terapie di tipo immunologico la cura con immunoglobuline è stata considerata non efficace, anche se spesso impiegata. Il riposo, usualmente raccomandato, non è consigliabile, mentre l’esercizio programmato
1712 Malattie del sistema nervoso
sarebbe in grado di rompere il circolo vizioso: fatica, riposo, evitare l’attività. Un regime di esercizi quotidiani di tipo riabilitativo, progressivamente più intensi, permetterebbe di far incamminare il soggetto verso la ripresa di una attività (Wessely, 1994). Riferimenti bibliografici AARON L.A., BURKE M.M., BUCHWALD D.: Overlapping conditions among patients with chronic fatigue syndrome, fibromyalgia and temporo-mandibular disorder. Arch. Int. Med. 160, 221-227, 2000. BONNER D., RON M, CHALDER T., WESSELY S.: Chronic Fatigue Syndrome: a follow up study. J. Neurol. Neurosurg. Psych. 57, 617-621, 1994. FULCHER K.Y., WHITE P.D.: Strength and physiological response to exercise in patients with chronic fatigue syndrome. J. Neurol. Neurosurg. Psych. 69, 302-307, 2000. HOLMES G. ET AL.: Chronic fatigue Syndrome: A Working Case Definition. Ann. Int. Med. 108, 387-389, 1988. JOHNSON S.K. ET AL. : Chronic fatigue syndrome: rewiewing the research findings. Ann. Behav. Med. 21, 258-271, 1999.
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Neuroriabilitazione 1713
41. Neuroriabilitazione S. Ratto, A. Tartaglione
La riabilitazione rappresenta una branca fondamentale della medicina, quella che si occupa del recupero dopo una malattia o un trauma, consentendo la ripresa di funzioni interrotte o danneggiate. Il settore che si occupa del recupero dei deficit e delle disabilità dovuti a malattie neurologiche viene indicata come «Neuroriabilitazione» o «Neurologia riabilitativa». Nonostante l’indiscutibile ruolo che la riabilitazione riveste nella moderna medicina è tutt’ora oggetto di discussione se la neuroriabilitazione sia in grado di determinare un reale miglioramento della funzione; e se il suo mancato impiego comporti un peggioramento e un’accelerazione dei fenomeni regressivi. L’assenza di una dimostrazione formale dell’efficacia del trattamento dipende da diversi fattori: – disturbi simili possono avere meccanismi patogenetici diversi, – un’elevata variabilità interindividuale è riscontrabile nell’ambito dello stesso gruppo diagnostico, – l’approccio sperimentale è difficilmente generalizzabile, per motivi etici, ai malati che ricorrono alla riabilitazione, – l’esperienza piuttosto ampia derivata da pazienti affetti da lesioni cerebrovascolari è difficilmente generalizzabile ad altre situazioni cliniche, – la conoscenza spesso insufficiente della storia naturale della malattia e le difficoltà nello stabilire correttamente la prognosi individuale rendono difficile la valutazione documentata dell’efficacia del trattamento. Questa discussione è inoltre favorita da una concezione non univoca del ruolo e delle fun-
zioni della riabilitazione , come dimostrano queste quattro autorevoli definizioni del concetto di riabilitazione: – (WHO, 1980): la riabilitazione è un processo educativo basato su metodiche pragmatiche, guidate dalla logica “problem solving”, rivolto a ridurre la disabilità e l’handicap che conseguono ad una malattia ovvero ad un trauma – (Delisa, Martin, Curie, 1993): la riabilitazione è definibile come un processo di sviluppo, nella misura massima possibile, del potenziale individuale, sul piano fisico, motorio, psicologico e sociale, compatibilmente con i limiti imposti dalle alterazioni anatomiche e dall’ambiente circostante. Gli obbiettivi realistici sono definiti dal paziente e da coloro che lo accudiscono: in tal modo si tenta di raggiungere una funzionalità ottimale nonostante la disabilità anche se questa è causata da un processo patologico che non può più essere integralmente guarito – (Dorland, 1988): la riabilitazione rappresenta il ripristino di una normalità strutturale e funzionale dopo una malattia o un trauma. – (Hamilton, Granger, Sherwin et al., 1987): la riabilitazione è costituita da una rete di servizi coordinati, rivolti principalmente a minimizzare o annullare un handicap, una disabilità o una lesione. Malgrado queste evidenti differenze di definizione che non possono tradursi in differenze di progetti, di obiettivi e di risultati, l’efficacia del trattamento riabilitativo non può ritenersi negata, ed anzi la neuroriabilitazione è uno strumento terapeutico che deve essere correntemente impiegato e rappresenta materia di crescente interesse.
1714 Malattie del sistema nervoso
Misure di efficacia La malattia neurologica interferisce con la vita della persona con modalità diverse che variano nel tempo e che acquistano diversa importanza anche in relazione con il punto di vista dell’esaminatore. I termini della prognosi e dell’esito dopo una malattia o un trauma del sistema nervoso cambiano in relazione alla aspettativa e l’esperienza dell’esaminatore, così come può essere differente il giudizio del paziente, della famiglia che lo accudisce, dell’assicuratore che deve risarcire il danno, del medico ospedaliero che accudisce e poi deve dimettere il paziente, del riabilitatore, del medico di famiglia che dovrà infine seguire a casa il paziente. Questa diversità è ovviamente determinata dal fatto che ciascuno, nel porsi davanti alla malattia del paziente, non può dimenticare l’impatto che questa, con il cambiamento che impone, determinerebbe nella propria vita o nella propria professionalità. È naturale quindi, direi quasi ovvio, che le misure di prognosi e di esito variano fra i diversi specialisti medici e che, in particolare siano differenti fra gli specialisti che si occupano della gestione della fase acuta della malattia ed i riabilitatori, perché differenti sono le priorità e la percezione dei problemi. È tipica, a questo proposito la differente valutazione prognostica dei traumi cranici maggiori fornita dal neurochirurgo , che sostiene che si possa formulare una prognosi attendibile già dopo i primi tre giorni di ricovero, mentre i riabilitatori in genere si astengono da un giudizio prognostico anche a distanza di un mese dall’evento. Premesso che non esiste ovviamente un modo univoco e miracoloso per risolvere questo conflitto di vedute e di interessi, si può, tuttavia, ritenere che una procedura per semplificare il problema sia rappresentata dalla identificazione di misure prognostiche e di esito comuni (o almeno dichiarate) oltre che dalla formulazione esplicita degli obbiettivi da raggiungere,
selezionandoli in relazione alle richieste che, in base alla evoluzione della malattia, di volta in volta l’avente titolo (il paziente o i suoi familiari) propongono. Il modello di valutazione dell’impatto che la malattia genera, proposto dal WHO, fornisce un aiuto importante per districarsi in questa congerie di punti di vista. Questo modello identifica quattro momenti in cui una malattia deve essere valutata, ciascuno con obbiettivi e prognosi differenti: – la alterazione patologica (pathology) – la malattia ( danno d’organo, impairment) – la disabilità (disability) – lo svantaggio residuo (handicap) La alterazione patologica è determinata dalle caratteristiche patogenetiche della malattia: ad esempio ischemia, emorragia, neoplasia, trauma, ipossia cerebrale etc... Nell’ambito del sistema nervoso il tutto è reso più complesso dalle differenze determinate dal problema della sede della patologia. La valutazione di questi parametri è appannaggio della fase acuta della malattia neurologica e si effettua con gli strumenti dell’esame neurologico, il neuroimaging, gli esami di laboratorio. La patologia evolve quindi in danno d’organo che si evidenzia con il deficit neurologico; questo può esprimersi attraverso sintomi negativi cioè da perdita di funzione (ad esempio motoria, la paresi, oppure sensitiva, la ipoestesia, i disturbi di coscienza etc.) e sintomi positivi, da liberazione di funzioni normalmente inibite (ad esempio l’ipertonia). La misura di questi parametri viene effettuata con strumenti codificati e tarati come il test muscolare, per la misura della forza, la GCS (Glasgow Coma Scale) per la valutazione dei disturbi transitori della vigilanza, il MMSE per i disturbi mnesico cognitivi, i test neuropsicologici etc.. La disabilità, può essere pragmaticamente definita come il livello di assistenza necessario per poter svolgere le normali attività quotidiane. La valutazione fa riferimento a parametri
Neuroriabilitazione 1715
come la continenza, l’autonomia motoria, la autonomia nel mangiare, nel vestirsi, nel lavarsi e si effettua usando scale di ADL (Activity Day Life) e/o di IADL (Instrumental Activity Day Life). L’handicap è definibile come l’impatto che la disabilità genera nella vita della persona malata, lo svantaggio quotidiano con cui il malato deve confrontarsi rispetto alle persone sane; anche per la misura dell’Handicap esistono strumenti codificati come la Glasgow Outcome Scale (GOS), usata spesso in ambito neurochirurgico anche per misurarare la disabilità residua, la Functional Independence Measure (FIM), molto usata in ambito riabilitativo perché sensibile alle variazioni nel tempo della efficienza motoria.
Fisiopatologia delle lesioni del S.N. La lesione del sistema nervoso, qualunque sia la causa (particolarmente nei traumi cranici), innesca processi fisiopatologici differenti, non sempre facilmente distinguibili. Nonostante le moderne tecniche di diagnostica per immagini, non esistono a tutt’oggi marcatori biologici codificati che permettano di quantificare con precisione e certezza la evoluzione del danno. Esiste poi una molteplicità di fattori, fra loro indipendenti, capaci di influenzare l’evoluzione del danno, come l’età, patologie intercorrenti o abusi di sostanze psicotrope etc.. Nonostante ciò esistono alcuni criteri generali fisiopatologici che possono ragionevolmente essere utilizzati per la corretta indicazione del meccanismo patogeno e per una prognosi attendibile. Nella fase acuta o di esordio della malattia è fondamentale raccogliere l’insieme di segni e sintomi che permettono la diagnosi anatomica della lesione e l’identificazione del movente etiopatogenetico: la diagnosi etiologica rappresenta il punto di partenza per impostare correttamente il progetto terapeutico e riabilitativo. Nella fase acuta, tuttavia, la fenomenologia cli-
nica può cambiare rapidamente facendo emergere problematiche nuove e differenti; occorre allora che, accanto alla diagnosi etiopatogenetica, si sviluppi un inquadramento funzionale in grado di cogliere correttamente l’insorgere di complicanze che modifichino la storia naturale della malattia. La corretta gestione di questi differenti livelli di conoscenza dello stesso problema permette di trattare la malattia mantenendo il paziente al centro del processo medico e fornendo attendibili giudizi di prognosi capaci di incanalare con realismo la giusta aspettativa di miglioramento che a ciascuno deve essere concessa. Il SNC infatti non possiede capacità riparative che ripristinino integralmente l’anatomia, per cui è difficile stabilire quali siano i meccanismi del recupero funzionale post-lesionale. In genere si fa riferimento ad eventi precoci, caratteristici della fase acuta, che si realizzano in termini di ore o giorni, ed eventi tardivi, ipotetici, che spiegherebbero le variazioni cliniche che si osservano a distanza di mesi dall’evento lesivo. La ripresa funzionale, nel periodo immediatamente successivo alla lesione, è correlata ad una serie di fattori quali la riduzione dell’edema, l’assorbimento dei prodotti tossici provenienti dal tessuto danneggiato, le modificazioni biochimiche locali (cambiamenti ionici e del pH, modificazioni del flusso di Ca++, variazioni di concentrazione dei neurotrasmettitori, presenza di radicali liberi), il ripristino della normale circolazione nelle zone circostanti il danno, la riperfusione della zona di «penombra ischemica». Nel caso di una paralisi flaccida grave che persiste per diversi giorni, settimane o, raramente, mesi, il ruolo del trattamento neuroriabilitativo è rivolto ad impedire la comparsa di fenomeni regressivi periferici, capaci di ostacolare la ripresa di funzione. I meccanismi del ripristino della funzione a distanza, sui quali si ritiene possa avere specifico effetto la riabilitazione, prevedono la modificazione dei rapporti sinaptici con l’utilizzo
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di connessioni prima inattive, l’attività di aree potenzialmente in grado di assumere funzione vicaria, e l’assunzione di funzioni supplettive da parte delle strutture non danneggiate. Questi fenomeni, tuttora oggetto di discussione, fanno riferimento alla capacità di adattamento o plasticità del SNC, o neuroplasticità; il recupero è molto più evidente nel bambino, in cui la plasticità è esaltata dai processi di maturazione, che agevolano i fenomeni di vicariazione e di compenso. Obiettivi della neuroriabilitazione Una lesione, quale un infarto o un trauma cerebrale, comporta sempre un difetto funzionale (danno), che si estrinseca attraverso sintomi negativi, cioè la perdita di una funzione, ad es., motoria (paresi), sensitiva (ipoestesia) o visiva (emianopsia), e sintomi positivi, che comportano la liberazione di funzioni normalmente inibite, ad es.,il tremore e l’ipertonia. Il rilievo di questi deficit, di grande ausilio per stabilire l’evoluzione del danno, non dà indicazioni circa l’effetto (disabilità) su comportamenti complessi, quali la comunicazione vocale o nonvocale, la mimica, l’autonomia motoria, il controllo emotivo, ecc. Quando la disabilità limita il ruolo sociale del soggetto, si ha un handicap, concetto strettamente correlato alle condizioni individuali di vita e di lavoro; pertanto, l’incapacità di salire le scale (disabilità), può dar luogo ad un handicap, soprattutto se non sono disponibili ausili che consentano di superare in qualche modo questa difficoltà. Le aree dell’intervento medico e gli obiettivi principali della neuroriabilitazione sono rappresentate dalla correzione del danno e della disabilità, mentre l’area di intervento sociale consiste nel contenimento dell’handicap. La verifica della validità del trattamento, anche se discussa, richiede una preliminare valutazione dell’evoluzione naturale della malattia e dei limiti di un possibile, spontaneo, miglioramento. È necessario, quindi, poter disporre di
adeguati strumenti di misura, possibilmente quantitativi, che consentano un confronto, il più possibile obiettivo, delle modificazioni e delle variazioni osservabili in differenti gruppi diagnostici per definire, nel lungo periodo, l’evoluzione della malattia, l’efficacia del trattamento, la valutazione della disabilità e la prognosi finale. Poichè l’intervento riabilitativo inizia già nella fase acuta, occorre utilizzare scale di valutazione del deficit, come la Glasgow Coma Scale nel caso di coma nei traumatizzati cranici (v. pag. 636) e il Mini Mental State Examination per la valutazione dei disturbi cognitivi (v. pag. 181). Quando invece si interviene sugli esiti, in situazioni ormai cronicizzate, o con evoluzione molto lenta, le scale di valutazione della disabilità da utilizzare possono essere l’Indice di Barthel, per determinare l’autonomia nelle attività della vita quotidiana, il «Rivermead mobility index» che misura la velocità della marcia; la scala di Kurtzke, per la determinazione della disabilità nella Sclerosi Multipla. Riabilitazione nell’ictus Nelle tre-quattro settimane dopo un ictus si verifica un recupero funzionale spontaneo, che, nell’arco di sei mesi circa, si esaurisce nella grande maggioranza dei pazienti (95%); i disturbi del linguaggio mostrano una capacità di recupero anche oltre i tre mesi dall’esordio. Mentre il 75% dei malati sopravvissuti alla fase acuta, riprende la deambulazione; solo il 60% recupera l’efficienza funzionale dell’arto superiore paretico; e infine, solo il 25% dei pazienti riprende una autonomia personale totale. Elementi prognostici negativi sono rappresentati dal persistere, oltre due settimane, di fenomeni quali incontinenza, gravi disturbi cognitivi, disturbi sensitivi obiettivi propriocettivi e disturbi dello schema corporeo, emidisattenzione. Le strategie generali del trattamento riabilitativo sono rivolte alla ripresa degli schemi di
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movimento e al recupero dell’autonomia evitando al contempo la comparsa di fenomeni di liberazione, quale l’ipertonia, che possono rappresentare un ulteriore handicap. Le strategie generali di intervento cui, con accenti diversi, si rifanno le varie tecniche di trattamento del paziente apoplettico, sono: – mantenere in efficienza il sistema osteoarticolare combattendo la sindrome da immobilizzazione; – stimolare il feed-back sensitivo con stimoli esterocettivi, mobilizzazione passiva e attiva assistita; – favorire la consapevolezza del deficit, da parte del malato; – motivare il malato ad affrontare l’handicap, sia in termini di miglioramento delle proprie capacità, che in termini di intervento sull’ambiente; – sviluppare le sincinesie residue, potenziandone il controllo; – potenziare i movimenti deficitari, migliorando al contempo la contrazione reciproca agonisti-antagonisti. Questi obiettivi possono essere raggiungibili se il malato può esercitare una normale vigilanza ed attenzione, ha la capacità di percepire correttamente l’ambiente e comprendere le istruzioni del terapista, ed esprime un buon livello di memorizzazione ed una adeguata motivazione personale. Sul piano operativo, è utile distinguere il trattamento rieducativo in rapporto con l’evoluzione cronologica. TRATTAMENTO IN FASE ACUTA. – In questa fase l’obiettivo primario è rappresentato dalla prevenzione delle complicanze, in particolare della «sindrome da immobilizzazione», e si può realizzare con: – la ginnastica respiratoria, – la cura della funzione dell’alvo e minzione (attenzione particolare va posta alla ritenzione urinaria), – la prevenzione dell’ab ingestis.
Anche la deglutizione può rappresentare un importante problema riabilitativo: la disfagia è presente nel 70% dei pazienti con lesioni troncali bilaterali ed anche in un buon numero di malati con lesioni corticali. Circa la metà dei casi è soggetta a polmonite «ab ingestis», cui si può ovviare, in fase acuta, con una adeguata alimentazione enterale (sondino nasogastrico ovvero gastrostomia) cui seguirà una graduale rialimentazione, controllando la consistenza e la composizione dei cibi ed usando tecniche di compensazione e controllo della deglutizione. TRATTAMENTO IN FASE DI RECUPERO. – Rappresenta il momento di massima competenza riabilitativa ed è ovviamente rivolto al migliore e più rapido recupero dell’autonomia, non solo motoria. La spasticità deve essere affrontata con atteggiamenti posturali inibitori, con tecniche di stiramento muscolare passivo, ecc. Obiettivo iniziale è il recupero del decubito seduto, anche se talora questo determina facilitazione esagerata della ipertonia ; il recupero delle reazioni posturali di raddrizzamento rappresenta la premessa indispensabile al recupero della stazione eretta e, successivamente alla ripresa della dinamica della marcia. La sola controindicazione ad un precoce passaggio al decubito seduto è per noi costituita dallo sviluppo di un marcato ipertono spastico con dolore alla spalla. In un tempo successivo, non appena la capacità di attenzione e collaborazione lo permetteranno si passerà alle tecniche di facilitazione e inibizione, tese al recupero delle funzioni motorie segmentali, utilizzando, dove possibile metodiche Bobath, Kabat e Salvini-Perfetti. Non esistono dati scientifici obiettivi che dimostrino la superiorità relativa di un metodo sugli altri, per cui la scelta sarà in rapporto con l’esperienza del neuroriabilitatore e con le caratteristiche del deficit, la sua gravità, la persistenza o meno del controllo volontario, l’entità dell’ipertonia.
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Complicanze dell’ictus in fase riabilitativa La sublussazione dell’articolazione scapoloomerale paretica, con dolore e contrattura muscolare, è una delle complicanze più frequenti, verificandosi nel 40% circa dei casi, e rappresentando una classica conseguenza della manipolazione inadeguata, in genere per trazione dell’arto paretico nelle manovre di spostamento del paziente, o per decubito prolungato sul lato colpito. Ansia e depressione si verificano in un terzo circa dei pazienti: in parte reattive o secondarie, in parte conseguenza diretta della lesione, soprattutto nelle lesioni del lobo frontale sinistro. Nei casi in cui la depressione e l’ansia appaiono reattive, è indicato un trattamento psicofarmacologico, in particolare con antidepressivi serotoninergici, meglio tollerati e particolarmente efficaci nel trattamento del riso e del pianto spastico e dell’incontinenza emotiva multiinfartuale (Van Gijn, 1993). È bene che il riabilitatore comunichi ampiamente con i familiari, fornisca spiegazioni sugli effetti del danno cerebrale, al fine di evitare atteggiamenti eccessivamente protettivi, che inibiscono le possibili iniziative del paziente e possono generare manifestazioni di rifiuto e/o di aggressività. Riabilitazione nella Sclerosi Multipla Il trattamento può essere distinto in tre fasi fondamentali: – terapia delle fasi acute; – prevenzione di recidive e della progressione; – terapia sintomatica. In questa sede ci occuperemo del trattamento sintomatico, che comprende sia strategie riabilitative che farmacologiche e, nei casi in cui queste non raggiungano risultati, anche trattamenti chirurgici correttivi. I sintomi più frequenti e invalidanti sono: spasticità, paresi, faticabilità, disturbi vescicali e sessuali.
La spasticità rappresenta uno degli aspetti più frequenti e gravi, tanto che, in passato, venivano impiegate tecniche invasive, per interrompere il circuito di riflessi estero-propriocettivi (infiltrazione xilocainica-alcoolica dei punti motori di muscoli ipertonici, somministrazione intratecale di fenolo). Farmaci quali il baclofen (sia in somministrazione orale che intratecale), il Diazepam ed il Dantrolene, sono dotati di potente effetto antispastico, pur con differenti meccanismi di azione. Talora l’ipertonia può assumere carattere parossistico generando «spasmi», spesso notturni, su cui svolgono un’efficace azione terapeutica farmaci anticomiziali quali la Carbamazepina ed il Clonazepam. L’approccio riabilitativo comprende tutte le metodiche comunemente usate per combattere la spasticità quali gli atteggiamenti posturali inibitori, le tecniche di stiramento muscolare passivo, ecc.. Nei malati con contratture toniche in segmenti muscolari isolati di dimensioni piccolo-medie, si può usare con vantaggio anche la tossina botulinica, capace di modificare la contrattura tonica con un traumatismo assai contenuto. Il limite nell’uso dei farmaci è rappresentato dalla necessità di aumentare progressivamente il dosaggio, fino a livelli capaci di determinare effetti collaterali svantaggiosi, quali sonnolenza e faticabilità. La faticabilità, confusa talora con la paresi, è spesso associata a turbe depressive e talora si configura come astenia globale che insorge a seguito di sforzi anche modesti. Si può ritenere che rappresenti una diretta conseguenza della demielinizzazione e del rallentamento-blocco della conduzione nervosa. I farmaci efficaci nel ridurre la faticabilità sono l'amantadina e la pemolina; altri farmaci che migliorano i tempi di conduzione nervosa centrale, sono la 4-aminopiridina e la digitale, con effetto particolarmente vantaggioso nei pazienti che peggiorano con l’ipertermia. In analogia sono stati proposti trattamenti fisici ipotermizzanti (abiti refrigeranti), il cui uso
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è certamente disagevole e la cui efficacia appare tuttavia limitata. Le tecniche di fisioterapia attiva, particolarmente gli esercizi aerobici attentamente dosati sulla base della resistenza stimata del singolo paziente, devono essere intrapresi. I disturbi vescicali, frequenti e precoci, caratterizzati da frequenti svuotamenti spontanei, possono trarre giovamento dall’uso di anticolinergici ed alfa-bloccanti. Una vescica ingrandita e ipotonica si caratterizza, invece, per un residuo vescicale post-minzionale superiore a 100-150 ml: necessita di uno svuotamento cadenzato, periodico, che prescinda dalla percezione di uno stimolo, in genere aiutato con la pressione manuale soprapubica. Nei casi più complessi e resistenti, occorre procedere anche a manovre di cateterizzazione intermittente, che espongono al rischio di infezioni urinarie, che vanno attentamente controllate e monitorate. I malati con nicturia, possono essere trattati con raccoglitori esterni (pannoloni, cateteri esterni), ma anche con somministrazioni temporizzate di ormone antidiuretico. I disturbi sessuali sono riferiti molto raramente: nei maschi la difficoltà più comune riguarda l’erezione, nelle femmine il problema è spesso ignorato, pur comportando perdità di sensibilità, carenza di lubrificazione e, talora, spasmi dolorosi. Il dialogo con il curante, franco ed esplicito, rappresenta un fondamentale momento di sdrammatizzazione, durante il quale occorre rammentare che la sessualità può avere espressioni diverse, ugualmente soddisfacenti. Per l’impotenza maschile è dimostrata l’efficacia delle iniezioni intracavernose di papaverina o di prostglandine, mentre, nei casi farmaco-resistenti si potrà prospettare l’eventuale impianto protesico penieno. Nelle femmine si potrà ricorrere all’uso di prodotti lubrificanti e all’uso di antispastici, rivolto a prevenire la comparsa di spasmi dolorosi.
Riabilitazione nella sindrome parkinsoniana Considerato il grande vantaggio terapeutico rappresentato dai farmaci, non c’è dubbio che la riabilitazione neurologica del paziente parkinsoniano poco sembra poter aggiungere ai benefici che sono derivati dall’impiego della LDOPA e degli agonisti dopaminergici. Per dare le dimensioni dell’importanza relativa dei due trattamenti, si tenga presente che la riabilitazione veniva effettuata ben prima dell’uso della terapia farmacologica, ma solo quest’ultima ha consentito di determinare, a partire dal 1967 , un significativo miglioramento del quadro clinico garantendo un rallentamento dell’evoluzione della sintomatologia ed una migliore qualità di vita. La comparsa di effetti indesiderati dovuti al trattamento a lungo termine con LDOPA e l’identificazione di forme scarsamente responsive al farmaco hanno riproposto l’utilizzo del trattamento riabilitativo in maniera da integrare, rinviando, laddove possibile, il ricorso a dosi piene di farmaci e da offrire un supporto utile quando la terapia è scarsamente efficace. In ogni caso, recenti studi hanno dimostrato che l’esercizio motorio migliora la bradicinesia in pazienti con trattamento farmacologico, confermando l’utilità del trattamento riabilitativo. Il fondamento del trattamento riabilitativo nel parkinsoniano sta nelle peculiarità del disturbo motorio che è caratterizzato da capacità di movimento insospettate (cinesie paradosse) (Pur1don-Martin, 1967): improvvisa attività di corsa in paziente bradicinetico, improvvisa accelerazione del discorso fino a una tachifemia parossistica. Le cinesie paradosse possono altresì essere evocate da opportune stimolazioni: pazienti bloccati riescono a deambulare correttamente se si fornisce loro un ritmo, contando e facendo seguire la scansione di un metronomo, o se si pongono ostacoli sul loro percorso; altri gravemente impediti possono andare a cavallo con destrezza inspiegabile, altri infine riescono a
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seguire il ritmo di un valzer pur mostrando altrimenti una totale inabilità a camminare. Si tratta di situazioni scarsamente comprensibili, oggetto di presentazioni aneddotiche e scarsamente sistematizzabili, ma dimostrano che i meccanismi deputati al movimento, alla deambulazione o all’eloquio sono presenti e che il malato parkinsoniano ha difficoltà nella corretta attivazione di questi meccanismi. Dal punto di vista pratico, questi rilievi consentono di trovare un punto di partenza per il trattamento, identificando gli elementi, estremamente individualizzati, quando esistono, che possono facilitare il movimento. Ciò vale soprattutto per il trattamento della bradicinesia, e le indicazioni empiriche, di guida al riabilitatore, possono essere così riassunte: – il paziente riesce a migliorare quasi sempre la prestazione psicomotoria se, contemporaneamente all’esecuzione, verbalizza il compito; – l’espletamento di un compito deve essere rinforzato mediante afferenze visive e tattili. È importante, quindi, che il paziente segua le modificazioni delle proprie posture, ad es. allo specchio, in modo da rendersi conto delle correzioni necessarie al mantenimento dei propri schemi tonico-posturali; – marcia e movimento si giovano in modo sorprendente della presenza di un ritmo e la deambulazione migliora facendo procedere il malato su percorsi, con e senza ostacoli, tracciati sul pavimento; – l’attività di gruppo può fornire la spinta emozionale necessaria a procedere nella riabilitazione e ad effettuare i tentativi necessari a migliorare la propria condizione psicomotoria. Il danno funzionale coinvolge, inoltre, il viso e la mimica, la destrezza manuale, la deambulazione, l’eloquio, le funzioni cognitive, lo stato mentale, il sonno ed il riposo, la possibilità di alimentarsi e deglutire adeguatamente, ed anche il sistema nervoso autonomo; è frequente la comparsa di dolori e crampi muscolari. Pertanto oltre al trattamento della bradicinesia,
la terapia si propone altri obiettivi attraverso esercizi singoli e di gruppo, per i quali si rinvia ai manuali di riabilitazione neurologica. La comparsa di contratture e di posture viziate, può essere fronteggiata, utilizzando massaggi, esercizi passivi di allungamento muscolare passivo ed attivo ed applicazione di compresse calde. La logoterapia stimola le capacità vocali e aiuta a controllare ritmo e timbro dell’eloquio; la terapia occupazionale permette al paziente di recuperare un ruolo sociale. Infine, i pazienti con disturbi cognitivi e depressione possono trarre giovamento da esercizi di stimolazione che riducono il rallentamento psichico che spesso si associa alla bradicinesia. Riabilitazione nel traumatizzato cranico Negli ultimi anni, grazie al miglioramento delle tecniche mediche e rianimatorie ma, soprattutto, alla maggiore conoscenza dei deficit neurologici, cognitivi e comportamentali e del loro peso sul piano personale e familiare, si è fatta pressante la richiesta di riabilitazione nel paziente traumatizzato cranico, anche perchè una gran parte di questi casi è rappresentata da soggetti in giovane età, e l’aspettativa di vita, pur in presenza del deficit, è spesso del tutto normale. Il tipo ed il grado di disabilità dipendono dal meccanismo e dalla gravità del trauma, dalla distribuzione della lesione, dalla presenza di complicazioni mediche (ipossia, infezioni, lesioni traumatiche extracraniche, ecc). Anche se è noto che altri fattori, indipendenti dal trauma (età, condizioni mediche generali, condizioni psicosociali, dipendenza dall’alcool, ecc.) sono rilevanti per la prognosi, la gravità del trauma è un elemento che deve essere adeguatamente valutato. Un buon indicatore è rappresentato dal punteggio della Scala del Coma di Glasgow (v. pag. 636), la quale, in base alla massima risposta motoria o verbale possibile, identifica tre livelli di gravità: lieve (punteggio tra 13 e 15), moderato (punteggio tra 9 e 12) o grave (inferiore o uguale a 8).
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La durata del coma e dell’amnesia post-traumatica, sono criteri prognostici efficaci e correlano con l’handicap finale. In questo modo si distinguono traumi cranici moderati, caratterizzati da un periodo di coma tra 15' e 6 h e un’amnesia inferiore a 24 ore, e traumi gravi, con coma di durata superiore alle 6 h e amnesia di 24 h o più. L’approccio riabilitativo consente di eliminare le complicazioni (infezioni del tratto urinario e respiratorio, contratture, ecc), estremamente frequenti nel periodo immediatamente successivo al trauma, per cui l’inizio del trattamento deve essere precoce. La disabilità è dovuta al persistere di deficit neurologici, neuropsicologici e psichiatrici. I disturbi neurologici più frequenti sono costituiti dalla spasticità, contratture muscolari, disfagia, crisi convulsive, idrocefalo, e, in conseguenza dell’immobilità, ulcere da decubito. Le tecniche riabilitative per il controllo della spasticità sono quelle impiegate anche in altre situazioni morbose; vanno evitate le stimolazioni nocicettive e garantito il corretto posizionamento degli arti, con l’ausilio di docce gessate, di blocco farmacologico dei punti motori o l’applicazione intramuscolare di tossina botulinica. In fase successiva il programma include esercizi per il recupero del controllo motorio e per la prevenzione della spasticità. Il trattamento intenso è in grado di migliorare la prestazione motoria, anche a distanza dal trauma cranico, e ciò sottolinea l’importanza di proseguire a lungo un adeguato programma riabilitativo. L’entità dei disturbi neuropsicologici sembra correlata specialmente alla durata dell’alterazione della coscienza. Sono frequenti le alterazione delle capacità intellettive, le difficoltà di attenzione con significativo rallentamento psicomotorio, i deficit percettivi e soprattutto mnesici. Il trattamento dovrà essere programmato solo dopo aver effettuato un bilancio funzionale completo, considerato che, ad esempio, l’ano-
sognosia può ostacolare gravemente la riabilitazione. Traumi di grave entità possono determinare anche alterazioni del comportamento e della personalità, spesso di entità rilevante, e caratterizzate da comportamento fatuo, difficoltà di giudizio, disforia con riduzione dell’iniziativa e della spinta vitale, irritabilità, aggressività, alterazioni del comportamento sessuale, ma si possono anche verificare stati confusionali e quadri psicotici con deliri e allucinazioni. Riabilitazione nei traumi spinali L’incidenza dei traumi spinali varia da 9 a 50: 100.000, con prevalenza per il sesso maschile e per l’età giovanile (20-39 anni), dove la frequenza relativa è pari al 49% di tutti i traumatismi spinali. Il trattamento medico o, eventualmente, chirurgico nella fase acuta ha un duplice scopo: ridurre le possibili fratture, ripristinare, nei limiti del possibile, la funzione lesa. La riabilitazione, che inizia in fase acuta, si basa su un’intensa esperienza di riapprendimento, tanto più efficace quanto minori sono i danni delle funzioni cognitive e quanto maggiore è la partecipazione emotiva del paziente ed il supporto dei familiari. La ripresa della motilità è certamente l’aspetto più rilevante della ripresa ed ha un effetto evidente di rinforzo sulle motivazioni personali per proseguire il trattamento. La mobilizzazione precoce, quando siano stabilizzate le eventuali fratture, consente di ovviare alle conseguenze dell’immobilità, causa di complicazioni generali, quali trombosi venose profonde, embolia polmonare, ipercalciuria e ossificazioni patologiche. Nella fase acuta, lo stadio dello shock spinale è seguito dalla comparsa del riflesso miotattico, e successivamente dall’ipertonia piramidale, la cui entità è estremamente variabile, potendo dipendere da condizioni ambientali (temperatura, rumore, ecc.), da modificazioni
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dello stato generale (infezioni urinarie, stipsi, addome acuto), e dello stato emotivo. La spasticità di grado modesto è utile per il mantenimento della stazione eretta e della deambulazione, e per garantire la circolazione; se rappresenta un ostacolo alla mobilizzazione passiva, dà luogo a contratture e disturba il sonno, è da considerare dannosa e sono le lesioni incomplete che tendono a presentare più precocemente quadri più gravi di spasticità. Disturbi vegetativi sono frequenti soprattutto per lesioni al di sopra di T6, nelle quali le manovre mediche possono determinare comparsa riflessa di ipotensione e bradicardia. Uno degli aspetti più rilevanti del programma riabilitativo è il trattamento dei disturbi della minzione, con l’obiettivo di raggiungere la continenza e lo svuotamento vescicale in tempi rapidi e prevedibili, evitando la sovradistensione e l’eccessivo aumento della pressione intravescicale. Nella fase di shock, caratterizzata da ritenzione urinaria è indispensabile la cateterizzazione dapprima costante, quindi intermittente. La ricomparsa dell’attività automatica del detrusore (vescica automatica) determina l’incontinenza che può essere parzialmente controllata, oltre che con farmaci (propantelina 15 mg 3/die, oxybutinina 5 mg 3/die, imipramina 10 mg 4/die), da adeguati programmi di riabilitazione vescicale.
Riabilitazione cognitiva C. Serrati La riabilitazione cognitiva include l’insieme di tecniche utilizzate per migliorare le funzioni mentali superiori, con particolare attenzione ai quadri clinici che si verificano in seguito ad ictus trauma cranico, che certamente rappresentano le più frequenti cause di disabilità cronica. La separazione tra “riabilitazione delle funzioni motorie” e “riabilitazione cognitiva” assu-
me peraltro un carattere di artificiosità di fronte ai problemi che il riabilitatore deve affrontare con il singolo paziente; ad esempio è impressione comune che assai spesso le difficoltà sul piano motorio si intreccino con problemi di tipo attentivo o motivazionale, e che un’attenta valutazione neuropsicologica sia necessaria anche per costruire un progetto riabilitativo di un deficit “semplicemente” motorio. Tale separazione è frutto più delle diverse origini “storiche” delle attività riabilitative che di una aderenza ineccepibile della realtà clinica. È indubbio, tuttavia che per alcune funzioni almeno, la riabilitazione cognitiva conservi carattere di forte specificità. La riabilitazione cognitiva ha assunto particolare interesse alla luce dell’utilizzo di nuove tecniche funzionali (PET, MRI funzionale) che hanno permesso di conferire un significato di maggiore concretezza al concetto di plasticità cerebrale, spostandolo da un piano squisitamente biochimico, istologico o neurofisiologico a livello di sistema di rappresentazione, con la dimostrazione che l’apprendimento di particolari abilità comporta la variazione reversibile delle mappe corticali che sottendono un certo compito o che una determinata terapia riabilitativa aiuta l’espansione della rappresentazione cerebrale danneggiata da una lesione vascolare. Si ritiene attualmente che esistano quattro principali aspetti della neuroplasticità: 1. l’espansione delle mappe di rappresentazione, secondo la quale aree vicine a quella lesa la sostituiscono funzionalmente; 2. la riassegnazione cross - modale, attraverso la quale la modalità che sopperisce a quella lesa (es: tatto al posto della vista) viene rappresentata ugualmente nell’area corticale competente alla modalità lesa; 3. adattamento di aree omologhe; 4. compenso mascherato, nel quale un sistema intatto integra o sostituisce quello leso. È possibile che nei processi di adattamento post lesionale si evidenzino, in modo particolarmente incrementato, attività di sistemi paralle-
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li a quello leso funzionanti anche in condizioni di normalità ma con significato meno critico; d’altra parte è esperienza comune constatare, ad esempio, come compiti prettamente verbali vengano eseguiti da alcuni soggetti utilizzando rilevanti risorse di tipo visuo-spaziale, e viceversa. I problemi più critici sul piano clinico sono rappresentati da aspetti di ordine metodologico. In generale, qualunque trattamento di riabilitazione cognitiva dovrebbe essere preceduto da un bilancio neuropsicologico completo, che consenta di inferire un’attendibile valutazione prognostica; nella valutazione, dovrebbe essere riservata una parte significativa agli aspetti di tipo ecologico e ad un bilancio complessivo sulla qualità di vita del paziente. L’utilizzo dei disegni sperimentali su caso singolo può aiutare a conferire solidità metodologica al lavoro riabilitativo, e a sopperire all’esiguità di studi di gruppo. Un bilancio degli aspetti motivazionali o del tono timico del paziente è assolutamente critico, poiché quadri depressivi e deficit di motivazione possono inficiare significativamente il trattamento riabilitativo. Infine va ricordato che alcuni aspetti clinicamente rilevanti come esito di importanti lesioni cerebrali, tra i quali alcuni disturbi comportamentali, quadri depressivi e aggressività, possono essere positivamente affrontati con una adeguata terapia psicofarmacologica. Le principali aree di intervento per la riabilitazione cognitiva sono rappresentate da: 1. afasia 2. eminegligenza spaziale 3. attenzione 4. memoria. Anche le più recenti revisioni indicano l’afasia e l’eminegligenza come consolidate aree d’intervento, mentre i dati su attenzione e memoria debbono essere considerati ancora poco sistematici. AFASIA – Fin dai tempi di Broca, uno degli sforzi dei neurologi è stato quello di definire e
classificare una serie di sindromi, con lo scopo di localizzare la lesione cerebrale e di confrontare, possibilmente in maniera quantitativa, singoli individui o gruppi diagnostici. La classificazione più generalmente accettata è quella che distingue due gruppi, gli afasici non-fluenti, per lesione delle aree anteriori del linguaggio, e gli afasici fluenti, con lesione localizzata nelle regioni posteriori dell’emisfero dominante. Si riconoscono, quindi, tre tipi di afasia non fluente (Broca, transcorticale motoria e globale) e altrettanti di afasia fluente (Wernicke, transcorticale sensoriale e di conduzione). Questa impostazione ha indotto a ritenere che ciascuna sindrome identifichi un gruppo omogeneo di malati, caratterizzati da un analogo danno funzionale. In realtà ogni condizione rappresenta una serie eterogenea di condizioni mal confrontabili, in cui ciascun sintomo può dipendere da differenti alterazioni delle strutture linguistiche (come accade per l’agrammatismo o il deficit di reperimento di parole) ciò che spiega, in parte, perché un medesimo trattamento ai pazienti di uno stesso gruppo non è sempre seguito da miglioramento. Nell’evoluzione spontanea del disturbo fasico i vari aspetti si modificano in un differente ordine temporale: il deficit di comprensione migliora più velocemente di quello dell’espressione, indipendentemente dal tipo e dalla gravità del disturbo clinico, così come la lettura, per quanto gravemente compromessa, migliora assai più velocemente della ripetizione, ciò che può determinare sostanziali variazioni del quadro clinico, che può assumere aspetti diversi da quelli iniziali. L’età, generalmente, ritenuta un fattore prognostico rilevante, ha effetto diverso nelle diverse sindromi, ma usualmente difetti generalizzati del linguaggio, seguiti da scarso recupero, si osservano più frequentemente nell’anziano. Infine, la modificazione degli indici di funzione, quali, ad es., il metabolismo regionale non correla con le variazioni del quadro clinico, la cui evoluzione è anche dipendente dalle
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modificazioni indotte in altre aree cerebrali. A questo proposito, esiste una crescente serie di dati che dimostrano l’importanza del contributo dell’emisfero destro al processo di recupero dell’afasia nei destrimani. L’applicazione di concetti generali di danno e disabilità permette di distinguere due situazioni differenti, a seconda che si considerino i deficit fasici (il danno) in cui è alterata la capacità di combinare le diverse categorie linguistiche in una frase di senso compiuto, o le alterazioni della comunicazione (la disabilità), n cui si tiene conto della capacità complessiva di impiegare mezzi vocali o non – vocali, ad esempio mimica e gestualità, per trasmettere informazioni. Gli afasici usano una serie ampia di atti comunicativi mediante i quali possono salutare, domandare, chiedere, affermare e negare, nonostante che le loro frasi siano linguisticamente disordinate. D’altro canto deficit acquisiti della comunicazione sono molto più frequenti di quanto comunemente ritenuto, soprattutto nell’anziano. Per un’accurata valutazione del danno sono utilizzati test formali e standardizzati che consentono di quantificare il grado del deficit e la sua estensione alle diverse modalità del linguaggio (espressione, comprensione, ripetizione, lettura, prestazioni grammaticali e sintattiche, ecc.). La standardizzazione di queste prove ha il vantaggio di permettere un’analisi sistematica del disturbo, semplificando la valutazione senza perdere in affidabilità, procedendo anche alla valutazione della capacità di utilizzare strumenti non verbali, quali mimica, gesti, ecc. Va verificata, inoltre, l’eventuale presenza di disturbi cognitivi, ad es. attenzione, memoria, riconoscimento spaziale, ecc., che complicano il disturbo della comunicazione e, pertanto, devono essere valutati nell’impostare il programma riabilitativo. Altre variabili correlate alla motivazione e al supporto ambientale, possono giocare un ruolo estremamente importante nel determinare l’entità e la velocità della ripresa funzionale.
La terapia riabilitativa si propone di stimolare le capacità verbali del paziente intervenendo direttamente su alcune modalità specifiche del deficit. Laddove il disturbo fasico altera solo alcune funzioni verbali, ad esempio nel caso limite dell’agrafia e dell’alessia, il trattamento terapeutico utilizza tecniche che si propongono di migliorare il deficit attraverso l’ottimizzazione delle funzioni preservate. Per lo più, il disturbo compromette diffusamente tutte le funzioni del linguaggio anche se in grado differente, e il deficit della comunicazione rispecchia la sovrapposizione di alterazioni cognitive concomitanti, e di difficoltà motivazionali. L’efficacia del trattamento nel ridurre il deficit specifico, quale il reperimento di parole, la comprensione orale, la comprensione scritta, la ripetizione, ecc., è dimostrata nei pazienti sottoposti a trattamento riabilitativo, i quali migliorano molto più dei pazienti non trattati a patto che la terapia sia prolungata (sei mesi e più) e intensa (3 volte alla settimana o più). Anche se questa affermazione non trova tutti concordi, esiste un orientamento consolidato nel ritenere opportuno e benefico trattare l’afasico e l’efficacia è tanto maggiore quanto più precoce ed intensa è la terapia. In sintesi, si ritiene che quando i deficit siano particolarmente circoscritti l’utilizzo di terapie linguistico – cognitive sia particolarmente indicato (trattamento dei deficit fonologici e dell’articolazione, trattamento dei deficit lessicali, trattamento dei deficit morfosintattici). Ciò tuttavia non è sempre possibile o comunque non rispondente alla consistente perdita di competenze comunicative del paziente; in tal senso i modelli di terapia della comunicazione (tipo P.A.C.E.) appaiono decisamente più fruttuosi. Sarà opportuno ricordare, in conclusione, che in particolare la riabilitazione del linguaggio (e soprattutto quella di pazienti afasici gravi) è frutto di un processo creativo di interazione tra paziente e terapista, che rende assai complessa la sua analisi “in itinere” in termini quantitativi.
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EMINATTENZIONE E DISTURBI CORRELATI – L’eminattenzione consiste nell’incapacità o nella ridotta tendenza a focalizzare l’attenzione verso gli stimoli provenienti dalla metà dello spazio controlaterale alla lesione; in genere la lesione coinvolge l’emisfero destro e l’eminattenzione la metà sinistra dello spazio. Mentre nell’emianopsia il soggetto ha consapevolezza del deficit, cui cerca di ovviare con movimenti compensatori dello sguardo, nell’eminattenzione lo spazio esterno è ristretto alla metà ipsilaterale alla lesione ed il restante spazio non è accessibile. Il disturbo rappresenta una complicanza rilevante per il suo significato prognostico sfavorevole. L’eminattenzione generalmente dovuta a lesione delle strutture temporo – parieto – occipitali, frequentemente si associa ad emiplegia o emiparesi sinistra con anosognosia; il paziente non ha coscienza del deficit tanto da cercare di mettersi in piedi, ne nega la presenza o, alternativamente, pur ammettendo il deficit non ne sembra particolarmente preoccupato (anosodiaforia). Il quadro clinico può essere complicato dalla presenza di disorientamento spazio – temporale, disturbi mnesici, apatia ed inerzia. Il trattamento si riferisce a quanto proposto da Luria (1969), cercando di compensare la funzione danneggiata mediante l’acquisizione di nuove strategie percettive e motorie cui specificamente il soggetto viene addestrato: si stimola il paziente ad esplorare il lato ignorato dello spazio, poiché il miglioramento ottenuto in compiti specifici dovrebbe generalizzarsi all’insieme delle operazioni spaziali, anche per quelle per le quali il paziente non ha ricevuto alcun trattamento. Altre tecniche si basano sulla mobilizzazione intensa agli arti controlaterali alla lesione o su di una intensa stimolazione vestibolare, entrambe associate ad un miglioramento dell’attenzione verso l’emispazio negletto. Lo studio della riabilitazione dell’eminegligenza spaziale ha consentito, tra l’altro, di porre con forza alcuni quesiti di ordine metodologico generale.
Il primo problema è rappresentato dalla generalizzazione; è ovvio che si desideri che il paziente migliori non solo nei compiti standardizzati di training, ma che sia in grado di trasferire il miglioramento nella vita quotidiana: i dati della letteratura sono orientativi in senso positivo, ma restano aneddotici. Un secondo problema è rappresentato dalla specificità dei cambiamenti comportamentali ottenuti dopo il trattamento: anche in questo caso i dati della letteratura sono scarsi e non univoci; è probabile che la valorizzazione di studi di caso singolo consenta di sopperire alle difficoltà metodologiche nell’organizzare studi di gruppo. Riabilitazione delle malattie del sistema nervoso periferico Il trattamento riabilitativo si propone di contenere e migliorare la disabilità derivante da patologia delle radici o delle fibre nervose periferiche, che si esprimono con segni variamente associati di deficit della motilità, della sensibilità, e con dolore. Poichè il deficit funzionale è il risultato anche di alterazioni secondarie osteoarticolari, è indispensabile che il trattamento riabilitativo sia intrapreso il più precocemente possibile. La corretta impostazione riabilitativa procede da una diagnosi che, spesso non conclusiva sul piano etiologico, deve essere completa e dettagliata nella distribuzione del deficit, nella sua corretta valutazione di intensità e nella identificazione dei meccanismi responsabili della disabilità. Apparecchi correttivi e ortesici possono ridurre l’impatto a livello osteoarticolare delle lesioni neuromuscolari, con miglioramento della mobilità nelle attività quotidiane.. 1. TERAPIA FISICA (a) Termoterapia e crioterapia – La termoterapia può essere impiegata nel tentativo di alleviare il dolore e gli spasmi muscolari, sotto-
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lineamdo che tutti i tipi di riscaldamento controllabili solo con la percezione del dolore devono essere usati con cautela per l’evidente rischio di ustioni. L’idromassaggio tiepido e l’applicazione di infrarossi possono essere utilizzati per i dolori o le disestesie. La termoterapia con ultrasuoni è prevista perchè il riscaldamento profondo, aumentando il flusso ematico locale, può contribuire alla rigenerazione o al recupero della conduzione nervosa nelle neuropatie da intrappolamento. Non esistono comunque dati sicuri sui dosaggi da impiegare,anche se, usando gli ultrasuoni, l’energia somministrata può essere misurata con maggior sicurezza. Il laser a bassa energia è stato proposto per la riduzione del dolore nelle neuropatie ma la sua efficacia è discussa. L’applicazione superficiale di freddo in forma di ghiaccio o acqua provoca, probabilmente attraverso un meccanismo di vasocostrizione-ipoperfusione, analgesia. (b) Massaggi – Il massaggio, che può contribuire ad alleviare il dolore e a rilassare muscoli contratti o deformati dalla ipomobilità, può essere superficiale o profondo. Potrà ridurre il dolore se condotto con lievi pressioni e frizioni; potrà favorire la mobilizzazione, in caso di neuropatie croniche con deformazioni-retrazioni, se attuato con manovre di frizione e manipolazione delle masse muscolari e dei tendini. Un massaggio leggero può essere usato per aiutare a spostare fluidi da regioni edematose (massaggio drenante). (c) Mobilizzazione – Per recuperare o mantenere un buon livello di mobilità si devono mobilizzare le articolazioni ipomobili almeno 2 volte al giorno, e se il malato non è in grado di muovere autonomamente, deve essere aiutato da terapisti o da appositi strumenti. Di solito si fanno 3-5 ripetizioni di movimento lungo l’intera escursione dell’articolazione nella stessa seduta, per 2 sedute al giorno. Le contrat-
ture, di solito, si osservano nella regione della spalla, dell’anca, a livello delle ginocchia, delle caviglie, e delle dita e in particolare ai muscoli flessori. Modesti allungamenti, mantenuti per 20 minuti, sono considerati più efficaci di quelli ampi, con applicazione di forze intense, e di breve durata. Le fibre collagene sono più facilmente allungate a temperature di 40°-43°, per cui è opportuno far precedere l’allungamento da una fase di riscaldamento. Quando le contratture sono marcate e disabilitanti, le fibre collagene possono essere stirate, dopo aver raggiunto tali temperature, con l’uso locale di termoterapia (ad esempio con ultrasuoni), durante il processo di allungamento. (d) Rieducazione – La rieducazione consiste nell’insegnare al malato come contrarre nuovamente singoli muscoli o gruppi di muscoli. Non esistono dati che dimostrino differenze di efficacia tra le varie tecniche impiegate. La tecnica più antica, (approccio analitico) sviluppata per le malattie del secondo motoneurone, è quella sviluppata dalla Kenny nel 1955, in casi di poliomielite. Il malato viene stimolato a contrarre un singolo muscolo o muovere una singola articolazione, senza contrarre muscoli antagonisti. Il movimento è eseguito passivamente dal terapista e successivamente il malato è incoraggiato a ripetere il movimento fino a quando riappare la contrazione. L’affaticamento deve essere evitato con cura: le ripetizioni durante le sessioni di lavoro sono poche e, negli intervalli, il muscolo è tenuto il più possibile rilassato. Un approccio definito “olistico” utilizza le tecniche rieducative di “facilitazione neuromuscolare propriocettiva”, tentando di utilizzare riflessi midollari e tronco encefalici per facilitare movimenti muscolari che coinvolgono i muscoli paralizzati. Le tecniche di facilitazione, principalmente attraverso fenomeni di sommazione spazio-temporale, hanno l’obiettivo di
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attivare le vie nervose lese, per tentare di favorire sia la rigenerazione collaterale che quella terminale. Nella maggior parte delle neuropatie è preferito l’approccio della tecnica della Kenny, specialmente quando è iniziato il recupero della funzione delle unità motorie nelle neuropatie demielinizzanti ed in quelle che interessano la porzione terminale dell’assone. Tecniche di facilitazione periferica possono esserer associate, in particolare: il leggero strofinio della pelle sovrastante il muscolo con un dito, un pennello, o un oggetto freddo, il tamburellamento (tapping ) del tendine muscolare, ed anche la stimolazione elettrica del nervo, se intatto, allo scopo di raggiungere una contrazione muscolare. La tecnica del “bio-feedback”, che utilizza il controllo visivo e acustico (proveniente dal muscolo, generalmente attraverso l’uso dell’elettromiografo), ha un rapporto costo-efficacia elevato, ma può essere particolarmente utile in programmi di potenziamento muscolare molto selettivi, ad esempio, nei soggetti sottoposti a interventi di anastomosi nervose, quali le anastomosi ipoglosso-faciale. (e) Esercizi per forza e resistenza – Quando si è sviluppata una buona capacità a contrarre il muscolo, si iniziano gli esercizi per sviluppare la forza, consistenti in contrazioni ripetute contro forte resistenza. Ripetizioni numerose contro leggera resistenza sviluppano, infatti, una maggior resistenza (Joynt, 1986). Di solito gli esercizi comportano 15-30 ripetizioni in varie sedute di 5-10 minuti l’una, con aumento del carico massimo dei pesi fino al raggiungimento della forza massima. In seguito, il programma deve essere continuato seppure in misura ridotta, poichè la sospensione dell’esercizio e una condotta di vita sedentaria, potrebbero determinare una perdita dei risultati ottenuti. Il programma di rafforzamento deve essere eseguito cinque o più giorni la settimana, e 2-3 volte la settimana il lavoro di mantenimento.
Nelle neuropatie ereditarie, esercizi di rafforzamento eseguiti tre volte la settimana per otto settimane, si sono dimostrati efficaci per migliorare la potenza dei muscoli flessori ed estensori del ginocchio e le normali attività fisiche quotidiane. Se il soggetto non è in grado di sollevare l’arto, l’esercizio deve essere eseguito a gravità eliminata, e con una resistenza graduata dal fisioterapista. Una modalità è quella di far compiere l’esercizio su superfici lisce con resistenza determinata dall’attrito dell’arto sulla superficie d’appoggio. Tale attrito può essere ridotto usando talco, oppure incrementato mettendo sacchetti di sabbia sopra o intorno all’arto. Quando si associa un danno articolare, si può esercitare il muscolo con contrazioni isometriche, cioè senza effettuare grandi movimenti articolari. Il trasferimento della forza, acquisita con contrazioni isometriche, ad attività che comportano un movimento articolare (contrazioni isotoniche) seguirà in un tempo successivo, dopo aver mobilizzato l’articolazione. L’esercizio isometrico comporta aumento della pressione arteriosa, conseguente ad un meccanismo riflesso e verosimilmente per la tendenza a compiere una manovra di Valsalva. 2. STIMOLAZIONE ELETTRICA (a) Trofismo muscolare – Nonostante l’utilità della stimolazione elettrica sia discussa e manchino studi controllati nell’uomo, la sua applicazione può essere tentata nel muscolo denervato. Nel 1942, Gutmann e Gutmann segnalarono che la stimolazione elettrica ritardava l’atrofia nel muscolo denervato del coniglio. Studi successivi hanno confermato tali dati in alcuni mammiferi, ma non in altri ed hanno sollevato il dubbio che la stimolazione elettrica interferisca negativamente sui processi di reinnervazione. Per fare contrarre il muscolo denervato che non ha più punti motori, la corrente deve trasmettersi trasversalmente al suo spessore ed
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essere di lunga durata (150-200 msec.). Sfruttando la diversa accomodazione del muscolo denervato, la stimolazione può essere teoricamente realizzabile senza co-stimolare il nervo. Il trattamento usuale è quello di 2 sessioni al giorno per 6 giorni alla settimana, iniziando al più presto dopo l’inizio della denervazione. Le lesioni di singoli nervi, come accade spesso nelle neuropatie traumatiche, rappresentano la principale indicazione, soprattutto quando il deficit è limitato ed il recupero è previsto dopo un periodo stimabile oltre i 100 giorni. (b) Riduzione del dolore – L’elettroterapia è stata utilizzata per il trattamento del dolore fin dalla metà del diciannovesimo secolo, ma il suo uso è notevolmente cresciuto dopo la formulazione della “Gate Theory” (v. pag. 000) e la conseguente introduzione della TENS (Transcutaneous Electrical Nerve Stimulation ). La TENS consiste nell’applicazione di stimolazioni, d’intensità e frequenza variabili, per periodi di 15-30 minuti al giorno.Tale stimolazione attiverebbe le fibre afferenti di grosso calibro, bloccando, quindi, gli impulsi dolorifici che viaggiano su fibre di diametro minore. Il posizionamento ottimale degli elettrodi può essere molto specifico in alcuni soggetti: le sedi di stimolazione corrispondono ai punti trigger e ai punti di analgesia dell’agopuntura. Esistono dati contrastanti sull’efficacia della TENS: alcuni studi hanno evidenziato una diminuzione del dolore in soggetti con dolore cronico e in malati con neuropatia diabetica nei quali la TENS può potenziare l’effetto analgesico dell’ampitriptilina. L’effetto della stimolazione a bassa frequenza, a differenza di quella ad alta frequenza, può essere bloccato dal naloxone. 3. ORTESI, SPLINTS E SOSTEGNI Le ortesi sono apparecchi di supporto e allineamento che vengono usati per prevenire deformazioni, correggere contratture, o stabiliz-
zare le articolazioni malfunzionanti per la presenza di deficit di forza. Per stabilizzare le articolazioni o prevenire le contratture vengono usate ortesi “statiche”, relativamente rigide. Ortesi “dinamiche”, che esercitino un supporto articolare flessibile, possono essere usate anche per correggere le contratture o per migliorare la funzione di un muscolo debole. Le ortesi funzionano con il principio delle leve, appoggiando sul corpo di solito in tre punti, con due forze applicate nella stessa direzione e la terza nella direzione opposta in un punto intermedio. Il punto intermedio agisce come fulcro di una leva di prima classe e la forza esercitata contro la pelle in quel punto sarà la somma delle forze esercitate ai due capi: in caso di anestesia cutanea, occorre tener presente la possibilità di generare decubiti e lesioni da pressione, e un leggero cuscinetto può aiutare a distribuire meglio la pressione. (a) Ortesi-arto superiore – Per la spalla non esistono sostegni mobili soddisfacenti per migliorarne la funzione. Splints del polso: vengono di solito usati in caso di ipostenia degli estensori del polso. Il polso è tenuto con una lieve estensione rispetto all’avambraccio (25°), per migliorare la funzione dei flessori delle dita e mantenere il pollice sul piano volare dell’avambraccio. Splints che bloccano il polso e permettono la flessione metacarpofalangea e l’opposizione del pollice, vengono inoltre usati nel trattamento conservativo della sindrome del tunnel carpale. I più efficaci sono comunque splints in plastica leggera, modellati in modo da mantenere il polso in una posizione neutrale, e portati di notte quando la sintomatologia è più marcata, anche se possono alleviare i sintomi durante il giorno. L’efficacia sui sintomi notturni si aggira , soggettivamente, circa nel 70% dei casi, mentre i miglioramenti obiettivi sono registrati nel 20% . Lo splint è, di solito, più efficace se applicato nei primi tre mesi della sintomatologia .
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(b) Ortesi-arto inferiore – Sono utilizzate, prevalentemente, per ovviare alla debolezza dei muscoli che dorsiflettono ed abducono il piede, ma possono essere utili anche in caso di debolezza dei flessori plantari, di incapacità a mantenere l’estensione del ginocchio e dell’anca durante la stazione eretta, e in caso di “genu recurvatum”. Nella debolezza dei dorsiflessori del piede, possono essere utilizzate molle leggere con supporti metallici, oggi, in genere, sostituiti da ortesi in plastica, leggere e lavabili, generalmente fatte su misura, che avvolgono la parte posteriore della gamba, la pianta del piede e possono essere inserite nelle scarpe e possono essere articolate alla caviglia. In caso di marcata ipostenia del quadricipite femorale, quando non è sufficiente l’aiuto di un bastone, è necessario l’uso di ortesi per stabilizzare il ginocchio in modo che non ceda nel mantenimento della stazione eretta. In caso di marcata ipostenia anche degli estensori della coscia, con conseguente atteggiamento in flessione dell’anca, l’ortesi deve estendersi dalla tuberosità ischiatica fino al piede con un’articolazione al ginocchio sbloccabile quando il soggetto si siede. (c) Rimedi chirurgici – Includono allungamenti, trasferimenti e traslocazioni tendinee, tenodesi, atrodesi, osteotomie e fasciotomie. L’allungamento tendineo è prevalentemente effettuato sul tendine di Achille, per correggere l’atteggiamento equino del piede. Il trasferimento tendineo viene usato per ridurre una forza deformante prodotta dal tendine attraverso la sua inserzione originale. La traslocazione tendinea viene effettuata per modificare la linea di trazione del tendine riducendone alcune funzioni ed eventualmente incrementandone altre. Le tenodesi possono essere usate per stabilizzare articolazioni o determinare l’attivazione passiva del tendine da parte di altri muscoli (ad esempio la tenodesi del tendine del flessore pro-
fondo delle dita appena prossimalmente al polso, permette la flessione delle dita in simultanea con l’estensione attiva del polso). Le artrodesi assicurano stabilità ma devono essere considerate con cautela perché, comportando la perdita della mobilità dell’articolazione interessata, possono aumentare la disabilità del malato. Le osteotomie servono anch’esse ad ottenere una maggiore stabilità ma vengono praticate raramente per i possibili rischi d’infezioni o di difficoltà di ricongiunzione. Le fasciotomie, infine, possono essere praticate per correggere contratture, in genere dei flessori della coscia, della banda ileotibiale e della fascia plantare.
Riabilitazione nelle malattie muscolari La fisioterapia può migliorare la forza muscolare e l’efficienza cardiovascolare e prevenire possibili complicazioni. Nelle distrofie muscolari progressive, l’incapacità a deambulare è anche da ascrivere ad alterazioni a livello articolare, la cui apparizione può essere ritardata da esercizi passivi di allungamento iniziati molto precocemente. Ortesi e splints applicati tempestivamente, in eventuale associazione a tenotomie, possono spesso prolungare il periodo di deambulazione e indipendenza prevenendo l’insorgenza di scoliosi o la comparsa di retrazioni tendinee. Nelle distrofie muscolari tipo Duchenne, la posizione seduta asimmetrica può accelerare lo sviluppo della scoliosi, per cui la prevenzione di questa alterazione della curvatura della colonna è di particolare importanza, specie se il bambino non è in grado di deambulare. Devono essere incluse nel programma riabilitativo anche misure per agevolare la respirazione. Il primo segno di ipoventilazione è spesso una sensazione aspecifica di malessere, cefalea, irritabilità o mancanza di impegno, che precedono la comparsa di alterazioni all’emogasanalisi. L’insuf-
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ficienza respiratoria è trattata con ventilatori, tipo maschere facciali con pressione positiva. Usualmente il ventilatore è applicato durante la notte in modo da non interferire con le normali attività quotidiane. (a) Esercizio fisico nei miopatici – Programmi di esercizio fisico, per migliorare la forza muscolare e la capacità cardiovascolare, devono essere utilizzati anche se non esistono protocolli validati. La forza appare mantenuta con l’impiego di programmi di rafforzamento muscolare contro resistenza, particolarmente durante gli stadi iniziali della malattia. Contrariamente a quanto ritenuto in passato, programmi di esercizi contro resistenza sono raccomandati anche nelle miopatie infiammatorie, per contrastare gli effetti avversi della scarsa attività e della somministrazione degli steroidi. (b) Programmi di esercizio aerobico – La fatica e la scarsa tolleranza all’esercizio intervengono comunemente nei miopatici ed hanno un significativo impatto sulla capacità a condurre uno stile di vita attivo. I miopatici hanno, in genere, una ridotta capacità aerobica rispetto ai normali e raggiungono una minore frequenza cardiaca in risposta all’esercizio (Taivassalo 1999). Nelle miopatie infiammatorie l’atrofia muscolare è correlata ad un minore picco di consumo di ossigeno e gli effetti della terapia steroidea hanno un impatto aggiuntivo. Possono anche essere presenti anomalie cardiorespisratorie asintomatiche talora mascherate dalla ipostenia muscolare. La maggior parte degli studi con cicloergometro e scalemobili, associati ad analisi dello scambio dei gas respiratori hanno dimostrato un miglioramento della capacità aerobica, della tolleranza all’esercizio, e della forza, anche per periodi di 6 settimane. Sembra che l’inten-
sità del programma di addestrramento determini il miglioramento della capacità aerobica. Il mancato riscontro di aumento di CPK in vari studi di esercizio aerobico orienta verso la innocuità dell’esercizio. In ogni caso, vi è meno probabilità di danno muscolare con il training aerobico rispetto ai programmi di rafforzamento contro resistenza, considerato che attività come il pedalare al cicloergometro e marciare sulle scale mobili comportano contrazioni muscolari concentriche e in minima parte eccentriche.
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