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CHARLOTTE LINK NEMICO SENZA VOLTO (Das Echo Der Schuld, 2006) PROLOGO Aprile 1995 In sogno vedeva il ragazzino davanti a sé. Gli occhi luminosi. Il sorriso radioso. La fessura tra i denti. Le lentiggini, che d'inverno scomparivano per fiorire in primavera con i primi raggi del sole. I folti capelli scuri, ribelli, che sparavano da tutte le parti. Ne sentiva addirittura la voce. Molto chiara, melodiosa. Una voce infantile, morbida e allegra. Ne sentiva l'odore. Era un profumo del tutto particolare, che apparteneva a lui soltanto. Non era mai riuscito a descrivere con precisione quell'aroma, perché era unico. Forse una miscela del sale che il vento a volte trasportava nell'entroterra e di cui restava solo un vago sentore. E dell'aroma speziato che i raggi del sole fanno scaturire dalla corteccia degli alberi. Delle erbe che d'estate crescevano sul ciglio della strada. A volte aveva affondato il naso nei capelli del ragazzino per respirarne a fondo il profumo. Nel sogno lo fece di nuovo e avvertì quasi dolorosamente l'amore che nutriva per questo bambino. Poi la figura splendente del giovane cominciò a sbiadire e altre immagini le si sovrapposero. L'asfalto grigio di una strada. Un corpo senza vita. Un viso cereo. Il sole nel cielo azzurro, narcisi fioriti, primavera. Si drizzò a sedere sul letto, perfettamente sveglio da un momento all'altro, madido di sudore. Il cuore gli martellava forte e in fretta. Rimase sorpreso nel constatare come la donna che gli dormiva accanto non fosse stata svegliata dal battito del suo cuore. Ma era così tutte le notti, tutte le notti dopo l'incidente: non capiva come lei riuscisse a dormire, mentre lui era tormentato dalle immagini che lo strappavano ai sogni. Sempre le stesse: la strada, il corpo, il cielo azzurro, i narcisi. Per qualche motivo era anche peggio che fosse primavera. Nutriva l'assurda convinzione che avrebbe sopportato meglio le immagini se fossero state accompagnate da mucchi di neve sporca sul ciglio della strada. Ma probabilmente non era così. Non le
avrebbe tollerate ugualmente. Si alzò in silenzio, aprì l'armadio e prese una maglietta pulita. Quella che portava, fradicia di sudore, la lasciò cadere sul pavimento dopo essersela tolta. Tutte le notti doveva cambiarsi. Lei non si accorgeva neppure di questo. La finestra della camera da letto non aveva imposte e il chiaro di luna gli permetteva di distinguerla chiaramente. Il viso minuto e intelligente, i lunghi capelli biondi sparsi sul cuscino. Il suo respiro era regolare e tranquillo. La osservò pieno di tenerezza e subito si pose la domanda che si affacciava alla sua mente in tutte le sue notti insonni: il suo profondo amore per il ragazzino era dovuto al fatto che non riusciva a conquistare l'amore di lei? Aveva assorbito con tanta avidità il suo profumo perché lei diventava impaziente quando lui, a occhi chiusi, cercava di annusarle i capelli, la pelle? Si era lasciato incantare dal sorriso del bambino perché lei non gli regalava quasi più nessun sorriso? Forse, pensò, è assurdo rompersi la testa su certe cose. Perché il ragazzino sarebbe morto. Di notte lo sapeva con assoluta chiarezza. Di giorno usava la razionalità e si diceva che non doveva succedere per forza, che lui almeno non poteva prevederlo. Di notte, tuttavia, appena si ridestava dai sogni, non era la testa a parlargli, ma una voce del suo inconscio, che era impossibile mettere a tacere. Il ragazzino morirà. E sarà colpa tua. Cominciò a piangere in silenzio. Piangeva tutte le notti. Non doveva temere di svegliare la bella donna bionda nel suo letto; quella restava insensibile alle sue lacrime tanto quanto al battito del suo cuore e al suo respiro affannato. Aveva smesso già da tanto tempo di interessarsi a lui e non sarebbe stata in grado di ricominciare a farlo, solo perché la sua vita era stata funestata da una tragedia. Un paio di notti prima, aveva riflettuto su come sarebbe stato se se ne fosse andato e basta. Se avesse abbandonato la sua vita di sempre: la casa, il giardino, gli amici, la promettente carriera. La donna che non si interessava più a lui. Magari persino il suo nome, la sua identità. Tutto ciò che gli apparteneva. Soprattutto anche le immagini che lo tormentavano, ma non si faceva illusioni: di quelle non si sarebbe mai liberato. L'avrebbero seguito come la sua ombra, sarebbero sempre state dov'era lui. Ma forse le avrebbe sopportate meglio, se restava sempre in movimento, se non si fer-
mava troppo a lungo in un posto, se non indugiava da nessuna parte, se non metteva più radici. Non era possibile sfuggire alla propria colpa. Ma si poteva cercare di correre abbastanza in fretta da non dover guardare continuamente quei lineamenti sconvolti. Forse era un pensiero giusto. Quando il ragazzo fosse morto, sarebbe andato via. PRIMA PARTE Domenica, 6 agosto 2006 Rachel Cunningham vide l'uomo quando, dalla statale, imboccò la stradina senza uscita che portava alla chiesa e poco oltre la canonica. Teneva un giornale sottobraccio, stava all'ombra di un albero e si guardava intorno con aria distratta. Se la domenica precedente non fosse stato nello stesso identico posto, Rachel non avrebbe fatto caso a lui. Ma vedendolo di nuovo pensò: Che strano. Ancora lui! Dalla chiesa provenivano le note dell'organo e il canto dei parrocchiani. Bene, la messa non era ancora finita. Le restava ancora del tempo prima dell'inizio del catechismo. Se ne occupava Donald, un simpatico studente di teologia. Rachel aveva una piccola cotta per Don, come lo chiamavano i bambini, per questo le piaceva arrivare un po' in anticipo, per assicurarsi un posto in prima fila. Le lezioni di Don si tenevano nella canonica. Rachel aveva scoperto che se si stava seduti davanti si ottenevano più incombenze. Per esempio pulire la lavagna, o aiutare a caricare il proiettore delle diapositive. Vista la sua infatuazione, Rachel ambiva molto a questi piccoli privilegi. La sua amica Julia, tuttavia, sosteneva che a otto anni Rachel era troppo giovane per un uomo adulto e non sapeva ancora niente del vero amore. Come se Julia fosse in grado di giudicarlo, pensò Rachel. Rachel frequentava il catechismo tutte le domeniche, a parte quelle in cui i genitori svolgevano qualche attività insieme ai bambini. La domenica successiva, per esempio, compleanno della sorella della mamma, sarebbero partiti di mattina presto per andare da lei a Downham Market. Rachel sospirò. Niente Don. Una stupida, noiosa giornata con tanti parenti che parlavano incessantemente di cose che non la interessavano. E subito dopo sarebbero iniziate le vacanze. Per quasi due settimane. In una stupida casa di
vacanza sull'isola di Jersey. «Ciao», disse lo sconosciuto quando lei gli passò davanti. «Allora, che cos'è che ti ha rovinato il buonumore?» Rachel trasalì. Non pensava che i suoi malinconici pensieri si riflettessero tanto chiaramente sul suo viso. «Ma niente», rispose, mentre si accorgeva di arrossire leggermente. L'uomo sorrise. Aveva un'aria simpatica. «Non importa. Del resto non bisogna dare confidenza agli sconosciuti. Dimmi una cosa, stai andando in chiesa? Sei un po' in ritardo, sai.» «Vado al catechismo», rispose Rachel, «che inizia alla fine della messa.» «Mhm, ho capito. Se ne occupa... ma sì, come si chiama...?» «Donald.» «Esatto. Donald. Una mia vecchia conoscenza. Abbiamo avuto a che fare insieme qualche volta... io sono parroco, sai. A Londra.» Rachel valutò se fosse corretto che lei se ne stesse lì a parlare con un perfetto sconosciuto. I suoi genitori le ripetevano sempre che non doveva fermarsi a parlare con gli estranei e doveva continuare per la sua strada, se qualcuno cercava di importunarla. D'altra parte, quell'uomo aveva un'aria così simpatica, e la situazione le appariva del tutto sicura. Una limpida giornata di sole. Le voci che risuonavano in chiesa. Sulla strada poco più avanti c'erano molti passanti. Che cosa poteva mai succedere? «Sai una cosa», proseguì l'uomo, «a essere sincero speravo proprio di incontrare qualcuno del catechismo. Ed esattamente qualcuno che potesse aiutarmi. Tu mi sembri molto sveglia. Credi di saper mantenere un segreto?» Eccome se Rachel era capace. Julia le aveva già confidato molti segreti, e lei non li aveva mai raccontati in giro. «Certo», rispose lei. «Vedi, vorrei fare una sorpresa al mio vecchio amico Donald», disse l'uomo. «Non si immagina che io sia tornato da queste parti. Sono stato a lungo in India. Sai che cos'è l'India?» Rachel sapeva che era un paese molto lontano e che quelli che vi abitavano avevano la pelle più scura degli inglesi. Nella sua classe c'erano due bambine indiane. «Non ci sono mai stata», replicò. «Però ti interesserebbe vedere delle fotografie di quei posti? Dei bambini nei loro villaggi? Come vivono e come giocano, dove vanno a scuola. Non sarebbe divertente?»
«Certo. Eccome.» «Visto? Io ho tantissime diapositive dell'India. Mi farebbe molto piacere mostrarle durante una delle vostre lezioni di catechismo. Ma ho bisogno di qualcuno che mi faccia da assistente.» Rachel non capiva. «Che cosa vorrebbe dire?» «Ecco, mi serve qualcuno che mi aiuti a portare dentro le scatole con le diapositive. Ad appendere lo schermo. Credi che saresti in grado di farlo?» Sembrava proprio uno degli incarichi che Rachel amava tanto. Si immaginò la sorpresa di Don, quando l'avrebbe vista arrivare con quel suo vecchio amico e poi gli avrebbe mostrato le diapositive di quel paese lontano. Chissà come sarebbe stata invidiosa Julia! «Certo che potrei! Sicuramente! Dove sono le diapositive?» «Aspetta», la bloccò l'uomo. «Non le ho qui con me. Non sapevo che avrei incontrato una persona così svelta e disponibile come te. Pensavo di portarle domenica prossima, che ne dici?» Rachel fu assalita dalla paura. Proprio la domenica successiva! Quella che avrebbe trascorso a Downham Market dalla zia... e subito dopo c'erano le vacanze sull'isola di Jersey... «Oh, ma è terribile! Non ci sono! I miei genitori...» «Allora dovrò trovare qualcun altro», disse l'uomo. Era una prospettiva insopportabile. «La prego», lo implorò Rachel, «non potrebbe aspettare...» fece un rapido calcolo mentale, «... ancora tre settimane? Vede, partiamo per le vacanze. Ma quando saremo tornati mi piacerebbe molto aiutarla. Davvero!» «Mhm», fece l'uomo pensieroso. «È parecchio tempo», disse. «La prego», lo supplicò Rachel. «Credi davvero di riuscire a mantenere il segreto per tutto questo tempo?» «Certo. Non lo dirò a nessuno! Parola d'onore!» «Non dovrai parlarne con Donald, perché voglio fargli una sorpresa. E nemmeno con mamma e papà. Pensi di riuscirci?» «Non racconto mai niente a mamma e papà», dichiarò Rachel. «A loro non interessa quello che faccio.» Non era del tutto vero, e Rachel lo sapeva. Ma da quando era nata la sua sorellina Sue, tre anni prima, era cambiato tutto. Rachel non l'aveva voluta. Prima era stata lei il centro del mondo per mamma e papà. Adesso tutto ruotava intorno a quel piccolo demonio, che doveva essere sorvegliato a vista.
«E alla tua amica del cuore?» si assicurò l'uomo. «Non dirai niente neppure a lei?» «No. Lo giuro!» «Bene. Bene, ti credo. Mi raccomando, allora, ci vediamo fra tre settimane vicino a casa mia. Poi andiamo da me e tu mi aiuti a caricare in macchina l'attrezzatura. Tu abiti in King's Lynn, giusto?» «Sì. Qui a Gaywood.» «Bene. Allora conoscerai di sicuro Chapman's Close.» Lo conosceva. Un quartiere nuovo di palazzine non ancora ultimate. La via terminava in un viottolo di campagna. Un posto alquanto solitario. A volte Rachel e Julia ci andavano con la bicicletta. «So dove si trova», disse. «Domenica fra tre settimane? Alle undici e un quarto?» «Ok. Ci sarò di sicuro!» «Da sola?» «Naturale. Davvero, può fidarsi di me.» «Lo so», replicò lui, rivolgendole di nuovo il suo simpatico sorriso. «Sei una ragazzina grande e assennata.» Lo salutò e si avviò verso la casa parrocchiale con il petto gonfio di orgoglio. Una ragazzina grande e assennata. Ancora tre lunghe settimane. Non vedeva l'ora che passassero. Lunedì 7 agosto Lunedì 7 agosto scomparve l'unica figlia di Liz Alby. Era una giornata d'estate senza nuvole, così calda che sembrava di essere in Spagna o in Italia, ovunque fuorché in Inghilterra. Anche se Liz si arrabbiava sempre per le frasi scontate a proposito del clima inglese. In realtà non era poi così pessimo, solo che la gente amava restare attaccata ai propri cliché. Di sicuro era una questione di zona. La parte occidentale, dove arrivavano le nuvole che avevano viaggiato per migliaia di chilometri sopra l'Atlantico, era decisamente umida e anche su nello Yorkshire e nel Northumberland pioveva spesso. Ma giù nel Kent i contadini si lamentavano spesso delle estati troppo asciutte e anche nella regione natale di Liz, l'East Anglia, a luglio e agosto si rischiava di fare delle belle sudate. A Liz piaceva il Norfolk, sebbene non le riuscisse sempre facile apprezzare la vita in generale. Men che meno da quattro anni e mezzo in qua, da quando
era venuta alla luce Sarah. Era una tragedia rimanere incinta a diciott'anni e per pura stupidità, perché ci si era fidati di un tipo che garantiva «tranquilla, sto attento». Evidentemente Mike Rappling non aveva la minima idea di come fare a stare attento, visto che già al primo incontro sessuale con Liz aveva fatto centro. In seguito Mike si era pure arrabbiato, aveva dichiarato che Liz lo aveva ingannato, che voleva costringerlo a sposarla ma lui avrebbe fatto fuoco e fiamme, prima di lasciarsi incatenare alla sua giovane età. Liz aveva versato fiumi di lacrime. «E non pensi alla mia giovane età? E alle mie catene? Adesso mi ritrovo con un figlio a carico e la mia vita è rovinata!» Come era prevedibile, Mike non si era preoccupato eccessivamente. Si era categoricamente rifiutato di sposare Liz e alla nascita della bambina, quando il problema del mantenimento si era fatto urgente, aveva preteso addirittura che venisse eseguito un test per stabilirne la paternità. Se non altro in seguito non aveva più potuto mettere in dubbio la propria responsabilità come genitore. Pagava controvoglia, e pure in ritardo, ma dopo un paio di brevi contatti aveva perso qualsiasi interesse per la figlia. Neppure Liz da parte sua nutriva un eccessivo interesse per la bambina, ma non le era rimasto nient'altro da fare che occuparsi, bene o male, di lei. Aveva sperato che la madre, con la quale abitava ancora, le avrebbe dato una mano, ma Betsy Alby era rimasta profondamente scioccata dall'idea che in futuro nel minuscolo alloggio popolare nello squallido quartiere di King's Lynn avrebbe risuonato il pianto di una neonata e aveva fatto capire alla figlia in maniera inequivocabile che era un problema suo e che lei non voleva preoccuparsene. «È tua figlia! Ed è stata la tua stupida dabbenaggine a cacciarti in questa situazione! Non pensare che ci sia qualcuno pronto a toglierti questa castagna dal fuoco. Di sicuro non io. Puoi considerarti già fortunata se non vi sbatto tutte e due fuori di casa.» Aveva brontolato e imprecato e anche dopo la nascita della bambina non aveva dimostrato il minimo istinto da nonna. Aveva tenacemente mantenuto la sua minaccia di «non gettare neppure un'occhiata a questo peso». Anche se stava tutto il giorno a casa a guardare la TV sgranocchiando patatine e bevendo grappa di basso costo a partire dal tardo pomeriggio - e pian piano anche prima - Liz non poteva lasciarle la figlia neppure quando andava a fare la spesa, ma doveva andare al supermercato con la carrozzina cigolante e la bambina urlante. Liz non aveva alcun dubbio: il prodotto di quel-
la avventata notte d'amore d'aprile doveva gestirselo completamente da sola. A volte era stata prossima alla disperazione. Ma poi riusciva a risollevarsi e giurava a se stessa che non avrebbe permesso a niente e nessuno di rovinarle la vita. Era giovane e bella. Da qualche parte doveva esserci un uomo disposto a immaginarsi una vita insieme a lei, nonostante il fardello che si portava appresso. Una cosa era sicura: non voleva restare per sempre nel tetro alloggio della madre, dove anche nelle assolate giornate estive le tapparelle erano abbassate fin dal mattino, per vedere meglio le immagini sullo schermo e impedire che entrasse il caldo, che Betsy, sempre sudata, temeva peggio del diavolo l'acqua santa. Liz voleva un grazioso appartamento e soprattutto un piccolo balcone dove piantare dei fiori. Sperava di avere un marito premuroso, che a volte le facesse qualche piccolo regalo, biancheria carina oppure un profumo, e che si sentisse come un padre per Sarah. Doveva guadagnare abbastanza, in modo che lei potesse smettere di lavorare alla cassa del piccolo supermercato per una paga da fame. Nel fine settimana potevano andare in gita tutti e tre insieme, fare picnic e giri in bicicletta. Quante volte aveva visto le famigliole serene i cui membri si dedicavano a qualche attività tutti insieme. Mentre lei se ne usciva sempre da sola con la bambina che frignava, sempre in fuga dalla televisione perennemente accesa e dalla vista di sua madre che a quarant'anni ne dimostrava già sessanta e per Liz rappresentava l'esempio più spaventoso di una vita buttata via. Quella giornata di agosto prometteva fin dal primo mattino di essere splendida. L'asilo che Sarah aveva frequentato fino ad allora chiudeva per le vacanze e così anche Liz era stata costretta a prendere le ferie. Aveva intenzione di trascorrere la giornata sulla spiaggia di Hunstanton, per prendere il sole, fare il bagno e mettere un po' in mostra la sua figura decisamente carina, nella speranza che qualcuno ne restasse a tal punto affascinato da non considerare più la bambina di quattro anni e mezzo, che le sedeva accanto immusonita, come un ostacolo per allacciare una relazione. In effetti aveva tentato senza troppa convinzione di appellarsi all'altruismo della madre e di lasciarle Sarah per quel giorno, ma Betsy Alby rispose con un no secco, senza emozioni e senza nemmeno staccare lo sguardo dal televisore né smettere di attingere con gesti automatici al pacchetto di patatine. Liz e Sarah presero la corriera che passava in tutti i paesi intorno a King's Lynn e impiegò un'ora buona a raggiungere Hunstanton, ma Liz era così trepidante e di buonumore che non se la prese. Man mano che la meta
si avvicinava, aveva l'impressione di sentire sempre più forte il profumo del mare, anche se doveva essere una sua fantasia, visto che intorno a lei si sentiva solo l'odore del motore diesel dell'autobus. Il mare però le piaceva così tanto che il suo naso lo coglieva anche quando era del tutto impossibile. E quando alla fine si spalancò davanti ai suoi occhi, immenso e luccicante sotto il sole, si sentì invadere da una gioia intensa e profonda e per un attimo per lei ci furono soltanto la sua gioventù e la vita che le sorrideva, senza il peso della bambina piagnucolosa al suo fianco. Ma Sarah fece in modo di attirare subito l'attenzione su di sé. Non appena l'autobus attraversò il grande parcheggio di New Hunstanton, pieno di bancarelle di cibi e souvenir, giostre e gelati, Sarah cominciò a strillare alla vista dei cavallini di legno sui quali si poteva salire al prezzo di una sterlina per fare un paio di giri in cerchio. «No», disse Liz, che non aveva nessuna intenzione di gettare al vento così stupidamente i pochi soldi guadagnati. «Scordatelo! Se ti faccio fare un giro, tu poi vuoi farne un altro e un altro ancora e alla fine piangi lo stesso. Adesso invece cerchiamo un bel posticino prima che la spiaggia si riempia troppo.» Era il periodo delle vacanze, non solo in Inghilterra, ma praticamente in tutta Europa, e schiere di abitanti del luogo e di turisti si stavano riversando sulla spiaggia. Liz voleva poter sistemare le sue cose il più comodamente possibile, per non dover finire strizzata in un angolino tra altre famiglie numerose. Ma Sarah batté entrambi i piedi per terra. «Mamma... voglio andare... sulla giostra», frignò. Liz teneva con una mano la sacca da spiaggia, il cestino con la bottiglia di acqua minerale e dei panini e la paletta con cui Sarah avrebbe potuto giocare con la sabbia e con l'altra cercava di trascinare via la bambina che opponeva una strenua resistenza. «Vieni, andiamo a costruire un bellissimo castello!» disse nella speranza di convincerla. «La giostra!» gridò Sarah. Liz le avrebbe dato molto volentieri una sonora sculacciata, ma c'erano troppe persone e, considerati i tempi, era meglio se una madre sfinita non si faceva sorprendere a punire fisicamente la figlia. «Magari più tardi», disse. «Vieni, Sarah, fai la brava.» Sarah non ci pensava nemmeno lontanamente a fare la brava. Gridava e si dimenava, facendosi trascinare a peso morto dalla madre. In un attimo Liz si ritrovò sudata e di cattivo umore. Maledetto Mike, le aveva davvero
rovinato la vita. Ovvio che non riusciva più a trovare un ragazzo. Chi la vedeva com'era adesso tracciava una bella croce su di lei e non c'era modo di impedirlo. La sacca da spiaggia le scivolò a terra e un gentile signore gliela raccolse. Lei ebbe l'impressione di scorgere un lampo di compassione nel suo sguardo. Poi fu la volta della paletta, e toccò a un'anziana signora restituirgliela. Ancora una volta si rese conto che gli altri genitori avevano bambini molto più bravi; in ogni caso non vedeva da nessuna parte un'altra madre costretta a lottare come stava facendo lei. Le tornò in mente di come all'inizio avesse pensato ad abortire. Non era religiosa, ma aveva provato un indefinibile timore di una sorta di vendetta del destino, se avesse ucciso il figlio che portava in grembo. Oggi, mentre arrancava faticosamente verso la spiaggia, trascinandosi appresso quel piccolo mostro urlante, pensò di slancio: L'avessi fatto! Se solo avessi avuto il coraggio! Qualunque cosa cattiva mi fosse capitata di sicuro non sarebbe stata peggio di così! Finalmente erano arrivate in un punto che Liz aveva giudicato idoneo per trascorrervi la giornata. Aveva steso il proprio asciugamano e quello di Sarah e si era messa a costruire un castello di sabbia - per fare in modo che Sarah finalmente si calmasse. In effetti la piccola smise di piangere e partecipò entusiasta alla costruzione. Liz tirò un sospiro di sollievo. Forse Sarah avrebbe dimenticato la giostra e la giornata sarebbe trascorsa serenamente in armonia. Si mise in bikini, consapevole di fare un'ottima figura. L'aveva comprato nuovo, in saldo, ma comunque troppo caro per le sue modeste entrate, però non aveva saputo resistere. La madre ovviamente non avrebbe mai dovuto scoprirlo, altrimenti avrebbe cominciato a protestare che Liz poteva contribuire di più al bilancio familiare, se poteva spendere soldi in articoli di lusso. Come se avesse potuto continuare a portare lo squallido costume intero che possedeva da quattro anni. Se voleva trovare un marito, che la tirasse fuori dalla miseria, doveva fare qualche piccolo investimento in anticipo. Ma era del tutto inutile provare a parlare di certe cose con sua madre. Sarah era sempre impegnata a costruire il castello. Liz si sdraiò sull'asciugamano e chiuse gli occhi. Doveva aver dormito a lungo, perché quando riaprì gli occhi e si guardò intorno si accorse che il sole era alto in cielo: poteva essere quasi mezzogiorno. La spiaggia era ancora più affollata di prima; la gente si accalcava ovunque. Molti erano sdraiati a prendere il sole, alcuni giocavano a volano
o a bocce, oppure facevano il bagno. I bambini gridavano e ridevano, il mare calmo sciabordava piano. In lontananza si udiva il rombo indistinto di un aereo. Una giornata perfetta. Liz aveva il viso in fiamme; era stata per troppo tempo al sole e non si era messa neppure la crema protettiva. Per fortuna aveva una pelle robusta. Si voltò e vide che anche Sarah si era addormentata. Evidentemente i capricci e il gioco con la sabbia l'avevano stancata, perché era raggomitolata sul suo asciugamano, aveva il respiro lento e regolare e la bocca socchiusa. Grazie a Dio, pensò Liz. Quando dormiva, la figlia le appariva sempre incantevole. Le era venuta fame ma non le andavano i panini che si era portata, con la margarina rancida e il formaggio che sapeva sempre di sapone. Proprio accanto alla fermata dell'autobus c'era un chiosco dove si potevano trovare croccanti baguette ripiene di pomodori e mozzarella. A Liz piacevano molto e anche a Sarah. Con una bella Coca-Cola fresca al posto dell'acqua minerale tiepida che aveva portato da casa... Liz si alzò e tirò fuori il borsellino. Lanciò una breve occhiata alla figlia che dormiva. Se l'avesse svegliata adesso, avrebbe scoperto di nuovo la giostra dei cavallini e avrebbe ricominciato a fare i capricci. Se faccio in fretta, pensò Liz, tornerò subito e lei non si accorgerà di niente. Dorme così profondamente... C'era tanta gente intorno a lei. Che cosa sarebbe potuto mai accadere? Anche se Sarah si fosse svegliata e fosse andata in acqua, era impossibile che potesse annegare sotto gli occhi di tante persone. Impiegherò al massimo dieci minuti, pensò Liz, e si incamminò. La distanza era maggiore di quanto ricordasse; evidentemente lei e Sarah quel mattino avevano percorso un bel tratto sulla spiaggia. Ma era bello muoversi e lei si accorse chiaramente di essere seguita da molti sguardi maschili. Aveva un fisico invidiabile, nonostante la nascita della bambina, e il bikini era perfetto per lei, se n'era resa conto già al negozio. Chi la vedeva così non poteva immaginare nemmeno lontanamente che nella sua vita ci fosse un'appendice urlante. Era semplicemente una ragazza di ventitré anni, attraente e desiderabile. Cercò di assumere un'aria ottimista e allegra. Visto che dalla nascita di Sarah piangeva molto, aveva paura che le venissero le borse sotto gli occhi e la bocca all'ingiù. Doveva fare la massima attenzione perché nessuno notasse quanto si sentisse infelice così spesso. Arrivata al chiosco fu sfortunata: una squadra di pallamano era accalcata davanti e la maggior parte dei ragazzi non aveva ancora ben chiaro in men-
te che cosa scegliere e si scambiava proposte a voce alta. Un paio di loro si misero a flirtare apertamente con Liz e lei rispose alle loro avance piena di gioia e con la prontezza che le era innata. Com'era bello stare insieme a uomini attraenti e abbronzati e avvertire quale forza di attrazione esercitassero su di lei. Stava giusto riflettendo su come risolvere il problema Sarah, nel caso uno dei giovani volesse vedersi con lei, quando l'allenatore della squadra mise fine all'incontro e li sospinse via. In pochi secondi Liz si trovò da sola al chiosco e riuscì finalmente a comprare la Coca-Cola e la baguette. Mentre era sulla via del ritorno, si rese conto che erano passati venticinque minuti da quando era partita. Accidenti. Ora che arrivava sarebbe passata più di mezz'ora in tutto. Non avrebbe voluto allontanarsi per così tanto tempo. Pregò che Sarah non si fosse svegliata e non si stesse aggirando in lacrime tra degli sconosciuti. Immaginava già le occhiate di rimprovero degli altri. Naturalmente, una brava madre non faceva una cosa del genere, non lasciava la sua bambina da sola senza sorveglianza per esaudire un qualche proprio capriccio. Una brava madre non aveva più nessun capriccio. Viveva esclusivamente per la propria bambina e il suo benessere. Merda, pensò Liz, gli altri non si rendono conto. Adesso non avanzava più accompagnata da sguardi di ammirazione, ora correva. La bibita ondeggiava nella bottiglietta, i panini li teneva serrati contro il petto. Aveva il fiato corto e le venne dolore alla milza. Era faticoso correre sulla sabbia. Continuava a chiedersi come avesse potuto sbagliarsi tanto nel giudicare la distanza dal chiosco. Ecco il suo asciugamano. La sua borsa. La paletta. Il castello costruito da Sarah. L'asciugamano di Sarah, quello azzurro con le farfalline gialle. Ma Sarah non c'era. Liz si fermò, ansimando, si piegò per un attimo sul fianco dolente, ma si raddrizzò subito e si guardò intorno freneticamente. Eppure l'aveva lasciata lì, che dormiva, solo un attimo prima. Non un attimo prima. Circa quaranta minuti prima. Quaranta minuti! Non poteva essere andata lontano. Si era svegliata, si era spaventata perché non aveva trovato la mamma e adesso si aggirava nei paraggi. Se solo la spiaggia non fosse stata così gremita. Brulicava di persone che sembravano aumentare da un minuto all'altro. Come avrebbe potuto scovare una bambina piccola in mezzo a quell'intrico di gambe? Posò i panini e la bottiglia sul telo e tenne in mano solo il portafoglio.
Non aveva più appetito, al contrario, si sentiva la nausea e non poteva pensare di mandare giù nemmeno un boccone. Dov'era finita la piccola, maledizione? In preda all'angoscia si rivolse alla donna sdraiata vicino a lei, una signora piuttosto grassa con quattro bambini che le giocavano intorno. «Mi scusi, per caso ha visto mia figlia? È alta così», indicò la statura di Sarah con la mano, «capelli e occhi scuri... porta calzoncini azzurri e una maglietta a righe...» La signora grassa la fissò. «La bambina che dormiva qui?» «Sì, sì, esatto. Dormiva così bene e io... io sono corsa a prendere qualcosa da mangiare. Adesso che sono tornata...» Era evidente ciò che la donna grassa pensava del suo comportamento. «Ha lasciato qui da sola la bambina per andare fino al chiosco?» «Sì. Ma sono tornata subito», mentì Liz. Quaranta minuti! le martellava in testa. «L'ultima volta l'ho vista che dormiva. Ma poi non ci ho più badato, perché il mio Denis si è sentito male. Troppo sole.» Denis era seduto sulla sabbia e in effetti aveva un aspetto pallido e malaticcio. Ma lui almeno era ancora lì. «Non può essere andata lontano», disse Liz, per farsi coraggio. La signora grassa si rivolse a una conoscente seduta su un asciugamano più in là. «Per caso hai visto la bambina mora che dormiva qui? La mamma era andata al chiosco e adesso la bambina è scomparsa.» Ovviamente anche la conoscente dovette manifestare la propria indignazione per il comportamento avventato di Liz. «Fin laggiù? Io non avrei mai lasciato mio figlio da solo per tanto tempo.» Brutta idiota, pensò Liz di slancio. Alla fin fine nessuno aveva badato a Sarah. Né la signora grassa né la sua conoscente e nemmeno le altre persone lì intorno, interrogate da Liz in preda a un panico e una disperazione crescenti. Allargava le sue ricerche sempre di più, finché diventò assai improbabile che qualcuno potesse darle notizie sulla bambina. Raggiunse la riva dell'acqua, ma anche qui non trovò nessuna traccia di Sarah. Non poteva essere annegata. Sotto gli occhi di tante persone non era possibile che un bambino annegasse. Oppure sì? Un barlume di speranza si riaccese in lei al pensiero che Sarah si fosse diretta di propria iniziativa verso la giostra con i cavalli. Dopo tutto aveva
fatto un sacco di capricci per andarci. Liz rifece il tragitto fino alla fermata dell'autobus e vide effettivamente parecchi bambini sulla giostra, ma tra di loro non c'era Sarah. Chiese al proprietario. «È una bambina che si nota. Capelli scuri e lunghi, occhi scuri. Porta calzoncini azzurri e una maglietta a righe.» L'uomo ci pensò per qualche istante. «No», rispose, «oggi non è venuta nessuna bambina così sulla mia giostra. Ne sono sicuro.» Liz tornò indietro. Lungo il cammino scoppiò a piangere. Era piombata in un incubo. Si era comportata in maniera del tutto irresponsabile, e adesso veniva punita nel modo più tremendo. Punita per tutto: per l'idea di abortire, per le lacrime di rabbia quando Sarah le era stata messa tra le braccia dopo il parto, per le molte volte in cui aveva desiderato che quella bambina non esistesse, per tutte le sue proteste e maledizioni. Per la sua mancanza di istinto materno. Sarah non era sulla spiaggia, quando Liz tornò. La vista del suo piccolo asciugamano di colpo fece così male a Liz da indurla a versare di nuovo le lacrime tanto faticosamente ricacciate indietro. Accanto all'asciugamano il sacchetto con la sfortunata baguette e la bottiglia di Coca-Cola. Com'erano inutili quelle cose! Eppure fino a un'ora prima Liz aveva provato una tale voglia di averle da trascurare persino la sicurezza di sua figlia. La donna grassa, ancora al suo posto, la guardò piena di compassione. «Nessuna traccia?» le chiese. «No», rispose Liz singhiozzando. «Niente.» «Perché non mi ha chiesto di darle un'occhiata? L'avrei controllata io mentre andava a prendere da mangiare!» Già, perché non l'aveva fatto? Liz non se lo spiegava. Sarebbe stato così facile, chiedere a un'altra mamma di dare un'occhiata alla bambina addormentata. «Non lo so», mormorò. «Non lo so...» «Deve avvisare la polizia», si intromise la conoscente della signora grassa. Appariva sinceramente coinvolta, ma si intuiva anche che quella giornata alla spiaggia era diventata inaspettatamente molto emozionante per lei. «E i bagnini. Forse...» Non osò concludere la frase. Liz la guardò piena di rabbia. «Com'è possibile che una bambina anneghi? Ci saranno almeno cento persone nell'acqua. Voglio dire, qualcuno si accorgerebbe di una bambina che grida e si dibatte!» La signora grassa le posò una mano sul braccio. La sua partecipazione era autentica. «Non importa. Vada dai bagnini. Qui le sapranno dire che
cosa deve fare. Forse è possibile chiamare sua figlia con l'altoparlante. Di sicuro non è la prima volta che un bambino si perde in questa ressa. Non si scoraggi!» Le parole amichevoli dell'altra fecero crollare anche le ultime tracce di autocontrollo in Liz. Scoppiò a singhiozzare senza ritegno, si gettò sulla sabbia, si rannicchiò su se stessa senza riuscire ad articolare parola. Per il momento le sue energie erano del tutto esaurite. La signora grassa sospirò, si chinò vicino a lei e le prese la mano. «Venga. L'accompagno io. Elli sorveglierà i miei figli. Vedo che è sconvolta. Ma non deve abbandonare la speranza.» Liz si lasciò sollevare passivamente. In quel momento fu assalita dall'inspiegabile sensazione che non avrebbe mai più rivisto Sarah. Mercoledì, 16 agosto Quando lui le disse che sarebbero salpati il giorno seguente con l'alta marea per riprendere la navigazione, lei non sapeva se esserne felice o rattristarsene. Non si sarebbero dovuti fermare per settimane in un luogo come le Ebridi; il clima la tormentava, e le mancavano i colori dell'estate. Persino agosto lì sull'isola di Skye era fresco e ventoso, pioveva spesso e allora mare e cielo si fondevano in un grigio plumbeo e gli spruzzi sollevati dalle onde che si infrangevano contro la scogliera del porto di Portree lasciavano un alito gelido sulle labbra. Da qualche altra parte era estate, c'era un agosto sazio e ozioso di frutta matura, notti calde, stelle cadenti e rose tardive. Pensava continuamente alla sensazione dell'erba calda sotto i piedi nudi. A volte si struggeva a tal punto che sentiva salirle le lacrime agli occhi. Riprendere la navigazione significava arrivare prima o poi in acque più calde. Voleva scendere verso le Canarie, fare provviste lì e poi affrontare la traversata dell'Atlantico. Nathan progettava di trascorrere l'inverno ai Caraibi e se aveva fretta di salpare dipendeva dal fatto che voleva arrivare laggiù prima dell'inizio della stagione dei tifoni. Lei invece aveva paura di lasciare l'Europa, la prospettiva di trascorrere giorni e settimane in mezzo all'Atlantico la terrorizzava. I Caraibi le apparivano come un mondo lontano e sconosciuto, che le infondeva un'imprecisata paura. Avrebbe preferito svernare sulla Manica, sull'isola di Jersey o di Guernsey, ma Nathan le aveva spiegato che, pur essendo temperati, gli inverni lì erano anche molto
umidi. Una barca non era il luogo più confortevole dove soggiornare negli interminabili giorni di pioggia o con la nebbia che saliva dall'acqua ed era talmente fitta da impedire di vedere da un'estremità all'altra della barca. Avevano trascorso giusto una settimana su Skye e lei aveva appena cominciato ad abituarsi un poco all'isola, nonostante il tempo orribile. Era questo a rattristarla quando pensava alla partenza. Per quanto la riguardava, quel folle progetto di circumnavigare il globo si scontrava con il suo bisogno di una casa stabile, di un punto di riferimento immutabile. Anelava a poter fare la spesa tutti i giorni nello stesso supermercato, ad avere mete conosciute per le proprie passeggiate, frequentare sempre gli stessi amici e conoscenti. Di mattina voleva comperare i panini da un fornaio che le chiedesse se il raffreddore le era passato, e voleva andare da un parrucchiere al quale bastasse dire: «Il solito, prego». Per lei era importante la misura delle cose. Se ne era resa conto da quando l'aveva perduta. Dato che non poteva trascorrere tutta la giornata a bordo del Dandelion ancorato nella baia di Portree, durante la loro permanenza lì aveva preso l'abitudine di fare un po' di jogging. In realtà lei e Nathan si erano prefissati di trovare ciascuno un lavoro nei porti che toccavano, visto che la loro cassa era perennemente in rosso. Tutti i loro risparmi erano stati usati da Nathan per l'acquisto della barca. Ma per qualche ragione Nathan non sembrava affatto assillato dall'urgenza di guadagnare dei soldi. «Skye rappresenta un'incredibile fonte d'ispirazione per me», aveva spiegato, «devo sfruttarla.» Il clima era proprio come voleva, aveva dichiarato. Vento forza quattrocinque da nordovest, nuvole che si rincorrevano sulle cime montuose dell'isola. Pioggia che tamburellava sulla cerata che indossava. Tutti i giorni la portava a riva con la scialuppa e poi tornava a bordo della barca, circumnavigava l'isola per metà e gettava l'ancora nella sua insenatura preferita nei pressi di Loch Harport. Che cosa facesse lì per ore, lei non lo sapeva. Una volta che aveva smesso di piovere, raccontò di essersi arrampicato sulle Black Cullins. Per il resto non rivelava niente di sé, come al solito. E a volte, quando lei tornava a Portree in autobus nel tardo pomeriggio, si chiedeva se l'avrebbe trovato ormeggiato. Oppure se non fosse salpato, per sempre, senza di lei. Non riusciva mai a capire se quest'idea la spaventasse o se al contrario, in fondo al cuore, non sperasse quasi che si avverasse. Aveva trovato lavoro nella casa estiva di una famiglia inglese a Dunve-
gan, parecchio distante dal capoluogo dell'isola, ma facilmente raggiungibile con l'autobus. La famiglia aveva appeso un annuncio nell'emporio al porto, per trovare un aiuto per la casa e il giardino durante il periodo estivo, dato che la loro solita governante era malata. Lei si era presentata subito. Nathan si era opposto, perché secondo lui un lavoro come donna delle pulizie era inferiore al suo livello, ma visto che nemmeno a lui era venuta in mente un'alternativa migliore per guadagnare qualche soldo alla fine aveva ceduto. La casa, a qualche distanza da Dunvegan con un panorama spettacolare sulla baia, era spaziosa e confortevole e lei ci stava proprio bene. Persone perbene, con cui si poteva chiacchierare, lavoro leggero, anche in giardino, che era molto grande e le piaceva molto. Il tempo era orribile - quell'estate pioveva molto lassù, come puntualizzavano gli abitanti del posto - e lei non era riuscita a capire fino in fondo per quale ragione passassero le vacanze in quel luogo, ma aveva subito notato quanta differenza facesse per lei avere la terraferma sotto i piedi, un giardino delimitato da un muro, un camino, un ordine in tutte le cose. Girava volentieri per la casa. Spolverò le imposte, strofinò le mattonelle in cucina fino a farle splendere, sistemò un vaso di fiori freschi sul grande tavolo in sala da pranzo. Durante una pausa della pioggia piantò dell'edera sul lato meridionale della casa e tosò l'erba nel giardino sul retro. Non si era mai sentita così bene. Fino a quel tardo pomeriggio, quando tornò sulla barca. Era la barca. Non erano le Ebridi, né le isole della Manica. Non sarebbe stata meglio nei mari del Sud sotto le palme, su spiagge di sabbia bianchissima. Non era fatta per la vita nomade. Odiava i porti. Odiava le assi ondeggianti sotto i piedi. Odiava l'onnipresente umidità. Lo spazio ristretto. Odiava non avere una casa. L'indomani sarebbero salpati. Giovedì, 17 agosto Nathan si era messo comodo al timone del Dandelion, appoggiato alla parete della cabina. Erano le nove e mezzo di sera. La costosa biancheria termica che indossava faceva il suo dovere qui al Nord - persino in agosto. Avvertiva la fresca aria salmastra della notte solo sulla punta del naso e sulle guance. Dopo che gli era passata l'arrabbiatura, cominciava a sentirsi un po' meglio. Se l'era presa a morte con Livia e, cosa ancora peggiore, con se stesso,
perché aveva ceduto ancora una volta alle sue insistenze. L'accontentava spesso, semplicemente per risparmiarsi i suoi piagnucolosi monologhi. Lui avrebbe voluto salpare dal porto di Portree alle sei di mattina, un'ora dopo l'alta marea, per affrontare assolutamente il passaggio del Sound of Harris con la luce del giorno. Livia, che non aveva fatto altro che lamentarsi del cattivo tempo da quando erano approdati a Skye, aveva cominciato con pari intensità a protestare per la partenza, anche se in realtà avrebbe dovuto esserne contenta. Spesso Nathan sospettava che a lei piacesse lamentarsi per partito preso. Non era soddisfatta se non poteva trovare qualcosa da criticare. Alla fine aveva dichiarato di aver promesso alle persone di Dunvegan, per le quali lavorava da una settimana, che sarebbe andata da loro un'ultima volta e non poteva sparire così senza dire niente. Visto che sembrava pronta a disperarsi di nuovo per questo problema, a denti stretti lui aveva spostato la partenza al tardo pomeriggio. Era abbastanza sicuro che Livia volesse soltanto trascorrere qualche altra ora sulla terraferma, ma non aveva prove per dimostrarlo. Nell'attesa si era seduto al Pier Hotel, un pub frequentato soprattutto da pescatori e lavoratori del porto, e aveva letto una rivista comprata all'edicola del porto. Troppo tardi si era accorto di aver acquistato un numero molto vecchio, del febbraio precedente. Niente di quello che c'era scritto era più attuale. Ma non dava fastidio a nessuno da quelle parti? Già, alle Ebridi gli orologi giravano in maniera diversa, la vita seguiva un ritmo diverso da tutto il resto del mondo. Per tutto il tempo lui si era chiesto come fosse possibile vivere così. Aveva preso molti appunti, aveva raccolto frammenti di pensiero e riflessioni sparse. Ne potevano scaturire osservazioni interessanti. Trovava molto affascinante dare uno sguardo dentro la vita altrui. Verso le cinque del pomeriggio finalmente avevano levato l'ancora. Dal giorno prima le previsioni radio della BBC e il barometro della barca annunciavano finalmente alta pressione stabile. Aveva tirato fuori dalla sacca delle vele e issato il grande genoa per raggiungere almeno i due nodi mentre tracciava sulla carta la rotta di traverso dal faro di Rodel. Forse sarebbero riusciti ad attraversare lo stretto con ancora un po' di luce. Si chiese per un istante se Livia non avesse ritardato la partenza per costringerlo a prendere la rotta diretta verso sud passando tra le isole di Uist e Skye invece di navigare al largo nell'Atlantico. Avevano discusso a lungo di questo argomento. La cosa peggiore era la paura che aveva Livia dell'acqua.
Lui tuttavia era sempre deciso a seguire la rotta esterna alle Ebridi. Poco prima delle nove avevano ormai superato il passaggio più critico. Livia si era ritirata da parecchio tempo sottocoperta. Aveva affermato di sentirsi stanca e di avere mal di testa. Lui non se l'era presa, al contrario. Il suo eterno sguardo stralunato gli dava incredibilmente sui nervi. A ovest c'era una vecchia risacca dall'Atlantico e loro si trovavano nella corrente delle maree che si opponeva alla loro rotta. Non importa, pensò lui, un nodo di corrente contraria, la barca va a due nodi, resta pur sempre un nodo che ci porta verso sudovest. Forse non si sarebbe diretto, come previsto in origine, verso il porto di Youghal, nell'Irlanda del Sud, ma avrebbe proseguito direttamente fino a La Coruna. Non aveva più voglia di ritardi. Voleva andare via dall'Europa. Finalmente navigare libero nell'Atlantico. I Caraibi. Spiagge bianche, sole, palme. L'atmosfera quasi mistica di Skye con la pioggia e la nebbia lo aveva profondamente affascinato, ma per l'inverno preferiva immaginarsi una vita al caldo. E se la immaginava molto bene. Seduto al timone, si godeva la pace della notte limpida e inseguiva i propri pensieri. Vide chiaramente le luci. Si avvicinavano da poppa, due luci verdi, e sopra una rossa e una bianca. Probabilmente due mercantili che seguivano la sua stessa rotta. Era convinto che lo vedessero; aveva acceso le luci di navigazione e la parabola del radar in cima all'albero emetteva un segnale chiaro. Non c'era niente di cui preoccuparsi. Dopo aver lasciato il Sound di Harris aveva inserito il pilota automatico, che ora faceva il suo dovere con un lieve ronzio. Sentiva le membra farsi sempre più pesanti. A un certo punto la testa gli si piegò in avanti, la raddrizzò di scatto, sbadigliò. Per la miseria, che cosa gli provocava tanto sonno? Lui era un animale notturno, si metteva in moto come si deve soltanto di sera, anzi, di notte. Ma l'alta umidità degli ultimi giorni, la lunga e snervante attesa di quel giorno, la difficile traversata alla fioca luce del crepuscolo... tutto questo lo aveva esaurito. La testa gli cadde sul petto. Era una stanchezza così pesante, così elementare, che non sembrava avere più senso provare a contrastarla. Da un momento all'altro piombò in un breve sonno che, come ricostruì in seguito, era durato solo pochi minuti. Ma erano stati minuti decisivi. Si ridestò di colpo, così come si era addormentato. Non sapeva se fosse stato il fruscio delle vele che sbattevano piano a
svegliarlo, oppure lo schiocco della scotta maestra - probabilmente nessuno dei due, quanto uno strano rumore, molto forte, simile a un enorme martello che batteva fragorosamente su una lastra metallica. Alzò la testa, vide che il genoa era mosso soltanto dalla risacca dell'Atlantico. Il vento era cessato del tutto. Quel rumore... il martello che batteva sull'acciaio... Le luci, pensò. Nello stesso momento le rivide, erano soltanto tre luci, una rossa, una verde e sopra una bianca e si trovavano al massimo a mezzo miglio marino dal Dandelion. Puntavano direttamente su di loro. Balzò in piedi, mentre una domanda gli balenava in mente: maledizione, ma non ci vedono? Si precipitò verso il timone, spense il pilota automatico. Doveva mettere in moto immediatamente e portare subito il Dandelion almeno a un centinaio di metri a babordo, per evitare la collisione. Dannazione, non si sarebbe dovuto addormentare. Quel tratto di mare era troppo battuto per potersi permettere di appisolarsi al timone nel cuore della notte. Ma perché il motore non partiva? Non si girava neppure l'avviamento. Provò una volta ancora... e poi un'altra... niente da fare. La prua di una grossa nave spuntò di fronte a lui alta come un palazzo, avvicinandosi a velocità vertiginosa. La nave puntava proprio sulla barca a vela che di colpo diventò un guscio di noce. Era evidente che non avrebbe resistito all'urto e nel giro di due o tre minuti si sarebbe ridotta a un ammasso di fasciame. La testa di Livia spuntò dal boccaporto della cabina. Lui vide capelli in disordine, occhi spalancati e terrorizzati. Il rombo del motore del grosso mercantile intanto faceva un chiasso infernale. «Nathan!» gridò lei, ma rimase immobile, fissando la tragedia incombente. Con un solo gesto lui estrasse la zattera di salvataggio da sotto il sedile del timone. «Salta giù dalla barca!» le ordinò. «Non mi hai sentito? Salta subito giù!» Livia non si muoveva. «Salta!» urlò lui, poi l'afferrò per le braccia, la trascinò su per i gradini e la scaraventò fuori bordo con tutta la forza che aveva. Gettò quindi la zattera e si lanciò a sua volta, all'ultimo istante. L'acqua era gelida e lo accolse come tante dolorose punture di spillo. Per un attimo pensò che il cuore gli si sarebbe fermato per il freddo, ma poi si
rese conto di essere ancora vivo, che il suo cuore evidentemente batteva sempre. Ansimando e sputacchiando riaffiorò tra le onde. Per fortuna indossava il giubbotto di salvataggio. Il rumore del martello che batteva era proprio sopra di lui. Un'enorme ondata lo afferrò, scaraventandolo a diversi metri di distanza di lato. Il fianco d'acciaio del mercantile gli scivolò davanti al rallentatore. Il Dandelion venne colpito dalla prua del mercantile e spinto immediatamente sott'acqua. Gli vennero le lacrime agli occhi - proprio a lui, che non piangeva mai! Non avrebbe mai pensato di essere ancora capace di piangere. L'ultima volta gli era capitato da ragazzino, quando aveva seguito il feretro della madre al cimitero. Da allora mai più. Ma la tragedia lo aveva sopraffatto, era accaduto tutto troppo in fretta, pochi istanti prima era ancora seduto in coperta, a sognare, e si era appisolato per qualche cruciale minuto e adesso era in balia delle gelide acque del Mare del Nord, mentre davanti ai suoi occhi si compiva la distruzione di ciò che aveva di più caro. E della sua stessa esistenza. La zattera di salvataggio, che si era gonfiata automaticamente a contatto con l'acqua, doveva essere stata catturata dall'onda di prua del mercantile. Si rigirava aperta nella scia della nave a qualche metro da lui. Accanto riconobbe la sagoma di Livia, Siccome era uscita direttamente dal letto, non indossava il giubbotto di salvataggio. Lui la chiamò, ma lei non reagì. Con un paio di energiche bracciate la raggiunse. «Nuota, Livia», la incalzò, «avanti, nuota! Dobbiamo raggiungere la zattera!» Lei non diede segno di averlo sentito. Si teneva a galla con movimenti fiacchi meccanici, ma aveva gli occhi sbarrati e sembrava in preda allo shock. Nathan si girò sulla schiena, afferrò Livia sotto le ascelle e la trascinò con sé fino alla zattera. Continuava a bere e a tossire, ma se non altro Livia non opponeva resistenza. La lasciò per un attimo, si issò lentamente e con fatica dentro la zattera, si girò e issò a bordo anche a lei. Non cedette, anche se aveva l'impressione di essere sul punto di scoppiare. Una volta che anche Livia fu in salvo, crollò esausto e sfinito. Ci volle parecchio prima che riuscisse a riordinare lucidamente i pensieri. Ce l'avevano fatta. Non erano annegati, non erano stati trascinati a fondo. Nonostante tutto, lui riuscì a provare qualche guizzo di gratitudine. Entrambi erano sopravvissuti, ma la loro vita non era per questo diventata più
preziosa. Non possedevano altro che ciò che indossavano: lei un pigiama azzurro con i calzoncini corti e la maglietta slabbrata, lui almeno ancora jeans, mutande, calzini e maglione di lana. Le scarpe le aveva perdute quando si era lanciato fuori bordo. E una zattera di salvataggio, pensò con una punta di sarcasmo, possediamo anche una zattera di salvataggio. Può sempre tornare utile. La notte era limpida, nel cielo brillava qualche stella. Con totale indifferenza fissò l'acqua buia. Per il momento la sua ragione si rifiutava di pensare. Né al passato né al futuro. Non avvertiva più nemmeno la disperazione che qualche istante prima gli aveva fatto salire le lacrime agli occhi. In lui c'era soltanto un vuoto, si sentiva profondamente sfinito, completamente devastato. Sabato, 19 agosto 1 Nelle prime ore del mattino del 19 agosto, Virginia Quentin venne a sapere del naufragio accaduto nella notte tra giovedì e venerdì nelle acque antistanti le Ebridi esterne. Sulle isole c'era una piccola emittente radio che trasmetteva notizie interessanti in primo luogo per gli isolani. Si trattava quindi soprattutto di bollettini meteorologici, visto che il clima era fondamentale lassù, dove tanta gente campava sulla pesca. Ovviamente a volte succedevano anche tragedie; c'erano pescatori mai tornati a casa e in diverse occasioni le violente tempeste invernali provenienti dal Mare del Nord avevano scoperchiato qualche tetto, mentre una volta il vento aveva persino fatto precipitare una donna. Ciò che non era ancora mai capitato, almeno a quanto ricordava Virginia, era che in una tragedia simile fossero coinvolti degli stranieri. Si era alzata prestissimo per fare la sua consueta corsa sull'altopiano a picco sul mare. Amava la pace e la limpidezza delle prime ore del giorno; non le creava nessun problema alzarsi prima delle sei e inebriarsi della freschezza ancora vergine del giorno appena iniziato. Anche quando abitava a Norfolk andava a correre di prima mattina, ma qui a Skye era un'esperienza affatto diversa. A suo parere nemmeno una coppa di champagne era in grado di ravvivarla e stimolarla e renderla così unica come respirare il vento che proveniva dal mare. Si era anche accorta di avere più resistenza quassù, rispetto a casa, e
questo dipendeva sicuramente dal maggiore contenuto di ossigeno dell'aria. A ogni modo, si sentiva proprio in forma. Correva a lunghe falcate leggere, si uniformava al loro ritmo regolare, riuscendo a trovare la perfetta armonia tra movimento e respirazione. La corsa del mattino apparteneva a lei soltanto ed era la sua fonte di energia per il resto della giornata. Non avrebbe desiderato avere compagnia. Le piaceva stare da sola e ancora di più apprezzava la particolare solitudine dell'isola di Skye. Tornata a casa, si fece la doccia e si mise seduta al tavolo della sala da pranzo con un asciugamano intorno alla testa, a sorseggiare il caffè con molto latte bollente mentre ascoltava la radio. Avvertiva la calma e l'energia del proprio corpo e si diceva che, sebbene il suo matrimonio con Frederic fosse di certo noioso per alcuni versi, le aveva pur sempre portato due splendidi regali: la loro figlia Kim di sette anni e quella casetta a Dunvegan. Si era lasciata trasportare dai pensieri e la radio era semplicemente un rumore di fondo, ma si riscosse, quando lo speaker riferì della tragedia accaduta a una coppia di tedeschi. Nel cuore della notte erano stati letteralmente travolti da un mercantile, sulla cui rotta si erano trovati, dopo che una concatenazione di circostanze negative aveva reso impossibile una manovra di salvataggio. Non era rimasta traccia della piccola imbarcazione a vela, il relitto si trovava adagiato sul fondale in quella zona molto profondo. Nessuno conosceva la nazionalità né il nome del mercantile che aveva causato la tragedia. Lo skipper della barca a vela non era stato in grado di fornire indicazioni sulla propria posizione al momento della collisione. Dei pescatori avevano avvistato la zattera di salvataggio in balia delle onde e avevano portato in salvo i due naufraghi. La giovane compagna del velista, così riferivano le fonti, era sotto shock. Entrambi erano ipotermici dopo che, usciti dall'acqua gelida, avevano dovuto aspettare quasi dodici ore a bordo della zattera di salvataggio. Erano stati portati dal medico. Dal giorno prima erano ospitati in un bed & breakfast nei pressi di Portree. «Ma non saranno mica...» disse Virginia tra sé, ma non concluse la frase. Quante coppie tedesche, che facevano il giro del mondo in barca a vela, si trovavano in quel periodo alle Ebridi? Sentì i passi di Frederic sulla scala, si alzò automaticamente, prese una seconda tazza e la riempì di latte e caffè. Durante le vacanze si concedevano il lusso di fare una lunga colazione a base di caffè e chiacchiere. Parlavano del tempo, delle novità in paese, a volte anche di conoscenti e familiari. Erano molto prudenti ed evitavano di parlare del loro rapporto, senza
che ce ne fosse un motivo apparente. Proprio durante quelle mattine di vacanza, ma a volte anche durante l'anno a Norfolk, Virginia si sentiva improvvisamente invasa da un senso di pace e di gratitudine, quando si vedeva insieme a Frederic e alla piccola Kim, che era tanto dolce e graziosa, a trascorrere la vita senza preoccupazioni materiali in un mondo ordinato e prevedibile, che forse era limitato, ma in cambio era privo di pericoli, paure e demoni. Talvolta Virginia aveva la netta sensazione che il suo mondo non fosse del tutto reale, se ne sentiva oppressa, ma erano brevi momenti fugaci che passavano in fretta. Frederic si affacciò sulla soglia. A casa lei lo vedeva praticamente solo in giacca e cravatta, ma le piaceva molto di più quando era come adesso, con jeans e dolcevita grigio, riposato e rilassato, senza quella piega amara intorno alla bocca che aveva sempre, perché il lavoro e la carriera lo stressavano troppo. «Buongiorno», disse e aggiunse, sebbene la risposta fosse evidente, «sei già andata a correre stamattina?» «È stato fantastico. Come fanno a vivere le altre persone, senza fare movimento?» Gli porse la tazza della colazione, lui si sedette e bevve il primo sorso. «Oggi è l'ultimo giorno, poi dobbiamo tornare a casa. Oppure preferisci restare qui ancora un po' con Kim?» Mancavano due settimane alla riapertura delle scuole. E a lei piaceva tanto stare lassù. Anche Kim si divertiva. Ma Virginia scrollò il capo. «Veniamo con te. Credi forse che voglia lasciarti da solo?» Lui sorrise. In un modo o nell'altro, lui stava molto da solo, o quanto meno senza la famiglia. Usciva di casa alle sette e mezzo. Spesso non tornava prima delle dieci o le dieci e mezzo di sera. Trascorreva le giornate a Londra, dov'era la sede della sua banca. A Norfolk ci stava solo quando lo richiedeva l'attività politica del suo collegio elettorale. A volte non vedeva la figlia per una settimana di fila. E incontrava la moglie di sfuggita, al mattino o alla sera, quando restava sveglia ad aspettarlo e si intratteneva con lui per una decina di minuti, prima che crollasse esausto sul letto. Bisognava riconoscere che la situazione non gli piaceva granché. E fino a due anni prima le cose erano state assai diverse. All'epoca Virginia e Kim vivevano ancora a Londra con Frederic, il quale si era sentito molto più parte di una famiglia rispetto a ora. Certo, Virginia non usciva spesso dall'elegante appartamento di South Kensington per fare qualcosa insieme a lui. Era una donna introversa, almeno per quanto la conosceva, che ten-
deva a isolarsi dal mondo esterno. Non si trattava di paura, a quanto gli pareva. Secondo lui era una situazione più legata alla malinconia che la teneva sempre prigioniera, a volte più intensa, quasi come una depressione, altre volte più lieve. In apparenza lei riusciva a gestire meglio questa sua malattia - in segreto Frederic la definiva tale - quando era sola. Il fatto che alla fine avesse deciso di trasferirsi a vivere nella lugubre e vecchia casa padronale dei Quentin, a Norfolk, gli era parsa una logica conseguenza della sua indole, ma era poi sfociata in quel genere di vita familiare che conducevano ora. Lei gli si era seduta di fronte. Aveva le guance ancora arrossate dalla fresca aria del mattino. «Ti ricorderai sicuramente di quella ragazza tedesca che ci ha aiutato nei lavori domestici nelle ultime settimane», disse. «Si chiamava Livia.» Lui fece un cenno d'assenso. La ricordava, anche se non rammentava già più il viso di quella Livia. Una donna assolutamente incolore, anonima e opaca. «Sì, mi ricordo. Se non sbaglio sono partiti, no?» «Volevano salpare giovedì pomeriggio. E proprio adesso ho sentito alla radio che una coppia di tedeschi è stata ripescata in mare. Erano alla deriva su una zattera di salvataggio non lontano dalla costa, dopo che un mercantile aveva speronato e fatto naufragare la loro barca.» «Buon Dio. Certo che sono stati proprio fortunati a cavarsela. E tu credi che si tratti di questa... questa Livia?» «Alla radio non hanno fatto nomi, ma penso che possano essere loro. La tempistica corrisponde. E d'altronde non ho incontrato altri tedeschi qui sull'isola.» «Questo non vuol dire niente. Ci sono tante persone che non incontriamo mai.» «È lo stesso. Ho la sensazione che si tratti di loro.» «Se lo dici tu. Volevano fare il giro del mondo in barca a vela, giusto? Direi che per loro l'avventura è finita.» «Livia mi aveva raccontato che avevano venduto tutto quello che possedevano per acquistare la barca. Ciò significa che non era rimasto loro più niente, a parte i vestiti che indossavano.» «Speriamo almeno che avessero una buona assicurazione. Se la loro barca è stata travolta da un mercantile, dev'essere andata completamente distrutta.» Virginia annuì. «Sono alloggiati in un bed & breakfast a Portree per il
momento. Pensavo di andarli a trovare. Sono sicura che gli serva qualche parola di incoraggiamento.» Quelle persone gli erano del tutto indifferenti, a parte il fatto che non riusciva proprio a capire come si potesse trovare bello veleggiare intorno al mondo e vivere per mesi su una minuscola barca, e che trovava quanto meno stupido privarsi di tutti i propri beni per acquistare una barca, ma di colpo fu assalito da una sensazione spiacevole. Era un'intuizione. Un presentimento. «Non saprei», disse, «forse dovresti lasciarli in pace.» «E perché?» «Perché... ecco, sai, forse non erano assicurati e...» Lasciò la frase incompiuta. Lei lo guardò senza capire. «E che cosa?» «Quando si tratta di assicurazioni, la gente tende a risparmiare. Succede sempre così. Di solito si stipula solo l'assicurazione obbligatoria per i danni causati a terzi, ma poi si spera che non capiti niente a se stessi e si evita di versare il resto del premio. È probabile che questa coppia non possieda più nulla. Magari non hanno più nemmeno un penny, né una casa, niente. Intenteranno una causa di risarcimento, ma...» «A quanto pare il nome del mercantile è sconosciuto», disse Virginia, «e pure la sua nazionalità.» Lui sospirò. «Lo vedi, allora. Ancora peggio. Non sanno neppure contro chi rivalersi. Quindi, sempre ammesso che vengano rimborsati, la causa andrà avanti per anni.» Virginia continuava a non capire. «D'accordo, ma perché non dovrei andare a trovarli?» «Perché... perché in quel caso tu, o più precisamente noi saremmo la loro unica speranza. Prima che tu te ne accorga, ci si incollerebbero addosso. In questo momento si aggrapperebbero a tutto quello che può essergli d'aiuto.» «Di certo avranno dei parenti che li aiuteranno. In Germania. Io vorrei solo portare un po' di conforto a Livia. Mi era simpatica. E ho avuto l'impressione che non fosse particolarmente felice. E adesso ci si è aggiunta pure questa storia...» «Sii prudente», le consigliò lui. «Tanto domani partiamo.» «Sì, ma anche loro dovranno andarsene da qui.» «Appunto. Torneranno in Germania.»
«Ammesso che abbiano ancora qualche legame lì. O che lo trovino.» Virginia rise. «Sei un inguaribile pessimista! Io trovo che sia del tutto normale per me andare a trovare Livia. Magari posso portarle qualcosa di mio da indossare. Abbiamo più o meno la stessa taglia.» Lui si rese conto che non avrebbe potuto fermarla. E forse il suo atteggiamento era veramente troppo pessimista. Sapeva di avere una marcata tendenza a vedere il mondo in maniera negativa e ostile, senza tuttavia temerlo. Sapeva benissimo come prendere il toro per le corna. Ma, per farlo, bisognava anche avere ben presente dove si trovassero le corna. E secondo lui Virginia a volte si faceva qualche illusione in proposito. Non aveva importanza. Su un punto doveva darle pienamente ragione: l'indomani sarebbero comunque tornati a casa. 2 Non fu difficile scoprire dove fosse ospitata la coppia tedesca salvata dopo la tragedia. Il naufragio era sulla bocca di tutti e tutti erano a conoscenza dei particolari. Chiese al gestore dell'emporio al porto di Portree e lui le diede subito l'informazione. «Stanno dagli O'Brian. Santo cielo, che sfortuna, vero? Voglio dire, non è così facile scontrarsi con un'imbarcazione in mare. Devono esserci state diverse coincidenze. Mrs. O'Brian è venuta a fare la spesa prima e ha raccontato che la ragazza è ancora sotto shock. Provi un po' a immaginare, tutto quello che le resta al mondo è il pigiama che indossa. Il pigiama! È davvero una tragedia.» Virginia sapeva che il negoziante quel giorno avrebbe raccontato a tutti i suoi clienti le penose condizioni di vita dei giovani tedeschi ed era evidente che anche Mrs. O'Brian avrebbe riferito scrupolosamente a tutta l'isola le informazioni ricevute dai due naufraghi suoi ospiti. A questo punto quei poveri disgraziati le fecero ancora più pena di prima. Non solo avevano vissuto un'esperienza spaventosa che forse li avrebbe ossessionati per il resto della loro vita, ma di colpo erano del tutto esposti e indifesi di fronte alla compassione e alla curiosità della gente. Gli O'Brian abitavano ai margini di Portree e Virginia ci sarebbe potuta arrivare a piedi, ma di colpo non aveva più voglia di incontrare altra gente e di parlare dei naufraghi. Decise allora di prendere la macchina. Dopo pochi minuti parcheggiava davanti alla pittoresca casa di mattoni con la porta
laccata di rosso e gli infissi bianchi. Mrs. O'Brian era un'appassionata giardiniera. Nonostante le ostili condizioni climatiche delle Ebridi era riuscita a far crescere davanti a casa sua un incredibile e invidiabile giardino pieno di fiori rigogliosi. Virginia si incamminò tra aster color ruggine e gladioli multicolori. L'autunno preannunciava inconfondibilmente il suo arrivo. E quassù arrivava molto presto. Alla fine di settembre scoppiavano già le prime violente tempeste e poi arrivava la nebbia che ammantava le isole per mesi senza interruzione. Virginia trovava affascinante quell'atmosfera, ma forse dipendeva dal fatto che non abitava lì e non doveva sopportare l'interminabile inverno freddo e grigio da ottobre ad aprile come gli abitanti dell'isola. Una sola volta era riuscita a convincere Frederic a trascorrere Natale e Capodanno nella loro casa delle vacanze, ma a lui non era piaciuto e le aveva chiesto di non tornarci più. «Non ci sono molte cose al mondo che possono farmi piombare in depressione», aveva detto, «ma una di queste è senza dubbio l'inverno a Skye.» Peccato, pensava lei adesso, mi piacerebbe tanto tornare in novembre o dicembre. Nessuno rispose ai suoi ripetuti colpi alla porta e così l'aprì lei stessa ed entrò nello stretto corridoio. Era normale per la gente dell'isola. Nessuno chiudeva mai la porta a chiave e quando un visitatore non veniva sentito poteva entrare da solo. Ci si conosceva tutti e, visto che già il padre e il nonno di Frederic erano soliti trascorrere le vacanze sull'isola, i Quentin erano considerati come gente del posto. «Mrs. O'Brian!» chiamò Virginia a mezza voce, ma non ottenne risposta. Notò che la porta della cucina in fondo al corridoio era chiusa; forse Mrs. O'Brian si trovava lì e non l'aveva sentita entrare. Ma quando entrò timidamente nella spaziosa cucina con il pavimento di pietra e le pareti adorne di numerosi recipienti di rame perfettamente lucidati non si trovò davanti la padrona di casa. Al tavolo era seduta Livia con una grossa tazza e un fornelletto con una teiera davanti a sé. La tazza era vuota, ma evidentemente lei non aveva pensato di riempirla nuovamente. Guardava con aria assente il piano del tavolo. Alzò la testa, quando Virginia entrò, ma i suoi occhi rimasero inespressivi. «Livia!» esclamò Virginia scossa. «Mio Dio, ho saputo quello che è successo a lei e a suo marito! Ho pensato...» Si interruppe, poi si avvicinò a Livia e l'abbracciò. «Dovevo vedere come stava.» Fuori dalla finestra scorse Mrs. O'Brian che stendeva il bucato in giardi-
no. Virginia si augurò che ne avesse ancora per un po'. Preferiva restare sola con Livia. Si sedette di fronte a lei e la esaminò. Livia portava una vestaglia, molto probabilmente di Mrs. O'Brian, a quadri di colori sgargianti e troppo corta. Mrs. O'Brian infatti era piuttosto bassa, mentre Livia era alta e molto magra. «Le ho portato qualche indumento», disse Virginia. «La borsa è fuori nell'auto. Gliela darò dopo. Abbiamo più o meno la stessa taglia. Le cose di Mrs. O'Brian le stanno troppo piccole, è chiaro.» Livia, che non aveva ancora aperto bocca, si decise a parlare. «Grazie.» «Ma si figuri. Il tè è buono? Dovrebbe sforzarsi di berlo. È importante.» Virginia non sapeva perché l'avesse detto, ma secondo lei, nei momenti difficili della vita, una tazza di tè bollente era sempre importante. Prese una tazza anche per sé, le riempì entrambe e ci mise un po' di zucchero. Livia sembrava paralizzata. In quel momento non era in grado di compiere nemmeno il gesto più banale. «Ne vuole parlare?» domandò Virginia. Livia sembrava indecisa. «È... è stato... terribile», riuscì a dire dopo un po'. «L'acqua... Era tanto fredda.» «Già. Me lo immagino. Mi spiace davvero molto che vi sia capitata una cosa del genere. Non siete riusciti a... salvare niente?» «Niente di niente.» «Ma la vita sì. E questa è la cosa più importante.» Livia assentì, ma non sembrava troppo convinta. «Noi... non abbiamo più niente.» Virginia ripeté: «Ma siete vivi!» Ma nel contempo si rese conto di aver detto una banalità. Se fosse successo a lei di perdere tutti i beni terreni, l'idea della nuda sopravvivenza non l'avrebbe di certo consolata. Le venne in mente Frederic e chiese con cautela: «Eravate... assicurati?» Livia scrollò lentamente la testa. «No... non per i danni a noi stessi.» Parlava in tono strascicato. E poi di colpo si guardò, guardò quell'orribile vestaglia dai colori sgargianti e le salirono le lacrime agli occhi. «Odio questa roba! È orribile! Odio dover portare una cosa del genere!» Virginia sapeva che Livia al momento aveva problemi ben maggiori di quelli relativi all'abbigliamento, ma poteva capire il suo sfogo. L'orribile vestaglia troppo corta simboleggiava la tremenda perdita che aveva subito e la dipendenza dagli altri nella quale era piombata. Simboleggiava la povertà e il fatto di dipendere dalla generosità degli sconosciuti.
«Vado subito a prenderle le mie cose», disse Virginia e fece per alzarsi, ma Livia esclamò, quasi in preda al panico: «No! Non se ne vada!» Virginia tornò a sedersi. «D'accordo, resto tutto il tempo che vuole. La borsa posso portargliela anche più tardi.» Si guardò intorno. «E suo marito dov'è?» «Di sopra. Nella nostra camera. È al telefono con un avvocato in Germania. Ma... come farà a denunciare qualcuno? Non sappiamo chi fosse!» «Forse riuscirete a scoprire qualcosa. Di sicuro la guardia costiera è al corrente delle navi in transito quella notte. Io non me ne intendo, ma... non si abbatta, Livia. Capisco che adesso è disperata e scioccata, ma...» Livia la interruppe con un filo di voce. «Non possiamo pagare nemmeno l'alloggio qui.» Fece un movimento con la testa, indicando Mrs. O'Brian. «Prima o poi lei ci chiederà dei soldi per la camera. E per il vitto. E il telefono. Voglio dire», ricominciò a piangere, «ho detto a Nathan di non telefonare, ma lui sta parlando da più di un'ora con tutto il mondo, e per di più all'estero! È pazzesco! Mrs. O'Brian non ci regalerà niente di certo. E noi non abbiamo un soldo, assolutamente niente.» «Non avete un conto corrente in Germania?» «Nathan ha chiuso tutto quanto. La chiamava la 'libertà totale'. Vivere senza soldi e campare dei lavoretti occasionali trovati nei vari porti. Ha venduto la casa e, siccome era cadente e gravata da una pesante ipoteca, non ci ha ricavato molto. Ha prelevato tutti i soldi e ha comperato la barca. Io sono riuscita a convincerlo a mantenere il recapito presso un conoscente e a stipulare un'assicurazione contro la malattia per l'estero. Ma per il resto... Come unica riserva di valore ci eravamo portati i gioielli che avevo ereditato da mia madre. Valevano parecchio. Ma adesso sono finiti in fondo al mare.» «Magari i sommozzatori potrebbero...» Livia si asciugò le lacrime con il dorso della mano. «Nathan lo ha già chiesto alla polizia. Siamo andati subito alla centrale di polizia, sa, perché i pescatori non sapevano dove portarci. Il poliziotto si è messo a ridere. Non sappiamo neppure l'esatta posizione in cui è affondato il Dandelion e probabilmente è tutto sparso su un ampio raggio e il fondale è roccioso, pieno di fessure e cavità... secondo lui i sommozzatori non troverebbero niente, ma a noi ogni giorno di attività costerebbe una fortuna... Sarebbe una follia...» Fissò Virginia con aria disperata. «Sarebbe una follia...» ripeté. Virginia pensò che quella mattina Frederic aveva mostrato una particolare preveggenza, quando aveva accennato al fatto dell'assicurazione. A lei
era sembrato strano pensare ai soldi quando una persona se l'era cavata per un soffio, ma ora, seduta di fronte a quella donna disperata, si rendeva conto di quanto fosse incommensurabile anche la tragedia materiale di quelle persone. Come si poteva vivere se non si possedeva più nulla, assolutamente nulla al mondo? E senza avere la speranza di tornare in possesso almeno di una parte di quanto era andato perduto. Dopo un attimo di riflessione, chiese: «Non avete nessun parente? Genitori, fratelli? Nessuno che potrebbe darvi una mano finché... finché non vi sarete ripresi?» Livia scrollò il capo. «Nathan è rimasto orfano molto presto. Altri parenti non ne aveva. È cresciuto in vari orfanotrofi. E io avevo soltanto mio padre, che è morto l'anno scorso a settembre.» Abbozzò un sorriso, ma era triste e amaro. «È stato allora che sono iniziati i guai, in un certo senso...» Virginia stava per chiederle che cosa intendesse dire, ma in quel momento la porta della cucina si aprì ed entrò un uomo. Lei lo identificò immediatamente con Nathan. Era molto abbronzato, anche se una sfumatura pallida, in particolare intorno alle labbra, lasciava intuire che le sue condizioni non fossero perfette come poteva sembrare a prima vista. Era alto, slanciato e muscoloso. Il tipico lupo di mare. A parte il viso. Piuttosto da intellettuale, pensò Virginia. «Livia, io...» esordì, poi si accorse della presenza di un'altra persona. «Scusa», proseguì in inglese, «credevo che fossi sola.» «Nathan, ti presento Virginia Quentin», disse Livia. «È la signora per cui ho lavorato quest'ultima settimana. Virginia, questo è mio marito Nathan.» «Nathan Moor», si presentò lui, porgendo la mano a Virginia. «Mia moglie mi ha molto parlato di lei.» «Mi rincresce per ciò che vi è accaduto», disse Virginia. «È stata davvero una tragedia tremenda.» «Già, infatti.» Aveva l'aria abbattuta, ma non così annichilita come la moglie. A volte tuttavia, pensò Virginia, certe impressioni derivano soprattutto dall'aspetto esteriore di una persona. L'aspetto di Livia era ancora più patetico per colpa dell'orribile vestaglia che indossava. Nathan al contrario portava i suoi indumenti, jeans e pullover. Erano spiegazzati e coperti di sale, ma erano della sua misura e gli stavano bene. Particolari come quelli erano in grado di dare grande stabilità alla psiche di una persona. «Che cosa dice l'avvocato?» chiese Livia al marito, dando tuttavia l'impressione che non fosse sinceramente interessata alla risposta. Se non altro
non riteneva che potesse esserci una risposta confortante. «Dice che sarà difficile», rispose Nathan, anche se con una traccia di ottimismo nella voce. «Soprattutto se non riusciamo a scoprire l'identità del mercantile che ci ha investito. E poi dobbiamo sempre dimostrarlo.» «E come potremmo fare?» «Cercherò una soluzione. Ma devi lasciarmi un po' di tempo. Sono stato ripescato dall'acqua appena ieri. Ho bisogno di qualche momento per superare lo shock.» Aveva un tono lievemente irritato. «Se posso aiutarvi in qualche modo...» si offrì Virginia. «Lei è davvero molto gentile», disse Nathan. «Tuttavia non saprei...» Alzò le mani in un gesto impotente. «Nathan, non possiamo restare in questa casa», lo incalzò Livia. «Mrs. O'Brian ci chiederà dei soldi e...» «Non c'è bisogno di parlarne proprio in questo momento!» l'aggredì lui. Virginia di colpo ebbe l'impressione di essere di troppo. Era chiaro che Nathan non voleva discutere della propria desolata situazione economica di fronte a un'estranea. Si alzò in fretta. «Adesso devo proprio andare. Ho delle commissioni da sbrigare. Livia, le porto la borsa con i vestiti e poi me ne vado.» Mentre si dirigeva verso l'auto, le venne un'idea. In realtà non era sicura del parere che avrebbe espresso Frederic in proposito -per meglio dire, era abbastanza sicura che non avrebbe espresso nessun parere -, ma decise di lasciare perdere il marito per il momento. Quando tornò in cucina, Nathan stava parlando in maniera concitata e impaziente, quasi aggressiva, con la moglie. Visto però che parlava in tedesco, lei non riuscì a capire di cosa stessero discutendo. «Mi è appena venuta un'idea», disse, fingendo di non aver colto l'atmosfera tesa tra i due. «Vedete, io e mio marito partiremo domattina. Torniamo a casa. La nostra casa di Dunvegan resterà vuota. Perché non vi trasferite lì, finché rimarrete qui e non avrete... sistemato le cose?» «Non possiamo accettare», rispose Nathan, «e non potremmo pagarle l'affitto.» «Lo so. Ma in cambio potreste occuparvi un po' della casa e del giardino. Per noi è un sollievo sapere che ci abita qualcuno. Veramente. Spesso chiediamo ad amici e conoscenti se non vogliono passare un po' di tempo lì.» Lui sorrise. «È molto generoso, da parte sua Mrs. Quentin. Ma amici e conoscenti sono un'altra cosa. Noi in realtà siamo per lei due perfetti estra-
nei, due naufraghi alla deriva... e non è mai prudente far entrare degli estranei in casa propria, lo sa bene.» Lei non rispose al suo tono scherzoso. «Pensateci. Sua moglie, almeno, non è un'estranea per me. Ma, ovviamente, la decisione spetta a voi.» Posò la borsa dei vestiti accanto al tavolo. «Come vi ho detto, partiremo domani», ripeté. «Vi basterà passare prima a prendere la chiave.» Accarezzò il braccio di Livia e rivolse un breve cenno di saluto a Nathan, poi uscì dalla cucina. Si era accorta che Mrs. O'Brian aveva finito di stendere il bucato e stava rincasando, e per qualche motivo di colpo non aveva voglia di incontrarla. Forse perché era molto preoccupata. Era evidente che i Moor avrebbero accettato la sua offerta, non avevano alternative. Per educazione, per orgoglio l'avevano declinata, ma era assai probabile che già quel giorno stesso, al massimo il mattino successivo, si sarebbero presentati a chiedere la chiave. Prima che tu te ne accorga, ce li avrai attaccati al collo, aveva detto Frederic. Doveva informarlo che era capitato proprio questo. Anche se... che fastidio potevano dargli? Loro sarebbero stati a Norfolk e avrebbero ripreso la vita di sempre. I Moor sarebbero rimasti lassù sull'isola, una settimana, due al massimo, per vedere se fosse stato possibile chiarire la loro disperata situazione. Tutto qui. Per Frederic non c'era motivo di agitarsi. Ciononostante, Virginia aveva la netta sensazione che lui si sarebbe arrabbiato con lei. 3 Frederic Quentin era considerato dagli amici e dai conoscenti una persona educata ma taciturna e a volte persino introversa, un uomo che si occupava principalmente della propria carriera e non investiva troppo tempo ed energie nella vita privata. Pochi riuscivano a immaginarlo fermarsi a riflettere su se stesso, sua moglie e il loro rapporto. Al contrario, gli capitava di tanto in tanto di pensarci e non era assolutamente vero che non si interessasse alla sua vita familiare. Sapeva di trascorrere troppo poco tempo con la moglie e la figlia e a volte si prefiggeva di cambiare le cose, di non lasciare che Virginia rimanesse da sola tanto a lungo, anche se era evidente che tale situazione non la di-
sturbava eccessivamente. Non poteva essere normale che una donna vivesse principalmente in compagnia della figlia di sette anni, nella solitudine di una casa di campagna troppo grande, circondata a sua volta da un immenso parco, con alberi secolari che sembravano crescere dentro le stanze, soffocandole. Ferndale House, la tenuta di campagna dei Quentin a Norfolk, era molto tetra e non era adatta a una donna di trentasei anni che in realtà sarebbe dovuta stare in mezzo alla vita. Spesso Frederic si diceva di dover dedicare più tempo ed energie a scoprire che cosa rendesse la moglie tanto triste, che cosa la facesse apparire sovente così malinconica. Forse le avrebbe fatto bene parlare, ma lui non era molto portato per scavare nell'intimo di un'altra persona. Più che altro avvertiva spesso una vaga paura ad avventurarsi in luoghi dell'animo che gli erano sconosciuti e nei quali non sapeva che cosa poteva trovare. A volte preferiva non sapere. E poi proprio in quel periodo aveva terribilmente poco tempo. Frederic Quentin, infatti, era deciso a farsi eleggere alla Camera bassa e sapeva di avere buone probabilità di riuscirci. La piccola ed esclusiva banca privata, fondata dal suo bisnonno e attualmente da lui diretta con grande successo, gli assicurava, oltre a una notevole stabilità finanziaria, anche i contatti giusti con le personalità più influenti e abbienti del paese. La Harold Quentin & Co. era considerata l'indirizzo migliore per i membri della upper class e Frederic Quentin aveva sempre saputo essere per i suoi clienti non soltanto il banchiere di fiducia e comprensivo, ma anche l'amico, che organizzava sontuose feste nella sua casa di campagna, partecipava a tornei di golf e regate veliche, che curava i rapporti esattamente là dove potevano essergli più utili. Si era costruito un ottimo trampolino di lancio per il Parlamento. A quarantaquattro anni era a un passo dal raggiungere il suo obiettivo. Un possibile peggioramento delle condizioni psichiche di Virginia a seguito di dialoghi animati era proprio l'ultima cosa che poteva permettersi in quel momento. Ciò che gli restava erano i sensi di colpa verso la moglie. Quando a pranzo lei gli raccontò di voler offrire alloggio nella loro casa delle vacanze alla coppia di naufraghi tedeschi, e per la precisione di aver già fatto una proposta in tal senso - e anche vincolante da parte sua -, lui avrebbe voluto chiederle, in preda all'ira, come le fosse venuto in mente di decidere come utilizzare una casa che, in fin dei conti, non apparteneva soltanto a lei e soprattutto di fare esattamente ciò che lui le aveva calda-
mente consigliato di evitare. Ma ricacciò indietro la collera e le relative osservazioni con una certa fatica. Le donne che stanno troppo da sole fanno cose inconsuete, pensò rassegnato, alcune si portano a casa di punto in bianco cani senza padrone, altre offrono un tetto a estranei diventati naufraghi. Probabilmente dovrei essere felice di non trovarmi circondato, a casa mia, da giovani drogati raccolti da lei chissà dove. Tutto sommato me la cavo ancora parecchio bene. «Sii prudente, in ogni caso», le disse. Lei lo guardò. «Sono brave persone. Veramente.» «Non le conosci affatto.» «Ho una certa esperienza della natura umana.» Lui sospirò. «Non lo nego. Ma... vista la loro situazione potrebbero trasformarsi in due parassiti. Anche se sono brave persone. Dovresti cercare di tenere a mente almeno questo.» Ebbe la sensazione che anche lei sospirasse appena e se ne accorse solo dalla sua mimica. «Può darsi che vengano a stare qui domani. Noi a quel punto partiremo. Non vedo dove stia il problema.» «La loro barca se n'è andata per sempre?» si informò Kim che, poco entusiasta, rigirava nel piatto gli spinaci. «Per sempre», rispose Frederic. «Sono diventati poveri in canna.» «Poveri in canna?» ripeté Kim senza capire. «È un modo di dire», le spiegò Virginia. «Significa che queste persone non hanno più niente al mondo. Ma questo non le rende due persone cattive.» «Oh, veramente qualcosa ce l'hanno ancora», precisò Frederic con una punta di irritazione, «per la precisione un alloggio gratis e illimitato. Direi che non è poco.» «Illimitato! Ma chi lo dice? Soltanto finché avranno da fare qui per chiarire la propria situazione. Poi...» «Virginia», la interruppe Frederic, «a volte sei di un'ingenuità incredibile. Hai per caso fissato un termine entro il quale devono andare via? Hai indicato loro una data precisa?» «Certo che no. Io...» «Allora la loro permanenza in casa nostra è illimitata. E per quanto riguarda il chiarimento della loro posizione: non c'è niente da chiarire. È proprio questo l'inghippo. A tale proposito è irrilevante che lascino l'isola oggi, o domani, o fra tre mesi.»
Lei non rispose. Lui si chiese se lo giudicasse cinico. «Del resto», aggiunse, «avete chiarito il problema del loro sostentamento? Come camperanno i tuoi nuovi amici?» Dall'espressione della moglie, comprese che questa domanda non le era ancora venuta in mente. «Voglio dire», spiegò, «hanno un tetto sulla testa, ma dovranno pur mangiare e bere. La nostra dispensa non è poi tanto fornita. Pertanto dovresti metterti in mente che ti chiederanno dei soldi. È la loro unica possibilità.» «Non andremo certo in malora se gli prestiamo qualche soldo», disse Virginia. «Sono sicura che faranno di tutto per...» Non terminò la frase. Era stata interrotta da qualcuno che bussava alla porta, non in maniera insistente, ma chiara. «Potrebbero essere loro», disse Virginia. «Devono prendere la chiave.» Frederic posò la forchetta sul piatto e si appoggiò allo schienale. «Non so perché, ma mi è passato l'appetito», decretò. Sulla soglia c'erano effettivamente Nathan e Livia. Livia aveva un aspetto molto migliore rispetto al mattino. Indossava jeans e una felpa di Virginia e si era lavata e pettinata i capelli. Continuava ad avere un'aria disperata, ma non più del tutto sperduta. Teneva in mano la sacca da viaggio che Virginia le aveva portato piena di vestiti. «La tenga pure», disse Virginia. «Non c'è bisogno che mi restituisca tutto subito.» Livia arrossì e chinò lo sguardo a terra. «Per noi è molto imbarazzante», disse Nathan, «ma... ecco, non volevamo restituirvi le cose. Le abbiamo portate perché... ecco, voglio dire, sarebbe possibile per noi venire qui fin da oggi? È spudorato da parte nostra, probabilmente vi disturbiamo proprio l'ultimo giorno di vacanza, ma il problema è che non abbiamo i soldi per pagare Mrs. O'Brian e passare un'altra notte da lei...» Lasciò la frase in sospeso, ma fece un gesto eloquente con le mani, per indicare che non restava loro altro che l'umiliazione di supplicare degli estranei. Virginia ebbe l'impressione che fosse quasi un'ironia del destino la velocità con cui si stavano avverando le più cupe profezie di Frederic. Anche se non aveva parlato espressamente di un arrivo anticipato dei forestieri, aveva tuttavia indicato chiaramente che temeva una rapida evoluzione delle cose. E adesso Nathan e Livia si presentavano davanti a lei con i loro
pochi averi - come avrebbe potuto mandarli via? «Ma certo che potete venire fin da oggi», disse. «Sono stata una sciocca a non pensarci...» In realtà l'aveva fatto, ma per paura di Frederic aveva preferito rimandare l'arrivo degli estranei a dopo la loro partenza. Nathan parve leggerle nel pensiero. «Suo marito è d'accordo?» chiese. «Non si preoccupi», tagliò corto lei, con l'impressione che il forestiero sapesse benissimo che c'erano problemi da parte di Mr. Quentin. Anche Livia parve intuirlo e sembrò sul punto di scoppiare a piangere. Virginia l'afferrò per un braccio e la fece entrare in casa. «Vi mostro subito la vostra stanza», disse. Al primo piano c'era un'ampia camera per gli ospiti, ma era proprio adiacente a quella dei padroni di casa e anche il bagno era in comune. Virginia immaginava fin troppo bene le proteste di Frederic. Aveva la sensazione di essere finita involontariamente tra l'incudine e il martello. Ancora mezza giornata e una notte, pensò. Se fossero già passati! Fu assalita dall'emicrania quando scese di sotto per informare Frederic che i due forestieri si erano appena installati al piano superiore. Come previsto lui reagì in maniera aggressiva. «Non è possibile! Li hai lasciati entrare sul serio? E si sono sistemati proprio accanto alla nostra camera da letto?» «Che cosa avrei dovuto fare, Frederic? Queste persone...» Lui si alzò e cominciò a camminare su e giù per la sala. Lei si accorse che cercava di tenere sotto controllo la rabbia. «Queste persone non ci riguardano! Trovo lodevole che evidentemente tu abbia scoperto il tuo spirito da buon samaritano, ma adesso ti rendi conto di dove ti porterà? La situazione ti sta già sfuggendo di mano. Di sicuro non segue più il piano originario e ti assicuro che può solo peggiorare!» «Io penso che non dovremmo...» cominciò Virginia, ma si bloccò, perché in quel momento Nathan entrò nella sala seguito da Livia. Fu chiaro fin dal primo momento che Frederic e Nathan non si sopportavano e Virginia ebbe la strana sensazione che la cosa non dipendesse dalla situazione contingente, che li aveva resi l'uno un mendicante e l'altro un donatore involontario. Avrebbero potuto fare conoscenza anche a una festa o a una cena e sarebbe stato lo stesso. Probabilmente nessuno dei due avrebbe saputo dire da che cosa dipendesse. Semplicemente c'era qualcosa di stonato tra di loro, e in altre circostanze si sarebbero separati dopo un fugace, freddo saluto. Ora invece dovevano stringersi la mano e fare buon viso a cattivo gioco.
«Mi rincresce molto per lei, Mr. Moor», disse Frederic cortese, «e naturalmente anche per lei, Mrs. Moor.» «Grazie», mormorò Livia. «Una concatenazione di eventi molto sfortunati», disse Nathan, «che ci hanno tragicamente condotto fino alla catastrofe assoluta. È una sensazione quanto mai inconsueta trovarsi di colpo senza possedere più assolutamente nulla sulla terra.» «Per evitare situazioni del genere sono state inventate le assicurazioni», ribatté Frederic, sempre con un tono estremamente cortese, sotto il quale tuttavia traspariva fin troppo bene tutta la sua ira. Virginia trattenne il fiato. Le parve di scorgere negli occhi di Nathan una scintilla di odio, ma lui seppe trattenersi molto bene. «Ha proprio ragione», disse con lo stesso tono educato di Frederic, «e mi può credere se le dico che non me lo perdonerò finché campo di aver risparmiato in tal senso. È stato un comportamento avventato e irresponsabile. Non avevo messo in conto una simile sfortuna.» «Nessuno avrebbe potuto immaginare che succedesse una cosa del genere», osservò Virginia precipitosamente. Sperava che Frederic non indugiasse ulteriormente sull'argomento assicurazione. Nella sua situazione Nathan Moor non poteva mettersi certo a litigare, ma era del tutto superfluo umiliarlo ancora di più. Secondo lei era già stato punito abbastanza. «Quali passi ha in mente di intraprendere per il futuro, Mr. Moor?» domandò Frederic. «Immagino che non vorrà trattenersi all'infinito qui sull'isola di Skye.» La frase inespressa e vivere a scrocco rimase nell'aria con dolorosa evidenza. «Non abbiamo ancora potuto chiarire molto», rispose Nathan, «ma la cosa più importante sarebbe scoprire l'identità del mercantile che ci ha travolto. A quel punto potremmo avere una lontana speranza di essere risarciti.» «Sarà estremamente difficile trovare questo mercantile», disse Frederic. «Se vuole sapere la mia opinione...» indugiò. «Ma naturale. La sua opinione mi interessa molto», replicò Nathan con tagliente cordialità. «Io le consiglierei di non perdere tempo qui a Skye. Non le servirà a niente. Non risolverà nessuno dei suoi problemi. Dovrebbe tornare in Germania il prima possibile e fare in modo di riallacciare la sua vita di un
tempo. Di sicuro avrà ancora qualche contatto laggiù. Per esempio il suo precedente posto di lavoro. Che lavoro faceva?» Lo sta sottoponendo a un vero e proprio interrogatorio, pensò Virginia con crescente disagio. Si accorse che anche Livia tratteneva il respiro. «Sono uno scrittore», rispose Nathan. Frederic parve stupito. «Scrittore?» «Sì. Scrittore.» «E che cosa ha pubblicato?» Non puoi parlargli in questo modo, pensò Virginia. «Mr. Quentin», disse Nathan, «sua moglie è stata così generosa da offrirci ospitalità in questa casa. Ma adesso non posso fare a meno di pensare che lei non condivida. Perché non ci dice semplicemente che dobbiamo andarcene? Non dobbiamo fare nemmeno i bagagli. Nel giro di tre minuti potremmo sparire.» Virginia sapeva che Frederic anelava con ogni fibra del suo essere a liberarsi di quegli estranei, ma che la sua buona educazione gli impediva di mettere così in imbarazzo sua moglie. «Se mia moglie vi ha offerto ospitalità in questa casa», disse, «ovviamente la casa è a vostra disposizione. Vi prego di considerarvi nostri ospiti.» «È molto gentile da parte sua», rispose Nathan. Se gli sguardi potessero uccidere, pensò Virginia, nessuno dei due sarebbe ancora vivo. Amava così tanto l'isola di Skye che non aveva mai sentito il desiderio di partire, al contrario, soffriva tutte le volte che andava via. Adesso sperava con tutto il cuore che le venti ore successive fossero già trascorse e che loro si trovassero sul ponte che portava verso Lochalsh sulla terraferma. Martedì, 22 agosto Dalla scomparsa della figlia, la vita di Liz Alby era diventava un inferno. Tutti i vicini di casa erano al corrente dell'accaduto, dopo che la foto di Sarah era stata pubblicata sui giornali e la polizia aveva chiesto l'aiuto della popolazione in una lunga conferenza stampa. Con un certo tatto, le circostanze della scomparsa della bambina erano state ricondotte a una breve assenza della madre, ma Liz avvertiva chiaramente con quanto disprezzo
fosse giudicata. Una breve assenza della madre su una spiaggia affollata non era perdonabile trattandosi di una bambina di quattro anni. Tanto più che negli ambienti vicini a Liz era risaputo che lei non era quella madre premurosa e affettuosa che ci si sarebbe augurati per la piccola. La bambina trascorreva la maggior parte del suo tempo alla scuola materna, mentre Liz lavorava come commessa in una drogheria; ma anche quando la ragazza tornava a casa nel tardo pomeriggio tenendo la figlia per mano la sua espressione era torva e irritata, come se fossero bastati venti minuti insieme alla piccola per contrariarla. Spesso Liz aveva colto osservazioni del genere: «Com'è impaziente con la poverina!» oppure: «Quelle come lei non dovrebbero avere figli!» Non ci aveva mai badato più di tanto, troppo presa a compiangere la propria sfortunata situazione per interessarsi dell'opinione altrui. E poi era abituata alle sopracciglia alzate e ai mormorii di disapprovazione. Già prima della nascita di Sarah era stata sovente oggetto di pettegolezzi, per le minigonne che portava e il trucco troppo pesante. Adesso tuttavia, dopo la tragica giornata alla spiaggia, sentiva gli sguardi altrui come staffilate roventi nella schiena e l'ostilità delle persone la colpiva con inaspettato dolore. Ancora più di prima la gente abbassava la voce quando lei si avvicinava ma i pochi brandelli di dialogo che le arrivavano all'orecchio risuonavano assordanti per lei. Prima o poi doveva capitare... Non si è mai assunta la responsabilità di quella povera creatura... la madre peggiore che si potrebbe immaginare... sarebbe stato meglio se la bambina non fosse mai venuta al mondo... Come sono cattivi, pensava Liz, come sono perfidi e cattivi! Sarebbe potuto succedere anche a loro! Una vocina interiore, tuttavia, le diceva che cose del genere non accadevano a tutti. Anche i figli altrui scomparivano, venivano rapiti mentre tornavano da scuola. Oppure incontravano tipi poco raccomandabili che bazzicavano intorno ai parchi giochi. Ma se non altro si trattava di tragiche coincidenze, agghiaccianti svolte del destino, nei confronti delle quali i genitori non potevano sentirsi in colpa, a meno di non presupporre che fosse necessario sorvegliare i bambini ventiquattr'ore al giorno senza permettere loro di fare un passo da soli, cosa che, d'altro canto, ne comprometteva la crescita verso l'indipendenza e la maturità. Ma una bambina di quattro anni... una spiaggia affollata... una madre che si assenta per quaranta minuti... Quaranta minuti. Negli interminabili colloqui con la polizia, Liz aveva sempre cercato di
barare su questi quaranta minuti, ma era un fatto innegabile che il tragitto dal suo posto sulla spiaggia fino al chiosco era lungo - più di quanto avesse calcolato Liz. E inoltre il venditore ricordava che la ragazza, che aveva notato per la sua avvenenza, aveva dovuto aspettare parecchio la sua baguette, visto che proprio davanti a lei c'era un folto gruppo di sportivi che stava comperando il pranzo. «La giovane era di ottimo umore», ricordava il venditore, «e flirtava apertamente con i giovanotti. Voglio dire, a posteriori, la cosa mi ha sorpreso. Se si pensa che aveva lasciato da sola la sua bambina... Ecco, avrebbe dovuto essere un po' più nervosa, no?» A un certo punto l'immagine di madre avventata e irresponsabile si era consolidata anche tra i poliziotti. «Le capitava spesso di lasciare sola sua figlia?» le aveva chiesto uno degli agenti incaricati di raccogliere la sua deposizione in tono chiaramente critico. Liz aveva lottato con le lacrime. Era tutto così ingiusto! Certo, Sarah era stata per lei tutt'altro che benvenuta, ed era vero che spesso era impaziente e brusca con la bambina. Ma si prendeva cura di Sarah. Non era mai successo prima che la lasciasse da sola, mentre adesso era proprio ciò di cui tutti dubitavano. Una volta! Una volta soltanto! E proprio allora doveva scomparire senza lasciare traccia. La guardia costiera aveva fatto ricerche nella zona senza trovare niente. Erano stati interrogati i bagnanti, ma nessuno ricordava una bambina piccola in riva all'acqua. In pratica Sarah non era rimasta impressa a nessuno. La zona intorno alla spiaggia era stata battuta per giorni dai cani addestrati, senza trovare nessuna traccia. Come se la terra avesse inghiottito Sarah, senza che nessuno ci facesse caso - cosa che Liz si era sempre augurata in silenzio e a volte aveva espresso anche apertamente: che Sarah non esistesse più. «Doveva succedere prima o poi», fu il commento di Betsy Alby rispetto alla situazione. «Che eri troppo stupida per avere un bambino mi è stato chiaro fin da subito. E adesso? Adesso ti metti a frignare disperata, eh?» Liz non era stupida e sapeva di essere nella lista dei sospettati. Nessuno glielo disse apertamente, ma il modo di porre certe domande lo lasciava capire chiaramente. Sapevano bene quanto le fosse stato difficile accettare il suo destino di madre controvoglia. E naturalmente anche il padre della piccola, Mike Rappling, finì sotto la lente delle autorità.
«Ci sono padri che rapiscono i figli perché soffrono di stare troppo poco con loro», aveva detto una poliziotta che aveva parlato con Liz il secondo giorno dopo la scomparsa di Sarah. A quel punto tuttavia, per la prima volta dopo l'incidente - preferiva definirlo così, l'incidente, perché suonava meglio che il mio errore -, Liz era scoppiata a ridere, anche se senza gioia. «Con Mike se lo può scordare! Avrà visto Sarah forse quattro volte in vita sua, e soltanto perché gliel'ho imposto io tutte le volte. Avrebbe potuto tenerla tutti i fine settimana, l'ho implorato di farlo. Ma lui non aveva proprio nessuna voglia di avere la figlia tra i piedi. Avrei potuto offrirgli anche dei soldi e non si sarebbe occupato lo stesso di Sarah.» Mike fu comunque interrogato, ma aveva un alibi di ferro per le ore della scomparsa: si trovava in cella dopo essere stato fermato per guida in stato di ebbrezza. Il colloquio con lui, inoltre, confermò l'immagine che ne aveva fornito Liz. Mike Rappling aveva concentrato tutte le proprie energie a evitare di «farsi appioppare» la piccola Sarah, come disse testualmente. Non gli sarebbe mai venuto in mente di rapire la bambina. «Liz mi avrebbe lasciato per sempre la piccola con la massima gioia», aveva spiegato, «ma io non sono mica scemo! Non mi sono mai preso Sarah nemmeno per un'ora, perché avevo troppa paura che Liz non venisse più a riprenderla!» A ogni colloquio con la polizia, Liz avvertiva come negli inquirenti crescesse il disprezzo nei suoi confronti. L'immagine che si andava formando della piccola Sarah era ormai chiara e agghiacciante: quella di una bambina indesiderata fin da quando era venuta alla luce e rifiutata da tutte le persone del suo ambiente. Da sua madre, suo padre, sua nonna. Una bambina che intralciava la vita di tutti, e del cui benessere nessuno si sentiva veramente responsabile. Non hanno capito niente, pensava Liz. Erano passate due settimane dalla scomparsa di Sarah e Liz aveva perso cinque chili e non dormiva più la notte. Si tormentava con i rimproveri e si chiedeva dove potesse essere la sua bambina e se la chiamasse impaurita e disperata. Quante volte l'aveva mandata al diavolo, e ora era sparita sul serio! Era quella la punizione per i cattivi pensieri, per tutte le volte che aveva alzato la voce e l'aveva sgridata senza ragione? Quando torna sarà tutto diverso, giurava. Sarò buona con lei. Le comprerò dei vestiti carini. Andrò a Hunstanton con lei e le lascerò fare tutti i giri che vorrà sulla giostra. Non la lascerò mai più sola! Il quarto giorno dalla scomparsa, Liz aveva telefonato a Mike, perché
credeva d'impazzire se non sentiva qualche parola di conforto da qualcuno. Da sua madre non se lo aspettava; continuava a blaterare e ripeteva che tutto quanto non poteva prendere una bella piega, senza precisare che cosa intendesse con quel tutto quanto. Con grande sorpresa di Liz, Mike aveva risposto subito. «Sì?» «Sono io, Liz. Volevo solo... ecco, sai, non sto bene.» «Qualche notizia di Sarah?» chiese Mike sbadigliando rumorosamente. Erano le undici e mezzo di mattina, ma evidentemente si era appena alzato dal letto. «No. Niente. Nessuna traccia. E io... Mike, non riesco più a dormire né a mangiare. Sto da schifo. Che ne dici, potremmo vederci?» «E a che cosa servirebbe?» chiese Mike. «Non so, ma... oh, Mike ti prego, non hai un pochino di tempo? Per favore!» Alla fine si era lasciato convincere a tornare con lei a Hunstanton per fare una passeggiata, anche se l'aveva subito informata che, a causa dell'arresto per guida in stato di ebbrezza il giorno della sparizione di Sarah, gli era stata ritirata la patente e non poteva portarcela in macchina. Presero l'autobus, la stessa linea usata da Liz qualche giorno prima insieme alla figlia. Era da molto tempo che non vedeva Mike e rimase profondamente colpita dalla somiglianza che notò tra di lui e la piccola Sarah. Prima non ci aveva fatto caso, ma adesso si rendeva conto che Sarah era identica al padre. A parte i capelli e gli occhi scuri della mamma, tutto il resto - bocca, naso, sorriso - era di Mike. La sua vita dissoluta però aveva lasciato il segno. Non era più il ragazzo carino di cui si era innamorata e con il quale, in un momento di passione, aveva generato una figlia. Aveva i capelli troppo lunghi e poco curati, probabilmente erano giorni che non si radeva e le borse sotto gli occhi tradivano il fatto che l'alcol fosse diventato da tempo un compagno di vita regolare per lui. Non sarebbe mai stato in grado di provvedere a me e a Sarah, pensò lei. Era una giornata fresca e ventosa e sulla spiaggia c'erano poche persone. Liz dovette lottare con le lacrime quando, scesi dall'autobus, si trovarono davanti alla giostra dei cavalli - l'ultimo, appassionato desiderio di Sarah. «Se le avessi concesso almeno qualche giro! Almeno adesso avrei la sensazione che le fosse rimasto un bel ricordo prima che...» «Prima di che cosa?» domandò Mike. «Prima che scappasse», rispose Liz piano. Era l'unica cosa a cui riusciva a pensare e che poteva esprimere: che Sarah fosse scappata. La fuga signi-
ficava che si trattava di una marachella infantile. Sarah si era allontanata, forse per andare a cercare sua madre, forse per tornare alla giostra. Poi aveva perso l'orientamento, non aveva saputo tornare indietro, si era persa del tutto. Era grave, era terribile, ma prima o poi qualcuno avrebbe notato quella bambina vagabonda e avrebbe chiamato la polizia e allora Sarah sarebbe tornata a casa e il dramma sarebbe finito. La fuga significava che non era annegata. Non era stata rapita. La fuga significava la speranza. «Guarda che due o tre giri di giostra a questo punto non cambierebbero niente», osservò Mike pragmatico. Tirò fuori una sigaretta dalla tasca della giacca e riuscì ad accenderla dopo diversi tentativi a causa del forte vento. Imprecò. «Che stronzata, l'idea di venire al mare! Fa sempre così dannatamente freddo in Inghilterra! Stavo pensando di trasferirmi in Spagna.» «E come pensi di mantenerti?» «Un lavoro si trova sempre. In Spagna non c'è bisogno di tanta roba, lì fa sempre caldo. E all'occorrenza si può dormire anche all'aperto. Senti, sto morendo di freddo. O torniamo indietro o ci muoviamo.» Liz voleva camminare. Pensò alle tante fatidiche coincidenze della propria vita. Se durante le vacanze di Sarah non fosse stata in ferie... se la giornata non fosse stata tanto calda... se Sarah non si fosse addormentata... Se, se, se. «Se fossimo stati una famiglia vera fin dall'inizio», disse, «adesso Sarah sarebbe ancora qui!» «Ehi, aspetta un momento!» esclamò Mike. Tirò una lunga boccata di sigaretta. «Credi sul serio che sarebbe cambiato qualcosa se ci fossimo sposati e avessimo vissuto quella merda piccolo-borghese di mamma, papà e figlia?» «Sì.» «È una stronzata grossa come una casa! Uno dei tuoi soliti sogni a occhi aperti. Magari saresti stata lo stesso in spiaggia con Sarah, io non ci sarei stato perché lavoravo...» Questo sì che è un sogno a occhi aperti, pensò Liz. «...e tu l'avresti lasciata da sola e... Merda! Solo un gran mucchio di merda, in un modo o nell'altro!» Liz si fermò. «Eravamo qui. Guarda, c'è ancora il suo castello.» «Come fai a sapere che è il suo castello?» «L'ho costruito insieme a lei. E quel buco sul fianco l'aveva scavato lei. Ci aveva infilato i sandaletti. Diceva che era il suo nascondiglio segreto.»
La voce le tremava, le lacrime la soffocavano. «Negli ultimi tempi, sai... aveva la fissa dei nascondigli segreti.» Mike fissò il castello di sabbia, che il vento stava distruggendo poco alla volta. Ancora un giorno e non ne sarebbe rimasta più traccia. Gettò la sigaretta nella sabbia. «Maledizione», disse piano. Poi non dissero altro, ma rimasero a osservare in silenzio il luogo in cui la loro bambina era scomparsa. In seguito Liz si sarebbe resa conto che quei momenti di una ventosa giornata di agosto a Hunstanton rappresentavano, insieme alla notte della loro passione sessuale, gli unici istanti di autentica intimità tra lei e Mike. E c'era sempre di mezzo Sarah. La prima volta l'avevano concepita. La seconda volta si congedavano da lei. A due settimane dalla scomparsa di Sarah, Liz tornò da sola a Hunstanton. Percorse la spiaggia per tutta la sua lunghezza, nella speranza di trovare almeno le tracce del castello di sabbia costruito da Sarah. Non sapeva perché all'improvviso le sembrasse così importante. Il castello era stato l'ultimo segno di vita di Sarah. Era qualcosa a cui ci si poteva aggrappare. Ma il vento aveva appianato la piccola montagnola di sabbia. Liz non avrebbe più saputo dire in quale punto della spiaggia si fossero fermate lei e Sarah. Rimase ferma a contemplare l'arenile, rabbrividì nel vento e osservò distrattamente il mare, che quel giorno aveva un colore grigio e cupo quanto il cielo. Quando fece ritorno a casa, notò già da lontano l'auto della polizia parcheggiata davanti all'ingresso del suo palazzo. Fece gli ultimi metri di corsa, assalita dalla speranza. Forse gliel'avevano riportata. Forse era già di sopra e stava sgranocchiando un biscotto al cioccolato, oppure giocava con la sua Barbie. Salì le scale a balzi, due gradini alla volta. Si accorse che le porte degli altri appartamenti erano socchiuse, che gli inquilini la spiavano. Anche gli altri si erano accorti dell'auto della polizia. Tutti morivano dalla curiosità. Le dita le tremavano tanto che dovette provare due volte prima di riuscire a infilare la chiave nella toppa. Udì la voce della madre - ovviamente con il frastuono del televisore in sottofondo. «Credo che sia arrivata.» Due agenti uscirono dal salotto e le vennero incontro nell'angusto corridoio. Lo spazio era davvero poco e Liz di colpo si sentì soffocare. Qualcosa le stringeva la gola, forse si trattava del fatto che i due poliziotti erano entrambi molto alti e si ergevano davanti a lei come montagne. Ma non era solo questo; le loro facce non le piacevano affatto. Quell'espressione... non avrebbe saputo spiegarlo, ma le metteva paura. Sì, ecco cos'era che le im-
pediva di respirare: di colpo era stata assalita da una tremenda paura. «Miss Alby», disse uno dei due, poi si schiarì la gola. L'altro agente prese la parola. «Miss Alby, volevamo pregarla di seguirci...» Lei lo fissò. Da una fessura tra i corpi dei due agenti scorgeva il salotto con la televisione a tutto volume. Sua madre era seduta in poltrona, come al solito, l'immancabile sacchetto di patatine accanto a lei. Ma in quel momento Betsy Alby non stava guardando lo schermo e questo era strano, perché non perdeva mai neppure un secondo della trasmissione in corso. Guardava la figlia. Anche sul suo viso c'era qualcosa che spaventò Liz. «Seguirvi?» chiese a fatica. «E dove?» Non aveva richiuso la porta d'ingresso. Uno dei due agenti la superò e lo fece per lei. «Miss Alby, ci tengo a precisare che potrebbe non trattarsi di sua figlia», disse. «Ma stamattina è stato rinvenuto il cadavere di una bambina. Dalla descrizione potrebbe essere Sarah, ma ovviamente non ne abbiamo la certezza. Sono passate due settimane e il corpo è molto deteriorato. Per questo vorremmo risparmiarle l'identificazione. Però vorremmo mostrarle i vestiti che indossava.» Alla sensazione di soffocamento si aggiunse adesso un impetuoso giramento di testa. Il cadavere di una bambina... non poteva essere Sarah. In nessun caso. «Come...» La sua voce sembrava uscire da molto lontano. «Come... voglio dire, com'è morta questa bambina? È... annegata?» Su una spiaggia piena di persone un bambino non può annegare. Già solo per questo non può essere Sarah. «Non sappiamo niente di preciso. Ma pare trattarsi di violenza.» Lo sguardo dei due agenti era pieno di preoccupazione. «Miss Alby, vuole un bicchiere d'acqua?» Sapeva di essere diventata bianca come un lenzuolo, se lo sentiva. «No», gracchiò. «Forse vuole che l'accompagni anche il padre di sua figlia? Potremmo passare da lui.» «Mio... Il padre di Sarah a quest'ora dorme ancora. Io... no, non voglio che ci sia anche lui.» La proposta di far venire anche Betsy Alby i poliziotti non l'avanzarono neppure. Anche senza conoscerla, si intuiva subito che non si sarebbe alzata dalla sua poltrona davanti alla TV per niente al mondo.
«Crede di farcela?» Lei annuì. Tanto non poteva essere Sarah, pensò, e aveva ancora l'impressione che il pavimento sotto i suoi piedi ondeggiasse. Era spaventoso! Un atto di violenza! «Possiamo andare», disse. Giovedì, 24 agosto Ferndale House, l'ampia villa nell'East Anglia, apparteneva alla famiglia Quentin da generazioni, ma erano passati più di cento anni da quando era stata abitata veramente per l'ultima volta, da quando qualcuno l'aveva scelta come dimora stabile. In seguito era stata utilizzata soltanto come casa per le vacanze. Questo ovviamente dipendeva in primo luogo dal fatto che la Harold Quentin & Co., la banca di famiglia, aveva la sua sede a Londra e pertanto non sarebbe piaciuto a nessuno risiedere a tante ore di macchina dalla capitale inglese. Inoltre Ferndale House non era propriamente accogliente. Chi aveva progettato e costruito l'austero e scuro edificio in pietra doveva essere stato un tipo malinconico, o aver voluto trasmettere agli altri un senso di malinconia. I soffitti a cassettoni di legno scuro incombevano in ogni stanza e trovavano il loro pendant nei pavimenti di marmo scuro. Le finestre erano così piccole da lasciar trapelare a stento la luce del sole e per di più gli alberi, che qualche giardiniere poco previdente aveva piantato molto vicini alla casa, erano cresciuti a dismisura, e le loro ampie fronde schermavano ogni raggio solare che per sbaglio fosse voluto penetrare in una delle stanze. Con notevole stupore di Frederic Quentin, la mancanza di luce della dimora che Virginia aveva scelto volontariamente non sembrava disturbarla affatto. Quando, due anni prima, lei aveva insistito in maniera sempre più pressante affinché da Londra si trasferissero a vivere lì, Frederic aveva proposto di far abbattere almeno gli alberi cresciuti direttamente davanti alla casa, per non avere la sensazione di essere inghiottiti dalla vegetazione. «No», aveva risposto Virginia. «A me piace così.» Non c'era personale di servizio in casa. La tenuta era curata da quasi quindici anni da una coppia di custodi che abitava in una casetta proprio all'ingresso della proprietà, a dieci minuti di cammino dalla casa padronale. Grace e Jack Walker, entrambi sulla sessantina, erano persone riservate,
discrete e affidabili. Jack eseguiva ancora occasionalmente qualche consegna per la Trickle & Son, un'azienda di trasporti presso la quale aveva lavorato per molti anni. Per il resto si occupava di chiamare regolarmente i giardinieri per tenere in ordine il parco e di riparare i danni alla casa o al muro di cinta. Molte cose le faceva di persona, per le altre sapeva a chi rivolgersi per farsi aiutare. Grace faceva le pulizie nella casa padronale, almeno nella parte che era occupata dalla famiglia Quentin. Un'ala era completamente vuota, visto che Virginia trovava del tutto insensato andare a passeggio ogni giorno in cinque saloni e decidere tutte le sere in quale delle quattro sale da pranzo cenare. Per questo la maggior parte della villa era chiusa e solo una volta al mese Grace apriva gli ambienti per spazzare, spolverare, far prendere aria e controllare se da qualche parte non ci fosse bisogno delle abilità manuali di suo marito. I Quentin occupavano l'ala occidentale, composta da una spaziosa cucina, dove Virginia cucinava personalmente, un soggiorno, una biblioteca, che fungeva da sala da pranzo per le occasioni ufficiali, e quattro camere da letto. Dalla cucina si usciva direttamente nel parco. Qui, in uno dei pochi punti soleggiati, c'era l'altalena di Kim e poco distante un filo dove Virginia stendeva ad asciugare il bucato. Era un piccolo mondo crepuscolare e circoscritto. Ogni giorno era uguale a quello precedente. Se c'erano dei pericoli, si trovavano altrove, lontano, al di là del muro che circondava il parco. Al di là delle piccole avventure che Kim viveva a scuola, e dei crucci che a volte Grace confidava a Virginia e che riguardavano principalmente il colesterolo troppo alto del marito e le opinioni di Grace Walker sulla politica mondiale in genere, non c'era nulla che potesse dare adito a preoccupazioni. Era la vita che Virginia Quentin aveva scelto per sé. La mattina del 24 agosto, Frederic si preparava per un viaggio a Londra. Era un giovedì e un giorno insolito per partire, ma Quentin doveva partecipare a due importanti eventi per il fine settimana e il lunedì successivo, che era festivo in quanto giorno del Summer Bank Holiday. Virginia si sentiva riposata e di ottimo umore. Aspettava con piacere il settembre ormai vicino che già cominciava a farsi annunciare impercettibilmente. Le piaceva l'epoca in cui l'estate se ne andava lentamente e si poteva pensare già ai fuochi autunnali, alle lunghe passeggiate tra i campi nebbiosi, alle bacche rosse e alle foglie colorate e alle lunghe serate di fronte al camino acceso, quando fuori imperversava il temporale. L'autunno era la sua stagione preferita.
Kim dormiva ancora. Virginia aveva già fatto la sua corsa abituale e si era sbrigata, per poter fare comodamente colazione con Frederic prima della sua partenza. Gli aveva preparato un bel piatto di uova e pancetta con una tazza di caffè forte. Era la sua colazione preferita e a Virginia piaceva fare qualcosa che lo mettesse di buonumore. Erano seduti in cucina. Fuori dalla finestra, da qualche parte oltre gli alberi frondosi, il sole dorato cominciava a inondare il paesaggio, ma Virginia aveva notato con un brivido quanto si fosse già abbassata la temperatura al mattino. L'autunno è già arrivato, pensò. In cucina faceva caldo. Frederic leggeva il giornale, Virginia mescolava il suo caffè. Come quasi sempre tra di loro regnava un'atmosfera serena e rilassata. Non capitava quasi mai che litigassero. Da quando si conoscevano, il loro bisticcio più acceso era avvenuto il fine settimana precedente, quando Virginia aveva accolto in casa i due naufraghi tedeschi. E anche quello, pensò ora Virginia, non poteva considerarsi un vero e proprio litigio. Stava giusto riflettendo se fosse possibile litigare con Frederic per chiunque, quando lui interruppe il silenzio. «È spaventoso», disse, «qui dice che una bambina di King's Lynn è stata assassinata.» Virginia si riscosse dai propri pensieri. «Una bambina? E da chi? Dai genitori?» «No, da uno sconosciuto. Pare che sia stata rapita sulla spiaggia di Hunstanton mentre la madre era distratta.» «Quando è successo?» «Quando eravamo su a Skye. La piccola aveva quattro anni.» «È tremendo! Il nome ti dice qualcosa?» Frederic scrollò il capo. «La bambina si chiamava Sarah Alby.» Virginia rimase a pensare. «No. Non conosco il nome Alby.» «Era scomparsa due settimane fa a Hunstanton. E l'hanno ritrovata martedì nei pressi di Castle Rising. Stuprata e assassinata.» Era inconcepibile. Virginia fissò il marito. «Stuprata? Una bambina di quattro anni?» «Chi ha certe perversioni non rispetta neppure i neonati», disse Frederic. «Sono persone disgustose.» «Si sa chi è stato?» «No. Secondo l'articolo non ci sono piste attendibili.» «Dirò a Kim di giocare sempre dove possa vederla», disse Virginia.
«Almeno finché questo tizio non sarà stato acciuffato.» «Non preoccuparti troppo. Non credo che tipi del genere penetrerebbero in una proprietà privata. La piccola è stata prelevata su una spiaggia molto affollata. È probabile che questo individuo non vada in giro per i boschi, ma cerchi le sue vittime nei luoghi affollati.» Virginia rabbrividì. «Cerchi le sue vittime... suona come se credessi che possa rifarlo.» Lui posò il giornale. «Tu non lo credi? Hai appena detto che sorveglierai Kim più da vicino.» Aveva ragione lui. Lo credeva anche lei. Perché probabilmente si trattava di un maniaco. E perché era risaputo che i maniaci avevano bisogno di trovare sempre nuovo nutrimento per le loro perversioni. «Spero che lo prendano in fretta», disse lei di slancio, «e lo rinchiudano per tutta la vita.» «Oggigiorno purtroppo nessuno viene più rinchiuso per tutta la vita», osservò Frederic; «c'è sempre qualche psicologo compiacente che dopo una paio d'anni ne certifica la completa guarigione. Non è difficile trovarli.» Stava per alzarsi, ma ci ripensò. «C'è ancora una cosa...» disse. Virginia, la mente ancora rivolta all'orribile delitto, sussultò. «Sì?» «Io...» Lui era imbarazzato a far presente la propria richiesta. «Sai che ambisco a un seggio in Parlamento e che ho buone possibilità di riuscirci. Ma non fa certo buona impressione che dovunque vada io sia sempre da solo. Si sa che sono sposato e ci si chiede perché mia moglie non si fa mai vedere al mio fianco.» «Ma...» «In questo modo fanno presto a nascere voci sullo stato del nostro matrimonio. C'è chi pensa che qualcosa non funzioni.» «Ma abbiamo una bambina di sette anni!» «Già, però non siamo proprio poveri. È chiaro a tutti che potremmo permetterci una balia, una ragazza alla pari o almeno una baby-sitter ogni tanto. Capisci, se io dico che devi restare a casa per via della bambina, verrebbe presa come una scusa.» Tacque per un istante, poi aggiunse: «È già successo». «Ah sì? E come fai a saperlo?» «Mi è stato riferito.» Lei evitò di guardarlo. «Il tuo partito ti ha fatto capire che le tue chance di essere eletto vacillano se si diffonde la voce che il tuo matrimonio è in
crisi?» «Tra i conservatori è così, in effetti.» Si alzò. Si era alterato, cosa che invece avrebbe voluto evitare a ogni costo. «Cerca di capire, un seggio alla camera... non è cosa da nulla. Non è che venga proprio regalato.» «Il presupposto per arrivarci sarebbe una vita familiare impeccabile? Non lo sapevo.» Il suo sarcasmo gli parve del tutto fuori luogo e non capiva nemmeno l'aggressività che di colpo l'aveva assalita. «Virginia, dove sta il problema? Dopo tutto siamo una famiglia a posto. Viviamo in concordia. Tu sei una donna attraente e intelligente. Perché non dovrei mostrarti in giro?» Anche lei si alzò. Di colpo le era passata la voglia di bere il caffè. «Dobbiamo parlarne proprio adesso? Dieci minuti prima che tu parta per stare via una settimana? Trovo che tu abbia scelto il momento... mi sento spiazzata. Non ho tempo di riflettere in pace e di parlare con te con calma!» Lui sospirò. Durante le ferie su a Skye qualche volta gli era venuto in mente che sarebbe stato meglio sfruttare l'atmosfera rilassata e serena delle giornate oziose per affrontare questo argomento cruciale. Di sicuro sarebbe stato meglio che gettare lì la cosa all'ultimo momento, ma sfortunatamente tra di loro i dialoghi si erano ridotti in pratica a fugaci scambi di battute in piedi. Aveva sempre rimandato la cosa, per paura di rovinare la pace di quelle giornate, accompagnato com'era dalla sensazione che il tema avrebbe sollevato contrarietà e complicazioni. Cosa che puntualmente si era verificata, pensò ora. Se solo sapessi perché abbiamo tante difficoltà al riguardo. «È proprio questo il punto», disse. «Non possiamo mai parlare con calma. Siamo troppo distanti. E alla lunga non ci fa bene.» «La nostra lontananza non dipende certo da me!» «Ma nemmeno da me soltanto. Lo sapevi fin dall'inizio che la banca mi avrebbe costretto a stare spesso a Londra. Ciononostante hai voluto che ci trasferissimo a vivere qui in campagna. Ti avevo detto che questa decisione avrebbe causato qualche problema nel nostro rapporto.» «Il vero problema nasce dal fatto che hai deciso di darti alla politica.» Aveva ragione e lui lo sapeva. «Adesso non posso più farci nulla», ribatté lui sconsolato. Lei versò il caffè nel lavandino. «Non ti ho mai fatto nessun rimprovero. Non ho mai cercato di frenarti.» «E di questo ti sono sempre stato grato. Ma... non mi basta. Ho bisogno del tuo sostegno. Ho bisogno di te.»
Si rese conto che lei avrebbe preferito poter sparire passando attraverso il muro. Non voleva affrontare quel dialogo. Non voleva che lui la supplicasse. Altro che parlare con calma. Tutto, fuorché questo tema, in qualsiasi momento. «Devo andare», disse lui. «Jack arriverà da un momento all'altro.» Jack lo avrebbe accompagnato alla stazione ferroviaria di King's Lynn. Spesso Frederic andava in macchina fino a Londra, ma quel giorno preferiva prendere il treno per poter finire di esaminare alcuni documenti durante il viaggio. «Prova a pensarci, magari», la implorò, «con calma. Fallo per me. E vorrei che tu sapessi...» Ebbe un attimo di esitazione. Non era molto bravo a manifestare i propri sentimenti. «Vorrei che sapessi che ti amo. Sempre. Comunque risponderai alla mia richiesta.» Lei annuì. Ma lui riconobbe un lampo di irritazione nel suo sguardo. La sua ultima frase la faceva sentire ancora di più sotto pressione. Non importa, pensò lui, ho detto ciò che penso. Da fuori gli giunse il rumore di un'auto che si fermava. Jack era venuto a prenderlo. Doveva assolutamente infilarsi la giacca, prendere i documenti e mettersi in viaggio. Rifletté se fosse il caso di avvicinarsi a Virginia e baciarla, cosa che faceva sempre quando se ne andava, ma stavolta qualcosa lo trattenne. Forse l'espressione che era ancora presente negli occhi di lei. «A presto», le disse. «A presto», rispose lei. Sabato, 26 agosto Durante il fine settimana nell'East Anglia tornò l'estate. Anche se la mattina e la sera l'aria recava indiscutibilmente sentore d'autunno, durante il giorno faceva così caldo che la gente affollava le spiagge e le piscine. Il cielo era di un azzurro soprannaturale. Nei giardini sbocciavano fiori multicolori. Sembrava un ultimo, meraviglioso regalo d'addio. Per la settimana entrante i meteorologi prevedevano pioggia e freddo. Nel tardo pomeriggio Virginia accompagnò Kim dalla sua compagna di scuola che festeggiava il compleanno. Aveva invitato quasi tutta la classe, pregando tutti di portarsi dietro il sacco a pelo. I festeggiamenti si sarebbero conclusi la domenica con una grande pizza generale. Le altre madri che avevano accompagnato i figli stavano parlando
dell'omicidio della piccola Sarah Alby, che aveva scosso tutta la regione. Una di loro conosceva qualcuno che conosceva la madre di Sarah, ma solo «di sfuggita», precisò. «Persone molto disagiate», raccontò. «Il padre era un disoccupato sbandato che non si è mai preso cura della bambina. La madre è molto giovane e sventata e anche lei poco interessata alla piccola. E pare ci sia anche una nonna, pure lei nullafacente. Un ambiente molto degradato.» «Spaventoso», disse un'altra mamma. «Ho anche sentito dire che la madre avesse lasciato la bambina a lungo da sola sulla spiaggia. Era andata al chiosco per cercare di rimorchiare qualcuno. Se ci penso... una bambina di quattro anni!» Erano tutte unite nella loro indignazione. Virginia, che come accadeva sempre in simili frangenti si teneva molto sulle sue, non riusciva comunque a capacitarsi di come una madre potesse lasciare la propria figlia da sola su una spiaggia, ma l'arroganza delle altre le dava un po' fastidio. Erano tutte appartenenti al ceto benestante, tutte convenientemente sposate o divorziate, in ogni caso mantenute dai padri dei loro figli. Le gravidanze non erano piombate loro addosso come una spaventosa malattia, ma erano state volute. Forse la giovane madre di Sarah Alby aveva dovuto affrontare problemi, timori e speranze distrutte, che quelle donne non potevano neanche lontanamente immaginare. «Ah, Mrs. Quentin», disse in quel momento una di loro, come se si fosse appena resa conto della presenza di Virginia, «ho letto un'intervista a suo marito sul Times. Vuole candidarsi alla Camera?» Tutte le altre si girarono verso Virginia. Odiava quando la guardavano così. «Sì», rispose laconica. «Per lei sarà sicuramente un periodo molto stressante», commentò un'altra, «scelte del genere coinvolgono sempre tutta la famiglia.» Virginia aveva l'impressione di essere un animale in trappola. «Staremo a vedere», ribatté. «Sono contenta che mio marito non nutra ambizioni di questo genere», disse una delle madri. «Per me la vita familiare è sacra.» «Suo marito non è banchiere né tantomeno proprietario terriero.» «Questo non c'entra niente!» «Ma, mia cara, altroché se c'entra! Più è elevata la carica politica cui si ambisce più importanti sono denaro e buone conoscenze.» «Ma non sono forse sempre importanti? A mio parere...»
Virginia si sentiva quasi sopraffatta e soffocata da quell'insieme di voci indistinte. Faticava a respirare. Come le capitava spesso, le persone intorno a lei la opprimevano con la loro eccessiva vicinanza. «Devo andare», si affrettò a dire, «stasera abbiamo ospiti e ho ancora un sacco di cose da preparare.» Salutò Kim, che tuttavia si era già messa a giocare con gli altri bambini e rivolse alla madre soltanto un cenno distratto. Mentre attraversava il giardino, Virginia ebbe la netta sensazione che le altre la seguissero con lo sguardo e che, non appena fosse stata abbastanza lontana, si sarebbero messe a spettegolare su di lei. La sua fuga era stata quasi precipitosa e di sicuro se ne erano accorte tutte. Non aveva dato l'impressione di essere una donna che va di fretta, quanto di una assalita da un attacco di panico. Accidenti, pensò tra sé una volta arrivata all'auto e dopo essersi appoggiata per qualche secondo al cofano rovente. Perché non riesco a mascherare meglio questa cosa? Mentre ripartiva, cercò di pensare esattamente a che cosa fosse quella cosa. Che cosa non riusciva a mascherare? Si trattava di qualcosa che emergeva soltanto in pubblico, soprattutto quando si sentiva di colpo al centro dell'attenzione e le domande e le osservazioni che le venivano rivolte o i commenti che venivano espressi sulla situazione improvvisamente diventavano troppo urgenti e incalzanti. A quel punto non riusciva più a mantenere l'autocontrollo. Il respiro le accelerava, la gola le si stringeva. L'unico pensiero che le riempiva la mente era la fuga e nient'altro. Fantastico, pensò, come compagna di un aspirante politico sono proprio perfetta. Gli attacchi di panico sono esattamente quello che serve. Quando raggiunse il cancello di Ferndale House, cominciò a respirare meglio. Era tornata nel suo mondo, che l'accoglieva protettivo, la casa isolata, l'ampio parco, nessun'anima viva a parte la coppia di domestici, che in virtù della loro posizione sociale si tenevano a debita distanza. Quando stava lì, in compagnia di Kim, non c'era la minima traccia di panico, al punto che riusciva a dimenticare del tutto il proprio problema. In quei momenti era giovane e piena di vita, una donna che fin dal primo mattino era attiva e in forma e che faceva la sua corsa nel parco, che si occupava della figlia e teneva in ordine la casa, che faceva allegre e vivaci chiacchierate telefoniche con il marito spesso assente. In quei momenti era tutto a posto. Bastava non chiedersi se fosse la vita adatta a una donna di trentasei an-
ni. Ed era una cosa che non voleva assolutamente fare: riflettere sulla propria vita. Si fermò davanti alla casa, scese dall'auto e accolse con piacere il tepore della serata di fine estate dopo la corrente d'aria fredda del condizionatore. Si sarebbe messa comoda per gustare ancora un po' quell'aria carezzevole. Erano appena passate le sei, non era troppo presto per un drink. Decise di prepararsi un cocktail - qualcosa di colorato, dolce, con molto ghiaccio - e poi di sistemarsi sulla terrazza dietro la cucina con un giornale ad aspettare che il giorno si concludesse. Per quanto volesse un bene dell'anima a Kim, era piacevole stare qualche tempo senza le sue chiacchiere e le sue domante incessanti. Era una serata tutta per lei. Qualcuno l'avrebbe potuta considerare una serata malinconica, ma non lei. Lei si sentiva avvolta da una grande pace. Mentre era in cucina a mescolare Blue Curaçao e succo di limone in un bicchiere, come d'abitudine accese il piccolo televisore collocato sul bancone. Stavano trasmettendo un programma sui genitori che avevano perduto un bambino e Virginia stava per cambiare canale, per non sentire un tema così triste, quando colse il nome Sarah Alby e si bloccò. Era il nome che compariva da giorni sui quotidiani, il nome della bambina di quattro anni uccisa. La madre di Sarah, Liz Alby, era ospite della trasmissione. Virginia vide una ragazza molto giovane, molto attraente, molto sconvolta. Nel contempo dava l'impressione di non aver ancora colto fino in fondo la tragedia che le era capitata. Di sicuro non era nelle condizioni adatte per comparire davanti a una telecamera, ma evidentemente tra le persone a lei vicine non c'era stato nessuno che si fosse sentito obbligato a impedire la sua partecipazione al programma. Il conduttore le faceva domande quanto mai indiscrete e, fingendo soltanto di avere rispetto del suo stato di shock, in realtà ne approfittava sfruttando l'inerzia che ne derivava per indagare i suoi pensieri e le sue emozioni più intime. Liz Alby rispondeva docilmente, senza rendersi minimamente conto della crudeltà con cui veniva messa a nudo. «Non è forse vero che si rimpiangono tutte le volte che ci si è arrabbiati con il proprio bambino?» chiese il conduttore. «A tutti capita di arrabbiarsi con i figli, giusto? Non è assalita dalle immagini di sua figlia, la piccola Sarah, in lacrime, perché la mamma è cattiva e la sgrida? Oppure non ha tempo per lei?» Era evidente che tali parole colpivano Liz Alby come coltellate.
«Non può fare così!» esclamò Virginia davanti al televisore. «Continuo a pensare alla giostra», disse Liz piano. Il conduttore la guardò con espressione partecipe e incoraggiante. «Ci racconti, Liz», la supplicò. «Il giorno in cui... in cui Sarah è scomparsa», cominciò Liz con voce rotta, «eravamo a Hunstanton. Al mare.» «Lo sappiamo», intervenne il presentatore dolcemente, «e tutti i nostri spettatori immagineranno benissimo quante volte si sarà pentita di esserci andata.» «Lì c'è una giostra», proseguì Liz, «e mia... mia figlia mi chiese di farci un giro. Lei... pianse quando le risposi di no.» «Le disse di no perché pensava di non avere tempo? O perché costava troppo? Perché le disse di no?» «La cosa non ti riguarda, maledizione!» esclamò Virginia incollerita. «Io... non lo so neppure io», disse Liz. «Era... tutto quanto insieme. Non ho molti soldi, ma non avevo nemmeno voglia di stare ad aspettare lì. Io... sapevo che non sarebbe più voluta scendere e che alla fine comunque avrebbe fatto i capricci. Era solo...» Alzò le braccia in un gesto impotente. «Ed è questo che le fa male adesso?» «Io... non posso fare a meno di pensarci. In continuazione. Penso alla giostra. So che non è la cosa più importante, ma non riesco a smettere di pensare perché non le ho lasciato fare qualche giro. Perché non le ho dato... un'ultima gioia.» Liz chinò il capo e scoppiò a piangere. L'obiettivo inquadrò spietato il volto tormentato. «È roba da vomitare», borbottò Virginia prima di spegnere il televisore. Nell'improvviso silenzio che seguì, udì chiaramente il campanello della porta d'ingresso. Sperava che fossero Grace o Jack, anche se di solito loro entravano dalla porta della cucina. Purché non fosse qualche visita! Quella era la sua serata. Per un attimo valutò l'ipotesi di fingere che non ci fosse nessuno in casa, ma poi le sarebbe rimasta per tutto il tempo la paura di essere sorpresa in terrazza. Con un sospiro posò il bicchiere e si alzò. Si trovò davanti Nathan Moor e la sua vista la colse così di sorpresa da lasciarla letteralmente senza parole. Anche Nathan aveva sussultato quando la porta si era aperta. «Oh», disse infine, «pensavo già che non ci fosse in casa nessuno. È da
parecchio che busso.» «Non ho sentito», rispose Virginia, quando ritrovò finalmente la voce. «Avevo la televisione accesa.» «La disturbo...» «No, no. Volevo... l'ho già spenta comunque.» «Avrei dovuto prima telefonare, ma...» Lasciò la frase a metà, così Virginia non seppe mai che cosa gli avesse impedito di farlo. «Mi scusi, ma sono molto sorpresa», disse. «Pensavo che foste ancora a Skye.» «È una lunga storia», rispose Nathan e Virginia alla fine si rese conto che avrebbe dovuto invitarlo a entrare. «Si accomodi. Sediamo in terrazza. Mi ero appena preparata un drink. Vuole qualcosa anche lei?» «Solo un bicchiere d'acqua, grazie», rispose lui, seguendola. Una volta usciti in terrazza - Virginia con il suo Curaçao di un verde squillante e Nathan con il bicchiere d'acqua - lei gli chiese: «Dov'è sua moglie?» «All'ospedale», rispose Nathan, «ed è proprio per questo motivo che siamo partiti da Skye. Non mi fidavo troppo del medico di lassù in un caso come questo.» «Di che cosa si tratta?» «È difficile a dirsi. Probabilmente uno shock causato dall'incidente. Oppure una grave depressione, non lo so. Ha smesso improvvisamente di parlare. Non beveva e non mangiava più. Era come... come se si fosse rinchiusa in un mondo tutto suo, dove non potevo più raggiungerla. Mercoledì mi è stato chiaro che sarebbe morta di fame e di sete se non facevo qualcosa. Così siamo partiti in tutta fretta da Dunvegan giovedì mattina.» «Probabilmente avremmo dovuto pensarci», disse Virginia. «Dopo tutto quello che era successo, sarebbe stato il caso di sottoporla a un trattamento di psicoterapia.» Lui fece cenno di sì. «Mi sento in colpa. Non mi sono reso conto di quanto le stava accadendo.» «Già quando andai a trovarla da Mrs. O'Brian mi sembrò di avere davanti una sonnambula», disse Virginia. «Non mi parve strano dopo... dopo la vostra orribile avventura. Ma sarebbe stato meglio prenderla più sul serio. E adesso si trova ricoverata qui all'ospedale di King's Lynn?» Una vocina dentro di lei chiese come mai non fosse tornato in Germania con la moglie, ma lei non aveva voglia di mettersi a discutere con quella
voce proprio adesso. Si ritrovò a pensare con sollievo che in quel momento Frederic era lontano. «Da venerdì mattina, esatto. Per prima cosa hanno curato la grave disidratazione che l'aveva debilitata. L'alimentano artificialmente, visto che lei continua a rifiutarsi di mangiare.» «È terribile. Andrò a trovarla domattina.» «Non reagisce a niente e a nessuno. Ma sarebbe davvero gentile da parte sua andarla a trovare. Chissà, magari riuscirà a scuoterla. Le è molto attaccata, Virginia. Ha sempre parlato di lei con grande simpatia.» Fu costretta a chiederlo. «Come... come ci ha trovato? E perché...?» Lui indovinò che cosa voleva domandargli. «Perché siamo venuti qui? Virginia, spero che non cominci a sentirsi perseguitata da noi. La verità pura e semplice è che non avevamo abbastanza denaro per un viaggio fino in Germania. Lei è stata così gentile da prestarci qualcosa...» Frederic avrebbe aggrottato la fronte, senza tuttavia aggiungere altro in proposito. «... che ci è bastato per comprare un biglietto ferroviario fino a qui. È stato un viaggio terribile, da fare insieme a questa donna del tutto passiva e assente... un turista molto gentile ci ha accompagnati in auto fino a Fort William, ma da lì ce la siamo dovuti cavare da soli. Abbiamo dovuto cambiare a Glasgow, e spostarci da una stazione all'altra, e poi abbiamo proseguito fino a Stevenage, un luogo che non avevo mai sentito nominare prima in vita mia. Lì abbiamo aspettato metà notte la coincidenza per King's Lynn. Siamo arrivati qui venerdì mattina presto. La notte scorsa ho dormito in condizioni davvero spaventose nei pressi dell'ospedale, ma ho comunque dato fondo a tutte le mie riserve economiche. Non ho più niente. Niente di niente.» «Come...?» «Giusto. In un cassetto della vostra casa di vacanza c'era una lettera indirizzata a lei a questo recapito. Evidentemente si era portata dietro la busta chissà quando. E allora ho pensato...» Virginia avvertì l'incombere di una lieve emicrania. Legata soprattutto a Frederic. Come aveva già notato a Skye, Nathan era dotato di una notevole perspicacia. «Suo marito non sarà certo entusiasta di vedermi qui, vero?» domandò. «È a Londra. Ma tornerà la settimana prossima.» «Non gli andiamo a genio», disse Nathan. «Non si fida di noi. E non
posso certo biasimarlo. Probabilmente ci crede dei poveri parassiti. E adesso ci presentiamo pure qui... Virginia, la cosa peggiore è che non ho scelta. Altrimenti non mi sarebbe mai venuto in mente di importunarla ancora. Ma io... noi siamo di fronte al nulla. In senso letterale. Non ho più nemmeno un centesimo in tasca. Quest'acqua è la prima cosa che ingoio oggi. Probabilmente sarò costretto a passare la notte all'addiaccio su qualche panchina. Non ho idea di cosa ne sarà di noi. E lei è l'unica persona che io conosca in questo paese.» A Virginia tornò in mente qualcosa che Frederic le aveva detto, durante il viaggio di ritorno da Skye, quando avevano toccato di nuovo l'argomento dei due naufraghi tedeschi. «Potrebbero rivolgersi in qualsiasi momento all'ambasciata tedesca a Londra», aveva obiettato lui, quando Virginia gli aveva fatto presente la situazione disperata della coppia. «Troverebbero assistenza. In questi casi l'ambasciata organizza il rimpatrio e provvede a tutto quanto è necessario. Non c'è assolutamente nessun motivo per cui debbano restare appiccicati a noi!» Sarebbe stato il momento di mettere Nathan Moor di fronte a questo fatto. Indicargli la via più logica, mettergli in mano ancora qualche sterlina e poi fargli presente, in maniera gentile ma ferma, che la famiglia Quentin non si riteneva più responsabile del loro destino. In seguito non seppe dire perché non l'avesse fatto. A volte si chiedeva se non dipendesse dalla sua stessa solitudine interiore. E dal modo di guardarla di Nathan. Il suo sguardo non esprimeva semplice curiosità, anzi, era animato da un caldo e vibrante interesse. «Ormai di notte non fa più così caldo da poter dormire all'aperto», disse lei in tono gioviale, per nascondere il proprio disagio. «Posso offrirle la nostra camera degli ospiti? Ora le preparo la cena, per evitare che anche lei finisca come sua moglie all'ospedale mezzo denutrito.» «L'aiuto», disse lui, alzandosi. Mentre entrava in cucina seguita da Nathan, Virginia continuava a provare la vaga sensazione di essere sul punto di invischiarsi in un problema di cui forse a un certo punto non sarebbe più riuscita a fermare la dinamica. Stranamente, però, non rimpiangeva minimamente il sabato sera solitario appena sfumato. Domenica, 27 agosto
1 Rachel Cunningham aveva deciso da sola di partecipare al catechismo per bambini dalle undici e mezzo alle dodici e mezzo della domenica. Nessuno nella sua famiglia era particolarmente religioso. La sua amica del cuore Julia, che frequentava regolarmente la chiesa con i genitori, l'aveva convinta un anno e mezzo prima ad andare con lei una volta e Rachel aveva trovato molto divertenti le storie che venivano raccontate, e le era piaciuto cantare e pregare tutti insieme. E ovviamente le piaceva Don. Aveva martellato i genitori perché le permettessero di frequentare regolarmente la chiesa e Claire e Robert Cunningham avevano accettato prontamente - il catechismo giovanile sembrava loro un'alternativa molto sana alla domenica mattina passata ciondolando per casa, quando, inevitabilmente, Rachel finiva davanti alla televisione. Fino all'inizio delle vacanze estive, Claire o Robert avevano sempre accompagnato la figlia in chiesa, ma dall'estate Rachel aveva insistito per poterci andare da sola. Dopo tutto aveva già otto anni. Claire Cunningham non era stata granché felice della nuova indipendenza della figlia, ma Robert le aveva spiegato che per la bambina era importante cominciare il graduale processo di distacco e che quindi non bisognava bloccarlo. Quella domenica era tornato a fare molto caldo e Robert aveva detto di voler andare al mare con la sorellina di Rachel. «Non vuoi venire anche tu, Rachel? Di sicuro sarà l'ultima occasione di andare al mare per quest'anno!» Rachel aveva scrollato il capo decisa. Claire lo notò con una punta di apprensione. Da quando era venuta al mondo Sue, Rachel rifiutava spesso di prendere parte a iniziative di famiglia. Fin dal primo momento Rachel non aveva accettato la presenza della sorellina. Era gelosa delle cure che la piccola riceveva da parte dei genitori, la rattristava dover dividere qualcosa che fino a quel momento era stato soltanto suo. A volte si richiudeva in se stessa, altre volte cercava di attirare l'attenzione dei genitori comportandosi in maniera chiassosa o maleducata. Come era capitato quella mattina. Era scesa di sotto con indosso ancora il pigiama e a piedi scalzi, anche se Claire le aveva ripetuto milioni di volte che doveva mettere le pantofole prima di camminare sul pavimento freddo del corridoio e della cucina. Ovviamente avevano di nuovo bisticciato al riguardo e Claire aveva avuto quasi l'impressione che non si fosse trattato di distrazione, ma che Rachel lo a-
vesse fatto apposta per provocarla. Dopo che Robert e Sue erano usciti diretti alla spiaggia, Rachel, tornata di ottimo umore, si era preparata per andare in chiesa. «Sei raggiante», constatò Claire. Rachel annuì. «Oggi viene...» Si morse le labbra. «Chi viene oggi?» domandò Claire distratta. Con la mente era già al lavoro che l'aspettava nel momento in cui tutta la famiglia fosse uscita. «Mah, un parroco», si affrettò a rispondere Rachel. «Viene un parroco da Londra per mostrarci delle diapositive sull'India.» Diede un bacio alla madre. «A più tardi, mamma!» Claire fece un profondo respiro. A volte apprezzava intensamente la solitudine. Lavorava come giornalista e quella domenica doveva scrivere una recensione su una pièce teatrale che aveva visto la sera precedente per conto del Lynn News. Si mise seduta alla scrivania, decisa a sfruttare fino all'ultimo minuto quell'intervallo di pace tanto raro in casa. Il lavoro procedette spedito. Il telefono non squillò mai, la temperatura nella stanza era piacevolmente fresca, nonostante la calura esterna, e per la strada e i giardini di Gaywood, un tipico quartiere per famiglie a King's Lynn, regnava una quiete domenicale. Solo il cinguettio di qualche uccello e l'abbaiare di un cane. Era un'atmosfera perfetta per scrivere. A Claire era piaciuto lo spettacolo, per questo si divertiva a recensirlo. Sapeva di avere a disposizione un'ora e mezzo; Rachel era uscita poco dopo le undici e sarebbe rincasata verso l'una meno un quarto. Dopo il catechismo era sempre molto serena - cosa che dipendeva dalla sua infatuazione per il mitico Don - e sprizzava voglia di raccontare. Claire non sarebbe riuscita a liquidarla dicendole di non avere tempo. Sarebbe stata costretta ad ascoltare per filo e per segno tutto quello che Don aveva detto e fatto. Poi voleva fare un salto insieme alla figlia al chiosco aperto anche la domenica per comperare un'abbondante porzione di fish&chips ciascuna da mangiare su una panchina del parco. A Rachel piaceva avere uno dei genitori a propria totale disposizione e fare qualcosa insieme, si trattasse anche soltanto di un veloce picnic al parco. Ogni volta che le era possibile, Claire cercava di fare qualcosa del genere e di rivolgere tutte le proprie attenzioni alla primogenita. Immersa nel lavoro, Claire perse la cognizione del tempo. Digitata l'ultima parola sulla tastiera del computer, si appoggiò allo schienale della sedia con un sospiro. Doveva rileggere ancora tutto e poi avrebbe spedito il testo direttamente in redazione. Incredibile quello che era riuscita a fare in
quel poco tempo. Guardò l'orologio ed emise un grido stupito; era già l'una! E Rachel non era ancora rincasata. Di solito non era sua abitudine indugiare in giro. E quando capitava che, dopo la funzione, si trattenesse per qualche istante con Julia la madre di Julia telefonava sempre per avvisarla. Forse oggi se n'era dimenticata? Claire, assalita di colpo da una forte agitazione, scese in salotto, dov'era il telefono, e compose il numero di Julia. Con suo sollievo, la madre di Julia rispose quasi subito. «Salve», disse Claire, «sono Claire Cunningham. Volevo solo accertarmi che Rachel fosse da voi. Le dica se per favore...» «Ma Rachel non è qui», la interruppe la madre di Julia. Claire deglutì a fatica. «No? E Julia?» «Julia non è andata in chiesa oggi. Dice che le fa male la gola.» «È solo... è solo... Rachel non è ancora tornata. È già l'una! Che sia ancora insieme a qualcuno degli altri bambini?» «Il tempo è magnifico», osservò la madre di Julia per tranquillizzarla, «forse una delle mamme ha offerto un gelato a tutti. Adesso magari se ne stanno seduti beati al sole e si sono dimenticati che a casa c'è qualcuno che li aspetta.» «Può essere.» Ma non ci credeva. Rachel era molto affidabile. Non ritardava mai. Oppure era l'ennesima provocazione? Ma si era comportata così bene quando era uscita di casa! «Farò un salto in chiesa a vedere», disse Claire. Si accorse che la sua voce era cambiata. Riattaccò senza salutare. Aveva paura. Una paura tremenda. Sentiva il cuore batterle a mille. Prese con sé soltanto le chiavi di casa e corse fuori. In lungo e in largo nessuna traccia di Rachel. Percorse il tragitto fino alla chiesa di corsa. I bambini si riunivano nella casa parrocchiale adiacente. Quando la raggiunse, tuttavia, la porta era già chiusa a chiave e in giro non c'era anima viva, né bambini né genitori. La messa degli adulti era terminata da un'ora e mezzo. Il sagrato della chiesa era silenzioso e deserto nel calore del mezzodì. «Non può essere vero», bisbigliò tra sé, «mio Dio, ti prego, fa' che la ritrovi in fretta. In fretta!» Pensò a come si chiamasse la persona che si occupava degli incontri con i ragazzi. La grande passione di Rachel. Don, naturalmente, ma il cogno-
me? Rachel le aveva mai detto come faceva di cognome? Stai calma, Claire, si impose, cercando di respirare a fondo, stai calma e rifletti. Devi mantenere i nervi saldi. Era importante mettersi in contatto con Don. Se c'era qualcuno che poteva darle qualche informazione, era sicuramente lui. Forse la madre di Julia conosceva il suo nome esatto e sapeva dove raggiungerlo. Cinque minuti più tardi era davanti a casa di Julia. Aveva corso, ma non si rendeva conto di avere il corpo madido di sudore e il respiro affannoso. Venne ad aprirle la madre di Julia la quale comprese all'istante che Claire non aveva ancora ritrovato la figlia. «Entri», le disse, «in chiesa non c'era nessuno?» «Niente. Non c'è più nessuno.» «Adesso non si allarmi così. Di sicuro troveremo una spiegazione logica. Vedrà.» «Vorrei telefonare all'insegnante», replicò Claire. «Don. Conosce il suo nome? Oppure ha il suo numero di telefono?» «Donald Asher. E ho anche il numero. Venga, lo chiamiamo direttamente da qui.» Due minuti più tardi, Claire parlava con Donald Asher. Ciò che apprese le fece diventare molli le ginocchia e le causò un giramento di testa che per un attimo pensò di cadere in terra svenuta. «Rachel oggi non si è fatta vedere», le disse, «e nemmeno la sua amica Julia. Però mancavano diversi bambini. Vista la bella giornata mi è sembrato normale e non ci sono stato a pensare su più di tanto.» «Non è venuta?» bisbigliò Claire. «Ma è uscita di casa puntuale.» Era evidente che questa informazione lasciò stupito anche Donald, che cercò tuttavia di tranquillizzare la madre angosciata. «Forse lei e Julia non avevano voglia e sono...» «Julia è a letto con il mal di gola», lo interruppe Claire. «Lei e Rachel oggi non si sono incontrate. E comunque di solito si vedono lì da lei, perché Julia in genere prima va in chiesa con i genitori.» «Su, non pensi subito al peggio», la incoraggiò Donald. «I bambini spesso non si rendono conto degli spaventi che ci fanno prendere. Forse è da qualche parte in un parco, a sognare a occhi aperti, e non si è resa conto del tempo che è passato.» Non era possibile. Claire conosceva bene sua figlia. Rachel non era il tipo da mettersi seduta a sognare in un parco. Se per qualche motivo avesse deciso di punto in bianco di non partecipare al catechismo, sarebbe tornata
a casa. Si sarebbe messa a giocare in giardino, oppure avrebbe assillato la madre fino a ottenere il permesso di guardare la TV. Riattaccò, senza salutare Donald, e si rivolse nuovamente alla madre di Julia. «Posso telefonare a mio marito, per favore? È al mare con Sue e...» «Ma certo.» Intanto la madre di Julia era sbiancata anche lei. Sullo sfondo comparvero in silenzio il marito e una Julia spaventata che, nonostante il caldo, portava una grossa sciarpa intorno al collo. «Chiami pure chi vuole.» Raggiunse Robert sul cellulare. In sottofondo si riconoscevano le voci e le risate dei molti altri villeggianti sulla spiaggia e i gridolini di Sue. «Robert, ti prego, torna subito a casa. Rachel è sparita.» «Sparita? Che cosa significa, sparita?» «Sparita significa sparita! Non c'è!» Nonostante gli sforzi per mantenere il controllo, Claire scoppiò a piangere. «Ti prego, torna subito! Per favore!» Lui aggiunse ancora qualcosa, ma lei non lo sentì. La cornetta le scivolò dalle mani tremanti. La madre di Julia la sorresse, l'aiutò a sedersi in poltrona. Lei crollò su se stessa silenziosamente, poi avvertì qualcuno - era il padre di Julia - che le avvicinava alle labbra un bicchierino di grappa. Il forte bruciore sulla lingua la fece tornare in sé. Ma rimase seduta come ipnotizzata, lo sguardo fisso sul muro di fronte a lei. Era stanca morta, vuota e fredda. Per il momento non desiderava muoversi. 2 La domenica Nathan Moor scese in cucina che era già l'una e mezzo. Virginia era seduta a tavola, mangiava uno yogurt e leggeva una rivista. Tre ore prima aveva telefonato a Frederic, che le aveva raccontato della cena della sera precedente e delle persone importanti che aveva conosciuto. «Com'è andato il tuo sabato?» le aveva poi chiesto. Lei aveva risposto in tono leggero. «Tutto tranquillo. Kim è a dormire da una sua amica. Per una volta sono rimasta completamente sola. Mi è piaciuto.» Lui aveva riso. «Non conosco nessun altro che apprezzi tanto la solitudine come te.» Era stato chiaro fin dal principio che non gli avrebbe riferito per nulla
della comparsa di Nathan Moor. Avrebbe significato litigare e Frederic le avrebbe fatto presente che era proprio ciò che aveva previsto. Se poi avesse saputo che Nathan aveva addirittura dormito nella camera degli ospiti... Virginia non aveva nessuna voglia di scatenare un bisticcio. Si disse che in ultima analisi aveva taciuto per risparmiare a Frederic una seccatura. Quando fosse tornato il mercoledì successivo, Nathan Moor ormai sarebbe stato lontano, e non ci sarebbe stato bisogno di parlargli della sua visita. «Buongiorno», disse Nathan e lei sorrise suo malgrado. «È l'una e mezzo! Ha dormito un sacco.» «Oddio! Già così tardi?» Lui gettò uno sguardo all'orologio della cucina. «È vero. Penso che dipenda dal viaggio con Livia. Mi ha letteralmente sfinito. Ero stanco morto.» «Vuole un caffè?» «Volentieri.» Si mise seduto a tavola e la guardò preparare la caffettiera. La sera precedente era andata allo stesso modo. Lei aveva cucinato, lui si era seduto a tavola a osservarla, ma la cosa non le aveva dato fastidio. Non le piaceva che degli estranei armeggiassero nella sua cucina. Lui le aveva raccontato della sua barca usando un sacco di termini tecnici che lei non conosceva. Quando si erano messi a mangiare, lei gli aveva chiesto ciò che le interessava sul serio. «Ha detto di essere uno scrittore. Che cosa scrive?» «Romanzi gialli.» «Oh... davvero? Li trovo... li leggo molto volentieri.» Lui aveva alzato gli occhi dal piatto. «Cucina molto bene, Virginia. Era da tempo che non mangiavo più con tanto gusto.» «È solo perché era mezzo morto di fame. In questo momento troverebbe buona qualsiasi cosa.» «No, non credo.» Lui cambiò bruscamente argomento. «Molte persone sono appassionate di romanzi gialli. Per mia fortuna.» «Significa che è uno scrittore di successo?» «Possiamo dire di sì.» «Ma i suoi libri non sono tradotti in inglese?» «Purtroppo no. Lei non sa il tedesco?» «No.» Rise. «Nemmeno una parola.» Voleva chiedere ancora qualcosa e stava riflettendo sul modo migliore di formulare la domanda, ma lui, con la sua inquietante preveggenza, indovinò ancora una volta ciò che stava pensando. «Sta pensando che se sono uno scrittore di successo non posso essere ri-
dotto del tutto sul lastrico, giusto?» Lei aveva alzato le spalle con aria imbarazzata. «Sì, ecco, io...» «Vede, purtroppo non sono il genere di persona che si preoccupa troppo per il futuro. Ho sempre vissuto di giorno in giorno. Quello che guadagno lo spendo. Viaggi, hotel lussuosi, regali per Livia, ristoranti famosi... il denaro andava e veniva. E... e poi tutto quello che possedevamo l'abbiamo speso per l'acquisto della barca, che adesso si trova da qualche parte sul fondo del Mare del Nord. Volevamo pagarci il viaggio con lavoretti occasionali. Per le emergenze c'erano i gioielli, che avremmo potuto vendere. Ovviamente sono andati persi anche quelli.» «Questo giro del mondo in barca...» «... doveva sfociare nel progetto per un libro.» «Un altro romanzo criminale?» «Sì.» «Ma i suoi libri sono ancora in commercio in Germania? Allora...» Lui la liberò molto gentilmente anche da questa domanda un po' indiscreta. «Allora otterrò di nuovo dei soldi, sì. Virginia, non è che sono rovinato definitivamente per tutta la vita. Ma in questo momento non abbiamo una casa, né un appartamento né mobili. E i nostri conti in banca sono completamente a secco. Si riempiranno di nuovo, ma non dall'oggi al domani.» Conti in banca completamente a secco... poteva immaginare che cosa avrebbe detto Frederic a proposito di un comportamento tanto dissennato. Era proprio una fortuna che non fosse a casa per quel fine settimana. Nathan era andato a dormire subito dopo mangiato. Lei si era accorta che era molto stanco. Riusciva a malapena a reggersi in piedi, aveva gli occhi arrossati. Adesso, trascorse quasi quindici ore, era una persona nuova. Riposato e rilassato, la sua carnagione abbronzata non appariva più grigiastra come il giorno prima. «Era da tempo che non dormivo più così profondamente», disse, «in pratica da quando abbiamo avuto l'incidente.» Lei gli porse una tazza di caffè e gli si sedette di fronte. «Sono contenta che si senta meglio. Oggi andrà a trovare Livia?» «Sì, più tardi. Vuole venire con me?» «Devo andare a prendere mia figlia che ha dormito a casa di un'amica», rispose Virginia in tono di scusa. «Pensavo di passare da Livia domani, magari.»
«Bene. Le farà piacere.» Lui si guardò intorno per la cucina. «Che cosa fa qui tutto il giorno, Virginia? E per di più ora che suo marito non c'è? È una cuoca fantastica, come le ho già detto ieri sera, ma sono sicuro che non passa tutto il tempo ai fornelli.» Quella domanda la stupì. Per un attimo provò a pensare se la trovasse indiscreta. Negli occhi di Nathan lesse un sincero interesse. «No, non sto sempre qui in cucina. Ma mi piace stare a casa. Oppure fuori nel parco. Sto bene qui.» «Insieme a sua figlia.» «Sì. Kim ha bisogno di me. Soprattutto visto che suo padre è a casa di rado.» «Suo marito è impegnato in politica?» Rimase stupita del fatto che lui lo sapesse. «In effetti sì. Come...» «Sul treno ho letto un articolo su di lui. Ambisce a un seggio alla Camera,» «Potrebbe farcela.» «A quel punto lei sarebbe ancora più sola.» «Non mi sento sola.» «Non si sente sola avendo come compagnia quasi esclusivamente una bambina di sette anni?» «No.» Virginia provò l'impulso improvviso di difendersi. E istintivamente non gradì quel dialogo. «Sua figlia crescerà. Prima o poi andrà per la sua strada. E allora lei resterà sempre più spesso sola in questa grande casa. Circondata da un immenso parco. Da questi alberi giganteschi che quasi nascondono la vista del cielo.» Lei rise forzatamente. «Adesso sta esagerando. Nathan, io...» Cominciò a sentire un groppo in gola. Come le era successo il giorno prima insieme alle altre mamme. Lui le stava troppo addosso. Troppo. Lui infilò la mano nella tasca dei pantaloni e tirò fuori qualcosa. Dapprincipio, Virginia non capì che cosa fosse, ma poi si rese conto che era una fotografia. Un ritratto leggermente spiegazzato. «Questa l'ho trovata ieri sera. Nell'ultimo cassetto del comodino nella camera degli ospiti. Ci sono un mucchio di foto infilate in molte buste.» Lei impiegò un istante per reagire alla disinvolta indifferenza con cui lui aveva parlato. «Le capita spesso di guardare nei cassetti in casa d'altri?» gli chiese alla fine.
Lui non rispose alla provocazione, ma rimase a fissare la foto. «Questa è lei», disse, «una... quindicina di anni fa? Sui vent'anni, direi.» Le porse la foto. Mostrava una giovane con una gonna da zingara fino al polpaccio, una maglietta bordata di frange in fondo e sulle maniche. I capelli lunghi fino alla vita le ricadevano sciolti sul petto. Rideva. Era scalza. Sedeva sulla scalinata di Trinità dei Monti insieme a centinaia di altre persone. Nei suoi occhi brillava una scintilla esaltata. «Ventitré», disse lei, «in quella foto avevo ventitré anni.» «A Roma», disse lui. «D'estate.» «Era primavera.» Deglutì con forza. Non voleva pensare a Roma. Voleva che Nathan sparisse immediatamente e la lasciasse in pace. Spostò la sedia all'indietro. «Nathan...» Lui si chinò sul tavolo, le tolse dolcemente la foto dalle mani. «Non riuscivo a smettere di guardarla», disse. «E da ieri sera non riesco a smettere di chiedermi che fine ha fatto questa ragazza allegra e piena di vita. Dov'è scomparsa? E perché?» Lei era indignata, ma la sua indignazione non era abbastanza violenta da trasformarsi in collera vera e propria. Lui aveva oltrepassato il limite. Il suo indirizzo lo aveva trovato in un cassetto nella casa di Skye. E ora si era presentato lì, per portare la moglie all'ospedale più vicino, contando sul fatto che in tali circostanze avrebbe trovato ospitalità sotto il suo tetto, come effettivamente era successo. Non aveva fatto in tempo a mettere le tende, che aveva cominciato a frugare nei cassetti, ficcando il naso in cose che non lo riguardavano. E si era messo a fare domande che forse erano lecite per un amico intimo e di lunga data, ma di sicuro non per un estraneo. Sorridendo e senza alcun imbarazzo aveva ferito i suoi sentimenti. E tutto perché lei si era mostrata troppo morbida fin dal primo momento. Era così? Dipendeva davvero da lei? Secondo il suo punto di vista, lei si era limitata a comportarsi in maniera amichevole e disponibile verso due persone in difficoltà. Livia aveva lavorato una settimana per lei, lei l'aveva trovata simpatica e gentile e aveva provato l'impulso di aiutarla nel momento del bisogno. E da parte sua Livia non aveva manifestato minimamente un comportamento fuori luogo. Aveva accettato con gratitudine i vestiti che Virginia le aveva offerto, si era trasferita a vivere nella casa delle vacanze, ma non si era messa a frugare in giro né aveva seguito i suoi benefattori fino a Norfolk. Probabilmente, se fosse stato per lei, sarebbe tornata già da tempo in Germania.
Era Nathan che non sapeva stare al suo posto. Possibile che Frederic avesse un istinto tanto migliore del suo? Sapeva che anche Frederic era una persona disponibile, che non lasciva in asso gli altri se avevano bisogno di lui. Nel caso della coppia tedesca, tuttavia, era stato diffidente fin dal primo momento. E con ogni probabilità aveva fatto bene. Lei non aveva risposto a Nathan. Si era invece alzata e gli aveva spiegato di dover andare a prendere Kim a casa dell'amica. Lui aveva sorriso. Lei avrebbe voluto dirgli di sparire, ma per qualche motivo non era riuscita a pronunciare quelle parole. Si era avviata verso la macchina e lo aveva addirittura lasciato da solo in casa sua, come se fosse una persona che conosceva da anni, di cui si fidava incondizionatamente. Chissà che cosa pescherà adesso dai cassetti, pensò mentre si immetteva sulla strada. Anche se non era riuscita a mandarlo via, avrebbe potuto quantomeno portarlo con sé. Ma per niente al mondo avrebbe voluto sedere dentro una macchina con lui. Per il momento voleva mettere la massima distanza possibile tra di loro. Il fatto che lui avesse trovato proprio la foto di Roma era stata una semplice coincidenza, tuttavia ne era rimasta scossa. Non ricordava più dove avesse infilato le foto di un tempo, in un certo senso aveva cancellato dalla mente la loro esistenza. In un cassetto nella camera degli ospiti, dunque... Alla prima occasione le avrebbe gettate nella spazzatura, ovviamente senza riguardarle più. In salotto aveva sistemato una serie di album in pelle ordinati scrupolosamente in base al loro contenuto. Pasqua 2001 a Skye, oppure Quinto compleanno Kim. Il primo era intitolato Matrimonio Frederic/Virginia 1997. La serie partiva dal matrimonio. Non c'erano album relativi all'epoca precedente. Ufficialmente non esistevano neppure foto di quel periodo. E, se fosse stato possibile, nemmeno un ricordo. E poi spuntava un tipo come Nathan, che frugava e metteva tutto all'aria, indagava e faceva domande l'una più indiscreta dell'altra. Era uscita di casa troppo presto, e solo per sfuggire a Nathan. I bambini andavano ripresi alle tre e mezzo, e un suo arrivo anticipato avrebbe creato soltanto malumori. Anche lei aveva organizzato feste per Kim in passato e sapeva quanto i genitori fossero sotto pressione, senza che ci si mettesse qualcuno a mandare all'aria il programma. Valutò brevemente l'ipotesi di fare un salto da Livia, ma temeva di incontrare di nuovo Nathan. Comincio già a nascondermi come un coniglio, pensò, e tutto a causa di un uomo che fino a poco tempo fa non avevo mai visto. Dovrei mandarlo
al diavolo. Si fermò accanto a un distributore automatico e comperò un pacchetto di sigarette. Era da secoli che non fumava più - per la precisione da quando conosceva Frederic, perché non gli piacevano le donne che fumavano - ma di colpo provava un irrefrenabile bisogno di una sigaretta. In macchina era troppo caldo e così si mise a camminare avanti e indietro sul marciapiede fumando freneticamente. Era una zona piuttosto squallida, con palazzoni dall'aria triste e poco curata, abbelliti soltanto dal limpido cielo d'agosto e dal sole caldo. Qualche negozio, una lavanderia così trascurata che non faceva venire proprio voglia di portarci a pulire gli abiti. Tutto immerso nella quiete della domenica. Da qualche parte provenivano le note di una radio. Virginia provava un senso di oppressione che attribuì all'insolita situazione. In quel momento si sentiva un'altra. Non era Virginia Quentin, moglie del ricco banchiere Frederic Quentin, che forse era destinato a diventare una figura politica di primo piano sulla scena del suo paese. Virginia Quentin con la casa padronale, il grande parco, la coppia di domestici. Con la casa delle vacanze a Skye e l'appartamento a Londra. Questa Virginia Quentin di solito non si avventurava nelle zone più degradate della città. Non camminava su e giù per un marciapiede qualunque fumando. La sua vita scorreva su binari che non permettevano tutto questo. Come se non bastasse ancora, Virginia gettò il mozzicone sull'asfalto, lo schiacciò con il tacco della sua costosa scarpa e si accese subito una seconda sigaretta. La domanda formulata per ultima da Nathan tornò a risuonarle nelle orecchie. Dov'è finita questa ragazza allegra e piena di vita? Dov'è scomparsa? E perché? La ragazza scomparsa fumava. Frequentava ambienti niente affatto adatti a una ragazza di buona famiglia. Aveva provato hashish e cocaina, a volte beveva troppo, e capitava che si svegliasse in letti sconosciuti accanto a uomini sconosciuti, senza ricordare come ci fosse finita. La ragazza scomparsa era straordinariamente assetata di vita e per questo spesso dimenticava ogni prudenza. Aveva visto il rischio, ma evitarlo avrebbe comportato delle rinunce. Lei voleva tutto e senza limitazioni. Qualsiasi altra forma di vita le sarebbe sembrata la morte. E quella era sempre stata la prospettiva peggiore. Virginia gettò per terra la seconda sigaretta, fumata solo per metà, e la schiacciò a fondo e con tenacia, come se volesse spegnere qualcosa che
aveva cominciato ad ardere dentro la sua testa. Nonostante il caldo, si mise seduta in auto, chiuse addirittura le portiere e i finestrini. Era sempre troppo presto per andare a prendere Kim. Strinse le braccia intorno al volante e ci appoggiò la testa. Voleva piangere, ma non ci riusciva. Era rimasta seduta in auto così a lungo che alla fine arrivò in ritardo a riprendere la figlia. Tutti gli altri invitati erano già partiti, la festeggiata e Kim erano in giardino e si spingevano tranquille sull'altalena. Quando la piccola si rese conto che anche l'ultima invitata sarebbe andata via, scoppiò a piangere. «È sempre molto difficile per una bambina, quando una festa così bella finisce», disse la madre. «Che ne dice, Mrs. Quentin, potrebbe lasciare qui Kim fino a domani? In questo modo la fine non sarebbe troppo brusca e le due bambine potrebbero giocare ancora insieme. Dopo tutto manca ancora una settimana all'inizio della scuola.» In circostanze normali Virginia avrebbe acconsentito prontamente, ma nella situazione in cui si trovava la cosa non le stava bene. Nathan Moor era sempre a casa sua e non aveva idea di quando avesse intenzione di andarsene. Non voleva più stare da sola con lui, e la presenza della piccola Kim le sarebbe risultata quanto mai confortante. Ma ovviamente non poteva spiegare queste cose all'altra mamma e d'altronde non le veniva in mente nessuna scusa plausibile. E poi, se avesse riportato a casa Kim, si sarebbe presentato un altro problema: non avrebbe più potuto mantenere nascosta a Frederic la presenza di Nathan in casa loro. Si accordarono perché Kim restasse dall'amica fino alla sera successiva e le due ragazze proruppero in alte grida di giubilo. A Virginia fu offerta una tazza di tè, che lei rifiutò educatamente. In realtà non aveva fretta di tornare a casa, ma le risultava insopportabile l'idea di trascorrere del tempo con questa donna educata e anonima, con una vita perfettamente ordinata, a sorseggiare tè e parlare di insulsaggini. Quando fu di nuovo in auto, si soffermò un istante a pensare a quanto fosse pronta a credere all'immagine esteriore che le altre persone davano di sé. Che cosa ne sapeva lei se la vita di quella donna fosse perfettamente in ordine? Solo perché abitava in un'elegante villetta con un giardino dove i fiori erano ordinati per colore? Perché aveva la permanente e i denti leggermente sporgenti? Perché probabilmente sulla sua testa non era appesa la spada di Damocle di diventare moglie di un uomo politico?
Si chiese quale facciata gli altri percepissero di lei. Una donna gentile ma inavvicinabile? Forse la giudicavano semplicemente arrogante. Non prendeva mai parte alle attività delle altre mamme, borbottava sempre qualcosa a proposito di altri impegni. Proprio come aveva fatto declinando l'invito per il tè poco prima. La donna la cui vita sembrava tutta in ordine aveva assunto un'aria triste. Forse si sentiva sola. Dov'era il marito quella domenica pomeriggio? Virginia non l'aveva visto. Trovò Nathan in terrazza, comodamente sdraiato in poltrona a sfogliare un libro. Doveva averlo preso in biblioteca, ma Virginia si disse che andava bene così. Non doveva starsene seduto ad annoiarsi con le mani in mano. L'importante era che non tornasse a frugare nei cassetti. «Finalmente è tornata», disse lui. «È stata via molto. Cominciavo già a preoccuparmi.» «Che ore sono?» chiese Virginia. «Le quattro e mezzo.» Si alzò dalla poltrona e le andò incontro. «Ha fumato», constatò. Per qualche motivo anche questa osservazione le parve un po' troppo indiscreta ma non avrebbe saputo dire con precisione per quale motivo. Per questo non replicò e disse: «Kim è voluta rimanere ancora un po' dalla sua amica. Dormirà lì anche stanotte. Ho preso un tè con sua madre». Voleva dissipare l'impressione, che lui aveva, di una donna solitaria e del tutto chiusa in se stessa. Lui doveva vedere che faceva cose del tutto normali. Ma, nel contempo, si chiedeva che cosa gliene importasse dell'opinione di quell'uomo. Le parve che non le credesse - e questo la destabilizzò - ma forse era solo la sua immaginazione. «Vorrei andare a trovare Livia in ospedale», disse Nathan. «Mi presterebbe l'auto? Sono arrivato qui a piedi, ma devo ammettere che non posso farlo tutti i giorni.» Lei gli porse le chiavi dell'auto, sapendo che Frederic si sarebbe indignato anche per questo. Come se le avesse letto nel pensiero, Nathan disse: «A proposito, ha telefonato suo marito». «Frederic?» Provò un tremendo tuffo al cuore. Frederic aveva telefonato a Nathan Moor gli aveva risposto! Proprio quello che lei voleva evitare. «Ha parlato con Frederic?» Lui alzò entrambe le mani in un gesto di diniego e sorrise. «Ma che cosa pensa di me! No! Non rispondo al telefono altrui. È partita la segreteria e ho sentito il messaggio. Frederic non ha detto molto, ha solo chiesto se po-
teva richiamarlo.» Le sembrò che le fosse stato tolto un macigno dal cuore. «Bene. Lo richiamo subito.» «Non vuole accompagnarmi da Livia?» «No.» Sarebbe stato logico farlo, soprattutto visto che poteva contare sull'assenza inaspettata di Kim, ma non gradiva la prospettiva di sedere in macchina con lui. Non voleva assolutamente stargli vicino. «Ok. A più tardi, allora.» Si voltò per uscire. Aveva un'aria rilassata con i jeans macchiati e la T-shirt bianca non propriamente pulita. Non era l'abbigliamento più consono a una visita in ospedale. Ma la cosa, indovinò Virginia, gli era del tutto indifferente. Oppure, pensò di colpo, non vuole affatto andare all'ospedale. Andrà in giro per i dintorni e si fermerà da qualche parte a bere qualcosa. Stranamente non le passò nemmeno un po' per la mente che potesse sparire insieme all'auto. In ogni modo lo trovava sfuggente, ma senza dubbio escludeva che fosse un ladro. Aveva già raggiunto l'estremità della terrazza quando lei lo chiamò ancora una volta. «Nathan!» «Sì?» si fermò e si girò. Avrebbe voluto pregarlo di fare in modo che i Walker non lo vedessero, ma di colpo si sentiva molto sciocca. In quel modo gli dava un'importanza eccessiva. E anche lei si comportava come una scolaretta, che teme di essere scoperta a fare una marachella. Non aveva niente da nascondere, non era successo niente che Frederic non avrebbe potuto sapere. I Walker potevano benissimo accorgersi che lei aveva visite. Ma ciononostante si augurava di tutto cuore che non si rendessero conto di niente. «Ah, niente», disse, «è tutto a posto.» Lui si allontanò con un sorriso. Adesso si sarebbe fatta una doccia e poi avrebbe telefonato a Frederic. Poi avrebbe bevuto un bicchiere di vino. Doveva evitare che nella sua mente affiorassero pensieri molesti. 3 Raggiunse subito Frederic e con suo sollievo non fu costretta a mentire né a nascondere niente, perché lui non le fece neppure una domanda sulla sua giornata. Doveva invece comunicarle delle novità e non perse tempo a farlo.
«Virginia, amore, ti spiacerebbe molto se mi fermassi a Londra per qualche giorno ancora? Ho conosciuto alcune persone estremamente importanti, che si sono mostrate molto interessate a me. Dovrei partecipare a due cene e...» Lei fu come al solito comprensiva e pronta a tutte le evenienze. E come al solito non le fu affatto difficile. «Ma certo che puoi fermarti di più. Non c'è nessun problema. Qui me la cavo benissimo.» «Bene. Allora sarò qui fino a venerdì...» esitò. «Sì?» Lei ebbe la sensazione che volesse aggiungere qualcosa. E che per qualche motivo trovasse difficile farlo. «Ecco, le due cene sono martedì e mercoledì. Venerdì si terrà un ricevimento a casa di Sir James Woodward.» Quel nome non le diceva niente, ma dentro di lei si accesero tutti i segnali d'allarme. «Sir Woodward è membro della Camera bassa. È una delle personalità più influenti», spiegò Frederic. «Essere invitato a cena da lui è... ecco è la cosa più importante che potrebbe capitarmi e...» Era sempre tutto così straordinariamente importante. Importantissimo. E fondamentale. Lei sapeva esattamente che cosa voleva chiederle. «No, Frederic», disse. «Tesoro, Virginia, per questa volta soltanto! Non va assolutamente bene se mi presento senza mia moglie. Troppo spesso ho dovuto dare spiegazioni e a poco a poco ho la sensazione che non mi creda più nessuno. O hai l'influenza o la bambina è malata oppure abbiamo i muratori per casa e tu devi sorvegliare i lavori... tra un po' non mi verrà in mente più nessuna scusa.» «Allora inventiamoci semplicemente un lavoro che mi impegna. Una donna che lavora non può fare avanti e indietro tra Londra e King's Lynn come le ambizioni politiche del marito richiederebbero!» «Te l'ho spiegato già molte volte. In... questo ambiente anche le mogli che lavorano si impegnano nella carriera politica dei mariti. Non si usa dividere il lavoro di lui da una parte e quello di lei da un'altra.» «Capisco. Il lavoro di lui è il lavoro di lei.» «Virginia...» «È un'immagine femminile un po' antidiluviana, non trovi?» «Nel partito conservatore...» «Non potrebbe darsi che hai scelto il partito sbagliato?» lo provocò lei.
Lui sospirò, ma il suo non era un sospiro rassegnato. Virginia aveva antenne molto sensibili. Quel sospiro era pieno di rabbia trattenuta. «Non voglio discuterne proprio adesso», disse lui. «Sono esattamente nel partito di cui condivido gli ideali e le prospettive. Ambisco a fare carriera in questo partito. È un mio sacrosanto diritto e, se tu non pensassi sempre e soltanto al tuo personale stato d'animo, magari saresti fiera di me, oppure cercheresti addirittura di sostenermi.» Dalla nuca le si irradiò un lieve dolore, come tante piccole punture di spillo. Le sarebbe venuta una tremenda emicrania. «Frederic...» Lui non si lasciò convincere. Era arrabbiato e frustrato. «Proprio tu mi vieni a parlare di un'immagine femminile antidiluviana. Voglio dire, se almeno avessi un lavoro e fossi impegnata in una sfavillante carriera, al limite potrei forse accettarlo. Ma non hai mai fatto niente di concreto per entrare nel mondo del lavoro dopo la laurea. Sempre occupazioni temporanee. E non a causa mia né del mio partito così spaventosamente retrogrado! No, solo perché preferivi così. Che cosa fai tutto il giorno? Allevi nostra figlia e vai a correre. Tutto qui. Quindi non venire a parlarmi di emancipazione, per favore!» Il dolore aumentò. Avrebbe dovuto prendere subito un analgesico, per scongiurare il peggio. Ma per qualche motivo non riuscì a dirlo, non riuscì a riagganciare e ad andare in bagno. Rimase inchiodata al telefono ad ascoltare sconcertata il suo sfogo. Rimasero entrambi in silenzio per un istante. Frederic ansimava. Lei sapeva che non era stata sua intenzione dire certe cose e che probabilmente se ne era già pentito, ma ciò non toglieva che fosse esattamente ciò che pensava. «Non voglio litigare con te», disse in tono più conciliante, «e mi spiace se ti ho ferito. Ma insisto perché tu venga a cena con me questo venerdì. Non c'è altra soluzione. Devi venire a Londra.» «Kim...» «Kim starà con i Walker venerdì notte. È molto affezionata a Grace e Jack e loro la vizieranno irreparabilmente. Non è un problema. Virginia, santo cielo, si tratta di una notte soltanto!» Si trattava di ben più di una notte. Ma come poteva spiegarglielo? «Ho un tremendo mal di testa», disse lei infine. «Devo prendere un analgesico.» «Ci sentiamo domani», disse Frederic e riattaccò.
Nessun saluto, nessun ti amo. Era proprio in collera con lei. Capitava di rado che Frederic diventasse brusco, in genere non mostrava mai la propria rabbia. Se ora l'aveva fatto, doveva essere davvero contrariato dal suo atteggiamento. Evidentemente quel ricevimento era proprio molto importante. Le fitte cominciarono a diffondersi a ondate nella sua testa. Raggiunse il bagno, aprì l'armadietto e cercò le pasticche. Quando si avvicinò al lavandino per riempire d'acqua un bicchiere, colse la propria immagine riflessa nello specchio. Era bianca come un lenzuolo, le labbra grigie. Sembrava uno spettro. Mio marito mi ha pregato di accompagnarlo a un importante ricevimento. Questo mi ha fatto venire una terribile emicrania e nel giro di pochi minuti mi ha dato l'aspetto di una malata. Sarebbero state queste le parole con cui avrebbe tratteggiato il proprio problema a uno psicoterapeuta? Era matura per entrare in terapia? Inghiottì due pillole, si trascinò fino in salotto e si sdraiò sul divano. Sarebbe stato meglio andare in camera da letto, mettersi sotto le coperte e chiudere le imposte, ma non lo fece, perché altrimenti Nathan Moor, al suo ritorno, si sarebbe subito accorto che qualcosa non andava. Riusciva già a leggerle dentro fin troppo bene, toccava argomenti di cui lei non voleva parlare. Non voleva nemmeno pensare a cosa sarebbe successo se l'avesse trovata così a terra. Ben presto tuttavia si accorse che le sarebbe stato molto difficile fingere con lui che fosse tutto a posto. I dolori le esplodevano in testa, sembravano peggiorare anziché migliorare. Forse aveva preso la medicina troppo tardi, oppure si era assuefatta al farmaco, in ogni caso non faceva più effetto. E inoltre sentiva crescere dentro di sé la disperazione, la sensazione di essere un totale fallimento, una persona senza nessun autentico valore. Che cosa fai tutto il giorno? Allevi nostra figlia e vai a correre. Non si era mai rivolto a lei con parole così offensive e cattive. Non le aveva mai messo davanti in maniera così spietata uno specchio in cui si rifletteva un'immagine di lei così avvilente. Lei non aveva una professione, non aveva una carriera, neppure un ambizioso progetto di volontariato in cui investire tempo ed energie. Se ne stava chiusa in quella casa immensa, si occupava di sua figlia che - chi era stato a dirglielo di recente? Nathan Moor? - nel giro di poco tempo non avrebbe più avuto bisogno di lei ventiquattr'ore al giorno. Correva per il parco e quando un'altra mamma la in-
vitava a bere un tè declinava con la scusa di avere impegni improrogabili. Si rifiutava di sostenere la carriera del marito, non gli concedeva nemmeno i minimi favori che lui le chiedeva. L'unica cosa che negli ultimi tempi era riuscita a renderla attiva era stato l'aiuto dato alla coppia di naufraghi tedeschi su a Skye ma, con il senno di poi, anche lì aveva commesso un errore. Non sarebbe più riuscita a liberarsi dalla presenza di Nathan Moor, proprio come aveva previsto Frederic, e lei, quando lui l'aveva avvertita, lo aveva pure accusato di essere senza cuore. Nel frattempo Moor si era stabilito a casa loro e se ne andava in giro con la loro auto. Era evidente: l'unica volta che prendeva l'iniziativa, che usciva dalla sua tana, tutto andava storto. A un certo punto arrivarono le lacrime. Sapeva che era fatale piangere quando si era in preda all'emicrania, ma non riuscì più a trattenersi. Il dolore si riversò a grandi singhiozzi sui cuscini dove si era sdraiata. Era da molto tempo che non piangeva più, dovevano essere passati anni, e non ricordava più per quale motivo l'avesse fatto. Nella sua vita con Frederic non c'era mai stata ragione di piangere. Era tutto prevedibile e sereno, ogni giorno uguale al precedente, libero da angosce e timori. Non litigavano mai e Frederic non la metteva mai sotto pressione. Finora. Di colpo avanzava delle pretese. La feriva, quando sentiva la sua resistenza. Le provocava emicrania e sensi di colpa. E tutto solo poche ore dopo che Nathan Moor l'aveva attaccata con le sue domande e l'aveva letteralmente spinta via da casa. Poche ore dopo essersi ritrovata sul marciapiede di una strada dimenticata da Dio in un quartiere degradato di King's Lynn a fumare. In nome del cielo, che cosa le stava succedendo così all'improvviso? Non sapeva quanto tempo fosse rimasta sdraiata a piangere, ma a un tratto avvertì il rumore della sua auto che si avvicinava. Nathan Moor era tornato. Si sedette di scatto, soffocando un grido di dolore; nella sua testa c'era stata un'esplosione di aghi che le si erano conficcati nel cervello. Con la mano cercò di rimettersi in ordine i capelli, ma era evidente che non sarebbe riuscita a mascherare quanto stesse male. Doveva avere un aspetto spaventoso. Lui passò dalla cucina - tipico da parte sua non bussare più educatamente alla porta d'ingresso, ma comportarsi come se fosse già di casa - e comparve subito in salotto. Aveva un bell'aspetto, era allegro e rilassato. O Livia sta meglio, pensò Virginia, oppure non gli importa niente di come sta. O ancora non era stato affatto da lei. «Come mai è seduta qui dentro?» chiese stupito. «È una serata stupenda
per stare fuori e...» si interruppe. Nella penombra della stanza non aveva subito scorto il viso di lei, ma ora si rendeva conto che qualcosa non andava. «Virginia!» Lei constatò con un certo stupore che la voce di lui suonava spaventata. Quasi come se fosse veramente in pena per lei. «Che cosa succede? Non si sente bene?» La osservò più attentamente. «Ha pianto», disse. Lei si passò una mano sugli occhi, come a voler nascondere qualcosa. «Ho un terribile mal di testa», disse. «Emicrania?» «Più o meno. A volte mi capita. E io», cercò di sorridere, ma si rese conto di quanto risultasse patetico il suo sforzo, «sono stata così sciocca da non prendere per tempo l'analgesico. Spesso basta qualche secondo di ritardo.» Lui la osservò preoccupato. «In quali occasioni le vengono questi dolori?» «In genere quando cambia il tempo. Da domani dovrebbe rinfrescare. Forse è per questo.» «Forse.» Lui non sembrava affatto convinto. E, dandole ancora una volta prova delle sue capacità intuitive e di preveggenza, le chiese: «Ha parlato con suo marito?» «La mia emicrania non ha niente a che fare con mio marito.» «I dolori sono cominciati dalla nuca?» «Sì.» «Posso?» Senza attendere risposta, lui si spostò dietro il divano, si chinò in avanti e cominciò a massaggiarle la nuca e le spalle. Le sue mani erano forti, la pelle ruvida, ma i suoi movimenti dolci ed esperti. Sembrava conoscere perfettamente i punti da toccare e sapeva in quale modo farlo. A volte le faceva male, ma non era mai un dolore insopportabile. E in effetti qualcosa parve davvero sciogliersi nella schiena tesa e nel collo contratto di Virginia. «Dove ha imparato?» domandò lei. «Veramente seguo solo il mio istinto. Va meglio?» Lei era profondamente stupita. «Sì.» Lui proseguì. «I suoi muscoli sono tornati molto più morbidi. Che cosa le ha causato una tale tensione, Virginia? Che cosa l'ha resa tanto nervosa?» «Il cambiamento di tempo imminente.»
Lo sentì ridere piano. «Certo che non poteva succedere in un momento più opportuno», commentò lui. Le schiacciò un punto nel collo che le provocò una fitta di dolore. «Ahia», gemette lei. «Era il nodo più duro», disse lui, «il punto che la faceva piangere.» Ora accarezzò e strofinò molto dolcemente lo stesso punto e Virginia avvertì piccoli brividi che le percorrevano il cuoio capelluto, si raccoglievano nel collo e poi scendevano lungo la spina dorsale. Qualcosa si sciolse. Non si trattava soltanto della contrattura muscolare, come prima. Era qualcos'altro... dentro di lei... con suo sgomento e senza che potesse evitarlo in alcun modo, tornarono a salirle le lacrime agli occhi. No, pensò in preda al panico, non ora! Ma era troppo tardi per trattenerle. Le lacrime sgorgarono impetuose, più ancora di prima, la sommersero letteralmente, come se da qualche parte si fosse rotta una diga e si fosse scatenato un diluvio inarrestabile. Si rannicchiò sul divano, scossa dal pianto, ma si accorse che Nathan andava a sedersi accanto a lei e la stringeva tra le braccia. «È tutto a posto», disse in tono rassicurante, «tutto a posto. Pianga pure, Virginia. Pianga finché vuole. È importante poter piangere. Prima di oggi era da molto tempo che non piangeva, vero? Troppo tempo.» Le accarezzò teneramente i capelli. In quel momento da lui emanava una grande forza ma anche una grande dolcezza. «Mi spiace tanto», singhiozzò Virginia. «Ma che dice. E perché? Che cosa la fa soffrire, Virginia?» Lei alzò la testa, lo guardò con gli occhi arrossati. «Michael», disse e subito dopo pensò piena di raccapriccio: Perché l'ho detto? Perché ho pronunciato il nome di Michael? Lui non smise di accarezzarle i capelli. «Chi è Michael, Virginia?» Lei si sottrasse al suo abbraccio, balzò in piedi. Corse in cucina e raggiunse appena in tempo il lavandino. Lui l'aveva seguita. Le tenne la testa e le scostò i capelli all'indietro, perché non si sporcassero, mentre lei vomitava come se non dovesse smettere mai più. Quando i conati di vomito alla fine cessarono e lei si rialzò, con le gambe tremanti e così debole da non riuscire neppure a spostarsi dal lavandino a una sedia, si rese conto che gli avrebbe raccontato di Michael. 4
Michael All'età di sette anni si erano giurati che si sarebbero sposati. Non era concepibile niente di diverso, perché si amavano a tal punto che era impossibile immaginare di innamorarsi di qualcun altro. A dodici anni rinnovarono la loro promessa, con più serietà e più trasporto di prima, perché nel frattempo gli avevano spiegato che non ci si poteva sposare tra cugini, che glielo avrebbero impedito e questo rendeva la cosa ancora più romantica e avventurosa. La cosiddetta «buona società» non li avrebbe mai accettati, e forse sarebbero stati scacciati anche dalle rispettive famiglie, e le persone che ora li salutavano avrebbero cambiato strada incontrandoli. Potevano trascorrere ore a immaginare la loro vita da emarginati, nelle tonalità più cupe e spaventose, e a volte provavano un buffo formicolio in tutto il corpo. La cosa bella di tutta la faccenda, infatti, era l'assoluta certezza che non sarebbero rimasti mai soli, nonostante tutto. Avevano loro stessi, per sempre. Erano un'isola in mezzo a un mare ostile. Che cosa poteva succedergli? Erano nati lo stesso anno, a distanza di pochi mesi. Virginia Delaney era venuta al mondo il 3 febbraio, Michael Clark l'8 luglio. Le loro madri erano sorelle, legatissime, e nella loro vita avevano sempre fatto in modo di non separarsi mai del tutto. Erano riuscite ad andare a vivere con i mariti in due case vicine a Londra e adesso erano riuscite anche ad avere due figli quasi contemporaneamente. Avevano sperato che Michael e Virginia crescessero come fratelli e questo implicava che tra di loro si sviluppassero sentimenti fraterni. Nessuno si era aspettato l'intenso e sconfinato amore tra di loro e a volte le due sorelle provavano un inquietante senso di minaccia. Ma si tranquillizzavano dicendo che i bambini erano ancora piccoli e che il problema si sarebbe risolto di sicuro con la pubertà. Virginia e Michael avevano condiviso un'infanzia meravigliosa. Frequentavano la stessa scuola, facevano i compiti insieme e si proteggevano a vicenda dai compagni più grandi, più forti o prepotenti. Per la precisione era Virginia che proteggeva Michael. Non solo era la più grande, ma era anche più matura, chiassosa e indomita. Michael, sempre fragile e cagionevole, aveva molte difficoltà con gli altri ragazzini. Non era considerato maturo e veniva canzonato come cocco di mamma. Il fatto poi che l'energica cugina lo difendesse sempre, arrivando persino a fare a pugni al suo posto, non accresceva certo la stima degli altri per lui, ma se non altro im-
pediva che subisse attacchi più violenti. Nessuno voleva avere a che fare con Virginia Delaney. Poteva diventare molto spiacevole, l'avevano sperimentato persino i ragazzi più forti della scuola. Michael Clark era sotto la sua protezione. Avrebbe trascorso una vita scolastica piena di soprusi e angherie, mentre invece così c'erano solo qualche mormorio alle spalle e qualche occhiata sprezzante, e ben presto Michael imparò a ignorare entrambe. Ne combinavano di cotte e di crude. Facevano giochi pieni di avventure e pericoli nei giardinetti di casa loro. Erano indiani e pirati, principe e principessa. D'estate andavano con gli schettini per i parchi londinesi e in autunno giravano per la città, mano nella mano, alla ricerca di qualcosa che nemmeno loro sapevano indicare. Preparavano insieme i biscotti natalizi e ammiravano il reparto giocattoli di Harrod's e ciascuno metteva da parte tutti i risparmi per comprare all'altro ciò che più desiderava. Durante le vacanze estive andavano con i genitori a casa dei nonni in Cornovaglia e quelle settimane di piena libertà erano sempre il periodo più atteso dell'anno. I nonni avevano una casetta in mezzo a un grande giardino incolto. Scavalcando la staccionata posteriore e percorrendo un sentiero tra ginestre e oleandri, si arrivava alla spiaggia; era una piccola insenatura solitamente poco frequentata. La sabbia apparteneva ai bambini e anche il mare. Nel giardino dei nonni c'erano meli e susini sui quali potevano arrampicarsi a mangiare frutta fino a farsi venire il mal di pancia. Virginia e Michael ovviamente possedevano una casetta sull'albero dove nascondevano i tesori delle vacanze estive: conchiglie e pietre levigate dalla strana forma, fiori secchi, libri pieni di sabbia e con le pagine accartocciate, piccoli messaggi che si scrivevano a vicenda pieni di notizie in codice che solo loro sapevano decifrare. Durante le vacanze non esistevano pasti fissi e nessuno diceva loro quando andare a letto o di lavarsi i piedi. Quando scendeva la sera dovevano tornare a casa, ma era facile, in seguito, sgattaiolare fuori dalla cameretta comune, strisciare sul tetto inclinato, calarsi dalla grondaia e scomparire nella notte. A entrambi piaceva nuotare sotto le stelle, in quella immensa distesa nera e minacciosa, confortati dal respiro dell'altro accanto a sé. Lo facevano spesso e poi si sdraiavano sulla sabbia tiepida a parlare, oppure si appisolavano e rincasavano solo alle prime luci dell'alba. Fu durante una di quelle limpide notti estive nella loro baia riparata che Michael baciò Virginia per la prima volta. La baciò come stava scritto nei libri, non nella maniera innocente e fraterna com'era successo già migliaia di volte tra di loro. Michael aveva compiuto quattordici anni da quattro
settimane, Virginia già da qualche mese. Quell'anno aveva messo da parte i libri di scuola e i racconti per bambini e aveva cominciato a leggere romanzi veri, in particolare del genere che sua madre non avrebbe dovuto trovare in camera sua. Quei libri parlavano di donne bellissime e uomini forti e di tutte le cose che facevano insieme. Le aveva raccontate a Michael, che ancora leggeva storie come Robinson Crusoe o Tom Sawyer, ma già allora aveva avuto la sensazione che lui non condividesse appieno il fascino che la spingeva a divorare una pagina dopo l'altra. Una cosa però lui l'aveva capita: la sua amata era arrivata a un punto che lui non conosceva ancora, ma che istintivamente sapeva di dover raggiungere quanto prima. Lei gli aveva raccontato abbastanza da fargli capire precisamente che genere di bacio si aspettasse, e lui aveva fatto del suo meglio per accontentarla. Era il primo vero bacio per Virginia. Era la prima volta che stava sdraiata nuda sulla sabbia e un uomo si chinava su di lei, le infilava la lingua in bocca e lasciava che le loro bocche si fondessero per lunghi minuti. Era esattamente ciò di cui aveva letto centinaia di volte. Quando fu finito, Virginia comprese che Michael non era l'uomo in grado di risvegliare in lei le sensazioni che avrebbe dovuto provare in quel momento. Lei lo amava con tutto il cuore. Ma il suo corpo non reagiva a lui. Da quel momento in poi era cambiato tutto tra di loro. Non ne parlarono - era la prima volta che non affrontavano un argomento che interessava profondamente entrambi - ma lo intuirono. Come per un tacito accordo, il tema matrimonio non fu più affrontato. E nei mesi successivi a quella fatidica estate cominciarono anche a seguire sempre di più strade diverse. Michael rimase il giovane timido e introverso di sempre, immerso nel proprio mondo, fatto prevalentemente di libri e di musica. Virginia scoprì la vita fuori, e più cose vedeva più ne voleva provare. Si truccava, portava la minigonna, ben presto entrò a fare parte della grande compagnia allegra e chiassosa che frequentava i pub e le discoteche di Londra. Affrontava accese discussioni con la madre che trovava troppo provocante il suo aspetto, ma che alla fine aveva la peggio, perché Virginia non badava a quello che lei pensava. Trascorse un inverno fantastico, dimagrì molto, dormiva troppo poco, trascurava lo studio, ma in cambio aveva un sacco di appuntamenti e di spasimanti. In un nebbioso pomeriggio di gennaio, Michael si presentò senza avvi-
sarla in camera sua e la sorprese a fumare. Al primo momento Virginia aveva creduto che si trattasse della madre e aveva spento in tutta fretta la sigaretta in un piattino - gesto peraltro inutile, visto che tutta la camera era pervasa di fumo. «Ah, sei tu», disse, quando Michael infilò dentro la testa. «Mi hai fatto una paura.» «Mi spiace», rispose Michael. Entrò e si richiuse la porta alle spalle. Visto che ormai frequentavano ambienti diversi, era da parecchio che Virginia non lo vedeva. Era cresciuto molto, ma era molto magro e aveva le guance smunte. Lei si spaventò del suo aspetto tanto sofferto. «Che cosa c'è?» gli chiese. «Sei malato?» «Fumi?» chiese lui indignato invece di risponderle. «Ogni tanto.» «Probabilmente lo fanno tutti i tuoi nuovi amici.» «La maggior parte.» «Mhm.» Non era d'accordo, glielo si leggeva in faccia, ma non l'avrebbe mai criticata apertamente. Si sedette di fianco a lei sul letto, lo sguardo fisso sulla parete di fronte. «I miei genitori stanno per divorziare», disse di punto in bianco. «Che cosa?» «La mamma me lo ha detto ieri sera. Ma io l'avevo già intuito.» «Ma... com'è possibile? Voglio dire, che cosa è accaduto?» «Papà ha conosciuto un'altra donna. Già lo scorso ottobre. La mamma da allora non fa che piangere. Spesso lui non tornava a casa la sera.» Michael alzò le spalle. «Già, evidentemente la nuova ha vinto.» «Ma guarda che roba! La conosci?» «No. So solo che è americana e che papà vuole trasferirsi a San Francisco con lei.» «Merda! Così lontano?» Michael assentì. «Io ovviamente resto con la mamma. Per lei è molto dura... piange sempre.» Assalita da un intenso senso di colpa, Virginia pensò a quanto poco si fosse interessata della famiglia negli ultimi tempi. Le era completamente sfuggito il fatto che tra gli zii fosse scoppiata una simile tragedia. Ma nemmeno i suoi genitori sapevano niente, o almeno nessuno ne aveva parlato in casa. «Ah, Michael», disse abbattuta e per la prima volta in vita sua provò una lieve vergogna a stringerlo a sé e a tenerlo fra le braccia. «Mi spiace tanto.
Davvero, non c'è possibilità che tuo padre ci ripensi?» «Non credo. Passa già più tempo con lei che con noi. Ed è probabile che si sia già dato da fare per trovare un'occupazione in America. L'unico suo desiderio è di andarsene via.» Virginia si chiese come fosse possibile abbandonare un ragazzo affettuoso come Michael e una donna simpatica come sua madre, ma evidentemente esistevano altri criteri che guidavano il comportamento di alcuni uomini. Ce l'aveva con lo zio, perché faceva soffrire Michael. Ma poi le venne da pensare che forse lo zio era stato spinto dalle stesse motivazioni che avevano indotto lei a troncare tacitamente il suo fidanzamento con Michael; l'assenza di qualsiasi carica erotica nella relazione. Per quanto potesse essere superficiale, ormai conosceva la forza della sessualità e sapeva a quale violento struggimento si accompagnasse la sua mancanza. Forse da questo punto di vista l'americana gli dava qualcosa che nel suo matrimonio si era ormai spento da tempo. Partecipò un poco alla sofferenza di Michael che trascorse una primavera straziante, durante la quale cercò in primo luogo di consolare la madre distrutta e affranta. Ma Virginia non soffrì molto, perché la sua vita andava avanti, piena di esperienze e avvenimenti esaltanti. All'inizio di marzo, un mese dopo il suo quindicesimo compleanno, ebbe il suo primo rapporto sessuale con un ragazzo. Lui aveva già diciannove anni, era il bel rampollo un po' snob di una ricca famiglia londinese. Lo aveva conosciuto in discoteca e gli aveva detto di avere diciassette anni, cosa che evidentemente lui aveva creduto senza problemi. Nicholas possedeva un'auto propria e aveva usato i sedili reclinati per il loro incontro amoroso. Virginia trovava Nicholas incredibilmente attraente, ma non troppo simpatico, e non lo amava nemmeno lontanamente come Michael, ma constatò che, al contrario di ciò che la madre continuava a ripeterle, amore e attrazione sessuale non erano necessariamente legati. Per quanto riguardava quel giovane, il suo corpo manifestava tutti i segni della passione e del desiderio di cui aveva letto e sentito parlare. Andare a letto con lui era meraviglioso. Baciarlo era un'esperienza paradisiaca. Ballare piano, stretta a lui sulla pista fiocamente illuminata, pure. Come anche passeggiare per strada abbracciata a lui. Nei primi tempi non riusciva a saziarsi di tutte queste cose. Rimasero insieme per sei mesi, a parte una crisi di quattro settimane, quando Nicholas aveva scoperto che Virginia gli aveva mentito sull'età. Le tenne il muso per un po', ma anche lui era troppo pazzo di quella bella ragazza bionda per pensare seriamente a una separazione. Insieme provarono esperienze esaltanti,
perché Nicholas aveva sempre molti soldi a disposizione. Frequentavano le discoteche più esclusive, che Virginia non si sarebbe mai potuta permettere con la sua paghetta settimanale, andavano a mangiare nei ristoranti più raffinati, assistevano ai tornei di tennis a Wimbledon e alle corse di cavalli ad Ascot. Per Virginia era una nuova vita, un mondo nuovo e lo assaporò a piene mani. Nel frattempo il padre di Michael se ne andò definitivamente di casa e venne il momento di affrontare il divorzio contro il quale la madre, piombata in una profonda depressione, non aveva più la forza di opporsi. Quando Virginia, ormai diventata sedicenne, si separò da Nicholas - soldi e bella vita avevano perso il loro fascino e tra di loro non c'erano mai stati sentimenti autentici - la madre di Michael era così malata che lui aveva assunto sempre più il ruolo di infermiere. Invece di poter finalmente seguire la propria strada - o almeno scoprire che genere di strada volesse imboccare accompagnava la madre alle sedute di psicoterapia e poi restava a casa tutto il weekend ad ascoltarla pazientemente mentre gli raccontava la storia del suo matrimonio e della separazione. Quando, trascorsi due anni, la madre morì di un misterioso attacco di cuore, da ricondurre a una massiccia assunzione di medicinali - che non si seppe mai se fosse stata accidentale o volontaria - il diciottenne Michael si ritrovò improvvisamente da solo ad affrontare un vuoto che non sapeva come gestire. Fu in quel periodo che si manifestarono le sue turbe depressive. L'unica persona che gli rimaneva era Virginia, la compagna della sua infanzia. Lei nel frattempo si era fidanzata con un canadese molto ricco, di vent'anni più vecchio di lei, e si era trasferita a Vancouver con lui. Trascorso un anno, alla vigilia del matrimonio, era tuttavia tornata a casa per sfuggire alle sue violenze. L'esperienza la segnò profondamente causandole una grave crisi esistenziale. Anche lei era alla ricerca di un appoggio ed era inevitabile che si rivolgesse a Michael. Demoralizzati e frustrati, si telefonavano spesso, si vedevano quasi tutti i giorni, riscoprirono gli antichi sentimenti che li legavano, ritrovarono l'affiatamento che si era creato tra di loro nel corso di tanti anni. Quando Virginia si iscrisse a un corso di letteratura a Cambridge, fu subito chiaro che anche Michael si sarebbe trasferito lì. Voleva studiare storia e poi diventare professore. Abitavano in un minuscolo appartamento, composto in pratica solo da una stanza e un angolo cottura, avevano molti amici e conducevano una vita molto attiva. Influenzato dall'energia vitale di Virginia, anche Michael perse in parte la sua tendenza all'introversione, diventò più estroverso e al-
legro. Virginia ritrovò ben presto la vitalità e la vivacità di un tempo, anche se cercava di condurre una vita più seria per seguire gli studi. Anche il suo aspetto fisico cambiò: i tailleur eleganti e le scarpe col tacco di Vancouver sparirono per far posto a jeans sfrangiati, pullover neri, gioielli d'argento e un trucco tetro. Fumava molto e partecipava a circoli letterari, leggeva finalmente i libri che durante la pubertà aveva tralasciato in favore dei più frivoli romanzi d'amore. Stava fuori e beveva un po' troppo e dormiva troppo poco e a volte alle feste flirtava con altri uomini, cosa che faceva scoppiare liti furibonde tra lei e Michael. Almeno per quanto Michael era capace di litigare. Si lamentava e protestava e Virginia diventava aggressiva. Dopo tutto gli era fedele. Trovava noioso andare a letto con lui, ma non aveva mai cercato nessun altro. Si sentiva al sicuro con lui, e per un certo periodo preferì non rinunciare a questa sensazione di benessere in favore di qualche fugace rapporto passionale. E poi conobbe Andrew Stewart e proprio come nell'estate di tanti anni prima, quando la sua meravigliosa infanzia con Michael si era bruscamente interrotta, anche stavolta la sua vita cambiò in maniera radicale. Aveva incontrato il grande amore della sua vita. 5 Nella stanza era diventato così buio che riuscivano a vedersi a stento. Fuori dalla finestra scrosciava la pioggia. L'annunciato peggioramento del tempo era arrivato. L'estate era definitivamente conclusa. Dopo aver vomitato diverse volte, Virginia aveva dovuto aspettare parecchio prima di riuscire a muoversi, e allora era andata in bagno, si era lavata la faccia e strofinata a lungo i denti per togliersi dalla bocca il nauseabondo sapore di vomito. Ancora una volta la faccia pallida con gli occhi sbarrati che aveva visto allo specchio le era sembrata quella di un'estranea. Che cosa mi succede? Era tutto a posto! In realtà non c'era niente a posto, lo sapeva bene, ma era sempre riuscita a tenere sotto controllo quella parte di sé indomita che era rimasta sopita dentro di lei. Per anni era riuscita a non pensare più a Michael, e in generale a qualunque cosa riguardasse l'epoca precedente al suo matrimonio con Frederic. Ma dall'arrivo dei due tedeschi, in particolare di Nathan... Avrebbe dovuto dare ascolto a Frederic e lasciare quei due al loro destino. Frederic non aveva idea della valanga che poteva essere scatenata, ma
il suo istinto doveva averlo avvisato. Aveva cercato di dissuaderla con una veemenza che non gli conosceva. Adesso dovrei andare di là e pregare Nathan Moor di sparire una volta per tutte. E di non farsi vedere mai più. Ma una cosa le era chiara: non sarebbero bastate quelle parole a risolvere i suoi problemi. Perché non era solo Nathan Moor a crearle difficoltà. La sua emicrania, il suo crollo emotivo erano stati provocati da Frederic. Frederic con la sua pazienza, la sua stima per tutto ciò che lei faceva o non faceva, era stato parte integrante del suo programma di rimozione. Il fatto che di colpo avanzasse delle pretese, diventasse irascibile, pretendesse da lei lealtà aveva fatto vacillare tutta la struttura. Era cominciato il crollo. E lei non era già più in grado di fermarlo. Era tornata in cucina, ma Nathan non c'era più. Lo aveva trovato in salotto, dove si stava servendo uno sherry. Si comportava in maniera così naturale e rilassata, come se abitasse da anni in quella casa e si trovasse perfettamente a suo agio. Stavolta Virginia non provò nessuna irritazione per questo. Al contrario, il suo atteggiamento le trasmise addirittura un senso di sicurezza. «Si sente meglio?» le chiese, e lei annuì, ma rifiutò lo sherry che lui voleva offrirle. «No, grazie. Temo che per il mio stomaco sarebbe troppo.» «Mi voleva parlare di Michael», disse lui pragmatico. Lei si era seduta sul divano, le gambe piegate davanti a sé come una difesa, le braccia strette intorno alle ginocchia. Sperava che stavolta lui non le si sedesse accanto come prima, quando le aveva massaggiato il collo, e lui parve intuirlo, perché prese posto su una poltrona di fronte a lei. Tra di loro c'era così l'ampio tavolino di legno. Dapprima lei non aveva saputo come cominciare ed era stata sul punto di pregarlo di dimenticare tutto e di fare come se non avesse mai sentito il nome di Michael. Ma mentre era sul punto di ritornare sui propri passi l'emicrania tornò a farsi sentire, sorda ma tenace e tutto il suo corpo si irrigidì. Nathan si sporse in avanti e la guardò intensamente. «Credo che debba liberarsi da qualcosa», disse serio, «altrimenti si ammalerà. Qualunque cosa sia successa riguardo a questo Michael la tormenta e domina la sua vita. Non deve raccontarlo a me, se non le va. Ma almeno dovrebbe rivolgersi a un terapeuta per parlarne con lui. Da sola non riuscirà a superare questa cosa.» Un paio di anni prima anche Frederic le aveva consigliato di entrare in terapia; era stato un periodo durante il quale i suoi attacchi di panico erano
diventati più frequenti. La parola terapeuta l'aveva sconvolta così profondamente che Frederic aveva subito ritirato la proposta e non ne aveva mai più parlato. Anche adesso lei alzò entrambe le mani in un gesto di rifiuto. «No, non ho bisogno di nessun terapeuta. In fin dei conti è tutto a posto, solo che...» «Michael», la interruppe lui in tono gentile, «è soltanto Michael, vero? Che cosa è successo con Michael? Chi è Michael?» Le aveva offerto un appiglio al quale poteva aggrapparsi. Voleva sapere chi fosse Michael. Poteva cominciare dalla loro infanzia, la sua e quella di Michael. Era un argomento innocuo, non conteneva pericoli. Aveva cominciato a parlare, dapprima esitando, tormentata, e poi sempre più sicura e libera. L'oscurità del crepuscolo l'aiutava e anche il fatto che Nathan resistesse alla tentazione di accendere la luce. Lui era lì, ne distingueva il profilo, lo sentiva respirare, ma non era costretta a vedere le emozioni che potevano passargli per il viso. A un certo punto la pioggia era diventata un morbido fruscio di sottofondo alla sua voce. Riusciva a parlare di cose che non aveva mai raccontato a nessun altro: la sua gioventù libera e sfrenata, la sua sete di vita, la sua avventatezza, la sua mancanza di scrupoli, la sua curiosità. Poteva raccontare degli uomini che aveva avuto e aveva lasciato, delle strade sbagliate che aveva imboccato, delle esperienze negative che aveva fatto. Nathan non la interrompeva, ma lei intuiva che l'ascoltava con attenzione. E su tutto ciò che raccontava era sospesa la parola giovane. Ero giovane. Tutto era perdonabile. Ero così giovane. Si interruppe quando arrivò ad Andrew Stewart. Perché da quel momento in poi non era stata più giovane. Non sapeva neppure lei perché avesse scelto quel momento come cesura. Forse si trattava solo di una sensazione. Con Andrew Stewart era diventata adulta. Non meno sfrenata, non meno avventata. Ma adulta. «Quanti anni aveva quando conobbe Stewart?» le chiese Nathan. Era la prima volta dopo ore che rompeva il proprio silenzio. Era rimasto ad ascoltare per un po' l'eco delle sue ultime parole, ma poi aveva capito che lei non avrebbe aggiunto altro. «Ventidue», rispose lei. «Una studentessa di ventidue anni che aveva già accumulato molte esperienze di vita. Vero?» Lei annuì, anche se lui non poteva vederla. Lui parve intuire il suo gesto. «La ragazza che ha descritto», proseguì,
«questa ragazza assomiglia a quella della fotografia. Com'era bella, Virginia. E com'era incredibilmente vitale!» «Sì», confermò lei. «Vitale. Se ripenso a quell'epoca, è quella la sensazione più forte che provo: la vita. Vivevo con un'intensità indescrivibile.» «Anche Andrew Stewart era uno studente?» «No. Si era già laureato in legge. Aveva appena cominciato a lavorare per un famoso studio legale a Cambridge. Ce lo aveva mandato il padre. Gli Stewart avevano conoscenze importanti a Cambridge. Ci conoscemmo alla festa di laurea di una sua amica, che a sua volta conosceva un amico di Michael. Io ci ero andata da sola, però, perché Michael aveva l'influenza. Ci mettemmo a chiacchierare e... tutto cambiò.» Sentì che Nathan si alzava. Si mosse agile e senza inciampare per la stanza buia. Accese la lampada piccola accanto alla finestra. La luce arrivò così all'improvviso che per un istante Virginia chiuse gli occhi accecata, ma in realtà si trattava di un alone morbido e soffuso che non le risultava affatto molesto. «Non dobbiamo starcene seduti qui al buio», disse Nathan. La sua figura si stagliava alta e scura davanti alla finestra. Uno sconosciuto. Un perfetto sconosciuto. Perché racconto a quest'uomo tutte queste cose di me? Si avvicinò di qualche passo, ma non si mise seduto. «E fu amore a prima vista?» chiese. Lei assentì. «Per quanto mi riguarda, sì.» «Per lui era diverso?» «No, ma...» «Ma?» Lei disse piano: «In seguito cambiò». «Raccontò a Michael di Andrew? Si separò da lui?» «No. Michael non venne a sapere niente. E non mi separai neppure da lui. Tutto rimase com'era tra di noi. Solo che io...» «Lei aveva una relazione clandestina.» «Sì.» «Strano. Con un amore a prima vista? Perché tutta queste segretezza? Perché il silenzio? Andrew Stewart era d'accordo che lei continuasse a vivere con il suo amico?» Di colpo lei si sentì messa alle strette. «Che cosa vuole che le dica?» Lui alzò entrambe le mani in un gesto di difesa. «Niente. Niente che non voglia dirmi.»
Lei aveva commesso un errore, cominciando a parlare con lui. Aveva commesso un errore, occupandosi dei due tedeschi dopo il naufragio. Da giorni non faceva altro che commettere errori, e da cosa nasceva cosa e di colpo sembrava andare tutto storto. «Credo che ora andrò a dormire», disse lei. «Sono molto stanca.» Senza dargli la buonanotte, uscì dal salotto. Fuori sulle scale si strinse nuovamente le tempie, che le pulsavano in maniera sorda. Si augurava che non le tornasse l'emicrania. Erano sufficienti le troppe immagini e i troppi ricordi che le si affacciavano alla mente. Era rimasto tutto sopito così a lungo. Forse avrebbe fatto meglio a lasciare le cose com'erano. Non aveva mai raccontato a nessuno di quel periodo. Perché proprio a questo sconosciuto? Lunedì, 28 agosto 1 Quando Virginia scese di sotto il mattino seguente, dopo una notte insonne popolata di incubi, squillò il telefono. Non erano ancora le sette e mezzo e di solito non telefonava nessuno a quell'ora. Per un attimo pensò di cedere alla tentazione di fingersi sorda e di ignorare gli squilli. Era Bank Holiday, un giorno festivo, e non era educato telefonare in casa d'altri a quell'ora. Tuttavia era sicura che fosse Frederic che tentava di raggiungerla. Sebbene la maggior parte dei negozi fosse aperta, le banche per tradizione restavano chiuse e lui non doveva lavorare. Virginia andò in salotto e alzò la cornetta. «Pronto», disse. «Sono io, Frederic. Spero di non averti svegliata.» «No. Mi ero appena alzata.» «Sei riuscita a farti passare l'emicrania ieri?» «No.» Lui tacque per un istante. «Mi spiace», disse. «Non volevo tormentarti, naturalmente.» «Non importa. Adesso è passata.» «Virginia...» Gli risultava indicibilmente difficile incalzarla di nuovo. «Virginia, davvero, non vorrei metterti sotto pressione, ma... hai riflettuto sulla richiesta che ti ho fatto ieri?»
Lei sapeva benissimo che la faccenda non era conclusa, ma per qualche motivo aveva sperato che lui avrebbe lasciato passare un po' più di tempo prima di tornare all'attacco. «Sono stata malissimo», disse, «e per la verità non sono riuscita a pensarci.» Lui sospirò. «Mi riesce davvero difficile capire perché per te sia una questione che necessiti di tanta riflessione.» Non voleva diventare aggressiva, ma le tempie avevano già ricominciato a batterle, mentre diceva: «E a me riesce difficile capire perché tu non possa occuparti della tua carriera da solo!» Sapeva che lui avrebbe potuto riattaccare a questo punto, ma doveva essere davvero alla disperata ricerca della sua collaborazione, perché con voce marcatamente pacata, che testimoniava il suo faticoso autocontrollo, lui replicò: «Non voglio litigare. Penso di averti spiegato in maniera abbastanza esauriente perché mi servi tu. Perché non provi almeno una volta? Tutto quello che devi fare è mettere in valigia un bel vestito e sederti sul treno per Londra, oppure farti accompagnare da Jack. Andiamo insieme al ricevimento e ti prometto che, se dovessi trovarlo davvero tanto terribile, non ti chiederò mai più un favore simile». Era molto convincente, doveva ammetterlo. Con dolcezza e disponibilità le faceva capire che non l'avrebbe costretta per sempre a fare qualcosa che la ripugnava profondamente. Perché non ci provi almeno una volta? Lei sarebbe stata gretta ed egoista se avesse rifiutato di nuovo, ma il pensiero di andare a una festa piena di gente sconosciuta che l'avrebbe esaminata senza pietà e probabilmente giudicata con il sopracciglio alzato la spaventava a tal punto da costringerla a scacciarlo subito, se non voleva che le tornasse l'emicrania. «Ci penserò», disse, «te lo prometto. Davvero. Ci penserò.» Questa risposta ovviamente non poteva soddisfarlo, ma lui parve capire che per il momento non avrebbe ottenuto altro. «Fammi sapere quando avrai deciso», disse e riattaccò. Ho già deciso da tempo! E lo sai benissimo! Perché non mi lasci in pace? Perché mi fai sentire una persona tanto orribile? Andò verso la cucina. Fu accolta dal profumo di caffè fresco e uova rosolate con pancetta. Nathan era ai fornelli, stava togliendo dal tostapane due fette leggermente dorate e le metteva nel cestino. «Buongiorno», disse lui. «Già sveglia?»
«Già.» Un po' contrariata lo guardò muoversi con disinvoltura nella sua cucina. Portava jeans e una maglietta troppo aderente per le sue spalle ampie e muscolose e, a guardare meglio, Virginia la riconobbe come una Tshirt di Frederic, che aveva un fisico meno atletico. Per Nathan era troppo piccola di una taglia. «Dovrebbe portare una maglietta della sua taglia», disse lei. «Come?» Lui girò la testa verso di lei. «Ah, questa. Non è mia. L'ho trovata in lavanderia sopra un mucchio di bucato da stirare. Le mie cose sono piuttosto sudate e ho pensato... spero che non le scocci...» «No, no, non importa.» La lavanderia si trovava in cantina. Perché era sceso in cantina? Perché se ne andava in giro senza problemi per casa sua? Di colpo provò imbarazzo all'idea che, mentre lei dormiva nel suo letto, lui curiosasse dappertutto. Quella sera avrebbe chiuso a chiave la porta della camera. Nel caso lui fosse stato ancora lì. Ci sarebbe stato, pensò lei rassegnata, se non lo buttava fuori. Da solo non se ne sarebbe andato tanto facilmente. «Stamattina presto sarei voluta uscire a correre», disse lei, «ma ho dormito troppo. Di solito non mi capita mai.» «Ieri è stata una serata emotivamente molto intensa per lei. Non mi stupisce che fosse stanca. E non deve rimpiangere la corsa. Fuori piove e fa piuttosto freddo.» Lei si rese conto solo in quel momento che la cucina era persino più buia del solito. Guardò fuori dalla finestra e vide la pioggia che formava una cortina sul vetro. «È arrivato l'autunno», disse. «Tra poco inizia settembre», osservò Nathan. «Ci saranno ancora belle giornate, ma dopo questo calo della temperatura non tornerà più il caldo.» Di colpo lei si sentì triste. E stranamente esausta. Lui lo notò. «Venga. Un bel caffè caldo è proprio quello che le occorre. E del pane tostato con uova e pancetta. Sono molto bravo a preparare le uova.» Lui le servì con cura la colazione su un piatto. Stupita di quanto fosse piacevole farsi servire, lei si lasciò cadere su una sedia e bevve il primo sorso di caffè. Era perfetto. Forte e corroborante, ma non amaro. «Anche il suo caffè è molto buono», osservò. Lui sorrise. «A casa mi occupo io della cucina. Nel corso degli anni si acquista esperienza.» L'accenno a casa sua le fece venire in mente una cosa. «Ieri non gliel'ho
chiesto, ma come sta Livia?» «Né peggio né meglio.» Non scrollò le spalle quando lo disse, ma la sua risposta era come un'alzata di spalle. Alquanto indifferente. «Ma è stato da lei?» lo incalzò Virginia. Ricordava di averlo visto tornare allegro e rilassato dalla sua visita in ospedale e per un attimo aveva pensato alla possibilità che lui non fosse affatto stato a trovare la moglie. Lui la guardò divertito. Nel frattempo si era seduto a tavola di fronte a lei e si era versato un caffè, senza tuttavia servirsi di uova e toast. «Perché non avrei dovuto andarci? Dopo tutto avevo preso la sua macchina proprio per questo!» Lei si sentì una stupida. «Pensavo solo... aveva un'aria così serena. Io credo che se mio marito fosse ricoverato in ospedale in stato di shock sarei molto angosciata.» «Ma non servirebbe a cambiare la situazione.» «No, naturalmente.» In tono volutamente indifferente aggiunse: «Che cosa dicono i dottori? Di sicuro avrà parlato con un medico, oppure no? Quando miglioreranno le condizioni di sua moglie?» Stavolta lui scrollò per davvero le spalle. «La prognosi è ancora molto prudente. Per loro è importante prima di tutto che si riprenda fisicamente. Per la psiche ci sarà bisogno di un altro tipo di clinica.» «Intende una clinica psichiatrica?» «Forse. Non lo escluderei. È sempre stata psichicamente... labile. Questa storia ovviamente è stata una vera tragedia per lei.» Virginia cercò di pensare a quale fosse il modo migliore per affrontare l'argomento Ritorno in Germania. Forse con una domanda sulle cliniche tedesche... oppure parlando dell'ambasciata tedesca... magari chiedendogli direttamente quando avesse in programma di tornare a casa... Ma mentre lei stava lì a riflettere, combattendo con le proprie remore, lui disse di punto in bianco: «È scomparsa un'altra bambina da queste parti». «Cosa?» «Ho acceso la televisione mentre preparavo la colazione. Il telegiornale ha parlato di una bambina, rapita di recente e assassinata poco dopo. E da ieri ne è scomparsa un'altra.» «Ma è spaventoso!» Lei lo guardò, dimenticando del tutto il proposito di mandarlo via da casa sua. «Una bambina di King's Lynn?» «Sì. Hanno detto il nome, ma non me lo ricordo. Doveva andare a messa, ma non ci è mai arrivata. E da allora non l'ha più vista nessuno.» «Terribile. Chissà quei poveri genitori!»
«Quando va a prendere sua figlia?» «Stasera.» Si portò alla bocca un altro boccone di uovo, ma mentre fino a un attimo prima l'aveva trovato molto gustoso ora non le piaceva più. «Dovrò fare in modo di non perdere mai di vista Kim.» «A casa di un'altra famiglia e in compagnia di un'altra bambina, non può succederle niente», dichiarò Nathan in tono tranquillizzante, «e nemmeno qui con lei. Ma non dovrebbe lasciarla allontanarsi da sola.» «In nessun caso.» Scostò il piatto. «Nathan, le sue uova sono ottime, ma temo di non avere più appetito al momento. Io...» Lui la guardò preoccupato. «Non avrei dovuto raccontarle niente di questa storia.» «Tanto sarei venuta a saperlo comunque.» «Che cosa fa stamattina? Che cosa fa in una mattinata così fredda e piovosa?» «Non so. Oggi pomeriggio andrò di sicuro a King's Lynn. Devo fare la spesa. Poi andrò a trovare Livia. E quindi riprenderò Kim.» Lui assentì. «Un ottimo programma.» Lei si aggrappò alla sua tazza di caffè. La porcellana era calda, il calore sembrò irradiarsi dalle sue mani lentamente lungo il corpo; una sensazione consolante e rinfrancante. Il cambiamento climatico deprimeva Virginia; di colpo la casa che amava, il suo familiare rifugio, le appariva tetra e fredda. E poi c'era la notizia della bambina scomparsa, Frederic con le sue pressioni e la sua irritabilità, la sensazione di essersi invischiata, con Nathan e Livia, in qualcosa che pian piano si sottraeva al suo controllo... Già, la sua unica consolazione era davvero questa tazza di caffè caldo e il calore che emanava dal fornello dopo che Nathan ci aveva cotto le uova. Nathan si sporse in avanti. Nel suo sguardo c'era partecipazione e sincero interesse. «Non si sente bene, vero?» Lei fece un profondo respiro. «Ma no. È solo che ho qualche problema, tutto qui.» «Qualche problema? Devono essere molto gravi, altrimenti non avrebbe quell'aria tanto triste.» Un po' irritata, lei replicò: «Sono problemi miei!» «Scusi!» Si raddrizzò, ripristinando la precedente distanza tra di loro. «Non vorrei apparirle troppo invadente.» «È tutto a posto. Solo...» si bloccò di nuovo. Sarebbe stato un ottimo momento. Lui aveva pronunciato la parola invadente. Era l'appiglio che
cercava. Diglielo! Digli che non può restare qui in eterno. Che deve decidersi a organizzare il suo rientro a casa. Che così non va - insediarsi qui, muoversi in casa tua come se fosse la propria, senza accennare ai propri progetti. Fagli capire che... Lui interruppe i suoi pensieri prima ancora che lei riuscisse a completare le frasi formulate nella mente. «Sa a che cosa ho pensato ieri sera?» le chiese. «Mi domando che cosa sia successo allora. Perché dev'essere successo qualcosa, vero? Perché non poteva lasciare Michael, l'eterno indeciso? Perché teneva nascosta la sua relazione con Andrew Stewart? E perché... oggi è sposata con Frederic Quentin? E non con Andrew Stewart?» 2 Michael All'incirca sei settimane dopo il loro primo incontro, Virginia venne a sapere che Andrew Stewart era sposato. Mancavano pochi giorni a Natale e lui l'aveva invitata a trascorrere il fine settimana a casa di un amico nel Northumberland. Virginia in realtà aveva in programma per quel weekend di affrontare un dialogo serio con Michael, di raccontargli di Andrew e della loro relazione, di chiedergli comprensione e poi di separarsi ufficialmente da lui. Si era preparata a questo evento da settimane; le pesava sul cuore e, quando Andrew le aveva proposto quel viaggio segreto, era stata contenta di avere a disposizione ancora una scusa per rimandare. Raccontò a Michael una storia a proposito di un centro benessere in cui voleva andare con un'amica e, quando Michael le chiese di chi si trattasse, rispose che era una ragazza della sua cerchia di amicizie londinesi che lui non conosceva. Mentire la faceva sentire meschina e giurò a se stessa che non l'avrebbe fatto più. Michael aveva il diritto di conoscere la verità, e poi voleva legarsi ad Andrew alla luce del sole e in modo ufficiale. In quell'inverno non era caduta neve sul Northumberland, in cambio pioggia e nebbia a volontà. Il mondo sembrava fatto di una fredda e appiccicosa umidità. La casa era molto isolata e, prima di arrivare, l'auto di Andrew era rimasta bloccata nel fango e loro erano stati costretti a liberare la ruota posteriore a mani nude, cosa che gli era riuscita solo quando era già buio. Erano entrambi gelati e arrivarono alla vecchia casa bagnati fino alle
ossa. Qui furono accolti da aria fredda e stantia e di nuovo da un freddo gelido. Gli amici di Andrew erano stati lì a Pasqua, e poi da allora la casa era rimasta vuota tutta l'estate e l'autunno, senza che nessuno se ne occupasse. «Forse non è stata un'idea tanto furba venire qui», dichiarò Andrew, constatando che per accendere il camino avrebbe dovuto prima tagliare la legna, mentre Virginia si lasciava cadere sul divano, tremante e battendo i denti, le braccia strette al corpo e momentaneamente impossibilitata a fare alcunché di sensato. «N-n-no... è s-s-stata un'ot-t-t-tima idea», ribatté Virginia, starnutendo. Per fortuna Andrew aveva più energie di lei e, a tarda sera, nel camino ardeva a un certo punto un bel fuoco, loro due si erano ben scaldati con un paio di grappe e Virginia aveva preparato nell'antiquata cucina un enorme tegame di sugo al pomodoro che li sfamò per i giorni seguenti. Durante l'inconveniente con l'auto, Virginia si era presa un lieve raffreddore e per la durata del loro soggiorno fu impegnata a cercare di tenerlo a bada; teneva intorno al collo una sciarpa di lana ruvida e succhiava caramelle all'eucalipto, ma nemmeno questi contrattempi potevano guastare il profondo senso di felicità che provava. Armati di stivali di gomma e pesanti impermeabili, fecero lunghe passeggiate per la brughiera nebbiosa e le valli umide. Non incontrarono anima viva, a parte qualche pecora solitaria che brucava l'erba con la pelliccia grondante d'acqua. Virginia, che era abituata alla metropoli londinese e alla movimentata vita studentesca di Cambridge, non avrebbe mai immaginato di potersi sentire tanto bene in quella landa desolata e disabitata nel Nord dell'Inghilterra. Nei dintorni non c'erano paesi dove andare a svagarsi. Il villaggio più vicino era a dieci chilometri. Nella piccola bottega comperavano pane e burro e una sera andarono nell'unico pub. Bevvero birra scura, ascoltarono i pochi anziani presenti che discutevano animatamente di politica, poi tornarono alla loro casetta tenendosi per mano. A Virginia non mancava nulla - né feste né nuove conoscenze né mondanità. C'erano solo lei e Andrew nelle lunghe e buie notti di dicembre piene di tenerezza e nelle brevi giornate che sembravano incantate. L'ultimo giorno di permanenza nel Northumberland pensò a Michael. Era seduta in camicia da notte davanti al camino del salotto e stava bevendo una tazza di caffè mentre fuori cadevano finalmente i primi fiocchi di neve. La radio trasmetteva musica natalizia. Andrew era disteso sul divano, anche lui in pigiama, e si accorse di colpo che lei da diversi minuti te-
neva lo sguardo fisso fuori dalla finestra. «Che cosa c'è?» le chiese. «Di colpo sei così lontana.» Lei si voltò. «Stavo pensando a Michael», disse, «e al fatto che prima di Natale voglio raccontargli tutto. Non mi sarà facile, sai. Si è sempre appoggiato a me, sono sempre stata il suo rifugio, la sua protettrice. Ma è terribile mentirgli continuamente. E mi sconvolge il pensiero che debba passare il Natale da solo. Sua madre è morta, con suo padre ha perso del tutto i contatti. Forse potrebbe andare dai miei genitori, ma loro stanno a Minorca per la maggior parte dell'anno. Lui gli è molto legato...» Andrew non disse niente. Lei pensò che forse non vedeva il motivo di farsi tanti problemi circa il benessere di un ex. «Troverà la sua strada», osservò lei in tono ancora più sommesso di quanto non si sentisse. «E io vorrei assolutamente trascorrere il Natale con te. Non con lui.» Andrew continuava a tacere. Si alzò dal divano, si avvicinò al camino e aggiunse un ciocco di legna al fuoco. «Andrew?» domandò Virginia incerta. Lui guardava le fiamme che si avventavano affamate e sibilanti sul nuovo nutrimento. Virginia posò la tazza. «Andrew, che cosa c'è?» Lui non la guardò. «A proposito di Natale», disse. «Tesoro, Virginia, non possiamo festeggiarlo insieme.» «E perché no?» Lui fece un profondo respiro. «A causa di Susan», disse, «mia moglie. Arriverà a Cambridge il 23 dicembre.» Le sue parole furono seguite da un profondo silenzio, che tuttavia assordò la spaventosa realtà di colpo piombata addosso a Virginia. «Come, scusa?» domandò Virginia dopo un po', sconcertata e incredula. Andrew finalmente si girò verso di lei e riuscì a guardarla negli occhi. Aveva l'aria turbata ma anche un po' sollevata, come qualcuno che finalmente ha deciso di affrontare un argomento spiacevole smettendo di rimandarlo. «Mi dispiace tanto, Virginia. Avrei dovuto dirtelo già da tempo. Sono sposato.» «Ma...» Lei si afferrò la testa, come se quel gesto potesse rimettere ordine nella ridda di pensieri che si agitava in lei. «Nelle ultime settimane sono sempre stato a un passo dal dirtelo. Ma
dopo aver sprecato la prima occasione giusta di colpo ogni momento della nostra storia mi è parso inadatto. Ero troppo vigliacco, Virginia. Speravo in un'occasione favorevole. Avrei dovuto immaginare che in casi come questo non c'è un'occasione favorevole. E che ogni giorno che lasciavo passare peggioravo soltanto le cose.» «Tua moglie...» «... al momento vive a Londra. Insegna in una scuola. Io ho ricevuto l'offerta di diventare socio di un importante studio legale di Cambridge e ho colto al volo l'occasione. Per Susan ovviamente non c'erano possibilità di cambiare lavoro al momento, per questo è rimasta a Londra. Dal prossimo settembre potrà insegnare in una scuola di Cambridge.» Le sembrava di aver ricevuto una botta in testa. «Non posso crederci», mormorò. Andrew la raggiunse in due passi, si inginocchiò davanti a lei e le prese le mani. «Virginia, parlerò con Susan», disse. «Le racconterò di te. Metterò le cose... a posto.» Lei lo guardava sempre stordita. «Che cosa significa 'a posto'?» «Le chiederò il divorzio», disse Andrew. In seguito Virginia si convinse di essersi comportata esattamente come alcune donne di cui aveva sentito e letto e che avevano suscitato il suo disprezzo. Donne che si illudevano, si riempivano di speranze e si lasciavano convincere con argomenti estremamente labili. Come previsto, inizialmente non accadde nulla. Virginia trascorse il Natale con Michael, Andrew con Susan e non ci furono chiarimenti. Virginia non voleva confessare a Michael di frequentare un uomo sposato e di dover aspettare che lui divorziasse, e così per il momento non gli disse niente. Ciò significò continuare tutto come prima: Susan Stewart tornò a Londra in gennaio e Virginia e Andrew ricominciarono a vedersi di nascosto. Invece di chiarirsi, la loro storia prese un andamento sempre più segreto. Andrew non riceveva più Virginia nel suo appartamento, come nei primi tempi, visto che ora tutti i vicini di casa erano a conoscenza dell'esistenza di una Mrs. Stewart, e il monolocale di Virginia era fuori discussione a causa di Michael. I loro incontri avvenivano così in pensioncine di campagna o piccoli alberghi di altre città. Nonostante la situazione, provavano sempre una fortissima attrazione reciproca, trascorrevano ore piene di pas-
sione e tenerezza - e sembravano sempre più invischiati in una certa stagnazione. Virginia soffriva per i weekend in cui Susan andava a Cambridge, ma si diceva che anche Andrew doveva sopportare la sua vicinanza con Michael. Ovviamente gli chiedeva spesso se avesse parlato con Susan. Andrew evitava sempre di rispondere alle sue domande. «A Natale e a Capodanno non ho potuto farlo», disse dopo le vacanze invernali, «non me la sono sentita. Dicembre è un mese terribilmente romantico.» In seguito dava spesso la colpa allo stress di Susan. «Era di nuovo stanchissima dopo la settimana di lavoro. Ha delle classi tremende. Deve prendere dei tranquillanti per poter andare al lavoro la mattina. Credo che crollerebbe del tutto, se le parlassi del divorzio in questo momento.» Virginia aveva sperato che, per il suo compleanno all'inizio di febbraio, Andrew in un certo senso le regalasse la sua confessione a Susan, ma anche questa prospettiva sfumò. Invece le promise di fare un viaggio insieme a Roma, in primavera. Virginia ne fu contenta, anche se trovava che non fosse quello che li avrebbe fatti andare avanti. Non era mai stata nella Città Eterna e se ne innamorò a prima vista. La vita pulsante, il sole radioso, il caldo, calpestare un suolo intriso di storia non solo l'affascinavano, ma la riempivano di un incessante senso di leggerezza, come se avesse bevuto spumante. Quando attraversarono il ponte degli Angeli per andare a Castel Sant'Angelo, fu costretta a fermarsi, fare un profondo respiro e convincersi che non stava sognando. Tuttavia, proprio su quel ponte, in prossimità della fortezza, provò una strana sensazione: di colpo ebbe paura. Da un attimo all'altro fu assalita da un senso di panico, fece due o tre respiri profondi, perché si sentiva il petto stretto da una morsa invisibile. «Che cosa succede?» domandò Andrew, in piedi accanto a lei a scattare fotografie. Abbassò la macchina fotografica e la guardò. «Sei molto pallida.» «Non lo so...» «È il sole», disse lui. «Vieni, torniamo indietro e andiamoci a sedere all'ombra. Oggi fa molto caldo e...» «No, non è il sole.» L'oppressione diminuì e sulle sue guance tornò un po' di colorito. «Di colpo ho avuto... una sensazione strana... come se...» «Sì?» chiese lui, quando lei si interruppe. «È così strano.» Si passò una mano sulla fronte. Era madida di sudore. «Di colpo ho creduto di sapere che tutto finirà presto. Che questa è l'ultima
volta che sarò felice.» «Che cosa dovrebbe finire presto?» «La leggerezza. Era da tempo che non mi sentivo leggera come in questa città. In questa primavera. Con te. Mi sembra di essere all'apice della mia vita. D'ora in poi sarà tutto in discesa.» «Oddio, amore mio, che razza di idee strambe ti fai!» La strinse tra le braccia. Lei nascose il viso contro la sua spalla e ascoltò la sua voce consolatoria. «Hai appena ventitré anni! La vita non comincia a declinare alla tua età. Ti aspettano ancora tanti momenti meravigliosi. Vedrai.» Lei rimase colpita che lui avesse detto ti aspettano tanti momenti meravigliosi. Perché non aveva detto: ci aspettano tanti momenti meravigliosi? Glielo fece notare. Lui reagì con una punta di irritazione. «Santo cielo, Virginia! Devi per forza soppesare ogni mia parola? Dopo tutto stavamo parlando di te. Non di me. A volte sei davvero pesante.» Lei guardò verso la fortezza e poi in basso, verso l'impetuosa corrente del fiume. Probabilmente aveva ragione lui. Aveva dato troppa importanza alle sue parole. Era sorpresa da se stessa. Allegra, scatenata e vivace com'era, non aveva mai avuto la tendenza a rimuginare, a cercare significati nascosti nelle parole pronunciate da altri. Perché ora lo faceva? Proprio in quella magnifica giornata di sole, sul Tevere, ai piedi di Castel Sant'Angelo? Perché l'incertezza mi disturba più di quanto voglia ammettere, pensò, e poi scacciò immediatamente quel pensiero dalla mente, spaventata e con grande razionalità. Non voleva che alcunché rovinasse la sua incantevole settimana con Andrew a Roma. Quella sera tornarono a Trinità dei Monti. Lo facevano quasi tutte le sere, perché il piccolo albergo appartato dove alloggiavano si trovava a pochi minuti di distanza. Visto che la temperatura si manteneva tiepida anche di notte, c'erano tantissime persone sulla scalinata. Era divertente starsene seduti sui gradini a osservare ciò che accadeva intorno, ascoltare il vociare e i colpi di clacson. Notte dopo notte, il cielo era nero come un drappo di velluto punteggiato di stelle. Andrew scattò qualche foto a Virginia. In tutte lei aveva gli occhi accesi di felicità e appariva piena di gioia e di voglia di vivere. Non c'erano né ci sarebbero mai state altre foto che la ritraessero così spensierata. La felicità terminò il giorno della partenza.
Era mattina presto, i primi raggi di luce filtravano dalle sottili fessure delle imposte di legno della loro camera. Roma si stava risvegliando piano e ancora incerta. Virginia e Andrew si amarono con intensità e una dedizione che risvegliò in loro la consapevolezza dell'imminenza della separazione. Il loro volo per Londra partiva a mezzogiorno. Quella sera stessa Virginia avrebbe cenato di nuovo a tavola con Michael, si sarebbe ritrovata a guardare il suo modo un po' irritante di farcirsi il panino, avrebbe ascoltato la sua voce sempre un po' lamentosa che le ripeteva quanto avesse sentito la sua mancanza e come si fosse sentito solo. Lei gli avrebbe raccontato del suo viaggio di studio a Roma. Non era stato facile convincerlo della necessità di quel viaggio. Per la precisione lei non lo aveva convinto, ma a lui non era rimasta altra scelta che accettare la sua volontà. Le aveva telefonato tutte le mattine in albergo per sapere se davvero si sentisse meglio da sola piuttosto che con lui. A volte le aveva messo addosso un nervosismo tale da farle venire voglia di urlare. Ora, in quell'ultima mattinata, sdraiata stretta ad Andrew, spossata dall'amore e appagata sulla scia della loro totale fusione, pensò di colpo: Non può più andare avanti così. È umiliante e spaventoso. Si mise a sedere. «Andrew, ti prego, non può restare per sempre come adesso», disse. Andrew aprì gli occhi, la guardò. «Che cosa intendi?» «Ma tutto. Le bugie. La segretezza. Le nostre frequenti separazioni. I nostri incontri d'amore in qualche albergo. All'inizio aveva il suo fascino, certamente, ma nel frattempo mi è diventato solo... opprimente. E per certi versi... odioso.» Lui sospirò e si mise seduto a sua volta. Con la mano destra si strofinò gli occhi. Di colpo aveva un'aria molto stanca. Virginia provò una lieve oppressione al petto, simile alla sensazione avvertita sul ponte degli Angeli. Qualcosa non andava. Andrew sembrava profondamente tormentato. «Andrew», domandò piano, «parlerai con Susan? Non possiamo continuare così all'infinito.» Lui si girò a guardare un angolo della camera dove non c'era altro che l'oscurità della notte che stava terminando. «Avrei voluto dirtelo da tempo», disse sottovoce come lei appena prima, «ma mi sono mancate le parole. Mi è mancato il coraggio.» Lei raggelò. Con un brivido si strinse la coperta al corpo. «Che cosa? Che cosa mi volevi dire?»
«È cambiato qualcosa. È... io non posso parlare con Susan. Non più.» «Perché no?» «Perché...» Non riusciva a guardarla negli occhi. Si aggrappò letteralmente all'angolo vuoto e buio. «Susan aspetta un bambino», disse. Fuori per strada qualcuno gridò, e subito dopo si sentirono un tintinnio e uno schiamazzo. Doveva trattarsi di un furgone che scaricava chiassosamente la merce. C'erano due uomini che litigavano tra loro. Una donna intervenne con voce stridula. Virginia sentiva appena. Per lei era solo un fruscio in sottofondo, irreale e come proveniente da un altro mondo. «Che cosa?» domandò allibita. «Me lo ha detto a fine febbraio.» «Ma come... cioè, quando...?» «A settembre», disse Andrew. «Nascerà a metà settembre.» Lei si sentì mancare, dovette appoggiarsi alla testata di legno intagliato. «A settembre», ripeté. «Quindi significa che a dicembre...» Non terminò la frase. Andrew aveva l'aria di chi desidera soltanto fuggire. «Sì, a dicembre», confermò, «quando Susan era a Cambridge. Avevamo bevuto entrambi, era Natale... è successo e basta...» Lei aveva subito afferrato la realtà della situazione, ma contro ogni buon senso aveva sperato che tutto andasse diversamente. «Mi hai sempre detto che tra di voi non c'era più niente da oltre un anno...» «Infatti era così. È stata quell'unica volta. Un momento di debolezza, causato dallo champagne... dopo non sono riuscito a capirlo neppure io.» «Sei assolutamente sicuro che sia figlio tuo?» «Sì», rispose Andrew. Il senso di svenimento aumentò. Lei aprì la bocca per gridare, ma non emise neppure un suono. 3 Janie Brown detestava il sonnellino pomeridiano che la costringevano a fare durante le vacanze estive tutti i giorni dopo pranzo. Le sembrava una spaventosa perdita di tempo. E poi lo trovava assurdo: il resto dell'anno non andava mica a dormire, visto che tornava da scuola nel pomeriggio. Ma la mamma insisteva per quella mezz'ora di riposo, non le importava che Janie affermasse di non essere affatto stanca. Una volta, durante una
delle loro accese discussioni sull'argomento, aveva detto: «Ho bisogno di un po' di tempo per me!» Da allora Janie se l'era presa per il fatto che la spedisse a letto solo perché non dovesse occuparsi di lei. Nel frattempo, la madre si sedeva sempre in salotto oppure, in estate, sul piccolo balcone e fumava freneticamente cinque o sei sigarette l'una dietro l'altra. Era il suo modo di rilassarsi, come una volta aveva spiegato a Janie. Lavorava molto. Aveva un impiego in una lavanderia, dove lavava e stirava la roba altrui ed era sempre stanca morta. In genere restava al lavoro durante la pausa di mezzogiorno, ma quando Janie era in vacanza e non poteva mangiare a scuola tornava a casa per cucinarle qualcosa. Lei però non toccava mai cibo. «Mi nutro di sigarette», diceva spesso, ma Janie era convinta che non potessero saziarla, visto che la mamma era spaventosamente magra. Alle due doveva tornare al lavoro e rincasava a sera. A volte Janie si sentiva molto sola. Le mamme delle sue compagne di scuola stavano a casa, giocavano con i figli, preparavano loro per merenda la cioccolata e pane con la marmellata. In cambio però quei bambini non erano così autonomi. Aveva sentito la mamma della sua amica Sophie dire alla sua: «Mi stupisce sempre quanto sia indipendente la sua Janie». A volte, quando si sentiva triste e sola, ci pensava e subito si sentiva meglio. Ma altre volte le venivano in mente cose diverse, e non altrettanto positive. Sapeva che la mamma era definita una «madre single» e che questa condizione suscitava in molte persone una compassione che sconfinava nel disprezzo. Mrs. Ashkin, che abitava nel loro palazzo due piani più sotto, aveva detto alla sua vicina che il padre di Janie era ignoto e poi aveva aggiunto: «Evidentemente ci sono troppi candidati possibili...» Janie non sapeva che cosa volesse dire, ma il tono di voce e l'espressione di Mrs. Ashkin le avevano fatto capire che la mamma aveva di nuovo fatto qualcosa che causava il disprezzo della gente. Janie avrebbe sempre desiderato avere un padre. O meglio forse non sempre ma di sicuro almeno da quando aveva cominciato a capire che la sua vita era un po' diversa da quella dei suoi coetanei. Dai giorni della scuola materna, quando aveva cominciato ad andare a casa di altri bambini e alle feste di compleanno, si era resa conto che nelle altre famiglie c'era un daddy. I daddy erano qualcosa di molto speciale. Durante la settimana dovevano lavorare, per guadagnare e fare in modo che le madri potessero restare a casa a occuparsi dei figli. Il sabato e la domenica andavano a nuotare con i figli, facevano gite in bicicletta, oppure insegnavano loro ad an-
dare sugli schettini. Aggiustavano i giocattoli rotti, riparavano le biciclette bucate, raccontavano barzellette e aiutavano a costruire casette sull'albero. Portavano la famiglia allo zoo, oppure a mangiare una pizza. Non erano nervosi e affamati e non continuavano a ripetere di aver bisogno di tranquillità. Spesso erano disponibili proprio a fare quelle cose che le mamme non volevano si facessero. Per esempio scendere con la canoa lungo un affluente del Great Ouse. Lo aveva fatto il padre di Katie Mills con cinque bambini a bordo, e Janie quasi non ci credeva che anche lei poteva partecipare a quell'avventura. D'accordo, c'era stato qualcosa che era andato storto, quell'imbranata di Alice Munroe era finita in acqua, ma a parte il fatto che alla fine era bagnata fradicia e che tutti l'avevano presa in giro non era successo nient'altro. Si erano tutti divertiti un mondo. Janie non riusciva proprio a immaginare che sua madre facesse una cosa del genere. Una gita in barca con cinque bambini nel fine settimana... oddio, era impensabile! La mamma con il suo nervosismo, la sua perenne emicrania e la sua incapacità, durante il tempo libero, di restare più di dieci minuti senza una sigaretta... La mamma non voleva neppure che Janie invitasse una compagna il sabato o la domenica. E neppure per il suo compleanno in settembre Janie poteva organizzare una festa. «Puoi portare una tua amica», ripeteva sempre la mamma, «e io ti do qualche soldo così vi potete comprare due fette di torta.» Tutto qui. Se avesse avuto un daddy... Se la mamma si fosse innamorata di qualcuno e si fosse sposata... L'estate era quasi finita. Era già il 28 agosto, il venerdì successivo sarebbe iniziato settembre. E il 17 settembre Janie compiva nove anni. Quest'anno il suo compleanno cadeva di domenica. Come sarebbe stato fantastico se avesse potuto invitare tutte le sue amiche! Con un biglietto d'invito prestampato: Cara..., sarei molto felice se tu potessi venire alla mia festa di compleanno il... alle ore... La tua... Janie aveva già cercato i biglietti in cartoleria. Erano verde chiaro stampati con tanti piccoli maggiolini e foglie di trifoglio. Sapeva anche già con esattezza chi avrebbe ricevuto un simile invito, aveva compilato un elenco che teneva in un cassetto della scrivania. Aveva scelto la torta, i giochi da fare e i piccoli premi che avrebbero vinto gli invitati. Era tutto perfetto. L'unica cosa: la mamma non avrebbe mai accettato. Lo sapeva. Fuori pioveva a scrosci. Questo almeno rendeva il pisolino pomeridiano
meno insopportabile della domenica precedente, quando c'era il sole e Mrs. Ashkin al mattino aveva detto che il bel tempo sarebbe finito presto. A Janie sarebbe piaciuto tanto passare tutto il pomeriggio a giocare in cortile, dove il padrone di casa aveva sistemato un'altalena. E invece si era dovuta coricare lo stesso, nella morbida luce del sole che filtrava dalle tende gialle. Oggi era tutto grigio, la camera era tetra. Pensò all'uomo che aveva incontrato il venerdì precedente dal cartolaio, mentre lei si struggeva indecisa davanti ai biglietti d'invito. Le aveva parlato. Era stato proprio carino. E lei aveva avuto la sensazione che la capisse davvero. Sembrava stare dalla sua parte, senza che trattasse male la mamma - questo non l'avrebbe mai permesso. «Ma certo che potrai organizzare la tua festa di compleanno», le aveva detto. «Tutte le ragazzine che conosco vorrebbero farlo! E questi sono i biglietti d'invito che hai scelto? Devo dire che sono davvero magnifici.» Aveva un aspetto così amichevole. Era gentile, partecipe e comprensivo. Lei si chiedeva se avesse dei figli. Secondo lei doveva averne per forza. Aveva qualcosa di un daddy. Un po' compagnone, ma sul quale potevi contare. Pronto a consolarti se cadevi e ti sbucciavi il ginocchio, e non ti avrebbe sgridato se ti fossi strappata i jeans. Ti avrebbe detto che non era grave. Completamente diverso dalla mamma. La mamma si arrabbiava tantissimo quando si rompeva qualcosa. Allora brontolava tanto da dimenticarsi del tutto di consolarla. Ma la cosa che esaltava Janie più di ogni altra era il fatto che l'uomo le aveva detto: «Mi piacerebbe organizzare la tua festa di compleanno. Sai che sono l'organizzatore di feste per bambini migliore del mondo? Ne ho preparate già così tante che posso essere definito tranquillamente un esperto». «Ma la mia mamma non me lo permetterà», aveva obiettato lei. «Dice che il nostro appartamento è troppo piccolo. E quando si gioca si rompe di sicuro qualcosa. La mia mamma ha pochi soldi, sa. Per questo ha sempre paura che qualcosa cada per terra e si rompa.» L'uomo l'aveva capita senza fatica. «Questo è chiaro. Forse allora il vostro appartamento non è il posto giusto per fare una festa.» E poi le aveva fatto una proposta irresistibile: «Perché non inviti i tuoi amici da me? Ho una grande casa con un giardino. Se il tempo è bello, staremo fuori. Se piove, non ci dovremo preoccupare. In cantina c'è un'enorme sala hobby, che è perfetta!»
Ovviamente sembrava tutto troppo bello per essere vero. L'uomo avrebbe voluto portarla direttamente a vedere la sua fantastica casa, ma lei aveva temuto di arrivare tardi per il pranzo. La mamma detestava i ritardi. Quando succedeva le dava subito punizioni alquanto drastiche: arresti domiciliari, divieto di guardare la TV o sottrazione della mancia settimanale. Janie non aveva voluto rischiare. Ma poi la sua offerta: «Manca ancora parecchio tempo al tuo compleanno. Ci puoi pensare su. Ma prima devi assolutamente venire a vedere casa mia, in modo che possiamo organizzare tutto quanto. Stai a sentire che cosa ti dico: in genere vengo qui tutti i lunedì mattina a comperare la mia rivista di motociclismo. Oggi è un'eccezione. E per te farò un'altra eccezione: tornerò domani. A quest'ora. Che ne dici? Puoi venire?» A parte qualche rara eccezione, la mamma lavorava anche al sabato. Soltanto due ore, in effetti, ma potevano bastare. «Sicuro, sì. Ma non a quest'ora. A quest'ora devo pranzare.» Lui era stato davvero gentile e disponibile. «Sai, per l'ora, non ho problemi. Mi va bene qualsiasi momento. Quando puoi venire?» Lei ci aveva pensato su. La mamma usciva di casa poco prima delle due. Se lei si alzava subito, si vestiva e usciva, poteva arrivare alla cartoleria verso le due e dieci. Meglio aggiungere cinque minuti, per stare più tranquilli. «Alle due e un quarto per me andrebbe bene.» «Due e un quarto è perfetto anche per me», le aveva garantito l'uomo. «Ti aspetterò qui e tu deciderai se la cosa ti può andare bene.» «È molto gentile da parte sua», aveva mormorato lei. Lui le aveva sorriso. «Sei una bambina davvero graziosa, Janie. E anche simpatica e intelligente. Per me sarà un vero piacere poterti aiutare.» Aveva riflettuto un attimo, poi aveva aggiunto: «Sai, Janie, penso che per il momento sarà meglio mantenere segreto il nostro progetto. Scommetto che la mamma si arrabbierebbe se sapesse che vuoi organizzare una festa di compleanno da un'altra parte senza di lei!» Anche lei lo sapeva. Fin troppo bene. «Ma si accorgerà comunque se vado via il giorno del mio compleanno.» «Certo. E glielo diremo qualche giorno prima. Ci penserò io, quando vorrai. Ma per allora dovrà già essere tutto perfetto. Voglio dire, dovremo aver già deciso che cosa offrire agli invitati, quali giochi fare e in quale ordine. Magari sarebbe meglio aver già decorato la stanza in cantina e appeso lanterne colorate in giardino. Se lei capisce e magari vede quanto impe-
gno abbiamo dedicato alla festa, troverà la nostra idea certamente stupenda!» Lui non conosceva la mamma. Janie non ricordava che avesse mai giudicato stupendo qualcosa. Ma forse valeva la pena provare. «E non devi parlarne nemmeno con le tue amiche», proseguì l'uomo. «Perché, se poi non se ne facesse niente, ti prenderebbero in giro.» «Perché non se ne dovrebbe fare niente?» aveva chiesto lei spaventata. «Ma, sai, nel caso tua madre ponesse il veto. Oppure se la mia casa alla fine non ti piacesse.» Questa seconda eventualità le risultava inimmaginabile. La prima invece era più che plausibile. «Sì, ha ragione.» «Promesso?» domandò lui. «Acqua in bocca con tutti?» «Acqua in bocca», aveva risposto lei allegramente. Lui le aveva accarezzato i capelli. «Festeggeremo il più bel compleanno della tua vita, Janie», le aveva detto. E poi la catastrofe, il giorno prima, sabato; la mamma, che già al risveglio era pallida come un lenzuolo, subito dopo pranzo, durante il quale aveva toccato solo qualche briciola, aveva vomitato. Aveva detto di sentirsi morire, e di non poter andare in lavanderia nemmeno con la più buona volontà. Janie sapeva che doveva trattarsi di una cosa grave, perché la madre si trascinava al lavoro quasi in tutte le condizioni. Dopo aver vomitato una seconda volta, aveva telefonato in lavanderia per avvisarli che non sarebbe andata, poi si era stesa sul divano in salotto, dicendo che credeva di morire. Janie si era preoccupata molto ma era stata ancora più in ansia per lo sconosciuto. Lui l'avrebbe aspettata alle due e un quarto. Aveva chiesto alla madre se poteva andare a trovare la sua amica Alice, così avrebbe potuto avere una possibilità. Ma la mamma si era arrabbiata molto. «Per una volta che sto male! Per una volta che ho bisogno della tua assistenza! E tu vuoi andartene! Molto gentile da parte tua, devo proprio dirtelo.» Janie pertanto era rimasta a casa, nel tardo pomeriggio aveva preparato del tè e grattugiato una mela per la mamma e si era sentita triste come non le capitava da tempo. Era sicura che l'uomo ora fosse arrabbiato e non volesse più saperne di lei. Il giorno dopo la madre era guarita, ma la domenica non aveva senso andare alla cartoleria. Era rimasta a casa triste e sconsolata. Poteva solo sperare che il lunedì lui andasse davvero a comprare la sua rivista di motociclismo.
Per fortuna la mamma non si era sentita più male. E, sebbene fosse Bank Holiday, era andata lo stesso a lavorare. Come molti altri imprenditori del paese, la sua capa le pagava il doppio del salario se lavorava nei giorni festivi e quella mattina la mamma aveva sostenuto di aver bisogno di qualche penny in più. Uscì dal salotto, dove aveva fumato con lo sguardo fisso al muro. Come sempre trascinava i piedi. Janie si chiedeva come fosse possibile che una persona fosse sempre così stanca. Adesso la mamma prendeva l'impermeabile dal guardaroba. Se lo infilava. Si ravvivava i capelli davanti allo specchio. Sospirava forte. Sospirava tutte le volte che doveva uscire di casa per andare alla lavanderia. Una volta aveva detto a Janie che il lavoro lì era la cosa peggiore che potesse immaginare per la sua vita. Il mazzo di chiavi tintinnò leggermente quando la mamma lo prese dal comò e se lo infilò in tasca. Poi la porta d'ingresso si aprì per richiudersi subito dopo. I passi della mamma risuonarono sulle scale. Con il cuore in gola, Janie scostò le coperte. Doveva davvero...? Non era facile fare qualcosa che sapeva benissimo la madre avrebbe disapprovato. Ma poi ripensò ai biglietti d'invito verde chiaro con i maggiolini e i trifogli. Alle lanterne in giardino e al barbecue da preparare tutti insieme. Doveva farlo. Doveva e basta. Come un fulmine si infilò jeans e felpa. Prese un paio di calzini puliti dall'armadio e calzò le scarpe da tennis. Si spazzolò i capelli e se li legò con una molletta sulla nuca. Voleva avere un aspetto carino e curato. Sperava solo di non arrivare troppo trafelata alla cartoleria. Uscì dalla camera e si infilò l'impermeabile. Il cuore le batteva ancora più forte quando uscì di casa. Sapeva perché: aveva una tremenda paura che lui non ci fosse. 4 Erano passate da poco le due e mezzo del pomeriggio, quando Virginia parcheggiò l'auto al Tuesday Market Place di King's Lynn, quella piazza del centro cittadino dove nei secoli passati si svolgevano regolarmente impiccagioni e roghi di streghe. Sebbene piovesse ancora forte e il cielo sopra la città fosse carico di nubi, lei si sentiva meglio del giorno prima. Non sapeva perché, ma aveva la vaga sensazione che potesse dipendere dal fatto che avesse cominciato a parlare di Michael. Per anni si era impedita anche solo di pensare a lui e adesso trascorreva ore intere a raccontare a un per-
fetto sconosciuto tutto di lui. E di sé e della loro storia. Non proprio tutto. Di una cosa era sicura: Nathan Moor non avrebbe saputo tutto. Voleva andare a trovare Livia all'ospedale e poi passare a riprendere Kim, ma prima... ciò che l'aveva portata in quella piazza era una decisione temeraria che aveva preso poco prima di uscire di casa: voleva comperarsi un vestito nuovo, telefonare a Frederic quella sera e dirgli che venerdì sera poteva contare sulla sua presenza a Londra. Tutto quel coraggio le faceva battere forte il cuore e lei doveva ripetersi che non doveva sentirsi sotto pressione. Soltanto quella sera, quando avrebbe informato Frederic, la cosa sarebbe diventata ineluttabile. Per ora il progetto era soltanto suo. Poteva giocarci, smontarlo, scartarlo, a suo piacimento. Adesso non agitarti, si intimò, entri nel negozio e ti compri il vestito. Non c'è niente di straordinario. Nel peggiore dei casi avrai buttato via un po' di soldi. Scese dalla macchina e attraversò la piazza a passo spedito evitando le numerose pozzanghere. Stupidamente aveva dimenticato di prendere l'ombrello. Non aveva importanza. Nella piccola e raffinata boutique nella via dietro la piazza del mercato la conoscevano e l'avrebbero servita con sollecitudine anche se si presentava bagnata fradicia. A metà strada si fermò e decise di entrare nella cartoleria che stava superando, per cercare un paio di riviste o di libri da portare a Livia. Sapeva che avrebbe potuto farlo anche all'edicola all'ingresso dell'ospedale, e non si faceva illusioni sul vero motivo della sua sosta: voleva rimandare di un paio di minuti almeno l'acquisto del vestito. Per quanto cercasse di convincersi altrimenti, sapeva che entrare nella boutique era il primo passo su una strada che la impauriva profondamente. La cartoleria era straordinariamente affollata, molto probabilmente era gente che non doveva comperare niente, ma aspettava che smettesse di piovere. Il proprietario, un uomo brizzolato con gli occhiali dalla montatura di metallo, ne era altrettanto consapevole, perché si guardava intorno con aria contrariata. Virginia si disse che non poteva biasimarlo. Il negozio vendeva anche stampa internazionale e Virginia trovò due riviste tedesche non più attualissime, ma che comunque avrebbero potuto far piacere a Livia. Ammesso che fosse in grado di leggere. Stando a quanto diceva Nathan, in quel momento nessuno era riuscito ancora a comunicare con lei.
Cercò ancora un album da disegnare per Kim e si fece largo fino alla cassa. Il proprietario manifestò un evidente compiacimento nel trovarsi di fronte finalmente un cliente vero. «Stanno qui in mezzo ai piedi e aspettano che smetta di piovere», brontolò. «Ma che cosa sono io, una pensilina?» «Fuori sta veramente diluviando», disse Virginia, tirando fuori il portafoglio. Trasalì quando il cartolaio di punto in bianco si mise a sbraitare: «Adesso però ne ho abbastanza! Non te lo dirò più. Vuoi togliere di lì le tue manacce?» Tutti si voltarono, allibiti dall'improvviso scatto d'ira. In fondo al negozio, davanti a uno scaffale con biglietti d'auguri di ogni genere, c'era una ragazzina con una mantellina per la pioggia blu. La bambina diventò rossa come un peperone e cercò di trattenere le lacrime. «Continua a frugare tra i biglietti di compleanno per bambini!» esclamò il cartolaio. «L'ho già avvertita. Senti un po', signorina, o compri i biglietti oppure la smetti di macchiarmeli tutti con le tue dita unte! Vedrai che ti succede se non la pianti!» «Ma è solo una bambina», osservò Virginia conciliante. Il suo interlocutore le rivolse un'occhiata inviperita. «Sono proprio i peggiori. I bambini! Rompono tutto! Non si immagina neanche che cosa trovo a volte dopo che un'orda di scolari è piombata qui dentro. Afferrano tutto, rovinano di proposito libri e biglietti e cartoline. E rubano come corvi. Sa, di questi tempi è dura. Mi costa soldi che non ho!» Lo poteva capire. Ma la bambina, che adesso aveva le guance rigate di lacrime, di sicuro era il bersaglio sbagliato per il suo sfogo. Non aveva l'aria di chi si diverte a rompere le cose. Virginia pagò le riviste e uscì dal negozio. La pioggia continuava incessante, e sarebbe andata avanti di sicuro fino a sera. Adesso non c'erano più scuse: doveva andare a comperare il vestito. Prima che la paura potesse avere il sopravvento, corse verso la boutique, tenendosi sopra la testa come un ombrello il sacchetto di plastica con le riviste. Come sempre trovò una vasta scelta di abiti da cocktail. Ne scelse uno blu scuro, molto accollato davanti ma con una scollatura molto graziosa e niente affatto provocante sulla schiena. Poteva abbinarci gli zaffiri che Frederic le aveva regalato per la nascita di Kim. Molto elegante, pensò e aggiunse ironica: e abbastanza tradizionale per l'occasione e l'ambiente. Nel frattempo erano le tre meno un quarto. Era ora di andare a trovare
Livia in ospedale. Livia Moor era in una camera con altre due donne. Il suo letto era accanto alla finestra e lei era sdraiata immobile, con la testa girata di lato. Le altre due donne avevano frutta e libri sui comodini e chiacchieravano animatamente, ma tacquero all'ingresso di Virginia. Virginia avvertì i loro sguardi incuriositi quando si avvicinò al letto di Livia. «Livia», chiamò piano, «mi sente? Sono io, Virginia!» Rimase sconvolta dall'aspetto emaciato della giovane. A Skye le era sembrata quasi una sonnambula, in preda a un profondo shock per l'esperienza vissuta, ma la lieve abbronzatura e i capelli agitati dal vento le avevano dato se non altro un aspetto fisicamente sano. Adesso aveva le guance incavate e un colorito pallido, quasi giallastro. Le mani, posate sulla coperta bianca, si agitavano lievemente e senza sosta di qua e di là. I capelli non lavati erano pettinati all'indietro e sulle sue tempie si vedeva un reticolo di venuzze azzurre pulsanti. Aveva sempre avuto un naso così a punta? E dita tanto fragili? Il collo così magro? Aprì gli occhi quando Virginia le rivolse la parola, ma non girò lo sguardo verso di lei. Sembrava fissare la pioggia che continuava a cadere fuori dalla finestra, ma non dava l'impressione di rendersene conto. Né pareva consapevole del fazzoletto di prato che si trovava oltre la finestra. «Livia, le ho portato qualcosa da leggere.» Virginia tirò fuori le riviste dal sacchetto bagnato, ma comprese subito che Livia non le avrebbe guardate. «Ho pensato che doveva annoiarsi molto...» Livia non si mosse. Soltanto le sue mani guizzavano incessantemente. «Dovrebbero ricoverarla in psichiatria», mormorò una delle due donne alle spalle di Virginia. «Mi chiedo che cosa ci faccia qui!» Era evidente che Livia non godeva delle simpatie altrui. Le sue compagne di camera erano del posto e probabilmente in procinto di essere dimesse, a giudicare dal loro aspetto roseo e florido. Di sicuro avrebbero preferito un'ulteriore fonte di chiacchiere, che desse vita alla camera e introducesse nuovi argomenti di conversazione. Invece si erano ritrovate con questo mucchietto d'ossa che non diceva una parola e le cui mani erano in continuo movimento. Era chiaro che le innervosiva. «Prima di tutto deve rimettersi in forze fisicamente», ribatté Virginia. Avrebbe volentieri ignorato le due donne, ma riteneva che fosse il caso di mostrare un po' di compassione nei confronti di Livia. «Alla sua anima si penserà dopo.»
«Non ha mai aperto bocca da quando è arrivata», disse l'altra donna, «e continua ad agitare le mani. Viene proprio un gran nervoso a guardarla.» Virginia tornò a voltarsi verso Livia e le accarezzò piano i capelli. «Andrà tutto a posto», disse sottovoce. Sperava che Livia sentisse e capisse le sue parole. «Nathan per il momento sta da noi», disse. Usò di proposito l'espressione noi per evitare che Livia si facesse un'idea sbagliata. Non c'era bisogno che sapesse che Frederic era a Londra. Anche se forse certi particolari non la interessavano. Sembrava trovarsi in uno stato di trance che la teneva prigioniera di un altro mondo. Virginia rimase seduta ancora per un po' accanto al letto, e le accarezzò le mani agitate, ma alla fine Livia richiuse gli occhi e a quel punto sembrò irrilevante che ci fosse qualcuno al suo capezzale o no. Mentre Virginia si alzava, una delle altre due donne le chiese piena di curiosità: «È vero che ha rischiato di annegare? Su alle Ebridi?» «La loro barca è stata travolta da un mercantile», confermò Virginia. «Ha un marito straordinariamente attraente», commentò l'altra. «Accidenti, quando è venuto qui ieri, avrei voluto avere vent'anni di meno! Ha un tale sex appeal... Certo che è molto pericoloso, secondo me. Avere un marito simile e starsene qui sdraiate senza rendersi conto di niente. Io sarei molto in ansia!» L'altra ridacchiò insinuante. «Vuoi dire che secondo te lui ne approfitta per...» «Puoi stare sicura che uno come lui non rischia certo di rimanere solo. Con quella faccia e quel fisico... Le donne gli daranno letteralmente la caccia.» Risero entrambe. Virginia mormorò un breve saluto e uscì in fretta dalla camera. L'incontro con Livia l'aveva turbata, i commenti delle sue vicine di letto l'avevano indignata. Si fermò nel corridoio, appoggiò la schiena al muro e fece un respiro profondo. Possibile che Nathan Moor avesse un effetto simile sulle donne, al punto di trasformarle in creature infantili come le due donne in quella camera d'ospedale? Fa questo effetto anche a me? Naturalmente si era accorta da parecchio tempo di quanto fosse attraente. Era accaduto già nell'accogliente cucina di Mrs. O'Brian su a Skye. Era comparso sulla porta e, sebbene al pari della moglie pallida e tremante, fosse reduce da un naufragio che lo aveva lasciato senza più niente al mondo tranne la roba che indossava, sprizzava una travolgente energia,
trasmetteva un'incrollabile fiducia in se stesso. Abbronzato, i capelli scuri un po' troppo lunghi pettinati casualmente all'indietro, avrebbe potuto essere un villeggiante qualunque che tornava da una lunga permanenza sulla spiaggia, anziché un uomo i cui averi si trovavano sul fondo del mare. Le tornò in mente l'immagine di quella stessa mattina: Nathan con la T-shirt di Frederic, le spalle larghe che tiravano la maglietta. Non dovrei restare tanto a lungo da sola in casa con un tipo come lui. Per fortuna oggi sarebbe tornata Kim. E per fortuna venerdì lei sarebbe andata a Londra, per quanto la prospettiva la riempisse d'angoscia. Lui se ne sarebbe andato? Oppure credeva di poter restare da solo a casa sua, mentre lei si trovava a Londra dal marito? Se lo avesse permesso, avrebbe provocato una bella arrabbiatura in Frederic, e a ragione. Ma ora che era stata a trovare Livia in effetti le sembrava assai improbabile che Nathan potesse tornare in Germania con lei. Livia avrebbe sopportato il viaggio? E che effetto le avrebbe fatto un ulteriore cambiamento di ambiente? Decise di parlarne quella sera stessa con Nathan. Se voleva continuare a stare a King's Lynn per via di Livia, doveva trovarsi un'altra sistemazione. E come se la sarebbe pagata? Se fosse stato necessario, lei avrebbe potuto prestargli altri soldi. Ma non poteva chiedere dei soldi al suo editore? Se era un autore di successo, di sicuro incassava regolarmente le royalty dei libri venduti. Oppure potevano concedergli un anticipo. Dove sta il problema? Uscì dall'ospedale a passo spedito. Come sempre, quando le capitava di pensare a Nathan Moor per più di un minuto, diventava nervosa. Perché scopriva sempre delle discordanze. La sua apparente condizione di assoluta povertà - che lui non sembrava affatto vivere con disperazione, vista l'aria rilassata e serena che aveva - si rivelava a ben guardare una situazione di certo difficile, ma accompagnata da molteplici possibilità di uscita. L'ostacolo maggiore senza dubbio era rappresentato dalla moglie, ancora vittima di un profondo trauma. Ma era davvero sicuro che per Livia essere ricoverata in un ospedale inglese fosse la cosa migliore? A parte il marito che comunque andava a trovarla di rado - era circondata da medici e infermiere che tentavano di squarciare il suo ottenebramento in una lingua straniera. Livia sapeva bene l'inglese, ma Virginia era convinta che nelle sue attuali condizioni si sarebbero ottenuti successi maggiori se fosse stato possibile interpellarla nella sua lingua madre. Un altro punto che doveva far notare a Nathan. Sempre ammesso che trovasse il coraggio di confrontarsi con lui.
Dovrebbe arrivarci da solo, pensò risentita, mentre saliva in auto. I finestrini si appannarono immediatamente per l'umidità portata dentro da lei. Non dovrebbe mettermi nella situazione di doverlo sbattere fuori di casa con le buone o con le cattive. Se ora gli dico che andrò da Frederic, dovrebbe rispondermi subito che anche lui se ne andrà da casa mia al più tardi venerdì. Per qualche buona ragione, intuiva però che lui non l'avrebbe fatto. Come lo aveva definito Frederic? Una zecca. Che parola offensiva. Dalle zecche ci si liberava difficilmente. Ci si poteva scrollare, grattare, non se ne andavano, erano incorporate nella loro fonte di nutrimento. Solo quando erano sazie, talmente piene di sangue da scoppiare, andavano via di loro iniziativa. Grasse e tonde rimbalzavano a terra. Ma prima trasmettevano, in determinate circostanze, malattie che a volte causavano addirittura la morte delle loro vittime. Adesso basta, si disse, e si inserì nel traffico rallentato a causa della pioggia, non è giusto pensare certe cose del prossimo. Lui non è una zecca. Dopo tutto non mi succhia il sangue. E allora che cosa vuole? Provò a pensare se c'entrassero i soldi. Si era fatto prestare una certa somma da lei, con ogni probabilità l'avrebbe rifatto, ma si trattava davvero di cifre irrisorie. Niente per cui valesse la pena darsi tanto da fare. E non aveva chiesto altro. Un uomo avido di denaro avrebbe già approfittato dell'assenza di Frederic per esigere altri soldi. Si sarebbe potuto inventare qualcosa - anticipi da pagare per l'ospedale, per esempio. Ma non era successo niente del genere. Quindi restava la domanda: Che cosa vuole? Pensò alla mattina - era accaduto il giorno prima - in cui si era presentato da lei con la foto di Roma. Dov'è finita questa ragazza allegra e piena di vita? Dov'è scomparsa? E perché? L'aveva ascoltata. Il giorno prima e anche per tutta la mattinata. Concentrato, attento, senza dare segno di stanchezza o di noia. Perché lo faceva? Vuole me. Ecco la risposta. Lui vuole me. Quel pensiero la spaventò a tal punto da farle rischiare di inchiodare di colpo in mezzo al traffico, causando un incidente. Riuscì a controllarsi all'ultimo istante, ma sbandò e invase la carreggiata opposta. Sentì colpi di clacson infuriati e sterzò di nuovo dalla propria parte. Il guidatore dell'auto che aveva rischiato di tamponare le passò di fianco mostrandole aggressivamente il dito medio. Lei lo vide soltanto nello specchietto. Aveva altre
preoccupazioni. Quando imboccò Gaywood Road, che conduceva alla casa dell'amica di Kim dove la bambina era ospite da sabato, rischiò di inchiodare un'altra volta. Sull'angolo si trovava un piccolo caffè e, proprio mentre lei ci passava davanti, un uomo stava camminando per lo slargo lastricato tra gli ombrelloni chiusi e gocciolanti di pioggia e i tavolini e le sedie del bistrò impilate. Virginia lo vide solo da dietro, ma di colpo capì che avrebbe riconosciuto tra mille l'alta figura dai capelli scuri e le spalle larghe nella maglietta troppo aderente: Nathan Moor. Doveva essere Nathan. Che cosa ci faceva lì? Com'era arrivato da Ferndale in città senza automobile? E per quale motivo? Quando lei era uscita, lui non aveva accennato a niente, aveva dato l'impressione di... Già, di che cosa? Per la precisione non le aveva dato nessunissima impressione. Lei aveva semplicemente presunto che sarebbe rimasto a casa, magari avrebbe fatto una passeggiata nel parco e poi si sarebbe seduto in salotto a leggere un libro. Ma a pensarci bene non aveva indizi per supporre niente del genere, né di altro tipo. Restava la domanda sul come. Naturalmente sarebbe potuto venire a piedi, ma sarebbe stata una camminata di quasi un'ora, una prospettiva tutt'altro che allettante sotto quel diluvio. Forse si era imbattuto in Jack, diretto anch'egli in città, che gli aveva offerto un passaggio? Quel pensiero non le piaceva affatto, perché significava che ora i Walker erano a conoscenza del fatto che durante l'assenza di Frederic c'era un forestiero a casa con lei. Certo, con il ritorno di Kim la cosa sarebbe diventata pubblica, ma Virginia sperava almeno di poter tacere il fatto che Nathan stesse da lei fin da sabato. Per un attimo ebbe la tentazione di entrare nel parcheggio proprio di lato al caffè, fermare l'auto e accertarsi che l'uomo intravisto fosse veramente Nathan. Ma poi si disse che sarebbe stato un incontro imbarazzante. Non aveva nessun diritto di controllarlo o di pretendere che lui le rendesse conto di come trascorreva le giornate. Poteva starsene seduto al caffè per tutto il tempo che voleva. Si sarebbe limitata ad accennare quella sera al fatto che le era sembrato di riconoscerlo in città. O lui le offriva una spiegazione plausibile oppure negava la cosa. Forse poteva anche darsi che lo mettesse a disagio riconoscere di aver bevuto tranquillamente qualcosa in un caffè anziché vegliare al capezzale della moglie. Era chiaro che non aveva molta voglia di stare con lei. E anche il suo matrimonio non è cosa che mi riguarda, pensò Virginia. E poi poteva anche darsi che non fosse stato lui l'uomo che aveva visto.
Già adesso non ne era più tanto sicura. Martedì, 29 agosto 1 Quando tre agenti di polizia suonarono alla porta il martedì mattina alle sette e un quarto, Claire Cunningham capì subito che erano venuti per la scomparsa di Rachel. L'espressione dei tre non era promettente, ma per qualche secondo ancora Claire si aggrappò all'assurda speranza che fossero venuti a dirle semplicemente che la piccola era stata ritrovata, si era perduta, ma stava bene e in quel momento un medico della polizia la stava visitando. Tutto a posto, Mrs. Cunningham. A volte succede con i bambini. Presi dall'entusiasmo dell'avventura, corrono chissà dove, non fanno attenzione alla strada percorsa e, prima che se ne accorgano, scende la sera e non sanno più come tornare a casa. Aveva trascorso due giorni e due notti insonni, a parte un breve pisolino cui, sfinita, aveva ceduto il lunedì pomeriggio, dal quale tuttavia si era svegliata troppo presto e per niente riposata. La pioggia del giorno precedente l'aveva fatta piombare in un tale stato di panico, da richiedere per due volte l'intervento del medico che le aveva fatto un'iniezione. «Visto che pioggia? Visto che pioggia?» aveva urlato. Era caduta in ginocchio, aveva preso a pugni il pavimento, alla ricerca di un dolore fisico che lenisse per qualche secondo la sofferenza interiore. Suo marito Robert aveva cercato invano di fermarla. «La mia bambina è là fuori! La mia bambina è là fuori sotto la pioggia!» aveva continuato a ripetere quella frase, fino a che la voce le era diventata un roco sussurro. Quando aveva cominciato a graffiarsi il volto con tutte e dieci le unghie delle mani, Robert aveva richiamato il dottore, che era già stato a casa loro alle prime luci del mattino. Dopo l'iniezione Claire si era calmata, ma l'espressione di assoluta disperazione nel suo sguardo, i suoi movimenti lenti e faticosi e lo sforzo che le costava articolare parole che comunque restavano incomprensibili erano risultati per il marito persino più difficili da sopportare dei suoi folli accessi di panico. Il lunedì sera era arrivata una psicologa della polizia, per offrire assistenza, ed era stato in quel momento che anche i nervi di Robert avevano ceduto. «Nostra figlia è scomparsa da ieri mattina!» aveva rinfacciato alla gio-
vane psicologa. «Abbiamo informato la polizia ieri pomeriggio presto. Nel frattempo sono trascorse ventitré ore durante le quali abbiamo dovuto cercare di affrontare da soli questa catastrofe. E adesso, adesso, che mia moglie balbetta come una lattante, per tutte le iniezioni di calmanti che ha ricevuto, solo adesso ritenete finalmente opportuno mandarci una psicologa?» «Si controlli, per favore!» l'aveva ammonito la psicologa con impeto, ma poi lo sguardo le era caduto su Claire, che aveva un aspetto spaventoso. Le guance graffiate, le mani e i polsi pieni di lividi di tutti i colori, dal blu scuro al lilla. Cercava di dire qualcosa, ma non riusciva ad articolare le parole con la bocca. Il labbro inferiore le pendeva inerte e con ogni probabilità non era più in grado di controllarlo. «Santo cielo! Sua moglie è in condizioni spaventose!» Robert si passò la mano sul viso stanco e pallido. Aveva ritrovato l'autocontrollo. «Mi scusi. È già una fortuna che lei sia qui. Sì, Claire sta molto male. Ha continui attacchi di panico. Domenica ce la faceva ancora, ma da quando ha cominciato a piovere e la temperatura si è abbassata...» «Capisco», disse la psicologa. «Ringrazio ancora il cielo di averle impedito di farsi del male con un coltello. Il dottore le ha dato dei calmanti ma... ma...» Gli era mancata la voce. Non apparteneva più a quella generazione di uomini cui era stato insegnato di non piangere per nessun motivo, anche se in quel momento sembrava quanto mai improbabile che si abbandonasse a una crisi di pianto. Forse perché Claire stava tanto male e lui riteneva di doversi mantenere forte. Forse anche perché intuiva che il dolore e la paura lo avrebbero travolto, se li avesse lasciati liberi, e allora si sarebbe ritrovato inebetito come Claire. E Rachel trova due genitori rimbambiti quando torna a casa? Non sta bene! «Dov'è l'altra vostra figlia?» chiese la psicologa. Evidentemente si era informata. «Avete anche una bambina più piccola, giusto?» «Sì, Sue. È dalla sorella di mia moglie a Downham Market. Non ritenevamo opportuno che rimanesse qui in un simile frangente...» «Molto ragionevole da parte vostra.» La psicologa, che si chiamava Joanne, aveva preparato qualcosa da mangiare, insistendo perché Robert mandasse giù un boccone. Fuori intanto la sera scendeva sul giardino. La pioggia scrosciava. La seconda sera senza Rachel. La seconda sera in cui non sapevano dove si trovasse. Ro-
bert si odiava quasi, perché lui era seduto all'asciutto, a mangiare una fetta di pane con un pomodoro. Bevve tre bicchieri di vino e furono l'unica cosa che lo aiutò un pochino in quella terribile giornata. Gli aveva fatto bene parlare con una persona sensata e controllata. Joanne sembrava saperci fare nel suo lavoro, perché era riuscita a trasmettergli un po' di serenità. Avevano parlato della possibilità di un rapimento. «La polizia lo ritiene plausibile?» aveva chiesto lei e Robert aveva fatto un profondo sospiro. «A questo punto», disse mestamente, «non escludono nessuna pista. Ma il fatto è che finora non abbiamo ricevuto né lettere né telefonate dagli eventuali rapitori. E sinceramente...» «Sì?» «Non riesco a credere che qualcuno possa scegliere proprio la nostra famiglia per un ricatto. Siamo tutt'altro che ricchi. Dobbiamo ancora finire di pagare la casa. Io vendo software alle aziende, li installo e tengo corsi per gli impiegati. Guadagno a provvigione e i tempi non sono favorevoli. Claire si dedica principalmente alle bambine e guadagna qualcosa scrivendo recensioni teatrali per il Lynn News. Non stiamo male, ma...» Non terminò la frase. Per qualche motivo, sapeva che nessuno sarebbe venuto a chiedergli soldi in cambio della figlia. «Sa una cosa», disse disperato, «a parte che in questo momento vorrei con tutto il cuore che Rachel fosse seduta qui con noi, e come seconda ipotesi preferirei che si fosse smarrita, fosse stata ritrovata da persone perbene e ci venisse restituita, come terza possibilità mi augurerei che fosse stata rapita da qualcuno che vuole arricchirsi. Magari è stata scambiata per un'altra? In questo caso, infatti, ci sarebbe la possibilità di riabbracciarla sana e salva. L'alternativa più agghiacciante è che...» Gli costava tanta fatica dirlo ad alta voce. Vide la compassione nello sguardo di Joanne e dovette di nuovo lottare contro le lacrime. «L'alternativa più agghiacciante è che sia finita nelle mani di qualche pervertito. Sa, com'è successo a quell'altra bambina qui a King's Lynn. Se penso che in questo momento magari lui la sta...» Emise un gemito e si coprì gli occhi con una mano. Joanne gli strinse brevemente il braccio. «Non ci pensi. Non si tormenti con pensieri angoscianti. So che è facile dirlo. Ma non serve a niente farsi del male così. Ha bisogno di restare forte e con i nervi saldi.» Avevano parlato ancora un po' di Rachel, lui aveva mostrato delle foto e raccontato di lei. Joanne era andata via verso le undici. Robert era andato
nel suo studio e aveva navigato in rete. Verso le tre di notte aveva sentito Claire camminare avanti e indietro di sotto. Probabilmente l'effetto dei calmanti stava passando e riusciva di nuovo a muoversi. A un certo punto la sentì accendere la tele. Ok, la televisione va bene. Il computer va bene. La psicologa andava bene. Dobbiamo sopravvivere. Dobbiamo superare questa notte. Oddio, fa' che non ci siano troppe notti come questa! E adesso i tre agenti erano in salotto e gli si leggeva in faccia che in quel momento odiavano il loro lavoro. Robert guardò verso Claire. Portava l'accappatoio bianco e si era pettinata i capelli, ma aveva ancora l'aria sconvolta, con gli ematomi sui polsi e i graffi sulle guance. «Che ne è di Rachel?» domandò lei. Era tornata in possesso della voce e della mimica facciale. Uno degli agenti si schiarì la gola. «Non sappiamo se si tratti di vostra figlia, ve lo dico subito, ma...» Allora perché siete qui, pensò Robert, se non lo sapete ancora con sicurezza? La polizia aveva una descrizione precisa di Rachel. Altezza, peso, colore dei capelli, colore degli occhi. Gli abiti che indossava la domenica. Se avevano trovato una bambina, in qualunque stato fosse, non potevano esserci troppi dubbi. «Stamattina una persona che faceva jogging ha rinvenuto il cadavere di una bambina.» Il poliziotto riuscì a parlare con Claire e Robert senza guardarli in faccia. «Potrebbe... potrebbe trattarsi di Rachel.» Claire aveva letto di situazioni analoghe a quella in cui si trovava ora. Nei libri, sui giornali. Aveva visto film sull'argomento. Appena la settimana prima aveva seguito un talk show in cui la madre di Sarah Alby, la bambina uccisa di recente, aveva raccontato la tragedia che aveva trasformato la sua vita in un incubo. Tutte le volte che si era confrontata con queste cose - la perdita di un bambino in maniera violenta - si era immedesimata profondamente nel dolore dei genitori e si era chiesta come fosse possibile sopportarlo e continuare a vivere. La sua risposta immancabilmente era stata che non era possibile: si poteva esistere, respirare, dormire, svegliarsi, mangiare e dormire, ma non si riusciva più a vivere. Una parte troppo grande di sé sarebbe morta. Tutto ciò che contava di più moriva. E ora si ritrovava, in una fresca mattinata nuvolosa di fine agosto, nel salotto della sua accogliente casetta, che aveva costruito insieme a Robert,
nel mezzo del loro mondo familiare e idilliaco, già in procinto di disfarsi, e viveva esattamente il momento che aveva creduto di non poter sopportare. E lo sopportava. Stordita e come distaccata da se stessa. Era parte dell'avvenimento e nello stesso tempo osservatrice. In seguito avrebbe pensato che era stata proprio quella dicotomia a impedirle di impazzire. Udì Robert che chiedeva: «Dove... è stata ritrovata...?» «Nei pressi del castello di Sandringham, accanto al parco», rispose uno degli altri agenti che finora era rimasto zitto. «Sandringham... è piuttosto lontano da noi, però», osservò Robert. «Non è detto che si tratti di vostra figlia», ripeté il primo agente. «Ci sarebbe utile se uno di voi, oppure tutti e due, poteste venire con noi a dare un'occhiata alla bambina.» Claire aveva la sensazione di indietreggiare sempre di più, di osservare il gruppetto di fronte a lei da una distanza sempre maggiore. «Com'è stata uccisa?» si sentì chiedere. «Il risultato dell'autopsia non è ancora disponibile, ma dai primi accertamenti pare che sia stata strangolata.» «E ha subito... è stata...?» «Violentata? Come ho detto, solo l'autopsia potrà dircelo con sicurezza. Pensate di... vi sentite nelle condizioni di accompagnarci?» Robert avrebbe chiamato volentieri Joanne. Per qualche motivo la sua presenza gli aveva giovato e di colpo pensò che sarebbe riuscito ad affrontare la cosa molto meglio con lei accanto. Ma si vergognò a formulare tale desiderio. Si limitò ad assentire. «Vengo io. Claire, tu resti qui.» Guardò gli agenti. «Uno di voi potrebbe rimanere con mia moglie fino al mio ritorno?» «Naturalmente.» Guardò Claire. «Torna presto», lo implorò lei. Al suo ritorno sarebbe stato un altro uomo, questo era chiaro. E lei un'altra donna. Sapeva che quella che gli avrebbero mostrato sarebbe stata Rachel. 2 Michael Le settimane successive al viaggio a Roma furono disperate e angoscianti per Virginia. Giorno dopo giorno andava all'università, ma le lezioni
passavano senza che lei si rendesse conto effettivamente di che cosa trattassero. Trascorreva lunghe ore tormentate al campus, si separò dagli amici, stava in disparte sulla riva del fiume a guardare l'acqua che scorreva e cercava di scacciare dalla mente il ricordo di Andrew Stewart e del loro periodo insieme. Era stato il grande amore della sua vita, almeno lo aveva creduto, e probabilmente dipendeva dall'intensità delle proprie emozioni. Non sapeva che cosa avesse più peso: il fatto di averlo perso, di dover rinunciare a ogni prospettiva di un futuro insieme, oppure il fatto di essere stata tradita. Ripensò al fantastico e romantico fine settimana nel Northumberland. Dieci giorni più tardi lui aveva concepito un figlio con Susan. Tutte le volte che ci pensava, si sentiva riempire di sgomento e dolore. Aveva un atteggiamento irritabile e lunatico nei confronti di Michael. Lui reagiva a modo suo: con pazienza e tristezza. Non si sarebbe mai ribellato a niente che provenisse da lei. Se era necessario, era disposto anche a farsi trattare male da lei. Viveva nel terrore di perderla, e non voleva fare niente che potesse indurla a lasciarlo. Verso la fine dell'estate, per la prima volta dopo la loro infanzia, ricominciò a parlare di matrimonio. Una sera accompagnò Virginia in una passeggiata nei giardini del King's College, anche se lei aveva cercato di dissuaderlo. «Michael, veramente vorrei rimanere sola.» «Devo parlarti di qualcosa.» Era stato più insistente del solito e alla fine lei aveva acconsentito a che la accompagnasse. Era una splendida serata, l'aria era pervasa dal profumo di erba appena tagliata, la luce rossa del sole al tramonto colorava il cielo, le acque del fiume e i muri del college immergendo tutto in un alone ramato. C'era molta gente in giro, studenti e professori. Risate, voci e chiacchiere risuonavano nell'aria limpida. Virginia era taciturna e ombrosa com'era sempre stata negli ultimi mesi. Ben presto dimenticò la presenza di Michael accanto a sé, tanto era occupata da se stessa, e trasalì lievemente quando lui le parlò all'improvviso. Erano in mezzo a un ponte, affacciati alla balaustra a guardare l'acqua che scorreva placida sotto di loro. «Vorresti sposarmi?» domandò Michael, di colpo e festosamente. Lei lo guardò quasi sgomenta. «Che cosa?» Lui sorrise impacciato. «Forse sono stato un po' troppo diretto, ma... ecco, l'avevamo sempre voluto e...»
«Ma eravamo due bambini!» «I miei sentimenti per te non sono cambiati.» «Michael...» «Lo so», disse lui. «Forse non sono l'uomo dei tuoi sogni, ma... voglio dire, quel canadese, con il quale sei stata fidanzata, forse era più eccitante di me...» Lei se l'era del tutto scordato. E Michael pensava che si struggesse ancora per lui. «Ma di sicuro aveva i suoi lati oscuri», proseguì Michael. «Ti maltrattava ed era sempre ubriaco... con me non ti succederebbe niente del genere.» Lei lo guardò. No, pensò, la cosa peggiore è solo che con te non succederebbe proprio niente. Con te avrei la sensazione di trascorrere la vita in letargo. «Sai una cosa», continuò Michael, «l'anno prossimo comincerò a lavorare e allora vorrei trovare velocemente una casa per noi. Alla lunga questo appartamentino non va bene. Pensavo a una casetta col giardino. Che ne pensi? Così avremmo anche...» Si bloccò. «Che cosa?» chiese Virginia. «Avremmo spazio per far giocare i nostri figli», disse Michael. Si schiarì la gola. «Non voglio metterti fretta, Virginia, ma mi piacerebbe tanto avere dei bambini. Amo i bambini. Per me sarebbe bellissimo avere una vera famiglia. Che cosa ne pensi?» Lui stava correndo troppo. Sposarsi, cambiare casa, avere dei figli. Il tutto con un uomo che le era familiare, al quale voleva bene, ma che non riusciva neanche lontanamente ad accendere dentro di lei la passione di Andrew. Ripensò alle nottate trascorse con lui, a tutto quello che c'era stato tra di loro e le salirono le lacrime agli occhi. Girò la testa perché Michael non se ne accorgesse. Lui tuttavia era abbastanza sensibile da intuire che lei era tutt'altro che felice. Le accarezzò un braccio, impacciato. «Mi spiace. Ti ho travolto con le mie richieste. È solo che... ti amo tanto!» Un paio di giorni dopo questa serata, Virginia si imbatté in Andrew mentre camminava per strada. Lui era in compagnia di una bionda attraente che sfoggiava un enorme pancione da nove mesi. Susan. Andrew si bloccò per qualche secondo, quando riconobbe Virginia, poi girò la testa di lato e proseguì accelerando il passo. Virginia rimase così scioccata dal suo comportamento che attraversò la strada con le ginocchia
molli e andò a sedersi nel bar più vicino, dove guardò attonita la cameriera venuta a chiederle l'ordinazione. Susan, il fantasma, aveva acquistato un volto. Per non parlare del corpo in cui cresceva il frutto del tradimento di Andrew. Al pensiero dell'espressione sgomenta negli occhi di Andrew e del brusco movimento con cui aveva girato la testa per non guardarla, le guance cominciarono a bruciarle di vergogna. Aveva sognato un futuro con quell'uomo. Si era fatta mentire per settimane e abbindolare per mesi da lui. E adesso doveva sopportare che lui per strada fingesse di non conoscerla. Quella sera informò Michael di essere pronta ad andare a vivere in una casa insieme a lui. Poneva una sola condizione: che non fosse lì a Cambridge. Era già abbastanza penoso dover frequentare l'università in quella città. Voleva abitare da un'altra parte, per non correre il rischio, la prima volta che andava dal panettiere o al supermercato, di imbattersi in Andrew, Susan e un neonato che piangeva nella carrozzina. Si trasferirono a St. Ives. Abbastanza vicino per poter lavorare comodamente a Cambridge, ma abbastanza lontano per non dover incrociare Andrew e la sua piccola famigliola a ogni passo. Michael aveva cercato di convincerla con la massima cautela a scegliere un domicilio più vicino alla città universitaria, visto tra l'altro che all'inizio del nuovo anno lui avrebbe ottenuto il suo posto di assistente, ed era molto nervoso. Senza dover affrontare il trasferimento quotidiano sarebbe stato più tranquillo. Ma senza dare ulteriori spiegazioni Virginia insistette nel suo desiderio e, siccome Michael era fin troppo felice di averla spinta già a tanto, non voleva rischiare di contrariarla e si adattò ai suoi voleri, pur senza comprenderli. Non avevano molti soldi e la casetta di St. Ives era molto piccola, ma era la loro prima vera casa insieme. Nello spazio ristretto del monolocale di Cambridge non si erano mai sentiti del tutto a loro agio. Adesso avevano un salotto con il camino, una cucina abitabile, e altre due stanzette che davano sul giardino posteriore. Una l'arredarono come camera da letto, l'altra come studio. Acquistarono mobili poco costosi che rallegrarono con cuscini colorati e semplici pezze di stoffa dalle quali Virginia ricavò, peggio che bene, tende per le finestre. Sistemarono il giardino posteriore e, dopo aver parlato con il padrone di casa, cominciarono a smantellare la staccionata frontale, per dare una maggiore impressione di ampiezza al fazzoletto di terra anteriore. Poiché la casa era costruita su un dosso, il giardino sul da-
vanti era digradante con una scala che saliva fino alla porta d'ingresso sul lato destro. Sull'altro lato c'era l'accesso al garage. Siccome Virginia e Michael per il momento non possedevano l'auto, usavano il box come rimessa per gli attrezzi e ben presto la riempirono anche di vasi di terracotta e casse di sementi. Virginia si dedicava al giardinaggio con una passione che stupiva persino lei stessa. Prima d'ora non aveva mai provato il desiderio di scavare la terra o di piantare fiori e cespugli. Adesso, tuttavia, aveva l'impressione di essersi trovata inconsapevolmente una terapia. La permanenza all'aria aperta, il profumo di terra ed erba, la gioia di osservare la crescita e la fioritura intorno a lei l'aiutavano a superare il dolore per l'amore perduto. A poco a poco si sentì sempre meglio. Anche la distanza fisica da Cambridge le faceva bene. In effetti tutte le mattine si recava all'università di buon'ora e aveva trovato anche un lavoro part time in biblioteca, ma non si allontanava quasi mai dagli edifici del college e in questo modo non correva grossi rischi di imbattersi in Andrew e la sua famiglia. Quando era a St. Ives, poi, non doveva preoccuparsi. Faceva lunghe passeggiate, cominciò a correre con regolarità, fece amicizia con i vicini. Erano persone di vedute ristrette ma simpatiche. Per la prima volta da anni la sua vita prese un andamento sereno, ogni giorno era la copia del precedente, tutt'intorno a lei si consolidavano la pace e la routine. L'unico problema restava Michael. Per un certo periodo non aveva più tirato fuori il tema matrimonio, ma con l'inizio del nuovo anno era tornato alla carica con più energia di prima. Famiglia, figli - non sembrava pensare ad altro. «In questo momento non voglio un figlio», diceva Virginia con una certa irritazione. E questo lo portava inevitabilmente a replicare: «Ma non dovremmo aspettare troppo. Gli anni passano così in fretta e poi ci si accorge che è troppo tardi». «Ho appena superato la ventina, per amor del cielo! Ho ancora un sacco di tempo.» «Hai quasi venticinque anni.» «E allora? Studio ancora.» «Potresti laurearti entro l'anno. E poi...» «E poi ritrovarmi subito a spingere una carrozzina? Non sono mica pazza. Altrimenti che cosa sarei andata all'università a fare?» Erano discussioni sterili, che a volte sfociavano in un litigio, altre in un
silenzio rancoroso. «Perché non ci sposiamo almeno?» chiese Michael. «A che scopo? Che cosa cambierebbe?» «Per me cambierebbe qualcosa. È... un altro modo di esprimere il nostro legame.» «Io non ne ho bisogno», dichiarava Virginia. In realtà, e lo sapeva benissimo, avrebbe dovuto dire: non voglio legarmi a te in questo modo. Quando nella casa vicina si trasferì una giovane famiglia, Michael instaurò un rapporto d'amicizia sempre più intenso con loro. Era particolarmente attaccato al figlio di sette anni, Tommi. «Anche a me piacerebbe avere un figlio come lui», diceva spesso a Virginia finché lei un giorno aveva ribattuto spazientita: «Smettila, una buona volta! Se vuoi una macchina per sfornare bambini, trovati un'altra donna!» Per un po' lui non disse più niente, ma l'argomento rimase tacitamente tra di loro e Virginia cominciò a chiedersi per quanto tempo avrebbe funzionato la loro vita di coppia in quelle circostanze. In fondo sapeva che lo avrebbe lasciato non appena le ferite che le aveva inflitto Andrew si fossero rimarginate a sufficienza e lei avesse ritrovato la fiducia in se stessa e la voglia di vivere di un tempo. A volte questo le provocava dei rimorsi di coscienza. Ma poi si ripeteva che Michael doveva averlo intuito da tempo che lei ricambiava i suoi sentimenti solo in parte e in misura molto ridotta, e non era colpa sua se lui si ostinava a illudersi del contrario. Tommi, il figlio dei vicini, ben presto diventò ospite fisso a casa loro. La sera, quando rincasavano da Cambridge, spesso lo trovavano già ad aspettare sulla soglia. «Michael!» gridava allora. «Michael!» E Michael correva da lui, lo sollevava da terra e lo faceva girare per aria. Lo portava con sé in cucina dove gli permetteva di aiutarlo a cucinare, combinando un vero caos, oppure guardavano insieme la TV o giocavano al computer. Quando per l'estate Michael ebbe risparmiato a sufficienza da potersi comperare un'auto, Tommi non voleva fare altro. Per ore stavano seduti dentro la macchina, Tommi al volante, le guance accese e gli occhi luccicanti. A volte Michael accendeva persino il motore. Tommi fingeva di essere un famoso corridore automobilistico che gareggiava sulla pista di Monza o Montecarlo e superava tutti gli altri concorrenti. Di tanto in tanto Virginia si sorprendeva a pensare con una certa irritazione che Michael anche stavolta stava esagerando come sua abitudine. Quando si affezionava a una persona, si attaccava a lei nel vero senso della
parola, la soffocava con le proprie attenzioni. Da anni lo faceva con lei, e adesso stava accadendo anche con questo bambino. Il suo comportamento faceva sempre pensare che volesse legare a sé per sempre tutti quelli che gli entravano nel cuore. Esagerato e immaturo come nessun altro. D'altro canto, la sua dedizione verso Tommi le concedeva qualche spazio di autonomia. Durante il tempo che lui passava con il bambino, lei poteva dedicarsi ai propri interessi, senza dover temere di essere tormentata da lui con la questione del matrimonio. Inoltre sperava che avrebbe cominciato ad accennare più di rado al tema dei figli, se poteva soddisfare altrove la sua passione per i bambini. Per questo non diceva niente e lo lasciava fare, limitandosi a scuotere la testa. Un giorno Michael disse: «Sarebbe opportuno liberare un po' di spazio in garage per metterci l'auto. Tommi impazzisce per quella macchina e ho paura che una volta possa salirci quando non ci sono e sganciare il freno a mano. Vista la discesa, finirebbe di sicuro per strada». Virginia nel frattempo aveva occupato completamente il garage con i suoi utensili da giardinaggio. «Non è possibile. Non saprei dove mettere le mie cose.» «Ma...» «Sei stato tu a trasmettergli questa folle passione per l'auto! Adesso non puoi scaricare la cosa su di me!» Come sempre, lui non voleva rischiare di litigare. «Ok, ok. Ma allora dobbiamo stare attenti che la macchina sia sempre chiusa a chiave. Così non potrà succedere niente.» «D'accordo», disse Virginia rappacificata. «Farò attenzione. Promesso.» Tommi le era simpatico. Non gli voleva bene in maniera fanatica come Michael, ma si era affezionata anche lei a quel ragazzino sempre allegro. Michael sorrise. «È bello vivere con te», disse. Lei lo guardò e pensò: Non sai quanto ti trovo noioso! 3 «Già. Ecco come stavano le cose. A St. Ives vivevamo un piccolo idillio borghese, nel quale Michael cominciò a sentirsi molto bene - a prescindere dal fatto che le sue richieste di matrimonio trovavano un'opposizione granitica da parte mia e io mi rifiutavo categoricamente di alimentare la sua
speranza di avere un figlio insieme. Pensavo molto ad Andrew, mi immergevo nel giardinaggio ed ero sempre piena di rimorsi.» Erano seduti in cucina, bevevano ciascuno la quarta o quinta tazza di caffè. Nathan si era offerto di preparare la colazione ma, quando Virginia gli aveva detto di non avere fame, si era adattato in silenzio. Era ancora molto presto e, sebbene avesse smesso di piovere, fuori regnava un'atmosfera già autunnale. I rami grondanti di acqua sembravano essersi spinti ancora più vicino alle finestre della casa e dal cielo non filtrava neppure un raggio di sole. Virginia, che aveva già fatto il suo giro di corsa nel parco verso le sei e si proteggeva dal freddo con un pesante pullover e caldi calzini, valutò se fosse il caso di accendere il riscaldamento. Ma siamo pur sempre in agosto, pensò. Nathan era comparso mentre preparava la caffettiera e lei era rimasta sorpresa di quanto fosse contenta del suo arrivo. In genere non le spiaceva sedere da sola al tavolo della colazione, sorseggiando il caffè e inseguendo i propri pensieri, ma negli ultimi giorni era cambiato qualcosa. Non necessariamente in meglio, come aveva constatato. Era diventata più irrequieta. Sopportava meno lo stare da sola. Di notte si rigirava tra i cuscini e di giorno era tormentata da vecchie immagini e ricordi. Ovviamente ne conosceva la causa. Aveva smesso di tenere Michael chiuso dentro di sé. E Tommi. Il ragazzino tanto amato da Michael. Aveva cominciato ad aprirsi e ora la corrente spingeva verso l'esterno più forte e più impetuosamente di quanto avesse immaginato. Che lo volesse o no, non era più possibile arginarla. Non voleva più parlare di Michael, ma mentre lei e Nathan erano seduti a fare colazione in quella mattinata buia e fredda l'aveva fatto. Aveva proseguito nel suo racconto, chiedendosi una volta di più perché si confidasse proprio con questo estraneo. Forse lo faceva proprio perché era un estraneo, Ma non solo. Dipendeva anche da lui, dalla sua persona. Quest'uomo muoveva qualcosa dentro di lei, senza che lei riuscisse a definire che cosa. Probabilmente non voleva neppure saperlo. Era meglio non rifletterci troppo. «Per certi versi, la situazione di allora aveva delle analogie con quella attuale», disse lui. Visto che in quel momento lei stava pensando alla persona che aveva davanti e non al proprio passato, impiegò qualche istante per capire di che cosa parlasse. «Come dice?» chiese sorpresa.
«Ma sì, in un certo senso lei mi fa pensare alla Virginia di dodici anni fa. Non del tutto soddisfatta del suo rapporto di coppia, ma molto tranquilla, molto serena. Tuttavia... non è quello che cerca.» Lei giocherellò con la tazza. Aveva ragione lui? Ed era giusto permettergli di vedere così a fondo nella sua vita? Ho cominciato io, pensò, e ora non posso indignarmi. La porta della cucina si aprì e Kim entrò con il telefono in mano, Era scalza e indossava la camicia da notte. «Papà al telefono», annunciò. Virginia non aveva sentito suonare il telefono, tanto era stata immersa in un'altra epoca. Le sarebbe piaciuto appurare se Kim avesse informato il padre della presenza di Nathan in casa, ma non ce n'era il tempo. «Pronto, Frederic?» Lui non l'aveva chiamata la sera prima. E lei neppure. Il tema dinner party era ancora tra di loro in tutta la sua problematicità. «Buongiorno», disse Frederic con voce un po' fredda. «Spero che tu abbia dormito bene.» «Più o meno. Io...» «Non volevo incalzarti ulteriormente ieri sera, per questo non ti ho telefonato.» «Frederic, io...» «Kim mi ha appena raccontato una cosa un po' strana», proseguì Frederic. «È vero che quel Moor dalla Germania alloggia con voi?» Era inevitabile che Kim parlasse. Virginia aveva solo sperato che non succedesse così in fretta. «Sì», disse, «temporaneamente. Lui...» «Da quando?» Non voleva mentire al marito. Non per via di Nathan e soprattutto non davanti a lui. «Da sabato.» Sentì chiaramente Frederic che tratteneva il fiato all'altro capo della linea. «Da sabato? E non mi hai detto niente?» «Sapevo già che cosa ne pensi.» «E sua moglie?» «È ricoverata all'ospedale di King's Lynn. È ancora sotto shock. A Skye non era possibile curarla.» «Aha. E nemmeno in Germania?» Che cosa poteva ribattere? In fondo non lo capiva neppure lei.
«Volevo darti una bella notizia», si affrettò a dire lei. Non era la verità: non era stata sua intenzione dirgli fin da adesso che aveva in mente di raggiungerlo a Londra. Se lui l'avesse saputo, non ci sarebbe stato più modo di evitarlo. Sarebbe stata in trappola. «Ieri mi sono comperata un vestito nuovo», proseguì senza pause. «Ho deciso di accompagnarti venerdì al ricevimento.» La linea rimase muta. Dopo diversi secondi Frederic chiese, profondamente sorpreso: «Sul serio?» «Sì. E...» Si chiese brevemente se fosse il caso di spingersi oltre, ma si rese conto di colpo che doveva fare in fretta, doveva raggiungere Frederic il prima possibile. «Verrò giovedì, se per te va bene. Quindi dopodomani. Ho pensato che è meno stressante che mettermi in viaggio il venerdì.» Ancora una volta lo aveva stupito così intensamente che lui non reagì subito. Quando alla fine parlò, la sua voce era così allegra e felice che Virginia quasi si vergognò. Era una cosa da nulla e suo marito non stava in sé dalla gioia. «Ehi», disse piano, «non ti immagini neanche quanto sia felice.» «Anch'io Frederic», mentì lei. Evitò di guardare Nathan. Lui si era accorto perfettamente di quanto lei fosse tesa e insincera. «Vieni in treno?» «Sì. Ti comunicherò l'orario esatto al più presto.» Lui era davvero contento. Si capiva dalla voce. Ed era contento non solo per la festa, anche questo era evidente. Era contento per lei. «È fantastico che tu venga un giorno prima. Andremo da qualche parte, noi due soltanto. Una bella cenetta, e poi magari un night-club... che ne dici? È da un secolo che non balliamo più.» «È... è un'ottima idea.» Si augurava che la smettesse di fare progetti. Non voleva che le tornasse l'emicrania. «Kim resta da Grace?» si informò lui. «Non ho ancora parlato con lei, ma non ci saranno problemi. Grace adora la piccola.» «Allora non può più andare storto niente», disse Frederic, come per scongiuro. Sarà nervoso fino a giovedì, quando arriverò a Londra e scenderò dal treno, pensò Virginia. Avvertì un senso di soffocamento. «Mi farò viva io», si affrettò a dire.
«Virginia», cominciò Frederic, ma si interruppe. «Ah, niente», si limitò. «Stai attenta a te. Ti amo.» Sapeva che avrebbe voluto chiederle di Nathan Moor. Di come sarebbe riuscita a mandarlo via di casa entro giovedì. Ma evidentemente il tema gli sembrava troppo spinoso e al momento gli premeva soprattutto non contrariare la moglie. Nathan Moor era un problema secondario. E di sicuro si sarà detto che non posso essere tanto pazza da permettergli di restare qui durante la mia assenza, pensò, mentre chiudeva la telefonata. Non mi ritiene tanto avventata. «Posso andare da Grace e Jack?» esclamò Kim cominciando a saltellare su un piede. «È così, mamma?» «Se sono d'accordo... sì.» Kim lanciò un'esclamazione di gioia. Grace faceva sempre delle torte, Kim poteva guardare più televisione che a casa e poteva bere tutta la cioccolata calda che voleva. Era stata a dormire da loro un paio di volte e le era piaciuto tantissimo. «Andrà a Londra dopodomani?» le chiese Nathan. «Sì.» Lei prese fiato. «Significa che dovrà trovarsi un altro alloggio, Nathan. A partire da giovedì.» «Certo», disse lui. «Da giovedì.» Si scambiarono un'occhiata. Nello sguardo di lui c'era qualcosa che la fece arrossire di colpo. Si sentì avvampare in tutto il corpo; con un gesto impacciato si scostò i capelli dalla fronte. Lui aveva in sé qualcosa che non si poteva esprimere a parole. Forse era l'intensità che metteva in tutto ciò che faceva, in ogni sguardo, ogni parola, ogni fugace contatto. Sex appeal, così l'avevano definito le insopportabili compagne di stanza di Livia all'ospedale. Indubbiamente lui possedeva una forte carica sessuale. Quando accarezzava la schiena di una donna - le tornò in mente d'un tratto la loro situazione in salotto, quando lei era in preda al pianto e all'emicrania - il suo gesto diventava quasi un atto sessuale. «Mamma, posso andare subito da Grace a chiederglielo?» la incalzò Kim. Virginia sorrise. «Vai pure. Ma dille che passo più tardi anch'io a parlarle. E prima infilati qualcosa!» Kim corse di sopra in camera sua. «È sicura di voler andare a Londra?» domandò Nathan. «Sì.» Si sforzò di parlare con voce ferma e di mantenere uno sguardo limpido, ma ebbe l'impressione di fallire su entrambi i fronti. «Accompa-
gno mio marito a un ricevimento.» «Che bello. È contenta?» «Certo. Perché non dovrei?» Provò una voglia improvvisa di una sigaretta. Qualcosa cui potesse aggrapparsi, qualcosa che le desse pace. Il fumo caldo, la nicotina, che le rilassava il corpo... Dove aveva messo il pacchetto che aveva... Non si sorprese più di tanto quando Nathan tirò fuori dalla tasca dei calzoni un pacchetto di sigarette stropicciato e glielo porse. «Ne prenda una. A volte serve.» Lei estrasse una sigaretta e lasciò che Nathan gliel'accendesse. Notò l'elegante accendino d'argento e il calore e la forza che emanava dalle sue mani. Quando le dita di lui sfiorarono le sue, lei provò un brivido su tutto il braccio. «Dove ha preso queste sigarette?» chiese lei. «Le ho comperate ieri a King's Lynn», rispose lui tranquillo. Lei si era completamente scordata di chiedergli se era lui l'uomo che aveva visto in quel caffè. La sera prima avevano cucinato e mangiato insieme e poi erano rimasti seduti in cucina a giocare con Kim. L'atmosfera era stata così allegra e rilassata che Virginia non si era più ricordata di quanto fosse stata perplessa e costernata. Adesso le tornò in mente. «Ieri l'ho vista in un caffè in città», disse, «e sono rimasta molto sorpresa. Non mi aveva detto che...» Lui sorrise. «Non sapevo di doverla tenere informata dei miei spostamenti.» Lei tirò una frettolosa boccata di sigaretta. «Non deve farlo, naturalmente. È solo che... che mi ha sorpreso.» «Mi annoiavo», spiegò Nathan, «e ho deciso di sedermi un paio d'ore in un caffè a leggere un giornale. Di tanto in tanto lo faccio volentieri, sa.» «È parecchia strada senza macchina.» «Mi piace camminare.» «Anche sotto la pioggia battente?» «La pioggia non mi è mai stata d'ostacolo.» Si accese a sua volta una sigaretta, poi aggiunse distrattamente: «Adesso vado in camera mia a lavorare un po'». «A scrivere?» «È il mio lavoro. E temo di dover ricominciare a pensare a come guadagnarmi da vivere.» «Che cosa sta scrivendo?»
«Descrivo un viaggio intorno al mondo.» «Ma...» «Credo che inizierò con un naufragio. A volte il corso dei viaggi intorno al mondo segue rotte... imprevedibili.» «Ma non potrà proseguire il viaggio, adesso.» Lui guardò oltre di lei. «Non come avevo previsto, no. Sarà un viaggio diverso - molto diverso.» «Magari un giorno leggerò il suo libro», disse Virginia. «Magari.» Finirono di fumare in silenzio. Il fumo caldo aleggiava per la cucina. Sentivano Kim che giocava di fuori. Gli alberi oltre la finestra sembravano sfiorare il muro della casa. Credo che farò abbattere qualche albero, pensò Virginia. Dev'essere bello poter vedere il cielo. E un attimo dopo: non voglio andare a Londra. Non voglio! «L'ho sentito mezz'ora fa alla radio», disse Grace. «È spaventoso!» Era nella sua accogliente cucina con le tendine a fiori e il vecchio divano nell'angolo dove dormiva il grosso gatto. Dappertutto alle pareti erano sparsi rametti di lavanda essiccata e sulle mensole dipinte di bianco troneggiava l'impressionante collezione di tazze con le insegne della famiglia reale. Il principe di Galles sorrideva proprio accanto a sua madre, la regina, e a lato si trovava un ritratto infantile del principe William all'età di tre anni. Dovevano essere una cinquantina di tazze. Tutti i giorni Grace le spolverava amorevolmente, un compito ingrato che suscitava in Virginia sempre una muta ammirazione. Di Jack si vedevano soltanto le gambe. Era sdraiato sotto il vecchio lavandino, per metà nascosto dalla tendina appesa all'acquaio. Imprecava sottovoce. «Non so proprio che cosa continui a buttarci, Grace», disse con voce soffocata. «Tutte le settimane mi ritrovo qui sotto a svitare questo maledetto scarico, solo perché tu lo intasi di continuo.» Il lavandino era pieno fino all'orlo d'acqua saponata. «Le tubature sono troppo vecchie», replicò Grace. «Non mi fido quasi più a lavare i piatti. C'è sempre qualcosa che rimane incastrato e alla fine lo scarico si ottura del tutto.» «Grace ha detto che posso restare da loro, mamma», disse Kim, accovacciata davanti al divano a guardare il gatto addormentato.
«Non ci sono problemi davvero, Grace?» chiese Virginia. «Sarebbe soltanto da giovedì a sabato.» «Ma non c'è nemmeno da chiederlo», disse Grace. «Sa bene quanto piaccia a me e a Jack avere qui la piccola.» Jack emise un brontolio di approvazione. Virginia abbassò la voce. «Dopo quello che mi ha appena raccontato, Grace, preferirei che non perdesse mai di vista Kim. Non deve allontanarsi troppo nemmeno qui nel parco.» Grace lo aveva sentito alla radio una mezz'ora prima: la bambina scomparsa, Rachel Cunningham, era stata trovata morta nelle immediate vicinanze del parco del castello di Sandringham. Assassinata. La polizia non aveva ancora riferito se ci fosse stata violenza sessuale. «Pensano si tratti dello stesso maniaco di Sarah Alby?» chiese Virginia. Continuava a parlare a voce bassa, anche se Kim aveva cominciato a grattare la pancia al gatto che faceva le fusa ed era completamente assorbita. «Sono ancora molto cauti», disse Grace, «ma due bambine di King's Lynn nel giro di pochi giorni... dà da pensare. Se anche Rachel Cunningham ha subito violenza, credo anch'io che ci sia in giro da queste parti un maniaco assassino!» «Sarah Alby aveva quattro anni. Rachel Cunningham otto.» «E allora? Sono solo quattro anni di differenza. Se un tipo così depravato è attratto dai bambini, non gli fa certo differenza che abbiano qualche anno in più o in meno.» Probabilmente ha ragione lei, pensò Virginia. Kim aveva sette anni. Sapeva che Grace e Jack l'avrebbero protetta come la luce dei loro occhi, ma non erano più giovanissimi e Kim era di una vivacità dirompente. Era abituata a girare per l'immenso parco, ad arrampicarsi sugli alberi, a dare da mangiare agli scoiattoli e a costruire nascondigli segreti per le sue bambole nel fitto della vegetazione. Il parco era circondato da un muro che non era assolutamente adatto a impedire a qualcuno di scavalcarlo. Bastava che Kim si allontanasse di pochi passi dalla portineria e incontrasse qualcuno che voleva farle del male senza che Grace e Jack si accorgessero di niente. E proprio in un momento simile sua madre voleva andare a Londra. No, non voleva andarci. Al contrario, si sentiva quasi male tutte le volte che ci pensava. Doveva telefonare a Frederic? Raccontargli del secondo omicidio e pregarlo di rinunciare alla sua presenza? Lui non avrebbe capito. Proprio perché, come lei, conosceva la coppia dei domestici. Perché sa-
peva che nemmeno la moglie si sarebbe potuta occupare di Kim con la sollecitudine di quelle due persone. Grace parve intuire i pensieri di Virginia e le posò una mano sul braccio per tranquillizzarla. «Non si preoccupi, Mrs. Quentin. Io e Jack impediremo che la piccola si possa trovare in una situazione di pericolo. Non la perderemo mai di vista, può starne certa.» Jack si rialzò faticosamente da sotto il lavandino. «Sul serio, Mrs. Quentin. Ha mai avuto motivo di lamentarsi di noi? Lo sa Dio se vogliamo che accada qualcosa! Sa che le dico, se un tipo del genere si mostrasse in giro qui nel parco, gli sparo una scarica di pallini nel didietro. Poi gli taglio il...» «Jack, basta!» lo interruppe frettolosamente Grace. «C'è la bambina!» Jack borbottò qualcosa di incomprensibile, prese una chiave inglese e tornò a infilarsi nell'oscurità dietro la tendina. Kim accarezzava il gatto. Grace si immaginava rubiconda e sicura in mezzo ai volti sorridenti della famiglia reale. Quella cucina era l'emblema della serenità. Virginia sapeva di non doversi preoccupare per Kim. E non avrebbe trovato nessun motivo valido per cancellare il suo viaggio a Londra. Giovedì, 31 agosto, alle 16.15, Frederic sarebbe andato a prenderla alla stazione di King's Cross. D'un tratto le venne una gran voglia di piangere, così travolgente che salutò frettolosamente i Walker, prese per mano Kim e uscì dalla casa quasi correndo. Voleva tornare nella sua cucina, che i fitti rami degli alberi proteggevano dalla luce e dalla vita ostile che ne stava fuori. Mercoledì, 30 agosto 1 Liz Alby si chiedeva se fosse stato un errore darsi malata. Il dottore, che conosceva la sua storia, non aveva fatto difficoltà. «Ha bisogno di tempo per rielaborare questa tragica vicenda», aveva detto, «e ritengo del tutto ragionevole che non torni al lavoro per il momento. Tuttavia la esorto a non restare troppo tempo a casa a rimuginare. Ha bisogno di un aiuto specialistico.» Le aveva dato un elenco di nomi e indirizzi di terapeuti specializzati in
parte nell'assistere le vittime e i parenti di atti delittuosi e in parte i genitori che avevano perso i figli. La madre di Liz aveva riso sprezzante, quando Liz le aveva confidato che aveva intenzione di entrare in terapia. «Vuoi andare da uno strizzacervelli? Non fanno altro che sputare merda e poi pretendono anche un sacco di soldi! Sul serio, Liz, non avrei mai creduto che fossi tanto stupida.» «Ma forse mi possono aiutare, mamma. Continuo a sognare Sarah. E a pensare», si sentì salire le lacrime agli occhi, «e a pensare perché non le ho permesso di andare sulla giostra!» Betsy Alby aveva sospirato in maniera teatrale. «Santissimo iddio, piantala con quella stupida giostra! Credi che non sarebbe morta se avesse fatto tre giri su uno stupido cavallino?» Non lo so, avrebbe voluto rispondere Liz, ma non era riuscita a dire più niente, perché le lacrime erano sgorgate inarrestabili. Piangeva sempre, quando pensava alla giostra. Al fatto di non aver esaudito l'ultimo desiderio di Sarah. Stranamente si sentiva in colpa più per quello che per aver lasciato la figlia da sola tanto a lungo per andare al chiosco. La madre non le offriva nessun conforto, del resto lei non se l'era neppure aspettato. In ogni caso il terribile omicidio della nipote non aveva lasciato del tutto indifferente Betsy Alby. Ma la donna, amareggiata dalla vita, cercava di superare il trauma a modo suo: bevendo ancora di più e tenendo accesa la tele ventiquattr'ore al giorno. A volte Liz si svegliava alle tre di notte e si rendeva conto che la madre era ancora, o di nuovo, davanti allo schermo. Prima non era così. Almeno durante la notte, Betsy dormiva profondamente, russando piano. Liz e la sua raccapricciante vicenda erano state su tutti i giornali tanto da farle guadagnare una certa notorietà che le permise di ottenere senza problemi un appuntamento da due dei terapeuti dell'elenco. Dal primo studio uscì letteralmente di corsa, dopo che lo psicologo, un giovane idealista, continuava a insistere sul rapporto distorto tra Liz e suo padre, sebbene Liz non avesse ricordi del padre, né avesse l'impressione che il suo fugace rapporto con lui fosse degno di essere analizzato. Nel secondo studio, fu fatta sedere su un divano, poi le fu detto di abbracciare il terapeuta e di urlare con quanto fiato aveva in gola. La cosa le risultava estremamente difficile e il terapeuta parve trovare la cosa preoccupante, ma Liz non poteva forzare la propria indole e non aveva nessuna voglia di esercitarsi nell'urlo primordiale tutte le settimane per mesi, mentre si aggrappava a un uomo che aveva l'alito acido e non era mai soddisfatto di lei. Appallottolò l'elenco e
lo gettò nel cestino. Ma poi accadde ciò che il medico aveva predetto. Si ritrovò seduta in casa a rimuginare. La vista della madre se non altro bastò a impedirle di rifugiarsi nell'alcol o di farsi intontire dalla televisione per sfuggire alla disperazione, ma anche guardare fuori dalla finestra e ripercorrere le immagini della breve vita di Sarah non le erano certo d'aiuto. Sarah appena nata, un fagottino caldo che si abbandonava fiduciosa tra le braccia della madre in preda a un pianto continuo. Sarah che faceva i suoi primi passi barcollanti. Sarah che diceva le prime parole, che gridava «mamm... ma», quando cadeva correndo nel parco giochi. E la mamma che poi... già, che la consolava molto di rado. Che era nervosa, che la sgridava. Che in fondo aveva odiato ogni secondo di tempo che la bambina le rubava da se stessa. E che solo adesso si rendeva conto che tra lei e la figlia si era stabilito un legame più forte e profondo di quanto immaginasse. Le mancava. Sarah le mancava in ogni momento delle sue lunghe, lunghissime giornate. Se almeno potessi parlare con qualcuno, pensava Liz, parlare e basta. Di quello che è stato e dei molti errori che ho commesso. Quella mattina, mentre rifletteva se non fosse il caso di riprendere il suo posto alla cassa della drogheria per trovare una distrazione, le venne in mente un'altra idea. Il giorno prima aveva ascoltato piena di raccapriccio la notizia dell'omicidio della piccola Rachel Cunningham di King's Lynn e quella mattina aveva letto la notizia sui giornali che era uscita subito a comperare. Per quel pomeriggio era stata indetta una conferenza stampa della polizia, ma già adesso la stampa speculava sulle analogie con il caso di Sarah Alby. Non era stato ancora confermato che si trattasse di un delitto a sfondo sessuale, ma i giornalisti sembravano già darlo per scontato. Chi sarà la prossima vittima? Titolava un giornale, mentre un altro si chiedeva: I nostri bambini sono al sicuro? Dappertutto era riprodotta la foto della piccola Rachel. Una ragazzina graziosa dai lunghi capelli e il sorriso aperto. La madre di Rachel sa perfettamente come ci si sente, pensò Liz. Se potessi parlare con lei... Quel pensiero si radicò dentro di lei. Sapeva che era troppo presto mettersi in contatto con Mrs. Cunningham, che aveva appreso dell'omicidio della figlia solo ventiquattr'ore prima, ma temeva che in seguito non sarebbe stato più possibile. Sui Cunningham si sarebbe scatenato l'interesse dei media e presto o tardi nessuno di loro avrebbe più risposto al telefono, op-
pure avrebbero addirittura cambiato numero. Prese l'elenco telefonico e si chiuse in camera della sua bambina morta. Betsy era seduta davanti al televisore e comunque non si rendeva conto di niente. Liz sfogliò l'elenco. C'erano diversi Cunningham, ma dai giornali sapeva che il padre di Rachel si chiamava Robert. Trovò un R. Cunningham e un Cunningham Robert. Provò quest'ultimo. Aveva le mani gelate. Posso sempre riagganciare in ogni momento, pensò. Il telefono squillò piuttosto a lungo e Liz stava per riattaccare, quando sentì una voce maschile all'altro capo del filo. «Pronto?» Era una voce molto bassa, cauta e riservata. «Mr. Cunningham?» «Chi parla?» «Sono Liz Alby.» Fece una pausa, per permettergli di capire con chi stava parlando. «Oh», disse infine. «Mrs. Alby...» Lei raccolse tutto il proprio coraggio. «Lei è il padre di... Rachel Cunningham?» Lui non aveva ancora superato del tutto la propria diffidenza. «Lei è veramente Liz Alby? Oppure è una giornalista?» «No, no, sono proprio Liz Alby. Volevo... volevo esprimervi la mia vicinanza. Mi spiace tanto per vostra figlia.» «Grazie», disse lui. «So quello che prova. Probabilmente non l'aiuterà saperlo, certo, ma ci tenevo a dirglielo ugualmente.» La voce di lui era indicibilmente stanca. «Mi aiuta, Mrs. Alby, in un certo senso aiuta.» «Si resta così sgomenti. E non si riesce a fare più niente. A me almeno succede così. Non riesco a fare niente per tutto il giorno.» «Anche noi siamo sgomenti», disse Robert Cunningham. Dopo una breve pausa aggiunse: «Mia moglie sta molto male. Deve prendere dei calmanti forti che a volte la stordiscono del tutto». «È spaventoso.» Liz pensò che forse si sarebbe augurata lo stesso anche per sé. Era più pietoso che aggrapparsi a un terapeuta e mettersi a urlare. «Volevo dirle anche... ecco, nel caso lei o sua moglie voleste parlare... voglio dire, con qualcuno che ha subito la vostra stessa esperienza... io sarei sempre disponibile. Potete telefonarmi quando volete.» «È molto gentile da parte sua, Mrs. Alby. Al momento tuttavia mia moglie non è proprio in grado di parlare, ma forse, più avanti...»
«Vuole segnarsi il mio numero?» «Volentieri.» Lo sentì frugare e strusciare. «Ecco, mi dica.» Lei gli diede il suo numero di telefono, poi gli ripeté quanto l'addolorasse la loro perdita ed ebbe l'impressione che lui avesse la voce incrinata quando la salutò. Dopo aver riappeso, Liz rimase a fissare l'apparecchio. Provava sincera pietà per i Cunningham, ma almeno loro erano in due. Potevano aggrapparsi l'uno all'altra. Era ancora peggio non avere nessuno. Soltanto una madre alcolizzata e un ex che aveva sempre giudicato la figlia avuta insieme solo un peso minaccioso. Non c'era nessuno che l'abbracciasse. Nessuno sulla cui spalla potesse piangere. Rimase seduta a guardare il telefono muto, si augurò disperatamente che suonasse, ma sapeva che molto probabilmente non sarebbe accaduto. La giornata si apriva davanti a lei grigia e interminabile. Come grigia e interminabile le appariva la vita. 2 Frederic Quentin ritornò nel suo appartamento nel tardo pomeriggio. Aveva trascorso la mattinata in ufficio a colloquio con alcuni importanti clienti, poi era stato a pranzo con un deputato e quindi aveva avuto un colloquio a quattr'occhi con una personalità di spicco del partito conservatore. Era stanco, ma tutto si era svolto in maniera soddisfacente. Sembrava proprio che la fortuna fosse dalla sua in quel periodo. Qualunque cosa affrontasse funzionava, e per quanto riguardava la sua carriera politica, incontrava sempre persone e occasioni nuove e promettenti. Aveva la sensazione che tutto andasse alla perfezione. Si trovava nel posto giusto al momento giusto con le intenzioni giuste e conosceva le persone giuste. In realtà non credeva al destino, ma doveva esserci qualcosa, perché in quel periodo sembrava che tutto e tutti ruotassero intorno al suo progetto di farsi eleggere alla Camera per il collegio di Norfolk. Guardò l'ora, erano soltanto le cinque e mezzo e di solito non beveva mai alcolici prima delle sei, ma decise di fare un'eccezione quel giorno. Dopo tutto doveva festeggiare. Per quanto la fortuna girasse dalla sua parte, infatti, non aveva quasi osato sperare che arrivasse fino al punto di mandargli addirittura Virginia a Londra. Da quando il mattino precedente lei lo aveva informato per telefono che lo avrebbe accompagnato al rice-
vimento di venerdì, lui passava dall'euforia all'angoscia che lei potesse cambiare idea. Lui l'aveva richiamata il martedì sera e anche quella mattina presto. Non per incalzarla, ma per tranquillizzarsi. Aveva parlato del tempo, di Kim, un pochino di politica. Aveva tralasciato il tema Nathan Moor, per quanto gli stesse a cuore, dato che aveva l'impressione che Virginia non condividesse le sue preoccupazioni e si sentisse aggredita. Lui trovava quanto mai irritante e assurdo che quello strano naufrago abitasse già da cinque giorni a Ferndale, da solo con Virginia, visto che Kim aveva trascorso due notti fuori, e la sfortunata Livia era ricoverata in ospedale. Non aveva temuto che tra Nathan Moor e Virginia potesse sbocciare qualcosa in grado di minacciare il suo matrimonio, perché nutriva una profonda e salda fiducia nella moglie e non riusciva proprio a immaginare che lei volesse andarsene da lui e da Kim. Ma non sopportava quell'individuo, gli era stato antipatico fin dal primo istante. Non si fidava di lui, aveva avuto subito l'impressione che di ciò che raccontava almeno due terzi fossero esagerazioni. E quanto stava succedendo adesso sembrava confermare i suoi sospetti. Il tipo si era attaccato a Virginia come una sanguisuga, l'aveva persino seguita a Norfolk, probabilmente aveva scovato il loro indirizzo da qualche parte e si era di nuovo annidato in casa loro. Forse si faceva cucinare e servire da lei e spendeva un sacco di soldi. Le aveva raccontato una storia sulla moglie malata e sicuramente aveva di nuovo un sacco di scuse pronte per giustificare il suo mancato ritorno in Germania. Restava la domanda sul perché l'intelligente Virginia si lasciasse sfruttare in quel modo. Poteva solo supporre che fosse interiormente più sola di quanto trapelasse all'esterno. Ferndale House con la sua atmosfera tetra non era il posto adatto per una giovane donna con un marito molto spesso assente. Ma era stata lei a volerci andare. Aveva affermato di riuscire a vivere soltanto lì e da nessun'altra parte. Lo aveva costretto a seguirla lì. Aveva sostenuto di essersi innamorata a prima vista di quella casa e di aver trovato irresistibile soprattutto la sua cupezza. Che cosa avrebbe potuto obiettare lui? Con quale motivazione avrebbe potuto rifiutarle quel desiderio? È naturale che sia contenta se un parassita come quel Moor si è installato da lei, pensò Frederic, almeno così ha un po' di compagnia. A tale riguardo il prossimo venerdì poteva rappresentare un ottimo inizio. Se fosse riuscita a riscuotersi e magari a trovare piacevoli attività co-
me la festa in programma, forse in futuro sarebbe andata a Londra più spesso. E la cosa non poteva che farle bene, Frederic ne era convinto. Al telefono perciò parlavano del più e del meno, e solo alla fine della chiacchierata lui le ripeteva immancabilmente: «Sono tanto felice che tu venga qui». «Anch'io», rispondeva lei. Non sembrava mai del tutto convinta, ma pareva pronta a impegnarsi con tutta la sua buona volontà per trovare qualcosa di piacevole nell'imminente evento. Poi lei gli aveva raccontato che un'altra bambina di King's Lynn era stata trovata uccisa. «È già la seconda, Frederic! Comincio a chiedermi se sia saggio lasciare Kim da sola proprio adesso!» Lui era stato assalito da una paura folle. «Virginia, per quanto sia terribile, capita dappertutto che vengano uccisi dei bambini. Non dovresti più andare via, se dessi retta a tutto quello che succede.» «Ma non capita sempre che vengano uccisi dei bambini nella nostra regione.» «Sai quanto i Walker siano affezionati alla nostra Kim. Sicuramente non la perderanno di vista neppure un istante.» «Ma non sono più giovanissimi, e...» «Non sono neppure due vegliardi. Virginia, per la crescita di Kim non va bene che sua madre le stia appiccicata come un'ombra. Vuoi farne una persona dipendente, insicura e introversa, che non riesce a fare un passo senza la mamma?» La sentì sospirare. «Ti sembra tanto irragionevole che mi preoccupi?» gli chiese lei. «No, ma in questo caso le tue angosce sono infondate. Credimi.» «Verrò, Frederic», disse lei piano. «Te l'ho promesso.» Gli sarebbe piaciuto che lei dimostrasse un pochino più di entusiasmo, ma, per come stavano le cose, doveva accontentarsi che almeno fosse pronta a immolarsi per lui. Si versò uno sherry e girò per l'appartamento con il bicchiere in mano. Domani a quell'ora Virginia sarebbe già stata lì. Si sarebbero seduti insieme sul divano, a bere qualcosa, e avrebbero pensato a come passare la serata. Sperava che lei gli comunicasse di essersi decisa a mandare al diavolo Nathan Moor, e poi avrebbe indossato un abito meraviglioso e sarebbero andati a mangiare e poi a ballare. Si era tenuto libero tutta la serata apposta per lei.
Osservò la foto incorniciata del loro matrimonio, sistemata sulla libreria. Lui era raggiante di gioia in quel ritratto. Virginia aveva la sua solita aria un po' malinconica, ma si era sforzata di sorridere. Non sembrava infelice, questo no. Ma non dava nemmeno l'impressione di essere al colmo della felicità per aver sposato l'uomo che amava. Anche il giorno del matrimonio, Virginia era rimasta quella di sempre: né triste né allegra. Bensì a suo modo immune da tutto ciò che le accadeva intorno. Rinchiusa in se stessa, rivolta verso l'interno. Questa sua caratteristica gli aveva dato non poco da pensare anche in passato, ma era stato proprio questo aspetto della sua indole ad attirarlo così tanto verso di lei in principio. La ragazza silenziosa, pensierosa, assente... Chi lo conosceva non lo avrebbe mai giudicato una persona timida, ma lui sapeva di esserlo nei confronti delle donne. Se erano troppo chiassose, troppo vivaci, civettuole o persino troppo disinibite sessualmente, lui si richiudeva in se stesso, sopraffatto, insicuro. Con Virginia era stato diverso; lei gli era sembrata la risposta al suo più intimo desiderio di tutta una vita. Bella, intelligente, istruita, riservata, avvolta da una malinconia che gli dava la sensazione di essere il suo protettore, la forza che la guidava nella vita. Erano sentimenti antiquati, che lui legava a un rapporto di coppia, a un matrimonio, ma che non gli parevano affatto illegittimi. Era troppo intelligente, tuttavia, per non sapere che tutto aveva un prezzo. Nel caso di Virginia, la sua dolcezza si accompagnava alla paura del mondo, alla sua pressoché totale incapacità di essere la perfetta compagna di un aspirante politico. Sapeva quanto la facesse sentire tesa e infelice doverlo accompagnare venerdì al ricevimento. Lo faceva, perché lo amava. Mentre guardava la sua foto, Frederic fu assalito all'improvviso dal rimorso di aver fatto troppe pressioni su di lei. «Voglio che tu stia bene», disse sottovoce alla foto, e queste parole scaturivano dal profondo del suo essere. «Non voglio costringerti a fare qualcosa che non vuoi!» Il sorriso forzato di lei gli fece capire di colpo con agghiacciante chiarezza di non essere mai riuscito a renderla felice neppure una volta dal giorno del loro matrimonio. 3 Livia Moor non sapeva dove si trovasse e per qualche istante neppure chi fosse, né che cosa ricordasse. Era tutto avvolto dalla nebbia, una massa
grigia irreale e opprimente, che la circondava e dentro la quale respirava ed esisteva, ma non viveva davvero. Sopra di lei un soffitto bianco sporco, accanto a lei pareti dello stesso colore deprimente. Era sdraiata supina su un letto, le sue mani stropicciavano il leggero copriletto. L'odore che la circondava le era sconosciuto, e non le piaceva. Con grande fatica, cercò di capire da che cosa fosse composto. Cera per pavimenti. Disinfettante. Cibo stracotto. Non voglio stare qui, pensò. Poi girò lentamente la testa di lato. Vide un uomo seduto accanto al suo letto. Abbronzato, moro. Portava una T-shirt che gli andava stretta di spalle. La guardava, freddo e distaccato. Lei capì di colpo che era Nathan, suo marito. «Sono Livia Moor», disse sottovoce. Lui si sporse in avanti. «Le prime parole dopo giorni», disse. Livia si rese conto delle due donne che, in vestaglia e pantofole, erano in piedi alle spalle di Nathan e se lo divoravano letteralmente con lo sguardo. Per il resto sembravano decise a non perdersi nemmeno una parola, né un gesto della scena che si svolgeva sotto i loro occhi. A poco a poco, la sua mente cominciò a riempirsi di immagini: lei e Nathan. Una casa con giardino. Persone che giravano per le stanze, sceglievano gli oggetti migliori. E poi la barca. Lanciò una valigia oltre la battagliola, la sentì rimbalzare sul ponte. Si issò a bordo a sua volta, stringendo i denti per impedire che le lacrime le sgorgassero dagli occhi. Nathan, che issava le vele. Il vento gli scompigliava i capelli. La giornata era limpida e fresca. Le onde schiaffeggiavano piano la murata. Le onde. Il mare. Si drizzò a sedere di colpo. «La nostra barca!» Non riconosceva la propria voce. «La nostra barca è affondata!» Nathan annuì. «A nord, davanti alle Ebridi.» «Quando?» «Il 17 agosto.» «Che giorno è oggi?» «Il 30 agosto.» «Allora... è successo...» Lui annuì di nuovo. «Esattamente due settimane fa.» «Dove mi trovo?» chiese lei. «In un ospedale. A King's Lynn.»
«King's Lynn?» «Norfolk. Inghilterra.» «Siamo ancora in Inghilterra?» «Non eri in condizioni di affrontare un lungo viaggio. È stato già tremendo portarti fin qui. Non eri più in te. Scommetto che la gente intorno a noi avrà pensato che mi trascinassi dietro una mezzo morta.» Una mezzo morta... Il suo sguardo vagò per la squallida stanza. Colse le occhiate frustrate e ostili delle due donne in vestaglia. Lei e Nathan stavano parlando in tedesco, probabilmente le due non capivano una parola. Era per questo che avevano l'aria tanto contrariata? «Che cosa mi è successo?» Lui sorrise dolcemente. Lei si ricordò di quel sorriso. Era lo stesso che l'aveva fatta innamorare tanti anni prima. Nel frattempo aveva imparato ad avere paura, tutte le volte che lui glielo rivolgeva. «Hai subito uno shock quando la barca è affondata. Hai rischiato di restare intrappolata dentro. Siamo rimasti per tutta la notte in balia del mare sul canotto di salvataggio. Da allora non sei stata più la stessa.» Cercò di cogliere il significato di quelle parole. «Vuoi dire... intendi... che sono diventata pazza?» «Soffri di una sindrome post-traumatica. Non è lo stesso che essere pazzi. Avevi smesso di bere e di mangiare. Eri disidratata e deliravi. Ti hanno alimentato artificialmente qui in ospedale.» Si lasciò ricadere lentamente sui cuscini. «Voglio tornare a casa, Nathan.» Lui sorrise di nuovo con dolcezza. «Non abbiamo più una casa, cara.» Lo disse con lo stesso tono con cui un altro avrebbe detto: «Non abbiamo più burro in frigorifero, cara». Come di sfuggita, senza dargli la minima importanza. Come se dietro quelle parole non si nascondesse una tragedia. Cercò di impedire che l'agghiacciante verità delle sue parole penetrasse dentro di lei. «Tu dove abiti?» gli chiese. «Dai Quentin. Hanno una casa da queste parti e sono stati tanto gentili da offrirmi ospitalità. Ti ricordi dei Quentin, vero?» I Quentin le tornarono in mente solo in quel momento. La sua mente, la sua memoria lavoravano ancora molto piano. «Virginia», disse a fatica, «sì, mi ricordo. Virginia Quentin è stata molto gentile con me.»
Le aveva portato dei vestiti e li aveva fatti abitare nella sua casa di vacanze. Quella accogliente casetta con il camino di pietra e i mobili di legno... E il grande giardino, spazzato dal vento che piegava l'erba quasi gialla... Livia si vedeva in piedi alla finestra a guardare il mare. Poi il filo si strappò. Tra la piccola finestra con il suo meraviglioso panorama e quella orribile camera di ospedale c'era il nulla. «Posso restare da loro finché non starai meglio e potrai viaggiare», proseguì Nathan. Livia cercò di sfuggire agli sguardi penetranti delle due sconosciute. «Non vorrei rimanere qui», bisbigliò, anche se le due probabilmente non avrebbero comunque capito le sue parole. «È orribile. Quelle due donne non mi sopportano.» «Tesoro, è la prima volta da più di una settimana che riprendi i sensi. Non le conosci nemmeno, come fai a sapere che non ti sopportano?» «Lo sento.» Si sentì salire le lacrime agli occhi. «E c'è un puzzo atroce qui! Ti prego, Nathan, voglio andare via!» Lui le prese la mano. «Il dottore mi ha appena detto che non ti dimetteranno prima di venerdì. Dovremmo dargli retta.» «Venerdì... che giorno è oggi?» «Mercoledì.» «Dopodomani...» «Non manca poi tanto. Ce la puoi fare.» Aveva la sensazione di non poter resistere nemmeno altri dieci minuti lì dentro, ma colse l'implacabile volontà di Nathan. Se conosceva molto bene qualcosa di lui, era la durezza d'acciaio che si nascondeva dietro il suo sorriso. Nathan non sarebbe andato dal medico a dibattere e contrattare per far dimettere la moglie uno o due giorni prima. L'avrebbe lasciata lì il più a lungo possibile. E poi... Disperatamente pensò che non ci sarebbe stato nessun poi. Non possedevano più una casa. Tutto quello che avevano era la barca, che adesso era sul fondo del mare. Non avevano denaro, non avevano niente. Le lacrime le sgorgarono dagli occhi, senza che riuscisse più a frenarle. Sapeva che lui odiava vederla piangere e di sicuro sarebbe diventato molto duro, se fossero stati soli. Ma ora doveva trattenersi. «Sono le conseguenze del grave shock che hai subito», ripeté paziente. «Uno shock diagnosticato e trattato con troppo ritardo. È chiaro che tu adesso ti senta a terra e veda tutto nero. Le cose andranno meglio tra un po',
credimi.» «Ma», la sua voce era solo un sussurro, «dove andremo a stare?» «Possiamo restare dai Quentin per un po'.» «Ma non per sempre!» «Certo, non per sempre.» La sua voce tradiva una nota d'impazienza. Era contrariato. Non voleva parlare dell'argomento. «Troveremo una soluzione.» «E quale sarebbe?» insistette lei. Lui si alzò. Non voleva più parlarle. Il peggio per lei era che lui poteva andarsene in qualunque momento. E lei sarebbe dovuta rimanere lì da sola. «Nathan, non potresti restare...» Lui le toccò la mano. Fu un gesto tutt'altro che affettuoso. «Tesoro, mi sono fatto prestare l'auto da Virginia Quentin. Devo restituirgliela.» «Solo un paio di minuti, per favore!» «E inoltre ho parcheggiato in divieto di sosta. Se non mi sbrigo, rischio di prendere una multa e non ho...» Sorrise, di nuovo, giovane e affascinante. Oh, lei sapeva bene come riusciva a fare sciogliere le donne con quel sorriso. «E al momento non abbiamo i soldi per pagarla!» concluse. Lei non ci trovava niente di comico. Prima si sarebbe sforzata di sorridere, giusto per farlo contento, ma adesso si sentiva troppo male e troppo sfinita. «Torni domani?» gli chiese. «Certo. Tu dormi ancora un po', va bene? Devi riguardarti i nervi e il riposo è molto importante.» E l'amore, pensò lei guardandolo allontanarsi. Aveva il viso ancora rigato di lacrime e le due donne continuavano a fissarla. Si girò e tornò a fissare il soffitto. Nessuna casa, nessuna casa, le martellava in testa, con un ritmo terribile e minaccioso. Nessuna casa, nessunacasanessunacasanessunacasa... 4 Janie avrebbe volentieri pianto per tutto il giorno. Il lunedì precedente era rimasta nella cartoleria fino alle cinque, ma lo sconosciuto non si era fatto vedere. Era stata rimproverata aspramente dal cartolaio, perché aveva toccato i biglietti d'invito, anche se era stata molto attenta, non aveva rotto niente né lasciato macchie d'unto. Il negozio era stato pieno di persone in cerca di riparo dal temporale. Pioveva davvero a catinelle e l'unica speran-
za di Janie era che l'uomo, visto quel tempaccio, non avesse avuto voglia di uscire di casa. Forse aveva creduto che non sarebbe venuta neppure lei. Ma ovviamente era anche possibile che fosse arrabbiato con lei, perché la settimana prima non si era fatta vedere. Dopo tutto era lei a volere qualcosa da lui, e non il contrario. Quando, verso le cinque, continuava a stare davanti allo scaffale dei biglietti con le lacrime agli occhi, il cartolaio era esploso. «Senti un po', signorina, adesso ne ho abbastanza», disse in collera. «Non sono una sala giochi gratuita per bambini, che non sanno come passare il tempo. O compri qualcosa oppure sparisci. E subito!» Si era portata tutti i suoi soldi. Visto che non riceveva molto - e saltuariamente, solo quando alla mamma avanzava qualche soldo ed era dell'umore giusto, entrambe situazioni assai rare - possedeva in tutto una sterlina giusta giusta, sufficiente per comprare cinque biglietti. Ma lei voleva invitare almeno quindici amiche. D'altro canto, sembrava del tutto insensato comperare anche un solo invito, dato che lo sconosciuto benefattore non si era più fatto vedere e quindi non ci sarebbe stata proprio nessuna festa. Questo pensiero le aveva fatto tornare le lacrime agli occhi, mentre il cartolaio aveva tutta l'aria di volerla sbattere fuori sotto la pioggia personalmente. Senza rifletterci più a lungo, mormorò: «Vorrei cinque biglietti, per favore». A casa aveva nascosto gli inviti in fondo al cassetto della scrivania, ma continuava a tirarli fuori per guardarli. La tentazione che le aveva offerto lo sconosciuto era troppo grande, non poteva ancora rinunciare alla speranza che il suo sogno si avverasse. Anche il martedì era tornata al negozio, perché forse era stata davvero colpa della pioggia se l'uomo non si era fatto vedere. Stavolta aveva indugiato sul marciapiede davanti alla cartoleria, perché non voleva suscitare di nuovo le ire del negoziante. E poi non aveva nemmeno un penny in tasca. Quel giorno, mercoledì, ci era andata di nuovo, anche stavolta invano. A questo punto non le restava che sperare nel lunedì successivo. Sarebbe stato il 4 settembre. Due settimane appena al suo compleanno. Persino sua madre, in genere immersa nei propri cupi pensieri, quella sera a cena si accorse che la figlia aveva qualcosa di strano. «Che cosa c'è?» le chiese. «Sei tetra come tre giorni di pioggia!» «Non lo so nemmeno io...» «Sei malata?» Doris Brown posò la mano sulla fronte della figlia. «Febbre non ne hai», constatò.
Janie trasalì; la mamma non doveva pensare per nessun motivo che fosse malata, altrimenti non le avrebbe più permesso di uscire di casa. «No, sto bene», dichiarò, «sono solo triste perché la settimana prossima finiscono le vacanze.» «Ma va', hai bighellonato fin troppo a lungo! È ora che torni a scuola. Altrimenti ti vengono in mente strane idee.» «Mhm», fece Janie, sbocconcellando svogliatamente il suo panino. La mamma era brava a preparare i panini, ci metteva prosciutto, cetriolini e maionese, e di solito Janie li mangiava volentieri. Ma quel giorno l'appetito le era passato del tutto. Valutò l'ipotesi di azzardare una richiesta. «Tra poco è il mio compleanno», disse. «Lo so», rispose Doris, «e, se vuoi uscirtene con qualche assurdo desiderio, ti dico subito: toglitelo dalla testa! Non abbiamo i soldi.» «Oh... veramente non ho nessun desiderio», si affrettò a rispondere Janie. La madre alzò le sopracciglia. «Questa sì che sarebbe una novità!» «Ecco, veramente un desiderio ce l'avrei, ma non è proprio un regalo... cioè, non è una cosa che si compra in un negozio.» «Sono molto curiosa.» «Mi piacerebbe molto fare una festa, mamma. Invitare i miei amici e...» La madre non la lasciò proseguire. «Di nuovo! Ne avevamo parlato già l'anno scorso. E anche quello prima!» «Lo so, ma... quest'anno il mio compleanno è di domenica. Non dovresti prendere un giorno di ferie... e potremmo preparare tutto il sabato pomeriggio, e...» «E, secondo te, questo regalo non costa niente? Se inviti un sacco di bambini e bisogna dargli da mangiare?» «Potremmo preparare la torta in casa.» «Janie!» Per un attimo Doris reclinò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. Janie vide le sottili venuzze azzurre sulle tempie della madre pulsare piano. Sopra le orecchie i capelli biondi erano già striati di bianco, sebbene la mamma fosse ancora giovane. Aveva l'aria così stanca e sfinita, che Janie di colpo ebbe l'assoluta certezza: non sarebbe servito a niente. Poteva pregare e implorare quanto voleva. La mamma non lo avrebbe permesso. Forse la mamma non ne aveva le forze. Doris aprì di nuovo gli occhi e guardò la figlia. Di colpo sembrava meno irritata e spazientita del solito. La sua espressione aveva addirittura qualcosa di tenero.
«Janie, mi spiace», disse piano. «Mi spiace davvero. Il tuo compleanno è una giornata molto speciale, anche per me. Ma non ce la faccio. Sono troppo stanca.» Aveva l'aria così triste e abbattuta, che Janie si affrettò a tranquillizzarla. «Non importa, mamma. Davvero, non è tanto grave.» Doris tornò a posare gli occhi sul suo panino. La conversazione non si era svolta a favore di Janie, eppure le aveva dato un filo di speranza. La tristezza della mamma le aveva dato l'impressione che soffrisse davvero di non poter esaudire l'ardente desiderio della figlia. E questo a sua volta significava forse che non avrebbe avuto niente in contrario se Janie organizzava una festa nel giardino dello sconosciuto. Poteva fare felice la figlia senza dover attingere a energie che non aveva. A questo punto diventava ancora più importante trovare il misterioso benefattore. Per tutta la sera Janie si arrovellò alla ricerca di un modo per incontrarlo di nuovo. Giovedì, 31 agosto 1 Per un attimo aveva accarezzato l'idea di presentarsi alla stazione con una rosa rossa. Di solito non aveva velleità romantiche, ma sentiva la necessità di dimostrare a Virginia quanto fosse felice del suo arrivo. E quanto apprezzasse lo sforzo che aveva fatto su se stessa per sostenerlo in quel momento. Ma poi aveva deciso di no, perché alla sua età e dopo nove anni di matrimonio si sarebbe sentito un po' stupido, e anche perché temeva che lei considerasse quel gesto insincero o calcolato. Forse era meglio presentarsi nel modo più normale possibile. Del resto sarebbe stato più rassicurante per lei se lui non avesse dato troppa rilevanza all'intera faccenda. Se si comportava come se tutto fosse perfettamente normale. Ciononostante arrivò alla stazione di King's Cross con mezz'ora d'anticipo. Gli sarebbe piaciuto che ci fosse stato il sole a mondare Londra di una luce calda e accogliente, ma agosto si congedava in grigio, e anche settembre sarebbe iniziato con la stessa tonalità. Il cielo era coperto di nuvole, che ogni tanto si aprivano lasciando occhieggiare uno squarcio d'azzurro. Ma se non altro non pioveva. Dato che mancava molto tempo all'arrivo del treno, andò a bere un caffè
e si divertì a osservare le persone che gli passavano davanti. Le stazioni gli piacevano. E gli aeroporti. Gli piacevano tutti i luoghi che simboleggiavano un cambiamento, che emanavano un senso di movimento, di frenesia. Tutti concetti che trovava molto adatti alla sua attuale fase esistenziale. Anche lui era in procinto di cambiare, voleva andare avanti, andare oltre. Non era sempre stato così. Per molti anni aveva creduto che gli bastasse gestire la banca ereditata, conservare le ricchezze di famiglia e fare scelte il più possibile oculate per accrescerla. Quando aveva sposato Virginia e poi quando era nata Kim, aveva creduto che la famiglia fosse il centro della sua esistenza, più importante di tutte le possibilità di affermazione professionale. L'irrequietezza l'aveva assalito in seguito, quando Kim aveva all'incirca tre anni e la vita con moglie e figlia era diventata già una routine, ormai del tutto priva di qualsiasi alone di meraviglia. D'un tratto si era sentito invadere quasi dalla malinconia, all'idea che la sua vita futura fosse fatta di giornate passate in banca, a parlare con clienti noiosi, oppure a organizzare feste dove tutti si ubriacavano a sue spese. Doveva adulare i ricchi, e non aveva mai la sensazione di muovere davvero qualcosa, né nella sua vita né nel proprio paese. Faceva ciò che avevano fatto i suoi antenati, ma senza godere della consapevolezza di aver creato qualcosa di suo pugno. La banca era stata fondata dal suo bisnonno. Suo nonno e suo padre l'avevano notevolmente ingrandita. Lui stesso si limitava a tenere insieme ciò che altri avevano seminato. Già da studente aveva frequentato il partito conservatore, si era creato alcuni ottimi contatti, che poi aveva trascurato per lungo tempo. Quando era cominciata la fase dell'inquietudine - anche tra sé si riferiva a quel periodo chiamandolo così, la fase dell'inquietudine - aveva ricominciato dapprima a riallacciare lentamente le antiche conoscenze. Non sapeva se avesse avuto in mente una carriera politica fin dal principio. Probabilmente sì. Forse l'idea di sedere in Parlamento e contribuire fattivamente al destino del proprio paese era sempre stata, sopita, dentro di lui. Guardò l'ora. Mancavano dieci minuti all'arrivo del treno. Il caffè l'aveva finito da parecchio. Lasciò un paio di monete sul tavolino del bistrò accanto alla tazza vuota e si avviò lentamente verso il binario. Era stato proprio in una stazione che era avvenuto il suo primo incontro con Virginia. Non a King's Cross, ma a Liverpool Street. Entrambi aspettavano il treno per Cambridgeshire e Norfolk. Lui era diretto a King's Lynn, perché l'amministratore della tenuta di campagna, Jack Walker, lo aveva chiamato due giorni prima. Un violento temporale aveva danneggia-
to gravemente il tetto della casa padronale, Jack non poteva ripararlo da solo e voleva consultarsi con il padrone di casa a causa del costo abbastanza elevato dei lavori. Frederic aveva sbuffato, era dicembre, e come al solito il suo calendario fino al nuovo anno era fitto di impegni tanto da scoppiare. Ma si rendeva conto di non poter lasciare a un impiegato una decisione relativa a somme tanto ingenti. Mentre era alla stazione, infreddolito, le mani gelate affondate nelle tasche del cappotto, aveva pensato seriamente se non sarebbe stato il caso di vendere Ferndale House. Lui non ci sarebbe mai andato a vivere, non ci passava neppure le vacanze tra quelle mura austere. Era soltanto una palla al piede, un pozzo senza fondo di spese, ecco che cos'era Ferndale per lui. Finora era stata solo la sua lealtà verso gli antenati, per i quali la casa era stata una specie di punto di incontro per la famiglia, a impedirgli di prendere la decisione definitiva. Virginia aspettava a pochi passi da lui. Una giovane bionda, molto esile e pallida, avvolta in un cappotto nero in cui si rifugiava come sotto una coperta. Era rimasto affascinato dalla tristezza del suo viso. Si era sorpreso a guardarla ripetutamente e avrebbe voluto offrirle il proprio cappotto, visto che sembrava intirizzita. All'arrivo del treno l'aveva seguita come per caso nello stesso scompartimento e le si era seduto di fronte. Non riusciva a distogliere gli occhi da lei e si era giudicato invadente, stupido e persino un po' disperato. Lei aveva subito tirato fuori un libro dalla tasca e si era immersa nella lettura e lui era rimasto a fissare la copertina, arrovellandosi su come intavolare un dialogo con lei. Quando alla fine lei aveva alzato gli occhi per guardare fuori dal finestrino il paesaggio dell'Essex coperto di rugiada, sulle cui dolci colline andavano già posandosi le prime ombre della sera, lui ci aveva provato. «Libro stupendo», disse come di sfuggita, «l'ho letto anch'io.» Non era vero. Non conosceva né il titolo né l'autore. La giovane lo aveva guardato sorpresa. «Ah sì?» «Sì... più o meno un anno fa...» Aveva scelto apposta un intervallo di tempo abbastanza ampio per poter essere scusato nel caso fosse scaturita una discussione e lui avesse mostrato incertezze sui particolari della trama. Lei aggrottò la fronte. «Non è possibile. Questo libro è stato appena pubblicato...» Lui si sarebbe schiaffeggiato. «Davvero?» Lei lo sfogliò fino alla pagina del frontespizio. «Sì. In ottobre. Un paio di mesi fa.»
«Mhm.» Lui finse di esaminare ancora una volta il titolo. «Allora devo essermi sbagliato», riconobbe, dandosi dell'idiota. «Non conosco questo libro.» Lei non aveva replicato, tornando a concentrarsi nella lettura. Aveva rovinato tutto, ma a quel punto, visto che non aveva più niente da perdere, fu spronato da una sfacciataggine che non gli era propria. «Non mi sono sbagliato», disse. «Lo sapevo fin dall'inizio che non conoscevo quel libro.» Lei alzò lo sguardo. Appariva un po' innervosita. «Eh?» «Volevo attaccare bottone con lei. E ho trovato un modo proprio sciocco di farlo.» Sorrise impacciato. «Frederic Quentin.» «Virginia Delaney.» Se non altro si era presentata. Avrebbe potuto girare la testa senza rispondergli. Dunque non tutto era perduto. Si erano sposati nel settembre dell'anno successivo, due settimane dopo la morte della principessa del Galles in un pauroso incidente stradale a Parigi. Ricordava ancora che tutti gli invitati al matrimonio non avevano fatto altro che parlare di quell'avvenimento, come se tutti i presenti trovassero più emozionante il lutto della famiglia reale rispetto al fatto che due persone si giuravano amore eterno. Ma non ci era rimasto male. Era stato così felice che non se la sarebbe presa neppure se nessuno si fosse presentato alla cerimonia. Guardò l'ora. Il treno doveva arrivare da un momento all'altro. Controllò ancora una volta di essere al binario giusto. Constatò di avere un po' di batticuore, come quella buia sera di dicembre. Sapeva che dopo nove anni di matrimonio il suo amore per Virginia era immutato come il primo giorno, anzi forse era persino cresciuto. Non vedeva l'ora di poterla stringere tra le braccia. 2 Venti minuti dopo era del tutto spaesato. Il treno era arrivato spaccando il minuto, schiere di viaggiatori erano scese dalle porte aperte. Visto che Frederic non sapeva su quale carrozza si trovasse Virginia, si era messo in un punto da cui aveva la visuale più completa; non gli sarebbe stato possibile non vederla. Aspettò e aspettò. Forse era su una delle ultime carrozze e doveva arrancare piena di bagagli. Le sarebbe andato incontro volentieri, ma non osava farlo, per non correre
il rischio di incrociarla senza vederla. Intanto cercava di raggiungerla sul cellulare, ma doveva averlo spento, oppure non lo sentiva. Gli rispose la segreteria telefonica: Virginia Quentin. Lasciate un messaggio e... Quando il marciapiede si fu svuotato abbastanza da non fargli più temere di passarle accanto senza vederla nella ressa, si avviò lungo il treno. Non scendeva più nessuno, e anche le persone in attesa erano andate via quasi tutte. C'erano ancora alcune persone che si salutavano, due giovani turisti controllavano i loro numerosi bagagli, una signora anziana consultava faticosamente la pianta della città, che probabilmente non riusciva a interpretare. Un inserviente radunava i carrelli per i bagagli sparsi in giro. Di Virginia nemmeno l'ombra. Frederic accelerò l'andatura, cercò di guardare dentro attraverso i finestrini. Forse si era addormentata e non si era accorta dell'arrivo? Oppure era così concentrata nella lettura, da essersi isolata completamente dal mondo che la circondava? Che cosa era successo? Dov'era Virginia? Arrivo alle 16.15, gli aveva detto, ne era sicurissimo. A King's Cross, anche di questo era certo. Si era annotato le indicazioni su un foglietto e le aveva chiesto di riconfermargliele. La paura che cominciò ad agitarsi dentro di lui non era nuova, non era scaturita in quell'istante. L'aveva portata con sé per tutto il tempo, da quando Virginia gli aveva promesso di raggiungerlo a Londra. Conosceva fin troppo bene la moglie. Sapeva bene quanto nervosismo le avesse procurato il fatto di accettare la proposta. Probabilmente la notte prima non aveva chiuso occhio, fino all'ultimo istante aveva continuato a pensare di tirarsi indietro. Non gli aveva detto niente, ma lui sapeva che era tormentata dalle sue paure. Possibile che non avesse preso il treno a King's Lynn? In ogni caso era evidente che a Londra non era scesa. Ormai non c'erano più dubbi che non si trovasse da nessuna parte sul marciapiede. Lui non poteva non averla vista, era impossibile che gli fosse passata davanti senza che lui se ne accorgesse. Il treno era ripartito. Si stavano già radunando i viaggiatori del convoglio successivo. Continuò a provare a telefonarle sul cellulare, ma le sue chiamate erano sempre deviate sulla segreteria. Alla fine lasciò un messaggio. «Virginia, sono io, Frederic. Sono alla stazione di King's Cross. Sono le cinque meno venti. Dove sei? Chiamami, per favore!»
Se fosse stata per davvero da qualche parte alla stazione, e non riusciva a trovarlo, l'avrebbe chiamato. O perlomeno avrebbe acceso il cellulare. Era assurdo. Lei non c'era. Dopo un attimo di esitazione, compose il numero di Ferndale. Era molto titubante, proprio per paura che lei gli rispondesse. Significava che aveva cambiato idea, che non sarebbe andata da lui. Ma anche lì, dopo sei squilli, scattò la segreteria telefonica. Frederic non lasciò nessun messaggio sul nastro. Non voleva rinfacciarle di essere rimasta a casa. Tornò al bistrò, ordinò un altro caffè. Dal suo tavolino aveva un'ottima visuale su tutta la stazione e non smise neppure un attimo di scrutare attentamente la folla che gli passava davanti. Anche se non credeva più che lei fosse lì in mezzo. Altrimenti si sarebbe già messa in contatto telefonico con lui. A meno che non avesse lasciato per sbaglio il suo telefonino a casa. Ma era un'ipotesi poco plausibile, dato che il cellulare rappresentava una possibilità di contatto con Kim. E poi lui non credeva a tante coincidenze tutte insieme. Prima non si incontravano, cosa già assai improbabile, e poi veniva fuori che lei si era anche dimenticata il cellulare... No. Era tutto molto più semplice: era rimasta a casa e non aveva risposto perché immaginava che si trattasse del marito che cercava di raggiungerla. Una parte di lui continuava a sperare. Non si trattava più della cena in programma per la sera successiva. Era la sua delusione personale. Gli faceva molto male essere lasciato in asso da lei. Dopo aver bevuto il caffè, cercò un tabellone con gli orari degli arrivi e scoprì che il treno successivo da King's Lynn era previsto per le 17.50. Senza farsi troppe speranze, decise di aspettare anche quello. Tanto erano ormai già le cinque passate. Alle cinque e mezzo, tuttavia, non riuscì più a resistere e telefonò ai Walker. Aveva scartato a lungo questa possibilità, perché non voleva rivelare alla coppia di guardiani di essere stato trattato in quel modo dalla moglie. Ma Grace e Jack erano le uniche persone in grado di dargli una spiegazione e alla fine l'apprensione ebbe il sopravvento sull'orgoglio. Jack rispose al terzo squillo. «Ferndale House», disse come sempre, al posto del proprio nome. Frederic sapeva che era molto orgoglioso di poter lavorare in una casa tanto antica. «Jack, sono Frederic Quentin. Sono alla stazione di King's Cross a Londra e...» rise imbarazzato, chiedendosi subito dopo perché peggiorasse ancora le cose con quella risata, «e aspetto invano mia moglie. Non era sul treno concordato. E...»
«Non c'era?» chiese Jack sorpreso. «No. E volevo chiederle... mi aveva detto che avrebbe portato Kim da voi. L'ha fatto?» «Sì. Oggi a mezzogiorno. Come d'accordo.» Questa informazione se non altro calmò in parte l'ansia di Frederic. Fino a un certo punto Virginia era stata decisa a recarsi per davvero a Londra. «L'ha portata lei alla stazione?» si informò. «Non ha voluto.» La voce di Jack tradiva una traccia di offesa. «Ovviamente mi ero offerto di farlo. Ma ha preferito prendere la sua macchina e lasciarla alla stazione. Sinceramente non la trovo un'idea tanto ragionevole. Ma...» Non concluse la frase. Frederic se lo immaginò che scrollava le spalle con aria offesa. La cosa, tuttavia, era strana anche per lui. Sebbene non del tutto straordinaria. Di sicuro Virginia era molto nervosa. Forse non aveva voglia di ascoltare uno degli inevitabili monologhi politici di Jack, che rivelavano una visione del mondo alquanto ristretta, difficili da accettare senza ribattere. Anche a Frederic a volte era capitato di inalberarsi. «Vorrei parlare con Kim», disse. «È fuori con Grace. A raccogliere lamponi. Provo a vedere se sono nelle vicinanze.» Frederic riconobbe il rumore della cornetta che veniva posata e dei passi di Jack che si allontanavano. Una porta cigolò. Udì da lontano la voce di Jack che chiamava alternativamente Grace e Kim. Poi uno scalpiccio affrettato e la voce trepidante di Kim. «È papà al telefono?» Subito dopo la ragazzina afferrò la cornetta: «Papà! Abbiamo raccolto un sacco di lamponi! Sono grandissimi e dolcissimi!» «Che bello, tesoro mio.» «Torni presto? Così ti farò vedere dove crescono. Ce ne sono ancora tantissimi!» «Tornerò presto», promise lui. Poi aggiunse: «Dimmi una cosa, la mamma ti ha detto che sarebbe venuta a Londra da me, giusto?» «Sì. E che tornerete insieme sabato.» «Mhm, per caso non ti ha accennato di aver cambiato idea?» «No. Ma dov'è la mamma?» In sottofondo, Frederic udì le voci di Jack e Grace. «Che cosa significa?» stava chiedendo Grace. «Non è ancora arrivata a Londra?» «Significa quel che significa», brontolò Jack. «Avrà preso il treno sba-
gliato. Io volevo accompagnarla alla stazione, ma lei, nossignore! Se la cava benissimo da sola!» «Dov'è la mamma?» insistette Kim. «Forse ha preso il treno sbagliato», rispose lui, approfittando della scusa inventata da Jack, anche se non ci credeva. «Non devi preoccuparti. La mamma è grande. Sa badare a se stessa. Cambierà treno e arriverà a Londra da me.» «Posso restare ancora da Grace e Jack?» «Ma certo. Stammi a sentire», gli venne in mente ancora una cosa: «che fine ha fatto... come si chiamava? Che fine ha fatto Nathan Moor?» «È così simpatico, papi. Ieri mi ha portato a fare una passeggiata. E mi ha insegnato come lasciare una traccia per ritrovare la via del ritorno. Bisogna...» «Non ora, tesoro, me lo racconti un'altra volta. La mamma lo ha portato da qualche altra parte oggi? In un'altra casa o alla stazione?» «No», rispose Kim perplessa. Lui sospirò. Se Kim si trovava con i Walker dall'ora di pranzo, non poteva sapere dove si fosse trasferito Nathan Moor. O, meglio, dove fosse stato trasferito. Di certo non aveva avuto la decenza di andarsene da solo. Grace doveva aver preso la cornetta di mano a Kim, perché ora Frederic sentì la sua voce: «Mr. Quentin... signore... la cosa non mi piace. Vuole che faccia un salto a casa per controllare? Voglio dire, per vedere se la signora è partita veramente. Forse...» «Sì?» «Ecco, magari è caduta, o si è fatta male e non è in grado di avvisarci!» Una simile eventualità non gli era venuta in mente. Di certo era ragionevole lasciare che Grace andasse a dare un'occhiata. Rifletté brevemente se fosse possibile che Virginia avesse permesso all'odioso Nathan Moor di continuare a restare a casa loro e se non fosse il caso di avvisare Grace che avrebbe potuto imbattersi in uno sconosciuto al piano di sopra, ma preferì non dirle niente. Era probabile che fino a quel momento i Walker non sapessero niente della presenza del tedesco e neppure Kim ne aveva fatto parola; gli sembrava meglio che continuassero a restarne all'oscuro. «D'accordo, Grace, è molto gentile da parte sua. Poi mi richiama sul cellulare?» Si fece passare di nuovo Kim, la salutò e chiuse la comunicazione. Erano quasi le sei meno un quarto. Mancavano dieci minuti all'arrivo del treno successivo. Ma perché era convinto che Virginia non fosse nemmeno a bordo di quello?
E la domanda successiva: Se non fosse arrivata e se Grace non l'avesse trovata a casa, che cosa avrebbe dovuto fare? Avvisare la polizia? Il treno entrò in stazione con venti minuti di ritardo. Mentre Frederic osservava attentamente la folla di passeggeri sul marciapiede, Grace gli ritelefonò. «Non c'è nessuno in casa, signore», riferì Grace, «e manca anche l'auto. A quanto pare la signora sembrerebbe proprio partita. Era tutto chiuso, porte e finestre, anche le imposte erano accostate.» Questa notizia gli provocò uno strano miscuglio di sollievo e preoccupazione. Sollievo, perché Virginia doveva essere effettivamente partita, perché aveva mantenuto fede alla promessa fatta - o almeno ne aveva avuto l'intenzione. Perché era chiaro che qualcosa era andato storto. Non era neppure su quel treno. Non si faceva sentire. Era sparita senza lasciare traccia. L'ansia cominciò a superare il sollievo. Che cosa era successo? E quale ruolo, pensò di colpo, aveva Nathan Moor nella sparizione di Virginia? Alle nove di sera non ce la fece più. Aveva aspettato un terzo treno da King's Lynn e alla fine era tornato dalla stazione direttamente a casa, nella vaga speranza che nel frattempo Virginia fosse arrivata lì in qualche avventurosa maniera, ma naturalmente era tutto vuoto e silenzioso. Sul tavolo accanto alla finestra due calici, in frigorifero la bottiglia di champagne che aveva pensato di bere in segno di benvenuto. Aveva persino cambiato tutte le candele nei candelieri della stanza e messo a portata di mano l'accendino. Che inguaribile romantico era. Avrebbe dovuto immaginare che non avrebbe funzionato. Adesso non te la prendere con lei, si ammonì severo, non puoi sapere in quale intoppo potrebbe trovarsi Virginia in questo momento! Le telefonò ripetutamente sul cellulare, anche se ormai gli era chiaro che lei non voleva o non poteva rispondere. Ma lui doveva fare qualcosa e al momento non gli veniva in mente nient'altro. Lasciò altri due messaggi nella casella vocale. Era l'unica, minuscola possibilità di stabilire una specie di contatto con lei. Doveva andare alla polizia? A quanto ne sapeva, doveva passare un certo lasso di tempo dalla scomparsa di una persona prima che la polizia intervenisse. Ventiquattr'ore? Oppure di più? Non lo sapeva con precisione. Virginia era irraggiungibile solo da cinque ore, prendendo come punto di
partenza l'ora di arrivo del suo treno da King's Lynn. Di sicuro nessun agente si sarebbe mosso per quella sera. Alla fine si rese conto che sarebbe impazzito, se fosse rimasto da solo nell'appartamento fino al mattino successivo. Ovviamente sarebbe stato sensato restare ad aspettare a Londra, ma per qualche motivo lui era convinto che Virginia non fosse affatto arrivata nella capitale. Dov'era stata vista per l'ultima volta? A Ferndale, a mezzogiorno, quando aveva lasciato Kim dai Walker. E lui voleva tornare proprio lì. Perché lì era stata sicuramente nove ore prima. Tutto il resto erano soltanto speculazioni e supposizioni. Telefonò ai Walker, parlò di nuovo con Jack e lo informò del suo imminente arrivo. «Non vuole che venga a prenderla domattina, signore?» domandò Jack. «Non ha l'auto e...» «No. Non voglio aspettare qui tanto a lungo. Prendo un'auto a noleggio. Se Mrs. Quentin si mette in contatto con voi, le dica per favore che sarò a casa intorno a mezzanotte.» «D'accordo, signore», rispose Jack. Frederic aveva deciso di raggiungere in metropolitana l'aeroporto di Stansted e di noleggiare lì una vettura. L'aeroporto, situato a nordest di Londra, era un ottimo punto di partenza per dirigersi verso Norfolk e inoltre avrebbe evitato di dover attraversare la città, dove il traffico era intenso anche a tarda ora. La stazione del metrò era proprio sotto casa sua. Era meglio fare qualcosa. Poco dopo le dieci era seduto al volante diretto verso la M11 direzione Norfolk. Il traffico era ancora abbastanza sostenuto, ma allontanandosi dalla città si diluì gradualmente. Guidava superando il limite di velocità e, quando se ne accorgeva, rallentava, ma subito dopo si rendeva conto di aver schiacciato di nuovo l'acceleratore. Era in preda a una tremenda agitazione. Non riusciva a trovare nessuna spiegazione logica per la sparizione di Virginia. Sarebbe dovuta salire in pieno giorno su un qualunque treno pieno di gente per scendere, sempre di giorno, in una stazione nel centro di Londra. Dove poteva essere successo qualcosa, santo cielo? Aveva chiuso a chiave la casa, consegnato la figlia ai custodi. Era chiaro che aveva avuto l'intenzione di partire. L'unico punto interrogativo restava il tragitto fino a King's Lynn e alla stazione. Era assai probabile che non ci fosse mai arrivata. Se fosse accaduto un incidente, i Walker sarebbero stati informati già da tempo.
I pensieri di Frederic si concentravano sempre più vorticosamente intorno a Nathan Moor. Supponeva che fosse stato in auto con Virginia. Altrimenti, come avrebbe potuto raggiungere la città da Ferndale? Probabilmente gli aveva dato un passaggio fino all'ospedale dov'era ricoverata la moglie. Ci era arrivato? Il mattino successivo, per prima cosa, sarebbe andato a trovare Livia Moor. Forse poteva suggerirgli dove si trovava il marito. E se invece non avesse saputo dirgli niente? Frederic si vantava di capire bene l'animo umano e una cosa gli era stata chiara quell'ultimo giorno di vacanza nella sua casa a Dunvegan trascorso insieme ai Moor: Nathan Moor non provava assolutamente niente per la moglie. Qualunque cosa lo avesse spinto un giorno a sposare Livia ormai non contava più e lei gli era del tutto indifferente. Frederic era sicurissimo che l'avesse fatta ricoverare nella clinica di King's Lynn esclusivamente per potersi riavvicinare a Virginia. E a tale proposito era stato anche aiutato dalla fortuna, perché l'aveva trovata da sola, mentre il marito era in viaggio. Che cosa voleva da lei? Forse gli interessavano solo i soldi. Da quando aveva bussato per la prima volta alla porta della casa di Skye, non aveva fatto altro che scroccare soldi. Frederic non osava immaginare che cifra avesse estorto a Virginia negli ultimi giorni. L'autore di best seller! Che per motivi imperscrutabili non possedeva più nemmeno un euro sul suo conto in Germania. Alla fine magari aveva avuto di mira soltanto l'auto. Forse si trovava in fuga chissà dove. Ma che ne aveva fatto di Virginia? Come se ne era sbarazzato? Frederic prese a pugni il volante, accelerò di nuovo, anche se andava già troppo veloce. Che stupido era stato! Avrebbe dovuto fare una scenata, quando aveva saputo che Nathan Moor si era installato a Ferndale. In fondo tutti i campanelli d'allarme nella sua testa si erano messi a suonare a distesa. Ricordava la rabbia che gli era montata quando l'aveva saputo. E come, in un angolino del suo animo, avesse provato una vaga paura legata alla sua antipatia verso Moor, alla intensa diffidenza che aveva sentito nei suoi confronti fin dal primo istante. Ma certo - aveva per la testa cose più importanti. Doveva essere sincero con se stesso: la sua mente era occupata interamente dalla cena del venerdì successivo. Dal problema di come convincere Virginia ad accompagnarlo. Non aveva voluto rischiare di inimicarsela proprio in quel momento con
una discussione su Nathan Moor. Aveva scacciato quella stupida sensazione, la voce che lo metteva in guardia, l'indignazione, le aveva soffocate a tal punto da non percepirle più. Si era concentrato completamente sul venerdì. Su Virginia che doveva andare a Londra. Sulla loro serata insieme. Che, se tutto fosse andato bene, avrebbe dovuto dare l'avvio ad altre attività insieme per il bene della sua carriera politica. Che idiota era stato. Tutto preso dai suoi impegni del momento. Per questo ora sfrecciava in quella notte buia e nuvolosa. Poteva considerarsi fortunato, se la polizia non lo beccava. E non aveva idea di che cosa stava per accadergli. Venerdì, 1° settembre 1 Era passata da poco la mezzanotte quando Frederic imboccò il viale d'ingresso a Ferndale House. La strada serpeggiante era illuminata dai lampioni. Frederic scorgeva gli alberi frondosi. Era come avanzare in un fitto bosco. Scese dall'auto con le membra anchilosate e tirò fuori la chiave di casa. Disinserì l'allarme, poi aprì la porta di casa. Nell'ingresso aleggiava una traccia del profumo di Virginia. Proveniva dai cappotti e dalle sciarpe appese nel guardaroba. Per un attimo Frederic affondò il viso in una morbida giacca di mohair. Era così calda e consolante. «Dove sei?» mormorò. «Dove sei?» Accese le luci, andò in cucina. Il rubinetto del lavandino gocciolava, lui lo strinse distrattamente. La cucina era in perfetto ordine, tutte le superfici da lavoro e anche il tavolo da pranzo erano pulite. Le piante alla finestra soprattutto aromi - erano state innaffiate di fresco: i sottovasi erano pieni d'acqua fino all'orlo. Passò in salotto, prese un bicchiere dalla credenza e la bottiglia di whisky dal mobile bar e si versò un doppio Chivas. Lo trangugiò in un sorso. L'alcol gli bruciò in gola, per un attimo si diffuse dentro di lui un piacevole calore. Si servì di nuovo. In genere non aveva l'abitudine di affogare i problemi nell'alcol, ma al momento aveva la sensazione di aver bisogno di qualcosa per non impazzire del tutto. Attraversò la casa con il bicchiere in mano. Era tutto come al solito, nessun indizio lasciava supporre che a Virginia fosse successo qualcosa. In
camera da letto i letti erano rifatti. Aprì l'armadio, ma aveva troppo poca dimestichezza con il guardaroba della moglie per poter dire se mancava qualcosa e che cosa. Si accorse soltanto che la valigetta rossa da viaggio era sparita dal suo solito posto tra l'armadio e il muro. Virginia aveva fatto i bagagli. Era uscita di casa con una valigia. Dopo una breve esitazione, entrò nella camera degli ospiti. Nathan Moor doveva aver alloggiato lì. Ma anche quella stanza non rivelava niente. Il letto era fatto, l'armadio vuoto. Non c'era niente che si collegasse alla presenza di Moor. E anche se trovassi un vecchio calzino, pensò stancamente, non mi servirebbe a niente. Uscì dalla camera, tornò in camera da letto e si spogliò con gesti lenti. Nello specchio dell'armadio vide un uomo stanco, dall'aria grigia e spenta. Negli occhi c'erano paura e turbamento. Era un'espressione che non si conosceva. Non era mai né impaurito né turbato, erano emozioni che in genere non albergavano nel suo animo. Ma del resto non si era mai trovato in una situazione del genere. Non c'era mai stato niente che gli avesse serrato la gola come la sparizione di Virginia. Non si era mai sentito tanto destabilizzato. Si infilò l'accappatoio blu. Era impossibile mettersi a dormire, non avrebbe chiuso occhio. Voleva andare da Livia Moor appena possibile. Prima però doveva telefonare alla sua segretaria a Londra; c'erano da disdire diversi appuntamenti fissati per la mattina, mentre altri potevano essere gestiti dai suoi collaboratori. Non sapeva che ne sarebbe stato della famosa cena, che probabilmente era stata il punto di partenza degli attuali problemi. Naturalmente avrebbe avuto tutto il tempo di tornare a Londra nel pomeriggio e di partecipare alla serata, trovando una scusa qualsiasi per l'assenza di Virginia. Ma ci sarebbe riuscito, visto che ancora non aveva avuto notizie della moglie? Non gli pareva plausibile. In preda all'ansia, scese nuovamente in salotto e accese la piccola luce alla finestra. Sul divano erano sparsi alcuni giornali dei giorni precedenti. Il primo era quello del giorno prima. Lo prese. I titoli in prima pagina parlavano degli omicidi delle due bambine. Che cosa pensa di fare la polizia? si chiedeva il giornalista, il quale poi avanzava l'ipotesi che tutt'e due i delitti fossero opera dello stesso individuo. Entrambe le bambine, Sarah Alby di quattro anni e Rachel Cunningham di otto, erano di King's Lynn. Entrambe erano sparite in pieno giorno, senza che nessuno si accorgesse di niente. Entrambe erano state violentate e poi strangolate. I loro corpi erano
stati lasciati in luoghi appartati ma facilmente raggiungibili in macchina. La popolazione era profondamente turbata, i genitori non lasciavano più i bambini a giocare da soli per strada e si erano già creati gruppi di sorveglianza, che si assicuravano di non perdere mai di vista i bambini nel tragitto fino alla scuola. A gran voce si chiedeva l'istituzione di una commissione speciale che si concentrasse sulle indagini relative ai due efferati delitti. Frederic sapeva che le commissioni speciali pesavano sul già magro bilancio della polizia, ma anche lui riteneva che in un caso del genere non si potesse aspettare oltre. Aveva un fiuto politico abbastanza sviluppato da riconoscere quanto fosse adatto alla campagna politica un tema scottante ed emotivamente coinvolgente come quello. Peccato che al momento avesse altre preoccupazioni. Per distrarsi, si immerse nella lettura dei giornali, scorrendoli dalla prima all'ultima pagina, soffermandosi persino sullo sport, che di solito non lo interessava granché. Quando le prime luci grigie dell'alba filtrarono dalle tende, reclinò la testa all'indietro e si addormentò, sfinito. 2 La sua mente era tornata lucida e vigile, ma Livia non sapeva se accogliere positivamente questo cambiamento. In realtà avrebbe preferito non ricordare così bene. Davanti agli occhi rivedeva in continuazione la scena di quando Nathan l'aveva spinta oltre il bordo del Dandelion; sopra di lei, il cielo notturno, sotto di lei le onde buie. Nathan che gridava: «Presto, salta giù dalla barca!» Aveva avuto la sensazione di tuffarsi nella morte. L'acqua non le era mai piaciuta molto, il mare nemmeno e le imbarcazioni per niente. Aveva sempre avuto una paura folle di annegare. Non riusciva a vedere neppure i film sui naufragi. E, per qualche motivo, non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di aver guardato la morte in faccia, di essere stata abbracciata da lei. Sapeva di essere viva. Lo sapeva da quando era riuscita ad arrampicarsi sul canotto di salvataggio, liberandosi dalle grinfie nere e implacabili delle onde impetuose. Da quando era comparso il peschereccio che li aveva presi a bordo. Da quando aveva sentito di nuovo la terraferma sotto i piedi a Portree, avvolta in una coperta di lana, in mano una bottiglia d'acqua minerale datale chissà da chi. Lo sapeva anche adesso, di essere viva. Ma non riusciva a scacciare dalla mente il pensiero della morte. Era sempre lì, accanto a lei.
Sotto forma di gorghi neri e vorticosi. Quella mattina presto il dottore era stato da lei e le aveva spiegato che sarebbe stata dimessa in giornata. «Fisicamente si è ripresa», le aveva detto, «e così il nostro compito è finito. Non possiamo fare altro per lei. Ma deve assolutamente sottoporsi a una terapia psicologica. Con uno shock del genere c'è poco da scherzare.» Aveva fatto colazione a letto, senza riuscire a mandare giù più di due sorsi di caffè e un cucchiaino di marmellata. Le sue compagne di camera avevano tentato di coinvolgerla in una conversazione, ma lei aveva finto di non capire bene l'inglese e di parlarlo ancora peggio, e loro alla fine avevano desistito. Non ce la faceva più a restare in quella camera. Si alzò, arrivò al bagno con le ginocchia che le tremavano, guardò allo specchio l'immagine spettrale, pallida e smunta. Dimessa! Per il dottore era facile dirlo. Doveva aspettare l'arrivo di Nathan e, visto che il giorno prima non si era fatto vedere, in lei cresceva la paura che non comparisse neppure quel giorno. E allora si sarebbe ritrovata senza un letto, senza un soldo e senza sapere dove andare. In balia delle occhiate sprezzanti delle altre due ricoverate, che di sicuro avevano già intuito che c'era qualcosa che non andava nel suo matrimonio. Si lavò frettolosamente. Aveva i capelli tutti unti, ma non aveva con sé lo shampoo, e in fondo i capelli sporchi erano l'ultimo dei suoi problemi. Tornò in camera, tirò fuori le sue cose dall'armadietto. O, meglio, le cose di Virginia Quentin, si corresse. Lei non possedeva più niente a questo mondo. Assolutamente niente. I jeans e il maglione che qualche settimana prima le stavano bene erano diventati troppo grandi. Doveva aver perso molti chili. I calzoni le scendevano in maniera preoccupante sui fianchi ossuti e il pullover sarebbe bastato tranquillamente per due persone. Doveva avere l'aspetto di uno spaventapasseri. Uno spaventapasseri tutto ossa, si corresse. Il ricordo di Virginia Quentin, tuttavia, le aveva fatto venire l'idea di cercare il numero di telefono della sua benefattrice e di mettersi in contatto con lei. Solo così avrebbe potuto avere notizie di Nathan. Era suo dovere occuparsi di lei. Sperava con tutto il cuore che il numero dei Quentin fosse nell'elenco. Infilò i suoi pochi averi nella sacca di tela che Nathan aveva ficcato nell'armadietto quando l'aveva portata lì. A tale proposito, continuava ad avere la stessa lacuna nel ricordo delle ultime due settimane: non sapeva che cosa fosse successo a Skye, né che cosa avesse indotto Nathan a farla
ricoverare. Nella sua mente non c'erano immagini neppure del viaggio fino a Norfolk, né dell'arrivo in ospedale. Il suo fisico smagrito, tuttavia, dimostrava che per Nathan a un certo punto era diventato necessario portarla in una clinica. Il pensiero che non l'avesse fatto solo spinto dal desiderio di trovare un facile modo per liberarsi di lei la consolava. Mormorò un saluto verso le compagne di stanza che però non le risposero, e uscì in corridoio. Nella stanza delle infermiere rimasero tutti stupiti dal fatto che volesse andarsene così presto e così in fretta, ma lei dichiarò che il marito l'aspettava già all'ingresso. Pensò con sollievo a quanto avesse fatto bene a insistere per stipulare un'assicurazione contro la malattia prima della loro partenza dalla Germania. Se non altro i costi per la degenza non erano un problema. L'ingresso a quell'ora del mattino era deserto. Il bar non era ancora aperto. Il giornalaio stava giusto aprendo il chiosco e sistemando i giornali appena arrivati. Sbadigliando a bocca spalancata, non dava l'idea di essere molto entusiasta della giornata che l'attendeva. Un vecchio con la vestaglia barcollava aggrappato al suo treppiede davanti alle vetrine di alcuni negozi, lo sguardo fisso sulla merce esposta senza dimostrare alcun interesse per ciò che vedeva. L'opprimente atmosfera ospedaliera, che Livia pensava di essersi lasciata alle spalle uscendo dalla sua camera, tornò ad assalirla con impeto travolgente. Lei conosceva fin troppo bene la sua inclinazione alla depressione. Doveva uscire da lì il prima possibile. In un angolo notò un telefono pubblico e accanto c'erano anche degli elenchi piuttosto malconci. Posò la borsa e prese il primo. Si sentiva ancora debole, ogni minimo movimento la faceva sudare. Era stata sdraiata troppo tempo e aveva mangiato troppo poco. Le era chiaro che, se Nathan non fosse andato a prenderla, non sarebbe riuscita a fare più di cento metri a piedi. E, comunque, dove sarebbe potuta andare? pensò angosciata. Mentre constatava con sgomento che nella zona di King's Lynn c'erano un sacco di Quentin, con la coda dell'occhio colse un movimento delle porte automatiche che dall'ingresso dell'ospedale conducevano all'esterno. Senza particolare interesse, e quasi per caso, girò la testa. L'uomo che entrò in jeans e pullover, spettinato e con la barba lunga le risultò subito familiare, ma il suo cervello impiegò qualche istante a collegarlo a un nome. Sembrava che tutto in lei funzionasse ancora al rallentatore; i movimenti, il pensiero, persino le emozioni. Ma, quando ricordò, chiuse di scatto l'elen-
co telefonico e cercò di correre dietro l'uomo diretto verso l'ascensore. «Mr. Quentin!» lo chiamò. «Mr. Quentin! Aspetti!» Il malore che la colse fu così forte che dovette aggrapparsi a una delle colonne in mezzo all'atrio per non cadere. «Mr. Quentin!» ripeté con voce roca. Grazie al cielo lui la sentì. Si fermò. Si girò. La guardò. Poi la raggiunse in poche falcate. «Mrs. Moor!» esclamò sorpreso. La fissò. «Mio Dio! Ma...» Si interruppe. Lei sapeva di avere un aspetto pietoso, glielo leggeva negli occhi. «Dov'è suo marito?» le chiese. Lei scrollò il capo. «Non lo so.» Avrebbe voluto parlare a voce più alta, perché si rese conto che Frederic Quentin doveva fare uno sforzo per sentirla, ma si sentiva così esausta da riuscire soltanto a bisbigliare. «Lui... lui... non è a casa vostra? Mi aveva detto... che stava da voi.» «È tutto molto complicato», disse Frederic. Lei gli fu grata che la prendesse sottobraccio, perché era sul punto di cadere a terra. «Mi ascolti, penso che sia meglio se saliamo di sopra e chiamiamo un medico...» «No!» scrollò il capo e ripeté quasi in preda al panico. «No! Voglio andarmene da qui! Il dottore ha detto che posso andare. La prego, mi aiuti a...» «Ok, ok», disse lui conciliante, «era solo una proposta. Allora usciamo dall'ospedale, se proprio vuole. Ha un bagaglio?» Lei indicò verso il telefono, dove aveva lasciato la borsa. «Sì, quella sacca.» Sempre tenendola per un braccio, Quentin andò a recuperare la borsa insieme a lei. «Temo che se la lascio in un bar lei possa svenire», disse. «Sarà meglio andare a Ferndale. È d'accordo? Così potrà sdraiarsi sul divano e magari le darò qualche goccia per la circolazione, se riesco a trovarla. È proprio sicura di poter andare via da qui?» «Sì.» Lei aveva l'impressione che lui non le credesse, ma se non altro non cercò di riportarla di sopra, e si diresse verso l'uscita. «Mio marito non è da voi, allora?» si informò lei. Frederic serrò le labbra in una linea sottile. Livia si rese conto che era arrabbiato, molto arrabbiato. «No», rispose, «non è a casa nostra. E, a essere sincero, speravo che potesse dirmi lei dove trovarlo.»
Un'ora e mezzo dopo, Livia era ancora perplessa. Fisicamente stava meglio, i tremendi giramenti di testa erano passati, il sudore le si era asciugato sulla fronte. Era seduta al tavolo della cucina di Ferndale House e sorseggiava la sua terza tazza di caffè. Frederic le aveva tostato una fetta di pane che lei sbocconcellava a piccoli morsi. Non riusciva a mangiare in fretta, perché le veniva la nausea. Ma si era resa conto di dover mangiare qualcosa per fortificarsi. Frederic non si era seduto e camminava su e giù tenendo in mano la sua tazza di caffè. Le aveva raccontato di aver atteso invano Virginia alla stazione di Londra e di aver deciso di tornare a King's Lynn a tarda notte. La figlia, come d'accordo, si trovava dai portieri e la valigia di Virginia non c'era più. Mancava anche l'auto e lui aveva trovato la casa chiusa a chiave. Ma non c'erano tracce di Nathan Moor che aveva alloggiato lì nei giorni precedenti. «Stamattina ho scambiato due chiacchiere veloci con mia figlia», proseguì, «ma senza scoprire granché. Sua madre le ha detto che sarebbe venuta a Londra da me e che saremmo tornati insieme sabato. Hanno preparato i bagagli insieme, e poi sono andate dai Walker. Nathan Moor ha salutato Kim in salotto, stava guardando una trasmissione sportiva in televisione. A Mrs. Walker mia moglie ha detto soltanto che doveva mettere qualcosa in valigia. Ha declinato l'offerta di Mr. Walker di accompagnarla alla stazione. Tuttavia non ha lasciato trapelare nessun indizio circa il fatto che avesse veramente intenzione di partire per Londra.» Livia deglutì un altro boccone di pane. Le sembrava di avere lo stomaco chiuso. Ogni briciola di cibo doveva aprirsi faticosamente la strada dentro di lei. «Non capisco», disse confusa, «continuo a pensare all'ultima visita di mio marito in ospedale. È stato l'altroieri. Il problema è che stavo ancora molto male. Non sono sicura di aver ascoltato tutto ciò che mi ha detto. Mi ricordo che alla fine ha promesso di tornare il giorno dopo. Ma poi non l'ha fatto.» «Le viene in mente qualcos'altro?» domandò Frederic. Si rendeva conto che lui avrebbe voluto scuoterla, per sbloccare il flusso di ricordi chiuso dentro di lei e che si tratteneva a stento dal farlo. Ha paura, si disse, ha molta paura per Virginia. «Lui... lui ha detto che mi avrebbero dimesso venerdì e io gli ho chiesto dove saremmo andati. Lui ha risposto che per po' saremmo potuti rimanere
qui... a casa vostra.» Non aveva il coraggio di guardarlo. Era così umiliante. Per quanto la sua mente funzionasse lentamente, si era resa conto fin da subito che l'arrivo dei Moor a King's Lynn aveva suscitato in Frederic Quentin tutt'altro che entusiasmo. E il fatto che Nathan Moor si fosse stabilito a casa loro, poi, l'aveva contrariato ancora di più. Era chiaro che si sarebbe volentieri liberato dei Moor già sull'isola di Skye. E che malediceva la generosità della moglie nei confronti di quei due naufraghi nullatenenti. «Si era fatto prestare l'auto di sua moglie», proseguì lei, «ricordo anche questo.» «Ma bene, non si faceva mancare proprio nulla», commentò Frederic cinico. «Mi fa piacere!» Lei posò il pane nel piatto. Non sarebbe più riuscita a mandar giù nemmeno un boccone. «Mi... mi dispiace», bisbigliò. La voce di Frederic assunse una tonalità più benevola. «Lei non c'entra assolutamente niente, Livia», disse, «e le chiedo scusa se sono stato così sgarbato. È solo... sono molto preoccupato. Non è da Virginia scomparire così senza dire niente. Non ha telefonato neppure ai Walker, per parlare con Kim o augurarle la buonanotte. È tutto talmente insolito che io...» Non terminò la frase. Posò la tazza, si avvicinò al tavolo, posò entrambe le braccia sul piano e guardò Livia intensamente. «Devo sapere che uomo è suo marito, Livia», disse, «e la prego di essere sincera. C'è qualcosa che non quadra. A quanto dice è uno scrittore di successo. Eppure non ha un soldo. Siete entrambi cittadini tedeschi. La vostra ambasciata qui in Inghilterra si occuperebbe subito di voi, prima di tutto provvedendo a rimpatriarvi. A suo marito però non viene neppure in mente di rivolgersi alle autorità. Al contrario, si attacca alla mia famiglia come una sanguisuga. Mia moglie fa le valigie per venire a raggiungermi a Londra, compra il biglietto e ora è scomparsa senza lasciare tracce. Insieme a lei sono spariti suo marito Nathan Moor e l'auto. Per amor del cielo, Livia, che cosa sta succedendo?» Lui aveva parlato a voce sempre più alta. Livia trasalì. «Non lo so», rispose con voce rotta. Stentava a trattenere le lacrime. «Non so che cosa stia succedendo. Non so dove sia mio marito.» «Lei è sua moglie. Deve conoscerlo. Deve sapere qualcosa sulla sua vita. Non può essere tanto ignara come si finge ora!» Lei alzò le spalle, come se volesse sprofondare dentro se stessa. «Non so niente», bisbigliò.
Le labbra di Frederic erano sottili e pallide di rabbia. «Non ci credo, Livia. Lei non sa dove si trova ora, questo glielo concedo. Ma può darmi informazioni su di lui. E probabilmente tali da essermi utili per rintracciare mia moglie. Maledizione, mi dirà tutto ciò che sa. Lo deve a Virginia, dopo tutto ciò che ha fatto per lei!» Lei cominciò a tremare. «Lui... lui non è un uomo malvagio. Non farebbe... non farebbe mai del male a Virginia...» Frederic si chinò ancora più in avanti. «Ma?» La voce di lei era un sussurro appena percepibile. «Ma ci sono alcune cose non vere di quello che...» «Che cosa non è vero?» Lei scoppiò a piangere. Era un incubo. E non era cominciato solo con il naufragio del Dandelion. «Non è vero che è uno scrittore. Cioè, veramente scrive, ma... ma finora non ha mai pubblicato niente. Nemmeno... nemmeno una riga.» «Me lo immaginavo. E per tutti questi anni come vi siete mantenuti?» «Ci... aiutava mio padre. Io mi occupavo di lui e in cambio abitavamo con lui e vivevamo della sua pensione. Nathan scriveva, io mi occupavo della casa.» Frederic annuì gravemente. «L'autore di best seller! Ho avuto subito una strana sensazione. Sapevo che c'era qualcosa che non andava in quell'uomo.» «Mio padre è morto l'anno scorso. Ho ereditato la casa, che comunque era gravata da una forte ipoteca. E inoltre era vecchia e in pessime condizioni. Dalla sua vendita non abbiamo ricavato granché, ma sarebbe bastato per tenerci a galla per qualche tempo. Speravo che Nathan nel frattempo avrebbe cercato un lavoro. Che alla fine avrebbe smesso di sperare di essere destinato a diventare un grande scrittore.» «Invece non fu così?» Lei scrollò il capo. Il ricordo del gelo disperato di quel periodo tornò ad assalirla. Le sue suppliche e le sue implorazioni. I suoi tentativi di trovare un lavoro. Nel frattempo, cresceva in lei la consapevolezza che lui voleva andare via. Che non gliene importava niente di garantire a Livia e a se stesso una casa e un'esistenza sicure. «Nathan non ha mai esercitato una professione specifica. Ha studiato varie cose: anglistica, germanistica, storia... ma a che cosa servono nella vita? E comunque non ci ha mai nemmeno provato. E poi gli è tornata in mente l'idea del giro del mondo in barca a vela. Me ne aveva accennato già
parecchi anni fa, ma era sempre stato chiaro che non avrei mai lasciato da solo mio padre. E ora...» «Ha usato il denaro ereditato da lei per comperarsi una barca?» Lei annuì. «Il che significa che non ci è restato praticamente niente. Secondo lui ci saremmo dovuti mantenere con lavoretti occasionali nei diversi porti. Voleva scrivere un libro. Diceva che sarebbe stato un successo. Bastava uscire dal mondo ristretto in cui si trovava. La casa, la città di provincia, mio padre... tutto questo gli aveva tarpato le ali.» «Molto comodo», commentò Frederic cinico. «Non ci vuole niente a incolpare gli altri dei propri fallimenti.» Lei sapeva che aveva ragione - ma le cose erano più complicate. Pensò alla vecchia casa tetra, con le scale scricchiolanti, l'odore di muffa che non andava via, le finestre piene di spifferi, il riscaldamento che non voleva saperne di funzionare proprio nel bel mezzo dell'inverno. Il padre testardo, che con l'età era diventato tanto spilorcio da rifiutarsi di pagare persino le riparazioni più urgenti. Che non permetteva neppure che si tinteggiassero le pareti, per dare un profumo più fresco e colori più chiari alle stanze. Negli ultimi anni la vita con suo padre era stata una tortura. La piccola città, dove tutti si conoscevano, dove fiorivano malignità e pettegolezzi, dove ogni passo, ogni parola di chiunque veniva controllata e commentata, doveva risultare deprimente per una persona venuta da fuori. Lei sarebbe riuscita a sopravvivere. Era cresciuta lì, era abituata a una visione così ristretta. Ciò che Nathan definiva mortale e paralizzante per lei se non altro era familiare. E per quanto avesse sofferto dopo la morte del padre aveva anche capito che Nathan voleva porre un oceano intero tra sé e il luogo dove aveva abitato per dodici anni. Sospirò, disperata, stanca, confusa. «Non abbiamo più niente. Niente. Lei dice che l'ambasciata tedesca ci aiuterebbe a rimpatriare. Ma dove? Non abbiamo una casa, né soldi né un lavoro. Niente, niente, niente! Posso supporre che sia per questo che Nathan si è attaccato tanto alla sua famiglia. Per avere un tetto sulla testa. Perché altrimenti non sa dove andare, nel vero senso della parola.» Frederic si raddrizzò e si passò lentamente la mano tra i capelli. «Che casino», disse, riferendosi sicuramente al fatto che fosse stata proprio Virginia a diventare la vittima di un sognatore fallito su tutta la linea. «Un maledetto casino. Mi piacerebbe proprio sapere che cosa ha in mente suo marito. Di potersi stabilire qui per sempre? Oppure aveva un qualche progetto per superare le vostre attuali difficoltà?»
«Diceva che intentando una causa di risarcimento danni...» Frederic rise. «Non può essere tanto stupido. Con ogni probabilità non scoprirete mai chi vi ha travolto quella notte. E anche se ci riusciste processi del genere possono durare anni. Come pensava di affrontarli suo marito?» Lei alzò gli occhi, fissò Frederic. «Non lo so», disse. «Non lo so. Ero molto malata. Non ricordo quasi nulla degli ultimi giorni. Non so che cosa sia successo in questo periodo. Non so dove sia Nathan. E non so dove sia sua moglie. Le giuro che non ne ho idea. La prego soltanto di non buttarmi per strada. Non saprei dove andare.» Lo sguardo che lui le lanciò non era sprezzante, ma rifletteva un tacito sospiro. Lei chiuse gli occhi per un istante, per staccarsi dalla sensazione di aver toccato il fondo dell'umiliazione. Ma se non altro lui non l'avrebbe cacciata. SECONDA PARTE Venerdì, 1° settembre 1 Viaggiavano già da due ore, quando lei si accorse di avere una gran fame. Al risveglio, nelle prime ore del mattino, fredde e buie, aveva creduto di non poter più mangiare nemmeno un boccone. Le dolevano tutte le ossa del corpo. Aveva il collo rigido; quando cercava di girare la testa, emetteva un lamento. Tutt'intorno a lei regnava una fredda umidità e, nonostante il buio, si era resa conto che il terreno era ammantato da una fitta nebbia. Sono troppo vecchia per dormire in macchina, aveva pensato. Aveva aperto la portiera, si era lasciata scivolare fuori, si era abbassata faticosamente jeans e slip e aveva fatto pipì nell'erba umida sotto i suoi piedi. Era buio e comunque non c'era anima viva in giro. Si trovava sul ciglio di una solitaria strada di campagna, che serpeggiava per il Nord dell'Inghilterra, oltre Newcastle. Non poteva mancare ancora molto al confine scozzese. Ma a un certo punto, la sera prima, erano stati entrambi troppo sfiniti per andare oltre. Virginia avrebbe pernottato volentieri in un bed & breakfast, ma Nathan aveva detto che avrebbero potuto benissimo dormire in macchina. Lei aveva sospettato che gli risultasse imbarazzante
farsi pagare da lei anche il pernottamento. Aveva pagato già la benzina e la cena, comprata in un emporio di un minuscolo villaggio che avevano attraversato. Non ci speravano quasi di trovare qualcosa di commestibile in un posto in mezzo al nulla come quello, e invece avevano mangiato degli ottimi panini. Bevendo acqua minerale, si erano goduti la quiete e la solitudine tutt'intorno a loro, interrotte solo da un paio di pecore incuriosite. Faceva decisamente più fresco che a Norfolk. Virginia aveva tirato fuori dalla valigia un pullover pesante, si era seduta sul cofano della macchina e aveva sbocconcellato il panino, mentre lasciava vagare lo sguardo sul nordico paesaggio circostante, dai tenui colori già decisamente autunnali, che all'orizzonte si fondeva con ammassi di nubi plumbee. Con suo stesso stupore era stata invasa da un senso di pace da tempo a lei estraneo, da una libertà e da un'armonia con se stessa che raggiungevano ogni cellula del suo corpo. Respirò a fondo l'aria fresca e limpida e visse la magia dei momenti in cui l'oscurità si spandeva a poco a poco intorno a lei, spegnendo la luce del giorno. In passato le era capitato altre volte di vivere ore simili a questa, ma gli anni trascorsi gliele avevano fatte dimenticare; ore in cui perdeva la concezione del tempo e diventava parte del tempo presente, senza passato né futuro. Il dissolversi nell'ora. Ricordava le sensazioni vissute durante gli anni di studio con il consumo di hashish. Il lato più affascinante era stato proprio la sensazione di dissolversi nel momento. Ora riusciva a farlo senza l'ausilio di sostanze stupefacenti. Bastavano quella luce trasfigurata e la pace assoluta che la circondava. Nathan l'aveva lasciata da sola, aveva fatto quattro passi per sgranchirsi le gambe. Quando lei lo aveva visto tornare un'ora dopo, alla luce del crepuscolo, di colpo le era venuto in mente qualcos'altro e l'incanto del momento si era spezzato. Le era tornato in mente l'effetto afrodisiaco che aveva avuto l'hashish su di lei. Le feste in cui circolavano spinelli e pipe caricate di droghe spesso si erano concluse in vere orge. Vagamente Virginia ricordava di aver avuto una notte più di un rapporto con uomini sconosciuti. Lo aveva fatto semplicemente per lussuria. E tutte le inibizioni erano svanite. Nathan si era fermato davanti a lei, sapeva dell'aria già umida della notte e sul suo viso si posavano già le prime ombre della sera, e lei aveva pensato: non è possibile, stavolta non è certo effetto della droga! Ma avrebbe voluto possederlo in quell'istante preciso. Sul cofano dell'auto, oppure dentro, sul sedile posteriore, o direttamente sulla sabbia ai loro piedi. Per lei sarebbe stato uguale. L'importante era che fosse subi-
to, in fretta e senza freni. Senza prima né dopo. Sesso e basta. Non è possibile! Mi sento su di giri come dopo una mezza dozzina di spinelli! Le parve di capire che lui intuisse ciò che le stava succedendo, perché le aveva sorriso in modo strano e l'aveva guardata pieno di aspettativa. Il suo sguardo le diceva che era pronto, ma che lasciava a lei la decisione. E lei fu assalita dal rimorso, e in seguito dal sollievo che ci fosse qualcosa di diverso dal passato. Le sue inibizioni esistevano ancora, almeno in parte. Ma abbastanza da farla scivolare rapidamente giù dal cofano e dire con voce distaccata: «Sarebbe meglio andare avanti ancora un po', prima che scenda la notte». «Ok», aveva risposto lui piano. Adesso, in quella mattina nebbiosa, tutte le sensazioni della serata erano scomparse. Virginia avrebbe voluto piangere. Il dolore alla nuca era insopportabile. Avrebbe dato qualunque cosa per una doccia calda, il suo spazzolino, uno shampoo profumato nei capelli, l'aria calda e il ronzio confortante del phon. E poi, a un certo punto, desiderò più di ogni cosa una tazza di caffè caldo. Lanciò un'occhiata di sottecchi a Nathan. In apparenza non mostrava segno di soffrire le conseguenze della scomoda notte trascorsa all'addiaccio. Non sembrava neppure stanco. Guardava davanti a sé con aria concentrata, si orientava nella fitta nebbia con la striscia d'erba a sinistra del ciglio stradale. Quello stretto nastro d'asfalto umido, che serpeggiava per la brughiera desolata... ma come diavolo avrebbe fatto a trovare un caffè in quei luoghi? «Ho bisogno di mangiare e di bere qualcosa», disse alla fine. «Ho freddo, mi fa male dappertutto. Ti giuro che non dormirò più nemmeno una notte in quest'auto!» Lui parlò senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Tra poco arriveremo all'autostrada. Lì troveremo di sicuro un bar per fare colazione.» Non sapeva nemmeno lei perché si sentisse così aggressiva. «Ah sì? Conosci così bene la zona da esserne sicuro?» «Ho studiato la cartina prima di partire.» «Speriamo che tu l'abbia letta bene. A me non sembra che ci siano autostrade da queste parti. Piuttosto ho l'impressione che prima o poi finiremo in uno stagno o in un pascolo per pecore!» Lui si decise a girare la testa. «A volte sai essere davvero insopportabile», disse. «Che ti prende?»
Lei si massaggiò il collo. «Sono nervosa. Mi fa male tutto. Se non bevo subito un caffè mi verrà un'emicrania spaventosa.» «Avrai presto il tuo caffè.» Lei si premette il palmo delle mani sulle tempie. «Non mi sento bene, Nathan. Non so più nemmeno se sto facendo la cosa giusta.» «Hai mai saputo che cosa fosse giusto? Ieri ho avuto l'impressione che per il momento l'unica cosa importante fosse di portarti al sicuro. Di salvarti. Eri a un passo dall'esaurimento.» «Sì», confermò lei, girandosi a guardare la nebbia fuori dal finestrino, «sì, era proprio così.» Si rivide sul letto, in camera sua a Ferndale. Sotto di lei il vestito nuovo, che aveva appena tirato fuori per metterlo in valigia. Aveva fatto tutto ciò che aveva programmato: comperato il biglietto, dato a Frederic l'orario di arrivo, preparato le cose di Kim, portato la figlia dai Walker. Aveva tirato fuori la valigia che era di fianco all'armadio, ci aveva messo la biancheria e le scarpe. Da ultimo aveva sfilato l'abito nuovo dalla gruccia e aveva riflettuto se non fosse meglio metterlo in una sacca porta-abiti, per non stropicciarlo. Ma poi si era detta che sarebbe stato facile portare con sé solo una valigia e di sicuro avrebbe avuto modo di dare al vestito una veloce passata di ferro nell'appartamento londinese. Lo distese sul letto, ripiegò le maniche... e di colpo si bloccò. Fissando il vestito, capì che non ce l'avrebbe fatta a infilarlo in valigia. Non sarebbe riuscita a salire sul treno per Londra. Semplicemente le era impossibile presentarsi a quel ricevimento come la perfetta compagna di un aspirante uomo politico. Quando Nathan era salito a cercarla, l'aveva trovata sdraiata a letto, il viso inondato di lacrime. Non singhiozzava, erano lacrime silenziose che tuttavia scorrevano copiose e inarrestabili. «Non posso», bisbigliò, «non posso. Non posso.» Ora ricordava vagamente che lui l'aveva sollevata e l'aveva stretta tra le braccia. Era stato bello posare la testa sulla sua spalla. Ma nel contempo aveva cominciato a singhiozzare senza ritegno. «Non posso», aveva ripetuto. «Non posso.» La sua voce le aveva accarezzato l'orecchio. «Allora non farlo. Mi senti? Non farlo!» Lei non riuscì a rispondere. Poteva solo piangere. «Dov'è finita la donna forte e decisa?» le chiese lui piano. «La donna che non faceva niente che non voleva?» Lei continuava a piangere. Erano le lacrime di anni che finalmente sgor-
gavano da lei. «Che cosa vorresti, Virginia? Dove vorresti andare?» Lei non ci aveva mai pensato prima. Ma a un tratto le era risultato chiaro dove non poteva assolutamente andare. A Londra. Nella vita accanto a Frederic. Aveva alzato il capo. «A Skye», disse, «vorrei andare a Skye.» «Ok», rispose lui tranquillo. «Allora, partiamo.» Per lo stupore lei aveva smesso di piangere. «Ma non posso!» «E perché no?» aveva chiesto lui, e lei non aveva saputo dargli una risposta. «Per te è stata la soluzione perfetta a tutti i tuoi problemi», disse ora. Aveva sempre voglia di litigare. Forse era colpa dei primi segnali di un'imminente emicrania, oppure la nebbia, che si alzava di fianco a lei come un muro impenetrabile. Come se volesse infilarsi fin dentro l'auto. «Mi riferisco alla mia decisione di non andare a Londra.» Lui scrollò le spalle. «Eri sdraiata a letto a piangere. Io non c'entro.» «Avresti potuto convincermi a mantenere fede alla promessa che avevo fatto a Frederic.» «Già!» Rise piano. «Pensavo che il viaggio ti avrebbe distrutto. E che sono altri a dirti quello che devi fare. Volevi andare a Skye, ed eccoci qui.» «Ieri sei stato a un soffio dal farti buttare fuori dalla mia auto davanti all'ospedale dov'è ricoverata Livia. Non avresti saputo nemmeno dove trascorrere la notte.» «Di certo non potevo passarla peggio di così.» «Allora anche tu sei tutto indolenzito?» «Naturale. Calcola che poi sono parecchio più alto di te. Pensi che per me sia stato più facile raggomitolarmi sul sedile?» La sua rabbia si dissolse di colpo. «Devo telefonare a Kim», disse stanca. «Fallo.» Guardò il cellulare appoggiato sul cruscotto davanti a lei. Era spento. Immaginava che Frederic avesse cercato di raggiungerla ripetutamente da quando non l'aveva vista scendere dal treno il giorno prima. Di sicuro aveva già parlato anche con i Walker e con Kim. La figlia perciò era al corrente della sparizione della madre. «Che cosa devo dire a Kim? Che sono in viaggio con te verso Skye?» «Io non glielo direi», osservò Nathan, «perché altrimenti tuo marito si mette subito in viaggio per raggiungerti. A meno che non sia ciò che
vuoi.» «No.» Alzò le spalle con un brivido. «No. Probabilmente non potrò più guardare in faccia Frederic dopo quello che sto facendo.» Fu assalita dalla nausea, al pensiero di ciò che probabilmente lui stava pensando di lei in quel momento. In effetti raggiunsero l'autostrada per Glasgow e il viaggio proseguì più spedito. Anche la nebbia si alzò lentamente. «Per stasera arriveremo a Skye», annunciò Nathan. Aveva promesso di fermarsi alla prima area di servizio. Virginia, tormentata dal pensiero che Kim, in preda alle lacrime e alla disperazione, si chiedesse dove fosse finita la mamma, si decise ad accendere il cellulare. Come si era immaginata sul display apparve il messaggio che la informava di avere 24 chiamate ricevute senza risposta e diversi messaggi in segreteria. Ma non li avrebbe ascoltati adesso. Non voleva neppure sentire la voce di Frederic. Compose invece il numero dei Walker. Grace rispose al secondo squillo. «Pronto?» «Grace? Sono Virginia Quentin. Io...» Non riuscì a dire altro. Grace trattenne il fiato e la interruppe subito: «Mrs. Quentin! Santo cielo! Eravamo tutti tanto in ansia! Dove si trova?» «Non ha importanza adesso. Vorrei parlare con Kim. È lì?» «Sì, ma...» «Vorrei parlarle. Per favore, subito.» «Mr. Quentin è tornato da Londra», disse Grace, «è a casa. Sta proprio male. Se...» Virginia parlò con un'asprezza mai usata prima nei confronti di Grace. «Adesso vorrei parlare con Kim. E nient'altro.» «Come vuole», rispose Grace impettita. Subito dopo Virginia sentì la voce della figlia. «Mamma! Dove sei? Papà è qui. Ti sta cercando.» «Kim, tesoro, sto bene. Non devi preoccuparti per me, d'accordo? Va tutto bene. Ho solo cambiato programma.» «Non vai più a Londra da papà?» «No. È... c'è stato un cambiamento. Sono andata da un'altra parte. Ma tornerò presto.» «Quando?» «Presto.» «Quando ricomincia la scuola lunedì, ci sarai?»
«Ci proverò, va bene?» «Posso restare da Grace e Jack per tutto il tempo?» Virginia ringraziò il fatto che Kim fosse tanto affezionata all'anziana coppia. Altrimenti avrebbe reagito in maniera molto più violenta e probabilmente piangendo allo strano comportamento della madre. «Ma certo. Dai un'occhiata anche a papà, va bene? Ho sentito che è lì.» «Sì. È arrivato stamattina prestissimo.» «Bene, piccola, fai la brava e ubbidisci sempre a Grace e Jack, d'accordo? E non allontanarti da casa da sola, hai capito? Non andare nemmeno nel parco.» Kim sospirò. «Continua a ripetermelo sempre anche Grace. Ho capito, mamma. Non sono più una bambina piccola!» «Lo so. E sono molto fiera di te. Ti richiamo presto, va bene? Ciao. Ti voglio tanto bene.» Interruppe subito la comunicazione, per non dare modo a Grace di riprendere il telefono e ricominciare a lamentarsi. Per educazione avrebbe dovuto parlare di nuovo con Grace e chiederle se Kim poteva trattenersi da loro più a lungo del previsto, ma non voleva rischiare che venisse scoperta la sua destinazione. Se Jack era a casa, di sicuro Grace lo aveva spedito a chiamare Frederic e poi avrebbe tentato di trattenere Virginia al telefono il più a lungo possibile. Non voleva correre questo rischio. Non voleva parlare con Frederic per nessun motivo. «Ti senti meglio?» le chiese Nathan. Lei annuì. «Sì. Se non altro non sono a terra come prima. Anche se... Frederic è tornato a casa. Dev'essere sconvolto.» «C'era da aspettarselo», si limitò a dire Nathan. Indicò davanti a sé. «Un'area di servizio. Finalmente potrai bere il tuo caffè.» 2 Dopo due tazze di caffè forte e fumante e un'abbondante porzione di uova sbattute e pane tostato, Virginia si sentiva anni luce meglio. Il locale era pulito, curato, accogliente e caldo. I gabinetti odoravano di un forte disinfettante e dovevano essere puliti regolarmente. Virginia era completamente sola, poté lavarsi viso e mani, pettinarsi i capelli annodati, darsi un velo di lucidalabbra. Quando tornò da Nathan era molto più sicura di sé. Non c'era molto movimento in quella mattinata grigia, che sembrava più una giornata di novembre che di inizio settembre. A parte loro due, c'era solo un altro
cliente che leggeva il giornale seduto a un tavolo. Una musica di sottofondo riempiva l'aria. Era piacevole stare seduti sulle comode sedie, allungare le gambe, stringere tra le mani gelate la tazza di ceramica calda. A poco a poco, dentro Virginia si risvegliò la voglia di vivere e lei ricominciò a provare le sensazioni della sera precedente: un senso di libertà, di avventura, di leggerezza. Si accorse di sorridere. Nathan sollevò le sopracciglia. «Che ti succede?» le chiese. «Sembri una gatta che fa le fusa.» «Dovrei vergognarmi», rispose Virginia, «ho ingannato mio marito, sono scappata da casa senza avvisarlo, l'ho fatto preoccupare... e mi sento bene. Sì», tacque per un attimo, come per ascoltare dentro di sé, «mi sento proprio bene. Lo trovi disdicevole?» Lui le rispose con una domanda: «E com'è questa sensazione positiva? Sapresti definirla?» Lei non ebbe bisogno di riflettere. «Mi sento libera. È una sensazione di libertà molto profonda, che sgorga dal mio essere. So di essere un'incosciente, ma non posso più tornare indietro. Per nessun motivo.» «Allora non lo fare», disse lui. Annuì. Lo guardò dal bordo della tazza. Sapeva che gli occhi le scintillavano. Fuori ricominciò a piovere. «È quasi come...» cominciò, ma poi tacque. «Come che cosa?» le chiese Nathan. Lei posò la tazza e fece un profondo respiro. «Quasi come prima che Tommi morisse», disse lei. 3 Michael Il 25 marzo 1995 fu una giornata particolarmente calda. Era sabato. Nel giardino di Virginia erano sbocciati crochi e primule, e dal muro del giardino posteriore spuntavano spessi rami rosati che dondolavano pigri al vento. Quella mattina Michael era piuttosto rintronato, cosa insolita per lui. La sera precedente era stato alla sua palestra di St. Ives, dove un suo amico aveva festeggiato il compleanno offrendo da bere a tutti in un bar vicino. Michael, che ci era andato in bicicletta, disse di essere rimasto sorpreso
che fosse riuscito a pedalare. «Volevo chiamarti perché venissi a prendermi con la macchina», disse a Virginia, «ma poi mi sentivo troppo in imbarazzo.» Lei annuì distrattamente. Come sempre lo ascoltava solo di sfuggita. A volte per lei rappresentava solo un familiare rumore di sottofondo. «Mi sa che mi ci vuole un'aspirina», disse Michael, andando a prendere un bicchiere d'acqua e una compressa in cucina. Quando tornò in salotto, si lasciò cadere nella sua poltrona e, con la fronte accigliata, lamentandosi per il mal di testa, osservò il medicinale sciogliersi lentamente nell'acqua. Virginia sapeva quanto si stesse male per i postumi di una sbornia, ma dopo pochi istanti ebbe la sensazione di non riuscire più a sopportare i suoi incessanti lamenti. Il suo modo di piangersi addosso le dava sui nervi. Il tempo, il lavoro, le persone: Michael trovava dappertutto il pelo nell'uovo. Senza contare poi il fatto che Virginia non voleva acconsentire alla sua richiesta di sposarlo e non voleva restare incinta. Se poi non gli veniva in mente altro, si tuffava nel passato e, in tono tragico, filosofeggiava sul comportamento irresponsabile del padre, la separazione dei genitori, le depressioni e la tragica fine della madre. «Secondo me impazziresti, se non trovassi più argomenti per lamentarti della vita», gli diceva a volte Virginia, e lui allora la guardava con aria ferita e corrucciata. Quel giorno, tuttavia, non gli disse niente. Uscì il più in fretta possibile in giardino, lasciando Michael da solo con la sua emicrania. Il prato era ancora coperto da un folto strato di foglie dell'autunno precedente che andavano rastrellate e raccolte. Virginia era felice di avere qualcosa da fare. Più tardi, molto più tardi, quando lei e Michael ripercorsero più volte gli avvenimenti della mattinata, chiedendosi come fosse potuto accadere l'irreparabile, trovarono che la cosa più inspiegabile era come fosse stato possibile non notare Tommi. In genere li chiamava e li salutava a gran voce quando andava da loro. Quel giorno non l'aveva fatto? Oppure lei era stata così assorbita dai propri pensieri, che non avrebbe sentito neppure una cannonata nelle immediate vicinanze? Michael di sicuro non aveva sentito niente, visto che alla fine si era sdraiato sul divano in salotto e si era appisolato. Tommi doveva essere arrivato verso le undici. Aveva avvertito la mamma e, siccome lei sapeva che era il benvenuto a casa dei vicini, gli aveva dato il permesso di andarci senza problemi. Senza che né Michael né Virginia se ne accorgessero, per prima cosa aveva cercato di salire sull'auto
parcheggiata sulla ripida salita e in effetti l'aveva trovata aperta. Si era messo al volante e aveva sganciato il freno a mano. La macchina si era messa subito in movimento. Virginia, che stava raccogliendo le foglie secche sul retro della casa, udì di colpo i rumori provenienti dalla strada, come una detonazione improvvisa che infranse la quiete del mattino: stridio di freni, colpi di clacson disperati, il clangore della lamiera. Si drizzò e pensò: un incidente. Proprio davanti a casa nostra! Corse sul davanti della casa e guardò la strada in fondo alla salita. Fu uno di quei momenti in cui il cervello si rifiuta di collegare tutti i fatti, anche se sono evidenti e non si prestano a fraintendimenti. Virginia vide che la sua macchina non era più parcheggiata al solito posto. Era sparita. La portiera del guidatore si trovava abbandonata in fondo alla salita, proprio accanto al grosso palo marrone che delimitava la proprietà e contro la quale aveva sbattuto prima di essere staccata di netto. Sulla strada c'erano tre auto di traverso e non si capiva se la loro assurda posizione fosse stata causata da un tamponamento o da un disperato tentativo di frenata. Una delle macchine - questa informazione si fece largo a poco a poco nella mente ottenebrata di Virginia - era la sua. «Che cosa è successo?» Michael spuntò accanto a lei, con i capelli in disordine e il colorito pallido per via del malessere che ancora lo tormentava. Guardò la strada. «La nostra macchina!» guardò di lato, nel punto in cui avrebbe dovuto essere parcheggiata. «Che cosa... come mai la nostra auto...?» Guardò Virginia ed entrambi gridarono contemporaneamente: «Tommi!» Corsero verso la strada. Virginia aveva il fiato corto per la paura che l'attanagliava e quando si fermò fu assalita da un accesso di tosse e da violente fitte al fianco. Michael sembrava sul punto di vomitare. Videro Tommi, sdraiato immobile sull'asfalto. Un uomo, con una ferita che gli sanguinava sulla fronte, si chinò su di lui e cercò freneticamente e con gesti goffi di tastargli il polso. Al volante di una Rover nera con il muso rivolto verso casa di Tommi, era seduta una donna bionda che fissava con gli occhi sgranati il cruscotto, come se lo trovasse affascinante. Sembrava sotto shock e incapace di muoversi. L'uomo con la ferita alla testa alzò lo sguardo. «Sento ancora il battito. Lo sento!» Virginia si inginocchiò di fianco a Tommi. Il ragazzino era sdraiato a faccia in giù, ma lei non osava girarlo per paura che avesse lesioni interne.
«Tommi!» chiamò piano. «Tommi!» «È uscito a marcia indietro dal vialetto», disse l'uomo. «Io... io ho inchiodato, ma... è successo tutto così in fretta...» Virginia si girò verso Michael. «Presto, muoviti! Chiama un'ambulanza! Sbrigati!» Michael, bianco come un lenzuolo, si riscosse. «Io... ho centrato in pieno l'auto e lui è stato sbalzato fuori», disse l'uomo. Sembrava aver bisogno di parlare, anche se Virginia in quel momento non voleva ascoltarlo. Voleva solo che Tommi si girasse, voleva vedere il suo faccino spruzzato di lentiggini, voleva vederlo sorridere con tutti i buchi nei denti e sentirlo dire: «Che casino! Mi spiace tanto». Ma lui non si muoveva. L'uomo continuava a parlare. «...e poi è arrivata quella donna con la Rover. Andava troppo veloce. Questo è un centro abitato. Bisogna andare piano! E lo ha preso in pieno. Alla sua velocità non ha fatto in tempo a frenare...» «Tommi», bisbigliò Virginia, «Tommi, dimmi qualcosa!» «Lì c'è la portiera dell'auto», disse l'uomo. «Il ragazzino non l'aveva chiusa bene. Per questo è saltato fuori. Ma, mi dica, come ha potuto permettere a suo figlio di salire in macchina e... voglio dire, alla sua età...» Lei non aveva nessuna voglia di mettersi a discutere. Probabilmente anche lui era sotto shock come la donna della Rover. Ma, mentre lei era paralizzata in uno stato di totale immobilità, lui non sembrava in grado di smettere di parlare. Notò un movimento nel giardino di casa di Tommi. La madre di Tommi scese di corsa. Gridava qualcosa, ma Virginia non la capiva. Michael la raggiunse subito dopo. «L'ambulanza sta arrivando.» Era di un pallore che Virginia non aveva mai visto in un essere umano. Continuava a scrollare il capo, confuso e incredulo. «Oddio, oddio, oddio», ripeteva sottovoce, «non ho chiuso l'auto! Avrei giurato... ma devo essermene dimenticato. Oddio, come mi è potuto accadere?» La guardò negli occhi con un'espressione di agghiacciante disperazione. A lei parve quasi di vedere come dentro di lui si spezzava qualcosa. 4
Verso le cinque del pomeriggio arrivarono a Kyle of Lochalsh, un paesino sulla costa dal cui porticciolo partivano un tempo i traghetti per Skye. Nel frattempo era stato costruito il ponte che, attraversando il Loch Alsh con un'arcata imponente, arrivava fino all'isola. Skye era davanti a loro, a portata di mano, e sorgeva dal mare plumbeo e tempestoso. La cima della vetta più alta era ammantata da minacciose nubi temporalesche spinte nel cielo dal forte vento. Qua e là l'ammasso tormentato si squarciava all'improvviso, lasciando vedere brandelli di cielo azzurro e i raggi del sole colpivano la terra con un effetto teatrale, trasformando il grigio del mare in argento luminoso e creando ombre danzanti sul paesaggio. Poi lo squarcio si richiudeva e il mondo ripiombava in una luce crepuscolare. Rimasero seduti in auto, in un parcheggio che apparteneva a un imponente edificio ammantato di neve, il Lochalsh Hotel. In una bottega del paese si erano comprati una bottiglia d'acqua minerale ciascuno e ora bevevano a grandi sorsate. Non c'era nessun altro a parte loro. L'estate era finita, i turisti non si spingevano più così a nord. I gabbiani volavano sopra la scogliera lanciando i loro striduli richiami. Erano gli unici esseri viventi a vista d'occhio. Virginia avrebbe voluto ritelefonare a Kim, ma non osava farlo, per paura che Frederic si fosse installato dai Walker e rispondesse al primo squillo. Dopo la sua telefonata della mattina, forse contava sul fatto che li potesse richiamare. Oppure era tornato a Londra? Era venerdì pomeriggio. Mancavano solo tre ore all'inizio della festa tanto importante per lui. Forse vi avrebbe preso parte, mormorando una scusa su un improvviso malore della moglie, per destreggiarsi alla meno peggio. Pallido, forse, e molto preoccupato. Sapeva che Virginia era viva, ma non aveva idea di dove fosse né di che cosa fosse successo. Si arrovellava senza riuscire a trovare una risposta. Chissà se sospettava che la sua fuga avesse in qualche modo a che fare con Nathan Moor? Doveva essere disperato e perplesso. E lei temeva proprio questa disperazione e questa perplessità. Se avesse deciso di rinunciare alla festa e di aspettare una sua telefonata a casa dei Walker, Virginia ne avrebbe sentite di tutti i colori. Non sapeva proprio come fare. «Spero che Kim non stia in pena per me», disse. Nathan bevve ancora un sorso dalla sua bottiglia. «Dopo tutto quello che mi hai raccontato, sono sicuro che i Walker non faranno altro che viziarla e coccolarla», osservò. «E poi sa già da stamattina che alla sua mamma non è successo niente. Secondo me se la sta spassando.» Virginia assentì. «Spero che tu abbia ragione.» Premette il viso contro il
finestrino. Come sempre, quando arrivava quassù, era letteralmente sopraffatta dalla bellezza del paesaggio. Aveva sempre la sensazione di doversi fondere con l'acqua, il cielo, la luce, perché era l'unico modo per saziarsene. E non rimase delusa nemmeno in quella giornata già autunnale. Era come un ritorno a casa, era il ritorno a un luogo che, come le capitava spesso di pensare, doveva esserle familiare già da molte vite. «Pensi di essere pronta ad affrontare il ponte?» domandò Nathan. Lei scrollò il capo. Era stata lei a chiedergli di aspettare ancora un poco sulla terraferma, prima di raggiungere Skye. Non aveva dato spiegazioni, dicendo soltanto che secondo lei Nathan poteva intuire ciò che provava. Aveva la sensazione che sarebbe successo qualcosa di definitivo una volta toccata l'isola. Erano in viaggio da due giorni quasi, avevano attraversato l'Inghilterra e la Scozia, ma finora era sempre stato possibile tornare indietro in qualsiasi momento. Tornare a Ferndale, alla sua vecchia vita. Avrebbe dovuto dare un sacco di spiegazioni, affrontare le domande e i rimproveri di Frederic, sopportare l'indignazione di Grace e la perplessità di Jack, ma finora non si era separata veramente del tutto da loro. Nei confronti di Frederic avrebbe potuto ricondurre tutto al panico che l'aveva assalita all'idea dell'imminente serata di gala, e le sarebbe venuta in mente una scusa qualsiasi da offrire anche ai Walker. Ma se lasciava la terraferma, se metteva piede sull'isola insieme a Nathan, il filo si sarebbe tagliato. Non per gli altri, ma per se stessa. A quel punto, ne aveva la certezza, non le sarebbe stato più possibile tornare indietro. «Non ci riesco ancora», disse. «Ok», rispose Nathan. Le piacevano i suoi modi. Sembrava sempre in grado di capire quando lei non voleva dare spiegazioni e non insisteva più. E sapeva ascoltare a lungo e senza interromperla. Per quasi tutto il viaggio gli aveva raccontato di Tommi e Michael. Lui non aveva quasi aperto bocca, se non per dimostrarle, con qualche occasionale osservazione, di seguire sempre attentamente il suo racconto. Era stato strano viaggiare per il paesaggio solitario e a volte desolato rivangando le vecchie storie, con un senso di liberazione e insieme una grande tristezza. «Tommi... non sopravvisse all'incidente?» chiese Nathan. Come le capitava spesso, rimase sbigottita dalla sua perspicacia. Anche lei in quel momento stava pensando proprio al bambino. «No. Cioè, non morì subito. Era ancora vivo quando lo trasportarono in ospedale, ma non si risvegliò più dal coma. I medici dissero che, anche se
fosse sopravvissuto, aveva subito danni cerebrali permanenti. Non si sarebbe sviluppato normalmente, il suo cervello sarebbe rimasto quello di un bambino piccolo. I suoi genitori tuttavia sperarono e pregarono che non morisse.» «È comprensibile.» «Dal punto di vista dei genitori, sì. Io ero combattuta... a volte pensavo che la morte sarebbe stata meglio per lui.» «Come stava Michael?» «Era in uno stato spaventoso. Il venerdì precedente alla tragedia, era stato a Cambridge. Con l'auto. Io non l'avevo usata. Ero rimasta a casa a lavorare a una ricerca e poi mi ero dedicata al giardinaggio. Michael aveva parcheggiato nel tardo pomeriggio davanti a casa come sempre. E, evidentemente, si era dimenticato di chiudere l'auto. Si riteneva il solo responsabile dell'incidente e ovviamente non si dava pace. Tutti i giorni andava a trovare Tommi all'ospedale, lo vegliava, piangeva e pregava al suo capezzale. Non dormiva quasi più e dimagriva a vista d'occhio.» «Anche tu lo ritenevi responsabile?» chiese Nathan. Lei guardò fuori, nel nulla. Il vento aveva appena aperto un grande squarcio tra le nuvole, liberando per un attimo la cima dello Sgurr Alasdair, la montagna più alta delle Black Cuillins. Il sole la inondò, ma subito dopo le nuvole tornarono a chiudersi inghiottendo la vetta. «Fu un incidente», rispose, «un tragico incidente. Credo che non sia stata colpa di nessuno.» «Ma naturalmente non potevi comunicare questa tua opinione a Michael, vero?» «No. Parlavamo in continuazione dell'accaduto, ma lui rimase sempre convinto di aver commesso un crimine. E poi, l'11 aprile, Tommi morì. Da quel momento la situazione peggiorò ulteriormente.» Le tornò in mente il funerale del bambino. Michael era impietrito. Aveva un aspetto peggiore dei genitori distrutti dal dolore. Pallido e con un'espressione di profondo sfinimento e con il vuoto negli occhi. «Michael cercò di riprendere in qualche modo la sua vita di sempre, ma ogni giorno che passava ci riusciva sempre meno. Dapprima pensai che un giorno sarebbe riuscito a ritrovare un equilibrio, ma alla fine ebbi l'impressione che gli mancassero la forza e la volontà di lasciarsi alle spalle l'accaduto. Certi giorni non andava neppure al lavoro, restava seduto in salotto a fissare il muro. Non frequentava più nemmeno la palestra dove prima andava tanto volentieri, non si incontrava nemmeno più con gli amici. Il ri-
morso lo soffocava sempre di più. Era come se... sì, come se non volesse vivere più nemmeno lui, perché Tommi era dovuto morire. So che pensò anche al suicidio. Ma Michael non era il tipo da togliersi la vita. Gli mancava la forza di volontà per farlo.» «Forse saresti riuscita a scuoterlo», osservò Nathan, «se alla fine avessi acconsentito a sposarlo. Di sicuro gli avrebbe ridato un certo equilibrio.» Lei annuì. «È probabile. Ma non era possibile. Io mi ero allontanata da lui già da prima. Il suo carattere depresso, il suo incessante lamentarsi... era già da parecchio che non li sopportavo più. E ora le cose erano persino peggiorate. Come potevo accettare la situazione di colpo?» Si scostò i capelli all'indietro. Il suo sguardo era sempre fisso sull'isola sotto il cielo tempestoso. «Sapevo perfettamente come sarebbe stata la nostra vita da allora in poi. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, avremmo continuato a girare intorno al tema rimorso. Michael non avrebbe mai smesso. Perché, per farlo, avrebbe dovuto cominciare a perdonarsi, e questo gli sembrava un tradimento nei confronti di Tommi e del suo tragico destino.» «Allora pensasti di lasciarlo?» «Ci pensavo tutti i giorni. Ma mi era chiaro che non avrebbe superato il colpo. Anch'io cominciai gradualmente a sentirmi impazzire. Di colpo mi sembrava di essere incatenata a Michael, anche se, già prima della tragedia, mi ero immaginata in continuazione una nostra separazione. Fu un periodo che... che non vorrei rivivere più.» Alla fine guardò Nathan. «E poi fu lui a mettere termine alla nostra agonia insieme. Al ritorno da un fine settimana che avevo trascorso a Londra da un'amica, lui se n'era andato. Con lui due valigie e quasi tutta la sua roba. Sul tavolo del salotto aveva lasciato una lettera d'addio per me. Mi descriveva la disperazione in cui era piombato dalla morte di Tommi, esprimeva ancora una volta l'entità del suo rimorso. Non si rimproverava soltanto di aver lasciato aperta l'auto, ma si accusava anche per il suo attaccamento a Tommi. Per il fatto di averlo legato a sé, di averlo fatto diventare un ospite fisso a casa nostra. Era stata quella la causa della tragedia... Ah, nella lettera scriveva tutto ciò che mi raccontava in continuazione. E poi, alla fine, in un certo senso mi lasciava libera.» «Dove andò?» Lei scrollò le spalle. «Non lo sapeva nemmeno lui. Credo che lo attirasse una vita nomade, per così dire. Sperava di riuscire a trovare almeno una tregua momentanea se restava sempre in movimento. Oggi qui, domani là. Mi scrisse che non dovevo cercarlo. Dovevo fare la mia vita, libera da lui.»
«Sei mai andata a cercarlo?» chiese Nathan. «No.» «Quindi non hai idea di che cosa gli sia successo?» Lei scrollò il capo. «Non ho mai più avuto sue notizie. È sparito, come se non fosse mai esistito.» «Che disgrazia», disse Nathan pensieroso. «Un giovane così intelligente, con una carriera universitaria davanti a sé. Probabilmente sarebbe diventato professore a Cambridge... e poi capita una storia del genere. Dov'è oggi? Vive per strada? È diventato un criminale? Un alcolizzato? Oppure è riuscito a ricostruirsi un'esistenza normale?» «Non lo so», disse Virginia. «Ti piacerebbe saperlo?» «Non credo.» Lui la guardò. «Quello che non capisco è perché tutto questo ti abbia rattristato tanto. Cioè, sono sicuro che la morte del ragazzino ti ha sconvolta, a chi non sarebbe successo? Anche il destino di Michael non ti ha lasciato indifferente, è naturale. Forse anche tu sei tormentata di tanto in tanto dal rimorso, perché non sei andata a cercarlo, perché in fondo non lo hai salvato. Ma non mi basta come spiegazione. Che cosa ti ha fatto scappare nell'oscurità di Ferndale, Virginia? Da che cosa ti nascondi in mezzo a quegli alberi? Che cosa ti tormenta a tal punto da spingerti a non vivere?» Lei guardò verso l'orizzonte. La cima dello Sgurr Alasdair spuntò ancora una volta tra le nuvole sfilacciate, ora tinto di tramonto. Invece di una risposta lei fece un cenno verso Nathan. «Attraversiamo il ponte», disse. Sabato, 2 settembre 1 Erano ore che fissava il telefono, dapprima trepidante, poi sempre più rancoroso, stanco, frustrato. Alla fine smise di credere che Virginia avrebbe richiamato. Da quando Jack lo aveva informato della telefonata, si era seduto nel salotto dei Walker, sperando di avere ancora una possibilità di parlare con Virginia. Era quasi sicuro che non avrebbe mai chiamato alla villa, perché il suo unico desiderio probabilmente era stato di stabilire un contatto con Kim e, finché la sapeva ospite in casa loro, si sarebbe rivolta lì. Anche se immaginava che ci avrebbe trovato pure il marito.
Aveva provato a chiamarla più volte sul cellulare, ma gli aveva sempre risposto la segreteria. Era evidente che teneva spento l'apparecchio, il che significava che non voleva proprio parlare con il marito. Ma perché? si chiese lui per l'ennesima volta. Perché? Che cosa è successo? Che cosa ho fatto? Era colpa del ricevimento? L'aveva incalzata a tal punto, l'aveva messa così alle strette da obbligarla a cercare la fuga come unica via d'uscita? Aveva acconsentito con molta, molta riluttanza, questo era vero, ma lui non aveva avuto l'impressione che fosse in preda al panico. Si era addirittura comperata un abito nuovo. Era chiaramente un segnale positivo. Le donne che acquistano un abito nuovo per un'occasione mondana non si trovano in uno stato di totale prostrazione interiore. Almeno era ciò che aveva pensato lui. Ora si rendeva conto che non c'erano elementi concreti a comprovare una simile affermazione. Aveva telefonato a Londra, agli organizzatori della serata e si era scusato dicendo che la moglie era gravemente ammalata e lui non potava lasciarla sola. La reazione dell'interlocutore fu molto cortese, ma Frederic ebbe l'impressione che non credessero alla sua scusa. Poi telefonò a un compagno di partito, per avvisarlo parimenti della sua assenza. Si attenne alla versione della moglie malata, ma anche in questo caso ebbe la sensazione che le sue parole fossero accolte con un certo scetticismo. «Certo che è un vero peccato che sia capitato proprio stasera!» aveva replicato l'amico. «Lo so. Ma non me la sono andata a cercare.» «Sicuramente sai ciò che fai.» Sì, pensò, adesso so quello che faccio. E ne accetto le conseguenze. Le lancette dell'orologio nell'angolo segnavano mezzanotte e mezzo. Era seduto in quella stanza ormai da quindici ore. Grace si era offerta di portargli la cena, ma lui non aveva fame, aveva accettato con gratitudine soltanto un caffè. Il telefono aveva suonato due volte nel corso della giornata e una volta la sera, e lui aveva risposto subito, ma una volta si trattava di un artigiano che confermava l'appuntamento preso, un'altra di un'amica di Grace e la terza di un amico di Jack che voleva fissare il solito appuntamento domenicale al bar. Per il resto, silenzio. Virginia non avrebbe più telefonato. Sarebbe dovuto andare a Londra a prendere parte al ricevimento, invece di starsene seduto lì stupidamente, ad aspettare qualcosa che non sarebbe mai arrivato. Sotto la stanchezza cominciò a serpeggiare in lui una rabbia
crescente. Che ingiustizia! Quali che fossero state le sue ragioni - per quanto forse alla fine fossero comprensibili - non era giusto scappare via così. Avrebbe dovuto parlare con lui. Litigare, se necessario. Ma non sparire senza dire una parola. Non è il caso di farsi prendere dall'ira. Non ne ho la forza. Se mi arrabbio, crollo. Trasalì, sentendo starnutire alle sue spalle. Era Grace, che stava entrando in salotto con una vestaglia bianca, lunga fino ai piedi e ricamata a boccioli di rosa rossi. «Mio Dio, è ancora qui! Ha l'aria sfinita, signore, se mi permette.» Starnutì di nuovo. «Oh cielo, mi sa che mi sono presa un raffreddore.» Lui si strofinò gli occhi arrossati con entrambe le mani. Aveva l'impressione di non dormire da secoli. «Oh, Grace! Non riesco più a tenere gli occhi aperti. Dov'è Kim? Sta dormendo?» «Come un angioletto. Signore, sarebbe meglio se andasse a letto anche lei. Io non credo che... che Mrs. Quentin telefonerà per stanotte. Di sicuro non vorrà rischiare di svegliare noi o Kim.» Lui sapeva che aveva ragione. Era evidente che per quella notte non sarebbe successo più niente. Si alzò. «Vado di là. Se dovesse telefonare...» «L'avviserò subito, non si preoccupi. Adesso però cerchi di riposare un po'. Ha un aspetto davvero pietoso.» Lo accompagnò fino alla porta, gli mise in mano la torcia elettrica di Jack perché non inciampasse al buio nel parco. Lui fece un respiro profondo. L'aria fresca e umida gli fece bene e anche camminare. Era rimasto troppo a lungo seduto nello stesso posto. Una volta raggiunta la porta di casa, l'aprì in silenzio. Non voleva svegliare Livia, che sicuramente aveva altrettanto bisogno di dormire. Ma quando accese la luce in corridoio la vide seduta sulle scale. Indossava una camicia da notte che le aveva dato Virginia e si era avvolta in una coperta verde. Era bianca come un lenzuolo. «Livia! Che cosa ci fa seduta lì al buio?» «Non riuscivo a dormire.» «Ma perché allora non ha acceso la televisione? O non ha preso un libro da leggere?» Lei alzò le spalle. «Sono rimasta qui a pensare.» «A che cosa?»
«Alla mia situazione. A come sia potuto accadere che...» «Che cosa?» «Che mi ritrovi seduta qui.» Con un gesto indicò il corridoio, la casa. «Con una camicia da notte prestata e sulle spalle una coperta non mia. Sa che cosa mi è venuto in mente? Che non ho più nemmeno il passaporto. Né la patente. Assolutamente niente.» «Per queste cose l'ambasciata tedesca le sarebbe d'aiuto.» «Lo so.» Lui sospirò, si strofinò gli occhi, che gli bruciavano per la stanchezza. «Ma ne abbiamo già parlato. L'ambasciata non può restituirle una casa. E...» Scrollò la testa. «Forse non è il caso di parlarne ancora in questo momento. Sono troppo esausto e non riesco a pensare con chiarezza.» «Deve assolutamente dormire un po'», disse Livia. Dopo una breve pausa aggiunse: «Lei... lei non ha ritelefonato, vero?» «No. Scommetto che sapeva che sarei stato seduto davanti al telefono come un cane con il suo osso. Ed è evidente che con me non vuole scambiare parola per nessun motivo.» Tacque, assorto nei pensieri. Nonostante la stanchezza, la sua mente era affollata di domande che si rincorrevano. Alla fine non sarebbe riuscito a dormire se non le avesse almeno riordinate. «Sia Grace Walker sia Kim erano sicurissime che Virginia telefonasse da un'auto. E secondo Grace non dava l'impressione di essere spaventata o sconvolta. Non sembrava che fosse su quell'auto contro la propria volontà.» «Se l'era aspettato?» Lui annuì. «In parte, sì. Ho pensato che Nathan Moor potesse...» «Averla portata via con sé?» «In fondo non è del tutto fuori luogo pensarlo, quando due persone scompaiono contemporaneamente e almeno una di loro non ha mai avuto in passato un atteggiamento così egocentrico e privo di scrupoli, no?» «Ma per quale motivo Nathan avrebbe portato via Virginia?» «Per ottenere dei soldi?» «No!» Livia scrollò il capo decisa. «Non è da lui. Non è un criminale. Racconta storie inventate, adatta la realtà ai propri bisogni, ma non è un delinquente. Se Virginia ora è con lui, significa che l'ha seguito liberamente. Su questo non ho dubbi.» Per quanto Frederic avesse trovato spiacevole l'ipotesi che Virginia fosse stata rapita, tanto più molesta e spaventosa gli appariva l'idea che la moglie
si fosse allontanata da casa con Nathan Moor di sua spontanea volontà. Era un'ipotesi che portava con sé immagini che lui non si augurava di vedere nemmeno negli incubi peggiori. «Sa», disse in tono piccato, «forse esistono diverse definizioni del termine criminale. A mio parere, tutto quello che mi ha raccontato di lui induce a pensare che abbia una spiccata tendenza a un comportamento criminale. Farsi mantenere per anni dal suocero, scribacchiare qualcosa che nessuno vuole pubblicare e neppure leggere, già questo è più che insolito, non le sembra? E poi che cosa ha fatto? Appena suo padre è morto, ha arraffato tutto il denaro, che in realtà apparteneva a lei, per comprarsi una barca a vela con cui fare il giro del mondo, trascinandola in un'impresa che a lei non andava affatto. Ci vuole una certa dose di cinismo per privare una donna di una casa con l'intenzione di portarsela dietro per mezzo mondo e bisogna essere del tutto privi di scrupoli per costringerla ad accettare lavoretti occasionali nei porti stranieri. Ma non basta. Dopo tutto questo riesce letteralmente a far naufragare la barca e, per colmare la misura, la scarica in un ospedale e scappa. In questo momento lei poteva essere in mezzo a una strada! Secondo lui, dove poteva andare? All'asilo per i senzatetto?» Livia lo guardò in silenzio. I suoi occhi luccicavano di lacrime. Una si staccò e le rotolò silenziosamente sulla guancia. «Non so che cosa pensasse. Non lo so.» Lui era costretto a farle quella domanda. Era umiliante per entrambi, ma lui sapeva che, nonostante la tremenda stanchezza, non sarebbe riuscito a dormire se non l'avesse fatta. «Livia, mi scusi. So che è una domanda molto indiscreta, ma... cioè, suo marito ha mai... ha mai frequentato altre donne durante il vostro matrimonio?» Lei alzò la testa di colpo, fissandolo sbigottita. «Che cosa vorrebbe dire?» «Quello che ho detto. Avete mai avuto problemi a causa di altre donne?» «Che cosa vuole sapere esattamente?» Lui fece un profondo respiro. Com'era imbarazzante! «Lei ha detto che, se mia moglie si trova con lui, l'ha seguito liberamente. È convinta che lui non l'abbia portata via, rapita né in altro modo costretta a seguirlo. Quindi viene da chiedersi se... è possibile che lui nutra qualche speranza nei confronti di Virginia?» Livia rimase in silenzio per un po'. Poi disse: «Perché me lo chiede?» «Ecco, perché...»
«Se Virginia l'ha seguito spontaneamente, potrebbe rivolgere la stessa domanda anche a se stesso.» La sua voce divenne un sussurro. Senza nessuna aggressività, gli domandò: «È possibile che Virginia nutrisse qualche speranza nei confronti di Nathan? Avete mai avuto problemi a causa di altri uomini?» Per lui fu come ricevere una mazzata in testa. Non riuscì a rispondere. L'unica certezza era che, nonostante la terribile stanchezza, non sarebbe riuscito a chiudere occhio per tutta la notte. 2 Il telefono di Liz Alby suonò di buon mattino, ridestandola da un sonno agitato. Aveva sognato Sarah. Non era stato un bel sogno, perché Sarah gridava e faceva i capricci e cercava continuamente di arrampicarsi sul tetto di una casa molto alta. Si teneva appesa alla ringhiera di un balcone. Liz era di sotto e sapeva che era solo questione di tempo, prima che la bambina precipitasse. Correva di qua e di là, pronta ad aprire le braccia in caso di necessità, ma non riusciva a calcolare la traiettoria del corpo. Dovunque si mettesse, aveva sempre l'impressione che Sarah sarebbe caduta dalla parte opposta. Liz era disperata, ma udì il suono stridulo di una sirena e capì che i pompieri stavano accorrendo in suo aiuto. Un attimo dopo si svegliò e si rese conto che era lo squillo del telefono. Guardò la sveglia sul comodino. Le sei e mezzo. Chi poteva essere a quell'ora? Il telefono era proprio accanto alla sveglia. Liz si mise a sedere, accese la luce e prese la cornetta. «Pronto?» chiese con voce arrochita. All'altro capo del filo il silenzio. «Pronto?» ripeté più impaziente. La voce dell'interlocutore suonava altrettanto roca. Ma non assonnata. Piuttosto esausta. «Mrs. Alby?» «Sì. Chi parla?» «Sono Claire Cunningham.» Liz rimase un attimo perplessa, poi comprese. «Oh», disse sorpresa. «Mrs. Cunningham!» «So che è molto presto», disse Claire. Parlava biascicando leggermente e
mangiandosi la fine delle parole. Visto che Liz non riteneva che potesse essere ubriaca alle sei e mezzo di mattina, dedusse che doveva essere sotto l'effetto di forti tranquillanti. «Ero già sveglia», menti Liz. In fondo era contenta che qualcuno l'avesse strappata a quel sogno disperato. «Mio marito si è addormentato, finalmente», disse Claire, «da quando... da quando...» Fece un profondo respiro. «Da quando ha identificato Rachel non è più riuscito a dormire bene. Ora riposa e non vorrei svegliarlo.» «Capisco.» «Ma mi sembra di impazzire. Devo parlare in continuazione. Se sto zitta mi sembra di soffocare. Devo parlare di Rachel. E di quello... di quello che le è successo.» «Nei primi giorni capitava lo stesso anche a me», disse Liz. Ripensò ai vani tentativi di intavolare un dialogo con sua madre. L'aveva quasi implorata. Ma naturalmente la madre non aveva reagito. «Mio marito mi ha detto che aveva chiamato», proseguì Claire. «E che si era offerta di parlare con me. So che questo non mi autorizza a disturbarla alle...» «No, davvero, non si preoccupi. Sono contenta che mi abbia telefonato. Io... anch'io ho bisogno di qualcuno con cui parlare.» «Nel frattempo abbiamo cambiato numero di telefono», la informò Claire. «Ci cercavano così tante persone. Soprattutto giornalisti. Ma a me non va di parlare con i giornalisti. Quelli speculano solamente sulla morte di mia figlia.» Liz pensò al talk show cui aveva preso parte poco dopo la morte di Sarah. Soltanto in seguito si era resa conto di quanto si fossero serviti di lei. «Già, bisogna essere molto cauti», dichiarò. «Potrebbe... cioè, potremmo vederci una volta?» chiese Claire timidamente. «Non so se lei ha tempo, ma...» «Sì, sì. Vogliamo decidere subito? Facciamo stamattina?» «Sarebbe meraviglioso!» Claire sembrava sollevata. «Potremmo vederci in centro. Potrei venire con l'autobus, dato che non posso guidare l'auto per via dei tranquillanti.» Si accordarono per incontrarsi in un bar sulla piazza del mercato alle undici. «L'ho vista alla TV», disse Claire. «Saprò riconoscerla.» Poi aggiunse titubante: «All'epoca provai così tanta pena per lei. Non immaginavo che entro breve tempo anch'io...» Si bloccò, sopraffatta dall'ondata di dolore
inarrestabile. Lurido farabutto, pensò Liz dopo aver riattaccato. Rimase a guardare il soffitto. Lurido farabutto! Distrugge i bambini e distrugge tutti quelli che gli stanno intorno. È un dannato criminale! Visto che tanto ormai non sarebbe riuscita a riaddormentarsi, Liz si alzò, si infilò l'accappatoio e un paio di calze pesanti sui piedi perennemente gelati. Aprì le tende e rimase alla finestra, a guardare il lento risveglio di quella mattinata già tinta di autunno. Si chiese se, quando aveva pronunciato il verbo distruggere, intendeva anche se stessa. Era spaventoso, immaginarsi distrutta. Quando pensava a una persona distrutta, le veniva in mente sua madre, e lei aveva giurato che non avrebbe mai seguito lo stesso destino. Era ancora così giovane. Voleva vivere. Ridere, ballare, essere felice. Amare. Sarebbe stato così bello, incontrare un uomo da amare e che ricambiasse i suoi sentimenti con trasporto e sincerità. Ma le donne distrutte erano ancora in grado di amare? Nubi cariche di pioggia in cielo. Di nuovo. L'estate era proprio finita. Forse aveva bisogno di un po' di sole per sentirsi meglio. Se non altro quello era qualcosa di simile a un progetto. Un pensiero, una prospettiva. Non sapeva ancora che forma avrebbe preso precisamente. Ma l'idea di andare via, in un posto caldo, le trasmise, per la prima volta da quella giornata d'agosto a Hunstanton, una scarica di energia. Energia positiva. Un altro paese. La Spagna. La Francia del sud. L'Italia. Sole e cieli azzurri, ulivi, erba alta e secca, che si agitava nel vento caldo. Notti sotto cieli di velluto. Il fruscio del mare, la sabbia calda sotto i piedi. Mai più alla cassa della drogheria. Mai più con davanti agli occhi il declino fisico, spirituale e morale di sua madre. E magari altri figli. Non come sostituti per Sarah. Ma come dimostrazione di fiducia verso la vita. Con la testa appoggiata al vetro, Liz cominciò a piangere. 3 Il vento, che la sera prima li aveva accolti a Kyle of Lochalsh, permettendo loro di attraversare il ponte in un tramonto inondato di luce, nel corso della notte si era tramutato in tempesta. Freddo e umido, soffiava dal mare, spazzando l'isola. Le onde al largo erano cresciute in minacciosi cavalloni. Gli alberi si piegavano fino a sfiorare il terreno. Nel cielo passavano brandelli di nuvole sospinti con forza malvagia, si addensavano a formare alti cumuli per poi essere nuovamente dispersi.
Virginia fu svegliata dal fragore degli elementi naturali intorno a lei, e si chiese come avesse fatto a dormire tanto profondamente. Probabilmente era stato il lungo viaggio in auto a sfinirla. La stanchezza l'aveva assalita la sera prima, implacabile e tenace. Di colpo aveva perso tutte le forze. Aveva aperto la casa, era salita di sopra in camera sua ed era giusto riuscita a prepararsi il letto, a lavarsi i denti e a infilarsi la camicia da notte. Poi si era sdraiata tra i soffici cuscini, piombando in un sonno profondo e senza sogni. Erano le sette, il giorno era appena cominciato. Dalla finestra vedeva il cielo. Gli squarci tra le nuvole avevano un colore pastello. In seguito sarebbe diventato un azzurro intenso. Balzò in piedi, rabbrividendo per il freddo. Al suo arrivo non aveva avuto la forza di accendere la caldaia, ma si era rifugiata subito sotto le coperte. Si sbrigò a indossare un caldo pullover di lana sopra il pigiama e infilò i piedi nelle pantofole imbottite. Con i capelli spettinati e senza essersi lavata il viso, somigliava a uno spaventapasseri, ma la cosa le era indifferente. Aveva urgente bisogno di un caffè. Con una bella tazza fumante, sarebbe tornata a letto per cominciare la giornata in tutta calma. Era certa che Nathan dormisse ancora. Ma, quando entrò in salotto, lo trovò già in piedi alla finestra. Portava un paio di jeans e un dolcevita di Frederic che, come al solito, gli stava stretto di spalle. Nella stanza c'era aroma di caffè. Nathan teneva una tazza in mano. Non si voltò, ma evidentemente si era accorto del suo arrivo, perché disse: «Hai visto che luce fuori? Il temporale? Le nuvole? È incredibile». Lei annuì, anche senza vedere. «Una giornata fantastica. Giornate come questa mi fanno capire tutte le volte perché mi piaccia tanto stare quassù al Nord.» «Più del Sud?» «Molto di più.» Si voltò a guardarla. Aveva le guance coperte da un'ombra di barba. «Anch'io», disse, «anch'io preferisco il Nord al Sud.» Lei non capiva perché di colpo il cuore le battesse in gola. «Ho sempre pensato di essere l'unico con questa predilezione.» «No, non lo sei.» «Io preferisco anche l'autunno alla primavera.» «Anch'io.» «E il vino bianco rispetto a quello rosso.»
Lui rise, «Io pure.» «Mi piace di più uscire ad affrontare una bufera invernale, piuttosto che passeggiare nella brezza estiva.» Lui fece un passo verso di lei. «Che cosa ti manca per davvero?» le chiese piano. «Per davvero?» «Tu non ami ciò che è femminile. Tenero, caldo, avvolgente. Tu ami ciò che è ruvido, freddo, ostile. Ami le sfide, ami ciò che ti fa sentire viva. Ti struggi profondamente per la vita, Virginia. Quanto si può struggere chi sta rinchiuso dietro un alto muro di cinta, circondato da alberi imponenti che tengono lontano il cielo e tutto il mondo esterno.» Con suo stesso sgomento, Virginia si accorse di avere le lacrime agli occhi. Per amor del cielo, non metterti a piangere! Che corda aveva mai toccato lui con le sue parole? «Voglio...» iniziò, poi tacque. «Che cosa? Che cosa vuoi, Virginia?» Lei fece un profondo respiro. «Veramente volevo soltanto un caffè», disse. Lui posò la tazza sul tavolo e fece un altro passo avanti. «E poi? Che cosa volevi ancora?» Confusa, lei alzò lo sguardo su di lui. Nel giro di due minuti si trovava impegolata in qualcosa di nuovo. Il tono tra di loro era cambiato. Eppure avevano parlato soltanto dei loro gusti, oppure no? In qualche modo era come se si fossero scambiati altre informazioni. Non riusciva ancora a capire che cosa fosse successo, né perché fosse successo. «Che cosa volevi ancora? Perché sei venuta fin qui a Skye insieme a me?» «Non lo so.» «Non è vero. Lo sai.» «No.» «Lo sai», ripeté lui avvicinandosi ancora. Adesso le stava proprio davanti. Sapeva del sapone con cui si era lavato. La sua bocca sorridente era a portata di mano, il suo respiro le accarezzava la guancia. E, con suo grande stupore, lei non provava l'impulso di ritrarsi. Fecero l'amore per tutto il giorno. Verso mezzogiorno si alzarono per un paio d'ore e andarono a correre sulla spiaggia, sotto un cielo tormentato, dove le nuvole si inseguivano tra sprazzi di azzurro e brevi scrosci di
pioggia. Correvano tenendosi per mano lungo la riva del fiordo di Dunvegan, avevano sulle labbra il sapore del sale, nel naso l'odore del mare. Erano le uniche persone. I gabbiani sopra di loro lanciavano striduli garriti per fare a gara con il fragore delle onde, spalancavano le ali e si lasciavano trasportare dalla corrente in voli acrobatici. Corsero finché ebbero fiato e cominciarono a sentire delle fitte al fianco, entrambi con le guance arrossate dall'aria fresca, poi tornarono verso casa tenendosi abbracciati e si misero di nuovo a letto. Ripresero da dove avevano lasciato, più stanchi che al mattino, con più tenerezza, più pazienza di prima. Dalla sua storia con Andrew, era la prima volta che Virginia provava un'attrazione sessuale così forte e travolgente per un uomo. Non riusciva a saziarsi, lo voleva ancora e ancora, restava sdraiata tra le sue braccia, avvertendo il battito del suo cuore contro la schiena, e pian piano sentiva riaffiorare dentro di sé tutto ciò che aveva abbandonato da tanto tempo, e che aveva creduto perso per sempre: vita, pace, fiducia, serenità e felicità. Voglia d'avventura e curiosità. Un'ottimistica aspettativa verso il futuro. Tutto è cambiato, pensò meravigliata, solo perché c'è lui qui. Erano quasi le sei del pomeriggio, quando si accorsero di avere fame. «E, a essere sinceri, anche sete», disse Nathan, gettando le gambe oltre il ciglio del letto. «A parte il caffè di stamattina, non ho bevuto niente.» «Io non ho bevuto nemmeno quello», osservò Virginia, «però finora non ne ho sentito la mancanza.» Si vestirono, scesero le ripide scale ed esaminarono la dispensa. Per fortuna c'erano diversi barattoli di cibi in scatola, e persino alcune bottiglie di vino. Misero in fresco una bottiglia di bianco, poi Virginia cominciò a preparare la cena, mentre Nathan portava dentro della legna dal giardino per accendere il camino in salotto. Virginia, in piedi ai fornelli, guardava con occhi scintillanti la burrascosa serata di settembre che offriva uno spettacolo incredibile con il cielo che cambiava da un momento all'altro, dalla cupezza del cielo tempestoso, alla luce dorata del tramonto. Di colpo pensò: Vorrei fermare tutto. Queste ore e queste giornate su Skye. Insieme a quest'uomo. Vorrei fermarle ancora per un po', solo per un po'! Subito dopo si rese conto che quei pensieri esprimevano in maniera istintiva quanto la sua felicità lì sull'isola fosse isolata e lontana dal mondo esterno. Qualunque cosa fosse successa in seguito tra di loro sarebbe stata fonte di problemi. Nel camino ardeva un fuoco caldo e scoppiettante e fuori dalla finestra l'oscurità della sera andava calando sull'isola. Gli alberi in fondo al giardino ormai erano solo sagome confuse, piegate dalla forza del
vento. Virginia e Nathan si sedettero per terra davanti al fuoco e consumarono un semplice pasto, che tuttavia parve loro più gustoso di qualsiasi altro cibo avessero mai mangiato, sorseggiarono il vino, si scambiarono occhiate, meravigliati e incantati. Dopo tutti i giorni e le notti trascorsi insieme a Ferndale, durante i quali non sarebbe mai venuto loro in mente di sfiorarsi neppure con un dito, erano attoniti di fronte all'intensità della passione che si era impossessata di loro dopo essersi lasciati la terraferma alle spalle. Avevano avuto la sensazione di immergersi in una realtà completamente diversa. «Dovremo tornare indietro», disse Virginia dopo un po'. «Non possiamo restare per sempre su Skye e in questa casa.» «Lo so», disse Nathan. Lei scrollò il capo, non per negare, solo stupefatta. «Non avevo mai tradito Frederic prima d'ora.» «Lo stai vivendo come un tradimento?» «Tu no?» Lui ci pensò su. «È successo in modo inevitabile. Non avremmo potuto fare niente per impedirlo. Da quando ho visto quella tua foto, sai, quella scattata a Roma, ho capito...» «Che cosa? Che volevi venire a letto con me?» Lui rise. «Che volevo ritrovare quella donna. E adesso è qui.» Lei bevve un altro sorso di vino e guardò le fiamme nel camino. «Che cosa provi, quando pensi a Livia?» «A essere sinceri, finora non avevo pensato affatto a lei. Tu hai forse pensato a Frederic oggi?» La guardò con un'espressione così sconvolta, che la costrinse a ridere. «No. No, davvero. Ma adesso ci penso. E mi chiedo che cosa gli dirò.» «La cosa migliore è la verità.» «Tu dirai la verità a Livia?» «Sì.» «E che cosa le dirai?» «Che ti amo. Che non l'ho mai amata.» Lei deglutì. «Anch'io credo di non aver mai amato Frederic», disse piano. Sospirò. Sapeva che lui non si meritava ciò che lei provava in quel momento, che pensava e che disse. Ma era la verità. «C'era, quando avevo bisogno di una persona. C'era in un momento molto triste e solitario della mia vita. Dopo la morte di Tommi e la sparizione nel nulla di Michael. Era comprensivo, premuroso. Mi amava. Mi diede
calore e affetto. Era come un porto sicuro, in cui potevo rifugiarmi. Ma non lo amavo. E per questo non sono mai riuscita a uscire veramente dalla paralisi in cui ero piombata dalla morte di Tommi. Ero sempre sola lo stesso, l'unica differenza era che me ne accorgevo di meno.» Guardò Nathan. «Credi che sia così? Che restiamo soli accanto a una persona che non amiamo?» «Di sicuro sì, se lo eravamo già prima. C'è qualcosa di importante dentro di noi che non viene toccato. Non siamo più da soli, ma siamo isolati.» «Stavo per morire per la solitudine», disse Virginia. «Con la nascita di Kim le cose sono un po' migliorate. Ma lei è una bambina. Non potrebbe mai essere come un compagno per me.» Lui le accarezzò teneramente la guancia con un dito. Nelle ultime ore lei si era accorta di amare tantissimo la delicatezza delle sue grandi e forti mani. «Ma adesso ci sono io», mormorò lui. Con cautela spostò i bicchieri e fece sdraiare per terra Virginia con il peso del proprio corpo. Lei sospirò, piena di benessere e di desiderio. Ricominciarono ad amarsi alla luce calda delle fiamme danzanti, mentre fuori la notte ammantava l'isola. Domenica, 3 settembre 1 Si chiedeva come mai non ci fosse arrivato prima. Nella notte tra sabato e domenica era riuscito finalmente a dormire bene da quel fatidico giovedì - non perché fosse più tranquillo o più fiducioso, ma perché la stanchezza accumulata era tanta, che neppure l'ansia e la paura erano riuscite a tenerlo sveglio. Forse dipendeva anche dal fatto che nel corso della serata si era bevuto un paio di grappe di troppo. In ogni caso, era crollato di colpo e al risveglio fuori era già chiaro e una lieve pioggerella spruzzava i vetri della finestra in camera sua. Si mise seduto e pensò: Skye. E se fosse andata a Skye? Virginia amava l'isola e amava la loro piccola casetta con il grande giardino selvatico. Se era confusa o turbata - e di sicuro doveva esserle successo qualcosa, altrimenti non si sarebbe data alla fuga in quel modo - era plausibile immaginare che si fosse ritirata nel luogo che per lei aveva sempre significato tanto. Frederic si alzò e si infilò la vestaglia. Avvertiva una fitta lancinante alla
testa, segno che in effetti aveva alzato un po' troppo il gomito. Aveva trascorso il sabato in un misto di rabbia, disperazione e quindi rassegnazione. Il mattino aveva ripreso il suo posto in attesa davanti al telefono dei Walker, ma alla fine si era vergognato a tal punto di se stesso che era uscito dalla casa dei portieri ed era andato al giardino zoologico insieme a Kim. La bambina si rendeva conto che c'era qualcosa di strano, anche se tutti gli adulti le ripetevano incessantemente che era tutto a posto. Gli animali comunque riuscirono a distrarla. Era una giornata fresca e nuvolosa, ma senza pioggia e Frederic era riuscito almeno per un po' a concentrarsi sull'entusiasmo della figlia. Nel pomeriggio era andato con lei da McDonald's, dove avevano mangiato Big Mac e bevuto milk-shake al cioccolato. «Vuoi venire a casa con me?» aveva chiesto Frederic e, anche se stava volentieri dai Walker, Kim aveva accettato con entusiasmo. Questo gli aveva scaldato il cuore. Se non altro, almeno sua figlia gli era ancora vicina. Tornati a Ferndale, per prima cosa si era informato dai Walker se Virginia avesse telefonato. Jack e Grace gli rivolsero occhiate mortificate. Il raffreddore di Grace doveva essere peggiorato, perché aveva gli occhi rossi e portava una sciarpa intorno al collo. «No, signore», rispose. «E non siamo mai usciti di casa. Non ha telefonato nessuno.» Grace era rattristata dal fatto che Kim tornasse a casa con il padre, ma visto che aveva un forte mal di gola lo riteneva più saggio. A casa, Livia e Kim si erano messe a disegnare con gli acquerelli al tavolo di cucina, e Frederic, che si sentiva esausto e svuotato, aveva registrato con gratitudine la tacita offerta di Livia di occuparsi della figlia per qualche ora. Lui era andato in biblioteca, dove era rimasto a guardare i rami spogli che sfioravano i vetri delle alte finestre. Ma perché non li facciamo tagliare? pensò. Vorrei proprio sapere che cosa ci trova di tanto bello Virginia a seppellirsi viva qua dentro. Non riuscì a darsi una risposta. Per la prima volta si sorprese a pensare che forse non conosceva affatto la donna che aveva sposato nove anni prima. Poi aveva cominciato a bere una grappa, le altre erano seguite a ruota, e alla fine si era trascinato a letto, dopo essersi accertato che Livia stava leggendo una storia della buonanotte a Kim e che la sua presenza per la giornata non era più necessaria. Erano passate da poco le otto del mattino. Avrebbe telefonato subito a
Dunvegan. Visto che Virginia teneva il cellulare spento, c'era da aspettarsi che non avrebbe risposto neppure al telefono, ma forse non si aspettava una sua telefonata e avrebbe alzato la cornetta senza pensarci. La casa era immersa nel silenzio. Livia e Kim probabilmente dormivano ancora. Lui si chiuse in salotto. Voleva restare da solo. Mentre lasciava squillare il telefono, guardava la pioggia che cadeva nel parco. Sembrava una giornata di novembre. Gli venne freddo. Rimase esterrefatto quando, al quarto squillo, una voce rispose: «Pronto?» Era Virginia. Lui impiegò qualche istante a riprendersi. «Virginia?» chiese poi con voce arrochita. Si schiarì la gola. «Virginia?» ripeté. «Sì?» «Sono io, Frederic.» «Lo so», disse lei. Lui si schiarì di nuovo la gola. «È sorprendente che tu risponda al telefono.» «Non posso continuare a scappare per sempre.» «Dunque sei a Skye?» Non era una domanda particolarmente intelligente, ma Virginia la considerò quanto meno giustificata. «Sì, sono a Skye. Sai che...» «Che cosa?» «Sai che sono molto legata a quest'isola.» «Il tempo è bello?» si informò educato, del tutto disinteressato, ma solo per prepararsi al dialogo vero. «Temporalesco. Ma non piove.» «Qui da noi piove da stamattina presto.» Lei non resse più al gioco di quell'assurdo scambio di informazioni meteorologiche. «Come sta Kim?» «Bene. Ha dormito qui con me. Grace è molto raffreddata...» Lui la sentì sospirare. Doveva farle la domanda successiva, anche se il pensiero della risposta lo faceva stare male. «Senti... Nathan Moor è lì con te?» «Sì.» Nessuna spiegazione. Un semplice sì. Come se fosse la cosa più normale del mondo, essere scappata con un altro uomo, lasciando all'oscuro la famiglia. Era davvero scappata insieme a lui. Che cosa implicava questa fuga a due?
«Perché, Virginia? Perché? Non lo capisco!» «Che cosa? Perché Nathan Moor? Perché Skye? Perché adesso?» «Tutto. Suppongo che sia tutto collegato.» Il silenzio all'altro capo della linea fu così lungo, che Frederic cominciò a temere che Virginia avesse riattaccato. Quando stava per parlare di nuovo, lei rispose: «Hai ragione, è tutto collegato. Non volevo venire a Londra». Gli venne quasi da ridere. «Ma perché? Era una cena. Una ridicola, normalissima, semplice cena! Mio Dio, Virginia!» «Non ce la facevo.» «Avresti dovuto dirmelo. Ho aspettato per ore alla stazione. Ho perso il conto delle volte che ho provato a telefonarti. Mi sono angosciato da morire. Ho fatto impazzire i Walker, che non riuscivano neppure loro a trovare una spiegazione. Eravamo tutti in preda all'ansia! Virginia, non è da te! Non ti ho mai conosciuto così... egoista e priva di scrupoli!» Lei non rispose. Se non altro non cercò di giustificarsi. Per Frederic non diventava più facile chiedere quale fosse il ruolo di Nathan Moor in quella storia, ma non aveva scelta. «È stata una sua idea? Ti ha convinto lui a...» «No. Non mi ha dovuto convincere proprio nessuno. Volevo andare via. Lui mi ha solo aiutato a farlo.» «Aiutato? Ti rendi conto di quello che dici? Sembra quasi che qualcuno ti abbia dovuto aiutare a scappare! Come se fossi rinchiusa qui, a casa mia, contro la tua volontà, incatenata, murata viva...» «Sciocchezze», lo interruppe lei. «Non era così. E lo sai che non intendevo dire questo.» «E allora che cosa volevi dire? Che cosa è successo? Possibile che si trattasse soltanto di quella stupida festa a Londra?» «Non credo di essere in grado di spiegarti tutto.» «Ah no? E non pensi che, dopo quello che mi hai fatto passare, mi meriti almeno una spiegazione?» «Certo.» Di colpo sembrava stanca. «Solo che non è il caso di dartela per telefono.» «Sei stata tu a scappare, invece di parlare con me. Non è stata mia l'idea di comunicare con te per telefono.» «Non sto cercando di sottrarmi alle mie responsabilità, Frederic.» «Quali responsabilità?» Lei non rispose.
Lui le chiese in tono aggressivo: «Che cosa c'è tra te e Nathan Moor?» Lei rimase in silenzio. Lui si sentì crescere dentro un terrore raggelante mescolato a un'altrettanto gelida rabbia. Anzi, la collera forse era persino più forte. «Che cosa c'è tra te e Nathan Moor?» ripeté. «Maledizione, Virginia, sii sincera! È il meno che mi devi!» «Lo amo», rispose lei. Lui rimase senza fiato. «Cosa?» «Lo amo. Mi spiace, Frederic.» «Te ne scappi con lui a Dunvegan, a casa nostra, e poi vieni a dirmi per telefono, così, senza tanti problemi, che lo ami?» «Me lo hai chiesto tu. E hai il diritto di sapere, ti meriti la mia sincerità.» Si sentì mancare, aveva l'impressione di essere immerso in un incubo. «Da quando? Da quanto tempo va avanti tra di voi? Da quando si è presentato qui a Ferndale?» Lei aveva un tono sofferto. «Me ne sono resa conto solo qui a Skye. Ma credo...» «Sì? Che cosa?» «Credo», ripeté lei piano, «di essermi innamorata di lui fin dal primo istante. Già qui a Skye. Subito dopo il loro naufragio.» Frederic ebbe l'impressione che il mondo gli crollasse addosso. «Ecco perché. Ora capisco la tua improvvisa generosità. Per tutto il tempo mi ero chiesto come mai non riuscissi a staccarti da queste persone del tutto sconosciute. Ma adesso è chiaro. Santo cielo, il tuo non era un impulso da buona samaritana, vero? Nathan Moor deve aver ricevuto ben più di questo da te.» «Sei ferito e capisco che...» «Ma davvero? Riesci a capire che sono ferito? Come ti sentiresti tu nella mia situazione? Se fossi scomparso senza dire niente e poi ti annunciassi lapidario di essermi innamorato di un'altra?» «Sarebbe terribile. Ma... non posso farci niente, Frederic. È successo.» L'effetto dello shock diminuì. Il mondo era ancora al suo posto e Frederic ricominciò a respirare liberamente. «Sai di esserti imbattuta in un truffatore e un millantatore?» domandò freddamente. «Frederic, è evidente che tu...» «Ti ha confessato nel frattempo di non essere uno scrittore, né tantome-
no un famoso autore di best seller? Oppure continua a vantarsi dei suoi strabilianti successi?» «Non so che cosa vuoi dire.» «Forse dovresti fare due chiacchiere con Livia. Perché, nel caso tu lo abbia dimenticato, anche il tuo nuovo amante è sposato. Ma è evidente che la cosa non ti fa né caldo né freddo. Dopo tutto, sei sposata anche tu e questo non ti ha impedito di gettarti tra le sue braccia.» Lei rimase in silenzio. Certo, pensò lui aggressivo, che cosa potrebbe dire? «Il fatto è che non ha mai pubblicato neppure un libro. Non c'è nessun editore disposto a pubblicare le sue farneticazioni. Negli ultimi dodici anni Nathan Moor è vissuto alle spalle del suocero e dopo la sua morte ha tolto a Livia tutto ciò che le apparteneva di diritto. Ecco come si comporta quel bel farabutto. Ma chi se ne frega, se è bravo a letto. Giusto?» «Che cosa dovrei rispondere?» domandò lei rassegnata. «Vuoi saperlo da me?» gridò lui. Poi sbatté la cornetta sulla forcella. Rimase a fissare il telefono, come se l'ignaro apparecchio nero potesse dargli una qualche spiegazione per le mostruosità che aveva appena sentito, ma ovviamente rimase muto. Come tutta la stanza, tutta la casa. Nessuno disse: Frederic, è stato solo un sogno. Un brutto sogno. Oppure uno scherzo. Un maledettissimo scherzo di cattivo gusto, sì, ma pur sempre uno scherzo. Non è successo veramente. Si lasciò cadere sul divano, la testa sorretta tra le mani. Era successo davvero e forse lui aveva cominciato a intuire la verità fin da quando aveva aspettato invano Virginia alla stazione di Londra. Sì, ora ne aveva la certezza, aveva intuito una cosa del genere. Da quando aveva saputo che Nathan Moor era ospite a Ferndale House, senza che Virginia lo informasse subito, in lui si era risvegliato un vago, oscuro presentimento, che tuttavia si era rifiutato di riconoscere appieno. Certe cose sono così intollerabili, che a volte ci si rifiuta di vederle persino quando sono scritte sul muro a lettere rosse cubitali. Aveva sempre ritenuto di non essere bravo a mascherare. Ora doveva ricredersi: era un ottimo mascheratore. Alzò la testa e guardò fuori la buia cortina d'alberi. Gli alberi ai quali Virginia si era aggrappata, che erano stati un simbolo della sua strana indole introversa e malinconica. Anche al telefono gli era sembrata diversa. Più nessuna traccia della tristezza che l'avvolgeva incessantemente dalla prima volta che le aveva rivolto la parola durante quel viaggio in treno
all'inizio dell'inverno. All'epoca aveva saputo che il suo compagno di una vita l'aveva abbandonata, scomparendo senza lasciare traccia, perché si riteneva responsabile della tragica morte di un bambino, figlio di loro vicini. Lui aveva trovato ragionevole che, a causa di questa storia, lei apparisse spesso tormentata, chiusa in se stessa e triste. A un certo punto si era così tanto abituato al suo animo crucciato, che non si era più chiesto se fosse normale che perdurasse anche a distanza di anni. La pena era semplicemente una parte di Virginia, qualcosa che faceva parte di lei, come le braccia e le gambe, i capelli biondi e gli occhi azzurri. Virginia era spesso infelice. Evitava il contatto con altre persone. Viveva in una casa così buia, per via degli alberi che la circondavano, che anche d'estate con il sole bisognava tenere le luci accese. Non aveva mai riflettuto troppo su queste cose. Si sarebbe dovuto sorprendere? Avrebbe dovuto parlarne con lei? Poteva rimproverarsi di essere stato distratto? Cieco? Si era accorto perfettamente dei suoi stati depressivi, a volte più marcati, altre volte più lievi. Sarebbe stato suo dovere approfondire la cosa, offrirle aiuto? Certo, le aveva chiesto spesso se si sentisse bene. E si era accontentato della sua generica risposta tutto bene. Era stato più comodo così, piuttosto che approfondire il discorso. Con il suo tutto a posto nelle orecchie, era ripartito tranquillo per Londra, dove si tratteneva a lungo per coltivare le sue ambizioni politiche. Aveva forse qualcosa da rimproverarsi? Non è certo una buona ragione per portarsi a letto un altro, per la miseria, pensò. Siamo sposati, abbiamo una figlia. Se era infelice insieme a me, avrebbe dovuto dirmelo. Avremmo potuto parlare. Cercare un consulente familiare, o che so io. Avremmo potuto lottare. Ma non si può mollare tutto e scappare via! E la cosa più assurda di tutte era che fosse stato proprio quel millantatore di Nathan Moor, il nullatenente, sfacchinato, truffatore, a riuscire, nel giro di pochi giorni, a farsi breccia nell'animo di Virginia. Fino a quel posto dove custodiva la propria tristezza. Fino a quel luogo che lui, Frederic, non aveva mai scoperto. Che Nathan Moor fosse riuscito a toccare qualcosa che prima d'ora mai nessuno aveva raggiunto? Sciocchezze, si disse, un mucchio di maledette sciocchezze. Ma allora che cosa era stato? Si alzò con gesti stanchi. Kim si sarebbe svegliata tra poco. E anche Livia. Doveva dirle che cosa era successo? Ma non se la sentiva proprio di sedersi con quel menagramo di donna e di colpo trovarsi unito a lei da un destino comune. Due cornuti, che aspettavano il ritorno dei loro partner,
chissà quando. Sempre ammesso che fossero disposti a tornare. Partirò per Londra, si disse, non voglio starmene seduto qui ad aspettare i suoi comodi, quando si sarà stufata del suo nuovo amante. Oppure quando le tornerà in mente di avere una figlia di cui è responsabile. Allora sarà lei ad aspettarmi. 2 Era passata una settimana esatta dal giorno della scomparsa di Rachel. Oggi era il 3 settembre, domenica. La domenica precedente, il 27 agosto, Rachel era uscita per andare in chiesa e non aveva più fatto ritorno a casa e Robert aveva dovuto identificare il suo cadavere all'obitorio. Una settimana. Era come se fosse passata un'eternità, un mondo, una vita intera. Rispetto all'agonia dei giorni passati, quella domenica mattina pareva a Claire Cunningham un supplizio ancora maggiore. Aveva costantemente davanti agli occhi lo scorrere delle ore com'era avvenuto sette giorni prima. A quest'ora mi sono alzata. Adesso ero in cucina a preparare la colazione. Più o meno adesso Rachel è entrata in cucina. Con il pigiama azzurro con il disegno della testa di cavallo sul davanti. L'ho sgridata, perché era a piedi scalzi, e il pavimento della cucina è sempre molto freddo. Ho brontolato sul serio? No. Ero solo un po' irritata, perché le avevo ripetuto mille volte di mettersi le pantofole quando si alzava. Era così cagionevole di gola. Non abbiamo litigato. Le ho detto soltanto, accidenti, Rachel, perché ti dimentichi sempre di mettere le pantofole? Quante volte devo ripeterti che il pavimento è troppo freddo per stare a piedi nudi? Lei ha brontolato qualcosa. È tornata in camera sua ed è ridiscesa con le pantofole ai piedi. Non abbiamo litigato, no. Non l'ho rimproverata. Non è stato come se avessi bisticciato con lei l'ultimo giorno. Prima d'ora non aveva più ripensato a quell'episodio. Le era tornato in mente solo dopo l'incontro con Liz Alby il giorno prima. Perché non aveva smesso un attimo di rimproverarsi per la giostra. A quanto pareva non le aveva soltanto vietato un giro sulla giostra, ma l'aveva trattata anche molto male perché faceva i capricci. «Se sapessi almeno che in quelle ultime ore è stata felice», aveva detto Liz, mentre erano sedute l'una di fronte all'altra nel piccolo bar sulla piazza del mercato. Liz aveva ordinato un caffè, Claire un tè. Nessuna delle due
aveva voglia di mangiare. Claire non aveva praticamente mandato giù più niente dalla scomparsa di Rachel. Aveva lo stomaco completamente chiuso. «Sa, Claire, se potessi riuscire a immaginarla sulla giostra, che grida di gioia, i capelli al vento, per me sarebbe più facile.» Poi era scoppiata a piangere. Anche a Claire sarebbe piaciuto piangere, ma non ci era riuscita. Era rimasta seduta a guardare il vuoto, mescolando meccanicamente il tè. Sapeva che fiumi di lacrime aspettavano di poter finalmente sgorgare da lei, ma, da quando aveva la certezza che Rachel non sarebbe più tornata, non era riuscita a piangere. Lo stesso accadeva al suo stomaco: le lacrime erano rinchiuse, bloccate dietro una qualche porta che non si spostava neppure di un millimetro. In certi momenti si immaginava che piangere l'avrebbe sollevata. Ma ciò che la bloccava era un assoluto terrore di ciò che l'aspettava oltre quella paralisi. Soffriva, come non aveva mai sofferto in vita sua, ma si rendeva conto di non aver neppure sfiorato l'entità del dolore chiuso dentro di lei. Era chiuso da qualche parte e una forza pietosa le impediva di raggiungerlo. Non era sicura che l'incontro con Liz Alby potesse servirle a qualcosa. In realtà aveva provato un'antipatia istintiva per lei fin dal primo istante. Troppo dozzinale, troppo ordinaria nell'aspetto, sebbene segnata dal dolore e quindi sicuramente più sensibile di prima. Il suo modo di parlare e i suoi gesti tradivano le sue umili origini. E inoltre Claire comprese ben presto che, nonostante le lacrime e la sofferenza di certo non simulata, Liz non aveva mai avuto un rapporto intimo e amorevole con la figlia. La piccola Sarah era stata una bambina indesiderata, piombata nel momento sbagliato nella vita di una giovane donna che non aveva trovato ancora il suo posto nel mondo e che considerava quella piccola creatura urlante solo un peso e un terribile ostacolo per i propri sogni e i propri obiettivi. Mentre ascoltava il suo sfogo, Claire aveva pensato più di una volta con impeto aggressivo che Liz si meritava ciò che le era successo, perché sicuramente, da quando era nata, non aveva fatto altro che pensare a un modo per sbarazzarsi della figlia. Invece, perché io? È così ingiusto! Amavo tanto Rachel. Era la mia primogenita, un miracolo, la realizzazione di un sogno. Era un dono del cielo. Non è passato neppure un istante senza che io e Robert non fossimo grati di poter vivere con lei. Ma poi era rimasta sgomenta di se stessa, perché non era normale pensare certe cose, e non era giusto augurare un simile tragico destino a Liz Alby. Soprattutto non era giusto che alla piccola Sarah fosse capitata una
fine tanto orribile. A nessun bambino dovrebbe succedere una cosa del genere. Trascinando i piedi, si spostò dalla cucina al soggiorno. Era una stanza accogliente, con un grande tavolo di legno dove spesso Rachel si sedeva a disegnare. La sala da pranzo con il camino, le tendine a fiori e la vista sul giardino sempre un po' incolto, ma per questo dall'aria molto più incantata, era sempre stata la stanza di famiglia molto più del salotto, che dava verso la strada. Qui avevano trascorso tanti bei momenti tutti e quattro insieme. Avevano giocato insieme oppure, mentre le bambine si divertivano insolitamente di buon accordo a disegnare i vestiti per le loro bambole di carta, Claire e Robert leggevano davanti al camino, oppure chiacchieravano sottovoce sorseggiando un bicchiere di vino. Certi momenti non sarebbero tornati mai più. Anche se si sarebbero dovuti sforzare di ridare alla piccola Sue un pezzetto del vecchio mondo felice per offrirle un'infanzia felice. Non avrebbero mai smesso di vedere la ferita sempre aperta che la morte di Rachel aveva inferto alla famiglia. La domenica precedente, la tavola era stata apparecchiata per colazione. Cornflakes con latte e frutta per le bambine, insieme a pane tostato e diverse varietà di marmellata. Rachel aveva bevuto una cioccolata e poi, come sempre, le era rimasta una lunga striscia marrone sopra il labbro. Nonostante il piccolo rimprovero per le pantofole, era di ottimo umore. Aspettava con ansia l'ora di andare in chiesa. Oggi la tavola era vuota. Né Claire né Robert sentivano appetito. Sue era sempre dalla zia a Downham Market. Sarebbero dovuti andare a riprenderla presto. Non aveva ancora idea di che cosa fosse successo, ma di certo cominciava a essere inquieta. Rachel era sempre stata gelosa di Sue. È normale, aveva pensato Claire, è del tutto normale. Possibile che la presenza della sorellina piccola tormentasse Rachel più di quanto ritenessero i genitori? Che cosa significa normale in un contesto simile? Avrebbero dovuto reagire con più comprensione agli sfoghi di rabbia della loro primogenita? Prenderla più sul serio? Avrebbero dovuto evitare di prenderla in giro e minimizzare il problema? Avrebbero, avrebbero, avrebbero... quel terribile avrebbero sarebbe rimasto per sempre con loro, senza la minima possibilità di poter cambiare di una virgola ciò che era successo. Sentendo bussare piano alla porta, Claire si girò sulla soglia della stanza che custodiva così tanti ricordi e uscì in corridoio. Robert era di sopra nel suo studio, ed evidentemente non aveva sentito. Claire aprì la porta senza
timore. Non desiderava in alcun modo avere a che fare con i giornalisti, ma non si faceva problemi e avrebbe mandato tranquillamente a quel paese un reporter. In quel momento non c'era in pratica nulla che le facesse paura. Forse era necessariamente così, dopo che a una persona era capitato il peggio. Il visitatore era il parroco, Ken Jordan. La guardò un po' incerto. Dopo tutto Claire non frequentava la parrocchia. «Se la mia visita la disturba, me lo dica chiaramente», la pregò. «Non vorrei infastidirla. Ma pensavo... visto che oggi è passata una settimana esatta da...» «Non dovrebbe essere in chiesa?» chiese Claire. Lui sorrise. «Ho ancora un po' di tempo.» Lo invitò ad accomodarsi in salotto. Su una libreria c'era una foto di Rachel. Era stata scattata la primavera precedente, in occasione di una gita scolastica. Rachel portava una giacca a vento rossa, aveva i capelli agitati dal vento e un viso raggiante. «Una bambina così carina e affettuosa», disse Ken. «Già», assentì Claire. «E questa è l'altra vostra figlia?» accanto alla foto di Rachel ce n'era una di Sue. Una Sue sorridente l'estate scorsa sulla spiaggia di Wells-next-theSea. Con un costume azzurro e un cappellino di paglia bianco. «Questa è Sue.» Adesso per favore non dica che devo essere riconoscente se almeno ho ancora lei! Non lo disse. Non c'era possibilità di consolazione e lui lo sapeva. «La prego, si accomodi», disse Claire. Lui si sedette sul divano. Non sembrava affatto un prete, pensò lei. Jeans, pullover antracite e giacca in tono. Era ancora piuttosto giovane. «Rachel veniva molto volentieri al catechismo la domenica», disse. «Era molto affezionata a Donald Asher. Le piaceva tantissimo quando lui suonava la chitarra e i bambini cantavano tutti insieme.» Lui sorrise. «Già, Don ci sa proprio fare con i bambini. È molto intuitivo.» «Ieri ho incontrato la mamma... la mamma dell'altra bambina», disse Claire. Non sapeva neppure lei perché glielo raccontasse. Forse perché aveva un'aura che ispirava fiducia. Forse era solo un tentativo per intavolare una conversazione. Lei era fatta così. Funzionava anche quando dentro si sentiva morire. «Liz Alby. La madre di Sarah Alby.» «Sì. Un altro caso agghiacciante.»
«È piena di terribili sensi di colpa. Poco prima della... sparizione di Sarah, le aveva impedito di andare sulla giostra, anche se la bambina avrebbe tanto desiderato farlo. L'aveva sgridata per questo. E adesso non riesce a perdonarsi. Posso capirla. È tutta la mattina che...» si morse il labbro. Lui la guardò, benevolo e disponibile. «Sì?» «È tutta la mattina che penso a come... sono state le mie ultime ore con Rachel. Se c'è stata qualche discordia. Ero contrariata, perché era scesa in cucina a piedi scalzi. Il pavimento è di pietra, e Rachel era molto delicata di gola. Non mi sono arrabbiata sul serio, ecco, ma ero irritata, perché glielo ripetevo continuamente... non ricordo più bene... cioè, ricordo le parole che le ho detto, ma non ricordo con quale tono, se ero veramente arrabbiata, o solo un po' nervosa...» Non riuscì a proseguire. Era indifferente che fosse stata arrabbiata, stizzita o solamente contrariata. In ogni caso era stata una reazione del tutto gratuita. Solo perché era scalza! Una cosa così irrilevante. Così maledettamente irrilevante. Ken Jordan le strinse la mano in un gesto tranquillizzante e consolatorio. «Non stia a tormentarsi per questo, Claire. Tutte le madri vietano ai figli ciò che essi vorrebbero. Tutte le madri si arrabbiano, sgridano, perché i piccoli non ubbidiscono. E lo fanno per il bene dei bambini. Ma questo non cambia minimamente l'amore che provano per loro. Lei era piena di premure nei confronti di Rachel domenica scorsa. Le stava a cuore che non si prendesse un raffreddore. E anche se Rachel magari avrà storto la bocca per la storia delle pantofole ha comunque avvertito il suo amore e la sua sollecitudine. Di questo può stare sicura.» Le sue parole le fecero bene, ma il dolore era troppo forte, troppo recente, per trarne un autentico conforto. In quel momento non riusciva a immaginarsi che un giorno sarebbe riuscita a trovare consolazione. «Continuo ad aggrapparmi al ricordo di come fosse felice per l'incontro di domenica scorsa», disse, «era entusiasta, sa. Per via di quel parroco londinese che doveva mostrare non so quali diapositive. Non vedeva l'ora.» Sospirò, si vide davanti agli occhi Rachel, esaltata e raggiante. Era una bambina piena di entusiasmo e questa era una sua caratteristica che Claire amava molto. «Quale parroco?» domandò Ken. Lei alzò la testa, si accorse che il sacerdote aveva aggrottato la fronte. «Mi ha detto che doveva venire un parroco da Londra», spiegò lei. «Per mostrare delle diapositive. Su... sull'India, credo. Rachel era molto curiosa.»
«È strano», disse Ken, «non so assolutamente nulla di questo progetto. Non era previsto né l'arrivo di un altro prete né una proiezione di diapositive. In genere Don concorda sempre con me tali iniziative.» «Ma Rachel me ne ha parlato. Me lo ricordo perfettamente. Stava per uscire quando me lo ha detto. Era così felice che gliene chiesi il motivo... Rachel si interessava di tutto, sa. Non c'era niente che la lasciasse indifferente.» Cominciò a piangere piano. Ma non era il torrente di lacrime purificante, bensì solo poche lacrime solitarie e incerte. Rachel. Ah, Rachel, potessi abbracciarti una volta ancora. Sentire la tua risata e guardare i tuoi occhi vivaci. Ammirare le tue delicate lentiggini sul naso. Potessi sentire ancora la tua guancia calda contro la mia. Potessi almeno un giorno tornare da te! «Claire, forse non è il momento migliore, ma dovrebbe chiarire questa cosa», disse Ken con aria molto grave. «Sono quasi del tutto certo che non fosse in programma nessuna attività del genere. Né domenica scorsa né per il futuro. Donald Asher non mi ha detto niente in proposito. E non mi viene neppure in mente una ragione che abbia potuto indurre Rachel a confondersi. Può darsi che non sia niente di importante, ma bisognerebbe andare a fondo della cosa.» Lei alzò la testa. Le lacrime si erano già asciugate. Il tempo del pianto era ancora lontano. «Adesso non ha più importanza», disse. Ken si sporse in avanti. «Invece sì, Claire. È importante, perché questa storia potrebbe essere collegata alla morte di Rachel. Io stesso farò delle ricerche. Per prima cosa, parlerò con Don. E dobbiamo informare la polizia. Claire, vuole anche lei che chi ha fatto quelle cose tremende a Rachel e alla vostra famiglia venga arrestato, giusto?» Lei annuì. In realtà non era ancora arrivata al punto di volerlo per davvero. Nell'oceano di dolore in cui nuotava, questo appiglio non era ancora affiorato. L'appiglio di lottare affinché fosse fatta giustizia dopo la morte di Rachel. Ken se ne accorse. La guardò dolcemente. «Come posso aiutarla, Claire? Vuole pregare insieme a me?» «No», rispose lei. Non avrebbe mai più pregato in vita sua. 3
Aveva chiesto a Kim se volesse restare a casa sotto la tutela di Livia, oppure se preferisse tornare da Jack e Grace e Kim aveva optato per i più familiari Walker. L'aveva portata a casa loro a mezzogiorno ed era stato assalito da profondi sensi di colpa alla vista del forte raffreddore di Grace, ma la donna aveva cercato subito di dissuaderlo con i suoi modi gentili. «Davvero, signore, Kim è come una nipotina per noi e una nipotina può stare dalla nonna, anche se questa ha un po' di raffreddore. Non si deve preoccupare.» «Purtroppo devo tornare a Londra...» «Ma certo.» «Domani ricomincia la scuola...» «Ce la porteremo e andremo a prenderla. Non è un problema. Non si dia pensiero. Pensi prima di tutto a se stesso, signore. Devo ammettere che il suo aspetto non mi piace affatto. È bianco come un lenzuolo.» Lui si era guardato allo specchio. Era proprio vero, aveva un'aria patetica. Era afflitto da una tremenda emicrania. Aveva le labbra grigie, la bocca ridotta a una linea sottile. «Ma, sa. La situazione attuale non è... semplicissima.» Lei lo aveva guardato piena di comprensione. Quanto gli faceva rabbia essere compatito! La cosa peggiore era che ne avrebbe ricevuta ancora moltissima. Non appena fosse stato reso noto il motivo della fuga di Virginia. «Sua moglie... non si è ancora fatta viva?» «No», rispose lui. Non aveva voglia di spiegare niente a Grace Walker, né la verità né una versione addolcita. Con l'auto a noleggio rifece il tragitto fino a Londra. Aveva i nervi a pezzi, lo sapeva e sarebbe stato meglio se non si fosse messo al volante. Ma l'idea di stare seduto sul treno, costretto all'immobilità, gli risultava intollerabile. Guidando se non altro faceva qualcosa. E poi, essendo domenica, il traffico era scarso e il viaggio fu veloce. Alle quattro era già nel suo appartamento, dove si riempì subito un bicchiere di whisky che svuotò in un colpo solo. Per la prima volta in vita sua sentiva il bisogno di lasciarsi andare completamente. Di ubriacarsi, fino a non provare più niente. Fino a non sapere più chi fosse. Né chi fosse Virginia. Fino a non ricordare più di avere una moglie. L'alcol scacciò dalla sua mente le immagini più dolorose, quelle di Virginia teneramente abbracciata a Nathan Moor, ma non riuscì a portargli l'oblio che Frederic sperava. All'improvviso si sentì assalire dal desiderio
infantile di portare scompiglio e disordine nel nido d'amore che si era creato su al Nord nella sua casa di Skye. Andò al telefono e dettò questo telegramma: Sono tornato a Londra + Questioni di lavoro + Kim da Grace, che è malata + domani inizio scuola + tua figlia ha bisogno di te + Frederic Provò un po' di vergogna per se stesso, ma riconobbe di aver detto soltanto la verità e che era più che mai opportuno ricordare a Virginia i suoi doveri materni. Era stato quanto mai irresponsabile da parte sua essersi completamente dimenticata della figlia. Che cosa le aveva fatto Nathan Moor? Che cosa le aveva dato? Che cosa vedeva Virginia in lui? C'era da impazzire. Sapeva che quel tipo non era a posto, lo sapeva e basta ed era convinto che questa sensazione non avesse niente a che fare con la gelosia. A parte tutto, aveva ottenuto indizi più che sufficienti da Livia. Autore di successo! Ci sarebbe stato da ridere, se non fosse stata una situazione tragica. Livia. L'idea che stesse da sola a Ferndale non lo entusiasmava troppo, anche se lei non era assolutamente tipo da scappare con l'argenteria. Non avrebbe potuto mandarla via senza una ragione e poi trovava di non essere obbligato a sbarazzarsi di Livia. Era meglio se avesse aspettato il marito e gli avesse reso la vita impossibile al suo ritorno dalla piccola avventura amorosa con Virginia. Purtroppo Livia era un esserino così timido e introverso che suo marito non avrebbe avuto da temere attacchi troppo violenti da parte sua. Per spiegare le cose a Grace, lui aveva presentato Livia come una conoscente estiva che si sarebbe trattenuta per qualche tempo in Inghilterra. Grace era troppo educata per fare altre domande, ma di sicuro la sua mente era in fermento. Kim le aveva raccontato certamente che anche Nathan Moor aveva soggiornato a Ferndale. L'improvvisa scomparsa di Virginia poteva averla addirittura indotta a trarre conclusioni non troppo lontane dal vero. Forse ne aveva parlato con Jack, che magari in segreto aveva già soprannominato il suo capo il cornuto. Verso le cinque e mezzo Frederic non ne poteva più di stare in casa. Fuori pioveva. Si infilò il Barbour e uscì lo stesso, camminando per le strade fino ad arrivare a Hyde Park. Nonostante la fastidiosa pioggerellina, il parco era straordinariamente affollato. C'erano ragazzi con lo skateboard, famiglie con bambini, anziani che compivano diligenti la passeggiata prescritta dal medico. E coppie di innamorati. Lui vedeva soprattutto
quelle. Tenendosi per mano, o abbracciati, camminavano per i vialetti, si fermavano, si baciavano, dimentichi del mondo che li circondava. A uno sguardo più attento, si rese conto che molti di loro sembravano incantati, racchiusi a due a due in un guscio che li isolava dal mondo e dalle banalità della vita. Ci pensò su, ma non gli venne in mente nessuna situazione in cui anche lui e Virginia avessero provato questa intimità, questa fusione l'uno nell'altra. Neppure nei primi tempi della loro storia. E, a essere proprio sincero, sapeva di aver provato nei confronti di Virginia la stessa identica magia che ora vedeva dipinta sui volti dei giovani intorno a lui. Ma era stato il solo. Lui l'aveva amata, adorata, ammirata, L'aveva corteggiata. Era stato pazzo di lei. E in quel vortice di emozioni travolgenti non si era accorto di quanto fosse debole l'eco destata in lei. C'erano state dichiarazioni d'amore - anche se lei gli aveva rivolto raramente un ti amo - e lei aveva accettato con stupefacente rapidità di diventare sua moglie. Ma mentre lui era convinto di morire se non la sposava lei era rimasta apatica, chiusa in se stessa come al solito anche il giorno del matrimonio. Guardò una ragazza bionda che pendeva dalle labbra di un giovane con i capelli lunghi. Doveva riconoscere che non era sincero affermando di non aver notato niente. A dire il vero in certi momenti era stato assalito persino dalla tristezza di fronte alla freddezza di lei. Ma l'aveva imputata al suo modo di essere, alla sua inclinazione alla malinconia, allo struggimento profondamente radicato in lei. Non aveva preso in considerazione neppure per un secondo l'ipotesi che la distanza fosse causata da una mancanza di sentimenti per lui. Probabilmente non aveva voluto pensarci di proposito. Il suo amore era stato troppo grande, troppo coinvolgente. Lui, che si era sempre considerato un uomo razionale e pragmatico, era rimasto così catturato dal fascino di una donna da negare la realtà e adattarla alla propria situazione, senza neppure rendersi conto di questo processo. Era un esempio da manuale di rimozione totale. E alla fin della fiera si trovava a Hyde Park in un piovoso pomeriggio di settembre, frustrato e stanco, a guardare le coppie di innamorati, con la consapevolezza che la moglie, la donna che amava più di ogni altra al mondo, in quel momento amoreggiava nella loro casa di vacanze alle Ebridi con un tipo sospetto piombato dal nulla e con ogni probabilità non aveva nessuna intenzione di tornare a casa. Che cosa poteva indurlo a pensare che volesse farlo? Per tutto il tempo si era immaginato di vederla tornare con la coda tra le gambe, dopo che Moor l'aveva mollata come una patata bollente, si era immaginato di discutere con lei, di chiederle spiegazioni e di ottenerle - e alla fine si sarebbero riconciliati.
E se invece non fosse tornata? Se non riuscissi a riconquistarla? si chiese. Fece qualche passo stanco verso la sua banca, che luccicava bagnata di pioggia, poi lasciò stare. Come ci sarebbe voluta una bella vodka. Alcol al cento percento. Voleva sedersi sui gradini della sua banca come un barbone e farsi scivolare in gola il fuoco liquido dell'acquavite. Per non dover pensare che forse aveva perso Virginia per sempre. Né al fatto che forse il suo animo non avrebbe retto al peso del dolore che lo opprimeva. Poteva succedere anche quello, ed era forse la prospettiva peggiore di tutte. 4 Erano le cinque del pomeriggio, quando Ken Jordan bussò alla porta di casa Lewis. Conosceva bene Margaret e Steve Lewis, i genitori di Julia, assidui parrocchiani, che non perdevano mai la messa domenicale. Sapeva che Julia era stata molto amica di Rachel Cunningham. Non rimase perciò sorpreso vedendo che Margaret Lewis aveva gli occhi rossi di pianto quando venne ad aprirgli. Già durante la messa quella mattina aveva singhiozzato piano tra sé mentre lui nell'omelia si soffermava a parlare di Rachel e del suo terribile destino. «Spero di non arrivare in un brutto momento», disse Ken, «ma è molto importante.» Lei lo fece accomodare. «No, al contrario, sono contenta di vederla, parroco. Non sono riuscita a smettere di piangere oggi, forse perché è passata una settimana esatta da quando...» Si morse il labbro e non terminò la frase. «Siamo ancora tutti sconvolti», disse Ken. «Chi può fare una cosa simile? Chi può commettere un delitto tanto atroce?» «Deve trattarsi di una persona malata», rispose Ken. «Molto malata.» La seguì in salotto. Seduto al piccolo tavolo rotondo davanti al bovindo c'era Steve Lewis con una tazza di tè. Si alzò. «Signor parroco! Che piacere vederla. Si accomodi.» Ken si sedette e Margaret portò un'altra tazza e gli versò un tè. «Sono venuto in primo luogo per parlare con Julia», spiegò Ken, «ma prima vorrei farvi una domanda: Julia vi ha parlato di una proiezione di
diapositive in programma per domenica scorsa da parte di un parroco di Londra?» Margaret e Steve lo guardarono confusi. «No, non ci ha detto niente del genere.» «Non vorrei intromettermi nel lavoro della polizia», disse Ken, «né giocare al detective. Ma mi è venuto un dubbio. Stamattina sono stato dalla madre di Rachel.» Ken raccontò loro brevemente quanto gli aveva riferito Claire Cunningham, «Dopo pranzo sono riuscito a mettermi in contatto con Donald Asher. Poteva benissimo darsi che avesse programmato qualcosa senza parlarmene, anche se sarebbe stato insolito. In effetti però Don non sapeva niente di una proiezione di diapositive. Non riesce a spiegarsi che cosa intendesse dire Rachel. E ora penso...» «Sì?» domandò Steve trepidante. «Forse è una sciocchezza. Ma potrebbe esserci un collegamento. Tra la scomparsa di Rachel e il suo omicidio e questo bizzarro... accenno a un misterioso prete di Londra che né io né Asher conosciamo.» «In effetti è alquanto strano», concordò Steve. «Vado a chiamare Julia», disse Margaret. Julia scese dalla sua camera. Era pallida e non aveva più l'aria spensierata di una settimana prima. La sua amica del cuore era morta e non sarebbe più tornata. Ken Jordan ebbe l'impressione che la bambina fosse ancora sotto shock. «Il parroco vorrebbe parlarti, Julia», disse Margaret. Julia lo fissò con i suoi grandi occhi infantili. Lui si domandò all'improvviso che conseguenze avrebbe avuto quella storia sulla sua vita futura. Le sorrise. «Voglio farti solo una domanda, Julia. Poi puoi subito tornare di sopra a giocare.» «Non stavo giocando», lo corresse Julia. «Ah no?» «No. Pensavo a Rachel.» «Le volevi molto bene, vero?» Julia annuì con forza. «Era la mia migliore amica.» «Erano come sorelle», spiegò Margaret. «Come sorelle...» ripeté Ken. «Allora vi confidavate proprio tutto, giusto? Scommetto che sapevi tutto di Rachel. Magari addirittura più dei suoi genitori, vero?» «Sì», confermò Julia. «Sono sicuro che Rachel allora ti avrà parlato anche della proiezione
delle diapositive? Quella organizzata da un parroco di Londra durante l'incontro di catechismo con Don?» Julia sgranò gli occhi. Nel suo sguardo lampeggiò una scintilla. Centro, pensò Ken. «Te ne aveva parlato?» insistette. Julia tacque e abbassò lo sguardo per terra. «Julia, se sai qualcosa, devi dirlo», la esortò il padre. «È molto importante.» «Donald Asher non sapeva niente di questa iniziativa», spiegò Ken, «e ciò significa che Rachel deve averlo saputo da qualcun altro. Qualcuno deve avergliene parlato. Tu sai chi è stato?» Julia scrollò la testa con forza. «Però sai che qualcuno gliene aveva parlato?» Julia assentì, continuando a tenere lo sguardo basso. «Per favore, Julia, raccontaci tutto», la implorò Margaret. «Forse potrebbe servire per trovare la persona che ha... che ha fatto tanto male a Rachel.» Con un filo di voce Julia bisbigliò: «Ho promesso a Rachel...» «Che cosa?» chiese Ken dolcemente. «Che cosa hai promesso a Rachel? Di non parlare con nessuno del parroco di Londra?» Un altro cenno d'assenso. «Sono sicuro che ora sai che Rachel non avrebbe niente in contrario se infrangi la tua promessa. Forse qualcuno è stato molto cattivo con lei. L'ha fatta soffrire. Qualcuno di cui si fidava. Lei vorrebbe che questa persona venisse punita.» «Julia, devi dire quello che sai», intervenne Steve. «Sei grande, ormai, e capisci che cosa è importante. Giusto?» Julia annuì di nuovo. Non sembrava rendersi conto del significato che gli adulti attribuivano alle sue dichiarazioni, ma avvertiva la loro urgenza e si era tranquillizzata sentendo che Rachel non aveva niente in contrario anche se avesse rotto il voto del silenzio. «Quel... quell'uomo ha detto a Rachel che ci avrebbe fatto vedere delle diapositive. Sui bambini in India.» Tutti trattennero il fiato. «Quale uomo?» chiese Ken. Julia si decise ad alzare gli occhi. «L'uomo fuori dalla chiesa.» «Lo hai visto anche tu?» chiese Margaret. Sulle sue guance erano comparse chiazze rosse di ansia. «Hai parlato con lui?»
«No.» «Rachel l'ha incontrato da sola?» «Sì. Una domenica prima che... prima che succedesse. Qualche settimana fa. Stava andando al catechismo e lui era sulla strada davanti alla chiesa.» «E le ha rivolto la parola?» «Sì. Le ha chiesto dove andava e se voleva aiutarlo...» «E poi?» Julia deglutì. «Poi le ha spiegato che era un parroco di Londra e voleva farci vedere delle bellissime diapositive. Sui bambini in India. Ma doveva essere una sorpresa, e lui voleva che Rachel non lo dicesse a nessuno. Nemmeno alla mamma e al papà, perché loro l'avrebbero raccontato ad altri e la sorpresa sarebbe finita.» «Mhm», fece Ken, «e Rachel ovviamente non voleva rovinare tutto quanto, vero?» Julia abbassò la testa. «A me però l'ha raccontato lo stesso. Quando è tornata dalle vacanze.» «Oh be', ma tu eri la sua migliore amica! All'amica del cuore si racconta sempre tutto, avrebbe dovuto saperlo anche quello sconosciuto. È una cosa diversa dai genitori.» «Ah sì?» chiese Julia speranzosa. Era chiaro che non voleva rischiare di dire qualcosa di brutto sulla sua amica morta. «Stai pure tranquilla. E quando ti ha raccontato questa cosa?» «Soltanto... sabato. Il giorno prima che... che scomparisse. Era appena tornata dalle vacanze ed è venuta subito a trovarmi.» «Doveva incontrarsi di nuovo con quell'uomo?» «Sì. Lui le aveva detto che gli serviva un'assistente. Ed era lei. Dovevano incontrarsi prima del catechismo a Chapman's Close. Lui le avrebbe fatto vedere che cosa doveva fare e poi l'avrebbe riaccompagnata in macchina alla chiesa.» Margaret chiuse gli occhi per un istante. Steve fece un profondo respiro. «Chapman's Close», ripeté Ken. Una strada con un paio di case all'inizio e poi solo campi e prati che si perdevano in aperta campagna. Se un uomo avesse fatto salire una bambina in auto in quel posto, poteva stare sicuro che nessuno l'avrebbe visto. E avrebbe potuto appostarsi in anticipo in una delle stradine laterali, per assicurarsi che la sua piccola vittima arrivasse da sola. In caso contrario avrebbe avuto tutto il tempo di sparire. Un piano semplice, senza grossi rischi.
«Ero arrabbiata con lei», disse Julia, con gli occhi pieni di lacrime. «Abbiamo anche litigato.» Ken ne intuì la ragione. «Sarebbe piaciuto anche a te avere un incarico come il suo, vero? Essere l'assistente di un uomo importante.» «Sì. Ero... proprio molto arrabbiata con lei!» Le lacrime cominciarono a scorrerle sulle guance. «Lo trovavo così ingiusto. Sempre Rachel! Tutte le cose più belle capitavano sempre a lei! Ho pensato che non ce l'avrei fatta, a vederla lì davanti con quell'uomo che aiutava con le diapositive, mentre io dovevo stare seduta insieme agli altri bambini. Non volevo più andare al catechismo.» «Perciò il mal di gola è capitato proprio al momento giusto, vero?» Lei singhiozzava forte. «Non faceva tanto male. Solo... un pochino. Ho detto alla mamma che mi faceva tanto male, ma non era veto. Non volevo andarci. Ero così invidiosa di lei. E invece...» «Sì?» Julia si asciugò il viso con la manica del pullover. «E invece Rachel è stata così carina. Alla fine mi ha detto che potevo andare con lei. A Chapman's Close. Voleva chiedere a quell'uomo se magari non aveva bisogno anche di me. Ma io ero troppo arrabbiata e le ho detto che non ci andavo.» «Oh, mio Dio», sospirò Margaret. Tutti tacquero. I tre adulti si chiedevano la stessa cosa: che cosa sarebbe accaduto se Julia avesse accompagnato Rachel? Avrebbe condiviso anche lei quel tragico destino? Oppure, cosa assai più probabile, l'uomo non si sarebbe fatto vedere trovandosi di fronte una seconda ragazzina? Forse Rachel sarebbe stata ancora tra di loro, se lei e Julia non avessero litigato? Ma, senza il litigio, probabilmente Rachel non si sarebbe offerta di portare Julia con sé, pensò Ken Jordan, strofinandosi gli occhi che gli bruciavano per la stanchezza. Quell'ultimo quarto d'ora l'aveva prosciugato del tutto. «Dobbiamo informare la polizia», disse, rivolto a Steve e Margaret. «Probabilmente vorranno parlare di nuovo con Julia. Mi spiace, ma...» «Non si preoccupi», si affrettò a tranquillizzarlo Steve, «anche noi vogliamo che quel tipo venga arrestato, e può darsi che la testimonianza di Julia serva a farlo.» «Perché non ci avevi raccontato niente?» chiese Margaret rivolta alla figlia. Stava piangendo. «Perché non ci avete detto niente? Ti ho spiegato tante volte che non devi dare ascolto agli sconosciuti. E di sicuro anche Rachel se lo sarà sentito ripetere mille volte da sua madre. Perché...»
«Non ora, Margaret», la interruppe Steve dolcemente, «non serve a niente, ormai. Ne parleremo più tardi con calma.» Ken si rivolse nuovamente a Julia. Non sperava che la ragazzina rispondesse alla sua domanda, ma voleva provarci lo stesso. «Rachel ti ha detto che aspetto aveva quell'uomo?» Julia annuì. «Ha detto che era bellissimo. Somigliava a un attore.» Ken, Steve e Margaret si scambiarono un'occhiata. Poteva essere vero, oppure no. Con tutta probabilità, Rachel aveva abbellito la storia e aveva trasformato il suo assassino in Mister Universo. Ma, anche se si fosse trattato per davvero di un Adone, a che cosa serviva saperlo? A niente, si disse Ken Jordan. La polizia saprà soltanto che Rachel è stata uccisa da un uomo di bell'aspetto. In ogni caso, anche se era domenica, avrebbe telefonato subito alla polizia, non appena tornato a casa. Forse, dalle poche informazioni raccolte, riuscivano a ricavare più di quanto lui immaginasse. 5 Il cielo sopra Skye era di un azzurro limpido, freddo e metallico. Nel corso della giornata il vento aveva spazzato via anche le ultime nubi. L'aria era cristallina come un diamante. Il mare rifletteva l'azzurro del cielo ed era costellato da spesse creste bianche. Il sole stava scendendo verso ovest. Ancora poco tempo e l'orizzonte si sarebbe tinto di colori pastello che a poco a poco si sarebbero allargati a inondare tutta l'isola, prima che calasse la notte. La seconda notte. La seconda notte con Nathan. Virginia si era allontanata da sola per fare una passeggiata. Voleva stare sola per qualche ora e Nathan aveva intuito questo suo bisogno, senza che lei avesse dovuto esprimerlo a parole. Si era offerto di tagliare un po' di legna per evitare che restassero a corto di ciocchi per il camino. Lei gli aveva lanciato un'occhiata riconoscente e lui le aveva sorriso. Aveva corso più di un'ora in riva al mare, sul lungo promontorio di Dunvegan Head, senza incontrare anima viva, e aveva lasciato libero sfogo ai pensieri. A un certo punto poi, aveva cominciato a metterli in ordine. Amo Nathan. Questo amore ha cambiato qualcosa dentro di me. Ho la sensazione di essere tornata a vivere dopo tanti anni. Gli ho raccontato di me cose che non sa nessun altro, tantomeno Frede-
ric. Gli parlerò del mio rimorso. Non voglio tornare alla mia vita di prima. Non voglio più separarmi da questa sensazione di libertà, di felicità, di vita. Rivoluzionerò la mia vita. Lascerò Frederic. Ferndale. Magari persino l'Inghilterra. Tutto, tutto è cambiato. La posizione del sole le fece capire che era meglio rimettersi sulla via di casa, se non voleva rischiare di essere sorpresa dall'oscurità. Aspettava con trepidazione la serata. Non vedeva l'ora di rifugiarsi nel piccolo accogliente salotto. Davanti al camino scoppiettante. Un bicchiere di buon vino. Le carezze di Nathan. Provava già il desiderio di fare l'amore con lui. Non riusciva a saziarsene. Frederic le aveva fatto un'impressione terribile al telefono. Era offeso a morte. Scioccato. Disperato. Ma, nonostante questo, lei era sicura di voler proseguire sulla strada intrapresa. Non aveva scelta. Respirava diversamente da prima. Sognava in maniera diversa. Avrebbe voluto abbracciare la vita, stringersela al petto. Il vento le soffiava in faccia sulla via del ritorno. La sua forza era diminuita, ma lei doveva comunque faticare per avanzare. L'aria era fredda e la indusse a chiudersi il colletto del giubbotto. Avrebbe perso anche Skye. Non aveva importanza. Lei e Nathan si sarebbero cercati una nuova Skye. Finché restavano insieme, andava tutto bene. Ma perché si era sentita così morta accanto a Frederic? Perché non lo amava? Perché a volte si era sentita sommersa dalla sua dedizione, dal suo amore incondizionato? Perché si sentiva soffocare dai sensi di colpa nei suoi confronti? Forse aveva sempre saputo che un giorno lo avrebbe lasciato. Forse aveva sempre saputo che non era l'uomo con il quale voleva trascorrere la vita. Forse si era dovuta lasciare morire, per impedire che questa sensazione affiorasse in superficie. Forse si era nascosta dietro gli alti alberi di Ferndale solo per sfuggire alla verità. Non le era mai venuto in mente, non era mai stata sfiorata neppure per un istante dalla prospettiva di raccontargli tutto su di sé, la sua vita, il suo rimorso. Lui sapeva che aveva convissuto per qualche anno in uno stato pseudo-matrimoniale con il cugino, era al corrente della tragica morte del piccolo Tommi e della partenza di Michael da un giorno all'altro, della sua
sparizione totale. Aveva accennato vagamente anche ai propri sentimenti al rimorso che la tormentava per il sollievo che aveva provato quando si era accorta che Michael non c'era più, e per il fatto di averlo abbandonato completamente al suo destino, senza andare a cercarlo. Ma lui non sapeva altro. Non era al corrente dei suoi sfrenati anni londinesi, delle sue numerose relazioni, della droga. Non sapeva niente di Andrew. Non le sarebbe mai passato per la mente di raccontargli queste storie. Forse dipendeva dal suo modo di fare. Era così conservatore, così legato alle consuetudini e all'ordine, era sempre rispettoso di ciò che era considerato lecito. Le informazioni che aveva sul passato della moglie erano accuratamente filtrate e selezionate. Un'immagine sbiadita, schematica quasi, piena di lacune riempite di nebbia. Ed era evidente che la cosa non lo disturbava affatto. Non conosceva la donna che aveva sposato, dalla quale aveva avuto una figlia, con la quale voleva trascorrere il resto dell'esistenza. Non la conosceva, perché si accontentava delle poche briciole che lei gli aveva concesso. E non gli avrebbe mai raccontato il resto. Quello che c'era stato tra lei e Michael. Non lo sapeva neppure Nathan. Ma lei sapeva che glielo avrebbe raccontato. Nathan avrebbe saputo tutto di lei. Perché Nathan non è un codardo, pensò, non è troppo vigliacco da non sopportare l'immagine di una donna anche con i colori peggiori. Il cielo aveva assunto le tonalità pastello tanto amate da Virginia. Rimase ferma a fissare l'acqua. Le striature rosa, lilla e porpora all'orizzonte si fondevano con l'azzurro del cielo, privandolo della sua luminosità. Il sole era una palla arancione acceso, che non emanava più raggi di luce e ben presto sarebbe tramontato nel mare. L'aria era rinfrescata, i richiami dei gabbiani erano diventati più striduli. Avrebbe tolto a Kim suo padre. Avrebbe fatto crollare il mondo sicuro in cui la figlia era cresciuta fino ad allora. Di sicuro si assumeva una pesante responsabilità, l'aveva già fatto quand'era partita per Skye, viaggiando quasi due giorni attraverso l'Inghilterra, per allontanarsi il più possibile dalla sua vita. Quando si era gettata tra le braccia di Nathan. Non aveva tradito soltanto Frederic, ma anche Kim. Forse un giorno qualcuno gliene avrebbe chiesto il conto. Forse avrebbe dovuto pagare per la propria colpa. Ciononostante, non poteva abbandonare la via che aveva intrapreso. Già da lontano vide il fumo che usciva dal comignolo della casa, vide l'alone di luce dietro le finestre, che le dava il benvenuto mentre fuori la sera scendeva sempre più in fretta. Accelerò il passo. Voleva andare da lui.
Lo trovò in ginocchio in salotto, a sistemare contro il muro la catasta di legna che aveva tagliato. Sembrava molto concentrato sul proprio lavoro. «Nathan!» lo chiamò Virginia. Lui alzò lo sguardo. «Virginia!» si alzò e la raggiunse sorridendo. «Sei molto carina. Mi piaci con le gote arrossate e i capelli in disordine.» Un po' imbarazzata da quel complimento, lei si passò una mano tra i capelli. «Fa freddo fuori. E tira molto vento.» «Mhm.» Lui le si avvicinò ancora, si chinò e affondò il naso nel suo collo. «Hai un profumo meraviglioso. Sai di mare. Di vento. Di tutto ciò che amo.» Lei lo guardò. Sapeva di avere gli occhi stupidamente velati, ma non poteva farci niente. Lui tornò a sorriderle e nel suo sorriso lei lesse la consapevolezza dell'effetto che le faceva. «Non so perché», disse, «ma stasera non mi va di mangiare scatolette davanti al solito camino. Che ne dici di andare al pub? Ho una voglia tremenda di fagioli, costolette d'agnello e birra scura!» Lei trasalì. «Credo di avere anche una scatola di fagioli nella dispensa», si affrettò a dire, avviandosi verso la cucina. Nathan la bloccò afferrandola per un braccio. «Non si tratta di questo. Voglio uscire con te.» «Non è la stagione giusta per andare fuori qui su Skye. E poi, finita la stagione estiva, la maggior parte dei pub sull'isola ha già chiuso.» «Ma che dici, Virginia! Come se la gente di Skye potesse stare anche un giorno solo senza pub, senza whisky e senza musica! Ci sono un sacco di locali aperti. Ne conosco un paio a Portree. Che ne diresti del Portree House? Cucinano anche del pesce fantastico.» Lei sospirò. E pensare che di solito lui era così ricettivo. «Non mi sembra un'idea tanto buona», disse infelice. Lui non sorrideva più. «Aha», disse, «mi vuoi tenere nascosto, eh? Con me puoi passeggiare su spiagge deserte, sedere a casa davanti al camino, oppure scopare per ore dietro una porta ben sprangata, basta che fuori non trapeli niente. Qualcuno potrebbe vederci se andassimo a cena fuori. Qui sull'isola ti conoscono. Nascerebbero dei bei pettegolezzi, vero?» Lentamente lei si sfilò la giacca e l'appoggiò alla spalliera di una sedia. Aveva il viso in fiamme. «Nathan, non c'entra niente il fatto che io voglia tenerti nascosto. O che voglia nascondere la nostra relazione. Al contrario. Ma dobbiamo proprio fare una cosa del genere a Frederic? A questo pun-
to? Qui su quest'isola? È casa sua. Continuerà a venire qui. La gente sa che ho passato qui con lui le vacanze in agosto. È l'inizio di settembre, e io sono di nuovo qui con un altro uomo. C'è proprio bisogno di sputtanarlo in questo modo?» Lui scrollò le spalle. «Ti fai molti scrupoli verso di lui.» «Lui non mi ha fatto niente di male. Non c'è assolutamente nulla che io possa rimproverargli. Gli sto già causando molto dolore. Perché peggiorare ancora le cose, facendo di lui il futuro zimbello degli abitanti di Skye?» Lui era contrariato, ma Virginia aveva l'impressione che non si trattasse solo del fatto di andare a mangiare fuori. Quella proposta era stata una prova di forza. Lui aveva perso e questo lo mandava su tutte le furie. Con un gesto conciliante, gli accarezzò teneramente un braccio. «Ehi», disse piano, «non litighiamo, va bene? Beviamoci un bicchiere di vino e poi...» Lui scrollò via la sua mano. «Sul tavolo c'è un telegramma per te», borbottò scontroso. «Un telegramma? Di chi?» «Non ne ho idea. Credi che legga la posta indirizzata a te?» Prese la busta marrone dal tavolo. La linguetta non era incollata, ma solo infilata nella fessura. «Oh, buon Dio», sospirò, dopo averlo letto. Nathan la guardò con aria interrogativa. «Allora? Chi te lo manda?» «Frederic. Da Londra.» Lesse a voce alta: «Sono tornato a Londra + Questioni di lavoro + Kim da Grace, che è malata + domani inizio scuola + tua figlia ha bisogno di te + Frederic». «Molto efficace», commentò Nathan. «Usa la bambina per strapparti dalle mie braccia. Mi chiedo solo che cosa pensa di ottenere. Io non sceglierei mai questa strategia per riconquistare una donna.» «Credo che non voglia farlo nemmeno lui. Evidentemente doveva tornare per davvero a Londra. E Grace dev'essere raffreddata sul serio. Ed è innegabile che domani ricominci la scuola.» Virginia si morse il labbro. «Nathan, temo di dover tornare a casa.» «Devo dire che ti ha in pugno proprio per benino.» «Kim ha solo sette anni. E se Grace è veramente malata...» «Allora c'è sempre suo marito.» «Mi sembra di forzare un po' troppo la mano. Deve già occuparsi della moglie malata e...» «... e portare Kim a scuola domattina e poi andarla a riprendere nel po-
meriggio. Buon Dio, può farcela benissimo. Grace non sarà mica in punto di morte! Avrà un banale raffreddore, al quale sopravvivrà senza problemi.» «Nathan, io ho una figlia. Non posso...» «Che avevi una figlia lo sapevi anche giovedì, quando hai deciso di fuggire quassù.» Lei lo aggredì con improvviso risentimento: «E allora che cosa dovrei fare? Per te è molto più facile! Ti sei lasciato molto meno alle spalle!» «Oh, pur sempre una moglie malata.» «Per te è come una... una...» cercò affannosamente un paragone. Nathan sorrise, ma sul suo viso non c'era più la tenerezza di prima. Il suo era un sorriso freddo e cinico. «Come una cosa?» «Come bere un bicchier d'acqua. Non venirmi a dire che sei tormentato dai rimorsi di coscienza da quando sei venuto a letto con me!» «Assolutamente no. Ma non è neppure così semplice come lo descrivi tu. Penso continuamente a Livia, ma non ritengo che sia un tema con il quale io debba angustiarti. Ho la mia vita e il mio passato, come te. Ciascuno di noi due deve trovare da solo il modo per affrontarli.» «Io non voglio angustiarti con Frederic, ma...» «È proprio quello che stai facendo. Per colpa sua praticamente non possiamo uscire da questa stamberga. Basta che Frederic ti spedisca un telegramma e un attimo dopo tu vuoi ripartire. Frederic qui, Frederic là. Il povero Frederic, al quale hai fatto tanto male! Il povero Frederic, verso il quale dobbiamo avere dei riguardi. Non puoi certo dire che finora io ti abbia tormentato allo stesso modo parlando di Livia e dei suoi sentimenti sicuramente feriti.» Lei si accorse che le stava venendo l'emicrania. Il dialogo stava degenerando perché Nathan voleva che così fosse. Lei aveva parlato di Frederic, ma solo perché lui l'aveva messa sotto pressione con la sua richiesta di andare al pub. Ma sapeva che non aveva senso rimarcarlo, perché lui avrebbe negato la cosa. Era in collera e non riusciva a essere obiettivo. «Si tratta in primo luogo di Kim», disse stancamente. «Errore», la contraddisse Nathan. «È solo che d'ora in avanti Kim verrà spietatamente strumentalizzata. Questo telegramma», indicò la busta che Virginia teneva ancora in mano, «è una dichiarazione di guerra. Frederic combatterà con l'artiglieria pesante, e te l'ha fatto capire chiaramente.» Lei si passò entrambe le mani sul viso. Rimase sconvolta di notare come soffrisse già al pensiero di perderlo.
«Devo tornare lo stesso», disse. «Devi deciderti.» «Tra mia figlia e te?» «Tra tuo marito e me. Se torni adesso, ti pieghi alla sua volontà. Non sarai più una donna che vuole staccarsi.» «Sono anche una madre. Ed è una responsabilità alla quale non posso né voglio sottrarmi.» «Senza questo telegramma non ci avresti minimamente pensato.» «Non sapevo che Grace fosse seriamente malata. E che Frederic fosse già tornato a Londra. Ovviamente mi rendo conto che lo ha fatto per mettermi sotto pressione, ma non posso accettare una prova di forza che ricadrà in ultima analisi su una bambina di sette anni. Nathan, questo devi capirlo!» Lui non rispose e di colpo Virginia ebbe l'impressione di trovarsi tra l'incudine e il martello. Frederic la metteva sotto pressione, ma Nathan non era certo da meno, e non sembrava tormentarsi neppure molto per ciò che provava lei. Le stava mostrando un aspetto di sé che non le piaceva affatto. Si rifugiò nel contrattacco. «Non comportarti come se per te fosse tutto a posto. Giudichi me e il mio comportamento, come se tu fossi inattaccabile. Ma in fondo non mi hai raccontato tutta la verità su di te!» Per un attimo lui parve sinceramente sbigottito. «No?» «No. Per esempio, che mi dici dei numerosi best seller che sostieni di aver già scritto? E che ti hanno fatto diventare in Germania un autore affermato e popolare?» Lui fece un passo indietro. Socchiuse gli occhi. «Oh, abbiamo fatto delle ricerche?» «Non sono il genere di persona che spia il prossimo. È stata Livia a raccontarlo a Frederic.» «Ah, capisco. E naturalmente lui non ha saputo fare di meglio che riferire subito questa notizia alla cara mogliettina!» «Al suo posto ti saresti comportato diversamente?» «Presumo che Livia non abbia raccontato tutto.» «Non ne ho idea. Allora, sei uno scrittore di successo o no?» «Dove sono gli abissi della tua vita?» «E dove sono i tuoi?» Rimasero a fissarsi in silenzio. Alla fine Nathan disse con voce più morbida: «Dovremmo raccontarci tutto. Non abbiamo altra scelta».
Con sollievo Virginia rilevò che la tremenda tensione dei minuti precedenti era scomparsa. Avvertiva di nuovo la tenerezza che Nathan provava nei suoi confronti e lei stessa ritrovò i propri sentimenti verso di lui. Ma la giornata aveva perso il suo smalto. Avevano litigato per la prima volta, e per la prima volta lei si era sentita a disagio in sua compagnia. Lui non aveva manifestato la benché minima comprensione per la sua situazione, né aveva negato le affermazioni di Livia a proposito della sua vita professionale. Il che significava, con ogni probabilità, che era tutto vero. E di colpo lei si chiese anche perché avesse scelto proprio quella sera, proprio il momento del suo ritorno a casa, per assillarla con la proposta di un ristorante, stressandola e rendendola infelice. Non riusciva a scacciare la sensazione che lui fosse stato di cattivo umore già da prima del suo arrivo e l'unico motivo poteva essere il telegramma di Frederic. Questo, tuttavia, implicava che, contrariamente a quanto aveva affermato, in realtà lo avesse letto. Visto che la busta non era incollata, non gli sarebbe stato difficile farlo. Si era adirato e poi aveva fatto in modo di provocare uno scontro a tutti i costi. Di manovrarla in modo tale che alla fine lei si ritrovasse con le spalle al muro, obbligata a parlare dei sentimenti di Frederic e a prenderne le difese. A sua volta questo aveva offerto a Nathan la possibilità di rinfacciarle la propria fedeltà verso il marito. Il risultato era che le sue affermazioni mendaci circa la propria professione, insieme alla possibilità che avesse letto il telegramma, non cementavano certo la fiducia reciproca tra di loro. Virginia ricordò il modo in cui lui aveva scoperto il loro indirizzo di Norfolk frugando nei cassetti e le tornò in mente la mattina in cui si era presentato da lei con in mano la sua vecchia foto. È diverso da me, si disse, probabilmente reagisce in maniera diversa a queste cose. Ciò non significa che sia una persona falsa e inaffidabile. Lui sorrise. Era il suo vecchio sorriso, quello che la riempiva sempre di un senso di calore. «Domani torniamo a King's Lynn», le disse, «se è questo che vuoi.» Lei fece un profondo respiro. «Ti racconterò tutto di me. Tutto.» Lui assentì. «E io ti racconterò tutto di me.» «Devo avere paura?» Lui scrollò la testa con decisione. «No. E io?» «Sì», rispose, e scoppiò a piangere. Lunedì, 4 settembre
1 Mancano solo due settimane al mio compleanno, pensò Janie scoraggiata. Per la precisione era già passato un altro giorno. Tra due domeniche sarebbe stata la data fatidica. E lei non sapeva ancora come festeggiare. Era lunedì e quindi si riproponeva la possibilità di incontrare di nuovo quell'uomo gentile alla cartoleria. Anche se sembrava proprio che lui si fosse scordato il loro appuntamento. Oppure era arrabbiato sul serio con lei, perché l'altra volta non si era fatta vedere. Avrebbe voluto tanto spiegargli che non era stata colpa sua, che non aveva avuto scelta, ma era probabile che non gliene avrebbe offerto l'occasione. Janie sospirò. Gettò indietro le coperte e appoggiò i piedi per terra. Raggiunse la scrivania, aprì il cassetto e tirò fuori con estrema cura i cinque biglietti d'invito che teneva sempre nascosti sul fondo. Ormai li aveva guardati così tante volte che uno aveva già un angolo un po' stropicciato. Cercò di lisciarlo. Che bello, che bello sarebbe stato poterli compilare presto e distribuirli nella sua classe! «Janie!» la voce della madre le giunse da fuori. «Oggi ricomincia la scuola! Devi alzarti!» «Sono già sveglia, mamma», rispose Janie. Doris Brown aprì la porta e infilò dentro la testa. «La pacchia è finita! Basta gingillarsi. Sbrigati! Il bagno è libero.» «Ok.» Janie cercò di rimettere a posto i biglietti senza farsi accorgere, ma ottenne l'effetto contrario di destare la curiosità della madre. «Che cosa hai lì?» Con due passi Doris la raggiunse e le tolse di mano i biglietti. Li osservò sorpresa. «Pensavo di essermi espressa chiaramente», disse. «Non ci sarà nessuna festa!» «Lo so, ma...» «Ti saresti potuta risparmiare questa spesa.» Doris restituì gli inviti alla figlia. «Non credere che io cambi idea.» Se Janie aveva imparato a non credere a qualcosa, era proprio questo. Doris non aveva mai fatto marcia indietro su una decisione presa. «Io ho...» balbettò lei, poi si bloccò... ho conosciuto un uomo molto simpatico, avrebbe voluto dire. Ma non era sicura che fosse una buona idea. La mamma avrebbe potuto arrabbiarsi e vietarle ogni contatto con il suo misterioso conoscente. In realtà, tuttavia, sarebbe stata un'opportunità per
rendere noti alla madre i suoi progetti. Mamma, non devi preoccuparti per la festa, avrebbe voluto dirle, non devi preoccuparti di niente! Pensa, ho conosciuto una persona che penserà a tutto per me. Ha una bella casa con un grande giardino, dove potrò invitare tutti gli amici che voglio. Se il tempo sarà brutto, potremo festeggiare nella sua cantina. Ha già organizzato molte feste di compleanno. Peccato che non riesca più a trovarlo. Ci eravamo dati appuntamento per il sabato quando tu sei stata male e io sono dovuta rimanere a casa. Ha detto che va lì tutti i lunedì, ma poi non l'ho più rivisto. Forse mi potresti aiutare tu. Forse hai un'idea su come posso fare per rintracciarlo? «Sì?» chiese Doris. «Tu hai...» «Io ho...» Janie chiuse gli occhi. Le sarebbe piaciuto tanto confidarsi con la mamma. Peccato solo che Doris Brown fosse così imprevedibile. Poteva succedere di tutto, quando le si rivelava un segreto. «Niente», disse Janie, «non volevo dire niente.» Doris scrollò il capo. «A volte sei proprio strana, sai. Adesso spicciati, però. Non è il caso che arrivi tardi a scuola proprio il primo giorno!» 2 «Quando torna la mamma?» chiese Kim. Quella mattina era noiosa e aveva gli occhi lucidi. Grace, che faticava a parlare per il mal di gola e credeva di impazzire per l'emicrania, posò una mano preoccupata sulla fronte della bambina. «Febbre non ne hai», constatò, «temevo già di averti contagiato!» «Non voglio andare a scuola», frignò Kim. «Ma ci sei andata sempre volentieri», replicò Grace. «Pensa a tutti gli amici che rivedrai. Sono sicura che ti sono mancati!» «No», rispose Kim testarda. Bevve una lunga sorsata di latte. Era stanca. Non voleva andare a scuola, dove sarebbe dovuta restare seduta per ore ad ascoltare. Le mancava sua madre. Perché non era lì con lei il primo giorno di scuola? Grace prese un fazzoletto e si soffiò il naso. Aveva dolori dappertutto e non riusciva quasi più a deglutire. Aveva sperato che si trattasse solo di un semplice raffreddore, da curare con molte vitamine e impacchi di camomilla, invece sembrava trattarsi proprio di una brutta influenza. Se non fosse stato per la presenza di Kim, quella mattina non si sarebbe nemmeno alzata dal letto. E, come se non bastasse, Jack era partito di mattina presto
per un viaggio di due giorni a Plymouth. Doveva portare un carico di pannelli di polistirolo e la consegna era stata già fissata da diverse settimane. Alla vista della moglie, tuttavia, si era chiesto se non fosse il caso di rimandare. Grace lo aveva persuaso con foga. «Nemmeno per sogno! Mr. Trickle è sempre tanto gentile a offrirti questi lavori. E non riuscirà a trovare un sostituto così all'ultimo minuto. Non puoi deluderlo.» «Tu però stai davvero male.» Jack era fuori di sé. «Mrs. Quentin si sta comportando proprio da irresponsabile! Voglio dire, Mr. Quentin non può farci nulla se è dovuto tornare a Londra. Lui lavora lì e non può assentarsi così, come se niente fosse. Ma i doveri di Mrs. Quentin sono qui. Com'è possibile che una madre si comporti in questo modo? Scompare dall'oggi al domani e lascia che siano altre persone a prendersi cura della figlia!» «Non sapeva che mi sarei ammalata», replicò Grace, «e prima le avevo detto che mi occupavo volentieri di Kim e che poteva rimanere con noi tutti il tempo che voleva.» «Non è il modo, comunque. Per non parlare dell'ansia che ha creato a tutti noi. Devo dire che trovo...» «Ssst! Non voglio che Kim ti senta.» Jack aveva continuato a brontolare tra sé, ma alla fine si era lasciato convincere a intraprendere il viaggio per Plymouth come programmato. Grace gli aveva promesso di tornare a letto subito dopo aver accompagnato Kim a scuola. Tanto non avrebbe potuto fare altro. Scottava di febbre e aveva dolori dappertutto. Ma perché proprio adesso? si chiese stancamente. Non aveva voluto alimentare la collera di Jack, indole irascibile già di suo, circa il comportamento di Virginia Quentin, ma in realtà era arrabbiata anche lei. Molto arrabbiata. In effetti disponeva di maggiori informazioni rispetto al marito. Aveva fatto qualche domanda a Kim e aveva scoperto che da parecchi giorni Virginia viveva sotto lo stesso tetto con uno sconosciuto. Mentre il marito si trovava a Londra. E adesso erano scomparsi entrambi. Grace sapeva fare due più due! Povero Mr. Quentin! Tradito e ingannato in casa propria! E adesso piantato pure in asso, insieme con la figlia piccola. Non l'avrei mai pensato di lei, si disse, credo di averla sempre giudicata male. Una donna così riservata e tranquilla. Ma si sa che l'acqua cheta rovina i ponti.
«Quando torna la mamma?» ripeté Kim insistente. Grace sospirò. «Non lo so con precisione.» Starnutì e si soffiò il naso per la centesima volta quella mattina. Gli occhi le bruciavano e lacrimavano. «Non sei contenta di stare qui con me?» chiese in tono di rimprovero. Kim sospirò. «Sì, ma...» Rigirò la tazza tra le mani. «Che cosa?» Grace starnutì di nuovo. «Pensavo che tornava per l'inizio della scuola», spiegò Kim, starnutendo a sua volta. Proprio una bella situazione, pensò Grace esausta. Virginia Quentin era la moglie del principale di Jack, ma le avrebbe detto lo stesso un paio di cosette in faccia non appena fosse tornata. Sempre ammesso che lo facesse. Grace non ne era affatto sicura. Ma non c'era bisogno che Kim lo sapesse per ora. La bambina doveva affrontare il calvario del primo giorno di scuola. Poi se ne sarebbe riparlato. 3 L'uomo si presentò come sovrintendente Baker e spiegò di essere a capo di una commissione speciale incaricata delle indagini sugli omicidi di Sarah Alby e Rachel Cunningham. Liz era seduta in camera sua circondata da una marea di dépliant di località spagnole. Non voleva portare Baker in salotto, dove la televisione era accesa a tutto volume e dove tra l'altro regnava un forte odore misto di grappa e sudore. Betsy Alby peggiorava di giorno in giorno, a passi da gigante, almeno così sembrava a Liz. Oppure era sempre stata così, solo che lei non se n'era mai accorta? Dalla morte di Sarah era diventata più sensibile, aveva sviluppato antenne più ricettive. E questo le rendeva ancora più intollerabile la convivenza con la madre. Invitò il sovrintendente ad accomodarsi sul divano letto. Lei si sedette su un vecchio sgabello da cucina rinnovato con un rivestimento allegro cucito da lei stessa. In quel momento si disse che non voleva più accogliere i visitatori in quella maniera. «Vedo che ha intenzione di andare in vacanza», disse Baker, indicando i dépliant. Forse lo trovava inappropriato, dopo la recente tragedia? Lei scrollò il capo. «No, nessuna vacanza. Io... io vorrei andarmene dall'Inghilterra. Andarmene da tutto, capisce?» Fece un cenno del capo verso il salotto, da dove proveniva la voce dell'annunciatore che leggeva il
notiziario. «Capisco», disse Baker, «dopo tutto quello che è successo, un nuovo inizio è sicuramente un'ottima idea.» «Vorrei cercare un posto che mi piaccia. E poi chiederò agli alberghi della zona se hanno bisogno di personale. Ho una certa esperienza come cameriera, sono anche brava. Vedremo», alzò le spalle, «se non altro farà più caldo che qui. E magari potrei conoscere qualche persona carina.» «Glielo auguro di cuore», disse Baker in tono sincero. Poi si schiarì la voce. «Miss Alby, il motivo della mia visita... siamo venuti in possesso di una nuova informazione che, molto probabilmente, riguarda l'assassino della piccola Rachel Cunningham.» Le riferì brevemente le dichiarazioni fatte da Julia secondo cui Rachel aveva avuto un appuntamento con l'uomo che in seguito si supponeva l'avesse violentata e uccisa. «Lo aveva conosciuto poche settimane prima, era ansiosa di rivederlo. Purtroppo la descrizione che abbiamo non è molto utile. Rachel aveva raccontato all'amica soltanto che l'uomo era bellissimo, sembrava un attore.» Sospirò. «La cosa non ci serve a niente.» «No», confermò Liz. «Ecco, noi ora pensiamo che quello stesso uomo forse aveva avuto contatti precedenti anche con sua figlia Sarah. Partendo dal presupposto che si tratti della stessa persona, è evidente che quest'uomo è molto abile a fare promesse ai bambini, tanto da convincerli a superare ogni diffidenza. Forse sua figlia le ha parlato di qualcosa del genere - qualcosa cui lei non ha dato nessuna importanza, ma che assume un nuovo significato alla luce di queste supposizioni? Oppure l'ha vista insieme a qualcuno? È possibile?» La guardò trepidante. Stanno brancolando nel buio, pensò Liz, non hanno la minima traccia. Si aggrappano a ogni pagliuzza. Ci pensò su. «No. No, non ho visto nessuno vicino a lei. Mia figlia del resto aveva solo quattro anni. Non se ne andava in giro da sola.» «Magari potrebbe esserle capitato di lasciarla per un po' senza sorveglianza in un parco giochi...» «Che cosa vorrebbe dire con questo?» chiese Liz indignata. «Che io avrei lasciato mia figlia da sola in qualche parco giochi?» «Miss Alby, non era mia intenzione...» «So bene le notizie che avete raccolto su di me qui nel vicinato. Che sono... ero una cattiva madre. Che non mi prendevo abbastanza cura di mia
figlia. Che Sarah era una bambina poco amata. E ora lei pensa...» «La prego, Miss Alby.» Baker fece un gesto conciliante con le mani. «Non prenda tutto come un fatto personale e cerchi di capire che sto solo facendo il mio lavoro. Il mio principale interesse è di sbattere in galera l'individuo che ha sulla coscienza già due bambine e forse è in cerca della sua prossima vittima. Cerco di ricostruire possibili scenari nei quali lui possa essere entrato in contatto con sua figlia. Solo questo.» Lei fece un profondo respiro. Aveva ragione lui. Non l'aveva attaccata. Stava cercando di catturare un mostro. Non poteva riflettere in continuazione se le sue domande potevano risultare imbarazzanti per qualcuno. «Sarah non mi ha mai raccontato niente. Me ne ricorderei. E non l'ho mai vista in compagnia di un estraneo. Forse... che qualcuno le si sia avvicinato all'asilo? Ma lì stanno sempre molto attenti...» Scrollò la testa. «Non riesco proprio a immaginarmelo.» «Naturalmente parleremo ancora con le educatrici dell'asilo», disse Baker. Aveva l'aria stanca. Liz si accorse che quel caso gli risultava davvero indigesto. «Ha dei figli?» gli chiese. Lui assentì. «Due maschi. Di otto e cinque anni.» «I maschi non sono così in pericolo», disse Liz. «Purtroppo sì», obiettò Baker. «Purtroppo i pedofili si servono anche di loro. Nessun bambino è sicuro con certi individui.» «Ce la fate sempre lei e sua moglie a tenere d'occhio i vostri figli?» «No. Certo che no. Soprattutto il grande, se ne sta in giro per ore con la sua bicicletta. In genere insieme agli amici, ma se dovessero separarsi noi non potremmo saperlo. Non si possono tenere i figli al guinzaglio. Non si possono sorvegliare ventiquattr'ore al giorno. Si può solo cercare di spiegare loro con la massima chiarezza che non devono fidarsi degli sconosciuti. Di non salire mai sulla macchina di un estraneo. Di non andare mai con nessuno. Di avvertire subito i genitori, quando vengono interpellati da qualcuno che non conoscono. Ma», e qui scrollò il capo rassegnato, «sono cose che Mr. e Mrs. Cunningham avevano ripetuto centinaia di volte alla loro piccola Rachel. Era una bambina matura e assennata. Eppure l'offerta di quello sconosciuto è stata così irresistibile per lei, da farle dimenticare tutte le raccomandazioni dei genitori.» «Che schifo», commentò Liz. «Ha ragione», concordò Baker, «può ben dirlo.» Rimase un attimo assorto. «C'era qualcosa con cui era possibile attirare sua figlia? Che poteva
convincerla a seguire qualcuno?» Liz si sentì calare di nuovo sul petto il macigno del rimorso. I suoi occhi si posarono involontariamente sui dépliant che mostravano il caldo paesaggio spagnolo sotto un cielo limpido e sereno. Sarebbe riuscita a dimenticare laggiù? Sarebbe mai riuscita a dimenticare? «La giostra», rispose. Baker si chinò in avanti. «La giostra?» «Sì, la giostra che sta a New Hunstanton. A pochi passi dalla fermata dell'autobus. Ne era rimasta incantata.» «La conosco. Sarah ci era andata spesso?» Liz annuì. «Praticamente tutte le volte che andavamo al mare. Era letteralmente la sua passione. Ma...» «Sì?» domandò Baker circospetto. «Ecco... era sempre così difficile convincerla a scendere poi», disse Liz piano, «sa, non voleva più smettere. Quando le dicevo basta cominciava a urlare e strepitare. Spesso si difendeva con mani e piedi, quando la portavo via.» Lui sorrise. «I bambini sono fatti così. È normale.» Liz deglutì. «Io... io odiavo quei giri. E per questo...» «Sì?» «Il giorno... in cui è successo, non ce l'ho fatta salire proprio. Le ho detto subito di no. Io... io...» «Che cosa?» Le lacrime minacciavano di soffocarla. «Non avevo voglia di stare in piedi sotto il sole a guardare quella stupida giostra», disse Liz disperata. «Cerchi di capirmi, non mi andava proprio. E non avevo voglia di sorbirmi i suoi capricci dopo. Volevo trovare subito un bel posticino sulla spiaggia. Sdraiarmi. Stare un po' in pace. Io...» Non riuscì a proseguire. Le lacrime glielo impedirono. «Ma è del tutto comprensibile», disse il sovrintendente Baker con voce tranquilla. Appariva sincero ed ebbe un effetto positivo su di lei. Con gratitudine Liz si accorse che non cercava solo di consolarla, ma pensava veramente quello che diceva. «Non si tormenti in questo modo», la pregò. «A tutti i padri, a tutte le madri capita di rifiutare i desideri dei figli. E molto spesso per motivi cosiddetti 'egoistici'. Perché in quel momento non se ne ha voglia. Perché se n'è avuto abbastanza. Perché si era con la mente altrove. Perché c'era qualcosa di più importante o di più urgente. È normale. Non sta scritto da nes-
suna parte che quando diventiamo genitori dobbiamo appendere nell'armadio tutte le altre cose che fanno di noi delle persone normali. Il nostro comodo, il nostro egoismo, i nostri piccoli bisogni. Anche i nostri difetti. Resta tutto con noi. È normale.» Lei respirò a fondo. Non si sentiva del tutto consolata, ma era come se qualcuno avesse spalmato un balsamo rinfrescante sulla sua anima martoriata. Riuscì a riprendere il discorso. «Era terribilmente contrariata. Si mise a strillare, batteva i piedi, non voleva proseguire oltre la giostra. Io... dovetti trascinarla via a forza. Com'ero arrabbiata! Ero arrabbiata perché... me l'ero dovuta portare dietro. Arrabbiata perché...» «Perché...» Liz singhiozzò. «Perché esisteva», disse quasi senza emozione. Baker rimase in silenzio. Per un attimo Liz ebbe l'impressione che volesse prenderle la mano, ma poi non lo fece. Rimasero seduti vicini, mentre dal salotto risuonava l'eco del televisore. La sveglia sul comodino di Liz ticchettava piano. I dépliant erano una macchia sgargiante e chiassosa, di colpo inappropriati e assurdi. Non c'era altro da dire, Liz lo sapeva. Le persone potevano parlare con lei della giostra, minimizzare e giustificare le sue mancanze. Ma nessuno poteva toglierle la colpa che lei stessa si era caricata addosso, rifiutando radicalmente l'esistenza della figlia, non considerandola mai, neppure per un istante, come un dono, ma sempre come un enorme peso. E in qualche modo era tutto collegato. Liz intuiva vagamente che non si sarebbe tormentata tanto per il mancato giro sulla giostra se fosse stata una madre attenta e affettuosa. La giostra simboleggiava tutto ciò che non era a posto tra lei e Sarah. Fu Baker a rompere il silenzio. Doveva svolgere il proprio dovere. Doveva pensare avanti. «Ha detto che Sarah reagì con molta enfasi quando si vide rifiutato il suo desiderio di salire sulla giostra. Fu una reazione visibile anche agli altri?» Il suo pragmatismo aiutò Liz a uscire dal dolore che l'avvolgeva e a ritrovare la voce. «Sì, certo. Si ribellò apertamente contro di me. Fui costretta a trascinarla per parecchi metri.» «È possibile che qualcuno abbia assistito alla scena, individuando così la causa scatenante?» Liz ci pensò. «Penso di sì. Strillava forte, dicendo che voleva andare sulla giostra e alla fine anch'io alzai la voce dicendole che era fuori discussione. Le persone intorno a noi possono benissimo averci sentito.»
«Perciò sarebbe ipotizzabile», proseguì Baker, «che qualcuno, dopo aver visto la scena, vi abbia seguito e abbia approfittato della prima occasione quando lei si è assentata per andare a comperare i panini - per avvicinarsi alla bambina e offrirle un giro sulla giostra. Presumo che Sarah lo avrebbe seguito senza fare problemi?» «Sicuramente», confermò Liz convinta, «per un giro di giostra, sarebbe andata con chiunque. Senza la minima esitazione.» «Mhm», fece Baker. «Ma», obiettò Liz, «come faceva quest'uomo a sapere che Sarah sarebbe rimasta da sola? Non poteva immaginare che io... che io mi sarei assentata per tutto quel tempo.» «Ovviamente non poteva saperlo. Ma quel genere di persona aspetta un'occasione qualunque. La spiaggia era molto affollata. Era plausibile che in mezzo a quella confusione una madre potesse perdere di vista per un attimo la figlia. Oppure la madre si addormenta, mentre la figlia continua a giocare poco distante... Probabilmente sapeva che sarebbe successo in un attimo, che Sarah l'avrebbe seguito subito e che sarebbe riuscito a sparire tra la folla. Ci ha provato. E in effetti gli si è offerta l'opportunità.» «Quei quaranta minuti!» esclamò Liz disperata. «Quei terribili quaranta minuti! Io...» «Non si tormenti così», disse Baker. «So che non la consolerà per quanto è capitato, ma forse l'aiuterà ad alleviare i suoi sensi di colpa se le dico che ce l'avrebbe fatta comunque. Se è andata così come penso, significa che aveva preso di mira sua figlia. E che comunque gli si sarebbe presentata un'altra possibilità. Sicuramente lei si è appisolata per un po'. A me succede sempre quando sto sdraiato al sole.» Ma i suoi bambini erano ancora vivi. Stavolta Liz non gli credette. Il suo era solo un tentativo per confortarla. C'erano persone che non perdevano mai di vista i figli di quattro anni, neppure per un istante. A loro non succedevano cose del genere. Ma a lei sì. Per colpa della sua leggerezza, del suo risentimento, della sua sete di vita. «Si ricorda se per caso sull'autobus ha notato una persona che la guardava spesso?» chiese Baker. «E che poi si è trovata accanto anche dopo? Oppure qualcuno che era alla fermata e che in seguito ha rivisto sulla spiaggia vicino a voi? Senza che in quel momento ci avesse fatto troppo caso? Ma, chissà, magari a posteriori...?» La guardò speranzoso. Lei si arrovellò, ma la sua mente era completamente vuota. Il ricordo di quella terribile giornata era dominato dall'immagine di se stessa e della fi-
glia. In sottofondo sentiva la musica della giostra. Tutto il resto era un mare di volti, voci, corpi. Una massa confusa di persone. Non riusciva a isolare un viso particolare. «No», rispose, «non ricordo nessuno. Non ho fatto caso a nessuno. Già sull'autobus ero immersa nei miei pensieri. Credo che, anche se qualcuno mi avesse fissato per un'ora intera, non lo avrei notato. E anche in seguito... no, non c'è nessuno. Assolutamente nessuno.» Baker era visibilmente deluso. Si alzò. «Bene», disse. «Le do il mio biglietto da visita. Nel caso le venisse in mente qualcosa, mi chiami subito. Anche se a lei sembra una cosa da nulla, non si faccia scrupoli. Tutto può essere importante. Veramente tutto.» Le porse il biglietto. Jeffrey Baker, lesse Liz, Le era simpatico. L'aveva trattata bene. Era stato il primo funzionario che non l'aveva giudicata male. Il primo che non le rinfacciava niente. Il primo che non aveva lasciato trasparire ciò che pensava del suo comportamento come madre. «Lo terrò presente», promise lei. Lo seguì nel breve corridoio fino alla porta d'ingresso. Oltre la porta aperta del salotto, videro il corpo di Betsy abbandonato sulla poltrona. Sullo schermo, i protagonisti di un talk show della mattina riversavano sul pubblico le loro imbarazzanti dichiarazioni. Baker si girò un'ultima volta e le sorrise. «L'idea della Spagna», disse, «ecco, la trovo davvero un ottimo progetto.» 4 Lui non aveva aperto bocca per quasi tutto il viaggio. La sera prima l'atmosfera tra di loro si era rilassata: alla fine avevano cenato a casa, con le candele accese e la musica. Ma non avevano più fatto l'amore. Non erano più stati dell'umore giusto. Il mattino erano partiti alle sei, dopo aver bevuto ciascuno una tazza di tè, ma senza riuscire a mandare giù neppure un boccone per la stanchezza. Virginia aveva imputato il silenzio di Nathan all'ora, al fatto che il suo sonno fosse stato troppo breve e che fosse ancora un po' addormentato. Ma la situazione non era cambiata con il passare del tempo e dei chilometri, quando il buio della notte aveva lasciato il posto alle prime luci del giorno, che si annunciava grigio e nuvoloso. Nathan non parlava. Lei lo guardava di sottecchi, ne osservava il profilo scolpito, e le veniva da piangere, ripensando al senso di libertà e leggerezza che l'aveva invasa pochi giorni pri-
ma, quando avevano percorso la stessa strada nella direzione opposta. Man mano che il paesaggio si faceva più aperto e deserto e percorrevano la strada. Adesso erano diretti verso la parte più densamente abitata dell'Inghilterra, verso il luogo dove stavano i problemi e le preoccupazioni. E lui si ostinava a restare zitto. In poco tempo avrebbero raggiunto la zona industriale intorno a Leeds. Virginia pensò a Dunvegan e al cielo limpido spazzato dal vento del mattino prima e deglutì a fatica. Adesso metteremo ordine nel nostro passato, pensò, e tutto migliorerà. All'altezza di Carlisle non ce la fece più. «Nathan, che cosa c'è? Praticamente non hai aperto bocca da quando siamo partiti. È colpa mia? Hai qualche problema con me?» Lui girò la testa verso di lei. «Non ho nessun problema con te», rispose. «E allora che cos'è? Posso capire che non ti vada di tornare a Norfolk, ma...» Invece di rispondere lui accelerò e subito dopo imboccò l'uscita per un'area di servizio segnalata da parecchi chilometri. Parcheggiò davanti all'edificio che ospitava il bar e un piccolo supermercato. «Ho bisogno di un caffè», disse, poi prese qualche moneta dal cassettino dell'auto e scese. Cinque minuti più tardi tornò con due grossi bicchieri di polistirolo. «Vieni, andiamo a sederci da qualche parte», propose, e Virginia ebbe l'impressione che non sopportasse più lo spazio angusto e rinchiuso dell'abitacolo. Per fortuna non pioveva, né faceva troppo freddo. Si misero seduti a un tavolo da picnic adiacente a un parco giochi e strinsero le mani intorno ai bicchieri fumanti. «Ho riflettuto», disse Nathan. Virginia ebbe l'impressione che il suo cuore perdesse qualche colpo. «E?» domandò angosciata. Lui la guardò. La sua espressione era intenerita. «Non è facile descriverti la mia situazione degli ultimi anni», disse, «ma ci siamo promessi di essere sinceri e vorrei raccontarti le cose in modo che tu possa comprendere appieno il loro stato.» Lei fece un profondo respiro. Aveva temuto che lui volesse troncare la relazione appena intrecciata. A causa di Frederic. A causa di Livia. A causa di tutti i problemi insormontabili che avrebbero incontrato. «È vero che non hai mai pubblicato nemmeno un libro?» gli chiese. Lui assentì. «Esatto. Ma è anche vero che scrivo da molti anni. O alme-
no ci provo.» «Che cos'è che non ha funzionato?» Guardò oltre di lei, le foglie già ingiallite della fitta siepe che circondava il piccolo parco giochi. «Tutto», disse, «o niente. Dipende da come la si guarda. Non ha funzionato niente.» «Colpa delle idee? Della loro trasposizione in prosa?» Si soffermò a riflettere, voleva dire qualcosa per dimostrargli quanto lo capisse. Ma dopo tutto non aveva la minima idea di come vivesse e lavorasse uno scrittore e di quali problemi potessero accompagnare il processo creativo. «Dipendeva dalla trasposizione», confermò lui, «e questa a sua volta era legata al tipo di vita che conducevo. Era una vita che mi risultava mortale: ristretta, limitata, paralizzante. A volte mi sembrava che mi mancasse letteralmente l'aria. Mi sentivo soffocare. Mi mettevo alla scrivania e restavo a fissare lo schermo del computer con il vuoto dentro. Era una situazione spietata. Spaventosa.» «Posso capirlo.» Virginia era sincera. Allungò timidamente la mano e gli accarezzò un braccio. «Che cosa c'era di così paralizzante? Che cosa ti soffocava?» Lui si appoggiò alla spalliera. Appariva di colpo stanco e grigio sotto l'abbronzatura. Grigio come il cielo sopra di loro, inerte come le foglie che pendevano dai rami pesanti e grondanti di pioggia. Lo aveva sempre visto forte e radioso, sicuro di sé e affidabile. Di colpo vedeva un altro suo lato. Il lato che aveva sofferto. Il lato che lui aveva imparato abilmente a nascondere. La sua vulnerabilità la commosse e glielo avrebbe detto, ma l'istinto glielo impedì. Intuiva che lui non voleva sentirsi dire certe cose da lei. «Da dove devo cominciare?» chiese. 5 «Prova a immaginare una piccola città di provincia in Germania. Il luogo più piccolo-borghese, provinciale e campanilistico che ti viene in mente. Tutti si conoscono. Tutti tengono in gran conto ciò che gli altri pensano di loro. Tutti controllano chi non spazza come si deve il marciapiede davanti a casa o non lava regolarmente le tende. Oppure non pota ordinatamente la siepe del giardino. I rami troppo sporgenti potrebbero portare addirittura a una manifestazione cittadina!
«Purtroppo quello che ti sto dicendo non è un'esagerazione. «Conobbi Livia all'università. Oggi - in tutta sincerità - mi chiedo che cosa mi avesse fatto innamorare di lei. Credo di essere stato attratto dai suoi modi riservati e silenziosi. Sentivo che dietro si nascondeva qualcosa che volevo scoprire. Solo molto più tardi mi accorsi che non c'era proprio niente. O che forse non ero io la persona più adatta a scoprirlo. È una possibilità. «In ogni caso, ci mettemmo insieme. Io lavoravo per il quotidiano scolastico, scrivendo regolarmente articoli. Ma nella mia testa ronzava già l'idea del grande romanzo. Non avevo un progetto preciso, definito. Ma sapevo che c'era qualcosa che voleva venire fuori. Chiesi a Livia che ne pensasse dell'idea di sposare uno scrittore. Lei si rallegrò della proposta di matrimonio insita nella mia domanda. Che la vita con uno scrittore potesse essere difficile... credo che in quel momento non ci pensasse troppo su. «Tutti i fine settimana andavo al mare. Non possedevo una barca mia, ma i genitori di un mio compagno di studi ce l'avevano e noi potevamo usarla. Frequentai un corso di vela, scoprii la mia passione per l'acqua. La vastità del mare esercitava un fascino irresistibile su di me. Credo fu allora che mi nacque l'idea di fare prima o poi un giro del mondo in barca a vela. Più avanti, naturalmente, molto più avanti. Livia non ne era troppo entusiasta. La portai con me un paio di volte sulla barca, ma non riuscì mai ad appassionarsi. Aveva troppa paura dell'acqua. «Ogni due settimane circa andavamo a trovare i suoi genitori, i miei futuri suoceri. In quella tremenda cittadina. Non ci andavo volentieri, ma dato che non capitava troppo spesso mi sforzavo. E poi la madre di Livia era un'ottima cuoca. Era simpatica, ma del tutto omologata alla vita di provincia e completamente succube del marito. Lui era condannato su una sedia a rotelle dopo un ictus che lo aveva colpito relativamente giovane, aveva bisogno di cure continue, praticamente era alla mercé della moglie eppure riusciva a vessarla da mattina a sera e a farla piangere spesso con le sue lune e i suoi commenti acidi. Era una persona spaventosamente tirchia, nonostante percepisse una lauta pensione. Per esempio non voleva pagare una donna delle pulizie e la moglie, le cui condizioni di salute erano cagionevoli, doveva sobbarcarsi la cura della casa, enorme e per niente comoda. D'inverno, morivamo tutti di freddo, perché lui non permetteva che il riscaldamento fosse alzato a sufficienza. Si ostinava a non provvedere alle riparazioni necessarie in casa. Dalle finestre soffiavano enormi spifferi e di sicuro anche lui ne risentiva, ma era troppo il gusto che provava nel ve-
derci soffrire. Secondo me ci odiava tutti perché non eravamo su una sedia a rotelle. Visto che potevamo muoverci liberamente, faceva in modo di renderci la vita impossibile con tutti i mezzi possibili. «Terminati gli studi, fissammo la data delle nozze. Cominciai a lavorare a una bozza del mio romanzo e nel frattempo facevo lavoretti saltuari. Ero contento del mio lavoro. Avevo già dato forma a un paio di personaggi. Sentivo il bisogno di cominciare. Era come un parto molto, molto lento, che tuttavia non vivevo con dolore, ma con grande gioia. «E poi avvenne la catastrofe. La madre di Livia morì tre settimane prima del nostro matrimonio. Senza preavviso, da un momento all'altro. Un infarto. Il padre di Livia ci telefonò per informarci. Parlò con me e anche in quel tragico moment ebbi l'impressione che provasse una certa gioia maligna per il fatto che fosse stata lei ad andarsene per prima. Che lui, l'invalido, le fosse sopravvissuto. «Ovviamente Livia andò subito a casa per occuparsi di lui, visto che senza aiuto non era in grado neppure di andare in bagno. Non sapeva cucinarsi neanche un uovo al tegamino e con le sue mani rattrappite non poteva aprire la porta del frigorifero per prendersi uno yogurt. Aveva bisogno di essere servito per ogni minima sciocchezza. Livia si ritrovò occupata in pianta stabile fin dal primo momento. «Nelle poche settimane precedenti il matrimonio, pertanto, non la vidi praticamente più. Poi la raggiunsi e ci sposammo in Comune con due vicini come testimoni. Non ci fu possibile neppure andare a pranzo fuori, perché Livia dovette tornare subito a casa a occuparsi del povero invalido. «Mi rendevo conto che non poteva ripartire con me, così di punto in bianco, ma ero convinto che avremmo cercato insieme una casa di cura adatta per il padre e poi avremmo venduto o affittato la casa. In effetti Livia fece qualche telefonata, si fece mandare dei dépliant, andò addirittura a visitare di persona uno degli istituti... ma poi le cose si bloccarono, lei rimase ferma con le ricerche e a un certo punto mi confidò che il padre si rifiutava di andarsene da casa sua e che non voleva neppure essere curato da un estraneo e che lei non ce la faceva a obbligarlo a una cosa che lo ripugnava tanto. «Fu il principio della fine. Mi resi conto che Livia sarebbe rimasta con il padre, che in pratica aveva già accettato il suo ruolo. In fondo era identica a sua madre. La parola di un uomo per lei è legge. Strano che esista qualcosa del genere al giorno d'oggi, no? O forse invece non lo è. «Non me la sentii di separarmi da lei appena dopo il matrimonio. Mi
convinsi che per me sarebbe stato uguale dove avrei scritto il mio romanzo. E naturalmente mi riproponevo di fare in modo che alla fine trovassimo un'altra soluzione. Non resteremo qui per più di un anno, mi dissi. Gli anni diventarono dodici. Dodici anni, forse difficilmente spiegabili. Il progetto della casa di cura veniva continuamente rimandato. Continuavamo a porci dei termini. E c'erano sempre ragioni diverse che ci impedivano di fare come previsto. Aspettiamo fino a Natale. Aspettiamo ancora il suo prossimo compleanno. Lasciamogli passare qui l'ultima estate. Non mandiamolo via proprio in autunno, quando il tempo è così grigio. Capisci? Vivemmo dodici anni nell'attesa che lui si trasferisse a breve. Credo non ci rendessimo conto che, a ogni anno che passava, l'idea che lo facesse sul serio diventava sempre più inverosimile. «Io mi sentivo come una tigre in gabbia in quella piccola città. Dieci passi in una direzione, dieci passi nell'altra. Sapevo di essere considerato da tutti un perdigiorno, mentre Livia era una santa. Quando mi sedevo in un bar a prendere appunti per il mio libro, mi sentivo addosso gli sguardi sprezzanti delle grasse massaie che erano uscite a prendere il pane con un foulard a coprire i bigodini in testa. Se la sera volevo cenare da solo nella trattoria del posto, spuntavano subito il comitato di sicurezza o il comitato delle madri. Qualcuno mi apostrofava in modo perentorio, per dirmi che il nostro pezzo di marciapiede non era spazzato a dovere o che un ramo della nostra siepe infastidiva il vicino. La gente mi guardava con ostilità, perché il sabato partecipavo alla riunione settimanale degli uomini al bar, né mi lasciavo convincere a offrirmi per grigliare le salsicce in occasione della festa paesana né per arbitrare le corse coi sacchi dei bambini. In realtà non facevo niente di male a nessuno. Ma ero un individualista e questo era considerato come il crimine più grave. A un certo punto avrei preferito quasi non uscire più dalla vecchia e odiosa casa di mio suocero. Ma, se rimanevo, avevo sempre davanti la sua faccia malevola e anche questo era insopportabile. Non c'era un posto dove mi sentissi bene. Dove fossi sereno. «E non c'era neppure un luogo dove riuscissi a scrivere. «Ovviamente accarezzavo sempre l'idea di andarmene. Oppure di dare un ultimatum a Livia. Di dirle che entro una certa data doveva decidersi ad andarsene, altrimenti l'avrei fatto da solo. Ma non feci mai niente del genere. Perché in fondo sapevo come sarebbe andata a finire: lei non mi avrebbe mai seguito. Sarebbe rimasta con suo padre, perché non riusciva a sottrarsi al suo senso di responsabilità. E io mi sarei ritrovato chissà dove,
perseguitato dalle immagini. Di lei che veniva angariata. Di lei che si dava da fare, si umiliava, senza mai ottenere la sua approvazione. E che restava sommersa sotto la mole di incombenze da gestire. «L'amavo ancora, dopo qualche anno? Le circostanze non offrivano certo un terreno di coltura propizio a far prosperare o almeno conservare i sentimenti. Ero frustrato, spesso arrabbiato, avevo l'impressione di essere condotto a forza verso una trappola dalla quale non sarei più riuscito a liberarmi. Mi faceva impazzire il fatto di non guadagnare un soldo. Vivevo alle spalle di mio suocero, cosa che mi sembrava in parte anche giusta, visti i lavori che facevo in casa e in giardino e dato che ero sempre disponibile quando si trattava di portarlo dal medico o se voleva fare una passeggiata. Ma non era la stessa cosa che avere un lavoro fisso e ricevere uno stipendio. E poi avevo sempre la sensazione di vivere a scrocco. «A un certo punto, involontariamente, cominciai a incolpare Livia della mia miserevole condizione. Con la ragione mi rendevo conto che anche lei era stata trascinata suo malgrado in quella situazione, ma poi tornavo a riflettere che, se non l'avessi conosciuta, non mi sarei mai ritrovato invischiato in quel pantano. E da lì a pensare, se non l'avessi mai incontrata... il passo fu breve. «E poi avevo sempre meno stima di lei. Chi era? Una persona sempre più grigia, più magra, pallida, intimorita, che si lasciava tiranneggiare da un vecchio. La sua sottomissione mi mandava in bestia. Ma perché non diceva una volta per tutte a suo padre che cosa pensava di lui? Perché non alzava la voce? Perché non gli faceva capire in quale stato pietoso si sarebbe ridotto se un giorno lei gli avesse voltato le spalle e se ne fosse andata? «Ma lei non è fatta così. Non lo è mai stata, non lo sarà mai. «E così ce ne stavamo bloccati in quel posto, gli anni passavano, e infine, una mattina dell'anno scorso, trovammo suo padre morto nel suo letto. All'inizio non potevo crederci. Ma se n'era andato per davvero e noi eravamo finalmente liberi. «So che Livia non aveva la minima voglia di partire per quel viaggio intorno al mondo in barca a vela. E forse non è stato giusto da parte mia metterla sotto pressione perché accettasse. Ma, per Dio, dovevo avere la possibilità di liberarmi per sempre e del tutto da quelle catene! Non mi bastava vendere la casa, trasferirmi in un'altra città, cancellare quei terribili anni e ricominciare daccapo, come se non fosse accaduto niente. Dovevo lasciarmi tutto alle spalle. Il mio paese, i miei conoscenti, la mia cittadinan-
za. Volevo solcare le onde con una barca, sopra di me solo il cielo, intorno a me solo l'acqua. Volevo assaporare il sale sulle mie labbra e sentire lo stridere dei gabbiani. Volevo vedere altri paesi, incontrare altre persone. «Volevo finalmente non sentire più nessun peso sotto i piedi. «Volevo scrivere il mio libro. «Come sai, le cose sono finite tragicamente. Arrivai fino a Skye. E poi la mia barca naufragò e insieme a lei tutto ciò che avevo. Ho quarantatré anni e non possiedo più nulla. Assolutamente niente. E continuo a chiedermi se non sia questa la vera libertà. Non avere più niente da perdere, non dipendere più da niente. È questa la libertà che ho sognato per dodici anni? «Oppure in realtà sono più dipendente e vincolato di prima? Un naufrago, un fallito? Per descrivere la mia condizione ci sono parole bellissime oppure orribili. E forse nessuna di esse abbraccia l'intera verità. Forse questa verità è sfaccettata, contraddittoria e ambigua. Nei giorni sì penso di essere una persona invidiabile. In quelli no vorrei potermi finalmente svegliare da questo incubo. «Ma non è tutto. Lo dico alla fine, ma è molto importante. Mette tutto il resto in una luce diversa. «Dopo essere naufragato a Skye, tu sei entrata nella mia vita. Ho dovuto perdere tutto, per incontrare te. È questo l'aspetto veramente straordinario della mia situazione. Trasforma una tragedia in un miracolo. «Ti ho detto che per me ci sono giornate sì e giornate no. «Ecco, credo che da sabato scorso quelle negative siano finite.» 6 Alle quattro meno un quarto, Janie si rese conto che il simpatico sconosciuto non sarebbe arrivato neppure quel giorno. Non si era più fidata a entrare nella cartoleria, aveva dato una rapida occhiata dentro la vetrina e si era accertata che il negozio fosse vuoto. C'era solo il proprietario, che sfogliava annoiato una rivista dietro il bancone e sbadigliava senza sosta. Janie poi si era appostata sul marciapiede opposto, dove si trovava un'agenzia immobiliare. In vetrina erano esposte le foto di varie case dei dintorni e Janie aveva finto di interessarsi alle inserzioni. Con la coda dell'occhio poteva osservare la porta della cartoleria. Era arrivata alle tre meno un quarto e in un'ora erano entrate e uscite solo tre persone. Una signora anziana che camminava con il bastone. Una ragazzina con colpi di sole biondi sui capelli neri. Un giovanotto in abito grigio e cravatta rossa.
Soltanto loro. L'amico di Janie non si era fatto vedere. Che disperazione. Doveva aver cambiato idea, si era arrabbiato per la sua inaffidabilità. Forse aveva conosciuto un'altra ragazzina e stava preparando la sua festa di compleanno. Una che non aveva mancato il primo appuntamento. Janie controllò l'ora. Portava un vecchio orologio della mamma, che le aveva regalato per il Natale precedente. Janie era molto fiera di possederlo. Le quattro e dieci. Tanto valeva tornare a casa. La porta dell'agenzia immobiliare si aprì e una donna molto elegante con un tailleur pantalone blu scuro si affacciò sul marciapiede. «Allora, signorina, vuoi comperare una casa?» le chiese beffarda. «Oppure c'è qualcosa di terribilmente interessante nella nostra vetrina?» Janie sussultò. «Io... io...» balbettò, «io... mi piacciono molto le foto.» «Capisco, ma è più di un'ora che le guardi. Penso che ormai tu le conosca a memoria. Non hai una casa?» Janie si spaventò. La signora cominciava a interessarsi troppo a lei. Forse si era accorta che aveva saltato la lezione di educazione fisica? In effetti era proprio quello che aveva fatto Janie. Altrimenti non sarebbe arrivata in tempo alla cartoleria. Il lunedì la lezione di educazione fisica durava sempre dalle tre alle cinque. L'anno prima l'orario era diverso e il lunedì uscivano di scuola alle due e mezzo. Al mattino Janie non aveva pensato che l'orario potesse cambiare. Ma, quando le era stato dettato quello nuovo, era impallidita per lo sgomento. E aveva deciso impulsivamente che in quel momento esistevano cose più importanti nella sua vita. Sarebbe tornata a essere un'alunna brava e diligente in un secondo momento. «Adesso... vado», si affrettò a dire. La signora la scrutò intensamente. «Se hai qualche problema... vuoi che telefoni a tua madre? Se mi dai il suo numero...» Per amor del cielo, era l'ultima cosa che desiderava. «Nessun problema», assicurò, «ho solo perso il senso del tempo.» Sorrise incerta, attraversò la strada con lo sguardo fisso sulla cartoleria. Era la sua ultima possibilità... Ma dentro il negozio non si muoveva niente, nessuno entrava o usciva. Era un lunedì assolutamente tranquillo. Janie capì che avrebbe passato il resto del pomeriggio a fissare i biglietti d'invito, ormai quasi sicuramente inutili, e a lottare contro le lacrime. E avrebbe pensato a quanti guai avrebbe passato per aver saltato la scuola. Doveva inventarsi una scusa plausibile prima che la mamma lo scoprisse.
7 Alle cinque Grace andò a prendere Kim a scuola, ricorrendo alle ultime forze che le restavano. Sentiva che la febbre le era salita, ma non osava misurarla, perché temeva che il risultato la spaventasse e la paralizzasse ancora di più. Verso le tre Jack aveva telefonato. La linea era molto disturbata: il rombo del motore aveva coperto quasi del tutto la sua voce. «Come stai?» le aveva chiesto. Le facevano male i denti e tutte le ossa, ma aveva risposto: «Bene. Ecco... date le circostanze». «Non hai una bella voce, però.» «Davvero, sto bene.» «Non sarei dovuto partire.» «Al contrario. Era importante che facessi questa consegna.» «Madame si è fatta viva?» Grace capì immediatamente che si riferiva a Mrs. Quentin. La parola madame suonava sprezzante e lui non l'aveva mai chiamata così. La reputazione di lei con lui si era rovinata definitivamente. «No. Non ho avuto sue notizie.» Lui borbottò qualcosa che Grace finse di non capire apposta. Dopo averla esortata a riguardarsi, la salutò e Grace tornò a letto. L'idea di doversi alzare e uscire per raggiungere la scuola di Kim la ripugnava profondamente. Per un attimo pensò addirittura di rivolgersi a Livia Moor, che a quanto pareva era momentaneamente alloggiata a casa dei Quentin. Frederic l'aveva informata personalmente della sua presenza, ma non le aveva spiegato con chiarezza chi fosse né come mai fosse ospitata lì. Grace tuttavia aveva dedotto che fosse in qualche modo collegata all'uomo con il quale era sparita Virginia Quentin. La cosa le risultava troppo sospetta. Non voleva affidare la sua piccola a una persona di cui sapeva così poco. In un modo o nell'altro riuscì a prendere la macchina, ad arrivare a scuola e a tornare indietro. Kim le raccontò esaltata le novità, senza prendere fiato. Aveva due nuovi compagni, nuovi insegnanti, una nuova aula. La tristezza del mattino era scomparsa. Ma Grace temeva che, giunta la sera, sarebbe tornata infelice. Di sicuro avrebbe voluto tanto riferire alla madre ciò che stava raccontando a Grace. Se non stessi così male, me la prenderei sul serio con lei, pensò Grace. A casa preparò una cioccolata per Kim e gliela offrì con un piatto di biscotti, ma poi si accorse di avere un assoluto bisogno di tornare a letto. Le
gambe non le reggevano ed era scossa da brividi così violenti da farle battere i denti. «Kim, tesoro», le disse stancamente, «devo sdraiarmi un po'. Mi spiace davvero, ma non mi sento bene. Se vuoi puoi guardare un po' di TV, d'accordo?» «Dobbiamo ricoprire i miei libri nuovi», disse Kim. «Avremmo dovuto comperare la carta», replicò Grace mortificata. «Lo faremo domani, va bene? Se domani qualcuno ti rimprovera, tu digli che stavo molto male, ma che me ne occuperò al più presto.» Kim mise il broncio. Le sarebbe piaciuto tanto sedersi al grande tavolo di cucina di Grace, alla luce del lampadario, per ricoprire i libri con della bella carta nuova, scrivere l'intestazione sui quaderni e fare la punta alle matite. «Quando torna la mamma?» chiese. Grace sospirò. «Non lo so. Adesso ti prego, sii brava. Ho bisogno di dormire per un paio d'ore, poi mi sentirò meglio.» Non sarebbe stato così, lo sapeva bene; l'aspettava una notte orribile. Tornò a letto, si rannicchiò in posizione fetale con le ginocchia piegate fin quasi al mento. Continuava a tremare di freddo. Forse dovrei chiamare il dottore, si disse, ma si addormentò ancor prima di aver terminato di pensarlo. Quando si risvegliò, fuori era buio. In camera era accesa la lampada a stelo nell'angolo. Si era alzato il vento e agitava i rami degli alberi; Grace vedeva sulle pareti le ombre danzanti delle foglie. Si alzò lentamente. Aveva mal di testa e male alle ossa, ma si sentiva leggermente più in forze rispetto al pomeriggio. Uno sguardo alla sveglia la informò che erano quasi le otto. Era tempo di preparare la cena per Kim. Come si era dimostrata premurosa la bambina, che non l'aveva disturbata mentre dormiva. Grace si alzò dal letto. Per un momento la stanza le girò davanti agli occhi e lei fu costretta ad appoggiarsi al comodino. Ma poi il malessere passò. Si infilò le pantofole e la vestaglia e andò in cucina. Non c'era nessuno, a parte il gatto che dormiva acciambellato nella sua cesta. Sul tavolo la tazza di cioccolata vuota e il piatto dei biscotti. Kim aveva bevuto e mangiato tutto. L'orologio di cucina ticchettava regolare. Grace passò in salotto, aspettandosi di trovare Kim davanti alla televisione. Ma la stanza era buia, l'apparecchio spento. Grace aggrottò la fronte. Che Kim fosse già andata a letto?
Accanto al bagno c'era una cameretta che i Walker usavano per gli ospiti. In preda a un'agitazione crescente, Grace entrò: il letto era intatto. La stanza era vuota. «Non è possibile», mormorò tra sé. Anche il bagno era vuoto. Come la sala da pranzo. Grace scese persino in cantina, controllò la lavanderia e la dispensa. Niente. Nessuna traccia della bambina. Si strinse la testa tra le mani. Era la febbre a giocarle un brutto scherzo? Kim le aveva forse annunciato di voler andare da qualche parte e lei, con la mente annebbiata, non se lo ricordava? Ma non era in condizioni così gravi. Ricordava che Kim le aveva detto di voler ricoprire i libri nuovi. Forse era andata di là, a casa dei genitori, a cercare della carta adatta? Stai calma, si esortò, ma il cuore le batteva impazzito. Non dev'essere successo qualcosa per forza. Prima di questi... di questi omicidi delle due bambine avvenuti a King's Lynn, non ti saresti allarmata tanto. Kim andava sempre in giro per il grande parco, senza che nessuno se ne preoccupasse. Ma quegli omicidi c'erano stati. L'idillio si era infranto. Con dita tremanti, Grace compose il numero della casa padronale. Dopo un numero infinito di squilli, qualcuno finalmente rispose e una voce tenue alitò: «Pronto?» «Sono Grace Walker», si presentò Grace con voce roca, «sono la moglie del custode di Ferndale. Kim è lì da voi?» «Chi parla?» chiese la vocina. Grace avrebbe voluto scrollare per telefono l'essere ottuso all'altro capo della linea. «Sono Grace Walker. La moglie di Jack Walker, il custode. Abitiamo nella piccola portineria all'ingresso...» «Ah, ho capito», disse la vocina. «Kim al momento abita da noi. Mi sono addormentata per un paio d'ore perché ho un po' d'influenza. Non riesco a trovarla da nessuna parte. Pensavo che fosse venuta lì?» «No. Me ne sarei accorta.» «Vorrebbe essere così gentile da dare un'occhiata in giro? La casa è grande e forse...» Grace lasciò la frase a metà. «Vado a vedere», promise la vocina. «La richiamo subito.» Grace le diede il numero e riattaccò. Buon Dio, pensò. Una bambina di sette anni affidata a lei. E lei era andata a dormire. Aveva dormito così profondamente che per ore non aveva
sentito né visto niente. Se è successo qualcosa... non me lo perdonerò mai. Mai. Ma non doveva essere successo qualcosa. Perché pensava al peggio? Era assurdo. Tutta colpa della febbre che la rendeva più apprensiva. Per fare qualcosa, Grace mise a bollire l'acqua per il tè. Aveva appena messo una bustina di infuso nella tazza, quando il telefono squillò. «Sono Livia Moor. Mi spiace, Mrs. Walker, ho cercato in tutta la casa. Kim non c'è.» Grace si sentì raggelare. «Non è possibile», balbettò. «Davvero, ho controllato in ogni angolo», le garantì Livia. Le due donne rimasero in silenzio. «Io... non mi sento bene», disse Grace alla fine. «Ho la febbre alta. Altrimenti non sarei andata a letto durante il giorno.» «Magari sta giocando nel parco», buttò lì Livia. «Fa già buio.» «Chissà, forse non si è accorta del passare del tempo...» Grace ebbe un nodo in gola. «Non posso immaginare... mio Dio, ha solo sette anni...» «Vuole che venga da lei?» chiese Livia. «Magari posso fare qualcosa per lei?» «Sarebbe gentile da parte sua», sussurrò Grace. Non era che sentisse l'urgente bisogno della presenza di quella sconosciuta, ma aveva l'impressione di essere sull'orlo della pazzia e forse avere qualcuno con cui parlare poteva aiutarla. Anche se si trattava di quella strana donna tedesca. Jack. Ah, se Jack fosse stato a casa! Terminarono la telefonata. Grace versò l'acqua bollente nella tazza, poi compose decisa il numero di Jack. Aveva il cellulare spento, ma riuscì a trovarlo nella sua camera d'albergo di Plymouth. «Come stai?» le chiese subito Jack. «Ah, per niente bene. Kim è scomparsa.» «Che cosa?» Jack non riuscì più a trattenere le lacrime di Grace. «Mi ero coricata e ho dormito per tre ore. Kim voleva guardare la tele... ma ora non è più qui. Non è da nessuna parte.» «Forse è di là...» «Non è nemmeno lì.» «Ascolta», disse Jack, «adesso non ti agitare. Deve pur essere da qualche parte.»
«Era così triste», singhiozzò Grace, «perché la sua mamma non era qui per il primo giorno di scuola. E... e poi era entusiasta all'idea di ricoprire i libri con me. Ma io mi ero dimenticata di comperare la carta. Così è rimasta delusa e...» «E che cosa?» chiese Jack con voce roca. Grace si rese conto che era in pensiero anche lui, ma faceva di tutto per tenerglielo nascosto. «Forse è scappata via per la tristezza e la delusione. E poi...» «Mio Dio», mormorò Jack. «E poi ha incontrato quel tizio, quello...» proseguì Grace, anche se Jack sapeva benissimo a che cosa pensava. Grace lasciò la frase a metà. «Sciocchezze», ribatté Jack brusco. Diventava sempre così, quando era preoccupato per qualcosa. «Grace, vorrei poterti aiutare, ma anche se tornassi indietro stanotte...» «Non farlo. Hai bisogno di riposare.» «Non so come ti senti, ma forse potresti dare un'occhiata in giardino, anche se è buio. Kim ha un sacco di nascondigli. Se prendi una torcia...» Grace si lasciò sfuggire un gemito soffocato. In realtà non si sentiva proprio nelle condizioni di uscire a fare una perlustrazione fuori. «Lo chiederò a Livia.» «A chi?» «È la... ah, è troppo complicato. Jack...» «Sì?» «Ho paura.» «Fatti forza», rispose Jack. «E chiamami se ci sono novità, va bene?» «Sì, sì, naturale.» «E, Grace...» «Sì?» «Chiamami anche se non ci sono novità», disse Jack. «Vorrei solo... ah, al diavolo! Lo sapevo già stamattina che non sarei dovuto partire. Avevo uno strano presentimento. Di solito ascolto sempre il mio istinto. Perché non l'ho fatto anche stavolta?» 8 Livia si offrì per tre volte di uscire con una torcia a cercare Kim nel parco e per tre volte ritirò la propria offerta. «Non so... è una tenuta così vasta», disse impaurita, «alla fine mi perderei e non riuscirei più a tornare a casa!»
L'oscurità ormai era fitta. Grace capì che Livia aveva troppa paura di uscire da sola, al buio, in un parco sconfinato e che non l'avrebbe fatto per niente al mondo. «Andrò io», dichiarò con voce arrochita. «Assolutamente no!» obiettò Livia. «Ha la febbre alta! Se esce si prenderà una polmonite!» «Non possiamo restare sedute qui a fare niente!» «Forse dovremmo chiamare la polizia.» «Si metterebbero in moto già così presto?» «Dopo tutto... quello che c'è stato, forse», rispose piano Livia. Mentre era in ospedale non aveva saputo niente di ciò che era accaduto nella zona, ma poi Frederic l'aveva aggiornata sull'uccisione delle due bambine. «Se almeno avessi un cane», proseguì, «potrei...» «In questo momento non abbiamo nessun cane», ribatté Grace spazientita. Aveva capito che Livia faceva parte di quella categoria di persone che si lamentavano sempre senza agire e che non c'era da aspettarsi aiuto da parte sua. Sgranava gli occhi, spalancava la bocca, ma non aveva la minima idea di come affrontare la situazione. Quasi quasi Grace provava compassione per suo marito, che era scappato da lei e si era cercato un'altra donna. Ma non riusciva a compatirlo del tutto. Non gli avrebbe mai perdonato il fatto che stesse per rovinare, se non l'aveva già fatto, il matrimonio di Frederic e Virginia Quentin. «Adesso telefono alla polizia», dichiarò decisa. «Non possiamo starcene qui con le mani in mano mentre il tempo passa. Dovranno mandarci degli agenti per perlustrare il parco.» Si alzò per andare in salotto e, mentre stava per sollevare la cornetta, Livia le gridò dalla cucina: «Sta arrivando qualcuno!» «Kim!» gracchiò Grace tornando in cucina. Ma non era la bambina tanto attesa. Erano Virginia e Nathan. Avevano dovuto fermarsi per aprire il cancello e Livia aveva visto i fari dell'auto. Grace spalancò la porta d'ingresso e corse loro incontro in vestaglia e pantofole. Nathan, che era al volante, frenò bruscamente. Virginia scese subito, non appena riconobbe alla luce dei fari la figura femminile sconvolta. «Grace! Che cosa c'è? È successo qualcosa a Kim?» Grace, che negli ultimi minuti aveva ritrovato faticosamente un conte-
gno, scoppiò nuovamente a piangere. «È scomparsa», singhiozzò. «Come?» gridò Virginia con voce stridula. «Che cosa significa scomparsa?» Intanto anche Nathan era sceso dalla macchina. «Cerchi di calmarsi», disse rivolto a Grace. «Kim è scomparsa? Da quando?» Grace riferì loro gli avvenimenti del pomeriggio. «Non ce la facevo più a reggermi in piedi», disse tra le lacrime, «e allora mi sono sdraiata a letto. Non volevo addormentarmi. Non riesco a capire come...» «Nessuno la rimprovera per questo», disse Nathan. «Non stava bene ed era sovraffaticata.» Virginia si morse il labbro. «È Jack dov'è?» «Aveva da fare una consegna a Plymouth. Non poteva rimandare.» «Dobbiamo chiamare subito la polizia», disse Virginia in preda al panico. «Forse si è nascosta da qualche parte nel parco», suggerì Grace. «Ha un sacco di nascondigli e passaggi segreti tra la vegetazione.» «Ma perché dovrebbe nascondersi?» domandò Virginia. «Era molto triste e depressa oggi», spiegò Grace, evitando di guardare Virginia. «Era il primo giorno di scuola e non riusciva a spiegarsi come mai... ecco, come mai la sua mamma non era qui. E io non ero in grado di prestarle tutta l'attenzione che voleva. Forse voleva soltanto...» Alzò le spalle. «Forse voleva soltanto andarsene via.» «Oddio», sussurrò Virginia. «Ci servono delle torce», disse Nathan. «Quello che dice Grace mi sembra plausibile. Forse si è nascosta e adesso ha paura a tornare a casa con il buio. Dobbiamo perlustrare subito l'intera proprietà.» «Dovremmo avvertire immediatamente la polizia.» La voce di Virginia era a un soffio dall'isteria. Maledizione, non Kim! Non Kim! Nathan le posò una mano sul braccio. «Presumo che per il momento non farebbero niente», le disse. «Kim non manca da molto tempo e non è neppure scomparsa mentre tornava a casa, oppure al parco giochi o in un altro luogo pubblico. Era qui a casa. Non è arrivato nessuno a portarla via da qui, questo almeno lo ritengo probabile.» «Ma...» La pressione della sua mano sul braccio di lei aumentò. Autorevole e tranquillizzante. «Non ci sono paralleli con la storia delle altre due bambine. Nessuna analogia. Io penso che la troveremo.»
Lei fece un profondo respiro. «Ok. Ok, cerchiamola. Ma, se entro un'ora non l'avremo trovata, chiamerò la polizia.» «D'accordo», concordò Nathan. «Abbiamo delle torce», disse Grace. Tossendo e piangendo, si staccò da Virginia e Nathan e tornò dentro casa. Sulla soglia illuminata c'era Livia. Fissò il marito, pallida come un lenzuolo. «Nathan», disse. Lui si limitò ad alzare le sopracciglia. Virginia rimase a testa bassa, non avendo il coraggio di guardare in faccia Livia. «Non è il momento adatto per parlare», disse Nathan deciso, quando Livia fece per aprire di nuovo la bocca. Lei trasalì e tacque. Grace tornò dalla cucina con due grosse torce. «Ecco. Sono molto potenti. Dovrebbero bastare.» «Devo... venire anch'io?» chiese Livia sottovoce. Nathan scrollò il capo. «Resta con Grace. Occupati di lei. Ha la febbre alta. Virginia ha con sé il cellulare. Se abbiamo bisogno di aiuto, ti chiameremo.» Livia ammutolì nuovamente: Il pallore sulle sue guance aumentò. Impotente e senza parole guardò il marito e l'altra donna scomparire tra gli alberi. Grace, sebbene fosse ancora irritata per i modi succubi della giovane tedesca, le posò un braccio intorno alle spalle in un gesto compassionevole. «È pallida come un cencio», le disse. «Ho paura che mi svenga qui davanti. Sa una cosa, adesso le do un bel grappino. Così tornerà in forze.» Livia voleva protestare, ma Grace scrollò il capo. «No, farà come dico io. Abbiamo proprio quello che ci serve, secondo Jack. Dice sempre che ridà le energie.» Le rivolse un sorriso storto e pieno di compassione. «E avrà bisogno di parecchie energie, nei prossimi tempi, questo è sicuro!» 9 Camminavano inciampando per il parco buio. Dapprincipio non avevano avuto problemi a percorrere gli ampi sentieri sabbiosi dove Virginia correva tutte le mattine. Con le torce illuminavano la vegetazione a destra e a sinistra, mentre chiamavano il nome di Kim, ma a un certo punto Virginia si era fermata ansimando.
«Se si è nascosta per davvero», disse, «quasi sicuramente non l'ha fatto qui, dove sarebbe facile scoprirla. Di sicuro si è addentrata nel parco, dove va sempre a giocare.» «Allora dobbiamo andarci anche noi», disse Nathan. La prese per mano. «Vieni. Cerca di ricordare i suoi posti preferiti. Cominceremo da lì.» I punti frequentati da Kim erano raggiungibili solo passando per stretti sentieri, in alcuni tratti quasi completamente nascosti e ostruiti dalla fitta vegetazione. Nell'alone spettrale delle torce, sembrava che non ci fossero varchi tra i cespugli, ma in qualche modo Nathan e Virginia riuscivano a spingersi avanti, restando con i capelli o le maniche dei pullover impigliati tra i rami e le spine, e inciampando nelle radici affioranti. «È un vero paradiso per i bambini», mormorò Nathan a un certo punto, per poi lasciarsi sfuggire un gemito di dolore, quando un ramo lo colpì sul viso. «Maledizione, a essere mezzo metro più bassi si passerebbe senza problemi. Quando usciremo di qui sembrerà che veniamo da una zuffa.» Virginia voleva andare fino ai cespugli di more sotto i quali Kim si era creata un sistema di varchi astutamente camuffati che portavano a una piccola cava di pietra dove aveva costruito una città per le sue bambole e a un boschetto dove Frederic l'anno passato aveva sistemato un'amaca. Conosceva bene i posti, ci era stata spesso, ma sempre alla luce del giorno. Al buio era tutto diverso e più di una volta si fermò, incerta, senza sapere quale direzione prendere. Nel frattempo non smetteva di chiamare la figlia per nome. Ma dal parco buio e silenzioso non giungeva nessuna risposta. Riuscirono a raggiungere i rovi, illuminarono tutto meglio che poterono, ma non trovarono traccia della bambina. Anche la cava era deserta. Virginia si lasciò cadere su una roccia e nascose il viso tra le mani. «Non c'è, Nathan. Non c'è e io ho la sensazione che...» Lui le si accovacciò davanti, le prese le mani dal viso. «Che sensazione?» «Che ce l'abbia lut! Quel pervertito! Nathan», balzò a sedere, «qui stiamo solo perdendo tempo! Dobbiamo avvertire subito la polizia. Kim non è qui nel parco. Perché mai dovrebbe essersi spinta fin quaggiù?» «Perché è triste e turbata», rispose Nathan. Dopo una piccola pausa aggiunse in tono cauto: «Hai mai pensato che... che Frederic c'entri qualcosa?» «Come?» Lei lo guardò sbigottita. «Forse ha voluto fartela pagare. Tu gli hai messo le corna e adesso la
paghi. Lui sa bene qual è il tuo punto debole: basta farti sentire una madre irresponsabile.» Di colpo, senza preavviso, quelle due parole le fecero salire le lacrime agli occhi. «Ma è vero che lo sono! Nathan, sono proprio questo! Se non fossi partita per Skye insieme a te...» Tenendole le mani lui la scrollò leggermente. «Ehi! Niente autocommiserazioni. Anche le mamme possono avere delle crisi e crollare. Credevi che Kim fosse al sicuro a casa, accudita e protetta. Se Grace non si fosse ammalata e si fosse potuta occupare pienamente di Kim, di sicuro la piccola non sarebbe stata tanto triste per la tua assenza. A questo bisogna aggiungere che mancava anche Jack. F stata una concatenazione di circostanze negative. Può succedere.» Lei annuì, tolse le mani dalle sue, si asciugò le lacrime con un gesto deciso. «Non c'è tempo per piangere», disse e si alzò. «Voglio controllare ancora l'amaca. Se non è nemmeno lì, torniamo a casa e io chiamerò Frederic e la polizia.» Quando riuscirono a trovare la vecchia amaca in mezzo al boschetto buio erano sfiniti. Anche lì non c'era traccia di Kim e a giudicare dallo stato del luogo sembrava che nessuno vi fosse passato negli ultimi giorni. Nathan illuminò la zona circostante, ma non c'erano tracce di erba schiacciata, rami spezzati o impronte. «Qui non c'è e non c'è nemmeno stata», concluse. «Ok, torniamo a casa!» Continuarono a chiamare la bambina per nome anche durante il tragitto verso casa, ma senza ottenere risposta. Quando tra i rami in lontananza comparvero le luci delle finestre della portineria, Virginia fu assalita dalla speranza che nel frattempo Kim fosse tornata a casa e si trovasse al sicuro con Grace. Ma non fecero in tempo a raggiungere la casetta, che l'anziana custode andò loro incontro correndo. «L'avete trovata?» chiese. «È con voi?» Livia spuntò dietro di lei. Nathan fece finta che non esistesse. «Possiamo telefonare da qui?» domandò. Grace lottava sempre contro le lacrime. «Ma naturale. Il telefono è in soggiorno.» Virginia era già entrata. «Prima Frederic», disse, «e poi la polizia.» 10
Frederic era andato a cena in un ristorante indiano con alcuni amici di partito, ma non aveva partecipato alla vivace conversazione, astraendosi addirittura per lunghi periodi. Continuava a pensare a Virginia, a ciò che stava facendo in quel momento a Skye con l'altro. Non avrebbe mai pensato che immagini come quelle che gli si affacciavano ora alla mente potessero farlo soffrire tanto, né di essere una persona da lasciarsi travolgere da simili fantasie. Immaginarsi la moglie stretta nell'abbraccio di un altro... Perché lo faceva? Perché non riusciva a smettere? E perché provava un dolore così intenso, quasi fisico? Si era sempre ritenuto una persona troppo pragmatica, troppo razionale per provare emozioni simili. Quando una moglie tradiva il marito, l'uomo non doveva soffrire come un cane. Per combattere l'ansia, la delusione, scattavano meccanismi razionali che impedivano a un individuo di cadere in preda delle emozioni che si agitavano dentro di lui. Non bisognava permettere mai alle emozioni, belle o brutte che fossero, di prendere il sopravvento. Frederic aveva sempre creduto alla superiorità dell'intelletto sui sentimenti. Tuttavia, queste riflessioni non avevano mai neppure sfiorato la possibilità che Virginia provasse attrazione per un altro. Virginia era la donna della sua vita, la donna con la quale voleva invecchiare, non c'era il minimo dubbio al riguardo. Aveva sempre supposto che per lei fosse lo stesso. Evidentemente si era sbagliato del tutto. E, con suo profondo sgomento, non aveva niente da contrapporre alla forza del dolore. Ne era completamente preda. Da quando era tornato a Londra, aveva cercato disperatamente di mantenere una facciata di normalità. Di rispettare gli impegni presi, di interessarsi a persone importanti, di fare tutto ciò che aveva avuto in programma per la settimana prima che scoppiasse la tragedia. Non era tanto l'ansia per la carriera politica che lo spingeva a farlo, quanto il tentativo di non precipitare fino in fondo all'abisso che si stava spalancando sotto i suoi piedi. Se fosse rimasto a casa a fissare i muri, avrebbe perso la ragione, oppure si sarebbe irrimediabilmente ubriacato. Doveva restare all'interno di una routine quotidiana normale, era la sua unica possibilità. Possibilità di che cosa? si chiese. Di non impazzire? Di scoprire che cosa doveva fare? Di lenire il dolore? Di non farsi travolgere dall'odio, la rabbia, la disperazione? Un po' di tutto. Soprattutto, però, la possibilità di non stare continuamente a rimuginare. Almeno quando era di fronte a un interlocutore ed era co-
stretto a concentrarsi sulla questione impellente, la sua mente smetteva di arrovellarsi. Quella sera, tuttavia, non ce la faceva più a sopportare le chiacchiere, le risate, l'allegria intorno a lui. C'era una discrepanza troppo profonda con quello che provava dentro. Poco dopo le dieci, spiegò di avere una forte emicrania, cosa che non sorprese gli altri, i quali avevano notato fin dall'inizio della serata il suo atteggiamento distratto e taciturno. Prese un taxi, si lasciò condurre per la notte, rischiarata dalle migliaia di luci diverse della metropoli. Per tutto il giorno era andato alla frenetica ricerca di una via di svago. Adesso, d'un tratto, desiderava soltanto rinchiudersi nel suo appartamento. Come un animale ferito nella sua tana. Sentì squillare il telefono mentre infilava la chiave nella toppa. La serratura era difettosa, lui armeggiò impaziente, poi entrò con un balzo e afferrò il telefono. «Sì?» chiese, sforzandosi di non apparire senza fiato. Rimase indispettito dalla foga con cui sperava che si trattasse di Virginia, anche se la sua parte razionale lo riteneva assai improbabile. Fu colto da un grande stupore quando in effetti riconobbe la sua voce. «Frederic? Pensavo che non fossi a casa. Stavo per riattaccare.» «Oh... Virginia. Sono appena rientrato.» Meglio lasciarle credere che conduceva una vita normalissima e non se ne stava chiuso in casa a tormentarsi. Questo pensiero lo fece sentire molto infantile. «Ero a cena con dei conoscenti», spiegò. «Sono tornata a Ferndale», disse Virginia. E poi, senza dilungarsi oltre: «Kim è scomparsa». «Che cosa?» «Grace è andata a prenderla a scuola, ma poi si è messa a letto per colpa dell'influenza. Quando si è svegliata, un paio d'ore più tardi, Kim era scomparsa.» «Ma non è possibile!» «Non c'è. Ho cercato dappertutto nel parco, ma non ho trovato tracce di lei. Sono disperata. Io...» «Arrivo subito», disse Frederic. Frederic avvertì chiaramente una lieve esitazione da parte di lei e, dopo un attimo di sorpresa, comprese. Rimase stupito di quanto fosse forte il dolore, nonostante l'ansia per la scomparsa della figlia. «Ho capito», disse, «c'è anche il tuo amante. La mia presenza al momen-
to non è gradita.» «Che cosa c'entra questo adesso?» «E allora perché non vuoi che venga?» Lei rispose con voce depressa e sfinita. «La mia esitazione non era dovuta a quello», disse. «È solo che...» «Sì?» «Io ero... non sapevo se essere sollevata oppure no. Temevo... che Kim fosse da te. Evidentemente non è così, ma almeno adesso ne ho la certezza.» Lui rimase senza parole per un istante. «Pensavi che fosse da me?» ripeté incredulo. «Sì.» «E perché avrebbe dovuto essere qui? Perché sarei dovuto venire a prenderla senza avvisare nessuno?» Lei fece un profondo respiro. «Per punirmi della mia fuga a Skye», disse. Mentre lui cercava di riprendersi di fronte a una simile accusa, Virginia aggiunse: «Telefono subito alla polizia. Devono fare qualcosa». «Tu pensi che io possa andare di corsa a Ferndale da Londra, portare via Kim di casa senza che nessuno lo noti, tornare a tutta velocità qui a Londra, e il tutto solo per sfogare il mio risentimento?» «Adesso non ha importanza quello che pensavo. L'unica cosa che conta è che ritroviamo Kim.» Aveva ragione lei. Non era il momento di chiarire le cose tra di loro. Ci sarebbe stato tempo per farlo in seguito. Molto più tardi. Gli venne un'idea improvvisa. «Hai controllato nella casetta sull'albero?» «Quale casetta?» «Quella che avevo costruito con lei quando aveva quattro anni.» Una lunga estate calda. All'epoca abitavano ancora a Londra e diversamente dal solito avevano trascorso luglio e agosto a Ferndale anziché a Skye. In quel periodo Kim era stata in una fase di particolare attaccamento al padre e Frederic le aveva dedicato molto tempo. La portava al mare, a fare passeggiate nei boschi, a osservare animali e raccogliere fiori. E le aveva costruito una casetta sull'albero. Una casetta davvero bellissima, con una scala che si poteva ritirare dall'alto e con tanto di panca per sedersi e tavolino traballante. «Ma non ci è più salita da un sacco di tempo», obiettò Virginia.
«Però se ne ricorda. E rappresenta un periodo molto felice per noi. È possibile che ci sia andata proprio per questo.» Quell'estate la loro vita familiare era stata piena di una grande armonia. A volte passavano il pomeriggio tutti e tre insieme nella casetta sull'albero, anche se Virginia temeva che potesse rompersi sotto il loro peso. Kim giocava a preparare il tè ai genitori, gli serviva dell'acqua nelle tazzine di plastica delle sue bambole con briciole di biscotto sui minuscoli piattini. Si erano divertiti molto. La casa sull'albero poteva simboleggiare davvero tutto ciò che Kim credeva di aver perso in quel momento. «Sai come arrivarci?» chiese Frederic. «Sì, certo.» «Stammi a sentire. Vai a controllare lì. Se non c'è, informi subito la polizia. E mi richiami. Io troverò il modo di tornare a Ferndale questa notte.» «D'accordo.» La voce di Virginia suonava strozzata. L'ansia per Kim le stringeva letteralmente la gola come un cappio. «Aspetto qui vicino al telefono», disse lui e riattaccò. Non credeva che Kim fosse stata rapita. Non dalla casa dei Walker. Se n'era andata, per protestare nell'unico modo che aveva a disposizione, contro la minaccia che incombeva sulla sua serenità. Ma anche così era già abbastanza grave. Lui aveva avuto intenzione di restare a Londra, di attendere che fosse Virginia a fare il primo passo. Era stata lei a lasciarlo, e quindi spettava a lei trovare un modo per correre ai ripari. Ora si rendeva conto di quanto fosse stato infantile nel suo atteggiamento e che era il caso di cambiarlo quanto prima. Perché tutta quella storia non riguardava soltanto lui e Virginia, i loro sentimenti reciproci, le ferite che lei gli aveva inferto, e il ruolo da lui svolto nel far precipitare a quel modo le cose tra di loro. Prima di tutto riguardava Kim. Più di ogni altra cosa, dovevano tenere presente il suo benessere e solo allora potevano pensare a loro stessi. Sarebbe arrivato a King's Lynn al più tardi il mattino seguente. Dovevano parlare insieme. Decidere come organizzare le settimane successive. Quali cambiamenti introdurre nella vita familiare che fossero il più indolori possibile per Kim. Kim. Fissò il telefono. Kim, torna a casa! Dove sei? Torna a casa, andrà tutto a posto! Si rendeva conto perfettamente che le ore successive sarebbero state le più lunghe di tutta la sua vita.
Martedì, 5 settembre 1 Erano passate da poco le sei di mattina, quando il taxi imboccò il viale di accesso di Ferndale House. Pioveva. I fari dell'auto si muovevano spettrali lungo il percorso serpeggiante tra gli alberi bui e grondanti. Il taxi si fermò davanti alla casa padronale. Le finestre erano ancora buie. Tutte le luci erano spente. Un sottile velo di nebbia ammantava i comignoli. Sembrava una mattinata di tardo autunno. Se gli alberi non fossero stati ancora così carichi di foglie, avrebbe potuto essere una giornata di novembre. La porta si aprì e Livia uscì sui gradini. Portava jeans, scarpe da tennis e un impermeabile blu. In mano reggeva la sacca con i vestiti che le aveva dato Virginia. Il tassista scese e le aprì lo sportello posteriore. «Sono puntuale», disse orgoglioso. Livia annuì. «Sì, la ringrazio.» «Allora, alla stazione?» chiese lui. Livia assentì di nuovo. «Alla stazione.» Lui mise in moto e fece manovra. «E dove sarebbe diretta?» chiese. «A Londra.» «Non so se ci sono treni in partenza a quest'ora.» «Non ha importanza. Aspetterò il primo.» Percorsero il viale fino al cancello d'ingresso che il tassista aveva lasciato aperto. Al di là del muro di cinta, gli alberi si diradarono, la mattinata si schiarì un poco. Ma la nebbia ammantava i campi come una cortina di piombo e l'aria era carica di pioggia. «Non è certo il tempo migliore per mettersi in viaggio», osservò il tassista. Non ottenne risposta. Lanciando un'occhiata nel retrovisore, si accorse che la sua viaggiatrice piangeva. Accese la radio, ma abbassò il volume fino a riuscire soltanto ad ascoltare il notiziario. Se non poteva chiacchierare, almeno voleva sentire una voce. Povera donna. Che aspetto patito e smunto. E che espressione triste. No, non soltanto triste. Lanciò un'altra occhiata fugace allo specchietto.
Disperata. Del tutto disperata. Poverina! 2 «Vieni a prendermi anche all'uscita, mamma?» chiese Kim. Era sul sedile posteriore, lo zaino sulle gambe, era molto pallida e fragile. Tremava come una foglia quando Virginia e Nathan l'avevano trovata la notte prima nella casetta sull'albero. Ci era rimasta per ore, infreddolita, stanca e impaurita. Nathan l'aveva portata in braccio per il tragitto fino a casa, mentre Virginia gli faceva luce con la torcia. Lei sarebbe voluta andare subito dal medico, ma Nathan l'aveva convinta che sarebbe servito soltanto a mettere ancora più in agitazione la bambina. «Ci vuole un bel latte caldo e miele, un bagno caldo e molto riposo», le aveva consigliato e alla fine Virginia aveva acconsentito. Era profondamente sconvolta. Non aveva mai visto in quello stato la figlia di solito allegra ed equilibrata. «Perché ti sei nascosta lassù?» le chiese, una volta che la bambina fu sotto le coperte, con un pesante scialle sulle spalle e calzini caldi. «Non mi volevo nascondere», rispose Kim. «Volevo stare lì un po', ma poi è venuto buio e non me la sono più sentita di attraversare il bosco.» «Ma perché sei salita lì, con quel tempo e a quell'ora? Era già tardi e sotto la pioggia non è bello stare nella casetta sull'albero!» Kim era rimasta in silenzio e aveva girato la testa di lato. «So che eri triste, perché non ero qui il tuo primo giorno di scuola», disse allora Virginia, «e mi spiace da morire che sia successo. È solo che pensavo... di solito stai tanto volentieri a casa di Grace. Ero convinta che non avresti sentito la mia mancanza.» In seguito, dopo aver telefonato a Frederic a Londra e una volta che Kim si fu addormentata, Virginia aveva ripetuto la stessa cosa a Nathan. Lo trovò in cucina, dove stava bevendo un bicchiere di latte preso dal frigo. Lui aveva l'aria tirata. Lei sapeva che aveva parlato lungamente con Livia. «Certo, è vero che sta volentieri da Grace», le aveva detto lui, «ma stavolta non si trattava di una situazione normale. Aveva intuito che gli adulti, e prima di tutto suo padre, non sapevano dove ti fossi cacciata. I bambini hanno le antenne sensibili. Non aveva capito che stava succedendo qualcosa tra i suoi genitori, ma aveva avvertito la scossa tellurica. Si è sentita minacciata da qualcosa di indefinito e allora è andata a rifugiarsi nella
casetta sull'albero.» Virginia si era seduta al tavolo di cucina, reggendosi la testa tra le mani. «Abbiamo rovinato così tante cose», bisbigliò, «abbiamo causato una tale distruzione intorno a noi!» «Questo lo sapevamo», disse Nathan. Lei lo guardò. «Hai parlato con Livia?» «Ci ho provato.» «Provato?» «Continuava a piangere. Era impensabile intavolare un dialogo con lei. Non la smette mai di parlare del naufragio. E poi crolla. Non mi pare che abbia compreso fino in fondo il significato di tutte le altre cose che ho provato a dirle.» «È profondamente traumatizzata. E ora pure questo...» «Già», confermò Nathan, «pure questo...» Si era seduto di fronte a lei e le aveva preso le mani tra le proprie. Il suo tocco aveva fatto tornare tra di loro la magia dei giorni precedenti a Dunvegan. «Ma non posso tornare indietro», disse lei, «non posso più lasciarti.» Lui non aveva replicato, guardandola in silenzio. La cucina era illuminata da una sola lampadina fioca. Erano rimasti seduti lì così per ore, in silenzio, tenendosi per mano. A un certo punto erano andati in salotto, si erano sdraiati sul divano tenendosi abbracciati e avevano cercato di dormire. Erano ancora vestiti, lo spazio era poco e scomodo, e non erano riusciti a riposare veramente. Ma a Virginia sembrò una notte incantata. Quando si alzò il mattino seguente, con le membra rigide e la schiena dolorante, i sensi di colpa che provava verso Frederic e soprattutto verso Kim non erano diminuiti, ma la certezza che Nathan fosse la sua unica strada si era rafforzata. Adesso era seduta in macchina, si era appena fermata davanti alla scuola di Kim e, quando la figlia le chiese se sarebbe venuta a prenderla all'uscita, per un attimo ebbe la tentazione di darle una frettolosa risposta tranquillizzante. Ma poi pensò a quanto fosse importante, in quella delicata situazione, non perdere la fiducia che, nonostante tutto, Kim nutriva verso di lei. «Non so se farò in tempo», le rispose. «Papà torna da Londra con il treno delle cinque. Probabilmente dovrò andarlo a prendere alla stazione, perché non ha la macchina.» Durante la notte Frederic l'aveva informata che voleva tornare a Ferndale il prima possibile per chiarire la situazione e che sarebbe arrivato a
King's Lynn con il treno delle cinque. Aveva categoricamente rifiutato la proposta che lei andasse a prenderlo alla stazione, ma Virginia non aveva ancora escluso del tutto l'ipotesi di andarci lo stesso. Per qualche motivo le sembrava più opportuno che il loro primo incontro avvenisse su un terreno neutro. E poi le sarebbe piaciuto parlare con lui al tavolino di un caffè o di un ristorante, piuttosto che in salotto. Non sapeva spiegarsi perché le sembrasse più facile. Forse dipendeva da tutte le ore e le giornate trascorse con Nathan a Ferndale. La casa era già impregnata della loro storia, sebbene non avessero avuto rapporti sessuali lì. Ma la notte precedente per Virginia aveva un'importanza molto maggiore dei loro appassionati abbracci a Skye. La notte prima la sua anima si era sciolta. Come faceva adesso a sedersi su quello stesso divano per parlare con Frederic? «Allora chi viene a prendermi?» chiese Kim. Aveva occhiaie bluastre sulle guance. «Di sicuro ci sarà qualcuno», promise Virginia. «Magari Grace, se si sente meglio. Oppure Jack, se torna in tempo. Forse...» «Sì?» «Forse viene Nathan. Sei d'accordo?» Kim esitò. Virginia insistette. «Nathan ti piace, no?» «È simpatico», disse Kim. «Magari viene a prenderti lui e poi andate a bere una cioccolata insieme. Che te ne pare?» «Bello», rispose Kim, ma non sembrava affatto entusiasta. Virginia la guardò. «Tesoro mio, io... io non me ne andrò più via da te. Te lo prometto.» «E papà?» «Papà a volte deve andare a Londra, questo lo sai.» «Però poi torna sempre qui da noi, vero?» volle sapere Kim. «Non lo perderai», disse Virginia, poi voltò di scatto la testa perché aveva gli occhi pieni di lacrime. Che Dio mi perdoni, mormorò tra sé. 3 «Se n'è andata e ha preso i miei soldi», disse Nathan. Era furibondo e pallido sotto l'abbronzatura. «Voglio dire, i soldi che mi hai prestato tu. Ha lasciato solo dieci sterline e si è portata via il resto.»
Virginia era in fondo alla scala e lo fissava attonita. «Livia è andata via?» «Ha portato con sé anche i vestiti - i tuoi vestiti. Sembra proprio che sia partita.» «I vestiti glieli avevo regalati. Non c'è problema.» Nathan scese le scale. «Penso che stia cercando di tornare in Germania.» «Non ci sarebbe niente di strano, no?» osservò Virginia. «Dopo tutto quello che è successo qui è naturale che non ce la facesse più a rimanere.» «Ma io mi ritrovo con dieci sterline!» «Nathan, non è un problema. Posso darti di nuovo dei soldi io.» «Speravo di non averne più bisogno», disse lui rabbiosamente. «Voglio dire, erano sempre soldi tuoi, ma speravo che non me ne servissero altri. Te lo immagini...» Si bloccò, e lei gli posò dolcemente una mano sul braccio. «Nathan... tra di noi non dovrebbe essere argomento di discussione.» «Per me lo è. Ho quarantatré anni, mi ritrovo senza niente tra le mani, assolutamente niente! Mi faccio mantenere dalla donna che amo. Maledizione! Ti rendi conto di quello che provo?» «Posso immaginarlo», disse Virginia. Era arrivato in fondo alla scala e si scostò i capelli dalla fronte con un gesto più sfinito che collerico. «Se solo vedessi una via d'uscita! So che scriverò. So che avrò successo. Ma non avverrà dall'oggi al domani.» «Vedrai che prima o poi ce la farai. E fino a quel momento lascia che sia io ad aiutarti.» «Non ho altra scelta», disse Nathan. Virginia si rese conto con sorpresa che aveva davvero l'aria affranta. A quanto pareva era stato seriamente intenzionato a non chiederle più soldi, anche se non riusciva a capire come si sarebbe mantenuto. Il fatto che Livia si fosse portata via quel poco che aveva sembrava averlo fatto piombare in una profonda crisi. «Non mi resta altra scelta», ripeté Nathan, «perché devo pur vivere. E, a quanto pare, per un po' non potrò restare qui a Ferndale». Lei lo guardò. «E perché?» chiese confusa. Lui sorrise, ma senza felicità. «Tesoro, ti sei dimenticata che oggi torna tuo marito? Voglio dire, io non ho niente contro di lui, ma secondo te come reagirebbe se mi trovasse seduto qui in salotto quando arriva?» Lei si sorprese di non aver pensato fino a quel momento a come fare per evitare un confronto tra Nathan e Frederic. La scomparsa di Kim aveva occupato tutti i suoi pensieri.
«Hai ragione», disse. «Meglio che non ti trovi qui». «Mi cercherò un bed & breakfast da qualche parte e mi stabilirò lì. Purtroppo devo chiederti...» «Non c'è problema. Pago io.» «Ti restituirò fino all'ultimo penny. Te lo giuro.» «Se ti fa sentire meglio...» «Non lo sopporterei altrimenti», dichiarò lui solennemente. Rimasero a guardarsi indecisi. «Non so come farò a passare le prossime notti senza di te», disse Virginia piano. «Abbiamo tutta la vita davanti», ribatté lui a bassa voce. Virginia vide nella sua mente una serie di immagini in rapida successione: una casetta in campagna. Un giardino inondato di sole. Lei e Nathan al tavolo di cucina, davanti a due tazze di caffè nero. Discutevano del suo ultimo libro, con passione, concentrati, isolati dal mondo eppure non soli, perché stavano insieme. Notti abbracciati stretti, ciascuno a sentire il corpo e il respiro dell'altro. Un bicchiere di vino al tramonto. Ore davanti al camino, mentre fuori cadeva la neve e il mondo si ammantava di un ovattato silenzio. Passeggiate, mano nella mano, ridendo e parlando, oppure in tacita armonia. Feste, persone, musica, ammiccamenti con lo sguardo. Felicità, felicità, felicità. L'avrebbe ritrovata. Ne avvertiva già la presenza. Era a portata di mano. Le stava così vicino che il cuore le aveva già accelerato. Le labbra di Nathan le sfiorarono i capelli. «Adesso vado.» «Di già? Frederic arriverà solo nel tardo pomeriggio.» «È lo stesso. Ho bisogno di stare un po' da solo. Magari vado al mare. Sono successe così tante cose.» «Puoi prendere la mia macchina. Io poi userò quella di Frederic.» Lui strinse i pugni. «Un giorno», disse risoluto, «non dovrò più dipendere dagli altri. Le cose cambieranno.» «Ma certo.» Non te la prendere tanto però, pensò lei. Gli consegnò le chiavi della macchina, poi si frugò nelle tasche alla ricerca di qualche banconota. In quel momento le venne in mente una cosa. «Potresti andare a prendere Kim a scuola alle cinque? Temo che Grace stia ancora troppo male e Jack non tornerà in tempo. Ti faccio vedere come arrivarci.» «Ma certo, non c'è problema.» «Poi lasciala da Grace. Io andrò a prendere Frederic alla stazione e poi ci metteremo a parlare da qualche parte.»
«Andrò a prenderla puntuale. Stai tranquilla.» Lei annuì, aggrappandosi letteralmente alle sue ultime parole. Stai tranquilla. Li attendeva una giornata difficile. Settimane difficili. Un periodo difficile. «Nathan», disse lei, «ce la faremo. Ne sono sicura.» Lui sorrise di nuovo. Stavolta senza amarezza, ma teneramente. «Ti amo», le disse. 4 Grace non era ancora guarita, ma si sentiva un po' meglio. Era rimasta a letto per tutto il giorno, alzandosi solo per andare al bagno o prepararsi una tazza di tè. Si sentiva ancora debole, ma non aveva più i giramenti di testa come il giorno prima. Anche le ossa non le dolevano più tanto. Il peggio era passato. Jack aveva telefonato due volte, dicendo che sarebbe tornato per sera. Raramente le era capitato di aspettare il suo ritorno con tale ansia. Era un uomo un po' rude, ma sapeva essere molto premuroso, quando gli altri non stavano bene. Le avrebbe cucinato qualcosa di buono e avrebbe portato il televisore in camera, così lei avrebbe potuto restarsene a letto a guardare il film d'amore in programma per quella sera. Era così felice e sollevata che Kim fosse tornata quella notte stessa tra le braccia della madre. Non se lo sarebbe mai perdonato, se alla bambina fosse capitato qualcosa, solo perché si era addormentata invece di badare a lei. Ma, nonostante la febbre e la paura per Kim che l'aveva quasi paralizzata, non le era sfuggita la delicatezza del momento. Che tra Virginia Quentin e il bel tedesco ci fosse qualcosa era così evidente che avrebbero potuto attaccarsi addosso un cartello con scritti i loro sentimenti reciproci. Livia Moor aveva fatto una faccia, come se dovesse svenire da un momento all'altro. Bianca come un cencio, con le labbra che le tremavano. Grace però aveva intuito che la donna aveva paura del marito. Sebbene lui l'avesse tradita così platealmente, lei non aveva osato fargli una scenata. Lui le aveva lanciato un'occhiata che l'aveva messa a tacere. La trattava come una pezza da piedi, pieno di disprezzo e senza la minima considerazione per i suoi sentimenti. Grace si chiedeva come mai Virginia Quentin si fosse fatta conquistare da un uomo che trattava in quel modo un'altra donna. Non se ne era accorta? Oppure credeva che con lei Nathan Moor sarebbe diventato un uomo nuovo? Grace, alla quale piaceva spettegolare, avrebbe volu-
to tanto parlare della cosa con le sue amiche ma, a parte il fatto che stava male, c'era anche un altro impedimento ben più importante: Grace rispettava il ferreo principio di non sparlare della propria famiglia. Poteva succedere qualunque cosa, ma dalle sue labbra non sarebbe uscito un fiato. Il paese avrebbe appreso della probabile fine del felice matrimonio tra Frederic e Virginia Quentin da altre fonti, ma di sicuro non da Grace Walker. Erano le quattro del pomeriggio. Avvolta nell'accappatoio, Grace guardava fuori dalla finestra. Pioveva ancora. Che settembre orribile, quell'anno! Nessuna giornata di fine estate con l'aria calda e limpida, il cielo azzurro e i giardini accesi di colori. Soltanto pioggia e nebbia. Atmosfera novembrina. Non c'era da stupirsi se si era presa quel malanno! Grace detestava sentirsi debole e ammaccata; per la sua indole energica e attiva non c'era niente di più fastidioso che starsene immobile in un angolino a guardare passare le ore. Si muoveva volentieri, le piaceva occuparsi della casa e del giardino, cucinare, stirare con cura il bucato e profumare con piccoli rametti di lavanda i cassetti degli armadi. Le piaceva occuparsi degli altri. Le sarebbe piaciuto avere almeno sei figli ed essere una madre premurosa, ma nei primi tempi dopo il matrimonio i soldi non bastavano mai e Jack era sempre via con il camion. Avevano aspettato momenti migliori, ma quando finalmente erano arrivati Grace aveva già superato i quaranta e non era più rimasta incinta. Spesso pensava che la sua sterilità sarebbe rimasta per sempre come un'ombra a oscurare la sua vita, peraltro felice. Per fortuna poteva fare da nonna alla piccola Kim! Ma mentre guardava fuori dalla finestra la giornata piovosa e si soffiava il naso per la centesima volta fu colpita da un pensiero improvviso. E se le cose restavano così com'erano? Se Mr. e Mrs. Quentin si fossero separati e Mrs. Quentin alla fine se ne fosse andata con quello scioperato - di sicuro avrebbe portato con sé la piccola Kim! I figli restano in genere sempre con la madre. E magari poi Mr. Quentin avrebbe venduto Ferndale House; dopo tutto, stava quasi sempre a Londra, che cosa se ne faceva di una tenuta di campagna piena di tristi ricordi? Fu assalita da un'oppressione così forte al cuore, che dovette sedersi rapidamente sul divano e respirare profondamente. Jack ripeteva sempre che non bisognava fasciarsi la testa in anticipo. «Alla fine va sempre in maniera diversa da come avevi previsto», diceva. E spesso aveva dimostrato di avere ragione. Forse è solo che vedo tutto nero, tentò di consolarsi, ma il cuore le batteva forte ed era madida di sudore.
In mezzo a questi pensieri angosciosi, squillò il telefono. Lei sperò che fosse Jack, che le diceva di stare per arrivare; allora avrebbe potuto confidargli le proprie paure e ricevere da lui una risposta rassicurante. Invece era il tedesco, lei lo riconobbe subito dall'accento. «Mrs. Walker, sono io, Nathan Moor. Il... l'ospite di Mrs. Quentin.» «So chi è», rispose Grace fredda. «Telefono da una cabina di Hunstanton. La macchina non vuole partire.» A Grace non venne in mente niente di più arguto che chiedergli: «E che cosa ci fa a Hunstanton con questo tempo?» Lui rispose con una punta di impazienza. «Ad alcune persone piace passeggiare in riva al mare anche con la pioggia. Mi stia a sentire, Mrs. Walker. Il problema è che avevo promesso a Virginia... a Mrs. Quentin, che sarei andato a prendere Kim a scuola per le cinque. Ma a questo punto è assai probabile che impieghi più tempo del previsto a far partire l'auto. Ho cercato di avvertire Mrs. Quentin, ma non mi ha risposto. Anche il suo cellulare è spento.» «Mrs. Quentin è andata via un'ora fa. A quanto ne so, ha intenzione di andare a prendere suo marito», Grace accentuò di proposito la parola marito, «alla stazione.» «Accidenti!» disse Nathan. «È probabile che non abbia acceso il cellulare», disse Grace, che un pochino ci godeva a sentire Nathan Moor impotente e piantato in asso dall'amante. Anche se sapeva benissimo quali sarebbero state le conseguenze di quel contrattempo: se Virginia Quentin fosse rimasta irraggiungibile, sarebbe toccato a lei, Grace, andare a prendere Kim, con tanti saluti alla sua guarigione. E puntualmente fu così. «Mi spiace davvero doverle chiedere questo favore, Mrs. Walker», disse Nathan, «ma non potrebbe andare lei a prendere Kim? So che è malata, ma...» «Ci sarebbe anche sua moglie», propose Grace. Una breve pausa. «Mia moglie è partita», rispose Nathan. «Oh», fece Grace. «Sto per finire i soldi», proseguì Nathan. «Allora? Potrebbe...?» Con tutta l'irritazione che poteva mettere nella voce, Grace rispose: «Andrò io a prendere Kim. È ovvio che non la lascio da sola.» E con queste parole riagganciò.
Dunque Livia Moor era già partita. La situazione diventava sempre più spinosa. Resta tranquilla, si disse Grace. Resta tranquilla. Ma il cuore le batteva forte e, come il giorno prima, fu assalita da un giramento di testa. Si sarebbe voluta sdraiare a letto a piangere, e invece non le restava altra scelta che darsi da fare. Chiamò Jack sul cellulare e gli prospettò la situazione, ma lo trovò bloccato in un ingorgo sulla tangenziale di Londra, e lui le disse che calcolava di non riuscire ad arrivare a King's Lynn prima delle sette. Che strazio. «Allora devo andare a prenderla io», disse Grace. Jack si infuriò un'altra volta. «Sei malata, devi startene a letto! Chi è questo tizio cui Mrs. Quentin aveva affidato la figlia? E come mai lei non è raggiungibile?» «È una storia lunga, te la racconto quando torni. Adesso mi devo vestire», disse Grace. Poi riattaccò e scoppiò a piangere. 5 Grace non ce l'aveva fatta ad arrivare alle cinque ma, come constatò guardando l'orologio, erano le cinque e quattordici minuti quando fermò l'auto davanti alla scuola. La indispettiva non essere puntuale perché una delle sue principali virtù era l'assoluta affidabilità. Ma non aveva calcolato quanto le costasse compiere ogni minimo movimento, quanto tempo impiegasse a vestirsi da sola. Quando si era chinata per allacciarsi le scarpe, aveva cominciato a sudare copiosamente e si era sentita mancare. Era stata costretta a rialzarsi e aveva dovuto aspettare parecchi minuti prima che la crisi passasse. «Sono proprio malata», gemette piano, «molto malata. Ci mancava solo questa adesso!» La pioggia battente si era trasformata in una pioggerellina lieve che ammantava tutto di una grigia tristezza. L'edificio di mattoni che ospitava la scuola appariva vuoto e deserto, nel cortile si erano formate parecchie pozzanghere, sul muro accanto all'ingresso era appollaiato un passero che guardava il mondo con aria preoccupata. Su quel muretto in genere si sedeva anche Kim, quando Grace andava a prenderla e la bambina usciva prima del previsto. Oggi non c'era anima viva, a parte il passerotto, ma, vista la pioggia, la cosa non la sorprendeva.
È sicuramente dentro, pensò stancamente. Le sarebbe toccato trovare un parcheggio e scendere, nonostante i brividi di febbre che la scuotevano in tutto il corpo. Non c'era pace per lei quel giorno. La cosa cui anelava più di ogni altra erano il suo letto, una tazza di tè bollente e riposo, molto riposo. Lasciò la macchina in divieto di sosta proprio davanti all'ingresso della scuola, scese e attraversò il cortile più in fretta possibile. Si era dimenticata di prendere l'ombrello. Nella fretta, finì con un piede in una pozzanghera e si rese subito conto dell'acqua gelida che le penetrava nella scarpa. «Al diavolo», esclamò con enfasi. Alla fine raggiunse la tettoia e spinse la grande porta a vetri che conduceva alla scalinata. Nell'atrio erano sistemate lavagne e tabelloni pieni di foglietti e annunci: informazioni, appuntamenti, notizie di vario genere. Saliti tre gradini si arrivava al salone, dove si tenevano anche le assemblee e le conferenze. Dal centro della stanza partiva una scala che portava a un pianerottolo con la ringhiera in metallo su cui si affacciavano le porte delle aule, degli uffici e dei laboratori. Il salone era deserto. Grace era convinta di trovare Kim che l'aspettava sulle scale e si guardò intorno. Ma la ragazzina non era da nessuna parte. Corrugando la fronte, si voltò a guardare fuori dalla porta a vetri. Che Kim fosse fuori? Magari sotto uno degli alberi? No, anche lì non c'era nessuno. Il piede bagnato di Grace era gelato e la scarpa ciangottava piena d'acqua. Grace starnutì e fece il giro di tutto il salone, poi salì di sopra, aggrappandosi faticosamente alla ringhiera. Le tremavano le ginocchia. Da qualche parte proveniva musica di flauto e di pianoforte. Grace aprì un paio di porte a caso e guardò nelle aule vuote. Niente. Nessuna traccia di Kim. In una delle aule in fondo si imbatté in un gruppo di studenti che, sotto la guida di una giovane insegnante dall'aria stressata, soffiavano alla meno peggio nei loro flauti. Un ragazzo al pianoforte batteva energicamente sui tasti. «Desidera?» chiese l'insegnante irritata, alla vista di Grace. I ragazzi, sollevati, smisero di suonare. Grace starnutì di nuovo. Le occorreva disperatamente un fazzoletto, ma nella tasca del cappotto non ne aveva neppure uno. «Mi scusi, sono venuta a pendere la figlia di... di un conoscente. Le sue lezioni terminavano alle cinque. Purtroppo non sono riuscita ad arrivare in
tempo. E adesso non riesco a trovarla da nessuna parte.» «Qui non c'è di sicuro», replicò l'insegnante. «Oppure sì?» «No. No, Kim non suona il flauto. Però forse la conosce? Si chiama Kim Quentin.» Si capiva che la giovane donna faceva uno sforzo per mostrarsi cortese. «No, non la conosco. E a quanto ne so noi del gruppo di musica siamo gli ultimi a uscire oggi. A parte il preside, non dovrebbe essere rimasto più nessuno.» «Capisco... esiste una specie di sala d'aspetto? Kim deve pur essere da qualche parte ad attendermi. Di solito ci incontriamo fuori, ma con questo tempo...» «Al piano di sotto, prima porta a destra», disse il ragazzino al pianoforte. «Forse è seduta lì.» «Oh, grazie, grazie molte!» esclamò Grace sollevata. Richiuse la porta e subito nell'aula tornarono a risuonare le note stridule e stonate del concerto di flauti. Lavoro duro, pensò, mentre si affrettava a scendere di sotto, stavolta più sollevata e agile, convinta di trovare Kim nell'aula che le era stata indicata. Questa certezza le mise le ali ai piedi. Non mi sorprende che quella donna sia così stressata! Spalancò la porta subito a destra dell'ingresso e si trovò davanti una stanza piena di banchi e tavoli riuniti a gruppi disordinati. Era di sicuro la sala d'aspetto. Era vuota. Grace fece un profondo sospiro accorato. Anche qui nessuna traccia di Kim. Ormai erano le cinque e mezzo passate. Forse Kim si era avviata verso la fermata dell'autobus, non avendo trovato nessuno ad aspettarla alle cinque? Grace era andata in autobus un paio di volte con la bambina, ma solo con il bel tempo o quando, per qualche motivo, avevano avuto voglia di fare una passeggiata. La fermata più vicina a Ferndale House, infatti, si trovava pur sempre a una mezz'ora buona di cammino in mezzo a prati e campi. Kim non era ancora andata da sola. Mai. E poi Grace non sapeva se la bambina avesse del denaro con sé. Le venne in mente un'altra possibilità: forse il tedesco alla fine era riuscito a mettersi in contatto telefonico con Mrs. Quentin e questa era andata a prendere la figlia alle cinque.
Saranno già a casa belle comode, mentre io sto qui a cercare inutilmente, pensò. Nonostante la poggia, fece ancora un giro di tutto l'edificio scolastico, cercò anche nei bagni, collocati in una costruzione a parte e, quando ebbe la certezza che Kim non si trovava da nessuna parte, tornò alla macchina e salì a bordo. Non vedeva l'ora di togliersi la scarpa fradicia e ghiacciata. Di stendere le membra doloranti. Di appisolarsi senza dover pensare più a niente. Mise in moto. Di sicuro Kim è già a casa, si ripeté ancora una volta. Erano le sei meno dieci, quando ripartì. Aveva un brutto presentimento. 6 Frederic e Virginia uscirono dal caffè su Main Street poco dopo le sei. Ci erano rimasti un'ora buona, avevano bevuto due tazze di caffè, si erano guardati e avevano cercato di capire quanto era successo negli ultimi giorni. Quando lui l'aveva vista alla stazione, le aveva detto: «Non saresti dovuta venire a prendermi! Ti avevo...» «Lo so», lo aveva interrotto lei, «ma volevo andare da qualche parte a parlare con te, dove Kim non possa sentirci.» «Come sta?» «Meglio. Stamattina sembrava perfettamente riposata.» «Chi va a prenderla a scuola?» «Grace», mentì Virginia. In quel momento le sembrava impossibile spiegare al marito che sarebbe stato il suo amante ad andare a prendere la figlia a scuola. Un'innocua bugia necessaria e giustificabile alla luce delle circostanze. Frederic non fece osservazioni sul fatto che Virginia fosse venuta con la sua auto; forse, pensò lei, non se n'era neppure accorto. La cosa la sollevava, perché così non doveva spiegargli di aver prestato la propria auto a Nathan. Seduti nel caffè, entrambi avevano faticato parecchio a rompere il ghiaccio. Virginia si accorse che Frederic la fissava con estrema attenzione, e le fu chiaro che cosa vedesse e che effetto dovesse fargli. Nonostante l'agitazione del giorno prima per Kim, nonostante l'angoscia causata da tutta
quella situazione, aveva l'aria di una donna felice, se n'era accorta lei stessa allo specchio e non poteva fare niente per nasconderlo. Guance rosee, occhi luccicanti, una specie di luce interiore che, a guardare bene, si rifletteva anche sul suo viso. Ciò che le aveva sempre dato un aspetto sofferente e crucciato era sparito come per magia. La voglia di vivere, che da ragazza tutti le invidiavano e le aveva attirato intorno schiere di uomini, si stava per risvegliare. Era questo ciò che l'aveva stupita tanto quella mattina, quando si era guardata allo specchio dopo quella notte incantata trascorsa accanto a Nathan: era tornata la Virginia dei vent'anni. I suoi occhi avevano di nuovo quella luce piena di vita, di sfida, di curiosità. Come se gli anni intercorsi fossero stati cancellati di netto. A un certo punto, dopo essere rimasto a lungo a guardarla, mescolando distrattamente il caffè, Frederic si era sporto in avanti e le aveva chiesto con un filo di voce: «Perché?» Qualunque spiegazione in quel momento l'avrebbe ferito. «Non lo so bene neppure io», rispose lei. «È come se... se...» «Sì?» «Come se mi fossi risvegliata da un lungo sonno», aveva bisbigliato lei. Guardandolo in viso aveva capito che lui si domandava che cosa volesse mai dire. Ma poi forse gli era sovvenuto qualcosa, perché, dopo altri minuti di silenzio, disse: «Io ho sempre accettato la tua malinconia. Come parte di te. Qualcosa che ti apparteneva indiscutibilmente. Non volevo togliertela, perché non volevo cambiare nulla del tuo essere. Perché non credevo di averne il diritto». «Forse avevi anche paura.» «Di che cosa?» «La donna, che viveva nascosta dietro una cortina di alberi e non osava mai avventurarsi fuori, era molto innocua. La malinconia mi rendeva debole. E quindi dipendente. Avevo bisogno di protezione e sostegno. Come una bambina piccola. Forse era anche questo che non volevi cambiare.» «Oh», la sua voce si era fatta più tagliente, «siamo già passati ai cliché più triti? Come mi giudichi? Come un macho, che si sente forte e grande se ha di fianco una donna piccola e debole? Molto astuto, non trovi? Non sono stato io a farti diventare la donna che eri. Non sono stato io a confinarti tra gli alberi di Ferndale House. Al contrario. Io volevo abitare a Londra. Volevo farti partecipe della mia vita. Volevo anche fare parte della tua vita, se mi avessi detto almeno una volta di che cosa era fatta. Ma tu
non mi hai dato nessuna possibilità. Perciò, che cosa mi rimproveri?» «Non ti rimprovero proprio niente.» «Di non essere stato più insistente? Sì, forse avrei dovuto farlo. Ma l'unica volta che ci ho provato, pochi giorni fa, in occasione di quella importante cena di lavoro a Londra, che cosa ho ottenuto? Mi sono ritrovato come un babbeo ad aspettarti alla stazione, ho aspettato tre treni da King's Lynn, prima di ammettere con me stesso che non saresti arrivata. Poi mi è toccato scoprire che eri scappata con un tizio più che sospetto. Ti assicuro che si provano sensazioni davvero piacevoli a vivere certe cose, sai.» E poi il sarcasmo era sparito dalla sua voce e lui aveva aggiunto piano e pieno di tristezza: «Mio Dio, Virginia, non avrei mai pensato che potesse accaderci una cosa simile. Tutto, ma non questo. Non un tradimento così terribile, fondamentalmente banale ma anche letale!» Lei non aveva replicato. Che cosa poteva dire? Lui aveva ragione e lei torto e non poteva dire niente a propria discolpa. Si poteva rompere un matrimonio, certo, ma non in quel modo. Non ingannando e tradendo il partner. La maggior parte delle persone cui era successo non lo meritava, e Frederic Quentin meno di tutti. A un certo punto lui le chiese: «E adesso? Che cosa hai intenzione di fare?» Lei non disse niente, ma il suo silenzio fu molto eloquente. «Capisco», disse lui amareggiato, «non si è trattato di un'avventura, giusto? È una cosa seria. La cosa non è finita.» Lei si odiava per la propria vigliaccheria, ma non riusciva a guardarlo negli occhi. «No. Non è finita.» «Aha.» Lui tacque per un istante. «Bene, non ho intenzione di starmene buono ad aspettare che prima o poi finisca», disse quindi. «Certo. E non credo nemmeno...» si interruppe e si morse le labbra. Lui sapeva che cosa voleva dire. «Non credi che finirà mai.» «No.» Lui si mise la testa tra le mani, come se volesse strapparsi i capelli. «Virginia, come puoi immaginare, sono molto a disagio nei confronti di Nathan Moor, e questo è legittimo, ma... cerca di capire, io odio quell'uomo, potrei tirargli il collo per essersi intromesso nel nostro matrimonio e averti fatto qualcosa che ha mandato all'aria tutto ciò che esisteva tra di noi, eppure... so che mi era antipatico già da prima. Fin dall'inizio. Non ho mai potuto sopportarlo, ancor prima che perdessi la mia obiettività di giudizio. Mi risultava poco limpido. Ambiguo. Per qualche motivo... finto.
Certo di ottimo aspetto. E i suoi modi sono vincenti. E tuttavia... mi risultava ostile. Non saprei dire perché. Mi era profondamente sospetto e antipatico.» Lei tacque, non voleva dire ciò che pensava. Adesso sapeva di essersi innamorata a prima vista di Nathan Moor. E anche se la parola amore forse era troppo grossa per quei primi momenti di sicuro lo aveva almeno desiderato, si era sentita attratta da lui. Anche se non lo aveva ammesso, quell'emozione c'era stata e secondo lei anche Frederic l'aveva intuita. E proprio per questo lui non aveva potuto far altro che respingere e disprezzare Nathan Moor. Senza che se ne rendesse conto, i suoi sentimenti verso quell'uomo erano dettati dalla paura e da una terribile consapevolezza: quest'uomo mi porterà via mia moglie. «Ti ho già detto che non ha mai pubblicato neppure un libro», proseguì Frederic, «e non è vero che...» «Lo so. Mi ha raccontato tutto.» «Ah sì? E quali motivazioni ha addotto? Dopo tutto ci ha mentito e ingannato in questa storia. Non è un modo di fare propriamente corretto, no? Ma sei talmente accecata nella tua infatuazione, da perdonargli qualunque cosa!» «Le sue motivazioni mi hanno convinta.» «È un parassita. È un poveraccio senza un soldo. Non possiede letteralmente più niente al mondo! Ed è più che plausibile pensare che non pubblicherà mai nemmeno un libro in vita sua. Né troverà mai un lavoro stabile. Ha perso tutto quando la sua maledetta barca è naufragata. È in una condizione del tutto disperata. Non ti è passato per la mente che forse quello che cerca da te è soltanto del denaro? Un tetto sopra la testa? Un modo per mantenersi?» «Le giornate con lui...» «Sì? Che cosa?» «Le giornate passate insieme a lui mi hanno detto un'altra cosa.» Frederic chiuse gli occhi per un attimo, tormentato. «E ancora di più le notti, immagino.» Virginia rimase in silenzio. Pioveva ancora quando alla fine erano usciti per strada. La temperatura era diventata molto rigida. «È il settembre più umido e freddo che mi ricordi da anni», disse Frederic. «Questo settembre mette tristezza», concordò Virginia.
«Non dipende in primo luogo dal clima», precisò Frederic. Non dissero altro mentre tornavano a casa in macchina. Tutt'intorno a loro le foglie grondanti erano un'esplosione di colori. Dove trascorreremo il Natale io, Kim e Nathan? Si chiese Virginia a un tratto. Non aveva ancora pensato concretamente alla semplice domanda di dove sarebbero vissuti in futuro. Che cosa aveva detto Frederic? Non possiede letteralmente più niente al mondo! Neppure lei aveva molto. La casa dei genitori a Londra era stata venduta da tempo, dopo che si erano trasferiti a Minorca. Avrebbero sempre offerto ospitalità alla figlia, la nipotina e il nuovo compagno, ma non era una soluzione attuabile a lungo, nella piccola casetta dove stavano. E poi Virginia sospettava che Nathan non si sarebbe sentito molto a suo agio alle Baleari, frequentate in autunno e inverno soprattutto da anziani. Vivere a casa del suocero defunto lo aveva privato per anni della vena creativa. La routine quotidiana piena di attenzioni di una coppia piccolo-borghese come i coniugi Delaney non lo avrebbe certo ispirato di più. Gliene dovrò parlare quanto prima, si disse. Il cancello del parco di Ferndale era aperto. Virginia si augurava che Nathan avesse lasciato Kim da Grace e poi fosse sparito, perché non era proprio il momento adatto per un confronto tra i due uomini. Si fermò proprio davanti alla porta di Grace. «Vado a prendere Kim», disse. Ma, prima che potesse fare un passo, la porta di casa si spalancò e Grace si precipitò fuori. «Mrs. Quentin, sono rimasta ad aspettarla alla finestra... è andata lei a prendere Kim?» «No, io avevo...» Si interruppe prima di pronunciare quel nome, perché Frederic nel frattempo le aveva raggiunte. «Che cosa succede?» domandò. «Quando sono andata a prenderla, Kim non era più a scuola, signore. Ho pensato che...» Anche Grace non osava proseguire. I suoi occhi febbricitanti passavano inquieti dall'uno all'altro. Virginia si riscosse. Era una situazione umiliante, ma l'aveva causata lei e ora toccava a lei dare le necessarie spiegazioni. «Frederic, mi spiace, avevo chiesto a Nathan Moor di andare a prendere Kim alle cinque. Io volevo parlare con te, Jack non è ancora tornato e Grace sta molto male. Per questo ho ritenuto che fosse la cosa migliore...» Frederic socchiuse gli occhi, senza dire niente. «Mrs. Quentin, Mr. Moor mi ha telefonato», disse Grace sollevata di po-
ter parlare apertamente. «Era a Hunstanton e aveva un problema con la macchina. Non partiva, o che so io... e non riusciva a mettersi in contatto con lei perché il suo cellulare risultava spento.» «È vero», disse Virginia. «Mi ha pregato di andare a prendere Kim. Io allora ho telefonato a Jack, ma lui era bloccato nel traffico e mi ha detto che calcolava di non riuscire ad arrivare prima delle sette. Allora sono andata io. Sono arrivata alla scuola un po' in ritardo, perché mi sento tanto debole e impiego un sacco di tempo a fare ogni minima cosa...» Per un attimo sembrò che a Grace mancasse la voce, ma poi si riprese. «Kim non c'era. Ho cercato per tutta la scuola, ma niente! Neppure una traccia!» Frederic guardò l'ora. «Sono le sei e mezzo. E Kim non si è fatta più vedere dalle cinque?» Gli occhi di Grace si riempirono di lacrime. «Speravo che Mr. Moor fosse riuscito a mettersi in contatto con voi. Magari è stato capace di far ripartire la macchina ed è andato a prendere Kim e poi si è dimenticato di informarmi...» «Ha guardato a casa nostra?» domandò Frederic. Lei annuì. «Non c'è nessuno. Ma forse Mr. Moor...» Frederic comprese. «Non aveva voglia di aspettarci proprio lì. Che auto ha preso?» «La mia», rispose Virginia. «Capisco», disse Frederic. «Dov'è Livia Moor?» aggiunse. «È partita.» Frederic si soffermò a pensare. «Se Moor è andato a prendere Kim, perché non l'ha riportata qui a casa di Grace?» «Non riesco a capirlo neppure io», disse Grace. «Forse non si sono incrociati», osservò Virginia. «Nathan è arrivato qui con Kim mentre Grace era uscita per andarla a prendere.» «E allora dov'è andato?» chiese Frederic. «Dov'è Nathan Moor con mia figlia?» Si guardarono tutti e tre in silenzio. «Forse la bambina si è...» cominciò Grace. E Virginia terminò la frase: «... nascosta come ieri sera?» «È chiaro che Kim è disperata e sconvolta», ragionò Frederic. «Sarà meglio controllare la casetta sull'albero, prima di prendere altri provvedimenti.» «Non mi capacito proprio di come sia riuscita ad arrivare da sola fin qui
dalla scuola», disse Virginia. Fu assalita da un brivido freddo che le percorse tutto il corpo. Erano passate meno di ventiquattr'ore da quando Kim era sparita la prima volta. Il giorno prima lo spavento e lo sgomento erano stati violenti; ora la paura si insinuava lentamente. Molti indizi lasciavano intendere che ci fosse stato un malinteso, o un errore di coordinamento tra Nathan e Grace e in questo caso forse Kim in quel momento era insieme a Nathan in un Burger King a bere un milk-shake senza problemi. Meno piacevole era la prospettiva che si fosse nascosta di nuovo da qualche parte. Per prima cosa, sarebbe stato più difficile trovarla. Inoltre, implicava un sacco di problemi. Forse sarebbe stato necessario consultare uno psicologo infantile. Di sicuro, gli avvenimenti della sera precedente impedirono a Virginia di pensare subito al pedofilo assassino. Si strinse le braccia al corpo, rabbrividendo. «Hai ragione tu», disse. «Proviamo a controllare la casetta sull'albero. Grace, lei aspetti qui e ci chiami, se Kim dovesse tornare, d'accordo?» «Allora dovrà riaccendere il cellulare», le ricordò Grace. «Certo.» «Potrei sapere perché l'avevi spento?» domandò Frederic, mentre si avviavano verso il bosco a passo di marcia. Virginia non rispose. Lui comprese. «Avevi paura che lui telefonasse mentre io e te parlavamo, giusto? Certe storie causano sempre un alto prezzo da pagare per l'intera famiglia. In questo caso addirittura per tua figlia.» Lei si morse le labbra. Non piangere. Dovevano trovare Kim. Non era il momento di piangere. Pregò che Kim fosse di nuovo nella casetta sull'albero. Ma non ci credeva. TERZA PARTE Mercoledì, 6 settembre 1 Virginia aveva l'impressione di essere stata trasportata direttamente in un dramma spaventoso di cui lei era la protagonista, e questo ruolo era peggiore di quanto si sarebbe mai potuta immaginare. Era una fresca mattina di settembre. Nove del mattino. Il vento che si era alzato strappava le foglie dagli alberi e portava via le nubi temporalesche
del giorno prima. Nel cielo si aprivano sprazzi di azzurro sempre più ampi. Dopo il brutto tempo dei giorni precedenti, oggi forse sarebbe uscito anche il sole. Virginia si sorprese di aver registrato questo fatto - l'imminente cambiamento climatico - e di averlo già inserito in una routine stranamente monotona. Splenderà il sole. Farà più caldo. Prima o poi tutto tornerà a posto. L'aspetto inconcepibile, tuttavia, era che fosse seduta di fronte a un detective, che si era presentato come sovrintendente Jeffrey Baker e che le poneva domande sulla figlia prendendo appunti sul suo bloc-notes. Kim, infatti, non era ancora riapparsa. Non l'avevano trovata nella casetta sull'albero e così la situazione non si era risolta per il meglio come la sera precedente, quando la bambina era tornata a casa sfinita, infreddolita e impaurita, ma ancora viva. Ovviamente non se l'erano aspettato sul serio. La strada dalla scuola a casa era molto lunga, non esisteva quasi la possibilità che una bambina di sette anni potesse percorrerla tutta da sola. Avevano cercato in altre zone del parco, ma pian piano era scesa la sera e loro non avevano torce con sé. A un certo punto Frederic si era fermato. Aveva due lunghi graffi sul viso, a causa dei rovi. «Non ha senso, Virginia. Stiamo girando alla cieca e sappiamo bene entrambi che non può essere arrivata fin qui da sola. Torniamo alla macchina e andiamo a casa.» Mentre ritornavano verso casa di Grace, videro l'auto di Jack Walker superare il grande cancello d'ingresso. Il custode scese con aria sfinita e provata. «Mrs. Quentin! Signore!» esclamò e la sua espressione sorpresa indicò a Virginia che lei e Frederic dovevano avere un aspetto assai strambo dopo le loro ricerche in mezzo agli arbusti e ai cespugli. «È successo qualcosa?» «Kim è scomparsa», rispose brevemente Frederic. «Scomparsa? Ma Grace mi aveva detto che sarebbe andata a prenderla a scuola...» «Quando ci è arrivata, Kim non c'era più», lo interruppe Virginia. «Jack, so che è molto stanco dopo il lungo viaggio, ma vorrebbe accompagnarmi fino alla scuola?» chiese Frederic. «Vorrei cercare in tutto il complesso scolastico e nelle vie adiacenti. Ieri si era nascosta nella sua casetta sull'albero, può darsi che oggi abbia fatto qualcosa di analogo. E quattro occhi vedono meglio di due.»
«Ma certo. Vengo volentieri», si offrì prontamente Jack. Frederic si rivolse a Virginia. «Tu torna a casa e telefona alle sue compagne di classe. E ai suoi insegnanti. Forse è andata con qualcuno, dicendo che noi lo sapevamo. E poi...» «Che cosa?» chiese Virginia, quando lui si bloccò. «E poi cerca di metterti in contatto con Nathan Moor. Magari sa qualcosa.» «Non posso farlo. Lui non ha un cellulare e non so dove si sia sistemato. Devo aspettare che sia lui a chiamarmi.» «Di sicuro lo farà, prima o poi», osservò Frederic gelido. Senza che dovesse dire una sola parola al riguardo, era chiaro chi riteneva responsabile della scomparsa di Kim: la madre e il fatto che stava per distruggere la famiglia. Mentre Frederic e Jack perlustravano la scuola, suonavano al preside, si facevano aprire tutte le aule e battevano persino il parco adiacente, Virginia telefonò a tutti i compagni di classe di Kim. Dappertutto ricevette la stessa sconfortante risposta: «No, non è qui da noi». Si fece passare direttamente i bambini, ma nessuno poté esserle d'aiuto. L'informazione più interessante la ricevette dalla compagna di banco di Kim, la piccola Clarissa O'Sullivan. «Siamo uscite insieme. Lei ha detto che la venivano a prendere e si è fermata sul cancello. Io sono corsa via, perché pioveva forte.» Non sembrava che Kim avesse avuto intenzione di nascondersi o di scappare via. Virginia si immaginò la figlia, ferma sotto la pioggia battente, il cappuccio dell'impermeabile giallo ben stretto sotto il mento. Vengono a prendermi... E poi non era arrivato nessuno. Né mamma né papà né Nathan. Grace era arrivata con un quarto d'ora di ritardo. Che cosa era accaduto in quel quarto d'ora? La pioggia. Virginia si passò una mano sugli occhi stanchi, che bruciavano di lacrime che lei tuttavia non osava far sgorgare. Era probabile che la pioggia l'avesse indotta ad allontanarsi. Ma quasi sicuramente dentro la scuola. E Grace aveva cercato dappertutto, come aveva ripetuto più volte. Perché Nathan non telefonava? Perché lei aveva spento il telefono? Perché aveva ancora una volta lasciato sua figlia alle cure di altri? L'insegnante di Kim, che riuscì a raggiungere dopo diversi tentativi, non le fu di alcun aiuto. No, quel giorno non aveva notato niente di insolito in Kim. Le era sembrata solo un pochino stanca. Ma non sconvolta, né turba-
ta. Nell'intervallo aveva giocato tranquillamente con i compagni. Virginia si fece dare il numero degli altri insegnanti e li chiamò uno dopo l'altro, ma nessuno seppe fornirle qualche indizio utile. Quel giorno era stato tutto normale. L'insegnante di disegno, che era stato nella classe di Kim per le ultime due ore, ricordava di averla vista fuori vicino al cancello al termine della lezione. «Ho capito che aspettava qualcuno che veniva a prenderla», disse. «Guardava da una parte all'altra della strada. Io ho pensato: Bambina, mettiti al riparo da qualche parte! Pioveva molto forte. Ma portava stivali di gomma e un impermeabile bello lungo. Io ero già in auto e dietro di me le altre macchine suonavano, perciò non mi sono potuto fermare a dirle di tornare dentro la scuola. Ma immaginavo che da un momento all'altro sarebbero arrivati sua madre o suo padre.» «Non ha... non ha visto se qualcuno le ha rivolto la parola?» chiese Virginia. Forse Nathan era riuscito a raggiungerla. «No», rispose il maestro di disegno. «Mi spiace.» Che disperazione. Non c'erano appigli, assolutamente nessuno. Virginia andò in cucina a prepararsi un tè nella speranza che le calmasse un po' i nervi, ma non trovò il colino e non riuscì a ricordare dove lo tenesse di solito. Nella sua testa regnava una grande confusione. Fuori era buio pesto e la sua bambina non era a casa e lei non aveva idea di dove si trovasse. Era la condizione che ogni madre temeva più di ogni altra e che dal momento della nascita del figlio si augurava con fervore di non dover vivere mai. Quando sentì suonare il cellulare, si precipitò in salotto, sperando con tutte le forze che fosse Frederic che le comunicava di aver trovato Kim e di essere sulla via di casa. Ma non era Frederic. Era Nathan. Aveva un tono lievemente irritato. «Virginia? Si può sapere come mai sei rimasta irraggiungibile per ore e...?» Lei lo interruppe. «Kim è con te?» Lui rimase sorpreso. «Ma no. Perché dovrebbe essere con me? Ho telefonato a Grace e...» «Grace è arrivata a scuola in ritardo. Kim non c'era più. Finora non l'abbiamo trovata.» Oddio, pensò Virginia. Un'altra speranza andava in frantumi. Fino a quel momento si era aggrappata alla possibilità che Kim fosse con Nathan. Adesso doveva seppellire quell'ipotesi.
«Di sicuro si è nascosta di nuovo da qualche parte. Avete già cercato nella casetta sull'albero?» «Sì, naturale. Ma non c'è!» Virginia scaricò il proprio nervosismo su Nathan. «Perché non sei andato a prenderla?» lo aggredì. «Mi sono affidata a te. Si trattava di una bambina di sette anni. Come hai potuto...» «Aspetta un momento. Avevo un problema con l'auto, e non me lo sono andato a cercare io. Quindi adesso non scaricarmi addosso una colpa che non ho!» La sua voce era alterata. «Ti ho telefonato un sacco di volte, senza mai trovarti. Avevi staccato il telefono. Mi sono dovuto far dare il numero di Grace dal servizio informazioni e prima mi sono dovuto scervellare per ricordare il cognome dei custodi. Io ho fatto tutto il possibile, per salvare la situazione.» La rabbia di Virginia si sgonfiò, lasciandole solo sofferenza e angoscia. «Scusa», disse, «sono fuori di me per l'ansia. Frederic e Jack sono andati a cercare a scuola e nella zona circostante più di un'ora e mezzo fa, ma evidentemente non hanno ancora trovato niente.» «So che dev'essere terribile», disse Nathan in tono più calmo, con quella voce carezzevole che lei amava tanto. «Ma non devi pensare subito al peggio. Ieri sera è stata la stessa cosa. Di sicuro Kim si sarà trovata un altro nascondiglio. È triste e si sente trascurata, e forse è il suo modo per attirare l'attenzione.» «Ma sono passate già tante ore...» «Questo dimostra soltanto che ha trovato un nascondiglio migliore. Non che le sia capitato qualcosa. Virginia, tesoro, non ti tormentare. Vedrai che tornerà presto da te.» Virginia in effetti si sentì un po' più calma. Il cuore era tornato a batterle più piano. «Spero che tu abbia ragione. A proposito, dove sei?» «In un bed & breakfast di Hunstanton.» «A Hunstanton? E perché così lontano?» «Tesoro, nei prossimi giorni non potremo comunque vederci molto. Non potevo restare dalle vostre parti con il rischio di incontrarvi. E tu avrai molte cose da chiarire con tuo marito. E poi dovrai stare insieme a tua figlia. Ha bisogno di te. In questo momento è più importante di noi.» Ovviamente aveva ragione. Virginia era contenta che la pensasse così. «E allora, se devo stare tutto questo tempo senza di te», proseguì lui, «preferisco stare al mare. Il posto mi piace, e posso fare lunghe passeggiate sulla spiaggia.»
«Sì, ti capisco.» «Come sono andate le cose con tuo marito?» domandò lui. Lei sospirò. «È ferito. Disperato. Impotente. Una situazione terribile.» «Queste storie sono sempre terribili. Ce la faremo a superarla.» «Se solo Kim...» «Ssst», la interruppe lui. «Kim tornerà presto da te. Non devi pensare altro.» A Virginia venne in mente un'altra cosa. «Che cosa era successo alla mia auto?» «Probabilmente la batteria. Ma non so perché. È ripartita con i cavi. Adesso va benissimo.» «Proprio oggi doveva succedere una cosa del genere!» «Forse non l'avrei trovata lo stesso, anche se fossi arrivato puntuale a scuola. Se aveva intenzione di sparire...» «Ma l'hanno vista in piedi davanti al cancello che aspettava. Me l'hanno confermato una sua compagna e l'insegnante di disegno.» Lui sospirò. «Bene. Allora avrà aspettato. Non è arrivato nessuno e allora si è sentita di nuovo abbandonata dalla mamma. E ha reagito di nuovo scappando. Adesso sappiamo che è così.» «Nathan...» «Sì?» «Mi puoi dare il tuo numero di telefono? Vorrei avere la sensazione di poterti raggiungere.» Lui le dettò l'indirizzo e il numero telefonico della casa in cui alloggiava. Dopo aver terminato la telefonata, Virginia fu assalita da un senso di acuta solitudine e spossatezza. Era da sola con le proprie paure. Frederic non c'era. Nathan era lontano. La sua bambina era da qualche parte fuori nell'oscurità. A un certo punto Frederic e Jack fecero ritorno. Stanchi e fradici di pioggia. E senza Kim. «Niente», disse Frederic. «Abbiamo cercato dovunque. Non è da nessuna parte.» «Il preside ci ha accompagnato in tutte le aule», raccontò Jack, «persino nello scantinato. Non è rimasto nessun buco dove non abbiamo cercato.» «Chiamo la polizia», disse Frederic andando al telefono. Com'era trascorsa quella nottata? Per tutto il resto della sua vita, Virginia avrebbe avuto dei buchi nella memoria quando ripensava alle ore sus-
seguitesi fino all'alba. Né lei né Frederic erano andati a letto. Jack era rimasto ancora un po' di tempo con loro, il colorito terreo per la stanchezza, e, dopo che si era appisolato due volte in poltrona, era stato rispedito a casa. «Grace ha bisogno di lei», aveva detto Frederic. Jack se n'era andato, pregando di essere avvisato non appena ci fosse stata qualche novità. La polizia aveva detto che il mattino dopo sarebbe passato qualcuno. Si erano fatti lasciare una descrizione precisa di Kim. Età, statura, colore di occhi e capelli, abbigliamento. Verso l'una di notte, Frederic era uscito ancora una volta con la torcia, per perlustrare il parco. Virginia sarebbe voluta andare con lui, ma lui gliel'aveva impedito. «Risparmia le forze. E poi è meglio se uno di noi resta vicino al telefono.» Da bambina, tutte le volte che si ammalava, Virginia era soggetta a forti febbri e la notte successiva alla scomparsa di Kim somigliò a quelle altre notti di febbre. Era irreale. Piena di inquietudine interiore. Disperata. Piena di voci e immagini strane. Dopo diverse ore Frederic era tornato indietro. Solo. Avevano bevuto del caffè, guardando l'oscurità fuori dalla finestra. Verso le prime ore del mattino aveva smesso di piovere. In compenso si era alzato il vento, che frusciava tra il fogliame autunnale. Finalmente il primo chiarore dell'alba era spuntato tra le cime degli alberi, per poi entrare in salotto, dove Frederic e Virginia sedevano in attesa, il volto terreo. «La polizia sarà qui verso le nove», disse Frederic. «Vado a preparare dell'altro caffè», annunciò Virginia. Ne aveva bevuto già troppo, ma il calore della tazza tra le mani era come un ultimo appiglio contro la disperazione. Puntuale era arrivato il sovrintendente Jeffrey Baker, un uomo alto e simpatico, che emanava sicurezza e autorità, ma che rappresentava l'inizio dell'incubo vero e proprio. Virginia era seduta di fronte a un poliziotto, a parlare di una bambina che nessuno aveva più visto da sedici ore. Virginia raccontò della sparizione di Kim il giorno prima e Baker sembrò giudicarlo un indizio confortante. «Mi pare che ci siano alcuni buoni segnali per pensare che sua figlia si volesse nascondere di nuovo», disse. Virginia guardò fuori dalla finestra, vide un paio di squarci d'azzurro tra i rami degli alberi e pensò: È la speranza alla quale mi aggrappo anch'io. La sparizione del giorno prima. Se non fosse accaduta, ora impazzirei. Perderei la ragione.
Poi il sovrintendente Baker si sporse in avanti, guardò lei e Frederic negli occhi e disse piano: «Io dirigo la commissione che si occupa delle indagini per i casi di Sarah Alby e Rachel Cunningham». Allora Virginia comprese quale versione in realtà si fosse affacciata alla mente del sovrintendente Baker. Cominciò a singhiozzare. 2 «In effetti ci sono diversi elementi per pensare che vostra figlia si sia nascosta di nuovo, dopo quanto accaduto ieri sera», ripeté Baker in tono tranquillizzante. Era rimasto seduto in salotto con Frederic, mentre Virginia saliva di sopra ad asciugarsi le lacrime e soffiarsi il naso. Non che il pensiero delle due bambine uccise non si fosse affacciato anche stavolta alla sua mente, ma dopo la fuga di Kim nella casetta sull'albero lo aveva messo da parte. Quando il sovrintendente Baker nominò le due bambine, la consapevolezza che quella fosse un'ipotesi plausibile l'aveva colpita come un macigno, l'aveva travolta come un fiume in piena riempiendola di un senso di panico smisurato. Frederic l'aveva presa tra le braccia stringendola a sé e, una volta di sopra nella loro stanza da bagno, Virginia aveva ritrovato lentamente la calma. Allo specchio c'era una faccia pallida, con gli occhi gonfi e arrossati e le labbra tumide. «Non è possibile», mormorò sgomenta. «Non può essere.» Quando era tornata di sotto, si sentiva fredda e vuota. Rabbrividì, ma non avvertiva il bisogno di proteggersi dal freddo. E poi aveva l'impressione che non esistesse un modo per combattere quel gelo interiore. Baker la guardò con occhi comprensivi e amichevoli. «Mrs. Quentin, mentre lei era di sopra, suo marito mi raccontava che un suo conoscente era stato incaricato di prendere vostra figlia da scuola, ma che non ha potuto farlo per colpa di un contrattempo. Un certo Mr...» gettò un'occhiata ai propri appunti, «un certo Nathan Moor. Un tedesco.» «Esatto.» «Vorrei parlare con lui. Può dirmi dove si trova?» Lei tirò fuori dai jeans il foglietto dove si era annotata l'indirizzo di Nathan. «Ecco. Sta in una pensione a Hunstanton.» Baker si scrisse l'indirizzo e il numero di telefono e poi restituì il foglietto a Virginia. «Mrs. Quentin... mhm... ecco, non ho capito bene chi sia veramente questo Nathan Moor. Suo marito ha detto... una conoscenza ca-
suale fatta nella vostra casa estiva a Skye, giusto? La barca di Mr. Moor è naufragata lassù?» «Lui e sua moglie stavano facendo un giro intorno al mondo. Hanno avuto una collisione con un mercantile proprio di fronte alle Ebridi. Sono riusciti a salvarsi per miracolo, mentre la barca affondava. Visto che Mrs. Moor aveva lavorato per breve tempo presso di noi, mi sono sentita in qualche modo... responsabile. Da un momento all'altro erano rimasti senza niente. Li ho ospitati nella nostra casa delle vacanze.» «Capisco. E poi Mr. Moor si è trasferito qui nelle vicinanze?» «Sì.» «Sua moglie dov'è?» «È partita ieri mattina. Probabilmente vuole cercare di tornare in Germania con l'aiuto dell'ambasciata tedesca a Londra.» «Il marito, invece, è rimasto qui?» «Sì.» Baker si sporse in avanti. «Mi perdoni, sa, ma continuo a non capire bene», disse. «Perché questo naufrago si trova a Hunstanton adesso? Come avrebbe fatto ad andare a prendere vostra figlia a King's Lynn da lassù?» «Ha la mia auto.» Virginia si rendeva conto di quanto dovesse suonare assurda tutta quella storia alle orecchie del sovrintendente Baker. «È stata l'auto la causa... ieri non partiva. Per questo ha chiamato Grace. Grace Walker, la nostra...» «Sì, so chi è», la interruppe Baker. «Mi avete già parlato di Mrs. Walker. Dunque Mr. Moor ha la sua auto?» Lei parlò senza guardare Frederic. «Io e Mr. Moor... noi vorremmo restare insieme in futuro. Tra di noi... non avrei mai affidato mia figlia a un conoscente casuale, sovrintendente. Tra di noi c'è molto di più.» Le sue parole furono seguite da un silenzio imbarazzato. Frederic guardava il pavimento tra i propri piedi. Baker stava prendendo appunti. «Vostra figlia è al corrente di questa decisione?» domandò. «No», rispose Virginia, «ma credo abbia intuito che qualcosa è cambiato. È impaurita. La sua fuga la sera scorsa dipendeva da questo.» «Bene», disse Baker. «Per quanto le attuali... complicazioni familiari in casa vostra siano tristi, ritengo che in queste circostanze possano risultare un po' confortanti. Pare proprio che Kim sia voluta scappare da questa dolorosa situazione. Si è nascosta da qualche parte, anche se trovo insolito che una bambina di sette anni possa resistere tanto a lungo - pensando alla fame, alla sete, e naturalmente alla paura del buio. Temo che non riesca
più a trovare la via di casa e sia bloccata da qualche parte.» Si accorse del panico negli occhi dei genitori e alzò le mani. «So che è una prospettiva tutt'altro che tranquillizzante. E dobbiamo fare di tutto per trovarla il più presto possibile. Ma è sempre meglio che ipotizzare... qualche analogia con gli agghiaccianti delitti avvenuti di recente.» Virginia e Frederic si scambiarono un'occhiata. Entrambi pensavano la stessa cosa: forse è veramente scappata. Forse sta cercando disperatamente la via di casa. Ma da qualche parte là fuori si trovava anche un pazzo a piede libero che adescava le bambine e, finché Kim non fosse tornata a casa, esisteva il rischio che cadesse nelle sue mani. «Quali azioni concrete intraprenderete, sovrintendente?» domandò Frederic. «Invierò delle unità cinofile per perlustrare la zona circostante. Batteremo ogni centimetro quadrato, glielo posso garantire. Eventualmente dirameremo appelli anche per radio.» «Ma non è troppo pericoloso?» chiese Virginia. «In questo modo verrà a saperlo anche quel... quel malato di mente che qui nei paraggi c'è una bambina sperduta!» «Ma comunque non sa di chi si tratta. E poi ora siamo in possesso di alcune informazioni sul suo metodo. Non prende una bambina qualsiasi caricandosela in macchina con la forza. Sarebbe troppo rischioso. Prima instaura un legame con la vittima, in modo che poi questa salga in macchina con lui senza destare sospetti. È una persona molto metodica e scrupolosa.» Tacque e rimase assorto per un attimo. «Avete notato comportamenti del genere in Kim ultimamente? Non vi ha parlato di un nuovo amico o di un adulto gentile?» «No, no, è escluso.» «Vorrei comunque parlare lo stesso con le sue compagne», disse Baker. «Spesso le bambine tendono a confidarsi più con l'amica del cuore che con i genitori. Mi può fornire indirizzi e numeri di telefono, Mrs. Quentin?» «Naturalmente», rispose Virginia, alzandosi. Mentre tornava con l'elenco delle compagne di classe, sentì Frederic dire: «Voglio assolutamente che controlli questo Nathan Moor, sovrintendente. È una persona molto sospetta. Mi rendo conto che penserà che io nutra una legittima antipatia nei suoi confronti, ma le assicuro che l'ho trovato profondamente antipatico molto prima che... dimostrasse interesse per mia moglie». «Nathan Moor è il primo della lista», gli garantì Baker.
Quando il poliziotto se ne fu andato, Virginia lanciò un'occhiata risentita a Frederic. «Trovo giusto che controllino Nathan. Ma non era proprio il caso di parlarne tanto male con il sovrintendente!» Frederic richiuse con cura la porta d'ingresso. «Non ne ho parlato male. Gli ho detto quello che pensavo di lui. Qui c'è in ballo la vita di mia figlia. Non ho intenzione di trattenere informazioni importanti solo per salvaguardare la tua sensibilità.» «Lui non c'entra niente con la sparizione di Kim!» «Ma lui corrisponde perfettamente al modello, non trovi? L'uomo simpatico appena entrato nella vita di Kim e insieme al quale lei salirebbe in macchina senza problemi.» «Non si è mai avvicinato a lei.» «No, stavolta è stato molto furbo. Si scopa la madre. Non è una cattiva strategia!» «Sei rivoltante!» gridò Virginia. Corse su per le scale e andò a rifugiarsi in camera sua, sbattendo la porta. Cadde in ginocchio di fianco al letto. Con la vista appannata dalle lacrime guardò il volto della figlia nella foto incorniciata che teneva sul comodino. Quei dolce volto tanto amato. Appoggiò la testa sul letto e fu travolta da un pianto irrefrenabile. E da un dolore straziante e infinito. 3 Verso mezzogiorno arrivarono Jack e Grace; Grace aveva il viso arrossato di pianto e si capiva che aveva ancora la febbre alta. Scoppiò di nuovo in lacrime quando fu di fronte a Virginia. «Non riesco a perdonarmi», singhiozzò, «non posso proprio perdonarmi di essere arrivata a scuola troppo tardi.» «La smetta di rimproverarsi, Grace», la esortò Frederic, prima ancora che Virginia potesse parlare. «La colpa è nostra, sicuramente non sua.» Anche se era presente la coppia dei custodi, Virginia non riuscì a trattenersi. «La colpa è mia», disse con enfasi, «non nostra! È questo ciò che pensi, Frederic, quindi tanto vale che tu lo dica.» «È nostra», ripeté Frederic, «perché, visto come stavano le cose, io avrei dovuto essere qui e non a Londra.» Visto come stavano le cose... Virginia aveva capito perfettamente il significato nascosto di quelle parole. Visto che mia moglie era in preda a una tempesta ormonale che le
aveva fatto dimenticare ogni responsabilità materna, avrei dovuto esserci qui io, a occuparmi di mia figlia. Lo avrebbe preso a schiaffi, se non avesse temuto di offrire un deprecabile spettacolo ai Walker. Jack, di solito privo di eccessiva sensibilità, sembrava cogliere la tensione che serpeggiava nell'aria. «Mhm, sono qui proprio per questo», si affrettò a dire. «Pensavo che potremmo cercare ancora nei dintorni, signore. Presumo che lo stia facendo anche la polizia...» «Infatti», confermò Frederic. «Ma non possono guardare dappertutto. Voglio dire, io non ce la faccio a starmene seduto con le mani in mano...» «Ha ragione», disse Frederic. «Ci mettiamo subito all'opera. Virginia, tu resti vicino al telefono?» «Non mi muoverò.» «E io posso fare qualcosa, Mr. Quentin?» domandò Grace soffiandosi il naso. Aveva un'aria così malandata che persino Virginia, nonostante l'angoscia per Kim, si preoccupò per il suo stato. «Grace, lei dovrebbe andare dal dottore. Oppure chiamarlo. In ogni caso deve mettersi a letto. Non ha senso se adesso si prende una polmonite. Non gioverebbe a nessuno.» «Ma non ce la faccio...» Grace ricominciò a piangere e prese un fazzoletto pulito. Dopo tanti tentennamenti, Virginia riuscì a convincere Grace a tornare a casa e a mettersi a letto e in breve anche i due uomini uscirono. Frederic appariva visibilmente sollevato di non doversi più trovare sotto lo stesso tetto con Virginia. Anche lei era contenta che fosse uscito, ma lo viveva come un unico tacito rimprovero. Quando lo squillo del telefono interruppe il silenzio, Virginia trasalì come se fosse stato un colpo di pistola. La polizia. Forse era la polizia. Forse avevano trovato Kim! Con il cuore in gola prese la cornetta. «Sì?» chiese senza fiato. Trascorse un istante, poi si sentì una voce bassa e nervosa che diceva: «Sono Livia Moor». «Oh», fece Virginia. «Io... io telefono da Londra. Sono in un albergo. L'ambasciata mi ha prestato dei soldi. Stasera torno in Germania.»
Virginia non si era ancora ripresa dall'imbarazzo. Lei amava il marito di questa donna. Avrebbe trascorso la vita con lui. Se avesse potuto, avrebbe riattaccato senza dire niente. «Come sta?» chiese impacciata, sentendosi una perfetta idiota. «Non particolarmente bene», rispose Livia con una schiettezza insolita per lei. «Ma se non altro ho un punto d'appoggio. Una conoscente di mia madre mi terrà con sé finché... ecco, sì, devo trovare un lavoro. Spero di riuscirci.» «Le faccio tanti auguri.» «Grazie. Telefonavo perché... mi servivano dei soldi per arrivare a Londra e li ho... presi a mio marito, ma so che in realtà sono suoi. Volevo dirle che glieli restituirò. Non appena avrò un lavoro, non appena avrò messo da parte qualcosa, la rimborserò...» «Non ce n'è bisogno. Sul serio.» Livia rimase in silenzio per un istante. Poi aggiunse, senza la minima traccia di perfidia: «Non dovrebbe rifiutare i soldi, Virginia. Se ha intenzione di vivere con mio marito in futuro, ne avrà bisogno». Toccò a Virginia restare in silenzio. Stringeva così forte la cornetta che aveva le nocche bianche. Alla fine riuscì a rispondere: «Mi spiace davvero molto, Livia. So che io e Nathan... abbiamo ferito due persone. Lei e Frederic. Io... vorrei...» Si interruppe. Che cosa avrebbe potuto dire? Vorrei che non fosse accaduto? Sarebbe stata una bugia. Vorrei che non avessimo fatto del male a nessuno. Suonava ridicolo. Quantomeno alle orecchie di Livia. Preferì lasciare incompiuta la frase che aveva iniziato. «Sa una cosa», disse Livia, «dopo tutti gli anni trascorsi con Nathan, provo quasi un senso di sollievo. Sono molto triste e non so che cosa succederà, ma negli ultimi giorni ho capito che anche così... anche senza di lei la nostra storia non sarebbe andata avanti. E non solo a causa del naufragio. Eravamo in crisi già da prima. Lui si aggrappava all'idea di questo giro del mondo e io mi ripetevo che saremmo stati felici entrambi se lui fosse stato felice... Ma non funziona così. Io odiavo quella barca. Odiavo i porti. I lavori che dovevo cercarmi. Sono una persona che ha bisogno di una dimora stabile. Voglio piantare fiori e parlare con la mia vicina di casa e avere la mia lavatrice e il mattino andare a comprare i panini dal panettiere e chiacchierare con le persone che incontro lì... Non voglio abitare un giorno qui e l'altro lì, senza poter mai conoscere nessuno più a fondo, perché non mi fermo mai abbastanza nello stesso posto. Io voglio... voglio dei
figli, Virginia. Ho tanta voglia di avere dei bambini. E devono crescere in sicurezza e serenità.» Bambini. «Kim è scomparsa», disse Virginia. «Di nuovo?» «Dopo la scuola. Ieri. Ma finora non l'abbiamo ritrovata.» «Dev'essere... terribile per lei.» Virginia si sentì salire le lacrime agli occhi di fronte alla sincerità che trapelava nelle parole di Livia. Lottò disperatamente per trattenerle. «Sì», rispose, «è terribile. La polizia la cerca con unità cinofile. Frederic e il nostro custode sono usciti di nuovo a cercarla. Mi chiedo dove sia stata stanotte...» Tacque, la voce rotta. Le immagini che le si affacciavano alla mente erano troppo angoscianti. «Mio Dio, Virginia!» esclamò Livia, poi le due donne tacquero, ma Virginia percepì nel silenzio di Livia una grande partecipazione e allora pensò tristemente che quella giovane donna avrebbe potuto essere un'amica per lei - se le cose fossero andate diversamente. «Le do il numero di telefono della mia conoscente in Germania», disse Livia alla fine. «Di sicuro mi troverà lì fra qualche giorno. Mi farebbe piacere se mi richiamasse non appena Kim sarà di nuovo con voi. Vorrei tanto saperlo.» «Certo. Lo farò senz'altro, Livia.» Virginia si scrisse il numero di telefono. «Ancora una cosa...» Livia esitò. «Può dare questo numero anche a mio marito. Magari vorrà mettersi in contatto con me. Di sicuro ci saranno delle cose da sistemare.» «D'accordo», rispose Virginia. Si salutarono. Virginia riattaccò e salì di sopra in camera di Kim. Con gesti nervosi raddrizzò i peluche sul davanzale e sistemò le tendine bianche. Osservò il blocco da disegno sullo scrittoio, con accanto la scatola dei pennarelli. Kim aveva cercato di disegnare un cavallo che somigliava a un topo mal riuscito. Mio Dio, falla tornare! Falla tornare in fretta e facci tornare di nuovo felici! Spinta dalla paura e dalla solitudine, scese di sotto e compose il numero della pensione dove alloggiava Nathan. Le rispose una donna indisponente che la informò che Mr. Moor era uscito a fare una passeggiata e lei non sapeva quando sarebbe tornato.
Perché non le telefonava? Perché non si informava su Kim? Non si chiedeva come stesse Virginia? Non immaginava come si sentisse a pezzi? Frederic rincasò poco dopo l'una. «Non avete trovato niente», disse Virginia. Non era una domanda, ma una constatazione. «No.» Frederic si passò entrambe le mani sul viso. Era molto pallido, aveva gli occhi rossi per la stanchezza. «Niente. Siamo stati di nuovo alla casetta sull'albero. Abbiamo guardato sotto la siepe di rovi dove si era costruita un nascondiglio. Abbiamo fatto un pezzo di strada verso la scuola. Niente, nessuna traccia.» Lei allungò la mano e lo accarezzò brevemente su un braccio. «Adesso stenditi un momento. Hai l'aria sfinita.» «Non credo che riuscirei a riposare», rispose Frederic, ma quando Virginia tornò in salotto dopo essere stata in cucina a prendere un bicchiere d'acqua lo trovò addormentato sulla poltrona davanti alla finestra. Era di sopra, davanti all'armadio, per cercare qualcosa di più caldo da indossare - quel giorno aveva sempre freddo, anche se la temperatura era mite - quando il suo cellulare suonò. Immaginò subito che si trattasse di Nathan e fu contenta di essere al primo piano e lontano da Frederic. Nathan aveva un tono allegro. «Buongiorno, tesoro», disse, senza preoccuparsi che fosse già l'una passata. «Sono stato sulla spiaggia. Oggi c'è un tempo splendido. Cielo azzurro e sole - non so se te ne sei già accorta, guardando oltre il fitto bosco di casa tua.» Lei trovò il suo tono del tutto inappropriato. «Mia figlia è scomparsa. Sinceramente non mi è venuta la minima voglia di guardare che tempo fa.» «Non è ritornata ancora?» «No. Cosa che avresti già saputo, se mi avessi telefonato stamattina per informarti!» Lui sospirò. «Scusa. Pensavo che fosse a casa. Per me è difficile chiamarti. Non so mai se c'è tuo marito vicino a te. E questo mi crea un certo imbarazzo.» «Posso capirlo.» «Ho un'idea», disse lui. «Raggiungimi qui. Faremo una bella passeggiata in riva al mare e tu cercherai di rilassarti un po'. Che ne dici?» «Vorrei rimanere qui.» «Al momento non c'è niente che tu possa fare.»
«Voglio stare qui lo stesso. Se Kim tornasse all'improvviso...» Lui sospirò. «Verrei anche da te. Ma non ho molta voglia di incontrare Frederic e poi devo stare attento alla benzina. Penso veramente che dovresti...» Lei aveva sperato di essere confortata e capita da lui, ma di colpo questo desiderio fu come spazzato via. Non era il momento di cercare consolazione. Era il momento di non lasciare niente di intentato per ritrovare Kim. «No», lo interruppe lei. Poi, rendendosi conto di essere stata un po' brusca, aggiunse in tono più dolce: «Mi spiace. So che lo dici per il mio bene». Lui rispose un po' piccato: «Non ti posso costringere. Se ci ripensi... il mio indirizzo ce l'hai». Poi riagganciò. Lei spense il cellulare e rimase a guardare il display, dove c'era una foto di Kim - Kim che premeva la guancia nella pelliccia del suo orsacchiotto. «Dove sei?» mormorò Virginia. «Amore mio, dove sei?» In un punto doveva dare ragione a Nathan: lì a casa in quel momento non poteva fare molto ed era una tortura vagare per le stanze e lasciarsi sopraffare da immagini agghiaccianti. Scrisse un biglietto per Frederic e lo lasciò sul tavolo di cucina: Vado a fare un giro. Devo uscire, altrimenti soffoco. Virginia. Cinque minuti più tardi, era seduta in macchina e usciva dal cancello del parco, lasciandosi alle spalle i folti alberi. La campagna ampia e verde si apriva davanti a lei. Nathan aveva ragione: il cielo era azzurro e splendeva il sole. 4 Sebbene fosse mercoledì e non il giorno stabilito, all'una e mezzo Janie era davanti all'agenzia immobiliare di fronte alla cartoleria e ancora una volta teneva d'occhio con la massima concentrazione la porta del negozio. Era rimasta sveglia per molte ore quella notte, pensando alla sua festa di compleanno, e a un certo punto le era venuto in mente che lo sconosciuto tanto gentile forse non era arrabbiato con lei, ma per qualche motivo aveva cambiato le proprie abitudini. Poteva capitare e magari adesso, invece che di lunedì, andava alla cartoleria il mercoledì oppure il giovedì. Siccome conosceva solo il nome di battesimo di Janie e non sapeva dove abitava, non aveva potuto avvertirla. Di sicuro valeva la pena tentare.
Purtroppo, per farlo, era stata costretta ancora una volta a saltare le lezioni. Stavolta non era educazione fisica. Dall'una alle due pranzavano e Janie sperava che la sua assenza non si notasse troppo. Dalle due alle quattro avevano disegno. L'insegnante ovviamente si sarebbe accorta che mancava qualcuno. Avrebbe chiesto e gli altri scolari si sarebbero ricordati che Janie al mattino era stata presente. Tutti avrebbero pensato che si fosse sentita male. Di recente anche un altro bambino era tornato a casa a mezzogiorno perché non stava bene. Però aveva presentato la giustificazione. Lo prevedeva il regolamento. Non era permesso andarsene via senza motivo. Avrebbe avuto dei problemi, questo era chiaro. Anzi, era incredibile che non fosse successo ancora niente dopo la sua uscita ingiustificata due giorni prima. Di sicuro avrebbero mandato una lettera alla mamma. Ma Janie non avrebbe avuto difficoltà a intercettarla per prima. Tornava a casa sempre prima della madre e portava la posta di sopra. L'unica sua preoccupazione era che alla lunga la scuola non si sarebbe accontentata di inviare comunicazioni per lettera, se continuava a non ottenere risposta. Ma prima che scoppiasse il patatrac forse Janie sarebbe riuscita a incontrare di nuovo il gentile sconosciuto e, se avesse spiegato alla mamma il motivo del suo comportamento, e che la cosa non si sarebbe più ripetuta, sicuramente sarebbe finito tutto per il meglio. Almeno così sperava. Guardò l'ora: erano le due e dieci. Nessuno era entrato o uscito dal negozio. Se non fosse passato nemmeno quel giorno... avrebbe dovuto ripetere l'appostamento l'indomani. Che materie doveva saltare? Musica, se non ricordava male. Accipicchia. Miss Hart, la maestra di musica, era severa e quasi sempre isterica. Si arrabbiava per niente, faceva delle scenate non appena sentiva mormorare o anche solo frusciare. Janie sospirò. Miss Hart avrebbe fatto un bel circo, questo era poco ma sicuro. E poi come faceva a sapere che lo sconosciuto non aveva cambiato anche l'orario in cui si recava in cartoleria? Magari ci andava la mattina alle nove. In realtà sarebbe dovuta rimanere lì davanti da mattina a sera. L'indomani ci si sarebbe recata subito, appena uscita di casa, senza nemmeno farsi vedere a scuola... Trasalì, sentendo una mano che si posava sulla sua spalla. Non aveva sentito arrivare nessuno. Si voltò impaurita e si trovò davanti la faccia severa della signora dell'agenzia immobiliare. Quel giorno portava un tailleur grigio e aveva l'aria curata e impeccabile come il lunedì precedente.
«Di nuovo tu», disse. Janie sorrise candidamente. «Sai, comincio a pensare che ci sia qualcosa che non va», disse la donna. «E credo che sia venuto proprio il momento di telefonare a tua madre.» «È tutto a posto», si affrettò a rispondere Janie. «Stavo per andare via e...» Fece un passo di lato, ma la mano della donna la bloccò di nuovo. Stavolta prendendola per un avambraccio. Con una notevole forza. Era una stretta a cui non era facile sottrarsi. «A quest'ora dovresti essere a scuola, giusto? E poi trovo molto strano che tu bazzichi sempre quest'angolo. Qui non c'è niente che possa suscitare il tuo interesse.» Gli occhi di Janie si riempirono di lacrime. Quella sconosciuta le stava rovinando tutto quanto. TUTTO! «Adesso vieni in ufficio con me e chiameremo tua madre», disse la donna, guidando Janie oltre la porta a vetri dell'agenzia. «Siediti!» Le indicò una sedia nera collocata davanti a una scrivania anch'essa nera e molto ordinata. Lei stessa si accomodò dietro la scrivania e alzò il ricevitore. «Mi dici il tuo numero di telefono, per favore?» «La mamma non è a casa», bisbigliò Janie. In realtà avrebbe voluto parlare a volume normale, ma sembrava che la voce non le volesse ubbidire. «Dov'è?» «Al lavoro.» «Dove?» «Non lo so.» La donna tornò a guardarla con severità. «Se preferisci, posso chiamare direttamente la polizia, Miss... come ti chiami?» «Janie», mormorò lei. «Bene, Janie, stammi a sentire. Sono preoccupata per te. Salti la scuola e gironzoli qui intorno per ragioni inesplicabili - ed è già la seconda volta, almeno per quanto ne so io. Forse dura da più tempo e io me ne sono accorta soltanto adesso. Vorrei chiarire la situazione. O mi dici come posso mettermi in contatto con tua madre o tuo padre oppure ti consegno alla polizia. Questo è quanto!» «La mamma lavora in una lavanderia», disse Janie. Aveva il viso inondato di lacrime. Si chinò per aprire la cartella, ci frugò dentro e tirò fuori un foglietto. «Questo è il suo numero.» «Finalmente», disse la donna. Prese il foglietto e compose il numero con
la velocità del fulmine. «Adesso ci siamo.» «Non mi sarei mai aspettata una cosa simile da te!» Doris si era accesa una sigaretta, ma l'aveva lasciata spegnere senza accorgersene. Era in piedi in mezzo al salotto, indossava ancora il camice bianco che portava sempre alla lavanderia. Teneva i capelli raccolti in una coda, ma aveva dei riccioli ribelli sulla fronte per colpa dell'umidità del suo posto di lavoro. Aveva l'aria pallida e patita. Lei però lo faceva sempre, pensò Janie. «Ti rendi conto di come si è arrabbiata la mia capa, perché sono dovuta venire via all'improvviso? Del ritardo che accumuleranno adesso, per colpa della mia assenza? In questo modo non mi rendo certo benvoluta, mi capisci? La prossima volta che taglieranno del personale, si ricorderanno per prima cosa di episodi come questo. Dovrebbe esserti chiaro in che pasticcio finiremmo, se io perdessi il lavoro!» «Non saresti dovuta venire a prendermi...» «Ah sì? Certo, ricevo una telefonata che mi informa che mia figlia di otto anni salta la scuola e va in giro per strada e dovrei continuare a lavorare come se niente fosse? Che cosa avrei dovuto dire a quella smorfiosa di un'agente immobiliare? Non mi interessa quello che fa mia figlia, la rimandi per strada! Vuoi che ti dica una cosa? Visto il tipo, c'è mancato poco che non abbia chiamato i servizi sociali! Ti sarebbe piaciuto finire in un istituto?» A questo Janie non aveva pensato. Quando sua madre era piombata nell'agenzia con l'espressione di un angelo vendicatore -creando un contrasto quasi doloroso con la donna nel suo impeccabile tailleur grigio - e l'aveva afferrata per mano facendole quasi male, Janie si era detta che peggio di così non poteva andare. Si vedeva chiaramente che Doris era sul punto di scoppiare per la rabbia. Janie avrebbe voluto sprofondare sotto terra, sparire dove nessuno potesse più trovarla. Ma l'istituto... questa parola aveva un suono tutto diverso. Non ci voleva finire per niente al mondo. Nel palazzo dove abitavano, i tre figli della famiglia sotto di loro erano stati messi in istituto perché il padre era sempre ubriaco e la madre aveva tentato per due volte di togliersi la vita gettandosi dal balcone, ma senza riuscirci. Janie li aveva visti andare via, insieme a una sconosciuta dall'aria tutt'altro che simpatica. Le erano venuti i sudori freddi e di notte le era capitato spesso di svegliarsi urlando perché aveva sognato la scena.
No. Un istituto era la cosa peggiore. Ricominciò a piangere. Doris si accorse che la sigaretta si era spenta e la riaccese. Inspirò a fondo e parve trarne giovamento. Guardò la figlia, rannicchiata pateticamente sulla poltrona. «Allora, vuoi dirmi che cosa ci facevi lì? Non è che volevi veramente comperare una di quelle case da sogno che sono illustrate in vetrina, giusto?» Janie rimase in silenzio. Per tutto il tempo aveva pensato: se racconto tutto alla mamma e le spiego, mi capirà. Non sarà più arrabbiata, anzi forse mi aiuterà a ritrovare lo sconosciuto tanto gentile. Sarà contenta che lui mi voglia fare un regalo così bello! Ma di colpo non ne era più tanto sicura. La mamma sembrava così furibonda. Doris socchiuse gli occhi. «Senti, se non mi dici che cosa sta succedendo, devo cominciare a pensare di aver sbagliato tutto con la tua educazione. E allora dovrò...» «No!» Janie alzò gli occhi. «Non voglio andare in istituto! Ti prego, mamma! No!» «Allora raccontami tutto.» Doris gettò un'occhiata all'orologio. «E in fretta. Devo tornare al negozio.» «È stato per via di quell'uomo», bisbigliò Janie. «Quale uomo?» chiese Doris. «Quello della festa di compleanno...» Doris sospirò. «Non ci capisco niente. Quale festa di compleanno? La tua?» «Sì. Volevo festeggiare il mio compleanno con i miei compagni di scuola.» «Lo so. Ne abbiamo discusso più che a lungo.» «Quell'uomo mi ha detto che mi avrebbe aiutato.» «E chi sarebbe quest'uomo?» «Non lo so. Non so nemmeno come si chiama. È questa la cosa peggiore. E non è più venuto nella cartoleria, anche se mi aveva detto che ci andava sempre di lunedì. Per farmi un piacere voleva venire anche di sabato, per portarmi a vedere la sua casa, ma poi tu hai avuto il vomito e io non sono più potuta uscire. Temo che si sia arrabbiato con me, ma non era stata colpa mia. E poi di lunedì non è più venuto e allora ho pensato che magari aveva cambiato giorno. Per questo sono andata ad aspettarlo oggi. So che
non avrei dovuto saltare la scuola, ma volevo tanto...» Doris fissava la figlia con occhi sbarrati. La sigaretta bruciava lentamente da sola, senza che lei la fumasse. «Ho capito bene? Un perfetto sconosciuto si è offerto di organizzarti la festa di compleanno?» «Sì. Ha detto che aveva una grande casa con un grande giardino e sa organizzare feste di compleanno bellissime. Voleva mostrarmi tutto e poi dovevamo pensare insieme a come addobbare il giardino o lo scantinato. Ha detto che posso invitare tutti i bambini che voglio. Per questo ho comperato gli inviti.» Doris si lasciò cadere lentamente sul divano alle sue spalle. Janie constatò stupefatta che la madre era diventata ancora più pallida di prima. «Mio Dio», bisbigliò Doris. «È davvero una persona gentile, mamma», disse Janie. Per un minuto regnò il silenzio assoluto nella stanza. Poi la sigaretta, ormai consumata fino in fondo, bruciò le dita di Doris. Lei fece un gridolino e gettò la cicca nel portacenere sul tavolino. «Dove gli hai parlato?» chiese alla figlia. «Alla cartoleria. Io ero lì a guardare i biglietti d'invito. Lui mi ha chiesto se dovevo compiere gli anni. Allora gli ho raccontato che tu non volevi che invitavo i miei amici e che per questo ero... ero molto triste...» Doris annuì lentamente. Poi si alzò bruscamente, si lisciò il camice e prese la borsetta. «Vieni», disse alla figlia. Janie la guardò incerta. «Dove?» «Andiamo subito alla polizia. Lì racconterai tutto quello che mi hai appena detto e farai una descrizione molto accurata di quell'uomo. È importante.» «Mamma! Non alla polizia! Non voglio andare in istituto!» «Non ci andrai. Te lo garantisco. Ma, con un po' di fortuna, il tuo nuovo amico finirà in prigione.» «Ma non ha fatto niente!» Doris chiuse brevemente gli occhi. «No», disse piano, «a te non ha fatto niente. Non ha funzionato. Per la prima volta in vita mia ringrazio il Signore di un mal di stomaco!» Janie non capiva che cosa volesse dire sua madre. Ma se non altro non sembrava più arrabbiata. Ed era molto più di quanto Janie avesse sperato fino a mezz'ora prima.
5 Aveva pianto per un'ora, sfogando tutta la paura e la disperazione delle ultime ore e adesso si sentiva un po' meglio. Non che le sue paure fossero passate, questo non era possibile, finché Kim non fosse tornata a casa sana e salva. Ma la pressione era un po' diminuita, la morsa soffocante del terrore aveva allentato un po' la presa. «Certo che tornerà», si era detta alla fine, poi si era soffiata il naso e aveva smesso di piangere. Senza pensarci, seguendo un impulso interiore, era andata fino alla scuola di Kim, aveva parcheggiato a una certa distanza e aveva raggiunto a piedi il complesso. In quel momento centinaia di ragazzi gremivano il cortile e i prati per la pausa di mezzogiorno. Giocavano a rincorrersi, saltavano nei riquadri disegnati per terra col gesso, passeggiavano a gruppetti o stavano seduti al sole. L'aria risuonava di grida, risate e voci. Fino al giorno prima Kim era stata una di loro. Kim doveva tornare a essere una di loro. Non era concepibile una cosa diversa. Virginia non era andata lì con la speranza di trovare la figlia intenta a giocare e nemmeno di individuare tracce della sua presenza. Frederic e Jack avevano perlustrato tutta la scuola e i dintorni con tale accuratezza che non poteva essere sfuggito loro niente. Aveva seguito l'improvviso desiderio di essere vicina a sua figlia, di vedere l'ultimo luogo dove sapeva che era sicuramente stata. Prima di scomparire. Kim era stata in piedi lì. Davanti al grande cancello di ferro, che di sicuro doveva sembrare maestoso e gigantesco per una bambina di sette anni. Pioveva, e non era una lieve pioggerellina, ma scrosci violenti che avevano inzuppato la terra. Eppure Kim non si era riparata da nessuna parte. Doveva avere la certezza che da un momento all'altro sarebbe arrivato qualcuno a prenderla. Era talmente sicura che non le era sembrato il caso di tornare dentro la scuola all'asciutto. Era una bambina così fiduciosa. Con chi era salita in macchina? Virginia era rimasta ferma sul marciapiede, a guardare il punto in cui la sua bambina doveva aver aspettato e aveva cercato di immedesimarsi nei pensieri di Kim. Non sarai salita con uno sconosciuto? Il tempo passava, non arrivava
nessuno. Hai pensato che la mamma ancora una volta non era venuta. Com'era successo il primo giorno di scuola. Ti sei fatta prendere dal panico, ti sei sentita sola e abbandonata. Volevi solo andare via, come avevi fatto la sera prima. Ma dove sei andata? Dove? Le tornò in mente Skye. La sua fuga precipitosa e irresponsabile. Le notti con Nathan. La decisione di andare a vivere con lui. Non era certo stata tenera con i sentimenti delle persone che la circondavano. Né con Frederic né tantomeno con Kim. In fin dei conti Frederic aveva capito che cosa era successo. Kim lo aveva solo intuito, e questo era stato forse persino più subdolo e pericoloso. Era scappata una volta e probabilmente lo aveva rifatto. Stava invocando aiuto. Sua madre era in procinto di scardinare tutta la vita della famiglia. Uno shock per una bambina. Virginia si girò e si diresse verso il parchetto accanto alla scuola. C'era qualche passante, ma nessuno fece caso a lei. Quando le lacrime le sgorgarono dagli occhi, inforcò gli occhiali. Scoprì una panchina, collocata in una nicchia tra alte pareti di lauroceraso; si sedette lì e pianse a lungo, per la paura e per il rimorso e, quando si fu sfogata, seppe che, nonostante tutto, si sarebbe comportata di nuovo nello stesso modo, perché aveva sempre sognato una vita nuova - come quella con Nathan? Ma sarei più attenta e più cauta, si disse. Tornò verso la scuola, ora silenziosa sotto il sole. Erano iniziate le lezioni del pomeriggio. Da una finestra aperta si sentivano delle voci, che si mescolavano alle note di un pianoforte. Nessuna risposta. Nemmeno lì Virginia riuscì a trovare una risposta sulla sorte della figlia. Nessuna intuizione, nessuna sensazione improvvisa, nessun impulso spontaneo che potesse fornirle un indizio. Eppure le sembrava di captare il grido di Kim che la chiamava. Kim era viva e chiamava la mamma. Arrivata a Ferndale, mentre fermava l'auto davanti a casa, la porta d'ingresso si spalancò e Frederic si precipitò fuori. Sembrava che la stesse aspettando. Probabilmente era in ansia per lei. Era stata via quasi due ore e mezzo. Si preparò interiormente per affrontare i suoi rimproveri e scese dall'auto. «Frederic», disse. Con sua sorpresa lui non l'attaccò per la sua assenza. Frederic era pallido come un cadavere, gli occhi torvi, quasi neri. «Kim», disse.
Il tremito che assalì Virginia alle ginocchia fu così repentino e violento da farla vacillare. Si aggrappò al braccio di Frederic per restare in piedi. Lui la sostenne. I loro volti si sfiorarono. «Che cosa c'è? Che cosa è successo?» Virginia impiegò un momento a rendersi conto che la voce stridula che aveva gridato quelle domande era la sua. «Ha chiamato qualcuno», disse Frederic. «Dicendo che vuole un riscatto per lei.» «Un riscatto?» «È stata rapita», disse Frederic. 6 «Molto probabilmente», disse il sovrintendente Baker, «si tratta di un millantatore. O più semplicemente di un burlone, ma questo non significa che lo reputi meno esecrabile. Anche se si tratta soltanto di uno scherzo di cattivo gusto, chi l'ha perpetrato è perseguibile per legge.» «Un millantatore, al contrario...» disse Frederic. «Potrebbe continuare la finta ancora per un po'», spiegò Baker, «magari fino a ottenere un riscatto. Il che non significa che abbia la bambina nelle proprie mani. Approfitta soltanto della situazione per ottenere dei soldi. Ha ascoltato alla radio la notizia della scomparsa e...» «Il nome Quentin non è così insolito», disse Frederic, «perché allora ha telefonato proprio a noi?» Baker scrollò le spalle. «Lei gode di una certa notorietà Mr. Quentin. Come banchiere e ancora di più adesso che è entrato sulla scena politica. Il tipo ci ha provato, perché poteva presupporre che da lei avrebbe potuto estorcere una somma ingente e bingo! Ha avuto fortuna. La bambina scomparsa è proprio la figlia del banchiere e uomo politico Frederic Quentin. Lo avrà capito immediatamente dalla sua reazione. Del resto, che cosa aveva da perdere?» «Però lei non può escludere a priori che Kim sia stata rapita», intervenne Virginia. Da quando era tornata a casa, si era seduta su una poltrona in salotto e non era più riuscita a rialzarsi. Frederic ce l'aveva condotta, l'aveva aiutata a sedersi. Lei si muoveva piano, come una vecchia. Non si era mai sentita tanto debole e fragile in vita sua, come se di colpo fosse stata privata di tutte le energie, tutta la vitalità e la giovinezza. Frederic aveva telefonato al sovrintendente Baker ancor prima che Vir-
ginia rincasasse e il poliziotto era arrivato con due agenti. Avevano installato alla linea telefonica un registratore e un apparecchio per rintracciare la chiamata. Per quanto riguardava quest'ultimo, Baker era piuttosto scettico. «La gente oggigiorno è informata. Nessuno ormai parla più tanto a lungo da permetterci di rintracciare la chiamata. Ma tentare non nuoce.» Solo allora Virginia aveva saputo che cosa aveva detto il presunto rapitore. Fino a quel momento non le era venuto in mente di chiederlo a Frederic. «Era un uomo», spiegò Frederic. «Ma con la voce contraffatta. Mi faceva pensare...» «Sì?» chiese Baker con la massima attenzione. Frederic scrollò il capo. «Purtroppo non mi ricordava nessuna voce conosciuta, no. Volevo soltanto dire che il tipo di contraffazione mi faceva pensare a un giocattolo di mia figlia. Quando aveva quattro anni, le regalarono un registratore da bambini. Era corredato da un microfono incorporato che permetteva al bambino di cantare. Poi, schiacciando dei tasti, il bambino poteva modificare la voce, farla più bassa, oppure più stridula e cose del genere. Kim ci si divertiva molto. La voce dell'uomo me lo ha fatto tornare in mente. Come se fosse stata artefatta con qualche strumento.» Baker prendeva appunti. «E poi?» chiese. «Mi ha chiesto se stava parlando con Frederic Quentin», proseguì Frederic, «e quando gli ho risposto di sì mi ha detto testualmente: Ho sua figlia. Sta bene. Potrà rivederla per centomila sterline.» «Devo chiederglielo ancora una volta», disse Baker. «È proprio sicuro di non aver riconosciuto la voce? Non ha avuto l'impressione anche solo vaga di conoscerla, in nessun momento?» «Purtroppo no. Assolutamente no. La voce era così contraffatta che ho faticato persino a capire che cosa mi stava dicendo.» «Però è sicuro che si trattasse di un uomo?» Frederic esitò di colpo. «Era una voce maschile. Ma ovviamente poteva essere stata modificata tecnicamente. In questo caso non posso essere più sicuro, sovrintendente.» «Capisco. Le ha detto qualcos'altro?» «Io gli ho chiesto chi era. Lui ha risposto che non aveva importanza. Si procuri il denaro, ha detto, mi farò risentire prossimamente. E poi ha riattaccato.» Virginia si prese la testa tra le mani.
Gli uomini poi discussero di nuovo la possibilità che si trattasse di un truffatore che aveva avuto la fortuna di chiamare l'abbiente famiglia Quentin per chiedere un riscatto. «Ma potete escludere con certezza che Kim sia stata rapita?» chiese Virginia. «In questo momento non possiamo escludere proprio nessuna ipotesi», rispose Baker. «Noi non siamo sull'elenco», disse Frederic. «E il nostro numero non è accessibile neppure attraverso il servizio informazioni. Come ha fatto questa persona a procurarselo?» «Gliel'ha dato Kim!» esclamò Virginia. Rimase stupita di come suonasse stridula la sua voce. «È stata Kim! Perché è stata rapita!» Baker, che era seduto sul divano di fronte a lei, si sporse leggermente in avanti. «Mrs. Quentin, so che è facile dirlo, ma la prego di non perdere la calma. Forse sua figlia è stata veramente rapita. Ma se non altro starebbe a indicare che non è finita nelle mani del pedofilo al quale diamo la caccia. Quest'ultimo, infatti, non è a caccia di soldi.» «È un incubo», disse Virginia. «Un incubo.» «Tutto è possibile», disse Baker. «Il presunto rapitore che ha telefonato potrebbe essere anche un compagno di classe di vostra figlia. Oppure un fratello o una sorella maggiore di un suo compagno. Di sicuro conoscono il vostro numero e alla fine potrebbe essere un pessimo scherzo di qualche adolescente.» «Come ha intenzione di muoversi, sovrintendente?» chiese Frederic. Baker ignorò la domanda e puntò lo sguardo di nuovo su Virginia. «Dov'era oggi a mezzogiorno, Mrs. Quentin? Suo marito mi ha detto che è arrivata a casa poco dopo la telefonata, giusto?» Lei si scostò i capelli dalla fronte. «Sono stata alla scuola di Kim. Non so dire perché. Era... Non so, volevo andare nel posto dov'era stata vista per l'ultima volta. E ho avuto la sensazione che...» Si bloccò. «Sì?» la spronò Baker. «Che sensazione ha avuto?» «Che mi stesse chiamando. L'ho sentita molto chiaramente.» Fece un profondo respiro. «Mia figlia è viva, sovrintendente», disse con voce più ferma. «Sono sicurissima che sia viva.» «Anche noi partiamo da questo presupposto, è chiaro», concordò Baker, ma Virginia si chiese se fosse davvero convinto come voleva farle credere. Dopo un momento di silenzio, Frederic chiese senza preamboli: «Voleva
parlare anche con Mr. Moor, vero, sovrintendente?» Baker assentì. «Non ci sono ancora riuscito.» Si rivolse a Virginia. «Ovviamente Mr. Moor è al corrente del rapimento di vostra figlia, vero?» chiese. «Certo. Ma con questo che cosa vorrebbe dire?» «Niente», rispose Baker. «Era solo una constatazione.» «Quando gli parlerà?» lo incalzò Frederic. «Il prima possibile, Mr. Quentin, glielo posso garantire. L'avrei già fatto, ma nel frattempo è sopraggiunto un fatto nuovo...» Frederic lo guardò interrogativamente. «Stamattina sono venute da me una bambina di otto anni e sua madre», raccontò Baker. «Due settimane fa, la piccola è stata avvicinata da un uomo che - secondo il modello che nel frattempo crediamo di aver individuato - si è presentato come realizzatore di un suo grande sogno. Bisogna ringraziare il caso se la bambina non è ancora salita sull'auto dello sconosciuto e si è confidata con la madre. Il colloquio con la bambina mi ha indotto a rimandare l'interrogatorio di Mr. Moor.» «Quindi adesso esiste una descrizione del colpevole?» chiese Frederic. Baker scrollò mestamente il capo. «Purtroppo non è accurata. Mentre venivo via gli esperti stavano cercando di mettere insieme un identikit, ma la bambina è molto agitata e poi è già passato diverso tempo dal loro incontro - le indicazioni che ha fornito mi sono apparse piuttosto contraddittorie e vaghe. Ma è pur sempre un punto di partenza.» «Penso che non abbia niente a che fare con il nostro caso», disse Virginia. «Presumo di no», disse Baker. «Che cosa farete adesso? Che cosa dobbiamo fare noi?» domandò Frederic, vedendo Baker rimettere in tasca il bloc-notes e alzarsi. «Parlerò con Moor, con gli insegnanti e i compagni di classe», rispose Baker, «e continueremo le ricerche. Per quanto vi riguarda, in questo momento purtroppo non potete fare molto - a parte mantenere saldi i nervi. E deve restare sempre qualcuno in casa, se dovessero esserci altre telefonate. Nel caso succeda, avvisatemi immediatamente.» «Naturale», rispose Frederic. Accompagnò Baker e i due agenti alla porta. Virginia rimase seduta al suo posto, ancora incapace di alzarsi in piedi. Quando Frederic tornò in salotto, lei lo scrutò in volto, alla ricerca di qualcosa che potesse tradire le sue emozioni. Il suo viso però era impassibile. Non sembrava ancora pronto a condividere con lei il paralizzante ter-
rore per la sua unica figlia. Lei lo aveva ferito troppo profondamente. Neppure la tragedia che stavano vivendo insieme era sufficiente a farli riavvicinare. «Vado di sopra», disse lui. «Vorrei telefonare alla banca.» «Per via...» «Per via delle centomila sterline. Sarà meglio tenerle pronte. Voglio i soldi qui a disposizione. Voglio poter pagare subito, nel caso il rapitore tornasse a farsi vivo.» «E se non lo facesse?» «Allora ha ragione Baker, e probabilmente non esiste nessun rapitore. In quel caso Kim non è stata rapita, ma...» «... ma si è persa», si affrettò a concludere la frase Virginia. «Tornerà sana e salva da noi», disse Frederic uscendo dal salotto. Da noi, aveva detto, ma quel noi era una concetto vuoto, e probabilmente ne era cosciente anche lui. Non esisteva più nessun noi. Virginia si nascose il volto tra le mani. Voleva piangere, ma aveva consumato tutte le lacrime sulla panchina al parco quella mattina. Adesso si sentiva completamente svuotata. 7 «Naturalmente non mi sa dire chi l'ha aiutata a far ripartire la macchina?» chiese il sovrintendente Baker. Nathan Moor alzò le spalle rassegnato. «No. Mi spiace. Aveva parcheggiato vicino a me e, vedendo che tentavo inutilmente di mettere in moto, si è offerto di provare a farla partire con i suoi cavi. L'abbiamo fatto, ma non ci siamo scambiati né nome né indirizzo.» «Un vero peccato», commentò Baker. «Non immaginavo che avrei avuto bisogno di un alibi», disse Nathan. Baker scrollò il capo. «Non le serve alcun alibi, Mr. Moor. Ma tutto ciò che può rafforzare o comprovare le dichiarazioni di una persona è utile.» Erano seduti nella saletta della colazione della pensione dove alloggiava Nathan. Tre tavoli di legno, ciascuno con quattro sedie, piantine di cactus alle finestre, tendine bianche. Appeso al muro, un dipinto a olio con la scena di un naufragio. Molto pertinente, pensò Baker. Non è stato forse un naufragio a catapultare Nathan Moor nella vita della famiglia Quentin? Fuori era scesa la sera. La giornata di settembre volgeva al termine. Le
dune erano soltanto sagome vaghe. Al di là c'era il mare. Un bel posto dove abitare, pensò Baker. A parte l'interesse professionale per Nathan Moor, Baker era stato curioso di conoscere che genere di uomo fosse riuscito a minare il matrimonio dei Quentin. Già prima della scomparsa della piccola Kim Quentin, Baker conosceva Frederic per averlo visto in TV o sui giornali. Un uomo di bell'aspetto, molto colto e raffinato, che perdipiù disponeva di grande prestigio sociale e di un notevole patrimonio. L'uomo dei sogni per qualsiasi donna, aveva creduto Baker. E la donna che fosse riuscita a conquistarlo non l'avrebbe lasciato tanto facilmente. Invece ora sembrava che Virginia Quentin fosse in procinto di troncare il loro rapporto. E questo, pensò Baker rassegnato, dimostrava ancora una volta quanta differenza ci fosse tra l'essere e l'apparire. Forse dietro la bella facciata dei Quentin c'era qualcosa che non quadrava. Baker aveva capito fin dal primo istante che Nathan Moor era un vero donnaiolo. Non solo era bello, ma disponeva anche di un grande fascino, che di certo sapeva usare nel modo giusto. Emanava inoltre un prorompente erotismo, che sicuramente le donne captavano molto più intensamente di lui, semplice poliziotto uomo. Grande perspicacia, un intuito molto sviluppato per i bisogni e probabilmente i punti deboli dell'avversario e una carica sessuale latente ma innegabile. Così lo avrebbe descritto Baker, se avesse dovuto tratteggiarne il carattere in poche parole. Naturalmente il suo sarebbe stato un giudizio assolutamente superficiale, che non teneva nel minimo conto le sfaccettature più profonde di Nathan Moor. «Da quando conosce Mrs. Virginia Quentin?» domandò adesso, pragmatico. Moor non ci pensò su neppure un secondo. «Dal 19 agosto di quest'anno. Tra poco saranno tre settimane.» «Prima di allora conosceva qualcun altro della famiglia?» «Non di persona. Ma mentre eravamo ormeggiati nel porto di Portree, a Skye, mia moglie aveva lavorato per i Quentin. Si occupava del giardino e dei lavori domestici. Per questo li conoscevo già, almeno di nome.» «Anche Kim Quentin l'ha conosciuta il 19 agosto?» «Sì.» «Che rapporti ci sono tra lei e la bambina?» «Credo di esserle simpatico. Anche se al momento lei non si rende anco-
ra conto...» Nathan tacque. Baker lo guardò attentamente. «Sì? Di che cosa non si rende ancora conto?» Moor si sporse in avanti. «Sovrintendente Baker, non sono sicuro che...» Baker sapeva dove voleva andare a parare. «Mr. Moor, mi è noto che lei intrattiene rapporti intimi con Mrs. Quentin. E che avete intenzione di andare a vivere insieme. Ritengo pertanto abbastanza plausibile, e con me anche i genitori della bambina, che la scomparsa della piccola sia da ricondurre proprio a questo fatto.» «Allora è già informato», disse Moor, «e posso parlare liberamente.» «La pregherei vivamente di farlo», replicò Baker. «Per rispondere alla sua domanda sui miei rapporti con Kim», disse Moor, «penso che la bambina non immagini niente dell'avventura tra me e sua madre. In tal senso non c'è nulla che possa rovinare la sua simpatia per me. Kim si sente trascurata da Virginia e certamente ha intuito la presenza di una vaga minaccia che incombe sulla sua vita. Per questo è già scappata una volta. E di sicuro lo ha fatto anche questa volta.» Baker assentì, mentre si soffermava mentalmente su un particolare: parlando del suo rapporto con Virginia Quentin, Moor aveva usato l'espressione avventura. Essendo straniero, era probabile che non conoscesse certe raffinatezze linguistiche. Ma era altrettanto plausibile che la storia con Virginia per lui non avesse la stessa importanza che le attribuiva lei. Forse era un particolare irrilevante per le indagini in corso, ma Baker era abituato a tenere a mente tutti i dettagli. «Capisco», disse. Rimase un attimo assorto, poi riprese: «Quando si è accorto che la macchina non partiva, e che non avrebbe potuto rispettare l'impegno che si era preso di andare a prendere Kim, che cosa ha fatto?» «Ero al parcheggio sulla spiaggia a New Hunstanton», spiegò Moor. «E per fortuna lì c'è ancora una vecchia e antiquata cabina telefonica. Vede, io non possiedo più il cellulare. È naufragato con la barca.» «Ha telefonato?» «Esatto. Prima ho cercato di raggiungere Virginia. Ma sia a casa che sul cellulare mi rispondeva sempre la segreteria. Quel pomeriggio doveva vedersi con il marito e non voleva essere disturbata.» «Capisco», ripeté Baker ancora una volta. «Già. Allora mi è venuta in mente la coppia di custodi, ma mi sono dovuto arrovellare diverso tempo per ricordarmi come si chiamassero. Walker. Jack e Grace Walker. Sapevo che Jack era a Plymouth e Grace aveva
l'influenza, ma che cosa potevo fare? Ho chiamato il servizio informazioni e mi sono fatto dare il loro numero. Ho informato Grace del problema, poi sono tornato alla macchina e ho riprovato a farla partire.» «Che ore erano quando finalmente ci è riuscito? Quando è stato aiutato dallo sconosciuto con i cavi per la batteria?» «Mi pare poco prima delle sei», rispose Nathan. «A quel punto non è più andato alla scuola a King's Lynn?» «No, naturale. Ci sarei arrivato non prima delle sette. Ho immaginato che tutto fosse andato bene e che Kim fosse ormai a casa da tempo.» «Quando ha saputo che invece non era così?» «Quella sera tardi. Ho chiamato ancora una volta Virginia da qui. Dovevano essere almeno le dieci e mezzo. Era sconvolta e anche piuttosto aggressiva. Inizialmente mi ha incolpato della sparizione di Kim.» «Mhm.» Baker cambiò bruscamente argomento. «Per quanto tempo resterà ancora in Inghilterra, Mr. Moor?» «È importante?» «È una semplice domanda.» «Non lo so ancora. Non ho ancora avuto modo di pensare al mio futuro.» Sono passate tre settimane dal naufragio, rifletté Baker, e non ha ancora avuto modo di pensare al suo futuro? Forse al contrario ci aveva pensato eccome. E si era anche dato da fare con zelo per mettere in pratica i suoi progetti. Era chiaro che al momento viveva alle spalle di Virginia Quentin. Usava la sua auto e con molta probabilità era lei a pagargli l'alloggio nell'idilliaca pensioncina sul mare. E inoltre lei era decisa a unire il proprio destino a quello di lui. Aveva accalappiato una preda niente male. Baker tuttavia si disse che doveva andarci cauto con le supposizioni. Anni di professione gli avevano insegnato che di rado le cose sono quelle che appaiono. Forse Nathan Moor era davvero innamorato di Virginia Quentin. Il semplice fatto che fosse diventato povero in canna a causa del naufragio non significava necessariamente che guardasse solo all'aspetto economico nelle relazioni sentimentali. Bisognava astenersi dai luoghi comuni. Spesso la situazione era diversa da come si pensava, e spesso c'erano molte più variabili. Ogni situazione comprendeva un po' di questo e un po' di quello. Ed era anche probabile che la storia d'amore tra Nathan e Virginia non c'entrasse affatto con la scomparsa di Kim.
«Sua moglie invece è già tornata in Germania?» lo incalzò nuovamente Baker. «Non lo so con precisione. Di sicuro è partita, e presumo che abbia intenzione di tornare in Germania. Ma non so dirle dove si trovi in questo momento.» Baker ripiegò il bloc-notes e lo infilò nella tasca interna della giacca, insieme alla matita. Poi si alzò. «Per il momento è tutto, Mr. Moor», disse. «Devo informarla che è tenuto a dirmi tutto ciò che può essere anche lontanamente collegato alla scomparsa di Kim Quentin. Pertanto, se le venisse in mente qualcos'altro...» «La informerò subito, è evidente», disse Nathan, alzandosi a sua volta. I due uomini lasciarono la saletta e si diressero verso la porta d'ingresso. Baker uscì e fece un profondo respiro. Era una sua impressione, o davvero la notte rendeva sempre più intensi tutti i profumi? La miscela di acqua salmastra, brezza di mare e profumo di rose settembrine era incantevole. Bisognerebbe poter vivere lontani dalle città, si disse. Quando salì in auto, Nathan Moor aveva già richiuso la porta. Tutto era quieto e buio, a parte il lampioncino nel vialetto. Come sempre, Baker fece un riassunto mentale delle impressioni raccolte: Individuo imperscrutabile. È comprensibile il disagio che Frederic Quentin ha provato nei suoi confronti fin dal principio - indipendentemente del fatto che quell'uomo gli sta portando via la moglie. Moor è intelligente, educato, molto sicuro di sé. Non permette a nessuno di guardare dietro la sua facciata. Che sia un criminale? In tal senso, concluse Baker mettendo in moto l'auto, non esiste il benché minimo indizio. Per quanto riguardava il caso di Kim Quentin, il colloquio appena concluso non gli aveva portato nessun elemento utile, almeno per il momento. Giovedì, 7 settembre 1 Per la prima volta da quando andava a scuola, Janie poteva restare a casa senza essere ammalata. E non aveva neppure dovuto pregare per riuscirci; era stata sua madre a proporglielo spontaneamente. Già la sera prima, mentre erano sedute insieme in salotto. Dopo molte ore trascorse al commissa-
riato. Nella testa di Janie era scoppiato il caos totale e lei non aveva capito più niente. Il secondo miracolo fu che anche Doris si prese un giorno libero. Pur non essendo malata. Anche questo non era mai capitato prima, al contrario: Doris si trascinava alla lavanderia anche con la febbre o i brividi di freddo. Spesso Janie aveva pensato che sua madre avesse un solo timore a questo mondo: di perdere il lavoro. Ma adesso si rendeva conto che forse provava un'altra paura, magari persino peggiore. Doris era in ansia anche per lei, Janie. Non aveva mai visto la madre così pallida, stravolta, sconvolta come il giorno prima. Janie non aveva capito subito per quale motivo fosse successo. Ma con il passare delle ore si era resa conto che nessuno intorno a lei provava la sua stessa simpatia nei confronti dello sconosciuto che si era offerto di organizzarle la festa di compleanno. Tutti quelli che ascoltavano la sua storia ne restavano profondamente turbati. Lei aveva dovuto ripetere il suo racconto infinite volte, nei minimi particolari, la polizia voleva sapere tutto. Soprattutto che aspetto avesse quell'uomo. Descriverlo era stata la cosa più difficile per Janie. Non gli aveva parlato tanto a lungo e poi era passato diverso tempo. «Lo riconosceresti, se lo vedessi?» le aveva chiesto la simpatica signora dai lunghi capelli castani, che si era presa cura di lei. Janie si era chiesta se fosse anche lei una poliziotta. Era molto carina e si chiamava Stella. Aveva detto a Janie che poteva chiamarla così. «Credo di sì», aveva risposto Janie. «Sì, penso che lo riconoscerei.» «Mi sai dire più o meno quanti anni aveva?» Questa era una domanda difficile. «Era di mezza età», rispose. «Come la tua mamma?» «Più vecchio.» «Come tuo nonno?» «Io non ho nessun nonno.» «Ma conosci i nonni dei tuoi amici?» «Sì.» Ma ce n'erano di più giovani e di più vecchi. «Non saprei», disse. Stella era rimasta sempre paziente. Anche quando Janie, neppure con la migliore volontà, non era riuscita a ricordare il colore degli occhi dello sconosciuto. Né il suo abbigliamento. Se non altro, ricordava di che colore aveva i capelli. «Castani», disse, «come i suoi.» «Aha», disse Stella sospirando piano, «il colore di capelli più diffuso
che ci sia.» «Con qualche striatura grigia, forse...» Ma Janie non avrebbe potuto giurarlo. Era arrivato un ritrattista che avrebbe dovuto disegnare il viso dello sconosciuto in base alle sue indicazioni, ma Janie si era resa conto di quanto fosse vaga e incompleta la sua descrizione. Tutti furono gentili con lei, ma Janie avvertì la loro delusione. Le sembrava di essere a scuola, quando un insegnante non era soddisfatto di lei, e alla fine si era messa a piangere. Naturalmente non era stato giusto da parte sua saltare la scuola, ma come poteva sapere che ne sarebbe nato un tale pasticcio? Alla fine erano potute tornare a casa, ma stavolta non avevano preso l'autobus, come all'andata. Stavolta erano state accompagnate in auto da un poliziotto. Quando le aveva lasciate, l'agente aveva detto alla mamma: «Ora deve fare un discorso molto serio a sua figlia. Deve farle capire quale rischio ha corso!» La mamma aveva risposto: «Lo farò. Glielo garantisco». Janie si era messa a piangere più forte, perché era chiaro che adesso la mamma l'avrebbe sgridata. E poi si sarebbe inventata qualche castigo tremendo; niente regali di compleanno, niente paglietta per mesi, e con ogni probabilità niente feste di compleanno né pomeriggi dalle amiche fino almeno a Natale. Stranamente, invece, la mamma non l'aveva rimproverata. Le aveva preparato un panino, un bagno caldo, e poi l'aveva mandata a letto. Durante la cena anche la mamma aveva pianto. E alla fine aveva annunciato che il giorno dopo non sarebbe andata al lavoro e anche Janie sarebbe rimasta a casa, così avrebbero parlato insieme. «Non lo farò mai più», promise Janie a colazione, «non salterò mai più le lezioni.» «Giusto, non lo devi più fare», confermò Doris. «Non è bello, saltare la scuola. Ma...» «Sì?» «Non è questa la cosa più grave. Lo sa Dio che non è la più grave», disse Doris, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. Guardò la figlia. «Quell'uomo», proseguì, «quell'uomo che fingeva di voler organizzare una festa di compleanno per te - sai che cosa voleva fare in realtà?» «No.» «Voleva ucciderti», disse Doris.
Janie si era quasi fatta cadere di mano la tazza con la cioccolata. «Uccidermi? E perché?» «È difficile capire certe cose alla tua età», rispose Doris, «ma ci sono uomini fatti così. Uccidono le bambine piccole. E anche i bambini. Si divertono. Sono molto malati, sono pazzi. Ma non ha importanza che cosa li ha resi dei mostri. L'importante è stare sempre in guardia. Non bisogna mai, mai salire in macchina con loro. Qualunque cosa abbiano promesso o raccontato. Mai. Per nessun motivo. Te l'avevo già detto altre volte, ricordi? Che non devi mai andare con degli sconosciuti.» «Sì», rispose Janie sottovoce. La mamma glielo aveva detto. Ma lei non ci aveva pensato affatto. «Lui era così gentile», aggiunse. «Veramente, mamma, era davvero carino e amichevole.» «Certo, altrimenti, come farebbero a convincere i bambini?» obiettò Doris con enfasi. «Pensi che ci riuscirebbero comportandosi in maniera sgarbata e crudele? No, naturalmente sono simpatici, e promettono sempre sorprese meravigliose. Ma alla fine ti ritrovi in qualche scantinato chissà dove, e loro ti fanno delle cose...» Lasciò la frase incompiuta. Janie la guardò attentamente. «Quali cose, mamma?» «Cose spaventose. Ti fanno del male. Ti torturano. Tu gridi e chiami la mamma e loro ridono. E alla fine ti uccidono, così non potrai raccontare a nessuno quello che ti hanno fatto. E tutto solo perché sei stata così imprudente da fidarti di loro.» Janie faticava a immaginare una cosa del genere. Quel simpatico sconosciuto voleva farle del male? Ucciderla? La mamma ne sembrava convinta. Anche Stella. E persino tutti gli altri poliziotti. Forse era così. Si sentì salire di nuovo le lacrime agli occhi. «Non lo farò più, mamma», singhiozzò, «non andrò con nessuno, se qualcuno me lo chiederà ancora.» Doris si accese una sigaretta. Le mani le tremavano leggermente. «Domattina vorresti venire con me a un funerale?» le chiese. «Domattina? Ma non devo tornare a scuola?» «No. E io non andrò a lavorare. Invece...» «Di chi è il funerale?» chiese Janie. Non sapeva neppure dire quanto trovasse incomprensibile tutta la situazione. «Una bambina», rispose Doris. «Aveva più o meno la tua età.» Un dubbio agghiacciante si affacciò alla mente di Janie. Aveva quasi paura a esprimerlo. «È stata... questa bambina... è stata...?»
«Sì», rispose Doris. «È stata uccisa. Da un uomo che le aveva promesso una bella cosa. Per questo era salita in macchina con lui.» Janie deglutì. All'improvviso si sentiva un groppo in gola. «No», si sentì rispondere, «non voglio andarci...» Con la mano libera, Doris accarezzò le mani della figlia. «Stella mi ha pregato di andarci. È possibile che... che sia stato lo stesso uomo. Capisci? Non lo sanno con sicurezza, ma esiste la possibilità e... ecco, a volte, sai, certe persone tornano... quando le loro vittime vengono sepolte. Gli piace assistere al funerale, perché si sentono molto forti. E...» «No! Non ci voglio andare! Non voglio!» «Janie, sei la sola che lo abbia visto. Se fosse presente, potresti riconoscerlo. Senti, probabilmente non ci sarà. E allora non lo vedrai mai più. Se invece... Vuoi anche tu che finisca in prigione, vero? Che non possa più fare del male a nessuno?» Janie sentiva quello che le stava dicendo la mamma. Ma la sua voce si allontanava lentamente da lei, come se Doris camminasse da una stanza all'altra, sempre più lontana, e la sua voce era sempre più flebile. Nel contempo le orecchie di Janie si riempirono di un assordante fragore, anche il pavimento cominciò a ondeggiarle sotto i piedi e il tavolo davanti a lei prese a girare con tutto quello che ci stava sopra. «Non voglio», ripeté, ma adesso non riconosceva più nemmeno la propria voce, forse l'aveva soltanto pensato, si era immaginata di averlo detto. «Non voglio. Non voglio.» E poi diventò tutto buio. 2 Virginia si guardava allo specchio in corridoio. Lo specchio apparteneva alla famiglia di Frederic e probabilmente era stato sempre collocato in quel punto. Il vetro, racchiuso in una preziosa cornice dorata, non era perfettamente molato e rifletteva un'immagine distorta. Chi ci si specchiava si vedeva più magro del reale e bizzarramente allungato. In passato Virginia andava spesso a specchiarsi lì quando si sentiva troppo grassa, perché perdeva istantaneamente diversi chili. Adesso, in quella soleggiata mattina di autunno, era grottescamente magra e per la prima volta si rese conto che negli ultimi giorni, ma anche nelle settimane precedenti, doveva essere dimagrita molto. Si accorse anche che i vestiti le cascavano addosso. La sua immagine somigliava a uno smunto spaventapasseri. Guance incavate
e occhiaie profonde. Le clavicole sporgevano evidenti dalla scollatura a V della maglietta. Quand'è stata l'ultima volta che ho dormito? si chiese. Sembrava passata un'eternità. Non ebbe modo di contemplare più a lungo la propria immagine poco attraente, perché il telefono squillò all'improvviso. Sussultò, corse in salotto e raggiunse l'apparecchio insieme a Frederic. Entrambi avevano avuto lo stesso pensiero: forse si trattava nuovamente del rapitore. Invece era il sovrintendente Baker. E sebbene Virginia temesse di avere un collasso, se alla fine l'uomo che teneva prigioniera la sua piccola Kim non si fosse fatto sentire, il violento tremito alle mani le fece capire quanto paventasse anche quel momento. Aveva paura della voce contraffatta, di cui aveva parlato Frederic. Paura del raccapriccio che avrebbe scatenato dentro di lei. Frederic rispose per primo, ma accese il vivavoce. «Ho da chiederle un grandissimo favore», disse Baker. «Nel caso non ci siano novità per domattina - potrebbe partecipare al funerale della piccola Rachel Cunningham?» «Rachel Cunningham?» chiese Frederic. «Non è la bambina che...» «Che è stata ritrovata a Sandringham, esatto. Verrà seppellita domani. Non è da escludere - è capitato diverse volte - che l'omicida si trovi nei pressi del cimitero.» «Ma come possiamo esserle utili noi?» Baker sospirò. «È una traccia esilissima. Ma forse notate qualcuno che avete visto negli ultimi tempi insieme a vostra figlia. Qualcuno che adesso non ricordate, perché magari si è trattato di un incontro fugace e superficiale... Ma forse, rivedendo questa persona...» Anche Frederic sospirò, più profondamente e più disperatamente di Baker. Baker parlò in tono partecipe. «Mi rendo conto, Mr. Quentin, che si tratta di una supposizione. E che nelle vostre condizioni non è facile partecipare al funerale di una bambina... ma di certo capisce che...» «Certo», rispose Frederic, «lo capiamo ed è nel nostro interesse.» Che aria stanca ha, pensò Virginia. I due uomini si salutarono. Frederic si rivolse a Virginia. «Parto subito per Londra», annunciò. «Vado a prendere i soldi.» «La banca li ha già preparati?» «Li avranno per oggi a mezzogiorno.» Il giorno prima, Frederic aveva
parlato a lungo con il suo collaboratore più anziano e più fidato, tratteggiandogli la situazione. «Tornerò subito qui. Non possiamo permetterci perdite di tempo nel caso che... che quell'uomo si faccia vivo di nuovo.» «Perché non ti fai portare la somma qui?» Lui scrollò il capo. «Mi fido solo di me stesso.» Lei annuì, si sentì chiamata in causa, anche se certamente non era stato nelle intenzioni di Frederic: non poteva fidarsi più neppure della moglie. «Guida piano», gli disse. Come aveva fatto centinaia di altre volte, quando lui partiva per Londra. «Tu resti qui?» si accertò lui. «Al telefono?» «Naturale.» «Non è così naturale. Forse hai un altro impegno.» Lei non riuscì a guardarlo negli occhi. Quell'espressione ferita, di cui era responsabile lei, le risultava insopportabile. «Resto qui ad aspettarti», rispose. «Ti prego... torna presto!» Quando Frederic se ne fu andato, la casa piombò in una quiete spaventosa. Ancora più opprimente delle ore precedenti, sebbene Virginia e Frederic non si fossero scambiati una parola. In una casa dove si trovano due persone, il silenzio non regna in maniera così soffocante come quella dove ce n'è una sola. Chiamò la pensione di Nathan, ma la padrona la informò che Mr. Moor era uscito. «È andato via in macchina?» domandò Virginia. «Non controllo i miei ospiti», ribatté piccata la donna. «Può almeno guardare se la macchina è ancora parcheggiata davanti alla pensione!» La padrona della pensione brontolò, ma acconsentì ad affacciarsi per verificare se l'auto fosse ancora lì. «La macchina non c'è», annunciò. Perché non era raggiungibile? Perché non rimaneva a casa? Ma nel suo caso che cos'era la casa? Una minuscola stanza in una pensioncina in un paese straniero. Doveva forse restare tutto il giorno seduto lì dentro a guardare fuori dalla finestra? E aspettare che... già, che cosa? Che Kim ricomparisse, che lui e Virginia potessero cominciare a progettare il loro futuro insieme. Ma come sarebbe stato? Nathan non possedeva più niente. Virginia avrebbe ottenuto gli alimenti per Kim. Per lei stessa appariva molto più difficile, visto che sarebbe vissuta con un altro uomo. Se Nathan pensava a queste cose, doveva sentirsi impazzire. Un dilemma in-
solubile. Ma esisteva davvero? Una situazione senza via d'uscita? Oppure c'era sempre una strada che bastava trovare? Nathan ci stava pensando? Passeggiava per i dintorni, arrovellandosi? Oppure superava gli arrovellamenti, proseguiva per le strade soleggiate e cercava di dimenticare la propria tragedia, la tragedia di Virginia, quella di entrambi? Si mise a vagare per la casa, evitando stavolta la camera di Kim. Era una vista troppo dolorosa. I minuti trascorrevano con una straziante lentezza. La giornata si faceva sempre più lunga, sempre più vuota, sempre più faticosa, come se il tempo girasse all'indietro. La sua inquietudine crebbe. La sensazione di essere imprigionata, di soffocare, diventò più forte. Scese in cucina, si riempì un bicchiere d'acqua, lo guardò, poi lo svuotò nel lavandino: il pensiero di ingoiare qualcosa le toglieva il respiro. Andò in salotto, uscì di nuovo, salì di sopra, entrò in bagno, tornò a osservare, come aveva fatto al mattino, la sconosciuta allo specchio. Aveva le mani gelate. Qualcuno fece un respiro rumoroso e lei impiegò qualche istante per rendersi conto di essere stata lei stessa. Le tornò in mente che, nel corso del loro primo incontro - era stato soltanto ieri, ma sembrava passato un secolo -, il sovrintendente Baker aveva domandato se lei e Frederic avessero bisogno di un sostegno psicologico. Avrebbe potuto mandargli qualcuno. Avevano rifiutato entrambi, non perché non avessero bisogno di aiuto, ma perché temevano di sentirsi ancora più oppressi dalle generiche parole di consolazione di un professionista esterno fondamentalmente non coinvolto. Adesso Virginia pensò: ho bisogno di qualcuno. Altrimenti non arriverò a sera. Era sull'orlo di una crisi di panico, lo sentiva. Kim. Kim. Kim. Forse in quel momento stava chiamando la mamma. Era impaurita, indifesa. Sola. Abbandonata. Il respiro di Virginia accelerò, si fece ansimante, parve riempire tutta la stanza da bagno. Cercò di ricordare la tecnica respiratoria che aveva imparato al corso pre-parto. In effetti funzionò, la respirazione migliorò leggermente, ma l'impressione di essere sul punto di perdere la ragione non passò. Riuscì comunque a scendere fino al salotto. Aveva già la mano sul telefono, pronta a chiamare il sovrintendente Baker per chiedergli aiuto, quando ebbe un'altra esitazione. A che cosa poteva servire un terapeuta in quella situazione? Come a-
vrebbe fatto a liberarla dal panico? La sua bambina era scomparsa. Nessuno l'avrebbe convinta che sarebbe andato tutto a posto. Non voleva sentirsi dire che doveva pensare positivo e che doveva sperare per il meglio, non bastava a toglierle la paura che alla fine non si sarebbe risolto tutto per il meglio. Devo fare qualcosa, pensò, devo fare qualcosa, altrimenti sbatterò la testa contro il muro e mi metterò a urlare. Il sovrintendente Baker aveva detto di voler parlare con Nathan. Lei si era resa perfettamente conto che agli occhi della polizia Nathan era nella lista dei sospettati, anzi, per meglio dire, era l'unico sospettato concreto che il sovrintendente Baker avesse a disposizione al momento. Il nuovo conoscente simpatico nella vita di Kim. Lei non ci credeva. Era impensabile, eppure: sarebbe dovuto andare lui a prendere Kim. Aveva raccontato una storia di un guasto alla macchina che nessuno era stato in grado di dimostrare. Aveva così dato l'impressione che poteva corrispondere ai fatti - di essere bloccato a Hunstanton e di non avere la possibilità di tornare a King's Lynn. E se non fosse stato così? Il suo comportamento non era diventato un po' strano dal giorno precedente? Non si faceva vivo, non chiedeva di Kim, sembrava di ottimo umore. Possibile che fosse in qualche modo coinvolto nella sua sparizione? Non lo avrebbe scoperto restandosene seduta lì a casa. E magari nemmeno parlandogli per telefono. Forse soltanto guardandolo negli occhi. Poteva deviare le chiamate al telefono fisso sul suo cellulare, in modo da essere raggiungibile - per il rapitore, il sovrintendente Baker, Frederic. Frederic non sarebbe tornato prima del tardo pomeriggio o della sera. Ora doveva soltanto procurarsi un'auto in un modo o nell'altro. Inserì la deviazione di chiamata, prese la borsa e uscì di casa. Fuori faceva caldo. Chi avrebbe pensato che il tempo potesse tornare a essere così bello? Per fortuna Jack Walker era a casa e le prestò l'auto senza fare obiezioni. Lo pregò di tenere d'occhio l'ingresso e di avvisarla subito, se la polizia o qualcun altro si fosse fatto vivo. Pochi minuti dopo guidava la jeep dal motore insolitamente rumoroso oltre il cancello. Il respiro le si calmò. La paura senza nome rimase.
3 Le strade erano deserte e verso mezzogiorno arrivò a Hunstanton. Chiese a un passante come raggiungere l'indirizzo che le aveva fornito Nathan e trovò senza difficoltà la pensioncina. Si accorse subito che l'auto di Nathan - o, meglio, la sua auto - non era nel parcheggio davanti all'edificio. Sospirò delusa, perché aveva sperato che nel frattempo lui fosse tornato. Ma forse sarebbe rientrato da un momento all'altro. La padrona della pensione stava strappando le erbacce in giardino e, alla domanda di Virginia su dove fosse Mr. Moor, rispose di non averne la più pallida idea. «Di sicuro sarà andato a pranzare da qualche parte», aggiunse, «perché a parte la colazione io qui non servo altri pasti.» Avrei dovuto immaginarlo, pensò Virginia. Si sentiva sfinita, vuota e di colpo scoraggiata. «Posso aspettarlo qui?» domandò. La donna scrollò le spalle. «Se vuole... Entri dentro, vada sempre dritta e arriverà nella saletta della colazione. Può aspettarlo lì. Ovviamente non posso farla entrare nella camera di Mr. Moor!» Virginia seguì le indicazioni e arrivò nell'accogliente saletta. Camminò irrequieta avanti e indietro, guardò il paesaggio assolato fuori dalla finestra e osservò il dipinto appeso alla parete che rappresentava il naufragio di una nave. Non c'è mai! Ma perché dovrebbe restarsene qui seduto ad aspettare, casomai io dovessi piombare qui e chiedergli se c'entra qualcosa con la scomparsa della mia bambina? Era venuta fin qui per fare qualcosa e ora si trovava nuovamente chiusa tra quattro mura, condannata all'attesa. Con sgomento si accorse che il panico, che aveva minacciato di travolgerla a casa, stava tornando implacabile. Forse avrebbe dovuto riflettere di più e non imbarcarsi in questo viaggio. Forse sarebbe stato più saggio fare una passeggiata nel parco, oppure prendere un tè con Jack e Grace, ma poi le venne in mente che Grace avrebbe ricominciato ad auto-commiserarsi e lei non lo avrebbe sopportato. Aprì una delle finestre, si affacciò per inspirare più ossigeno. La cosa più saggia da fare sarebbe stata indubbiamente telefonare al sovrintendente Baker e chiedergli un sostegno psicologico. La polizia sapeva quello che faceva quando offriva un simile aiuto e molto probabilmente aveva pecca-
to di superbia credendo di non averne bisogno. Guardò l'orologio. Erano trascorsi soltanto dieci minuti, mentre lei avrebbe giurato che fosse passata almeno mezz'ora dal suo ingresso in quella opprimente stanzetta. Decise di ignorare il divieto della padrona di casa e di cercare la camera di Nathan. Non era un'estranea, era la sua futura compagna. E forse, in mezzo a tutte le cose di lui, si sarebbe sentita meglio. In mezzo a quali cose però, si chiese, mentre saliva silenziosamente le scale. Lui non possiede più niente. Al piano superiore si aprivano due porte. La prima era chiusa a chiave, ma la seconda era aperta e Virginia si trovò davanti una camera così impersonale e disadorna, che all'istante comprese che doveva essere per forza occupata da un naufrago povero in canna. La finestra era aperta, la stanza profumava di aria salmastra, la brezza gonfiava le tendine. Il letto era accuratamente rifatto con un copriletto a fiori. Alle pareti quadri con soggetti marini, ma per fortuna nessun naufragio. Entrò nel minuscolo bagno adiacente. Un pezzo di sapone sul lavandino, accanto una bomboletta di schiuma da barba, un rasoio e un pettine. Nathan si accontentava davvero di poco. D'altronde non poteva fare altrimenti. Tornata in camera, guardò fuori dalla finestra, si mise seduta sul letto, intrecciò le dita. Quando sentì lo squillo del cellulare, sobbalzò sgomenta, come se fosse la cosa più inaspettata del mondo. Con dita tremanti tirò fuori il telefono dalla borsa e rispose. «Virginia Quentin.» La sua voce era affaticata. All'altro capo della linea c'era Frederic. «Virginia? Sono io, Frederic. Che succede? Sembri sconvolta.» Lei cercò di ritrovare un po' di autocontrollo. «Non... non ci sono novità. Non ha chiamato nessuno. Io... I nervi...» «Lo so», disse Frederic, «e farò in modo di arrivare il prima possibile a casa. Sono a Londra, ho ritirato i soldi. Vado a bere un caffè e poi mi rimetto in viaggio.» Io sono a Hunstanton, nella camera del mio amante. Sto cercando di scacciare un terribile sospetto e sono sull'orlo di una crisi di nervi... Ovviamente non disse niente di tutto ciò. Ripeté solo l'esortazione di quella mattina: «Guida piano». Seguì un breve silenzio e, proprio quando Virginia pensava che Frederic
avesse riattaccato, lo sentì dire: «Ce la faremo, Virginia. Supereremo tutto quanto». «Sì», bisbigliò lei, poi chiuse la comunicazione e rimise il cellulare nella borsa. Tornò a sedersi sul letto ma, incapace di stare ferma, ben presto si alzò di nuovo. Forse era meglio se faceva una passeggiata e ripassava fra un'oretta. Le sembrava più saggio che restare in quella camera e perdere a poco a poco la ragione. Si diresse verso la porta, ma il suo sguardo fu attratto da un piccolo oggetto colorato infilato tra il muro e l'armadio, era qualcosa di plastica, giallo, rosso e verde. Incuriosita si avvicinò, afferrò l'oggetto, lo tirò fuori e rimase a contemplarlo inizialmente perplessa e senza capire: era un registratore. Da bambini. Aveva la forma di una grossa sveglia che stava su due grossi piedi. Davanti lo sportello per infilare le cassette. Sopra i tasti con le diverse funzioni. Tutt'intorno un manico curvo per portarlo in giro. Di lato, in una nicchia, il microfono, con cui cantare oppure produrre voci strane e contorte. Voci strane e contorte... Il cervello elaborò quelle informazioni con improvvisa lentezza, come se si rifiutasse di riconoscere l'ovvio. Kim possedeva un apparecchio identico a quello. Da qualche parte nella sua mente riaffiorò la voce di Frederic. «... era un uomo... il modo in cui la voce era contraffatta mi ha fatto tornare in mente un giocattolo di mia figlia... c'è un microfono integrato... per mezzo di alcuni tasti i bambini possono modificare la voce...» Frederic aveva pronunciato quelle parole all'incirca ventiquattr'ore prima. Quando aveva riferito al sovrintendente Baker della telefonata del rapitore. Non voleva accettare, non voleva riconoscere l'evidenza che le stava davanti, ma la consapevolezza le esplose dentro da un momento all'altro e, come una luce accecante, capì ciò che era successo, proprio nel momento in cui la porta si apriva e Nathan compariva sulla soglia. Lui la guardò - in seguito lei si disse che doveva essergli apparsa come una statua di sale, in piedi accanto all'armadio con il giocattolo colorato tra le mani - e disse: «Vedo che non hai perso tempo a guardarti in giro!» Lei non riuscì a parlare, emise solo uno strano suono soffocato simile a un gemito.
«Che cosa devo spiegarti? Non capiresti mai le mie ragioni, né ci crederesti», disse Nathan. Poi aggiunse: «E lo accetto». Lei non sapeva quanto tempo fosse trascorso da quando, assalita da quella muta paralisi, era rimasta immobile, sospirando piano. Forse erano stati minuti, oppure soltanto secondi. Alla fine, quando si rese conto di riuscire di nuovo a muoversi, aveva sollevato leggermente la prova agghiacciante che teneva tra le mani e con voce rotta aveva chiesto: «Che cos'è?» Lui, ovviamente, aveva capito che non gli chiedeva una definizione dell'oggetto, ma una spiegazione del perché quel giocattolo si trovasse nella sua camera. Da qualche parte nella sua mente era rimasta la tenue speranza che lui potesse fornirle una risposta alternativa, una spiegazione innocua che gettasse una luce diversa sull'accaduto. Ma nel contempo sentiva crescere dentro di sé la paura che lui volesse confonderla, che rendesse la situazione ancora più insopportabile, inventandosi scuse incredibili. Non accadde nessuna delle due cose. Lui non spiegò proprio niente. Per guadagnare tempo, sostenne che tanto lei non avrebbe capito. E con questo confermò la giustezza dei suoi sospetti. «Dov'è lei?» balbettò piano Virginia. «Dov'è Kim?» e, vedendo che lui non rispondeva, gridò di colpo: «Dov'è Kim? Dov'è Kim? Dov'è?» Lui scrollò le spalle. «Non ne ho idea.» Il gesto indifferente, l'espressione incurante sul suo viso provocarono un improvviso cortocircuito dentro Virginia. Si sentì mancare e per un attimo temette di cadere a terra svenuta. Invece lasciò il registratore, che rimbalzò sulle mattonelle chiare e si lanciò contro Nathan, a pugni stretti, le braccia sollevate. Non si rese conto della forza con cui lo assalì, colpendolo in faccia, sulle spalle, al petto. «Dov'è Kim?» ansimò. «Dov'è Kim? Dov'è Kim?» Lui riuscì a bloccarle entrambi i polsi e la scrollò con violenza. «Non lo so, maledizione! Non lo so!» Lei si bloccò nella propria furia. «Dov'è?» Lui le rispose senza lasciare la presa. La sua stretta bruciava come fuoco sulla pelle di lei. «Io non ce l'ho. Non l'ho mai avuta. Volevo soltanto i soldi.» Il sospetto e il raccapriccio di lei erano troppo grandi. «Adesso mi dirai dov'è. E che cosa le hai fatto. L'hai...» Fu sopraffatta da un groppo in gola che le impedì di pronunciare quella parola. «Le hai fatto lo stesso che alle altre bambine?» «Perdio, maledizione!» Nathan la lasciò andare e la spintonò lontano da
sé. Lei barcollò, ma senza inciampare. Lui fece un passo indietro. Era pallido in viso, le labbra tirate. «Non le ho fatto niente. Non ho fatto niente a nessuna bambina. Non sono... non farei mai una cosa del genere.» Le sembrava di essere prigioniera di un incubo. Con gesti meccanici si massaggiò i polsi arrossati. Il bruciore che avvertiva era l'unica prova che ciò che stava vivendo era reale. «Ci hai telefonato. Hai detto...» «Lo so quello che ho detto. Volevo centomila sterline. È stata... una pensata così. Una pensata idiota. Non avrei più ritelefonato. Non avevo idea di come organizzare la consegna. Mi sono reso conto che mi avrebbero beccato di sicuro. Che era... un'idea balzana. E poi mi sono dimenticato di sbarazzarmi», indicò il registratore sempre per terra, «di questo. Un errore madornale.» La disinvoltura con la quale cercava di minimizzare il proprio ignobile gesto la lasciò interdetta. «Sapevi che sono disperata. Che vivo in uno stato di assoluta paura. E hai sfruttato la situazione per...» Le mancavano le parole. Non era possibile trovare una definizione per ciò che aveva fatto. «Te l'ho già detto, non capiresti mai le mie ragioni», disse Nathan. Lei si sentì salire le lacrime agli occhi. «E che cosa ci sarebbe da capire, se non ti dispiace?» «Non ti viene in mente proprio niente?» Lei lo fissò in silenzio. Lui si passò una mano tra i capelli. «Parli sempre del nostro futuro insieme. Noi due, da qualche parte, in qualche modo... ma hai pensato a come potremmo fare? Privi del tutto di soldi?» «Il nostro futuro non è un problema di soldi!» «No? Allora ti informo che probabilmente stai solo sognando a occhi aperti. Ti ho detto fin dal principio che non possiedo niente. Non ho soldi, né una casa né una dimora qualsiasi, non ho più nemmeno la barca. Niente. Io...» Lei lo interruppe. La sua voce risuonò roca e stranamente apatica anche alle sue orecchie: «Non me lo hai detto fin dal principio. Fino a quando Frederic non ha scoperto il contrario, mi hai fatto credere di essere uno scrittore di successo, che prima o poi avrebbe ritrovato la sua vena creativa». «Oh, e questo ti suonava bene, vero? Mentre, invece, la storia dei soldi no!» Lui stava rivoltando completamente quello che intendeva lei, ma Virgi-
nia non aveva la forza di ribattere nemmeno su questo. «Non riesco a capire come tu abbia potuto compiere un gesto simile», disse. Lui sospirò. «Già. Lo sapevo. Era solo... un progetto su come trovare un capitale iniziale per noi. Un progetto idiota, un progetto cretino che, come ti ho detto, avevo scartato pure io.» «Ma non ti sei reso conto di quello che hai fatto? Non hai pensato in quale stato d'animo ci troviamo io e Frederic in questo momento? Che la telefonata del presunto rapitore ci ha ridato speranza? Che abbiamo aspettato disperati che ritelefonasse? Oggi Frederic è andato a Londra a prendere i soldi. Io sono rimasta a casa e mi sono sentita impazzire.» La vista le si annebbiò. Non riuscì più a bloccare le lacrime, ed erano lacrime di incredulità e di rabbia. «Nessuno, con un briciolo di umanità, avrebbe mai fatto niente del genere!» gridò. Lui fece un passo verso di lei, che indietreggiò, finendo con le spalle alla finestra. «Non toccarmi!» esclamò. Lui alzò di nuovo le spalle. «Ma scommetto che eri venuta proprio per questo», disse, «per farti abbracciare e consolare da me.» «Credi che abbia ancora voglia di farmi confortare da te?» «Santo cielo», ribatté lui stizzito, «adesso non mi trattare come un criminale! Non ho torto un capello a tua figlia. Non so neppure dove si trovi. Non ho assolutamente niente a che fare con la sua scomparsa. E neppure con quella delle altre bambine. Ho commesso un errore madornale e idiota. Mi spiace. Io... ti chiedo perdono, se è questo che vuoi.» «E come faccio a sapere che ciò che affermi è la verità? Forse la storia che ieri la macchina non ti è partita è del tutto inventata. Molto astuto, visto che, se fossi andato a prendere Kim come concordato, non avresti potuto rapirla nello stesso momento senza destare sospetti. Invece così hanno creduto tutti che fossi rimasto bloccato qui a Hunstanton. Invece sei tornato a King's Lynn e hai preso Kim prima che Grace...» Le mancò la voce, il pianto le impedì di proseguire. Nathan scrollò la testa. «No! Io non sono uno di quei pervertiti! Trovo aberrante quello che fanno. Non me lo sognerei neppure lontanamente!» «E perché dovrei crederti?» gridò lei. «Perché mi conosci!» ribatté lui con altrettanta veemenza. «Perché sei stata la mia amante! Perché lo avresti capito, se ti fossi scopata un pedofilo!» Lei si premette il braccio sugli occhi, tirando su col naso. Basta piangere, si disse. Basta. Era il momento di agire.
Prese il registratore e la borsetta. «Di sicuro la polizia saprà meglio di me come scoprire la verità», disse. «A loro spiegherai anche dove ti trovavi quando è stata uccisa la prima bambina. Di certo non eri a Skye.» «E neppure qui. Cosa che posso dimostrare facilmente, visto che bisogna registrarsi in tutti i porti in cui si attracca. Non troverai la registrazione del Dandelion in nessun porto della zona.» «Lo verificherà il sovrintendente Baker. Saprà fare il suo lavoro.» Fece per passargli davanti, ma lui l'afferrò per un braccio. «Lasciami», gli disse. «Vuoi andare alla polizia adesso?» «Certo. E se non mi lasci subito mi metto a gridare. La padrona della pensione è di sotto. Chiamerò aiuto.» Lui la lasciò. «Allora vai», disse, facendo un passo di lato. Lei uscì dalla camera, senza rivolgergli neppure un'occhiata. 4 In seguito non avrebbe saputo dire come fosse tornata a Ferndale. Quasi certamente era stato un miracolo che non avesse causato qualche incidente. Era scoppiata a piangere diverse volte, e le lacrime le avevano completamente annebbiato la vista. Quando imboccò il cancello della villa, aveva la sensazione di non essersi mai sentita tanto disperata e scioccata in vita sua. A casa si richiuse subito la porta alle spalle e vi si appoggiò ansimando. Fu assalita di nuovo dal silenzio di piombo che regnava nelle stanze. Sembrava passata un'eternità da quando lì dentro avevano risuonato le allegre risate di Kim. Invece che due giorni soltanto sembrava fossero trascorsi anni. Erano stati i due giorni più lunghi della sua vita. Si trascinò in salotto con i passi lenti e strascicati di una vecchia. Disattivò la deviazione di chiamata e guardò il telefono. Doveva chiamare il sovrintendente Baker. E se Jack non le avesse prestato l'auto? Oppure se non fosse stato a casa? Non avrebbe potuto lasciare Ferndale. E molto probabilmente non avrebbe mai scoperto che era stato Nathan l'autore della telefonata ricattatoria. Lui avrebbe distrutto il registratore, e quasi sicuramente non avrebbe più richiamato. Lei e Frederic avrebbero aspettato invano un altro segno di vita da parte del rapitore e alla fine si sarebbero rassegnati al fatto che si era trattato del macabro scherzo di un burlone con un discutibile senso dell'u-
morismo. Il disagio che l'aveva spinta a recarsi a Hunstanton sarebbe passato e lei avrebbe vissuto insieme a Nathan, per sempre all'oscuro del perfido ruolo da lui svolto nella peggiore tragedia della sua vita. Sarebbe andato tutto diversamente. Tutto il suo futuro. Guardò il registratore colorato che teneva ancora in mano. L'avrebbe consegnato al sovrintendente Baker come prova. Era quello il suo posto. Si chiese allora che cosa la inducesse a rimandare la telefonata. Quando si era precipitata fuori dalla pensione di Hunstanton e aveva superato la padrona di casa che lavorava ancora in giardino e l'aveva guardata stupefatta, era decisa a recarsi direttamente alla polizia e a dire tutto ciò che era accaduto e ciò che sapeva su Nathan Moor. Le sue bugie, i suoi inganni, tutto. Invece era tornata a Ferndale e si aggirava titubante per il salotto. Perché? Dovresti riconoscere anche di esserti radicalmente sbagliata circa l'uomo con il quale hai tradito tuo marito e per il quale eri disposta ad abbandonare la famiglia. Ciò che lui ha fatto con la paura tua e di Frederic non è giustificabile in alcun modo. Ma in fondo avresti dovuto lasciarlo già prima, non appena sei venuta a sapere come ti aveva mentito spudoratamente circa la sua situazione professionale. Che cosa penserebbe Baker? Che eri così invaghita di quest'uomo da perdonargli la menzogna e farti abbindolare ulteriormente da lui. Che figura ci faresti? Quella di una donna affamata di uomini? Di una donna priva di ogni orgoglio? Nel caso migliore di una sciocca senza speranza. È questo? È questo che ti fa indugiare? Non vuoi perdere anche l'ultimo briciolo di dignità? Scrollò lentamente il capo. Sì e no. Una cosa era certa: se avesse creduto anche minimamente che Nathan fosse coinvolto nella sparizione di Kim, sarebbe corsa subito alla polizia. Non avrebbe avuto neppure un attimo di esitazione. Questo però significava che non lo credeva. Che qualcosa dentro di lei diceva innegabilmente che stavolta Nathan non mentiva. Che Kim non era nelle sue mani. Che aveva solo cercato di ottenere centomila sterline in un modo illegale, per migliorare una situazione disperata. Oppure stava cercando di convincersi ancora una volta? Dopo tutto, quella mattina aveva dubitato così fortemente di lui da sentire il bisogno di andare a cercarlo, per verificare il suo ruolo in tutta la storia. Quando lo squillo del telefono squarciò il silenzio, Virginia si spaventò
così tanto da farsi cadere di mano il registratore. Fu assalita di nuovo dal tremito che aveva provato quando il rapitore aveva telefonato. Ma un attimo dopo si rese conto che lui non si sarebbe più fatto vivo. Forse era la polizia. A quella prospettiva, il tremito alle mani si fece incontrollabile, ma lei cercò di calmarsi. Se fosse qualcosa di grave, verrebbero di persona. Una brutta notizia non la darebbero per telefono. «Pronto?» rispose. «Virginia?» Era Livia. Virginia fece un profondo respiro e si passò il dorso della mano sulla fronte. «Oh, Livia. È arrivata in Germania?» «Sì. Volevo sapere se ci sono novità su Kim.» Era come una buona amica. Affidabile e attenta. «No, Livia, purtroppo nessuna novità. Non c'è ancora nessuna traccia di lei.» «È spaventoso», disse Livia sgomenta. «Lei e Frederic starete passando l'inferno.» «Infatti, sì.» Virginia si sentì mancare la voce. «È una cosa inconcepibile, Livia, da impazzire. Ci si chiede come si faccia a non perdere la ragione.» «Vorrei poter fare qualcosa», disse Livia in tono molto sincero. A Virginia venne un pensiero improvviso. «Livia, le sembrerà forse una domanda strana, ma, prima di venire a Skye, dove vi eravate fermati con la barca? Eravate stati nella zona di King's Lynn?» «No», rispose Livia, «abbiamo sempre navigato molto a nord. Siamo stati a...» «Ok, non ha importanza. In ogni modo non qui?» «No. Perché?» «Non posso spiegarglielo. Livia, noi... io non resterò più insieme a Nathan.» «Oh...» «Devo sapere ancora una cosa. So che lui non ha mai guadagnato sul serio, ma dipendeva proprio dalle sue condizioni di vita? Ed è proprio vero che per anni non è esistita la possibilità di uscire da tale situazione?» Livia tacque così a lungo che Virginia cominciò a dubitare che avesse riattaccato. Che motivo avrebbe, si disse, di rispondere alle mie domande? «La situazione per lui era difficile», spiegò Livia alla fine, «ma anche lui
ha contribuito a fare in modo che non cambiasse. Vede, per me era molto penoso pensare di trasferire mio padre, gravemente invalido, in un istituto. Ma tutte le volte che ero sul punto di compiere questo passo - e accadde più volte - Nathan si opponeva. E siccome odiava mio padre non credo lo facesse per difenderlo. Molto più probabilmente si rendeva conto che, una volta andato via lui, non ci sarebbe stato più denaro a disposizione. Vivevamo della pensione di mio padre, e la cosa non sarebbe più stata possibile. Nathan non avrebbe saputo come andare avanti.» «Quindi non è in grado di guadagnarsi da vivere con la scrittura?» Livia rise, ma poi disse la frase più crudele che avesse mai pronunciato a proposito del marito: «Nathan non ha abbastanza talento. Non è abbastanza diligente. Nathan... non ha mai sognato il grande romanzo. Il suo unico sogno è sempre stato soltanto il modo più rapido di fare soldi. Nient'altro.» «È molto attaccato ai soldi.» «Direi che non pensa ad altro dalla mattina alla sera», la corresse Livia. Virginia annuì, poi si rese conto che Livia non poteva vedere il suo gesto e aspettava una sua risposta. «Grazie mille», disse, «la chiamerò non appena ci saranno delle novità su Kim.» Riattaccò, ma sollevò subito dopo la cornetta e compose il numero del commissariato. Nathan non si trovava nella zona all'epoca del primo omicidio. E l'istinto le diceva che non era stato lui a portare via Kim. Ma ciò che sentiva, pensava, credeva era irrilevante. Lui era un bugiardo recidivo, un truffatore, un ricattatore. Qui c'era di mezzo sua figlia. E non il buon nome di lei, Virginia. E non si trattava di evitare che un uomo, probabilmente innocente, finisse tra le maglie della giustizia. Qui si trattava esclusivamente di Kim e, finché fosse rimasta anche solo l'ombra di un sospetto su Nathan, era giusto procedere con le indagini. Con voce decisa chiese di parlare con il sovrintendente Baker. 5 Frederic era andato in salotto quando squillò il telefono e ora tornò in cucina, dove Virginia era seduta al tavolo con davanti un bicchiere di latte. «Latte caldo e miele», le aveva detto Frederic, «fa bene ai nervi», e gliel'aveva preparato. Era accaduto un'ora prima. Lei aveva provato a berne due sorsi, ma lo stomaco le si era subito chiuso. Il latte ormai era freddo e sulla
sua superficie si era formata una pellicola. A Virginia parve di sentire la voce di Kim. «Iiiiih, che schifo! Il latte con la pellicina.» Si prese la testa tra le mani. Kim. Kim. Kim! «Era il sovrintendente Baker», le disse Frederic. «Stanno interrogando Nathan Moor da ore. Senza esito. Ha subito ammesso di aver fatto la telefonata, ma nega categoricamente di essere coinvolto nella sparizione di Kim.» Virginia alzò la testa. «E Baker gli crede?» Frederic scrollò le spalle. «Come si fa a credere a un tipo come quello?» Virginia assentì lentamente. Molto probabilmente esisteva un'unica verità su Nathan Moor, e Livia l'aveva formulata nel modo più chiaro: «Nathan ha sempre sognato solo soldi facili. Praticamente non pensa ad altro da mattina a sera». Frederic si sedette di fronte a Virginia. Aveva il volto pallido per la stanchezza. «Baker ha detto che, se ce la facciamo, dovremmo andare al funerale domani. Dopo tutto, forse Moor è veramente innocente...» «Di sicuro non c'entra con la morte delle altre bambine», disse Virginia. «Non si trovava in questa zona e...» «Così dice lui.» «Lo sostiene anche Livia.» «Che in fondo non conosciamo meglio di lui», osservò Frederic. «Prova a pensarci. Chi ci dice che non ci siamo imbattuti in una coppietta di furfanti particolarmente scaltri? Perdono la barca e, mentre pensano a come racimolare un po' di soldi, gli viene in mente di riprovarci con te. Potrebbe darsi che Moor ti abbia avvicinato con l'esplicito consenso della moglie. Era chiaro fin dall'inizio che sei benestante.» «Io non sono un bel niente. Sei tu quello ricco. E chiunque dovrebbe immaginare che non mi ricopriresti d'oro nel caso dovessi scappare con un altro uomo.» «E perché? Può darsi che neppure l'astuto Nathan abbia capito fin da subito l'effettivo stato del nostro patrimonio.» Lei guardò il marito. «Questo però non fa di lui un assassino di bambine.» «E neppure un rapitore?» Virginia abbassò lo sguardo. Frederic si sporse sul tavolo verso di lei. «Che cosa sai veramente dell'uomo con il quale avresti voluto passare il resto della vita?» le chiese. Lei non rispose. Qualunque cosa avesse detto sarebbe stata inadeguata
come giustificazione. Frederic aspettò un momento, poi comprese che lei non avrebbe risposto e tornò ad appoggiarsi alla spalliera. «Perché?» domandò. «Se solo riuscissi a capire perché, in nome del cielo!» Lei lo guardò in faccia, e le costò un grandissimo sforzo. «È un argomento che dobbiamo affrontare proprio adesso?» «Prima o poi dovremo farlo.» «La volta scorsa, quando abbiamo parlato in quel bar il giorno della... scomparsa di Kim, mi hai fatto la stessa domanda sul perché. Ho cercato di spiegartelo. Probabilmente non hai capito. E forse non si può capire.» Deglutì. «Mi sono innamorata di Nathan Moor», disse sottovoce, «o almeno pensavo di essermi innamorata di lui. All'inizio l'effetto è lo stesso.» Frederic si strofinò gli occhi. Erano arrossati e più stanchi di prima. «E adesso? Non lo ami più? Oppure pensi di non amarlo più?» Virginia tacque a lungo, lo sguardo fisso sul bicchiere di latte, ma senza vederlo. Vedeva se stessa e Nathan. A Dunvegan sull'isola di Skye. Vedeva il fuoco nel camino e le candele accese. Sentiva il profumo del vino. Vedeva gli occhi di lui e il suo sorriso e percepiva le sue mani sul corpo. Provava il dolore abissale della perdita e della delusione. Avrebbe dato qualunque cosa per poter rivivere quelle ore. Ma sapeva che erano passate e niente poteva restituirgliele. «Adesso», rispose, «penso che a volte si fraintende l'amore. Lo si scambia con altre emozioni, che in quel momento ci mancano. Nathan mi ha dato la sensazione di essere tornata viva. E io ho scambiato questo sentirmi viva con l'amore.» «Sentirsi vivi è molto. Se ti ha dato questo, ti ha dato molto.» Lei sapeva che era vero. Nonostante tutto, Nathan Moor le aveva aperto una porta che da sola non sarebbe riuscita a spalancare. «Io e Nathan», proseguì, «non abbiamo più un futuro insieme. Indipendentemente da ciò che sarà di noi due. Se è questo ciò che volevi sapere.» «Questo e molto altro», replicò Frederic. Lei allontanò da sé il bicchiere e si alzò. Non poteva restare ancora seduta lì in cucina. Le mancava di nuovo l'aria. Come al mattino. «Mi sento...» ansimò, boccheggiando. Frederic le fu subito accanto. La tenne stretta. Lei sentiva la voce di lui vicino all'orecchio. «Respira a fondo. Lentamente. Respira più a fondo che puoi.»
In effetti riuscì a far tornare l'ossigeno nei polmoni. Il battito cardiaco rallentò un pochino. Il bisogno di correre fuori, di sfuggire alle pareti che la circondavano, diminuì. «Grazie», sussurrò. «Hai le labbra grigie», disse Frederic. «E le pupille dilatate.» Lei lo guardò fisso. Come poteva spiegargli le immagini che avevano attraversato, rapide e repentine, la sua testa? Lei e Nathan; Skye; loro due in macchina; Kim, rannicchiata, impaurita e gelata nella casetta sull'albero; Grace, in preda alla febbre, che attraversava la scuola deserta in cerca della bambina; il viso raggiante di Tommi; Tommi all'ospedale; il suo tenero corpicino, sommerso da dozzine di tubi; la mamma di Tommi; il suo sguardo spento. Virginia scoppiò a piangere. Era un pianto violento, che rifletteva un dolore accumulato da decenni. Scossa dai brividi, si aggrappò alle spalle di Frederic. Piangeva come se non dovesse smettere più. La voce di lui le giunse da molto lontano. «Calmati, Virginia! Calmati!» Lei tentò di dire qualcosa, ma le mancava la voce. «Nathan», riuscì a singhiozzare infine, «Nathan... è stato lui... perché me l'ha chiesto. Perché mi ha chiesto di Michael...» «Ti ha chiesto di Michael? Il tuo ex ragazzo che è scomparso senza lasciare traccia?» In qualche modo, Virginia riuscì a tornare seduta. Continuava a piangere, ma non con la travolgente disperazione di poco prima. Guardò Frederic, inginocchiato davanti a lei. «Ti ha chiesto di Michael?» Lei assentì. 6 Michael Era una delle prime serate tiepide dell'anno 1995, il 24 marzo, e Michael decise per la prima volta di andare all'allenamento in bicicletta. L'inverno era stato rigido e piovoso, ma finalmente si annunciavano i primi indizi dell'imminente primavera. L'aria mite e carezzevole e il cielo di quell'azzurro luminoso che solo marzo porta con sé. Dappertutto era un fiorire di narcisi che spuntavano dalla terra nera e gli uccelli cinguettavano il loro incessante concerto.
Michael indossò una tuta blu scuro, infilò nello zaino le scarpe da ginnastica, l'asciugamano e una bottiglia d'acqua e tirò fuori la bici dal garage. Aveva controllato e gonfiato le gomme quel pomeriggio. Tommi lo aveva assistito, dandogli consigli esperti. «Stammi a sentire», aveva detto Michael, «se domenica è bello, andremo a fare un giro in bici insieme. Ok?» Tommi si era illuminato in viso. Più tardi era tornato a casa per cenare con la famiglia, e Michael aveva annunciato a Virginia che avrebbe potuto fare tardi. «Dopo l'allenamento andremo a bere qualcosa tutti insieme. Oggi è il compleanno di Rob. Sicuramente offrirà un giro.» «Bene.» Lei aveva sorriso. «Divertiti. Io andrò a letto presto. Sono piuttosto stanca.» Era vero. Aveva passato il pomeriggio a lavorare in giardino, ispirata dall'improvviso bel tempo. Aveva portato fuori i vasi dal garage, li aveva riempiti di terra e aveva pensato a cosa piantarci. Aveva tirato fuori anche i mobili da giardino per sistemarli in terrazza, dopo averli puliti dalla polvere invernale. Le sarebbe piaciuto indossare anche un abito estivo leggero e svolazzante, ma faceva ancora troppo fresco. Jeans e pullover sembravano ancora l'abbigliamento più indicato. Al mattino si era occupata di una tesi. In genere lavorava in biblioteca, suddividendo i libri, inserendo titoli e segnature negli interminabili elenchi sul computer. Era un lavoro che le piaceva, ma non si faceva illusioni: era un'occupazione temporanea, non una vera professione. Prima o poi avrebbe dovuto scoprire che cosa voleva fare da grande. Altri ci riuscivano. Perseguivano decisi i loro obiettivi con zelo e ambizione. Soltanto lei non sapeva ancora che cosa diventare. Da tutti i punti di vista. Neppure per quanto riguardava Michael. Per il compleanno di lei, a inizio febbraio, lui le aveva chiesto per l'ennesima volta se voleva sposarlo e lei aveva reagito in maniera evasiva come al solito. Si vergognava di ingannarlo in quel modo, ma non le riusciva proprio di dirgli la verità. La verità sarebbe stata: «No, non voglio sposarti. Né ora né mai, probabilmente. Ma sto bene con te. Adesso. Certo non per sempre». Michael era una persona completamente diversa da lei. Voleva pianificare il futuro, voleva incasellare tutto. Matrimonio. Figli. Sognava un'autentica vita di famiglia. Le bastava osservare con quale entusiasmo si dedicava al piccolo Tommi. Amava i bambini. E amava la sicurezza. La successione regolare di giornate tranquille e ordinate. La casetta, il giardino. Il lavoro. Una moglie da trovare a casa quando ritornava. Un cane che sco-
dinzolasse allegro contro le sue gambe. Dei figli che gli raccontassero esaltati ciò che avevano fatto. Ai quali insegnare ad andare in bicicletta e da portare alle partite di pallone. Non erano desideri impossibili, quelli di Michael, e Virginia sapeva che aveva tutto il diritto di vivere la vita come se la immaginava. Aveva sperato tanto di arrivare un giorno al punto in cui si trovava lui. Di perdere quell'inquietudine interiore, che le impediva di legarsi davvero a qualcosa o a qualcuno. A una persona, uno stile di vita, una professione. Perché non le riusciva di mettere radici? Perché aveva spesso la travolgente sensazione di perdersi qualcosa, se si fissava su un'altra cosa? Era ridicolo, era infantile. Ma non riusciva a cambiare. Dopo che Michael fu uscito, spazzò la terrazza e tornò dentro casa. Si lavò a lungo le mani, grattandosi le unghie sporche di terra. Guardò il telegiornale, poi andò alla finestra e osservò la sera che scendeva lentamente. Provò a immaginare come dovesse essere stare in un attico a New York e ammirare lo spettacolo delle luci della città. Quel pensiero le suscitò uno struggimento quasi doloroso. Quando il telefono squillò, il suo primo impulso fu di non rispondere. Forse era una delle sue amiche che aveva voglia di una bella chiacchierata, mentre lei si sentiva proprio stanca e non voleva parlare con nessuno. Andare a letto con un bicchiere di vino e un buon libro. Ecco quello che desiderava. In seguito si sarebbe chiesta se la ritrosia a rispondere dipendeva solo dalla stanchezza o se aveva qualche altra motivazione. Forse il suo inconscio le voleva mandare un avvertimento. La tragedia che sarebbe poi accaduta, infatti, non si sarebbe verificata se avesse lasciato suonare il telefono e fosse andata a dormire. Ma poi pensò che potesse essere Michael. Magari gli si era rotta la bicicletta e aveva bisogno che lei lo andasse a prendere, anche se era troppo presto. In ogni caso, fece uno sforzo e si alzò. «Virginia Delaney.» Una brevissima pausa e poi quella voce che le faceva sempre mancare le ginocchia e seccare la bocca. «Virginia? Sono Andrew.» «Oh», fu tutto quello che riuscì a dire lei. Dopo un altro momento di silenzio, Andrew le chiese: «Come stai?» Lei si era ripresa in parte dallo stupore iniziale. «Bene. Grazie. E tu?» «Bene anch'io. Senti...» «Sì?»
«Mi farebbe piacere vederti», disse Andrew. «Non saprei, io...» «Se è possibile, subito», continuò lui. Lei avrebbe potuto dire tante cose. Che c'era Michael lì con lei e che non poteva uscire. Che non aveva la macchina. Che era stanca. Oppure avrebbe potuto chiedergli chi si credeva di essere per telefonare alle otto di sera e metterla sull'attenti. Avrebbe potuto rispondergli di andare al diavolo e riattaccare. Invece guardò fuori dalla finestra. L'auto era parcheggiata al solito posto. Michael aveva preso la bicicletta. «Dove sei?» gli chiese. «All'Old Bridge di Huntingdon.» «In un albergo?» Lui rise. «Al ristorante dell'albergo. Hanno una cucina superba. E una vasta scelta di vini.» Non aveva più voluto rivederlo. L'aveva ferita troppo. Sapeva che sarebbe stato meglio rispettare la decisione presa ed evitare qualsiasi contatto con lui. «D'accordo. Ma solo per un drink!» disse. Le parve di vederlo sorridere sornione attraverso la cornetta. «Certo», le promise. «Soltanto un drink.» Rispetto agli avvenimenti successivi, ciò che era accaduto all'hotel era irrilevante; l'unico dato importante a tale riguardo era che l'incontro si era dilatato a molto più di un drink, accrescendo così i suoi sensi di colpa. Si erano trattenuti solo brevemente al ristorante, non erano andati oltre l'antipasto, perché l'incontro con Andrew aveva a tal punto turbato e fatto arrabbiare Virginia con se stessa da impedirle di toccare cibo. Lui le aveva preso una mano e le aveva chiesto: «Davvero non vuoi che prenda una camera?» Lei aveva annuito e si era odiata. Era sudata dopo il pomeriggio passato in giardino, aveva evitato di proposito di farsi la doccia, non si era nemmeno cambiata la biancheria, nella speranza che le sarebbe stato troppo penoso andare a letto con lui. Aveva dimenticato - o rimosso - il fatto che con Andrew non c'era mai stato niente di troppo penoso. Avevano bevuto un bicchiere di champagne dal minibar, chiacchierando del più e del meno e poi avevano fatto l'amore e Andrew aveva detto che profumava di erba e terra e non gli era mai sembrata
tanto seducente. Lei provò di nuovo quel senso di leggerezza che l'avvolgeva sempre quando era tra le sue braccia e una miscela mozzafiato di eccitazione, trepidazione e gioventù. Andrew risvegliava in lei un senso della vita che Michael non era in grado di accendere. «Perché non lo lasci?» gli chiese Andrew, mentre erano sdraiati vicini e Virginia, guardando l'ora, aveva constatato spaventata che era già molto tardi. «E tu perché non vuoi venire a vivere con me?» chiese lei di rimando. Lui sospirò. «Lo sai bene, perché. Non è possibile. Non più.» «E allora perché mi hai voluto vedere questa sera?» «Perché non riesco a dimenticarti.» E nemmeno io, pensò lei arrabbiata, ma in fondo è tutta colpa del fatto che con Michael mi annoio a morte. Hai potuto approfittarne solo per questo, nient'altro! Lei gettò le gambe oltre la sponda del letto e cercò la biancheria stropicciata. «Questa cosa non si ripeterà, Andrew. Ti prego. Non chiamarmi più.» «Davvero?» «Davvero», rispose lei decisa. Lasciò la camera e resistette all'impulso di sbattere la porta. Durante tutto il tragitto di ritorno non smise di rimproverarsi. Lui l'aveva trattata come una bambinetta, e lei in effetti aveva ubbidito prontamente ai suoi ordini. Devo farla finita una volta per tutte, pensò. La distanza da St. Ives non era molta, ma il viaggio le sembrò interminabile. Erano quasi le undici! Probabilmente Michael era già rincasato; che cosa gli avrebbe detto? Poteva inventarsi soltanto la storia di un incontro dell'ultimo momento con un'amica, augurandosi che lui non la incontrasse proprio il giorno dopo. E poi doveva anche farsi una doccia. Si sentiva ancora addosso chiaramente l'odore dell'amplesso e se lo sentiva lei, figuriamoci quanto doveva percepirlo un altro. Accelerò oltre il limite di velocità, ma per fortuna non incontrò nessuna pattuglia della polizia. Quando imboccò la via di casa, guardò istintivamente al primo piano, ma non vide nessuna luce accesa. O Michael dormiva già - cosa improbabile; non sarebbe andato a letto senza sapere dov'era lei - oppure era stata più fortunata di quanto si meritasse e lui non era ancora arrivato. Parcheggiò nel punto esatto di prima, salto giù dall'auto e corse in casa.
Chiuse la porta, accese la luce e chiamò incerta: «Michael? Michael, ci sei?» Nessuno rispose. Gettò la borsa in un angolo, corse in bagno, si spogliò e nascose i vestiti in fondo alla cesta del bucato. Aveva appena finito di fare la doccia, quando sentì la porta d'ingesso che si apriva. Michael era tornato. Si avvolse in un asciugamano e per un attimo appoggiò la testa contro le fresche mattonelle del bagno, sospirando. Era stata fortunata, ma era una situazione terribilmente degradante. In quel momento si ripropose di cambiare qualcosa nella sua vita. D'ora in poi si sarebbe legata stabilmente a Michael, oppure l'avrebbe lasciato. Più probabilmente l'avrebbe lasciato, pensò. 7 In cucina era accesa una luce soltanto. Virginia era seduta immobile. Per tutto il tempo, durante il racconto, non si era mossa. Aveva parlato con una voce stranamente monotona, che le risuonava nelle orecchie come da molto lontano. Ora tacque, sfiorò con lo sguardo Frederic e poi lo rivolse fuori dalla finestra. Dopo un lungo silenzio, rotto solo dal ronzio del frigorifero, Frederic disse: «Eri stata tu a guidare l'auto per ultima. Non Michael, come gli lasciasti credere. Eri stata tu». Lei non lo guardò. «Sì. Esatto. Ed ero stata io a dimenticarmi di chiuderla. Avevo parcheggiato ed ero corsa dentro casa e il mattino dopo il piccolo Tommi era potuto salire senza problemi.» «E tutto questo lo hai raccontato a Nathan Moor?» Lei scrollò il capo. «No. Non eravamo ancora arrivati a questo punto. Conosceva solo le vicende precedenti. La mia infanzia e la mia giovinezza con Michael. La storia con Andrew. La morte di Tommi. Non sa che...» «... che Michael era innocente», concluse Frederic. Lei assentì. «Mio Dio», disse Frederic, «neanch'io finora sapevo niente di questo Andrew.» Lei fece un gesto vago con la mano. «È passato tanto tempo. Era soltanto un'avventura, anche se mi ero illusa che si trattasse del mio grande amore. Un uomo sposato. Che non riusciva a decidersi a lasciare moglie e fi-
glio per me.» «Che banalità», commentò Frederic. Rimasero entrambi in silenzio. Alla fine fu Frederic a parlare. «Non si può dire che tu abbia mai preso molto sul serio la fedeltà», disse. Che cosa avrebbe potuto rispondere? «Ho tradito Michael con Andrew», disse, «ma non fu la cosa peggiore. Il peggio fu...» Lui si alzò, fece qualche passo, come per accertarsi di essere sveglio e di non trovarsi in un incubo assurdo. «Michael è stato distrutto dal trauma della propria colpa», disse, «e tu gli hai lasciato credere che fosse responsabile della morte di Tommi. Perché lo hai fatto, Virginia? Perché?» «Non lo so. Ha ancora importanza?» «Non è da te. Tu non sei... vigliacca.» «Forse sì.» Si fermò e la guardò. «Adesso capisco l'ombra che oscurava la tua vita.» «Lui ha trovato una foto», disse Virginia. «Nathan. Una foto di quando ero giovane. Disse che non riusciva a trovare un nesso. La giovane Virginia. E la donna che aveva davanti. Disse che doveva essere accaduto qualcosa. Non si dava pace. Nemmeno dopo aver saputo della morte di Tommi. Sapeva che c'era dell'altro. Ma... non ho più avuto modo di raccontarglielo.» «Mi rimproveri di non essere stato perspicace come lui? Di non averti fatto domande?» «No, non ti rimprovero proprio niente. Come potrei farlo, proprio io? Dopo tutto quello che ho combinato. Ho causato così tante sofferenze a così tante persone.» Chiuse brevemente gli occhi. «Avrei voluto confessarlo a Michael. Volevo dirglielo subito, il giorno dopo. Di aver avuto un'avventura con Andrew. Di essere andata a quello stupido, idiota appuntamento a Huntingdon. Di essermi dimenticata di chiudere la macchina, nella fretta di rincasare prima di lui. Volevo dirgli che Tommi era morto soltanto per colpa mia. Ma rimandai. Oggi credo di non averlo fatto non tanto perché non riuscivo a immaginare di raccontarlo a lui. Piuttosto, parlarne apertamente avrebbe significato riconoscere le mie responsabilità con me stessa. Sarebbe stato come renderlo reale. Avrebbe significato non poterlo più rimuovere. Ed era questo che mi spaventava più di tutto. Al punto tale che fui sollevata quando Michael se ne andò. Così non avrei più potuto dirglielo.»
La sua voce alla fine era diventata un sussurro, mentre parlava con la testa bassa. La rialzò, incredula, quando Frederic disse: «Prima ti ho chiesto il perché. Ma adesso credo che non esista una risposta. Ti capisco anche così». «Come?» «Ti capisco. Posso capire che tu non abbia detto niente a Michael. Posso capire il tuo tormento. Il tuo disperato tentativo di rimuovere l'accaduto. Posso capire. Forse anch'io mi sarei comportato allo stesso modo.» Profondamente convinta, Virginia rispose: «Tu no. Mai». Lui trattenne un sorriso di fronte a quella manifestazione di cieca fiducia nella sua integrità. «Anch'io tendo a nascondere la testa sotto la sabbia, Virginia. Lo sai.» Lei disse piano: «Forse lo facciamo tutti a volte». Con gesto quasi tenero - e negli ultimi giorni non c'era più stata tenerezza tra di loro - lui le accarezzò i capelli. «Se vuoi ritrovare la pace», disse, «devi rimettere tutto in ordine. Nasconderti dietro una cortina di alberi, per dimenticare, e ogni tanto gettarti tra le braccia del Nathan Moor di turno per sentirti viva alla lunga non funzionerebbero. Sia che tu resti con me, o che stia con un altro. Non funzionerebbero.» Lei assentì lentamente. Venerdì, 8 settembre 1 Il cimitero brulicava di gente. Rachel Cunningham doveva essere molto amata, pensò Janie. Si chiese se sarebbero venute così tante persone anche al suo di funerale. I suoi compagni di classe sicuramente. E i suoi insegnanti. Forse anche qualche vicino di casa. Ma non tutte quelle persone! Lei e sua madre erano in fondo, un po' in disparte, così che Janie non vedeva né i genitori né la sorella di Rachel e non poteva seguire ciò che avveniva davanti alla tomba. Janie era contenta così. Non voleva vedere la bara né assistere al momento in cui veniva calata sotto terra. La sera prima Stella era andata a trovarle a casa, le aveva mostrato la foto di un uomo e le aveva chiesto se fosse il signore gentile della cartoleria.
Janie aveva negato subito e aveva avuto l'impressione di aver dato un'altra delusione a Stella. Era questo il lato più spaventoso di tutta la storia: gli adulti si aspettavano sempre qualcosa da lei, e lei non riusciva mai ad accontentarli. Sentì la madre chiedere sottovoce: «È stato arrestato?» E Stella rispondere: «Probabilmente si tratta di tutta un'altra storia». Janie avrebbe voluto riconoscerlo. Così magari oggi non sarebbe dovuta andare lì al cimitero. In quel momento piuttosto che lì avrebbe preferito persino essere a scuola. Tutto era preferibile che vivere in quell'incubo ed esserne addirittura uno dei protagonisti. C'era anche Stella. Era vestita di nero come tutte le altre persone e si teneva a qualche passo di distanza da Doris e Janie. Aveva detto a Janie di guardarsi bene intorno, che magari riconosceva l'uomo della cartoleria e, in quel caso, di farglielo presente nel modo più discreto possibile. Janie guardava e guardava, ma senza esito. In realtà era molto contenta, perché non aveva la minima voglia di rivederlo. D'altra parte, sapeva che Stella sarebbe stata felice se lei lo avesse individuato in mezzo alla folla. Janie fece un profondo sospiro. Quando sarebbe finito tutto quanto? Stella le rivolse un cenno d'incoraggiamento. Se non altro una che non piangeva. Quasi tutte le persone lì intorno avevano le guance rigate di lacrime, stringevano in mano fazzoletti o si asciugavano ripetutamente gli occhi con le dita. Anche la mamma aveva singhiozzato forte un paio di volte. Eppure non conosceva affatto la bambina morta. La gente sfilò ordinatamente davanti alla tomba, gettando fiori o posandovi candele. Doris e Janie, però, rimasero dov'erano. «Non vorrei sovraccaricare Janie», spiegò Doris a Stella, che assentì. «Ok.» Lentamente si avviarono tutti verso l'uscita del cimitero. Molti indugiarono a gruppetti, parlando a voce bassa. Un'atmosfera pesante come il piombo schiacciava tutto e tutti. «Mamma, possiamo andare adesso, per favore?» sussurrò Janie. «Non lo hai visto da nessuna parte?» chiese Stella. «No. Ma forse...» Janie scrollò le spalle, scoraggiata. «Ci sono così tante persone.» «Probabilmente il tizio avrà pensato che oggi ci sarebbe stata anche la polizia», osservò Doris. Stella annuì. «Ma è malato», osservò, «e prima o poi dimenticherà la prudenza. Dopo tutto non immagina che abbiamo un contatto con Janie. E in fondo lei è l'unica a rappresentare un pericolo per lui.»
«Possiamo andare?» chiese Doris. «Credo di sì», rispose Stella. Lentamente si avviarono verso il cancello. Non era facile procedere in mezzo a tutta quella gente. Janie riconobbe uno degli uomini che aveva conosciuto al commissariato - come si chiamava? Baker. Era in compagnia di un altro uomo e due donne. L'uomo portava un abito scuro e sembrava un lord - Janie aveva visto le foto dei Lord nei periodici che Doris a volte leggeva - mentre una delle donne aveva una gran massa di capelli castani, portava una minigonna ed era molto magra. L'altra era pallidissima e sembrava in procinto di svenire da un momento all'altro. Janie lo sapeva, perché una volta la mamma era svenuta e poco prima che accadesse era diventata pallida come quella donna. Stella si avvicinò al gruppo e Baker le chiese: «Niente?» Stella scrollò il capo. «Nemmeno qui da noi», rispose Baker. «Purtroppo non so neppure chi devo cercare», si lamentò la donna magra in minigonna. Baker presentò gli adulti tra di loro. «Mrs. Alby.» Era la magra. «Mr. e Mrs. Quentin.» Il Lord e la signora pallida. «Mrs. Brown.» Era la mamma. E poi Baker indicò lei, Janie. «E questa è Janie Brown.» Mrs. Quentin si chinò verso di lei e le porse la mano. «Ciao, Janie!» «Ciao», rispose Janie. Non aveva mai conosciuto una persona con gli occhi tristi come lei. Aveva le palpebre gonfie. Doveva aver pianto molto quel giorno. «Già», sospirò il sovrintendente Baker. «A questo punto vi ringrazio di essere venuti. So che è stato molto difficile per tutti voi. Ma era un'occasione da sfruttare. Le probabilità erano minime, naturalmente.» «Era giusto provarci, sovrintendente», disse Mr. Quentin, che Janie in segreto aveva soprannominato il Lord. Le persone sfilavano davanti a loro oltrepassando l'ampio cancello che dava sulla strada. Janie cercò di guardarle una a una in faccia, cosa non semplice vista la quantità. Le sarebbe piaciuto tanto trovarlo, davvero. Perché Stella era molto simpatica ma anche perché lei aveva dato tante preoccupazioni alla mamma nelle ultime settimane. Per colpa sua non era andata al lavoro per due giorni di seguito, e sicuramente avrebbe avuto dei problemi. Sarebbe stata felice di poter rimediare in qualche modo. Colse un sorriso incoraggiante da parte di Stella. La poliziotta si era resa conto che Janie non aveva abbassato la guardia, ma continuava a sforzarsi.
Il suo sorriso fu una lode che rincuorò molto Janie. Anche le ultime persone uscirono dal cimitero. «Ecco», dichiarò Baker. «Ci siamo.» Anche loro si apprestarono a uscire. «Bella roba», borbottò la magra in minigonna e Janie si chiese che cosa volesse dire. Era riferito al fatto che non avevano visto lo sconosciuto? Oppure al fatto che potevano succedere certe cose -che i bambini fossero rapiti e uccisi e alla fine ci si ritrovava tutti al cimitero, dove la gente piangeva e c'era un'atmosfera così triste e angosciante? E perché devo esserne parte anch'io? si chiese Janie disperata. Perché la mia vita non poteva continuare normalmente come prima? Provava l'opprimente sensazione che la sua vita d'ora in avanti non sarebbe più stata normale. Non avrebbe saputo spiegare da dove provenisse tale presentimento, ma c'era e basta. E non era solo un presentimento. Era una certezza. Ed era legata alla bara di Rachel Cunningham. Si era resa conto di quanto fosse stata vicina anche lei a finire dentro una bara simile. Finora, tutte le volte che aveva fatto domande sulla morte, la madre le aveva sempre risposto: «Non ci pensare, manca tanto tempo ancora! Ci penserai quando sarai vecchia». Era stata una risposta confortante. Una cosa tanto remota non dava angoscia, non era pericolosa. Ma d'ora in avanti non avrebbe più pensato che la morte fosse ancora distante. Adesso le era stata molto vicina. Gli altri bambini potevano continuare a fare come se la morte non esistesse. Lei no. Forse non sono più del tutto una bambina, pensò, e questo pensiero le provocò un brivido lungo la schiena. Erano fuori nel parcheggio. La gente saliva lentamente sulle auto che si mettevano in moto in un lento carosello diretto verso la strada. Per un attimo si formò un pauroso ingorgo, ma, diversamente che in altre occasioni simili, nessuno manifestò chiassosamente la propria impazienza. Non ci furono colpi di clacson né accelerate rabbiose. Tutto rimase stranamente silenzioso. Perché sono tutti tristi, pensò Janie e la sensazione di lutto l'avvolse tetra e pesante. «A questo punto vi saluto», disse Baker. Dapprima diede la mano a Mrs. Quentin, la signora con gli occhi gonfi di pianto, aggiungendo: «Mi farò vivo con voi più tardi». Mrs. Quentin annuì. La sua disperazione era straziante.
«Arrivederci», disse Doris con quella nota nervosa nella voce che faceva capire sempre a Janie quando la madre aveva urgente bisogno di una sigaretta. Ne avrebbe tirata fuori una dalla tasca non appena si fossero allontanate di pochi passi dal cimitero. Adesso andiamo, implorò in silenzio, distogliendo rapidamente lo sguardo dagli occhi mortalmente tristi di Mrs. Quentin. E allora lo vide. Non ci aveva più contato, e rimase così allibita che inizialmente non fu in grado di dire, né di fare niente. Rimase a fissarlo, ammutolita, con la sensazione che il suo cervello non fosse in grado di rielaborare ciò che gli occhi vedevano. Era un'illusione, non poteva essere vero. «Arrivederci, Janie», disse Baker. Lei non rispose. «Avanti, da brava, da' la mano al sovrintendente», la spronò Doris impaziente. Poi parve rendersi conto di qualcosa, perché domandò: «Che cosa c'è? Hai perso la lingua?» «È lì», bisbigliò Janie. Era come se parlasse con la bocca piena di ovatta. Aveva la gola completamente secca. Non riuscì a parlare più forte. A parte la madre, probabilmente non l'aveva capita nessun altro. «Cosa?» domandò Doris. «È lì», ripeté Janie. «È quell'uomo.» «Iddio santissimo!» disse Doris. «Dove?» «Che cosa hai detto?» chiese Stella. «Ha visto lo sconosciuto», spiegò Doris e di colpo fu come se una scossa percorresse tutto il gruppo. Janie notò il viso del sovrintendente Baker di colpo vicinissimo al proprio. «L'uomo che ti ha avvicinato? È qui? Dove?» «Là.» Janie indicò nella direzione in cui lo vedeva. La zona brulicava di persone. «Quale?» chiese Stella. Aveva un'espressione stravolta. Janie si domandò all'improvviso se avesse con sé una pistola, e se l'avrebbe tirata fuori per sparare all'uomo lì davanti a tutti. «Là», ripeté, «laggiù. Accanto alla grossa macchina nera.» Alla fine tutti gli adulti guardarono nella direzione giusta. «Jack?» sussurrò Mrs. Quentin sbigottita. «Non vorrai dire Jack? Jack Walker?» In quello stesso momento, la magra con la minigonna disse: «Quello è l'uomo che mi ha aiutato a raccogliere la borsa! A Hunstanton. Quel gior-
no». Il sovrintendente Baker e Stella scattarono insieme, mentre, spuntati dal nulla, altri poliziotti in uniforme si mescolavano tra la folla. Dove erano stati nascosti? Janie lanciò un grido, si girò, nascose il viso nel grembo della madre, affondando nel sottile tessuto nero della maglia di Doris. Era terrorizzata all'idea di dover assistere all'uccisione di quell'uomo. Sarebbe stato ucciso perché lei lo aveva indicato. «Che cosa c'è? Che cosa c'è?» sentì chiedere molto da lontano dalla voce di Doris. «Non sparate», riuscì a dire. «Non sparano», rispose Doris, accarezzando i capelli della figlia. «Non sparano, stai tranquilla. Lo arrestano, lo arrestano soltanto.» 2 Era uno di quei frangenti nei quali il sovrintendente Baker avrebbe preferito che certe pratiche del passato, quando veniva usata la tortura per estorcere le confessioni, fossero ancora legali. Ovviamente non l'avrebbe mai detto a voce alta. Non osava neppure pensarlo veramente. Si trattava piuttosto di un impulso vago che si agitava dentro di lui e che lui soffocava tenacemente, impedendogli di risalire in superficie. Lui e Stella erano impegnati da più di tre ore nell'interrogatorio di Jack Walker. Un simpatico vecchietto. In apparenza fidato, disponibile e gentile. Un uomo, pensò Baker, al quale affiderei i miei figli senza nessuna remora. Janie era stata assolutamente certa. Era Jack Walker l'uomo che le aveva rivolto la parola nella cartoleria e che voleva portarla a casa sua. Anche Liz Alby lo aveva riconosciuto senza dubbio alcuno come l'uomo che, quel fatidico giorno a Hunstanton, era stato proprio alle spalle sue e di Sarah. Nel giro di un'ora Baker aveva ottenuto un mandato di perquisizione e aveva ordinato ai suoi uomini di controllare la casa del sospettato. Non avevano trovato niente di incriminante, ma avevano sequestrato il computer di Walker. In quel momento gli specialisti lo stavano esaminando. Baker era quasi sicuro che avrebbero trovato materiale pedopornografico. Jack Walker, che aveva accompagnato i Quentin al cimitero e poi era
tornato in seguito per riportarli a casa, perché Frederic Quentin aveva temuto di non trovare parcheggio, negava ogni accusa. Non conosceva nessuna Janie Brown. Non aveva abbordato nessuna bambina in una cartoleria, offrendole la prospettiva di una festa di compleanno. Non era mai entrato nel negozio indicato. Baker si era chinato in avanti con aria minacciosa. «No? Allora non teme un confronto con il proprietario del negozio, vero? Di sicuro affermerà di non averla mai vista!» Per la prima volta Walker aveva mostrato qualche tentennamento. Certo, non poteva giurare di non essere mai entrato in quel negozio. Ovviamente anche lui comperava riviste e giornali qua e là. Forse anche in quella cartoleria. Non sapeva che fosse vietato. «Dove si trovava lunedì 7 agosto?» domandò Baker. Walker ci pensò su, poi alzò entrambe le braccia in un gesto rassegnato. «Non lo ricordo più. Il 7 agosto? Mio Dio, e lei saprebbe dirmi che cosa ha fatto il 7 agosto?» «Non stiamo parlando di noi!» precisò Stella con voce tagliente. «Voglio aiutare la sua memoria», disse Baker. «Il 7 agosto era una calda giornata di sole, e penso che lei avesse deciso di trascorrerla al mare. Si è recato a Hunstanton in macchina, oppure con l'autobus. Non voglio dire che premeditasse di compiere qualcosa di criminale. Probabilmente voleva davvero soltanto fare il bagno oppure prendere il sole.» «No. Sono anni che non vado più a Hunstanton!» «Alla fermata dell'autobus di quella località ha assistito a un violento bisticcio tra una giovane donna e la figlia di quattro anni, che voleva a tutti i costi fare un giro sulla giostra. La bambina ha implorato, gridato, urlato, ricevendo un rifiuto da parte della madre. Si è ribellata, rifiutandosi di seguirla, con tale foga che la giovane ha fatto cadere per terra la borsa. Lei l'ha aiutata a raccoglierla. La giovane donna oggi l'ha riconosciuto senza esitazioni.» «E crede di ricordare la mia faccia da un incontro casuale di pochi istanti a distanza di quattro settimane? Sono queste le prove sulle quali si basano le sue accuse, sovrintendente? Sulle dichiarazioni di una ragazzina, di sicuro messa sotto pressione da voialtri, perché riconoscesse un misterioso sconosciuto, e sui ricordi discutibili di un'asociale, che vuole rendersi importante? Per questo mi avete fermato e mi state interrogando da ore?» «Sa una cosa», disse Stella, «abbiamo un suo campione di saliva e nel giro di poche ore potremmo incastrarla con la prova del DNA. Abbiamo
trovato tracce organiche sufficienti sia su Sarah Alby, che su Rachel Cunningham. Non uscirà più fuori da questa storia, Mr. Walker. Una confessione a questo punto potrebbe migliorare la sua posizione e sarebbe tenuta in considerazione in sede di giudizio. Vuole chiamare un avvocato? Di sicuro le direbbe la stessa cosa.» «Non ho bisogno di nessun avvocato», disse Jack Walker testardo, «perché non ho fatto proprio niente.» «Perché ha scelto Rachel Cunningham?» domandò Baker. «Per caso? Oppure era il suo tipo?» «Non conosco nessuna Rachel Cunningham.» «Che cosa ha promesso a Sarah Alby, per indurla a seguirla? Un giro sulla giostra?» «Sarah...? Non conosco nessuna Sarah.» «Dov'è Kim Quentin? Che cosa ha fatto a Kim Quentin?» Per la prima volta una luce vibrò negli occhi di Jack Walker. «Kim? Non potrei mai fare niente a Kim. Mai!» «Alle altre bambine, invece? Sarah Alby e Rachel Cunningham?» «Non le conosco.» «Dov'era domenica, 27 agosto?» «Non lo so.» «Non va forse a giocare a carte al bar tutte le domeniche mattina?» Un altro tremolio negli occhi di Walker. «Sì.» «Allora dev'esserci stato anche il 27 agosto.» «È probabile. Non ricordo esattamente. Non ci vado proprio tutte le domeniche.» «No? Ma se ha appena detto che lo fa tutte le domeniche!» «È stato lei a dirlo.» «Ma lei lo ha confermato.» «Non so dove vuole arrivare», disse Walker. Aveva la fronte leggermente imperlata di sudore. Per andare a prendere i Quentin al cimitero si era vestito molto accuratamente, con giacca e cravatta. Per una giornata di fine estate era fin troppo coperto. Baker intuì che si sarebbe allentato volentieri la cravatta, ma che non osava farlo e lui non si sognava neppure di proporglielo. «Dove voglio arrivare, Mr. Walker? Voglio arrivare a farle confessare che domenica 27 agosto lei ha attirato la piccola Rachel Cunningham nella zona isolata di Chapman's Close, dove l'ha fatta salire in macchina, per poi trascinarla chissà dove, abusare di lei e infine ucciderla. Successivamente
si è sbarazzato del cadavere a Sandringham.» Baker aveva visto chiaramente Walker trasalire sentendo nominare Chapman's Close. Probabilmente non immaginava che la polizia conoscesse il luogo del suo appuntamento. «Ha parlato con Rachel Cunningham la prima volta domenica 6 agosto. Davanti alla chiesa di Gaywood. Sono convinto che, se diffondessimo la sua foto, troveremmo dei testimoni che ricordano di averla vista aggirarsi da quelle parti.» Walker tacque. Adesso sudava più intensamente. Baker, che fino a quel momento era rimasto in piedi, prese una sedia e si mise seduto di fronte a Jack Walker. Si protese in avanti sul tavolo e guardò il vecchio negli occhi. La sua voce, prima tagliente, assunse un tono più morbido. «Mr. Walker, ci manca una bambina. Una bambina di sette anni. Kim Quentin. Finora non abbiamo trovato nessun cadavere, sebbene squadre di poliziotti e cani addestrati stiano battendo ogni angolo del territorio intorno a King's Lynn. Questo forse significa che Kim Quentin è ancora viva. E forse lei sa dove si trova. Se non parla, la bambina morirà. Di fame. Di sete. Sa una cosa, Walker», abbassò la voce a un sussurro, «la incastreremo. È già con due piedi nella fossa e lo sa perfettamente. Potrà pensare che nella sua posizione non fa differenza se un'altra bambina ci rimette la vita, ma si sbaglia. Se si scoprisse che Kim Quentin poteva essere salvata e che è morta dopo una lenta agonia perché lei non ha voluto parlare, le conseguenze non si ripercuoterebbero soltanto sulla sua condanna, ma anche sul successivo trattamento che le verrà riservato in carcere. Non parlo del personale carcerario. Parlo degli altri detenuti.» Fece una pausa. Walker si girò la cravatta. Aveva il viso lucido di sudore. «Esistono precise gerarchie in prigione», proseguì Baker, «che vengono rispettate con la massima severità. I crimini contro i bambini sono agli ultimi posti. Quelli che si sono macchiati di simili delitti sono odiati in una maniera che lei non può neppure immaginare. Le faranno sentire questo odio, Walker. E le assicuro che giocherà un ruolo importante se avrà salvato la vita di una bambina all'ultimo momento. Le giuro che se ne pentirà giorno e notte, se non lo farà. Giorno e notte. Anno dopo anno. Quello che l'aspetta, Walker, è l'inferno. In un modo o nell'altro. Ma anche all'inferno ci sono diversi livelli. Al suo posto farei in modo di restare il più in alto possibile.» Tornò ad appoggiarsi alla spalliera. «È solo un consiglio da parte mia, Walker.»
Walker parlò con voce rotta. «Io... non ho fatto niente.» «Dov'è Kim Quentin?» gli chiese Stella. «Mercoledì 6 settembre», disse Baker, «ovvero ieri l'altro, era in viaggio di ritorno da Plymouth, dove aveva fatto una consegna.» «Ci sono un sacco di persone che possono testimoniarlo», disse Walker agitato. «Posso farle diversi nomi soltanto a Plymouth...» Baker alzò una mano. «Ce lo risparmi. Il suo viaggio a Plymouth è già stato verificato dai nostri colleghi. Non c'è dubbio. C'è andato. Ma sappiamo anche che è ripartito mercoledì presto. È arrivato stranamente tardi a casa.» «Avrei dovuto correre come un pazzo? Ho trovato diversi ingorghi e...» «Mercoledì non c'era nessun ingorgo serio sulla strada che ha percorso lei. Nessun incidente, niente. Ma lei è stato in viaggio per una mezza eternità.» «Sono finito nel traffico dell'ora di punta. Santo cielo, lo sa anche lei com'è! Si procede a passo d'uomo, un serpentone infinito di auto...» Walker alzò le braccia in un gesto di resa. «Volete condannarmi perché ho impiegato troppo tempo a tornare da Plymouth a King's Lynn? Perché ho fatto qualche pausa e ho dormito un paio d'ore? Ero stanco morto. Ho cercato di comportarmi in modo responsabile. Non volevo rischiare un colpo di sonno al volante. Ma evidentemente ho sbagliato. Volevo fare tutto per bene e invece sono risultato sospetto.» La sua voce aveva preso un tono offeso. «Le dico io che cosa penso», ribatté Baker, senza nascondere il proprio disprezzo per l'autocommiserazione dell'interlocutore. «Penso che quando ha ricevuto la telefonata di sua moglie, che le chiedeva se poteva passare a prendere Kim a scuola, fosse molto più vicino a King's Lynn di quanto volesse far credere. Probabilmente era già ai margini della città. Invece ha risposto che non ce l'avrebbe fatta ad arrivare in tempo. Ma poi ci ha ripensato. Probabilmente aveva già in mente il piano mentre mentiva a sua moglie. E si è recato direttamente alla scuola di Kim.» «No», rispose Walker, afferrandosi di nuovo la cravatta. «Ha fatto molto prima di quanto impiegasse sua moglie da Ferndale, considerato poi il suo stato febbricitante. Kim era ad aspettare fuori dal cancello. Ci sono molti testimoni che possono confermarlo. Ha avuto gioco facile. Kim la conosce e si fida di lei. Non si è sorpresa affatto quando l'ha vista arrivare. E senza la minima esitazione è salita con lei.» «È assurdo», ringhiò Walker. Era paonazzo in viso. Alla fine si allentò
la cravatta. Baker abbassò la voce a un bisbiglio. Con la coda dell'occhio si accorse che anche Stella doveva fare uno sforzo per capirlo. «E poi che cosa è accaduto, Mr. Walker? Era seduto al volante con accanto a lei questa ragazzina. Essendo su un camion, non poteva farla sedere di dietro. La distanza l'avrebbe aiutata, forse? Invece le stava vicino. Era fradicia di pioggia. Questo rendeva più intenso il profumo della sua pelle? Dei capelli? Lei chiacchierava. Rideva. Che cosa le è successo, Jack? Ha provato questo impulso irrefrenabile, vero? Questa attrazione verso la bambina. Verso quel corpo tenero, quei capelli morbidi. Quell'innocenza che è già innegabilmente femminile. Eravate seduti sul suo camion e all'improvviso...» «No!» gridò Jack con forza. Si sfilò la cravatta con un gesto repentino. «No!» ripeté. «No! Kim no! Kim non l'ho toccata! Lo giuro su Dio! Non ho toccato Kim! No!» E poi si piegò in avanti sul tavolo, nascose il viso tra le mani e scoppiò a singhiozzare. Jack Walker piangeva come un bambino. 3 Diverse auto della polizia sfrecciavano lungo la soleggiata strada di campagna. In quella davanti c'erano il sovrintendente Baker e Stella al volante. «Guido più veloce», aveva detto a Baker, prendendogli di mano le chiavi. «Ho meno scrupoli.» In effetti gli altri faticavano a tenerle dietro. Portava un paio di occhiali scuri. Anche di profilo, le labbra serrate con forza tradivano la sua ferrea determinazione. Dopo che Jack Walker era crollato, non avevano avuto nessun problema a indurlo a confessare l'omicidio di Sarah Alby e Rachel Cunningham. L'uomo aveva ammesso prontamente anche di aver interpellato Janie Brown nella cartoleria - con l'intenzione di attirarla sulla sua auto e di usarle violenza. Ma, per quanto riguardava Kim, era rimasto sul vago. Non riusciva a parlare di lei senza essere scosso da singhiozzi disperati, e parte delle sue dichiarazioni erano incomprensibili. «Io le volevo bene! Le volevo bene! Non le avrei mai torto neppure un capello! Mai! Mai!» «È stato lei a prenderla da scuola l'altroieri?»
«Sì.» «E l'ha portata con sé.» «Sì.» «Dove, Walker? Dove l'ha portata?» «Non le ho fatto niente!» «Dov'è?» «È la mia bambolina. La mia principessa. Non potrei mai farle del male!» «Dove l'ha portata, maledizione? Dove si trova?» «Non posso farci niente. Mi prende di colpo. Io non vorrei. La prego, mi creda. Io non vorrei fare niente alle bambine. Vorrei... vorrei...» «Che cosa?» «Vorrei non essere mai nato», aveva esclamato Jack Walker scoppiando a piangere un'altra volta. I singhiozzi erano così violenti che per diversi minuti non era riuscito a dire più niente. Per Jack Walker era stata una vera liberazione potersi confidare finalmente con qualcuno riguardo sia alle proprie inclinazioni sia agli omicidi delle due bambine. Avrebbe voluto scaricare il peso della propria colpa fino nei minimi dettagli, se non altro per non doverlo reggere tutto da solo. Baker avrebbe ottenuto una confessione da sogno, che forniva tutte le risposte a ciò che voleva sapere. Jack Walker avrebbe parlato per ore, della sua infanzia e giovinezza in una famiglia piccolo-borghese apparentemente normale ma al suo interno profondamente malata. Avrebbe raccontato com'erano cresciute dentro di lui quelle spaventose inclinazioni sessuali e come avesse cercato di soffocarle, arrivando a commettere quegli atroci delitti quando non era stato più in grado di controllarsi. «Non volevo uccidere quelle bambine! Mi deve credere! Non volevo, non volevo! Ma avevo fatto... delle cose con loro, e avevo paura... mio Dio, mi avrebbero denunciato e sarei finito in prigione... avevo una tale paura...» Sarebbe stato come aprire una diga e Baker avrebbe dovuto lasciare che si svuotasse completamente. Ma, finché esisteva anche la minima possibilità che Kim Quentin fosse viva, non poteva fermarsi. Doveva scoprire dove l'aveva portata Walker. Doveva scoprirlo prima di ascoltare il racconto della vita di Walker e la descrizione delle sue orribili azioni, prima di provare la nausea per le giustificazioni balbettate e le piagnucolose richieste di comprensione, prima di capire, seppure suo malgrado, il tormento e l'agonia di quest'uomo. Pri-
ma doveva cercare di salvare la vita di Kim Quentin - ammesso che fosse ancora possibile. Aveva subito interrotto Walker con voce decisa. «Tutto questo adesso non mi interessa, Walker. Si scaricherà la coscienza più tardi. Adesso voglio solo sapere dove ha portato Kim Quentin. Dove, per la miseria!» Aveva alzato la voce con lui e Jack Walker si era messo a tremare. «Io l'ho... io l'ho trattenuta. L'ho presa. È così dolce. Così tenera...» Baker era un poliziotto con una lunga esperienza, ma certi discorsi gli facevano sempre venire la nausea. Fece uno sforzo per non rischiare di indurre Walker a tacere manifestando troppo apertamente il proprio disgusto. «Ho capito, Walker. E poi si è impaurito? Ha avuto paura che Kim raccontasse ai suoi genitori che lei l'aveva toccata?» Walker aveva ricominciato a piangere. «Il vecchio... deposito... dell'azienda... la Trickle&Son. Io lavoro ancora saltuariamente per loro...» «Sì? Hanno un vecchio deposito? Intende un deposito abbandonato?» «Sì. Verso Sandringham. Trickle si è trasferito da una decina di anni. Prima era un enorme spedizioniere. Ero assunto da loro. Prima. Adesso non c'è più nessuno...» Baker si era sporto in avanti, teso come un elastico. «È lì che ha portato Kim?» «Sì...» «Ed è ancora lì?» Walker aveva alzato le spalle ed era scoppiato in un altro pianto dirotto. Baker era balzato in piedi. «Ok. Il vecchio deposito della ditta di spedizioni Trickle&Son.» Erano quindi partiti alla volta di Sandringham, dopo che un agente si era informato sull'ubicazione esatta del complesso abbandonato. Era un luogo in capo al mondo, come aveva immaginato Baker. Il luogo ideale per uno come Walker. Il luogo perfetto dove nascondersi dal resto del mondo. Lì aveva portato Kim. E poi? Dapprima aveva giurato di non averla toccata, ma poi aveva ammesso di aver «giocato» con lei. Forse non sapeva con precisione neppure lui stesso fin dove fosse arrivato. Baker sapeva che gli individui come Walker si pentono sinceramente dei propri gesti e che spesso riescono a superare i sensi di colpa con la rimozione totale. Diversamente dalle altre due bambine, Kim Quentin aveva avuto un ruolo particolare nella vita di Jack Walker. Se le avesse fatto qualcosa, era probabile che non possedesse la forza di affrontare la cosa neppure con se stesso.
Restava pertanto l'angosciosa domanda: sempre ammesso che Kim fosse lì, l'avrebbero trovata viva o morta? «Non mi sembra proprio che sia un tipo attraente», dichiarò Stella. Baker, strappato dai propri pensieri, la guardò sorpreso. «Chi? Di chi parli?» «Walker. Jack Walker. Un anonimo nonnetto, così lo descriverei io. Rachel Cunningham, invece, ha raccontato all'amichetta che somigliava a un divo del cinema.» Baker sospirò. «Probabilmente voleva darsi un po' di arie. Ma le descrizioni personali sono sempre una cosa particolare, vero? Quasi nessuno riesce a essere obiettivo.» Rachel Cunningham. Gli tornò in mente ciò che aveva detto di lei Walker durante la confessione. Rachel Cunningham avrebbe potuto scampare alla morte. Quando l'aveva fermata la prima volta, voleva darle appuntamento per la domenica successiva, ma Rachel aveva dovuto spostare l'incontro di tre settimane, perché doveva andare in vacanza con la famiglia. Walker, continuamente in lotta con i propri spaventosi impulsi, aveva accettato, nella speranza che quell'intervallo di tempo gli avrebbe permesso di perdere interesse per lei. Quando era giunta la fatidica domenica, tuttavia, l'eccitazione sessuale lo aveva tenuto sveglio tutta la notte. Spinto dall'impulso ormai incontrollabile, si era recato quasi suo malgrado a Chapman's Close, sperando in segreto che la bambina nel frattempo si fosse stancata dell'attesa. Ma Rachel era stata lì ad aspettarlo, fremente ed entusiasta. Il vecchio deposito della società Trickle era in stato di completo abbandono ormai da anni e, nonostante la giornata di sole, offriva uno spettacolo quanto mai deprimente. Baker ci era stato una volta diverso tempo prima, ma non ricordava quanto fosse estesa la superficie occupata da rimesse, magazzini e uffici. Il cortile era coperto da erbacce. I vetri alle finestre erano tutti rotti e i muri sporchi sembravano costellati di buchi morti e scuri. Dovunque tetti semicrollati, porte di ferro aperte e sghembe sui cardini. Di fronte a uno dei grandi magazzini c'era un camion arrugginito e senza ruote. Un ciuffo di denti di leone cresceva dal parabrezza sfondato. Stella aprì la portiera dell'auto. «Ci vorrà del tempo», disse, «se ci sono pure gli scantinati...» «Non dobbiamo perdere neppure un minuto», la incalzò Baker, scendendo. Gli agenti si suddivisero immediatamente per tutto il complesso. Com'e-
ra visibile a occhio nudo, diversi edifici erano pericolanti e occorreva la massima prudenza. Si scoprì che la palazzina degli uffici effettivamente aveva anche uno scantinato. «Se è ancora viva», disse Stella, «cercherà di farsi sentire in qualche modo.» «Sempre che non sia paralizzata dalla paura», obiettò Baker. «Potrebbe anche essere senza forze. Non dobbiamo tralasciare neppure un angolo.» Durante i primi tre quarti d'ora non trovarono quasi niente. Neppure un minimo indizio che tradisse la presenza di una bambina. In un magazzino rinvennero una gran quantità di bottiglie di birra vuote e di mozziconi di candela appiccicati alle assi del pavimento. Baker scrollò la testa. «Probabilmente non c'entra niente con Walker. Non riesco proprio a vedermelo qui che accende candele e beve birra. È molto più probabile che si tratti dei resti di una festa organizzata da un gruppo di ragazzi.» «Ma qui», esclamò un agente che stava controllando il locale adiacente, «qui c'è qualcosa che potrebbe avere a che fare con Walker!» Nella stanza accanto c'era una specie di armadio a muro con una porta camuffata nella tappezzeria. Baker diede un'occhiata all'interno. Sul pavimento c'erano mucchi di foto di bambini in pose indubbiamente pornografiche. Sulla parete un poster che raffigurava un uomo adulto che compiva un atto sessuale con una ragazzina di dieci anni al massimo. La ragazzina aveva gli occhi sbarrati e pieni di raccapriccio. «Dopo tutti questi anni in polizia», disse Stella che stava proprio alle spalle di Baker, «avrei sempre voglia di gridare quando vedo certe cose.» «Non sei la sola», disse Baker, voltandosi. «Che canaglia», esclamò con foga, «non aveva il coraggio di tenere questo materiale a casa sua!» «Credi che sua moglie fosse davvero all'oscuro di tutto?» domandò Stella. «Di sicuro non voleva sapere niente», osservò Baker. Poi si rivolse agli agenti presenti: «Continuate a cercare! Lui è stato qui. E questo significa che non ci ha mentito indicandoci questo luogo. Kim potrebbe trovarsi davvero qui». Un'ora e mezzo più tardi erano tutti sfiniti e scoraggiati. «A misura d'uomo», dichiarò uno degli agenti, «non c'è più neppure un angolo che non abbiamo controllato. Ma non c'è traccia della bambina da nessuna parte.»
«Ci ha apparecchiato proprio una bella storiella», disse Stella. «È probabile che sia stato qui con Kim. Ma poi... in fondo le altre bambine sono state ritrovate altrove...» Baker si strofinò il viso con le mani. Gli occhi gli bruciavano per la tensione. «Vuoi dire che Kim è morta? I corpi delle altre bambine sono stati ritrovati nei dintorni di King's Lynn, in luoghi dove prima o poi qualcuno poteva notarli. Perché invece non abbiamo trovato Kim? Eppure centinaia di agenti hanno passato al setaccio la zona negli ultimi due giorni!» «Forse perché l'ha deposta da tutt'altra parte», obiettò Stella, «proprio perché la zona tutt'intorno alla città brulica di poliziotti. Non è così facile tirare fuori una bambina morta dal bagagliaio e deporla sul ciglio della strada. Forse è andato verso Cromer. Oppure a sud, nella zona intorno a Cambridge. In realtà potrebbe essere dovunque.» Baker tacque. Non avrebbe saputo dire che cosa lo spingesse a indugiare ancora in quel luogo desolato e deserto. Avevano cercato ovunque. Non avevano trovato neppure una traccia di Kim. Probabilmente Stella aveva ragione. Walker era stato lì con Kim, ma in seguito doveva averla portata altrove. E questo rendeva più che plausibile l'ipotesi che la bambina non fosse più viva. Eppure c'era quella voce. Aveva a che fare con l'istinto che Baker aveva sviluppato dopo anni di mestiere come investigatore. Quella voce non lo lasciava in pace. Lo incalzava a non mollare ancora. «Proviamo di nuovo», disse. «Perlustriamo tutto daccapo un'altra volta.» Tutti lo fissarono stravolti. «Ma...» cominciò uno degli agenti, tuttavia Baker lo mise a tacere con un'occhiata. Stella fu più difficile da intimidire. «Jeffrey, non serve a niente! Praticamente non esiste più nemmeno un centimetro quadrato qui dentro che non sia stato ispezionato. Siamo tutti quanti esausti. È solo una perdita di tempo. Tempo che ci serve per cercare Kim da qualche altra parte.» «Se Kim non è qui, allora vuol dire che è morta», obiettò Baker. «Se l'ha lasciata viva e nascosta da qualche parte, allora è per forza qui. In questo luogo. Non aveva a disposizione nessun altro nascondiglio che conoscesse così bene.» «Ok», rispose Stella senza la minima convinzione. «Ok. Allora, forza, rimettiamoci al lavoro.» Gli agenti uscirono e, seppur convinti di non trovare niente, cercarono con l'attenzione e la meticolosità di prima. Stella rimase accanto a Baker.
«I sotterranei», disse Baker, «secondo me è la nostra unica possibilità di trovare qualcosa. Una cavità, una stanza segreta, qualcosa che abbiamo trascurato. Sono bui e ramificati. Non credo che ci sia sfuggito qualcosa di sopra.» «Bene», concordò Stella, «allora torniamo di sotto.» Ispezionarono lo scantinato del primo edificio. L'umidità era penetrata dal terreno nel corso degli anni, trasformando corridoi e ambienti in segrete fredde e viscide. Lungo le pareti c'era ancora qualche scaffale di legno marcito. Difficile immaginare che lì sotto fossero stati conservati documenti e archivi. Altrettanto difficile era immaginare che tutti i giorni quei locali si erano riempiti di impiegati al lavoro. Che tutto fosse stato in ordine e pulito e che da qui una grande società organizzasse spedizioni in tutta Europa. Finita l'ispezione del primo edificio, e tornati di sopra, Stella sospirò forte, scivolò contro il muro esterno e si lasciò cadere sfinita tra margherite e denti di leone. «Solo cinque minuti», implorò, passandosi una mano sul viso. «Dammi solo cinque minuti, Jeffrey. Ho bisogno di una sigaretta.» Lui le rivolse un sorriso storto. L'inguaribile dipendenza di Stella dalla nicotina era spesso oggetto di battute di spirito tra i colleghi. «Rovinati i polmoni da sola», le disse, «io intanto vado a guardare nell'altro edificio.» «Arrivo subito anch'io», promise Stella, accendendosi una sigaretta e inalando di gusto una lunga boccata. Baker si avviò da solo verso lo scantinato successivo. Era identico al primo, soltanto più esteso e ramificato. La corrente elettrica era staccata, ma Baker aveva con sé una potente torcia con la quale avanzava tra i meandri sotterranei. I corridoi erano molti e intricati, spesso con scale che scendevano o salivano. Bisognava fare molta attenzione a non scivolare a causa dell'umidità. Baker entrò in tutte le stanze, illuminò le pareti millimetro per millimetro. Sperava di trovare una porta o una pietra smossa, che potesse rivelare l'accesso a un locale segreto. Qualcosa che gli fosse sfuggito durante la prima perquisizione. Ma non c'era niente. I muri erano solidi. Nessun passaggio, nessuna porta segreta, niente. Mi sono sbagliato, pensò. Sfinito, scese barcollando l'ennesima scala. La stanchezza e la rassegnazione si andavano impossessando di lui come un veleno a effetto rapido. Kim Quentin non poteva più essere salvata. Anco-
ra una volta si sarebbe presentato a mani vuote davanti a due genitori. Forse aveva ragione Stella, e lui stava solo sprecando tempo prezioso. Forse avrebbe dovuto ascoltare il racconto irrefrenabile di Walker. Walker gli avrebbe raccontato tutto su Sarah e Rachel, e forse alla fine sarebbe arrivato per forza a Kim e, invece delle vaghe allusioni di prima, gli avrebbe detto chiaro e tondo che cosa le aveva fatto. E dove potevano trovarla. Era molto probabile che avesse commesso un grave errore. La sua decisione era stata motivata dalla sensazione che il tempo stringesse. Che Kim fosse ancora viva, ma che dovesse essere ritrovata in fretta. Che non c'era tempo di ascoltare le interminabili, farneticanti dichiarazioni di Walker. Nella speranza che prima o poi dicesse ciò che tutti aspettavano con ansia di sentire. Sensazioni. Istinto. Se n'era lasciato guidare spesso. E spesso aveva vinto. Alcune volte, tuttavia, aveva anche perso. Dio, se stavolta fosse stata una di quelle! E se alla fine venisse fuori che una bambina ci ha rimesso la vita a causa di un mio sbaglio? Si fermò ansimando. Avrebbe tanto voluto girare sui tacchi, risalire in macchina, tornare a King's Lynn, prendere Jack Walker e tirargli fuori con la forza le informazioni su Kim Quentin. Ma sarebbe stata una reazione di panico. E il panico non era mai un buon consigliere nella sua professione, questo era ormai assodato. Con la massima calma, si disse, porterai a termine ciò che hai iniziato. Ispezioni questo scantinato e poi il successivo. E solo dopo interrompi l'azione qui. Proprio in quel momento lo percepì. Era un rumore così debole che lo avrebbe confuso con i suoi stessi passi, se in quel momento lui non fosse stato immobile. Probabilmente sarebbero bastate la presenza di Stella e il suo respiro a coprirlo. Era riuscito a sentirlo soltanto perché era da solo, perché si era fermato, soltanto perché per qualche secondo intorno a lui aveva regnato la quiete più assoluta. Sembrava un flebile grattare. Quasi l'eco di un grattare. Così lieve che un attimo dopo già credeva di essersi sbagliato. Ma poi lo udì nuovamente. Veniva dalla parte in cui il corridoio si perdeva nell'oscurità davanti a lui. Con passo rapido, libero di colpo da ogni stanchezza, si rimise in marcia. Disse a se stesso che non era ancora il momento di cantare vittoria. Forse erano solo dei topi, forse era soltanto l'eco delle loro unghie sul pavimento.
Si fermava a intervalli regolari, tratteneva il fiato, cercava di localizzare il rumore. Temeva che tacesse, prima di essere riuscito a individuarne la fonte. Invece continuava. Lieve, sfinito. Raggiunse la fine del corridoio. A destra e a sinistra si trovavano due stanze. Le porte da tempo scardinate erano posate per terra. Si mise di nuovo in ascolto. Il rumore proveniva dal locale alla sua destra. Entrò. Lo aveva già esaminato con Stella nel corso del primo sopralluogo. Il loro sguardo era stato attirato da un mucchio di ripiani in legno rotti e accatastati disordinatamente. Avevano illuminato tra le fessure, ma non avevano trovato niente di rilevante. Ora però era quasi sicuro che il grattare provenisse proprio da lì. Si avvicinò di nuovo alla catasta di assi. Erano così tante e così incastrate che era difficile guardarci attraverso. Posò a terra la torcia in modo da dirigere il fascio di luce sul mucchio di ripiani, e cominciò a spostarli uno dopo l'altro. Non sapendo che cosa ci fosse dietro, procedeva con la massima prudenza. Non voleva che la costruzione pericolante crollasse su se stessa. Tossì. Il rumore era scomparso. Poi udì dei passi alle proprie spalle, il fascio di una seconda torcia illuminò il locale. «Eccoti qui», disse Stella. «Che cosa stai facendo?» «Ho sentito un rumore», spiegò lui. «Dietro questi scaffali. Aiutami.» Anche Stella posò la torcia per terra. Il lavoro procedette più spedito ora che erano in due. La catasta si alleggerì in fretta. «C'è qualcosa», disse Stella. Prese la torcia, la diresse verso l'oggetto nascosto sotto gli scaffali. «Una cassa!» esclamò sorpresa. Baker cominciò a sentire un ronzio nelle orecchie. Il grattare. Una cassa di legno sotto una catasta di ripiani. L'istinto, che lo aveva spinto a non mollare. «Tieni ferma la luce», disse. Con una rapida occhiata si accertò che non potesse cadergli niente sulla testa, poi si arrampicò sui pezzi di legno restanti e si chinò sulla cassa. Non c'era lucchetto. Ma il coperchio era pesante. Adoperò tutte le forze per spostarlo. Kim Quentin era distesa su un mucchio di coperte. Teneva le gambe piegate, perché non aveva spazio per allungarle. La luce l'accecò, facendole chiudere gli occhi. Era viva. Baker sollevò il corpicino stremato. Sembrava una piuma tra le sue
braccia. «Mio Dio», sentì mormorare da Stella, «per fortuna abbiamo...» Non terminò la frase. «Kim», disse il sovrintendente Baker, accarezzando delicatamente i capelli umidi e appiccicati sul viso della bambina, «Kim, è tutto finito.» Kim aprì gli occhi e lo guardò. I suoi occhi erano limpidi. «Ho tanta sete», disse. Martedì, 12 settembre 1 Era scesa la sera. Erano le otto e l'autunno si avvicinava a grandi passi. Non appena il sole tramontava, la temperatura si abbassava repentinamente. L'aria aveva un aroma speziato e umido. Virginia era in piedi sulla porta aperta della cucina e respirava l'aria fresca che arrivava dal parco. Sopra la sua testa i rami degli alberi si agitavano piano. Alzò gli occhi, le sarebbe tanto piaciuto vedere il cielo tinto con i colori del crepuscolo, ma le fronde glielo impedivano. Stupita, si domandò come mai finora non le fosse mancato. Colta da un brivido, rientrò in cucina, ma lasciò aperta la porta. Cominciò a sparecchiare, sistemando i piatti della cena nella lavastoviglie. Per fare contenta Kim aveva cucinato un pasto completo, anche se lei non sentiva il minimo appetito. Alla fine neppure Kim aveva quasi toccato cibo e solo Frederic aveva mangiato qualcosa. Praticamente era avanzato tutto. Virginia sospirò piano. Kim era tornata da quattro giorni, ma era difficile parlare con lei e convincerla a mangiare. Spiluccava persino i suoi piatti preferiti, posava subito la forchetta e guardava la madre con espressione triste. «Non ce la faccio, mamma. Mi spiace. Non ci riesco.» Per il giorno seguente Virginia aveva fissato un appuntamento da uno psicoterapeuta specializzato nel trattamento di bambini traumatizzati. Ci sarebbe stata molta strada da fare, lo sapeva. Ma Kim era viva ed era tornata con loro. E questa era l'unica cosa importante. A casa regnava il silenzio più assoluto. Kim era andata a letto presto, come era sempre accaduto dalla sera del suo salvataggio, si era raggomitolata stringendo forte il suo orsacchiotto, come un cucciolo che cerca protezione nella tana. La madre le aveva rimboccato le coperte e le aveva letto
una favola, poi le aveva chiesto se voleva che rimanesse seduta lì con lei ancora per un po'. Kim aveva scrollato il capo. «Sono tanto stanca, mamma. Voglio dormire.» Quando Virginia era tornata da lei dieci minuti più tardi, l'aveva trovata con gli occhi già chiusi e il respiro profondo e regolare. Frederic era uscito alle otto meno un quarto, per accompagnare alla stazione una Grace Walker profondamente scioccata e in preda alla disperazione. Voleva andare dal fratello nel Kent, per cercare di superare lì la tragedia che l'aveva colpita in maniera così repentina. Il mondo le era crollato addosso, quando il venerdì precedente gli agenti erano entrati per perquisire la casa da cima a fondo e sequestrare il computer di Jack. Quando era stata informata dei crimini commessi dal marito e delle sue inclinazioni sessuali che le aveva tenuto nascoste per decenni, era crollata nel giro di poche ore. Frederic, convinto che lei fosse davvero all'oscuro di tutto, le aveva proposto di restare a vivere a Ferndale ma, com'era prevedibile, Grace aveva desiderato andarsene via da quel luogo. Con due valigie soltanto e la cesta con il gatto. Voleva andarsene via, lontano, dove poteva cercare di sopravvivere all'orrore in cui l'aveva fatta piombare il marito. Virginia impilò i piatti, gettò gli avanzi di cibo in pattumiera e sussultò, udendo un rumore improvviso alle proprie spalle. Si girò di scatto e si trovò davanti Nathan Moor, in piedi sulla soglia. Era abbronzato come sempre, i giorni che aveva trascorso in cella non avevano minimamente alterato il suo aspetto sano e atletico. Indossava un pullover, che come sempre gli stava troppo stretto di spalle e, quando Virginia lo osservò meglio, lo riconobbe come uno che Frederic teneva sempre a Dunvegan. Evidentemente, l'ultima volta che erano stati là insieme, lui si era servito ancora una volta da solo. Virginia lo guardò, allibita, senza parole, e alla fine fu lui a rompere il silenzio. «Ciao, Virginia», disse. «Posso entrare?» Lei ritrovò un contegno. «Come mai sei qui? Non sei più in prigione?» Lui parve considerare il fatto che lei gli rivolgesse la parola come invito ad accomodarsi in cucina, richiudendosi la porta alle spalle. «Vengo dalla città. E la prigione... non c'erano accuse contro di me.» Lei aveva sussultato quando lui aveva chiuso la porta. Avrebbe voluto dirgli di riaprirla subito, ma non voleva mostrargli il proprio nervosismo. Ma lui parve accorgersene lo stesso, perché sorrise.
«Hai paura di me?» «Frederic è...» «Frederic è appena andato via», la interruppe Nathan. «Credi che altrimenti sarei venuto fin qui, se non fossi stato sicuro che eri sola?» «Può tornare da un momento all'altro.» Nathan sorrise di nuovo. Non era un sorriso né freddo né malvagio, ma neppure caldo o affettuoso. Era un sorriso del tutto distaccato. «Di che cosa hai paura? Non sono stato io a violentare o uccidere quelle bambine. Non sono stato io a rapire Kim. Non sono un criminale.» «Ah no? Come definiresti allora il concetto di estorsione? Non è forse un crimine?» «Tentata estorsione. C'è differenza.» «Non per me.» Virginia ritrovò lentamente la propria sicurezza e con essa si risvegliò in lei anche la collera verso di lui. Collera per tutto ciò che le aveva fatto: la telefonata minatoria dopo la scomparsa di Kim, ma anche le menzogne sulla sua presunta carriera. La spudoratezza con cui si era installato nella sua vita. «Sparisci!» gli disse. «Sparisci e vattene per la tua strada. Lascia in pace me e la mia famiglia!» Lui sollevò entrambe le mani in un gesto conciliante. Percepiva la collera di lei - ma anche la delusione che le aveva provocato. Poteva anche odiarlo, ma il suo odio vibrava ancora di tanti sentimenti feriti e questo gli dava l'impressione momentanea di poter ignorare il suo sparisci! «Virginia, vorrei...» «Com'è possibile che tu sia fuori? Com'è che lasciano in circolazione uno come te?» «Come ho detto, non ero più tra i sospettati. E per quanto riguarda l'altra faccenda - la telefonata minatoria - ho confessato tutto fin dal principio. Al momento non ho il permesso di lasciare il paese, neppure i dintorni di King's Lynn, e la polizia vuole sapere dove potermi raggiungere. Ma ormai sono un pesce troppo piccolo. Alla fine me la caverò con una pena pecuniaria.» «Allora per te è tutto a posto. Perché sei venuto da me?» Lui tacque per un istante, «Perché tra di noi c'era qualcosa che non aveva niente a che fare con questa storia», disse alla fine. «C'era. Ma non c'è più. E quindi...» «E quindi non vuoi più nemmeno parlare con me? Virginia, ci tenevo così tanto a rivederti, che stamattina mi sono messo in cammino per venire
fino qui a piedi e poi sono rimasto a gironzolare fuori nel parco, nella speranza di poterti parlare da solo per qualche istante. Hai detto che tuo marito tornerà presto? Concedimi allora questa mezz'ora e poi mandami al diavolo quando è finita.» «Potrei anche telefonare alla polizia.» Lui scrollò le spalle. «Certo che puoi. Non te lo impedirei.» Di colpo lei si sentì spiazzata. Era troppo vuota e troppo stanca per litigare con lui, troppo sfinita persino per odiarlo. Con movimenti affaticati andò fino al tavolo e si sedette al posto che Kim aveva occupato a cena. «In realtà non ha più nessuna importanza. Quello che c'è stato tra noi e quanto mi hai ferito. L'unica cosa che conta è che Kim sia tornata a casa sana e salva.» «Come sta?» «È difficile a dirsi. Parla poco. Dorme molto e mostra la tendenza a chiudersi in se stessa. Questo non va bene e quindi domani la porterò da uno psicologo. Fisicamente è a posto, così ha detto il dottore. In effetti non ha subito abusi sessuali. Grazie al cielo, almeno quello!» Nathan scrollò il capo. «Jack Walker! Una persona così simpatica! Chi l'avrebbe mai detto?» «Se penso che negli ultimi due anni ho affidato spesso Kim ai Walker, mi vengono i brividi», disse Virginia. Le braccia le si coprirono di pelle d'oca. «Non c'era nessun sintomo, niente di strano. Non avrei mai creduto...» Tacque, ancora sconvolta dalla realtà dei fatti. «Aveva già molestato altre bambine in precedenza?» chiese Nathan. «Ne aveva uccise altre?» Virginia scrollò la testa. «Lui afferma di no e il sovrintendente Baker tendenzialmente gli crede. Jack si era reso conto presto dei propri impulsi e ha trascorso tutta la vita cercando di reprimerli. Navigava su siti vietati di Internet e scaricava foto, questo sì, ma ha fatto sempre in modo di tenersi il più lontano possibile dai bambini. Fu lui a insistere perché Grace non restasse incinta. E poi scelse il lavoro come custode di Ferndale House per vivere il più possibile isolato. Intuiva che cosa sarebbe potuto accadere altrimenti.» Nathan, che per tutto il tempo era rimasto accanto alla porta, fece un passo avanti. Sembrava sentire che per il momento non avrebbe subito aggressioni da parte di Virginia. Lei era del tutto presa dalla sconvolgente constatazione di aver vissuto praticamente porta a porta con un pericoloso maniaco, senza essersi mai accorta di niente. «E poi siete arrivati qui voi
con Kim...» «Due anni fa. Per Jack un'autentica catastrofe. Praticamente aveva una bambina che gli scorrazzava tutti i giorni sotto il naso. E, come se non bastasse, Grace era convinta che fosse finalmente venuto il momento, se non di essere madre, di poter diventare un surrogato di nonna. Portava Kim a casa loro tutte le volte che era possibile. Jack si accorgeva di come poco a poco tutte le sue sicurezze cominciavano a vacillare.» «E questo ha segnato la condanna a morte per le altre due bambine.» «A un certo punto ha avuto bisogno di sfogarsi. Non poteva farlo con Kim, perciò ha adescato le altre bambine. Ha attirato Rachel Cunningham in una trappola. E ha rapito Sarah Alby sulla spiaggia di Hunstanton. Era a bordo dello stesso autobus con Sarah e sua madre e assistette al capriccio della bambina quando la madre le negò un giro di giostra. Le seguì e quando Sarah rimase da sola per diverso tempo la convinse senza difficoltà a seguirlo. Le fece credere di portarla sulla giostra, e invece...» «Il suo è stato un gesto premeditato.» «Sì. Non agiva all'improvviso, sopraffatto dai suoi impulsi. Per quanto sembri assurdo, non è un uomo incline alla violenza. Ha preparato i rapimenti, ha fatto in modo di non destare sospetti. Le bambine l'hanno seguito di loro volontà, senza alcun sospetto. Ha fatto così anche con Janie Brown.» «La bambina che poi lo ha riconosciuto al cimitero», disse Nathan. Era bene informato. I quotidiani degli ultimi tre giorni erano pieni di notizie sul caso. «A lei aveva promesso una festa di compleanno. La bambina se l'è cavata per una serie di incredibili coincidenze fortunate. Una volta non si è potuta recare all'appuntamento concordato perché la madre si era ammalata. E un'altra volta...» «Sì?» «Un'altra volta sono stata io stessa a salvarla», proseguì Virginia. Sorrise, ma senza felicità. «Jack lo ha raccontato a Baker. Fu il giorno in cui andai in città per comperarmi il vestito... sai, per quella cena a Londra...» «Sì, lo so», disse Nathan. «Prima ero stata proprio nella cartoleria dove si erano dati appuntamento Jack e la piccola Janie. Mi ricordo che il cartolaio sgridò una bambina perché continuava a guardare i biglietti senza decidersi a comperarne nessuno. Mi ricordo che lei ci rimase molto male e mi fece pena. Quella bambina era Janie Brown.»
«E Walker...» «... mi vide entrare e si allontanò dalla zona. Altrimenti avrebbe portato Janie con sé quel giorno.» «Mio Dio», commentò Nathan, «quella bambina ha davvero una schiera di angeli custodi a proteggerla.» «Compie gli anni domenica e ho deciso di organizzarle la festa di compleanno qui a Ferndale. Verranno tutti i suoi compagni di classe. Avresti dovuto vedere com'è stata contenta.» «È molto generoso da parte tua.» «Le sono riconoscente di tutto cuore. Senza di lei non avremmo riavuto Kim.» «Perché non ha ucciso Kim?» «Non ce l'ha fatta. La conosceva troppo bene, le era troppo affezionato. Per quanto fosse mentalmente disturbato, era una persona capace di legami affettivi e il suo affetto per Kim era autentico. Quando Grace gli telefonò quel giorno per chiedergli di andare a prendere Kim a scuola, lui come prima reazione declinò la proposta, dicendo di essere ancora molto lontano da King's Lynn. Aveva paura di se stesso. Ma poi non riuscì più a trattenersi e andò alla scuola. Kim ovviamente lo seguì subito senza protestare. Fatta un po' di strada, lui si fermò. Era terribilmente eccitato e cominciò ad accarezzarla. Kim era a disagio, cercava di resistergli, diventò isterica. Jack capì che lo avrebbe raccontato a noi, i suoi genitori. Non poteva più lasciarla andare. Ma invece di ucciderla, come con le altre bambine, la portò fino a quell'azienda abbandonata, dove aveva lavorato tantissimi anni. Conosceva bene il posto. La nascose dentro una cassa che poi coprì con un mucchio di assi.» «In questo modo sarebbe morta anche lei entro breve tempo.» «Sì. Ma non se l'era sentita di farlo con le proprie mani.» «Dev'essere proprio matto», disse Nathan. «Pensa a che razza di morte sarebbe andata incontro...» Virginia scrollò il capo con veemenza. «Non ci voglio pensare. Nemmeno per un secondo. Impazzirei, altrimenti! Abbiamo avuto una gran fortuna, Nathan! Era disidratata, completamente stremata e sotto shock, ma è viva. Si riprenderà. Non riesco a smettere di ringraziare Dio per questo.» «Grace Walker non sospettava niente?» «A quanto pare no. Questa storia l'ha colpita come un fulmine a ciel sereno. L'ha distrutta. Lei non si riprenderà mai più.» Nathan annuì pensieroso.
E poi, senza preamboli, domandò: «Che ne sarà di noi?» Fino a qualche minuto prima Virginia si sarebbe infuriata per quella domanda, adesso provava soltanto tristezza. E rispondere le metteva addosso un'inspiegabile stanchezza. «Te l'ho già detto prima», rispose. «Tra di noi non c'è più niente di ciò che è stato.» «Per colpa della mia telefonata? Per colpa di quel maledettissimo errore di cui mi pento, che se fosse possibile tornare indietro non rifarei più?» Sì. E no. Si chiese come poteva spiegargli ciò che provava. «È stato uno shock scoprire che eri tu l'autore di quella telefonata», disse. «Che volevi sfruttare a tuo vantaggio la mia - la nostra - abissale angoscia e disperazione. Ma non è tutto. In quel momento per la prima volta ti ho visto per quello che sei veramente. È stato come se una tenda venisse sollevata e sotto c'eri tu, diversissimo da come ti avevo visto fino a quel momento - o da come avevo voluto vederti.» «E quest'uomo diverso non ti è piaciuto?» «Mi è sembrato imprevedibile. Imperscrutabile. Di colpo c'erano troppe cose che non riuscivo più ad armonizzare tra loro.» «Non vorresti conoscere quest'uomo? Forse qualcosa potrebbe ridimensionarsi.» Lei scrollò il capo. «No. Non voglio conoscerlo.» Fece un respiro profondo. «È finita, Nathan. Io... non posso più. È finita.» Le sue parole rimbombarono nel silenzio della cucina. Alla fine Virginia si nascose il viso tra le mani. «Mi spiace», bisbigliò. «Non ce la faccio più.» Il silenzio cadde di nuovo su di loro. «Ok», disse Nathan alla fine, «sarò costretto ad accettarlo.» Lei alzò il capo. «Che cosa farai adesso?» Lui scrollò le spalle. «Aspetterò qui, tenendomi a disposizione, come ha detto il sovrintendente Baker. E poi... tornerò in Germania. Magari da lì mi riuscirà di intentare una causa per danni per il naufragio. Se mi riesce di ottenere una discreta somma, avrò guadagnato del tempo. Scriverò. Magari un giorno riuscirò a pubblicare un libro di successo!» «Te lo auguro.» Fece un passo verso di lei, esitò, alzò la mano e, quando vide che lei non indietreggiava, le accarezzò fugacemente la guancia. «Mi devi ancora una cosa.» «E cioè?»
«La fine della tua storia. Questa storia di cui mi hai detto che si conclude con una grande colpa. Manca l'ultimo capitolo.» «L'ho raccontato a Frederic.» «Oh», disse Nathan sorpreso, «proprio a lui?» «Esatto.» «Allora immagino che io non la conoscerò mai.» «No, infatti.» «Resti con Frederic? Lui è pronto a perdonarti e ad accoglierti di nuovo tra le braccia?» «Nathan, la cosa ormai non ti riguarda più.» «Santissimo Iddio», esclamò Nathan, «certo che sai essere spietata quando decidi di troncare con una persona.» «Cerco di essere onesta.» «Si, già...» fece Nathan. «Allora è il momento che vada via.» «Hai un lungo cammino davanti a te.» Lui sospirò. «North Wooton. Ho trovato una sistemazione molto economica. Impiegherò un sacco di tempo ad arrivarci.» «Non mi riferivo soltanto a questo.» Lui sorrise. Non era più il sorriso apatico di prima, di quando era entrato in cucina. Era il sorriso che un tempo aveva soggiogato Virginia. Per un istante lei si abbandonò nuovamente alle sensazioni che le evocava. Era un sorriso pieno di promesse, di calore, e di magnetismo erotico. Sembrava fatto per abbracciare l'interlocutore. Probabilmente era falso e calcolato, accuratamente misurato per avere il massimo effetto. Ma era dannatamente efficace, pensò lei. «So che non ti riferivi a questa strada», disse lui. «Già... allora è proprio arrivato il momento di salutarci?» Lei si alzò, andò alla porta della cucina e l'aprì. «È proprio ora», disse. Lui annuì e le passò accanto, uscendo nella notte ormai buia. Lei fu grata che non cercasse di baciarla. Che non l'abbracciasse. Provò una fitta struggente. Soffriva non solo per lui, ma per tutte le promesse che aveva riposto nel nuovo inizio con lui - e che si erano rivelate false. Se lui l'avesse stretta a sé, sarebbe scoppiata a piangere. Anche per colpa del pullover che portava e che sapeva di Skye. Lui le si parò davanti come una grande ombra scura. La guardò. Al chiaro di luna che filtrava fioco tra gli alberi, lei riconobbe il suo viso. I suoi lineamenti le erano così familiari, che dovette stringere con forza le labbra, per impedirsi di rivelargli quanto soffrisse.
E poi di colpo tornò a essere Nathan. Quel Nathan di cui Livia aveva detto senza farsi più nessuna illusione: L'unica cosa cui pensa da mattina a sera sono i soldi. Quel Nathan che, per quanto sapesse essere dolce, comprensivo, attraente e sensuale, aveva sempre e comunque in mente come prima cosa il proprio egoistico benessere. Un parassita, pensò Virginia, stranamente distaccata, nonostante la tristezza del momento. Un parassita incredibilmente dotato. Le rivolse ancora il suo disarmante sorriso. «Prima che me ne dimentichi, Virginia, tesoro mio; potresti prestarmi ancora qualche soldo?» 2 Virginia era in piedi davanti alla finestra del salotto e guardava fuori nella sera quando Frederic rincasò. Lei aveva sentito il rumore del motore e i suoi passi e non si spaventò quando le rivolse la parola. Non si avvicinava di soppiatto come Nathan. Frederic era limpido e prevedibile. «Sono tornato», annunciò. «Grace è sul treno insieme al suo gatto. Non riusciva a guardarmi negli occhi. Come sta Kim?» Virginia si girò verso di lui. «Dorme. Sono stata di sopra da lei. L'ho guardata dormire. Era molto serena. Non mi è parso che soffrisse di incubi al momento.» «Temo tuttavia che in seguito...» «Naturale. Il trauma non è stato ancora superato. Ma Kim è viva, è qui con noi e adesso sta dormendo. Per il momento è già tantissimo.» «Sì.» Lui teneva entrambe le mani affondate nelle tasche dei jeans. Virginia notò per la prima volta quanto fosse dimagrito negli ultimi giorni. E non solo a causa di Kim. Anche per colpa sua. «Grace è distrutta», disse lui. «Non credo di aver mai visto un'altra persona così abbattuta.» «Le hai detto che...» «Certo, che poteva rimanere qui. Ma non vuole. Non ce la fa. E posso capirla.» «Jack Walker», disse Virginia, «ha causato tanto dolore a moltissime persone.» «È malato.»
«Sarebbe una giustificazione?» «No. Soltanto una spiegazione.» Rimasero a fronteggiarsi esitanti. «Quella donna... Liz Alby, mi ha telefonato oggi a mezzogiorno», disse Frederic. «Voleva congratularsi con me perché abbiamo ritrovato Kim. È in partenza per la Spagna con il padre di Sarah.» «Va in vacanza?» «No, emigrano. Vogliono provare a tornare insieme, mi ha detto. Vogliono ricominciare da un'altra parte. Daccapo. Trovo che sia un'ottima decisione.» «Andare avanti», rifletté Virginia, «è sempre l'unica possibilità, vero? Per riuscire a sopportare in qualche modo il destino.» Rise, senza la minima allegria. «Tutti quanti cerchiamo di raccogliere i nostri molti cocci. A volte proviamo anche a rincollarli, almeno in parte. Ma qui ci sono due bambine morte. E altre due che hanno rischiato di morire. Non sono ferite che possano guarire.» «E poi ci siamo noi», disse Frederic. «Sì. E sai qual è la cosa peggiore? Non siamo più soltanto noi. Siamo legati indissolubilmente alle nostre colpe. Per sempre.» «Virginia...» Lei scrollò con forza la testa. Era pallida in volto. «C'è mancato un soffio, Frederic, c'è mancato un soffio perché accadesse di nuovo. La stessa cosa di allora. Undici anni fa un bambino è morto per colpa della mia avventatezza e spensieratezza e perché non sono stata attenta. E stavolta la mia stessa bambina ha rischiato di morire. Perché ancora una volta stavo pensando solamente a me stessa. Perché non c'ero. Perché pensavo ad altro. È un... maledetto filo rosso nella mia vita!» Lui si impietosì. Non l'aveva mai vista tanto disperata. Avrebbe voluto abbracciarla, ma non osava farlo. «Adesso potrei cavarmela semplicemente», le disse, «e incolparti oltre che della storia con Nathan Moor, che mi ha quasi spezzato il cuore, anche della vicenda di Kim. Per farti sentire distrutta quanto me! Ma non sarebbe giusto. E non sarebbe vero. Quel pomeriggio non hai mancato ai tuoi doveri. Si è trattato solo di una serie di sfortunate coincidenze. Contro di te, contro Kim, contro di noi. E avrebbe potuto succedere in qualsiasi altro momento. Mi capisci? Un appuntamento dal dentista non previsto. Un guasto alla macchina. Una storta a una caviglia. Ci sono migliaia di cose che avrebbero potuto impedirti di andare a prendere Kim un giorno qualsi-
asi. A questo aggiungi una Grace con l'influenza che chiede al marito di assumersi l'incarico al posto suo. Sarebbe stata la stessa storia. Qui non si tratta di colpa. Si tratta di sfortuna. Forse persino del fato. Ma non di colpa.» «Ma...» Lui la interruppe. «Lascia andare il piccolo Tommi, una volta per tutte, Virginia. Incombe sulla tua vita da undici anni. Letteralmente. Per colpa sua ti sei rinchiusa dietro queste mura, sotto questi alberi bui. Nella speranza che la scarsità di luce ti impedisse di vederlo chiaramente. Lascialo andare. È successo. Non c'è modo di cambiare il passato.» Lei non si accorse di aver cominciato a piangere. Le lacrime le scendevano in silenzio per le guance. «Il piccolo Tommi...» disse. Poi si interruppe e chinò il capo. «Non lo dimenticherò mai», bisbigliò. «Mai.» «Non devi dimenticare», disse Frederic, «ma solo accettare. Come qualcosa che è accaduto nella tua vita. Non hai altra scelta.» Lei si asciugò le lacrime e si guardò le mani bagnate. All'improvviso pensò: È la prima volta che piango per Tommi. La prima volta in undici anni. Da quando è successo. «Michael», disse, poi si schiarì la voce arrochita. «Devo trovare Michael, Frederic. Non so se sia ancora vivo, dove si trovi, che ne sia stato di lui. Ma avevi ragione tu, quando hai detto che potrò vivere in pace solo quando confesserò almeno una parte della mia colpa. Devo dirgli che non era stato lui a dimenticarsi di chiudere la macchina quel giorno. Ma che fui io. Deve sapere che non ha nessuna colpa per la morte di Tommi.» «Se vuoi», disse Frederic, «ti aiuterò a trovarlo.» Lei annuì. Tornarono a guardarsi in silenzio. Nei giorni precedenti, durante i quali avevano sofferto in angosciosa attesa per il destino di Kim, non c'era stato tempo di parlare della loro situazione. Entrambi sapevano che niente era più come prima, né sarebbe più tornato a esserlo. Ma non avevano la minima idea su come sarebbero continuate le cose. Intuivano che non era il momento di parlare, che c'era bisogno di altro tempo, prima che ciascuno di loro fosse in grado di vedere la strada che intendeva imboccare. Non erano ancora capaci di vedere se si sarebbe trattato di una strada comune. Frederic si avvicinò a Virginia ed entrambi si misero a guardare fuori dalla finestra. Nel riflesso del vetro, distinguevano i propri volti sfocati. Gli alti alberi che circondavano la casa erano invisibili.
Non voglio più vivere nell'oscurità, pensò Virginia. E forse dovrei finalmente cercarmi un lavoro. Deve cambiare tutto. La mia vita deve cambiare. Smise di vedere la propria immagine riflessa nella finestra. Vedeva altre immagini, che la riempirono di malinconia, di tristezza, perché appartenevano al passato. E tuttavia le avevano mostrato una direzione che forse valeva la pena seguire. Come da una grande distanza, udì la voce di Frederic accanto a sé. «Stavi pensando a Nathan Moor?» le chiese. Osservandola doveva essersi accorto della sua improvvisa malinconia. Lei scrollò il capo. «No, non stavo pensando a Nathan Moor.» Si chiese se lui le credesse. Quello che avrebbe custodito per sempre dentro di sé non era il ricordo di Nathan Moor come persona. Sarebbe stato invece il ricordo dei due giorni di settembre su a Skye. Il cielo azzurro e limpido sopra Dunvegan. E il vento freddo che soffiava dal mare. FINE