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ANNE McCAFFREY NERILKA (Nerilka's Story, 1986) PROLOGO Se il lettore non conosce la serie I Dragonieri di Pern, alcune cose potranno apparirgli un pò confuse. La Storia di Nerilka è un racconto collaterale a Moreta: la Signora dei Draghi, narrato dal punto di vista di uno dei personaggi minori di quel romanzo. Ecco un breve riassunto degli avvenimenti precedenti: Rubkat, nel settore del Sagittario, era una stella della Classe G (1), dallo splendore dorato. Aveva cinque pianeti, due cinture di asteroidi ed un pianeta estraneo che aveva attirato e catturato nel corso degli ultimi millenni. In un primo momento, quando gli uomini si erano stabiliti sul terzo pianeta di Rubkat e gli avevano dato il nome di Pera, avevano fatto ben poco caso al pianeta estraneo, che ruotava intorno al sole adottivo descrivendo un'orbita follemente irregolare ed ellittica. Per due generazioni, i coloni non pensarono troppo alla brillante Stella Rossa: finché il corso seguito da quel corpo celeste non lo portava vicino al suo fratellastro, al perielio. Quando gli aspetti erano armoniosi e non distorti dalla congiunzione con altri pianeti del sistema, organismi parassiti originari del pianeta vagabondo, cercavano di attraversare l'abisso spaziale che li divideva dall'altro pianeta, più temperato ed ospitale. A quei tempi, dei Fili d'Argento scesero attraverso i cieli di Pern, distruggendo tutto quello con cui entravano in contatto. Le perdite subite inizialmente dai coloni furono impressionanti. Di conseguenza, nel corso della lotta ingaggiata per sopravvivere e combattere la minaccia, si ruppe il tenue legame di Pern col pianeta madre. Per impedire le incursioni dei temutissimi Fili - poiché i Pernesi utilizzando gli animali come mezzi di trasporto, avevano abbandonato le sofisticazioni tecnologiche, inutili al loro pianeta - gli uomini più ingegnosi del pianeta intrapresero un piano a lungo termine. La prima fase prevedeva la creazione di una varietà estremamente specializzata d'una forma animale indigena del pianeta adottivo. Gli esseri umani provvisti di un'elevata sensibilità e di facoltà telepatiche innate, vennero addestrati a utilizzare e conservare quegli animali insoliti. I dra-
ghi, che prendevano il nome dai leggendari animali terrestri a cui rassomigliavano, avevano due preziose caratteristiche: potevano spostarsi istantaneamente da un luogo all'altro e, dopo aver masticato una roccia composta di fosfina, emettevano un gas fiammeggiante. Dal momento che potevano volare, i draghi erano in grado di intercettare e bruciare i Fili a mezz'aria, prima che raggiungessero la superficie. Ci vollero intere generazioni per sviluppare appieno le potenzialità dei draghi. La seconda fase del progetto di difesa dalle terribili incursioni avrebbe richiesto ancora più tempo. Perché i Fili, spore micorizoidi che viaggiavano nello spazio, divoravano con noncurante voracità tutta la materia organica e, una volta atterrati al suolo, scavavano la terra e proliferavano con terrificante velocità. Per questa ragione, venne sviluppato un simbiote dello stesso tipo allo scopo di neutralizzare il parassita, e se ne introdusse la larva nel suolo del Continente Meridionale. Secondo il piano, i Draghi avrebbero costituito la protezione visibile, con il compito di bruciare i Fili mentre erano ancora in cielo e di difendere gli insediamenti ed il bestiame dei coloni. Il simbiotelarva, a sua volta, avrebbe protetto la vegetazione, divorando i Fili che fossero riusciti a sfuggire al fuoco dei Draghi. Coloro che avevano ideato il piano di difesa non tennero conto del fattore geologico. Il Continente Meridionale, per quanto apparisse più accogliente della scabra terra del nord, si rivelò instabile, e l'intera colonia fu infine costretta a cercare rifugio dai Fili sullo scudo continentale e roccioso del nord. Nel continente settentrionale sorgeva la Fortezza originaria, la Fortezza di Fort, costruita sul lato orientale della Grande Catena dei Monti Occidentali. Essa presto si affollò di coloni, ed il suo ampio recinto non poté contenere il numero crescente di Draghi. Leggermente più a nord, nel punto in cui un grande lago si era formato accanto ad una scogliera piena di caverne, venne creato un altro insediamento. Ma, nel giro di poche generazioni, anche la Fortezza di Ruatha non bastò più. Dal momento che la Stella Rossa sorgeva ad est, la gente di Pern decise di fondare una comunità nelle montagne orientali, dove si trovavano delle ampie caverne. Solo la roccia ed il metallo, che scarseggiavano a Pern, costituivano un adeguato baluardo contro i Fili. A quei tempi, i draghi alati, caudati ed alitanti fuoco, erano diventati tanti da richiedere sistemazioni più spaziose di quelle fornite dalle cavità rocciose. I coni di vulcani estinti, uno che sovrastava la prima Fortezza e
l'altro nei Monti Benden, si rivelarono più adatti e richiesero solo pochi sforzi per essere resi abitabili. I draghi ed i cavalieri nelle zone alte, il popolo nelle sue caverne, si dedicarono a compiti diversi, e gli uni e gli altri svilupparono abitudini che si cristallizzarono in tradizioni fisse come leggi. E quando una Caduta di Fili fu imminente - quando la Stella Rossa divenne visibile all'alba attraverso le Pietre Stellari erette al confine di ogni Weyr - i draghi ed i loro cavalieri si mobilitarono per proteggere il popolo di Pern. Poi ci fu intervallo di duecento Giri del pianeta Pern intorno al suo sole, e la Stella Rossa si trovò all'estremità opposta della sua orbita erratica, un prigioniero gelido e solitario. Nessun Filo cadde su Pern. Gli abitanti cancellarono i segni della depressione dei Fili e coltivarono messi, piantarono frutteti e si dedicarono al rimboschimento dei pendii denudati dai Fili. Riuscirono persino a dimenticare di essersi una volta trovati in percolo di estinzione. Poi, quando il pianeta vagabondo ritornò, i Fili caddero nuovamente, portando altri cinquant'anni di attacchi dal cielo. Ancora una volta i Pernesi ringraziarono i loro antenati, morti da tante generazioni, per aver creato i draghi, il cui respiro infuocato ardeva i Fili a mezz'aria. Durante quell'Intervallo, anche la stirpe dei Draghi era fiorita e si era stabilita in altri quattro luoghi, seguendo lo schema previsto dalla difesa interna. Nella memoria di Pern, i ricordi della Terra continuarono a sbiadire, una generazione dopo l'altra, fino a quando la lontana origine dell'Umanità degenerò, scivolando nel mito. L'importanza dell'Emisfero Meridionale - e le Istruzioni impartite dai coloni difensori del drago e della larva - si alterarono e persero nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Al tempo del Sesto Passaggio della Stella Rossa, per combattere il flagello ricorrente, si era sviluppata una complicata struttura socio-politicoeconomica. I sei Weyr, come venivano chiamate le antiche abitazioni vulcaniche del popolo dei draghi, si impegnavano a proteggere Pern, ed ogni Weyr aveva letteralmente sotto le sue ali una sezione geografica del Continente Settentrionale. Il resto della popolazione era d'accordo nel fornire ai Weyr i mezzi di sostentamento, considerato che i Dragonieri non avevano terra coltivabile nei loro insediamenti vulcanici; ma non poteva sottrarre tempo allo sforzo di nutrire i propri draghi per poter apprendere altri commerci in tempo di pace, così cerne non poteva distrarre le proprie energie dalla difesa del pianeta ad ogni Passaggio.
Gli insediamenti, chiamati Fortezze, si svilupparono dovunque si trovassero grotte naturali: alcuni, naturalmente, più estesi o in migliore posizione strategica di altri. Era necessario un uomo forte per esercitare il controllo sulla popolazione terrorizzata durante gli attacchi dei Fili; era necessaria un'amministrazione saggia per conservare provviste sufficienti per i periodi in cui non si poteva coltivare, ed erano necessarie misure straordinarie per controllare la popolazione e mantenerla sana e produttiva per il momento in cui fosse passato il pericolo. Uomini con speciale talento per la lavorazione del metallo, la tessitura, l'allevamento del bestiame, la coltivazione della terra e lo scavo delle miniere, formarono delle Sedi delle Arti in ogni grande Fortezza, guidate da un Maestro, dove venivano insegnati i precetti dell'Arte ed i suoi segreti erano preservati e tramandati di generazione in generazione. Un Signore non poteva negare i prodotti della Sede istituita nella propria Fortezza, perché le arti venivano considerate indipendenti. Ogni Maestro d'Arte di una Sede doveva fedeltà al Maestro della sua Arte: una carica elettiva basata sull'abilità nell'Arte e sulla capacità amministrativa. Il Maestro d'Arte era responsabile dei risultati ottenuti dalle sue Sedi e della distribuzione di tutti i prodotti dell'Arte su base planetaria. Particolari diritti e privilegi derivarono a diversi Comandanti di Fortezze e Maestri d'Arte e, naturalmente, ai Dragonieri a cui tutta Pern guardava per la difesa durante le Cadute dei Fili. Fu dentro i Weyr che ebbe luogo la più grande rivoluzione sociale, perché i bisogni dei draghi divennero prioritari su tutto il resto. Dei draghi, i dorati ed i verdi erano femmine, i bronzei, i marroni ed i blu, maschi. Dei draghi femmina, solo i dorati erano fertili; i verdi erano resi sterili dal consumo della pietra del fuoco, e la cosa era positiva, perché altrimenti le inclinazioni sessuali dei piccoli verdi avrebbero in breve tempo provocato una sovrappopolazione. Ad ogni modo, erano i più agili e, intrepidi e aggressivi, non avevano rivali come combattenti di Fili. Per tutto questo pagavano il prezzo della fertilità, ed i cavalieri dei Draghi-Regina portavano dei lanciafiamme per bruciare i Fili. I maschi blu erano più resistenti delle loro piccole sorelle, mentre i marroni ed i bronzei avevano la capacità di resistere a lunghe ed ardue battaglie contro i Fili. In teoria, le grandi e fertili Regine dorate si accoppiavano con qualunque drago riuscisse a prenderle negli strenui voli di accoppiamento. In generale, però, questo onore toccava ai bronzei. Di conseguenza, il cava-
liere di un drago bronzeo che prendeva il drago Regina maggiore di un Weyr, ne diventava il Comandante e guidava le Ali combattenti durante e dopo un Passaggio, mentre era compito della Dama del Weyr nutrire e preservare i Draghi, e sostenere e migliorare i Weyr con tutto il suo popolo. Una forte Dama di Weyr era essenziale alla sua sopravvivenza, così come i draghi lo erano a quella di Pern. Su di lei ricadeva il compito di rifornire il Weyr, allevare i bambini e cercare i migliori candidati della Sede e della Fortezza per assegnarli ai draghi appena nati. Poiché la vita nei Weyr era non solo più prestigiosa, ma anche più comoda - sia per gli uomini che per le donne - Fortezze e Sedi erano orgogliosi che i loro bambini venissero presi nella Cerca, e si vantavano degli illustri membri della loro casata divenuti Dragonieri. Ora, nell'anno o Giro 1541, secondo il loro computo, mentre il Sesto Passaggio della Stella Rossa è quasi finito, gli abitanti, i Signori ed i Maestri delle Arti affrontano un nuovo pericolo, minaccioso quanto quello dei Fili. CAPITOLO I Intervallo 3.11.1553 Non sono un Arpista, dunque non attendevi un racconto raffinato. Questa è una storia personale, precisa quanto può renderla la memoria, la mia memoria, e dunque la percezione degli eventi sarà senza dubbio di parte. Nessuno può negare che io abbia vissuto momenti gravi della storia di Pern, momenti tragici. Sono sopravvissuta alla Grande Peste, anche se il mio cuore soffre ancora per coloro che perirono a causa della sua virulenza, e continuerà sempre a soffrirne. Infine, credo di avere conquistato un atteggiamento positivo nei confronti della morte. Neppure le più abiette autorecriminazioni riporteranno nei morti un alito di vita sufficiente perché assolvano i vivi. Come molti altri, ciò di cui mi addoloro è quanto non feci o non dissi per le mie sorelle, che ora sono aldilà della parola, della vista e del benevolo saluto che avrei potuto rivolgere loro l'ultima volta che le vidi. In quel fragrante mattino, quando mio padre, il Nobile Tolocamp, mia madre, Dama Pendra, e quattro delle mie sorelle minori si misero in viaggio per la Prima Fortezza di Ruatha ed il suo Raduno che si trovavano a quattro giorni di cammino da lì, non dissi loro addio, né augurai loro buon
viaggio. Prima di ritrovare il buon senso, mi sono preoccupata, lo ammetto, che la mia mancanza di benevolenza in quell'occasione fosse stata la causa della loro disgrazia. Ma quella mattina c'era una vera folla beneagurante, e di certo le esortazioni di mio fratello Campen sarebbero state un saluto ben più potente di qualsiasi frase borbottata da me. Perché lui era stato infine lasciato al comando della Fortezza di Fort durante l'assenza di mio padre, ed intendeva fare del suo meglio per dimostrarsi degno dell'incarico. Campen è un bel tipo, nonostante la sua assoluta mancanza di sensibilità e di umorismo. Nel suo corpo non c'è nessun osso storto. Poiché il suo programma era di stupire mio padre con la sua bravura ed efficienza nel governare la Fortezza, esso richiedeva, naturalmente, che i miei genitori tornassero sani e salvi. Avrei potuto dire al povero Campen che con tutta probabilità avrebbe ricevuto solo un grugnito di approvazione da parte di mio Padre, visto che lui si aspettava comunque bravura ed efficienza dal suo figliolo ed erede. Con l'intero corpo di guardia della Fortezza, tutti i fittavoli ed in più l'esuberante presenza degli apprendisti Arpisti, c'erano auguri sufficienti a tranquillizzare qualunque viaggiatore. Nessuno poteva notare la mia defezione. Eccezion fatta, forse, per Amilla, mia sorella, al cui sguardo acuto non sfuggiva nulla che potesse in seguito tornarle utile. In verità, anche se certamente non auguravo loro del male, dal momento che il giorno prima era stata sopportata una Caduta di Fili senza che nessuna infestazione danneggiasse i campi d'inverno, non avrei potuto augurare loro ogni bene. Perché ero stata lasciata a casa di proposito, e non mi era piaciuto ascoltare le chiacchiere delle mie sorelle sulle loro vane speranze di fare conquiste a Ruatha e sapere che non avrei partecipato ai festeggiamenti. Essere esclusa in modo così perentorio, con un solo gesto della mano del mio Signore che mi cancellava dalla lista di viaggio, era un'altra manifestazione di insensibilità. Si comportava sempre così quando una decisione coinvolgeva i sentimenti: almeno, si comportava così nelle decisioni e nei giudizi prima di ritornare da Ruatha e di rinchiudersi per settimane nei suoi appartamenti. Non c'era nessun buon motivo per escludermi. Un viaggiatore in più non avrebbe fatto differenza per le disposizioni date da mio padre, né avrebbe procurato alcun disagio alla spedizione. Quando, recatami da mia madre, avevo protestato, ricordandole di aver svolto i compiti più fastidiosi affida-
ti a noi ragazze nella speranza di visitare il primo Raduno di Alessan, lei non aveva potuto obiettare nulla. Ma so di aver perso la partita quando, negli spasimi di quella crudele disillusione, gridai che, dopotutto, ero stata sorella di latte di Suriana, la moglie di Alessan, morta per una disgraziata caduta da un corridore selvaggio. «Dunque, il Nobile Alessan avrà poca voglia di vedere la tua faccia e ricordare la propria perdita, in una simile occasione.» «Non ha mai visto la mia faccia,» avevo protestato, «ma Suriana era mia amica. Sai che mi scrisse molte lettere da Ruatha. Se fosse vissuta tanto da diventare Dama, sarei stata sua ospite. Lo sai.» «È nella tomba già da un intero Giro, Nerilka,» mi aveva ricordato mia madre con voce gelida. «Il Nobile Alessan deve scegliere una nuova sposa.» «Non puoi certo credere che le mie sorelle abbiano la minima possibilità di attirare l'attenzione di Alessan...», cominciai. «Abbi dell'orgoglio, Nerilka. Se non per te stessa, almeno per il tuo Sangue,» aveva risposto rabbiosamente mia madre. «Fort è la Prima Fortezza, e su tutta Pern non c'è una sola famiglia che...» «Voglia una delle brutte figlie di Fort di questa generazione. Avete fatto malissimo a dare in sposa Silma così in fretta. Era l'unica graziosa di tutte noi.» «Nerilka! Sono sconvolta. Se tu fossi più giovane, io ti...» Persino drizzandosi per la rabbia, mia Madre doveva guardarmi dal basso in alto, cosa che non mi rendeva più cara ai suoi occhi. «Dal momento che non lo sono, credo che dovrò sorvegliare un'altra volta i servi che fanno il bagno.» L'espressione del suo volto mi procurò una selvaggia soddisfazione, perché ovviamente aveva pensato proprio a quello. «In questo periodo della stagione fredda, traggono sempre beneficio dall'acqua calda, e da una bella strigliata. E quando avrai finito, pulirai le trappole per i serpenti al livello più basso!» Aveva agitato il dito sotto il mio naso. «Penso che negli ultimi tempi il tuo comportamento lasci molto a desiderare, Nerilka. Per quando sarò di ritorno, dovrai aver imparato le buone maniere, oppure, ti avverto, i tuoi privilegi diminuiranno e i tuoi doveri saranno aumentati. Se non ti piegherai alla mia autorità, non avrò altra scelta se non di chiedere a tuo padre di prendere provvedimenti.» Poi mi congedò, con il volto ancora paonazzo per l'ira causatale dalla mia impertinenza.
Lasciai i suoi appartamenti a testa alta, ma non intendevo sfidare la sua minaccia di appellarsi al giudizio di mio padre. Aveva la mano ugualmente pesante con la più anziana e più grande di noi, come con la più piccola. Quanto desideravo poter tornare a correggere quella discussione con mia madre, mentre spedivo con fermezza i servi nelle pozze tiepide e strofinavo con la sabbia le schiene di quelli che nelle loro abluzioni non mettevano abbastanza energia da soddisfarmi. Mi pentii molte volte delle mie parole avventate. Probabilmente mi ero giocata la possibilità di partecipare ad un altro Raduno per tutto il Giro, ed avevo offeso mia madre senza necessità. Che le sue figlie fossero bruttine, non poteva essere imputato a lei. Era una donna d'aspetto abbastanza piacevole anche adesso, al suo cinquantesimo Giro, e questo nonostante le gravidanze praticamente continue che avevano procurato diciannove discendenti vivi. Anche Tolocamp era considerato un bell'uomo, alto e robusto, certamente virile, poiché l'Orda della Fortezza di Fort come ci avevano soprannominati gli apprendisti Arpisti, non era tutta la sua figliolanza. Ciò che più mi irritava era che la maggior parte delle mie sorellastre meticce fossero di gran lunga più graziose delle sorelle di sangue puro, eccettuata Silma, la sorella appena più anziana di me. Meticce o di sangue puro, eravamo tutte alte e robuste: un aggettivo che suona di complimento più per dei ragazzi che per delle ragazze, ma così stavano le cose. Era abbastanza irritante, poiché la mia sorella più piccola, Lilla, a dieci Giri, aveva dei lineamenti più delicati di noialtre ragazze ed avrebbe ben potuto migliorare. Era un vero sperpero che Campen, Mostar, Dorai, Theskin, Gallen e Jess, dovessero avere delle ciglia nere e folte mentre le nostre erano rade, dei grandi occhi scuri mentre i nostri erano chiari, quasi slavati, dei nasi diritti e sottili mentre il mio non poteva essere definito altrimenti se non come un becco. Avevano un'abbondanza di capelli ricci. Noialtre avevamo capelli folti; i miei, quando erano sciolti, mi arrivavano sotto la vita ed erano impeccabilmente neri, ma facevano sembrare olivastra la mia pelle. Le sorelle che mi erano più prossime d'età subivano la maledizione di capigliature castane che nessun'erba riusciva a schiarire. L'ingiustizia del nostro retaggio era una catastrofe, poiché dei maschi bruttini si sarebbero ben sposati comunque, adesso che il Passaggio era alla fine ed il Signore di Fort stava ampliando i suoi insediamenti. Ma per delle fanciulle sgraziate non ci sarebbero stati mariti.
Io avevo da lungo tempo rinunciato ai sogni romantici delle ragazze, e persino alla speranza che la posizione di mio padre mi procurasse quel marito che il mio aspetto non poteva procurarmi, ma mi piaceva viaggiare. Adoravo il brusio e l'atmosfera disinibita di un Raduno. Desideravo con tutte le mie forze andare al primo Raduno indetto da Alessan come Signore di Ruatha. Volevo vedere, anche se a distanza, l'uomo che aveva conquistato l'amore e l'adorazione di Suriana della Fortezza delle Nebbie, Suriana, i cui genitori mi avevano allevata; Suriana, la mia più cara amica, che era stata tutto quello che io non ero e che mi aveva generosamente elargito il dono della sua amicizia. Alessan non poteva aver sofferto più di me, per la sua morte, perché quell'evento aveva sottratto alla mia vita l'unica vita che per me avesse più valore di lei. Dire che una parte di me era morta insieme a Suriana non è un'esagerazione. Ci comprendevamo al volo, come accade tra un drago ed il suo cavaliere, ridevamo all'unisono, davamo voce ad un'osservazione che l'altra era sul punto di fare, riuscivamo immediatamente a conoscere lo stato d'animo l'una dell'altra, e le nostre vite seguivano lo stesso corso parallelo, non importa quale distanza ci separasse. In quei Giri felici alla Fortezza delle Nebbie, riflettendo nella mia gioia la vivacità di Suriana, mi riusciva persino di apparire più graziosa. Senza dubbio, in sua compagnia, ero più coraggiosa, spingevo il mio corridore dietro il suo sui sentieri più pericolosi. Ed il vento più impetuoso non mi impediva di salpare col piccolo sloop con cui andavamo per mare e per fiumi. Suriana aveva anche altre doti. Possedeva una dolcissima voce da soprano, con cui si accordavano perfettamente i miei acuti. A Fort, la voce mi esce come appiattita. Lei sapeva recitare una scenetta con pochi gesti audaci; i suoi ricami erano così raffinati che sua madre non temeva di affidarle le stoffe più preziose e, grazie ai suoi consigli, i miei punti migliorarono tanto da farmi meritare in seguito i burberi complimenti di mia madre. In un solo talento io sorpassavo Suriana, ma neanche le mie arti di guaritrice avrebbero potuto sanarla. Ed io, la figlia della Fortezza di Fort, non sono neanche potuta entrare nella Sede dei Guaritori per fare pratica. Non quando la mia abilità poteva essere utilizzata proficuamente nelle buie dispense della Fortezza di Fort. Ora mi sbalordisce ripensare alla ragazza superficiale e impietosa che ero allora, incapace di dimenticare il disappunto e l'orgoglio e di dire addio alle sue più fortunate sorelle. Perché, in realtà, si dimostrò che la fortuna le
aveva abbandonate proprio nel momento in cui erano state scelte per partecipare al Raduno di Ruatha. Ma chi avrebbe potuto immaginarlo? Chi avrebbe potuto prevedere la peste, in quel chiaro giorno della stagione fredda? Avevamo udito parlare della strana bestia soccorsa in una tenuta marina, perché mio padre ci teneva a che i suoi figli comprendessero i codici dei tamburi. Vivendo così vicino alla Sede degli Arpisti, c'era poco che non sapessimo dei maggiori avvenimenti che si verificavano nel Continente Settentrionale. Stranamente, però, ci si aspettava che non parlassimo dei messaggi di tamburi che udivamo, per paura che le informazioni che non potevamo evitare di capire si diffondessero incautamente. Così, tutti noi sapevamo della scoperta di un insolito felino a Keroon. Non è sorprendente, dunque, che mancassi di collegare il significato di quel messaggio col successivo, in cui si chiedeva che il Maestro Capiam diagnosticasse una misteriosa malattia che affliggeva quelli di Igen. Ma sto anticipando. E così i miei genitori e le mie quattro sorelle - Armila, Marcia, Merin e Kosta - partirono per il viaggio che, attraverso la parte settentrionale della nostra Fortezza in cui mio Padre intendeva controllare alcuni possedimenti, li avrebbe condotti al fatale Raduno di Ruatha. Io, che ero certa di meritare quel viaggio, rimasi a casa. Fortunatamente, riuscii a non imbattermi in Campen, perché ero certa che mi avrebbe affidato degli incarichi particolari, meritando l'ideale approvazione di nostro Padre. Campen adorava affidare ad altri incarichi noiosi che in tal modo evitava a se stesso, risparmiando le proprie energie per criticare gli altrui risultati e dare consigli non richiesti. Somiglia molto a nostro padre. In effetti, quando nostro padre morirà, non ci saranno intoppi nel meccanismo della Fortezza di Fort, e probabilmente non si verificherà neppure alcun cambiamento nella tabella dei miei doveri. La raccolta di erbe, radici ed altre piante medicinali, era un'occupazione che spesso impegnava me e le mie sorelle, e questo compito aveva la precedenza su qualunque altro che Campen potesse affidarmi per quel giorno. Campen non aveva mai capito che non si raccolgono piante medicinali nella stagione fredda, ed era improbabile che qualcuno glielo facesse notare. Decisi di portare con me Lilla, Mia, Mara e Gaby perché mi accompagnassero nella mia cosiddetta spedizione. Ritornammo col primo crescione e con cipolle selvatiche, e Gaby si meravigliò di aver abbattuto un wherry selvatico con un bel colpo di lancia. Il bottino del nostro pomeriggio pro-
vocò i commenti di Campen, che passò l'intero pasto serale a lamentarsi dell'infingardaggine delle bestie da soma che lavoravano bene solo sotto la supervisione di qualcuno. Era così simile ad un lamento frequente di nostro padre, che sollevai gli occhi dall'osso che stavo rosicchiando per essere sicura che fosse stato Campen a parlare. Adesso non ricordo in quale occupazione trascorsi i giorni seguenti. Non accadde nulla di memorabile, eccetto gli appelli a Mastro Capiam, che udii senza badarvi, nel modo che ho detto. Ma sapere non avrebbe cambiato le cose. L'alba del quinto giorno si presentò chiara e luminosa, ed io avevo già dimenticato il mio risentimento al punto di augurarmi che il tempo a Ruatha fosse altrettanto bello. Sapevo che le mie sorelle non avevano alcuna speranza di attirare Alessan, ma, in tanti raduni, forse qualche altra famiglia avrebbe soddisfatto ai requisiti richiesti da mio padre per le sue figlie, e si sarebbero combinate delle unioni convenienti. Soprattutto ora che il Passaggio era quasi finito e che i Signori potevano programmare delle espansioni. Il Nobile Tolocamp non era l'unico che desiderasse estendere i suoi possedimenti ed aumentare la terra coltivabile. Se solo mio padre non fosse stato così difficile nelle alleanze... Mi compiaccio di dire che c'era stato un pretendente per me. Non mi sarebbe importato di organizzare un nuovo possedimento, pur se avessi dovuto scavarlo nella roccia, perché ne sarei stata l'unica padrona. Garben discendeva dalla Stirpe di Tillek, abbastanza rispettabile nel ramo laterale. L'uomo mi piaceva persino, ma lui e le sue prospettive di vita non soddisfacevano alle richieste di mio padre. Per quanto Garben mi avesse lusingato ritornando due Giri di seguito a rinnovare la sua offerta ogni volta con la descrizione di un'altra camera aggiunta alla sua modesta tenuta - mio padre lo aveva respinto. Se mi fosse stata chiesta la mia opinione, avrei accettato. Amilla aveva grossolanamente fatto notare che a quel punto avrei accettato qualsiasi cosa. Aveva ragione, ma solo perché Garben mi piaceva comunque. Era più alto di me di mezza testa. Questo accadde cinque Giri fa. Suriana aveva saputo di questa situazione e del mio disappunto, ed aveva ripetutamente espresso la speranza di parlare al Nobile Leef affinché mi permettesse di rimanere per un periodo di tempo a Ruatha con lei. Era certa che, quando fosse stata incinta, lui avrebbe accondisceso alla sua richiesta.
Ma Suriana morì, ed anche quella scintilla di speranza si spense, proprio come si era spenta lei a causa del giovane corridore che montava. E che, pensavo spesso con amarezza, aveva probabilmente lanciato in una folle corsa. Mi aveva confidato che Alessan era riuscito ad allevare dei corridori estremamente agili, perché suo padre gli aveva ordinato di produrre una razza migliore, che servisse a vari scopi. Conoscevo solo i particolari che erano stati resi pubblici: Suriana si era spezzata la schiena cadendo, ed era morta senza riprendere conoscenza, nonostante tutti gli sforzi del Maestro Guaritore, accorso immediatamente. Mastro Capiam, a cui di solito piaceva discutere faccende mediche con me, dal momento che mi sapeva competente per quanto mi permetteva il mio rango, era stato stranamente silenzioso a proposito della tragedia. CAPITOLO II 3.11.43-1541 La nuova tragedia di Ruatha, e la cosa fu piuttosto sconvolgente per me, ebbe inizio precisamente nella stessa ora in cui avevo appreso della morte di Suriana, mentre dalla torre dei tamburi della Sede degli Arpisti risuonava l'ordine di quarantena di Capiam. Io stavo dosando le spezie per il sovrintendente alla cucina, e solo il più fermo controllo impedì alla mia mano di tremare e di far cadere le preziose spezie. Esercitando lo stesso autocontrollo, perché il sovrintendente non capiva il codice dei tamburi ed io desideravo avere una buona cena per la sera, finii di dosare gli ingredienti, chiusi accuratamente il vaso, lo riposi esattamente nel solito posto e chiusi a chiave l'armadietto. Il messaggio dei tamburi venne ripetuto nel momento in cui raggiunsi il livello superiore della proprietà della Fortezza, ma il secondo messaggio non differiva in alcun modo dal primo. Mentre lasciavo la Fortezza, riuscii ad udire Campen che urlava chiedendo spiegazioni dal suo ufficio. Fortunatamente, tanta altra gente stava correndo verso la Sede degli Arpisti, così la mia fretta non venne notata. Il cortile della Sede era gremito di apprendisti e Itineranti ansiosi, Arpisti e Guaritori. Nelle due Arti la disciplina è sempre stata eccellente, per cui nessuno era in preda al panico, per quanto l'ansia fosse evidente e circolassero molte domande. Sì, c'erano state delle chiamate per Mastro Capiam, e non solo dall'Allevamento di Keroon e dalla Tenuta Marina di Igen. Erano stati richiesti la
presenza ed i consigli di Telgar; si diceva che fosse stato accompagnato al Raduno di Isla e da lì a South Boll, su espresso ordine del Nobile Ratoshigan, nientedimeno che da Sh'gall, il Comandante del Weyr di Fort, sul bronzeo Kadith. Nel momento in cui Mastro Fortine, accompagnato dalla Itinerante Desdra della Sede dei Guaritori, e dai Maestri Brace e Dunegrine della Sede degli Arpisti, apparve sull'ampia scalinata, si fece il silenzio. «Naturalmente, voi siete in ansia per i messaggi dei tamburi,» esordì Mastro Fortine, schiarendosi ostentamente la gola. Come Guaritore, è un buon conoscitore della teoria, ma non ha nulla della pratica che contraddistingue il Maestro Guaritore Capiam. Mastro Fortine alzò la voce sino ad un tono inutilmente alto e stridulo. «Dovete comprendere che Mastro Capiam non invocherebbe tali provvedimenti di emergenza senza buoni motivi. Tutti gli Arpisti ed i Guaritori che abbiano partecipato ai Raduni si presentino immediatamente alla Itinerante Desdra nella Sala Piccola. Invito tutti i Guaritori a riunirsi immediatamente nella Sala Principale, se vogliono essere così gentili. Mastro Brace...» Mastro Brace mosse un passo in avanti, aggiustandosi la cintura e schiarendosi la voce. «Mastro Tirone è lontano dalla Sede per mediare in quella disputa delle miniere. Secondo la tradizione, come Maestro Anziano, assumo i suoi poteri in questa crisi finché non tornerà in Sede.» «Sperando che Mastro Tirone sia bloccato dalla quarantena, oppure muoia per la malattia...» udii borbottare qualcuno. Venne immediatamente zittito dai vicini, così l'essermi voltata per scoprire chi fosse il dissidente sarebbe stato vano anche se la faccenda mi avesse riguardato maggiormente. Prima di accedere alla carica di Maestro Arpista, Tirone era stato tutore dei figli del Nobile Tolocamp, per cui lo conoscevo bene. Aveva i suoi difetti, ma ascoltare la sua voce calda era sempre stato un piacere, qualunque fosse il messaggio che le sue parole cercavano di ficcare in mentì ottuse o distratte. Nessuno veniva mai eletto Maestro della Sede della sua Arte, se non aveva una voce di baritono più che buona con cui raccomandarsi ai Maestri suoi colleghi. Ho udito dire dai suoi avversari che l'unica volta in cui Tirone ha perso in una mediazione è stato quando aveva la laringite; altrimenti, parlava ai suoi oppositori fino a persuaderli dei propri convincimenti.
Naturalmente, il diplomatico Maestro Arpista avrebbe fatto una gran fatica a non offendere il Nobile Signore della Fortezza, pur non essendo direttamente implicato nella trattativa. E questa era la ragione per cui non ero mai stata testimone di tanto talento di Mastro Tirone. Ciò che mi colpì stranamente in quel momento, fu che Mastro Brace facesse lui un tale annuncio, e che Desdra e Fortine rappresentassero i Guaritori. Dov'era Mastro Capiam? Non era affatto da lui affidare ad altri un compito spiacevole. Mentre gli Arpisti ed i Guaritori cominciavano a riunirsi nelle due assemblee, scivolai via dalla Sede senza saperne di più e non meno preoccupata di prima. La mia signora madre, le mie quattro sorelle e mio padre, adesso erano bloccati a Ruatha. Modestamente, pensai che quella era un'altra ragione per cui avrebbero dovuto portarmi con sé. La mia morte non avrebbe costituito una perdita. Ed io sarei potuta essere di grande utilità come infermiera, sfruttando quell'unico talento che possedevo e di cui ci si serviva, di solito, solo nell'ambito della mia famiglia. Mi rimproverai simili riflessioni e risolutamente volsi i miei passi al livello inferiore della Fortezza dove si trovavano le dispense. Se questa malattia avesse richiesto la quarantena, avrei potuto utilmente occuparmi del controllo delle provviste. Mentre la Sede dei Guaritori aveva scorte sufficienti di molte erbe e medicine, la gran parte delle Fortezze e delle Sedi dovevano rifornirsi del necessario secondo i bisogni individuali. Ma, probabilmente, questa situazione richiedeva rare erbe medicinali che normalmente non si possedevano in quantità sufficiente. Ad ogni modo, Campen mi scorse e mi si fece incontro, ansimando come faceva quando era agitato. «Rill, che sta succedendo? Parlano di quarantena? Significa che nostro Padre è bloccato a Ruatha? Che facciamo, adesso?» Si ricordò che, se faceva le veci del Signore, non avrebbe dovuto chiedere consigli ad un inferiore, soprattutto se si trattava di sua sorella. Si schiarì rumorosamente la gola e gonfiò il petto, assumendo un'espressione severa che trovai ridicola. «Abbiamo sufficienti erbe fresche per il nostro popolo?» «Le abbiamo, in effetti.» «Sii seria, Rill. Almeno in un momento come questo.» Aggrottò significativamente la fronte. «Valuterò la situazione, fratello: ma posso dire, senza tema di essere contraddetta, che le nostre scorte si dimostreranno più che adeguate all'at-
tuale emergenza.» «Benissimo, ma fa' in modo che io abbia un rapporto scritto sulle provviste a disposizione.» Mi batté sulla spalla, come faceva col suo cane preferito, e si allontanò in fretta, sbuffando. Ai miei occhi scettici, sembrò insicuro sul da farsi in una simile catastrofe. A volte sono sconvolta dallo spreco delle nostre dispense. In primavera, estate ed autunno, raccogliamo, conserviamo, saliamo, dissecchiamo, mettiamo sott'aceto ed immagazziniamo più cibo di quanto potrebbe mai servire alla Fortezza di Fort. Ogni Giro, a dispetto dei coscienziosi sforzi di mia Madre, il cibo vecchio non viene consumato per primo, e gradualmente le rimanenze crescono. Gli insetti ed i serpenti sotterranei se ne prendono cura nei più oscuri recessi delle cantine-deposito. Noi ragazze spesso rinunciamo saggiamente a qualcosa per fornirla di nascosto a famiglie bisognose, dal momento che né nostro Padre, né nostra Madre praticano l'elemosina, anche quando i raccolti sono stati infruttuosi senza colpa del fattore. Padre e Madre dicono sempre che è loro antico dovere rifornire l'intera Fortezza in tempo di crisi, ma non hanno mai definito con precisione la "crisi". E così continuiamo ad incrementare le scorte inutilizzate ed inutilizzabili. Naturalmente, le erbe, adeguatamente disseccate e conservate, mantengono la loro efficacia per molti Giri. Gli scaffali sono pieni di borse pulite e gambi legati a fasci, e le giare traboccano di semi e di unguenti. Radici revulsive, felci-piuma, tutti i febbrifughi che erano da sempre i medicamenti tradizionali. Consolida maggiore, aconito, timo, issopo: li passai in rassegna uno ad uno, sapendo che ne avevamo in quantità tali da poter curare tutti i diecimila abitanti della Fortezza di Fort, se fosse stato necessario. Quel giro c'era stato un raccolto eccezionale di fellis. La terra aveva previsto le future necessità? Anche di aconito, ce n'era in grande abbondanza. Molto sollevata da questa dovizia, stavo per lasciare la dispensa, quando vidi gli scaffali su cui erano conservati i Registri medici della Fortezza: le ricette di misture e preparati, oltre alle annotazioni di chiunque avesse dispensato erbe, droghe e tonici. Accesi la lampada sul tavolo da lettura e mi diedi da fare con la pila dei Registri, per togliere il più vecchio dallo scaffale di fondo. Forse questa malattia era già apparsa prima, negli innumerevoli Giri trascorsi dal Pas-
saggio. Era pieno di polvere, e la copertina cadde in pezzi tra le mie mani. Se il premuroso governo della casa non avesse indotto mia madre a farlo spolverare, con tutta probabilità non avrebbe mai notato il danno. Quando lo aprii, il tomo esalò un odore d'antichità. Girai le pagine con cura, perché non desideravo profanarle più di quanto fosse strettamente necessario. Avrei potuto risparmiarmi il fastidio: l'inchiostro si era sbiadito, lasciando solo delle file di macchie che sembravano lentiggini sulla pergamena. Mi chiesi perché ci prendessimo il disturbo di conservare ancora quei volumi. Ma immaginavo quale sarebbe stata la reazione di mia madre, se solo avessi proposto di liberarci di quei manufatti ancestrali. Risolsi la questione ritornando al volume su cui era ancora leggibile Quinto Passaggio. Quali noiosi cronachisti erano i miei antenati! Fui davvero sollevata quando Sim venne a dirmi che il capocuoco desiderava immediatamente la mia presenza. Beh, visto che mia madre non c'era, ovviamente si rivolgeva a me. Trattenni Sim, che in ogni caso non era ansioso di ritornare ai suoi doveri nel retrocucina, e vergai rapidamente una nota per l'Itinerante Desdra, in cui le comunicavo che le scorte medicinali della Fortezza di Fort erano a sua disposizione. Ne avrei approfittato anch'io al più presto, perché dubitavo che mi sarebbe stata concessa di nuovo una simile opportunità, quando mia madre fosse tornata a riprendersi le chiavi della dispensa. Credo che per la prima volta in quel momento mi venne in mente che Dama Pendra sarebbe stata vulnerabile alla malattia come chiunque altro. Una fitta di paura e di ansia mi paralizzò la mano sullo scritto, finché Sim non mi riprese, udendomi schiarire la gola. Gli rivolsi un sorriso rassicurante. Non dovevo fargli carico delle mie sciocche paure. «Porta questo alla Sede dei Guaritori. Consegnalo solo nelle mani dell'Itinerante Desdra! Hai capito? Non darlo semplicemente al primo che incontri con i colori di Guaritore,» Sim alzò ed abbassò ripetutamente la testa, con un sorriso rapido e mormorii di rassicurazione. Me la vidi col cuoco, che era stato appena informato da mio fratello di dover preparare per un numero imprecisato di ospiti. Non sapeva che fare, perché si stava già approntando. «Zuppa, naturalmente: una delle tue eccellenti zuppe di carne, e una dozzina o giù di lì di wherry dell'ultima caccia. Si sono frollati abbastanza
per essere usati. Così come li hai stagionati, sono magnifici come carne fredda. E molte radici, perché sono buone anche riscaldate una seconda volta. Poi, formaggio. Ne abbiamo in abbondanza.» «Per quante persone?» Felim era troppo coscienzioso, ma non a torto. Mia madre l'aveva punito così tante volte per lo «spreco» che la sua unica possibilità di difendersi consisteva nel mostrarle gli elenchi di quante persone mangiavano ad ogni pasto e di quello che veniva loro servito. «Te lo farò sapere, Felim.» Campen, così sembrava, era convinto che ogni Signore dei dintorni sarebbe venuto a chiedergli consiglio sull'emergenza, e dunque la Fortezza di Fort doveva prepararsi a sfamare la moltitudine. Ma il messaggio dei tamburi aveva inequivocabilmente parlato di quarantena, ed io riflettei che i Signori, per quanto preoccupati, difficilmente avrebbero disobbedito a quell'ingiunzione. Forse sarebbero venuti quelli delle fattorie, perché in effetti si consideravano parte della Fortezza principale. Mi ripromisi di far notare che la maggior parte di loro sapeva cavarsela meglio di Campen. Ancora non volevo deprimerlo. Ritornai da Felim e gli consigliai di aumentare le porzioni solo di un quarto, ma di prendere dell'altro formaggio e degli altri biscotti per fare del klah in più. Controllando le scorte di vini, vidi che ce n'era a sufficienza nelle botti già spillate. Poi salii alla sala comune del secondo piano, dove le zie e gli altri dipendenti, che già sapevano la notizia, erano in grande agitazione. Diedi loro l'incarico di controllare quante stanze vuote rimanessero nelle infermerie. Imbottire delle fodere pulite con la paglia per farne dei giacigli già pronti non era una cattiva idea, e tenersi occupati li avrebbe tirati su. Incrociai lo sguardo dello Zio Munchaun e riuscimmo a trovarci soli nel corridoio. Munchaun era il maggiore dei fratelli viventi di mio padre, ed il mio preferito tra gli anziani. Finché non si era ferito in una caduta rovinosa, aveva guidato tutte le battute di caccia. Aveva una tale comprensione dell'umana fragilità, un tale senso dell'umorismo, una tale umiltà, che mi chiedevo sempre perchè avessero scelto mio padre come Signore di Hold, quando Munchaun era di gran lunga migliore di lui. «Ti ho vista venire dalla Sede. Qual è il verdetto?» «Capiam non è vittima della malattia, e Desdra dice ai Guaritori di trattare i sintomi.»
Alzò le sopracciglia leggermente curve, sorridendo di sbieco. «Così, non sanno con che cosa hanno a che fare, eh?» Quando scossi la testa, annuì. «Comincerò col guardare tra i Registri. Devono ben servire a qualcosa, oltre che a tenere occupati noi anziani in soprannumero.» Volevo smentire la sua auto-denigrazione, ma sorrideva con l'aria di chi la sa lunga, e le mie proteste sarebbero cadute nel vuoto. Quella sera, venne un numero maggiore di quello che avevo previsto di piccoli Signori, nonché di Maestri d'Arte, esclusi, naturalmente, i Maestri Guaritori e Arpisti. Avevamo spazio per loro, e chiacchierarono fino a notte tarda, discutendo della situazione e del modo di trasferire le scorte da una tenuta all'altra senza rompere la quarantena. Feci girare un'ultima volta il klah, ma credo che solo Campen ne bevve, e mi ritirai nella mia stanza, dove lessi il vecchio Registro finché riuscii a tenere gli occhi aperti. CAPITOLO III 3.12:43 Quando udii i tamburi, saltai fuori dal letto e corsi nel corridoio, da cui potevo distinguere i colpi. Il messaggio era terrificante. Prima che la sua eco morisse, ne giunse un altro da sud: Ratoshigan chiedeva assistenza alla Sede dei Guaritori. Era strano che i tamburi parlassero così presto. Lasciai la porta aperta, mentre indossavo in fretta una tunica e dei pantaloni da lavoro e mi legavo alla cintura il pesante anello con le chiavi di Hold. Mi infilai anche un paio di stivali, perché le scarpe morbide da casa non erano una protezione sufficiente per i freddi pavimenti di pietra del livello inferiore, né per le strade esterne. I tamburi continuavano a risuonare, riferendo di vittime a Telgar, Ista, Igen e South Boll, e trasmettendo ulteriori richieste di rassicurazioni da Fortezze e Sedi di Guaritori lontane. C'erano volontari, cosa consolante, e offerte di assistenza da Benden, Lemos, Bitra, Tillek e Terre Alte, luoghi che per la lontananza erano stati risparmiati dalla catastrofe. Trovai la cosa incoraggiante e degna dello spirito di Pern. Ero a metà del Campo, quando giunse il primo messaggio in codice dal Weyr di Telgar: erano morti dei cavalieri, e dei draghi si erano suicidati a causa della loro morte. Mentre incrociavo dei lavoratori dei campi diretti
agli allevamenti, mi sforzai di controllare la mia agitazione, facendo cenno col capo e sorridendo, ma affrettandomi così da impedire a chiunque di fermarmi. Ma, forse, non erano affatto desiderosi di avere altre buone notizie. Proprio sulla scia delle pessime nuove di Telgar, Ista cominciò a trasmettere il suo bollettino. Perché avessi pensato che i Dragonieri fossero immuni dalla malattia, non lo so. Sembravano così invulnerabili sul dorso delle loro grandi bestie! Apparentemente la Minaccia non li toccava - anche se sapevo bene che i draghi e i cavalieri venivano spesso feriti gravemente - e non li sfioravano gli acciacchi ed i fastidi che tormentano la gente comune. Poi ricordai che spesso i Dragonieri si spostavano in massa da un Raduno all'altro, e c'erano stati due Raduni nello stesso giorno, ad Ista e a Ruatha, ad attirarli fuori dalle loro sedi di montagna. Due... e la peste si era diffusa in entrambi! Eppure Ista era quasi ad est. Come aveva potuto la malattia svilupparsi così rapidamente in due luoghi così distanti? Mi affrettai ed entrai nel Cortile della Sede degli Arpisti. Erano già tutti in piedi, e la metà di loro teneva pronti i corridori, sellati e bardati per lunghi viaggi con i colori dei Guaritori. Sopra di noi i tamburi continuavano a suonare minacciosamente. I messaggi erano inviati da Mastro Fortine, dalla Sede dei Guaritori alla Fortezza ed al Weyr. Dov'era dunque Mastro Capiam? Desdra scendeva di corsa i bassi gradini della Sede, con delle sacche da sella su ogni spalla e le mani occupate. Dietro di lei si affrettavano due apprendisti altrettanto carichi. Sembrava che non avesse dormito, ed il suo viso, di solito calmo e composto, era segnato dalla tensione e dall'impazienza e gravato dall'ansia. Feci il giro del cortile, sperando di incrociarla mentre distribuiva le sacche da sella agli uomini ed alle donne già montati. «No, nessun cambiamento,» la sentii dire ad un Itinerante. «La malattia deve fare il suo corso con Capiam come con chiunque altro. Usate queste medicine per tenere sotto controllo i sintomi. È l'unico consiglio che posso darvi adesso. Rimanete in ascolto dei tamburi. Adopereremo i codici di emergenza. Non inviate in nessun caso messaggi in chiaro.» Quando i Guaritori incitarono i loro corridori per uscire dal cortile, lei fece un passo indietro ed io ebbi modo di avvicinarla.
«Itinerante Desdra.» Mi si fece rapidamente incontro, senza neppure identificarmi come una dell'Orda della Fortezza. «Sono Nerilka. Se le scorte della Sede sono esaurite, ti prego di seguirmi...» sottolineai quel punto posandomi una mano sul petto. «... poiché ne abbiamo a sufficienza per curare metà pianeta.» «Per adesso non c'è da preoccuparsi, Dama Nerilka,» cominciò a dire, esibendo un'espressione rassicurante. «Sciocchezze.» Fui più brusca di quanto volessi, ed allora lei si decise a guardarmi attentamente. «Conosco tutti i codici dei tamburi, tranne quello del Maestro Arpista, suppongo. E lui dovrebbe essere in montagna, sulla via del ritorno.» Adesso lei mi prestava tutta la sua attenzione. «Se hai bisogno di altri rifornimenti, chiedine da parte, mia alla Fortezza. Oppure, se ti serve un'altra infermiera...» Qualcuno la chiamò d'urgenza e lei, facendomi un rapido cenno col capo in segno di scusa, se ne andò. Poi, da oriente, i tamburi cominciarono a trasmettere un nuovo messaggio: brutte notizie da Keroon. Ritornai sui miei passi, apprendendo che in quella tragica Fortezza stavano morendo a centinaia e che quattro Fortezze di montagna, più piccole, non rispondevano alle chiamate. Avevo attraversato il Campo a metà, quando udii l'inconfondibile verso
di un drago. Una mano gelida mi strinse le budella. Cosa veniva a farci un drago alla Fortezza di Fort adesso? Mi raccolsi la gonna e tornai di corsa alla Sede. L'imponente portale della Fortezza era spalancato e Campen stava in piedi sull'ultimo gradino, con le braccia sollevate a metà, esprimendo un incredulo stupore. Un gruppetto di Maestri d'Arte e due piccoli Signori dei dintorni si raccoglievano sotto di lui sui gradini; adesso tutti distoglievano lo sguardo da Campen, rivolgendolo al drago azzurro che dominava la corte. Ricordo di aver pensato che il drago sembrava una macchia di colore. Poi dimenticai tutto il resto mentre, incredula, guardavo mio padre salire a balzi i gradini, facendosi largo tra i Signori e i Maestri d'Arte. «C'è una quarantena! La morte corre per il paese. Non avete udito i messaggi? Siete tutti sordi, voi che vi riunite in così gran numero? Via! Via! Alle vostre case! Non lasciatele per nessun motivo. Via! Via!» Spinse il Signore più vicino giù per i gradini, verso i corridori che solo allora i servi stavano conducendo alle scuderie. Due Maestri d'Arte inciamparono l'uno nell'altro per evitare le sue braccia roteanti. In un attimo la corte si vuotò dei visitatori, mentre la polvere sollevata dalle precipitose partenze già si poggiava sulla strada. Il drago azzurro lanciò un altro verso, aggiungendo il suo impeto alla caotica ritirata di Signori e Maestri. Poi balzò verso il cielo, andando in mezzo prima di aver superato la torre della Sede degli Arpisti. Mio Padre si rivolse a noi tutti, perché i miei fratelli erano venuti ad indagare sull'inatteso arrivo del drago. «Siete impazziti a riunire gente? Nessuno di voi ha prestato ascolto agli avvertimenti di Capiam? A Ruatha stanno morendo come mosche!» «Allora perché siete qui, Signore?», ebbe l'impudenza di chiedere lo stupido Campen. «Che cosa hai detto?» Mio Padre si rizzò come un drago sul punto di emettere fiamme, e persino Campen si ritrasse di fronte alla furia espressa dal suo atteggiamento. Allora non capii come Campen avesse evitato un colpo. «Ma... ma... Capiam ha parlato di quarantena...» Il Padre rovesciò la bella testa, e tese le braccia, con le palme rivolte in avanti, per respingere una vicinanza che nessuno di noi in quel momento avrebbe cercato. «A partire da ora, sono in quarantena per ognuno di voi. Mi rinchiuderò nei miei appartamenti e nessuno di voi,» disse, agitando l'indice al nostro
indirizzo, «verrà da me finché,» fece una pausa drammatica, «questo periodo non sarà passato e saprò di essere sano.» «La malattia è infettiva? Quanto è contagiosa?», mi udii chiedere, perché era importante per noi stabilirlo. «Comunque sia, non metterò in pericolo la mia famiglia.» La sua espressione era tanto nobile che per poco non risi. Neppure uno dei miei fratelli osò chiedere di nostra madre e delle sorelle. «Mi farete scivolare i messaggi sotto la porta. Mi lascerete il cibo nella sala. È tutto.» Con ciò, ci fece segno di scostarci ed entrò a passi pesanti nella Fortezza. Riuscivamo a sentirlo procedere attraverso la Sala e verso le scale, grazie al rabbioso pestare degli stivali sul pavimento di pietra. Poi, una sorta di singhiozzo soffocato ruppe l'incantesimo. «Che ne è della Madre?», chiese Mostar, con gli occhi spalancati per l'ansia. «Chi può saperlo?», dissi. «Beh, non rimaniamo qui, non diamo spettacolo.» Drizzai la testa in direzione della strada, dove si erano riuniti piccoli gruppi di agricoltori, attirati prima dall'arrivo del drago e poi dal quadro che formavamo sui gradini della Fortezza. Di comune accordo ci ritirammo nella Sala. Non fui l'unica a lanciare un'occhiata alla porta chiusa al primo livello. «Non è una buona cosa,» prese a dire Campen, sedendosi pesantemente sulla sedia più vicina. Sapevo che si riferiva all'improvviso ritorno del Padre. «Lei saprebbe come curarci,» disse Gallen, con gli occhi pieni di paura. «Anch'io, perché ho fatto pratica con lei,» tagliai corto, perché credo che in quel momento seppi che mia madre non sarebbe tornata. Inoltre, era importante che la famiglia non cadesse in preda al panico, né mostrasse segni di preoccupazione. «Siamo gente dura, Gallen. Lo sai. Non ti sei mai ammalato, nella tua vita.» «Ho avuto il tifo.» «Tutti l'abbiamo avuto,» disse Mostar in tono derisorio, ma gli altri cominciavano a rilassarsi. «Non avrebbe dovuto rompere la quarantena, ad ogni modo,» aggiunse Teskin, pensieroso. «Non è un buon esempio. Alessan avrebbe dovuto trattenerlo a Ruatha.»
Anch'io mi chiedevo perché l'avesse fatto, pur sapendo che il Padre poteva essere così prepotente che persino Signori più vecchi di lui cedevano ai suoi desideri. Non mi piaceva pensare che Alessan fosse un inetto, anche se aveva cortesemente accondisceso ai desideri di mio padre. Una quarantena era una quarantena! Quella notte caddi facilmente in un sonno pesante ma, troppo inquieta per dormire bene, mi risvegliai molto presto. Era tanto presto, in effetti, che nessuno del personale di giornata era intento ai suoi compiti ed io sollevai la nota infilata sotto la porta di mio padre. Quando ebbi letto il messaggio, per poco non lo strappai. Oh, voleva la partita di febbrifughi, ed anche il vino ed il cibo erano comprensibili, ma dava istruzioni a Campen di portare Anella e «la famiglia di lei», come la chiamava, al sicuro nella Fortezza. Dunque, aveva lasciato mia madre e le mie sorelle in pericolo a Ruatha, eppure chiedeva al suo figlio maggiore ed erede di portare al sicuro la sua amante ed i due figli che aveva generato con lei. Oh, non era uno scandalo, in verità. Mia Madre aveva sempre ignorato la faccenda. Col passare dei Giri aveva acquistato senso pratico, ed in effetti una volta l'avevo involontariamente sentita dire ad una delle zie che di tanto in tanto le era gradito essere dispensata dalle sue attenzioni. Ma Anella non mi piaceva. Sorrideva scioccamente, era appiccicosa, e quando mio Padre non poteva dedicarsi a lei, era altrettanto felice al braccio di Mostar. In realtà, credo che sperasse di essere sposata da mio fratello. Desideravo ardentemente dirle che Mostar aveva altro per la testa. Comunque, mi chiedevo se il suo ultimo figlio fosse di mio padre o di Mostar. Mi rimproverai per questi pensieri maligni. Almeno, il piccolo aveva decisamente un'aria di famiglia. Col coltello che portavo alla cintola, divisi il biglietto nei due messaggi e feci scivolare quello per Campen sotto la sua porta. Portai l'altra metà giù alla cucina, dove servi insonnoliti sistemavano i loro giacigli prima di cominciare il lavoro. La mia presenza provocò dei tentativi di cortesia ed una certa apprensione, per cui sorrisi in modo rassicurante e dissi al più sveglio che cosa doveva mettere sul vassoio della colazione del Nobile Tolocamp. Campen mi incrociò nella Sala, sventolando distrattamente la sua parte degli ordini di nostro padre. «Cosa devo fare di questo, Rill? Non posso uscire dalla Fortezza e portarla qui alla luce del sole.»
«Rientra passando dalle alture dei fuochi. Nessuno guarderà da quella parte, oggi.» «Non mi piace, Rill. Non mi piace proprio.» «Quando mai ha pesato ciò che ci piace e ciò che non ci piace, Campen?» Ansiosa di allontanarmi dalla sua petulante confusione, uscii ad ispezionare i Nidi sul lato sud di quel livello. Questa, perlomeno, era un'isola di verità... per quanto possano essere sereni ventinove tra neonati e bambini piccoli. Le ragazze si affaccendavano nei loro soliti compiti sotto lo sguardo attento di Zia Mucil e delle due assistenti. Con tutto quel vociare, non avevano ancora potuto udire i tamburi abbastanza chiaramente per preoccuparsi. Poiché il Nido aveva una cucina propria, dovevo ricordarmi di fare isolare la loro sezione, se la Fortezza di Fort si fosse arresa alla malattia. E dovevo ricordarmi anche di far mandare di sopra ulteriori rifornimenti, tanto per essere al sicuro. Controllai la lavanderia ed i magazzini di biancheria, e suggerii alla Zia Lavandaia di fare quel giorno un grande bucato, poiché c'era sole e non faceva troppo freddo. Era una brava persona, ma tendeva a rimandare le cose per l'erronea convinzione che i suoi servi fossero terribilmente sovraccarichi di lavoro. Sapevo che mia Madre doveva sempre darle una spinta a farla partire. Non mi piaceva pensare che stessi usurpando uno dei ruoli di mia madre, anche se solo temporaneamente, ma forse avremmo avuto bisogno di ogni pezza di lino pulito tessuta nella Fortezza. I tessitori, quando arrivai alle Soffitte, erano diligentemente intenti alle loro spole. Una grande matassa di robusti fili cardati, di cui mia madre andava orgogliosa, veniva tagliata in quel momento. Zia Sira mi salutò nel suo solito modo freddo e contenuto. Anche se doveva aver sentito alcuni dei messaggi dei tamburi tra i rumori del liccio e della spola, non fece alcun commento sul mondo esterno. Feci colazione in ritardo nella stanzetta del primo sottolivello, che la Madre chiamava il suo «ufficio», grata per questo rifugio come doveva spesso esserlo lei. I tamburi continuavano a rullare, dando il ricevuto e poi trasmettendo le atroci notizie. Non li si udiva una volta sola, triste a dirsi, ma parecchie. Sussultai la quarta volta che arrivò il codice di Keroon, e cantarellai a voce alta per impedire che l'ultimo messaggio si aggiungesse allo sconforto che già avevo in cuore. Ruatha era vicina. Perché non ricevevamo messaggi da loro, rassicurazioni su mia madre e sulle mie sorelle?
Un colpo alla porta pose fine a quest'ansia, e fui quasi contenta di apprendere che Campen mi attendeva al primo piano. A metà delle scale realizzai che doveva essere ritornato con Anella e che, se lui era al primo piano, lei si aspettava di ricevere l'appartamento per gli ospiti. Per conto mio, l'avrei messa nel corridoio interno del quinto piano. Però, l'appartamento al limite del primo piano era più che adatto a lei. Non l'avrei mai alloggiata nelle stanze da letto del Padre. Mio padre, dopotutto, era in isolamento, e mia madre era viva a Ruatha. Anella aveva seguito alla lettera le istruzioni di Tolocamp. Si era portata dietro non solo i suoi due bambini, ma sua madre, suo padre, tre fratelli minori ed i sei dipendenti della sua famiglia più cagionevoli di salute. Come fossero riusciti ad arrampicarsi sulle alture dei fuochi, non me lo chiesi, ma due di loro sembravano sul punto di svenire. Potevano salire ai piani superiori ed essere accuditi dai nostri anziani. Anella mise un po' il broncio nel vedersi assegnare delle stanze così lontane da Tolocamp, ma né Campen né io facemmo caso alle rimostranze sue e della sua bisbetica madre. Ero semplicemente sollevata dal fatto che l'intera Fortezza non ci fosse crollata in testa. Sospettai che i miei due fratelli maggiori avessero troppo buon senso per rischiare di vedersela con la loro insolente sorella. Anche se pensavo che Anella avrebbe ben potuto prendersi cura dei suoi bambini, le assegnai due servi: uno preso dal Nido e un generico. Non volevo che mio padre si lamentasse di come era stata trattata e alloggiata. Qualsiasi ospite mi avrebbe trovata altrettanto cortese. Ma la cosa non doveva piacermi per forza. Poi mi precipitai giù alle cucine per discutere con Felim. Aveva solo bisogno di sentirsi dire che stava procedendo splendidamente. Le cucine sono sempre il posto peggiore, quanto alle dicerie ed ai pettegolezzi. Fortunatamente, lì nessuno comprendeva i messaggi in codice, anche se dovevano aver notato che la torre dei tamburi era insolitamente attiva. A volte, si sa che i tamburi riportano buone nuove, notizie felici. Il rullo sembra più vivace, più acuto, come se la stessa pelle del tamburo canti dal piacere. Dunque, se quel giorno immaginavo che i tamburi stessero piangendo, chi poteva biasimarmi? Verso sera, si verificarono dei disguidi nei messaggi riportati dai tamburi, come se le braccia stanche dei tamburini non sostenessero il ritmo dei colpi. Fui costretta a sopportare innumerevoli ripetizioni: disperate richieste da Keroon e Telgar di Guaritori che sostituissero quelli morti della malattia che cercavano di curare. Per riuscire a prendere sonno, mi misi i tap-
pi nelle orecchie. Anche così, nei miei timpani sembrava risuonare l'eco delle dolorose notizie della giornata. CAPITOLO IV 3.14.43 Uno dei tappi mi cadde durante il sonno inquieto, per cui quella mattina udii fin troppo chiaramente i tamburi che trasmettevano la notizia della morte di mia madre e poi di quella delle mie sorelle. Mi vestii ed andai a consolare Lilla, Nia e Mara. Gabin entrò senza far rumore, col volto arrossato dallo sforzo di non piangere in pubblico. Affondò la testa nella mia spalla, gemendo. E anch'io piansi. Per le mie sorelle e per me stessa, che non avevo augurato loro un viaggio felice e sicuro. I miei fratelli, eccetto Campen, ci vennero a cercare in mattinata e così avemmo il privilegio di un dolore privato. Mi chiedo se qualcuno di noi sperasse che Tolocamp si ammalasse della malattia a cui aveva abbandonato nostra madre e le nostre sorelle. Quando un messaggero mandato da Desdra mi trovò, lo accolsi come una buona scusa per lasciare quel luogo di dolore. Per soddisfare la richiesta di Desdra di ulteriori rifornimenti, avrei potuto scendere le scale che conducevano sul retro della dispensa; invece, condussi l'uomo attraverso il corridoio principale. Udii chiaramente la voce vigorosa di mio padre chiamare dalla finestra, e vidi Anella appostata proprio dietro la prima curva del corridoio. Scappò via rapida come un serpente, ma il suo sorrisetto gongolante cancellò la mia indifferenza, suscitando in me nausea e disgusto. L'apprendista Guaritore mi stava dietro a fatica, mentre scendevo di corsa la spirale di scale che portava ai livelli inferiori. Quando ammucchiai un sacco sull'altro delle erbe e radici medicinali elencate da Desdra, protestò che non avrebbe potuto trascinare tutta quella roba fino alla Sede dei Guaritori. Chiamai un servo, con voce quasi stridula, e lo spaventato Sim accorse in risposta, con gli occhi rotondi per la paura di aver dimenticato qualcosa di importante. Controllandomi, mi scusai col Guaritore per averlo sovraccaricato. Avrei ordinato ad un secondo servo di aiutare Sim ed il Guaritore ma, mentre entravo nell'anticucina, intravidi Anella che scendeva precipitosamente le scale, chiamando Felim con tono imperioso. Sapevo che, se fossi entrata
nella cucina principale ed avessi visto quella puttanella soddisfatta giocare a fare la Dama, avrei fatto qualcosa di cui mi sarei dovuta pentire. Invece, uscii con il servo ed il Guaritore dalla porta laterale. L'aria fredda del pomeriggio mi avvolse e mi raggelò, per quanto avessi un passo sostenuto che i miei compagni faticavano a reggere. La Sede dei Guaritori era in subbuglio, quando vi giunsi, e risuonava di urla e grida di gioia. Non riuscivo ad immaginare il motivo di tanta contentezza, ma era contagiosa, e sorrisi senza sapere perché, semplicemente sollevata dall'assistere ad un simile spettacolo. Poi le voci si distinsero e risuonò chiaramente un inconfondibile baritono. «La nebbia mi ha sorpreso nei campi, amici,» stava dicendo Mastro Tirone in tono flautato. «Ed intanto il mio corridore si era azzoppato. Ad un pascolo ho preso una cavalcatura fresca e mi stavo avviando, quando ho udito il primo messaggio dei tamburi. Ho proseguito in tutta fretta, credetemi, e non mi sono mai fermato, neanche per mangiare e per dormire. In seguito, quando i tamburi non saranno più così caldi, mi scuserò per il corridore preso in prestito.» Il malizioso accenno di riso nella sua voce fu seguito dalle risatine degli altri Arpisti. «In quel momento era più semplice prendere la via del ritorno; infatti, come potevo sapere che il Nobile Tolocamp aveva predisposto delle guardie per impedire a chiunque di entrare o di uscire?»
Era la prima volta che sentivo parlare di una precauzione adottata da mio padre. La voce di Mastro Tirone si abbassò, assumendo un tono confidenziale. «Ora, che si fa con un campo di internamento per Guaritori ed Arpisti che cerca di contattare la sua Sede? Come si può lavorare, con una restrizione dei movimenti così sciocca?» Il Guaritore mi lanciò un'occhiata costernata, per questa smaccata critica al Signore mio padre. In coscienza, non potevo mostrare alcuna traccia del disgusto, della disillusione e della sfiducia che nutrivo sempre più nei confronti del mio Signore. E, naturalmente, non avrei dovuto udire simili dichiarazioni: Poi, la stessa Desdra apparve dal lato opposto del cortile della Sede, con il volto illuminato dal sollievo nel vederli così carichi. «Dama Nerilka, avevo chiesto soltanto delle scorte temporanee.» «Ti raccomando di prendere tutto ciò, perché forse in seguito non avrò più la possibilità di aiutarti.»
Non mi chiese nulla, ma mi accorsi dai suoi occhi che comprendeva le mie parole e le implicazioni contenute nel mio tono di voce. «Ti rinnovo l'offerta di assistere i malati, dovunque e di chiunque si tratti,» dissi in tono risoluto, mentre mi toglieva i sacchi dalle braccia. «Devi prendere il posto di tua madre durante l'emergenza, Dama Nerilka,» rispose con voce bassa e cortese, mentre gli occhi profondi ed espressivi mi comunicavano la sua simpatia ed il suo rammarico. Una volta avevo creduto che l'Itinerante fosse una praticante dai modi troppo passivi e distaccati, ma l'avevo giudicata male. Come potevo dirle, ora, che fraintendeva le mie valutazioni e le circostanze? Forse una faccenda insignificante come l'arrivo di Anella non era ancor nota nelle due Sedi. «Come sta Mastro Capiam?», chiesi, prima che potesse allontanarsi. «La malattia ha quasi compiuto il suo corso.» La voce di Desdra aveva una sfumatura sarcastica, e colsi un guizzo nei suoi occhi. «È troppo testardo per morire, e determinato a trovare una cura per la peste. Grazie, Dama Nerilka.» Quando il nostro breve scambio di battute ebbe fine, dalla Sede degli Arpisti non giungevano più voci, così non mi rimase che rifare il cammino al contrario, mentre Sim mi trotterellava dietro. Povero Sim: dimentico sempre che ha le gambe corte e non riesce a reggere il mio lungo passo. «Sim, dov'è questo campo di internamento del Nobile Tolocamp?» Cercavo una scusa per evitare di tornare subito alla Fortezza. La mia rabbia era troppo acuta, il dolore troppo recente ed il controllo su me stessa praticamente nullo. Sim indicò un punto alla sua destra, là dove la grande strada del sud, dopo una macchia di boschi, si abbassava in una piccola vallata. Percorsi l'ampia strada finché giunsi ad avere un panorama completo, e vidi delle guardie pattugliare i confini arbitrariamente tracciati. «Ci sono molti viandanti bloccati lì?» Sim annuì, con gli occhi pieni di spavento. «Arpisti e Guaritori, che cercavano solo di fare ritorno alle loro Sedi. E alcuni mendicanti. Li facciamo sempre passare. Ma presto ci saranno dei malati, tra loro. Avranno bisogno di aiuto della Sede dei Guaritori. Che cosa faranno? Essere curati è un loro diritto.» Lo era, infatti. Persino mia madre era - era stata - generosa con i poveri. «Le guardie ammettono chiunque nella vallata?» Sim annuì.
«Ma non lasciano uscire nessuno.» «Chi è il comandante delle guardie?» «Theng, a quanto ne so.» Anche Theng si poteva convincere, se lo si prendeva per il verso giusto. Amava il vino e, mentre beveva, non poteva pretendere di vedere oltre il fondo della fiasca. Impedire ad Arpisti e Guaritori l'accesso alle loro Sedi? Mio padre era tanto spaventato quanto sciocco. Ed era anche un ipocrita, visto che, ritornando da una Fortezza colpita dalla malattia, metteva a repentaglio la vita della sua gente con la sua sola presenza. Beh, questo non significava che anch'io dovessi comportarmi da sciocca. Conoscevo i miei doveri verso le Sedi: non me li aveva insegnati mio padre, forse? Prima che finissero quei terribili giorni, forse avrei avuto bisogno della loro assistenza. Decisi di parlare a Felini e a Theng. Mentre risalivo alla Fortezza, vidi una figura ad una finestra del primo piano. Mio padre? Sì, era la sua finestra, e lui stava osservando Sim e me. Non poteva distinguere Sim da qualunque altro servo che indossasse la livrea di Fort, ma quanto era acuta la sua vista? E che cosa sarebbe successo, se avesse riconosciuto me? Continuai a camminare a grandi passi, orgogliosa e incurante. Ma entrai nelle cucine dall'ingresso laterale. Dovevo parlare con Felin, no? «Che cosa devo fare ora, Dama Nerilka?» esordì il cuoco, prima che potessi chiedergli di mettere da parte dei ritagli di carne per gli uomini internati. «È venuta giù ad ordinarmi tutta una serie di cibi che Dama Pendra non avrebbe permesso...» E poi scoppiò in lacrime, coprendosi gli occhi ed il viso con lo straccio che teneva sempre appeso alla cintura del grembiule. «Dama Pendra era inflessibile, ma giusta. Un uomo sapeva di dover soltanto osservare le sue disposizioni, e non ci sarebbero stati problemi.» «Che cosa voleva Anella?» «Ha detto che adesso è lei ad occuparsi delle faccende della Fortezza. E che dovevo preparare un brodo per i suoi bambini, che hanno lo stomaco delicato; e che bisogna preparare torte ad ogni pasto, perché i suoi genitori vogliono i dolci, e arrosto a pranzo ed a cena. Dama Nerilka, sapete che non è possibile.» Scuoteva il capo, mentre le lacrime gli rigavano le guance. «Devo prendere ordini da lei, adesso?» «Te lo farò sapere, Felim. Intanto, segui il programma che abbiamo stabilito questa mattina. Neppure per Anella possiamo cambiare ciò che è previsto per la giornata.» Poi gli chiesi di mettere da parte quello che poteva della cena, per darlo
a Theng. «Ieri sera, mi sono preso la libertà di mandare dei ritagli di carne, Dama Nerilka. Come avrebbe fatto vostra madre. Oh, sì, sì, lei era giusta, era giusta...» Ancora una volta, affondò il volto nello straccio. Anche Felim era giusto, pensai, cercando di allontanare dalla mia mente l'immagine di mia madre. Pensare ad Anella mi aiutò. La piccola cagna, che veniva qui e credeva di poter assumere il comando di una Fortezza così vasta come se fosse il letamaio dal quale proveniva! Il pensiero del caos che mani così inesperte avrebbero provocato, mi diede un piacere perverso. Anella non sapeva nulla di come si amministra una Fortezza e, se desiderava far contento mio padre, avrebbe fatto meglio ad imparare in fretta. Che cosa mai le aveva fatto pensare che, solo perché Dama Pendra era morta, lei potesse prenderne il posto a Fort, oltre che nel letto di mio padre? A meno che... Ancora una volta, nella sala principale, mi imbattei in un Campen sconvolto. Il volto di mio fratello era paonazzo ed i suoi lineamenti apparivano sfigurati dallo sgomento. Dorai, Mostar e Theskin, che erano immersi in una conversazione a voce bassa con lui, avevano la stessa espressione. «Non c'è niente che possiamo fare?», stava chiedendo Theskin, stringendo e allentando la presa del pugnale che portava alla cintola. Dorai batteva il pugno nel palmo dell'altra mano. «Nerilka, dove sei stata? Sai che cos'è accaduto?» «Anella si sta trasferendo.» «Il Padre le ha assegnato gli appartamenti di nostra Madre. Già!» Non c'era dubbio che Campen e gli altri si sentissero profondamente oltraggiati. «Ti sta cercando, Rill, vuole sapere dove sei stata tutto il giorno, che cosa facevi al campo di internamento... e, come diavolo ti è venuto in mente di andarci?» «Volevo scoprire se esisteva davvero,» risposi, ignorando completamente le altre domande. «Quando è successo?» «È stato il nostro impegno mattutino,» rispose Theskin, indicando che vi aveva partecipato anche Dorai. «Organizzare la guardia e stabilire i turni di servizio. Proprio adesso. Non poteva avere la decenza di aspettare?» «Potrebbe ammalarsi e così perdere l'ultima possibilità di godere del tempo che gli resta!» «Nerilka!» Campen era sbalordito dalla mia irriverenza, ma Theskin e Dorai sghi-
gnazzarono. «Forse è la giusta spiegazione, piccolo Campen,» disse Theskin. «Il nostro Signore è sempre stato attaccato ai suoi piccoli piaceri.» «Adesso basta, Theskin!» Campen si ricordò di abbassare la voce, ma l'intensità del tono della sua rampogna supplì alla mancanza di volume. Theskin scrollò le spalle. «Devo andare. Controllare la guardia! Tornerò per il pranzo. Non lo perderei per niente al mondo!» Mi strizzò l'occhio, tirò Dorai per il braccio e si allontanarono, lasciandomi con Campen. Ma io non avevo nessuna voglia di ascoltare una conferenza sulle mie manchevolezze. «Sta' in guardia, Campen. Ha due figli, lo sai, e noi potremmo essere mandati tutti a calci ai piani superiori!» Evidentemente, il mio fratello maggiore non ci aveva pensato. Mentre rifletteva su questa possibilità, sgusciai tranquillamente nella mia confortevole stanzetta. Non ricordo di aver mangiato, quella sera, né di aver trovato piacevole la cena. La nostra defunta madre ci aveva così profondamente instillato il senso dell'ospitalità, che nessuno di noi, per quanto si sentisse provocato dagli avvenimenti, riusciva ad essere scortese. Avevo rimandato il mio ingresso nella Sala Principale, per cui fui piuttosto sorpresa di trovare così tanti parenti del secondo piano. Erano state apparecchiate le tavole grandi, e la sedia di mio padre era sistemata sul palchetto. Anella si era data da fare. «Sei stato invitato?», chiesi a Zio Munchaun, quando, gironzolando, venne dalla mia parte. «No, ma lei non conosce le nostre usanze, non ti pare?» Si poteva contare sul fatto che Zio Munchaun, per non parlare degli altri, cogliesse il senso di una situazione e si assicurasse di assistervi in prima persona. «Temo di non aver scoperto nulla, finora, nelle mie letture,» continuò tranquillamente lo Zio. «Ad ogni modo, ho dato anche ad altri lo stesso incarico. Notizie dalle Sedi? Mi sembra di capire che sei stata lì, oggi.» Ignorai la frecciatina. «Mastro Tirone è ritornato da quella meditazione. Attraverso il sentiero di montagna.» «Dunque, ha eluso le nuove disposizioni della Fortezza?»
«Forse. Di sicuro, ha eluso la sorveglianza delle guardie.» «Vorrei quasi che non l'avesse fatto,» mormorò lo Zio, con un guizzo negli occhi. Poi mi toccò il braccio in segno di avvertimento ed io mi voltai in tempo per vedere Anella che faceva il suo ingresso nella Grande Sala, seguita dai genitori. L'entrata trionfale fu guastata dalle sue guance in fiamme e dal passo incerto di suo padre. In seguito mi informarono che suo padre non era ubriaco, ma storpio ad un piede. In ogni caso, non ero nello stato d'animo adatto a provare compassione. Nei minuti che seguirono, ebbe almeno la grazia di apparire imbarazzato. Anella, che indossava un abito fittamente ricamato, del tutto inadatto al lutto della Fortezza o ad un cena di famiglia, salì i tre gradini del palchetto e si diresse risolutamente alla sedia di mia madre. Zio Munchaun mi strinse il braccio. «Il Nobile Tolocamp desidera che io legga questo messaggio da parte sua.» Nello sforzo di farsi udire e di sottolineare la sua nuova autorità, la sua voce risultava stridente. Srotolò il messaggio e lo tenne sollevato dinanzi agli occhi, che, mentre gridava, si gonfiarono in modo ripugnante. «Io, Nobile Tolocamp, impossibilitato per la quarantena a partecipare attivamente al governo dalla Fortezza di Fort in questi giorni difficili, nomino e designo Dama Anella, Nobile Signora, così da provvedere all'amministrazione della Fortezza finché la nostra desiderata unione non possa essere celebrata pubblicamente. Mio figlio Campen ricoprirà, sotto la mia direzione, gli incarichi attribuiti al Signore per tutto il tempo in cui rimarrò in isolamento. «Ordino solennemente a tutti voi, sotto pena di disgrazia e di esilio, di osservare la quarantena di questa Fortezza, e di evitare qualsiasi contatto con altri, finché Mastro Capiam, o il Maestro Guaritore suo sostituto, non abolirà le restrizioni della quarantena. Chiedo obbedienza alle disposizioni da me emanate per assicurare la sicurezza e la salute di Fort, prima e maggiore Fortezza di Pern. Obbedite e prospereremo. Disobbedite e periremo.» Girò il foglio verso di noi e ce ne indicò la fine. «Qui ci sono la sua firma ed il suo sigillo, se qualcuno vuole verificare.» Poi ci insultò nuovamente. «Mi incarica di scoprire chi di voi si sia pericolosamente avventurato fino ai margini del campo di internamento, quest'oggi.» I suoi occhi gonfi ci scrutarono uno ad uno.
Mossi un passo in avanti, proprio mentre Peth, Jess, Nia e Gabin facevano lo stesso. «Non arrabbiatevi con me,» piagnucolò Anella. «Il Nobile Tolocamp mi ha solo detto che si tratta di uno solo di voi.» «Tutti noi vi abbiamo dato un'occhiata,» disse Jess, prima che potessi raccogliere le idee. «Io non avevo mai visto un campo di internamento.» «Non capite? Lì ci sono persone malate!» Il volto di Anella divenne pallido di spavento. «Se voi prendete la peste, prima di morire contagerete tutti gli altri.» «Proprio come il nostro Nobile Signore,» ribatté una voce dal pubblico. «Chi l'ha detto? Chi ha parlato in modo così vile?» Non ci fu risposta, tranne un rumore di stivali che si spostavano sul pavimento di pietra. Neanch'io riuscii ad identificare il colpevole... per congratularmi con lui, o con lei. Dentro di me, scommisi su Theskìn. «Saprò chi ha parlato!», sbraitò Anella, ma non avrebbe mai conosciuto la risposta. Quella sera si era giocata ogni possibilità di guadagnarsi la fiducia e la confidenza delle persone presenti nella Sala. «Il Nobile Signore verrà a sapere della serpe che nutre in seno!» Fece girare un'ultima volta lo sguardo sulla Sala, poi diede uno strattone alla sedia pesantemente scolpita che mia madre aveva occupato con tanto decoro. Non era abbastanza forte da spostarla, ed il suo tentativo produsse una risatina. Sua madre fece segno imperiosamente ad un servo di aiutare la figlia. Quando Anella finalmente si sedette, la madre si sistemò accanto a lei, col marito alla sinistra. Quelli di noi che avrebbero dovuto prendere posto sul palchetto, rifiutarono di farlo, per cui, stringendosi un po', tutti si accomodarono ai tavoli in basso. «Dove sono i figli del Nobile Tolocamp?», domandò Anella quando ci fummo sistemati. «Campen!» lo indicò, perché lo conosceva di vista. «Theskin, Dorai, Gallen. Prendete i vostri posti.» Fece una breve pausa; riuscivo a vederle sbattere le palpebre e storcere la bocca in una smorfia di irritazione. «Nalka? Non è la maggiore delle figlie viventi?» Zio Munchaun mi diede il gomito. «Faresti meglio ad andare, Rill, anche se ha sbagliato il tuo nome perché, se la insulti pubblicamente, tuo padre verrà a saperlo.» Sapevo che aveva ragione. Mentre mi alzavo, vidi la madre di Anella mormorarle qualcosa all'orecchio. «E c'è un Arpista in questa Fortezza, non è vero? Noi onoriamo gli Arpisti.»
Casmodian si alzò, si inchinò e fece un sorriso stentato. «Perché vi siete seduti in basso?», chiese Anella, mentre Campen e Theskin salivano i gradini del palchetto. «Con tutto il rispetto, Dama Anella,» disse Theskin con un sorriso ironico, «credevamo che questi posti fossero stati riservati alla vostra famiglia.» Per quanto pronunciate in tono di cortesia, nondimeno le parole di Theskin erano di scherno, e lei non era così stupida da non capirlo, anche se non riuscì a rispondere per le rime. Nessuno le fece notare che non aveva nominato tutti i figli superstiti di Tolocamp, per cui Peth, Jess e Gabin trascorsero la cena più allegramente di noialtri. Coraggiosamente, Casmodian sedette accanto al padre, e credo che quella sera furono gli unici due a fare conversazione al tavolo principale. Quanto a me, so che non gustai affatto neanche quel poco che mi costrinsi a mangiare. Sfortunatamente, adesso avevo il tempo di pensare a tutto quello che non avevo fatto per mia madre, alla durezza che mi aveva tenuta lontana dalle mie sorelle negli ultimi momenti da loro trascorsi alla Fortezza di Fort. Inoltre, ribollivo di rabbia nei confronti dell'usurpatrice e giurai che non avrei fatto nulla per assisterla nel suo nuovo ruolo. Mi faceva proprio comodo che non riuscisse a ricordare esattamente il mio nome. Se conoscevo bene il carattere della gente del palazzo, nessuno le avrebbe dato una mano, neppure in faccende insignificanti come imparare i nomi corretti dei figli del Nobile Tolocamp. Quella sera bevvi più vino di quanto sia mia abitudine: forse anche perché mangiai pochissimo. Terminato il pasto, scivolai fuori dalla Sala verso le cucine, per essere sicura che la nuova Signora non avesse contraddetto i miei ordini a proposito dei ritagli di carne. Poi, mi diressi alla mia stanza, per la scala sul retro, e cercai la consolazione del sonno. CAPITOLO V 3.15.43 I tamburi mi svegliarono all'alba, perché, nel mio stordimento, avevo dimenticato di mettere i tappi nelle orecchie. Poi, il messaggio mi risvegliò del tutto: Dodici Ali avevano messo in fuga la Minaccia a Igen e tutto andava bene. Com'era possibile che Dodici Ali fossero volate fuori dal Weyr di Igen, se la metà dei Dragonieri era malata di peste ed il Weyr aveva già sofferto
delle perdite? Se le notizie erano state riportate esattamente, non c'erano più di nove cavalieri disponibili, e mentire in momenti così terribili non sembrava di alcun vantaggio. Mi alzai e mi vestii, poi scesi nelle cucine, sorprendendo i servi che preparavano la prima di molte anfore di klah. Il suo aroma era un tonico di per se stesso, e la prima coppa fragrante mi riscaldò il cuore, pieno di dolore e di sgomento. Stavo rimescolando il porridge, quando apparve Felim, che avanzò verso di me, col volto raggiante, su cui calò immediatamente una più opportuna espressione lugubre. «Ho dovuto mandare al campo un intero cesto di cibi intatti, Dama Nerilka. Forse la cena non era buona?» «Pochi di noi avevano voglia di mangiare, Felim. Non era un insulto alla tua bravura.» «Lei si è lamentata che non ci fosse sufficiente varietà di dolci,» mi disse, offeso. «Ha idea delle difficoltà con cui sono alle prese? Non posso cambiare i programmi all'improvviso. Non c'è un solo apprendista, né un Itinerante, che possa in un'ora fornire una scelta di dolci nelle quantità di cui abbiamo bisogno in questi giorni a palazzo.» Mormorai qualcosa per consolare il suo io offeso, più per abitudine che per desiderio di rivalutare Anella ai suoi occhi. Un cuoco scontento poteva essere fonte di problemi seri in una Fortezza delle dimensioni di Fort. Che Anella imparasse dai suoi errori, e scoprisse com'era difficile essere una Signora. Fu allora che realizzai la verità del suo annuncio: lei era la Dama Signora di Fort, e le si dovevano tutti gli onori che erano stati riservati a mia madre. Beh, c'erano degli oggetti di proprietà di mia madre che non sarebbero caduti nelle sue mani. Rivolsi a Felim delle parole di pacificazione, allo scopo di assicurare per quella sera un pasto cucinato decentemente, e mi precipitai nell'ufficio di mia madre, nel sottolivello. Lì, feci sparire in fretta tutti i suoi diari privati, e le sue annotazioni su familiari e dipendenti: noi ragazze conoscevamo troppo bene nostra madre ed avevamo fatto del nostro meglio per non figurare spesso in questo genere di resoconti. Sarebbero stati un documento inestimabile per Anella ed estremamente imbarazzante per noi, perché avremmo visti rivelati non solo i nostri piccoli peccati di adolescenti, ma anche i problemi degli occupanti del secondo piano. Mia Madre aveva inoltre delle gemme e dei gioielli di sua esclusiva proprietà, che andavano divisi di diritto tra le sue figlie. Poiché dubitavo che Anella li avrebbe distribuiti con onestà, scelsi di assume-
re quel compito io stessa. Se Anella si fosse accorta che era stato portato via qualcosa, avrebbe potuto cercarlo, per cui mi affrettai lungo i corridoi che conducevano sul retro alla dispensa e nascosi le due sacche di diari ed il piccolo fagotto con i gioielli in cima ad uno scaffale polveroso. Anella non arrivava così in alto. Ero di ritorno, quando Sim mi fermò. «Dama Nerilka, lei chiede di una certa Dama Nalka.» «Davvero? Beh, non c'è nessuno con questo nome nella Fortezza, non ti pare?» Sim sbatté le palpebre, confuso.
«Non si riferisce a voi, Dama?» «Forse sì, ma finché non impara a chiamarmi col mio vero nome, non sono obbligata a risponderle, non credi, Sim?» «No, se lo dite voi, Dama Nerilka!» «Dunque, ritorna da lei, Sim, e dille che non riesci a trovare questa Dama Nalka nella Fortezza.» «Devo fare così?» «Devi fare così.» Si allontanò goffamente, mormorando qualcosa tra i denti a proposito
del fatto che non si trovava Dama Nalka - nessuna Dama Nalka - nella Fortezza. Era quello che doveva dire. Nessuna Dama Nalka nella Fortezza. Attraversai la corte, diretta alla Sede degli Arpisti. Probabilmente Anella aveva in mente cose più importanti delle scorte medicinali, ma alla fine qualcuno l'avrebbe informata che era Dama Nerilka quella che cercava. E sicuramente avrebbe riferito a mio padre della mia insolenza. Una volta uscito dall'isolamento, non dubitavo che mi avrebbe inflitto un doloroso castigo. Forse, avrei meritato ogni colpo. Nel frattempo, era mio diritto concedere le scorte medicinali richieste, ed ero decisa a farne trarre pieno beneficio ai Guaritori. Un giovane ed allegro apprendista mi indicò le cucine della Sede, ed io mi ci diressi, riflettendo sul fatto che in quei giorni trascorrevo la maggior parte del mio tempo in cucina. «Avrò bisogno di bottiglie di vetro sterilizzate, il che significa quindici minuti in acqua bollente, non uno di meno,» stava dicendo Desdra all'itinerante. «Adesso, io... Dama Nerilka!» Desdra mostrò uno slancio che le avevo visto il giorno prima. «Mastro Capiam sta meglio?» «È di nuovo lui, sono felice di dirlo. Non tutti quelli che prendono la peste devono necessariamente morirne. Qualche malato alla Fortezza di Fort?» «Se ti riferisci al mio Signore, rimane nei suoi appartamenti, ma sta abbastanza bene da dare ordini.» «Ho sentito.» Il sorriso ironico di Desdra mi fece capire che non approvava i cambiamenti. «Visto che sono ancora incaricata della farmacia, dimmi, che cosa ti occorre?» Desdra si era voltata ad osservare l'Itinerante, con la mente evidentemente occupata da faccende più urgenti. Ad ogni modo, si girò verso di me con un sorriso. «Sai fare decotti, infusi e miscele?» «Io mi occupo di tutti i medicinali che occorrono.» «Allora, prepara uno sciroppo per la tosse. Ecco, lascia che ti dia una ricetta che ho trovato efficace.» Aveva in una mano un pezzo di pelle e nell'altra un carboncino; in modo frettoloso, ma leggibile, scribacchiò ingredienti e dosi. «Non trascurare di aggiungere dell'erba calmante: è l'unica cosa che riesce a lenire la terribile tortura della tosse.» Poi consultò
un'altra lista che aveva in mano. La mia presenza la distraeva. «E tua madre ha... oh, ti chiedo perdono.» Mi toccò la mano in segno di scusa, con gli occhi preoccupati di avermi causato un dolore. «Hai della zuppa ristoratrice? Avremo bisogno di intere pentole di zuppa.» Pensai alla reazione di Felim di fronte a quest'ulteriore, bizzarra richiesta, ma si poteva agire nel cuore della notte e far finire nella pentola della zuppa tutti i rimasugli. L'ultimo posto in cui Ariella avrebbe pensato di trovarmi era la piccola cucina bollente. «Cuoco, raffreddalo finché non diventa una gelatina. Così si trasporterà meglio.» Aveva un occhio alla clessidra, in cui mancavano pochi grani ai quindici minuti di bollitura. La lasciai al suo compito, sperando che le riuscisse bene. In Desdra c'era un'eccitazione repressa che forse non era dovuta unicamente alla guarigione di Mastro Capiam. Che stesse mettendo a punto una cura? Fortunatamente, ci volle tutto il giorno per preparare la zuppa e lo sciroppo richiesti da Desdra. L'antitosse leniva realmente i bruciori di gola. Ne migliorai il gusto con un aroma e riempii dell'infuso due damigiane, conservando un fiasco per la Fortezza, in caso di bisogno. Presi nota dello sciroppo nel Registro. Quando Sim ed io portammo alla Sede il frutto del lavoro della giornata, l'aria di eccitazione soffocata che avevo notato in Desdra era di nuovo evidente, ma non riuscii a scoprire nulla dall'Itinerante a cui consegnai la zuppa e lo sciroppo. Si profuse in ringraziamenti, ma aveva chiaramente degli impegni che lo attendevano. Era duro desiderare di aiutare, poter offrire un valido ausilio e non trovargli nessuna utilizzazione, pensai, mentre ritornavo stancamente attraverso la corte immersa nel buio. Gli appartamenti di mio padre e quelli che erano stati di mia madre erano illuminati. Ma non c'era nessuno alla finestra a spiare gli sconosciuti trasgressori di stupide regole. Mi guardai indietro al di sopra della spalla, in direzione dello spregevole campo di internamento, e scorsi le guardie che facevano la ronda ai confini. Era lì che sarebbero finiti il mio sciroppo e la mia zuppa? Se quella era la loro destinazione, la mia giornata di lavoro era stata proficua. Risollevata, continuai il cammino verso la Fortezza. CAPITOLO VI
3.16.43 La mattina seguente, Campen mi scovò mentre ero sul punto di preparare dell'altra zuppa. «Ecco dove ti eri cacciata! Anella ti sta cercando.» «Sta cercando una certa Dama Nalka, e non c'è nessuno con questo nome alla Fortezza.» Campen sbuffò, irritato. «Sai benissimo che si riferisce a te.» «Allora, dovrebbe chiamarmi col mio nome. Altrimenti, non mi muoverò.» «Nel frattempo, sta rendendo la vita molto difficile alle nostre sorelle, che già soffrono abbastanza della mancanza di nostra madre, senza dover sopportare i suoi tormenti.» Ebbi immediatamente dei rimorsi. Nella mia infelicità, egoista com'ero, avevo dimenticato che Lilla e Nia avevano bisogno della mia presenza e del mio sostegno. «Deve avere dei nuovi abiti, adatti alla sua posizione. E tu sei la miglior cucitrice.» «Kista era la migliore, tra noi,» ribattei con rabbia. «E Merin cuciva le costure con la mano più ferma. Ad ogni modo, andrò.» Non fu un colloquio piacevole, ed io sapevo che il mio comportamento lasciava a desiderare da molti punti di vista. Per aggiungere al danno la beffa, Anella era più giovane di me di molti Giri, e ne era estremamente consapevole. Ma, sapendo di non essermi curata deliberatamente delle sue chiamate, subii la sua collera in silenzio, traendo qualche consolazione dal fatto che, per rimproverarmi, doveva sforzarsi di allungare il collo, dal momento che ero ben più alta di lei. Sembrava una femmina di wherry, mentre se ne stava impettita in un pesante abito, troppo pieno di fronzoli per star bene sul suo corpo magro, con le spallucce che le ricadevano frequentemente in avanti e che doveva rimettere a posto con uno scatto. Mancava di dignità, di esperienza, di buon senso, di umorismo. «Dunque, come giustificate la vostra assenza negli ultimi due giorni? Dove siete stata? Perché, se siete sgattaiolata via per incontrare qualche...» A quelle accuse, decisi che ne avevo abbastanza di sentirla sbraitare. «Ho preparato della zuppa ricostituente e dello sciroppo per la tosse; inoltre, ho controllato le nostre scorte medicinali, in caso ce ne fosse bisogno.»
Arrossì, ricordandosi all'improvviso dell'emergenza in atto. «Ho io la responsabilità della farmacia di questa Fortezza.» «Perché non mi è stato detto dov'eravate? Vostro padre...» Si morse di colpo le labbra. «Mio padre non è tenuto a sapere dei miei incarichi particolari. Era mia madre ad occuparsi di simili faccende domestiche.» Mi lanciò un'occhiata scrutatrice, ma avevo parlato con voce tranquilla e scegliendo accuratamente le parole. «Nessuno qui mi dice niente di quello che dovrei sapere,» si lamentò. «Se il vostro nome non è Nalka, come vi chiamate?» «Nerilka.» «Abbastanza simile. Perché non siete venuta, quando vi ho mandata a chiamare?» Si arrabbiò nuovamente. «Non mi è stato detto.» «Ma sapevano che eravate voi che volevo vedere.»
«L'intera Fortezza è ancora sconvolta dal dolore e dalla preoccupazione.» Strinse le labbra, ma quello che avrebbe voluto dire balenò nei suoi occhi, che ricominciavano a gonfiarsi per lo sforzo di controllare l'agitazione. Si avvicinò alla finestra, facendo frusciare la gonna, e rimase a guardare fuori, aggiustandosi di continuo l'abito sulle spalle. All'improvviso, si volse di scatto. «Vostra madre aveva organizzato così bene le cose in questa Fortezza, che sono sicura avesse da parte tessuti e modelli per abiti. Potreste venire con me a scegliere le stoffe adatte al mio nuovo guardaroba.» «Zia Sira è incaricata dalla Tessitura.» «Non mi serve la Zia Tessitrice. Ho bisogno della vostra abilità nel cucito. Perché siete abile, non è vero?» Quando annuii, proseguì. «Dunque, dove sono le chiavi?» Indicai lo scrigno in cima all'armadio. Con un grido di esasperazione, fece un balzo verso l'alto, rovesciando un cassetto nella fretta di assicurarsi le preziose chiavi. Dovette tenere il pesante mazzo con entrambe le mani. «Ma, qual è la chiave? E quale apre la cassa dei gioielli? E l'armadietto delle spezie?» «C'è un colore per ogni piano. Le chiavi che riguardano l'economia domestica sono le più piccole, quelle delle stanze le più grandi. Le chiavi delle Sale sono ancora più grandi, e dorate. Quelle delle dispense sono tutte verdi.» Così, fui costretta a trascorrere l'intera mattina accompagnando la mia matrigna di piano in piano, e persino nei sottolivelli, dove insistette per andare. Risposi con buona volontà ed esaurientemente ad ogni domanda che mi pose, ma, senza mostrare di nasconderle qualcosa, non le diedi spontaneamente alcuna informazione. Dopodiché, non so se rimasi maggiormente disgustata da me stessa oppure dalla sua spaventosa ignoranza dell'amministrazione di una Fortezza. Forse sua madre non le aveva mai chiesto aiuto, e lei era l'unica figlia femmina? Speravo solo che mio padre maledicesse il giorno in cui aveva permesso all'infatuazione di prendere il sopravvento sul suo buon senso. E pensare che aveva trovato da ridire sul mio unico pretendente, Garben, che proveniva, in fin dei conti, da una famiglia molto simile a quella di Anella! All'improvviso, seppi anche, con assoluta certezza, che non sarei rimasta nella Fortezza di Fort per vedere il momento in cui sarebbe ritornato in sé. Anella richiese la mia presenza per tagliare e cucire le costure di molti
suoi abiti. Aveva del buon senso, perché disse che Lilla e Nia avrebbero potuto ricavare delle tuniche per sé da ciò che rimaneva dei tre tagli. Questo le assicurò la loro diligente collaborazione nella fattura degli abiti. Appena il lavoro fu ben avviato, mi allontanai col pretesto di dovermi occupare dei miei compiti di farmacista. E così, nella Sede degli Arpisti, venni a sapere per la prima volta delle iniezioni di siero che erano state fatte il giorno prima, e sentii parlare, in maniera piuttosto vaga, della ripresa, da parte di Mastro Capiam, di un antico metodo di cura, consistente nella somministrazione di una piccola dose di germi della malattia allo scopo di impedire lo sviluppo della malattia stessa in forma più grave. Le prime iniezioni erano state fatte ai Guaritori, dal momento che avevano maggiore bisogno degli altri di essere difesi dalla peste. Mastro Fortine si era sottoposto all'esperimento, aveva ricevuto il trattamento, ed ora soffriva solo di lievi disturbi. Presto, molto presto, di questo liquido miracoloso sarebbe stata disponibile una quantità sufficiente ad impedire che molte altre persone sane si ammalassero della terribile peste. Pern era salvo! Di fronte a quella notizia entusiasmante, mi imposi di avere dei dubbi, ma l'atmosfera generale della Sede era carica di speranza e di sollievo. Feci immediatamente ritorno alla Fortezza, finalmente libera dall'incubo di dover assistere ad altre morti tra i miei cari. Mi precipitai nella sartoria, per dare la buona notizia alle mie sorelle. Naturalmente, Anella era lì a controllare i punti. Mi tempestò di domande, facendomi ripetere la notizia più volte, prima di scappar via. Forse si preoccupava più della salute di mio padre che della sua Fortezza. Come avvenne, non so, ma verso sera tre Guaritori giunsero alla Fortezza e vennero condotti negli appartamenti di mio padre. Presumo che gli iniettarono il siero per primo. Anella, ne sono sicura, fu la seconda, e poi venne la volta dei suoi bambini. Con mia grande sorpresa, la cerchia ristretta dei familiari fu sottoposta allo stesso trattamento, e le mie sorelle sopportarono la dolorosa puntura senza batter ciglio. «Ce n'è rimasto a sufficienza per altre quindici peritone, Dama Nerilka. Chi suggerireste?», mi chiese il Guaritore Itinerante. «Desdra ci ha detto di rivolgerci a voi, per questo.» Aveva parlato a voce bassa, mentre mi iniettava il siero. Gli dissi di somministrare il liquido rimanente a tutto il personale del Nido, ai nostri tre Arpisti, a Felim ed al suo assistente capo, a Zio Mun-
chaun e Zia Sira, perché solo lei era a conoscenza dei disegni di broccato che costituivano l'orgoglio della nostra Fortezza, nonché al Connestabile Barndy ed a suo figlio. Con mio padre ancora in isolamento, Barndy era una persona-chiave, e subito dopo di lui veniva suo figlio. Munchaun avrebbe preso il loro posto, se fosse stato necessario, ed era l'unico a poter contrastare Tolocamp senza tema di ritorsioni. 3.17.43 Dovetti trascorrere gran parte del pomeriggio a cucire in presenza di Anella, mentre lei sorvegliava me e le mie sorelle, criticando i nostri punti e facendoceli ripetere tante volte che alla fine non ne potei più. Lilla, Nia e Mara erano più inclini all'obbedienza, dal momento che speravano di ottenere due tuniche nuove come ricompensa delle loro fatiche. Anella ebbe anche il cattivo gusto di informarci che, secondo le disposizioni date da Tolocamp al Connestabile ed ai miei fratelli, le riserve di cibo della Fortezza di Fort non erano a disposizione degli indigenti. Bisognava che si conservasse tutto per le necessità dei dipendenti della Fortezza di Fort. La situazione era critica, e Fort doveva essere inflessibile, per dare l'esempio al resto del continente. Tra l'altro, si compiacque di riferire Anella, Tolocamp era certo che gli Arpisti ed i Guaritori si sarebbero rivolti alla Fortezza per un sostanzioso aiuto in cibo e medicinali. Aveva infatti ricevuto la formale richiesta di un colloquio con Mastro Capiam e Mastro Tirone, che si sarebbe svolto il mattino seguente. Quello fu per me il colpo finale. Ormai ero giunta al limite della pazienza, della cortesia e della lealtà filiale. Non potevo più sopportare la presenza di quella donna, né rimanere ancora soggetta ad un uomo la cui codardia ed avarizia mi facevano vergognare del mio stesso Sangue. Non sarei rimasta più a lungo in una Fortezza disonorata. Col pretesto di voler preparare un dolce per la cena con una ricetta particolare, scesi alle cucine e poi nel dispensario. Lì distillai della fellis nel bollitore più grande e misi in infusione una quantità altrettanto grande di sciroppo per la tosse. Mentre bollivano, passai in rassegna gli scaffali colmi, prendendo una generosa quantità di ogni erba, radice, stelo, foglia, germoglio o tubero che potesse servire alla Sede dei Guaritori. Li legai strettamente e lasciai il mucchio nell'angolo buio della stanza più interna della dispensa, nel caso improbabile che Anella la ispezionasse. Feci de-
cantare la fellis e lo sciroppo in fiaschi zaffati ed aggiunsi a queste scorte sottratte di nascosto un pacco contenente i miei vestiti e ciò che mi occorreva. Quindi preparai un dolce colloso per la cena, tale da causare una bella indigestione ed Anella ed ai suoi genitori. Quella sera cercai zio Munchaun e gli diedi i gioielli di mia madre, perché li dividesse tra le mie sorelle. «Dunque, le cose stanno così?» Soppesò il mucchietto di gioielli avvolto in una pelle. «Non hai tenuto niente per te?» «Poche cose. Dubito che mi serviranno i gioielli, là dove ho intenzione di andare.» «Mandami tue notizie appena potrai, Rill. Sentirò la tua mancanza.» «Ed io la tua, Zio. Ti prenderai cura delle mie sorelle?» «Non l'ho sempre fatto?» «Ora è più necessario che mai.» Non riuscii ad aggiungere altro, né ad indebolire la mia risoluzione, per cui scesi di corsa gli scalini del secondo piano. 3.18.43 Il giorno seguente, ero doverosamente intenta alla preparazione di altra zuppa, quando vidi il Maestro Guaritore ed il Maestro Arpista farsi strada attraverso la Grande Corte, diretti ad un colloquio con Tolocamp. Attirai l'attenzione di Sim e gli dissi di prendere con sé altri due ed aspettarmi fuori del dispensario. Avevo un compito da sbrigare. Mi cambiai, indossando un abito adatto a ciò che speravo di fare, e ficcai le ultime cose che mi occorrevano in un sacchetto appeso alla cintura. Mi ci volle un attimo: i miei capelli erano la mia unica vanità. Presi le forbici e risolutamente, prima che me ne mancasse il coraggio, mi tagliai le lunghe trecce, che ficcai in un angolo buio. Per un po', nessuno avrebbe pensato di cercare nella mia stanza. I capelli corti erano adatti al mio nuovo ruolo nella vita. Con un cinturino di cuoio, mi legai all'indietro ciò che rimaneva della mia folta capigliatura bruna. Poi lasciai la stanza che era stata il mio rifugio fin dal mio diciottesimo anno di età e scesi la spirale di scale verso gli appartamenti di mio padre, al primo piano. Nel muro che si alzava appena oltre la porta principale dei suoi appartamenti, si apriva un vano adatto allo scopo. Mi ci ero appena rincantucciata, quando i tamburi annunciarono la buona nuova che Orlith aveva deposto
venticinque uova, compreso un uovo-regina. Scommisi che avrebbero fatto festa al Weyr di Fort. E si trattava senz'altro di una notizia consolante, anche se all'improvviso udii la voce afflitta di mio padre. Non era contento di venticinque uova ed un uovo-regina? In tempi normali, avrebbe fatto portare del vino per celebrare l'avvenimento. Nella Sala non c'era nessuno, ed a quell'ora la maggior parte della gente era intenta alle proprie occupazioni dentro e fuori della Fortezza. Mi avvicinai alla porta e, accostando l'orecchio al legno, riuscii ad udire quasi tutto quello che si disse. Sia Capiam che Tirone avevano una voce robusta, e, più si irritavano, più alto diventava il loro tono. Era mio padre che borbottava. «Venticinque, più un uovo regina, è una covata superba, in questo Passaggio,» stava dicendo Capiam. «Moreta... Kadith... Sh'gall... così malato.» «Non è affar nostro,» sottolineò Maestro Tirone. «Non che la malattia del cavaliere non abbia effetto sulle prestazioni del drago. Ad ogni modo, Sh'gall sta combattendo la Caduta a Nerat, il che significa che deve essersi completamente ristabilito.» Avevo saputo che entrambi i Comandanti del Weyr di Fort si erano ammalati e poi ristabiliti, perché Jallora era stata mandata in tutta fretta dalla Sede dei Guaritori quando era morto il Guaritore del Weyr. Come mai Sh'gall stesse volando a Nerat, quello non lo sapevo. «Vorrei che ci informassero della situazione di ogni Weyr,» disse mio padre. «Sono molto preoccupato.» «I Weyr,» Tirone parlava con enfasi, «stanno compiendo il loro tradizionale dovere nei confronti delle Fortezze!» «Io ho portato la malattia ai Weyr?», chiese mio padre a voce più alta, in un tono che mi parve piuttosto petulante. «O alle Fortezze? Se i Dragonieri non volassero di continuo qua e là...» «Ed i Nobili Signori non fossero così ansiosi di riempire ogni angolo dei loro...» Anche Capiam era arrabbiato. «Questo non è il momento di recriminare!», tagliò corto Tirone. «Tolocamp, voi sapete bene, se non meglio di tutti, che sono stati gli uomini delle Tenute Marine a portare quell'abominio sul Continente!» La voce del Maestro Arpista si incrinò per la riprovazione. Sperai che mio padre se ne rendesse pienamente conto. «Riprendiamo la discussione interrotta da quella buona notizia. In quel vostro campo ci sono degli uomini seriamente
ammalati. Non abbiamo una quantità di vaccino sufficiente ad alleviare la malattia, ma potremmo almeno dar loro il sollievo di sistemazioni decenti e della necessaria assistenza.» Dunque, avevo avuto ragione di presumere che l'avarizia di mio padre si estendesse anche alle due Sedi che Fort aveva tradizionalmente rifornito con generosità, ogniqualvolta vi si erano rivolte. «Ci sono dei Guaritori, tra loro,» ribatté mio padre in tono scontroso. «Almeno, così mi avete detto.» «I Guaritori non sono immuni dal contagio e non possono lavorare senza medicine,» disse Capiam con insistenza. «Voi avete un'enorme scorta di medicinali...» «Raccolti e preparati dalla mia defunta Signora...» Come osava parlare in quel modo svenevole di mia madre? «Nobile Tolocamp,» riuscii a cogliere la nota di irritazione nella voce di Mastro Capiam, «noi abbiamo bisogno di quelle scorte...» «Per Ruatha, eh?» Speravo bene che mio padre non volesse biasimare Ruatha per la tragedia! «Altre Fortezze, oltre a Ruatha, ne hanno bisogno!», replicò Capiam, come se in effetti Ruatha fosse l'ultima della lista. «La responsabilità delle scorte ricade sul Signore di ciascuna Fortezza, non su di me. Non posso sciupare altre risorse che potrebbero servire alla mia gente.» «Se i Weyr,» e la profonda voce di Tirone vibrò di passione, nel sollevare l'argomento, «pur così colpiti, possono estendere le loro responsabilità, come meravigliosamente fanno, oltre l'area che è di loro competenza, come potremmo noi rifiutare di farlo?» La risposta insensibile di mio padre mi sconvolse. «Molto facilmente. Dicendo di no. Nessuno che provenga da aree esterne può oltrepassare i confini della Fortezza. Se non sono appestati, possono avere altre malattie, ugualmente contagiose. Non metterò ulteriormente a repentaglio la salute del mio popolo. Non fornirò altre provviste tratte dalla riserve di Fort.» Mio padre non aveva udito neanche uno dei messaggi che riferivano di migliaia di morti a Keroon, Ista, Igen, Telgar e Ruatha? Mia madre e quattro mie sorelle erano morte, oltre, con tutta probabilità, alle guardie ed ai servi che le avevano accompagnate, ma in tutto si trattava solo di quaranta persone, non quattrocento o quattromila o quarantamila.
«Allora, io ritiro i miei Guaritori dalla Vostra Fortezza.» Per poco non mi congratulai con Capiam per quell'affermazione. «Ma... ma... non potete far questo!» «Certo che può. Noi possiamo,» ribatté Maestro Tirone. Udii scricchiolare la sua sedia, mentre la allontanava dal tavolo. Mi misi le mani sulla bocca, altrimenti non sarei riuscita a trattenermi. «Gli uomini delle Arti ricadono sotto la giurisdizione delle loro Sedi. L'avevate dimenticato, non è vero?» Avevo avuto appena il tempo di rientrare nel mio nascondiglio, quando la porta si spalancò di colpo e Capiam uscì con irruenza nella Sala. La luce proveniente dalle finestre dell'appartamento di mio padre mi permise di vedere la rabbia dipinta sul volto del Maestro Guaritore. Mastro Tirone sbatté la porta alle sue spalle. «Li richiamerò. Poi ti raggiungerò al campo.» «Non credevo che si sarebbe arrivati a questo!» Capiam era torvo. Trattenni il fiato, temendo per un attimo che potessero ripensarci. Questa opposizione era proprio ciò di cui Tolocamp aveva bisogno per ritrovare il senno perduto. «Tolocamp ha fatto troppo affidamento sulla generosità delle Sedi! Spero che questo esempio ricordi ad altri le nostre prerogative.» «Richiama tutta la gente delle Arti, ma non venire al campo con me, Tirone. Devi rimanere nella Sede con la tua gente, e guidare la mia!» «La mia gente,» Tirone scoppiò in una risata amara, «tranne pochissime eccezioni, langue in quel suo maledetto campo. Sei tu quello che deve rimanere al suo posto.» Seppi allora dove sarei andata, una volta lasciata quella Fortezza, e che cosa avrei potuto fare per espiare l'intransigenza di mio padre. «Mastro Capiam...» mi feci avanti. «Ho le chiavi della dispensa.» Gli mostrai i duplicati che mi aveva dato mia madre in occasione del mio sedicesimo compleanno. «Come avete?...», cominciò Tirone, piegandosi in avanti per scrutarmi in viso. Non sapeva chi fossi più di quanto lo sapesse Capiam, ma entrambi sapevano che ero una dell'Orda di Fort. «Il Nobile Tolocamp ha chiarito la sua posizione, quando ha ricevuto la richiesta di medicinali. Io ho contribuito a raccoglierli e conservarli.» «Dama?...» Capiam aspettava che dicessi il mio nome, ma la sua voce era gentile ed i suoi modi cortesi.
«Nerilka,» risposi brevemente, perché non mi aspettavo che qualcuno si esaltasse nel saperlo. «Ho il diritto di offrire i frutti del mio lavoro.» Tirone si rese conto che avevo spiato la loro conversazione, ma non me ne curai. «C'è solo una condizione.» Feci dondolare le chiavi. «Se è in mio potere soddisfarla,» replicò diplomaticamente Capiam. «Che io possa lasciare questa fortezza insieme a voi e lavorare con i malati in quell'orrido campo. Sono stata vaccinata. Il Nobile Tolocamp quel giorno era in vena di generosità, Comunque vada, non rimarrò in questa Fortezza a farmi tiranneggiare da una ragazza più giovane di me. Tolocamp ha permesso a lei ed alla sua famiglia di entrare in questa Fortezza santificata attraverso le alture dei fuochi, eppure lascia che Guaritori e Arpisti muoiano là fuori!» Fui sul punto di aggiungere «come ha lasciato morire mia madre e le mie sorelle a Ruatha.» Invece tirai Capiam per la manica. «Da questa parte, presto.» Tolocamp si sarebbe ripreso dallo shock del loro ultimatum ed avrebbe urlato che gli mandassero Barndy o uno dei miei fratelli. «Andandomene, porterò via da questa Fortezza tutta la gente delle Arti,» disse Tirone. Si voltò e prese l'altra strada. «Comprenderete che, una volta lasciata la Fortezza senza che vostro padre lo sappia, soprattutto considerata la sua attuale disposizione di spirito...» «Mastro Capiam, dubito che noterà la mia assenza.» Forse era stato proprio mio padre a dire ad Anella che mi chiamavo Nalka. «Questi gradini sono molto ripidi,» avvertii, ricordandomi all'improvviso che il Maestro Guaritore non era abituato ad uscire dal retro. Accesi una torcia. Mentre scendevamo la spirale di scale, Capiam inciampò una o due volte, e lo sentii tirare un sospiro di sollievo quando svoltammo nell'ampio corridoio che conduceva alla dispensa. Sim se ne stava seduto sulla panca con gli altri due, senza far niente. «Siete pronti, vero.» Feci cenno col capo a Sim, che non si aspettava di vedere lì il Maestro Guaritore, di stare tranquillo. «Mio padre apprezza la prontezza.» E, includendo Maestro Capiam in quella osservazione, aprii la porta. Entrai per prima, accendendo i lumi, e udii Capiam esclamare che riconosceva la stanza in cui lui e mia madre avevano spesso curato i malati della Fortezza. Entrai nella dispensa principale.
«Ecco, Mastro Capiam, il frutto del mio lavoro da quando ero abbastanza grande da staccare foglie, cogliere fiori ed estrarre bulbi e radici. Non dirò di aver riempito ogni scaffale, ma le mie sorelle, morte prima di me, non mi negherebbero la loro parte. Magari tutte le provviste ammassate qui fossero utilizzabili! Purtroppo, anche le erbe e le radici perdono i loro effetti col passare del tempo. Un vero spreco! La maggior parte di quello che vedete ingrassa i serpenti dei sotterranei.» Li avevo sentiti strisciare, spaventati dalla luce. «Lì nell'angolo ci sono dei bilancieri, Sim.» Alzai il tono della voce, perché le mie precedenti osservazioni erano per le orecchie del Maestro Guaritore, per fargli sapere che ciò che gli davo non intaccava seriamente le preziose scorte che Tolocamp doveva conservare per la sua gente. «Tu e gli altri, sollevate le balle.» Quando vidi che cominciavano a caricare, mi rivolsi a Maestro Capiam. «Maestro Capiam, se non vi dispiace - ecco l'infuso di fellis. Io porterò questo.» Sollevai l'altro fiasco per la cinghia che lo legava e me lo misi in spalla. «Ho fatto del nuovo sciroppo per la tosse, ieri sera, Mastro Capiam. Va bene, Sim. Andate, ora. Noi usciremo dalla cucina. Il Nobile Tolocamp si è di nuovo lamentato delle impronte lasciate sui tappeti della sala principale,» mentii. «Sarà meglio assecondarlo, anche se questo significa dover allungare la strada.» Spensi i lumi e misi giù il fiasco per chiudere la dispensa, ignorando l'espressione di Capiam. Quel che pensava non aveva importanza, purché potessi lasciare la Fortezza senza essere vista. «Vorrei prenderne di più, ma le guardie non faranno caso a quattro servi confusi con la folla del corteo di mezzogiorno verso il confine.» Allora Capiam dedicò uno sguardo al mio abbigliamento. «Nessuno noterà il fatto che uno dei servi prosegue verso il campo. E nessuno, all'uscita della cucina, troverà strano che il Maestro Guaritore vada via con delle scorte.» Li avevo abituati ad un simile traffico con la Sede. «In realtà, si stupirebbero se ve ne andaste a mani vuote.» Avevo finito di chiudere la porta ed ora facevo dondolare le chiavi davanti a me. Non potevo lasciarle semplicemente appese alla porta. «Non si sa mai, non vi pare?» commentai, infilandole nel sacchetto che pendeva dalla mia cintura. «La mia matrigna ne ha un altro mazzo. Crede che sia l'unico. Ma mia madre pensava che aver cura della dispensa fosse un'operazione adatta a me. Da questa parte, Mastro Capiam.» Mi seguiva ed io mi aspettavo che da un momento all'altro mi rivolgesse
un'esortazione o mi desse un buon consiglio. «Dama Nerilka, se partirete ora...» «Io sto partendo...» «... ed in questo modo, il Nobile Tolocamp...» Mi fermai e lo affrontai. Non era il caso di discutere con lui mentre attraversavamo la cucina. «... non sentirà la mancanza né di me né della mia dote.» Mentre sollevavo il fiasco, vidi Sim uscire dalla porta laterale e pensai che avrei fatto meglio a stargli alle calcagna, perché avrebbe potuto vacillare. «Posso essere realmente d'aiuto al campo di internamento, perché so fare decotti, infusi di erbe e composti medicinali. Farò qualcosa di costruttivo, più utile del rimanere seduta comodamente in un angolo da qualche parte.» Non aggiunsi «cucire le giunture dei vestiti che avrebbero adornato la mia matrigna.» Dissi, invece, «So che all'Arte siete sovraccarichi di lavoro. C'è bisogno di tutti.» «Inoltre,» toccai il sacchetto con le chiavi, «potrò sgusciare nella dispensa ogni volta che sarà necessario. Non siate sorpreso. I servi lo fanno di continuo. Perché non dovrei farlo io?» Specialmente vestita da serva, notai con sarcasmo. Dovevo raggiungere Sim e gli altri per mantenere la copertura; dovevo anche ricordarmi di muovermi come una serva. Mentre passavo sotto l'arco della porta della cucina, curvai le spalle, abbassai la testa, protesi le ginocchia in avanti, così da assumere un'andatura goffa, e finsi, trascinando i piedi nella polvere, di essere oppressa dai miei fardelli. Mastro Capiam stava guardando alla nostra sinistra, verso la corte esterna e le scale lungo le quali si muoveva Mastro Tirone insieme ai Guaritori che si occupavano dei nostri anziani ed ai nostri Arpisti. «Starà tenendo d'occhio loro, non noi,» dissi a Mastro Capiam, perché anch'io avevo intravisto la figura di mio padre alla finestra aperta. Forse sarebbe morto di raffreddore. «Cercate di camminare meno impettito, Mastro Capiam. Per il momento siete soltanto un servo che si avvia carico e riluttante al confine, terrorizzato dall'idea di ammalarsi e di morire come tutti quelli del campo.» «Nel campo non tutti muoiono.» «Naturalmente no,» dissi in fretta, avvertendo la rabbia nella sua voce. «Ma il Nobile Tolocamp lo pensa. Ci ha informato continuamente di questo. Un tentativo tardivo, da parte sua, di impedire l'esodo!»
Intravidi la punta degli elmetti al di sopra della balaustra. «Proseguite!» Il Maestro Guaritore si era fermato un attimo, ed io non volevo attirare in nessun modo l'attenzione su di noi. La partenza di Guaritori ed Arpisti era un'inutile diversione. «Potete anche camminare lentamente, fa parte del personaggio, ma non fermatevi.» Continuai a tenere la testa voltata a sinistra: vedere le guardie inseguire Guaritori ed Arpisti era uno spettacolo interessante. Specialmente se le guardie non desideravano affatto eseguire gli ordini ricevuti. Riuscivo a stento ad immaginare la costernazione di Barndy. «Arrestare il Maestro Arpista, Nobile Tolocamp? Come posso fare una cosa del genere? Ed i Guaritori, perdipiù? Non sono più utili alla loro Sede che qui?» Quando Tirone si trovò di fronte coloro che cercavano a malincuore di contrastarlo, ci fu un breve tafferuglio. Suppongo che le guardie e gli altri si scambiassero delle parole, ma nessuno in verità si oppose a quelli che se ne andavano, e Mastro Tirane li condusse tutti giù, sulla strada, di buon passo. La nostra direzione ci aveva già portato ad attraversare la strada maestra, ed i loro passi avrebbero coperto le nostre impronte nella polvere. Mantenni la mia andatura goffa e mi chiesi se mio padre si fosse per caso accorto del passaggio dei servi. Sim e gli altri due avevano raggiunto il confine, e Theng stava guardando con un certo disgusto i loro fardelli. Era uscito in fretta dalla sua piccola capanna, ma poi riconobbe il cesto contenente il rancio di mezzogiorno del contingente di guardia e si rilassò. Cominciai a preoccuparmi del fatto che Mastro Capiam potesse essere bloccato nel campo, mentre doveva davvero rimanere nella sua Sede, qualunque cosa avesse detto a Mastro Tirane. «Se oltrepasserete il confine, Mastro Capiam, non vi permetteranno di tornare indietro.» «Se c'è più di un modo per entrare nella Fortezza, possibile che ce ne sia solo uno per superare il confine?», mi chiese maliziosamente. «Ci rivedremo, Dama Nerilka.» Pensai con sollievo che aveva ragione. Ero abbastanza vicina all'allevamento della strada da vedere il campo, e gli uomini e le donne che aspettavano pazientemente il cibo, accuratamente lontani dalla zona sorvegliata. «Attento, Mastro Capiam.» Theng si precipitò, allarmato dal passo riso-
luto del Maestro Guaritore. «Se entrerete qui, ci rimarrete...» «Non voglio che questa medicina si versi, Theng. Accertatevi che capiscano che il contenitore è fragile.» Mi girai di lato, fingendo di sistemare il fiasco. Theng mi conosceva abbastanza bene da sollevare un putiferio se mi avesse riconosciuta. «Posso farlo per voi,» rispose Theng. Posò il fiasco da un lato delle balle, poi urlò agli uomini ed alle donne che attendevano in basso. «Questo va maneggiato con cura e consegnato ad un Guaritore. Mastro Capiam dice che e una medicina.» Volevo dire a Capiam che avrei fatto in modo che la medicina finisse nelle mani giuste, ma non osai avvicinarmi troppo a Theng, che adesso controllava che Mastro Capiam se ne tornasse da dove era venuto. Colsi l'occasione e scesi rapidamente il pendio fino alla gente in attesa. «No, assolutamente, Mastro Capiam,» stava dicendo Theng mentre io attuavo la fuga, «sapete che non posso permettervi di entrare in stretto contatto con nessuno dei vostri uomini.» Fui immensamente sollevata dall'intervento di Theng. Era presuntuoso da parte mia, forse, ma sentivo che Mastro Capiam doveva rimanere dove poteva raccogliere i messaggi dei tamburi e tenere concilii con altri Maestri, soprattutto adesso che lui ed il Maestro Arpista avevano richiamato la gente delle loro arti dalla Fortezza di Fort. Non era giusto che Mastro Capiam, da devoto uomo d'Arte qual era, mettesse a repentaglio la propria vita in quel maledetto campo. Forse, ora che era stato prodotto il vaccino, il campo di internamento sarebbe stato tolto nel giro di pochi giorni. Comunque, ci sarebbe voluto molto tempo prima che la Fortezza, la Sede ed il Weyr ritornassero alla normalità e districassero il garbuglio in cui la peste ci aveva cacciati. Avevo un motivo assolutamente egoistico per rallegrarmi del fatto che Mastro Capiam avesse deciso di rimanere lassù. Desideravo cambiare di identità, oltre che di Fortezza. Forse uno o due Arpisti che avevano prestato servizio alla Fortezza avrebbero potuto riconoscermi, ma non avrebbero mai cercato Dama Nerilka qui, in un campo di internamento, circondata dall'infezione ed esposta alla sofferenza, se non alla morte. Sebbene non l'avesse detto, senza dubbio Desdra aveva rifiutato le mie offerte di assistenza perché sapeva che le giovani donne di Sangue Nobile non si impegnano pubblicamente in simili attività. Probabilmente mi considerava una ragazza incosciente e superficiale e forse lo ero: alcune delle mie idee e decisioni più recenti potevano essere considerate meschine. Ma
a me non sembrava di star sacrificando il mio rango e la mia posizione. Pensavo, piuttosto, di mettermi in condizione di essere utile, invece che rinchiusa in una Fortezza, protetta ed improduttiva, a sprecare tempo ed energie in cose insignificanti come cucire per la mia matrigna. Una simile «occupazione consona» ad una ragazza del mio rango, poteva facilmente essere svolta dall'ultima serva addetta alla biancheria. Per la testa mi passavano simili pensieri, mentre mantenevo l'andatura goffa che avevo assunto: ironia della sorte, visto che alle ragazze della Fortezza veniva insegnato a camminare a passettini tali da far sembrare che fluttuassero sul pavimento. Io non c'ero mai riuscita. Seguii gli uomini e le donne che avevano portato i cesti fino al confine. Notai che la maggior parte di loro portava ornamenti da Arpista. Un uomo indossava i colori della Tenuta Fluviale ed un altro quelli della Tenuta Marina. Viaggiatori intrappolati mentre andavano a chiedere aiuto a Tolocamp? Il sentiero svoltava nella macchia, dove ora vedevo che erano stati eretti dei rozzi ripari. In effetti, eravamo stati fortunati ad avere un tempo così clemente perché, di solito, il terzo mese era burrascoso, spesso nevoso, e gelido. Su ogni fuoco all'aperto, nel proprio cerchio di pietre, c'erano o uno spiedo o una pignatta. Erano finite lì le mie zuppe? Poi compresi che la gente seduta intorno ai fuochi, avvolta in coperte o pelli, aveva il colorito grigio e l'espressione spenta dei convalescenti. Ad un margine della macchia era situato un rifugio più grande, costruito con uno strano assortimento di materiali, e da esso proveniva un coro di colpi di tosse secca e di gemiti che ne rivelavano la funzione di infermeria principale. Era qui che era stato portato il mio fiasco di fellis. Quelli che portavano i cesti di cibo stavano cominciando a distribuire pane alla gente raccolta attorno ai fuochi. Tre donne cominciarono a infilzare le verdure ed i pezzi di carne sugli spiedi. La cosa peggiore della scena era il silenzio. Mi affrettai all'infermeria e sulla porta mi imbattei in un Guaritore alto e con la barba lunga. «Fellis, erbe... cosa porti?», chiese ansiosamente. «Tussilago, per la tosse. Dama Nerilka l'ha preparato appena ieri sera.» Fece una smorfia e mi prese il fiasco. «È consolante sapere che da quelle parti non tutti sono d'accordo con il Nobile Signore.» «È un vigliacco ipocrita.» Il Guaritore sollevò le sopracciglia, sorpreso.
«Ragazza, non è saggio parlare in questo modo del tuo Nobile Signore, qualunque cosa abbia fatto.» «Non è il mio Nobile Signore,» ribattei, sostenendo il suo sguardo senza batter ciglio. «Sono venuta per aiutare. Ho buone basi nella conoscenza delle erbe e della loro preparazione. Io... ho aiutato Dama Nerilka a distillare lo sciroppo. Mi ha insegnato lei tutto quello che so, lei e la sua signora madre che ora è sepolta a Ruatha. Posso fare da infermiera e la peste non mi fa paura. E, comunque, tutto ciò che amavo non esiste più.» Mi mise una mano sulla spalla per confortarmi. Nessuno avrebbe osato mostrarsi così familiare verso Dama Nerilka, ma non trovai offensivo essere trattata in quel modo. Dimostrava che era un essere umano. «Non sei la sola.» Fece una pausa per permettermi di presentarmi. «Va bene, Rill, sto raccogliendo tutti i volontari. La mia migliore infermiera si è appena ammalata...» Accennò con il capo ad una donna distesa immobile e bianca su un giaciglio di sterpi.» Non possiamo fare molto, tranne curare i sintomi...», diede un buffetto affettuoso al contenitore dello sciroppo, «... e spero che non sopravvengano infezioni secondarie. Sono queste a causare la morte, non la peste di per sé.» «Presto ci sarà abbastanza vaccino.» Lo dissi per rincuorarlo, perché evidentemente non gli piaceva sentirsi così impotente di fronte all'epidemia. «Dove l'hai sentito, Rill?» Aveva abbassato la voce, e adesso mi bloccava il braccio in una stretta dolorosa. «Si sa. Ieri è stato inoculato il siero alle persone di Sangue. Se ne sta preparando altro. Presto anche voi...» L'uomo scrollò le spalle, accettando con amarezza la sua situazione. «Presto, ma difficilmente per primi.» La donna lottava nello spasmo della febbre e si liberò delle coperte. Mi precipitai al suo fianco. E così cominciarono le mie prime ventiquattr'ore da infermiera. Eravamo in tre oltre a Macabir, il Guaritore Itinerante, ad assistere le sessanta persone che giacevano ammalate in quella rozza infermeria. Non seppi mai quanti altri ci fossero in quel campo, perché la gente si spostava. Alcuni erano arrivati a piedi o su corridori, sperando di ottenere asilo a Fort oppure assistenza dalle Sedi o dalla Fortezza, e ripartivano una volta capito che non gli si permetteva di raggiungere il loro scopo. Mi chiesi spesso quanta gente avesse davvero rispettato l'intera quaran-
tena. Comunque, la parte occidentale del continente è più popolosa di quella orientale. Ed il territorio posto sotto la giurisdizione di Fort non era stato neanche lontanamente colpito da tutte le disgrazie di Ruatha. Venimmo a sapere che solo il primo intervento di Mastro Capiam a South Boll aveva impedito alla malattia di devastare anche quella provincia. Alcuni dicevano che Ratoshigan avrebbe meritato il destino che aveva colpito Ruatha ed il giovane Nobile Alessan. Era ancora vivo, seppi. Ma lui e la sua sorella minore erano gli unici sopravvissuti di quella Linea di Sangue. Le sue perdite erano più dolorose delle mie, dunque. Il risarcimento sarebbe stato altrettanto grande? Sebbene tormentata, ansiosa, oberata di lavoro, affamata e di certo privata di sonno, non ero mai stata così felice. Felice? È una strana parola da usare in relazione a ciò di cui mi occupavo nel campo, perché quel giorno ed il successivo perdemmo dodici delle sessanta persone che giacevano nella tenda, e li rimpiazzammo con altri quindici. Io, però, per la prima volta nella vita, ero utile, avevano bisogno di me, e ricevevo stupita la gratitudine muta di quelli che assistevo. Per una persona che fosse stata educata come me, quell'esperienza era una rivelazione di tipo piuttosto personale ed in qualche modo spiacevole, dal momento che non avevo mai avuto a che fare con le funzioni corporee più intime sia di uomini che di donne, ed ora ero costretta ad occuparmene. Repressi la nausea e la ripugnanza iniziali, mi tagliai i capelli ancora più corti, mi rimboccai le maniche e continuai a lavorare. Se quello faceva parte del mio lavoro, non mi tiravo indietro. Avevo inoltre la certezza di essere protetta dalla malattia che curavo, per cui talvolta l'elogio del mio coraggio da parte di Macabir mi imbarazzava. Poi, un Guaritore Itinerante entrò baldanzoso nel campo, portando abbastanza siero da vaccinare tutti, e annunciò che il campo stava per essere tolto. I malati sarebbero stati trasportati alla Sede degli Arpisti, dove si stavano sgombrando le baracche degli apprendisti per sistemarli. Anche quelli di passaggio avrebbero trovato rifugio per la notte, prima di rimettersi in strada al mattino. E se fossero stati in grado di portare con sé delle provviste... Mi offrii come volontaria, anche se Macabir mi proponeva ancora una volta di iniziare ufficialmente l'addestramento alla Sede. «Hai un talento naturale per questa professione, Rill.» «Sono troppo vecchia per fare l'apprendista, Macabir.» «Ma che importa, se ci sai fare così bene con gli ammalati? Un Giro, e
avrai completato il primo internato. Tre, e non ci sarà un Guaritore che non sarà felice di averti come assistente.» «Adesso sono libera di vedere più di una sola Fortezza in questo continente, Macabir.» Sospirò, passandosi la mano sul volto segnato e stanco. «Beh, ricordatelo quanto ti sarai stancata di viaggiare.» CAPITOLO VII 3.19.43-3.20.43 Partii appena si fece sera, con una mappa approssimativa che indicava la strada per tre Fortezze a nord, proprio sulla frontiera di Ruatha, dove occorrevano urgentemente del siero ed altri medicinali. Macabir tentò di convincermi ad aspettare fino al mattino, ma gli feci presente che, con la luna piena, c'era abbastanza luce per viaggiare su quelle strade sgombre e che si trattava di una necessità impellente. Non volevo correre il rischio che Desdra o qualcuno della Fortezza potesse riconoscere Dama Nerilka, per quanto sfinita e con gli abiti in disordine. Passai a cavallo oltre la Fortezza di Fort, senza neppure gettare uno sguardo per vedere se Tolocamp stesse alla sua finestra, oltre le file di casupole e le stalle, e mi chiesi se qualcuno tra le molte persone con cui avevo vissuto fino a due giorni prima mi vedeva passare. In verità: forse che qualcuno, eccetto Anella e le mie sorelle, aveva sentito la mia mancanza? La mia disgrazia era di essere più stanca di quanto avevo sospettato prima che mi venisse tolto il ruolo di infermiera. Mi assopii sulla sella una mezza dozzina di volte. Per fortuna il mio corridore era una brava bestia e, una volta avviato, proseguì, in mancanza di ulteriori istruzioni. Raggiunta la prima fortezza prima di mezzanotte, riuscii a praticare le iniezioni ai suoi abitanti prima di venir meno. Questi mi lasciarono dormire finché mi fui riposata, del che rimproverai la caritatevole Signora quando, all'alba, mi servì un'abbondante colazione. Ma lei rispose solamente che alle altre Fortezze si sapeva del mio arrivo, il che era senz'altro meglio, per loro, dello stare a chiedersi se fossero state del tutto dimenticate. Così mi rimisi a cavallo ed arrivai alla seconda Fortezza a metà mattino. Insistettero perché rimanessi a mangiare lì, visto il mio aspetto stanco, sfinito. Sapevano che alla mia tappa finale non c'era alcuna malattia ed erano avidi di tutte le notizie che potevo fornire loro. Fino al mio arrivo, erano
stati informati solamente con i messaggi dei tamburi provenienti dalla mia prossima tappa, la Fortezza di High Hill, situata proprio sul confine di Ruatha. Ammisi finalmente a me stessa che mi trovavo sulla strada per Ruatha. Ero inconsapevolmente attratta verso quella meta da molti Giri, ma sempre mi si era opposta qualche circostanza. Adesso, ragionavo tra me e me proseguendo per la tappa successiva del mio viaggio, avevo dei servigi da fornire a quella che, tra tutte le Fortezze, era nella situazione più tragica. Soltanto i Dragonieri erano entrati nella Fortezza Principale di Ruatha e le voci che correvano sulle devastazioni erano terribili. Bene: io potevo curare il morbo, controllare ogni ambito dell'attività della Fortezza e fare ciò che potevo in modo da espiare la colpa che ancora avevo per le morti premature di mia madre e delle mie sorelle. Inoltre, stavo cominciando a capire che la peste aveva colpito con elegante noncuranza rispetto al rango, alla salute, all'età ed all'utilità delle vittime. È vero che i più giovani ed i più vecchi erano maggiormente vulnerabili, ma l'epidemia si era presa tanti che erano nel fiore della vita, che avevano davanti a sé tutta un'esistenza. Se accettavo di rivestire la mia azione dei bei panni del sacrificio o dell'opportunismo, finché fornivo i servigi necessari, cosa importavano i motivi, nascosti o evidenti? Giunta alla Fortezza di High Hill nel primo pomeriggio, fui subito messa al lavoro, a suturare una vasta ferita riportata da uno dei figli del Signore, nonostante protestassi che ero solo un corriere. Il loro Guaritore si era recato alla Fortezza di Fort quando da Ruatha, con i tamburi, erano state inviate le notizie. Poi ché non ero in grado di dir loro nulla di un uomo di nome Trelbin, compresero tristemente che anche lui doveva essere morto.
Dama Gana disse che era in grado di curare delle ferite più piccole, ma che questo caso andava oltre le sue capacità. Bene: io avevo assistito a sufficienza ad operazioni di questo genere, per cui, in questa situazione, mi sentivo più sicura di me di quanto, ovviamente, lo fosse lei. Ricucire della stoffa, che non si lamenta e non può dimenarsi, è tutt'altra cosa che suturare della carne, lacera ed irregolare. Tra le scorte che avevo portato avevo erbe anestetiche a sufficienza per alleviare il disagio del ragazzo e speravo davvero che i miei punti tenessero. Quando ebbi finito, Dama Gana si dichiarò impressionata. Poi parlai del siero, quindi praticai le iniezioni a tutti, tranne che ai loro pastori dei masi più alti, i quali non arrivavano mai abbastanza vicino alle aree abitate da contrarre un'infezione. Dama Gana non era ancora del tutto convinta che il vento non potesse diffondere il morbo, perciò insistette affinché le dicessi esattamente come affrontarlo. So che non mi credette, quando le spiegai che la morte non era causata dalla malattia stessa, ma da infezioni secondarie che sopravvenivano in un paziente già indebolito. Per questo non potevo davvero ammettere di non essere un'esperta Guaritrice. Avrei distrutto tutto il bene che avevo fatto. Esperta o no, le mie informa-
zioni erano esatte. Quindi, Bestrum e Gana riferirono rattristati che un figlio ed una figlia, accompagnati da un servitore, si erano recati al Raduno di Ruatha e che non avevano ricevuto notizie di loro. Ovviamente, speravano che fossi diretta a Ruatha. Bestrum era tutto impegnato a tracciare una mappa per me, quando fummo interrotti da grida ed applausi eccitati. Sporgendoci dalle finestre, vedemmo un drago azzurro, con uno strano carico, che si posava a terra. Tutti uscimmo precipitosamente per accoglierlo. «Il mio nome è M'barak, Cavaliere di Arith, del Weyr di Fort. Sono in cerca di altre bottiglie di vetro soffiate dagli apprendisti.» Il ragazzo sorrise in modo accattivante, indicando il carico del drago. «Ne avete qualcuna da donare a Ruatha?» Nonostante la sua giovane età, gli erano dovute le cortesie che si usano con i Dragonieri, perciò, dopo aver preso del klah ed un po' dell'ottimo dolce al vino di Gana, ci disse che anche gli animali da corsa stavano morendo del morbo e che bisognava praticare loro le iniezioni. Bestrum e Gana si gloriarono alquanto, sottolineando che avevano ricevuto le loro iniezioni proprio quella mattina, e indicarono me. Quando M'barak ammiccò, mi misi quasi a ridere, poiché so che aveva supposto che io fossi di quella Fortezza. Sebbene portassi ancora dei ruvidi calzoni e degli stivali di feltro, Macabir mi aveva fornito una tunica da Guaritore ed una sopravveste per affrontare i disagi del viaggio. Non sembravo un vero Guaritore e, perlomeno io, lo sapevo, a differenza dei gentili Signori. «Stai ritornando proprio adesso alla Sede dei Guaritori?», fece M'barak. «Perché, se per caso ci sapessi fare con i corridori, in questo momento ci saresti estremamente utile a Ruatha. Posso portarti io - i suoi occhi lampeggiarono di malizioso piacere - e risparmiarti un viaggio lungo e noioso. Tuero potrebbe mandare un messaggio alla Sede, con i tamburi, per dirgli dove ti trovi. Proprio adesso si sta raccogliendo gente per Ruatha, gente che ha ricevuto l'iniezione e che non ha paura del morbo. Tu non hai paura, vero?» Non feci altro che annuire, un po' scossa per come il cuore mi era balzato in petto a questo inatteso invito a recarmi lì dove volevo così disperatamente essere. Mentre Suriana era in vita, Ruatha era stata la mia calamita, la mia unica possibilità di avere un po' di felicità e libertà. Mi ero liberata dal vincolo del Sangue della Fortezza di Fort ed adesso ero altrettanto libera di recarmi
a Ruatha, specialmente ora che avevo ricevuto l'equivalente di un invito. Sarebbe stata, purtroppo, una Ruatha ben diversa dalla Fortezza descritta da Suriana, ma in quel momento sarei stata più utile lì, soprattutto andandoci nelle Vesti di Rill e non come Dama Nerilka. Erano l'occupazione e lo scopo che cercavo, si o no? «Se vi serve qualcuno che ci sa fare con i corridori, ho qui due uomini che passano le loro giornate dedicandosi all'intaglio, non avendo altro da fare in attesa che arrivi davvero la primavera,» disse Bestrum in modo espansivo. «Rill li ha punzecchiati come noi stamattina, quindi non hanno motivo di aver paura andando a Ruatha.» Così, la faccenda fu combinata. Mentre i due mandriani, due fratelli che condividevano lo stesso temperamento flemmatico e lo stesso aspetto imperturbabile, raccoglievano le loro cose, Gana andò gentilmente a prendere un mantello pesante, contro il freddo pungente che fa in mezzo. Si dava da fare con i suoi servi, procurando provviste per altre tre bocche e raccogliendo tre grandi giare colme di vetri soffiati, che M'barak ed io dovemmo sistemare su Arith in modo che non si frantumassero. Non era affatto il mio primo contatto con un drago, ma di certo era il più prolungato e personale. I draghi hanno una pelle soffice, calda, molto liscia, che lascia sulle mani un aroma speziato. Arith brontolò parecchio, sebbene M'barak mi assicurasse che questo non significava che il suo carico insolito lo infastidiva. Imballammo le grosse bottiglie di vetro; Fort aveva ottenuto più della sua parte di questi prodotti artigianali, sebbene non potessi ricordarmi cosa ne aveva fatto mia Madre. Controllai un'ultima volta la ferita del ragazzo, ma il suo aspetto non era mutato e lui era quasi addormentato, con il volto sorridente grazie al fellis. Quindi presi congedo da Bestrum e Gana che, sebbene li conoscessi solamente da poche ore, si profusero in auguri. Dissi loro che avrei chiesto dei loro figli e del servitore e che avrei mandato un messaggio. Gana sapeva che non c'erano molte speranze, ma la mia offerta le diede conforto. Quando Bestrum mi sollevò fino al dorso del drago, mi accomodai con un lieve tonfo dietro al corpo sottile ma diritto di M'barak e sperai di non aver fatto male ad Arith. I due fratelli salirono con meno cerimonie e fu consolante sapere che, dietro di me, c'erano due che sarebbero precipitati prima che io mi trovassi in pericolo. Arith spiccò una breve corsa prima di balzare verso il cielo, poi le sue ali trasparenti, dall'aspetto fragile, diedero il loro primo vigoroso colpo, abbassandosi. Fu l'esperienza più esaltante che avessi mai avuto e, quando le
forti ali di Arith ci portarono ancor più in alto, provai di nuovo invidia per i Dragonieri. Avevo bisogno del mantello, come anche della barriera costituita dai corpi caldi che avevo davanti e dietro di me. M'barak deve aver saputo cosa stavo provando, perché voltò la testa e mi fece un sorriso ampio e soddisfatto. «Tieni duro, Rill, stiamo per entrare in mezzo,» gridò. Almeno è ciò che penso che abbia detto, poiché il vento portava via la sua voce. Se volare sul dorso di un drago è esaltante, andare in mezzo è l'essenza del terrore. Nerezza, il nulla, un freddo tanto intenso che mi dolevano le estremità: solo il sapere che Cavalieri e draghi provavano la stessa cosa ogni giorno senza riportarne effetti nocivi, mi trattenne dall'urlare di terrore. Appena ebbi la certezza di soffocare, fummo di nuovo illuminati dal sole, mentre Arith, con quel suo istinto unico, proprio dei draghi, ci portava a destinazione. Poi, dovetti preoccuparmi di ben altro che di quel fugace passaggio attraverso il nero mezzo. Non ero mai stata alla Fortezza di Ruatha, ma Suriana mi aveva inviato innumerevoli disegni della costruzione e ne aveva descritto le attrattive molte volte. La grande Fortezza, scavata nella viva roccia sul fronte del dirupo, non poteva essere cambiata da un punto di vista fisico, ma, in qualche modo, era del tutto differente dai disegni di Suriana. Lei mi aveva raccontato della piacevole atmosfera che circondava la Fortezza, dell'ospitalità, del calore e della cordialità così differenti dal formalismo freddo e distaccato di Fort. Aveva spiegato che tanta gente, famiglie e non, entrava ed usciva continuamente dalla Fortezza. Aveva descritto i prati, le pianure su cui correre, i bei campi verso il fiume. Non era vissuta abbastanza per descrivere gli enormi tumuli o l'ossario circolare di terra annerita, il caos di carri rovinati e di effetti personali che giacevano sparsi sulla rada una volta adorna dei chioschi del Raduno, splendente di bandiere, gente e baratti. Ero sbalordita e mi rendevo conto solo vagamente che anche i flemmatici fratelli erano colpiti da quello spettacolo. Misericordiosamente, M'barak era un giovane pieno di tatto e non disse nulla mentre Arith planava oltre la Fortezza desolata. Vidi qualcosa di incoraggiante: cinque persone, sedute nel cortile, che evidentemente godevano il sole pomeridiano. «Due dragoni, adesso, Fratello,» disse con gran soddisfazione l'uomo seduto subito dietro di me.
Guardandomi davanti, potei vedere che un grande drago bronzeo stava depositando dei passeggeri presso l'ampio ingresso delle scuderie. Il drago di bronzo decollò quando Arith, sfrecciando, passava sopra i campi arati. Potemmo vedere il sole risplendente sulla sua pelle e sulle sue ali, poi scomparve, letteralmente. Arith atterrò esattamente sul posto che prima aveva occupato il drago bronzeo. «Moreta,» chiamò M'barak, gesticolando con impazienza. La donna, alta, con i capelli biondi corti e ricci, si voltò verso di lui. La Pesatrice di Fort era l'ultima persona che mi aspettavo di incontrare a Ruatha. Non dimenticherò mai di aver avuto quella possibilità di rivedere Moreta e questo proprio nel particolare momento della sua vita in cui il suo volto era abbellito dal sole e da una serenità interiore che fui in grado di comprendere solamente molto tempo dopo. Naturalmente era stata alla Fortezza di Fort nelle sue funzioni di Pesatrice dacché se ne era assunta la responsabilità al ritiro di Leri. Ma si trattava di visite poco frequenti, in occasioni ufficiali, perciò, sebbene mi fossi trovata con lei nella stessa Sede, in realtà non ci eravamo mai parlate. Avevo ricavato l'impressione che fosse schiva o reticente, ma poi Tolocamp parlò così tanto, in quel suo modo ampolloso, che dubito lei avesse avuto la possibilità di parlare a sua volta. «Presto!» La voce di M'barak mi strappò dalle mie momentanee impressioni. «Mi serve aiuto per queste stupide bottiglie, ed ho gente qui che dice di saperci fare con i corridori. E dobbiamo sbrigarci, perché devo preparare le cose per la Caduta. F'neldril mi scorticherà, se farò tardi!» Altri due uomini ed una ragazza minuta, dai capelli scuri, uscirono dall'ombra per aiutarlo. Riconobbi Alessan all'istante e supposi che la ragazza fosse la sua sorella ancora in vita, Oklina. L'altro uomo vestiva l'azzurro degli Arpisti. I fratelli smontarono in fretta e M'barak ed io porgemmo dabbasso prima le provviste e, quindi, le grosse bottiglie, nessuna delle quali aveva riportato danni durante il viaggio. «Se ti lasci scivolare giù, Moreta potrà montare,» propose M'barak, sorridendo per scusarsi del fare sbrigativo. Così, per la prima volta, mi scambiai di posto con Moreta. Mi sarebbe piaciuto poter prolungare l'incontro, poiché aveva un modo di fare che faceva venire la voglia di conoscerla meglio. Appariva assai meno scostante di quanto fosse sembrata nella Fortezza. Quando Arith spiccò la sua corsetta preliminare, Moreta lanciò uno sguardo indietro, al di sopra della sua spalla. Ma non poteva essere rivolto a me.
Mi voltai e vidi che Alessan si era riparato con la mano gli occhi per osservare il drago, finché questo andò in mezzo. Poi sorrise in segno di benvenuto mentre mi accoglieva insieme ai due fratelli e tese la mano nella maniera più cordiale. «Siete venuti per aiutarci con i destrieri? M'barak vi ha detto chiaramente di che c'è bisogno a Ruatha in rovina?» Dapprima il suo tono mi sembrò amareggiato, ma capii che lui non si nascondeva la sinistra realtà della sua situazione. Aveva persino uno strano senso dell'umorismo, ma Suriana, preparandomi alla mia visita a Ruatha, tanto a lungo attesa, me ne aveva messo in guardia. Cosa avrebbe pensato della sua sorella di latte, vedendola arrivare lì in quelle circostanze? «Ci ha mandato Bestrum, Nobile Alessan, assieme alle sue condoglianze ed ai suoi saluti,» disse il più brizzolato dei due uomini. «Io sono Pol; mio fratello si chiama Sal. Preferiamo i corridori ad ogni altra bestia.» Alessan pesò su di me i suoi occhi verde chiaro, sorridenti, e nella mia testa risuonò tutto ciò che Suriana mi aveva detto di lui. Ma i disegni che mi aveva inviato non gli rendevano giustizia, oppure lui era profondamente cambiato, da quell'uomo giovane e dall'aspetto piuttosto noncurante che era. Adesso, attorno agli occhi ed alla bocca, si leggeva un carattere molto più deciso ed una tristezza ineffabile, nonostante il sorriso con cui ci aveva salutato... una tristezza che sarebbe un po' svanita, ma senza mai scomparire del tutto. Era magro, era stato fiaccato dalla febbre; l'ampia ossatura delle sue spalle sporgeva da sotto la sua tunica e le sue mani erano ruvide, callose, screpolate e ferite, simili a quelle di un comune servo, piuttosto che a quelle di un Nobile Signore. «Sono Rill,» dissi per riportarmi al presente e per prevenire domande inaspettate. «Ho curato i corridori da sempre. Ho una certa esperienza nel guarire e nel preparare ogni sorta di medicinali adoperando erbe, radici e tuberi. Ed ho portato con me delle scorte.» «Avresti qualcosa contro la tosse canina?», chiese la ragazza, mentre i suoi enormi occhi scuri luccicavano. Difficilmente tale luccicore era dovuto al mio arrivo o alla provvista di sciroppo per la tosse, ma venni a sapere soltanto molto più tardi come questa gente aveva passato la strana ora che era terminata solo pochi istanti prima della mia venuta. «Sì, certo,» dissi, sollevando le mie bisacce da sella stipate di flaconi di tussilago. «Il Nobile Bestrum voleva sapere se suo figlio e sua figlia sono vivi,»
chiese seccamente Pol appoggiandosi, a disagio, prima su un piede e poi sull'altro, mentre suo fratello rivolgeva il suo sguardo ovunque tranne che al Nobile Alessan. «Controllerò i registri,» disse con dolcezza l'Arpista, ma avevamo notato tutti l'espressione angosciata che aveva spento il sorriso negli occhi di Alessan. E Oklina aveva sospirato lievemente. «Sono Tuero,» continuò l'Arpista, sorridendo per rassicurare tutti noi. «Alessan, cosa dobbiamo fare adesso?» E così Tuero, abilmente, rivolse i nostri pensieri al futuro, via dal doloroso passato. In breve, non avemmo tempo per nulla, passato o futuro. Il presente ci consumava. Alessan ci spiegò rapidamente cosa bisognava fare. Innanzitutto, i pochi pazienti che ancora si trovavano nell'infermeria del Palazzo Principale dovevano essere trasferiti nei quartieri al secondo livello della Fortezza. Poi, il Palazzo doveva essere lavato a fondo con una soluzione di erbe rosse. Dopo aver rivolto lo sguardo a me, dalla quale poteva attendersi assistenza per questo lavoro, si rivolse a Pol e Sal. «Dobbiamo produrre abbastanza siero da inoculare ai corridori.» Si voltò e fece dei gesti in direzione dei pascoli. «Prenderemo il sangue di quelli che sono sopravvissuti alla peste.» Pol smise di annuire e lanciò uno sguardo a Sal. Devo ammettere che ero stupita dall'aspetto dei corridori. Parecchi erano sfiancati, con ossature leggere e fianchi alti, dal collo piuttosto sottile e troppo magri per avere una qualche rassomiglianza con le bestie dalla conformazione robusta, irsute, dalle carni sode che erano state l'orgoglio della Fortezza di Ruatha. Alcuni non erano altro che scheletri ambulanti. Alessan si accorse della nostra costernazione. «La maggior parte delle bestie allevate da mio padre sono morte di peste.» Il suo tono era serio e noi ci adeguammo ad esso. «Quelle che ho allevato io affinché percorressero tratti brevi ad alta velocità sono risultate resistenti e ce l'hanno fatta, come pure alcuni ibridi portatici dai nostri vicini.» «Oh, che peccato, che peccato,» mormorò Pol, scuotendo la testa brizzolata. Suo fratello faceva lo stesso. «Oh, tornerò ad allevare delle bestie belle e forti. Vorreste conoscere Dag, il mio allevatore?» chiese Alessan ai fratelli. Entrambi si illuminarono ed annuirono con più entusiasmo. «Alcune fattrici ed uno stallone giovane li teneva lassù, sui prati delle
colline. Sono sopravvissuti, perciò possiedo un po' del ceppo originario da cui ricavare un allevamento.» «Una buona notizia, Signore, una buona notizia.» Le parole di Sal si riferivano più ai corridori che ad Alessan. «Però...» Alessan rivolse un sorriso ai due uomini, come per scusarsi «... prima di poter cominciare a raccogliere il sangue da cui ricavare il siero, dobbiamo avere un luogo pulito ed assolutamente incontaminato in cui lavorare.» Pol cominciò a rimboccarsi una manica. «Ci sono poche cose che mio fratello ed io non faremmo per aiutarla, Signore. Abbiamo già dato il nostro olio di gomiti, possiamo darne ancora.» «D'accordo, allora,» disse Alessan con un largo sorriso. «Perché, se non facciamo bene il nostro lavoro fin dal principio, l'Itinerante Desdra ci farà rifare tutto finché non andrà bene! Lei sarà qui domani per controllare i risultati delle nostre fatiche.» Quando raggiungemmo il cortile davanti al portone della Fortezza, Tuero, un uomo presentatomi come Deefer, cinque orfanelli e quattro agricoltori convalescenti stavano costruendo uno strano congegno con delle ruote di carro. «Ne avremo parecchie di queste centrifughe, per separare dal sangue il siero miracoloso,» ci disse Alessan. I fratelli annuirono come se sapessero perfettamente di che cosa stesse parlando, anche se sul volto di Sal apparvero un po' di confusione e di sorpresa. Oklina ci venne incontro nel Palazzo, mentre guidava fuori di lì la processione di servi con secchi d'acqua calda, stracci e scope. Lei trasportava dei contenitori che riconobbi come quelli in cui di solito si raccoglie l'energico liquido detergente. Ci rimboccammo tutti le maniche e mi accorsi che le mani di Alessan erano già rosse, sebbene sulle sue braccia vi fosse solo una lieve sfumatura rossastra. Poi ci mettemmo tutti a pulire. Strofinammo finché i lampioni vennero accesi; strofinavamo persino masticando e tenendo in mano degli involtini di carne, tentando di ignorare il sapore lievemente aspro che il soffocante aroma dell'erba rossa comunicava inevitabilmente a tutto ciò che si trovava nelle vicinanze. Strofinammo finché si dovette sostituire la prima serie di lampade. Alessan dovette scuotermi parecchie volte, prima che cessassi di compiere il movimento dello strofinare e mi accorgessi che gli altri avevano
smesso di lavorare. «Sei tutt'altro che sveglia e continui a strofinare, Rill,» disse, ma parlò in un tono di motteggio così cortese che gli rivolsi un sorriso pietoso. Avevo forze a malapena sufficienti per seguire Oklina su per le scale fino alla stanza interna del primo piano che mi assegnò. Mi ricordai di augurarle la buona notte, chiudendo la porta. Sapevo di dovermi preparare un breve discorso da rivolgere a Desdra al suo arrivo, l'indomani, in modo che lei non mi riconoscesse come la figlia ribelle di Tolocamp, ma, non appena caddi di traverso sul letto, sprofondai nel sonno. CAPITOLO VIII 3.21.43-3.22.43 Mi svegliai, sobbalzai, come capita a chi si ritrova in un posto strano, e dovetti sincerarmi che non mi trovavo di nuovo nella mia stanza alla Fortezza di Fort. Era il silenzio ciò che udivo in modo così palpabile, un silenzio che mi confondeva più dell'ambiente un po' strano. Poi rilevai la differenza: non si udivano affatto i tamburi. Mi alzai, mi vestii, e cominciai la prima intera giornata a Ruatha. Ero nella Sala, stavo bevendo del klah e mangiavo una veloce colazione a base di fiocchi d'avena, quando arrivò Desdra sul dorso di Arith. Uscimmo tutti, in grande agitazione, poiché il piccolo drago era nuovamente coperto di numerose bottiglie, quelle grandi fatte degli apprendisti e quelle più piccole, per l'importantissimo siero. Non ebbi alcuna possibilità di parlare con Desdra, poiché Alessan mi scelse insieme con i due fratelli e ci condusse sul campo per dare inizio all'operazione successiva alla preparazione del siero. Che gli animali fossero apatici a causa della loro recente malattia oppure che fossero stati addestrati assai bene, ognuno di noi riusciva comunque a guidarne due per volta. Con un secondo ed un terzo viaggio furono riempite tutte le stalle della scuderia, quindi Alessan mostrò come si cavava il sangue dalla vena del collo. Tutte quelle creature si sottomisero di buon grado al salasso. Sal ed io iniziammo a lavorare insieme e, quando vidi che non aveva abbastanza stomaco per infilare l'ago, mi assunsi io quel compito, mentre lui teneva ferma la testa dei corridori. Fu mezzogiorno pieno, prima che avessimo finito con le ventiquattro bestie. Dopo ogni salasso, il sangue veniva travasato nelle grandi giare fatte
dagli apprendisti, poi trasportato al Palazzo e fissato alle ruote delle centrifughe. Sebbene io non fossi la sola a nutrire dei dubbi su quel dispositivo, mentre lo ero molto meno nei confronti del procedimento, l'atteggiamento di Desdra verso la lavorazione era così calmo e rassicurante che non muovemmo alcuna obiezione. Non appena lei ebbe controllato i legacci, fece cenno alle squadre di cominciare a far girare le ruote. Gli uomini si davano frequentemente il cambio ai volani, mantenendo sempre costante la velocità di rotazione. Mi capitò di pensare a quale disastro avrebbe potuto provocare nel Palazzo una giara fissata male, a tutte le nostre pulizie da rifare, ma poi decisi che tali elucubrazioni non si addicevano alla generale atmosfera di speranza e operosità che regnava a Ruatha. Poi Oklina passò tra di noi, portando dell'abbondante minestra e panini caldi. Quando finalmente Desdra ci raggiunse, parecchi di noi si accalcavano ad un lungo tavolo posto su cavalletti, ed altri stavano appoggiati alle pareti e lei ci spiegò l'urgenza del nostro immane compito. Solamente inoculando il siero ai corridori in pericolo, a tutti quanti e subito, si sarebbe potuto evitare il ritorno della peste. Tutti, alla Fortezza di Ruatha, avrebbero preso parte all'impresa, poiché non si doveva dare alla peste un'altra possibilità di decimare il continente. Queste notizie provocarono un silenzio totale. Attendendo i risultati della prima tornata, Pol, Sal ed io ritornammo alle scuderie per vedere come stavano i nostri pazienti. Dag stava già preparando loro un abbondante pasto a base di crusca calda, vino molto alcolico e certe erbe che, secondo il vecchio allevatore, avrebbero irrobustito il sangue nuovo. Poi li strigliammo ben bene, ripulendo le loro code e le loro criniere dal fango e dalla sporcizia.
Nonostante la sua gamba destra steccata, Dag lavorò insieme a noi. Ciò che non poteva fare da sé, veniva eseguito da suo nipote, un ragazzo bricconesco, impudente e possessivo di nome Fergal. Sembrava sospettare di tutti, specialmente di Alessan, quando il Signore venne a vedere come le bestie avevano sopportato il salasso. L'unica persona a cui Fergal avrebbe sempre obbedito senza cavillare era Oklina. Tutti gli altri ordini li contestava ponendo domande dettate da pura e semplice impudenza. Dag, l'adorava. Ovviamente, lui pensava che il piccolo allevatore di corridori dalle gambe storte non poteva fare alcun danno. Ma, nonostante tutta la sua insolenza, Fergal si dedicava tutto alle bestie. Rivolgeva la maggior parte delle sue cure ad un giumenta gravida; nonostante fosse così grossa negli ultimi giorni di gravidanza, aveva un modo di drizzare la testa, puntando gli orecchi in avanti e sbuffando all'indirizzo di Fergal, che trovavo davvero accattivante. «Il primo lotto dovrebbe essere pronto tra poco,» annunciò improvvisamente Alessan. Mi divertiva che, del gruppo di persone che lavorava con le bestie, Fergal ed io fossimo gli unici desiderosi di vedere il risultato. Pol e Sal si nascosero tra le balle di fieno per farsi comodamente una chiacchierata con Dag, declinando cortesemente l'invito a vedere il siero prodotto. Ciò che mi stupì fu lo strano fluido paglierino, risultato della centrifugazione. Mentre noi ci dirigevamo verso il Palazzo, Desdra lo stava già attin-
gendo da una giara, spiegando come compiere tale operazione senza smuovere il residuo più scuro. Sotto la sua direzione, cominciammo a tentare di imitarla, attingendo il fluido chiaro dalla giara e travasandolo nelle bottiglie di vetro, adoperando ogni volta un ago pulito per diminuire le possibilità di contaminazione. Inesorabile, Desdra destinò a questo compito tutti nel Palazzo, persino tre dei convalescenti più in forze, muovendosi continuamente in mezzo a noi per sorvegliare le operazioni. «Dovremmo ricevere altre bottiglie questo pomeriggio,» ci disse Tuero. Intendeva farci coraggio, ma gli risposero i brontolii di tutte le maestranze. «M'barak ha detto che farà sapere a tutti dei nostri bisogni durante la Caduta.» «Quanti ne avremo, di questi rottami?», chiese Fergal. Lanciò uno sguardo fuori, sui campi dove pascolavano i suoi amati corridori. «Abbastanza per inoculare il siero alle giumente ed ai puledri degli altri branchi, a Keroon, Telgar, Ruatha, Fort, Boll, Igen e Ista,» disse Alessan. Trattenni un lamento, pensando a quanto ce ne sarebbe voluto. «A Ista non si allevano corridori. È un'isola,» disse Fergal in tono ostile. «Ha sofferto la peste, uomini ed animali,» disse Tuero, dopo che Alessan non ebbe replicato. «Anche Keroon e Telgar stanno producendo questo siero, perciò Ruatha non deve fornirlo per tutti.» «Ruatha ne ha a sufficienza per darne a Pern, almeno,» aggiunse Alessan, come se non ci fosse stato alcun commento. «Garantiremo che dalle nostre bestie provenga il miglior siero possibile. Ritorniamo ai nostri posti.» E così continuammo. Quelli che non si erano del tutto riavuti furono fatti sedere agli acquai, a pulire la vetreria, oppure a turare saldamente i flaconi di siero ed a fissarli su supporti di canne. I più giovani facevano da messaggeri o, a coppie, trasportavano con cautela le ceste di siero giù, nelle sale più fresche. Il mio compito era di salassare i corridori. Era quasi un sollievo, quando lasciavo quel tanfo di erba rossa che saturava l'aria per riportare sui campi il mio paziente, o la mia vittima, per prenderne in consegna un altro. Perlomeno, prendevo un po' d'aria fresca. Dag aveva cominciato a segnare quelli già salassati con della pittura, in modo da non ricavare inavvertitamente dalla stessa bestia due dosi. Nessuna di loro era abbastanza forte per sopportarlo. Le mie frequenti camminate mi diedero inoltre la possibilità di osservare
Ruatha in rovina, come l'aveva chiamata Alessan. Potei vedere che sarebbero bastati solo un po' di tempo ed un po' di sforzo per mettere in ordine buona parte delle rovine ed elaborai la strategia per farlo andando avanti e indietro, ideando tutto quello che avrei fatto se avessi avuto il diritto di intromettermi negli affari di Ruatha. Era un passatempo abbastanza innocuo, indubbiamente. I tamburi avevano cominciato a suonare a metà mattina, informandoci delle quantità necessarie e di quanto ne sarebbe toccato raccogliere a ciascun Dragoniere. Alessan spiegò che bisognava prendere accuratamente nota di questi quantitativi, ma non poteva davvero evitare che Tuero ascoltasse i cifrari dei tamburi. «Allora fallo fare a Rill,» disse seccamente Desdra. «Capisci i messaggi dei tamburi, Rill?», chiese Alessan, un po' sorpreso. Fui presa così alla sprovvista che non potei rispondere. Mi . venne addirittura da pensare che Desdra non avesse riconosciuto la figlia di Tolocamp in quella Rill sudicia, sudata, con i capelli corti. «E forse anche i cifrari, non è vero, Rill?» Desdra era assolutamente spietata, ma, almeno, non spiegava a nessuno come mai ne sapesse così tanto delle mie capacità nascoste. «Tra un messaggio e l'altro può riempire i flaconi di siero. Ha bisogno di starsene seduta per un po'. È ormai qualche giorno che non ha avuto tregua.» Intesi ciò nel senso che Desdra apprezzava il mio lavoro lì e nel campo di internamento, e che tollerava la mia condotta capricciosa. Per fortuna, neppure Alessan chiese come mai un servitore che si era elevato al grado di volontario potesse intendersi di faccende così arcane. Ad ogni modo, fui senz'altro grata per la possibilità di stare seduta. Come facesse Alessan a mantenere tutta quell'energia, non lo so. Potei capire perché Suriana l'avesse ammirato, oltre che adorato. Meritava rispetto, ed il mio lo otteneva ogni volta per ragioni nuove. Potei anche notare che egli era spinto ad agire così. In qualche modo, nonostante tutti i gravi colpi che subiva, Alessan avrebbe ricostruito la Fortezza di Ruatha, ripopolato le sue tenute deserte, bonificato i suoi campi desolati. Io volevo rimanere lì ad aiutarlo. Mi stavo inoltre rendendo conto che, una volta ritornata in un vero Palazzo, mi assumevo automaticamente delle responsabilità che mi erano familiari, come assegnare dei compiti ai servi o spiegare come svolgere un lavoro con maggior efficienza. Per fortuna, nessuno metteva in questione il
mio diritto a farlo, essendo tutto nell'interesse del lavoro da compiere. Nonostante il suo aspetto ingannevolmente fragile, Oklina lavorava sodo quanto suo fratello, ma la sola urgenza dei suoi compiti mi sgomentava, giacché avevo sempre avuto delle sorelle ad alleggerire i miei fardelli. Ogni volta che potevo, le davo una mano. Non era una bella ragazza, il che, potrebbe dire una persona poco caritatevole, fu la ragione per cui strinsi così facilmente un rapporto con lei, poiché la carnagione scura e la complessione robusta, proprie di un uomo, non si addicevano a lei più di quanto si addicessero a me le mie somiglianze di famiglia. Ad ogni modo era un giovane eccezionalmente piacevole, con un sorriso incantevole e degli occhi grandi, scuri, espressivi in cui si nascondeva una specie di stupore segreto. La colsi spesso a scrutare verso nordovest e mi chiedevo se si fosse innamorata di qualche giovane. Per un signore sarebbe stata una moglie eccellente, sebbene fosse così giovane, e speravo ardentemente che Alessan non le ordinasse di rimanere a Ruatha, ma la sistemasse con un uomo gentile e generoso. In questo momento Ruatha poteva ben essere colpita dalla miseria, ma il prestigio della Linea di Sangue restava indiscusso. E neppure questo altruistico affaticarsi per il siero, intrapreso così di buon grado da Alessan ed Oklina, avrebbe diminuito la loro stima presso le persone di pari grado. E così continuammo a lavorare, passando da un'operazione necessaria ed urgente all'altra, scodellando velocemente una tazza di minestra dalla pentola che ribolliva sul focolare più grande, o masticando un boccone di pane fresco, quando avevamo una mano ed un momento liberi. Proveniente da qualche parte, era comparsa della frutta fresca: un Dragoniere stava scaricando delle provviste. Perché delle fette di melone maturo strappassero lacrime agli occhi di Oklina, non potei capirlo. Immaginai che fosse così commossa per la premura che stava dietro quel dono. Poi notai che Alessan rimirava il frutto con un leggero sorriso, come di uno che si lascia andare a dei ricordi, ma uscì per tornare al lavoro così in fretta, il pane in una mano e la fetta di melone nell'altra, che potrei essermi sbagliata. Poi giunse un altro messaggio e dovetti ascoltarlo per registrarlo con precisione. Per il lavoro pressante, il tempo aveva perduto tutto il suo ordine. Il terzo giorno in cui ero a Ruatha, eravamo usciti quasi tutti per cenare, in ritardo e meritatamente, quando d'improvviso Alessan, Desdra e Tuero, che
consultavano mappe, cataloghi e carte, mandarono grida esultanti. «Ce l'abbiamo fatta, o miei leali compagni!», esclamò Alessan. «Ne abbiamo a sufficienza! E più del necessario, da poter far fronte alle perdite ed ai danni nelle spedizioni. Vino per tutti! Oklina, tu e Rill, andate a prendere quattro fiasche dalla mia riserva personale.» Le gettò una chiave lunga e sottile che lei abilmente afferrò al volo. Mi prese per mano e, ridendo di contentezza, mi tirò fino in cucina e poi giù, alle dispense, oltre la sala più fredda. «È davvero soddisfatto, Rill. Di rado spartisce le bottiglie della sua riserva personale.» Ridacchiò ancora. «Le conserva per le occasioni speciali.» Poi il suo incantevole visetto si fece triste. «E spero che lo farà di nuovo,» aggiunse sibillina. «Presto dovrà farlo comunque. Eccoci arrivate.» Quando ebbe aperto la stretta porta e mi esibì i fiaschi e gli otri che stavano sulle rastrelliere, rimasi senza fiato per lo stupore. Anche con la poca luce proveniente dalla lampada del corridoio, riuscii a distinguere il caratteristico fiasco del Benden. Pulii rapidamente dalla polvere un'etichetta. «È Benden bianco,» gridai. «Hai bevuto il Benden bianco?» «No, no di certo.» Tolocamp non avrebbe approvato che le sue figlie bevessero dei vini rari; per noi, andavano bene le peggiori vendemmie di Tillek. «Però ne ho sentito parlare.» Mi sforzai di emettere un risolino. «È davvero buono come si dice?» «Potrai giudicare da te, Rill.» Richiuse a chiave la porta, quindi prese su di sé metà del carico. «Hai portato a termine il tuo tirocinio alla Sede dei Guaritori, Rill?» «No, no.» Per qualche motivo, non potevo mentire a Oklina, anche se questo significava sminuirmi ai suoi occhi. «Mi sono offerta come infermiera volontaria, poiché alla mia Fortezza non avevano più bisogno di me.» «Oh, tuo marito è morto di peste?» «Non ho marito.» «Be', a questo provvederà Alessan. Cioè, ovviamente, se vuoi rimanere a Ruatha. Sei stata di così grande aiuto, Rill, e sembra che tu te ne intenda molto di come si governa una Fortezza. Voglio dire: dovremo ricominciare tutto da capo, sono morti così tanti dei nostri. Molte tenute sono deserte e, mentre Alessan intende iniziare delle trattative con persone che non hanno una tenuta, sperando che alcune risultino idonee, io preferirei piuttosto avere intorno a noi poca gente che già conosciamo e di cui ci fidiamo. Oh,
Rill, sono proprio rozza. Ma Alessan mi ha chiesto di sondarti a proposito del fermarti qui a Ruatha. Ha un grande rispetto per te. Sei stata di un tale aiuto. Tuero...» Oklina ridacchiò di nuovo «... intende rimanere, non importa come lui ed Alessan si accorderanno sul salario e sulle sue prerogative.» Tale discussione si svolgeva tra l'Arpista ed il Nobile Signore ogniqualvolta si incontravano o lavoravano nello stesso turno. Tuero era venuto al Raduno insieme ad altri Arpisti per assistere l'Arpista stabile della Fortezza, un'altra vittima, come i compagni di Tuero. Non riuscivo ad immaginare la Fortezza di Ruatha senza Alessan e Tuero che disputavano nel modo più amabile. Quando ritornammo al Palazzo Principale, gli uomini avevano accatastato di nuovo alle pareti alcune ruote di carro e le grandi giare. Alessan e Tuero stavano sgomberando il tavolo sui cavalletti, dove avevamo consumato i nostri pasti frettolosi. Dag e Fergal salirono dalla cucina con lo stufato; Deefer portò stoviglie e posate; Desdra aveva una bracciata di pagnotte ed un enorme bacino di legno, colmo di frutta e formaggi, tra cui quello mandato da Dama Gana. Non avrei pensato che sarebbe potuto durare oltre al giorno in cui l'avevo portato lì. Follen arrivò con le coppe ed il cavaturaccioli. Fuori, potevo sentire le sommesse baldorie degli altri che adesso erano stati liberati dalle fatiche indefesse degli ultimi due giorni. Così era solo un'ottava parte dei fedeli compagni di Alessan, uno strano assortimento, che sedeva ad un qualche tavolo per mangiare qualcosa, ma sapere che un compito pressoché impossibile era stato portato a termine in tempo, ci rendeva tutti dei compagni, anche Fergal. Questi rifiutò una coppa di vino con un'insolenza che, ne sono certa, Alessan scusò solamente perché il ragazzo aveva lavorato sodo. Scommetterei che Fergal sapeva di quei festeggiamenti per pochi come ogni altro che era tra noi. Gli uomini della specie di Fergal sanno le cose già quando nascono. Nonostante la sua impudenza e la sua natura sospettosa, il ragazzo mi piaceva. Quel pranzo fu per me un evento molto felice. Alessan aveva preso posto accanto a me ed io trovavo la sua vicinanza stranamente conturbante. Cercavo di evitarne il contatto, ma sulle panche si stava piuttosto affollati, socievoli l'uno verso l'altro. Poiché mi stava vicinissimo, il suo braccio posato sul tavolo toccava il mio, di quando in quando la sua coscia si strusciava sulla mia, e mi rivolgeva dei larghi sorrisi ogni volta che Tuero di-
ceva qualcosa di particolarmente divertente. Il mio cuore batteva forte e sapevo che le risate con cui rispondevo erano un po' troppo acute e sciocche. Ero stanca, credo, reagivo eccessivamente al successo che stavamo celebrando e non ero abituata all'eccellente Benden bianco. Poi Alessan si sporse verso di me con intenzione, toccandomi l'avambraccio con la punta delle dita. Arrossii. «Cosa ne pensi del Benden, Rill?» «Mi ha dato alla testa,» risposi in fretta; così, se aveva notato il mio comportamento insolito, ne avrebbe saputa la causa, anche se non desideravo far nulla che sminuisse la buona opinione che lui aveva di me. «Abbiamo tutti bisogno di rilassarci, stasera. Tutti noi ce lo meritiamo.» «Tu più di tutti, Alessan.» Lui scrollò le spalle e abbassò lo sguardo, sulla sua coppa, mentre le sue dita le rigiravano indolenti sullo stelo. «Faccio il mio dovere,» disse, parlando a voce bassa. Gli altri erano presi da una discussione. «Per Ruatha,» mormorai. Mi guardò leggermente sorpreso per la mia replica, i suoi strani occhi chiazzati di verde, per una volta, erano schietti. «Questo è tipico di te, Rill. Sono stato un sorvegliante così duro?» «Era in gioco il bene di Ruatha.» «Questo...» accennò con la mano alle ruote di carro ed alle giare vuote «... non è stato fatto per il bene di Ruatha.» «Oh, sì, invece. L'hai detto tu stesso. Ruatha può fare molto per Pern.» Se ne uscì con una risata lievemente imbarazzata. Ma il suo sorriso era gentile e credo che lui fosse soddisfatto. «Ruatha tornerà ad essere se stessa! Lo so!» Era più prudente parlare del futuro di Ruatha. Aveva una strana espressione negli occhi. «Allora Oklina ti ha parlato? Intendi rimanere con noi?» «Mi piacerebbe moltissimo. La peste mi ha lasciato senza un asilo.» La sua mano calda e forte si chiuse sulla mia, dandole una lieve stretta in segno di fraternità. «Ed hai delle richieste speciali, Rill, per cementare la nostra relazione?» I suoi occhi lampeggiarono davvero, adesso, mentre chinava il capo verso Tuero. La sua domanda era giunta così inattesa che non ebbi tempo di pensare a nulla, se non al fatto che il mio desiderio di rimanere a Ruatha era stato e-
saudito. Balbettai qualcosa, poi Alessan afferrò di nuovo il mio braccio. «Pensaci su, Rill, e poi riparlamene. Vedrai che io governo lealmente la mia gente.» «Sarei sorpresa se fosse diversamente.» Sorrise per il mio impeto, versò altro vino nella mia coppa e nella sua e così suggellammo il patto nel modo tradizionale, sebbene trovassi delle difficoltà ad inghiottire il nodo che, per la gioia, mi serrava la gola. Finimmo socievolmente il pane ed il formaggio, prestando orecchio alle altre conversazioni che si svolgevano attorno al tavolo ed alla musica proveniente da fuori. «Non ero così legato a quel Mastro Balfor, Nobile Alessan,» stava dicendo Dag, con gli occhi posati sul vino nella sua coppa. Stava parlando dell'uomo che stava per essere nominato Maestro Allevatore a Keroon. «La carica non gli è stata assegnata,» disse Alessan. Mi accorsi che non desiderava trattare l'argomento in quell'istante, specialmente non di fronte a Fergal che stava sempre ad ascoltare discorsi che non dovevano riguardarlo. «Mi chiedo chi altri potrebbe ottenere quell'ufficio, visto che Mastro Balfor non possiede certamente l'esperienza necessaria.» «Ha fatto tutto quello che gli ha chiesto Mastro Capiam,» disse Tuero, con un occhio rivolto a Desdra. «Ah, è triste rendersi conto di quanti bravi uomini e donne sono morti.» Dag sollevò la coppa in un brindisi silenzioso, al quale bevemmo noi tutti. «Ed è ancora più triste pensare alle eccellenti linee di sangue che sono state cancellate. Se solo penso alle gare in cui Squealer vincerà, senza nessun avversario degno di sfidarlo. Dite che Runel è morto?», continuò Dag. «È sparita tutta la sua stirpe?» «Il primogenito e la sua famiglia sono in salvo nella tenuta.» «Ah, bene, è proprio l'elemento adatto. Voglio proprio dare un'occhiata a quella giumenta bruna. Stanotte potrebbe figliare. Vieni, Fergal.» Dag sollevò la gamba steccata e la slanciò oltre la panca. Per un istante, Fergal sembrò volersi ribellare. «Verrò io con te, se posso,» dissi, porgendo a Dag le grucce. «Un parto è un evento felice.» Avevo bisogno di riempirmi i polmoni con un po' dell'aria pura della notte e di schiarirmi la testa da tutto quell'ottimo Benden. Inoltre, avevo bisogno di allontanarmi dall'eccitante presenza di Alessan. Il mio cuore era colmo e batteva irregolarmente. Non volevo imbarazza-
re Alessan inondandolo con la mia gratitudine, o con una qualche torrenziale dichiarazione di lealtà, sebbene avvertissi intensamente ambedue le emozioni. Per un capriccio del caso mi era toccato un miracolo: ero stata invitata a rimanere alla Fortezza di Ruatha. Lasciamo perdere i motivi prosaici: confidavano in me solo perché ero utile e si doveva ricostruire Ruatha. Cercai di far sì che la mia mente non ritornasse a sottilizzare sulle cose che aveva detto Oklina e, tantomeno, su ciò che non aveva detto Alessan. Poter vivere a Ruatha era sufficiente. Gli sarei stata vicina, proprio nel luogo su cui avevo tanto spesso fantasticato nei miei sogni ad occhi aperti, il luogo di ogni felicità. Ruatha poteva tornare ad essere un luogo felice ed io avrei avuto l'occasione, del tutto inaspettata, di ottenere ciò. Fergal ci raggiunse in un attimo. Non mi voleva permettere di monopolizzare la compagnia di suo nonno. La notte era chiara, l'aria era fresca e potevo sentire la primavera che risaliva dalle regioni più calde. Scambiammo cenni e sorrisi con la gente che sedeva attorno al bivacco e lungo la fila di capanne. Portavo la lampada per illuminare il sentiero, nonostante ognuno di noi ormai conoscesse ogni pietra, ciottolo e pendenza del percorso verso le scuderie. Fergal ci precedeva. «Se non avrà figliato per "mezzanotte, probabilmente non lo farà più,» affermò Dag. «Ci serve un altro puledro.» «Chi è lo stallone di questa?» «Uno degli stalloni da soma del vecchio Nobile Leef, perciò abbiamo bisogno di un puledro per ricostruirne la discendenza. Rimarrai con noi, vero, Rill?» Dag, solitamente, era brusco. Annuii, incapace di dare una risposta: la gioia ed il sollievo per la mia buona fortuna erano troppo preziosi per parlarne. Dag annuì seccamente con la sua testa irsuta. «Ci serve gente come te. Ce n'è altra, nel posto da cui vieni?» Mi lanciò uno sguardo astuto, di sbieco. «Non che io sappia,» risposi amabilmente, sperando di placare la sua curiosità. Non avevamo avuto molto tempo da dedicare alle conversazioni personali, negli ultimi due giorni e mezzo. Adesso capii che avrei dovuto sviluppare un'adeguata storia del mio passato. «Non tutte le donne sono capaci di fare quasi ogni genere di lavoro alla Fortezza ed alle scuderie. Occupavi un posto in vista, prima della peste?»
«Sì, e mi rattrista pensare a ciò che ho perduto.» Forse quel tergiversare sarebbe bastato. Qualche principio morale dentro di me mi impediva di mentire. Sospirai. Un bel giorno la verità sarebbe senz'altro saltata fuori, ma nel frattempo, speravo, mi sarei stabilita a Ruatha così saldamente che mi si sarebbero perdonate sia l'origine, sia la defezione. Per fortuna eravamo arrivati alle scuderie. Pol e Sal erano lì, seduti su delle balle da una parte e dall'altra della giumenta, osservandola con discrezione. Stavano insaponando dei finimenti di pelle, presi dal mucchio di roba racimolato tra le rimanenze del Raduno degne di essere conservate. Pol porse a Fergal un pettorale verde, stampato. Il ragazzo prima scoccò un'occhiata a Dag, che annuì, poi fece una smorfia a Pol, ma si mise a sedere e raccolse un panno. Dag ed io trovammo delle balle su cui sederci e delle cinghie che andavano pulite. «Il secondo figlio di Bestrum sta cercando della terra coltivabile,» disse Pol, uscendo dal suo silenzio soddisfatto. «Davvero?», chiese Dag. «Un ragazzo robusto, un forte lavoratore: ha in testa una ragazza della Tenuta vicina.» «Pensi che Bestrum sia preoccupato, dopo aver perduto qui gli altri?» «Alessan gli piace. Il suo ragazzo starebbe meglio qui e Bestrum lo sa. Un brav'uomo, Bestrum.» «Visto che ha mandato te e Sal, sì, è vero.» Dag continuò ad annuire in segno di approvazione. Poi sollevò lo sguardo su Pol, stringendo gli occhi con aria meditativa. «Per quanto tempo può fare a meno di voi? Ho tutte queste giumente da portare ai nostri stalloni e questa gamba rotta...» «Hai detto che ti avrei aiutato io, Dag,» si lamentò Fergal, guardando in cagnesco Pol che lo ignorava. «E lo farai, ragazzo, ma qui c'è troppo da fare per noi due soli.» «Sulle montagne la primavera arriva più tardi,» disse Pol. «Non ci sarà bisogno di noi ancora per un po',» aggiunse Sal. «Devo chiederlo al Signore Bestrum, quando scriverò a Dama Gana dei suoi figli?», chiesi. «Sarebbe cortese da parte tua.» «Tuero aveva appurato che la figlia di Dama Gana era morta alla prima ondata di decessi, assistita dal vecchio servitore, morto anche lui. Erano sepolti entrambi nel primo tumulo. Il figlio aveva lavorato duramente aiu-
tando Norma, l'amministratore delle piane delle corse, prima che anche loro crollassero e morissero. Giacevano nel secondo grande tumulo. «È molto irrequieta,» disse Sal, rompendo il silenzio. Fergal saltò sulla balla, allungando il collo e stando in punta di piedi per vedere. «Sta figliando,» disse con un tono così autorevole che dovetti soffocare una risata. Gentilmente, nessuno lo offese mettendosi a guardare da sé. Tutti però udimmo la giumenta affondare nella spessa lettiera di paglia. Come sono bravi gli animali a superare gli uomini in questo campo! Udimmo la giumenta emettere parecchi brontolii, ma nessuno strillo, né lunghi ululati, né pianti e lamenti per il proprio destino, né maledizioni per l'uomo che l'aveva messa in quelle condizioni. «Gli zoccoli,» annunciò Fergal a bassa voce. «Sta uscendo la testa. In posizione normale.» Non potei trattenermi dal rivolgere uno sguardo a Dag che mi strizzava l'occhio, mordicchiando un grosso fuscello. «Ah,» disse Fergal in tono strascicato. «Ancora una spinta, bella, ancora un piccolo sforzo da parte tua... ah, ecco.» Udimmo lo sforzo della giumenta, il fruscio e lo scivolare sulla paglia e, subito, la nostra ansia fu troppo forte. Raggiungemmo la stalla tutti insieme e scrutammo al di là del tramezzo, mentre la giumenta cominciava a leccare il suo puledro, pulendolo dalla placenta. La testa fu libera ed il corpicino bagnato cominciò a dibattersi, con le zampe troppo lunghe che scalciavano con una forza incredibile per una creatura nata da così poco. «Ehi, mi togli la visuale,» gridò Fergal. Si intrufolò al fianco di Dag e si appese sul bordo del tramezzo per tirarsi su. «Cos'è? Cos'è?» Il puledro non ci aiutava a distinguerne il sesso: le zampe gli stavano attaccate al corpo, ad angolo. Sbuffava di dispetto per la propria debolezza. La giumenta gli dava dei colpetti sul posteriore: lui sventolò brevemente la coda. Rimise in posizione le zampe e fece un altro sforzo per sollevarsi. Le zampe non volevano collaborare ed allora diede in un breve, acuto nitrito di frustrazione. Gli zoccoli rigiravano la paglia, il puledro si decise a trovarsi un punto d'appoggio e ad alzarsi. Adesso si era rigirato e, quando scodinzolò, annoiato, si rivelò il suo sesso. O, per essere più precisi, rivelò che non era una femmina. «Un puledro!», gridò Fergal, che era stato più attento a quel dettaglio cruciale, mentre noi eravamo tutti incantati dal robusto spirito d'indipen-
denza di quella creatura. Spalancò la porta della stalla ed entrò. «Sei una creatura meravigliosa! Che femmina stupenda! Che brava giumenta! Che bel figlio che hai!» Fergal carezzava il muso della giumenta e giocherellava con le sue orecchie, con un tono di voce pieno di approvazione. Poi cominciò a canterellare qualcosa al puledro, accarezzandogli delicatamente il collo, per abituarlo al tocco dell'uomo. Il neonato era troppo occupato a districare le gambe, per curarsi di altri fastidi. «Ha del talento, davvero,» ci disse Pol, annuendo con aria da esperto. «Ne ha fatti partorire tre, tutto da solo, sui prati delle colline, dopo che mi sono rotto la gamba.» «Lo dirò ad Alessan,» dissi. «Più buone notizie riceverà, meglio sarà per lui,» disse Dag, la qual cosa, mentre risalivo rapidamente il sentiero, mi colpì, poiché erano parole troppo enigmatiche per quell'allevatore così schietto. Quando ritornai al Palazzo, Oklina e Desdra se ne erano andate, presumibilmente a letto, poiché era mezzanotte passata. Tuero aveva appoggiato i gomiti sul tavolo e stava facendo dei gesti appassionati ad Alessan, che teneva la testa posata sulle braccia. «È abbastanza giusto,» stava dicendo Tuero in un tono molto amabile e conciliante. «Se un Arpista non riesce a scoprirlo - e questo Arpista è molto bravo a scoprire le cose - se un Arpista non riesce a scoprirlo, allora non ha il diritto di saperlo. Giusto, Alessan?» Ebbe in risposta un russare prolungato. Tuero lo fissò per un attimo, esprimendo pietà e biasimo insieme, poi premette con il gomito l'otre del vino e sospirò disgustato. «L'ha finito?», chiesi, divertita per il disappunto che si leggeva sul viso allungato di Tuero. Il suo naso lungo, piegato a sinistra, si contrasse. «Sì, è vuoto, e lui è l'unico a sapere dove si trovano le scorte.» Sorrisi, ricordandomi del tragitto fatto con Oklina fino al deposito dei vini. «Il puledro è maschio, bello e forte. Pensavo che al Nobile Alessan sarebbe piaciuto saperlo. Dag e Fergal lo stanno osservando, per assicurarsi che si regga sulle zampe e che stia poppando.» Abbassai lo sguardo su Alessan che dormiva in pace, con il volto disteso. Sembrava più giovane, ora che era meno teso. Forse che, sotto le palpebre, quegli occhi verde chiaro brillavano ancora della loro solita tristezza? «Sono certo di conoscerti,» disse Tuero.
«Non sono il genere di persona che un Arpista ambulante possa conoscere,» ribattei. «Alzati in piedi, Arpista. Non posso lasciare che dorma in questa posizione scomoda, ha bisogno di riposarsi davvero.» «Non sono tanto sicuro di reggermi.» «Provaci.» Io sono alta, ma non quanto Tuero o Alessan, e non forte abbastanza da trascinare da sola il pesante corpo di Alessan. Mi passai oltre la spalla un braccio molle ed esortai Tuero, che era riuscito ad alzarsi, a prendere l'altro. Alessan pesava! E Tuero non era un valido assistente. Salendo le scale, dovette trascinarsi per il corrimano ed io pregai ardentemente che questo fosse saldamente fissato alle pietre. Per fortuna le stanze di Alessan si trovavano subito in cima alle scale. Non giunsi oltre al soggiorno, ancora ammobiliato con le brande e l'altra roba che avevano messo lì così, incalzati da altri compiti. L'indomani, o il giorno successivo, avremmo forse cominciato a rimettere in ordine l'interno della Fortezza. Diedi uno strattone al pesante mantello di pelliccia che stava sul letto di Alessan e questo mi cadde tra i piedi, ostacolandoci un po' mentre ci davamo da fare con il corpo inerte di Alessan. Crollò sul letto, con i piedi penzolanti oltre il bordo. Tuero si aggrappò ad un montante e bofonchiò una scusa quando una tendina si staccò per un tratto dal telaio. Tolsi ad Alessan gli stivali, gli allentai la cintura, gli ripiegai le gambe e, posandogli una mano sui fianchi, diedi una spinta, più forte che potei, e riuscii a far rientrare nel letto tutto il suo grande corpo, sul fianco destro. «Vorrei...», fece Tuero mentre io coprivo Alessan con il mantello, rimboccandoglielo accuratamente intorno alle spalle così che, se si fosse rigirato, non avrebbe preso freddo. Nel sonno, sorrideva appena, ed il mio respiro ebbe un sussulto. «Vorrei...» Tuero che mi fissava con il volto improvvisamente impallidito, aggrottò le sopracciglia e chinò la testa sul petto. «La branda è sempre lì, nella stanza accanto, Arpista.» Anche con l'aiuto di Tuero ubriaco, dubito che l'avrei potuto portare fino alla sua stanza, in fondo al corridoio. «Vorresti coprire anche me?» La richiesta di Tuero fu espressa in un tono così ansioso che non potei fare a meno di sorridere. Barcollando due o tre volte, mi seguì fino alla stanza accanto. Sollevai il lenzuolo e lo spiegai. Con un sospiro di stanchezza e gratitudine, si distese su un fianco.
«Sei buona, con questo Arpista sbronzo,» mormorò mentre lo coprivo. «Un giorno mi rammmm...» Aveva perso conoscenza. Forse un giorno Tuero si sarebbe rammentato che era stato lui a coniare l'espressione «L'Orda della Fortezza di Fort,» affibbiandola allegramente alle mie sorelle ed a me. Suppongo che, se lo avesse fatto, avrebbe dato un colpo al nostro rapporto. Ma questo era un problema tutto suo. Il mio problema era di raggiungere il mio letto, non quello di desiderare che ci fosse qualcuno a rimboccarmi le coperte. CAPITOLO IX 3.23.43 Chiaro e luminoso, portando una promessa di primavera che sarebbe stato meglio spegnere nei nostri cuori, spuntò il giorno decisivo. Nonostante i nostri eccessi della serata precedente, o forse per via di essi, ci alzammo riposati e facemmo colazione di buon'ora. Tutti sorridevano, compresa Desdra, che non era avvezza a tali espressioni comuni. I particolari dei lavori del giorno vennero discussi al tavolo della colazione. Alessan corse alle scuderie per osservare il puledro e fu assai compiaciuto della sua robustezza e vivacità. Oklina ed io radunammo gli orfani e parecchi convalescenti maschi perché dessero una mano a rotolare le giare degli apprendisti fino ad una scuderia in disuso, per cui potemmo fare dei progressi nell'opera di riassegnare al Palazzo Principale il suo scopo originario. Deefer prese altri con sé ed andò a vedere se per caso sulle colline non ci fossero dei wherry grassocci; avrebbero costituito un gradito cambiamento dopo la dura carne del nostro bestiame, le cui scorte erano praticamente esaurite. Facevo mentalmente dei progetti, ripetendomi dei suggerimenti da sottoporre ad Alessan quella sera. Intuivo che, lavorando sodo per una settimana, si potevano sgomberare le macerie, e lui desiderava senz'altro veder sparire l'ultimo dei ricordi di quell'orribile periodo. Non che potessimo fare alcunché per cancellare dalla vista i tumuli. Perlomeno, la primavera avrebbe portato dell'erba che nascondesse quegli oscuri rilievi. Quando il terreno si fosse assestato, avremmo potuto livellarli, ma questo sarebbe accaduto nel lontano futuro.
«Draghi!», gridò qualcuno dalla Corte Esterna. Ci precipitammo tutti fuori per assistere allo spettacolo. Il primo ad atterrare fu B'lerion, su Nabeth. Il visetto di Oklina si illuminò di gioia. Besera, una delle Regine Dragoniere delle Terre Alte, si posò a terra dietro di lui, sulla sua grande bestia. La Corte, uno spazio ampio, sembrò improvvisamente rimpicciolita e resa angusta per la presenza delle enormi bestie. Sembravano infinitamente compiaciute di sé, splendenti nel sole. Altri sei draghi, tutti bronzei, atterrarono sulla strada. Quando Oklina si lanciò fuori verso B'lerion con le sue offerte, non potei fare a meno di notare come il volto del cavaliere bronzeo si illuminasse, mentre lui scivolava a terra lungo il fianco del suo drago. Quando lo raggiunse, lei si fermò di colpo per fissarlo amorevolmente finché lui, sorridendo con un'aria un po' stupida, ricevette da lei il siero. Sentii un tocco sul braccio. Desdra stava li, con il pacco di flaconi di siero che dovevo consegnare ad un cavaliere. «Non sgranare gli occhi, Rill. Si è deciso così.» «Non ho sgranato gli occhi... non è esatto. Ma lei è così giovane e B'lerion non ha una sua Dama.» «C'è un uovo di Regina che matura al Weyr di Fort.» «Ma di Oklina c'è bisogno qui.» Desdra fece spallucce, passò il siero in mano mia e mi diede un buffetto per richiamarmi all'attenzione. Mi precipitai, ma avevo la testa confusa. Oklina era davvero giovane e B'lerion era così affascinante. Ed Alessan aveva sancito l'unione? Che strano, giacché lui stesso avrebbe avuto bisogno dei suoi bambini per salvaguardare la Linea di Sangue. Oh, sapevo benissimo che le donne di Ruatha diventavano spesso Regine Dragoniere e che le donne del Weyr concepivano e partorivano dei bambini come tutte le altre, sebbene non fossero così prolifiche. Ma non mi sarei augurata una vita così. Il legame tra cavaliere e drago era troppo forte, troppo esclusivo per una come me.
Ciò che invidiavo ad Oklina era la felicità, il rapimento che si vedeva sul suo volto quando guardava in alto, a B'lerion. Gli occhi iridescenti di Nabeth erano rivolti alla coppia, come se lui sapesse tutto ciò che stava silenziosamente accadendo tra i due. I draghi avevano di tali facoltà, lo sapevo. Non ero sicura che mi sarebbe piaciuto che qualcuno sapesse esattamente, sempre, tutto quello che stavo pensando. Ma supponevo che i Dragonieri ci si abituassero. Avevamo appena ripreso fiato dall'arrivo di quel contingente di Dragonieri, che arrivarono le Regine del Weyr di Fort. Leri, che fui sorpresa di vedere, fece posare la vecchia Holth nella Corte, mentre Kamiana, Lidora e Haura atterrarono sulla strada. Giunsero quindi S'peren e K'ion. Leri era in gran forma, scherzava con Alessan e Desdra, ma io notai che continuava a tener d'occhio Oklina. E Holt faceva lo stesso. Allora si trattava di complicazioni recenti? Così mi ricordai del mio arrivo a Ruatha, appena tre giorni prima, che però sembravano tre mesi: tante cose erano accadute in quel breve intervallo. Alessan era sembrato felice; lo stesso per Moreta, ed anche Oklina si era illuminata. Leri stava forse ricordando quelle circostanze, quel giorno? Il Weyr aveva il diritto di cercare delle candidature adatte provenienti da qualsiasi tenuta, specialmente quando stava maturando un uovo di Regina.
Oklina era così giovane, così dolce. Rimproverai me stessa perché stavo criticando il mio nuovo Nobile Signore. Che diritto ne avevo, a parte quello di un amico preoccupato? Tuttavia, ero brava a scorgere il lato negativo in tutte le cose. A metà giornata trovammo il tempo per prenderci una tazza di minestra e del pane. La maggior parte dei flaconi di siero erano stati prontamente consegnati ai messaggeri; cercai di immaginarmi il meccanismo della spedizione. Un drago aveva bisogno di circa cinque minuti per atterrare. Lavorando il più in fretta possibile, ci volevano altri cinque minuti per consegnare le bottiglie al Cavaliere, poi altri tre o quattro minuti perché il drago decollasse. Sebbene il suo tempo di volo reale tra un luogo e l'altro durasse pochi secondi, occorreva almeno mezz'ora per portare a termine ogni spedizione. Con tutte le Fortezze che c'erano nell'ovest, South Boll, Crom, Nabol, Fort, con quelle poche occupate a Ruatha, Ista e nelle zone occidentali di Telgar, dovevano risultare impiegati gli interi effettivi di ogni Weyr. E ce n'erano solo otto delle Terre Alte, sette di Fort e sei di Ista. «Non cercare di capire, Rill,» mi consigliò Desdra, con una punta di divertimento nel suo tono insinuante. «È possibile farcela, tenendo conto delle eccezionali capacità dei draghi.» La sua allusione mi rese ancor più confusa, ma i contingenti dei draghi di Ista e Fort erano ritornati per ricevere le ultime consegne. Che i draghi non sembrassero troppo in forma, bisognava aspettarselo. Andare in mezzo doveva costare molte energie, come anche tutti quegli atterraggi e quei decolli. Leri sembrava esausta, ma, in fondo, era la più anziana tra i Dragonieri di Fort. Che lei avesse intrapreso un tale lavoro, dava la misura della sua dedizione al Weyr. Improvvisamente, tutte le Regine esplosero in ruggiti di rabbiosa protesta. L'unico drago azzurro presente si rannicchiò. Leri sembrava furiosa, come anche gli altri cavalieri delle Regine. Pareva che tra di loro si svolgesse una polemica intensa, anche se silenziosa. Leri, poiché ero la persona a lei più vicina, mi fece segno di riprendermi la sua ultima consegna. «Da' queste a S'peren; ha una brava femmina. Le consegnerà lui.» Subito fui avvolta della polvere sollevata dalla precipitosa partenza di Holth. Penso che il drago avesse appena superato le mura esterne quando andò in mezzo. Una folata di aria gelida mi fece rabbrividire convulsamente. Tutti gli altri si fecero seri, mentre ci sarebbe dovuta essere una certa soddisfazione per aver terminato un compito difficile e fuori del comune. Mi incamminai lentamente verso il Palazzo.
«Queste possono ritornare alle sale fredde.» Alessan stava indicando le ceste di siero che erano rimaste, le eccedenze preparate nel caso le altre avessero subito dei danni. «Dovremmo portarle all'Allevamento di Keroon, quando cesserà la confusione. Chiunque divenga Maestro Allevatore le apprezzerà. Sono sicuri che scopriranno altri corridori abbandonati a Keroon o Telgar. Lì, adesso, ci sono diverse tenute disabitate.» In quel momento ritornarono Deefer e la sua squadra, tutti sorridenti, portando sulla schiena ciascuno almeno un wherry grassottello. «Stasera festeggeremo. (Diclina, Bill, cos'altro possiamo trovare in dispensa da aggiungere ai wherry arrosto? Ci meritiamo una festa in piena regola; un vero banchetto, non un altro stufato, ed un bel giro con un otre di vino.» Ci fu un'esplosione generale di applausi e di grida, con offerte di aiuto per i cuochi. Il Palazzo fu entusiasticamente sgomberato dai detriti dell'ospedale e le robuste tavole, così a lungo assenti, polverose, furono trasportate fuori dalle credenze. Dopo il Raduno erano state riposte così in fretta che alcune di esse erano ancora coperte di tovaglie macchiate di vino e di cibo. Oklina ed io le infagottammo in fretta e le togliemmo alla vista, mandandole al lavatoio. «Mi dispiacerà di partire,» mi disse Desdra, interrompendo la raccolta delle sue cose e dei registri relativi alla produzione del siero. «Nonostante tutto questo,» indicò il disordine, «Ruatha si sta riavendo in fretta.» «Tu e Mastro Capiam dovete ritornare presto,» disse Oklina, con gli occhi che ancora le splendevano per la recente visita di B'lerion. «Vedrai quale dev'essere il vero aspetto di Ruatha: lo vedrà, non è vero, Rill?» «Datemi solo una stanzetta ed avremo lo spazio per rimettere tutto in ordine in un baleno,» promisi con tanto trasporto che Desdra rise. Poi mi strizzò l'occhio senza farsi vedere da Oklina. «Hai avuto ragione a venire qui, Rill. Non ti hanno mai apprezzata, alla tua precedente Fortezza. E vorrei scusarmi per aver frainteso il motivo per cui hai offerto la tua assistenza al Palazzo. Qui per noi sei stata di grande aiuto, come pochi.» «No, altrimenti non ne avrei avuto il permesso,» dissi, tranquillizzata perché Oklina non era più a portata d'orecchio. «Qui sono me stessa, accettata per come mi sforzo. Qui posso essere utile, soprattutto se Oklina...» m'interruppi, incerta su quello che intendevo dire. Desdra sollevò un sopracciglio ed io corressi l'equivoco sulle mie ambi-
zioni smodate. «Oh, non essere ridicola, Desdra. Nonostante le attuali condizioni di Ruatha, questa è una Fortezza prestigiosa per stringere con essa delle alleanze. Alessan non ha perduto niente agli occhi di nessuno, tirandosi fuori da questo disastro con tanta dignità. Ogni Nobile Signore con delle ragazze da marito gli farà una corte assidua, non appena potrà presentare qui dei messi.» «Sei di rango abbastanza elevato, Dama Nerilka.» «Silenzio! In verità, ero di rango elevato.» Sottolineai il tempo passato. «E non mi rendeva molto felice. Sono molto più soddisfatta di far parte del futuro di Ruatha, poiché a Fort non ne avevo nessuno.» Desdra me lo concesse, compiendo un ampio gesto con entrambe le mani. «C'è qualcuno a cui posso far parola su dove ti trovi adesso? Sarò molto discreta.» «Se vuoi, dì a mio zio Munchaun che mi hai veduta durante i tuoi viaggi, sana e felice. Lui tranquillizzerà le mie sorelle.» «Anche Campen era preoccupato, lo sai. Lui e Theskin hanno perlustrato i dintorni per un giorno intero, convinti che ti fossi infortunata raccogliendo erbe.» Annuii, approvando la sua reticenza, oltre al tentativo fatto da Campen. Ricordo che mi stavo chiedendo se saremmo mai riusciti ad estirpare dal Palazzo Principale l'odore pungente dell'erba rossa, quando Oklina, che stava risistemando sull'architrave del caminetto gli ornamenti di rame brunito, urlò d'improvviso e sarebbe caduta se Desdra, che le stava accanto, non l'avesse sostenuta. Con il volto cinereo, Alessan si precipitò fuori dalla stanzetta che fino a poco prima era stata il gabinetto chirurgico di Follen. «MORRRETTTAAA!» L'urlo di Alessan era quello di un uomo angosciato, già troppo provato dagli affanni e dai lutti. Dopo aver mandato quel grido cadde pesantemente sulle ginocchia, il corpo squassato dai singhiozzi mentre si curvava, battendo i pugni sulla pietra, incurante dei tentativi di Follen affinché non si facesse male. Non potei sopportare quei singhiozzi e corsi da lui, inginocchiandomi in modo tale che i suoi pugni, già sanguinanti, colpissero le mie cosce e non la fredda pietra. Mi serrò le cosce così strettamente che dovetti mordermi le labbra per reprimere un grido, ma poi nascose la testa nel mio grembo, contorcendosi dal dolore.
Moreta! Cosa poteva esserle successo al Weyr di Fort? Sapevo che la sua Regina si trovava nel Terreno della Schiusa, il posto senz'altro più sicuro di ogni Weyr. Le braccia di Alessan mi circondavano i fianchi, le sue dita si aggrappavano alla mia schiena, mentre lottava contro questa nuova, tremenda sofferenza. Lo strinsi a me più forte che potei, mormorando cose senza senso, cercando di capire cosa poteva essere successo. Mi resi conto che Follen e Tuero stavano in piedi accanto a noi, ma quello che stavano dicendo veniva coperto dai singhiozzi orrendi, ansimanti, di Alessan, e dallo strisciare dei suoi stivali sulla pietra, mentre tutto il suo corpo cercava di sottrarsi a questa nuova tragedia. «Di qualunque cosa si tratti,» dissi, «lasciamolo sfogare, perché finora non si è abbandonato alle lacrime. Cosa può essere capitato a Moreta?» «Qualunque cosa sia stata,» disse Desdra, raggiungendoci, «ha fatto perdere conoscenza a Oklina. Non comprendo affatto. Lui non è un cavaliere, e lei non lo è ancora.» Udimmo un lugubre ululato, molto più forte di quello che sarebbe potuto uscire dalla gola di un solo wher da guardia. «Ali!», gridò Desdra. Udendo l'angoscia nella sua voce, alzai gli occhi e vidi B'lerion che saliva a balzi le scale entrando nella Fortezza, con il volto completamente bianco ed uno sguardo da folle. Il drago dietro di lui, ingrigito, era Nabeth, fuori di sé. Quello che avevamo udito era il suo lamento funebre. «Oklina!», gridò B'lerion, cercando di scorgerla tra di noi. «È svenuta, B'lierion.» Desdra indicò la Sala, dove il corpo di Oklina era disteso su un tavolo, mentre un servitore le girava attorno, sollecito. «Cos'è accaduto a Moreta?» B'lierion spostò gli occhi stravolti e colmi di lacrime da Oklina su Alessan, i cui singhiozzi, mentre giaceva tra le mie braccia, si susseguivano torturanti e tutto il corpo del cavaliere bronzeo si curvò, quando crollò il capo sul petto. Tuero si fece avanti per sostenerlo da un lato, Follen dall'altro. «Moreta è andata in mezzo.» Non riuscii affatto ad afferrare il senso delle sue parole. Draghi e cavalieri andavano spesso in mezzo. «Su Holth. I cavalieri di Telgar hanno disertato. Lei conosceva Keroon. Ha fatto lei il viaggio. Holth era già stanco. Lei ha voluto far troppo. Sono entrati in mezzo tutti e due. E sono morti!»
Allora strinsi Alessan ancora più forte, e le mie lacrime si mescolarono alle sue: il mio dolore era altrettanto cocente del suo, ma, adesso, era più per lui che per la valorosa Dama del Weyr. Come avrebbe potuto sopportare questa terza orrenda tragedia, dopo essersi opposto così coraggiosamente alla peste e dopo aver pianto Suriana ben più a lungo di quanto avrebbe fatto un altro uomo? Mi adirai di nuovo contro mio padre. Perché, se c'era giustizia al mondo, Alessan subiva così duramente le più terribili disgrazie, mentre Tolocamp godeva di salute, di ricchezza e di piaceri carnali a cui non aveva più diritto? Seppi allora perché gli incredibili occhi di Alessan splendevano il giorno che ero arrivata io. Di certo non sapevo come Moreta ed Alessan erano riusciti a diventare amanti. Non potevano aver trascorso assieme molto tempo. Quel pomeriggio, gli altri sei si erano allontanati da Ruatha per un'ora soltanto. Adesso l'approvazione di Alessan per Oklina e B'lerion risultava più comprensibile, se vi erano implicati lui e Moreta. Fui contenta che la Donna del Weyr avesse goduto un po' di felicità, poiché Sh'gall non mi era piaciuto, quelle poche volte che lo avevo incontrato. Non era attraente, mentre Moreta lo era. Povera Moreta. Povero Alessan. Cosa avrebbe potuto consolarlo, in questa nuova prova? Desdra aveva una risposta. Attese finché i singhiozzi di Alessan si furono calmati, diventando dei tremiti. Poi lei e Tuero lo sollevarono dal mio grembo. Non potei muovermi subito, tanto contratte erano le mie gambe. Ma fui in grado di farlo appoggiare morbidamente al mio corpo, mentre Desdra gli portava delicatamente alle labbra una coppa e gli diceva di bere. Il suo sguardo non lo dimenticherò mai: assente, completamente smarrito, incredulo della perdita subita... e triste, tanto triste. Bevve tutto il liquido che Desdra gli aveva offerto e fu una grazia per lui, come per coloro che lo circondavano, quando le sue palpebre si abbassarono su quegli occhi spettrali, quando il fellis ebbe un effetto istantaneo. Ci furono delle braccia volonterose che lo trasportarono fino ai suoi appartamenti ed io mi offersi di stargli seduta accanto, sebbene Desdra mi assicurasse di avergli dato abbastanza fellis da farlo dormire fino al giorno seguente. «Cosa possiamo fare ancora per lui, Desdra?», chiesi, ancora scossa per la sua angoscia. Le lacrime non volevano smettere di scorrermi giù lungo le guance. «Mia cara Dama Nerilka, se conoscessi la risposta sarei un Maestro
Guaritore.» Scosse decisamente il capo, esprimendo l'impotenza assoluta che anch'io sentivo nel profondo dell'anima. «Dipenderà tutto da quanto ci permetterà di fare per lui. Quanto è amara questa nuova rovina. Quant'è orribile, disastrosa!» Lo spogliammo e lo coprimmo con la pelliccia. Il suo volto era prematuramente invecchiato, gli occhi sprofondati nella testa, le labbra cadenti, l'incarnato bianco come la cera. Desdra gli sentì il polso ed annuì sollevata. Poi sedette sul bordo del letto, appoggiando stancamente la schiena contro il morente, abbandonando le mani nel grembo, con le palme rivolte all'insù. «Amava Moreta?», ebbi l'audacia di chiedere. Desdra annuì. «Quando raccoglievamo le spine per gli aghi. Che giorno stupendo fu quello!» Sospirò, con un sorriso lievissimo che le aleggiava sul volto, di solito austero. «Sono contenta che abbiano avuto tutto questo. E, forse, in un modo strano, ingiusto, le cose andranno nel modo migliore. Voglio dire: se Ruatha resisterà.» «E questo perché Alessan deve salvaguardare la sua Linea di Sangue?» In tutta la storia di Pern, nessuna Dama del Weyr era mai diventata una Nobile Signora, nonostante parecchie Nobili Signore fossero diventate Dame del Weyr. Moreta era quasi arrivata al termine di una gravidanza sicura, ma Alessan avrebbe potuto comunque prendersi una moglie. Un Nobile Signore poteva far valere le proprie leggi nella propria Fortezza, specialmente per salvaguardare la propria Linea di Sangue. Le ragazze delle Fortezze venivano allevate imprimendo chiaramente quel precetto nei loro cervelli e nei loro cuori. «Si potrebbero adottare i figli di Oklina,» disse Desdra. «Ma questo è poco, per tutte le sue disgrazie.» «Devi dirgli chi sei, Dama Nerilka.» Scossi il capo, anche se mi aggrappavo con forza a quel pensiero, a quella possibilità del tutto impossibile. Aveva bisogno di una che fosse graziosa ed attraente, amabile ed affascinante, una che potesse risollevarlo da tutti i dolori patiti. Poi mi lasciò, mormorando qualcosa a proposito di cibo che sarebbe stato portato appena pronto. Mi sarebbe costato troppa fatica, dirle che non credevo di poter ingoiare alcunché. CAPITOLO X
3.24.43-4.23.43 Non so bene come ognuno di noi trascorse i pochi giorni che seguirono. B'lierion stava con Oklina. Mi fu più chiaro che mai che il suo destino sarebbe stato il Weyr. Lei aveva udito il grido dei draghi, il che era abbastanza insolito per uno che non fosse del Weyr o che non fosse legato ad un drago. Che Alessan avesse saputo della morte di Moreta sconvolse tutti, tranne Desdra ed Oklina. Io ricollegai alcuni frammenti della loro storia, con l'aiuto di una crescente intuizione che sembrava riferirsi a tutto ciò che avesse a che fare con Alessan. Tutti i Dragonieri e la maggior parte della gente del Weyr seppe subito delle due morti, quella di Moreta e quella di Holth. In seguito, B'lierion ci disse delle regole e della disciplina più severa che vennero imposte a tutti i cavalieri per evitare che tornasse a verificarsi una tragedia del genere. Tutto era cominciato con un accorgimento ragionevole: i cavalieri feriti chiedevano ai loro draghi, in grado di volare, se volevano trasportare un Dragoniere sano in modo da mantenere in allenamento le Squadre, nell'evenienza di una Caduta di Fili. Ogni drago aveva il suo stile di volo che veniva compreso dal suo cavaliere. Però, in generale, qualsiasi Dragoniere era in grado di cavalcare un altro drago. Non si poteva muovere a Leri nessun rimprovero per essersi rifatta a quella consuetudine e per aver permesso a Moreta di cavalcare Holth in tutti i casi di emergenza che erano insorti. A quell'epoca lo scambio di cortesie era una prassi comune del Weyr. Ma i draghi affaticati ed i cavalieri esausti commettevano degli errori e, in quel tardo pomeriggio, Moreta e Holth si erano spinti oltre alla semplice stanchezza, fino al punto che solo l'abitudine faceva compiere loro i movimenti dell'atterraggio e del decollo. Mi ricordai, allora, di come Holth era entrato in mezzo appena sollevato di un'ala al di sopra della Corte, quel pomeriggio. «Sì,» disse B'lierion in un flebile mormorio. «Holth aveva perso molta elasticità, nei posteriori. Deve essersi lanciata in alto ed essere entrata in mezzo prima che Moreta potesse dirle dove dirigersi... sono rimaste, sperdute, in mezzo.» In seguito, quando Mastro Tirone cominciò a scrivere una Ballata che celebrava la coraggiosa cavalcata di Moreta, Desdra mi disse che, per l'insistenza di tutte le Capitane dei Weyr, Moreta doveva in realtà aver montato la sua Regina, non Holth. Diffondere la verità su quella tragedia avrebbe
potuto produrre dei danni incalcolabili. La maggior parte di Pern non seppe mai la verità. Non credo di essere stata tanto felice di far parte della minoranza. Non perché questo sminuisse l'eroismo di Moreta davanti ai miei occhi, bensì perché un errore così banale aveva causato una tragedia così grande. Desdra inoltre, sapendomi discreta e fidata, mi spiegò come erano riusciti i Dragonieri ad effettuare così numerose spedizioni. Questo aveva contribuito a sfinirli, il che fu la causa principale della tragedia: i draghi potevano entrare con altrettanta facilità in mezzo tra un tempo e l'altro, come tra un luogo e l'altro. Moreta e Holth avevano abusato delle proprie forze in questa maniera. Infatti, solamente forzando in tempo questo strano modo o, più esattamente, ripiegandosi su se stessi, Moreta e Holth potevano riuscire a consegnare il siero a tutte le tenute delle pianure di Keroon. Quel giorno, tra tutti i cavalieri disponibili, Moreta era l'unica a cui fossero abbastanza familiari le numerose Fortezze seminascoste di Keroon, tanto da riuscire in quell'intento.
Il Weyr di Telgar doveva subire un'azione disciplinare da parte degli altri Weyr, governati dalle Dame del Weyr. Queste erano fortemente convinte che, se M'tani non fosse stato così intransigente ed avesse dato ai suoi cavalieri il permesso di volare, Moreta non avrebbe perduto la vita. Non seppi mai che cosa si intraprese contro il Weyr di Telgar. Se anche Oklina l'ha saputo, non vi ha mai fatto menzione. Adesso, inoltre, ero in grado di capire molto meglio in che modo quelle sei persone - Alessan, Moreta, Capiam, Desdra, Oklina e B'lierion - avevano trascorso l'ora precedente al mio arrivo a Ruatha. Prima, avevo supposto che le scorte di aghi fossero già state disponibili, non che queste sei persone coraggiose avevano osato trascorrere un'intera giornata nel futuro, raccogliendo le spine sulla lontana Ista. Capivo molte cose... ma non era ancora abbastanza per aiutare Alessan. Non potevo far altro che domandarmi come avrebbe trovato il coraggio di andare avanti, dopo quest'ultima brutale tragedia. Ritornò cosciente, e consapevole di questo nuovo dolore, ventiquattr'ore più tardi. Mi ero assopita e sobbalzai al leggero rumore causato dal suo agitarsi. Dovetti evitare la vista dei suoi occhi spettrali, quasi folli. «Desdra mi ha drogato?» Quando annuii, con gli occhi bassi, lui la maledisse. «Non servirà a niente. Tutto è inutile. Qualcuna sa com'è successo?» Così glielo dissi, riuscendo in qualche modo a mantenere la mia voce calma e regolare, sebbene la mia gola continuasse a serrarsi. L'angoscia trasmessa da quell'uomo era tangibile. Quando ebbi terminato, lui mi fissò, con gli occhi che ardevano sul suo volto pallido, esangue. «Ma Leri ed Orlith potevano andare con lei!» In quell'accusa erano concentrati il suo risentimento e la sua furia. «Le uova. Orlith sta ferma finché si schiudono e Leri sta con lei.» «Brava Leri! La prode Orlith!» Il suo sarcasmo mi respinse, ma gli spasmi del suo corpo irrigidito, i suoi pugni serrati, mi dicevano che si stava svolgendo una lotta diversa. «Draghi e cavalieri hanno molti privilegi che a noi sono negati! Se mio padre mi avesse lasciato andare a quella Cerca! Se penso quanto diversa sarebbe stata la mia vita...» Distolse il suo sguardo da me, voltandosi verso la finestra. Poi, giacché sapevo che la sua veduta comprendeva i tumuli, capii perché tornò a voltarsi, con gli occhi oscurati chiusi dalla pelle tesa del suo volto tormentato.
«Così mi hai vegliato, fedele Rill. Ed avrò un nuovo guardiano, senza dubbio, ogni volta che sarò sveglio, per farmi continuare a vivere una vita che non desidero vivere.» Allora parlò la mia angoscia: non ero quel membro dell'Orda della Fortezza di Fort, sensibile, paziente, rispettoso, semplice, ma l'amica di Suriana, l'ultimo sostegno di Alessan, qualcuno che lo stimava ben più di quanto dovesse. Si può sopportare qualsiasi dolore. Il tempo guarirà le più profonde ferite del cuore, ma il tempo bisogna conquistarselo. «Puoi non avere il desiderio di vivere, Nobile Signore di Ruatha, ma non hai il diritto di morire!» «Ruatha per me non è più una ragione di vita sufficiente!», mi disse in un tono amaro, intenso, iroso. «Ha già tentato una volta di uccidermi.» «E tu hai lottato per salvarla. Nessun altro avrebbe saputo fare altrettanto, con tanto onore e dignità.» «L'onore e la dignità nella tomba non significano nulla!» Sollevò il braccio, indicando la finestra e tutte quelle tombe. «Tu respiri ancora e tu sei Ruatha.» Parlavo in modo chiaro, chiedendomi se quello che dicevo potesse toglierlo dalla via che aveva tacitamente annunciato di voler percorrere. Il dovere, l'onore e la tradizione erano dei surrogati così freddi, rispetto ad una bella donna ed al suo amore. «Come tuo suddito, Nobile Alessan, pretendo che tu lasci dietro di te un erede del tuo Sangue.» Sorpresi me stessa per il mio tono veemente e lui aggrottò le sopracciglia, alzando gli occhi su di me. «A meno che tu non voglia che il Sangue di Fort, di Tillek o di Crom governi Ruatha per la tua diserzione. Allora io stessa ti preparerò il fellis e tu potrai andartene!» «È un patto, allora.» Con una sveltezza che non mi ero aspettata da un uomo che giaceva a letto così ferito e spossato dal dolore, fu in piedi, tenendomi inesorabilmente la mano. «Quando sarai incinta, Nerilka, berrò da quella coppa.» Lo fissai di rimando, atterrita perché quelle mie parole canzonatorie avevano evocato in lui una simile reazione, stupefatta perché lui aveva frainteso ciò che avevo detto e l'aveva riferito a me personalmente. Poi mi resi conto che conosceva il mio nome. «I tuoi genitori sono sempre stati favorevoli ad un'alleanza...» Le sue parole erano derisorie, beffarde. «Non io, Alessan, non io.» «Perché non tu, Nerilka? Hai dimostrato di avere tutte le qualità di una
Nobile Signora perfettamente addestrata. Per quale altro motivo sarei giunta a Ruatha? Oppure pensavi di vendicarti su di me per quelle morti?» «Oh, no! No! Non potevo più sopportare Fort. Tolocamp si era abbassato fino all'ignominia. Come potevo rimanere lì, dopo che aveva negato ai Guaritori medicamenti e soccorso? Venire qui mi offriva una possibilità. Ero a Bestrum, quando arrivò M'barak in cerca di aiuto. Come fai a sapere chi sono?» «Suriana.» Poi, più irritato, disse: «Siete cresciute assieme, Rill. Lo sai, che disegnava in continuazione. Il tuo viso compariva in molti disegni. Come avrei potuto non riconoscere Nerilka quando l'avessi finalmente incontrata? Quello che non sapevo era il motivo della tua venuta, perciò lasciai che rimanessi anonima.» Poi schioccò le dita con impazienza. «Su, ragazza, non è un cattivo affare, essere l'indiscussa Nobile Signora di Ruatha, che nessun Nobile abusi mai più di te. Non avrai paura di me? Non ho mai picchiato Suriana. Di certo ti ha detto che con lei sono stato un buon marito.» Me l'aveva detto, con meno parole, che però implicavano ben più della bontà, ma il pensiero che lei fosse morta e che lui fosse così tangibilmente afflitto per Moreta fece tornare le lacrime a scorrere lungo le mie guance. «Sei gentile e buono e valoroso, non meriti di essere tanto offeso dalle circostanze.» «Credo di essere incapace di evitare le disgrazie, Nerilka.» La sua voce era aspra, il suo volto impassibile. «Risparmiami la tua pietà. Non so che farmene. Mi darai invece un figlio per continuare il Sangue di Ruatha? E la coppa?» Mi chiedo ora come avessi potuto acconsentire ad ambo i termini del contratto, ma, in quel momento, ero sicura che, quando fosse passato il più del suo dolore, Alessan avrebbe ripensato all'accettare la coppa, anche se io avessi trovato il coraggio di mescerla. In quel momento avrei detto qualunque cosa. «Allora cominciamo con il primo punto.» La sua mano mi tirò a forza verso il letto, ma mi sottrassi alla presa, orripilata, e non solo per il suo agire precipitoso. «No, non voglio imitare Anella.» Alessan mi osservò adirato, senza comprendere. «Tolocamp ha preso Anella nel suo letto un'ora dopo aver saputo della morte di mia madre.» «Le nostre condizioni sono ben differenti, Nerilka.»
L'espressione del suo volto era terribile, i suoi occhi adesso ardevano. «Tu amavi Moreta.» Gli guizzò un muscolo della guancia e mi fissò gelido, con uno sguardo in cui riluceva qualcosa di tanto simile all'odio che arretrai. «È questo che ti trattiene, Dama Nerilka? Preferirei che fosse del pudore verginale. Non ho mai conosciuto uno di Fort che si rimangiasse le parole.» Mi rimproverava e, stringendomi la mano, mi avvicinava inesorabilmente a sé. Cercai di esprimere a parole qualcuna delle molte ragioni per le quali gli opponevo resistenza, una delle quali era che quello era un momento davvero infausto per un'azione che, si diceva, doveva dilettare i partecipanti. «Un uomo che ha assaporato la morte ha bisogno di amare per ricordarsi della vita, Nerilka.» Adesso la sua voce era suadente ed io ero assai prossima a capitolare, quando entrambi udimmo lo strisciare della porta esterna e dei passi tranquilli. «Ti è accordata una tregua, Nerilka, ma non durerà molto,» disse svelto, in un tono basso ed intenso. «Abbiamo stretto un patto - Signore e suddito - ed esso avrà seguito: quanto prima sarà, tanto meglio. Ho gran desiderio di quella coppa.» Tuero entrò tranquillamente": sul suo volto gentile ed allungato apparve il sollievo, quando vide che Alessan era sveglio e che stava parlando con me. «Desideravi qualcosa, Alessan?» «I miei vestiti,» disse Alessan, allungando una mano per prenderli. Ne presi di puliti dall'armadio a muro e Tuero gli porse i suoi stivali. Si vestì in fretta, poi ci condusse fuori della sua stanza. Se la sua apparizione fu una sorpresa per coloro che si trovavano nel Palazzo, i suoi modi causarono ben più dello stupore. Convocò Deefer, mandò un figlio adottivo a Dag, volle sapere dove fosse Oklina e non fece domande sulla permanenza di Desdra, quando questa arrivò insieme ad Oklina. Ma si voltò bruscamente, quando Oklina volle abbracciarlo ed ordinò seccamente che Tuero ed io raggiungessimo gli altri nel suo ufficio. Poi, con voce bassa e controllata, ma priva di inflessioni, ci disse cosa doveva essere fatto al più presto e nel modo più accurato possibile. Furono tutti così compiaciuti dal vederlo gettarsi nell'attività che nessuno, all'infuori di me, capì che stava preparando la Fortezza di Ruatha alla
sua morte. Non soddisfatto della fatica fisica, trascorreva lunghe ore di notte insieme a Tuero, inviando messaggi, alcuni tramite i tamburi, ma altri tramite lettere sigillate trasportate da messi. Potei udire i primi: una richiesta di giumente per i suoi stalloni, un invito a tutte le famiglie prive di tenute e con una buona reputazione affinché si sottomettessero a lui. Alcuni messaggi erano promemoria dei tributi che si dovevano alla Fortezza di Ruatha; controllai quelle entrate nei Registri. Mandò chiunque fosse in grado di camminare o cavalcare a verificare le condizioni delle tenute deserte, a registrare quali piantagioni erano rimaste nei campi ed in quali condizioni, ad informarsi su quali messi erano state seminate e sulla loro crescita. Io, per conto mio, non mi rallegravo del lavoro, su cui cadeva l'ombra della tristezza e dell'operosità senza passione di lui. Avevamo lavorato più duro preparando il siero, ma allora eravamo pervasi da uno spirito forte, eravamo ben disposti. Adesso in nessuno di noi c'era animazione, come se anche noi fossimo dissanguati dalla impassibilità di Alessan. Era una misera soddisfazione persino vedere Ruatha forbita e ripulita, cancellata ogni possibile traccia dell'epidemia. Oklina dispose delle piante da fiore intorno al Palazzo, sperando di rallegrarci. Alcune di esse avvizzirono e morirono immediatamente, come se anch'esse non potessero sopravvivere in quell'atmosfera. Continuavo a pensare che avevo fatto male a parlare ad Alessan in quel modo, che ero stata io a causare quel suo terribile mutamento, apparendogli per accettare il suo suicidio. Dieci giorni dopo la morte di Moreta, durante la nostra triste cena, Alessan si alzò in piedi, chiedendoci con urgenza di prestargli attenzione. Sfilò dalla cintura un sottile rotolo. «Il Nobile Tolocamp mi concede di prendere in moglie sua figlia, Dama Nerilka,» annunciò nel suo tono piatto, privo di inflessioni. Molto tempo dopo, trovai per caso quel rotolo, infilato nel fondo di un baule. Le vere parole di Tolocamp erano: «Se è lì, prendila. Non è più della mia stirpe.» Non occorreva che Alessan fosse così delicato con i miei sentimenti; ma ciò dimostrava una volta di più che, dietro quella facciata insensibile, si nascondeva un'essenziale bontà d'animo. Quella sera si udì un mormorio di sorpresa, ma nessuno mi rivolse uno sguardo. Neppure Tuero. Desdra era ritornata alla Sede dei Guaritori cinque giorni prima. «Dama Nerilka?», chiese timidamente Oklina, fissando suo fratello con
gli occhi spalancati. «La Linea di Sangue di Ruatha deve continuare,» proseguì Alessan, poi sbuffò cupamente. «Rill acconsente.» Allora tutti mi guardarono, mentre io tenevo gli occhi puntati diritto di fronte a me. «Ora ricordo dov'è che ti ho già vista,» fece Tuero. Sorrise e questo fu il primo sorriso che vedevo in quei dieci giorni. «Dama Nerilka.» Si alzò in piedi, inchinandosi a me tra gli ansiti di sorpresa. Oklina rimase a fissarmi solo per un altro momento ancora, poi fu dall'altro lato del tavolo, abbracciandomi, piangendo e trattenendosi dal piangere. «Oh, Rill. Sei davvero tu?» «Ho ottenuto il consenso del suo Nobile Signore. Sono presenti un Arpista e testimoni in numero sufficiente, perciò possiamo formalizzare l'accordo.» «Non davvero in questo modo,» protestò Oklina, facendo schioccare le dita. Presi la sua mano nella mia, stringendola forte. «Proprio in questo modo, Oklina.» La pregai con gli occhi di non protestare. «C'è troppo da fare per poter perdere tempo in cerimonie.» Si lasciò persuadere, ma il suo visetto era afflitto. Per me, ne sono certa. Così mi alzai, Alessan mi prese per mano e ci rivolgemmo all'assemblea. Lui si sfilò dalla tasca una fede d'oro e ripeté la formale richiesta che io diventassi la sua Nobile Signora e sua moglie, madre dei suoi figli ed onorata più di tutti gli altri sudditi della Fortezza di Ruatha. Presi la fede - in seguito avrei notato che vi era stata incisa la data di quel giorno - e gli risposi che accettavo l'onore di diventare la sua Nobile Signora e sua moglie, anche se mi fu gravoso aggiungere «madre dei suoi figli ed onorata più di tutti gli altri sudditi.» Ma i patti erano quelli. Oklina insistette perché fosse servito del vino, il bianco frizzante di Lemos, affinché tutti potessero brindare alla nostra unione. Il discorso tradizionale fu pronunciato da un Arpista che non poteva sorridere e che non aveva preparato nessuna nuova canzone per celebrare il momento. Le strette di mano che ricevetti furono robuste e una o due donne erano commosse, ma fu un matrimonio sinistro. Ricordandomi che ero una sposa, riuscii a sorridere. Tuero ci presentò il Registro di Famiglia perché vi riportassimo i nostri nomi, la mia Linea di Sangue e la data, poi Alessan presentò le scuse per il
nostro commiato. Fu gentile e molto delicato e mi spezzava il cuore sentire in che modo meccanico sbrigò la faccenda. Le cose non cambiarono molto, poiché non volevo essere trattata in modo formale e rimasi Rill per tutti. Zio Munchaun mi inviò i gioielli che avevo lasciato da lui, insieme con uno scrigno colmo di monete, piccolo ma pesante. Era questa la mia dote. Mi comunicò anche ciò che aveva detto Tolocamp, quando seppe dove mi trovavo: «La Fortezza di Ruatha si prende tutte le mie donne e, se Nerilka preferisce l'ospitalità di Ruatha alla mia, ha finito di essere mia figlia.» Lo Zio mi disse questo perché voleva che lo sentissi da lui. Ma lo Zio pensava che avessi agito benissimo e mi augurava buona fortuna. Avrei voluto che la buona fortuna fosse visibile come i gioielli e le monete, così l'avrei potuta mostrare ad Alessan. Lo Zio aggiunse, con grande soddisfazione, che Anella si era infuriata per quella notizia, certa che io mi nascondessi crucciata da qualche parte nella Fortezza. Alla fine si era amaramente lamentata per la mia prolungata assenza con Tolocamp, il quale certamente non se ne era accorto fino a quel momento. Giungevano gli uomini senza terra, con le famiglie ammucchiate in carri o in slitte, in un flusso abbastanza continuo. Oklina ed io davamo loro da mangiare e lasciavamo che le donne si lavassero nei nostri bagni, riuscendo a scoprire le loro regole ed i loro valori. Tuero, Dag, Pol, Sal e Deefer chiacchieravano con gli uomini, offrendo loro una coppa di klah o una scodella di minestra. Follen dava loro un'occhiata per giudicarne la salute e la forma. Stranamente, era spesso Fergal ad avere l'ultima parola ed era a lui che Alessan prestava più ascolto. Presso i bambini raccoglieva informazioni che talvolta non corrispondevano con ciò che avevano detto gli adulti. Il che tornava pur sempre a nostro vantaggio. Fummo abbastanza fortunati da attirare i figli più giovani delle Linee di Sangue collaterali di Keron, Telgar, Tillek e delle Terre Alte, così che nella Fortezza tornarono a riempirsi gli appartamenti deserti e ci furono altri supervisori capaci. Furono inviati degli artigiani, con il benestare dei Maestri d'Arte, equipaggiati di strumenti e materiali. Adesso, quando risalivo la fila di capanne, andando verso le scuderie, ricevevo calorosi saluti dalle donne che, felici, vi si erano stabilite, e c'erano dei bambini che giocavano sulla piazza dei balli e sui prati, prima di andare a lezione da Tuero. Pian piano i nostri pasti silenziosi e cupi si fecero più rilassati e gioviali. Questo finché udimmo da M'barak, che veniva
spesso alla Fortezza di Ruatha per recare dei messaggi, che la Cova stava per concludersi. Allora ci ricordammo tutti di Moreta, di Leri e di Orlith... e di Oklina. Mi ricordai con orrore del mio patto con Alessan. Era troppo presto per sapere se le attenzioni che mi riservava avevano dato frutto: questo era l'unico elemento che alleviava quella tensione che dovevo nascondere a tutti. Sebbene Alessan non parlasse mai dell'Impressione, eravamo arrivati a supporre che Oklina avrebbe ottenuto il permesso di prendere posto tra la candidate all'uovo di Regina. Sapevamo tutti che B'lierion compiva altre visite oltre a quelle, piene di tatto, che faceva per via della corte. Quando Alessan mi chiese se avevo una veste adatta alla Schiusa, rimasi stupita. «Non ci vorrai andare?» «Volerci andare, no. Però il Signore e la Signora di Ruatha non mancheranno a questa Schiusa. Oklina si merita il nostro appoggio!» L'espressione del suo volto mi rimproverava perché, seppure per un solo attimo, avevo preso in considerazione una possibilità diversa. Era sporco per il viaggio, aveva cavalcato a lungo per insediare i nuovi occupanti di una pastura. «Guarda nelle cassapanche in camera di mia madre. Teneva sempre da parte delle stoffe. Sei troppo alta perché ti vada bene un abito già pronto.» Si rabbuiò in volto e, senza indugio, se ne andò a lavarsi. Venne da me ogni notte, gentile e coscienzioso, fino al mattino in cui sapemmo entrambi che non avevo ancora concepito. Non posso dire quanto mi sentii sollevata: era un'impressione più forte di qualsiasi senso di fallimento per non avergli concepito subito un figlio, poiché questo significava che lui sarebbe vissuto almeno un mese ancora. Avrei acquisito altri ricordi della sua compagnia. Non potevo più nascondere a me stessa che Alessan era stato sempre importante per me, fin dal momento in cui aveva sposato la mia cara Suriana, proprio quando Ruatha era per me il rifugio negatomi prima dalla morte di lei e poi dall'arbitraria decisione dei miei genitori all'epoca del Raduno. Ora lui era necessario per il mio cuore e per la mia anima, in un modo che non ero riuscita ad immaginare neppure nei più arditi voli della fantasia. Giudicavo prezioso ogni contatto occasionale; talvolta, di notte, mi prendeva il desiderio di toccargli la mano, come per rassicurarlo, persino nel sonno, della mia presenza. Serbavo in cuore ogni sua parola di approvazione per la mia condotta e per i miei suggerimenti. Ne facevo tesoro,
come altri raccolgono le monete o le messi, per irrobustirmi in vista della carestia che ci sarebbe stata alla sua assenza. Confesso che quando Oklina ed io, insieme con due delle nuove arrivate che manifestavano una certa abilità nel maneggiare l'ago, cucivamo la veste di morbida stoffa rossa, io cucivo con cuore più leggero che negli ultimi giorni. Oklina aveva lavorato alla sua bianca veste di candidata nella sua stanza, le sere, in modo da non disturbare nessuno. Quando noi donne cucivamo tutte assieme, lei cominciò a chiacchierare, raccontandomi a pezzi e bocconi la storia della Fortezza, persino aneddoti sulla vita troppo breve che Suriana vi aveva vissuto. Sapeva, allora, che non mi imbarazzava parlare della mia sorella adottiva. Anzi, gradivo l'opportunità di menzionare la mia amata amica. Nessuno alla Fortezza di Fort aveva avuto il minimo interesse per i giorni della mia infanzia, o per sentirmi parlare di una ragazza che nessuno di loro aveva conosciuto. Pian piano tornai a compiacermi di Ruatha, preparando le nuove fondamenta, accogliendo nuovi sudditi e fornendo loro una sistemazione. Praticavamo tutte le economie possibili, alle quali da parte mia contribuivo con quello scrigno di monete ed amministrando come mi aveva insegnato la mia signora madre. La Fortezza era disperatamente povera di prodotti di ogni genere, non soltanto di generi alimentari. La Sede dei Guaritori rimborsò graziosamente Ruatha, credo la nota di accompagnamento dicesse così, per il lavoro e le materie prime impiegate nella produzione del siero. Alessan digrignò i denti, ma l'altruismo non nutre e non arricchisce nessuno. Non avemmo bisogno di discutere con lui per accettare la ricompensa assai modesta per ciò che lui aveva fatto, spinto dal suo senso dell'onore. Quei soldi ci permisero di acquistare delle attrezzature, di commissionare aratri, telai di carro e ruote al Maestro Fabbro, e generi di prima necessità presso altre Arti. Ogni articolo fornito doveva essere consegnato a credito ai singoli sudditi. La sera passavo tanto tempo sui miei Registri, quanto ne passava Alessan sui suoi. Lavoravamo insieme in un silenzio cameratesco, che veniva rotto quando Oklina entrava portandoci le frugali cene. Scorgevo di quando in quando gli indizi del suo farsi un po' più rilassato. Poi qualcosa di esteriore o di interiore lo riportava a quel terribile, triste isolamento. CAPITOLO XI 4.23.43
I tamburi ci avvertirono che stavano arrivando i cavalieri per chiamarci a raccolta. B'lierion venne per Oklina, portando un magnifico mantello di pelliccia per proteggerla dal gelo in mezzo. Oklina, Alessan ed io, tutti con begli abiti nuovi, lo accogliemmo sullo scalone della Fortezza, quando convocò formalmente Oklina alla Cerca. In modo altrettanto formale, ma impassibile e silenzioso, Alessan annuì accondiscendendo alla Cerca e pose la mano di Oklina in quella di B'lierion. Vidi spuntare delle lacrime negli occhi del cavaliere bronzeo, poi Oklina gettò le sue braccia al collo del fratello, singhiozzando. Alessan, inflessibile, se ne liberò e quasi la spinse verso B'lierion. Il suo volto era di pietra, mentre B'lierion conduceva via Oklina senza dire una parola. Sapevo quanto doveva essere stato difficile per Alessan e chinai il capo, per resistere al nuovo accesso di disperazione. Giunse M'barak per scortarci al Weyr di Fort, con gli occhi arrossati; fui presa da sgomento, poiché sapevo il motivo di quelle lacrime. Fu Alessan a mostrarmi il coraggio nell'affrontare l'inevitabile. Si ritiene che quello della Schiusa sia un giorno di gioia, poiché l'Impressione celebra l'inizio di un nuovo audace sodalizio tra i draghi e gli uomini e le donne. In che modo l'Impressione di quel giorno al Weyr di Fort potesse avere qualcosa di gioioso, non saprei dirlo. E l'arrivo al Weyr di Fort fu ancora più spaventoso. Tutti i Dragonieri avevano gli occhi arrossati, tutti i draghi sembravano lievemente ingrigiti. Tutti gli ospiti erano silenziosi, sebbene non tutti sapessero che Leri ed Orlith erano entrati in mezzo all'alba. Nonostante il numero di persone che erano giunte lì, nonostante i loro vivaci costumi festivi, non si svolgeva alcuna conversazione, non si mormoravano piacevolezze, mentre tutti attraversavamo lentamente la Conca per entrare nel Terreno della Schiusa. Speravo che l'atmosfera tetra non avrebbe contagiato i piccoli draghi, o che avesse altri spiacevoli, imprevedibili effetti. Non credo che avrei potuto sopportare un altro contrattempo; mi meravigliai una volta di più della grande forza di carattere e della determinazione di Alessan. Così resistetti pensando che, se fossimo sopravvissuti a quel giorno spettrale, avrei goduto della Compagnia di Alessan per un altro mese. Dovevo aggrapparmi a qualcosa di positivo. Dovevo aggrapparmi alla dignità ed all'onore, per sostenermi in quel giorno critico. Dovevo ricordarmi che adesso ero la Nobile Signora della Fortezza di Ruatha, una delle più antiche
Fortezze di Pern, e che nostra sorella era una candidata all'uovo di Regina. Avevo il diritto di essere orgogliosa, quel giorno. Perciò rimasi eretta e fiera al fianco di Alessan, desiderando con tutto il cuore che il suo coraggio fosse sufficiente per sostenerlo in quel giorno. Lui era pallido, notai gettando di lato un breve sguardo, ma l'orgoglio doveva aver dato forza anche a lui. Quando entrammo nel Terreno della Schiusa, mi offrì cortesemente il braccio. Ero contenta di ricevere il suo sostegno, poiché era difficile mantenersi dignitosi mentre la sabbia rovente bruciava attraverso le suole sottili delle mie scarpette. Alessan mi condusse fino alle file di posti sull'estrema sinistra del Terreno. Quando fummo seduti, tenne gli occhi fissi sulle uova, studiandole, specialmente l'uovo dorato che stava un po' in disparte, su un monticello di sabbia. Io mi guardavo attorno, poiché non potevo stare a guarda re né le nuova, né Alessan. Mastro Capiam era lì, si soffiava vigorosamente il naso, e c'era anche il nuovo Maestro Guaritore; Desdra, seduta accanto a lui, sembrava, triste, orgogliosa ed ansiosa insieme. Non sarebbe ritornata alla sua Sede precedente, come intendeva fare in origine allorché conseguì il grado di Maestro. Rimaneva lì con Capiam, perciò sperai che ciò significasse proprio quello che pensavo.
Il Maestro Arpista Tirone ed un grande numero di Arpisti di rango diverso stavano arrivando in quel momento, così non mi persi lo spettacolo dell'entrata di Tolocamp e della piccola Anella, sfarzosamente abbigliata. Alzò lo sguardo sulle tribune e poi tirò Tolocamp da un lato, per allontanarsi da noi, non avevo dubbi. Presero posto gli altri Comandanti e le Dame dei Weyr, marciando in fila, sebbene Falga zoppicasse malamente attraversando la sabbia. Qualcuno alle mie spalle faceva notare la presenza del Signore di Benden, della sua Signora e dei Nobili Signori più eminenti man mano che entravano. Mi resi conto per la prima volta, credo, che adesso stavo alla pari con tutte quelle celebrità. Ratoshigan entrò da solo, com'era suo solito. Giunsero i Maestri Artigiani con le loro donne, anche se vedevo pochi visitatori con l'Insegna di Telgar; parecchi portavano quella di Keroon. Poi udii il mormorio, che si fece più eccitato quando i draghi, presi da un senso di solennità, cantarono il loro benvenuto ai candidati. Sh'gall stesso condusse lì le quattro ragazze, quindi fece cerimoniosamente cenno ai ragazzi perché avanzassero, mentre lui disponeva le ragazze davanti all'uovo di Regina.
Altre uova stavano cominciando ad oscillare ed il canto dei draghi divenne estatico. Il mio cuore ebbe un sussulto, i suoi battiti accelerarono. Oh, se fosse Oklina! Sarebbe stato il segno più evidente che i nostri dolori, i dolori di Ruatha, erano finiti. Stava lì in piedi così orgogliosa, non più una ragazza timida, insicura, debole, ma una giovane donna fiduciosa e piena di dignità. Mi salirono le lacrime agli occhi. Avevo inavvertitamente stretto a pugno le mani, quando sentii la mano di Alessan allentarmene uno, e le sue dita fredde che si intrecciavano con le mie. Un uovo, proprio sotto di noi, cominciò ad oscillare con forza. Le altre erano altrettanto in agitazione e potevo udire dietro di me alcuni che scommettevano su quale uovo si sarebbe dischiuso per primo. Io non avrei vinto; l'uovo sotto di noi si spaccò ed apparve un'umida testa di drago, cantando lamentosamente mentre il draghetto si scuoteva il guscio di dosso. Era bronzeo! Un sospiro di sollievo si alzò dalle gole di tutti. Era di ottimo auspicio che il primo della covata fosse bronzeo. L'animaletto avanzò barcollante, ma senza esitare, verso un ragazzo piuttosto alto dalla folta chioma bionda. Anche questo era un buon segno, che il draghetto sapesse chi voleva. Il ragazzo non ci poteva credere e lanciava sguardi supplichevoli ai suoi vicini. Scoppiando a ridere, questi lo spinsero verso il draghetto che avanzava impacciato. Non tenendosi più, il ragazzo corse ad inginocchiarsi nella sabbia di fronte al draghetto bronzeo e gli accarezzò la testa. Adesso le lacrime mi scorrevano sul volto, ma non ero l'unica persona tanto emozionata. Nessuno poteva biasimarmi per una tale ostentazione. Non mi ero resa conto di aver accumulato dentro di me tante lacrime. Piangere significava scaricare ogni genere di lievi afflizioni e tensioni. Era come risvegliarsi da un sogno lungo ed oscuro in una giornata di sole. Poi, attraverso il velo di lacrime, mentre Alessan mi stringeva forte la mano, vidi che un piccolo drago azzurro aveva trovato il suo compagno d'elezione. Al mormorio dei draghi adulti si aggiungevano i trilli lamentosi dei neonati e le esclamazioni eccitate dei cavalieri da poco designati e dei loro felici parenti sulle tribune. Improvvisamente non vi furono occhi che per l'uovo di Regina che stava violentemente oscillando. Quando le dita di Alessan strinsero le mie, mi resi conto che l'esito di quell'evento gli premeva ben più di quanto lui concedeva a se stesso di sperare: forse perché, nel suo vocabolario, desiderare, o amare, o tenere qualcosa significava perderla. Quell'intuizione mi fece
sapere che dovevo perseverare nella nostra relazione e mi fece capire quell'uomo che a tutti gli altri appariva poco espansivo ed indifferente. Poi l'uovo dondolò tre volte e si spaccò di netto in due; i frammenti caddero rivelando la piccola Regina che sembrò saltare fuori dei cocci. Un altro buon auspicio! Due ragazze vacillarono. Udii Alessan trattenere il respiro, ma io ero colma di una strana ed irresistibile certezza relativa alla ragazza che la piccola Regina avrebbe scelto. Rapidamente, e con un'agilità ben maggiore di quella esibita dal resto della covata, la Regina dorata e madida puntò diritta verso Oklina. Non me ne accorsi, quando diedi un balzo per avvinghiarmi ad Alessan, ma il suo braccio mi cinse, mentre Oklina sollevava i suoi occhi splendenti, cercando istintivamente B'lierion con lo sguardo. «Il suo nome è Hannath!», gridò Oklina con voce esultante e stupita, con un volto così radioso che la fece apparire davvero magnifica. «Oh, Alessan! Alessan! Alessan!», continuavo a ripetere, avvinghiandomi a lui, riluttante ad esprimere la gioia che mi tumultuava nel cuore, ma altrettanto timorosa di reprimerla, pur sapendo quanto doveva essere dolorosa per lui questa scena. «Lei sapeva che Oklina avrebbe avuto l'impressione,» disse con voce rotta, fissando il volto raggiante di Oklina. Capii che stava parlando di Moreta. «Lei lo sapeva!» Allora si strinse a me, così forte che non potevo respirare. Sentivo l'angoscia che aveva in corpo, i palpiti del suo cuore. Poi il suo petto si sollevò in un possente singhiozzo e lui nascose il suo volto contro la mia spalla, chinandosi su di me, accettando il sostegno che volentieri gli offrivo. Era questa la ragione per cui mi sentivo così grande? Restammo lì così solo per pochi istanti, quindi ci dividemmo; Alessan crollò sul seggio con lo sguardo perduto, oltre le Sabbie. Sapevo che non vedeva nulla, perché non fece alcun gesto quando B'lierion ed Oklina guardarono verso di noi. Feci loro cenno che li avremmo seguiti. Poi tutti gli altri se ne andarono. Sul terreno della Schiusa gravava un profondo silenzio, l'eccitazione che regnava fuori di esso, nella Conca, giungeva attutita dalle grandi mura di pietra. Finalmente Alessan risollevò il capo, scrutando al di là delle sabbie le tribune sul lato opposto. Il suo modo di fare era mutato in un modo così sottile che non ero in grado di spiegarmelo. Era come se si fosse lasciato andare, come forse aveva già fatto nel momento dell'Impressione di Oklina. Aveva smesso di soffrire, mentre lei cominciava una nuova vita? Poteva esserci anche per lui una vita nuova?
«Lì le ho restituito il suo abito per il Raduno.» La sua voce era un sussurro, dovevo tendere l'orecchio per udirla. «Mi ha dato speranza ed aiuto. Non potrò mai dimenticarla, Rill.» «Nessuno di noi dovrebbe dimenticarla, Alessan.» Non aveva pianto, anche se i suoi occhi erano arrossati ed il suo volto chiazzato. Mi asciugò le guance, come aveva spesso fatto Zio Munchaun. Non sorrideva, ma i suoi occhi e la sua bocca non apparivano più tanto impassibili. Poi si alzò in piedi e scese al riparo più in basso, tenendomi la mano. «Oggi per Oklina è un giorno di vita. Niente, neppure antichi dolori devono rovinarlo. Ed io, venerabile Rill, non ti chiederò quella coppa.» Avevamo cominciato a discendere le tribune e lui sorvegliava i propri passi, perciò non vide quanto vicina ero di nuovo alle lacrime per quest'altra gioia che mi serrava il petto. «C'è troppo da fare a Ruatha: abbiamo perduto Oklina, adesso lei è del Weyr. Non avrei potuto ostacolarla, come fece con me mio padre. Ora sono sollevato, perché non l'ho fatto. Mi sono dovuto recare al Weyr di Fort per capire che le vite finiscono e che le vite cominciano.» «Oh, Alessan.» Eravamo di nuovo sulla sabbia rovente e, poiché non dovevo conservare la mia dignità di fronte ad un pubblico di critici, afferrai la sua mano e cominciai a correre. Dovevo fare qualcosa di attivo per liberarmi da ciò che mi ribolliva dentro. «Mi bruciano i piedi e poi non dobbiamo tardare a porgere le nostre congratulazioni.» Emettendo un verso che somigliava ad una risata, Alessan mi seguì fuori del Terreno della Schiusa, verso i festeggiamenti già iniziati nella Conca del Weyr di Fort. Sopra di noi, stagliandosi contro il cielo luminoso, i draghi in folla stavano appollaiati lungo tutto il Bordo. Ed il sole li indorava. CAPITOLO XII 3.11.1553 Intervallo Adesso, mentre sto terminando questo racconto, sono passati cinque Giri meravigliosi in cui nessun Filo ha macchiato i nostri cieli. Rimangono poche tracce di ciò che ha sopportato Ruatha, poiché i tumuli sono stati spianati e le loro posizioni non si riconoscono, ricoperti come sono dall'erba
lussureggiante. Ed il cambiamento, il cambiamento dopo quei Fili implacabili, è giovato a tutti. Kamiana è Dama del Weyr a Fort e G'drel, un uomo geniale e risoluto originario di Telgar, è Comandante del Weyr. Il suo Dorianth si è involato con Pelianth per accoppiarsi con lei. In questi giorni non si sente parlare molto del Caposquadrone Sh'gall, ma G'drel e Kamiana ci vengono spesso a visitare, e G'drel stuzzica sempre Alessan per via del suo corridore, Squealer. È forse l'unico, oltre a Fergal, che osa farlo, anche se in generale con Alessan si può facilmente affrontare ogni argomento. Nabeth, di B'lierion, ha sconfitto tutti gli altri draghi bronzei di Pern, ottenendo di volare con Hannath di Oklina: non che nessuno dubitasse del risultato di quel volo. I due figli di lei adesso giocano con i nostri, poiché ho adempiuto per cinque volte al primo termine del mio originario contratto con Alessan: quattro robusti bambini e una bambina che abbiamo chiamato Moreta. Alessan non vuole che le gravidanze mi sfianchino, anche se io gli continuo a ripetere che sono la più felice donna incinta e che non ho mai sofferto quanto le altre di essere in tale condizione. Lui si concede addirittura di mostrarsi affettuoso con i propri figli. Dapprima pretese un'indifferenza totale, come se ogni tenerezza li potesse marchiare, predestinandoli al disastro. Con mia grande gioia sono incredibilmente sani, meno soggetti a contrarre le comuni malattie dell'infanzia di ogni altro bambino che vive nella Fortezza, solidamente immuni ai tagli, alle contusioni ed alle fratture che i bambini frequentemente si procurano. Nostra figlia Moreta - e Desdra mi ha detto in tutta sincerità che è la bambina più bella che lei abbia mia visto, per cui a descriverla così non è solo questa sua madre che la vizia - ha portato il sole che scioglie il gelo di suo padre. Non poteva fare a meno di adorarla, poiché lei sembra fiorire di letizia ogni volta che lo vede e la sua gioia è contagiosa. Alessan non sarà mai così spensierato, gioioso, allegro come lo descriveva Suriana, ma adesso è più incline al sorriso: ride alle atroci battute di Tuero e sorride delle stramberie e delle spacconate dei suoi figli. Applaude quando Squealer vince un'altra gara ed è un ospite gioviale quando giungono a Palazzo dei visitatori. Stiamo preparando il nostro primo Raduno, una cosa molto modesta, per quando la primavera avrà rivestito la terra di fiori e verde nuovo. Se, quando facciamo dei progetti, capita che un'ombra passi sul volto di Alessan, è qualcosa che ci si vede aspettare ed io non ci faccio caso. Se anche non mi ama come amava Suriana o Moreta, mi ama pur sempre
in una maniera che non avrebbe conosciuto con la sua prima moglie, selvaggia e tempestosa, e differente dalla sua profonda devozione per Moreta. Ci comprendiamo bene l'un l'altro, e spesso iniziamo contemporaneamente ad esprimere un'identica frase. Di certo siamo di opinioni concordi su tutto ciò che riguarda la Fortezza di Ruatha ed i nostri bambini. Apprezza pubblicamente i miei sforzi, anche se non può sapere che aver riconosciuto i miei sforzi di allora è il massimo complimento che potesse fare a me, alla ragazza che non fu mai lodata o ringraziata per via del suo Sangue. E pian piano, mentre diminuisce la sua paura di perdere di nuovo ciò che è tanto prezioso per lui, il suo rispetto si è esteso a tutti i campi della nostra vita in comune. Di notte, non è l'ombra di Suriana o il sogno di Moreta ciò che lui abbraccia ed ama: è Nerilka, sua moglie, la madre dei suoi figli e Signora della sua Fortezza. È giunto il momento di concludere un racconto che è iniziato con la tristezza e con le prove, per terminare con una felicità profonda e duratura. Possa essere così anche per gli altri.
Appendice 1 I Personaggi Fortezza di Fort Nerilka: figlia del Nobile Signore Tolocamp e di Dama Pendra I suoi fratelli e sorelle in ordine di nascita: Campen, Pendora (sposata), Mostar, Dorai, Theskin, Silma, Nerilka, Gallen, Jess, Peth, Amilla, Mercia & Merin (gemelli), Kista, Gabin, Mara, Nia e Lilla. Munchaun: zio preferito di Nerilka e fratello maggiore di Tolocamp. Sira: zia incaricata della Tessitura Lucil: zia Bambinaia Felim: capocuoco Barndy: Connestabile di Hold
Casmodian: Primo Arpista Theng: capo delle guardie Sim: servo personale di Nerilka Garben: un piccolo Signore, pretendente di Nerilka Anella: seconda moglie di Tolocamp Sedi degli Arpisti e dei Guaritori Maestro Guaritore Capiam Maestro Arpista Tirone Desdra: Guaritrice Itinerante che studia per diventare Maestro Maestro Fortine: Secondo di Capiam Maestro Brace: Secondo di Tirone Macabir: Guaritore nel campo di internamento Fortezza di High Hill Bestrum: piccolo Signore al confine tra Fort e Ruatha Gana: moglie di Bestrum Pol: allevatore di corridori Sal: suo fratello: Trelbin: guaritore di High Hill, ritenuto morto. Fortezza di Ruatha Alessan: da poco confermato Nobile Signore di Ruatha Oklina: la sua giovane sorella Tuero: Arpista Itinerante bloccato a Ruatha durante la peste Dag: Allevatore capo di Alessan Fergan: nipote di Dag Deefer: Signore Lord Leef: padre di Alessan, defunto Suriana: moglie di Alessan, defunta; era stata sorella di latte di Nerilka alla Fortezza delle Nebbie Dragonieri nei vari Weyr
Moreta: Dama del Weyr di Fort, cavalca Orlith Leri: Dama del Weyr in ritiro a Fort, cavalca Holth Falga: Dama del Weyr delle Terre Alte, cavalca Tamianth Bessera: Dama del Weyr delle Terre Alte, cavalca Odioth Kamiana: Dama del Weyr di Fort, cavalca Pelianth G'drel: Dragoniere del Weyr di Fort, bronzeo Dorianth B'lierion: Dragoniere del Weyr delle Terre Alte, bronzeo Nabeth Sh'gall: Comandante del Weyr di Fort, bronzeo Kadith M'tani: Comandante del Weyr di Telgan, bronzeo Hogarth S'peren: Dragoniere al Weyr di Fort, bronzeo Clioth K'ion: Dragoniere al Weyr di Fort, azzurro Rogeth M'barak: Dragoniere al Weyr di Fort, azzurro Arith Altri Ratoshigan: Nobile Signore, South Boll Balfor: Maestro Allevatore eletto, Fortezza di Keroon. Appendice 2 Le illustrazioni di quest'appendice si basano sulle mappe disegnate da Karen Wynn Fonstad per L'atlante di Pern (The Atlas of Pern, Del Rey/Ballantine Book, 1984).
FORT HOLD
INTERIOR OF FORT HOLD
RUATHA Gianni Pilo QUATTRO AUTORI DI CASA NOSTRA Molti di voi ci hanno ripetutamente scritto, chiedendoci come mai era già un po' di tempo che non presentavamo degli autori italiani in questa collana. Ricordavano infatti quelli che erano apparsi sul volume «Le Montagne Volanti» e i successivi pubblicati su «I Giorni della Resurrezione», che per la verità erano molto piaciuti. La risposta è semplice. Penso che se un appunto si possa fare alla no-
stra Casa Editrice, questo non sia certo quello di essere parca di proposte relative agli autori di fantascienza e fantasy italiani. Da anni ormai, questa degli autori italiani è una prerogativa della quale possiamo menare vanto a ragione tant'è che, proprio sulla nostra scia, anche altre Case Editrici stanno ora «battendo» quella via che noi abbiamo aperto da lunga data. E questo è un fatto indubbiamente positivo. Ma torniamo al motivo della «latitanza» da queste pagine degli autori di casa nostra in questo ultimissimo periodo. Ciò è stato dovuto alla pubblicazione degli autori italiani su altre nostre collane e, a parte l'antologia di Fantasia Eroica uscita nella collana Enciclopedia della Fantascienza col titolo «Eroi e Sortilegi», il nostro impegno riguardo alla narrativa indigena sì è estrinsecato in maniera assolutamente notevole nella collana de I Miti di Cthulhu, dove i racconti, i romanzi e i saggi dei nostri autori sono presenti in misura senza dubbio rilevante. Così come si era già verificato per la Fantasia Eroica, siamo ora stati i primi a proporre agli appassionati gli scritti dei nostri autori che si cimentano nel settore del Gotico, dell'Horror, della Ghost Story, e simili: infatti, nessun'altra pubblicazione di questo particolare settore della narrativa fantastica ha presentato a tutt'oggi autori italiani. E dire che i nostri scrittori si esprimono assai bene in questo campo... Ma questo è un altro discorso. Vediamo invece di tornare alla collana Il Libro d'Oro della Fantascienza e, nella fattispecie, agli autori che vi presentiamo come corollario al libro della McCaffrey che avete finito di leggere. I loro nomi vi sono già ampiamente noti e questo è già di per sé sinonimo di garanzia per una piacevole lettura. Comunque, vediamo di esaminarli velocemente uno alla volta. Donato Altomare è il primo ad aprire la quaterna con il racconto «Edga la Strega» del Ciclo del Cavaliere di Tau. Il fatto di avere il cognome che comincia per A è sempre fonte di onori e oneri nel presentarsi per primo al vaglio dei lettori. Ma Donato non ha certo delle preoccupazioni al riguardo considerati i molti consensi che ha sempre riscosso ogniqualvolta ha presentato uno dei suoi tantissimi scritti di fantascienza o fantasy. E anche in questo racconto non viene meno alla sua fama, sì che l'interesse e il piacere sono assicurati. A proposito del Ciclo del Cavaliere di Tau vi anticipiamo che provvederemo a proporvi tutti i racconti da lui scritti in questo contesto, sia nella Collana Enciclopedia della Fantascienza che nella collana I Libri di Fantasy. «Kwile» di Daniele Mansuino è il secondo racconto di questa breve se-
rie. Mansuino è balzato prepotentemente ai vertici delle preferenze degli appassionati dopo la pubblicazione del suo racconto «Jussania», presente nel volume «Magie e Stregoni» da noi edito nel 1985. Uno scritto questo che consiglio vivamente di leggere a chi non dovesse ancora averlo fatto, per la verve umoristica e la trovata su cui si basa, che lo rendono un piccolo gioiello nel suo genere. Miriam Poloniato la conoscete tutti. È un'autrice che privilegia nettamente la Fantasy e, nella fattispecie, la Fantasia Eroica. «La Signora del Lago Oscuro» presente in questo volume non si discosta dalla norma, e ci presenta un racconto delicato e soffuso di quei toni lievi - vorrei dire «in punta di penna» - che sono una caratteristica propria della nostra scrittrice di Padova. Buona anche la trama che si snoda secondo un filo avvincente. È un altro racconto di sicuro interesse. Chiude la quaterna Mariano Rampini, e solo per motivi di ordine alfabetico come ho avuto modo di dire quando presentavo Donato Altomare. Può sembrare che io pecchi un po' di parzialità nel presentarvi i racconti di Mariano, ma vi assicuro che, se eventualmente dovessi fare quest'impressione, ciò non è dovuto assolutamente alla lunga amicizia che mi lega a lui, sebbene ad una valutazione estremamente positiva dei suoi scritti che me lo fanno giudicare uno dei migliori scrittori di fantascienza e fantasy italiani dell'ultima generazione in assoluto. «Il Guardiano» è un racconto che parla da sé: non ha alcun bisogno d'imbonimenti o di orpelli. Come tutti i racconti di Mariano è barocco, deliziosamente barocco, robusto nella trama, curato stilisticamente, ben caratterizzato nei personaggi, eccetera, eccetera. Ma è meglio che mi fermi qui, perché diversamente. .. Signori, eccovi qui quattro nuove proposte italiane di racconti fantastici. Leggeteli, e sappiatemi poi dire se vi sono piaciuti o meno. Per parte mia, vi auguro di divertirvi e vi do appuntamento ad una prossima quaterna, o cinquina o... ma vediamo di non porre dei limiti alla provvidenza... Donato Altomare EDGA LA STREGA I Il cavaliere che la guardia vide scomparire quasi all'improvviso aveva un
qualcosa di soprannaturale. La grande aquila che maestosa gli volava accanto, lo stallone nero come l'inferno che montava e quel tremolio strano alle sue spalle, fecero correre alla mente dell'uomo un nome. E non ebbe più dubbi quando lo vide attraversare le massicce porte di quercia della città come fossero di fumo: quell'uomo era IL CAVALIERE DI TAU. «Tante leggende si raccontano, false o vere che siano. «La tua donna? Perché? «Tra mille e mille... proprio lei. Perché? «Era nata alla sesta ora del sesto giorno del sesto mese. «Chi non conosce i tre sei mesi del Maligno? «Ed un suo servo, larva d'essere umano, te la portò via, per obbedire ad una voce terrificante: «Una civetta, voglio, una capra ed una vergine nata alla sesta ora del sesto giorno del sesto mese.» «Da queste tre sventurate, una creatura immonda nascerà. «L'unica in grado di dare un figlio al Re dei Demoni, al Maligno. «Strane leggende sussurrano con timore la notte le sentinelle di guardia ai templi, e le ripetono ai loro figli perché il ricordo sia sempre vivo. «Ormai lei era nell'antro maledetto, nelle grinfie del mostro. «Ma, prima che l'immonda fusione avvenisse, prima che gli inferi ingoiassero la tua donna con un sortilegio, la sua anima staccasti dal corpo e rendesti vano ogni malvagio progetto. «Ora vaghi per il mondo alla ricerca del Barone Nero, di colui che conserva il corpo della tua donna e spera di rubarti la sua anima per offrirla al suo Oscuro Signore. «Dimmi, Cavaliere, dimmi, cosa provi ancora per lei? E dov'è l'anima che gelosamente conservi? «Davvero strane le leggende. Come strano è quel tremolio d'aria, quel qualcosa di opaco che segue le tue orme ovunque tu vada.» Renzo, Primo Cavaliere del Dio Tau, fermò il cavallo al centro della piazza e si guardò intorno. Benché non fosse notte inoltrata, non vi era in giro un'anima, ed il silenzio era assoluto? «Strano,» pensò «dove saranno tutti?» Sira, l'aquila, si era appollaiata su un tetto, e scrutava con la sua acutissima vista ogni angolo buio. Non capiva perché il suo padrone avesse so-
speso la caccia al Barone, ma doveva avere certo un motivo molto importante. Stava per scendere di sella e bussare a qualche porta per chiedere alcune informazioni, quando da un viottolo venne fuori uno strano gruppo di persone. Due uomini, uno alto, magro, dai capelli chiari, e l'altro piuttosto tarchiato e scuro di carnagione, avanzavano precedendo una ragazza. I lunghi capelli le incorniciavano il volto di un perfetto ovale. Benché non riuscisse per l'oscurità a distinguerne i lineamenti, Renzo fu certo che dovesse essere bellissima. Aveva una veste candida che nel chiarore lunare le dava un aspetto eburneo. Camminava lentamente con la fronte alta anche se il passo pareva tentato e riluttante. Ogni tanto si girava indietro e con un leggero grido di paura tornava a guardare avanti accelerando l'andatura. Poi girò lo sguardo verso di lui, ed un riflesso sul suo viso lo colpì. Pareva stesse piangendo. Ma, dietro i tre, qualcosa di muoveva pesantemente. Aveva un'andatura dondolante e trascinava i piedi. Doveva essere un uomo ben strano, pensò il cavaliere, ma la luce era troppo fioca e lui non ci badò. Spronò Mago verso il gruppo. Aveva bisogno di notizie e doveva pur chiederle a qualcuno. In quel mentre un uomo sbucò di corsa dallo stesso viottolo. Singhiozzava e urlava qualcosa. Renzo riuscì a capire solo «Figlia mia...» e tra lacrime e preghiere lo vide inginocchiarsi davanti al più alto dei due, quello biondo, e baciargli le mani e i piedi. Un calcio lo raggiunse in pieno volto facendolo ruzzolare per terra, ma lui si rialzò e continuò ad umiliarsi. Un brivido di sdegno percorse il cavaliere. Quale mai assurda sventura poteva spingere un padre così in basso? Ma il suo sdegno si trasformò in furore quando il biondo infastidito sguainò la spada e a sollevò per uccidere. «FERMO» «Da quale barbaro e vile paese vieni per poter uccidere un uomo inerme che ti supplica?» Il biondo lo guardò con stupore. Una lunga cicatrice gli solcava la guancia. Era tanto meravigliato da non riuscire a dire nulla. Fu il misero essere che giaceva per terra tra le lacrime a parlargli: «Straniero, sei pazzo o ubriaco? Non è sufficiente la mia morte a funestare questo maledetto giorno? Ci tieni così poco a vivere?» Poi, rivolto all'altro che reggeva ancora la spada a mezz'aria «Deve venire da molto lontano. Perdonalo.»
Lo sfregiato cambiò espressione e abbozzò un sorriso. Che gli si gelò sulle labbra. «Perdonare me?!» il Cavaliere di Tau non credeva alle proprie orecchie. «Per la testa di Ismel miserabile, cerco di salvarti la vita e tu chiedi pietà per me!» Il biondo non gli fece caso. Tornò a guardare l'uomo ai suoi piedi: «Fabbro, per l'ultima volta, scostati. Edga vuole tua figlia e noi gliela porteremo. Non puoi far nulla per impedircelo, lo sai molto bene. Vattene.» e sollevò nuovamente la spada. «No.» urlò la ragazza piangendo «Padre mio, la tua morte è inutile.» «Non mi sposterò di qui.» «Peggio per te.» E calò la spada di taglio verso il capo dello sventurato. Un rumore di acciaio contro acciaio fece sobbalzare tutti. Con un colpo violento Renzo gli fece volar via l'arma di mano, poi descrisse un piccolo arco e la punta acuminata si posò sulla gola dello sfregiato. «Di tutti gli esseri spregevoli che ho conosciuto e ucciso, tu sei il più immondo.» «Straniero, è la tua condanna a morte.» Il cavaliere non gli fece caso: «Lascia la ragazza. O ti uccido.» Il tono deciso non lasciava adito a dubbi. L'avrebbe fatto. Il biondo annuì. Afferrò la ragazza per un polso e rudemente gliela pose innanzi, poi, con un ghigno malevolo, si girò verso l'ombra indistinta che si dondolava poco lontano e disse: «Piccolo, uccidilo e, se vuoi, mangia la carcassa.» Solo allora vide bene il mostro. Con un urlo disumano di gioia l'essere agitò freneticamente i quattro arti superiori che terminavano con una grossa e affilatissima unghia, e balzò in avanti. Dalla bocca e dagli occhi fuoriusciva una sostanza verdastra schiumosa. Tutti si erano allontanati in cerca di riparo. Solo la ragazza era rimasta accanto al cavaliere impietrita dalla paura. Il mostro spalancò la bocca deforme mettendo in mostra una doppia fila di denti a punta uncinata. Era vicinissimo. Renzo si mosse con velocità incredibile, ed il tempo parve fermarsi. La lama della sua spada luccicò, e la testa della bestia saltò via dal collo. Un liquido verde marcio inondò il selciato ed un puzzo insopportabile impestò l'aria. La spada stava tornando nel fodero quando accadde l'impossibile. Senza
capo, il mostro continuò ad avanzare e, colando umore marcio, colpì con una zampa. Benché incredulo, Renzo non si fece cogliere di sorpresa. Colpì con forza l'arto che cercava il suo collo e lo tagliò. Troppo facile, pensò, troppo. Nell'aria saettarono contemporaneamente gli altri tre arti. Il cavaliere riuscì a deviarne due, ma il terzo lo colpì al fianco. Poi divenne una pozza di fango putrido. Con gli occhi sgranati, il biondo estrasse un pugnale e urlando si avventò contro Renzo. Lui lo attese senza scomporsi: come può chi ha sconfitto un mostro temere un essere umano? La spada fu estratta con una velocità che aveva del miracoloso e colpì. Il ghigno cattivo non scomparve quando l'avversario cadde col cuore spaccato. Solo i singhiozzi della fanciulla rompevano il silenzio mentre alcuni volti spettrali comparivano dietro le finestre delle case. Incredibile, qualcuno li aveva liberati da un incubo. L'altro uomo della scorta che aveva assistito a tutto senza muovere un solo passo, si girò di scatto per darsi alla fuga, ma rimase impietrito. Sira, ferma sulla piazza con le grandi ali spiegate lo fissava con occhi di fuoco. Allora cadde in ginocchio e chiese pietà. II «Il tuo cavallo galoppa sicuro, il tuo mantello schiaffeggia l'aria. «Un alito tremolante ti segue. «Perché hai lasciato il paese, perché il tuo sguardo è fisso su una casa lontana appollaiata su un picco come un gufo? «La è tuo fratello Locar, rapito dalla Strega. «Una volta ti salvò la vita, poi ancora ti mostrò una dea, la tua dea. «Dimmi, Cavaliere, perché corri impavido verso la morte? Per salvare il fratello della tua donna, colui che strinse con te un patto di sangue davanti al Fuoco Sacro di Ismel, oppure... oppure insegui te stesso? Se tu morissi, che ne sarebbe di quell'anima che conservi gelosamente? «Eppure tu cavalchi deciso, la tua mente non ha mai vacillato ed il tuo cuore ferito non ha mai tremato. Hai una sola cosa da fare. E la farai. «Ma bada. «Tre barriere dovrai superare, una più difficile dell'altra, e dietro ognu-
na una terribile sorpresa di attende. «Ma bada. «La magia non ti servirà. «Avrai la tua spada e la tua forza, avrai Sira e Mago, ma non il potere dell'anello perché l'insano sortilegio che protegge la Strega viene dal Maligno, e se la magia si opporrà alla magia, ci sarà l'annientamento. «La morte. «Bada, cavaliere, anche la tua morte.» La casa di Edga la Strega pareva una tarantola nera e minacciosa in agguato su uno spunto di roccia. A nulla erano valse le suppliche, a nulla le preghiere. Due uomini, gli stessi che avevano cercato di prendere la vergine, avevano portato Locar in quel luogo tenebroso. Il perché non lo capiva, anche se qualcosa gli diceva che lo scopo di quel rapimento lo riguardava direttamente. Lui cercava di non pensare, ma la mente fredda e logica gli diceva che in qualche modo stava assecondando un piano del suo grande nemico, il Barone Nero. «Prima o poi» pensò con rabbia «ti troverò. Inutile sarà questa tua continua fuga e, prima di riprendermi il corpo della mia amata, ti manderò per sempre al cospetto del tuo Immondo Signore.» La prima barriera la vide da lontano. Era un grande cespuglio di rovi. Renzo non attese un solo attimo: sguainò la spada e cominciò ad aprirsi un varco in quella vegetazione pericolosa. Man mano che procedeva verso l'interno, alle sue spalle i rami tagliati ricrescevano velocemente chiudendo il passaggio appena aperto. Troppo tardi si accorse di essere in trappola. Le punte aguzze delle spine lunghe come pugnali cominciarono a sfiorarlo rendendogli sempre più difficili i movimenti. D'un tratto si trovò letteralmente circondato. Persino sopra la sua testa il cielo ne era cosparso. Orientarsi era ormai impossibile. Sira non poteva aiutarlo benché il cavaliere sapesse che il suo grido stava cercando di aiutarlo. I fitti rami crescevano sempre di più e creavano un muro invalicabile, soffocante. Ma lui non voleva cedere alla più stupida delle trappole. Roteò vorticosamente la spada con la velocità di un ciclone, ed i rami tagliati, gocciolanti umore nero, presero ad arretrare davanti a tanta furia, consci che prima o poi l'uomo avrebbe ceduto alla stanchezza e loro avrebbero vinto. Poi, quando il velo rosso della stanchezza gli coprì gli occhi, quando anche le ginocchia di Mago stavano per piegarsi, un'ombra tremolante gli in-
dicò la strada passando tra le spine come se non esistessero. «Anche per questo, amore mio, ritroverò il tuo corpo a costo di strapparlo dalle fauci del Maligno.» Raddoppiò gli sforzi e, seguendo l'anima della sua donna, presto fu fuori da quell'inferno. Ma due occhi gialli lo fissavano. Una gigantesca tigre zannuta lo assalì senza dargli il tempo di riprendere fiato. Fu l'istinto di Mago a salvarlo. Il cavallo scattò di fianco, e fece andare a vuoto l'animale. Con felina eleganza la fiera si girò prima ancora di toccare terra. I fortissimi muscoli si contrassero e si tesero con violenza. Renzo però era pronto. La belva era ormai vicinissima e quasi sentì l'alito caldo delle sue fauci. Una lama brillò nell'aria notturna catturando un riflesso di luna e colpì. Un colpo senza scampo. La spada penetrò di taglio nella spalla dell'animale spezzandogli la spina dorsale. La violenza del colpo frenò il suo slancio a mezz'aria, e la carcassa senza vita della belva cadde pesantemente al suolo. Lo stallone nitrì al vento la vittoria, e con un balzo riprese il cammino verso la casa. La seconda barriera era un gran fossato putrido e puzzolente. Renzo era incerto se attraversarla a nuoto o meno, quando occhi rossi di bestie innominabili sbucarono a pelo d'acqua e lo fissarono feroci. Cosa fare? Il cavaliere tornò sui suoi passi e accarezzando Mago gli sussurrò: «Ora tocca a te.» Il cavallo si impennò nitrendo, e partì al galoppo affondando quasi con furia gli zoccoli acuminati nel terreno. Il fossato era largo più di venti passi. Il solo pensiero di saltarlo sarebbe stata una pazzia. Ma anche Mago era stato un dono di Tau. Con la grazia di una pantera che assale la preda, con la forza di un'orsa che difende i suoi piccoli, con l'agilità di una gazzella in fuga, il cavallo balzò nell'aria descrivendo un nero arcobaleno che la luce della luna calante faceva luccicare. Parve per lunghi istanti sospeso immobile nel cielo, con le zampe distese al massimo protese in un salto impossibile. Poi i suoi zoccoli si piantarono sulla terra brulla e, senza il minimo sbandamento, si fermò ridendo dell'ostacolo superato. Renzo lo accarezzò e lo attese.
Con urla di guerra, tre umanoidi che cavalcavano unicorni carnivori si avventarono contro di lui. Erano armati di una strana e micidiale arma: un'asta molto resistente con da entrambi i lati un'ascia bipenne che facevano vorticare velocemente al di sopra delle loro teste emettendo un sibilo ammonitore. Il cavaliere non li attese. Con la spada sguainata stretta con forza tra le dita, si lanciò contro di loro, felice di poter combattere come natura voleva. Disorientati da questo comportamento, gli assalitori ebbero un momento di incertezza. Per Renzo questo bastava. Ancora non avevano incrociato le armi, e già una testa era nella polvere. L'espressione feroce dell'essere rimase per sempre stampata nella morte unita all'incredulità. Ma gli altri due gli erano già addosso. Il clamore di acciaio contro acciaio risuonò sinistro nel silenzio sovrumano di quel luogo. Scintille rifulsero dopo colpi di inaudita potenza e persino il braccio di Renzo, avvezzo ad ogni sorta di assalto, risentiva dei colpi inferti con furia. La luna era calata ed il buio era divenuto fitto, ma due occhi fieri osservavano tutto dall'alto. E calarono sulla preda con ferocia. Il becco aguzzo penetrò nel collo dello sventurato mentre gli artigli acuminati gli laceravano la carne della schiena. L'aquila, con la sua forza fuori dal normale, sollevò dalla cavalcatura l'umanoide e, trasportatolo per un breve tratto, lo lasciò cadere nel fossato dove fauci spalancate di bestie mostruose fecero scempio dell'insperato pasto. Le urla di agonia del disgraziato furono agghiaccianti. I due unicorni rimasti senza cavaliere cercavano di colpire Renzo con la punta del corno e di mordere il cavallo, ma riuscivano solo a rimediare calci violenti seguiti da nitriti di scherno dello stallone. Il superstite raddoppiò la furia ma, per sua sfortuna, di fronte aveva il Mago-Guerriero di Tau. Cercò di entrare nella sua guardia con un insolito colpo di punta. Per un attimo credette di avercela fatta, ma Renzo si mosse con grazia all'ultimo momento quando l'avversario fu sufficientemente scoperto e gli squarciò lo stomaco. Il grido di Sira cantò la seconda vittoria. Quando oltrepassarono la terza barriera, non si accorsero di farlo. Fu un brivido d'orrore, fu un senso di panico che strinse il cuore di tutti.
Quella era la prova più pericolosa, era la morte. Per la prima volta in quella avventura, vide Mago indietreggiare impaurito. Sira gridò un avvertimento e, prima che il peggio accadesse, sollevò un tronco tra le zampe e lo scagliò, verso l'aria dietro di loro. Ci fu un lampo e un crepitio. La polvere del legno cadde lentamente per terra. Ora si doveva andare per forza avanti, e questo significava una sola cosa: ciò che li attendeva doveva essere assolutamente terribile. Poi lo vide. Camminava eretto sulle zampe posteriori. Ed era un incubo. No, quella cosa immonda non poteva essere creata dalla mente umana. Per quanto fosse grande la nera magia della strega, nessun essere vivente poteva partorire una simile mostruosità. Sentì puzza di demone, puzza del Maligno. Era enorme, viscido, mostruoso. Ruggì con rabbia, ed il suono parve quello della terra quando si spacca e la sua bocca spalancata una nera voragine senza fondo. Mago scalpitò spaventato. Sira vide il suo padrone in pericolo e si lanciò dall'alto mirando agli occhi penduli del mostro, ma non riuscì neanche a sfiorarlo. Con un colpo di zampa fu colpita e giacque nella polvere. L'essere non badava a lei. Avanzò di pochi passi facendo tremare la terra verso Renzo, che cercava di tener fermo lo stallone che fissava con occhi dilatati dalla paura l'enorme figura. Poi accadde qualcosa che per poco non si trasformò in tragedia. Il demone emise un urlo raccapricciante e, per il povero animale, fu troppo. Si impennò agitando davanti a sé le zampe anteriori in una inutile quanto violenta lotta contro la paura e disarcionò il cavaliere. Una fitta dolorosa attraversò la spalla sulla quale Renzo era pesantemente caduto, ma lui non ci badò. Fu subito in piedi con la spada sguainata, in tempo per evitare di essere schiacciato. Rotolò per terra, mentre una zampa si posava nel punto in ci era stato un solo attimo prima. Poi, moscerino contro un leone, colpì l'arto con forza. Solo allora capì di essere in pericolo mortale e che forse non avrebbe rivisto la luce del sole: la spada rimbalzò senza neanche sfiorare la dura pelle del Demone. La bocca enorme si spalancò nuovamente mostrando i denti lunghi quanto il braccio, ed un fetido alito di morte lo avvolse. Lui corse via come un ossesso cercando una posizione migliore per combattere, ma non appena si voltò certo ormai di morire, dalle fauci che lo sovrastavano venne fuori una sottile lingua appuntita, sottile per l'essere, ma pur sempre
spessa per Renzo, che fu afferrato all'altezza della vita. Lentamente ma inesorabilmente, quella specie di laccio robusto prese a trascinarlo verso le fauci spalancate. Tutto sarebbe finito in pochi attimi. Renzo oppose la forza di cento uomini, la forza che in caso di estrema necessità gli affluiva nel corpo in un disperato tentativo di sopravvivenza. Con la spada colpì la lingua, ma riuscì solo a scalfire la sua durissima superficie e la forza del colpo gli procurò una dolorosa fitta al braccio. E ormai era a pochi passi dalla fine. Ecco la morte. Poi qualcosa, disperatamente, si fece largo nella sua mente. Aveva colpito la lingua. La lama della sua spada non era stata respinta dalla barriera di energia. Sforzati uomo a riflettere in un simile frangente. Il segno di Tau non ti è stato concesso per nulla. Aveva colpito la lingua: anche se era troppo dura per essere tagliata, l'aveva colpita. Questo significava che vi era un varco nello schermo di energia. La bocca spalancata dell'essere mostruoso era un antro buio che lo sovrastava. E lui capì che aveva una sola cosa da fare. In un estremo, disperato tentativo, lanciò di punta la sua spada verso la gola spalancata. L'arma non incontrò resistenza e con un rumore sordo penetrò nella carne tenera della bocca. Con un urlo di dolore il mostro mollò la presa e ritirò la lingua. Le zampe anteriori si portarono al collo premendolo e segnandolo con gli artigli, mentre lamenti e urla di rabbia si confondevano. Renzo credette d'aver vinto. Solo per poco. Come fiori che si aprono in un prato, altre due bocche si spalancarono nel collo massiccio del mostro. E gli occhi guardarono intorno: occhi di rabbia alla sua ricerca. Ora era anche disarmato. Non poteva usare la magia e quindi era finito. Il suo pensiero corse all'amata in un ultimo estremo saluto. Piuttosto che finire nelle fauci della bestia, si sarebbe lanciato contro la barriera e tutti i suoi dolori sarebbero cessati in un attimo. Ma in quel mentre una voce lontana possente, colma di sdegno, gli attraversò la mente. «TI ARRENDI COSI FACILMENTE, FIGLIO MIO?»
Il rimprovero lo fece arrossire violentemente. «Padre,» pensò «la tua magia mi è vietata e non ho più armi.» «FIGLIO, COMMETTI UN ERRORE: OGNI MAGIA È VIETATA.» Come un raggio di luce che illumina all'improvviso un luogo buio, come il riflesso del metallo negli occhi che per un istante abbaglia, così la mente del cavaliere rifulse. C'era un sistema. Occorreva forza, agilità ed un immenso coraggio. Occorreva il coraggio della disperazione. Velocemente, cominciò a correre indietro tornando sui suoi passi. La barriera era vicinissima, ne sentiva il pizzicorio dell'energia. Il Demone l'aveva visto. E lo caricò. Una montagna di furia bestiale si avventò contro di lui. Dinanzi un mostro, alle spalle un confine insormontabile. Mai la morte fu più vicina. Poi un suono gli scaldò il cuore con la fiamma della speranza; qualcuno aveva sentito il suo muto richiamo. E veloce come un fulmine e nero come la pece, un magnifico stallone gli passò davanti all'ultimo istante. Lui non sbagliò. Con le possenti mani afferrò il collo del cavallo, e lo montò togliendosi dalla strada del mostro. Non c'era più il tempo di fermarsi. Come una valanga che scende dalle innevate vette, la mole gigantesca travolse alberi e macigni lasciando un solco profondo nel terreno, poi urtò la barriera. Magia contro magia. L'annientamento totale. La notte si illuminò. Un piccolo ma luminosissimo sole esplose in un fantasmagorico crepitio d'energia. Poi un mare di cenere ricoprì la terra bruciata e tra il suo grigiore l'elsa della spada mandò un luccichio perlaceo. III «Hai rimesso la spada gemmata nel fodero, hai accarezzato il collo di Mago bagnando la tua mano con le perle nere del suo sudore, hai raccolto Sira e il calore del tuo corpo le ha ridato vita. «E credi che, infine, la vittoria è tua. «Stolto.
«Così pensasti quando rovesciasti il braciere di Mogg, il varco aperto dal Barone negli inferi. «Stolto. «Quello che ti aspetta è peggio della morte stessa. «Benvenuto, Cavaliere.» La voce era acuta, fastidiosa. «È la prima volta che un uomo riesce a superare le mie barriere senza il mio consenso, ma mi stavo annoiando e il tuo arrivo è un diversivo allettante.» Renzo guardò intorno a sé il nero antro della Strega. Non c'era assolutamente nessuno. Vecchi mobili polverosi; gigantesche ragnatele e insetti d'ogni genere, davano un aspetto estremamente scostante all'ambiente. In un angolo, una sedia a dondolo vuota improvvisamente prese a muoversi con uno scricchiolio di protesta come mossa da un fantasma. La spada volò nell'aria e trapassò la spalliera. Una risata accolse il gesto. «Sei ingenuo, ragazzo, mi fai proprio divertire.» La spada gli tornò in pugno. Una porta sbatté, ed una vecchia brocca cadde fragorosamente per terra esplodendo in mille pezzi. Questa volta Renzo vorticò la spada e colpì il nulla in direzione opposta ai movimenti. Una nuova risata parve scuotere l'intero edificio. «No, non ci siamo: meglio di prima, ma hai ancora sbagliato. Cerca di capire, sciocco, come puoi pensare che io sia una cosa sola, un sol posto? Io sono una del tutto. Rifletti, bambino.» Per la prima volta da quando era entrato, il cavaliere parlò: «Strega, non è te che cerco ma il mio amico che tu hai rapito. Dammelo e andrò via senza farti nulla.» La risata divenne convulsa: «Tu... tu... non mi farai nulla...» poi si controllò «Pazzo, due volte pazzo se pensi di farmi paura. Non capisci? Sono io che non ti lascerò andare.» E uno sgabello volò nell'aria colpendo Renzo ad un fianco. Il colpo fu forte, ma Renzo restò ben saldo sulle gambe. «È tutto qui quello che sai fare?» «No, stupido, no: però ora è presto. Potrei ucciderti in un solo istante, ma il divertimento finirebbe.» E con tono maligno aggiunse:
«Cercavi il tuo amico? Eccolo.» Urlando come un ossesso, Locar venne fuori da quella che pareva una parete compatta. Impugnava una grossa scimitarra con entrambe le mani e le sue intenzioni erano evidenti. Renzo esclamò incredulo: «Fratello mio cosa fai?» Ma Locar non l'ascoltava e l'assalì. Con una semplice finta di corpo, il cavaliere di Tau fece andare a vuoto il colpo. Non aveva alcuna intenzione di usare le armi contro l'amico, ma questi roteò la scimitarra a mezz'altezza per colpirlo al fianco e lo costrinse a sguainare la spada per parare il colpo. Ci riprovò, ma finì a gambe all'aria. «Cosa ti succede? Non mi riconosci? Sono venuto per... Fu tutto inutile. Come una belva assetata di sangue, Locar colpì una, due, tre volte, sempre con maggiore forza, costringendo Renzo ad indietreggiare mentre il cavaliere cercava il perché. E lo trovò.» Gli occhi sbarrati dell'amico parevano ciechi. Era come se non lo vedesse: la sua mente era posseduta. «Bravo, cavaliere,» si intromise la Strega con tono cattivo «il tuo compagno ha il cervello un tantino annebbiato.» E rise «Scusa se ha dimenticato di dirtelo. Spero che tu non me ne voglia.» Un colpo gli sfiorò il mantello. «In ogni caso,» continuò Edga «mi sei simpatico, e voglio dirti una cosa. C'è un modo, uno solo, per farlo rinsavire. Deve vedere la morte ad un passo. Ineluttabile. Tornerà in sé quando starà per morire, giusto in tempo per vedere il suo migliore amico che l'uccide.» «Del resto,» e il tono della voce divenne ironico «è meglio ucciderlo che farlo rimanere in quello stato per sempre. Giusto, cavaliere?» e con tono gioioso «Edga sei proprio grande!» Locar lo attaccava con sempre maggior violenza e Renzo si difendeva soltanto, ma una morsa gelida gli aveva stretto il cuore: l'unico modo di liberarlo era ucciderlo. Maledizione. Sperò che l'anello gli venisse in aiuto, ma l'amuleto magico restò spento. Questo significava che doveva trovare lui una soluzione. Con un colpo deciso fece schizzare di mano lo spadone all'avversario e, fingendo decisione, calò un fendente verso il capo dell'amico. Si fermò a pochi centimetri. Non accadde nulla. «Non cercare di barare, pulcino; è un tentativo sciocco e sterile. Forse non hai ben capito, ma la morte non può essere ingannata. Solo quando sa-
rà certa di avere la sua anima, lascerà la sua mente.» Locar aveva ripreso l'arma e lo assaliva di nuovo. Con un balzo, Renzo uscì dall'altro della Strega; quello spazio ristretto gli impediva una difesa continua, ma intanto il suo cervello lavorava alla ricerca di una via di scampo per entrambi. Non che temesse per la sua vita, ma essere costretto ad uccidere l'amico significava qualcosa peggiore della morte stessa. Il sole era già alto ma i suoi raggi non riuscivano a disperdere la fitta nebbia che circondava la casa e copriva quel suolo malsano. Doveva fare qualcosa, doveva. Ma cosa? Poi uno spiraglio si aprì alla sua speranza. Il cavaliere di Tau parò un ennesimo colpo infertogli con violenza e la spada gli sfuggì di mano. Una cosa simile non poteva accadere, a meno che... Il viso feroce di Locar si volse verso la mano nuda dell'avversario. Un diabolico sorriso deformò il volto contratto per la furia. Afferrò più saldamente con le due mani l'elsa della spada e la sollevò in alto gettandosi con un urlo sull'avversario. Come aveva fatto più volte, con uno scatto veloce ed agile Renzo evitò l'affilatissima lama. Alle sue spalle c'era il baratro. Nella battaglia, indietreggiando in maniera opportuna, lo aveva portato sul ciglio del burrone. Locar restò per un attimo in bilico. Aveva gettato via la scimitarra, e con le mani cercava di afferrare nell'aria un appiglio inesistente. Poi cadde. Ma, prima ancora di sparire oltre l'orlo dell'abisso, prima di iniziare il suo breve volo di morte, riuscì a voltarsi. Il suo sguardo fu un dura accusa. Quelli erano gli occhi del suo amico, quelli erano gli occhi increduli di un uomo che capiva solo di morire per mano di un suo fratello. La morte atroce si annunciò con un urlo che echeggiò nella valle. Come una scura saetta che fende l'aria, invisibile per la velocità, come un essere nato dal cielo e dal vento di bufera, Sira sfrecciò verso il basso. Doveva fare in fretta. L'atavico istinto non poteva sbagliare. Locar fu afferrato al volo dagli artigli d'acciaio dell'aquila che miracolosamente non incisero la carne. Fu afferrato come si afferra un aquilotto inesperto, con delicatezza, e depositato sulla piazza del villaggio sottostante tra la gente che sbigottita osservava la battaglia. Poi Sira si librò maestosa nel cielo, felice d'aver letto sul viso del suo
padrone un muto ringraziamento. «Strega, come vedi ho vinto.» Una palla infuocata balzò fuori dalla casa. Renzo sollevò il lembo del mantello e la fece svanire in uno sbuffo di fumo. «Strega, prima di ucciderti voglio sapere due cose. Perché hai rapito Locar e perché cerchi la vergine della taverna.» Una miriade di topi affamati vennero fuori da ogni apertura della casa e si avventarono contro il cavaliere, ma questi, col dito teso, descrisse un cerchio intorno a sé, ed il fuoco mistico scaturì dal terreno. L'orda disgustosa non si arrestò in tempo e, prima di fuggire spaventati, molti finirono tra le fiamme dove morirono contorcendosi nel dolore. Un urlo di rabbia fendé l'aria, poi la voce acuta della strega si fece udire colma di furore. «Solo un pericolo mortale per un tuo amico poteva portare qui te. Cerco una vergine nata alla sesta ora del sesto giorno del sesto mese. Lei e la tua morte sono molto bramate da chi ben sai. Ma saper questo non ti servirà a nulla. E che tu sia ingoiato dal nero dell'inferno.» La terra tremò e, sotto i piedi di Renzo, il terreno si spaccò mostrando un baratro profondo e terrificante. Ma lui rimase fermo come sorretto da un invisibile ponte di cristallo, e il furore prese il posto della calma. «Anche tu» gridò con rabbia «anche tu serva del Barone e del Maligno. I confini del male si allargano sempre di più. Padre mio, Signore di Tau, concedimi la tua benevolenza. Oggi, per tua volontà, mozzerò una testa di quella bestia immonda.» Numerosi corvi neri apparvero dal nulla e provarono ad assalire dall'alto Renzo, ma Sira piombò tra i volatili col becco uncinato e gli artigli protesi in avanti trasformando i cacciatori in prede. La battaglia fu breve. «Tu non sei degna di vivere. Mi hai insultato in vari modi, ma io cercavo Locar: la sua vita mi premeva più di ogni altra cosa. Ora lui è al sicuro al contrario di te, strega. Hai commesso l'errore di dirmi dove sei. A nulla vale il tuo sciocco camuffamento.» Estrasse la spada e pregò: «Tau, dammi il Potere.» La lama cominciò a luccicare, poi brillò come la folgore e si allungò all'infinito. Divenne una lunga e sottile striscia di fuoco mistico.
Una fantastica arma di morte. «Hai detto che non sei la parte, ma il tutto. Hai detto dove sei, o meglio, quello che sei.» Descrisse un semicerchio con la spada e la calò sulla casa spaccandola in due. Si udì un urlo agghiacciante di morte e, mentre metà casa cadeva nel crepaccio, essa prese a dissolversi... Scomparvero porte, finestre, svanirono le pareti e il tetto andò in fumo. Lentamente si trasformò nella figura della strega. Spaccata in due. Tutti i suoi incantesimi scomparvero. Il sole vinse la sua battaglia, dissolse la nebbia e spinse i suoi raggi fin sulla nuda pietra dove il sangue nero di strega si trasformò in un orrido serpente che morì contorcendosi tra atroci sofferenze. Daniele Mansuino KWILE «Non andare, Signore» disse Twana. «Devo andare» mormorò Evoliorak, carezzandole il volto. «Non andare. La tigre bianca non è come le altre: è kwile. Manwenatar dice che poche ne sono rimaste, di immani moltitudini che popolavano Althena nei giorni lontani: e quelle poche hanno instillato in sé la quintessenza della crudeltà della loro specie, dell'astuzia, e magici poteri.» «Sono fandonie.» Allontanò da sé la mano di Twana; si levò bruscamente, uscì dalla capanna. Appena fuori, lo sguardo di Manwenatar si posò su di lui, come se da lungo tempo lo avesse atteso. «Parti, Evoliorak?» «È così,» brontolò il cacciatore di malavoglia. «Vuoi andare ad uccidere quella tigre?» «Devo andare!» Proruppe con violenza. «È il mio mestiere, Manwenatar, ed è più che un mestiere: è il mio preciso dovere verso voi tutti. E, anche se volessi dimenticarlo, ci penserebbero i pastori dell'altopiano a rammentarmelo, non meno i tre o quattro volte alla settimana: quella tigre è un flagello.» «Ascolta, figlio,» lo stregone si era avvicinato; posò una mano rugosa sul suo braccio, «finora ho sperato che Twana riuscisse a dissuaderti: ma visto che lei non c'è riuscita, penso proprio che spetti a me aprirti gli occhi su quello a cui vai incontro.»
«Io vi ringrazio tutti quanti,» lo interruppe Evoliorak «per come vi prendete carico dei miei problemi e, per quanto dimostrate di aver cara la mia vita: ma io vorrei ricordarti, Manwenatar, che da oltre dieci anni sono il Cacciatore di questo villaggio, come prima di me lo fu mio padre - e non si contano le tigri che ho già ammazzato, come pure i lupi e i leoni; e se pure, come a tutti i cacciatori, mi è già accaduto di trovare una belva più furba di me, sono sempre riuscito almeno a ferirla - e dopo, o vecchio» qui gli occhi di Evoliorak brillarono d'orgoglio «non c'è n'è stata mai una, neppure una, che io non abbia raggiunto e strangolato con queste mani: perché anch'io sono kwile.» «Lo so.» Le dita tremanti del vecchio stregone accarezzarono dal basso verso l'alto il bronzeo torace di Evoliorak: innumerevoli striature di pelle più chiara lo percorrevano in ogni direzione, vestigia di poderose ferite da zanna e artiglio fermamente cicatrizzate. «Lo so, figlio: a buon diritto puoi dirti kwile, ed esserne fiero. Nelle tue vene infatti corre il sangue del Primo Cacciatore e, insieme con la vita, tuo padre soffiò in te il suo potere; così che nessuna belva può vincerti nel corpo a corpo, neppure quelle capaci di schiantare un bue al primo colpo d'artiglio; ma questa tigre, Evoliorak, è una tigre bianca.» «Non vedo in questo proprio niente di straordinario: tutte le tigri d'inverno sono bianche.» «È bianca anche d'estate, questa: e ha gli occhi rossi.» «Ci sono conigli bianchi con gli occhi rossi. Ci sono scoiattoli bianchi con gli occhi rossi. Ci sono anche cervi bianchi con gli occhi rossi, ogni tanto: intere cucciolate. E normalmente sono più deboli dei cervi normali: stanno malfermi sulle gambe, come malati. Sono facili da uccidere.» «Questo caso è diverso» spiegò lo stregone. «Le tigri bianche costituiscono una razza a parte. Vivono tra di loro, si accoppiano tra di loro, fanno figli: non vogliono avere niente a che fare con le tigri normali. Sono più astute... ma dovrei dire erano: a migliaia dovettero ucciderne i nostri antenati, e la razza scomparve. L'ultima tigre bianca delle montagne fu vista da tuo nonno alle pendici del Megara, all'incirca settanta soli or sono, e lo stregone di allora gli proibì severamente di ucciderla.» «Ma perché?» domandò Evoliorak sconcertato. «Ma non capisci? È l'ultima della sua razza: non ha nessuno con cui dividere il kwile. Il kwile corre in lei liberamente: lei è un kwile. Immagina, o Evoliorak, di essere l'ultimo Cacciatore sulla terra: ti alzi un bel giorno, e scopri che tutte le virtù, le esperienze, le capacità, l'istinto, il fiuto di tutti i
Cacciatori di tutti i tempi si sono radunati nella tua persona. Puoi immaginarlo?» «Penso di sì» mormorò Evoliorak, sinceramente colpito. «Potrei fiutare un alce a quattro leghe.» «Non è quello il punto» rispose Manwenatar. Fece una pausa, come in cerca delle parole giuste. «Incomprensibili all'uomo» disse poi «sono le vie del kwile. Tu vedi un gatto, e pensi: il kwile dei gatti è piccolo, morbido e fa le fusa. Niente di più errato: questo è soltanto ciò che il kwile dei gatti lascia vedere di sé, magari perché gli piace farsi accarezzare e starsene acciambellato vicino al fuoco; ma per quanto ne sappiamo, il kwile dei gatti può anche essere grande come una montagna e parlare con voce di tuono "e forse, o Evoliorak, il kwile dei gatti è davvero fatto così, e davvero si trova in qualche angolo di questo mondo."» «Così, viceversa,» proseguì ancora lo stregone, «il kwile del più potente sovrano del mondo, sfolgorante nel suo immenso potere, può avere forma di topo: e può strisciare spaurito lungo i muri finché un giorno qualunque un gatto qualunque lo divorerà, e da quell'istante il potere del sovrano si sgretolerà ed il suo impero cadrà: e, per tutti i secoli a venire, eserciti di storici si strizzeranno il cervello per capire come mai quell'impero è caduto; e mai, neppure per un attimo, sospetteranno che tutto è opera di un gatto che ha divorato un topolino nella penombra. Mi hai capito, o Cacciatore?» Gli occhi dello stregone mandavano lampi «Tu non sai niente del kwile; tu non sai niente neppure del tuo stesso kwile, come io non so niente del mio. Conosci il tuo kwile, Evoliorak? Pensaci bene.» «Non lo conosco,» disse piano il cacciatore. «Esattamente,» concluse Manwenatar, «e per le tigri è lo stesso. Neppure noi sappiamo niente del kwile di quella tigre: può essere ogni cosa. Potrebbe volare, ingigantire, restringersi, trasformarsi; e in questi casi non riusciresti di certo ad ucciderla, e molto probabilmente pagheresti la tua audacia con la vita; oppure la uccideresti, e la sua morte potrebbe causare una tempesta, un terremoto... la fine del mondo. Chi può dire che insieme all'ultima tigre bianca il mondo intero non sia destinato a sparire?» «Può essere l'ultima.» «Può non esserlo: se un giorno la vedrai, guarda le sue orecchie. Quella che vide tuo nonno ne aveva una sola: se questa ne ha due, può darsi bene che qualche famiglia di tigri bianche sopravviva stentamente sulle montagne... nel qual caso saranno bestie normali, o quasi. Ma se quella è la stes-
sa tigre bianca che tuo nonno vide, io ti chiedo: hai mai sentito che una tigre viva più di settant'anni? Solo una tigre kwile può vivere tanto.» «Bene, vedremo» rispose laconico il Cacciatore «perché, malgrado quel che mi hai detto, Manwenatar, io cercherò quella tigre e la ucciderò.» «Anche se questo,» Manwenatar era impallidito, «potesse costare la tua stessa vita?» «Io non ho paura.» «Anche se questo potesse causare la fine del mondo?» «Ogni cosa ha il suo fine: ed anche in questo caso, non farei altro che adempiere con la mia mano al volere del fato.» «Sia dunque il volere del fato,» mormorò lo stregone, mortalmente pallido; e, volte le spalle di scatto, si allontanò. Partì il giorno seguente di buon'ora, a cavallo, ed in un paio di giorni giunse alle baite dei pastori che avevano richiesto il suo aiuto: uomini semplici ed ospitali, che lo conoscevano fin da ragazzo, quando percorreva le montagne in compagnia di suo padre. Gli offrivano in dono carne, vino e formaggi, e gli narrarono che proprio la notte prima la tigre bianca era ridiscesa dalle montagne, e aveva compiuto indisturbata una grande strage senza che gli uomini - armati di soli bastoni - osassero affrontarla. Senza stare a sentire le proteste di Twana, Evoliorak era partito dal villaggio senza arco e frecce, portandosi dietro in apparenza solo la spada: ma in fondo alla sacca teneva in serbo una punta di lancia munita di arpione, che sempre portava con sé quando andava a caccia in previsione di occasioni di questo genere: perché era kwile, e potentissimi incantesimi si annidavano nella sua selce affilata. La prima mattina alle baite, venne spesa alla ricerca di una pertica adatta, e il pomeriggio ad intagliarne un'estremità per adattarvi la punta; la sera a scorticarla, eliminando con cura ogni più piccola asperità dalla superficie, poiché Evoliorak sapeva bene che quando la mano si stringe intorno alla lancia, la minima protuberanza può essere fonte di microscopiche contrazioni muscolari che sviano il colpo; e ancora, in caso di lancio, le asperità fanno fischiare il giavellotto mentre saetta nell'aria, mettendo in guardia la preda prima del tempo e consentendole di schivare e contrattaccare; cosicché, in ultima analisi, pochi centimetri in più o in meno di corteccia di faggio possono significare per il Cacciatore vita o morte. Nessuno osava avvicinare Evoliorak mentre lisciava la lancia, mormorando con voce gutturale e cavernosa le misteriose parole del suo kwile; perché i pastori sapevano bene che parlava agli spiriti e questi gli rispon-
devano, anche se la gente comune non poteva udirli. Due notti Evoliorak passò in agguato in vicinanza dei recinti, e la tigre non venne, così che già il Cacciatore cominciava a temere che la belva avesse sentito la sua presenza e cambiato zona: ma verso la quarta ora della terza notte, tutte le pecore si misero a belare insieme come in preda alla follia, accatastandosi selvaggiamente in un angolo del recinto; e, molto più delle bestie ammazzate dalla tigre per sfamarsi, era di nocumento ai pastori il numero di pecore che restavano soffocate o sciancate in questi parapiglia; perché nessuna belva fa più vittime della paura, e questo vale tanto per le bestie quanto per gli uomini. Allora Evoliorak, restando immobile, guardò nella direzione opposta al mucchio di pecore, e nell'arco di pochi attimi vide scintillare gli occhi rossi della tigre albina, simili a due grandi palle color del fuoco. Il cacciatore cercò di aguzzare lo sguardo, per individuare la sagoma bianca che doveva essere ben visibile nell'oscurità; ma non fece a tempo. Si era aspettato che la tigre balzasse nel recinto, per avventarsi direttamente sugli animali; invece vi trottò rapidamente intorno, tenendosi bene al largo dalla baita e con gli occhi sempre fissi su di essa e, ciò facendo, si allontanò di una ventina di metri dal nascondiglio dove Evoliorak si trovava. Allora le pecore, vedendo la tigre avvicinarsi loro, fuggirono tutte a precipizio verso l'angolo opposto; ma due di esse si trascinarono al suolo, zoppicanti e tremanti. L'astuta belva passò d'un balzo la palizzata, afferrò tra le fauci la più vicina e fece per fuggire; Evoliorak, vedendosi quasi beffato, con un balzo fu allo scoperto e, da grande distanza, decise di tentare l'impossibile lancio: quindi, senza il tempo di bilanciare l'asta né di prender l'abbrivio, d'istinto, quasi alla cieca, mirò e vibrò il colpo. Come un baleno, la pesante asta tracciò un fugace arco sopra il recinto; e subito, un urlo annunciò al Cacciatore di aver colpito. Senza mollare la preda, la tigre bianca balzò fuori dal recinto e, trascinandosi dietro pecora e lancia, si diede alla fuga. Poi, fuggendo in linea retta, saettò rapidamente davanti alla porta della baita, ed un pastore ebbe il tempo di scagliarle un forcone; ma il grosso arnese rimbalzò sul fianco della belva che, con un ringhio di rabbia, sparì in pochi salti. Allora il Cacciatore, armato di spada, ed i pastori muniti di forche e fiaccole, seguirono per un pezzo la traccia lasciata dalla tigre e, dall'abbondanza di sangue vischioso che bagnava i pascoli, Evoliorak capì che il suo fortunato lancio aveva leso la belva in un punto vitale. Non erano ancora fuori dalla zona dei pascoli quando trovarono la car-
cassa della pecora, che la tigre aveva abbandonato completamente intatta: poco dopo giunsero ai piedi delle prime rocce e, oltre questo punto, i pastori non osarono proseguire e se ne tornarono a casa. Evoliorak aspettò le prime luci dell'alba, poi riprese da solo l'inseguimento. Sotto una roccia trovò una gran pozza di sangue ancora fumante, segno che la tigre vi aveva sostato da poco: da quel punto tirò avanti con grandissima precauzione, stringendo in pugno nella destra la spada sguainata. Ancora un paio di svolte, ed ecco la tigre. Dava le terga al cacciatore che si avanzava, nella posa indolente di un gatto che dorme sul fianco, a zampe appaiate. Il giavellotto di Evoliorak era penetrato profondamente nel lato destro del collo e, in occasione della sosta, la tigre aveva cercato di strapparlo da sé con le zampe anteriori col risultato che l'arpione, rovistando alla cieca nella carne, aveva reciso di un colpo la giugulare. Lo squarcio nel collo era una piccola bocca, rossa e sensuale. Evoliorak pensò che nessuna tigre - poco importa se bianca o gialla, normale o kwile - avrebbe mai potuto sopravvivere a quel bagno di sangue; e ciò malgrado si avvicinò con precauzione, poiché sapeva di quali trucchi sono capaci le belve quando sono allo stremo: e non era da escludersi che questa tigre, dispettosa com'era, tenesse in serbo le ultime forze per saltargli addosso. Era una bestia eccezionale, senza alcun dubbio: Evoliorak non ne aveva mai vista una simile. Doveva essere molto vecchia, anche se è difficile comprendere a colpo d'occhio l'età di una tigre albina, perché il pelame rimane sempre bianco e folto e le striature non sbiadiscono mai. Aveva ruvidi ciuffi canuti sotto il mento e sotto l'unico orecchio. Ed ecco, l'immane muso tondo e piatto si alzò con lentezza; e gli occhi rossi della tigre fissarono l'uomo, che con voce umana parlò: «Incomprensibili e misteriose, o Cacciatore, sono le vie del kwile. Il kwile di un gatto può essere grande come una montagna; il kwile del più potente sovrano del mondo può avere forme di un timido topo e strisciare negli angoli. Ma il kwile di uno stregone...» La frase restò sospesa. Il muso ricadde, le fauci spalancate, la lingua penzoloni; e più che rabbia, sofferenza, ferocia o altro, la sua espressione suggeriva un imbronciato rancore. Sorgeva il sole già al villaggio, e Twana per prima se ne uscì dalla tenda per andare alla fonte. Ma appena fuori, lasciò cadere l'otre e lanciò un grido: Manwenatar giaceva esanime. Lo squarcio sul collo pareva proprio una
piccola bocca, rossa e sensuale. Miriam Poloniato LA SIGNORA DEL LAGO OSCURO Ancora il sogno. O forse era meglio chiamarlo incubo, si disse Ranghinoor risvegliandosi fradicio di sudore. Lui si trovava nel consueto lago, sulla sponda di nere, immote acque, e attendeva che la costa apparisse. Il tempo pareva fermo nel silenzio assoluto e l'ambiente circostante era annullato dalla coltre di densa, pesante nebbia. Solo le acque del lago erano visibili. Poi lentamente, tanto lentamente da strappargli un urlo silenzioso, le acque al centro del lago accennarono a muoversi. Si increspavano, dapprima, poi si aprivano in cerchi sempre più larghi, sempre più vicini, e infine, quando la tensione del giovane guerriero raggiungeva il punto estremo, lei appariva. Pur nell'oscurità e nella distanza (perché lei stava sempre al centro del lago) egli la vedeva distintamente. Vedeva le sue forme sinuose, giovani, appaganti, che si protendevano verso di lui con gesto d'abbandono e di supplica; vedeva il suo capo reclinato in un gesto di dolore e sconforto; e vedeva i lunghissimi capelli neri che in ciocche bagnate le ricoprivano interamente il volto nascondendolo. Dalla visione spirava l'invito rivolto al giovane di liberarla e ridarle la vita. Ranghinoor sentiva l'assoluta necessità di gettarsi nel lago obbedendo a quell'invito, ma non poteva muoversi. Era ancorato al suolo melmoso e, nonostante la forte spinta interiore verso quella donna, qualcosa in lui, o forse al di fuori di lui, gridava: non farlo, è malvagia. Ma lui non voleva ascoltare quella voce, e stava per vincere l'immobilità e gettarsi nel lago, quando la donna alzava il capo con un moto di trionfo e allora il giovane agghiacciato si bloccava: essa non aveva volto, ma una maschera di carne priva d'occhi, bocca, naso. Era a questo punto del sogno che Ranghinoor si risvegliava, e anche questa volta si chiese quale significato potesse avere per lui quest'incubo ricorrente. Avrebbe potuto parlare a Niada la Sibilla, colei che interpretava i sogni, ma era trattenuto da una strana riluttanza che non sapeva spiegarsi. Ora il giovane attese il sorgere del giorno in preda ad un malessere che
gli impediva di gustare la sua grande gioia del giorno precedente. Era stato allora che Leif, Signore dei Raianili, gli aveva concesso la mano della sua seconda figlia, Alianora. Era un onore senza pari per un guerriero imparentatosi con il Signore di quei luoghi, e lo era maggiormente perché egli, Ranghinoor, era venuto da un'altra, lontana contrada, per offrirsi come mercenario. In breve tempo, però, il suo valore era stato riconosciuto e il giovane era stato innalzato al rango di Capo Supremo della Guardia di Frontiera e di Palazzo. Compito alto e di solito riservato ai Nobili del territorio. In realtà, Ranghinoor aveva portato a Raianili la vasta esperienza accumulata in dieci anni di guerre e combattimenti al servizio dei Signori di buona parte dei territori disseminati per il continente Aruendeliano. Egli aveva errato di luogo in luogo, prima di giungere a Raianili, senza fermarsi a lungo da nessuna parte, spinto da un istinto misterioso di cui egli era appena cosciente. Si trattava, in fondo, del medesimo vago anelito che l'aveva spinto a lasciare la sua terra e la sua famiglia di modeste condizioni (il padre, fabbro, la madre dedita alle cure della numerosa famiglia) quando aveva poco più di quindici anni. Nulla l'appagava, nessun luogo gli sembrava il suo. E così, di paese in paese, era arrivato un anno prima in questa Signoria fra i laghi. Si era aspettato, passati i primi mesi, di essere ripreso dalla sua ansia nomade, dall'irrequietezza, dalla confusa certezza che in un altro luogo, fra altra gente, egli avrebbe trovato ciò che, senza sapere che fosse, cercava. Ma era stato li, a Raianili, che aveva trovato, se non la pace, la convinzione di essere tornato a casa, e infine l'amore. Non la pace perché qui erano cominciati i sogni, da principio rari poi sempre più frequenti, e con essi la sensazione di dover fare qualcosa. Cosa, non sapeva. Su questo meditava il giovane guerriero mentre la notte lasciava posto al giorno e al fulgore del sole che si specchiava sui laghi di cui era adorna la città come di gemme scintillanti. Cercò di allontanare da sé il disagio rimasto dalla visione notturna senza riuscirvi completamente. L'orrore finale di quel volto senza lineamenti lo perseguitava sovrapponendosi all'immagine bionda e delicata di Alianora. Da quella forma nascosta spirava un richiamo che non era più supplica, ma ordine perentorio. Ranghinoor dovette fare appello a tutte le sue forze per sottrarsi all'incantesimo e quasi si precipitò fuori dalla sua casa, nei pressi del palazzo, per recarsi alla rassegna delle sue guardie.
Poi, a poco a poco, con lo scorrere del giorno e con il ritmo delle occupazioni militari, il ricordo del sogno si affievolì e non rimase alla fine che il tarlo sotterraneo a rodergli la mente con la domanda: ma che devo fare? Finalmente cadde la sera e con essa venne la gioia di incontrare Alianora al palazzo. Il Comandante della Guardia veniva invitato, come esigeva la sua carica, al pasto serale del Signore di Raianili e della sua famiglia. Leif, il Signore, era un uomo di bassa statura e dalle maniere semplici; tutto però in lui denotava la nobiltà delle sue origini. Era Signore di un territorio potente e vasto, uno dei più vasti per estensione del continente. Non aveva di conseguenza ambizione (come era il caso della maggior parte degli altri Signori) di allargare i confini del suo paese. Inoltre egli viveva in pace perché la sua Signoria era protetta dai laghi che la delimitavano sicché per entrare e uscire da Raianili bisognava usare i traghetti. Questo rendeva gli attacchi esterni rari e facilmente respingibili. La guardia serviva dunque più come prestigio che come difesa, ma ugualmente Leif si riteneva fortunato per essersi accaparrato i servigi di Ranghinoor e gli aveva concesso con gioia la figlia prediletta in sposa. Leif guardò ora con palese orgoglio la sua famiglia riunita attorno al tavolo di quercia assieme ai più alti dignitari oltre a Ranghinoor. Guardò la Signora della sua casa, sua moglie, con immutato affetto dopo vent'anni di unione. Ne ammirò il portamento fiero, il capo nobilmente eretto e cinto dalle pesanti trecce di capelli ancora biondi che l'ornavano meglio di una corona d'oro. Contemplò i suoi lineamenti fini, pallidi, forse un po' freddi, ma che nel sorriso acquistavano vita e calore. Apprezzò l'eleganza naturale della sua dama nell'abito violetto sul quale la lunga collana di perle spiccava con bagliori rosati. Poi Leif spostò lo sguardo sui figli. Ne aveva quattro: tre femmine e un maschio. Questi era il più giovane, aveva poco più di dodici anni, ed era somigliantissimo al padre. Era l'erede. Delle tre figlie la più giovane, Verenia, somigliava a Leif, mentre le due maggiori, Liselda di diciotto anni e promessa al Signore di Aquisgrane, e Alianora di sedici, avevano preso dalla madre. Lo sguardo del Signore si posò infine un po' pensoso su Ranghinoor. La sua bellezza, forse eccessiva, l'aveva colpito sfavorevolmente quando il giovane si era presentato ad offrire i suoi servigi. Nessun uomo, si era detto, avrebbe dovuto essere tanto bello, ma poi l'eco delle sue imprese, e in seguito una conoscenza approfondita, l'avevano spinto a dare la sua stima e
il suo rispetto a quel giovane serio, severo con se stesso, e che pur non essendo nobile possedeva un alto concetto dell'amore. Ranghinoor non gli aveva nascosto infatti le sue umili origini e Leif, che non era uomo da giudicare gli altri uomini dai loro natali, l'aveva ancor più apprezzato per la sua sincerità. In questi ultimi tempi aveva però notato nel suo Comandante come un'ansia repressa, un'inquietudine nascosta. Se ne era preoccupato. Non solo perché temeva che il giovane lasciasse il suo servizio e perché si era accorto dei sentimenti della diletta figlia, ma anche a causa del sincero affetto che nutriva per Ranghinoor. Avrebbe desiderato parlargliene; ne era stato impedito dalla delicatezza. Ora invece, come suo futuro e prossimo padre, egli aveva il diritto, anzi il dovere, di chiedere al giovane guerriero il motivo di quell'espressione. Decise di farlo subito dopo il pasto. Così fu e, un po' più tardi, i due uomini si trovarono soli nell'ampio salone sorretto da travi scolpite, ammobiliato con pezzi di pregiata fattura e illuminato dal fuoco che ardeva sempre nel cammino di pietra in fondo al salone. Fu in quell'ambiente spazioso e gradevole che Leif pregò il futuro genero di confidarsi con lui. Ranghinoor fu tentato dall'offerta. Aveva grande fiducia nel suo Signore e gli parve l'unica persona in grado di comprenderlo. Gli disse dunque del sogno e del turbamento che esso provocava in lui. Il giovane era tanto preso dal suo racconto e dal sollievo che provava parlandone, che non notò la strana espressione del volto di Leif. Questi, per nascondersi al giovane, si alzò dal seggio e si avvicinò al fuoco fissandolo come se in esso si celassero dei mostri. Ma quando Ranghinoor smise di parlare, egli dovette prendere una decisione. Ma quale? Dire la verità gli ripugnava; non dirla significava mantenere nell'ignoranza il suo Comandante e spingerlo forse a parlare con altri che non avrebbero usato grandi riguardi. Decise alla fine che la verità doveva essere detta e che gli avrebbe narrato quello che era accaduto più di cent'anni addietro. Non poteva però, in alcun modo, spiegare il senso del sogno in rapporto a Ranghinoor perché non lo sapeva. Solo Niada avrebbe potuto farlo. Il guerriero attendeva una risposta da Leif, ed era sorpreso che questa tardasse. Da questo protratto silenzio comprese esservi un mistero, nel suo sogno, che Leif conosceva. Infine il Signore si girò, tornò verso il suo seggio e vi si sedette. Poi parlò: «Mio caro figliolo, non comprendo per quale ragione questo particolare
sogno venga a turbare le mie notti. Non comprendo questo, ma posso raccontarti una storia antica che pure dovresti conoscere perché fa parte della storia del nostro continente. Hai mai sentito parlare della Signora del Lago Oscuro?» «No.» «Forse non è del tutto strano. Moltissimi, sia fra i Nobili che fra il popolo, preferiscono dimenticare oppure non parlare di cose orribili e passate, e i Signori, così colpiti fino a cent'anni fa, tacciono anch'essi. Io stesso avevo sepolto nel fondo della mia mente questa storia e se te ne parlo ora è soltanto perché credo che tu abbia il diritto di sapere. Ma non parlarne ad alcuno perché è bene che il passato rimanga sepolto.» «Non ne parlerò,» promise il giovane. «Allora ascolta. Al centro di Raianili, che a sua volta è il centro del continente, si trova la regione del Lago Oscuro. Regione ammantata di mistero fin dagli inizi della nostra storia e praticamente inesplorata. Questo luogo è circondato da una fitta corona di alberi ricoperti da spesso e nero fogliame: essi difendono il lago e il terreno che lo circonda come un baluardo. Nessuno del resto cerca volontariamente di penetrare in quei luoghi. Ora capirai perché in quel lago vive la Nera Signora. Chi sia e come vi sia giunta nessuno lo sa. Le storie antiche raccontano che c'è sempre stata. C'è chi dice che essa sia lo spirito della terra; altri sostengono che un essere simile proviene da uno dei numerosi mondi che popolano il firmamento; altri ancora pensano che si tratti di un demone. Ma la verità è sempre stata ignorata. La Nera Signora secoli e secoli fa è entrata in contatto con gli uomini per mezzo delle Sibille di ogni popolo del continente. Esse hanno sognato la medesima notte la palude e il lago e hanno ricevuto il messaggio della Signora. Lei ordinava alle Sibille di comunicare al loro Signore che avrebbe gradito la compagnia della seconda figlia di ogni Signore, di ogni territorio del continente e di ogni epoca a venire. Disse che nella sua generosità non voleva privare i Signori dei figli maschi e neppure delle prime figlie che potevano maggiormente essere utili al padre con i loro matrimoni. Disse anche che se i suoi ordini non fossero stati eseguiti vi sarebbe stato di che pentirsene. Ebbene, le Sibille non furono credute nonostante il loro enorme prestigio. Si mandarono però degli esploratori in quei luoghi per riferire se fossero veramente abitati. Nessuno tornò vivo; i loro corpi stritolati furono ritrovati in seguito all'esterno della corona d'alberi. Poi le Sibille sognarono ancora. La donna del lago era offesa e disse che se le seconde figlie non fossero state mandate da lei, ogni Signore del continente avrebbe
perduto l'erede maschio. E così accadde perché i Signori si rifiutarono ancora di credere. A questo punto vi fu una solenne riunione presso il Signore di Raianili, mio antenato, ma non fu concluso nulla. Alcuni intendevano ubbidire all'ordine; altri non intendevano piegarsi. Ma dovettero farlo quando, dopo un altro sogno delle Sibille, morirono in una sola notte tutte le Signore del continente. Da allora, e fino a cent'anni fa, ogni Signore mandò la seconda figlia dalla Signora del Lago al compimento del sedicesimo anno. Le fanciulle dovevano essere accompagnate fino alla barriera d'alberi e poi lasciate avanzare sole per non tornare mai più. Puoi comprendere l'angoscia di ogni Signore alla nascita della seconda figlia e come si reputassero fortunati quelli che avevano solo maschi o una sola femmina. Poi le cose improvvisamente cambiarono. Un giovane coraggioso e di una bellezza eccezionale, figlio di un Signore, aveva due sorelle e la seconda era la sua prediletta; inoltre amava profondamente la seconda figlia del Signore confinante. Decise che l'atroce abitudine dovesse venire infranta. Come fece? Lui non lo disse mai e quindi anche in questo caso si brancola nel buio. Tutto ciò che si sa con certezza fu che si presentò abbigliato da donna al posto della sorella e che tornò. L'incubo era cessato. Così è stato per cento anni, ma ora tu hai sognato la donna del lago e temo fortemente che questo sia un brutto presagio.» Al termine del lungo discorso di Leif i due uomini rimasero a lungo in silenzio meditando sugli eventi narrati. Poi Ranghinoor chiese a bassa voce: «Come si chiamava il giovane eroe?» «Si chiamava Elidor. Divenne Signore della Signoria di Warinnies alla morte del padre e spostò la figlia del Signore confinante.» Ricadde in silenzio e Leif vedendo l'aria assente del giovane gli consigliò di tornare alla sua abitazione e di concedersi un meritato riposo. Era meglio, disse, non tornare dalle dame con volti così tetri. Ranghinoor gli fu grato del consiglio e si affrettò verso casa. Là giunto si sedette nella panca accanto al fuoco e, accarezzando il capo del fulvo levriero, dono di Alianora, ripensò ad ogni parola udita. Si chiese perché avesse ignorato quella storia antica e si rispose che si era allontanato dalla sua terra in età troppo giovane perché se ne parlasse attorno a lui e che poi non si era fermate a lungo in alcun posto. Del resto ciò non aveva importanza. Lo spaventava piuttosto essere, in qualche modo ancora sconosciuto, lo strumento di quel mostro in forma di donna. E così doveva essere perché altrimenti sarebbe stata la Sibilla a sognare quel
sogno come era accaduto in passato. Doveva esserci un motivo, ma quale? Lo ignorava, come l'aveva ignorata Leif, ma il significato del sogno gli era chiaro: la donna voleva essere liberata da lui. Questo non sarebbe accaduto, disse ad alta voce, mai. Era giusto che la Nera Signora giacesse sul fondo del lago per tutti i secoli a venire e non tornasse a richiedere degli olocausti umani. Alianora! Il pensiero lo colpì con violenza e lo fece balzare in piedi urtando il cane che guaì spaventato. Alianora era la seconda figlia del Signore di Raianili e quindi una delle vittime potenziali. Ranghinoor non dormì quella notte, ma le notti seguenti parvero apportargli una certa pace. Sembrò che i sogni cessassero e il giovane osò sperare di essersi liberato da quell'incubo. Già fervevano i preparativi delle nozze che si sarebbero celebrate la prima notte di luna nuova a cui mancava solamente una settimana. La Signoria era in festa. Dei quattro figli di Leif, Alianora era la più amata perché la più simile alla madre che era adorata dal popolo per la sua gentilezza e la sua bontà. Ma la fanciulla era amata anche per se stessa; per la sua grazia, per la sua fresca bellezza, per la sua gioia di vivere, in contrasto questa, con il temperamento malinconico della madre. Inoltre le nozze sarebbero state celebrate con gran fasto e il popolo le attendeva gioiosamente i banchetti per le strade e i doni che avrebbe ricevuto. Tutto ciò l'avrebbe spinto ad accettare con buona grazia il matrimonio della loro Alianora con uno straniero e per di più di umili natali. Il sogno ritornò con impeto sconvolgente pochi giorni prima della celebrazione delle nozze. La Dama Nera non implorava, ma ordinava con furia gelida di essere liberata. La maschera di carne che era il suo volto irradiava malvagità e un immenso potere. Questa volta Ranghinoor vinceva l'immobilità e, incurante delle voci che lo supplicavano di fermarsi, si gettava nelle acque oscure per portare l'aiuto richiesto all'essere prigioniero. Si risvegliò prima di arrivare al centro del lago, ma per tutto il giorno sentì risuonare nella mente l'ordine perentorio e per tutta la notte seguente non fece che rifare il sogno in un crescendo allucinante. Ranghinoor temette d'impazzire. Eppure doveva celare il suo tormento per non addolorare Alianora e Leif. L'impulso di correre verso il Lago Oscuro non l'abbandonava più ed egli era costretto ad una lotta incessante con se stesso per non soggiacervi. Mancavano soltanto quattro giorni alle nozze quando nel sonno soprav-
venne un mutamento. La Signora pareva dirgli, con dolcezza, che si trattava unicamente di un sogno e che il modo sicuro di dissipare i timori ispirati era di recarsi al lago e verificare come non vi fosse alcun pericolo. Avrebbe perduto soltanto due giorni, uno per andare e uno per tornare, e sarebbe stato certamente di ritorno per le nozze. Era così persuasiva, così dolce, così insistente, che al risveglio parve a Ranghinoor cosa assai semplice e fattibile. Si chiedeva perché non ci avesse pensato prima e provava una calma straordinaria e priva di dubbi. Si sentiva freddo e deciso, e l'ansia, il timore, l'angoscia, erano sparite. Si recò subito da Leif chiedendo due giorni di permesso. Desiderava, disse, recarsi a salutare i suoi uomini dislocati alla frontiera più vicina per portare personalmente i doni preparati per loro. Leif non poté negarglielo. Però aveva notato una certa stranezza nel comportamento del giovane; lo sguardo freddo e quasi vitreo, i movimenti piuttosto rigidi, i lineamenti del bel volto tirati, le labbra serrate, e un'espressione diversa che gli alterava il volto di solito improntato a gentilezza e fierezza. Leif si preoccupò. Non aveva dimenticato i sogni del giovane e quindi, non appena questi si era allontanato per andarsi a preparare, fece chiamare tre fra i suoi cavalieri più fidati e li incaricò di seguire il Comandante della Guardia. Non confidò ad essi i suoi timori, non parendogli necessario dato che poteva sbagliare; disse soltanto che era bene seguirlo senza essere visti per aiutarlo nell'eventualità che sopraggiungessero pericoli che egli avesse difficoltà a sventare da solo. Fatto questo, Leif si sentì un po' più tranquillo, pur sapendo che, se i suoi timori si fossero rivelati esatti, nessuna sorta, né di tre uomini o di dieci e più, avrebbe potuto fare qualcosa contro lo spirito della Signora impadronitosi della mente di Ranghinoor. Circa un'ora dopo Ranghinoor era in cammino. Procedeva diritto, sicuro, come se conoscesse a perfezione quella strada mai seguita, provocando in tal modo lo stupore della scorta. Stupore ma, con lo scorrere delle ore, anche un disagio che si accresceva via via. I tre cavalieri conoscevano la storia della donna del lago e nonostante sapessero che non vi era più alcun pericolo si erano sempre ben guardati dall'avvicinarsi a quei luoghi. A metà giornata non ebbero più dubbi: il Comandante della Guardia si dirigeva verso il Lago Oscuro. Questo provocò in loro della perplessità.
Che fare? Gli ordini del loro Signore erano chiari: seguire Ranghinoor senza farsi vedere. Ma conosceva Leif la meta del giovane? Se così era, bisognava eseguire gli ordini. Ma se invece Leif, come risultava da ciò che aveva detto, non l'avesse conosciuta? In tal caso egli doveva essere avvertito. I tre cavalieri decisero infine di proseguire ancora un poco e, se avessero raggiunto la certezza circa la meta di Ranghinoor, uno di loro sarebbe corso a spron battuto verso la capitale per informare Leif. Dopo altre tre ore di cammino, la certezza fu raggiunta. Quel tratto del paese era quasi spopolato, ricco com'era di fitte foreste che spesso nascevano dai laghi in modo tale che fra acque e alberi non v'era posto per gli uomini. Quel tratto era anche il passaggio obbligato per il Lago Oscuro. Già Ranghinoor aveva legato il suo cavallo ad un albero agli inizi della foresta ed era avanzato a piedi, per stretti sentieri, verso il luogo dove giaceva la Signora del Lago. I tre cavalieri tirarono a sorte per il ritorno. Ognuno avrebbe desiderato essere il vincitore, ma la sorte favorì il più giovane dei tre, nipote di Leif e innamorato silenziosamente della cugina Alianora. Egli non poté fare a meno di sperare, pur vergognandosene, che una disgrazia capitasse al suo fortunato rivale per poter poi aspirare alla mano della cugina. Nel frattempo Ranghinoor procedeva sicuro. Non c'era alcuna incertezza nei suoi passi, né dubbi nella sua mente. Una trasformazione era avvenuta in lui; la rigidezza dei suoi movimenti si era accentuata moltissimo mentre le linee del suo volto si erano distorte come se quelle di un altro volto si mischiassero e si sovrapponessero alle sue in un insieme spaventoso. La mente non apparteneva più al giovane, dominata com'era da un'altra mente che lo guidava verso la prigione del lago. Ranghinoor non era cosciente di tutto ciò. Dopo l'ultimo sogno, quando gli era parso naturale andarsi a sincerare con i suoi occhi che non vi era più pericolo nel lago, la sua coscienza si era addormentata ed egli non era più che lo strumento di un'altra, più forte, volontà. Non badò a quello che avvenne dietro di sé quando, penetrato oltre la corona degli alberi neri, i due cavalieri rimasti tentarono di seguirlo. Non vide i loro corpi avvinghiati dai rami degli alberi e sollevati da terra e poi stritolati per essere infine gettati come cose inutili lontano dal punto proibito. Egli avanzava sempre e non si fermò che quando giunse al paesaggio del sogno. Vide il Lago Oscuro, denso e immobile, davanti a sé; ma vide an-
che il terreno che circondava il lago perché nella realtà non c'era nebbia e tutto spiccava nitido. Si trattava di una distesa circolare larga qualche metro, paludosa ma abbastanza solida perché si potesse attraversarla o sostarvi, e sulla quale cresceva una specie sconosciuta di piante. Erano alte, diritte, di forma aggraziata, di un verde cupo striato di venature più chiare, e sulla cima di ogni pianta fioriva un grande fiore o rosso o giallo che si riflettevano sulle acque nere come fiamme ardenti. Ranghinoor, giunto davanti alla corona di piante, fece per continuare la sua strada verso il lago e la liberazione dell'essere prigioniero, ma una forza nuova lo bloccò. Una tempesta scoppiò nella sua mente; due forze contrastanti si contendevano la sua volontà e il suo agire. La lotta lo squassò a lungo traendolo alla fine dall'inerzia mentale nella quale era stato immerso per ventiquattro ore. Ora il giovane tornò in sé. Si trovò inorridito davanti al luogo dei suoi sogni senza capire come v'era giunto. Non ricordava nulla dal mattino precedente quando si era svegliato con la vaga idea di andare a controllare il suo sogno. «Cosa faccio qui?» si chiese in preda al terrore. «Perché mai sono venuto?» si chiese angosciato. I sogni, il racconto di Leif, il pensiero di Alianora, trovarsi qui; tutto ciò lo sconvolgeva fin quasi alla follia. Devo fare subito ritorno, pensò e fece per girarsi e lasciare quei luoghi, ma non poté. Un urlo gli esplose in testa: «Non puoi andartene, Elidor, devi pagare il tuo debito.» Il giovane portò le mani al capo nel tentativo di far tacere quella voce colma d'odio che gli torturava il cervello. Inutilmente. La voce ripeteva e ripeteva l'ordine senza tregua, rabbiosa di essersi lasciato sfuggire il controllo di quella mente e decisa a recuperarlo per raggiungere il suo scopo. Ma a quella voce odiosa altre si erano sovrapposte. Erano voci giovani, di fanciulle, ed erano molte, moltissime. Esse dicevano imploranti: «Torna indietro, Elidor, torna da Alianora. Non disfare ciò che hai fatto. Non liberare il mostro venuto da un altro tempo che ci ha divorato e che costringe i nostri spiriti a rimanere incatenati alla terra che circonda il lago. Abbiamo riposato da quando tu hai imprigionato il mostro, ma se ora ascolterai la sua voce e farai la sua volontà, non vi sarà più salvezza per le seconde figlie di ogni Signore del continente, né per quelle del passato né
per quelle future. Pensa ad Alianora, Elidor: è una seconda figlia e dovrà venire qui, fra di noi, se tu non ritorni indietro. Guarda, Elidor, guardaci e abbi pietà di noi.» Ranghinoor guardò. I grossi fiori rossi e gialli che ondeggiavano nell'aria immobile come vivi si erano tramutati in volti di fanciulle quasi tutte graziose e più d'una bellissima. Lunghi capelli neri, o biondi, o ramati, si muovevano attorno a quei volti coprendone talvolta i lineamenti. Era uno spettacolo terribile vedere quelle teste piantate su alte piante come se fossero state decapitate, ma i volti erano vivi, disperati, colmi di supplica. Ranghinoor non poteva staccarne lo sguardo mentre nella mente risuonava il loro pianto, i sospiri, le preghiere. Tutto ciò non durò che un attimo; poi la voce imperiosa dominò quei suoni, li rese indistinti e di essi non rimase che un brusio sottile e inutile. Anche i volti si dissolsero in una lieve foschia e, poco dopo, i fiori rossi e gialli ripresero il loro moto continuo. «Elidor,» diceva trionfante la voce «ricorda il debito e pagalo.» Ranghinoor ricordò. Ricordò quando era stato Elidor cento e più anni addietro; ricordò l'amore per la sorella e per la figlia del Signore confinante che l'aveva sospinto a cercare un mezzo per impedire nuovi olocausti; ricordò di aver sentito parlare di un santo eremita e di essersi recato da lui. Ricordo tutto questo, ma poi che era accaduto? La mente era ancora offuscata come se le nebbie del passato non volessero aprirsi, ma la voce del lago incitava e infine tutto fu chiaro. Elidor era andato dall'eremita che era in contatto con degli spiriti di cui non volle rivelargli nulla. Si era sottoposto a dei riti che l'eremita aveva chiamato di purificazione e in seguito a questi aveva potuto comunicare con uno spirito invocato dal vecchio eremita. Ma non ricordava nulla, perché era seduto in trance e, al risveglio, si era sentito trasformato da una sensazione di grande potenza e teneva fra le mani una maschera di pelle sottile color carne. «Ecco,» gli rimanevano stampate nella mente quelle parole, «con la tua bellezza ti farai accettare dalla Signora del Lago presentandoti al posto di tua sorella; con il potere che ti ho trasmesso l'addormenterai; con questa maschera che le metterai sul volto ucciderai il suo potere. Di più non posso dirti e di più è meglio che tu non sappia.» «E se non mi accetterà?» aveva chiesto il giovane all'eremita ripetendo le parole udite in trance.
«Ti accetterà,» aveva risposto il vecchio. «Gli esseri come lei non sanno resistere alla bellezza.» E così era stato. Ma ora la Signora rideva: «Sì, così è stato. La tua bellezza era tanto superiore a quelle delle fanciulle che erano venute a me, che ti ho accettato, Elidor. La mia potenza non è infinita e ho potuto ingannarmi sul potere che ti è stato trasmesso. Ma nell'attimo prima di soggiacervi ho visto in te qual'era il prezzo pagato allo spirito del tempo: tu dovevi rinascere e rinascere fino alla fine dei secoli. E allora ho compreso che un giorno ti avrei chiamato a liberarmi. Vieni, ora, vieni. Ho atteso troppo e ho fame.» «Ma il tuo potere non era morto?» balbettò il giovane. L'essere rise ancora: «Non per te, Elidor, perché io ho impresso in te tutto ciò che hai visto e udito finora: i sogni, la mia voce, la mia volontà. Tutto questo è stato in te fin dal momento che ho capito cos'eri venuto a fare. Tutto questo era nella tua mente prima ancora della tua nascita. Comprendi ora perché sei arrivato da me? E adesso vieni, corri a liberarmi, presto, subito.» Di nuovo la forza estranea dominò Ranghinoor ed egli calpestò le piante e i fiori, entrò nel lago, camminò in esso finché sprofondò. L'acqua gli entrò in gola, la soffocò, ma continuò ad avanzare e arrivò nel profondo delle acque dove nella melma nera il mostro giaceva immobile circondato da monticelli di ossa bianche. La forma femminile era prostata e aveva il volto ricoperto da una membrana sottile simile a pelle umana. Ranghinoor stava morendo, ma le sue mani annaspanti riuscirono a togliere il velo che celava quel volto e riuscì a vederne la bellezza di una perfezione assoluta che esprimeva però la malvagità senza tempo. «Sono libera,» diceva la voce e non era più nella mente del giovane, ma suonava alta, squillante, non umana «sono libera, Elidor, di ricevere la tua Alianora e ogni seconda figlia, e mi nutrirò della loro giovinezza e in esse vivrò fino alla fine dei tempi perché non vi saranno più e mai più altri esseri umani che potranno vincermi.» Mariano Rampini IL GUARDIANO
... Il Guardiano aspettava. La sua attesa era un attimo di paura in un pensiero, un'espressione tesa e concitata, un battito di cuore o una mano alzata. Ogni mattone, ogni microscopico componente della Città, era una cellula del suo corpo immortale ed irripetibile: ogni passo, ogni voce, ogni sfregamento o pressione di corpi, produceva un danno, avvicinava di un microsecondo la fine, il buio. Ogni straniero era un ospite indesiderato e sgradevole che contaminava la sua aria, consumava con la sua presenza assurda ed ingiustificata il suo tempo e la sua attenzione pronta a riparare ciascun danno: queste presenze, in un modo o nell'altro dovevano essere eliminate! Il Guardiano doveva aspettare... Marcus Var DeVille proponeva a se stesso il proprio nome ogni mattina, non appena tornava cosciente del difficile esercizio della respirazione. Ogni attimo in cui i muscoli si tendevano per spostarlo da un capo all'altro del suo universo, la sua stanza, era per lui un attimo di vita, una goccia di sangue lenta e morbida che scivolava da una vena all'altra in cerca del cuore. Faceva fatica a respirare, stretto in una forza di gravità inconsueta e fastidiosa. Come ogni altro, rivolse le consuete maledizioni al proprio Casato e al nero-verde del suo nome, s'infilò l'elaborata giubba da Accademico, e si preparò ad uscire per il primo incontro con l'entità folle o aliena cui era stato destinato. Castle era un uomo strano: paludi ed aria sottile, monti grigi e scavati, disposti qua e là come dimenticati, da una delle strane divinità che lo reggevano; un mondo difficile da capire, difficile da affrontare, pieno d'incognite colorate ed umane, rappresentate dai Principi d'Acqua. Soltanto la sera prima aveva potuto sottoporsi al rito del innescai mutante preso in piccole zucche, e quelle visioni, talmente lontane e indistinte da apparire semplici allucinazioni, gli ricordavano profumi e silenzi alieni ma al tempo stesso familiari. Anche i lamenti modulati della piccola pattuglia di flauti da naso che avevano accompagnato la cerimonia, gli suggerivano immagini e sensazioni non fastidiose, ma conturbanti e misteriose. Qualcuno gli aveva detto che la giubba d'ordinanza dei membri dell'Accademia Imperiale era scomoda e pesante, ma questa volta, sotto l'aria leggera e quasi fredda di Centro, le rivolse un pensiero grato. Conservava an-
cora addosso un po' del tepore della sua stanza, e, ansimando e sbuffando come uno dei curiosi ruminanti del pianeta, si avviò verso il viale d'ingresso al santuario. Era una giornata di sole per quel mondo: una leggera luminosità perlacea, piccole nubi striate di verde, che si confondevano col chiarore da fondo marino dell'orizzonte. Sentiva sul fianco, mentre camminava, il peso familiare della piccola borsa delle droghe, e quel contatto gli dava una strana sicurezza, una sorta di forza che nasceva dall'abitudine a gesti ripetuti centinaia di volte... Proprio sull'ingresso, dopo il lungo stretto viale di piccole neo-sfingi di giada blu, lo attendeva Sorg Ul, il Principe più anziano, che lo aveva accolto al suo arrivo su Castle. «Buona giornata Accademico.» Era strano sentirsi appellare con tanta tranquillità, da uno degli uomini che avevano chiesto l'aiuto dell'Autorità Centrale per bloccare una forza misteriosa che da secoli opprimeva il loro popolo. «Altrettanto a te Principe Sorg. Cosa ti hanno detto gli Sciamani? Ci sono buoni presagi per la mia missione?» «Ieri notte non ha cantato nessun Uccello del Buio, ed oggi il sole splende tranquillo. Non hai la sorte contro di te, ma nemmeno a tuo favore... I Dadi del Teschio non hanno dato né un nove né un sette... «Lo zero è il tuo numero, e lo zero è segno o di vittoria o di annientamento. Anche gli Steli non si sono voluti pronunciare...» Nessuna paura, ma molte esitazioni: doveva agire senza la protezione degli Dèi: «Avranno voluto scaricare su di me tutto il peso di quest'opera. Ma non preoccuparti, ho anch'io i miei amuleti...» Sorg Ul tese un braccio lungo e sottile e strinse leggermente il viso di Marcus. «Gli Dei non hanno parlato né per te, né contro di te, ma ora tu sei per noi l'ultima speranza. Il sole sorge e lancia le sue frecce, ed io canto perché in questo giorno forse morirò per le tombe dei miei padri. Rinascerai amico Marcus.» Strinse ancora un poco il volto di Marcus, poi, con un secco gesto della testa, chiamò a sé i due umanoidi che lo accompagnavano, e si allontanò. Marcus ristette un attimo, leggermente commosso dalle parole del Principe, quindi si sedette a gambe incrociate, proprio sulla soglia, per iniziare la fase di preparazione. Respirò a lungo dilatando al massimo i polmoni, poi, dopo una lunga serie di inalazioni, aprì la borsa e ne estrasse una pic-
cola fiala. Spezzò il sigillo, e inghiottì rapidamente poche gocce del liquido incolore. Ora doveva allontanarsi, doveva portare lontano dalla mente e costruire la sua forza! Il Guardiano aspettava. La Soglia gli comunicava un peso estraneo, un corpo, e il battito calmo e tranquillo di un cuore estraneo. Nessuno! Nessuno doveva far battere un cuore sulle Sacre Entrate! Sentiva già l'avvallamento creato dal peso, lo sfregamento del corpo che giaceva sulla Soglia. Accese un circuito di protezione, e lanciò lunghi aghi di luce ad illuminare il cammino del suo pensiero. Un altro estraneo da cancellare. Nulla doveva turbare l'ordine ed il silenzio del Labirinto. La Direttiva Principale non lo permetteva... Il Guardiano ora aspettava, ma il suo cervello batteva, il suo cuore si agitava furioso... Il Guardiano era pronto a colpire. Marcus ricordava. La sua mente cominciava a creare le muraglie di difesa, ed intanto gettava il suo pensiero lontano, a cercare gesti, volti, parole. Ricordava il Consiglio dei Quattro e la consegna del diploma, ma ognuno di quei volti era quello di Sorg Ul, ognuna di quelle mani era la mano calda ed amica dell'umanoide che stringeva il suo volto. Poi anche quell'episodio si allontanò e ci fu un piccolo momento di buio. Adesso era col suo Fratello di Mano Sinistra, Alvar Var De Ville: sentiva la sua voce cantilenante e un po' rauca che continuava a beffarlo perché era stato destinato all'Accademia. Poi Alvar svanì lentamente, lasciando dietro di sé la scia scintillante delle mostrine della Scuola Militare. Ora vedeva acqua, sentiva acqua, e la vicinanza di qualcuno caro ed amato: era il pomeriggio in cui sua madre, Dama Verde Alice, lo aveva accompagnato in gita sui laghi. Ricordava di quel giorno soltanto il calore della vicinanza di quella persona cara, e il dolore sottile come una lama, mentre restava a guardarla andar via sulla carrozza verde e nera, con l'aquila ed il martello della sua Casata... Poi Malthus Hai Nether, il suo docente, e la sua amicizia, ed ancora calore, tranquillità che uccideva la paura e scacciava via le ombre. Di colpo il buio profondo della fine del viaggio, e in lontananza, distinta come la luce del sole, l'uscita dal lungo tunnel in cui svanivano i suoi ri-
cordi. Mentre risaliva la china della coscienza, ripensava a quelle figure chiave che aveva scelte come compagne per i lunghi viaggi di preparazione di ogni missione: sapeva che non l'avrebbero mai abbandonato e che, attraverso loro, lui diventava più forte, uccideva il terrore, creava muraglie di conoscenza sotto l'incognito... Si svegliò del tutto pronto e con la mente lucida e tersa come uno specchio. Ora aveva un obiettivo ed il suo cervello aveva iniziato a lavorare solo su di esso: si sentiva simile ad una macchina, programmata per un lavoro. Si alzò, ed avanzò deciso verso l'imboccatura del Santuario. Il Guardiano digrignò la sua rabbia con una rapida serie di impulsi. Doveva fermare quella presenza. I Signori non permettevano che alcuno violasse il Labirinto... Il cervello di Marcus lavorava in fretta, mentre avanzava con passo spedito verso l'interno del Santuario, ed elaborava tutte le informazioni che avrebbero potuto aiutarlo nel suo compito. Castle era entrato nella Federazione Imperiale solo pochi decenni prima, e già dopo pochi anni rappresentava uno degli enigmi più complessi che l'Accademia si era trovata a dover risolvere. L'impiego di membri esterni, esploratori, spaziali, scienziati, non aveva approdato a nulla. Di certo si sapeva soltanto che quei pochi che s'erano addentrati nel labirinto all'interno del Santuario non erano tornati, e che la razza dei Principi d'Acqua non era originaria del pianeta. Quali fossero i rapporti tra gli umanoidi e quella misteriosa costruzione non era dato saperlo, anche se la vita della popolazione era in qualche modo minacciata. Infatti, solo pochi mesi prima, si era scatenata un'epidemia che aggrediva le cellule del cervello. I neuroioghi dell'Accademia erano riusciti a debellarla, ma qualcosa faceva pensare che il focolaio si fosse sviluppato nella zona del Santuario e che solo la bassa densità della popolazione, aveva impedito che il contagio si espandesse troppo rapidamente da poter essere isolato e sconfitto. Adesso l'Accademia si era decisa a mandare i suoi specialisti, e lui era il primo, quello che avrebbe dovuto aprire la strada agli Operatori Imperiali. Certo un grande onore per un Accademico alle prime armi, ma era veramente un onore! Marcus sorrise tra sé e sé, pensando di essere nient'altro che carne in
grado di fornire sufficienti notizie per rendere più facile la strada agli specialisti di rango che l'avrebbero seguito. Il Guardiano scorse una breccia ed aprì i primi circuiti d'attacco. L'intruso sembrava forte, ma doveva essere distrutto. Marcus continuava ad avanzare. La sua mente aveva già raccolto i dati dei primi corridoi, aveva registrato le strane sculture, i sottili bassorilievi, ma avvertiva che qualcosa non andava per il verso giusto. Sentiva sempre salde le sue difese naturali, ma il suo corpo si stava facendo pesante. Ogni passo gli costava una fatica indicibile e lunghi tentacoli d'incertezza gli stringevano le gambe. Alle sue spalle era già scomparsa da molto la tenue luce dell'ingresso sostituita da una luminosità diffusa e costante; ma ora anche quella luce sembrava volerlo opprimere, stancare, togliere dai suoi arti ogni forza, ogni volontà di proseguire... Si sedette e raccolse il pensiero. Da qualche parte doveva essersi prodotta una breccia, e allora, lentamente, si dedicò ad una esplorazione minuziosa delle proprie difese. Poteva osservare la sua mente, come un ordinato muro di mattoni, una piccola piramide di mattoni luminosi in un mare di buio... Esaminò lentamente la figura in cui aveva costretto il suo pensiero, e d'improvviso scorse una microscopica crepa. Doveva cementare i ricordi, bloccare il sottile foro creatosi nella diga... Con lunghe dita di pensiero si accinse ad aggiustare la spaccatura, ma si accorse con terrore che qualcosa o qualcuno aveva visto prima di lui quell'apertura: un'onda sottile di acqua scura e limacciosa cominciò a fluire intorno alle sue dita che cercavano vanamente di bloccare quel fluido mortale. DOLORE... Il suo corpo, ordinato e composto, si spezzettò in minuscoli frammenti di dolore, e si ritrovò d'un tratto cosciente, a rotolarsi sul morbido pavimento gemendo e sudando freddo. Qualcuno l'aveva aggredito e continuava a martellarlo con un dolore che non lasciava requie. Il suo cervello si torceva come una spugna nelle mani di un uomo robusto, si sentiva fatto a pezzi, dilaniato in ogni sua singola cellula. Aveva un solo rimedio contro quell'attacco improvviso e, con decisione, interruppe il suo folle rotolare. S'immobilizzò, il corpo teso e gli occhi
sbarrati: sembrava una statua di marmo che sudasse e piangesse. Un attimo prima di perdere di nuovo il controllo di se stesso, lanciò un rapido comando. Il Guardiano gioiva nel rigirare i suoi lampi nelle piaghe aperte in quella difesa; spazzava via volti ed immagini, ricordi e pensieri, tutto andava a fondersi in un incredibile crogiolo, dove ogni cosa si trasformava in fitte violente e dolorose. D'improvviso il suo avversario scomparve! La sua mente si era come spenta, e dove prima c'erano un corpo ed una mente sussultanti e privi di controllo, adesso non rimaneva altro che buio. Il Guardiano interruppe il suo assalto, stupefatto. Non poteva credere di essersi sbarazzato così facilmente dell'intruso, non era possibile. Lanciò qua e là disordinatamente i suoi impulsi, azzannando ferocemente le pareti, colpendo muri e superfici di vetro, ma non c'era più nulla da colpire. Solo un buio che in qualche modo lo inquietava... Marcus non esisteva più; non essendo stato capace di resistere alla subitaneità dell'attacco, si era rifugiato in angolo togliendo ogni contatto con il corpo e la mente. Il dolore non poteva giungere così in basso e lo stesso valeva per ogni altra sensazione. In quell'angolo costruito in lunghe penose sedute di ore ed ore, poteva rifugiarsi e scomparire... Il suo corpo poteva facilmente essere scambiato per quello di un morto, il polso batteva ogni cinque minuti, i polmoni inspiravano ed espiravano con un ritmo impercettibile alla vista. Nulla poteva far supporre che fosse ancora in vita. L'esercizio del riflesso autistico era pericoloso, aiutava a fuggire, ma tornare alla normalità era difficile. La sua non era certo una situazione da prendere per il sottile, anche se era necessario che rimanesse ancora per un poco in quelle condizioni. Una sonda di pensiero che lo collegava con la realtà, riferiva che il suo avversario non s'era ancora ritirato, nonostante l'attacco fosse diminuito d'intensità. Lentamente, molto lentamente, emergendo un poco alla volta, riuscì ad emettere sottili filamenti di pensiero che andarono a richiudere la breccia aperta nelle sue difese; lentamente, molto lentamente, isolò il suo avversario, un tentacolo di oscurità che si agitava insensatamente, e si preparò a restituire il corpo. Il Guardiano era soddisfatto. Il suo nemico era stato sconfitto, ed ora avrebbe potuto rimediare ai
danni causati dallo straniero nel Tempio. Doveva costruire una intera sezione molecolare di pavimento, purificare l'aria, eliminare quel corpo inutile... Il sensore di PERICOLO scattò sul verde! Un guizzo lucente verso il suo centro. CHI?!... Chi poteva osare di aggredire il Guardiano? Chiuse i suoi canali con uno scatto secco, ma non riuscì ad impedire al pensiero lucente di guardare in profondità, e scorgere cose che nessuno poteva vedere. Ma chi? Il nemico? No, era sconfitto, eliminato, ridotto all'impotenza... Un rapido tentacolo esplorativo cancellò quest'ultimo pensiero. Marcus stava riemergendo. Poco alla volta la coscienza tornava a riempire i vuoti lasciati dalla sua fuga: lentamente ascoltò il sangue che riprendeva a scorrere lento e tranquillo. Ripercorse l'intera scala dei ricordi, ed ogni scalino era più luminoso degli altri; in ultimo, rimase solo il piccolo aguzzo dolore, e una carrozza che si allontanava. Ora le sue braccia mentali erano forti, e, dentro di sé, un minuscolo fuoco lanciava in aria nugoli di scintille. Allungò prudentemente dita di pensiero, e di colpo trovò il suo nemico! Non era umano, questo era certo! Sentiva come una lenta vibrazione, dolce ed al tempo stesso oscura, e profonda come un lago di montagna. Come quei laghi, lasciava l'impressione di qualcosa di terribile nascosto nel fondo, mentre c'era un vago colore grigiastro di paura o di follia, che copriva la vibrazione. No, non era ancora il caso di attaccare. Il suo nemico sconosciuto poteva forse ancora diventare un amico: nessuna possibilità doveva essere scartata, e l'Accademia non educava guerrieri, ma uomini di pace. Si rialzò da terra, e si scrollò di dosso un po' della polvere raccolta dai suoi vestiti. Ora doveva avanzare, e vide che di fronte a lui si apriva un lungo corridoio illuminato dalla stessa luminescenza perlacea che riempiva tutto l'ambiente. Marcus camminò e camminò ancora. Non ci furono altri attacchi, ma molte cose strane: non c'era dubbio, quel luogo era opera di alieni, ma alieni sconosciuti, una razza nuova di cui nessuno aveva mai saputo nulla.
Ammirò tutto, e tutto lo spaventò. C'erano grandi stanze che si aprivano improvvisamente oltre muri strettissimi, su uno sfondo continuo di colori dolci e soffusi che sfumavano in leggere radiazioni appena visibili; trovò anche piccole stanze, dove leggere musiche, e minuscole fontanelle di luci, invitavano al riposo e alla tranquillità. Sembrava una grande casa di bambole, dove tutto fosse stato predisposto per far riposare e divertire intelligenze diverse e curiose. Anche il grande pannello che mostrava immagini leggermente distorte della superficie di Castle e di altri luoghi, suggeriva occhi diversi, pronti a ricevere su una lunghezza d'onda forse non troppo diversa, ma pur sempre estranea. Il Guardiano osservava. Il nemico ora aveva attraversato la sottile linea di confine che divideva l'odio del Guardiano dall'indifferenza. Era uno straniero, ma qualcun altro avrebbe pensato a lui. Sotto il guizzare nervoso degli impulsi, c'era una punta di curiosità, una ricerca per capire come mai fosse sfuggito al suo attacco al quale nessuno era riuscito a resistere in tanti anni in cui aveva assolto al suo compito. Il Guardiano ora non avrebbe più attaccato: solo se la Principessa fosse stata molestata avrebbe reagito, ma lo straniero non emanava aggressività... Il Guardiano adesso era immobile, circondato dall'alone della sua coscienza. Il Guardiano osservava... Marcus si rese conto all'improvviso di essersi perduto. Quella continua scoperta lo aveva portato lontano, aveva distratto quei canali della sua mente che avrebbero dovuto condurlo indietro. Non era in grado di dire in che punto del labirinto, che indubbiamente si sviluppava sotto la superficie del pianeta, si trovasse. Continuò a camminare sulla soffice superficie che non lo stancava, fino a che giunse dinanzi al graticciato di sottili lamine dorate. In quel punto sembravano confluire molte delle strade che aveva percorso sino ad allora, e forse lì avrebbe potuto trovare una risposta soddisfacente. Allungò un mano, e avvertì la presenza di un leggero campo protettivo. Quel contatto gli fece balenare una serie di ricordi, tutti imperniati sul volto sorridente e un po' maligno di suo fratello Alvar che ghignava, orgo-
glioso del Campo d'Addestramento che gli avevano affidato alla Scuola Militare. Quella era una cosa che riusciva a comprendere, l'unica che fino a quel momento gli fosse familiare, la sola cosa che gli avesse fatto capire l'effettiva diversità di quel luogo. Il graticciato si aprì all'improvviso, scorrendo silenziosamente da una parte. Marcus non avrebbe voluto, ma di colpo si trovò all'interno di una grande stanza molto areata e sprofondata nell'ombra. La prima cosa che lo colpì fu proprio l'assenza-presenza della luce, poi il verde, l'unico colore presente: verde e foglie, verde e rami sottili, verde e erba morbida e fresca. Avanzò. Sentiva intorno a sé il fresco soffio dell'aria ed un leggero profumo salmastro, come se quel bosco non fosse all'interno di un labirinto sconosciuto, ma sulle rive di un mare profondo ed amico. Avanzò. E ancora i suoi passi gli trasmisero la fresca sensazione dell'erba sotto i piedi: si sentiva diviso tra il condizionamento dell'Accademia ed una curiosità infantile. Ogni cosa ora lo colpiva con un'intensità profonda, tale da fargli dimenticare le stanze e le meraviglie scorte poco prima. L'ombra delle piante andò diradandosi dinanzi ai suoi occhi, e lentamente emerse in un piccolo spiazzo. Lì la vide! E il suo sangue guizzò veloce, riempì vasi ed arterie, raggiunse il cuore con la violenza di un maglio, spazzò via l'Accademia e la sua compassatezza, raggiunse il cervello e spinse i suoi occhi a socchiudersi per la sorpresa. Era seduta ai piedi di una piccola aiuola, tra fiori violacei, con i capelli biondi, e gli occhi dalle iridi verde acqua. Fiori in un labirinto? Fu il primo pensiero, e poi cominciò subito a riprendersi da quella specie di urto psichico: non era una cosa normale incontrare una donna in un luogo come quello, dopo tutto ciò che aveva provato, e non seppe più cosa fare, adesso che il suo muro di difesa era completamente crollato, sconvolto da quell'incontro. «Cerchi qualcosa straniero?» «M.. mi chiamo Marcus...» Riuscì a balbettare in preda ad una confusione assoluta. L'unica risposta che gli venne alle labbra, fu: «Sono al tuo servizio.» Si rese però improvvisamente conto di quanto potessero sembrare stupide le sue parole, ma era stato più forte di lui, e aveva dovuto ossequiare
quella creatura. «La Signora delle Nuvole ti ringrazia. Ma vieni pure avanti, le mie piante ti lasceranno passare ora: sappiamo che non hai intenzioni malvagie...». Fu un gesto pieno di grazia e dolcezza quello con cui la donna lo invitò ad avanzare, e Marcus si avvide che minacciosi tentacoli verdi si erano silenziosamente avvicinati alla sua schiena. Si mosse, cercando di non pensare alle sinistre gocce bluastre che pendevano dalle estremità appuntite di quei rami. I fiori vicino ai quali era seduta la donna mandavano un leggero profumo, un profumo sottile come una lama, ma pungente e gradevole. «Vieni, siediti vicino a me. È tanto tempo che non vedo nessuno. Il Guardiano deve proteggermi, ma ho nostalgia dell'acqua del mare e dei laghi. Sono anni che non ascolto più i fiumi scorrere. Vieni, si sta bene vicino ai fiori di Kela. Io stessa li scelsi quando i miei compagni partirono; mi avrebbero ricordato qualcosa di loro e delle mie vite passate...» «Signora, scusate il mio ardire, ma cosa fate quaggiù?» «Aspetto, mio caro Marcus, aspetto che tornino a prendermi. Ma ora non fatemi domande; piuttosto, da dove venite voi?» «Il mio pianeta è lontano, molto lontano da questo... Ma siete sicura che qualcuno tornerà a prendervi? Questo Tempio è isolato da centinaia di anni...» L'espressione di sgomento che Marcus vide dipingersi sul volto della donna fu terribile: le sue iridi verticali, simili a quelle di uno splendido gatto, si spalancarono trasformando il verde in un amaranto scuro. «Centinaia di anni avete detto? Isolato? Cosa ne è stato di Koria? Dite di non aver visto una grande città qui intorno?» Marcus cercò di capire. «Città? No, i Principi d'Acqua hanno delle leggende su una grande città della Palude, ma io non ne ho mai viste.» «Vi prego, non burlatevi di me. Non è possibile che mi abbiano abbandonato su questo mondo. Possibile che non abbiate incontrato qualcuno che mi somigliasse? Vedete? I miei occhi sono diversi dai vostri, e anche i miei capelli: tutta la mia famiglia, i Signori di Cielo d'Albia, mi assomigliava!...» «Vi assicuro che questo pianeta, che io conosco col nome di Castle, non ha più nessuno come voi, e qui intorno c'è solo una piccola città dei Principi d'Acqua... Di una cosa sono sicuro, che loro non vi assomigliano.»
«Ma allora cosa è successo? Dov'è finita la mia gente?» Lo sconforto sul bel viso della donna era tale, che Marcus si sentì spinto a stringerle le mani, lui che non era certo molto versato nell'arte amatoria, recluso com'era stato nell'Accademia durante i lunghi anni della sua preparazione. «Mia Signora, mi duole, ma sono sicuro che la vostra razza non è più in questo braccio della galassia.» La donna tolse di scatto le mani dalla stretta di Marcus, e lo guardò con uno sguardo impaurito. «Come fate a dire questo? Ma cosa, cosa è successo...?» Marcus iniziò a raccontare, e le spiegò tutto. Raccontò dei mondi che lui conosceva, della sua difficile infanzia di Erede della Mano Destra, dei suoi studi, degli insegnanti e delle conoscenze che l'Accademia gli aveva fornito in previsione delle sue future missioni. Parlò a lungo e disse cose che forse non avevano importanza, ma lui non riusciva a sopportare la vista di quel piccolo volto disperato. Cercò di nascondere la sua angoscia, e quella della donna, dietro una cascata di parole che alleviassero la sua sofferenza. «Ma piuttosto, ditemi; voi avete parlato di un Guardiano... Io ho dovuto faticare per entrare nel tempio, e ho anche subito un attacco mentale piuttosto pesante... Cosa o chi è questo Guardiano?» La donna lo guardò incuriosita. «Perché vi interessa? Il Guardiano è una macchina da difesa, i miei compagni e familiari mi lasciarono in sua custodia quando...» S'interruppe, e guardò verso Marcus con una strana espressione in volto. «Voi state pensando che il Guardiano sia andato oltre i suoi compiti? «Ma era solo una macchina, e come poteva?... Forse, forse...» Si alzò di scatto, e Marcus poté ammirare la sua figura, piccola, ma ben proporzionata. Non c'erano dubbi sulla sua appartenenza al ceppo umanoide. «Venite Marcus, c'è qualcosa che devo controllare. Il Guardiano dispone di un circuito per l'animazione sospesa, e voi mi dite che questo pianeta ha subito una rivoluzione climatica... Se è vero quello che penso, il Guardiano può avermi bloccato qui per un tempo ancora superiore a quello che potete immaginare!» Marcus strinse la mano che lei gli tendeva, e la seguì abbandonando la grande stanza-serra.
Il Guardiano ascoltava. Aveva ascoltato in attesa di un passo falso da parte dello straniero. I Principi gli avevano ordinato di difendere la Signora delle Nuvole, e Corinna di Koria non avrebbe dovuto temere nulla da nessuno. La sua padrona andava difesa da tutto e da tutti: nessuno avrebbe dovuto rompere l'incanto. Un circuito d'attacco lampeggiò rosso, e il Guardiano azionò nuove armi. Il Guardiano rimase in ascolto. Marcus continuava a correre, sempre stringendo la mano della donna, ma, superato lo shock dell'incontro, iniziava anche a porsi delle domande. Si fermò di colpo. «Mia Signora, perdonatemi, ma c'è qualcosa che debbo chiedervi prima di affrontare questo vostro Guardiano. È evidente che apparteniamo a due razze diverse, ma come mai parlate una lingua tanto simile alla mia anche se con molti arcaismi? E poi, cosa ne è stato della vostra gente? Un mondo non può scomparire così, senza lasciare neanche una piccola traccia.» La donna si volse a guardarlo con un'espressione spazientita. «No, la mia razza non può essere molto dissimile dalla vostra, ed Albia era grande quando la mia gente viaggiava in questo ramo galattico. «Non riesco a credere che non sappiate niente di noi: forse la vostra preparazione non è così accurata come credete.» Di colpo, vaghi ricordi, frammenti di voci, immagini, tornarono alla mente di Marcus. Era solo una leggenda, ma forse le storie che Malthus gli raccontava sulla razza degli esploratori, gli Uomini di Cielo Alto, si riferivano proprio alla gente della Signora delle Nuvole. Tremò un attimo pensando all'antichità di quelle storie, ma non disse nulla: non voleva appesantire ancora di più il fardello della donna. «È vero, può darsi che qualcosa mi sfugga, ma ora sbrighiamoci, quel vostro Guardiano potrebbe non gradire più a lungo la mia presenza qui, ed io non potrei più aiutarvi a trovare le risposte che cercate.» Continuarono ancora a correre senza parlare per alcuni minuti, mentre a Marcus quei corridoi sembravano tutti uguali, anche se ora la sua mente di Accademico li registrava uno per uno incasellandoli come piccoli mattoni. Correre così, stringendo per mano l'ultima rappresentante di una razza scomparsa da centinaia e centinaia di anni, gli dava una strana sensazione,
come se quella donna non facesse veramente parte del suo mondo, di quel mondo da cui si stava sempre più allontanando per andare a cercare risposte inutili da un calcolatore folle e psicopatico. Ad un certo punto, Marcus si accorse che stavano compiendo una stretta spirale, angolo dopo angolo, muro dopo muro, e che il corridoio si era leggermente ristretto. Anche la donna ora stava rallentando: che si fosse stancata? Oppure erano vicini alla loro destinazione? La Signora delle Nuvole si fermò e si volse verso di lui. Una voce strana, priva di vita eppure con una sfumatura d'impazienza, echeggiò d'improvviso intorno a loro. «Dama Corinna di Koria, allontanatevi; l'estraneo che è con voi non ha un suo posto in quest'ambiente e deve essere eliminato al più presto. Vi ripeto, allontanatevi, perché, fino a quando sarete con lui, m'impedirete di adempiere al mio compito.» La donna lanciò a Marcus uno sguardo preoccupato ed insieme stupito. «Guardiano, quest'uomo è con me, e non è affatto una minaccia per la mia sicurezza. Non c'è nessun bisogno di eliminarlo.» «Mia Signora,» riprese la voce come se Corinna non avesse parlato, «con voi è presente un organismo alieno. I miei schemi di accettazione non presentano alcun modello simile a lui. Il mio primo incarico è quello di proteggervi. Allontanatevi: tra quindici secondi entrerà in funzione uno dei bio-meccanismi di difesa. Ripeto, allontanatevi.» Marcus era rimasto di sasso. Non si aspettava di certo quella reazione da parte del Guardiano; lui non aveva alcuna intenzione di nuocere e si era solo difeso dal suo attacco... «Mancano solo cinque secondi all'entrata in funzione del biomeccanismo. Ripeto, allontanatevi.» Non c'erano emozioni in quella voce, eppure si notava un leggero sottofondo d'isterismo, come una nota falsa, una piccola serie di pause che sembrarono preoccupare la donna. «Marcus dovete andarvene. C'è un solo sistema per bloccare i biomeccanismi di difesa, e ce lo siamo lasciati indietro dieci corridoi fa. «Venite con me, cercheremo insieme la consolle e forse riusciremo anche a scoprire cosa ha spinto il Guardiano ad agire così...» In lontananza risuonò una nota acuta e squillante. La donna diede una spinta violenta a Marcus. «Presto. Non c'è più tempo!»
Ripresero a correre, ma questa volta all'indietro, e c'era ansia e nervosismo nei movimenti della donna. Alle loro spalle, nonostante il pavimento soffice, potevano udire un pesante ansimare, come una sorta di rantolo, ancora lontano, ma che si avvicinava di momento in momento. Corsero ancora, poi Corinna gettò un grido. «Eccola, ce l'abbiamo fatta!» Lasciò di colpo la mano di Marcus, e si gettò verso una parete che agli occhi dell'Accademico era solo una macchia di colori indistinti. La vide che armeggiava toccando qua e là, ma l'ansimare era sempre più vicino, sempre più profondo. Marcus si appoggiò ad una parete e pensò. Gli ipno-istruttori dell'Accademia dovevano certo avergli instillato una procedura di difesa. Si lasciò scivolare in un leggero stato di trance, ed immediatamente, stimolato dall'afflusso di adrenalina, scattò un meccanismo nascosto dietro le nozioni più semplici. Il bio-meccanismo apparve all'improvviso, veloce e scintillante; era un uomo, o forse non lo era più, ma quello che colpiva erano le mani ridotte ad una selva di lame lucenti e minacciose. Marcus si abbandonò completamente ai movimenti che la sua mente gli suggeriva. Vide il meccanismo osservare indeciso, per un attimo solo, le due figure che aveva davanti: da una parte Corinna che armeggiava disperatamente, dall'altra Marcus rannicchiato su se stesso, e si diresse veloce verso l'uomo. Non era un attacco per immobilizzare, ma per uccidere. Le lame saettarono fulminee verso la gola di Marcus, ma l'Accademico già non si trovava più nel punto in cui era stato sferrato il colpo. Per una decina di secondi continuarono quella schermaglia, con Marcus che evitava i colpi, e l'automa che continuava inesorabile a seguirlo. Marcus avrebbe voluto scoprire un punto debole in quella macchina, ma sembrava che il suo avversario non ne possedesse. Dopo un ennesimo colpo a vuoto, Marcus si girò a mezz'aria e, mentre stava ricadendo, colpì di misura la tempia dell'automa con la punta dello stivale. Nulla. Come se invece di un avversario avesse colpito un muro di mattoni. Poi le cose si complicarono. Marcus non riusciva più a tirare il fiato, e
anche se le istruzioni dettate dalla sua mente gli avevano finora evitato colpi mortali, non aveva potuto sfuggire a due profondi graffi. All'improvviso, mentre si chinava per evitare l'ennesimo colpo, perse l'equilibrio e cominciò a cadere. Atterrò sulla schiena, e iniziò a rotolare cercando di sfuggire all'assalitore, ma questo non lo seguì; rimase immobile, il braccio alzato come per vibrare l'ultimo colpo. Marcus si alzò da terra, e si riavvicinò a Corinna che se ne stava appoggiata alla parete. Si terse il sudore dalla fronte con la manica della giubba. «Siete riuscita a fermarlo in tempo. Non avrei certo potuto resistere ancora per molto...» La donna non rispose. Lo guardò un attimo, poi riprese la strada già percorsa senza dire una sola parola. Marcus la seguì. Sentiva il cuore salirgli fino alla gola, e le sue gambe tremavano per l'intensa reazione alla fatica sopportata, ma non se la sentiva di rimproverare Corinna per quel suo silenzio. In fondo adesso era sicura che il Guardiano l'aveva enucleata dal suo mondo, rubata al suo tempo e ai suoi affetti. Cos'altro poteva volere se non trovare una risposta alle sue domande? Tornarono indietro, e questa volta la donna non si fermò, ma lo condusse direttamente dinanzi ad un grande portale di metallo scuro. Toccò delicatamente alcune manopole e la porta si spalancò silenziosa. Entrarono, e intorno a loro apparve un leggero alone verdastro. «Niente paura Marcus, si tratta solo di una sterilizzazione preventiva. L'ambiente in cui è rinchiuso il Guardiano è perfettamente sterile ed è necessario che...» Non poté terminare le sue spiegazioni. «Non siete autorizzati ad entrare! Allontanatevi da quest'area! Ripeto, non siete autorizzati a penetrare in quest'area...» La stessa voce di prima, ma ora le sfumature di isterismo erano più accentuate. «Guardiano, ti avevo ordinato di sospendere l'attacco: non c'era nessun pericolo immediato e non era necessario alcun aiuto.» «C'è sempre pericolo mia Signora. Io devo proteggere voi, e soprattutto me stesso... Ora allontanatevi, farò in modo che l'estraneo possa tornare indietro, ma voi dovete uscire di qui.» «Basta! Finiamola con questa storia! Se ciò che mi ha raccontato l'uomo che è con me è vero, tu mi hai tenuta in animazione sospesa per troppo tempo, e le mie vene si seccano se penso che i miei compagni sono morti e
io sono stata sradicata da tutto...» La voce della donna si spense lentamente, sino a divenire un sussurro sottile, poi di scatto corse verso la parete, e iniziò a colpirla con i pugni. Marcus cercò di fermarla, ma non ci riuscì. Aveva i denti serrati e le nocche delle mani le sanguinavano per la violenza con cui colpiva la superficie lucida. «Corinna calmatevi...» All'improvviso, nella sala si udì un sibilo violento che man mano crebbe d'intensità. Sembrava rimbalzare da parete a parete, scuoteva i capelli della donna, piegava le gambe di Marcus, colpiva i pannelli metallici della porta, urlava e gridava come un vento di tempesta... Marcus cadde a terra stringendosi la testa con le mani, ma dopo un attimo si accorse che stava diminuendo lentamente d'intensità. «No, il tempio deve essere difeso. Io sono il Guardiano e nessuno dovrà abbattere queste mura. Nessuno potrà uscire da queste mura... NO! la mia Signora non dovrà abbandonarmi e fuggire via... Basta, basta... È troppo tempo... TROPPO!» Il sibilo diminuiva d'intensità lasciando il posto ad una sorta di rantolo, un singhiozzo profondo che legava i denti e faceva tremare le mani. Il Guardiano piangeva! Corinna guardò Marcus negli occhi. Anche lei, adesso che la sua rabbia era sfumata, non capiva più. «Credo... Credo che il vostro attacco lo abbia sconvolto. Ma ancora non sappiamo nulla.» Corinna non rispose. Ora anche lei stava piangendo, pian piano, piccoli singhiozzi che la squassavano. L'ambiente si andava saturando di un'atmosfera malinconica e disperata, che costringeva Marcus a bloccare saldamente le sue difese. «I vostri compagni non torneranno... Loro vogliono abbattere il tempio, loro... «NO! Io sono il Guardiano, e nessuno può distruggere il tempio, nessuno può calpestarlo, rovinare i corridoi, spegnere lo scintillio... «NO!» A Marcus sembrò che la parete si gonfiasse, e di colpo avvertì una pressione mentale fortissima. Di nuovo il dolore, e questa volta c'era silenzio; di nuovo stava per scatenarsi la tempesta mentale che l'aveva colpito all'ingresso.
Il Guardiano doveva essere completamente impazzito. Forse lui stesso aveva fatto in modo che la gente di Cielo Alto non potesse tornare su Castle a riprendere Corinna, forse... Ma adesso non c'era più tempo per nessuna domanda; adesso doveva assolutamente difendersi, e difendere la donna che era con lui, da quell'attacco insensato e folle. Mentre si lasciava scivolare a terra cercando di raggiungere una posizione che gli permettesse di penetrare nelle difese del Guardiano, ebbe una risposta agli interrogativi che l'avevano chiamato su Castle. Ecco da dove veniva la tossina che aveva minacciato di distruggere il popolo dei Principi d'Acqua. Non demoni come pensava Sorg Ul, ma solo una macchina impazzita che si difendeva da tutto e da tutti distruggendo ciò che poteva minacciarla... Scivolò di colpo nell'incoscienza. Di fronte alla sua piramide, si elevava un muro screziato da vapori grigiastri di paura e sfumati di rossa follia. In un angolo c'era un piccolo nucleo indifeso; una minuscola macchia rosata, completamente esposta alle lance di dolore e paura che il muro stava spargendo intorno a se insensatamente. Il Guardiano doveva aver perso completamente il controllo, perché minacciava ad ogni istante di colpire la sua padrona... Marcus stese pazientemente, tratto su tratto, una barriera intorno al nucleo di Corinna. La sentì vicina a sé, tremante ed impaurita; sentì che si stringeva per cercare qualcosa che la rassicurasse, che spezzasse la catena d'incertezze cui lui stesso l'aveva legata. Intanto il muro del Guardiano cresceva, mentre sferrava colpi su colpi contro Marcus che non poteva reagire, intento com'era ad erigere una difesa anche per la donna. Improvvisamente il nucleo mentale di Corinna pulsò e cominciò ad espandersi. «Non preoccuparti... Lascialo a me. Anche noi conoscevamo questo tipo di lotta, ed io conosco bene il Guardiano. Aiutami, seguimi, ora è completamente esposto e non ha più difese.» Marcus ascoltò la donna e lasciò che la sua sfera si allargasse, diventasse di un verde brillante, ampia e pulsante di vita; la vide lanciare pseudopodi in tutte le direzioni, e poi seguì un sottile filamento fondendosi con esso. Il Guardiano colpiva alla cieca avventandosi contro ogni ombra di coscienza che giungesse alla sua portata e, mentre era occupato a tormentare
i bersagli suggeritigli dalla sua padrona, non osservò il sottile filamento verde e oro che, aguzzo come una lancia, penetrava nella crepa buia della sua follia. Fu un attimo, un momento di oscurità totale, e poi il muro scomparve! Corinna sapeva dove toccare per uccidere, e Marcus ebbe l'impressione di ascoltare un grido lontano, mentre il Guardiano scompariva nel limbo da cui l'avevano tratto i suoi costruttori. Ora rimanevano solo loro due, e mentre Marcus cercava di districarsi per tornare alla superficie, avvertì la stretta tenace ma delicata della donna. «Marcus, ora non potete mentirmi. Ho già visto che voi provate pietà per me, ma ditemi sinceramente: cosa sarebbe di me nel vostro mondo?» Marcus si divincolò, a disagio in quella stretta. «Corinna mi state chiedendo troppo... Non so...» «Diventerei un piccolo oggetto curioso vero? Una straniera tra stranieri. Anche se fossi legata a voi, avrei sempre voglia di fuggire, e dovreste costruire un altro Guardiano per tenermi compagnia e impedirmi di andarmene... Vero?» Marcus non cercò di nascondersi, perché sapeva bene che in quelle condizioni ogni sua risposta non avrebbe potuto celare la verità. «E l'Accademia mi userebbe come un oggetto da studiare e da mantenere in un campana di vetro. Non capita tutti i giorni una di una razza scomparsa, un'esule del tempo...» «Ma potrebbe non essere così.» «No, ma potrebbe anche essere peggio. No, io debbo andarmene, e ho anche la possibilità di farlo. La mia gente aveva sempre qualche nave in deposito nei nostri Centri. Non mi rimane altro che scomparire, partire, e cercare di ritrovare quelli del mio popolo. In fondo non ci sono poi molte galassie, vero? E l'universo non è così grande da non poterci incontrare di nuovo un giorno...» «Corinna, cosa...?» Per Marcus fu il buio. Era stato isolato. Intorno a lui non c'era più nulla, solo un leggero bagliore puntiforme in lontananza: la via d'uscita che Corinna gli aveva lasciato per tornare indietro, richiudendolo all'interno della sua mente. Rimase a lungo fermo, nucleo d'intelligenza immobile, a pensare, a confrontarsi, a guardare ricordi sfumati che scivolavano via. Andar via così all'improvviso... Ma Corinna aveva ragione. Non poteva
sfuggire ad un carceriere, per tornare a cadere in un'altra gabbia dalle sbarre dorate. Riemerse lentamente: voleva che la Principessa delle Nuvole potesse fuggire, scomparire senza lasciare la minima traccia di sé. Quando Marcus uscì dal tempio era quasi l'alba, e fuori c'era ad attenderlo Sorg Ul seduto dinanzi ad una delle piccole sfingi del viale d'ingresso. «Marcus, amico. Sapevo che saresti uscito. È vinto il nemico del mio popolo?» «Sì, Sorg: i Principi d'Acqua potranno ora godere di questo pianeta. «Non avrete più niente da temere, se non da voi stessi. Ma come facevi a sapere che sarei tornato?» «Ce l'ha detto l'altra notte la Signora delle Nuvole con gli occhi chiari. Ha detto a me di aspettarti, poi l'abbiamo vista svanire verso le paludi dell'Occidente. Ha lasciato qualcosa per te, amico e, mi ha detto di dartelo non appena ti avessi rivisto. In fondo, gli Dei non erano completamente a tuo sfavore.» L'umanoide tese una delle sue braccia sottili, e porse a Marcus un piccolo involto. Marcus lo prese, e subito avvertì un profumo familiare e la sensazione fresca di terra umida. Sciolse con cura l'involto, e nelle sue mani si sparsero alcuni boccioli dei fiori di Kela vicino ai quali aveva incontrato Corinna. Rimase a lungo ad odorare il loro profumo delicato mentre il sole saliva. Sorg Ul l'aveva lasciato da solo con i suoi ricordi, mentre lui stava vicino a piccoli fiori di un labirinto, e guardava il fantasma di una piccola donna che correva verso le stelle attraverso la grande palude dorata. FINE