Anne e Serge Golon
Angelica la Marchesa degli Angeli Titolo originale Angélique - Marquise des Anges. Traduzione di Ro...
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Anne e Serge Golon
Angelica la Marchesa degli Angeli Titolo originale Angélique - Marquise des Anges. Traduzione di Roberto Ortolani. Copyright © 1957 Opera Mundi. Copyright © 1996 Hachette, Editions du Chêne Paris. Copyright © 1957, 1981 Garzanti Editore S.p.A. Milano. Prima edizione marzo 1997. Nona ristampa 2001.
Figlia di un nobile decaduto del Poitou, Angelica, ancora adolescente, è costretta a sposare Goffredo di Peyrac, un misterioso gentiluomo di Tolosa. Sfigurato e zoppo, Goffredo è in realtà un uomo di scienza, dall'animo generoso e nobile, che saprà conquistare il cuore di Angelica. Bella e orgogliosa, audace e sensuale, Angelica de Sancé de Monteloup, contessa di Peyrac e marchesa du Plessis-Bellière è la donna più affascinante, amata e desiderata della Francia del Re Sole. L'accurata ricostruzione storica, l'intreccio ricco di azione e di colpi di scena, le centinaia di personaggi, gli intrighi, le passioni travolgenti, il fasto e la corruzione della corte sono gli ingredienti di questa serie di romanzi che hanno entusiasmato milioni di lettori in tutto il mondo e che sono stati oggetto di fortunate trasposizioni cinematografiche. Anne e Serge Golon, lei giornalista francese, lui archeologo di origine russa, si conobbero in un deserto africano. Si sposarono e cominciarono a scrivere insieme, creando il personaggio di Angelica, l'indimenticabile protagonista di un grandioso affresco storico e romanzesco della Francia del XVII secolo: diciotto romanzi, tradotti in più di venti lingue per oltre cento milioni di lettori in tutto il mondo. Angelica la Marchesa degli Angeli è il primo romanzo della serie.
INDICE
Parte prima.....................................................................................................................4 Marchesa degli Angeli (1645).......................................................................................4 1 ............................................................................................................................. 4 2 ........................................................................................................................... 12 3 ........................................................................................................................... 19 4 ........................................................................................................................... 28 5 ........................................................................................................................... 34 6 ........................................................................................................................... 41 7 ........................................................................................................................... 53 8 ........................................................................................................................... 61 9 ........................................................................................................................... 83 10 ......................................................................................................................... 92 Parte seconda. ............................................................................................................104 MATRIMONIO A TOLOSA....................................................................................104 (1656-1660) ...............................................................................................................104 11 ....................................................................................................................... 104 12 ....................................................................................................................... 115 13 ....................................................................................................................... 128 14 ....................................................................................................................... 136 15 ....................................................................................................................... 142 16 ....................................................................................................................... 147 17 ....................................................................................................................... 151 18 ....................................................................................................................... 156 19 ....................................................................................................................... 167 20 ....................................................................................................................... 174 21 ....................................................................................................................... 181 22 ....................................................................................................................... 188 23 ....................................................................................................................... 195 24 ....................................................................................................................... 204 25 ....................................................................................................................... 211
Parte prima. Marchesa degli Angeli (1645) 1 «Nutrice», chiese Angelica, «perché Gilles di Retz uccideva tanti fanciulli?» «Per il demonio, figlia mia. Gilles di Retz, l'orco di Machecoul, voleva essere il più potente signore del suo tempo. Nel suo castello non c'erano che storte, ampolle, pentole piene di rosse brode e di orrendi vapori. Il diavolo voleva che gli fosse offerto in sacrificio il cuore di un bambino. Così cominciarono i delitti. E le madri atterrite s'indicavano il nero torrione di Machecoul circondato di corvi, tanti erano nelle prigioni i cadaveri degli innocenti.» «Li mangiava tutti?» chiese con voce tremante Maddalena, la sorellina di Angelica. «Non tutti, non ce l'avrebbe fatta», rispose la nutrice. China sul paiolo dove cuocevano a lento fuoco il lardo e il cavolfiore, ella stette un po' in silenzio a rimestare la zuppa. Ortensia, Angelica e la piccola Maddalena, le tre figlie del barone di Sancé di Monteloup, aspettavano con il cucchiaio pronto accanto alle scodelle, prese da angoscia, il seguito del racconto. «Faceva di peggio», riprese infine la narratrice, con voce colma di rancore. «Dapprima, faceva portare dinanzi a sé il poverino (o la poveretta) che, terrorizzato, chiamava con gridi acuti la madre. Il signore, coricato su un letto, se la godeva un mondo di quella paura. Faceva poi attaccare il bambino al muro a una specie di forca che lo stringeva al petto e al collo soffocandolo, non però tanto da farlo morire. Il fanciullo si dibatteva come un pollo impiccato, le sue grida andavan soffocandosi, gli occhi gli uscivano dalla testa, diventava livido. E nel salone non si udivano che le risa di quegli uomini crudeli e i gemiti della piccola vittima. Allora, Gilles di Retz lo faceva staccare, se lo prendeva sulle ginocchia, appoggiava la fronte del povero angioletto contro il proprio petto. E parlava dolcemente, lo rassicurava: “Tutto ciò non aveva importanza”, diceva. “Avevano voluto divertirsi ma ora era finito. Il fanciullo avrebbe avuto zuccherini, un bel letto di piume, un costume di seta come quello dei paggi”. Il bambino si rassicurava. Una luce di gioia gli brillava nello sguardo pieno di lagrime. Allora, all'improvviso, il signore gli cacciava la daga nel collo. Ma le cose più terribili accadevano quando rapiva delle bambine.» «Che faceva con esse?» chiese Ortensia. In quel punto, intervenne brontolando nella barba giallastra il vecchio Guglielmo, seduto all'angolo del focolare intento a grattugiare alcune foglie di tabacco accartocciate in modo da sembrare una carota. «State dunque un po' zitta, vecchia pazza! Riuscite a dare il voltastomaco a me,
che sono uomo di guerra, con le vostre frottole!» La grossa Fantina Lozier gli si voltò di scatto. «Frottole?... Si vede bene che non siete di Poitiers, ma di ben lontano, Guglielmo Lutzen. Se risalite un po' verso Nantes, non tarderete a trovare il castello maledetto di Machecoul. Son già due secoli che i delitti furono commessi e ancora la gente, se passa nelle vicinanze, si fa il segno della croce. Ma voi non siete del paese, non sapete nulla sugli antenati di questa terra.» «Begli antenati se sono tutti come il vostro Gilles di Retz!» «Gilles di Retz era così grande nel male che nessun paese, eccetto il Poitou, può vantarsi di aver posseduto un tal criminale. E quand'egli morì, giudicato e condannato a Nantes, ma picchiandosi il petto e chiedendo perdono a Dio, tutte le madri di cui aveva mangiato e torturato i figli presero il lutto.» «Questa sì è grossa», esclamò il vecchio Guglielmo. «Ed ecco come siamo, noi di Poitou. Grandi nel male, grandi nel perdono!» Con aria fiera la nutrice sistemò alcuni vasi sulla tavola e baciò con foga il piccolo Dionigi. «Certo», proseguì, «io ho frequentato poco la scuola, ma so distinguere le fiabe dai racconti dei tempi passati. Gilles di Retz esisté davvero. Può darsi che la sua anima vada ancora errando dalle parti di Machecoul, ma il suo corpo si è disfatto in questa terra. Non si può, dunque, parlarne alla leggera come delle fate e dei folletti che girano intorno alle grandi pietre drizzate nei campi. Per quanto non sia conveniente prendersi troppo giuoco di quegli spiriti maligni...» «E dei fantasmi, nutrice, ci si può prendere giuoco?» chiese Angelica. «É meglio di no, piccola mia. I fantasmi non sono cattivi, ma la maggior parte sono malinconici e suscettibili, e perché accrescere con beffe i tormenti di quei poveretti?» «Perché piange la vecchia dama che appare al castello?» «E chi lo saprà mai? L'ultima volta che l'incontrai sei anni fa, tra l'antica sala delle guardie e lo scalone, credo che non piangesse più, forse in seguito alle preghiere che vostro nonno aveva fatto dire per lei nella cappella.» «Io ho udito il suo passo per le scale della torre», affermò Bettina la servente. «Era certo un topo. La vecchia signora di Monteloup è discreta e non vuol dar fastidio. Forse era cieca? Lo si pensa per quella mano che tende in avanti. Oppure, cerca qualche cosa. A volte, si accosta ai bambini addormentati e passa loro una mano sul viso.» La voce di Fantina si abbassava, diveniva lugubre. «O cerca forse un fanciullo morto?» «Buona donna, il vostro spirito è più macabro della vista di un ossario», protestò ancora il vecchio Guglielmo. «É possibile che il vostro signore di Retz sia un grand'uomo di cui vi onorate d'esser compaesana... a due secoli di distanza, e che la dama di Monteloup sia onorabilissima, ma io dico che non sta bene spaventare queste piccoline che dimenticano di riempirsi il pancino, tanta è la paura che mettete loro.» «Ah! fate il sensibile, adesso, soldataccio del diavolo! Quanti ventri di piccoline eguali a queste non avete trapassato con la vostra picca quando servivate l'imperatore d'Austria sui campi di Allemagna, d'Alsazia e di Piccardia? Quante capanne non
avete fatto bruciare chiudendo la porta su tutta la famiglia da arrostire? Non avete dunque mai impiccato paesani? Tanti e tanti che i rami degli alberi si spezzavano. E le donne e le ragazze non le avete violate fino a farle morire di vergogna?» «Come tutti, come tutti, mia cara. É la vita del soldato. É la guerra. Ma per queste bambine la vita è fatta di giuochi e di storie ridenti. Fino al giorno in cui i soldati e i briganti passeranno sul paese come stormi di cavallette. Allora, la vita delle bambine diventa la vita del soldato, della guerra, della miseria e della paura...» Con aria amareggiata la nutrice apriva un grosso vaso di creta pieno di pasticcio di lepre e spalmava fette di pane che distribuiva in giro, senza dimenticare il vecchio Guglielmo. «Io che vi parlo... io Fantina Lozier, ascoltate, bambine mie.» Ortensia, Angelica e Maddalena, che avevano approfittato della discussione per dar fondo alle loro scodelle, sollevarono nuovamente il naso, e Gontrano, il fratellino decenne, abbandonò il cantuccio oscuro dov'era rimasto imbronciato e si avvicinò. Era adesso l'ora della guerra e dei saccheggi, dei soldatacci e dei briganti, gli uni e gli altri confusi nello stesso bagliore rosso d'incendio, di rumore di spade e di grida di donne... «Voi, Guglielmo Lutzen, conoscete mio figlio che è carrettiere del nostro padrone, il barone di Sancé di Monteloup, in questo stesso castello?» «Lo conosco, è un gran bel giovane.» «Ebbene, tutto ciò che posso dirvi di suo padre è che apparteneva alle truppe del signor Cardinale di Richelieu quando questi si recò a La Rochelle per sistemare i protestanti. Io non ero ugonotta e avevo sempre pregato la Vergine per rimanere vergine fino al matrimonio. Ma, allorché i soldati del nostro cristianissimo re Luigi XIII furon passati sul paese, il meno che si possa dire è ch'io non ero più pulzella. E ho chiamato mio figlio Giovanni-la-Corazza in ricordo di tutti quei diavoli di cui uno è il padre e le cui corazze piene di chiodi mi strapparono l'unica camicia che possedevo a quel tempo. «Quanto ai briganti e ai banditi che la fame ha gettato tante volte sulle strade, potrei tenervi desti tutta una notte a raccontarvi quel che m'hanno fatto nella paglia dei granai mentre abbrustolivano i piedi del mio uomo sul focolare per fargli confessare dov'era il gruzzolo. E io, dall'odore, credevo che stessero facendo arrostire il maiale.» Ciò detto, la Fantina si mise a ridere, quindi si versò del vinello di mele per rinfrescarsi la lingua asciutta per il tanto parlare.
L'esistenza di Angelica di Sancé di Monteloup ebbe così inizio sotto il segno dell'Orco, dei fantasmi e dei briganti. La nutrice aveva nelle vene un po' di quel sangue moro che gli arabi portarono, verso l'XI secolo, fino alle soglie del Poitou. Angelica aveva succhiato quel latte di passione e di sogni in cui si concentrava l'antico spirito della sua provincia, terra di paludi e di foreste aperta come un golfo ai tiepidi venti dell'oceano. Ella aveva assimilato alla rinfusa un mondo di drammi e di fiaba. Ne aveva preso il gusto e una specie d'immunità contro la paura. Guardava con aria di
commiserazione la piccola Maddalena che tremava o la sorella maggiore Ortensia, alquanto manierosa e che, tuttavia, ardeva dalla voglia di chiedere alla nutrice quel che i briganti le avessero fatto tra la paglia dei granai. Angelica, a otto anni, capiva benissimo quel ch'era accaduto nel granaio. Quante volte non aveva condotto la vacca al toro o la capra al becco? E il suo amico, il pastorello Nicola, le aveva spiegato che per avere dei bambini gli uomini e le donne fanno lo stesso. Così la nutrice aveva avuto Giovanni-la-Corazza. Ma ciò che turbava Angelica era che per parlare di quelle cose la nutrice assumesse a volte un tono di languore e d'estasi oppure del più sincero orrore. Ma non bisognava cercar di capire la nutrice, i suoi silenzi, le sue collere. Bastava ch'ella fosse presente, vasta e sempre in moto con quelle sue braccia possenti, il canestro delle ginocchia aperto sotto la veste di fustagno, e che vi accogliesse come un uccellino per cantarvi una ninna nanna o per raccontarvi di Gilles di Retz.
Più semplice era il vecchio Guglielmo di Lutzen che parlava con voce lenta dall'accento aspro. Dicevano che fosse svizzero o tedesco. Erano quasi quindici anni che l'avevano veduto avanzare zoppicando e a piedi nudi per la strada romana che va da Angers verso Saint-Jean-d'Angély. Era entrato nel castello di Monteloup e aveva chiesto una scodella di latte. Da allora, vi era rimasto, domestico tutto fare, incaricato di mille mestieri: il barone di Sancé gli faceva portare lettere agli amici vicini, gli faceva ricevere il messo dei tributi quando veniva a reclamare le imposte. Il vecchio Guglielmo ascoltava a lungo il messo, poi gli rispondeva nel suo dialetto di montanaro svizzero o tirolese, e quello se ne andava scoraggiato. Era venuto dai campi di battaglia del Nord o dell'Est? E per quale caso quel mercenario straniero pareva che scendesse dalla Bretagna, quando lo avevano incontrato? Tutto quanto si sapeva di lui è ch'egli era stato a Lutzen agli ordini del condottiero Wallenstein e che aveva avuto l'onore di bucare la pancia del grosso e magnifico re di Svezia Gustavo Adolfo allorché questi, smarritosi nella nebbia, era capitato durante la battaglia proprio in bocca ai picchieri austriaci. Nel granaio dove abitava si vedevano brillare al sole, fra le tele di ragno, la sua vecchia armatura e il suo casco, nel quale ancora beveva il vino caldo e mangiava a volte la minestra. La sua immensa picca, alta tre volte lui, serviva in casa per bacchiare le noci. Ma, sopra ogni altra cosa, Angelica gli invidiava quella piccola grattugia per il tabacco, di tartaruga intarsiata, che lui chiamava la sua “grivoise” all'uso dei militari tedeschi a servizio della Francia, essi stessi chiamati “grivois 1 ”.
Nell'ampia cucina del castello, durante tutta la sera, porte s'aprivano e si chiudevano. Porte sulla notte da cui venivano, in un forte odore di letame, valletti, serventi e il carrettiere Giovanni-la-Corazza, nero come sua madre. 1
Licenzioso e triviale.
S'intrufolavano i cani: i due lunghi levrieri Marte e Maggiorana, i bassotti inzaccherati sino agli occhi. Dall'interno del castello le porte davan passaggio all'accorta Ninetta che si provava nel mestiere di cameriera sperando di imparare quelle buone maniere che le sarebbero servite per abbandonare i padroni poveri e andare a servizio in casa del signor marchese del Plessis di Bellière, a pochi chilometri da Monteloup. Andavan pure e venivano le due servette, i capelli arruffati sugli occhi, recando la legna per il salone e l'acqua per le camere. Poi compariva la signora baronessa, col suo dolce viso appassito dall'aria dei campi e da numerose maternità. Indossava una veste di rascia e un cappuccio di lana nera perché l'aria del salone ov'ella stava fra il nonno e le vecchie zie era più umida di quella della cucina. Chiedeva se il decotto del vecchio barone fosse pronto e se il bimbo avesse succhiato il latte senza farsi pregare. Accarezzava passando la gota di Angelica mezzo addormentata i cui lunghi capelli d'oro brunito si rovesciavano sulla tavola e brillavano alla luce del fuoco. «É ora di andare a letto, bambine. Pulcheria vi accompagna.» E Pulcheria, una delle vecchie zie, si presentava sempre docile. Aveva voluto assumere la parte di governante delle nipoti, non avendo trovato né marito né convento per riceverla, in mancanza di dote, e poiché si rendeva utile, invece di lamentarsi e di lavorare ad arazzi il giorno sano, la trattavano con qualche disprezzo e meno attenzioni che non l'altra zia, la grassa Giovanna. Pulcheria radunava le nipoti. Le nutrici avrebbero messo a letto le più piccine, e Gontrano, il ragazzo senza precettore, sarebbe andato quando ne avesse avuto voglia a raggiungere il suo pagliericcio sotto il tetto. Seguendo la magra damigella, Ortensia, Angelica e Maddalena entravano nella sala del castello dove il fuoco e tre candele dissipavano appena ammassi d'ombra, accumulati da secoli sotto le alte volte medievali. Distesi alle pareti, alcuni arazzi tentavano di proteggerle dall'umidità, ma erano così vecchi e tarmati che nulla si distingueva delle scene che raffiguravano, se non gli occhi torvi di lividi personaggi che vi osservavano con aria di rimprovero. Le bimbe facevan la riverenza al nonno, seduto dinanzi al fuoco nella sua palandrana nera guarnita di pelliccia spelacchiata. Ma le sue mani bianchissime, posate sul pomo del bastone, erano regali. Portava un ampio feltro nero e la barba quadrata, come quella del defunto nostro re Enrico IV, riposava su un collarino pieghettato che Ortensia giudicava, tra sé e sé, del tutto fuori moda. Un'altra riverenza alla zia Giovanna, il cui labbro imbronciato non degnava sorridere, ed ecco lo scalone di pietra umido come una grotta. Le camere erano gelide in inverno, ma fresche l'estate. Vi si entrava solo per mettersi in letto. Quello in cui dormivano le tre bimbe dominava come un monumento nell'angolo di una stanza devastata, i cui mobili erano stati tutti venduti dalle ultime generazioni. Il pavimento, coperto, nell'inverno, di paglia, era spaccato in vari punti. Si saliva fino al letto con uno sgabello di tre gradini. Dopo aver indossato le camiciole e le cuffie da notte e avere in ginocchio ringraziato Dio dei suoi favori, le tre signorinelle di Sancé di Monteloup si arrampicavano sul giaciglio di buona piuma, infilandosi sotto le coperte bucate. Angelica cercava subito il buco del lenzuolo corrispondente a quello della
coperta attraverso il quale avrebbe passato il roseo piede e avrebbe mosso le dita per far ridere Maddalena. La piccola era più tremante di un coniglio a causa delle storie che raccontava la nutrice. Anche Ortensia, ma non lo diceva perché era la maggiore. Solo Angelica godeva di quel timore con gioia esaltata. La vita era fatta di mistero e di scoperte. Si udivano i topi sgranocchiare nelle rivestiture di legno, le civette e i pipistrelli svolazzare sul tetto delle due torri mandando grida acute. Si udivano i levrieri lamentarsi nei cortili, il mulo del prato venire a strofinarsi la tigna a piè delle muraglie. E a volte, nelle notti nevose, si udivano gli urli dei lupi che scendevano dalla selvaggia foresta di Monteloup verso i luoghi abitati. O anche, a cominciare dalle prime sere di primavera, giungevano fino al castello i canti dei contadini del villaggio che ballavano al chiaro di luna...
Uno dei muraglioni del castello di Monteloup guardava verso le paludi. Era la parte più antica, costruita da un lontano signore di Ridoué di Sancé, compagno, nel XIII secolo, di Du Guesclin. Esso era fiancheggiato da due grosse torri, dai rondìni con tegole di legno, e quando Angelica ne faceva la scalata assieme a Gontrano e a Dionigi, si divertivano a sputare nelle caditoie attraverso cui i soldati del Medio Evo avevano gettato secchi di olio bollente sugli assalitori. I muraglioni avevan radice in un piccolo promontorio di calcare al di là del quale cominciavano le paludi. In altre epoche, al tempo dei primi uomini, il mare era avanzato sin lì. Ritirandosi, aveva lasciato una rete di fiumi, canali, stagni, ora invasi da verzura e da salici, regno dell'anguilla e della rana, ove i paesani circolavano solo in barca. Le capanne e i villaggi erano costruiti sulle isole dell'antico golfo. Dopo aver percorso quella provincia delle acque, il duca di La Trémoille, ospite una estate del marchese del Plessis, e che si piccava di esotismo, la chiamò: Venezia verde. La vasta prateria liquida, la dolce palude, si estendeva da Niort e Fontenay-leComte fino all'oceano. Essa raggiunse un po' prima di Marans, di Chaillé ed anche di Luçon, le saline, cioè le terre ancora salate. C'era infine la riva con la sua bianca barriera di sale prezioso, aspramente disputato fra i doganieri e i contrabbandieri. Se la nutrice non raccontava storie di gabellieri e di venditori di frodo, che appassionavano tutta la palude, si è perché lei era dalla parte della terra e si mostrava assai sprezzante verso quella gente che vive con i piedi nell'acqua ed è, oltre tutto, protestante. Dalla parte della terra, il castello di Monteloup apriva una facciata più recente, con numerose finestre. A mala pena un vecchio ponte levatoio dalle catene arrugginite, adorne di polli e tacchini, separava l'ingresso principale dalle praterie dove pascolavano i muli. Sulla destra c'erano la colombaia del signore, con il suo tetto di tegole tonde, e una masseria. Le altre masserie si trovavano al di là del fossato. Più lontano si scorgeva il campanile del villaggio di Monteloup. Ed ecco poi la foresta, in un serrato ondeggiamento di querce e castagni. Quella foresta poteva condurvi senza un buco di radura fino al bordo della Gâtine e del Bocage vandeano, quasi fino alla Loira e all'Angiò, se vi foste sentito la voglia di
attraversarla da parte a parte senza paura dei lupi e dei banditi. Quella di Nieul, la più vicina, apparteneva al signore del Plessis. La gente di Monteloup vi mandava a pascolare le mandrie di porci ed erano processi senza fine con l'amministratore del marchese, il signor Molines dalle mani rapaci. Vi si trovavano anche alcuni zoccolai e carbonai, e una strega, la vecchia Melusina. Costei a volte, d'inverno, ne usciva e andava a bere una scodella di latte sulla soglia delle porte in cambio di qualche pianta secca contro le malattie. Sul suo esempio, Angelica coglieva fiori e radici e li faceva seccare, bollire, li schiacciava, li chiudeva in sacchetti nel segreto di un rifugio che solo il vecchio Guglielmo conosceva. Pulcheria poteva chiamarla per ore senza che ella riapparisse. A volte, pensando ad Angelica, Pulcheria piangeva. Vedeva in lei il fallimento non solo di una saggia educazione ma anche della sua razza e della sua nobiltà che andava perdendo ogni dignità a causa di miseria e indigenza. All'alba, la piccola se ne fuggiva, chiome al vento, vestita poco meglio di una contadina, con camicia, un corsetto e una gonna stinta, e i suoi piedini sottili come quelli di una principessa erano duri come corno, poi ch'ella gettava senza pensarci un attimo le scarpe nel primo cespuglio che le capitava, per poter correre più leggermente. Se la richiamavano, girava sì e no il visetto tondo e dorato dal sole dove brillavano due occhi d'un verde azzurro, del colore della pianta che nasce nelle paludi e che porta il suo nome. «Bisognerebbe metterla in convento», gemeva Pulcheria. Ma il barone di Sancé, taciturno e roso dalle preoccupazioni, alzava le spalle. Come avrebbe potuto mettere in convento la sua seconda figlia quando non poteva mandarci la maggiore, quando aveva appena quattromila lire di rendita all'anno e doveva dare cinquecento lire per l'educazione dei due figli maggiori presso gli Agostini di Poitiers?
Dalla parte delle paludi, Angelica aveva per amico Valentino, il figlio del mugnaio. Dalla parte delle foreste aveva Nicola, uno dei sette figli di un contadino, e pastore del signor di Sancé. Con Valentino andava in barca lungo le vie d'acqua fiancheggiate da miosotidi, da menta e da angelica. Valentino coglieva intieri rami di questa pianta alta e vigorosa dal profumo squisito. Andava quindi a venderli ai monaci dell'abbazia di Nieul che ne facevano, con la radice e i fiori, un liquore medicinale e, con gli steli, della confettura. Ne riceveva in cambio scapolari e rosari di cui si serviva per lanciarli addosso ai ragazzi dei villaggi protestanti che fuggivano allora urlando come se il diavolo in persona avesse sputato loro in viso. Suo padre, il mugnaio, deplorava quelle strane maniere. Per quanto cattolico, faceva mostra di tolleranza. E che bisogno aveva poi suo figlio di far quel commercio di fasci d'angelica quando avrebbe ricevuto in eredità il mestiere di mugnaio, e non avrebbe dovuto far altro che installarsi nel comodo mulino, costruito su palafitte sul bordo dell'acqua? Ma Valentino era un ragazzo difficile da capire. Colorito in volto e già formato come un Ercole per i suoi dodici anni, più muto di una carpa, aveva uno sguardo vago
e quelli ch'eran gelosi del mugnaio dicevano che fosse quasi idiota. Nicola, il pastore chiacchierone e fanfarone, trascinava Angelica alla ricerca di funghi, more e mirtilli. Con lui ella andava a raccogliere le castagne. Ed egli le ricavava zufoli dal legno di avellano. Questi due ragazzi erano gelosi dei favori di Angelica al punto che si sarebbero uccisi a vicenda. Ell'era così graziosa che i paesani la consideravano viva incarnazione delle fate che abitavano nel grande dolmenno 2 del campo stregone. Aveva idee di grandezza. «Io sono marchesa», dichiarava a chi voleva starla a sentire. «Ah! sì? E perché mai?» «Perché ho sposato un marchese», rispondeva lei. Il “marchese” erano a volta a volta Valentino o Nicola, oppure uno di quei discolacci, non più cattivi di uccelli, ch'ella si trascinava dietro per prati e per boschi. Diceva pure, in maniera tanto buffa: «Io sono Angelica e conduco alla guerra i miei piccoli angeli.» Donde le venne il nome di “marchesina degli angeli”.
Al principio dell'estate del 1648, quando Angelica compiva otto anni, la nutrice Fantina cominciò ad aspettare i briganti e gli eserciti. Eppure, il paese appariva tranquillo, ma la nutrice, che indovinava molte cose, “sentiva” i briganti nel calore di quella greve estate. La si vedeva col viso volto verso nord, dalla parte della strada, come se il vento polveroso ne avesse recato l'odore. Le bastavano pochissimi indizi per sapere quel che accadeva lontano, non solo nel paese, ma pure nella provincia e fino a Parigi. Dopo avere acquistato dal venditore ambulante alverniese un po' di cera e qualche nastro, ell'era capace d'informare il signor barone delle più importanti notizie concernenti il regno di Francia. Stava per essere messa una nuova imposta, nelle Fiandre era in corso una battaglia, la regina madre non sapeva più che cosa inventare per trovar denaro e accontentare gli avidi principi. La sovrana stessa non navigava in buone acque e il re dai riccioli biondi portava brache troppo corte, come pure il suo giovine fratello che chiamavano “Petit Monsieur”, poiché suo zio, “Monsieur”, fratello del re Luigi XIII, viveva ancora. Intanto, il signor Cardinale Mazarino accumula oggetti d'arte e quadri di pittori italiani. La regina lo ama. Il Parlamento di Parigi è scontento. Ascolta il grido del suo povero popolo delle campagne rovinato dalle guerre e dalle imposte. In grandi carrozze e in bei costumi foderati d'ermellino, quei signori del Parlamento si recano al Palazzo del Louvre dove vive il piccolo re aggrappato con una mano alla gonna nera di sua madre, la Spagnola, e con l'altra alla veste rossa del Cardinale Mazarino, l'Italiano. A quei grandi che non sognano che potenza e ricchezze, essi dimostrano che il popolo non può più pagare, che i borghesi non possono più commerciare, che si è 2
Specie di antico sepolcro presso i Druidi e i Celti. (N.d.T.)
stanchi di essere tassati per il minimo bene. Non si dovrà ben presto pagare per la scodella in cui si mangia? La regina madre non è contenta. Il signor Mazarino neppure. Allora i grandi signori trasportano il piccolo re sul suo letto di giustizia. Con voce ben chiara anche se un po' esitante sulla lezione appresa, egli risponde a tutti quei gravi personaggi che occorre denaro per gli eserciti, per la pace che tra breve si firmerà. Il re ha parlato. Il Parlamento s'inchina. Nascerà una nuova imposta. Gli intendenti delle province sguinzaglieranno le loro guardie. Le guardie minacceranno. La brava gente supplicherà, piangerà, afferrerà le falci per uccidere i ricevitori e gli esattori, se ne andrà per le strade ad unirsi con i soldati sbandati, sopravverranno i banditi... A sentir la nutrice, non si poteva credere che soltanto quell'ignorante di venditore ambulante avesse potuto raccontarle tante cose. L'accusavano di fantasia mentre non si trattava che di divinazione. Una parola, un'ombra, il passaggio d'un mendicante troppo ardito, di un mercante preoccupato, la mettevano sulla via della verità. Fiutava i banditi nel calore burrascoso di quella bella estate del 1648, e, come lei, Angelica li aspettava...
2 Quella sera, Angelica aveva deciso di andare a pescare i gamberi con il pastore Nicola. Senza avvertire nessuno aveva galoppato verso la capanna dei Merlot, i genitori di Nicola. La frazione di tre o quattro casupole dove abitavano era situata sul margine della grande foresta di Nieul. Le terre ch'essi coltivavano appartenevano però al barone di Sancé. Riconoscendo la figlia del padrone, la contadina sollevò il coperchio del paiolo sul fuoco e gettò nella zuppa un pezzo di lardo per darle più gusto. Angelica posò sulla tavola una gallina che aveva strozzata poco prima nel cortile del castello. Non era la prima volta ch'ella si invitava così in casa dei contadini e non mancava mai di portare un piccolo dono, poiché i castellani erano quasi soli a possedere nel paese piccionaia e pollaio, per diritto signoresco. L'uomo seduto accanto al camino mangiava pane nero. Francina, la maggiore dei figli, andò a baciare Angelica. Aveva due anni più di lei, ma, da molto tempo dedita alle cure dei fratelli minori e al lavoro dei campi, non correva più in cerca di gamberi e di funghi come quel vagabondo di suo fratello Nicola. Era serena, gentile, con belle gote rosee e fresche e la signora di Sancé pensava di prenderla come cameriera in sostituzione di Ninetta che la infastidiva con la sua insolenza. Finito di mangiare, Nicola trascinò via Angelica. «Passiamo dalla stalla, prenderemo la lanterna.» Uscirono. La notte era assai scura perché il temporale covava ancora. Angelica ricordò in seguito che aveva girato il viso in direzione della strada romana che passava a mezzo miglio da lì e che le era sembrato di udire un vago rumore. Nel bosco era ancora più buio.
«Non avere paura dei lupi», disse Nicola. «In estate non vengono sin qui.» «Io non ho paura.» Giunsero presto al ruscello e sistemarono i panieri, muniti di un pezzo di lardo, sul fondo dell'acqua. Di tanto in tanto li ritiravano grondanti e carichi di grappoli di gamberi azzurri attirati dalla luce. Li gettavano in una gerla appositamente portata. Angelica non pensava neppure lontanamente che le guardie del castello di Plessis avrebbero potuto sorprenderli e che avrebbe provocato scandalo la scoperta di una delle figlie del barone di Sancé in atto di pescare di frodo con la lanterna assieme ad un giovane pezzente. Di colpo, ella si raddrizzò e lo stesso fece Nicola. «Hai sentito nulla?» «Sì, hanno gridato.» I due fanciulli rimasero immobili un istante, poi tornarono ai loro panieri. Ma erano preoccupati e poco dopo si fermarono ancora. «Questa volta, sento bene. Laggiù stanno gridando!» «É dalla parte della capanna.» Nicola raccolse rapidamente gli strumenti da pesca e si mise la gerla sulle spalle. Angelica prese la lanterna. Tornarono, camminando senza far rumore, per un piccolo sentiero muschioso. Avvicinatisi al margine del bosco, si immobilizzarono bruscamente. Un bagliore rosso penetrava sotto gli alberi e ne illuminava i tronchi. «Non... non è mica l'alba?» mormorò Angelica. «No, è il fuoco!» «Mio Dio, forse è da te che brucia? Andiamo, presto.» Ma egli la trattenne. «Aspetta!, gridano troppo per un incendio. C'è qualche altra cosa.» Avanzarono a passi prudenti fino ai primi alberi. Al di là, un lungo prato in declivio scendeva fino alla prima casa ch'era quella dei Merlot, e cinquecento metri più oltre si raggruppavano sul ciglio della strada le altre tre capanne. Una di queste bruciava. Le fiamme, sfuggendo dal tetto, rischiaravano una folla brulicante di uomini che gridavano e correvano, entravano nelle capanne, ne uscivano carichi di prosciutti, o tirandosi dietro le vacche e gli asini. La loro truppa proveniente dalla via romana scorreva nella strada incavata come un fiume denso e nero. Il flutto armato di bastoni e di picche passò sulla cascina Merlot, la sommerse, seguitò in direzione di Monteloup. Nicola udì sua madre che gridava. Si udì un colpo di arma da fuoco. Era stato il vecchio Merlot che aveva avuto il tempo di staccare dal muro il suo vecchio moschetto e di caricarlo. Ma, poco dopo, egli fu trascinato nel cortile come un sacco e bastonato a sangue. Angelica vide una donna in camicia attraversare il cortile di una casa e fuggire: gridava e singhiozzava. Alcuni uomini la inseguivano. La donna cercava di raggiungere il bosco. I due fanciulli indietreggiarono e, prendendosi per mano, fuggirono inciampando nei rovi. Quando tornarono, affascinati loro malgrado dall'incendio e da quel grido uniforme, fatto di grida mescolate, che saliva nella notte, videro che la donna era stata raggiunta dai suoi inseguitori che, avendola portata più lontano, si aggruppavano su lei come formiche su una cotica di lardo.
«É Paolina», sussurrò Nicola. Stretti l'uno all'altra dietro il tronco di una quercia enorme, guardavano ansimanti, gli occhi spalancati, l'orrendo spettacolo. «Ci hanno preso l'asino e il porco», disse ancora Nicola. Venne l'alba, facendo impallidire i bagliori dell'incendio che già andava placandosi. I briganti non avevano appiccato il fuoco alle altre capanne. La maggior parte di essi non s'era fermata a quelle quattro case senza importanza. Gli uomini avevano continuato verso Monteloup. Quelli che s'erano incaricati del saccheggio abbandonavano ora i luoghi delle loro imprese. Si vedevano i loro vestiti a brandelli, le guance scavate e scure di barba. Alcuni avevano grandi cappelli piumati e uno di essi portava persino una specie di casco che avrebbe potuto farlo prender per un militare. Ma la maggior parte erano vestiti di cenci senza forma e senza colori. Nella nebbia del mattino portata dalle paludi li si udì chiamarsi l'un l'altro. Non erano più, ora, che una quindicina. Un po' oltre la casa dei Merlot, si fermarono per mostrarsi il bottino. Dai gesti che facevano e dalle discussioni si capiva che lo trovavano magro: qualche lenzuolo e qualche fazzoletto preso nelle casse, vasi, grossi pani, formaggi. Uno di essi, intanto, mordeva in un prosciutto che teneva per il manico. Le bestie rubate erano andate avanti. Gli ultimi predoni riunirono in due o tre sacchi i poveri oggetti raccolti e si allontanarono senza gettare neppure uno sguardo dietro di loro.
Angelica e Nicola stettero a lungo prima di abbandonare il rifugio degli alberi. Già il sole era alto e faceva brillare la brina del prato quando si arrischiarono a scendere verso le case ora stranamente silenziose. Mentre si avvicinavano alla cascina dei Merlot, si udì un grido di bimbo. «É il mio fratellino», sussurrò Nicola. «Lui, almeno, non è morto.» Temendo che qualche bandito si fosse attardato, entrarono senza far rumore nel cortile. Si davano la mano, fermandosi quasi ad ogni passo. Trovarono prima di tutto il corpo di papà Merlot, a bocca sotto nel letame. Nicola si chinò, cercando di sollevare la testa del padre. «Di', papà, sei morto?» Si raddrizzò. «Credo che sia morto. Guarda com'è bianco, lui ch'è sempre così rosso.» Nella capanna, il bimbo si sgolava. Seduto sul letto in disordine, agitava disperato le manine. Nicola gli corse vicino e lo prese fra le braccia. «Grazie, Vergine Santa, il piccolo non ha niente.» Angelica, con gli occhi dilatati dall'orrore, contemplava Francina. La fanciulla era stesa al suolo, bianca e ad occhi chiusi. Aveva la gonnella sollevata fino al ventre e il sangue le colava fra le gambe. «Nicola», mormorò Angelica con voce soffocata, «che cosa... che cosa le hanno fatto?» Nicola guardò e un'espressione terribile gli invecchiò il viso di colpo. Volse gli occhi verso la porta, imprecò: «Maledetti, maledetti!...» Con un gesto brusco, porse il bimbo ad Angelica.
«Tienilo.» S'inginocchiò accanto alla sorella, abbassando pietosamente la gonnella strappata. «Francina, sono io, Nicola. Rispondimi, non sei morta?» Si udirono gemiti nella stalla vicina. La madre apparve lamentandosi e spezzata in due. «Sei tu, figlio? Ah! poveri bambini, miei poveri bambini! Che disgrazia! Hanno preso l'asino e il maiale e la piccola provvista di scudi. Eppure l'avevo detto a tuo padre che bisognava sotterrarli.» «Stai male, mamma?» «Per me è niente. Io sono una donna, ne ho viste altre, ma Francina, poveretta, così sensibile, sono capaci di averla fatta morire.» Cullava la figlia nelle sue grandi braccia di contadina e piangeva. «Dove sono gli altri?» chiese Nicola. Dopo lunghe ricerche, finirono per lo scoprire gli altri tre bimbi, un maschio e due femmine, nella madia dove s'erano accoccolati quando i briganti, dopo aver preso il pane, avevano cominciato a far violenza alla madre e alla sorella. Un vicino, intanto, venne a chieder notizie. La povera gente della frazione si raccoglieva per fare il conto dei suoi guai. C'erano solo due morti da deplorare: papà Merlot e un vecchio che aveva voluto anche lui servirsi del moschetto. Gli altri contadini erano stati legati alle sedie e bastonati senza eccesso. Nessuno dei bambini era stato sgozzato e uno dei mezzadri era riuscito ad aprire la porta della stalla alle sue vacche che s'erano date alla fuga e che certamente sarebbero state ritrovate. Ma quanta bella biancheria e quanti vestiti rubati, quanto vasellame di stagno per ornare il camino scomparso, quanti formaggi e prosciutti, e anche quanto denaro, così raro, così contato! La Paolina seguitava a piangere e a gridare. «Sono stati in sei a passarmi sul corpo!» «Taci», le disse bruscamente suo padre. «Così come sei conosciuta, sempre a correre coi giovani nei cespugli, c'è da credere che t'ha fatto piacere. Mentre la nostra vacca ch'era gravida! Non la ritroverò certo con la facilità con cui tu ritroverai un galante.» «Bisogna andarsene di qui», disse mamma Merlot che teneva ancora fra le braccia Francina svenuta, «ce ne possono essere degli altri che vengon dietro.» «Andiamo nel bosco con le bestie che rimangono. Lo abbiamo fatto un'altra volta, quando passarono le truppe di Richelieu.» «Andiamo a Monteloup.» «A Monteloup! Ma certo quelli sono lì.» «Andiamo al castello», disse qualcuno. Tutti subito approvarono. L'istinto ancestrale li rigettava verso la dimora signoresca, verso la protezione del signore che, nel corso dei secoli, aveva steso sui loro lavori l'ombra delle sue muraglie e delle sue torri. Angelica, che portava in braccio il bimbo, sentì che le si stringeva il cuore per un oscuro rimorso.
“Il nostro povero castello?” pensò. “Cade in rovina. Come possiamo, ora, proteggerli, questi infelici? Chi sa se i banditi non siano andati sin lì? E non è certo il vecchio Guglielmo con la sua picca che avrà potuto impedir loro d'entrare.” «Sì», diss'ella a voce alta, «andiamo al castello. Ma non bisogna andarci per la strada, e neppure per le scorciatoie attraverso i campi. Se per caso i banditi fossero da quelle parti, non potremmo arrivare all'ingresso. L'unica cosa da fare è scendere fino alle paludi prosciugate e abbordare il castello dal grande fossato. C'è una porticina di cui non ci si serve mai, ma io conosco il modo di aprirla.» Non aggiunse che quella porticina seminterrata dai calcinacci di un sotterraneo le era servita a più di una evasione e che in una di quelle prigioni di cui gli attuali baroni di Sancé conoscevano appena l'esistenza, si trovava il nascondiglio dove ella preparava piante e filtri come la strega Melusina. I paesani l'avevano ascoltata fiduciosi. Alcuni si accorgevano allora della sua presenza, ma erano tanto abituati a considerare Angelica come una incarnazione delle fate che la sua apparizione in mezzo alla loro sventura li stupiva appena. Una delle donne la liberò del bimbo ch'ella portava. Dopo di che, Angelica guidò la piccola folla per un lungo giro attraverso le paludi, sotto il sole cocente, lungo lo scosceso promontorio che aveva un tempo dominato quel golfo del Poitou invaso d'acqua marina. Con il volto sudicio di polvere e fango, ella incoraggiava i paesani. Li fece entrare attraverso una stretta apertura della postierla caduta in disuso. La frescura dei sotterranei li prese confortandoli, ma l'ombra fece piangere i bimbi. «Buoni, buoni», rassicurò la voce di Angelica. «Tra poco saremo nella cucina e la nutrice Fantina distribuirà la zuppa.» L'evocazione della nutrice diede coraggio a tutti. I paesani, lamentandosi e inciampando, salirono dietro la figlia del barone di Sancé gli scalini semicrollati, attraverso sale colme di detriti dove i topi fuggivano. Angelica vi si dirigeva senza esitare: era il suo dominio. Quando giunsero nel grande vestibolo, un rumore di voci li preoccupò per un istante. Ma Angelica, come del resto i paesani, non voleva neppure pensare che il castello avesse potuto essere assalito. V'era, da quella parte, molta gente, certo, ma non banditi perché il tono delle conversazioni era basso, misurato e anche triste. Altri paesani del villaggio e delle cascine dei dintorni erano già venuti a porsi sotto la protezione dei vecchi muraglioni crollanti. Allorché comparvero i nuovi venuti, salì un grido generale di terrore, perché erano stati presi per briganti. Ma, alla vista di Angelica, la nutrice si lanciò ad abbracciarla. «Dolcezza mia! Viva! Grazie Signore! Santa Radegonda! Sant'Ilario! Grazie!» Per la prima volta, Angelica s'irrigidì contro la focosa stretta. Aveva guidato la “sua” gente attraverso le paludi. Aveva sentito per ore dietro di sé quella lamentevole schiera. Non era più una bambina. Si liberò quasi con violenza dagli abbracci di Fantina Lozier. «Dai loro da mangiare», disse. Più tardi, come in un sogno, vide sua madre che, con gli occhi pieni di lagrime,
le accarezzava le gote. «Figlia mia, in che pensiero ci hai fatto stare!» Pulcheria, consumata come un cero, con le gote infiammate dal pianto, s'avvicinò anch'essa, seguita dal padre e dal nonno. Angelica trovava assai divertente quella sfilata di marionette. Aveva bevuto una gran tazza di vino caldo ed era completamente ebbra, calata in un felice torpore. Attorno a lei, la gente scambiava commenti su quanto era accaduto nella tragica notte: l'invasione del villaggio, le prime case bruciate, come il sindaco era stato buttato dalla finestra del suo primo piano, che tanto si vantava di aver fatto da poco costruire. Quei pagani di predoni avevano oltre a tutto invaso la chiesetta, rubato i vasi sacri e legato il curato con la sua servente all'altare. Gente posseduta dal diavolo! Altrimenti, non avrebbero inventato cose simili! Davanti ad Angelica, una vecchia cullava fra le braccia la sua nipotina, una ragazzetta dal volto gonfio di lagrime. La nonna scuoteva il capo e ripeteva di continuo con un misto di ammirazione e d'orrore: «Che cosa le hanno fatto! Che cosa le hanno fatto! Da non credersi...» Non si parlava che di donne violate, di uomini bastonati, di vacche portate via, di capre rubate. Il sacrestano aveva tenuto il suo asino per la coda mentre due banditi lo tiravano per le orecchie. E quello che, in tutto ciò, gridava più forte, era proprio il povero animale! Alla fine, molti erano riusciti a fuggire. Chi verso i boschi, chi verso le paludi, la maggior parte verso il castello. C'era abbastanza posto nei cortili e nelle sale per sistemare le bestie salvate a gran pena. Disgraziatamente, la loro fuga aveva attirato in quella direzione alcuni predoni e, nonostante il moschetto del signor di Sancé, le cose avrebbero potuto finir male se il vecchio Guglielmo non avesse avuto, d'improvviso, un'idea geniale. Puntellandosi alle catene rugginose del ponte levatoio, era riuscito a sollevarlo. Come lupi crudeli ma paurosi, i banditi erano indietreggiati dinanzi al misero fossato d'acqua putrida. S'era veduto allora uno strano spettacolo: il vecchio Guglielmo, ritto accanto alla postierla, che gridava ingiurie nella sua lingua e tendeva il pugno verso l'ombra dove fuggivano sagome cenciose. A un tratto, uno degli uomini laggiù s'era fermato, e gli aveva risposto. Ed era stato un dialogo bizzarro fra essi, attraverso la notte rossa per l'incendio, in quell'aspra lingua che vi raspava la schiena da farvi tremare. Non si sapeva esattamente quel che Guglielmo e il suo compatriota si fossero detti. Comunque, i briganti non erano tornati e, all'alba, s'erano allontanati dal villaggio. Guglielmo veniva considerato un eroe, tutti si riposavano alla sua ombra militare. L'incidente provava, in ogni caso, che la banda, che era sembrata composta di pitocchi campagnoli o di miserabili delle città, comprendeva anche soldati venuti dal nord, sbandatisi in seguito al trattato di pace di Westfalia. V'era di tutto in quegli eserciti che i principi assoldavano in servizio del re: valloni, italiani, fiamminghi, lorenesi, spagnoli, tedeschi; tutto un mondo che i pacifici abitanti del Poitou non potevano immaginare. Ben presto, alcuni affermarono che tra i banditi c'era persino
un polacco, uno di quei selvaggi che il condottiero Giovanni di Wert portava un tempo in Piccardia a sgozzare i bambini lattanti. Lo avevano veduto. Aveva un viso tutto giallo, un berretto di pelo, e senza dubbio una enorme capacità amorosa perché al termine della giornata tutte le donne del villaggio asserivano di averlo subìto. Si ricostruirono le case incendiate del villaggio. Presto fatto: fango misto a paglia e a canne dava muri abbastanza solidi. Si raccolsero le messi che non erano state saccheggiate e che furono buone, ciò che consolò molta gente. Solo due fanciulle, tra cui Francina, non riuscirono a riprendersi dalle violenze che i briganti avevan fatto loro subire. Ebbero una gran febbre e morirono. Si diceva che la gendarmeria di Niort avesse mandato alcuni soldati all'inseguimento di quella banda di predoni che appariva isolata e mal comandata. Così, l'incursione dei briganti sulle terre dei baroni di Sancé non mutò quasi nulla all'abituale maniera di vivere del castello. Tutt'al più si udì brontolare più spesso il vecchio nonno sulle sventure che la morte del buon re Enrico IV e l'insubordinazione dei protestanti avevano provocato. «Quella gente incarna lo spirito di distruzione di un reame. Un tempo ho rimproverato al signor di Richelieu di mostrarsi così duro, ma egli non lo è stato ancora abbastanza.» Angelica e Gontrano, ch'erano quel giorno gli unici ascoltatori della professione di fede del loro nonno, si scambiarono uno sguardo di connivenza. L'attualità sfuggiva completamente a quel bravo nonnino! Tutti i nipoti adoravano il vecchio barone, ma accettavano di rado i suoi giudizi fuori epoca. Il ragazzo, che aveva ormai quasi dodici anni, osò osservare: «Quei briganti, nonno, non erano ugonotti. Erano cattolici, ma disertori dagli eserciti affamati, e stranieri che non venivano pagati, si dice, o anche contadini dei campi di battaglia!» «Non avrebbero dovuto, allora, venire sin qui. E poi, non riuscirai a convincermi che non siano stati aiutati dai protestanti. Ai miei tempi, l'esercito pagava male le sue truppe, lo riconosco, ma regolarmente. Credimi, tutto questo disordine è d'ispirazione straniera, forse inglese e olandese. Essi si ribellano e si uniscono, tanto più che l'Editto di Nantes è stato troppo indulgente verso di loro, lasciandogli non soltanto il diritto di confessione ma anche l'eguaglianza dei diritti civili...» «Nonno, che cos'è questo diritto che è stato lasciato ai protestanti?» chiese improvvisamente Angelica. «Sei troppo giovane per capire, nipotina mia», disse il vecchio barone, che aggiunse: «I diritti civili rappresentano qualche cosa che non si può togliere alle persone, senza che queste perdano l'onore.» «Non è dunque denaro», fece la bambina. Il vecchio gentiluomo si felicitò con lei: «É proprio così, Angelica, tu capisci davvero cose al disopra della tua età.» Ma Angelica pensava che l'argomento richiedesse ancora qualche spiegazione. «Allora, se i briganti ci portano via tutto e ci lasciano nudi e crudi, ci lasciano
però i nostri diritti civili?» «Esattamente, mia cara», rispose il fratello. Ma v'era nella sua voce una certa ironia ed ella si chiese se egli non si facesse beffe di lei. Gontrano era un ragazzo di cui non si sapeva che cosa pensare. Parlava poco e viveva molto solo. Non potendo avere un precettore né potendo andare in collegio, doveva accontentarsi, per i suoi studi, dei rudimenti intellettuali che gli dispensavano il maestro elementare e il curato del villaggio. Molto spesso si rifugiava nel suo granaio per schiacciarvi cocciniglie rosse o per manipolare argille colorate al fine di eseguire strane composizioni ch'egli chiamava “quadri” o “pitture”. Per quanto assai trasandato come tutti i figli del barone, spesso rimproverava Angelica perché viveva da selvaggia e non sapeva tenere il suo rango. «Non sei poi così sciocca come sembri», aggiunse quel giorno a mo' di complimento.
3 Ma da un istante il vecchio barone tendeva l'orecchio verso il cortile donde provenivano richiami, grida miste a chiocciar di galline spaventate. Si udì poi un galoppo e infine grida più violente, fra cui si riconobbero gli accenti di Guglielmo. Era uno stupendo pomeriggio d'autunno e tutti gli altri abitanti della casa dovevano esser fuori. «Non abbiate paura, figlioli miei», disse il nonno, «stanno forse cacciando via un qualche mendicante...» Ma già Angelica era balzata sulla soglia e gridava: «Stanno assalendo papà Guglielmo e vogliono fargli male!» Zoppicando, il barone andò a prendere una sciabola rugginosa e Gontrano tornò armato di una frusta per i cani. Giunsero anch'essi sulla soglia in tempo per vedere il vecchio servitore armato della sua picca e, accanto a lui, Angelica. L'avversario non era neppur lui molto lontano. Si teneva dall'altra parte del ponte levatoio fuor di tiro, ma ancora faceva faccia. Era un ragazzone dall'aspetto famelico, e appariva furibondo. Nello stesso tempo, si sforzava di ritrovare un'aria compassata e ufficiale. Subito Gontrano abbassò la frusta e trasse indietro il nonno mormorando: «É il messo che viene per l'imposta. É stato già scacciato più volte...» Il funzionario maltrattato, pur seguitando a retrocedere a poco a poco, senza però volger le spalle, riprendeva una certa sicurezza dinanzi all'esitazione dei nuovi rinforzi. Si fermò a rispettosa distanza e, traendo di tasca un rotolo di carta, assai mal ridotto in seguito alla battaglia, si mise a svolgerlo con gran cura, mandando sospiri. Poi, con molti contorcimenti, cominciò a leggere un'ingiunzione secondo cui il barone di Sancé doveva pagare senza ritardo una somma di 875 lire, 19 soldi e 11 denari per taglie di mezzadri morosi, decima delle rendite del signore e taglia regia, tasse di monta di giumente, “diritti di polvere” di greggi transitanti per la strada reale
e ammenda per ritardo nel pagamento. Il vecchio signore divenne rosso di collera. «T'immagini forse, furfante, che un gentiluomo pagherà solo udendo simili chiacchiere del fisco, come farebbe un volgare plebeo?» gridò corrucciato. «Sapete bene che il vostro signor figlio ha sinora saldato abbastanza regolarmente le tasse annuali», disse l'uomo piegando la schiena. «Tornerò dunque quando ci sarà lui. Ma vi avverto: se domani alla stessa ora, per la quarta volta, non ci fosse e non pagasse, lo citerò immediatamente e il vostro castello e tutti i vostri mobili saranno venduti per debiti verso il tesoro reale.» «Fuori di qui, lacché di usurai dello Stato!» «Signor barone, vi avverto ch'io sono un servitore giurato della legge e forse designato anche come agente di sequestro.» «Per il sequestro ci vuole una sentenza», urlò il vecchio gentiluomo. «La vostra sentenza l'avrete facilmente, credetemi, se non pagherete...» «Come volete che vi si paghi se non abbiamo nulla?» gridò Gontrano vedendo che il vecchio si turbava. «Poiché voi siete usciere, venite dunque a constatare che i briganti ci hanno portato via ancora uno stallone, due asine e quattro vacche, e che, in ciò che voi reclamate come dovuto, la parte maggiore si riferisce alle taglie dei mezzadri di mio padre. Egli ha ben voluto pagare per loro sino ad ora, dato che quei poveri contadini non potevano farlo, ma, per questo, egli personalmente non deve nulla. E poi, per l'ultimo attacco dei briganti, i nostri contadini hanno sofferto ancora più di noi e non è certo oggi, dopo quel saccheggio, che mio padre potrà regolare la vostra fattura...» L'agente del fisco si calmò quasi più per quelle parole ragionevoli che non per le ingiurie del vecchio signore. Seguitando a gettare occhiate prudenti verso Guglielmo, si avvicinò un poco e con tono più addolcito e quasi compassionevole, ma fermo, spiegò ch'egli non poteva che ricevere e notificare gli ordini richiesti dall'intendenza fiscale. A suo avviso, l'unica cosa che poteva ritardare il sequestro era che il barone indirizzasse una supplica all'intendente generale del fisco, appoggiata dall'intendente provinciale di Poitiers. «Detta fra noi», aggiunse l'ufficiale giudiziario, ciò che fece fare smorfie di disgusto al vecchio signore, «neppure i miei semplici capi, come il procuratore e l'esattore, hanno facoltà di accordarvi deroghe o dispense. Tuttavia, poiché appartenete alla nobiltà, certamente conoscerete gente molto in alto. Allora, consiglio di amico, datevi da fare in questo senso!» «Non sono certo io che mi vanterei di citarvi come amico!» osservò aspramente il barone di Ridoué. «E io dico questo perché lo riferiate al vostro signor figlio. La miseria è per tutti, sappiatelo! Credete ch'io mi diverta quando faccio a tutti l'effetto di uno spettro e ricevo più botte di un cane rognoso? E con questo, buonasera alla compagnia e senza rancore.» Si rimise in testa il cappello e se ne andò zoppicando e osservando con dolore che la manica della giubba della sua uniforme era stata strappata durante il litigio. In senso inverso si allontanò, zoppicando anch'egli, il vecchio barone. Dietro di lui seguivano Gontrano e Angelica, entrambi silenziosi.
Il vecchio Guglielmo, imprecando contro immaginari nemici, riportò la sua antica lancia nel ripostiglio degli avanzi storici. Il nonno, tornato nel salone, prese a camminare su e giù e i bambini non osarono parlare per molto tempo. Infine, la voce della bimba si alzò nella penombra della sera. «Di', nonno, se i briganti ci hanno lasciato i diritti civili, quel tipo tutto vestito di nero non se li è, ora, portati via con sé?» «Va' da tua madre!» disse il vecchio con la voce fattaglisi di colpo tremula. Tornò a sedersi nella sua alta poltrona dalla tappezzeria consunta e non parlò più. Dopo avergli fatto la riverenza, i fanciulli si allontanarono. Quando Armando di Sancé seppe dell'accoglienza fatta all'esattore, sospirò e si grattò a lungo il ciuffetto di peli grigi che portava sotto il labbro, alla moda di Luigi XIII. Angelica amava d'un affetto misto a un senso di protezione quel padre buono e tranquillo, le cui difficoltà quotidiane avevano segnato con rughe profonde la fronte abbronzata. Per allevare la sua numerosa nidiata, questo figlio di nobile squattrinato aveva dovuto rinunciare a tutti i piaceri della sua condizione. Viaggiava raramente, non andava neppure più a caccia, contrariamente ai suoi vicini nobili che non erano più ricchi di lui ma si consolavano della loro miseria passando la vita a inseguir lepri e cinghiali. Tutto il suo tempo, Armando di Sancé lo dedicava alla cura delle sue piccole colture. Egli era vestito appena meglio dei suoi contadini ed emanava come loro un sentore di letame e di cavalli. Amava i suoi figli. Si divertiva con essi e ne andava fiero. Rappresentavano la sua migliore ragione di vivere. Per lui, c'erano innanzi tutto i suoi figli. E poi i suoi muli. Per un certo tempo, il gentiluomo aveva sognato di organizzare un piccolo allevamento di queste bestie da soma, meno delicate dei cavalli, più solide degli asini. Ma ecco che i banditi gli avevano portato via il migliore stallone e due asine. Un vero disastro: e quasi quasi pensava di vendere i suoi ultimi muli e i terreni che sinora aveva riservato per il loro allevamento. L'indomani della visita della guardia, il barone Armando tagliò accuratamente una penna d'oca e si pose al tavolo per redigere una supplica al re, che lo esentasse dalle imposte annuali. Nella lettera espose la sua condizione di gentiluomo in miseria. Da principio si scusò di non poter citare che nove figli viventi, ma che altri ancora sarebbero senza dubbio nati perché “sua moglie e lui erano ancora giovani e li facevano volentieri”. Aggiunse che aveva a carico il padre invalido, senza pensione, ch'era giunto al grado di colonnello sotto Luigi XIII. Che egli stesso era stato capitano e proposto per un grado più elevato, ma che aveva dovuto abbandonare il servizio del re perché la sua paga di ufficiale della reale artiglieria, 1700 lire all'anno, “non gli aveva fornito il mezzo di mantenersi in servizio”. Menzionò anche che aveva a carico due vecchie zie “di cui non hanno voluto né mariti, né conventi, per mancanza di dote, e che non possono far altro che consumarsi in umili bisogne”. Ch'egli aveva quattro domestici fra cui un vecchio militare senza pensione, necessario
al suo servizio. Due dei suoi figli maggiori di età erano in collegio e costavano così 500 lire solo per la loro educazione. Una figlia doveva esser messa in convento, ma chiedevano oltre 300 lire. Concluse dicendo che pagava le imposte dei suoi mezzadri da molti anni per mantenerli sulle terre e tuttavia si trovava debitore del fisco che reclamava 875 lire, 19 soldi e 11 denari, solo per l'anno in corso. Ora, la sua rendita totale ammontava appena a 4000 lire all'anno, mentre doveva nutrire diciannove persone e conservare il suo rango di gentiluomo, nel momento in cui, per colmo di sciagura, dei briganti avevano rubato, ucciso e saccheggiato sulle sue terre, precipitando i mezzadri sopravvissuti in una miseria ancora maggiore. Per terminare, egli chiedeva dalla bontà reale la remissione graziosa delle imposte richieste, un aiuto o un prestito di almeno mille lire e sollecitava “in grazia del re”, se fosse partita una flotta per l'America e le Indie, di assumere come alfiere il suo “cavaliere”, il suo figlio maggiore che studiava logica presso i padri, ai quali, oltre tutto, doveva un anno di pensione. Aggiungeva che, da parte sua, era sempre pronto ad accettare qualsiasi carica compatibile con la sua condizione di gentiluomo, purché potesse nutrire i suoi, visto che la sua terra, anche se venduta, non lo consentiva più. Dopo aver sparso della sabbia per asciugare la lunga missiva che gli aveva richiesto alcune ore di lavoro, Armando di Sancé scrisse altre due parole al suo protettore e cugino, il marchese del Plessis di Bellière, cui dava incarico di consegnare quella supplica nelle mani del re o della regina madre, accompagnandola con raccomandazioni atte a farla accogliere. Terminava cortesemente: «Spero, signore, di rivedervi presto e di trovare in questa provincia occasioni di potervi essere utile sia con mule da trasporto di cui posseggo alcuni esemplari assai belli, sia con frutta, castagne, formaggi e vasi di latte rappreso per la vostra tavola.» Poche settimane dopo, il povero barone Armando di Sancé avrebbe potuto aggiungere un nuovo dispiacere alla sua lista. Una sera, infatti, in cui si annunciava la prima neve, si udì, prima sulla strada e poi sul vecchio ponte levatoio che aveva ritrovato il suo ornamento di tacchini, il galoppo di un cavallo. I cani abbaiarono nel cortile. Angelica, che la zia Pulcheria era riuscita a imprigionare nella sua camera per farle fare qualche lavoro a ferri, si precipitò alla finestra. Vide un cavallo da cui scendevano due cavalieri alti e magri, vestiti di nero, mentre un mulo carico di bauli appariva nel sentiero, condotto da un contadinello. «Zia! Ortensia!» chiamò, «venite a vedere, credo che siano i nostri due fratelli Giovannino e Raimondo.» Le due bambine e le anziane signorine scesero le scale a precipizio e giunsero nel salone nel momento in cui gli scolari stavano salutando il nonno e la zia Giovanna. I domestici accorrevano d'ogni parte. Qualcuno era andato a chiamare nei campi il barone e la signora nell'orto. Gli adolescenti rispondevano piuttosto di mala grazia a quel chiassoso benvenuto. Avevano rispettivamente quindici e sedici anni, ma spesso erano presi per
gemelli perché erano di eguale statura e si rassomigliavano. Avevano entrambi lo stesso colorito opaco, gli occhi grigi e capelli neri e tesi che pendevano sul colletto bianco, gualcito e sudicio, della loro uniforme. Solo l'espressione era diversa: i lineamenti di Giovannino erano più duri, quelli di Raimondo mostravano un maggiore riserbo. Mentre rispondevano a monosillabi alle domande del nonno, la nutrice, tutta lieta, stendeva una bella tovaglia sulla tavola e recava vasi di fegato d'oca, pane, burro e un paiolo pieno delle prime castagne. Gli occhi degli adolescenti brillarono. Senza attendere oltre, si posero a tavola e mangiarono con una voracità e una ineducazione che lasciarono Angelica ammirata. Ella notò tuttavia ch'erano magri e pallidi, e che i loro abiti di rascia nera mostravano la trama ai gomiti e ai ginocchi. Essi, parlando, tenevano gli occhi bassi. Né l'uno né l'altro pareva che l'avessero riconosciuta, eppure ella ricordava di aver aiutato Giovannino, un tempo, a scovare gli uccelli, come faceva ora Dionigi con lei. Raimondo portava alla cintura un corno cavo. Ella gli chiese che cosa fosse. «É per metterci l'inchiostro», rispose lui con tono arrogante. «Io l'ho buttato via», disse Giovannino. Il padre e la madre giunsero con le fiaccole. Il barone, nonostante la sua gioia, era un po' preoccupato. «Com'è che siete qui, ragazzi miei? Quest'estate non siete venuti. Non è strano, come periodo di vacanze, il principio dell'inverno?» «Non siamo venuti in estate», spiegò Raimondo, «perché non avevamo neppure un soldo per noleggiare un cavallo e neppure per prendere la carrozza pubblica che va da Poitiers a Niort.» «E se ora siamo qui, non è perché siamo più ricchi...» seguitò Giovannino. «...ma perché i padri ci hanno messo alla porta», finì Raimondo. Vi fu un silenzio impacciato. «Per San Dionigi», esclamò il nonno, «quale sciocchezza avete commesso, signori, perché vi si faccia una simile offesa?» «Nessuna, ma già da quasi due anni gli Agostini non hanno ricevuto la nostra pensione. Ci hanno fatto capire che altri allievi, i cui genitori erano più generosi, avevano bisogno del nostro posto...» Il barone Armando prese a camminare su e giù, segno in lui di grande agitazione. «Ma insomma, non è possibile. Se non avete fatto nulla di male i padri non possono mettervi alla porta senz'altra forma di processo: voi siete gentiluomini! I padri lo sanno bene...» Giovannino, il maggiore, fece un'aria scura: «Sì, lo sanno benissimo e posso anche ripetervi le parole che l'economo ci ha dato per tutto viatico: ha detto che i nobili erano i peggiori pagatori e che, se non possedevano denaro, non avevano che da fare a meno di latino e di scienze.» Il vecchio barone raddrizzò il busto piegato. «Stento a credere che diciate la verità: dovete pensare che la Chiesa e la Nobiltà non fanno che uno e che gli scolari rappresentano il futuro splendore dello Stato. I
buoni padri lo sanno meglio di chiunque altro!» Rispose il secondo ragazzo, Raimondo, destinato alla carriera ecclesiastica, tenendo gli occhi ostinatamente a terra: «I padri ci hanno insegnato che Dio avrebbe saputo scegliere i suoi e può darsi che non ci abbia ritenuto degni...» «Chiudi il becco, Raimondo», disse il fratello. «Ti assicuro che non è il momento di aprirlo: se vuoi diventare monacello questuante, libero di farlo! Ma io sono il più anziano e sono del parere del nonno: la Chiesa ci deve considerazione, a noi altri nobili! Se, ora, ci preferisce dei plebei, figli di borghesi e di bottegai, padronissima. Avrà scelto la sua perdita e crollerà!» I due baroni gridarono insieme: «Giovannino, non hai il diritto di bestemmiare così!» «Io non bestemmio: mi limito a constatare. Nella mia classe di logica in cui io sono il più giovane e secondo su trenta allievi, ci sono esattamente venticinque figli di borghesi e di funzionari che pagano fino all'ultimo soldo e cinque gentiluomini di cui soltanto due pagano regolarmente...» Armando di Sancé volle aggrapparsi a quella sottile soddisfazione di prestigio. «Altri due figli di nobili sono stati dunque mandati via insieme con voi?» «Niente affatto: i genitori di quelli che non pagano sono persone altolocate, di cui i padri hanno paura.» «Ti proibisco di parlare così dei tuoi educatori», disse il barone Armando, mentre il suo vecchio padre imprecava tra sé e sé: «Per fortuna che il re è morto per non vedere simili cose!» «Sì, per fortuna, nonno, come dite voi», disse ghignando Giovannino. «Tanto più che è stato un bravo monaco ad assassinare Enrico IV.» «Taci, Giovannino», esclamò a un tratto Angelica. «Le parole non sono il tuo forte e, quando parli, sembri un rospo. E, del resto, non è stato Enrico IV ad essere assassinato da un monaco, ma Enrico III.» L'adolescente ebbe un sussulto e guardò sorpreso la bambina ricciuta che lo apostrofava tranquillamente: «Toh, eccoti, ranocchietta, principessa delle paludi! “Marchesa degli angeli”... E dire che m'ero persino dimenticato di salutarti, sorellina.» «Perché mi chiami ranocchietta?» «Perché tu mi hai chiamato rospo. E poi, non seguiti sempre a scomparire fra l'erba e le canne delle paludi? O saresti divenuta saggia e smorfiosa come Ortensia?» «Spero di no», disse modestamente Angelica. Il suo intervento aveva portato una distensione. Del resto, i due ragazzi avevano terminato di mangiare e già la nutrice stava sparecchiando. L'atmosfera della casa rimaneva però piuttosto pesante. Confusamente, ognuno cercava una soluzione a quel nuovo colpo della sorte. Si udì, nel silenzio, urlare il più piccolo dei bimbi. La madre, le zie e lo stesso Gontrano approfittarono di quel pretesto “per andare a vedere”. Ma Angelica rimase fra i due baroni e i due fratelli maggiori tornati dalla città in così pietose condizioni. Ella si chiedeva se questa era la volta in cui avrebbero perduto l'onore. Aveva
una gran voglia di domandarlo, ma non osava. I fratelli, intanto, le ispiravano un sentimento vagamente simile a sprezzante pietà. Il vecchio Lutzen, assente al momento dell'arrivo dei ragazzi, recò nuove fiaccole in onore dei viaggiatori e rovesciò un po' di cera abbracciando goffamente il maggiore. Il minore schivò con una punta di disprezzo la rude carezza di benvenuto. Ma, senza smontarsi, il vecchio soldato non esitò a proclamare il suo punto di vista: «Era ora che foste tornati! Anzitutto, a che vi serve masticare un po' di latino e non sapere quasi scrivere la vostra lingua? Quando Fantina mi ha detto che i giovani padroni tornavano qui definitivamente, subito mi son detto che il signor Giovannino avrebbe finalmente potuto partire sul mare...» «Sergente Lutzen, debbo ricordarti l'antica disciplina?» esclamò all'improvviso con voce secca il vecchio barone. Il vecchio non insisté e tacque. Angelica era stupita per il tono altezzoso e insolito del nonno, il quale, volgendosi al nipote primogenito: «Spero, Giovannino», disse, «che tu abbia dimenticato i tuoi progetti infantili: diventare navigatore.» «E perché dovrei dimenticarlo, nonno? Mi sembra anzi che, ora, non vi sia per me altra soluzione.» «Fin quando vivrò, tu non sarai marinaio. Tutto, ma non questo!» E il vecchio picchiò col bastone il pavimento spaccato. Giovannino sembrava avvilito per l'improvvisa opposizione del nonno a un progetto che gli stava a cuore e che gli aveva permesso di sopportare senza troppo rancore l'espulsione di cui era stato vittima. «Finiti i paternoster e le recitazioni di latino», aveva pensato. «Ora sono un uomo e m'imbarcherò su un vascello del re.» Armando di Sancé tentò d'intervenire. «Via, padre, perché questa intransigenza? Sarebbe forse una soluzione come un'altra. Vi dirò del resto che, nella supplica che ho inviato ultimamente al re, avevo fra l'altro richiesto di facilitare un eventuale imbarco del mio figlio primogenito su un mercantile o su una nave da guerra.» Ma il vecchio barone si agitava irosamente. Angelica non lo aveva mai visto così in collera, neppure il giorno in cui aveva avuto l'alterco con l'esattore delle imposte. «Non mi piacciono le persone a cui bruciano i piedi sul suolo dei loro avi. Al di là dei mari, essi non trovano mai meraviglie, ma selvaggi ignudi dalle braccia tatuate. Il primogenito di un nobile deve servire nell'esercito del re. Questo è tutto.» «Non chiedo di meglio che servire il re, ma sul mare», replicò il ragazzo. «Giovannino ha sedici anni. Dopo tutto, è ora che scelga il proprio destino», azzardò il padre, esitando. Un'espressione di dolore passò sul volto rugoso incorniciato dalla corta barba bianca. Il vecchio alzò la mano. «É vero che altri prima di lui, nella famiglia, scelsero il loro destino. Bisogna proprio che anche voi mi deludiate, figlio mio?» aggiunse con tono di profonda tristezza.
«Lungi da me l'idea di riportarvi a penosi ricordi, padre», si scusò il barone Armando. «Io stesso non ho mai pensato ad andarmene e sono legato più di quanto possa dire alle nostre terre di Poitou. Ma ricordo quanto fosse dura e precaria la mia situazione nell'esercito. Anche se nobile, non si può senza denaro accedere ai gradi superiori. Ero pieno di debiti e a volte costretto a vendere tutto il mio equipaggiamento: cavallo, tenda, armi, e a dare in affitto persino il mio servo. Vi ricordate di tutte le belle terre che doveste vendere per mantenermi in servizio?...» Angelica seguiva la conversazione con molto interesse. Non aveva mai visto un marinaio, ma era di un paese dove, attraverso le valli della Sèvre e della Vandea, s'ingolfano i grandi richiami dell'oceano. Sulla costa da La Rochelle a Nantes, passando per le Sables-d'Olonne, ella sapeva che v'erano battelli di pescatori che partivano per terre lontane dove si trovavano uomini rossi come il fuoco o screziati come cinghiali. Si raccontava persino che un marinaio bretone, delle parti di SaintMalo, aveva portato in Francia alcuni selvaggi a cui spuntavano le penne sulla testa come agli uccelli. Ah! fosse stata un uomo, non avrebbe chiesto il parere del nonno, lei!... Provava rancore verso Giovannino non solo perché era così nero e miserabile, ma anche perché si lasciava rimproverare come un pulcino bagnato. Perché mai quei due gran babbei in grembiule da scolari facevan quell'aria colpevole come dinanzi a un tribunale? Forse l'abitudine delle verghe dei loro maestri? Mai Angelica avrebbe sopportato d'esser picchiata! Del resto, non era colpa loro se li avevano cacciati via. Erano poveri, ecco tutto, non avevano alcun motivo di vergognarsi. E, nel giorno del Giudizio, sarebbero stati quegli abati rapaci ad arrossire davanti a Dio!... Angelica, figlia dei campi, e tutto sommato più ammirata dai suoi amici contadini e servitori che non una bambina di città, non aveva alcuna idea della disciplina, dell'umiltà e della modestia. Intanto, incoraggiato dall'appoggio di suo padre, Giovannino presentava la propria difesa. Dapprima timidamente, poi con sempre più calore... Diceva ch'era stato rinchiuso a dieci anni in un collegio oscuro e fetido e vi aveva decifrato al lume delle candele greco e latino e libri incomprensibili come La Croce di Gesù, pieno d'immagini dell'Inferno. Però, è appena se sapeva, ora, scrivere il francese. Il bagaglio delle matematiche che gli era stato dato era assai leggero. Quanto alla storia e alla geografia, se ne imparava più ascoltando la nutrice che gli insegnamenti di quei vecchi rammolliti, i quali non avevano poi alcuna notizia delle altre scienze, come, ad esempio, l'astronomia e la scienza della navigazione. L'avo si degnò di sorridere dinanzi a quella requisitoria e spianò un poco il volto. «Tratti con molta arroganza educatori la cui reputazione è tuttavia considerevole. Poitiers è la terza città francese ove si vanno a fare gli studi umanistici. Ma, insomma, non posso volertene per il rimpianto che hai di non aver appreso abbastanza. Non puoi però rimproverare ai tuoi maestri di non averti insegnato la scienza della navigazione, dato che tale scienza non esiste.» «Eppure, per dirigersi verso questo o quel luogo a proprio piacimento occorre...» «Non v'è nulla di scientifico in ciò. Tutto dipende dalle correnti, dai venti. Sono
cose che non si spiegano. É un istinto che i vecchi marinai acquistano a forza di navigare. Ma bisogna essere pescatori o commercianti, e non gentiluomini, per far quella vita.» «Perdonatemi, nonno, ma io sono convinto che si può imparare la navigazione anche sui libri. V'è una quantità di opere su questo soggetto, a cominciare dalle Conoscenze nautiche del pilota vandeano del XV secolo Garcia Ferrande fino a quella del navigatore di La Rochelle, Alphonse le Saintongeais, che spiega la navigazione di lungo corso. Ho udito dire che vi sono libri anche più elevati e che utilizzano tavole di longitudine basate sulla conoscenza del tempo esatto per fare il punto in mare.» «Tutte frottole, ragazzo mio! Voi avete la testa troppo imbottita di libri. Per caso non pretenderai, visto che ci sei, che quella diabolica invenzione del pendolo possa servire a qualche cosa? Come s'io non conoscessi altrettanto bene l'ora con l'orologio a polvere, inventato da venti secoli...» «Precisamente, nonno, non vi rendete affatto conto! Anzitutto, pur essendo diabolici come voi dite, gli orologi a pendolo saranno sistemati su tutti i campanili delle chiese, alcuni dei quali già lo hanno. Il pendolo serve poi a misurare il tempo con la precisione voluta e senza questa nozione del tempo non si potrebbe dirigere in mare. Per tutti quei calcoli, il vostro orologio a polvere non è abbastanza preciso...» Il vecchio barone, scoraggiato, scosse la testa. «Giovannino, sembra che il collegio abbia avuto su te un effetto pernicioso. Per San Dionigi! Tutta la vostra pretesa scienza mette in subbuglio anche le teste più solide. E ti lamenti ancora di non aver potuto studiare abbastanza! E che sarebbe, allora? Già non sei lontano dall'eresia. Bisognerà che ti confessi al più presto!» Raimondo, rimasto sino allora in silenzio, disse con voce piana: «La fede non può essere perduta a causa di nessuna scienza, e le scienze che ci hanno insegnato non sono affatto diaboliche, come non lo è l'orologio a pendolo.» «Questo è troppo», s'indignò il barone di Ridoué. «Sicché, tu, Raimondo, che pensi solo agli ordini religiosi, anche tu difendi queste insulsaggini moderne! Ai tempi nostri, non ce ne interessavamo e ce ne trovavamo benissimo. Non siete di questo parere, Armando?» Ma il figlio non rispose e Angelica comprese che questi non aveva ascoltato nulla e si spremeva il cervello per trovare una occupazione onorevole per i suoi due figli. Non ottenendo risposta, il vecchio brontolò: «Non mi toglierete dalla testa che tutte queste idee sovversive sulla navigazione e sulle nuove invenzioni sono anch'esse di origine luterana e simili. Per caso, il vecchio Guglielmo ch'io sospetto d'essere ugonotto non ha forse tentato qualche volta di catechizzare gli uni e gli altri alla sua maniera?» «É troppo fiero per questo», disse Raimondo. «Giuro che non l'ha mai fatto!» «Non sta bene giurare, comunque sono lieto di non dover dubitare di un vecchio servitore della famiglia raccolto sotto il mio tetto. Ma basta con le chiacchiere. Son troppo buono a discutere con galletti della vostra specie. La decisione dipende da me e da vostro padre. E non avrete che da inchinarvi. Mi avete capito, Giovannino?» «Sì, signore», rispose il ragazzo umilmente.
Ma negli occhi gli brillava una luce decisa.
L'indomani mattina, mentre girellava per il cortile, Angelica vide un contadinello che portava al barone un foglio di carta gualcito. «L'intendente Molines mi chiede di passare da lui. Non sarò certo di ritorno per pranzo», disse il barone facendo segno a un palafreniere di sellargli il cavallo. La signora di Sancé che, con un cappello di paglia posato sul fazzoletto da testa, stava per andare nell'orto, serrò le labbra. «Viviamo proprio in un tempo inaudito», sospirò. «Tollerare che un vicino plebeo, un intendente ugonotto, si permetta semplicemente di chiamarvi nel suo ufficio, voi che siete un autentico discendente di Filippo Augusto? Mi chiedo quali affari onesti un nobile gentiluomo possa aver da trattare con l'amministratore di un castello vicino. Si tratterà ancora di muli...» Il barone non rispose e si allontanò scuotendo il capo. Angelica, durante quell'intermezzo, s'era intrufolata in cucina, dove sapeva di trovare le scarpe e il mantello. Poi raggiunse il padre nella stalla. «Posso accompagnarvi, padre?» chiese con la sua aria più graziosa. Egli non poté resistere e la prese in sella. Angelica era la sua figlia preferita. La trovava assai bella e a volte sognava che avrebbe sposato un duca.
4 Quel giorno d'autunno era limpido e la foresta vicinissima, non ancora spogliata delle foglie, spiegava contro il cielo azzurro le sue fronde rossastre. Passando dinanzi al cancello del castello del Plessis-Bellière, Angelica si sporse per cercare di scorgere, in fondo al viale di castagni, la bianca visione del delizioso edificio che si rifletteva nel suo stagno come una nube di sogno. Tutto era silenzioso e il castello in stile Rinascimento, che i suoi padroni abbandonavano per vivere alla corte, pareva dormire nel mistero del suo parco e dei suoi giardini. Le cerbiatte della foresta di Nieul, alla quale si addossava, passavano per i viali deserti. L'abitazione dell'amministratore Molines si trovava due chilometri più oltre, ad uno degli ingressi del parco. Bel padiglione di mattoni rossi con tetto d'ardesie azzurre, pareva, nella sua solidità borghese, l'accorto guardiano di una fragile costruzione la cui grazia tutta italiana stupiva ancora i paesani, abituati ai castelli medievali. L'amministratore era fatto a immagine della sua casa. Austero e danaroso, saldamente organizzato nei suoi diritti e nel suo ruolo, era lui, in verità, che pareva il padrone di quel vasto dominio del Plessis da cui il proprietario era sempre assente. Forse ogni due anni, in autunno per la caccia e in primavera per cogliere i mughetti, uno stuolo di signori e di dame si abbatteva sul Plessis con le sue carrozze,
i suoi cavalli, i suoi levrieri e i suoi musicisti. Per qualche giorno, era una farandola di feste e di distrazioni, di cui si spaventavano un poco i nobilucci del vicinato, invitati perché ci si divertisse alle loro spalle. Poi tutti ripartivano per Parigi e la dimora ripiombava nel suo silenzio, sotto l'egida del severo intendente. Al rumore degli zoccoli del cavallo, Molines avanzò nel cortile della sua casa e s'inchinò varie volte con un'agilità che non gli costava fatica, poiché faceva parte delle sue funzioni. Angelica, che sapeva come l'uomo potesse essere duro e arrogante, non apprezzava quella cortesia esagerata, ma il barone Armando se ne mostrava invece assai lieto. «Stamane avevo un po' di tempo libero, e non ho creduto di dovervi far attendere, signor Molines.» «Ve ne ringrazio, signor barone. Temevo che avreste considerato ardita la mia maniera di invitarvi per mezzo di un servo a venire qui.» «Non me ne sono avuto a male. So che voi evitate di venire da me a causa di mio padre che persiste nel vedere in voi un pericoloso ugonotto.» «Il signor barone ha uno spirito molto acuto. Non vorrei, infatti, dispiacere al signor di Ridoué, né alla signora baronessa che è assai devota. Così preferisco parlare con voi qui da me e penso che mi farete l'onore di dividere il nostro pasto assieme alla vostra piccola damigella.» «Non sono più piccola», disse vivamente Angelica. «Ho dieci anni e mezzo e dopo di me ci sono ancora Maddalena, Dionigi, Maria Agnese, Alberto e un altro bambino nato da poco.» «La signorina Angelica voglia scusarmi. Essere la maggiore richiede infatti giudizio e maturità. Sarei felice che mia figlia Berta vi frequentasse, perché, ahimè!, le religiose del suo convento mi assicurano che ha un cervello di uccellino da cui non ci sarà molto da cavare!» «Esagerate, signor Molines», protestò cortesemente il barone Armando. “Questa volta sono d'accordo con Molines”, pensò Angelica, che odiava la figlia dell'intendente, una ipocrita brunetta. Nei confronti dell'intendente, i suoi sentimenti erano meno precisi. Pur giudicandolo antipatico, ella aveva di lui una certa stima, suscitata senza dubbio dall'aspetto confortevole della sua persona e della sua casa. I vestiti dell'intendente, sempre di colore scuro, erano di bella stoffa e certo venivano donati o piuttosto rivenduti prima della minima traccia di usura. Calzava scarpe a fibbie con tacco abbastanza alto, secondo la nuova moda. E, in casa sua, si mangiava stupendamente. Il nasino di Angelica ebbe un fremito allorché essi entrarono nella prima stanza, ammattonata e brillante di pulizia, adiacente alla cucina. La signora Molines si tuffò nelle proprie gonne per una profonda riverenza, poi tornò ai suoi dolci. L'intendente condusse gli ospiti in un piccolo studio dove fece portare dell'acqua fresca e una bottiglia di vino. «Questo vino mi piace alquanto», disse dopo aver alzato il bicchiere, «è il prodotto di un terreno in collina ch'è stato per molto tempo incolto e che con certe cure ho potuto vendemmiare lo scorso autunno. I vini del Poitou non valgono quelli della Loira, ma sono fini.»
Aggiunse dopo una pausa: «Non vi ripeterò mai abbastanza, signore, quanto sia lieto che voi siate venuto di persona al mio invito. É per me il segno che l'affare al quale penso abbia possibilità di riuscire.» «Insomma, mi volevate sottoporre a una specie di prova?» «Il signor barone non me ne voglia. Io non sono un uomo di alta educazione e ho ricevuto solo una modesta istruzione da villaggio. Ma vi confesserò che la boria di certi nobili non mi è sembrata mai una prova d'intelligenza. E ci vuole dell'intelligenza per parlare di affari, anche se molto modesti.» Il gentiluomo di campagna si appoggiò allo schienale della sedia tappezzata e contemplò l'intendente con curiosità. Era un poco ansioso di conoscere ciò che stava per esporgli quel vicino la cui reputazione non era delle migliori. L'intendente era considerato ricchissimo. Agli inizi, s'era mostrato duro con i paesani e gli altri fattori, ma, negli ultimi anni, si sforzava d'esser più cortese, anche verso i più poveri. Non si sapeva molto circa le cause di quel mutamento e di quell'insolita bontà. I paesani ne diffidavano, ma siccome egli si mostrava ormai conciliativo per le taglie e per le altre prestazioni di cui il castello era debitore verso il re e il marchese, lo si trattava con rispetto. I maligni insinuavano ch'egli agisse a quel modo per indebitare il suo padrone sempre assente. Quanto alla marchesa e al figlio Filippo, non s'interessavano della proprietà più di quanto facesse lo stesso marchese. «Se ciò che si racconta è vero, voi sareste sul punto, semplicemente, di prender per vostro conto tutto il dominio dei Plessis», disse un po' bruscamente Armando di Sancé. «Pura calunnia, signor barone. Non solo io tengo a restare un leale servitore del signor marchese, ma non vedrei alcun interesse in tal genere di acquisto. Per rassicurare i vostri scrupoli, vi confiderò, per quanto non tradisca alcun segreto, che questa proprietà è già molto ipotecata!» «Non proponetemi di acquistarla, non ne ho i mezzi...» «Lungi da me un tal pensiero, signor barone... Un po' di vino?...» Angelica, alla quale la conversazione non interessava, scivolò fuor dello studio e tornò verso il salone dove la signora Molines si affaccendava ad avvolgere la pasta di una torta enorme. Ella sorrise alla bimba e le porse una scatola da cui proveniva un delizioso odore. «Prendete, mangiate questo, carina. É conserva di angelica. Voi ne portate il nome. La faccio io stessa con del bel zucchero bianco. É migliore di quella dei padri dell'abbazia che usano solo zucchero grezzo. Come volete che i pasticcieri di Parigi apprezzino questo condimento quando esso ha perduto ogni sapore dopo aver bollito rozzamente in tini mal puliti dalle loro zuppe e dai loro sanguinacci?» Mentre l'ascoltava, Angelica mordeva con gusto quei sottili gambi caramellosi e verdi. Ecco dunque quel che diventavano dopo esser state colte quelle grandi e forti piante delle paludi, il cui profumo, allo stato naturale, era più amaro. Ella si guardava intorno ammirata. I mobili erano lucidi. In un angolo v'era un orologio, l'invenzione che il nonno diceva diabolica. Per vederlo meglio e udirne il
mormorio la bimba si avvicinò allo studio dove i due uomini stavano conversando. Udì suo padre che diceva: «Per San Dionigi, Molines, mi sorprendete. Si raccontano molte cose sul vostro conto, ma, insomma, nell'insieme, tutti sono d'accordo nel riconoscervi una forte personalità e del fiuto. Ora apprendo dalla vostra bocca che, in verità, voi coltivate le peggiori utopie.» «In che cosa vi sembra tanto irragionevole ciò che vi ho esposto, signor barone?» «Suvvia, riflettete. Voi sapete ch'io m'interesso di muli, che sono riuscito a creare per mezzo d'incroci una razza abbastanza bella, e m'incoraggiate a intensificarne l'allevamento di cui vorreste incaricarvi di smerciare i prodotti. Tutto ciò va benissimo. Ma dove non vi seguo è quando considerate possibile un contratto di lunga durata con... la Spagna. Ora, amico mio, noi siamo in guerra con la Spagna.» «La guerra non durerà in eterno, signor barone.» «Anche noi lo speriamo. Ma non si può fondare un commercio serio sopra una speranza di tal genere.» L'intendente fece un sorrisetto di condiscendenza che sfuggì al gentiluomo squattrinato, il quale riprese con violenza: «Come volete commerciare con una nazione ch'è in guerra con noi? Anzitutto ciò è proibito, e giustamente, perché la Spagna è il nemico. Poi, le frontiere sono chiuse e le comunicazioni e i pedaggi sorvegliati. Voglio pure ammettere che fornire muli a un nemico non è così grave come fornire armi, tanto più che le ostilità non si svolgono fin qui, ma in territorio straniero. Ma io ho troppo poche bestie perché valga la pena di un qualsiasi traffico. Sarebbe molto caro e ci vorrebbero anni di avviamento. I miei mezzi finanziari non mi consentono una simile esperienza.» Non aggiunse, per amor proprio, ch'era anzi sul punto di liquidare il suo allevamento. «Il signor barone mi farà la grazia di considerare che possiede già quattro eccezionali stalloni e che gli sarebbe assai più facile che non a me procurarsene altri dai gentiluomini dei dintorni. Quanto alle asine, se ne possono trovare centinaia per dieci o venti lire ciascuna. «Un piccolo lavoro supplementare di prosciugamento di paludi può migliorare i pascoli, per quanto i vostri muli da traino si accontentino di poco. Io credo che con ventimila lire questo affare potrebbe lanciarsi seriamente e cominciare a marciare da qui a tre o quattro anni.» Il povero barone parve preso da vertigine. «Caspita, voi vedete le cose in grande, voi! Ventimila lire! Li credete dunque così preziosi, i miei poveri muli di cui tutti qui fanno le matte risate. Ventimila lire! Non sarete certo voi che me le presterete, queste ventimila lire!» «E perché no?» disse placidamente Molines. Il gentiluomo lo squadrò, un po' sgomento. «Sarebbe una pazzia da parte vostra, Molines! Tengo a dichiararvi che non ho alcun garante.» «Mi accontenterò di un semplice contratto di società con parti a metà e ipoteca sull'allevamento, ma lo faremmo a titolo privato e segreto a Parigi.»
«Se volete saperlo, temo di non avere i mezzi, per molto tempo, di recarmi nella capitale. Ora come ora, la vostra proposta mi pare troppo stupefacente e azzardata, e vorrei prima consultare qualche amico...» «In tal caso, signor barone, non ne parliamo più. Perché la chiave del nostro successo sta nell'assoluto segreto. Altrimenti non c'è nulla da fare.» «Ma io non posso lanciarmi così in un affare che, oltre tutto, mi sembra andar contro l'interesse del mio paese!» «Che è anche il mio, signor barone...» «Non si direbbe, Molines.» «Allora, non ne parliamo più, signor barone. Diciamo che mi sono sbagliato. Dinanzi ai vostri eccezionali risultati, credevo che voi solo sareste stato capace di organizzare un allevamento in grande e sotto il vostro nome, in questo paese.» Il barone si sentì giustamente apprezzato. «La questione non è questa...» «Il signor barone mi consentirà allora di fargli osservare quanto questa questione tocchi da vicino quella che lo preoccupa, cioè la cura di sistemare onorevolmente la sua numerosa famiglia...» «Meritereste che vi frustassi, Molines, perché questi sono affari che non vi riguardano!» «Sarà come desiderate, signor barone. Tuttavia, per quanto i miei mezzi siano più modesti di quanto alcuni siano portati a credere, avevo pensato di aggiungere subito, a titolo di anticipo sul nostro futuro affare, naturalmente, un prestito per una somma eguale: ventimila lire per consentirvi di consacrarvi al vostro dominio senza troppo gravi preoccupazioni per i vostri figli. Io so, per esperienza, che i lavori non vanno troppo svelti quando la mente è distratta dall'inquietudine.» «E quando il fisco vi perseguita», disse il barone, ch'era lievemente arrossito sotto l'abbronzatura. «Perché tali prestiti fra voi e me non appaiano sospetti, mi sembra che non avremmo alcun interesse a divulgare il nostro accordo. Insisto perché, qualunque sia la vostra decisione, il nostro colloquio non sia ripetuto a nessuno.» «Vi comprendo. Ma voi capite che mia moglie dev'essere messa al corrente della proposta che mi avete fatto. Si tratta dell'avvenire dei nostri dieci figli.» «Scusatemi, signor barone, di farvi una domanda poco delicata, ma la signora baronessa saprà tacere? Non ho mai udito dire che una donna sapesse conservare un segreto.» «Mia moglie ha fama di non essere chiacchierona. Inoltre non frequentiamo nessuno. Se glielo chiedo, ella non parlerà.» In quel momento, l'intendente scorse la punta del naso di Angelica che, appoggiata allo stipite della porta, li ascoltava senza del resto cercare di nascondersi. Il barone, volgendosi, la vide anch'egli e aggrottò le ciglia. «Venite qui, Angelica», disse con voce dura. «Mi pare che cominciate a prendere la cattiva abitudine di ascoltare alle porte. Voi comparite sempre nei momenti meno opportuni e non vi si sente giungere. Sono maniere deplorevoli.» Molines fissava su lei uno sguardo penetrante, ma non sembrava contrariato come il barone.
«I paesani dicono ch'è una fata», suggerì con un sorrisetto. Angelica si avvicinò senza emozione. «Avete udito la nostra conversazione?» chiese il barone. «Sì, padre! Molines ha detto che Giovannino potrebbe andare sotto le armi e Ortensia in convento se voi faceste molti muli.» «Hai uno strano modo di riassumere le cose. Ora, ascoltami. Devi promettermi di non parlare a nessuno di questa storia.» Angelica alzò su lui gli occhi verdi. «Prometto... Ma a me che mi darete?» L'amministratore soffocò una risatina. «Angelica!...» esclamò il padre con deluso stupore. Fu Molines a rispondere: «Provateci anzitutto la vostra discrezione, signorina Angelica. Se, come lo spero, si organizza la nostra società con il signor barone vostro padre, bisognerà attendere che l'affare abbia prosperato senza insidie e che nulla sia stato divulgato dei nostri progetti. Allora, come ricompensa, vi daremo un marito.» Ella fece una smorfietta, parve riflettere e disse: «Bene, prometto.» Poi s'allontanò. In cucina, la signora Molines, allontanando le serventi, metteva nel forno ella stessa la torta ornata di crema e ciliegie. «Signora Molines, si mangerà presto?» chiese Angelica. «Non ancora, carina mia. Se avete troppa fame, vi farò una tartina.» «Non è per questo, ma vorrei sapere se faccio in tempo a correre fino al Plessis.» «Certamente. Quando la tavola sarà preparata manderemo un ragazzo a chiamarvi.» Angelica corse via, e, alla svolta del primo viale, si tolse le scarpe nascondendole sotto una pietra dove le avrebbe riprese al ritorno. Poi si slanciò di nuovo, più leggera di una cerbiatta. Il sottobosco odorava di funghi e di muschio, una pioggia recente aveva lasciato piccole pozze qua e là: ella le superava d'un balzo. Si sentiva felice. Il signor Molines le aveva promesso un marito. Non era certa che si trattasse di un dono notevole. Che se ne sarebbe fatto?... Dopo tutto, se fosse simpatico come Nicola, sarebbe stato un compagno sempre presente per andare a pescare i gamberi. Vide apparire in fondo al viale la sagoma del castello, sbalzata in bianco puro sullo smalto azzurro del cielo. Il castello del Plessis-Bellière era certo una casa da favola perché, nel paese, nessuna le somigliava. Tutte le abitazioni dei gentiluomini di campagna dei dintorni erano come Monteloup, grigie, muscose, cieche. Qui, nel secolo scorso, un artista italiano aveva moltiplicato finestre, abbaini, portici. Un ponte levatoio in miniatura sormontava fossati colmi di ninfee. Agli angoli, le torrette stavano solo per ornamento. Le linee dell'edificio erano, tuttavia, semplici. Nessun sovraccarico in quegli archi eleganti, in quelle flessibili volte, ma una grazia naturale di piante o ghirlande. Solo al disopra del portico principale, uno stemma con una chimera dalla lingua di fuoco, ricordava la più sorprendente decorazione medievale. Angelica, con sorprendente agilità, si arrampicò sulla terrazza, poi,
aggrappandosi agli ornati delle finestre e dei balconi, giunse al primo piano dove una grondaia le offriva un comodo appoggio. Allora, incollò il viso ai vetri. Spesso era andata sin là e mai si stancava di sporgersi sul mistero di quella camera chiusa dove, nella penombra, si vedevano brillare l'argento e l'avorio dei ninnoli, soprammobili a intarsio, i freschi colori rossi e azzurri delle tappezzerie nuove, lo splendore delle pitture lungo le pareti. Nel fondo, si scorgeva un'alcova con la coltre damascata. Le tende della cortina brillavano, grevi per seta d'oro mescolata alla loro trama. Sopra il caminetto, lo sguardo era attratto da un grande quadro che Angelica ammirava oltre ogni dire. Un mondo di cui ella aveva appena l'intuizione era andato a chiudersi in quella cornice, mondo leggero degli abitanti dell'Olimpo, con la loro pagana e libera grazia, e si vedevano un dio e una dea stringersi sotto lo sguardo di un fauno barbuto, i corpi stupendi simbolizzando, proprio come quel castello, la grazia ai margini della foresta selvaggia. L'emozione invadeva Angelica sino ad opprimerla leggermente. «Tutte quelle cose», ella pensava, «io vorrei toccarle, carezzarle con le mie mani. Vorrei che fossero mie, un giorno...»
5 In maggio, in questo paese, i giovani con una spiga verde sul cappello e le fanciulle ornate di fiori di lino vanno a danzare intorno ai dolmenni, le grandi tavole di pietra che la preistoria ha lasciato nei campi. Al ritorno, ci si spassa un po', a coppie, nei prati e nei sottoboschi profumati di mughetto. In giugno, papà Saulier maritò la figlia e ci fu gran festa. Era l'unico fattore del barone di Sancé che, all'infuori di lui, assumesse solo mezzadri. L'uomo, che oltre a ciò faceva l'oste del villaggio, era agiato. La piccola chiesa romanica fu ornata di fiori e di ceri grossi come un pugno. Il barone in persona condusse la sposa all'altare. Il pranzo, che durò molte ore, abbondò in sanguinaccio bianco e nero, in polpette, in salsicce e in formaggi. Ci fu anche molto vino. Dopo il pranzo, tutte le dame del villaggio si recarono secondo l'uso a presentare i loro doni alla giovane sposa. Costei stava in casa sua, nella sua nuova abitazione, seduta su un banco dinanzi a una grande tavola su cui già si ammucchiavano vasellame, lenzuola, paioli di rame o di stagno. Il suo viso tondo, un po' bovino, brillava di piacere sotto un'enorme corona di margherite. La signora di Sancé quasi si vergognava di non portare che un regalo modesto: alcuni piatti di bella porcellana ch'ella riserbava per tali occasioni. Angelica pensò a un tratto che a Sancé si mangiava in scodelle da contadini e si sentì offesa e ferita da quella illogicità: la gente era ben strana! Non si poteva già scommettere che la villanella non si sarebbe neppure lei servita di quei piatti, ma li avrebbe messi con
cura in una cassa e avrebbe seguitato a mangiare nella sua scodella? Mentre al Plessis v'erano tanti meravigliosi oggetti abbandonati come in una tomba!... Il volto di Angelica si chiuse ed ella baciò la giovane donna in punta di labbra. Intanto, attorno al gran letto coniugale, i giovani si radunarono lanciando frizzi. «Ah! bella mia», gridò uno di essi, «a veder te e il tuo sposo, è facile immaginare che lo “chaudaut” sarà il benvenuto quando ve lo porteremo alla prima alba.» «Mamma», chiese Angelica uscendo, «che cos'è questo “chaudaut” di cui si parla sempre ai matrimoni?» «É un uso paesano come quello di portare doni e di ballare», rispose evasivamente la madre. La spiegazione non soddisfece la figlia, che si ripromise di assistere allo “chaudaut”. Intanto, sulla piazza del villaggio, ancora non erano cominciate le danze sotto il grande olmo. Gli uomini rimasero intorno alle tavole, sistemate all'aria aperta sopra alcuni trespoli. Angelica udì i singhiozzi della sorella maggiore che voleva tornare al castello, perché si vergognava del suo vestito semplice e rammendato. «Suvvia!» esclamò Angelica, «tu ti complichi l'esistenza, mia povera ragazza. Forse ch'io mi lamento del mio vestito? Eppure mi stringe ed è troppo corto. Solo le scarpe mi fanno davvero male. Ma mi sono portata gli zoccoli in un pacchetto e me li metterò per ballare meglio. Sono decisa a divertirmi!» Ortensia insistette, lamentandosi che aveva caldo e non si sentiva bene, che voleva tornare a casa. La signora di Sancé raggiunse il marito seduto fra i notabili e lo avvertì che si ritirava, ma lasciava con lui Angelica. La fanciulla restò un poco vicino al padre: aveva mangiato molto e si sentiva invasa da sonnolenza. Intorno ad essi c'erano il curato, il sindaco, il maestro di scuola che faceva all'occasione anche il cantore, il chirurgo, il barbiere e il campanaro, e molti coltivatori chiamati “agricoltori” perché possedevano un carro da buoi e davan lavoro a vari “braccianti”, formando così una piccola aristocrazia del villaggio. Facevano anche parte del gruppo Artemio Gallot, l'agrimensore del borgo vicino, provvisoriamente delegato per aiutare nel prosciugamento della palude e che faceva un po' figura di sapiente e di straniero, per quanto non fosse che del Limosino. C'era infine il padre della sposa, Paolo Saulier, allevatore di bovini, di cavalli e di asini. Quel corpulento paesano del Poitou era in verità il più importante fra i piccoli fattori della zona e, per quanto il barone Armando di Sancé fosse il “padrone”, il suo fattore era certamente più ricco di lui. Angelica, guardando il padre la cui fronte non si spianava, indovinava facilmente ciò ch'egli pensava. «Anche questo è segno della decadenza dei nobili», doveva certo pensare con malinconia. Nel frattempo, accadeva un trambusto sulla piazza intorno al grande olmo, e si videro due uomini, ciascuno recando sotto il braccio una specie di sacchi bianchi già molto gonfi, salire su delle botti. Erano i suonatori di cornamusa. Un suonatore di flauto si unì ad essi.
«Adesso si balla!» esclamò Angelica, slanciandosi verso la casa del sindaco dove aveva nascosto, giungendo, i suoi zoccoli. Il padre la vide tornare saltellando e battendo le mani al ritmo dei ballabili e dei girotondo che si sarebbero danzati tra breve. I capelli d'oro brunito le ondeggiavano sulle spalle. Forse a causa del vestito troppo corto e stretto, egli si accorse a un tratto quanto ella si fosse improvvisamente sviluppata in pochi mesi. Era sempre stata piuttosto sottile e sembrava ora che avesse dodici anni; le spalle le s'erano allargate, il petto spingeva lievemente la rascia consunta del vestito. Un sangue ricco sotto la dorata abbronzatura delle gote le dava uno splendore vermiglio e le labbra dischiuse, umide, ridevano sui dentini perfetti. Come la maggior parte delle fanciulle del paese, ella s'era infilata nello scollo del corsetto un grosso mazzo di primule gialle e violette. Gli uomini presenti furono anch'essi colpiti dalla sua apparizione piena di foga e di freschezza. «La vostra signorina si sta facendo una ragazza assai bella!» disse papà Saulier con un sorriso ossequioso e uno sguardo d'intesa ai vicini. La fierezza del barone si tinse d'inquietudine. «É troppo grande ormai per mescolarsi con questi tangheri», pensò di colpo. «É lei, più che Ortensia, che dovremmo mettere in convento...» Angelica, noncurante degli sguardi e delle riflessioni che suscitava, si mescolava allegramente ai giovani e alle ragazze che accorrevano d'ogni parte in gruppi e a coppie. Quasi si urtò con un adolescente che lì per lì non riconobbe tanto era ben vestito. «Valentino!» esclamò, «come sei bello, mio caro!» Il figlio del mugnaio indossava un abito tagliato certamente in città in una stoffa grigia di così bella qualità che le falde della “redingote” sembravano inamidate. Questa e il panciotto erano ornati con varie file di scintillanti bottoncini dorati. Aveva fibbie di metallo alle scarpe e sul cappello di feltro, e nastrini di raso azzurro come legacci per le calze. Il ragazzo che, a quattordici anni, era fatto come un Ercole, sembrava piuttosto goffo e impacciato nel suo abbigliamento, ma il suo volto rubicondo scoppiava di soddisfazione. Angelica, che non lo aveva veduto da qualche mese a causa del viaggio in città da lui fatto con il padre, si accorse di arrivargli appena alla spalla e si sentì quasi intimidita. Per scacciare il suo impaccio ella gli prese la mano. «Vieni a ballare.» «No! No!» protestò lui. «Non voglio rovinare il mio bel vestito. Io vado a bere con gli uomini», aggiunse con sussiego dirigendosi verso il gruppo dei notabili accanto ai quali era andato a sedersi suo padre. «Vieni a ballare», gridò un ragazzo afferrando Angelica per la vita. Era Nicola. I suoi occhi scuri come castagne erano pieni di allegrezza. Si fecero fronte e cominciarono a batter le mani in cadenza ai suoni acuti e ai ritornelli delle cornamuse e del flauto. Un senso istintivo del ritmo dava una straordinaria armonia a quelle danze che si sarebbero potute credere pesanti e monotone. Assieme alle cornamuse e al flauto, il principale strumento di esse era proprio dato da quel sordo batter degli zoccoli che ricadevano sul suolo in un assieme
perfetto e le complicate figure che ciascuno eseguiva nello stesso preciso istante aggiungevano grazia alla perfezione del balletto campestre. Venne la sera. La frescura diede sollievo alle fronti in sudore. Tutta presa dall'ossessione della danza, Angelica si sentiva felice, liberata d'ogni pensiero. I suoi cavalieri si succedevano e nei loro occhi brillanti e ridenti ella leggeva qualche cosa che un po' la esaltava. La polvere saliva come un leggero pastello, rosato dal sole al tramonto. Il suonatore di flauto aveva le guance come due palle e gli occhi gli uscivano dalla testa a forza di soffiare nel suo strumento. Alla fine, ci fu una pausa, e tutti si recarono a rinfrescarsi alle tavole guarnite di vasi colmi di vino. «A che pensate, padre?» chiese Angelica andandosi a sedere accanto al barone sempre aggrottato. Era rossa e senza fiato. Egli quasi gliene voleva d'essere spensierata e felice mentre lui si tormentava al punto di non poter più godere come una volta di una festa campagnola. «Alle imposte», rispose, guardando con aria scura colui che gli stava dinanzi, che altri non era se non Corne, l'usciere dei tributi, tante volte messo alla porta del castello. Ella protestò. «Non sta bene pensare a questo mentre tutti si divertono. Forse che ci pensano loro, i nostri contadini, eppure sono essi che pagano di più. Non è vero, signor Corne?» gridò allegramente attraverso la tavola. «Non è vero che in un giorno come questo nessuno deve più pensare alle imposte, neppure voi?...» La sua uscita fece ridere di cuore. Cominciarono a cantare e papà Saulier lanciò il ritornello dell'Esattore ladro che Corne ascoltò con un sorriso condiscendente. Ma presto sarebbe stata la volta di ritornelli meno innocenti ai quali ogni festa nuziale autorizzava, e Armando di Sancé, sempre più preoccupato delle maniere di sua figlia che beveva bicchieri su bicchieri, decise di ritirarsi. Disse ad Angelica di seguirlo per congedarsi e che sarebbero tornati entrambi al castello. Raimondo e i bambini più piccoli accompagnati dalla nutrice erano rientrati da molto tempo. Solo il primogenito Giovannino s'attardava, con un braccio intorno alla vita di una delle più gentili ragazze del paese. Il barone si guardò bene dal richiamarlo all'ordine. Era contento di vedere che il magro e pallido collegiale stava ritrovando nelle braccia di madre natura colori e idee più sani. Alla sua età, egli stesso aveva già da molto tempo rovesciato nel fieno una solida pastora della capanna vicina. Chi sa? Forse questo lo avrebbe trattenuto in paese? Persuaso che Angelica lo seguisse, il castellano cominciò a distribuire saluti in giro. Ma sua figlia aveva altri progetti. Da molte ore, ella cercava il modo di poter assistere alla cerimonia dello “chaudaut” allorché il sole si fosse levato. Sicché, approfittando di uno scompiglio, scivolò fuor della folla. Poi, prendendo in mano gli zoccoli, prese a correre verso l'estremità del villaggio di cui tutte le abitazioni erano disertate persino dalle nonne. Scorse la scala di un granaio, vi si arrampicò in fretta, trovò il fieno dolce e profumato. Il vino e la stanchezza della danza la facevano sbadigliare.
«Adesso dormo», pensò. «Quando mi sveglierò, sarà l'ora e assisterò allo “chaudaut”.» Le palpebre le si chiudevano e cadde in un sonno profondo. Si destò con una piacevole sensazione di benessere e di piacere. L'ombra del granaio era densa e calda. Faceva ancora buio e lontano si udivano le grida dei contadini in festa. Angelica non capiva bene che cosa le accadesse. Il suo corpo era invaso da una grande dolcezza ed ella aveva desiderio di stirarsi e di gemere. Sentì a un tratto una mano che le passava lentamente sul petto e poi scendeva lungo il corpo, sfiorando le gambe. Un respiro breve e caldo le bruciava la gota. Le dita tese trovarono una stoffa rigida. «Sei tu, Valentino?» sussurrò. Egli non rispose, ma s'accostò di più. I fumi del vino e la delicata vertigine dell'ombra offuscavano la mente di Angelica. Ella non aveva paura. Lo riconosceva, Valentino, dal respiro greve, dall'odore, dalle stesse mani, spesso tagliate dalle canne e dall'erba delle paludi e la cui rugosità sulla propria pelle la faceva rabbrividire. «Non hai più paura di rovinare il tuo bell'abito?» mormorò con una ingenuità non disgiunta da una incosciente scaltrezza. Egli fece un mugolio e la sua fronte andò ad appoggiarsi al gracile collo della fanciulla. «Profumi», egli sospirò, «profumi come il fiore dell'angelica.» Tentò di baciarla, ma a lei non piacque la sua bocca umida che la cercava, e lo respinse. Egli l'afferrò con maggior violenza, pesò su lei. Quell'improvvisa brutalità, destando completamente Angelica, le ridette la coscienza. Si dibatté, tentò di raddrizzarsi. Ma il ragazzo la stringeva alla vita, ansimando. Allora, furiosa, ella lo colpì in volto con i pugni chiusi gridando: «Lasciami, tanghero, lasciami!» Egli la lasciò infine ed ella si lasciò scivolare dal mucchio di fieno, poi scese la scala del granaio. Era in collera e si sentiva appenata senza sapere perché... In basso, grida e luci riempivano la notte e si avvicinavano. «La farandola!» Tenendosi per mano, fanciulle e ragazzi le passarono vicino; Angelica fu trascinata nel flutto. La farandola infilava i vicoli, saltava le barriere, sconfinava nei campi nella mezza luce dell'alba. Tutti, ebbri di vino e di sidro, inciampavano di continuo, ed erano crolli e risate. Si tornò verso la piazza: le tavole e le panche erano rovesciate; la farandola le oltrepassò. Le torce andavano spegnendosi. «Lo “chaudaut”! Lo “chaudaut”!» chiedevano ora le voci. Si bussava alla porta del sindaco ch'era andato a letto. «Svegliati, cittadino! Andiamo a riconfortare gli sposi!» Angelica, ch'era riuscita, con le braccia rotte, a liberarsi dalla catena, vide avanzare allora uno strano corteo. In testa procedevano due buffi personaggi vestiti di orpelli e di sonagli al modo degli antichi “buffoni” del re. Poi, due giovani che portavano sulle spalle un bastone al quale era passato il manico di un enorme paiolo. Li circondavano alcuni compagni recando recipienti di vino e bicchieri. Tutti gli abitanti del villaggio che ancora si
fidavano di reggersi in piedi seguivano, formando una schiera già assai numerosa. Senz'attendere entrarono nella capanna dei giovani sposi. Angelica li trovò carini, coricati a fianco a fianco nel grande letto. La giovane sposa era tutta rossa. Tuttavia, bevvero senza farsi pregare il vino caldo mescolato a spezie che veniva loro servito. Ma uno dei presenti, più ebbro degli altri, voleva togliere il lenzuolo che li ricopriva pudicamente. Il marito gli tirò un pugno. Ne seguì una baruffa durante la quale si udirono le grida della povera donna aggrappata alle coperte. Sospinta da quei corpi in sudore, soffocata da quegli effluvi contadineschi di vino e di carni poco pulite, Angelica stava per essere gettata a terra e calpestata. Fu Nicola a liberarla e ad aiutarla ad uscire. «Uff», sospirò lei, quando si trovò finalmente all'aria aperta. «Non è affatto piacevole questa vostra storia di “chaudaut”. Dimmi, Nicola, perché portano da bere vino caldo agli sposi?» «Caspita, bisogna pure ristorarli dopo la notte di nozze!» «Ci si stanca tanto?» «A quanto pare...» Scoppiò a ridere bruscamente. Aveva gli occhi che gli brillavano, i riccioli dei suoi capelli neri gli ricadevano sulla fronte bruna. Ella si accorse ch'era ubriaco come gli altri. A un tratto, le tese le braccia e le si accostò barcollando. «Angelica, sei carina, quando parli così... Come sei carina, Angelica.» E le metteva le braccia al collo. Ella si liberò in silenzio e se ne andò. Il sole si alzava sulla piazza devastata del villaggio. La festa era proprio finita. Angelica camminava per il sentiero verso il castello con passo mal sicuro, meditando con amarezza. Così, dopo Valentino, anche Nicola s'era permesso strani modi. Li aveva perduti tutti e due in una volta. Le pareva che la sua infanzia fosse morta e al pensiero che non sarebbe più tornata nelle paludi o nel bosco con i suoi abituali compagni, le veniva voglia di piangere. É così che il barone di Sancé e il vecchio Guglielmo, che ne andavano in cerca, l'incontrarono che andava verso di loro con passo incerto, il vestito strappato e i capelli pieni di fieno. «Mein Gott!» esclamò Guglielmo fermandosi costernato. «Da dove venite, Angelica?» chiese severamente il castellano. Ma vedendo ch'ella era incapace di rispondere, il vecchio soldato la sollevò fra le braccia e la portò verso casa. Sovra pensiero, Armando di Sancé si disse che avrebbe dovuto trovare assolutamente il mezzo di mandare in convento al più presto la sua seconda figliola.
Angelica si riebbe solo l'indomani mattina, cioè dopo aver dormito quasi ventiquattr'ore. Era assai ben disposta e per nulla vergognosa, ma tuttavia conservava in fondo al cuore una specie d'impaccio e di disgusto. Si ricordò a un tratto che era in discordia con Valentino e forse con Nicola. Che sciocchi gli “uomini”, però. Ma, leale, la bambina riconosceva che se avesse obbedito a suo padre e lo avesse seguito quand'egli glielo aveva ordinato, le cose non sarebbero andate a finire così male. Si
sarebbe sentita ancora libera di correre alla palude per ritrovare il taciturno Valentino e la sua barca. Per la prima volta pensò che a volte può essere utile dare ascolto alle persone grandi e decise di mostrarsi più saggia. Mentre si vestiva, si guardò il petto con molto interesse. Le pareva che il suo torso cominciasse a modellarsi graziosamente. «Presto avrò i seni come Ninetta», pensò. Non sapeva se ciò le desse orgoglio o inquietudine. Tutte quelle trasformazioni del corpo la sorprendevano, e soprattutto ella aveva il presentimento che qualche cosa stava per finire. La sua vita familiare e selvaggia era minacciata. Avrebbe dovuto incamminarsi verso un altro mondo che per allora le era sconosciuto. «Pulcheria, l'altro giorno, mi ha detto che sto per diventare una ragazza. Ho paura che mi annoierò terribilmente», si disse costernata. Il galoppo di un cavallo l'attirò alla finestra. Vide suo padre che usciva dal cortile e non osò chiamarlo per chiedergli di portarla con sé. «Sono sicura che va dall'intendente Molines», si disse. «Che bello se si decide ad accettare la sua offerta di denaro invece di aspettare l'aiuto del re, che se ne ride di lui. Ortensia potrà vestirsi bene e andare in visita dai castellani vicini invece di girare per casa con un muso lungo una canna. E Giovannino potrà andar nell'esercito invece di cacciare come un diavolo con il figlio del barone di Chaillé. Non posso soffrire quelle volgari persone ch'egli frequenta e che, quando vengono qui, mi pizzicano da farmi dei lividi che durano otto giorni. E papà sarà contento. Guarderà i suoi muli tutto il giorno...» Tuttavia, nonostante i mutamenti che sopravvennero in seguito a quella nuova visita del barone all'intendente Molines, i pronostici della bambina non si realizzarono subito. Ella ignorava che il padre, pur accettando il prestito necessario per organizzare l'allevamento, non aveva potuto lasciare che il suo amor proprio consentisse alla proposta riguardante i propri figli. Se mai la cosa si fosse risaputa in paese, e che si fosse potuto dire che i discendenti di un'autentica stirpe principesca erano allevati a spese dell'amministratore di un castello, ella sarebbe morta di vergogna. I poveri genitori pensavano un po' ingenuamente che, sviluppandosi l'allevamento, avrebbero potuto rapidamente, con qualche buona vendita, raddrizzare la situazione economica della famiglia. Molines, il cui contratto eseguito a Niort dinanzi ai legali impegnava il barone in modo assai più severo di quanto questi supponesse, insistette perché fossero accettate le ventimila lire di supplemento. Ma il signore si fece altezzoso e l'intendente dovette piegarsi. I contadini cominciarono a portare chi un'asina da vendere, chi uno stallone. Il barone guardava i denti degli stalloni e i loro zoccoli, la purezza della razza, s'informava dell'origine e acquistava. Si prepararono le scuderie, si fecero nuovi recinti. Il geometra del cantone fu invitato a studiare nuovi prosciugamenti intorno al castello. Bisognava seccare la maggior parte dell'acquitrino che, nei tempi antichi, aveva costituito la zona di difesa del vecchio castello di Monteloup. Angelica, nella sua qualità di fata delle paludi, era nell'intimo contro la profanazione del suo dominio: ma, dopo le nozze di maggio, il taciturno Valentino non le aveva più proposto di condurla con sé in barca e la sfuggiva. Allora, anche se
le paludi scomparivano... Solo Nicola era tornato, ridendo con tutti i suoi denti bianchi e senza alcun impaccio. Con lui, l'infanzia riprendeva i suoi diritti: la natura accordava una dilazione - non tutto finiva in una volta sola. Il barone era felice. Avrebbe dimostrato a un plebeo che, nel campo professionale, un nobile era capace di abilità e, insieme, di onestà. Tra breve avrebbe potuto occuparsi del castello e della famiglia senza dover nulla a nessuno. Certo, con tutti quei lavori, mezzadri e contadini guadagnavano un maggior benessere. Di conseguenza, i viveri abbondavano al castello e si era potuto pagare una parte delle imposte, ma la vita nella casa del barone non mutava. V'erano ancora galline nei saloni e i cani insudiciavano senza vergogna i pavimenti. La pioggia entrava nelle camere. La signora di Sancé aveva le mani arrossate dal freddo, non potendo comprarsi un paio di guanti nuovi. Giovannino, correndo dietro alle lepri e alle ragazze, somigliava sempre più a un lupo, e Raimondo, tuffato nei suoi libri, a un cero consunto. Solo i più piccoli, accucciati nel caldo della cucina e sul seno della nutrice, non si lamentavano. Maddalena, invece, piangeva spesso e languiva: le storie del lupo mannaro e di Barbablù la facevano morire di paura. Anche lei sarebbe stato bene che se ne fosse andata dal vecchio castello. Angelica la prendeva sotto la sua protezione, se la stringeva fra le braccia per notti intere. Maddalena sapeva che Angelica era molto forte e non temeva più né i lupi, né i fantasmi.
6 Un giorno d'inverno, mentre Angelica guardava alla finestra cadere la pioggia, scorse stupita numerosi cavalli e calessi trabalzanti inoltrarsi nel sentiero fangoso che portava al ponte levatoio. Alcuni lacché in livrea con mostre gialle precedevano le vetture e un carro che sembrava pieno di bagagli, di cameriere e di servi. Già i postiglioni balzavano dall'alto dei loro sedili per guidare l'attacco attraverso lo stretto ingresso. I lacché che stavano dietro la prima carrozza scesero e aprirono le portiere le cui pareti verniciate recavano stemmi in rosso brillante. Angelica volò giù per le scale della torre e giunse sulla gradinata in tempo per vedere incespicare nel letame del cortile un magnifico signore il cui cappello piumato cadde a terra; una bastonata violenta sulla schiena di un lacché e un profluvio di ingiurie accompagnarono l'incidente. Saltando di sasso in sasso, sulla punta degli eleganti scarpini, il signore giunse infine sulla soglia della sala d'ingresso dove Angelica e qualcuno dei suoi fratelli stavano a guardarlo. Un adolescente di circa quindici anni, vestito con la stessa ricercatezza, lo seguiva. «Per San Dionigi, dov'è mio cugino?» esclamò il signore gettando intorno a sé uno sguardo irritato. Scorse Angelica e gridò:
«Per Sant'Ilario, ecco il ritratto di mia cugina di Sancé quando la incontravo a Poitiers, al tempo delle sue nozze. Lasciate che vi baci, piccola, da quel vecchio zio ch'io sono.» La sollevò fra le braccia e la baciò cordialmente. Rimessa a terra, Angelica starnutì due volte, tanto violento era il profumo che impregnava i vestiti del signore. Ella si asciugò il naso con la manica, pensò in un lampo che Pulcheria l'avrebbe rimproverata per quel gesto, ma non si fece rossa perché non conosceva la vergogna e la confusione. Fece gentilmente una riverenza al visitatore nel quale aveva riconosciuto il marchese del Plessis di Bellière, poi andò verso il giovane cugino per baciarlo. Questi indietreggiò di un passo e gettò al marchese uno sguardo inorridito. «Padre, sono dunque obbligato a baciare questa... sì, questa bambina?» «Ma certo, sbarbatello, approfittane anzi mentre è ancora tempo!» esclamò il nobile signore scoppiando a ridere. L'adolescente posò con precauzione le labbra sulle gote rotonde di Angelica, poi, traendo dal farsetto una pezzuola ricamata e profumata, la agitò intorno al viso come se scacciasse le mosche. Accorreva intanto, infangato fino ai ginocchi, il barone Armando. «Signor marchese del Plessis, quale sorpresa! Perché non avete mandato un corriere ad avvertirmi del vostro arrivo?» «A dire il vero cugino mio, contavo di andare direttamente nella mia dimora del Plessis, ma il nostro viaggio non si è svolto senza guai: abbiamo avuto un assale spezzato dalle parti di Neuchaut. Tempo perduto. Si fa buio e siamo gelati. Passando vicino al vostro castello, ho pensato di venirvi a chiedere, senza tante storie, ospitalità. Abbiamo con noi i letti e i guardaroba che i valletti monteranno nelle camere che indicherete loro. E avremo così il piacere di conversare senza attendere oltre. Filippo, salutate il vostro cugino di Sancé e tutta la graziosa schiera dei suoi eredi.» Così interpellato, il bell'adolescente si fece avanti con aria rassegnata e chinò profondamente la sua testa bionda in un saluto un tantino esagerato, visto il rustico aspetto di colui al quale si rivolgeva. Poi andò a baciare docilmente le guance paffute e sudice dei suoi giovani parenti. Dopo di ciò, trasse di nuovo il fazzoletto di pizzo e lo respirò con aria altezzosa. «Mio figlio è un istrione di corte che non è abituato alla campagna», dichiarò il marchese. «Non è buono che a grattare la chitarra. Lo avevo messo come paggio al servizio del signor Mazarino, ma temo che v'impari la maniera d'amare all'italiana. Non ha già forse anche troppo l'aspetto di una graziosa fanciulla?... Voi sapete in che consiste la maniera d'amare all'italiana?» «No», disse ingenuamente il barone. «Ve lo racconterò un giorno, lungi da queste orecchie innocenti. Ma in questo vostro ingresso si muore di freddo, mio caro. Potrei salutare la mia vezzosa cugina?...» Il barone disse che, secondo lui, le signore, vedendo gli equipaggi, s'erano certo precipitate nei loro appartamenti per abbigliarsi ma che suo padre, il vecchio barone, sarebbe stato felice di vederlo.
Angelica notò l'occhiata di disprezzo data dal giovane cugino al salone scuro e mal ridotto. Filippo del Plessis aveva gli occhi di un azzurro assai chiaro ma freddo come l'acciaio. Lo stesso sguardo che aveva sfiorato le tappezzerie consunte, il magro fuoco nel camino ed anche il vecchio nonno con il suo collare increspato fuori moda, si volse alla porta, e le sopracciglia bionde dell'adolescente si sollevarono mentre un sorrisetto beffardo gli si disegnava sulle labbra. Entrava la signora di Sancé accompagnata da Ortensia e dalle due zie. Esse avevano, certo, rivestito gli abiti migliori, ma questi dovevano apparire ridicoli al ragazzo, che si mise a ridacchiare nel fazzoletto. Angelica, che non lo perdeva d'occhio, sentiva una tremenda voglia di saltargli al viso con tutte le unghie fuori. Non era ridicolo piuttosto lui, con tutti quei merletti, quei nastri ricadenti sulle spalle e le maniche spaccate dall'ascella ai polsi per lasciar vedere la fine biancheria di una camicia? Suo padre, più semplice, s'inchinava dinanzi alle dame spazzando il pavimento con la sua bella piuma arricciata. «Cugina mia, scusate il mio modesto abbigliamento. Capito all'improvviso a chiedervi l'ospitalità di una notte. Ecco il mio cavaliere, Filippo. É cresciuto da quando lo vedeste l'ultima volta, ma non è per questo divenuto più simpatico. Gli comprerò tra poco un grado di colonnello: l'esercito gli farà bene. Gli attuali paggi della corte non hanno alcuna disciplina.» La zia Pulcheria, sempre cordiale, propose: «Gradirete pure qualcosa! Vinello o latte rappreso? Vedo che venite da lontano.» «Grazie. Gradiremmo volontieri un dito di vino con acqua fresca.» «Vino non ce n'è più», disse il barone Armando, «ma subito mandiamo un servitore a prenderne dal curato.» Intanto il marchese si metteva a sedere e, mentre giocherellava con il bastone di ebano ornato di un nastrino di raso, raccontava che veniva dritto da Saint-Germain, che le strade erano delle cloache, ch'egli si scusava ancora una volta del suo modesto vestire. «E che sarebbero se fossero vestiti sontuosamente?» pensò Angelica. Il nonno, seccato da tutte quelle proteste vestimentarie, toccò con la punta del suo bastone le rivolte degli stivali del suo ospite. «A giudicare dai merletti delle vostre calze da stivali e dal vostro collare, l'editto che il signor Cardinale lanciò nel 1633 per interdire tutti i fronzoli è ben dimenticato.» «Be'!» sospirò il marchese, «non ancora abbastanza. La Reggente è povera e austera. Noi siamo in pochi a rovinarci per mantenere un po' di originalità in quella corte devota. Il signor Mazarino ha il gusto del fasto, ma indossa la veste. Ha le dita cariche di diamanti, ma per qualche pezzetto di nastro che i principi si attaccano al farsetto, fulmina come il suo predecessore il signor Richelieu. Le rivolte degli stivali... sì...» Incrociò i piedi dinanzi a sé e stette ad osservarli con la stessa attenzione del barone Armando dinanzi ai suoi muli. «Credo che la moda dei merletti agli stivali cesserà di colpo», affermò. «Alcuni
giovani signori si son messi a portare rivolte larghe come il capitello di una torcia, e della cui circonferenza si fa tanta fatica a rendersi conto, da esser ridotti a camminare a gambe larghe. Quando una moda diventa stravagante, scompare da se stessa. Non siete di questo avviso, mia cara cugina?» chiese volgendosi verso Ortensia che arrossì di piacere. Ella rispose con un ardire e una spontaneità che non ci si sarebbero aspettati da quella magra libellula: «Oh! cugino mio, io credo che la moda, finché non sia scomparsa, abbia sempre ragione. Tuttavia, su questo particolare, non posso darvi nessun parere perché non ho mai veduto stivali come i vostri. Voi siete certamente il più moderno dei nostri parenti.» «Mi felicito, signorina, nel constatare che la lontananza della vostra provincia non vi impedisce di essere in anticipo sul suo spirito e sulla sua etichetta perché se voi mi ritenete moderno, sappiate che ai miei tempi una signorina non avrebbe fatto un complimento per prima. Ma è proprio così che avviene nella nuova generazione... e non è spiacevole, al contrario. Come vi chiamate?» «Ortensia.» «Ortensia, bisognerebbe venire a Parigi e frequentare le stanze dove si riuniscono i nostri sapienti e le nostre preziose. Filippo, figlio mio, state attento, forse troverete qualche osso duro durante il vostro soggiorno nelle nostre belle terre del Poitou.» «Per la spada del Béarnais», gridò il vecchio barone, «ho un bel conoscere un po' d'inglese, masticare il tedesco e aver studiato la mia lingua; debbo riconoscere, marchese, che non capisco assolutamente nulla di ciò che avete detto a queste donne.» «Le dame hanno capito, e questa è la cosa principale quando si parla di merletti», disse allegramente il gentiluomo. «E dei miei scarpini, che ne pensate?» «Perché sono così lunghi e con la punta quadrata?» chiese Maddalena. «Perché? Nessuno potrebbe dirlo, cuginetta, ma è l'ultima moda. E una moda utile! L'altro giorno, il signor di Rochefort, approfittando del fatto che il signor di Condé era tutto preso da quel che diceva, gli piantò un chiodo in ciascuna estremità degli scarpini. Quando il principe volle allontanarsi, si trovò inchiodato al pavimento di legno. Pensate dunque che, se le sue scarpe fossero state meno lunghe, egli avrebbe avuto i piedi trapassati.» «Le scarpe non sono state create per far piacere alle persone che piantano chiodi nei piedi degli altri!» brontolò il nonno. «Tutto questo è ridicolo!» «Sapete che il re si trova a Saint-Germain?» domandò il marchese. «No», disse Armando di Sancé. «Che cos'ha di straordinario questa notizia?» «Ma, mio caro, a causa della Fronda.» Quel chiacchierio divertiva le dame e i fanciulli, ma i due nobilucci di campagna, abituati al lento parlar paesano, si chiedevano se il loro prolisso parente non si facesse beffe di loro, secondo la sua abitudine. «La Fronda? Ma è un giuoco da bambini.» «Un giuoco da bambini? Ne avete delle belle, cugino mio. Quello che alla corte chiamano la Fronda è semplicemente la rivolta del Parlamento di Parigi contro il re.
Avete mai sentito una cosa simile? É già da diversi mesi che quei signori dal berretto quadrato si son messi a litigare con la Reggente e col suo Cardinale italiano... Questioni d'imposte nelle quali i loro interessi non erano neppure toccati. Ma essi si atteggiano a protettori del popolo. Ed eccoli a fare rimostranze su rimostranze. E alla Reggente sale la mosca al naso. Avete comunque udito parlare delle agitazioni che sono avvenute lo scorso aprile?» «Vagamente.» «É accaduto in occasione dell'arresto del parlamentare Broussel. La Reggente lo fece arrestare una mattina che s'era purgato. La plebe s'era sollevata al grido di una servente, e il colonnello delle guardie, Comminges, non poté attendere che fosse vestito e lo trascinò in veste da camera di carrozza in carrozza. Riuscì infine a condurre in porto, non senza fatica, il rapimento ordinatogli. Mi confidò più tardi che quella cavalcata tra la folla in rivolta l'avrebbe assai divertito se si fosse trattato di una piacevole damigella piuttosto che di un vecchio in lagrime che non ci capiva nulla. «Comunque, la plebaglia delusa prese a far barricate per le vie. É un giuoco che il popolo adora per distrarre la propria collera.» «E la regina e il piccolo re?» chiese ansiosa la zia Pulcheria, ch'era sentimentale. «Che dirvi? Ella ricevette con molta alterigia i signori del Parlamento, poi cedette. Da allora, hanno litigato e si sono riconciliati varie volte. Tuttavia, credetemi, Parigi mi fece l'effetto, in questi ultimi mesi, di un paiolo di streghe ribollente di passioni. É una piacevole città, ma che nasconde nei suoi bassifondi un'infinità di miserabili e di banditi di cui ci si potrebbe liberare solo bruciandoli in mucchio come cimici. «Senza parlare dei libellisti e dei poeti infangati la cui penna punge più del dardo di un'ape. Parigi è inondata di libelli che ripetono in versi e in prosa: “Non vogliamo Mazarino! Non vogliamo Mazarino!”, tanto che vengon chiamati “Mazarinate”. La regina ne trova persino nel suo letto e nulla è più adatto a far trascorrere una brutta notte e a far diventare gialli in viso di quei foglietti dall'aspetto innocente. «A farla breve, il dramma è scoppiato. I signori del Parlamento lo intuivano da molto tempo; temevano sempre che la regina portasse il piccolo re fuor di Parigi e tre volte ogni sera si recavano in gran numero a chiedere di contemplare il bel fanciullo nel sonno, ma in realtà per accertarsi ch'egli fosse ancora lì. Ma la spagnola e l'italiano son furbi. Il giorno dell'Epifania abbiamo bevuto e fatto festa a corte con molta allegrezza e mangiato senza pensare a nulla la tradizionale focaccia. Verso mezzanotte, mentre avevo deciso di recarmi con alcuni amici nelle taverne, mi dettero l'ordine di radunare i miei uomini, i miei equipaggi, e di raggiungere una delle porte di Parigi. Di là, a Saint-Germain. Vi trovo, già arrivati, la regina e i suoi due figli, le loro dame d'onore e i paggi, tutta quella nobile gente coricata sulla paglia del vecchio castello pieno di correnti d'aria. Sopraggiunge anche il signor Mazarino. Da allora, Parigi è assediata dal principe di Condé, che si è messo alla testa dell'esercito del re. Il Parlamento, nella capitale, continua a brandire la bandiera della rivolta ma ha molte gatte da pelare. Il coadiutore di Parigi, principe di Gondi, cardinale di Retz, che vorrebbe prendere il posto di Mazarino, è anch'egli con i ribelli. Io, invece, ho
seguito il signor di Condé.» «Ne sono molto lieto», sospirò il vecchio barone. «Mai, al tempo di Enrico IV, si sarebbe veduto un simile disordine. Dei parlamentari, dei principi in rivolta contro il re di Francia! Ecco anche in ciò l'influsso delle idee d'oltre Manica. Non si dice forse che anche il Parlamento inglese ha brandito la bandiera della rivolta contro il suo re fino a osare d'imprigionarlo?» «Anzi, gli hanno messo la testa su un ceppo. Sua Maestà Carlo I è stato giustiziato a Londra il mese scorso.» «Quale orrore!» esclamarono, costernati, tutti i presenti. «Come potete supporre, la notizia non ha rassicurato nessuno alla Corte di Francia, dove si trova, del resto, la vedova in pianto del re d'Inghilterra con i suoi due bambini. Si è deciso perciò di mostrarsi feroci e intransigenti nei confronti di Parigi. Io sono stato, per l'appunto, mandato come aiutante del signor di Saint-Maur per assoldare soldati nel Poitou e condurli al signor di Turenne che, in verità, è il più valente comandante al servizio del re. «Sarebbe proprio una disdetta se, nelle mie terre e nelle vostre, caro cugino, non riuscissi a reclutare almeno un reggimento da offrire a vostro figlio. Mandate dunque i vostri fannulloni e i vostri indesiderabili ai miei sergenti, barone. Ne faremo dei dragoni.» «Si deve ancora parlare di guerre?» fece lentamente il barone. «Si poteva credere che le cose si mettessero a posto. Non è stato forse firmato in autunno un trattato in Westfalia che sancisce la sconfitta dell'Austria e della Germania?... Pensavamo di poter respirare un po'. E ancora, credo che la nostra regione non è da compiangere se si pensa alle campagne di Piccardia e delle Fiandre dove tuttora restano gli spagnoli e che, da trenta anni...» «Quella gente c'è abituata», disse con tono leggero il marchese. «Mio caro, la guerra è un male necessario ed è quasi da eretici reclamare una pace che Dio non ha voluto per noi, poveri peccatori. Tutto sta nel trovarsi fra quelli che fanno la guerra e non fra quelli che la subiscono... Per parte mia, sceglierò sempre la prima formula, cui mi dà diritto il mio rango. Quel ch'è noioso, in questo affare, è che mia moglie è rimasta a Parigi... dall'altra parte, già, con il Parlamento. Io non penso, no, ch'ella abbia un amante fra quei gravi e dotti magistrati così poco brillanti. Ma figuratevi che alle dame piace immensamente complottare e che la Fronda le attira. Si sono raggruppate intorno alla figlia di Gastone d'Orléans, fratello del re Luigi XIII. Portano sciarpe azzurre a mo' di croce e perfino spadini con bandoliere di pizzo. Tutto ciò è molto grazioso, ma non posso fare a meno d'essere preoccupato per la marchesa...» «Potrebbe ricevere qualche brutto colpo», gemette Pulcheria. «No, la credo esaltata, ma prudente. I miei tormenti sono di un altro ordine e, se vi sarà un colpo, penso che sarebbe brutto piuttosto per me che per lei. Ma capite? Separazioni di tal genere sono funeste a uno sposo che non ama dividere. Per mio conto...» Si interruppe tossendo con violenza, perché il valletto di scuderia, promosso al grado di cameriere, aveva gettato nel camino, per rianimare il fuoco, un enorme mucchio di paglia umida.
«Perdiana, cugino mio», esclamò il marchese dopo aver ripreso fiato, «capisco il vostro desiderio di respirare un poco. Quel vostro stordito meriterebbe un fracco di legnate con legna verde.» Prendeva la cosa allegramente e Angelica lo trovava simpatico nonostante le sue arie di condiscendenza. Le sue chiacchiere l'avevano interessata al massimo. Si sarebbe detto che il vecchio castello intorpidito si fosse destato e avesse aperto le sue pesanti porte su un altro mondo, colmo di vita. Ma, al contrario, il figlio s'immusoniva sempre più. Seduto, rigido sulla sedia, i riccioli biondi bene acconciati sull'ampio colletto di pizzo, egli gettava sguardi inorriditi a Giovannino e a Gontrano che, rendendosi conto dell'effetto che producevano, accentuavano ancor più i loro modi sguaiati fino a mettersi le dita nel naso e a grattarsi la testa. Il loro maneggio turbava moltissimo Angelica e le cagionava un senso di malessere e quasi la nausea. Da qualche tempo, del resto, ella non si sentiva bene: soffriva al ventre e Pulcheria le aveva proibito di mangiare carote crude secondo la sua abitudine. Ma quella sera, dopo le numerose emozioni e distrazioni recate dagli straordinari visitatori, ella aveva l'impressione d'essere sul punto di cadere ammalata. Perciò non parlava e se ne stava quieta sulla sua seggiola. Ogni volta che guardava il cugino Filippo del Plessis, qualche cosa la stringeva alla gola e non sapeva se fosse odio o ammirazione. Ella non aveva mai veduto un ragazzo così bello. I capelli del giovane, la cui morbida frangia ricadeva sulla fronte, erano d'un oro brillante a confronto del quale i riccioli di lei sembravano bruni. Egli aveva lineamenti perfetti. Il suo vestito di fine stoffa grigia, ornato di pizzi e di nastri azzurri, metteva in rilievo il suo colorito bianco e roseo. Lo si sarebbe preso per una fanciulla senza la durezza dello sguardo, che non aveva nulla di femmineo. A causa di lui, la serata e la cena furono per Angelica un supplizio. Ogni mancanza dei servi, ogni scomodità erano sottolineati da uno sguardo e da un sorriso beffardo dell'adolescente. Giovanni-la-Corazza, che fungeva da maggiordomo, portò in tavola i piatti con il tovagliolo sulla spalla. Il marchese scoppiò a ridere, dicendo che quel modo di portare il tovagliolo si usava solo alla tavola del re e dei principi del sangue, ch'egli si sentiva lusingato dell'onore che gli veniva fatto ma che si accontentava d'essere servito con maggior semplicità, e cioè col tovagliolo avvolto intorno all'avambraccio. Pieno di buona volontà, il carrettiere tentò di attorcigliarsi il panno sudicio al suo braccio peloso, ma la sua goffaggine e i suoi sospiri non fecero che accrescere l'ilarità del marchese, al quale ben presto si unì il figlio. «Ecco un uomo che vedrei meglio come dragone che come cameriere», disse il marchese guardando Giovanni-la-Corazza. «Tu che ne pensi, giovanotto?» Intimidito, il carrettiere rispose con un grugnito da orso che non faceva affatto onore alla lingua di sua madre. La tovaglia che era stata presa da un armadio umido, fumava al calore delle scodelle di zuppa. Uno dei servitori, volendo fare lo zelante, seguitava a smoccolare le poche candele e le spense diverse volte. Infine, per colmo di disgrazia, il ragazzo mandato a prendere il vino dal curato, tornò e, grattandosi la testa, raccontò che il curato era andato a esorcizzare i topi in una frazione vicina, e che la sua servente, la Maria Giovanna, aveva rifiutato di
consegnare anche il più piccolo recipiente. «Non ve ne preoccupate, cugina», intervenne con molta galanteria il marchese del Plessis, «berremo vinello di mele, e se il mio signor figlio non si adatterà, resterà senza bere. Ma, in compenso, vogliate darmi qualche informazione su quello che ho udito. Capisco abbastanza il dialetto del paese che masticai quando ero a nutrice per aver compreso quel che diceva quel ragazzotto. Il curato sarebbe andato a esorcizzare dei topi!... Che cos'è questa storia?» «Nulla di stupefacente, cugino. Gli abitanti di una frazione vicina si lamentano infatti da un po' di tempo di essere invasi da topi che mangiano il grano di riserva. Il curato è certo andato lì a portare l'acqua benedetta e a fare le preghiere d'uso perché gli spiriti maligni che abitano quegli animali si ritirino e cessino di nuocere.» Il signore guardò un po' stupito Armando di Sancé, quindi, abbandonandosi sulla sedia, si mise a ridere piano. «Non avevo mai sentito dire una cosa così divertente. Bisognerà che la scriva alla signora di Beaufort; sicché, per distruggere i topi, li si asperge d'acqua benedetta?» «Che c'è di ridicolo in ciò?» protestò il barone che cominciava a impazientirsi. «Ogni male è opera degli spiriti malvagi che s'insinuano nell'involucro delle bestie per nuocere agli uomini. L'anno scorso, uno dei miei campi fu invaso dai bruchi. Li feci esorcizzare.» «E se ne andarono?» «Sì. Appena due o tre giorni dopo.» «Quando non avevano più nulla da mangiare nel campo.» La signora di Sancé, il cui principio era che una donna deve umilmente tacere, non poté fare a meno di prender la parola in difesa della sua fede che le pareva fosse attaccata. «Non vedo perché, cugino, non avrebbero influenza su bestie nocive le pratiche sacre. Nostro Signore stesso non ha forse fatto entrare i demoni in un branco di maiali, così come racconta il Vangelo? Il nostro curato insiste molto su questo genere di preghiere.» «E quanto lo pagate per ogni esorcismo?» «Si accontenta di poco ed è sempre pronto a disturbarsi e a correre quando lo si chiama.» Questa volta, Angelica sorprese lo sguardo d'intesa che il marchese del Plessis scambiava con il figlio: questi poveretti, pareva dicesse, sono davvero d'una ingenuità grossolana. «Bisognerà che parli con il signor Vincenzo di questi costumi campagnoli», riprese il gentiluomo. «Ne farà una malattia, il poveretto. Lui, che ha fondato un ordine specialmente incaricato di evangelizzare il clero rurale. Quei missionari hanno come patrono S. Lazzaro, e vengono chiamati Lazzaristi. Vanno a tre a tre nelle campagne a predicare e a insegnare ai curati dei nostri villaggi a non cominciare la messa con il Pater e a non andare a letto con la loro serva. É un'opera piuttosto inconsueta, ma il signor Vincenzo è partigiano della riforma della Chiesa attraverso la Chiesa.» «Ecco una parola che non mi piace!» esclamò il vecchio barone. «Riforma,
sempre riforma! Le vostre parole hanno una risonanza ugonotta, cugino. Da qui a tradire il re, temo che non vi sia che un passo. Quanto al vostro signor Vincenzo, per quanto sia ecclesiastico, da quel che ho capito e udito dire di lui, i suoi modi hanno qualche cosa di eretico di cui Roma dovrebbe ben diffidare.» «Il che non impedisce che Sua Maestà re Luigi XIII, in punto di morte, abbia voluto metterlo a capo del Consiglio di Coscienza.» «E che cos'è quest'altra roba?» Con un dito leggero, del Plessis fece sbuffare le sue maniche di pizzo. «Come spiegarvelo? É una cosa enorme. La Coscienza del regno! Il signor Vincent de Paul 3 è la coscienza del regno, ecco. Egli vede la regina quasi ogni giorno, è ricevuto da tutti i principi. Con ciò, l'uomo più semplice e allegro che vi sia. La sua idea è che la miseria si può guarire e che i grandi di questo mondo debbono aiutarlo a ridurla.» «Utopie!» interruppe con stizza zia Giovanna. «La miseria è, come voi dicevate poco fa per la guerra, un male che Dio ha voluto in punizione del peccato originale. Mettersi contro questo obbligo equivale a una ribellione contro la disciplina divina!» «Il signor Vincenzo vi risponderebbe, mia cara madamigella, che siete “voi” responsabile dei mali che ci circondano. E vi manderebbe senz'altro a portare rimedi e alimenti ai più poveri dei vostri contadini facendovi notare che se voi li giudicate, secondo la sua espressione, “troppo grossolani e terrestri”, non avete che da girare la medaglia al rovescio per vedervi il volto di Cristo sofferente. Così, quel diavolo d'uomo ha trovato il sistema di arruolare nelle sue caritatevoli falangi quasi tutte le alte personalità del reame. Così come mi vedete», aggiunse il marchese con tono compassionevole, «quando ero a Parigi mi capitava di andare due volte la settimana all'Ospedale Maggiore per versare e servire la zuppa ai malati.» «Non finite più di stupirmi», esclamò il vecchio barone agitandosi. «Decisamente, i nobili della vostra specie non sanno più che inventare per disonorare i loro blasoni. Debbo osservare che il mondo gira ormai solo a rovescio, si creano dei preti per evangelizzare i preti e poi dev'essere uno sfrontato come voi, quasi un libertino, che viene a fare la morale a una famiglia onesta e sana come la nostra. Non resisto più!» Fuori di sé, il vegliardo si alzò e, siccome la cena era terminata, tutti lo imitarono. Angelica, che non aveva potuto mangiare nulla, scivolò fuor dalla stanza. Inesplicabilmente, aveva freddo ed era percorsa da brividi. Tutto quello che aveva udito le turbinava nel cervello: il re nella paglia, il Parlamento in rivolta, i gran signori che versavano la zuppa, Parigi, un mondo pieno di vita e d'attrazione. In confronto a tutta quella eccitazione e a quella foga, le pareva che lei, Angelica, fosse come morta, vivesse rinchiusa in una tomba. Ad un tratto, si cacciò in un angolo del corridoio. Suo cugino Filippo le passò accanto senza vederla. Lo udì salire al piano di sopra e chiamare i suoi domestici che, al lume di alcuni candelieri, stavano sistemando le camere dei padroni. La voce in falsetto dell'adolescente era piena di collera. 3
Vincent de Paul (1576-1660), conosciuto in Italia come San Vincenzo de' Paoli, nato a Pouy (Guascogna), sacerdote missionario, fondatore della Confraternita della carità per l'assistenza agli infermi poveri, fondò anche l'ordine delle Figlie della Carità e quello dei Lazzaristi.
«É inaudito che nessuno di voi abbia pensato a munirsi di candele all'ultima tappa. Avreste potuto immaginare che in questi luoghi sperduti i cosiddetti nobili non valgono più dei loro contadini. Avete almeno fatto scaldare l'acqua per il mio bagno?» L'uomo rispose qualche cosa che Angelica non udì. Filippo riprese con tono rassegnato: «Tanto peggio. Mi laverò in un mastello! Per fortuna, mio padre mi ha detto che il castello del Plessis possiede due sale da bagno fiorentine. Non vedo l'ora di trovarmici. Mi sembra che l'odore di questa tribù di Sancé non mi potrà mai uscire dal naso.» “Questa volta”, pensò Angelica, “me la pagherà.” Lo vide ridiscendere al lume della lanterna posata sulla mensola dell'anticamera. Quando le fu vicino, ella uscì dall'ombra della scala a chiocciola. «Voi, come osate parlare con simile insolenza di noi a dei lacchè?» chiese con voce netta che risuonò sotto le volte. «Non avete dunque alcun senso della dignità dei nobili? Ciò dipende senza dubbio dal fatto che discendete da un bastardo di re. Mentre il nostro sangue è puro.» «Puro come è sudicia la vostra pelle», rispose il giovinetto con tono gelido. Con un balzo inatteso Angelica gli saltò al viso con le unghie fuori. Ma il ragazzo, con una forza già virile, le afferrò i polsi e la respinse con violenza contro la parete. Poi si allontanò senza affrettare il passo. Stordita, Angelica sentiva il cuore batterle a precipizio. Un senso sconosciuto, fatto di vergogna e di disperazione la soffocava. “Lo odio”, pensava. “Un giorno mi vendicherò. Dovrà inchinarsi, chiedermi perdono.” Ma, per l'istante, ella non era che una miserabile bimba nell'ombra di un vecchio umido castello. Cigolò una porta e Angelica distinse la massiccia sagoma del vecchio Guglielmo che entrava portando due secchi d'acqua fumante per il bagno del giovin signore. Quand'egli la scorse, si fermò. «Chi è là?» «Sono io», rispose in tedesco Angelica. Quand'era sola con il vecchio soldato, parlava sempre quella lingua che egli le aveva insegnato. «Che cosa fate?» riprese Guglielmo nello stesso dialetto. «Fa freddo. Andate nelle sale ad ascoltare le storie di vostro zio il marchese. C'è da divertirsi per tutto l'anno.» «Odio quella gente!» disse con aria cupa Angelica. «Sono impertinenti e troppo diversi da noi. Distruggono tutto ciò che toccano e poi ci lasciano soli e a mani vuote, mentre essi se ne vanno a ritrovare i loro bei castelli pieni di magnifici oggetti.» «Che cosa c'è, figlia mia?» chiese lentamente il vecchio Lutzen. «Il vostro spirito non potrebbe sollevarsi al disopra di qualche scherzo?» Il malessere di Angelica aumentava. Un freddo sudore le imperlava le tempie. «Guglielmo, tu che non sei mai stato in nessuna corte di principi, dimmi: quando capita d'incontrare insieme un malvagio e un vile, che si deve fare?»
«Strana domanda per una bimba! Poiché me la rivolgete, vi dirò che si deve uccidere il malvagio e lasciar fuggire il vile.» Dopo un attimo di riflessione aggiunse, riprendendo i secchi: «Ma vostro cugino Filippo non è né malvagio, né vile. Un po' giovane, ecco tutto...» «Sicché, anche tu lo difendi?» gridò Angelica con voce acuta. «Anche tu? Perché è bello... perché è ricco...» Un sapore amaro le riempiva la bocca. Vacillò, e scivolando lungo la parete cadde svenuta.
La malattia di Angelica era del tutto naturale. Sulle sue manifestazioni, che preoccupavano un po' la bimba divenuta fanciulla, la signora di Sancé l'aveva rassicurata e avvertita che ormai sarebbe accaduto ogni mese, fino ad età avanzata. «E mi avverrà di svenire ogni mese?» s'informò Angelica, stupita di non aver notato più spesso gli svenimenti cosiddetti obbligatori delle donne che le stavano intorno. «No, è solo un accidente. Vi rimetterete e vi abituerete facilmente al vostro nuovo stato.» «Però. É lunga fino a un'età avanzata!» sospirò la fanciulla. «E quando sarò vecchia, non sarà più tempo di ricominciare ad arrampicarsi sugli alberi.» «Potete benissimo continuare ad arrampicarvi sugli alberi», disse la signora di Sancé, che mostrava molta delicatezza nella educazione dei suoi figli e pareva rendersi conto dei rimpianti di Angelica. «Ma, come capite voi stessa, sarebbe in realtà l'occasione di smettere maniere che non convengono alla vostra età e alla vostra qualità di fanciulla nobile.» Fece poi un discorsetto in cui si trattava della gioia di mettere al mondo dei figli e della punizione originale che pesa sulle donne per colpa di nostra madre Eva. «Aggiungiamo questo alla miseria e alla guerra», pensò Angelica. Distesa sotto le coperte, ascoltando la pioggia che cadeva fuori, ella provava un certo benessere. Si sentiva debole e nello stesso tempo cresciuta. Aveva l'impressione d'essere coricata a bordo di una nave che si allontanasse da una riva conosciuta per navigare verso un altro destino. Di tanto in tanto pensava a Filippo e stringeva i denti. Dopo lo svenimento, messa in letto e vegliata da Pulcheria, non si era accorta della partenza del marchese e di suo figlio. Le raccontarono che non si erano attardati a Monteloup. Filippo si lamentava delle cimici che gli avevano impedito di dormire. «E la mia supplica al re», chiese il barone di Sancé al momento in cui il suo illustre parente saliva in carrozza, «avete potuto presentargliela?» «Mio caro, l'ho presentata ma non credo che possiate sperare gran che; il regale fanciullo è in questo momento più povero di noi, e non ha, per così dire, un tetto sotto cui riposarsi.» Aggiunse sdegnosamente: «Mi hanno raccontato che vi divertite ad allevare dei bei muli. Vendetene qualcuno.»
«Rifletterò sul vostro consiglio», disse Armando di Sancé, ironico una volta tanto. «É certo preferibile per un gentiluomo, attualmente, esser laborioso che contare sulla generosità dei suoi pari.» «Laborioso! Oh, che brutta parola!» esclamò il marchese, con un gesto civettuolo della mano. «Allora addio, cugino. Mandate dunque i vostri figli alle armi, e i vostri più robusti contadini. Addio. Vi bacio mille volte.» La carrozza si allontanò sobbalzando mentre una mano raffinata si agitava dalla portiera.
Il silenzio della campagna ricadeva sul vecchio castello. Angelica guardava dalla finestra nella direzione da cui giungono i viaggiatori e gli echi del mondo lontano: venditori ambulanti in inverno, coi loro berretti di pelo e il magro cane, grassi mercanti con le loro bestie: asini o cavalli. Non vi furono altre visite dei signori del Plessis. Si seppe che davano qualche festa, poi che stavano per ripartire per l'Ile-de-France con le nuove truppe. Sergenti arruolatori erano passati da Monteloup. Al castello, Giovanni-la-Corazza e un garzone si lasciarono tentare dal glorioso avvenire riserbato ai dragoni del re. La nutrice Fantina pianse molto alla partenza del figlio. «Non era cattivo e ora diventerà un volpone della vostra specie», disse a Guglielmo Lutzen. «É questione di eredità, mia cara. Non ebbe forse come padre presunto un soldataccio?» Per contare i giorni, si prese l'abitudine di dire “era prima” oppure “dopo la visita del marchese del Plessis”.
7 Vi fu poi l'incidente del “visitatore nero”. Di costui, Angelica si ricordò più profondamente e più a lungo. Invece di distruggere e di ferire come avevano fatto i precedenti ospiti, egli recò con le sue strane parole una speranza che avrebbe seguito la fanciulla durante la vita, una speranza così profondamente radicata che, nei momenti di avvilimento che ella attraversò più tardi, le bastava chiudere gli occhi per rivedere quella sera di primavera sussurrante di pioggia nella quale egli era apparso. Angelica si trovava, come di solito, in cucina. Attorno a lei giocavano Dionigi, Maria Agnese e il piccolo Alberto. L'ultimo nato stava nella sua culla accanto al focolare. Secondo il parere dei bambini, la cucina era il più bel luogo della casa. Il fuoco vi ardeva in permanenza e quasi senza fumo, perché la cappa dell'immenso camino era altissima. La luce di quel fuoco perpetuo danzava e si rifletteva nel fondo rossastro delle casseruole e dei catini di rame massiccio che pendevano alle pareti. Il selvaggio e sognante Gontrano rimaneva spesso ore intere a osservare lo scintillìo di quei riflessi in cui vedeva strane visioni, e Angelica vi individuava i geni tutelari di Monteloup. Quella sera, Angelica stava preparando un pasticcio di lepre. Già aveva dato alla pasta la forma di una torta e tagliava la carne trita. Si udì, fuori, il galoppo di un cavallo. «Ecco vostro padre che torna», disse zia Pulcheria. «Credo, Angelica, che sarebbe bene andassimo in salotto.» Ma, dopo un breve silenzio durante il quale il cavaliere doveva essere balzato a terra, la campanella della porta d'ingresso suonò. «Vado io», gridò Angelica. Si precipitò, senza preoccuparsi delle maniche sollevate sulle braccia bianche di farina, e distinse, attraverso la pioggia e la bruma della sera, un uomo alto e magro, avvolto in un mantello grondante acqua. «Avete messo al riparo il cavallo?» gridò ella. «Qui le bestie prendono freddo facilmente. C'è troppa umidità a causa delle paludi.» «Vi ringrazio, signorina», rispose lo straniero togliendosi l'ampio feltro e inchinandosi. «Mi sono permesso, secondo l'uso dei viaggiatori, di metter subito nella vostra stalla il cavallo e il bagaglio. Accorgendomi, questa sera, d'esser troppo lontano dalla mèta e passando nelle vicinanze del castello di Monteloup, ho pensato di chiedere al signor barone l'ospitalità di una notte.» Dal suo vestito di pesante stoffa nera appena guarnita da un collo bianco, Angelica pensò si trattasse di un piccolo commerciante o di un contadino vestito a festa. Eppure, il suo accento, che non era quello del paese e pareva un po' forestiero, la sconcertava, come anche la ricercatezza del suo linguaggio. «Mio padre non è ancora rientrato, ma venite a mettervi al caldo in cucina. Manderemo un servo a strofinare la vostra bestia.» Quand'ella ritornò in cucina, precedendo il visitatore, suo fratello Giovannino entrava allora per la porta di servizio. Coperto di fango, il viso rosso e sudicio, aveva
trascinato sul pavimento un cinghiale, da lui ucciso con un colpo di spiedo da caccia. «Buona caccia, signore?» chiese lo straniero con molta cortesia. Giovannino gli gettò uno sguardo poco cordiale e rispose con un grugnito. Poi sedette su uno sgabello, e tese i piedi alla fiamma. Più modestamente, il visitatore si poneva anch'egli sull'angolo del focolare, e accettava una scodella di minestra che Fantina gli porgeva. Spiegò ch'era originario del paese, essendo nato dalle parti di Secoundigny, ma che, avendo trascorso lunghi anni a viaggiare, aveva finito per non parlare più la sua lingua che con un forte accento. L'avrebbe riappresa presto, affermò. Era sbarcato a La Rochelle solo da una settimana. A queste parole, Giovannino rialzò la testa e lo guardò con occhi brillanti. I bimbi lo circondarono e si misero ad assediarlo di domande. «In che paese siete andato?» «É lontano?» «Che mestiere fate?» «Non ho alcun mestiere», rispose lo sconosciuto. «Per il momento, credo mi piacerebbe abbastanza di percorrere la Francia e di raccontare a chi vuole ascoltarle le mie avventure e i miei viaggi.» «Come i poeti, i trovatori del Medio Evo?» chiese Angelica, che ricordava, nonostante tutto, qualcuno degli insegnamenti di zia Pulcheria. «É un po' questo, per quanto io non sappia né cantare né far versi. Ma potrei dire cose assai belle sui paesi dove la vite non ha bisogno d'esser piantata. I grappoli pendono dagli alberi delle foreste, ma gli abitanti non sanno fare il vino. Meglio così, perché Mosè si ubriacò, e il Signore non ha voluto che tutti gli uomini si trasformassero in maiali. Vi sono ancora popolazioni innocenti, sulla terra. Potrei anche parlarvi di quelle grandi pianure dove, per avere un cavallo, basta aspettare dietro una pietra il passaggio delle mandrie selvagge che galoppano con la criniera al vento. Si lancia una lunga corda munita di un nodo scorsoio e si porta via la bestia.» «E si addomestica facilmente?» «Non sempre», disse sorridendo il visitatore. E Angelica comprese a un tratto che quell'uomo doveva sorridere raramente. Dimostrava una quarantina d'anni, ma nel suo sguardo v'era qualcosa di rigido e di appassionato. «Per andare in quei paesi, ci si arriva per mare, almeno?» chiese diffidente il taciturno Giovannino. «Si attraversa tutto l'oceano. Laggiù, nell'interno delle terre, si trovano fiumi e laghi. Gli abitanti sono di un rosso rame. Si ornano il capo con penne di uccello e girano in canotti fatti con pelli d'animali. Sono stato anche in isole dove gli uomini sono tutti neri. Si nutrono di canne grosse come un braccio chiamate canne da zucchero, e infatti è di lì che proviene lo zucchero. Ci si fa anche un certo sciroppo, una bevanda più forte dell'acquavite di grano, ma che inebria di meno e dà allegria e forza: il rhum.» «Avete portato con voi di questa bevanda meravigliosa?» domandò Giovannino. «Ne ho una bottiglia nelle tasche della mia sella. Ma ne ho anche lasciati molti fusti da mio cugino, che abita a La Rochelle, e si ripromette di ricavarne buoni
guadagni. Affar suo. Io non sono un commerciante. Non sono che un viaggiatore curioso di nuove terre, avido di conoscere quei luoghi dove nessuno ha fame o sete, e dove l'uomo si sente libero. É là che ho compreso come tutto il male venga dall'uomo di razza bianca, perché non ha ascoltato la parola del Signore, ma l'ha travisata. Perché il Signore non ha ordinato di uccidere, né di distruggere, ma di amarsi.» Vi fu un silenzio. I bambini non erano abituati a un linguaggio così insolito. «La vita nelle Americhe è dunque più perfetta che non nei nostri paesi dove Dio regna da tanto tempo?» chiese all'improvviso la voce calma di Raimondo. Anch'egli s'era avvicinato, e Angelica vide nel suo sguardo un'espressione simile a quella dello straniero. Questi lo osservò attentamente. «É difficile pesare su una bilancia le diverse perfezioni di un mondo antico e di un mondo nuovo, ragazzo mio. Che dirvi? Nelle Americhe si vive in modo assai diverso. L'ospitalità fra uomini bianchi è larga. Non si parla mai di pagare e, del resto, in certi luoghi la moneta non esiste e si vive solo di caccia, di pesca e di scambi di pelli e di oggetti di vetro.» «E l'agricoltura?» Questa volta era stata Fantina Lozier a interrogare, cosa che non avrebbe mai fatto in presenza dei padroni adulti. Ma la sua curiosità era divorante come quella dei bambini. «L'agricoltura? Nelle isole delle Antille, i negri ne fanno un po'. In America, i rossi non la praticano, ma vivono raccogliendo frutta e germogli. Vi sono altri luoghi dove si coltiva la patata che in Europa chiamano tartufo, ma che qui non si conosce ancora. Vi è, soprattutto, frutta: certe specie di pere che in realtà sono piene di burro e alberi del pane.» «Alberi del pane? Allora non c'è bisogno di mugnaio!» esclamò Fantina. «No di certo. Tanto più che c'è molto granoturco. In altre regioni la gente mastica alcune cortecce oppure noci di cola, che bastano a saziare la fame e la sete per tutta la giornata. Ci si può anche nutrire con una specie di pasta di mandorle, il cacao, che si mescola con lo zucchero grezzo. E si beve un estratto di fave chiamato caffè. Nei paesi più desertici si trova del succo di palma o di agave. Vi sono animali...» «Si può fare, in quei paesi, del cabotaggio commerciale?» interruppe Giovannino. «Già lo fanno alcuni di Dieppe, e anche qualcuno di queste parti. Anche mio cugino lavora per un armatore che manda ogni tanto navi per la Costa Francescana, come si diceva ai tempi di Francesco I.» «Lo so, lo so», interruppe di nuovo, impaziente, Giovannino. «So anche che degli Olonesi vanno a volte a Terranova e gente del Nord nella Nuova Francia, ma pare che siano paesi freddi 4 , e non attirano.» «Champlain, infatti, fu mandato nella Nuova Francia già nel 1608, e laggiù vi sono molti francesi. Ma è, in verità, un paese freddo e dove è duro vivere.» «E perché mai?» «É un po' difficile da spiegarvi. Forse perché già vi si trovano dei gesuiti 4
Il Canada.
francesi.» «Voi siete protestante, non è vero?» esclamò vivamente Raimondo. «Infatti. Sono anzi pastore, pur senza parrocchia, e soprattutto viaggiatore.» «Siete capitato male, signore», ghignò Giovannino. «Sospetto mio fratello d'essere fortemente attratto dalla disciplina e dagli esercizi spirituali della Compagnia di Gesù, che voi incriminate.» «Lungi da me il pensiero di biasimarlo per questo», disse l'ugonotto con un gesto di protesta. «Ho incontrato laggiù molte volte i padri gesuiti, che sono penetrati nelle terre dell'interno con un coraggio e un'abnegazione evangelici. Per certe tribù della Nuova Francia, non v'è eroe più grande del celebre padre Jogues, martire degli irochesi. Ma ognuno è libero della sua coscienza e delle sue convinzioni.» «In fede mia», disse Giovannino, «non posso discorrere con voi su questo argomento, perché comincio a dimenticare un po' il mio latino. Ma mio fratello lo parla con più eleganza che non il francese e...» «Ecco per l'appunto uno dei più grandi mali che affliggono la nostra Francia», esclamò il pastore. «Che non si possa più pregare il proprio Dio, che dico, il Dio dei mondi, nella propria lingua materna e con il proprio cuore, ma sia indispensabile servirsi di quei magici incantesimi in latino...» Ad Angelica dispiaceva che non si parlasse più di correnti e di navi negriere, di animali straordinari come i serpenti o quelle lucertole gigantesche con i denti come il luccio, capaci di uccidere un bue, oppure di quelle balene grandi come navi. Non si era accorta che la nutrice era uscita dalla cucina, lasciando la porta socchiusa. Così, udirono dei mormorii, e la voce della signora di Sancé, che non credeva di essere udita. «Protestante o no, figlia mia, quell'uomo è nostro ospite e resterà qui finché ne avrà desiderio.» Poco dopo, la baronessa, seguita da Ortensia, entrò nella cucina. Il visitatore s'inchinò con molta cortesia, senza baciamano né riverenza di corte. Angelica si disse ch'era certamente un plebeo, però simpatico, anche se ugonotto e un pochino esaltato. «Pastore Rochefort», si presentò egli. «Debbo recarmi a Secoundigny dove sono nato, ma, essendo la strada lunga, ho pensato di riposarmi sotto il vostro tetto ospitale, signora.» La padrona di casa lo assicurò che sarebbe stato il benvenuto, ch'essi erano tutti cattolici osservanti, ma che questo non impediva loro di essere tolleranti, come aveva raccomandato il buon re Enrico IV. «É ciò che ho osato sperare entrando qui, signora», riprese il pastore inchinandosi più profondamente, «perché io debbo confessarvi che alcuni miei amici mi hanno confidato che avete da molti anni un vecchio servitore ugonotto. Così, sono andato prima da lui ed è questo Guglielmo Lutzen che mi ha fatto sperare d'essere accolto da voi questa notte.» «Potete, infatti, esserne certo, signore, ed anche i prossimi giorni, se tale è il vostro piacere.» «Il mio solo piacere è di essere agli ordini del Signore, nel modo in cui posso servirlo. Ed è lui che mi ha ispirato bene, anche se debbo confessare che avrei voluto
vedere soprattutto vostro marito...» «Avete una commissione per mio marito?» si stupì la signora di Sancé. «Non una commissione, ma forse una missione. Permettete, signora, che non la comunichi che a lui.» «Ma certamente, signore. Del resto, odo i passi del suo cavallo.»
Poco dopo entrò il barone Armando. Dovevano averlo avvertito della visita inattesa. Non dimostrò all'ospite la sua abituale cordialità. Sembrava impacciato e quasi ansioso. «É vero, signor pastore, che venite dalle Americhe?» s'informò, dopo i saluti d'uso. «Sì, signor barone. E sarei lieto di avere pochi minuti di colloquio con voi per parlarvi di chi sapete.» «Zitto!» fece imperiosamente Armando di Sancé dando un'occhiata inquieta alla porta. Aggiunse con una certa precipitazione che la loro casa era a disposizione del signor Rochefort, il quale non aveva che da comandare ai camerieri tutto ciò che gli sarebbe occorso per le sue comodità. Avrebbero pranzato fra un'ora. Il pastore ringraziò e chiese l'autorizzazione di ritirarsi per “lavarsi un poco”. “Il temporale non gli basta dunque?” pensò Angelica. “Strana gente, questi ugonotti! Si ha ragione di dire che non sono come gli altri. Chiederò a Guglielmo se anche lui si lava di continuo. Deve forse far parte dei loro riti. É per questo che hanno spesso quell'aria mogia oppure così suscettibile, come Lutzen. Hanno la pelle troppo raschiata al vivo, e questo deve far loro male... É come il giovane Filippo che prova sempre il bisogno di lavarsi. Quella preoccupazione di sé porterà certo anche lui all'eresia. Forse sarà bruciato e gli starà bene!” Frattanto, mentre il visitatore si dirigeva alla porta per recarsi nella camera dove la signora di Sancé stava per accompagnarlo, Giovannino lo trattenne per un braccio con la sua abituale durezza. «Ancora una parola, pastore. Per poter lavorare in quei paesi d'America, bisogna senza dubbio essere molto ricchi, oppure acquistare una patente di ufficiale di marina, o almeno di artigiano in un mestiere?» «Figlio mio, le Americhe sono terre libere. Non vi si chiede nulla, per quanto sia necessario lavorare molto e duramente, e anche difendersi.» «Chi siete voi, straniero, per permettervi di chiamare questo giovane vostro figlio, e ciò in presenza di suo padre e mia, che sono il nonno?» S'era levata la voce sogghignante del vecchio barone. «Sono il pastore Rochefort, signor barone, per servirvi, ma senza assegnazione di diocesi, e solo di passaggio.» «Un ugonotto!» urlò il vecchio. «E che, per giunta, viene da quei paesi maledetti...» Stava sulla soglia, appoggiato al bastone, ma raddrizzandosi in tutta la sua altezza. Aveva avuto cura di togliersi la palandrana nera che indossava l'inverno. Il suo viso parve ad Angelica bianco come la sua barba. Senza sapere il perché,
ne fu intimorita e si affrettò ad intervenire. «Nonno, questo signore era tutto bagnato e noi lo abbiamo invitato perché si asciugasse. Ci ha raccontato delle cose appassionanti...» «E sia. Non nascondo che ammiro il coraggio e, quando il nemico si presenta a viso aperto, so che ha diritto a considerazione.» «Signore, io non vengo da nemico.» «Risparmiatemi le vostre prediche eretiche. Io non ho mai partecipato a controversie che non sono di competenza di un vecchio soldato. Ma tengo a dirvi che, in questa casa, non troverete anime da convertire!» Il pastore sospirò in modo impercettibile. «In verità, non sono tornato dall'America come predicatore in cerca di nuove conversioni. Nella nostra Chiesa, i fedeli e i curiosi vengono a noi liberamente. So benissimo che i componenti della vostra famiglia sono ferventi cattolici e che è assai difficile convertire persone la cui religione è codificata dalle più antiche superstizioni, e che pretendono di essere gli unici infallibili.» «Riconoscete dunque con questo che reclutate i vostri adepti non tra le persone dabbene ma tra gli indecisi, gli ambiziosi delusi, i monaci che han gettato la tonaca lieti di veder santificati i loro disordini?» «Signor barone, voi siete troppo impetuoso nei vostri giudizi», disse il pastore con voce che andava facendosi dura. «Alte figure e prelati del mondo cattolico si sono già convertiti alle nostre dottrine.» «Non mi dite nulla ch'io non sappia già. L'orgoglio può far cadere i migliori. Ma il vantaggio di noi cattolici è d'essere appoggiati sulle preghiere di tutta la Chiesa, dei santi e dei nostri morti, mentre voi, nel vostro orgoglio, negate questa intercessione e pretendete di trattare con Dio medesimo.» «I papisti ci accusano di orgoglio, ma essi stessi credono di essere infallibili e si arrogano il diritto di violenza. Quando sono partito dalla Francia», continuò il pastore con voce sorda, «eravamo nel 1629; ero sfuggito giovanissimo all'assedio atroce di La Rochelle da parte delle orde del signor di Richelieu. Si firmava la pace di Alès, che toglieva ai protestanti il diritto di avere delle piazzeforti!» «Era tempo. Stavate diventando uno Stato nello Stato. Confessate che il vostro scopo era di strappare tutte le contrade occidentali e centrali della Francia all'influenza del re.» «Lo ignoro. Ero ancora troppo giovane per rendermi conto di così vasti disegni. Compresi soltanto che quelle nuove decisioni erano in disaccordo con l'Editto di Nantes del re Enrico IV. «Al mio ritorno, mi accorgo con amarezza che non si è cessato di contestarne e di snaturarne i punti con un rigore che non ha eguale se non nella malafede dei casisti e dei giudici. Chiamano questo “l'osservanza minima” dell'Editto. Vedo così i protestanti costretti a sotterrare i loro morti di notte. Perché? Perché l'Editto non reca esplicitamente che il seppellimento di un riformato possa farsi di giorno. Dunque, deve farsi di notte.» «Ecco una cosa che deve piacere alla vostra umiltà», ghignò il vecchio nobiluccio. «Quanto all'articolo 28 che permette ai protestanti di aprire scuole in tutti i
luoghi dove l'esercizio del culto è autorizzato, come è stato interpretato? Siccome l'Editto non parla né delle materie insegnate, né del numero dei maestri, né della quantità di classi per ogni comunità, si è dunque deciso che vi sarebbe stato, per ogni scuola, e per ogni borgo, un solo maestro. É così che a Marennes ho veduto seicento bambini protestanti che hanno diritto a un solo maestro. Ah! ecco lo spirito ipocrita al quale ha condotto la falsa dialettica dell'antica Chiesa!» esclamò con forza il pastore. Vi fu un silenzio atterrito, e Angelica si accorse che il nonno, spirito in fondo diritto e giusto, era un po' sconcertato dell'esposizione di fatti che non ignorava. Ma la voce calma di Raimondo si levò improvvisa: «Signor pastore, io non sono in grado di apprezzare la giustizia dell'inchiesta che voi avete potuto condurre in questo paese su certi abusi di zelatori intransigenti. Vi sono grato di non avere neppure citato i casi di conversioni comprate di adulti e di fanciulli. Ma dovete sapere che, se tali eccessi esistono, Sua Santità il papa in persona è intervenuta a varie riprese presso l'alto clero di Francia, e presso il re. Commissioni ufficiali e segrete percorrono il paese per riparare torti che hanno potuto essere accertati. Sono anzi convinto che se voi stesso vi recaste fino a Roma e presentaste una raccolta di inchieste precise al Sovrano Pontefice, la maggior parte delle colpe realmente osservate sarebbero raddrizzate...» «Giovanotto, non spetta a me cercare di riformare la vostra Chiesa», disse il pastore con tono aspro. «Ecco, signor pastore, saremo perciò noi a farlo e, non vi dispiaccia», esclamò con improvviso ardore l'adolescente, «Dio ci illuminerà!» Angelica guardò stupita il fratello. Mai avrebbe pensato che tanta passione covasse sotto il suo aspetto ridicolo e un po' ipocrita. Toccò ora al pastore di sentirsi turbato. Per cercare di dissipare l'impaccio, il barone Armando disse ridendo senza malizia: «Le vostre discussioni mi fanno pensare che, da un po' di tempo, rimpiango spesso di non essere ugonotto. Perché sembra che diano sino a tremila lire per un nobile che si converta al cattolicesimo.» Il vecchio barone saltò su: «Risparmiateci, figlio, le vostre pesanti facezie. Sono sconvenienti dinanzi a un avversario.» Il pastore aveva ripreso dalla sedia il suo mantello ancora umido. «Non ero venuto da avversario. Avevo da compiere una missione nel castello di Sancé. Un messaggio dalle terre lontane. Avrei voluto parlarne da solo con il barone Armando, ma vedo che usate trattare i vostri affari pubblicamente in famiglia. Mi piace, questo sistema. Era quello dei patriarchi e anche degli apostoli.» Angelica si accorse che il nonno s'era fatto più bianco del pomo d'avorio del suo bastone e che si appoggiava allo stipite della porta. Ne ebbe pietà. Avrebbe voluto arrestare le parole che stavano per venire ma già il pastore continuava: «Il signor Antonio di Ridoué di Sancé, vostro figlio, che ebbi il piacere d'incontrare in Florida, mi chiese di venire al castello dov'è nato, di chiedere notizie della sua famiglia, perché io possa riferirgliele al mio ritorno. Ecco esaurito il mio compito...»
Il vecchio gentiluomo gli s'era accostato a piccoli passi. «Fuori di qui!» fece con voce sorda e ansimante. «Giammai, finché io viva, sarà pronunciato sotto questo tetto il nome di mio figlio spergiuro al suo Dio, al suo re, alla sua patria. Fuori di qui, vi dico. Niente ugonotti in casa mia!» «Me ne vado», disse, calmissimo, il pastore. «No!» La voce di Raimondo si levò nuovamente. «Restate, signor pastore. Non potete andar fuori in questa notte piovosa. Nessun abitante di Monteloup vorrà darvi asilo e il primo villaggio protestante è troppo lontano. Vi chiedo di accettare l'ospitalità della mia camera.» «Restate», disse Giovannino con la sua voce roca, «bisogna che mi parliate ancora delle Americhe e del mare.» La barba del vecchio barone tremava. «Armando», gridò egli, con una disperazione che spezzò il cuore di Angelica, «ecco dove s'è rifugiato lo spirito di rivolta di vostro fratello Antonio. In questi due ragazzi ch'io amavo. Dio non mi vuol risparmiare nulla. In verità, ho troppo vissuto.» Vacillò: e fu Guglielmo a sorreggerlo. Uscì appoggiato al vecchio soldato, ripetendo con voce tremante: «Antonio... Antonio...»
Alcune ore più tardi, il nonno morì, né si poté sapere di quale malattia. Piuttosto, in realtà, si spense mentre lo si credeva già rimesso dall'emozione causatagli dalla visita del pastore. Il dolore di conoscere la partenza di Giovannino gli fu risparmiato.
Una mattina, infatti, poco dopo i funerali, Angelica, che ancora dormiva, si udì chiamare a mezza voce: «Angelica, Angelica!» Aprendo gli occhi, ella vide stupita Giovannino accanto al suo letto. Gli fece cenno che non destasse Maddalena e lo seguì nel corridoio. «Io parto», sussurrò lui. «Cercherai di far loro capire.» «Dove vai?» «Prima a La Rochelle e poi m'imbarcherò per le Americhe. Il pastore Rochefort mi ha parlato di tutti quei paesi: Antille, Nuova inghilterra, e anche delle colonie: Virginia, Maryland, Carolina, il nuovo Ducato di York, la Pennsylvania. Riuscirò certo a sbarcare in qualche posto dove mi vorranno.» «Anche qui ti vogliamo», diss'ella in tono lamentoso. Tremava di freddo nella consunta camiciola da notte. «No», fece lui, «in questo luogo non c'è posto per me. Sono stanco di appartenere a una classe che possiede privilegi e non ha più utilità. Ricchi o poveri, i nobili non sanno più assolutamente a che cosa servono. Guarda papà. Va a tentoni. Si abbassa a far muli ma non osa sfruttare a fondo questa situazione umiliante per sollevare con il denaro il suo titolo di gentiluomo. E, alla fine, perde in tutte e due le cose. Lo mostrano a dito perché lavora come sensale, e lo fanno anche con noi perché
siamo sempre dei nobili pitocchi. Per fortuna, lo zio Antonio di Sancé mi ha indicato la via. Era il fratello maggiore di papà. Si è fatto ugonotto e ha abbandonato il continente.» «Non vorrai mica abiurare anche tu?» supplicò lei, spaventata. «No. Le bigotterie non mi interessano. Io voglio vivere.» La lasciò in fretta, scese alcuni gradini, si volse, posando sulla giovane sorella seminuda uno sguardo da uomo esperto. «Stai diventando bella e forte, Angelica. Non fidarti. Dovresti partire anche tu. Oppure, un giorno o l'altro, ti troverai nel fieno con un valletto di scuderia. Oppure diverrai proprietà di uno di quei grassi nobilucci che abbiamo come vicini.» Aggiunse con improvvisa dolcezza: «Credi alla mia esperienza di ragazzaccio, cara: sarebbe una tremenda esistenza per te. Fuggi anche tu da queste vecchie mura. Quanto a me, io me ne vado sul mare.» E in pochi salti, superando i gradini a due a due, il giovane scomparve.
8 La morte del nonno, la partenza di Giovannino e le parole che le aveva gettato: «Vattene via anche tu», turbarono profondamente Angelica in un'età in cui la natura ipersensibile è pronta a qualsiasi stravaganza. Fu così che nei primi giorni dell'estate Angelica di Sancé di Monteloup partì per le Americhe con una schiera di contadinelli che aveva reclutati e convinti a seguirla nei suoi progetti di vagabondaggio. Se ne parlò a lungo nel paese e molti videro in ciò una prova di più della sua provenienza dalle fate. A dire il vero, la spedizione non oltrepassò la foresta di Nieul. La ragione tornò ad Angelica allorché la sera cadeva e il sole proiettava grandi pennellate di luce rossa attraverso gli enormi tronchi della foresta centenaria. In quegli ultimi giorni aveva vissuto come in una febbre. Si vedeva giungere a La Rochelle, proporsi come mozzo alle navi in partenza, sbarcare sulle terre sconosciute dove esseri amabili li avrebbero accolti, con le mani colme di grappoli d'uva. Nicola era stato presto sedotto: «Marinaio, mi piace come fare il pastore. Ho sempre avuto voglia di vedere un po' di mondo.» Alcuni altri discoli più disposti a correre nella foresta che a restare nei campi, pregarono per poter andare anch'essi, e anche Dionigi, naturalmente. Erano otto in tutto e Angelica, l'unica ragazza, era il loro capo. Pieni di fiducia in lei, i ragazzi si preoccuparono appena allorché il buio cominciò a invadere la foresta. Con mazzi di fiori in mano e il naso impiastricciato di more, trovavano assai divertente quella prima parte della spedizione. Camminavano fin dal mattino, ma si erano riposati, sul mezzogiorno, accanto a un ruscello per divorare le provviste di castagne e di pane bigio. Angelica, però, si sentì attraversare da un brivido e di colpo fu invasa dalla coscienza della propria stoltezza con tale lucidità che le si seccò la bocca. “Non si può passare la notte nella foresta”, pensò. “Vi sono i lupi. Nicola»,
riprese a voce alta, «non ti sembra strano che non abbiamo ancora raggiunto il villaggio di Naillé?” Il ragazzo cominciava a preoccuparsi. «Credo che ci siamo persi. Quella volta che ci andai con mio padre quand'era ancora vivo, mi pare di ricordarmi che non avevamo camminato così a lungo.» Angelica sentì una manina sudicia insinuarsi nella sua: era quella del più piccolo, un bambino di sei anni. «Comincia a far buio», si lamentò questi. «Forse ci siamo perduti.» «Ma può essere che siamo vicinissimi», lo rassicurò Angelica. «Andiamo ancora avanti.» Ripresero silenziosi la marcia. Fra i rami il cielo impallidiva. «Se non siamo arrivati al villaggio prima di notte, non c'è da spaventarsi», disse Angelica. «Saliremo sulle querce per dormire. Così i lupi non ci vedranno.» Ma, nonostante il tono tranquillo, ella si sentiva in ansia. A un tratto, il suono argentino di una campana le giunse, e la fece sospirare di sollievo. «Ecco il villaggio dove suonano l'Avemaria», gridò. Si misero a correre. Il sentiero cominciava a scendere, gli alberi si diradavano. Si ritrovarono di colpo sul margine del bosco, fermandosi stupiti. In fondo a una verde valletta, eccola lì, silenziosa meraviglia nel mezzo della foresta: l'abbazia di Nieul. Il sole al tramonto dorava i suoi numerosi tetti di tegole rosa, i suoi campaniletti, le sue mura pallide in cui si aprivano abbaini e chiostri, i suoi cortili deserti. La campana suonava. Un monaco andava con i secchi verso i pozzi. Ammutoliti per non si sa quale religiosa commozione, i bambini discesero fino al grande porticato principale. La porta di legno era dischiusa; entrarono. Un vecchio monaco, nella sua tonaca bruna, stava seduto a dormire su una panca; i capelli bianchi gli facevano una coroncina di neve posata con cura sopra il cranio nudo. Nervosi per le varie emozioni che avevano provate i piccoli vagabondi si guardarono e scoppiarono a ridere. Ciò attrasse un gioviale fratacchione sulla soglia di una porta. «Eh! ragazzacci», gridò loro, «che maniere sono queste!» «Credo che sia frate Anselmo», sussurrò Nicola. Frate Anselmo percorreva qualche volta il paese con il suo asino. Distribuiva rosari e bottiglie di liquore medicinale estratto dai fiori d'angelica, in cambio di grano e di pezzi di lardo. La cosa stupiva, perché l'abbazia non accoglieva un ordine questuante e si diceva fosse molto ricca date le rendite prelevate dai suoi averi. Angelica gli si fece incontro, seguita dalla sua schiera di fedeli. Non osò confidargli il loro progetto iniziale di partire per le Americhe. Del resto, frate Anselmo non aveva senza dubbio mai udito parlare delle Americhe. Gli raccontò soltanto che erano di Monteloup e che, essendosi recati nel bosco per cogliere fragole e lamponi, s'erano sperduti. «Miei poveri pulcini», disse il frate ch'era un ottimo uomo, «ecco che significa esser golosi! Le vostre madri vi andranno cercando piangendo e al ritorno prevedo che le natiche vi scotteranno. Ma, per il momento, non c'è altro da fare che sedervi qui. Vi darò una scodella di latte e pane bigio. Dormirete nel granaio e domani
attaccherò la carretta e vi riaccompagnerò a casa; avevo proprio da questuare da quelle parti.» Il programma era ragionevole. Angelica e i suoi compagni avevano camminato tutto il giorno. Anche con il carretto ella sapeva che non avrebbero potuto essere a Monteloup se non ad un'ora avanzata della notte; nessuna strada attraversava la foresta da una parte all'altra, se non i sentieri che i bambini avevano seguito. Bisognava prendere una via assai lunga attraverso i comuni di Naillé e Varrout, da cui erano molto lontani. «La foresta è come il mare», pensò Angelica, «bisognerebbe guidarvisi con un pendolo, come spiegava Giovannino, altrimenti si cammina come i ciechi.» Un certo scoraggiamento l'opprimeva. Non riusciva a concepire di riprendere il viaggio con sottobraccio un pendolo pesante come quello del signor Molines. Del resto, i suoi “uomini” non erano sul punto di abbandonarla? La fanciulla restò silenziosa, mentre gli altri mangiavano seduti a piè del muro nel tepore di cui il crepuscolo riempiva i vasti cortili. La campana seguitava a suonare. Le rondini lanciavano grida acute nel cielo rosato, e le galline schiamazzavano su mucchi di paglia e di letame. Frate Anselmo passò calandosi sul viso il cappuccio: «Io vado a compieta. Siate buoni, altrimenti vi faccio cuocere nel mio pentolone.» Si vedevano sagome brune scivolare fra gli archi di un chiostro. Accanto all'atrio, il vecchio frate ancora dormiva. Era certamente dispensato dagli uffici divini... Angelica voleva riflettere, e si allontanò sola. In un cortile scorse una bellissima carrozza con stemma che riposava sulle sue stanghe. Alcuni cavalli di razza mangiavano il fieno nella scuderia. Quel particolare la incuriosì senza ch'ella ne sapesse il motivo. Camminava a piccoli passi nel silenzio, ammaliata dall'incanto di quella grande dimora in mezzo agli alberi. Mentre il buio avrebbe riempito la foresta, mentre i lupi vi si sarebbero aggirati, l'abbazia, al riparo di quelle spesse mura, avrebbe continuato la sua vita chiusa, segreta, di cui la fanciulla niente poteva immaginare. Lontano, salivano i canti religiosi, lenti e dolci. Angelica, guidata dalla musica, prese a salire una scala di pietra. Ella non aveva mai udito una così soave armonia, perché nella chiesa di Monteloup i cantici sbraitati dal curato e dal maestro, entrambi più o meno ubriachi, non avevano nulla che ricordasse le celesti falangi. A un tratto, ella percepì un fruscio di gonne e, voltandosi, vide avanzare nella penombra del chiostro una bellissima dama lussuosamente vestita. Così almeno le parve. Angelica non aveva mai veduto né alla madre, né alle zie un abito di velluto nero incrostato di fiori grigi. Come avrebbe potuto immaginare ch'era quello un abbigliamento di estrema semplicità, riserbato ai pii ritiri nella pace di un'abbazia? La donna portava sui capelli castani una mantiglia di merletto nero e, in mano, un messale piuttosto grande. Ella passò dinanzi ad Angelica gettandole uno sguardo sorpreso. «Che fai qui, bambina? Non è l'ora dell'elemosina.» Angelica indietreggiò cercando di assumere l'aria sciocca di una contadinella
intimidita. Nell'ombra delle volte, il petto della donna le appariva assai bianco e gonfio. Appena un lieve merletto copriva quelle stupende rotondità che il corpetto ricamato presentava come un corno d'abbondanza presenta i suoi frutti. «Quando sarò grande, vorrei avere un petto come quello», pensò Angelica ridiscendendo la scala a chiocciola. Si accarezzava il busto ancor troppo magro per il suo gusto e si sentiva invasa da turbamento. Uno schiocco di sandali che salivano la scala la rigettò nervosamente al riparo di una colonna. Un monaco la sfiorò con la tonaca di bigello. Ella non poté intravedere che un bellissimo volto, rasato con cura, e due occhi azzurri vividi d'intelligenza nell'ombra del cappuccio. Egli scomparve. Poi, la sua voce si udì, maschia e dolce. «Solo ora sono stato avvertito della vostra visita, signora. Stavo nella biblioteca del monastero chino su vecchi libri di filosofia greca. Ma la sala è lontana e i miei frati sono affaticati, con questo caldo. Per quanto io sia il padre abate, non mi hanno avvertito della vostra presenza che all'ora di compieta.» «Non v'è bisogno di scuse, padre. Conosco la casa e mi sono sistemata. Ah! Com'è buona l'aria che qui si respira! Sono giunta ieri nelle mie terre di Richeville e non vedevo l'ora di venire a Nieul. L'atmosfera della corte, da quando si è trasferita a Saint-Germain, è insopportabile. Non v'è che imbroglio, tristezza e miseria. In verità, non sto bene che a Parigi... o a Nieul. Del resto, il signor Mazarino non mi ama. Vi dirò anzi che quel cardinale...» Il resto della conversazione si perse. I due interlocutori si stavano allontanando. Angelica ritrovò i suoi piccoli compagni nella vasta cucina dell'abbazia dove frate Anselmo, cinto di un grembiule bianco, si affaccendava aiutato da due o tre giovincelli in tonache troppo lunghe per essi. Erano i novizi dell'abbazia. «Pasto delicato, questa sera», diceva il frate cuciniere. «La contessa di Richeville è fra queste mura. Ho l'ordine di scendere nelle cantine per scegliere i vini più prelibati, di arrostire sei capponi e di arrangiarmi in qualsiasi modo per presentare un piatto di pesce. Il tutto debitamente condito con spezie», aggiunse con un'occhiata d'intesa a uno dei fratelli che, seduto all'estremità della tavola di legno, beveva un bicchiere di liquore. «Le serventi della dama sono furbe», rispose l'altro, un uomo grasso e rosso il cui ventre era mantenuto con difficoltà da una corda piena di nodi dalla quale pendeva un rosario. «Ho aiutato quelle tre graziose damigelle a portare il letto su nella cella riservata alla loro padrona, insieme alle casse e al guardaroba.» «Ah! Ah! Ah!» esclamò frate Anselmo. «Proprio vi vedo, frate Tommaso, a portare casse e guardaroba! Voi, che non avete il coraggio di sollevare la vostra trippa.» «Le ho aiutate con i miei consigli», disse con aria dignitosa frate Tommaso. I suoi occhi iniettati di sangue facevano il giro della stanza, dove il fuoco brillava e crepitava sotto gli spiedi e le pentole enormi. «Che cos'è quel nuvolo di piccoli pezzenti che avete accolto nelle vostre dispense, frate Anselmo?»
«Alcuni bambini di Monteloup che si sono sperduti nella foresta.» «Dovreste metterli a bollire nella salsa», disse frate Tommaso stralunando gli occhi in modo pauroso. Due dei contadinelli si misero a piangere, spaventati. «Via, via», disse frate Anselmo aprendo una porta. «Seguite questo corridoio. Troverete un granaio; mettetevi là e dormite. Non ho tempo di occuparmi di voi, questa sera. Per fortuna, un pescatore mi ha portato un bel luccio, altrimenti il nostro padre abate, contrariato, avrebbe potuto benissimo ordinarmi tre ore di penitenza a braccia in croce. Sto diventando vecchio per questo genere di esercizi...»
Dopo essersi accertata che i suoi piccoli compagni s'erano addormentati, Angelica, distesa nel fieno odoroso, sentì le lagrime salirle agli occhi. «Nicola», sussurrò, «credo che non riusciremo mai ad arrivare nelle Americhe. Ho riflettuto. Bisognerebbe avere un pendolo.» «Non ti preoccupare», rispose l'adolescente sbadigliando. «Per questa volta è andata a monte, ma ci siamo assai divertiti.» «Naturalmente», disse Angelica con ira, «tu sei come uno scoiattolo. Incapace di portare a termine grandi progetti. E poi, te ne infischi, tu, se torniamo a Monteloup mogi mogi. Tuo padre non ti bastonerà perché è morto, ma gli altri, quante ne prenderanno?» «Non ti preoccupare di loro», ripeté Nicola, mezzo addormentato, «hanno la pelle dura!» Tre secondi più tardi russava rumorosamente. Angelica pensò che tante preoccupazioni le avrebbero impedito di trovare il sonno, ma a poco a poco la voce lontana di frate Anselmo che sollecitava i suoi conversi andò attenuandosi, finché ella s'addormentò. Si destò perché faceva troppo caldo, in mezzo al fieno. I bambini dormivano, riempiendo con i loro respiri regolari il granaio. «Vado fuori a respirare», disse fra sé. Andò a tentoni in cerca della porta del corridoio che portava in cucina. Come l'ebbe aperta, un rumore di voci eccitate e di risate contadinesche le giunse. Il bagliore del fuoco danzava ancora laggiù. Pareva vi fosse ora numerosa compagnia nel dominio di frate Anselmo. La fanciulla avanzò fin sulla soglia. Scorse una decina di monaci seduti intorno alla grande tavola guarnita di piatti e di brocche di stagno. Avanzi di pollame ingombravano i piatti. Un odore di vino e di frittura si mescolava con quello più delicato di una bottiglia di liquore aperta di cui ciascuno dei convitati aveva dinanzi a sé un bicchierino. Tre donne, fresche contadine travestite da cameriere, prendevano parte alla festa. Due di esse si sganasciavano dalle risa e parevano già del tutto ebbre. La terza, più modesta, resisteva alle mani golose di frate Tommaso che cercava di attirarla a sé. «Suvvia, suvvia bellezza», diceva il grosso monaco, «non essere più ritrosa della tua augusta padrona. A quest'ora, puoi stare ben certa che non parla più di filosofia greca con il nostro padre abate. Tu saresti l'unica a non divertirti questa notte,
all'abbazia.» La servente gettava sguardi impacciati e delusi attorno a sé. Era certo meno fiera di quanto non volesse apparire, ma la faccia rubiconda di frate Tommaso non l'attraeva. Uno degli altri monaci parve capirla, perché si alzò di scatto e prese la damigella alla vita con un gesto allettevole. «Per San Bernardo, patrono del nostro chiostro», gridò egli, «questa piccina è troppo delicata per voi, grosso maiale. Tu che ne pensi?» chiese, sollevando con un dito il mento della recalcitrante. «Non ho forse dei begli occhi a difetto di bei capelli? E poi, sai, ho fatto il soldato e so divertire le ragazze.» Aveva, in verità, occhi neri e allegri, e un'aria astuta. Vinta, la cameriera acconsentì a sorridere e si abbandonò alle sue abili mani. Ne seguì una breve baruffa provocata da frate Tommaso offeso per essere stato abbandonato. Un vaso di stagno fu rovesciato, le donne protestarono. A un tratto qualcuno gridò: «Guardate! Là!... Un angelo!» Tutti si volsero alla porta, dove stava ferma Angelica: che non si fece indietro, perché non era paurosa. Aveva abbastanza spesso assistito a feste paesane per non doversi spaventare degli scoppi di voce e dell'agitazione che ampie libagioni provocano inevitabilmente. Abituata ai costumi del rosso curato di Monteloup, che era un gran brav'uomo, ma viveva con una giovane servente, non si sentiva troppo offesa della dissolutezza dei monaci. Eppure, qualche cosa in lei si ribellava. Le pareva che quello spettacolo discordasse con la visione ch'ella aveva avuto sotto gli occhi dall'alto della foresta, quando l'abbazia era apparsa loro nella luce dorata della sera, asilo e rifugio di pace. «É una bambina che s'è perduta nel bosco», spiegò frate Anselmo. «La sola femmina in una banda di ragazzi», aggiunse frate Tommaso. «Promette bene. Forse piace anche a lei ridere? Su, vieni a bere questo», disse tendendo verso la fanciulla un bicchierino di liquore, «è buono, è dolce. Siamo noi che lo fabbrichiamo nelle nostre grandi storte con l'angelica delle paludi: Angelica sylvestris.» Ella obbedì, meno per golosità che per curiosità, e bevve un sorso di quella medicina di cui si diceva tanto bene, e che portava il suo nome. Il liquido, d'un verde dorato, le parve delizioso, forte e insieme abboccato, e dopo che l'ebbe bevuto, un piacevole calore si sparse in lei. «Brava!» urlava frate Tommaso, «tu, almeno, sai alzare il gomito!» Se l'attrasse sulle ginocchia. Il suo fiato avvinazzato, l'odore di untume della sua tonaca, disgustavano Angelica, ma ella era stordita dall'alcool che aveva inghiottito. La mano di frate Tommaso picchierellava le ginocchia di Angelica con un gesto che avrebbe voluto essere paterno. «É davvero graziosissima, questa piccina.» Si udì dalla porta una voce: «Lasciate in pace quella bambina, fratello.» Un monaco con il cappuccio in capo, le mani nelle ampie maniche, stava ritto sulla soglia come un'apparizione. «Ah! ecco il guastafeste», brontolò frate Tommaso. «Non vi chiediamo di unirvi a noi, frate Giovanni, se la buona tavola non vi attira. Ma lasciate almeno che gli altri
se la godano tranquillamente. Non siete ancora il nostro superiore.» «Non si tratta di ciò», rispose l'altro con voce alterata. «Vi chiedo solo di lasciare in pace quella bambina. É la figlia del barone di Sancé, e non sarebbe bene ch'ella dovesse lagnarsi con lui dei vostri costumi piuttosto che rallegrarsi della vostra ospitalità.» Seguì un silenzio pieno di stupore e d'impaccio. «Venite, cara bambina», disse il monaco con voce ferma. Macchinalmente, Angelica lo seguì. Attraversarono il cortile. Alzando gli occhi, la fanciulla scorse il cielo stellato, d'una indicibile purezza, al di sopra del monastero. «Entrate qui», disse frate Giovanni aprendo una porta di legno munita di uno spioncino. «É la mia cella. Potrete riposarvi in pace sino a domattina.» La stanza era piccolissima, con le pareti appena adorne di un crocifisso di legno e di una immagine della Vergine. V'era, in un angolo, un basso giaciglio, quasi solo una tavola, con lenzuola grossolane e una coperta. Un inginocchiatoio di legno, il cui piano era carico di libri di preghiere, stava sotto il crocifisso. Regnava lì una piacevole frescura che, però, doveva trasformarsi, l'inverno, in freddo atroce. La finestra a tutto sesto si chiudeva con una sola imposta di legno. Aperta, quella sera, penetravano nella stanza gli effluvi della foresta notturna, con i suoi odori di muschio e di funghi. A sinistra, un gradino dava accesso a un bugigattolo in cui ardeva una lampada da notte e ch'era pieno di pergamene e di piccoli vasi. Il monaco indicò ad Angelica il giaciglio. «Coricatevi e dormite senza timore, bimba mia. Io continuerò il mio lavoro.» Entrò nel bugigattolo, sedette su uno sgabello e si curvò sulle pergamene. Seduta sull'orlo del duro materasso, la fanciulla non aveva alcuna voglia di dormire. Non aveva mai immaginato un luogo così strano. Si alzò e andò a guardare dalla finestra. Sotto di sé, indovinò file di piccoli giardini assai stretti, separati gli uni dagli altri da alti muri. Ciascun monaco aveva il suo, dove si recava ogni giorno a coltivare legumi e a scavarsi la fossa. In punta di piedi, la fanciulla si accostò alla cameretta dove lavorava frate Giovanni. La lampada rischiarava il profilo d'un giovane seminascosto sotto il cappuccio. Con mano accorta, egli copiava una miniatura antica. I suoi pennelli intinti di rosso, di polvere d'oro, di azzurro nei diversi vasetti, riproducevano abilmente i fiori e i mostri con cui l'arte del Medio Evo s'era compiaciuta di arricchire i messali. Sentendo la presenza della fanciulla, alzò il capo e sorrise: «Non dormite?» «No.» «Come vi chiamate?» «Angelica.» Un'improvvisa emozione turbò il volto scavato dalle privazioni e dall'ascetismo. «Angelica! Figlia degli Angeli! É proprio così», mormorò. «Sono molto contenta che siate venuto, padre. Quel grosso monaco non mi piaceva.» «A un tratto», disse frate Giovanni con gli occhi che brillavano stranamente,
«una voce mi ha detto: “Alzati, lascia il tuo tranquillo lavoro. Veglia sulle mie pecorelle sperdute...” Ho lasciato la cella, trasportato da non so quale slancio. Bambina mia, perché non vi trovate saggiamente sotto il tetto dei vostri genitori, come dovrebb'essere per una fanciulla della vostra età e della vostra condizione?» «Non lo so», mormorò Angelica chinando il capo, confusa. Il monaco aveva deposto i pennelli. Si alzò e, con le mani nelle ampie maniche, si accostò alla finestra e guardò a lungo il cielo stellato. «Vedete», fece poi sottovoce, «la notte regna ancora sulla terra. I contadini dormono nelle loro capanne e i signori nei loro castelli. Dimenticano le loro pene d'uomini nel sonno. Ma l'abbazia non dorme mai... Vi sono luoghi dove lo spirito soffia. Anche qui, in una lotta senza fine, soffiano lo spirito di Dio e lo spirito del Male... «Ho abbandonato il mondo ch'ero molto giovane e sono venuto a seppellirmi fra queste mura per servirvi Dio nella preghiera e nel digiuno. Vi ho trovato, mescolati alla più alta cultura, alla più profonda mistica, costumi infami, corrotti. Soldati disertori o invalidi, contadini che non avevano voglia di lavorare cercano nel chiostro, sotto la tonaca, un'esistenza noncurante e protetta 5 , e vi introducono le loro abitudini depravate. «L'abbazia è come una grande nave sballottata dalle tempeste e che scricchiola da tutte le parti. Ma non cadrà a picco, finché resteranno fra le mura anime che pregano. Siamo, così, alcuni a volere ad ogni costo condurre qui la vita di penitenza e di santificazione alla quale eravamo destinati. «Ah! non è facile. Che cosa non inventa il demonio per farci perder la strada... Colui che non ha mai vissuto nei chiostri non conosce il volto di Satana. «Vorrebbe regnare da padrone nella dimora di Dio!... E, come se giudicasse insufficienti le tentazioni di disperazione o quelle che ci manda con le donne che hanno diritto di entrare nel nostro recinto, viene egli stesso la notte, bussa alle nostre porte, ci sveglia, ci riempie di colpi...» Si tirò su la manica, mostrando un braccio pieno di ecchimosi. «Guardate», fece lamentandosi, «guardate quel che mi ha fatto Satana!» Angelica lo ascoltava con un terrore sempre più grande. “É pazzo”, andava dicendosi. Ma ancor più temeva ch'egli non fosse pazzo. Intuiva la verità delle sue parole e la paura le rizzava i capelli. Quando sarebbe finita quella notte greve e desolata?... Il monaco era caduto in ginocchio sul suolo duro e freddo. «Signore», diceva, «aiutatemi. Abbi pietà della mia debolezza. Che il Maligno si allontani!» Angelica, seduta sull'orlo della cuccetta, si sentiva la bocca riarsa per un terrore che non sapeva che fosse. Le parole “notte malefica”, con cui la nutrice arricchiva i suoi racconti, le tornarono alla mente. V'era intorno a lei qualche cosa d'insopportabile che non riusciva a definire e che la soffocava sino all'angoscia. Infine, il tenue suono d'una campana s'elevò nella notte, rompendo il profondo 5
Prima della fondazione degli «Invalides» sotto Luigi XIV, i vecchi soldati non avevano altro rifugio che i conventi, dove si installavano come in un ospizio. Di qui, il rilassamento dei costumi.
silenzio del monastero. «Ecco il mattutino», egli disse. «Non è ancora l'alba, ma io debbo andare nella cappella con i miei fratelli. Restate qui, se desiderate. Verrò a prendervi quando sarà giorno.» «No, ho paura», protestò Angelica, che avrebbe voluto aggrapparsi alla tonaca del suo protettore, «non posso seguirvi in chiesa? Pregherò anch'io.» «Se così volete, bambina mia.» Aggiunse con un triste sorriso: «Un tempo, non si sarebbe mai pensato di portare una fanciulla al mattutino, ma ora incontriamo nei nostri chiostri tanti strani volti che nulla più meraviglia. Per questo vi ho condotto da me, dov'eravate più al sicuro che in un granaio.» E con aria grave: «Quando sarete uscita da questo recinto, posso chiedervi, Angelica, di non raccontare ciò che avete visto?» «Ve lo prometto», diss'ella, alzandogli in volto i puri occhi. Uscirono nel corridoio dove una fredda umidità sembrava scaturire dalle vecchie pietre all'approssimarsi dell'alba. «Perché c'è uno spioncino sulla vostra cella?» chiese ancora Angelica. «Un tempo, eravamo un ordine di clausura. I padri non uscivano mai dalla loro cella, se non per recarsi agli uffizi religiosi, e anche questo era proibito durante la quaresima. I frati conversi deponevano il pasto in questo spioncino. Ed ora tacete, piccina, e siate più discreta che possibile. Mi farete un grande favore.» Figure incappucciate passavano loro accanto in un rumore di rosari e di preghiere mormorate. Angelica si accucciò in un angolo della cappella, sforzandosi di pregare: ma i canti monotoni e l'odore dei ceri accesi l'addormentarono. Quando si destò, la cappella era di nuovo deserta, ma i ceri, appena spenti, fumavano sotto le oscure volte. Uscì all'aperto. Il sole nasceva. Sotto la sua purpurea luce, i tetti avevano il colore delle violacciocche. I colombi tubavano nel giardino intorno a un vecchio santo di pietra. Angelica si stirò a lungo, sbadigliando. Si chiedeva se, per caso, non avesse sognato...
Frate Anselmo, cordiale ma lento, non attaccò il carretto che dopo il pasto del mezzogiorno. «Non vi preoccupate, piccini», diceva allegramente. «Vi ritardo le botte. Arriveremo al vostro villaggio di sera. La gente avrà voglia di dormire.» «A meno che non siano per i campi in cerca dei loro rampolli», pensava Angelica, che non si sentiva molto sicura. Le pareva d'essere invecchiata di colpo in poche ore. «Non farò mai più sciocchezze», disse fra sé con una decisione tinta di malinconia. Frate Anselmo, in ossequio al suo rango, se la fece sedere accanto sul sedile, mentre i contadinelli s'ammucchiavano nel carretto.
«Oh! oh! mia dolce mula! mia buona mula!» canterellava il vecchio scuotendo le redini. Ma la bestia non si affrettava. Quando giunse la sera, ancora si trovavano sulla strada romana. «Prenderò una scorciatoia», disse il monaco. «Mi secca, però, passare nei pressi di Vaunou e Chaillé, che sono villaggi protestanti. Dio voglia che la notte sia già scesa e che quegli eretici non ci scorgano. La mia tonaca non piace, da quelle parti.» Scese per tirare la mula per un sentiero in salita. Angelica, che desiderava sgranchirsi le gambe, gli si mise a camminare a fianco. Guardava stupita attorno a sé accorgendosi che non era mai andata in quel punto che pure si trovava solo a pochi chilometri da Monteloup. Il sentiero attraversava il fianco di una specie di frana che aveva un po' l'aspetto di una cava abbandonata. Osservando i luoghi con maggiore attenzione, Angelica vide infatti affiorare alcune rovine. I suoi piedi nudi sdrucciolavano su scorie annerite. «Che strana pietra pomice», disse chinandosi a raccogliere una pietra gonfia e pesante, che l'aveva ferita. «É un'antica miniera di piombo dei romani», rispose il monaco. «Figura nei nostri vecchi libri sotto il nome di Argentum, perché vi si ricavava anche dell'argento, a quanto pare. Si era tentato di rimetterla in uso nel XIII secolo, e i forni abbandonati risalgono quasi tutti a quell'epoca più recente.» La fanciulla lo ascoltava con interesse. «E il minerale da cui ricavano il piombo sarà certo questa lava rappresa, nera e pesante.» Frate Anselmo assunse un'aria professorale. «Ma no! Il minerale è il terreno giallo, a grossi blocchi. Dicono che se ne traggano anche veleni all'arsenico. Non raccogliete questa roba. Potete invece toccare quei cubi brillanti color argento, ma fragili, che adesso vi troverò io.» Il monaco cercò qualche istante, poi chiamò Angelica per mostrarle su un masso certe specie di bassorilievi di roccia nera, di forma geometrica. Ne grattò qualcuna e apparve una brillante superficie color argento. «Ma se è argento massiccio», osservò Angelica, con spirito pratico, «perché nessuno lo raccoglie? Deve valer molto e servire almeno a pagare le imposte, no?» «Non è così semplice, nobile damigella. Anzitutto, non tutto ciò che brilla è argento, e questo che vedete non è altro, in realtà, che un altro minerale di piombo. Contiene argento, è vero, ma per tirarlo fuori è assai complicato: solo gli spagnoli e i sàssoni conoscono il procedimento. Sembra che se ne facciano amalgame con carbone e resina, e che le si fonda in una fucina con un fortissimo fuoco. Si ottiene allora un lingotto di piombo. Un tempo lo si usava fuso per rovesciarlo sui nemici attraverso i caditoi del vostro castello. Ma, quanto a ricavarne argento, è affare di sapienti alchimisti, ed io non lo sono che a metà.» «Avete detto, frate Anselmo, del nostro castello, perché?» «Caspita! Per la semplicissima ragione che quest'angolo abbandonato fa parte delle vostre terre, anche se ne è separato da quelle di Plessis.» «Mio padre non me ne ha mai parlato...» «Il terreno è piccolo, molto stretto, e non vi nasce nulla. Che volete che se ne
faccia, vostro padre?» «Eppure, quel piombo e quell'argento?...» «Bah! Nessun dubbio che siano esauriti. E poi, quel che v'ho detto, me lo ha riferito un vecchio monaco sàssone. Aveva la mania delle pietre e anche dei vecchi libri. Credo che fosse un po' pazzo...» La mula, trascinando il carretto, aveva seguitato la sua strada da sola e, in cima al pendio, sbucava su un pianoro. Angelica e frate Anselmo la raggiunsero e risalirono sul sedile. L'ombra si fece presto densa. «Non accendo la lanterna», sussurrò il monaco, «perché non ci scorgano. Quando passo da questi villaggi, credetemi, sarebbe meglio che li attraversassi nudo piuttosto che con la tonaca addosso e il rosario alla cintura. Non... non sono forse torce quelle che si vedono laggiù?» chiese ad un tratto tirando le redini. A poche centinaia di metri, infatti, si scorgevano numerosi punti luminosi in movimento, che, a poco a poco, si moltiplicavano. Un canto strano e triste veniva portato dal vento della notte. «Che la Vergine ci protegga!» esclamò frate Anselmo balzando a terra. «Sono gli ugonotti di Vauloup che sotterrano i loro morti. La processione viene verso di noi. Dobbiamo tornare indietro.» Afferrò le briglie della mula e tentò di farla girare nello stretto sentiero. Ma la bestia si rifiutò a quella manovra. Il monaco perdeva la pazienza, imprecava. Non era più questione di “dolce mula” ma di “maledetta bestia”. Angelica e Nicola lo raggiunsero per cercare anche loro di convincere l'animale. La processione si avvicinava. Il cantico si ampliava: «Il Signore è il nostro soccorso nelle tribolazioni...» «Ahimè! Ahimè!» si lamentava il monaco. I primi portatori di torce sbucarono alla svolta. L'improvvisa luce illuminò il carrettino messo per traverso sul sentiero. «Che cos'è quello?» «Un ministro del diavolo, un monaco...» «Ci sbarra la via.» «Non è già abbastanza d'esser costretti a sotterrare i nostri morti di notte, come cani?» «Vuole anche profanarli con la sua presenza.» «Bandito! Libertino! Cane di un papista! Porco!» Le prime pietre risuonarono contro il legno del carretto. I bambini si misero a piangere. Angelica si precipitò con le braccia tese innanzi a sé. «Fermatevi! Fermatevi! Sono dei bambini!» La sua apparizione, coi capelli al vento, scatenò le passioni. «Una ragazza, naturalmente! Una delle loro concubine!» «E, nel carretto, i loro bastardi spruzzati di acqua benedetta...» «Anche quelli sono stati concepiti senza peccato!» «E per opera dello Spirito Santo!» «Hanno portato via i nostri figli per immolarli davanti ai loro idoli!» «A morte i bastardi del diavolo!»
«Aiuto per i nostri figli!» Le facce grossolane dei contadini vestiti di nero si issavano intorno al carretto. Quelli della processione, che non sapevano ciò che accadeva, seguitavano a cantare: «L'eterno è la nostra fortezza...» Ma la folla si andava sempre più ammassando. Malmenato, pestato, frate Anselmo, con un'agilità che non ci si sarebbe attesa, da quel corpaccione, riuscì a darsela a gambe attraverso i campi. Nicola, colpito da bastonate, cercava tuttavia di far girare la mula impaurita. Mani artigliate s'erano abbattute su Angelica. Torcendosi come una biscia, ella riuscì a liberarsi, si lasciò scivolare lungo il margine del sentiero e si diede a correre. Uno degli ugonotti la inseguì, la raggiunse. Era un ragazzo quasi della sua età, la cui adolescenza doveva decuplicare la passione settaria. Rotolarono nell'erba lottando. Angelica era posseduta da un improvviso accesso di rabbia. Graffiava, mordeva, si attaccava con tutti i denti a pezzi di carne da cui il sangue salato le colava sulla lingua. Sentì infine l'avversario cedere e poté fuggire un'altra volta. Davanti al carretto, era sorta un'alta figura di uomo. «Fermi! Fermi, disgraziati!» gridava ripetendo l'appello che la fanciulla aveva lanciato poco prima. «Sono dei bambini!» «Sì, figli del diavolo! E dei nostri, che ne hanno fatto? Li hanno gettati dalle finestre sopra le picche, la notte di San Bartolomeo.» «Sono cose passate, figli miei. Trattenete il vostro braccio vendicatore. Abbiamo bisogno di pace. Fermi, figli miei, ascoltate il vostro pastore.» Angelica udì il cigolio del carretto che si metteva in movimento, condotto da Nicola ch'era riuscito finalmente a farlo girare. Nascondendosi dietro le siepi, ella lo raggiunse alla prima svolta. «Senza il loro pastore credo che saremmo morti tutti», sussurrò il contadinello, battendo i denti. Angelica era coperta di graffi e cercava di rimettere in ordine il vestito strappato e sporco di fango. Le avevano tirato i capelli tanto che aveva l'impressione d'essere scotennata, e soffriva molto. Un po' più oltre, una voce soffocata lanciò un richiamo e frate Anselmo uscì dai cespugli. Dovettero ridiscendere fino alla strada romana. Per fortuna, la luna era sorta. I bambini giunsero a Monteloup solo all'alba. Seppero che dal giorno innanzi i contadini battevano la foresta di Nieul. Non avendo trovato che la strega che raccoglieva piante medicinali in una radura, l'avevano accusata di aver portato via i loro figli e l'avevano impiccata, senza tante storie, a un ramo di quercia.
«Ti rendi conto», disse il barone Armando a sua figlia Angelica, «delle preoccupazioni e dei fastidi nei quali mi vado cacciando a causa vostra e tua in particolare?...» Era passato qualche giorno dalla scappata di Angelica che, andando a spasso per un viottolo, aveva incontrato suo padre seduto su un ceppo, mentre il cavallo brucava vicino a lui.
«Forse i muli non vanno bene, papà?» «Sì, tutto procede bene. Ma sono stato ora dall'intendente Molines. Vedi, Angelica, in seguito alla tua corsa insensata nella foresta, tua zia Pulcheria ha dimostrato, a tua madre e a me, che è impossibile tenerti più oltre al castello. Bisogna metterti in convento. Mi sono perciò deciso a un passo assai umiliante e che avrei voluto evitare ad ogni costo. Sono andato a trovare l'intendente Molines per chiedergli di concedermi quell'anticipo ch'egli mi aveva proposto perché aiutassi la famiglia.» Parlava con voce bassa e triste come se qualche cosa gli si fosse spezzato dentro, come se gli fosse capitato qualche cosa di più doloroso che non la morte del padre o la partenza del figlio maggiore. «Povero papà!» mormorò Angelica. «Ma non è affatto semplice», riprese il barone. «Sarebbe già assai duro, se si trattasse solo di tender la mano a un plebeo. Ciò che mi preoccupa, è che mi sfuggono le intenzioni segrete di Molines. Egli ha posto, per questo nuovo prestito, strane condizioni.» «Quali condizioni, papà?» Egli la guardò pensosamente e, avanzando la mano callosa, le accarezzò gli stupendi capelli d'oro scuro. «É curiosa!... Sento di potermi confidare più facilmente con te che con tua madre. Sei una selvaggia pazzerella, eppure già mi sembra che tu sia capace di capire ogni cosa. Pensavo certo che, nell'affare dei muli, Molines cercasse un effettivo guadagno economico, ma non mi rendevo conto del perché si rivolgesse a me per lanciarlo, piuttosto che non a un qualsiasi sensale del paese. Ciò che, in realtà, lo interessa, è la mia condizione di nobile. Mi ha detto oggi che contava su di me per ottenere dalle mie relazioni e dai miei parenti la dispensa totale da parte dell'intendente generale delle Finanze, Fouquet, dai diritti doganali e dai dazi per un quarto della nostra produzione di muli, nonché il diritto, garantito per tale quarto, di esportazione in Inghilterra o in Spagna appena la guerra con quest'ultima sia terminata.» «Ma è giustissimo!» esclamò Angelica entusiasmata. «Ecco un affare congegnato abilmente. Da una parte Molines, plebeo e furbo. Dall'altra voi, nobile e...» «E non furbo», disse sorridendo il padre. «No: non al corrente. Soltanto voi avete relazioni e titoli. Dovete riuscire. Voi stesso dicevate, l'altro giorno, che lo smercio dei muli all'estero vi sembrava impossibile con tutte le dogane e i pedaggi che ne moltiplicano le spese. E dato che si tratta solo di un quarto della produzione, l'intendente non può che trovare la richiesta ragionevole! Che ne farete, degli altri?» «L'intendenza militare, precisamente, avrà il diritto di riservarsene l'acquisto, al prezzo corrente sul mercato di Poitiers.» «Tutto previsto. Quel Molines sa il fatto suo! Bisognerà parlare con il signor del Plessis, e scrivere magari al duca di La Trémoille. Ma io credo che tutti questi gran personaggi verranno presto in questa regione per continuare ad occuparsi della loro Fronda.»
«Se ne parla, infatti», disse il barone di cattivo umore. «Tuttavia non rallegrarti troppo presto. Che i principi vengano oppure no, non è certo ch'io possa ottenere il loro consenso. E poi, non ti ho detto la cosa più sorprendente.» «Quale?» «Molines vuole ch'io rimetta in attività la vecchia miniera di piombo che noi possediamo dalle parti di Vauloup», sospirò il barone sovra pensiero. «Mi chiedo a volte se quell'uomo sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali e confesso che non riesco a rendermi ben conto di affari così complicati... se pur si tratta di affari. Mi ha pregato, insomma, di sollecitare dal re il rinnovo del privilegio detenuto dai miei avi di produrre lingotti di piombo e argento ricavati dalla miniera. Tu conosci la miniera abbandonata di Vauloup?» chiese Armando di Sancé accorgendosi dell'aria assente della figlia. Angelica annuì col capo. «Chi sa che cosa spera di ricavare da quei vecchi sassi, quell'amministratore del diavolo!... Perché, evidentemente, il nuovo impianto della miniera si farà sotto il mio nome, ma è lui che lo pagherà. Un accordo segreto fra noi stabilirà ch'egli avrà in affitto per dieci anni la miniera di piombo, assumendosi il carico dei miei obblighi di proprietario del suolo e di sfruttamento del minerale. Io debbo, però, ottenere dal sovrintendente la stessa esenzione dalle imposte su un quarto della futura produzione, e le stesse garanzie di esportazione. Tutto ciò mi sembra un po' complicato», concluse il barone alzandosi in piedi. Quel gesto fece risuonare nella sua borsa gli scudi che Molines gli aveva consegnato, e quel simpatico rumore lo rasserenò. Richiamò il cavallo, gettando su Angelica, ch'era rimasta pensierosa, uno sguardo che voleva render severo. «Cerca di dimenticare quel che ti ho raccontato, e occupati del tuo corredo. Perché questa volta, è deciso, figlia mia. Andrai in convento.»
E Angelica preparò il suo corredo. Anche Ortensia e Maddalena partivano. Raimondo e Gontrano le avrebbero accompagnate, e dopo aver lasciato le sorelle dalle Orsoline, si sarebbero recati dai padri gesuiti di Poitiers, educatori di cui si dicevano meraviglie. Si parlò anche di far partecipare a quella emigrazione il piccolo Dionigi, che aveva nove anni. Ma la nutrice si ribellò. Dopo averle affidato la cura di dieci figli, si voleva portarglieli via “tutti”. Diceva che non poteva sopportare simili enormità. Dionigi, perciò, rimase. Insieme con Maria Agnese, Alberto e un ultimo maschietto di due anni che chiamavano Bebè, Dionigi sarebbe bastato a occupare gli “ozi” di Fantina Lozier. Pochi giorni prima della partenza, tuttavia, un incidente fu lì lì per mutare il corso del destino di Angelica. Una mattina di settembre, il signor di Sancé tornò tutto affannato dal castello di Plessis. «Angelica», esclamò entrando nella sala da pranzo dove la famiglia riunita lo aspettava per mettersi a tavola, «Angelica sei qui?»
«Sì, papà.» Egli gettò uno sguardo critico alla figlia che, in quegli ultimi mesi, era ancora cresciuta e che aveva le mani pulite e i capelli ben pettinati. Tutti eran d'accordo nel dire che Angelica stava mettendo la testa a posto. «Andrà bene», mormorò lui. E, volgendosi alla moglie: «Pensate che tutta la tribù dei Plessis, marchese, marchesa, figlio, paggi, valletti, cani, è arrivata nella proprietà. Hanno un ospite illustre, il principe di Condé con tutta la sua corte. Son capitato in mezzo a loro e mi sentivo alquanto smarrito. Ma mio cugino si è mostrato gentile. Mi ha chiamato, ha chiesto notizie di voi, e sapete che cosa mi ha chiesto? Di condurre da lui Angelica per sostituire una delle damigelle d'onore della marchesa. Costei ha dovuto lasciare a Parigi quasi tutte quelle fanciulle che le acconciano il capo, la divertono e suonano per lei il liuto. L'arrivo del principe di Condé la turba ed ella afferma di aver bisogno di piccole e graziose cameriere per aiutarla.» «E perché non io?» esclamò Ortensia scandalizzata. «Perché ha detto “graziose”», rispose senza complimenti il padre. «Il marchese, però, mi aveva giudicato molto spiritosa.» «Ma la marchesa vuole intorno a sé dei bei visini.» «Ah! questo è troppo!» gridò Ortensia precipitandosi sulla sorella con tutte le unghie fuori. Ma costei aveva previsto il gesto e sfuggì veloce. Con il cuore che le batteva forte, salì nella camera che ora divideva soltanto con Maddalena. Chiamò dalla finestra uno dei servitorelli, ordinandogli di portarle un secchio d'acqua e una tinozza. Si lavò con molta cura, spazzolò a lungo i bei capelli che portava sulle spalle come una serica fascia. Pulcheria le portò il più bel vestito fatto per il suo ingresso in convento e Angelica non finiva di rimirarlo, per quanto il vestito fosse d'un color grigio piuttosto sbiadito. Ma la stoffa era nuova, comprata appositamente da un importante negozio di stoffe di Niort, ed era ravvivata da un collarino bianco. Era il suo primo abito lungo. Lo indossò con un fremito di piacere mentre la zia giungeva le mani, commossa. «Mia piccola Angelica, sembri proprio una damigella. Non sarebbe forse meglio tirar su i capelli?» Angelica rifiutò. Il suo istinto femminile le diceva di non diminuire lo splendore del suo solo ornamento. Ella salì su una bella mula baia che il padre le aveva fatto sellare e, in compagnia di lui, si avviò verso il castello di Plessis.
Il castello s'era destato dal suo sonno incantato. Allorché il barone e sua figlia ebbero lasciato le bestie dall'amministratore Molines e risalirono il viale principale, ondate di musica vennero loro incontro. Lunghi levrieri e piccoli grifoni si rincorrevano sui praticelli. Signori dai capelli inanellati e dame in vesti cangianti percorrevano i viali. Alcuni di essi guardarono stupiti il nobiluccio vestito di scuro bigello e quell'adolescente vestita da collegiale.
«Ridicola, ma graziosa», disse una delle dame agitando il ventaglio. Angelica si chiese se si trattasse di lei. Perché dicevano ch'era ridicola? Guardò meglio i sontuosi abbigliamenti dai vivi colori guarniti di pizzi, e cominciò a trovare fuori posto il suo vestitino grigio. Il barone Armando non si preoccupava dell'imbarazzo della figlia, ansioso per il colloquio che aveva in animo di chiedere al marchese del Plessis. Ottenere l'esenzione totale sul quarto di una produzione di muli e di una miniera di piombo poteva essere facilissimo per un nobile di alto lignaggio come in realtà era l'attuale barone di Ridoué di Sancé di Monteloup. Ma il povero gentiluomo si accorgeva che, a viver lontano dalla corte, era diventato goffo come un contadino, in mezzo a quei personaggi che lo stordivano con le loro capigliature incipriate, il loro alito profumato, le loro esclamazioni pappagallesche. Gli pareva di ricordare che, ai tempi di re Luigi XIII, si mostrava maggior semplicità e rudezza. Non era stato forse lo stesso Luigi XIII che, offeso dal seno troppo scoperto di una bella giovane di Poitiers, aveva sputato senza vergogna in quell'apertura indiscreta... e tentatrice?... Testimone, allora, di quel gesto regale, Armando di Sancé lo ricordava con rimpianto mentre, seguito da Angelica, si apriva il passo tra quella folla ornata di nastri. Alcuni suonatori, appollaiati su un piccolo palco, maneggiavano strumenti dal suono sottile e incantevole: viole, liuti, oboi, flauti. In un salone adorno di specchi, Angelica scorse dei giovani che danzavano e si chiese se il cugino Filippo fosse tra loro. Intanto, il barone di Sancé, giunto in fondo ai saloni, si inchinava, togliendosi il suo vecchio feltro guarnito d'una magra piuma. Angelica cominciò a soffrire. “Nella nostra povertà”, pensava, “solo l'arroganza sarebbe stata opportuna.” Invece di prosternarsi nella riverenza che Pulcheria le aveva fatto ripetere tre volte, ella rimase rigida come un burattino di legno, guardando dritto innanzi a sé. I volti che la circondavano si confondevano un poco, ma ella sapeva che tutti morivano dalla voglia di ridere alla vista di lei. S'era fatto un silenzio misto a soffocati chioccolii, di colpo, allorché il valletto aveva annunciato: «Il signor barone di Ridoué di Sancé di Monteloup.» Il volto della marchesa del Plessis era divenuto rosso dietro il ventaglio e i suoi occhi brillavano di trattenuta gaiezza. Ma il marchese del Plessis trasse tutti d'impaccio facendoglisi incontro affabilmente: «Mio caro cugino», esclamò, «siete proprio gentile a venire così presto e a portarci la vostra graziosissima figlia. Angelica, siete ancora più bella di quando passai l'ultima volta. Non è vero? Non sembra un angelo?» chiese, volgendosi alla moglie. «Proprio così», approvò costei, che aveva ripreso la padronanza di sé. «Con un altro vestito, sarà divina. Sedete su questo sgabello, piccola, in modo che vi possiamo contemplare a nostro agio.» «Desidererei, cugino», disse Armando di Sancé, la cui voce rauca suonò stranamente in quel salotto prezioso, «parlarvi d'urgenza di affari importanti.» Il marchese, stupito, inarcò le ciglia. «Davvero? Vi ascolto.»
«Mi dispiace, ma son cose che possono esser trattate solo in privato.» Il signor del Plessis lanciò ai suoi vicini uno sguardo rassegnato e, insieme, umoristico. «Bene, bene, cugino barone! Andiamo nel mio studio. Scusateci, signore. A fra poco...» Angelica, seduta sullo sgabello, era il punto di mira di un circolo di curiosi. La tremenda emozione che l'aveva afferrata andava dissipandosi. Distingueva ora nettamente tutti quei volti che la circondavano. La maggior parte di essi le erano ignoti. Ma, accanto alla marchesa, v'era una bellissima donna ch'ella riconobbe dal petto bianco e madreperlaceo. “La signora di Richeville”, pensò. Il vestito ricamato d'oro della contessa e il suo sparato fiorito di diamanti le facevano anche troppo comprendere quanto fosse brutto il suo vestitino grigio. Tutte quelle dame scintillavano dalla testa ai piedi. Portavano alla cintura strani ninnoli: specchietti, pettini di tartaruga, confettiere e orologi. Angelica non avrebbe mai potuto andar vestita così. Non sarebbe mai stata in grado di guardare gli altri con tanta alterigia, non avrebbe mai potuto discorrere con quell'acuta e preziosa voce che pareva continuamente succhiar caramelle. «Mia cara», diceva una, «ha bei capelli, ma non sono mai stati curati.» «Ha il petto magro per i suoi quindici anni.» «Ma, carissima, ne ha appena tredici.» «Volete il mio parere, Enrichetta? É troppo tardi per dirozzarla.» “Sono forse una mula in vendita?” si chiedeva Angelica, troppo stupefatta per sentirsi davvero offesa. «Che volete farci», esclamò la signora di Richeville, «ha gli occhi verdi, e gli occhi verdi portano male, come lo smeraldo.» «É un colore insolito», protestò una. «Ma non attira. Guardate che espressione dura ha questa ragazzina. No, gli occhi verdi non mi piacciono davvero.» “Mi toglieranno anche i miei soli beni, gli occhi e i capelli?” pensava l'adolescente. «Certo, signora», diss'ella improvvisamente a voce alta, «sono convinta che gli occhi azzurri dell'abate di Nieul hanno più dolcezza... e che vi portano bene», aggiunse più piano. Vi fu un silenzio di morte. Qualche risata sprizzò, poi si spense. Alcune dame si guardavano intorno spaurite, quasi dubitassero di aver udito simili parole pronunciate da quella impassibile ragazzina. Un colorito rosso s'era diffuso sul volto della contessa di Richeville, scendendole sul petto. «Ora la riconosco!» esclamò. Poi si morse le labbra. Tutti guardavano stupiti Angelica. La marchesa del Plessis, ch'era una mala lingua, soffocava di nuovo dal ridere dietro il ventaglio. Ma era alla sua vicina ch'ella cercava ora di nascondere la propria ilarità. «Filippo! Filippo!» chiamò per darsi un contegno. «Dov'è mio figlio? Signor di Barre, volete avere la bontà di far venire il colonnello?...»
E allorché il giovane colonnello di sedici anni si presentò: «Filippo, ecco la tua cugina di Sancé. Conducila a danzare. La compagnia dei giovani la distrarrà più della nostra.» Senza attendere, Angelica s'era alzata in piedi. Ce l'aveva con se stessa perché il cuore le batteva forte. Il giovin signore guardava la madre con aperta indignazione. “Come”, pareva dicesse, “osate gettarmi fra le braccia una ragazza infagottata a quel modo?” Ma dovette capire, dalle facce dei presenti, che stava accadendo qualche cosa di inconsueto, perciò, tendendo la mano ad Angelica, mormorò a denti stretti: «Venite, cugina.» Ella pose nella palma aperta le sue piccole dita di cui ignorava quanto fossero graziose. In silenzio, egli la guidò fino alla soglia della galleria dove i paggi e i giovanetti della sua età potevano divertirsi a loro agio. «Largo! Largo!» egli gridò a un tratto. «Amici miei, vi presento la baronessa del Triste Vestito.» Si udirono gran risate, e tutti i giovani si precipitarono verso di loro. I paggi indossavano strane brachette a sbuffo che giungevano alle cosce, e con quelle loro lunghe e magre gambe di adolescenti, appollaiati su alti tacchi, parevano trampolieri. “Dopo tutto, con il mio triste vestito non sono più ridicola di loro con quella specie di zucca intorno ai fianchi”, pensò Angelica. Avrebbe sacrificato piuttosto volentieri un po' del suo amor proprio per rimanere ancora accanto a Filippo. Ma uno dei ragazzi chiese: «Sapete ballare, signorina?» «Un po'.» «Davvero? E quali danze?» «L'alverniese, il rigodone, il ballo tondo...» «Ah! Ah! Ah!» sbottarono a ridere i giovani. «Filippo, che tipo ci hai portato! Via, via, signori, tiriamo a sorte! Chi farà danzare la campagnola? Dove sono quelli cui piace l'alverniese?» E giù risate. Bruscamente, Angelica strappò la mano da quella di Filippo e fuggì via. Attraversò i grandi saloni ingombri di valletti e di signori, l'ingresso pavimentato a mosaico dove alcuni cani dormivano su cuscini di velluto. Cercava il padre e, soprattutto, non voleva piangere: non ne valeva la pena. Sarebbe stato un ricordo da dimenticare, come un sogno un po' folle e grottesco. La quaglia non deve uscire dal folto. Per aver ascoltato con una certa buona volontà gli insegnamenti della zia Pulcheria, Angelica si diceva che era stata giustamente punita per la vanità ispiratale dalla lusinghiera richiesta della marchesa del Plessis. Udì alla fine, proveniente da un salottino appartato, la voce piuttosto acuta del marchese. «Proprio per nulla, proprio per nulla! Non ci siete proprio per nulla, amico caro», egli diceva in un crescendo accorato. «Credete che sia facile, per noi nobili, oberati di spese, ottenere esenzioni. E poi, né io, né il principe di Condé siamo nella possibilità di accordarvele.» «Vi chiedo solo d'intervenire per me presso il sovrintendente delle Finanze, il signor di Trémant, che voi conoscete personalmente. La cosa non è priva d'interesse
per lui. Egli dovrebbe esentarmi dalle imposte e da tutti i diritti di trasporto soltanto dal Poitou all'oceano. Tale esenzione si applicherebbe del resto non più che a un quarto della mia produzione di muli e di piombo. Come contropartita, l'Intendenza militare del re potrà riservarsi d'acquistare l'altra parte al prezzo corrente, e parimenti il Tesoro reale avrà possibilità di acquisti similari di piombo e d'argento alla tariffa ufficiale. Non mi sembra male che lo Stato abbia alcuni produttori sicuri in materie diverse nel paese, piuttosto che comprare all'estero. Così, per tirare i cannoni, io ho bellissime bestie, vigorose.» «Le vostre parole puzzano di letame e di sudore», protestò il marchese portandosi al naso una mano disgustata. «Mi chiedo fino a qual punto deroghiate dalla vostra condizione di gentiluomo lanciandovi in un'impresa che somiglia assai – permettetemi la parola – a un commercio.» «Commercio o no, debbo vivere», replicò Armando di Sancé con una tenacia che piacque ad Angelica. «Ed io?» esclamò il marchese alzando le braccia al cielo, «credete che non abbia difficoltà? Ebbene, sappiate che, fino all'ultimo giorno, proibirò a me stesso qualsiasi lavoro plebeo che possa nuocere alla mia qualità di gentiluomo.» «Le vostre rendite, caro cugino, non sono da paragonarsi con le nostre. Invero, io vivo in condizione di mendicità nei confronti del re che mi rifiuta ogni aiuto, e nei confronti degli usurai di Niort che mi divorano.» «Lo so, lo so, mio buon Armando. Ma vi siete mai chiesto come io, uomo di corte e con due importanti cariche reali, facessi ad equilibrare la mia borsa? No, ne sono sicuro! Ebbene, sappiate che le mie spese superano per forza i miei introiti. S'intende che, con le rendite della proprietà di Plessis, con quelle di mia moglie in Turenna, con la mia carica di ufficiale della camera del re – circa 40.000 lire – e quella di aiutante di campo della brigata del Poitou, ho una rendita media lorda di 160.000 lire...» «Io», disse il barone, «mi accontenterei del decimo.» «Un istante, caro cugino che vivete in campagna. Ho, è vero, 160.000 lire di rendita. Ma sappiate che, tra le spese di mia moglie, il reggimento di mio figlio, il palazzo a Parigi, l'alloggio a Fontainebleau, i viaggi per seguire la corte nei suoi spostamenti, gli interessi da pagare per prestiti vari, i ricevimenti, il vestire, gli equipaggi, la servitù ecc., ho 300.000 lire di spese.» «Sareste dunque ogni anno in perdita di oltre 150.000 lire?» «Proprio così, cugino. E se mi sono permesso con voi questo noioso elenco, è per farvi capire il mio punto di vista quando vi dico che, attualmente, non mi è possibile parlare con il signor di Trémant, intendente di finanza.» «Eppure lo conoscete.» «Lo conosco, ma non lo vedo più. Mi sto affannando a ripetervi che il signor di Trémant è al servizio del re e della reggente e sarebbe anche devoto a Mazarino.» «Be', proprio...» «Proprio per questo motivo non lo vediamo più. Non sapete dunque che il signor principe di Condé, al quale sono fedele, è in lite con la corte?...» «E come potrei saperlo?» fece Armando di Sancé stupito. «Vi ho veduto pochi mesi fa, e a quell'epoca la reggente non aveva miglior servitore del signor principe.»
«Ah! da allora è passato, il tempo!» sospirò il marchese del Plessis con irritazione. «Non ve ne posso fare la cronaca punto per punto. Sappiate solo che se la regina, i suoi due figli e quel diavolo rosso di cardinale sono potuti tornare al Louvre, a Parigi, è solo grazie al signor di Condé. Ora, per tutto ringraziamento, si tratta quel grand'uomo in maniera indegna. Qualche settimana fa è avvenuta la rottura. Certe proposte della Spagna sono sembrate abbastanza interessanti al principe: egli è venuto da me per studiarne la fondatezza.» «Proposte spagnole?» ripeté il barone Armando. «Sì. In confidenza, e sul vostro onore di gentiluomo, figuratevi che il re Filippo IV giunge ad offrire al nostro grande generale, nonché al signor di Turenne, un esercito di diecimila uomini per ciascuno.» «Per che fare?» «Ma per mettere a posto la reggente, e soprattutto quel ladro di un cardinale! Grazie all'esercito spagnolo comandato dal signor di Condé, questi entrerebbe a Parigi e Gastone d'Orléans, cioè Monsieur, fratello del defunto re Luigi XIII, verrebbe proclamato re. La monarchia sarebbe salva e liberata finalmente da una donna, da fanciulli e da uno straniero che la disonora. Che posso fare in tutti questi bei progetti? Lo domando a voi. Per sostenere il genere di vita che vi ho prospettato, non posso dedicarmi a una causa perduta. Ora, il popolo, il Parlamento, la corte, tutti insomma, odiano Mazarino. La regina continua ad aggrapparsi a lui e non cederà mai. É impossibile dirvi l'esistenza che conducono da due anni la corte e il piccolo re. La si può solo paragonare a quella degli zingari d'Oriente fughe, ritorni, dispute, guerre ecc. «É troppo. La causa del piccolo re Luigi XIV è perduta. Aggiungasi che la figlia di Gastone d'Orléans, madamigella di Montpensier – sapete quella ragazzona dalla voce sonora – è una partigiana arrabbiata della Fronda. Un anno fa, ha combattuto a fianco dei ribelli e non chiede che di ricominciare. Mia moglie l'adora, e lei la ricambia di cuore. Ma, questa volta, non permetterò che Alice si impegni in un partito diverso dal mio. Annodarsi una sciarpa azzurra intorno alla vita e mettere una spiga al cappello non sarebbe cosa grave, se la separazione tra sposi non portasse con sé altri disordini. Ora, Alice è, per carattere, “contro”. Contro le giarrettiere per i legacci di seta, contro i capelli a frangetta per la fronte scoperta ecc. É un'originale. Attualmente, ella è contro Anna d'Austria, la reggente, perché costei le fece osservare che le pasticche di cui faceva uso per mantener fresca la bocca le ricordavano una medicina purgativa. Nulla potrà far tornare Alice alla corte, dove afferma che ci si annoia tra le devozioni della regina e le imprese dei suoi principini. Seguirò quindi mia moglie, dato che lei non vuol seguire me. Ho la debolezza di trovarle un certo piccante e un talento amoroso che mi piace... Dopo tutto, la Fronda è un giuoco piacevole...» «Ma... ma non vorrete dire che anche il signor di Turenne?...» balbettò Armando di Sancé che non trovava più argomenti. «Oh! Il signor di Turenne! Il signor di Turenne! É come tutti gli altri. Non gli piace che i suoi servigi non siano apprezzati. Ha chiesto Sedan per la sua famiglia. Glielo hanno rifiutato. Lui, com'era logico, si è arrabbiato. Anzi, a quanto sembra, avrebbe già accettato le proposte del re di Spagna. Il signor di Condé ha meno fretta.
Attende per decidersi notizie da sua sorella di Longueville, partita con la principessa di Condé per sollevare la Normandia. Debbo dirvi che qui c'è la duchessa di Beaufort, le cui grazie non gli sono indifferenti... Una volta tanto, il nostro grande eroe si mostra meno impaziente di andare in guerra. Quando incontrerete la dea in questione, lo scuserete... Quella lì, mio caro, ha una pelle!...» Angelica, che se ne stava addossata a un arazzo, vide di lontano che suo padre cavava di tasca il suo grande fazzoletto e si asciugava la fronte. “Non riuscirà ad ottenere nulla”, disse fra sé, con il cuore che le si stringeva. “Cosa importano, a loro, le nostre storie di muli e di piombo argentifero?” Una insopportabile pena le saliva alla gola. Si allontanò nuovamente e uscì nel parco dove si stendeva la sera azzurrina. Ancora si udivano i violini e le chitarre rispondersi nei saloni, ma già i lacché uno dietro l'altro recavano i candelabri. Altri, saliti su sgabelli, accendevano le candele infilate in bracci contro le pareti, dinanzi a specchi che ne moltiplicavano il riflesso. “Quando penso”, diceva fra sé Angelica camminando lentamente per i viali, “che mio padre si faceva scrupolo per pochi muli che Molines avrebbe voluto vendere in Spagna durante la guerra! Tradimento?... Ecco un fatto di cui non si preoccupano tutti quei principi, che pure vivono solo grazie alla monarchia. É possibile che essi pensino davvero a combattere contro il re?...” Aveva girato intorno al castello e si trovava ora ai piedi di quel muraglione che un tempo aveva tanto spesso scalato per andare a contemplare i tesori della camera incantata. Il luogo era deserto, perché le coppie che non fuggivano la bruma crepuscolare, assai fresca in quella sera d'autunno, restavano di preferenza sui praticelli dinanzi alla facciata. Un istinto familiare la condusse a togliersi le scarpe e, agilmente, nonostante il vestito lungo, ella si issò fino al cornicione del primo piano. Era buio fondo, ormai. Nessuno, passando di lì, avrebbe potuto scorgerla, rannicchiata oltre tutto nell'ombra di una torretta che adornava l'ala destra. La finestra era aperta. Angelica si sporse e capì che, per la prima volta, la stanza doveva essere abitata, perché vi brillava la luce dorata di una lampada da notte a olio, accentuando il mistero dei bei mobili e delle tappezzerie. Si vedeva luccicare come cristalli di neve la madreperla di uno stipetto di ebano. A un tratto, guardando verso l'alto letto damascato, Angelica ebbe l'impressione che il quadro del dio e della dea si animasse. Due corpi bianchi e ignudi vi si stringevano nel disordine delle lenzuola spinte via e i cui merletti ricadevano fino a terra. Erano così strettamente avvinti ch'ella pensò lì per lì a una sfida di adolescenti, a una lotta fra paggi battaglieri e impudichi, prima di distinguere che si trattava di un uomo e una donna. I capelli neri e ricciuti del maschio coprivano quasi del tutto il viso della donna che il suo lungo corpo pareva volesse intieramente schiacciare. L'uomo, tuttavia, si muoveva adagio, con regolarità, animato come da una voluttuosa tenacia, e i riflessi della lampada rivelavano il giuoco dei suoi muscoli stupendi. Della donna, Angelica non scorgeva che alcuni particolari semifusi nella penombra: una gamba sottile, sollevata contro il corpo virile, un seno sporgente dalle braccia che la circondavano, una mano bianca e leggera che andava e veniva come
una farfalla, accarezzando macchinalmente il fianco dell'uomo per rigettarsi improvvisa, con il palmo disteso, abbandonata sull'orlo del letto, mentre un gemito fondo saliva dai cortinaggi di seta. Durante gli istanti di silenzio, Angelica udiva ora due respiri che si fondevano, sempre più precipitosi, simili al vento di una bruciante procella. Poi, una brusca distensione li calmava. Allora, il lamento della donna si allungava di nuovo nell'ombra mentre la sua mano, vinta, si abbatteva sul bianco lenzuolo, come un fiore reciso. Angelica si sentiva sconvolta fino alla nausea, e, insieme, vagamente stupita. Dopo aver così spesso contemplato il quadro dell'Olimpo, gustato la sua freschezza e il suo slancio maestoso, era infine un'impressione di bellezza quella che per lei emanava da quella scena di cui, piccola paesana esperta, ella comprendeva il senso. “Questo è dunque l'amore!” diceva fra sé mentre un brivido di spavento e di piacere la percorreva tutta. I due amanti, alla fine, si sciolsero. Riposavano ora l'uno accanto all'altra, come pallidi giacenti nell'oscurità di una cripta. I loro respiri s'illanguidivano in una beatitudine prossima al sonno. Nessuno dei due parlava. Fu la donna a muoversi per prima. Allungando il braccio bianchissimo giunse a prendere sulla mensola accanto al letto una bottiglietta in cui brillava il rubino di un vino scuro. Fece una risatina contrita. «Oh, carissimo, sono a pezzi», mormorò. «Dobbiamo assolutamente dividerci questo vino del Roussillon che il vostro previdente valletto ha messo qui. Ne volete una coppa?» L'uomo, dal fondo dell'alcova, rispose con un brontolio che poteva essere preso per un assenso. La dama, che sembrava aver recuperato del tutto le forze, riempì due bicchieri, ne porse uno all'amante, bevve l'altro con gioia golosa. A un tratto, Angelica pensò che le sarebbe piaciuto trovarsi lì, in quel letto, così nuda e distesa, assaporando il forte vino meridionale. “É lo ‘chaudaut’ dei principi”, pensò. Non si accorgeva della sua posizione incomoda. Vedeva ora interamente la donna, ne ammirava i seni tondi e perfetti, dalle punte violacee, il ventre elastico, le lunghe gambe incrociate. Sul vassoio v'era della frutta. La donna scelse una pesca e la morse avidamente. «Accidenti ai seccatori!» gridò a un tratto l'uomo, balzando al di sopra dell'amante giù dal letto. Angelica, che non aveva udito i colpi battuti alla porta della stanza, si credette scoperta e si rincantucciò nella torretta, più morta che viva. Quando guardò di nuovo, vide che il dio si era avvolto in un'ampia veste da camera di color scuro annodata da un cordone d'argento. Il suo viso di giovane sulla trentina era meno bello del corpo, perché aveva il naso lungo e occhi duri ma pieni di fuoco, che gli davano un po' l'aspetto di un uccello da preda. «Sono insieme con la duchessa di Beaufort», gridò verso la porta.
9 Nonostante l'avvertimento, un valletto apparve sulla soglia. «Sua Altezza mi perdoni. Si è presentato al castello un monaco, che insiste per essere ricevuto dal signor di Condé. Il marchese del Plessis ha creduto opportuno mandarlo subito da Sua Altezza.» «Entri pure!» brontolò il principe dopo un istante di silenzio. Si avvicinò allo stipetto di ebano che si trovava accanto alla finestra e aprì alcuni cassetti. Dal fondo della stanza un lacché introduceva un altro personaggio, un monaco incappucciato di bigello che si avvicinò inchinandosi a varie riprese con notevole scioltezza. Rizzandosi, mostrò il volto bruno in cui brillavano due lunghi occhi neri dallo sguardo languido. Il sopraggiungere dell'ecclesiastico non sembrava dare il minimo impaccio alla donna distesa sul letto, che seguitava a mordere i bei frutti con noncuranza. S'era appena velata con una sciarpa a metà corpo. L'uomo dai capelli neri, chino sullo stipetto, ne traeva grandi buste sigillate in rosso. «Padre», disse senza voltarsi, «è il signor Fouquet che vi manda?» «Proprio lui, monsignore.» Il monaco aggiunse una frase in una lingua melodiosa che Angelica suppose fosse italiano. Quando quegli si esprimeva in francese, il suo accento era bisciolo, con qualcosa d'infantile che gli dava una certa grazia. «Non occorre ripetere la parola d'ordine, signor Exili», disse il principe di Condé, «vi avrei riconosciuto dai connotati e da quel segno azzurro che avete vicino all'occhio. Siete dunque voi il più abile artista d'Europa nella difficile e sottile scienza dei veleni?» «Vostra Altezza mi onora. Non ho fatto che perfezionare alcune ricette tramandate dai miei antenati fiorentini.» «Gli italiani sono artisti in tutti i generi», esclamò Condé, scoppiando in una gran risata che pareva un nitrito, poi il suo volto riprese di colpo la sua dura espressione. «Avete con voi quella cosa?» «Eccola.» Il cappuccino estrasse dalla sua larga manica un cofanetto cesellato ed egli stesso lo aprì premendo su una delle modanature di legno prezioso. «Ecco, monsignore, basta introdurre l'unghia alla base del collo di questo grazioso personaggio che reca sul pugno una colomba.» Il coperchio s'era sollevato. Su un cuscinetto di raso brillava un'ampolla di vetro piena di un liquido color smeraldo. Il principe di Condé prese la boccetta con precauzione e la sollevò alla luce. «Vetriolo romano», disse piano il padre Exili. «É un composto a effetto lento, ma sicuro. L'ho preferito al sublimato corrosivo che può provocare la morte in poche
ore. Dalle indicazioni che ricevetti dal signor Fouquet, mi è parso di capire che voi, monsignore, e i vostri amici, non desiderate che sospetti troppo fondati si facciano luce fra il seguito del personaggio. Questi sarà colpito da languore, resisterà forse una settimana, ma la sua morte non avrà che la naturale apparenza di una infiammazione al ventre causata da cacciagione troppo adulterata o da qualche cibo poco fresco. Sarebbe anzi bene far servire abilmente alla tavola del personaggio muscoli, ostriche o altri frutti di mare i cui effetti sono a volte dannosi. Attribuire ad essi la colpa di una morte così subitanea sarà un giuoco da ragazzi.» «Vi son grato dei vostri eccellenti consigli, padre.» Condé seguitava a fissare l'ampolla verde pallido e i suoi occhi avevano una luce di odio. Angelica ne provava un'acuta delusione: il dio d'amore disceso sulla terra era privo di ogni bellezza e le incuteva paura. «State attento, monsignore», riprese padre Exili, «questo veleno dev'essere maneggiato con infinite precauzioni. Per concentrarlo, sono io stesso costretto a portare una maschera di vetro. Una goccia che vi cadesse sulla pelle potrebbe provocarvi un male che cesserebbe solo dopo aver divorato una delle vostre membra. Se non vi è possibile versare voi stesso questa medicina nei cibi del personaggio, raccomandate vivamente al servitore che ne avrà l'incarico di mostrarsi sicuro e abile.» «Il servitore che vi ha introdotto qui è uomo della massima fiducia. Per un caso di cui mi felicito, il personaggio in questione non lo conosce. Credo che, infatti, sarà facile metterlo al suo fianco.» Il principe gettò un'occhiata beffarda al monaco, che dominava con la sua statura. «Suppongo che un'esistenza consacrata a una simile arte non vi abbia reso troppo scrupoloso, signor Exili. Eppure, che pensereste se vi confessassi che questo veleno è destinato a un vostro compatriota, un abruzzese?» Un sorriso stirò le sottili labbra di Exili, che s'inchinò nuovamente. «I miei compatrioti sono soltanto coloro che apprezzano i miei servigi al loro giusto valore, monsignore. E, per il momento, il signor Fouquet, del Parlamento di Parigi, si mostra verso di me più generoso di un certo abruzzese ch'io invero conosco.» La risata cavallina di Condé scoppiò di nuovo. «Bravo, bravissimo, signore! Mi piace avere dalla mia parte gente della vostra specie.» E rimise adagio la boccetta sul suo cuscino di raso. Vi fu un silenzio. Gli occhi del signor Exili contemplavano la propria opera con una soddisfazione non priva di vanità. «Aggiungo, monsignore, che questo liquore ha il merito di essere inodoro e quasi senza sapore. Non altera gli alimenti ai quali è mescolato e la persona in causa, ammesso che stia molto attenta a ciò che mangia, potrà appena rimproverare al suo cuoco di avere un po' troppo esagerato con le spezie.» «Siete un uomo prezioso», ripeté il principe, che pareva farsi pensieroso. Raccolse un po' nervosamente le buste sigillate che stavano sul piano dello stipetto.
«Ecco, da parte mia, ciò che debbo consegnarvi in cambio per il signor Fouquet. Questa busta contiene le dichiarazioni del marchese d'Hocquincourt. Ecco quella del signor di Charost, del signor del Plessis, della signora del Plessis, della signora di Richeville, della duchessa di Beaufort, della signora di Longueville. Come vedete, le donne sono meno pigre... o meno scrupolose dei signori. Mi mancano ancora le lettere del signor di Maupéou, del marchese di Créqui e di qualche altro...» «E la vostra, monsignore.» «É giusto. Eccola, infatti. Stavo proprio ora terminandola e non l'ho ancora firmata.» «Vostra Altezza non avrebbe l'estrema cortesia di leggermene il testo, perché io possa verificarne punto per punto il contenuto? Il signor Fouquet tiene in modo particolare a che nessun termine sia dimenticato.» «Come volete», fece il principe con una scrollatina di spalle. Prese il foglio e lesse a voce alta: «"Io, Luigi II, principe di Condé, do assicurazione a monsignor Fouquet di non essere mai dalla parte di nessun'altra persona all'infuori di lui, di non obbedire ad alcun'altra persona senza eccezione, di consegnargli le mie piazzeforti, fortificazioni e simili, tutte le volte ch'egli me l'ordinerà. "In pegno di ciò, rilascio il presente biglietto scritto e firmato di mio pugno, di mia volontà senza ch'egli l'abbia neppure richiesto, avendo la bontà di fidarsi della mia parola, che gli è assicurata. "Fatto al Plessis-Bellière il 20 settembre 1649".» «Firmate, monsignore», disse padre Exili i cui occhi brillavano nell'ombra del cappuccio. Rapidamente e come desideroso di finirla, Condé prese sullo stipetto una penna d'oca e la tagliò. Mentre firmava la lettera, il monaco accese un fornelletto di argento dorato. Condé vi fece sciogliere un po' di ceralacca rossa e sigillò la missiva. «Tutte le altre dichiarazioni sono fatte su questo modello e firmate», concluse. «Penso che il vostro signore sarà soddisfatto e ve lo proverà.» «Siatene certo, monsignore. Non posso tuttavia lasciare il castello senza portare con me le altre dichiarazioni che mi avete fatto sperare.» «Mi impegno ad ottenerle prima di domani a mezzogiorno.» «Resterò dunque sotto questo tetto fino a domani.» «La nostra amica, la marchesa del Plessis, provvederà a sistemarvi, signore. L'ho fatta avvertire del vostro arrivo.» «Credo, in attesa, che sarebbe prudente chiudere queste lettere nel cofanetto segreto che vi ho consegnato poco fa. L'apertura è invisibile, e non saranno in nessun altro luogo maggiormente al riparo dalle indiscrezioni.» «Avete ragione, signor Exili. Comprendo, ascoltandovi, che anche la cospirazione è un'arte che richiede esperienza e pratica. Io non sono che un uomo d'arme e non lo nascondo.» «Uomo d'arme glorioso!» esclamò l'italiano inchinandosi. «Mi adulate, padre. Ma vorrei, lo confesso, che il signor Mazarino e Sua Maestà la regina fossero del vostro parere. Comunque sia, credo però che la tattica militare, per quanto più grossolana e ampia, si accosti un poco alle vostre sottili manovre.
Bisogna sempre prevedere le intenzioni del nemico.» «Voi parlate, monsignore, come se Machiavelli in persona fosse stato il vostro maestro.» «Mi adulate», ripeté il principe. Ma andava rasserenandosi. Exili gli indicò il modo di sollevare il cuscinetto di raso per introdurvi sotto le buste compromettenti. Poi ogni cosa fu deposta nello stipetto. Appena l'italiano si fu ritirato, Condé, come un bambino, riprese il cofanetto e lo aprì nuovamente. «Fai vedere», mormorò la donna tendendo le braccia verso di lui. Durante il colloquio, ella non era intervenuta, limitandosi a rimettere alle dita, uno dopo l'altro, i suoi anelli. Ma era chiaro che non aveva perduto una sola delle parole scambiate. Condé si avvicinò al letto ed entrambi si chinarono sulla boccetta di smeraldo. «Credi che sia davvero tremendo come lui dice?» mormorò ancora la duchessa di Beaufort. «Fouquet assicura che non v'è uno speziale più abile di quel fiorentino. E, comunque sia, dobbiamo affidarci a Fouquet. É stato lui ad avere l'idea dell'intervento spagnolo, al Parlamento di Parigi, lo scorso aprile. Intervento che non è piaciuto a nessuno, ma che lo ha posto in contatto con Sua Maestà Cattolicissima. Avrò il mio esercito solo per virtù sua.» La dama s'era di nuovo abbandonata sui cuscini. «Sicché, il signor Mazarino è morto», fece lentamente. «É come se lo fosse, perché questa ch'io tengo fra le mani è la sua morte.» «Non si dice che, a volte, la regina madre pranzi insieme con colui ch'ella ama con tanta passione?» «Infatti», fece Condé dopo un momento di silenzio. «Ma non condivido il vostro progetto, amica mia. E penso a un'altra manovra, più abile ed efficace. Che diverrebbe la regina madre senza i suoi figli?... La spagnola non potrebbe far altro che ritirarsi in un chiostro per piangerli...» «Avvelenare il re!» esclamò sussultando la duchessa. Il principe nitrì allegramente. Tornò presso lo stipetto e vi depose il cofano. «Ecco le donne!» gridò. «Il re! Vi commovete perché si tratta di un bel ragazzo, agitato dai turbamenti dell'adolescenza e che, da qualche tempo, alla corte, vi guarda come un cane in agguato. Per voi, il re è questo. Per noi, è un pericoloso ostacolo a tutti i nostri progetti. Quanto a suo fratello, il signorino, un ragazzetto corrotto che già prende piacere a vestirsi da bambina e a farsi vezzeggiare dagli uomini, lo vedo sul trono ancor meno del vostro regale pulzello. No, credetemi, con il signor d'Orléans, tanto poco austero quanto suo fratello Luigi XIII lo era troppo, avremo un re che farà benissimo per noi. É ricco e debole di carattere. Che potremmo volere di più?» «Mia cara», riprese Condé dopo aver richiuso lo stipetto e fatto scivolare la chiave nella tasca della sua palandrana, «io credo che bisognerebbe pensare a presentarci dinanzi ai nostri ospiti. La cena non tarderà. Volete che vada a chiamare Nina, la vostra cameriera?» «Ve ne sarei grata, mio caro signore.»
Angelica, che cominciava a sentirsi indolenzita, s'era ritirata un po' indietro sul cornicione. Pensava a suo padre che certo la stava cercando, ma non si decideva a lasciare il suo osservatorio. Nella stanza il principe e la sua amante, tra le mani dei loro domestici, si abbigliavano in un gran frusciare di stoffe, con accompagnamento di qualche imprecazione da parte di monsignore, tutt'altro che paziente. Quando Angelica volgeva via gli occhi dallo schermo di luce formato dalla finestra aperta, non vedeva attorno a sé che la notte opaca da cui saliva il mormorio della vicina foresta, mossa dal vento autunnale. Ella si rese infine conto che la stanza era ormai deserta. La lampada da notte seguitava a brillare, ma la camera aveva ritrovato il suo mistero. Pian piano, l'adolescente si avvicinò alla finestra e si lasciò scivolare all'interno. L'odore dei belletti e dei profumi si fondeva stranamente con quello che veniva dalla notte, carico dei sentori di legname umido, di muschio, di castagne mature. Angelica non sapeva ancora con precisione che cosa avrebbe fatto. Potevano sorprenderla, ma non si preoccupava di ciò. Tutto questo non era che un sogno. Come la partenza per le Americhe, la dama folle di Monteloup, i delitti di Gilles di Retz... Con gesto veloce, prese nella tasca della palandrana abbandonata su una sedia, la piccola chiave dello stipo, lo aprì, trasse a sé il cofanetto, ch'era in legno di sandalo ed emanava un odore acuto. Dopo aver richiuso lo stipo e aver ricollocato al suo posto la chiave, Angelica si ritrovò sul cornicione con il cofanetto sotto il braccio. Si divertiva, ora, in modo prodigioso, immaginando il viso che avrebbe fatto il signor di Condé accorgendosi della scomparsa del veleno e delle lettere compromettenti. “Non è rubare, questo”, disse fra sé, “poi che si tratta di evitare un delitto.” Già sapeva in quale nascondiglio avrebbe messo la refurtiva. Le torrette che l'architetto italiano aveva elevato ai quattro angoli del grazioso castello del Plessis servivano solo per ornamento, ma erano state egualmente guarnite di feritoie e di caditoi in miniatura che imitavano la decorazione militare degli edifici medievali. Inoltre, erano cave e provviste di una finestrella. Angelica introdusse il cofanetto all'interno di quella più vicina. Furbo quegli che sarebbe andato a scovarlo là dentro! Poi, agilmente, si lasciò scivolare lungo la facciata, e si ritrovò a terra, accorgendosi solo allora che i suoi piedi ignudi erano gelidi. Dopo essersi rimessa le vecchie scarpe, tornò al castello. Tutti, ora, si trovavano riuniti nei saloni. La notte troppo scura e nebbiosa non attraeva più alcuno. Entrando nell'atrio, il naso di Angelica fu piacevolmente solleticato da effluvi culinari assai appetitosi. Ella vide passare una serie di piccoli valletti in livrea che portavano con molta gravità grandi piatti d'argento. Fagiani e beccacce con tutte le loro penne, un maialino da latte incoronato di fiori come una sposa, diversi pezzi di un bellissimo capriolo, deposti sopra fondi di carciofo e foglie di finocchio, le sfilarono davanti. Dalle sale e dalle gallerie proveniva il rumore delle porcellane e dei cristalli percossi: tutta la compagnia si era radunata intorno a piccole tavole coperte di
merletti, disposte qua e là con gusto. A ciascuna di esse sedevano una decina di persone. Angelica, ferma sulla soglia del salone più grande, scorse il principe di Condé circondato dalla signora del Plessis, dalla duchessa di Beaufort e dalla contessa di Richeville. Il marchese del Plessis e suo figlio Filippo dividevano anch'essi la tavola del principe, assieme ad altre dame e giovani signori. La tonaca bruna dell'italiano Exili metteva una nota insolita fra tanti merletti, nastri e stoffe preziose ricamate in oro e argento. Se il barone di Sancé fosse stato presente, avrebbe fatto il paio con l'austerità monastica. Ma invano Angelica si guardava attentamente intorno: non riusciva a vedere il padre a nessuna tavola. A un tratto, uno dei paggi che passava portando una bottiglia d'argento dorato, la riconobbe. Era quello che s'era beffato grossolanamente di lei a proposito del ballo alverniese. «Oh! ecco la baronessa del Triste Vestito!» disse scherzoso. «Che cosa volete bere, Nina? Vinello di mele o del buon latte rappreso?» Ella gli mostrò svelta la lingua, poi, lasciandolo piuttosto mortificato, avanzò ancora verso la tavola principesca. «Signore chi ci sta capitando addosso?» esclamò la duchessa di Beaufort. La signora del Plessis seguì la direzione del suo sguardo, scorse Angelica e una volta ancora chiamò il figlio in aiuto: «Filippo! Filippo! mio caro, abbiate la bontà di accompagnare vostra cugina di Sancé alla tavola delle damigelle d'onore.» Il giovanetto alzò su Angelica il suo sguardo annoiato. «Ecco uno sgabello», diss'egli indicando un posto libero accanto a sé. «Non qui, Filippo, non qui. Avevate riserbato quel posto alla signorina di Senlis.» «La signorina di Senlis poteva venir prima. Quando ci raggiungerà, vedrà ch'è stata rimpiazzata... con vantaggio», concluse con un sorrisetto ironico. I suoi vicini scoppiarono a ridere. Angelica, intanto, si metteva a sedere. Era andata troppo oltre per indietreggiare. Non osava chiedere dove fosse suo padre, e lo scintillìo dei calici, delle caraffe, dell'argenteria e dei diamanti delle dame la stordiva fino alla vertigine. Per reazione, s'irrigidì, gonfiò il petto, respinse all'indietro la greve capigliatura dorata. Le parve che alcuni signori le gettassero sguardi non privi d'interesse. Quasi di faccia a lei, l'occhio di uccello da preda del principe di Condé la squadrò un momento con arrogante attenzione. «Perbacco, signor del Plessis, che strani parenti avete! Chi è questa grigia alzavola?» «Una giovane cugina di provincia, monsignore. Ah, compiangetemi! Questa sera, per due ore di seguito: invece di ascoltare i nostri musicisti e le incantevoli conversazioni di queste dame, ho dovuto subire la requisitoria del barone suo padre, il cui alito mi fa ancora sentir male – come direbbe il nostro cinico poeta Argenteuil: “Senza mentir vi dico che il fiato dei morti, O il puzzo d'una latrina non son così forti”.» Una risata servile scosse l'assemblea.
«E sapete che cosa mi chiedeva?» continuò il marchese asciugandosi le palpebre con gesto affettato. «Ve lo do a immaginare su mille: che gli faccia togliere le imposte su alcuni muli della sua scuderia e su una produzione – notare il termine – di piombo ch'egli afferma di trovare bell'e fuso in lingotti sotto le aiuole del suo orto. Non ho mai sentito sciocchezze simili.» «Accidenti ai nobilucci di provincia!» brontolò il principe. «Ridicolizzano i nostri blasoni con le loro maniere contadinesche.» Le dame soffocavano dal ridere. «Avete visto la penna del suo cappello?» «E le scarpe, con la paglia ancora attaccata ai tacchi!...» Ad Angelica il cuore batteva con tale violenza da sembrarle che Filippo, accanto a lei, dovesse udirlo. Gli gettò uno sguardo e sorprese l'occhio azzurro e freddo del bel giovinetto fisso su lei con una espressione indefinibile. “Non posso permettere che insultino in questo modo mio padre”, pensava. Doveva essere pallidissima. Ricordò il rossore della signora di Richeville quando, poche ore prima, la sua voce s'era levata in un silenzio improvvisamente gelido. V'era dunque qualche cosa che quelle impertinenti persone temevano... La “piccola di Sancé” aspirò profondamente. «Può darsi che siamo dei pezzenti», ella disse a voce alta e distinta, «ma noi almeno non cerchiamo di avvelenare il re!» Come la volta precedente, le risa morirono sui volti e cadde un silenzio così pesante che le tavole vicine se ne preoccuparono. A poco a poco le conversazioni languirono, il brio degli ospiti si smorzò; tutti guardavano il principe di Condé. «Chi... chi... chi...?» balbettò il marchese del Plessis. Poi tacque di colpo. «Ecco delle strane parole», disse infine il principe, che si padroneggiava a stento. «Questa giovinetta non è abituata a stare in società. É rimasta alle favole della sua nutrice...» “Tra un secondo, mi renderà ridicola e sarò cacciata via con la promessa di quattro sculaccioni”, pensò, avvilita, Angelica. Si sporse un poco, guardando verso l'estremità della tavola. «Mi è stato detto che il signor Exili è il più famoso esperto del regno nell'arte dei veleni.» Quella nuova pietra nella palude provocò onde violente. Si udì un mormorio terrorizzato. «Oh! questa ragazza è posseduta dal diavolo!» esclamò la signora del Plessis, mordendo rabbiosamente il fazzoletto di pizzo. «É la seconda volta che mi copre di vergogna. Se ne sta lì come una bambola dagli occhi di vetro e, di colpo, apre la bocca e dice cose terribili!» «Terribili? E perché terribili?» protestò con voce blanda il principe, seguitando a fissare Angelica. «Lo sarebbero se fossero vere. Ma non sono che fantasie di bambina che non sa tacere.» «Tacerò quando mi farà comodo», disse recisamente Angelica. «E quand'è che vi farà comodo, signorina?» «Quando voi la smetterete d'insultare mio padre e gli avrete accordato i piccoli favori che chiede.»
Il volto del signor di Condé si rabbuiò di colpo. Lo scandalo era al colmo. Alcune persone in fondo alla galleria eran salite sulle sedie. «Accidenti... accidenti...», balbettò soffocando il principe, che si alzò bruscamente col braccio teso come per lanciare le sue truppe all'assalto delle trincee spagnole. «Seguitemi», ruggì. “Mi ucciderà”, disse fra sé Angelica. E la vista di quel gran signore che la dominava la fece trasalire di paura e di piacere. Tuttavia lo seguì, piccola alzavola grigia dietro quel grande uccello coperto di nastri. Notò ch'egli portava sotto i ginocchi abbondanti balzane di pizzo inamidato e, sopra le brache, una specie di gonnellino ornato d'una infinità di galloni. Non aveva mai veduto un uomo abbigliato in maniera così stravagante. Ne ammirava però l'incedere, il modo con cui posava sul suolo gli alti tacchi inarcati. «Eccoci soli», disse bruscamente Condé voltandosi. «Signorina, non voglio arrabbiarmi con voi, ma dovete rispondere alle mie domande.» Quella voce sdolcinata spaventò Angelica più che scatti d'ira. Si vide in un salottino deserto, sola con quell'uomo potente di cui sconvolgeva gli intrighi, e capì che anch'ella vi si era impegnata e perduta come in una tela di ragno. Indietreggiò, balbettò, finse una certa stupidità paesana. «Non pensavo di dire nulla di male.» «Perché avete inventato un simile insulto alla tavola di uno zio che voi rispettate?» Ella comprese ciò ch'egli voleva farle confessare, esitò, calcolò il pro e il contro. Dato quel che sapeva, una affermazione di totale ignoranza da parte sua non sarebbe stata creduta. «Non ho inventato... ho ripetuto cose che mi sono state dette», mormorò: «Che il signor Exili è un uomo abilissimo nel far veleni... Ma, per quanto riguarda il re, ho inventato. Non avrei dovuto, ma ero in collera.» Attorcigliava goffamente un lembo della sua cintura. «Chi vi ha detto queste cose?» La fantasia di Angelica lavorava affannosamente. «Un... paggio. Non so come si chiama.» «Potreste mostrarmelo?» «Sì.» Egli la ricondusse nell'atrio, dove la fanciulla indicò il paggio che l'aveva beffata. «Accidenti a questi marmocchi che ascoltano alle porte!» brontolò il principe. «Come vi chiamate, signorina?» «Angelica di Sancé.» «Ascoltate, signorina di Sancé. Non sta bene ripetere sconsideratamente parole che una ragazzina della vostra età non può comprendere. Ciò può arrecare danno a voi e alla vostra famiglia. Passo la spugna su questo incidente e giungerò anzi ad esaminare il caso di vostro padre per vedere se posso fare qualche cosa per lui. Ma quale garanzia avrò del vostro silenzio?»
Ella alzò verso di lui i suoi occhi verdi. «So anche benissimo tacere quando ho ottenuto soddisfazione come so parlare quando mi si insulta.» «Caspita, prevedo che, quando sarete donna, gli uomini che v'incontreranno passeranno un mucchio di guai», disse il principe. Ma un vago sorriso gli aleggiava sul volto. Pareva non sospettare ch'ella potesse saperne più di quanto gli aveva detto. Impulsivo e, per la verità, sventato, Condé mancava di psicologia e di spirito d'osservazione. Passata la prima sorpresa egli aveva giudicato trattarsi solo di pettegolezzi. Uomo abituato all'adulazione e sensibile ai fascini femminili, l'emozione di quell'adolescente di già notevole bellezza influiva a placar la sua collera. Angelica si sforzava ad alzare su lui uno sguardo di candida ammirazione. «Potrei chiedervi una cosa?» fece lei accentuando ancor più la sua ingenuità. «Che cosa?» «Perché portate un gonnellino?» «Un gonnellino?... Ma, ragazza mia, si tratta di una “rhingrave”. Non è, del resto, elegantissima? La rhingrave nasconde le brache, che son brutte e van bene solo per i cavalieri. La si può ornare con galloni e nastri ed è molto comoda. Non l'avevate ancora veduta, qui in campagna?» «No. E quelle grandi balzane che portate sotto i ginocchi?» «Si chiamano “cannoni” e mettono in valore i polpacci, che ne escon fuori svelti e inarcati.» «É vero», approvò Angelica. «Che stupendo! Non ho mai visto un abito così bello!» «Ah! basta parlare alle donne di vestiti e si placano le furie più pericolose», disse il principe, soddisfatto del successo. «Ma debbo tornare dai miei ospiti. Mi promettete di comportarvi saggiamente?» «Sì, monsignore», fece lei con il suo più grazioso sorriso, scoprendo i dentini madreperlacei. Il principe di Condé tornò attraverso i saloni, calmando con gesti benedicenti l'ansia della società. «Mangiate, mangiate, amici miei. É una cosa da nulla. La piccola impertinente farà le sue scuse.» Angelica, di propria iniziativa, s'inchinava dinanzi alla signora del Plessis. «Vi faccio le mie scuse, signora, e vi chiedo l'autorizzazione di ritirarmi.» Si rise del gesto della signora del Plessis che, non riuscendo a parlare, indicava la porta. Ma, dinanzi alla porta, si stava formando un altro assembramento. «Mia figlia, dov'è mia figlia?» invocava il barone Armando. «Il signor barone richiede sua figlia», gridò un lacché in tono beffardo. Fra gli ospiti eleganti e i servitori in livrea, il povero nobiluccio pareva un nero calabrone prigioniero. Angelica gli corse incontro. «Angelica», sospirò lui, «mi fai impazzire. Ti sto cercando da più di tre ore nella notte tra Sancé, il padiglione di Molines, e il Plessis. Che giornata, figlia mia! Che giornata!»
«Andiamo via, papà, andiamo via subito, te ne prego», disse ella. Erano già sulla scalinata allorché li richiamò la voce del marchese del Plessis. «Un attimo, cugino. Il signor principe desidera parlare con voi un momento a proposito di quei diritti doganali di cui mi avete parlato...» Il resto si perdette mentre i due uomini tornavano indietro. Angelica sedette sull'ultimo gradino della scalinata e attese il padre. Le pareva, a un tratto, di essere completamente svuotata d'ogni pensiero, d'ogni volontà. Un piccolo grifone bianco venne ad annusarla ed ella lo accarezzò macchinalmente. Quando il signor di Sancé riapparve, prese la figlia per il polso. «Temevo che te la fossi filata un'altra volta. Hai davvero il diavolo in corpo. Il signor di Condé mi ha rivolto complimenti così strani nei tuoi riguardi che non sapevo in verità se avessi dovuto scusarmi di averti messa al mondo.»
Un po' più tardi, mentre le loro cavalcature procedevano adagio nel buio, il signor di Sancé riprese scuotendo il capo: «Non capisco come sia fatta, quella gente. Mi ascoltano ghignando. Il marchese, cifre alla mano, mi espone quanto la sua situazione economica sia più precaria della mia. Mi lasciano andar via senza neppure offrirmi un bicchier di vino per sciacquarmi la gola e poi, di colpo, mi richiamano e mi promettono tutto ciò che voglio. Secondo monsignore, l'esenzione dalle tasse doganali mi sarà accordata il mese prossimo.» «Tanto meglio, papà», mormorò Angelica. Ascoltava, nell'oscurità, il canto notturno dei rospi, che annunciavano l'avvicinarsi delle paludi e del vecchio castello fortificato. A un tratto, le venne da piangere. «Credi che la signora del Plessis ti prenderà come damigella d'onore?» chiese ancora il barone. «Oh, no, non credo!» rispose soavemente Angelica.
10 Del viaggio che fece per raggiungere Poitiers, Angelica non serbò che un ricordo trabalzante e piuttosto spiacevole. Avevano aggiustato per l'occasione una vecchia carrozza in cui ella aveva preso posto con Ortensia e Maddalena. Un valletto conduceva i muli dell'attacco. Raimondo e Gontrano montavano ognuno un cavallo di buona razza donato loro dal padre. Si diceva che i gesuiti avessero, nei loro nuovi collegi, scuderie riservate alle cavalcature dei giovani nobili. Due pesanti cavalli da soma completavano la carovana. Uno di essi portava il vecchio Guglielmo, incaricato di scortare i suoi padroncini. Circolavano nel paese troppe cattive notizie di agitazioni e di guerre. Si diceva che il signor di La Rochefoucauld sollevasse il Poitou per conto del signor di Condé. Reclutava armati e prelevava una parte dei raccolti per nutrirli. Chi dice esercito, dice fame e povertà, banditi e vagabondi agli incroci delle strade.
Il vecchio Guglielmo era dunque lì, con la picca appoggiata alla staffa e la spada al fianco. Il viaggio, però, si svolse tranquillo. Attraversando una foresta, scorsero alcune figure sospette che si disperdevano fra gli alberi. Ma, senza dubbio, la picca del vecchio mercenario, a meno che non fosse la povertà della carrozza, scoraggiò i briganti. Trascorsero la notte in un albergo, a un crocicchio sinistro dove non si udiva che il sibilare del vento nella foresta spoglia. L'albergatore si degnò di servire ai viaggiatori un po' d'acqua chiamata brodo e del formaggio ch'essi mangiarono al lume di una scadente candela di sego. «Tutti i padroni d'albergo sono complici di briganti», confidò Raimondo alle sorelle atterrite. «Il maggior numero di assassinii si commette negli alberghi lungo le strade. Durante il nostro ultimo viaggio, dormimmo in un luogo dove meno di un mese prima avevano sgozzato un ricco finanziere che aveva il torto di viaggiare solo.» Spiacendogli di essersi abbandonato a riflessioni troppo profane, egli aggiunse: «Questi delitti commessi da uomini del popolo sono conseguenza del disordine della gente altolocata. Tutti hanno perduto il timor di Dio.» Viaggiarono ancora un intero giorno. Scosse come sacchi di noci su quelle strade gelate e piene di buche, le tre sorelle si sentivano a pezzi. Solo raramente si trovavano pezzi della strada romana con le loro grandi pietre antiche e regolari. Più spesso, erano sentieri scavati nell'argilla, sconvolti dall'incessante passaggio di cavalieri e carrozze. All'ingresso dei ponti, bisognava stazionare a volte delle ore fino a sentirsi gelare, perché l'addetto al pedaggio era assai spesso un funzionario lento e chiacchierone, che approfittava di ogni passante per attaccar discorso. Solo i gran signori, che con mano sdegnosa gettavano dallo sportello una borsa ai piedi dell'impiegato, passavano senza rallentare. Maddalena piangeva, intirizzita, aggrappandosi ad Angelica. Ortensia, con le labbra serrate, diceva: «É inammissibile!» Si sentivano tutte e tre stanchissime e non riuscirono a trattenere un sospiro di sollievo, allorché, la sera del secondo giorno, apparve loro Poitiers, con i suoi tetti d'un rosa stinto disposti a gradinata sui fianchi di un colle circondato da un ridente fiume: il Clain. Era una limpida giornata d'inverno e si poteva pensare a un paesaggio del meridione, di cui, del resto, il Poitou è la soglia, tanto era dolce il cielo sopra le tegole dei tetti. Le campane si rispondevano, suonando l'Avemmaria. Quelle campane, d'ora in poi, avrebbero sgranato le ore di Angelica, per quasi cinque anni. Poitiers era una città di chiese, di conventi e di collegiate. Le campane regolavano la vita di tutto quel popolo in sottane, di quell'esercito di studenti rumorosi quanto erano sussurranti i loro maestri. Preti e baccellieri s'incontravano agli angoli delle vie in salita, all'ombra dei cortili, sulle piazze che, di piano in piano, offrivano le loro gradinate ai pellegrini della città. I giovani di Sancé si lasciarono sulla piazza della cattedrale. Il convento delle Orsoline si trovava verso sinistra e dominava il Clain. Il collegio dei gesuiti era
invece posto in alto. Con la goffaggine dell'adolescenza, si lasciarono quasi senza una parola e soltanto la piccola Maddalena, in lagrime, abbracciò i due fratelli. Si rinchiusero così, su Angelica, le porte del convento. Ella impiegò del tempo a capire che la sensazione di soffocamento che l'opprimeva era causata da quella brusca rottura con lo spazio. Mura e ancora mura, e grate alle finestre. Le sue compagne non le parvero simpatiche: aveva sempre giocato con ragazzi, contadinelli che l'ammiravano e la seguivano. Qui, invece, tra certe damigelle di alto lignaggio e di solida fortuna, il posto di Angelica di Sancé non poteva trovarsi che nelle ultime file. Dovette anche sottomettersi alla tortura del busto con stecche di balena, strettamente allacciato, che, costringendo le fanciulle a star dritte, dava loro per tutta la vita e in qualsiasi circostanza, un portamento da regine sdegnose. Angelica, vigorosa e dalla muscolatura elastica, graziosa d'istinto, avrebbe potuto fare a meno di quella gogna. Ma si trattava di un'istituzione che oltrepassava di molto i limiti del convento. Ascoltando parlare le grandi, ella non poteva dubitare che il busto con stecche di balena non avesse un gran posto in tutto ciò che concerneva la moda. Era anche questione di una specie di fascetta a becco d'anatra, resa rigida per mezzo di cartone resistente o di fusti di ferro, che veniva ricamata e guarnita con nastri e gioielli. Questa fascetta, chiamata “busquière”, era destinata a sorreggere i seni, facendoli risalire sotto i merletti a tal punto che sembravano sempre lì lì per sfuggire da quella costrizione. Naturalmente, le grandi si scambiavano in segreto tali particolari, per quanto il convento fosse specialmente incaricato di preparare le fanciulle al matrimonio e alla vita mondana. Bisognava imparare a danzare, a salutare, a suonare il liuto e il clavicembalo, a sostenere con due o tre compagne conversazioni su un determinato soggetto, e perfino a servirsi del ventaglio e a imbellettarsi le gote. Venivano quindi, in ordine d'importanza, le cure della casa. In previsione dei rovesci che il cielo avrebbe potuto mandare, le allieve dovevano dedicarsi alle più umili faccende. A turno, lavoravano nelle cucine e nelle lavanderie, accendevano e badavano alle lampade, spazzavano, lavavano i pavimenti. Infine, veniva loro dato qualche rudimento di varia cultura: la storia e la geografia, sinteticamente esposte; mitologia, calcolo, teologia e latino. Veniva dedicata maggior cura agli esercizi di stile, perché l'arte epistolare era essenzialmente femminile e perciò lo scambio di lettere con gli amici e gli amanti rappresentava una delle più assorbenti occupazioni di una donna di mondo. Senza essere un'allieva indocile, Angelica non diede nessuna soddisfazione ai suoi professori. Eseguiva ciò che le veniva ordinato, ma pareva non comprendesse perché la si obbligava a fare tante cose stupide. A volte, durante le ore di lezione, la cercavano invano; la trovavano alla fine nell'orto, che altro non era se non un gran giardino sospeso sopra vicoli tiepidi e poco frequentati. Ai più severi rimproveri, rispondeva ogni volta che non credeva di far qualcosa di male guardando crescere i cavoli. L'estate seguente, vi fu in città un'epidemia piuttosto grave, che chiamarono peste perché molti topi risalivano dai loro nascondigli alla luce per morire nelle strade o nelle case. La Fronda dei principi, diretta dai signori di Condé e Turenne, portava la miseria e la fame in quelle regioni dell'Ovest sino allora risparmiate dalle guerre con gli
stranieri. Non si sapeva più chi stesse per il re, chi fosse contro, ma affluivano alle città i contadini cui erano stati incendiati i villaggi. Ciò costituiva un esercito di miserabili che si arenavano dinanzi a tutti i portoni, con la mano tesa. Ve ne furono presto più che non abati e scolari. Le piccole pensionanti delle Orsoline fecero l'elemosina, in certe ore di certi giorni, ai poveri fermi dinanzi al convento. Si insegnò loro che anche questo faceva parte delle loro attribuzioni di future gran dame bene educate. Per la prima volta, Angelica vide davanti a sé la miseria senza speranza, la miseria in brandelli, la vera miseria dall'occhio lubrico e colmo d'odio. Non se ne sentì né commossa, né sconvolta, al contrario delle compagne, alcune delle quali piangevano o serravano le labbra con disgusto. Le pareva di riconoscere un'immagine impressa in lei da sempre, come il presentimento di ciò che uno strano destino doveva riservarle.
La peste nacque facilmente da quella feccia che ingorgava gli erti vicoli dove l'ardente luglio prosciugava le fontane. Vi furono, fra le allieve, parecchi casi. Una mattina, Angelica non vide Maddalena nel cortile della ricreazione. Se ne informò e le dissero che la bambina si era ammalata e l'avevano ricoverata in infermeria. Maddalena morì pochi giorni dopo. Dinanzi al corpicino livido e ridotto pelle e ossa, Angelica non pianse, prendendosela anzi con Ortensia per le sue lagrime spettacolari. Perché piangeva quella gran pertica di diciassette anni? Non aveva mai amato Maddalena, non amava che se stessa. «Ahimè, piccole mie!» disse loro dolcemente una vecchia religiosa, «questa è la legge di Dio. Molti muoiono in tenera età. Mi è stato detto che vostra madre ha avuto dieci figli e ne ha perduto uno solo. Con questa, saranno due. Non è molto. Conosco una signora che ha avuto quindici figli e ne ha perduti sette. É così, vedete. Dio dà i figli, Dio li riprende. Molti fanciulli muoiono. É la legge di Dio!...» In seguito alla morte di Maddalena, la selvatichezza di Angelica si accrebbe, ed ella divenne persino indisciplinata. Agiva solo di testa sua, scompariva ore intiere in cantucci ignorati del vasto edificio. Dopo la sua scappatella, le avevano proibito l'accesso al giardino e all'orto. Ma lei trovava egualmente il modo di introdurvisi. Pensavano di rimandarla a casa, ma il barone di Sancé, nonostante le difficoltà causategli dalla guerra civile, pagava con la massima puntualità la retta delle due figlie, cosa che non si verificava per tutte le pensionanti. Inoltre, Ortensia prometteva di diventare una delle giovinette più compite del suo corso. Per riguardo alla maggiore, si tennero la minore. Ma rinunciarono ad occuparsene.
Fu così che, un giorno del gennaio 1652, Angelica, che aveva da poco compiuto quindici anni, stava appollaiata una volta ancora sul muro dell'orto, divertendosi a guardare l'andirivieni nella via e a scaldarsi al tiepido sole d'inverno. In quei primi giorni dell'anno v'era grande animazione a Poitiers, perché la
regina, il re e i loro partigiani erano venuti a installarvisi. Povera regina, povero re giovinetto, sballottati di rivolta in rivolta! Si erano recati in Guienna per combattere il signor di Condé. Al ritorno, s'eran fermati nel Poitou per tentare negoziati con il signor di Turenne, che aveva quella provincia nelle sue mani, da Fontenay-le-Comte fino all'oceano. Châtellerault e Luçon, antiche piazzeforti protestanti, s'erano alleate con il generale ugonotto; ma Poitiers, che non dimenticava come, cento anni prima, le sue chiese fossero state saccheggiate e il sindaco impiccato dagli eretici, aveva aperto le sue porte al monarca. Oggi, non c'era più, a fianco del principe adolescente, che la veste nera della Spagnola. Il popolo, la Francia intiera avevano tanto gridato: «Via Mazarino! Via Mazarino!» che l'uomo dalla veste rossa s'era infine arreso. Aveva lasciato la regina, ch'egli amava, e si era rifugiato in Germania. Ma la sua partenza non bastava ancora a placare le passioni... Appoggiata al muro del convento, Angelica ascoltava il mormorio della città agitata, la cui eccitazione si ripercuoteva fino a quel lontano quartiere. Le imprecazioni dei cocchieri, le cui carrozze si incuneavano nei vicoli tortuosi, si mischiavano alle risa e agli schiamazzi dei paggi e delle serventi, e al nitrire dei cavalli. Il ronzio delle campane volava in quel frastuono. Angelica riconosceva ora ogni scampanio, quello di Sant'Ilaria, quello di Santa Radegonda, il campanone di NotreDame-la-Grande, i suoni gravi della torre di Saint-Porchaire. A un tratto, a pie' del muro, passò una schiera di paggi come uno stormo di uccelli delle isole nei loro splendenti abiti di raso e di seta. Uno di essi si fermò, per riannodarsi il nastro di una scarpa. Raddrizzatosi, alzò il capo e incontrò lo sguardo di Angelica, che lo contemplava dall'alto del muro. Con una galante scappellata il paggio spazzò la polvere. «Salute, madamigella. Non avete l'aria di divertirvi, lassù!» Somigliava ai paggi ch'ella aveva veduto al Plessis, vestito con le stesse brache a sbuffi, chiamate “trousse”, appannaggio del XVI secolo, che gli facevano gambe spropositate da airone. A parte ciò, era simpatico, con un viso ridente, abbronzato e bei capelli castani e ricciuti. Angelica gli chiese quanti anni avesse. Egli rispose che ne aveva sedici. «Ma non preoccupatevi, madamigella», aggiunse, «so fare la corte alle dame.» Le lanciava sguardi carezzevoli e, a un tratto, le tese le braccia. «Venite a raggiungermi, via.» Una piacevole sensazione invase Angelica. Le parve che la prigione grigia e triste dove il suo cuore languiva si aprisse. Quel viso pieno di grazia alzato verso di lei prometteva non so che di dolce e di saporoso di cui ella aveva fame, come dopo il gran digiuno di quaresima. «Venite», sussurrò il paggio. «Se volete, vi accompagnerò al palazzo dei duchi d'Aquitania dove ha preso alloggio la corte, e vi mostrerò il re.» Ella esitò appena e si allacciò il mantello di lana nera con cappuccio. «Attento che salto!» gridò. Il giovinetto la ricevette quasi fra le braccia. Scoppiarono a ridere entrambi e,
svelto, egli la prese per la vita trascinandola con sé. «Che diranno le suore del convento?» «Sono abituate alle mie fantasie.» «E come farete a rientrare?» «Suonerò alla porta e chiederò l'elemosina.» Il paggio rise di cuore. Angelica si lasciava inebriare dal turbine da cui era improvvisamente circondata. Fra i signori e le dame le cui belle vesti stupivano i provinciali, passavano dei mercanti. Da uno di questi, il paggio acquistò due bastoncini nei quali erano infilate cosce di rane fritte. Essendo vissuto sempre a Parigi, quel cibo gli sembrava estremamente curioso. I due giovani mangiarono di buon appetito. Il paggio raccontò che si chiamava Enrico di Roguier e che era addetto al servizio del re, il quale, compagno allegro, lasciava talora la gente seria del Consiglio privato per andare con gli amici a strimpellare un po' la chitarra. Le graziose fanciulle italiane, nipoti del cardinale Mazarino, si trovavano ancora presso la corte, nonostante la forzata partenza dello zio. Sempre chiacchierando, il giovinetto trascinava insidiosamente Angelica verso quartieri meno animati. Ella se ne accorse ma non disse nulla. Il suo corpo, destatosi all'improvviso, attendeva qualche cosa che la mano del paggio intorno alla sua vita prometteva. Egli si fermò, la spinse adagio nel vano di una porta e prese a baciarla con foga, dicendo cose banali e divertenti: «Come sei graziosa... Hai le gote come pratoline e occhi verdi come le raganelle... Le raganelle del tuo paese... Non ti muovere. Voglio aprire questo busto... Lasciami fare. So come si slaccia... Oh! Non ho mai visto due seni così bianchi e piccolini... E duri come pomi... Quanto mi piaci, mia cara...» Ella lo lasciava divagare, accarezzare. Gettava un po' indietro la testa, contro la pietra muschiosa, e i suoi occhi guardavano macchinalmente il cielo azzurro sul bordo di un tetto frastagliato. Il paggio, ora, taceva; il respiro gli si era fatto precipitoso. Si agitò, guardando più volte intorno a sé, irritato. La via era abbastanza tranquilla: v'era, però, gente che andava e veniva. Ci fu anche una cavalcata di studenti che lanciarono grida scoprendo la giovane coppia all'ombra del muro. Il ragazzo indietreggiò, pestò i piedi. «Ah, che rabbia! Le case sono piene come uova in questa maledetta città di provincia. Perfino i gran signori sono costretti a ricevere le loro amanti nelle anticamere. Dimmi, allora, dove potremo trovare un po' di pace?» «Stiamo bene qui», mormorò lei. Ma lui non era soddisfatto. Gettò un'occhiata nella piccola borsa che portava alla cintura, e il suo volto s'illuminò. «Vieni! Ho un'idea! Andiamo a cercare un salottino adatto per noi.» La prese per mano e la trascinò correndo per le vie, fino alla piazza di NotreDame-la-Grande. Angelica, pur essendo a Poitiers da oltre due anni, non conosceva affatto la città. Guardò con ammirazione la facciata della chiesa, lavorata come un
cofanetto indù, e fiancheggiata da guglie coniche. Si sarebbe detto che la pietra stessa fosse fiorita sotto il magico scalpello degli scultori. Il giovane Enrico disse allora alla compagna di restare ad attenderlo sotto l'atrio. Tornò poco dopo tutto lieto, con in mano una chiave. «Il sagrestano della chiesa mi ha affittato il pulpito per un po' di tempo.» «Il pulpito?» ripeté Angelica stupefatta. «Bah! Non è la prima volta che rende un simile servigio ai poveri innamorati. I confessionali sono meno cari, ma vi si sta più scomodi.» L'aveva ripresa per la vita e scendeva i gradini che portavano al santuario il cui vestibolo era un po' sotto il livello stradale. Angelica fu presa dalle tenebre e dalla frescura delle volte. Le chiese del Poitou sono le più oscure di Francia. Edifici solidi, poggiati su enormi colonne, dissimulano nella loro ombra antiche decorazioni murali le cui tinte vivaci appaiono a poco a poco agli occhi sorpresi. I due adolescenti avanzavano in silenzio. «Ho freddo», mormorò Angelica, stringendosi nel mantello. «Vieni, vieni», sussurrò il paggio. «Ti scalderò io.» Ma l'eccitazione della fanciulla stava svanendo. Quella chiesa, quel buio profondo rotto dalla luce tremolante dei ceri, e a un tratto quel ragazzo sconosciuto... Si sentiva impaurita.
Intanto il paggio, pratico dei luoghi, apriva la prima porta del monumentale pulpito, poi, salendo i gradini, entrava nella rotonda riservata alla predica. Un po' macchinalmente, Angelica lo seguiva, non rendendosi ancora ben conto di ciò che volesse. Tornare indietro di colpo le pareva ridicolo. E poi, il ricordo delle mani del ragazzo sopra i seni le dava un senso di languore. Non v'era altro, forse, che abbandonarsi di nuovo alle sue carezze per ritrovare l'istante di sogno, di azzurro senza nubi. Egli sedette sul pavimento coperto di un tappeto di velluto e, un po' brutalmente, l'attrasse a sé costringendola a distendersi. Angelica credette che egli avrebbe ricominciato a baciarla, ma il giovane le sollevò di scatto la gonna e voleva aprirle le gambe. Ella si raddrizzò e lo respinse. Lottarono un momento in quell'ombra impregnata d'incenso. «Perché fai la stupida?» brontolò il paggio mantenendola a terra. «Che cosa vuoi?» «Non lo so», balbettò Angelica. «Avrei voluto... Non so... un gran letto bianco con i merletti...» «Non sai niente. E sul duro ch'è più bello fare l'amore. Noi paggi, che dobbiamo sempre accontentarci di giacigli di fortuna, quando non si tratti della semplice terra dei boschetti, ti assicuro che sappiamo sbrogliarcela meglio di molti signori che si cacciano nei loro letti di piume e sudano molto per non ottenere gran che. Suvvia, sii carina», insistette ritrovando il suo tono carezzevole, «non ho tempo di dirti paroline dolci. Ho pagato l'affitto solo per mezz'ora.» Ella fu sul punto di cedere, poi si ribellò e si dibatté ancora, andando a urtare con la testa contro la balaustra di legno, che provocò sotto le volte una grande eco.
Rimasero immobili, senza saper che fare, un po' ansiosi. «Mi pare che venga qualcuno», mormorò Angelica. Il ragazzo confessò con aria afflitta: «Ho dimenticato di chiudere la porta del pulpito in fondo alle scale.» Poi tacquero, ascoltando i passi che si avvicinavano. Qualcuno salì i gradini del loro rifugio, e apparve sopra di loro la testa di un vecchio abate coperta da una calotta nera. «Che cosa fate qui, ragazzi miei?» egli chiese. Il paggio dalla lingua sciolta aveva già pronta la sua storia. «Volevo vedere mia sorella che sta in pensione a Poitiers, ma non sapevo dove incontrarla. I nostri genitori...» «Non parlate così forte nella casa di Dio», disse il prete. «Alzatevi e seguitemi.» Li condusse nella sacristia e sedette su uno sgabello. Quindi, con le mani appoggiate sulle ginocchia, guardò prima l'uno e poi l'altra. I capelli bianchi che uscivano dalla sua calotta ecclesiastica aureolavano un volto che, nonostante la vecchiaia, conservava un acceso colorito paesano. Aveva un grosso naso, occhietti vivaci e chiari, una corta barba. Enrico di Roguier sembrava tutt'a un tratto sgomento e taceva con una confusione sincera. «É il tuo amante?» chiese improvvisamente il prete ad Angelica, indicando col mento il ragazzo. Il rossore invase il volto dell'adolescente. «No! Io... io non ho voluto.» «Tanto meglio, figliola. Se tu possedessi una bella collana di perle, ti divertiresti a buttarla nel tuo cortile pieno di letame dove i maiali verrebbero ad arraffarle coi loro grugni sudici? Eh? Rispondimi, piccina! Lo faresti?» «No. Non lo farei.» «Non bisogna gettare le perle ai maiali. Non bisogna sciupare il tesoro della propria verginità che dev'essere riservato al matrimonio. E tu, sporco individuo», continuò con voce piana volgendosi al ragazzo, «dove sei andato a scovare l'idea sacrilega di portare la tua amica in una chiesa per disonorarla?» «Dove potevo portarla?» protestò il paggio, imbronciato. «Io dormo per terra nell'anticamera del re. Allora, il sagrestano di Notre-Dame-la-Grande ci affitta qualche volta il pulpito per trenta lire e i confessionali per venti. Ma è caro per la mia borsa, credetemi, signor Vincenzo.» «Lo credo facilmente», disse il signor Vincenzo, «ma è ancora più caro sulla bilancia in cui il diavolo e l'angelo pesano i peccati sul sagrato di Notre-Dame-laGrande.» Il suo volto, che sino allora aveva conservato un'espressione serena, s'era indurito. Egli tese la mano. «Dammi la chiave che ti è stata consegnata.» E allorché il giovane gliela ebbe data: «Verrai a confessarti, non è vero? Ti aspetterò domani sera in questa stessa chiesa. Ti assolverò. So troppo bene in che ambiente vivi, povero paggetto! Ed è meglio per te tentare di far l'uomo con una fanciulla della tua età che non servire da trastullo alle dame mature che ti trascinano nelle loro alcove per corromperti... Sì,
vedo che ti fai rosso. Ti vergogni dinanzi a lei, così fresca, così inesperta, dei tuoi amori sofisticati.» Il giovanetto abbassò il capo, la sua sicurezza era sparita. Alla fine balbettò: «Signor Vincenzo de' Paoli, ve ne prego, non dite nulla a Sua Maestà la regina. Se mi rimanda da mio padre, questi non saprà più come sistemarmi. Ho sette sorelle cui bisognerà dare la dote ed io sono il terzo cadetto della famiglia. Potrei ottenere l'insigne favore di entrare a servizio del re solo grazie al signor di Lorraine che mi... al quale io piacevo», terminò imbarazzato. «Egli acquistò per me tale carica. Se sarò cacciato, egli esigerà certamente che mio padre lo rimborsi, e ciò è impossibile.» Il vecchio ecclesiastico lo guardava gravemente. «Non farò il tuo nome. Ma è bene che, una volta di più, io ricordi alla regina le turpitudini da cui è circondata. Ahimè! Quella donna è pia e dedita alle opere di carità, ma che può fare contro tanto marciume? Non si possono mutare le anime con i decreti...» La porta della sacristia, aprendosi, lo interruppe. Un giovane dai lunghi capelli ricciuti, vestito di nero con ricercatezza, entrò. Il signor Vincenzo gli gettò uno sguardo severo. «Signor vicario, voglio credere che ignoriate il commercio cui si dedica il vostro sagrestano. Egli ha ricevuto trenta lire da questo giovin signore per dargli libertà di trovarsi con la sua amica nel pulpito della vostra chiesa. Sarebbe ora che sorvegliaste più attentamente i vostri chierici.» Per darsi un contegno, il vicario impiegò molto tempo a richiudere la porta. Quando si volse, la penombra della stanza nascondeva appena il suo imbarazzo. Siccome taceva, il signor Vincenzo riprese: «Osservo, inoltre, che portate parrucca e abito civile. Ciò è interdetto ai preti. Mi vedo obbligato a segnalare tali mancanze e commerci al beneficiario della vostra parrocchia.» L'abate dissimulò appena una scrollata di spalle. «Gliene importerà ben poco, signor Vincenzo. Il mio beneficiario è un canonico parigino. Acquistò la carica tre anni fa dal precedente curato che si ritirava nelle sue terre. Non è mai venuto qui e, siccome ha la canonica sull'abside di Notre-Dame di Parigi, scommetto che Notre-Dame-la-Grande di Poitiers deve sembrargli assai piccola.» «Ah! Ho paura», gridò bruscamente il signor Vincenzo, «che questo dannato traffico di cure e di parrocchie, vendute come asini e cavalli al mercato, porti la Chiesa alla sua perdita. E chi, in questo reame, viene oggi nominato vescovo? Gran signori guerrieri e libertini, che a volte non hanno neppur ricevuto gli ordini, ma che, abbastanza ricchi per acquistare un vescovato, si permettono di rivestire la tonaca e gli ornamenti dei ministri di Dio!... Ah! Che il Signore ci aiuti ad abbattere simili istituzioni!» Lieto di vedere che i fulmini si allontanavano da lui, il vicario azzardò: «La mia parrocchia non è trascurata. Io me ne occupo e le dedico ogni cura. Fateci il grande onore, signor Vincenzo, di assistere questa sera al nostro uffizio del Santissimo Sacramento. Vedrete la navata colma di fedeli. Poitiers è stata preservata dall'eresia dallo zelo dei suoi preti. Non è come Niort, Châtellerault, e...»
Il vecchio gli gettò uno sguardo torvo. «Sono stati i vizi dei preti la causa prima delle eresie 6 », gridò con voce dura. Si alzò in piedi e, prendendo i due adolescenti per le spalle, li condusse fuori. Nonostante l'età e la schiena ricurva, egli appariva vigoroso e pieno di vitalità. Cadeva la sera sulla piazza, dinanzi alla chiesa sulla cui facciata la pallida luce invernale animava i fiori di pietra. «Agnellini miei», disse il signor Vincenzo, «cari figlioli del buon Dio, voi avete tentato di gustare il verde frutto dell'amore. Ecco perché avete i denti allegati e i cuori colmi di tristezza. Lasciate dunque maturare al sole della vita ciò ch'è destinato in ogni tempo a sbocciare. Non ci si deve sviare quando si cerca l'amore, perché può allora accadere che non lo si trovi mai. Quale più crudele castigo dell'impazienza e della debolezza essere condannati per tutta la vita a mordere solo frutti amari e senza sapore! «Ora ve ne andrete ciascuno dalla vostra parte. Tu, ragazzo, al tuo servizio, che devi compiere con coscienza. Tu, figliola, alle tue suore e ai tuoi lavori. E, quando sarà l'alba, non dimenticate di pregare Iddio, padre di tutti noi.» Così li lasciò. Il suo sguardo seguì le due graziose figurine fino a che si separarono all'angolo della piazza. Angelica volse il capo solo quando ebbe raggiunto la porta del convento. Era scesa in lei una grande pace. Cosa curiosa, ella aveva dimenticato il paggio, e quel tentativo carnale abortito, deludente. Ma la sua spalla serbava il ricordo di una vecchia mano calorosa. “Il signor Vincenzo”, pensò, “è lui dunque il gran signor Vincenzo? Colui che il marchese del Plessis chiama ‘coscienza del regno’? Colui che costringe i nobili a servire i poveri? Colui che s'incontra ogni giorno in udienza particolare con la regina ed il re? Che aria semplice e dolce ha mai!” Prima di sollevare il battente, ella gettò ancora un'occhiata sulla città, che s'avvolgeva nel buio. «Signor Vincenzo, beneditemi», mormorò. Angelica accettò senza ribellarsi le punizioni che le furono inflitte per quella nuova evasione. A partire da quel giorno, il suo atteggiamento selvaggio si trasformò. Si mise con impegno a studiare, si mostrò allegra con le compagne. Sembrava si fosse adattata alla severità del chiostro. A settembre, sua sorella Ortensia lasciò il convento. Una zia la richiedeva a Niort quale damigella di compagnia. In realtà, la dama in questione, nobiluccia che aveva sposato un magistrato ricco ma di oscura origine, desiderava che suo figlio, unendosi con un grande nome, restituisse un po' di splendore ai loro scudi. Il figlio si era fatto offrire, proprio allora, dal padre, una carica di procuratore del re a Parigi, e occorreva che comparisse a suo agio fra i blasonati. L'occasione era, per entrambe le parti, insperata e il matrimonio fu subito celebrato.
Nello stesso momento, il giovane re Luigi XIV rientrava vincitore nella sua capitale. 6
Parole storiche di San Vincenzo de' Paoli.
La Francia usciva dissanguata da una guerra civile durante la quale sei eserciti si erano aggirati vorticosamente sul suo suolo, cercandosi e non sempre trovandosi: c'era stato quello del principe di Condé, quello del re comandato da Turenne che, a un tratto, aveva deciso di non tradire; quello di Gastone d'Orléans, alleato con gli inglesi e in lotta con i principi francesi; quello del duca di Beaufort in lotta con tutti ma che gli spagnoli aiutavano, quello del duca di Lorena che agiva per proprio conto, e infine l'esercito di Mazarino che, dalla Germania, aveva voluto inviare dei rinforzi alla regina. Si era stati sul punto di nominare la signorina di Montpensier generale d'armata, per l'iniziativa che aveva avuto di far sparare, un bel giorno, il cannone della Bastiglia sulle truppe del re suo cugino. Impresa che la Grande Demoiselle pagò a caro prezzo, perché spaventò molti principi d'Europa che aspiravano alla sua mano. «La principessa ha “ucciso” suo marito», aveva mormorato con il suo accento abruzzese il cardinale Mazarino, quando seppe la cosa. Quest'ultimo rimaneva il vincitore assoluto di una crisi atroce e folle. Meno di un anno più tardi, la sua tonaca rossa si rivide per i corridoi del Louvre, ma non si ebbero più “mazarinate”. Tutti erano ormai senza forze. Angelica compiva diciassette anni allorché apprese la morte della madre. Pregò a lungo nella cappella, ma non pianse. Non riusciva a persuadersi che non avrebbe più riveduto passare, avvolta nella veste grigia e nello scialle nero, quella sua figura su cui, in estate, si posava un vecchio cappello di paglia. Uffiziante del giardino e dell'orto, la signora di Sancé aveva forse prodigato più cure e carezze ai suoi peri e ai suoi cavoli che non ai suoi numerosi figli. La sua voce era stata dolce, ma troppo rare le sue parole. Ella aveva sostenuto e mantenuto in vita i figli con un lavoro di ogni ora, ma essi la vedevano raramente. Eppure, quando alla sera si fu coricata nello stretto lettino, Angelica pensò a un tratto che quella donna, silenziosa e che pareva sospirasse sempre in segreto, era stata proprio lei a portarla nel seno. Se ne sentì commossa e si passò adagio la mano sul giovane ventre, elastico e grassottello. Era mai possibile che si potesse portare un figlio vivo in uno spazio così limitato, così ben chiuso? E, questo, dieci volte di seguito e più ancora? E i figli se ne andavano in braccio alle nutrici, poi se ne andavano per le strade, poi se ne andavano nelle Americhe, o a braccetto di nuovi mariti, o ancora per morire. Rievocò, a un tratto, la strana esistenza di quella pallida bimba ch'era stata la sua sorellina Maddalena. Staccata dal seno materno, non aveva conosciuto che spaventi e angosce. Le storie della nutrice l'atterrivano. Ella, innocente, viveva in un mondo fantastico più orrendo di quello reale, e nessuno le dava aiuto. “Quando avrò dei figli”, disse fra sé Angelica, “non li lascerò morire lontano da me. Li amerò. Ah, come li amerò! E li bacerò a tutte le ore del giorno.”
In occasione della morte della madre, Angelica rivide i suoi fratelli Raimondo e Dionigi, che erano andati da lei ad annunciargliela. La fanciulla li ricevette in parlatorio, dietro le fredde grate che l'ordine claustrale delle Orsoline esigeva. Dionigi, ora, stava in collegio. Crescendo negli anni, somigliava sempre più a Giovannino, al punto ch'ella per un momento credette di rivedere il fratello maggiore
così come ne serbava il ricordo, con la sua uniforme nera di scolaro e il suo calamaio di corno alla cintura. Era tanto colpita da quella somiglianza che, dopo aver salutato l'ecclesiastico che accompagnava il fratello, non fece caso a lui, che dovette dire il proprio nome. «Sono Raimondo, Angelica. Non mi riconosci?» Ella ne rimase quasi intimidita. Nel suo convento, rigorista all'estremo in confronto a tanti altri, le suore consideravano i preti con servilismo pieno di devozione non scevro di una istintiva sottomissione femminile nei riguardi dell'uomo. Sentirsi dar del tu da uno di essi la turbava. Ed era lei, ora, che abbassava gli occhi mentre Raimondo le sorrideva. Con molto tatto, egli la mise al corrente della disgrazia che li colpiva e parlò molto semplicemente della sottomissione che si doveva al Signore. V'era qualche cosa di mutato nel suo lungo volto pallido, dagli occhi chiari e ardenti. Disse pure che il padre era rimasto assai deluso che la vocazione religiosa di lui, Raimondo, si fosse mantenuta intatta durante gli ultimi anni trascorsi presso i gesuiti. Partito Giovannino, speravano senza dubbio che Raimondo avrebbe ripreso il posto di erede del nome. Ma il giovane aveva rinunciato all'eredità in favore degli altri fratelli, e aveva pronunciato i voti. Anche Gontrano deludeva il povero barone Armando. Invece di andar militare, si era recato a Parigi a studiare non si sapeva bene che cosa. Bisognava dunque aspettare Dionigi, che aveva tredici anni, per vedere se il nome di Sancé avrebbe ritrovato lo splendore militare, com'era tradizione nelle famiglie di alto lignaggio. Mentre parlava, il padre gesuita guardava la sorella, quella fanciulla che, per udirlo, appoggiava contro le fredde sbarre il suo volto roseo, e i cui occhi strani assumevano nell'ombra del parlatorio la limpidezza dell'acqua marina. V'era nella sua voce come un sentimento di pietà quando le chiese: «E tu, Angelica, che farai?» Ella scosse la greve capigliatura dai riflessi dorati e rispose con indifferenza che non lo sapeva. Un anno più tardi, Angelica di Sancé fu nuovamente richiesta in parlatorio. Vi trovò il vecchio Guglielmo, appena più bianco di un tempo. Egli aveva appoggiato con cura alla parete della cella la sua inseparabile picca. Le disse che era venuto a prenderla per riportarla a Monteloup. Ella aveva ormai terminato la sua educazione. Era una fanciulla a modo, e le avevano trovato marito.
Parte seconda. MATRIMONIO A TOLOSA (1656-1660) 11 Il barone di Sancé guardava sua figlia Angelica con non dissimulata soddisfazione. «Quelle suore hanno fatto di te una fanciulla perfetta, mia piccola selvaggia.» «Oh, perfetta! Bisogna vedere alla prova», protestò Angelica ritrovando, per scuotere la sua ricciuta criniera, il gesto di un tempo. L'aria di Monteloup, con il suo sentore dolciastro proveniente dalle paludi, le dava un ritorno d'indipendenza. Ella si raddrizzava come, sotto un piacevole acquazzone, un fiore intristito. Ma la vanità paterna del barone Armando non sopportava di lasciarsi abbattere. «Comunque, sei ancora più bella di quanto sperassi. Il tuo colorito è, a mio avviso, più scuro di quel che esigerebbero gli occhi e i capelli. Ma il contrasto non è privo di fascino. Del resto, ho notato che la maggior parte dei miei figli aveva lo stesso colore di pelle. Temo che sia l'ultima sopravvivenza di una goccia di sangue arabo che gli abitanti del Poitou, in genere, hanno conservato. Hai veduto il tuo fratellino Gianmaria? Sembra davvero un moro!» Aggiunse d'un fiato: «Il conte di Peyrac di Morens ti ha chiesto in moglie.» «A me?» disse Angelica. «Ma io non lo conosco!» «Non ha importanza. Lo conosce Molines, ed è ciò che conta. Egli mi garantisce che non potevo pensare, per una delle mie figlie, a un matrimonio più lusinghiero.» Il barone Armando sfavillava di gioia. Con l'estremità del bastone, falciava alcune primule sulla scarpata, lungo il sentiero in cui passeggiava con la figlia in quel tiepido mattino d'aprile. Angelica era giunta a Monteloup la sera prima insieme a Guglielmo e al fratello Dionigi. Siccome si stupiva che il collegiale fosse in vacanza, questi le disse che aveva ottenuto un permesso per poter assistere al suo matrimonio. “Ma che cos'è questa storia di matrimonio?” pensò la fanciulla. Non prendeva ancora l'affare sul serio, ma ora il tono sicuro del barone cominciava a preoccuparla. Egli non era molto mutato in quegli ultimi anni. Pochi fili grigi si mescolavano ai suoi baffi e al pizzetto rado che portava alla moda del regno di Luigi XIII.
Angelica, che si aspettava di trovarlo abbattuto e incerto in seguito alla morte della moglie, quasi si stupiva nel vederlo, tutto sommato, piuttosto in gamba e sereno. Mentre sbucavano sul prato in pendìo che dominava le paludi prosciugate, ella tentò di sviare la conversazione che minacciava di creare un conflitto fra loro, dopo essersi appena ritrovati. «Mi avete scritto, babbo, che avevate subìto grosse perdite di bestiame per le requisizioni e le ruberie dell'esercito durante gli anni di quella terribile Fronda.» «Proprio così; Molines ed io abbiamo perduto quasi metà delle bestie e, senza di lui, sarei in prigione per debiti, dopo aver venduto tutte le nostre terre.» «Gli dovete ancora molto?» si preoccupò lei. «Purtroppo! Delle 40.000 lire che mi prestò da principio, non sono riuscito a restituirgliene, in cinque anni di accanito lavoro, che 5000; e Molines, con tutto ciò, le rifiutava affermando che me le aveva date come parte spettantemi nell'affare. Ho dovuto arrabbiarmi per fargliele accettare.» Angelica fece notare con semplicità che, dato che l'amministratore stesso pensava di non aver bisogno d'essere rimborsato, suo padre aveva fatto male a ostinarsi nella sua generosità: «Se quel Molines vi propose l'affare, è perché ci guadagnava. Non è tipo da far regali. Ma ha una certa onestà e, se non vuole la restituzione delle quarantamila lire, vuol dire che, secondo lui, il lavoro che avete fatto e i servigi che gli avete reso valgono tanto.» «É vero che il nostro piccolo commercio di muli e di piombo con la Spagna, esente da imposte fino all'oceano, va avanti alla meno peggio. E che, negli anni senza ruberie, quando si può vendere allo Stato il resto della produzione, si coprono le spese... É vero.» Gettò su Angelica uno sguardo perplesso. «Ma come parlate chiaro, figlia mia! Mi chiedo se un tale linguaggio, pratico e persino crudo, stia bene in bocca a una fanciulla appena uscita di convento!» Angelica si mise a ridere. «Sembra che, a Parigi, siano le donne a dirigere ogni cosa: la politica, la religione, le lettere, perfino le scienze. Le chiamano le “preziose”. Si riuniscono ogni giorno presso una di loro, insieme con uomini intelligenti, sapienti. La padrona di casa se ne sta distesa sul suo letto e gli invitati si ammucchiano nel corsello dell'alcova, e discutono. Mi chiedo se, quando andrò a Parigi, non creerò un corsello dove si parlerebbe di commercio e di affari.» «Che orrore!» esclamò il barone, sinceramente offeso. «Angelica, non saranno mica state le Orsoline di Poitiers a mettervi in capo simili idee?» «Esse dicevano che ero bravissima in calcolo e in ragionamento. Anche troppo... In compenso, deploravano assai di non aver potuto fare di me una devota esemplare... e ipocrita come mia sorella Ortensia. Speravano molto che sarebbe entrata nel loro ordine. Ma decisamente le attrattive del procuratore sono state maggiori.» «Figlia mia, non dovete esser gelosa, poiché quel Molines che giudicate così severamente vi ha per l'appunto trovato un marito, certamente assai superiore a quello di Ortensia.» La fanciulla batté un piede in terra spazientita.
«Quel Molines, in verità, esagera! A sentir voi, non si direbbe ch'io sia figlia sua e non vostra, visto che si preoccupa tanto del mio avvenire?» «Avreste davvero torto a lagnarvene, piccola mula», disse sorridendo suo padre. «Ascoltatemi un po'. Il conte Goffredo di Peyrac è uno dei discendenti degli antichi conti di Tolosa, i cui quarti di nobiltà risalgono più indietro nel tempo di quelli del nostro re Luigi XIV. Egli è, inoltre, la persona più ricca e influente della Linguadoca.» «É possibile, babbo, ma insomma io non posso sposare così un uomo che non conosco e che voi stesso non avete mai visto.» «Perché?» si stupì il barone. «Tutte le fanciulle nobili si sposano a questo modo. Non tocca a loro, né al caso, decidere di matrimoni che sono favorevoli alle loro famiglie, e di una sistemazione in cui esse impegnano non soltanto il loro avvenire, ma il loro nome.» «Ma lui è... è giovane?» chiese la fanciulla alquanto esitante. «Giovane? Giovane?» brontolò seccato il barone. «Ecco una domanda perfettamente inutile per una persona pratica. In verità, il vostro futuro sposo ha dodici anni più di voi. Ma la trentina, in un uomo, è l'età della forza e della seduzione. Numerosi figli possono esservi accordati dal cielo. Avrete un palazzo a Tolosa, castelli ad Albi e nel Béarn, equipaggi, toelette...» Il signor di Sancé s'interruppe, non sapendo che altro immaginare. «Per parte mia», concluse, «ritengo che la domanda di matrimonio di un uomo che nemmeno lui vi ha mai vista, sia una fortuna insperata, straordinaria...» Fecero qualche passo in silenzio. «Precisamente», mormorò Angelica, «giudico questa fortuna troppo straordinaria. Perché mai questo conte, che possiede tutto ciò che occorre per scegliersi in sposa una ricca ereditiera, viene a cercare in fondo al Poitou una ragazza senza dote?» «Senza dote?» ripeté Armando di Sancé illuminandosi in viso. «Torna con me al castello, Angelica, vèstiti e usciamo. Prenderemo i cavalli e ti mostrerò qualche cosa.» Nel cortile del maniero, un valletto, per ordine del barone, fece uscire dalla stalla due cavalli e li sellò rapidamente. Incuriosita, la fanciulla non faceva più domande. Mentre saliva in sella, diceva tra sé che, dopo tutto, era destinata a sposarsi, e che la maggior parte delle sue compagne si sarebbe sposata a quel modo, con pretendenti presentati dai genitori. Perché quel progetto la spingeva a ribellarsi a tal punto? L'uomo destinatole non era un vecchio. Sarebbe diventata ricca... Angelica si accorse di provare, a un tratto, una piacevole sensazione fisica e impiegò qualche istante prima di comprenderne il motivo. La mano del valletto che l'aveva aiutata a sedersi ad amazzone sul cavallo era scivolata sulla sua caviglia e l'accarezzava dolcemente, con un gesto che la migliore volontà del mondo non poteva considerare come disattenzione. Il barone era rientrato nel castello per cambiarsi gli stivali e per mettersi un collare pulito. Angelica fece un gesto nervoso, e il cavallo scartò di qualche passo. «Che cosa ti prende, tanghero?»
Si sentiva rossa e furiosa contro se stessa perché doveva confessare che un brivido delizioso l'aveva percorsa sotto quella breve carezza. Il valletto, un ercole dalle larghe spalle, raddrizzò il capo. Ciocche di capelli neri gli ricadevano sugli occhi scuri, che brillavano d'una familiare malizia. «Nicola!» esclamò Angelica, mentre il piacere di rivedere il suo antico compagno di giuochi e la confusione per il gesto che egli aveva osato lottavano in lei. «Ah! hai riconosciuto Nicola», disse il barone di Sancé, sopraggiungendo a grandi passi. «É il peggior tipo della contrada e nessuno riesce a domarlo. Non lo interessano né il lavoro, né i muli. Pigro e donnaiolo, ecco il tuo bel compagno di un tempo, Angelica!» Il giovane non pareva vergognarsi affatto degli apprezzamenti del padrone. Seguitava a guardare Angelica con un riso che metteva in mostra i denti candidi e con un ardire quasi insolente. La camicia aperta gli scopriva il petto massiccio e abbronzato. «Su, ragazzo, prendi un cavallo e seguici», disse il barone senza accorgersi di nulla. «Bene, padrone.» Le tre cavalcature oltrepassarono il ponte levatoio e si avviarono per il sentiero, sulla sinistra di Monteloup. «Dove andiamo, babbo?» «Alla vecchia cava di piombo.» «Quei forni crollati vicino alle terre dell'abbazia di Nieul...» «Proprio quelli.» Angelica si ricordò del chiostro con i monaci libertini, la pazza impresa della sua infanzia, quando voleva andare nelle Americhe, e le spiegazioni di frate Anselmo a proposito di piombo e argento, e dei lavori compiuti nella cava durante il Medio Evo. «Non capisco a che cosa quel pezzo di terra incolta...» «Quel pezzo di terra che non è più incolta e che ora si chiama Argentière, rappresenta semplicemente la tua dote. Ricorderai che Molines mi aveva chiesto di rinnovare il diritto di sfruttamento per la mia famiglia, e l'esenzione dalle imposte su un quarto della produzione. Ottenuto ciò, egli fece venire degli operai dalla Sassonia. Vedendo l'importanza che annetteva a quella terra sino allora abbandonata, gli dissi un giorno che sarebbe stata la tua dote. Credo che l'idea di un matrimonio con il conte di Peyrac nacque da quel momento nel suo fertile cervello, perché infatti questo signore di Tolosa vorrebbe comprarla. Non ho ben compreso quale sia il genere di transazione fra lui e Molines, ma credo che, più o meno, sia lui che riceve i muli e i metalli che noi spediamo per mare a destinazione spagnola. Ciò prova che vi sono più gentiluomini dediti al commercio di quanto si creda. Eppure, avrei detto che il conte di Peyrac avesse sufficienti proprietà e terre per non dover ricorrere a procedimenti plebei. Ma, forse, ciò lo distrae. Dicono che sia molto originale.» «Se ho ben capito», disse lentamente Angelica, «voi sapevate che desiderava la miniera, e avete fatto comprendere che bisognava, insieme, prender la figlia.» «Sotto quale strano aspetto presenti le cose, Angelica! Io penso che la decisione di darti in dote la miniera sia eccellente. Il desiderio di vedere le mie figlie bene accasate è stata la mia principale preoccupazione, e anche quella della tua povera
madre. Ora, nella nostra famiglia, le terre non si vendono; nonostante le peggiori difficoltà, siamo riusciti a conservare intatto il patrimonio; eppure, del Plessis più di una volta ha adocchiato i miei famosi terreni delle paludi prosciugate. Ma ciò che mi fa piacere è maritare mia figlia, non solo onorevolmente, ma riccamente. La terra non esce dalla famiglia. Non va a uno straniero ma a un nuovo ramo, a una nuova parentela.» Angelica procedeva un po' dietro al padre; questi, perciò, non poteva vederne l'espressione del viso. I bianchi dentini della fanciulla mordevano le labbra con una rabbia impotente. Ella poteva tanto più difficilmente spiegare al padre come il modo con cui era stata fatta quella domanda di matrimonio fosse per lei umiliante, in quanto egli era convinto di avere preparato molto abilmente la felicità della figlia. Costei cercò tuttavia di lottare ancora. «Se ben ricordo, non avevate dato in fitto la cava a Molines per dieci anni? Rimangono dunque altri quattro anni. Come si può dare in dote quella terra, se è affittata?» «Molines non solo è d'accordo, ma seguiterà a sfruttare la miniera per conto del signor di Peyrac. Del resto, il lavoro cominciò tre anni fa, come vedrai. Tra poco arriveremo.»
Dopo un'ora di trotto, giunsero sui luoghi. Angelica aveva creduto, un tempo, che quella nera cava e i suoi villaggi protestanti fossero situati in capo al mondo. Ma, ora, tutto era vicinissimo. Una strada ben tenuta confermava quella nuova impressione. Era stata costruita una piccola baracca per gli operai. Padre e figlia posero piede a terra, e Nicola si avvicinò per reggere le briglie dei cavalli. Quel luogo dall'aspetto desolato, di cui Angelica si ricordava così bene, era totalmente mutato. Un canale recava acqua corrente e azionava parecchie mole verticali di pietra, mentre grossi blocchi di roccia erano segati da magli a mano. Due forni rosseggiavano ed enormi mantici di pelle ne attivavano le fiamme. Nere montagne di carbone erano disposte accanto ai forni, mentre il rimanente terreno della miniera era occupato da mucchi di pietre. Alcuni operai gettavano con la pala la sabbia della roccia che usciva dalle mole in canaletti di legno dove scorreva l'acqua. Altri, per mezzo di zappe, rastrellavano a controcorrente l'interno dei canaletti. Un fabbricato abbastanza grande, costruito in disparte, mostrava porte con grate e sbarre di ferro, chiuse da grossi catenacci. Due uomini armati di moschetto ne vigilavano gli ingressi. «Lì è la riserva dei lingotti d'argento e di piombo», disse il barone. Con molta fierezza, aggiunse che uno dei prossimi giorni avrebbe chiesto a Molines di mostrarne ad Angelica il contenuto. L'accompagnò quindi a vedere la cava lì vicino. Immensi gradini, ciascuno alto quattro metri, formavano ora una specie di anfiteatro romano. Qua e là, scuri sotterranei si sprofondavano sotto la roccia, da cui si vedevano
sorgere carrettini trascinati da asini. «Ci sono qui dieci famiglie sassoni di minatori di mestiere, fonditori e cavatori. Sono stati loro e Molines a organizzare lo sfruttamento.» «E quanto rende all'anno, questo affare?» domandò Angelica. «Questa, in verità, è una domanda che non mi sono mai fatta...», confessò un po' confuso Armando di Sancé. «Capisci: Molines mi paga regolarmente l'affitto. Ha fatto lui tutte le spese d'installazione. Mattoni da forno sono venuti dall'Inghilterra e certo anche dalla Spagna, portati da carovane di contrabbando dalla Linguadoca.» «Probabilmente, non è vero, per mezzo di colui che mi destinate come marito?» «Può darsi. Sembra che si occupi di mille cose diverse. É un sapiente, ed è stato lui a disegnare il piano di quella macchina a vapore.» Il barone condusse la figlia all'ingresso di una delle basse gallerie della montagna e le mostrò una specie di enorme caldaia di ferro sotto cui era acceso il fuoco, e donde uscivano due grossi tubi avvolti da piccole bende e che andavano a sprofondare in un pozzo. Un getto d'acqua ne sprizzava periodicamente alla superficie del suolo. «É una delle prime macchine a vapore costruite sino ad ora nel mondo. Serve a pompare l'acqua sotterranea delle miniere. L'invenzione è stata messa a punto dal conte di Peyrac durante uno dei suoi soggiorni in Inghilterra. Come vedi, se vorrai diventare una preziosa», avrai un marito tanto sapiente e di spirito aperto per quanto io sono ignorante e poco svelto», aggiunse facendo un'aria triste. «To', buongiorno, Fritz Hauer.» Uno degli operai, che stava accanto alla macchina, si tolse il berretto inchinandosi profondamente. Aveva un volto reso azzurrino dalla polvere di roccia incrostata nella pelle durante la sua lunga carriera di minatore. A una delle mani gli mancavano due dita. Tarchiato e gobbo, le sue braccia sembravano lunghissime. Ciocche di capelli gli ricadevano sugli occhi piccoli e luminosi. «Trovo che somigli un po' a Vulcano, dio degli inferi», disse il signor di Sancé. «A quanto sembra, non v'è nessuno che conosca le viscere della terra meglio di questo operaio sassone. Forse è per questo che ha quello strano aspetto. Tutti questi problemi di miniere non mi sono mai parsi molto chiari, e non so in quale misura non vi si mescoli un po' di magia. Si dice che Hauer conosca un procedimento segreto per trasformare il piombo in oro. Ecco una cosa davvero straordinaria, se fosse vera. Comunque, egli lavora da molti anni con il conte di Peyrac, che lo ha mandato nel Poitou per organizzare Argentière.» “Il conte di Peyrac, sempre il conte di Peyrac!” pensò Angelica infastidita. Poi disse a voce alta: «Forse per questo è così ricco, quel conte di Peyrac. Trasforma in oro il piombo che gli manda quel Fritz Hauer. Da qui a trasformarmi in ranocchia...» «In verità mi addolorate, figlia mia. Perché questo tono beffardo? Si direbbe ch'io cerchi di rendervi infelice. Non v'è nulla, in questo progetto, che possa giustificare la vostra diffidenza. Mi aspettavo grida di gioia, e non odo che sarcasmi.» «É vero, babbo, perdonatemi», disse Angelica confusa e desolata per la delusione ch'ella leggeva sull'onesto volto del nobiluomo. «Le suore hanno spesso detto ch'io non ero come le altre; e che avevo reazioni sconcertanti. Non vi nascondo
che, invece di rallegrarmi, questa domanda di matrimonio mi è estremamente spiacevole. Lasciatemi il tempo di riflettere, di abituarmi...» Mentre parlavano, erano ritornati vicino ai cavalli. Angelica montò rapidamente in sella per evitare l'aiuto troppo sollecito di Nicola, ma non poté evitare che la bruna mano del valletto la sfiorasse passandole le redini. “É una cosa troppo seccante”, disse fra sé contrariata. “Bisogna che lo metta a posto severamente.” I sentieri eran fioriti di biancospino. Quel delizioso profumo, ricordandole i giorni dell'infanzia, calmò un poco il nervosismo della fanciulla. «Babbo», disse a un tratto, «mi par di capire che, nei riguardi del conte di Peyrac, vorreste ch'io prendessi una rapida decisione. Mi è venuta un'idea: consentite che vada a trovare Molines? Vorrei avere con lui un serio colloquio.» Il barone alzò lo sguardo al sole per rendersi conto dell'ora. «Sarà presto mezzogiorno. Ma penso che per Molines sarà un piacere accoglierti alla sua tavola. Va', figlia mia. Nicola ti accompagnerà.» Angelica fu sul punto di rifiutare quella scorta, ma non volle aver l'aria di dare la minima importanza a un contadino e, dopo aver rivolto al padre un gioioso cenno di saluto, si slanciò al galoppo. Il valletto, che cavalcava un mulo, si lasciò presto distanziare. Una mezz'ora dopo, Angelica, passando dinanzi al cancello del castello del Plessis, si chinava per tentar di scoprire, in fondo al viale di castagni, la bianca apparizione. “Filippo”, pensò. E si stupì che quel nome le fosse tornato alla memoria quasi per accrescere la sua malinconia. Ma i del Plessis erano ancora a Parigi. Per quanto ex-partigiano del signor di Condé, il marchese era riuscito a rientrare nelle grazie della regina e del cardinale Mazarino, mentre il signor principe, il vincitore di Rocroi, uno dei più gloriosi generali di Francia, se ne andava vergognosamente nelle Fiandre, al servizio del re di Spagna. Angelica si chiese se la scomparsa del cofanetto con il veleno avesse avuto una parte nel destino del signor di Condé. In ogni caso, né il cardinale Mazarino, né il re e il suo giovane fratello erano stati avvelenati. E si diceva che il signor Fouquet, l'anima dell'antico complotto contro Sua Maestà, fosse stato nominato sovrintendente alle finanze. Era divertente pensare che una oscura fanciulla campagnola aveva forse mutato il corso della storia. Avrebbe dovuto, un giorno, accertarsi se il cofanetto fosse ancora nel suo nascondiglio. E del paggio ch'ella aveva accusato, che ne avevano fatto? Bah! Cose senza importanza. Angelica udì il galoppo del mulo di Nicola che si avvicinava. Riprese perciò la corsa e poco dopo giunse alla casa dell'amministratore.
Terminato il pranzo, Molines fece entrare Angelica nel piccolo studio dove pochi anni prima aveva ricevuto il padre di lei. Era lì che l'affare dei muli aveva avuto inizio, e la fanciulla si ricordò a un tratto della risposta ambigua che l'amministratore aveva dato alla sua domanda di bambina pratica:
«E a me che darete?» «Vi daremo un marito.» Pensava già forse a un matrimonio con quel bizzarro conte di Tolosa? Non era da escludersi, perché Molines era un uomo la cui mente guardava lontano e intrecciava mille progetti. In verità, l'intendente del vicino castello non era antipatico. Il suo atteggiamento piuttosto accorto era inerente alla sua condizione di subalterno. Un subalterno che sapeva di essere più intelligente dei padroni. Per la famiglia del povero castellano vicino, il suo intervento era stato una vera provvidenza, ma Angelica sapeva che solo l'interesse personale dell'intenditore era all'origine delle sue generosità e del suo aiuto. Ciò le piaceva, togliendole lo scrupolo di credersi sua debitrice e di dovergli una umiliante riconoscenza. Ella, tuttavia, si meravigliava della reale simpatia che le ispirava quell'uomo plebeo e calcolatore. “La ragione è perché sta creando qualche cosa di nuovo e forse di solido”, disse fra sé a un tratto. Ma, per la verità, ella non voleva accettare d'essere mescolata ai progetti dell'amministratore allo stesso titolo di un'asina o di un lingotto di piombo. «Signor Molines», disse schiettamente, «mio padre mi ha parlato con insistenza di un matrimonio che voi avreste organizzato per me con un certo conte di Peyrac. Data la grandissima influenza che avete conquistato su mio padre in questi ultimi anni, sono certa che anche voi attribuiate una grande importanza a questo matrimonio, il che significa ch'io sono destinata a rappresentare una parte nelle vostre combinazioni commerciali. Vorrei sapere qual è questa parte.» Un freddo sorriso stirò le labbra sottili del suo interlocutore. «Ringrazio il cielo di ritrovarvi come promettevate di diventare quando vi chiamavano nel paese la piccola fata delle paludi. Infatti, ho promesso al signor conte di Peyrac una donna bella e intelligente.» «Avete azzardato molto. Avrei potuto divenire brutta e stupida, e ciò avrebbe nociuto al vostro mestiere di mediatore!» «Io non m'impegno mai su una presunzione. A varie riprese, amicizie che ho a Poitiers mi hanno dato notizie di voi, ed io stesso vi ho veduta l'anno scorso, durante una processione.» «Sicché mi facevate sorvegliare», esclamò Angelica furiosa, «come un popone che matura sotto una campana!» Al tempo stesso, l'immagine le parve così divertente che scoppiò a ridere e la sua collera si spense. In fondo, preferiva sapere come stavano le cose piuttosto che lasciarsi prendere in trappola come un'oca bianca. «Se volessi parlare il linguaggio del vostro ceto», disse gravemente Molines, «potrei trincerarmi dietro considerazioni tradizionali: una fanciulla, ancor molto giovane, non ha bisogno di sapere perché i suoi genitori le scelgano questo o quel marito. Gli affari di piombo e d'argento, di commercio e di dogana, non sono di competenza delle donne, soprattutto delle nobili dame... Gli affari di allevamento ancor meno. Ma io credo di conoscervi, Angelica, e non vi parlerò così.» Ella non si sentì offesa dal tono più familiare. «Perché credete di potermi parlare in modo diverso che a mio padre?» «É difficile a spiegarsi, signorina. Io non sono un filosofo e i miei studi sono
consistiti soprattutto in esperienze di lavoro. Perdonatemi se sono franco. Ma vi dirò una cosa. Le persone del vostro mondo non potranno mai comprendere che ciò che mi anima è il lavoro.» «Mi sembra che i contadini lavorino molto di più.» «Essi faticano, e non è la stessa cosa. Sono stupidi, ignari e incoscienti del loro interesse, tal quale i nobili che, loro, non producono nulla. Questi ultimi sono esseri inutili, salvo che nel comando di guerre distruggitrici. Vostro padre, almeno, comincia a fare qualcosa, ma, scusatemi ancora, signorina, non capirà mai il lavoro!» «Pensate che non riuscirà?» si sgomentò la fanciulla. «Eppure, credevo che il suo affare andasse bene, e la prova ne era che voi vi ci interessavate.» «La prova sarebbe soprattutto che noi producessimo varie migliaia di muli all'anno, e la seconda e più importante prova sarebbe che questo rendesse un guadagno considerevole e in continuo aumento: ecco il segno di un affare che va bene.» «E non arriveremo un giorno proprio a questo?» «No, perché un allevamento, anche se importante e con riserve di denaro dietro di sé per i momenti difficili, malattie o guerre, rimane pur sempre un allevamento. É, come la coltura della terra, una cosa assai lunga e che rende pochissimo. E poi, le terre e il bestiame non hanno mai arricchito davvero gli uomini: ricordate l'esempio delle immense mandrie dei pastori della Bibbia, la cui esistenza era pertanto così frugale.» «Se questo è il vostro convincimento, non capisco, signor Molines, perché vi siate lanciato, voi così prudente, in un simile affare, lungo e che rende pochissimo.» «Ma è per questo, signorina, che vostro padre ed io avremo bisogno di voi.» «Non posso mica aiutarvi a far figliare le vostre asine due volte invece di una!» «Potete aiutarci a raddoppiare la rendita.» «Non capisco proprio in qual modo.» «Afferrerete facilmente la mia idea. Ciò che conta in un affare che renda è di andare svelti, ma, siccome non possiamo mutare le leggi di Dio, siamo costretti a sfruttare la debolezza di mente degli uomini. I muli rappresentano, perciò, la facciata dell'affare. Essi coprono le spese correnti, ci mettono in buoni rapporti con l'Intendenza militare, alla quale vendiamo cuoio e bestie, e permettono soprattutto di circolare liberamente, con esenzioni da dogane e pedaggi, nonché di organizzare carovane con pesanti carichi. Spediamo così, con un contingente di muli, piombo e argento in Inghilterra. Al ritorno, le bestie portano sacchi di scorie nere che noi chiamiamo “fondente”, prodotto necessario ai lavori della miniera, ma che, in realtà, sono oro e argento provenienti dalla Spagna in guerra attraverso Londra.» «Non vi seguo più, Molines. Perché mandate argento a Londra per riportarne poi di là?» «Ne riporto una quantità doppia o tripla. Quanto all'oro, il conte Goffredo di Peyrac possiede in Linguadoca un giacimento aurifero... Quando avrà la miniera di Argentière, le operazioni di cambio ch'io farò per lui su questi due metalli preziosi non potranno più apparire affatto sospette, dato che oro e argento provengono ufficialmente da due miniere che gli appartengono. É in ciò che consiste il nostro vero affare. Perché, capite, l'oro e l'argento che si possono sfruttare in Francia
rappresentano, ve lo ripeto, cosa da poco; in compenso, senza suscitare i sospetti del fisco, del dazio e della dogana, noi possiamo far entrare una gran quantità d'oro e d'argento spagnoli. I lingotti ch'io presento ai cambisti non parlano. Non possono confessare che, invece di provenire da Argentière o dalla Linguadoca, giungono dalla Spagna attraverso Londra. Così, mentre procuriamo un beneficio legale al Tesoro del re, possiamo passare, con la scusa di lavori minerari, una ingente quantità di metalli preziosi senza pagare mano d'opera e diritti doganali, e senza rovinarci con installazioni troppo appariscenti, dato che nessuno può sapere quanto produciamo qui, e ci si deve fidare delle cifre da noi dichiarate.» «Ma se questo traffico viene scoperto, non c'è il rischio che andiate a finire in galera?» «Noi non fabbrichiamo monete false, né abbiamo intenzione di fabbricarne in avvenire. Al contrario, siamo noi ad alimentare regolarmente il Tesoro reale con oro garantito e con argento in lingotti ch'esso verifica e stampiglia e con cui batterà moneta. Solo coperti da queste minime estrazioni nazionali, potremo, quando le miniere d'Argentière e della Linguadoca saranno riunite sotto uno stesso nome, ricavare un rapido beneficio dai metalli preziosi della Spagna. Questo paese rigurgita d'oro e d'argento provenienti dalle Americhe; ha perduto il gusto d'ogni lavoro e vive solo con lo scambio delle sue materie prime con altre nazioni. Le banche di Londra gli servono d'intermediarie. La Spagna è al tempo stesso il più ricco e il più miserabile paese del mondo. Quanto alla Francia, questi rapporti commerciali, che una cattiva gestione economica impedisce siano compiuti alla luce del sole, l'arricchiranno quasi contro la sua volontà. E prima arricchiremo noi, perché le somme investite renderanno più in fretta e in quantità maggiore che non il mercato di un'asina che è gravida per dieci mesi e può al massimo rendere il dieci per cento del capitale investito.» Angelica si sentiva suo malgrado molto interessata da quelle ingegnose combinazioni. «E del piombo, che pensate di farne? Serve solo per mascherare o può essere utilizzato commercialmente?» «Il piombo rende molto. Occorre per la guerra e la caccia. In questi ultimi anni è aumentato di valore, da quando la regina madre ha chiamato alcuni ingegneri fiorentini per completare installazioni di sale da bagno in tutti i suoi palazzi, come già aveva fatto sua suocera, Caterina de' Medici. Forse avete visto il modello di una di tali sale nel castello del Plessis, con la sua vasca romana e le tubature di piombo.» «E il marchese vostro padrone è al corrente di tanti progetti?» «No», fece Molines con un sorriso indulgente. «Non vi capirebbe nulla e il meno che potrebbe fare sarebbe di togliermi la carica di intendente delle sue terre carica che, del resto, io occupo con sua piena soddisfazione.» «E mio padre, che cosa sa dei vostri traffici d'oro e d'argento?» «Ho pensato che il fatto di sapere che metalli spagnoli sarebbero passati sulle sue terre gli sarebbe dispiaciuto. Non è preferibile di lasciargli credere che i piccoli benefici che gli consentono di vivere sono frutto di un lavoro onesto e tradizionale?» Angelica si sentì offesa dall'ironia un po' sdegnosa che si avvertiva nella voce dell'amministratore. Disse in tono asciutto;
«E perché ho il diritto, io, che mi sveliate le vostre combinazioni che puzzano di galera a dieci miglia?» «Non si tratta di galera e, se pure sorgessero difficoltà con qualche impiegato amministrativo, pochi scudi sistemerebbero le cose: Mazarino e Fouquet non sono forse personaggi che hanno maggior credito dei principi del sangue e dello stesso re? Ciò è perché sono possessori di un immenso patrimonio. Quanto a voi, so che vi ribellerete finché non avrete saputo quel che si vuole da voi. Il problema, in fondo, è semplice. Il conte di Peyrac ha bisogno di Argentière. E vostro padre non gli cederà la terra se non accasando una delle figlie. Sapete quanto sia testardo. Egli non venderà mai neppure una minima parte del suo patrimonio. D'altra parte, il conte di Peyrac, desiderando sposarsi con una fanciulla di nobili natali, ha trovato la combinazione vantaggiosa.» «E se io rifiutassi di condividere il suo parere?» «Non credo desideriate che vostro padre conosca la prigione per debiti», disse lentamente l'amministratore. «Basta poco per farvi ripiombare in una miseria maggiore di quella che avete conosciuto un tempo. E, per voi stessa, quale sarebbe l'avvenire? Invecchiereste nella povertà come le vostre zie... Per i vostri fratelli e per la vostra sorellina, sarebbe l'impossibilità di educarsi e, più tardi, la partenza per l'estero...» Accorgendosi che gli occhi della fanciulla scintillavano di collera, aggiunse con tono insinuante: «Ma perché costringermi ad abbozzare un così nero quadro? Mi son figurato ch'eravate di una tempra diversa da quella dei nobili che si accontentano del loro blasone per tutta ricchezza, e vivono delle elemosine del re... Non si esce dalle difficoltà senza afferrarle a piene mani e senza pagare un po' di persona. Il che significa che bisogna agire. Ecco perché non vi ho nascosto nulla, perché voi sappiate in quale senso dirigere il vostro sforzo.» Nessuna parola poteva colpire più direttamente Angelica. Mai alcuno le si era rivolto con un linguaggio più vicino al suo carattere. Si drizzò come sotto una sferzata. Rivedeva Monteloup in rovina, i suoi giovani fratelli e le sorelle avvoltolati nel letame, sua madre dalle dita arrossate dal freddo e suo padre seduto al tavolino intento a scrivere una supplica al re, che non aveva mai risposto... L'amministratore li aveva tolti dalla miseria. Ora bisognava pagare. «Siamo d'accordo, signor Molines», disse con voce incolore, «sposerò il conte di Peyrac.»
12 Se ne tornava ora per i sentieri profumati, ma non vedeva nulla, tutta presa dai propri pensieri. Nicola la seguiva sul mulo. Ma ella non si curava più del giovane servitore, pur cercando di non precisare il vago spavento che continuava ad agitarsi in lei. La sua decisione era presa. Meglio era, dunque, guardare innanzi e respingere senza pietà tutto ciò che avrebbe potuto farla vacillare nell'esecuzione di quel programma così ben tracciato. A un tratto, una voce maschia la chiamò: «Signorina! Signorina Angelica!» Ella tirò istintivamente le redini, e il cavallo che, da qualche minuto, procedeva lentamente, si fermò. Volgendosi, Angelica vide che Nicola era sceso dalla cavalcatura e le faceva segno perché si fermasse. «Che accade?» ella chiese. Con aria di mistero, egli le sussurrò: «Smontate, voglio mostrarvi una cosa.» Ella obbedì e il valletto, dopo aver legato le briglie delle due bestie al tronco di una giovane betulla, la precedette in un boschetto. La fanciulla lo seguì. La luce primaverile, attraverso le foglie appena nate, aveva il colore dell'angelica. Un fringuello fischiava senza tregua nei macchioni. Nicola camminava a testa bassa, guardandosi intorno attentamente. S'inginocchiò infine, poi, rialzandosi, tese nelle palme aperte alcuni frutti rossi e profumati. «Le prime fragole», mormorò mentre un malizioso sorriso gli accendeva una fiammella negli occhi marroni. «Oh, Nicola! Non dovevate», protestò Angelica. Ma l'emozione le fece spuntare sulle ciglia improvvise lagrime perché, in quel gesto, era tutto il fascino della sua infanzia quello che lui le riportava, il fascino di Monteloup, delle corse nei boschi, dei sogni inebriati di biancospino, la frescura dei canali dove la conduceva Valentino, dei ruscelli dove pescavano i gamberi, Monteloup che non somigliava a nessun altro luogo della terra perché vi si fondevano il mistero dolciastro delle paludi, l'acre mistero delle foreste... «Ti ricordi», mormorò egli, «come ti chiamavamo: “Marchesa degli Angeli...”.» «Sei uno sciocco», disse con voce rotta, «non dovresti, Nicola...» Ma già, ritrovando un gesto familiare, prendeva dalle mani tese i piccoli frutti deliziosi. Nicola le stava accanto come nel passato, ma il ragazzetto magro e svelto dal volto di scoiattolo la dominava ora di tutta la testa e, attraverso la sua camicia aperta, ella respirava il rustico odore di quella carne d'uomo, abbronzata e coperta di pelo nero. Vedeva il petto possente respirare lento, e n'era turbata al punto che non osava più risollevare il capo, troppo sicura dello sguardo audace e ardente che avrebbe incontrato. Seguitò a mangiare le fragole, assorbendosi in quel piacere cui, in verità, accordava un valore senza limiti.
“Un'ultima volta Monteloup!” diceva fra sé. “Io lo assapori un'ultima volta! Tutto ciò che per me v'è di meglio è contenuto in quelle mani, le brune mani di Nicola!” Quand'ebbe finito, chiuse bruscamente gli occhi e appoggiò la testa al tronco di un albero. «Ascolta, Nicola...» «Ti ascolto», rispose lui. Ed ella sentì sulla gota il suo caldo respiro, che sapeva di sidro. Era così vicino, quasi aderente a lei, da avvolgerla tutta nel raggio della sua massiccia presenza. Eppure non la toccava e all'improvviso, guardandolo, ella si accorse che aveva messo le mani dietro la schiena per resistere alla tentazione di afferrarla, di stringerla. Ricevette l'urto dello sguardo temibile, privo d'ogni sorriso, oscurato da una preghiera che non lasciava adito al minimo equivoco. Angelica non aveva mai captato così la forza di attrazione del maschio, mai udito più esplicita confessione sui desideri che la sua bellezza ispirava. Il capriccio del paggio di Poitiers non era stato che un giuoco, l'aspra esperienza di due giovani animali che provano i loro artigli. Questa era un'altra cosa, possente e dura, antica come il mondo, come la terra, come l'uragano. La pura fanciulla ne rimase terrorizzata. Più sperimentata, non avrebbe potuto resistere a quel richiamo. La carne le palpitava, le gambe le tremavano, ma ella indietreggiò come la cerbiatta dinanzi al cacciatore. L'ignoto di ciò che l'attendeva e la rattenuta violenza del contadino la spaventarono. «Non guardarmi a quel modo, Nicola», disse tentando di rinfrancare la voce, «voglio dirti...» «So che cosa vuoi dirmi», la interruppe lui con voce sorda. «Lo leggo nei tuoi occhi e nel modo con cui raddrizzi il capo. Tu sei la signorina di Sancé ed io sono un servitore... Ed ora, è finita per noi di guardarci anche in faccia. Io debbo restare a testa bassa! Bene, signorina; già, signorina... I tuoi occhi passano sopra di me, senza vedermi... Non più di un ciocco, meno di un cane. Ci sono marchese che, nei loro castelli, si fanno lavare dai loro servitori, perché non ha importanza se si mostrano nude dinanzi a un servitore... Un lacché non è un uomo, è un mobile... un mobile per servire. É così ora che mi tratti?» «Taci, Nicola.» «Va bene, tacerò.» Respirava violentemente, a bocca chiusa come una bestia malata. «Ti voglio dire un'ultima cosa prima di tacere», riprese poi, «ed è che nella mia vita c'eri soltanto tu. L'ho capito quando sei partita, e per molti giorni ho vissuto come pazzo. É vero: sono come qualche cosa che non è al suo posto e che seguita ad andare qua e là senza rendersene conto. Il mio solo posto eri tu. Quando sei tornata, non ho potuto aspettare per sapere se eri ancora mia, o se ti avevo perduto. Sì, sono ardito e senza soggezione. Sì, se tu avessi voluto, ti avrei presa qui, sul muschio, in questo nostro boschetto, su questa terra di Monteloup che appartiene a noi, solo a noi due, come un tempo!» egli gridò. Gli uccelli spaventati s'eran zittiti fra i rami. «Tu sei pazzo, mio povero Nicola», disse dolcemente Angelica.
«Questo no», fece l'uomo impallidendo sotto l'abbronzatura. Ella scosse i lunghi capelli che portava ancora sciolti sulle spalle, e fu presa da un accesso d'ira. «Come vuoi che ti parli?» esclamò parlando in dialetto. «Lo voglia o no, io non sono libera di ascoltare le frasi galanti di un pastore. Sposerò fra breve il conte di Peyrac.» «Il conte di Peyrac!» ripeté stupito Nicola. Indietreggiò di alcuni passi e la contemplò in silenzio. «Allora è vero quello che raccontavano in paese?» sussurrò. «Il conte di Peyrac. Voi!... Voi!... Voi!... sposerete quell'uomo?» «Sì.» Non voleva far domande; aveva detto di sì, e bastava. Avrebbe detto: sì, ciecamente, sino alla fine. Prese per il sentiero che la riportava sulla strada e il suo frustino si abbatteva nervosamente sulle tenere gemme lungo il ciglio. Il cavallo e il mulo pascolavano insieme sul limite del bosco. Nicola li slegò. Ad occhi bassi, aiutò Angelica a sedersi all'amazzone sulla sella. Fu lei che, all'improvviso, trattenne la mano del valletto. «Nicola... dimmi, lo conosci?» Egli alzò gli occhi verso di lei ed ella vide brillarvi una malvagia ironia. «Sì... l'ho visto... É venuto al paese molte volte. É così brutto che le ragazze, quando passa sul suo cavallo nero, fuggono via. E zoppo come il Maledetto, cattivo come lui... Dicono che, nel suo castello di Tolosa, attiri le donne con filtri e strani canti... Quelle che lo seguono, nessuno le rivede più, oppure impazziscono... Ah! Ah! Ah! davvero un bello sposo, signorina di Sancé!...» «Hai detto ch'è zoppo?» ripeté Angelica, le cui mani s'eran fatte di ghiaccio. «Sì, zoppo! Zoppo! Domandate a tutti, vi risponderanno: è il Grande Zoppo della Linguadoca.» Si mise a ridere e andò verso il mulo imitando un accentuato zoppicamento. Angelica sferzò il cavallo, lanciandolo a galoppo sfrenato. Attraverso le siepi di biancospino, fuggiva la voce ghignante che ripeteva: «Zoppo! Zoppo!»
Era giunta nel cortile di Monteloup allorché un cavaliere, dietro di lei, attraversò il ponte levatoio. Dal suo volto sudato e polveroso e dalle brache rinforzate di cuoio, ella vide subito che si trattava di un messaggero. Nessuno, lì per lì, capiva che cosa egli volesse, perché il suo accento era così strano che occorse un certo tempo per accorgersi che parlava francese. Egli consegnò al signor di Sancé, accorso nel frattempo, un plico che trasse da una scatoletta di ferro. «Mio Dio, è il signor d'Andijos che arriva domani!» esclamò agitatissimo il barone. «E chi è costui?» chiese Angelica. «Un amico del conte. Il signor d'Andijos deve sposarti...» «Come, anche lui?»
«...per procura, Angelica. Lascia che termini le frasi, figlia mia. Per tutti i diavoli, come diceva tuo nonno, mi domando che cosa ti abbiano insegnato le suore se non ti hanno neppure inculcato il rispetto che mi devi. Il conte di Peyrac invia il suo migliore amico per rappresentarlo nella prima cerimonia nuziale, che avrà luogo qui, nella cappella di Monteloup. La seconda benedizione si farà a Tolosa. A quella, purtroppo, la tua famiglia non potrà assistere. Il marchese d'Andijos ti scorterà durante il viaggio fino in Linguadoca. Gente svelta, quella del Sud. Sapevo ch'erano per via, ma non li aspettavo così presto.» «Vedo ch'è giunto per me il tempo d'accettare», mormorò Angelica amaramente. L'indomani, poco prima di mezzogiorno, il cortile si riempì del cigolìo delle ruote delle carrozze, dei nitriti dei cavalli, di grida sonore e di volubili discorsi. Il meridione era arrivato a Monteloup. Il marchese d'Andijos, bruno, con baffi a “punta di pugnale”, lo sguardo di fuoco, indossava una “rhingrave” di seta giallo e arancione che nascondeva con grazia la sua pinguedine di gaudente. Egli presentò i suoi compagni, testimoni al matrimonio: il conte di Carbon-Dorgerac e il giovane barone Cerbalaud. Furono accompagnati in sala da pranzo dove, su tavole montate su trespoli, la famiglia di Sancé aveva disposto le sue migliori ricchezze: miele degli alveari, frutta, latte rappreso, oche arrostite, vino della collina di Chaillé. Gli ospiti morivano dalla sete. Ma, dopo aver bevuto, il marchese d'Andijos si volse e sputò con precauzione sul pavimento. «Per San Paolino, barone, i vostri vini del Poitou mi ripugnano! Quello che mi avete versato è un vero e proprio allappadenti. Olà, guasconi, portate i barili!» La sua schietta semplicità, il suo accento cadenzato, il suo fiato che sapeva d'aglio, lungi dallo spiacere al barone di Sancé, gli piacquero moltissimo. Egli ricordò un tempo in cui anche a corte si usavano fra signori maniere semplici e franche. Lui stesso aveva veduto a Poitiers il re Luigi XIII, offeso dall'indecente scollatura di una damigella, raccogliere in bocca un bicchiere pieno d'acqua e vino e spruzzarlo attraverso la tavola in quella “pila del diavolo”. Mentre la povera fanciulla innaffiata si alzava per andare a svenire in una stanza vicina, padre Vassaut, quel dannato gesuita della corte, aveva detto con molta serietà che a suo avviso quel seno valeva bene un sorso 7 . «La sappiamo a memoria, questa storiella», sussurrò la giovane Maria Agnese dando una gomitata ad Angelica. Costei non aveva neppure la forza di sorridere. Dal giorno innanzi, s'era data da fare con la zia Pulcheria e la nutrice perché il castello assumesse un aspetto presentabile che si sentiva a pezzi. Meglio così: ciò le impediva di pensare. Si era messa il vestito più elegante, fatto a Poitiers, anch'esso però grigio con tuttavia alcuni piccoli nodi azzurri sul corpetto: l'alzavola grigia fra i signori splendenti di sete. Non sapeva che il suo caldo viso, solido e fine come un frutto appena maturo, emergente da un gran collo di pizzo rigido, era da solo un abbagliante ornamento. Lo sguardo dei tre signori tornava di continuo verso di lei con un'ammirazione che il loro temperamento non riusciva a dissimulare. Essi cominciarono a rivolgerle complimenti ch'ella capiva solo a mezzo, a causa del loro rapido parlare, di 7
Giuoco di parole intraducibile. In francese gorge (seno) e gorgée (sorso). (N.d.T.)
quell'inverosimile accento che faceva rimbalzare la parola più comune in un fascio di sole. “Dovrò dunque sentir parlare così per tutta la vita?” disse fra sé annoiata. Nel frattempo, i servitori rotolavano nella sala alcuni grandi barili che furono issati su trespoli e ai quali fu subito messa mano. Appena fatto il buco, vi ficcarono un rubinetto di legno, ma il primo getto lasciava a terra grandi pozze dalle trasparenze rosee e dorate. «Saint-Emilion», diceva il conte di Carbon-Dorgerac ch'era di Bordeaux, «Sauternes, Médoc...» Abituati all'aspro vinello di mele e al succo di prugne, gli abitanti del castello di Monteloup assaggiavano con circospezione i differenti vini annunciati. Ma ben presto Dionigi e i suoi tre più giovani fratelli divennero troppo allegri. L'odore saliva al cervello. Angelica si sentì invadere da un senso di benessere. Vedeva suo padre ridere, aprirsi il giustacuore all'antica senza preoccuparsi della biancheria usata. E già i signori del Sud si slacciavano le corte giubbe senza maniche; uno di essi si toglieva la parrucca per asciugarsi la fronte, rimettendosela poi un po' di traverso.
Maria Agnese, aggrappata al braccio della sorella maggiore, le gridava all'orecchio con voce acuta: «Angelica, ma vieni dunque! Angelica, vieni a vedere di sopra, nella tua stanza, che meraviglie!...» Si lasciò trascinare. Nell'ampia camera dove aveva dormito per tanto tempo con Ortensia e Maddalena, erano state portate grandi casse di ferro e di cuoio duro, che si chiamavano allora “guardaroba”. Alcuni valletti e domestiche le avevano aperte e ne disponevano il contenuto sul pavimento e su qualche poltrona zoppa. Angelica vide, sopra il letto monumentale, un abito di taffetà verde dello stesso colore dei suoi occhi. Un merletto di straordinaria finezza ne guarniva il corsetto balenato, e lo sparato della guaina era interamente ricamato con diamanti e smeraldi raccolti a forma di fiori. Lo stesso disegno a fiori era riprodotto nel velluto nero del manto. Fermagli di diamante lo tenevano sollevato ai lati della gonna. «Il vostro abito di nozze», disse il marchese di Valérac, che aveva seguito la fanciulla. «Il conte di Peyrac ha cercato a lungo, fra le stoffe fatte venire da Lione, un colore che si accompagnasse a quello dei vostri occhi.» «Ma se non li aveva mai visti!» protestò lei. «Glieli ha descritti con cura il signor Molines: il mare, ha detto, come lo si vede dalla riva allorquando il sole si tuffa nelle sue profondità fino alla sabbia.» «Caspita, quel Molines!» esclamò il barone. «Non vorrete farmi credere che sia anche poeta. Ho il sospetto, marchese, che voi ricamiate sulla verità per vedere sorridere gli occhi di una giovane sposa, lusingata di una simile attenzione da parte di suo marito.» «E questo! E questo! Guarda, Angelica!» ripeteva Maria Agnese, il cui musetto di furbo topolino brillava per l'eccitazione. Assieme ai due fratelli Alberto e Gian Maria, ella sollevava la biancheria di lusso, apriva scatole in cui dormivano nastri e guarnizioni di pizzo, oppure ventagli di
pergamena e di piume. V'era, fra l'altro, un delizioso servizio da viaggio in velluto verde foderato di damasco bianco, ferrato d'argento dorato e composto di due spazzole, d'un astuccio d'oro con tre pettini, di due specchietti italiani, di un astuccio per gli spilli, di due cuffie e di una camicia da notte di batista, di un piccolo candeliere d'avorio e di un sacchetto in raso verde con sei candele di cera vergine. V'erano, inoltre, abiti più semplici ma assai eleganti, cinture, guanti, un orologino d'oro e un'infinità di cose di cui Angelica non conosceva neppure l'uso, come una scatoletta di madreperla contenente una scelta di nei in velluto nero su taffetà gommato. «É molto elegante», spiegò il conte di Carbon, «fissare questo piccolo neo su qualche punto del viso.» «Io non ho la pelle abbastanza bianca perché sia necessario metterla in evidenza», diss'ella richiudendo la scatola. Felice, esitava sull'orlo di una gioia infantile, di un'estasi di donna che, possedendo il gusto istintivo dell'abbigliamento e della bellezza, ne acquista coscienza per la prima volta. «E anche di questo», chiese il marchese d'Andijos, «la vostra pelle rifiuta di condividere lo splendore?» Aprì uno scrigno piatto, e nella stanza piena di serventi, di lacché e di garzoni di fattoria si udì un grido, seguito da mormorii di ammirazione. Sul raso bianco brillava una triplice fila di perle dalla luce purissima, lievemente dorata. Nulla poteva essere più adatto a una giovane sposa. Un paio di orecchini completava l'assieme, oltre a due file di perle più piccole, che Angelica prese lì per lì per braccialetti. «Sono ornamenti per i capelli», spiegò il marchese d'Andijos che, nonostante la pinguedine e i modi da uomo d'arme, sembrava aggiornatissimo sui particolari dell'eleganza. «Con questi, tenete sollevati i capelli. Non saprei, in verità, indicarvi con precisione in quale maniera.» «Vi pettinerò io, signora», intervenne una cameriera alta e robusta, avvicinandosi. Più giovane, somigliava stranamente alla nutrice Fantina Lozier. La stessa fiamma saracena, venuta dalle lontane invasioni, aveva loro bruciato la pelle. Già si lanciavano l'un l'altra sguardi ostili con occhio egualmente scuro. «É Margherita, sorella di latte del conte di Peyrac. Questa donna ha servito le grandi dame di Tolosa e ha seguito a lungo i suoi padroni a Parigi. Ella sarà d'ora in poi la vostra cameriera.» La servente sollevava con abilità la pesante capigliatura dorata, imprigionandola nell'intreccio delle perle. Quindi, con mano decisa, staccava dagli orecchi di Angelica le modeste pietre che il barone di Sancé aveva donato alla figlia per la sua prima comunione, e agganciava i sontuosi gioielli. Fu poi la volta della collana. «Ah, bisognerebbe scoprire di più il petto», esclamò il giovane barone Cerbalaud, che, con i suoi occhi neri come more di bosco dopo la pioggia, cercava di rendersi conto delle graziose forme della fanciulla. Il marchese d'Andijos gli diede senza cerimonie un colpo sulla testa con il suo bastone.
Un paggio si precipitò, recando uno specchio. Angelica si vide nel suo nuovo splendore. Tutto in lei sembrava brillare, perfino la sua pelle liscia, appena soffusa di rosa sulle gote. Un improvviso piacere la pervase, salendole alle labbra, che si aprirono in un affascinante sorriso. “Sono bella”, disse fra sé. Ma già tutto si confondeva, e dalle profondità dello specchio le pareva di udir salire l'orrendo ghigno: «Zoppo! Zoppo! E più brutto del diavolo. Ah, che bello sposo avrete, signorina di Sancé!»
Il matrimonio per procura ebbe luogo una settimana più tardi, e i festeggiamenti durarono tre giorni. Si ballava in tutti i villaggi all'intorno e, la sera delle nozze, a Monteloup furono accesi petardi e fuochi d'artificio. Nel cortile del castello e fin nei prati vicini, v'erano grandi tavole guarnite di barili di vino e di sidro e di ogni specie di carne e di frutta che i contadini si recavano a mangiare a turno, divertendosi un mondo con quei rumorosi guasconi e tolosani di cui i tamburi baschi, i liuti, i violini, e le voci d'usignolo facevano scomparire i suonatori di violino e di flauto del villaggio. La sera che precedette la partenza della sposa per la lontana Linguadoca, fu dato un gran pranzo nel cortile del castello, che riunì i notabili e i castellani dei dintorni e al quale Molines partecipò con la moglie e la figlia.
Nell'ampia camera dove tante volte, la notte, Angelica aveva ascoltato gemere le grandi banderuole del vecchio castello, la nutrice stava aiutandola a vestirsi. Dopo aver spazzolato con amorosa cura i suoi stupendi capelli, le allacciò il corpetto color turchese ornato di gioielli. «Come sei bella, oh, come sei bella, bimba mia!» sospirava con aria afflitta. «Hai il petto così saldo che non c'è bisogno di sostenerlo con tutti questi corpetti. Stai attenta che i pettorali non ti schiaccino i seni. Lasciali liberi.» «Non sono troppo scollata, nutrice?» «Una gran dama deve mostrare i seni. Come sei bella! E per chi mai, gran Dio!» sospirò con voce soffocata. Angelica notò che il viso della vecchia era rigato di lagrime. «Non piangere, nutrice, altrimenti non avrò più coraggio.» «Ti ce ne vorrà, purtroppo, figlia mia!... China la testa, che ti aggancio la collana. Per le perle dei capelli, lasceremo fare alla Margherita; io non ci raccapezzo nulla con questi attorcigliamenti!... Ah, tesoro mio, che crepacuore! Quando penso che quella gran giumenta che puzza d'aglio e di diavolo a cento metri di distanza sarà lei a lavarti e a raderti la sera delle nozze! Ah, che crepacuore!» Si pose in ginocchio per sistemare lo strascico del mantello. Angelica l'udì singhiozzare. Non aveva pensato a un così gran dolore, e le si decuplicò l'ansia che le pungeva il cuore.
Ancora per terra, Fantina Lozier mormorò: «Perdonami, figlia mia, se non ho saputo difenderti, io che ti ho nutrita col mio latte. Ma, da quando ho sentito parlare di quell'uomo, non riesco più a chiuder occhio.» «Che si dice di lui?» La nutrice si raddrizzò; già ritrovava il suo sguardo notturno e fisso di profetessa. «Di oro! Pieno di oro il suo castello...» «Non è peccato possedere dell'oro, nutrice. Guarda tutti i regali che mi ha fatto. Ne sono felice.» «Non t'ingannare, figlia mia. Quest'oro è maledetto. Egli lo crea con le sue storte, con i suoi filtri. Uno dei paggi, quello che suona così bene il tamburello, Enrico, mi ha detto che nel suo palazzo di Tolosa, un palazzo rosso come il sangue, c'è un intero edificio dove nessuno può entrare. Quello che monta la guardia all'ingresso è un uomo tutto nero, nero come il fondo dei nostri calderoni. Un giorno che il guardiano si era assentato, Enrico ha visto attraverso una porta socchiusa un salone pieno di globi di vetro, di storte e di tubi. Tutto fischiava, bolliva! E a un tratto, ecco una fiammata e un rumore di tuono, che fece scappar via Enrico.» «Quel ragazzo è pieno di fantasia, come tutti i meridionali.» «Ahimè! C'era nella sua voce un accento di verità e di terrore che non inganna. É un uomo che ha cercato potenza e ricchezza a prezzo del Maligno, quel conte di Peyrac. Un Gilles de Retz che non è neppure del Poitou!» «Non dire sciocchezze», fece duramente Angelica. «Nessuno ha mai raccontato che mangia i bambini.» «Attira le donne», sussurrò la nutrice, «con strani allettamenti. Nel suo palazzo fanno delle orge. L'arcivescovo di Tolosa, a quanto sembra, lo ha denunciato pubblicamente dal pulpito, gridando allo scandalo e al demonio. E quel pagano di valletto che, ieri, mi raccontava di questo in cucina ridendo come un matto, diceva che, in seguito al sermone, il conte di Peyrac ha ordinato ai suoi uomini di bastonare i paggi e i portantini dell'arcivescovo, e che sono avvenute battaglie fin nella cattedrale. Credi che sarebbero possibili, da noi, simili abominazioni? E tutto l'oro che possiede, dove va a prenderlo? I suoi genitori non gli lasciarono che debiti e terre ipotecate. É un signore che non fa la corte né al re né ai grandi. Si dice che, quando il signor d'Orléans, governatore della Linguadoca, andò a Tolosa, il conte rifiutò di piegare il ginocchio dinanzi a lui col pretesto che ciò lo affaticava e, siccome il signor d'Orléans gli faceva notare senza arrabbiarsi che avrebbe potuto ottenergli grandi favori dall'alto, il conte gli rispose...» La vecchia Fantina si interruppe e si diede ad appuntare spilli qua e là nella gonna, che pure era bene aggiustata. «Che cosa rispose?» «Che... che se avesse avuto il braccio lungo ciò non gli avrebbe fatto la gamba meno corta. Una simile insolenza!» Angelica si guardava nello specchietto rotondo del servizio da viaggio, passandosi il dito sulle sopracciglia depilate con cura dalla cameriera Margherita. «É dunque vero quel che raccontano, ch'è zoppo?» chiese, sforzandosi di dare
alla voce un tono indifferente. «É vero purtroppo, tesoro mio! Ah, Gesù! tu così bella!» «Taci, nutrice. Mi stanchi coi tuoi sospiri. Vai a chiamare Margherita perché mi pettini, e non parlare più del conte di Peyrac come hai fatto ora. Non dimenticare che, ormai, è mio marito.» Nel cortile, scesa la notte, avevano acceso le torce. I suonatori, raggruppati sulla scalinata in un'orchestrina di due viole, di un liuto, di un flauto e di un oboe, accompagnavano in sordina le chiassose conversazioni. Angelica, a un tratto, chiese che andassero a chiamare il suonatore del villaggio che faceva ballare i nobilucci di campagna nel grande prato ai piedi del castello. Il suo orecchio non era abituato a quest'altra musica un po' manierata, adatta alla corte e alle riunioni di signori in vesti ricamate. Voleva udire, una volta ancora, le dolci cornamuse del Poitou e il suono ardito del flauto che scandiva il sordo picchiare degli zoccoli dei contadini. Il cielo era stellato, ma un lieve vapore metteva intorno alla luna un alone dorato. I piatti e i buoni vini sfilavano di continuo. Un paniere di panini tondi ancora caldi fu posto dinanzi ad Angelica e vi rimase fino a che la fanciulla alzò gli occhi su colui che lo presentava. Ella vide un uomo alto, vestito con un abito grigio chiaro come quello che portano i mugnai. Poiché la farina gli costava poco, i suoi capelli erano incipriati non meno di quelli dei castellani. Il suo collare e le guarnizioni delle brache erano di biancheria fine. «Ecco Valentino, il figlio del mugnaio, che viene a portare il suo omaggio alla sposa», gridò il barone Armando. «Valentino», disse sorridendo Angelica, «non ti avevo ancora visto da quando son tornata al paese. Seguiti ad andare in barca per i canali a cogliere l'angelica per i monaci di Nieul?» Il giovane, senza rispondere, fece un profondo inchino. Attese ch'ella si fosse servita e poi, riprendendo il cesto, offrì in giro i suoi panini, perdendosi tra la folla e nel buio. “Se tutta questa gente tacesse, udrei a quest'ora i rospi delle paludi”, pensava Angelica. “Se, fra qualche anno, tornerò qui, forse non li udrò più, perché le acque avranno indietreggiato dinanzi ai lavori.”
«Assaggiate questo, dovete proprio farlo», diceva al suo orecchio il marchese d'Andijos, presentandole un piatto di aspetto poco attraente, ma che aveva un buon odore. «É ragù di tartufi verdi, signora, venuti freschi freschi dal Périgord. Dovete sapere che il tartufo è divino e magico. Non v'è cibo più ricercato per disporre una giovane sposa a ricevere gli omaggi di suo marito. Il tartufo riscalda l'intestino, mette il sangue in movimento e rende la pelle facilmente sensibile alle carezze.» «Non vedo allora la necessità di mangiarne questa sera», rispose freddamente Angelica respingendo il pentolino d'argento. «Dato che non incontrerò mio marito prima di alcune settimane...» «Ma bisogna che vi ci prepariate, signora. Credetemi, il tartufo è il miglior amico dell'imeneo. Dopo il suo delizioso regime, sarete tutta tenerezze la sera degli
sponsali.» «Nel mio paese», disse Angelica guardandolo in faccia con un lieve sorriso, «le oche vengono ingozzate di finocchio, prima del Natale, perché le loro carni siano più saporite per la sera in cui le si mangerà arrosto!...» Il marchese, mezzo ubriaco, scoppiò a ridere. «Ah, come vorrei essere colui che si papperà questa piccola oca che voi siete!» esclamò chinandosi tanto dappresso che con i baffi le sfiorò la gota. «Dio mi danni!» aggiunse raddrizzandosi con una mano sul cuore, «se mi lascio andare a dirvi altre parole sconvenienti. Ahimè! Non è tutta colpa mia, perché sono stato ingannato. Quando il mio amico Goffredo di Peyrac mi chiese di adempiere presso di voi al compito e alle formalità di un marito senza averne i deliziosi diritti, gli feci giurare ch'eravate gobba e guercia, ma debbo accorgermi che ancora una volta egli non si preoccupava di evitarmi tormenti. Non volete davvero assaggiare questi tartufi?» «No, grazie.» «Li mangerò io, allora», fece lui con una smorfia avvilita che, in un'altra occasione, avrebbe assai divertito la fanciulla, «sebbene sia un falso marito, e celibe per giunta. Ma spero che la natura mi sarà propizia guidando verso di me, in questa notte di festa, una dama o una fanciulla meno crudeli di voi.» Ella fece uno sforzo per sorridere di quelle follie. Le torce e le fiaccole spandevano un calore insopportabile. Non c'era un filo d'aria. Tutti cantavano, bevevano. Gravava l'odore dei vini e delle salse. Angelica si passò un dito sulle tempie e si accorse ch'erano madide. “Che cosa ho?” si chiese. “Mi pare che di colpo debba prorompere, gridar loro parole di odio. Perché? Papà è felice... Mi sposa quasi principescamente. Le zie sono fuor di sé dalla gioia. Il conte di Peyrac ha inviato loro grandi collane di pietre dei Pirenei, e ogni sorta di ninnoli. I miei fratelli saranno educati convenientemente. E io, perché mi lamento? Ci hanno sempre messo in guardia, in convento, contro le fantasticherie. Uno sposo ricco e titolato non è forse lo scopo principale di una gentildonna?” Si sentiva pervasa da un tremito simile a quello dei cavalli allo stremo delle forze. Eppure, non era stanca. Si trattava di una reazione nervosa, di una ribellione fisica di tutto l'essere che, inaspettatamente, cedeva. “É forse la paura? Ancora quelle storie della nutrice, che gode a vedere dappertutto il diavolo. Perché dovrei crederci? É sempre stata esagerata. Né Molines, né mio padre mi hanno nascosto che il conte di Peyrac è un sapiente. Di qui a immaginare chi sa quali orge demoniache, ci corre. Se la nutrice credesse davvero ch'io possa cadere nelle mani di un simile essere, non mi lascerebbe partire. No, non ho paura di questo, non ci credo.” Accanto a lei, il marchese d'Andijos, col tovagliolo annodato al collo, sollevava con una mano un tartufo gocciolante di sugo e, con l'altra, un bicchiere di vino di Bordeaux, declamando con voce leggermente rauca in cui il suo accento si perdeva di tanto in tanto in un singulto di soddisfazione: «O tartufo divino, delizia degli amanti! Versami nelle vene il gioioso ardore della passione! Accarezzerò la mia amica fino all'alba!...» “É questo», pensò a un tratto Angelica, «è questo che io rifiuto, che io non potrò
mai sopportare!” Ebbe la visione di un uomo orrendo e deforme, di cui sarebbe stata preda. Nel silenzio delle notti di quella lontana Linguadoca, lo sconosciuto avrebbe avuto su di lei ogni diritto. Inutilmente ella avrebbe chiamato, gridato, supplicato. Nessuno sarebbe comparso. Egli l'aveva comprata; era stata venduta. E così sarebbe stato fino al termine della sua esistenza! “Ecco quel che tutti pensano e che nessuno dice, che forse si sussurra in cucina, tra valletti e serventi. Ecco perché v'è come una pietà per me negli occhi dei suonatori del Sud, di quel grazioso Enrico dai capelli ricciuti, che batte così abilmente il suo tamburello. Ma l'ipocrisia è più grande della pietà. Una sola persona sacrificata e tanta gente felice! L'oro e il vino scorrono a fiotti. Forse che ha valore ciò che accadrà fra il loro padrone e me? Ah, lo giuro, mai egli poserà le sue mani su me!...” Si alzò in piedi, pervasa da una tremenda collera, e lo sforzo che faceva per dominarsi la rendeva quasi malata. Nel baccano, non si fece caso alla sua partenza. Scorgendo il maggiordomo che suo padre aveva assunto a Niort, un certo Clemente Tonnel, gli chiese dove fosse il valletto Nicola. «É in granaio a riempire le bottiglie, signora.» La giovane donna proseguì oltre, camminando come un automa. Non sapeva perché cercasse Nicola, ma voleva vederlo. Dopo la scena nel boschetto, egli non aveva più sollevato gli occhi verso di lei, limitandosi a compiere il suo servizio di lacché con una coscienza mista a indifferenza. Lo trovò nella canova, dove stava versando il vino dei barili nelle brocche e nelle bottiglie che gli portavano di continuo i valletti e i paggi. Indossava una livrea gialla a bottoni d'oro con galloni sui risvolti, presa in affitto per l'occasione dal signor di Sancé. Lungi dall'apparire goffo in quell'abbigliamento, il giovane contadino non mancava di un certo tono. Si raddrizzò vedendo Angelica e fece un profondo saluto nello stile che il maggiordomo Clemente aveva insegnato per quarantott'ore a tutte le persone di servizio della casa. «Ti cercavo, Nicola.» «Signora contessa...» Ella gettò uno sguardo ai servitorelli che aspettavano con in mano i loro recipienti. «Metti un ragazzo al tuo posto per un momento e seguimi.» Fuori, si passò ancora la mano sulla fronte. No, non sapeva assolutamente quel che avrebbe fatto, ma l'esaltazione si spandeva in lei e la invadeva con l'odore inebriante delle pozze di vino sparse al suolo. Spinse la porta di un vicino granaio. Seguitava a fluttuare anche lì il greve incenso del vino, perché, per una parte della notte, vi avevano riempito le bottiglie. I barili, ora, eran vuoti, e il granaio deserto. Faceva buio e caldo. Angelica posò le mani sul forte petto di Nicola. E, di colpo, gli si abbatté contro, scossa da secchi singhiozzi. «Nicola», gemeva, «compagno mio, dimmi che non è vero. Non mi condurranno via, non mi daranno a lui. Ho paura, Nicola. Stringimi, stringimi forte!» «Signora contessa...» «Taci!» gridò lei. «Ah! non essere cattivo anche tu!» E aggiunse con una voce rauca e ansimante che non le parve nemmeno sua:
«Stringimi! Stringimi forte! É tutto ciò che ti chiedo.» Egli parve esitare, poi le sue braccia muscolose di lavoratore si chiusero sulla vita sottile. Il granaio era buio. Il calore della paglia ammucchiata emanava una specie di fremente tensione simile a quella d'un uragano. Angelica, folle, inebriata, roteava la fronte contro la spalla di Nicola. Si sentiva nuovamente circondata dal desiderio selvaggio dell'uomo, ma questa volta vi si abbandonava. «Ah! tu sei buono», sospirava. «Tu sei il mio amico. Vorrei che tu mi amassi... Una sola volta. Una volta sola voglio essere amata da un uomo giovane e bello. Capisci?» Annodò le braccia intorno alla forte nuca, costringendolo a piegare il suo volto verso di lei. Egli aveva bevuto e il suo fiato aveva l'aroma del vino ardente. Sospirò: «Marchesa degli Angeli...» «Amami», sussurrò lei, con le labbra contro le sue labbra. «Una volta sola. Dopo partirò... Non vuoi? Forse non mi ami più?» Egli rispose con un grido sordo sollevandola fra le braccia, barcollò nell'ombra e andò ad abbattersi con lei sul mucchio di paglia. Angelica si sentiva al tempo stesso stranamente lucida e come distaccata da ogni umana contingenza. Penetrava in un altro mondo; fluttuava al di sopra di ciò che sino allora era stata la sua esistenza. Stordita dalla totale oscurità del granaio, dal calore e dall'odore di chiuso, dalla novità di quelle carezze brutali e abili insieme, ella cercava soprattutto di dominare il suo pudore, che si ribellava malgrado lei. Voleva, con tutte le sue forze, che fosse fatto alla svelta, per tema di essere sorpresa. Andava ripetendosi a denti stretti che non sarebbe stato l'altro a prenderla per primo. Si sarebbe, così, vendicata, sarebbe stata la risposta gettata all'oro, che credeva di poter comprare ogni cosa. Intenta a seguire le ingiunzioni dell'uomo il cui respiro si faceva precipitoso, si lasciava fare, accettava tutto da lui, si apriva docilmente sotto il peso di quel corpo che ora si appesantiva...
A un tratto, una lanterna illuminò il granaio e, dalla porta, si levò il grido di una donna inorridita. Nicola, con un balzo, s'era gettato di fianco. Angelica vide una forma massiccia precipitarsi sul valletto. Riconobbe il vecchio Guglielmo e gli si aggrappò, mentre le passava accanto, con tutta la sua forza. Svelto, Nicola aveva già raggiunto le putrelle del tetto, aveva aperto un abbaino. Lo si udì saltare fuori e fuggire. La donna sulla soglia seguitava a urlare. Era la zia Giovanna con una bottiglia in mano, l'altra mano posata sull'ampio seno palpitante. Angelica lasciò Guglielmo per precipitarsi su lei, cacciandole nelle braccia le unghie come artigli. «Volete tacere, vecchia pazza?... Ci tenete dunque che scoppi uno scandalo, che il marchese d'Andijos faccia bagaglio con regali e promesse? Avreste finito, allora, con le collane e con le comodità. Tacete o vi ficco il pugno in quella bocca sdentata!»
Dai granai vicini, contadini e domestici si avvicinarono, curiosi. Angelica vide giungere la nutrice; poi suo padre che, nonostante le copiose libagioni e l'andatura incerta, continuava a vegliare, da buon padrone di casa, sull'ordine del festino. «Siete voi, Giovanna, che gridate come se il diavolo vi facesse il solletico?» «Solletico!» gridò la zitella perdendo il fiato. «Oh, Armando, mi sento morire!» «E perché, mia cara?» «Ero venuta qui a prendere un po' di vino. E, in questo granaio, ho visto... ho visto...» «Zia Giovanna ha veduto una bestia», interruppe Angelica. «Non so se si tratta di un serpente o di una faina, ma, in verità, zia, non c'è da spaventarsi in questo modo. Fareste meglio a ritornare a tavola, vi farò portare il vino.» «Sì, sì, benissimo», approvò il barone con voce impastoiata. «Una volta tanto, Giovanna, che cercate di rendervi utile, mettete in subbuglio mezzo mondo!» «Non ha cercato di rendersi utile», pensò Angelica. «Mi ha spiato, mi ha seguito. Da quando vive al castello, seduta dinanzi al suo lavoro come un ragno in mezzo alla sua tela, ci conosce tutti meglio di noi stessi, ci intuisce, indovina i nostri pensieri. Mi ha seguito. E ha chiesto al vecchio Guglielmo di reggerle la lanterna.» Le sue unghie erano ancora infisse nelle braccia gelatinose della grassa donna. «Mi avete ben compreso», le sussurrò; «non una parola a nessuno prima ch'io parta, senza di che, ve lo giuro, vi avvelenerò con certe erbe speciali che io conosco.» Zia Giovanna emise un ultimo sospiro e gli occhi le si rovesciarono. Ma l'allusione alle collane, più che non la minaccia, l'aveva domata. Stringendo le labbra in silenzio, seguì il fratello. Una mano rude trattenne Angelica. Con gesti duri, il vecchio Guglielmo le tolse dai capelli e dalla veste i fili di paglia che v'erano rimasti attaccati. Ella sollevò lo sguardo verso di lui, cercando di decifrare l'espressione del suo volto barbuto. «Guglielmo», mormorò, «vorrei che tu capissi...» «Non ho bisogno di capire, signora», rispose lui in tedesco con un'alterigia che la sferzò. «Quel che ho veduto mi basta.» Tese il pugno verso l'ombra bofonchiando un'ingiuria. Ella raddrizzò il capo e tornò sul luogo del festino. Sedendosi, cercò con gli occhi il marchese d'Andijos e lo scorse sotto lo sgabello da cui era caduto, che dormiva profondamente. La tavola sembrava il piattello dei ceri in una chiesa quando stanno per consumarsi. Una parte degli invitati era andata via o dormiva. Ma, nei prati, si ballava ancora. Irrigidita, Angelica continuava a presiedere senza sorridere il suo banchetto nuziale. L'irritazione per quell'atto incompiuto, per quella vendetta che s'era ripromessa e che non era riuscita a compiere, la faceva soffrire fino alla punta delle unghie. Collera e vergogna si disputavano nel suo cuore. Aveva perduto il vecchio Guglielmo. Monteloup la respingeva. Non le restava, ormai, che raggiungere il suo sposo zoppo.
13 L'indomani, quattro carrozze e due pesanti carri prendevano la via di Niort. Angelica stentava a credere che quello spiegamento di cavalli e di postiglioni, di grida e di cigolii, avesse luogo in suo onore. Tanta polvere sollevata per la signorina di Sancé, che non aveva mai avuto altra scorta che un vecchio mercenario armato di picca, era impensabile. I valletti, le cameriere e i musici si ammucchiavano nei grandi carri assieme ai bagagli. Nel sole della via, tra gli orti fioriti, si vedeva passare quel corteo di volti bruni. Risate, canzoni e pizzicar di corde lasciavano dietro di loro, nell'odore dello sterco, un gusto di spensieratezza. I figli del Sud tornavano verso il loro meridione scintillante, profumato d'aglio e di vino. Solo il maggiordomo Clemente Tonnel ostentava, in quella allegra brigata, un'aria dignitosa. Assunto in soprannumero per la settimana delle nozze, aveva chiesto che lo riportassero a Niort, evitandogli così di pagare una scorta. Ma, la sera della prima tappa, egli si recò da Angelica offrendosi di restare al suo servizio come maggiordomo oppure come cameriere. Spiegò che aveva servito a Parigi presso alcuni signori, e fece nomi. Però, tornato a Niort, suo luogo d'origine, per sistemare l'eredità di suo padre macellaio, il suo ultimo posto era stato occupato da un servitore intrigante. Cercava quindi una casa onesta e di una certa nobiltà per esercitare di nuovo le sue mansioni. Discreto e sveglio come appariva, Clemente s'era conquistato le buone grazie della servente Margherita, la quale affermò che un nuovo cameriere così bene educato sarebbe stato accolto con il più gran piacere al palazzo di Tolosa, dove il conte si circondava di persone troppo diverse e di tutte le razze, che non facevano un servizio conveniente. Tutti bighellonavano al sole, e il più pigro era di certo l'intendente incaricato di comandarli, di nome Alfonso. Angelica prese dunque con sé il maggiordomo Clemente. Questi la intimidiva senza che lei potesse spiegarsene il motivo, ma ella gli era grata di parlare come tutti, cioè senza quell'insopportabile accento che cominciava a esasperarla. Alla fin fine, quell'uomo freddo, ossequioso, quasi servile nel suo rispetto e nelle sue attenzioni, quel domestico ancor ieri sconosciuto, sarebbe stato lui a rappresentare, per lei, la sua provincia.
Appena Niort, la capitale delle paludi, fu lasciata indietro con il suo pesante torrione nero come la ghisa, l'equipaggio della signora di Peyrac discese d'un tratto verso la luce. Senza quasi accorgersene, Angelica si trovò a guardare un paesaggio insolito, privo di ombre, rigato in tutti i sensi dai vigneti. Passarono non lungi da Bordeaux, poi il granturco si alternò con le viti. Appena entrati nel Béarn, i viaggiatori furono ricevuti nel castello del signor Antonino di Caumont, marchese di Péguilin, duca di Lauzun. Angelica guardò con stupore misto a divertimento quel piccolo uomo la cui grazia e il cui spirito ne facevano, affermava Andijos, “il più adulto giovane della corte”. Lo stesso re, che nella sua adolescenza era di carattere
serio, non poteva resistere alle uscite di Péguilin, che lo facevano scoppiar dal ridere in pieno consiglio. In quel momento, Péguilin si trovava nelle sue terre, dove per l'appunto scontava alcune insolenze nei confronti del signor Mazarino, che avevano oltrepassato i limiti. Non ne sembrava affatto pentito e raccontava mille storielle. Angelica, poco abituata al gergo della galanteria allora in onore nelle corti, capiva sì e no una metà di quei racconti, ma la sosta fu allegra e vivace, e la rasserenò. Il duca di Lauzun si estasiò della sua bellezza, complimentandola in versi improvvisati lì per lì. «Ah! amici miei», esclamò, «mi chiedo se la Voce d'oro del regno non ci rimetterà la sua nota più alta!» Fu così che Angelica udì parlare per la prima volta della Voce d'oro del regno. «É il più grande cantante di Tolosa», le spiegarono. «Dopo i grandi trovatori del Medio Evo, la Linguadoca non ne aveva più avuti di simili! Lo vedrete, signora, e non riuscirete a resistere al suo fascino.» Angelica cercava, piena di buona volontà, di non deludere i suoi ospiti con un volto chiuso. Tutte quelle persone erano simpatiche, a volte con trivialità, ma anche con gentilezza. L'aria surriscaldata, i tetti a tegole, le foglie dei platani, avevano il colore del vino bianco, lo spirito ne aveva la leggerezza. Ma, a mano a mano che si avvicinavano al termine del viaggio, Angelica aveva l'impressione che il cuore le divenisse più greve. Il giorno prima di entrare a Tolosa, alloggiarono in una delle dimore del conte di Peyrac, un castello di pietre chiare in stile Rinascimento. Angelica assaporò le comodità di una delle sale da bagno in cui si trovava la piscina di mosaico. La grossa Margherita si affaccendava intorno a lei. Temeva che la polvere e il caldo della strada avessero scurito ancor più l'incarnato della padrona, di cui segretamente disapprovava il bruno colore. La unse con unguenti diversi e le disse di rimanere distesa su un letto mentre lei la massaggiava con molta energia, depilandola poi intieramente. Angelica non si sentiva offesa di quel costume che, un tempo, quando c'erano stabilimenti di bagni romani in tutte le città, era praticato anche dal popolo. Ora, solo le fanciulle della nobiltà vi erano sottoposte. Si riteneva sconveniente che una gentildonna conservasse su di sé la minima peluria superflua. Tuttavia Angelica, mentre la cameriera si affaccendava così a farle un corpo perfetto, non poteva non provare un senso di orrore. “Non mi toccherà”, ripeteva fra sé. “Mi getterò dalla finestra, piuttosto!” Ma nulla avrebbe fermato la sua folle corsa, il turbine nel quale era trascinata.
Il mattino seguente, agitata da sentirsene male, ella salì un'ultima volta nella carrozza che in poche ore l'avrebbe portata a Tolosa. Il marchese d'Andijos prese posto al suo fianco. Esultava, canticchiava, ciarlava. I suoi baffetti parevano disegnati con l'inchiostro di China, tanto li aveva spalmati di pasta profumata. A un tratto, Angelica gli afferrò la mano. «Ah! signor d'Andijos, vorrei che foste voi il mio vero marito! Perché non siete
voi? Ora vi conosco e vi voglio bene.» «Signora», disse il marchese baciandole galantemente la mano, «voi mi onorate. Ma non abbiate rimpianti e i miei nastri non vi illudano, anche se la mia pancia vi è piaciuta. Sappiate ch'io sono più povero di un mendicante e che, senza il conte di Peyrac, non mi resterebbe altro che vivere a piedi nudi nella mia cadente casa di campagna, vicino a una piccionaia senza piccioni. Tutto ciò ch'io posseggo, lo devo al conte di Peyrac. Vi dico questo perché non abbiate rimpianti. É lui che possiede oro e pietre preziose.» «Non m'importa nulla dell'oro e dei diamanti. Ah! voi non capite. Ho paura!» «Avete paura?» ripeté lui. «E che temete, cuor mio?» Ella non rispose ma, volgendosi, appoggiò la fronte al vetro che la polvere scura aveva insudiciato: e si mordeva le labbra per non scoppiare in singhiozzi. Perplesso e pieno di buona volontà, egli credette che il timore di lei derivasse dal pudore in allarme. «Non abbiate alcuna paura, piccola oca», esclamò giovialmente. «Tutte le donne di tutti i tempi ci passano. Eh sì! L'affare non si conclude senza un piccolo grido, ma subito dopo si ode un'altra canzone. E il conte vostro sposo è un maestro in fatto di voluttà. Conosce a memoria l'arte d'amare del sottile Andrea le Chapelain. Credetemi, oggi molti occhi neri piangeranno nella contea di Tolosa, e molti altri vi fustigheranno di gelosia...»
Ma lei non ascoltava. Da qualche minuto, si era accorta che il postiglione tratteneva i cavalli. Un po' innanzi alla vettura, una folla di servitori e di cavalieri sbarrava la strada. Quando la carrozza si fu fermata, si udirono meglio i canti e le grida che il ritmico batter dei tamburini scandiva. «Per San Severino», esclamò il marchese balzando su, «credo sia il vostro sposo che vi viene incontro!» «Di già!» Angelica si sentiva impallidire. I paggi aprirono gli sportelli. Dovette scendere nella polvere della via, sotto il sole implacabile. Il cielo era d'un azzurro intenso. Un alito ardente si levava dai campi di granoturco maturo, ai lati della strada, su cui avanzava una farandola multicolore. Vestiti di strani costumi a grandi losanghe rosse e verdi, un nugolo di bambini facevano balzi e capriole stupefacenti, andando a cadere in mezzo ai cavalli dei cavalieri, anch'essi vestiti di stravaganti livree di seta rosa e di piume bianche. «I principi degli amori! I commedianti italiani!» esultò il marchese allargando le braccia in un gesto entusiastico, pericoloso per i suoi vicini. «Ah, Tolosa, Tolosa!...» La folla si era dischiusa. Un'alta figura dislogata e oscillante vestita di velluto purpureo apparve, appoggiandosi su un bastone di ebano. Via via che costui procedeva zoppicando, si distingueva, incorniciato da un'abbondante parrucca nera, un volto spiacevole come l'insieme della sua persona. Due profonde cicatrici gli solcavano la tempia e la guancia sinistra e chiudevano a mezzo la palpebra. Le labbra erano grosse, interamente rasate, ciò che non era alla moda e accresceva l'aspetto insolito di quel curioso spauracchio.
“Non è lui”, pregò Angelica. “Mio Dio, fate che non sia lui!” «Il vostro sposo, il conte di Peyrac, signora», diceva in quell'istante accanto a lei il marchese d'Andijos. Ella si chinò nella riverenza insegnatale. Il suo spirito all'erta registrava i minimi particolari: la fibbia di diamanti delle scarpe del conte, e persino che una di esse aveva un tacco un po' più alto dell'altra per attenuare la claudicazione; le calze pieghettate con ricami in seta, il costume sontuoso, la spada, il grande collo di pizzo bianco. Le parlarono; ella rispose a casaccio. Il rullo dei tamburini misto a striduli suoni di tromba la stordiva. Mentre riprendeva posto nella carrozza, un fascio di rose e di viole le cadde sulle ginocchia. «I fiori, cioè “gioie principali”», disse una voce. «Essi regnano su Tolosa.» Angelica si accorse che al suo fianco non c'era più il marchese d'Andijos, ma l'altro. Per non veder più quell'orrendo volto, si chinò sui fiori. Poco dopo, apparve la città, guarnita di torri e di campanili rossastri. Il corteo s'inoltrò attraverso i vicoli stretti, profondi corridoi d'ombra dove stagnava una luce purpurea. La fanciulla del Poitou aveva a un tratto la rivelazione del mattone con cui era costruita Tolosa. Città vestita di rosso cupo, con monumenti ciechi, quasi arabi, dall'aspetto duro e dal colore sanguigno. Il genio autoritario di Tolosa era lì iscritto, mentre i vicoli e le piazzette colme di canzoni, di musica e di fiori parlavano solo di vita leggera. Nel palazzo del conte di Peyrac, Angelica fu rapidamente rivestita con uno stupendo abito di velluto bianco, incrostato di raso pure bianco. I legacci e i fiocchi erano messi in rilievo da diamanti. Mentre l'abbigliavano, le sue damigelle le offrivano bevande ghiacciate, perché moriva di sete. A mezzogiorno, in un suonar di campane, il corteo si recò alla cattedrale, dove l'arcivescovo attendeva gli sposi sul sagrato. Ricevuta la benedizione, Angelica, secondo l'usanza dei principi, discese sola la navata. Il claudicante signore la precedeva, e quella lunga figura rossa e agitata le parve a un tratto, sotto quelle vòlte offuscate dall'incenso, straordinaria come quella del diavolo medesimo. Fuori, pareva che l'intera città fosse in festa. Angelica non riusciva a conciliare tanto chiasso con quell'avvenimento personale che il suo matrimonio con il conte di Peyrac rappresentava. Inconsciamente, cercava altrove lo spettacolo che dava alla folla quei larghi sorrisi e il piacere delle capriole. Ma gli occhi erano tutti rivolti a lei. Dinanzi a lei s'inchinavano i signori dallo sguardo di fuoco, le dame sontuosamente vestite. Per tornare dalla cattedrale al palazzo, i novelli sposi salirono su cavalli bardati in modo magnifico. La via lungo le rive della Garonna era cosparsa di fiori e i cavalieri dagli abiti rosa che il marchese d'Andijos aveva chiamato “i principi degli amori”, continuavano a rovesciarvi cesti colmi di petali. Sulla sinistra, il fiume dorato scintillava; dalle loro barche, i marinai lanciavano grandi evviva. Angelica si accorse di essersi messa a sorridere quasi macchinalmente. Il cielo
così azzurro e il profumo dei fiori la inebriavano. A un tratto, trattenne un grido: era scortata da paggetti dal viso di liquirizia che, in un primo momento, aveva creduto mascherati. Ma capiva ora che avevano davvero la pelle nera. Era la prima volta ch'ella vedeva dei negri. In verità, tutto ciò che vedeva lì aveva qualcosa d'irreale. Si sentiva estremamente sola in un sogno ambiguo di cui forse, al risveglio, avrebbe cercato di ricordarsi. E, sempre al suo fianco, distingueva, nel sole, il profilo sfigurato dell'uomo che era chiamato suo marito e acclamato. Monetine d'oro tintinnavano sui sassi. Alcuni paggi ne lanciavano tra la folla e la gente si accapigliava nella polvere. Lunghe tavole erano state disposte nei giardini del palazzo, all'ombra degli alberi. Dalle fontane dinanzi alle porte scorreva il vino, e la gente della strada poteva bervi. I signori e i borghesi di condizione elevata avevano accesso all'interno. Angelica, seduta fra l'arcivescovo e l'uomo rosso, incapace di mangiare, vide sfilare dinanzi a sé un numero incalcolabile di servizi e di piatti: manicaretti di pernice, filetti di anatra, stufato di quaglie, trote, coniglietti, insalate, trippa di agnello, fegato d'oca. I dolci: crema fritta guarnita con fette di pesca, marmellate d'ogni specie, paste al miele, erano innumerevoli; le piramidi di frutta alte come i negretti che le offrivano. Si succedevano i vini di tutte le sfumature, dal rosso più cupo all'oro più chiaro. Angelica notò vicino al suo piatto una specie di piccola forca d'oro. Guardandosi intorno, vide che la maggior parte dei presenti se ne serviva per infilare la carne e portarla alla bocca. Tentò di imitarli ma, dopo alcuni tentativi infruttuosi, preferì tornare al cucchiaio che le avevano lasciato accorgendosi che non sapeva servirsi di quel piccolo strumento che tutti chiamavano “forchetta”. Quel ridicolo incidente aumentò il suo disagio. Nulla è più difficile da sopportare che i piaceri ai quali non si partecipa volentieri. Irrigidita nella sua ansia e nel suo rancore, Angelica si sentiva estremamente stanca di tutto quel chiasso e quell'abbondanza. Di natura orgogliosa, non lasciava trasparire nulla, sorridendo e trovando per ciascuno una parola gentile. La ferrea disciplina del convento delle Orsoline le permetteva di restare diritta e nobilmente contegnosa, nonostante la stanchezza. Soltanto, non le era possibile volgersi al conte di Peyrac e, conscia di quanto fosse strano il suo atteggiamento, dedicava tutta la sua attenzione all'altro suo vicino: l'arcivescovo. Costui era un bell'uomo, sulla quarantina. Aveva molta unzione, grazia mondana e gli occhi azzurri e gelidi. Unico della compagnia, pareva non dividere la generale allegrezza. «Quale profusione! Quale profusione!» sospirava guardandosi intorno. «Quando penso a tutti i poveri che ogni giorno si ammucchiano dinanzi alle porte dell'arcivescovado, ai malati privi di cure, ai bambini dei villaggi eretici che non possono essere strappati alle loro credenze per mancanza di denaro, il cuore mi si spezza. Siete dedita alle opere buone, figlia mia?» «Esco appena di convento, monsignore. Ma sarò felice di consacrarmi alla mia parrocchia sotto la vostra egida.»
Egli abbassò su di lei il suo lucido sguardo e, mentre si impettiva nel mento un po' grasso, fece un sorrisetto. «Vi ringrazio della vostra docilità, figlia mia. Ma so quanto la vita di una giovane padrona di casa sia piena di novità che richiedono tutta la sua attenzione. Non vi distoglierò quindi da esse se non quando esprimerete voi stessa il desiderio. La più importante opera di una donna, quella cui deve dedicare tutte le sue cure, non è anzitutto l'influsso che deve acquistare sulla mente del marito? Una moglie che ami, una moglie abile, ai giorni nostri può tutto sulla mente di un marito.» Si chinò verso di lei e le pietre preziose della sua croce episcopale gettarono un bagliore violaceo. «Una moglie può tutto», ripeté, «ma, in confidenza, signora, avete scelto un ben curioso marito...» “Ho scelto...” pensava Angelica ironicamente. “Mio padre aveva visto almeno una volta questo orrendo burattino? Ne dubito. Papà mi amava sinceramente. Per nulla al mondo avrebbe voluto rendermi infelice. Ma ecco: i suoi occhi mi vedevano ricca; io, invece, mi vedevo amata. Suor Sant'Anna mi ripeterebbe ancora che non si deve essere sognatrici... Questo arcivescovo pare un buon amico. É forse con la sua scorta che si sono battuti nella cattedrale i paggi del conte di Peyrac?”
A poco a poco, il caldo soffocante cedeva dinanzi alla sera. Stavano per aprirsi le danze. Angelica sospirò: “Danzerò tutta la notte”, disse fra sé, “ma, per nulla al mondo, acconsentirò a rimanere sola un istante con lui...” Gettò nervosamente un'occhiata al marito. Ogni volta che lo guardava, la vista di quel volto coperto di cicatrici, in cui brillavano le pupille nere come il carbone, le causava un senso di malessere. La palpebra sinistra, semichiusa dal rigonfio di una cicatrice, dava al conte di Peyrac un'espressione di malvagia ironia. Abbandonato nella sua poltrona, portava in quel momento alla bocca una specie di bastoncino scuro. Un domestico si precipitò tenendo con una pinza un carbone ardente che appoggiò all'estremità del bastoncino. «Ah! conte, il vostro esempio è deplorevole!» esclamò l'arcivescovo aggrottando le sopracciglia. «Penso che il tabacco sia il frutto dell'inferno. Che lo si adoperi in polvere, al solo scopo di curare gli umori del cervello e dietro consiglio del medico, già lo ammetto a fatica, perché coloro che lo fiutano mi sembra che vi trovino un godimento e troppo spesso prendano pretesto dalla loro salute per grattugiar tabacco ad ogni piè sospinto. Ma i fumatori di pipa sono la feccia delle taverne, dove si abbrutiscono per ore intere con quella pianta maledetta. Sino ad ora non avevo mai sentito dire che un gentiluomo consumasse tabacco in quel modo grossolano.» «Non posseggo pipe e non fiuto, ma fumo la foglia arrotolata come ho veduto farlo da certi selvaggi dell'America. Nessuno può accusarmi di essere volgare come un moschettiere o manierato come un damerino della corte...» «Quando vi sono due maniere per fare una cosa, voi dovete sempre trovarne una terza», disse l'arcivescovo, di cattivo umore. «Così noto, proprio ora, un'altra singolarità che vi è propria. Voi non mettete mai nel vostro bicchiere né batrachite, né
un pezzetto di liocorno. Eppure, tutti sanno che sono le migliori precauzioni per evitare il veleno che una mano nemica può sempre versarvi nel vino. Anche la vostra giovane moglie ha obbedito a quest'uso prudente. La batrachite e il corno di liocorno, infatti, mutano colore a contatto di beveraggi pericolosi. Ma voi non li usate mai. Credete di essere invulnerabile oppure senza nemici?» aggiunse il prelato con uno sguardo lampeggiante che impressionò Angelica. «No, monsignore», rispose il conte di Peyrac, «credo soltanto che il modo migliore per preservarsi dal veleno sia di non metter nulla nel bicchiere e tutto in corpo.» «Che volete dire?» «Questo: ogni giorno, durante tutta l'esistenza, assorbite una piccolissima dose di qualche terribile veleno.» «Voi lo fate?» esclamò terrorizzato l'arcivescovo. «Dalla mia più giovane età, monsignore. Non ignorate che mio padre fu vittima di un veleno fiorentino, eppure la batrachite che metteva nel bicchiere era grossa come un uovo di piccione. Mia madre, donna senza pregiudizi, cercò il vero mezzo per preservare me. Da uno schiavo moro portato da Narbona, ella apprese il metodo di difendersi dal veleno con il veleno stesso.» «I vostri ragionamenti contengono sempre qualcosa di paradossale che mi preoccupa», fece l'arcivescovo sovra pensiero. «Si direbbe che desideriate riformare ogni cosa, eppure nessuno ignora quanti disordini abbia provocato la parola “riforma” nella Chiesa e nel regno. Vi ripeto, perché praticare un metodo di cui non avete alcuna sicurezza, mentre gli altri hanno fatto le loro prove? Bisogna possedere, evidentemente, delle vere pietre e dei veri corni. Troppi ciarlatani si son messi a commerciare questi oggetti, vendendo chissà che cosa in vece loro. Ma, ad esempio, il mio monaco Bécher, un francescano di grande scienza, che si dedica per mio conto a lavori di alchimia, ve ne potrebbe procurare di eccellenti.» Il conte di Peyrac si chinò un poco per guardare l'arcivescovo e, in quel gesto, i suoi abbondanti riccioli neri sfiorarono Angelica, che si fece indietro notando in quell'istante che suo marito non portava la parrucca, ma che quell'abbondante capigliatura era proprio la sua. «Quel che vorrei sapere», dichiarò egli, «è come fa lui a procurarseli. Quando ero fanciullo, mi capitò di uccidere numerosi rospi, ma non trovai mai nel loro cervello la famosa pietra protettrice chiamata batrachite e che, a quanto pare, dovrebbe trovarvisi. Quanto al corno di liocorno, vi dirò che ho percorso il mondo intero e che sono convinto di questo: il liocorno è un animale mitologico, immaginario, un animale, insomma, che non esiste.» «Queste cose non si affermano, signore. Si deve lasciare ai misteri la loro parte e non pretendere di saper tutto.» «Quello che per me è un mistero», disse lentamente il conte, «è che un uomo della vostra intelligenza debba professare simili... fantasie.» “Mio Dio”, pensò Angelica, “non ho mai udito trattare un ecclesiastico di rango elevato con una tale insolenza!” Ella guardava or l'uno or l'altro dei due personaggi che si affrontavano. Suo marito, per primo, parve accorgersi dell'emozione ch'ella provava: le rivolse un
sorriso, che gli aggrinzò stranamente il volto, ma scopriva i denti bianchissimi. «Perdonateci, signora, se discutiamo così dinanzi a voi. Monsignore ed io siamo nemici intimi!» «Nessun uomo è mio nemico!» esclamò indignato l'arcivescovo. «Che ne fate, voi, della carità che deve albergare nel cuore di un servitore di Dio? Se voi mi odiate, io non vi odio. Ma, dinanzi a voi, provo l'inquietudine del pastore per la pecora che si perde. E, se voi darete ascolto alle mie parole, io saprò separare il loglio dal buon grano!» «Ah!» gridò il conte con un riso spaventoso, «ecco davvero l'erede di quel Folco di Neuilly, vescovo e braccio destro del terribile Simone di Montfort che innalzò i roghi degli Albigesi e ridusse in cenere la raffinata civiltà dell'Aquitania! La Linguadoca, dopo quattro secoli, piange ancora i suoi splendori distrutti in nome di Cristo, e trema al racconto degli orrori descritti. Io che appartengo al più antico ceppo tolosano, che porto nelle vene sangue ligure e visigoto, io fremo allorché il mio sguardo incontra i vostri occhi azzurri di uomo del Nord. Erede di Folco, erede dei rozzi barbari che hanno impiantato da noi il settarismo e l'intolleranza, ecco ciò ch'io leggo nei vostri occhi!» «La mia famiglia è una delle più antiche della Linguadoca», gridò il vescovo rizzandosi a mezzo. E, in quel momento, il suo accento meridionale lo rendeva un po' meno comprensibile agli orecchi di Angelica. «Voi stesso sapete bene, mostro insolente, che metà di Tolosa mi appartiene in eredità. I nostri feudi sono tolosani da secoli.» «Quattro secoli! Appena quattro secoli, signore!» gridò Goffredo di Peyrac alzandosi anch'egli. «Siete venuti sui carri di Simone di Montfort, con gli odiati crociati. Siete l'invasore! Uomo del Nord! Uomo del Nord! che cosa fate qui alla mia tavola?...» Angelica, inorridita, cominciava a chiedersi se non stesse per aver inizio la battaglia, allorché una gran risata dei convitati sottolineò le ultime parole del conte tolosano. Il sorriso del vescovo fu meno spontaneo. Tuttavia, quando il gran corpo di Goffredo di Peyrac andò oscillando a inchinarsi dinanzi al prelato in segno di scusa, quegli tese di buona grazia il suo anello pastorale al conte, perché lo baciasse. Angelica era troppo sconcertata per mescolarsi francamente a quell'esuberanza. Le parole che i due uomini s'erano gettate in faccia non erano futili, ma è anche vero che, per la gente del Sud, il riso è spesso il più clamoroso preludio delle più oscure tragedie. All'improvviso, Angelica ritrovava l'ardente esaltazione di cui la nutrice Fantina aveva circondato la sua infanzia. Grazie a lei, non si sarebbe sentita estranea a quella impulsiva società. «Vi importuna il fumo del tabacco?» chiese a un tratto il conte chinandosi verso di lei e cercando di incontrarne lo sguardo. Ella scosse il capo negativamente. L'odore sottile del tabacco accresceva la sua malinconia, evocando per lei la presenza del vecchio Guglielmo all'angolo del camino e la vasta cucina di Monteloup. Il vecchio Guglielmo, la nutrice, le cose familiari erano divenuti improvvisamente lontani. Alcuni violini cominciavano a suonare nei boschetti. Per quanto fosse stanca da morire, Angelica accettò sollecita l'invito del marchese d'Andijos. I danzatori s'erano
adunati in un gran cortile pavimentato, dove un getto d'acqua portava frescura. Angelica aveva imparato in convento molti passi alla moda per non dover apparire in imbarazzo fra i signori e le dame di una provincia assai mondana, la maggior parte dei quali facevano a volte lunghi soggiorni a Parigi. Era la prima volta ch'ella danzava in un ricevimento e cominciava a prendervi piacere, allorché si produsse come un risucchio. Le coppie furono divise sotto la spinta di una folla che correva verso il luogo del banchetto. I danzatori protestarono, ma qualcuno gridò: «Sta per cantare.» Altri ripeterono: «La Voce d'oro! La Voce d'oro del regno...»
14 In quel momento, una mano si posò discretamente sul braccio nudo di Angelica. «Signora», sussurrava la cameriera Margherita, «è il momento di eclissarvi, il signor conte mi ha incaricata di accompagnarvi al padiglione della Garonna, dove passerete la notte.» «Ma io non voglio andar via!» protestò Angelica. «Voglio ascoltare quel cantore di cui si dice tanto bene. Non l'ho ancora veduto.» «Canterà per voi, signora, canterà per voi in privato, il conte ne ha preso impegno», affermò il donnone. «Ma la portantina vi aspetta.» Mentre parlava, aveva gettato sulle spalle della padrona un mantello a cappuccio e le porgeva una maschera di velluto nero. «Mettetevi questa sul volto», sussurrò. «Così non sarete riconosciuta. Altrimenti, i giovani schiamazzatori sarebbero capaci di correre fino al padiglione e di turbare la vostra notte di nozze con il baccano delle loro casseruole.» E la cameriera scoppiò a ridere coprendosi la bocca con la mano. «Accade sempre così a Tolosa», riprese. «I giovani sposi che non riescono a fuggir via come ladri, debbono liberarsi a furia di scudi o subire lo schiamazzo di quei diavoli. Invano monsignore e la polizia cercano di sopprimere quest'uso... Il meglio è dunque di lasciare la città.» Spinse Angelica nell'interno di una portantina che due solidi valletti subito sollevarono sulle spalle. Alcuni cavalieri, usciti dall'ombra, formarono la scorta. Dopo aver seguito il dedalo dei vicoli, il gruppetto raggiunse la campagna. Il padiglione era un modesto edificio circondato da giardini che scendevano fino al fiume. Ponendo piede a terra, Angelica si stupì del silenzio, che solo turbava il cricri dei grilli. Margherita, ch'era salita in groppa con uno dei cavalieri, scivolò a terra e introdusse la giovane sposa nell'interno della casa deserta. Con lo sguardo che le brillava negli occhi e con un sorriso sulle labbra, era evidente che la cameriera godeva di tutti quei misteri d'amore. Angelica si trovò in una camera dal pavimento a mosaico. Una lampada da notte ardeva accanto all'alcova, ma la sua luce era inutile, perché il chiarore della luna avanzava tanto nella stanza da dare uno splendore niveo alle lenzuola ricamate del grande letto.
Margherita gettò un ultimo sguardo critico alla giovane donna, poi cercò nella sua borsa una bottiglietta di acqua degli angeli per purificarle la pelle. «Lasciatemi», protestò Angelica con impazienza. «Signora, il vostro sposo verrà fra poco, occorre...» «Non occorre nulla. Lasciatemi.» «Bene, signora.» La cameriera fece un inchino. «Auguro felice notte alla signora.» «Lasciatemi!» gridò una terza volta Angelica, irata. Restò sola, rimproverandosi per non aver saputo trattenere la sua stizza dinanzi a una domestica. Ma le era antipatica. I suoi modi sicuri e abili la intimidivano, e temeva lo scherno dei suoi occhi neri. Rimase immobile a lungo, finché l'immenso silenzio della camera le fu divenuto insopportabile. La paura che l'agitazione e le conversazioni avevano addormentato, si destava nuovamente. Ella strinse i denti. “Non ho paura”, disse fra sé quasi ad alta voce, “so che cosa mi resta da fare, morirò, ma lui non mi toccherà!” Andò verso la porta a vetri che si apriva sulla terrazza. Angelica aveva veduto solo al Plessis quegli eleganti balconi che l'architettura del Rinascimento aveva messo di moda. Un divano coperto di velluto verde invitava a sedersi e a contemplare il paesaggio maestoso. Da quel punto, non si vedeva più Tolosa, nascosta da un'ansa del fiume. Non v'erano che i giardini e l'acqua risplendente e, ancor più lontano, campi di granoturco e vigneti. Angelica sedette sull'orlo del divano e abbandonò la fronte contro la balaustra. L'acconciatura dei capelli, complicata da spille di diamanti e di perle, la faceva soffrire. Prese a liberarsene, non senza fatica. “Perché quella scioccona non mi ha sciolto i capelli e non mi ha svestita?” pensò. “Crede forse che se ne incaricherà mio marito?” Fece una risatina beffarda e triste. “Madre Sant'Anna non mancherebbe di farmi un discorsetto sulla docilità che si deve mostrare verso tutti i desideri del proprio marito. E quando diceva tutti, i suoi occhi rotavano come palline e noi scoppiavamo a ridere, sapendo bene a che cosa pensava. Ma io non sono portata alla docilità. Ha ragione Molines quando dice che non m'inchino dinanzi a una cosa che non capisco. Ho obbedito per salvare Monteloup. Che possono volere di più? La miniera d'Argentière appartiene al conte di Peyrac. Lui e Molines potranno continuare il loro traffico. E mio padre potrà continuare ad allevare muli per portare l'oro spagnolo... Se io morissi gettandomi da questo balcone, nulla muterebbe. Tutti hanno avuto quel che volevano...” Era alla fine riuscita a sciogliersi i capelli, che le si sparsero sulle spalle ignude e ch'ella scosse con quel gesto del capo un po' selvaggio che aveva fin dall'infanzia. Le parve allora di udire un lieve rumore. Volgendosi, trattenne a stento un grido di terrore. Appoggiato allo stipite della porta a vetri, lo zoppo la contemplava. Non indossava più l'abito rosso, ma portava brache e un farsetto di velluto nero
cortissimo che lasciava libera la vita e le maniche di una fine camicetta di batista. Egli avanzò con il suo passo diseguale e salutò profondamente. «Permettete che mi sieda accanto a voi, signora?» Ella chinò il capo in silenzio. Egli sedette, appoggiò i gomiti sul davanzale di pietra e guardò con indifferenza dinanzi a sé. «Molti secoli fa», disse, «sotto queste medesime stelle, dame e trovatori salivano sui cammini di ronda dei castelli, dove si svolgevano le corti d'amore. Avete mai udito parlare dei trovatori della Linguadoca, signora?» Angelica non aveva previsto quel genere di conversazione. Era tutta rattratta in una tensione di difesa e balbettò a stento: «Sì, credo... Erano chiamati così certi poeti del Medio Evo.» «I poeti dell'amore. Lingua d'oc! Dolce lingua! Così differente dalla rude parlata del Nord, la lingua d'oil. In Aquitania si imparava l'arte d'amare perché, come disse Ovidio molto prima degli stessi trovatori, “l'amore è un'arte che può insegnarsi e in cui ci si può perfezionare studiando le sue leggi...”. Vi siete già interessata a quest'arte, signora?» Ella non sapeva che cosa rispondere: era troppo intelligente per non sentire nella voce di lui una leggera ironia. Com'era stata posta la domanda, un sì o un no sarebbero stati ugualmente ridicoli. Ella non era abituata allo scherzo. Stordita da tanti avvenimenti, il suo spirito nelle repliche l'aveva abbandonata. Non seppe che volger via il capo, e guardare macchinalmente verso la pianura addormentata. Si rendeva conto che l'uomo le si era accostato, ma non si mosse. «Vedete», riprese lui, «laggiù, nel giardino, quella vasca d'acqua verde in cui la luna si tuffa come una pietra di batrachite in un bicchiere di anice... Ebbene, quell'acqua ha lo stesso colore dei vostri occhi, amica mia. Non ho mai trovato, attraverso il mondo, pupille così strane, così seducenti. E guardate quelle rose che fanno ghirlanda al nostro balcone. Hanno lo stesso colore delle vostre labbra. No, davvero, non ho mai trovato labbra così rosee... e così chiuse. Quanto alla loro dolcezza... ne giudicherò ora.» Due mani, a un tratto, l'avevano afferrata alla vita. Angelica si sentì piegare all'indietro da una forza che non avrebbe mai sospettata in quell'uomo alto e magro. Si trovò con la nuca arrovesciata nell'incavo di un braccio che la paralizzava con la sua stretta. Il volto spaventoso si chinava su lei fino a sfiorarla. Ella gridò d'orrore, si divincolò, gonfia di ripugnanza. Quasi subito si ritrovò libera. Il conte l'aveva lasciata e la guardava ridendo. «É proprio quel che pensavo. Vi faccio una tremenda paura. Preferireste gettarvi dal balcone piuttosto che appartenermi. Non è vero?» Ella lo guardava col cuore che le batteva forte. Egli si alzò in piedi e la sua alta figura di ragno si profilò sotto il cielo lunare. «Non vi farò violenza, povera verginella. Non è nei miei gusti. Sicché, vi hanno data casta e pura a questo gran zoppo della Linguadoca? É una cosa terribile!» Si chinò verso di lei, che non poté sopportare il suo riso beffardo. «Dovete sapere che ho posseduto molte donne, nella mia vita: bianche, negre, gialle e rosse, ma che non ne ho mai presa nessuna di forza né attirata a me con il denaro. Sono venute da sole, e verrete anche voi un giorno, una sera...»
«Mai!» La risposta era scattata, violenta. Non per questo svanì il sorriso sullo strano volto del conte. «Siete una fanciulla selvaggia, ma ciò non mi dispiace. Una conquista facile rende l'amore senza valore, una conquista difficile gli dà prezzo. Così dice Andrea le Chapelain, autore dell'Arte d'amare. Addio, bellezza, dormite bene nel vostro gran letto, sola con le vostre membra graziose, i vostri piccoli seni stupendi, tristi di non ricever carezze! Addio!»
L'indomani, destandosi, Angelica vide che il sole era alto nel cielo. Gli uccelli tacevano fra gli alberi del giardino, già intorpiditi dal caldo. Ella non ricordava più chiaramente come si fosse svestita e coricata in quel letto le cui lenzuola stemmate avevano un profumo di viole. Aveva pianto, di stanchezza e di dispetto, forse di solitudine. Si sentiva, al mattino, più lucida. L'assicurazione ricevuta dal suo strano marito che non l'avrebbe toccata se lei non l'avesse desiderato, la tranquillizzava per un certo tempo. “S'illude forse che la sua gamba corta e il suo viso bruciato potranno apparirmi stupendi?...” Accarezzò il progetto di un'esistenza piacevole accanto a uno sposo con cui avrebbe vissuto in buona amicizia. Dopo tutto, la vita avrebbe anche potuto non esser priva di fascino. Tolosa offriva tante distrazioni! Margherita, discreta e impassibile, venne ad abbigliarla. A mezzogiorno, Angelica tornò in città. Si presentò Clemente e le disse che il conte lo aveva incaricato di avvertire la signora contessa che aveva da lavorare nel suo laboratorio e che non lo si doveva attendere per il pranzo. Ella ne provò sollievo. L'uomo aggiunse che il signor conte lo aveva assunto in qualità di maggiordomo e che ne era felice. La gente di qui era chiassosa e pigra ma cordiale. La casa gli sembrava ricca ed egli avrebbe fatto del suo meglio per soddisfare i nuovi padroni. Angelica lo ringraziò per quelle parole, nelle quali una certa condiscendenza si mescolava a servilismo. Non le dispiaceva tenere presso di sé quel giovane le cui maniere contrastavano con l'esuberanza delle persone che le stavano intorno. Anche l'indomani dei festeggiamenti e nonostante il caldo sempre più intenso, una perpetua attività pareva regnare nel palazzo. Angelica aveva un po' l'impressione che vi si entrasse e se ne uscisse liberamente. Intravvedeva i musetti bruni dei piccoli venditori di viole, i mendicanti spagnoli che, con al fianco lo spadone, venivano a tender la mano con fare altero, le donne dalla pelle color mogano chiamate zingare e che per qualche soldo pretendevano leggervi sulla mano uno straordinario destino. Il trambusto dei paggi, dei servitori, delle cameriere, si fondeva con il chiasso dei signori in visita con tutto il loro seguito. Negli angoli dei loggiati, i suonatori non smettevano di grattare tiorbe o violini in onore delle belle donne che, entrando, salutavano appena Angelica e andavano quindi in gruppo a discutere appassionatamente di poesia. Tutta quella nobile società si ritrovava più tardi sulla Feria, la via principale della città, per ascoltare nella sera azzurra i cantori di serenate, oppure nella cattedrale dove le dame, muovendo con noncurante ventaglio l'atmosfera greve d'incenso, sbirciavano con la coda dell'occhio
gli abbigliamenti delle vicine. Nei giorni che seguirono, Angelica poté rendersi conto che il palazzo del conte di Peyrac era certamente il luogo più frequentato della città. Il padrone di casa partecipava attivamente a tutti i divertimenti. La sua alta figura dinoccolata passava da un gruppo all'altro, e Angelica si stupiva dell'animazione che la sua sola presenza provocava. Ella si andava abituando al suo aspetto, e si attenuava la repulsione ch'egli le aveva ispirato il primo giorno. Il pensiero della sottomissione carnale che gli doveva, aveva giocato certamente molto nella violenza del risentimento e anche della paura ch'egli le aveva ispirato. Ora che s'era rassicurata su ciò, doveva riconoscere che quell'uomo dalla parola di fuoco, dal carattere allegro e fuor dell'ordinario, attirava la simpatia. Nei riguardi di lei, egli ostentava una grande indifferenza. Pur prodigandole i riguardi dovuti al suo rango, sembrava che la vedesse appena. Ogni mattina la salutava ed ella presiedeva di fronte a lui ai pasti, cui sempre assistevano una decina almeno di persone, evitando loro di trovarsi a tu per tu: ciò che ella temeva. Tuttavia non passava giorno che Angelica non trovasse nella sua camera un dono, ninnolo o gioiello, un nuovo vestito, perfino dolciumi o fiori. Ogni cosa era di un gusto perfetto, di un lusso che la lasciava stupita, incantata... e anche imbarazzata. Non sapeva infatti come dimostrare al conte il piacere che le procuravano i suoi doni. Ogni volta che si trovava costretta a rivolgergli la parola direttamente, non riusciva a decidersi ad alzare gli occhi sul suo volto sfregiato, diveniva goffa e balbettava. Un giorno, vicino alla finestra dinanzi alla quale era solita sedersi, trovò uno scrigno di marocchino rosso ornato a bulino e, apertolo, le apparve il più meraviglioso vezzo di diamanti ch'ella avesse mai sognato. Tremante, lo contemplava dicendosi che certamente la regina non ne possedeva uno simile, allorché udì il caratteristico passo di suo marito. Di slancio corse a lui, con gli occhi che le brillavano. «Che splendore! Come posso ringraziarvi, signore?» Il suo entusiasmo l'aveva portata troppo in fretta verso di lui. Quasi lo urtò. La sua gota trovò il velluto del farsetto, mentre un braccio di ferro la tratteneva di scatto. Il volto che la terrorizzava le parve così vicino che il sorriso le si spense ed ella si rigettò indietro con un intrattenibile fremito di orrore. Il braccio di Goffredo di Peyrac subito ricadde, ed egli disse con una indifferenza un po' sprezzante: «Ringraziarmi? E perché?... Non dimenticate, mia cara, che siete la moglie del conte di Peyrac, ultimo discendente degli illustri conti di Tolosa. Dovete perciò essere la più bella, la più adorna. D'ora in poi, non ritenetevi obbligata a ringraziarmi.» I suoi obblighi, in tal modo, erano assai lievi, ed ella poté ritenersi una delle invitate del palazzo, ancor più libera delle altre di disporre del proprio tempo a piacimento. Goffredo di Peyrac le ricordava il suo titolo di marito solo in rarissime occasioni. Quando, ad esempio, un ballo dal governatore o da uno degli alti funzionari della città esigeva che la signora di Peyrac fosse appunto la donna più
bella e la più adorna. Egli giungeva allora senza farsi annunciare, sedeva accanto alla specchiera e sorvegliava attentamente la toeletta della giovane donna, guidando con una parola le abili mani di Margherita e delle cameriere. Nessun particolare gli sfuggiva e Angelica si meravigliava della giustezza delle sue osservazioni, dell'impegno delle sue ricerche. Siccome ella desiderava diventare una gran dama, non perdeva una parola della lezione. In quei momenti, dimenticava rancori e apprensioni. Ma, una sera, mentre lei si contemplava nel grande specchio, abbagliante in un vestito di raso color avorio con un alto collo di pizzo ornato di perle, distinse al suo fianco la scura sagoma del conte di Peyrac e un'improvvisa disperazione le cadde sulle spalle come una cappa di piombo. «Che importano le ricchezze e il lusso», pensava, «a confronto di questa terribile sorte: esser legata per tutta la vita a un marito sbilenco e spaventoso!» Egli si accorse a un tratto ch'ella guardava lui nello specchio, e si scostò di colpo: «Che avete? Non vi par d'essere bella?» Ella riportò sulla propria immagine un triste sguardo. «Sì, signore», disse docilmente. «E allora?.. Potreste almeno sorridere...» E a lei parve udirlo sospirare piano. Durante i mesi che seguirono, ella fu costretta a rendersi conto che Goffredo di Peyrac prodigava assai più attenzioni e complimenti alle altre donne che non a sua moglie. La sua galanteria era spontanea, allegra, raffinata, e le dame la ricercavano con evidente piacere. Esse, come era di moda a Parigi, facevano le Preziose. «Questo è il palazzo del Gaio Sapere», disse un giorno il conte. «Tutto ciò che costituì la grazia e la cortesia dell'Aquitania e, pertanto, della Francia, deve ritrovarsi fra queste mura. Così, Tolosa ha avuto i celebri giuochi floreali. Da tutte le parti di Francia e anche del mondo, è a Tolosa che i creatori di rondelli vengono a farsi giudicare, sotto l'egida di Clementina Isaure, la luminosa ispiratrice dei trovatori dei tempi passati. Non vi spaventate, quindi, Angelica, per tutti questi volti sconosciuti che vanno e vengono nel mio palazzo. Se vi infastidiscono, potete ritirarvi nel padiglione sulla Garonna.» Ma Angelica non provava il desiderio d'isolarsi. A poco a poco, si lasciava invadere dal fascino di quella vita cantante. Dopo averla disprezzata, alcune dame le riconobbero dello spirito e l'accolsero nella loro cerchia. Dinanzi al successo dei ricevimenti che il conte dava in quella dimora che, nonostante tutto, era anche la sua, la giovane donna prendeva piacere nel dirigerne il buon funzionamento. La si vide correre dalle cucine ai giardini e dalle soffitte alle cantine, seguita dai suoi tre negretti. Ella s'era abituata alle loro divertenti faccine tonde e nere. V'erano a Tolosa molti schiavi mori perché i porti d'Aiguesmortes e di Narbona si aprivano su quel Mediterraneo che non era se non un gran lago di pirateria. Recarsi per mare da Narbona a Marsiglia costituiva una vera e propria spedizione! Si rideva molto, a Tolosa, in quel momento, della disavventura di un signore guascone che, durante un
viaggio, era stato fatto prigioniero dalle galere arabe. Il re di Francia lo aveva subito riscattato dal sultano dei barbareschi, ma, al suo ritorno, lo si era visto assai dimagrito ed egli non nascondeva di aver avuto una bella paura. Solo Kuassi-Ba impressionava un poco Angelica. Quand'ella vedeva drizzarsi dinanzi a sé quello scuro colosso dagli occhi di smalto bianco, si tratteneva appena dal fare un passo indietro dal timore. Eppure, egli sembrava molto buono. Non lasciava mai il conte di Peyrac, ed era lui che custodiva la porta di un misterioso appartamento in fondo al palazzo dove il conte si ritirava ogni sera e, a volte, anche di giorno. Angelica era sicura che in quel luogo riservato si trovavano le storte e le fiale di cui Enrico aveva parlato alla nutrice. Le sarebbe piaciuto molto entrarvi, ma non osava. Fu uno dei visitatori del palazzo del Gaio Sapere che le permise di scoprire quel nuovo aspetto della strana personalità del marito.
15 Il visitatore era coperto di polvere. Viaggiava a cavallo e veniva da Lione passando per Nîmes. Era piuttosto alto, sui trentacinque anni. Cominciò col parlare italiano, poi passò al latino, che Angelica capiva a mala pena, e finì per esprimersi in tedesco. Fu in questa lingua, familiare ad Angelica, che il conte presentò il viaggiatore. «Il professor Bernalli di Ginevra mi fa il grande onore di venire a parlare con me di problemi scientifici a proposito dei quali abbiamo scambiato da molti anni un'abbondante corrispondenza.» Lo straniero s'inchinò con una galanteria tutta italiana e si profuse in proteste: avrebbe certamente importunato, con le sue formule e i suoi discorsi astratti, un'affascinante dama i cui pensieri dovevano essere più leggeri. Né per bravata, né per vera curiosità, Angelica chiese di assistere alla discussione. Però, per non essere indiscreta, andò a sedersi nell'angolo di un'alta finestra aperta sul cortile. Era inverno, ma faceva un freddo asciutto e il sole continuava a brillare. Saliva dai cortili l'odore dei bracieri intorno ai quali si riscaldavano i servitori. Angelica, con in mano il ricamo, porgeva l'orecchio alle parole dei due giovani, che s'erano seduti uno di fronte all'altro presso il camino, dove ardeva appena un piccolo fuoco di legna. Essi parlarono dapprima di personaggi che le erano del tutto sconosciuti: del filosofo inglese Bacone, del francese Descartes, dell'ingegnere francese Blondet, contro il quale s'indignarono con violenza, perché, dicevano, considerava le teorie di Galileo sterili paradossi. Da tutto ciò, Angelica finì per capire che l'ospite era accanito seguace di Descartes, che suo marito, al contrario, combatteva. Seduto in poltrona in una di quelle pose abbandonate che gli erano solite, Goffredo di Peyrac sembrava appena più serio di quando discuteva con le dame sulle rime di un sonetto. Il suo atteggiamento disinvolto era assai diverso da quello del suo
interlocutore, irrigidito sull'orlo dello sgabello dalla passione che il dialogo suscitava in lui. «Il vostro Descartes è certamente un genio», diceva il conte, «ma ciò non significa ch'egli abbia ragione in tutto e per tutto.» L'italiano si riscaldava. «Vorrei proprio sapere come potreste coglierlo in errore. Suvvia! Ecco un uomo che, per primo, ha opposto il suo metodo sperimentale alla scolastica e alle idee astratte e religiose. D'ora in poi, invece di giudicare le cose come un tempo secondo i princìpi assoluti, le si giudicherà effettuando misure ed esperienze, per dedurne quindi le leggi matematiche. Questo lo dovremo a Descartes. Come mai, voi che vi vantate di possedere lo spirito realistico caro agli uomini del Rinascimento, potete non aderire a questo sistema?» «Vi aderisco, credetemi, amico mio. Sono convinto che, senza Descartes, la scienza non sarebbe mai riuscita ad emergere dalla crosta di sciocchezze sotto la quale questi ultimi secoli l'hanno seppellita. Ma gli rimprovero di aver mancato di freddezza verso il proprio genio. Le sue teorie sono macchiate da flagranti errori. Ma, se voi siete convinto, io non voglio contrariarvi.» «Sono venuto da Ginevra, e ho attraversato nevi e fiumi per accogliere la vostra sfida nei riguardi di Descartes. Vi ascolto.» «Prendiamo, se volete, il principio della gravitazione, cioè dell'attrazione dei corpi gli uni verso gli altri e, pertanto, della caduta dei corpi verso il suolo. Descartes afferma che, quando un corpo ne urta un altro, può imprimergli un movimento soltanto se ha una massa superiore a quest'ultimo. Ad esempio, una palla di sughero che colpisce una palla di ghisa non potrebbe spostarla.» «Perfettamente evidente. E consentitemi di citare la formula di Descartes: “La somma aritmetica delle quantità in movimento delle diverse parti dell'universo rimane costante”.» «No», esclamò Goffredo di Peyrac alzandosi in piedi con uno scatto che fece trasalire Angelica. «No, questa non è che una falsa evidenza e Descartes non ne ha fatto l'esperimento. Gli sarebbe bastato, per accorgersi del suo errore, di tirare con la pistola una palla di piombo di un'oncia contro una palla di stracci avvolti strettamente, di un peso superiore a due libbre. La palla di stracci sarebbe stata spostata.» Bernalli guardò il conte con espressione stupefatta. «Confesso che mi ponete in imbarazzo. Ma il vostro esempio è stato scelto bene? Non entra forse, in questo esperimento di tiro alla pistola, un qualche nuovo elemento?... Come chiamarlo? La violenza, la forza...» «É, semplicemente, l'elemento velocità. Ma, nel tiro, non è specifico. Ogni volta che un corpo si sposta, questo elemento entra in gioco. Ciò che Descartes chiama “quantità di movimento” è la legge della velocità e non una somma aritmetica delle cose.» «E se la legge di Descartes non è valida, quale altra ammettete?» «Quella di Copernico quando parla dell'attrazione reciproca dei corpi fra loro, di quella proprietà invisibile, simile a quella della calamita, che non si può misurare ma neppure negare.»
Bernalli, con un pugno sulla bocca, si raccoglieva in sé. «Ho già pensato un poco a tutto questo, e ne ho discusso con lo stesso Descartes, quando lo incontrai a La Haye prima che si recasse in Svezia dove doveva, purtroppo, morire. Sapete che cosa mi rispose? Mi dichiarò che la legge dell'attrazione doveva essere scartata perché c'era in essa “qualche cosa di occulto”, e perché appariva a priori eretica e sospetta.» Il conte di Peyrac scoppiò a ridere. «Descartes era un codardo e non voleva soprattutto perdere i mille scudi di pensione che gli passava Mazarino. Si ricordava del povero Galileo che dovette ritrattare sotto le torture dell'Inquisizione la sua “eresia del movimento della terra”, e che più tardi, morì sospirando: “Eppur si muove!...” Sicché, quando Descartes riprese, nel suo Trattato del mondo, la teoria del polacco Copernico De revolutionibus orbium coelestium, si guardò bene dall'affermare il movimento della terra, limitandosi a dire: “La terra non si muove, ma è trascinata da un turbine”. Non è una graziosa iperbole?» «Vedo che non siete tenero verso il povero Descartes», disse il ginevrino, «eppure lo considerate un genio.» «Non perdono per doppia ragione ai grandi spiriti di mostrarsi meschini. Descartes, per disgrazia, si preoccupava di salvarsi la vita e di assicurarsi il pane quotidiano, che poteva dover solo alla generosità dei potenti. Aggiungerò che, a parer mio, se si è dimostrato un genio nelle matematiche pure, non altrettanto può dirsi per la dinamica e, in genere, per la fisica. I suoi esperimenti sulla caduta dei corpi, ammettendo ch'egli abbia fatto vere e proprie esperienze materiali, sono embrionali. Ci sarebbe voluto, per completarli, che egli enunciasse un fatto straordinario ma che, secondo me, non è impossibile, e cioè che l'aria non è vuota.» «Che volete dire? I vostri paradossi mi sgomentano!» «Voglio dire che l'aria nella quale ci muoviamo non sarebbe, in realtà, che un elemento denso, un po' come l'acqua che respirano i pesci: elemento di una certa elasticità, d'una certa resistenza, un elemento, insomma, invisibile ai nostri occhi, ma reale.» «Mi spaventate», disse ancora l'italiano, alzandosi e movendo alcuni passi agitati attraverso la stanza. Arrestandosi, aprì a varie riprese la bocca come un pesce, scosse la testa e tornò a sedersi all'angolo del camino. «Sarei tentato di considerarvi un pazzo», aggiunse poi, «eppure c'è qualcosa, dentro di me, che vi approva. La vostra teoria sarebbe il perfezionamento dello studio cui mi son dedicato sui liquidi in movimento. Ah! non rimpiango questo pericoloso viaggio che mi procura la gioia di parlare con un profondo sapiente. Ma state in guardia, amico mio. Se io, le cui parole non sono mai giunte all'audacia delle vostre, sono considerato eretico e costretto a vivere esiliato in Svizzera, che sarà di voi?» «Io non cerco di convincere nessuno», disse il conte, «se non spiriti iniziati alle scienze e che possono comprendermi. Non ho neppure l'ambizione di scrivere e di far pubblicare il risultato delle mie ricerche. Mi dedico ad esse per piacere, come prendo piacere a verseggiare qualche canzone assieme a cortesi dame. Vivo tranquillo nel mio palazzo tolosano, e chi potrebbe venire a disturbarmi?» «L'occhio del potente è ovunque», disse Bernalli gettando intorno uno sguardo
disincantato. In quell'istante, Angelica percepì un lievissimo rumore non lontano da lei, e le parve che il tendaggio di una porta si fosse mosso. Ne provò un'impressione spiacevole. Non seguì più che distrattamente, da quel momento, le conversazioni dei due uomini. Il suo sguardo fissava, senza ch'ella se ne rendesse conto, il volto di Goffredo di Peyrac. La penombra che invadeva la stanza in quel precoce crepuscolo d'inverno attenuava i lineamenti sfigurati del gentiluomo, e solo risaltavano gli occhi neri pieni d'una luce appassionata, lo splendore dei denti sul sorriso con cui accompagnava disinvolto le sue parole più serie. Il cuore di Angelica cominciava ad esser turbato. Allorché Bernalli si fu ritirato per mettersi in ordine prima di pranzo, Angelica chiuse la finestra. Alcuni valletti disposero candelieri sulle tavole, mentre una servente rianimava il fuoco. Goffredo di Peyrac si alzò, accostandosi al vano in cui stava sua moglie. «Siete molto silenziosa, amica mia. Del resto, è vostra abitudine. Vi siete addormentata ascoltando i nostri discorsi?» «No, mi hanno, al contrario, interessato moltissimo», fece lentamente Angelica, e, per la prima volta, il suo sguardo non sfuggiva quello del marito. «Non pretendo di aver capito tutto, ma vi confesso che mi piacciono più queste discussioni che non le poesie delle dame e dei loro paggi.» Goffredo di Peyrac posò un piede sul gradino della finestra e si chinò per osservare Angelica attentamente. «Siete una strana piccola donna. Credo che cominciate ad ammansirvi, ma seguitate a meravigliarmi. Ho usato molti mezzi diversi di seduzione per conquistare la donna che desideravo, ma non avevo ancora mai pensato a far entrare nel mio giuoco le matematiche.» Angelica non poté trattenersi dal ridere, mentre una fiamma le saliva alle gote. Abbassò gli occhi sul suo lavoro, un po' impacciata. Poi chiese, per mutare argomento: «Voi dunque vi dedicate a esperimenti di fisica in quel misterioso laboratorio che Kuassi-Ba custodisce così gelosamente?» «Sì e no. Posseggo alcuni apparecchi di misura, ma il laboratorio mi serve soprattutto per ricerche chimiche su metalli come l'oro e l'argento.» «L'alchimia», ripeté Angelica colpita, e la visione del castello di Gilles di Retz passò dinanzi agli occhi. «Perché volete l'oro e l'argento?» chiese di scatto con foga. «Si direbbe che li cercate dappertutto! Non solo nel vostro laboratorio, ma in Spagna, in Inghilterra e persino in quella piccola miniera di piombo che la mia famiglia possedeva nel Poitou... E Molines mi disse che avevate una miniera d'oro nelle montagne dei Pirenei. Perché volete tanto oro?» «Occorre molto oro e argento per essere liberi, signora. E sapete ciò che dice Andrea le Chapelain, all'inizio del suo manoscritto sull'Arte d'amare? “Per occuparsi d'amore, non bisogna avere preoccupazioni materiali”.» «Non crederete di conquistarmi con doni e ricchezze!» esclamò Angelica con violenza. «Non credo nulla, mia cara. Vi aspetto. Sospiro. “Ogni amante deve impallidire
in presenza di colei che ama”. Io impallidisco. Trovate forse ch'io non impallidisca abbastanza? So bene che ai trovatori si raccomanda di porsi in ginocchio dinanzi alla loro dama, ma è un movimento che alla mia gamba riesce piuttosto male. Ne chiedo scusa! Ah! Siate certa ch'io posso ripetere con Bernardo di Ventadour, il divino poeta: “I tormenti d'amore che m'ispira questa bella dama di cui sono lo schiavo sottomesso mi condurranno a morte!”. E io muoio, signora.» Angelica scosse il capo ridendo. «Non vi credo. Non sembra che stiate per morire... Vi chiudete nel vostro laboratorio, oppure frequentate i palazzi di quelle preziose dame tolosane, per guidarle nelle loro composizioni poetiche.» «Sentite forse la mia mancanza, signora?» Ella esitò, con un sorriso sulle labbra, desiderando seguitare su un tono di scherzo. «Sono le distrazioni che mi mancano, e voi siete la distrazione e la varietà personificate.» Riprese il lavoro, e non sapeva se le piaceva o temeva l'espressione con cui Goffredo di Peyrac la guardava di tanto in tanto durante quelle allegre schermaglie che la vita mondana moltiplicava fra loro. A un tratto, egli cessava di far dell'ironia e, nel silenzio, ella aveva l'impressione di subire uno strano dominio che l'avvolgeva bruciandola. Le pareva d'esser nuda, i piccoli seni puntavano sotto le trine del corsetto: e avrebbe voluto chiudere gli occhi. “Approfitta del fatto che la mia diffidenza è addormentata per gettarmi un incanto”, disse fra sé quella sera con un lieve brivido di terrore e di piacere. Goffredo di Peyrac attirava le donne. Angelica non poteva negarlo, e ciò che, per lei, era stato nei primi giorni causa di stupefazione, le diveniva comprensibile. Non le erano sfuggite certe espressioni turbate, certi trasalimenti delle sue belle amiche allorché s'avvicinava per i corridoi il passo esitante del gentiluomo zoppo. Appena compariva, una corrente febbrile attraversava le donne riunite. Egli sapeva parlar loro. Aveva frasi mordenti e dolci, conosceva le parole che danno a colei che le riceve l'impressione d'esser notata fra tutte. Angelica s'impennava come un cavallo restio sotto la voce carezzevole. Ricordava con una sensazione di vertigine le confidenze della sua nutrice: «Attira le donne con strani canti...» Quando Bernalli riapparve, Angelica si alzò per andargli incontro e sfiorò, passando, il conte di Peyrac, dolendosi d'un subito che la mano di lui non si fosse tesa per afferrarla alla vita.
16 Una risata isterica scoppiò attraverso la galleria deserta. Angelica si fermò di colpo, guardandosi intorno. La risata si prolungava fino alle note più acute, ricadendo in una specie di singhiozzo, per risalire poi ancora. Era una donna a ridere così, una donna che Angelica non vedeva. Quell'ala del palazzo in cui ella s'era avventurata in quell'ora calda, era tranquilla. Aprile, con i primi calori, metteva un certo torpore nel palazzo del Gaio Sapere. I paggi dormivano per le scale. Angelica, cui non piaceva fare la siesta, si era messa a percorrere la sua dimora, della quale non conosceva ancora tutti gli angoli. Le scale, le sale, i corridoi interrotti da loggiati erano innumerevoli. Attraverso le finestre e i lucernari, si scorgeva la città con i suoi alti campanili dai vani tinti in azzurro, le sue grandi vie rosse lungo le rive della Garonna. Tutto dormiva. La lunga gonna di Angelica faceva sul pavimento un fruscio come di foglie. A un tratto, era scoppiata quell'acuta risata. La giovane donna scorse in fondo alla galleria una porta socchiusa. Si udì un rumore di acqua gettata a terra e la risata s'interruppe di colpo. La voce di un uomo disse: «Ora che vi siete calmata, starò a sentirvi.» Era la voce di Goffredo di Peyrac. Angelica si accostò pian pianino e guardò attraverso la fessura della porta. Suo marito era seduto. Ella non vedeva che lo schienale della poltrona e una delle sue mani appoggiata sul bracciolo, che reggeva uno di quei bastoncini di tabacco ch'egli chiamava sigari. Dinanzi a lui, inginocchiata sul pavimento in una pozza d'acqua, stava una bellissima donna che Angelica non aveva mai visto. Era vestita elegantemente di nero, ma doveva essere bagnata fino alla camicia. Accanto a lei, una conca di bronzo vuota indicava senza possibilità di equivoco l'uso cui era servita l'acqua in essa contenuta, destinata di solito a tenere in fresco le bottiglie di vino. La donna, con i lunghi capelli neri incollati alle tempie, guardava sgomenta i suoi polsini di merletto gualciti. «A me!» gridò con voce soffocata, «a me un simile trattamento!» «Bisognava pure, bellezza mia», rispose Goffredo con tono d'indulgente rimprovero. «Non potevo permettere che continuaste a perder più a lungo la vostra dignità dinanzi a me. Non me lo avreste mai perdonato. Suvvia, rialzatevi, Carmencita. Con questo caldo, i vostri vestiti saranno presto asciutti. Sedetevi in questa poltrona dinanzi a me.» Ella si risollevò a fatica. Era una donna alta, d'una bellezza opulenta sul tipo di quelle che i pittori Rembrandt e Rubens esaltavano. Sedette nella poltrona indicata. I suoi occhi neri, dilatati largamente, guardavano fissi davanti a loro con espressione selvaggia. «Che cosa c'è», riprese il conte, e Angelica trasalì perché quella voce proveniente da una persona invisibile aveva un fascino di cui non s'era mai resa conto. «Suvvia, Carmencita, è già più di un anno che avete lasciato Tolosa. Ve
n'andavate a Parigi con vostro marito, la cui elevata posizione era una certezza di vita brillante. Avete spinto l'ingratitudine verso la nostra piccola società provinciale fino a non dar mai alcuna notizia. Ed ecco che capitate all'improvviso nel palazzo del Gaio Sapere, reclamando... che cosa, poi?» «L'amore!» rispose lei con voce rauca e ansimante. «Non posso più vivere senza di te. Ah! Non interrompermi. Non puoi immaginare quale sia stato il mio supplizio durante questo lungo anno. Sì, credevo che Parigi avrebbe soddisfatto la mia sete di piaceri e di godimenti. Ma ecco che, nel mezzo delle più belle feste di corte, mi assaliva la noia. Pensavo a Tolosa, a questo palazzo del Gaio Sapere. Mi sorprendevo a parlarne, con occhi che mi brillavano, e la gente mi prendeva in giro. Ho avuto degli amanti. La loro volgarità mi offendeva. Allora ho compreso: eri tu che mi mancavi. La notte, rimanevo ad occhi aperti e ti vedevo. Vedevo i tuoi occhi, illuminati dal fuoco delle tue fucine, così ardenti da farmi venir meno, le tue mani bianche e sapienti...» «La mia graziosa andatura!» esclamò lui con una risatina. Si alzò e le si accostò accentuando la sua claudicazione. Ella lo guardò. «Non tentare di staccarmi da te col disprezzo», disse. «Che cosa contano il tuo difetto, le tue ferite, per le donne che tu hai amato, in confronto al dono che fai loro!» E tese le mani verso di lui. «Tu dai loro la voluttà», sussurrò. «Prima di conoscerti, ero fredda. Tu hai acceso in me un fuoco che mi divora.» Il cuore di Angelica batteva da spezzarsi. Ella temeva non sapeva che cosa, forse che la mano di suo marito si posasse su quella bella spalla dorata, offerta impudicamente. Ma il conte rimaneva appoggiato a una tavola e fumava con aria impassibile. Si presentava di profilo, in modo che non si vedeva il lato devastato del suo volto. Era, ad un tratto, un altro uomo quello che Angelica scopriva, un uomo i cui lineamenti avevano la purezza di una medaglia sotto il denso flusso dei neri capelli. «Non sa veramente amare colui che ha in sé una troppo grande lussuria», disse egli, mentre con gesto indifferente emetteva dalla bocca una nuvola di fumo azzurrino. «Ricorda i precetti dell'amor cortese che il palazzo del Gaio Sapere ti ha insegnato. Ritorna a Parigi, Carmencita, quello è il rifugio delle persone della tua specie.» «Se tu mi scacci, mi ritirerò in convento. Del resto, mio marito vuole rinchiudermici.» «Ottima idea, carissima. Sento dire che si fondano un gran numero di pii asili a Parigi, dove la devozione è di moda. La regina Anna d'Austria non ha proprio ora terminato il bellissimo convento del Val-de-Grâce, per ospitare delle benedettine? E anche la Visitazione di Chaillot è molto in voga.» Gli occhi di Carmencita lanciavano fiamme. «Sicché, è tutto questo l'effetto che ciò produce in te? Io sono pronta a seppellirmi sotto un velo, e tu neppure mi compiangi?» «Le mie risorse di pietà sono minime. Se, in tutto questo affare, c'è qualcuno da compiangere, questi è il duca di Mérecourt, tuo marito, ch'ebbe l'imprudenza di
portarti via da Madrid nei carri della sua ambasciata. E non tentare più di mischiarmi alla tua vulcanica esistenza, Carmencita. Per l'ultima volta, ti dirò alcuni precetti dell'amore galante: “Un amante deve avere una sola amante per volta.” E anche questo: “Amore nuovo scaccia l'antico”.» «Parli per me o per te?» chiese lei con un rauco grido che la proiettò in avanti. Sotto i neri capelli, nelle nere vesti, il suo volto era divenuto d'un pallore marmoreo. «É a causa di quella donna, di tua moglie, che parli così? Credevo che la sposassi per soddisfare la tua cupidigia. Una storia di terreno, mi dicevi. Ma l'hai scelta per amante?... Ah! sono certa che fra le tue mani diverrà una brava allieva. Come hai fatto, tu, a innamorarti di una ragazza del Nord?» «Non è del Nord, è del Poitou. Conosco quella regione, l'ho percorsa: è un dolce paese che appartenne un tempo al regno d'Aquitania. Nel dialetto dei contadini si ritrova la lingua d'oc, e anche Angelica ha il colorito delle nostre ragazze.» «Vedo che non mi ami più», gridò all'improvviso la donna. «Ah! ti capisco più di quanto tu non creda.» Scivolò ginocchioni, aggrappandosi al farsetto di Goffredo. «É ancora tempo. Amami. Prendimi. Prendimi!» Angelica non resse più e se ne fuggì. Attraversò correndo la galleria, scese la scala a chiocciola della torre. In fondo ai gradini, si scontrò con Kuassi-Ba che strimpellava una chitarra canticchiando con la sua grossa voce vellutata un ritornello del suo paese. Le sorrise con tutti i denti e gorgheggiò: «Buonciorno, medema.» Ella non rispose, seguitando a correre. Il palazzo si svegliava. Nel salone, alcune dame erano già riunite, con i libri in mano e sorseggiando bevande fresche. Una di esse chiamò: «Angelica, cuor mio, trovateci vostro marito. Con questo caldo, la nostra “immaginativa” 8 soffre di languidezza e, per discorrere...» Angelica non si fermò, ma ebbe la forza di lanciare a quelle ciarliere un sorriso. «Discorrete! Discorrete! Torno fra poco.» Giunse infine nella sua camera e si abbatté sul letto. «É troppo», ripeteva. Ma, a poco a poco, dovette confessare a sé stessa di non sapere perché fosse sconvolta. Comunque, era intollerabile. Così non poteva seguitare. Angelica morse con rabbia il fazzolettino di merletto e si guardò intorno con aria cupa. Troppo amore, ecco ciò che la esasperava. Tutti parlavano d'amore, discorrevano d'amore in quel palazzo, in quella città dove le folgori dell'arcivescovo tuonavano di tanto in tanto dall'alto del pulpito, dannando al fuoco dell'inferno, in mancanza di quello dell'Inquisizione, i gaudenti, i libertini e le loro amanti coperte di gioielli e di ricche vesti. Che cosa non aveva gridato la scorsa domenica in faccia alle grandi dame di Tolosa! «Credete dunque, femmine svergognate, che guadagnerete il Paradiso misurando la lunghezza dei vostri strascichi? Ah! quando vedo entrare nel sacro recinto della 8
Linguaggio delle «Preziose» del XVII secolo.
chiesa quelle ragazze orgogliose dei loro mantelli come se fossero regine o principesse del sangue, vorrei consigliare ai paggi e ai lacché che tengon loro sollevata la coda di sollevare anche la camicia e di fustigarle...» Le dame s'erano portate il ventaglio dinanzi al volto, facendo uno sguardo rapito. L'arcivescovo era impagabile. Lo reputavano affascinante. Il suo confessionale era sempre occupato. Tuttavia, Angelica gli conservava rancore. “Era a me che mirava, perché ero proprio io quella che portava lo strascico più lungo”, pensava. L'accusa, in verità, era troppo ingiusta, perché tutti, al palazzo del Gaio Sapere, parlavano d'amore, mentre Angelica era sola... Gaio Sapere! Che significava? Gaio Sapere! Dolce Sapere! Quel segreto faceva brillare dei begli occhi, sospirare dei bei seni, ispirava i poeti, dava estro ai musicisti. E chi dirigeva quel ballo tenero e folle era dunque l'infermo volta a volta beffardo e lirico, quel mago che aveva asservito Tolosa con la ricchezza e il piacere! Mai, dal tempo dei trovatori, Tolosa aveva assistito a una simile fioritura, a simili trionfi. Essa scuoteva il giogo degli uomini del Nord, ritrovava il suo vero destino... «Oh! lo detesto! lo odio», gridò Angelica pestando i piedi. Scosse con violenza una campanella di argento dorato e, quando Margherita comparve, le ordinò di far venire una portantina e una scorta perché voleva recarsi immediatamente al padiglione sulla Garonna.
Scesa la sera, Angelica rimase a lungo sulla terrazza della sua camera. A poco a poco la tranquillità del paesaggio lungo il fiume le calmava i nervi. Non le sarebbe stato possibile, quella sera, restare a Tolosa, andare a passeggio in carrozza sulla Feria per ascoltare i canti e quindi presiedere al grande pranzo che il conte di Peyrac avrebbe dato nei giardini, con illuminazione di lanterne veneziane. S'era aspettata che il marito l'avrebbe fatta tornare di forza per ricevere gli ospiti, ma nessun messaggero si era presentato alla villa per reclamare la fuggitiva. Ecco dunque la prova che non avevano bisogno di lei. Nessuno, qui, aveva bisogno di lei. Era una straniera. Poiché Margherita appariva delusa di non poter assistere alla festa, ella l'aveva rimandata al palazzo, tenendo con sé soltanto una giovane cameriera, e alcune guardie, dato che la periferia di Tolosa, dove i signori facevano costruire le loro ville non era al sicuro dai ladri o dai disertori spagnoli. Solitaria, Angelica cercava di raccogliersi e di veder chiaro dentro di sé. Suo padre l'aveva spesso avvisata che, un giorno, ella sarebbe stata punita del suo difetto d'indiscrezione. In verità, Angelica non si pentiva di nulla, anzi non aveva alcuno scrupolo ad agire così. Era forse colpa sua se sorprendeva molte cose che non erano destinate a lei, se il suo passo era lieve, se possedeva il dono di rendersi invisibile che un tempo le attribuivano i contadini di Monteloup? Comunque fosse, ella preferiva sapere. Sapere che cosa? Doveva render giustizia a Goffredo di Peyrac: egli non l'aveva tradita in nulla. Perché, allora, si sentiva umiliata sino alle lagrime? Eppure, la sua ingenuità non giungeva al punto di credere che da oltre un anno ch'era la moglie del conte di Peyrac, questi non fosse andato a cercare altrove ciò ch'ella gli rifiutava. Del
resto, a Tolosa, i mariti ingannati e le mogli tradite rientravano nel costume di tutti i giorni, con la differenza che si rideva dei mariti ingannati mentre si compiangevano le mogli tradite. Ma, come a Parigi e come alla corte del re, non era di buon tono mostrare una troppo grande fedeltà coniugale: questo era da plebei e da gente del volgo. Angelica, agitando la fronte contro la balaustra, si diceva tristemente: «Non conoscerò mai l'amore, io!»
17 Quando infine, stanca e non sapendo che fare, stava per ritirarsi nella sua camera, una chitarra cominciò a suonare sotto le sue finestre. Angelica si sporse, ma non distinse nessuno fra le ombre oscure dei boschetti. «Che sia venuto a raggiungermi Enrico? É gentile, quel ragazzo. Ha pensato di distrarmi...» Ma il musicista invisibile cominciava a cantare. La sua voce bassa e maschia non era quella del paggio. Fin dalle prime note, la giovane donna si sentì presa il cuore. Quel timbro dalle inflessioni a volta a volta vellutate e sonore, dalla dizione perfetta, era d'una qualità che non sempre possedevano i galanti amatori di cui, alla notte, Tolosa era piena. Nella Linguadoca, le buone voci non sono rare. La melodia nasce spontanea su labbra abituate al riso e alle declamazioni. Ma, questa volta, l'artista s'imponeva. Il suo fiato era di eccezionale potenza. Pareva che il giardino ne fosse invaso, che la luna ne vibrasse. Egli cantava un'antica canzone malinconica in quella lingua d'oc di cui il conte di Peyrac vantava così spesso la finezza, e ne poneva in rilievo ogni sfumatura. Angelica non capiva tutte le parole, ma una ritornava di continuo: Amore! Amore!
Amore! Una certezza le si impose: «É lui, è l'ultimo dei trovatori, è la Voce d'oro del regno!» Non aveva mai udito cantare così. A volte le dicevano: «Ah! se udiste la Voce d'oro del regno! Ma non canta più. Quando canterà di nuovo?» E le gettavano uno sguardo malizioso, compiangendola perché non conosceva quella celebrità della provincia. «Udirlo una volta e poi morire!» diceva la signora Aubertré, moglie del Grande Scabino della città e cinquantenne dal cuore ardente. «É lui! É lui!» si ridisse Angelica. «Come mai è qui? Forse per me?» Scorse la propria immagine nel grande specchio della camera: aveva una mano appoggiata sul petto e gli occhi dilatati. Si prese in giro: «Quanto sono ridicola! Forse non è che Andijos o un altro spasimante che mi manda un musicista a pagamento per farmi la serenata...»
Tuttavia, aprì la porta. Con le mani congiunte sul corsetto per contenere i battiti del cuore, ella scivolò attraverso le anticamere, scese le scale di marmo bianco, uscì nel giardino. Stava per cominciare la vita per Angelica di Sancé di Monteloup, contessa di Peyrac? L'amore, infatti, è la vita!
La voce proveniva da una pergola situata sul ciglio del fiume, in cui stava una statua della dea Pomona. Come la giovane donna si avvicinava, il cantante tacque, ma seguitò a pizzicare in sordina le corde della chitarra. La luna, quella sera, non era ancora piena. Aveva la forma di una mandorla. Il suo chiarore bastava però a illuminare il giardino, e Angelica scorse nell'interno della pergola una figura nera seduta contro lo zoccolo della statua Al vederla, lo sconosciuto non si mosse. “É un negro”, pensò Angelica delusa. Ma si accorse subito dell'errore. L'uomo portava una maschera di velluto nero, ma le sue mani bianchissime posate sullo strumento non lasciavano alcun dubbio sulla sua razza. Un fazzoletto di raso nero annodato sulla nuca, all'italiana, gli nascondeva i capelli. Per quanto ci si poteva render conto nell'oscurità della pergola, il suo costume un po' logoro era uno strano miscuglio fra quello di un servitore e quello di un commediante. Egli aveva grosse scarpe di castoro come ne portano quelli che camminano molto: i carrettieri e i venditori ambulanti, ma dalle maniche della giubba uscivano gale di pizzo. «Cantate in modo stupendo!» disse Angelica, vedendo che quello non si muoveva, «Ma sarei curiosa di sapere chi vi ha mandato.» «Nessuno, signora. Sono venuto qui sapendo che il padiglione accoglie una delle più belle dame di Tolosa.» L'uomo parlava con voce bassa e assai lenta, come temesse di essere udito. «Sono arrivato a Tolosa questa sera e mi sono recato al palazzo del Gaio Sapere, dove c'era allegra e numerosa compagnia, per cantarvi le mie canzoni. Ma, quando ho saputo che voi non eravate presente, sono andato via per raggiungervi, perché la reputazione della vostra bellezza è così grande nella nostra provincia che da molto tempo desideravo incontrarvi.» «La vostra reputazione è altrettanto grande. Non siete voi quello che chiamano la Voce d'oro del regno?» «Sono io, signora. E sono il vostro umile servitore.» Angelica sedette sul banco di marmo che girava intorno alla pergola. Il profumo del caprifoglio rampicante inebriava. «Cantate ancora», disse. Di nuovo si alzò la voce calda, ma più dolce, ora, e come soffocata. Non era più un canto di richiamo, ma un canto di tenerezza, una confessione. «Signora», disse il musicista interrompendosi, «perdonate la mia audacia, vorrei tradurvi in lingua francese un ritornello che il fascino dei vostri occhi m'ispira.» Angelica fece di sì con il capo. Non sapeva più da quanto tempo fosse là. Nulla aveva più importanza. La notte era loro.
Egli preludiò piuttosto a lungo, come cercasse il filo della melodia, quindi, dopo un profondo sospiro, cominciò: «Gli occhi verdi hanno il colore dell'oceano, I flutti si sono richiusi su me, E naufrago d'amore, Io erro nel profondo oceano, Del suo cuore.» Angelica aveva chiuso gli occhi. Più ancora delle parole ardenti, la voce l'intorpidiva in un piacere ch'ella non aveva mai provato. «Quando apre i suoi occhi verdi, Le stelle vi si riflettono, Come in fondo ad uno stagno in primavera.» “É adesso che bisogna ch'egli venga”, diceva fra sé Angelica, “perché questo istante non potrà più ripetersi. Non si può vivere due volte una cosa simile. Una cosa che finalmente è tanto simile a tutte le storie d'amore che ci raccontavano un tempo in convento.” La voce s'era taciuta. Lo sconosciuto scivolò sul banco. Dal braccio sicuro che l'afferrò, dalla mano che le sollevò il mento con imperiosa dolcezza, Angelica riconobbe un padrone che aveva dovuto contare più di una tenera vittoria. Ebbe un qualche rimpianto, ma appena le labbra del cantore sfiorarono le sue, fu presa da vertigini. Non sapeva che le labbra di un uomo potessero avere quella freschezza di petalo, quella struggente tenerezza. Un braccio muscoloso la piegava, ma la bocca ancora fremente delle affascinanti parole, e quella grazia e quella forza trascinavano Angelica in un turbine in cui vanamente cercava di ritrovare un qualche pensiero. “Non debbo farlo... É male!... Se Goffredo ci sorprendesse...” Poi tutto si fece oscuro. Le labbra dell'uomo schiudevano le sue. Il suo respiro ardente le riempì la bocca, le sparse nelle vene un delizioso benessere. Ad occhi chiusi, si abbandonò all'interminabile bacio, voluttuoso possesso che già ne lasciava immaginare e ne chiamava un altro. Le onde del piacere rifluivano in lei, piacere troppo nuovo per il suo corpo di fanciulla, tanto ch'ella ne risentì a un tratto come un'irritazione, un dolore, e si ritrasse con un brivido violento. Le sembrava che stesse per venir meno o per piangere. Vide che le dita dell'uomo le accarezzavano il petto nudo ch'egli aveva pian piano liberato dal corsetto mentre la baciava. Si allontanò un poco, rimise ordine nelle vesti. «Perdonatemi», balbettò, «dovete giudicarmi molto nervosa, ma non sapevo... non sapevo...» «Che cosa non sapevate, cuor mio?» Poiché ella taceva, lui sussurrò: «Che un bacio potesse essere così dolce?» Angelica si alzò, andando ad appoggiarsi all'ingresso della pergola. Fuori, la luna declinava e si tingeva d'oro calando verso il fiume. Dovevano essere passate alcune ore da quando Angelica era scesa in giardino. Si sentiva felice, meravigliosamente felice. Non v'era più nulla che avesse importanza, tranne poter rivivere simili ore. «Voi siete fatta per l'amore», mormorò il trovatore. «Si capisce solo a toccare la vostra pelle. Colui che saprà destare il vostro bel corpo vi condurrà al sommo della voluttà.» «Tacete! Non dovete parlare così. Io sono sposata, lo sapete, e l'adulterio è un
peccato.» «É un peccato ancora più grande che una dama così bella accetti per marito un signore zoppo.» «Io non l'ho accettato: mi ha comprata.» Si pentì subito di quelle parole che turbavano l'ora serena. «Cantate ancora», pregò. «Ancora una volta, e poi ci lasceremo.» Egli si alzò per prendere la chitarra ma, nel movimento che fece, v'era qualcosa d'insolito che insospettì Angelica. Ella lo guardò meglio. Non sapeva perché, ma aveva paura. Mentre egli cantava un ritornello assai basso, di una strana nostalgia, ella lo osservava attentamente. Poco prima, mentre la baciava, ella aveva avuto per un attimo l'impressione di una presenza familiare e ora si ricordava: il respiro del cantore mescolava al profumo di violetta il particolare aroma del tabacco... Il conte di Peyrac masticava a volte pasticche di violette... E inoltre fumava. Un tremendo sospetto pervadeva Angelica... Poco prima, quand'egli s'era alzato per prendere la chitarra, aveva vacillato stranamente... Angelica mandò un grido di terrore, e si mise a strappare il caprifoglio della pergola pestando i piedi. «Oh! è troppo, è troppo... É mostruoso... Toglietevi la maschera, Goffredo di Peyrac... Smettete questa mascherata o vi strappo gli occhi, vi sgozzo, vi...» La canzone s'interruppe di colpo. La chitarra emise un lugubre decrescendo. Sotto la maschera di velluto, i denti bianchi del conte di Peyrac brillavano in una enorme risata. Egli si avvicinò con il suo passo ineguale. Angelica era atterrita, ma soprattutto fuori di sé. «Vi strapperei gli occhi», ripeté a denti stretti. Egli le prese i polsi, seguitando a ridere. «Che resterebbe allora di questo orribile signore zoppo, se gli strappaste gli occhi?» «Avete mentito con inqualificabile impudenza. Mi avete fatto credere ch'eravate la... la Voce d'oro del regno.» «Ma io sono la Voce d'oro del regno!» E siccome lei lo guardava sconcertata: «Che c'è di straordinario? Avevo un certo dono. Ho lavorato con i più grandi maestri italiani. Cantare è un'arte di società che si pratica molto ai giorni nostri. Francamente, mia carissima, la mia voce non vi è piaciuta?» Angelica voltò via il capo e si asciugò in fretta le lagrime di dispetto che le scorrevano lungo le guance. «Come mai io non ho indovinato nulla sino ad ora del vostro dono, non ho sospettato nulla?» «Avevo chiesto che non ve ne parlassero. E, forse, non mettevate molta attenzione nello scoprire i miei talenti.» «Oh! è troppo!» ripeté Angelica. Ma, passato il primo momento d'ira, le veniva ora una gran voglia di ridere. E dire ch'egli aveva spinto il cinismo sino ad incoraggiarla a ingannarlo con lui
stesso! Aveva davvero il diavolo in corpo!... Era il diavolo in persona! «Non vi perdonerò mai questa odiosa commedia», disse stringendo le labbra e raccogliendo tutta la dignità che poteva. «Adoro recitare commedie. Vedete, mia cara, l'esistenza non è sempre stata indulgente con me, e così spesso si è sghignazzato al mio passaggio che provo a mia volta un infinito piacere a prendermi giuoco degli altri.» Ella non poté fare a meno di alzare verso il volto mascherato uno sguardo grave. «Vi siete davvero preso giuoco di me?» «Niente affatto, e voi lo sapete bene», rispose il conte.
Senza una parola, Angelica si volse e si allontanò. «Angelica! Angelica!» La richiamava a voce bassa. Diritto sulla soglia della pergola, nell'atteggiamento misterioso di un Arlecchino, egli si posava un dito sulle labbra. «Di grazia, signora, non raccontate questa storia a nessuno, neppure alla vostra cameriera preferita. Se si viene a sapere che abbandono i miei ospiti, che mi travesto e mi maschero per andare a rubare un bacio a mia moglie, sarò coperto di ridicolo.» «Siete insopportabile!» gridò lei. Tenendosi la gonna con una mano, risalì correndo il viale sabbioso. Per le scale, si accorse che stava ridendo. Si svestì strappando i fermagli e pungendosi colle spille, nervosa com'era. Voltandosi e rivoltandosi, ardente, fra le lenzuola, non poteva prendere sonno. Il volto mascherato, il volto ferito, il profilo dai lineamenti puri le passavano e ripassavano dinanzi. Qual era l'enigma di quell'uomo inafferrabile? Di colpo si ribellava, poi il ricordo del piacere provato fra le sue braccia l'illanguidiva. «Voi siete fatta per l'amore, signora.» Finì con l'addormentarsi: nel sonno, gli occhi di Goffredo di Peyrac le apparivano “tutti illuminati dal fuoco delle sue fucine”, ed ella vedeva in essi danzare le fiamme.
18 Angelica stava seduta nella galleria degli specchi veneziani del palazzo, e non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto e come si sarebbe comportata. Dopo essere tornata dal padiglione sulla Garonna, quella mattina stessa, non aveva riveduto Goffredo di Peyrac. Clemente la informò che il conte si era chiuso assieme al moro Kuassi-Ba negli appartamenti dell'ala destra, dove era solito dedicarsi ai suoi lavori di alchimia. Angelica si morse le labbra dal dispetto. Era probabile che Goffredo non sarebbe ricomparso se non dopo molte ore, e del resto, ella non lo desiderava. La cosa le era indifferente. Era ancora troppo irritata per la mistificazione di cui era stata oggetto la sera avanti. La giovane donna decise di recarsi nelle dispense dove quel giorno si imbottigliavano i primi liquori della stagione. La tavola del Gaio Sapere era considerata la più raffinata della provincia. Goffredo di Peyrac in persona s'interessava molto alla lista dei pranzi che offriva ai suoi ospiti, e Clemente, che in quel campo aveva innegabili qualità, aveva assunto un posto di primo piano nell'andamento della casa. Però, appena Angelica era entrata nelle cucine odorose di arancio, di anice e di spezie, un negretto ansimante corse ad avvertirla che il barone Benedetto di Fontenac, arcivescovo di Tolosa, chiedeva di salutare lei e suo marito. Il mattino non era il momento usuale delle visite, riservate alle ore fresche della sera. E, inoltre, l'arcivescovo, dopo non si sa quale nuova disputa sulle precedenze, non aveva messo piede da molti mesi nel palazzo del conte di Peyrac, ch'egli accusava di ostacolare la sua influenza sullo spirito dei tolosani. Incuriosita e vagamente preoccupata, Angelica si tolse il grembiule che si era appuntata sul vestito e tornò indietro in fretta aggiustandosi con le mani i capelli che, secondo la moda, portava abbastanza lunghi e ricadenti in riccioli sulla berta di pizzo. Giunse nella galleria d'ingresso a tempo per vedere drizzarsi in cima alla scalinata l'alta figura del barone arcivescovo in tonaca rossa e collare bianco. Nei giardini in basso, la scorta di monsignore: lacché con la spada al fianco, paggi e nobili a cavallo facevan gran rumore intorno alla carrozza cui erano attaccati sei cavalli bai. Angelica si precipitò in ginocchio per baciare l'anello pastorale ma, risollevandola, fu l'arcivescovo a baciarle la mano per precisare con quel gesto mondano che la sua visita non aveva nulla di solenne. «Di grazia, signora, non fatemi sentir troppo, con le vostre riverenze, quanto io sia un uomo anziano di fronte alla vostra giovinezza.» «Monsignore, cercavo solo di testimoniarvi il rispetto che ho per un uomo illustre e rivestito di una dignità sacerdotale ch'egli ha ricevuto da sua santità il Papa e da Dio.» Ogni volta che pronunciava parole di tal genere, Angelica non poteva fare a meno di rivedere madre Sant'Anna, sua insegnante di educazione mondana nel convento di Poitiers. Madre Sant'Anna sarebbe stata contenta di un'allieva che pure era stata così indocile.
Il prelato, intanto, si toglieva il cappello e i guanti e li consegnava a un giovane abate del seguito, congedandolo poi con un gesto. «I miei mi attenderanno fuori. Vorrei, signora, parlarvi lungi da frivole orecchie.» Angelica gettò uno sguardo ironico al giovane abate accusato di avere frivole orecchie, e che si faceva rosso. Nel salone la giovane donna, dopo aver ordinato rinfreschi, si scusò per l'assenza del marito, che avrebbe fatto avvertire. «Io stessa debbo scusarmi per avervi fatto aspettare: ma ero nelle dispense, a sorvegliare la confezione dei liquori. Ma sto abusando del vostro tempo, monsignore, parlandovi di meschini particolari.» «Nulla è meschino dinanzi a nostro Signore. Ricordatevi di Marta la servente. É così raro, ai giorni nostri, vedere una gran dama occuparsi degli affari di casa! Eppure, è la padrona che dà il tono della dignità e dell'attività ai suoi domestici. E quando, per giunta, si unisce come nel vostro caso, contessa, la grazia di Maria Maddalena alla saggezza di Marta...» Ma l'arcivescovo parlava distrattamente, e la leggerezza mondana non pareva un'arte della quale egli si compiacesse. Nonostante la sua prestanza e lo sguardo volontariamente diritto dei suoi occhi azzurri, v'era in lui qualche cosa di sospettoso che sempre impressionava i suoi interlocutori. Goffredo aveva una volta notato che l'arcivescovo era un uomo che eccelleva nel mettere la gente dalla parte del torto. Dopo essersi sfregate le mani sovra pensiero, egli ripeté che provava un grande piacere nel rivedere una giovane donna le cui apparizioni in arcivescovado erano state assai rare dal giorno ormai lontano in cui egli aveva benedetto le sue nozze nella cattedrale di San Severino. «Vi vedo alla messa, e non ho che da lodare la vostra assiduità ai servizi quaresimali. Ma confesso, figliola mia, che sono stato un po' deluso per non avervi mai udito al mio confessionale.» «Ho per confessore il cappellano delle Visitandine, monsignore.» «É un degno prete, ma per voi, signora, che siete così in vista, mi pare...» «Perdonatemi, monsignore», esclamò Angelica scoppiando a ridere, «ma desidero spiegarvi il mio punto di vista: io commetto peccati troppo piccoli per venirli a confessare a un uomo della vostra importanza; me ne sentirei impacciata.» «Mi pare, figliola, che facciate errore sulla reale natura del sacramento della penitenza. Non sta al peccatore misurare la grandezza delle sue colpe. E, quando l'eco della città mi riporta i disordini di cui questo palazzo è teatro, dubito assai che una donna così bella e gentile possa dimorarvi intatta come nel giorno del suo battesimo.» «Non ho questa pretesa, monsignore», mormorò Angelica abbassando gli occhi, «ma credo che l'eco esageri. In verità, qui le feste sono allegre. Si poeta, si canta, si beve, si parla d'amore e si ride assai. Ma io non sono mai stata testimone di disordini di cui la mia coscienza avrebbe potuto offuscarsi...» «Lasciatemi pensare che voi siete più ingenua che ipocrita, figliola mia. Siete stata messa troppo giovane fra le mani di uno sposo le cui parole hanno più d'una volta sfiorato l'eresia e la cui abilità ed esperienza acquistate con le donne gli hanno consentito di plasmare senza fatica la vostra mente ancora malleabile. Mi basta
ricordare quelle troppo celebri corti d'amore ch'egli tiene ogni anno nel suo palazzo e alle quali partecipano non solo i signori della città, ma anche donne borghesi e tutti i giovani nobili della provincia, per fremere e tremare allorché constato che, con la sua ricchezza, egli acquista ogni giorno una più grande influenza sulla città. I maggiori scabini che sono, come voi sapete, i consoli delle nostre province, magistrati integri e austeri, già si preoccupano nel vedere le loro spose ricevute nel palazzo del Gaio Sapere.» «Ecco persone assai complicate», disse Angelica affettando un'aria offesa. «Ho sempre udito dire che l'ambizione dei grandi borghesi era proprio quella di vedersi accolti dall'alta nobiltà fino al giorno in cui una decisione del re permettesse loro di farsi nobilitare a lor volta. Mio marito non è puntiglioso tanto sul blasone quanto sull'antichità della famiglia. Egli riceve le persone di spirito, uomini o donne. Mi stupisco che i signori scabini facciano simili storie.» «L'anima innanzi tutto!» tuonò il vescovo come se fosse stato sul pulpito, «l'anima innanzi tutto, signora, e poi gli onori.» «Credete davvero, monsignore, che la mia anima e quella di mio marito siano in grave pericolo?» chiese Angelica spalancando gli occhi d'acqua limpida. Se, infatti, ella si mostrava docile alle forme abituali della devozione quale la praticavano tutte le damigelle e le dame del suo rango: messe, digiuni, confessioni, comunioni, ella ritrovava il suo spirito critico non appena l'esagerazione urtava il suo nativo buon senso. Ora, senza saperne il perché, ella capiva che l'arcivescovo non era sincero. Questi, con le palpebre calate sugli occhi, la mano sulla croce di diamanti e ametiste, pareva raccogliersi e cercare nel più profondo del suo cuore l'eco della risposta divina. «Forse che lo so?» sospirò infine. «Io non so nulla. Quel che accade in questo palazzo è stato per me a lungo un mistero ed è divenuto di giorno in giorno una preoccupazione sempre più grande.» Di colpo chiese: «Siete al corrente, signora, dei lavori di alchimista di vostro marito?» «No davvero», rispose Angelica senza turbarsi, «il conte di Peyrac ha l'amore per le scienze...» «Si dice pure che sia un grande sapiente.» «Credo di sì. Trascorre lunghe ore nel suo laboratorio, ma non mi ci ha mai fatto entrare. Pensa certamente che quelle cose non interessino le donne.» Aprì il ventaglio e se ne servì per nascondere un sorriso, e forse un impaccio che cominciava ad invaderla sotto lo sguardo penetrante del vescovo. «É mio mestiere sondare il cuore degli umani», disse questi come se si fosse accorto dell'imbarazzo di lei. «Ma non turbatevi, figliola. Vedo nel vostro sguardo che siete diritta e che, nonostante la vostra giovane età, possedete un'eccezionale personalità. E, quanto a vostro marito, forse è ancora in tempo a pentirsi delle sue colpe e ad abiurare la sua eresia.» Angelica diede un piccolo grido. «Ma io vi giuro che siete in errore, monsignore! Mio marito non si comporta forse come un cattolico esemplare, ma non si occupa di Riforma e di altre credenze
ugonotte. L'ho anzi udito beffarsi di quei “malinconici valdesi di Ginevra” che, diceva, avevano ricevuto dal cielo la missione di togliere il gusto di ridere all'intiera umanità.» «Parole ingannatrici», fece il prelato con aria scura. «Non si vedono forse sfilare in casa sua, in casa vostra, contessa, dei noti protestanti?» «Sono sapienti con i quali s'intrattiene di scienza, non di religione.» «Scienza e religione sono intimamente legate. Anche di recente i miei del seguito mi hanno informato che il celebre italiano Bernalli è venuto a fargli visita. Sapete che quell'uomo, dopo essere stato in conflitto con Roma per alcuni suoi scritti empi, si è rifugiato in Svizzera, dove si è convertito al protestantesimo? Ma non attardiamoci su questi indizi rivelatori di una condizione mentale ch'io deploro. Ecco la questione che da molti anni mi preoccupa: il conte di Peyrac è ricchissimo, sempre più ricco. Da dove proviene una così grande abbondanza di oro?» «Ma, monsignore, non appartiene egli a una delle più antiche famiglie della Linguadoca, imparentata finanche con gli antichi conti di Tolosa, i quali avevano sull'Aquitania lo stesso potere che, sull'Ile-de-France, i re di allora?» Il prelato fece un risolino sprezzante. «É esatto. Ma quarti di nobiltà non significano ricchezza. Gli stessi genitori del vostro sposo erano così poveri che il magnifico palazzo in cui voi regnate oggi cadeva in rovina, appena quindici anni fa. Il signor di Peyrac vi ha parlato della sua giovinezza?» «N... no», mormorò Angelica, ella stessa sorpresa della propria ignoranza. «Egli era cadetto in famiglia, e così povero, ve lo ripeto, che a sedici anni s'imbarcò per lontane contrade. Non lo si rivide più per molti anni e lo si credeva morto allorché riapparve. I suoi genitori e suo fratello maggiore erano morti; i creditori si dividevano le loro terre. Egli riscattò tutto e, da allora, la sua ricchezza non ha fatto che accrescersi. Aggiungasi che è un gentiluomo che mai si vide a corte, che anzi affetta di tenersene lontano e che non gode di alcuna pensione reale.» «Ma possiede terre», disse Angelica, che si sentiva oppressa forse a causa del caldo sempre più forte, «possiede allevamenti di montoni in montagna, da cui ricava la lana, un grande laboratorio per tesserla, allevamenti di bachi da seta, miniere d'oro e d'argento...» «Avete detto: d'oro e d'argento?» «Sì, monsignore, il conte di Peyrac possiede numerose miniere in Francia, da cui afferma di ricavare una certa quantità di oro e d'argento.» «Come avete detto giusto, signora!» fece il prelato con voce melata. «Da cui afferma di ricavare l'oro e l'argento!... Ecco ciò che volevo sapere. La terribile supposizione va precisandosi.» «Che volete dire, monsignore? Voi mi allarmate.» L'arcivescovo di Tolosa la fissò di nuovo con quello sguardo troppo chiaro che assumeva a volte la durezza dell'acciaio. Egli pronunciò lentamente: «Non dubito che vostro marito non sia uno dei più grandi sapienti di quest'epoca ed è per questo, signora, ch'io credo egli abbia veramente scoperto la pietra filosofale, cioè il segreto posseduto da Salomone, della fabbricazione magica dell'oro. Ma che via ha seguito per giungerci? Temo davvero che abbia acquistato tale potenza da un
commercio con il diavolo!»
Angelica si mise un'altra volta il ventaglio sulle labbra per non scoppiare a ridere. Si aspettava un'allusione sul commercio al quale in realtà si dedicava il conte e di cui aveva saputo qualche cosa attraverso le confidenze di Molines e del proprio padre; ella temeva un poco, sapendo che simili attività, da parte di un nobile, rappresentavano una tara che poteva gettare il discredito sulla sua casa. Sicché la bizzarra accusa dell'arcivescovo, che pure era stimato uomo assai intelligente, le parve lì per lì estremamente comica. Parlava egli sul serio?
Ma, di colpo, con una repentina associazione di idee, si ricordò che Tolosa era la città di Francia dove l'Inquisizione conservava ancora il suo quartier generale. La terribile istituzione medievale del tribunale contro gli eretici aveva ancora a Tolosa prerogative che l'autorità del re medesimo non osava contestare. Tolosa, quell'allegra città, era anche la città rossa che, da un secolo, aveva massacrato il maggior numero di ugonotti. Essa aveva avuto assai prima di Parigi la sua sanguinosa notte di San Bartolomeo. Era una vera “isola sonante” con le sue campane che chiamavano continuamente i fedeli alla messa, una città seppellita sotto i crocifissi, le immagini sacre e le reliquie così come sotto i fiori. La fiamma spagnola vi soffocava la limpida luce di latinità che vi avevano lasciata gli antichi vincitori venuti da Roma. Accanto a confraternite del piacere come i “Principi degli Amori” e gli “Abati della giovinezza”, famosi per le loro facezie, s'incontravano per le vie processioni di flagellanti, l'occhio acceso di mistica passione, che si laceravan le carni con verghe e spini fino a lasciare sul lastrico tracce sanguinose. Sotto la prima arcata del grande ponte di San Michele, v'era una gabbia di ferro in cui erano chiusi i protestanti e la gabbia veniva tuffata nell'acqua a varie riprese fino alla morte o alla abiura. E a volte il vento della Garonna recava fino al palazzo del Gaio Sapere zaffate di carni arrostite, provenienti dalla piazza delle Saline dove quel giorno veniva bruciato vivo qualche ugonotto recalcitrante o qualche empirico delle campagne considerato come stregone. Angelica, trascinata nel turbine di una vita leggera, non si era attardata su quell'aspetto di Tolosa. Ma non ignorava ch'era proprio l'arcivescovo, quell'uomo seduto dinanzi a lei nell'alta poltrona e che in quel momento si portava alle labbra un bicchiere di limonata fresca, il gran maestro dell'Inquisizione. Fu dunque con voce veramente alterata ch'ella mormorò: «Monsignore, non è possibile che voi emettiate contro il mio sposo un'accusa di stregoneria!... Fare dell'oro non è cosa usuale in questo paese dove Dio ha dato a profusione i suoi doni, spargendo sulla terra l'oro allo stato puro?» Aggiunse quindi astutamente: «Mi hanno detto che voi stesso avete squadre di operai che lavano la rena della Garonna in certi panieri, e spesso raccolgono sabbia d'oro e pepite con cui voi aiutate molte miserie.» «La vostra obiezione non è priva di buon senso, figliola mia. Ma proprio perché
conosco ciò che il lavoro dell'oro della terra può rappresentare, io posso affermare questo: se anche si lavorasse la sabbia di tutti i fiumi e ruscelli della Linguadoca, non si potrebbe raccogliere la metà di quanto pare che il conte di Peyrac possegga. Credetemi, sono bene informato.» “Non ne dubito”, pensò Angelica; “in verità, quel traffico d'oro spagnolo per mezzo dei muli dura da molto tempo...” L'occhio azzurro spiava la sua esitazione. Ella richiuse con un gesto un po' nervoso il ventaglio. «Un sapiente non è per forza un ministro del diavolo. Non si dice forse che alla corte vi sono sapienti che hanno installato una lente per guardare gli astri e le montagne della luna, e che il signor Gastone d'Orléans, zio del re, si dedica a tali osservazioni sotto la guida dell'abate Picard?» «É vero, ed io conosco l'abate Picard. Egli non è soltanto astronomo, ma grande geometra del re.» «Vedete bene...» «La Chiesa, signora, è di spirito largo. Autorizza ogni specie di ricerche, anche assai ardite, come quella dell'abate Picard da voi citata. Vado anche oltre. Io ho sotto di me, all'arcivescovado, un religioso assai sapiente, dell'ordine dei recolletti: il monaco Bécher, il quale si dedica da anni alla ricerca della trasmutazione dell'oro, ma con la mia autorizzazione e con quella di Roma 9 . Confesso che, sino ad ora, mi è costato molto, soprattutto in prodotti speciali che debbo far venire dalla Spagna e dall'Italia. Questo uomo, che conosce le più antiche tradizioni della sua arte, afferma che, per riuscire, occorre ricevere una rivelazione superiore che può venire solo da Dio o da Satana.» «Ed è riuscito?» «Non ancora.» «Poveretto! Egli è dunque mal visto sia da Dio che da Satana, nonostante la vostra alta protezione.» Angelica si morse le labbra, subito pentita della sua frase maliziosa. Le pareva che stesse per soffocare e che dovesse dire delle sciocchezze per sfuggire a quella costrizione. La conversazione sembrava tanto sciocca quanto pericolosa. Ella si volse alla porta, nella speranza di udire il passo ineguale del marito nella galleria, ed ebbe un lieve sussulto. «Oh! eravate qui?» «Giungo in questo istante», disse il conte, «sono imperdonabile, signore, per avervi fatto aspettare così a lungo. Riconosco che sono stato avvertito della vostra visita circa un'ora fa, ma mi era impossibile interrompere l'operazione assai delicata di una certa storta.» Indossava ancora la blusa di alchimista che gli arrivava a terra: una specie di camiciotto dove i segni ricamati dello Zodiaco si mescolavano alle macchie colorate degli acidi. Angelica era sicura ch'egli avesse conservato quell'abbigliamento come una specie di provocazione, così come affettava di chiamare “signore” l'arcivescovo di Tolosa, trattando così da pari a pari con il barone Benedetto di Fontenac. 9
Frati francescani riformati. (N.d.T.)
Il conte di Peyrac fece segno a un valletto in anticamera, che lo aiutò a liberarsi di quell'indumento. Quindi si fece avanti e s'inchinò. Un raggio di sole fece brillare la sua nera capigliatura dai larghi riccioli lucidi, di cui egli aveva gran cura e che poteva gareggiare, per ampiezza, con le parrucche parigine, la moda delle quali cominciava a diffondersi. “Ha i più bei capelli del mondo”, disse fra sé Angelica. Il cuore le batteva più in fretta di quanto ella volesse ammettere. La scena della sera innanzi riviveva ai suoi occhi. “Non è vero”, si ripeté ancora, “era un altro che cantava. Oh! non glielo perdonerò mai!” Il conte di Peyrac, intanto, aveva fatto avanzare un alto sgabello e si sedeva accanto ad Angelica, un po' indietro. Così ella non lo vedeva, ma era sfiorata da un respiro il cui profumo le ricordava anche troppo un istante di ebbrezza. Inoltre, ella aveva la precisa impressione che, pur scambiando banali parole con l'arcivescovo, Goffredo di Peyrac non tralasciasse di accarezzare con lo sguardo la nuca e le spalle della sua giovane moglie, tuffandosi anche audacemente nelle dolci ombre del corsetto in cui riposavano freschi seni di cui, la sera innanzi, aveva accertato la perfezione. Maneggio ch'egli accentuava per malizia di fronte al prelato, la cui virtù si diceva fosse intransigente. L'arcivescovo di Tolosa, infatti, benché avesse ereditato la carica da suo zio, aveva voluto ricevere gli ordini ed assumere non solo le responsabilità di amministratore di una delle più importanti diocesi della Francia, ma anche di pastore di anime. La sua esemplare esistenza, che non poteva dar pretesto ad alcuna critica, lo rendeva ancor più temibile. Angelica avrebbe voluto voltarsi verso il marito e supplicarlo: «Ve ne prego, siate prudente!» Al tempo stesso, godeva di quel silenzioso omaggio. La sua pelle verginale, priva di carezze, desiderava un contatto più preciso, quello di labbra sapienti che la destassero alla voluttà. Diritta, un po' rigida, sentiva una fiamma salire alle gote. Diceva fra sé ch'era ridicola e che non v'era nulla, in tutto ciò, che potesse irritare il vescovo perché, dopo tutto, ell'era la moglie di quell'uomo, gli apparteneva. La invase il desiderio d'essere sua, di abbandonarsi, grave, ad occhi chiusi, al suo abbraccio. Il suo turbamento non poteva certo sfuggire a Goffredo di Peyrac, che doveva divertircisi. “Gioca con me come il gatto col topo. Si vendica delle mie ripulse...” disse a se stessa, disorientata. Per dissipare l'impaccio in cui era, finì per chiamare uno dei negretti che sonnecchiava su un cuscino in un angolo della stanza, e gli ordinò di andare a prendere le confetture. Quando il fanciullo ebbe presentato il mobile di ebano incrostato di madreperla contenente noci e frutta candite, mandorle tostate e zucchero rosato, Angelica aveva riacquistato il suo sangue freddo e seguì più attentamente la conversazione dei due uomini.
«No, signore», diceva il conte di Peyrac, sgranocchiando negligentemente qualche caramella alla violetta, «non crediate che io mi sia dedicato alle scienze con lo scopo di conoscere i segreti del potere e della potenza. Ho sempre avuto una naturale disposizione per queste cose. Ad esempio, se fossi rimasto povero, avrei cercato di essere abilitato come ingegnere delle acque del re. Non potete immaginare quanto siamo in ritardo, in Francia, sui problemi dell'irrigazione, del pompaggio dell'acqua, che so io? I romani ne sapevano dieci volte più di noi, e quando visitai l'Egitto e la Cina...» «So, infatti, che avete viaggiato moltissimo, conte. Non siete andato anche in quei paesi dell'Oriente dove ancora si conoscono i segreti dei re magi?» Goffredo si mise a ridere. «Ci sono andato, ma non ho incontrato i re magi. La magia non mi riguarda. La lascio al vostro bravo e ingenuo Bécher.» «Bécher continua a chiedere quando avrà il piacere di assistere ad uno dei vostri esperimenti e quando potrà diventare vostro allievo in chimica.» «Io non sono un maestro di scuola, signore. E, anche se lo fossi, so che terrei lontane le persone di mente limitata.» «Eppure, quel religioso è considerato una mente acuta.» «Senza dubbio in scolastica, ma in scienza d'osservazione non vale nulla: non vede le cose come sono, ma com'egli crede che siano. Io, un uomo simile, lo considero privo d'intelligenza e limitato.» «Va bene, questo è il vostro punto di vista ed io sono troppo ignorante in fatto di scienze profane per giudicare se le vostre antipatie hanno un fondamento. Ma non dimenticate che l'abate Bécher, che voi trattate da ignorante, ha pubblicato nel 1639 un libro notevole sull'alchimia, per il quale, del resto, ho penato non poco per ottenere l'imprimatur di Roma.» «Un'opera scientifica non ha bisogno delle approvazioni o delle disapprovazioni della Chiesa», disse il conte un po' seccamente. «Consentitemi d'essere di diverso avviso. Lo spirito della Chiesa non racchiude forse l'insieme della natura e dei fenomeni?» «Non vedo perché dovrebbe essere così. Ricordatevi, monsignore, del “Date a Cesare quel che è di Cesare” di Gesù. Cesare rappresenta il potere esteriore degli uomini, ma anche quello delle cose. Dicendo ciò, il Figlio di Dio ha voluto affermare l'indipendenza del dominio delle anime, del dominio religioso da quello del dominio materiale, e sono certo che vi sia inclusa la scienza astratta.» Il prelato scosse varie volte la testa mentre un sorriso mellifluo gli stirava le labbra sottili. «Ammiro la vostra dialettica, degna della grande tradizione e che dimostra come voi abbiate assimilato profondamente l'insegnamento teologico che avete ricevuto nell'Università della nostra città. Tuttavia, è qui che interviene il giudizio dell'alto clero per mettere fine alle discussioni, dato che nulla somiglia più alla ragione che la irragionevolezza.» «Ecco una frase che, da parte vostra, monsignore, mi riempie di gioia. Infatti, a meno che non si tratti strettamente delle cose della Chiesa, cioè del dogma e della morale, io reputo che, per ciò che riguarda la scienza, debba trarre il mio solo
argomento dai fatti osservati e non dall'argomentazione logica. In altre parole, io debbo affidarmi ai sistemi di osservazione esposti da Bacone nel suo Novum Organum apparso nel 1620, come pure alle indicazioni date dal matematico Descartes il cui Discorso sul metodo rimarrà uno dei monumenti della filosofia e delle matematiche.» Angelica si accorse che i nomi di quei due sapienti erano quasi sconosciuti al prelato, che pure passava per uomo erudito, e temeva che la discussione si facesse più accesa e Goffredo non cercasse di trattare con riguardo l'arcivescovo. “Ma che bisogno hanno dunque gli uomini di discutere sui rispettivi meriti di capocchie di spilli?” si chiedeva, temendo soprattutto che le abili digressioni dell'arcivescovo avessero lo scopo di trascinare in un tranello Goffredo di Peyrac. Questa volta, pareva che la suscettibilità dell'uomo della Chiesa fosse stata colpita. Le sue pallide guance accuratamente rasate si colorirono ed egli abbassò le palpebre con un'espressione di altezzosa furberia che spaventò la giovane donna. «Signor di Peyrac», diss'egli, «voi parlate di potere: potere sugli uomini, potere sulle cose. Avete mai pensato che lo straordinario successo della vostra esistenza poteva apparire sospetto a molti, e soprattutto alla vigile attenzione della Chiesa? La vostra ricchezza, che aumenta ogni giorno di più, le vostre ricerche scientifiche che inducono a venire da voi sapienti incanutiti nel lavoro. Ho conversato l'anno scorso con uno di essi, il matematico tedesco Leibnitz. Era sgomento per il fatto che voi siete giunto a risolvere quasi per giuoco problemi ai quali le maggiori menti del nostro tempo si sono dedicate invano. Voi parlate dodici lingue...» «Pico della Mirandola, nel secolo scorso, ne parlava diciotto.» «Voi avete una voce che ha fatto impallidire dalla gelosia il grande cantante italiano Maroni, poetate stupendamente, spingete al punto più alto - scusatemi, signora - l'arte di sedurre le donne...» «E questo?...» Angelica intuì con uno stringimento di cuore che Goffredo di Peyrac s'era portato la mano alla guancia rovinata. La confusione dell'arcivescovo terminò con una smorfia di irritazione. «Eh! voi riuscite, non so come, a farlo dimenticare. Avete troppi doni, credetemi.» «La vostra requisitoria mi sorprende e mi turba», disse lentamente il conte. «Non avevo ancora capito fino a che punto ero invidiato. Mi pareva, al contrario, di trascinarmi dietro un crudele svantaggio.» Si chinò e gli occhi gli brillarono come se avesse scoperto l'occasione per un'ottima facezia. «Sapete, monsignore, che in certo qual modo io sono un martire ugonotto?» «Ugonotto, voi?» esclamò terrorizzato l'arcivescovo. «Ho detto: in certo qual modo. Eccovi la storia. Dopo la mia nascita, mia madre mi affidò a una nutrice da lei scelta non in rapporto alla sua religione ma alla grossezza delle sue mammelle. Ora, la nutrice era ugonotta. Ella mi portò nel suo villaggio delle Cevenne, sul quale regnava il castello di un piccolo signore riformato. Non lungi di là, c'erano, come logico, un altro piccolo signore e alcuni villaggi cattolici. Non so come ebbe inizio la cosa. Avevo tre anni quando cattolici e ugonotti
vennero alle mani. La mia nutrice e le donne del suo villaggio si erano rifugiate nel castello del gentiluomo riformato. Verso la metà della notte, i cattolici lo presero d'assalto. Tutti furono sgozzati e vi fu appiccato il fuoco. Quanto a me, dopo aver avuto il viso spaccato da tre colpi di sciabola, mi gettarono da una finestra ed io caddi dal secondo piano in un cortile pieno di neve, che mi salvò dalle schegge di legno infiammate che piovevano tutto intorno. Al mattino, uno dei cattolici tornato per saccheggiare e che sapeva essere io il figlio di signori tolosani, mi trovò, mi raccolse e mi mise nella sua gerla insieme con la mia sorella di latte Margherita, unica sfuggita alla carneficina. L'uomo attraversò molte tempeste di neve prima di poter giungere al piano. Quando pervenne a Tolosa, io vivevo ancora. Mia madre mi portò su una terrazza soleggiata, mi svestì e proibì ai medici di avvicinarmisi, perché diceva che mi avrebbero fatto morire. Rimasi così per anni disteso al sole. Solo verso i dodici anni potei camminare. A sedici m'imbarcai. Ecco come ho avuto modo di studiare tante cose. Grazie dapprima alla malattia e all'immobilità, e poi grazie ai miei viaggi. Non v'è, in questo, nulla di sospetto.» Dopo un istante in silenzio, l'arcivescovo disse sovra pensiero: «Il vostro racconto chiarisce molte cose. Non mi stupisco più della vostra simpatia per i protestanti.» «Io non ho simpatia per i protestanti.» «Diciamo, allora, della vostra antipatia per i cattolici.» «Io non ho antipatia per i cattolici. Sono, signore, un uomo del passato e mi adatto poco a vivere nella vostra epoca d'intolleranza. Avrei dovuto nascere uno o due secoli prima, nel Rinascimento, nome più dolce che non quello di Riforma, quando i baroni francesi scoprivano l'Italia e, dietro di essa, la luminosa eredità dell'antichità: Roma, la Grecia, l'Egitto, le terre bibliche...» Monsignor di Fontenac accennò appena un gesto che non sfuggì ad Angelica. “Lo ha condotto dove voleva”, disse fra sé. «Parliamo delle terre bibliche», fece con voce melliflua l'arcivescovo. «La Scrittura non dice forse che il re Salomone fu uno dei primi maghi e che inviò vascelli a Ofir, dove, al riparo dagli sguardi indiscreti, fece trasformare per mezzo della trasmutazione metalli vili in metalli preziosi? La storia dice ch'egli riportò i suoi vascelli carichi d'oro.» «La storia dice anche che, al suo ritorno, Salomone raddoppiò le imposte, il che prova che non aveva riportato molto oro e, soprattutto, che non sapeva con certezza quando avrebbe potuto rinnovare la sua provvista. Se avesse realmente scoperto la fabbricazione dell'oro non avrebbe richiesto imposte né si sarebbe preso la pena di mandare i suoi vascelli a Ofir.» «Può darsi che, nella sua saggezza, egli non avesse voluto partecipare i suoi segreti ai sudditi, che avrebbero potuto abusarne.» «Ma dirò di più: Salomone non poté conoscere la trasmutazione dei metalli in oro, perché la trasmutazione è un fenomeno impossibile. L'alchimia è un'arte inesistente, una sinistra farsa messa in giro nel Medio Evo e che, del resto, cadrà nel ridicolo, perché nessuno mai potrà operare la trasmutazione.» «Ed io vi dico», esclamò l'arcivescovo facendosi pallido, «che ho veduto con questi occhi Bécher tuffare un cucchiaio di stagno in un prodotto di sua composizione
e ritrarlo trasformato in oro.» «Non era trasformato in oro, ma ricoperto d'oro. Se quel brav'uomo si fosse preso la pena di grattare la prima pellicola con un punteruolo, avrebbe trovato, subito sotto, lo stagno.» «É vero, ma Bécher afferma che quello era un principio di trasmutazione, l'inizio del fenomeno.» Vi fu un silenzio. La mano di Goffredo di Peyrac scivolò sullo schienale della poltrona d'Angelica e sfiorò il polso della giovane donna. Il conte disse con tono indifferente: «Se siete convinto che il vostro monaco ha trovato la formula magica, che cosa siete venuto a chiedermi, questa mattina?» L'arcivescovo non mosse ciglio. «Bécher è persuaso che voi conosciate il segreto definitivo che consente di completare la trasmutazione.» Il conte di Peyrac scoppiò in una sonora risata. «Non ho mai udito una più comica affermazione. Io, lanciarmi in quelle puerili ricerche? Povero Bécher, gli lascio ben volentieri tutte le emozioni e tutte le speranze della falsa scienza ch'egli pratica e...»
Un tremendo rumore simile a un tuono o a una cannonata lo interruppe. Goffredo si rizzò in piedi, livido. «É... è nel laboratorio. Mio Dio, purché Kuassi-Ba non sia stato ucciso!» E si diresse in fretta verso la porta. L'arcivescovo s'era drizzato come un giustiziere. Guardò in silenzio Angelica. «Vado via, signora», disse infine. «Mi sembra che, in questa casa, Satana par che già manifesti il suo furore per la mia presenza. Permettete che mi ritiri.» E si allontanò a grandi passi. Si udirono gli schiocchi delle fruste e i gridi del cocchiere, mentre la carrozza episcopale oltrepassava il portone d'ingresso. Rimasta sola, Angelica, stupefatta, si passò il fazzolettino sulla fronte in sudore. La conversazione, che aveva ascoltato con molto interesse, la lasciava sconcertata. Disse fra sé che ne aveva fin sopra i capelli di quelle storie di Dio, di Salomone, di eresie e di magia. Poi, subito pentendosi di quei pensieri irriverenti, fece un atto di contrizione. Decise infine che gli uomini erano insopportabili con i loro cavilli e che, in fondo, Dio stesso doveva esserne annoiato.
19 Indecisa, Angelica non sapeva che cosa fare. Moriva dal desiderio di raggiungere l'ala del castello da dove era venuto quel rumore di tuono. Goffredo era parso davvero emozionato. V'erano forse dei feriti? Però non si muoveva. Il mistero di cui il conte circondava i suoi lavori le aveva fatto capire più di una volta ch'era quello l'unico dominio in cui egli non ammetteva la curiosità dei profani. Le spiegazioni che aveva acconsentito di dare al vescovo, non le aveva date che di malavoglia e per riguardo alla personalità del visitatore. Con tutto ciò, erano state insufficienti a placare i sospetti del prelato. Angelica rabbrividì. “Stregoneria!” Si guardò intorno. In quell'incantevole scenario, la parola sembrava una sinistra facezia. Ma Angelica ignorava ancora troppe cose. “Vado a vedere laggiù”, decise. “Tanto peggio se si arrabbia.” Ma udì il passo del marito, e poco dopo questi entrò nel salone. Aveva le mani nere di fuliggine, però sorrideva. «Nulla di grave, grazie a Dio. Kuassi-Ba si è fatto solo qualche scorticatura, ma si era nascosto così bene sotto un tavolo che lì per lì ho pensato che l'esplosione lo avesse volatilizzato. I danni materiali, invece, sono gravi. Le mie più preziose storte in vetro speciale di Boemia sono in frantumi; non ce n'è rimasta neppure una!» A un suo cenno, due paggi portarono una catinella e una brocca d'oro. Si lavò le mani, poi rimise in sesto con un buffetto i polsini di pizzo. Angelica prese il coraggio a due mani. «É proprio necessario, Goffredo, che dedichiate tante ore a quel pericoloso lavoro?» «É necessario possedere oro per vivere», disse il conte mostrando con un gesto circolare il magnifico salone di cui aveva fatto ultimamente ridipingere il soffitto di legno dorato. «Ma la questione non è in ciò. Io trovo in questo lavoro un piacere che null'altro può darmi. É lo scopo della mia esistenza.» Angelica sentì una punta al cuore come se quelle parole la frustrassero di un bene prezioso. Ma, accorgendosi che il marito la osservava con attenzione, si sforzò di assumere un'aria indifferente. Egli sorrise. «É l'unico scopo della mia esistenza, tranne quello di conquistarvi», terminò con un gran saluto cortigianesco. «Non pretendo assolutamente di rivaleggiare con le vostre fiale e storte», disse Angelica con una troppo evidente vivacità. «Tuttavia, le parole di monsignore hanno destato in me, ve lo confesso, una certa preoccupazione.» «Davvero?» «Non avete sentito in esse una larvata minaccia?» Egli non rispose subito. Appoggiato alla finestra, guardava sopra pensiero i tetti piatti della città stretti gli uni agli altri a formare con le loro tegole rotonde un solo immenso tappeto dalle sfumature mescolate del trifoglio e del papavero. Sulla destra, l'alta torre d'Assézat con la sua lanterna diceva la gloria dei trafficanti di pastello, i cui campi si stendevano ancora all'intorno. Il pastello, pianta
coltivata su larga scala, era stato per secoli l'unica materia colorante naturale, e aveva arricchito borghesi e commercianti di Tolosa. Angelica, vedendo che il marito taceva, tornò alla sua poltrona e un negretto le pose accanto la scatola di vimini in cui si mischiavano i fili di lucida seta con cui lavorava. Il palazzo era tranquillo, quel giorno dopo la festa. Angelica pensò che si sarebbe trovata sola di fronte al conte di Peyrac per la colazione di mezzogiorno, a meno che non si fosse invitato l'inevitabile Bernardo d'Andijos... «Avete notato», disse a un tratto il conte, «l'abilità del grande inquisitore? Prima parla della morale, sottolinea di sfuggita le “orge” del Gaio Sapere, allude ai miei viaggi e, di qui, ci porta verso Salomone. Si scopre, insomma, tutto a un tratto che il signor barone Benedetto di Fontenac, arcivescovo di Tolosa, mi chiede di dividere con lui il mio segreto della fabbricazione dell'oro, altrimenti mi farà bruciare vivo sulla piazza delle Saline come stregone.» «É proprio questa la minaccia che mi è parso d'intuire», fece Angelica sgomenta. «Credete ch'egli pensi davvero che voi abbiate commercio col diavolo?» «Lui? No. Queste storie le lascia a quell'ingenuo di Bécher. L'arcivescovo ha un'intelligenza troppo positiva e mi conosce troppo bene. Ma è convinto ch'io possegga il segreto di moltiplicare scientificamente l'oro e l'argento e vuole conoscerlo per utilizzarlo anche lui.» «É un essere abbietto!» esclamò la giovane donna. «Eppure sembra così onesto, così pieno di fede, così generoso!» «Lo è, infatti. La sua ricchezza va tutta in opere di bene. La sua tavola è aperta ogni giorno agli ufficiali poveri. Ha a suo carico l'ufficio incendi, l'asilo dei trovatelli, che so. É compenetrato del bene delle anime e della grandezza di Dio. Ma il suo dèmone particolare è quello del dominio. Rimpiange il tempo in cui il solo padrone di una città e anche di una provincia era il vescovo che, con in mano il pastorale, amministrava la giustizia, puniva, ricompensava. Due anni fa, durante la vendemmia, quando monsignore voleva far entrare in città il suo vino, il luogotenente generale del re pretese di fargli pagare la tassa. Ora, l'arcivescovo di Tolosa ha da secoli il privilegio di esserne dispensato. Sapete che cosa ha fatto monsignore? Be', ha semplicemente scomunicato il luogotenente generale, e c'è voluto addirittura l'intervento del re, e quasi quello del papa, perché togliesse l'ostracismo... Sicché, quando vede aumentare di fronte alla sua cattedrale l'influenza del Gaio Sapere, si ribella. Se le cose continuano così, fra qualche anno sarà il conte di Peyrac, vostro sposo, mia cara Angelica, che dominerà Tolosa. L'oro e l'argento danno il potere, ed ecco che il potere cade fra le mani di un ministro del diavolo! Monsignore, allora, non esita: o dividiamo il potere, oppure...» «Che accadrà?» «Non vi spaventate, amica mia. Ammesso che gli intrighi di un arcivescovo di Tolosa possano recarci danno, non vedo perché dovremmo arrivare a tal punto. Egli ha svelato il suo giuoco. Vuole avere il segreto della fabbricazione dell'oro, ed io glielo darò ben volentieri.» «Ma allora, lo possedete?» mormorò Angelica spalancando gli occhi. «Non confondiamo. Io non posseggo alcuna formula magica per creare l'oro. Il
mio scopo non è tanto di fabbricare ricchezze quanto di far lavorare le forze della natura.» «Ma non è già un'idea un po' eretica, come direbbe monsignore?» Goffredo scoppiò a ridere. «Vedo che siete stata ben catechizzata. Cominciate a dibattervi nella tela di ragno di queste perniciose argomentazioni. Ahimè! Riconosco che non è facile vederci chiaro. La Chiesa, nel Medio Evo, non scomunicava i mugnai ai quali il vento e l'acqua facevano girare le pale dei mulini. Ma quella di oggidì partirebbe in guerra s'io facessi costruire sopra un colle, nei dintorni di Tolosa, lo stesso modello di pompa a vapore d'acqua condensata che ho fatto sistemare nella vostra miniera di Argentière! Eppure, non è perché io metto un recipiente di vetro o di creta sul fuoco di una fucina che Lucifero va subito a cacciarvisi dentro...» «Bisogna riconoscere che l'esplosione di poco fa era molto impressionante. Monsignore ne è parso vivamente colpito, e in ciò credo fosse sincero. Lo avete fatto apposta, per farlo inviperire?» «No. Ho commesso una negligenza. Ho lasciato che un preparato di oro fulminante ottenuto con oro laminato e in acqua regia, e quindi precipitato per mezzo di ammoniaca, si asciugasse troppo. Non v'era, in tale operazione, alcuna generazione spontanea.» «Che cos'è il prodotto che chiamate ammoniaca?» «Un prodotto che gli arabi già fabbricavano nei secoli passati, chiamandolo àlcali volatile. Un sapiente monaco spagnolo, mio amico, me ne ha mandato ultimamente una bombola. In verità, io stesso potrei fabbricarne; ma è cosa lunga, e preferisco acquistare i prodotti ogni volta che mi è possibile trovarli già bell'e preparati. La fabbricazione di ingredienti puri ritarda molto i progressi di una scienza che alcuni imbecilli, come quel monaco Bécher, indicano col nome di chimica in opposizione all'alchimia, che è per essi la scienza delle scienze, cioè un oscuro miscuglio di fluido vitale, di formule religiose e di non so che altro ancora. Ma vi sto annoiando...» «No, ve lo assicuro», disse Angelica con gli occhi che le brillavano. «Vi ascolterei per ore intere.» Egli fece quel sorriso di cui le cicatrici della guancia sinistra accentuavano l'ironia. «Che curioso cervello! Mai avevo pensato di parlare con una donna di queste cose. Anche a me piace parlarvene. Ho l'impressione che possiate comprendere tutto. Eppure... non eravate sul punto di attribuirmi tenebrosi poteri, quando giungeste in Linguadoca? Vi faccio ancora tanta paura?» Angelica si sentì arrossire, ma lo guardò a sua volta diritto in viso, coraggiosamente. «No! Voi siete ancora per me uno sconosciuto, e forse perché non somigliate ad alcun altro non mi fate più paura.» Egli zoppicò per andare a riprendere dietro di lei lo sgabello che aveva occupato durante la visita del vescovo. Mentre in certi momenti, con insolente provocazione, non temeva di mostrare in piena luce il volto devastato, in altri cercava l'ombra ed il buio. La sua voce prendeva allora nuove intonazioni come se l'anima di Goffredo di
Peyrac, liberata dal suo involucro di carne, potesse infine esprimersi liberamente. Così Angelica sentiva, accanto a sé, l'invisibile presenza dell'”uomo rosso” che tanto l'aveva spaventata. Era, certo, lo stesso uomo, ma era mutato lo sguardo di lei. Fu lì lì per porre l'ansioso interrogativo femminile: «Mi amate?» Ma di colpo il suo orgoglio s'impennò, al ricordo della voce che le aveva detto: «Verrete anche voi... Tutte vengono.» Per dissipare il suo turbamento, ella riportò la conversazione su quel terreno scientifico dove stranamente i loro spiriti si erano incontrati e dove la loro amicizia s'era rinsaldata. «Dato che non vedete alcun inconveniente a cedere il vostro segreto, perché rifiutate di ricevere quel monaco Bécher che sembra star tanto a cuore a monsignore?» «Eh! Potrei, in verità, cercar di dargli soddisfazione su questo punto. Ciò che mi preoccupa, non è di svelare il mio segreto, ma di farlo capire. Credo che invano tenterei di provare che la materia si può trasformare, ma non trasmutare. Le menti che ci stanno intorno non sono ancora mature per queste rivelazioni. E l'orgoglio di quei falsi sapienti è così grande che grideranno allo scandalo se affermerò che i due più preziosi ausiliari nelle mie ricerche sono stati un moro dalla pelle nera e un rustico minatore sassone.» «Kuassi-Ba e quel vecchio gobbo di Argentière, Fritz Hauer?» «Precisamente. Kuassi-Ba mi ha raccontato che, quand'era bambino e in libertà in un luogo dell'interno dell'Africa selvaggia cui si accede dalla Costa delle Spezie, vide lavorare l'oro secondo antichi procedimenti appresi dagli egiziani. I faraoni e il re Salomone possedevano miniere d'oro fin laggiù; ma vi chiedo, mia carissima, che dirà monsignore quando gli confiderò che il segreto del re Salomone è il mio negro Kuassi-Ba che lo detiene? Eppure, è proprio lui che mi ha guidato nelle ricerche di laboratorio e mi ha dato l'idea di trattare certe pietre contenenti oro invisibile. Quanto a Fritz Hauer, è il minatore per eccellenza, l'uomo delle gallerie, la talpa che respira solo nel seno della terra. Quei minatori sassoni si passano dei segreti di padre in figlio ed è grazie a loro ch'io ho potuto finalmente raccapezzarmi fra le strane mistificazioni della natura, e sbrogliarmela con tutti i miei diversi ingredienti: piombo, oro, argento e vetriolo, sublimato corrosivo e altri ancora.» «Siete riuscito a fabbricare sublimato corrosivo e vetriolo?» chiese Angelica, cui quelle parole ricordavano vagamente qualche cosa. «Precisamente. E ciò mi è servito a dimostrare l'inutilità di tutta l'alchimia, perché dal sublimato corrosivo posso ricavare a volontà o argento vivo, oppure mercurio giallo e rosso, e posso trasformare a loro volta questi corpi in argento vivo. Il peso di mercurio impiegato all'inizio non solo non ne sarà aumentato ma, al contrario, diminuirà, perché vi sono perdite attraverso i vapori. Posso egualmente, con certi procedimenti, estrarre l'argento dal piombo, e l'oro da certe rocce in apparenza sterili. Ma se, sull'ingresso del mio laboratorio, scrivessi: “Nulla si perde, nulla si crea”, la mia filosofia apparirebbe molto ardita ed anzi in opposizione con lo spirito della Genesi.» «Non è forse con un procedimento di tal genere che voi potete far giungere ad Argentière i lingotti d'oro messicani che acquistate a Londra?»
«Siete una furbacchiona, e reputo Molines un chiacchierone. Non importa! Se ha parlato, è perché vi avrà giudicato. Sì, i lingotti spagnoli possono essere rifusi in una fucina per mezzo di pirite o di solfuro di piombo. Assumono allora l'aspetto di una scoria pietrosa e grigio nera, di cui il più abile doganiere non può assolutamente sospettare. Ed è questo metallo che i bravi muletti di vostro padre trasportano dall'Inghilterra al Poitou, o dalla Spagna a Tolosa, dove è di nuovo trasformato da me o da Hauer in bell'oro scintillante.» «Questa è “frode fiscale”», disse Angelica un po' severamente. «Siete adorabile quando parlate così. Questa frode non nuoce affatto al regno, né a Sua Maestà, e mi rende ricco. Del resto, farò tornare qui Fritz tra poco per organizzare la miniera d'oro che ho scoperto in un paese chiamato Salsigne, nei pressi di Narbona. Allora, con l'oro di quella montagna e con l'argento del Poitou, non avremo più bisogno dei metalli preziosi dell'America, né, di conseguenza, di questa frode, come voi dite.» «Perché non avete cercato di interessare il re alle vostre scoperte? Può darsi che vi siano in Francia altri terreni da sfruttare secondo i vostri procedimenti, e il re ve ne sarebbe riconoscente.» «Il re è lontano, bellezza mia, ed io non ho nulla di un cortigiano. Solo gente di tal specie può avere influenza sulle sorti del regno. Mazarino è devoto alla corona, non lo nego, ma è soprattutto un intrigante internazionale. Quanto al signor Fouquet, incaricato di trovare il denaro per il cardinale Mazarino, è un genio della finanza, ma credo gli sia indifferente l'arricchimento del paese per mezzo di un ben inteso sfruttamento.» «Fouquet», esclamò Angelica, «ecco! Ora ricordo dove ho sentito parlare di vetriolo romano e di sublimato corrosivo! Era al castello del Plessis.» Tutta la scena riviveva dinanzi ai suoi occhi. L'italiano in tonaca di bigello, la donna nuda fra i merletti, il principe di Condé e il cofanetto di sandalo in cui luccicava un flacone color smeraldo. «Padre», diceva il principe di Condé, «è stato il signor Fouquet a mandarvi?» Angelica si chiese se, nascondendo quel cofanetto, non avesse fermato il braccio del destino. «A che cosa pensate?» chiese il conte di Peyrac. «A una strana avventura capitatami molto tempo fa.» E lei, che così a lungo aveva taciuto, gli raccontò la storia del cofanetto, di cui tutti i particolari le erano rimasti impressi nella memoria. «Era certamente intenzione del signor di Condé», aggiunse, «avvelenare il cardinale e fors'anche il re e il suo fratello minore. Ma quello di cui non mi resi bene conto furono le lettere, una specie di impegno firmato, che il principe e altri signori dovevano consegnare a Fouquet. Aspettate!... Non ricordo bene il testo... Era qualche cosa come: “Mi impegno a non dipendere che dal signor Fouquet, a mettere i miei beni al suo servizio...”.» Goffredo di Peyrac l'aveva ascoltata in silenzio. Alla fine, sogghignò. «Bella gente! Quando si pensa che, a quell'epoca, Fouquet non era che un oscuro parlamentare! Ma, con la sua abilità di finanziere, già poteva avere i principi al suo servizio. Eccolo ora il più ricco personaggio del regno, assieme a Mazarino, s'intende.
Ciò prova che v'era posto per tutti e due sotto il sole di Sua Maestà. Sicché, aveste il coraggio di impadronirvi di quel cofanetto? Lo nascondeste?» «Sì, lo...» Una istintiva prudenza le chiuse di colpo le labbra. «No, lo gettai nello stagno delle ninfee, nel grande parco.» «E credete che qualcuno abbia sospettato di voi per quella scomparsa?» «Non so. Non penso che abbiano dato importanza alla mia piccola persona. Però, non mancai dì fare allusione al cofanetto dinanzi al principe di Condé.» «Davvero? Una bella pazzia!» «Bisognava pure che ottenessi per mio padre l'esenzione dai diritti di passaggio per i muli! Oh! É tutta una storia», disse ridendo, «e ora so che, indirettamente, vi eravate mischiato anche voi. Ma volentieri ricomincerei imprudenze di quel genere, solo per rivedere le facce atterrite di quella gente presuntuosa.» Quand'ella gli ebbe raccontato la scena con il principe di Condé, suo marito scosse il capo. «Quasi mi stupisco di vedervi ancora viva accanto a me. Forse siete parsa troppo inoffensiva, infatti. Ma è pericoloso esser mischiata come comparsa in simili intrighi di cortigiani. Se occorreva, non ci pensavano molto a sopprimere una bambina.» Mentre parlava, si alzò in piedi e Angelica vide che si accostava a una vicina tenda che scostò di colpo. Tornò poi con un'espressione di contrarietà. «Non sono abbastanza svelto per sorprendere i curiosi.» «Qualcuno ci ascoltava?» «Ne sono certo.» «Non è la prima volta che ho l'impressione che le nostre conversazioni siano spiate.» «É inevitabile. Lo spionaggio è la forza del governo, e la nostra epoca ha elevato questa bassa attività all'altezza di una istituzione. Così, in questo palazzo, vi sono certamente almeno tre spie fra i lacché e i paggi. Uno al servizio del governatore, un altro del re e un terzo dell'arcivescovo. Conosco quest'ultimo: è Alfonso. É per questo che non lo scaccio, perché da molto tempo mi sono messo d'accordo con lui su ciò che deve raccontare al suo padrone. Ma quello che mi preoccupa di più è il quarto, la spia per eccellenza, quello che è insospettabile. É da un po' che lo sento girare qui intorno.» «Che strana vita!» sospirò Angelica, non sapendo di preciso se prender sul serio le parole del marito, il quale aveva per abitudine di dire ogni cosa come se scherzasse. Goffredo di Peyrac tornò a prendere il suo posto dietro di lei. Il caldo aumentava, ma a un tratto la città cominciò a vibrare per mille campane che risuonavano per l'Avemaria. La giovane donna si fece devotamente il segno della croce e mormorò la preghiera alla Vergine. La marea sonora dilagava, e, per un certo tempo, Angelica e il marito, seduti accanto alla finestra aperta, non poterono scambiare una parola. Rimasero quindi in silenzio, e quella intimità, di cui le occasioni andavan facendosi più frequenti tra loro, commoveva profondamente Angelica. “Non solo la sua presenza non mi dispiace, ma ne sono felice”, diceva fra sé,
stupita. “Se cercasse di baciarmi, non mi farebbe piacere?” Come poco prima, durante la visita del vescovo, ella aveva coscienza dello sguardo di Goffredo sulla sua nuca bianca. «No, mia cara, io non sono un mago», mormorò lui. «Forse ho ricevuto dalla natura qualche potere, ma ho, soprattutto, voluto imparare. Capisci?» riprese con un tono carezzevole che l'incantò. «Avevo sete d'imparare tutte le cose difficili: le scienze, le lettere, e anche il cuore delle donne. Mi sono chinato con diletto su questo affascinante mistero. Si crede che dietro gli occhi di una donna non vi sia nulla e invece si scopre un mondo. Oppure ci si immagina un mondo e non si scopre nulla... Che c'è dietro i tuoi occhi verdi, che ricordano le ingenue praterie e l'oceano tumultuoso?... «Vedi, carissima, io ho cercato il segreto delle donne non soltanto in loro, ma in vecchi manoscritti polverosi... Questo ti fa ridere?... E mi son dedicato all'amore cortese, esaltato da Andrea le Chapelain, come a una filosofia dell'amore, atta a sviluppare in un uomo o in una donna quell'ardente sentimento. Tutto si insegna, tutto si perfeziona. Non ti nascondo il mio giuoco. Non ho che un desiderio: quello di sedurti, perché mi sei apparsa la più bella e la più amabile...» Ella lo udì muoversi, e l'abbondante capigliatura nera le scivolò sulla spalla nuda come una tepida, serica pelliccia. Trasalì al contatto delle labbra che la sua nuca reclina aspettava inconsciamente. Assaporando ad occhi chiusi quel bacio lungo, ardente, che prendeva il tempo di saziarsi, Angelica sentiva avvicinarsi l'ora della propria disfatta. Allora, tremante, ancora restia, ma soggiogata, ella sarebbe andata, come le altre, ad offrirsi alla stretta di quell'uomo misterioso.
20 Trascorso un certo tempo da quel giorno, Angelica stava tornando da una passeggiata mattutina lungo le rive della Garonna. Le piaceva cavalcare e vi dedicava qualche ora all'alba, quando l'aria era ancora fresca. Goffredo di Peyrac l'accompagnava di rado. Al contrario della maggior parte dei signori, l'equitazione e la caccia non lo interessavano affatto. Si sarebbe potuto pensare che temesse gli esercizi violenti, se la sua reputazione di schermitore non fosse stata quasi altrettanto vasta della sua reputazione di cantante. I volteggi ch'egli eseguiva nonostante la gamba inferma avevano, si diceva, del miracoloso. Egli si allenava ogni giorno nella sala d'armi del palazzo, ma Angelica non lo aveva mai visto tirare. V'erano ancora molte cose ch'ella ignorava di lui e, a volte, con subitanea tristezza, ella ricordava le parole che l'arcivescovo le aveva mormorato il giorno del suo matrimonio: «Detto fra noi, avete scelto un ben strano marito.» Dopo un apparente avvicinamento, il conte pareva aver ripreso nei suoi riguardi l'atteggiamento rispettoso ma distante che ostentava nei primi tempi. Ella lo vedeva assai poco e sempre in presenza d'invitati; e si chiedeva se la focosa Carmencita di Mérecourt non entrasse per qualcosa in quel nuovo allontanamento. Dopo un viaggio a Parigi, la dama era infatti tornata a Tolosa, dove la sua esaltazione teneva tutti sulle spine. Questa volta si affermava con la massima serietà che il signor di Mérecourt l'avrebbe rinchiusa in convento. Se non poneva in esecuzione la sua minaccia, ciò era dovuto a motivi diplomatici. Infatti, la guerra con la Spagna continuava, ma il signor Mazarino che, da molto tempo, cercava di negoziare la pace, raccomandava non si facesse nulla che potesse irritare la suscettibilità spagnola. La bella Carmencita apparteneva a una grande famiglia madrilena. Gli alti e bassi della sua vita coniugale avevano dunque maggiore importanza delle battaglie campali in Fiandra, e a Madrid si veniva a sapere ogni cosa perché, nonostante la rottura delle relazioni ufficiali, segreti messaggeri variamente travestiti da monaci, da venditori ambulanti o da mercanti, passavano di continuo attraverso i Pirenei. Carmencita di Mérecourt metteva dunque in mostra a Tolosa le sue eccentricità, e Angelica ne era preoccupata e urtata. Nonostante la mondana disinvoltura da lei acquistata a contatto di quella brillante società, ella restava, in fondo, semplice come un fiore di campo, rustica e facilmente ombrosa. Capiva di non essere in grado di lottare contro una donna come Carmencita e a volte si diceva, morsa al cuore dalla gelosia, che la spagnola era più vicina di lei al carattere originale del conte di Peyrac. Solo nel campo delle scienze sapeva di essere la donna numero uno agli occhi del marito.
Proprio quella mattina, avvicinandosi al palazzo con la sua scorta di paggi, di galanti signori e di alcune fanciulle amiche di cui amava circondarsi, ella scorse di nuovo, ferma dinanzi al portone, una carrozza con lo stemma dell'arcivescovo. Ne vide scendere un'alta figura austera vestita di bigello, poi un signore ornato di nastri, spada al fianco, e che sembrava spadroneggiare, perché giungeva sino a loro da molto
lontano l'eco della sua voce che gridava ordini. «In fede mia», esclamò Bernardo d'Andijos, ch'era sempre uno dei fedeli accompagnatori di Angelica, «credo davvero sia quello il cavaliere di Germontaz, nipote di monsignore. Il cielo ci protegga! É un tanghero, e il più perfetto imbecille ch'io mi conosca. Credete a me, signora, passiamo attraverso i giardini per evitare d'incontrarlo.» Il gruppetto girò verso sinistra e, dopo aver lasciato nella scuderia le cavalcature, raggiunse l'aranceto, luogo assai piacevole, circondato da getti d'acqua. Ma non appena i convitati s'erano seduti dinanzi a una colazione di frutta e di bevande ghiacciate, Angelica fu avvertita da un paggio che il conte di Peyrac chiedeva di lei. Ella trovò nella galleria d'ingresso il marito insieme con il gentiluomo e con il monaco scorti poco prima. «Questi è l'abate Bécher, il distinto sapiente di cui monsignore ci ha già parlato», le disse Goffredo. «E vi presento anche il cavaliere di Germontaz, nipote di Sua Eccellenza.» Il monaco era alto e magro. Le sopracciglia prominenti nascondevano gli occhi molto ravvicinati, dallo sguardo un po' disuguale, che ardevano di una luce febbrile e mistica; un lungo collo magro dai tendini sporgenti usciva dalla tonaca di bigello. Il suo compagno pareva lì per metterlo in risalto. Altrettanto buontempone quanto l'altro era consunto nella macerazione, il cavaliere di Germontaz aveva il volto colorito, e, per i suoi venticinque anni, una pinguedine già appariscente. Un'abbondante parrucca bionda gli ricadeva sulla giubba di raso azzurro ornata di nastri rosa. Le sue brache erano così ampie e i suoi merletti così abbondanti che, in un tale profluvio di fronzoli, la sua spada di gentiluomo sembrava una incongruenza. Egli spazzò il terreno dinanzi ad Angelica con la piuma di struzzo del suo ampio feltro, le baciò la mano ma, raddrizzandosi, le rivolse un'occhiata così ardita ch'ella ne fu irritata. «Ora che mia moglie è qui, possiamo recarci al laboratorio», disse il conte di Peyrac. Il monaco abbassò su Angelica uno sguardo sorpreso. «Se ho bene udito, la signora entrerà nel santuario e assisterà alle conversazioni e alle esperienze alle quali avete voluto associarmi?» Il conte fece una smorfia ironica e squadrò l'ospite con aria insolente. Sapeva quanto le sue espressioni impressionassero coloro che lo vedevano per la prima volta, e ne approfittò furbescamente. «Nella lettera da me indirizzata a monsignore e nella quale, padre, consentivo a ricevervi, secondo il desiderio ch'egli mi aveva molte volte espresso, gli ho detto che si sarebbe trattato solo di una visita e che avrebbero potuto assistervi alcune persone da me prescelte. Ed egli ha messo al vostro fianco il signor cavaliere per il caso in cui i vostri occhi non vedessero tutto ciò che si può desiderar di vedere.» «Ma, signor conte, un sapiente come voi non ignora che la presenza di una donna è in assoluta contraddizione con la tradizione ermetica la quale assicura che non si può raggiungere alcun risultato in mezzo a fluidi contrari...» «Pensate, padre, che nella mia scienza i risultati sono sempre fedeli e non
dipendono né dall'umore né dalla qualità delle persone presenti...» «Io trovo giustissima la cosa!» esclamò il cavaliere con aria soddisfatta. «Non nascondo che preferisco una graziosa dama alle fiale e ai vecchi vasi. Ma mio zio ha voluto che accompagnassi Bécher per istruirmi sui doveri della mia nuova carica. Già, mio zio mi pagherà una carica di gran vicario su tre episcopati; ma è un uomo terribile. Non me l'accorda che a una condizione, cioè che ottenga gli ordini. Confesso che mi sarei accontentato dei benefici.» Mentre parlavano, il gruppetto si dirigeva verso la biblioteca, che il conte voleva mostrare prima d'ogni altra cosa. Il monaco Bécher, per il quale la visita era una manna da lungo tempo desiderata, faceva continue domande cui Goffredo di Peyrac rispondeva con rassegnata pazienza. Angelica li seguiva, accompagnata dal cavaliere di Germontaz, che non perdeva un'occasione per sfiorarla e volgerle occhiate provocanti. “É davvero un tanghero”, disse fra sé. “Somiglia a un grosso maiale da latte ornato di fiori e merletti per il cenone natalizio.” «Quel che non capisco», riprese la giovane donna ad alta voce, «è quale rapporto può avere una visita in laboratorio di mio marito con la vostra nuova carica ecclesiastica.» «Neppur io lo capisco, confesso, ma mio zio me l'ha spiegato a lungo. Sembra che la Chiesa sia meno ricca e potente di quanto appaia e, soprattutto, di quanto dovrebbe. Mio zio si lamenta anche della centralizzazione del potere reale a detrimento dei diritti di Stati quali la Linguadoca. Le sue attribuzioni alle assemblee della Chiesa ed anche del parlamento locale di cui egli è, come sapete, il presidente, vanno sempre più diminuendo. Vi si sostituisce l'autorità dell'intendente provinciale e dei suoi sbirri della polizia, della finanza e dell'esercito. Ed egli vorrebbe opporre all'invadenza dei delegati irresponsabili del re l'alleanza degli alti personaggi della provincia. Ora, mio zio vede che vostro marito sta accumulando una colossale ricchezza senza che né la città, né la Chiesa ne traggano beneficio.» «Ma, signor cavaliere, noi doniamo per le opere di carità.» «Non basta. É l'alleanza ch'egli vorrebbe.» “Per essere un allievo del grande inquisitore, manca di sfumature”, pensò Angelica, “a meno che non si tratti di una lezione mandata a memoria.” «Insomma», riprese lei, «monsignore reputa che tutte le ricchezze della provincia debbano essere consegnate nelle mani della Chiesa?» «La Chiesa deve occupare il primo posto.» «Con a capo monsignore! Predicate magnificamente, sapete! Non mi stupisco più che siate destinato all'eloquenza sacra. Farete i miei complimenti a vostro zio.» «Non mancherò, gentilissima signora. Il vostro sorriso è stupendo, ma credo che i vostri occhi non abbiano affetto per me. Non dimenticate che la Chiesa è ancora la massima potenza, specie nella nostra Linguadoca.» «Mi rendo soprattutto conto che siete un convinto apprendista vicario, nonostante i nastri e i merletti che avete indosso.» «La ricchezza è un mezzo convincente. Mio zio ha saputo usarlo nei miei confronti ed io lo servirò del mio meglio.» Angelica chiuse con un colpo secco il ventaglio. Non si meravigliava più che
l'arcivescovo riponesse la sua fiducia in quel suo grasso nipote. Nonostante i loro caratteri opposti, la loro ambizione era la stessa. Qualcuno si mosse e si piegò in due al loro avvicinarsi nella biblioteca ove le imposte mantenevano la penombra. «To', che fate qui, Clemente?» chiese il conte con una certa sorpresa nella voce. «Nessuno entra qui senza il mio permesso, e non credo di avervi dato la chiave.» «Il signor conte mi scusi; stavo mettendo in ordine io stesso la stanza, non volendo affidare la cura di questi preziosi libri a un volgare domestico.» Raccolse strofinaccio, spazzola e sgabello in tutta fretta e scappò via accennando qualche inchino. «Decisamente», sospirò il monaco, «capisco che vedrò qui cose assai strane: una donna in un laboratorio, un valletto nella biblioteca, che tocca con le sue mani impure le opere che contengono ogni sorta di scienze!... Constato comunque che la vostra reputazione non è per questo meno grande! Vediamo che cosa avete qui.» Riconobbe, lussuosamente rilegati, i classici dell'alchimia, come Principio di conservazione dei corpi o Mummia, di Paracelso, Alchimia, di Alberto Magno, Hermetica, di Hermann Couringus, Explicatione 1572, di Tommaso Erasto, e infine, ciò che lo colmò di gioia, il suo libro Sulla trasmutazione, di Conan Bécher. Rasserenato intieramente, e ripresa fiducia, il monaco seguì ora il suo ospite. Il conte fece uscire i suoi invitati dal palazzo e li condusse fino all'ala in cui si trovava il laboratorio. I visitatori, avvicinandosi, videro fumare sul tetto un grande camino sormontato da un gomito di rame che sembrava il becco di un uccello apocalittico. Mentre giungevano in prossimità, l'apparecchio, con un cigolio nella loro direzione, mostrò la sua bocca nera da cui usciva un fumo fuligginoso. Il monaco fece un balzo indietro. «Non è che la banderuola di un camino per attivare col vento il tiraggio dei fornelli», spiegò il conte. «Da me, quando c'è il vento, il tiraggio funziona malissimo.» «Qui è il contrario, perché utilizzo la depressione provocata dal vento.» «E il vento è al vostro servizio?» «Esattamente. Come per il movimento di un mulino a vento.» «In un mulino, signor conte, il vento fa girare le macine.» «Da me, i fornelli non girano, ma l'aria viene aspirata.» «Non potete aspirare l'aria, perché è fatta di vuoto.» «Eppure vedrete che ho un tiraggio d'inferno.» Il monaco si fece tre volte il segno della croce prima di oltrepassare la soglia dietro Angelica e il conte, mentre il negro Kuassi-Ba salutava solennemente con la sua scimitarra, rimettendola poi nel fodero. Si vedevano in fondo alla vasta sala rosseggiare due forni. Un terzo, identico, era scuro. Dinanzi ai forni si trovavano strani apparecchi di cuoio e di ferro, assieme a tubi di terra e di rame. «Sono i mantici da fucina che mi servono quando debbo avere un fuoco assai forte, quando, ad esempio, ho bisogno di fondere il rame, l'oro o l'argento», spiegò Goffredo di Peyrac.
Alcune assi disposte a scaffali correvano lungo la sala principale, ingombre di vasi e di fiale che recavano etichette con segni cabalistici e cifre. «Ho qui una riserva di diversi prodotti: zolfo, rame, ferro, stagno, piombo, borace, orpimento, risigallo, cinabro, mercurio, pietra infernale, vetriolo azzurro e verde. Di fronte, in quelle bombole di vetro, ho dell'oleina, dell'acido nitrico e dell'acido cloridrico. «Sul palchetto più alto vedete tubi e vasi di vetro, di ferro, di creta verniciata, e, più oltre, storte e alambicchi. Nella saletta in fondo, ecco rocce con oro invisibile, come questo minerale arsenicale, e varie pietre da cui, per fusione, si ottiene argento. Ecco dell'argento corneo del Messico, che ho avuto da un signore spagnolo che tornava di laggiù.» «Il signor conte vuol prendersi giuoco del modesto sapere di un monaco affermando che questa materia cerosa è argento, poi ch'io non ne vedo neppure un pezzettino.» «Ve lo farò vedere tra poco», disse il conte. Prese un grosso pezzo di carbone di legna da un mucchio disposto accanto ai forni. Prese anche in un boccale posto su un palchetto una candela di sego, l'accese alla fiamma della brace, fece nel carbone un piccolo foro con una punta di ferro, vi dispose un po' di “argento corneo” ch'era, in verità, d'un grigio giallo sporco e semitraslucido, vi aggiunse un po' di borace dopo averne detto il nome, quindi, prendendo un tubo ricurvo di rame, lo accostò alla fiamma della candela e soffiò abilmente contro il forellino pieno di due sostanze saline. Queste fusero, si gonfiarono, mutaron colore, poi apparve una serie di globuli metallici che il conte, soffiando più forte, fuse in una sola lente brillante. «Ecco dell'argento fuso che ho ricavato dinanzi a voi da questo pezzo di roccia dallo strano aspetto.» «Operate con la stessa semplicità la trasmutazione dell'oro?» «Io non faccio nessuna trasmutazione; estraggo solo i metalli preziosi dai minerali che già li contengono, ma in uno stato non metallico.» Il monaco parve poco convinto. Tossicchiò guardandosi attorno. «Che cosa sono quei tubi e quelle casse puntute?» «É una canalizzazione d'adduzione d'acqua alla maniera cinese per fare saggi di lavaggio e captare nelle sabbie l'oro per mezzo del mercurio.» Scuotendo il capo, il religioso si accostò con circospezione a un fornello che ronfiava e in cui ardevano a fuoco lento vari crogiuoli, in parte infuocati. «Vedo qui un'installazione certo assai bella», diss'egli, «ma nulla che poco o molto assomigli all'”athanor” o alla celebre “casa del pollo del saggio”.» Peyrac scoppiò a ridere a crepapelle, poi, calmatosi un poco, si scusò: «Perdonatemi, padre, ma l'ultima collezione di quelle venerabili stupidità è stata distrutta dall'esplosione dell'oro stabile di cui, l'altro giorno, monsignore è stato testimone.» Bécher assunse un'espressione deferente: «Monsignore me ne ha parlato, infatti. Voi, sicché, riuscite a fare un oro instabile e che scoppia?» «Riesco, anche, a fabbricare un mercurio fulminante, per dirvi tutto.»
«E l'uovo filosofico?» «Ce l'ho nella testa!» «Voi bestemmiate!» esclamò il monaco. «Ma che cos'è questa storia di polli e di uova?» intervenne Angelica. «Nessuno me ne ha mai parlato.» Bécher le gettò uno sguardo di disprezzo. Ma, vedendo che il conte di Peyrac dissimulava un sorriso e che il cavaliere di Germontaz sbadigliava senza ritegno, si accontentò, in mancanza di meglio, di quel modesto uditorio. «É nell'uovo filosofico che si compie la grande opera», diss'egli ficcando il suo sguardo di fuoco negli occhi candidi della giovane donna. «La condotta della grande opera si fa sull'oro purificato, Sole, e sull'argento fino, Luna, cui si deve mescolare dell'argento vivo, Mercurio. L'ermetista li sottopone nell'uovo filosofico o matraccio sigillato agli ardori crescenti o decrescenti di un fuoco ben regolato, Vulcano. Ciò ha per effetto di sviluppare nel composto le potenze seminali di Venere, di cui la pietra filosofale, sostanza rigeneratrice, è la specie visibile. Le reazioni, allora, si svilupperanno nell'uovo secondo un certo ordine stabilito: esse permettono di sorvegliare la cottura della materia. Occorre soprattutto fare attenzione ai tre colori: nero, bianco, rosso che indicano rispettivamente la putrefazione, l'ablazione e la rubificazione della pietra filosofale. Insomma, l'alternarsi di morte e di resurrezione attraverso cui, secondo l'antica filosofia, deve passare per riprodursi ogni sostanza che vegeti. Lo spirito del mondo, mediatore obbligatorio dell'anima e del corpo universale, è la causa efficiente delle generazioni di qualsiasi ordine, quella che vitalizza i quattro elementi. «Questo spirito è tenuto prigioniero nell'oro, ma, ahimè!, vi resta inattivo. Spetta al saggio liberarlo.» «E come procedete, padre, per liberarlo, questo spirito ch'è alla base di tutto e che è prigioniero dell'oro?» chiese con voce melliflua Peyrac. Ma l'alchimista rimaneva insensibile all'ironia. Con la testa rigettata all'indietro, inseguiva il suo vecchio sogno. «Per liberarlo, occorre la pietra filosofale. Ma neppur questa è sufficiente. Bisogna poter dare l'impulso per mezzo della polvere di proiezione, esca del fenomeno che trasformerà tutto in oro puro.»
Rimase un po' in silenzio, sprofondato nei suoi pensieri. «Dopo, anni e anni di ricerche, credo di poter dire che sono giunto a certi risultati. Così, unendo il mercurio dei filosofi, principio femmina, con l'oro che è maschio, ma un oro scelto puro e in lamine, misi questo miscuglio nello “Athanor” o “Casa del Pollo del Saggio”, santuario, tabernacolo che ogni laboratorio di alchimista deve possedere. Questo uovo, ch'era una storta di forma ovale perfetta ed ermeticamente sigillata perché nulla della materia potesse sfuggirne, fu da me posto su una scodella piena di cenere e messo nel forno. Il mercurio, allora, per il suo calore e il suo zolfo interno eccitato dal fuoco che mantenevo costantemente al grado e nella proporzione necessari, giunse a dissolvere l'oro senza violenza e lo ridusse allo stato di atomi. Dopo sei mesi, ottenni una polvere nera che chiamai tenebre cimmerie. Con
tale polvere mi fu possibile trasformare alcune parti di oggetti di metallo vivo in oro puro ma, purtroppo, il germe vitale del mio purum aurum non era ancora abbastanza forte, perché non giunsi mai a trasformarli in profondità e completamente!» «Ma avrete certamente tentato, padre, di rafforzare quel germe moribondo!» disse Goffredo di Peyrac mentre una luce divertita gli brillava negli occhi. «Sì, e per due volte credo di essere stato assai vicino allo scopo. Ecco, la prima volta, come procedetti. Feci maturare per dodici giorni dei succhi di mercorella, di portulaca e di celidonia in mezzo a del letame. Feci quindi distillare il prodotto e ottenni un liquido rosso, che rimisi nel letame. Ne vennero fuori dei vermi che si divorarono fra loro, meno uno che restò solo. Nutrii quell'unico verme con le tre piante precedenti sinché si fece grosso. Poi lo bruciai, lo ridussi in cenere e mescolai alla sua polvere dell'olio di vetriolo e polvere delle tenebre cimmerie. Ma questa ne fu rafforzata appena.» «Puh!» fece il cavaliere di Germontaz disgustato. Angelica gettò uno sguardo sgomento al marito, che rimaneva impassibile. «E la seconda volta?» chiese egli. «La seconda volta, ebbi una grande speranza. Fu allorché un viaggiatore che aveva fatto naufragio su rive sconosciute mi diede un po' di terra vergine che nessun uomo prima di lui aveva calpestato, com'egli mi assicurò. La terra assolutamente vergine, infatti, contiene il seme o il germe dei metalli, cioè la vera pietra filosofale. Ma quella particella di terra non era certamente vergine del tutto», concluse il sapiente religioso con aria avvilita, «perché non ottenni i risultati sperati.» Anche Angelica, ora, aveva voglia di ridere. Un po' in fretta, per nascondere la propria ilarità, ella chiese: «Ma voi, Goffredo, non mi avete raccontato che un giorno avete fatto naufragio in un'isola deserta, coperta di brume e di ghiacci?» Il monaco Bécher sussultò e, con gli occhi che gli splendevano, afferrò per le spalle il conte di Peyrac. «Avete fatto naufragio su una terra sconosciuta? Lo sapevo, lo intuivo. Voi siete dunque colui di cui parlano i nostri scritti ermetici, colui che torna dalla “parte posteriore del mondo, là dove si ode rumoreggiare il tuono, soffiare il vento, cadere la grandine e la pioggia”. É in quel luogo che si troverà la cosa, se si cerca.» «C'era qualche cosa della vostra descrizione», fece con aria indifferente il gentiluomo. «Aggiungerò anche una montagna di fuoco in mezzo a ghiacci che mi sembravano eterni. Neppure un abitante. Sono i paraggi della Terra del Fuoco. Io fui salvato da un veliero portoghese.» «Darei la mia vita e persino l'anima per un po' di quella terra vergine», esclamò Bécher. «Ahimè! padre, confesso che non pensai a portarne via.» Il monaco gli gettò uno sguardo scuro e sospettoso, e Angelica capì ch'egli non gli credeva. Gli occhi chiari della giovane donna andavano dall'uno all'altro dei tre uomini che le stavano dinanzi in quello strano scenario di provette e di boccali. Appoggiato allo stipite di mattoni di uno dei forni, Goffredo di Peyrac, il Grande Zoppo della Linguadoca, lasciava cadere sui suoi interlocutori uno sguardo altero e ironico, che
diceva chiaro in quale stima tenesse il vecchio Don Chisciotte dell'alchimia e il Sancio Panza coperto di nastri. Di fronte a quei due grotteschi personaggi, Angelica lo vide così grande, così libero e così fuor del comune che un sentimento possente le gonfiò il cuore sino a farle male. “Lo amo”, pensò all'improvviso. “Lo amo e ho paura. Ah! che non gli facciano del male. Non prima... Non prima...” Timorosa, non osava terminare il suo desiderio: “Non prima che mi abbia stretto fra le sue braccia...”
21 «L'amore», disse Goffredo di Peyrac, «l'arte dell'amore è la preziosissima qualità della nostra razza. Ho viaggiato attraverso molti paesi e dovunque ho veduto ammessa tal cosa. Rallegriamoci, signori, e voi, signore, inorgoglitevi, ma stiamo tutti in guardia. Perché nulla è più fragile di questa reputazione se un cuore accorto e un corpo sapiente non vengono a sostenerla.»
Il suo volto, mascherato di nerissimo velluto nella cornice dell'abbondante capigliatura si chinò e si vide scintillare il suo sorriso. «Ecco perché noi siamo riuniti in questo palazzo del Gaio Sapere. Non vi invito, però, ad un ritorno nel passato. Ricorderò, certo, il nostro maestro dell'Arte d'amare, che, un tempo, destò i cuori degli uomini al sentimento amoroso, ma non dimenticheremo ciò che i secoli posteriori offrirono al nostro perfezionamento: come l'arte di conversare, di divertire, di far brillare il proprio spirito, e ancora, godimento più semplice ma che ha la sua importanza, la cura della buona tavola e del buon vino per predisporre convenientemente all'amore.» «Ah! questo mi piace di più», gridò il cavaliere di Germontaz. «Il sentimento, che roba! Io mi pappo un mezzo cinghiale, tre pernici, sei polli, una bottiglia di Champagne e via, bellezza, a letto!» «E quando questa bellezza si chiama madama di Montmaure, racconta che voi sapete assai bene e rumorosamente russare, ma che è tutto ciò che sapete fare in letto.» «Questo racconta? Oh, che traditrice! Una sera, è vero, mi sentivo stordito...» Una risata generale interruppe il grasso cavaliere che, facendo buon viso a cattiva sorte, sollevò il coperchio d'argento di uno dei piatti e afferrò con due dita un'ala di pollo. «Io, quando mangio, mangio davvero. Non sono mica come voi che mischiate tutto e cercate di fare i raffinati anche quando non ce n'è bisogno.» «Rozzo maiale», disse con voce dolce il conte di Peyrac, «con quale piacere io vi contemplo! Voi personificate così bene tutto ciò che noi escludiamo dai nostri costumi, tutto ciò che odiamo! Vedete, signori, e voi, signore, ecco il discendente dei barbari, di quei crociati che vennero ad accendere, protetti dai loro vescovi, migliaia
di roghi fra Albi, Tolosa e Pau. Erano così ferocemente gelosi di questo delizioso paese dove si cantava l'amore delle dame, che lo ridussero in cenere e fecero di Tolosa una città intollerante, diffidente, dai duri occhi di fanatica. Non dimentichiamo...» “Non avrebbe dovuto parlare così”, pensò Angelica. Perché si rideva, è vero, ma ella vedeva brillare, in certi occhi neri, una luce crudele. Il rancore dei meridionali verso un passato vecchio ormai di quattro secoli era un fatto che sempre la stupiva. Ma l'orrore della crociata degli Albigesi doveva essere stato tale che ancora si vedevano nelle campagne madri minacciare i figli che avrebbero chiamato il terribile Montfort. A Goffredo di Peyrac piaceva alimentare quel rancore, più per orrore d'ogni limitatezza di spirito, d'ogni grossolanità e stupidità che non per fanatismo provinciale. Angelica lo vedeva in un abito di velluto cremisi costellato di diamanti, seduto all'altro capo dell'immensa tavola. Il suo volto mascherato e i neri capelli ponevano in risalto il candore dell'alto collo in pizzo di Fiandra, dei polsi ed anche delle mani lunghe e vive, con un anello a ogni dito. Ella era vestita di bianco, e ciò le ricordava stranamente il giorno del suo matrimonio. Come in quel giorno, i più grandi signori della Linguadoca e della Guascogna erano presenti intorno alle due grandi tavole per i banchetti che erano state apparecchiate nella galleria del palazzo. Ma, questa volta, né vecchi né ecclesiastici, in quella brillante società. Ora che Angelica poteva mettere un nome su ogni volto, si accorgeva che la maggior parte delle coppie che la circondavano quella sera erano illegittime. Andijos aveva accompagnato la sua amante, un'ardente parigina. La signora di Saujac, il cui marito era magistrato a Montpellier, reclinava graziosamente la testa bruna sulla spalla di un capitano dai baffetti dorati. Alcuni cavalieri, venuti soli, si avvicinavano a dame audaci e indipendenti tanto da essere intervenute senza accompagnatore alla celebre corte d'amore. Un'impressione di giovinezza e di bellezza si sprigionava da quegli uomini e quelle donne fastosamente abbigliati. Candelabri e torciere facevano brillare l'oro e le pietre preziose. Le finestre del salone erano spalancate sulla tiepida sera primaverile. Per tener lontane le zanzare, foglie di cedrina e d'incenso bruciavano in appositi vasi e il loro odore inebriante si mescolava a quello dei vini. Angelica pensava che, per uno strano paradosso, che del resto non era il solo di cui il palazzo del Gaio Sapere fosse testimone, unica in quella compagnia radunata per parlare d'amore, ella si trovava in compagnia del suo sposo di cui, però, non era l'amante. Una volta di più, rattristata da una gaiezza da cui si sentiva esclusa, Angelica assisteva da spettatrice alla sontuosa commedia. Non era, quello, che un aspetto del cangiante ventaglio che il conte di Peyrac si era divertito ad aprirle sotto gli occhi. L'oro e l'amore ne erano i temi prescelti. La mano del mago li faceva luccicare. Ma Angelica non negava più la propria sconfitta. Desiderava solo una cosa, ormai: che lo sguardo brillante che scintillava laggiù sotto la maschera si posasse su lei. E soffriva perché lui era lontano, trasportato nel suo mondo ripreso dal giuoco svariato della propria esistenza.
Angelica si sentiva rustica e fuor di posto come un fiore di campo in un'aiuola di rose. Eppure, era bellissima, e i suoi modi non avevano nulla da invidiare a quelli delle più grandi dame. La mano del giovane duca di Forba dei Ganges le sfiorò il braccio nudo. «Come mi duole, signora», sussurrò egli, «che vi possegga un simile padrone! Non ho sguardi che per voi, questa sera.» Ella gli diede sulle dita un colpetto vivace con la punta del ventaglio. «Non vi affrettate a mettere in pratica quel che vi insegnano qui. State piuttosto ad ascoltare saggiamente le parole dell'esperienza: guai a chi si affretta e gira ad ogni soffiar di vento. Non avete notato la vostra vicina di destra, che nasino delizioso e che guance rosate ha? Mi è stato detto che è una vedovella che non chiede di meglio che d'esser consolata della morte di un vecchissimo marito brontolone.» «Grazie dei vostri consigli, signora. “Un nuovo amor scaccia l'antico”, dice Le Chapelain. Ogni insegnamento della vostra bocca affascinante non può essere che seguito. Lasciate che vi baci le dita e vi prometto che mi occuperò della vedovella.»
All'altro capo della tavola s'era iniziata una discussione fra Cerbalaud e il signor di Castel-Jalon. «Io sono povero come un mendicante», diceva quest'ultimo, «non nascondo che ho venduto un vigneto per vestirmi decentemente e venire in questi luoghi. Ma affermo che non ho bisogno di essere ricco per essere amato.» «Non sarete mai amato delicatamente. Tutt'al più, il vostro idillio sarà come quello di un contadino che accarezza la bottiglia con una mano e l'amica con l'altra pensando tristemente ai soldi guadagnati a fatica che gli ci vorranno per pagare l'una e l'altra.» «Affermo che il sentimento...» «Il sentimento non si coltiva nel bisogno...»
Goffredo di Peyrac tese le mani ridendo. «Pace, signori, ascoltate l'antico maestro la cui umana filosofia deve troncare tutte le nostre dispute. Ecco con quali parole si apre il suo trattato sull'Arte d'amare: “L'amore è aristocratico. Per occuparsi d'amore, non bisogna curarsi della propria vita materiale e non bisogna essere tormentato da essa al punto di contare il tempo d'ogni giorno”. Siate ricchi, dunque, signori, e colmate di gioielli le vostre amate. Il lampo di uno sguardo di donna dinanzi a un vezzo di diamanti è molto vicino a trasformarsi in lampo d'amore. Personalmente, io adoro lo sguardo che una donna adornata getta al suo specchio. Non protestate, signore, e non siate ipocrite. Apprezzerete colui che vi disdegna tanto da non cercare di rendere più splendente la vostra bellezza?» Le dame risero e bisbigliarono. «Ma io sono povero!» esclamò Castel-Jalon in tono lamentoso. «Non essere così crudele, Peyrac, ridammi un po' di speranza!...» «Diventa ricco!»
«Facile a dirsi!» «Sempre facile per chi lo vuole. Almeno, non essere avaro, allora. “L'avarizia è il peggior nemico dell'amore”. Dal momento che sei povero, non tener conto del tuo tempo né delle tue prodezze, fa' mille follie, soprattutto fa' ridere. “La noia è il verme che consuma l'amore.” Non è vero, signore, che preferite un buffone a un gran sapiente?... Come ultima consolazione, eccoti questa massima: “Solo i meriti rendono degni di amore”.» “Come è bella la sua voce e come parla bene”, diceva fra sé Angelica. Il bacio del giovane duca le aveva lasciato sulle dita come un bruciore. Costui s'era docilmente allontanato da lei e si chinava verso la vedovella dal viso rosato. Angelica era sola e, attraverso la lunga tavola e il fumo azzurro dei bruciaprofumi, il suo sguardo non abbandonava la rossa figura del padrone di casa. Se ne accorgeva, egli? Le lanciava un richiamo dietro quella maschera con cui aveva velato il suo volto ferito? Oppure disinvolto, indifferente, assaporava soltanto, da soddisfatto epicureo, la delicata giostra delle parole? «Sapete che sono molto scombussolato?» esclamò a un tratto il giovane duca di Forba dei Ganges sollevandosi quasi in piedi. «É la prima volta che assisto a una corte d'amore e confesso che mi aspettavo un piacevole libertinaggio e non di sentir dire parole così dure. “Solo i meriti rendono degni di amore”. Dobbiamo diventare dei piccoli santi per conquistare le nostre dame?» «Dio ve ne preservi, signor duca», sussurrò la vedovella ridendo. «La sfida è seria», fece Andijos. «Mi amereste ornato di aureola, mia carissima?» «No, di certo.» «Perché attribuite il merito agli altari?» esclamò Goffredo di Peyrac. «Il merito è d'esser pazzi, allegri, smargiassi, cavalieri, rimatori e soprattutto - qui vi voglio, signori - amanti abili e sempre pronti. I nostri padri opponevano l'amor cortese all'amore libero. Io, invece, vi dirò: facciamo insieme l'uno e l'altro! Bisogna amare veramente e completamente, cioè carnalmente.» Tacque un istante, poi riprese con voce più sorda: «Ma non disprezziamo l'esaltazione sentimentale che, senza essere estranea al desiderio, lo trascende e lo affina. Reputo perciò che colui che voglia conoscere l'amore debba sacrificare a questa disciplina del cuore e dei sensi che Le Chapelain raccomanda: “Un amante non deve avere che una sola amante. Una amante non deve avere che un solo amante”. Sceglietevi, amatevi, separatevi quando sopravverrà la stanchezza, ma non siate di quegli amanti volubili che praticano l'”ubriachezza delle passioni”, bevono in tutte le coppe al tempo stesso e trasformano le corti dei regni in pollai.» «Per San Severino!» esclamò Germontaz emergendo dal piatto. «Se vi sentisse mio zio l'arcivescovo, perderebbe la testa. Ciò che voi dite non sta in piedi. Nessuno mi ha mai insegnato simili cose.» «Vi hanno insegnato così poche cose, signor cavaliere!... Che c'è dunque, nelle mie parole, che tanto vi offende?» «Tutto. Voi predicate la fedeltà e il libertinaggio, la decenza e l'amore carnale. E poi, di colpo, come se foste sul pulpito, vi scagliate contro l'ubriachezza delle
passioni. Riferirò questa espressione a mio zio l'arcivescovo. Sono certo che, domenica prossima, la tirerà fuori in piena cattedrale.» «Le mie parole sono frutto di umana saggezza. L'amore è nemico degli eccessi. In questo, come allorché si tratta di mangiare, noi preferiamo la qualità alla quantità. Il limite del piacere si ferma lì dove cominciano lo sforzo e la nausea del libertinaggio. É forse capace di gustare un bacio sapiente colui che gozzoviglia come un maiale e beve come una botte bucata?» «Debbo riconoscermi in questa descrizione?» borbottò a bocca piena il cavaliere di Germontaz. Angelica pensò che costui, almeno, non era di indole attaccabrighe. Ma perché Goffredo pareva che facesse di tutto per provocarlo? Eppure, non poteva certo nascondersi il pericolo di quella indesiderata presenza. «L'arcivescovo ci manda suo nipote per spiare», aveva detto a sua moglie, il giorno innanzi del festino. E aveva aggiunto in tono leggero: «Sapete che tra noi è guerra dichiarata?» «Che cosa è accaduto, Goffredo?» «Nulla. Ma l'arcivescovo vuole il segreto della mia ricchezza, se non la mia ricchezza stessa. Non mi lascerà più in pace.» «Vi difenderete, Goffredo?» «Del mio meglio. Disgraziatamente, non è ancora nato colui che potrà distruggere l'umana stoltezza.»
I servitori avevan tolto i piatti. Otto paggetti entrarono, alcuni recando ceste di rose, altri piramidi di frutta. Dinanzi a ciascun convitato furon disposti piatti con dolciumi a base di spezie e confetti di varie specie. «Sono lietissimo di udirla parlare così semplicemente dell'amore carnale», disse il giovane Cerbalaud. «Pensate che sono innamorato alla follia, eppure eccomi solo in questa adunata. Non credo di aver mancato di ardore nelle mie dichiarazioni e, senza vantarmi, ho avuto a momenti l'impressione che la mia passione fosse condivisa. Ma, purtroppo, la mia amica è virtuosa. Appena oso un gesto ardito, subito ne ho per molti giorni di sguardi crudeli e di significativa freddezza. Sono mesi che giro e rigiro in questo diabolico maneggio: conquistarla provandole la mia fiamma e perderla ogni giorno appena tento di provargliela!...» La disavventura di Cerbalaud divertì tutta la compagnia. Una dama lo strinse fra le braccia, baciandolo sulla bocca. Quando il chiasso si fu un poco calmato, Goffredo di Peyrac disse affettuosamente: «Abbi pazienza, Cerbalaud, e ricordati che le ragazze selvagge sono quelle che possono giungere alle maggiori voluttà. Ma hanno bisogno di un amante abile, per sciogliere in se stesse non so quale scrupolo che fa confonder loro l'amore con il peccato. Sta' anche attento alle damigelle che troppo spesso confondono amore e matrimonio. Ti citerò ora alcune massime: “Dedicandoti ai piaceri dell'amore, non oltrepassare il desiderio dell'amante”; “Sia che tu dia o riceva i piaceri dell'amore, osserva sempre un certo pudore”; e infine: “Sii sempre rispettoso degli ordini delle
dame”.» «Mi sembra che facciate la parte troppo bella alle dame», protestò un gentiluomo, ricevendo per la sua frase alcuni colpi di ventaglio. «A sentir voi, bisognerebbe morire di continuo ai loro piedi.» «Ma questo è bellissimo», approvò l'amante di Bernardo d'Andijos. «Sapete come, a Parigi, chiamano i giovani che fanno la corte a noi Preziose? I morenti.» «Io non voglio morire», fece Andijos con aria scura. «Moriranno i miei rivali.» «Si deve lasciare che le dame facciano tutti i loro capricci?» «Certamente.» «Ci disprezzeranno...» «E ci tradiranno...» «Si deve accettare d'essere traditi?» «Questo no», disse Goffredo di Peyrac. «Battetevi in duello, signori, e uccidete i vostri rivali. “Chi non è geloso non può amare”. “Un sospetto sulla mia amante e l'ardore d'amare s'accresce!”.» «Quel Chapelain del diavolo ha pensato a tutto!» Angelica si portò il bicchiere alle labbra. Il suo sangue scorreva più in fretta, ed ella si mise a ridere. Le piaceva la fine di quei pranzi tra la gente del Sud, quando di colpo l'accento diveniva squillante come una fanfara, quando ci si lanciava l'un l'altro sfide e beffe, quando un gentiluomo cavava la spada mentre un altro accordava la chitarra. «Canta! Canta!» si chiese a un tratto. «La Voce del regno.» Nella loggia che sovrastava la galleria, i musicisti cominciarono a suonare in sordina. Angelica vide che la vedovella aveva appoggiato la testa alla spalla del duchino. Con dito leggero, prendeva delle pastiglie e gliele faceva scivolare fra le labbra. Si sorridevano. La luna apparve nel cielo vellutato, tonda e limpida. Goffredo di Peyrac fece un segno e un servitore andò di candeliere in candeliere a spegnere le candele. Si fece buio, poi gli occhi, a poco a poco, si abituarono al tenue chiarore lunare; ma le voci s'erano attutite e nell'improvviso raccoglimento si udivano i sospiri delle coppie abbracciate. Già alcune di esse s'erano alzate ed erravano nei giardini o nelle gallerie aperte alla brezza profumata della notte. «Signore», disse ancora la voce grave e armoniosa di Goffredo di Peyrac, «e voi, signori, siate dunque i benvenuti nel palazzo del Gaio Sapere. Per alcuni giorni converseremo insieme e mangeremo alla stessa tavola. Alcuni appartamenti vi sono stati preparati in questa dimora. Vi troverete vini prelibati, dolciumi e sorbetti. E confortevoli letti. Dormiteci soli se siete d'umore triste. Accoglieteci l'amico di un'ora... o di tutta la vita, se lo desiderate. Mangiate, bevete, fate l'amore... ma siate discreti perché “l'amore non dev'essere divulgato se vuole conservare tutto il suo sapore”. Ancora un consiglio... e per voi, signore. Sappiate che anche la pigrizia è uno dei grandi nemici dell'amore. Nei paesi dove la donna è ancora schiava dell'uomo, in Oriente, in Africa, tocca a lei, quasi sempre, darsi da fare per condurre il suo signore al piacere. Sotto i nostri cieli civilizzati, in verità, vi si è lasciata la parte più bella. Voi ne abusate, a volte, rispondendo alla nostra foga con un languore... che non si differenzia molto dal torpore. Imparate perciò a prodigarvi con
un coraggio di cui la voluttà vi darà ricompensa: “Uomo frettoloso e donna passiva fanno gli amanti senza piacere”. Terminerò con una confidenza di ordine gastronomico. Ricordatevi, signori, che il vino di Champagne, di cui alcune bottiglie sono in fresco accanto al vostro letto, ha più immaginazione che costanza. In altre parole, è preferibile di non berne troppo per prepararsi alla lotta. Ma nessun vino è più glorioso per celebrare una vittoria, per riconfortare di una notte felice e per mantenere vivi ardore e forza. Signore, vi saluto.» Respinse la poltrona, incrociò di colpo i piedi sulla tavola e, prendendo la chitarra, cominciò a cantare. Il suo viso mascherato era vòlto alla luna. Angelica si sentiva terribilmente sola. Un mondo antico, quella notte, rinasceva dalle ceneri all'ombra della torre di Arsézat. Tolosa l'ardente ritrovava la sua anima. La voluttà aveva diritto di cittadinanza, e la giovane donna piena di linfa e di giovinezza non poteva restarvi insensibile. Non ci si intrattiene impunemente sull'amore e sulle sue delizie senza cedere a un languore già propizio. Quasi tutti i convitati avevano ormai lasciato la sala. Alcuni, ancora, nel vano delle finestre, un bicchierino di rosolio in mano, si abbandonavano a schermaglie d'innamorati. La signora di Saujac baciava il suo capitano. La lunga sera tepida, addolcita ancor più dai vini prelibati, dai cibi raffinati conditi con scelte spezie, dalla musica e dai fiori, compiva la sua opera abbandonando il palazzo del Gaio Sapere alla magia dell'amore. L'uomo rosso seguitava a cantare, ma anch'egli era solo. “Che aspetta?” si chiedeva Angelica. “Che vada a gettarmi ai suoi piedi dicendogli: prendimi?” Un lungo brivido la percorse a quel pensiero, e chiuse gli occhi. Era tutta turbamento e contraddizione. Mentre ancora il giorno innanzi sarebbe stata pronta a cedere, quella sera si ribellava alla seduzione: “Attira a sé le donne con le canzoni.” Da lontano ciò era sembrato tanto terribile, e da vicino era tanto meraviglioso. Ella si alzò e uscì a sua volta dicendosi che “sfuggiva alla tentazione”. Poi subito, pensando che quell'uomo era il suo sposo dinanzi a Dio, scosse disperatamente la testa. Si sentiva perduta e timorosa. Educata rigidamente, restava timida dinanzi a una vita troppo libera. Apparteneva a un'epoca in cui ogni debolezza si pagava con rimorsi e scrupoli. Una donna che, quella notte, si fosse abbandonata gemendo alla stretta dell'amante, l'indomani sarebbe corsa ad abbattersi in lagrime in un confessionale, avrebbe voluto le grate di un convento e il velo per espiare le sue colpe. Angelica si rendeva conto che Goffredo di Peyrac voleva asservirla non al matrimonio, ma all'amore. S'ella fosse stata sposata con un altro, egli avrebbe agito egualmente. La nutrice non aveva avuto forse ragione dicendo che quell'uomo era al servizio del diavolo? Scendendo la scalea, incontrò una coppia abbracciata. La donna mormorava in fretta una specie di preghiera lamentosa. In quel palazzo pieno di sospiri, Angelica vestita di bianco errava lungo i giardini. Scorse Cerbalaud, anch'egli solo, che camminava per i viali e pensava certo ai discorsi che avrebbe fatto alla sua troppo rigida amica. Ella sorrise. “Povero Cerbalaud! Rimarrà fedele al suo amore o l'abbandonerà per una fanciulla meno crudele?...”
Con passo incerto, il cavaliere di Germontaz scendeva la scalea. Si fermò accanto ad Angelica respirando forte. «Accidenti alle leziosaggini e alle sdolcinatezze di questi meridionali! La mia amichetta che, sino ad ora, s'era mostrata ben disposta, mi ha mollato uno schiaffo in faccia. A quanto pare, non sono abbastanza delicato per lei.» «In verità, fra un comportamento dissoluto e un comportamento ecclesiastico, avete la scelta. Ciò di cui, forse, soffrite è di non avere ancora ben deciso quale sia la vostra vocazione.» Paonazzo, egli le si accostò ed Angelica ne ricevette in pieno viso il fiato avvinazzato. «Ciò di cui soffro, è di farmi aizzare come un toro da piccole smorfiose della vostra specie. Ecco come le tratto io, le donne.» Prima ch'ella avesse potuto fare un gesto di difesa, egli l'aveva brutalmente afferrata e le premeva sulle labbra la bocca umida e grassa. Ella si dibatté, nauseata. Il desiderio di quel rozzo giovane l'indignava come un insulto, e soprattutto la volgare sicurezza e il disprezzo che le dimostrava. Non avrebbe trattato diversamente una ragazza di cucina destinata a esser presa sull'erba, fra le siepi. La stringeva con tale brutalità ch'ella si sentiva soffocare e non riusciva a liberarsi per chiamare in aiuto. Ma non avrebbe voluto chiamare, vergognandosi troppo, e sentendosi umiliata. Prese a lottare con le unghie e coi denti, ma egli era pesante, tenace come una mala pianta, e accecato dall'ubriachezza. Mantenendola con un ginocchio contro un pilastro della loggia, egli afferrò con una mano l'orlo del corsetto di raso e tirò; la stoffa preziosa si strappò con un serico stridore. Angelica s'inarcò quando le dita umidicce le sfiorarono il seno nudo. Sempre silenziosa, lottava coraggiosamente, ma si sentiva mancare le forze.
22 «Signor di Germontaz», disse a un tratto una voce. Sgomenta, Angelica scorse in cima alla scala la rossa figura del conte di Peyrac, che si portava la mano alla maschera e la rigettava all'indietro. Ella vide il volto ch'egli poteva rendere così terribile, da far tremare i più induriti, quando ne contraeva i lineamenti deformati. Accentuando la sua claudicazione, egli scese con molta lentezza, ma quando fu sull'ultimo gradino brillò un lampo, mentre estraeva la spada. Germontaz aveva indietreggiato barcollando. Dietro Goffredo di Peyrac scendevano pure Bernardo d'Andijos e il signor di Castel-Jalon. Il nipote dell'arcivescovo gettò uno sguardo verso i giardini e vide Cerbalaud, che si era avvicinato. Respirò affannosamente. «É... è un tranello», balbettò, «volete assassinarmi!...» «Il tranello è in te stesso, maiale!» rispose Andijos. «Chi t'ha pregato di disonorare la donna del tuo ospite?» Tremando, Angelica cercò di coprirsi il seno con il corsetto strappato. Non era possibile! Non si sarebbero battuti! Bisognava intervenire... Goffredo rischiava la
morte con quel giovanottone nel pieno delle sue forze!... Goffredo di Peyrac seguitava ad avanzare, e di colpo si sarebbe detto che l'agilità di un giocoliere si fosse impadronita di quel lungo corpo difforme. Quando si trovò dinanzi al cavaliere di Germontaz, gli appoggiò sul ventre la punta della spada dicendo solo: «Battiti.» L'altro, obbedendo ai riflessi di un'educazione militare, trasse la spada, e i ferri s'incrociarono. Per alcuni istanti, la lotta fu serrata, tesa al punto che due volte le impugnature si urtarono e i volti dei duellanti furono a pochi pollici l'uno dall'altro. Ma, ogni volta, il conte di Peyrac ruppe di scatto. Egli compensava con la sua prontezza l'impaccio causatogli dalla gamba. Quando Germontaz l'ebbe spinto sulla scalea costringendolo a risalire diversi gradini, egli scavalcò con un balzo la balaustra e il cavaliere fece appena in tempo a voltarsi per essergli nuovamente di fronte. Quest'ultimo era già affaticato. Conosceva a fondo tutte le sottigliezze della scherma, ma quel giuoco troppo rapido lo metteva in difficoltà. La spada del conte gli fendette la manica destra, graffiandogli il braccio. Si trattava solo di una ferita superficiale, ma che sanguinava abbondantemente; il braccio colpito, che reggeva la spada, non tardò a intorpidirsi. Il cavaliere si batteva con crescente difficoltà. Nei suoi grossi occhi globosi apparve il terrore. In quelli di Goffredo di Peyrac, ardenti d'una oscura fiamma, non v'era alcuna pietà. Angelica vi lesse la condanna di morte. Ella si mordeva le labbra fino a gridare di dolore, ma non osava muoversi. Di colpo, chiuse gli occhi. Si udì una specie di grido sordo e profondo come l'ansito di un taglialegna nello sforzo. Quando guardò di nuovo, vide che il cavaliere di Germontaz era lungo disteso sul pavimento a mosaico e che l'elsa di una spada gli usciva dal fianco. Il Grande Zoppo della Linguadoca era chino sopra di lui con un sorriso. «Leziosaggini e sdolcinatezze!» disse con voce piana. Ripresa l'impugnatura dell'arma, la trasse a sé con un gran gesto. Qualcosa sprizzò con un rumore soffocato e Angelica si vide sull'abito bianco alcune macchie di sangue. Si sentì venir meno e dovette appoggiarsi al muro. Il volto di Goffredo di Peyrac si chinava sul suo. Era striato di sudore e sotto la giubba di velluto rosso ella vedeva il magro petto ansare come il mantice di una fucina. Ma gli occhi, penetranti, conservavano la loro luce incisiva e allegra. Un lento sorriso stirò le labbra del conte allorché incontrò lo sguardo verde, perduto di emozione. Egli disse imperiosamente. «Vieni.»
Il cavallo seguiva lentamente il bordo del fiume, sollevando la sabbia del viottolo sinuoso. A distanza, tre lacché armati proteggevano il loro signore, senza che Angelica si accorgesse della loro presenza. Le pareva di essere del tutto sola sotto il cielo stellato, sola fra le braccia di Goffredo di Peyrac che, dopo averla fatta montare di traverso sulla sella, se la portava ora al padiglione sulla Garonna per trascorrervi la loro prima notte d'amore. Egli non stimolava la cavalcatura, lasciando le redini abbandonate, mentre con
un braccio cingeva la vita della giovane donna che, illanguidita, riconosceva il dominio di una forza che una sera l'aveva piegata per un bacio respinto con orrore. Ma tutto ciò era lontano e irreale. Solo contava quell'istante. Senza pensieri, in una volontà di annullamento, ella si rannicchiava contro di lui, nascondendo il viso nel velluto gualcito della giubba. Dopo il duello con il gesto violento di un lavoratore, egli s'era aperto la giubba ed ora, al profumo delle polveri di viola di cui erano impregnate le sue vesti, si mescolava l'odore di un maschio sudore che esasperava il turbamento della donna. Timidamente, ella introdusse la mano nello scollo della camicia, toccò un petto sottile, liscio, ambrato come una statua esotica di legno. Egli non la guardava, ma andava contemplando l'acqua scintillante, giù dalla riva. Però le sue labbra si dischiusero ed egli canticchiò una canzone della vecchia lingua, di cui lei sapeva la traduzione: «Come il cacciatore si porta via la preda finalmente raggiunta, Io mi porto via la mia bella, abbattuta e docile al mio piacere...» Il chiarore lunare mostrava appieno quel fiero volto. Ma Angelica pensava: “Ha i più begli occhi, i più bei denti, i più bei capelli del mondo, la pelle più dolce, le mani più belle... Come potei trovarlo orrendo?... Questo è dunque l'amore?... Il miraggio dell'amore?...”
Nel padiglione sulla Garonna, i domestici, addestrati da un padrone esigente, restavano invisibili. La camera era pronta. Sulla terrazza, di fianco al divano, era preparata una colazione a base di frutta e in un catino di bronzo erano in fresco alcune bottiglie, ma tutto sembrava deserto. Angelica e suo marito tacevano. Era l'ora del silenzio. Pure, allorché egli l'attrasse a sé con oscura impazienza, ella mormorò: «Perché non sorridete? Siete ancora arrabbiato? Vi assicuro che non ho provocato io quell'incidente!» «Lo so, cara.» Respirò profondamente e rispose con voce sorda: «Non posso sorridere, ho troppo atteso questo istante, e mi stringe fino a darmi dolore. Non ho mai amato nessuna donna come amo te, Angelica, e mi sembra di averti amato anche prima che ti conoscessi. E quando ti vidi... Eri tu quella ch'io aspettavo. Ma tu passavi, altezzosa, a portata della mia mano, come un elfo delle paludi, inafferrabile. Ed io ti facevo delle confessioni divertenti, per paura di un gesto di orrore o di una beffa. Mai ho atteso una donna per tanto tempo, né mai ho impiegato tanta pazienza. Eppure, tu mi appartenevi. Venti volte sono stato sul punto di usare la violenza, ma io non volevo soltanto il tuo corpo, volevo il tuo amore. Ed ora che ti vedo qui, a un tratto, finalmente mia, quasi te ne voglio di tutti i tormenti che mi hai inflitto. Te ne voglio», ripeté con ardente passione. Ella sostenne bravamente l'espressione di quel volto che non la terrorizzava più, e sorrise. «Vèndicati», mormorò.
Egli trasalì, sorrise a sua volta. «Sei più donna di quel che credessi. Ah! non provocatemi! Chiederete mercé, bella nemica!» Da quel momento, Angelica cessò di appartenersi. Ritrovando le labbra che già una volta l'avevano inebriata, ritrovava quel turbine di sensazioni sconosciute il cui ricordo aveva lasciato nel profondo della sua carne una imprecisa nostalgia. Tutto in lei si destava e, con la promessa di uno sboccio che nulla avrebbe potuto ostacolare, il suo piacere divenne a poco a poco talmente acuto ch'ella ne fu spaventata. Ansante, si gettava all'indietro, tentando di sfuggire a quelle mani di cui ogni gesto le rivelava una nuova fonte di godimento, e allora, come emergendo da un pozzo di opprimente dolcezza, ella vedeva rovesciarsi attorno a sé il cielo stellato, la pianura nebbiosa dove la Garonna allungava il suo nastro d'argento. Sana e colma di salute, Angelica era fatta per l'amore. Ma la rivelazione ch'ella aveva improvvisa del proprio corpo la turbava ed ella si sentiva stretta, sospinta in un assalto violento, più interiore che esterno. Solo più tardi, con l'esperienza, ella poté misurare quanto Goffredo di Peyrac avesse al contrario moderato la violenza del suo desiderio, per ammansire del tutto la sua conquista. Senza ch'ella quasi ne avesse coscienza, egli la spogliò, la distese sul divano. Con instancabile pazienza, la riportava verso di lui, ogni volta più sottomessa, calda e gemente, gli occhi brillanti di febbre. Ella si dibatteva e si aggrappava a lui a volta a volta, ma, quando quell'emozione che non riusciva a controllare fu giunta al parossismo, una improvvisa distensione si produsse in lei. Pareva ad Angelica di essere invasa da un benessere cui si mescolava una eccitazione deliziosa e lancinante, e, abbandonata ogni resistenza, ella s'offrì spontaneamente alle più ardite carezze, lasciandosi trasportare ad occhi chiusi, senza più ribellarsi, dalla voluttuosa corrente. Non si ritrasse dinanzi al dolore, perché già ogni particella del suo corpo chiamava furiosamente il dominio del padrone e, quand'egli la prese, non gridò, ma le palpebre le si aprirono a dismisura e le stelle del cielo primaverile si rifletterono nei suoi occhi verdi. «Così presto!» mormorò Angelica. Distesa sul divano, ella ritornava alla vita. Un morbido scialle delle Indie, gettato su lei, le proteggeva il corpo in sudore dalla lieve brezza notturna. Ella guardava Goffredo di Peyrac che, in piedi, scuro nel chiaro di luna, versava nelle coppe il fresco vino. Egli si mise a ridere. «Piano piano, mia cara! Siete troppo nuova perché io possa permettermi di andar più avanti con la lezione. Verrà il tempo delle lunghe delizie. In attesa, beviamo! Perché tutti e due, questa sera, abbiamo fatto un lavoro che vuole la sua ricompensa.» Egli sostenne il gracile busto mentre lei beveva ed ella accentuò il languore e la stanchezza, appoggiandosi a lui, istintivamente civettuola, esigente. Assaporava senza scrupoli la tenerezza che intuiva in quell'uomo che avrebbe potuto essere tanto scettico e indifferente e che invece godeva così a pieno di quel dono ch'ella gli aveva fatto. Dietro i suoi modi gioviali egli nascondeva una gioia giovanile, ma Angelica, furba com'era, sentiva di avere ormai acquistato un immenso potere su Goffredo di Peyrac. Per fortuna, non ne avrebbe abusato! Lo amava ardentemente! Avrebbe diviso con lui le ore della sua vita. Gli avrebbe dato dei figli, e avrebbero vissuto
felici sotto il cielo di Tolosa! Sollevando il delizioso volto verso di lui, ella gli rivolse un sorriso di cui non sapeva ancora tutta la seduzione, perché in un istante era nata una nuova Angelica, rasserenata, liberata. Egli chiuse gli occhi, come abbagliato. Quando li riaprì, vide un'espressione d'angoscia sul volto affascinante. «Il cavaliere di Germontaz», mormorò Angelica. «Oh, Goffredo! Lo avete dimenticato. Avete ucciso il nipote dell'arcivescovo!» Egli la tranquillizzò con una carezza. «Non pensateci più. La provocazione ha avuto dei testimoni. Sarei stato rimproverato se avessi tollerato la cosa. Lo stesso arcivescovo, di sangue nobile, non potrà che inchinarsi. Dio! mia cara», sussurrò poi, «le vostre forme sono ancora più perfette di quanto immaginassi.» Seguiva con un dito la curva bianca ed elastica del giovane ventre. Ella sorrise, con un profondo sospiro di benessere. Le avevano sempre detto che, dopo l'amore, gli uomini erano brutali e indifferenti... Ma, decisamente, Goffredo non sarebbe mai stato eguale agli altri uomini. Egli andò a rannicchiarsi accanto a lei sul divano ed ella lo udì che rideva piano. «Quando penso che l'arcivescovo sta guardando dall'alto della torre del vescovado il palazzo del Gaio Sapere, e sta votando all'inferno la mia libertina esistenza! Se sapesse che, proprio in questo momento, assaporo le “colpevoli delizie” con la mia legittima moglie di cui ha egli stesso benedetto l'unione!...» «Siete incorreggibile. Non ha torto di considerarvi con sospetto perché, quando vi sono due modi di fare una cosa, voi ne inventate un terzo. Potreste, infatti, commettere un adulterio, oppure compiere saggiamente il vostro dovere coniugale. No! Bisogna che circondiate la vostra notte di nozze di tali circostanze da farmi provare fra le vostre braccia un'impressione di colpa.» «Piacevolissima impressione, non trovate?» «Tacete! Voi siete il diavolo! Confessate, Goffredo, che se voi ve la cavate con una piroletta, la maggior parte dei vostri ospiti, questa sera, non si trovano nella stessa condizione! Con quale abilità li avete fatti precipitare in ciò che monsignore chiama disordine... Non sono del tutto sincera che voi non siate un essere... pericoloso!...» «E voi, Angelica, siete un'adorabile piccola canonichessa tutta nuda! E sono sicuro che, fra le vostre mani, la mia anima otterrà mercé! Ma non rifiutiamo le dolcezze della vita. Tanti altri popoli vivono con altri costumi e non per questo sono meno generosi e felici. Di fronte alla volgarità del cuore e dei sensi che noi nascondiamo sotto i nostri bei vestiti, ho sognato, per mio piacere, di veder donne e uomini ingentilirsi e dare al nome della Francia maggior grazia. Quante donne destinate alla frigidezza e alla costrizione dall'inettitudine di barbari amanti saranno d'ora in poi più civili nei loro costumi, più felici nell'alcova, più a loro agio nei salotti! Io me ne rallegro perché amo le donne, come ogni cosa bella. No, Angelica, tesoro mio, non ho rimorsi e non andrò a confessarmi!...»
Angelica non poteva essere se stessa se non dopo divenuta donna. Non era che una rosa in boccio, prima, costretta nella sua carne che una goccia di sangue moro disponeva all'amore carnale. I giorni che seguirono, durante i quali si svolsero i festeggiamenti della corte d'amore, le parve di essere stata trasportata in un mondo nuovo dove tutto era pienezza e incantate scoperte. Le sembrava che il resto dell'esistenza fosse cancellato, che la vita si fosse fermata. Diveniva sempre più amorosa. Il suo colorito si faceva più roseo, il suo riso aveva un nuovo ardire. Ogni notte, Goffredo di Peyrac la ritrovava più avida, più sollecita, e i suoi improvvisi rifiuti di giovane Diana quand'egli voleva piegarla a nuove fantasie, cedevano presto a un abbandono pieno di ardore. I loro ospiti pareva vivessero nel medesimo clima di distensione e di sollievo. Ciò dovevano in parte a un miracolo di organizzazione, perché la genialità del conte di Peyrac non dimenticava nessun particolare per il comodo e il piacere dei suoi convitati. Egli era presente ovunque, disinvolto in apparenza; eppure, Angelica aveva l'impressione ch'egli non pensasse che a lei, non cantasse che per lei. A volte, un sospetto di gelosia l'afferrava quando lo vedeva immergere il suo nero sguardo negli occhi arditi di una civettuola che gli chiedeva consiglio su qualche sottigliezza del giuoco amoroso. Ella tendeva l'orecchio, ma doveva riconoscere che suo marito se la cavava lealmente con uno di quegli abili frizzi velati da complimento di cui aveva il segreto. Fu con un misto di sollievo e di delusione che, dopo una settimana, ella vide le pesanti carrozze stemmate girare nel cortile del palazzo e riprendere la via di lontane ville patrizie, mentre belle mani cariche di pizzi si agitavano alle portiere. I cavalieri salutavano con i feltri piumati. Angelica, al balcone, faceva allegri gesti di addio. Non le dispiaceva di ritrovare un po' di tranquillità e di avere finalmente il marito tutto per sé. Ma, segretamente, era triste di veder finire quelle deliziose giornate. Non si possono rivivere due volte, nell'esistenza, simili momenti di felicità. Non sarebbero ritornate - Angelica ne aveva di colpo il presentimento - mai più quelle meravigliose settimane...
La sera stessa, Goffredo di Peyrac si chiuse nel suo laboratorio, dove non era entrato da quando era cominciata la corte d'amore. Quella premura rese Angelica furibonda ed ella si girò e rigirò dalla rabbia nel suo gran letto, dove invano lo attese. “Ecco gli uomini!” disse fra sé amaramente. “Si degnano di dedicarvi un po' di tempo di sfuggita, ma nulla li trattiene quando sono in giuoco le loro piccole manie personali. Per gli uni è il duello, per altri la guerra. Per Goffredo sono le sue storte. Prima, m'interessava che me ne parlasse, perché allora sembrava che avesse dell'amicizia per me, ma ora detesto quel laboratorio.” Imbronciata, finì tuttavia con l'addormentarsi. Si destò all'improvviso chiarore di una candela e scorse al capezzale Goffredo che terminava di spogliarsi. Sedette di colpo e incrociò le braccia intorno alle
ginocchia. «É proprio necessario?» chiese. «Già odo destarsi nel giardino gli uccelli. Non credete che fareste meglio a terminare questa notte così ben cominciata nel vostro appartamento, stringendovi sul cuore una storta di vetro ben panciuta?» Egli rise allegramente. «Sono desolato, amica mia, ma ero impegnato in un esperimento che non potevo abbandonare. Sapete che anche in questo c'entra un poco il nostro terribile arcivescovo! Egli ha accettato con molta dignità la morte di suo nipote. Ma attenzione: il duello è proibito. É una carta buona di più nel suo giuoco. Ho ricevuto l'ultimatum di rivelare a quel suo idiota di monaco, a quel Bécher, il mio segreto sulla fabbricazione dell'oro. E, siccome non posso spiegargli, logicamente, il traffico spagnolo, ho deciso di condurlo a Salsigne, dove lo farò assistere all'estrazione e alla trasformazione della roccia aurifera. Prima, però, debbo richiamare il sassone Fritz Hauer, e mandare inoltre un corriere a Ginevra. Bernalli desiderava moltissimo assistere a questi esperimenti, e verrà di certo.» «Tutto ciò non m'interessa», interruppe Angelica irritata. «Io ho sonno.» Con quei capelli che le velavano parte del viso e quella camiciola la cui balza di pizzo le scivolava lungo il braccio nudo, capiva che il suo atteggiamento non era così rigoroso come le sue parole. Egli accarezzò la spalla tenera e bianca, ma con un gesto improvviso ella gli ficcò i denti aguzzi nella mano. Egli le lanciò allora uno scapaccione e, con finta collera, la rovesciò di traverso al letto. Lottarono un momento. Ben presto Angelica fu costretta a cedere alla forza di Goffredo di Peyrac, ch'ella doveva ogni volta constatare con la stessa sorpresa. Il suo umore, tuttavia, restava ribelle ed ella si dibatteva nell'abbraccio. Poi, il suo sangue prese a circolare più in fretta. Una scintilla voluttuosa si accese nel profondo del suo essere, spandendosi ovunque. Ella seguitò ad agitarsi, ma cercava con bramosa curiosità la sorprendente sensazione che aveva provato. Il suo corpo s'infocava. Le onde del piacere la trascinavano di vetta in vetta in un delirio mai ancora provato. Con la testa rovesciata sull'orlo del letto, le labbra dischiuse, Angelica evocava d'improvviso le ombre di un'alcova dorata dal lume di una lampada. Aveva negli orecchi un dolce e straziante lamento, quello della donna in amore, e le pareva di udirlo con straordinaria acutezza. Riconobbe a un tratto la propria voce. Sopra di lei, nella grigia luce dell'alba, vedeva quel volto di fauno che sorrideva e che, gli occhi brillanti semichiusi, ascoltava il canto che aveva saputo far nascere. «Oh, Goffredo!» sospirò Angelica, «mi par di morire. Perché sei sempre più meraviglioso?» «Perché l'amore è un'arte in cui ci si perfeziona, amica mia bella, e perché voi siete una meravigliosa allieva...» Sazia, ella cercava ora il sonno rannicchiandosi contro di lui. Come appariva bruno il petto di Goffredo fra i pizzi della camicia!... E com'era inebriante quell'odore di tabacco!
23 Circa due mesi dopo, un gruppetto di cavalieri che seguiva una carrozza con lo stemma del conte di Peyrac, saliva una strada tortuosa verso il piccolo borgo di Salsigne nell'Aude. Angelica, da principio entusiasta del viaggio, cominciava a sentirsi stanca. Faceva un gran caldo e c'era molta polvere. E soprattutto, poiché il trotto monotono del cavallo l'aveva indotta alla meditazione, ella aveva dapprima osservato con antipatia il monaco Conan Bécher il quale, a cavalcioni di un mulo, lasciava penzolare le lunghe gambe magre e i piedi calzati di sandali, poi aveva riflettuto alle conseguenze dell'ostinato rancore dell'arcivescovo. Infine, dato che Salsigne le ricordava la figura nodosa di Fritz Hauer, aveva riflettuto alla lettera di suo padre che il sassone le aveva portato scendendo a Tolosa con il suo carretto, la moglie e tre biondi bambini che, nonostante il tempo trascorso nel Poitou, parlavano solo un aspro dialetto germanico. Angelica, ricevendo la lettera, aveva pianto a lungo perché il padre le comunicava la morte del vecchio Guglielmo Lutzen. Era andata a nascondersi in un angolo buio e aveva singhiozzato per ore intere. Neppure a Goffredo avrebbe potuto spiegare ciò ch'ella provava e perché il cuore le si spezzava allorché ricordava il vecchio volto barbuto dai chiari occhi severi, che avevano saputo essere così dolci, un tempo, per la piccola Angelica. La sera, avendola il marito accarezzata e vezzeggiata con molta dolcezza, senza chiederle nulla, la sua pena si era un po' attenuata. Il passato era il passato. Ma la lettera del barone Armando aveva fatto sorgere dei piccoli fantasmi scalzi e con i capelli pieni di paglia, per i corridoi gelidi del vecchio castello di Monteloup all'ombra del quale, l'estate, si mettevano i polli. Inoltre, il barone si lamentava. La vita era sempre difficile, per quanto ognuno avesse il necessario grazie al commercio dei muli e alla generosità del conte di Peyrac. Ma il paese era stato in preda a una tremenda carestia; questo, aggiunto alle persecuzioni dei gabellieri contro i venditori di sale di contrabbando, aveva provocato la rivolta degli abitanti della zona paludosa. Sbucando all'improvviso dai canneti, avevano saccheggiato diversi borghi, rifiutando di pagare l'imposta e uccidendo alcuni dazieri ed esattori. Si era dovuto mandar contro di loro i soldati del re e inseguirli “mentre filavano attraverso i canali come anguille”. C'erano stati molti impiccati ai crocicchi. Angelica capiva a un tratto ciò che significava “essere” una delle più grandi ricchezze della provincia. Aveva dimenticato quel mondo oppresso, perseguitato dal timore delle tasse e delle esazioni. Era forse divenuta, nell'abbagliamento della felicità e del lusso, così egoista? Forse l'arcivescovo si sarebbe mostrato meno litigioso se lei avesse saputo lusingarlo occupandosi delle sue opere di carità? Udì sospirare il povero Bernalli. «Che strada! Peggio che nei nostri Abruzzi! E quella bella carrozza! Si ridurrà in pezzetti. É un vero delitto!» «Vi ho pure pregato di salire», disse Angelica. «Avrebbe almeno servito a qualche cosa.»
Ma il galante italiano protestò, non senza toccarsi le reni indolenzite. «No, signora, un uomo degno di tal nome non potrebbe starsene comodamente in una carrozza quando una giovane dama viaggia a cavallo.» «I vostri scrupoli sono fuor di moda, caro Bernalli. Oggi non si fan più tanti complimenti. Comunque, per quel che vi conosco, sono certa che vi basterà dare un'occhiata alla nostra attrezzatura idraulica per guarire da ogni acciacco.» Il volto del sapiente s'illuminò. «Vi ricordate davvero, signora, della mia mania per la scienza ch'io chiamo idraulica? Vostro marito mi ha allettato comunicandomi di aver costruito a Salsigne una macchina per sollevare l'acqua di un torrente che scorre in una profonda gola. Non ci voleva altro per farmi rimettere in viaggio. Mi chiedo se non abbia scoperto, con ciò, il moto perpetuo.» «V'ingannate, mio caro», disse dietro di loro la voce di Goffredo di Peyrac. «Si tratta solo di un modello che imita gli arieti idraulici di cui vidi alcuni esempi in Cina e che possono elevare l'acqua di centocinquanta tese e più. Ecco, guardate lì. Siamo arrivati.» Si trovarono ben presto sulla riva di un torrente e poterono scorgere una specie di cassa a basculla che girava velocemente intorno ad un asse proiettando periodicamente, con una bella parabola, un getto d'acqua a grande altezza. Quel getto d'acqua ricadeva in una specie di vasca posta in luogo sopraelevato, da cui scendeva poi adagio, raccolta da canalizzazioni di legno. Un arcobaleno artificiale aureolava quella attrezzatura con le sue iridescenze multicolori, e Angelica trovò assai bello l'ariete idraulico, mentre Bernalli parve deluso ed esclamò risentito: «Ma così perdete diciannove ventesimi della portata del torrente. Questo non ha assolutamente nulla a che vedere con il moto perpetuo!» «Non m'importa di perdere sulla portata e sulla forza», osservò il conte. «Quel che vedo è che ho l'acqua ad altezza conveniente, e che la piccola portata mi basta per concentrare la roccia aurifera tritata.» Rimandarono al giorno seguente la visita alla miniera. Alloggi modesti ma sufficienti erano stati approntati dallo scabino del villaggio. Un carretto aveva portato letti e bagagli. Peyrac lasciò le abitazioni a disposizione di Bernalli, del monaco Bécher e di Andijos, che naturalmente era della partita. Egli, invece, preferiva il riparo di una grande tenda a doppio tetto, che aveva recato dalla Siria. «Credo che abbiamo ereditato dalle crociate l'abitudine di accamparci. Con il caldo che fa e in questo paese che è il più asciutto di tutta la Francia, vedrete, Angelica, che vi si sta assai meglio che in una costruzione di pietre e di terra battuta.» Venuta la sera, ella godé infatti l'aria fresca che scendeva dalle montagne. I lembi della tenda, sollevati, lasciavano scorgere il cielo arrossato dal tramonto e si udivano, sulle rive del torrente, i canti tristi e solenni dei minatori sassoni. Goffredo di Peyrac sembrava preoccupato, contro il suo solito. «Non mi piace quel monaco!» esclamò a un tratto con violenza. «Non solo non capirà nulla, ma interpreterà tutto secondo la sua tortuosa mentalità. Avrei preferito, tutto sommato, spiegarmi con l'arcivescovo, ma egli vuole un “testimone scientifico”.
Ah! Ah! Che ridere! Tutti sarebbero meglio di quel fabbricante di paternoster.» «Eppure», protestò Angelica un po' urtata, «ho udito dire che molti ragguardevoli sapienti erano anche dei religiosi.» Il conte trattenne appena un gesto d'irritazione. «Non lo nego, e vado assai più lontano. Dirò che, per secoli, la Chiesa ha conservato il patrimonio culturale del mondo. Ma, attualmente, si dissecca nella scolastica. La scienza è in mano a illuminati pronti a negare fatti evidentissimi, quando non possono trovare una ragione teologica per un fenomeno che ha soltanto una spiegazione naturale.» Tacque e attirandosi bruscamente la moglie al petto, le disse una frase ch'ella avrebbe compreso solo più tardi: «Anche voi, vi ho scelta come testimone.»
L'indomani mattina Fritz Hauer si presentò per accompagnare i visitatori alla miniera d'oro, che consisteva in un grosso scavo a forma di cava ai piedi del contrafforte di Corbières. Una enorme circonferenza di terreno lunga cinquanta tese e larga quindici era messa a nudo, e la sua massa grigia era spaccata, per mezzo di cunei di legno e di ferro, in blocchi di minor grandezza, che venivano quindi caricati su carretti e trasportati alle macine. Altri piloni idraulici attrassero in modo particolare l'attenzione di Bernalli. Erano fatti di un rivestimento di ferro su zoccoli di legno, che oscillavano quando un cassone era pieno d'acqua e perdeva l'equilibrio. «Quale perdita di potenza d'acqua», sospirò Bernalli, «ma che semplicità d'installazione dal punto di vista della soppressione di mano d'opera! Anche questa è una vostra invenzione, conte?» «Non ho fatto che imitare i cinesi, dove tali installazioni esistono, come mi dissero laggiù, da tre o quattromila anni. Essi se ne servono soprattutto per scortecciare il riso, loro abituale nutrimento.» «Ma dov'è l'oro in tutto questo?» osservò giudiziosamente il monaco Bécher. «Non vedo che una polvere grigia e pesante che i vostri manovali traggono da quella roccia verde e grigia tritata.» «Vedrete la dimostrazione alla fonderia sassone.» Il gruppetto passò più in basso, ove alcuni forni catalani coperti erano sistemati in un capannone privo di muri. Due ragazzi azionavano alcuni mantici che emanavano un alito ardente e soffocante. Livide fiamme esalanti un accentuato odore di aglio uscivano a tratti dalle gole aperte dei forni, lasciando come un vapore fuligginoso e pesante che si posava tutto intorno sotto forma di neve bianca. Angelica ne prese un poco nella mano e voleva portarla alla bocca, per quel gusto d'aglio che la incuriosiva. Come uno gnomo sorto dall'inferno, un mostro umano con un grembiule di cuoio le diede un colpo violento sulla mano per fermarne il gesto. Prima ch'ella avesse potuto reagire, lo gnomo eruttò:
«Gift, gnädige Dame 10 .» Indecisa, Angelica si asciugava la mano, mentre lo sguardo del monaco Bécher pesava su di lei. «Da noi», diss'egli piano, «gli alchimisti lavorano con una maschera.» Ma anche Goffredo aveva udito e interveniva: «Da noi, infatti, non v'è alcuna alchimia, per quanto tutti questi ingredienti non siano da mangiare, bene inteso, e neppure da toccare. Fate le regolari distribuzioni di latte a tutti i nostri uomini, Fritz?» chiese poi in tedesco. «Le sei vacche hanno preceduto il nostro arrivo qui, altezza!» «Bene, e non dimenticate che non è per venderlo, ma per berlo.» «Non siamo nel bisogno, altezza, e ci teniamo a rimanere in vita il più possibile», disse il vecchio soprastante gobbo. «Si potrebbe sapere, monsignore, che cos'è quella materia in fusione pastosa che intravvedo in codesto forno infernale?» chiese Bécher facendosi il segno della croce. «É la stessa sabbia pesante lavata e asciugata che avete veduto estratta dalla miniera.» «E, secondo voi, quella polvere grigia contiene dell'oro? Non ho veduto luccicare la minima pagliuzza, neppure poco fa nella scia di quella lavata dall'acqua.» «Eppure è proprio roccia aurifera. Portane qui una palettata, Fritz.» Il manovale ficcò la pala in un enorme mucchio di sabbia granulosa grigioverde, dall'aspetto vagamente metallico. Bécher se ne sparse un po', cautamente, nel cavo della mano, l'annusò, l'assaggiò risputandola subito e dichiarò: «Vetriolo di arsenico. Veleno potentissimo. Ma nulla a che vedere con l'oro. Del resto, l'oro proviene dalla rena e non dalla roccia. E la cava che abbiamo visto prima non contiene neppure una particella di rena.» «Esattissimo, illustre collega», confermò Goffredo di Peyrac, aggiungendo, rivolto al soprastante sassone: «Se il momento è buono, aggiungi il piombo.» Bisognò tuttavia aspettare ancora abbastanza a lungo. La massa nel forno si faceva via via più incandescente, fondeva e ribolliva. I vapori grevi e bianchi continuavano a fumare, deponendosi ovunque, persino sui vestiti, come un intonaco bianco e polverulento. Poi, quando il fumo cessò quasi del tutto e le fiamme diminuirono, due manovali in grembiule di cuoio portarono su un carretto diversi lingotti di piombo e li rovesciarono nella massa pastosa. Il bagno si liquefece e si placò. Il soprastante lo agitò con un lungo bastone. Ne sfuggirono bolle d'aria, poi salì alla superficie uno strato di schiuma che Fritz Hauer tolse con grandi colatoi e ganci di ferro. Poi tornò ad agitare. Infine, il soprastante si chinò dinanzi a un'apertura praticata nella parte inferiore del tino del forno, tirò via il tappo di creta che l'ostruiva e un filo argenteo prese a scorrere in canaletti già preparati. Il monaco, mosso da curiosità, vi si accostò, poi disse: 10
Veleno, nobile dama.
«Questo è ancora piombo.» «Siamo sempre d'accordo», confermò Peyrac. Ma, a un tratto, il monaco mandò un grido stridente: «Vedo i tre colori!» Indicava ansimando le iridescenze prodotte dal raffreddamento del lingotto. Le mani gli tremavano ed egli barbugliava: «La grande opera, ho visto la grande opera!» «Sta diventando pazzo, il bravo monaco», osservò Andijos senza rispetto per l'uomo di fiducia dell'arcivescovo. Con un sorriso indulgente, Goffredo di Peyrac spiegò: «Gli alchimisti ce l'hanno sempre con l'apparizione dei “tre colori” nel conseguimento della pietra filosofale e della trasmutazione dei metalli. Ma questo non è che un fenomeno ben poco importante in confronto a quello dell'arcobaleno dopo la pioggia.» A un tratto, il monaco cadde in ginocchio dinanzi al marito di Angelica e, balbettando, lo ringraziava per averlo fatto assistere “all'opera della sua vita”. Infastidito da quella ridicola manifestazione, il conte disse con voce secca: «Rialzatevi, padre. Voi non avete ancora, in verità, visto nulla e ve ne potrete render conto voi stesso. Qui la pietra filosofale non c'entra affatto, e me ne dispiace per voi.» Fritz Hauer seguiva la scena con un'espressione reticente sulla strana faccia pigmentata di polvere e di schegge di roccia. «Muss ich das Blei durchbrennen vor allen diesen Herrschaftsen? 11 » chiese. «Fai come se ci fossi io solo.» Angelica vide il lingotto ancora tiepido afferrato con stracci bagnati e spinto su un carretto, che lo trasportò fino a un piccolo forno sistemato sopra una fucina già incandescente. I mattoni della cavità centrale del forno, che formavano una specie di crogiolo aperto, erano bianchissimi, leggeri e porosi. Erano fabbricati con ossa di animali le cui carogne ammucchiate nelle vicinanze emanavano un fetore di carnaio che, mescolato agli odori di aglio e di zolfo, rendeva l'aria irrespirabile. Da rosso ch'era per il caldo e l'eccitazione, il monaco Bécher divenne livido scorgendo il mucchio di ossa, e prese a farsi segni di croce e a recitare esorcismi. Il conte non poté trattenersi dal ridere e disse a Bernalli: «Ecco dunque l'effetto delle nostre ricerche su questo moderno scienziato. Quando penso che la coppellazione in mezzo alle ossa era un giuoco da bambini al tempo dei romani e dei greci!» Bécher, tuttavia, non scappò dinanzi a quel terrificante spettacolo. Pallidissimo e seguitando a sgranare il rosario, rimase lì fissando i preparativi del vecchio Fritz e dei suoi aiutanti. Uno di questi aggiungeva carbone nella fucina e l'altro azionava il mantice a pedale, mentre il piombo cominciava a fondere velocemente per raccogliersi quindi nel centro dello scavo rotondo formato da mattoni di ossa del forno. 11
Debbo fare la coppellazione davanti a tutta questa gente?
Quando tutto si fuse, il fuoco fu ancora aumentato e il piombo cominciò a fumare. Ad un cenno del vecchio Fritz, apparve un ragazzo che recava un soffietto incastrato in un pezzo di tubo di terra refrattaria. Egli ne appoggiò la punta sull'orlo del tino e prese a soffiare aria fredda sulla superficie rosso scura del bagno di piombo fuso. Poco dopo, con un sibilo, l'aria soffiata contro il metallo liquido s'illuminò e s'ingrandì. La macchia luminosa aumentò d'intensità, passando al bianco splendente, e si propagò a tutto il metallo. I giovani aiutanti tolsero allora in fretta tutte le braci incandescenti da sotto il forno, e anche i grossi mantici si fermarono. La coppellazione proseguì da sola: il metallo ribolliva e abbagliava. Di tanto in tanto, si copriva di un velo scuro, poi questo si squarciava formando placche oscure che danzavano alla superficie del liquido illuminato, e quando uno di quegli isolotti fluttuanti giungeva all'orlo del bagno, veniva ghermito come per magia dai mattoni, sicché la superficie appariva più netta e splendente. Al tempo stesso, il menisco di metallo diminuiva a vista d'occhio. Poi si ridusse alle dimensioni di una grossa frittella, divenne più scuro e si accese di un improvviso baleno. In quel momento, Angelica vide chiaramente che il metallo rimasto fremeva con violenza e infine coagulava facendosi scurissimo. «É il fenomeno del baleno descritto da Berzelius, che si è dedicato molto alla coppellazione e allo spartimento di metalli insieme amalgamati», disse Bernalli. «Ma sono felicissimo di aver potuto assistere a un'operazione metallurgica che conoscevo solo dai libri.» L'alchimista non parlava. Il suo sguardo era assente e vago. Fritz, intanto, afferrava la frittella con una pinza, la metteva nell'acqua e la presentava quindi al suo padrone, gialla e brillante. «Oro puro», mormorò con rispetto il monaco alchimista. «Eppure non è assolutamente puro», disse Peyrac. «Altrimenti non avremmo veduto il fenomeno del bagliore, che tradisce la presenza dell'argento.» «Sarei curioso di sapere se quest'oro resiste all'acido nitrico e all'acido cloridrico.» «Certo, dal momento che è oro autentico.» Ripresosi dall'emozione, il religioso domandò se poteva avere un piccolo campione di quel prodotto per consegnarlo all'arcivescovo, suo benefattore. «Prendete per lui questo pezzo di oro grezzo cavato dalle viscere delle nostre Corbières», disse il conte di Peyrac, «e fategli ben capire che quest'oro proviene da una roccia che già lo contiene, e che sta in lui scoprire sulle sue terre qualche giacimento che lo farà ricco.» Conan Bécher avvolse con cura in un fazzoletto il prezioso dono che pesava almeno due libbre e non rispose.
Il viaggio di ritorno fu interrotto da un incidente in apparenza minimo ma che, in seguito, avrebbe avuto un certo peso nell'esistenza di Angelica e di suo marito.
A mezza strada da Tolosa, durante il secondo giorno del viaggio, il cavallo baio ch'ella montava cominciò a zoppicare, ferito da una selce della strada sassosa. Non v'erano cavalli di ricambio, a meno che non se ne fosse tolto uno dalla carrozza, che ne aveva quattro; ma ad Angelica sarebbe parso di diminuirsi se avesse montato una rozza bestia da traino. Si rifugiò quindi nella carrozza dove Bernalli, cavaliere dappoco, aveva già preso posto. Vedendolo così mal ridotto per una gitarella, tanto più Angelica ammirava ch'egli intraprendesse quei lunghi viaggi per recarsi a contemplare un ariete idraulico e per discutere sulla gravità dei corpi. Inoltre, bandito da molti paesi, l'italiano era povero e viaggiava senza servitù, su cavalli da nolo. Nonostante il rullio della vettura, egli era soddisfatto di ciò che chiamava una “notevole comodità”, e quando Angelica gli chiese ridendo un posticino egli ritrasse confuso le gambe, che aveva allungate sul sedile. Il conte e Bernardo d'Andijos caracollarono per un po' di tempo ai lati della carrozza, ma, poiché la strada era stretta e assai polverosa, dovettero seguire a distanza, a causa della polvere sollevata dalla vettura, che era preceduta da due servitori a cavallo. La strada andava facendosi sempre più stretta e tutta svolte. All'uscita da una curva, la carrozza si fermò con un cigolio, e i passeggeri videro un gruppo di cavalieri che sembrava sbarrassero loro il passaggio. «Non vi allarmate, signora», disse Bernalli affacciandosi alla portiera, «sono i lacché di un'altra carrozza che viene in senso contrario.» «Ma come faremo a incrociare su questa strada!» esclamò Angelica. I servitori dei due partiti, intanto, s'ingiuriavano abbondantemente. I nuovi venuti pretendevano, con molta insolenza, di far indietreggiare la carrozza della signora di Peyrac e, per mostrare chiaramente che si sentivano in diritto di passare per primi, uno dei lacché prese a distribuire gran colpi di frusta che colpirono a caso la servitù dell'opposto clan e i cavalli del conte. Le bestie s'impennarono, la vettura oscillò e Angelica, credendo che sarebbero andati a finire nel fossato, non poté trattenere un grido. Giungeva, in quel momento, Goffredo di Peyrac che, con espressione terribile, raggiunse l'uomo della frusta e lo sferzò in pieno viso con il suo scudiscio. Arrivava quindi la seconda vettura, arrestandosi con uno stridio di assi. Ne uscì fuori un grassone apoplettico, insaccato in una gala di pizzi e nastri, coperto di cipria e di polvere. La sua acconciatura, mescolata al sudore del viaggio, formava uno strano miscuglio. Egli agitò un bastone dal pomo d'avorio, con un nastrino di raso annodato intorno, e gridò: «Chi osa bastonare i miei servi? Ignorate dunque, specie di zotico cavaliere, che avete a che fare con il presidente del parlamento di Tolosa, barone di Massenau, signore di Pouillac e di altri luoghi?... Vi prego di farvi da parte e di lasciarci passare.» Il conte si volse e salutò enfaticamente: «Felicissimo. Siete forse parente di un certo signor Massenau, scrivano notarile, di cui mi hanno parlato?» «Il signor di Peyrac!» esclamò l'altro, un po' sconcertato. Ma la sua collera, rinfocolata dall'ardore di un sole a picco, non si placò per
questo e il suo volto divenne violaceo. «Anche se molto recente, vi farò notare che la mia nobiltà è autentica quanto la vostra, conte! Potrei mostrarvi le quietanze della camera del re che certificano il mio annobilimento.» «Vi credo, messèr Massenau. La società ancora si lamenta per avervi così innalzato.» «Voglio che mi rendiate conto di questa allusione. Che cosa mi rimproverate?» «Non credete che il luogo sia scelto male per una simile discussione?» chiese Goffredo di Peyrac, che faticava a dominare il cavallo irritato dal caldo e da quel grosso uomo rosso che gli gesticolava davanti, con un bastone in mano. Ma il barone di Massenau non si voleva arrendere. «Vi fa comodo parlare di affari pubblici, signor conte, mentre non vi degnate nemmeno più di partecipare alle assemblee del parlamento.» «Non m'interesso più a un parlamento privo di autorità. Non vi incontrerei che attivisti e villani rifatti, avidi di acquistare dal signor Fouquet o dal cardinale Mazarino titoli di nobiltà. E questo, mentre distruggono le ultime libertà locali della Linguadoca.» «Signore, io rappresento uno dei più alti funzionari della giustizia del re. La Linguadoca è da molto tempo una provincia dello Stato, riunita alla Corona. É sconveniente parlare dinanzi a me delle libertà locali.» «É sconveniente per la parola stessa di libertà pronunciarla dinanzi a voi, incapace come siete di comprenderne il senso. Voi siete buono soltanto a vivere dei sussidi del re. É ciò che chiamate servirlo.» «É già una maniera, mentre voi...» «Io non gli chiedo nulla, ma gli mando puntualmente le imposte della mia gente, e gliele pago con bell'oro puro uscito dalle mie terre o guadagnato con il commercio. Sapete, signor Massenau, che, su un milione di lire che la Linguadoca rende, io figuro per un quarto? Avviso ai quattromilacinquecento gentiluomini e agli undicimila borghesi della provincia.» Il presidente del parlamento s'era soffermato soltanto su una cosa. «Guadagnare con il commercio!» esclamò scandalizzato. «Sicché è vero, voi fate del commercio?» «Commercio e produco. E ne sono fiero. Perché non mi piace tendere la mano al re.» «Ah! voi fate lo sdegnoso, signor di Peyrac! Ma ricordate questo: sono i borghesi e i nuovi nobili che rappresentano l'avvenire e la forza del regno.» «Me ne vedete incantato», rispose ironicamente il conte ritrovando il suo tono beffardo. «Che la nuova nobiltà vada dunque a scuola avendo la cortesia di mettersi di lato per lasciar passare questa carrozza nella quale la signora di Peyrac si spazientisce.» Ma il nuovo barone, testardo, batteva i piedi nella polvere. «Non v'è alcun motivo perché io mi tiri di lato per primo. Vi ripeto che la mia nobiltà vale la vostra.» «Ma io sono più ricco di voi, scimmione», gridò forte Goffredo. «E poiché solo il denaro conta per i borghesi, ebbene, toglietevi di lì, signor Massenau, e lasciate
passare la ricchezza.» Si lanciò avanti spingendo via i servi del magistrato, che ebbe appena il tempo di buttarsi di fianco per evitare la carrozza con lo stemma del conte. Il cocchiere, che aspettava solo un cenno del padrone, era troppo felice di aver la meglio su quel servitorame di plebeo. Mentre passava, Angelica intravvide il volto infocato del signor Massenau che, brandendo il bastone ornato di nastri, gridava: «Farò un rapporto... Farò due rapporti... Monsignor d'Orléans, governatore della Linguadoca, sarà avvertito... e il consiglio del re.»
Una mattina, entrando con il marito nella biblioteca del palazzo, Angelica scoprì Clemente Tonnel, il maggiordomo, intento a scrivere su tavolette di cera il titolo di alcuni libri. Come la prima volta in cui si era fatto sorprendere, egli parve imbarazzato e cercò di nascondere le tavolette e il punteruolo. «Caspita, pare davvero che vi interessiate al latino!» esclamò il conte, più stupito che contrariato. «Sono stato sempre attratto dagli studi, signor conte. La mia aspirazione sarebbe stata quella di diventare scrivano notarile, ed è per me una grande gioia appartenere alla casa non solo di un gran signore ma di un illustre scienziato.» «Non sono i miei libri sull'alchimia che potranno istruirvi in materia di diritto», fece Goffredo di Peyrac aggrottando le sopracciglia, perché le maniere accorte del servitore non gli erano mai piaciute. Solo fra tutti, nel palazzo, egli non lo trattava con il tu. Quando egli fu uscito, Angelica disse, seccata: «Non ho da lamentarmi del servizio di quel Clemente, ma, non so perché, la sua presenza mi pesa sempre di più. Quando lo guardo, ho l'impressione che mi ricordi qualche cosa di spiacevole; eppure, l'ho portato con me dal Poitou.» «Oh!» disse Goffredo alzando le spalle, «manca di un po' di discrezione, ma dal momento che la sua passione di sapere non lo spinge a cacciare il naso nel mio laboratorio... Del resto, il mio moro ci starebbe attento. Clemente dev'essere un figlio di contadini o di piccoli artigiani che si è messo a servire con l'intenzione di elevarsi. Per una mente sveglia e aperta, non v'è modo migliore che servire e bazzicare con i grandi. Alla nostra epoca, si vedono di queste strane ascese, e un servitorello che portava l'acqua del bagno della signora duchessa darà un giorno del tu ai nipotini di costei nell'anticamera del re. La nobiltà si vende ora come un pacchetto di sale dal droghiere.» Nonostante tali parole, Angelica rimase inesplicabilmente tormentata, e varie volte durante la giornata il volto butterato dal vaiolo del maggiordomo venne a turbarle i pensieri. Eppure, quell'uomo era il suo unico paesano in Linguadoca, un servitore di modi perfetti e che non aveva bisogno della minima osservazione. Era piuttosto taciturno, ma la servitù lo temeva. La sua esperienza e la sua competenza erano riconosciute e c'era sempre un mucchio di giovinetti che chiedevano di entrare come sguatteri nel palazzo del Gaio Sapere per poter far pratica sotto la direzione di Clemente Tonnel. Però non era benvoluto, e la cosa si capiva, perché apparteneva a
un'altra regione ed era di carattere piuttosto duro.
Poco tempo dopo, Clemente Tonnel chiese un congedo per tornare a Niort, dove aveva da sistemare questioni di eredità. “Non finirà mai di ereditare”, pensò Angelica, ricordando che aveva già dovuto lasciare un posto per lo stesso motivo. Clemente prometteva di tornare il mese seguente, ma vedendo che sistemava con molta cura i finimenti del suo cavallo, Angelica ebbe il sospetto che non lo avrebbe riveduto così presto. Sul punto di affidargli una lettera per la propria famiglia, ella vi rinunciò. Quand'egli fu partito, Angelica fu presa da un folle desiderio di rivedere Monteloup e la sua campagna. Ma non sentiva la mancanza del padre. Per quanto ella fosse ora molto felice, gli conservava un vago rancore per il suo matrimonio. I fratelli e le sorelle erano dispersi. Il vecchio Guglielmo era morto e, dalle lettere ch'ella riceveva, capiva che le zie divenivano stizzose e rimbambite, e la nutrice sempre più autoritaria. Sfiorò un istante con il pensiero il ricordo di Nicola, ma questi, dopo il matrimonio di Angelica, era scomparso dal paese. A furia d'interrogarsi, Angelica si accorse di esser perseguitata dall'idea di tornare laggiù per recarsi al castello del Plessis e constatare se il famoso cofanetto del veleno fosse ancora chiuso nel nascondiglio della finta torretta. Non v'era alcun motivo perché non vi fosse più. Si sarebbe potuto scoprirlo solo demolendo il castello. Perché quella vecchia storia tornava improvvisamente a tormentarla? Gli antagonisti di quell'epoca erano ormai lontani. Mazarino, il re e il suo giovane fratello erano ancora in vita. Il signor Fouquet aveva ottenuto la potenza senza compiere delitti. E non si diceva forse che il principe di Condé stesse per tornare in auge? Ella scacciò via le sue chimere e presto si ritrovò tranquilla.
24 Ovunque c'era aria di festa, nella casa di Angelica come nel regno. E l'arcivescovo di Tolosa, preso da più importanti cure, aveva smesso lo spiare sospettoso di cui circondava il suo rivale conte di Peyrac. Monsignor di Fontenac, infatti, era stato chiamato insieme all'arcivescovo di Baiona per scortare Mazarino nel suo viaggio verso i Pirenei. La Francia intera si ripeteva la notizia. Con un apparato da far tremare il mondo, il signor cardinale andava in un'isola della Bidassoa, nei Paesi Baschi, a negoziare la pace con gli spagnoli. Sarebbe dunque finita quella lunghissima guerra, che ogni anno rinasceva con i fiori della primavera. Ma più ancora di quella notizia tanto desiderata, un progetto incredibile riempiva di gioia fino il più umile artigiano del regno. Come pegno di pace, l'altera Spagna accettava di offrire la sua infanta in sposa al giovane re di Francia. Sicché, nonostante reticenze e occhiate gelose, tutti, da una parte e dall'altra dei Pirenei, si pavoneggiavano, perché nell'Europa di allora, tra l'Inghilterra in rivolta e i piccoli principati tedeschi e italiani o quei popoli plebei
chiamati “marinai” che eran fiamminghi e olandesi, soltanto quei due principi erano degni l'uno dell'altra. A quale altro re poteva esser destinata l'infanta, figlia unica di Filippo IV, puro idolo dal volto di madreperla, allevata nell'ombra austera degli oscuri palazzi? E per divenire moglie di quel principe ventenne, speranza di una delle più grandi nazioni, quale principessa offriva altrettante garanzie di nobiltà e di vantaggi di alleanza?... Non aveva da molti anni, il signor di Lionne, segretario di Stato per gli affari stranieri, avuto sottocchio con crescente imbarazzo i ritratti di tutte le principesse nubili della cristianità? Si era parlato, un tempo, della “Grande Mademoiselle”, cugina del re, più anziana di lui di sei anni, l'unica veramente ricca della famiglia. Ma il colpo di cannone della Bastiglia, che l'ardente seguace della Fronda aveva fatto tirare contro le truppe reali, aveva spezzato quel bel progetto. Si parlò quindi di Margherita di Savoia, e la corte si recò a Lione. Ma, mentre stavano ballando e cominciavano a piacersi, un anonimo messaggero, avvolto in un mantello color mattone, si presentava a una porta secondaria; era ricevuto a quattr'occhi dal signor Colbert, intendente del cardinale; accompagnato attraverso oscuri corridoi in un salottino appartato dove si recò il cardinale stesso e dove si sussurrò a lungo. E Mazarino, tornando sotto lo splendore delle lumiere presso la regina Anna d'Austria, le disse fra un dolciume e l'altro: «L'infanta è nostra. Non abbiamo più nulla da fare, qui.» Le corti di provincia, naturalmente, commentavano con passione l'avvenimento e le dame di Tolosa dicevano che il giovane re piangeva molto, in segreto, perché era follemente innamorato di una piccola amica d'infanzia, la bruna Maria Mancini, nipote del cardinale. Ma la ragione di Stato s'imponeva. Il cardinale dimostrava in modo evidente, in tale occasione, che, per lui, la gloria del suo reale pupillo e il bene del regno erano al disopra di tutto. Egli voleva la pace come supremo risultato degli intrighi che le sue mani italiane ordivano da molti anni. La sua famiglia fu implacabilmente messa da parte. Luigi XIV avrebbe sposato l'infanta.
Così, con otto carrozze per la sua persona, dieci carri per i suoi bagagli, ventiquattro muli, centocinquanta servitori in livrea, cento cavalieri, duecento fanti, il cardinale scendeva verso le rive smeraldine di Saint-Jean-de-Luz. Passando, volle con sé gli arcivescovi di Baiona e Tolosa con tutto il loro seguito, per accrescere il sontuoso apparato della delegazione. Dall'altra parte delle montagne, intanto, don Luigi di Haro, rappresentante di Sua Maestà Cattolicissima, opponendo a tanto lusso un'altezzosa semplicità, attraversava i massicci della Castiglia recando nei suoi forzieri soltanto alcuni arazzi le cui scene avrebbero ricordato a chi di diritto la gloria dell'antico regno di Carlo V. Nessuno si affrettava, non volendo alcuno dei due arrivare per primo e avere l'umiliazione di dover aspettare l'altro. Si finì col percorrere metro per metro e, per un miracolo dell'etichetta, l'italiano e lo spagnolo raggiunsero lo stesso giorno, alla stessa ora, le rive della Bidassoa. Il tempo trascorse quindi nella indecisione. Chi
avrebbe messo per primo la barca in acqua per giungere all'isoletta dei Fagiani in mezzo al fiume, dove doveva aver luogo l'incontro? Ciascuno trovò la soluzione che doveva salvaguardare l'orgoglio. Il cardinale e don Luigi di Haro si fecero dire, nello stesso momento, ch'eran malati. Ma poiché il ripiego era fallito per un troppo grande accordo, bisognò attendere, per salvare la faccia, che le “malattie” fossero terminate: ma né l'uno né l'altro volevano guarire. Il mondo era impaziente. Si sarebbe fatta, la pace? Si sarebbe fatto, il matrimonio? Tutti commentavano il minimo gesto.
A Tolosa, Angelica seguiva i fatti da lontano. Era tutta gioiosa per un avvenimento personale che le pareva ben più importante del matrimonio del re. Il suo accordo con Goffredo facendosi sempre più profondo, ella aveva infatti cominciato a desiderare ardentemente un figlio. Soltanto allora, le sembrava, sarebbe stata veramente sua moglie. Invano egli affermava che non aveva mai amato una donna al punto da mostrarle il suo laboratorio e da parlarle di matematica, ella rimaneva scettica e aveva crisi di gelosia retrospettiva che lo facevano ridere e del resto lo riempivano segretamente di gioia. Ella aveva imparato a conoscere la sensibilità di quel carattere audace, a misurare il coraggio ch'egli aveva dimostrato per dominare la propria bruttezza ed infermità. Lo ammirava per esser riuscito vincitore da una simile prova. Le pareva che, bello e invulnerabile, non avrebbe potuto amarlo con altrettanta passione. Voleva dargli un figlio per farlo felice. Col passare del tempo, cominciava a temere di essere sterile. Finalmente, quando al principio dell'inverno 1658 si trovò incinta, pianse di gioia. Goffredo non nascose il suo entusiasmo e la sua fierezza. Quell'inverno, mentre ci si agitava per i preparativi del matrimonio reale non ancora deciso, ma al quale tutti i signori della provincia speravano di recarsi, la vita fu tranquilla nel palazzo del Gaio Sapere. Tra i suoi lavori e la giovane moglie, il conte di Peyrac aveva interrotto l'esistenza mondana condotta sino allora nella sua dimora. Infine, e senza parlarne ad Angelica, approfittava dell'assenza dell'arcivescovo per riprendere in mano la vita pubblica di Tolosa, con grande soddisfazione di una parte degli scabini e della popolazione. Per la nascita, Angelica si recò in un piccolo castello che il conte possedeva nel Béarn, sui contrafforti dei Pirenei, dove l'aria era più fresca che in città. I futuri genitori molto discutevano, naturalmente, sul nome che avrebbero messo al figlio, erede dei conti di Tolosa. Goffredo voleva chiamarlo Cantor come il famoso trovatore della Linguadoca Cantor di Marmont, ma, siccome il bimbo nacque durante i festeggiamenti, quando si decretavano a Tolosa i giuochi floreali, lo chiamarono Florimondo. Il neonato era bruno, con abbondanti capelli neri. Angelica ebbe contro di lui, per qualche giorno, un certo rancore per l'angoscia e i dolori del parto. La levatrice, tuttavia, affermava che, “per un primo”, tutto era andato assai bene. Ma Angelica era stata raramente malata e ignorava il dolore fisico. Durante le lunghe ore d'attesa, si
era sentita a poco a poco invasa da quella elementare sofferenza, e il suo orgoglio s'era ribellato. Era sola per una strada dove né l'amore, né l'amicizia potevano aiutarla, dominata dal figlio sconosciuto che già la rivendicava intieramente. I volti che la circondavano erano divenuti stranieri. Quel periodo prefigurò per lei l'atroce solitudine che un giorno avrebbe dovuto affrontare. Ella non se ne rese conto, ma forse il suo essere ne ebbe l'intuizione, e per ventiquattr'ore Goffredo di Peyrac restò preoccupato per il pallore, il mutismo e il sorriso forzato di lei. Poi, la sera del terzo giorno, mentre si chinava incuriosita sulla culla in cui dormiva il figlio, Angelica riconobbe un volto dai lineamenti cesellati che a volte le aveva rivelato il profilo intatto di Goffredo. Immaginò una sciabola crudele che si abbatteva su quel faccino angelico, il gracile corpo lanciato fuori di una finestra, abbattuto nella neve su cui piovevano le fiamme. La visione fu così netta ch'ella gridò per l'orrore. Afferrando il neonato, se lo strinse convulsamente al petto. I seni le dolevano, perché il latte saliva, e la levatrice li aveva strettamente fasciati. Le dame nobili non allattavano i loro figli. Una giovane nutrice, vigorosa e sana, doveva portarsi Florimondo nelle montagne, dove egli avrebbe trascorso i primi anni della sua esistenza. Ma, quando la levatrice tornò quella sera nella stanza della puerpera, alzò le braccia al cielo vedendo che Florimondo succhiava con avidità il seno della madre. «Siete pazza, signora! E adesso, come si fa per farvi andar via il latte? Vi verrà la febbre e il seno duro.» «Lo nutrirò io», fece Angelica aspramente, «non voglio che me lo gettino da una finestra!» Si parlò con scandalo di quella nobile dama che si comportava come una contadina. Si convenne infine che la nutrice sarebbe rimasta egualmente al seguito della signora di Peyrac, per completare l'allattamento di Florimondo, il cui appetito era vorace. In quel mentre, e allorché la questione del latte aveva messo in agitazione finanche lo scabino del piccolo villaggio bearnese dipendente dal castello, si vide giungere Bernardo d'Andijos. Il conte di Peyrac lo aveva nominato primo gentiluomo della sua casa e lo aveva mandato a Parigi per prepararvi il suo palazzo in previsione di un viaggio che contava di fare nella capitale. Di ritorno, Andijos era corso direttamente a Tolosa per rappresentarvi il conte ai festeggiamenti dei giuochi floreali. Non lo si aspettava nel Béarn. Appariva agitatissimo. Gettando le briglie del cavallo a un lacchè, egli salì le scale a quattro a quattro e fece irruzione nella camera di Angelica, che se ne stava coricata nel suo letto, mentre Goffredo di Peyrac, seduto sul davanzale della finestra, canticchiava pizzicando le corde della chitarra. Poiché la sera era fresca, avevano acceso il fuoco nel camino. La nutrice, seduta per terra accanto alla cesta del bimbo, avvolgeva strisce di filaccia con cui avrebbe fasciato strettamente il neonato come una fava nel dolce che si fa all'Epifania. Andijos non diede neppure uno sguardo a quel quadro di intimità familiare. «Arriva il re!» gridò ansimando. «Dove?»
«Da voi, al Gaio Sapere, a Tolosa!...» Poi si abbandonò su una poltrona, asciugandosi il sudore. «Suvvia», disse Goffredo di Peyrac dopo aver suonato una arietta sulla chitarra per lasciare che il sopraggiunto riprendesse fiato, «non perdiamo la calma. Mi era stato detto, infatti, che il re, sua madre e la corte si erano messi in viaggio per raggiungere il cardinale a Saint-Jean-de-Luz, ma perché dovrebbero passare per Tolosa?» «É una storia complicata! Sembra che, a furia di scambiarsi cortesie» don Luigi di Haro e Mazarino non abbiano ancora abbordato il soggetto del matrimonio. A quanto poi si dice, i rapporti starebbero inasprendosi per causa del signor di Condé. La Spagna vuole che lo si accolga a braccia aperte e che si dimentichino non solo i tradimenti della Fronda, ma che quel principe di sangue francese è stato per molti anni un generale spagnolo. La pillola è amara e difficile da ingoiare. L'arrivo del re, in tale situazione, sarebbe grottesco. Mazarino ha consigliato di viaggiare, ed essi viaggiano. La corte si reca ad Aix, dove la presenza del re placherà certamente la rivolta che vi è scoppiata. Ma tutta questa gente passa per Tolosa. E voi ci siete! E l'arcivescovo non c'è. Gli scabini stanno diventando pazzi!...» «Eppure, non è la prima volta che ricevono un gran personaggio.» «Bisogna che siate presente», supplicò Andijos. «Sono venuto io stesso a prendervi. Sembra che, udendo che sarebbero passati per Tolosa, il re abbia detto: “Potrò finalmente conoscere quel gran zoppo della Linguadoca di cui mi riempiono le orecchie!”.» «Oh! Voglio andare a Tolosa», esclamò Angelica balzando a sedere sul letto. Ma si rigettò indietro con una smorfia di dolore. Era ancora troppo anchilosata e indebolita, in verità, per intraprendere un viaggio attraverso le cattive strade di montagna e per sopportare le fatiche di un ricevimento principesco. Gli occhi, per la delusione, le si riempirono di lagrime. «Oh! Il re a Tolosa! Il re al Gaio Sapere, ed io non lo vedrò!...» «Non piangete, mia cara», disse Goffredo. «Vi prometto di essere così cortese e amabile che non potranno fare a meno d'invitarci alle nozze. Vedrete il re a SaintJean-de-Luz e non come un viaggiatore impolverato ma in tutta la sua gloria.» Mentre il conte usciva per dare ordini circa la sua partenza l'indomani all'alba, il buon Andijos prese a consolarla. «Vostro marito ha ragione, bellezza. La corte! Il re! Che cosa sono, eh? Un solo banchetto al Gaio Sapere vale assai di più che una festa al Louvre. Credetemi, sono stato al Louvre e vi ho preso freddo nell'anticamera del consiglio, che mi si gelava la goccia del naso. Quasi che il re di Francia non possegga foreste per tagliarvi la legna necessaria! Quanto agli ufficiali della casa reale, ne ho visti con i buchi nelle brache, da far abbassare gli occhi alle damigelle della regina, che pure sono tutt'altro che timide.» «Si parla molto del fatto che il cardinale precettore non abbia voluto abituare il suo regale pupillo a un lusso sproporzionato ai mezzi del paese.» «Non so quali fossero le intenzioni del cardinale che, per conto suo, non si è mai astenuto dall'acquistare diamanti grezzi o lavorati, quadri, biblioteche, arazzi, stampe. Ma io credo che il re, sotto le sue arie di timidezza, non veda l'ora di scuotere quella
tutela. Ne ha abbastanza della zuppa di fave e delle rimostranze della madre. Ne ha abbastanza di assumersi le disgrazie della Francia saccheggiata, e ciò si capisce se si pensa che è un bel ragazzo e, per sopraggiunta, re. Non è lontano il tempo in cui scuoterà la sua criniera di leone.» «Com'è? Descrivetemelo», disse Angelica impaziente. «Non c'è male! Non c'è male! Ha una certa prestanza, della maestà. Ma, per aver corso tanto di città in città al tempo della Fronda, è rimasto più ignorante di un servitore, e, se non fosse re, vi direi che lo credo un po' sornione. Inoltre, ha avuto il vaiolo e il suo viso è tutto butterato.» «Oh! voi cercate di scoraggiarmi!» esclamò Angelica. «E parlate come uno di quei diavoli di guasconi, di bearnesi o di albigesi che continuano a chiedersi perché l'Aquitania non è rimasta un regno indipendente da quello di Francia. Per voi, non c'è che Tolosa, e il vostro sole. Ma io muoio dalla voglia di conoscere Parigi e di vedere il re.» «Lo vedrete al suo matrimonio. Forse questa cerimonia sarà l'inizio della vera maggiorità del nostro sovrano. Ma, se risalite verso Parigi, fermatevi a Vaux per salutare il signor Fouquet. Ecco il vero re di oggi. Che lusso, amici miei! Che splendore!» «Anche voi, sicché, siete andato a corteggiare quel cattivo e maleducato finanziere?» chiese il conte di Peyrac, che rientrava in quell'istante. «Indispensabile, mio caro. Non solo ciò è necessario per essere ricevuti dappertutto a Parigi, perché i principi gli sono devoti, ma confesso che ero divorato dalla curiosità di vedere nella sua cornice il grande intendente del regno, che certamente, dopo Mazarino, è ora la più alta personalità del paese.» «Siate più coraggioso e non abbiate paura di dire: prima di Mazarino. Tutti sanno che il cardinale non ha alcun credito presso i capitalisti anche se trattasi del bene del paese, mentre Fouquet gode la generale fiducia.» «Ma l'abile italiano non è geloso. Fouquet fa entrare il denaro nel Tesoro reale per i pagamenti di guerra, ed è tutto ciò che gli si chiede... per il momento. Non si preoccupa di sapere se quel denaro è preso a prestito dagli usurai al venticinque e persino al cinquanta per cento d'interesse. La corte, il re e il cardinale vivono delle sue prevaricazioni. Non lo fermeranno tanto presto! Ed egli continuerà a mettere in mostra il suo emblema: lo scoiattolo, e il suo motto: “Quo non ascendam? 12 ”.» Goffredo di Peyrac e Bernardo d'Andijos discussero ancora un po' sull'insolito fasto di Fouquet, che aveva cominciato con l'essere referendario al Consiglio di Stato, quindi membro del parlamento di Parigi, ma sarebbe comunque rimasto figlio di un semplice corsaro bretone. Angelica restava sovra pensiero perché, quando si parlava di Fouquet, le veniva alla mente il cofanetto dei veleni, ed ogni volta quel ricordo le era più sgradevole. La conversazione fu interrotta da un servitorello che recava sopra un vassoio una colazione per il marchese. «Caspita!» esclamò questi scottandosi le dita con panini caldi che racchiudevano miracolosamente un po' di fegato d'oca ghiacciato, «soltanto qui si mangiano simili 12
Sin dove non salirò?
meraviglie. Qui e a Vaux, per la precisione. Fouquet ha un cuoco eccezionale, un certo Vatel.» All'improvviso esclamò: «Oh! questo mi ricorda un incontro... strano. Indovinate chi ho sorpreso laggiù in conversazione intima con Fouquet, signore di Belle-Isle e di altri luoghi, e quasi viceré di Bretagna?... Indovinate!» «É difficile. Conosce tanta gente.» «É uno della vostra casa... se così può dirsi.» Dopo aver pensato, Angelica disse che forse si trattava di suo cognato, il marito della sorella Ortensia, magistrato a Parigi come lo era un tempo il celebre sovrintendente. Ma Andijos fece un cenno negativo col capo. «Ah! se non avessi tanta paura di vostro marito, vi darei la mia informazione solo per un bacio, perché non indovinerete mai.» «Ebbene, prendete il bacio, che è cosa lecita quando si rivede per la prima volta una giovane puerpera e parlate, senza farmi languire oltre.» «Ecco: ho sorpreso il vostro ex maggiordomo, quel Clemente Tonnel che avete tenuto con voi parecchi anni a Tolosa, in conciliabolo con il sovrintendente.» «Ma vi sarete sbagliato! Era andato nel Poitou!» disse Angelica con improvvisa precipitazione. «E non v'è alcun motivo perché frequenti così grandi personaggi. A meno che non cerchi di entrare in servizio a Vaux.» «É ciò che mi è parso di capire dalla loro conversazione. Parlavano di Vatel, il cuoco del sovrintendente.» «Vedete», osservò Angelica con un sollievo di cui non trovava ragione, «egli cercava semplicemente di lavorare agli ordini di quel Vatel che dicono sia bravissimo. Penso soltanto che avrebbe potuto avvertire che non sarebbe tornato in Linguadoca. Ma andate a pretendere un po' di rispetto da quella gente plebea, quando non siete loro più utili!» «Già, già!» fece Andijos che sembrava pensare ad altro, «ma c'è però un particolare che mi è parso strano. Entrai per caso all'improvviso nella stanza dove il sovrintendente stava in conversazione con questo Clemente. Facevo parte di un gruppo di signori più o meno rallegrati dal vino. Ci scusammo con il sovrintendente, ma avevo notato che il nostro uomo conversava con il signor Fouquet in modo alquanto familiare, e aveva assunto, al nostro ingresso, un atteggiamento più servile. Mi riconobbe. Allorché stavamo per uscire, vidi che diceva in gran fretta qualche cosa a Fouquet. Questi fissò su me un gelido sguardo di serpente, poi disse: “Non credo che ciò abbia importanza”.» «É dunque te che giudicavano senza importanza, amico mio?» chiese Peyrac pizzicando con aria indifferente la sua chitarra. «Mi parve...» «Qual giudizioso parere!» Andijos fece finta di trarre la spada e la conversazione finì tra le risa.
25 “Bisogna assolutamente che mi rammenti di quella cosa”, disse fra sé Angelica. “Ce l'ho in testa, in fondo ai miei ricordi. So che è importante. Bisogna che me ne rammenti.” Si prendeva la faccia tra le mani, chiudeva gli occhi, concentrava i pensieri. La cosa era lontana. Si era svolta al castello del Plessis. Di ciò era sicura, ma, poi, tutto si confondeva. La fiamma del camino le scottava la fronte. Prese un parafuoco in seta dipinta e se ne protesse sventolandosi macchinalmente. Fuori, nel buio, la tempesta infuriava. Tempesta di primavera e di montagna, senza lampi, ma che gettava contro i vetri, a tratti, grossi chicchi di grandine. Non riuscendo a dormire, Angelica era andata a sedersi davanti al camino. Sentiva ancora qualche dolore alla schiena e se la prendeva con se stessa perché le forze non le tornavano più in fretta. La levatrice diceva che tale debolezza proveniva dal fatto ch'ella si ostinava ad allattare, ma Angelica faceva orecchio da mercante; allorché si prendeva sul petto il suo bimbo e lo guardava poppare, la sua gioia era ogni volta maggiore. Ella sbocciava, si sentiva diventar seria, tenera. Già si vedeva matrona solenne e indulgente, circondata da traballanti marmocchi. Perché pensava così di frequente alla propria infanzia mentre dentro di lei la piccola Angelica stava scomparendo?... E non era una sensazione di malessere sordo, inesplicabile. A poco a poco, la questione andava precisandosi: “C'è qualcosa di cui bisogna che mi rammenti assolutamente!” Ella aspettava, quella sera, il ritorno del marito, che aveva mandato innanzi un corriere ad avvertirla; ma certo la bufera lo aveva fatto tardare, e sarebbe arrivato il giorno dopo. Piangeva, per la delusione. Attendeva con tanta impazienza il racconto del ricevimento del re! Sarebbe stato, per lei, una distrazione. Dicevano che il banchetto e la festa erano stati splendidi. Che peccato non aver potuto assistervi, invece di restar lì a tormentarsi il cervello per riportare a galla un lembo di ricordo, un particolare forse privo d'importanza. “Era al Plessis. Nella camera del principe di Condé... Mentre guardavo attraverso la finestra. Bisogna ch'io riveda ogni cosa, punto per punto da quel momento...” Sbatté la porta e si udì un rumore di voci nell'ingresso del piccolo castello. «Oh! mio caro, siete voi, finalmente! Come sono felice!» Scese di corsa le scale ed egli la ricevette fra le braccia. «Eccovi già qui volando come un elfo, mia fata!» «Siete tutto bagnato. Avreste dovuto fermarvi all'ultimo villaggio.» «Vi avevo promesso di tornare questa sera.» «É vero. Non potevo stare senza di voi!» Lo condusse nella camera ben riscaldata e chiamò un servitore perché gli togliesse gli stivali umidi, mentre Kuassi-Ba portava di sopra il guardaroba. Il conte si mutò rapidamente di vestito, accettò un bicchiere di bordeaux rosso, ma disse che aveva mangiato per via e che, del resto, avevano tanto gozzovigliato in
quei giorni ch'era deciso a nutrirsi d'ora in poi solo di un po' di pane e di uno spicchio d'aglio, secondo la sana abitudine bearnese. «E a Florimondo, piacciono lo spicchio d'aglio e il vino del Jurance come al buon Enrico IV?» «Ho cercato di sfregarglielo sulle labbra come aveva fatto il nonno del re Enrico alla sua nascita; ma non gli è piaciuto.» «É sempre così bello il nostro Florimondo?» «Sempre più bello!»
Seduta sopra un cuscino ai suoi piedi, ella si rannicchiava contro di lui. Quando i domestici furono usciti, ella esclamò, impaziente: «Raccontate.» «In verità, è andata molto bene», disse Goffredo di Peyrac spizzicando un po' d'uva. «La città ha fatto cose belle. Ma, senza vantarmi, credo che il ricevimento al Gaio Sapere abbia superato tutto. Potei far giungere in tempo da Lione un maestro allestitore che ci organizzò una bellissima festa. Immaginate arrivando alla tavola del banchetto una nave di zucchero e confetture e una roccia egualmente costruita da cui uscivano getti di vino e acque profumate. Poi la nave e la roccia si divisero, ritrovandosi ciascuna a un capo della tavola, e tra esse si vide un enorme canestro di fiori in cui svolazzavano uccelli vivi di tutti i colori. Gli ospiti mandavano grida di ammirazione.» «E il re? Il re?» «Il re, in verità, è un bel giovane che sembra godere degli onori che gli son resi. Ha le guance piene, occhi scuri carezzevoli e molta maestà. Credo che il cuore gli dolga. La piccola Mancini vi ha fatto una ferita d'amore che non si rimarginerà molto presto, ma, siccome egli ha un'alta idea del suo mestiere di re, s'inchina alla ragione di Stato. Ho veduto la regina madre, triste, bella e un po' contegnosa. Ho veduto la “Grande Mademoiselle” e il giovane “Monsieur” disputarsi per questioni di etichetta. Che dirvi ancora? Ho veduto troppi bei nomi e troppi brutti visi!... In realtà, nulla ha valso per me il piacere di ritrovare il giovane Péguilin, sapete, il cavaliere di Lauzun, nipote del duca di Gramont, governatore del Béarn. Lo ebbi come paggetto a Tolosa prima che si recasse a Parigi. Lo rivedo ancora con quel viso da gatto, al tempo in cui incaricavo la signora di Bérant di insegnargli l'amore.» «Goffredo!» «Ma egli ha mantenuto le promesse e ha messo in pratica gli insegnamenti delle nostre corti d'amore. Ho potuto infatti osservare ch'egli era il cocco di tutte le dame. E il suo spirito gli vale l'amicizia del re, che non può fare a meno delle sue buffonate.» «E il re? Parlatemi del re! Vi ha espresso la sua soddisfazione per il ricevimento che gli avete offerto?» «Con molta grazia. E, varie volte, si è dispiaciuto della vostra assenza. Sì, il re è rimasto soddisfatto... troppo soddisfatto.» «Come “troppo” soddisfatto? Perché dite questo con il vostro sorrisetto mordace?»
«Perché mi è stata riferita la seguente riflessione: mentre il re stava risalendo in carrozza, un cortigiano gli ha fatto notare che la nostra festa poteva eguagliare gli splendori di quelle di Fouquet. Al che Sua Maestà ha risposto: “Sì, infatti, e mi chiedo se non sia presto ora di far restituire a quella gente il mal tolto!” La buona regina ha esclamato: “Che pensiero, figlio mio, dopo che vi è stata offerta una festa per farvi piacere!” “Sono stanco,” ha risposto il re, “di vedere i miei sudditi schiacciarmi con il loro fasto”.» «Questa poi! Che individuo!» esclamò Angelica indignata. «Non posso crederci. Siete proprio sicuro che lo abbia detto?» «Era proprio il mio fedele Alfonso che teneva aperto lo sportello e che me lo ha riferito.» «Il re non può avere da solo sentimenti così meschini. Sono i suoi cortigiani che hanno inasprito il suo umore e lo hanno irritato contro di noi. Siete certo di non esservi mostrato troppo insolente verso qualcuno di loro?» «Sono stato tutto zucchero e miele, ve lo assicuro, e li ho trattati come non si poteva meglio, sino a porre nella camera di ognuno dei signori che alloggiavano al castello una borsa piena d'oro. E vi giuro che nessuno di loro ha dimenticato di portarsela via.» «Li adulate ma li disprezzate ed essi se ne accorgono», disse Angelica scuotendo sovra pensiero il capo. Si raddrizzò e, sedendo sulle ginocchia del marito, gli si rannicchiò addosso. Fuori, la bufera continuava a infuriare. «Ogni volta che si pronuncia il nome di quel Fouquet, io tremo», mormorò Angelica. «Rivedo il cofanetto del veleno che per tanto tempo avevo dimenticato e che sta diventando per me un'ossessione.» «Siete molto nervosa, amica mia! Avrò ormai una sposa che trema ad ogni minimo soffio?» «Bisogna che mi rammenti di una cosa», si lamentò la giovane donna chiudendo gli occhi. Strofinò la gota contro la tiepida capigliatura profumata alla violetta, i cui riccioli umidi s'inanellavano. «Se voi poteste aiutarmi a ricordare... Ma è impossibile. Se potessi ricordare, mi sembra che vedrei da che parte viene il pericolo.» «Ma non c'è alcun pericolo, bellezza. La nascita di Florimondo vi ha scosso i nervi.» «Vedo la camera...» seguitò Angelica ad occhi chiusi. «Il principe di Condé è balzato dal letto perché avevano battuto alla porta... Ma io non avevo sentito il colpo. Il principe s'è avvolto nella veste da camera e ha gridato: “Sono con la duchessa di Beaufort...” Ma, in fondo alla stanza, il valletto ha aperto e ha introdotto un monaco incappucciato... Il monaco si chiamava Exili...» S'interruppe e guardò all'improvviso dinanzi a sé con una fissità che spaventò il conte. «Angelica!» gridò. «Ora ricordo», fece lei con voce sorda. «Goffredo, ricordo... Il valletto del principe di Condé era ...Clemente Tonnel.»
«Siete pazza, mia cara», diss'egli ridendo. «Per molti anni quell'uomo è stato al nostro servizio e soltanto ora vi accorgereste di tale rassomiglianza?» «Lo avevo appena intravisto nella penombra. Ma quel volto butterato, quelle maniere caute... Sì, Goffredo, ora ne sono certa, era lui. Mi spiego perché, durante il periodo ch'è stato a Tolosa, non ho mai potuto guardarlo senza fastidio. Ricordate ciò che diceste un giorno: “La spia più pericolosa è quella che non si sospetta”; e avevate cominciato a sentirla aggirarsi intorno alla casa. Era lui, la spia sconosciuta.» «Avete una bella fantasia, per una donna che s'interessa di scienze!» Le accarezzò la fronte. «Non avete un po' di febbre?» Ella scosse il capo. «Non scherzate. Sono tormentata dal pensiero che quell'uomo mi sta spiando da anni. Per conto di chi ha agito? Del signore di Condé? Di Fouquet?» «Non avete mai parlato con nessuno di quell'affare?» «Con voi... una volta, e lui ci ha uditi.» «Tutto ciò è roba passata. Rassicuratevi, tesoro mio, credo che vi siate messa in testa cose immaginarie.» Le parlò a lungo su questo tono e, a poco a poco, sotto le sue carezze e le tenere parole ella si tranquillizzò. Poiché i giorni seguitavano a scorrere senza incidenti e le forze le tornavano, le sue preoccupazioni andavano svanendo, tanto che, a volte, ne sorrideva.
Tuttavia, alcuni mesi più tardi, dopo che aveva dato il latte a Florimondo, suo marito una mattina le disse in tono che non voleva dare importanza alle parole: «Non vorrei costringervi, ma sarei lieto se sapessi che ogni mattina prendete questa all'ora di pranzo.» Aprì la mano ed ella vide brillare una piccola pastiglia bianca. «Che cos'è?» «Veleno... In piccolissima dose.» Angelica lo guardò. «Che cosa temete, Goffredo?» «Nulla. Ma è un'abitudine di cui mi sono sempre trovato benissimo. Il corpo si abitua a poco a poco al veleno.» «Credete che qualcuno possa tentare di avvelenarmi?» «Non penso nulla, mia cara... Non credo, semplicemente, al potere del liocorno.» Nel mese di maggio seguente, il conte di Peyrac e sua moglie furono invitati alle nozze del re, che dovevano aver luogo a Saint-Jean-de-Luz, sulle rive della Bidassoa. Re Filippo IV di Spagna recava egli stesso la figlia, l'infanta Maria Teresa, al giovane re Luigi XIV. La pace era firmata... o quasi. La nobiltà francese, ingombrando le strade, si dirigeva verso la cittadina basca. Con due carrozze e tre carri, più alcuni muli carichi, Angelica riteneva che si fosse un po' ristretti per i bagagli. Occorrevano infatti diverse casse per contenere tutti i loro sontuosi abiti. Goffredo aveva fatto venire da Lione un celebre mercante a
capo di una piccola carovana. Le più belle stoffe della capitale della seta erano state usate per le vesti della giovane contessa. Bisognava non solo prevedere le numerose cerimonie delle nozze, ma anche l'ingresso trionfale dei sovrani a Parigi. Angelica e suo marito si sarebbero recati sino a Parigi assieme alla corte. Goffredo e Angelica lasciarono Tolosa di buon mattino, prima delle ore calde. Florimondo, insieme con la nutrice: la culla e il negretto incaricato di farlo ridere partecipavano anch'essi al viaggio, naturalmente. Egli era ormai un bimbo pieno di salute, anche se non molto grasso, con uno splendido viso di Bambin Gesù spagnolo, con pupille e riccioli neri. L'indispensabile cameriera Margherita sorvegliava in uno dei carri il guardaroba della padrona. Kuassi-Ba, al quale avevano fatto fare tre livree una più stupenda dell'altra, assumeva arie da gran visir su un cavallo nero come la sua pelle. V'erano inoltre Alfonso, la spia dell'arcivescovo, sempre fedele, quattro musicisti tra cui un giovane violinista, Giovanni, al quale Angelica era affezionata, e un tale Francesco Binet, barbiere parrucchiere, senza di cui Goffredo di Peyrac non si metteva in viaggio. Valletti, cameriere e lacché completavano l'equipaggio preceduto da quelli di Bernardo d'Andijos e di Cerbalaud. Tutta presa dall'eccitazione e dalla preoccupazione della partenza, Angelica si accorse appena che oltrepassavano la periferia di Tolosa. Mentre la carrozza superava un ponte sulla Garonna, ella diede un piccolo grido e incollò il naso al finestrino. «Che vi succede, mia cara?» chiese Goffredo di Peyrac. «Voglio vedere ancora una volta Tolosa», rispose Angelica. Contemplava la rosea città distesa lungo le rive del fiume, con le diritte frecce dei suoi campanili e le sue rigide torri. Una improvvisa angoscia le strinse il cuore. «Oh! Tolosa!» mormorò. «Oh! il palazzo del Gaio Sapere!» Aveva il presentimento che non li avrebbe riveduti mai più.