Wilbur Smith
Monsone Monsoon © 1999
Dedico questo libro a mia moglie Danielle Antoinette il cui amore, in tutti questi...
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Wilbur Smith
Monsone Monsoon © 1999
Dedico questo libro a mia moglie Danielle Antoinette il cui amore, in tutti questi anni, è stato il monsone che ha segnato, costante e fedele, la rotta della mia vita. I tre ragazzi, risalendo la forra, sbucarono alle spalle della cappella, così da non farsi scorgere né dalla casa padronale né dalle scuderie. Come sempre li guidava Tom, il maggiore d'età, ma il fratello più piccolo gli stava alle costole e, non appena Tom fu giunto alla prima svolta del ruscello, in un punto che dominava il villaggio, il bambino riprese a protestare. «Perché tocca sempre a me fare il palo? Perché non posso mai divertirmi anch'io?» «Perché sei il più piccolo», rispose Tom con l'autorevolezza del capo. Stava osservando il minuscolo villaggio ai loro piedi, che ormai s'intravedeva nello squarcio della gola. Dalla fucina del fabbro si levava un filo di fumo e dietro il cottage della vedova Evans era steso il bucato che schioccava al vento, investito dalla brezza orientale. Tuttavia non si vedevano segni di vita. Era in corso la mietitura e, a quell'ora del giorno, quasi tutti gli uomini dovevano essere al lavoro nei campi del padre di Tom, mentre le loro donne, momentaneamente libere dalle incombenze domestiche, erano di certo impegnate nella casa padronale. Tom si concesse un sorriso soddisfatto, pregustando ciò che lo aspettava. «Nessuno ci ha visto», disse. Nessuno che potesse fare la spia al padre. «Non è giusto.» Dorian non si lasciava dissuadere facilmente. Sembrava un cherubino infuriato, con quei riccioli d'oro ramato che gli spiovevano sulla fronte. «Non mi lasci mai fare niente!» Tom si girò di scatto verso di lui. «Chi ti ha permesso di lanciare il falco, la settimana scorsa? Io. Chi ti ha lasciato sparare col fucile, ieri? Io. Wilbur Smith
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E chi è stato ad affidarti il timone del cutter?» «Sì, ma...» «Niente 'ma'.» Tom lo fulminò con lo sguardo. «E comunque, chi è il comandante di questa ciurma?» «Sei tu, Tom.» Sotto lo sguardo intenso del fratello maggiore, Dorian abbassò gli occhi verdi. «Però...» «Puoi andare con Tom al mio posto, se vuoi», intervenne Guy, a voce bassa. «Sarò io a fare il palo.» Tom si girò verso il fratello gemello, mentre Dorian esclamava: «Posso, Guy? Lo faresti davvero?» E, quando l'altro sorrise, la bellezza del ragazzino apparve in tutto il suo splendore, simile a un raggio di sole che filtra da uno squarcio tra le nuvole. «Niente affatto!» lo rimbeccò Tom. «Dorry è soltanto un bambino. Non può venire. Resterà sul tetto a fare da palo.» «Non sono un bambino», protestò Dorian, indignato. «Ho quasi undici anni.» «Se non sei un bambino, facci vedere i peli sulle palle», lo sfidò Tom. Da quando a lui erano spuntati, li considerava la pietra di paragone della sua maggiore età. Dorian non si curò di rispondere; non aveva neanche un'ombra di peluria color zenzero e dunque non poteva reggere il confronto con l'impressionante cespuglio di peli del fratello maggiore. Allora cambiò tattica. «Starò soltanto a guardare, tutto qui.» «Sì, starai a guardare dal tetto», sbottò Tom. «Su, andiamo, altrimenti si farà tardi!» S'incamminò, risalendo la ripida gola rocciosa, mentre gli altri due - entrambi riluttanti, seppur per motivi diversi - lo seguivano. «Ma chi potrebbe venire?» insistette Dorian. «Hanno tutti da fare. Persino noi dovremmo aiutare gli altri a...» «Potrebbe venire Black Billy», ribatté Tom, senza voltarsi. Quel nome costrinse al silenzio persino Dorian. Black Billy, «Billy il nero», era il figlio maggiore dei Courteney; la madre, una principessa etiope, era arrivata dall'Africa al seguito di Sir Hal Courteney, allorché questi era tornato dal suo primo viaggio in quel continente misterioso. E, oltre alla sposa di sangue reale, l'uomo aveva portato con sé una nave carica di tesori sottratti agli olandesi e ai pagani, un'immensa fortuna grazie alla quale aveva più che raddoppiato l'estensione della tenuta avita, innalzando la famiglia al rango delle più ricche di tutto il Devon, in grado di rivaleggiare persino con i Grenville. Wilbur Smith
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William Courteney, Black Billy per i fratellastri, aveva quasi ventiquattro anni, otto più dei gemelli. Era intelligente, spietato e, a modo suo, bello, della cupa bellezza del lupo; i fratelli minori lo temevano e lo odiavano, d'altronde per validi motivi. La minaccia rappresentata dal suo nome strappò un brivido a Dorian e fece calare il silenzio sul gruppetto per l'ultimo mezzo miglio di cammino. I tre ragazzi lasciarono il corso del ruscello, si avvicinarono al ciglio del burrone e giunsero così alla grande quercia dove l'albanella reale aveva fatto il nido la primavera precedente. Tom si lasciò cadere accanto al tronco dell'albero. «Se il vento tiene, domattina potremo fare un giro in barca», annunciò, togliendosi il berretto per asciugarsi il sudore dalla fronte con la manica. Sul berretto portava una penna di germano reale, strappata alla prima preda uccisa dal suo falco. Si guardò attorno. Dal punto in cui si trovava, lo sguardo abbracciava quasi metà della tenuta dei Courteney, quindicimila acri di colline ondulate e ripide valli, di boschi, pascoli e campi di grano che si stendevano fino alle scogliere lungo la costa, arrivando quasi a lambire il porto; ma era un terreno così familiare che Tom non si soffermò a percorrerlo con lo sguardo. «Vado avanti, per vedere se la via è libera», annunciò, alzandosi. Poi, procedendo accovacciato, avanzò con cautela verso il muro di pietra che circondava la cappella. Solo a quel punto alzò la testa per sbirciare dall'altra parte. La cappella era stata costruita dal bisnonno, Sir Charles, che si era battuto con onore durante lo scontro con l'Invencible Armada di Filippo di Spagna e per questo era stato nominato baronetto dalla buona regina Bess, cioè da Elisabetta I. Più di cent'anni prima, Sir Charles aveva costruito la cappella a maggior gloria di Dio e in ricordo dell'azione della flotta a Calais. Era proprio lì che si era guadagnato il titolo: molti dei galeoni spagnoli erano stati sospinti in fiamme sulla spiaggia, mentre il resto era stato disperso dalle tempeste che Francis Drake aveva definito «i venti di Dio». La cappella era un bell'edificio ottagonale di pietra grigia, con un alto campanile che, nelle giornate limpide, era visibile addirittura da Plymouth, distante quasi quindici miglia. Tom superò il muro con un agile volteggio, sgattaiolando poi attraverso il meleto fino a raggiungere il massiccio portale di quercia della sacrestia, tempestato di borchie di ferro. Lo socchiuse e si mise in ascolto. Il silenzio pareva assoluto. Il ragazzo sgusciò dentro, dirigendosi verso la porta che si apriva sulla Wilbur Smith
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navata. In quel preciso istante, la cappella sembrò tingersi dei colori dell'arcobaleno: era la luce del sole, che penetrava all'interno attraverso le alte vetrate multicolori. Quelle sopra l'altare rappresentavano la flotta inglese impegnata nello scontro con gli spagnoli, mentre Dio Padre, dall'alto delle nubi, guardava i galeoni nemici avvolti dalle fiamme e pareva approvare la scena. Le finestre sopra il portale erano invece state aggiunte dal padre di Tom. In quel caso i nemici costretti alla resa erano gli olandesi e le orde dell'Islam; al di sopra della battaglia si stagliava Sir Hal, con la spada levata in un gesto eroico e la principessa etiope al fianco. Portavano tutt'e due l'armatura e sugli scudi era impressa la croix pattée dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal. La navata era deserta. Non erano ancora cominciati i preparativi per le nozze di Black Billy, che si sarebbero celebrate il sabato successivo. Tom aveva la cappella tutta per sé. Corse alla porta della sacrestia, affacciandosi all'esterno, e si ficcò due dita in bocca per lanciare un fischio acuto. I due fratelli scavalcarono il muro esterno, correndo verso di lui. «In cima al campanile, Dorry!» ordinò Tom. Poi, avendo l'impressione che il piccolo dai capelli d'oro rosso volesse ancora protestare, avanzò di un passo verso di lui, con aria minacciosa. Dorian si accigliò, ma scomparve su per la scala. «Lei non c'è ancora?» domandò Guy con una punta di trepidazione. «Non ancora. È troppo presto.» Tom attraversò la navata, scendendo la buia scala di pietra che conduceva alla cripta. Giunto in fondo, slacciò la fibbia della borsa di cuoio che portava alla cintura, accanto al fodero del pugnale, estrasse la pesante chiave di ferro che aveva sottratto quella mattina dallo studio del padre e aprì la grata, facendola ruotare sui cardini cigolanti. Non tradì la minima esitazione mentre entrava nel sotterraneo dove giacevano tanti dei suoi antenati, composti nei sarcofagi di pietra. Guy lo seguì con minore sicurezza - la presenza dei morti lo metteva sempre a disagio - e si soffermò all'ingresso della cripta, esitante. L'unica luce, nella cripta, veniva dai finestroni posti all'altezza del terreno, attraverso i quali si diffondeva un chiarore irreale. Intorno alle pareti circolari erano disposte sedici bare di pietra e di marmo, tutte dei Courteney e delle loro mogli, a partire dal bisnonno Charles. Istintivamente, Guy lanciò un'occhiata al centro della fila che comprendeva le tre defunte mogli del padre e scorse il sarcofago di marmo Wilbur Smith
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che accoglieva le spoglie mortali della madre. Sul coperchio era scolpito il suo ritratto: era davvero bellissima, pensò il ragazzo, una fanciulla pallida e delicata come un giglio. Lui non l'aveva mai conosciuta, non aveva mai succhiato il latte dal suo seno: i tre giorni di travaglio necessari per dare alla luce i gemelli erano stati fatali per una creatura così delicata. Aveva partorito prima Tom, poi era morta di emorragia e di sfinimento poche ore dopo che Guy aveva lanciato il primo vagito. I ragazzi erano stati allevati da una serie di bambinaie e poi dalla matrigna, che era anche la madre di Dorian. Il giovane si diresse verso il sarcofago, inginocchiandosi dalla parte della testa per leggere l'iscrizione: QUI GIACE MARGARET COURTENEY, DILETTA SECONDA MOGLIE DI SIR HENRY COURTENEY, MADRE DI THOMAS E GUY, CHE HA LASCIATO QUESTA VITA IL 2 MAGGIO 1677. AL SICURO TRA LE BRACCIA DI CRISTO. Guy chiuse gli occhi, cominciando a pregare. «Lei non può sentirti», gli mormorò Tom, in tono quasi affabile. «Sì, che può», rispose Guy, senza alzare la testa né aprire gli occhi. Tom non replicò e prese invece ad aggirarsi per la cripta. A destra di sua madre c'era la madre di Dorian, l'ultima moglie di suo padre. Erano trascorsi soltanto tre anni da quando il cutter sul quale si trovava si era rovesciato all'imboccatura della baia e il risucchio della marea aveva trascinato la donna verso il mare aperto. Nonostante gli sforzi del marito per salvarla, la corrente si era rivelata troppo forte e aveva gettato entrambi su una piccola insenatura spazzata dai venti ad appena cinque miglia dalla baia. Ormai però Elizabeth era annegata e Hal stava quasi per seguirne la sorte. Tom si sentì salire le lacrime agli occhi: aveva amato quella donna con tutta l'intensità che non aveva potuto riversare sulla madre, morta prima che lui potesse conoscerla. Tossì, asciugandosi gli occhi e respingendo le lacrime prima che Guy si accorgesse di quel momento di debolezza infantile. Benché Hal avesse sposato Elizabeth soprattutto per assicurare una madre ai gemelli, rimasti orfani, ben presto tutti avevano imparato ad amarla, come amavano Dorian da quando era nato. Tutti tranne Black Wilbur Smith
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Billy, naturalmente. William Courteney non amava altri che il padre e nutriva nei suoi confronti la feroce gelosia di una pantera. Elizabeth aveva protetto i figli minori dalle sue attenzioni maligne, finché il mare non l'aveva strappata a loro, lasciandoli senza difese. «Non avresti mai dovuto abbandonarci», mormorò Tom, prima di lanciare un'occhiata colpevole a Guy. Ma il fratello, assorto nelle preghiere, non lo aveva sentito, e Tom si spostò verso l'altra bara, disposta di fianco a quella della sua vera madre. Apparteneva a Judith, la principessa etiope, la madre di Black Billy. L'effigie di marmo sul coperchio ritraeva una donna attraente: il viso fiero, quasi da rapace, somigliava moltissimo a quello del figlio. Indossava la mezza armatura, come si confaceva a una donna che era stata a capo di un esercito contro i pagani. Portava la spada alla cintura, mentre lo scudo e l'elmo erano posati sul suo petto; lo scudo si fregiava di una croce copta, un simbolo cristiano antichissimo, addirittura più antico del magistero del papa di Roma. Era a testa scoperta, con i capelli simili a una folta corona di riccioli fitti. Guardandola, Tom si sentì gonfiare dentro l'odio che provava per il figlio di quella donna. «Il cavallo avrebbe dovuto disarcionarti prima che potessi mettere al mondo il tuo rampollo.» Stavolta aveva parlato a voce alta. Guy si alzò per raggiungerlo. «Porta male parlare così dei morti», lo ammonì. Tom si strinse nelle spalle. «Ormai lei non può più farmi del male.» Guy lo prese per il braccio, guidandolo verso il successivo sarcofago della fila. Sapevano entrambi che era vuoto; il coperchio non era mai stato sigillato. SIR FRANCIS COURTENEY, NATO IL 6 GENNAIO 1616 NELLA CONTEA DI DEVON. CAVALIERE DELL'ORDINE DELLA GIARRETTIERA E DELL'ORDINE DI SAN GIORGIO E DEL SANTO GRAAL. NAVIGATORE E MARINAIO. ESPLORATORE E GUERRIERO. PADRE DI HENRY E VALENTE GENTILUOMO. INGIUSTAMENTE ACCUSATO DI PIRATERIA DAI CODARDI COLONI OLANDESI DEL CAPO DI BUONA SPERANZA E DA LORO CRUDELMENTE GIUSTIZIATO IL 15 LUGLIO 1668. Wilbur Smith
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BENCHÉ LE SUE SPOGLIE MORTALI SI TROVINO SULLA LONTANA E SELVAGGIA COSTA DELL'AFRICA, IL SUO RICORDO VIVE PER SEMPRE NEL CUORE DEL FIGLIO, HENRY COURTENEY, E NEL CUORE DEI VALOROSI E FEDELI MARINAI CHE HANNO NAVIGATO SULL'OCEANO SOTTO IL SUO COMANDO. «Come mai nostro padre ha messo qui una bara vuota?» chiese Tom a bassa voce. «Forse intende andare a prendere il corpo del nonno, un giorno...» rispose Guy. Tom gli lanciò un'occhiata penetrante. «Te lo ha detto lui?» Non poteva tollerare che il fratello sapesse qualcosa di cui lui, il maggiore, era tenuto all'oscuro. Tutti i ragazzi adoravano il padre. «No», ammise Guy. «Però è quello che farei io per mio padre.» Senza commentare, Tom si diresse verso il centro della cripta: sul pavimento si scorgeva uno strano disegno circolare, tracciato grazie a tessere di granito e marmo in vari colori. L'ordine del Tempio di San Giorgio e del Santo Graal - di cui Sir Henry Courteney era cavaliere Nautonnier, come il padre e prima di lui il nonno - si riuniva in coincidenza col plenilunio dell'equinozio d'estate; in quell'occasione, lungo il perimetro del cerchio venivano posti quattro calderoni di bronzo che contenevano gli elementi primordiali: fuoco, terra, aria e acqua. Al centro della cupola che sovrastava la cripta c'era un foro circolare che si apriva sul cielo. L'edificio era stato progettato e costruito con tanta ingegnosità che, attraverso quell'apertura, i raggi della luna piena colpivano il disegno sul pavimento di pietra, sul quale era stato composto in lettere di marmo nero l'enigmatico motto dell'ordine: IN ARCADIA HABITO, un motto di cui nessuno dei due ragazzi aveva ancora appreso il significato recondito. Tom si fermò proprio sopra quei neri caratteri gotici, posando la destra sul cuore e cominciando a recitare la liturgia con la quale anche lui, un giorno, sarebbe stato accolto nell'ordine. «Sono queste le verità in cui credo e che difenderò a costo della vita. Credo in un solo Dio, che è presente in tre persone, il Padre eterno, il Figlio eterno e lo Spirito Santo eterno.» Wilbur Smith
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«Amen!» rispose Guy di slancio, ma senza alzare la voce. Avevano studiato entrambi con zelo i riti dell'ordine, e conoscevano a memoria le centinaia di risposte. «Credo nella comunione della Chiesa d'Inghilterra e nel diritto divino del suo rappresentante in terra, Guglielmo III, re d'Inghilterra, di Scozia, di Francia e d'Irlanda, Difensore della fede.» «Amen!» ripeté Guy. Un giorno sarebbero stati chiamati entrambi a far parte di quell'ordine illustre e, in piedi sotto la luce della luna piena, avrebbero pronunciato davvero quei voti. «M'impegno a sostenere la Chiesa d'Inghilterra, ad affrontare i nemici del mio signore e sovrano Guglielmo...» proseguì Tom; il suo tono era così vibrante da aver perso quasi del tutto il timbro acuto della fanciullezza. S'interruppe di colpo quando un fischio sommesso penetrò nella cripta dall'apertura nel soffitto, sopra la sua testa. «Dorry!» bisbigliò Guy con apprensione. «Arriva qualcuno!» I due rimasero immobili, in attesa del secondo fischio acuto che avrebbe segnalato il pericolo, ma non ci furono altri avvertimenti. «È lei!» esclamò Tom, sorridendo al fratello. «Temevo che non venisse.» Guy non condivideva quell'entusiasmo. Si grattò nervosamente il collo. «Tom, tutto questo non mi piace affatto.» «Va' al diavolo, Guy Courteney.» Il fratello scoppiò a ridere. «Non saprai mai che cosa perdi finché non avrai provato.» Udirono un fruscio di stoffa e uno scalpiccio di piedini sulla scala; poi una ragazza entrò a precipizio nella cripta, fermandosi sulla soglia, col respiro affannoso e le guance arrossate dalla corsa su per la collina. «Qualcuno ti ha vista uscire di casa, Mary?» le domandò Tom. Lei scosse la testa. «Neanche un'anima viva, signorino Tom. Erano tutti indaffarati a filtrare il brodo.» Nella sua voce risuonava la cadenza dialettale, morbida come le fusa di un gatto, però il tono era scherzoso e gradevole. Era una ragazza prosperosa, tutta curve a prua e a poppa, più grande d'età dei gemelli e quindi probabilmente più vicina ai venti che ai quindici anni. Comunque aveva una pelle perfetta, vellutata come la celebrata panna del Devon e un paffuto visetto grazioso, circondato da una massa di riccioli scuri e ciocche ribelli. Le labbra erano rosee e tumide, mentre gli occhi luminosi avevano un taglio obliquo e malizioso. «Sei sicura, Mary, che il signorino Billy non ti abbia visto?» insistette Wilbur Smith
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Tom. Lei scosse la testa, facendo sobbalzare i riccioli. «No. Prima di venire, ho fatto capolino in biblioteca e lui era lì con la testa affondata nei libri, come sempre.» Si mise sui fianchi le mani piccole, che, per quanto ruvide e arrossate dal lavoro nell'acquaio del retrocucina, riuscivano quasi a cingere per intero la vita sottilissima. Gli occhi dei gemelli seguirono quel movimento, posandosi sul suo corpo. Le sottogonne e le gonne lacere lasciavano scoperta almeno metà dei polpacci torniti e, sebbene avesse i piedi nudi e sporchi, le caviglie erano sottili. Lei vide i loro occhi, la loro espressione, e sorrise: conosceva il potere che esercitava su quei ragazzi. Sollevando una mano, giocherellò col nastro che teneva chiuso il corsetto. Due paia di occhi seguirono le sue mani che spingevano in fuori i seni sino a tendere l'allacciatura. «Mi avevate assicurato che c'erano sei pence per me», rammentò a Tom. Il ragazzo si riscosse. «Proprio così, Mary... Sei pence per tutt'e due, Guy e me.» Lei scosse la testa, mostrandogli la lingua rosea. «Siete un bel furbacchione, signorino Tom. Erano sei pence a testa e uno scellino per tutt'e due. Ecco come stavano le cose.» «Non dire sciocchezze, Mary.» Frugando nella borsa di cuoio che portava alla cintura, estrasse una moneta d'argento, lanciandola in aria. La moneta scintillò e poi ricadde sul palmo che Tom tese verso la ragazza. «Un bel pezzo d'argento da sei pence, tutto per te.» Mary scosse di nuovo la testa, allentando il fiocco del nastro. «Uno scellino», ripeté. Il corpino si aprì un poco. I due ragazzi fissarono lo spicchio di pelle candida che occhieggiava dall'apertura: contrastava in modo sorprendente con le spalle scurite dal sole e tempestate di lentiggini. «Uno scellino, oppure non se ne fa niente!» La ragazza si strinse nelle spalle, con indifferenza simulata. Quel movimento scoprì per metà la curva di un seno florido e rotondo, lasciando intravedere, dalla guarnizione logora della camicetta, il bordo dell'areola color rubino. I ragazzi erano ammutoliti. «Il gatto vi ha mangiato la lingua?» domandò lei in tono ironico. «Mi sa che qui non c'è niente per me.» Si voltò verso la scala, dondolando il sedere tondo sotto le gonne. «Aspetta!» la richiamò Tom con voce strozzata. Tirò fuori la moneta e Mary si avvicinò lentamente, ancheggiando come aveva visto fare alle Wilbur Smith
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ragazze sulle banchine di Plymouth. Gli prese di mano la moneta. «Vi sembro graziosa, signorino Tom?» «Sei la ragazza più graziosa di tutta l'Inghilterra», rispose il ragazzo con fervore e assoluta convinzione. Allungò la mano verso il seno tondo che ormai era sbucato dal corsetto, ma lei gli assestò un colpetto sulle dita, ridacchiando. «E il signorino Guy che ne dice? Non dev'essere lui il primo?» Guardò oltre Tom. «Voi non lo avete mai fatto, vero, signorino Guy?» Il giovane deglutì a fatica e non riuscì a parlare. Abbassando gli occhi, si coprì di un rossore cupo. «Per lui è la prima volta», dichiarò Tom. «Prendilo per primo. Io verrò dopo.» Mary si avvicinò a Guy e, con un sorriso, gli afferrò la mano. «Non dovete avere paura... Non vi farò del male, signorino Guy», promise, cominciando a tirarlo verso il fondo della cripta. Mentre gli si stringeva contro, Guy sentì il suo odore. Mary, che probabilmente non si lavava da almeno un mese, aveva su di sé tutti gli odori grevi delle cucine dove lavorava, il sentore del grasso di pancetta e del fumo di legna, il tanfo equino del sudore, l'aroma dell'aragosta che bolliva nella pentola... Il ragazzo si sentì rivoltare lo stomaco. «No!» proruppe, staccandosi da lei. «Non voglio... Non posso...» Era sull'orlo del pianto. «Va' prima tu, Tom.» «L'ho presa per te», replicò il fratello con asprezza. «Quando l'assaggerai, ne andrai matto. Vedrai se non è così.» «Ti prego, Tom, non costringermi a farlo.» La voce di Guy ebbe un tremito. «Voglio solo tornare a casa», disse poi, guardando disperatamente all'indietro, verso la scala. «Nostro padre lo scoprirà.» «Le ho già dato lo scellino», insistette Tom, nel tentativo di farlo ragionare. «In tal modo andrà sprecato.» Mary gli afferrò di nuovo la mano. «Su, venite, adesso! Che bravo ragazzo. Vi ho tenuto d'occhio, sul serio, e siete un bel ragazzo a posto, ecco che cosa siete!» «Prendi per primo Tom!» ripeté Guy, ormai in preda al panico. «E va bene!» esclamò Mary, girandosi verso l'altro ragazzo e dimenando i fianchi. «Lasciate al signorino Tom il compito d'indicarvi la strada. Ormai saprebbe trovarla anche a occhi bendati... L'ha seguita abbastanza spesso.» Afferrato per il braccio Tom, lo trascinò verso il sarcofago più Wilbur Smith
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vicino e vi si appoggiò con le spalle. Il caso volle fosse quello di Sir Charles, l'eroe di Calais. «Non solo con me», aggiunse poi, ridacchiando, «ma anche con Mabel e con Jill, se non hanno detto una bugia, e con metà delle ragazze del villaggio, ho sentito dire. Siete un ariete fatto e finito, signorino Tom!» Tendendo la mano verso il basso, tirò i lacci che chiudevano la cintura delle brache del ragazzo e si alzò sulla punta dei piedi per incollare la bocca sulla sua. Tom la spinse all'indietro contro la pietra del sarcofago. Stava tentando di dire qualcosa al gemello, ma fu soffocato dalle labbra rosee e umide di Mary e dalla lunga lingua felina che lei gli aveva insinuato in bocca. Alla fine, liberatosi, riuscì a riprendere fiato e rivolse un sorriso a Guy, col mento umido e lucente della saliva di Mary. «Adesso ti farò vedere la cosa più dolce sulla quale poserai mai gli occhi, dovessi campare cent'anni.» Mary era ancora appoggiata all'indietro, sul sarcofago di pietra. Tom si chinò e, con dita esperte, allentò le stringhe della gonna, lasciando che l'indumento scivolasse in basso fino ad ammucchiarsi intorno alle caviglie della ragazza. Sotto, lei non portava niente, e il suo corpo apparve bianco e levigato, come se fosse stato plasmato nella cera fine delle candele. Lo fissarono tutt'e tre: i ragazzi con rispetto reverente e Mary con una smorfietta di orgoglio. Dopo un lungo minuto di silenzio, rotto soltanto dal respiro affannoso di Tom, Mary sollevò la camicetta e la sfilò dalla testa, lasciandola poi cadere sul coperchio del sarcofago alle sue spalle. Infine volse il capo per guardare in faccia Guy. «Non ne volete?» domandò, prendendo con una mano ciascuno dei seni bianchi e pieni. «No?» insistette in tono di scherno. Dato che il giovane rimaneva in silenzio, Mary lasciò scorrere le mani sul corpo vellutato, scendendo oltre la profonda fossetta dell'ombelico. Allontanando con un calcio le gonne, divaricò le gambe e prese ad accarezzarsi. «Non avete mai visto una fichetta come questa, vero, signorino Guy?» sussurrò, continuando a fissare il ragazzo. Lui si lasciò sfuggire un suono strozzato. Con una risatina trionfante, Mary esclamò: «È troppo tardi, signorino Guy! Avete avuto la vostra occasione e l'avete sprecata. Adesso dovete aspettare il vostro turno». Ormai Tom si era abbassato le brache fino alle caviglie. Mary gli posò le mani sulle spalle e, spiccando un saltello, si sollevò per aggrapparsi a lui, Wilbur Smith
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stringendogli le braccia al collo e allacciandogli le gambe intorno alla vita. Portava una collanina di perle di vetro, che rimase impigliata tra i due; il filo si spezzò e le perline lucenti scivolarono come una cascata sui loro corpi, sparpagliandosi sulle lastre di pietra, ma nessuno parve badarci. Con una strana mescolanza di orrore e desiderio, Guy rimase a guardare il gemello che, rosso in volto, inchiodava la ragazza contro il coperchio di pietra del sarcofago del nonno, assestandole spinte possenti e lanciando grugniti. Dal canto suo, Mary cominciò a emettere miagolii sommessi, che si fecero sempre più intensi fino a somigliare agli uggiolii di un cucciolo. Guy avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non ci riusciva. Fissò ipnotizzato il fratello che rovesciava la testa all'indietro, spalancando la bocca e lanciando un grido spaventoso. Lo ha ucciso, pensò Guy. E adesso che diremo a nostro padre? «Tom? Ti senti bene?» Le parole gli sfuggirono di bocca prima che potesse trattenerle. L'altro volse la testa per lanciargli un sorriso forzato. «Non sono mai stato meglio di così.» Depose Mary sul pavimento, accanto al sarcofago, e poi fece un passo indietro. «Ora tocca a te», gli sibilò, ansimando. «Devi darle i tuoi sei pence, ragazzo!» Anche Mary stava ansimando. «Lasciatemi un minuto per riprendere fiato», disse con una risatina, «poi vi porterò a fare una galoppata che non dimenticherete tanto presto, signorino Guy!» In quel momento, un doppio fischio risuonò acuto dall'apertura circolare nel soffitto della cripta. Guy sussultò, timoroso e sollevato nel contempo. Non si poteva ignorare l'urgenza dell'avvertimento. «Il segnale!» esclamò. «È Dorry sul tetto. Sta arrivando qualcuno.» Tom saltellò prima su un piede e poi sull'altro per tirare su le brache e chiudere i lacci. «Fila via, Mary», ordinò bruscamente alla ragazza che, carponi sul pavimento, stava cercando di raccogliere le perline cadute. «Lascia perdere!» grugnì Tom, ma lei lo ignorò. Le natiche nude erano arrossate nei punti in cui avevano sfregato l'orlo del sarcofago: gli parve quasi di distinguere l'epitaffio del nonno impresso su quella pelle candida e provò l'assurdo impulso di ridere. Invece, afferrò Guy per la spalla. «Andiamo! Potrebbe essere nostro padre!» Quel pensiero mise loro le Ali ai piedi: entrambi salirono di corsa le scale, spintonandosi a vicenda per la fretta. Wilbur Smith
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Uscendo a precipizio dalla porta della sacrestia, trovarono Dorian in attesa, nascosto tra l'edera che tappezzava il muro esterno. «Chi è, Dorry?» chiese Tom, ansimando. «Black Billy!» strillò l'altro. «È appena uscito dalle scuderie in sella a Sultan e ha preso il sentiero che sale dritto su per la collina. Sarà qui tra un minuto.» Tom si lasciò sfuggire l'imprecazione più forte che conosceva, appresa da Big Daniel Fisher, il nostromo del padre, poi disse: «Non deve trovarci qui. Andiamo!» I tre corsero verso il muro di cinta; prima Tom issò Dorian, poi Guy e lui spiccarono un salto, scavalcando il muro prima di trascinare nell'erba il fratello minore. «Silenzio, tutt'e due!» Tom sbuffava, eccitato. «Che cosa è successo?» chiese Dorian con la sua vocetta acuta. «Ho visto entrare Mary. Lo Hal fatto con lei, Guy?» «Non sai neanche di che si tratta.» Guy tentò di eludere la domanda. «Certo che lo so», ribatté Dorian, indignato. «L'ho visto fare ai montoni, ai cani e ai galli, e anche a Hercules il toro, proprio così.» E si mise a quattro zampe per imitarlo, dimenando ritmicamente i fianchi, tirando fuori la lingua dall'angolo della bocca e roteando gli occhi con una smorfia orribile. «È così che Hal fatto con Mary?» Guy arrossì di rabbia. «Smettila, Dorian Courteney! Mi Hal sentito?» Tom si lasciò sfuggire una risata allegra, spingendo Dorian con la faccia nell'erba. «Lurida scimmietta, scommetto una ghinea che saresti più in gamba di Guy, con o senza peli.» «Mi lascerai provare la prossima volta, Tom?» lo pregò Dorian, con voce soffocata, giacché aveva ancora il viso affondato nell'erba. «Ti farò provare quando avrai qualcosa di più con cui provare», rispose il fratello, permettendogli di mettersi a sedere. In quel preciso istante il suono degli zoccoli che risalivano la collina giunse fino a loro. «Zitti!» intimò Tom, continuando a ridacchiare. Si nascosero dietro il muro, in fila, tentando di dominare l'affanno e l'allegria. Udirono il cavaliere avvicinarsi al piccolo galoppo; quando raggiunse il tratto di ghiaia di fronte al portale della cappella, tuttavia, si mise al passo. «State giù!» bisbigliò Tom ai fratelli. Si tolse il berretto con la penna di germano reale e alzò cautamente la testa per sbirciare al di sopra del muro. William Courteney era ritto in sella a Sultan. Era un cavaliere superbo; Wilbur Smith
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quell'arte gli riusciva naturale, forse per un istinto legato alle sue origini africane. Era snello e alto, e in genere vestiva di nero dalla testa ai piedi. Per questo motivo, oltre che per il colore della pelle e dei capelli, i fratellastri gli avevano affibbiato quel soprannome che tanto detestava. Benché quel giorno fosse a capo scoperto, di solito portava un cappello nero a tesa larga, decorato con un ciuffo di piume di fagiano. Gli stivali alti erano neri, proprio come la sella e le briglie. Sultan era uno stallone nero, lustrato fino a scintillare alla pallida luce del sole. Cavallo e cavaliere offrivano uno spettacolo magnifico. Probabilmente William intendeva controllare la sistemazione per le nozze imminenti: quel luogo era stato infatti preferito alla cappella di famiglia della sposa per via delle importanti cerimonie che sarebbero seguite al matrimonio e che potevano essere celebrate soltanto nella cappella dei cavalieri Nautonnier. Fermatosi davanti al portale della cappella, William si abbassò un poco per sbirciare all'interno, poi si raddrizzò e prese a girare lentamente intorno all'edificio, fino alla porta della sacrestia. Dopo aver guardato attentamente in giro, volse lo sguardo in direzione di Tom, che rimase come paralizzato. Lui e gli altri ragazzi avrebbero dovuto trovarsi alla foce del fiume, per aiutare Simon e gli altri a ritirare le reti per i salmoni. I lavoratori itineranti che William assumeva per il raccolto venivano sfamati quasi esclusivamente col salmone; era economico e abbondante, anche se gli uomini protestavano per la monotonia di quella dieta. Tuttavia i rami dei meli dovevano aver nascosto Tom alla vista acuta del fratellastro, perché William, senza batter ciglio, smontò per legare Sultan all'anello di ferro vicino alla porta. Ormai Tom aveva la certezza che il fratellastro era salito alla cappella con lo scopo di controllare i preparativi per le nozze. Era promesso alla figlia mediana dei Grenville: sarebbe stato un matrimonio splendido, e il padre aveva negoziato quasi un anno con John Grenville, conte di Exeter, per stabilire la dote. Black Billy non vede l'ora di metterle le mani addosso, pensò Tom con derisione, mentre guardava William soffermarsi sui gradini della Cappella per togliersi la polvere dagli stivali neri con un colpetto del massiccio frustino da equitazione, appesantito col piombo, che portava sempre con sé. Prima di entrare nella cappella, però, William lanciò un'altra occhiata in direzione di Tom. Non aveva affatto la pelle nera, ma di un color ambra chiaro; il suo aspetto era più mediterraneo che africano; poteva sembrare Wilbur Smith
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spagnolo o italiano. Tuttavia aveva i capelli neri come il giaietto, folti e lucenti, tirati indietro per lasciare scoperto il viso e legati a coda con un nastro nero intrecciato. Era bello, di una bellezza formidabile e pericolosa, col naso da etiope, sottile e diritto, e gli occhi scuri e lampeggianti, da predatore. Tom lo invidiava per il modo in cui quasi tutte le ragazze si emozionavano e arrossivano in sua presenza. William scomparve nella sacrestia e Tom si alzò, bisbigliando ai fratelli: «È entrato. Su, andiamo! Torneremo...» Ma, prima che potesse completare la frase, si udì un grido provenire dalla cappella. «Mary!» esclamò. «Credevo che fosse scappata, e invece quella stupida è ancora dentro!» «Black Billy deve averla catturata», disse Guy, col fiato mozzo. «Adesso sì, che saranno guai!» commentò Dorian, tutto allegro, saltando per veder meglio il trambusto. «Che cosa pensi che le farà?» «Non lo so», rispose Tom, «e non aspetteremo di scoprirlo.» Ma prima che potesse guidare i fratelli in una precipitosa fuga giù per il vallone, Mary uscì dalla porta della sacrestia. Persino a quella distanza, il suo terrore era evidente: correva come se fosse inseguita da un branco di lupi. Un attimo dopo, William sbucò al sole, rincorrendo la ragazza in fuga. «Torna indietro, sgualdrinella!» La sua voce arrivò nitida fino al punto in cui i tre ragazzi erano rannicchiati. Per tutta risposta, Mary tirò su le gonne e corse ancora più veloce. Si stava dirigendo verso il muro, cioè proprio verso il nascondiglio dei fratelli. Alle sue spalle, William sciolse le redini di Sultan e saltò agilmente in sella, lanciando lo stallone al galoppo. Cavallo e cavaliere raggiunsero in un lampo la giovinetta. «Ferma dove sei, lurida puttanella. Chissà che diavolo stavi combinando.» Arrivato alla sua altezza, William si protese, stringendo con la destra il pesante frustino. «Adesso mi spiegherai che cosa ci stavi facendo, qui.» Vibrò un colpo, ma Mary lo schivò. Lui allora fece girare lo stallone su se stesso per seguirla. «Non mi sfuggirai, puttana.» Aveva sulle labbra un sorriso gelido e crudele. «Vi prego, signorino William», gridò Mary, ma lui vibrò di nuovo il frustino, che sibilò nell'aria. Lei riuscì ad abbassarsi, sfuggendo all'arco del frustino con l'agilità di un animale braccato, e si mise a correre di nuovo verso la cappella, zigzagando tra i tronchi dei meli, sempre inseguita da William. «Andiamo!» bisbigliò Guy. «Questa è la nostra occasione.» E, alzatosi Wilbur Smith
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di scatto, si lanciò a precipizio lungo il ripido pendio della collina, subito imitato da Dorian. Tom invece rimase accovacciato contro il muro. Guardava inorridito il fratello che continuava a rincorrere la ragazza. «Ti insegnerò ad ascoltarmi, quando ti ordino di fermarti.» La frustò di nuovo, e stavolta il frustino la colse tra le scapole. Mary lanciò un grido più acuto, un misto di dolore e di terrore, abbattendosi sull'erba. Il timbro di quel grido gelò il sangue nelle vene di Tom, facendogli serrare i denti. «Non farlo!» urlò. William non diede cenno di averlo udito. Scivolando giù dalle staffe, sovrastò Mary, che era a terra, in un turbinio di gonne e gambe nude. «Che cosa avevi in mente, puttana?» grugnì, colpendola di nuovo. Aveva mirato al viso, bianco dal terrore, ma Mary era riuscita ad alzare un braccio per ripararsi dalla sferzata. Il frustino le lasciò un solco rosso, lucente. «Per favore, signorino William, non fatemi del male», farfugliò la ragazza, torcendosi dal dolore. «Ti frusterò a sangue finché non mi dirai che cosa facevi nella cappella, mentre dovresti stare nella dispensa, alle prese con pentole e padelle sporche di grasso.» William sorrideva, assaporando quel momento. «Non ho fatto niente di male, signore.» Mary abbassò le mani per implorarlo, e non riuscì a sollevarle abbastanza in fretta per parare il colpo successivo, che la colse in pieno viso. Lanciò un urlo, e il sangue scorse sulla guancia paffuta, tingendola di un rosso scarlatto. «Vi prego. Vi supplico, non fatemi più del male.» Nascose tra le mani il viso ferito, rotolando sull'erba nel tentativo di allontanarsi da lui, ma la gonna le era rimasta impigliata sotto il corpo, e quel movimento la fece risalire. William sorrise di nuovo, vedendo che sotto era nuda, e vibrò con gusto il colpo successivo sulla pelle morbida e bianca delle natiche. «Che cosa volevi rubare, cagna? Che cosa combinavi, là dentro?» La colpì ancora, lasciandole un solco scarlatto dietro le cosce. Il grido di dolore di Mary raggiunse Tom con la stessa crudeltà con la quale il frustino era penetrato nelle carni della ragazza. «Dannazione, Billy, lasciala stare», esplose, sentendosi sopraffare dal senso di colpa e dalla pietà per la ragazza torturata. Prima ancora di riflettere su quello che stava facendo, aveva già scavalcato il muro per accorrere in difesa di Mary. William non lo sentì arrivare. Era tutto preso dal piacere acuto e inaspettato che provava nel punire quella sgualdrinella. Le linee scarlatte Wilbur Smith
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sulla pelle bianca, le braccia e le gambe nude che si dimenavano, gli strilli disperati della ragazza e il suo odore animalesco di carni non lavate lo eccitavano enormemente. «Che cosa stavi combinando?» ruggì. «Vuoi dirmelo, oppure devo cavartelo di bocca a suon di frustate?» E tracciò sulle spalle nude una vivida striscia scarlatta, guardando i muscoli sotto la pelle tendersi in uno spasimo di sofferenza. Tom lo investì alle spalle. Era un ragazzo robusto per la sua età, non molto più basso o meno pesante del fratello maggiore, e le sue energie erano moltiplicate dall'indignazione e dall'odio nonché dalla crudeltà della scena cui aveva assistito, senza contare il ricordo delle innumerevoli percosse e dei vari soprusi che lui e i fratelli avevano subito per mano di Black Billy. Inoltre stavolta aveva il vantaggio della sorpresa assoluta. Colpì William alle reni, proprio mentre questi, in equilibrio su una gamba, sollevava l'altra per assestare un calcio alla ragazza e sistemarla in posizione migliore per ricevere un altro colpo di frustino. William fu scaraventato in avanti con tanta violenza che inciampò sulla sua vittima e finì lungo disteso, rotolando su se stesso e urtando con la testa contro il tronco di un melo. Rimase a terra, stordito. Tom si chinò e rimise in piedi con uno strattone la ragazza che tremava e piagnucolava. «Corri!» le urlò. «Vai! Più veloce del vento!» Le diede una spinta, ma Mary non aveva bisogno d'incoraggiamento. Si lanciò lungo il sentiero in discesa, continuando a piangere e strillare, mentre Tom si voltava per affrontare l'ira del fratello. William si era messo a sedere sull'erba. Non sapeva ancora bene chi o che cosa lo avesse fatto cadere; si sfiorò con delicatezza il cuoio capelluto, tastando i capelli scuri e ondulati e ritirando le dita macchiate del sangue fuoriuscito da un piccolo taglio, nel punto in cui aveva urtato l'albero. Poi scosse la testa e si rialzò. Fu in quel momento che vide Tom. «Tu!» disse in tono sommesso, quasi gentile. «Avrei dovuto sapere che c'eri tu, dietro questa storia.» «Lei non ha fatto niente.» Tom era ancora in preda all'ira e non sembrava affatto pentito del gesto compiuto. «Avresti potuto farle davvero male.» «Era proprio quello che volevo. Se lo meritava, eccome.» Si chinò a raccogliere il frustino. «Ma adesso che se n'è andata, sei tu quello cui farò davvero male, e col massimo piacere.» Sferzò l'aria a destra e a sinistra col frustino appesantito dal piombo, che Wilbur Smith
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lanciò un sibilo minaccioso. «E ora dimmi, fratellino, che cosa stavate facendo, tu e quella piccola sgualdrina? Era qualcosa di sudicio e disgustoso, qualcosa di cui nostro padre dovrebbe essere informato? Dimmelo subito, prima che te lo cavi di bocca a suon di frustate.» «Preferisco rivederti all'inferno.» Era una delle espressioni preferite del padre, ma, a onta della sua baldanza, Tom ormai aveva ben chiare le conseguenze dello slancio cavalleresco che lo aveva spinto a quel confronto. Una volta perso il vantaggio della sorpresa, sapeva bene di trovarsi in condizioni di palese inferiorità. Le virtù del fratellastro non si limitavano al campo dei libri. A Cambridge si era battuto nella lotta per i colori del King's College, e la lotta libera era uno sport senza regole, fatta eccezione per l'uso di armi letali, che non era accolto con favore. Alla fiera di Exnouth, la primavera precedente, Tom aveva visto William atterrare e inchiodare al suolo il campione del luogo, un gigante dalla stazza bovina, dopo averlo ridotto in uno stato pietoso a forza di calci e pugni. Pensò di voltargli le spalle e darsi alla fuga, ma sapeva che William, con quelle gambe lunghe e nonostante gli stivali da equitazione, lo avrebbe raggiunto in meno di cinquanta falcate. Non c'era niente da guadagnare, a fuggire. Allora rimase fermo, sollevando i pugni come gli aveva insegnato Big Daniel. William gli rise in faccia. «Per san Pietro e tutti i santi, il galletto vuole uno scontro in piena regola», disse. Lasciò cadere il frustino, ma rimase con le mani penzoloni lungo i fianchi, avanzando senza fretta. Poi, di colpo, scattò col pugno destro. Nel tentativo di schivarlo, Tom saltò all'indietro, ma il pugno gli sfiorò il labbro, che si gonfiò all'istante, facendogli sentire in bocca il gusto salato e viscido del sangue. Il ragazzo aveva i denti macchiati di rosso come se avesse mangiato un cesto di lamponi. «Ecco, la prima goccia di chiaretto è stata versata. Ne scorrerà dell'altro, te lo garantisco... un barile intero, prima che questa faccenda sia conclusa.» William fintò di nuovo col destro: Tom schivò il colpo e non vide il gancio sinistro che si abbatteva su di lui, eppure riuscì a pararlo, proprio come gli aveva insegnato Big Daniel. William commentò: «Lo scimmiotto ha imparato qualche trucco». Ma socchiuse gli occhi: non se lo aspettava. Sferrò un altro colpo con lo stesso pugno, e Tom si abbassò per schivarlo; poi riuscì ad afferrare il braccio del fratello all'altezza del gomito, con una presa a due mani. D'istinto, William arretrò e Tom, invece di opporre resistenza, sfruttò la forza d'inerzia per Wilbur Smith
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lasciarsi attirare in avanti e, nel contempo, scalciare con violenza. Anche stavolta colse l'altro alla sprovvista e uno dei suoi calci lo colpì in pieno all'inguine. William rimase senza fiato per il dolore e si piegò in due, portando le mani alla parte ferita. Allontanatosi con una capriola, Tom fuggì lungo il sentiero, verso casa. Nel vedere il fratello minore allontanarsi, William, seppur dolorante, si raddrizzò, imponendosi d'ignorare la sofferenza per lanciarsi all'inseguimento. E, nonostante tutto, in breve tempo ridusse alquanto la distanza che lo separava dal ragazzo in fuga. Quando Tom sentì i passi che si avvicinavano, lanciò un'occhiata all'indietro, perdendo così almeno una iarda di vantaggio. Udì i grugniti del fratello e gli parve di sentire il suo alito sul collo. Non c'era scampo, non sarebbe riuscito a sfuggirgli: quindi si lasciò cadere a terra e rotolò su se stesso. William era così vicino e correva a una velocità tale che non poté fermarsi. L'unico modo di evitare Tom era scavalcarlo con un salto. Lo superò facilmente, ma Tom rotolò sul dorso al centro del sentiero fangoso, sollevandosi per afferrare la caviglia di William mentre quest'ultimo era ancora a mezz'aria. La tenne stretta, con la forza del terrore, e il fratello si abbatté sul sentiero, con la faccia nel fango. Approfittando di quel momento, Tom si alzò ed era sul punto di riprendere la fuga, quando la sua mente venne offuscata da una nebbia di collera e d'odio. Vide Black Billy lungo disteso nel fango. La tentazione era troppo forte per resistere: per la prima volta nella vita, il fratello era alla sua mercé. Prese lo slancio con la gamba destra e gli sferrò un calcio con tutta la forza che aveva, cogliendo l'altro alla tempia con la punta dello stivale. Ma il risultato non fu quello che si era aspettato. Invece di abbattersi al suolo, William lanciò un ruggito di collera, ghermì la gamba di Tom con entrambe le mani e, con uno sforzo possente, scaraventò il ragazzo tra le felci che crescevano a lato del sentiero. Quindi si rialzò, avventandosi su di lui. Seduto a cavalcioni sul petto del fratello minore, si protese per inchiodargli i polsi a terra, al di sopra della testa. Tom non poteva muoversi, anzi riusciva a stento a respirare, con le costole schiacciate dal peso di William. Questi aveva ancora il respiro affannoso e sibilante, ma lentamente si calmò e riprese a sorridere. Un sorrisetto sadico e forzato. «Pagherai caro il divertimento che ti sei preso, cucciolo. Lo pagherai a Wilbur Smith
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caro prezzo, te lo assicuro. Lasciami soltanto riprendere fiato, poi concluderemo la faccenda.» Il sudore gli colava dal mento sul viso di Tom. «Ti odio!» sibilò il ragazzo. «Ti odiamo tutti. I miei fratelli, tutti quelli che lavorano qui, tutti quelli che ti conoscono... Ti odiamo tutti!» Di colpo, William lasciò la presa su uno dei polsi di Tom, colpendolo al volto con un crudele manrovescio. «Sono anni che cerco d'insegnarti le buone maniere», disse a bassa voce, «ma tu non impari mai.» Gli occhi di Tom si riempirono di lacrime di dolore, ma il giovane riuscì comunque a riempirsi la bocca di saliva che sputò sul viso scuro che lo sovrastava. L'altro non se ne curò. «Te la farò pagare, Black Billy!» promise Tom, con un gemito di dolore. «Te la farò pagare, un giorno o l'altro.» «No.» William scosse la testa. «Credo proprio di no... Non Hal sentito parlare della legge sulla primogenitura, scimmiotto?» Assestò un altro colpo a mano aperta su un lato del viso di Tom. Gli occhi del ragazzo si appannarono, e il sangue cominciò a colare da una narice. «Rispondi, fratello.» William continuò con l'altra mano, in senso opposto, facendo ruotare dall'altra parte la testa di Tom. «Lo sai che cosa significa?» Lo colpì di nuovo con la destra. «Rispondimi, tesoruccio.» Il colpo successivo fu assestato con la sinistra, poi di nuovo con la destra, e da quel momento i manrovesci si assestarono su un ritmo costante: prima a destra, poi a sinistra, mentre la testa di Tom girava da una parte all'altra. Stava rapidamente perdendo conoscenza e la successione dei colpi non rallentava. «La primogenitura...» Slam! «... è il...» Slam! «... diritto...» Slam! «... del...» Slam! «... primogenito.» Slam! Il colpo successivo arrivò alle spalle di Black Billy. Dorian, che li aveva seguiti lungo il sentiero, aveva visto quello che stava succedendo al fratello preferito. I colpi che fioccavano su Tom ferivano Dorian in modo quasi altrettanto doloroso. Si era guardato attorno disperatamente, in cerca di un'arma. Ai bordi del sentiero si accumulavano alcuni rami spezzati; lui aveva scelto un bastone secco del diametro del suo polso e lungo quanto il suo braccio, prima di avvicinarsi di soppiatto alle spalle di William. Aveva avuto almeno il buonsenso di non preavvisarlo di quello che stava per fare, limitandosi a sollevare in silenzio il ramo sopra la testa, con tutt'e due le mani. Si era fermato solo per prendere la mira e radunare le forze, poi aveva calato il ramo sulla testa di Black Billy con tanta violenza che il Wilbur Smith
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ramo si era spezzato in due tra le sue dita. William si portò di scatto le mani alla testa e rotolò via dal petto di Tom. Quando, alzando gli occhi, vide Dorian, gli sfuggì una sorta di ruggito. «La sudicia cucciolata al completo!» Si rimise in piedi, barcollando. «Perfino il cucciolo più piccolo.» «Lascia stare mio fratello», minacciò Dorian, pallido per il terrore. «Scappa, Dorry!» gracchiò Tom, ancora stordito, senza avere la forza di alzarsi. «Ti ucciderà! Scappa!» Ma Dorian non si mosse. «Lascialo in pace», ripeté. William fece un passo verso di lui. «Sai, Dorry, tua madre era una sgualdrina», disse con un sorriso, avanzando di un altro passo e lasciando ricadere le mani. «Questo vuol dire che sei il figlio di una puttana.» Dorian non sapeva esattamente che cosa fosse una puttana, eppure rispose, incollerito: «Non devi parlare così della mia mamma». Suo malgrado, fece un passo indietro. «Il cocco della mamma», lo schernì William, continuando ad avanzare con aria minacciosa. «Ebbene, quella puttana della tua mamma è morta, piccolo.» Gli occhi di Dorian si riempirono di lacrime. «Non dirlo! Ti odio, William Courteney!» «Allora anche tu devi imparare le buone maniere, piccolo Dorry.» Le mani di William scattarono in avanti, serrando il collo del bambino. Poi, incurante del fatto che Dorian scalciava e cercava di graffiarlo, lo sollevò facilmente a mezz'aria. «Le buone maniere sono importanti», disse William, inchiodandolo contro il tronco del faggio rosso sotto il quale si trovavano. «Devi imparare, Dorry.» Strinse con forza i pollici sulla trachea del bambino, fissandolo in viso e guardandolo mentre diventava paonazzo. Dorian scalciò, impotente, contro il tronco dell'albero e graffiò le mani di William, lasciandogli linee rosse sulla pelle, senza però riuscire a emettere nessun suono. «Un nido di vipere», osservò William. «Ecco che cosa siete, aspidi e vipere. Dovrò fare un bel repulisti.» Tom si sollevò a fatica dal letto di felci, strisciando verso il punto in cui si trovava il fratello maggiore per aggrapparsi alle sue gambe. «Ti prego, Billy, perdonami! Colpisci me, ma lascia stare Dorry. Ti scongiuro, non fargli del male. Non diceva sul serio.» Wilbur Smith
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William lo scostò con un calcio, continuando a tenere il bambino inchiodato al tronco. I piedi di Dorry ciondolavano nel vuoto, a due palmi da terra. «Rispetto, Dorry. Devi imparare a portare rispetto.» Allentò la pressione dei pollici, lasciando alla vittima la possibilità di tirare un unico respiro, poi strinse di nuovo. La lotta silenziosa di Dorian divenne frenetica. «Prenditela con me!» lo implorò Tom. «Lascia stare Dorry. Ne ha avuto abbastanza.» Riuscì a rimettersi in piedi, usando il tronco per sostenersi, e tirò William per la manica. «Tu mi Hal sputato in faccia», disse il fratello con aria truce, «e questa piccola vipera ha tentato di spaccarmi la testa. Adesso puoi restare a guardarlo mentre soffoca.» «William!» Un'altra voce, arrochita dall'indignazione, si fece sentire poco lontano da lui. «In nome di Dio, che diavolo credi di fare?» Un colpo massiccio si abbatté sulle braccia tese di William, che lasciò cadere il bambino sul terreno fangoso, girandosi di scatto per fronteggiare il padre. Hal Courteney aveva usato il fodero della spada per colpire il figlio maggiore e indurlo a lasciare il bambino, e adesso pareva che volesse usarlo per stenderlo a terra. «Sei pazzo? Che cosa stai facendo a Dorian?» domandò l'uomo con voce tremante di rabbia. «Doveva... Era solo un gioco, padre. Stavamo scherzando.» La collera di William era evaporata come per incanto. Il ragazzo sembrava sinceramente contrito. «Non si è fatto niente. Era tutto per finta.» «Per poco non lo ammazzavi», ribatté Hal con un ringhio furibondo, prima d'inginocchiarsi a raccogliere dal fango il figlio minore. Lo strinse al petto con tenerezza e Dorian affondò il viso nel collo del padre, singhiozzando, tossendo e ansimando nel tentativo di riprendere fiato. Sulla pelle delicata del collo spiccavano segni lividi e il viso era rigato di lacrime. Hal Courteney fissò William con espressione corrucciata. «Non è la prima volta che parliamo dei maltrattamenti che riservi ai tuoi fratelli minori. Perdio, William, ne riparleremo ancora, stasera dopo cena, in biblioteca. E adesso sparisci dalla mia vista prima che perda il controllo di me stesso.» «Sì, signore», rispose umilmente William, ritornando sul sentiero verso la cappella. Allontanandosi, però, lanciò a Tom un'occhiata che non lasciava dubbi sul fatto che la faccenda era tutt'altro che chiusa. Wilbur Smith
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«Che cosa ti è successo, Tom?» chiese Hal. «Niente, padre», rispose lui con aria stoica. «Non è niente.» Si asciugò con la manica il naso che sanguinava. Fare la spia sarebbe stata una violazione al suo codice personale, sia pure contro un avversario odiato come Black Billy. «Allora che cosa è successo per farti sanguinare il naso e diventare rosso come una mela matura?» Il tono di Hal era burbero ma gentile; stava mettendo alla prova il ragazzo. «Sono caduto.» «So che a volte sei goffo, Tom, però sei sicuro che nessuno ti abbia spinto?» «Se anche qualcuno lo avesse fatto, è una cosa che resterà tra lui e me, signore.» Tom si raddrizzò in tutta la sua statura per mascherare gli indolenzimenti e le ferite. Hal gli passò una mano sulle spalle, mentre con l'altra si stringeva al petto Dorian. «Su, ragazzi, torniamo a casa.» Guidò i due verso il punto in cui aveva lasciato il cavallo, ai margini del bosco, e issò il figlio minore sul collo della bestia, davanti alla sella, prima di montare dietro di lui. Infilati i piedi nelle staffe, si abbassò per issare Tom, tenendolo per il braccio e sistemandolo dietro di sé. Tom passò le braccia intorno alla cintola del padre, appoggiando alla sua schiena il viso gonfio e contuso. Amava il calore e l'odore del corpo del padre, la sua durezza e la sua forza. Lo facevano sentire al sicuro da ogni male. Avrebbe voluto piangere, ma trattenne le lacrime. Non sei un bambino, si disse. Dorry può piangere, ma tu no. «Dov'è Guy?» chiese il padre, senza voltarsi. Tom stava per rispondere: «È scappato», ma trattenne in tempo quelle parole sleali. «È tornato a casa, credo.» Hal proseguì in silenzio, godendosi il calore dei due corpi stretti al suo e condividendo la loro sofferenza. E tuttavia avvertiva un senso di furiosa impotenza. Non era certo la prima volta che veniva coinvolto in quel conflitto tra fratellastri, tra i figli delle sue tre mogli. Sapeva che era una competizione in cui le probabilità erano nettamente sfavorevoli ai figli minori, e il cui esito finale poteva essere uno, e uno soltanto. Corrugò la fronte, amareggiato. Hal Courteney non aveva ancora quarantadue anni, visto che William era nato quando lui ne aveva meno di venti, eppure, se pensava alle discordie tra i suoi quattro figli maschi, si Wilbur Smith
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sentiva vecchio e oppresso dall'ansia. Il problema era che amava William almeno quanto il piccolo Dorian, se non di più. William era il suo primogenito, il figlio di Judith, la fiera e bellissima vergine guerriera venuta dall'Africa, che lui aveva amato con profondo rispetto e passione. Quando lei era morta, calpestata dagli zoccoli del suo stallone selvaggio, nell'esistenza di Hal si era aperto un vuoto doloroso, rimasto tale per molti anni... a parte lo splendido bambino che lei gli aveva lasciato. Hal aveva allevato William, gli aveva insegnato a essere fiero e tenace, intelligente e pieno di risorse. Il figlio era diventato tutto questo e anche molto di più; ma in lui c'era qualcosa della natura selvaggia e crudele di quel cupo, misterioso continente che nulla poteva domare. Hal temeva quel lato dell'indole del ragazzo, eppure, in tutta sincerità, non avrebbe voluto che fosse altrimenti. Lui stesso era un uomo duro e spietato, quindi perché mai avrebbe dovuto risentirsi nel vedere quelle stesse caratteristiche nel suo primogenito? «Padre, che significa 'diritto di primogenura'?» domandò all'improvviso Tom, la voce attutita dal mantello contro cui poggiava la testa. Era una frase così in sintonia con i pensieri di Hal che questi trasalì. «Dove Hal sentito quell'espressione?» gli chiese. «L'ho sentita... dire», balbettò Tom. «Ho dimenticato dove.» Hal poteva immaginare benissimo da chi l'avesse sentita, ma non incalzò il ragazzo, che era stato ferito a sufficienza per quel giorno. Tentò invece di rispondere con franchezza, perché ormai Tom era abbastanza grande. Era tempo che cominciasse a capire quali asprezze aveva in serbo la vita per lui, che era un figlio cadetto. «Vorrai dire 'primogenitura', Tom. Significa il diritto del primo figlio.» «Di Billy», replicò Tom. «Sì, di Billy», ammise Hal. «Secondo la legge inglese, mi succederà in linea diretta, con precedenza su tutti i fratelli minori.» «Cioè su di noi», concluse Tom, con una punta di amarezza. «Sì, su di voi. Quando me ne andrò, tutto sarà suo.» «Quando sarete morto, volete dire», intervenne Dorian con logica inoppugnabile. «Proprio così, Dorry, quando sarò morto.» «Non voglio che moriate», piagnucolò il bambino, con la voce ancora roca per i danni riportati alla gola. «Padre, promettetemi che non Wilbur Smith
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morirete.» «Vorrei poterlo fare, piccolo, ma non è possibile. Moriremo tutti, un giorno o l'altro.» Dorian rimase in silenzio per un attimo. «Però non domani?» disse poi. Hal si lasciò sfuggire una risatina sommessa. «No, non domani, e neanche per molti altri giorni, se posso evitarlo. Ma un giorno accadrà, come accade sempre.» E rimase in attesa della domanda successiva, che puntualmente giunse. «E quando accadrà, Billy diventerà Sir William», disse Tom. «È questo che state cercando di dirci?» «Sì. Ma non basta. Lui avrà anche tutto il resto.» «Tutto? Non capisco», ribatté Tom, staccando la testa dalla schiena del padre. «Volete dire High Weald? La casa e la terra?» «Sì, tutto apparterrà a Billy. La tenuta, la terra, la casa e il denaro.» «Non è giusto», protestò Dorian. «Perché Tom e Guy non possono averne una parte? Sono molto più simpatici di Billy.» «Forse non è giusto, ma la legge inglese è questa.» «Non è giusto», insistette Dorian. «Billy è orribile.» «Se ti aspetti che la vita sia giusta, allora ti riserverà molte delusioni, ragazzo mio», mormorò Hal, stringendo a sé il bambino. Vorrei poter fare in modo che per te sia diverso, pensò. «Quando voi non ci sarete più, Billy non ci lascerà restare qui a High Weald. Ci caccerà via.» «Non puoi esserne sicuro», protestò Hal. «Sì, invece», replicò Tom con convinzione. «Me lo ha detto lui, e parlava sul serio.» «Ti farai strada da solo, Tom. È per questo che devi essere sveglio e tenace. Ecco perché a volte sono severo con te, più di quanto non lo sia mai stato con William. Devi imparare a badare a te stesso, quando me ne sarò andato.» Fece una pausa. Poteva spiegarglielo adesso, quando erano ancora tanto giovani? Doveva tentare; doveva loro almeno questo. «La legge sulla primogenitura è servita a rendere grande l'Inghilterra. Se ogni volta che moriva qualcuno la terra fosse stata divisa tra i figli superstiti, ben presto tutto il Paese sarebbe stato frazionato in minuscole proprietà inutili, insufficienti a sfamare anche un'unica famiglia, e saremmo diventati una nazione di contadini e di poveri.» «E allora che faremo?» chiese Tom. «Noi che verremo scacciati, voglio Wilbur Smith
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dire.» «Vi restano l'esercito, la marina e la Chiesa. Potreste viaggiare, diventando mercanti o coloni, e poi tornare dall'altro capo del mondo, al di là degli oceani, portando con voi tesori e ricchezze ancora più grandi di quelle che William erediterà alla mia morte.» I due ragazzi rifletterono a lungo, in silenzio. «Allora diventerò un marinaio come voi, padre. Navigherò fino in capo agli oceani, proprio come avete fatto voi», disse infine Tom. «E io verrò con te», aggiunse Dorian. Seduto nel primo banco della cappella di famiglia, Hal Courteney aveva ogni motivo per sentirsi soddisfatto di sé e del mondo che lo circondava. Guardò il figlio maggiore in attesa all'altare, mentre la musica dell'organo inondava la piccola navata. William era incredibilmente bello e affascinante nell'abbigliamento scelto per la cerimonia di nozze. Aveva messo da parte, per una volta, il solito abito nero: il colletto, di finissimo pizzo di Fiandra, ricadeva su un farsetto di velluto verde ricamato a cervi d'oro, mentre il pomo della spada era intarsiato di cornaline e lapislazzuli. Quasi tutte le donne presenti lo guardavano e le più giovani ridacchiavano confabulando sottovoce tra loro. A un figlio non potrei chiedere di più, pensò Hal. Il professore che lo aveva seguito a Cambridge si era diffuso a lodarne la diligenza e le capacità di apprendimento; William eccelleva altresì nella lotta, nell'equitazione e nella caccia col falco. Dopo gli studi, quando era tornato a High Weald, aveva dato prova anche di ottime qualità come amministratore e imprenditore. A poco a poco, Hal gli aveva affidato la gestione della tenuta e delle miniere di stagno, al punto che ormai aveva quasi abbandonato il controllo delle attività quotidiane nelle proprietà di famiglia. Se c'era qualcosa che metteva a disagio Hal, era il fatto che William si dimostrava spesso troppo intransigente nelle trattative e troppo spietato verso gli uomini che lavoravano per lui. Più di una volta, nelle gallerie delle miniere, erano morti uomini che si sarebbero potuti salvare se si fosse prestata un po' più di attenzione alla loro sicurezza e si fosse speso qualcosa in più per migliorare le condizioni dei pozzi e del trasporto in superficie. Comunque i profitti delle miniere e della tenuta erano quasi raddoppiati negli ultimi tre anni, e quella era una prova sufficiente della sua competenza. Wilbur Smith
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E adesso William era approdato a quello splendido matrimonio. Certo, era stato Hal a indirizzarlo verso Lady Alice Grenville, però William l'aveva corteggiata ed era riuscito, in brevissimo tempo, a stregarla. E alla fine era stata proprio lei a convincere il padre, inizialmente perplesso, dell'opportunità di quella unione. Dopotutto, William Courteney non aveva un titolo nobiliare. Hal lanciò un'occhiata al conte, seduto nel primo banco dalla parte opposta della navata. John Grenville aveva dieci anni più di lui ed era un uomo snello, vestito con sobrietà, per quanto fosse uno dei maggiori proprietari terrieri d'Inghilterra. Gli occhi scuri erano velati dalle palpebre pesanti, che spiccavano nel pallore malsano del viso; colse al volo lo sguardo di Hal e annuì, con un'espressione né cordiale né ostile, anche se tra loro erano volate parole dure quando si era trattato di concordare la dote di Alice. Alla fine si era convenuto che lei avrebbe portato con sé i diritti sulle fattorie di Gainesbury, con mille acri di terreno, oltre alle miniere di stagno ancora attive di East e South Rushwold. La domanda di stagno sembrava insaziabile in quel periodo, e Rushwold andava ad aggiungersi alle miniere Courteney che William amministrava già con tanta efficienza. Gestirle insieme avrebbe consentito di aumentare la produttività e diminuire i costi per trasportare in superficie il prezioso minerale. Del resto, la dote di Alice non era tutta lì. Agli occhi di Hal, l'ultima voce che era riuscito a strappare al conte valeva quanto tutto il resto: il pacchetto di azioni dell'English East India Company, la Compagnia Inglese delle Indie Orientali, dodicimila azioni ordinarie con pieno diritto di voto. Hal era già uno dei maggiori azionisti, oltre che membro del Consiglio della Compagnia, ma quelle nuove azioni avrebbero aumentato il suo potere, facendo di lui uno degli uomini più influenti del Consiglio, subito dopo il presidente, Nicholas Childs. Sì, aveva tutte le ragioni per sentirsi soddisfatto. Allora che cos'era quella strana sensazione che strideva con la sua contentezza, fastidiosa come un granello di sabbia nell'occhio? Talvolta, quando cavalcava lungo le scogliere, fissando il mare grigio e gelido, ricordava le acque calde e azzurre dell'oceano delle Indie. Spesso, quando lanciava un falco e osservava il battito rapido delle sue Ali sullo sfondo del cielo, rammentava il cielo dell'Africa, più profondo e intenso. Certe sere tirava giù dagli scaffali della biblioteca le carte nautiche, restandovi sopra a meditare per Wilbur Smith
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ore, rileggendo le annotazioni che aveva scritto vent'anni prima e sognando le colline rossastre dell'Africa, le sue spiagge bianche e i suoi fiumi possenti. Poco tempo prima, si era svegliato da un sogno, ritrovandosi immerso nel sudore e in preda alla confusione. Era stato tutto così vivido che gli era sembrato di rivivere quei tragici avvenimenti. Al suo fianco c'era di nuovo lei, l'adorabile ragazza dalla pelle dorata che era stata il suo primo vero amore. Ancora una volta era stretta tra le sue braccia, agonizzante. «Sukeena, amore mio, morirò con te.» Hal aveva sentito il suo cuore spezzarsi di nuovo, mentre ripeteva quelle parole. «No.» La sua voce dolcissima si stava spegnendo. «Tu continuerai a vivere. Ti ho accompagnato nel tuo viaggio per quanto mi era concesso, ma a te il fato ha riservato un destino speciale. Tu continuerai a vivere, avrai molti figli maschi vigorosi, e i loro discendenti prospereranno in questa terra, l'Africa, e ne faranno il loro Paese.» Hal si coprì gli occhi con la mano, abbassando la testa in preghiera, per evitare che qualcuno tra i fedeli presenti nella cappella scorgesse il bagliore di una lacrima nei suoi occhi. Poco dopo li riaprì per guardare i figli di cui Sukeena aveva profetizzato la nascita tanti anni prima. Tom era il più vicino a lui nello spirito e nella carne: aveva un'ossatura massiccia e forte per la sua età e possedeva l'occhio e la mano del guerriero. Era irrequieto: qualunque compito che richiedesse una lunga, meticolosa attenzione lo annoiava presto. Non era uno studioso, anche se non gli facevano difetto intelligenza o acume. Aveva un volto dai tratti vigorosi e risoluti, con la mascella decisa e con la bocca e il naso troppo grandi: non era bello, ma gradevole. Era impulsivo, talvolta avventato, quasi temerario, spesso troppo spavaldo. Ormai i lividi che aveva sul viso erano sbiaditi, assumendo un colore giallastro e violaceo, ma era tipico di Tom lanciarsi contro un avversario tanto più grande di lui e col doppio della sua forza, senza pensare alle conseguenze. Hal aveva appreso la verità sullo scontro in prossimità della cappella; William gli aveva parlato di Mary, la sguattera, e lei gli aveva reso una confessione quasi incoerente, singhiozzando senza tregua: «Sono una brava ragazza, signore, lo giuro su Dio. Non ho rubato niente, come dice lui. Volevo solo spassarmela un po', niente di male. Poi il signorino William è entrato nella cappella, mi ha detto delle brutte cose, e mi ha picchiato». Versando un fiume di lacrime, aveva sollevato le gonne per Wilbur Smith
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mostrargli i segni arrossati in rilievo che le solcavano le cosce. Hal si era affrettato a dirle: «Copriti, ragazza mia». Sapeva benissimo fino a che punto fosse innocente, perché l'aveva già adocchiata. Anche se in genere prestava scarsa attenzione alle due dozzine di donne che lavoravano nella casa padronale, era difficile ignorare Mary, con quello sguardo provocante e delle curve tanto voluttuose. «Il signorino Tom ha cercato di fermarlo, altrimenti mi avrebbe ucciso. È un bravo ragazzo, il signorino Tom. Lui non ha fatto niente...» E così, Tom aveva affondato i denti in quel bel pezzo di carne tenera, aveva pensato Hal. Male non gli avrebbe fatto di certo. Probabilmente la ragazza gli aveva impartito una buona istruzione in quel gioco antico e, quando William li aveva sorpresi, Tom si era precipitato a prendere le sue difese. Era un impulso lodevole, però l'iniziativa era avventata; l'oggetto della sua prodezza cavalleresca non era degno di tanta lealtà. Hal aveva rimandato la ragazza in cucina, prima di dire due parole in privato all'amministratore della tenuta. Nel giro di due giorni le aveva trovato un posto come cameriera al Royal Oak di Plymouth, e lei era scomparsa in sordina da High Weald. Hal non voleva che si presentasse a bussare alla porta della cucina, nove mesi dopo, con un neonato tra le braccia. Si lasciò sfuggire un sospiro. Tra non molto avrebbe dovuto trovare un'occupazione a Tom. Non poteva restare lì ancora per molto; era quasi un uomo. Aboli aveva iniziato di recente a dargli lezioni sull'uso della spada; Hal, avendo assistito al fallimento di molti ragazzi avviati troppo presto a tirare di scherma, aveva voluto aspettare che le braccia del figlio fossero abbastanza forti. Fu scosso da un brivido improvviso, al pensiero di Tom che, in preda a un altro accesso d'ira, sfidava il fratello maggiore: William era uno spadaccino di vaglia. Aveva ferito gravemente un compagno di studi, a Oxford, colpendolo con un affondo all'addome. Si era trattato di una questione d'onore, però c'era voluta tutta l'influenza di Hal, più un sacchetto di ghinee d'oro, per mettere a tacere la faccenda. Il duello era ammesso dalla legge, ma disapprovato: se l'avversario fosse morto, forse nemmeno Hal avrebbe potuto risparmiare le conseguenze al figlio. Il pensiero che due dei suoi figli duellassero con la spada era insopportabile, eppure poteva diventare qualcosa di più che una semplice possibilità, se non li separava al più presto. Avrebbe dovuto trovare un ingaggio per Tom su una delle navi della «John Company», l'affettuoso soprannome della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. In quel momento, sentendo su di Wilbur Smith
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sé il peso dello sguardo del padre, Tom si girò per rivolgergli un sorriso così franco e innocente che Hal dovette distogliere gli occhi. A fianco del fratello era seduto Guy. Rappresentava anche lui un problema, rifletté Hal, anche se di tutt'altro genere. Benché i gemelli fossero frequenti nella famiglia Courteney, e di solito ce ne fosse almeno una coppia in ogni generazione, Tom e Guy non erano identici. Al contrario, erano diversi quasi in tutto, per quanto ne sapeva lui. Guy era di gran lunga il più attraente dei due, con un viso dai tratti delicati, quasi femminei, e un corpo aggraziato, ma privo della forza fisica e dell'energia di Tom. Per natura era cauto fin quasi a sfiorare la timidezza, però era anche brillante e intelligente, capace di dedicare tutta la sua attenzione anche ai compiti più monotoni. Hal non condivideva il disprezzo diffuso tra gli aristocratici verso mercanti e banchieri, e non aveva scrupoli ad avviare uno dei suoi figli verso una carriera in quel settore. Riconosceva che Guy poteva essere tagliato per una vita del genere; era infatti difficile immaginarlo nelle vesti di guerriero o di marinaio. Hal si accigliò. Nella John Company c'erano numerose possibilità d'impiego per funzionari e segretari, posti sicuri e garantiti che potevano schiudere prospettive di rapido avanzamento, specie per un giovanotto sveglio e intraprendente, il cui padre faceva parte del Consiglio della Compagnia. Ne avrebbe parlato con Childs la settimana seguente, quando si fossero incontrati. Aveva intenzione di partire per Londra il giorno dopo di buon'ora, subito dopo aver visto William insediato in casa con Lady Alice e aver provveduto al trasferimento della sua dote nella proprietà dei Courteney. I cavalli erano pronti: Big Daniel e Aboli avrebbero potuto attaccarli alla carrozza e mettersi in viaggio entro un'ora dall'ordine di Hal. Anche viaggiando al massimo della velocità, però, avrebbero impiegato almeno cinque giorni per raggiungere Londra, e la riunione trimestrale del Consiglio della Compagnia si doveva tenere il primo del mese successivo. Dovrò portare con me i ragazzi, pensò all'improvviso, e quell'idea repentina era un segnale della sua ansia. Lasciarli a High Weald con William a controllare la tenuta, senza che lui fosse lì a mediare e proteggere, voleva dire sfidare la sorte. È meglio che venga con me anche Dorian, decise. Abbassò gli occhi con affetto sul figlio minore, seduto accanto a lui sulla panca, e ricevette in cambio un sorriso solare, pieno di adorazione. Dorian Wilbur Smith
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si dimenò per avvicinarsi ancora un po' a lui sul sedile di quercia. Stranamente commosso dal contatto con quel piccolo corpo, Hal posò una mano sulla spalla del bambino, con un gesto in apparenza casuale. E' troppo presto per capire come diventerà, rifletté, ma potrebbe avere tutti i lati positivi degli altri e qualche loro debolezza in meno. Comunque è troppo presto per dirlo. In quel momento fu distratto dalla musica dell'organo che intonava la marcia nuziale. Poi si sentì un fruscio e un brusio mentre i presenti si giravano sulle panche, allungando il collo per sbirciare la sposa. Per quanto il sole non avesse ancora superato la cima degli alberi e soltanto pochi raggi sfiorassero i comignoli alti e le torri della casa padronale, tutti gli abitanti della casa uscirono per salutarli: da William, con la sposa al fianco, a Ben Green, l'amministratore della tenuta, giù giù fino alla più umile sguattera e all'ultimo valletto. Erano allineati in ordine di anzianità sui gradini della scala padronale che scendeva verso il portone, mentre i servitori di rango inferiore erano schierati in file ordinate sul prato davanti all'ingresso. Big Daniel e Aboli si trovavano a cassetta, e i cavalli sbuffavano nuvolette di fumo dalle narici nel gelo dell'alba. Hal abbracciò William, mentre Alice, rosea e raggiante di felicità e d'amore, si aggrappava con aria di adorazione al braccio dello sposo. Dietro ordine del padre, i ragazzi si misero in fila dietro di lui, senza sorridere, per stringere la mano al fratello maggiore e poi, con un ululato di entusiasmo, sfrecciarono verso la carrozza in attesa, rincorrendosi. «Posso viaggiare a cassetta insieme con Aboli e Big Daniel?» implorò Tom, e il padre assentì con indulgenza. «Anch'io?» Dorian saltellava al suo fianco. «Tu viaggerai in carrozza con me e il signor Walsh.» Il signor Walsh era il precettore, e Dorian aveva davanti a sé quattro giorni di prigionia con lui e i suoi libri: latino, francese e aritmetica. «Per favore, padre, perché no?» chiese Dorian, poi si rispose subito da solo: «Lo so, perché sono il più piccolo!» «Avanti, Dorry.» Guy lo prese per la mano, facendolo salire in carrozza. «Ti aiuterò con le lezioni.» I torti e le ingiustizie della gioventù furono subito dimenticati quando Aboli fece schioccare la frusta e la carrozza partì con un sussulto, tra lo Wilbur Smith
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scricchiolio della ghiaia sotto le ruote cerchiate di ferro. Guy e Dorian si sporsero dal finestrino per salutare, agitando le braccia e gridando, finché non svoltarono all'incrocio e High Weald scomparve alla loro vista. A cassetta, seduto in mezzo ai due uomini che stimava di più, Tom era in estasi. Big Daniel era un gigante, con una criniera di capelli argentei che spuntavano dal cappello a tricorno. Non aveva neppure un dente in bocca, così, quando masticava, il suo viso segnato dalla vita all'aria aperta si raggrinziva come il mantice di cuoio di una fucina. Tutti sapevano che, nonostante l'età, era l'uomo più forte del Devonshire. Tom lo aveva visto sollevare in aria un cavallo recalcitrante e scaricarlo a terra con le quattro zampe sollevate, tenendolo poi fermo senza fatica mentre il fabbro cambiava i ferri. Era stato il nostromo di Sir Francis Courteney e, allorché il nonno di Tom era stato ucciso dagli olandesi, Big Daniel era passato al servizio del figlio, navigando sugli oceani del sud con Hal Courteney, e aveva combattuto al suo fianco contro pagani e olandesi, contro pirati e rinnegati e contro una dozzina di altri nemici. Aveva fatto da bambinaia a William e ai gemelli, portandoli a cavalcioni e guidandoli nei primi passi con le sue manone gentili. Sapeva raccontare le storie più straordinarie che un bambino potesse sognare e costruiva modellini di velieri così straordinariamente realistici da dare l'impressione di poter salpare da un momento all'altro verso l'orizzonte per affrontare eccitanti avventure, portando Tom sul cassero. Conosceva un repertorio impressionante d'imprecazioni e vecchi detti che Tom osava ripetere solo davanti a Dorian e Guy, perché recitarli in presenza di William o del padre, o di qualsiasi altro adulto, avrebbe attirato su di lui un castigo immediato. Tom adorava Big Daniel. Oltre ai familiari più stretti, c'era un'unica persona che il ragazzo amava di più: Aboli, seduto dall'altro lato, con le redini strette nelle enormi mani nere. «Lo schioppo tienilo tu.» Sapendo quanto piacere gli avrebbe dato, Aboli porse a Tom quell'arma temibile, che, pur avendo la canna più corta del suo braccio, poteva sputare dall'imboccatura svasata una doppia rosa di pallini letteralmente devastante. «Se un bandito da strada tenta di fermarci, suonagli una canzoncina, Klebe.» Tom, quasi sopraffatto dall'onore che gli era stato concesso, si drizzò sul sedile, pregando in silenzio di avere la possibilità di usare la pesante arma che teneva sulle ginocchia. Aboli lo aveva chiamato col suo soprannome, Klebe, che nel linguaggio Wilbur Smith
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delle foreste africane significava «falco». Era un soprannome che riempiva di gioia Tom. Aboli gli aveva insegnato il linguaggio delle foreste «perché», gli aveva spiegato, «è là che ti porterà il destino. Lo ha profetizzato tanto tempo fa una donna saggia e bellissima. L'Africa ti aspetta. Io, Aboli, devo prepararti per quel giorno, quando metterai piede per la prima volta sul suo suolo». Nella sua tribù, Aboli era stato un principe. I disegni delle cicatrici rituali che gli coprivano il volto nero, formando spirali e solchi in rilievo, erano la prova del suo sangue regale. Era un esperto nell'uso di qualunque arma sulla quale mettesse le mani, dal bastone da combattimento africano al più affilato spadone di Toledo. Ora che i gemelli avevano l'età giusta, Hal Courteney aveva affidato ad Aboli il compito d'insegnare loro l'arte della scherma. Aboli aveva addestrato lui, quando aveva la stessa età, e dopo Hal anche William, facendo di loro due abili schermidori. Tom tirava di scherma con lo stesso talento naturale del padre e del fratellastro, mentre Aboli era dispiaciuto che Guy non dimostrasse altrettanto entusiasmo e attitudine. «Quanti anni credi che abbia Aboli?» aveva chiesto una volta Dorian. E Tom, con tutta la saggezza della sua maggiore età, gli aveva risposto: «E' ancora più vecchio di nostro padre. Deve avere almeno cent'anni!» Aboli non aveva un solo capello sulla testa, dunque non un filo grigio che tradisse la sua vera età, e, benché sul volto le rughe e le cicatrici tribali s'incrociassero al punto da formare un intreccio inestricabile, il suo corpo era snello e muscoloso, con la pelle liscia e lucente come ossidiana levigata. Nessuno, neanche lo stesso Aboli, sapeva quanti anni avesse. Le storie che raccontava erano ancor più avvincenti dei migliori racconti di Big Daniel. Raccontava di giganti e pigmei, di foreste abitate da animali meravigliosi, di grandi scimmie capaci di sventrare un uomo come se fosse una cavalletta, di creature dal collo così lungo che potevano brucare le foglie in cima agli alberi più alti, di deserti in cui diamanti grossi come mele scintillavano al sole come acqua e di montagne fatte d'oro massiccio. «Un giorno ci andrò!» aveva esclamato Tom alla fine di una di quelle storie magiche. «E tu verrai con me, Aboli?» «Sì, Klebe. Un giorno ci andremo insieme», gli aveva promesso l'altro. La carrozza sussultava e traballava sulla strada dissestata, sollevando schizzi di fango dalle pozzanghere. Tom se ne stava appollaiato tra i due uomini, tentando di dominare l'eccitazione e l'impazienza. Quando Wilbur Smith
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raggiunsero il crocevia prima di Plymouth, videro una figura scheletrica in catene, appesa alla forca, ancora vestita con farsetto, brache e stivali. «Sabato prossimo sarà un mese che è appeso lassù.» Big Daniel sollevò il tricorno in un gesto di saluto rivolto al teschio sogghignante del brigante giustiziato, al quale i corvi avevano rosicchiato quasi tutte le carni. «Che Dio ti accolga, John Warking. Metti una buona parola per me col Vecchio Nick!» esclamò, usando il nomignolo tradizionale del demonio. Invece di proseguire attraverso Plymouth, Aboli sospinse i cavalli sulla carreggiata ampia e ben battuta che puntava a oriente, verso Southampton e Londra. Londra, la città più grande del mondo. Cinque giorni dopo, quando erano ancora a venti miglia di distanza, scorsero il fumo che si levava dalla città aleggiare all'orizzonte. Restava sospeso nell'aria e pareva mescolarsi alle nuvole, come la grande nube di polvere giallastra che aleggia su un campo di battaglia. La strada li condusse lungo la riva del Tamigi, ampia e affollata, brulicante di un'interminabile processione di piccole imbarcazioni, chiatte, bettoline e battelli merci, stipati fino al bordo di legname e pietre da costruzione, sacchi di grano e bestiame che muggiva, casse, balle e barili: tutte le merci di una nazione. Il traffico fluviale divenne sempre più intenso man mano che si avvicinavano al ponte di Londra, dov'erano ancorate le navi, e passavano accanto ai primi edifici, ciascuno circondato da campi aperti e giardini. Ormai riuscivano a sentire l'odore della città, e il fumo si addensò, chiudendosi sopra di loro fino a oscurare il sole. Ogni comignolo eruttava una nube scura, che contribuiva a incupire l'aria. L'odore della città divenne più greve. Era il lezzo delle pelli non ancora conciate e dei tessuti nuovi, chiusi nelle balle, della carne marcia, di uomini e cavalli, di ratti e galline, misti al sentore sulfureo del carbone che bruciava e delle fogne a cielo aperto. Le acque del fiume divennero di un marrone cupo, mentre la strada era ormai congestionata da carri e carretti, carrozze e carri pesanti senza sponde. I campi cedettero il posto a interminabili edifici di pietre e mattoni, con i tetti che parevano rannicchiati l'uno al riparo dell'altro; le traverse che li separavano erano così strette che due carrozze non potevano procedere affiancate. E il fiume era seminascosto dai magazzini di forma quadrangolare che sorgevano sulle sponde opposte. Aboli guidò con abilità la carrozza attraverso la folla, scambiando chiacchiere e insulti con gli altri conducenti. Tom, accanto a lui, non si Wilbur Smith
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saziava di assorbire tutto ciò che vedeva e udiva. I suoi occhi dardeggiavano avanti e indietro, mentre girava la testa di qua e di là, con la vivacità di uno scoiattolo eccitato. Hal Courteney aveva ceduto alle insistenze di Dorian, concedendogli il permesso di arrampicarsi sul tetto della carrozza, dove stava seduto alle spalle di Tom, mescolando le sue grida e le sue risate a quelle del fratello maggiore. Infine attraversarono il fiume percorrendo un ripido ponte di pietra, così imponente che la marea del fiume saliva tra i piloni formando mulinelli scuri che sembravano aggredire i pontili. Lungo la campata centrale c'erano bancarelle dove laceri venditori ambulanti decantavano la loro merce ai passanti, lanciando grida stridule. «Aragoste fresche, tesorucci miei. Ostriche! Ostriche vive!» «Birra! Dolce e forte. Ubriachi con un penny, sbronzi marci con due pence!» Tom vide un uomo vomitare con violenza oltre la spalletta del ponte, mentre una prostituta ubriaca allargava attorno a sé le gonne sbrindellate, accosciandosi per pisciare nel rigagnolo. Ufficiali che vestivano le splendide uniformi del reggimento delle guardie del re Guglielmo, di ritorno dalla guerra, si pavoneggiavano tra la folla, tenendo sotto braccio graziose ragazze in cuffietta. Le navi da guerra erano all'ancora nel fiume. Tom, entusiasta, le indicò a Big Daniel, il quale, sputando il succo del tabacco oltre il fianco della carrozza, commentò: «Quella è la vecchia Dreadnought, da settantaquattro cannoni. Ha partecipato alla battaglia di Medway. Quella laggiù è la Cambridge...» Snocciolava quei nomi gloriosi, e Tom si eccitava semplicemente ascoltandone il suono. «Guarda lì», esclamò poi il ragazzo. «Quella dev'essere la cattedrale di San Paolo!» L'aveva riconosciuta dai disegni riportati nei libri di scuola. La cattedrale era ancora incompleta, a cielo aperto, ricoperta da una ragnatela d'impalcature. Guy si affacciò al finestrino della carrozza. «Quella nuova», lo corresse. «La vecchia cattedrale è stata distrutta completamente dal grande incendio di Londra. L'architetto è mastro Wren, e la cupola sarà alta quasi trecentosessantacinque piedi...» Ma l'attenzione dei due fratelli a cassetta era stata già attirata da qualche nuovo spettacolo. «Che cosa è successo a quegli edifici laggiù?» Dorian indicò le rovine annerite dal fumo che s'intravedevano in mezzo alle costruzioni più Wilbur Smith
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recenti, in riva al fiume. «Sono stati distrutti dall'incendio», rispose Tom. «Vedi come lavorano i carpentieri?» Attraversato il ponte, si ritrovarono nelle strade affollate della città. Lì la calca di vetture e umanità era ancora più fitta. «Io sono stato qui prima dell'incendio», disse loro Big Daniel, «quando voi altri non eravate neanche stati concepiti. Le strade erano larghe appena la metà di adesso, e la gente svuotava il vaso da notte nella cunetta...» Proseguì, deliziando i ragazzi con altri particolari rivelatori delle condizioni che regnavano in città soltanto vent'anni prima. Alcune delle carrozze scoperte che superavano erano occupate da gentiluomini dall'aspetto imponente, vestiti all'ultima moda e accompagnati da dame in splendidi abiti di seta e di raso, così belle che Tom le fissava intimorito, certo che non fossero donne mortali, bensì angeli del cielo. Alcune delle donne che si affacciavano alle finestre delle case sulla strada, invece, non sembravano altrettanto angeliche. Una individuò Aboli e gli lanciò un invito. «Che cosa vuole mostrare ad Aboli?» chiese Dorian con la sua voce argentina, spalancando gli occhi. Big Daniel gli scompigliò i capelli d'oro rosso. «Meglio che tu non lo scopra mai, signorino Dorry, perché, quando lo saprai, non troverai più la pace!» Raggiunsero infine il Plough, e la carrozza passò rumorosamente sull'acciottolato mentre Aboli imboccava l'ingresso della locanda. Il proprietario si precipitò fuori per riceverli, inchinandosi e fregandosi le mani con entusiasmo. «Benvenuto, Sir Hal! Non vi aspettavamo prima di domattina.» «La strada era migliore del previsto e abbiamo fatto presto.» Hal scese dalla carrozza, con le giunture irrigidite dal lungo viaggio. «Portateci un boccale di birra leggera per lavarci la polvere dalla gola», ordinò, entrando nella locanda, prima di lasciarsi cadere su una delle sedie nel salottino vicino all'ingresso. «Ho la solita camera pronta per voi, Sir Hal, e una stanza per i vostri ragazzi.» «Bene, date ordine che gli stallieri si prendano cura dei cavalli e trovate una stanza per i miei servitori.» Wilbur Smith
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«Ho un messaggio per voi da parte di Lord Childs, Sir Hal. Mi ha incaricato di avvertirlo immediatamente non appena foste arrivato.» «E lo avete fatto?» Hal gli lanciò un'occhiata acuta. Nicholas Childs era il presidente del Consiglio direttivo della Compagnia Inglese delle Indie Orientali, ma l'amministrava come se fosse un suo feudo personale. Immensamente ricco, aveva un'influenza quasi illimitata in città e a corte. La corona era tra gli azionisti principali della Compagnia, e Childs godeva della confidenza e del favore del sovrano stesso; non era uomo da prendere alla leggera. «Gli ho mandato un messaggio proprio adesso», rispose il locandiere. Hal tracannò un sorso dal boccale di birra, ruttando educatamente, con la mano sulla bocca. «Ora potete mostrarmi il mio alloggio», disse. Si alzò e il proprietario della locanda lo precedette su per la scala, camminando all'indietro davanti a lui e inchinandosi ogni due gradini. Hal approvò la sistemazione. Il suo appartamento aveva un salotto e una sala da pranzo privati, mentre i ragazzi erano alloggiati nella stanza di fronte e Walsh, il loro precettore, in quella attigua. Avrebbero usato quel locale per le ore di studio, perché Hal era deciso a far sì che non perdessero neppure un giorno. «Per favore, possiamo uscire a vedere la città, padre?» lo pregò Tom. Hal lanciò un'occhiata a Walsh. «Hanno completato le lezioni che avete assegnato loro per la giornata?» «Il signorino Guy sì, ma gli altri...» rispose Walsh con sussiego. «Completate il compito che il signor Walsh vi ha assegnato», disse Hal, fissando corrucciato i figli, «e dovrà essere soddisfatto di voi, prima che possiate mettere un piede fuori della porta.» Mentre si allontanava, Tom fece una smorfia orribile alle spalle di Walsh. Il messaggero di Nicholas Childs arrivò prima che Aboli e Big Daniel avessero finito di portare al primo piano i pesanti bauli di cuoio che erano stati fissati sul tetto della carrozza. Il valletto in livrea s'inchinò, porgendo a Hal il foglio di pergamena col sigillo. Lui gli diede una moneta, spezzando con l'unghia del pollice il sigillo di ceralacca della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. La lettera era stata vergata da un segretario: «Lord Childs richiede il piacere della vostra compagnia per la cena, alle otto di questa sera, a Bombay House». In calce spiccava un'annotazione di Childs vergata di suo pugno, con una calligrafia elaborata: «L'unico altro invitato sarà Oswald Hyde». Wilbur Smith
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Hal si lasciò sfuggire un fischio sommesso: una cena privata col vecchio e il cancelliere di sua maestà Guglielmo III. «Qui sotto c'è qualcosa d'interessante», mormorò. Sorrise, sentendo il fremito dell'eccitazione che si diffondeva nelle vene. Aboli e Big Daniel avevano tirato a lucido la carrozza, sfregando via il fango della strada e strigliando i cavalli finché il loro mantello non era diventato lucente come il metallo polito. Inoltre, prima che giungesse l'ora dell'appuntamento con Childs, Hal aveva avuto tempo a sufficienza per lavarsi e farsi rinfrescare i vestiti dalla cameriera. Bombay House sorgeva al riparo di alte mura, circondata da un ampio parco a un tiro di sasso dalle Inns of Court e quindi a breve distanza anche dal quartier generale della Compagnia Inglese delle Indie Orientali, che sorgeva in Leadenhall Street. Davanti all'imponente cancello di ferro battuto c'erano alcune guardie, che però spalancarono i battenti non appena Aboli annunciò il suo padrone. Tre valletti erano in attesa al portone d'ingresso per scortare in casa Hal e prendere in consegna mantello e cappello. Poi il maggiordomo lo precedette attraverso una serie di saloni con le pareti tappezzate di specchi ed enormi quadri a olio di navi, battaglie e paesaggi esotici, illuminate da foreste di candele disposte nei lampadari di cristallo e da lampade a olio dorate sostenute da statue di ninfe e di mori. Man mano che avanzavano, i grandiosi saloni di rappresentanza cedettero il passo ad ambienti più modesti, e Hal si rese conto che erano entrati negli appartamenti privati della grande residenza, più vicini alle cucine e agli alloggi della servitù. Infine giunsero davanti a una porta così piccola e insignificante che avrebbe potuto facilmente essere ignorata; invece il maggiordomo si fermò e bussò una volta col pomo del bastone. «Avanti!» tuonò una voce familiare dalla parte opposta, e Hal, chinatosi per passare sotto l'architrave, si ritrovò in uno studiolo piccolo, ma arredato sfarzosamente. Le pareti ricoperte di pannelli di legno erano decorate con tappezzerie arabe e indiane, e lo spazio era appena sufficiente ad accogliere il grande tavolo su cui erano disposti scaldavivande d'argento e zuppiere dorate, che sprigionavano aromi succulenti e stuzzicanti nuvolette di vapore. «Puntuale come al solito», si complimentò Lord Childs. Era seduto a capotavola, e quasi debordava dall'imponente sedia imbottita. Wilbur Smith
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«Perdonatemi se non mi alzo per salutarvi in modo decente, Courteney. Di nuovo questa dannata gotta.» Indicò il piede, avvolto nelle bende e appoggiato su uno sgabello. «Avete già conosciuto Oswald, ovviamente.» «Ho avuto questo onore», rispose Hal, inchinandosi al cancelliere. «Buonasera, milord. Ci siamo incontrati in casa del signor Samuel Pepys, nell'agosto scorso.» «Buonasera, Sir Henry. Ricordo bene il nostro incontro.» Lord Hyde sorrise, accennando ad alzarsi per salutarlo. «Non siete il tipo d'uomo che si dimentica facilmente. Era un inizio che faceva sperare bene per il seguito della serata, si rese conto Hal. Con un gesto cordiale e privo di formalità, Childs gli indicò la sedia al suo fianco. «Sedetevi qui, in modo che possiamo parlare. Toglietevi la giacca e la parrucca, amico mio. Mettiamoci comodi.» Poi lanciò un'occhiata ai folti capelli scuri di Hal, appena spruzzati d'argento, e borbottò: «Ma certo, voi non portate la parrucca, da uomo sensato che siete. Noi poveri diavoli che viviamo in città siamo tutti schiavi della moda». Gli altri due avevano la testa rasata ed erano in maniche di camicia, col colletto allentato. Childs portava un tovagliolo legato al collo, ed era evidente che non avevano aspettato Hal per cominciare a mangiare. A giudicare dalla pila di gusci di ostrica vuoti, Childs ne aveva già ingurgitate diverse dozzine. Hal si liberò della giacca, consegnandola a un valletto, poi prese posto sulla sedia che gli era stata indicata. «Che cosa preferite, Courteney, vino bianco del Reno o madera?» Childs fece segno a uno dei servitori di riempire il bicchiere di Hal, che scelse il vino bianco. Sapeva per esperienza che la serata sarebbe stata lunga e che il madera, ingannevolmente dolce, era molto forte. Quando gli ebbero riempito il bicchiere e messo davanti un piatto di enormi ostriche di Colchester, Childs congedò i domestici, in modo da poter parlare in libertà. Attaccarono quasi subito con la tormentata questione della guerra in Irlanda. Giacomo, il re deposto, aveva fatto vela dalla Francia verso l'Irlanda per mobilitare un esercito tra i sostenitori cattolici che aveva laggiù, e stava attaccando le truppe fedeli a re Guglielmo. Oswald Hyde lamentava il costo della campagna militare, ma Childs si rallegrava del successo riportato nella difesa di Londonderry e di Enniskillen dalle forze di sua maestà. «Potete star certo che, non appena sistemati gli irlandesi, il re tornerà a dedicare tutta la sua attenzione alla Francia.» Oswald Hyde succhiò Wilbur Smith
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un'altra ostrica dal guscio prima di assumere l'espressione infelice che sembrava del tutto naturale sul suo volto. «Dovrò tornare alla Camera per votare un altro stanziamento.» Pur vivendo in campagna, Hal si teneva bene informato sugli avvenimenti del giorno: aveva molti buoni amici a Londra, con i quali intratteneva una corrispondenza regolare. Quindi era in grado di seguire anche le sottigliezze della conversazione e persino di apportarvi contributi degni di nota. «Abbiamo ben poca scelta», osservò. «Dal momento che Luigi ha invaso il Palatinato, siamo stati costretti ad agire contro di lui in base ai termini del trattato di Vienna.» Aveva espresso un parere sul quale gli altri erano d'accordo, e Hal intuì la loro approvazione, sebbene Hyde continuasse a deplorare le spese imposte da un conflitto sul continente. «Convengo che la guerra con la Francia è inevitabile, ma, in nome di Dio, non abbiamo ancora pagato le spese della guerra in Olanda e dell'incendio. Il Ragazzo Nero e Jamie ci hanno lasciati indebitati con tutte le banche d'Europa.» Il Ragazzo Nero era il soprannome di Carlo II, l'«allegro monarca», mentre Jamie era Giacomo II, che gli era succeduto sul trono, regnando per tre anni scarsi prima che il suo cattolicesimo dichiarato lo costringesse a fuggire in Francia. Guglielmo, stadholder delle Province Unite dei Paesi Bassi e quarto in linea di successione al trono, era stato invitato a cingere la corona d'Inghilterra, insieme con la moglie Maria. Oltretutto Maria era la figlia di Giacomo, e questo aveva reso ancor più validi i loro diritti sul trono, senza contare il fatto che erano entrambi rigorosamente protestanti. Una volta divorate le ostriche, Childs richiamò i servitori perché portassero in tavola gli altri piatti. Si lanciò sulle sogliole di Dover come se fossero un nemico da sconfiggere; poi fu la volta dell'agnello e del manzo, accompagnati da tre diverse zuppe aromatizzate, servite in terrine d'argento dorato, che dovevano servire a mandare giù le carni. Un buon chiaretto rosso sostituì il vino del Reno, che era piuttosto insipido. Hal beveva con parsimonia, perché la conversazione era affascinante e gli consentiva d'intravedere squarci inediti dell'intricata struttura politica mondiale e questo privilegio gli era concesso di rado. Non voleva lasciarsi annebbiare la mente dal vino, fosse stato anche il migliore che aveva mai bevuto. Il discorso spaziava dall'incoronazione di Pietro a zar di tutte le Russie alle incursioni dei francesi in Canada, dal massacro dei loro coloni a Lachine per mano degli indiani irochesi, alla ribellione dei maratha Wilbur Smith
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contro il governo dell'imperatore moghul Aurangzeb, in India. Quell'ultima notizia riportò la conversazione al vero motivo di quell'incontro, vale a dire gli affari e le fortune della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. Hal intuì il cambiamento di umore dei compagni di tavola dal modo in cui lo guardavano; gli occhi posati su di lui divennero acuti e scrutatori. «Se non sbaglio, siete un azionista importante della Compagnia, vero?» domandò Lord Hyde in tono innocente. «Ho avuto la fortuna di poter acquistare un piccolo pacchetto di azioni della Compagnia al ritorno dall'Oriente, negli anni 70», ammise Hal con modestia, «e da allora, di tanto in tanto, quando la sorte è stata benevola con me, ho continuato ad aumentarlo.» Childs liquidò con un gesto quelle pretese di modestia. «Siamo tutti al corrente delle sorprendenti imprese vostre e di vostro padre durante le guerre con gli olandesi e anche in seguito, e conosciamo le considerevoli aggiunte che avete fatto al vostro patrimonio personale grazie al bottino di guerra e ai proventi dei viaggi commerciali nelle isole delle spezie e sulle coste orientali del continente africano.» Si rivolse al cancelliere. «Sir Henry controlla il quattro e mezzo per cento delle azioni della Compagnia, senza contare la dote di Alice Grenville, che ha sposato da poco il figlio maggiore», concluse in tono asciutto. Hyde si mostrò impressionato, mentre calcolava mentalmente il valore monetario rappresentato da quelle azioni. «Vi siete rivelato davvero un comandante valoroso e pieno di risorse», mormorò, «oltre che saggio negli investimenti. Avete ben meritato quelle ricompense.» Lo fissava con uno sguardo penetrante. Hal si rese conto che stavano per arrivare al vero scopo dell'incontro. «Inoltre i vostri interessi personali sono strettamente legati ai nostri», proseguì il cancelliere a bassa voce, sfregandosi la testa rasata. «Siamo tutti azionisti, la corona in primo luogo. Quindi le recenti notizie in arrivo dalle Indie Orientali ci colpiscono tutti in modo estremamente doloroso.» Hal sentì una stretta improvvisa e dolorosa al torace, ma si raddrizzò sulla sedia, e la sua voce era ferma quando mormorò: «Perdonatemi, milord, ma sono arrivato a Londra solo questa mattina e non ho appreso le notizie». «Allora siete fortunato, giacché non sono buone», rispose Childs con un grugnito, portandosi alla bocca un pezzo di manzo al sangue. Masticò e Wilbur Smith
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deglutì, prima di bere un sorso di chiaretto. «Due settimane fa, la nave della Compagnia Yeoman of York ha raggiunto le banchine della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. Era partita sessantadue giorni fa da Bombay con un carico di cotone e cocciniglia, insieme con dispacci inviati da Gerald Aungier, il governatore della colonia.» Childs corrugò la fronte, scuotendo la testa, quasi fosse restio a proseguire. «Abbiamo perso due navi, la Minotaur e l'Albion Spring.» Hal si spostò all'indietro sulla sedia come se avesse ricevuto un colpo alla testa. «Quelle due navi sono l'orgoglio della flotta», esclamò. Era quasi impossibile crederci. Gli East Indiamen, quei bastimenti imponenti e magnifici, erano i dominatori degli oceani, costruiti non soltanto per il trasporto delle merci, ma anche per il prestigio della grande e prospera Compagnia che ne era proprietaria e della corona inglese, dalla quale avevano l'autorizzazione a navigare. «Un naufragio?» azzardò Hal. Persino la grande potenza della Compagnia poteva subire il contraccolpo di una perdita come quella. L'affondamento di un'unica nave di quella stazza era un colpo terribile; di due era un vero disastro. Poteva equivalere alla perdita di centomila libbre di carico. «Sono forse naufragate?» ripeté. «C'entrano le secche di Agulhas? Oppure la barriera corallina delle Mascarene?» «Non sono naufragate», rispose Childs in tono lugubre. «Che cosa è successo, allora?» «Sono stati i pirati», rispose Childs. «Ne siete certo? Come possiamo saperlo?» Gli East Indiamen erano costruiti per una navigazione veloce e muniti di un pesante armamento proprio per prevenire quella possibilità. Ci sarebbe voluta un'intera flotta di vascelli di linea per catturarne uno. Non appena si fosse sparsa la notizia, il valore delle azioni della Compagnia avrebbe subito un tracollo. I suoi stessi investimenti sarebbero stati falcidiati di migliaia, no, di decine di migliaia di sterline. «Erano mesi, ormai, che le due navi tardavano ad arrivare. Non avevamo più notizie di nessuna delle due. Ma ora pare che si sia fatto vivo un marinaio superstite della Minotaur. È rimasto in mare per quasi quaranta giorni, aggrappato a un relitto, bevendo qualche goccia di acqua piovana e mangiando i pesci crudi che riusciva a catturare, finché le onde non lo hanno gettato sulla costa selvaggia dell'Africa. Ha camminato per Wilbur Smith
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settimane intere lungo la riva, fino a raggiungere l'insediamento portoghese di Lobito. Laggiù è riuscito a trovare un ingaggio su una nave diretta a Bombay. Ha raccontato la sua storia al governatore Aungier, che ci ha inviato il marinaio, insieme con i dispacci, a bordo della Yeoman of York.» «E dov'è, ora, questo marinaio?» chiese Hal. «Gli avete parlato? È un uomo fidato?» Childs alzò una mano per arrestare quel fiotto di domande. «Si trova in un luogo sicuro, ben protetto, però non vogliamo che vada a raccontare la sua storia per le strade di Londra, oppure in qualche caffè.» Hal annuì; era una mossa sensata. «Comunque, sì, ho parlato a lungo con lui. Sembra un ragazzo con la testa a posto, coriaceo e pieno di risorse, se il suo racconto è vero, come penso.» «Che cosa è successo, secondo lui?» «In poche parole, la Minotaur si è imbattuta in un piccolo dhow in difficoltà al largo dell'isola di Madagascar e ha raccolto il suo equipaggio, una dozzina di uomini, prima che il battello affondasse. Ma quella notte stessa i superstiti hanno preso possesso del ponte durante il secondo turno di guardia. Avevano armi nascoste su di loro e hanno tagliato la gola agli ufficiali di turno. Va da sé che l'equipaggio della Minotaur non avrebbe avuto difficoltà a riconquistare la nave, data l'esiguità della banda di pirati. E invece una flotta di piccole imbarcazioni è spuntata fuori delle tenebre, evidentemente in risposta a un segnale, e gli uomini già a bordo sono riusciti a impedire ai marinai della nave di usare i cannoni, o comunque di difendersi, finché non è stato troppo tardi.» «E quest'uomo come ha fatto a fuggire?» «Quasi tutti gli uomini della Minotaur sono stati massacrati, ma questo si chiama Wilson - ha convinto il capo dei pirati che si sarebbe unito alla sua banda per guidarli verso un'altra preda. Poi ha afferrato al volo la prima occasione per fuggire e si è calato fuori bordo attraverso un portello, con un barilotto di legno da usare come galleggiante.» Childs aprì una scatola d'argento, tirando fuori un lungo oggetto marrone che somigliava a un pezzo di corteccia d'albero. «Foglie di tabacco arrotolate intorno a un bastoncino», spiegò. «È spagnolo, viene dalle loro colonie in America. Lo chiamano cigarro. Lo preferisco alla pipa. Volete provarne uno? Ecco, lasciate che ve lo prepari.» Si diede un gran daffare per annusarlo e tagliare una scheggia di tabacco scuro a una delle due estremità. Wilbur Smith
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Accettandolo, Hal lo fiutò con diffidenza, ma l'aroma era piacevole in modo sorprendente. Seguì l'esempio di Childs, accendendone l'estremità con lo stoppino acceso che l'altro gli porgeva. Tirò una cauta boccata e scoprì che il gusto era di suo gradimento, più di qualunque tabacco da pipa che avesse mai provato. Anche gli altri due fumavano il sigaro, e questo concesse a Hal qualche minuto per meditare sul problema che Childs gli aveva sottoposto. «Avete detto che sono andati perduti due bastimenti?» «Sì», confermò Childs. «L'Albion Spring, poche settimane prima della Minotaur, è stata catturata dalla stessa banda di tagliagole.» «Come potete averne la certezza?» «Il capo dei pirati si è vantato delle sue imprese con questo Wilson.» Dopo un altro lungo silenzio, Hal domandò: «Che cosa avete intenzione di fare in proposito, milord?» Poi sentì il cuore accelerare i battiti, vedendo i due che si scambiavano un'occhiata, ed ebbe il primo sentore del vero motivo per cui era stato invitato a quella riunione privata. Childs si ripulì la pappagorgia dal grasso di manzo, usando il dorso della mano, poi ammiccò rivolto a Hal con l'espressione di un cospiratore. «Manderemo qualcuno a liquidare questo pirata, Jangiri. È così che si chiama il furfante: Jangiri.» «E chi avete intenzione di mandare?» chiese Hal, pur conoscendo già la risposta. «Voi, naturalmente.» «Milord, ormai sono un agricoltore e un piccolo possidente di campagna.» «Solo da qualche anno», lo rimbeccò Hyde. «Prima eravate uno dei più abili marinai che abbiano mai solcato gli oceani del sud e dell'Oriente.» Hal rimase in silenzio. Era vero. Quei due sapevano tutto di lui, e quasi certamente conoscevano i dettagli di ogni viaggio che aveva fatto, e Hyde aveva in archivio i dati relativi ai tesori e ai carichi preziosi di cui aveva consegnato una quota alla corona. «Milord, ho famiglia, quattro figli maschi cui provvedere e non ho una donna con la quale dividere le responsabilità. Ecco perché non vado più per mare.» «So perché avete rinunciato al mare, Courteney, e vogliate accettare le mie più profonde condoglianze per la perdita di vostra moglie. D'altra parte, però, anche il vostro figlio minore ormai deve avere l'età che avevate Wilbur Smith
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voi la prima volta che vi siete imbarcato. Non c'è motivo per cui non possiate trovare un ingaggio per tutti i vostri rampolli a bordo di una nave scelta con oculatezza.» Anche quello era vero. Era chiaro che Childs aveva programmato la sua strategia con grande cura, però Hal era ben deciso a non facilitargli le cose. «Non potrei lasciare le mie responsabilità a High Weald. Senza un'oculata amministrazione delle mie proprietà, sarei ridotto a elemosinare.» «Caro Sir Henry», replicò Hyde con un sorriso, «mio figlio è stato compagno di studi del vostro William al Merton College. Sono ancora ottimi amici e si scrivono regolarmente. Mi risulta che l'amministrazione della tenuta è affidata quasi per intero al giovane William, mentre voi dedicate molto tempo al vostro falco, alla caccia e alle riunioni con i vostri vecchi compagni di navigazione.» Hal arrossì di collera. Era così bassa la stima che William aveva del suo valore personale e del suo contributo all'amministrazione di High Weald e delle miniere? «Se questo Jangiri non viene sistemato alla svelta, saremo tutti ridotti a elemosinare», aggiunse Childs. «Voi siete l'uomo ideale per questo incarico, e lo sappiamo tutti.» «Sopprimere la pirateria è un compito che spetta alla marina del re», replicò Hal, ostinato. «In effetti è così», ammise Hyde. «Ma entro la fine dell'anno saremo in guerra con la Francia, e la flotta del re avrà faccende più urgenti cui badare. Può darsi che passino anni, prima che l'Ammiragliato possa dedicarsi a compiere un repulisti negli oceani più remoti del globo, e noi non possiamo aspettare così a lungo. Jangiri ha già ai suoi ordini due navi di grande potenza. Chi può dire se tra un paio d'anni non sarà in grado di attaccare Bombay o i nostri stabilimenti sulla costa del Carnatico? Le vostre azioni della Compagnia varrebbero assai poco, in quel caso.» Hal si agitò sulla sedia, irrequieto, giocherellando con lo stelo del bicchiere da vino. Era quello che aveva aspettato, in cuor suo, durante quegli ultimi mesi di noia e d'inattività. Il sangue gli ribolliva, la mente galoppava, spostandosi da un'idea all'altra come una nettarinia su un albero in fiore, svolazzando da una corolla all'altra per suggerne il nettare. «Non ho una nave», fece notare. Aveva venduto la Golden Bough quando si era ritirato nel Devon. La nave era logora e la carena era consumata quasi per metà dalle teredini. «Mi servirebbe una nave di Wilbur Smith
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potenza pari o superiore alla Minotaur o all'Albion Spring.» «Posso offrirvi una squadra composta da due belle navi», fu pronto a replicare Childs. «La vostra ammiraglia sarebbe la nuova Seraph, il miglior bastimento che la Compagnia abbia mai costruito. Trentasei cannoni, veloce come un gabbiano. In questo momento la stanno approntando nel cantiere navale di Deptford. Potrebbe essere pronta a prendere il mare per la fine del mese.» «E l'altra?» «La Yeoman of York, la stessa nave che ha riportato Wilson da Bombay. Per la fine della settimana avrà completato il raddobbo e sarà pronta a navigare. Anche questa ha trentasei cannoni. Il comandante è Edward Anderson, un buon marinaio.» «Lo conosco bene», confermò Hal. «Ma con quale autorità dovrei navigare?» Era deciso a opporre ancora resistenza. «A mezzogiorno di domani», assicurò Hyde, «potrò consegnarvi una lettera di marca firmata da sua maestà, con l'autorizzazione a trovare e distruggere oppure a prendere in consegna le navi e i beni dei pirati.» «Quali sono i termini che riguardano il bottino?» s'informò Hal, concentrando su di lui tutta la sua attenzione. «Un terzo alla corona, un terzo alla Compagnia e l'ultimo terzo per voi e il vostro equipaggio», spiegò l'altro. «Se dovessi partire, e non è affatto certo che lo farò, vorrei la metà per me e per i miei uomini.» «È vero, allora.» Hyde sembrava avvilito. «In affari siete un osso duro. Di questo potremo discutere quando accetterete l'incarico.» «Vorrei poter commerciare per conto mio, durante il viaggio.» Uno dei princìpi più ferrei della Compagnia era che i suoi comandanti non dovevano dedicarsi al commercio privato, per evitare conflitti d'interessi e di lealtà. Il viso di Childs si rabbuiò e la pappagorgia prese a tremare per l'indignazione. «No, a nessun patto. Questo non posso accettarlo. Sarebbe un precedente pericoloso.» Poi si accorse che Hal gli aveva teso una trappola e lui ci era finito dentro in pieno. «Benissimo», replicò Hal con calma. «Io rinuncerò a questo diritto se mi concederete la metà del bottino.» Childs deglutì a fatica, spruzzando saliva, di fronte a tanta sfrontatezza. Hyde invece si lasciò sfuggire un sorrisetto lugubre. «Vi ha inchiodato, Nicholas. O l'uno o l'altro, non vi pare? O il denaro del bottino o il diritto Wilbur Smith
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di commerciare.» Childs stava riflettendo freneticamente. Il denaro del bottino poteva superare di gran lunga i proventi di qualsiasi traffico che quel marinaio, per quanto astuto e pieno di risorse, avrebbe potuto procacciarsi lungo le coste asiatiche e africane, ma il diritto a commerciare era sacro e riservato alla Compagnia. «E sia», cedette infine. «Vada per metà del bottino. Però nessun profitto commerciale.» Hal si accigliò, ma in cuor suo era ben contento. Assentì, con apparente riluttanza. «Mi servirà una settimana per rifletterci.» «Una settimana?» esclamò Hyde. «Abbiamo bisogno della risposta stasera stessa. Sua maestà dovrà ascoltare il mio rapporto nella riunione di gabinetto di domattina.» «Ci sono troppi aspetti sui quali devo riflettere prima di poter accettare.» Hal si tirò indietro sulla sedia, incrociando le braccia. Se tirava in lungo, c'era ancora la possibilità di strappare qualche altra concessione. «Henry Courteney, barone di Dartmouth», mormorò Hyde. «Vi sembra che abbia un suono soddisfacente?» Hal sciolse le braccia per protendersi in avanti. La sorpresa era tale che l'entusiasmo gli rischiarò il volto. Un titolo nobiliare! Non aveva mai osato pensarci, prima di allora. Eppure era una delle poche cose al mondo che gli mancava. «Volete farvi beffe di me, signore?» rispose a bassa voce. «Vi prego di chiarire il vostro pensiero.» «Accettate subito l'incarico che vi offriamo, riportateci la testa di quel furfante di Jangiri in un barile di salamoia e vi do la mia solenne parola d'onore che il titolo di barone sarà vostro. Che ne dite, Sir Henry?» Hal accennò un sorriso. Era un comune cittadino, sia pure del rango più alto, ma quel gradino in più nella scala sociale gli avrebbe permesso di entrare nella nobiltà e nella Camera dei Lord. «Siete voi il più spietato in affari, milord. Non posso più resistere alla pressione delle vostre lusinghe e del mio dovere.» Levò il bicchiere, imitato dagli altri due. «Ai venti favorevoli e a una buona caccia», suggerì come brindisi. «All'oro e alla gloria!» preferì Hyde, e vuotarono i bicchieri. Quando li posarono sul tavolo, il cancelliere si forbì le labbra col tovagliolo prima di chiedere: «Non siete stato ancora presentato a corte, Sir Hal?» Vedendo che lui scuoteva la testa, riprese: «Dato che un giorno diventerete pari del regno, bisognerà porre rimedio a questa situazione Wilbur Smith
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prima della vostra partenza da Londra. Alle due del pomeriggio di venerdì prossimo, a St. James's. Il re terrà un'udienza pomeridiana prima di salpare per l'Irlanda e occuparsi della campagna contro il suocero. Manderò uno dei miei uomini al vostro alloggio, per guidarvi a palazzo». Alfred Wilson fu una sorpresa. Con un nome del genere, Hal si era aspettato un lupo di mare inglese di vecchio stampo, con l'accento dello Yorkshire o del Somerset. Su richiesta di Hal, Childs aveva fatto rilasciare il marinaio dal luogo in cui era custodito, inviandolo alla locanda. Adesso l'uomo era in piedi al centro della saletta privata, e si torceva il berretto tra le mani scure e sottili. «Sei inglese?» gli domandò Hal. Wilson si toccò rispettosamente la massa di capelli folti e scuri che gli ricadeva sulla fronte. «Mio padre è nato a Bristol, comandante.» «Ma tua madre no?» tirò a indovinare Hal. «Lei era indiana, una moghul di religione musulmana, signore.» Wilson ha la pelle ancora più scura del mio William, pensò Hal, ed è altrettanto bello. «E tu parli la sua lingua, Wilson?» «Sì, signore, e la scrivo anche. Mia madre era di alto lignaggio. Con tutto il rispetto, signore.» «Allora sai scrivere anche in inglese?» A Hal piaceva l'aspetto di quel giovane e, se la storia della sua fuga era vera, doveva essere davvero ingegnoso e pieno di risorse, per giunta. «Sì, signore.» Hal rimase sorpreso, perché erano pochi i marinai in grado di leggere e scrivere. Rifletté, osservandolo. «Parli qualche altra lingua?» «Soltanto l'arabo.» Wilson si strinse nelle spalle con un gesto di modestia. «Di bene in meglio.» Hal sorrise, passando all'arabo per metterlo alla prova. Lui lo aveva appreso dalla prima moglie, Judith, perfezionandolo in seguito nel corso dei numerosi viaggi compiuti lungo le coste dell'Africa e dell'Arabia. «Dove lo Hal imparato?» Il suo era un po' arrugginito; aveva perso l'abitudine ai suoni gutturali dell'arabo. «Ho navigato per molti anni come marinaio semplice, con un equipaggio quasi interamente arabo.» Wilson aveva un'ottima padronanza della lingua; parlava in modo rapido e scorrevole. «Quale grado avevi, a bordo della Minotaur?» Wilbur Smith
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«Quello di capocarico, signore.» Hal era entusiasta. Per avere il grado di ufficiale di quarto, alla sua età, doveva essere brillante davvero. Devo tenerlo con me, decise. «Voglio sentire da te tutto quello che puoi dirmi sulla conquista della Minotaur, ma soprattutto voglio che mi parli di Jangiri.» «Vi chiedo scusa, comandante, ma ci vorrà parecchio tempo.» «Abbiamo l'intera giornata, Wilson.» Hal indicò la panca addossata alla parete opposta. «Siediti là.» Vedendolo esitare, Hal proseguì: «Hal detto che ci vuole tempo. Siediti, marinaio, e comincia pure a raccontare». Ci vollero quattro ore. Mentre Walsh, il precettore, sedeva al tavolo per prendere appunti sotto la dettatura di Hal, Wilson parlava a voce bassa e senza emozione, almeno finché non venne il momento di descrivere il massacro dei suoi compagni da parte dei pirati. A quel punto la voce gli si strozzò in gola e, quando Hal alzò la testa, scoprì che gli occhi di Wilson brillavano di lacrime. Ordinò un boccale di birra per dar modo all'uomo di bagnarsi l'ugola e di riprendere la padronanza di sé, ma Wilson respinse il boccale. «Non bevo alcolici, signore.» Hal ne fu entusiasta. L'alcol era la bestia nera di quasi tutti i marinai. «Mai?» domandò. «No, signore. Per via di mia madre, capite.» «Sei cristiano?» «Sì, signore, però non posso dimenticare gli insegnamenti di mia madre.» «Sì, capisco.» Perdio, devo accaparrarmelo, pensò Hal. È una perla d'uomo. Poi gli venne un'idea. Durante il viaggio di andata gli farò insegnare l'arabo ai ragazzi. Ne avranno bisogno, sulla costa. Quando ebbero finito, Hal aveva un quadro vivido di quello che era accaduto a bordo della Minotaur e dell'uomo che avrebbe dovuto affrontare. «Voglio che ripensi a tutto quanto, Wilson. Se c'è qualcosa che Hal dimenticato, un dettaglio qualsiasi che possa tornare utile, voglio che torni a dirmelo.» «Bene, comandante.» Wilson si alzò per congedarsi. «Dove vi trovo, signore?» Hal esitò. «Sai tenere la lingua a freno?» domandò e, quando l'uomo annuì, gli rispose: «So che ti hanno tenuto sotto custodia per impedirti di raccontare la storia della cattura della Minotaur. Se mi dai la tua parola d'onore che non andrai in giro a raccontare la storia a chiunque ti dia Wilbur Smith
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ascolto, puoi unirti al mio equipaggio. Sto cercando un buon ufficiale di quarto. Vuoi firmare il contratto con me, ragazzo?» Wilson accennò un sorriso schivo. «Ho già sentito parlare di voi, comandante», rispose. «Vedete, mio zio ha navigato con vostro padre sulla Lady Edwina, e con voi sulla Golden Bough. Mi ha parlato di voi.» «Chi era tuo zio?» «Ned Tyler, comandante, ed è ancora vivo.» «Ned Tyler!» esclamò Hal. Non sentiva pronunciare quel nome da cinque anni. «E dov'è?» «Nella sua fattoria, vicino a Bristol. L'ha acquistata col denaro del bottino conquistato a bordo della vostra nave, comandante.» Ned Tyler era uno degli uomini migliori con i quali Hal avesse mai navigato, e lui si stupì per l'ennesima volta nel constatare quanto fosse piccola e unita la confraternita degli uomini di mare. «Allora, Wilson, che ne dici? Vuoi firmare l'ingaggio sulla Seraph?» «Sarei lieto di navigare ai vostri ordini, comandante.» Hal provò un moto di piacere nel sentirlo accettare. «Allora chiedi al mio nostromo Big Daniel Fisher di procurarti un alloggio finché non potremo prendere possesso della nave. Intanto potrai esercitarti nell'arte della penna scrivendo una lettera a tuo zio Ned. Digli di piantarla di mungere vacche e spalare letame: è arrivata l'ora di calzare di nuovo gli stivali da marinaio. Ho bisogno di lui.» Quando Wilson fu sceso lungo la stretta scala di legno fino alla saletta del piano inferiore, Hal si spostò verso la finestrella che si affacciava sul cortile lastricato della locanda, restando lì, in piedi, con le mani intrecciate dietro la schiena, a guardare Aboli che dava lezioni di scherma ai gemelli. Guy era seduto su una balla di paglia, con Dorian al fianco. Doveva aver finito il suo turno da poco, perché era rosso in volto e aveva la camicia chiazzata di sudore. Dorian gli stava battendo una mano sulla schiena per congratularsi con lui. Hal osservò Aboli che faceva ripassare a Tom il repertorio dei movimenti canonici, con tutte le parate, dalla prima alla sesta, e la serie completa di colpi di taglio e a fondo. Tom era leggermente sudato, quando finalmente Aboli gli si parò di fronte, facendo segno di cominciare l'assalto. «In guardia, Klebe!» Si affrontarono in una mezza dozzina di legamenti inconcludenti. Hal si Wilbur Smith
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accorse che Aboli teneva a freno la sua potenza per mantenersi al livello di Tom, ma il ragazzo cominciava a stancarsi e a rallentare il ritmo. Allora Aboli lo richiamò. «Questo è l'ultimo assalto, Klebe, ma stavolta faccio sul serio!» L'espressione di Tom s'indurì, mentre si metteva in guardia di quarta, con la punta alta, studiando gli occhi scuri di Aboli per intuire la sua mossa prima che attaccasse. Le lame si toccarono e Aboli attaccò avanzando col piede destro, aggraziato come un danzatore. Prima eseguì una finta sulla linea alta e poi, quando Tom parò di terza ed eseguì la risposta, indietreggiò con una mossa fluida, contrattaccando con una controrisposta nella linea del legamento, ma con la velocità di una vipera che attacca. Tom tentò la parata corretta, di quarta bassa, ma alla sua mano mancava ancora un filo di prontezza. Si sentì uno stridore d'acciaio e la lama di Aboli si fermò a un soffio dal capezzolo di Tom, che spuntava dalla camicia bianca. «Più veloce, Klebe. Come un falco!» lo ammonì Aboli, mentre Tom si riprendeva in fretta; ma Aboli teneva il polso basso e la lama leggermente fuori linea. Si sarebbe detto che lasciasse uno spiraglio alla lama dell'avversario in direzione della spalla destra. Tom era furioso per l'attacco subito, ma individuò prontamente il varco. Persino dall'alto della finestra, Hal lo vide commettere l'errore di segnalare la mossa che intendeva compiere, sollevando leggermente il mento. «No, Tom, no!» bisbigliò. Aboli gli stava facendo balenare sotto gli occhi l'esca alla quale anche Hal aveva abboccato così spesso, all'età di Tom. Con un abilissimo calcolo della distanza, si era portato una spanna più in là della portata della lama di Tom, puntata alla sua spalla; se lui avesse tentato l'affondo, lo avrebbe colpito ancora. Hal ridacchiò entusiasta quando il figlio eseguì un passo doppio, una finta e poi, con l'agilità di una scimmia e una forza straordinaria nel polso, per un ragazzo della sua età, cambiò l'angolatura dell'attacco tentando un affondo verso il fianco di Aboli. «Per poco non lo toccavi!» mormorò, mentre Aboli era costretto a tendersi tutto per proteggersi con una parata circolare che raccolse la lama di Tom, riportandola sulla linea iniziale. Aboli indietreggiò di un passo e si liberò del legamento con una cavata. Scosse la testa, facendo volare via le gocce di sudore dalla testa pelata, prima di scoprire i denti in un gran sorriso candido. «Bravo, Klebe. Non accettare mai l'invito di un avversario. Ben fatto! Stavolta ci sei arrivato Wilbur Smith
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vicino.» Passò una mano sulle spalle di Tom. «Per oggi basta. Il signor Walsh si aspetta che tu prenda in mano la penna, anziché la sciabola.» «Ancora un assalto, Abolì!» lo pregò Tom. «Stavolta ti tengo in pugno, sul serio.» Ma l'altro respinse il ragazzo verso la porta della locanda. «Abolì è buon giudice», mormorò Hal con approvazione. «Non li forza oltre i limiti dei loro anni e delle loro risorse.» Sfiorò con la mano la cicatrice bianca che aveva sul lobo dell'orecchio destro, sorridendo di nostalgia. «Ma non è lontano il giorno in cui farà scorrere un paio di gocce del succo di lamponi del signorino Thomas, come ha fatto una volta con me, per moderare l'alta stima che il ragazzo ha della propria abilità.» Aprì la finestra per sporgersi fuori. «Abolì, dov'è Big Daniel?» Alzando la testa, il nero si asciugò il sudore dalla fronte con l'avambraccio. «Stava lavorando alla carrozza, poi è uscito con quel ragazzo nuovo, Wilson.» «Trovalo e portalo quassù. C'è una cosa che devo dirvi.» Poco dopo, quando i due uomini entrarono stropicciando i piedi sul pavimento, Hal alzò la testa dai documenti che aveva sullo scrittoio davanti a sé. «Sedetevi, tutt'e due.» Indicò loro la panca e i due vi presero posto fianco a fianco, come scolaretti troppo cresciuti pronti a ricevere un castigo. «Ho fatto quattro chiacchiere con Mabel.» Hal si rivolse prima a Big Daniel. «Mi ha detto che non ce la farebbe a sopportare un altro inverno, con te che ti aggiri per il cottage come un orso alla catena. Mi ha pregato di portarti via, non importa dove, purché sia un posto molto lontano.» Big Daniel pareva sbalordito. Mabel era sua moglie, la prima cuoca di High Weald, una donna paffuta e allegra, con le guance rosse come mele. «Non aveva nessun diritto...» cominciò, furioso, ma poi, vedendo lo scintillio negli occhi di Hal, s'interruppe con un gran sorriso. Quindi Hal si girò verso Aboli. «Quanto a te, demonio nero, il sindaco di Plymouth mi ha informato che in città c'è stata un'epidemia di neonati color del carbone e tutti i mariti stanno caricando i fucili. È ora che anche tu ti allontani per un po'.» Aboli scoppiò in una risata tonante. «Dove andiamo, Gundwane?» Usò il nomignolo che aveva affibbiato a Hal da ragazzo e che, nella sua lingua d'origine, significava: «ratto della foresta». Ormai lo usava di rado, solo nei momenti di grande confidenza. «A sud!» rispose Hal. «Oltre il capo di Buona Speranza. In quell'oceano che conosci così bene.» Wilbur Smith
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«E che cosa andremo a fare, laggiù?» «A trovare un uomo che si chiama Jangiri.» «E quando lo avremo trovato?» insistette Aboli. «Lo uccideremo e ci prenderemo il suo tesoro.» Aboli meditò un istante. «Mi sembra una buona idea», concluse. «Su quale nave?» chiese Big Daniel. «Sulla Seraph. Un East Indiaman appena varato. Trentasei cannoni, veloce come un furetto.» «Che significa Seraph?» «Vuol dire 'serafino', uno dei componenti della schiera più alta di angeli che esista in cielo.» «Proprio come me. Un serafino mi somiglia dalla A alla Z.» Big Daniel scoprì le gengive rosee in un ampio sorriso. Naturalmente non sapeva leggere e conosceva le lettere soltanto di nome, il che fece sorridere Hal dentro di sé. «E quando poseremo gli occhi sulla Seraph?» domandò Big Daniel. «Domattina per prima cosa. Tieni la carrozza pronta per l'alba. Il viaggio fino ai cantieri navali della Compagnia, a Deptford, sarà lungo.» Big Daniel e Aboli fecero per alzarsi, ma Hal li trattenne. «Ma prima abbiamo parecchio da fare. Tanto per cominciare, non abbiamo un equipaggio.» I due assunsero subito un'espressione seria. Trovare l'equipaggio per un bastimento nuovo, sia pure di quinto rango, era sempre un compito difficile. Hal sollevò il documento posato sullo scrittoio davanti a lui. Era un manifesto che aveva composto il giorno prima, facendolo consegnare da Walsh alla stamperia di Cannon Street. Quella era la prima bozza. BOTTINO DA DIVIDERE! STERLINE A CENTINAIA! annunciava l'intestazione, a caratteri cubitali. Il testo che seguiva era in caratteri un po' meno vistosi, ma non meno pomposo e ricco d'iperboli. IL COMANDANTE SIR HAL COURTENEY, EROE DELLE GUERRE CONTRO GLI OLANDESI, MARINAIO PROVETTO E CELEBERRIMO NAVIGATORE, COLUI CHE HA CATTURATO I GALEONI OLANDESI Wilbur Smith
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STANDVASTIGHEID E HEERLIGE NACHT, CHE, A BORDO DELLE SUE LEGGENDARIE NAVI LADY EDWINA E GOLDEN BOUGH, HA COMPIUTO NUMEROSI VIAGGI DI CAPITALE IMPORTANZA IN AFRICA E FINO ALLE ISOLE DELLE SPEZIE, NELLE INDIE, CHE HA COMBATTUTO E SCONFITTO I NEMICI DI SUA MAESTÀ SOVRANA CON LA CATTURA DI RICCHI TESORI E BOTTINI ENORMI, OFFRE POSTI PER UOMINI VALIDI E FEDELI SUL NUOVO BASTIMENTO SERAPH, UN EAST INDIAMAN CON TRENTASEI CANNONI, DI GRANDE POTENZA E VELOCITÀ, ARMATO ED EQUIPAGGIATO CON OGNI CURA PER L'AGIO DI UFFICIALI E MARINAI. GLI UOMINI CHE HANNO AVUTO LA FORTUNA DI NAVIGARE AGLI ORDINI DEL COMANDANTE COURTENEY NEI SUOI VIAGGI PRECEDENTI HANNO DIVISO CON LUI IL BOTTINO, OLTRE A RICEVERE 200 STERLINE A TESTA. NAVIGANDO CON LETTERE DI MARCA EMESSE DA SUA MAESTÀ GUGLIELMO III (CHE DIO LO BENEDICA!), IL COMANDANTE COURTENEY SNIDERÀ I NEMICI DI SUA MAESTÀ NELL'OCEANO DELLE INDIE, CON LORO DISDORO E ROVINA E CONFISCA DI UN RICCO BOTTINO, LA METÀ DEL QUALE SARÀ DIVISA TRA GLI UFFICIALI E L'EQUIPAGGIO! TUTTI I MARINAI VALIDI IN CERCA DI LAVORO E DI FORTUNA SARANNO I BENVENUTI SE VORRANNO BERE UN BOCCALE DI BIRRA IN COMPAGNIA DI BIG DANIEL FISHER, IL CAPOCARICO DELLA SERAPH, AL PLOUGH DI TAILORS LANE. Aboli lo lesse a voce alta a beneficio di Big Daniel, il quale sosteneva Wilbur Smith
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sempre di avere gli occhi troppo deboli per leggere, anche se era capace di avvistare un gabbiano all'orizzonte e d'intagliare i particolari più minuti sui modellini delle navi senza la minima difficoltà. Quando Aboli ebbe finito, Big Daniel sorrise. «È un'occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, e questo celeberrimo comandante è l'uomo che fa per me. Dannazione, penso proprio che metterò una croce sul suo contratto.» Quando Walsh tornò dalla tipografia, barcollando sotto il peso di un pacco di manifesti, Hal spedì Dorian e i gemelli ad aiutare Aboli e Big Daniel, col compito di affiggerli a tutti gli angoli delle strade e alle porte di ogni taverna e bordello che incontravano lungo il fiume e le banchine del porto. Aboli fermò la carrozza sulla rampa del cantiere navale, e Hal scese a terra con un balzo, dirigendosi a lunghe falcate verso il molo di Deptford dove lo aspettavano Big Daniel e Alf Wilson. Il fiume era affollato di navigli di tutte le classi, dai battelli da carico ai vascelli di linea di primo rango. Alcuni erano semplici chiglie nude, mentre altri erano in pieno assetto di navigazione, con le sartie incappellate alle crocette e le vele spiegate, e scendevano il fiume diretti a Gravesend per attraversare la Manica oppure bordeggiavano lentamente contro il vento e la corrente, puntando verso Blackwall. Nonostante quella foresta d'imbarcazioni, era impossibile ignorare o trascurare la Seraph. Saltò subito agli occhi di Hal, ancorata fuori della corrente principale e circondata da bettoline, con i ponti che brulicavano di carpentieri e mastri velai. Sotto gli occhi di Hal, una botte enorme piena d'acqua fu issata fuori di una delle bettoline e calata nel boccaporto di poppa. «Che splendore!» sussurrò lui, facendo scorrere gli occhi sulle sue linee quasi con lo stesso piacere lascivo che avrebbe provato di fronte a una donna nuda. Sebbene non fossero ancora montati i pennoni, gli alberi avevano una linea elegante, leggermente inclinata in avanti, e Hal riusciva già a immaginare l'immensa nube di vele che la nave avrebbe potuto portare. La carena era un felice compromesso: aveva una larghezza al baglio maestro e una profondità tali da accogliere comodamente un carico pesante, oltre alla sua dotazione di cannoni, come si addiceva al ruolo di Wilbur Smith
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nave commerciale armata. Nel contempo, però, aveva una linea filante di prua e uno stellato di poppa tali da promettere velocità e maneggevolezza in ogni condizione di vento. «Punterà in alto quanto vorrete, comandante, e sarà capace di navigare anche con un peto di fata», commentò alle sue spalle Big Daniel, in tono burbero. Il fatto che parlasse senza essere stato interpellato era segno che ne era rimasto stregato. La Seraph era curata alla perfezione in ogni dettaglio, come si conveniva all'orgoglio e al prestigio della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. Nonostante le bettoline che le si affollavano intorno, nascondendola in parte alla vista, s'intravedeva la pitturazione, che scintillava al pallido sole autunnale. Era tutta in oro e blu, con le balconate di poppa ornate da intricate sculture in legno che rappresentavano schiere di cherubini e serafini, oltre alla polena con l'angelo alato dal viso infantile, da cui prendeva il nome. I portelli dei cannoni erano messi in risalto da un motivo a scacchi, in oro, che ne sottolineava la potenza. «Chiama un battello da carico!» ordinò Hal e, non appena ne arrivò uno, ormeggiando ai piedi della scivolosa scaletta di pietra, lui scese i gradini con agilità, saltando a bordo. «Portaci alla Seraph», disse Big Daniel al vecchio che sedeva al timone, imprimendo una spinta alla barca. L'imbarcazione puzzava di fogna e il ponte era chiazzato di liquame probabilmente uno dei suoi compiti era svuotare i vasi da notte nei camerini degli ufficiali sulle navi all'ancora nel fiume -, ma di giorno trasportava verdure e passeggeri a beneficio della flotta. «Voi dovete essere il comandante Courteney, il nuovo comandante della Seraph», disse il barcaiolo con voce tremula. «Ho visto il manifesto alla locanda.» «È proprio lui», rispose Big Daniel, perché Hal era troppo intento a studiare il suo nuovo amore per udire la domanda. «Ho due bei ragazzi forti che vorrebbero imbarcarsi con voi», aggiunse il vecchio. «Mandali da me», borbottò Big Daniel. Nei tre giorni trascorsi da quando avevano affisso i manifesti, aveva reclutato quasi tutto l'equipaggio. Non ci sarebbe stato bisogno di fare una visitina al carcere e dare una mancia al secondino per farsi consegnare i prigionieri più adatti, in catene, a bordo della Seraph. Al contrario, Big Daniel aveva potuto permettersi di scegliere tra la folla di marinai senza lavoro che aveva Wilbur Smith
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assediato la locanda. Un imbarco su una nave della Compagnia era molto richiesto: le condizioni di vita e la paga erano infinitamente superiori a quelle della flotta del re. Tutti gli sfaccendati che bighellonavano nei porti e i marinai che sbarcavano da una nave diretta a casa sapevano benissimo che, se fosse stata dichiarata la guerra contro la Francia, le bande di reclutatoti avrebbero fatto scorrerie in tutti i porti inglesi, caricando a bordo delle navi da guerra gli uomini catturati. Anche l'ultimo degli idioti sapeva che era molto più saggio accaparrarsi un ingaggio subito e salpare alla volta di oceani remoti prima che quelle temibili bande cominciassero il loro lavoro. Dal cassero della Seraph il capomastro del cantiere, riconoscendo un uomo di vaglia nella figura alta a poppa del battello, aveva intuito di chi poteva trattarsi e, quando Hal salì la scaletta, lo aspettava già alla battagliola per dargli il benvenuto. «Ephraim Greene per servirvi, comandante.» «Mostratemi la nave, mastro Greene, se non vi dispiace.» Con gli occhi che saettavano dalla cima degli alberi agli angoli più riposti del ponte, Hal s'incamminò verso poppa, seguito da Greene che, trotterellando, si sforzava di restare al passo con lui. Visitarono la nave dalle sentine all'alberetto, mentre Hal lanciava concise istruzioni a Big Daniel ogni volta che trovava anche un unico dettaglio che non fosse di suo completo gradimento. Big Daniel grugniva rivolto a Wilson, che scarabocchiava un appunto sul brogliaccio rilegato in cuoio che teneva sotto il braccio. Big Daniel e Wilson cominciavano già a formare una squadra ben affiatata. Riaccompagnando Hal alla locanda, Aboli lasciò Big Daniel e Wilson impegnati a cercarsi un alloggio in mezzo alla baraonda di legname e segatura, involti e sacchi di tela da vele nuova e grossi rotoli di cime che ingombravano i ponti della Serapb. Non avrebbero avuto il tempo di scendere di nuovo a terra prima che la nave fosse pronta a salpare. «Tornerò domattina presto», promise Hal a Big Daniel. «Voglio una lista delle provviste che sono già a bordo - puoi fartela consegnare da mastro Greene - e un'altra di quelle che mancano ancora.» «Sì, comandante.» «Poi, nel tempo libero, puoi cominciare a incoraggiare mastro Greene e i suoi ragazzi a spiegare un altro po' di tela, per prepararci a prendere il mare prima dell'inverno.» Nel pomeriggio si era levato da nord-est un venticello maligno che sapeva di ghiaccio e induceva gli uomini a Wilbur Smith
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stringersi addosso il mantello, mentre stavano su un ponte scoperto. «È in una sera come questa che i caldi venti del sud sembrano bisbigliare il mio nome», disse Hal sorridendo, mentre si congedava da loro. Big Daniel ricambiò il sorriso. «Mi pare quasi di sentire la polvere ardente dell'Africa trasportata dal monsone.» Era già buio da tempo quando la carrozza entrò fragorosamente nel cortile lastricato del Plough, ma tutt'e tre i figli di Hal si precipitarono fuori della saletta calda e illuminata vicino all'ingresso per dare il benvenuto al padre, prima ancora che smontasse, e trascinarlo su per le scale fino al suo alloggio privato. Hal, intirizzito dal cambiamento di clima, gridò all'oste di portargli un boccale di vino caldo speziato, poi si tolse il mantello, lasciandosi cadere su una sedia dallo schienale alto e guardò in faccia i ragazzi che gli stavano allineati davanti con aria solenne. «A che devo l'onore di questa visita collettiva, signori miei?» chiese in tono serio per adattarsi all'espressione di quei giovani volti. Due teste si girarono di scatto verso Tom, che era stato designato come portavoce. «Abbiamo tentato di firmare il contratto d'ingaggio con Big Daniel», esordì Tom, «ma lui ci ha rinviati da voi.» «Qual è la vostra qualifica, e che esperienza avete?» disse Hal per stuzzicarli. «Non abbiamo altro che un buon cuore e tanta voglia d'imparare», ammise Tom. «Questo basta per te e per Guy. Vi nomino mozzi, e riceverete una ghinea di paga mensile.» I due ragazzi s'illuminarono come se sul loro viso fosse sorto il sole, ma Hal si affrettò ad aggiungere: «Dorian però è ancora troppo giovane. Lui dovrà restare a High Weald». Seguì un silenzio sbigottito. I gemelli si voltarono verso Dorian con un'espressione angosciata. Il piccolo si sforzò di trattenere le lacrime, riuscendovi solo in parte. «E chi baderà a me, quando Tom e Guy saranno lontani?» «Tuo fratello William sarà padrone di High Weald finché sarò in mare, e il signor Walsh rimarrà con te per badare ai tuoi studi.» «William mi odia», mormorò Dorian, con un tremito nella voce. «Sei troppo duro con lui. È severo, ma ti vuole bene.» Wilbur Smith
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«Ha tentato di uccidermi», gli rammentò il piccolo, «e ci riproverà, se non ci sarete voi. Il signor Walsh non potrà impedirglielo.» Hal stava per ribattere, ma poi gli tornò alla mente l'immagine del viso di William mentre stringeva il piccolo alla gola. Per la prima volta dovette affrontare la sgradevole realtà: forse l'affermazione di Dorian non era troppo lontana dal vero. «Dovrò restare per badare a Dorian.» Tom ruppe il silenzio, col viso pallido e teso. Hal comprese quanto doveva costargli quell'offerta: tutta l'esistenza di Tom ruotava intorno al desiderio di prendere il mare, eppure era disposto a rinunciarvi. Si sentì intenerire il cuore da tanta devozione. «Se non vuoi restare a High Weald, Dorian, puoi andare dallo zio John, a Canterbury. È il fratello di tua madre e ti vuole bene almeno quanto te ne voglio io.» «Se davvero mi amate, padre, non lasciatemi qui. Preferirei farmi uccidere da mio fratello William.» Dorian parlava con una sicurezza inconsueta per la sua verde età, e Hal ne fu sorpreso: non era preparato a un rifiuto così netto. «Ha ragione Tom», intervenne Guy con vigore. «Non possiamo lasciare solo Dorian. Nessuno di noi può farlo. Tom e io dovremo restare con lui.» La presa di posizione di Guy colpì Hal oltre ogni dire. Non era certo usuale che Guy si pronunciasse con fermezza su un argomento qualsiasi, però, quando lo faceva, nessuna minaccia riusciva più a smuoverlo. Hal li guardò con la fronte corrugata, cercando di riflettere. Poteva mettere un bambino dell'età di Dorian in una situazione che quasi certamente comportava un pericolo terribile? Poi fissò i gemelli. Rammentava che, dopo la morte di sua madre, il padre lo aveva portato in mare con sé, e lui aveva allora... quanti anni? Forse un paio in più di Dorian. Per una volta, sentì la sua determinazione incrinarsi. Poi soppesò i pericoli che avrebbero certamente incontrato. Immaginò il corpicino perfetto di Dorian straziato da una pioggia di schegge di legno mentre una palla di cannone sfondava una paratia. Pensò a un naufragio, al bambino scaraventato in acqua, annegato, gettato dalle onde su qualche deserta e selvaggia spiaggia africana e successivamente divorato dalle iene o da qualche altra bestia terribile. Guardando il figlio, la sua testa d'oro rosso innocente e delicata come quella del serafino scolpito a prua della sua nuova nave, Hal sentì le parole di rifiuto salirgli alle labbra. Ma proprio in quel momento Tom posò una mano sulla spalla del fratello Wilbur Smith
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minore, come per proteggerlo: un gesto pieno di calma dignità, amore e senso del dovere. Il rifiuto parve inaridirsi nella gola di Hal e spegnersi. Prese fiato. «Ci penserò», disse in tono burbero. «Adesso però filate, tutt'e tre. Mi avete dato già abbastanza grattacapi, per oggi.» Si allontanarono, camminando all'indietro, e arrivati alla porta dissero in coro: «Buonanotte, padre». Quando si ritirarono nella loro stanza, Tom prese per le spalle Dorian. «Non piangere, Dorry», gli sussurrò. «Lo sai: quando dice 'ci penserò' vuol dire 'sì'. Però non devi piangere più. Se vuoi venire per mare con Guy e con me, dovrai comportarti da uomo, capito?» Dorian deglutì, annuendo con vigore, ma non disse nulla. Temeva che la sua voce non sarebbe stata abbastanza ferma. C'era una lunga fila di carrozze sul Mall, davanti all'ingresso di St. James's Palace. L'edificio, realizzato da Enrico VIII e ancora utilizzato dai sovrani regnanti, sembrava un castello costruito per un esercito di soldatini di piombo, con tanto di merli e torri. Quando finalmente la carrozza si fermò, due valletti si fecero avanti per aprire lo sportello. Il segretario che Lord Hyde aveva mandato a prenderlo guidò Hal oltre il cancello del palazzo e attraverso il cortile. Ai piedi della scala che portava alla Galleria lunga c'erano uomini armati di picca, con l'elmetto d'acciaio e l'armatura leggera, ma, quando il segretario mostrò le sue credenziali, lasciarono passare Hal, e un valletto annunciò con voce stentorea: «Il comandante Henry Courteney!» Le guardie eseguirono un elaborato saluto con la picca, poi Hal salì la scala dietro l'ambasciatore di Spagna e il suo seguito. Arrivato in cima, scoprì che la galleria era affollata per tutta la sua lunghezza da una splendida parata di gentiluomini con una tale collezione di uniformi, medaglie, stelle, cappelli piumati e parrucche da farlo sentire uno zotico di campagna. Si guardò attorno, cercando con gli occhi il segretario che doveva guidarlo, ma quell'idiota si era perso nella folla, e lui rimase incerto sul da farsi. Eppure non aveva motivo di sentirsi fuori posto, perché indossava l'abito nuovo di velluto color borgogna che si era fatto confezionare per l'occasione, e le fibbie delle scarpe erano d'argento massiccio. Al collo portava le insegne di cavaliere Nautonnier dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal, che erano appartenute al padre e prima di lui al nonno. Erano Wilbur Smith
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splendide: da un massiccio collare d'oro pendeva il leone d'Inghilterra in oro, con gli occhi di rubini, che teneva tra le zampe il globo del mondo, sormontato da un cielo nel quale erano incastonate stelle di diamanti. Poteva rivaleggiare in splendore con una qualsiasi della miriade di decorazioni e medaglie che sfavillavano nella galleria. Al fianco portava la spada Nettuno, col fodero intarsiato in oro e lo zaffiro grande come un uovo di pollastrella che splendeva sul pomo. In quel momento sentì una stretta paterna serrargli il gomito e la voce di Hyde gli mormorò all'orecchio: «Sono lieto che siate potuto venire. Non dobbiamo perdere troppo tempo qui. È solo un'adunata di pavoni che esibiscono la coda, ma ce n'è qualcuno che potrebbe valere la pena di conoscere. Lasciate che vi presenti l'ammiraglio Shovel. È lui il responsabile dei nuovi cantieri navali che il re sta costruendo a Devonport, e qui c'è Lord Ailesham, un uomo che è bene conoscere... quello che vuole, riesce a ottenerlo». Oswald Hyde guidò con destrezza Hal in mezzo alla folla, e tutti i capannelli si aprirono al suo passaggio. Sentendo la presentazione di Hyde, studiavano Hal con occhi acuti, ritenendolo un personaggio importante per il solo fatto che era il protetto del cancelliere. Hal si rese conto che Hyde si stava avvicinando poco alla volta alla porta rivestita di pannelli in fondo alla galleria e, una volta lì, scelse una posizione che avrebbe consentito loro di essere i primi a incontrare chiunque dovesse uscirne. Hyde disse all'orecchio di Hal: «Sua maestà ha firmato la sua lettera di marca nella seduta di gabinetto di ieri». Fece scivolare dalla manica il rotolo di pergamena, legato con un nastro rosso e chiuso dall'impronta sulla ceralacca del gran sigillo d'Inghilterra: HONNI SOIT QUI MAL Y PENSE. «Custoditelo con cura», raccomandò, passandogli il documento. «Non temete», gli assicurò Hal. Quella striscia di pergamena poteva valere un'immensa fortuna e un titolo di pari. In quel momento la galleria fu percorsa da un fremito e da un brusio, mentre i battenti della porta si spalancavano. Comparve Guglielmo III, re d'Inghilterra e stadholder dei Paesi Bassi, con i piedi piccoli ed eleganti calzati da un paio di scarpette tempestate di perle scaramazze e filigrana d'oro. Tutti i presenti nella galleria s'inchinarono all'unisono. Naturalmente Hal era al corrente della sua deformità, ma vederlo in carne e ossa fu uno shock. Il re d'Inghilterra era poco più alto di Dorian e aveva la gobba, cosicché il mantello rosso e blu dell'ordine della Wilbur Smith
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Giarrettiera formava un rilievo dietro la testa piccola, da uccello, e la pesante catena d'oro dell'ordine sembrava quasi trascinarlo in basso. Al suo fianco la moglie, la regina Maria, troneggiava su di lui, pur essendo soltanto una ragazza snella sulla ventina. Il re vide subito Hyde e lo invitò con un cenno ad avvicinarsi. Hyde sprofondò in un inchino davanti al sovrano, spazzando il pavimento col cappello. Restando indietro di due passi, Hal seguì il suo esempio. Il re lo guardò, al di sopra delle spalle di Hyde. «Potete presentarmi il vostro amico», disse con un forte accento olandese. Aveva una voce profonda e vigorosa, in contrasto con la figura così infantile. «Vostra maestà, vi presento Sir Henry Courteney.» «Ah, sì, il marinaio», disse il re, porgendo la mano a Hal perché la baciasse. Guglielmo aveva il naso lungo e diritto, e gli occhi distanziati erano vivaci e intelligenti. Hal rimase stupito di essere stato riconosciuto con tanta rapidità, ma replicò, in un olandese fluente: «Posso assicurare a vostra maestà tutta la mia leale devozione». Il re gli lanciò un'occhiata penetrante, rispondendo nella stessa lingua: «Dove avete imparato l'olandese?» «Ho trascorso alcuni anni al capo di Buona Speranza, sire», rispose Hal, chiedendosi se il re sapesse che era stato prigioniero nella fortezza olandese. Gli occhi scuri di Guglielmo scintillarono divertiti, e Hal comprese che ne era al corrente; doveva averlo informato Hyde. Era strano che il re d'Inghilterra fosse stato un tempo acerrimo nemico del Paese sul quale adesso regnava, e sui campi di battaglia avesse sconfitto molti dei generali inglesi che in quel momento erano schierati nella galleria, pronti a porgergli omaggio e ad assicurargli la loro lealtà. «Mi aspetto di ricevere presto buone nuove da voi», disse l'ometto, e la regina rivolse un cenno a Hal, che ripeté l'inchino mentre il re e il suo seguito avanzavano nella galleria. La presentazione era finita. «Seguitemi», disse Hyde, guidandolo senza dare nell'occhio verso una porta laterale. «È stata una buona idea. Il re ha un'ottima memoria, e si ricorderà di voi, quando verrà il momento di reclamare la ricompensa di cui abbiamo parlato.» Hyde tese la mano. «Queste scale vi riporteranno giù in cortile. Addio, Sir Hal. Non ci rivedremo prima della vostra partenza, ma mi aspetto di avere buone notizie delle vostre imprese in Oriente.» Wilbur Smith
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Le due navi discesero il fiume di conserva. In testa procedeva la Seraph, seguita dalla Yeoman of York a due tese di distanza. A bordo della Seraph c'erano ancora gli operai del cantiere navale; non erano riusciti a completare la messa in opera per la data garantita, ma Hal aveva salpato lo stesso. «Sbarcherò gli uomini quando saremo a Plymouth», aveva dichiarato a mastro Greene, l'ingegnere costruttore, «se avranno finito il lavoro quando saremo arrivati. In caso contrario, li calerò in mare nel golfo di Biscaglia, e di lì torneranno a casa a nuoto.» La manovra della nave era ancora goffa, visto che l'equipaggio doveva ambientarsi. Hal lanciò un'occhiata a poppa, notando il netto contrasto col lavoro degli uomini della Yeoman of York, che manovravano le vele con rapidità e scioltezza. Edward Anderson, il comandante dell'altra nave, doveva tenerli d'occhio anche lui, e Hal arrossì, mortificato dell'inettitudine dei suoi uomini. Le cose sarebbero cambiate prima dell'arrivo al capo di Buona Speranza, si augurava. Quando raggiunsero le acque aperte della Manica, il vento cambiò, rinforzando fino a diventare una bufera autunnale. Il sole scomparve dietro le nubi e il mare divenne agitato, di un verde cupo e minaccioso. La notte scese prima del tempo, cosicché le due navi persero i contatti prima di aver superato Dover. Per alcuni giorni, la Seraph continuò a navigare pigramente da sola; infine, quando doppiò l'isola di Wight, Hal avvistò la Yeoman, a un miglio appena di distanza, sulla sua stessa rotta. «Bene!» esclamò, chiudendo il cannocchiale. Fino a quel momento si era riservato il giudizio su Anderson: il comandante della Yeoman era un uomo corpulento col viso rubizzo, originario dello Yorkshire, di carattere tetro e taciturno, che sembrava risentito per essere stato messo agli ordini di Hal. Comunque in quei primi giorni aveva dimostrato di essere, se non altro, un marinaio degno di fiducia. Hal tornò a dedicare la sua attenzione alla Seraph. Gli uomini dell'equipaggio cominciavano già a migliorare nelle manovre; sembravano allegri e pieni di buona volontà, e del resto avevano motivo di esserlo. Hal aveva offerto una buona paga per assicurarsi i migliori, mettendoci di tasca sua la differenza rispetto alle offerte della Compagnia. In quel momento i tre ragazzi risalirono insieme la scaletta di boccaporto, dopo che il signor Walsh li aveva lasciati liberi dagli impegni Wilbur Smith
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dello studio. Erano eccitati e baldanzosi, senza la minima traccia di mal di mare, sebbene avessero navigato per metà del tempo in mezzo a una burrasca. Aboli era riuscito a equipaggiarli con indumenti adatti alla navigazione: li aveva acquistati a Londra, dove c'erano parecchi venditori ambulanti lungo le banchine del porto. I tre erano vestiti meglio di quanto non fosse stato lui, la prima volta che aveva viaggiato insieme col padre, rifletté. Il vecchio Courteney non amava viziarlo: Hal ricordava ancora le camicie di tela ruvida e il giaccone incatramato da marinaio, irrigidito dalla salsedine, che gli aveva irritato la pelle sotto le braccia e tra le cosce. Sorrise con malinconia al ricordo di come aveva dormito con Aboli su un pagliericcio umido in coperta, insieme con gli altri marinai; di come aveva mangiato accovacciato al riparo di uno dei cannoni, usando le dita e il pugnale per raccogliere lo stufato dalla gavetta di metallo e spezzare la galletta, di come avesse usato, per i suoi bisogni, il bugliolo di cuoio nelle latrine, senza mai lavarsi dall'inizio alla fine di un viaggio. Non mi ha fatto male di certo, pensò Hal, ma neanche bene. Non c'è bisogno di trattare un ragazzo come se vivesse in un porcile per farne un marinaio migliore. D'altronde le circostanze dei suoi primi viaggi col padre erano state ben diverse. La vecchia Lady Edwina non era grande neanche la metà della Seraph, e persino l'alloggio di suo padre sembrava un canile in confronto allo spazioso alloggio di poppa che lui aveva a disposizione. Hal aveva ordinato al carpentiere di ritagliare dal suo alloggio una piccola sezione, poco più grande di un armadio, per sistemarvi tre cuccette poco profonde da destinare ai ragazzi. Nonostante le proteste del signor Walsh, che asseriva di non essere un marinaio, il precettore era stato ingaggiato come segretario del comandante. Così avrebbe continuato a impartire lezioni ai ragazzi, utilizzando come aula il suo minuscolo camerino. Hal guardò con approvazione Big Daniel che afferrava al volo i ragazzi chiassosi appena giunti sul ponte, inviandoli con severità a svolgere i compiti che aveva escogitato per loro. Aveva separato i gemelli, assegnando Tom al turno di guardia a dritta e Guy all'altro, perché esercitavano una pessima influenza l'uno sull'altro. La vicinanza di Guy incoraggiava Tom a fare lo spaccone, mentre Tom distraeva il fratello con le sue buffonate. Dorian, poi, fu spedito in cambusa per aiutare il cuoco a portare la colazione sul ponte. Pur avvertendo una fitta di apprensione al pensiero che Big Daniel Wilbur Smith
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potesse spedire i gemelli sugli alberi per aiutare nella manovra delle vele, Hal non avrebbe dovuto preoccuparsi: sarebbe venuto il momento in cui avrebbero acquistato il cosiddetto «piede marino», imparando a tenersi agilmente in equilibrio sul ponte che rollava e beccheggiava. Per il momento, Big Daniel li teneva in coperta, perché aiutassero a sistemare le vele. Hal sapeva di poter lasciare i figli affidati agli occhi vigili del gigante, per dedicare le sue attenzioni ai problemi dell'equipaggio. Camminava avanti e indietro sul cassero, ormai in sintonia con lo scafo che sentiva sotto di sé, con le reazioni della nave a ogni minima variazione e correzione nell'assetto della velatura. «È bassa di prua», giudicò, vedendola imbarcare un'onda verde, mentre l'acqua scorreva all'indietro sul ponte, riversandosi fuori degli ombrinali. Negli ultimi giorni aveva stabilito in quale modo ridisporre il carico nella stiva, specialmente le pesanti botti piene d'acqua, per ottenere l'assetto che desiderava. «Posso spremerle ancora due nodi di velocità», calcolò tra sé. Era vero che Childs lo aveva incaricato di compiere una spedizione militare, eppure l'intento principale della Compagnia Inglese delle Indie Orientali era sempre il profitto, e la stiva della Seraph era stipata di una gran varietà di merci da consegnare agli stabilimenti della Compagnia a Bombay. Mentre una parte della sua mente era assorbita dai problemi del carico e dell'assetto di navigazione, l'altra si dedicava all'equipaggio. Era ancora a corto di ufficiali di guardia. Ecco perché voleva fare scalo a Plymouth, invece di puntare direttamente al largo, doppiando Ushant, sulla costa francese, attraversare il golfo di Biscaglia e fare rotta per il sud, seguendo la curva del continente africano per raggiungere infine il capo di Buona Speranza. Plymouth era la loro base navale, e laggiù Big Daniel e Abolì conoscevano quasi tutti, uomini, donne e bambini, in città e nelle campagne circostanti. «Posso completare il ruolino dell'equipaggio con gli uomini migliori d'Inghilterra entro un giorno dall'arrivo al molo di Plymouth», si era vantato Big Daniel con Hal, e lui sapeva che era vero. «Lo zio Ned mi ha fatto sapere che ci aspetterà lì», aveva aggiunto Wilson, con grande gioia di Hal, che era fermamente deciso ad avere Ned Tyler a bordo della Seraph. A parte la necessità di trovare altri uomini di equipaggio, c'erano altri motivi per quella deviazione: a Londra era quasi impossibile procurarsi polvere da sparo e proietti. La guerra in Irlanda aveva provocato una Wilbur Smith
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penuria di munizioni e, con una guerra in Francia alle porte, l'Ammiragliato si accaparrava fino all'ultimo barile di polvere e fino all'ultimo proietto. Era stato addirittura decretato l'embargo sulle fabbriche, per fare incetta di tutta la loro produzione. Uno dei magazzini che Hal possedeva sulle banchine del porto di Plymouth era pieno di barilotti di polvere e proietti. Li aveva immagazzinati in vista dell'ultimo viaggio con la Golden Bough, al quale era stato costretto a rinunciare quando la madre di Dorian era morta, lasciandogli un bambino piccolo cui provvedere. Sebbene avesse qualche anno, la nuova polvere da sparo immagazzinata da Hal non poteva essersi deteriorata come quella di vecchio tipo, e quindi doveva essere ancora in buone condizioni. Ma c'era un ulteriore motivo per quella sosta a Plymouth: Childs infatti lo aveva incaricato di trasportare alcuni passeggeri fino alla sede della Compagnia a Bombay Island. Lo avrebbero aspettato in porto. Childs non gli aveva detto quanti dovevano essere, e Hal sperava che fossero pochi. Anche su una nave delle dimensioni della Seraph, trovare una sistemazione a bordo era un'impresa; per lasciare spazio ai passeggeri avrebbe dovuto far sloggiare qualcuno degli ufficiali dal suo camerino. Hal era tanto preso da quei problemi che gli parve di raggiungere l'isola di Wight in un batter d'occhio. Se la trovò davanti al traverso, e poco dopo doppiò la punta di Gara per imboccare il Sound, superando Drake's Island: allora il porto di Plymouth si aprì davanti a loro per accoglierli. A riva, qualche dozzina di oziosi avevano visto le due splendide navi imboccare il Sound e si erano schierati lungo il fronte del porto per assistere all'ormeggio. Big Daniel si fermò accanto a Hal, mormorando: «Vedete quella capigliatura d'argento che splende come un faro?» Puntò il mento verso il molo. «Non ci si può sbagliare, vero?» «Buon Dio, quello è mastro Ned!» esclamò Hal con una risata. «E con lui c'è Will Carver. Ned deve avergli tirato la lenza. Bravo ragazzo, il nostro Will. Con lui al terzo turno e Ned come secondo, mi pare che tutti gli ufficiali di guardia siano a posto, comandante.» Non appena gettarono gli ormeggi, Ned Tyler salì a bordo, e Hal dovette trattenersi per non abbracciarlo. «È bello rivedervi, mastro Tyler.» «Sì», convenne Ned, «e quella che avete sotto i piedi è una gran bella nave, ma è bassa di prua e la velatura sembra un mucchio di panni sporchi Wilbur Smith
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nel giorno di bucato.» «Allora dovrete metterci riparo, non vi pare, Ned?» Tyler assentì con aria lugubre. «È quello che farò, comandante.» Nonostante le condizioni delle strade, Aboli era arrivato in tempo da Londra con la carrozza, ed era in attesa sul molo, seduto a cassetta con i cavalli ancora attaccati. Hal ordinò a Big Daniel di cominciare a caricare la polvere da sparo dal deposito e di far scaricare le botti d'acqua dalla Seraph, disponendole sulla banchina in modo da poterle risistemare con maggiore attenzione per l'assetto dello scafo. Quindi convocò i ragazzi per raggiungere Aboli, in attesa con i cavalli. Guy seguì il padre docilmente; anzi con un certo sollievo. Tom e Dorian, dal canto loro, scesero la passerella soltanto dopo aver messo in atto elaborate tattiche dilatorie, che prevedevano prolungati addii a tutti i membri dell'equipaggio coi quali avevano fatto amicizia. Si erano adattati alla vita di bordo come se fossero nati per navigare. Ed era proprio così, pensò Hal, sorridendo. «Avanti, voi due. Potrete tornare domani per aiutare Big Daniel a risistemare il carico», ordinò; poi, non appena furono saliti a cassetta, a fianco di Aboli, aggiunse: «Portaci a High Weald, Aboli». Qualche tempo dopo, mentre la carrozza superava il cancello nel muro di pietra che segnava i confini della proprietà, Tom scorse un cavaliere che stava attraversando la brughiera al piccolo galoppo, col palese intento di raggiungere la vettura ai piedi della collina. Non ci si poteva sbagliare: la figura alta, vestita interamente di nero e in sella allo stallone nero, era quella di Black Billy. Di certo stava tornando dal pozzo della miniera di stagno di East Rushwold. Dorian lo vide nello stesso istante e si avvicinò un poco a Tom come per ottenere protezione, ma nessuno dei due parlò. William lanciò lo stallone oltre la siepe. Cavallo e cavaliere diedero l'impressione di volare, col mantello nero che si gonfiava dietro di loro svolazzando, e atterrarono senza fatica, prima d'imboccare la strada in salita per andare incontro alla carrozza. Facendo roteare su se stesso il cavallo per costringerlo ad affiancarsi alla carrozza, William esclamò: «Bentornato, padre!» Poi, continuando a ignorare Aboli e i due fratelli minori a cassetta, aggiunse: «Benvenuto a High Weald. Abbiamo sentito molto la vostra mancanza». Hal si protese dal finestrino, sorridendo, e i due presero subito a conversare animatamente. William riferì tutto quello che era accaduto durante la sua assenza, dilungandosi soprattutto sulla gestione delle miniere e sulla mietitura del grano. Wilbur Smith
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Stavano risalendo l'ultimo pendio prima della casa padronale, quando William interruppe il suo resoconto e disse, con un'esclamazione seccata: «Ah, dimenticavo di accennare al fatto che i vostri ospiti sono già arrivati da Brighton. Sono qui ad aspettarvi da due giorni». Hal sembrava interdetto. «I miei ospiti?» William puntò il frustino verso le figure che si scorgevano in lontananza, sul prato. Un gentiluomo alto e robusto teneva sottobraccio due dame, mentre due bambine, vestite con grembiuli a colori vivaci, si rincorrevano sull'erba in direzione della carrozza, lanciando squittii eccitati come sbuffi di vapore che uscissero da una pentola in ebollizione. «Bambine!» esclamò Dorian, disgustato. «Ma c'è anche una ragazza.» Con i suoi occhi acuti, Tom aveva individuato la più snella delle due donne al braccio del gentiluomo corpulento. «E molto graziosa, per giunta.» «Fa' attenzione, Klebe», mormorò Aboli. «L'ultima che Hal visto ti ha cacciato nei guai.» Ma il ragazzo era come un cane da caccia che punta una preda. «Chi diavolo sono?» chiese Hal a William, in tono irritato. Era tutto preso dall'impegno di equipaggiare una nave per un lungo viaggio e non gli sembrava davvero il momento d'intrattenere ospiti non invitati a High Weald. «Un certo signor Beatty con la famiglia», rispose William. «Mi è stato detto che li aspettavate, padre. Non è così? In tal caso possiamo mandarli per la loro strada.» «Oh, povero me!» esclamò Hal. «Me n'ero quasi dimenticato. Devono essere i passeggeri da imbarcare sulla Seraph fino a Bombay. Credo che Beatty sia il nuovo revisore dei conti destinato allo stabilimento della Compagnia. Ma Childs non ha mai accennato al fatto che si portava dietro un'intera tribù. Quattro donne! E dove diavolo li sistemerò tutti quanti?» Mascherando l'irritazione, Hal scese dalla carrozza per salutare la famiglia. «Servo vostro, signor Beatty. Lord Childs mi aveva preannunciato il vostro arrivo. Avete fatto buon viaggio fin qui nel Devon, spero...» La verità era che si aspettava che la famiglia trovasse alloggio in porto, anziché presentarsi a High Weald, ma fece buon viso a cattivo gioco e si girò per salutare la moglie. La signora Beatty era bene in carne come il marito, visto che si sedevano alla stessa tavola da vent'anni. Aveva il viso Wilbur Smith
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rosso e tondo come una palla, ma dalla tesa del cappellino le sfuggivano alcuni riccioli da bambina. Salutò Hal con una piccola riverenza da elefantessa. «Servo vostro, signora», le disse Hal con galanteria. La donna ridacchiò quando lui le baciò la mano e disse: «Posso presentarvi la mia figliola maggiore, Caroline?» Sapeva che, oltre a essere uno degli uomini più ricchi del Devon e un grande proprietario terriero, Sir Henry Courteney era vedovo. Caroline aveva quasi sedici anni ed era molto graziosa. Tra i due, secondo i calcoli della madre, correvano meno di venticinque anni, come tra il signor Beatty e lei. Avrebbero fatto un lungo viaggio insieme e ci sarebbe stato tutto il tempo di far maturare l'amicizia. A volte i sogni si avverano... Rivolto alla ragazza, Hal s'inchinò, senza però accennare a un baciamano. Poi, ignorando la riverenza aggraziata di Caroline, i suoi occhi si spostarono subito sulle bambine, che saltellavano e danzavano intorno ai genitori come due passerotti cinguettanti. «E chi sono queste due belle damigelle?» s'informò con un sorriso paterno. «Io sono Agnes!» «E io Sarah!» Si avviarono per i gradini di accesso alla casa e varcarono la soglia di High Weald. Hal teneva le bambine per mano, una per parte, e tutt'e due chiacchieravano e saltellavano, contendendosi la sua attenzione. «Ha sempre desiderato una figlia», commentò sottovoce Abolì, osservando con affetto il padrone, «e invece si ritrova con questa banda di ragazzacci.» «Sono soltanto bambine», decretò Dorian con alterigia. Tom non disse una parola. Non parlava da quando si era avvicinato a Caroline e ne aveva osservato le fattezze; da quel momento era rimasto come impietrito. Caroline e Guy, camminando affiancati, salirono le scale dietro gli altri. Quando arrivò in cima, tuttavia, Caroline si fermò per guardare indietro, e i suoi occhi incontrarono quelli di Tom. Era la creatura più bella che il ragazzo avesse mai immaginato. Era alta quanto Guy, ma con le spalle strette e la vita sottile come un giunco. I piedi, calzati in scarpette leggere che spuntavano dagli ampi strati di gonne e sottogonne, apparivano minuscoli. Le braccia, nude sotto le maniche corte a sbuffo, rivelavano una pelle chiara e perfetta. I capelli erano acconciati in una torre di riccioli lucenti e di nastri e il viso era delicato, Wilbur Smith
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con le labbra rosee e turgide e grandi occhi viola. Caroline guardò Tom come se questi fosse trasparente. L'espressione della giovane rimase calma e seria; pareva che non lo avesse visto, che per lei non esistesse. Poi si voltò per seguire la famiglia all'interno della casa. Tom, che aveva trattenuto il respiro pur senza rendersene conto, sospirò in modo percettibile. Aboli scosse la testa. Non gli era sfuggito nulla. Questo potrebbe essere un viaggio lungo, pensò. E anche pericoloso. La Seraph rimase ormeggiata alla banchina per sei giorni. Tanto ci volle perché gli operai finissero di armarla, benché Ned Tyler e Big Daniel li spronassero senza pietà. Non appena l'ultimo incastro fu incollato e inchiodato e l'ultimo cuneo inserito al suo posto, Big Daniel li rimandò tutti ai cantieri di Deptford per mezzo della vettura di posta. Il carico, le provviste e l'armamento erano già stati scaricati dalla stiva della Seraph e poi riportati a bordo, con una sistemazione diversa, mentre Hal si teneva a distanza, su una lancia in mezzo al porto, per controllare l'assetto della nave. Edward Anderson, dalla Yeoman, diede prova di buona volontà mettendo a disposizione il suo equipaggio per i lavori più pesanti. Nel frattempo, Ned aveva rimandato tutte le vele alla bottega del mastro velaio. Le aveva controllate fino all'ultimo punto di ogni cucitura, ordinando di rifare quelle che non lo soddisfacevano. Poi le aveva fatte stivare a portata di mano nei gavoni, ciascuna nel suo sacco di tela marcato. Fatto ciò, aveva disposto sul molo le parti di rispetto degli alberi e dei pennoni, ispezionandole per farle quindi riportare a bordo prima del carico principale. Tom, che gli si era messo alle costole, lo tempestava di domande e assimilava la maggior quantità possibile di nozioni sulla navigazione. Hal assaggiò l'acqua di tutte le botti per accertarsi che fosse potabile. Aprì un barile di salamoia su tre e fece controllare dal chirurgo di bordo, il dottor Reynolds, che la carne salata di maiale e di manzo, le gallette e la farina fossero di prima qualità. Sapeva benissimo che, al momento dell'arrivo al capo di Buona Speranza, avrebbero trovato l'acqua verde di limo e le gallette brulicanti di larve che scoppiettavano sotto i denti, ma era deciso a partire con un carico pulito, e gli uomini notarono quello scrupolo, commentandolo tra loro con approvazione. «Non sono molti i Wilbur Smith
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comandanti che si prendono questa briga. Ce ne sono alcuni che sarebbero capaci di comprare la carne di maiale scartata dall'Ammiragliato, pur di risparmiare un paio di ghinee.» Big Daniel e gli artiglieri esaminarono la polvere da sparo per assicurarsi che l'umidità non fosse penetrata nei barilotti, impastandola. Dopodiché pulirono tutti i centocinquanta fucili, dal primo all'ultimo, controllando che la pietra focaia non fosse allentata e sprizzasse una pioggia di scintille quando si azionava il congegno di accensione. I cannoni sul ponte furono spostati per lubrificare i carrelli. «Assassini» e falconetti furono montati sui loro affusti brandeggiabili in cima alle gabbie e alla sommità del cassero, in posizione tale da consentire di dominare i ponti di una nave nemica affiancata, spazzandoli con una tempesta di colpi. Il fabbro e i suoi aiutanti affilarono le sciabole e le asce, riponendole poi nelle rastrelliere, pronte per l'uso. Hal si spremette le meningi per predisporre i turni di guardia e assegnare a ogni uomo il suo posto di combattimento, poi studiò il modo migliore di sistemare i passeggeri inattesi. Alla fine fu costretto a buttar fuori i ragazzi dal camerino appena costruito per loro, assegnandolo invece alle sorelle Beatty, mentre Tom Carter, il terzo ufficiale, dovette cedere il suo, per quanto minuscolo, al signor Beatty e a sua moglie. Quei due corpi massicci avrebbero diviso una cuccetta larga due spanne, e Hal sorrise del quadro che gli si affacciava alla mente. Nell'alloggio di poppa della Seraph, insieme con Edward Anderson, il comandante della Yeoman, Hal trascorse ore intere per mettere a punto un sistema di segnalazioni che permettesse loro di comunicare durante la navigazione. Quarant'anni prima, i tre «generali del mare», Blake, Deane e Monck, avevano rinnovato un sistema di segnali che utilizzava bandierine e vele durante il giorno, lanterne e colpi di cannone durante la notte. Hal si era procurato alcune copie del loro opuscolo, Istruzioni per il migliore ordinamento della flotta in combattimento, decidendo, d'accordo con Anderson, di usare cinque bandierine e quattro lanterne come base per il loro sistema di segnalazione. Il significato delle bandierine dipendeva dalla loro combinazione e dal punto dell'alberatura in cui venivano fissate. Di notte, invece, si disponevano le lanterne in modo da formare uno schema: linee verticali, oppure orizzontali, quadrati o triangoli, sull'albero di maestra e sul pennone di maestra. Una volta concordati i segnali, escogitarono un programma di rendezWilbur Smith
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vous per ovviare alla possibilità che le due navi si perdessero di vista in condizioni di scarsa visibilità o in seguito all'evoluzione del combattimento. Alla fine di quelle lunghe conversazioni, Hal era convinto di conoscere abbastanza bene Anderson e di poter confidare nella sua lealtà. Infine, il settimo giorno dall'arrivo a Plymouth, furono pronti alla partenza. E proprio in quel giorno William organizzò una sontuosa cena in loro onore nel salone di High Weald. Il posto di Caroline alla lunga tavola da pranzo era tra William e Guy. Tom si trovava di fronte a lei, ma il tavolo era così largo da impedire la conversazione. Per lui non faceva molta differenza, perché, una volta tanto, non aveva nulla da dire. Mangiò poco, assaggiando appena l'aragosta e la sogliola, che pure erano i suoi piatti preferiti. Riusciva a stento a staccare gli occhi dal viso, tanto adorabile quanto impassibile, della ragazza. Guy, però, aveva scoperto quasi subito che Caroline amava la musica, stabilendo quindi con lei un legame immediato. Grazie agli insegnamenti del signor Walsh, Guy aveva imparato a suonare il clavicembalo e la cetra, strumento, quest'ultimo, che andava assai di moda. Tom non aveva mostrato la benché minima inclinazione musicale: il suo modo di cantare, secondo il parere di Walsh, serviva unicamente a far imbizzarrire i cavalli. Durante il soggiorno a Londra, Walsh aveva accompagnato Guy e Dorian a un concerto. Tom, colpito da un improvviso e violentissimo mal di stomaco, non li aveva accompagnati e adesso se ne pentiva amaramente, vedendo Caroline ascoltare rapita, almeno in apparenza, la descrizione che Guy le faceva della serata, della musica e della scintillante adunata di personaggi della società londinese. Il fratello sembrava in grado di ricordare persino gli abiti e i gioielli sfoggiati dalle signore, e i profondi occhi viola della ragazza non si staccavano dal suo viso. Tom fece uno sforzo enorme per distoglierla da Guy, imbarcandosi in una descrizione della loro visita a Bedlam, l'ospedale psichiatrico di Moorfield, dove avevano visto i pazzi esposti nelle gabbie di ferro. «Quando ho tirato un sasso a uno di loro, lui ha raccolto i suoi escrementi e me li ha lanciati addosso», rammentò, ridendo di gusto. «Per fortuna mi ha mancato, prendendo in pieno Guy.» Il roseo labbro superiore di Caroline, che sembrava un bocciolo di rosa, Wilbur Smith
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si arricciò leggermente, come se avesse fiutato l'odore del «proiettile», e il suo sguardo penetrante trafisse Tom, che terminò il suo racconto in un balbettio confuso. Poi la giovane tornò a dedicare la sua attenzione a Guy. Dorian sedeva tutto impettito in fondo alla tavola, in mezzo ad Agnes e Sarah. Le due bambine erano nascoste agli occhi dei genitori dal trionfo di fiori disposti nei vasi d'argento e dagli alti candelabri. Per tutta la durata del pasto ridacchiarono, bisbigliando, o si scambiarono battutine sciocche, che a loro sembravano tanto argute da costringerle quasi a ficcarsi il tovagliolo in bocca per frenare l'ilarità. A capotavola, Hal e William, il signor Beatty e Edward Anderson erano immersi in una discussione che aveva come argomento il re. «Dio mi è testimone: di sicuro non ero contento di vedere un olandese salire al trono, eppure quel piccolo gentiluomo vestito di velluto nero si è dimostrato un ottimo guerriero», osservò Beatty. Hal assentì. «È un fiero avversario di Roma e non guarda certo con benevolenza ai francesi. Non fosse che per questo, ha diritto alla mia lealtà. Comunque l'ho trovato anche acuto e sveglio. Penso che sarà un buon re.» Alice Courteney, la sposa di William, era seduta a fianco di Hal, pallida e silenziosa. In contrasto col suo atteggiamento iniziale, affettuoso e servizievole, evitava persino di guardare il marito, seduto dalla parte opposta del tavolo. All'estremità della sua mascella, proprio sotto l'orecchio, si notava un livido, sebbene lei avesse tentato di nasconderlo con la polvere di riso e con un ricciolo di capelli scuri. Inoltre rispondeva a monosillabi al fiume di chiacchiere della signora Beatty. Alla fine della cena, William si alzò, fece tintinnare un cucchiaio d'argento contro il suo bicchiere da vino e disse: «Essendo costretto dal dovere a restare qui mentre il resto della mia diletta famiglia si avventura in terre lontane...» Tom nascose la testa dietro le decorazioni floreali in modo da non farsi scorgere da William e dal padre, mentre fingeva di ficcarsi un dito in gola per dare di stomaco. Dorian lo trovò tanto spassoso da soffocare per il gran ridere e ficcò la testa rossa sotto il tavolo. Caroline scoccò a Tom un'occhiata sdegnosa, poi si spostò sulla sedia in modo da non vederlo. Ignaro della scenetta, William stava dicendo: «... Padre, so che, come tante volte in passato, ritornerete da noi onusto di fama e con la stiva delle navi traboccante di profitti. Vivrò in attesa di quel giorno. Ma, finché sarete Wilbur Smith
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lontano, desidero sappiate che gli affari della famiglia qui in Inghilterra riceveranno tutte le mie cure e la mia attenzione». Hal si appoggiò allo schienale della sedia, con gli occhi socchiusi, assentendo e sorridendo in segno d'incoraggiamento mentre ascoltava le lodi e i cordiali auguri del figlio maggiore. Tuttavia, quando William incluse nel discorso il nome dei tre fratellastri, Hal avvertì un fremito di dubbio: i sentimenti che stava esprimendo erano eccessivi. Aprendo gli occhi di colpo, vide William guardare Tom, in fondo alla tavola. Il contrasto tra gli occhi scuri e gelidi del figlio maggiore e il calore del suo discorso era così netto che Hal non ebbe esitazioni a cogliere la falsità di quelle parole. William, a sua volta, intuì la perspicacia della valutazione del padre e gli lanciò un rapido sguardo, affrettandosi a mascherare la sua ostilità. La sua espressione ridivenne affettuosa, venata di malinconia per la partenza imminente di tutti coloro che più amava al mondo. Tuttavia ciò che Hal aveva scorto negli occhi di William aveva scatenato in lui una ridda di pensieri cupi. D'un tratto, ebbe una premonizione: quella era l'ultima volta che sedeva a tavola con tutti i suoi figli. I venti del destino stanno per portarci via, ciascuno sulla sua rotta. Alcuni di noi non rivedranno High Weald, pensò. Fu assalito da un'amarezza così profonda che non riuscì a scrollarsela di dosso. E quando si alzò per rispondere al brindisi di William - «Che Dio vi assista e vi mandi venti propizi!» - riuscì soltanto a sorridere in maniera forzata. In fondo al frangiflutti e in sella a Sultan, il suo stallone nero, c'era William, che agitava il cappello in segno di saluto mentre le due navi salpavano. Hal si diresse verso il parapetto del cassero per ricambiare il saluto, poi si voltò e ordinò al timoniere di girare la nave per affrontare il Sound prima di uscire in mare aperto. «Qual è la rotta per doppiare Ushant?» chiese a Ned Tyler, mentre superavano la punta Penlee e le verdi colline inglesi si allontanavano sempre più di poppa. Ned era accanto alla ruota del timone: era nuova di zecca, e, su quella nave moderna, aveva rimpiazzato il vecchio timone a barra. Si trattava di un'invenzione meravigliosa: usando il timone a barra, il timoniere aveva un raggio d'azione ristretto a cinque gradi rispetto al centro, dall'uno e dall'altro lato, mentre con la nuova ruota poteva cambiare l'orientamento del timone in un arco di settanta gradi, ottenendo Wilbur Smith
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così un controllo migliore sulla direzione della nave. «Il vento è favorevole e costante, comandante. Sud-sud-ovest», rispose Ned. Sapeva che quella domanda era puramente formale, perché Hal aveva controllato la rotta prima di uscire dal suo alloggio. «Segnatelo sulla tavola», ordinò Hal, e Ned conficcò un piolo nel bordo del quadrante circolare della bussola. Ogni mezz'ora si aggiungeva un piolo, e così, alla fine del turno di guardia, era possibile calcolare la rotta media e ricavarne per deduzione la posizione della nave. Hal si diresse a poppa, alzando gli occhi sulle vele, che erano spiegate perché il vento soffiava fresco da sinistra. Grazie alla messa a punto di Ned, tutte le vele prendevano il vento a meraviglia, e la Seraph volava, come se balzasse da un'onda all'altra. Provò un'esultanza sfrenata, che lo sorprese per la sua intensità. Credevo di essere troppo vecchio per poter ricavare ancora tanta gioia da una nave e dalla promessa dell'avventura, pensò. Riuscì a fatica a mantenere un'espressione calma e un'andatura dignitosa, ma Big Daniel era lì vicino, presso la sommità del cassero, e si scambiarono un'occhiata. Anche senza sorridere, ciascuno dei due intuì quello che provava l'altro. I passeggeri erano al centro della nave, allineati lungo la murata. Le vesti delle donne schioccavano, gonfiandosi al vento, che le costringeva a trattenere le cuffiette. Ma, non appena la Seraph uscì dal ridosso della terraferma e sentì in pieno la spinta possente del mare, gli strilli di eccitazione si spensero e, l'una dopo l'altra, madre e figlie lasciarono la murata per rifugiarsi sotto coperta; alla fine, soltanto Caroline rimase accanto al padre. La forza del vento aumentò per tutta la giornata e così fu anche nei giorni successivi. Sospinse in avanti le due navi, finché una sera non minacciò di trasformarsi in una vera e propria tempesta, e Hal fu costretto a ridurre la velatura. Col calare delle tenebre, le due navi issarono le lanterne sulla coffa di maestra per mantenere i contatti tra loro e, all'alba, Ned bussò alla porta dell'alloggio di Hal per informarlo che la Yeoman era in vista due miglia a poppa e la luce di Ushant era stata avvistata di prora sinistra. Prima di mezzogiorno doppiarono Ushant e si lanciarono impetuosamente nelle acque tempestose del golfo di Biscaglia, che si mostrò all'altezza della sua pessima reputazione. Per tutta la settimana successiva l'equipaggio ebbe molte occasioni di fare pratica nella manovra Wilbur Smith
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delle vele e della nave in acque turbolente e con venti di tempesta. Tra le signore, solo Caroline sembrava imperturbabile, e infatti si unì a Tom e Dorian per seguire le quotidiane lezioni del signor Walsh nel camerino affollato. Parlava poco, e comunque mai con Tom, continuando a ignorare le sue battute e i suoi giochi di parole più arguti; le uniche materie in cui Tom eccelleva erano le lingue e la matematica. Caroline invece si rifiutò di approfittare delle lezioni di arabo che Alf Wilson impartiva ai tre ragazzi ogni pomeriggio per un'ora. Durante la traversata del golfo di Biscaglia, Guy fu prostrato dal mal di mare. Hal era molto stizzito dal fatto che uno dei suoi figli potesse mostrarsi sensibile al moto delle onde, comunque fece sistemare per lui un pagliericcio nell'angolo dell'alloggio di poppa, e Guy rimase lì disteso, pallidissimo, gemendo come se fosse in punto di morte, incapace di mangiare e riuscendo soltanto a mandare giù qualche goccia d'acqua dal boccale che Abolì gli accostava alle labbra. La signora Beatty e le figlie minori non stavano di certo meglio. Nessuna di loro uscì dal camerino, anzi il dottor Reynolds, aiutato da Caroline, dedicava la maggior parte del giorno ad assisterle. Non facevano altro che andare su e giù, portando vasi da notte pieni e vuotandoli fuori bordo, ma l'odore acre del vomito pervadeva gli alloggi di poppa. Hal aveva tracciato una rotta che passava al largo della terraferma, verso ponente, per evitare di arenarsi durante la notte sulle secche di Madera e delle Canarie, oltre che nella speranza d'incontrare venti più favorevoli una volta entrato nella zona delle calme equatoriali. Tuttavia soltanto quando si avvicinarono ai 35 gradi di latitudine nord, e Madera si trovava soltanto cento leghe a est dalla loro posizione, i venti di tempesta cominciarono finalmente a placarsi. In condizioni di navigazione più facili, Hal poté dedicarsi a riparare vele e sartie, oltre a sottoporre l'equipaggio a esercitazioni e manovre che non erano solo quelle necessarie per bordare le vele e ammainarle. Gli uomini poterono finalmente asciugare i vestiti che avevano indosso e i pagliericci fradici sui quali dormivano, il cuoco ebbe modo di accendere il fuoco e servire pasti caldi. In breve tempo, a bordo si creò un'atmosfera diversa. Nel giro di pochi giorni ricomparvero sul ponte la signora Beatty e le figlie minori: sebbene da principio fossero pallide e abuliche, ben presto il loro umore migliorò. E, in breve tempo, Agnes e Sarah diventarono le piccole pesti della nave. Erano particolarmente attaccate a Tom, che Wilbur Smith
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avevano preso a venerare come un eroe, e fu proprio per sfuggire loro che il ragazzo convinse Aboli a permettergli di salire sull'alberatura senza il permesso del padre, il quale, lo sapevano entrambi, non avrebbe approvato. Salendo sul ponte per il cambio del primo turno di guardia mattutino, Hal trovò Tom sul pennone a trenta piedi di altezza dal ponte, con i piedi nudi ben saldi sui marciapiedi per mollare un'altra mano di terzaroli sulla gabbia di maestra. L'uomo si fermò di colpo, con la testa rovesciata all'indietro, cercando un ordine che gli permettesse di richiamare Tom sul ponte senza far trasparire la sua ansia. Girandosi verso il timone, però, si accorse che tutti gli ufficiali sul ponte lo stavano fissando e trattenne l'ordine prima che gli salisse alle labbra, e invece si avvicinò ad Aboli, che stava presso la murata. «Ricordo la prima volta che sei salito sull'albero di gabbia, Gundwane», gli mormorò Aboli. «Fu col mare grosso, al largo delle secche di Agulhas. Lo Hal fatto perché ti avevo proibito di salire oltre le sartie basse. Avevi due anni di meno di quanti ne ha Klebe adesso, ma del resto sei sempre stato un ragazzo indisciplinato.» Scosse la testa con disapprovazione, sputando fuori bordo. «Tuo padre, Sir Francis, voleva frustarti col gatto a nove code. Avrei dovuto lasciarlo fare.» Hal ricordava benissimo l'episodio. Quella che era cominciata come una sfida giovanile si era conclusa in un accesso di puro terrore, quando si era aggrappato alla coffa mentre, cento piedi più in basso, immagini del ponte si alternavano a sprazzi di onde verdi e spumose ogni volta che la nave rollava e sprofondava e la scia si allargava dietro di loro come un ventaglio di schiuma. Tom aveva davvero due anni di più di quanti ne avesse lui quel giorno? Di certo il pennone al quale era appeso non si trovava neanche a metà strada dalla coffa. «Tu e io abbiamo visto più d'uno cadere dal pennone», ringhiò. «Puoi spezzarti le ossa e ammazzarti esattamente come se cadessi dalla formaggetta dell'albero di maestra.» «Klebe non cadrà. Si arrampica come una scimmia.» Aboli si lasciò sfuggire un sorriso. «Deve averlo nel sangue.» Hal ignorò la battuta, rientrando nel suo alloggio, in apparenza per compilare il giornale di bordo, ma in realtà perché non voleva più vedere il figlio in cima alle sartie. Per il resto del turno di guardia rimase in attesa di sentire quel terribile tonfo sordo di un corpo che si abbatteva sul ponte o il grido: «Uomo in mare!» Quando infine sentì bussare alla porta Wilbur Smith
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dell'alloggio e Tom, raggiante di orgoglio, fece capolino per riferirgli un messaggio da parte dell'ufficiale di guardia, Hal per poco non balzò in piedi dal sollievo, stringendolo in un abbraccio. Giunsero nella zona delle calme equatoriali e la nave rimase immobile, con tutte le vele flosce, senza neanche un'increspatura o un fremito sotto la chiglia. A metà del pomeriggio Hal era nel suo alloggio con Big Daniel, Ned Tyler e Wilson, per riesaminare ancora una volta la descrizione che Alf aveva fatto della cattura della Minotaur da parte di Jangiri. Hal voleva che tutti i suoi ufficiali si rendessero conto esattamente di quello che dovevano aspettarsi e si facessero venire qualche idea sul modo migliore per attirare in combattimento il pirata oppure per scoprire dove si trovava la sua tana. D'improvviso Hal s'interruppe, nel bel mezzo di una frase, piegando la testa di lato: aveva sentito sul ponte sovrastante un'agitazione insolita, scalpiccii e un suono argentino di voci e di risa. «Scusatemi, signori», disse e, alzatosi di scatto, si affrettò a risalire la scaletta, guardandosi attorno. Tutti gli uomini che non erano in servizio si trovavano sul ponte; anzi pareva che tutti gli sfaccendati della nave si fossero riuniti là, allungando il collo per guardare verso la cima dell'albero. Hal seguì la direzione del loro sguardo. Tom, tranquillamente seduto a cavalcioni del pennone maggiore di maestra, lanciava grida d'incoraggiamento a Dorian. «Avanti, Dorry. Non guardare giù.» Il bambino era sospeso alle sartie dell'albero di maestra, sotto di lui. Per un attimo orribile, Hal pensò che fosse il terrore a inchiodarlo lì, ad almeno ottanta piedi di altezza dal ponte, ma poi Dorian si mosse. Salì cautamente di un passo e trovò un appiglio tra le cime sopra la sua testa per avanzare ancora. «Ci siamo, Dorry! Un altro, adesso.» L'intensità dell'ira di Hal nei confronti di Tom era accentuata dalla paura che provava per il figlio minore. Avrei dovuto scorticargli la schiena la prima volta che ha fatto il suo numero sul sartiame, pensò, prima di dirigersi a lunghe falcate verso il timone, afferrando dalla mensola la tromba che si usava per segnalare le adunate. Prima che potesse portarla alla bocca per lanciare ai ragazzi un segnale, comparve al suo fianco Abolì. «Non sarebbe saggio spaventarli proprio adesso, Gundwane. Per farcela, Dorian ha bisogno di entrambe le mani e di tutte le sue risorse.» Hal abbassò la tromba e trattenne il fiato mentre Dorian continuava a scalare il sartiame, mettendo una mano davanti all'altra. «Perché non glielo Wilbur Smith
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Hal impedito, Aboli?» chiese quindi, in preda alla collera. «Non mi hanno chiesto il permesso.» «E se anche lo avessero fatto, tu li avresti lasciati andare», ribatté Hal in tono di accusa. «Per essere sincero, non lo so.» Aboli si strinse nelle spalle. «Ogni ragazzo diventa uomo a modo suo e nel momento giusto per lui.» Continuava a seguire con gli occhi il bambino in cima all'albero. «Dorian non ha paura.» «Come lo sai?» ringhiò Hal, ormai fuori di sé dal terrore. «Guarda come tiene la testa. Guarda i piedi e le mani mentre cerca gli appigli.» Hal non rispose, però si accorse che Aboli aveva ragione: chi ha paura si aggrappa alle cime e chiude gli occhi, con le mani tremanti, mentre intorno a lui pare spandersi l'odore della paura. Dorian invece continuava a muoversi a testa alta, con gli occhi fissi in avanti. Quasi tutti gli uomini dell'equipaggio erano sul ponte a guardare, tesi e silenziosi. Tom allungò la mano verso il fratello. «Ci sei quasi, Dorry!» Dorian tuttavia ignorò la mano protesa, per issarsi a fianco del fratello maggiore con uno sforzo visibile. Aspettò un istante per riprendere fiato, poi rovesciò la testa all'indietro e lanciò un urlo acuto di trionfo. Tom gli passò il braccio sulle spalle in un gesto protettivo: dal ponte si vedevano chiaramente i loro volti raggianti di gioia. L'equipaggio esplose in un applauso spontaneo e Dorian si strappò dalla testa il berretto per sventolarlo in un saluto. Tom e Dorian erano già i beniamini dell'equipaggio. «Era pronto per farlo», disse Aboli. «E lo ha dimostrato.» «Mio Dio, ma è solo un bambino! Gli proibirò di tornare lassù», proruppe Hal. «Dorian non è più un bambino. Tu lo vedi con gli occhi di un padre», ribatté Abolì. «Tra poco ci saranno scontri armati, e tu e io sappiamo che, in combattimento, la coffa dell'albero di maestra è il posto più sicuro per un ragazzo.» Era vero, naturalmente. Quando Hal aveva l'età di Tom, il suo posto di combattimento era stato sempre lassù, perché il fuoco nemico era diretto contro lo scafo e, anche se la nave fosse stata abbordata, lui si sarebbe trovato a ridosso. Qualche giorno dopo, Hal modificò i suoi piani per il combattimento, assegnando a Tom e Dorian, ogni volta che la nave si fosse trovata Wilbur Smith
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impegnata in uno scontro, un posto sulla coffa dell'albero di maestra. In compenso, non sapeva bene che cosa fare di Guy, il quale non dava segno di voler lasciare la protezione del ponte di comando. Forse potrebbe fare da aiutante al chirurgo nell'infermeria di bordo, pensò. D'altra parte, poteva anche darsi che non riuscisse a sopportare la vista del sangue. Nella zona delle bonacce il vento cominciò a civettare con loro. Per giorni e giorni cadeva del tutto, lasciando il mare calmo come l'olio. Il caldo incombeva sulla nave, costringendoli ad ansimare mentre il sudore pareva formare un velo sulla pelle. Chi era costretto a restare sul ponte cercava riparo dal sole all'ombra delle vele. Poi, all'orizzonte, un filo di brezza incideva come l'unghia di un gatto la superficie liscia e oleosa del mare e un alito di vento capriccioso gonfiava le vele, sospingendoli per un'ora o un giorno intero. Quando il vento, volubile e incostante, li abbandonava di nuovo e la nave restava immobile sull'acqua, Hal addestrava gli uomini al combattimento. Li faceva lavorare ai cannoni, mettendo in competizione un turno di guardia contro l'altro per stabilire quale fosse più veloce a caricare, disporre i pezzi in batteria, sparare e ricaricare. Organizzò gare di tiro col fucile, lanciando un barile fuori bordo perché facesse da bersaglio. Poi prese le sciabole dal deposito delle armi, incaricando Aboli e Big Daniel di far esercitare l'equipaggio nella scherma. Quando lavoravano con la sciabola, Tom si schierava insieme con gli altri uomini del suo turno di guardia, e più di una volta Big Daniel lo invitò a farsi avanti per illustrare agli altri qualche finezza di stile. Hal era partito con una squadra di uomini scelti: quasi tutti avevano già combattuto ed erano pratici dell'uso di pistole e sciabole, picche e asce da abbordaggio, oltre ad avere esperienza come serventi ai pezzi. Dopo un paio di settimane, capì che quello era l'equipaggio migliore col quale avesse mai navigato. Era soprattutto una qualità a distinguerli, anche se a Hal risultava piuttosto arduo definirla: gli pareva che l'unica parola adatta fosse «entusiasmo». Sembravano cani da caccia ansiosi di fiutare la pista della preda, e lui sarebbe stato felice di guidarli in qualsiasi combattimento. Si erano lasciati alle spalle da tempo l'isola di Madera e le Canarie, rimaste sotto l'orizzonte a oriente, ma i loro progressi divennero sempre più lenti via via che si addentravano nella zona delle calme equatoriali. Wilbur Smith
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Restavano immobili per giorni interi, con le vele inerti, senza vita, circondati da uno specchio di acque levigate, come se vi avessero versato sopra dell'olio; la superficie, di un colore bruno dorato, era increspata solo dalle isolette galleggianti dei sargassi e dalle linee punteggiate dei pesci volanti che la sfioravano. Il sole era implacabile, quasi maligno. Hal conosceva bene il malessere che poteva assalire un equipaggio a quelle latitudini snervanti, sapeva che poteva privarlo della vitalità e della determinazione. Per questo escogitava sempre nuovi espedienti per impedire agli uomini di scivolare nelle sabbie mobili della noia e dell'apatia. Ogni giorno, dopo le esercitazioni, organizzava corse a staffetta dal ponte fino alla coffa e ritorno, facendo gareggiare tra loro i turni di guardia. Anche Tom e Dorian partecipavano a quelle gare, con grande entusiasmo delle «Bestie Beatty», come Tom aveva soprannominato Agnes e Sarah. Poi Hal ordinò ai carpentieri e ai loro compagni di entrambe le navi di montare sulle pinacce i banchi dei vogatori, dopodiché le fece calare in mare per dar vita a una sfida tra una squadra di vogatori della Seraph e una della Yeoman. Il percorso era equivalente al doppio del circuito delle due navi alla deriva e il premio era un nastro rosso, più una razione extra di rum per la pinaccia vincente. Dopo la prima gara, il nastro fu legato al bompresso della Seraph e, da allora, divenne un emblema d'onore che ogni volta passava dall'una all'altra nave. Per festeggiare la conquista del nastro rosso, Hal invitò Edward Anderson a bordo dalla Yeoman per unirsi a lui e ai suoi passeggeri in una cena imbandita nell'alloggio di poppa. Invitò anche i propri figli: il signor Walsh aveva infatti suggerito di offrire, dopo cena, un intrattenimento musicale. Walsh avrebbe suonato il flauto e Guy la cetra, mentre Dorian, che aveva una voce straordinaria, avrebbe cantato. Hal servì il chiaretto migliore che aveva, e la cena fu allegra e chiassosa. Con tanti ospiti, lo spazio disponibile era appena sufficiente per stare seduti, non certo per muoversi. Così, quando infine Hal impose il silenzio, chiedendo a Walsh di suonare, Tom, che pure detestava la musica, si ritrovò incastrato in un angolo, seduto su uno sgabello e nascosto alla vista di tutti, dietro la parete di legno intagliato che divideva la parte dell'alloggio riservata agli affari da quella che ospitava la cuccetta del padre. Wilbur Smith
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Walsh e Guy cominciarono con un'esecuzione di alcune vecchie melodie, comprese Greensleeves e Spanish Ladies, che piacquero a tutti meno che a Tom; lui si annoiava al punto che cominciò a incidere le sue iniziali nella cornice di legno del paravento dietro il quale era seduto. «E adesso ascolteremo un'esibizione di madamigella Caroline Beatty e del signorino Dorian Courteney», annunciò Walsh. Caroline si alzò e, districandosi a fatica, raggiunse l'estremità dell'alloggio, vicino a Tom. Lanciandogli una delle sue occhiate gelide, si girò, voltandogli in parte le spalle e appoggiando il fianco al paravento per guardare Dorian, che si era portato accanto alla paratia opposta. Cominciarono con un'aria di Purcell. Caroline aveva una voce limpida e dolce, anche se non troppo potente, mentre Dorian cantava con una naturale esuberanza. I suoni divini che scaturivano da quel bambino angelico fecero salire le lacrime agli occhi degli ascoltatori. Ormai Tom fremeva dalla voglia di fuggire da quell'alloggio torrido e soffocante. Avrebbe voluto starsene sul ponte, sotto le stelle, nascosto dietro uno degli affusti di cannone, con Big Daniel o Aboli, o meglio ancora con tutt'e due, ad ascoltare storie delle terre selvagge e degli oceani misteriosi che li attendevano. Invece era in trappola. Poi notò che Caroline, quando si tendeva per raggiungere una nota alta, si alzava in punta di piedi, e la gonna risaliva abbastanza in alto da lasciare scoperte le caviglie e i polpacci. La noia di Tom svanì di colpo. I piedini della ragazza, chiusi nelle scarpe delicate, erano finemente modellati. Indossava calze blu e la linea delle caviglie sottili si fondeva con le curve flessuose dei polpacci. Quasi mossa da una volontà autonoma, la mano di Tom uscì dalla tasca, allungandosi verso una caviglia ben modellata. Sei pazzo? si disse, imponendosi con uno sforzo di non toccarla. Se solo provo a toccarla con un dito, farà scoppiare un pandemonio. Si guardò attorno con aria colpevole. Caroline era proprio davanti a lui, tanto vicina da nasconderlo agli occhi degli altri invitati. Lui sapeva che tutti i presenti tenevano gli occhi puntati su Dorian, eppure esitava ancora. Fece per ritirare la mano, per metterla al sicuro in fondo alla tasca. Poi sentì l'odore di lei. Al di sopra degli altri odori intensi che aleggiavano, dei ciccioli di maiale e del cavolo, delle esalazioni del vino e del fumo del sigaro di suo padre, captò la calda fragranza del corpo della ragazza. Il cuore gli si strinse a pugno; avvertì una fitta dolorosa alla bocca dello stomaco, tanto Wilbur Smith
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che dovette soffocare il gemito che gli salì alle labbra. Si protese in avanti sullo sgabello per sfiorarle la caviglia. Fu soltanto un lievissimo tocco dei polpastrelli sul sottile tessuto blu delle calze. Poi si ritrasse di scatto, drizzandosi sullo sgabello, pronto a simulare un'espressione innocente se la ragazza si fosse girata di scatto verso di lui. Invece Caroline si unì al canto di Dorian senza saltare una sola nota, e Tom rimase perplesso per la sua mancata reazione. Sporgendosi di nuovo in avanti, le posò delicatamente due dita sulla caviglia. Caroline non spostò il piede, continuando a cantare con voce limpida e dolce. Allora Tom le accarezzò il piede, prima di cingere lentamente con le dita la caviglia. Era così fragile e femminile che sentì la pressione aumentare nel suo petto. La calza blu era serica e morbida sotto le dita. Con estrema lentezza, indugiando, fece scorrere la mano sulla curva del polpaccio, assaporandone il calore, poi raggiunse l'orlo superiore della calza e il nastro legato a fiocco che la fissava sotto il ginocchio. A quel punto esitò, e proprio allora il canto finì con un trionfale acuto all'unisono delle due giovani voci. Seguì un attimo di silenzio, poi uno scroscio di applausi, accompagnato da grida di: «Bravi!» e: «Ancora! Cantatene un'altra!» La voce del padre di Tom si levò per dire: «Non dobbiamo pretendere troppo da madamigella Caroline. È stata già troppo gentile con noi». I riccioli scuri di Caroline le danzarono sulle spalle. «Non è una pretesa eccessiva, Sir Henry, ve lo assicuro. Siamo lieti che abbiate apprezzato la nostra esecuzione. Canteremo ancora col massimo piacere. Vogliamo eseguire: My Love She Lives in Durham Town, Dorian?» «Penso di sì», rispose Dorian, con scarso entusiasmo, e Caroline dischiuse la bocca graziosa, lasciando fluire il canto. Tom non aveva spostato la mano; le sue dita risalirono oltre l'orlo della calza per accarezzare la pelle vellutata dietro il ginocchio. La ragazza seguitava a cantare: sembrava anzi che la sua voce avesse acquistato forza ed espressività. Il signor Walsh, entusiasta, crollò il capo in segno di approvazione, continuando a suonare il flauto. Tom accarezzò prima un ginocchio, poi l'altro. Le aveva sollevato l'orlo della gonna, fissando la pelle vellutata, così morbida e calda sotto la punta delle dita. Ormai era chiaro che Caroline non avrebbe gridato, svergognandolo davanti agli invitati, quindi lui cominciò a farsi più audace. Wilbur Smith
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Fece scorrere le dita in alto, risalendo dietro la coscia, e sentì la giovane tremare, ma la sua voce rimase ferma, e lei non sbagliò neanche una parola della canzone. Dal punto in cui si trovava, Tom vedeva il padre battere il tempo col piede, sotto il tavolo. La consapevolezza che il padre era così vicino e il rischio implicito nel proprio comportamento esaltavano l'eccitazione di Tom. Le dita gli tremavano, quando raggiunse il solco oltre il quale svettavano le natiche sode di Caroline. Sotto il vestito lei non indossava altro che le sottogonne, quindi Tom poté esplorare le curve del sedere rotondo fino a raggiungere la profonda fessura verticale che separava i due emisferi di carne. Tentò d'insinuare un dito in alto, tra le cosce, ma erano strettamente serrate: tutti i muscoli delle gambe erano tesi, rigidi come la pietra. Il solco era impenetrabile e lui abbandonò l'impresa, contentandosi di cingere con la mano una delle natiche piccole e sode. Per intonare una nota alta e squillante alla fine del verso, Caroline cambiò leggermente posizione, divaricando appena i piedi minuti e spingendo le natiche in fuori, verso di lui. Le cosce si dischiusero e stavolta Tom, ritentando, sentì il soffice nido di peli serici che le divideva. Caroline fece un altro lieve movimento, come per facilitargli il compito, poi si mosse ancora, quasi a dirigere il suo tocco. Mary la sguattera era stata la prima a indicare a Tom dove trovare quel magico bottoncino sporgente di carni rosee, e lui lo individuò con abilità. Ormai Caroline muoveva dolcemente tutto il corpo al ritmo della musica, facendo ondeggiare i fianchi. Aveva gli occhi scintillanti e le guance colorite. La signora Beatty pensò che la figlia non era mai stata così incantevole e, guardando il circolo di facce maschili attorno a sé, fu orgogliosa di scorgere l'ammirazione nei loro occhi. Il canto raggiunse l'apice dell'intensità, al punto che persino Dorian dovette superare se stesso per eguagliare la bellezza di quell'ultima nota alta, squillante, che parve riempire tutto l'alloggio per restare sospesa nell'aria, come un polline sonoro, anche quando la canzone si era ormai conclusa. Caroline allargò le gonne come se fossero i petali di una splendida orchidea tropicale, sprofondando in una riverenza così ampia da sfiorare con la fronte il pavimento. Tutti gli uomini balzarono in piedi per applaudirla, anche se dovettero chinarsi per evitare le travi del soffitto. Quando rialzò la testa, Caroline aveva le labbra tremanti e le guance umide di lacrime, come se fosse scossa da una profonda emozione. La madre si alzò di scatto, Wilbur Smith
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abbracciandola. «Oh, tesoro, è stato eccezionale. Hal cantato come un angelo, ma ora sarai sfinita. Puoi prendere mezzo bicchiere di vino per ristorarti.» Tra complimenti ed espressioni di gioia, Caroline tornò al suo posto. Di solito taciturna e introversa, sembrava letteralmente trasformata, e si unì quasi con gaiezza alla conversazione attorno a lei. Quando la signora Beatty ritenne che fosse giunto il momento di ritirarsi per lasciare gli uomini liberi di dedicarsi alla pipa, ai sigari e al porto, Caroline la seguì docilmente. Mentre augurava la buonanotte e usciva dall'alloggio, non degnò neanche di un'occhiata Tom. Lui si rilassò sullo sgabello nell'angolo, fissando il soffitto che li divideva dal ponte, nel tentativo di apparire distaccato e indifferente, però teneva tutt'e due le mani affondate nelle tasche e si teneva stretto, in modo che nessuno potesse notare l'erezione che gli gonfiava le brache. Quella notte Tom dormì ben poco. Rimase disteso sul pagliericcio, con Dorian da una parte e Guy dall'altra, ad ascoltare il sonoro russare, i gemiti e i mormorii che sfuggivano ai marinai addormentati sul ponte di batteria. Rievocava con la fantasia ogni dettaglio dell'episodio avvenuto nell'alloggio di poppa, ogni contatto e ogni movimento: l'odore del corpo di Caroline e il suono del suo canto mentre lui l'accarezzava, la morbidezza vellutata delle sue parti più intime e il calore che emanavano. Non sapeva se sarebbe riuscito a resistere fino al giorno dopo, quando l'avrebbe rivista nel camerino del signor Walsh. Si sarebbero dovuti concentrare sulla lavagnetta e ascoltare i noiosissimi monologhi del precettore, eppure lui moriva dalla voglia di ricevere uno sguardo o una carezza che gli confermasse il significato enorme di quello che era accaduto tra loro. Invece lei, quando entrò nel camerino del signor Walsh, preceduta dalle sorelle che lanciavano come al solito strilli acuti, ignorò Tom per rivolgersi subito al precettore. «Trovo che la luce al mio posto sia troppo fioca. Mi stanca gli occhi», disse. «Posso cambiare posto per sedermi accanto a Guy?» «Ma certo, madamigella», rispose subito Walsh, non del tutto immune dal fascino di Caroline. «Avreste dovuto dirmelo prima che accanto a Tom non stavate bene.» Guy si spostò volentieri nel banco per farle posto, ma Tom si sentì Wilbur Smith
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abbandonato e tentò invano di attirare la sua attenzione, fissandola intensamente dall'altro capo dell'angusto camerino. Caroline, però, dedicava la sua attenzione alla lavagnetta, senza neanche alzare gli occhi. Alla fine, persino Walsh si accorse dello strano comportamento di Tom. «Avete il mal di mare, per caso?» lo apostrofò. Tom rimase inorridito e indignato da una simile accusa. «Sto benissimo, signore.» «Allora potete dirmi di che cosa stavo parlando?» chiese il precettore. Tom assunse un'aria pensierosa, sfregandosi il mento e affibbiando nel contempo un calcio a Dorian sotto il banco. Dorian accorse lealmente in suo aiuto. «Stavate dicendo che questa tautologia è...» «Grazie, Dorian», lo interruppe Walsh. «L'ho chiesto a vostro fratello, non a voi.» Scrutò con disapprovazione Tom. Il fatto che un ragazzo come Tom, dotato di un'intelligenza vivace, si rifiutasse di sfruttarne al massimo il potenziale, lo irritava moltissimo. «Ora che siete stato ragguagliato, forse vorrete spiegarci il significato di questa parola.» «Si definisce tautologia la ripetizione superflua di un concetto che è stato già espresso in un periodo o in una parola precedenti», rispose Tom. Walsh assunse un'espressione delusa. Aveva sperato di costringere Tom ad ammettere che era distratto, per fargli subire una piccola umiliazione di fronte ai compagni. «Mi lasciate sbalordito con la vostra erudizione», ribatté, irrigidendosi. «Volete darne un altro saggio, fornendoci un esempio di tautologia?» «Un pedagogo pedante?» suggerì Tom, fingendo di riflettere. «Un insegnante tedioso?» Dorian si lasciò sfuggire una risata, e persino Guy alzò la testa, sorridendo. Le «Bestie Beatty» non avevano capito una parola, ma, vedendo Walsh diventare paonazzo e Tom incrociare le braccia sul petto con un sorriso trionfante, si resero conto che il loro idolo aveva riportato un nuovo successo e ridacchiarono divertite. Soltanto Caroline continuò a scrivere sulla lavagnetta, senza neppure alzare la testa. Tom era perplesso e ferito. Pareva che tra loro non fosse accaduto nulla. Vedendo che il suo battibecco col signor Walsh non la impressionava, tentò di attirare la sua attenzione in altri modi. Quando Caroline era sul ponte, si spingeva al limite delle sue forze e della sua esperienza per colpirla con l'abilità che aveva appena acquisito come gabbiere. Imitava le Wilbur Smith
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prodezze dei marinai più anziani di lui, correndo lungo il pennone più alto con le mani sollevate sopra la testa per raggiungere il suo posto sulle griselle, oppure scivolava giù lungo lo strallo di mezzana senza fermarsi, cosicché la canapa ruvida della cima gli bruciava il palmo delle mani; poi atterrava a piedi nudi con un tonfo vicino al posto in cui si trovava lei, ma Caroline si voltava senza neanche guardarlo. Per contrasto, era tutta latte e miele con Guy e Dorian e persino con Walsh. Tom, che era stonato, restava escluso dai loro esercizi musicali, e Caroline sembrava particolarmente lieta di stare in compagnia di Guy. I due bisbigliavano in continuazione tra loro anche durante le lezioni, quando Walsh si limitava a qualche svogliato tentativo di farli tacere. Tom protestò: «Sto cercando di risolvere un problema di trigonometria, e non posso concentrarmi se voi due chiacchierate in continuazione». Walsh sorrise con aria vendicativa. «Non ho notato alcun aumento degno di nota nella vostra attività cerebrale, signorino Thomas, neanche nei momenti di assoluto silenzio.» A quelle parole, Caroline scoppiò in una risata argentina, appoggiandosi alla spalla di Guy come per dividere con lui il divertimento suscitato da quella battuta. L'occhiata che lanciò a Tom era maliziosa e beffarda. Tanto Dorian quanto Tom avevano ereditato dal padre l'acutezza della vista, quindi venivano mandati spesso di vedetta sull'albero di maestra. Tom finì per apprezzare quei lunghi turni di guardia in coffa; era l'unico posto, in quella nave affollata, dove si potesse restare soli. Dorian aveva imparato a tenere la lingua a freno e i due potevano starsene seduti per ore in amichevole silenzio, senza intromettersi l'uno nei pensieri dell'altro, abbandonandosi ciascuno alle proprie fantasticherie. Un tempo, i sogni a occhi aperti di Tom erano fatti di battaglie e di gloria, di terre selvagge e grandi oceani come quelli verso i quali erano diretti, di elefanti, balene e scimmie enormi che si aggiravano sullo sfondo di vette montuose avvolte nella caligine, tutti gli argomenti di cui parlava tanto avidamente con Aboli e Big Daniel. Adesso, invece, non faceva che vedere Caroline, il suo corpo caldo e levigato, che aveva accarezzato senza vederlo, i suoi occhi rivolti verso di lui con amore e devozione, immaginando di fare con lei tutte le cose meravigliose che aveva sperimentato con Mary e le altre ragazze del villaggio. Eppure lasciar entrare quelle ragazze volgari nello stesso sogno in cui regnava la divina Caroline sembrava, in un certo senso, un sacrilegio. Wilbur Smith
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Con la fantasia, sognava di trarla in salvo dalla nave in fiamme, mentre i ponti brulicavano di pirati, prendendola tra le braccia per gettarsi fuori bordo e raggiungere a nuoto con lei la spiaggia candida come la neve di un atollo corallino, dove sarebbero potuti restare da soli. Soli! Ecco qual era il problema che lo turbava ogni volta, alla fine del sogno: in che modo riuscire a star solo con lei. La Seraph poteva anche navigare fino in capo al mondo con Caroline a bordo, però non sarebbero mai stati soli. Tentò disperatamente di trovare qualche posto a bordo nel quale avrebbero potuto trascorrere anche soltanto qualche minuto lontano da occhi indiscreti, se mai fosse riuscito a farsi seguire da lei; e questo, doveva ammetterlo, era estremamente improbabile. C'era la stiva, però era chiusa dai sigilli della Compagnia. Poi c'erano gli alloggi di poppa, ma erano tutti affollatissimi e comunque anche il più grande assicurava ben poca discrezione. Le paratie erano così sottili che, attraverso le pareti divisorie, aveva sentito le sorelle Beatty bisticciare perché, nel camerino, potevano stare in piedi soltanto una alla volta: le altre due dovevano stendersi sulla loro cuccetta per consentire alla terza di vestirsi o spogliarsi. Non c'era davvero posto per isolarsi con Caroline e dichiararle tutto il suo amore, oppure approfondire la conoscenza delle sue grazie. L'immaginazione, però, non gli dava tregua. Nelle sere in cui il vento era favorevole, Tom e Dorian andavano a prendere le gavette in cambusa per portarsele a prua, dove mangiavano accovacciati sul ponte, con Aboli e talvolta anche con Big Daniel. Dopo mangiato, si stendevano supini a fissare il cielo stellato. Big Daniel fumava la pipa di coccio, spiegando come il cielo cambiava ogni giorno, via via che si spingevano a sud. Indicava loro la grande costellazione della Croce del Sud, che ogni sera sorgeva più alta sull'orizzonte davanti alla nave, e le scintillanti nubi di Magellano, sospese come l'aureola degli angeli, che apparivano al di sotto. Intorno a ogni costellazione, Aboli intesseva le leggende sulle stelle che appartenevano alla tradizione della sua tribù, e Big Daniel le accoglieva con una risatina. «Vade retro, grande pagano nero, lasciami raccontare la verità cristiana. Quello è Orione, il grande cacciatore, e non un selvaggio boscimano.» Aboli lo ignorava e, una sera, narrò la leggenda del cacciatore stolto che aveva lanciato tutte le sue frecce contro un branco di zebre - e a quel punto indicò il grappolo di stelle che formano la cintura di Orione cosicché non gli era rimasta neanche un'arma per difendersi allorché il Wilbur Smith
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leone di Sirio aveva cominciato a braccarlo, e il cacciatore, a causa della sua imprevidenza, era finito tra le fauci della bestia feroce. «E questa è una storia più soddisfacente per chi ascolta», concluse Abolì, gongolando. «Per non parlare della soddisfazione del leone», ribatté Big Daniel, vuotando la pipa e alzandosi. «Ho del lavoro da sbrigare, a differenza di qualcun altro, vedo.» E andò a poppa, a fare il solito giro di ronda. Quando si fu allontanato, rimasero in silenzio per qualche minuto. Dorian si raggomitolò sul ponte, come un cucciolo, addormentandosi all'istante. Aboli si lasciò sfuggire un sospiro, poi cominciò a parlare sottovoce nel linguaggio delle foreste, come faceva spesso quando Tom e lui erano soli: «Il cacciatore stolto avrebbe potuto imparare molte cose, se fosse vissuto abbastanza a lungo». «Dimmi quali», rispose Tom nella stessa lingua. «A volte è meglio non dare la caccia alla zebra sparando tutte le frecce a casaccio, da lontano.» «Che cosa vuoi dire, Aboli?» chiese il ragazzo, mettendosi a sedere e cingendosi le ginocchia con le braccia. Intuiva che quella storia aveva un significato recondito. «Il cacciatore stolto manca d'ingegnosità e di astuzia. Più insegue la preda con zelo, più quella fugge veloce. Chi sta a guardare commenta: 'Guarda che cacciatore stupido!', e ride dei suoi sforzi inutili.» Tom rifletté su quelle parole, abituato ad aspettarsi profonde verità nascoste in tutte le storie di Aboli. D'un tratto afferrò la morale della storia e cambiò posizione, irrequieto. «Vuoi prenderti gioco di me, Aboli?» «Non lo farei mai, Klebe, però mi fa male vederti deriso da uomini che valgono meno di te.» «E quale motivo ho offerto perché qualcuno rida di me?» «Sei troppo accanito nella caccia. Hal fatto capire a tutti quelli che sono a bordo qual è la tua preda.» «Ti riferisci a Caroline?» La voce di Tom si era ridotta a un sussurro. «È tanto evidente, allora?» «Non dovrei neanche risponderti. Ma dimmi, piuttosto: che cos'è che ti fa struggere tanto per lei?» «E' bellissima...» cominciò Tom. Aboli sorrise nel buio. «Certo, non si può dire che sia brutta. Ma quello che ti fa impazzire in lei è che non si accorge di te.» «Non capisco, Aboli.» Wilbur Smith
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«Tu la insegui perché fugge, e lei fugge perché la insegui.» «E che dovrei fare, invece?» «Quello che fa il cacciatore saggio: aspettare pazientemente nel luogo dove si abbevera la preda. Lascia che sia lei a venire da te.» Fino a quel momento Tom aveva approfittato di ogni minimo pretesto per indugiare nel camerino di Walsh anche dopo la fine delle lezioni del giorno, nella speranza di ricevere da Caroline un segno che provava ancora qualche interesse per lui. Il padre aveva stabilito che i tre ragazzi seguissero ogni giorno le lezioni per tre ore, prima di assolvere ai loro compiti a bordo della nave. Persino Hal era del parere che tre ore di lezione del signor Walsh fossero più che sufficienti, ma finora Tom aveva resistito anche più a lungo, e soltanto per trascorrere qualche minuto in più con l'oggetto del suo amore. Dopo la conversazione con Aboli, tutto cambiò. Durante le lezioni s'imponeva di restare in silenzio con un'espressione indecifrabile, limitando gli scambi di battute con Walsh al minimo indispensabile. Non appena suonava la campana della nave che segnalava il cambio del turno, si alzava e, anche se era immerso in qualche complicato problema di matematica, riponeva subito i libri e la lavagna, dicendo: «Vi prego di scusarmi, signor Walsh, devo andare a fare il mio dovere». Dopodiché si allontanava dal camerino senza neanche degnare la ragazza di un'occhiata. Di sera, quando Caroline saliva sul ponte con la madre e le sorelle per fare una salutare passeggiatina all'aria aperta, Tom faceva in modo che le sue incombenze lo tenessero lontano da lei, almeno per quanto lo consentiva la mancanza di spazio a bordo della nave. Per alcuni giorni Caroline non diede segno di accorgersi del cambiamento nel suo modo di agire verso di lei. Poi, una mattina, durante la lezione, Tom, alzando inavvertitamente lo sguardo dalla lavagnetta, la sorprese mentre lo fissava con la coda dell'occhio. Lei abbassò subito gli occhi, ma non poté impedirsi di arrossire. Tom sentì una vampata di soddisfazione. Abolì aveva visto giusto: quella era la prima volta che la sorprendeva a osservarlo. Ora che la sua determinazione si era rafforzata, gli riuscì sempre più facile ignorarla, come lo aveva ignorato lei. Quella situazione di stallo si prolungò per quasi due settimane, finché Tom non notò un sottile cambiamento nel modo di comportarsi di Caroline. Durante le lezioni del Wilbur Smith
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mattino divenne più loquace, rivolgendo le sue osservazioni a Walsh e a Guy, ma soprattutto a quest'ultimo. Parlottava sottovoce con lui e rideva in modo irrefrenabile anche delle sue osservazioni più futili; dal canto suo, Tom restava chiuso nel suo tetro silenzio, senza alzare la testa, anche se la sua risata lo feriva nel profondo dell'animo. Una volta, quando erano già stati congedati da Walsh ed erano ai piedi della scaletta di boccaporto, Caroline esclamò, in tono così teatrale da risultare irritante: «Oh, come sono ripidi, questi scalini! Posso appoggiarmi al tuo braccio, Guy?» Poi lo prese sottobraccio, alzando gli occhi verso il viso sorridente del giovane. Tom passò oltre, sfiorandoli con apparente indifferenza. Chissà come, invece, i doveri di Guy a bordo gli lasciavano il tempo di passeggiare con la signora Beatty e le figlie sul ponte della nave o di trascorrere ore intere impegnato in serie conversazioni col signor Beatty nel suo camerino. In effetti, tanto il signore quanto la signora Beatty sembravano molto affezionati a lui. Guy non faceva ancora il minimo tentativo per lasciare il ponte e arrampicarsi sul sartiame, anche quando Tom lo stuzzicava in proposito, sempre alla portata delle orecchie di Caroline. Tom era sorpreso di non essere risentito per la vigliaccheria di Guy; provava anzi un certo sollievo al pensiero di non avere la responsabilità di tenere d'occhio il gemello in quella nuova e pericolosa situazione. Era già sufficiente doversi prendere cura di Dorian, anche se il fratello minore era così svelto e agile sulle sartie da non creargli troppi problemi. Benché fosse stata l'intromissione di Caroline a metterlo in evidenza, in realtà i due gemelli si stavano allontanando già da qualche tempo. Stavano poco in compagnia e, quando erano insieme, si parlavano in modo teso e diffidente. Era un cambiamento vistoso rispetto ai tempi, non molto lontani, in cui si erano confidati pensieri e sogni, confortandosi a vicenda nelle piccole disavventure e ingiustizie della vita. Dopo cena, Hal invitava spesso i passeggeri a trascorrere la serata giocando a whist nell'alloggio del comandante, a poppa. Era un ottimo giocatore e aveva insegnato anche a Tom ad apprezzare quel gioco. Con la sua predisposizione per la matematica, Tom era diventato un giocatore di prim'ordine e spesso faceva coppia col padre contro il signor Beatty e il precettore Walsh. Quelle partite venivano prese molto sul serio e combattute accanitamente. Dopo ogni mano si discuteva e si analizzava il Wilbur Smith
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gioco, mentre, dalla parte opposta dell'alloggio, Guy, la signora Beatty e le figlie ridacchiavano e lanciavano squittii, divertendosi un mondo con i loro giochi di carte infantili. Infatti Guy non aveva mai mostrato alcuna attitudine o inclinazione per il gioco del whist, più impegnativo. Durante una di quelle serate, Tom si trovò a giocare col padre un difficile contratto di cinque cuori. Capì fin dall'inizio che i due giochi possibili per mantenere il contratto erano entrambi di difficile soluzione. Avrebbe potuto fare l'impasse alla regina di cuori del signor Beatty o giocare la divisione delle atout. Cercò di calcolare anche quale probabilità avessero le cuori di essere divise o se, al contrario, la regina fosse un singleton, ma era distratto dalle esclamazioni e dai gridolini provenienti dall'altro tavolo. Rimuginò per qualche tempo e poi fece il sorpasso con la regina. Vide il padre corrugare la fronte all'inizio del gioco, e poi, con sua grande costernazione, Walsh lanciò un sogghigno di trionfo e incassò la regina «secca». Indispettito dal proprio errore, Tom giocò male le fiori e la mano finì in un disastro. Il padre fu severo con lui. «Avresti dovuto capire dalla dichiarazione del signor Walsh che possedeva sette fiori e che il suo scarto sul tuo re confermava la cattiva distribuzione.» Tom si dimenò sulla sedia. Poi, alzando la testa, si accorse che il gioco all'altro tavolo si era fermato e tutti stavano ascoltando il padre che lo rimproverava. Caroline e Guy lo fissavano, con le teste accostate; dall'espressione di Guy traspariva un'esultanza maligna che Tom non aveva mai visto prima. Guy stava letteralmente gongolando dell'umiliazione del fratello. Di colpo, Tom si sentì in colpa: per la prima volta in vita sua, doveva ammettere di detestare il fratello gemello. Guy si voltò per ammiccare rivolto a Caroline, che prima gli posò sulla manica una mano piccola e bianca, poi si coprì la bocca con l'altra per sussurrargli qualcosa all'orecchio. Guardava apertamente Tom, con occhi beffardi, e il ragazzo si accorse con un sussulto che non solo detestava Guy, ma gli augurava addirittura del male. Per alcuni giorni, dopo quell'episodio, fu tormentato dal pensiero della colpa di cui si era macchiato. Il padre aveva insegnato a tutti i figli che la lealtà verso i familiari era sacrosanta: «Siamo noi soli contro il mondo», diceva spesso. Tom sentiva di avere deluso ancora una volta le sue aspettative. Poi, d'un tratto, ebbe l'impressione che i suoi sentimenti fossero Wilbur Smith
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giustificati. Da principio si accorse solo vagamente che c'era nell'aria qualcosa di serio. Notò il padre e il signor Beatty assorti in conversazione sul cassero e si accorse subito che il padre era profondamente dispiaciuto. Nei giorni seguenti il signor Beatty trascorse molto tempo rinchiuso con Hal nell'alloggio di poppa. Poi Hal mandò Dorian a chiamare Guy perché prendesse parte a uno di quegli incontri. «Che cosa stavano dicendo?» chiese Tom al fratellino, non appena questi tornò. «Non lo so.» «Avresti dovuto origliare alla porta», brontolò Tom, bruciando di curiosità. «Non ne ho avuto il coraggio», confessò Dorian. «Se mi avesse sorpreso a farlo, nostro padre mi avrebbe fatto fare un giro di chiglia.» Aveva sentito parlare da poco di quella terribile punizione, che esercitava su di lui un fascino morboso. Guy si aspettava da giorni di essere convocato nell'alloggio di poppa e temeva quel momento. Quando Dorian era venuto a cercarlo, Guy era al lavoro con Ned Tyler nella santabarbara, il deposito della polvere da sparo, dove lo aiutava ad aprire i barilotti per controllare se la polvere nera e granulosa fosse umida. «Nostro padre vuole vederti nel suo alloggio.» Il bambino era tutto preso dall'importanza della sua missione, e intuiva di essere latore di una convocazione minacciosa. Guy si alzò, sfregando le mani per liberarle dai granelli di polvere. «È meglio che ti affretti», lo ammonì Dorian. «Ha la sua espressione da 'morte agli infedeli'.» Entrando, Guy si accorse subito che Dorian non aveva esagerato nel dipingere l'umore del padre. Hal si trovava presso le finestre della galleria di poppa, con le mani incrociate dietro la schiena. Si girò di scatto per accogliere Guy, e la folta coda di capelli scuri che gli scendeva sulle spalle scattò come la coda di un leone infuriato mentre fissava il figlio con un'espressione in cui si leggeva la collera, ma non solo. C'era anche una punta di ansia e persino di costernazione. «Ho avuto una lunga conversazione col signor Beatty», esordì, indicandolo con un cenno. Beatty era seduto al tavolo, con un'espressione seria e severa. Portava la parrucca lunga, segno ulteriore della gravità di Wilbur Smith
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quell'incontro. Hal rimase in silenzio per qualche istante, come se quello che aveva da dire fosse tanto sgradevole che avrebbe preferito non affrontare l'argomento. «Sono indotto a credere che tu abbia fatto progetti per il futuro senza consultarti con me, che sono il capofamiglia.» «Perdonatemi, padre, ma non voglio fare il marinaio», disse Guy con aria mesta. Hal fece involontariamente un passo indietro, come se il figlio avesse rinnegato la sua fede in Dio. «Siamo sempre stati marinai. Sono duecento anni che i Courteney vanno per mare.» «Io lo odio», ribatté Guy, con una voce sommessa e tremante. «Odio il fetore disgustoso e la mancanza di spazio a bordo di una nave. Quando non sono a terra mi sento male e sono infelice.» Ci fu un altro lungo silenzio, poi Hal continuò: «Tom e Dorian non sono venuti meno alla loro tradizione familiare. Senza dubbio vivranno avventure emozionanti e ne ricaveranno alti profitti. Avevo pensato di offrirti un giorno una nave tutta tua, però mi accorgo di sprecare il mio fiato». Guy abbassò la testa, ripetendo in tono avvilito: «Non sarò mai felice lontano dalla terraferma». «Felice!» Hal si era ripromesso di non perdere la calma, ma quella parola gli sfuggì dalle labbra in tono sprezzante. «Che cosa c'entra la felicità? Un uomo segue la strada che gli si stende dinanzi. Fa il suo dovere verso Dio e il suo re; fa quello che deve fare, non quello che gli piace.» Sentì la collera e l'indignazione montare dentro di sé. «In nome di Dio, ragazzo, che genere di mondo sarebbe, questo, se ognuno facesse soltanto quello che gli va di fare? Chi vorrebbe arare i campi e mietere il raccolto, se tutti avessero il diritto di dire: 'Non voglio farlo'? In questo mondo c'è posto per ogni uomo, però ogni uomo deve stare al suo posto.» Scorgendo l'espressione ostinata che era apparsa sul viso del figlio, s'interruppe e si voltò verso la galleria di poppa, per guardare l'oceano e il cielo azzurro, striato d'oro dai raggi del sole al tramonto. Respirava a fondo, ma impiegò qualche minuto per ritrovare il dominio di sé. Quando tornò a voltarsi, aveva il viso impassibile. «Benissimo», esclamò. «Forse sono eccessivamente indulgente, tuttavia non intendo importi la mia volontà, anche se Dio sa che ho pensato di farlo. Hal la fortuna di godere della stima del signor Beatty, stima che, col tuo Wilbur Smith
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comportamento egoistico, Hal impedito a me di provare nei tuoi confronti.» Si lasciò cadere sulla sedia fissata al pavimento, spingendo verso Guy il documento posato sul tavolo. «Come sai già, il signor Beatty ti ha offerto un impiego nell'onorevole Compagnia Inglese delle Indie Orientali come apprendista scrivano, mostrandosi generoso per quanto riguarda il salario e le condizioni d'impiego. Se accetterai questa offerta, il tuo rapporto di lavoro con la Compagnia comincerà immediatamente. Ti lascerò libero dai tuoi impegni come componente dell'equipaggio di questa nave. Comincerai invece a lavorare come assistente del signor Beatty e lo accompagnerai fino allo stabilimento della Compagnia a Bombay. È tutto chiaro?» «Sì, padre», mormorò Guy. «È questo che vuoi?» Hal si protese in avanti per guardare negli occhi il figlio, nella speranza di cogliere un cenno di diniego. «Sì, padre, è questo che voglio.» Hal sospirò, e la collera parve svanire. «Allora, prego per il tuo bene che tu abbia preso la decisione giusta. Ormai il tuo destino non è più nelle mie mani.» Spinse sullo scrittoio il foglio di pergamena del contratto. «Firmalo. Io ti farò da testimone.» Dopodiché Hal cosparse accuratamente di sabbia la firma, prima di soffiare via quella in eccesso per porgere il documento al signor Beatty. Infine si rivolse di nuovo a Guy. «Spiegherò la tua posizione agli ufficiali della nave e ai tuoi fratelli. Non ho dubbi su ciò che penseranno della tua decisione.» Al buio, accovacciati a prua in compagnia di Aboli e Big Daniel, i fratelli discussero a fondo la decisione di Guy. «Ma come può lasciarci così? Abbiamo giurato di restare sempre insieme, non è vero, Tom?» Dorian era sconvolto. Tom eluse la domanda diretta. «Guy soffre il mal di mare. Non potrebbe mai diventare un vero marinaio. E poi ha paura del mare, e anche di salire sul sartiame.» Chissà come mai, Tom non riusciva a condividere il turbamento del fratello minore per la piega presa dagli avvenimenti. Dorian dovette intuirlo perché si rivolse ai due uomini per farsi consolare. «Sarebbe dovuto restare con noi, non lo pensi anche tu, Aboli?» «Nella giungla ci sono molte strade», rispose Aboli con un brontolio sommesso. «Se prendessimo tutti la stessa, sarebbe molto affollata.» Wilbur Smith
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«Ma Guy!» Dorian aveva le lacrime agli occhi. «Non avrebbe mai dovuto abbandonarci.» Si girò di nuovo verso Tom. «Tu non mi lascerai mai, vero, Tom?» «Certo che no», rispose il fratello in tono burbero. «Prometti?» Una lacrima rigò la guancia di Dorian, luccicando al chiarore delle stelle. «Non devi piangere», lo ammonì Tom. «Non sto piangendo. È solo il vento che mi fa lacrimare gli occhi.» Si terse la lacrima. «Promettilo, Tom.» «Te lo prometto.» «No, non così. Devi prometterlo con un giuramento terribile», insistette Dorian. E Tom, con un sospiro spazientito, estrasse il pugnale dal fodero che portava alla cintura, levando la lama sottile che scintillò al chiaro di luna. «Che Dio, Aboli e Big Daniel mi siano testimoni.» Con la punta del pugnale, si punse il polpastrello del pollice, e tutti guardarono il sangue sgorgare nero come la pece sotto quella luce argentea. Lui rinfoderò il pugnale, attirando a sé il viso di Dorian con la mano libera. Poi, fissando solennemente il bambino negli occhi, gli tracciò sulla fronte col pollice una croce di sangue. «Giuro con un giuramento terribile che non ti lascerò mai, Dorian», recitò in tono solenne. «Adesso smettila di frignare.» Con la defezione di Guy, i turni a bordo furono modificati in modo che Tom si assumesse anche i compiti che prima spettavano a entrambi i gemelli, aggiungendoli ai suoi. Ned Tyler e Big Daniel potevano ormai concentrare le lezioni di navigazione, artiglieria e manovra delle vele su due allievi, invece di tre. La routine giornaliera di Tom, già faticosa in precedenza, adesso pareva non avere mai fine. Al contrario, i doveri di Guy erano leggeri e piacevoli. Dopo le lezioni quotidiane col signor Walsh, mentre Tom e Dorian dovevano precipitarsi in cima all'albero per cominciare il loro turno di guardia, lui dedicava alcune ore a scrivere lettere e rapporti per il signor Beatty, oppure a studiare le pubblicazioni della Compagnia, comprese le Istruzioni per i nuovi assunti al servizio dell'onorevole Compagnia Inglese delle Indie Orientali, dopodiché era libero di leggere a voce alta per la signora Beatty, oppure di giocare a carte con le figlie. Niente di tutto questo contribuiva a renderlo più caro al fratello maggiore, che a volte, dalla sua postazione, lo Wilbur Smith
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guardava passeggiare e ridere con le signore sul cassero, che era zona vietata per tutti, tranne che per gli ufficiali della nave e i passeggeri. La Seraph superò l'equatore tra i soliti festeggiamenti, mentre tutti coloro che lo varcavano per la prima volta superavano la cerimonia d'iniziazione, prestando giuramento di fedeltà a Nettuno, dio del mare. Aboli, infagottato in un assurdo costume ricavato da indumenti raccogliticci tirati fuori dal baule dei vestiti di ricambio, e con una barba fatta di cime sfilacciate, impersonò un Nettuno impressionante. La zona di bonaccia era rimasta a nord della linea dell'equatore e le due navi, liberandosi a poco a poco dalla sua stretta, si ritrovarono nella fascia degli alisei meridionali. L'aspetto dell'oceano cambiò: adesso racchiudeva una scintilla che lo faceva sembrare vivo, a confronto con le acque torpide e imbronciate delle calme equatoriali. L'aria era fresca e stimolante, il cielo punteggiato da pennacchi di alti cirri sospinti dal vento. In coincidenza con quel cambiamento, l'umore dell'equipaggio divenne quasi allegro. Hal tracciò una rotta in direzione sud-ovest, in modo da poter filare in alto mare, tenendosi alla larga dal continente africano e navigando quasi al centro dell'Atlantico, verso la costa del Sudamerica, ma sfruttando appieno la direzione del vento per la lunga cavalcata sull'oceano. Ogni dieci giorni, Tom scendeva sotto coperta con Ned e gli artiglieri per controllare il contenuto del deposito della polvere da sparo. Comprendere il carattere e la natura capricciosa della polvere nera faceva parte del suo addestramento all'arte dell'artiglieria. Doveva conoscerne la composizione - zolfo, carbone e salnitro -, doveva sapere in che modo quegli ingredienti si potevano mescolare e immagazzinare senza correre rischi, come prevenire la formazione di calore e umidità, che avrebbero fatto impastare i granuli, causando un'accensione irregolare o difettosa nelle armi o addirittura impedendola. A ogni visita nella santabarbara, Ned gli rammentava il pericolo d'introdurre nel locale fiamme libere o scintille, che potevano causare un'esplosione e far saltare in aria la nave. Prima del combattimento, i barilotti venivano aperti e si pesava con cura la polvere nera, versandola nei sacchetti di seta che contenevano la carica esatta per un cannone. Poi s'inseriva la carica nella bocca da fuoco, sopra la quale si poneva uno stoppaccio, seguito a sua volta dalla palla. I sacchetti venivano portati sui ponti di batteria dai ragazzi assegnati a quel compito: sulle navi inglesi erano soprannominati powder monkeys, ossia «scimmie della polvere». Wilbur Smith
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Anche quando non si prevedeva d'ingaggiare un combattimento, alcuni sacchetti di seta venivano riempiti e tenuti pronti sulle scansie, in caso di emergenza. Purtroppo la seta sottile esponeva il contenuto all'umidità, per cui i sacchetti dovevano essere controllati e rinnovati regolarmente. Quando Ned e Tom lavoravano nella santabarbara, si scambiavano di rado scherzi o battute. La luce diffusa dall'unica lampada, schermata da una rete fitta, era molto fioca, e nel deposito regnava un silenzio degno di una cattedrale. Man mano che gli venivano passati i sacchetti di seta, Tom li riempiva con cura, disponendoli sulle scansie. Erano solidi e levigati al tatto. Potrebbero diventare una bella cuccetta comoda, pensò e, di colpo, ebbe una visione di Caroline distesa sui sacchetti di seta... nuda. Si lasciò sfuggire un gemito sommesso. «Che c'è, signorino Tom?» Ned alzò la testa, con aria interrogativa. «Niente, stavo solo pensando.» «Lasciate i sogni a occhi aperti al vostro gemello. A lui riescono bene», gli consigliò Ned. «E dateci dentro col lavoro. È quello che riesce meglio a voi.» Tom continuò a riempire e stivare sacchetti, ma nel frattempo rifletteva. La santabarbara era l'unica zona della nave che restasse deserta per dieci giorni di seguito e nella quale una persona potesse restare sola, senza timore d'intrusioni. Si trattava del posto che lui stava cercando con tanto accanimento... ed era così evidente che lo aveva trascurato. Lanciò un'occhiata alle chiavi appese alla cintura di Ned. Il mazzo ne comprendeva una mezza dozzina: erano le chiavi del magazzino, degli stipetti delle armi, dei depositi della cambusa e del baule degli indumenti, oltre che della santabarbara. Quando ebbero finito, Tom si affiancò a Ned mentre chiudeva con cura la solida porta di quercia, prendendo nota dentro di sé della chiave che l'uomo inseriva nella massiccia serratura: aveva una forma molto caratteristica che la distingueva dalle altre del mazzo, con cinque codoli disposti a corona. Tentò di escogitare un modo per mettere le mani su quel mazzo di chiavi, anche soltanto per cinque minuti, in modo da poter sfilare dall'anello quella che voleva. Ma era fatica sprecata. Generazioni di marinai prima di lui avevano rimuginato su un problema simile: come mettere le mani sul deposito dove si custodivano gli alcolici. Quella notte, mentre era steso sul pagliericcio, gli venne un'altra idea, Wilbur Smith
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così improvvisa che si drizzò a sedere di scatto. A bordo doveva esserci un'altra serie di chiavi. Se c'era, Tom sapeva dove si trovava: nell'alloggio del padre. Nel baule sotto la sua cuccetta o in uno dei cassetti dello scrittoio, pensò. Per il resto della notte riuscì a dormire ben poco. Persino nella sua posizione privilegiata di figlio maggiore del comandante della nave non poteva certo introdursi a suo piacimento nell'alloggio del padre, senza contare che gli spostamenti di Hal da un capo all'altro della nave erano imprevedibili. Non si poteva mai avere la certezza che il suo alloggio fosse deserto. Se non c'era lui, probabilmente il mozzo era intento a sistemare le coltri, oppure a riporre gli abiti di Hal. Tom scartò l'idea di fare un tentativo dopo che il padre si era ritirato per la notte: sapeva, per averlo scoperto a sue spese, che aveva il sonno leggero. Hal non era un uomo da prendere sottogamba. Nel corso della settimana successiva, Tom meditò e scartò subito altri piani inverosimili, come per esempio calarsi dall'esterno dello scafo per entrare attraverso la galleria di poppa. Sapeva che avrebbe dovuto correre un rischio calcolato, aspettando che il padre ordinasse una manovra impegnativa. Allora gli uomini di entrambi i turni di guardia sarebbero stati sul ponte e il padre sarebbe stato in coperta: Tom avrebbe potuto escogitare qualche scusa per lasciare il suo posto e precipitarsi di sotto. I giorni trascorrevano in fretta, con gli alisei costanti da sud-est e la Seraph ancora sulla rotta iniziale. Non fu necessario cambiare le vele e quindi Tom non ebbe l'opportunità di mettere in atto il suo piano. Poi l'occasione si presentò in modo tanto fortuito che Tom provò un senso di disagio quasi superstizioso. Era accovacciato insieme con gli altri uomini del suo turno sotto la sporgenza del castello di prua, per godersi uno dei rari momenti di riposo, quando il padre alzò la testa dalla chiesuola della bussola, facendogli segno di avvicinarsi. Tom accorse a fianco del padre. «Da bravo, ragazzo mio, fa' un salto giù nel mio alloggio», gli disse Hal, «e guarda nel primo cassetto dello scrittoio. Troverai il mio taccuino nero. Portamelo qui.» «Sì, signore.» Per un attimo Tom si sentì girare la testa, poi corse verso la scaletta di boccaporto. «Un momento, Tom.» La voce del padre lo costrinse a fermarsi. Il cuore gli tamburellava nel petto. Era stato troppo facile. «Se non è nel primo cassetto, può darsi che sia in uno degli altri.» «Sì, padre.» Tom si precipitò giù per la scaletta. Wilbur Smith
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Il taccuino nero era nel primo cassetto, esattamente dove aveva detto il padre. In fretta, Tom aprì anche gli altri, temendo di trovarli chiusi a chiave; invece scorrevano facilmente, quindi poté frugare rapidamente all'interno. Mentre apriva l'ultimo, udì il tintinnio di un pesante oggetto metallico che scivolava in seguito al movimento e il suo cuore fece un altro balzo. Il duplicato delle chiavi era nascosto sotto una copia dell'almanacco e delle tavole di navigazione. Tom le sollevò con cautela, riconoscendo la caratteristica forma a corona della chiave della santabarbara. Lanciando un'occhiata alla porta chiusa dell'alloggio, rimase in ascolto di un eventuale suono di passi. Poi aprì l'anello e fece scivolare fuori la chiave, ficcandosela in tasca e richiudendo il fermo dell'anello prima di riporre nel cassetto il mazzo di chiavi e coprirlo con l'almanacco. Mentre risaliva di corsa sul ponte, la chiave gli pesava in tasca come una palla di cannone. Doveva trovarle un nascondiglio. Era improbabile che il padre scoprisse il furto, a meno che non andasse perduto l'originale. Era un'eventualità estremamente improbabile, comunque era pericoloso portare il «bottino» su di sé. Quella notte si svegliò come al solito quando la campana della nave suonò l'inizio del turno di guardia mediano, a mezzanotte. Attese un'altra ora, poi si alzò dal pagliericcio senza fare rumore. Guy, al suo fianco, si mise a sedere. «Dove vai?» domandò in un bisbiglio. Tom si sentì sprofondare. «Alla latrina», bisbigliò di rimando. «Torna a dormire.» In futuro avrebbe dovuto apportare qualche modifica alla loro sistemazione per la notte. Guy ricadde sul pagliericcio e Tom sgattaiolò fuori, dirigendosi a prua, ma, non appena fu lontano dalla vista di Guy, tornò rapidamente indietro per scendere furtivamente la scaletta fino al ponte inferiore. Con quel vento e in quella fase della navigazione, la nave non era mai silenziosa: le tavole del fasciame scricchiolavano e gemevano, una delle giunture scattava regolarmente con la sonorità di un colpo di pistola, mentre le acque frusciavano, sussurravano e tamburellavano contro la carena. Sul ponte inferiore non c'erano luci, ma Tom proseguì senza esitazioni, urtando soltanto una volta contro una delle paratie. Qualunque rumore facesse, era coperto dagli altri rumori della nave. C'era un'unica lanterna appesa al ponte, ai piedi della scaletta di poppa, e Wilbur Smith
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gettava una luce tremolante sul passaggio centrale. Una scheggia di luce filtrava sotto la porta dell'alloggio del padre. Tom passò oltre, fermandosi un istante davanti al camerino in cui dormivano le tre ragazze. Non sentì nulla, e proseguì. Il deposito della polvere da sparo si trovava sul ponte inferiore, proprio accanto al punto in cui il piede dell'albero di maestra era fissato al paramezzale. Tom scese piano l'ultima scaletta di legno, che sprofondava nel buio assoluto del ponte più basso della nave, dirigendosi cautamente verso la porta della santabarbara. Inginocchiatosi davanti alla serratura, inserì la chiave aiutandosi solo col tatto. Il meccanismo resisteva, tanto che dovette esercitare una forza notevole prima che cedesse. Infine il battente si aprì sotto la sua spinta. Il ragazzo rimase fermo sulla soglia, al buio, aspirando l'aroma pungente della polvere nera. Per quanto provasse un senso di soddisfazione, sapeva di dover superare ancora molti ostacoli. In silenzio, tirò il battente e chiuse la porta. A tentoni, trovò la fessura sopra l'architrave: lì nascose la chiave e la scatola contenente l'esca e l'acciarino che aveva portato con sé. Quindi tornò sui suoi passi fino a raggiungere il pagliericcio sul ponte di batteria, strisciando al proprio posto. Guy, al suo fianco, si agitò, irrequieto; era ancora sveglio, ma nessuno dei due parlò, e ben presto entrambi scivolarono di nuovo nel sonno. Fino a quel momento tutto aveva cospirato a favore di Tom, tanto che il giorno dopo lui ebbe la sgradevole sensazione che la sorte dovesse cambiare. Da parte di Caroline non erano giunti segnali che lo incoraggiassero a portare avanti i suoi piani. Tom si stava perdendo d'animo, meditando sui rischi che aveva corso e su quelli che doveva ancora correre. Più di una volta decise di rimettere la chiave della santabarbara nel cassetto dello scrittoio del padre, abbandonando quell'idea disperata. Poi però lanciava un'occhiata di soppiatto a Caroline, tutta assorta dalle lezioni. La curva della gota, le labbra rosee che sporgevano in un piccolo broncio concentrato, il braccio levigato, lasciato scoperto dalla manica a palloncino del vestito, leggermente dorato dal sole tropicale e ricoperto di una finissima peluria color pesca... Devo stare solo con lei, anche soltanto un minuto. Vale la pena di correre qualunque rischio, decise Tom; eppure continuava a esitare, incerto se arrischiarsi a tanto. Vacillava... e fu lei a dargli la spinta che lo fece capitolare. Alla fine delle lezioni del giorno, Caroline si precipitò fuori del Wilbur Smith
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camerino, precedendolo; ma, proprio mentre posava il piede sulla scaletta di boccaporto, Walsh la richiamò, chiedendole: «Ah, madamigella Caroline, potrete partecipare all'esercitazione di musica, questa sera?» Caroline si voltò per rispondere, tuttavia il suo movimento fu così inatteso che Tom non poté evitare di urtarla. Nello scontro lei rischiò di perdere l'equilibrio, ma si aggrappò al suo braccio per sostenersi e lui le passò l'altro braccio attorno alla vita. In quel momento erano fuori della visuale di Walsh e dei due ragazzi nel camerino alle loro spalle. Caroline non tentò di liberarsi da Tom, al contrario; si lasciò andare, premendo contro di lui la parte inferiore del corpo in un movimento deliberato, e alzando nel contempo gli occhi sul suo viso con un'espressione maliziosa. Il mondo, per Tom, cambiò faccia. Fu un contatto fuggevole, poi Caroline superò il ragazzo per rispondere a Walsh attraverso la porta del camerino: «Sì, certo. Il tempo è così bello che potremmo incontrarci sul ponte, non vi pare?» «Che splendida idea», convenne Walsh. «Diciamo alle sei, allora?» Calcolava ancora il tempo secondo le divisioni usate dai marinai d'acqua dolce. Ned Tyler era a fianco di Tom, al timone della nave. Tom tentava di tenere la rotta della Seraph costante a sud-sud-ovest, nella sua corsa inarrestabile attraverso l'oceano. «Assecondatela!» grugnì Ned quando Tom la lasciò orzare di una quartina. Con tutte le vele issate fino ai controvelacci e gonfiate da venticinque nodi di vento, era come tentare di trattenere uno stallone in fuga. «Guardate la scia», lo ammonì Ned con severità, e Tom, obbediente, si girò verso poppa. «Come una coppia di serpenti in luna di miele», brontolò Ned, anche se sapevano entrambi che era ingiusto: a una tesa di distanza dietro di loro la deviazione che si notava nella scia spumosa era quasi impercettibile. Ma gli insegnanti non mostravano mai la minima indulgenza nei confronti di Tom. Tempo dieci minuti e la Seraph tracciava, tra le onde azzurre, un solco diritto come la lama di una spada. «Molto bene, signorino Tom.» Ned annuì. «Ora, a partire dalla formaggetta dell'albero di maestra, se non vi dispiace.» «Controvelaccio, velaccio...» Tom elencò tutte le vele, senza sbagli né Wilbur Smith
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esitazioni e senza neppure lasciar deviare la nave dalla rotta. Poi il trio di musicisti salì dagli alloggi di poppa. Guy portava lo spartito di Caroline, insieme con la sua cetra; Walsh, col flauto che gli sporgeva dalla tasca di dietro, le teneva in una mano lo sgabello, mentre con l'altra teneva a posto la parrucca. Il gruppetto prese posto come al solito presso la battagliola sottovento, a ridosso dall'impatto degli alisei. Tom tentò di mantenere l'attenzione sul governo della nave, di rispondere alle domande di Ned e di spiare il momento in cui Caroline avrebbe aperto lo spartito, trovando il biglietto che lui aveva infilato tra le pagine. «E ora le vele di mezzana, se non vi dispiace, dalla formaggetta», ordinò Ned. «Controbelvedere, belvedere...» cominciò Tom, poi ebbe un'esitazione. Caroline era pronta a cantare e Walsh le aveva passato lo spartito. «Avanti», lo spronò Ned. «Contromezzana volante...» riprese Tom. Caroline aprì lo spartito e corrugò la fronte. Stava leggendo qualcosa tra le pagine. Gli parve di vederla impallidire; poi lei alzò gli occhi di scatto, fissandolo dall'altro capo della coperta. «Contromezzana fissa...» proseguì Tom, ricambiando l'occhiata. Lei gli lanciò di nuovo quel suo sguardo malizioso ed enigmatico, scuotendo la testa in modo che i riccioli danzassero al vento. Prendendo dalle pagine dello spartito il foglietto di carta di riso sul quale Tom aveva scritto tanto laboriosamente il suo messaggio, lo appallottolò, gettandolo poi fuori bordo con aria sdegnosa. Il vento lo prese, portandolo lontano prima che cadesse in acqua, scomparendo tra le creste bianche delle onde. Era un ennesimo rifiuto, così netto che Tom si sentì vacillare. «Orzate, presto!» esclamò Ned in tono brusco, e Tom sussultò, assalito dal senso di colpa nel vedere che aveva lasciato scarrocciare la Seraph. Pur sapendo che ormai era inutile, Tom rimase steso sul pagliericcio per tutto il primo, interminabile turno di guardia, aspettando la mezzanotte e dibattendo con se stesso se c'era ancora qualche motivo, a quel punto, per correre il rischio e mantenere l'impegno che si era assunto. Il rifiuto di Caroline gli era sembrato categorico, eppure Tom sapeva con certezza che la giovane aveva gradito quanto lui quel breve ed eccitante momento d'intimità nell'alloggio di suo padre; inoltre, il fuggevole contatto davanti Wilbur Smith
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al camerino di Walsh aveva confermato oltre ogni dubbio che non era affatto contraria a un'altra avventura. Non è la gran dama altezzosa che finge di essere, pensò Tom, stizzito. Sotto tutte quelle sottogonne alla moda, le piace esattamente come piace a Mary o a una qualsiasi delle ragazze del villaggio. Scommetto una ghinea d'oro contro una presa di sterco secco di cavallo che a quel gioco potrebbe competere con la migliore di loro. Aveva trasferito il suo pagliericcio in una nicchia dietro uno dei cannoni, in modo che né Guy né Dorian potessero stendersi al suo fianco e controllare i suoi movimenti durante la notte. Le ore del turno di guardia gli parvero interminabili. Un paio di volte si assopì, ma poi si riscosse di scatto, tremante per l'ansia, assillato dai dubbi. Quando sentì suonare i sette rintocchi del primo turno sul ponte, proprio sopra il suo giaciglio, non riuscì a trattenersi oltre e sgattaiolò fuori della coperta per dirigersi furtivamente verso la scaletta di boccaporto, trattenendo il respiro per evitare che uno dei fratelli si destasse. Passando di nuovo davanti al camerino in cui dormivano le tre sorelle, accostò l'orecchio alla porta. Non riuscendo a udire il minimo rumore, provò la tentazione di bussare sul battente per scoprire se Caroline era rimasta sveglia come lui. Tuttavia il buonsenso prevalse e Tom si allontanò dalla porta per scendere furtivamente verso il ponte inferiore. Con suo enorme sollievo, la chiave della santabarbara era rimasta dove l'aveva lasciata, insieme con la scatola che conteneva l'esca e l'acciarino. Aperta la porta, sgattaiolò all'interno, arrampicandosi sulla scaffalatura per raggiungere la lanterna appesa al sostegno, poi la portò fuori, nel passaggio, richiudendo la porta con cura, per evitare che la scintilla dell'acciarino potesse attizzare qualche granello di polvere sparso sul pavimento del deposito. Estratta la scatola dal nascondiglio e accovacciatosi sulle tavole del ponte, meditò sul rischio che stava per correre, facendo scattare una pietra focaia nel buio della nave. Non era tanto il rischio di un'esplosione a preoccuparlo, quando il fatto che qualunque sorgente di luce poteva attirare l'attenzione. In cima alla scaletta si trovava l'alloggio del padre e, lì accanto, c'era quello del signor Beatty e della moglie. Magari non dormivano, oppure uno di loro era uscito per andare alla latrina. E poteva anche darsi che l'ufficiale del turno di guardia, nel corso dei suoi giri di ronda, si spingesse sino in fondo alla nave, pronto a indagare su qualunque Wilbur Smith
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luce insolita. D'altra parte Tom era più che sicuro che Caroline non poteva avere né il coraggio né la conoscenza della nave necessari per orizzontarsi fino a raggiungere la santabarbara nel buio assoluto. Doveva offrirle almeno quel piccolo incoraggiamento. Si accovacciò vicino alla scatola con l'esca, facendole scudo col proprio corpo, prima di accostare l'acciaio alla pietra focaia. Sprizzò un lampo accecante di scintille azzurrine e l'esca prese fuoco. Il cuore gli batteva forte mentre sollevava lo schermo a reticella della lampada per accendere lo stoppino, riparandolo con la mano finché non prese bene. Abbassò quindi lo schermo, che attutiva la fiamma, impedendole però di appiccare il fuoco a eventuali granuli sparsi in giro. Ripose la chiave e la scatola nel loro nascondiglio, prima di riportare la lanterna nel deposito, appendendola alla staffa. Uscito dalla santabarbara, accostò la porta dietro di sé, lasciando uno spiraglio sufficiente a far trapelare una sottile striscia di luce, non tanta da attirare un'attenzione indiscreta, ma sufficiente per tentare una ragazza intimorita ad avventurarsi giù per la scaletta di boccaporto. Poi si accovacciò accanto alla porta, pronto a chiuderla per nascondere la luce. Laggiù, vicino alla sentina, non poteva udire la campana della nave, quindi perse la nozione del tempo. «Tanto non verrà», mormorò a un certo punto. Gli pareva che fossero trascorse alcune ore. Si alzò a metà, ma non riusciva a rassegnarsi. Aspetto ancora un po', decise, rimettendosi a sedere con la schiena addossata alla paratia di legno. Dovette appisolarsi, perché il primo sentore dell'arrivo di Caroline fu il profumo del suo corpo, quella fragranza da cucciolo che emanava dalla ragazza ancora adolescente; soltanto dopo sentì scivolare i suoi piedi nudi sul ponte, vicinissimi a lui. Si alzò di scatto. Caroline lanciò un urlo di terrore vedendolo sbucare dalle tenebre ai suoi piedi. Tom l'afferrò, stringendola con forza disperata. «Sono io! Sono io!» le disse in un sussurro. «Non avere paura.» Lei gli si aggrappò con una forza sorprendente. «Mi Hal spaventata», ansimò. Era scossa da un forte tremito, così lui se la strinse al petto, accarezzandole i capelli. Li aveva lasciati sciolti, e le arrivavano fino a metà schiena, folti ed elastici sotto le dita di Tom. «Va tutto bene. Sei al sicuro. Ci sono io, qui, per badare a te.» Alla luce fioca, vide che portava una camicia da notte di cotone chiaro, legata al Wilbur Smith
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collo con un nastro e lunga fino alle caviglie. «Non sarei mai dovuta venire», mormorò lei, col viso schiacciato sul petto di Tom. «Sì, oh, sì, invece», ribatté lui. «Ho aspettato tanto. Desideravo tanto che tu venissi.» Rimase stupito nel sentirla così fragile e nello scoprire quanto fosse caldo quel corpo stretto al suo. L'abbracciò ancora più forte. «Va tutto bene, Caroline. Qui siamo al sicuro.» Le passò le mani lungo la schiena. Il cotone era leggero, quasi impalpabile, e, sotto la camicia, lei non indossava altro. Tom poteva sentire ogni curva e ogni incavo del suo corpo. «E se mio padre...» Lei parlava con un filo di voce, incrinata dalla paura. «No, no.» Tom la interruppe. «Vieni con me.» L'attirò in fretta nella santabarbara, chiudendo la porta dietro di sé. «Quaggiù nessuno potrà trovarci.» La strinse a sé, baciandola sulla sommità del capo. I capelli emanavano un lieve profumo. Il tremito di Caroline si placò, e lei sollevò il viso per guardarlo: alla luce fioca della lanterna schermata, i suoi occhi sembravano enormi, luminosissimi. «Non essere rude con me», lo pregò. «Non farmi male.» La semplice idea faceva inorridire Tom. «Oh, tesoro mio, non potrei mai farlo.» Si accorse che le parole rassicuranti gli salivano alle labbra naturali e convincenti. «Io ti amo... Ti amo fin dal primo momento che ho posato gli occhi sul tuo bel viso.» Non si era ancora reso conto di possedere il dono dell'eloquenza che contraddistingue i grandi amatori, e ignorava quanto gli sarebbe riuscito utile negli anni a venire. «Ti amavo anche quando mi trattavi con tanta freddezza.» La vita di lei era così sottile che Tom riusciva quasi a cingerla con le mani. L'attirò a sé con maggiore violenza e sentì che il ventre di Caroline ardeva, accostato al suo. «Non avrei mai voluto essere scortese con te», gli disse lei in tono avvilito. «Volevo stare con te, però non riuscivo a fare a meno di...» «Non c'è bisogno di spiegazioni», la interruppe. «Lo so.» Poi la baciò sul viso, posandole una pioggia di baci sulla fronte e sugli occhi, finché non trovò la sua bocca. Dapprima le labbra rimasero serrate, ma poi lentamente si dischiusero, come i petali carnosi di un fiore esotico; calde, umide e piene di un nettare che gli faceva girare la testa. Avrebbe voluto succhiarlo tutto, suggendole dalla bocca la sua essenza. «Qui siamo al sicuro», le ripeté. «Nessuno scende mai quaggiù.» Continuò a bisbigliare frasi rassicuranti per distrarla, mentre la sospingeva verso il giaciglio di Wilbur Smith
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sacchetti di seta pieni di polvere da sparo. «Sei così adorabile.» La spinse all'indietro. «Pensavo a te in ogni momento del giorno.» Lei si rilassò, lasciandosi cadere sul materasso di seta e polvere da sparo. Aveva la testa riversa all'indietro, e Tom la baciò sulla gola. Nel contempo, allentò dolcemente il nastro che teneva chiuso il collo della camicia da notte: l'istinto lo ammoniva a procedere con tanta lentezza da consentirle di fingere che non stesse accadendo nulla. Le sussurrò: «I tuoi capelli sembrano di seta e profumano di rose», ma intanto le sue dita si muovevano agili e leggere. Uno dei seni sfuggì dallo scollo della camicia da notte. Il corpo di Caroline s'irrigidì, mentre lei sussurrava, ansimando: «Non dobbiamo farlo. Devi fermarti, te ne prego». I seni erano candidi e molto più grandi di quanto lui si aspettasse. Allungò la mano per toccarli, poi la tenne stretta, mormorando frasi rassicuranti e piene di lusinghe, finché la tensione non si allentò e una mano di Caroline gli scivolò dietro la nuca. Afferrato il codino, strinse la presa fino a fargli lacrimare gli occhi, ma lui non protestò. Quasi fosse inconsapevole di quello che faceva, lei usò la stretta sui capelli di Tom per guidarlo verso di sé. I seni caldi e morbidi premettero contro il suo viso, impedendogli per un attimo di respirare; lui allora aprì la bocca per succhiare un capezzolo, che sentì sodo e turgido tra le labbra. A Mary era sempre piaciuto quando lo faceva con lei... «Allattare il bebè», lo chiamava. Caroline si lasciò sfuggire un suono sommesso e gutturale, cominciando a cullarlo dolcemente come se fosse un neonato. Teneva gli occhi chiusi e un lieve sorriso le incurvava le labbra, mentre lui le succhiava ritmicamente i capezzoli. «Toccami», gli sussurrò, così piano che lui non capì che cosa aveva detto. «Toccami», ripeté Caroline. «Toccami come Hal fatto prima.» La camicia le era risalita fino alle cosce, e lei dischiuse le ginocchia. Tom insinuò la mano in basso, e la ragazza sospirò: «Sì, così». Cominciò a spingere ritmicamente i fianchi in avanti, come se cavalcasse un pony al trotto. Bastarono pochi minuti perché inarcasse il dorso, mentre lui sentiva tutti i muscoli del piccolo corpo di lei tendersi in modo spasmodico. E' come tendere un arco lungo quando la freccia incoccata è pronta a Wilbur Smith
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scattare, pensò Tom. D'un tratto, lei fu scossa da un fremito e lanciò un grido che lo sorprese, e ricadde all'indietro, accasciandosi tra le sue braccia come morta. Tom si allarmò, poi, guardandole il volto, vide che era arrossato, con gli occhi chiusi e il labbro superiore costellato di goccioline di sudore. Caroline aprì gli occhi, fissandolo come se non lo riconoscesse. Poi gli assestò sulla guancia uno schiaffo bruciante. «Ti odio!» bisbigliò con ferocia. «Non avresti mai dovuto farmi venire qui. Non avresti mai dovuto toccarmi in quel modo. E' tutta colpa tua.» E scoppiò in lacrime. Tom si ritrasse, sbalordito, ma, prima che potesse riaversi, Caroline era già balzata in piedi. Con un fruscio di stoffa e uno scalpiccio di piedini nudi sull'impiantito di legno, aprì con una spinta la porta del deposito per fuggire lungo il passaggio buio. Passò qualche tempo prima che Tom potesse riaversi dallo shock quanto bastava per mettersi a sedere. Ancora perplesso, spense la lanterna e chiuse con cura la porta del deposito dietro di sé. Avrebbe dovuto trovare un'occasione per rimettere la chiave nello scrittoio del padre, ma non c'era fretta. Fino a quel momento non c'era il minimo indizio che la sua scomparsa dal cassetto fosse stata notata. D'altra parte era troppo pericoloso tenerla addosso, così la ripose nel nascondiglio sopra l'architrave. Quando passò furtivamente davanti alla porta di Caroline, si accorse di tremare d'indignazione e di collera. Per un attimo, provò l'impulso irresistibile di trascinarla giù dalla sua cuccetta per sfogare su di lei i suoi sentimenti, ma riuscì a dominarsi e fece ritorno al suo pagliericcio. Guy lo aspettava, un'ombra silenziosa accovacciata vicino all'affusto del cannone. «Dove sei stato?» gli domandò sottovoce. «Da nessuna parte.» Tom era stato colto di sorpresa, e quella risposta idiota gli era sfuggita di bocca prima che riuscisse a trattenerla. «Ero alla latrina.» «Sei rimasto via quasi due ore, dopo i sette tocchi del primo turno», ribatté Guy in tono cupo. «Devi avere riempito il bugliolo. C'è da meravigliarsi che sia rimasto qualcosa di te.» «Sono salito sul ponte», cominciò Tom in tono difensivo, poi s'interruppe. «E comunque non sono tenuto a dirtelo. Non sei il mio guardiano.» Si stese sul pagliericcio, raggomitolandosi e coprendosi la testa con la coperta. Wilbur Smith
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Piccola vipera idiota, pensò con amarezza. Se cade fuori bordo e se lo pappano gli squali, non me ne importa un fico secco. La Seraph continuò a filare verso sud-ovest, senza ridurre la velatura neanche durante le notti stellate. Ogni giorno, alle dodici, Tom si ritrovava sul cassero insieme con gli altri ufficiali, intento a usare il suo quadrante, un dono del padre, per rilevare il passaggio del sole allo zenit e calcolare la latitudine della nave. Il padre e Ned Tyler facevano altrettanto nello stesso momento, per confrontare poi i rispettivi risultati. Un giorno, che per lui rimase indimenticabile, Tom finì di eseguire i complessi calcoli necessari, poi alzò la testa dalla sua lavagna. «Ebbene, signore?» gli chiese il padre con un sorriso indulgente. «22 gradi, 16 primi e 38 secondi di latitudine sud», rispose Tom in tono incerto. «Secondo i miei calcoli, dovremmo essere poche leghe a nord del tropico del Capricorno.» Hal corrugò la fronte con un'espressione teatrale, prima di lanciare un'occhiata a Ned. «Non c'è un errore grossolano, signor Ned?» «In effetti sì, comandante. Ha sbagliato di almeno dieci secondi.» «Io ho sbagliato di quindici.» L'espressione di Hal si addolcì. «Non c'è bisogno di usare il gatto a nove code, allora?» «Per questa volta, no.» Ned si lasciò sfuggire uno dei suoi rari sorrisi. La differenza tra i calcoli ammontava a non più di qualche miglio nautico nell'immensità dell'oceano. Nessuno avrebbe potuto dire quale dei tre era quello esatto. «Ben fatto, ragazzo.» Hal gli scompigliò i capelli. «Potremmo ancora fare di te un marinaio.» L'ondata di piacere che quelle parole gli procurarono fu sufficiente a scaldare Tom per il resto della giornata. Non appena superato il tropico del Capricorno, il clima cambiò bruscamente. Erano entrati nel quadrante umido dell'Atlantico meridionale, e il cielo si riempì dall'orizzonte allo zenit di nubi temporalesche cupe e minacciose, con la testa immensa schiacciata fino ad assumere la forma dell'incudine di Vulcano, il fabbro degli dei. Nel loro ventre scuro saettavano e brillavano i fulmini, mentre i tuoni si abbattevano come altrettanti colpi di maglio del dio. Dopo aver impartito l'ordine di ridurre la velatura, Hal lanciò un segnale alla Yeoman, a poppa: «Regolate la posizione in base alla mia». Wilbur Smith
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Il sole tramontò dietro le nubi, chiazzandole di sangue, e la pioggia investì a fiotti le due navi. Cortine d'acqua martellavano i ponti con tanta violenza che il frastuono sommergeva le voci degli uomini. Non si vedevano che cascate d'acqua rombanti spazzare il ponte da un trincarino all'altro. Gli ombrinali non riuscivano a far defluire abbastanza in fretta l'acqua dalla coperta, cosicché il timoniere vi restava immerso fino al ginocchio. L'equipaggio era deliziato da quel mondo d'acqua dolce: gli uomini tenevano il viso sollevato, con la bocca aperta, bevendola fino a gonfiarsi il ventre, spogliandosi per togliersi di dosso la salsedine, ridendo e spruzzandosi a vicenda. Hal non fece il minimo sforzo per trattenerli. Avevano il corpo irritato dalla salsedine, che in alcuni casi formava vesciche in suppurazione alle ascelle e all'inguine: era un sollievo liberarsi di quei cristalli corrosivi. Ordinò invece di riempire le botti vuote; gli uomini raccolsero buglioli di quell'acqua dolce e pura e, al calar del buio, tutte le botti che si trovavano a bordo erano piene fino all'orlo. La pioggia continuò senza interruzioni per tutta la notte e il giorno seguente, e il terzo giorno, quando il sole sorse sulla distesa d'acqua punteggiata di creste schiumose e colonne di nubi torreggianti, la Yeoman non si vedeva più. Hal mandò Tom e Dorian sulla coffa di maestra, perché i loro occhi giovani si erano rivelati i più acuti a bordo della nave; tuttavia, per quanto restassero lassù quasi tutto il giorno, non riuscirono a distinguere neanche uno spicchio della velatura della Yeoman su quell'orizzonte turbolento. «Non la rivedremo fino a che non getteremo l'ancora al largo di Buona Speranza», commentò Ned, e Hal in cuor suo ne convenne. C'era solo una remota possibilità che due navi si ritrovassero in quell'immensa distesa d'acqua sferzata dai venti. Questo non preoccupava eccessivamente Hal; aveva preso accordi con Anderson anche in vista di un'eventualità del genere. Avevano concordato un rendez-vous nella baia della Tavola, e da quel momento in poi ognuna delle due navi avrebbe dovuto navigare in modo indipendente dall'altra. Il cinquantaduesimo giorno successivo alla partenza da Plymouth, Hal ordinò che la Seraph virasse sulla dritta. Secondo i suoi calcoli, si trovavano a meno di mille miglia dalla costa del Sudamerica. Grazie al quadrante e alle tavole di navigazione poteva calcolare tranquillamente la longitudine della nave con un'approssimazione di venti miglia nautiche. Wilbur Smith
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D'altra parte la determinazione della longitudine non era una scienza esatta, ma piuttosto un rito arcano, basato sullo studio dei pioli conficcati ogni giorno nella tavola fissata alla chiesuola della bussola e su una serie di congetture e di estrapolazioni basate sulla distanza percorsa dalla nave e sulla rotta accertata. Hal sapeva benissimo che, in base al calcolo deduttivo, avrebbe potuto finire fuori rotta di parecchie centinaia di miglia. Ora, per raggiungere il capo di Buona Speranza, doveva seguire la direzione dei venti alisei fino a 32 gradi di latitudine sud, e poi puntare a est fino a distinguere il caratteristico promontorio a forma di tavola che contrassegnava la punta estrema del continente africano. Quella sarebbe stata la tappa più lenta e faticosa del viaggio: col vento quasi in faccia, avrebbe dovuto virare di bordo a intervalli di poche ore. Per non lasciarsi sfuggire il Capo a sud, doveva calcolare la rotta in modo da incrociare la selvaggia costa africana qualche lega a nord del capo di Buona Speranza. C'era sempre il rischio di ritrovarsi nel cuore della notte in mezzo a un banco di quella fitta nebbia che avvolgeva così spesso l'estremo lembo meridionale dell'Africa: molti grandi velieri avevano trovato la loro tomba tra le onde, su quella costa insidiosa. In vista di tale minaccia, Hal ringraziò il cielo per il fatto che, al momento buono, avrebbe avuto in coffa gli occhi giovani e acuti di Tom e Dorian. Pensando ai due figli, Hal si sentì compiaciuto dei progressi che facevano con l'arabo. Guy aveva interrotto le lezioni, col pretesto che a Bombay quella lingua si parlava ben poco; Tom e Dorian invece trascorrevano un'ora ogni pomeriggio accovacciati insieme con Alf Wilson sul castello di prua, chiacchierando con lui in arabo con la vivacità di pappagalli. Quando li aveva messi alla prova, Hal aveva scoperto che potevano sostenere la loro parte in una conversazione con lui. La crescente disinvoltura con la quale usavano l'arabo sarebbe tornata utile sulla cosiddetta costa della Febbre; parlare la lingua dell'avversario era sempre una buona strategia. A parte la Yeoman, non avevano visto altre navi, da quando avevano lasciato Ushant, eppure quella non era una distesa di acque vuota e deserta; c'erano spettacoli strani e meravigliosi a incuriosire e affascinare Tom e Dorian, accovacciati spalla a spalla sulla coffa che dominava il ponte. Un giorno, dal deserto dell'immensa distesa d'acqua spuntò un albatro. Volando in circolo sulla nave con le ampie remiganti distese, sollevandosi Wilbur Smith
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e abbassandosi a seconda delle correnti d'aria, scivolando e planando, talvolta così vicino alla cresta delle onde da sembrare parte della spuma, rimase al passo con la nave per giorni e giorni. Prima di allora nessuno dei due ragazzi aveva mai visto un volatile di quelle dimensioni: talvolta volava così vicino al punto in cui erano rannicchiati, nel loro posatoio a forma di botte, che sembrava sfruttare la corrente ascensionale creata dalla vela maestra della Seraph per mantenere la posizione, senza battere le Ali, ma limitandosi a sfiorare l'aria con le penne nere all'estremità. Era soprattutto Dorian ad ammirare quella creatura, dotata di un'apertura alare pari a tre o quattro volte l'ampiezza delle sue braccia. «Mollymawk!» Lo chiamava col nomignolo affettuoso dei marinai, che significa «stupido gabbiano», dovuto alla natura fiduciosa e ingenua dell'albatro quando si posa a terra. Dorian aveva chiesto al cuoco della nave qualche avanzo di cibo, che gettava all'albatro mentre questi gli volava intorno in cerchio. Ben presto l'albatro aveva imparato a fidarsi di lui e ad accettare il cibo, al punto di avvicinarsi non appena sentiva il fischio e il richiamo del bambino: allora gli volava accanto fin quasi a sfiorarlo, librandosi nell'aria come se fosse immobile e afferrando con delicatezza i bocconi che Dorian gli lanciava. Il terzo giorno, trattenuto per la cintura da Tom per evitare una caduta, Dorian si sporse fin dove poté, tenendo in mano un pezzetto di maiale salato bello grasso. Mollymawk lo fissò con i suoi occhi saggi, virò inclinandosi ad Ali tese e gli sfilò dalle dita l'offerta con un tocco delicato del formidabile becco ricurvo, che avrebbe potuto facilmente troncare un dito al bambino, Dorian batté le mani e fischiò in segno di trionfo, mentre le tre ragazze Beatty, che avevano seguito dal ponte sottostante il suo corteggiamento dell'albatro, lanciavano grida di entusiasmo. Quando scese, alla fine del turno di guardia, Caroline lo baciò, sotto gli occhi degli ufficiali sul ponte e degli uomini di turno sul ponte. «Come sono sdolcinate, le ragazze!» commentò Dorian rivolto a Tom, non appena furono soli sul ponte di batteria, offrendo una realistica imitazione di un conato di vomito. Nei giorni successivi, Mollymawk divenne sempre più fiducioso nei confronti di Dorian. «Credi che mi sia affezionato, Tom? Voglio tenerlo per sempre come mio beniamino.» Ma la mattina dell'ottavo giorno, quando salirono sull'albero, l'albatro era sparito. Sebbene Dorian lo chiamasse fischiando per tutto il giorno, se n'era andato. Al tramonto, il Wilbur Smith
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bambino scoppiò in un pianto dirotto. «Che femminuccia», commentò il fratello, abbracciandolo finché non smise di tirare su col naso. La mattina dopo la scomparsa di Mollymawk, Tom prese posto come al solito vicino alla paratia nel camerino del signor Walsh e, quando le sorelle Beatty arrivarono come al solito in ritardo per le lezioni quotidiane, resistette alla tentazione di guardare in direzione di Caroline. Ribolliva ancora d'indignazione per il modo in cui lo aveva trattato. Sarah Beatty, che lo adorava e non faceva che offrirgli piccoli regali, quel giorno aveva preparato per lui un segnalibro con una rosa di carta, e glielo donò di fronte a tutti i presenti. Tom arrossì per l'umiliazione, mormorando un goffo ringraziamento, mentre Dorian, alle spalle di Sarah, teneva tra le braccia un neonato immaginario, cullandolo. Tom gli sferrò un calcio negli stinchi, prima di prendere i libri e la lavagna che teneva nello stipetto sotto il banco. Quando guardò la lavagna, vide che qualcuno aveva cancellato l'equazione algebrica che aveva tentato di risolvere il giorno prima. Stava per accusare Dorian di quel dispetto, ma si accorse che il colpevole aveva sostituito ai suoi complicati scarabocchi col gesso una semplice riga in una bella scrittura elegante: Stanotte alla stessa ora. Tom fissò il messaggio con gli occhi sbarrati: quella calligrafia era inconfondibile. Dorian e le bambine avevano una scrittura ancora infantile e incerta, mentre la mano di Guy era solida e poco elegante. Anche se continuava a odiare Caroline dal profondo dell'animo, avrebbe riconosciuto la sua scrittura ovunque e in qualsiasi momento. Si accorse di colpo che Guy stava allungando il collo, tentando di sbirciare la lavagna al di sopra della sua spalla; allora la inclinò per tenergliela nascosta, sfumando col pollice le lettere finché non divennero indecifrabili. Non seppe trattenersi dal lanciare un'occhiata a Caroline, seduta nel suo banco. Come al solito, lei sembrava indifferente alla sua presenza, assorta nel libro di poesie che Walsh le aveva prestato, ma doveva aver avvertito il suo sguardo, perché l'orecchio che Tom vedeva spuntare dalla cuffietta in un groviglio di riccioli assunse lentamente una sfumatura più intensa di rosa. Era un fenomeno così sconcertante che Tom quasi dimenticò il suo odio, restando invece a fissarla, affascinato. «Thomas, avete completato il problema che vi avevo assegnato ieri?» Walsh li richiamò all'ordine, e lui trasalì, con un senso di colpa. «Sì, Wilbur Smith
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voglio dire, no... Voglio dire, quasi.» Per il resto della giornata, Tom fu in preda a un tumulto di emozioni. Un momento decideva di ostentare disprezzo per la tresca che lei gli aveva proposto e di riderle in faccia, la mattina dopo. Si lasciò persino sfuggire una sonora risata di disprezzo e tutti i presenti interruppero le loro occupazioni per fissarlo con aria perplessa. «C'è forse qualche perla di erudizione o di umorismo che desiderate condividere con noi, Thomas?» gli domandò Walsh in tono sarcastico. «No, signore, stavo solo pensando.» «Ah, infatti mi era parso di sentire le rotelline che ronzavano. Ma non interrompete un fenomeno così raro. Ve ne prego, signore, continuate.» Per tutto quel giorno, i sentimenti di Tom per Caroline oscillarono dall'adorazione all'odio profondo. Più tardi, mentre stava appollaiato in cima all'albero, non si accorse di nulla, se non che le acque sembravano viola come i suoi occhi. Fu Dorian che gli fece notare il pennacchio bianco all'orizzonte, dove una balena soffiava. Ma anche allora Tom la guardò senza interesse. Quando si mise al fianco del padre per il rilevamento di mezzogiorno attraverso il foro del quadrante, gli tornò alla memoria la sensazione dei seni morbidi e candidi premuti sul viso, e i suoi pensieri divagarono. D'un tratto il padre gli prese di mano la lavagna per leggere i risultati e si rivolse a Ned Tyler. «Congratulazioni, Tyler, durante la notte dovete averci riportati nell'emisfero settentrionale. Mandate in coffa un uomo in gamba. Da un momento all'altro dovremmo avvistare terra sulla costa orientale dell'America.» A cena, Tom non aveva appetito e cedette la sua porzione di manzo salato a Dorian, che aveva un appetito leggendario e l'accettò con entusiasmo, divorandola prima che il fratello potesse cambiare idea. Poi, quando le lanterne della batteria furono abbassate per la notte, Tom rimase sveglio nel suo angolo dietro il cannone, ripassando dentro di sé i preparativi necessari. La chiave del deposito e la scatola con l'acciarino erano ancora dove le aveva lasciate, nella nicchia sopra la porta. Aveva atteso l'occasione buona per rimettere la chiave a posto nello scrittoio del padre, però non si era presentata, della qual cosa il ragazzo ringraziava il destino. Ormai aveva deciso che amava Caroline più di ogni altra cosa al mondo e non avrebbe esitato a sacrificare la vita per lei. Wilbur Smith
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Ai sette tocchi di campana del primo turno si alzò furtivamente dal pagliericcio, soffermandosi per controllare se qualcuno lo aveva visto. I due fratelli erano sagome scure e più piccole oltre la massa imponente di Aboli, steso sul ponte alla luce fioca delle lampade schermate da combattimento. Scavalcando i corpi rannicchiati dei marinai che russavano, si diresse verso la scaletta di boccaporto senza incontrare ostacoli. Ancora una volta la lampada ardeva nell'alloggio del padre e Tom si domandò che cosa lo tenesse sveglio fin dopo mezzanotte. Passò oltre la porta con attenzione, ma non seppe impedirsi di fermarsi di nuovo davanti al camerino delle ragazze. Gli parve di sentire un respiro leggero oltre la paratia e addirittura le parole farfugliate nel sonno da una delle bambine. Passando oltre, afferrò la chiave dal nascondiglio ed entrò nel deposito: prese la lanterna, la accese e la fissò di nuovo al sostegno. Ormai era teso al punto di sussultare a ogni rumore della nave, dal trepestio di un ratto nella sentina al cigolio o allo schiocco di qualche cima o sartia rimasta lasca. Accovacciatosi vicino alla porta della santabarbara, tenne d'occhio la scaletta. Stavolta non sonnecchiava, quindi vide i piedi nudi candidi non appena apparvero in cima agli scalini. Lei si chinò per guardare in basso, poi scese di corsa gli ultimi gradini della scaletta. Tom le corse incontro e Caroline si gettò tra le sue braccia, stringendosi a lui. «Volevo dirti quanto mi dispiace di averti colpito», sussurrò. «Mi sono odiata per questo, mi sono odiata ogni giorno che è passato da allora.» Tom rimaneva in silenzio, temendo che la voce rivelasse la sua emozione, e allora Caroline sollevò il viso: in quella luce tenue, era soltanto una chiazza luminescente, ma lui si chinò, cercando la bocca di lei. Nello stesso istante, Caroline si avvicinò; il primo bacio la raggiunse sul sopracciglio, il secondo sulla punta del naso, prima che le loro bocche s'incontrassero. Lei fu la prima a tirarsi indietro. «Non qui», bisbigliò. «Potrebbe venire qualcuno.» Tom la prese per mano, guidandola oltre la porta del deposito. Poi fu lei, dirigendosi senza esitare verso la fila di sacchetti, ad attirarlo accanto a sé. Aveva già la bocca aperta per ricevere il bacio successivo, e Tom sentì la punta della sua lingua sfiorargli le labbra, palpitando come una falena sulla fiamma della candela; allora cominciò a succhiarla. Wilbur Smith
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Sempre restando bocca a bocca, lei tirò il laccio che chiudeva il collo della camicia di Tom e, dopo averlo sciolto, insinuò nell'apertura una mano piccola e fresca, per accarezzargli il torace. «Sei peloso...» Parve sorpresa. «Voglio vedere.» Gli sollevò la camicia. «Sembrano di seta. Come sono soffici!» Gli premette il volto sul petto; aveva il respiro caldo. Lo eccitò in un modo che Tom non aveva mai conosciuto prima di allora. Si sentì assalire da una sensazione di urgenza, come se potessero sottrargli Caroline da un momento all'altro. Tentò di scioglierle il nastro che chiudeva la camicia da notte, ma le sue dita erano goffe e impacciate. «Lascia fare a me», mormorò Caroline. Lui si rese conto che l'atteggiamento della ragazza era diverso rispetto al loro precedente incontro nello stesso posto; pareva decisa, sicura di sé. Si comportava come Mary o una delle altre ragazze che lui aveva avuto a High Weald. D'un tratto si convinse che il suo intuito aveva visto giusto: lei lo aveva già fatto, ne sapeva quanto lui, o forse anche di più, e quella sua esperienza lo eccitava. Non aveva più motivo di trattenersi. Caroline s'inginocchiò, sfilandosi la camicia con un unico movimento e lasciandola cadere sulle tavole. Adesso era nuda, ma lui vide solo i seni, grandi, bianchi e rotondi, che sembravano risplendere come due grandi perle, sospesi sopra di lui nella penombra. Si protese per riempirsi le mani di quella morbida opulenza. «Non così forte. Non essere tanto rude», lo ammonì lei. Per qualche tempo lo lasciò fare, poi bisbigliò: «Toccami! Toccami lì, come l'altra volta». Lui l'accontentò, e Caroline chiuse gli occhi, restando distesa in silenzio. Tom si spostò delicatamente sopra di lei, badando a non allarmarla, mentre si calava le brache fino alle ginocchia. Di colpo lei tentò di mettersi a sedere. «Perché ti sei fermato?» Abbassò gli occhi. «Che stai facendo?» Cercò di divincolarsi dalla sua stretta, ma lui era molto più forte e pesante, e Caroline non riuscì a smuoverlo. «Non ti farò male», promise. Lei lo afferrò inutilmente per le spalle, spingendo, poi lentamente cedette; smise di lottare, rilassandosi sotto l'insistenza delle sue carezze. Ogni tensione scomparve dal suo corpo: chiuse gli occhi e cominciò a emettere un lieve mugolio che proveniva dal fondo della gola. Di colpo il suo corpo fu scosso da un tremito convulso, e lei lanciò un Wilbur Smith
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grido sommesso. «Che stai facendo? Ti prego, no! Oh, Tom, che cosa fai?» Si dibatté di nuovo, ma lui la teneva stretta e poco dopo si abbandonò in silenzio tra le sue braccia. Poi cominciarono a muoversi all'unisono, in un ritmo naturale e antico quanto l'uomo. Molto tempo dopo si fermarono. Rimasero distesi, l'uno accanto all'altra, mentre il sudore si raffreddava sui loro corpi e il respiro ritornava regolare. «È tardi», sussurrò Caroline, cercando la camicia da notte. «Tra poco si sveglieranno Agnes e Sarah. Devo andare.» «Tornerai?» le chiese Tom. «Forse.» Lei s'infilò la camicia dalla testa, annodando il nastrino al collo. «Domani notte?» insistette lui. «Forse», ripeté Caroline, scivolando via dal giaciglio improvvisato per dirigersi verso la porta. Rimase un istante in ascolto, prima di sbirciare dalla fessura. Aprì la porta solo quanto bastava per sgusciare fuori e si allontanò. A poco a poco la Seraph uscì dalla fascia tropicale per addentrarsi nelle acque del sud. Le giornate cominciarono a rinfrescare e, dopo il caldo soffocante che avevano dovuto sopportare, il vento di sud-est portò una fresca ondata di sollievo. L'oceano temperato brulicava di forme di vita, con le acque di un verde torbido dense di plancton. Dalla coffa, Tom e Dorian vedevano banchi scuri di tonni e interminabili fiumane di pesci enormi che superavano senza sforzo la nave, nelle loro misteriose migrazioni attraverso le verdi acque dell'oceano. Infine il rilevamento del sole a mezzogiorno indicò che la nave era giunta all'estrema latitudine meridionale; a 32 gradi Hal girò la prua per la corsa finale verso il capo di Buona Speranza. Era un sollievo, per lui, che si avvicinasse l'ultima tappa del viaggio e che tra poco fosse previsto l'approdo. Soltanto il giorno prima, il dottor Reynolds gli aveva segnalato i primi casi di scorbuto tra l'equipaggio. Quella misteriosa malattia era la maledizione di tutti i comandanti che intraprendevano un lungo viaggio. Quando una nave era in mare da sei settimane, il miasma pestilenziale che portava con sé la malattia poteva colpire gli uomini in qualsiasi momento, abbattendoli senza motivo e senza preavviso. I due ammalati erano solo i primi di tanti, Hal lo sapeva. Avevano Wilbur Smith
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mostrato al chirurgo le gengive gonfie e sanguinanti, e i primi lividi scuri sul ventre, dove il sangue si ammassava sotto la pelle. Nessuno sapeva spiegare il motivo di quella pestilenza, o il modo miracoloso in cui svaniva e le sue vittime guarivano non appena la nave entrava in porto. «Fa' che sia presto, Signore!» pregava Hal, fissando l'orizzonte vuoto a oriente. Mentre si avvicinavano alla terra, branchi di delfini li accompagnavano, cavalcando le onde, passando e ripassando sotto la chiglia, sbucando fuori dell'acqua dalla parte opposta e incurvando il dorso nero e lucente attraverso la superficie, pinneggiando in alto con la coda piatta che batteva sull'acqua, scrutando gli uomini sulle sartie con i loro occhi vivaci e il sorriso fisso sul muso. Quello era l'oceano delle grandi balene. In certi giorni, dalla coffa, si vedevano i loro pennacchi di spuma bianca levarsi al vento in qualsiasi direzione guardassero. Quelle creature gigantesche si rigiravano su se stesse, descrivendo capriole in superficie; alcune erano più lunghe dello scafo della Seraph e passavano tanto vicine che i ragazzi potevano vedere i cirripedi e la vegetazione marina che incrostavano i loro corpi, come se fossero barriere di roccia, non creature viventi. «In ognuno di quei giganti ci sono venti tonnellate d'olio», osservò una volta Big Daniel rivolto a Tom, mentre erano appoggiati insieme al bompresso, osservando uno di quei mostri innalzarsi dal fondo, a una tesa da loro, e sollevare al cielo la massiccia coda biforcuta. «La coda è larga quanto il nostro pennone di mezzana», osservò Tom, ammirato. «Dicono che sia la creatura vivente più grande del mondo», aggiunse Big Daniel. «A un prezzo di dieci sterline per ogni libbra d'olio, potremmo cavarcela meglio cacciando balene che dando la caccia ai pirati.» «E come si fa a uccidere un essere tanto grande?» si chiese Tom stupito. «Sarebbe come tentare di uccidere una montagna.» «È un lavoro pericoloso, certo, ma c'è chi lo fa. Gli olandesi sono grandi cacciatori di balene.» «Mi piacerebbe provare», disse Tom. «Mi piacerebbe diventare un grande cacciatore.» Big Daniel puntò un dito oltre il bompresso che s'innalzava e ricadeva, indicando l'orizzonte. «Là dove stiamo andando c'è molto da cacciare, ragazzo mio. È una terra che pullula di creature selvagge. Ci sono elefanti Wilbur Smith
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con zanne d'avorio più lunghe di te. Potrai avere quello che desideri.» L'eccitazione di Tom cresceva di giorno in giorno. Dopo aver rilevato l'altezza del sole, andò nell'alloggio di poppa insieme col padre per osservarlo mentre annotava la posizione della nave: la linea sulla carta si avvicinava sempre più alla grande massa di terra che aveva la forma di una testa di cavallo. Le sue giornate erano così dense di eccitazione e di frenetica attività che, a sera, sarebbe dovuto crollare esausto. La maggior parte delle volte, invece, riusciva a dormire solo qualche ora prima di mezzanotte, poi si svegliava alla fine del primo turno, sgattaiolando via dal pagliericcio. Non era più costretto a pregare e lusingare; Caroline veniva ogni notte nella santabarbara di sua spontanea volontà. Tom scoprì di avere destato un'autentica gatta selvatica. Non era più ritrosa o modesta, anzi gli teneva testa nell'urgenza della passione, esprimendo le proprie emozioni con grida ed eccessi sfrenati. Quando si allontanava, Tom portava sempre con sé i segni dei loro incontri; il dorso graffiato dalle unghie lunghe e le labbra mordicchiate e contuse. Comunque, nella fretta di rispettare quegli appuntamenti notturni, era diventato imprudente, rischiando più di una volta di farsi sorprendere. Una volta, mentre passava davanti al camerino del signor Beatty, la porta si era aperta ed era uscita la signora Beatty. Tom aveva fatto appena in tempo a calarsi il berretto sugli occhi mentre passava oltre furtivamente, mascherando la voce. «Sette tocchi di campana del primo turno, e tutto va bene», aveva detto con voce stridula. Ormai era alto come qualsiasi altro uomo a bordo e il passaggio era illuminato a stento. «Grazie, brav'uomo.» La signora Beatty, vergognandosi di essere stata sorpresa in camicia da notte, si era rifugiata precipitosamente nel camerino, come se fosse stata lei a trovarsi in colpa. Più di una notte, mentre sgattaiolava via dal ponte di batteria, Tom ebbe l'impressione di essere seguito da qualcuno. Una volta era certo di aver sentito alcuni passi provenire dalla scaletta alle sue spalle, ma, quando si era voltato, non aveva visto nessuno. In un'altra occasione stava lasciando il ponte inferiore nelle prime ore del mattino, alla fine del turno mediano, quando aveva sentito un tonfo di stivali lungo la scaletta del cassero. E aveva fatto appena in tempo a nascondersi, prima che Ned Tyler scendesse da quel passaggio per raggiungere l'alloggio di Hal. Restando nell'ombra, lo aveva visto bussare alla porta del padre. Wilbur Smith
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«Che c'è?» aveva chiesto Hal. «Sono Ned Tyler, comandante. Il vento rinforza. Potrebbe portarsi via un albero, se manteniamo la velatura così com'è. Chiedo il permesso di ammainare le vele di straglio e prendere una mano di terzaroli sulla maestra.» «Salgo subito sul ponte, Ned», era stata la risposta del padre. Un minuto dopo era uscito in gran fretta dall'alloggio, infilandosi il giaccone da marinaio; passando vicinissimo al punto in cui era nascosto Tom, aveva salito di corsa la scaletta di boccaporto fino al ponte. Tom aveva raggiunto il suo pagliericcio sul ponte di batteria proprio mentre trillava il fischio del nostromo e la voce di Big Daniel tuonava nel buio: «Tutti gli uomini a ridurre le vele!» Poi fu costretto a simulare di essere stato destato all'improvviso per unirsi agli uomini chiamati al lavoro in quella notte tempestosa. Non era nella sua natura allarmarsi o lasciarsi intimorire da quelle circostanze in cui se l'era cavata per un soffio; anzi, da un certo punto di vista, lo facevano sentire più spavaldo che mai. Ormai nella sua andatura c'era una punta di arroganza, come se fosse un galletto, e questo spingeva Aboli a sorridere, scuotendo il capo e commentando: «È tutto suo padre!» Una mattina, quando la nave si era ormai stabilizzata sulla rotta e il movimento si era placato, adagiandosi in un beccheggio lungo sui grandi cavalloni oceanici, Tom era tra gli uomini a riva che scendevano dopo aver concluso la manovra sulle vele. D'un tratto, senza altri motivi che l'esultanza e la spavalderia, si alzò sul pennone per eseguire una vivace danza marinaresca. Tutti gli uomini sul ponte rimasero paralizzati dall'orrore, osservando quella prodezza suicida. A quaranta piedi di altezza, Tom eseguì due figure complete, e poi, per buona misura, altre tre, danzando sulla punta dei piedi nudi, con una mano sul fianco e l'altra sopra la testa, prima di balzare sulle sartie e raggiungere scivolando il ponte sottostante. Aveva abbastanza buonsenso per accertarsi che il padre fosse nel suo alloggio, in quel momento, tuttavia prima di sera Hal venne a sapere di quella bravata e lo mandò a chiamare. «Che cosa ti ha indotto a fare un gesto così stupido e irresponsabile?» «Il fatto che John Tudwell mi ha detto che non ne avrei avuto il coraggio», spiegò Tom, come se quella fosse la ragione migliore del mondo. Wilbur Smith
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E forse lo è, pensò Hal, osservando il viso del figlio. Stupito, si accorse di avere davanti a sé un uomo, non più un ragazzo: nei pochi mesi trascorsi dall'inizio del viaggio, Tom si era irrobustito ed era maturato al punto di essere quasi irriconoscibile. Il suo corpo era temprato dal lavoro, le spalle erano consolidate dal costante sforzo di arrampicarsi sull'alberatura per manovrare le vele e le sartie, le braccia erano muscolose per via delle ore di allenamento quotidiano con la spada sotto la guida di Aboli, e il suo passo era bilanciato come quello di un gatto, ora che il giovane aveva fatto l'abitudine al rollio della nave sui cavalloni dell'oceano meridionale. Eppure c'era qualcos'altro, qualcosa che Hal non riusciva a definire con esattezza. Sapeva che Tom era sempre stato il più precoce dei suoi figli e, pur tentando di controllarne i colpi di testa, non aveva mai voluto tenere a freno il suo spirito audace e avventuroso. In segreto, ammirava il coraggio del ragazzo ed era fiero della sua ostinazione; ma intuiva anche che era accaduto qualcosa che gli era sfuggito. Quello che aveva di fronte era un uomo adulto. «Bene!» esclamò alla fine. «Hal dimostrato a John Tudwell che si sbagliava, non ti pare? Quindi non ci sarà bisogno di ballare ancora la giga.» «No, padre», fu pronto a rispondere Tom. «Cioè, fino a quando qualcun altro non mi dirà che non ho il fegato per farlo.» Il suo sorriso era così contagioso che Hal si sentì costretto a ricambiarlo. «Fila via!» disse a mo' di congedo, spingendo Tom verso la porta. «Non c'è verso di ragionare con un barbaro.» Nel camerino del signor Walsh, Guy sedette al solito posto nel banco, a fianco di Caroline; era pallido e, durante la mattinata, parlò ben poco, rispondendo a monosillabi alle domande dell'insegnante. Teneva gli occhi fissi sul libro, senza guardare né Tom né Caroline. Alla fine Caroline si accorse di quello strano comportamento. «Sei di cattivo umore, Guy? Hal di nuovo il mal di mare?» Lui non riuscì a guardarla in faccia. «Sto benissimo», le rispose. «Non devi preoccuparti per me», e dentro di sé aggiunse: Mai più! Nelle ultime settimane, da quando cioè aveva firmato le carte del contratto, ottenendo l'impiego presso lo stabilimento della Compagnia a Bombay, Guy aveva coltivato una sua fantasticheria segreta. Con i contatti della sua famiglia e grazie all'appoggio del signor Beatty, aveva previsto di Wilbur Smith
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fare una rapida carriera al servizio della Compagnia. La famiglia Beatty sarebbe diventata la sua, e Caroline sarebbe stata lì, al suo fianco. Guy già immaginava i giorni che avrebbe trascorso con lei, nel paradiso tropicale di Bombay: avrebbero cavalcato insieme attraverso i palmeti, la sera ci sarebbero stati intrattenimenti musicali, in cui Guy avrebbe suonato mentre Caroline cantava, e poi letture poetiche, picnic con la famiglia... Avrebbe camminato mano nella mano con lei lungo spiagge bianche, scambiandosi baci casti e puri. Tra non molto lui avrebbe compiuto vent'anni e, non appena raggiunta una buona posizione nella Compagnia, avrebbe potuto sposarsi. Ormai, però, tutti quei sogni erano infranti. Quando cercava di pensare alle cose disgustose che aveva scoperto, la sua mente ne rifuggiva, come un cavallo ombroso. Gli tremavano le mani, si sentiva il sangue ribollire nel cervello. Non poteva sopportare di restare un minuto di più segregato in quel camerino insieme con le due persone che odiava più di quanto non avesse mai immaginato di poter odiare. Si alzò di scatto. «Signor Walsh, vi prego di scusarmi, ma mi sento svenire. Ho bisogno di fare un giro sul ponte. L'aria pura...» Senza attendere il permesso, raggiunse barcollando la porta per salire di corsa la scaletta. Precipitandosi a prua, si aggrappò a una drizza, lasciando che il vento gli soffiasse in faccia. La sua infelicità sembrava immensa e il resto dell'esistenza gli si stendeva davanti come un'interminabile pianura desolata. «Voglio morire!» esclamò a voce alta, sporgendosi oltre la murata della nave. L'acqua era bianca e verde. Che pace doveva regnare, laggiù! Scese sulle catene, tenendosi in equilibrio con una mano posata sulle sartie. «Sarà facile», mormorò. «Rapido e facile.» Cominciò a protendersi all'infuori, oltre l'onda che spumeggiava ai lati della prua. Una stretta possente si chiuse sul suo polso libero, rischiando di fargli perdere l'equilibrio. «Non c'è nulla che tu abbia perduto laggiù, Mbili», brontolò la voce di Aboli. «E non sei mai stato un buon nuotatore.» «Lasciami andare!» sbottò Guy. «Perché ti metti sempre in mezzo, Aboli? Voglio solo morire.» «Il tuo desiderio sarà esaudito, questa è l'unica certezza nella vita», gli assicurò Aboli. «Ma non oggi, Mbili.» Il nome che aveva dato a Guy fin dal giorno della nascita significava «numero due» nel linguaggio delle foreste. Esercitò una lieve pressione sul braccio del ragazzo. Guy tentò invano di resistere a quella forza possente. «Lasciami stare, Wilbur Smith
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Aboli, ti prego.» «Gli uomini ti stanno guardando», gli disse l'altro sottovoce. Voltandosi, Guy si accorse che alcuni marinai di guardia sul ponte avevano smesso di parlare per osservare incuriositi quella scena. «Non coprire di vergogna tuo padre e me con questa stupidaggine.» Guy si arrese, scendendo sul ponte con un salto goffo, e Aboli gli lasciò libero il polso. «Parliamo», suggerì. «Non ho voglia di parlare, né con te né con altri.» «Allora resteremo in silenzio insieme», disse Aboli, guidandolo verso la battagliola sottovento. Lì si accovacciarono insieme, al riparo dal vento e dagli occhi dell'equipaggio. Aboli era calmo e silenzioso, una presenza rassicurante. Non guardava Guy e non lo toccava, però era lì. Trascorsero vari minuti, poi Guy proruppe, con aria stravolta: «Io l'amo tanto, Aboli. È come se un paio di zanne mi squarciasse il ventre». Ah, è così, pensò Aboli con malinconia. Ha scoperto la verità. Klebe non è tipo da nascondere le sue tracce; incalza quella puledra come un giovane stallone che ha abbattuto il recinto a colpi di zoccoli. C'è solo da stupirsi che Mbili ci abbia messo tanto a scoprirlo. «Sì, lo so, Mbili», disse con un sospiro. «Ho amato anch'io.» «Che devo fare?» chiese Guy, in tono lamentoso. «Per quanto faccia male, non ti ucciderà, e un giorno, prima di quanto ti sembri possibile adesso, avrai dimenticato il dolore.» «Non lo dimenticherò mai», replicò Guy con profonda convinzione. «E non dimenticherò mai il mio amore per lei.» Hal Courteney udì la campana della nave suonare l'inizio del turno mediano. «Mezzanotte», mormorò, premendosi i pugni sulle reni. Era seduto alla scrivania da molte ore, e si sentiva anchilosato, con gli occhi che bruciavano. Alzatosi, accorciò lo stoppino della lampada, regolandone l'intensità per illuminare meglio i documenti disposti sul piano del tavolo, poi sedette di nuovo sulla massiccia sedia di quercia per rimettersi al lavoro. Aveva di fronte a sé i progetti della Seraph. Studiò per qualche minuto la pianta dei ponti di batteria, poi la mise da parte, attirando verso di sé i disegni della vista laterale, per confrontarli tra loro. «Dobbiamo mascherare i cannoni, facendole assumere l'aspetto di una nave Wilbur Smith
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commerciale disarmata», mormorò tra sé. «Questo vorrà dire eliminare i portelli dei cannoni dal ponte inferiore...» S'interruppe, corrugando la fronte nel sentir grattare piano sulla porta dell'alloggio. «Chi va là?» domandò. Il tempo era mite, il vento leggero e costante, quindi non si aspettava interruzioni. Nessuno rispose alla sua domanda, e un attimo dopo si lasciò sfuggire un grugnito. Doveva essere stato un topo, oppure la sua immaginazione. Tornò a dedicarsi ai disegni. Il lieve rumore alla porta si ripeté. Stavolta Hal spinse indietro la sedia, irritato, per alzarsi. Restando curvo per evitare i bagli del soffitto, si diresse alla porta e la aprì. Si trovò davanti una figura snella, tesa in un atteggiamento diffidente; impiegò qualche istante prima di riconoscere il figlio. «Guy?» Lo scrutò con attenzione. «Che cosa fai a quest'ora di notte? Entra pure, figliolo.» Guy avanzò, chiudendo la porta dietro di sé. Si tolse il berretto; era pallido e visibilmente nervoso. «Padre, dovevo dirvi...» cominciò, balbettando e torcendo il berretto tra le mani. «Che c'è, ragazzo mio? Parla pure», lo incoraggiò Hal. «C'è qualcuno nel deposito della polvere da sparo, giù nella stiva», proruppe Guy. «La porta è aperta e c'è una luce accesa.» «Che cosa?» La voce di Hal era allarmata. «Nel deposito munizioni? Una luce?» Una folla di tetri presentimenti gli si affacciò alla mente. «Sì, signore.» Hal girò di scatto su se stesso, dirigendosi verso lo scrittoio. Aprendo di scatto il primo cassetto, ne estrasse l'astuccio di legno che conteneva le pistole. Lo aprì, prendendo una delle armi a doppia canna, controllò in fretta la pietra focaia e l'innesco, poi se la infilò nella cintura. Quindi controllò la seconda arma della coppia, prima d'impugnarla con la destra. «Ora la vedremo», mormorò in tono truce, staccando la lanterna dal sostegno. «Vieni con me, Guy, ma senza fare rumore. Non è il caso di mettere sull'avviso i furfanti, quali che siano.» Aprì silenziosamente la porta, mentre Guy lo seguiva nel passaggio. «Chiudila piano», gli ordinò, dirigendosi verso la cima della scaletta. Per quanto aguzzasse gli occhi verso il ponte inferiore, non riuscì a scorgere neanche un barlume di luce. Si girò verso il figlio. «Ne sei sicuro?» «Sì, padre.» Camminando a passi felpati, Hal cominciò a scendere la scaletta, fermandosi a ogni scalino per ascoltare e guardare. Arrivato in fondo, si Wilbur Smith
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soffermò di nuovo, e soltanto allora vide il tenue chiarore che filtrava lungo i contorni della porta. «Sì!» bisbigliò, armando entrambi i cani della pistola che teneva in pugno. «Adesso vedremo che cosa stanno combinando.» Si avviò verso la santabarbara, tenendo la lampada dietro di sé per schermare la fiamma. Guy lo seguiva da vicino. Hal raggiunse la porta, accostando l'orecchio al massiccio battente di quercia. Dalla parte opposta, al di sopra dei soliti rumori della nave, udiva alcuni suoni che lo lasciavano perplesso: grida e gemiti sommessi, fruscii e una serie di colpi sordi che non riusciva a identificare. La maniglia girò facilmente sotto la sua mano. Accostando la spalla alla porta, si appoggiò al battente con tutto il suo peso: lo stipite parve emettere un cigolio, poi la porta si spalancò. Restando fermo sulla soglia, sollevò la lanterna sopra la testa, e per un istante rimase paralizzato: la scena che aveva di fronte era così lontana dalle sue aspettative che sulle prime non riuscì a capire quello che vedeva. La lampada schermata appesa alla paratia sopra le scansie aggiungeva il suo chiarore a quello della lanterna che Hal teneva in mano. C'erano abiti ammucchiati sul tavolato di legno e due corpi umani stesi sui sacchetti di seta davanti a lui. Ci volle un momento perché si rendesse conto che erano nudi. Il candore della loro pelle risplendeva alla luce della lampada, e lui rimase a fissarli, incredulo. I capelli ondulati di una donna, le membra intrecciate, una bocca rossa spalancata, piedi piccoli che scalciavano freneticamente verso i bagli del ponte, in alto, mani snelle che stringevano e torcevano i capelli di un uomo, una testa maschile affondata tra due cosce perlacee, mentre il dorso e le natiche della donna battevano ritmicamente contro il materasso di sacchetti, al ritmo frenetico del suo dimenarsi. I due sembravano indifferenti a tutto all'infuori di se stessi. Persino la luce intensa della lanterna non li aveva allarmati, perché la ragazza teneva gli occhi serrati e il suo viso era così stravolto dalla passione che Hal non la riconobbe. Rimase immobile, sbigottito, riscuotendosi soltanto quando Guy tentò di entrare a sua volta nel deposito munizioni. Allora si mosse, per sbarrargli la strada e impedirgli di vedere la scena. «Resta indietro, Guy», gli ordinò, e la sua voce penetrò oltre la cortina di passione che avviluppava la coppia sul giaciglio di sacchetti. Gli occhi Wilbur Smith
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della donna si aprirono di scatto, prima di spalancarsi lentamente come i petali di un fiore violetto, fissando Hal con orrore e incredulità. La sua bocca si contorse in un urlo silenzioso di disperazione, e lei si dibatté freneticamente per appoggiarsi a un gomito, mentre i seni oscillavano alla luce della lampada. Con entrambe le mani cercò di strapparsi di dosso la testa incuneata tra le sue cosce, tirandola per i capelli, ma senza riuscire a smuoverla. «Tom!» Hal ritrovò finalmente la voce, e vide i muscoli dell'ampio dorso del ragazzo fremere per lo shock, come se vi fosse penetrato un pugnale. Poi Tom sollevò la faccia, fissando il padre. Sembrò passare un'eternità, mentre i due restavano paralizzati in quella posizione. Il viso di Tom era soffuso di rossore, come se avesse disputato una gara di corsa o tirato di scherma contro un avversario agguerrito. Aveva lo sguardo vacuo di un ubriaco. «In nome di Dio, ragazza mia, copritevi!» esclamò Hal con voce roca. Si sentì avvampare dalla vergogna, scoprendo che gli occorreva uno sforzo enorme per distogliere lo sguardo da quel corpo completamente abbandonato. Scalciando, Caroline allontanò Tom, ghermì la camicia da notte rimasta sul pavimento e se la strinse al petto con entrambe le mani, nel tentativo di nascondere la sua nudità, poi si accovacciò come un animale selvaggio in trappola. Hal le volse le spalle, scoprendo così che Guy gli si stava accostando e allungava il collo per vedere quello che succedeva nel deposito. Hal lo respinse rudemente indietro, nel passaggio. «Torna a dormire!» gli ringhiò contro. «Questi non sono affari che ti riguardano.» Guy arretrò, colpito dal tono ostile del padre. «Non dire a nessuno quello che Hal visto qui stanotte, altrimenti ti spello vivo.» Guy indietreggiò, salendo a malincuore la scaletta, e Hal rientrò nel deposito. Caroline si era infilata la camicia da notte, che la copriva fino alle caviglie, e gli stava di fronte a testa china. I folti capelli ondulati spiovevano in avanti, nascondendole il viso, tanto che sembrava una bambina, giovane e innocente. E in effetti lo è, una bambina; che il diavolo le sia testimone, se non lo è, pensò Hal, cupo, prima di guardare il figlio, che saltellava su una gamba sola nel tentativo d'infilare l'altra nelle brache. Non gli era rimasta neanche un'ombra della solita spavalderia: si tirò su le brache prima di affibbiare la cintura, poi si mise al fianco della ragazza, ma nessuno dei due aveva l'ardire di sostenere lo sguardo di Hal. Wilbur Smith
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«Madamigella Caroline», ordinò Hal, «tornate all'istante nel vostro camerino.» «Sì, comandante», sussurrò lei. «Posso dire soltanto che sono disgustato dal vostro comportamento. Non mi sarei mai aspettato una condotta simile da una signora del vostro rango.» Nel dirlo, si sentì vagamente ridicolo. Come se le classi inferiori fossero le sole capaci di cavalcare la bestia con due schiene, rifletté, beffardo, in cerca di un commento meno insulso. «Che cosa farà vostro padre, se glielo dirò?» Nel sentire quelle parole, Caroline lo guardò con un terrore autentico, che cancellò persino la sua bellezza. «Non glielo direte!» Si gettò ai suoi piedi, abbracciandogli le ginocchia in un gesto imbarazzante. «Non glielo dite, per favore, comandante. Farò qualunque cosa, ma non ne parlate con lui, vi prego.» «Alzatevi, ragazza mia.» Hal la risollevò, sentendo svanire la collera, anche se gli costò fatica dominare il richiamo del sesso. «Tornate nel vostro camerino e restate lì finché non vi manderò a chiamare.» «Non lo direte a mio padre, vero?» lo supplicò lei, col viso rigato di lacrime. «Su questo punto non posso fare promesse. Meritereste ampiamente le frustate che vi darebbe.» La fece uscire, spingendola verso il suo camerino. Lei fuggì su per la scaletta e Hal sentì la porta aprirsi e richiudersi piano. Poi si rivolse a Tom, tentando di fulminarlo con lo sguardo, ma sentendo già placarsi le fiamme dell'indignazione. Suo malgrado, tornò indietro negli anni, ripensando a un ragazzo e una ragazza nel camerino buio di una nave, proprio in quei mari del sud. Lui aveva la stessa età di Tom e la ragazza olandese cinque anni di più, quando gli aveva fatto varcare la soglia dell'età adulta. Aveva i capelli d'oro e il viso di un angelo, ma anche un corpo da sgualdrina e una natura diabolica. Batté le palpebre per staccarsi dalle vicende di venticinque anni prima e tornare al presente, e vide che Tom era ancora in piedi davanti a lui, con aria contrita. «Madamigella Beatty è una passeggera a bordo di questa nave, e quindi è affidata alle mie cure», gli disse. «Hal disonorato te stesso e me.» «Me ne dispiace, padre.» «Non credo proprio.» Hal lo guardò in faccia e scorse il suo tormento di fronte a quella verità. «Voglio dire che mi dispiace di avervi disonorato», precisò Tom. «Tuttavia, giacché lo sappiamo solo noi due, la vostra vergogna non sarà Wilbur Smith
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mai resa pubblica, signore.» Hal dovette dominarsi per non restare a bocca aperta di fronte alla sfacciataggine del figlio, ma, dentro di sé, dovette ammettere la logica stringente di quel ragionamento. «Sei un vero barbaro», concluse in tono grave, pensando: Proprio com'ero io, e come ogni altro giovane stallone dal sangue caldo alla sua età. «Cercherò di migliorare», promise Tom. Hal lo fissò. Non avrebbe mai osato rivolgersi in quel modo al proprio padre, che incuteva in lui un fiero terrore. Tom, invece, non era terrorizzato da Hal: lo rispettava, forse lo ammirava e senza dubbio lo amava, ma non provava timore quando si confrontavano. Ho forse fallito nel mio compito? si chiese Hal. Avrei dovuto farmi temere? No, ne sono lieto. Ho fatto di lui un uomo. «Padre, accetterò volentieri qualunque castigo riterrete opportuno infliggermi. Ma se ne informerete la famiglia di Caroline, la svergognerete e rovinerete la sua vita.» La voce di Tom tremava, ma in modo quasi impercettibile. «Non merita questo da noi.» «Sono d'accordo con te», ammise Hal a malincuore. «Ho la tua promessa solenne che non tenterai più di avvicinarti alla ragazza finché si troverà a bordo di questa nave?» «Ve lo prometto.» Tom alzò la mano destra. «Ve lo giuro.» «Allora non parleremo più di questa faccenda e io non dirò una parola al signor Beatty.» «Grazie, signore.» Hal si sentì ricompensato nel vedere l'espressione negli occhi del figlio, poi dovette tossire per liberarsi la gola dal groppo che la serrava. Si guardò rapidamente attorno, in cerca di un pretesto per cambiare argomento. «Come Hal fatto a entrare nel deposito munizioni?» «Ho preso in prestito la chiave dal vostro scrittoio», rispose Tom con sincerità. «Preso 'in prestito'?» «Sì, signore. L'avrei restituita una volta... finito.» «Non ne avrai più bisogno, questo te lo garantisco io», gli disse Hal in tono truce. Tom si avviò docilmente alla porta e allungò la mano verso la nicchia per prendere la chiave. «Chiudi la porta a chiave», disse Hal e, quando Tom ebbe obbedito, gli Wilbur Smith
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ordinò: «Dammela». Tom depose la chiave nella mano del padre. «Penso che per stanotte sia più che sufficiente», borbottò Hal. «Vai, torna al tuo posto.» «Buonanotte, padre, e mi dispiace davvero di avervi turbato.» Hal lo guardò dileguarsi su per la scaletta, poi si lasciò sfuggire un sorriso mesto. Forse avrei potuto condurre questa scaramuccia con maggiore controllo, pensò. Ma che il diavolo mi porti se so in che modo. Guy attese con ansia il trambusto che avrebbe dovuto seguire lo smascheramento della coppia di peccatori. Si aspettava che Caroline fosse punita dal padre, magari picchiata come una sguattera sorpresa a rubare, respinta dalla madre e dalle sorelle, diventando così una reietta che si sarebbe rivolta a lui in cerca di conforto. Nella sua immaginazione, Caroline veniva da lui a implorare il perdono per avere tradito l'amore puro e onesto che lui provava per lei. Si affidava alla sua misericordia, promettendogli che, se l'avesse perdonata, avrebbe tentato di fare ammenda per tutta la vita. Quel pensiero gli permetteva di sopportare la terribile sofferenza che lo affliggeva dalla notte in cui aveva seguito per la prima volta Tom fino al ponte inferiore, scoprendo la sordida tresca in cui si era invischiato. Poi si augurava che il padre trascinasse Tom davanti all'equipaggio, ordinando di legarlo alla pazienza e fustigarlo in pubblico, anche se in cuor suo sapeva che quella era una speranza eccessiva. Comunque, se non altro, poteva costringere Tom a scusarsi con i signori Beatty e proibirgli di rivolgere la parola in futuro a Caroline o a chiunque altro della sua famiglia. Tom sarebbe diventato il paria della nave, e magari il padre lo avrebbe sbarcato dalla Seraph non appena raggiunto il capo di Buona Speranza, o addirittura lo avrebbe rimandato in Inghilterra, in disgrazia, per farlo soffrire sotto la tirannia di Black Billy a High Weald. Attese con ansia che quelle speranze si realizzassero, o tutte o in parte; ma la sua pena aumentò col passare dei giorni, perché non accadeva nulla di sconvolgente, come se il suo tumulto emotivo e la sua sofferenza non contassero nulla. Era vero che, per alcuni giorni dopo il fatto, Caroline era rimasta silenziosa e chiusa in se stessa, trasalendo ogni volta che sentiva la voce del padre risuonare dal ponte di coperta, senza mai guardare nella Wilbur Smith
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direzione di Tom, tenendo gli occhi fissi sui libri. Guy si accorse, con una certa soddisfazione, che, se Tom saliva sul ponte quando Caroline si trovava lì con la madre e le sorelle, lei cercava una scusa per scendere nel suo camerino, restandovi da sola per ore intere. Quel comportamento durò meno di una settimana, poi Caroline riacquistò l'autocontrollo e le maniere seducenti che le erano abituali. Le sue guance tornarono rosee, e lei riprese a ridere e scherzare con Walsh e a cantare con grazia in duetto con Dorian durante le serate musicali. Per un po' di tempo Guy si rifiutò di partecipare a quelle serate, accusando qualche malessere, e rimase disteso sul pagliericcio, immerso nella sua infelicità, ad ascoltare i suoni della musica e delle risate che filtravano dal ponte inferiore. Alla fine si lasciò convincere da Walsh a tornare nell'alloggio di poppa con la sua cetra, anche se l'espressione e l'umore che ostentava suonando erano improntati a un eroismo tragico. Quanto a Tom, mostrava ben pochi rimorsi per il tradimento e l'inganno che aveva consumato. Certo, per qualche tempo non aveva cercato di rivolgere la parola a Caroline e neppure di attirare la sua attenzione, ma quella non era una novità. Era uno dei suoi soliti trucchi insidiosi. Poi, durante una lezione, accadde qualcosa. Caroline aveva lasciato cadere sul pavimento il gesso e, prima che Guy potesse raccoglierlo, si era già chinata a cercarlo sotto il tavolo. La nave aveva avuto un rollio e il gesso era scivolato sul pavimento verso Tom, che l'aveva preso al volo e poi, con un inchino di scherzosa galanteria, glielo aveva restituito, cogliendo nel contempo l'occasione per sbirciare nella sua scollatura. Caroline si era voltata con gli occhi scintillanti, in modo che Walsh non potesse vederla in faccia, e aveva tirato fuori la lingua in direzione di Tom. E non era stata affatto una smorfia infantile, bensì una moina invitante, sensuale. Tom l'aveva accolta con un sorriso lascivo e una strizzatina d'occhi che aveva fatto arrossire Caroline e aveva colpito Guy come un pugno in pieno viso. Continuò a rimuginare per tutto il giorno su quello che aveva visto, ma riuscì a escogitare un unico modo per tentare di far capire a Caroline quanto lo avesse ferito, come avesse distrutto la sua fiducia in lei e rovinato la sua vita: cambiare posto nell'aula. Il giorno dopo, senza chiedere permesso né dare spiegazioni, lasciò il banco che occupava vicino a Caroline per trasferirsi sullo sgabello basso e scomodo nell'angolo più lontano da lei. Wilbur Smith
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Quella tattica ebbe risultati imprevisti e indesiderabili. Walsh osservò la disposizione della sua aula, poi lanciò un'occhiata a Guy. «Per quale motivo vi siete spostato?» «Sto più comodo qui», rispose lui in tono imbronciato, senza guardare né lui né Caroline. «In tal caso», disse Walsh lanciando un'occhiata a Tom, «penso che sarebbe meglio se Tom si spostasse vicino a madamigella Caroline. Così potrò tenerlo meglio d'occhio.» Tom non se lo fece dire due volte e, per il resto della mattinata, Guy fu costretto ad assistere allo scambio di moine tra i due. Pur continuando a fissare accigliato la sua lavagna, Tom spostò furtivamente sotto il tavolo uno dei grossi zoccoli, sino a sfiorare l'elegante scarpetta di raso di Caroline. Lei sorrise in modo enigmatico, quasi pensasse a qualcosa che aveva appena letto, ma non tentò di scostare il piede. Poco dopo, Tom scrisse qualcosa sulla sua lavagna e, mentre Walsh era impegnato a correggere il compito di matematica di Dorian, la tenne sollevata in modo che lei potesse leggerla. Caroline lanciò un'occhiata a quello che aveva scritto, poi arrossì, scuotendo i riccioli come se fosse seccata, ma i suoi occhi ridevano. Scarabocchiò qualcosa sulla sua lavagna, per farlo leggere a Tom, che sogghignò. Guy era consumato da una collera gelosa, ma si sentiva impotente. Era costretto a guardarli flirtare, e stuzzicarsi a vicenda, e il suo odio ribollì al punto che non riuscì più a contenerlo. Era ossessionato dalle immagini delle scene spaventose cui aveva assistito nella santabarbara. La figura imponente del padre gli aveva risparmiato il peggio degli orrori di quella notte, e la luce era scarsa, ma il candore del corpo di Caroline e le sue curve morbide e invitanti gli balenavano di continuo davanti agli occhi: la odiava, ma nel contempo ardeva di desiderio per lei. Poi rivedeva il fratello e l'atto indicibile che stava perpetrando, degradando quel corpo puro e perfetto. Era un maiale, un sudicio cinghiale che grufolava nel trogolo. Tentò di ricorrere alle parole più pesanti che conosceva per esprimere la profondità della sua repulsione, ma non rendevano appieno i suoi sentimenti. Lo odio, pensò con sdegno, e poi: Lo ucciderò. A quel pensiero provò una fitta di colpa, che si dissolse quasi subito, sostituita da una selvaggia esultanza. Sì, lo ucciderò. Era l'unica strada che gli si apriva davanti, ormai.
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Guy rimase in attesa di un'opportunità favorevole. L'indomani, a mezzogiorno, stava passeggiando col signor Beatty sul castello di prua, mentre gli ufficiali di guardia, compresi il padre e Tom, rilevavano l'altezza del sole col quadrante. Il signor Beatty gli stava spiegando come venivano amministrati gli affari della Compagnia in Oriente. «Abbiamo due stabilimenti sulla costa del Carnatico. Sapete dove si trova, Courteney?» «Sì, signore.» Guy aveva studiato le enormi pile di libri e documenti che il signor Beatty gli aveva dato da leggere. «Il Carnatico è quel tratto di territorio dell'India sudorientale che si stende tra la catena orientale dei Ghat e la costa del Coromandel. È una delle aree commerciali più ricche dell'Oriente», recitò con zelo. Il signor Beatty annuì. «Vedo che prendete sul serio i vostri doveri.» Guy tentava di concentrarsi, ma la sua attenzione continuava a vagare verso il gruppo sul cassero; li vedeva discutere intorno alla tavola fissata alla chiesuola della bussola, presso il timone. Infine Tom scarabocchiò qualcosa sulla lavagna e mostrò al padre i risultati. «Ben fatto, ragazzo. Lo segnerò sulla carta.» La voce del padre arrivò fino alle sue orecchie, portata dal vento. Quella lode irritò Guy, rafforzando in lui la determinazione di mettere in atto il suo piano. Il padre fece un ultimo andirivieni sul cassero, lanciando occhiate penetranti all'assetto della velatura e alla rotta segnata sulla chiesuola. Era una figura imponente: alto, con le spalle larghe, i lineamenti ben disegnati e i folti capelli scuri annodati sulla nuca. Guy si sentì intimorito al pensiero di doverlo affrontare. Alla fine, Hal affidò il comando all'ufficiale di guardia e scomparve, scendendo per la scaletta fino al suo alloggio. «Signore, volete scusarmi, per favore?» disse Guy rivolgendosi al signor Beatty. «C'è una questione di una certa importanza che devo discutere con mio padre.» «Naturalmente.» Il signor Beatty lo congedò con un cenno della mano. «Al vostro ritorno mi troverete ancora qui. Continueremo la nostra conversazione, che trovo molto interessante.» Guy bussò alla porta dell'alloggio di poppa, aprendo quando la voce del padre esclamò dall'interno: «Avanti!» Alzò la testa dal giornale di bordo, sul quale stava annotando la posizione di mezzogiorno, restando con la punta della penna sospesa sulla pagina. «Sì, ragazzo mio, che cosa c'è?» Wilbur Smith
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Guy trasse un respiro profondo. «Voglio sfidare a duello Tom.» Hal ripose con cura la penna d'oca nel calamaio, sfregandosi il mento con aria riflessiva, prima di alzare di nuovo la testa. «Che storia è questa?» «Lo sapete, padre. Voi c'eravate. È tanto disgustoso che non me la sento neanche di parlarne, ma Tom ha arrecato una grave offesa a madamigella Caroline Beatty.» «Ah!» sospirò Hal. «Si tratta di questo.» Osservando in silenzio il volto teso di Guy, pensò: Se quella sgualdrinella, stesa di schiena nel deposito della polvere, si sentiva offesa, ha un modo davvero singolare di mostrarlo. Alla fine disse: «E lei che cosa rappresenta per te?» «Io l'amo, padre», rispose Guy con una dignità semplice e toccante che colse di sorpresa Hal, spingendolo a trattenere il sorriso che gli stava affiorando sulle labbra. «E lei è al corrente dei tuoi sentimenti?» «Non lo so», ammise Guy. «Non ti sei dichiarato? Non siete promessi? Non Hal chiesto al signor Beatty la mano di sua figlia?» Guy rispose balbettando: «No, padre, non ancora. Ho soltanto sedici anni e...» «Allora temo che tu abbia aspettato un po' troppo.» Hal parlò in tono non privo di comprensione, perché ricordava bene le sofferenze dell'amore giovanile. «Date le circostanze, potrebbe essere considerata una fortuna.» «Non vi seguo, signore.» Guy si raddrizzò con una certa rigidezza. Dovrò far valere la mia esperienza con questo saputello, pensò Hal, con una punta di segreto divertimento. «Per dirla tutta, ora che purtroppo sei al corrente delle... inclinazioni di madamigella Beatty, forse vorrai rivedere i tuoi sentimenti per lei. E' davvero degna di un amore nobile come quello che le porti? Tuo fratello non ti ha forse fatto un favore consentendoti di scoprire, sia pure in modo forzato, la sua vera natura?» Stava per aggiungere: «Insomma, sembra proprio che madamigella Caroline sia una piccola sgualdrina», ma si trattenne, pensando: Non voglio certo farmi sfidare a duello da mio figlio. «Tom l'ha costretta ad agire così», ribatté Guy con tetra determinazione. «Ecco perché devo sfidarlo.» «L'ha trascinata nel deposito contro la sua volontà?» «Forse no, tuttavia l'ha indotta a farlo. L'ha sedotta.» «Se sfidi Tom a duello, non credi che tutti, a bordo della nave, verranno Wilbur Smith
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a sapere quello che è successo tra tuo fratello e lei? Vuoi che suo padre sappia tutto? Vuoi che lei subisca le conseguenze del biasimo dei genitori?» Guy parve turbato, e Hal sfruttò quel vantaggio. «Non sono stato più severo nel condannare tuo fratello per un'unica ragione: non intendevo danneggiare la reputazione della ragazza. E tu vuoi esporla allo scandalo proprio adesso?» «Non è necessario spiegare per quale motivo lo faccio, però voglio battermi con lui.» «Ebbene, allora», disse Hal, «se sei davvero deciso, e non c'è nulla che possa fare per dissuaderti, ti batterai con lui. Organizzerò un incontro di scherma tra voi due...» «No, padre», lo interruppe Guy, «non capisci. Voglio sfidarlo a duello con le pistole.» L'espressione di Hal cambiò all'istante. «Che idiozie sono queste, Guy? Tom è tuo fratello.» «Lo odio», disse Guy, con la voce fremente di passione. «Hal riflettuto che, se lo sfiderai tu, la scelta delle armi toccherà a lui? E sceglierà certamente la sciabola. Sei disposto a fronteggiare Tom con una sciabola in pugno? Io non credo. Abolì lo ha reso uno schermidore così abile da farsi onore in qualunque equipaggio. Non reggeresti neppure un minuto contro di lui. Ti umilierebbe, oppure ti ucciderebbe.» Hal parlava con crudele franchezza. «Non me ne importa. Voglio battermi con lui.» Hal perse la calma e batté il palmo della mano sulla scrivania con tanta violenza che l'inchiostro schizzò dal calamaio sulle pagine del giornale di bordo. «Basta così! Ho cercato di ragionare con te. Adesso ti proibisco di mettere in pratica una simile idea. Non ci saranno duelli, su questa nave, e tanto meno tra i miei figli. Se ti sento ancora dire una parola su questo argomento, ti farò rinchiudere in catene nel gavone di prua e, non appena raggiungeremo il capo di Buona Speranza, ti farò trasferire a bordo di un'altra nave per rimandarti in Inghilterra. Mi Hal sentito, ragazzo?» Guy si ritrasse di fronte alla violenza della collera del padre. Di rado lo aveva visto così infuriato. Comunque tentò di resistere. «Ma, padre...» «Basta!» scattò Hal. «Ho detto la mia, e l'argomento è chiuso una volta per sempre. Torna ai tuoi doveri verso il signor Beatty. Non voglio più sentire certe idiozie.» Wilbur Smith
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Il mare cambiò colore e umore mentre la Seraph bordeggiava, avanzando ostinatamente verso est. Le onde, prima confuse e disordinate, cambiarono carattere, trasformandosi in grandi schiere serrate, un esercito di giganti che marciavano in assetto di combattimento verso la terraferma, ancora nascosta sotto l'orizzonte. «Le onde lunghe del promontorio», spiegò Ned Tyler a Tom e Dorian, puntando il dito verso l'orizzonte velato dalla nebbia. «Le acque fredde incontrano le correnti d'aria calda dell'Africa. Alcuni lo chiamano il capo di Buona Speranza, altri invece il mar delle Nebbie e altri ancora il capo delle Tempeste.» Ogni giorno l'eccitazione a bordo della nave aumentava: da molto tempo ormai non si avvistava la terraferma. Dal continente ancora lontano volavano incontro a loro gli uccelli; le sule riunite in lunghe formazioni, riconoscibili dalla pennellata nera sulla gola gialla, i gabbiani col petto candido e il mantello scuro, che seguivano la scia della nave lanciando grida stridule, e le minuscole procellarie, che punteggiavano la superficie del mare nuotando con le zampe palmate. Poi videro galleggiare nell'acqua i primi grovigli scuri di fuci galleggianti, strappati agli scogli dal mare in burrasca e trascinati via dalla corrente, con i lunghi steli e le «fronde» raggruppate che ondeggiavano come i tentacoli di polipi deformi. Enormi banchi di pesciolini simili a sardine brulicavano sulla superficie dell'acqua verde e gelida, mentre legioni di foche dal manto scintillante potevano nutrirsi a sazietà, data quell'abbondanza. Al passaggio della nave alzavano la testa per fissare gli uomini in coperta con gli occhi enormi e lucenti e i baffi rigidi da gatto. Ormai ogni sera Hal riduceva la velatura, in modo che la nave controbilanciasse appena la spinta della corrente verde e impetuosa e, alle prime luci del giorno, spediva Tom e Dorian sull'albero di maestra perché controllassero che nessuna barriera corallina o nessuna scogliera si trovasse sulla rotta della nave, pronta a sventrarla. Soltanto quando era certo che la via fosse sgombra, mollava i terzaroli per spiegare tutte le vele. Il Settantatreesimo giorno di navigazione da quando avevano lasciato il porto di Plymouth, verso la metà della mattinata, Dorian indicò al fratello maggiore la nube che restava fissa sull'orizzonte, mentre le altre coorti celesti scorrevano e si allontanavano sulle Ali del vento. I due ragazzi la Wilbur Smith
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osservarono per qualche minuto, finché non si aprì con un vortice, lasciando scoperta una linea azzurra e compatta al di sotto, simile a un taglio di sciabola. «Terra!» sussurrò Tom. «Possibile?» chiese Dorian, meravigliato. «Sì! Sì!» gridò Tom, alzando bruscamente la voce. «È la terra.» Balzò in piedi sulla coffa che oscillava, puntando in avanti un dito tremante. «Terra!» urlò. «Terra in vista!» Il ponte sotto di loro si riempì di animazione, mentre gli uomini di guardia salivano a frotte per unirsi agli altri che già scalavano il sartiame. Ben presto le sartie e i pennoni furono affollati di uomini appesi come grappoli maturi: tutti gridavano e ridevano, lanciando urla d'incitamento. Hal Courteney uscì a precipizio dall'alloggio di poppa: era in maniche di camicia e stringeva sotto il braccio il cannocchiale di ottone. Si arrampicò fin dov'erano appollaiati i figli, in coffa. Salì rapido e spedito, senza mai fermarsi finché non giunse in cima, e Tom notò con orgoglio che, nonostante la lunga salita, aveva il respiro leggero e regolare. Accostando il cannocchiale all'occhio, osservò attraverso la lente il profilo azzurrino, individuando le linee in ombra e le pieghe di roccia scabra. «Ebbene, Thomas, Hal fatto il tuo primo avvistamento.» Porse il cannocchiale al figlio. «Che te ne pare?» Accovacciato in mezzo ai due ragazzi, li cinse ciascuno con un braccio sulle spalle. «È una montagna!» esclamò Tom. «Una grande montagna con la cima piatta.» «La montagna della Tavola», confermò Hal. Tom non si rendeva ancora conto di quale grande prova di abilità fosse stata quella navigazione. Oltre settanta giorni senza avvistare terra, eppure il padre li aveva portati esattamente a 34 gradi di latitudine sud. «Guardatela bene, questa terra che avete di fronte», disse Hal. Avvertì una strana premonizione, come se la cortina che velava il futuro si fosse squarciata per un attimo davanti ai suoi occhi. «Perché il vostro destino è qui.» «Anche il mio, padre?» chiese Dorian con la sua vocina. «Di tutt'e due. È qui che vi ha condotti vostro padre.» I ragazzi rimasero muti, ridotti al silenzio dall'intensità di quelle parole. Restarono seduti tutt'e tre in coffa, mentre il sole giungeva allo zenit. «Oggi non c'è bisogno di rilevare l'altezza del sole», osservò Hal con una risatina, «possiamo lasciarlo fare a Ned Tyler e Alf Wilson. Sappiamo Wilbur Smith
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dove ci troviamo, non vi pare?» Il sole cominciò la sua parabola discendente nel cielo, e la Seraph proseguì, avanzando lentamente contro il vento impetuoso che soffiava da sud-est, procedendo con tanta lentezza che la montagna dalla cima piatta sorse dal mare con una solennità maestosa fino a dare l'impressione di riempire il cielo davanti a loro. Riuscivano persino a distinguere le schegge bianche delle abitazioni ai piedi della nuda parete di roccia. «Abbiamo lavorato alla costruzione di quel forte», disse Hal, indicandolo ai figli. «Aboli, Big Daniel, Ned Tyler e io.» «Raccontaci la storia!» lo implorò Dorian. «L'avete già sentita cento volte», si schermì Hal, ma Tom si unì alla richiesta. «Non ha importanza, padre. Vogliamo sentirla di nuovo.» E così, mentre stavano seduti sulla coffa dell'albero di maestra, Hal rievocò per loro gli avvenimenti della guerra di venticinque anni prima, quando tutto l'equipaggio della nave del nonno era stato catturato dagli olandesi e trasportato in catene al capo di Buona Speranza. Per indurlo a rivelare il nascondiglio del tesoro che aveva sottratto ai galeoni olandesi abbordati, Sir Francis Courteney era stato torturato, però aveva resistito, sopportando con grande forza d'animo le più vili e crudeli sofferenze che gli erano state inflitte. Allora gli olandesi lo avevano condotto sulla spianata del forte e lo avevano giustiziato in pubblico. Hal e gli altri marinai erano stati condannati ai lavori forzati sulle mura della fortezza olandese, e avevano lavorato e sofferto lì per tre lunghi anni, prima di riuscire a fuggire. «Allora quella è la montagna dov'è sepolto nonno Francis?» domandò Tom. «E sai dov'è la sua tomba?» «Lo sa Aboli, perché fu lui a staccare il corpo dal patibolo, durante la notte. Al chiaro di luna riuscì a trasportarlo sulla montagna, in un luogo segreto.» Tom rimase in silenzio per qualche minuto, ripensando al sarcofago vuoto nella cappella sulla collina dietro High Weald, col nome del nonno inciso sopra. Intuì quello che aveva in mente il padre, però sapeva anche che non era il momento di chiedergli spiegazioni. Lo avrebbe fatto a tempo debito. La Seraph giunse all'altezza dell'isolotto roccioso che sorvegliava l'accesso alla baia sotto la montagna. Foreste di alghe nere fluttuanti intasavano le acque, mentre folle di foche lucenti pulsavano sulla riva Wilbur Smith
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rocciosa di quella che, per gli olandesi, era Robben Eiland, cioè l'«isola delle foche». «Devo scendere in coperta per gettare l'ancora in un punto sicuro», disse Hal. «Facciamo a chi arriva prima sul ponte!» strillò Dorian, balzando sulle sartie. Tom gli lasciò un certo vantaggio prima di lanciarsi dietro di lui. I loro piedi danzavano sulle griselle, e i due scendevano come se volassero, ma Tom ben presto ridusse lo svantaggio, e, arrivato quasi alla sua altezza, rallentò per consentire a Dorian di arrivare sul ponte con una spanna di vantaggio su di lui. «Ho vinto! Ho vinto!» esultò il piccolo. Tom gli arruffò i capelli color rame. «Non vantarti troppo», lo ammonì, con una spintarella. Poi guardò il piccolo gruppo a prua della Seraph. I signori Beatty erano lì con tutt'e tre le figlie, insieme con Guy. Erano eccitatissimi e s'indicavano a vicenda i segni di riconoscimento di quel famoso promontorio, vicino a capo Agulhas, il punto più meridionale del continente africano. «La nuvola bianca che si vede in cima alla montagna viene chiamata la tovaglia», spiegava Guy al gruppo. «E quella collinetta a sud dell'abitato si chiama Lion's Head, 'testa di leone'. Si vede benissimo la forma.» Come sempre, aveva studiato i libri di navigazione e conosceva ogni dettaglio. «Guy, perché non sali sull'albero?» lo apostrofò Tom in tono scherzoso, ma senza cattiveria. «Da lì godrai di una vista migliore.» Guy gli lanciò un'occhiata gelida. «Grazie, ma sto benissimo dove sono.» Si avvicinò ancora un po' a Caroline, facendo per voltargli le spalle. «Non c'è niente da temere», gli assicurò Tom. «È perfettamente sicuro.» Guy si girò di scatto per affrontarlo. «Vorresti darmi del codardo?» Aveva il viso arrossato e la voce incrinata dall'indignazione. «Non è quello che ho detto.» Tom scoppiò a ridere, girando sui tacchi per dirigersi al timone. «Comunque puoi intenderla come vuoi», aggiunse senza voltarsi. Guy lo fulminò con lo sguardo, sentendosi travolgere dalla mortificazione. Tom aveva messo in dubbio il suo coraggio e poi lo aveva liquidato con disprezzo di fronte alla famiglia Beatty e a Caroline. Qualcosa scattò nella sua mente e, prima ancora di rendersene conto, si lanciò lungo il ponte a tutta velocità. «Tom, attento!» urlò Dorian, ma era troppo tardi. Tom stava per voltarsi Wilbur Smith
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e difendersi, però Guy lo investì in pieno con tutto il suo peso mentre era in equilibrio su un piede solo, scaraventandolo contro la murata con tanta violenza che gli si svuotarono di colpo i polmoni. Guy gli balzò sulla schiena, cingendogli il collo con un braccio. Tutti i ragazzi avevano preso regolarmente lezioni di lotta da Big Daniel e Guy, pur essendo lento e goffo nello sport, conosceva tutte le prese e le mosse: avendo messo a segno quella presa micidiale, intendeva sfruttarla al massimo. Fece forza puntando un ginocchio contro la schiena di Tom e usando la controspinta dell'altro braccio, passato nella piega del primo, per schiacciare la trachea al fratello e tendergli la spina dorsale al punto che le vertebre potevano spezzarsi da un momento all'altro. Tom si dibatteva sul ponte, artigliando con disperazione le braccia di Guy, ma a poco a poco s'indeboliva, ansimando a bocca spalancata in cerca di aria. Gli uomini dell'equipaggio accorsero per assistere alla lotta, fischiando eccitati, battendo i talloni e lanciando grida d'incoraggiamento ciascuno al proprio beniamino. Poi, al di sopra del clamore, risuonò una voce tonante: «All'indietro, Klebe!» Tom reagì all'istante. Anziché resistere alla stretta che lo trascinava indietro, cambiò direzione, proiettando tutto il suo peso e la sua forza in una rovesciata. Guy si ritrovò scagliato all'indietro con tanta violenza che fu costretto a mollare la presa e allargare le braccia per frenare la caduta, altrimenti si sarebbe fracassato le costole. Agile come un gatto, Tom si girò a mezz'aria, saltando addosso al gemello prima ancora di ricadere sul ponte. Quando entrambi piombarono sul tavolato di legno, piantò gomiti e ginocchia nel torace e nel ventre di Guy. Il fratello strillò come una ragazzina, tentando di piegarsi in avanti per stringersi con le mani il ventre dolorante, ma Tom si sedette a cavalcioni su di lui, inchiodandolo al ponte. Poi serrò il pugno, prendendo lo slancio per colpire Guy al viso. «Tom, no!» Era la voce del padre. Tom s'immobilizzò di colpo. La collera cieca svanì lentamente. Lasciando ricadere il pugno, si alzò per guardare dall'alto Guy, con disprezzo. «La prossima volta», lo ammonì, «non te la caverai tanto facilmente.» Gli volse le spalle, e Guy si alzò, con le mani ancora serrate sullo stomaco, appoggiandosi a uno dei cannoni. Gli spettatori si dispersero, delusi per l'improvvisa conclusione dello Wilbur Smith
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spettacolo. «Tom!» chiamò Guy, e il fratello si girò verso di lui. «Mi dispiace... Stringiamoci la mano e facciamo la pace.» Guy avanzò barcollando verso il fratello, con aria contrita, tendendogli la destra. Tom sorrise, tornando indietro per afferrare la mano protesa. «Non so neanche perché ci siamo battuti», commentò. «Io sì», gli disse Guy, e l'espressione affettuosa del suo viso si tramutò all'istante in una maschera di odio puro. Fulmineo come una vipera, estrasse il pugnale dal fodero che portava alla cintola, con una lama d'acciaio lucente lunga sei pollici, dalla punta aguzza. Tenendolo all'altezza dell'ombelico di Tom, colpì con violenza, usando nel contempo la presa sulla destra del fratello per attirarlo verso di sé con tutta la sua forza, nel tentativo di farlo infilzare di slancio sul coltello. «Ti odio!» gridò a Tom, spruzzando dalle labbra una pioggia di saliva che scintillò al sole. «Ti ucciderò per quello che Hal fatto.» Tom spalancò gli occhi per il terrore, scartando bruscamente di lato. La punta del pugnale gli lacerò il fianco, tagliando la camicia e scavando un solco nella carne sottostante. Il sangue sprizzò all'istante, inzuppando il cotone della camicia e scorrendo lungo la gamba. Caroline gridò con voce acuta: «Lo Hal ucciso!» e l'equipaggio si lasciò sfuggire un ruggito, tornando indietro di corsa per assistere alla scena. Guy capì di aver fallito il colpo e cercò di rimediare con una serie di assalti disperati al viso e al torace di Tom; ma il fratello danzava, schivando ogni colpo, finché, con una mossa improvvisa e temeraria, balzò in avanti, colpendo Guy sotto il mento con la mano sinistra a taglio. La testa del gemello scattò all'indietro e la stretta mortale sulla destra di Tom si allentò. Barcollando all'indietro contro la battagliola, col sangue che gli scorreva dall'angolo della guancia, perché si era morso la lingua, Guy stringeva ancora il pugnale; lo puntò contro il viso di Tom, ringhiandogli contro: «Ti ucciderò!» Aveva i denti macchiati di sangue. «Ho intenzione di ucciderti, brutto porco schifoso.» Tom si massaggiava con una mano la gola contusa, ma con l'altra estrasse anche lui il pugnale dal fodero. «Parli bene, fratello», ribatté in tono truce. «Però adesso piantala con le vanterie, e vediamo come fai a uccidermi.» Si lanciò all'attacco di Guy, spostandosi sulla punta dei piedi, il coltello che gli saettava nella mano come un cobra eretto, gli occhi fissi Wilbur Smith
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sul viso del fratello. Guy indietreggiò. Hal si fece largo in fretta, aprendo la bocca per ordinare loro di fermarsi, tuttavia, prima che potesse pronunciare una sola parola, Abolì fu al suo fianco e gli strinse il braccio. «No, Gundwane!» Il suo tono era sommesso ma incalzante, in modo che solo Hal potesse udirlo in quel frastuono, tra le grida delle donne e gli ululati dell'equipaggio. «Non tentare mai di separare due cani che si azzuffano. Non faresti che offrire un vantaggio a uno dei due.» «In nome di Dio, Abolì, si tratta dei miei figli.» «Non sono più bambini, Gundwane, bensì uomini. Quindi trattali da uomini.» Tom balzò in avanti, tenendo bassa la punta del coltello e fintando per colpire Guy al ventre. Guy indietreggiò quasi di corsa, rischiando d'inciampare per la fretta. Tom allora tentò di aggirarlo sulla destra, e Guy arretrò verso la prua della nave. Gli uomini che si affollavano in quel punto si sparpagliarono per lasciare spazio ai due contendenti, e Hal intuì le intenzioni di Tom: spingere Guy come fa un cane da pastore col gregge, guidandolo verso prua. La sua espressione era minacciosa e determinata, senza il minimo segno di emozione; eppure, mentre fissava il viso del fratello gemello, gli occhi scintillavano. Hal si era battuto contro molti uomini, e sapeva che solo gli spadaccini più pericolosi avevano quello sguardo di gelida minaccia negli occhi quando incalzavano l'avversario per finirlo. Sapeva che Tom non vedeva più un fratello di fronte a sé, ma solo un nemico da abbattere. Era diventato un assassino, e di rado Hal aveva avuto paura come in quel momento, perché ormai non poteva far nulla per fermarlo. Non poteva richiamare Tom: sarebbe stato come tentare di richiamare un leopardo a caccia della preda. Tom sanguinava ancora dal taglio al fianco. Lo squarcio nella camicia si era spalancato, scoprendo la pelle chiara al di sotto e la ferita simile a una bocca sorridente, da cui scorreva un fiotto rosso. Colava sul ponte e nelle sue scarpe, che emettevano un lieve sciaguattio a ogni passo, ma Tom era indifferente alla ferita: non aveva occhi che per l'uomo che gliel'aveva inflitta. Guy finì con le spalle addossate alla murata. Con la mano sinistra tastò la superficie dietro di sé, saggiando le tavole di quercia, e la scoperta di essere in trappola gli balenò alla mente, facendo svanire la collera selvaggia e sostituendola con la paura. Si guardò fulmineamente intorno, Wilbur Smith
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in cerca di una via di scampo. Poi le sue dita sfiorarono l'asta di una delle picche disposte nella rastrelliera sotto la murata, e la paura si dissolse come la foschia sul mare al sorgere del sole. Una gioia selvaggia gli illuminò il viso mentre lasciava cadere il pugnale e afferrava la picca. Di fronte alla pesante lancia con la punta d'acciaio biforcuta, Tom arretrò di un passo. Guy gli rivolse un sorriso maligno, con la bocca simile a uno squarcio sanguinolento. «Ora la vedremo», sibilò, abbassando la punta della picca e caricando. Tom balzò all'indietro e Guy lo incalzò, tentando di colpirlo con la lunga asta, che aveva una portata molto superiore a quella del pugnale impugnato dal fratello. Si raccolse in se stesso prima di caricare ancora, ma Tom lasciò cadere il coltello, scattando di lato per sfuggire alla punta d'acciaio lucente, poi balzò all'indietro e, prima che Guy potesse voltarsi per attaccarlo, afferrò l'asta di quercia. Si spostarono avanti e indietro sul ponte, separati dalla lancia, attaccando e spingendo, lanciando grugniti e perdendo sangue, farfugliando imprecazioni e insulti incomprensibili. Alla fine, Tom incalzò Guy, mettendolo alle strette contro la murata, sinché non furono avvinghiati nella lotta, faccia a faccia e petto contro petto, con l'asta della picca stretta tra loro. Gradualmente, Tom riuscì a farla risalire fin sotto la gola del fratello, poi spinse con tutta la forza e il peso che aveva. Guy inarcò la schiena, piegandosi all'indietro contro la battagliola, con la robusta lancia di quercia sotto il mento. La paura gli affiorava di nuovo negli occhi: sentiva l'acqua gorgogliare lungo la murata, mentre i suoi piedi si sollevavano, staccandosi dal ponte. Stava per finire fuori bordo, e non era un nuotatore, anzi l'acqua lo terrorizzava. Tom aveva i piedi ben piantati a terra, ma in una pozza del proprio sangue, sdrucciolevole come olio. I piedi gli scivolarono: finì lungo disteso sul ponte. Guy rimase libero e si diresse barcollando verso le sartie dell'albero di trinchetto, ansimando, con la camicia fradicia di sudore. Si aggrappò alle sartie per sorreggersi, prima di guardare indietro. Rotolando, Tom si rialzò sul ponte, poi si chinò per raccogliere il pugnale e caricò Guy come un leopardo lanciato all'attacco. «Fermatelo!» gridò Guy. Ma le grida degli spettatori erano assordanti e si levarono in un parossismo di eccitazione quando Tom si scagliò all'attacco, col pugnale in mano e una luce di follia nello sguardo. Girandosi, Guy balzò sulle sartie e cominciò ad arrampicarsi, mettendo Wilbur Smith
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una mano sopra l'altra. Sotto di lui, Tom si arrestò soltanto quanto bastava a stringere il pugnale tra i denti prima di seguirlo. Il pubblico sul ponte rimase immobile, con la testa rivolta verso l'alto. Nessuno aveva mai visto Guy salire sulle sartie, e persino Hal restò sorpreso dalla sua rapidità di movimenti. Tom poteva guadagnare terreno su di lui solo poco alla volta. Guy raggiunse il pennone e vi si arrampicò carponi. Guardando in basso, ebbe un attacco di vertigini; poi vide sotto di sé il viso di Tom, che saliva spedito lungo le griselle. Scorse la piega spietata delle sue labbra e il sangue che gli imbrattava il viso, tingendo di rosso la camicia. Disperato, alzò gli occhi verso la testa d'albero, ma si sentì venir meno di fronte alla sua altezza e capì che, a ogni spanna, il vantaggio sarebbe passato saldamente nelle mani di Tom. C'era un'unica via aperta, per lui; cominciò a strisciare penosamente in fuori lungo il pennone di trinchetto. Sentì Tom richiamarlo, e quel suono lo spronò a proseguire. Non aveva la forza di guardare in basso le acque verdi e agitate, così lontane da lui. Singhiozzando di terrore, continuò a strisciare fino a raggiungere l'estremità del pennone. Poi girò la testa per guardare indietro. Tom si trovava un passo dietro di lui. Guy era in trappola, inerme. L'altro si fermò, sedendo a cavalcioni del pennone oscillante. Si tolse la lama dai denti: era uno spettacolo spaventoso, col viso tutto chiazzato di sangue, il volto terreo e irrigidito dal furore. Nella sua mano, l'arma scintillava. «Ti prego, Tom», piagnucolò Guy. «Non intendevo farti del male.» Sollevò le mani per ripararsi il viso, ma, così facendo, perse il precario equilibrio che lo teneva in piedi sul pennone. Barcollò freneticamente, mulinando le braccia, poi s'inclinò in avanti e ancora in fuori, finché non precipitò lanciando un urlo selvaggio, torcendosi e rotolando nell'aria in una caduta vertiginosa, prima di colpire la superficie in un groviglio di membra e sparire sott'acqua. Tom rimase irrigidito al suo posto, mentre la nebbia rossastra del furore omicida si dissolveva, poi abbassò gli occhi per guardare le conseguenze delle sue azioni. Guy era sparito: non c'era traccia di lui sotto la superficie verde; nessuna testa galleggiava nella lunga scia spumeggiante della nave. Non sa nuotare! Quella terribile realtà lo colpì con tanta violenza da farlo vacillare sul pennone. L'ho fatto. Ho ucciso mio fratello! L'indicibile orrore del suo misfatto gli balenò alla mente. Balzando in piedi, si erse in Wilbur Smith
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tutta la sua statura sul pennone di trinchetto, per scrutare la scia della nave. Vide Guy riemergere, dimenando le braccia e lanciando grida fioche e lamentose come le strida di un gabbiano ferito. Dal ponte ai suoi piedi, udì gli ordini del padre al timoniere: «Virate di bordo! Calate in mare una barca! Uomo in mare!» Prima che la nave potesse rispondere al timone e mettere la prua al vento, Tom si concentrò sul salto dal pennone. Puntando la testa in avanti, con le braccia protese in alto, s'inarcò, tenendo le gambe diritte dietro di sé. Urtò la superficie dell'acqua senza sollevare spruzzi e scese così in fondo che le acque scure si chiusero su di lui, schiacciandogli il petto per la pressione; quindi girò su se stesso per risalire in superficie. Lo slancio fu tale che emerse fino alla cintola, col fiato che sibilava nella gola. La nave era alle sue spalle, già impegnata nella manovra per mettere la prua al vento. Guardando indietro, lungo il percorso della scia, non scorse nulla, ma cominciò lo stesso a nuotare con tutte le sue forze, in lunghe bracciate che facevano spumeggiare le acque dietro di lui, sentendo appena il bruciore del sale sulla lunga ferita poco profonda che gli solcava il fianco. Giudicò approssimativamente la distanza alla quale aveva scorto la testa di Guy, fece una pausa e ricominciò a nuotare, fermandosi solo per riprendere fiato e guardarsi attorno. Di suo fratello, nessuna traccia. Oh, Dio mio, se annega non me lo perdonerò mai... Non aveva ancora completato quel pensiero che inspirò una potente boccata d'aria, si piegò in due, puntando la testa verso il fondo del mare, e scalciò, tuffandosi sott'acqua. Ma non vide altro che il verde delle acque, percorso da strisce di sole. Si spinse in fondo finché i polmoni non cominciarono a dolergli per la mancanza d'aria. Doveva risalire a respirare. Poi individuò qualcosa sotto di sé: una confusa chiazza bianca e azzurra. Erano la camicia e la giacca di Guy, che fluttuava alla deriva, inerme come un relitto. Con i polmoni sul punto di scoppiare, Tom scese ancora più in basso fino a toccare la spalla del fratello, poi lo afferrò per il colletto della giacca prima di puntare verso la superficie. Per quanto scalciasse con forza, la zavorra di quel peso lo ostacolava. I secondi si allungarono in un'eternità di dolore. Il petto gli bruciava: ardeva dal bisogno di respirare. Sentiva la forza defluirgli dalle gambe e la presa sul colletto di Guy allentarsi, al punto che temeva di lasciarselo scivolare di mano. Il verde gli riempiva la testa, la vista si appannava, stelle di luce esplodevano Wilbur Smith
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silenziose nell'oscurità. Tieni duro! gridò a se stesso senza emettere un suono, poi costrinse le dita a serrare la presa sulla giacca di Guy e le gambe a scalciare ancora. La luce divenne più intensa, il verde sbiadì e d'improvviso Tom emerse con la testa all'aria e al sole. Tirò un gran respiro che gli riempì i polmoni fin quasi a farli scoppiare, poi un altro... Lo sentì spandersi per tutto il corpo, dolce come il miele, e le forze gli affluirono di nuovo alle membra. Allungando la mano sott'acqua, afferrò una manciata di capelli fradici, sollevando la testa di Guy all'aria. Guy era annegato: in lui non c'era traccia di vita. Gli occhi erano aperti, ciechi e fissi, il viso cereo. «Respira! Per amor di Dio, respira!» gridò Tom al viso bianco e immoto, afferrando il torace del fratello e stringendolo con forza. Aboli gli aveva mostrato come funzionava quel trucco. L'aria fuggì di colpo dai polmoni di Guy, insieme con fiotti di acqua marina e vomito, investendo l'altro in pieno viso. Tom lasciò la presa e il torace del fratello si espanse automaticamente, risucchiando aria attraverso la bocca aperta. Per due volte ancora Tom lo costrinse a espellere l'acqua dai polmoni, sforzandosi di tenergli la testa fuori dell'acqua. Al terzo respiro, Guy tossì, assalito da un conato di vomito. Aprendo gli occhi, cercò di respirare da solo; dapprima batteva le palpebre, ancora senza vedere, poi cominciò a mettere lentamente a fuoco le immagini. Respirava, però a gran fatica, squassato a intervalli di pochi secondi da un parossismo di tosse, ma a poco a poco gli occhi ripresero vita. «Ti odio», sussurrò a Tom. «Ti odio ancora, e ti odierò per sempre.» «Ma perché, Guy, perché?» «Avresti dovuto lasciarmi annegare, perché un giorno ti ucciderò.» «Perché?» ripeté Tom. «Lo sai», rispose ansimando Guy. «Lo sai, il perché.» Nessuno dei due aveva sentito avvicinarsi la barca, ma Hal Courteney, ormai vicino, gridò loro: «Tenete duro, ragazzi! Sono qui». L'equipaggio dell'imbarcazione si avvicinava di buona lena e Hal, al timone, stava accostando. Eseguendo i suoi ordini, disarmarono i remi, poi mani forti si protesero per afferrare i ragazzi e issarli fuori dell'acqua. Il dottor Reynolds li aspettava, affacciato al parapetto della nave, quando Guy fu trasferito a bordo della Seraph. Tom rimase a fianco del padre sul ponte, guardando con uno strano smarrimento gli aiutanti del chirurgo che Wilbur Smith
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trasportavano il fratello sotto coperta. «Mi odia, padre», sussurrò. «Lasciami vedere quel taglio, ragazzo», ribatté Hal, burbero. Tom abbassò gli occhi sulla propria ferita: l'acqua di mare aveva ridotto l'emorragia a una lenta perdita di sangue. «Non è niente», commentò il ragazzo. «È soltanto un graffio.» Poi alzò di nuovo gli occhi verso il padre. «Mi odia. È stata la prima cosa che ha detto quando l'ho riportato a galla. Che cosa devo fare?» «Gli passerà.» Hal strappò la camicia di Tom per osservare il taglio prodotto dal pugnale. «Dimenticherà e perdonerà.» «No», rispose Tom, scuotendo la testa. «Ha detto che mi odierà per sempre. È mio fratello. Aiutatemi, padre. Che posso fare?» Hal non poteva dargli nessuna risposta. Conosceva fin troppo bene l'ostinazione e la tenacia di Guy: erano la sua forza e al tempo stesso la sua debolezza. Sapeva che Tom aveva ragione: Guy non lo avrebbe mai perdonato. Era l'approdo più bello di tutti gli oceani sui quali Hal avesse navigato. La montagna svettava verso il cielo come una parete imponente e il vento che ne sfiorava la sommità piatta spumeggiava come latte bollente, formando una nube che pulsava leggermente, screziata da pennellate color madreperla e rosa perlaceo, colori presi in prestito dal sole al tramonto. I pendii della montagna, al di sotto dei contrafforti rocciosi, erano tappezzati di foreste verdi, e le spiagge erano bianche, orlate da una glassa di spuma. Un tale spettacolo avrebbe dovuto riempire di gioia l'animo di Hal, e invece tutti i ricordi che gli si affollavano di nuovo alla mente erano venati di sofferenza e di orrore. Le mura del castello erano nitide, a quella distanza, e sui bastioni merlati i cannoni li fissavano minacciosi, con le bocche scure, simili a orbite vuote. Nelle segrete sotto quelle mura aveva trascorso tre gelidi inverni, e ancora rabbrividiva al ricordo del freddo del capo di Buona Speranza che gli penetrava nelle ossa. Era su quelle mura che Hal si era consumato di fatica quasi al punto di svenire, fino ad avere il palmo delle mani spellato e scarnito. Su quelle impalcature aveva visto morire troppi uomini in gamba, e aveva vissuto il difficile periodo di transizione tra l'adolescenza e l'età adulta. Accostò all'occhio il cannocchiale per osservare le altre navi all'ancora nella baia. Restò stupito dal loro numero. Wilbur Smith
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Contò ventitré navi, tutti grandi velieri commerciali, per lo più olandesi. Individuò un'unica nave inglese, un altro East Indiaman, a giudicare dall'aspetto, ma si accorse con delusione che non si trattava della Yeoman of York. Nella baia non c'era traccia della sua compagna di navigazione. Senza abbassare il cannocchiale, scandagliò le acque della baia in direzione della terraferma; poi il suo occhio si fermò sulla spianata destinata alle parate, sotto le mura del castello, e i ricordi dell'esecuzione del padre lo assalirono con tutti i loro terribili e crudi dettagli. Dovette imporsi di respingerli dalla mente, in modo da potersi concentrare sul compito di portare la Seraph all'ancoraggio. «Getteremo l'ancora al di fuori della portata dei cannoni del forte, signor Tyler.» Impartì l'ordine senza doverlo giustificare. Ned conosceva le sue intenzioni e, d'altronde, anche la sua espressione era cupa. Forse, mentre girava la ruota del timone e lanciava l'ordine di ammainare le vele, riviveva, proprio come Hal, quei giorni orribili. L'ancora calò con uno spruzzo alto che investì il castello di prua, e il cavo si svolse veloce attraverso la cubia. La Seraph si arrestò bruscamente, prima di piroettare con grazia disponendosi con la prua al vento e di placarsi: da creatura marina viva e vitale, protesa nella corsa, si trasformò in una sorta di cigno che galleggiava sulle acque, placido e bellissimo. L'equipaggio si schierò sui pennoni nudi e si appese alle sartie, fissando la terraferma, lanciando commenti, illazioni e domande, mentre osservava i battelli dei commercianti che si staccavano dalla riva a forza di remi per raggiungerli. I marinai chiamavano il Capo «la taverna dei mari». Era stato colonizzato oltre cinquant'anni prima per servire da stazione di vettovagliamento per la flotta della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, e le barche erano cariche di tutto quello che i marinai potevano desiderare dopo tre mesi trascorsi in mare. Hal convocò gli ufficiali. «Controllate che non vengano contrabbandati a bordo liquori forti», disse ad Alf Wilson. «I venditori di rum cercheranno d'introdurlo a bordo attraverso i portelli dei cannoni. Se vi lasciate infinocchiare, al tramonto avremo metà degli uomini ubriachi al punto di vomitare.» «Sì, comandante.» Il quarto ufficiale si sfiorò il berretto con la mano. Essendo astemio, era l'uomo ideale per quell'incombenza. «Aboli, disponi lungo la battagliola uomini armati di spade e pistole. Wilbur Smith
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Dobbiamo evitare che quei furfanti salgano a bordo per spogliare la nave e che le prostitute vengano a fare il loro mestiere sul ponte di batteria. Altrimenti salteranno fuori i pugnali...» Stava per aggiungere: «un'altra volta», ma si trattenne in tempo. Non voleva ricordare loro il conflitto tra i suoi figli. «Signor Fisher, sarete voi a trattare con i commercianti delle barche: è un lavoro che vi calza a pennello.» Poteva contare sul fatto che Big Daniel ottenesse quello che aveva pagato e controllasse ogni cesto di frutta e di verdura che veniva caricato a bordo. «Il signor Walsh vi assisterà e pagherà i barcaioli.» Walsh aveva molti incarichi, da precettore a scrivano e tesoriere. Gli ufficiali si allontanarono per svolgere i compiti che aveva assegnato loro, e Hal si diresse verso la battagliola, abbassando gli occhi sulle barche dei commercianti che si affiancavano alla murata. Erano piene fino all'orlo di prodotti freschi: patate ancora sporche di terriccio, cavoli verdi e mele, fichi e zucche, quarti di manzo e galline spennate. Quella sera l'equipaggio avrebbe fatto una scorpacciata. Persino Hal, guardando tutto quel bendidio, si sentì l'acquolina in bocca. I viveri freschi costituivano un desiderio assillante, che tormentava ogni marinaio verso la fine di un lungo viaggio per mare. Alcuni degli uomini si sporgevano già dalla murata, contrattando le merci. Chi aveva soldi pagava fino a un penny per un'unica patata: un prezzo iperbolico. La bramosia li rendeva frenetici, al punto che ripulivano i grossi tuberi bianchi dalla terra che aderiva alla buccia sfregandoli contro il grembiule, come se fossero mele, e poi addentandoli così com'erano, crudi, assaporando con evidente godimento la polpa bianca e acidula. Il dottor Reynolds si affiancò a Hal. «Bene, signore, è un sollievo essere di nuovo in porto. Ci sono già ventisei casi di scorbuto, a bordo, ma vedrete che guariranno prima che riprendiamo il mare. È un miracolo e un mistero, eppure l'aria di terra risana anche i casi peggiori, uomini che hanno perso i denti e sono troppo deboli per reggersi in piedi.» Porse a Hal una mela matura. «Ne ho rubate un paio dalla riserva del signor Walsh.» Hal l'addentò, chiudendo gli occhi per l'estasi. «Il cibo degli dei», commentò, mentre il succo gli inondava la bocca e scivolava in gola come un olio dolce. «Mio padre sosteneva che era la mancanza di cibi freschi a causare lo scorbuto», disse poi al chirurgo. Il dottor Reynolds sorrise con commiserazione, prima di dare un morso formidabile alla sua mela. «Bene, comandante, non per criticare la Wilbur Smith
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buon'anima di vostro padre, perché tutti sanno che era un grand'uomo, ma gallette e manzo salato sono il cibo ideale per ogni marinaio.» Reynolds scosse il capo con aria grave. «Si sentono teorie incredibili da parte di coloro che non sono addestrati alle arti mediche... E questo è un fatto. È l'aria di mare che causa lo scorbuto, e nient'altro, ve lo assicuro.» «Come stanno i miei figli, dottore?» chiese Hal, preferendo cambiare discorso. «Thomas è un giovane animale sano; per fortuna la ferita non era profonda e non ha provocato gravi danni. L'ho ricucita con un po' di minugia e in men che non si dica sarà guarita... se non s'infetta, almeno.» «E Guy?» «L'ho messo a letto. I polmoni si sono riempiti di acqua salmastra, e ciò talvolta genera umori morbosi. Ma tra pochi giorni dovrebbe essere di nuovo in piedi, senza risentire del bagno in mare.» «Ve ne sono grato, dottore.» In quel momento si scatenò un trambusto a mezza nave. Aboli aveva notato uno dei ragazzi ottentotti, che aveva portato un cesto di frutta su per la scaletta dalla barca lungo la murata, e lo aveva afferrato per la spalla. «Vieni un po' qui, bel ragazzino», lo sfidò. «Ma sei davvero un ragazzo?» La sua vittima aveva il viso a forma di cuore, la pelle dorata e perfetta e gli occhi a mandorla, dal taglio asiatico. Reagì alla sfida di Aboli snocciolando un fiotto d'imprecazioni in uno strano linguaggio fitto di schiocchi e dibattendosi nella sua stretta. Aboli strappò ridendo il berretto dalla testa del ragazzo, facendogli ricadere sulle spalle una folta criniera di capelli neri. Poi lo sollevò in alto con una mano sola, mentre con l'altra gli tirava giù le brache fin sotto le ginocchia. L'equipaggio si lasciò sfuggire un ululato di entusiasmo, vedendo apparire un sedere giallo e rotondo e due cosce ben tornite, tra le quali si annidava lo scuro triangolo di peli che era il segno distintivo della femminilità. Sospesa a mezz'aria, la ragazza fece piovere una grandinata di colpi sulla testa pelata di Aboli, ma, vedendo che non sortivano il minimo effetto, gli artigliò gli occhi con le lunghe dita, per di più scalciando furiosamente. Aboli si diresse verso la battagliola, lanciando senza sforzo la giovinetta fuori bordo, come se fosse una gattina randagia. I compagni la issarono sulla barca: la ragazza, grondante, si tirò su le brache e continuò a gridare oscenità ai marinai che la schernivano dalla battagliola. Wilbur Smith
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Hal si girò per nascondere un sorriso, attraversando il ponte per raggiungere il signor Beatty, attorniato dalla sua famiglia ai piedi dell'albero di maestra; erano tutti intenti a fissare la riva e a discutere animatamente di quella nuova terra. Si tolse il cappello per salutare le donne, ricambiato dalla signora Beatty con un sorriso radioso, mentre Caroline, per contrasto, evitava il suo sguardo. Si era sempre sentita in imbarazzo di fronte a lui, dopo quella notte nella santabarbara. Hal si rivolse al signor Beatty. «Resteremo qui all'ancora per molti giorni, forse addirittura settimane. Devo attendere l'arrivo della Yeoman e ho anche molte altre faccende da sbrigare. Sono certo che vorrete portare la vostra famiglia a terra, per offrire alle signore l'opportunità di evadere dai confini ristretti dei loro camerini e sgranchirsi le gambe. So che in città sono disponibili alloggi confortevoli.» «Che splendida idea!» esclamò entusiasta il signor Beatty. «Sono certo che per voi non è un disagio, Sir Hal, ma per noi abitanti della terraferma le limitazioni di spazio a bordo finiscono per diventare insopportabili.» Hal annuì. «Manderò a terra con voi il giovane Guy. Sono sicuro che vorrete avere a portata di mano il vostro segretario.» Era lieto di riuscire a realizzare i suoi scopi più immediati: anzitutto, separare Tom da Guy e, in secondo luogo, separare Tom da Caroline. Erano entrambe situazioni che potevano esplodere come un barile di polvere da un momento all'altro. «Vi farò accompagnare a terra non appena saranno calate in mare le lance, anche se forse per questa sera è già troppo tardi.» Lanciò un'occhiata al sole al tramonto. «Potreste preparare i bagagli subito e attendere domani per scendere a terra.» «Siete molto gentile, comandante», rispose Beatty con un inchino. «Quando ne avrete l'occasione, forse potreste essere tanto gentile da fare una visita di cortesia al governatore olandese: si chiama Simon van der Stel. Io sarò molto occupato con la manutenzione e i rifornimenti della nave, e mi renderete un grande servigio svolgendo questo incarico per conto mio e della Compagnia.» Beatty s'inchinò di nuovo. «Col massimo piacere, Sir Hal.» Erano più di vent'anni che Hal era fuggito col suo equipaggio dalle segrete del castello, ed era poco probabile che qualcuno nella colonia potesse riconoscerlo; comunque lui rimaneva un galeotto evaso, con una sentenza a vita che gli pendeva sul capo. Durante la fuga dal castello, lui e Wilbur Smith
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i suoi uomini erano stati costretti a uccidere molti carcerieri e inseguitori per legittima difesa, ma forse gli olandesi vedevano la cosa sotto una luce diversa. Se lo avessero riconosciuto, avrebbe corso il rischio di finire davanti a un tribunale olandese, accusato di quei crimini, con la prospettiva di scontare il resto della condanna a vita o di pagare addirittura il fio dei suoi delitti sulla forca, come aveva fatto il padre. Una visita ufficiale al governatore della colonia non sarebbe stata una mossa saggia; meglio inviare il signor Beatty in sua vece. D'altra parte doveva raccogliere le notizie che circolavano nella colonia. Tutte le navi di ritorno dall'Oriente, quale che fosse la loro nazionalità, sostavano lì al Capo. Non poteva sperare di ottenere informazioni migliori di quelle disponibili nelle taverne e nei bordelli sul fronte del porto. Si congedò quindi dalla famiglia Beatty per convocare Big Daniel e Abolì. «Non appena farà buio, scenderemo a terra. Fate preparare una delle barche.» Mancavano quattro giorni al plenilunio. La montagna si stagliava cupa e mostruosa sopra di loro, con le gole e i rilievi lumeggiati da pennellate d'argento, mentre gli uomini seguivano il sentiero luminoso del chiaro di luna fino alla spiaggia. Hal era seduto a poppa, tra Aboli e Big Daniel. Erano infagottati tutt'e tre con mantello e cappello e, sotto il mantello, portavano spade e pistole. Erano armati anche i vogatori, dodici uomini in gamba al comando di Alf Wilson. Approdarono sulla spiaggia sospinti da una delle lunghe onde dell'Atlantico, che frusciò, abbattendosi sulla sabbia con la cresta spumeggiante. Non appena l'onda cominciò a ritirarsi, i vogatori saltarono fuori per trascinare l'imbarcazione in secca. «Tenete d'occhio gli uomini, Alf. Non lasciateli sgattaiolare in cerca di alcol e di donne», raccomandò Hal a Wilson. «Può darsi che al ritorno andremo di fretta.» S'incamminarono faticosamente sulla sabbia soffice e, raggiunto il sentiero, puntarono verso il gruppetto di case ai piedi del forte. Da qualche finestra filtrava un chiarore di lanterne; avvicinandosi, udirono musica, canti e grida di ubriachi. «Non è cambiato molto, dalla nostra ultima visita», grugnì Abolì. «Gli affari vanno ancora bene», convenne Big Daniel, chinandosi per passare dalla porta della prima taverna, ai margini dell'abitato. Wilbur Smith
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La luce era così fioca e la foschia creata dal fumo di tabacco tanto densa che impiegarono qualche secondo per mettere a fuoco l'ambiente. Il locale era pieno di figure scure e saturo dell'odore di corpi sudati, fumo di pipa stantio e liquore di cattiva qualità. Il frastuono era assordante e, mentre sostavano sulla soglia, un marinaio li superò, traballando. Si spinse fino all'orlo delle dune di sabbia, lasciandosi cadere in ginocchio e vomitando con violenza. Poi vacillò e si abbatté in avanti, cadendo a faccia in giù sulla pozza di vomito. I tre avanzarono insieme, facendosi largo tra la folla di avventori per raggiungere l'angolo opposto, dove si trovavano un tavolo a cavalletti e una panca sulla quale era steso un altro ubriaco in stato quasi comatoso. Big Daniel lo sollevò di peso, come se fosse un bambino addormentato, deponendolo con delicatezza sul pavimento di letame pressato. Abolì spazzò via dal tavolo la folla di boccali vuoti e piatti pieni a metà di cibo, mentre Hal si sedeva sulla panca con la schiena addossata alla parete, per tenere sotto controllo la sala semibuia e gli uomini che l'affollavano. Erano quasi tutti marinai, sebbene vi fosse anche qualche soldato della guarnigione, con la giacchetta azzurra e le bandoliere bianche incrociate. Hal ascoltò la loro conversazione, ma era soltanto un vaniloquio da ubriachi, fatto di vanterie spropositate, imprecazioni e risa idiote. «Olandesi», mormorò Abolì, prendendo posto sulla panca a fianco di Hal. Rimasero in ascolto. Per sopravvivere, tutt'e tre avevano imparato la lingua durante la prigionia. Un gruppo di marinai dall'aria rude sedette al tavolo vicino a loro. Sembravano meno ubriachi degli altri, e parlavano forte per farsi sentire al di sopra del frastuono. Hal ascoltò i loro discorsi per qualche minuto, ma senza sentire nulla d'interessante. Una servetta ottentotta portò loro alcuni boccali di birra spumeggiante. Big Daniel l'assaggiò e fece una smorfia. «Piscio! Ancora caldo del maiale che l'ha versato», brontolò, bevendone comunque un'altra sorsata. Hal non toccò la sua, perché aveva sentito l'olandese al tavolo vicino dire: «Potremo dirci fortunati se quel maledetto convoglio lascerà mai questo porto pestilenziale». L'accenno a un convoglio l'aveva incuriosito. Di solito i commercianti navigavano da soli; soltanto in tempo di guerra o in altri momenti di emergenza formavano convogli, mettendosi sotto la protezione dei vascelli di linea, armati di cannoni. Si protese in avanti per sentire il resto. Wilbur Smith
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«Ja. Io per primo non mi metterò certo a piangere se non dovessi calare mai più l'ancora in questo nido di sgualdrine nere e ottentotti ladri. Ho speso fin quasi all'ultimo fiorino che avevo in tasca, e non ne ho ricavato altro che un gran mal di testa e una brutta infiammazione.» «Io dico che dovrebbe correre il rischio di salpare da solo. Al diavolo quel bastardo di Jangiri e la sua ciurma di pagani! Die Luipard è un osso duro per qualunque figlio del Profeta. Non siamo tenuti a restarcene qui finché van Rutyers non sarà pronto a farci da bambinaia.» Il cuore di Hal accelerò i battiti nell'udire il nome di Jangiri; era la prima volta che lo sentiva al di fuori dello studio di Nicholas Childs. «Chi è van Rutyers?» chiese Big Daniel sottovoce, bevendo un altro sorso di quella birra velenosa. Stava origliando anche lui i discorsi dei marinai olandesi. «L'ammiraglio olandese dell'oceano delle Indie», spiegò Hal. «La sua base si trova nello stabilimento olandese di Batavia.» Fece scivolare uno scellino d'argento sul piano sudicio del tavolo. «Offri loro una birra, Big Daniel, e ascolta quello che hanno da dirti», ordinò; ma quando Big Daniel si alzò dalla panca, si trovò la strada sbarrata da una donna. Se ne stava immobile, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e un sorriso seducente che rivelava qualche vuoto tra i denti. «Vieni con me nella stanza sul retro, torello», disse in tono invitante, «e ti darò qualcosa che non Hal mai avuto finora.» «E che sarebbe, mia cara?» replicò Big Daniel, scoprendo le gengive sdentate in un largo sorriso. «La lebbra, per caso?» Hal squadrò in fretta la prostituta, comprendendo subito che sarebbe stata una fonte d'informazioni molto migliore di qualunque olandese ubriaco. «Ah, mastro Big Daniel», lo ammonì, «è un vero peccato che tu non sappia riconoscere una dama di qualità, quando ne incontri una.» La donna squadrò Hal, valutando il taglio della giacca e i bottoni d'argento sul panciotto. «Sedetevi, vostra signoria», la invitò Hal. Lei ridacchiò, pavoneggiandosi, mentre scostava dal viso le ciocche di capelli grigi con le dita sudicie, sulle quali spiccavano le unghie spezzate e orlate di nero. «Dovete bere qualcosa per bagnarvi la gola. Big Daniel, procurati un bicchiere di gin per la signora. Anzi, no, crepi l'avarizia. Prendine una bottiglia intera.» La donna allargò le sottogonne lerce, lasciandosi cadere sulla panca di Wilbur Smith
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fronte a Hal. «Siete un vero principe, voi.» Lo squadrò bene in faccia. «E bello come il demonio, per giunta.» «Come vi chiamate, bellezza?» le chiese Hal. «Mevrou Maakenberg», rispose lei. «Ma voi potete chiamarmi Hannah.» Big Daniel tornò al tavolo con una bottiglia quadrata di gin e un grosso bicchiere, che riempì fino all'orlo. Hannah lo prese, sollevando il dito mignolo, e bevve un sorsetto da gran dama, senza battere ciglio di fronte alla potenza di quel liquore incolore. «Allora, Hannah», disse Hal, mentre lei si dimenava come un cucciolo sotto il suo sguardo intenso, «scommetto che qui al capo di Buona Speranza non succede nulla che voi non sappiate, vero?» «Se ve lo dico io, è la verità del Signore.» Scoprì di nuovo i vuoti tra i denti. «Tutto quello che volete sapere, dovete chiederlo a Hannah.» Ed erano parole sacrosante. Per un'ora, Hal restò seduto di fronte a lei, ascoltando i suoi racconti. Scoprì in tal modo che, dietro il viso imbellettato e gli occhi cisposi, offuscati dal gin, si annidavano ancora i resti di un'intelligenza che doveva essere stata brillante. Pareva che conoscesse le pratiche sessuali e le tendenze di tutti gli uomini e le donne della colonia, dal governatore van der Stel agli scaricatori del porto e ai conducenti dei carri da trasporto. Poteva indicare loro i prezzi di tutti i prodotti del mercato, dalle patate al mampoer, il potente brandy di pesca prodotto dai cittadini della colonia. Sapeva quali schiavi erano in vendita e quale prezzo chiedevano per loro i proprietari, ma anche quale, alla fine, avrebbero accettato. Conosceva la data di partenza di tutte le navi nella baia, il nome del comandante, il carico e gli scali lungo la rotta. Poteva fornire un resoconto dell'ultimo viaggio di ogni nave, con tutti i rischi e i pericoli che aveva dovuto affrontare. «Ditemi, Hannah, come mai ci sono tante navi della voc?» Si riferiva alla Verenigde Oostindische Compagnie, la Compagnia Olandese delle Indie Orientali. «Quelle sono tutte dirette a Batavia. Il governatore van der Stel ha ordinato che tutte le navi che salpano verso oriente devono viaggiare in convoglio sotto la protezione delle navi da guerra.» «E come mai, Hannah?» «A causa di Jangiri. Avete sentito nominare Jangiri, vero?» Hal scosse la testa. «No. Chi, o che cosa, è?» «La Spada del Profeta... è così che si fa chiamare. Ma non è altro che un Wilbur Smith
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dannato pirata, peggio di Franky Courteney in persona, ecco chi è.» Hal scambiò un'occhiata con Aboli. Li aveva colti entrambi di sorpresa il fatto che la donna nominasse con tanta noncuranza il padre di Hal, per non parlare della scoperta che Sir Francis e le sue imprese erano ancora così famosi da quelle parti. Hannah non aveva notato la loro reazione. Bevve una sorsata di gin, lasciandosi sfuggire una risata sguaiata. «Negli ultimi sei mesi, tre navi della voc sono scomparse dall'oceano delle Indie. Lo sanno tutti che è stata opera di Jangiri. Dicono che sia già costato alla Compagnia un milione di fiorini olandesi.» I suoi occhi s'illuminarono di meraviglia. «Un milione di fiorini! Non sapevo neppure che esistessero tanti soldi al mondo.» Si protese sul tavolo per guardare in faccia Hal. Aveva l'alito fetido come un letamaio, ma lui non si tirò indietro, perché non voleva rischiare di offenderla. «Somigliate a qualcuno che conosco», borbottò Hannah e si fermò a riflettere per un istante, perplessa. «Siete mai stato al Capo, prima d'ora? Non dimentico mai una faccia, io.» Hal scosse la testa e Big Daniel ridacchiò. «Forse, signora, se vi facesse vedere una certa estremità lo riconoscereste sul serio... Meglio della faccia, ve lo dico io.» Hal lo fissò, corrucciato, ma ormai la bottiglia di gin era semivuota e Hannah ridacchiò. «Pagherei un milione di fiorini per vederla!» Sbirciò Hal con un'espressione lasciva. «Sul serio non volete venire sul retro con Hannah? Non vi farò pagare niente, da quel bell'uomo che siete.» «La prossima volta», le promise Hal. «Io vi conosco», insistette lei. «Quando sorridete così... Mi verrà in mente. Non dimentico mai una faccia, io.» «Parlatemi ancora di Jangiri», suggerì lui, per distrarla, ma ormai la donna non era più tanto lucida. Si riempì di nuovo il bicchiere, sollevando la bottiglia vuota. «Tutti quelli che amo se ne vanno e mi piantano in asso», piagnucolò con gli occhi pieni di lacrime. «Neanche la bottiglia vuole stare con me a lungo.» «Jangiri», incalzò Hal. «Parlatemi di Jangiri.» «È un maledetto pirata musulmano. Brucia vivi i marinai cristiani soltanto per il gusto di sentirli strillare.» «Da dove viene? Quante navi ha ai suoi ordini? Che forza hanno?» «Uno dei miei amici era su una nave che Jangiri ha inseguito, ma senza Wilbur Smith
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riuscire a catturarla», disse lei, con la voce ormai impastata. «È un bel ragazzo. Vuole sposarmi e portarmi a casa, ad Amsterdam.» «Jangiri?» domandò Big Daniel. «No, stupido zoticone», rispose Hannah, irritata. «Il mio ragazzo. Non ricordo più come si chiama, però vuole sposarmi. Ha visto Jangiri, però ha avuto la fortuna di sfuggire a quel pagano assetato di sangue.» «E questo dov'è successo, Hannah? Quand'è che il vostro amico è scampato a Jangiri?» «Neanche due mesi fa... Al largo della costa della Febbre, è successo, vicino all'isola di Madagascar.» «Che forze ha, Jangiri?» insistette Hal. «Molte navi grandi», rispose Hannah. «Una flotta di navi da guerra. La nave del mio amico è fuggita.» Hal si accorse che cominciava a sragionare; non poteva dirgli più nulla d'importante. Comunque le fece ancora una domanda. «Lo sapete quale rotta prenderà il convoglio della voc, salpando da Batavia?» «Una rotta verso il sud», rispose lei. «Verso l'estremo sud, si dice. Li ho sentiti dire che si terranno bene al largo dal Madagascar e dalle isole, perché è lì che si annida Jangiri, quel sudicio pagano maledetto.» «E quando salperà il convoglio dalla baia?» chiese Hal. Ma ormai Hannah era totalmente annebbiata dai fumi dell'alcol. «Jangiri è il demonio», farfugliò. «E' l'Anticristo, e tutti i cristiani dovrebbero temerlo.» La testa le ricadde in avanti, poi si accasciò nella pozza di gin sul piano del tavolo. Big Daniel afferrò una manciata di capelli unti, sollevando la testa per guardarla negli occhi. «La signora ci ha lasciati», decretò, lasciandola ricadere sul legno con un tonfo. La donna rotolò giù dalla panca finendo sul pavimento, dove cominciò a russare sonoramente. Hal prese una moneta d'argento da dieci fiorini dal sacchetto nel fodero della spada, infilandola nel corsetto di Hannah. «E' più di quanto guadagnerà stando stesa sulla schiena in un mese fatto tutto di domeniche», brontolò Big Daniel. «Ma li vale tutti.» Hal si alzò. «Sono informazioni migliori di quelle che avremmo potuto ottenere dall'ammiraglio van Rutyers in persona.» Sulla spiaggia, Alf Wilson li attendeva con la barca. Mentre tornavano a forza di remi verso la Seraph, Hal rimase in silenzio a rimuginare tutte le notizie che Hannah gli aveva fornito, per inserirle nei suoi piani. Quando Wilbur Smith
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salì la biscaglina fino al ponte di coperta, sapeva che cosa doveva fare. «Da quello che ci ha detto ieri sera l'amica di Big Daniel, alcune cose almeno risultano chiare.» Hal si guardò attorno per scrutare il viso attento dei suoi ufficiali, riuniti nell'alloggio di poppa. «La prima è che Jangiri deve avere la sua tana da qualche parte in questa zona.» Si chinò sulla carta che aveva spiegato sulla scrivania per puntare il dito sul contorno del Madagascar. «Da qui può prendere di mira con la massima facilità le rotte commerciali per il sud e per l'Oriente.» «Il problema sarà trovare il suo nascondiglio», borbottò Aboli. «Non è detto che usi come base una delle isole grandi; ce ne sono a centinaia di più piccole, sparpagliate su una superficie di oltre duemila leghe, dalla costa di Oman al mare Arabico e fino alle isole Mascarene, a sud.» «Hal ragione», ammise Hal. «Inoltre ci sono quasi certamente decine di altre isole delle quali ignoriamo del tutto l'esistenza, che non hanno neanche ricevuto un nome e non sono segnate sulle carte. Potremmo navigare per cent'anni senza riuscire a scoprirle né a esplorarle tutte.» Si guardò attorno. «Se non possiamo andare da lui, allora che cosa dovremmo fare?» «Portare lui da noi», rispose Ned Tyler, e Hal annuì di nuovo. «Snidarlo dalla sua tana. Offrirgli un'esca per stuzzicarlo. Il posto ideale per farlo è la costa della Febbre. Dovremo incrociare al largo delle isole di Madagascar e Zanzibar, mettendoci in mostra lungo la costa africana.» Tutti mormorarono il loro assenso. «Potete contare sul fatto che ha spie in ogni porto dell'oceano delle Indie. Gli segnaleranno tutte le prede di un certo valore», disse Big Daniel. «Almeno, è quello che farei io, se fossi un pirata pagano.» «Sì», convenne Hal, girandosi verso di lui. «Faremo scalo in tutti i porti, per far sapere quanto siamo ricchi e poco armati.» «Due navi da combattimento con trentasei cannoni a testa?» osservò Ned Tyler con una risatina. «È una potenza di fuoco sufficiente a scoraggiare qualunque pirata.» «Un'unica nave», ribatté Hal, sorridendo quando gli altri lo fissarono, stupiti. «Farò proseguire la Yeoman da sola per Bombay, non appena arriverà qui. Potrà portare i nostri passeggeri e il carico urgente di cui riusciremo a sbarazzarci, stipandolo nella sua stiva, mentre noi pattuglieremo la costa della Febbre da soli.» Wilbur Smith
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«La Seraph resta pur sempre una nave di tutto rispetto», fece notare Alf Wilson. «Quanto basta per tenere alla larga quasi tutti i pirati.» «Allorché saremo pronti a salpare, non ne avrà più l'aria.» Hal srotolò i progetti con i disegni dello scafo della nave ai quali lavorava da quando avevano superato l'equatore. «Un cavallo di Troia, signori, ecco che cosa prepareremo per il signor Jangiri.» Si accalcarono intorno allo scrittoio e, non appena cominciarono a capire che cosa aveva in mente Hal, tutti espressero la loro approvazione, facendo commenti entusiasti. «Una nave commerciale ricca e indifesa: ecco che cosa dovremo sembrare. Per prima cosa provvederemo ai portelli dei cannoni...» La mattina dopo, Hal ispezionò dall'esterno lo scafo, girandovi intorno su una barca mentre la Seraph era all'ancora. Aveva portato con sé Ned Tyler e due carpentieri della nave, ai quali indicò le modifiche da apportare all'aspetto del bastimento. «Possiamo lasciare tutte le sculture e le dorature così come sono», disse, indicando le belle decorazioni intagliate nel legno a prua e a poppa. «Le danno una bella aria decadente, come la chiatta del sindaco di Londra.» «Direi piuttosto come un bordello francese», ribatté Big Daniel sbuffando. «Inoltre Lord Childs resterà molto male se danneggeremo il suo piccolo capolavoro.» Indicò i portelli dei cannoni sulle murate della Seraph. «Il nostro problema principale sono i portelli.» I portelli dei cannoni erano messi in risalto con applicazioni di oro in foglia, che disegnava sullo scafo un gradevole motivo a scacchi, ma sottolineava la potenza di fuoco della Seraph. «Comincerete a lavorare anzitutto su questi», ordinò Hal ai carpentieri. «Voglio che le commessure dei portelli siano mascherate. Calafatateli con la pece e pitturateli a nuovo, in modo che si fondano col legname dello scafo.» Per più di un'ora osservarono la nave dalla barca, decidendo altri piccoli ritocchi al profilo della Seraph in modo da renderlo più innocuo. Mentre tornavano a bordo, Hal, rivolto a Big Daniel, osservò: «Uno dei motivi per cui ho gettato l'ancora al largo, oltre al desiderio di restare fuori della portata dei cannoni, è che volevo sfuggire all'attenzione di occhi curiosi sulla spiaggia». Hal accennò con la mano ai battelli di provviste e alle altre piccole imbarcazioni che ancora si affollavano intorno alla nave. «Quando cominceranno i lavori, voglio che allontani tutte quelle barche. Wilbur Smith
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Dobbiamo ritenere che Jangiri abbia sue spie nella colonia, e agire in base a questa supposizione. Non voglio che occhi indiscreti osservino tutto quello che facciamo e che le lingue lunghe diffondano le notizie.» Rientrato nel suo alloggio, Hal scrisse una lettera al signor Beatty, indirizzandola alla sua residenza in città, per spiegargli che lui e la sua famiglia avrebbero completato il viaggio a bordo della Yeoman of York, non appena fosse arrivata, e che Guy l'avrebbe accompagnato. Era lieto di poter sbrigare quella faccenda per lettera, senza dover discutere col signor Beatty quel cambiamento di programma. «Bene!» esclamò, asciugando l'inchiostro sulla carta con una spruzzata di sabbia. «Questa decisione sistemerà anche il signorino Tom nonché le sue velleità pugilistiche e amorose.» Una volta apposto il sigillo di ceralacca, incaricò Big Daniel di recapitarla a terra. «Ancora nessun segno della Yeoman}» domandò, quando Big Daniel fece capolino dalla porta. «Ancora niente, comandante.» «Avverti l'ufficiale di turno di chiamarmi non appena vede la cima degli alberi spuntare all'orizzonte.» Aveva dato lo stesso ordine più di una volta, e Big Daniel roteò gli occhi al cielo, per indicare che la sua sopportazione era messa a dura prova. Hal mascherò un sorriso. A Big Daniel si poteva concedere tanta familiarità. Era ritto sul patibolo, nel sole intenso del mattino. Era soltanto un ragazzo, diciotto anni al massimo, non di più. Aveva un aspetto molto attraente, e Hannah Maakenberg li adorava quando erano così. Alto, con le gambe e le braccia lunghe e diritte, i capelli lunghi e ondulati, neri come l'ala di un corvo, sciolti sulle spalle... Era terrorizzato, e questo la eccitava, come eccitava la numerosa folla intorno a lei. Gli abitanti della colonia erano tutti lì, uomini, donne e bambini, ogni bravo burgher in compagnia della moglie, insieme con schiavi e ottentotti. Tutti parevano di ottimo umore, vivaci e allegri. Erano presenti persino i bambini più piccoli, che, contagiati dalla gaiezza spontanea dell'occasione, si rincorrevano strillando tra le gambe degli adulti. A fianco di Hannah c'era la moglie di uno dei cittadini liberi, una donna florida e gentile, col grembiule spruzzato di farina; evidentemente aveva appena impastato il pane, prima di lasciare la cucina per assistere all'esecuzione. Aveva una figlioletta aggrappata al grembiule, una bimba angelica che si succhiava ancora il dito e fissava, serissima, con gli Wilbur Smith
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occhioni azzurri spalancati, l'uomo sul patibolo. «È la prima esecuzione che vede», spiegò la madre a Hannah. «Si sente un po' strana e intimorita da tutta questa gente.» Il prigioniero aveva le mani incatenate dietro la schiena. Indossava vesti lacere da marinaio ed era scalzo. Il magistrato avanzò sul patibolo per leggere l'accusa e la sentenza, mentre la folla ondeggiava, fremendo di eccitazione e di ansia. «Ora udite il verdetto della corte della colonia di Buona Speranza, per grazia di Dio e per il potere concessomi dallo statuto degli Stati generali della Repubblica d'Olanda.» «Va' avanti!» gridò uno dei cittadini della colonia, in fondo all'assembramento. «Faccelo vedere mentre esegue questo balletto per noi!» «Si decreta pertanto che Hendrik Martinus Ockers, riconosciuto colpevole del reato di omicidio...» «Io ero presente», confidò con orgoglio Hannah alla massaia vicino a lei, «e ho visto tutto. Ho persino testimoniato davanti alla corte, oh, sì, eccome!» La donna si mostrò debitamente impressionata. «E per quale motivo lo ha fatto?» «Per quale motivo lo fanno, di solito?» Hannah si strinse nelle spalle. «Erano tutt'e due ubriachi, ubriachi fradici.» Rammentava le due figure che giravano l'una intorno all'altra con i lunghi pugnali che scintillavano alla luce irreale della lanterna, proiettando ombre distorte sulle pareti della taverna, e poi le grida e gli astanti che pestavano i piedi sul pavimento. «Come ha fatto?» «Con un coltello, mia cara. Era svelto, per avere tutto quel liquore in corpo. Così svelto da sembrare una pantera, ecco com'era.» Accennò il gesto di tagliare. «Così, uno squarcio nel ventre. Lo ha sventrato come un pesce sul banco della pescheria. Le budella gli sono uscite fuori dal taglio, intralciandogli il passo; lui è inciampato, cadendo con la faccia in avanti.» «Oh!» La massaia rabbrividì, nel contempo inorridita e affascinata. «Sono come animali, questi marinai.» «Tutti gli uomini, mia cara, non solo i marinai.» Hannah annuì con l'aria di chi la sa lunga. «Sono tutti uguali.» «Questa è una verità sacrosanta!» ammise la donna, prendendo in braccio la bambina per appoggiarsela alla spalla. «Ecco fatto, liefling. Da Wilbur Smith
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quassù vedrai molto meglio», le disse. Il magistrato arrivò alla fine della lettura della sentenza: «Il suddetto Hendrik Martinus Ockers viene pertanto condannato alla morte per impiccagione. La sentenza verrà eseguita sulla spianata del castello, la mattina del terzo giorno di settembre, alle dieci». Scese pesantemente la scaletta del patibolo, e una delle guardie lo sorresse sugli ultimi gradini. Il boia, che fino a quel momento era rimasto alle spalle del condannato, si fece avanti per mettergli sulla testa un cappuccio di cotone nero. «Mi mandano in bestia, quando fanno così», brontolò Hannah. «A me piace vedere la loro faccia tutta paonazza e stravolta quando sono appesi alla corda.» «Slow John non copriva mai le facce», convenne la donna al suo fianco. «Ah, vi ricordate di Slow John? Lui era un vero artista.» «Non dimenticherò mai quella volta che ha giustiziato Sir Franky, il pirata inglese. Quello sì, che è stato uno spettacolo.» «Lo ricordo come se fosse ieri», riconobbe Hannah. «Ci ha lavorato per quasi mezz'ora, prima di spezzargli il collo...» S'interruppe di colpo, mentre un altro ricordo le solleticava la memoria. Qualcosa che aveva a che fare con i pirati e quel bel ragazzo sul patibolo. Scosse la testa, irritata... Il gin le aveva annebbiato la mente. Il boia passò il cappio intorno alla testa del prigioniero, stringendolo sotto l'orecchio sinistro. Il ragazzo tremava. Hannah avrebbe voluto poterlo vedere in faccia: tutta quella scena le rammentava qualcuno. Il boia fece un passo indietro, sollevando il pesante maglio di legno, poi colpì con violenza il cuneo che tratteneva il portello della botola. Il condannato lanciò un grido lacerante: «In nome di Dio, abbiate pietà!» Gli spettatori esplosero in un coro di risate. Poi il boia sferrò un altro colpo e il cuneo saltò. La botola si aprì di schianto, lasciando cadere all'interno il ragazzo, che rimase appeso all'estremità della corda, col collo teso e la testa piegata di lato. Sentendo lo schiocco delle vertebre che si spezzavano come un ramoscello secco, Hannah restò di nuovo delusa. Slow John avrebbe calcolato meglio i tempi, facendolo scalciare e fremere appeso alla corda per lunghi minuti pieni d'incertezza, mentre la vita lo abbandonava a poco a poco, sfuggendo dalla gola strozzata. Questo boia era un tipo rozzo, privo di finezza. Per Hannah si era concluso tutto troppo in fretta. Qualche tremito scosse ancora il corpo del condannato, che infine Wilbur Smith
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rimase inerte, girando lentamente su se stesso intorno al cappio, col collo piegato in un'angolazione innaturale. Hannah gli voltò le spalle, disgustata, poi si fermò di colpo. Il ricordo che le sfuggiva da tanto tempo le era tornato in mente all'improvviso. «Il figlio del pirata!» esclamò. «Di Sir Franky! Non dimentico mai una faccia, io. L'ho detto, che lo conoscevo.» «Di che cosa parlate?» domandò la donna con la bambina appoggiata alla spalla. «Il figlio di Franky? Chi è il figlio di Franky?» Hannah non si curò neppure di rispondere. Corse via, assaporando il suo segreto e tremando di eccitazione. Il ricordo di vent'anni prima le apparve chiaro. Il processo dei pirati inglesi; a quei tempi lei era giovane e graziosa, e aveva offerto qualcosa gratis a una delle guardie perché la lasciasse entrare nell'aula. Aveva seguito il processo dal suo posto nell'ultima fila; era uno svago migliore di uno spettacolo o di una fiera. Rivide il ragazzo, il figlio di Franky, incatenato insieme con lui, in piedi al suo fianco mentre il vecchio governatore van der Velde condannava il padre a morte e il figlio ai lavori forzati a vita, sulle mura del castello. Come si chiamava, il ragazzo? Eppure, quando chiudeva gli occhi, riusciva a vedere il suo viso con tanta chiarezza! «Henry!» esclamò infine. «Si chiamava Henry!» Poi, tre anni dopo, i pirati, guidati da quello stesso Henry Courteney, erano fuggiti dalla loro segreta nel castello. Hannah non avrebbe mai dimenticato le grida, i rumori del combattimento, il fuoco di fucileria, l'esplosione che aveva fatto tremare la terra e l'immensa nuvola di polvere e fumo che si era levata come una torre, quando quei furfanti inglesi avevano fatto saltare la polveriera. Li aveva visti con i suoi occhi mentre uscivano al galoppo dalla porta del castello, a bordo della carrozza che avevano rubato, imboccando la strada che portava verso il territorio selvaggio dell'interno. Anche se le truppe della guarnigione li avevano inseguiti fino alle montagne disabitate, su al nord, quelle canaglie erano riuscite a fuggire. Dopodiché ricordava di aver visto, al mercato e in tutte le taverne lungo il fronte del porto, i manifesti con l'annuncio della taglia. «Diecimila fiorini!» sussurrò tra sé. «Era una taglia di diecimila fiorini.» Tentò d'immaginare una somma del genere. «Con tutti quei soldi, potrei tornare ad Amsterdam e vivere come una gran dama per tutta la vita.» Poi si sentì avvilita. Chissà se avrebbero pagato ancora la ricompensa, a distanza di tanti anni? Quasi si accasciò per la disperazione di vedersi Wilbur Smith
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sfuggire di mano quell'immensa fortuna. «Manderò Annetje a informarsi dal suo ganzo al castello», disse. Annetje era una delle prostitute più giovani e graziose che lavoravano nelle taverne del porto. Tra i suoi clienti regolari c'era lo scrivano del governatore, il suo amichetto fisso, chiamato steamer nel gergo del mestiere. Hannah raccolse le gonne per lanciarsi di corsa verso il fronte del porto, perché sapeva che Annetje aveva una stanza al Die Malmok, una delle taverne più popolari tra i marinai, che prendeva il nome dall'albatro vagante. Ebbe fortuna. Annetje era ancora stesa sul materasso macchiato della sua minuscola stanza sotto il tetto, che puzzava di sudore maschile e di sesso. Annetje alzò la testa con i folti capelli neri tutti arruffati e gli occhi velati dal sonno. «Perché mi svegli a quest'ora? Sei diventata matta?» sibilò, infuriata. Lasciandosi cadere al suo fianco, Hannah le confidò tutta la storia. La ragazza si mise a sedere, sfregandosi con le dita l'angolo interno degli occhi, cisposi per il sonno, ma la sua espressione cambiò mentre ascoltava. «Quanto?» domandò incredula, mentre scendeva dal letto per raccogliere i vestiti sparsi sul pavimento. «Su quale nave sta, questo kerel?» domandò, infilandosi la camicia dalla testa e tirandola giù sul seno bianco e sussultante. Di fronte a quella domanda, Hannah esitò. Nella baia c'erano più di venti navi e lei non aveva idea di dove si trovasse la sua preda. Poi la sua espressione s'illuminò: Henry Courteney era un pirata inglese, e c'erano solo due navi inglesi nella flottiglia all'ancora. «Lascia che a questo ci pensi io, liefling», disse alla ragazza. «Tu non devi fare altro che scoprire se c'è ancora una ricompensa e in che modo possiamo incassarla.» La Seraph era all'ancora da quindici giorni, quando finalmente la Yeoman of York entrò nella baia della Tavola, vincendo la resistenza del vento di sud-est, e gettò l'ancora a una tesa dalla poppa dell'altra nave. Edward Anderson si fece accompagnare subito a bordo con una barca, salutando Hal non appena salì la scaletta della Seraph. «Ho rischiato di non riconoscervi, signore. La Seraph sembra una nave del tutto diversa.» «Allora sono riuscito nel mio intento.» Hal lo prese per il braccio, guidandolo verso la scaletta di boccaporto. «Che cosa vi ha trattenuto così a lungo?» «I pessimi venti che hanno soffiato da quando ci siamo separati. Sono stato trascinato fino in vista della costa del Brasile», borbottò Anderson. Wilbur Smith
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«Però sono lieto che ci siamo ritrovati.» «Non per molto», gli assicurò Hal, indicandogli una sedia e versando per lui un bicchiere di vino delle Canarie. «Non appena vi sarete riforniti di viveri e avrete raddobbato la Yeoman, vi farò proseguire da solo per Bombay, mentre io risalirò la costa per snidare quel pirata musulmano.» «Non è quello che mi aspettavo.» Anderson, vedendosi sfuggire la possibilità di una ricca preda, quasi rischiò di strozzarsi col vino. «Ho una buona nave da combattimento, per non parlare dell'equipaggio...» «Forse troppo buona», lo interruppe Hal. «Stando a quel che ho sentito da quando siamo arrivati qui, pare che la nostra migliore occasione per intercettare Jangiri sia offrirgli un'esca. Due navi da combattimento potrebbero metterlo in fuga, anziché attirarlo.» «Ah! E per questo che avete modificato l'aspetto della nave?» Hal annuì. «Inoltre ci sono alcuni passeggeri, posta urgente e carichi diretti a Bombay. Il signor Beatty ha preso alloggio in città, in attesa che possiate trasportare lui e la sua famiglia a Bombay. Gli alisei non saranno favorevoli alla navigazione ancora per molto, dopo il cambio di stagione, e i venti soffieranno in direzione contraria alla traversata dell'oceano delle Indie.» Anderson si lasciò sfuggire un sospiro. «Comprendo le vostre ragioni, signore, anche se mi è di scarso conforto. Detesto davvero l'idea di separarmi di nuovo da voi.» «Quando arriverete a Bombay, il monsone avrà cambiato direzione. Potrete liberarvi del carico e approfittare del vento a favore per riattraversare più in fretta l'oceano delle Indie fino alla costa della Febbre, dove sarò ad aspettarvi nel punto d'incontro convenuto.» «Questo viaggio di andata e ritorno richiederà parecchi mesi», gli fece notare Anderson, con aria truce. Hal fu lieto di notare in lui tanta ansia di mettersi all'opera. Qualunque altro comandante della Compagnia sarebbe stato lieto di starsene al riparo dal pericolo, pago della vita pacifica del mercante. Tentò quindi di ammansire Anderson. «Quando ci rivedremo, avrò informazioni assai migliori su questo Jangiri, e forse ormai avrò fiutato la sua tana. Potete star certo che ci vorranno le nostre forze unite per snidarlo di lì, e che non tenterò un'impresa del genere senza l'assistenza vostra e del vostro equipaggio, signore.» Anderson si rasserenò un poco. «Allora devo affrettarmi con i Wilbur Smith
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preparativi per la prossima tappa del viaggio, fino a Bombay.» Vuotò il bicchiere prima di alzarsi. «Scenderò subito a terra per parlare col signor Beatty e suggerirgli di prepararsi, insieme con la sua famiglia, per riprendere il viaggio.» «Manderò a terra con voi Big Daniel, il mio ufficiale, perché vi scorti fino all'alloggio del signor Beatty. Verrei io stesso, ma per vari motivi questo non sarebbe prudente.» Accompagnò Anderson fino alla scaletta che saliva sul ponte e, arrivato alla battagliola, aggiunse: «Domani farò caricare sulle pinacce il carico e la posta per il governatore Aungier, in modo da consegnarvela. Ho intenzione di levare l'ancora fra tre giorni, per cominciare la caccia a Jangiri». «Se vorrete farmi il piacere di essere mio ospite domani, a cena, potremo approfittare dell'occasione per concordare i dettagli dei nostri piani futuri.» Si strinsero la mano. Anderson parve molto più felice, mentre scendeva nell'imbarcazione, seguito lungo la scaletta da Big Daniel. Hannah era seduta su una delle alte dune di sabbia che sovrastavano la spiaggia, da cui poteva osservare la flottiglia all'ancora nella baia. Con lei c'erano altre due persone, Annetje e Jan Oliphant. Quest'ultimo era il figlio illegittimo di Hannah. Suo padre era Xia Nka, un potente capo ottentotto. Trent'anni prima, quando era ancora graziosa e aveva i capelli d'oro, Hannah aveva accettato in dono da lui un bel kaross, ricavato da pelli dello sciacallo rosso, in cambio dei suoi favori per una notte. Le relazioni tra donne bianche e uomini di colore erano rigorosamente proibite dalla voc, però Hannah non aveva mai badato a quelle stupide leggi dettate da diciassette vecchiacci che se ne stavano laggiù ad Amsterdam. Jan Oliphant, pur avendo preso dal padre i lineamenti e il colore della pelle, era fiero della sua origine europea. Parlava correntemente l'olandese, portava la spada e il fucile e vestiva come un colono del Capo. Doveva il nome Oliphant alla sua vocazione: infatti era un celebre cacciatore di elefanti, un uomo rude e pericoloso. Per decreto della voc, nessun olandese poteva avventurarsi al di fuori dei confini della colonia. Grazie alla sua ascendenza ottentotta, invece, Jan non era soggetto a quelle restrizioni e poteva andare e venire a suo piacimento, libero di spaziare nel territorio deserto e privo di piste che si stendeva oltre le montagne e, al ritorno, di vendere le preziose zanne di elefante nei mercati della colonia. Wilbur Smith
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Aveva il viso scuro sfregiato in modo orribile, col naso storto e la bocca solcata da cicatrici di un bianco lucente che, partendo dalla massa fitta e lanosa dei capelli, scendevano fino al mento. Durante una delle sue prime avventure nell'interno, poi, mentre dormiva vicino al fuoco del bivacco, una iena gli si era avvicinata di soppiatto e lo aveva azzannato al viso, spezzandogli una mascella che, in seguito, si era saldata in modo imperfetto, conferendogli un perpetuo sogghigno sbilenco. Soltanto un uomo col fisico formidabile e la forza di Jan Oliphant sarebbe potuto sopravvivere a un attacco del genere. La bestia lo aveva trascinato con sé nelle tenebre, lasciandolo penzolare dalla bocca come farebbe un gatto con un topo, ignorando le grida e i sassi lanciati dai compagni di Jan. Le lunghe zanne giallastre si erano conficcate così a fondo nel viso dell'uomo da schiacciargli le ossa della mascella, mentre la bocca e il naso erano sigillati dalla stretta, al punto che non poteva neppure prendere fiato. Jan aveva teso la mano verso il coltello che teneva infilato nella cintola e, con l'altra mano, aveva tastato il petto della bestia fino a trovare il varco tra le costole in cui si sentiva il battito del cuore. Puntando con precisione il coltello in quel punto, aveva vibrato un colpo solo, ma potente, uccidendo la bestia. Adesso era accovacciato sulla duna tra le due donne, e la sua voce suonava distorta dai danni riportati alle narici e alla mascella fratturata. «Madre, sei certa che sia lo stesso uomo?» «Figlio mio, non dimentico mai una faccia, io», ribadì Hannah, ostinata. «Diecimila fiorini olandesi?» Jan si lasciò sfuggire una risata sprezzante. «Nessun uomo vale tanto, vivo o morto.» «È vero», insorse Annetje con violenza. «La taglia c'è ancora. Ho parlato col mio amico al castello, e lui dice che la voc è ancora disposta a pagare per intero la somma.» Sorrise con aria ingorda. «Pagheranno per averlo, vivo o morto, purché possiamo dimostrare che è Henry Courteney.» «Perché non mandano i soldati a prenderlo a bordo della nave?» volle sapere Jan. «Se lo arrestano loro, credi che ci daranno la ricompensa?» ribatté Annetje in tono sprezzante. «Dobbiamo catturarlo noi.» «Forse sarà già salpato», obiettò Jan. «No!» Hannah scosse la testa, sicura di sé. «No, liefling. Nessuna nave inglese ha levato l'ancora negli ultimi tre giorni. Ne è arrivata un'altra, però nessuna è salpata. Guarda!» Indicò un punto oltre la baia. «Eccole laggiù.» Wilbur Smith
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Le acque erano punteggiate di onde bianche ricurve, sulle quali le navi della flotta danzavano un minuetto pieno di grazia seguendo la musica del vento, chinandosi e dondolandosi agli ormeggi, con bandiere e bandierine che sventolavano e ondeggiavano come un arcobaleno cangiante. Hannah conosceva il nome di tutte, dalla prima all'ultima, e li snocciolò fino ad arrivare a quelli delle due navi inglesi, così lontane nella baia che era impossibile distinguerne i colori. «Quella è la Seraph, e l'altra più indietro, verso Robben Eiland, è la Yeoman of York.» Pronunciò quei nomi storpiandoli col suo forte accento. Poi si fece ombra agli occhi con una mano e continuò: «C'è una barca che si sta staccando dalla Seraph. Se abbiamo un pizzico di fortuna, a bordo ci sarà il nostro pirata». «Impiegherà almeno mezz'ora per arrivare alla spiaggia. Abbiamo tempo in abbondanza.» Jan si stese al sole, sfregandosi con insistenza l'inguine. «Ho un gran prurito qui. Su, Annetje, perché non vieni a grattarmelo?» Lei si schermì, ritrosa. «Lo sai che è contro le leggi della Compagnia: noi, donne bianche, non possiamo mungere una pinta di latte da voi bastardi neri.» Jan ridacchiò. «Non farò certo rapporto al governatore van der Stel... Anzi mi risulta che anche a lui piace la carne nera.» Si asciugò il rivoletto di saliva che gli colava sul mento dalle labbra deformi. «Mia madre ne è la testimonianza vivente.» «Non mi fido di te, Jan Oliphant. L'ultima volta mi Hal truffato. Fammi vedere prima la tua moneta», protestò Annetje. «Ma io credevo che fossimo innamorati, Annetje.» L'uomo si protese per strizzarle uno dei seni rotondi. «Quando avremo i diecimila fiorini della taglia, potrei persino sposarti.» «Sposarmi?» Lei scoppiò in una risata stridula. «Non verrei neanche a spasso per la strada con te, brutta scimmia.» Lui le sorrise. «Non è di andare a spasso per la strada che stiamo parlando.» L'afferrò per la vita, baciandola sulla bocca. «Vieni, dolcezza, abbiamo un sacco di tempo prima che la barca raggiunga la spiaggia.» «Due fiorini», insistette lei. «È il prezzo speciale che faccio a tutti i miei innamorati.» «Eccoti mezzo fiorino», tagliò corto lui, infilandole la moneta nel solco tra i seni. Annetje allungò la mano per massaggiargli l'inguine, sentendo il pene Wilbur Smith
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rizzarsi sotto il suo tocco. «Un fiorino, altrimenti puoi metterlo a bagno nell'oceano per fargli passare i bollori.» Lui sbuffò attraverso le narici deformi, asciugandosi la saliva dal mento mentre tirava fuori dal borsellino un'altra moneta. Annetje gliela tolse di mano, poi rovesciò la testa all'indietro, scostando dal viso la massa intricata dei capelli giallognoli, e si alzò. Lui allora la prese tra le braccia, portandola di peso nell'incavo tra le dune. Dal suo posto in cima alla duna, Hannah li guardò senza interesse. Era preoccupata per la sua parte della taglia. Jan era suo figlio, però lei non si faceva illusioni: se gliene avesse offerto anche la minima occasione, lui avrebbe tentato di defraudarla. Avrebbe preferito che il denaro della ricompensa fosse versato nelle sue mani, ma del resto anche Annetje e Jan nutrivano una certa diffidenza nei suoi confronti. Si arrovellò su quel dilemma mentre guardava Jan incalzare Annetje, facendo schioccare il ventre contro il suo. Sbuffava e s'incitava a imprese maggiori lanciando grida sonore: «Ah! Ah! Come un uragano! Come il soffio del Leviatano! Come il padre di tutti gli elefanti che abbatte la foresta! Ah! Ecco che arriva Jan Oliphant!» Lanciando un ultimo ruggito, si staccò dal corpo della donna, accasciandosi sulla sabbia al suo fianco. Annetje si alzò, rimettendosi in ordine i vestiti e guardandolo dall'alto con disprezzo. «Sembri un pesce rosso che fa le bollicine, più che una balena che soffia», commentò, risalendo la duna per sedersi di nuovo accanto a Hannah. La barca della Seraph era ormai vicina alla spiaggia, con i remi che balenavano nell'aria prima d'immergersi, cavalcando la cresta di una delle onde lunghe. «Riesci a vedere gli uomini a poppa?» chiese Hannah, con ansia. Annetje si riparò gli occhi con la mano. «Ja, sono in due.» «Quello», disse Hannah indicando la figura a poppa. «Era insieme con Henry Courteney, quella sera. Sono imbarcati sulla stessa nave, potrei giurarci.» Un uomo alto e imponente si alzò per impartire un ordine ai vogatori. Gli uomini disarmarono all'unisono i lunghi remi, tenendoli ritti in aria come le lance di uno squadrone di cavalleria, e la barca scivolò sulla sabbia, fermandosi in secca. «È davvero un grosso bastardo», commentò Annetje. «Altroché.» Seguirono con gli occhi Big Daniel e il comandante Anderson che Wilbur Smith
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scendevano dalla barca per avviarsi a piedi lungo la spiaggia, verso l'abitato. «Io vado a fare due chiacchiere con i vogatori», annunciò Annetje. «Voglio scoprire su quale nave è imbarcato il nostro uomo e se è davvero il figlio di Franky il pirata.» Hannah e Jan la guardarono mentre s'incamminava saltellando lungo la battigia verso la barca. I marinai, vedendola arrivare, scoppiarono a ridere, dandosi di gomito e sorridendo con aria di aspettativa. «Sarà Annetje a riscuotere la taglia per noi», disse Hannah al figlio. «Ja! Stavo pensando la stessa cosa. Sarà il suo amichetto a versarla.» Osservarono la ragazza che rideva e chiacchierava con i marinai. Poi annuì, accompagnandone uno verso un boschetto di «alberi del latte» color verde scuro che crescevano sulla spiaggia. «Quanto le Hal promesso per la sua parte?» chiese Jan. «La metà.» «La metà?» Jan rimase scosso da tanta generosità. «È troppo.» Il primo marinaio emerse dagli alberi, intento ad annodarsi di nuovo la cordicella che gli teneva stretta la cintura delle brache. I compagni lo accolsero con un applauso ironico, e un altro uomo saltò fuori della barca, precipitandosi nel boschetto, seguito da un coro di fischi e applausi. «Ja, è troppo», ammise Hannah. «E' una sgualdrina avida. Guarda come serve tutti quei porci inglesi, dal primo all'ultimo.» «Ja, mi ha fatto pagare un fiorino. È una sgualdrina avida. Dovremo liberarci di lei.» «Hal ragione, figlio mio. Se lo merita. Ma soltanto dopo che avrà incassato i soldi della taglia per noi.» Attesero con pazienza al sole, chiacchierando pigramente, facendo progetti per spendere la grande fortuna che tra poco sarebbe piovuta su di loro, osservando la processione di marinai inglesi che si appartavano nel bosco. Tornando indietro, qualche minuto dopo, accoglievano con un sorrisetto gli scherzi bonari e i fischi dei compagni. «Te l'ho detto che li avrebbe accontentati tutti», osservò Hannah con arcigna disapprovazione, quando l'ultimo marinaio tornò sulla barca. Pochi minuti dopo, Annetje sbucò dal folto degli alberi, spolverandosi i granelli di sabbia dai capelli e dai vestiti. Salì fino al punto in cui erano seduti Hannah e Jan e, con un'espressione compiaciuta sul visetto roseo, si lasciò cadere sulla sabbia vicino alla donna. «Allora?» le chiese Hannah. Wilbur Smith
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«Il comandante della Seraph è Sir Henry Courteney», annunciò Annetje in tono solenne. «E tu Hal la testimonianza diretta di otto dei suoi marinai a dimostrarlo», ribatté Hannah con sarcasmo. Annetje non si lasciò smontare, proseguendo compiaciuta: «A quanto pare, Henry Courteney è un ricco baronetto inglese, con grandi proprietà in Inghilterra». «Come ostaggio potrebbe valere anche più di diecimila fiorini», brontolò Jan. «Io e i miei uomini saremo ad aspettarlo qui sulla spiaggia, quando scenderà a terra.» Hannah assunse un'espressione preoccupata. «Non correre rischi cercando di farlo prigioniero per ottenere il riscatto. Mi sembra un pesce difficile da agguantare. Devi prenderlo, tagliargli la testa e consegnarlo alla voc. Prendi la ricompensa e dimentica il riscatto.» «Vivo o morto?» chiese Jan ad Annetje. «Ja, così mi ha detto.» «Ha ragione mia madre. Un pesce morto non ti sguscia via dalle dita. Specie un pesce con la gola tagliata.» «Aspetterò con voi che scenda a terra. Ve lo indicherò, e poi toccherà a te e ai tuoi ragazzi», disse Hannah al figlio. «Ammesso che torni a riva un'altra volta», le fece notare Annetje in tono sprezzante, e Hannah ricominciò ad angustiarsi. Il carico diretto a Bombay era stato trasferito dalla Seraph alla Yeoman. Le botti dell'acqua erano state ripulite e riempite, attingendo al ruscello che scorreva tortuoso dal pendio della montagna della Tavola. Le provviste di olio per le lampade, sale, farina, gallette e altri cibi secchi, esaurite durante la lunga navigazione verso il sud, erano state reintegrate. Hal aveva raddobbato la nave, mettendola nelle condizioni ideali per la navigazione. Gli uomini dell'equipaggio erano in buone condizioni di salute e di spirito, ingrassati e felici per la dieta a base di frutta e verdura fresca, per non parlare della carne, e i ventisei casi di scorbuto erano guariti da quando Hal li aveva inviati a terra, trovando per loro un alloggio nella colonia. Ora tornarono a bordo allegri e impazienti di riprendere il viaggio. «Salperò domani all'alba», annunciò Hal al comandante Anderson. «Fate di tutto anche voi per riprendere il mare al più presto.» «Non temete», gli assicurò Anderson. «Sarò ad aspettarvi nel posto convenuto il primo dicembre.» Wilbur Smith
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«E avrò un incarico importante da affidarvi», gli promise Hal. «Tuttavia c'è ancora una faccenda per la quale devo chiedere la vostra assistenza.» «Dovete soltanto dire di che si tratta, e sarà fatto.» «Stasera scenderò a terra per sistemare una faccenda della massima importanza per me.» «Perdonate la mia impertinenza, Sir Hal, ma vi sembra saggio? Come mi avete confidato, e come ho accertato io stesso con una inchiesta discreta, le autorità olandesi della colonia hanno ancora un conto in sospeso con voi. Se cadrete nelle loro mani, questo andrà certamente a vostro detrimento.» «Vi sono grato per la sollecitudine, signore, ma la faccenda che devo sistemare a terra non è di quelle che si possono trascurare. Quando sarà conclusa, avrò una cassetta che vi chiederò di trasportare per conto mio a Bombay. E vi sarò debitore se, una volta giunto a destinazione, potrete consegnarla alla prima nave che salperà da quel porto per l'Inghilterra, in modo che sia consegnata a mio figlio, nel Devon.» «Potete contare con assoluta fiducia sul mio impegno, Sir Henry.» Tom e Dorian avevano assistito con crescente entusiasmo ai preparativi per la spedizione a terra; ne discutevano da parecchi giorni e, quando Hal scelse gli uomini che dovevano accompagnarlo, distribuendo loro armi e attrezzi, furono sopraffatti dalla curiosità. Facendosi coraggio, sgattaiolarono insieme sotto coperta fino all'alloggio del padre, dove sapevano che si era rinchiuso con gli ufficiali. Mentre Dorian faceva da palo sulla scaletta di boccaporto, Tom raggiunse furtivamente la porta, origliando al battente. Riuscì a udire la voce del padre. «Sì, signor Tyler, il comando della nave sarà affidato a voi, finché sarò a terra. Può darsi che al ritorno saremo inseguiti dagli olandesi e avremo una certa fretta, quindi l'equipaggio della barca che ci aspetterà sulla spiaggia dovrà essere sveglio e ben armato, pronto a portarci via in qualsiasi momento. Dovete tenervi pronti a venirci in soccorso, signor Tyler, e a levare l'ancora per mettere alla vela non appena saremo tornati a bordo, anche nel cuore della notte.» Tom riportò Dorian sul ponte. I due salirono sul sartiame, sedendosi fianco a fianco sul pennone di maestra; era là che andavano quando non volevano che qualcuno origliasse i loro discorsi. «È per stanotte. Ho sentito nostro padre che impartiva gli ordini. Stasera Wilbur Smith
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guiderà una spedizione armata a terra», riferì Tom al fratello minore. «Così adesso sappiamo a che serve il baule, no?» «Davvero?» chiese Dorian in tono dubbioso. Avevano osservato un gruppo di uomini agli ordini di Big Daniel issare dalla stiva sul ponte quel baule misterioso. Aveva le dimensioni di un piccolo baule da marinaio, fatto di tek levigato, realizzato con splendidi incastri e giunti a coda di rondine e il coperchio avvitato. «Certo che lo sappiamo», ribatté Tom, ostentando un'aria d'importanza. «Nostro padre andrà a prendere il corpo del nonno dal nascondiglio in cui Aboli lo ha sepolto.» Dorian ne fu subito affascinato. «Ci lascerà andare con lui?» Tom si tolse il berretto, grattandosi la testa, incerto. «Non avrai paura di chiederlo, vero, Tom?» insistette Dorian. Sapeva che la sfida era il modo migliore per indurre il fratello ad accontentarlo. «Ma che dici?» replicò Tom, indignato. Ciò nonostante, dovette fare appello a tutto il suo coraggio per avventurarsi di nuovo nell'alloggio di poppa. «Lascia parlare me», raccomandò sottovoce a Dorian mentre bussava alla porta. «Avanti!» esclamò il padre in tono brusco. Poi, quando li vide, aggiunse: «Ah, siete voi due, eh? Per quanto importanti siano i vostri affari, ragazzi, non ho tempo per starvi a sentire. Dovrete tornare un'altra volta. Ne parleremo domani». Col berretto in mano, ma con un'espressione ostinata sul volto, i due tennero duro. Tom indicò la cassetta di tek levigato, che in quel momento si trovava al centro dell'alloggio. «Dorian e io sappiamo che stasera andrete a prendere nonno Francis. Quella è la bara che avete portato da casa per lui.» Hal stava estraendo la carica dalla coppia di pistole posate sullo scrittoio davanti a lui, inserendo nella canna il pesante cavaturaccioli per tirare fuori il proiettile, lo stoppaccio e la carica di polvere e sostituirli con quelli nuovi. Alzò la testa, distogliendo lo sguardo dal suo compito per studiare i due figli con un'espressione seria prima di lasciarsi sfuggire un sospiro. «Mi avete beccato», brontolò. «Non serve a niente negare.» «Vogliamo venire con voi», annunciò Tom. Hal lo fissò con aria sorpresa, poi il suo sguardo tornò sulla pistola che stava caricando. Misurò con gesti precisi una carica di polvere nera presa Wilbur Smith
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dalla fiasca prima di versarla nella canna e pigiarla bene sino in fondo. Prese un pezzetto di stoffa dalla scatola d'ottone degli stoppacci, usandolo per avvolgerci la palla da mezza oncia. Il proiettile si adattava perfettamente alla canna. La pistola era un'arma splendida. Costruita da George Truelock, di Londra, aveva il calcio di noce levigato come la seta. «Il taglio non è ancora guarito, Tom», disse senza alzare la testa. «Si è rimarginato bene», protestò il ragazzo, toccandosi il fianco. «E poi non era che un graffio.» Hal fece finta di ammirare gli otturatori della pistola a due canne; erano intagliati in oro e le canne ottagonali erano rigate, per imprimere un movimento rotatorio alla corsa del proiettile e stabilizzarlo, ottenendo così una precisione di mira sconosciuta alle vecchie armi a canna liscia. Ammesso che riuscisse a mantenere la mano ferma, Hal sapeva di poter centrare con ogni colpo un bersaglio delle dimensioni dell'unghia del pollice a una distanza di venti passi. Sospinse all'interno la palla avvolta nello stoppaccio, servendosi di un martelletto di legno, poi innescò lo scodellino. «Anche così, non credo che sia una gran buona idea», dichiarò infine. «Si tratta di nostro nonno. Noi siamo la sua famiglia», insistette Tom. «È nostro dovere essere presenti insieme con te.» Aveva scelto con cura le parole, preparandosi il discorso. Famiglia e dovere erano due concetti che il padre non prendeva mai alla leggera; difatti l'uomo reagì nel modo in cui Tom aveva sperato. Posando sulla scrivania la pistola carica, si alzò per dirigersi verso la finestra di poppa, dove rimase per qualche minuto con le mani intrecciate dietro la schiena, fissando la terra lontana. Infine disse: «Forse Hal ragione, Tom. Sei abbastanza grande, e sai prenderti cura di te stesso in un combattimento». Tornò verso i due e proseguì: «Ma tu no, Dorian. Sei ancora troppo giovane». Tentò di addolcire il colpo con un sorriso gentile. «Non vogliamo perderti», concluse. Dorian diede l'impressione di accasciarsi sotto il peso di quel rifiuto. Sul viso gli apparve un'espressione angosciata, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Tom gli assestò una secca gomitata, sussurrandogli a fior di labbra: «Non piangere. Non fare il bambino». Dorian si dominò, ricacciando indietro le lacrime con uno sforzo enorme. «Non sono un bambino», disse, con un'aria tragica e coraggiosa insieme. È un bel ragazzo, pensò Hal, studiando il viso del figlio. Dorian aveva la Wilbur Smith
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pelle dorata dal sole tropicale e i riccioli, investiti da un raggio di sole che filtrava dalla finestra di poppa, splendevano come fili di rame. Colpito ancora una volta dalla somiglianza tra il bambino e la madre, Hal sentì la propria determinazione vacillare. «Non sono un bambino. Concedetemi la possibilità di provarlo, padre, ve ne prego.» «Benissimo.» Hal non seppe resistere alla sua preghiera, per quanto fosse convinto che era una decisione poco saggia. «Puoi venire con noi.» Il viso di Dorian s'illuminò di gioia, tanto che Hal dovette affrettarsi a precisare: «Ma solo fino alla spiaggia. Ci aspetterai lì, insieme con Alf Wilson e l'equipaggio della barca». Alzò una mano per bloccare le proteste in arrivo. «Basta così. Niente discussioni. Tom, presentati da Big Daniel e digli di fornirti pistola e sciabola.» Si calarono nella barca un'ora prima del tramonto. Il gruppo che doveva avventurarsi a terra comprendeva soltanto quattro persone: Hal, Aboli, Big Daniel Fisher e Tom. Ognuno di loro portava una scatola con l'esca e l'acciarino, più una lanterna cieca. Sotto il mantello scuro, da marinai, erano armati con una sciabola e una coppia di pistole a testa. Aboli portava legata intorno alla cintola una grande sacca di cuoio ripiegata. Non appena furono sistemati, Alf Wilson diede ordine di scostare dalla nave. L'equipaggio della barca affrontò le lunghe onde oceaniche, avvicinandosi lentamente alla spiaggia. Tanto a prua quanto a poppa erano montati falconetti a canna lunga, micidiali cannoncini caricati a mitraglia. Sul fondo della barca, tra i piedi dei vogatori, c'erano picche e sciabole pronte all'uso. I remi s'immersero e poi riemersero silenziosamente, dal momento che Alf Wilson aveva avvolto alcuni panni intorno agli scalmi, per attutirne il rumore. In silenzio, Tom e Dorian si scambiavano sorrisi eccitati; quella era una delle avventure che avevano sognato e discusso così spesso, con febbrile impazienza, durante i lunghi turni di guardia in coffa. Finalmente era cominciata. Hannah Maakenberg era appostata nel boschetto di «alberi del latte» poco più su della spiaggia. Aveva trascorso lì tre giorni interi, sorvegliando la sagoma lontana della Seraph all'ancora. Per tre volte aveva visto alcune barche staccarsi dalla nave inglese, e le aveva scrutate con ansia attraverso la lente del lungo cannocchiale d'ottone che Jan Oliphant le aveva prestato; ogni volta, però, era rimasta delusa, perché a bordo non Wilbur Smith
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c'era Hal Courteney. Ormai cominciava a perdersi d'animo. Forse aveva ragione Annetje: lui non sarebbe tornato a terra. Anche il figlio di Hannah cominciava rapidamente a perdere ogni interesse per la caccia. Nei primi due giorni era rimasto al suo fianco, facendo la guardia con lei, ma poi aveva rinunciato, allontanandosi per raggiungere i suoi compagni nelle sordide bettole del porto. Seguì con gli occhi la sagoma dell'imbarcazione che proveniva dalla Seraph, visibile a stento sullo sfondo delle onde scure. Non riuscì a controllare l'eccitazione. Viene al buio, come l'altra volta, per evitare che qualcuno lo riconosca, pensò. Tenne d'occhio la barca, centrandola con la lente rotonda del cannocchiale. La vide toccare la spiaggia con la prua e il suo cuore diede un balzo per l'eccitazione, prima di cominciare a battere all'impazzata. Nel cielo a ponente indugiava un lieve riverbero di luce quando la figura alta scese dalla barca sulla sabbia candida, guardandosi attorno per osservare le dune e i cespugli sparsi qua e là. Per un attimo fissò proprio il nascondiglio di Hannah, e un barlume di luce lo investì in pieno volto, facendo risaltare i lineamenti inconfondibili. Poi la luce svanì, cosicché, anche attraverso il cannocchiale, la barca e l'equipaggio non erano altro che una chiazza scura ai margini della spiaggia bianca. «È lui!» sussurrò Hannah. «Lo sapevo che sarebbe venuto.» Aguzzò gli occhi verso il gruppetto di uomini che si staccava dalla sagoma scura della barca, avanzando attraverso i cumuli di legna sbiancata dalle onde che segnavano il limite dell'alta marea, per dirigersi proprio nel punto in cui si trovava lei. Hannah chiuse il cannocchiale e si tirò indietro, schiacciandosi contro il tronco dell'albero più vicino. Gli uomini proseguirono il loro cammino in silenzio. Si avvicinarono tanto che lei ebbe paura di essere scoperta. Poi, però, le passarono accanto con gli stivali che scricchiolavano sulla sabbia; erano così vicini che, allungando la mano, avrebbe potuto sfiorare le loro gambe. Alzando la testa, Hannah scorse il volto di Hal Courteney rischiarato dagli ultimi raggi del tramonto; quindi gli uomini avanzarono, scomparendo nella fitta boscaglia, diretti verso l'interno. Hannah lasciò passare parecchi minuti, in modo da essere certa di avere via libera, poi balzò in piedi per imboccare di corsa il sentiero che portava in città. Il suo cuore cantava, mentre lei esultava a voce alta: «Ce l'ho in pugno, adesso. Sarò ricca! Tutti quei soldi! Diventerò ricca!» Wilbur Smith
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In fila per uno, guidati da Aboli, costeggiarono l'abitato della colonia, aggirandolo. Non incontrarono anima viva neanche quando attraversarono la strada che correva lungo la base della montagna, in direzione di Salt River e delle fattorie isolate di Constantia. A un certo punto, un cane dovette fiutare la loro pista, perché esplose in un uggiolio isterico. Nessuno tuttavia emerse dal buio per affrontarli. Il fianco della montagna parve inarcarsi sotto di loro, costringendoli a protendersi in avanti per contrastare la pendenza del sentiero. La sterpaglia divenne più fitta, ma Aboli sembrava trovare d'istinto le piste degli animali; tanto Hal quanto Big Daniel incespicavano, di tanto in tanto, mentre Tom, essendo giovane, aveva ancora una vista notturna molto acuta e si orizzontava con passo sicuro tra le ombre. Aboli, che era una creatura della foresta, si muoveva in testa alla fila, silenzioso come una pantera. D'un tratto sbucarono su un'altura di roccia nuda, che sovrastava l'insediamento dei coloni olandesi. «Ci riposeremo qui», ordinò Hal. Trovando un posto per sedersi su una delle rocce tappezzate di licheni, Tom restò stupito dalla quota che avevano raggiunto. Le stelle sembravano a portata di mano, simili a vortici di luce argentea. L'infinita ricchezza di puntini luminosi lo sconcertò. Ai loro piedi, le schegge di luce delle candele accese che filtravano dalle finestre degli edifici apparivano insignificanti rispetto a quello sfondo fantasmagorico. Tom bevve un sorso d'acqua dall'otre di pelle che Aboli gli tendeva, ma nessuno aprì bocca; eppure la notte non era più silenziosa. Piccole creature si aggiravano senza posa nella foresta che li circondava, mentre gli uccelli notturni lanciavano strida e ululati. Dal pendio più in basso proveniva il sinistro coro di risa di un branco di iene che setacciavano i cumuli di rifiuti e i letamai della colonia olandese. Quel suono fece drizzare i peli sulla nuca di Tom, che dovette reprimere l'impulso di accostarsi alla mole scura e protettiva di Aboli. Di colpo, un alito di vento caldo lo investì in pieno viso e, alzando gli occhi verso il cielo notturno, vide le stelle cancellate in un attimo da un fitto banco di nuvole provenienti dal mare. «È in arrivo la tempesta», borbottò Aboli. Proprio in quel momento, un'altra ventata li investì. A differenza della prima, era gelida, e Tom rabbrividì, stringendosi il mantello addosso. «Dobbiamo affrettarci prima che la tempesta ci colpisca», mormorò Hal. Wilbur Smith
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Senza dire una parola, tutti si alzarono per riprendere la marcia nella notte ormai incupita dalle nubi temporalesche e risuonante del frastuono dei venti, che squassavano i rami degli alberi sopra di loro. Seguendo a fatica la figura alta di Aboli, Tom cominciò a dubitare che ci fosse qualcuno al mondo, compreso Aboli, capace di orientarsi in quella notte buia, attraverso la foresta oscura, fino a un nascondiglio che aveva visto per l'ultima volta vent'anni prima. Infine, quando sembrava che fosse trascorsa già metà della notte, Aboli si fermò ai piedi di una nuda parete di roccia scheggiata, la cui sommità si perdeva nello sfondo scuro del cielo. Sia Hal sia Big Daniel avevano il respiro affannoso, dopo quella lunga salita. Aboli era il più vecchio di tutti, eppure lui e Tom erano gli unici che respirassero ancora senza fatica. Inginocchiatosi, Aboli posò la lanterna su una roccia piatta davanti a sé, aprendo lo schermo e armeggiando con l'acciarino. Una pioggia di scintille sprizzò dalla pietra focaia e dall'acciaio, e lui accostò l'acciarino allo stoppino della lanterna. Poi, tenendo alta la lanterna, si spostò lungo la base della parete rocciosa, proiettando il raggio pallido sulla roccia punteggiata di licheni. Nella superficie della roccia si aprì all'improvviso una fenditura stretta; nel vederla, Aboli emise un grugnito soddisfatto, insinuandosi subito nell'apertura: era appena sufficiente a consentire il passaggio delle sue spalle poderose. Un breve tratto della fenditura appariva soffocato da liane pendenti e cespugli sospesi alla roccia. Aboli li tagliò con la sciabola, poi, raggiunto il fondo della fenditura, s'inginocchiò. «Tieni la lanterna, Klebe», ordinò, porgendola a Tom. Sotto quel raggio di luce, il ragazzo si accorse che la parte finale del crepaccio era sigillata da massi e pietre disposti dalla mano dell'uomo. Aboli staccò un pezzo di roccia dalla parete con le mani nude, porgendolo a Big Daniel, alle sue spalle. Lavorando in silenzio, sgombrarono lentamente l'apertura, che assunse le dimensioni di un basso tunnel naturale aperto nella roccia. Quando il lavoro fu completo, Aboli si girò verso Hal. «È giusto che solo tu e Klebe entriate nel luogo dove riposa tuo padre», disse a voce bassa. «Big Daniel e io aspetteremo qui.» Svolse il sacco di cuoio che portava intorno alla cintola per consegnarlo a Hal, poi si chinò per accendere gli stoppini delle altre lampade. Quando ebbe finito, rivolse un cenno a Big Daniel e si allontanò con lui lungo la base della parete rocciosa, lasciando soli Hal e Tom a compiere quel sacro Wilbur Smith
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dovere. Padre e figlio rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre il vento di tempesta li sferzava, facendo svolazzare i mantelli come Ali di avvoltoi. La luce della lanterna proiettava ombre irreali sulle pareti rocciose. «Vieni, ragazzo.» Hal precedette Tom nella fenditura; fu costretto a mettersi carponi per raggiungere l'ingresso buio del tunnel. Prima di seguirlo, Tom gli passò la lanterna. Il fragore della tempesta svanì alle loro spalle, e di colpo la galleria si allargò, trasformandosi in una caverna. Hal si alzò, col tetto di roccia a pochi palmi dalla testa. Quando si alzò anche Tom, battendo le palpebre alla luce gialla della lampada, scoprì di trovarsi in un sepolcro che emanava un sentore polveroso di antichità. Fu assalito da un timore religioso che gli serrava la gola e gli faceva tremare le mani. In fondo alla caverna si scorgeva una piattaforma naturale di pietra, sulla quale era rannicchiata una figura umana scheletrica, che lo fissava con le enormi orbite vuote. Tom si ritrasse istintivamente, soffocando il singhiozzo che gli saliva alla gola. «Calma, ragazzo», gli disse Hal, prendendolo per mano e guidandolo verso la figura rannicchiata. La luce tremolante della lanterna ne rivelò i dettagli a mano a mano che i due si avvicinavano. Tom sapeva che gli olandesi avevano decapitato il nonno, ma Abolì doveva avergli posato la testa sul collo. Si vedevano ancora frammenti di pelle disseccata che pendevano dalle ossa, simili alla corteccia secca di un albero della febbre. I lunghi capelli scuri scendevano lungo la nuca ossuta, districati e pettinati con affetto rispettoso. Tom tremava, assalito dalla certezza che le orbite vuote del vecchio scrutassero sino in fondo al suo animo. Si ritrasse di nuovo, ma il padre lo trattenne saldamente per la mano, rimproverandolo in tono pacato: «Era un brav'uomo. Un uomo coraggioso, con un grande cuore. Non Hal motivo di temerlo». Il corpo era avvolto nella pelle di una bestia, una pelliccia nera che le larve avevano rosicchiato e consumato a chiazze, conferendogli un aspetto lebbroso. Hal sapeva che il boia aveva squartato il corpo del padre, tagliandolo spietatamente a pezzi con una mannaia, sul patibolo stesso. Abolì, però, aveva riunito amorevolmente quelle membra, cucendole dentro la pelle di un bufalo appena ucciso. Sul pavimento di fronte alla piattaforma di pietra s'intravedevano le tracce di un piccolo fuoco rituale: Wilbur Smith
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un circolo di cenere e tizzoni neri. «Pregheremo insieme», disse Hal a bassa voce, attirando Tom in ginocchio accanto a sé sul pavimento di pietra della caverna. «Padre nostro, che sei nei cieli...» cominciò Hal, e Tom giunse le mani di fronte agli occhi prima di unirsi a lui nella preghiera, con la voce che diventava sempre più sicura via via che le parole familiari gli uscivano di bocca: «... sia fatta la Tua volontà, come in Cielo, così in terra». Mentre pregava, Tom, sbirciando tra le dita, osservava l'insieme di strani oggetti allineati sulla piattaforma di roccia, offerte rituali ai morti che Abolì doveva aver disposto lì tanti anni prima, quando aveva composto i resti di Sir Francis per l'eterno riposo. C'erano un crocifisso di legno con intarsi in madreperla e osso e ciottoli levigati dall'acqua che emanavano un chiarore soffuso alla luce della lanterna. C'erano un rozzo modellino di un veliero a tre alberi, col nome Lady Edwina intagliato sullo specchio di poppa, un arco di legno e un coltello. Tom comprese che erano i simboli delle forze che avevano dominato la vita del nonno: l'unico vero Dio, un veliero e le armi del guerriero. Abolì aveva scelto i suoi ultimi doni con amore e sensibilità. Conclusa la preghiera, rimasero in silenzio per qualche minuto, poi Hal aprì gli occhi e sollevò la testa, rivolgendosi con voce sommessa alla figura scheletrica avvolta nella pelle sulla piattaforma sopra di loro. «Padre, sono venuto per riportarti a casa, a High Weald.» Poi dispose il sacco sulla piattaforma. «Tieni aperta l'imboccatura», ordinò a Tom, prima d'inginocchiarsi accanto al corpo del padre e prenderlo tra le braccia. Era incredibilmente leggero. La pelle secca si lacerò, lasciando cadere piccoli ciuffi di capelli e scaglie di epidermide; dopo tanto tempo, però, non si avvertiva il lezzo della putrefazione, bensì soltanto un odore di funghi e di polvere. Hal fece scivolare il corpo nel sacco, con i piedi in avanti, finché rimase esposta soltanto la vecchia testa devastata; allora si fermò per accarezzare le lunghe trecce di capelli neri, striate da fili d'argento. Tom fu colpito dall'amore e dal rispetto che quel gesto rivelava. «Dovevi amarlo molto», osservò, rivolto al padre. Hal alzò la testa. «Se lo avessi conosciuto, lo avresti amato anche tu.» «So quanto amo te», replicò Tom, «quindi posso immaginarlo.» Hal gli passò un braccio intorno alle spalle, abbracciandolo solo per un istante, ma con forza. «Voglia Iddio che tu non debba mai compiere un Wilbur Smith
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dovere così oneroso nei miei confronti», disse, prima di chiudere il sacco sulla testa di Sir Francis Courteney e di stringere i lacci di cuoio dell'apertura, annodandoli. Poi si alzò. «Dobbiamo andare, Tom, prima che la tempesta cominci a infuriare sul serio.» Sollevando con delicatezza il sacco, se lo mise in spalla. Poi si chinò per uscire dall'imboccatura della caverna. Abolì li aspettava fuori della caverna, pronto a sollevare Hal del peso, ma lui scosse la testa. «Voglio portarlo io, Abolì. Tu pensa piuttosto a guidarci giù da questa montagna.» La discesa fu più rischiosa di quanto non fosse stata la scalata. Nel buio, in mezzo al fragore del vento, era facile mettere un piede in fallo e piombare giù da un precipizio, oppure inciampare su uno dei ghiaioni insidiosi e rompersi una gamba. Aboli invece li guidò senza esitazioni nella notte, finché Tom non sentì il pendio diventare meno ripido e le rocce e i ciottoli cedere il posto prima al terreno solido e poi alla sabbia scricchiolante della spiaggia. Un lampo di un vivido azzurro squarciò le nubi, tramutando per un attimo la notte in un meriggio luminoso. In quell'attimo videro davanti a loro la curva della baia, con la superficie agitata dal vento di burrasca, ribollente e schiumeggiante, increspata da spruzzi bianchi. Poi le tenebre si richiusero su di loro e il tuono si abbatté con un tale fragore che quasi li assordò. «La barca c'è ancora», gridò Hal con palese sollievo. L'immagine fuggevole della barca, nera sulla sabbia, gli era rimasta impressa negli occhi. «Dagli una voce, Aboli!» «Seraph!» ruggì Aboli nel buio, e subito dopo udì una fioca risposta attraverso il frastuono della tempesta. «Aboli!» Era la voce di Alf Wilson. Gli uomini si avviarono verso la barca scendendo dalle dune. Hal ormai era chino sotto il peso del sacco, che all'inizio della discesa gli era apparso tanto leggero, però si rifiutava di cederlo. Raggiunsero la base delle dune in un gruppo compatto, e Aboli aprì lo schermo della lanterna per proiettare in avanti il fioco raggio di luce gialla. «In guardia!» gridò subito, lanciando un disperato avvertimento, perché alla luce della lanterna si accorse che erano circondati da figure scure; di uomini o di bestie, non avrebbe saputo distinguere. «Difendetevi!» urlò ancora. A quel richiamo, tutti aprirono il mantello per estrarre la spada, disponendosi istintivamente in cerchio, con le spalle all'interno per Wilbur Smith
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fronteggiare gli assalitori, in modo da formare un circolo d'acciaio con la punta delle armi sguainate. Poi il fulmine si abbatté di nuovo; un lampo accecante che squarciò il tetto di nuvole basse, illuminando la spiaggia e le acque sferzate dalla tempesta. Grazie alla luce, videro una schiera di sagome minacciose che si lanciavano all'attacco. Il fulmine fece lampeggiare le lame nude che impugnavano, le mazze e le lance che brandivano, illuminando per un attimo i loro volti: quelli che li fronteggiavano erano tutti ottentotti, tra loro non c'era neanche un olandese. Tom provò un impeto di terrore superstizioso nel vedere l'uomo che lo aggrediva. Era mostruoso. Pareva una creatura uscita da un incubo: lunghe ciocche di capelli neri si agitavano al vento come serpenti intorno al viso terribile, segnato da una cicatrice livida che attraversava il naso gonfio e le labbra violacee, la bocca deforme e contorta lasciava colare la saliva e gli occhi balenavano di un lampo feroce. Le tenebre calarono di nuovo, ma Tom aveva visto la spada dell'uomo levarsi sopra la sua testa e anticipò il colpo, torcendo di lato le spalle e chinandosi per schivarlo. Udì il sibilo della lama che gli sfiorava l'orecchio e il grugnito esplosivo che accompagnava lo sforzo dell'aggressore. Tutto l'addestramento che Aboli gli aveva impartito gli tornò alla mente. Tom eseguì con scioltezza la risposta, slanciandosi in avanti fino a udire il respiro dell'uomo, e sentì la lama affondare nella carne viva, una sensazione che non aveva mai provato prima e che lo fece trasalire. La vittima lanciò un urlo di dolore, e il giovane si sentì invadere da un'ondata di gioia selvaggia. Indietreggiò, cambiando piede, agile come un gatto, per lanciarsi di nuovo all'attacco. E di nuovo mise a segno un colpo; sentì la lama scivolare a fatica nella carne, e poi, quando la punta raggiunse l'osso, avvertì il contraccolpo. L'uomo lanciò uno strillo acuto e, per la prima volta in vita sua, Tom provò la sfrenata esultanza della foga di combattere. Un altro fulmine lampeggiò nel cielo. Tom vide la sua vittima girare su se stessa, lasciando cadere la spada nella sabbia. Stringeva tra le mani il viso deforme, con la guancia lacerata fino all'osso, e il sangue sembrava nero come la pece alla luce azzurrina del lampo, scorrendo a fiotti sul mento e colando sul petto. Alla luce dello stesso fulmine, Tom comprese che suo padre e Aboli avevano fatto a pezzi gli assalitori; uno scalciava in preda alle convulsioni, l'altro, raggomitolato come un riccio, si stringeva la ferita con le mani e Wilbur Smith
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teneva la bocca aperta in un grido silenzioso di agonia. Big Daniel era ancora impegnato, lama contro lama, con una figura alta e nerboruta, nuda fino alla cintola, il corpo nero e lucente come un'anguilla, ma gli altri assalitori si stavano ritirando, respinti dal vigore del gruppetto di vittime designate. L'oscurità si chiuse su di loro di colpo, come una porta che sbatte. Tom sentì le dita di Aboli chiudersi sul suo braccio, mentre gli sussurrava all'orecchio: «Tornate alla barca, Klebe. Restate uniti». Corsero alla cieca sulla sabbia soffice, urtandosi l'un l'altro. «Tom è con noi?» La voce del padre era arrochita dall'ansia. «Eccomi, padre!» gridò lui di rimando. «Dio sia lodato! E Danny?» «Qui!» Big Daniel doveva aver ucciso il suo avversario, perché la sua voce era vicina e limpida. «Seraph!» ruggì Hal. «A me!» «Seraph!» La voce di Alf rispose all'ordine, e un altro fulmine illuminò la scena. Si trovavano ancora tutti e quattro a un centinaio di passi di distanza dal punto in cui la barca era in secca, ai margini del mare ribollente. Guidati da Alf, gli otto uomini in attesa accorrevano per unirsi alla lotta, brandendo le picche, le sciabole e le assi di legno, però il branco di ottentotti si era riunito e gli assalitori attaccavano con la foga frenetica di cani da caccia. Lanciando un'occhiata all'indietro, Tom si accorse che l'uomo da lui ferito si era ripreso e guidava l'attacco. Per quanto avesse il viso ridotto a una maschera di sangue, mulinava la spada nell'aria, lanciando uno stridulo grido di guerra in una lingua strana; doveva aver individuato Tom, perché puntava direttamente verso di lui. Il ragazzo cercò di valutare quanti fossero; forse nove o dieci... ma il buio scese di nuovo prima che potesse averne la certezza. Suo padre e Alf Wilson stavano gridando per restare a contatto di voce, e in quel momento i due gruppi si scontrarono. Subito Hal lanciò l'ordine: «Affrontateli! Linea di combattimento!» Nonostante il buio, eseguirono in modo impeccabile la manovra nella quale si erano esercitati tante volte sul ponte della Seraph. Spalla a spalla, si schierarono per fronteggiare l'attacco che si abbatté su di loro come un'onda nella notte. Non si udiva altro che il tintinnio metallico delle lame, inframmezzato da grida e imprecazioni degli uomini che lottavano. Poi il Wilbur Smith
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lampo divampò di nuovo. Hannah era rimasta indietro, ai margini del boschetto, con quindici uomini. La notte era stata troppo lunga per loro, la furia della tempesta snervante e, alla fine, la noia dell'attesa li aveva sopraffatti; si erano addentrati nel boschetto in cerca di un posto riparato dal vento in cui potersi raggomitolare a dormire. Le grida e il frastuono del combattimento li avevano però destati, per cui avevano impugnato le armi e adesso si stavano riversando fuori degli alberi. Il fulmine rivelò gli uomini impegnati nel combattimento, lungo la battigia dove si trovava la barca. Alla luce dello stesso lampo, Hannah vide chiaramente Henry Courteney; era in prima linea, col viso rivolto verso di lei, la sciabola alta nella mano destra, pronta a calare sulla testa di uno degli ottentotti. «Dis kom!» strillò Hannah. «È lui! Diecimila fiorini per chi lo prende. Kom kerels! Venite, ragazzi!» Agitò il forcone di cui si era armata, lanciandosi alla carica giù dalle dune. Gli uomini che esitavano ai margini del boschetto furono eccitati dal suo esempio e si precipitarono dietro di lei, simili a una valanga urlante. Dorian era rimasto solo sulla barca. Quando era cominciato il combattimento, lui dormiva, rannicchiato sul fondo; adesso invece strisciò a prua, inginocchiandosi dietro un falconetto. Aveva gli occhi gonfi di sonno, ma alla luce del fulmine aveva visto Tom e suo padre assaliti dai nemici; poi aveva scorto la nuova minaccia che rischiava di abbattersi su di loro proveniente dalle dune. Durante le esercitazioni di combattimento a bordo della Seraph, Aboli aveva insegnato a Tom come si brandeggiava e si puntava il falconetto sul perno rotante, mostrandogli anche come si sparava. Dorian aveva guardato con avida curiosità, implorando di poter provare, ma ottenendo la solita, esasperante risposta: «Sei troppo piccolo. Quando diventerai grande, allora lo potrai fare». Quella era l'occasione che gli era stata sempre negata: il fratello e il padre avevano bisogno di lui. Dorian si protese per prendere il tratto di miccia custodito nella vaschetta di sabbia sotto il cannoncino. Alf Wilson l'aveva già accesa, tenendola pronta per un'emergenza del genere. Il bambino la prese in una mano, afferrando con l'altra la lunga e sottile impugnatura di bronzo del falconetto per farlo ruotare nella direzione della folla urlante che scendeva alla carica dalle dune. Guardando oltre la canna, Wilbur Smith
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però, non riusciva a vedere il mirino dell'arma e neppure a intravedere il bersaglio, in quella fitta oscurità. In quel momento, il tuono risuonò fragoroso sopra di loro, e la spiaggia fu rischiarata dal fulmine. Proprio al di sopra della canna, Dorian li vide arrivare, preceduti da una specie di strega mitologica, una terribile figura femminile che brandiva un forcone, con i lunghi capelli grigi al vento, le tette bianche e flosce che dondolavano, occhieggiando dal corpetto della veste, il viso devastato dagli anni e dai bagordi, urlando come un'invasata. Dorian accostò la miccia ardente allo scodellino. Dalla canna dell'arma scaturì una fiammata lunga venti piedi, insieme con una potente carica a mitraglia, composta da proiettili grandi ciascuno quanto l'occhio di un uomo, che spazzò la spiaggia. La distanza era ideale per consentire alla rosa di proiettili di espandersi nel modo migliore. Hannah fu investita in pieno da una dozzina di palle di piombo, e una la colpì al centro della fronte, scoperchiando il cranio come se fosse il guscio di un uovo. La donna fu scaraventata all'indietro sulla sabbia bianca, insieme con sei dei suoi uomini. Gli altri barcollarono, scossi dallo shock e dallo spostamento d'aria: tre di quelli che erano rimasti in piedi lanciarono un urlo di terrore, correndo a rifugiarsi al riparo del boschetto. Altri ancora restarono intontiti e cominciarono ad aggirarsi confusi per la spiaggia, inciampando sui compagni morti, senza sapere da che parte voltarsi. Lo stoppaccio ardente del falconetto fu proiettato sulla lunga fila di detriti secchi sospinti dalla marea fino alla sommità della spiaggia, e le fiamme, alimentate dal vento, si appiccarono subito a quell'esca; in poco tempo divamparono, facendo sprizzare dai cristalli di sale scintille azzurre che proiettavano sulla spiaggia una luce tremolante. La lotta continuò tra alterne vicende. Gli uomini di Hal, pur avendo recuperato lo svantaggio iniziale grazie alle picche e alle spade, erano comunque in inferiorità numerica. Lo stesso Hal doveva battersi contro tre uomini, che lo accerchiavano come un branco di iene all'attacco di un leone dalla criniera nera. Il suo era un duello mortale, che gli impediva di rivolgere anche soltanto un'occhiata al figlio. Dal canto suo, Jan Oliphant, intenzionato a vendicarsi dello squarcio alla guancia, braccava Tom, imprecando e gridando la propria rabbia, accecato dall'ira al punto che usava la spada solo di taglio, menando fendenti all'impazzata e calandola con tutta l'energia che aveva. Tom dovette cedere Wilbur Smith
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terreno, dato che era vistosamente inferiore al robusto ottentotto sia in altezza sia in lunghezza del braccio sia in forza. In quei pochi secondi decisivi, Tom era rimasto solo: non poteva contare sull'aiuto di Aboli o di Big Daniel e neppure del padre. Quella notte, il ragazzo doveva dimostrare di essersi trasformato in un uomo, oppure sarebbe morto sulla sabbia bianca, che pareva assetata di sangue. Era spaventato, ma non al punto di perdersi d'animo, anzi: la paura infondeva vigore alla mano che impugnava la spada e Tom scoprì di possedere risorse interiori di cui, fino ad allora, ignorava l'esistenza. Adottò con naturalezza la grazia ritmica dei movimenti che Aboli gli aveva instillato nei lunghi anni di addestramento alla scherma. Mentre le fiamme dei detriti ardenti rischiaravano la spiaggia, sentì aumentare la fiducia in se stesso. Avendo ormai capito che il suo feroce avversario era un soldataccio e non uno schermidore, neanche la spaventosa potenza della sua lama lo intimoriva più: aveva piuttosto l'impressione che il proprio braccio fosse d'acciaio. Jan si muoveva con la stessa irruenza di una valanga di terriccio che precipiti lungo un pendio e Tom non commise l'errore di stargli dietro, cercando invece di prevenire quei colpi furiosi prima che venissero sferrati. E non era troppo difficile perché Jan Oliphant non mostrava la minima accortezza: segnalava sempre le sue intenzioni, lanciando occhiate di fuoco e storcendo in una smorfia la faccia insanguinata, spostando i piedi e allargando le spalle per mettere a segno il colpo. Quando la spada calava sibilando sulla testa di Tom, questi si protendeva per sfiorarla con la propria lama; però non tentava mai di bloccarla a mezz'aria, limitandosi invece a deviarla leggermente, in modo che passasse a un dito da lui senza causargli neppure un graffio. Ogni volta che Tom schivava un colpo, la rabbia di Jan Oliphant aumentava. E in ultimo lo sopraffece: sollevando la spada sopra la testa, a due mani, si lanciò all'impazzata su Tom, lanciando un ruggito simile al verso del maschio della foca in amore. Non tentò affatto di ripararsi da qualche colpo di rimessa, ma lasciò il corpo del tutto scoperto. Hal mise fuori combattimento uno degli avversari, vibrandogli un colpo alla spalla destra con una risposta fulminea. L'uomo lanciò un grido prima d'indietreggiare, barcollando, e lasciando poi cadere la spada, con la mano stretta sulla ferita. Gli altri due ottentotti che si battevano accanto a lui si Wilbur Smith
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persero d'animo, decidendo di ritirarsi dalla lotta. Così Hal ebbe un attimo di respiro per guardarsi attorno alla luce vacillante delle fiamme. Il sangue gli si gelò nelle vene quando vide Tom sulla traiettoria del capo ottentotto, lanciato all'assalto: era troppo lontano per intervenire. Un grido disperato gli salì alla gola, ma lo trattenne; sarebbe servito soltanto a distrarre Tom. Il figlio era pallido come la sabbia sotto i suoi piedi, però aveva un'espressione tesa e determinata, con gli occhi lucidi e intenti, senza lo scintillio del terrore, mentre prendeva di mira Jan Oliphant, descrivendo piccoli cerchi con la punta della spada. Hal si aspettava di vederlo indietreggiare di fronte alla carica di quel bestione, lanciato contro di lui, e tanto la posizione delle spalle quanto l'equilibrio del corpo snello segnalavano proprio quell'intenzione. Invece, d'un tratto, Tom scattò in avanti col piede sinistro e si lanciò, teso come una freccia scoccata dall'arco, puntando diritto verso la gola di Jan Oliphant. Il gigante non ebbe il tempo di abbassare la guardia né di schivare lateralmente l'assalto, e la punta di Tom lo colse proprio nell'incavo alla base del collo, un dito sopra l'incrocio delle clavicole. La lama penetrò a fondo, conficcando quattro dita d'acciaio nella gola di Oliphant prima di trovare la giuntura tra due vertebre della spina dorsale e reciderle di netto; tuttavia neanche allora l'acciaio arrestò la sua corsa, finendo per sporgere di una buona spanna dalla nuca dell'uomo, scintillando alla luce delle fiamme, rossa di sangue. La spada sollevata cadde dalle dita ormai insensibili di Jan Oliphant, che allargò braccia e gambe, cosicché per un attimo parve disegnare un crocifisso scuro sullo sfondo dell'incendio. Poi l'uomo cadde all'indietro, abbattendosi di schianto sulla sabbia, come un sacco vuoto. La lama di Tom si liberò, respinta dalla gola del morto per effetto del suo stesso peso e della forza d'inerzia, e l'aria contenuta nei polmoni di Jan Oliphant sfuggì dalla trachea squarciata in un sospiro esplosivo, prorompendo dalla ferita alla gola in un alto pennacchio di schiuma rosea. Ci fu un lungo istante in cui tutti gli uomini sulla spiaggia rimasero come paralizzati a fissare quel cadavere grottesco. Poi uno degli ottentotti che fronteggiavano Hal si lasciò sfuggire un ululato di disperazione, voltandosi per fuggire sulle dune. In un batter d'occhio, tutti gli altri, in preda al panico, gli corsero dietro, abbandonando morti e feriti nel punto in cui erano caduti. Tom era rimasto immobile, fissando l'uomo che aveva ucciso. Il suo Wilbur Smith
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volto si contrasse; cominciò a tremare per lo shock e la reazione alla paura e alla collera. Hal lo raggiunse, passandogli un braccio sulle spalle. «Ben fatto, ragazzo», mormorò, abbracciandolo. «L'ho ucciso!» disse Tom in un soffio. «Prima che lui uccidesse te», gli rammentò il padre. Poi fece correre lo sguardo sui suoi uomini sparsi sulla spiaggia. «Chi di voi ha sparato quel colpo di falconetto?» gridò per sopraffare il rombo del vento. «Ci ha salvati tutti.» «Io no.» «Io nemmeno.» Tutti voltarono la testa verso la barca, scrutando la figuretta a prua. «Non sarai stato tu, Dorian?» chiese Hal, meravigliato. «Sì, padre», confessò il bambino, sollevando la miccia che teneva ancora in mano. «I due cuccioli del vecchio leone», commentò Abolì sottovoce. «Ma ora dobbiamo andarcene, prima che la guarnigione del castello accorra qui. Avrà sentito il cannone e visto l'incendio...» Accennò con la mano alle pile di detriti in fiamme. «Abbiamo perso qualcuno degli uomini?» gridò Hal. «Ho visto cadere Dick Foster», gridò di rimando Alf Wilson, andando a inginocchiarsi vicino al corpo, che mostrava una ferita spaventosa al petto. Tastò la carotide sulla gola dell'uomo e mormorò: «Se n'è andato». «Nessun altro?» chiese Hal. «No, lui soltanto», confermò Alf. Hal si sentì sollevato. Sarebbe potuta finire molto peggio; avrebbe potuto perdere un figlio, oppure un caro amico. «Bene, allora, caricate il corpo di Dick sulla barca. Non appena saremo in mare, gli daremo una sepoltura cristiana.» Detto questo, raccolse il sacco di cuoio che conteneva i resti del padre. «Che cosa dobbiamo fare di questi rifiuti umani?» grugnì Big Daniel, prendendo a calci uno degli ottentotti feriti e strappandogli un gemito. «Dovremmo tagliare la gola a tutti.» «Lasciateli stare, non perdete tempo.» Guardandosi attorno, Hal vide che almeno metà degli uomini dell'equipaggio aveva riportato tagli e graffi, ma nessuno ci aveva fatto troppo caso. È davvero una buona squadra, pensò soddisfatto. Darà filo da torcere a Jangiri o a qualsiasi altro nemico dovremo affrontare. Wilbur Smith
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«Si torna alla barca!» ordinò, e quattro uomini raccolsero il corpo di Dick Foster, maneggiandolo con rispetto, per deporlo sulle tavole del fondo. Hal mise accanto a lui la sacca di cuoio, poi balzò a poppa per prendere il suo posto al timone. Gli uomini afferrarono la barca, correndo sulla spiaggia per spingerla come se fosse una leggera canoa di vimini e, non appena la prua fu sollevata dall'onda, saltarono a bordo, afferrando i remi. «Oh, ò!» gridò Hal, e la prima ondata sospinta dal vento di tempesta si abbatté sulla prua, rovesciandosi all'interno, cosicché si trovarono nell'acqua fino al ginocchio. «Oh, ò!» li incitò di nuovo, e la barca si slanciò in avanti, scalando il ripido pendio dell'onda successiva con un'inclinazione quasi impossibile. Una volta giunti in cima alla cresta, rimasero per un attimo in bilico, rischiando di capovolgersi, poi precipitarono in avanti, finendo con uno scroscio nel cavo dell'onda. «Oh, ò!» ruggì Hal, e si ritrovarono in mare aperto, dove le onde erano alte, ma non tanto ripide da capovolgerli. Una metà degli uomini accantonò i remi per cominciare ad aggottare, mentre gli altri vogavano di buona lena per raggiungere la Seraph lontana. «Dorian!» gridò Hal. «Siediti qui, vicino a me.» Allargò la falda del mantello per coprirlo e, al riparo della stoffa, lo strinse forte a sé. «Come Hal imparato a sparare col falconetto?» «Me lo ha mostrato Tom», rispose il figlio in tono incerto. «Ho fatto male?» «Al contrario, Hal fatto benissimo.» Hal lo abbracciò più forte. «Dio sa che non avresti potuto fare di meglio.» Accompagnato dai due ragazzi grondanti, Hal portò il sacco di cuoio nell'alloggio di poppa. La Seraph s'impennava e rollava, ballando intorno al cavo dell'ancora, mentre la tempesta la sferzava senza pietà. Hal depose il sacco, col suo prezioso contenuto, sul pavimento vicino alla bara. Le viti che chiudevano il coperchio erano già allentate e bastò qualche giro per liberarle. Sollevò il coperchio, deponendolo da parte, poi sistemò delicatamente il sacco nella cassa. Dovette girarlo di lato per farcelo entrare, poi sistemò un po' di stoppa grezza intorno alla salma del padre, per evitare che le fragili ossa fossero sbatacchiate e si spezzassero durante il lungo viaggio che le aspettava. Tom lo aiutò a richiudere il Wilbur Smith
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coperchio, prendendogli di mano il cacciavite. «Lasciate a me questo onore, padre.» «Ve lo siete meritato tutt'e due», riconobbe Hal. «Lascia che Dorian ti aiuti.» Porse al figlio minore un altro cacciavite preso dalla cassetta degli attrezzi, e rimase a guardare mentre i due fissavano il coperchio della cassa. «Celebreremo una funzione religiosa per vostro nonno quando lo deporremo nel sarcofago di pietra che si trova nella cripta di High Weald, un sarcofago preparato per lui vent'anni or sono», spiegò ai figli, chiedendosi se quel giorno si sarebbero ritrovati insieme tutti. Poi accantonò quel dubbio angoscioso, osservandoli mentre completavano il lavoro. «Grazie», disse alla fine, con semplicità. «Andate a cambiarvi e indossate abiti asciutti. Poi controllate se il cuoco, nonostante il cattivo tempo, ha ancora il fuoco acceso nella cambusa e può darvi qualcosa di caldo da mangiare e da bere.» Sulla soglia, però, trattenne Dorian. «Non potremo più dire che sei un bambino», gli disse. «Stanotte Hal dimostrato di essere un uomo in tutto, tranne che nella taglia. Ci Hal salvato la vita.» Il sorriso del figlio fu a dir poco radioso: benché i riccioli bagnati gli spiovessero sul viso, il ragazzo era così bello che Hal provò una stretta al cuore. Ben presto sentì i due chiacchierare nel minuscolo camerino accanto al suo, lasciato libero dalle sorelle Beatty. Poi udì i loro passi lungo il corridoio mentre correvano a tormentare il cuoco. Hal accese due candele, posandole sul coperchio della bara del padre, poi s'inginocchiò sul pavimento davanti alla cassa per cominciare la lunga veglia. Pregò a voce alta per la pace dell'anima del padre e per ottenere il perdono dei suoi peccati. Un paio di volte, però, si rivolse direttamente a lui, parlando sottovoce, rammentando episodi della loro vita insieme e rivivendo l'angoscia spaventosa della sua morte. Benché Hal fosse infreddolito ed esausto, concluse la veglia soltanto quando la luce dell'alba, grigia per la tempesta, filtrò dalle finestre di poppa. Allora si riscosse per salire in coperta. «Buongiorno, mastro Tyler. Convocate gli uomini di entrambi i turni per mettere la nave in assetto di navigazione», tuonò per sopraffare il vento. Gli uomini accorsero a frotte sul ponte ondeggiante. Quelli sul castello Wilbur Smith
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azionarono l'argano, e i denti cominciarono a sferragliare mentre si alava l'ancora. Nel frattempo i gabbieri sciamavano sulle sartie per mollare le vele. Hal fece spiegare per un attimo la vela di trinchetto, per consentire alla nave di liberare le marre dell'ancora dal fondo sabbioso, poi ammainò di nuovo la vela, non appena cominciò a salire. Tese l'orecchio per captare il suono dei denti d'arresto dell'argano: clanc, poi di nuovo clanc, quindi un nuovo silenzio che durò per un lungo istante, poi ciane e ancora ciane, sempre più ravvicinati sino a diventare un fragore metallico ininterrotto quando l'ancora uscì dalle acque e il cavo cominciò a scivolare fulmineo come un serpente attraverso la cubia. «Vele alte!» ordinò Hal con voce tonante e, quando furono spiegate al vento, la tempesta li investì in pieno. La Seraph fremette d'impazienza; quando Hal ordinò al timoniere di puggiare, girò su se stessa e prese lo slancio. Gli uomini sulle sartie si lasciarono sfuggire un applauso spontaneo. Un attimo dopo, giunse la voce di Tom, dalla coffa: «Ponte! Una barca!» «Da che parte?» gridò di rimando Hal. «Proviene dalla spiaggia. Ehi, ora sono due... No, tre!» Hal si diresse verso la battagliola sottovento, puntando il cannocchiale. Il mare era di un grigio cupo, punteggiato di creste bianche, e nuvole basse correvano nel cielo, oscurando la cima della montagna. Avvistò anche lui le tre barche che lottavano contro il vento e la marea, lanciando spruzzi di spuma a prua, per dirigersi verso la Seraph. «Abbiamo visite, comandante», osservò Ned, al suo fianco. Abbassando il cannocchiale, Hal si lasciò sfuggire un grugnito; scorgeva senza difficoltà le divise olandesi e il luccichio delle baionette. «Non credo che abbiano da dirci qualcosa che desideriamo ascoltare, mastro Tyler.» Richiuse il cannocchiale con uno scatto secco. Erano di certo soldati della guarnigione, allertati dal trambusto della notte precedente sulla spiaggia. Voltando le spalle alla flottiglia lontana, sorrise nell'impartire l'ordine successivo: «Se non vi dispiace, mastro Tyler, disponete la nave su una rotta che passi vicino alla Yeoman, dal lato sottovento». Arrivata a mezza tesa di distanza dalla Yeoman, la Seraph accostò, calando in mare una lancia. La cassa di tek vi fu deposta mentre l'imbarcazione danzava sul mare agitato lungo la murata, poi Hal mollò la scaletta e prese il timone prima di dare l'ordine di puntare verso la Yeoman Wilbur Smith
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all'ancora. Anderson era già affacciato al parapetto, e Hal lo salutò restando a poppa. «Ho quel carico per voi.» «Sono pronto a riceverlo», rispose Anderson, mentre il suo equipaggio calava un paranco dal pennone di maestra. La barca si avvicinò e, lavorando con rapidità e destrezza, riuscirono ad assicurare la cassa di tek all'estremità del paranco. «Issate pure!» gridò Hal, e la bara di suo padre fu sollevata alla coperta della Yeoman. «Vi sono molto grato, signore», gridò Hal in direzione del ponte, che svettava sopra la barca. «È un piacere per me», rispose Anderson. «Vi auguro che i venti siano favorevoli.» E in segno di saluto si sfiorò la tesa del tricorno. «A presto», replicò Hal. Poi si affacciò alla battagliola la testa di Guy. Appariva pallido, come se fosse già vittima della prima crisi di mal di mare; comunque sorrise con aria coraggiosa, sventolando il berretto. «Arrivederci, padre, fino a Bombay.» «Arrivederci, e fa' buon viaggio», rispose Hal, con una fitta di pena per quella separazione. Vorrei che il destino ci avesse trattati tutti con maggiore clemenza, pensò, e tuttavia sorrise a Guy per incoraggiarlo, sinché non fu costretto a dedicare la sua attenzione al compito di riportare la lancia a fianco della Seraph. Anche se, con quel vento e quel mare, il movimento a pendolo dell'albero di maestra della Seraph aveva reso l'ascesa tanto rischiosa quanto terrorizzante, Tom e Dorian erano finalmente al sicuro in coffa, e potevano guardare dall'alto il ponte della Yeoman mentre superavano la nave all'ancora, passando così vicino che riuscirono persino a distinguere l'espressione dei passeggeri e dei marinai che alzavano la testa per guardarli. «C'è Guy!» Dorian si tolse il berretto, sventolandolo per salutare il fratello. «Guy! Siamo quassù, Guy!» Guy guardò verso di loro, ma restò con le mani incrociate dietro la schiena, senza che un sorriso rischiarasse la sua espressione severa. «Perché non mi risponde?» protestò Dorian. «Io non l'ho offeso.» «Non angustiarti, Dorry. Non è te che odia, ma me», disse Tom a bassa voce, ricambiando lo sguardo impassibile del gemello. Wilbur Smith
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Alle spalle di Guy, era schierata la famiglia Beatty al completo. Erano saliti con lui a bordo della Yeoman, alcuni giorni prima, lasciando l'alloggio che avevano trovato nella colonia per prepararsi a salpare con la nave alla volta di Bombay. Tom individuò subito Caroline, che si teneva ad alcuni passi di distanza dal resto della famiglia. Su quello sfondo, era davvero graziosa, con le gonne e le sottogonne che svolazzavano, increspandosi, la cuffietta trattenuta con una mano, i riccioli che danzavano sulle gote arrossate dal vento e gli occhi scintillanti. «Caroline!» gridò Tom. «Quassù! Ehilà!» Un demone si era impadronito di lui: la chiamò più per mandare in bestia il fratello che per altro. Caroline alzò la testa e, scorgendolo sulla coffa, improvvisò un balletto eccitato, salutandolo con la mano libera. «Tom!» Il vento si portò via la sua voce, ma gli occhi acuti del ragazzo lessero il movimento delle labbra. «Che Dio ti protegga!» Nel sentire la sua voce, Guy girò di scatto su se stesso, poi attraversò il ponte di coperta per affiancarsi a lei; anche se non la toccava, il suo atteggiamento era possessivo e battagliero, mentre fissava il fratello con aria di sfida. La Seraph spiegò altre vele, sbandando bruscamente prima di volare via sulle Ali del vento. Le figure a bordo della Yeoman rimpicciolirono sempre più, poi scomparvero alla vista. Dall'alto della coffa, i due fratelli guardarono l'altra nave fino a che non divenne una sagoma lontana all'orizzonte, quasi schiacciata sotto la montagna scura e le catene imponenti di nuvole livide e imbronciate. «Ora ci siamo soltanto tu e io», osservò Dorian in tono malinconico. Tom non rispose, perché non gli veniva in mente niente da dire. «Non dimenticherai mai il giuramento che mi Hal fatto, vero?» insistette Dorian. «Non mi lascerai mai?» «Non lo scorderò.» «Era un giuramento terribile», gli rammentò il fratello. «Il più grave che ci sia.» «Lo so», disse Tom, ripetendo: «Non lo scorderò». E si sfregò la minuscola cicatrice bianca all'estremità del pollice. Dopo aver lasciato la baia della Tavola, la Seraph navigò per ventitré giorni senza avvistare né la terra né il sole. Avanzarono sotto rovesci di pioggia torrenziali, così abbondanti che sembrava quasi che l'oceano si Wilbur Smith
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fosse scambiato di posto col cielo, riversandosi sul ponte. La pioggia cadeva senza interruzione, di giorno e di notte. In condizioni simili, anche la navigazione di Hal era approssimativa, dal momento che poteva contare soltanto sui pioli conficcati nell'asse della chiesuola e sul calcolo presunto della distanza percorsa ogni giorno. «Questo di solito è un oceano placido e soleggiato», osservò Aboli, alzando gli occhi verso le nuvole basse che incombevano su di loro, versando cortine di pioggia. «I demoni del mare ce lo hanno rovesciato sulla testa.» «Laggiù a oriente ci dev'essere una grande perturbazione», convenne Ned Tyler. «Il vento ci gira intorno come una ruota, cambiando direzione di continuo.» «Abbiamo già incontrato questi venti», rammentò loro Big Daniel. «Girano come una trottola. Ho sentito dire che non sono insoliti a queste latitudini e in questa stagione dell'anno. Ma noi non siamo al centro...» S'interruppe mentre un'onda colossale, ancora più alta delle altre, cominciò ad avanzare verso la nave. Era così grande da far apparire minuscola la Seraph, e la sua cresta s'innalzava al di sopra del pennone di trinchetto. Il cavo che si spalancava come una bocca sbadigliarne tra quell'onda e quella che la precedeva era largo più di una lega. Hal lasciò il suo posto lungo la murata sottovento per avvicinarsi subito al timone. «Falla accostare di due quarte», ordinò con calma. «Andatele incontro!» esclamò poi, mentre l'onda si abbatteva su di loro. La nave sprofondò nel cavo dell'onda per un lungo istante, puntando la prua verso il basso. Gli uomini intorno alla ruota trattennero il fiato, e ripresero a respirare soltanto quando la Seraph rialzò la testa. «Mastro Fisher ha ragione», disse Hal, annuendo in direzione di Big Daniel. «Queste tempeste si espandono per centinaia di miglia rispetto al centro, spazzando tutto l'oceano da un'estremità all'altra. Ma rendiamo grazie a Dio di non trovarci al centro di questa. La violenza del vento potrebbe spezzare l'albero di maestra, anche se non abbiamo bordato neanche uno straccio di vela.» Big Daniel riprese a parlare. «Nelle isole Mascarene ho visto uno di questi venti diabolici sradicare una palma altissima e scaraventarla in mare al largo di un miglio, facendola volare come se fosse un aquilone.» «Pregate di poter avvistare il sole per fare un rilevamento», osservò Ned Tyler, alzando la testa verso le nuvole basse, «così almeno potremmo Wilbur Smith
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finalmente stabilire la latitudine.» «Mi sono tenuto molto al largo dalla terraferma, nel tracciare la rotta.» Hal lanciò un'occhiata alla chiesuola, prima di guardare a ovest. «Dovremmo essere almeno duecento miglia al largo della terraferma africana.» «Ma il Madagascar è una delle isole più grandi del mondo, almeno dieci volte l'Irlanda, e si trova proprio sul nostro cammino», fece notare Ned a voce bassa, per evitare che il timoniere potesse sentirlo. Non c'era niente da guadagnare ad allarmare l'equipaggio discutendo apertamente degli incerti della navigazione. In quel momento si sentì un grido provenire dalla coffa. «Ehi, sul ponte! Relitti di un naufragio! Di prua, a sinistra!» Il gruppo di ufficiali scrutò le acque a prua della nave, mentre Hal gridava in mezzo al frastuono della tempesta: «Voi della coffa! Che riuscite a vedere?» «Si direbbe l'alberetto di una nave, oppure...» La vedetta s'interruppe, poi riprese in tono eccitato: «No! E' una piccola barca, ma quasi sommersa. A bordo ci sono alcuni uomini». Hal si precipitò a prua, saltando sul bompresso. «Sì, perdio», esclamò. «Sembrano naufraghi, a vedersi. E sono anche vivi... Ne vedo uno muoversi. Tenetevi pronti a calare in mare una barca per raccoglierli.» Accostare la Seraph alla barchetta era una manovra difficile e pericolosa, con quelle condizioni, ma alla fine Hal riuscì a calare in mare un'imbarcazione con a bordo Big Daniel e uno dei marinai. C'erano soltanto due uomini sul relitto malandato, che Big Daniel abbandonò al suo destino, perché non valeva la pena di recuperarlo. I due superstiti furono trasferiti a bordo per mezzo di una rudimentale teleferica: erano troppo deboli per salire il biscaglino. Il dottor Reynolds li aspettava e li esaminò subito, ancora stesi sul ponte. Erano entrambi semisvenuti, col viso scorticato dalla salsedine, gli occhi quasi chiusi per il gonfiore e la lingua livida e gonfia per la sete, al punto da riempire la bocca e sporgere dalle labbra. «La prima cosa di cui hanno bisogno è l'acqua», sentenziò, borbottando. «Poi praticherò un salasso a tutt'e due.» Avevano la lingua tanto gonfia che non riuscivano a bere, così Reynolds introdusse nella bocca una siringa di bronzo per iniettare acqua dolce direttamente nella gola. Poi spalmò uno spesso strato di grasso di montone Wilbur Smith
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sulle labbra, sul viso e sulle braccia, ustionati dal sole. L'effetto sul più giovane dei due naufraghi fu miracoloso: nel giro di un paio d'ore si era ripreso abbastanza da poter parlare in modo lucido. Il più anziano, invece, era ancora privo di sensi e sembrava peggiorare rapidamente. Hal fu convocato dal dottor Reynolds nell'angolo del ponte di batteria, dove i due erano stati adagiati su un pagliericcio, e si accovacciò vicino a loro, osservando il chirurgo che praticava un salasso al più giovane. «Gliene toglierei ancora una pinta», spiegò a Hal mentre finiva, «ma questo si sta riprendendo in fretta, e io sono sempre stato piuttosto conservatore. Una pinta può bastare, per ora.» Chiuse la ferita con una spalmata di pece, prima di fasciarla con un panno pulito. «L'altro invece non sta troppo bene. A lui ne toglierò due pinte.» E si mise al lavoro sull'individuo inerte disteso sul pagliericcio vicino. Hal notò che in effetti il giovanotto sembrava più sveglio dopo quel trattamento, e si chinò su di lui per chiedergli: «Parli inglese?» «Sì, comandante», sussurrò il marinaio, con un'inconfondibile cadenza gallese. «Come ti chiami, ragazzo, e di quale nave sei?» «Taffy Evans, comandante, per servirvi. Ero imbarcato su una nave della Compagnia, la Nile. Che Dio abbia misericordia di lei.» A poco a poco, Hal si fece raccontare tutta la storia. Come precauzione contro gli atti di pirateria, la Nile stava navigando in convoglio con altre due navi, dirette da Bombay verso l'Inghilterra con un carico di stoffe e spezie, quando si era imbattuta in uno spaventoso ciclone, cento leghe a nord delle isole Mascarene. Danneggiata dalla violenza dei venti e dalle onde gigantesche, la Nile era rimasta separata dalle altre navi del convoglio, cominciando a imbarcare acqua. Il quinto giorno, durante il secondo turno di guardia, la nave era stata investita da un'onda mostruosa: appesantita dall'acqua nella sentina, si era capovolta, affondando. La fine era giunta così in fretta che soltanto una manciata di uomini era riuscita a mettersi in salvo su una barca, ma, privi com'erano di acqua e viveri, in breve tempo erano morti quasi tutti. Dodici giorni dopo, erano rimasti in vita solamente in due. Mentre lui parlava, il dottor Reynolds effettuava il suo salasso all'altro uomo. Aveva appena mandato via il suo assistente per fargli vuotare fuori bordo il recipiente pieno di sangue allorché esclamò, dispiaciuto: «Che il Wilbur Smith
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diavolo mi porti! Questo povero diavolo è morto. Avevo sperato di salvarlo...» Tornò allora a dedicare la sua attenzione a Taffy Evans. «Penso che questo ce la faremo a rimetterlo in sesto, però.» «Quando ti sarai ripreso del tutto ci sarà un posto per te a paga completa e con una parte del denaro del bottino», disse Hal, chinandosi sotto il soffitto basso del ponte. «Vuoi firmare il contratto?» Taffy si portò le dita alla fronte, con un sorriso fiacco. «Con molto piacere, comandante. Vi devo la vita.» «Benvenuto a bordo, marinaio», sorrise Hal di rimando. Poi salì di corsa la scaletta fino al ponte, contrastando senza sforzo il pesante rollio e beccheggio della nave. Il ritrovamento di quei naufraghi era stato fortuito, come del resto la tempesta, che andava gradualmente scemando: gli fornivano la scusa che aveva cercato fin dall'inizio. Una volta che ebbe formulato dentro di sé il piano con tutti i dettagli, convocò nel suo alloggio gli ufficiali, che si riunirono intorno alla carta sulla scrivania. «Voi tutti sapete che da duecento anni il centro dei traffici e dei commerci sulla costa della Febbre è stato qui.» Sfiorò il minuscolo gruppetto di isole segnate sulla carta. «Zanzibar», precisò. «Logicamente, è da qui che deve cominciare la nostra ricerca di Jangiri.» Tutti annuirono; avevano già solcato quell'oceano, e sapevano bene che le tre isolette dell'arcipelago di Zanzibar erano situate in una posizione ideale tra l'India, il mar Rosso e il golfo Persico, a poche leghe dal continente africano. Le isole si trovavano sul percorso dei monsoni, che invertivano la direzione a ogni cambio di stagione. Il monsone di sud-est portava le navi dall'India all'Africa e, quando la stagione cambiava, il monsone di nord-ovest facilitava il viaggio di ritorno. In più, Zanzibar offriva un porto sicuro nell'isola principale di Unguja, e anche nella peggior stagione delle piogge era relativamente immune dalle temibili febbri malariche, capaci di trasformare il continente africano in una trappola mortale. Fin dai tempi dell'ascesa dell'Islam, era sempre stata il principale centro commerciale dell'Africa e dell'oceano delle Indie, e il mercato sul quale si commerciavano i prodotti africani: schiavi, oro, avorio e gomma arabica. Alf Wilson, in tono diffidente, mormorò: «Mentre ero prigioniero, ho sentito i pirati parlare spesso di Zanzibar e mi sono fatto l'idea che la visitassero regolarmente, per smerciare parte del bottino, vendere i prigionieri al mercato degli schiavi e rifornire di viveri la loro flotta mentre Wilbur Smith
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eseguivano le riparazioni». «Vi è sembrato che Jangiri usasse Zanzibar come base principale?» gli chiese Hal. «No, comandante. Credo che, così facendo, cadrebbe nelle mani del sultano di Oman. Sono convinto che Jangiri abbia un altro rifugio segreto, ma che usi Zanzibar come base commerciale.» «Fin da quando abbiamo cominciato questa ricerca è stata mia intenzione fare scalo a Zanzibar», riprese Hal. «Però c'era un ostacolo: bisognava spiegare il motivo della presenza di una nave inglese in queste acque, così lontane dalla regolare rotta commerciale tra l'India e il capo di Buona Speranza.» Fece scorrere lo sguardo sul cerchio di volti attenti e notò che Big Daniel e Ned Tyler annuivano. «In effetti, se faremo vela verso Zanzibar, in meno di una settimana si spargerà la voce lungo la costa che è arrivato uno squadrone di cacciatori di pirati, e Jangiri si spaventerà. Non riusciremo mai a impegnarlo in un combattimento, se non forniremo motivi validi e 'innocenti' per la nostra presenza in queste acque. Adesso, però, la tempesta ci ha fornito tali motivi e i naufraghi che abbiamo trovato mi hanno suggerito il pretesto che ci mancava.» Gli altri lo guardarono, incuriositi. «Che storia racconterete al console di Zanzibar?» domandò Ned Tyler. «Gli dirò che facevamo parte del convoglio partito da Bombay che includeva anche la sventurata Nile. Racconterò che siamo carichi di merci preziose, inventando un tesoro tanto favoloso da far sbavare Jangiri nella barba, quando ne sentirà parlare.» Tutti scoppiarono a ridere, entusiasti, a quell'idea. «Siamo incappati nel cuore della tremenda tempesta e ne siamo usciti malridotti, proprio come la Nile.» Hal guardò Ned Tyler, dalla parte opposta della scrivania. «Abbiamo già dissimulato la maggior parte del nostro armamento, ma adesso voglio far abbattere un po' di pennoni e di alberetti, per dare l'impressione che la tempesta abbia inflitto all'alberatura e allo scafo un danno tale da convincere un osservatore da terra che la nostra storia corrisponde al vero. Potete farlo, Tyler?» «Certo che posso, comandante», rispose Ned. «Questi danni ci offriranno il pretesto per trattenerci nelle strade di Zanzibar, mentre la notizia della nostra disavventura verrà diffusa in ogni direzione lungo la costa da ogni spia e dhow commerciale.» Hal si diffuse nella descrizione del suo piano. «Quando salperemo di nuovo, tutti i pirati della costa fino a Jiddah saranno attirati da noi come le vespe da un vasetto Wilbur Smith
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di miele.» Nonostante il mare agitato, i lavori per la trasformazione della Seraph cominciarono subito. Ned sembrava ispirato dal compito affidatogli da Hal, e i carpentieri utilizzarono miscele di pitture di vari colori per riprodurre sullo scafo l'effetto di pezze e rattoppi. Fece portare sul ponte una vecchia serie di vele usate per il viaggio nell'Atlantico, sporcandole e strappandole a bella posta. Scelse alcune parti dell'alberatura, compresi i pennoni nella parte superiore degli alberi e gli alberetti, per farli sghindare, senza però danneggiare troppo la navigabilità del bastimento. Quelle parti sarebbero state rimosse non appena avessero avvistato terra. Entrando a stento nel porto di Zanzibar, la Seraph avrebbe offerto uno spettacolo davvero pietoso. Tre giorni dopo il cielo cominciò a schiarirsi e, per quanto il mare fosse ancora mosso e irregolare, il sole dei tropici tornò a splendere su di loro. L'effetto sul morale dell'equipaggio fu rassicurante per Hal, che lo osservò dedicarsi ai vari compiti con nuovo entusiasmo ed energia. A mezzogiorno fu in grado di effettuare il primo rilevamento dopo tante settimane di navigazione, e scoprì che la posizione della nave corrispondeva al dodicesimo parallelo di latitudine sud, duecentocinquanta miglia più a nord di quanto avessero suggerito le sue stime. «Procedendo verso est, dovremmo incontrare l'isola di Madagascar entro la settimana», commentò, registrando la nuova posizione sul giornale di bordo, prima di ordinare un cambiamento di rotta in direzione ovest, verso le isole e il continente africano. Come sempre, furono gli uccelli a segnalare la vicinanza della terra, ma stavolta appartenevano a specie che né Tom né Dorian avevano mai visto. Videro sterne dal piumaggio candido come la brina in un mattino di dicembre a High Weald e uccelli tropicali dalla lunga coda, che si libravano su banchi di pesciolini tanto fitti da oscurare la superficie delle acque. Più vicino all'isola, avvistarono fregate dall'aria maligna, nere come la pece ma con la gola scarlatta, che si libravano sulle correnti alte del monsone; erano appostate in attesa degli stormi di sterne che tornavano dopo aver fatto razzia di pesci. Tom e Dorian le videro tuffarsi sulla preda con le Ali affusolate come la lama di un coltello a scatto ripiegato per metà, costringendo le vittime a rigurgitare il frutto delle loro fatiche, conquistato a caro prezzo, e poi abbassandosi in picchiata per ingoiare al Wilbur Smith
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volo il pesce in parte già digerito dai loro simili. Il mare cambiò colore, assumendo una sfumatura giallastra e, quando i ragazzi ne chiesero il motivo, Abolì rispose: «Le piogge causate dalla grande tempesta hanno intasato i fiumi del continente, che hanno scaricato in mare le acque torbide e fangose. Ormai siamo molto vicini alla terra». La mattina dopo, allorché l'aurora esplose nel cielo a oriente, dietro di loro, trasformando l'orizzonte in un tripudio di opali di fuoco e petali di rose, dalla coffa dell'albero di maestra videro una linea azzurrina e ondulata segnare l'orizzonte a prua della nave. «Terra!» Le grida gioiose corsero per tutta la nave. Hal conosceva bene quelle isole e, qualche ora dopo, si arrampicò sulle sartie, riuscendo a individuare le montagne azzurrine che, dall'estremità settentrionale dell'isola di Madagascar, s'innalzavano sempre più sul mare. Per tutto il giorno, gli uomini di entrambi i turni di guardia collaborarono al faticoso lavoro di sghindare gli alberetti dalla sommità degli alberi, per dare l'impressione che la nave fosse stata mutilata dalla tempesta. Senza le vele alte, la Seraph divenne incerta e recalcitrante e, quando cercarono di accostare, si rifiutò di cedere più di otto quarte al vento. Comunque era sospinta dai venti costanti; Hal riuscì a liberare le vele e a disporla su una rotta diretta verso terra. E fu un bene che avessero completato quel lavoro prima che la nave si avvicinasse all'isola, incontrando qualcuno dei piccoli dhow da pesca, che avrebbero riferito il loro arrivo in quelle acque e descritto le condizioni della Seraph. A mezzogiorno dell'indomani avvistarono, dieci leghe a sinistra, Cap d'Ambre, l'estremità meridionale dell'isola di Madagascar. Sfruttando quella possibilità di verificare la loro posizione, Hal riuscì a tracciare una rotta diretta oltre il canale del Mozambico, verso Zanzibar. Quel mare interno era costellato di splendide isolette, e la Seraph zigzagava tra quelle perle dei tropici, a volte così da vicino che i marinai scorgevano gli abitanti seminudi, dalla pelle scura, salutarli agitando la mano dalle spiagge candide. I marinai si arrampicavano sulle sartie, rispondendo ai saluti con entusiasmo e scambiandosi congetture lascive sul sesso delle minuscole figure intraviste a riva. Quelle acque erano punteggiate di vele dei piccoli battelli commerciali e dhow da pesca, che, al passaggio della Seraph, rivolgevano ai marinai domande in arabo e in altre lingue incomprensibili. Per la gioia degli uomini della Seraph, a bordo di alcuni dhow c'erano anche delle donne. Wilbur Smith
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«Perdio, riesco a vedere persino le tette di quella, da qui. Scure come un paio di ciambelline pasquali appena sfornate.» «Allora leccherò la copertura di zucchero! Vedrai se non lo faccio.» «Dimmi che mi sposerai, mia piccola bellezza pagana, e salto subito fuori bordo!» gridò uno dei gabbieri. «Non capiscono la parola matrimonio. Basta dire jig-jig: questo lo capiscono benissimo», suggerì il suo compagno. Il tintinnio di risa argentine che giunse sulle Ali del vento dalle donne a bordo del dhow confermò la saggezza di quel consiglio. Grazie al cannocchiale, Hal poté scorgere i danni inflitti alle palme e al resto della vegetazione nelle isole che doppiavano, mentre i relitti e i detriti galleggianti che punteggiavano la superficie dell'oceano confermavano il passaggio della tempesta, conferendo maggior valore alla scusa che avevano escogitato per giustificare la loro presenza in quelle acque, una volta raggiunta Zanzibar. «Se non incontriamo prima Jangiri», osservò Ned Tyler in tono secco. «Abbiamo già suscitato tanto scalpore in questo mare che la notizia del nostro arrivo di certo ci precede.» Hal era consapevole del pericolo che Jangiri facesse scattare la trappola troppo presto, perché ormai si trovavano nelle acque che gli erano familiari. Per questo raddoppiò la sorveglianza: le vedette furono avvertite del pericolo e l'equipaggio entrò in stato di allerta. A causa del lavoro sui portelli dei cannoni, Hal non poteva far esercitare i serventi dei pezzi, ma li tenne occupati con allenamenti alla spada e al fucile. Quelle precauzioni, comunque, si rivelarono superflue, perché non videro grandi navi e, nel giro di dieci giorni, raggiunsero il continente africano. Da quando avevano lasciato il capo di Buona Speranza, era la prima volta che Tom e Dorian vedevano l'Africa, e ogni volta che riuscivano a sfuggire alle fatiche scolastiche nel camerino del signor Walsh, alle lezioni di arabo con Alf Wilson o agli altri loro doveri, salivano sull'albero di maestra e restavano a discutere per ore della misteriosa terra che si stendeva laggiù, dei prodigi e delle avventure che prometteva loro. La Seraph puntava a nord lungo la costa, talvolta vicina ai promontori e alle barriere coralline della terraferma, e i ragazzi sognavano d'intravedere bestie strane e selvagge tribù nere, ma ai loro occhi l'Africa appariva immensa, enigmatica e deserta. Finalmente, di prua, apparve Unguja. Il gruppo comprendeva altre due isole più piccole, Pemba e Latham, ma quando i marinai parlavano di Wilbur Smith
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Zanzibar, di solito si riferivano a quell'isola. Era sormontata da una massiccia fortezza, costruita con blocchi di corallo bianco scintillante che splendeva al sole come un iceberg. I bastioni erano fitti di potenti cannoni. Hal bordeggiò per entrare nell'antichissimo porto. Lo specchio d'acqua era congestionato da una massa d'imbarcazioni munite di alberi a prora e a poppa, ancorate in un disordine incredibile. Alcuni dei dhow oceanici erano grandi quasi come la Seraph: appartenevano ai commercianti giunti fin lì dall'India, da Muscat e dal mar Rosso. Non c'era tuttavia modo di capire se fossero pirati; probabilmente lo erano tutti, se si presentava l'occasione. Hal sorrise tra sé, prima di dedicare la sua attenzione al problema di ancorare la Seraph al sicuro. Passando sotto la fortezza, ammainò i suoi colori in omaggio al rappresentante del sultano, poi diede fondo al limite della gittata delle batterie di cannoni. Aveva imparato da tempo a diffidare anche del più caloroso e aperto benvenuto di quello staterello africano. Non appena furono ancorati, uno sciame di piccole imbarcazioni si fece avanti per salutarli, offrendo merci per alimentare qualunque vizio o esigenza, dalle noci di cocco verdi agli involti di foglie e fiori di bhang, che erano una droga, dai servizi sessuali di schiavetti e schiavette dalla pelle scura agli aculei di porcospino pieni di polvere d'oro. «Accertati che questa marmaglia non salga a bordo», disse Hal, ammonendo Big Daniel, «e tieni d'occhio i nostri cari ragazzi, per evitare che tentino di scendere a terra di soppiatto a farsi una bottiglia e prendersi un po' di spasso. Voglio andare a trovare il console inglese, anche se non mi aspetto che sia lo stesso uomo che c'era qui vent'anni fa, l'ultima volta che abbiamo visitato questo porto. Come si chiamava, poi?» «Grey, comandante, se non ricordo male.» «Giusto, Big Daniel. Il signor William Grey, ed è probabile che un furfante del genere non sia cambiato affatto.» Hal portò con sé a riva un piccolo gruppo di uomini, compreso Aboli e cinque marinai armati. La barca li depositò sul molo di pietra sotto le mura spesse e bianche del forte. Aboli apriva la strada tra la folla di mercanti e oziosi, addentrandosi nel dedalo di viuzze e vicoli che consentivano appena il passaggio di tre uomini affiancati. Il fetore delle fogne a cielo aperto che scendevano verso il porto era tanto forte da far salire il vomito in gola a Hal. Il caldo, nei punti in cui non arrivava la brezza, era soffocante, e si ritrovarono il dorso della Wilbur Smith
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camicia intriso di sudore prima di avere percorso un centinaio di passi. Alcuni degli edifici erano alti tre piani, e nessuna delle pareti era a filo; sporgevano e si gonfiavano verso l'esterno, quasi incontrandosi in alto. Dai balconi superiori, chiusi da intricati schermi traforati di assicelle, creature femminili senza volto, avvolte in veli neri, li sbirciavano attraverso le cortine dello zenana, l'appartamento riservato alle donne in ogni casa musulmana. Era la stagione dei monsoni, che attirava mercanti di schiavi provenienti da tutte le regioni estreme dei Paesi orientali. Aboli li guidò attraverso il mercato degli schiavi; era un grande suk a cielo aperto, riparato però da un boschetto di baniani, dai grandi tronchi serpentini e dal fitto fogliame verde scuro. Gruppi di schiavi in vendita erano accovacciati all'ombra delle larghe chiome degli alberi. Hal sapeva che erano stati incatenati il giorno stesso della loro cattura nel cuore del continente africano e non erano più stati liberati, né durante il lungo e massacrante viaggio fino alla costa né una volta giunti ai recinti, riservati appunto agli schiavi, a bordo dei dhow che li avevano trasportati attraverso il canale. Alcuni degli uomini erano marchiati a fuoco sulla fronte, con la cicatrice ancora rosea, rimarginata da poco. Quei segni indicavano che erano stati castrati nei recinti degli schiavi, sulle spiagge del continente, ed erano destinati al mercato in Cina. Infatti l'imperatore cinese aveva decretato che non fossero importati schiavi neri che potessero imbastardire la purezza del suo popolo. Il prezzo di quegli eunuchi era quasi doppio, a causa delle perdite dovute alla natura rudimentale dell'operazione chirurgica e alla cauterizzazione. Gli acquirenti giunti dalle navi nel porto stavano esaminando le offerte e contrattando con i negrieri, vestiti di tuniche lunghe fino alla caviglia, col copricapo composto da un telo di stoffa avvolto intorno alla testa. Hal si fece largo a spallate per entrare nel labirinto di vicoli dalla parte opposta del suk. Sebbene fossero passati quasi vent'anni dalla sua ultima visita laggiù, Aboli li condusse senza il minimo errore fino alla massiccia porta di mogano che si apriva sulla strada chiassosa. Era tempestata di borchie di ferro e intagliata con versetti del Corano e intricati disegni di gusto islamico in cui non erano rappresentate figure di uomini o animali, segni d'idolatria. Uno schiavo abbigliato con una lunga tunica e un turbante di colore nero venne ad aprire. Wilbur Smith
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«Salaam aliekum.» Sfiorandosi con le dita il petto e le labbra, s'inchinò in segno di benvenuto. «Il mio padrone sa del vostro arrivo ed è impaziente di darvi il benvenuto.» Guardò il gruppetto che seguiva Hal. «Ci sono rinfreschi per i vostri uomini.» Batté le mani per segnalare a un altro schiavo di accompagnarli, e Hal lo seguì nel cortile, dove scorreva una fontana e aiuole di ibisco in fiore addolcivano i miasmi provenienti dalla strada. Per un attimo non riconobbe la figura mostruosa che giaceva su una pila di cuscini all'ombra, presso la fontana. Esitando, lo fissò sinché, sotto quei lineamenti gonfi, non riuscì a distinguere le tracce dell'uomo che aveva conosciuto un tempo. «Salaam aliekum.» William Grey, console di sua maestà presso il sultanato di Zanzibar, lo accolse con un saluto in arabo. Hal stava per rispondergli nella stessa lingua, ma si trattenne. Non voleva che Grey sapesse che parlava correntemente l'arabo. Disse invece: «Temo di non conoscere una parola di quella lingua pagana, signore. Mi è stato dato a intendere che eravate inglese. Non parlate una lingua cristiana?» «Vi chiedo scusa, signore. È questione di abitudine.» Grey gli sorrise con aria accattivante. «Sono William Grey, rappresentante consolare di sua maestà nel sultanato di Oman. Perdonatemi se non mi alzo per accogliervi.» Grey accennò un gesto di scusa che comprendeva il suo corpo devastato e le gambe gonfie e quasi elefantiache, coperte di ulcere che colavano umori. Hal riconobbe gli effetti dell'idropisia. «Vi prego di accomodarvi, signore. Aspetto d'incontrarvi da quando ho ricevuto il rapporto sul vostro arrivo in porto.» «Buongiorno a voi, signore. Sono il comandante John Black, al vostro servizio.» Hal rammentava che Grey era un cristiano che aveva abbracciato l'Islam, e sospettava che la sua conversione fosse dovuta a considerazioni finanziarie ed economiche più che a convinzioni religiose. Evidentemente Grey non riconosceva o non ricordava Hal, e lui, nel fornirgli un nome falso, aveva contato proprio su questo. Era essenziale che i pirati non venissero a conoscenza della sua vera identità. Vent'anni prima, Hal si era guadagnato il soprannome di El Tazar, «il Barracuda», per le sue imprese militari che avevano seminato il terrore tra le flotte dell'Islam durante la guerra in Etiopia, nel cosiddetto Corno d'Africa. Se voleva indurre Jangiri ad attaccarlo, i nemici non dovevano avere sentore Wilbur Smith
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della vera identità dell'uomo contro il quale si sarebbero schierati. Hal prese posto sui cuscini preparati per lui. Una schiava portò un vassoio sul quale erano disposte due minuscole tazzine da caffè in argento, e un'altra portò una grande caffettiera, sempre in argento, col suo braciere alimentato a carbone. Le schiave erano entrambe giovani, flessuose e con la vita sottile; Grey doveva averle pagate almeno duecento rupie l'una. Hal ricordava che Grey aveva accumulato un patrimonio enorme col traffico degli schiavi e la vendita di licenze e mandati da parte del sultano. Durante il loro incontro precedente, aveva persino tentato di coinvolgere Hal in entrambe le attività, e lui, già allora, aveva intuito che quelle non erano certo le più nefande che svolgesse; non si faceva la minima illusione sull'integrità o sulla morale di quell'uomo. Non era affatto improbabile che fosse in combutta con Jangiri e i suoi compari. Una delle ragazze, inginocchiatasi davanti a Grey, riempì le tazzine con la bevanda nera e amara, densa come il miele. Grey, allungando una mano adorna di anelli d'oro che sprofondavano nella carne gonfia e bianchiccia, le accarezzò pigramente il braccio, come avrebbe fatto con un gatto. «Avete fatto buon viaggio, comandante?» «Un viaggio non privo d'incidenti, signore», rispose Hal. Grey di certo conosceva nei dettagli le condizioni della Seraph, e non faceva che chiederne conferma. «Dopo aver lasciato Bombay in convoglio con altre due navi dell'onorevole Compagnia Inglese delle Indie Orientali, siamo stati sorpresi da una tempesta spaventosa al largo della costa del Madagascar. Uno degli altri bastimenti è affondato con tutti gli uomini, e noi siamo scampati solo con gravi danni allo scafo e alle alberature. Questa è la ragione principale per cui ci siamo fermati in questo porto, una tappa che non rientrava nei miei progetti iniziali.» «Sono spiacente di apprendere della vostra disavventura», disse il console, scuotendo la testa in segno di comprensione, «ma grato che ci abbiate onorati della presenza vostra e di quella della splendida nave di cui avete il comando. Mi auguro soltanto di potervi essere di aiuto, e fornirvi tutte le provviste che vi occorrono.» Hal s'inchinò, restando seduto, ma pensava: Senza dubbio a prezzi gonfiati, e in cambio di una sostanziosa commissione... Si meravigliò dei cambiamenti che l'età e la malattia avevano operato in Grey; in occasione del loro precedente incontro era un uomo giovane e vigoroso, mentre adesso aveva la testa calva e la barba argentea. Gli occhi apparivano vacui Wilbur Smith
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e cisposi; intorno a lui aleggiava l'odore della morte. «Grazie, signore. Vi sono riconoscente per i vostri buoni uffici, soprattutto perché trasporto un carico di particolare valore e importanza politica per sua maestà re Guglielmo.» Grey si mosse e una scintilla d'interesse si accese nei suoi occhi scialbi. «Giacché sono il diretto rappresentante di sua maestà in queste regioni», mormorò, «potrei avere il privilegio di conoscere la natura di questo carico?» Hal trattenne bruscamente il fiato di fronte a quel suggerimento, poi abbassò gli occhi per osservare i pesci che nuotavano nelle acque della fontana. Si sfregò le tempie, pensieroso, fingendo di ponderare quella richiesta. Alla fine, con un sospiro, disse: «In veste di rappresentante di sua maestà, voi avete tutti i diritti di esserne informato». Esitò di nuovo, poi sembrò prendere una decisione. «Mi è stata affidata la consegna del dono che Aurangzeb, l'imperatore moghul dell'India, invia a sua maestà per celebrarne l'incoronazione», mormorò, con aria da cospiratore. Appoggiandosi con fatica a un gomito, il console si sollevò. Fissava Hal a bocca aperta. Poi, lentamente, l'avidità apparve nei suoi occhi. Per quanto tentasse di dissimularla, l'idea di un tributo regale, del dono di un sovrano a un altro, lo colmava di un rispetto quasi religioso. La dinastia moghul era stata fondata da Babur, che a sua volta era il diretto discendente di Timur e Gengis Khan. Il padre dell'attuale imperatore, Shah Jehan, aveva costruito il favoloso Taj Mahal come pegno d'amore per la sua moglie adorata. L'impero moghul era il più potente e ricco che fosse mai sorto in Oriente. Quale poteva essere il valore del dono di un imperatore tanto potente? Hal abbassò ancor più la voce. «Sono stato informato dal governatore di Bombay, al quale il dono è stato consegnato, che esso include una serie di smeraldi, venti gemme dalla luce perfetta, ciascuna delle quali è grande quanto una melagrana acerba.» Grey si lasciò sfuggire un ansito, lottando per riprendere fiato. «Il governatore Aungier mi ha confidato che il valore di queste pietre equivale a cinque lakh di rupie», aggiunse Hal. Il console tentò di mettersi a sedere, ma invano; ricadde sui cuscini, continuando a fissare Hal in silenzio. Un lakh corrispondeva a centomila rupie, e mezzo milione di rupie equivaleva quasi a centomila sterline: una fortuna quasi troppo grande perché la mente potesse concepirla. Wilbur Smith
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«Davvero, comandante Black, un carico tanto essenziale deve ricevere la massima priorità», riuscì infine a boccheggiare Grey. «Potete star certo che farò tutto ciò che è in mio potere per assistervi nella riparazione della nave e per accelerare la vostra partenza.» «Grazie, signore.» «Quanto tempo calcolate che richiederanno, le riparazioni?» chiese Grey con ansia. «Quando prevedete di poter riprendere il viaggio, comandante?» «Col vostro aiuto, dovrei essere pronto a riprendere il mare entro il mese.» Grey restò in silenzio per qualche istante, evidentemente intento a fare rapidi calcoli, poi assunse un'espressione sollevata. Ognuno di quei segni contribuiva a rafforzare la convinzione che Grey era in combutta con i pirati. Il console rivolse a Hal un sorriso untuoso. «I danni devono essere più gravi di quanto sembrino a prima vista», osservò, confermando così quello che l'altro già sospettava, e cioè che era stato sulla terrazza che sovrastava il porto per esaminare la Seraph attraverso il cannocchiale. «Ovviamente, cercherò di salpare prima, però imbarchiamo parecchia acqua e credo che ci siano danni alla carena, sotto la linea di galleggiamento. Resteremo qui due settimane, forse addirittura tre.» «Bene!» esclamò Grey. «Voglio dire, sono sicuro che per quell'epoca la vostra nave sarà pronta a prendere il mare sotto tutti gli aspetti.» Hal rispose con un cenno garbato, pensando nel frattempo: A meno che io non stia commettendo un grave errore, per quell'epoca il vostro socio Jangiri sarà pronto a darci un caloroso benvenuto non appena entreremo di nuovo nel canale del Mozambico. Grey indicò con un gesto alle schiave di riempire le tazzine da caffè. «A parte le provviste per la nave, sono in grado di offrirvi altri generi di conforto personale. Merci che varranno tre o quattro volte il prezzo di acquisto, una volta raggiunta l'Inghilterra. Potrebbero interessarvi, comandante?» «Nonostante i decreti della John Company, che vietano il commercio privato, sono convinto che chiunque abbia diritto a godere dei frutti delle proprie fatiche e del proprio ingegno», rispose Hal. L'altro assentì con entusiasmo. «Sono del vostro stesso parere. Nel mio recinto ho una dozzina di schiavi di una qualità che di rado si vede nel suk.» Proteso in avanti, strizzò l'occhio in un modo così insinuante e osceno che Hal dovette farsi forza per non tradire il disgusto con qualche Wilbur Smith
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gesto o anche solo con l'espressione del volto. «Potrei addirittura decidere di separarmi da uno o due dei miei tesori speciali...» Accarezzò la testa della ragazza che era inginocchiata davanti a lui, poi le sorrise con affetto, ordinandole in arabo: «Sorridi al porco infedele!» La ragazza sbirciò di sottecchi Hal, scoprendo i denti piccoli e bianchi in un sorriso schivo. «Non è una bellezza?» domandò Grey. «E al capo di Buona Speranza varrebbe almeno centocinquanta sterline. Posso cederla a voi, come favore personale, si capisce, per sole settanta.» Accarezzò di nuovo la ragazza. «Mostra le tette all'infedele.» La ragazza esitò. «Fagliele vedere, altrimenti ti faccio frustare a sangue.» Era poco più che una bambina - di certo non aveva neppure sedici anni -, ma, abbassando il capo, sollevò l'orlo della camicia, scoprendo un seno scuro e ancora acerbo, coronato da un capezzolo che sembrava una perla nera. «Le sue parti più intime sono altrettanto perfette, nel caso vogliate esaminarle», gli assicurò Grey; «È bellissima, ma purtroppo non ho posto per sistemarla a bordo», rispose con fermezza Hal, e la ragazza si ricoprì. Il console non si lasciò scoraggiare da quel rifiuto. «Ho una quantità di gomma arabica, della migliore qualità. Vi assicuro che è molto richiesta. Non potete non ricavarne un buon profitto.» Hal capì che, se voleva restare in buoni rapporti con lui, sarebbe stata una saggia politica accettare almeno una delle offerte che gli faceva, e così trattò l'acquisto di dieci cesti di gomma arabica, per un peso totale di centocinquanta libbre. Gli schiavi di Grey portarono i cesti, disponendoli in fila al centro del cortile mentre Hal ne esaminava il contenuto. Per ottenerla, s'incidevano in profondità i tronchi degli alberi, cosicché la linfa che colava dalle ferite s'induriva all'aria. Dopo quattro mesi la gomma formava grossi grumi simili a gemme, che si potevano staccare. Quella prima «mungitura» della linfa produceva una gomma di un colore verdastro, che era indizio di qualità superiore. Hal masticò la gomma che gli veniva offerta per controllare la presenza di quelle caratteristiche, dopodiché fece un cenno di assenso. Il console parve impressionato dalla sua competenza. «Mi rendo conto che siete un gentiluomo dotato di gusto e discernimento, comandante. Di recente è arrivato sul mercato di Zanzibar un paio di zanne di avorio di elefante come non ne ho mai visto nei venticinque anni che ho trascorso sull'isola. Esiterei a offrirle a chiunque non fosse un gentiluomo della Wilbur Smith
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vostra qualità.» Batté le mani e cinque schiavi robusti, che dovevano essere pronti in attesa di quell'ordine, entrarono barcollando sotto il peso di una delle grandi zanne. «Dieci piedi di lunghezza!» esclamò Grey con orgoglio. «Duecentocinquanta libbre di peso.» Erano uno spettacolo impressionante. La parte più spessa, che in origine era affondata nel cranio della bestia, era color crema, mentre il resto appariva macchiato di giallo brunastro dalla linfa dei grandi alberi che l'animale aveva squassato e spogliato della corteccia. Quando gli schiavi le disposero accanto la gemella, fu quasi impossibile distinguere le due zanne: erano identiche. Hal era rimasto affascinato dal mostruoso pachiderma fin dalla prima volta che ne aveva visto un branco, sulle coste selvagge dell'Africa; a quel tempo era un ragazzo, all'incirca dell'età di Tom. Accarezzando una delle zanne, gli parve di toccare l'anima stessa di quel continente immenso e selvaggio. Sapeva di dover ottenere quella coppia di zanne a tutti i costi. Grey lesse quel desiderio nei suoi occhi e mercanteggiò spietatamente: Hal le pagò più di quanto avrebbe speso per una dozzina di schiave. In seguito, quando le zanne furono issate sul ponte della Seraph, dove rimasero adagiate come ambra antica alla luce del sole, Hal capì di aver fatto un ottimo affare. Da vecchio, nel cuore dell'inverno inglese, quando nelle sue ossa si fosse insinuato il gelo finale, gli sarebbe bastato allungare la mano per sfiorare l'Africa e sentirsi trasportare col pensiero verso un tempo in cui era di nuovo giovane, con tutto lo splendore e il fuoco di quella terra ancora nel petto. Rimase a fissare quasi con reverenza quella splendida coppia di zanne. I figli si affiancarono a lui sul ponte. Persino Dorian tacque, soggiogato dallo stesso incantesimo che li teneva prigionieri tutti. Quando finalmente Tom parlò, la sua voce era quasi impercettibile. «Come sono grandi», mormorò. «Un giorno vorrei dare la caccia a una creatura come questa.» Hal tirò in lungo le riparazioni alla Seraph, perché voleva che la notizia della sua presenza a Zanzibar avesse la possibilità di arrivare fino alle isole, spargendosi lungo la costa della Febbre fino a giungere alle orecchie di Jangiri, ovunque si trovasse. Poi occorreva lasciargli il tempo di radunare le forze per tendere un'imboscata nel canale. Era certo che neppure Jangiri si sarebbe azzardato ad attaccare la nave mentre era ormeggiata nel porto; dopotutto, erano ospiti del sultano e godevano della Wilbur Smith
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sua protezione. Ben conoscendo la dottrina del Profeta, sapeva che nel mondo islamico esisteva un dovere verso l'ospite, un debito d'onore, e che il sultano non avrebbe permesso a nessuno dei sudditi di calpestarlo. Non appena la Seraph fosse tornata in mare aperto, però, sarebbe diventata una preda alla portata di tutti, e probabilmente il sultano avrebbe accettato la sua parte del bottino senza il minimo scrupolo. Un'altra considerazione di cui Hal doveva tener conto era il viaggio della Yeoman of York, al comando del comandante Edward Anderson, e il periodo in cui ci si poteva ragionevolmente aspettare il suo arrivo sul posto del rendez-vous. Hal era più che disposto ad affrontare Jangiri in un duello in mare aperto, tuttavia aveva anche la certezza che, una volta individuata la sua base a terra, l'avrebbe trovata fortificata e difesa da una potente guarnigione. Quindi sapeva che avrebbe avuto bisogno di tutti gli uomini e le navi disponibili per prenderla d'assalto e conquistarla. Se Edward Anderson era salpato dal capo di Buona Speranza una settimana dopo la Seraph, probabilmente era sfuggito alla grande tempesta; in aggiunta a ciò, era possibile che i forti venti successivi al tifone avessero affrettato il suo viaggio verso Bombay. Il cambio della stagione si stava avvicinando: ben presto il monsone avrebbe invertito la sua direzione, favorendo Anderson nel viaggio di ritorno verso la costa africana. Ciò nonostante, sarebbero passate parecchie settimane prima che Hal potesse aspettarsi di vederlo giungere nel punto prestabilito; no, non c'era davvero fretta. L'equipaggio della Seraph si dedicava quindi con tutta calma al lungo lavoro necessario per ghindare gli alberetti e alzare i pennoni sull'alberatura, mentre i carpentieri facevano le viste di ripitturare la carena. Una settimana dopo la visita al console inglese, Hal inviò a terra Aboli, incaricandolo di fare alcuni acquisti nel suk, e quella sera stessa convocò nel suo alloggio Tom e Dorian. I due ragazzi lo avevano tormentato per ottenere il permesso di scendere a terra ogni volta che una barca si era staccata dalla nave, puntando verso il molo. Negli ultimi giorni la loro esuberanza, contenuta troppo a lungo, li aveva indotti a compiere prodezze pericolose. A Hal sembrò opportuno concedere loro di scendere dalla nave per sfogare quella vivacità repressa. «Stasera Aboli e io scenderemo a terra, per ascoltare i pettegolezzi che si fanno per le strade e nei mercati Wilbur Smith
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della città. Ho bisogno di un paio di schiavetti che mi accompagnino.» Parlava in arabo, e sorrise quando Tom, cogliendo lo spirito della circostanza, replicò nella stessa lingua: «Onorevole padre, mi fareste un grande onore se ci concedeste il permesso di accompagnarvi». Hal corresse i suoi errori, ma nel complesso era soddisfatto dei progressi fatti dal ragazzo; certo, non poteva passare per arabo, però sarebbe riuscito a farsi capire un po' ovunque. Lanciò un'occhiata a Dorian. «Che cos'ha da dire in proposito il mio figlio minore?» Dorian eseguì un inchino perfetto e declamò: «Diletto padre, per una simile gentilezza la mia gratitudine sprizzerebbe come acqua dolce da una sorgente nel deserto». «Ho generato un autentico poeta!» esclamò Hal, ridendo. L'arabo di Dorian era davvero migliore quello di Tom. La sua scelta dei termini era perfetta, e proprio del tipo che avrebbe usato un vero arabo in una situazione simile. «Aboli ha comprato dei vestiti per voi. Tenetevi pronti a venire con me subito dopo cena.» Hal indossò la tunica lunga fino alle caviglie e i sandali che Aboli gli aveva procurato. La cintura alta era di filigrana d'oro, con un pugnale ricurvo infilato nel fodero sul ventre. L'impugnatura dell'arma era in corno di rinoceronte, levigato fino a sembrare agata gialla e opaca. Il farsetto senza maniche era ricamato in oro e argento, mentre il turbante era nero. Con i folti baffi neri, il naso aquilino e la pelle abbronzata, dello stesso colore del tek lucidato, Hal sembrava un agiato comandante di dhow, magari un commerciante di schiavi o un pirata del mar Rosso. Prese inoltre la precauzione d'infilare nella cintura dorata, sotto la falda del farsetto, la coppia di pistole a doppia canna. Anche i due ragazzi avevano la pelle così scura da non avere bisogno di tinture, mentre i capelli erano coperti dal turbante. Gli occhi di Dorian erano di un verde sorprendente, che risaltava sulla pelle di un rame dorato, ma d'altronde molti uomini delle tribù pathan, nel nord dell'India, avevano la pelle e gli occhi chiari. Non appena fece buio si calarono nella barca, ma, anziché sbarcare sul molo di pietra del porto, Hal aggirò il frangiflutti per approdare su una spiaggetta tranquilla a un miglio circa dalla città. Lasciando l'imbarcazione affidata a Big Daniel, seguirono il sentiero battuto che portava al centro cittadino. L'abitato non era cinto di mura e le strade strette erano buie, a parte il Wilbur Smith
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raggio di qualche lampada appesa alle finestre in alto, quindi non ebbero difficoltà a entrare senza dare nell'occhio. Quando raggiunsero il suk principale, scoprirono che quasi tutte le bancarelle e le botteghe erano ancora aperte. Hal scelse il negozio di un venditore di tappeti, che aveva notato mentre andava a rendere omaggio al console Grey. Alcuni dei tappeti esposti erano splendidi per il disegno e la tessitura. Il proprietario, che si chiamava Salim bin-Talf, accolse Hal con grande calore, facendolo accomodare su un tappeto di seta lucente e offrendogli un caffè dolce e denso, aromatizzato al cardamomo. Aboli e i due «schiavetti» sedettero nell'ombra e, obbedendo alle istruzioni di Hal, mantennero un rispettoso silenzio per tutta la serata. «Allora, effendi, che novità ci sono?» disse bin-Talf, rivolgendo a Hal la domanda di rito. «Le novità sono buone», rispose Hal. Gli avrebbe dato la risposta tradizionale anche se fosse stato appena derubato di tutti i suoi beni terreni, se tutte le sue mogli fossero state stuprate e il maggiore dei suoi figli maschi fosse morto per il morso di un serpente velenoso. «E le vostre?» «Anche le mie sono buone.» Sorseggiarono il caffè e, mentre chiacchieravano, tre o quattro amici e parenti di bin-Talf si unirono a loro, attirati dalla presenza dello sconosciuto. Lentamente, col dovuto rispetto per la buona creanza e il protocollo, furono poste domande e discussi affari. «A giudicare da come parlate, non siete del nord, vero, effendi?» Avevano notato il suo accento. «Vengo da Morbi, nel Gujarat, nell'impero del Gran Moghul. La mia nave si trova in porto.» Aveva osservato parecchi dei dhow oceanici ancorati vicino alla Seraph, per cui era in grado di fornire una descrizione adeguata. «Sono venuto ad acquistare schiavi e merci nei suk di Zanzibar e Lamu.» «E come vanno le cose nella vostra terra?» «Le tribù dei maratha e dei sikh sono in rivolta contro l'imperatore, ma con l'aiuto di Allah li sconfiggerà.» «Allah lo voglia!» «In questa stagione il figlio maggiore, Asaf Khan, compirà il pellegrinaggio alla Mecca, con una flotta di cento navi.» «Sia lode ad Allah!» «Non esiste altro Dio.» Wilbur Smith
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Tutte quelle notizie, Hal le aveva raccolte al capo di Buona Speranza, ma la loro autenticità servì a confermare la sua identità a bin-Talf e ai suoi amici, che divennero subito più cordiali; anche la conversazione si fece più disinvolta. Hal mercanteggiò senza troppo accanimento per aggiudicarsi un magnifico tappeto di seta proveniente dalla Persia e, quando lo pagò con mohur d'oro, una moneta del valore di quindici rupie, l'affabilità dei mercanti non ebbe più limiti. «Avete visto la nave inglese nel porto?» domandò un cugino di bin-Talf. «Quella con lo scafo nero ancorata in fondo al frangiflutti?» «La mia è ancorata proprio accanto a quella nave. Pare che abbia riportato danni, perché l'equipaggio lavora sugli alberi.» «Dicono che sia successo nel corso della grande tempesta del mese scorso.» «Ho incontrato anch'io la stessa tempesta, ma per grazia di Allah siamo sopravvissuti alla sua furia.» «Sia lodato Allah!» «Dicono che la nave inglese sia partita dal vostro Paese, da Bombay, nel regno del Gran Moghul.» Bin-Talf abbassò la voce, guardandosi attorno per accertarsi che non ci fossero spie intente a origliare. «Porta un enorme tesoro, inviato dal Moghul a uno dei re infedeli.» «Ho sentito parlare anch'io di quel tesoro.» Hal dovette fare uno sforzo per reprimere il sorriso che gli saliva alle labbra. «Correvano molte chiacchiere, quando ho lasciato Alla-habad.» Abbassò la voce anche lui. «Si parla di un tesoro di diamanti che valgono venti lakh.» «No!» sussurrò tutto eccitato il cugino di bin-Talf. «Io ho sentito che sono smeraldi, e valgono cinquanta lakh. Dicono che il Gran Moghul abbia dato fondo ai suoi forzieri.» «Dev'essere veramente uno dei tesori più grandi che il mondo abbia mai visto», mormorò Hal, mostrandosi impressionato. «E adesso si trova qui tra noi. Mi piacerebbe posare gli occhi su un tesoro del genere.» Rimasero tutti in silenzio, riflettendo sulle possibilità prospettate dalle parole di Hal. I loro occhi, però, scintillavano di avidità. «A me piacerebbe tenere in mano un tesoro simile soltanto per potermi vantare con i miei nipoti di averlo visto», ammise infine bin-Talf. Il cugino si lasciò sfuggire una risatina sprezzante. «Al-Auf te lo toglierebbe di mano, cugino.» Allora scoppiarono a ridere tutti, e un altro commentò: «Al-Auf si prenderebbe anche la mano». Wilbur Smith
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«Per Allah, è vero.» «Vero! Vero!» Risero in modo sfrenato. «Chi è questo 'Cattivo'?» domandò Hal in tono ingenuo, poiché questo era il significato di «al-Auf». «Siete un navigatore e non lo avete mai sentito nominare?» esclamò stupito bin-Talf. «Credevo che tutti i marinai tremassero nel sentire quel nome.» «Sono un ignorante che viene da un Paese lontano», si schermì Hal. «Musallim bin-Jangiri, il flagello degli infedeli e la spada dell'Islam. Ecco chi è al-Auf, 'il Cattivo'.» Hal si sentì accelerare i battiti, tuttavia mantenne un'espressione distaccata. «Allora al-Auf è un pirata?» chiese poi, sfregandosi il mento con aria pensierosa. «È il padre e la madre di tutti i pirati», replicò bin-Talf con un sorriso. «Si direbbe un tipo da evitare. Ma dove lo si potrebbe trovare, ammesso che qualcuno sia tanto stupido da cercarlo?» Bin-Talf ridacchiò, tirando una lunga boccata dal narghilè. Mentre l'acqua gorgogliava nel recipiente, dalle labbra dell'uomo uscì il fumo dolciastro e muschiato del bhang. «Avete ragione, effendi, soltanto un pazzo potrebbe cercare al-Auf. Ma se riuscirete a riconoscere nell'oceano la pista dello squalo tigre, capirete dove cercare la sua nave. Se sapete dove si leva la caligine marina, potrete scorgere l'ombra delle sue vele nere.» «Si direbbe un djinn, uno spirito del mare, e non un uomo in carne e ossa», replicò Hal. «E invece è un uomo, dal momento che l'ho visto con i miei occhi», si vantò il cugino. «Davvero? E dove? Che aspetto ha?» «L'ho visto a Lamu. Era lì nel porto, con la sua nave. L'ho visto sul ponte. Ha l'aria fiera e l'occhio ardito di un eroe dell'antichità, un uomo possente e terribile a vedersi.» «Com'era la sua nave?» Hal sapeva che qualunque descrizione di Jangiri sarebbe stata colorata a tinte fosche dal terrore e quindi era difficile che si avvicinasse alla realtà, mentre le probabilità di ottenere una descrizione precisa della nave erano maggiori. «Strano a dirsi, non è un dhow, come ci si potrebbe aspettare. È una nave occidentale, con molte vele», rispose il cugino. «Però ha le vele Wilbur Smith
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nere.» «Una nave come quella inglese che c'è in porto?» chiese Hal. «Sì! Sì! Come quella, ma molto più grande e con più cannoni.» Deve essere la Minotaur, pensò Hal. «Quanti cannoni?» chiese allora. «Tanti! Forse cento», azzardò il cugino. Era evidente che non era un marinaio e che per lui la domanda non aveva il minimo significato. «Se mai la nave inglese incontrerà al-Auf, la sua ciurma d'infedeli dovrà invocare la misericordia di Allah, perché da lui non ne riceveranno di certo.» Poco dopo Hal si congedò, insieme con Aboli e i ragazzi. Mentre tornavano alla Seraph a forza di remi, rimase in disparte, a poppa, ascoltando senza troppa attenzione Tom e Dorian che chiacchieravano eccitati con Big Daniel e Alf, raccontando con dovizia di particolari quello che avevano visto e udito nel porto. Hal era soddisfatto dei risultati della visita. Del presunto tesoro moghul non aveva parlato che col console Grey, eppure la notizia era diventata di dominio pubblico nel suk; ormai doveva essere giunta anche alle orecchie di al-Auf. La Seraph si attardò ancora tre settimane all'ormeggio nel porto, poi Hal fece un'ultima visita al console. Dopo uno scambio di complimenti e saluti elaborati, gli annunciò: «Finalmente ho completato i lavori di riparazione della nave e sono pronto a riprendere il mare». «Quando avete in mente di salpare?» Grey sollevò la sua mole enorme per mettersi a sedere, scrutandolo con interesse. «Fra tre giorni, con la marea del mattino.» «Anche se sono onorato dalla vostra presenza in casa mia, comprendo l'impazienza di riprendere il viaggio interrotto, specie in considerazione del fatto che trasportate un carico tanto prezioso. Non posso che augurarvi d'incontrare venti favorevoli e di godere della protezione di Dio.» Non mostrò il minimo interesse per ritardare la partenza di Hal, anzi sembrava ansioso di vederlo riprendere la navigazione. Per Hal, questo poteva significare una sola cosa: Jangiri, o meglio al-Auf, era stato avvisato e, in quel momento, gli stava tendendo una trappola nel canale di Mozambico. Gli ultimi tre giorni nel porto di Zanzibar furono dedicati ai preparativi finali per il combattimento. Big Daniel sorvegliò l'operazione di caricamento dei cannoni e i sacchetti di seta pronti nella santabarbara furono riempiti e sistemati presso i pezzi. Intanto Aboli controllava che Wilbur Smith
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fucili e pistole fossero dotati di acciarini nuovi e caricati a dovere. Le mole ronzarono, lanciando scintille, per affilare le spade sino a farle diventare taglienti come rasoi, mentre la punta delle picche venne affilata a mano. Eppure tutte quelle attività venivano celate con cura agli occhi delle spie, appostate sul molo o sui bastioni del forte. Hal tenne d'occhio ogni movimento insolito delle altre imbarcazioni alla fonda. Dall'ultima volta che aveva parlato con Grey, gli sembrava che ci fosse stato un aumento nel numero di piccoli dhow che entravano e uscivano dal porto. Molti manovravano per passare vicini alla Seraph, con gli uomini dell'equipaggio affacciati alla battagliola per fissare la nave a bocca aperta. Poteva darsi che fosse solo una curiosità naturale, ma Hal era certo che la notizia della loro partenza imminente fosse stata passata a tutti gli interessati in mare aperto. L'ultima notte della loro permanenza a Zanzibar scoppiò un violento temporale e, mentre i tuoni facevano rotolare grossi macigni sul tetto del cielo e i fulmini illuminavano a giorno la notte, cateratte di pioggia si riversarono sui ponti della Seraph. Gli uomini sul ponte di batteria erano costretti a gridare per farsi sentire. Dopo mezzanotte, però, le nubi si diradarono e miriadi di stelle si accesero nel cielo, specchiandosi nella superficie del porto. Il silenzio era così profondo che Hal, insonne nella sua cuccetta, udì una sentinella araba su uno dei dhow ancorati poco lontano intonare un canto sommesso: Allah è grande. L'uomo è come schiuma sulla scia del monsone. Contempla le Pleiadi in cielo e la Stella del Mattino nel tuo occhio. Allah solo conosce tutte le vie dell'oceano, Allah solo dura in eterno. Quando il primo accenno dell'alba rischiarò il cielo, spegnendo le stelle, Hal si alzò per salire sul ponte. Dall'isola soffiavano le calde ondate della brezza di terra, e la Seraph tendeva irrequieta il cavo dell'ancora, impaziente di salpare. Hal rivolse un cenno a Ned Tyler, che chiamò entrambi i turni di guardia per mettere la nave in assetto di navigazione. Gli uomini si riversarono sugli alberi e le vele si gonfiarono, schioccando e svolazzando finché la brezza non le tese al massimo e la Wilbur Smith
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Seraph s'inclinò prima di virare di bordo, puntando verso l'entrata del porto. Tornando a poppa, Hal si accorse che quattro dei dhow avevano mollato gli ormeggi, issando la loro unica vela latina per seguirli. «Può darsi che abbiano scelto l'inizio del riflusso per prendere il mare», mormorò Ned Tyler, al suo fianco, mentre li seguivano con lo sguardo da poppa. «Tutto è possibile, mastro Tyler... persino che il console Grey sia un uomo onesto.» «Questo mi sembra un po' eccessivo, comandante», replicò Ned in tono serio. Hal levò lo sguardo verso le mura della fortezza, che, alle prime luci del giorno, sprigionavano una luminosità perlacea, poi emise un grugnito che rivelava un interesse improvviso: in cima alla torre orientale si era accesa una fiammella. Una sottile colonna di fumo bianco si levò nell'aria, disperdendosi poi al vento del monsone. «Credete che stiano lanciando un segnale, lassù?» domandò a bassa voce. «Di certo quel fumo sarà ben visibile sulla terraferma, dalla parte opposta del canale», fu il parere di Ned. «O in mare, a venti leghe di distanza.» In quel punto il canale era così stretto che, non appena l'orlo incandescente del disco solare si profilò all'orizzonte, videro stagliarsi nitidissimo davanti a loro il continente africano, con i monti lontani che parevano in fiamme. Hal guardò ancora indietro da poppa, notando che la piccola flotta di dhow usciti dal porto continuava a seguirli, restando nella loro scia. Non aveva ancora spiegato tutte le vele, e la vela di maestra aveva ancora tre mani di terzaroli di riserva, quindi la Seraph procedeva senza forzare l'andatura. Due delle navi più grandi che la seguivano erano veloci e riuscivano a tenere il passo con la nave, mentre le altre, a poco a poco, restavano indietro. «Ponte! Si vede altro fumo sulla terraferma.» La voce di Tom scese verso di loro dalla coffa. Hal si avvicinò alla battagliola sottovento. Una sottile colonna di fumo si levava dal dorso verde di uno dei promontori che circondavano una spiaggia a mezzaluna di bianca sabbia corallina. Il fumo era di un bianco argenteo, innaturale, e s'innalzò finché all'improvviso il vento non lo investì, disperdendolo in una lunga scia che saliva tra le vette delle colline verdi. Wilbur Smith
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Navigarono per tutto il giorno in direzione sud. Lungo il loro percorso si accesero altri fuochi sulla spiaggia, sempre quando la Seraph era all'altezza di qualche promontorio o altura, e ogni volta si sprigionava quello stesso fumo argenteo, di certo visibile in un raggio di molte miglia. La rada flottiglia di piccoli dhow sparsi lungo il canale continuava ostinatamente a seguirli, con le due imbarcazioni più grandi che si tenevano a distanza di due o tre miglia. Ma, quando il sole cominciò a scendere verso l'orizzonte, tingendo di rosso e oro i cumuli turbolenti, i due dhow spiegarono le vele e lentamente coprirono la distanza che li separava dalla nave. Al tramonto, erano ormai ben visibili dalla coperta della Seraph. Attraverso il cannocchiale, Hal distinse la massa di uomini che si accalcava a bordo. «Penso che possiamo aspettarci che accada qualcosa da un momento all'altro», disse a Ned Tyler. «Voglio che l'equipaggio riceva la cena finché c'è ancora luce. Può darsi che ci si debba battere durante la notte.» Ned assunse un'espressione grave. Persino una potente nave da combattimento si trovava in svantaggio in un'azione notturna contro un nemico inferiore, ma comunque numeroso. Col favore delle tenebre, una flotta di piccoli dhow poteva avvicinarsi di soppiatto alla nave più grande e far salire sui suoi ponti una massa di uomini armati, prima che gli artiglieri riuscissero a respingerli. In quel momento si udì un grido dalla coffa. «Ponte! C'è una barchetta a prua. Sembra in difficoltà.» Hal si diresse verso la battagliola, sollevando il cannocchiale. Dritto di prua, poteva distinguere lo scafo di un dhow da pesca quasi affondato nell'acqua; si vedeva emergere soltanto lo specchio di poppa. Nell'acqua, intorno al relitto, si scorgeva un grappolo di teste umane. Quando la Seraph puntò verso di loro, i naufraghi agitarono la mano e, sulle Ali del vento, giunsero le loro grida acute. «In nome di Allah!» «Pietà! Allah vi ha mandati a salvarci!» Quando furono abbastanza vicini da distinguere i volti degli uomini che si dibattevano intorno al relitto, Hal diede l'ordine di accostare. La Seraph invertì la rotta per mettersi con la prua al vento e avvicinarsi al dhow sommerso, andando alla deriva. «Mandate una lancia a raccoglierli», ordinò e, mentre la barca veniva calata in mare per raggiungerli, contò le teste dei naufraghi. «Ventidue. Un equipaggio numeroso per una barca così piccola, signor Tyler.» «In effetti, comandante, sono davvero tanti.» Wilbur Smith
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Hal si diresse a lunghe falcate verso la battagliola, dove Big Daniel e Alf Wilson erano in attesa con un gruppo di uomini armati. «Siamo pronti a dare loro un benvenuto come si conviene, mastro Fisher?» «Amorevole come quello che riceverebbero se mai arrivassero in paradiso», replicò Big Daniel con un sorriso truce. La lancia, ormai carica di marinai della Seraph e di superstiti del dhow fradici e malconci, cominciò a tornare verso la Seraph, bassa nell'acqua. D'un tratto, Alf Wilson si lasciò sfuggire un fischio sommesso e sul suo viso scuro apparve un sorriso diabolico. «Quello alto, a prua, con la barba.» Indicò uno dei superstiti. «Lo conosco. Perdio, sarà un piacere rivederlo. Era lui il capo della banda di tagliagole che ha abbordato la Minotaur, usando esattamente lo stesso trucco.» «Per favore, mastro Wilson, restate indietro: dobbiamo evitare che anche lui vi riconosca», lo ammonì Hal sottovoce. «Fatelo salire a bordo, prima che vi veda.» La lancia si agganciò alle catene della Seraph e il primo dei naufraghi soccorsi salì la scaletta, lasciandosi cadere sul ponte. Poi si abbassò sino a sfiorare con la fronte il tavolato, e l'acqua di mare colò dalla lunga tunica fradicia, formando una pozzanghera intorno a lui. «Che le benedizioni di Allah ricadano su questa nave. La vostra generosità e misericordia saranno scritte nel libro d'oro...» «Basta così, ragazzo mio.» Big Daniel lo rimise in piedi con un gesto gentile, mentre i suoi uomini sospingevano l'arabo, sorpreso, verso la battagliola opposta, circondandolo. L'uomo che lo seguì sulla scaletta e oltre la battagliola era proprio l'arabo alto e barbuto. Allargò le braccia, e le lunghe vesti bagnate aderirono alla sua figura alta e allampanata. «Questo è un giorno molto propizio. I miei figli e nipoti...» intonò con voce sonora. «Salaam aliekum, Rachid», disse Alf Wilson per tutta risposta. «Da molti giorni agognavo di poter posare di nuovo gli occhi sulla tua gradevole figura.» Rachid lo fissò, allarmato, e, quando Alf si avvicinò sorridendo, lo riconobbe; allora si guardò attorno, in preda alla costernazione, cercando una via di scampo, poi balzò verso il parapetto della nave. Alf Wilson lo afferrò quando aveva già spiccato il salto, inchiodandolo sul ponte. Gli piantò un ginocchio nelle reni, puntandogli il pugnale sotto l'orecchio e Wilbur Smith
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punzecchiandolo. «Ti prego, beneamato del Profeta, offrimi un motivo per tagliarti la gola», sibilò. L'uomo prese a squittire e dimenarsi sul ponte, mentre Alf, frugando sotto la veste umida con la mano libera, estrasse un pugnale ricurvo dall'aria micidiale. Saggiò il filo della lama sull'orecchio di Rachid, tagliandogli il lobo di netto, e un rivoletto di sangue colò nella barba dell'arabo. «Ah, sì, è abbastanza tagliente», osservò Alf in tono ironico. «Dev'essere la stessa lama con la quale Hal tagliato il naso al mio vecchio compagno Ben Brown, e assassinato Johnnie Waite.» Rachid singhiozzò, ululando e implorando misericordia. «Sono innocente, Allah mi è testimone. Mi avete scambiato per un altro. Io sono un povero ma onesto pescatore.» A uno a uno, i suoi compagni furono sospinti sul ponte della nave, dove rimasero in gruppo, frastornati, all'interno di un cerchio di sciabole sguainate. Alf rimise in piedi Rachid, che piagnucolava, spingendolo attraverso il ponte, verso i suoi uomini. «Se uno qualsiasi di voi tenta di fuggire o di estrarre una delle armi che tiene nascoste sotto le vesti, i miei uomini hanno ordine di tagliarvi la testa», li avvertì Hal, prima di rivolgersi a Ned Tyler. «Per favore, rimettete la nave alla via.» Quando la Seraph prese il vento, riprendendo a navigare lungo il canale, Hal ordinò seccamente ai prigionieri: «Spogliatevi tutti! Voglio vedervi addosso soltanto la pelle sporca che avete». Si levarono grida di protesta. «Effendi, non sta bene, La nostra stessa nudità ci fa vergognare al cospetto di Allah.» Hal estrasse dalla cintura una delle pistole, tirando indietro il cane delle due canne, poi la puntò contro la testa di Rachid. «Via tutti i vestiti! Stupiteci con la circonferenza e la lunghezza del vostro pene circonciso, come delizierete le urì nei giardini del paradiso, quando vi spedirò lassù.» A malincuore, Rachid si tolse di dosso la tunica bagnata, restando col solo perizoma. «Via tutto!» insistette Hal e, uno dopo l'altro, gli arabi si tolsero i vestiti, posandoli sul ponte con grande cura, per evitare che ciò che era nascosto tra le pieghe della stoffa tintinnasse o urtasse con violenza contro le tavole della coperta. Infine si strinsero l'uno all'altro: un mucchio di miserabili che cercavano di coprirsi con le mani le parti intime, lamentandosi e protestando la propria innocenza. Gli abiti che si erano tolti rimasero ammucchiati sul ponte. Wilbur Smith
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«Cercate!» ordinò Hal. Aboli e Big Daniel tastarono tutti gli indumenti, estraendo l'assortimento di pugnali nascosti tra la stoffa bagnata. Quando ebbero finito, sul ponte si era formato un mucchietto di armi. «Rachid!» Hal si rivolse al capo, che cadde in ginocchio, con le lacrime che scorrevano sul viso fino a confondersi col sangue dell'orecchio ferito. «Qual è il piano di al-Auf? Quale segnale dovevate fargli, per indicare che avevate preso il controllo della mia nave?» «Non vi capisco, effendi. Non conosco nessuno che si chiami al-Auf. Abbiate pietà di un povero pescatore! Senza di me, i miei figli moriranno di fame.» «Allah il misericordioso provvederà ai tuoi sventurati orfani», gli assicurò Hal, facendo scorrere lo sguardo sui prigionieri terrorizzati. «Quello!» Scelse un furfante dall'aria spietata, col viso sfregiato e un'orbita vuota. Aboli lo trascinò fuori del mucchio, passandogli intorno al collo un breve tratto di catena massiccia, che chiuse con un lucchetto. «Te lo chiederò ancora una volta», disse Hal a Rachid, con un sogghigno. «Qual è il segnale?» «In nome di Allah, effendi, non conosco questo al-Auf. Non so di nessun segnale.» Hal rivolse un cenno secco del capo ad Aboli, che prese con sé l'arabo incatenato come se fosse un bambino, guidandolo verso la battagliola, poi lo sollevò in alto di peso prima di scaraventarlo oltre la murata. L'uomo finì in acqua e scomparve all'istante, trascinato sul fondo dal peso della catena. Un silenzio inorridito scese su tutti gli uomini presenti sul ponte, compresi i marinai inglesi; non avevano mai sospettato che il loro comandante potesse mostrarsi così spietato. Poi i prigionieri nudi emisero un lamento sommesso, lasciandosi cadere in ginocchio, con le mani giunte all'altezza degli occhi, implorando di avere salva la vita. «Qual è segnale?» ripeté Hal a bassa voce, fissando negli occhi Rachid. «Che Allah mi sia testimone, non conosco nessun segnale.» «Prendilo», ordinò Hal ad Abolì, che afferrò Rachid per l'orecchio ferito, trascinandolo verso la battagliola mentre strillava e sanguinava. Lo stese sul ponte, gli piantò un piede enorme tra le scapole per inchiodarlo alle tavole e gli avvolse al collo un altro tratto di catena. Poi, senza sforzo, lo sollevò sopra la testa. «Gettalo in pasto agli squali», ordinò Hal, «anche se sono convinto che persino loro disdegneranno un rifiuto del genere.» «Ve lo dirò», gridò Rachid, scalciando. «Ordinate a questo shaitan nero Wilbur Smith
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di rimettermi giù, e ve lo dirò.» «Tienilo sospeso fuori bordo», ordinò Hal. Aboli cambiò la presa su Rachid, tenendolo sospeso per le caviglie sopra la schiuma che s'innalzava a prua della Seraph. «Parla», disse Aboli con un brontolio sommesso, «perché le mie braccia cominciano a stancarsi. Non sopporteranno il tuo peso ancora per molto.» «Due luci», strillò Rachid. «Due fanali rossi sull'albero di maestra. È questo il segnale per al-Auf, per indicargli che abbiamo preso la nave.» Aboli lo ritirò a bordo, lasciandolo cadere sul ponte, raggomitolato e piagnucolante. «Quale rotta ti ha ordinato di seguire? In che punto dovevi incontrarlo?» lo incalzò Hal. «Mi ha detto di dirigere per sud e restare vicino alla costa, andando verso Ras Ibn Khum.» Hal sapeva che si trattava di un promontorio di una certa importanza che si protendeva nel canale. «Incatenali tutti e rinchiudili nel castello di prua, con una sentinella che li sorvegli in continuazione», ordinò quindi ad Aboli, parlando in arabo a beneficio dei prigionieri. «E spara al primo che tenta la fuga.» Quando il sole s'immerse in mare come un tizzone ardente, Hal ridusse la velatura, allontanandosi ancor più dalla costa, come avrebbe fatto qualsiasi comandante prudente con una costa sottovento così vicina. Proseguirono lentamente in direzione sud, e un paio di volte, nella prima parte della notte, le vedette scorsero un lucore fioco di lanterne sull'uno o sull'altro dei dhow che li seguivano come ombre. A bordo della Minotaur, ovunque fosse appostata, al-Auf si aspettava di certo che i suoi uomini s'impadronissero della Seraph soltanto dopo che la maggior parte dell'equipaggio si fosse addormentata. Quindi Hal aspettò fino ai due tocchi del turno mediano, corrispondenti alle due del mattino, prima di far accendere i due fanali rossi di segnalazione, disponendoli a prua e sull'albero di maestra, dove brillarono nella notte come gli occhi di un drago. Poi ordinò ad Aboli e ad altri venti uomini scelti d'indossare le vesti ancora umide che gli arabi catturati si erano tolti di dosso. Mentre si avvolgevano il turbante sulla testa, Hal scese nel suo alloggio per indossare in fretta gli abiti che aveva portato la sera della visita al suk di Wilbur Smith
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Zanzibar. Quando risalì in coperta, la Seraph navigava placidamente nelle acque buie. Non appena la luna sorse in cielo, la sagoma scura della terra, con la fosforescente collana di perle della risacca, sprofondò nelle tenebre. Hal fece il giro del ponte, parlando con tutti i gruppetti di uomini accovacciati a ridosso delle murate. «Questo è il momento più pericoloso», li ammonì sottovoce. «Restate all'erta. Possono piombarci addosso prima che li vediamo.» Due ore prima dell'alba, nel momento più buio della notte, Hal mandò a chiamare i due ragazzi. Quando si presentarono da lui, Tom era sveglio e fremente di eccitazione, mentre Dorian doveva essere rimasto raggomitolato sul pagliericcio fino a poco prima, perché era ancora semiaddormentato, sbadigliava e si sfregava gli occhi. «Voglio che saliate tutt'e due sul vostro posto di combattimento, in coffa», ordinò in tono severo. «Se la nave sarà impegnata in un combattimento, dovrete restare lassù, qualunque cosa accada sui ponti sotto di voi, mi capite?» «Sì, padre.» Nella luce fioca che spioveva dalla chiesuola della bussola, il viso di Tom appariva concentrato. «Tom, ti affido tuo fratello», disse Hal, come aveva fatto già tante altre volte. «Dorian, devi obbedire a Tom, qualunque cosa ti dica di fare.» «Sì, padre.» «Io sarò molto occupato e non potrò sempre tenervi d'occhio. Voglio sapervi tutt'e due al sicuro, al di sopra del combattimento.» Insieme con loro, si avviò verso le sartie dell'albero di trinchetto e lì, protetto dall'oscurità, posò una mano sulle spalle dei figli, stringendo con forza. «Che Dio vi ami, ragazzi miei, come vi amo io. Non cercate di fare gli eroi. Tentate solo di tenervi lontani dal pericolo.» E, prima di tornare verso il cassero, li seguì con gli occhi mentre si arrampicavano sulle sartie, scomparendo nell'oscurità. All'alba ci fu un altro temporale, quindi il buio durò più a lungo del solito. Infine, contemporaneamente al sorgere del sole, le nubi cariche di pioggia si aprirono e il giorno li investì con drammatica velocità. Durante la notte, seguendo i capricci della corrente nel canale così stretto, la Seraph si era avvicinata alla terraferma. A distanza di due miglia a dritta, si stendeva il continente africano, con le spiagge candide e le zanne delle barriere coralline in agguato nelle acque verdi e poco profonde delle lagune interne. Proprio di fronte a loro, Wilbur Smith
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s'innalzava il promontorio di Ras Ibn Khum, che si protendeva nel canale, simile al dorso di una balena. Hal ordinò sottovoce un cambiamento di rotta per passare al largo dallo sperone di terra. Durante la notte, lo sciame di dhow che li seguiva, guidato dai fanali di segnalazione sull'albero di maestra della Seraph, aveva coperto la distanza che lo separava dalla nave. La nave di testa, della stazza di alcune centinaia di tonnellate, carica di uomini, si trovava ormai a meno di una tesa di distanza dalla nave, a poppa. Non appena videro la Seraph sbucare dall'oscurità proprio di fronte a loro, come per magia, scoppiarono in applausi e grida di esultanza, scaricando in aria i jezail, i loro fucili a canna lunga. Evidentemente, grazie ai fanali di segnalazione, credevano che la nave fosse già nelle mani di al-Auf. Sì levarono pennacchi di fumo e, oltre la distesa di acque scure e mosse, si udirono fioche voci e lontani scoppi di armi: erano gli uomini che ballavano di gioia, agitando le mani. «Salutateli, ragazzi», ordinò Hal ai marinai travestiti da arabi, e loro cominciarono a fare capriole e a salutare di rimando il dhow, con le tuniche gonfiate dalla brezza mattutina che soffiava dalla terraferma. Hal non fece il minimo tentativo di rallentare la corsa della nave, cosicché la distanza tra loro non diminuì. Guardò invece in avanti, per calcolare la distanza di sicurezza dal promontorio verde che sporgeva in mare proprio sulla sua rotta e, in quel momento, si sentì serrare il petto in una morsa e accelerare il respiro. Meno di due miglia più avanti, infatti, scorse un'altra nave con le vele quadre, di colore nero, avanzare a tutta velocità verso di loro, doppiando la punta. Si rese conto subito che era rimasta all'ancora nella baia oltre il promontorio, in agguato, aspettando che i fuochi di segnalazione lungo la costa l'avvertissero dell'avanzata della Seraph. E adesso correva incontro all'altra nave, sollevando un ventaglio di schiuma bianca che s'inarcava sotto la prua. Era seguita da una schiera di piccole imbarcazioni, oltre a una dozzina di dhow. Alf Wilson, con gli occhi scuri scintillanti di eccitazione, si avvicinò a Hal. «Quella è la vecchia Minotaur», gli gridò. «La riconoscerei ovunque, comandante.» «Grazie, mastro Wilson, lo sospettavo.» Hal mantenne un'espressione distaccata, girandosi verso Ned Tyler soltanto per dargli un ordine: «Mantenere la rotta». Mentre i due velieri si avvicinavano a tutta velocità, Hal esaminò la Wilbur Smith
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Minotaur attraverso il cannocchiale. Erano passati meno di due anni da quando era stata catturata da al-Auf, ma lui si accorse subito che le vele e il sartiame erano davvero malridotti; nessun comandante inglese avrebbe mai trascurato la sua nave in quel modo. Inoltre le manovre venivano eseguite con scarsa perizia. Forse il comandante era abituato alla vela latina e mancava di esperienza nella complessa arte della manovra delle vele quadre. In quel momento, per esempio, le vele di gabbia fileggiavano e quelle di maestra non erano bordate a segno, cosicché il vento creava turbolenze e le vele nere sventolavano e tremavano come se fossero in preda alle convulsioni. Inoltre, dall'angolo di deriva, intuì che la carena doveva essere appesantita da uno strato di alghe incrostate. Uno sciame disordinato di uomini era allineato lungo le murate e si accalcava sulle sartie, pavoneggiandosi e agitando le armi, in preda a una selvaggia esultanza. Hal calcolò che erano parecchie centinaia, e provò una fitta di apprensione, immaginando quell'orda selvaggia che si riversava a bordo della Seraph; comunque non tentò manovre diversive che avrebbero messo in allarme il pirata. Intanto, i marinai inglesi travestiti da arabi a bordo della sua nave eseguivano una calorosa pantomima di benvenuto in onore di al-Auf. La Minotaur montava venticinque cannoni per parte, e il peso della sua fiancata era quasi il doppio della Seraph; se fosse stata manovrata a dovere, quest'ultima non avrebbe potuto tenerle testa. Speriamo che le sue capacità di combattimento siano all'altezza delle qualità marine, pensò Hal, mentre le due navi si correvano incontro, a testa bassa, fin quasi a dare l'impressione di rischiare la collisione. I dhow che facevano da seguito alla Minotaur rimasero isolati dietro di lei, come anatroccoli nella scia della madre. Ormai erano tanto vicini che Hal riuscì a distinguere la polena a prua, col mostro mitologico per metà uomo e per metà toro. Le due navi ridussero in fretta la distanza che le separava; Hal riuscì a distinguere pure il nome, Minotaur, anche se ormai le lettere applicate con la tecnica della foglia d'oro erano scheggiate e sbiadite, ricoperte da una patina di cristalli di sale. Sollevando il cannocchiale per scrutare il ponte, scorse quasi subito una figura alta, vestita di nero, che se ne stava in disparte rispetto alla marmaglia di marinai arabi. Non ebbe dubbi sul fatto che si trattava di alAuf, il Cattivo. Come lo aveva descritto il cugino di bin-Talf? «Ha l'aria Wilbur Smith
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fiera e l'occhio ardito di un eroe dell'antichità, un uomo possente e terribile a vedersi.» Be', non ha davvero esagerato, pensò Hal con un sogghigno truce. Al-Auf portava un turbante alto, di colore verde, e la pietra preziosa che ne fissava le pieghe scintillava ai raggi obliqui del primo sole. Dalle spalle ampie traspariva una muscolatura salda e, sotto le pieghe delle vesti, il corpo appariva aggraziato e ben bilanciato, simile a quello di un grande felino predatore. La barba curata era divisa in due punte, rovesciate all'indietro sulle spalle. Le due navi volarono l'una incontro all'altra, finché Hal non riuscì a distinguere i tratti del viso di al-Auf: occhi scuri, incorniciati da sopracciglia nere e folte, un naso adunco che sovrastava la bocca sottile, simile a un taglio di spada. Un volto duro e crudele, come lo spietato deserto arabo che lo aveva foggiato. Hal si accorse che i portelli dei cannoni della Minotaur erano aperti e i pesanti pezzi della nave erano pronti al fuoco. La nube di fumo azzurro che fuoriusciva dai ponti, disperdendosi al vento, lo avvertì che tutte le micce a lenta combustione erano accese e i serventi erano in attesa dietro i pezzi. Al-Auf era accorto e tanto prudente da non accettare come prove decisive i fanali rossi sull'albero di maestra della Seraph. Hal socchiuse gli occhi, mentre la distanza tra le due navi si riduceva a una tesa, e al-Auf ancora non dava segno di deviare dalla sua rotta. Alcuni uomini dell'equipaggio a prua della Minotaur smisero di festeggiare per guardarsi attorno, a disagio. «Date fuori i cannoni!» Hal aveva aspettato l'ultimo momento e il suo ordine fu ripetuto all'istante lungo le scalette che scendevano ai ponti inferiori. In tutta la nave si ripercosse all'istante il rumore dei possenti colpi di maglio che servivano a sbloccare i cunei. Seguirono una serie di schianti, mentre i portelli dei cannoni si spalancavano, e poi il rombo degli affusti dei cannoni. Dai portelli ormai aperti spuntarono le bocche nere dei cannoni. Hal immaginò la costernazione a bordo della Minotaur nel vedere la nave che avevano creduto una vittima docile e disarmata trasformarsi in una pericolosa avversaria pronta al combattimento. Mentre Hal lo osservava, al-Auf reagì in modo fulmineo, girandosi di scatto verso il timone; ma l'ordine che impartì andò perduto tra il vento e gli applausi dei suoi uomini. La Minotaur virò di bordo, mettendo la prua al vento. Era una manovra incauta, destinata a evitare la collisione e la minaccia inattesa rappresentata dalla fiancata della Seraph, irta di cannoni. Wilbur Smith
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«Non è certo una decisione saggia, al-Auf: avresti fatto meglio a ribattere colpo su colpo», mormorò Hal, soddisfatto. «Mastro Fisher!» gridò poi. «Sto per incrociarla di prua. Fuoco a volontà!» Big Daniel si diresse verso la squadra di artiglieri della batteria di dritta, controllando in fretta il puntamento dei cannoni pesanti e sfilando il cuneo dall'affusto per sparare in depressione. Avrebbero sparato in depressione perché, mirando in basso, i colpi sarebbero affondati nelle parti vitali della Minotaur. La sconsiderata manovra di al-Auf aveva preso in contropiede la Minotaur, che rimase bloccata, in posizione di stallo, col vento che investiva le vele in modo frontale, cosicché non poteva manovrare in nessuna direzione. «Orzate di una quarta sopravvento», ordinò Hal al timoniere. La Seraph orzò di poco verso la Minotaur, cominciando a incrociarla di prua, così vicina che per poco non speronò la serpa. Nessuno dei cannoni dell'altra nave poté prendere la mira, mentre tutti i cannoni sul lato di dritta della Seraph puntarono in rapida successione contro la prua dorata. Big Daniel accostò la miccia ardente al focone del cannone di testa, che sparò con un tremendo boato, rinculando. Il lungo pennacchio di fumo sfiorò la prua della Minotaur, mentre il fasciame veniva squarciato dal proietto, disintegrandosi in una nube ronzante di schegge. Quell'unico colpo scosse la Minotaur, sventrandola fino ai ponti inferiori, dove i serventi erano in attesa ai pezzi. A bordo della Seraph si udirono chiaramente le grida e le invocazioni a Dio, mentre la palla di cannone squarciava la batteria. Big Daniel si diresse verso il secondo cannone, controllandone la mira. La Seraph superò placidamente la Minotaur, che rollò, prima di puntare direttamente il cannone contro la nave avversaria, e Big Daniel mise a segno il colpo, con un altro scoppio fragoroso di fuoco e fumo di polvere da sparo. La pesante palla di cannone penetrò nella prua della Minotaur e il vento portò nitide fino a loro le urla dei feriti e dei morenti. Uno dopo l'altro, i cannoni della Seraph fecero fuoco, mentre la Minotaur sbandava, incapace di rispondere al timone sotto quei colpi possenti. Hal scorgeva il turbante verde di al-Auf, che spiccava in mezzo al tumulto dell'equipaggio in preda al panico, mentre il pirata cercava di radunare gli uomini per bordare le vele, in modo che la nave potesse prendere il vento e sottrarsi ai colpi terribili che la squassavano da prua a poppa. Wilbur Smith
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Gli uomini disposti sulle sartie della Seraph sparavano colpi di fucile verso il ponte della nave pirata; nonostante la scarsa precisione di tiro delle armi, quasi tutti i colpi raggiungevano un bersaglio tra la massa di figure avvolte nelle lunghe vesti che si aggiravano in preda alla confusione. Il rombo assordante del cannone era punteggiato dal suono più secco dei falconetti, che spazzavano il ponte della Minotaur con la mitraglia. Hal alzò la testa verso l'albero di trinchetto per controllare che i due ragazzi fossero al sicuro, e vide Tom impegnato a ricaricare il falconetto. La testa di Dorian, che saltellava tutto eccitato, era vicina a quella del fratello, e Hal credette di sentire la sua voce acuta persino al di sopra del frastuono della battaglia. Tutte le batterie di dritta della Seraph avevano scaricato i loro colpi sulla Minotaur inerme, provocando un massacro. Hal vide il sangue scorrere dai portelli aperti e dagli ombrinali, formando rivoli che colavano lungo le murate. «Voglio affiancarmi a loro», disse a Ned. Attese che l'ultimo cannone avesse sparato e che la Seraph avesse superato la sua vittima, poi impartì l'ordine. «Una fiancata contro la nave mentre ci avviciniamo, poi l'arremberemo approfittando del fumo.» L'equipaggio lanciò grida di esultanza, brandendo le armi per l'arrembaggio: picche, sciabole e asce. Sul ponte della Minotaur si sarebbero trovati in stato d'inferiorità numerica, ma Hal confidava nel loro addestramento, nel loro spirito combattivo e nella confusione degli arabi; era persuaso di poter conquistare la nave al primo assalto. Impartì l'ordine e la Seraph girò su se stessa con agilità, invertendo la direzione in modo tale che le due navi si trovarono affiancate; lo scarroccio della Seraph, però, aveva portato quest'ultima al largo, e le separava ancora una distanza pari alla gittata di un fucile. Hal ordinò di ammainare tutte le vele di maestra, riducendo la velatura per preparare la nave al combattimento, poi fece mettere a collo il controvelaccino per toglierle un po' di abbrivo e portarla più in fretta verso la Minotaur. Uno dei piccoli dhow che avevano seguito la nave nemica si trovò direttamente a prua della Seraph: la collisione era inevitabile. I marinai alzarono la testa, in preda al terrore, vedendosi venire addosso quel veliero imponente: alcuni si gettarono in mare, altri rimasero paralizzati dal panico mentre la Seraph travolgeva l'imbarcazione. Il fasciame del dhow si schiantò, spezzandosi, mentre la barca tranciata affondava, e le grida degli uomini si Wilbur Smith
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spensero di colpo. Prendendo il vento, la Seraph accelerò per lanciarsi sulla Minotaur, ma la nave nemica aveva infine ritrovato la manovrabilità e stava virando di bordo. I due bastimenti erano separati da una distanza pari a mezza gittata di fucile, circa un centinaio di piedi, e Hal vide al-Auf incitare i suoi uomini a tornare ai posti di combattimento. Un paio dei potenti cannoni della Minotaur aprirono il fuoco. Alcuni colpi andarono a vuoto, mancando la Seraph di cinquanta iarde e sfiorando la superficie dell'acqua come nel gioco infantile del rimbalzello. Alcuni proietti passarono invece sibilando nell'alberatura che dominava il ponte, e uno straglio si spezzò con un colpo secco. Eppure la nave continuava a puntare implacabile verso l'altra: la Minotaur acquistava velocità solo lentamente, e quasi tutte le vele fileggiavano ancora, scosse da turbolenze. Ormai i pennoni delle due navi erano tanto vicini da toccarsi. «Tenetevi pronti ad aggrapparla!» gridò Hal, lanciando un'occhiata agli uomini con le catene, che facevano già roteare i pesanti grappini d'acciaio sopra la testa, per acquistare lo slancio necessario a lanciarli oltre lo stretto varco che separava le due navi e tener ferma la nave nemica. Hal vide al-Auf rinunciare al vano tentativo d'indurre i suoi uomini ad affrontare la Seraph. Invece il pirata corse verso uno dei cannoni che non avevano ancora sparato, abbandonato dai serventi. Hal non vide alcun segno di timore sulla faccia barbuta mentre afferrava una miccia accesa dal recipiente posto vicino al cannone, fissando con odio la Seraph; poi il pirata guardò apertamente Hal, mentre le labbra sottili si arricciavano in un sogghigno furioso. In quel momento, Hal intuì che nessuno dei due avrebbe mai dimenticato l'altro. Poi al-Auf accostò la miccia fumante e scoppiettante al focone del cannone. Non ebbe neanche il tempo di brandeggiarlo: il suo era un gesto disperato di sfida, un lancio di dadi alla cieca, nell'azzardo del combattimento. Seguito da una lunga scia di fumo e fiamme, il pesante proietto di ferro si schiantò contro la murata della Seraph, riducendo a brandelli due marinai inglesi, prima di abbattersi contro la base dell'albero di trinchetto. L'albero fremette, oscillando, poi cominciò a inclinarsi, pendendo lentamente in fuori; nel contempo, stragli e sartie si spezzavano, schioccando e sibilando, e il legno si schiantava, acquistando sempre più velocità e forza d'inerzia. Wilbur Smith
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E Hal vide la nave trasformarsi sotto i suoi occhi: una macchina da combattimento divenne un relitto. Poi, dalla coffa sull'albero abbattuto, scorse due figure umane scagliate nel vuoto come sassi lanciati da una fionda. Per qualche istante si stagliarono nitide sullo sfondo delle nubi grigie, gonfie di pioggia, poi precipitarono in mare. «Tom!» gridò Hal, in preda all'angoscia. «Oh, mio Dio, Dorian!» Dalla coffa, Tom guardava i ponti della Minotaur, affollati da un'orda di arabi dalle tuniche multicolori. Brandeggiando il falconetto sul perno girevole, lo puntò verso il basso quasi in verticale, tanto che dovette sporgersi per prendere la mira. «Spara!» gridava Dorian al suo fianco. «Spara, Tom!» Il fratello vide chiaramente i danni terribili che i cannoni della Seraph avevano inflitto alla nave nemica. Le murate erano a pezzi, con i bordi delle tavole spezzate al vivo, il bompresso era stato abbattuto di netto da un colpo e pendeva nell'acqua, insieme con un groviglio di vele di trinchetto e cime. Uno dei cannoni di coperta aveva ricevuto un colpo diretto e giaceva rovesciato sull'affusto, inchiodando al ponte i corpi dei due artiglieri arabi con la massiccia bocca da fuoco nera. Il ponte era cosparso di morti e feriti, mentre gli uomini terrorizzati scivolavano sulla coperta inondata di sangue, inciampando nei cadaveri dei compagni per affollarsi sul lato della nave più lontano dalla minacciosa batteria di cannoni della Seraph. «Spara!» Dorian martellava di pugni la spalla del fratello. «Perché non spari?» Tom aspettava il momento giusto. Sapeva che, in quella scomoda postazione sulla coffa, ricaricare il falconetto dalla canna lunga poteva richiedere anche cinque minuti; l'occasione migliore rischiava di presentarsi proprio mentre l'arma era scarica. «Aspetta il momento giusto», gli aveva sempre ripetuto Big Daniel. «Non sparare alla cieca a lunga distanza. Lascia comunque avvicinare il bersaglio e cerca di mettere a segno ogni colpo.» La battagliola sul lato opposto della Minotaur era affollatissima. Alcuni uomini dell'equipaggio si erano arrampicati sul parapetto, pronti a gettarsi in mare per tentare di raggiungere a nuoto uno dei piccoli dhow, piuttosto che affrontare l'arrembaggio della Seraph e l'ondata di diavoli infedeli che sarebbero sciamati a bordo. Spingevano e si accalcavano per mettersi in Wilbur Smith
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salvo, in file di sei o sette. Tom vide i loro volti terrorizzati guardare indietro mentre la Seraph si avvicinava minacciosa, dominandoli dall'alto. Prese la mira con cura, puntando al centro della mischia, poi azionò il falconetto. Fumo e frammenti di stoppaccio in fiamme volarono via, generando una fitta nube di fumo, e il vento glieli respinse in faccia, cosicché per alcuni secondi rimase accecato. Poi il fumo si diradò e Tom scorse il vuoto che la scarica di mitraglia aveva aperto nelle file frenetiche sul ponte sottostante. Almeno una dozzina di figure avvolte nelle tuniche giaceva a terra, dimenandosi e scalciando convulsamente nel proprio sangue. «Oh, bel colpo! Bel colpo!» strillò Dorian. «Aiutami a ricaricare», gli ordinò Tom, ruotando verso l'alto la canna del falconetto sino a puntarla verso il cielo. Dorian si alzò sulla punta dei piedi per ripulire la canna con uno scovolo, poi versò nell'imboccatura una carica di polvere nera dal secchiello di cuoio e Tom inserì lo stoppaccio per spingerla in fondo. In quel momento l'albero sussultò e rabbrividì sotto di loro, e l'impatto devastante della palla di cannone sparata da al-Auf si ripercosse attraverso le tavole. Tom lasciò cadere la bacchetta per sostenersi con la mano al parapetto della coffa, poi passò l'altro braccio intorno alle spalle di Dorian, stringendolo a sé. «Che succede, Tom?» gridò allarmato il ragazzino, aggrappandosi al fratello. «Reggiti forte, Dorry!» Tom tentava di tenere a freno il suo stesso terrore. L'albero oscillava, s'inclinava e infine cominciò a piegarsi verso il basso, finché i due non videro sotto di loro le onde turbolente. «Stiamo precipitando fuori bordo, Dorry. Resta aggrappato a me.» L'albero di trinchetto s'inclinò lentamente all'esterno e i ragazzi furono investiti dallo stridio delle tavole torturate dalla tensione e dagli schiocchi delle cime e dei cavi che si spezzavano e si laceravano. Accelerando la caduta, l'albero inclinato li proiettò in basso, a una velocità tale che il respiro rimase loro bloccato nei polmoni. «Non trovo appigli...» gridò Tom, disperato. Ancora stretti l'uno all'altro, furono scagliati fuori della protezione della coffa, precipitando attraverso il folto intrico di cime contorte e alberetti spezzati in una lunga caduta mozzafiato, finché non urtarono la superficie del mare, sprofondando nelle acque verdi. Wilbur Smith
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Dorian fu strappato dalle mani di Tom dalla violenza stessa dell'impatto con l'acqua. Persino mentre era sotto, Tom aprì gli occhi nel tentativo d'individuarlo, brancolando e scalciando per risalire in superficie. Quando riemerse, ansimando per riprendere fiato, il suo unico pensiero fu per il fratello minore. Sebbene gli bruciassero gli occhi, irritati dall'acqua di mare, si guardò attorno. «Dorry!» gridò con voce strozzata. «Dove sei?» L'albero fracassato della Seraph era riverso di lato, con le vele in un disordine spaventoso, sospeso sull'acqua come un'enorme ancora galleggiante che trascinava verso di sé la prua, cosicché la Minotaur poteva allontanarsi in fretta. Tom si ritrovò prigioniero in un groviglio di cime e tela, da cui si liberò a fatica. Scalciando via un tratto di cima che gli si era avvolto intorno alle gambe, si aggrappò a un frammento di alberetto per sollevarsi sull'acqua in modo da guardarsi attorno. «Dorry!» La sua voce era acuta per il terrore e l'angoscia. In quel momento, la testa di Dorian affiorò in superficie, a una trentina di piedi dal punto in cui era emerso Tom: il ragazzino tossiva e beveva acqua in gran quantità, rischiando di annegare. Il modo in cui la nave si spostava sull'acqua li stava separando rapidamente. «Tieni duro, Dorry!» gridò Tom. «Sto arrivando!» Mollando l'alberetto, fece per slanciarsi verso il fratello, ma subito la cima si riavvolse intorno alle sue gambe. «Tom!» Dorian lo aveva visto, e tese una mano verso di lui. «Salvami, Tom. Ti prego, ti prego!» Era in acque aperte, e la corrente lo trascinava via in fretta. «Arrivo, Dorry.» Tom dimenò freneticamente le gambe nel tentativo di liberarsi della cima, ma era come divincolarsi dalla presa tenace di una piovra. Un'onda s'infranse sul capo di Dorian, sommergendolo di nuovo. Quando riemerse, era più lontano di altri venti piedi e agitava inutilmente le braccia, nel tentativo di tenere la testa fuori dell'acqua. «Nuota, Dorry!» urlò Tom. «Fa' come ti ho insegnato.» Dorian lo sentì, e riuscì a controllare almeno in parte i movimenti frenetici. «Scalcia, Dorry!» gridò ancora Tom. «Usa le mani.» Dorian affrontò l'acqua con maggiore determinazione, ma la corrente lo trascinava con sé. Tom, ancora trattenuto dalla cima che lo legava all'alberetto spezzato, si tuffò sott'acqua per individuare l'estremità della cima e liberare le gambe, svolgendola; ma la pressione dell'acqua serrava le spire della corda, che si Wilbur Smith
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rifiutava di cedere, per quanto lui tentasse di allentare la canapa impregnata d'acqua con le dita ormai sanguinanti. Dovette risalire in superficie per riprendere fiato. Respirò avidamente e, non appena la vista gli si schiarì, cercò con lo sguardo Dorian. Lo vide a un centinaio di iarde, con un'espressione ormai indecifrabile per la distanza e la voce ridotta a un gemito disperato: «Tom, aiutami!» In quel momento l'alberetto si capovolse e Tom fu risucchiato sott'acqua, ma stavolta così in fondo che i timpani protestarono e il dolore parve squarciargli il cranio come un trapano. Tentando per l'ennesima volta di strappare la cima che lo teneva prigioniero, sentì lacerarsi la pelle dei polpastrelli e staccarsi le unghie alla radice. Il dolore al petto, causato dal bisogno di respirare, divenne intollerabile, ma lui continuò a lottare anche se le forze lo stavano abbandonando. Gli occhi furono velati dall'oscurità, e non gli rimase altro che la volontà di resistere. Non voglio cedere, era l'unico pensiero che gli restava. Dorry ha bisogno di me. Non posso lasciarmi andare. Poi si sentì afferrare da mani possenti e, quando riaprì gli occhi, respingendo le tenebre, individuò il viso di Abolì a poca distanza dal suo, con gli occhi spalancati e gli strani disegni dei tatuaggi rituali che gli davano l'aspetto di un terribile mostro degli abissi. Teneva un coltello tra i denti limati e, dall'angolo delle labbra, gli sfuggiva una fila di bollicine d'argento. Abolì aveva visto i due ragazzi precipitare dall'albero spezzato e aveva lasciato senza esitare il posto di combattimento. Nel tempo da lui impiegato ad attraversare il ponte e raggiungere il parapetto sopravvento, Dorian era stato già sospinto dalla corrente a una cinquantina di iarde dalla murata della Seraph. Con pochi movimenti frenetici, Abolì si era strappato di dosso la veste e il turbante da arabo e, restando con le sole brache addosso, era balzato sul parapetto, restando lì in bilico per un istante, mentre decideva quale dei due ragazzi correva maggiore pericolo. Dorian sembrava in grado di reggersi a galla, ma veniva sospinto dalla corrente verso la flotta di dhow arabi. Tom, invece, era intrappolato nel gorgo di vele gonfie d'acqua e cime intrecciate. Aboli esitava ancora, lacerato tra l'amore e il dovere che sentiva nei confronti dei ragazzi; gli riusciva impossibile decidere. Poi uno dei pennoni di trinchetto si era spezzato con uno schiocco sonoro, girandosi nell'acqua, e Tom era rimasto impigliato e risucchiato Wilbur Smith
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sotto la superficie. Aboli aveva lanciato un ultimo sguardo disperato alla testa di Dorian, ormai minuscola in lontananza, poi aveva estratto il pugnale dal fodero alla cintura, serrando la lama tra i denti prima di tuffarsi fuori bordo. Era tornato in superficie quasi nel punto esatto in cui era affondato Tom, per prendere fiato, quindi si era immerso di nuovo. Usando le cime che pendevano per scendere verso il fondo, aveva scrutato le acque, intorbidite da vortici di turbolenza e nubi di bollicine iridescenti. Scendendo più in basso, aveva visto la figura di Tom profilarsi nella massa verde sotto di sé. Si muoveva appena, ormai sul punto di annegare, e la cima gialla era avvolta intorno alle sue gambe come le spire di un pitone. Aboli allora si era spinto in basso, afferrando il ragazzo per le spalle e scrutandone il viso. Quando Tom aveva aperto gli occhi, Aboli gli aveva stretto le spalle con forza, per rassicurarlo, quindi aveva afferrato la lama che stringeva tra i denti e si era proteso per tagliare la cima che teneva imprigionate le gambe di Tom. Non aveva vibrato colpi alla cieca, perché la lama era affilata come un rasoio e avrebbe potuto infliggere una ferita grave alle gambe nude del ragazzo. Invece si era messo all'opera con cautela per sbrogliare l'intrico di corde, tagliandole una alla volta finché l'ultimo trefolo di canapa non era stato reciso. E, così facendo, lo aveva infine liberato. Senza esitare, Aboli lo prese sotto le ascelle, risalendo a tutta velocità verso la superficie. Emersero insieme e Aboli, pur ansimando disperatamente, col torace possente che si riempiva e si svuotava come il mantice di un fabbro, fece in modo di tenere il viso di Tom fuori dell'acqua, fissandolo negli occhi in cerca di segni di vita. All'improvviso, Tom venne scosso da un violento colpo di tosse; vomitò un fiotto di acqua di mare e si sforzò d'inspirare. Aboli lo trascinò verso l'albero caduto, appoggiandolo di traverso sul tronco e assestandogli un colpo sulla schiena col palmo della mano, cosicché l'acqua che Tom aveva inghiottito gli sfuggì di bocca e l'aria poté affluire sibilando nei polmoni. Nel frattempo, Aboli cercava anche di localizzare Dorian. La superficie del mare era velata dal fumo dei cannoni, che sospingeva verso terra un fitto banco di caligine. I cannoni continuavano a sparare come un coro stonato, ma gradualmente tacquero, mentre le due navi si allontanavano sempre più l'una dall'altra. A occhio, Aboli calcolò che la Minotaur era già lontana mezzo miglio o anche più, con tutte le vele spiegate e gonfie di vento, diretta al nord. Non Wilbur Smith
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faceva il minimo tentativo per approfittare delle condizioni della Seraph, attaccandola mentre era incapace di manovrare, ma preferiva fuggire per mettersi in salvo. Aboli non perse altro tempo a osservarla, cercando piuttosto di avvistare Dorian. Vide tre dei piccoli dhow circondare la Seraph tenendosi a distanza di sicurezza, simili a sciacalli intorno a un leone ferito. Aboli sapeva che, se la nave dimostrava di poter dare loro la caccia, si sarebbero diretti subito verso le acque basse della laguna, a ridosso delle barriere coralline dove il grande bastimento non poteva seguirli. Intralciata dall'intrico di relitti che si trascinava dietro, la Seraph non poteva prendere il vento, anzi stava andando alla deriva, sospinta dalla corrente verso il corallo micidiale. Notò che Big Daniel aveva già messo al lavoro una squadra di uomini armati di asce per sgomberare i relitti. Gridò per invocare l'aiuto degli uomini sul ponte, ma erano troppo intenti al loro lavoro e la sua voce non riusciva a sopraffare il tonfo delle accette sulle tavole di legno e il clamore degli ordini. Poi, d'improvviso, vide calare in mare in gran fretta una delle barche della Seraph; subito dopo, gli uomini ai remi puntarono freneticamente verso il punto nel quale lui e Tom erano aggrappati ai resti dell'albero di trinchetto. Stupito, Aboli vide che al timone c'era Hal: doveva aver lasciato il comando della nave a Ned Tyler per venire in soccorso dei figli. Era in piedi e gli gridava: «Dov'è Dorian? In nome di Dio, lo Hal visto?» I polmoni torturati dalla mancanza d'aria impedivano ad Aboli di rispondere, ma un minuto dopo la barca li raggiunse e tre uomini si protesero per issarli a bordo. Lasciarono cadere Tom sulle tavole del fondo, in mezzo ai banchi, prima di tornare con un balzo ai remi. Aboli si accorse con sollievo che Tom cercava di mettersi a sedere, e si protese per aiutarlo, mentre Hal ripeteva la domanda: «Per amor di Dio, Aboli, dov'è Dorian?» Ancora incapace di parlare, Aboli indicò i banchi di fumo sospinti dal vento. Hal balzò sul banco, tenendosi agilmente in equilibrio e riparandosi gli occhi con la mano per proteggerli dal riverbero del sole mattutino, ancora basso all'orizzonte. «Eccolo!» gridò, folle di sollievo, prima di ordinare ai vogatori: «Forza, ragazzi! Metteteci tutta la forza che avete!» La barca acquistò velocità sotto la spinta dei lunghi remi, diretta verso il punto in cui si vedeva galleggiare la testa di Dorian, ormai minuscola, a un quarto di miglio di distanza. Wilbur Smith
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Quella sortita improvvisa e precipitosa in mare aperto, lontano dal ridosso della Seraph, doveva aver attirato l'attenzione degli uomini a bordo di uno dei dhow che braccavano la nave. Numerosi marinai arabi indicarono la testa di Dorian che emergeva dall'acqua, e le loro grida eccitate, seppur attutite dalla distanza, giunsero agli uomini della barca. L'uomo a poppa del dhow manovrò la lunga barra del timone, cambiando rotta, mentre l'equipaggio bordava la vela latina e l'imbarcazione puntava verso Dorian, gareggiando in velocità con la barca. «Forza, vogate!» tuonò Hal, accorgendosi del pericolo. Aboli lasciò ricadere Tom sul fondo, balzando verso un posto sul banco dei vogatori. Scostando con una spinta l'uomo che lo occupava, si mise a vogare, imprimendo alla barca tutto lo slancio del suo peso; i muscoli si gonfiavano per lo sforzo. «Forza, tutti insieme!» Impresse il ritmo della vogata e la barca fece un balzo in avanti, fendendo con la prua le onde, che ricadevano sul dorso dei marinai protesi nello sforzo di vogare a tutta velocità verso Dorian. Proprio in quel momento, un'onda più alta sollevò il ragazzo, che vide la barca venirgli incontro. Dorian fece un cenno con la mano: non erano ancora abbastanza vicini da vedere la sua espressione, ma era chiaro che non si era accorto del dhow che puntava verso di lui dalla direzione opposta. «Nuota, ragazzo!» gridò Hal. «Nuota verso di noi!» Ma Dorian non poteva sentirlo. Agitò di nuovo la mano, più stancamente, però: apparve evidente che era allo stremo delle forze. La brezza del mattino era leggera e irregolare, e la barca avanzava più in fretta del dhow, ma era più lontana da Dorian. «Stiamo guadagnando terreno, ragazzi!» li incitò Hal. «Lo raggiungeremo prima di loro.» Sentì il vento cadere per un attimo, poi riprendere vigore. Lo vide incupire la superficie del mare, passando sopra la testa di Dorian e gonfiando la vela del dhow. L'imbarcazione virò, poi prese velocità, sollevando con la prua un'onda di schiuma lucente al sole del mattino. Dorian doveva aver udito le grida degli arabi che puntavano verso di lui, perché girò di scatto la testa e poi cominciò a nuotare, dimenando le braccia, nel tentativo di sottrarsi al dhow e dirigersi verso la barca; ma i suoi progressi nelle acque increspate dal vento erano quasi impercettibili. Hal, sgomento, tentò di valutare la distanza e la velocità relativa delle Wilbur Smith
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due imbarcazioni, e si rese conto che non ce l'avrebbero fatta a superare il dhow. «Forza, vogate!» gridò, disperato. «Cento ghinee d'oro, se lo raggiungete per primi. Vogate! Per amor di Dio, vogate!» C'erano almeno venti uomini, a bordo del dhow, un'imbarcazione piccola e brutta, con la vela sbrindellata, rattoppata e costellata di macchie, con la vernice che si staccava dallo scafo e il fasciame striato di scuro nei punti in cui l'equipaggio aveva defecato dal parapetto. Uno dei marinai sollevò un jezail dalla lunga canna, puntandolo contro la barca. Uno sbuffo di fumo bianco partì dall'arma antiquata, e Hal sentì il proiettile sfiorargli la testa, ma non batté neanche ciglio. Aboli faceva forza sul lungo remo con tale energia da avere gli occhi iniettati di sangue e il viso tatuato contratto in una smorfia orribile. Il remo si piegava come un ramo verde nelle sue grandi mani nere, e l'acqua sibilava sotto la prua, allargandosi dietro di loro in una scia diritta come una freccia. Però il dhow era sempre più veloce e doveva coprire una distanza inferiore. Hal sentì il terrore serrargli il petto in una morsa gelida. Ormai aveva la certezza assoluta che non potevano farcela: erano distanti ancora un centinaio di iarde da Dorian, quando il comandante del dhow lo raggiunse e mise la prua al vento, accostando quanto bastava perché cinque uomini del suo equipaggio si sporgessero fuori bordo per afferrare il ragazzino. Lo sollevarono mentre lui si dibatteva e scalciava, grondando acqua e lanciando grida di terrore che ferivano le orecchie di Hal. Lui estrasse la pistola dalla cintola, puntandola in un gesto disperato, ma capì che era inutile anche prima che Aboli ringhiasse: «No, Gundwane! Potresti colpire il bambino». Hal abbassò l'arma, impotente. Dorian venne trascinato oltre la battagliola sudicia del dhow e il comandante manovrò la barra del timone per rimettere la barca al vento. La vela si gonfiò con uno schiocco e l'imbarcazione filò via, virando di bordo con sorprendente velocità e maneggevolezza per raggiungere l'assetto di navigazione ideale. Puntò a tutta velocità verso la terraferma, mentre i marinai arabi gridavano insulti e sbeffeggiavano gli inglesi. Alcuni di loro scaricarono i jezail e i proiettili si persero in mare intorno alla barca. Gli uomini di Hal si accasciarono sui remi, esausti e grondanti di sudore, guardando l'altra imbarcazione che si allontanava. Nessuno disse una Wilbur Smith
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parola: si limitarono a fissare il dhow che sfrecciava via, angosciati dalla perdita di quel bambino adorabile che era il beniamino di tutti. Poi due degli arabi sollevarono in alto il piccolo corpo di Dorian, che si dibatteva, in modo che gli uomini della barca potessero vedere bene il suo volto pallido. Uno estrasse il pugnale ricurvo dal fodero che portava alla cintola, brandendolo in modo che la lama d'argento scintillasse al sole. Poi sollevò il mento di Dorian, tirandogli indietro la testa come si fa con un maiale sul punto di essere sgozzato. Gli puntò la lama alla gola e ve la tenne sospesa, girandosi verso gli altri uomini a bordo con un sogghigno di trionfo. Hal sentì una parte di sé avvizzirsi e morire, mentre un sussurro gli sfuggiva spontaneamente dalle labbra: «Signore, ti prego, risparmia il mio bambino. Farò tutto quello che mi chiederai, ma risparmiami questo». Dorian si dibatteva ancora nella stretta dell'arabo, e di colpo il berretto gli scivolò dalla testa, liberando i riccioli d'oro rosso che gli ricaddero sulle spalle, splendendo al sole. L'uomo, chiaramente colpito, allontanò la lama dalla gola del bambino: a bordo del dhow ci fu un trambusto e il resto dell'equipaggio si affollò intorno a Dorian, gesticolando e gridando. Poi il bambino fu nascosto alla vista degli uomini sulla barca, e il dhow si allontanò veloce, sospinto dall'ampia vela triangolare. Era già a due miglia di distanza quando Hal si riscosse e impartì l'ordine di tornare verso la Seraph alla deriva. Tuttavia continuò a guardare indietro e vide il dhow inseguire la sagoma minuscola della Minotaur che risaliva il canale, diretta a nord. «È là che li cercherò», sussurrò. «E non smetterò di cercarli finché non li avrò trovati.» Le incombenze per salvare la Seraph erano molte e urgenti, ma perlomeno aiutarono Hal a superare le prime terribili ore che seguirono la perdita del figlio. La nave non poteva virare nel vento trascinandosi dietro nell'acqua l'albero di trinchetto, le vele e il sartiame, come un'enorme ancora galleggiante. Hal issò tutte le vele sugli alberi superstiti per tentare di tenere lontana la Seraph dalla costa sottovento, ma questo serviva solo a rinviare il momento in cui la corrente l'avrebbe trascinata verso terra. Sotto la guida di Abolì e Big Daniel, dieci mastri d'ascia si arrampicarono sull'albero di trinchetto per tagliare la massa aggrovigliata di cime e di tela. Era un lavoro pericoloso: ogni volta che una cima veniva Wilbur Smith
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recisa dalle lame, la tensione si ridistribuiva in modo irregolare, e l'albero oscillava, piegandosi dalla parte opposta per il contraccolpo e minacciando così di scaraventare gli uomini tra le acque agitate. Andavano sempre più alla deriva verso le barriere coralline, mentre la Seraph lottava contro l'immensa zavorra dell'albero abbattuto e Hal si precipitava da un fianco all'altro della nave, per tenere d'occhio la terraferma che si avvicinava e dirigere il lavoro degli uomini, indicando le sartie vitali che ancora trattenevano l'albero caduto. Il dorso verde e gibboso di Ras Ibn Khum si profilava sempre più vicino e più alto, dominando la nave che si batteva per sopravvivere. Le ondate s'inarcavano sotto lo scafo, mentre la carena s'inclinava verso la barriera e le zanne del corallo nero affioravano minacciose accanto alla Seraph, in attesa di dilaniarne le viscere. Alla fine l'albero spezzato rimase trattenuto solo dalla cima di manila spessa dieci pollici dello strallo di trinchetto. Era tesa e rigida come una sbarra di ferro, al punto che l'acqua di mare sprizzava dai fili ritorti per effetto della tensione pressoché insostenibile. Big Daniel allontanò tutti gli altri mastri d'ascia, facendoli scendere sul ponte, e si tenne in equilibrio in cima all'albero sussultante. Concentrandosi per calibrare il colpo, sollevò l'ascia e poi la abbatté sul cavo teso. Aveva calcolato la potenza così bene che quella cima così spessa non fu recisa tutta in una volta, e solo cinque capi si spezzarono. Mentre i trefoli rimanenti si svolgevano e cedevano con una serie di schiocchi e di colpi sonori simili a quelli di una frusta, e l'albero rollava spaventosamente sotto i suoi piedi, Big Daniel ebbe appena il tempo sufficiente per tornare indietro di corsa lungo quel piano inclinato, raggiungendo il ponte con un balzo. La base dell'albero spezzato fu trascinata fuori bordo con uno stridio terribile e infine ricadde dalla parte opposta, galleggiando lontano dalla murata della nave. La Seraph rispose subito con gratitudine alla liberazione dai ceppi che la trattenevano. Il ponte, che era fortemente inclinato, si raddrizzò, mentre la nave rispondeva al timone quasi con gioia. La prua girò su se stessa, puntando finalmente al largo del promontorio di Ras Ibn Khum, che aveva minacciato d'intrappolarla. Hal si diresse in fretta verso la battagliola del lato sottovento, per osservare l'albero di trinchetto gettato in mare allontanarsi alla deriva verso la barriera corallina, prendendo nota del punto in cui sarebbe finito a riva. Wilbur Smith
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Poi tornò a dedicare la sua attenzione al compito di portare la nave in un ancoraggio sicuro. Modificando e regolando l'assetto delle vele sui due alberi superstiti e sul bompresso, oltre a operare piccole correzioni di rotta col timone, riuscì a portare la Seraph oltre la punta del promontorio, nonostante i gravi danni che aveva subito, guidandola nella baia che si apriva al di là del capo. Una volta lì, comprese subito per quale motivo al-Auf l'aveva scelto come luogo per tendere la sua imboscata. Infatti era un'insenatura chiusa e protetta, con le acque tanto profonde che splendevano al sole di un azzurro intenso come il colore dei lapislazzuli. Grazie all'altezza del promontorio, era protetta dal monsone e, quando Hal abbassò gli occhi fuori bordo, riuscì a scorgere il fondo liscio e sabbioso, a dieci braccia di profondità. «Pronti a gettare l'ancora, mastro Tyler», ordinò, ma quando la sentì scrosciare in acqua a prua e il cavo filò con un ruggito attraverso la cubia, quell'ondata di dolore che nelle ultime terribili ore aveva minacciato di sommergerlo si abbatté su di lui come un macigno che minacciava di schiacciarlo, privandolo della vita stessa. Non riusciva a pensare ad altro che a Dorian. L'immagine del suo corpicino tra le mani dei pirati arabi, col coltello puntato alla gola, era incancellabile, e lo sarebbe sempre stata. Era distrutto dal dolore, che pareva avergli risucchiato la forza dalle membra e il respiro dai polmoni. Avrebbe voluto cercare l'oblio e la fine; non desiderava altro che rifugiarsi nel suo alloggio per gettarsi sulla cuccetta e abbandonarsi al dolore. Rimase solo sul cassero, perché gli ufficiali e i marinai si tenevano alla larga da lui; nessuno osava anche solo guardare nella sua direzione. Col tatto innato degli uomini rudi e temprati dalle avversità, lo lasciavano alla sua sofferenza. Hal fissava l'orizzonte deserto a nord. Le acque azzurre del canale scintillavano al sole, senza rivelare la minima traccia di vele o promessa di soccorso. Dorian era sparito, e lui non riusciva a scuotersi quanto bastava per riflettere sulla successiva mossa da compiere, per formulare il prossimo ordine agli uomini che attendevano senza guardarlo. Poi Aboli si avvicinò, sfiorandogli il braccio. «Gundwane, per questo ci sarà tempo in seguito. Se vuoi salvare tuo figlio, devi avere una nave pronta a seguirlo.» Lanciò un'occhiata sul ponte, verso il moncone dell'albero di trinchetto e le tavole fracassate dal pesante proietto di ferro. «Mentre tu piangi, il giorno vola e ti sfugge di mano. Impartisci l'ordine.» Wilbur Smith
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Hal lo guardò con gli occhi vacui di un fumatore di bhang. «È così giovane, Aboli, così piccolo...» «Impartisci l'ordine, Gundwane.» «Sono così stanco», mormorò Hal, «tanto stanco.» «Per quanto ti faccia male dentro, non puoi riposare», lo ammonì l'altro sottovoce. «Ora impartisci l'ordine.» Hal rabbrividì per lo sforzo, poi risollevò il mento. «Mastro Tyler! Voglio che siano calate in mare tutt'e due le pinacce, oltre alle lance.» Le parole gli salivano alle labbra incerte, come se parlasse una lingua straniera. «Sì, comandante.» Ned si precipitò a raggiungerlo, col sollievo dipinto sul viso. Hal sentì la forza affluirgli di nuovo alle membra, e la sua determinazione rinvigorirsi. A poco a poco anche la voce ritrovò l'abituale fermezza. «Gli uomini delle lance dovranno recuperare l'albero caduto in mare; nel frattempo, i carpentieri prepareranno il moncone di trinchetto rimasto in modo che sia pronto per rimontarlo al suo posto. I mastri velai dovranno tirare fuori le vele di riserva, le cime e le sartie per armare il nuovo albero.» Mentre snocciolava quella serie di ordini per dare inizio alle riparazioni della nave, lanciò un'occhiata al sole, che aveva già superato lo zenit. «Lasciate che gli uomini mangino durante il turno di guardia. Ci sarà ben poco tempo per riposare o per mangiare, finché non rimetteremo la nave in assetto di navigazione.» Hal era al timone della pinaccia di testa, quando la piccola flotta d'imbarcazioni doppiò la punta di Ras Ibn Khum. Le due pinacce erano state appena rimesse insieme: erano barche aperte della lunghezza di venticinque piedi, ma larghe e resistenti, in grado di compiere lunghi tragitti in mare aperto svolgendo quel tipo di lavoro pesante che Hal aveva in mente. Avvistò i resti dell'albero di trinchetto non appena ebbero doppiato la punta del promontorio: anche a due miglia di distanza risultavano ben visibili, avvolti com'erano nella tela bianca e lucente delle vele, sullo sfondo della barriera di corallo nero sulla quale si erano impigliati. Avvicinandosi, Hal si accorse che liberare il lungo palo in legno di pino sarebbe stato arduo, perché la tela e le cime penzolanti erano aggrovigliate agli spuntoni frastagliati di corallo, mentre le onde alte, che provenivano dalla direzione del canale, s'infrangevano contro la barriera e, rifluendo intorno all'albero, formavano gorghi di schiuma e di acqua bianca. Wilbur Smith
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Attraverso un varco nella barriera corallina, Alf Wilson guidò una delle lance nelle acque più tranquille della laguna, in un punto in cui era più sicuro e facile sbarcare sulla barriera gli uomini armati di coltelli e di asce. Questi si aggrapparono all'albero incagliato, mentre l'acqua li investiva, spumeggiando. Nel frattempo, cinque dei nuotatori più forti, guidati da Aboli e Big Daniel, si erano tuffati in mare dalle pinacce e dalle lance per raggiungere a nuoto la barriera, portandosi dietro alcune cime leggere, annodate alla cintola. Giunti a destinazione, passarono l'estremità delle cime agli uomini già aggrappati all'albero, per tornare poi verso le lance. Le cime leggere furono usate per passare agli uomini sull'albero altre cime, più pesanti e robuste; poi, dopo aver dato volta alle estremità di queste ultime alla base dell'albero, le lance si disposero a ventaglio, cominciando il tentativo di disincagliare dalla barriera corallina quel palo di pino massiccio lungo sessanta piedi. Tutte le imbarcazioni avevano a bordo il doppio dell'equipaggio normale, cosicché, quando una squadra si stancava, un'altra era pronta a sostituirla. Alarono il più possibile le cime, poi, quando furono tese, cominciarono a tirare tutti insieme. Intanto i mastri d'ascia, rimasti sulla barriera corallina, recidevano le cime libere e le vele aggrovigliate, ormai avvinte alle sporgenze irregolari e agli spuntoni di corallo, tentando di liberare l'albero da quell'abbraccio tenace. Le pale dei remi sferzavano l'acqua, facendola spumeggiare, mentre le lance trainavano quel carico riluttante. L'albero scivolava e si spostava di qualche iarda, e l'equipaggio lanciava grida di trionfo; ma poco dopo restava di nuovo incastrato, bloccandosi saldamente come prima, e bisognava ricominciare daccapo quel lavoro massacrante. Un palmo alla volta, il corallo cedeva a malincuore la presa; Hal dovette cambiare tre volte le squadre ai remi e soltanto grazie agli sforzi della terza l'albero si liberò dalla barriera e fu trainato in acque più profonde. Alf Wilson andò a recuperare i suoi uomini, ancora aggrappati all'albero. Quando furono tirati fuori dell'acqua, avevano le braccia e le gambe lacerate dal contatto col corallo crudele. Oltretutto, Hal sapeva che molte di quelle ferite si sarebbero infettate, perché il corallo era insidioso come il veleno di un serpente. Ormai il sole volgeva al tramonto. Hal ordinò di nuovo il cambio e le lance cominciarono a vogare oltre la punta che consentiva l'accesso alla Wilbur Smith
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laguna, alle spalle della barriera. Col pesante carico che si trascinavano dietro, avevano l'impressione di restare immobili nell'acqua, senza fare progressi nonostante la vogata lunga; le braccia e il dorso, poi, erano ustionati a sangue dal sole tropicale e il sudore formava larghe pozze sotto i banchi. Frenate dal carico, le barche avanzavano con penosa lentezza lungo il lato della barriera rivolto al mare, ma, quando tentarono di rimorchiare l'albero oltre la punta di Ras Ibn Khum, la corrente impetuosa che costeggiava il promontorio li strinse nella sua presa, trascinandoli con sé. Mentre si battevano per sfuggire a quella morsa, il sole tramontò in mare. Per quanto fossero sull'orlo dello sfinimento, con tutti i muscoli stremati e doloranti e con gli occhi vitrei per l'intensità dolorosa dello sforzo, non potevano permettersi il lusso di riposare: se lo avessero fatto, la corrente li avrebbe scagliati all'istante contro la barriera. Per dare l'esempio, Hal si tolse giacca e camicia, facendo anche lui un turno ai remi. Ma, a differenza dei suoi uomini, né i muscoli della sua schiena né le sue mani erano abituati a quel duro lavoro; dopo la prima ora si sentiva inebetito dalla sofferenza, con l'impugnatura del remo scivolosa e macchiata dal sangue che gli usciva dal palmo delle mani piagato. Eppure il dolore fisico e il ritmo ipnotico della voga servivano a distrarlo dal dolore più profondo della perdita del figlio. Poco dopo mezzanotte, la marea cambiò e il riflusso intorno alla punta cominciò a lavorare a loro vantaggio. Riuscirono lentamente a superare il promontorio, raggiungendo la laguna riparata, e infine, al chiaro di luna, videro la Seraph dondolare placidamente all'ancora sulle acque tranquille, punteggiate dal riflesso delle stelle. Dopo aver imbragato l'albero alla murata della nave, pochi avevano ancora la forza di risalire la biscaglina fino al ponte, e quasi tutti si accasciarono sul fondo delle piccole barche, cadendo addormentati prima ancora di toccarne le tavole col capo. Benché esausto, Hal s'impose di salire la biscaglina per raggiungere Ned, che lo aspettava presso il parapetto. Alla luce della lanterna, questi valutò lo sfinimento di Hal e vide le sue mani sanguinanti. «Vi mando il chirurgo per medicarle», disse subito, con un lampo di profonda ammirazione negli occhi. Poi si fece avanti per aiutare Hal a salire sul ponte, ma l'altro lo respinse. «Dov'è Tom?» domandò con voce roca. «Dov'è mio figlio?» Ned guardò in su e Hal, seguendo la direzione del suo sguardo, vide una Wilbur Smith
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figuretta sul sartiame dell'albero di maestra. «È rimasto lassù da quando abbiamo gettato l'ancora.» «Distribuite agli uomini una razione di rum insieme con la colazione, mastro Tyler», ordinò Hal, «ma fateli alzare alle prime luci del giorno. Dio sa se si sono meritati qualche ora di riposo, tuttavia non posso concedere altro, finché la Seraph non sarà di nuovo pronta a riprendere il mare.» Ogni muscolo del suo corpo protestava, invocando il riposo, e lui si reggeva a stento in piedi, però si diresse verso le sartie dell'albero di maestra, cominciando la lunga ascesa fino al pennone. Quando Hal raggiunse il pennone di maestra, Tom gli fece posto accanto a sé: rimasero vicini senza dire una parola. Il dolore che Hal aveva tenuto a bada per tutto il giorno e tutta la notte lo assalì a tradimento, cancellando la stanchezza, fino a trasformarsi in un tizzone ardente che pareva consumargli il petto. Passò il braccio intorno alle spalle di Tom, in parte per consolarlo e in parte per ricevere conforto a sua volta. Il ragazzo gli si appoggiò contro, sempre in silenzio. Le stelle si muovevano sopra di loro descrivendo orbite maestose e le Pleiadi tramontarono dietro il promontorio, prima che Tom cominciasse a singhiozzare, col corpo giovane e forte squassato da un dolore intollerabile. Hal lo tenne stretto, ma la voce del ragazzo risuonò spezzata e desolata, quando mormorò: «È colpa mia, padre». «Non è colpa di nessuno, Tom.» «Avrei dovuto salvarlo. Glielo avevo promesso, avevo fatto un giuramento di sangue che non lo avrei mai lasciato.» «No, Tom, non è colpa tua. Nessuno di noi poteva farci nulla.» Ma pensava: Se c'è qualcuno che ne ha colpa, sono io. Avrei dovuto lasciare Dorian al sicuro a High Weald. Era troppo giovane. Per il resto della vita mi torturerò nel rimorso per non averlo fatto. «Dobbiamo trovarlo, padre. Dobbiamo salvare Dorian.» La voce di Tom era più sicura, adesso. «È laggiù, chissà dove. Aboli dice che non lo uccideranno mai. Lo venderanno come schiavo. Dobbiamo trovarlo.» «Sì, Tom. Lo troveremo.» «Dobbiamo pronunciare un altro giuramento, stavolta insieme», aggiunse il ragazzo, alzando la testa per guardare il padre. Il suo viso appariva scavato alla luce delle stelle, gli occhi simili a pozze scure e la bocca dura come se fosse scolpita nel marmo. Tom cercò la mano del Wilbur Smith
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padre, umida e appiccicosa di sangue coagulato solo a metà. «Recita la formula del giuramento per tutt'e due», gli disse Hal, e il figlio sollevò verso il cielo stellato le loro mani intrecciate. «O Dio, presta ascolto al nostro giuramento», esclamò. «Giuriamo che non avremo mai riposo né pace finché non avremo ritrovato Dorian, in qualunque parte del mondo possa trovarsi.» «Amen!» sussurrò Hal. «Amen!» E le stelle furono offuscate dalle lacrime che gli salirono agli occhi. I carpentieri smussarono il moncone dell'albero di trinchetto abbattuto, segando e scalpellando la base spezzata e scheggiata in modo da creare una modanatura alla quale si potesse congiungere l'estremità dell'albero con un giunto a incastro. Nel frattempo l'albero stesso veniva sospinto a riva, dove un'altra squadra preparava l'estremità per effettuare l'incastro. Il lavoro proseguì per tutto il giorno e continuò anche di sera, alla luce delle lanterne. Hal sembrava sospinto da un demone e non risparmiava nessuno, soprattutto se stesso. Insieme con Ned Tyler, studiò l'andamento delle maree nella baia, osservando con attenzione la spiaggia. Il fondo sabbioso era ideale per i loro scopi e la marea saliva di due braccia e mezzo. Una volta che l'albero fu pronto per essere montato sulla base, sospinsero la Seraph in secca sulla spiaggia, al colmo dell'alta marea, dandole volta con robusti cavi fissati alle palme che crescevano sulla battigia. Quando la marea scese, la Seraph rimase arenata sulla sabbia bianca. Allora, facendo forza sui cavi, la inclinarono con un'angolazione di trenta gradi, dopodiché dovettero lavorare in fretta, perché sei ore dopo la marea l'avrebbe fatta galleggiare di nuovo sulle acque. Utilizzando un sistema di paranchi e bozzelli, rimontarono il vecchio albero sulla base adattata all'incastro e lo fissarono con lunghi chiodi di ferro immersi nella pece bollente. Hal ne approfittò per ispezionare il fondo dello scafo, cercando tracce della presenza di teredini, che in quelle acque calde potevano corrodere il fasciame della carena. A volte quelle creature vermiformi potevano raggiungere la lunghezza del braccio di un uomo e lo spessore di un pollice; nei casi più gravi, riuscivano a scavare gallerie così vicine tra loro che, a separarle, non restava che un sottile strato di legno. Una nave che ne fosse colpita poteva ritrovarsi da un momento all'altro con la carena Wilbur Smith
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sfondata, se il mare era agitato. Hal scoprì con sollievo che lo strato di pece e di tela che ricopriva lo scafo aveva non soltanto tenuto alla larga le teredini, ma anche impedito la crescita di alghe che avrebbero rallentato la corsa della Seraph. Era perfettamente pulita, e lui poté persino permettersi di far raschiare dal fasciame l'incrostazione di cirripedi che vi si era formata sopra. Non appena l'alta marea la sollevò dalla sabbia, rimorchiarono di nuovo la Seraph verso l'ancoraggio nelle acque profonde della baia. L'incastro dell'albero di trinchetto non era abbastanza solido da reggere alla pressione delle vele col vento forte e i carpentieri si misero al lavoro per rinforzarlo. Per prima cosa modellarono giunti in legno duro e resistente che fungessero da stecche sopra l'incastro, e quando furono a posto vi applicarono alcuni giri di cavo di canapa bagnata, serrati con l'argano. Quando il cavo si asciugò, era duro come il ferro. Mentre Hal controllava il lavoro finito, il capo dei carpentieri si vantò: «Quel giunto è più resistente dell'albero stesso. Una volta incappellati stralli e sartie, qualunque cosa farete a quell'albero, per quanta tela vogliate ammucchiarci sopra col vento di burrasca, non si spezzerà mai nello stesso punto». «Bravo!» lo elogiò Hal. «Ora non dovete essere da meno issando i pennoni e gli alberetti nuovi.» Quando il lavoro fu completato, e la Seraph all'ancora poté sfoggiare il nuovo albero di trinchetto con tutte le vele serrate sotto i matafioni, pronte a essere spiegate, Ned Tyler raggiunse Hal sul cassero, seguito da tutti gli altri ufficiali, per presentarsi a rapporto. «La nave è in perfetto ordine, e pronta sotto ogni aspetto a prendere il mare, comandante.» «Molto bene, mastro Tyler.» Ned esitò, poi prese il coraggio a due mani. «Se non vi dispiace, signore, dove siamo diretti? Avete una rotta da indicarmi?» «Spero di avere una rotta per voi tra pochissimo tempo», gli promise Hal con un'espressione truce. Nessuno lo aveva più visto sorridere da quando avevano perso Dorian. «Fate salire sul ponte i prigionieri.» I pirati arabi, coperti soltanto dal perizoma, furono condotti sul castello di prua in catene e avanzarono zoppicando in una fila disordinata fino al castello di prua: si fermarono lì, battendo le palpebre alla luce intensa del sole. Hal li ignorò, dirigendosi verso la battagliola, da dove fissò le acque. Wilbur Smith
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Erano così limpide che poteva scorgere le oloturie strisciare sul fondo sabbioso e banchi di pesciolini indugiare attorno alla chiglia della Seraph. Poi, d'un tratto, una sagoma scura scivolò al di sotto della nave; era lunga come una delle lance e larga altrettanto. Il dorso era segnato da linee ondulate più scure e la coda mostruosa sferzava pigramente le acque. La Seraph era rimasta ormeggiata in quel punto abbastanza a lungo perché i rifiuti della cambusa e dei buglioli della latrina si accumulassero sul fondo della baia, attirando gli squali tigre dalle acque profonde oltre la barriera corallina. Hal rabbrividì nell'osservare il mostro virare con un guizzo della coda e scomparire di nuovo sotto la nave. In quelle acque tropicali, lo squalo tigre popolava gli incubi di ogni marinaio. Allontanatosi dal parapetto, tornò verso la fila dei prigionieri, ispezionandola a passi lenti. Finalmente il suo dolore aveva un obiettivo sul quale concentrarsi. Gli occorse un enorme sforzo di volontà per non far esplodere la collera e mantenere un'espressione distaccata. Rachid era in fondo alla fila, con l'orecchio ferito protetto da uno straccio sudicio, macchiato di sangue. Hal si fermò di fronte a lui. «Qual è la pena prevista per la pirateria?» gli chiese a voce bassa e calma. «Che cosa dice il Corano a proposito dell'omicida e dello stupratore? Riferiscimi la legge della Shari'ah. Esponimi la legge dell'Islam.» Rachid non riusciva a sostenere il suo sguardo; tremava come un uomo in preda alla febbre, mentre il sudore gli colava lungo le guance. Ormai aveva compreso quanto fosse spietato quel demone d'infedele che gli stava di fronte. «Il Profeta non dice forse quale dev'essere la sorte dell'omicida? Non mette l'assassino nelle mani del padre della vittima?» incalzò Hal. «Non ci esorta a non avere misericordia di colui che si macchia le mani del sangue innocente?» L'arabo cadde in ginocchio sul ponte, tentando di baciare i piedi di Hal. «Pietà, o potente signore! Rimetto nelle tue mani la mia anima indegna.» Hal lo allontanò con un calcio come se fosse un animale molesto, proseguendo lungo la fila. «Il Profeta dice che la pena per l'omicidio è la morte, e voi siete tutti assassini, colti in flagrante a commettere il reato di pirateria. Io sono un servitore del re d'Inghilterra, che mi ha incaricato di liberare questi mari da rifiuti umani come voi.» Si rivolse a Ned Tyler. «Mastro Tyler, fate Wilbur Smith
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passare sul boma una cima per ogni prigioniero.» Poi rimase immobile, con le mani incrociate dietro la schiena e la testa rovesciata all'indietro, guardando le cime che venivano lanciate in alto e passate attraverso i bozzelli. «Pronti a procedere con la punizione», riferì infine Ned, quando i cappi furono pronti e un gruppo di marinai ebbe preso posizione all'estremità di ogni cima. «Lasciate per ultimo quel furfante», ordinò Hal accennando col capo a Rachid, sempre in ginocchio. «Impiccate gli altri.» Ai pirati che strillavano e si dibattevano, invocando Allah, venne infilato il cappio, ben stretto intorno al collo. Poi gli uomini che tenevano l'altro capo della cima si allontanarono, pestando all'unisono i piedi nudi sul ponte e cantando in coro come se stessero bordando la vela maestra. A tre alla volta, gli arabi furono impiccati al boma. Sulle prime scalciavano e ansimavano, ma, a poco a poco, i loro movimenti spasmodici si calmarono: gli uomini rimasero appesi lassù come grappoli di frutti grotteschi, col collo piegato in una posizione assurda e la lingua, livida e gonfia, che sporgeva dalla bocca aperta. Infine Rachid rimase solo sul ponte, e Hal tornò da lui. «Ho concesso loro una morte facile, ma tu mi Hal privato del mio figlio minore, e non sarai altrettanto fortunato, a meno che tu non mi dica ciò che ho bisogno di sapere.» «Tutto quello che è in mio potere, effendi», farfugliò Rachid. «Devi solo chiedere.» «Ho bisogno di sapere dove posso trovare al-Auf, e mio figlio.» «Non lo so, effendi.» L'arabo scosse la testa con tanta violenza che le lacrime schizzarono dal suo viso simili a gocce d'acqua dal mantello di un cane. Hal allungò una mano per metterlo in piedi, torcendogli un braccio dietro le scapole e trascinandolo fino alla battagliola della nave. «Guarda laggiù», mormorò all'orecchio mutilato dell'uomo. «Guarda che cosa ti aspetta.» Rachid si lasciò sfuggire un lamento acuto nel vedere lo squalo tigre che scivolava silenzioso nelle acque luminose sotto la murata, rotolando leggermente su se stesso; poteva scorgere ogni dettaglio del muso tozzo e grottesco. La bestia, dal canto suo, parve fissarlo dal basso con uno solo degli occhi porcini. «Dove posso trovare al-Auf? Qual è la sua base segreta? Dimmelo, e morirai in fretta, raggiungendo il tuo Allah tutto intero, senza passare per Wilbur Smith
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le mascelle di quella creatura impura.» «Non lo so», rispose singhiozzando Rachid. «Soltanto pochissimi uomini sanno dove al-Auf ha la sua fortezza, e io sono soltanto un povero pescatore.» «Aboli!» Hal lanciò un richiamo, e il gigante nero gli si affiancò, tenendo in mano l'estremità dell'ultima cima riservata agli impiccati. «A testa in giù!» ordinò poi. Aboli s'inginocchiò agilmente, passando la cima attraverso i ceppi alle caviglie di Rachid. «Issatelo», disse quindi Hal rivolto ai marinai che tiravano l'altra estremità della cima. Rachid si ritrovò sospeso nell'aria a testa in giù, penzolando come un pendolo oltre la battagliola. «Dov'è al-Auf?» gli gridò Hal. «Dove posso trovare mio figlio?» «Allah mi è testimone, non lo so», urlò disperato Rachid. «Calatelo!» ordinò Hal agli uomini che tenevano l'estremità della cima, e Rachid, a scatti, scese verso il pelo dell'acqua. «Basta così!» fu l'ordine successivo. La testa dell'uomo era sospesa a un piede dall'acqua e lui tentò di guardare in su per fissare Hal, che si sporgeva dal parapetto. «Non lo so. Lo giuro per tutto quello che esiste di sacro», urlò Rachid. «Non so dove al-Auf ha portato tuo figlio.» Hal rivolse un cenno ad Aboli. «Sfama la bestia!» Aboli sollevò un bugliolo di cuoio pieno di rifiuti della cambusa, scegliendolo da una fila che aveva già preparato lungo la battagliola, poi ne versò il contenuto fuori bordo: la massa di teste, interiora e avanzi di pesce si sparse sulla superficie dell'acqua. I branchi di pesciolini saettarono in alto per godersi quel banchetto, facendo spumeggiare l'acqua con la loro frenetica attività. Aboli rovesciò fuori bordo un altro bugliolo. Meno di un minuto dopo, si notò un movimento scuro e minaccioso al di sotto dei pesciolini che brulicavano in superficie. Poi un ampio dorso striato sbucò dal fondo. I banchi di pesciolini si dispersero e il mostro salì alla superficie, spalancando le mascelle che avrebbero potuto inghiottire in un sol boccone un uomo fino al torace. Le file multiple di denti si ersero di scatto mentre inghiottiva quei rifiuti, rimescolando le acque anche se si trovava ancora in profondità rispetto al punto in cui era sospeso Rachid. «Non potrai mai entrare dalle porte del paradiso, se il tuo corpo verrà divorato da un pesce così osceno e impuro», gli rammentò Hal dall'alto. Il prigioniero si divincolò inutilmente all'estremità della cima. La sua voce ormai era acuta e incerta. «No! Non lo so. Pietà, o potente signore.» Wilbur Smith
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«Giù!» Hal fece un gesto rivolto agli uomini addetti alla cima, che lasciarono cadere Rachid finché questi non ebbe la testa e le spalle immerse nell'acqua. «Tenetelo così.» Hal lo guardò scalciare e divincolarsi. Il grande squalo percepì quell'agitazione nell'acqua e descrisse un cerchio sotto di lui, salendo cautamente dal fondo della laguna. I movimenti di Rachid cominciavano a diventare spasmodici: stava per annegare. «Tiratelo su!» ordinò Hal, e Rachid fu risollevato fuori dell'acqua; rimase appeso a testa in giù, inerte. Aveva perso la benda insanguinata che gli copriva la testa, e i lunghi capelli fradici penzolavano in mare. Lottava per riprendere fiato, torcendosi e dibattendosi all'estremità della cima. «Parla!» ruggì Hal. «Parlami del mio figlio minore.» Si sentiva il cuore gelido, scevro da ogni pietà o compassione. Lo squalo fiutò il sangue sulla benda che galleggiava nell'acqua e salì a controllare. Aprendo di nuovo le mascelle enormi, risucchiò il lembo di stoffa e, quando s'immerse, inarcando il dorso, la pinna dorsale uscì alla superficie, assestando un colpo violento all'uomo appeso alla corda. Rachid lanciò uno strillo di terrore, oscillando avanti e indietro appeso alla cima. «Parla!» lo pungolò Hal. «Voglio sapere di mio figlio.» «Non posso dire quello che ignoro», urlò di rimando Rachid. Per tutta risposta, Hal fece un altro segnale agli uomini che tiravano la cima. L'arabo ricadde in acqua, restando immerso fino alla cintola. Sul fondo, lo squalo nuotava in cerchio, con un'agilità e una velocità che sembravano impossibili in una creatura di quella mole, e subito accorse verso la superficie, diventando, nell'avvicinarsi, ancora più imponente. «Issatelo!» ordinò bruscamente Hal, e Rachid fu risollevato proprio nel momento in cui le grandi mascelle scattavano vicino a lui, mancandolo solo di poche dita. «Non è ancora troppo tardi», disse Hal con un tono di voce sufficientemente alto per giungere alle orecchie di Rachid, sebbene il terrore e la debolezza mortale stessero per sopraffarlo. «Parla, e la tua fine sarà rapida e misericordiosa.» «Non so dove puoi trovare al-Auf, però conosco un uomo che lo sa», rispose Rachid con la voce arrochita dal terrore. «Dimmi come si chiama.» «Si chiama Grey, effendi, e vive a Zanzibar. È stato lui a parlarci del grande tesoro che porti a bordo della tua nave.» Wilbur Smith
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«Giù!» Hal diede il segnale, e gli uomini calarono in acqua Rachid nel momento in cui lo squalo tigre si avventava contro di lui. Stavolta Hal non tentò di sottrarlo alla sua sorte: quell'uomo non aveva più nessun valore per lui. Hal lo mandò a morte senza il minimo scrupolo, e assistette impassibile mentre le mascelle dello squalo si chiudevano sull'arabo, ingoiandolo fino alle spalle. Lo squalo rimase appeso alla cima, flettendo la coda da una parte all'altra come una frusta, piegando in due il corpo massiccio, aprendo e richiudendo le mascelle per dilaniare la carne e tagliare le ossa della sua vittima. Il grande peso e la violenza dei suoi movimenti fecero perdere l'equilibrio agli uomini che tenevano la cima tesa, mandandoli lunghi distesi sul ponte. Poi le zanne recisero di netto la testa di Rachid. Lo squalo ricadde in mare e il cadavere dell'uomo rimase a penzolare al di sopra della superficie, col sangue che sprizzava dal collo reciso, intorbidando le acque. Hal estrasse la spada dal fodero che portava alla cintura e tagliò la cima con un solo fendente di rovescio. Il corpo decapitato cadde in mare, dove affondò lentamente, girando su se stesso. Lo squalo tornò alla carica e, come un cane che accetta un bocconcino prelibato, prese il corpo quasi con delicatezza, stringendolo nella bocca a mezzaluna prima di allontanarsi per portarselo appresso in acque più profonde. Hal si allontanò dal parapetto. «La marea cambierà tra un'ora, mastro Tyler», disse, alzando gli occhi verso gli impiccati appesi al boma. «Liberate la nave dei corpi. Gettateli fuori bordo. Salperemo per Zanzibar con l'alta marea.» Doppiarono il promontorio di Ras Ibn Khum con tutte le vele spiegate, fino a quelle di gabbia, per portarsi al vento. «La nuova rotta è nord-nord-est, mastro Tyler», annunciò Hal. «Con questo vento, dovremmo trovarci di nuovo al largo di Zanzibar domani, prima del tramonto.» Hal non desiderava rendere noto il suo arrivo, quindi durante la notte virò di bordo nel canale, guidando la Seraph nel porto di Zanzibar soltanto all'alba. Ammainò i suoi colori in segno di cortesia verso il forte e, non appena l'ancora fece presa sul fondo, ordinò di calare in mare la lancia. Poi scese subito nel suo alloggio, prendendo dallo scrittoio la coppia di pistole Wilbur Smith
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rigate a canna doppia e infilandole nella cintura. Quando uscì, trovò ad aspettarlo Tom, col berretto in testa, una spada alla cintola e gli stivali ai piedi, che di solito erano nudi. «Desidero venire con voi, signore», gli disse subito. Hal esitò: c'era il rischio che, a terra, dovessero battersi. Il ragazzo tuttavia si affrettò a rammentargli: «Abbiamo pronunciato un giuramento comune, padre». «Vieni pure, allora.» Hal salì di corsa la scaletta di boccaporto. «Tenetevi pronto a salpare di nuovo senza preavviso», disse a mastro Tyler, poi scese nella lancia insieme con Tom e una dozzina di uomini. Giunto al molo, affidò la lancia ad Alf Wilson e a quattro marinai. «Tenetevi alla larga dalla banchina, ma state pronti ad accostare per prenderci a bordo alla svelta», ordinò ad Alf, poi, rivolto ad Aboli, aggiunse: «Portaci in fretta alla casa del console. Restate uniti». Percorsero rapidamente le strade strette, in fila per due, spalla a spalla, pronti a sfoderare le armi. Quando raggiunsero la porta d'ingresso della casa di Grey, Hal rivolse un cenno ad Aboli, che bussò sul battente intagliato con l'estremità inferiore della picca che impugnava. I colpi si ripercossero con violenza nella casa silenziosa e, dopo una breve attesa, si udirono dei passi strascicati che si avvicinavano dalla parte opposta e il rumore del chiavistello che si apriva. Una schiava anziana fissò sbalordita il gruppetto di uomini armati: il suo viso grinzoso quasi si accartocciò per la costernazione. Tentò di richiudere la porta, ma Aboli la bloccò inserendo una spalla tra lo stipite e il battente. «Non Hal nulla da temere, vecchia madre», le disse Hal in tono gentile. «Dov'è il tuo padrone?» «Non posso dirlo», sussurrò la vecchia, però i suoi occhi saettarono verso l'ampia scala di pietra che portava dal cortile ai piani superiori della casa. «Richiudi la porta col chiavistello», ordinò Hal ad Aboli, «e lascia due uomini di guardia.» Poi salì la scala, due gradini alla volta, arrivando al salone del secondo piano. Lì giunto, si guardò attorno. Era una sala arredata con sfarzo, piena di tappeti ornamentali e mobili intarsiati in legno scuro, avorio e madreperla. Hal conosceva la pianta tradizionale di quel genere di abitazione. Lo zenana, l'alloggio riservato alle donne, doveva trovarsi all'ultimo piano, mentre quello era l'appartamento padronale: dunque la camera principale si trovava oltre gli elaborati paraventi traforati in ebano e avorio disposti all'estremità opposta della sala. Oltrepassando i Wilbur Smith
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paraventi, Hal si trovò in un locale più piccolo. Sul pavimento erano disseminati cuscini ricoperti di seta e al centro, sistemato su un tavolino basso, ingombro di piatti per il cibo usati da poco, si trovava un narghilè. Nella stanza aleggiavano l'odore del fumo stantio di bhang, l'aroma greve dei cibi speziati e il particolare sentore di muschio legato alla malattia di cui soffriva Grey. Hal si diresse verso un'altra serie di paraventi, entrando in un'altra stanza, col pavimento occupato per metà da un letto basso. Si fermò sulla soglia, colto di sorpresa. Il letto era tutto un groviglio di corpi, membra bianche e scure intrecciate insieme. Impiegò qualche istante per rendersi conto di quello che vedeva. Il console Grey era steso sul dorso, con le membra gonfie allargate, il ventre enorme teso come se fosse all'ultimo stadio di una gravidanza, il petto ricoperto da un vello di peli neri e ruvidi. Le gambe sformate erano punteggiate di ulcere rosse e aperte, segni della sua malattia. La stanza era satura del puzzo emanato dal siero giallastro che scorreva da quelle piaghe, al punto che Hal si sentì assalire dalla nausea. Due schiave giovanissime erano inginocchiate sul corpo del console, una all'altezza del viso, l'altra a cavalcioni del ventre. Una di loro alzò la testa. Hal e lei si fissarono: poi la giovane lanciò un grido. Le due ragazze scattarono in piedi per fuggire dalla stanza, scomparendo dietro un altro paravento come una coppia di gazzelle spaventate e lasciando Grey boccheggiante sul letto. Il console si sollevò faticosamente su un gomito. «Voi!» esclamò, fissando Hal a bocca aperta. «Non mi aspettavo...» S'interruppe, aprendo e richiudendo la bocca senza emettere il minimo suono. «So benissimo che cosa vi aspettavate, signore», ribatté Hal, «e mi scuso con voi per avervi inflitto una delusione.» «Non avete diritto d'introdurvi in casa mia.» Col dorso della mano, Grey si ripulì il viso dagli umori della ragazza che lo aveva intrattenuto. Poi la sorpresa cedette il posto alla collera. «Ho delle guardie armate», ringhiò. «Le chiamo subito.» Aprì la bocca per gridare, ma Hal gli puntò la spada alla gola, e lui si afflosciò come una vescica sgonfia, dimenandosi nel tentativo di allontanare la lama d'acciaio. «Copritevi.» Hal raccolse una vestaglia di seta dal pavimento vicino al letto e la gettò a Grey. «La vista della vostra carcassa mi disgusta.» L'altro indossò goffamente la vestaglia, e il gesto parve restituirgli in Wilbur Smith
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parte il sangue freddo e la sicurezza. «Non intendevo minacciarvi», disse con un sorriso accattivante, «però mi avete fatto paura. Siete arrivato in un momento poco opportuno.» Gli rivolse una lasciva strizzatina d'occhi. «E poi mi aspettavo che a quest'ora foste già a metà strada dal capo di Buona Speranza.» «Devo scusarmi di nuovo. Non sono stato del tutto sincero con voi. Non sono un mercante, e neppure un dipendente della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. Il mio vero nome è Henry Courteney, e sono un servitore di sua maestà re Guglielmo.» «Siamo tutti al servizio del re.» Il tono del console era rispettoso, la sua espressione ipocrita. Si spinse fin sul bordo del letto, alzandosi con grande sforzo. Hal puntò l'estremità della spada sul ventre gonfio di Grey, sospingendolo delicatamente all'indietro. «Prego, non dovete scomodarvi», aggiunse in tono cortese. «Quando dico che sono un servitore del re, intendo dire che porto con me il mandato del sovrano e, tra i poteri che mi sono stati conferiti da esso, è compreso quello di sottoporre a processo sommario e giustiziare chiunque sia sorpreso a commettere atti di pirateria o ad aiutare e favorire chiunque commetta questi crimini in alto mare.» Hal estrasse lentamente dal mantello il rotolo di pergamena. «Desiderate leggerlo?» «Sono sicuro che le cose stanno come dite voi.» Grey parlava con disinvoltura e studiata sicurezza, ma il suo viso aveva assunto una malsana sfumatura giallastra. «Comunque, non vedo in quale modo ciò possa riguardarmi.» «Vi prego, consentitemi di spiegarvelo», disse Hal, riponendo la pergamena nella fodera del mantello. «A bordo della mia nave non c'è alcun tesoro. Voi eravate l'unico a crederlo. Ve lo avevo detto per mettere alla prova la vostra onestà, tendendo una trappola al pirata noto col nome di al-Auf.» Grey lo fissò, mentre il suo volto si copriva improvvisamente di un velo di goccioline di sudore. «Vi ho anche rivelato la data della mia partenza da Zanzibar e la rotta che avrei seguito. Senza quelle informazioni, al-Auf non avrebbe potuto tendere un agguato alla mia nave. Gli sono state fornite notizie precise, che avrebbe potuto apprendere da un'unica persona.» Hal gli sfiorò il petto con la punta della spada. «Voi, signore.» Wilbur Smith
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«Questo non è vero!» farfugliò Grey. «Io sono un fedele servitore del re, un uomo d'onore.» «Se fossero necessarie altre prove, uno degli uomini di al-Auf mi ha fornito il vostro nome. Voi siete in combutta con lui. Siete colpevole di aver aiutato e favorito i nemici del re. Non c'è bisogno di discutere oltre la questione. Vi condanno a morte mediante impiccagione.» Alzò la voce. «Abolì!» Abolì gli si affiancò. Il viso tatuato del gigante nero era così impressionante che Grey rotolò verso il lato opposto del letto, scosso da un tremito che lo faceva somigliare a una medusa sospinta sulla spiaggia dalle onde. «Prepara la corda per l'esecuzione.» Abolì portava in spalla un rotolo di corda. Si diresse verso la finestra, alta dal pavimento al soffitto, aprendo con un calcio le imposte intagliate nel legno per guardare giù in cortile, dove zampillava una fontana; poi prese il cappio, facendolo penzolare a metà del muro e legando l'altro capo al montante centrale della finestra con un nodo semplice. «Il salto è troppo lungo per un simile barile di lardo. Gli tirerà il collo come se fosse una gallina», osservò, lasciandosi sfuggire un grugnito. «Sarà una faccenda sporca.» «Non possiamo preoccuparci troppo di fare le cose per bene», ribatté Hal. «Mettigli la testa nel cappio.» Grey lanciò un grido, dibattendosi sul letto. «Per amor di Dio, Courteney, non potete farmi questo.» «Io penso di sì. Mettiamo alla prova la mia teoria.» «Io sono inglese, ed esigo un processo equo, con un giudice inglese!» «Lo avete appena avuto», gli fece notare Hal. «Mastro Fisher, per favore, aiutate il prigioniero a prepararsi all'esecuzione.» «Sì, comandante», rispose Big Daniel, entrando nella stanza. Insieme, circondarono l'uomo sul letto. «Sono malato!» farfugliò il console. «E noi abbiamo la cura ideale per tutti i malanni che vi affliggono», replicò Big Daniel con calma. Facendo rotolare sul ventre Grey, gli legò le mani dietro la schiena con una corda sottile, poi i suoi uomini sollevarono dal letto quel corpo elefantiaco, trascinando il console verso la finestra. Abolì, che teneva pronto il cappio, glielo infilò sulla testa, poi girarono Grey verso Hal, ma dovettero sostenerlo, perché le gambe, orribilmente Wilbur Smith
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enfie, non riuscivano a sorreggerne il peso. «Sarete lieto di apprendere che il vostro alleato, Musallim bin-Jangiri, noto anche come al-Auf, è riuscito a sfuggire alla trappola che gli avevo teso.» Hal si sedette ai piedi del letto. «Si è dileguato nell'oceano, e dobbiamo presumere che si sia rintanato nel suo rifugio segreto, per leccarsi le ferite che sono riuscito a infliggergli.» «Io non ne so niente.» Grey era accasciato tra le braccia dei suoi carcerieri, scosso da un folle tremito di terrore. «Dovete credermi, Sir Henry.» Hal continuò come se non avesse parlato. «Il mio problema è esacerbato dal fatto che al-Auf ha catturato il mio figlio minore. Sono certo che vi renderete conto che non lascerò nulla d'intentato per salvarlo, e penso che voi sappiate dove posso trovarlo.» Allungando la spada, la puntò di nuovo alla gola del console. «Lasciate che si regga in piedi da solo», disse agli uomini che lo sostenevano, e loro si scostarono. «Vi supplico, Sir Henry!» Grey vacillò verso la finestra aperta. «Sono un uomo anziano...» «... e malvagio», completò Hal, aumentando leggermente la pressione contro la gola. Una goccia di sangue di un rosso vivo sprizzò dalla pelle, macchiando la punta della lama di Toledo. «Dove posso trovare al-Auf... e mio figlio?» Dalla vestaglia di Grey si sprigionò un suono gorgogliante, e feci liquide, scure come il succo del tabacco, gli colarono lungo le gambe gonfie, formando una pozza sul pavimento, tra i suoi piedi. Il fetore era acuto e nauseante in quella stanza piccola e calda, ma Hal non cambiò espressione. «Dove posso trovare mio figlio?» ripeté. «Il Fiore del Mare!» strillò Grey. «Flor de la Mar, la vecchia fortezza portoghese sull'isola. È quella la base di al-Auf.» «Devo farvi notare, signore, che la vostra capacità di fornire una simile informazione conferma la vostra colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.» Hal aumentò lentamente la pressione della punta d'acciaio sulla gola di Grey. Il console tentò di resistere, arcuando la schiena, mentre i piedi scivolavano sui suoi stessi escrementi, finché non si trovò con i talloni sul davanzale della finestra aperta. Lì vacillò per un attimo, poi, con un lamento disperato, precipitò all'indietro. La corda lo seguì sibilando nella Wilbur Smith
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caduta, quindi si sentì un tonfo sordo quando il peso di Grey la tese contro il davanzale. Hal ridiscese la scala, guidando i suoi uomini in cortile. Si fermò un istante a guardare il corpo gonfio all'estremità della corda: era rimasto sospeso sopra la vasca dei pesci. Poi, dalla fodera del mantello, estrasse la pergamena che aveva preparato la notte prima, consegnandola ad Abolì. «Mettigliela al collo.» Con un balzo, Abolì scavalcò il parapetto della fontana, alzandosi in punta di piedi per passare il filo sottile intorno alla testa di Grey, in modo che la pergamena gli ricadesse sul petto. Il proclama di Hal era scritto in inglese e in arabo: DOPO ESSERE STATO PROCESSATO E RICONOSCIUTO COLPEVOLE DI COMPLICITÀ COL PIRATA NOTO COME AL-AUF IN ATTI DI PIRATERIA IN MARE APERTO, IL PRIGIONIERO, WILLIAM GREY, È STATO GIUSTIZIATO MEDIANTE IMPICCAGIONE. LA SENTENZA È STATA DEBITAMENTE ESEGUITA DA ME, HENRY COURTENEY, GRAZIE AL POTERE CONFERITOMI DA SUA MAESTÀ RE GUGLIELMO III. Tom, fermo accanto al padre, lesse a voce alta il testo arabo del proclama, e domandò: «E' firmato El Tazar, che significa 'il Barracuda'. Come mai?» «È il nome che mi diedero i musulmani la prima volta che ho navigato in queste acque.» Hal guardò il figlio, provando per l'ennesima volta una fitta di ansia, al pensiero che un ragazzo giovane come Tom dovesse assistere a scene così macabre. Poi si rammentò che il figlio aveva quasi diciotto anni, e aveva ucciso più di una volta anche lui, con la spada e col cannone. Non era un bambino, ed era stato adeguatamente preparato per quel lavoro così spietato. «Qui abbiamo completato il nostro incarico», concluse a bassa voce. «Torniamo alla nave.» Si diresse verso l'alto portone scolpito, mentre Big Daniel impartiva l'ordine agli uomini rimasti lì di guardia, che spalancarono il battente. La vecchia che li aveva accolti al loro arrivo, facendoli entrare in casa, Wilbur Smith
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era ferma sulla soglia. La strada alle sue spalle era affollata di guardie; erano almeno una dozzina, armati di jezail e scimitarre ricurve: una temibile banda di furfanti che si lanciarono in avanti non appena i battenti si aprirono. «Guardate che cos'hanno fatto gli infedeli al nostro padrone», gemette la vecchia nel vedere il corpo di Grey appeso alla corda. «Assassinio!» Aprì la bocca sdentata, lanciando il grido alto e acuto che le donne arabe usano per incitare i loro uomini a una furia omicida. «Allah akbar!» ringhiò il capo delle guardie. «Dio è grande!» Portandosi di scatto alla spalla il lungo jezail, sparò sul gruppo d'inglesi. Il proiettile colpì in pieno viso uno dei marinai di Hal, facendogli saltare quasi tutti i denti, fracassando la mascella e penetrando nel cranio. L'uomo cadde a terra senza neanche lanciare un grido, e Hal avanzò impugnando nella sinistra una delle pistole rigate. Col primo colpo centrò il capo delle guardie all'occhio destro: il bulbo oculare esplose, lasciando l'orbita vuota, e lungo la guancia cominciò a colare un umore gelatinoso. Mentre l'arabo cadeva, Hal sparò il colpo della seconda canna all'uomo che comparve nello spazio alle sue spalle, prendendolo in pieno al centro della fronte. Il morto ricadde nella mischia dei compagni, facendone inciampare uno. «All'assalto, ragazzi!» tuonò Hal, e i marinai si lanciarono alla carica in un gruppo compatto. «Seraph!» Lanciarono il grido di battaglia, trascinando in avanti, nel loro impeto, la folla di figure vestite di lunghe tuniche. Nella calca di corpi, nessuno dei nemici fu in grado di sollevare il lungo fucile; vennero tutti respinti all'indietro dal taglio scintillante delle spade. Ne caddero altri tre, mentre il gruppo di Hal si ritrovava in strada, dove potevano usare le spade con maggior agio. Hal stringeva nella sinistra la seconda pistola, ancora carica, ma si riservò quel colpo per un'occasione migliore, brandendo invece la spada per abbattere un altro arabo che gli sbarrava il cammino. Poi si guardò attorno in cerca di Tom, trovandolo un passo dietro di sé; con una rapida occhiata, notò che teneva la spada alta, con la punta già intrisa di sangue. Anche lui aveva segnato un punto a suo favore. «Bravo ragazzo», borbottò. «Stammi vicino.» Si slanciò di corsa verso gli arabi superstiti, che avevano assistito alla fine dei compagni d'arme in prima fila; trovandosi di fronte ai feroci occidentali che piombavano su di loro come una muta di cani, però, ruppero le righe e si diedero alla fuga lungo il Wilbur Smith
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vicolo. «Lasciateli andare!» Hal trattenne bruscamente Tom, che voleva lanciarsi all'inseguimento. «Torniamo alla barca.» «Che ne facciamo del vecchio Bobby?» chiese Big Daniel, indicando il marinaio morto, circondato dai corpi degli arabi abbattuti. «Portiamolo con noi», ordinò Hal. Sapeva che avrebbe avuto un brutto effetto sul morale degli uomini vedere che uno di loro restava sul campo di battaglia. Dovevano sapere che, vivi o morti, lui non li avrebbe mai abbandonati. «Non appena saremo di nuovo in mare, gli daremo una sepoltura decente.» Big Daniel si chinò, mentre Aboli lo aiutava a caricarsi in spalla il corpo. Poi, con la spada sguainata, i due giganti guidarono di corsa il resto del gruppo lungo il percorso di ritorno attraverso le viuzze della città. A quell'ora antelucana c'erano pochi passanti in giro e quei pochi, nel vederli sopraggiungere, si dileguavano in fretta nei vicoli e nei portoni. Raggiunsero il porto senza fastidi e Alf Wilson accostò al molo con la lancia per prenderli a bordo. Mentre tornavano verso la Seraph a forza di remi, qualche anima coraggiosa uscì dal suo nascondiglio per sparare colpi di fucile e gridare insulti e minacce arroganti oltre le acque del porto, ma loro erano già distanti e nessuno dei proiettili sfiorò la lancia. Ned Tyler aveva già incocciato l'ancora con un cavo e teneva pronta una dozzina di uomini all'argano. Non appena risalirono la biscaglina e la lancia fu issata a bordo, diede l'ordine di salpare e spiegare le vele. Mentre invertivano la direzione, puntando verso l'entrata del porto, in cima all'asta sulla torre occidentale della fortezza fu issato il lungo stendardo verde del sultano e la batteria di cannoni disposti lungo i bastioni aprì il fuoco su di loro. Persino dal ponte si vedevano chiaramente gli artiglieri vestiti di bianco che caricavano i pezzi con movimenti frenetici. Attraverso il cannocchiale, Hal notò il panico e la confusione che regnavano lassù: quando ricaricavano e facevano fuoco con uno dei massicci pezzi, non tentavano neppure di correggere la mira. Sotto i suoi occhi, un artigliere troppo zelante accostò la miccia al focone dell'arma gigantesca mentre i serventi erano ancora dietro il pezzo, chini sull'affusto per spostare il cannone in fuori, e il rinculo li investì in pieno, fracassando ossa e amputando membra. Hal udì le urla di dolore degli artiglieri mutilati, sebbene fossero Wilbur Smith
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separati da lui da una distanza pari a due tese. Vide arrivare l'enorme palla di pietra, che s'innalzò verso il cielo dai merli della fortezza, dando l'impressione di fermarsi allo zenit della traiettoria, simile a una minuscola pagliuzza nera, prima di descrivere una parabola precipitando verso di loro. Per un attimo, pensò che potesse colpire la nave, invece sprofondò in mare oltre la murata, sollevando un tale scroscio di schiuma da ricadere sul cassero, inzuppando gli stivali di Hal fino alle ginocchia. «Dobbiamo ricambiare un commiato tanto caloroso», osservò lui, rivolgendo un cenno a Ned Tyler, ma senza un sorriso. «Per favore, fate alzare i nostri colori in segno di omaggio al sultano, mastro Tyler. Poi prendete rotta sud.» «Non è segnata», borbottò Hal, studiando la carta distesa sul piano della sua scrivania. «Eppure giurerei di averla già sentita nominare. Flor de la Mar, 'il fiore del mare'. Con un nome del genere, e tenuto conto di quello che ha detto Grey, dev'essere uno dei vecchi possedimenti portoghesi.» Aveva già interrogato tutti gli ufficiali, incaricandoli anche di chiedere ai marinai comuni, ma nessuno di loro aveva sentito quel nome prima di allora. Vicino alla carta nautica erano accatastati otto pesanti volumi rilegati in pelle nera, tra i beni più cari al cuore di Hal. Ne prese uno, aprendo le pagine rigide, che scricchiolavano al tatto, e restando per un attimo assorto a fissare le lettere elaborate e i disegni a inchiostro che coprivano fittamente ogni pagina. Quella grafia gli era familiare al punto da sembrargli la propria: era invece di suo padre, Sir Francis Courteney. Quei giornali di bordo facevano parte dell'eredità che Hal aveva ricevuto da lui; in otto volumi erano racchiusi trent'anni di viaggi e vagabondaggi sugli oceani del globo, una vita intera d'informazioni e di esperienza, di un tale valore intrinseco e sentimentale da apparire incalcolabile, per Hal. Ne consultò le pagine con rispetto quasi reverenziale, in cerca del nome che vi aveva letto, chissà dove, tanti anni prima. La ricerca era difficile, perché spesso veniva distratto da qualche osservazione preziosa o dal disegno di un porto straniero o di un approdo esotico, dal ritratto di un uomo o da qualche schizzo raffigurante un uccello o un pesce che aveva attirato l'occhio acuto del padre ed era stato registrato fedelmente dalla sua abile penna. Wilbur Smith
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Non trovando ciò che cercava, accantonò il primo volume per prenderne un altro che recava sulla copertina il titolo: OCEANO DELLE INDIE, ANNIS DOMINI 1632-1642. Lo Studiò così a lungo che dovette rifornire d'olio la lampada. Poi, d'un tratto, il nome gli balzò incontro dalla pagina, attirando l'attenzione dei suoi occhi rossi e doloranti per la stanchezza, strappandogli un sospiro di profondo sollievo. «Isla Flor de la Mar», diceva l'annotazione sotto il disegno a inchiostro di un approdo visto dall'oceano. Ritraeva chiaramente un'isola e, sotto, erano disegnati una rosa dei venti e una scala delle distanze che indicava in circa sei miglia la lunghezza dell'isola da sud a nord. Sotto il nome era indicata la posizione: «11 gradi e 25 primi lat. sud, 47 gradi e 32 primi long, est», con un'aggiunta in lettere più piccole: «Nota ai musulmani col nome di Daar al-Shaitan, ovvero 'il porto del Diavolo'». Hal si affrettò a riprendere in mano la sua carta nautica, riportandovi con la riga e il compasso le coordinate segnate dal padre. Pur accogliendo sempre con riserva la stima della longitudine calcolata da Sir Francis, si accorse che quei dati corrispondevano a una posizione distante circa centocinquanta miglia dalle isole Glorietta, a nord; tuttavia sulla sua carta non era indicata alcuna terra emersa in quel punto dell'oceano. Tornò allora a consultare i giornali di bordo del padre. Il vecchio aveva scritto una pagina intera di descrizione e Hal, cominciando a leggerla, ne rimase affascinato. «L'esistenza di quest'isola è stata segnalata per la prima volta da Alfonso de Albuquerque nel 1508, mentre si preparava alla conquista delle città arabe lungo la costa della Febbre, sul versante orientale del continente africano. Partendo dalla sua base segreta, lanciò l'attacco contro Zanzibar e Dar-es-Salaam.» Hal assentì. Sapeva che Albuquerque era noto come «il grande» fra i suoi pari, ma come al-Shaitan, «il Diavolo», fra gli arabi, a causa del successo delle sue imprese navali nell'oceano delle Indie. Era stato lui, ancor più di Tristào da Cunha, il responsabile dell'affermazione del potere e dell'influenza portoghesi sulla costa della Febbre e nel golfo Persico. I suoi velieri erano stati fra le prime navi europee a penetrare nella roccaforte araba del mar Rosso. Hal tornò a leggere l'elegante calligrafia del padre. Albuquerque edificò una possente fortezza sull'estremità settentrionale dell'isola, tagliando blocchi di pietra corallina per la costruzione e utilizzando prigionieri musulmani per i lavori Wilbur Smith
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pesanti, quindi la equipaggiò con i cannoni catturati durante la conquista di Ormuz e Aden, battezzando l'isola con il nome della sua nave ammiraglia, Flor de la Mar. Alcuni anni dopo, nel 1508, questa stessa nave fece naufragio sulle barriere coralline della costa di Goa, e Albuquerque perse l'immenso tesoro personale che aveva accumulato nel corso delle sue campagne in questi oceani. Dopo il successo degli attacchi contro le città della terraferma, Albuquerque abbandonò la casa sull'isola per trasferire la sua base a Zanzibar, e la fortezza di Flor de la Mar fu abbandonata. Io vi sono sbarcato il 2 novembre 1637. L'isola misura cinque miglia nautiche e un quarto in lunghezza ed è larga mezzo miglio nel punto di massima ampiezza. Il lato orientale è esposto all'azione del mare e dei venti prevalenti, per cui non offre ancoraggi sicuri. La baia all'estremità nordoccidentale è ben ridossata e difesa da una barriera corallina; il fondo, di sabbia e conchiglie, offre un'ottima presa all'ancora. Esiste un passaggio attraverso la barriera, che si apre proprio ai piedi delle mura del forte. In questo modo, quando i bastioni erano muniti di cannoni portoghesi, qualunque nave entrasse nella baia si trovava esposta al fuoco massiccio delle batterie della guarnigione. Al centro della pagina, il padre di Hal aveva tracciato una mappa dettagliata della baia e della fortezza, indicando il passaggio nella barriera corallina e tutti i relativi rilevamenti. «Grazie, padre», mormorò Hal, commosso, prima di tornare a studiare il testo. Sbarcando, ho scoperto che le mura della fortezza avevano resistito bene al passaggio di quasi un secolo e mezzo. Erano state costruite solidamente ed erano in grado di resistere a tutto, tranne che alle moderne artiglierie d'assedio. I cannoni erano ancora disposti in corrispondenza delle feritoie, anche se il metallo delle canne era molto corroso dalla salsedine. Le condutture e le cisterne per raccogliere l'acqua piovana funzionavano ancora perfettamente, tanto che abbiamo potuto attingervi l'acqua per riempire le botti. Sulla punta meridionale dell'isola c'è una colonia immensa di uccelli marini. Durante il giorno i fitti stormi di questi uccelli formavano addirittura una cappa scura sull'isola, visibile Wilbur Smith
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dal mare a distanza di molte miglia. Il coro delle loro voci raggiungeva un volume tale da ferire le orecchie e stordire i sensi. Le carni di questi volatili hanno un forte sapore di pesce, ma una volta salate e affumicate diventano abbastanza gustose. Ho inviato a terra una spedizione per raccoglierne le uova. Gli uomini sono tornati con dieci grosse ceste piene di uova, e tutti i marinai hanno potuto banchettare. Nella baia si trovano inoltre molti pesci e ostriche, perciò ci siamo trattenuti nella baia dieci giorni per consentire agli uomini di prenderne in abbondanza e affumicarli, in modo da rifornire la cambusa. Siamo salpati il 12 novembre, diretti verso Bab al-Mandeb, all'imbocco del mar Rosso. Hal chiuse il giornale di bordo del padre con la stessa deferenza che avrebbe mostrato nei confronti della Bibbia di famiglia; e in un certo senso lo era. Poi dedicò tutta la sua attenzione alla carta, segnandovi con cura le coordinate dell'isola indicate dal padre prima di tracciare la rotta e l'orientamento dalla loro posizione attuale all'estremità meridionale del canale di Zanzibar. Quando salì in coperta, il sole era sospeso poco sopra l'orizzonte, e velato da uno schermo purpureo di caligine marina che consentiva di fissare a occhio nudo il disco fiammeggiante. Al crepuscolo il monsone si era attenuato, ma conservava una forza sufficiente a gonfiare le vele di un candore perlaceo come i seni gonfi di latte di una balia. «Mastro Tyler, mettetela al vento non appena potrà navigare su questo bordo», ordinò con espressione severa, «spingendola alla massima velocità.» «Alla massima velocità, comandante», rispose Ned, sfiorando il berretto con la mano. Hal si allontanò per spingersi in avanti, passando sotto l'albero di trinchetto e lanciando un'occhiata in su, verso i pennoni. Tom era ancora lassù, dov'era rimasto fin da quando erano usciti dal porto di Zanzibar. Hal provava simpatia per lui, ma non salì per unirsi alla sua veglia; sentiva anch'egli il bisogno di stare solo. Quando giunse a prua, salì sulla base del bompresso, aggrappandosi allo strallo di trinchetto, per scrutare davanti a sé il mare che s'incupiva, assumendo il colore delle prugne troppo mature. A intervalli la Seraph fendeva la cresta di un'onda più alta, che si rovesciava sulla prua, Wilbur Smith
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investendolo in faccia con una pioggia di goccioline salmastre. Lui non faceva il minimo sforzo per asciugarle, lasciandole colare dal mento fino al petto. L'Africa, ormai lontana alle loro spalle, era scomparsa, avvolta nella foschia del tramonto. All'orizzonte non si vedeva il minimo accenno di terraferma. L'oceano buio era vasto e sconfinato. Come si poteva sperare di ritrovare un bambino in quella distesa illimitata? si domandava Hal. «Eppure lo troverò, dovessi impiegare il resto della mia vita in questa ricerca», mormorò a se stesso. «E non avrò pietà per chiunque dovesse sbarrarmi la strada.» Il dhow era una nave negriera, utilizzata per trasportare il carico d'infelici dalla terraferma attraverso il canale fino ai mercati di Zanzibar. Lo scafo stesso era impregnato del tanfo di escrementi umani e delle esalazioni di sofferenza dello spirito umano, simili a un miasma infetto aleggiante sul piccolo veliero, permeando l'aria e gli abiti di tutti a bordo. Quel miasma penetrava nei polmoni di Dorian a ogni respiro, dandogli l'impressione di corrodere la sua stessa anima. Era incatenato sul ponte inferiore. Le staffe di ferro erano fissate alla struttura di legno con bulloni di ferro rivettati; i ceppi per le gambe erano forgiati a mano, con la catena che passava attraverso l'occhiello degli anelli di ferro. Nella stiva lunga e bassa c'era posto per un centinaio di prigionieri, ma Dorian era solo. Stava accovacciato su uno dei bagli portanti del dhow, cercando di tenere i piedi sollevati dalle sudicie acque di sentina che sciaguattavano avanti e indietro a ogni beccheggio e rollio della carena stretta, trascinando con sé squame di pesce e pezzi di copra infradiciati, residui dei carichi alternativi dell'imbarcazione. A intervalli di un'ora circa, il boccaporto sopra la sua testa si spalancava e uno dei marinai arabi sbirciava in basso, osservandolo con attenzione ansiosa. Il carceriere gli passava una ciotola di riso e zuppa di pesce, oppure una noce di cocco verde alla quale era stata asportata la calotta superiore. Il latte di cocco era dolce e un poco effervescente: Dorian lo beveva, mentre lasciava intatta la zuppa, preparata con pesce seccato al sole e quasi marcio. A parte le catene e la prigionia in quell'ambiente fetido, gli arabi lo avevano trattato con la massima considerazione. Quel che più contava era che si preoccupavano del suo benessere, accertandosi che non soffrisse la Wilbur Smith
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fame o la sete. Ben quattro volte, negli ultimi due giorni, il comandante del dhow era sceso sul ponte degli schiavi per piantarsi di fronte a lui, fissandolo intensamente con un'espressione difficile da decifrare. Era un uomo alto, con la pelle molto scura, butterata dal vaiolo, e il naso aquilino. Era stato lui a strappare Dorian al mare e a puntargli il pugnale alla gola. La prima volta che era sceso nella stiva aveva tentato d'interrogare il ragazzo. «Chi sei? Da dove vieni? Sei un vero credente? Che cosa facevi su una nave d'infedeli?» L'accento del comandante era strano e il modo in cui pronunciava alcune parole molto diverso da quello che Alf Wilson gli aveva insegnato, ma Dorian aveva capito senza difficoltà quello che gli diceva, e avrebbe potuto rispondere senza problemi. Invece era rimasto a testa china, rifiutandosi di alzare la testa per guardarlo; voleva disperatamente comunicare all'arabo la sua paura e la sua collera. Avrebbe voluto fargli capire che era figlio di un uomo molto ricco e potente, ma intuiva che sarebbe stata una follia. Avrebbe voluto sbottargli in faccia: «Mio padre verrà a prendermi presto, e allora non avrà misericordia per te, o per i tuoi uomini». Invece si era morso la lingua a sangue per non rispondere a quelle domande. Alla fine, il comandante arabo aveva rinunciato al tentativo di farlo parlare, accovacciandosi vicino a lui per prendere fra le mani una manciata dei suoi folti riccioli rossi, che aveva accarezzato quasi amorevolmente. Con grande stupore di Dorian, aveva sussurrato una preghiera: «Allah è grande. Non esiste altro Dio all'infuori di Allah, e Maometto è suo profeta». Nelle successive visite che aveva fatto alla stiva degli schiavi non aveva più tentato d'interrogare Dorian, tuttavia ogni volta aveva seguito lo stesso rituale, accarezzando la testa di Dorian e mormorando la preghiera. In occasione dell'ultima visita, improvvisamente aveva estratto il pugnale dal fodero che portava alla cintura. Dorian si era lasciato rassicurare dal suo comportamento precedente, per cui era rimasto scosso nel vedersi lampeggiare sotto gli occhi quella lama affilata come un rasoio. Era riuscito a non piangere, ma si era ritratto, spaventato. L'arabo aveva scoperto i denti macchiati e guasti in un ghigno orribile, che in realtà intendeva essere conciliante, e invece di ferire Dorian gli aveva semplicemente tagliato una lunga ciocca di capelli d'oro rosso, prima di rinfoderare il pugnale. Wilbur Smith
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Dorian era rimasto perplesso e confuso da quel comportamento, sul quale aveva meditato a lungo, rinchiuso in quella stiva buia e puzzolente. Si rendeva conto che il colore e la qualità dei suoi capelli affascinavano gli arabi: ai loro occhi dovevano avere un significato speciale. Quando lo avevano salvato dalle acque del mare, sembrava inevitabile che sfogassero su di lui la loro collera e il loro disprezzo. Ricordava nitidamente la puntura del coltello alla gola, e anche adesso, quando ci passava sopra le dita, sentiva la crosta che si era formata sulla lieve ferita prodotta dalla lama sulla pelle. Soltanto quando il comandante arabo gli aveva strappato dalla testa il berretto di lana da marinaio e i suoi lunghi capelli si erano sciolti al vento, l'uomo aveva allontanato il pugnale dalla gola di Dorian. Nel terrore di quegli istanti, Dorian non aveva badato alla vivace discussione nata fra i suoi carcerieri mentre lo trascinavano sotto coperta e lo incatenavano nella stiva degli schiavi, ma rammentava bene che tutti gli uomini dell'equipaggio avevano cercato di toccargli o accarezzargli la testa. Ricordava sprazzi di quel dialogo animato. Molti avevano accennato a una «profezia» e qualcuno aveva invocato un nome che doveva essere oggetto di venerazione per tutti, perché gli altri avevano intonato in coro: «Possa Allah mostrargli la sua misericordia», dopo che uno lo aveva nominato. Alle orecchie di Dorian quel nome suonava più o meno «Taimtaim». In preda al terrore e alla sensazione di essere solo al mondo, si era rannicchiato sul ruvido sgabello nella stiva, pensando a Tom e al padre e struggendosi per loro, assalito da una nostalgia che gli stringeva il cuore. A tratti scivolava per qualche minuto nel dormiveglia, ma ogni volta lo svegliava il movimento brusco dello scafo che s'inclinava in avanti quando il dhow veniva investito da un'onda più alta, e lui scivolava giù dalla posizione precaria che occupava. Era riuscito a tenere il conto del susseguirsi dei giorni e delle notti regolandosi sui momenti in cui aprivano il boccaporto sopra la sua testa per passargli da mangiare e da bere, oppure quando il comandante arabo scendeva a covarlo con gli occhi. Quando gli tolsero gli anelli di ferro alle caviglie, sapeva che erano passati dodici giorni dalla cattura. Attraverso il boccaporto, lo trascinarono in coperta, dove la luce del sole era così intensa, in confronto all'oscurità della stiva, che dovette ripararsi gli occhi. Impiegò parecchi minuti ad abituarsi alla luce, poi si guardò attorno, sebbene gli occhi gli dolessero ancora. Si Wilbur Smith
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accorse che metà dell'equipaggio era disposta in cerchio attorno a lui, in un silenzio affascinato, e stavolta tenne conto di quello che dicevano. «Questo è davvero l'avverarsi di una parte della profezia, che Allah sia lodato.» «Non può essere, perché al-Amhara non parla la lingua del Profeta.» Dorian comprese che dicendo al-Amhara, che significava «il rosso», si riferivano a lui. «Bada a non dire empietà, Ahmed. Non sta a te giudicare se questo è il bambino della profezia o no.» «Le strade di Dio sono meravigliose e insondabili», disse un altro, e tutti intonarono in coro: «Sia lodato Allah». Dorian guardò verso prua, oltre il circolo di facce scure e barbute. Le onde davanti a loro erano sostenute e si arricciavano in una cresta argentea alla luce del sole, mentre all'orizzonte si profilava una nube scura e innaturale. La fissò con tanta intensità che gli occhi cominciarono a lacrimare: sembrava una nube di fumo che s'innalzasse nel cielo a spirale, prima di ridiscendere, ma con i suoi occhi giovani e acuti distinse al di sotto le sagome minuscole delle palme, e si rese conto di avere davanti a sé un grande stormo di uccelli. Sotto i suoi occhi, in quel momento, gruppi più piccoli, composti da dieci o venti volatili, sorvolarono il dhow, affrettandosi a raggiungere quella immensa formazione. Desiderava vedere meglio la meta del loro viaggio e, al tempo stesso, saggiare l'umore dei suoi carcerieri, per vedere quanto spazio gli avrebbero concesso. Quindi s'incamminò verso la prua e il cerchio di arabi si aprì rispettosamente davanti a lui, come se essi avessero paura di lui o fossero restii a trattenerlo. Uno dei marinai gli sfiorò la testa, ma Dorian lo ignorò. «Tenetelo d'occhio», gridò il comandante del dhow, che era al timone. «Non deve scappare.» «Ah! Allora, Yusuf», ribatté uno degli uomini, «vuol dire che al-Amhara è tanto benedetto da poter volare come l'angelo Gibrail?» Scoppiarono tutti a ridere, ma nessuno tentò di fermare Dorian, che proseguì fino ad appoggiarsi all'unico albero tozzo dell'imbarcazione. A poco a poco, la frangia di palme sotto la nube di uccelli marini divenne più definita, e lui poté finalmente distinguere il profilo di un promontorio all'estremità settentrionale di un'isoletta. Si avvicinarono ancora, e apparvero le mura di una costruzione quadrata, fatta di. blocchi Wilbur Smith
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bianchi che scintillavano al sole. Poi vide alcuni cannoni sulle mura e una piccola flotta di navi all'ancora nella baia sotto la fortezza. «La Minotaur!» esclamò all'improvviso, riconoscendo finalmente gli alberi alti e le linee eleganti della nave che aveva combattuto con la Seraph appena pochi giorni prima. Con la sua velocità superiore, doveva aver preceduto di parecchio il minuscolo dhow. Era ancorata al centro della baia, con le vele ammainate, e quando si avvicinarono Dorian distinse perfettamente i danni che i cannoni della Seraph le avevano inflitto. Giungendo ancor più vicino, poté leggere il nuovo nome che era stato scritto in caratteri arabi sullo specchio di poppa per sostituire quello originale: Il respiro di Allah. Non era l'unica nave a vele quadre che si trovasse nella baia: ce n'erano altre quattro, una più grande e tre più piccole della Minotaur. Dorian comprese che il corsaro doveva essersi impadronito anche di quelle attaccando i convogli di navi commerciali europee che navigavano in Oriente. Cinque grandi navi cariche di merci preziose rappresentavano un bottino enorme: non c'era da stupirsi se il nome di al-Auf era tanto temuto in quell'oceano. Le sue riflessioni furono interrotte dal grido: «Pronti allo sbarco!» lanciato da Yusuf, il comandante al timone, e dallo scalpiccio di piedi nudi sul ponte, mentre l'equipaggio balzava ai posti di manovra. La lunga antenna fu spostata prima all'indietro e poi in avanti, ma dall'altra parte dell'albero, per virare di bordo. La vela prese il vento sulla nuova rotta a sinistra e il comandante virò per imboccare l'angusto passaggio attraverso la barriera corallina che sorvegliava l'accesso alla baia. «Portate al-Amhara nell'alloggio di prua, per nasconderlo agli occhi delle sentinelle sulle mura del forte», gridò Yusuf, e due dei suoi uomini presero per le braccia Dorian, conducendolo poi gentilmente nel piccolo alloggio a prua dell'imbarcazione, dove lo rinchiusero. Dorian sbirciò fuori, accorgendosi che di lì si godeva una buona visuale della baia in cui stava entrando il dhow. Il canale descriveva una curva a gomito attraverso la barriera corallina, prima di passare sotto le mura del forte. Alzando gli occhi, Dorian osservò i cannoni che sporgevano dalle feritoie e vide le facce brune dei serventi dietro i pezzi. Dalla sommità delle mura di pietra si levava il lieve fumo azzurrino delle micce a lenta combustione, mentre le grida di benvenuto della guarnigione, attutite dalla distanza, venivano accolte con entusiasmo Wilbur Smith
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dall'equipaggio del dhow. Il comandante gettò l'ancora accanto alla poppa del Respiro di Allah, lanciando un richiamo, oltre le acque limpide e calme, verso una delle barche in secca sulla spiaggia ai piedi del forte. Tre uomini si misero ai remi per sospingerla fino alla murata del dhow. Poi ci fu una lunga, animata discussione tra l'equipaggio, che Dorian riuscì a seguire attraverso la sottile parete di legno, per decidere chi dovesse accompagnare a terra il comandante e al-Amhara. Infine Yusuf tagliò la testa al toro scegliendo tre dei suoi uomini e ordinando loro d'imbarcarsi per fargli da scorta. Dopodiché entrò nell'alloggio, scoprendo i denti gialli in quell'orribile sorriso falso. «Andremo a riva per incontrare al-Auf.» Dorian lo fissò con aria ottusa, sempre fingendo di non capire, così Yusuf gli comunicò a gesti le sue intenzioni: «Dobbiamo coprire i tuoi splendidi capelli. Voglio fare una sorpresa ad al-Auf». Da un piolo di legno vicino alla porta staccò una ruvida veste grigia, facendo segno a Dorian d'indossarla. Anche se la tunica puzzava di sudore stantio e pesce marcio, lui obbedì. Yusuf sistemò il cappuccio in modo da coprire i capelli e lasciare in ombra il viso, poi prese per il braccio Dorian, sospingendolo nella barca in attesa alla base della murata. A forza di remi, raggiunsero la spiaggia, dove sbarcarono su uno strato di candida sabbia corallina che scricchiolava sotto i piedi. I tre arabi circondarono Dorian, mentre Yusuf li guidava su per il pendio della riva, attraversando il palmeto e seguendo il sentiero per raggiungere le mura del forte. Superarono un piccolo cimitero, al centro del boschetto di palme: alcune tombe erano antiche, con l'intonaco di corallo che si staccava a pezzi dalle pareti. Le croci cristiane sulle lapidi erano state spezzate e abbattute. All'estremità opposta si notavano alcune tombe più recenti, senza lapide, con i tumuli di terreno fresco contrassegnati solo da bandierine bianche, coperte di preghiere e citazioni in arabo. Le bandierine sulle tombe svolazzavano al soffio impetuoso del monsone. Lasciandosi alle spalle il cimitero, proseguirono lungo il sentiero tortuoso che attraversava il palmeto salendo verso il forte, ma a un certo punto si fermarono in un'altra radura. Dorian rimase paralizzato dallo shock e dal terrore: ai lati del sentiero c'erano alcuni corpi umani, nudi, appesi a rudimentali telai di legno. Era chiaramente un luogo destinato alle esecuzioni. Alcune delle vittime appese alle travi erano ancora vive, respiravano e compivano lievi movimenti dolorosi; una irrigidì tutto il corpo, lanciando Wilbur Smith
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un gemito sonoro, prima di abbandonarsi di nuovo, trattenuta solo dai legacci. Molte altre erano morte, alcune da parecchi giorni, con i lineamenti contratti nel ghigno orribile degli ultimi istanti di agonia, il ventre gonfio di gas e la pelle ustionata e scorticata dal sole. Tutti quegli uomini, comunque, vivi o morti che fossero, avevano subito crudeli torture. Dorian fissò inorridito un uomo che aveva due moncherini carbonizzati al posto dei piedi; altri avevano le orbite vuote, perché gli occhi erano stati estirpati con ferri roventi. Altri ancora avevano la lingua recisa, con sciami di mosche bluastre che si posavano sulla bocca spalancata. Tra quelli ancora in vita, certi imploravano con voce roca un sorso d'acqua, e certi altri invocavano Dio. Uno fissò Dorian mentre questi passava, con gli occhi scuri ormai enormi, ripetendo in un sussurro monotono: «Allah è grande, Allah è grande!» Aveva la lingua così nera e gonfia di sete che le parole si udivano a stento. Uno dei guardiani di Dorian scoppiò a ridere, deviando dal sentiero. Alzando gli occhi verso il morente, gli disse: «Sulle tue labbra il nome di Allah è una bestemmia!» Estratto il pugnale ricurvo, si protese con l'altra mano per afferrare il misero sacchetto dei genitali del moribondo; poi, con un solo colpo di pugnale, li recise e li ficcò nella bocca aperta della sua vittima. «Questo ti farà stare zitto!» osservò ridacchiando. L'uomo torturato non diede neppure segno di avvertire il dolore, perché la sua sofferenza ormai aveva superato la soglia della sopportazione. «Sei sempre stato un buffone, Ahmed», lo rimproverò Yusuf con sussiego. «Andiamo, ora, ci fai perdere tempo con le tue bravate.» Le guardie di Dorian lo trascinarono oltre, raggiungendo la porta che si apriva nella parte posteriore della fortezza. Era spalancata, con alcune guardie avvolte nel mantello e accovacciate all'ombra dell'arco, mentre i loro jezail erano appoggiati in un fascio alla parete. Tom aveva sempre raccomandato a Dorian la necessità di osservare e ricordare ogni dettaglio degli ambienti nuovi nei quali poteva trovarsi. Dorian aveva il viso celato dal cappuccio, ma gli occhi restavano scoperti, e così poté vedere che le porte della fortezza erano antiche e in disfacimento, con i cardini quasi consumati dalla ruggine, mentre le mura erano solide e molto spesse. Avrebbero resistito anche al più intenso dei bombardamenti. Le guardie conoscevano bene il comandante del dhow. non si curarono neppure di alzarsi, scambiando con lui i soliti saluti elaborati prima di Wilbur Smith
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segnalare al gruppo che poteva proseguire. Entrarono così nel cortile del forte, dove Dorian si guardò attorno con intensa curiosità. Si accorse che la costruzione iniziale doveva essere molto antica: i blocchi di pietra corallina erano logorati dalle intemperie e in alcuni punti erano addirittura crollati. Tuttavia, di recente erano state eseguite varie riparazioni e anche in quel momento un gruppo di muratori stava lavorando sulla scala che portava in cima ai bastioni. I tetti originali erano stati sostituiti con una copertura di fronde di palma, secche solo a metà. Dorian calcolò che nella zona in ombra ai piedi delle mura dovevano esserci quasi duecento uomini: alcuni avevano steso a terra il tappeto da preghiera per sdraiarvisi, altri erano riuniti a gruppetti, giocando a dadi o passandosi un lungo narghilè, chiacchierando mentre pulivano il fucile oppure affilando la lama della scimitarra. Qualcuno lanciava il saluto tradizionale: «Salaam aliekum, al che i guardiani di Dorian rispondevano: «Aliekum ya salaam». Sotto una tettoia di paglia addossata a un muro e aperta ai lati, al centro del vasto cortile, c'era una fila di fuochi da cucina. Alcune donne velate erano intente a cuocere il pane sulle griglie di ferro o a mescolare il contenuto dei pentoloni a treppiede posti sopra i fuochi di carbone. Al passaggio di Dorian e dei suoi guardiani alzarono la testa, ma i loro occhi rimasero imperscrutabili dietro i veli, senza accennare un segno di saluto. Nelle mura esterne del forte erano state ricavate delle stanze, con le porte che si aprivano sul cortile. Alcuni di quei locali dovevano essere utilizzati come magazzini o depositi delle polveri, visto che c'erano alcune sentinelle alla porta. Yusuf si rivolse ai suoi uomini: «Aspettatemi qui. Potreste anche chiedere qualcosa da mangiare alle donne, per riempirvi la pancia vuota». Prendendo saldamente per il braccio Dorian, lo trascinò oltre la soglia della stanza centrale della fortezza. Due guardie gli sbarrarono la strada. Una domandò: «Che cosa vieni a fare, Yusuf? Che cosa ti porta fin qui, sulla soglia di Musallim bin-Jangiri, senza essere invitato?» Discussero per qualche minuto, Yusuf protestando che aveva il diritto di entrare, mentre la guardia esercitava il suo potere di tenerlo fuori. «Hal scelto un momento poco opportuno», borbottò infine la guardia, stringendosi nelle spalle. «Oggi il padrone ha già condannato a morte due uomini. Adesso è a colloquio con i mercanti della terraferma. Del resto, sei sempre stato un uomo temerario, Yusuf, uno di quelli che amano nuotare con lo squalo tigre. Entra pure, a tuo rischio e pericolo.» Abbassando la Wilbur Smith
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spada, si fece da parte con un sogghigno. Yusuf rinsaldò la stretta sul braccio di Dorian, ma gli tremavano le dita. Trascinò il ragazzo nella stanza, sibilandogli all'orecchio: «Giù! Striscia sul ventre!» Dorian simulò di non capire quello che voleva dirgli, resistendo agli sforzi dell'arabo per farlo prostrare sul pavimento, e per qualche istante lottarono sulla soglia; poi Yusuf lo lasciò andare, consentendogli di restare in piedi mentre lui attraversava la stanza verso un gruppo di quattro uomini seduti all'estremità opposta. Dorian tentò di placare la sensazione di disagio che lo aveva afferrato allo stomaco, guardandosi attorno. Notò subito che le pareti, pur essendo fatte di blocchi di pietra corallina grezzi e senza intonaco, erano state ricoperte di arazzi dai colori vivaci e dai disegni gradevoli. Per il resto, l'arredamento era molto sobrio: il pavimento grezzo era ben pulito ma spoglio, fatta eccezione per un tavolino basso e una serie di cuscini, sui quali erano seduti i quattro uomini. Questi osservarono con evidente disprezzo Yusuf che strisciava verso di loro, salmodiando una litania di lodi. «Onnipotente signore! Beneamato di Allah! Spada dell'Islam! Flagello degli infedeli! La pace sia con voi!» Dorian riconobbe subito l'uomo seduto di fronte a lui: lo aveva già visto sul cassero della Minotaur, e sapeva che non avrebbe mai dimenticato quel volto che, sotto il turbante verde, sembrava scolpito nel tek o in qualche altro materiale durissimo. La pelle era tesa sulle ossa del cranio, con gli zigomi che risaltavano evidenti sotto la pelle. La fronte era alta e liscia, il naso stretto e ossuto. La barba, che gli pendeva fino alla vita, era ben curata e divisa in due punte; l'henné le conferiva un intenso colore rossastro, ma sotto la tintura trasparivano ciocche grigie. La bocca, sotto i baffi sottili e spioventi, sembrava una linea tesa e sottile. In quel momento quella bocca priva di labbra, da rettile, si aprì, lasciando uscire una voce sommessa e melodiosa, la cui gentilezza era smentita dalla crudeltà degli occhi, neri come la pece. «Devi avere un valido motivo per disturbare le nostre consultazioni», disse al-Auf. «Onnipotente signore, io sono soltanto un pezzo di sterco di cammello che si secca al sole della vostra presenza.» Yusuf sfiorò tre volte il pavimento con la fronte. «Questo, se non altro, è vero», riconobbe al-Auf. «Vi ho portato un tesoro prezioso, beneamato del Profeta.» Yusuf alzò Wilbur Smith
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lo sguardo quanto bastava per indicare Dorian. «Uno schiavo?» domandò al-Auf. «Ho riempito di schiavi i mercati del mondo, e tu me ne porti un altro?» «Un ragazzo», confermò Yusuf. «Non sono un pederasta», ribatté al-Auf. «Preferisco il vasetto del miele all'ampolla dello sterco.» «Un ragazzo», ripeté Yusuf, balbettando per il nervosismo, «ma non un ragazzo qualsiasi.» Si abbassò di nuovo per sfiorare il pavimento con la fronte. «Un ragazzo d'oro, ma più prezioso dell'oro.» «Tu parli per enigmi e frasi tortuose, figlio di un cinghiale appestato.» «Posso avere il permesso di esporre questo tesoro al vostro sguardo benevolo, onnipotente? Allora constaterete la verità delle mie parole.» Al-Auf annuì, accarezzandosi la barba tinta. «Presto, allora. Comincio a stancarmi delle tue idiozie.» Yusuf si alzò, ma rimase con la schiena curva e con la testa china in segno di profondo rispetto. Preso per la mano Dorian, lo attirò in avanti. Era sudato per il terrore. «Fa' come ti dico», bisbigliò in tono feroce, tentando di mascherare la paura, «altrimenti ti faccio castrare e ti consegno ai miei uomini perché facciano di te la loro sgualdrina.» Trascinando al centro della stanza Dorian, si mise alle sue spalle. «Onnipotente Musallim bin-Jangiri, ti mostrerò qualcosa che non Hal mai visto prima d'ora!» Dopo una pausa che doveva servire ad accrescere l'aspettativa, scostò con un gesto elaborato il cappuccio che copriva la testa di Dorian. «Guardate! La Corona del Profeta, com'è stato predetto nella profezia!» I quattro uomini lo fissarono in silenzio; ormai Dorian si era abituato alla reazione di tutti gli arabi che lo vedevano per la prima volta. «Gli Hal tinto i capelli con l'henné», disse infine al-Auf, «così come io mi sono tinto la barba.» Ma la sua voce era incerta, l'espressione piena di rispetto. «No, no, signore.» Yusuf cominciava a riacquistare fiducia in se stesso. Aveva contraddetto senza paura al-Auf, un'offesa che molti uomini avevano pagato con la morte. «Allah solo ha tinto i suoi capelli, proprio come ha tinto i capelli di Maometto, il suo unico profeta.» «Sia lodato Dio», mormorarono gli altri meccanicamente. «Portalo qui!» ordinò al-Auf, e Yusuf afferrò Dorian per la spalla, trascinandolo quasi di peso. «Piano!» lo ammonì al-Auf. «Trattalo con rispetto!» L'altro si rallegrò di Wilbur Smith
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quel rimprovero, perché indicava che al-Auf non aveva respinto del tutto la validità delle sue affermazioni nei confronti del ragazzo schiavo. Con maggiore attenzione, sospinse in avanti Dorian, costringendolo a inginocchiarsi davanti al pirata. «Sono inglese.» Purtroppo la sua voce ancora infantile tremò, privando quell'affermazione della sua forza. «Tieni giù quelle sudicie mani macchiate di sangue!» «Il cuore di un leone dalla criniera nera nel corpo di un cucciolo non ancora svezzato», borbottò al-Auf, annuendo con aria di approvazione. «Ma che cosa ha detto?» Nessuno seppe rispondergli e lui riportò lo sguardo sul ragazzino. «Parli l'arabo, piccolo?» Dorian si sentì salire alle labbra una replica furiosa nella stessa lingua, ma riuscì a reprimerla, per rispondere in inglese: «Puoi andare dritto all'inferno e porgere i miei omaggi al diavolo, quando arrivi». Era una delle espressioni preferite del padre e Dorian, pronunciandola, si sentì rinascere il coraggio. Tentò di alzarsi, ma Yusuf glielo impedì. «Non parla l'arabo», concluse al-Auf, con una punta di delusione nella voce. «Questo discorda con la profezia del santo Taimtaim, possa il suo nome essere benedetto per sempre.» «E' possibile insegnarglielo», suggerì Yusuf in tono quasi disperato. «Se lo affiderete a me, gli farò recitare il Corano a memoria nel giro di un mese.» «Non è la stessa cosa», replicò il pirata, scuotendo la testa. «La profezia afferma che il bambino sarebbe venuto dal mare con il mantello rosso del Profeta sulla testa e che avrebbe parlato la lingua del Profeta.» Fissò in silenzio Dorian. Nel frattempo, nel cervello del bambino si faceva strada l'idea che nessuno degli arabi avesse mai visto una zazzera di capelli rossi in vita sua. Cominciava a comprendere che li consideravano una sorta di stigma religioso, ricordando che il profeta Maometto aveva gli stessi colori. Infine rammentò vagamente che Alf Wilson aveva accennato a questo durante una delle sue lunghe lezioni sulle credenze dell'Islam: evidentemente al-Auf si tingeva la barba per imitare il Profeta. «Forse il colore dei capelli è solo il frutto di un'abile tintura, dopotutto», osservò al-Auf con aria tetra. «In tal caso», aggiunse, fissando Yusuf con un cipiglio improvviso, «manderò te e il bambino nel campo delle esecuzioni.» A quel pensiero, Dorian si sentì assalire da un nuovo terrore che gli Wilbur Smith
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mozzava il respiro. Il ricordo di quei disgraziati torturati appesi alle travi nel palmeto era ancora troppo fresco nella sua mente. Yusuf si lasciò cadere di nuovo in ginocchio, protestando in modo confuso la sua innocenza e tentando di baciare i piedi di al-Auf. Il pirata, invece, lo allontanò con un calcio, alzando la voce. «Mandate a chiamare Ben Abram, il medico.» Pochi minuti dopo, un arabo dall'aria venerabile arrivò frettoloso, rendendo omaggio ad al-Auf. Aveva la barba e le sopracciglia di un bianco argenteo, la pelle chiara come il guscio d'uovo e gli occhi vivaci e intelligenti. Persino al-Auf, rivolgendosi a lui, parlò in tono gentile. «Esaminate questo ragazzo straniero, vecchio zio. Il colore dei capelli è naturale o effetto di una tintura? Ditemi se è sano e ben formato.» Le mani che il medico posò sulla testa di Dorian erano gentili ma ferme, e il ragazzino si arrese suo malgrado al loro tocco, restando con il corpo teso e rigido. Ben Abram sfregò fra le dita i serici riccioli rossi, producendo con le labbra lievi risucchi, poi separò i capelli per esaminare con attenzione il cuoio capelluto, piegando la testa di Dorian in modo da farvi cadere sopra la luce che entrava dai finestroni alti, protetti dalle sbarre. Gli annusò la testa, tentando di percepire eventuali odori di sostanze chimiche o erbe. «Non ho mai visto nulla di simile in cinquant'anni di pratica della medicina, né su un uomo né su una donna, anche se ho sentito dire che nel nord del Paese dei parti vivono persone che hanno capigliature simili», sentenziò alla fine Ben Abram. «Non sono tinti, allora.» Al-Auf si protese in avanti sui cuscini, con rinnovato interesse. «E' il loro colore naturale», confermò Ben Abram. «E il resto del corpo?» «Adesso vediamo. Ordinategli di spogliarsi.» «Non parla la lingua del Profeta. Dovrete spogliarlo voi stesso.» Nonostante la collaborazione di Yusuf, che lo teneva fermo, non riuscirono a eseguire l'ordine, perché Dorian lottò come un gatto costretto a entrare a testa in giù in un secchio d'acqua fredda. Graffiava, scalciava e mordeva, e alla fine dovettero chiamare due guardie per immobilizzarlo. Infine rimase nudo davanti a loro, ma le guardie, una per parte, furono costrette a trattenerlo per i polsi, per impedirgli di coprirsi con le mani. «Vedete il colore e la grana della pelle», osservò stupito Ben Abram. «È bellissima, come la seta più fine, identica al manto dello stallone del Wilbur Smith
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sultano, ed è senza macchia. S'intona perfettamente al rosso dei capelli e dimostra oltre ogni dubbio la veridicità della mia affermazione. Il suo colore è naturale.» Al-Auf annuì. «E il resto?» «Tenetelo fermo!» ordinò Ben Abram alle guardie. Il morso che aveva ricevuto sul polso sanguinava ancora. Allungando le mani con cautela, cominciò a palpare i piccoli genitali di Dorian. «I testicoli non sono ancora scesi nello scroto, tuttavia sono perfetti», commentò, prima di prendere fra le dita il pene bianco e infantile. «Come potete vedere, non è ancora circonciso, ma...» Scostando il prepuzio di Dorian, portò allo scoperto la punta rosea del glande. Dorian si dimenava nella stretta delle guardie, e tutta la sua risoluzione di mantenere il silenzio fu spazzata via dalla vergogna e dall'umiliazione. «Porco di un pagano», urlò in arabo, «togli le tue sudicie mani dal mio pene, altrimenti giuro su Dio che ti ucciderò!» Al-Auf si ritrasse sui cuscini, con il viso che esprimeva al contempo stupore e un sentimento di religioso rispetto. «Parla! E' la profezia che si avvera!» «Allah è misericordioso! Sia lodato il suo glorioso nome!» intonarono in coro gli uomini ai suoi lati. «La profezia del santo Taimtaim si è avverata.» «Ponte!» gridò Tom dal suo posto di osservazione sull'albero di trinchetto, portando le mani a coppa per farsi sentire nonostante il vento. «Vela in vista!» «In che direzione?» gridò di rimando Ned Tyler. «Di prua, a sinistra. Distante due leghe.» Sentendo le grida dal suo alloggio, Hal balzò in piedi con tanta foga da far schizzare sulla carta alcune gocce d'inchiostro dal calamaio. Dopo averle asciugate in tutta fretta, salì di corsa la scaletta di boccaporto, sbucando sul ponte in maniche di camicia. «Vedetta, che cosa riesci a vedere?» gridò. «Una barca piccola, con la vela latina.» La risposta di Tom scese dall'albero, galleggiando sul vento. «Ah, ci ha visti e tira di lungo.» «Soltanto chi è colpevole fugge», fu il commento di Big Daniel, che era salito in coperta e stava vicino al timone. «Oppure chi è prudente!» replicò Ned Tyler. Wilbur Smith
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«Scommetto una ghinea contro una presa di letame che proviene dall'isola di al-Auf», insistette Big Daniel. Hal li guardò. «Glielo chiederemo, mastro Tyler. Spiegate tutte le vele e mettete la nave sulla rotta per intercettarla, chiunque sia.» Per quanto tentasse di rifugiarsi sopravvento tra le acque agitate, il piccolo dhow non poteva tenere testa alla Seraph. Nel giro di mezz'ora era già in difficoltà, e la maestosa nave a vele quadre puntava implacabile sul minuscolo scafo. «Sparate un colpo di cannone come avvertimento, mastro Fisher», ordinò Hal. Big Daniel si precipitò in avanti, verso i cannoni di prua, e pochi minuti dopo risuonò un colpo di cannone. Hal, che osservava la barca attraverso il cannocchiale, vide, pochi secondi dopo il colpo, uno zampillo di schiuma bianca erompere dalla superficie dell'acqua a mezza tesa di distanza dal dhow in fuga, di fianco allo scafo. «Immagino che persino gli infedeli comprendano questo linguaggio», brontolò. Aveva ragione: il dhow si arrese all'inevitabile, ammainando l'unica vela e venendo al vento. «Preparate una squadra armata per andare a bordo», ordinò Hal a Big Daniel, mentre filavano veloci verso la minuscola imbarcazione. Big Daniel guidò la squadra. Balzando sul ponte del dhow, scese subito a ispezionare la stiva. Nel frattempo i suoi uomini prendevano il controllo dell'imbarcazione, sospingendo il piccolo equipaggio a prua sotto la minaccia delle sciabole. Meno di dieci minuti dopo, Big Daniel risalì in coperta per dare una voce alla Seraph. «Comandante, ha un carico di seta, tutte balle col marchio della John Company.» «Bottino pirata, perdio!» Hal sorrise per la prima volta da giorni, prima di replicare: «Lasciate a bordo mastro Wilson e cinque uomini per governare la barca, e portate su questa nave il comandante e tutta la ciurma, sotto sorveglianza». Big Daniel trasferì gli arabi confusi e spaventati a bordo della Seraph, mentre Alf Wilson riprendeva la navigazione col dhow, seguendo la scia della nave che aveva ripreso la rotta precedente, stringendo il vento. Non fu davvero penoso indurre il comandante arabo a parlare. «Sono Abdulla Wazari, di Lamu, e sono un commerciante onesto», protestò, con un'aria in parte altezzosa, in parte servile. «E dove avete preso il vostro attuale carico, Wazari?» domandò Hal. Wilbur Smith
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«L'ho pagato in moneta buona e in buona fede, che Allah mi sia testimone», rispose il comandante in tono evasivo. «Vi sarà sfuggito, senza dubbio, che le balle nella vostra stiva portano il marchio della Compagnia Inglese delle Indie Orientali...» «Non sono un ladro. Non le ho rubate, le ho acquistate onestamente.» «E allora chi ve le ha vendute, o Wazari, mio commerciante onesto? E dove?» «Me le ha vendute un uomo che si chiama Musallim bin-Jangiri. Non avevo modo di sapere che erano di proprietà di questa Compagnia inglese.» «Nessuna prova, tranne quella dei vostri occhi», commentò asciutto Hal, in inglese, prima di riprendere l'interrogatorio in arabo. «E dove avete incontrato Jangiri?» «Sull'isola di Daar al-Shaitan.» «Dov'è quest'isola? Quando avete salpato di lì?» «Sarà distante una cinquantina di leghe, non di più», rispose Wazari con una scrollata di spalle. «Siamo salpati ieri, col vento dell'alba.» Quella stima della posizione dell'isola concordava con le coordinate ricavate dal giornale di bordo di suo padre. Hal volse le spalle all'arabo, camminando lentamente avanti e indietro mentre rifletteva su quelle nuove informazioni. A quanto pareva, al-Auf teneva libero mercato sull'isola di Flor de la Mar, vendendo il bottino delle navi catturate. Probabilmente accorrevano da lui commercianti arabi di tutti i mari dell'ovest, ansiosi di riempire la loro stiva di merci rubate a prezzi vantaggiosi. Infine tornò da Wazari. «Avete visto Jan-giri in persona, non uno dei suoi luogotenenti?» «Ho visto lui. Era appena tornato da una terribile battaglia contro una nave degli infedeli. Il suo veliero è ancorato nella baia, orribilmente danneggiato...» L'arabo s'interruppe: gli era balenata l'idea che forse si trovava proprio sul ponte della nave infedele che stava descrivendo. La sua espressione mutò, diventando infida. «E Jangiri non vi ha confidato di avere catturato prigionieri infedeli in questa battaglia?» chiese Hal. E, quando Wazari scosse la testa, continuò: «Non si è vantato con voi, e non avete sentito dire che aveva fatto schiavo un bambino occidentale, un maschietto di undici o dodici primavere?» Hal tentò di farla apparire una domanda casuale, ma vide accendersi un lampo d'interesse nell'espressione dell'uomo, anche se questi, da buon commerciante, riuscì subito a dissimularlo. Wilbur Smith
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«Sono vecchio, e la memoria a volte mi tradisce», rispose. «Forse qualche gesto di ospitalità o di gentilezza potrebbe rinfrescarmela.» «Che tipo di gentilezza?» chiese Hal. «Per esempio che voi, mio signore, lasciate proseguire me e la mia nave per la nostra strada senza ulteriore indugio. Questo sarebbe un atto di gentilezza che verrebbe iscritto a vostro nome nel libro d'oro.» «Una gentilezza tira l'altra», replicò Hal. «Siate gentile con me, Wazari, e forse io lo sarò con voi. Avete sentito parlare di un bambino occidentale quando eravate in compagnia di Jangiri, noto anche come al-Auf?» L'arabo si tirò la barba con un gesto indeciso, poi sospirò. «Ah, sì, ora ricordo qualcosa del genere.» «Che cosa ricordate?» domandò Hal, portando istintivamente la mano all'elsa del pugnale che teneva infilato nella cintura. Quel gesto non sfuggì all'arabo. «Ricordo che due giorni fa Jangiri si è offerto di vendermi uno schiavo. Un bambino occidentale, che però parlava la lingua del Profeta.» «E per quale motivo non lo avete comprato?» Hal si avvicinò all'uomo a tal punto da sentire nel suo alito l'odore del pesce secco che aveva mangiato a pranzo. Wazari scoppiò a ridere. «Costava un lakh di rupie!» Lo ripeté, incredulo. «Un lakh di rupie!» «Questo è il riscatto di un principe, non il prezzo di uno schiavo», riconobbe Hal. «Avete visto il ragazzo?» Wazari assunse un'espressione costernata. «Mi ha detto che dovevo mostrargli l'oro, prima di poter vedere il ragazzo. Io sono un pover'uomo, e l'ho detto anche a Jangiri. Dove troverei un lakh?» «Come mai chiedeva un prezzo così alto?» insistette Hal. «Ha detto che era il bambino della profezia di Taimtaim», rispose Wazari. «Non la conosco.» «Il santo ha profetizzato che un giorno sarebbe venuto dal mare un bambino con i capelli di uno strano colore.» «Quale colore?» «Rosso!» rispose Wazari. «Il rosso del Profeta. Jangiri dice che questo bambino ha i capelli del colore del tramonto.» Hal si sentì sussultare il cuore, come se volesse uscirgli dal petto, e il suo morale salì alle stelle. Voltando le spalle a Wazari, per evitare che gli Wilbur Smith
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leggesse sul viso quell'emozione, si diresse verso la battagliola, dove rimase a lungo, lasciando che il vento gli arruffasse i capelli scuri intorno al viso. Poi se li ravviò, girandosi di nuovo verso il commerciante. «Siete stato davvero gentile», ammise, voltandosi con un sorriso verso Ned Tyler. «Riportate quest'uomo e il suo equipaggio sul dhow e lasciateli andare per la loro strada.» Ned rimase sbalordito. «Lasciarli andare? Vi chiedo scusa, comandante, ma la seta rubata?» «Se la tenga pure!» Hal rise forte, e tutti gli uomini che potevano sentirlo lo fissarono a bocca aperta, stupiti di quel cambiamento d'umore. «È una ben misera ricompensa per quello che mi ha dato.» «Se non sono troppo indiscreto, comandante... Che cosa vi ha dato?» domandò Ned. «La speranza!» ribatté Hal. «Mi ha dato la speranza.» Durante la notte, la pinaccia scivolò con discrezione oltre l'estremità meridionale di Flor de la Mar. Mancava un'ora al sorgere della luna, e la notte era molto buia. Hal riusciva a valutare la distanza dall'isola soltanto grazie alla fosforescenza della risacca che s'infrangeva sulla spiaggia. Aveva ammainato la vela, perché, sebbene fosse stata tinta di nero, doveva ridurre al minimo il rischio di essere avvistato dalla riva. Durante le ore del giorno aveva tenuto la Seraph al di sotto della linea dell'orizzonte per non allarmare al-Auf. La nave si era avvicinata per calare in mare la pinaccia soltanto dopo il tramonto del sole, e li attendeva due miglia al largo dalla riva. Hal aveva concordato con Ned Tyler un sistema di segnalazioni con i razzi; se si fossero trovati nei guai, la Seraph doveva tenersi pronta a prenderli a bordo. Fino a quel momento, comunque, non avevano incontrato difficoltà, e l'estremità meridionale dell'isola sembrava deserta, anche se, doppiando la punta nord, avevano visto la luce tremolante di lanterne e fuochi da campo. Se i disegni del padre erano accurati, Hal avrebbe trovato un'insenatura riparata, nascosta dietro l'estremità meridionale dell'isola, ed era in quella direzione che stava puntando. A bordo della pinaccia c'erano venti uomini, ma voleva portarne a terra con sé soltanto alcuni. Non aveva intenzione di sferrare un attacco alla fortezza o alla flotta ancorata nella baia; quella era solo un'incursione per valutare la forza dei musulmani e per cercare di scoprire il luogo in cui Dorian era tenuto prigioniero. Sperava di sbarcare Wilbur Smith
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inosservato e andarsene di nuovo senza mettere in allarme la guarnigione o rivelare la sua presenza sull'isola. Udì lo scroscio del piombino, poi, qualche istante dopo, il sussurro da prua: «Marca quattro». Big Daniel preferiva fare lo scandaglio di persona, non fidandosi di nessuno per quell'incombenza d'importanza vitale. Il fondo risaliva sensibilmente, in quel punto; una grossa onda passò sotto la barca, sollevandola, e Hal rimpianse di non avere più luce per dirigere la pinaccia nella direzione giusta. La risacca s'infrangeva ormai a poca distanza da loro, a prua. «Tenetevi pronti, ragazzi», disse sottovoce ai vogatori, poi, non appena sentì la poppa sollevarsi con l'ondata successiva, ordinò: «Oh, ò!» La pinaccia cavalcò l'onda, proiettandosi in avanti. Con lievi correzioni del timone, Hal la convinse dolcemente a restare sulla cresta dell'onda, che si gonfiò tutt'intorno, spumeggiando, mentre la barca correva sulle acque schiumose fino ad arrestarsi improvvisamente sulla sabbia. Balzarono fuori in tre, con la pistola in pugno, affondando nell'acqua fino alla cintola prima di raggiungere la riva. Alle loro spalle, Big Daniel riportò la pinaccia in acque più profonde, oltre la linea della risacca, in attesa del loro ritorno. I tre si fermarono al di sopra del segno dell'alta marea. «Aboli, lascia qui i razzi», suggerì Hal, e il nero posò il pesante involto di tela. «Dobbiamo augurarci di non averne bisogno», brontolò. «Ora controllate la carica.» Si udirono scatti e schiocchi metallici mentre Tom e Aboli ricaricavano le pistole. Il lungo percorso a remi fino alla spiaggia e il tratto coperto a guado nella risacca avevano concesso all'acqua di mare ampie opportunità d'inumidire la polvere e impedire lo scatto del congegno. Non avevano portato con loro i fucili a canna lunga, che erano pesanti e ingombranti, oltre a non servire granché di notte. «Tutto a posto, Tom?» Hal abbassò ancor più la voce. Era angosciato per la decisione di portare il ragazzo a terra con sé. «Tutto a posto», sussurrò di rimando Tom. Hal rimpiangeva di aver pronunciato quel giuramento insieme col figlio perché questi lo usava contro di lui, ogni volta che Hal tentava di tenerlo al riparo dal pericolo. Non aveva saputo negargli la partecipazione a quella spedizione, ma adesso si consolava col pensiero che, di notte, la vista di Tom era molto più acuta della sua e anche di quella di Aboli. «Guidaci tu», disse quindi a Tom, mentre cominciavano ad avanzare in Wilbur Smith
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fila indiana, scegliendo per sé il secondo posto e lasciando Aboli in retroguardia. Il terreno era scoperto, privo di cespugli e di vegetazione, ma dovevano procedere con cautela. I nidi degli uccelli marini erano così fitti sulla sabbia corallina che c'era appena lo spazio per posare i piedi tra l'uno e l'altro; inoltre gli uccelli avevano il dorso di un nero fuligginoso che li rendeva quasi invisibili. Mentre gli uomini passavano in mezzo a loro, scavalcandoli, squittivano e gracidavano irritati, ma quel rumore veniva come assorbito dal sommesso mormorio dell'immensa colonia. Ogni tanto qualcuno infliggeva una dolorosa beccata su una caviglia scoperta, facendo anche sprizzare il sangue, però nessuno protestava. Quando, alla fine, raggiunsero il palmeto all'estremità opposta della colonia, Tom accelerò l'andatura, tenendosi al riparo delle palme, ma poco più su del limite della spiaggia corallina e della sabbia candida. Meno di mezz'ora dopo, li fece fermare di nuovo e, quando Hal gli si affiancò, puntò un dito in avanti. «Quello laggiù è il corno della baia», sussurrò. «Riesco a distinguere le navi alla fonda, però non posso dire con certezza quale sia la Minotaur.» Agli occhi di Hal l'oscurità pareva impenetrabile. Comunque Wazari gli aveva assicurato che, quattro giorni prima, la Minotaur era nella baia e, con i danni che la Seraph le aveva inflitto, era improbabile che fosse salpata nel frattempo. «Tra poco si alzerà la luna», bisbigliò di rimando al figlio. «Allora potremo accertarci anche di questo. Intanto portaci più vicino.» Avanzarono furtivi nella giungla. Il terreno era costellato di fronde secche, cadute dalle palme, che scricchiolavano sotto i loro passi. Dovettero affidarsi ancora a Tom per farsi guidare su quel terreno insidioso. Hal arricciò il naso fiutando il fumo dei fuochi da campo e gli altri odori meno piacevoli emanati dall'accampamento dei pirati, l'odore delle teste di pesce e degli avanzi che marcivano, dei mucchi di rifiuti e dei letamai a cielo aperto; poi si fermò di nuovo, captando l'odore inconfondibile delle carni umane in decomposizione. Aveva visto troppi campi di battaglia per non riconoscerlo. Pensò subito a Dorian, e dovette fare uno sforzo per allontanare dalla mente l'idea della vulnerabilità del figlio e concentrarsi invece sul compito che lo attendeva. Proseguirono lentamente. Tra gli alberi si vedevano scintillare alcune luci e, quando si fermarono di nuovo, udirono un mormorio di voci sommesse; qualcuno intonò una preghiera musulmana, mentre qualcun altro spaccava legna per il fuoco. A Wilbur Smith
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quei suoni si mescolavano i tonfi sommessi e il lieve picchiettio di sartie e alberetti, ma anche il rumore metallico della catena di un'ancora proveniente dalle navi alla fonda nella baia. Raggiunto il margine del boschetto, riuscirono a scorgere la curva dell'insenatura buia che si apriva davanti a loro. «Quella è la Minotaur», mormorò Tom. «Impossibile confonderla.» Per Hal, era solo una macchia nell'oscurità. «La luna sorgerà molto presto, ormai», rammentò al figlio. Poi rimasero in attesa. Alla fine la luna si levò nel cielo, irradiando la sua luminosità argentea, e le sagome delle navi nella baia si materializzarono davanti a loro: riuscirono a distinguere i pennoni spogli della Minotaur in controluce sul cielo stellato. Hal si accorse che c'erano altre tre navi a vele quadre nell'ancoraggio, che corrispondeva alla descrizione di Wazari. Erano tutti velieri catturati da al-Auf. «Tom, tu resti qui», sussurrò Hal. «Padre...» cominciò a protestare il figlio. «Niente discussioni!» ribatté Hal con fermezza. «Hal fatto bene il tuo lavoro, però adesso resterai qui, fuori dei guai, finché non torneremo.» «Ma, padre...» Tom era infuriato. Hal lo ignorò. «Se succede qualcosa, se... resteremo separati, tu devi tornare alla spiaggia dove siamo sbarcati e chiamare la pinaccia.» «Come intendete agire?» chiese il ragazzo. «Aboli e io andremo a dare un'occhiata più da vicino alle navi nella baia. Non c'è nient'altro che tu possa fare per renderti utile.» «Io voglio...» riprese Tom Hal lo interruppe all'istante. «Basta così! Ci ritroveremo in questo punto. Vieni, Aboli.» I due si alzarono silenziosamente e pochi istanti dopo erano scomparsi, lasciando Tom da solo, ai margini della foresta. Il ragazzo non aveva paura; era troppo infuriato. Il padre lo aveva ingannato, trattandolo come un bambino, quando lui aveva dimostrato più di una volta di non esserlo. Sono vincolato a un giuramento, pensò, in preda all'ira. Non posso starmene seduto qui, se c'è anche una minima probabilità che possa aiutare Dorry. Dovette fare appello a tutto il suo coraggio per sfidare la volontà del padre e disobbedire apertamente ai suoi ordini. Si alzò, esitando. Wilbur Smith
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È mio dovere. Si fece forza con quel pensiero. Non seguì direttamente le tracce del padre e di Aboli, decidendo invece di allontanarsi dalla spiaggia. Il padre gli aveva mostrato la carta dell'isola e i disegni dell'antica fortezza tracciati dal nonno cinquant'anni prima, dunque si era fatto una buona idea del terreno di fronte a sé e della zona verso la quale si stava dirigendo. La luna ormai era al di sopra della linea degli alberi, quindi poteva muoversi speditamente. Di fronte, vedeva la sua luce riflessa dai bastioni del forte, fatti di blocchi di pietra chiara; quando si avviò da quella parte, trovò un sentiero che portava nella stessa direzione. Man mano che avanzava, sentiva sempre più forte l'odore di corpi umani in decomposizione, finché non sbucò in una radura che si apriva nella foresta e rimase paralizzato. Di fronte a lui si stendeva un campo di morti. Corpi umani nudi erano appesi a una serie di rozze forche, offrendo uno spettacolo strano e raggelante alla luce della luna. Si sentì assalire da un terrore superstizioso, che gli impediva di attraversare quel campo. Preferì aggirarlo, restando tra gli alberi. E fu un bene, perché, prima che fosse arrivato a metà strada, lungo il sentiero passò una fila di figure avvolte nei mantelli, che attraversavano la foresta venendo dalla fortezza. Se fosse rimasto sul sentiero, sarebbe finito in mezzo al gruppo. Dopo che furono passati, si tenne al riparo delle palme e, pochi minuti dopo, raggiunse le mura del forte, inargentate dalla luna, e si accovacciò ai loro piedi. Ormai la collera era svanita e Tom si sentiva molto solo e indifeso. Sapeva che a quel punto avrebbe dovuto ammettere la propria stupidità e tornare al punto di ritrovo, prima che il padre si accorgesse della sua sparizione. Ormai non mancava molto all'appuntamento, ma Tom voleva far sì che la sua disobbedienza servisse almeno a qualcosa, e cominciò cautamente ad aggirare il forte, fino a sbucare quasi di fronte all'ingresso principale. La porta era aperta, però c'erano alcune sentinelle accovacciate sotto l'arco. Probabilmente dormivano, ma lui non poteva correre il rischio di avvicinarsi. Rimase accovacciato nell'ombra ancora per qualche minuto; una torcia accesa, fissata a un sostegno a fianco della porta, gli permise di valutare la solidità e la robustezza dei battenti della porta stessa. Poi tornò sui suoi passi, ripercorrendo il perimetro delle mura. Sul lato orientale, la luna splendeva in pieno sui blocchi chiari di corallo. Tom si rese conto che in certi punti le mura erano quasi diroccate e che una parte Wilbur Smith
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del rivestimento esterno era crollata. La giungla stava ormai per prendere il sopravvento. Gli alberi di ficus avevano insinuato le radici in profondità nelle giunture tra i blocchi e gli steli delle liane si arrampicavano sulle mura, simili a mostruosi pitoni neri sotto la luce lunare. Pensò di scalare le mura del forte per andare in cerca di Dorry. Stava riflettendo sul progetto, quando d'un tratto sentì un lieve colpo di tosse e si ritirò tra gli alberi, cercando di capire da dove provenisse il rumore. Allora vide la sagoma di una testa col turbante a un angolo dei bastioni e si rese conto che c'erano sentinelle disposte a intervalli lungo la sommità delle mura. Quando comprese la portata del rischio che aveva corso, il cuore gli balzò in petto. Avanzò furtivamente, costeggiando le mura del forte, e superò l'angolo all'estremità nordoccidentale. Si accorse che lungo quella sezione, in alto, c'erano alcune feritoie: erano però troppo strette perché chiunque potesse passarvi, tranne un bambino. Per lo più erano buie, anche se, dietro un paio di esse, s'intravedeva il chiarore di una lampada a olio o di una lanterna. Oltre quelle feritoie, dunque, si trovavano delle celle o forse delle stanze. Accovacciandosi sotto le mura, alzò malinconicamente lo sguardo verso quelle aperture. Forse dietro una di esse c'era Dorian, disteso nella sua cella da schiavo. Tom immaginò il terrore e la solitudine del fratello minore, condividendo con lui quelle emozioni con tutta l'intensità dell'amore che provava per il fanciullo. D'improvviso, senza pensarci troppo, Tom si morse le labbra e fischiettò le note iniziali della ballata Spanish Ladies: Arrivederci e adieu, belle dame di Spagna, arrivederci e adieu, o dame spagnole, perché salpar dobbiamo verso la Gran Bretagna... Poi rimase in silenzio, in attesa di una risposta che non venne. Qualche minuto dopo, si alzò per spostarsi un poco più avanti lungo il muro. Fischiettò di nuovo il motivo, e rimase in attesa. Fu allora che un movimento attirò la sua attenzione. Qualcuno aveva spostato la lampada dietro una delle finestre alte e strette; con un sussulto, Tom vide che l'angolazione era mutata. Si avvicinò. Stava per ripetere la melodia, quando individuò l'ombra di una testa frapporsi tra la lampada e la feritoia. Qualcuno stava sbirciando fuori. Poi una voce dolcissima e Wilbur Smith
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ferma sussurrò nella notte: Andremo vagando per tutto l'oceano, andremo vagando sui mari in tempesta. «Dorry!» Tom avrebbe voluto urlarlo a squarciagola, ma trattenne quel grido prima che gli salisse alle labbra. Si avvicinò ancor di più al muro, lasciando il riparo della foresta, e vide che una liana si arrampicava in alto, attorcigliandosi ai blocchi di corallo e passando a distanza di un braccio circa dalla feritoia illuminata dov'era apparsa l'ombra della testa di Dorian. Si protese per saggiare la resistenza della liana. Le mani gli tremavano di eccitazione e trepidazione, ma per fortuna la liana era solida, con le radici profondamente affondate nelle mura. Tom si slacciò la cintura della spada per posarla ai piedi del rampicante, insieme con la pistola. Poi, aggrappandosi alla liana, si issò. Con i muscoli temprati dall'esercizio continuo sull'alberatura della nave, riuscì a scalare il muro con l'agilità di una scimmia e giunse così all'altezza della feritoia. «Dorry!» bisbigliò, protendendosi verso l'apertura. La risposta fu immediata. «Tom! Oh, lo sapevo che saresti venuto. Sapevo che avresti mantenuto la promessa.» «Ssst, Dorry! Non così forte. Riesci a uscire dalla finestra?» «No, sono incatenato al muro.» «Non piangere, Dorry. Ti sentiranno.» «Non sto piangendo.» I singhiozzi di Dorian spezzavano il cuore, anche se lui si copriva la bocca con le mani per soffocarli. «Pensi che riuscirei a entrare?» domandò Tom. «Così potrei passare dall'altra parte per liberarti.» «Non lo so... La finestra è così piccola, e tu sei tanto grande.» «Non ci sono altre soluzioni. Voglio tentare.» Tom si spostò con grande cautela da un appiglio all'altro, aggrappandosi alla parte di liana che passava più vicino alla feritoia. La sentì piegarsi sotto la sua stretta, tuttavia continuò lentamente ad avanzare fino all'estremità. Era lontano ancora tre piedi almeno dal davanzale della finestra, sospeso a venti piedi da terra. Lasciò la presa con una mano, protendendosi oltre il varco. «Fa' attenzione, Tom!» Riuscì a trovare una crepa nel muro che gli forniva un buon appiglio, e poté staccare l'altra mano dalla liana. Si dondolò per superare il vuoto, Wilbur Smith
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appeso alla mano destra e cercando freneticamente una presa con l'altra mano; nel contempo artigliava con i piedi la liscia superficie del corallo sotto il davanzale, ma senza riuscire a trovare un appoggio. «Qua!» Dorian fece passare entrambe le mani dalla feritoia. «Dammi la mano.» Con gratitudine, Tom intrecciò le mani a quelle del fratello, nella presa tipica dei marinai. Il suo peso trascinò il bambino in avanti, incastrandogli le spalle nell'apertura, e Tom si rese conto che, se era troppo stretta persino per la corporatura minuta di Dorian, lui, che aveva le spalle larghe e muscolose, non sarebbe mai riuscito a passare da quel varco. Era in trappola. Non poteva entrare dalla finestra e la liana ormai era distante tre spanne, troppo lontana per raggiungerla con la mano sinistra. «Non funziona, Dorry... Dovremo tornare a prenderti.» «Ti prego, Tom, non lasciarmi qui.» La voce di Dorian si alzò in un singhiozzo isterico. «La Seraph ci aspetta poco lontano dalla riva. Siamo tutti qui, nostro padre, Big Daniel, Aboli e io. Torneremo presto a prenderti.» «Tom!» «No, Dorry, non fare tanto chiasso. Ti giuro che torneremo a prenderti.» Tom stava tentando di agganciare di nuovo la liana per calarsi, ma Dorian gli si era aggrappato all'altro polso con la presa spasmodica di chi sta annegando. «Tom! Non lasciarmi solo, Tom!» «Lasciami andare, Dorry! Mi farai cadere.» Si sentì gridare dai bastioni sopra di loro. Una voce intimò in arabo: «Chi va là? Chi c'è, laggiù?» «Le sentinelle, Dorry! Lasciami andare!» Alzando il capo, Tom vide due teste profilarsi contro il cielo stellato, scrutandolo dall'alto dei bastioni. Lui era schiacciato contro la parete, con una mano precariamente aggrappata alla liana e l'altra trattenuta da Dorian. Scorse uno degli uomini in alto sollevare la canna del jezail oltre la sommità del muro per mirare verso di lui. «Lasciami, Dorry.» Puntando i piedi contro i blocchi di corallo, si proiettò all'indietro proprio nel momento in cui il jezail sparava e una lingua di fuoco e di scintille scaturiva dalla canna. Tom sentì il proiettile sibilare vicino alla sua testa, ma stava già cadendo a capofitto giù dalle mura, precipitando in caduta libera; urtò il terreno con una violenza tale da rimanere stordito. Era senza fiato e dovette restare Wilbur Smith
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disteso per qualche minuto, tentando di riempirsi di nuovo i polmoni d'aria. Un altro colpo sparato dai bastioni servì, se non altro, a rianimarlo. Stavolta non sentì il proiettile, ma si alzò di scatto, ancora ansimando, con i polmoni che sibilavano. Tentò di rientrare di corsa nel bosco, ma, non appena caricò il peso sul piede sinistro, sentì un dolore lancinante che arrivava fino all'inguine, come se fosse stato punto da una vespa gigante. Si costrinse ad avanzare nonostante il dolore. Ritrovando la sciabola e la pistola, le raccolse al volo senza smettere di correre verso il margine della foresta, saltellando per non pesare sulla caviglia ferita. Dietro di sé udiva i singhiozzi fiochi di Dorian che gli spezzavano il cuore, lamenti acuti e desolati nei quali si distingueva solo il nome di Tom. Lo facevano soffrire ancor più della caviglia malconcia; prima che riuscisse a coprire un centinaio di iarde, gli spari e le grida avevano ridestato tutta la guarnigione dei pirati. Tom si concesse una sosta, appoggiandosi al tronco di un albero. Mentre si allacciava la cintura della spada, cercò di orientarsi per decidere che cosa fare. Sapeva che, senza aiuto, non ce l'avrebbe fatta a raggiungere la punta sud, dove li aspettava la barca. Gli restava soltanto la speranza che il padre e Abolì, allarmati dal frastuono, tornassero indietro a cercarlo, ma, nel buio della notte, quella gli sembrava una speranza vana. Non ebbe molto tempo per prendere una decisione, perché all'improvviso il bosco si animò, popolandosi di uomini. Si lanciavano grida e richiami e, a intervalli di pochi minuti, si udiva una salva di colpi di arma da fuoco: stavano sparando alle ombre. «Chi è? Che succede?» Ce n'erano altri che salivano dalla spiaggia, tagliando la strada a Tom per il luogo convenuto dell'incontro col padre. «È un infedele, l'ho visto in faccia.» «E ora dov'è?» «È fuggito in direzione della baia.» «Ma da dove veniva? Non c'è nessuna nave infedele.» Le voci si stavano avvicinando; Tom sentì uomini che correvano in mezzo alla vegetazione facendo frusciare i cespugli. Si staccò dal tronco dell'albero, appoggiando di nuovo il peso sulla caviglia, e avanzò saltellando. Non aveva percorso neanche cinquanta iarde che si sentì uno sparo poco lontano, alle sue spalle. «Eccolo! Non ve lo fate sfuggire!» urlò qualcuno. Risuonò un altro colpo e Tom, sentendo il proiettile conficcarsi Wilbur Smith
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nel tronco di una palma accanto a lui, appoggiò a terra anche il piede infortunato, costringendosi a correre. Il sudore causato dalla paura e dalla sofferenza gli inondò il corpo, scorrendo lungo il viso al punto di accecarlo. Ogni passo era un tormento che gli oscurava la vista con miriadi di puntini luminosi, eppure il giovane continuò a correre ugualmente. Gli inseguitori guadagnavano terreno su di lui; voltandosi, individuò le loro tuniche bianche svolazzare nella foresta alle sue spalle. Aggirò un gruppo di cespugli troppo fitto per passarci in mezzo e, arrivato dalla parte opposta, si sentì improvvisamente afferrare alle spalle e gettare a terra. Superato lo shock, si dibatté selvaggiamente, nel tentativo di colpire l'aggressore, ma la presa che gli serrava il polso era simile a un cerchio d'acciaio. Il peso dell'uomo sulla schiena lo schiacciava contro il terreno sabbioso. «Tom!» gli sussurrò all'orecchio la voce del padre. «Non agitarti, non fare rumore.» Lui si sentì travolgere da un'ondata di sollievo. «Sei ferito?» chiese poi Hal, in tono ansioso. «Come mai zoppichi?» «La caviglia», rispose il ragazzo. «Sono caduto, e credo che sia rotta.» Ormai i rumori dell'inseguimento erano molto vicini. «Lo Hal visto?» gridò uno degli arabi. «Da che parte è andato?» «L'ho visto andare da quella parte», rispose una voce. Il cerchio cominciava a chiudersi. Poi si sentì brontolare la voce di Aboli: «Il ragazzo non può superarli nella corsa. Ci penserò io a sviarli, per offrirvi una possibilità di tornare verso la barca». Si alzò dal punto in cui si trovava, accanto a Hal, sfrecciando via nella notte. Quando fu lontano una ventina di iarde da loro, ruggì in arabo: «Eccolo! Sta tornando indietro verso la parte opposta dell'isola. Tagliategli la strada!» Sparando un colpo di pistola, tornò indietro attraverso la foresta. Si sentì subito un gran trambusto di grida e di spari. «Eccolo laggiù!» «Da questa parte! Tagliategli la strada!» Hal schiacciò il viso di Tom sul terreno, ricoperto di foglie secche. «Resta così! Non muoverti!» Tom udì alcuni passi poco lontano, ma non tentò di alzare la testa. Sentì gli inseguitori allontanarsi verso la costa orientale dell'isola con un gran fruscio di sterpaglia, mentre le grida di Aboli diventavano sempre più fioche. A poco a poco tornò a regnare il silenzio e Hal mollò la presa sul Wilbur Smith
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collo di Tom. «Qual è la gamba?» gli domandò in tono brusco, non troppo comprensivo. Tom, ancora ansimante, si rizzò a sedere. «Questa.» Hal fece scorrere le dita sulla caviglia. «Hal abbandonato il tuo posto», esclamò in tono cupo, mentre lavorava. «Avresti potuto farci ammazzare tutti. La tua ostinata stupidità ha messo Aboli in serio pericolo.» «Mi spiace, ma dovevo farlo», replicò Tom col fiato corto, poi proruppe: «Ho trovato Dorry». Le mani di Hal si fermarono di colpo. L'uomo fissò Tom, intravedendone il volto pallido alla luce della luna che filtrava dagli alberi. «Lo Hal trovato? E dove?» «Dentro la fortezza. Gli ho parlato attraverso la finestra.» «Mio Dio!» sussurrò Hal, dimenticando la collera. «Come sta?» «È molto spaventato, però non gli hanno fatto del male. Lo hanno incatenato in una delle celle sul lato nordoccidentale.» Hal rifletté. «Ormai non possiamo fare nulla per lui», decise. «Dobbiamo tornare sulla nave.» Strinse con forza la spalla del figlio: «Ben fatto, Tom, ma non disobbedirmi mai più. La tua caviglia si sta gonfiando in fretta e dobbiamo tornare alla spiaggia». Alzandosi, lo rimise in piedi. «Su, appoggiati a me.» Impiegarono quasi tutto il resto della notte per tornare indietro, attraverso la foresta, fino alla punta meridionale dell'isola. Benché il dolore alla caviglia fosse lancinante, Tom si preoccupava per Aboli. Ogni mezz'ora si fermavano per mettersi in ascolto, cercando di sentire se stava arrivando o di captare i suoni dell'inseguimento, ma non udirono più nulla. La luna cominciava a calare quando finalmente sbucarono barcollando sulla spianata che ospitava la colonia di uccelli marini. Ormai la caviglia di Tom era gonfia come una vescica di maiale; Hal dovette trascinare il ragazzo e, per qualche tratto, fu persino costretto a trasportarlo di peso. Avanzando, schiacciarono con i piedi le uova dei nidi, e gli uccelli si alzarono in volo come una nuvola nera, volando intorno a loro e lanciando versi striduli al chiaro di luna. Talvolta si abbassavano per beccarli sulla testa, ma, fortunatamente, Hal e Tom portavano il berretto. «Copriti gli occhi», sussurrò Hal al figlio, mentre tentavano di respingere con le mani quelle creature, «hanno il becco tagliente come una lancia.» Wilbur Smith
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«Gli uomini di al-Auf sentiranno un simile frastuono a miglia di distanza», commentò Tom. Alla fine, nonostante la cacofonia degli uccelli, udirono la risacca che s'infrangeva sulla spiaggia della baia e percorsero vacillando l'ultimo breve tratto che li separava dal mare. Hal vide la chiazza scura sulla sabbia, dove aveva lasciato il pacco di razzi per le segnalazioni. «Sia ringraziato il Signore», mormorò, perché erano quasi allo stremo delle forze. «Attento! È un'imboscata.» Una sagoma scura ed enorme era sbucata dalle tenebre davanti a loro. Hal lasciò cadere Tom sulla sabbia per sguainare la spada. «Come mai ci avete messo tanto, Gundwane? Tra un'ora farà giorno», disse la voce di Aboli dalle tenebre. «Abolì! Che Dio ti benedica!» «La barca vi aspetta appena oltre la linea della risacca», annunciò Aboli, prendendo in braccio Tom come se fosse un bambino. «Non lanciate razzi, che metterebbero il nemico in allarme. Forza, è venuto il momento di andarsene da qui.» Lanciò un fischio secco e acuto, ricevendo un'immediata risposta dal mare. Poi Tom udì il cigolio dei remi sugli scalmi mentre Big Daniel si avvicinava con la pinaccia per prenderli a bordo. La Seraph era diretta verso terra nella notte buia, prima che sorgesse la luna. Erano trascorsi due giorni dallo sbarco di Hal e Tom e dalla loro rocambolesca fuga dall'isola. La nave percorse in silenzio l'ultimo miglio, poi, obbedendo all'ordine impartito sottovoce da Hal al timoniere, virò alla brezza leggera e accostò. Hal si diresse verso la battagliola, tendendo l'orecchio: il rombo della risacca sulle spiagge esterne di Flor de la Mar era fioco, ma inconfondibile. «Siamo all'incirca un miglio al largo.» Ned Tyler confermò la sua valutazione. «Calate in mare le pinacce», ordinò Hal. «Vi affido il comando della nave, mastro Tyler. Mantenete questa posizione, in attesa del nostro segnale.» «Sì, comandante. E buona fortuna.» Le pinacce erano allineate in coperta. Una dopo l'altra, furono calate in mare lungo le murate, poi gli uomini armati vi presero posto in fretta e in Wilbur Smith
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silenzio, allineandosi sui banchi dei vogatori. Quando Hal si diresse verso il parapetto e la scaletta, Tom lo stava aspettando, appoggiato alla stampella che uno dei carpentieri aveva fabbricato per lui. «Vorrei tanto venire con voi, padre», disse in tono ansioso. «Mi taglierei volentieri questa gamba, pur di poterlo fare.» Batté con la stampella sul ponte, furioso. Il dottor Reynolds aveva decretato che, anche se l'osso non era fratturato, Tom non avrebbe potuto camminare per molte settimane. «Certo, il tuo braccio ci avrebbe fatto comodo, Tom», ribatté il padre. Sebbene, con la sua disobbedienza, avesse messo tutti in grave pericolo, Hal lo aveva già perdonato. «Vuoi cercare Dorry?» «Sai bene che vogliamo solo attaccare le navi nella baia. Dopo l'altra notte, al-Auf di certo sa che ci troviamo al largo dell'isola, e i suoi uomini saranno all'erta. Senza il vantaggio della sorpresa, non potremmo mai sperare di conquistare la fortezza, con un numero così ridotto di uomini.» «Divento pazzo al pensiero di quello che quei porci possono fare al povero Dorry.» «È lo stesso per tutti noi, ma, una volta catturate o bruciate le navi di alAuf, li avremo intrappolati sull'isola e lui non potrà fuggire con Dorian. Allora, quando il comandante Anderson ritornerà con la Yeoman, avremo forze sufficienti per attaccare la fortezza. Fino a quel momento dobbiamo mantenere la calma.» «Prego Dio che la Yeoman torni presto.» «Sì, ragazzo, prega! Non ha mai fatto male a nessuno. Nel frattempo, però, rinforzeremo le tue preghiere con un pizzico di polvere nera e di acciaio», replicò Hal con aria truce, scendendo verso la pinaccia in attesa. Si allontanarono dalla murata della Seraph, con Hal al comando della piccola flotta, a bordo della prima pinaccia. Big Daniel comandava la seconda e Alf Wilson era alla testa delle due. Dietro di loro, la Seraph si mise al vento con la velatura ridotta, disponendosi ad attendere per lunghe ore il ritorno degli uomini. I remi delle barche erano avvolti nella stoffa per attutirne il rumore e gli uomini si attenevano a un rigoroso silenzio, avvicinandosi all'isola di soppiatto. Hal navigava orientandosi con la bussola e fermandosi ogni tanto per prestare ascolto al suono della risacca. Ogni volta diventava più forte, e infine l'uomo a prua puntò il dito in avanti. Balzando in piedi a Wilbur Smith
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poppa della barca, Hal scorse un gruppetto di fuochi, che segnalavano l'accampamento sotto le mura del forte. Si rese conto che la corrente li aveva spinti a sud; modificò quindi la rotta per puntare verso il varco nella barriera corallina che consentiva l'accesso alla baia. Aveva quasi l'impressione di fiutare la tensione nervosa che attanagliava l'equipaggio della pinaccia. Per tutti i marinai, il fatto di dover portar via una nave nemica da un ancoraggio protetto aveva un'attrattiva particolare; quella tattica di sfida al leone nella sua tana era una specialità inglese, un'innovazione introdotta da uomini come Drake, Frobisher e Hawkins. Hal aveva uomini sufficienti per catturare soltanto due delle navi che aveva visto nella baia. Aboli e lui le avevano studiate con cura, dalla spiaggia; la luna aveva fornito una luce sufficiente per consentirgli di fare la sua scelta. Per prima, naturalmente, veniva la Minotaur. Nonostante la negligenza mostrata dai pirati nella sua manutenzione e i gravi danni riportati nel breve scontro con la Seraph, era ancora un bastimento di grande valore. Hal calcolava che, una volta rimorchiato a Londra, avrebbe potuto valere diecimila sterline. Non aveva modo di sapere quanto era rimasto a bordo del carico iniziale, ma era possibile che fosse una percentuale ragguardevole. L'altra nave che aveva scelto era un Dutchman, un bastimento di costruzione olandese che evidentemente era stato catturato alla voc. Si trattava di una solida nave dal fondo ampio, costruita secondo lo stile di Rotterdam, che avrebbe potuto trasportare un carico pari a quello della Minotaur. Se fosse riuscito a riportarle in patria entrambe, quella notte di lavoro gli avrebbe fruttato ventimila sterline. Proteso in avanti dal suo posto al timone, sussurrò agli uomini più vicini a lui: «Ci sono venti sterline a testa che vi aspettano alla fonda nella baia. Passate parola». I marinai si lasciarono sfuggire una risatina eccitata, piegandosi sui banchi per trasmettere il messaggio lungo la pinaccia. Non c'è niente che valga l'odore dell'oro per stimolare la sete di sangue nei marinai inglesi, pensò Hal, sorridendo tra sé nel buio. Era un vero peccato che non potesse portare fuori della baia anche le altre navi: altri due velieri e una dozzina di dhow di varie forme e misure avrebbero arricchito piacevolmente il bottino... E invece avrebbe dovuto accontentarsi di aspirare il fumo delle loro pire funerarie. Mentre si avvicinavano al passaggio nella barriera, le altre barche si disposero in linea di fila dietro di lui, seguendolo. Era quello il momento Wilbur Smith
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in cui l'intera spedizione poteva finire prima ancora di cominciare, concludendosi in un bagno di sangue. Come guida aveva soltanto la carta nautica del padre e la sua conoscenza istintiva della navigazione. Si alzò più che poté sul banco di poppa, con lo sguardo fisso in avanti. Teneva d'occhio il ribollire della risacca che si arricciolava, bianca di spuma, sui micidiali spuntoni affilati della barriera corallina, sforzandosi d'individuare i tratti scuri verso l'estremità settentrionale, dove le acque più profonde restavano tranquille. «Cominciate lo scandaglio», sussurrò. Udì il leggero tonfo del filo piombato che veniva gettato a prua. Pochi istanti dopo, giunse la risposta sommessa dell'uomo di testa: «Niente fondo con questa sagola». Si trovavano ancora al di qua del punto in cui il fondo risaliva bruscamente. D'improvviso si udì un'esclamazione sorpresa provenire da prua e, guardando in avanti, Hal vide un grosso dhow che percorreva il canale venendo dritto verso di loro, con la vela triangolare che intercettava il chiaro di luna e la scia che lasciava una lunga traccia vitrea nel passaggio. Era in rotta di collisione con la pinaccia. Per un attimo, si sentì tentato: si trattava di una grossa imbarcazione, quasi certamente carica di tesori acquistati da al-Auf, e in più non sospettava niente e quindi era vulnerabile. Ci sarebbero voluti pochi minuti per arrembarla e sottomettere l'equipaggio; ne sarebbero bastati cinque per condurla verso la Seraph in attesa. Esitò. Se fosse riuscito a condurre a buon fine l'operazione, le tasche di tutti gli uomini della Seraph si sarebbero riempite d'oro; d'altra parte, se avesse incontrato resistenza e fosse scoppiato un combattimento sul ponte, i rumori della lotta avrebbero attirato gli arabi sulla spiaggia. Attaccare il dhow o lasciarlo andare? Hal non aveva che pochi secondi per decidere. Lanciando un'occhiata oltre l'imbarcazione in arrivo, verso il cuore della baia, scorse gli alberi spogli della Minotaur stagliarsi alti e fieri sullo sfondo delle stelle. Poi volse lo sguardo indietro, verso il dhow che gli veniva incontro. Devo lasciarlo andare, pensò. Prese la decisione fatale e sussurrò con forza all'equipaggio: «Mettere in panna». I vogatori interruppero il ritmo, sollevando in superficie la punta dei lunghi remi e lasciando andare la barca alla deriva, finché non rimase silenziosa e bassa sulle acque buie. Dietro di loro, le altre barche seguirono il suo esempio. Wilbur Smith
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Il grande dhow superò l'ultima curva del passaggio, e il punto in cui si trovava la pinaccia, senza che nessuno lo disturbasse. Una vedetta sul ponte li avvistò, salutandoli in arabo. «Chi siete?» «Pescatori, con la pesca della notte.» Hal modulò la voce in modo che non arrivasse fino a riva. «E voi?» «La barca del principe Abd Muhammad al-Malik.» «Andate con Allah!» li salutò Hal, mentre l'imbarcazione puntava a ovest, scomparendo sulla distesa buia dell'oceano. «Via!» ordinò subito dopo, osservando i lunghi remi avanzare e immergersi nell'acqua, descrivere un arco e risollevarsi all'unisono, gocciolando dall'estremità. Puntò la prua nel punto esatto in cui era passato il grande dhow. «Marca dieci.» Lo scandaglio aveva incontrato il fondo. La carta di Sir Francis si era rivelata ancora una volta esatta, confermata, agli occhi di Hal, dal passaggio del dhow. Vogarono per inserirsi nel varco, e l'acqua s'infranse ai lati del passaggio. «Marca cinque.» Stavano entrando nella strozzatura. «Calate in mare la boa numero uno!» ordinò Hal. L'uomo che manovrava lo scandaglio, a prua, la gettò in mare oltre la murata, lasciando filare rapidamente la cima attaccata al barilotto pitturato di bianco. Voltandosi, Hal vide il barilotto sussultare nella loro scia; gli sarebbe servito da punto di riferimento nel portare fuori della baia la Minotaur. Si girò di nuovo in avanti, socchiudendo gli occhi per fissare le mura del forte, che apparivano pallide al chiaro di luna, allineandole idealmente con la punta estrema della barriera. «Ora!» mormorò, eseguendo la prima accostata del tortuoso passaggio. Le altre barche seguirono la sua rotta. «Marca quattro, tre e mezzo.» «Troppo vicino alla barriera esterna.» Hal corresse quasi impercettibilmente la rotta per mantenersi al centro del canale. D'un tratto, la voce dell'uomo a prua tradì l'ansia repressa. «Verso marca due!» Mentre riceveva quell'avvertimento, Hal notò la forma del corallo davanti a sé, scuro e minaccioso come un mostro, e si aggrappò al timone, riprendendo la barca appena in tempo, perché stavano quasi per uscire dal canale. «Verso marca sette!» Il tono dell'addetto allo scandaglio rivelava il sollievo. Avevano superato le zanne di corallo ed erano entrati nelle acque del porto, dove le navi nemiche, ignare del pericolo, si dondolavano Wilbur Smith
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tranquillamente all'ancora. «Calare la boa numero due!» sussurrò Hal. La lasciarono al centro del passaggio, per segnalare la via d'uscita. Guardando dietro di sé, Hal comprese che le altre barche si stavano disponendo a ventaglio. Aveva assegnato a ciascuno di loro un bersaglio: a lui toccava la Minotaur; Big Daniel, a bordo della seconda pinaccia, avrebbe preso il Dutchman, mentre le barche dovevano attaccare e bruciare tutti gli altri scafi all'ancora. Hal virò per raggiungere il maestoso East Indiaman, che si trovava nel punto più profondo della baia, proprio di fronte alla fortezza. Vediamo un po' fino a che punto la guardia all'ancora ha gli occhi buoni, pensò, aspettando che fosse lanciato il primo allarme; ma la Minotaur rimase alta, buia e silenziosa, mentre loro si avvicinavano di poppa, incocciando le catene. Aboli partì per primo, scavalcando il parapetto di slancio. Impugnando la massiccia ascia a doppio taglio, atterrò silenziosamente sul ponte con i piedi nudi, poi corse in avanti con agilità, seguito da un gruppo di uomini della prima pinaccia. A metà del ponte, un uomo di guardia si alzò faticosamente dal posto in cui stava dormendo, al riparo della murata. Era incerto sulle gambe, chiaramente sveglio solo a metà. «Chi siete?» La sua voce suonò stridula per l'allarme. «Non vi conosco!» Cercò di afferrare il fucile appoggiato alla murata, accanto a lui. «Vattene con Dio!» disse Aboli, calando l'ascia in un ampio arco lampeggiante. Colpì l'uomo in pieno sul lato del collo, troncandolo di netto, e la testa ricadde in avanti e rotolò lungo il petto, mentre il corpo restava eretto ancora per un istante prima di accasciarsi sul ponte. L'aria gli sfuggì dai polmoni in un soffio sibilante di sangue schiumoso, attraverso la trachea aperta. Aboli scavalcò il cadavere con un salto, per raggiungere in una dozzina di lunghe falcate il cavo dell'ancora teso attraverso la cubia. Lanciando un'occhiata dietro di sé, vide che Hal era già al timone. Il resto dell'equipaggio della Minotaur, ridotto all'osso, era stato sconfitto senza clamore, e i loro corpi vestiti di lunghe tuniche erano disseminati qua e là in coperta. Alzando la testa, vide che quasi tutti i marinai della Seraph stavano sciamando sulle sartie e disponendosi lungo i pennoni. La Minotaur era stata costruita nello stesso cantiere della Seraph e l'alberatura delle due navi era quasi identica. I gabbieri si misero al lavoro senza mostrare segni di esitazione. Wilbur Smith
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Mentre la vela di maestra spiegava le Ali come una farfalla che emerge dalla crisalide, Aboli sollevò l'ascia al di sopra della testa, vibrando un colpo con tutt'e due le mani. La lama si conficcò nel tavolato del ponte con un tonfo sordo e il cavo dell'ancora si spezzò con una vibrazione sonora. La Minotaur si mosse, sospinta dalla brezza notturna, prima che il timone e la spinta delle vele che si gonfiavano riuscissero a controllarne la direzione. Hal girò tutta la ruota a dritta, e la Minotaur si mise al vento con la delicatezza di un amante raffinato. Soltanto allora Hal poté permettersi di dedicare un'occhiata alle altre imbarcazioni della sua flotta. Sul ponte del Dutchman si stava svolgendo un combattimento: udì il tintinnio metallico della lama di una spada contro una scimitarra e il fioco grido agonizzante di un uomo trafitto al cuore. Poi le vele si spiegarono sui pennoni e la grande nave si diresse verso l'ingresso della baia. In quel momento si vide tremolare una luce, che ben presto crebbe d'intensità fino a illuminare tutto il ponte della Minotaur. Hal riuscì a distinguere i lineamenti di Aboli, che attraversava il ponte per tornare verso di lui. Girando su se stesso, scoprì che la nave più vicina a lui era in fiamme: gli uomini della barca comandata da Alf Wilson si erano arrampicati a bordo, uccidendo l'equipaggio e gettando torce impregnate di pece nella stiva e sulla vela. Le fiamme si estesero allo scafo, attaccando l'alberatura. Il fuoco si propagò come una miccia accesa, tracciando strisce fiammeggianti sullo sfondo del cielo buio, poi raggiunse le vele ammainate sui pennoni ed esplose, formando una torre ardente più alta delle palme sulla spiaggia. Gli uomini di Alf tornarono a precipizio sulla barca, arrancando con i remi verso la successiva nave all'ancora, dove l'equipaggio, composto da arabi, li aveva già visti arrivare. Non ci fu però lotta: gli arabi spararono qualche colpo a casaccio, poi gettarono le armi e saltarono fuori bordo, tuffandosi in acqua con una serie di spruzzi bianchi e cercando freneticamente di raggiungere a nuoto la spiaggia. Una dopo l'altra, le navi all'ancora furono attaccate dalle fiamme, rischiarando la baia come se fosse mezzogiorno. Ombre e luci proiettate dagli incendi si riflettevano nitide sulle mura del forte, e dai bastioni partì il primo colpo di cannone. Hal non riuscì a vedere dov'era finito il proietto, perché era intento a virare di bordo con la Minotaur così da allinearla con l'ingresso del canale. Il barilotto galleggiante che avevano lasciato lì per Wilbur Smith
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contrassegnare il passaggio spiccava nitido alla luce delle fiamme, così alte che si riusciva persino a distinguere la parte inferiore della barriera corallina, sotto la superficie. «Tutti gli uomini ai loro posti!» gridò con voce tonante, cominciando la delicata manovra necessaria per governare la nave, con un numero di uomini così esiguo, entro i confini ristretti della baia. Non c'era margine di errore; bastava sbagliare una virata e sarebbero finiti sulla spiaggia, oppure la Minotaur si sarebbe schiantata contro il corallo. Oltretutto, si tirava dietro a rimorchio la pinaccia, e il suo peso avrebbe fatto da ancora galleggiante, alterando il comportamento della nave; avrebbe dovuto tenerne conto, al momento di virare. In quel momento la Minotaur puntava direttamente verso il forte e, alla luce danzante delle fiamme, Hal vide gli artiglieri arabi affannarsi intorno ai pezzi. Prima che raggiungesse il barilotto che segnalava l'ingresso al passaggio, un cannone sparò, e poi un altro. Un foro perfettamente circolare si aprì come per incanto nella vela di maestra; gli artiglieri non avevano fatto il minimo sforzo per diminuire l'alzo dei cannoni, per cui tutti i loro colpi volavano troppo in alto rispetto al bersaglio. Lanciando una rapida occhiata a poppa, Hal vide che Big Daniel, a bordo del Dutcbman, lo seguiva a una sola tesa di distanza. Anche Big Daniel rimorchiava una pinaccia: non intendevano lasciare al nemico neanche un premio di consolazione. All'interno della baia, le barche avevano completato la loro opera di distruzione e tutte le navi nemiche erano in fiamme. Il cavo dell'ancora di una delle grandi navi a vele quadre fu consumato dalle fiamme e il veliero cominciò a spostarsi alla deriva verso la spiaggia, come un falò in movimento. D'un tratto il fuoco raggiunse la santabarbara e la nave saltò in aria con un rombo di tuono; l'albero di maestra fu scagliato via come un giavellotto e, nel ricadere, infilzò uno dei dhow più piccoli, trapassando i ponti e sfondando la carena, cosicché l'imbarcazione affondò di poppa. L'onda d'urto dell'esplosione capovolse altri due dhow che si trovavano più vicini, sollevando un'onda di marea che investì tutto lo specchio d'acqua. Hal cercò di avvistare le barche, temendo che fossero state travolte dalla violenza dell'esplosione. Dopo un po', riuscì a individuarle: per quanto beccheggiassero e rollassero sulle acque sconvolte dallo scoppio, procedevano di buona lena per raggiungere la Minotaur, con gli uomini che arrancavano a ritmo frenetico, piegati sui remi. Allora Hal tornò a dedicarsi al compito di guidare la nave attraverso il canale. Wilbur Smith
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Lasciandosi il barilotto a sinistra, alla distanza di un remo, affrontarono in velocità l'imboccatura del canale, passando sotto i cannoni che dominavano i bastioni del forte. Hal ebbe pochi secondi di tregua prima della seconda svolta, e li usò per sollevare lo sguardo verso le batterie. Alcuni artiglieri si erano accorti del loro errore, e stavano abbassando la linea di mira dei pezzi; cambiavano l'angolazione delle bocche da fuoco che sporgevano dalle mura, mentre i serventi diminuivano l'alzo, manovrando il pesante affusto. «Tenetevi pronti a bordare la vela di maestra», ordinò Hal al suo minuscolo equipaggio. Ognuno degli uomini era costretto a fare il lavoro di tre, ma, quando manovrò il timone, gridando: «Oh, ala!», gli uomini scattarono, lanciando un grido all'unisono, e la Minotaur virò di bordo scivolando con grazia nel canale e sfiorando le braccia tese e minacciose del corallo da entrambi i lati. Guardando indietro, Hal vide Big Daniel compiere la stessa manovra seguendo la scia della Minotaur. «Indistruttibile!» mormorò con ammirazione. La batteria sulle mura alle sue spalle sparava freneticamente, tanto che il fumo dei cannoni aveva ormai creato un fitto banco di nebbia che i lampi del bombardamento squarciavano con lunghe fiammate luminose. Gli artiglieri avevano abbassato la linea di mira: una palla di cannone sollevò una fontana di spruzzi scintillanti proprio sotto la volta di poppa della Minotaur. Hal si lasciò sfuggire un sorriso da lupo. La prossima virata avrebbe portato la nave lontano dal forte, e i colpi di cannone volavano ormai troppo bassi. Gli artiglieri avrebbero perso un po' di tempo prima di rendersene conto e, a quel punto, lui sperava di essersi lasciato alle spalle il canale, puntando verso il mare aperto. «Pronti a virare!» gridò, vedendo la boa numero uno che danzava sulle onde alla luce delle fiamme, proprio davanti a loro. Uno dei marinai corse a prendere il suo posto presso la vela di maestra, ma, proprio mentre passava alla distanza di un braccio da Hal, un colpo li investì. Hal dovette aggrapparsi con tutt'e due le mani ai raggi della ruota per non perdere l'equilibrio. La palla di pietra, avvolta dalle esalazioni della polvere da sparo che l'aveva proiettata fin lì, colpì in pieno il marinaio che correva, investendolo nella parte alta della schiena. Il corpo rimase maciullato dall'impatto e il cranio esplose, investendo Hal in piena faccia. Assalito dalla nausea, si ritrasse con un sussulto, sconvolto al punto da rischiare di Wilbur Smith
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valutare male la virata finale. All'ultimo momento, però, si riprese, tergendosi il viso dalla poltiglia giallastra, e con quel sapore nauseabondo sulle labbra gridò: «Mollate le vele!» virando bruscamente. La Minotaur rispose agilmente alla manovra, sfiorando il bordo della barriera corallina e sollevando la prua per cavalcare la prima onda oceanica. Mentre la barriera si allontanava alle loro spalle, Hal si girò per osservare Big Daniel che affrontava a sua volta la curva finale del passaggio: se la cavò ancora meglio di lui. Il Dutchman ruotò con leggerezza sulla carena panciuta, sbandando leggermente in risposta al cambiamento dell'angolo del vento, e poi, con la dignità di una vedova matura e rispettabile che segue la figlia più agile e frivola, riprese la scia della Minotaur, entrando nelle acque profonde del mare aperto. «Ce l'abbiamo fatta», disse sottovoce Hal, prima di alzare la voce in un grido trionfante: «Ce l'abbiamo fatta, ragazzi! Un urrà per tutti!» Fischiarono e ulularono come un branco di lupi e, dalla nave che li seguiva, gli uomini di Big Daniel seguirono il loro esempio. A bordo delle barche, i vogatori saltarono sui banchi, applaudendo, ballando e facendo capriole. Il fuoco dei cannoni della batteria proseguì, anche se ormai del tutto inutile, fornendo un accompagnamento sempre più fiacco, e l'incendio della flotta in fiamme cominciò a spegnersi, mentre essi dirigevano verso la Seraph in attesa. La mattina dopo, all'alba, la squadra di navi di Hal si mise in panna, dieci miglia a sud-ovest di Flor de la Mar. Hal si limitò a cambiarsi la camicia e a mandare giù la colazione in anticipo prima di salire sul ponte, proprio nel momento in cui il sole spuntava all'orizzonte. Quando guardò, dal cassero della Seraph, i danni riportati dalla Minotaur apparivano evidenti. Era crivellata di colpi e trascurata, con le vele logore e sporche, lo scafo macchiato e malandato. Correva alta sull'acqua: un rapido controllo, compiuto la sera prima, aveva rivelato che la stiva era del tutto vuota, però il deposito era quasi pieno di munizioni e i barilotti di polvere nera sembravano in ottimo stato. Quelle riserve avrebbero permesso a Hal di organizzare adeguatamente l'assalto finale alla roccaforte di al-Auf, che ormai era cinta d'assedio. Eppure, a dispetto delle apparenze, la Minotaur aveva bisogno solo di poche cure e ritocchi per tornare al livello ottimale. Hal non vide ragione di modificare la sua stima iniziale del valore della nave: valeva almeno Wilbur Smith
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diecimila sterline, e la sua quota personale si sarebbe avvicinata alle tremila. Sorridendo soddisfatto, puntò il cannocchiale sull'altra preda che avevano conquistato la notte precedente. Non c'era il minimo dubbio sul fatto che fosse una nave della voc, proprio come aveva sospettato. Attraverso l'obiettivo, lesse il nome scritto a lettere d'oro sullo specchio di poppa: Die Lam, cioè «l'agnello». Pensò che era una definizione azzeccata: la nave appariva placida e docile, ma le sue linee solide e ben studiate erano comunque notevoli, ai suoi occhi esperti. Era di costruzione recente, e non era rimasta nelle mani dei pirati tanto a lungo da subire danni gravi: i boccaporti delle stive apparivano ancora chiusi e, a giudicare dalla linea di galleggiamento, la nave era a pieno carico; al-Auf non aveva fatto in tempo a trasferire il carico a terra. «Fate calare la barca, mastro Tyler.» Hal richiuse di scatto il cannocchiale. «Voglio fare visita a mastro Fisher, sulla Lam, per vedere quale bottino abbiamo catturato.» Big Daniel gli venne incontro sul ponte della nave olandese, con un largo sorriso sdentato. «Congratulazioni, comandante. È una bellezza.» «Avete fatto bene anche voi, mastro Fisher. Non avrei potuto chiedere di più a voi e ai vostri furfanti.» E rivolse un sorriso a tutti i marinai sorridenti che si accalcavano intorno a Big Daniel. «Quando scenderete a terra a Plymouth, avrete tutti la borsa gonfia di monete!» gridò. La risposta fu un urrà fragoroso. «Quanti di questi valorosi ragazzi sono rimasti uccisi?» domandò Hal, abbassando la voce. Invece Big Daniel gli rispose a voce alta: «Neanche uno, sia lodato Dio, anche se il giovane Peter ha perso un dito, tranciato da un colpo di cannone. Fallo vedere al comandante, ragazzo». Il giovane marinaio sollevò il moncherino dell'indice, avvolto in uno straccio sporco. «Aggiungerò una ghinea d'oro alla tua quota del bottino», gli promise Hal, «così non sentirai il dolore.» «A quel prezzo, potete prendervi anche le altre quattro dita, comandante.» Il marinaio si lasciò sfuggire un gran sorriso e i suoi compagni scoppiarono a ridere, tornando ai loro posti. Big Daniel precedette Hal. «Abbiamo trovato questi, ancora incatenati sul castello di prua.» Gli indicò il gruppetto di stranieri coperti di stracci che si erano rannicchiati intorno all'albero di trinchetto. «Sono i superstiti Wilbur Smith
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dell'equipaggio olandese. Ventitré belle teste di formaggio, tutte destinate da al-Auf al mercato degli schiavi.» Hal li esaminò in fretta. Erano magri, ma non emaciati, e, pur avendo delle piaghe alle caviglie e ai polsi, lasciate dalle catene, e solchi rossi in rilievo sul dorso e sugli arti, segni del kiboko arabo che era stato usato su di loro, sembravano ancora in uno stato di salute discreto. Come la Lam, non erano rimasti prigionieri tanto a lungo da riportare danni troppo seri. «Questo è il vostro giorno fortunato, jongens», li salutò, parlando in olandese. «Siete di nuovo uomini liberi.» I loro volti si rischiararono. Hal, dal canto suo, era felice della loro presenza: con altre due navi, aveva bisogno di tutti gli uomini che riusciva a trovare. «Volete firmare il contratto per il resto del viaggio, in cambio di un compenso di una ghinea al mese e di una quota del bottino?» I sorrisi si allargarono, e la risposta fu entusiastica. «C'è qualche ufficiale, tra voi?» «No, mjnheer», rispose il loro portavoce. «Il nostro comandante, van Orde, è stato massacrato insieme con tutti gli ufficiali da questa feccia pagana. Io ero il timoniere del comandante.» «Conserverete il grado che avevate», gli disse Hal. «Tutti questi uomini saranno ai vostri ordini.» Se lasciava tutti insieme i marinai olandesi, pensò, il problema della lingua sarebbe stato risolto. Del resto, Big Daniel aveva imparato a parlare bene l'olandese, mentre erano prigionieri al capo di Buona Speranza. «Questi saranno i vostri agnellini», disse, rivolto appunto a Big Daniel. «Fate mettere loro una croce sul libro mastro e distribuite vestiti nuovi prendendoli dal baule della nave. Ora vediamo che bottino abbiamo catturato, qui», aggiunse, precedendolo nella discesa verso l'alloggio del comandante, a poppa. Era stato messo a ferro e fuoco dai pirati. Lo scrittoio e i cassetti erano stati aperti a forza; tutti gli oggetti di valore rubati. I giornali di bordo e le carte nautiche erano sparsi alla rinfusa sul pavimento, calpestati e ridotti a brandelli, anche se in gran parte ancora leggibili. Da quel caos, Hal recuperò il giornale di bordo del comandante e il manifesto di carico: una sola occhiata a quest'ultimo gli strappò un fischio di sorpresa e di gioia. «Perdio, se tutta questa merce è ancora nella stiva, la Lam è davvero un tesoro.» Stava per mostrare a Big Daniel quel foglio di pergamena rigida, poi si rammentò che non sapeva leggere e che non era opportuno ricordargli quel fatto. «Tè della Cina, mastro Fisher. Ne è piena fino Wilbur Smith
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all'orlo. Quanto basta per inondare tutti i caffè di Londra.» Ridendo, ripeté lo slogan che aveva letto sull'entrata del caffè Garway's, in Fleet Street: «L'eccellente bevanda cinese approvata da tutti i medici: il tè». «Vale qualcosa, comandante?» domandò Big Daniel con aria tetra. «Qualcosa?» Hal scoppiò a ridere. «Probabilmente più del suo peso in lingotti d'argento, Danny.» Sfogliò in fretta le pagine del giornale di bordo per controllare il totale finale del manifesto. «Per l'esattezza, valeva 123.692 fiorini olandesi sul molo di Giacarta, il che significa il doppio a Londra. Diciamo trentamila ghinee, a occhio e croce, ossia più di quanto vale la nave stessa.» Alle dodici di quel giorno, Hal convocò tutti gli ufficiali a bordo della Seraph per impartire gli ordini. «Saremo al limite delle nostre possibilità, con gli uomini al lavoro su tutt'e tre le navi», rammentò loro, quando furono riuniti nell'alloggio di poppa. «Ho intenzione di mandare la Minotaur e la Lam a sud, verso le isole Glorietta, con un equipaggio ridotto all'osso, per l'appuntamento col comandante Anderson a bordo della Yeoman. Mastro Fisher avrà la Lam e il comando generale della spedizione.» Rivolse un cenno a Big Daniel, pensando: Perdio, sentirò la tua mancanza. Poi aggiunse: «Mastro Wilson avrà il comando della Minotaur». Alf, abbassando la testa bruna da gitano, annuì. «Grand Glorietta, l'isola principale del gruppo, dista duecentotrenta miglia, quindi non è troppo lontana. All'estremità meridionale c'è un ancoraggio sicuro, con un ruscello che fornisce acqua potabile. Vi assegnerò quattro carpentieri per intraprendere le riparazioni alla Minotaur e rimetterla in condizioni di combattere: questa sarà la vostra prima occupazione.» «Sì, comandante», rispose Big Daniel. «In base ai miei calcoli, la Yeoman dovrebbe arrivare all'appuntamento entro le prossime tre settimane. Non appena lo farà, dovrete lasciare la Lam all'ancora a Grand Glorietta con un minimo di equipaggio a bordo e, se per allora la Minotaur avrà completato le riparazioni, la porterete qui con voi e il comandante Anderson, per partecipare all'assalto a Flor de la Mar.» «Capisco, comandante», rispose Big Daniel. «Quando volete che parta, signore?» «Non appena vi sarà possibile, mastro Fisher. Può darsi che il Wilbur Smith
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comandante Anderson vi aspetti sul luogo del rendez-vous. Dorian è prigioniero a Flor de la Mar e ogni giorno è prezioso. Io resterò qui, per mantenere il blocco intorno all'isola di al-Auf.» Rimasto solo sul cassero della Seraph, mentre il tramonto arrossava il cielo a ponente, Hal guardò la Minotaur e la Lam allontanarsi in direzione sud. Quando le sagome delle due navi rimpicciolirono in lontananza, per finire inghiottite dalle ombre del crepuscolo che si andavano addensando, diede l'ordine di riportare la Seraph verso la sua posizione, al largo di Flor de la Mar. Ai primi raggi di sole del giorno successivo, si spinse arditamente con la nave all'ingresso della baia, appena al di fuori della gittata dei cannoni disposti sulle mura della fortezza. Il suo intento era far capire ad al-Auf che era bloccato e nel contempo tenere d'occhio l'isola da vicino. Attraverso il cannocchiale, la costernazione che regnava nell'accampamento arabo era ben visibile. I pirati, abbandonando le capanne e i ripari di fortuna tra le palme, si erano riversati verso il forte, per mettersi sotto la sua protezione, ma le grandi porte di tek erano state sbarrate prima che fossero riusciti a entrare tutti. Quelli rimasti fuori avevano cominciato a rumoreggiare, colpendo i battenti con i pugni e il calcio dei fucili. Hal fu lieto di notare com'erano indisciplinati; la mancanza di autocontrollo e di addestramento appariva altrettanto evidente nel loro modo disordinato di sparare. Riuscì a distinguere, in cima alle mura, i turbanti degli artiglieri che si precipitavano a brandeggiare i cannoni. Risuonò il primo colpo, ma la palla colpì la superficie del mare, a metà strada tra la riva e la Seraph, rimbalzando e perdendo velocità a ogni impatto, finché non apparve ben nitida alla vista. A mezza tesa di distanza dalla Seraph, affondò in acqua e scomparve. Subito dopo, il resto della batteria aprì il fuoco. Ben presto le mura del forte furono avvolte da una nube di fumo, mentre zampilli d'acqua sbocciavano nel tratto di mare tra la spiaggia e la nave. La Seraph, tuttavia, era ancora fuori della loro portata, e non di poco; Hal aveva sopravvalutato la portata dei cannoni arabi. Tranquillizzato, si dedicò a osservare le condizioni dell'ancoraggio. Nella baia non era rimasta nessuna imbarcazione, neppure il più piccolo dei dhow da pesca: il loro attacco aveva fatto piazza pulita. La superficie dell'acqua era costellata di detriti carbonizzati, che si ammassavano anche Wilbur Smith
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sulla spiaggia lungo il segno dell'alta marea. Lo scafo del tre alberi devastato dall'incendio era rimasto a galla, sia pure inclinato al punto di lasciare scoperto il fondo della carena, con gli alberi completamente carbonizzati. «Non sarà mai più in grado di riprendere il mare», osservò soddisfatto Ned Tyler. «Avete intrappolato il topo nella sua tana, comandante.» «La prossima mossa sarà convincerlo a uscirne», commentò Hal e aggiunse: «Mandatemi mastro Tom». Il giovane scese scivolando dal paterazzo dell'albero di trinchetto e, zoppicando, appoggiato alla stampella, lo raggiunse. Hal lo osservò con occhio critico, mentre attraversava il ponte: ormai Tom era più alto di quasi tutti gli uomini a bordo, con le spalle larghe e le braccia robuste tipiche dello spadaccino di vaglia. I suoi capelli non vedevano le forbici da quando erano salpati dall'Inghilterra, quindi gli scendevano sulla schiena, folti e ondulati, raccolti in una coda di cavallo. Di recente, Hal gli aveva prestato un rasoio a mano libera, quindi aveva le guance rasate, ma scurite dal sole intenso, e quel colorito bruno faceva risaltare ancor più il naso aquilino caratteristico dei Courteney e gli occhi di un verde intenso. È davvero un ragazzo attraente, fu costretto ad ammettere Hal; da quando aveva perso Dorian, i suoi sentimenti paterni erano diventati più intensi. Arginò a fatica la piena dell'affetto che minacciava di travolgerlo e porse a Tom il cannocchiale, dicendogli in tono brusco: «Indicami il punto esatto in cui Hal scalato le mura della fortezza, e l'apertura della cella di Dorian». Insieme, fissarono intensamente l'isola, al di là delle acque. Il fuoco di sbarramento dei cannoni continuava a infuriare, e il fitto banco di foschia prodotto dal fumo resisteva ai tentativi del monsone di spazzarlo via. «L'angolo nordoccidentale», disse Tom, indicandogli la direzione. «Vedete quel gruppetto di tre palme più alte? Proprio al di sopra c'è una rientranza nel muro, con i cespugli verdi che sporgono, e la feritoia è la prima a sinistra. Almeno, credo che sia quella, anche se non posso averne la certezza assoluta.» Hal riprese il cannocchiale per scrutare le mura del forte. Con i raggi del sole mattutino che investivano la parete obliquamente, le fessure formate dalle feritoie risaltavano scure, in netto contrasto con i blocchi di corallo bianco. Fissando quella che Tom gli aveva indicato, sentì il dolore della perdita subita diventare quasi insopportabile. «Se mi consentite di tornare sull'isola, con Aboli e un gruppetto di Wilbur Smith
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uomini in gamba...» cominciò Tom in tono serio, ma Hal lo interruppe con un cenno brusco del capo. «No, Tom.» Aveva perso un figlio, e non voleva rischiare di perderne un altro. «Io so esattamente dove trovare Dorry», insistette il ragazzo. «Ci sono un'infinità di punti in cui saremmo in grado di scalare le mura.» «Sarebbero lì ad aspettarvi.» «Non possiamo restare con le mani in mano», proruppe Tom, alzando la voce. «Dio solo sa che cosa ne sarà di Dorry, se non lo strappiamo dalle grinfie di quei pagani.» «Entreremo nella fortezza non appena saremo sicuri del successo. Nel frattempo al-Auf non torcerà un capello a Dorian. A quanto pare, c'è una specie di leggenda religiosa che lo protegge, una profezia pronunciata da un santo islamico.» «Non capisco. Che c'entra Dorry con una profezia? E come fate a saperlo, padre?» «L'ho saputo da Wazari, il comandante arabo che abbiamo preso. E per via dei capelli rossi di Dorian. La leggenda vuole che il profeta Maometto avesse i capelli rossi. Sono una caratteristica molto rara tra le popolazioni orientali, e quindi vi attribuiscono un grande valore superstizioso.» «Non possiamo fare affidamento sul colore dei capelli di Dorry...» «Basta così, Tom. Ora torna al tuo posto di combattimento.» L'espressione di Hal non era troppo rude: doveva far ricorso a tutto il suo buonsenso e alla forza di volontà per resistere alle preghiere del figlio. La Seraph si allontanò dalla fortezza e a poco a poco i cannoni tacquero, mentre il fumo si disperdeva al vento. Hal virò di bordo, doppiando la punta settentrionale per cominciare un lento periplo dell'isola; esaminava con attenzione ogni aspetto della costa, avvicinandosi ai margini della barriera corallina fin dove la prudenza glielo consentiva. Aveva disegnato una copia fedele della vecchia carta di Sir Francis, che ora teneva aperta sulla chiesuola della bussola, riportandovi le sue osservazioni accanto a quelle fatte dal padre mezzo secolo prima. Mise un uomo a prua con l'incarico di scandagliare il fondale, e una volta calò in mare la barca per mandare a terra Aboli, ordinandogli d'indagare su un varco nel corallo della barriera. Aboli aveva quasi raggiunto la spiaggia, dalla parte opposta della laguna, quando un gruppo di cento o più arabi sbucò dalla foresta di palme, aprendo il fuoco sulla barca da distanza Wilbur Smith
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ravvicinata con i fucili. Uno dei vogatori fu ferito alla spalla, prima che Aboli riuscisse a riportarli indietro attraverso il canale. Dopo aver completato il giro dell'isola, Hal scelse una dozzina di punti in cui era possibile far approdare una spedizione da sbarco, e li contrassegnò accuratamente sulla carta. Quando tornarono di fronte alla baia, mise la nave in panna ancora una volta per esaminare con cura tutto ciò che riusciva a vedere delle fortificazioni dell'isola nonché delle costruzioni precarie che gli arabi avevano addossato ai piedi delle mura. Tentò anche di calcolare il numero degli uomini sui quali poteva contare al-Auf, e decise che erano almeno mille; ma temeva che il numero reale potesse essere anche doppio. A intervalli di pochi minuti, però, il cannocchiale tra le sue mani sembrava animarsi di vita propria e puntava verso quella feritoia nelle massicce mura di corallo bianco che Tom gli aveva indicato. «L'attesa fino all'arrivo di Anderson sarà lunga e penosa», borbottò, e tutti gli uomini a bordo della Seraph si adattarono alla monotona routine del blocco. Hal tentò di tenere gli uomini vigili organizzando continue manovre di addestramento col fucile, la sciabola e i cannoni, ma i giorni si trascinavano lentamente. Per quattro volte, durante la settimana che seguì, la monotonia fu interrotta dall'avvistamento d'imbarcazioni che si dirigevano verso Flor de la Mar da occidente; in quelle occasioni la Seraph spiegò le vele e, sospinta dal monsone, si precipitò a intercettarle. Si rivelarono prede facili, che furono raggiunte e arrembate senza riportare perdite. Il quarto veliero, invece, era uno splendido dhow lungo centotrenta piedi, quasi quanto la Seraph, che impegnò in un appassionante inseguimento, rivelando una straordinaria velocità e una notevole abilità nella manovra da parte dell'equipaggio terrorizzato. Al calar delle tenebre, la Seraph rischiò addirittura di perderlo di vista, ma Hal batté in astuzia il comandante del dhow, tornando indietro verso l'isola col favore del buio. All'alba, il dhow fu sorpreso mentre tentava d'insinuarsi di soppiatto nella baia di Flor de la Mar; la Seraph gli piombò addosso, tagliandogli la strada quando era a mezzo miglio appena dalla sua meta. I marinai ingaggiarono un furioso combattimento, uccidendo uno degli uomini di Hal e ferendone altri tre, prima di arrendersi all'arrembaggio. Si scoprì che l'imbarcazione apparteneva al principe Abd Muhammad alMalik. Il principe non era a bordo, ma il suo alloggio sulla nave era arredato con lo stesso sfarzo della sala del trono di un sultano. Hal lo fece Wilbur Smith
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spogliare di ogni arredo, trasferendo tappeti e mobili nel proprio alloggio a bordo della Seraph. Il nome di Abd Muhammad al-Malik non gli era nuovo. Ricordava bene l'altra nave che avevano salutato la notte in cui avevano strappato la Minotaur e la Lam dall'ancoraggio di Flor de la Mar, e la decisione che aveva preso, lasciandola andare, invece di catturarla. Anche quella apparteneva allo stesso uomo, e ora, nel vedere tutto quel lusso, Hal dubitava della saggezza della sua decisione. Ordinò di fissare una cima alla sommità dell'albero di maestra e d'infilare il cappio al collo del comandante del dhow. Restando a fianco del condannato, lo interrogò a lungo. «Sì, effendi.» L'uomo era terrorizzato e rispose senza esitare. «Al-Malik è un uomo ricco e potente. È il fratello minore del califfo di Muscat e possiede una flotta di oltre cento navi commerciali, che raggiungono tutti i porti dell'Africa e dell'India e della terra del Profeta. Facciamo scalo regolarmente a Daar al-Shaitan per commerciare con Jangiri.» «Sapete perfettamente che al-Auf è un pirata; tutte le merci che acquistate da lui sono state rubate alle navi cristiane, e molti marinai innocenti sono stati massacrati da lui per potersene impadronire, mentre i superstiti vengono venduti in schiavitù.» «Io so soltanto che il mio padrone mi ha mandato a commerciare con Jangiri perché i prezzi delle sue merci sono molto convenienti. Quanto al modo in cui se le procura, questo non riguarda né me né il mio padrone.» «Farò in modo che vi riguardi», ribatté brusco Hal. «Commerciando col pirata in beni rubati, vi siete macchiati della sua stessa colpa.» Rivolgendosi ad Aboli, ordinò: «Frugate bene la nave». I tre dhow che avevano catturato in precedenza erano tutti impegnati in traffici commerciali con al-Auf, proprio come questo. A quanto pareva, la notizia degli splendidi affari che si potevano concludere a Daar al-Shaitan si era sparsa dappertutto, dal golfo Persico alla costa di Coromandel. Le altre tre navi avevano trasportato monete e denaro contante per pagare le merci che prevedevano di acquistare. «Vediamo se anche questo furfante darà il suo contributo alle spese per mantenere il blocco dell'isola», borbottò Hal, cominciando a camminare su e giù per il ponte, mentre i suoi uomini perquisivano il dhow; nel giro di mezz'ora, scoprirono il nascondiglio delle casse di denaro del comandante. L'arabo si strappò la barba e si lacerò le vesti allorché le quattro casse Wilbur Smith
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furono trascinate sulla coperta del dhow, perché erano troppo pesanti per poterle trasportare a braccia. «Abbiate pietà, effendi», gemette il comandante. «Questo denaro non appartiene a me, ma al mio padrone.» L'uomo si gettò in ginocchio. «Se me lo portate via, è come se mi condannaste a morte.» «Pena che meritate in tutto e per tutto», ribatté Hal in tono secco, prima di rivolgersi ad Aboli: «C'è qualcos'altro di prezioso, nella stiva?» «È vuota, Gundwane.» «Benissimo. Portate il bottino a bordo della Seraph.» Hal si girò di nuovo verso il comandante del dhow. «Queste casse sono il prezzo della libertà vostra e della vostra nave. Avvertite il vostro padrone che è solo una piccola parte del prezzo che gli farò pagare, se mai sarà tanto idiota da commerciare di nuovo con i pirati. Ora andate con Dio e toglietevi dai piedi.» Poi, dal ponte della Seraph, rimase a guardare il dhow che si allontanava in tutta fretta per tornare verso la costa africana. Scese quindi nel suo alloggio, dove Aboli aveva accatastato le casse del bottino contro la paratia. «Aprile», ordinò Hal, e Aboli fece saltare le serrature con un piede di porco. Le tre navi catturate in precedenza avevano fruttato un ricco bottino, ma era roba da poco in confronto a quello che venne alla luce quando si aprì il coperchio di quelle quattro casse. Le monete che vi erano contenute erano confezionate in sacchetti di tela. Hal ne aprì uno col pugnale che portava alla cintola e, dallo squarcio, si riversò sul piano della sua scrivania un torrente di oro scintillante. Si accorse subito che le monete erano quasi tutte mohur d'oro, ciascuno dei quali recava impresso il punzone con le tre montagne e l'elefante dell'impero moghul, ma c'erano anche altri conii, mescolati a quello: dinari d'oro dei sultani islamici, ricoperti d'iscrizioni religiose, e persino qualche tetradramma degli antichi satrapi persiani, il cui valore, come antichità, superava di gran lunga il valore intrinseco dell'oro. «Dieci uomini impiegherebbero una settimana per contare questo tesoro», concluse Hal. «Per questo noi, invece, lo peseremo. Fa' portare qui dal signor Walsh le bilance della nave e affiancagli due uomini per aiutarlo.» Walsh lavorò per il resto del giorno e metà della notte seguente, prima di poter consegnare a Hal il totale. «È difficile ottenere una misurazione Wilbur Smith
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esatta a bordo di una nave che si muove in continuazione», gli fece notare con sussiego. «I piatti della bilancia non restano mai in equilibrio.» «Non vi riterrò responsabile se ci sarà un'oncia in più o in meno», gli assicurò Hal. «Datemi un totale onesto e mi accontenterò di quello, finché non faremo pesare tutto dalle corti d'assise in Inghilterra.» «Il peso complessivo è di seicentocinque once, per la precisione... o meglio, per l'imprecisione.» Walsh ridacchiò della sua battuta, mentre Hal lo fissava, sbalordito; non si era aspettato tanto. Perdio, era quasi un lakh di rupie, una fortuna immensa in qualsiasi valuta. A quello andavano aggiunte le monete d'oro e d'argento che aveva ricavato dagli altri dhow catturati. Il totale superava di gran lunga il valore dei due velieri che aveva preso come bottino. «Un lakh di rupie», rifletté Hal a voce alta, mentre il suo sguardo tornava alle quattro casse con i sigilli infranti, disposte lungo la paratia. In quella particolare cifra c'era qualcosa che gli solleticava la memoria. «Un lakh di rupie! È il prezzo che, secondo Wazari, al-Auf ha fissato per l'acquisto del bambino con i capelli rossi della profezia: il prezzo di Dorian come schiavo.» Più ci rifletteva, più gli sembrava plausibile: quell'oro doveva essere il denaro per l'acquisto di Dorian. Il piacere che gli procurava quel pensiero superava di gran lunga il valore stesso dell'oro. Se al-Malik inviava oro ad al-Auf per comprare Dorian, allora suo figlio era ancora sull'isola, trattenuto dal blocco che avevano imposto ai pirati. «Grazie, signor Walsh», disse infine. «Avete fatto un buon lavoro.» «Non avrei mai pensato di trovare disgustosa la vista di tanto oro.» Mentre Walsh meditava sulla faticosa prospettiva di doverlo contare di nuovo, Hal risalì in coperta per riprendere la sua infaticabile sorveglianza. «Dio, ti prego, fa' che Anderson arrivi presto», mormorò, guardando il verde smeraldino dell'isola, cinta di sabbie candide, al di là delle acque azzurre e scintillanti. «O almeno concedimi la forza di controllarmi.» Trascorse un'altra settimana interminabile. Poi, in una mattina di sole abbagliante, quando il mare sembrava d'olio e si cullava placidamente a ritmo lento, quasi facendo l'amore con se stesso nell'afa irrespirabile, si udì il grido gioioso di Tom dalla coffa: «Vela in vista!» Troppo impaziente per attendere il rapporto della vedetta, Hal si arrampicò sull'albero per stringersi accanto a Tom nella coffa angusta. «Laggiù!» Tom indicò il sud e, per parecchi minuti, Hal pensò che il Wilbur Smith
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figlio si fosse sbagliato. Poi scorse un puntino infinitesimale che scomparve quasi subito. Puntando il cannocchiale in quella posizione, all'improvviso lo ritrovò: una minuscola scheggia bianca. «Hal ragione, è una nave a vele quadre.» «Due!» lo corresse Tom. «Due navi. Possono essere soltanto la Yeoman e la Minotaur.» «Andremo loro incontro, per dare il benvenuto.» Ben presto le navi che si avvicinavano furono chiaramente riconoscibili: erano davvero la Yeoman e la Minotaur. Hal le osservò con ansia attraverso il cannocchiale, stentando quasi a riconoscere la Minotaur. Big Daniel aveva fatto miracoli nel breve tempo a sua disposizione per raddobbarla. La nave splendeva letteralmente, sotto una mano di vernice nuova e, anche quando fu più vicina, Hal non riuscì a notare segni dei danni che aveva riportato allo scafo o all'alberatura. Viceversa, la Yeoman era evidentemente logorata dalla permanenza in mare. Hal scambiò con la nave di Anderson le segnalazioni convenute con le bandierine, in segno di saluto, e le due navi, quando furono affiancate, si misero in panna, mentre la Yeoman calava in mare una lancia. Mentre si avvicinava, il viso rosso di Edward Anderson a poppa sembrava una lanterna accesa, ma il comandante si arrampicò su per la scaletta con un'agilità sorprendente per un uomo della sua corporatura, afferrando e stringendo la mano tesa di Hal. «Ho saputo da mastro Fisher che avete avuto molto lavoro in mia assenza, Sir Henry, e che avete catturato un sontuoso bottino.» Dal tono e dall'espressione traspariva il suo rammarico: soltanto i comandanti che si trovavano in vista della preda quando veniva catturata avevano diritto a una quota del bottino. «Ho un lavoro urgente da far sbrigare alla vostra nave, signore, e la promessa di un tesoro ancora più ricco in vista», gli assicurò Hal, pensando che in quel momento sarebbe stato troppo crudele accennare al bottino ricavato dai dhow arabi. «Venite nel mio alloggio.» Non appena furono seduti, il valletto di Hal servì a tutti e due un bicchiere di vino di Madera, prima di lasciarli soli. «Porto alcune lettere per voi da parte del signor Beatty e di vostro figlio Guy», gli annunciò il comandante Anderson, estraendo dalle pieghe del mantello un plico avvolto nella tela. Hal lo mise da parte, per aprirlo in seguito. «Come sta Guy?» La Wilbur Smith
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domanda era quasi distratta, perché era ansioso di passare ad argomenti più urgenti, ma la risposta di Anderson lo sorprese. «L'ultima volta che l'ho visto era in buona salute... Mi risulta che stia per sposarsi.» «Oh, Signore! Ha soltanto diciotto anni.» Hal lo fissò con un'espressione accigliata. «Non sono stato neanche consultato. Dovete essere in errore, signore.» «Vi assicuro che non c'è nessun errore, Sir Henry.» Anderson era ancor più rosso in faccia del solito, e si agitò sulla sedia, a disagio. «Chi è la promessa?» domandò Hal. «Sicuramente ci dev'essere penuria di giovani donne, a Bombay.» Balzando in piedi per l'agitazione, cominciò a camminare avanti e indietro, frustrato per la mancanza di spazio in quell'alloggio minuscolo, reso ancora più angusto dal sontuoso arredamento sottratto al dhow di al-Malik. «Mi risulta che si tratti di madamigella Caroline Beatty.» Edward Anderson estrasse dalla giacca dell'uniforme un fazzoletto dai colori vivaci, che usò per tergersi il viso dal sudore, prima di continuare: «A quanto ho capito, il matrimonio si doveva celebrare con una certa urgenza. Anzi, era fissato appena un paio di giorni dopo la mia partenza da Bombay, perciò a quest'ora vostro figlio sarà quasi certamente un uomo sposato». Hal si fermò di colpo, cominciando ad afferrare la sgradevole verità. «Tom!» esclamò. «No, Sir Henry, mi avete frainteso. Sto parlando ovviamente di Guy...» «Perdonatemi, stavo riflettendo a voce alta», disse Hal, a mo' di scusa. L'emozione improvvisa lo aveva distratto dalle questioni più urgenti, ma Anderson lo riportò al punto con la sua osservazione successiva. «Mastro Fisher mi ha riferito la terribile notizia che il vostro figlio minore è caduto nelle mani del nemico. Avete la mia più profonda comprensione, Sir Hal.» «Grazie, comandante Anderson. Faccio molto affidamento sul vostro aiuto per liberare mio figlio.» «La mia nave e il mio equipaggio sono a vostra completa disposizione, questo va da sé.» «Allora provvediamo a dare disposizioni.» Aveva avuto settimane intere per formulare i suoi piani per l'assalto a Flor de la Mar, e li espose nei dettagli al comandante Anderson. Trascorsero il resto della giornata rinchiusi nell'alloggio di poppa della Wilbur Smith
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Seraph, esaminando con cura ogni particolare dell'incursione, dal sistema di segnalazioni con le bandierine che avrebbero usato da una nave all'altra, oltre che dalle navi a terra, alla disposizione dei marinai da usare nell'attacco e alla suddivisione degli incarichi di minore responsabilità tra i vari ufficiali. Poi meditarono ancora per un'ora sulle carte che Hal aveva preparato. Il sole stava per tramontare quando finalmente Anderson fu pronto a tornare sulla Yeoman. «Tenete ben presente quello che vi ho detto, comandante Anderson. AlAuf è acquartierato in quella fortezza da vari anni. Per tutto questo tempo i mercanti arabi sono stati attirati verso l'isola come le mosche sul miele, e hanno portato con loro enormi quantità d'oro e d'argento da scambiare con schiavi e merci rubate. Le prede che ho catturato prima del vostro arrivo diventeranno insignificanti al confronto con quel bottino. Io credo che a Flor de la Mar troveremo un tesoro tale da far scomparire tutti quelli che Drake o Hawkins hanno riportato in patria dalle loro scorrerie.» Di fronte a quella prospettiva, gli occhi azzurri di Anderson scintillarono e Hal, per infiammarlo ancora di più, aggiunse: «La parte che avrete nell'impresa vi frutterà certamente il titolo di baronetto, e io userò tutta la mia influenza presso l'onorevole Compagnia delle Indie per fare in modo che lo otteniate. Con la vostra parte del bottino potrete permettervi l'acquisto di una bella tenuta di campagna, e allora non avrete più bisogno d'imbarcarvi». Si scambiarono una breve stretta di mano. «A domani!» Il viso rubicondo di Anderson si schiuse in un largo sorriso, e la stretta della sua mano poderosa fu energica. «Avvertite i vostri uomini che nella fortezza c'è mio figlio», aggiunse Hal, passando a un tono più aspro. «Non vorrei che, nella foga del combattimento, si commettessero errori.» Hal diede ordine di riportare la Seraph sulla rotta per riprendere il blocco dell'isola, poi tornò subito nel suo alloggio, per tagliare i punti che chiudevano il sacco pieno di lettere che Anderson gli aveva portato da Bombay. Riconoscendo le zampe di gallina di Guy su uno dei fogli ripiegati, lo accantonò per leggerlo in seguito, mentre aprì per prima la lettera di Beatty, che lesse con un'espressione sempre più accigliata. La Residenza, Bombay, Wilbur Smith
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6 novembre Sir Henry, il piacere che provo nel rivolgermi a voi è alquanto mitigato dalle circostanze che lo rendono necessario. Per non farla troppo lunga, si è scoperto che mia figlia Caroline Beatty è in attesa di un bambino. Il dottor Goodwin, il chirurgo dello stabilimento qui a Bombay, valuta la durata della sua gravidanza a quattro mesi, il che fisserebbe la data del concepimento al periodo in cui la mia famiglia era alloggiata al capo di Buona Speranza. Ricorderete che vostro figlio, Guy Courteney, era ospite della stessa pensione. Sono lieto di potervi comunicare che in questa situazione vostro figlio, Guy Courteney, si è comportato in modo estremamente cavalleresco. Ha ammesso la paternità del bambino e ha chiesto la mano di mia figlia. Poiché ha già compiuto diciassette anni, è nei suoi diritti legali contrarre matrimonio. Mia figlia Caroline compirà diciotto anni venerdì prossimo, quindi non ci sono difficoltà riguardo all'età dei due giovani. Mia moglie e io abbiamo ritenuto opportuno chiedere il vostro consenso al matrimonio e la data è stata fissata per venerdì prossimo, data del diciottesimo compleanno di mia figlia, quindi è probabile che tutto sarà già sistemato quando questa lettera giungerà nelle vostre mani. Sono in grado di assicurare a mia figlia una dote di cinquecento sterline. La Compagnia metterà a disposizione dei giovani sposi una casa, quindi le loro esigenze immediate saranno soddisfatte. Senza dubbio vorrete assegnare a vostro figlio un vitalizio adeguato per integrare il suo stipendio e sfruttare la vostra notevole influenza sul Consiglio dei governatori di questa onorevole Compagnia per far progredire la sua carriera. In questo senso, sono in grado d'informarvi che Guy si è adattato bene al suo nuovo impiego e la sua diligenza è stata giudicata positivamente dal governatore Aungier. Mia moglie si unisce a me nell'assicurarvi la nostra massima stima. Con i miei rispetti, Sir... Hal accartocciò il foglio nel pugno, fissando con rabbia la lettera di Guy, Wilbur Smith
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che giaceva aperta sul ripiano della scrivania, e sibilò: «Che idiota! Ha reclamato per sé la selvaggina abbattuta dalla freccia di Tom. Che cosa gli sarà saltato in testa, mi domando?» Fece a pezzi la lettera di Beatty, lanciando i frammenti fuori della finestra e guardandoli volteggiare nella scia della nave. Poi, con un sospiro, si dedicò alla lettera di Guy. Non aggiungeva nulla a quello che aveva già scritto Beatty, a parte la gioia estatica del giovane per aver ottenuto la mano della bella Caroline. «Tuo fratello Tom si è sobbarcato il compito di portare alla luce quel diamante per te», brontolò disgustato Hal, meditando di mandare a chiamare Tom per informarlo dei risultati della sua impresa e sfogare su di lui il malcontento che provava per il comportamento del gemello. Poi ci ripensò, lasciandosi sfuggire un sospiro. «Che vantaggio potrei ricavarne?» mormorò. «Quel che è fatto è fatto, e tutti gli interessati sembrano più che paghi del risultato, anche se nessuno si è preso la briga di chiedere alla sposa che cosa ne pensa.» Appallottolando la lettera di Guy, lanciò anche quella dalla finestra di poppa, guardandola galleggiare sulla superficie del mare finché non sprofondò, appesantita dall'acqua. In quel momento si sentì un colpetto discreto alla porta, e un marinaio gli annunciò attraverso il battente: «Chiedo scusa, comandante. Mastro Tyler vi manda i suoi rispetti e Flor de la Mar è in vista dritto di prua». I problemi domestici di Hal furono sommersi dall'impazienza, allo stesso modo in cui la lettera di Guy era finita in fondo all'oceano. Allacciandosi la cintura della spada, si affrettò a salire sul ponte. La Seraph governò la Minotaur, precedendola attraverso l'ingresso della baia. Il comando della Seraph era affidato a Ned Tyler, perché Hal non era a bordo. Non appena le due navi furono a portata di tiro, cominciarono un intenso bombardamento delle postazioni degli arabi tra le palme e sulle mura del forte. I mesi di addestramento che gli artiglieri avevano dovuto subire si rivelarono preziosi e, anche se le loro file erano decimate, il loro fuoco si rivelò rapido e preciso. Facendo affidamento sull'inettitudine dimostrata dagli arabi nell'impiego dei cannoni, Ned portò la Seraph tanto vicino da sfiorare il margine esterno della barriera. In questo modo si trovava a portata di tiro dei cannoni sugli spalti, ma il fuoco della nave staccava blocchi di corallo dai bastioni, seminando ulteriore confusione tra Wilbur Smith
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i difensori. Il loro fuoco di risposta era spasmodico e irregolare: le navi erano alla portata dei loro colpi ma, anche se qualcuno degli enormi proietti di pietra cadeva abbastanza vicino da inondare di spruzzi i ponti della Seraph, quasi tutti finivano in mare aperto. L'accampamento arabo in mezzo al palmeto era alla portata dei fucili a canna lunga usati dai marinai di entrambe le navi, che scaricavano almeno metà dei colpi contro le capanne dal tetto di paglia e le tettoie addossate alle mura. Le armi erano caricate a mitraglia, quindi i proiettili di piombo investivano con una rosa micidiale la folla di uomini e donne che cercavano riparo tra le mura del forte, lasciando una scia di corpi scuri lungo il sentiero, simili a fasci di grano sfuggito ai mietitori. Dopo la prima fiancata, le navi virarono di bordo una dopo l'altra, ripresentandosi poi per riprendere il fuoco, implacabili, avvicinandosi quanto lo consentiva la barriera corallina. Ormai gli artiglieri arabi si erano ripresi dallo sgomento iniziale e le palle di pietra dei loro cannoni piovevano tutt'intorno alla Seraph, tanto che una sfondò la fragile murata di legno, troncando ambedue le gambe a uno dei mozzi addetti alla polvere da sparo proprio mentre risaliva di corsa la scaletta uscendo dalla santabarbara, carico di sacchetti di seta. Ned Tyler lanciò un'occhiata al torso mutilato del ragazzo, che fremeva, scosso da convulsioni terribili, in mezzo a una pozza di sangue, poco lontano dal timone. Il ragazzo morente invocava la madre e gemeva, però nessun uomo poteva abbandonare il suo compito per assisterlo. Eppure l'idea di ritirarsi più indietro per sfuggire alla furia dei cannoni del forte, impedendo ulteriori perdite umane, non sfiorò nemmeno la mente di Ned. Il comandante gli aveva chiesto di portare la nave il più vicino possibile alla riva, per tenere impegnate le batterie a terra e costringere gli arabi a restare imbottigliati nel forte, e lui non si sarebbe mai tirato indietro di fronte a quel compito, anche se piangeva in cuor suo la perdita di ciascuno dei suoi valorosi ragazzi. Sul versante opposto dell'isola, Hal, asciugandosi il sudore dal viso, rimase in ascolto del rumore regolare del cannoneggiamento delle due navi. «Saldo come una roccia!» mormorò, plaudendo alla ferrea determinazione di Ned Tyler, prima di dedicare la sua attenzione al compito di far sbarcare il resto degli uomini dalla Yeoman of York. Le barche stavano ormai entrando dalla laguna attraverso il canale nella barriera di cui aveva annotato la posizione tante settimane prima. Le Wilbur Smith
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quattro pinacce, cariche di uomini, sprofondavano nell'acqua al punto che emergeva solo una fascia alta una spanna. Non appena la chiglia della barca incontrava la sabbia, gli uomini balzavano fuori, immergendosi fino al ginocchio nell'acqua tiepida della laguna per raggiungere la spiaggia a guado. Poi Big Daniel e Alf Wilson li radunarono, incolonnandoli e guidandoli lontano dalla spiaggia, al riparo del palmeto. Anche con tutti i marinai della Yeoman che Anderson era riuscito a prestargli, Hal aveva meno di quattrocento uomini ai suoi ordini per affrontare le orde di al-Auf. La consistenza del nemico poteva anche essere di molto superiore ai mille che aveva calcolato, eppure, fino a quel momento, nessuno si era opposto al loro sbarco. Sembrava che il bombardamento da parte della Seraph e della Minotaur avesse prodotto l'effetto desiderato, costringendo tutti i difensori a cercare riparo nella fortezza. L'ultimo gruppo di marinai risalì di corsa la spiaggia, appesantito dal carico di armi, fiaschette di polvere da sparo e fiasche d'acqua, perché combattere con quel caldo avrebbe scatenato una sete feroce. Hal seguì con gli occhi le barche vuote che tornavano verso la Yeoman, incaricata di restare al largo, a non più di mezzo miglio dalla barriera corallina; poi seguì la retroguardia della colonna in marcia nella foresta. L'ordine di marcia era stato predisposto con cura. Big Daniel aveva il comando dell'avanguardia, con gli esploratori inviati a precedere il gruppo per impedire che cadesse in un'imboscata. Ai lati della colonna c'erano uomini armati di fucile che avrebbero dovuto agire da fiancheggiatori, mentre Hal doveva comandare personalmente il grosso degli assalitori. Dalla piccola insenatura nella quale erano sbarcati fino alla fortezza, all'estremità nord dell'isola, c'erano meno di tre miglia. Hal impose un'andatura sostenuta, avanzando rapidamente sul terreno cedevole e sabbioso. Avevano coperto poco meno di un miglio quando, dalla foresta davanti a loro, partì una salva di colpi di fucile, accompagnati da urla selvagge e grida di battaglia. Hal si affrettò a correre avanti, temendo che Big Daniel fosse caduto in un agguato e tremando al pensiero di quello che avrebbe trovato. Ai lati dell'ampia pista vide sparsi i corpi di nove arabi uccisi, travolti dai marinai lanciati all'attacco; i rumori del combattimento tra gli alberi, però, si stavano spegnendo, e gli arabi superstiti fuggivano verso il forte, inseguiti dai marinai di Big Daniel. C'era un unico marinaio Wilbur Smith
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ferito; seduto con la schiena addossata al tronco di una palma, era intento a fasciarsi con una striscia di stoffa la parte alta della coscia, lesa da un colpo di fucile. Hal chiamò uno degli uomini perché aiutasse il ferito a tornare sulla spiaggia per farsi riportare a bordo della Yeoman, poi si slanciò in avanti, per raggiungere Big Daniel. Sul versante opposto dell'isola, i cannoni continuavano a tuonare e Hal era abbastanza vicino al forte da vedere le nuvole di fumo gonfiarsi al di sopra degli alberi. «Ned Tyler impedisce ai figli del Profeta di recitare le loro preghiere», borbottò, mentre il sudore gli colava dal viso nella barba, inzuppandogli la camicia come se lui si trovasse sotto una cascata d'acqua. Da alcuni minuti, ormai, tutti percepivano un lezzo fetido, che diventava quasi insopportabile nella calura umida della foresta; poi d'un tratto si ritrovarono in un tratto di terreno scoperto, e Hal si fermò così bruscamente che gli uomini alle sue spalle non poterono evitare di urtarlo. Nonostante la fretta, gli orrori del campo delle esecuzioni di al-Auf lo costrinsero a fermarsi. I cadaveri anneriti dal sole appesi alle travi di legno erano gonfi in modo grottesco, a causa dei gas che si formavano nel ventre, tanto che alcuni erano addirittura esplosi, come frutti troppo maturi, ed erano coperti da uno strato iridescente di mosche azzurre. Hal percorse ansiosamente con gli occhi quelle file di corpi in cerca di uno più piccolo, con i capelli rossi, e si sentì inondare di sollievo allorché non lo vide. S'impose allora di riprendere il cammino in mezzo a quei cadaveri appesi, senza badare ai nugoli di mosche ronzanti che si addensavano intorno a lui. Aboli e Tom lo aspettavano tra gli alberi, dalla parte opposta della radura. «Ora possiamo andare?» gli gridò Tom, distante una trentina di passi. Tom, Aboli e gli altri tre uomini che li accompagnavano erano vestiti da arabi, con la tunica e il turbante. Hal notò che il figlio aveva il viso teso per la determinazione e l'impazienza e reggeva già la spada sguainata nella mano destra. Provò di nuovo una fitta di rammarico per avere ceduto alle sue insistenze, consentendogli di seguirlo in quell'impresa. Ma Tom era l'unico, tra gli assalitori, che fosse già stato sulle mura e sapesse in quale punto scalarle; inoltre sapeva in quale cella era tenuto prigioniero Dorian. Vestiti da pirati com'erano, avrebbero tentato di raggiungerlo e proteggerlo dai combattimenti e dai massacri che sarebbero seguiti all'assalto in forze lanciato contro la fortezza. Wilbur Smith
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Hal afferrò per il braccio Aboli, sibilandogli all'orecchio: «Tieni d'occhio Tom. Non lasciargli fare sciocchezze, e coprigli le spalle in ogni circostanza». Aboli lo guardò con gli occhi scuri come il fumo, senza neanche degnarlo di una risposta. Hal aggiunse: «Non permettergli di cominciare la scalata finché non avremo attirato tutti gli uomini sugli spalti del lato orientale». Il gigante nero rispose con un bisbiglio orgoglioso: «Fa' il tuo lavoro, Gundwane, e io farò il mio». «Andate, allora.» Hal gli diede una leggera spinta, restando a guardare il gruppetto di Tom e Aboli che si allontanava: i due correvano leggeri, spalla a spalla, per compiere una deviazione nella foresta aggirando il lato esterno della fortezza. Quando non li vide più, alzò lo sguardo verso la sommità delle mura, appena visibili al di sopra degli alberi, piegando la testa di lato per individuare i rumori del bombardamento. Benché quella parte dell'isola fosse avvolta da spesse cortine di fumo, e lui si sentisse in gola l'odore acre della polvere nera bruciata, il rombo dei cannoni cominciava a diminuire d'intensità: Ned stava conducendo la Seraph e la Minotaur in acque più sicure. Guardando all'indietro, Hal vide che, nonostante la lunga e faticosa corsa attraverso la foresta, la colonna di marinai stava per raggiungerlo. Prendendo il comando, trovò Big Daniel che lo aspettava al margine della foresta. Le mura del forte si stagliavano bianche e solide, alte cinquanta piedi, al di là di una fascia di terreno scoperto larga centocinquanta passi. La porta ad arco era chiusa da un portone a due battenti di pesanti tavole di mogano rinforzato con borchie di ferro. Sui bastioni non si vedeva ombra di difensori, che dovevano essere tutti impegnati sul lato occidentale, rivolto verso il mare. Mentre si spegneva l'eco degli ultimi colpi di cannone, Hal udì le loro grida di trionfo, smorzate dalla distanza: la squadra di navi si stava allontanando. «Li abbiamo messi in stato d'inferiorità», osservò Hal, rivolto a Big Daniel. «Però, se vogliamo coglierli di sorpresa, dobbiamo sbrigarci.» Alle sue spalle stavano arrivando gli uomini della colonna, chini sotto il carico. Sudando e ansimando, si lasciarono cadere a terra, sollevando le fiasche d'acqua per bere a lunghe sorsate. Hal si aggirò tra loro, Wilbur Smith
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rincuorandoli e inviandoli ai loro posti lungo il margine degli alberi. «State giù con la testa! Non fatevi vedere. Controllate la carica delle armi, ma non sparate finché non ve lo dico io.» Le squadre che portavano i cinque pesanti barilotti di polvere da sparo erano rimaste indietro, in fondo alla colonna, ma infine, barcollando per la fatica, arrivarono, trasportando ogni barilotto da cinquanta libbre sospeso a un bilanciere sorretto da due uomini. Li accatastarono sotto le palme, mentre Hal e Big Daniel si mettevano al lavoro per piazzare le micce. Hal le aveva tagliate più corte che poteva, ma era un compito delicato, perché non esistevano due tratti di miccia che bruciassero alla stessa velocità. In ogni caso, picchiettarono ogni tratto di miccia con l'impugnatura di un coltello, per cercare di distribuire il fulminato in modo regolare, quindi fecero passare un pezzo di miccia attraverso il cocchiume di ciascun barilotto. Ormai ogni secondo era prezioso: non potevano perdere tempo a controllare se ogni miccia era perfetta; se una non funzionava, ce n'erano altre quattro per dare fuoco alle polveri. «Pronti?» chiese Hal, alzando la testa. Big Daniel inserì l'ultima miccia, fermandola con una goccia di pece morbida. «Pronti, per quanto è possibile.» «Accendere la miccia a lenta combustione!» ordinò Hal, e Big Daniel accostò l'esca all'acciarino, facendo sprizzare la scintilla; uno dopo l'altro, accostarono alla fiamma un breve tratto di miccia a lenta combustione, osservandola mentre si accendeva. «Barilotti in spalla!» gridò Hal, e cinque uomini ancora freschi, scelti per la loro robustezza, si fecero avanti. Dietro di loro era in attesa un'altra fila di cinque, pronti a correre verso il barilotto se uno dei portatori fosse stato abbattuto dai fucili nemici. Hal estrasse la spada e si diresse verso il margine della foresta per sbirciare oltre il terreno aperto, restando al riparo della vegetazione: non si vedeva ancora nessuna traccia dei difensori arabi sulle mura. Tirando un respiro profondo, si fece forza. «Piano, ragazzi! Seguitemi!» Senza un grido né un'esclamazione, corsero avanti in gruppo. I piedi nudi degli uomini, appesantiti dal carico, sprofondavano a ogni passo nel terreno sabbioso, ma la distanza fu coperta in fretta. Avevano quasi raggiunto la porta del forte quando si udirono un grido di allarme e uno sparo dai bastioni al di sopra della porta. Hal vide la testa col turbante nella fessura tra le pietre, mentre la canna di un jezail ancora fumante Wilbur Smith
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veniva puntata su di loro dall'alto. Lo spazio era breve, e il proiettile colpì uno dei marinai che correvano, centrandone il petto nudo. Il ferito cadde lungo disteso sulla sabbia e il barilotto gli cadde dalla spalla, rotolando via. Big Daniel, che correva dietro di lui, a pochi passi, lo raccolse con la stessa facilità di un birillo e, tenendolo sotto il braccio, scavalcò il moribondo, raggiungendo per primo la porta; dopo aver depositato il barilotto contro i cardini, fece segno agli uomini che lo seguivano di raggiungerlo. «Qui! Portateli qui!» Quando il primo degli uomini fu accanto a lui, sbuffando e ansimando per lo sforzo, Big Daniel gli strappò di mano il carico. «Torna tra gli alberi!» gli ordinò, sistemando il barilotto vicino al primo. «Ben fatto, ragazzo.» Afferrato il successivo, lo sovrappose ai primi due, formando una piramide. Ormai sui bastioni si scorgeva una folla di arabi urlanti, che scatenarono una pioggia irregolare di colpi di fucile, mentre gli uomini di Big Daniel cercavano di mettersi al riparo tra gli alberi. Un altro di loro fu abbattuto e rimase steso a terra, allo scoperto, tra nuvolette di polvere che si sollevavano dal terreno mentre i pirati tentavano di finirlo. Allora i marinai nascosti tra gli alberi cominciarono a rispondere al fuoco e le palle dei fucili inglesi crepitarono contro i blocchi di pietra, facendo piovere schegge di corallo sugli uomini rannicchiati ai piedi della massiccia porta d'ingresso. Hal s'inginocchiò vicino a Big Daniel, che stava sistemando il quinto barilotto di polvere nera in cima al mucchio. Soffiando sull'estremità della miccia a lenta combustione che teneva in mano, la vide divampare. «Fila via», gli ordinò Hal. «Al resto ci penso io.» Big Daniel, però, la pensava diversamente, e aveva in mano anche lui una miccia a lenta combustione. «Chiedo scusa, comandante, ma voglio darvi una mano a baciare la figlia del diavolo.» Inginocchiatosi a fianco di Hal, avvicinò la miccia a quella di uno dei barilotti. Hal non perse tempo a discutere, chinandosi per fare lo stesso e, lavorando senza fretta, i due accesero tutt'e cinque le micce, aspettando qualche istante per accertarsi che bruciassero in modo regolare. Ormai almeno metà della guarnigione del fotte si stava riversando sugli spalti sopra di loro, sparando verso il margine della foresta con la massima velocità consentita loro dall'esigenza di ricaricare. Quattrocento marinai inglesi urlavano a squarciagola, lanciando urrà e rispondendo al fuoco Wilbur Smith
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oltre i bastioni. Hal e Big Daniel, grazie a una piccola sporgenza delle mura, proprio sotto i bastioni, si trovavano al riparo dai colpi sparati dall'alto, ma, non appena lasciato quel riparo, si sarebbero trovati esposti per tutto il tempo necessario ad attraversare il terreno scoperto. Hal lanciò un'ultima occhiata alle micce che bruciavano - ne era rimasto solo un dito che sporgeva ancora dal cocchiume di ciascun barilotto - prima di alzarsi. «Penso che sia venuto il momento di andarcene.» «Non vedo motivi per restare qui, comandante», ribatté Big Daniel con un sorriso che scoprì le gengive rosee e sdentate. Si lanciarono allo scoperto, fianco a fianco. Le grida dai bastioni raddoppiarono d'intensità, e tutti gli arabi sulle mura rivolsero il fuoco delle loro armi contro i due che correvano. Le pesanti palle di piombo sibilavano sulla loro testa, conficcandosi nella sabbia soffice intorno ai piedi, che sembravano quasi non toccare terra. Dal folto degli alberi, i marinai lanciavano incoraggiamenti, urlando selvaggiamente come gli arabi sulle mura. «Seraph!» gridavano. «Forza, Big Daniel! Correte, comandante!» Il tempo sembrava scorrere al rallentatore per Hal. Gli pareva di trovarsi sott'acqua, dove ogni movimento sembra durare vari minuti. Il margine della foresta non si avvicinava mai, mentre i proiettili di fucile lo sferzavano, fitti come chicchi di grandine. Poi Big Daniel fu colpito, e non una volta soltanto. Due proiettili lo centrarono contemporaneamente. Uno lo raggiunse dietro il ginocchio, fracassando l'osso, cosicché la gamba si piegò in due come un metro da carpentiere. La seconda palla, invece, lo colpì all'anca, riducendo in poltiglia il collo del femore. Big Daniel finì lungo disteso sulla sabbia, con le gambe spezzate e inservibili. Hal proseguì ancora per quattro falcate, prima di accorgersi che era rimasto solo. Allora si fermò per guardare indietro. «Continua!» gli gridò Big Daniel. «Nessuno può aiutarmi. Le mie gambe sono andate.» Aveva il viso affondato nella sabbia, che gli entrava negli occhi e nella bocca. Hal si girò di scatto, tornando indietro di corsa per raggiungerlo sotto la tempesta di fuoco. «No! No!» ruggì Big Daniel, sputando una nuvola di sabbia e saliva. «Torna indietro, idiota. Torna indietro.» Hal lo raggiunse, chinandosi ad afferrarlo per le spalle. Tentò di Wilbur Smith
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sollevarlo da terra, ma rimase sbigottito dal peso di quel corpo enorme: con tutt'e due le gambe inutilizzabili, Big Daniel non avrebbe potuto aiutarlo in nessun modo. Hal riprese fiato, cambiando la presa, poi tentò di nuovo. Stavolta riuscì a sollevare per metà il torso di Big Daniel, tentando poi d'insinuare la spalla dell'uomo sotto la propria ascella. «Non serve a niente», gli sussurrò all'orecchio Big Daniel, ansimando, stravolto dal dolore delle ossa frantumate dell'anca, che sfregavano l'una contro l'altra. «Vattene, salvati almeno tu.» Hal non aveva fiato per replicare, così fece appello alle ultime stille di forza che gli restavano e si rialzò, tendendo allo spasimo ogni muscolo. La vista gli si oscurò per lo sforzo, proiettando davanti ai suoi occhi vorticose comete di luce, però, lentamente, il corpo gigantesco di Big Daniel si sollevò da terra e lui riuscì a passare il braccio destro intorno alle spalle di Hal. Rimasero lì per un istante interminabile, allacciati l'uno all'altro, ma incapaci di muovere un altro passo. «Sei pazzo», mormorò Big Daniel, con le labbra a un soffio dall'orecchio di Hal. «La polvere sta per saltare...» Sui bastioni sopra di loro, un arabo armato di fucile versò una manciata di polvere nera e granulosa nella canna del suo jezail, ficcandoci dentro uno stoppaccio, mentre teneva tra i denti il proiettile: era un grumo irregolare di ghisa grezza e morbida, che aveva forgiato lui stesso a mano e che si adattava a stento alla canna. Inserito il proiettile nell'imboccatura della canna, usò la lunga bacchetta di legno per spingerlo in fondo, poi rovesciò l'arma, posando il calcio sul davanzale di pietra della feritoia. Con le dita che gli tremavano, versò una pioggerella fine di polvere da sparo sullo scodellino, prima di richiuderlo di scatto e tirare indietro il cane per armare il fucile. Quando sollevò il calcio per portarlo alla spalla e prende re la mira, puntando in basso la lunga canna di ottone, si accorse che laggiù, sul terreno scoperto, c'erano due infedeli che si dibattevano inermi senza riuscire ad avanzare, avvinti l'uno all'altro come due amanti. Prese accuratamente la mira per colpirli entrambi alla testa, visto che erano tanto vicini, e poi premette con forza il grilletto, che era piuttosto rigido. Il cane si abbassò e l'acciarino sprizzò una pioggia di scintille: la polvere nera nello scodellino esplose in uno sbuffo di fumo bianco e, per un attimo, sembrò che il fucile non volesse saperne di sparare, ma poi, con un ruggito assordante, sussultò tra le mani dell'arabo e fece sollevare di Wilbur Smith
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scatto la canna. Quel proiettile informe di ghisa grezza cominciò a rotolare su se stesso; sibilando nell'aria, precipitò verso il punto in cui Hal e Big Daniel cercavano a fatica di trascinarsi lontano. Era destinato alla testa di Hal, invece cadde in verticale, rischiando quasi di mancarlo. Invece lo colpì con un tonfo sulla parte laterale della caviglia, dilaniando il tallone e fracassando le fragili ossa del piede sinistro. Sentendosi venire meno il piede, Hal cadde sotto il peso di Big Daniel, e i due rimasero distesi fianco a fianco sul terreno. «Scappa, in nome di Dio!» gli gridò Big Daniel. «I barilotti scoppieranno da un momento all'altro.» «Non posso!» ribatté Hal, attanagliato dal dolore. «Mi hanno colpito. Non riesco a reggermi in piedi.» Allora Big Daniel si sollevò, appoggiandosi a un gomito, per guardare il piede di Hal, e comprese che una ferita del genere impediva ogni movimento al suo comandante. Allora guardò indietro, verso la piramide di barilotti di polvere nera sotto l'arco della porta, a una trentina di iarde dal punto in cui si trovavano. Una delle micce accese si consumò fino al cocchiume del barilotto e divampò, raggiungendo lo zipolo di pece tenera: ormai l'esplosione era imminente. Big Daniel afferrò Hal, serrandolo in un abbraccio soffocante da orso e rotolando sopra di lui per coprirlo col proprio corpo enorme, costringendolo ad affondare il viso nella sabbia. «Lasciami, dannazione!» Hal si dibatté per liberarsi dal peso che lo schiacciava, ma in quell'istante il barilotto che era sotto gli altri esplose, scatenando una deflagrazione istantanea negli altri quattro, accatastati sopra di esso. In un'unica fiammata si consumarono duecentocinquanta libbre di polvere da sparo: l'esplosione fu paragonabile a un cataclisma, che divelse dai cardini i massicci battenti della porta, disseminando di assi fracassate l'intero cortile. La chiave di volta dell'arco crollò, trascinando con sé i bastioni in una valanga di blocchi di corallo, malta e polvere. Una ventina di arabi, che si trovavano sulle mura, precipitarono, restando schiacciati e sepolti sotto la massa di detriti. Il fumo e la polvere formarono una colonna che si levò nell'aria per un'altezza di duecento piedi, prima di espandersi come la testa di un'incudine, assumendo l'aspetto di una minacciosa nube temporalesca. Lo Wilbur Smith
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spostamento d'aria dell'esplosione si propagò oltre il terreno aperto, investendo la foresta, svellendo rami pesanti, piegando il fusto delle palme e sferzando le loro fronde con la violenza di un uragano. Big Daniel e Hal si trovavano proprio sulla traiettoria dell'esplosione, che li travolse con un'ondata impetuosa di polvere e detriti, risucchiando l'aria dai loro polmoni e inchiodandoli al suolo come gli zoccoli di una mandria di bufali impazziti. Hal si sentì scoppiare i timpani, mentre l'onda d'urto lo colpiva al cervello con la violenza di una mazzata. Nel perdere i sensi, ebbe l'impressione di essere scagliato a tutta velocità in uno spazio nero, dove le stelle gli esplodevano nella testa. Da quel luogo oscuro e remoto ritornò lentamente, con i timpani lesionati che rombavano al ricordo di quella terribile esplosione; ma al di là di quella cortina impalpabile, gli giunsero, fioche, le grida dei marinai che si lanciavano alla carica dalla foresta, oltrepassandolo per raggiungere la porta distrutta del forte. Dovettero arrampicarsi, spingendosi a vicenda, per scalare la montagna di macerie che sbarrava l'ingresso, poi combattere per farsi largo tra la polvere e il fumo, invadendo infine il cortile della fortezza. Con la sciabola sguainata, la lingua penzoloni tra i denti come una muta di cani da caccia che braccano il cervo, si lanciarono sui difensori ancora storditi, in un'orgia selvaggia di spirito guerresco. Accecato dalla polvere, Hal tentò di mettersi a sedere, ma sentiva sul petto un peso enorme che lo soffocava, inchiodandolo a terra. Tossì, raschiandosi la gola e tentando di battere le ciglia per liberare dai granelli di sabbia e di polvere gli occhi che lacrimavano. Per quanto artigliasse freneticamente l'enorme corpo inerte riverso su di lui, non aveva la forza di liberarsi. A poco a poco la vista gli si schiarì e il rombo che sentiva nelle orecchie si ridusse al ronzio furioso di uno sciame di api intrappolato nel suo cranio. Allora vide il volto di Big Daniel sopra di lui: gli occhi erano aperti e sbarrati, la testa ricadeva inerte di lato; quando Hal cercò di spingerlo via, la bocca sdentata si aprì, lasciando ciondolare la lingua e colare sul viso di Hal un misto di sangue e saliva calda. L'orrore spinse Hal a compiere uno sforzo supremo per liberarsi. Per quanto stordito, si mise a sedere, abbassando gli occhi su Big Daniel: facendogli scudo col suo corpo, si era esposto in pieno alla violenza dell'esplosione, che gli aveva strappato di dosso i vestiti, lasciandolo nudo, a parte gli stivali e la cintura con la spada. La sabbia sospinta dallo Wilbur Smith
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spostamento d'aria gli aveva ustionato la pelle della schiena e delle natiche, tanto che sembrava la carcassa di un animale appena scuoiato. Nel dorso e nei fianchi erano conficcati frammenti di pietra e detriti scagliati in aria dallo scoppio, che, penetrando nelle carni, avevano messo a nudo le schegge bianche delle costole e della spina dorsale fracassata. «Danny?» invocò Hal. «Danny, mi senti?» Era una domanda assurda, frutto dello stordimento che lo aveva assalito. Tentò di avvicinarsi a lui, ma scoprì che le gambe non gli obbedivano e, abbassando gli occhi, comprese che erano l'unica parte del suo corpo che Daniel non fosse riuscito a proteggere. Erano state messe a nudo dalla violenza dell'esplosione. Hal vide che la carne era stata maciullata, come se fosse rimasta prigioniera degli ingranaggi di ferro di un argano: dalle carni insanguinate sporgevano bianche schegge d'osso. Non sentiva dolore, per cui la sua mente si ostinava a negare la prova fornita dagli occhi. Non riusciva a credere di avere perso tutt'e due le gambe, e non voleva contemplare più a lungo quella devastazione. Facendo leva sui gomiti, affondandoli nel terreno soffice e trascinandosi dietro le gambe dilaniate, riuscì ad avvicinarsi a Big Daniel. Steso accanto a quel grande corpo, lo prese tra le braccia, cullandolo con la stessa delicatezza che aveva usato un tempo con i figli neonati per farli dormire. «Andrà tutto bene. Ne usciremo insieme, come abbiamo sempre fatto», sussurrò. «Andrà tutto bene, Danny.» Non si rese conto di piangere finché non vide le sue lacrime cadere sul viso di Daniel, simili a calde gocce di pioggia tropicale che lavavano i granelli bianchi di sabbia dalle pupille vitree. Il dottor Reynolds, accorrendo attraverso il palmeto con i suoi due aiutanti, li trovò distesi l'uno vicino all'altro. «Occupatevi prima di Danny», lo pregò Hal. «Di lui si è già preso cura Dio», gli rispose con gentilezza il dottor Reynolds, prima di trasferire Hal sulla barella con l'aiuto dei suoi uomini. Tom si voltò a guardare la baia. Dal punto in cui erano, sulla sommità di una bassa duna bianca, si scorgevano le due navi dalle vele quadre distanti un miglio, oltre la barriera corallina: la Seraph dalle linee aggraziate in testa e, dietro, la Minotaur dalle vele nere, minacciosa e potente. Sotto i loro occhi, virarono di bordo una dopo l'altra, tornando a sud per riprendere la loro posizione, in modo da bloccare l'accesso alla baia. Wilbur Smith
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Tom puntò un ginocchio a terra per osservare al di là della duna le mura del forte, distanti duecento passi. La densa nube di fumo si stava dissipando, dispersa dal monsone, spostandosi verso il mare. Lungo i bastioni del forte erano schierate centinaia di teste, facce scure e barbute sotto il copricapo tradizionale, la keffiya o il turbante. I difensori brandivano il fucile, ballando sugli spalti in segno di trionfo. Tom sentiva il loro vocio eccitato e riusciva persino a capire qualcuno degli insulti lanciati contro le due navi inglesi. «Possa Allah annerire il volto degli infedeli!» «Allah è grande! Ci ha assegnato la vittoria.» Tom fece per alzarsi. «Qualcosa è andato storto. A quest'ora la porta avrebbe già dovuto saltare.» Aboli allungò la mano, afferrandolo per il polso e tirandolo giù, al suo fianco. «Calmati, Klebe! A volte la parte peggiore della battaglia è l'attesa.» Poi udirono colpi di fucile dalla parte opposta della fortezza; tutti gli arabi schierati lungo i parapetti si voltarono in quella direzione. Le urla e le provocazioni cessarono. «Gli infedeli attaccano la porta!» gridò una voce in arabo, e la reazione fu una carica disordinata e inarrestabile. Persino gli artiglieri abbandonarono i cannoni per correre sulla passerella a fronteggiare quella nuova minaccia. In pochi secondi i parapetti rimasero deserti, e Tom scattò di nuovo in piedi. «Questa è la nostra occasione! Seguimi!» Aboli lo trattenne di nuovo. «Pazienza, Klebe!» Il ragazzo si sforzò di liberarsi dalla sua presa. «Non possiamo più aspettare. Dobbiamo trovare Dorry!» «Nemmeno tu puoi combattere contro mille uomini da solo», disse il gigante nero, scuotendo la testa. Tom guardò in direzione della feritoia verso la sommità del muro, dove sapeva che era imprigionato Dorian. «Dovrebbe avere il buonsenso di fare qualche segnalazione, di farci capire dov'è. Potrebbe sventolare la camicia o qualcosa del genere.» Poi si affrettò a giustificare il fratello. «Ma è solo un bambino. Non sempre sa che cosa fare.» Dalla parte opposta del forte, i colpi isolati di fucile aumentarono d'intensità, sino a trasformarsi in una furiosa scarica. «Ascolta, Klebe.» Aboli continuò a trattenerlo. «Big Daniel e tuo padre stanno sistemando le cariche sotto la porta. Ormai non ci vorrà molto.» Wilbur Smith
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Poi lo scoppio ferì i loro timpani e il rombo dell'esplosione li stordì. Nel cielo si levò una colonna di polvere e di fumo che si gonfiò nella parte superiore, allargandosi. La nube di polvere era densa di particelle di detriti che turbinavano nell'aria, schegge di roccia e frammenti infuocati che lasciavano scie di fumo nel cielo azzurro. Tom vide un cannone di bronzo scagliato in aria a cento piedi di altezza, mentre corpi umani e membra dilaniate volavano ancora più in alto, insieme con pesanti tavole di legno. Prima che lui potesse riscuotersi dallo stordimento, Aboli era già in piedi e procedeva a lunghi balzi attraverso il terreno scoperto che li separava dal forte. Alzandosi di scatto, Tom lo seguì di corsa, ma la veste lunga lo intralciava, per cui lo raggiunse solo quando l'altro era già ai piedi della muraglia. Aboli s'inginocchiò, formando una staffa con le dita intrecciate. Di slancio, Tom vi appoggiò un piede, chiuso nello stivale, e Aboli lo sospinse in alto, verso i rami di un fico che aveva insinuato le radici nelle commessure tra i blocchi di roccia. Tom si arrampicò con l'agilità di una scimmia, senza farsi ostacolare né dal fodero della spada che gli batteva contro le gambe né dalla coppia di pistole che portava infilate nella cintura. Aboli e gli altri tre uomini lo seguirono, ma Tom arrivò per primo al parapetto, introducendosi nel varco dove il muro aveva cominciato a crollare e scavalcando la sommità. Si trovò di fronte un viso bruno e sbalordito. Uno degli arabi non si era lasciato attirare lontano dal suo posto dal tumulto dell'assalto alla porta. Con un grido di stupore, indietreggiò di fronte all'apparizione improvvisa del ragazzo, tentando di puntargli addosso il fucile che teneva in mano, ma il cane ricurvo s'impigliò in una piega della veste e, mentre lottava per liberarlo, la sciabola di Tom volò fuori del fodero come se fosse un uccello; il suo affondo raggiunse l'uomo alla gola, recidendogli le corde vocali, cosicché il grido successivo morì sul nascere. Vacillando all'indietro, l'arabo cadde a precipizio nel cortile alle sue spalle, dimenando le braccia, con un volo di cinquanta piedi. Mentre Aboli e i tre marinai si arrampicavano sui bastioni, Tom gettò una rapida occhiata alle mura e al cortile del forte. Attraverso le dense volute di polvere e di fumo, intravide le sagome indistinte degli arabi che si allontanavano storditi dalle rovine della porta. Lungo le passerelle in cima al parapetto, una folla vociante cercava di allontanarsi dalle macerie fumanti. Wilbur Smith
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In quel momento dilagò, attraverso la porta in rovina, un'ondata di marinai inglesi che urlavano come ossessi, arrampicandosi sulle macerie e salendo di corsa le rampe prima di avventarsi contro gli arabi di guardia sui camminamenti dei bastioni. Si udirono colpi isolati di fucile e Tom vide un marinaio cadere all'indietro sulla rampa. Poi le due parti s'incontrarono, formando una massa confusa di uomini che urlavano e si battevano furiosamente. Cercò il padre tra la folla. Di solito la statura e la barba nera di Hal lo rendevano riconoscibile anche in mezzo alla confusione; quella volta, invece, lui non riuscì a individuarlo, ma non aveva il tempo di proseguire la ricerca. «Da questa parte!» gridò, guidando il suo gruppo lungo la passerella che portava alla rampa più lontana dalla porta. Il loro abbigliamento li rendeva quasi invisibili, tanto che gli arabi intorno a loro li lasciarono passare senza neanche voltarsi a guardarli. Tom scese di corsa la rampa, raggiungendo il pianerottolo intermedio, dal quale era possibile accedere all'interno grazie a una porta ad arco. All'entrata c'erano due guardie. Una delle due, notando gli occhi chiari e i lineamenti europei di Tom, sollevò la scimitarra sopra la testa, poi, gridando: «Ferenghi!» gli sferrò un colpo micidiale alla testa con la lama ricurva. Tom si abbassò per schivare il colpo, prima di rispondere con un elegante affondo, che penetrò nel torace dell'arabo. Quando ritirò la lama, l'aria uscì sibilando dai polmoni trafitti, e l'arabo cadde in ginocchio, mentre Aboli uccideva altrettanto rapidamente l'altra sentinella. Scavalcando con un balzo i cadaveri, imboccarono di corsa il corridoio stretto e buio che si stendeva al di là della porta. «Dorry!» gridava Tom. «Dove sei?» Si scostò la veste dal viso, strappandosi il turbante dalla testa, perché ormai il travestimento non gli serviva più e voleva che Dorian lo riconoscesse subito. «Dorian!» gridò di nuovo, ma la sua voce suscitò solo strani echi lungo il corridoio, ottenendo una litania di risposte in varie lingue diverse, lanciate da voci stridule. Ai due lati del corridoio si aprivano le porte di una dozzina di celle. Le porte originali, che dovevano essere marcite da mezzo secolo almeno, erano state sostituite da altre ricavate da assi grezze e chiuse da sbarramenti rudimentali. Tom vide facce sparute dalla barba bianca che scrutavano dagli spioncini, tendendo verso di lui le mani adunche in un gesto di supplica. Capì subito che quelli erano i prigionieri delle navi Wilbur Smith
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catturate da al-Auf, quindi Dorian doveva essere tra loro. Si sentì subito eccitato. «Dorian!» Una voce gli rispose in inglese: «Gesù vi ama, signore. Abbiamo pregato per la vostra venuta». Aboli sollevò dalle staffe la pesante sbarra che bloccava la porta, spalancandola, mentre i prigionieri uscivano disordinatamente dalla minuscola cella di pietra, riversandosi nel corridoio. Tom fu quasi intrappolato in quella fiumana di uomini laceri e puzzolenti, e dovette lottare per liberarsene, proseguendo la sua ricerca frenetica nelle altre celle. «Dorian!» urlò selvaggiamente, per farsi udire al di sopra di quel frastuono. Stava tentando di capire in quale delle celle aveva visto il fratello, ma non poteva fidarsi del proprio senso dell'orientamento. Afferrando per le spalle uno dei prigionieri appena liberati, cominciò a scrollarlo con violenza, gridandogli: «C'è un ragazzino, qui, con i capelli rossi?» L'uomo lo fissò come se fosse pazzo, poi si divincolò, correndo via per unirsi alla massa di prigionieri liberati che si riversava nel cortile. Tom raggiunse la fine del corridoio e l'ultima cella. La porta era socchiusa, quindi poté entrare nella minuscola stanzetta dalle pareti di pietra: era vuota. C'era solo un pagliericcio di fronde di palma secche addossato alla parete, ma nessun altro oggetto di arredamento. Un raggio di sole penetrava obliquo dalla feritoia incassata nella parete opposta, e Tom si diresse subito da quella parte per guardare fuori verso la curva della baia e le due navi ferme al largo. «È questa», mormorò tra sé. Salendo sullo scalino sotto la feritoia, infilò la testa nell'apertura: la liana cresceva all'esterno della parete, tanto vicina da poterla quasi toccare. «È questa la cella dove tenevano Dorry. Ma dov'è, adesso?» Balzando giù dallo scalino, si guardò attorno nella cella vuota. Scorse alcuni anelli di ferro cementati nei blocchi di pietra, ai quali erano stati incatenati degli uomini. Le pareti erano coperte di graffiti, incisi nella pietra tenera. Lesse nomi portoghesi e date vecchie di cent'anni, consumate dal tempo e quasi cancellate dal muschio e dalla muffa. Ce n'erano però anche altre più recenti, in arabo, e riuscì a scorgere un'esortazione religiosa, un versetto della sura 17 del Corano, che riconobbe perché Alf Wilbur Smith
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Wilson gliel'aveva fatta imparare a memoria: «I sette cieli e la terra, e tutto ciò che vi è in mezzo, celebrano la sua gloria». Al di sotto c'era un ennesimo graffito, inciso con la fibbia di una cintura o qualche altro oggetto di metallo. Era recente, ancora fresco, in lettere sbilenche e infantili, e diceva: DORIAN COURTENEY. «Era qui!» gridò forte Tom. «Aboli, Dorry era qui!» Aboli apparve sulla soglia, occupandola tutta con la sua figura massiccia. «E ora dov'è, Klebe?» «Lo troveremo.» Tom indugiò solo il tempo necessario per strapparsi di dosso la veste che gli intralciava i movimenti, scaraventandola contro il muro, poi, insieme con Aboli, tornò indietro lungo il corridoio per uscire alla luce del sole. Il combattimento, nel cortile ai loro piedi e sui bastioni della fortezza, era ancora accanito, ma appariva evidente che i difensori erano in rotta. A centinaia, ormai, erano fuggiti oltre la porta in rovina, gettando via le armi per rifugiarsi nella foresta. Altri, invece, erano intrappolati tra le mura. Tra questi, molti imploravano pietà, in ginocchio, mentre altri preferivano gettarsi dai bastioni piuttosto che affrontare le sciabole inglesi. Con le tuniche bianche gonfiate dall'aria intorno al corpo, lanciavano strida acute piombando al suolo. Alcuni, però, continuavano a battersi. Un gruppo isolato, composto da una dozzina di uomini, difendeva il bastione orientale, gridando in tono di sfida: «Allah akbar! Dio è grande!» Sotto gli occhi di Tom, gli inglesi riuscirono a sopraffarli, abbattendoli a colpi di sciabola e gettando i loro corpi dai bastioni. In mezzo alla confusione, il giovane cercava disperatamente una figura minuta e una capigliatura di fuoco, però non riusciva a scorgere traccia del fratello. Una donna salì lungo la rampa, correndogli incontro. Il velo nero le era caduto ed era rimasta a capo scoperto. Tom si accorse che era poco più che una bambina: i lunghi capelli neri svolazzavano dietro il viso terrorizzato, mentre gli occhi sottolineati dal kohl sembravano quelli di una cerbiatta inseguita dai cani. Quattro marinai la seguivano gridando e lasciandosi sfuggire risatine eccitate, con la camicia macchiata del sangue degli uomini uccisi e il viso costellato di goccioline rosse, gonfio e acceso dalla lussuria. Arrivati all'estremità del bastione, la catturarono, gettandola a terra. Tre di loro la inchiodarono sul pavimento di pietra e, sebbene lei lottasse, Wilbur Smith
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divincolandosi, le sollevarono la veste, scoprendo le gambe snelle e brune e il ventre liscio e nudo. Il quarto marinaio si slacciò le brache, gettandosi su di lei. «Forza, devi prepararci la strada!» lo incitarono i compagni. Tom non aveva mai immaginato nulla di tanto orribile. Come novizio dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal, gli era stato insegnato che la guerra era nobile e che tutti i veri guerrieri erano galanti e cavallereschi. Corse avanti per intervenire, ma Aboli lo agguantò per un braccio, stringendolo in una presa ferrea. «Lasciali fare, Klebe. È il diritto dei vincitori. Il nostro dovere è salvare Bomvu.» Aveva usato il nomignolo di Dorian, che nel linguaggio della foresta significava: «Rosso». «Ma non possiamo lasciarli...» proruppe Tom. «Non possiamo fermarli», tagliò corto Aboli, «e se ci provi ti uccideranno. Troviamo Bomvu, invece.» La ragazza singhiozzava da far pietà, ma Aboli trascinò via Tom, scendendo la rampa fino al pianterreno. Da quella parte del cortile trovarono un dedalo di vecchie mura e androni. Alcune delle porte erano aperte, tuttavia per la maggior parte erano sprangate, con le finestre chiuse. Dorian poteva trovarsi dietro una qualsiasi di quelle barriere. Tom sapeva che il fratellino doveva sentirsi sperduto e terrorizzato; dovevano trovarlo prima che restasse ferito nel combattimento e nel saccheggio. «Tu parti dal fondo», gridò ad Aboli, indicando il cortile coperto. «Io comincerò da qui.» Senza neanche voltarsi a guardare se Aboli gli aveva dato ascolto, corse verso la porta più vicina, e la trovò chiusa a chiave. Cercò inutilmente di sfondarla con una spallata, poi si allontanò per tentare di colpire con un calcio la massiccia serratura di ferro, che resistette ai suoi sforzi. Guardandosi attorno, Tom riconobbe uno dei gabbieri della Seraph che scendeva di corsa dalla terrazza, stringendo un'ascia dal manico lungo in una mano e una pistola nell'altra. Aveva le braccia insanguinate fino ai gomiti e un'espressione rapita, tanto era esaltato dal combattimento. «Charley!» gli gridò, riuscendo a farsi sentire attraverso il folle strepito della battaglia. «Abbatti questa porta!» Sentendosi invitare a proseguire la distruzione, Charley sorrise e disse: «Stai indietro, Tommy». Poi si scagliò contro la porta e, con due possenti colpi di ascia, sfondò i pannelli e fece traballare il battente sui cardini. Wilbur Smith
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Tom l'aprì del tutto a forza di calci, prima di balzare all'interno, e si ritrovò in un labirinto di stanzette e corridoi. Corse avanti, controllando ogni stanza man mano che passava, ma era chiaro che erano state tutte abbandonate in fretta e furia: coltri e vestiti erano sparsi qua e là, in disordine. D'un tratto udì alcuni colpi soffocati sopra la sua testa e, alzando gli occhi, vide una scala dall'aria traballante, in fondo al corridoio. Sembrava che qualcuno cercasse di fuggire da una stanza chiusa a chiave. Forse era Dorry! Si sentì battere il cuore all'impazzata e, senza pensarci due volte, si lanciò su per le scale, salendo due gradini per volta. Quando fu in cima, trovò una massiccia porta aperta, con l'enorme chiave di ferro ancora infilata nella serratura. Varcata la soglia, si trovò in una stanza lunga e stretta, con le finestre chiuse, immersa nella penombra. «Dorry!» gridò, guardandosi attorno. Si accorse subito che non si trattava di una prigione. Lungo la parete di fronte alle finestre chiuse era stipata una serie di cassettine di legno, molto simili a quelle che avevano confiscato a bordo del dhow di al-Malik, le cassette che contenevano il denaro per il pagamento di Dorian. Si rese conto che quello doveva essere uno dei depositi di al-Auf, forse quello in cui custodiva il bottino più prezioso. Quattro cassette erano aperte, col coperchio sollevato. Nonostante l'ansia per il fratello, Tom rimase affascinato dal contenuto che rivelavano, riconoscendo i tipici sacchetti arabi per le monete. Ne prese uno, soppesandolo. Il peso e la forma delle monete che si sentiva attraverso la stoffa eliminarono qualunque dubbio potesse ancora nutrire. «Oro», mormorò. Poi si accorse che qualcuno aveva lasciato vicino alla cassetta, sul pavimento di pietra, una sacca da sella di cuoio, piena per metà di sacchetti d'oro. Doveva aver interrotto uno degli arabi mentre era intento a riempirla prima di tentare la fuga dalla fortezza assediata. I colpi che Tom aveva sentito probabilmente erano quelli delle cassette che venivano aperte. Chiunque fosse, doveva essere ancora lì. Proprio mentre l'idea gli balenava alla mente, udì il fruscio di un passo furtivo sulle lastre di pietra del pavimento, alle sue spalle. Quel suono lo indusse a girarsi di scatto verso la soglia. Sentendo i passi sulla scala, al-Auf si era nascosto dietro la porta aperta. Il ragazzo lo riconobbe all'istante. Lo aveva visto sul ponte della Wilbur Smith
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Minotaur, quando la Seraph aveva ingaggiato battaglia con la nave pirata. Tuttavia era più alto di quanto avesse immaginato e gli occhi rapaci, infossati nelle orbite, apparivano scuri e spietati come quelli di un avvoltoio. Era a capo scoperto, senza turbante; i capelli neri e folti, unti e striati d'argento, gli ricadevano sulle spalle, confondendosi con le ciocche della barba. Le labbra erano tese in una smorfia crudele, quando sollevò la pistola nella mano sinistra, puntandola alla testa di Tom. Per una frazione di secondo Tom guardò in fondo alla canna e all'occhio scintillante di al-Auf, che puntava attraverso il mirino; poi si sentì scattare il cane, con un suono metallico che parve assordante entro i confini angusti della stanzetta, e lo scodellino esplose in uno sbuffo di fumo bianco. Tom fece una smorfia, aspettando che il proiettile lo colpisse al viso. Invece non successe nulla. La pistola aveva fatto cilecca. Per qualche istante, il pirata rimase accecato dal fumo e dal lampo scaturito dallo scodellino e, in quel brevissimo intervallo di tempo, Tom aveva già coperto lo spazio che li separava. Si era accorto che la pistola era a doppia canna e che al-Auf teneva l'indice piegato sul secondo grilletto. Sapeva che la sorte non poteva favorirlo due volte, e che il colpo della seconda canna lo avrebbe ucciso. Vibrò un fendente sulla mano tesa che impugnava la pistola, e la lama squarciò l'interno del polso di al-Auf, aprendo come un rasoio il fascio di vasi sanguigni sotto la pelle scura: la pistola cadde dalle dita, ormai insensibili, rimbalzando sul pavimento di pietra col calcio in avanti, e la seconda canna sparò. Il proiettile scheggiò il legno di una delle cassette piene d'oro, mentre al-Auf arretrava, cercando la scimitarra sulla cintura incrostata di gemme che portava alla vita e sguainando la lama appena in tempo per contrastare l'affondo che il ragazzo gli aveva portato allo sterno. Tom non si aspettava che fosse tanto rapido. Le striature argentee nei capelli e nella barba di al-Auf lo avevano tratto in inganno. Quell'uomo era veloce come un leopardo, e la potenza della lama sembrava quella di un giovane, di qualcuno con la metà dei suoi anni. Non appena Tom si riprese dall'allungo, al-Auf posò un ginocchio a terra, menandogli un fendente di rovescio alle caviglie, un colpo che lo avrebbe mutilato. Tom non aveva il tempo di tirarsi indietro, quindi spiccò un balzo in aria e la lama ricurva gli passò fulminea sotto la suola degli stivali. Ancora a mezz'aria, si avventò contro la testa bruna dell'arabo, ma al-Auf gli sgusciò tra le mani come un serpente che scivola sotto un sasso; tuttavia aveva lasciato una pozza di Wilbur Smith
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sangue sulle pietre, e il suo polso continuava a sprizzare sangue. Tom bloccò la risposta, fintando, ma al-Auf parò la sua mossa, abbassandosi per evitare la lama e mirando allo stomaco. Il giovane balzò all'indietro, cosicché il colpo risultò troppo corto. Girarono l'uno intorno all'altro, fissandosi negli occhi, cercando di intuire quali erano i punti deboli dell'avversario. Le lame stridettero vibrando, mentre ciascuno di loro sondava l'altro. Tom scivolò sul sangue e, nell'attimo in cui era sbilanciato, al-Auf scattò come una freccia dall'arco, mirando di nuovo in basso, in cerca del fianco. Tom deviò la lama, costringendolo a indietreggiare frettolosamente. Stava cominciando a capire il suo avversario: era rapido e sfuggente, e l'età non aveva intaccato la forza del suo polso. Se avessero continuato a battersi a lungo, prima o poi al-Auf avrebbe fatto valere la sua esperienza. Tom intuì che doveva trasformare il duello in una prova di forza. Si lavorò l'arabo solleticando il suo lato forte, flirtando con lui e offrendogli un'apertura fuggevole, ma, non appena al-Auf l'accettò e colpì di nuovo basso, Tom arrestò la sua lama, intrappolandolo con la propria. Ormai si trovavano quasi faccia a faccia, con le lame incrociate all'altezza degli occhi. Tom ci mise tutta la forza delle spalle, larghe e giovani, e alAuf cedette di un passo. Sentì la forza defluire dal braccio del pirata, insieme col sangue che colava dalle vene squarciate del polso sinistro. Allora tentò di nuovo un affondo, e scoprì che al-Auf non era così debole quanto aveva finto di essere: cedette tanto in fretta che Tom incespicò in avanti, non incontrando resistenza, e il pirata tentò per l'ennesima volta un colpo basso. Il ragazzo avrebbe dovuto intuirlo, invece fu solo grazie a un miracolo di prontezza e agilità felina che riuscì a spostare di lato la parte inferiore del corpo. L'affondo gli sfiorò appena la coscia: lacerando la stoffa dei pantaloni, aprì un taglio poco profondo nel muscolo elastico della gamba. Non era una ferita che potesse impensierirlo e, alla fine dell'affondo, alAuf si trovò sbilanciato in avanti, al massimo dell'estensione. Mentre tentava disperatamente di riprendersi, Tom risollevò la lama e lo costrinse a un legamento circolare. Le due spade piroettarono insieme, con uno stridio d'acciaio così acuto da ferire i nervi, facendo vibrare l'elsa nelle mani dei duellanti. Finalmente Tom era riuscito a trasformare lo scontro in una prova di forza, perché al-Auf non osava tentare di disimpegnarsi. Per farlo, avrebbe Wilbur Smith
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dovuto aprire la guardia e sapeva che la risposta sarebbe stata fulminea. Quello era il classico legamento prolungato che Tom aveva imparato da Aboli. «Con questo colpo, tuo padre uccise il colonnello Cornelius Schreuder», gli aveva detto Aboli. «E quell'olandese era il più abile schermidore che abbia mai visto battersi... dopo tuo padre, naturalmente.» Tom concentrò tutto il suo peso sul polso e al-Auf cedette di un passo. Le lame continuarono a piroettare, mentre il sudore sgorgava a fiotti dalla fronte bruna che ormai era profondamente corrugata per lo sforzo, colando negli occhi e nella barba. Esultante, Tom lo sentì indebolirsi. Il sangue cadeva ancora dal polso a grosse gocce, e le labbra di al-Auf si contorsero in un orribile ghigno di angoscia, mentre nei suoi occhi affiorava la costernazione. Di colpo, Tom cambiò l'angolazione del polso. La punta della spada balenò per un attimo davanti agli occhi di al-Auf, e lui cedette. Contro la sua volontà, le lunghe dita brune si aprirono, lasciando scivolare l'elsa della scimitarra. Il ragazzo usò la punta della lama per raccoglierla e farla roteare con un guizzo del polso verso la parete opposta, dove cadde tintinnando sul pavimento di pietra. Il pirata tentò di lanciarsi verso la porta con uno scatto fulmineo, ma Tom gli puntò la spada contro la barba, affondandola con delicatezza sotto il mento, e costringendolo ad arretrare verso la parete. Ansimava, tanto che impiegò qualche minuto a riprendere fiato quanto bastava per parlare. «C'è un'unica cosa, ormai, che puoi fare per salvarti la vita...» disse tra un ansito e l'altro. Sentendo che l'infedele parlava con tanta scioltezza la sua lingua, al-Auf socchiuse gli occhi, perplesso. «... Puoi consegnarmi il giovane occidentale che tieni prigioniero qui», concluse Tom. Il pirata lo fissò. Teneva la mano ferita contro il petto, nel tentativo di fermare l'emorragia stringendosi il polso con l'altra mano. «Rispondimi», lo incalzò Tom, affondandogli ancor più la punta della spada nella gola. «Parlami, progenie di una scrofa appestata. Dammi il ragazzo e io ti lascerò vivere.» Avvertendo la puntura dell'acciaio, al-Auf fece una smorfia. «Non so di che ragazzo parli», sibilò. «Lo sai benissimo. Di quello con i capelli rossi», sbottò Tom. Wilbur Smith
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Al-Auf storse le labbra in un sorriso beffardo. «Perché vuoi al-Amhara, il rosso?» domandò con un lampo spaventoso di odio negli occhi. «Era il tuo trastullo favorito?» La spada di Tom fremette per l'ira nel sentire quell'insulto. «Al-Amhara è mio fratello.» «Allora sei arrivato troppo tardi.» L'arabo sprizzava gioia maligna dallo sguardo. «E' andato dove non lo troverai mai.» L'altro ebbe la sensazione che un cerchio di ferro gli serrasse il torace, e si sentì venire meno il fiato. Dorian era sparito. «Tu menti.» Nell'ira, la lingua cominciò a incespicare sulle parole arabe. «Lo so che è qui. L'ho visto con i miei occhi. Lo troverò.» «Non si trova su quest'isola, puoi cercare dove vuoi.» Al-Auf rideva, una risata penosa e forzata, che Tom interruppe, aumentando la pressione della punta d'acciaio. Fissò gli occhi scuri dell'arabo e una serie di pensieri confusi gli passò per la mente. «No!» Non voleva crederci. «Lo tieni nascosto qui, da qualche parte. Stai mentendo.» Tuttavia nell'atteggiamento di al-Auf c'era qualcosa che gli fece capire che quell'uomo stava dicendo la verità. Comprese che avevano perso il piccolo Dorry, e una cupa disperazione riempì il vuoto che il fratello aveva lasciato nel suo cuore. Abbassando la spada che teneva puntata alla gola dell'avversario, gli volse le spalle e si diresse verso la porta, deciso a frugare ogni angolo dell'isola, anche solo per mettersi il cuore in pace. Al-Auf ne fu tanto sorpreso che per un attimo rimase rigido, immobile. Poi abbassò la mano destra - quella illesa - verso l'elsa del pugnale ricurvo che teneva infilato nel fodero di filigrana d'oro alla cintola. Uscendo dal fodero, la lama dorata produsse un lieve suono frusciante. Tom non era così disperato da ignorare quel fatale sussurro: quando si girò di scatto per fronteggiarlo, al-Auf si era appena slanciato oltre il varco che li separava, tenendo il pugnale levato sopra la testa, deciso a conficcarlo nella schiena di Tom. Di fronte a quel gesto sleale, il dolore di Tom si tramutò in una collera furiosa. Balzando in avanti per fronteggiare l'attacco, affondò la spada di punta al centro del petto dell'arabo e sentì l'acciaio urtare contro una costola e deviare, poi trapassare il cuore e i polmoni, vibrando nella sua stretta quando incontrò con la punta la spina dorsale. Al-Auf rimase paralizzato, mentre il pugnale gli cadeva di mano, rotolando fragorosamente sul pavimento. L'odio svanì dai suoi occhi neri. Wilbur Smith
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Tom gli piantò un piede contro il petto e, spingendo all'indietro, ritirò la lama rossa di sangue. Il pirata scivolò in ginocchio, lasciando ricadere la testa in avanti, ma l'ira di Tom non si era ancora placata. Sollevando la sciabola, menò un fendente, sfruttando tutta la potenza delle spalle e del braccio, con uno scatto del polso tale che la lama, abbassandosi, sibilò nell'aria prima di abbattersi sulla nuca di al-Auf. La testa cadde dal troncone del collo che sprizzava sangue, cadde a terra con un tonfo sordo e rotolò ai piedi del giovane. Tom fissò dall'alto il volto di al-Auf, con gli occhi spalancati dall'espressione feroce. Le labbra si schiusero, come se tentasse di parlare, ma poi le palpebre ebbero un fremito e la luce svanì dagli occhi, che divennero torbidi e opachi, mentre la mascella si allentava. «E' fatta, e anche bene!» commentò Aboli dalla soglia. Entrando nella stanza, si tolse la veste araba che portava ancora, inginocchiandosi e stendendola sul pavimento, prima di sollevare la testa recisa tenendola per i capelli lisci e neri. Tom lo guardò mentre avvolgeva la testa di al-Auf nel mantello. Non si sentiva particolarmente emozionato e di certo non provava il minimo rimorso, fissando il sangue inzuppare le pieghe della stoffa. Alzandosi, Aboli si mise in spalla il macabro fagotto. «La porteremo a tuo padre. La testa di al-Auf gli frutterà un titolo nobiliare, quando la presenterà ai governatori dell'onorevole Compagnia delle Indie Orientali, a Londra.» Con la spada sguainata in mano, Tom seguì Aboli come un sonnambulo lungo il corridoio e poi fuori, alla luce del sole, quasi curvo sotto il peso schiacciante della certezza di aver perso Dorian per sempre. Tom si fece largo tra i marinai esultanti che impazzavano lungo i corridoi e le stanze del forte. Scambiandosi risa fragorose e sonore vanterie, stavano saccheggiando l'edificio, e di tanto in tanto si udiva un'esclamazione o un grido di trionfo: segnalavano che qualche altro arabo, nascosto in una delle celle, era stato scovato e condotto a forza in cortile. I prigionieri venivano spogliati di tutto, perché i marinai avevano imparato quanto fossero abili a nascondere un pugnale sotto le vesti voluminose; anche alle donne veniva riservato lo stesso trattamento. Le armi erano gettate su una pila al centro del cortile, mentre gli oggetti Wilbur Smith
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preziosi, i sacchetti di monete degli uomini e i gioielli delle donne finivano dentro una vela distesa a terra. Quindi i prigionieri andavano a raggiungere le schiere di corpi nudi e bruni che erano già inginocchiati lungo la parete nord del cortile, sotto la sorveglianza di marinai sorridenti, armati di pistole col cane alzato e sciabole sguainate. Passando lungo la fila di arabi accovacciati a terra, Tom ne scelse uno, che, nonostante la nudità, aveva lineamenti aristocratici e uno sguardo intelligente e dignitoso. «Come vi chiamate, vecchio padre?» chiese Tom, sforzandosi di rivolgersi all'uomo con rispetto. Il vecchio parve sorpreso di sentirsi rivolgere la parola in arabo, ma rispose: «Mi chiamo Ben Abram». «Avete l'aspetto di uno studioso o di un santo», disse Tom, per lusingarlo. E di nuovo l'uomo rispose. «Sono un medico.» «C'era un ragazzo, qui sull'isola. Ormai dovrebbe avere tredici anni e i suoi capelli sono rossi. È stato catturato da al-Auf. Lo conoscete?» «Lo conosco.» Ben Abram annuì, e Tom si sentì rinascere. «È mio fratello. Dove si trova, adesso? È sull'isola?» domandò con ansia, ma il medico scosse la testa. «Se n'è andato. Al-Auf lo ha venduto come schiavo.» Tom dovette finalmente accettare la conferma della vanteria di al-Auf. Per un attimo credette di non riuscire a sopportare quel dolore. «E dove lo hanno mandato? Qual è il nome dell'uomo che ha comprato mio fratello come schiavo?» Ben Abram scosse di nuovo la testa, però i suoi occhi elusero lo sguardo di Tom, mentre la sua espressione diventava guardinga. «Non lo so», rispose in un sussurro. Il ragazzo capì che mentiva, e la sua mano corse all'elsa della spada. Avrebbe voluto costringere il vecchio a parlare, ma poi vide la piega ferma e risoluta dei suoi lineamenti e l'intuito gli disse che con la forza non avrebbe ottenuto nulla da lui. Per avere il tempo di riflettere, si guardò attorno, percorrendo con gli occhi le mura interne del forte. C'erano arabi morti sparsi qua e là lungo i bastioni e, tra loro, molti feriti che gemevano, dimenandosi sul terreno. Lanciò un richiamo al timoniere che aveva il comando delle guardie. «Quest'uomo è un chirurgo. Restituiscigli i vestiti e lascia che assista i feriti nemici.» Wilbur Smith
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«Sì, signor Courteney.» L'uomo si portò le dita alla fronte in segno di rispetto e di saluto. Tom si rivolse di nuovo a Ben Abram. «Molti dei vostri uomini hanno bisogno di assistenza. Potete andare da loro.» «Possa Allah ricompensare la vostra misericordia.» Ben Abram si alzò, indossando la tunica che il timoniere gli aveva lanciato. Il ragazzo osservò il vecchio che si allontanava in fretta, inginocchiandosi poi accanto a uno dei feriti gravi ai piedi della rampa. Adesso Tom doveva trovare il padre per riferirgli le terribili notizie che aveva appreso sul conto di Dorian. Si guardò di nuovo attorno, cercandolo con gli occhi, poi si avviò alla porta. Lungo la strada fermò tutti i marinai della Seraph che riconosceva. «Avete visto il comandante? Dov'è?» Giacché nessuno sapeva rispondere, Tom cominciò a preoccuparsi seriamente. Poi vide il comandante Anderson nei pressi della porta in rovina. Anderson era rosso in faccia e sbraitava come un toro ferito, tentando di riordinare le sue truppe scatenate, suddividendole in gruppi per cominciare a trasferire il contenuto dei depositi nei quali era accumulato il bottino dei pirati. Alcuni dei suoi uomini uscivano già dal forte barcollando sotto il peso di balle di stoffa e barili, accatastandoli vicino alla porta, pronti per essere trasportati giù alla spiaggia e caricati a bordo delle navi in attesa. Tom si accostò a lui e, quando Anderson si girò per guardarlo, la sua espressione si addolcì in un modo che lo lasciò perplesso. «Ho ucciso al-Auf», gli annunciò Tom, alzando la voce per farsi sentire al di sopra di quel frastuono. «Aboli ha la sua testa.» Indicò il gigante nero e il fagotto insanguinato che portava in spalla. «Madre di Dio!» Anderson pareva molto impressionato. «Questo sì che è un buon lavoro. Cominciavo a chiedermi dove si fosse rintanato quel furfante. A Londra la sua testa varrà almeno un lakh.» «In cima alle scale, dietro quella porta, in fondo al cortile coperto, c'è una stanza piena di casse che contengono monete d'oro e d'argento. Solo il Signore sa quanto oro al-Auf ha accumulato là dentro. Comandante Anderson, mi sembra opportuno che mandiate un ufficiale di fiducia a sorvegliarlo, prima che i ragazzi comincino a servirsi da soli.» Anderson chiamò con voce tonante il suo timoniere per impartirgli degli ordini. L'ufficiale si allontanò con cinque uomini reclutati in fretta e Tom poté rivolgere la domanda che ormai gli bruciava la lingua. «Comandante, Wilbur Smith
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avete visto mio padre? Lo sto cercando. Dovrebbe essere qui per aiutarvi a prendere il comando del forte.» Anderson lo guardò con un'espressione in cui la pietà si mescolava all'entusiasmo. «È stato colpito, ragazzo mio. L'ho visto investito in pieno dall'esplosione alla porta del forte.» Sentendo confermata la sua premonizione di un disastro, Tom ebbe l'impressione che una mano di ghiaccio gli serrasse il cuore. «Dov'è, signore?» «L'ultima volta che l'ho visto era davanti alla porta.» La voce di Anderson era roca per la compassione. «Mi spiace, ragazzo, ma, stando a quello che ho visto, è rimasto certamente ucciso.» Tom si allontanò di corsa, dimenticando persino Dorian, in quel momento. Arrampicatosi freneticamente sulla pila di macerie che bloccava l'accesso al forte, vide un corpo dilaniato disteso sul tratto di terreno scoperto e corse a inginocchiarsi lì vicino. Era così maciullato, privo di vestiti, scorticato a sangue, che Tom non riuscì a capire con certezza chi avesse di fronte. Voltò con delicatezza la testa fracassata. «Danny», disse sottovoce, mentre le lacrime gli inondavano gli occhi. Fino a quel momento non aveva capito quanto amasse quel gigante. Tuttavia respinse le lacrime, battendo le palpebre. Vista così da vicino, la morte era più orribile dei suoi peggiori incubi. Big Daniel aveva gli occhi aperti e fissi, coperti di mosche azzurre. Tom le scacciò, chiudendogli le palpebre col palmo della mano. Alzandosi a fatica, si trovò accanto Aboli. «Dov'è mio padre? Il comandante Anderson ha detto che era qui.» Tom non riusciva a vedere nessun altro corpo che potesse somigliare a quello del padre. Lungo i bordi della foresta c'erano trenta o quaranta arabi morti, uccisi mentre tentavano di fuggire. Alcuni marinai stavano controllando i corpi per accertarsi che non simulassero - uno dei trucchi preferiti dagli arabi -, e li perquisivano in cerca di oggetti di valore. «Tuo padre non è qui», rispose Aboli. «Devono averlo portato via.» Tom corse dal marinaio più vicino, che era accovacciato vicino a un cadavere. Tom non lo riconobbe, quindi doveva appartenere alla Yeoman of York. «Avete visto Sir Henry, il comandante della Seraph?» L'uomo alzò la testa. «Sì, ragazzo. Il vecchio era ferito gravemente. Ho visto i segaossi portarlo giù alla baia.» Accennò la direzione con le mani a coppa piene di gioielli d'oro. Al di sopra degli alberi si vedeva l'alberatura della loro squadra. Non Wilbur Smith
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appena le bandiere issate sui bastioni avevano annunciato la conquista del forte, tutt'e tre le navi erano entrate nella baia. Tom imboccò il sentiero tra gli alberi per scendere di corsa al mare, sulla soffice sabbia bianca corallina. Sbucò sulla spiaggia precedendo di poco Aboli, e guardò verso il bastimento all'ancora nelle acque limpide e tranquille della laguna. Le barche erano già impegnate nell'andirivieni tra i velieri e la spiaggia, trasportando gli uomini che erano stati sollevati dai loro compiti a bordo delle navi. Tom vide una barca staccarsi dalla Seraph e la chiamò non appena la chiglia urtò la sabbia. «Dov'è il comandante?» «È già a bordo, mastro Tom», gli riferì il nostromo. «Devo andare da lui. Portatemi alla nave.» «Pronti, mastro Tom. Saltate a bordo.» Quando la barca urtò contro la murata della Seraph, Tom fu il primo a salire la biscaglina, seguito da Aboli. In coperta c'era solo una manciata di uomini dell'equipaggio, ridotto al minimo, ed erano schierati lungo il parapetto, osservando con aria malinconica il trambusto a terra, ansiosi di unirsi anche loro ai saccheggi. «Dov'è il comandante?» chiese Tom. «Lo hanno portato nel suo alloggio.» Tom volò sotto coperta, ma, quando raggiunse la porta dell'alloggio di poppa, si fermò di colpo, sentendo echeggiare sul ponte silenzioso un lamento terribile. Rimase immobile, con la mano destra protesa, incapace di trovare il coraggio per aprire la porta e scoprire gli orrori che lo attendevano dall'altra parte. In silenzio, Aboli lo superò, aprendo la porta senza rumore, e Tom guardò all'interno dell'alloggio. Avevano sistemato un graticcio di legno sotto le finestre della galleria di poppa, dove la luce era migliore, e il padre era disteso supino su quel graticcio, col dottor Reynolds chino su di lui. Indossava il grembiule nero, l'abbigliamento tradizionale per le operazioni, col tessuto di sargia pesante verdastro per l'età e irrigidito dal sangue vecchio. Reynolds sudava già a profusione, nel caldo del piccolo alloggio. Alzando la testa, vide Tom e lo salutò con un cenno. «Bene! Venite dentro, ragazzo, non state lì a bocca aperta. Mi serve un altro paio di mani forti», disse in tono truce, cominciando ad arrotolarsi le maniche fino ai gomiti. Tom, con le gambe di piombo, avanzò fino a trovarsi accanto al Wilbur Smith
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graticcio e abbassò gli occhi sul corpo dilaniato del padre. L'alloggio surriscaldato era già saturo dell'odore intenso dell'alcol puro. Uno degli aiutanti del chirurgo stava ficcando a forza nella bocca di Hal Courteney il collo di una bottiglia di rum vuota per tre quarti, mentre il liquore gli colava lungo le guance. Hal era assalito da conati di vomito e persino nella sua semincoscienza tentava di voltare la testa di lato. Tom strappò la bottiglia dalle mani dell'aiutante. «Piano, bestione goffo che non siete altro! Così lo affogherete.» «Ha bisogno del rum per sopportare il dolore», protestò l'assistente del chirurgo. Ignorandolo, Tom sollevò la testa del padre con delicatezza, come se fosse quella di un neonato, inclinando la bottiglia con precauzione, per fargli scendere tra le labbra un sorso alla volta, aspettando che inghiottisse prima di somministrargli il successivo. I suoi occhi corsero alle gambe ferite. Reynolds aveva applicato una cinghia di cuoio a ognuna, all'incirca a metà della coscia, torcendola per arrestare l'emorragia, ma le ferite continuavano a sanguinare. Sotto la grata era stato sistemato un bugliolo per raccogliere il sangue; a Tom, quel gocciolio costante sembrava un orologio ad acqua che contasse i secondi della vita del padre. Conclusi i preparativi, Reynolds scelse un bisturi dall'impugnatura d'avorio dal rotolo di tela pieno di strumenti chirurgici appoggiato sopra la grata, vicino alle gambe maciullate. Con quello, cominciò a tagliare il tessuto lacero e insanguinato delle brache di Hal. Tom impallidì e si sentì assalire dalle vertigini. L'esplosione aveva ridotto le carni a un ammasso quasi gelatinoso. Granelli di sabbia e schegge di corallo erano conficcati nei tessuti, come se fossero stati sparati da un fucile, e frammenti di osso sporgevano come punte di freccia. Reynolds cominciò a palpare le gambe, che, al tatto, apparivano molli e prive di ossa. Si morse le labbra, scuotendo la testa. «Dovrò amputarle tutt'e due. Non posso salvarle.» «No!» gemette Tom. «Non potete tagliargli le gambe! Così non potrà mai più andare a cavallo o comandare una nave. Non dovete farlo!» «Allora morirà di cancrena entro una settimana, o anche meno, se è fortunato.» Fece un segnale ai suoi aiutanti. «Tenetelo fermo!» Aboli fece un passo avanti e Reynolds gli rivolse un cenno. «Sì, anche Wilbur Smith
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voi. Abbiamo bisogno di braccia forti, qui.» Scelse un bisturi che sembrava più un coltello da macellaio che uno strumento chirurgico, saggiandone il filo sul pollice. Tom vide sulla lama le macchie rugginose di sangue vecchio che non erano state ripulite a dovere. «Mastro Tom, voi gli reggerete la testa.» Il chirurgo gli porse un cuneo di legno. «Mettetegli questo in bocca. Dovrà avere qualcosa da mordere, quando sentirà dolore, altrimenti si spezzerà i denti.» Immergendo una spugna nella ciotola di acqua calda che il suo aiutante gli porgeva, ripulì in parte la gamba sinistra di Hal dal sangue e dal terriccio, in modo da poter vedere in che punto praticare la prima incisione. Quindi, dopo aver dato un altro giro al laccio per frenare l'emorragia, passò la lama sulla pelle tesa. La carne si aprì, e Tom, che teneva il cuneo di legno tra le mascelle del padre, sentì il suo corpo fremere e inarcarsi, con tutti i muscoli e i tendini tesi come un arco lungo esteso al massimo. Un urlo terribile proruppe dalla gola di Hal, poi lui serrò i denti sul cuneo, stringendo le mascelle con tanta forza che il legno quasi si sbriciolò. Tom cercava di trattenere la testa che si girava da una parte all'altra; il padre aveva la forza di un indemoniato. «Tenetelo fermo!» grugnì Reynolds, mentre tagliava, ma Aboli e gli uomini che lo trattenevano furono presi alla sprovvista dalla violenza delle convulsioni di Hal. Tom udì l'acciaio della lama urtare l'osso del femore, nella parte alta della coscia. Il chirurgo si affrettò a posare il coltello e afferrare la matassa di minugia nera, ricavata dalle budella di animali, per legare l'estremità aperta dei vasi sanguigni che, nonostante il laccio emostatico, perdevano sangue a profusione. Si sentiva una cascatella finire nel bugliolo sotto la grata; Tom non avrebbe mai creduto che un corpo umano ne contenesse tanto. Subito dopo, Reynolds prese dal rotolo di tela una sega, controllandone i denti minuti, afferrò con la sinistra la gamba fratturata e, come un falegname che deve dividere in due una tavola, sistemò la lama nella ferita profonda aperta col bisturi e cominciò a segare. I denti d'acciaio produssero un suono stridulo e, nonostante il peso dei quattro uomini che tentavano di tenerlo giù, Hal riuscì a piegarsi in due e mettersi a sedere, con la testa rovesciata all'indietro e i cordoni tesi dei muscoli e dei tendini che sporgevano dalla gola e dalle spalle. Un altro grido straziante gli sfuggì dalla bocca aperta, riecheggiando in tutta la Wilbur Smith
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nave, poi il corpo si rilassò di colpo, ricadendo all'indietro sulla grata. «Sia lodato il Signore», sussurrò Reynolds. «Ora dobbiamo fare alla svelta, prima che riprenda i sensi.» Con altri tre colpi ben assestati, l'osso si divise e il chirurgo depose la sega per riprendere in mano il bisturi. «Gli lascerò sul moncherino un bel cuscinetto spesso di carne, in modo che l'estremità dell'osso sia ben protetta.» Modellò le carni con pochi tagli rapidi, e Tom fu assalito dalla nausea quando la gamba maciullata si staccò, ricadendo sulla grata. Uno degli assistenti del chirurgo la raccolse per gettarla sul pavimento, dove rimase come un merluzzo appena pescato e lanciato sul fondo di una barca da pesca. Il chirurgo infilò una gugliata di minugia nell'occhiello di un ago da velaio, poi ripiegò il lembo di carne sull'osso scoperto che sporgeva dal moncherino. Raschiandosi la gola, fece passare la punta dell'ago attraverso la pelle resistente, cominciando a eseguire una cucitura accurata, a piccoli punti regolari, lasciando pendere all'esterno della ferita richiusa le estremità delle suture con cui aveva cucito i vasi sanguigni. Pochi minuti dopo, fece un passo indietro e piegò la testa di lato, come una cucitrice che valuta un ricamo. «Ben fatto», commentò. «Molto ben fatto, anche se non dovrei essere io a dirlo.» Si lasciò sfuggire un lieve fischio di apprezzamento. Agli occhi di Tom, il moncherino sembrava la testa di un neonato: rotondo, calvo e insanguinato. «Ora, diamo un'occhiata all'altra.» Reynolds rivolse un cenno al suo assistente, che prese tra le grosse mani pelose l'unica caviglia che restava a Hal, raddrizzando la gamba destra maciullata. Il dolore riscosse l'uomo dalla nebbia oscura dell'incoscienza. Si lasciò sfuggire un altro lamento e tentò di dibattersi, ma riuscirono a immobilizzarlo. Il chirurgo esaminò la gamba a partire dall'alto della coscia, superando il laccio emostatico e poi scendendo a osservare il ginocchio, affondando nella carne le dita tozze e possenti per tastare le ossa fratturate. «Bene!» esclamò in tono incoraggiante. «Eccellente! Penso che in questo caso posso rischiare di tagliare molto più in basso. Salverò il ginocchio, che è importante. Potremo articolare una gamba di legno. Può darsi persino che riesca di nuovo a camminare.» L'idea che il padre, centro pulsante della sua esistenza fin da quando riusciva a ricordare, potesse non camminare mai più balenò improvvisa nella mente stordita di Tom. Era quasi altrettanto insopportabile degli Wilbur Smith
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orrori di cui doveva essere testimone, dato che Reynolds stava riprendendo in mano il bisturi insanguinato per praticare la prima incisione sull'altra gamba. Hal si piegò di nuovo in due, gridando, tra le mani sudate del figlio che non riuscivano a trattenerlo, e ridusse in frammenti il cuneo di legno. Tom ansimava e grugniva per lo sforzo di tenere fermo il corpo che sussultava, oltre che di reprimere le ondate di nausea che minacciarono di sopraffarlo quando la seconda gamba si staccò e cadde sul pavimento scivoloso di sangue sotto i loro piedi. Stavolta a Hal non era stata concessa la grazia dell'incoscienza: aveva dovuto soffrire tutte le torture del coltello e della sega. Tom era pieno di rispetto e avvertiva una strana sensazione di orgoglio, vedendo come il padre si sforzava di dominare la sofferenza, arrendendosi soltanto a un altro accesso di dolore straziante; eppure anche allora tentò di trattenere le grida. Alla fine Tom poté chinarsi su di lui, accostandogli le labbra all'orecchio per sussurrare: «È finita, padre. È tutto finito». Incredibile a dirsi, Hal lo udì e comprese. Tentò persino di sorridere, ma quel sorriso fu uno spettacolo penoso. «Grazie.» Le labbra di Hal formularono quelle parole, ma senza che il minimo suono uscisse dalla gola torturata. Tom si sentì offuscare la vista dalle lacrime, ma le respinse a forza; poi baciò il padre sulle labbra, un gesto che non riusciva a ricordare di aver mai fatto in vita sua. Hal non fece il minimo sforzo per voltare la testa di lato e sottrarsi al suo abbraccio. Ned Tyler si precipitò verso Tom non appena lo vide uscire in coperta. «Come sta?» domandò. «È vivo», rispose seccamente il ragazzo, ma poi, vedendo quanto fosse sincera l'ansia di Ned, s'impietosì. «Sì, insomma, sta bene, per quanto ci si può aspettare. Non lo sapremo con certezza prima di qualche giorno. Il dottor Reynolds dice che deve riposare.» «Sia ringraziato Dio, almeno per questo», commentò Ned, prima di guardare il giovane con aria di aspettativa. Per un attimo, Tom non capì che cosa stesse attendendo, e infine si rese conto che Ned aspettava un ordine da lui. Arretrò di fronte a quella prospettiva. Si sentiva troppo stanco e insicuro per assumersi la responsabilità che gli veniva imposta. Poi, con uno sforzo, fece appello a tutte le sue risorse. «La nostra prima preoccupazione è riportare tutti i feriti a bordo, dove il dottor Reynolds potrà assisterli come si deve.» Wilbur Smith
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«Sì, signor Courteney.» Quando si allontanò per trasmettere gli ordini, Ned pareva sollevato. Dal canto suo, Tom era sbigottito dalla facilità con la quale era accaduto. Non era più «Tom» o «mastro Tom», bensì il «signor Courteney». In qualità di figlio di Hal, il bastone del comando era passato naturalmente a lui. Non aveva che diciott'anni e nessun grado ufficiale, ma quello non era un veliero della marina, e Tom aveva dimostrato in più occasioni di avere la testa sulle spalle, di saper fare la sua parte in qualsiasi combattimento. Gli ufficiali e i marinai lo stimavano, quindi non c'era neanche bisogno di discuterne; se Ned Tyler riconosceva il suo diritto al comando, tutti gli altri uomini a bordo della Seraph avrebbero fatto altrettanto. Cercò di pensare a quello che il padre avrebbe voluto da lui. L'istinto gli diceva di correre al capezzale di Hal e restarci finché il padre non avesse ripreso le forze a sufficienza per badare a se stesso, ma sapeva che il dottor Reynolds e i suoi assistenti erano più adatti di lui a quel compito. Riflettendo in fretta, ordinò a Ned di garantire la sicurezza della nave e di badare alle questioni di routine, prima di aggiungere: «Lascio la nave nelle vostre mani, mastro Tyler». Le parole che aveva sentito pronunciare tanto spesso dal padre gli salirono alle labbra senza sforzo. «Io scendo a terra per prendere il comando delle operazioni.» «Sì, signore», rispose Ned. Seguito da vicino da Aboli, Tom ritornò al forte. Sebbene fosse stata ristabilita una parvenza di ordine, Anderson e gli uomini erano ancora tutti presi dal saccheggio dei depositi della fortezza. C'era una montagna di bottino ammucchiata al centro del cortile e un pandemonio di uomini vi giravano intorno, aggiungendo alla pila altre balle e altre casse. «Comandante Anderson», lo apostrofò Tom, «ci sono tre o quattrocento nemici in fuga nella foresta. Molti di loro sono ancora armati. Voglio che i bastioni siano presidiati per respingere un contrattacco.» Anderson lo fissò con aria incredula, ma il giovane proseguì in tono risoluto. «Vi prego di mettere al comando il vostro ufficiale migliore e di far caricare a mitraglia i cannoni nemici, spostandoli in modo che possano coprire il margine della foresta.» La faccia di Anderson cominciò a gonfiarsi, assumendo un colorito scarlatto ancora più intenso. Tutti i marinai a portata d'orecchio avevano smesso di fare quello che stavano facendo, restando immobili a bocca Wilbur Smith
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aperta per seguire quello scambio di battute. «Inoltre vi prego di barricare la porta del forte, che è rimasta aperta, per respingere un attacco», aggiunse Tom. Era alto come Anderson, e sosteneva il suo sguardo senza battere ciglio. Per un lungo istante, Anderson lo fissò come se fosse sul punto di mettere in discussione l'ordine, poi i suoi occhi vacillarono. Lanciò uno sguardo alla porta aperta e alla marmaglia del tutto impreparata dei suoi uomini. La ragionevolezza degli ordini di Tom era indiscutibile. «Signor McNaughton!» gridò con voce inutilmente tonante, visto che il suo ufficiale in seconda era a cinque passi da lui. «Voglio cinquanta uomini per barricare la porta e altri cento per armare i cannoni catturati. Caricate a mitraglia e coprite i punti di accesso al forte.» Poi si rivolse di nuovo a Tom. «Ci restano solo un paio d'ore di luce», riprese quest'ultimo. «Domattina all'alba staneremo i fuggiaschi.» Guardò i prigionieri nudi ancora inginocchiati nella polvere. «Per pura umanità, voglio che quella gente possa riavere i suoi vestiti e ricevere un po' d'acqua da bere, dopodiché tutti saranno rinchiusi nelle celle del forte. Quanti sono i vostri feriti?» «Non so lo con certezza.» Anderson assunse un'espressione colpevole, e il rossore sbiadì lentamente dal suo viso. «Fate controllare la lista dell'equipaggio dal vostro scrivano», suggerì Tom. «I feriti devono essere riportati a bordo delle navi, dove i medici potranno occuparsi di loro.» Guardandosi attorno in fretta, Tom vide che Ben Abram, il medico arabo, era ancora al lavoro per assistere i feriti nemici; qualcuno aveva avuto il buonsenso di assegnargli quattro prigionieri perché lo assistessero. «Seppelliremo i morti domani, prima che possano infettare l'aria. I musulmani hanno riti molto rigorosi per la sepoltura dei defunti. Per quanto siano pirati, dobbiamo rispettare le loro tradizioni.» Tom lavorò con Anderson fin dopo il tramonto del sole. Alla luce delle torce, ristabilirono l'ordine, garantirono la sicurezza del forte e misero il bottino sotto stretta sorveglianza. A quel punto, Tom vacillava per la stanchezza; la ferita poco profonda che la spada di al-Auf gli aveva lasciato sulla coscia bruciava e tutti i muscoli del corpo gli dolevano terribilmente. «Ormai è al sicuro, Klebe. È tutto a posto fino a domani. Devi riposare.» Aboli apparve improvvisamente al suo fianco. «C'è ancora una cosa che non può aspettare.» Tom lo precedette oltre la Wilbur Smith
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porta, verso il punto in cui giaceva ancora il corpo di Big Daniel. Insieme lo avvolsero nella tela di una vela, affidandolo a un gruppo di portantini che lo avrebbe trasportato giù alla spiaggia. Era mezzanotte passata quando Tom percorse vacillando il corridoio che portava all'alloggio di poppa della Seraph. Uno degli assistenti del chirurgo era seduto vicino alla cuccetta di Hal. Tom lo congedò, dicendo: «Prenderò io il vostro posto», poi si stese sulle tavole dure del pavimento. Due volte, durante la notte, lo svegliarono i lamenti del padre. Una volta gli fece bere l'acqua che invocava, e più tardi gli porse la brocca di peltro per farlo urinare. Lo turbava profondamente vederlo ridotto così, a livello di un neonato, ma il piacere di potersi rendere utile superava lo sfinimento e la pietà. Prima dell'alba si svegliò di nuovo, assalito per un attimo terribile dal pensiero che il padre fosse morto durante la notte, ma, quando gli sfiorò la guancia, sentì che era calda. Gli accostò alla bocca lo specchietto che usava per radersi e vide con sollievo che il respiro ne appannava la superficie lucente. L'alito del padre sapeva ancora di rum, però lui era vivo. Tom avrebbe voluto restare al suo fianco, ma sapeva che non era ciò che il padre si aspettava da lui, quindi lo lasciò nelle mani dell'assistente del chirurgo e, prima del sorgere del sole, scese a terra in compagnia di Aboli. C'era ancora molto da fare. Incaricò Walsh e lo scrivano della Yeoman of York di valutare l'entità del bottino che avevano conquistato. Anderson si assunse il compito di chiudere il tesoro nelle casse e sigillarle, prima che fossero trasportate sulla spiaggia e consegnate a un ufficiale di fiducia, con una scorta armata. Poi Tom mandò a chiamare Ben Abram. Il vecchio appariva esausto. Probabilmente non aveva dormito. «So che avete l'usanza di seppellire i morti prima del tramonto del secondo giorno.» Ben Abram annuì. «Vedo che conoscete le nostre usanze bene quanto la nostra lingua.» «Quanti sono?» Il medico sospirò, assumendo un'aria grave. «Trecentotrentatré, per quanto sono riuscito a contare.» «Se mi date la vostra parola che vi comporterete bene, farò rilasciare cinquanta dei vostri uomini per scavare le fosse.» Wilbur Smith
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Ben Abram scelse un terreno per le sepolture in fondo all'antico cimitero musulmano, poi mise gli uomini al lavoro, che procedette in fretta grazie al terreno soffice e sabbioso. Prima di mezzogiorno trasportarono i corpi, ciascuno avvolto in un telo di cotone bianco pulito, preso dal forte. Il corpo decapitato di al-Auf era al centro della lunga fila di corpi che furono disposti in fondo alla fossa poco profonda e ricoperti di terra. Ben Abram recitò le preghiere per i defunti, poi andò a cercare Tom sulla spiaggia. «Invoco le benedizioni di Allah sulla vostra compassione. Senza la vostra misericordia, nessuno dei defunti sarebbe potuto entrare nel giardino del paradiso. Possa un giorno l'uomo che vi ucciderà usarvi la stessa considerazione.» «Grazie, vecchio padre», rispose il giovane con aria cupa. «Ma la mia misericordia si limita ai morti. I vivi dovranno affrontare le conseguenze dei loro crimini.» Lasciando il vecchio sulla spiaggia, Tom si diresse verso il punto in cui Alf Wilson e Aboli attendevano alla testa di trecento uomini armati fino ai denti, compresi i prigionieri di al-Auf che erano stati liberati. «Molto bene», disse. «Andiamo a rastrellare quelli che sono fuggiti dal forte.» Approfittò del monsone, che soffiava costante, inviando piccoli gruppi di uomini ad appiccare il fuoco all'estremità meridionale della foresta. Le fiamme si propagarono facilmente, innalzandosi con un rombo tra il sottobosco e sprigionando nubi altissime di fumo denso e nero. I fuggiaschi che si nascondevano ancora nella foresta furono sospinti in avanti dall'incendio. Quando sbucarono dagli alberi, ben pochi provavano ancora il desiderio di battersi. Gettarono a terra le armi, invocando pietà, e furono condotti via per raggiungere i compagni. Al tramonto del secondo giorno, quasi tutti i fuggiaschi erano stati rintracciati e rinchiusi nei recinti del forte. «L'unica acqua potabile dell'isola si trova nelle cisterne di acqua piovana del forte», spiegò Tom ad Anderson, quando si ritrovarono sulla spiaggia. «Se anche ce ne fosse sfuggito qualcuno, dovrà arrendersi prima di domani a mezzogiorno, altrimenti morirà di sete.» Anderson scrutò quel ragazzo diventato uomo così in fretta. Tom aveva il viso annerito dalla fuliggine dell'incendio e la camicia macchiata di sangue, perché alcuni arabi avevano preferito battersi che accettare la dubbia misericordia dei ferenghi. Nonostante la fatica del combattimento, Wilbur Smith
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le spalle di Tom avevano una solidità che imponeva rispetto e la sua voce aveva assunto un tono nuovo di autorità. Anderson si accorse anche che gli uomini obbedivano ai suoi ordini senza esitare. Perdio, pensò, il cucciolo è diventato un cane da combattimento nel giro di una notte. Ha il modo di fare e l'aspetto del padre. Non mi piacerebbe trovarmi dalla parte sbagliata, se ci fossero di mezzo quei due. «Gli scrivani hanno appena finito di valutare il bottino», disse poi. «Vi garantisco che resterete sorpreso, perché io lo sono stato. Il peso dell'oro soltanto è stato stimato a quasi tre lakb, e si tratta di una stima prudente, per giunta.» «Vi prego di fare in modo che sia diviso in quattro parti uguali», ribatté Tom. «Ciascuna parte dovrà essere imbarcata su una delle navi della squadra, compresa la Lam.» Anderson si mostrò perplesso. «Ma Sir Henry non preferisce avere ogni cosa sotto i suoi occhi?» domandò, incerto. «Comandante, ci aspetta un lungo viaggio di ritorno in Inghilterra, con infiniti rischi da affrontare per quanto riguarda il mare e le condizioni del clima. Se avessimo la sfortuna di perdere una delle navi, potrebbe essere quella sbagliata e così perderemmo interamente l'oro. Se invece suddividiamo i rischi, potremo perderne solo un quarto.» Perché diavolo non ci ho pensato? si chiese Anderson, ma a voce alta disse, un po' a malincuore: «Quant'è vero Dio, vi hanno piantato bene la testa sulle spalle...» Stava per aggiungere «ragazzo», ma non era più un termine appropriato per Tom. «Darò ordini in questo senso, signor Courteney.» «Abbiamo ventisei feriti a bordo, cinque dei quali gravi. Voglio una squadra di uomini per far costruire sulla spiaggia ripari comodi e ventilati nei quali ospitarli, e carpentieri per fabbricare i letti. Quanto ai nostri caduti», aggiunse, lanciando un'occhiata agli otto corpi avvolti nella tela e disposti all'ombra del palmeto, «voglio che siano trasportati a bordo della Minotaur. Daremo loro sepoltura in mare. La Minotaur salperà domattina all'alba. Volete essere tanto gentile da celebrare la funzione, comandante Anderson?» «Sarà un onore, per me.» «Adesso voglio che mastro Wilson prelevi un barilotto di brandy dalle provviste della Seraph, in modo che Aboli possa mettere in salamoia la testa di al-Auf.»
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Quando Tom entrò nell'alloggio di poppa, Hal si agitò nella cuccetta, mormorando: «Sei tu, Tom?» Il figlio andò subito a inginocchiarsi accanto a lui. «Padre, è così bello avervi di nuovo tra noi. Siete rimasto privo di conoscenza per tre giorni.» «Tre giorni? Così tanto? Raccontami quello che è successo nel frattempo.» «Abbiamo vinto, padre. Grazie al vostro sacrificio, abbiamo conquistato la fortezza. Al-Auf è morto, Aboli ha messo la sua testa in salamoia dentro un barilotto di brandy e abbiamo catturato un tesoro enorme.» «E Dorian?» Nel sentire quella domanda, Tom sentì svanire la sua gioia. Fissando il viso del padre, si accorse che era così pallido da sembrare cosparso di farina bianca. «Dorian non è qui.» Il bisbiglio di Tom fu sommesso come quello del padre. Hal chiuse gli occhi, tanto che Tom pensò che avesse perso di nuovo i sensi. Rimasero a lungo in silenzio, ma, non appena Tom fece per alzarsi, Hal riaprì gli occhi, voltando la testa. «Dov'è? Dov'è Dorian?» «Al-Auf lo ha venduto come schiavo, ma non so dove lo abbiano portato. So soltanto che dev'essere un posto sulla terraferma.» Hal si sforzò di mettersi seduto, però non aveva la forza di sollevare le spalle dal materasso. «Aiutami, Tom. Aiutami a rimettermi in piedi, devo salire in coperta. Devo preparare la nave a salpare per cercarlo. Dobbiamo trovare Dorian.» Il giovane protese le mani per trattenerlo, pensando: Non lo sa. Provò un senso di pena così profondo che minacciava di sommergerlo. Come faccio a dirglielo? «Su, ragazzo, aiutami ad alzarmi. Mi sento debole come un puledro appena nato.» «Padre, non potete stare in piedi. Vi hanno amputato le gambe.» «Non dire sciocchezze, Tom. Metti a dura prova la mia pazienza.» Il padre cominciava ad agitarsi, tanto che Tom ebbe paura che potesse farsi male. Il dottor Reynolds lo aveva avvertito che ogni movimento brusco poteva causare danni alle suture e scatenare una nuova emorragia. Devo convincerlo, per il suo stesso bene. Tom si chinò sul padre, scostando il leggero copriletto di cotone dalla parte inferiore del corpo. «Perdonatemi, padre, ma devo mostrarvelo.» Con molta delicatezza, passò un braccio sotto le spalle di Hal, sollevandolo in modo che potesse guardarsi. Wilbur Smith
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Gli arti, accorciati in modo grottesco, erano adagiati sul materasso, ciascuno avvolto in un turbante di bende sulle quali il sangue, asciugandosi, aveva lasciato macchie di colore marrone scuro. Hal le fissò a lungo, prima di ricadere all'indietro sui cuscini. Per un attimo, Tom pensò che avesse perduto di nuovo i sensi, poi vide le lacrime che scorrevano sotto le palpebre serrate con forza. Quella vista fu il colpo di grazia per lui. C'erano troppe sofferenze da sopportare; non poteva vedere suo padre piangere. Doveva andarsene, per lasciarlo venire a patti da solo col proprio destino. Lo coprì nuovamente, per nascondere quelle terribili ferite, prima di uscire in punta di piedi dall'alloggio, chiudendo in silenzio la porta alle sue spalle. Quando salì in coperta, la lancia era pronta per portarlo a bordo della Minotaur in attesa. Il comandante Anderson si trovava sul cassero e parlava sottovoce con Alf Wilson. Tom lanciò un'occhiata agli otto corpi avvolti nella tela, ciascuno disteso su un graticcio, con una palla di cannone cucita in fondo al sudario. Riuscì a riconoscere Daniel Fisher dalle dimensioni: faceva sembrare nani tutti gli altri stesi accanto a lui. «Signor Wilson, vi prego di mettere la nave alla via, puntando verso il canale.» Le vele nere della Minotaur erano intonate a quel mesto viaggio. La nave si allontanò dall'isola, puntando in direzione ovest finché il colore delle acque sotto la chiglia non passò dal turchese dei fondali bassi al blu violaceo degli abissi oceanici. «Signor Wilson, mettete la nave in panna, per favore.» La Minotaur si mise al vento e Anderson cominciò a intonare le parole solenni del servizio funebre. «Dal profondo invoco te...» Il vento gemeva tra gli alberi, e Tom stava ritto a capo scoperto vicino all'albero di maestra, pensando a tutto quello che aveva perduto negli ultimi giorni: un padre, un fratello e un caro amico. «Affidiamo quindi i loro corpi all'abisso...» Otto marinai si erano disposti in fila, ciascuno alla testa di un graticcio, e, sentendo quelle parole, sollevarono all'unisono i cadaveri avvolti nei sudari, che scivolarono fuori bordo piombando in mare con i piedi in avanti, trascinati in basso dal peso della palla di ferro. Alf Wilson rivolse un cenno agli artiglieri pronti vicino al cannone, e il Wilbur Smith
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primo colpo del saluto esplose con un lungo pennacchio di fumo argenteo. «Addio, Big Danny. Addio, vecchio amico», mormorò Tom. Più tardi, quella sera, Tom sedette accanto alla cuccetta del padre, riferendogli a bassa voce gli eventi della giornata. Non era sicuro che Hal potesse capire tutto ciò che diceva, perché non faceva commenti e sembrava sospeso sulla soglia dell'incoscienza, tuttavia parlare con lui aiutava Tom a sentirsi più vicino al padre in spirito, alleviando la solitudine del comando, quel fardello oneroso che cominciava appena a conoscere. Quando infine Tom tacque, preparandosi ad alzarsi per raggiungere il suo pagliericcio sul ponte, Hal cercò a tentoni la sua mano, stringendola debolmente. «Sei un bravo ragazzo, Tom», sussurrò. «Probabilmente il migliore di tutti. Vorrei soltanto...» S'interruppe, lasciando scivolare via la mano del figlio, mentre la testa si girava di lato, cominciando a russare sonoramente. Tom non avrebbe mai saputo qual era il suo desiderio. Nei giorni seguenti, Tom notò un lieve miglioramento nelle condizioni del padre, che riusciva a concentrarsi per qualche minuto in più su quello che lui aveva da riferirgli, prima di scivolare di nuovo nell'incoscienza. Nel giro di una settimana, poté chiedergli qualche consiglio e riceverne risposte razionali. Tuttavia, allorché consultò il dottor Reynolds per chiedergli quando il padre sarebbe stato abbastanza forte per cominciare il viaggio di ritorno in Inghilterra, il medico scosse la testa. «Potrò togliere i punti di sutura dalle gambe fra tre giorni, vale a dire a due settimane di distanza dall'amputazione. Comunque, anche se doveste salpare tra un mese, questo vorrebbe dire pur sempre esporlo a gravi rischi, specie se dovessimo incontrare cattivo tempo. Per essere sicuri, dovremmo aspettare almeno due mesi. Di tanto ha bisogno, per rimettersi in forze.» Tom andò a cercare Anderson, che trovò occupato a sovrintendere all'ultimo trasporto dell'ingente carico ricavato dalla conquista del forte. Si trattava per lo più di spezie e tessuti, comprese le magnifiche sete della Cina. «Comandante Anderson, ho discusso con mio padre la questione dei prigionieri arabi.» «Spero che lui non intenda lasciarli liberi. Sono pirati, niente di più e niente di meno. Hanno assassinato centinaia di marinai onesti.» «Non potremmo mai contemplare l'idea di lasciarli liberi», convenne Wilbur Smith
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Tom. «A parte ogni altra considerazione, costituirebbe un precedente pericoloso. Non possiamo lasciare libero un simile branco di squali tigre perché tornino a fare i predoni sulle vie del mare.» «Sono lieto di sentirvelo dire», borbottò Anderson. «Una bella corda al collo dovrebbe essere il loro premio finale.» «In base all'ultimo conteggio, abbiamo 535 prigionieri. Questo significa un bel po' di corda, comandante Anderson, e dubito che abbiamo pennoni sufficienti per impiccarli tutti.» Anderson succhiò il cannello della pipa, come se riflettesse sui problemi logistici posti dall'esecuzione di tanti condannati. «D'altra parte, sulla pedana degli schiavi varranno almeno trenta sterline a testa, forse anche di più», gli fece notare Tom. Anderson lo fissò, sgranando gli occhi azzurri come se volessero uscirgli dalle orbite. Non ci aveva pensato. «Per il sangue di Giuda, se lo meritano, eccome. Comunque non potete venderli a Zanzibar», osservò. «Il sultano non permetterebbe mai che nei suoi mercati fossero messi in vendita dei musulmani. Ci ritroveremmo a combattere un'altra guerra.» «Gli olandesi non hanno certi scrupoli», replicò Tom. «E sono sempre in cerca di schiavi da mettere al lavoro nelle piantagioni di cannella a Ceylon.» «Avete ragione.» Anderson ridacchiò, entusiasta. «Da qui a Ceylon è un viaggio di cinquecento miglia tra andata e ritorno, ma i venti sono favorevoli e, per trenta sterline a testa, vale la pena di fare una deviazione.» Eseguì un rapido calcolo a mente. «Santo cielo, stiamo parlando di quasi sedicimila sterline.» Rimase di nuovo in silenzio, calcolando la parte che gli sarebbe spettata di quella somma, poi sorrise. «Al-Auf aveva immagazzinato nella fortezza catene per gli schiavi sufficienti a sistemare come si conviene tutti i suoi uomini. Questa mi sembra una forma sottile di giustizia poetica.» «Secondo il dottor Reynolds, mio padre non sarà in grado di riprendere il mare prima di due mesi. Quindi vi propongo di caricare i prigionieri a bordo della Yeoman per trasportarli a Colombo. Dopo averli venduti al governatore della voc, tornerete qui a raggiungerci. Nel frattempo, manderò il dhow che abbiamo catturato a recuperare la Lam nel porto di Glorietta, dove si trova adesso, e potremo tornare in Inghilterra formando un convoglio. Col favore dei venti e la grazia di Dio, dovremmo gettare l'ancora nel porto di Plymouth prima di Natale.» Wilbur Smith
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Il giorno dopo cominciarono a caricare i prigionieri arabi a bordo della Yeoman. I fabbri di tutte le navi dovettero mettersi al lavoro per fissare i ceppi alle caviglie delle lunghe file di uomini, che furono incatenati a gruppi di dieci prima di essere guidati fino alla spiaggia. Tom si diresse verso il piccolo ospedale installato sotto una tettoia di fronde, all'ombra delle palme. Andava a trovare i marinai feriti che si trovavano lì, sperando di fornire loro un po' di coraggio e di conforto. Due erano già morti, quando le loro ferite si erano infettate, dando luogo alla terribile cancrena gassosa, ma altri quattro si erano ripresi a sufficienza per tornare in servizio sulla nave, e Reynolds era ottimista sul conto degli altri; secondo lui, presto avrebbero potuto imitare i compagni. Lasciando l'ospedale, Tom si soffermò a osservare i gruppi di prigionieri che passavano oltre, trascinando i piedi, diretti verso le lance in attesa. Provava una certa repulsione al pensiero che stava destinando quegli uomini a una vita di prigionia; gli olandesi non erano certo famosi per la clemenza nei confronti degli schiavi. Rammentava i racconti che gli avevano fatto il padre e Big Daniel delle loro esperienze nella fortezza di Buona Speranza, sotto la sferza degli olandesi che li avevano catturati. Poi si consolò al pensiero che la decisione non era soltanto sua; il padre era d'accordo e aveva firmato il mandato per il loro trasporto, in virtù dei poteri conferitigli dalla lettera del re, mentre il comandante Anderson era addirittura entusiasta alla prospettiva di ricavare un bel profitto dalla loro vendita. Erano pirati che si erano macchiati le mani di sangue, dopotutto. E quando pensò che il piccolo Dorian era stato condannato alla stessa sorte, tutta la pietà che provava nei confronti dei prigionieri svanì. Comunque aveva discusso con gli ufficiali più anziani, riuscendo a convincere suo padre e Anderson a esonerare dalla condanna alla schiavitù le donne e i bambini della guarnigione. Erano ben cinquantasette, tra cui alcuni piccini di pochi mesi. Molte donne erano appesantite, chiaramente incinte. Con una decisione commovente, cinque di loro avevano deciso di seguire il marito nella prigionia, pur di non esserne separate. Le altre sarebbero rimaste a Flor de la Mar finché non fosse stata disponibile un'imbarcazione per trasportarle a Zanzibar. Stava per allontanarsi, quando il viso familiare e la barba argentea di Ben Abram attirarono la sua attenzione. «Portatemi quell'uomo», gridò alle guardie, che lo isolarono dagli altri, trascinandolo verso Tom. «Che vi colga il vaiolo», esclamò lui, rimproverando le guardie, «è un Wilbur Smith
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vecchio. Trattatelo con gentilezza.» Poi si rivolse a Ben Abram. «Come mai un uomo come voi si trovava con al-Auf?» «Ci sono malati ovunque, anche tra i fuorilegge. Non chiedo mai a un uomo quali sono le sue buone azioni o i suoi misfatti, se viene da me per farsi curare.» «E così curavate i prigionieri ferenghi di al-Auf, oltre ai veri credenti?» «Naturalmente. Questa è la volontà di Allah.» «Avete curato mio fratello? Gli avete offerto conforto?» «È un ragazzo interessante, vostro fratello. Ho fatto quello che potevo, per lui... Ma Allah sa che non era quanto avrei desiderato fare.» Tom esitò un attimo, prima di contraddire gli ordini del padre, ma poi prese una decisione. «Con questo vi siete guadagnato la libertà. Vi rimanderò a Zanzibar insieme con le donne e i bambini.» Si rivolse alle guardie. «Fate aprire dai fabbri le catene di quest'uomo, poi riportatelo da me. Non dev'essere trasportato a Ceylon insieme con quegli altri masnadieri.» Quando Ben Abram tornò, libero dalle catene, Tom lo mandò ad aiutare gli assistenti del chirurgo nell'ospedale da campo sotto la tettoia. Appesantita da quel carico umano, la Yeoman prese il largo all'alba del giorno dopo, sotto gli occhi di Tom, che la seguì dalla spiaggia finché non scomparve oltre l'orizzonte, a oriente. Sapeva che Anderson confidava di poter compiere il viaggio fino a Ceylon e ritorno, attraverso l'oceano delle Indie, nel giro di due mesi. «Più tempo impiega, più mio padre potrà riacquistare le forze», sussurrò, richiudendo il cannocchiale e chiamando la lancia. Non appena entrato nell'alloggio di poppa, però, si accorse che il padre era peggiorato da quando lo aveva lasciato, poche ore prima. Nell'aria viziata del locale si sentiva l'odore acre della malattia. Hal aveva il viso congestionato, era irrequieto e stava scivolando di nuovo nel delirio. «Ci sono ratti che mi strisciano addosso. Ratti neri, pelosi...» Interrompendosi di colpo, lanciò un urlo, cercando di colpire qualcosa che Tom non poteva vedere. In preda al panico, il giovane rimandò la lancia sull'isola per far venire il dottor Reynolds. Poi si chinò sul padre, sfiorandogli il viso, ma aveva la pelle così bollente che ritirò di scatto la mano, sorpreso. Aboli portò una ciotola d'acqua fresca, poi scostarono le coltri dal corpo emaciato. La febbre gli aveva consumato le carni e, non appena scoprirono le gambe amputate, si Wilbur Smith
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diffuse all'intorno un odore pestilenziale. «Dite al dottore di sbrigarsi!» ruggì Tom, e sentì che il suo ordine veniva riferito alla lancia in arrivo. Con l'aiuto di Aboli inumidì il corpo febbricitante, mettendogli panni bagnati sul torace per cercare di far scendere la temperatura, ma si sentì sollevato quando infine Reynolds percorse in fretta il corridoio, accorrendo al capezzale di Hal. Gli tolse le bende dalle gambe, e il fetore nell'alloggio aumentò. Tom, che stava alle sue spalle, fissò inorridito i moncherini del padre: erano gonfi, di un rosso violaceo, e i punti di minugia nera erano quasi nascosti dalla carne tumida. «Ah!» mormorò Reynolds, chinandosi per annusare le ferite come avrebbe fatto un conoscitore con un buon chiaretto. «Sono maturati molto bene. Posso finalmente togliere i punti.» Arrotolandosi le maniche, chiese il vaso di peltro. «Tenetelo così sotto il moncherino», disse a Tom. «Tenetelo fermo!» ordinò poi ad Aboli, e il gigante nero si chinò su Hal, afferrandolo delicatamente per le spalle con le mani enormi. Reynolds afferrò saldamente l'estremità di uno dei fili di minugia che sporgevano dalla ferita, tirandolo leggermente. Hal s'irrigidì, lanciando un grido e coprendosi all'istante di sudore, ma il filo nero si liberò e scivolò fuori della ferita, seguito subito dopo da un fiotto di pus che colò nel vaso. Hal ricadde sui cuscini, svenuto per il dolore. Reynolds prese il vaso dalle mani di Tom, annusando di nuovo quella materia purulenta. «Magnifico!» esclamò. «È benigno, senza la minima traccia di cancrena gassosa.» Mentre Tom s'inginocchiava al suo fianco, sfilò, uno alla volta, gli altri fili di sutura dalle carni gonfie e infiammate. Ciascuno dei fili portava con sé un minuscolo frammento di tessuto giallo: ciò che restava del vaso sanguigno rimasto chiuso dal nodo all'altra estremità. Il medico lasciò cadere tutto nel vaso, poi, quando ebbe finito, fasciò di nuovo i moncherini con strisce pulite di cotone bianco. «Prima non dovremmo lavare le gambe?» chiese Tom in tono cauto, ma Reynolds scosse la testa con decisione. «Le lasceremo guarire così. È più sicuro lasciare che la natura segua il proprio corso, senza interferire.» Annuì soddisfatto. «Ora le probabilità che vostro padre sopravviva sono molto aumentate e, tra pochi giorni, potrò togliere le cuciture principali, che tengono saldati i lembi di carne sui moncherini.» Wilbur Smith
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Quella notte il padre riposò molto meglio; alla fine della mattinata la febbre e l'infiammazione delle ferite erano diminuite notevolmente. Tre giorni dopo, Reynolds tolse anche i punti rimanenti, tagliando i fili neri con un paio di forbici e usando le pinzette d'avorio per sfilare gli ultimi residui di minugia dalle carni tormentate. Pochi giorni più tardi, Hal fu in grado di sedere sul letto, appoggiato ai cuscini, e di mostrare un interesse vivo per i rapporti che Tom gli forniva sull'andamento della giornata. «Ho spedito a Glorietta il dhow catturato, con l'incarico di riportare qui la Lam. Dovrebbe riunirsi al resto della squadra tra due settimane», gli spiegò il figlio. «Mi sentirò sollevato quando la nave e il suo carico di tè saranno di nuovo sotto il tiro dei nostri cannoni», osservò Hal con un cenno di assenso. «Sarà molto vulnerabile, finché resterà lì senza protezione.» La previsione di Tom si rivelò accurata, perché, esattamente due settimane dopo, i due velieri, il piccolo dhow e la Lam dall'aria matronale, varcarono il passaggio nella barriera corallina e gettarono di nuovo l'ancora nella laguna di Flor de la Mar. Tom fece prelevare Mustafà, il comandante del dhow, e la sua ciurma terrorizzata dalle celle del forte dov'erano imprigionati da quando la Minotaur li aveva catturati. Non appena furono schierati davanti a lui, si gettarono in ginocchio sulla sabbia bianca, convinti che fosse giunto il momento della loro esecuzione. «Non credo che siate colpevoli di pirateria», li rassicurò Tom. «Che Allah mi sia testimone: quello che dite è vero, magnifico signore.» Mustafà era perfettamente d'accordo, e sfiorò la sabbia con la fronte per sottolineare il suo fervore. Quando si rialzò, aveva la fronte cosparsa di granelli bianchi come una ciambella inzuccherata. «Vi lascerò liberi», gli assicurò Tom. «Ma vi pongo una condizione. Dovete riportare con voi alcuni passeggeri fino al porto di Zanzibar. Il loro capo è, come voi, un onest'uomo e un figlio del Profeta. Ci sono anche donne e bambini che erano con al-Auf quando abbiamo conquistato l'isola.» «Le benedizioni di Allah scendano su di voi, uomo saggio e compassionevole!» Mustafà si prosternò di nuovo, mentre lacrime di gioia gli scorrevano nella barba. Wilbur Smith
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«Tuttavia», riprese Tom, tagliando corto a quella manifestazione di gratitudine, «non ho dubbi sul fatto che siete venuti qui per concludere affari con al-Auf, e sapevate perfettamente che le merci che vi offriva erano il bottino ricavato dalle sue azioni di pirateria, macchiate del sangue d'innocenti.» «Invoco Allah a testimone del fatto che lo ignoravo», esclamò Mustafà in tono appassionato. Tom piegò la testa di lato, levando gli occhi al cielo, poi riprese in tono asciutto: «A quanto pare, Allah non risponde alla vostra invocazione. Pertanto v'impongo un'ammenda di sessantacinquemila dinari d'oro, che, per una singolare coincidenza, è la stessa somma che abbiamo trovato nella vostra cassetta quando abbiamo perquisito la nave». Di fronte a una simile ingiustizia, Mustafà si lasciò sfuggire un lamento di orrore, ma Tom gli volse le spalle, ordinando alle guardie: «Lasciateli liberi. Restituite loro il dhow e lasciateli andare. Porteranno via le donne e i bambini. Insieme con loro partirà anche il medico arabo, Ben Abram, ma, prima che salga a bordo, mandatelo da me». Quando Ben Abram arrivò, Tom lo condusse in fondo alla lunga spiaggia bianca, per poterlo salutare in privato. «Mustafà, il proprietario del dhow, ha accettato di portarvi a Zanzibar non appena salperà.» Indicò la piccola nave all'ancora nelle acque della laguna. «Ora sta caricando a bordo le donne e i bambini della guarnigione.» Osservarono i profughi che venivano condotti a bordo, stringendosi al petto i bambini più piccoli e i patetici involti che contenevano tutti i loro averi. Il medico annuì con aria grave. «Vi ringrazio, ma sarà Allah a scrivere accanto al vostro nome la vera ricompensa che vi spetta. Siete giovane, e diventerete un uomo potente. Vi ho visto combattere. Chiunque sia capace di sconfiggere al-Auf in duello è davvero un guerriero.» Annuì ancora, come se meditasse su quell'impresa. «Il modo in cui avete trattato chi era più debole di voi dimostra che sapete mitigare la forza con la compassione, e questo vi renderà grande.» «Siete anche voi un uomo di grande cuore», ribatté Tom. «Vi ho visto assistere malati e feriti, persino quelli che non seguono gli insegnamenti del Profeta.» «Allah è grande», recitò Ben Abram. «Ai suoi occhi siamo tutti degni di misericordia.» Wilbur Smith
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«Persino i bambini.» «Specialmente i bambini», convenne l'altro. «È per questo che voi, vecchio padre, mi darete quelle notizie relative a mio fratello che finora mi avete nascosto.» Ben Abram alzò di scatto la testa, fissando per un attimo Tom; ma lui ricambiò con fermezza lo sguardo, e il medico fu costretto ad abbassare gli occhi. «Voi conoscete il nome dell'uomo che ha comprato mio fratello da alAuf», insistette Tom. «Conoscete il suo nome.» Ben Abram si accarezzò la barba, fissando il mare, prima di lasciarsi sfuggire un sospiro. «Sì», ammise. «Conosco il suo nome, ma è un uomo potente, di sangue reale. Non posso tradirlo. E' per questo che vi ho tenuto celato il suo nome, anche se comprendo quale perdita abbiate subito.» Tom rimase in silenzio, lasciando il vecchio alle prese con la sua coscienza. Poi Ben Abram aggiunse: «Ma voi conoscete già il nome di quell'uomo». Tom lo guardò, perplesso. «Avete catturato uno dei suoi dhow», aggiunse per sollecitare la sua memoria. L'espressione di Tom si rischiarò. «Al-Malik!» esclamò. «Il principe Abd Muhammad al-Malik?» «Io non ho pronunciato il suo nome», disse Ben Abram. «Non ho tradito il mio principe.» «Il lakh di rupie che si trovava a bordo del dhow di al-Malik era davvero il prezzo per l'acquisto di mio fratello, come abbiamo sospettato?» chiese Tom. «Non posso dire che sia vero», replicò Ben Abram, lisciandosi la barba d'argento. «Ma non posso neanche dire che sia falso.» «Mio padre e io lo abbiamo pensato, ma non sono riuscito a capire come mai Dorian possa essere partito da Flor de la Mar prima che il pagamento arrivasse sull'isola. Non posso credere che al-Auf abbia consegnato a qualcuno uno schiavo del valore di Dorry senza ricevere prima il pagamento completo.» «Il principe è l'uomo più potente d'Arabia, salvo naturalmente suo fratello maggiore, il califfo in persona», rispose il vecchio. «Impossibile contare le navi e l'oro, i guerrieri e i cammelli, gli schiavi e le mogli che gli appartengono. La sua fama si estende in ogni direzione: a settentrione il possente fiume Nilo con i suoi deserti, a oriente il regno del Gran Moghul, Wilbur Smith
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a occidente le foreste impenetrabili dell'Africa e a meridione la terra del Monomatapa.» «Volete dire che al-Auf gli ha fatto credito per un lakh di rupie?» esclamò Tom incredulo. «Sto dicendo che al-Auf non si fidava di nessuno, fatta eccezione per il principe Abd Muhammad al-Malik.» «Quando partirete di qui, Ben Abram, tornerete a Lamu, di cui al-Malik è il governatore?» «Tornerò a Lamu», confermò il vecchio. «Rivedrete per caso mio fratello?» «Questo è nelle mani di Allah.» «Se Allah sarà benevolo, riferirete un messaggio a mio fratello?» «Vostro fratello è un ragazzo dotato di grande bellezza e coraggio.» Ben Abram sorrise nel ricordarlo. «Io lo chiamavo 'Leoncino rosso'. Tenuto conto della gentilezza che mi avete mostrato, e dell'affetto che provo per il ragazzo, gli porterò il vostro messaggio.» «Dite a mio fratello che terrò fede al giuramento terribile che gli ho fatto. Non dimenticherò mai quel giuramento, neanche il giorno della mia morte.» Dorian era seduto su un materasso posto sul pavimento di pietra. L'unica aria che penetrava nella cella proveniva dalla feritoia di fronte a lui: era appena un refolo del monsone, che arrivava fino a lui rendendo il caldo tollerabile. Tendendo l'orecchio, sentiva i suoni attutiti prodotti dai prigionieri nelle altre celle lungo il corridoio, i loro mormorii interrotti a intervalli da esplosioni d'insulti gridati contro i carcerieri arabi e da aspre discussioni tra loro. Erano come cani confinati in gabbie troppo strette, e col caldo opprimente quei marinai, già aggressivi e violenti per natura, diventavano feroci assassini. Appena il giorno prima, aveva udito i rumori di una lotta terribile, nel corso della quale un uomo era stato strangolato nella cella vicina, mentre i compagni incitavano esultanti l'omicida. A quel pensiero, rabbrividì, tornando a dedicarsi al compito che aveva scelto per ingannare la noia. Stava usando un anello della catena che gli imprigionava i piedi per incidere il suo nome sulla parete. Molti altri prigionieri rinchiusi nella cella avevano lasciato il loro marchio inciso su quei blocchi di corallo tenero. «Forse un giorno Tom troverà il mio nome qui e saprà che cosa mi è Wilbur Smith
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successo», si disse, mentre sfregava il metallo sulla pietra. I suoi carcerieri gli avevano messo le catene soltanto la mattina del giorno prima. Dapprima lo avevano lasciato libero, poi lo avevano sorpreso mentre tentava d'insinuarsi attraverso la feritoia. Dorian non si era lasciato intimorire dal salto di oltre trenta piedi al di sotto dell'apertura, ed era già riuscito a introdurre nel varco la parte superiore del corpo esile, quando aveva udito alle sue spalle delle grida di allarme e i carcerieri lo avevano afferrato per le caviglie, trascinandolo di nuovo nella cella. Lo avevano immobilizzato mentre si dibatteva come un pesce preso all'amo. «Al-Auf non avrà pietà per noi se questo cucciolo infedele dovesse farsi male. Portate le catene degli schiavi.» Un fabbro aveva modificato i ceppi per adattarli alle caviglie sottili. «Fa' in modo che il ferro non gli sciupi la pelle. Al-Auf ucciderà chiunque osi lasciare un segno sulla sua pelle bianca o torcergli uno solo dei capelli rossi che ha in testa.» A parte i ceppi, lo trattavano con ogni rispetto e considerazione. Ogni mattina, nonostante i suoi tentativi di divincolarsi, due donne velate lo portavano in cortile, dove lo spogliavano, gli ungevano il corpo di olio e gli facevano il bagno nell'acqua piovana della cisterna. A bordo della nave, Dorian era rimasto anche un mese di seguito senza lavarsi: non c'era acqua dolce da sprecare in simili stravaganze, a parte il fatto che tutti i marinai sapevano che gli eccessivi lavaggi danneggiavano la patina naturale di olio della pelle e facevano male alla salute. I musulmani, invece, erano stranamente dediti a eccessi di pulizia personale - Dorian li aveva visti lavarsi fino a cinque volte al giorno, prima del rito della preghiera -; quindi, anche se quella tortura quotidiana danneggiava la sua salute, aveva dovuto rassegnarsi. Anzi, era arrivato persino a gradire quell'interruzione nella noiosa routine della prigionia e ogni giorno faceva più fatica a simulare la collera necessaria per protestare. Ogni tanto faceva un tentativo, a dir la verità piuttosto svogliato, di mordere una delle donne, specie se gli maneggiavano le parti intime. Quasi subito, però, si erano abituate a prevedere quella mossa, e respingevano i suoi attacchi lanciando risa stridule. Non facevano che scambiarsi commenti sui capelli di Dorian, accarezzandoli, pettinandoli e spazzolandoli, prima di raccoglierli in sottili treccioline lucenti. Avevano anche sostituito i suoi stracci sporchi e lacerati con una tunica bianca e pulita. Wilbur Smith
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Per il resto, lo trattavano con mille premure. Sulle fronde di palma del pagliericcio avevano steso una pelle di pecora morbida e conciata alla perfezione, fornendogli un cuscino di seta da mettere sotto la testa e una lampada a olio per rischiarare le lunghe ore della notte. Aveva sempre una brocca d'acqua a portata di mano, e l'evaporazione consentita dalla terracotta porosa del recipiente manteneva sempre fresco il contenuto. Le donne gli portavano da mangiare tre volte al giorno e, sebbene da principio avesse giurato di lasciarsi morire di fame per puro dispetto, l'aroma dei cibi che gli servivano era troppo stuzzicante perché il suo robusto appetito giovanile potesse resistere. Anche se quella vita solitaria era difficile da sopportare, sapeva di dover essere grato al destino per non essere stato rinchiuso in una di quelle celle affollate lungo il corridoio. Suo padre e Tom lo avevano ammonito su ciò che poteva capitare a un bambino grazioso, se finiva tra le mani di uomini vili e depravati. La catena era abbastanza lunga da consentirgli di arrivare al gradino sotto la feritoia, ma, anche se riusciva a salirci per guardare fuori della minuscola finestra, non poteva ripetere il precedente tentativo di fuga. Quando non era impegnato a incidere il suo nome sulla parete, trascorreva intere ore a osservare la laguna dov'era ancorata la flotta di al-Auf, struggendosi dal desiderio di scorgere le bianche vele di gabbia della Seraph sull'azzurro dell'orizzonte lontano. «Tom verrà», si ripeteva ogni mattina, frugando con gli occhi l'oceano che si schiariva. E ogni sera, al tramonto, restava di vedetta finché l'orizzonte non svaniva, fondendosi con le violacee sfumature color vino della notte, consolandosi con le stesse parole: «Tom ha promesso, e lui mantiene sempre le promesse. Domani verrà, lo so che verrà». A intervalli di pochi giorni, i carcerieri venivano a prenderlo per portarlo da Ben Abram. Il medico musulmano aveva soprannominato Dorian «Leoncino rosso», e il nome gli era rimasto. Anche i carcerieri, come le due donne, diffidavano dei suoi scoppi di collera e lo consegnavano sempre con sollievo al medico. Ben Abram lo esaminava con attenzione, dalla punta dei capelli luminosi all'estremità dei piedi nudi, in cerca di qualche segno di trascuratezza o di violenza. In particolare, il medico era preoccupato al pensiero che i cerchi di ferro delle catene lasciassero segni sulla sua pelle bianca, e si accertava che Wilbur Smith
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fosse nutrito e accudito a dovere. «Ti trattano bene, mio piccolo Leoncino rosso?» «No, mi picchiano tutti i giorni», ribatteva lui in tono di sfida, «e mi torturano con i ferri roventi.» «Ti danno da mangiare bene?» insisteva Ben Abram, sorridendo con aria mite di quella sfacciata bugia. «Mi danno vermi da mangiare e piscio di topo da bere.» «Vedo che questa dieta ti giova», osservava Ben Abram, annuendo. «Dovrei provarla anch'io.» «Mi cadono i capelli», lo contraddiceva Dorian. «Tra poco diventerò calvo e allora al-Auf mi farà giustiziare.» Dorian era perfettamente al corrente del particolare valore che i musulmani attribuivano ai suoi capelli, ma il vecchio ci era cascato una sola volta, prestando fede alla minaccia della calvizie, e ora si limitava a sorridere, scompigliandogli le trecce fluenti. «Vieni con me, Leoncino calvo.» Lo prendeva per mano, e una volta tanto il bambino non tentava di sottrarsi. Nella dolorosa solitudine in cui viveva, pur tentando con ogni cura di nasconderlo, Dorian si sentiva irresistibilmente attratto da quel vecchio gentile. Così lo accompagnava nella sala delle udienze, dove li aspettava al-Auf. Quelle riunioni, durante le quali Dorian veniva mostrato ai possibili acquirenti, seguivano un rituale ben preciso. Mentre gli altri discutevano, mercanteggiavano e ispezionavano i suoi capelli e il suo corpo nudo, Dorian restava rigido, fissandoli con un'espressione di collera sdegnosa e di odio, meditando gli insulti più offensivi che la padronanza sempre più completa dell'arabo gli consentiva di elaborare. A un certo punto dei negoziati, veniva sempre il momento in cui l'acquirente chiedeva: «Ma parla la lingua del Profeta?» Allora al-Auf si rivolgeva a Dorian, ordinando: «Di' qualcosa, piccolo». Dorian si tirava su e snocciolava la sua ultima composizione: «Possa Allah annerirti la faccia e farti marcire i denti sulle gengive schifose». Oppure: «Possa riempirti le budella di vermi e inaridire il latte nelle mammelle di tutte le capre che Hal preso in moglie». Quelle sortite suscitavano invariabilmente la costernazione degli aspiranti acquirenti, e in seguito Ben Abram, quando lo riaccompagnava nella sua cella, lo sgridava sempre con sussiego: «Com'è possibile che un Wilbur Smith
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bambino così bello conosca parole così sporche?» Ma intanto i suoi occhi scintillavano di allegria in mezzo alla ragnatela di rughe. Quell'ultima volta, però, entrando nella sala delle udienze, Dorian percepì un'atmosfera diversa. L'uomo al quale doveva essere mostrato non era un rozzo comandante di dhow o un mercante grasso e untuoso: era un principe. Era seduto al centro della sala, su una pila di cuscini e tappeti di seta, ma teneva la schiena eretta; il suo atteggiamento era regale ma privo di arroganza, benché, alle sue spalle, una dozzina di uomini del suo seguito fossero seduti in atteggiamento ossequioso, quasi servile. Possedeva una dignità imperiosa e una presenza imponente, che incutevano rispetto. Nella Bibbia di famiglia, a High Weald, c'era un'immagine di san Pietro, «la Pietra su cui fu edificata la Chiesa». La somiglianza di quell'uomo con l'immagine di Pietro era tanto sorprendente che Dorian pensò si trattasse della stessa persona, e si sentì sopraffare da un senso di religioso rispetto. «Saluta il potente principe al-Malik», gli suggerì al-Auf, quando Dorian rimase senza parole davanti a quella incarnazione dell'apostolo di Cristo. Evidentemente al-Auf era innervosito al pensiero della possibile reazione di Dorian a quell'ordine, perché si tirò la barba con un gesto ansioso. «Mostra il tuo rispetto al principe, altrimenti ti farò frustare», insistette. Dorian sapeva che quella minaccia era vana. Al-Auf non avrebbe mai osato lasciargli segni sul corpo, deprezzando il suo valore. Rimase immobile, fissando l'uomo che aveva di fronte, soggiogato. «Fa' il tuo salaam al principe!» incalzò al-Auf. Dorian sentì il suo istinto ribelle venir meno alla presenza di quell'uomo e, senza riflettere, gli rivolse un saluto che esprimeva profondo rispetto. Il pirata sembrò sbalordito e decise di approfittare di quell'insolito vantaggio, sperando che il ragazzo si astenesse dai riferimenti alle capre o ai denti marci. «Parla al potente principe! Salutalo nella lingua del Profeta!» gli ordinò. Senza doverci pensare troppo, Dorian ricordò un esercizio che Alf Wilson aveva insegnato loro durante un interminabile pomeriggio sul ponte di poppa, quando la Seraph era rimasta bloccata nella zona delle calme equatoriali. E così recitò dal Corano, con voce dolce e melodiosa: «Io sono soltanto un uomo come voi; a me è stato rivelato che il vostro Dio è un Dio unico; ora colui che spera d'incontrare il suo Signore operi rettamente e non associ nessuno nel culto del suo Signore». Wilbur Smith
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Tutti i presenti nella sala trattennero il fiato, e persino il principe si protese in avanti, per fissare gli occhi verdi di Dorian con un'espressione rapita. Il ragazzino fu lieto dell'effetto che aveva ottenuto. Aveva sempre amato le rappresentazioni teatrali organizzate dal signor Walsh a High Weald e a bordo della nave, quando di solito lui interpretava la parte di una donna. Comunque finora quella era stata senza dubbio la sua esibizione più riuscita. Nel lungo silenzio che seguì, il principe si raddrizzò lentamente, rivolgendosi all'uomo seduto proprio dietro di lui. Dorian capì dall'abito che era un mullah, un capo religioso. «Commentate le parole del bambino», gli ordinò il principe. «E' il versetto 110 della sura 18», ammise a malincuore il mullah. Aveva il viso paffuto e lucido di chi fa una vita comoda, con una pancia tonda che sporgeva sulle ginocchia. La barbetta rada era tinta di un arancio sbiadito con l'henné. «Il bambino l'ha citata con precisione, ma anche un pappagallo si può addestrare a ripetere parole di cui non comprende il significato.» Il principe si rivolse di nuovo a Dorian. «Che cosa intendi con 'rettamente', piccolo?» Alf Wilson lo aveva preparato a quella domanda, e Dorian non ebbe esitazioni. «La rettitudine è il vero rispetto per Dio, che rifugge dall'adorazione di idoli, o uomini divinizzati, o forze della natura, e in special modo di se stessi.» Al-Malik si girò verso il mullah. «Sono forse le parole di un pappagallo?» Il sant'uomo si diede per vinto. «No, mio signore. Sono davvero sagge parole.» «Quanti anni Hal, bambino?» chiese al-Malik, fissando Dorian con uno sguardo intenso e penetrante. «Dodici, quasi tredici», rispose lui con fierezza. «Sei musulmano?» «Preferirei avere il naso divorato dalla lebbra», ribatté Dorian. «Sono cristiano.» Né il principe né il mullah diedero segni di turbamento o di collera di fronte a una risposta così veemente. Anche loro, del resto, avrebbero respinto con altrettanto sdegno ogni suggerimento di apostasia. Wilbur Smith
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«Vieni qui, ragazzo», ordinò al-Malik, non senza gentilezza, e Dorian si avvicinò. Il principe tese la mano verso una ciocca dei suoi capelli, lavati di fresco e lucenti, facendola scorrere tra le dita, mentre il ragazzino restava pazientemente immobile. «Così dovevano essere i capelli del Profeta», mormorò al-Malik. E tutti i presenti fecero eco: «Sia lodato Allah». «Ora potete mandarlo via», disse al-Malik ad al-Auf. «Ho visto abbastanza. Adesso dobbiamo parlare.» Ben Abram prese per mano Dorian, guidandolo verso la porta. «Sorveglialo bene», gli gridò dietro al-Malik, «ma trattalo con gentilezza.» Il medico rispose con un gesto di saluto e di obbedienza, sfiorandosi con le dita le labbra e il cuore, prima di riportare Dorian nella cella. I servitori di al-Auf portarono alcuni bricchi di caffè. Mentre uno riempiva la minuscola tazzina d'oro zecchino del principe di una miscela densa e catramosa, un altro accendeva di nuovo la pipa ad acqua. La contrattazione del prezzo per un acquisto di tale importanza non poteva essere precipitosa. A poco a poco, con lunghe pause cariche di significato e scambi elaborati di espressioni poetiche, i due uomini si avviarono a concludere un accordo. Al-Auf aveva raddoppiato il prezzo iniziale, chiedendo due lakh, per avere un ampio spazio di manovra e, gradatamente, si lasciò convincere a ridurlo. Era ormai buio fatto quando, alla luce delle lampade a olio e avvolti nella nube fragrante del fumo della pipa, raggiunsero l'accordo sul prezzo del bambino. «Non porto mai tanto oro con me, quando viaggio per mare», disse alMalik. «Domani, salpando da qui, porterò con me il bambino e, non appena arrivato a Lamu, manderò subito un dhow qui da voi. Avrete il vostro lakh prima del sorgere della nuova luna, ve lo assicuro con un giuramento sacro.» Al-Auf esitò soltanto un attimo. «Sia fatto come il grande principe decreta.» «Adesso lasciatemi solo, perché l'ora si fa tarda e desidero pregare.» Il pirata si alzò immediatamente. Aveva ceduto il suo alloggio ad alMalik, perché era onorato di poter ospitare un personaggio così illustre, e, mentre indietreggiava verso la porta, eseguì una serie di profondi inchini. Wilbur Smith
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«Possano le urì del paradiso allietare i vostri sogni, grande principe. «Possa il vostro risveglio essere fragrante del profumo delle viole, o possente. «Possano le vostre preghiere volare fino alle orecchie di Allah come frecce dalla punta dorata, o beneamato del Profeta.» Dorian non riusciva a dormire. La sensazione di euforia che aveva provato dopo l'incontro col principe era svanita, lasciandolo spaventato e ancora più solo. Sapeva che la sua situazione era nuovamente cambiata e che stava per essere scagliato in acque oscure e incerte. Per quanto odiasse quella squallida prigionia, era una realtà alla quale ormai si era abituato e che comportava qualche piccola consolazione: aveva cominciato ad affezionarsi al vecchio medico arabo, anzi, quasi a dipendere da lui. Ben Abram era un volto amico, e Dorian sentiva che aveva a cuore il suo bene. Inoltre, finché rimaneva sull'isola, c'era sempre una possibilità che suo padre e Tom riuscissero a seguire la pista che portava fino a lui. Se quel principe temibile lo avesse portato in qualche altro posto, quante probabilità c'erano che riuscissero ancora a rintracciarlo? Era troppo spaventato per spegnere la fiamma della lampada a olio, anche se attirava le zanzare nella minuscola cella, e preferiva grattarsi le punture piuttosto che restare sveglio al buio. Ai piedi delle mura del forte, le fronde delle palme frusciavano dolcemente all'alito del monsone. Lui si cinse il corpo con le braccia, ascoltando il gemito lugubre del vento e respingendo la tentazione di cedere alle lacrime. A un certo punto percepì un suono diverso nel vento, così lieve che dapprima non riuscì a penetrare nella nebbia fitta della sua infelicità. Si spense, poi riprese, più forte e più nitido. Dorian si mise a sedere, allungando la mano verso la lampada, con le dita che gli tremavano al punto da rischiare di farla cadere. Attraversata la cella a passi incerti, salì sul gradino sottostante alla feritoia, tendendo la catena per quanto gli era possibile. Dopo aver posato la lampada sul davanzale, si mise di nuovo in ascolto. Non poteva sbagliare: c'era qualcuno che fischiettava, ai margini della foresta, e quando riconobbe il motivo si sentì balzare il cuore in petto per l'esultanza. È Tom. Avrebbe voluto gridarlo, invece tese di nuovo la catena per raggiungere l'apertura. Tentò di cantare i versi successivi della ballata, ma la voce s'incrinò. Si concentrò per ritentare, modulando piano la voce, per Wilbur Smith
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non farla arrivare alle guardie in fondo al corridoio o alle sentinelle sui bastioni del forte. Andremo vagando per tutto l'oceano, andremo vagando sui mari in tempesta. Il suono all'esterno s'interruppe di colpo. Per quanto tendesse l'orecchio, Dorian non riuscì a sentire più nulla. Avrebbe voluto gridare, ma sapeva che in questo modo avrebbe potuto mettere qualcuno in allarme. Perciò si morse la lingua, sebbene gli bruciasse in bocca come un tizzone acceso. A un tratto sentì un lieve rumore all'esterno della feritoia, come se qualcuno grattasse sul muro, e poi la voce di Tom: «Dorry!» «Tom! Oh, lo sapevo che saresti venuto. Sapevo che avresti mantenuto la promessa.» «Ssst, Dorry! Non così forte. Riesci a uscire dalla finestra?» «No, sono incatenato al muro.» «Non piangere, Dorry. Ti sentiranno.» «Non sto piangendo.» Dorian si ficcò le dita in bocca per soffocare il suono dei singhiozzi. La testa di Tom apparve nell'apertura della finestra. «Qua!» Dorian inghiottì l'ultimo singhiozzo, tendendo entrambe le mani attraverso la feritoia. «Dammi la mano.» Tom si sforzò di entrare attraverso la minuscola apertura, ma alla fine ricadde indietro. «Dovremo tornare a prenderti.» «Ti prego, Tom, non lasciarmi qui», lo implorò Dorian. «La Seraph ci aspetta poco lontano dalla riva. Siamo tutti qui, nostro padre, Aboli e io. Torneremo presto a prenderti.» «Tom!» «No, Dorry, non fare tanto chiasso. Ti giuro che torneremo a prenderti.» «Tom! Non lasciarmi solo, Tom!» Il fratello stava per andarsene, e lui non riusciva a sopportarlo. Si aggrappò disperatamente al suo braccio, tentando di costringerlo a rimanere. «Lasciami andare, Dorry! Mi farai cadere.» Si sentì gridare dai bastioni, sopra di loro. Una voce intimò in arabo: «Chi va là? Chi c'è, laggiù?» «Le sentinelle, Dorry! Lasciami andare!» Dorian sentì il braccio del fratello sfuggire alla sua stretta, e nel Wilbur Smith
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contempo si udì un colpo di fucile sparato dall'alto, sopra la loro testa. Capì che il fratello era stato colpito e sentì il suo corpo scivolare lungo il muro e, con un tonfo orribile, urtare il terreno ai piedi della fortezza. «Oh, no! Mio Dio, ti prego, no!» urlò Dorian. Tentò di affacciarsi dalla feritoia per vedere se il fratello era rimasto davvero ucciso, ma la catena lo trattenne all'interno. Si sentì un coro di grida e una salva disordinata di spari provenire dall'alto delle mura. Ben presto nella guarnigione si scatenò un gran trambusto. Nel giro di pochi minuti Dorian udì voci in arabo parlare ai piedi della muraglia, sotto la sua finestra. «Qui non c'è nessuno», gridò qualcuno, rivolto alle sentinelle sui bastioni, sopra la testa di Dorian. «No, non c'è nessuno... ma guarda i segni dov'è caduto.» «Dev'essere fuggito nella foresta.» «Chi era?» «Un infedele. Il suo viso era bianco, al chiaro di luna.» Le voci si allontanarono nella foresta, poi si sentirono altre grida e spari di fucile, e i rumori prodotti dagli uomini che si aggiravano tra gli alberi. A poco a poco, i suoni svanirono in lontananza. Dorian rimase alla feritoia per tutto il resto della notte, aspettando e ascoltando, ma a poco a poco le ultime scintille di speranza si spensero e, quando la luce grigia dell'alba illuminò finalmente la baia e l'oceano più in là, non c'era traccia alcuna della Seraph. Soltanto allora strisciò sulla pelle di pecora, affondando il viso nel cuscino di seta per soffocare i singhiozzi e asciugarsi le lacrime. Vennero a prenderlo a mezzogiorno. Le due donne che si erano prese cura di lui piangevano e si lamentavano per il dispiacere di perdere il loro protetto e il carceriere, mentre apriva l'anello di ferro, gli disse in tono burbero: «Vattene con Dio, scimmietta. Quando te ne sarai andato, non ci sarà più nessuno a farci ridere». Ben Abram lo condusse dove al-Auf era in attesa, furibondo, con le mani piantate sui fianchi e la barba che fremeva di collera. «Chi erano quei cani infedeli che stanotte sono venuti a fiutare la tua cuccia, cagnolino?» gli domandò. «Io non ne so niente.» Per quanto si sentisse ancora abbattuto e avesse voglia di piangere, Dorian assunse un atteggiamento di sfida. «Stanotte Wilbur Smith
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dormivo e non ho sentito niente. Forse il diavolo vi ha mandato qualche brutto sogno.» Non avrebbe mai tradito Tom, denunciandolo. «Non sono più tenuto a sopportare la tua impudenza.» Al-Auf si avvicinò. «Rispondimi, progenie di Satana, chi c'era alla finestra della tua cella? Le sentinelle ti hanno sentito parlare con l'intruso.» Dorian lo fissò in silenzio, ma intanto raccoglieva la saliva sotto la lingua. «Sto aspettando!» gli disse al-Auf in tono minaccioso, abbassandosi finché i loro occhi non si trovarono alla stessa altezza. «Non aspettare più», ribatté Dorian, sputandogli in faccia. Il pirata arretrò, sbalordito, poi il suo viso fu stravolto da un'ira terribile e sguainò il pugnale che portava alla cintura. «Non lo farai mai più», giurò. «Ti strapperò dal petto quel cuore infedele.» Mentre stava per colpire, Ben Abram balzò in avanti. Era svelto e agile, per un uomo della sua età. Serrò le mani intorno al polso di al-Auf che impugnava il coltello e, pur non avendo la forza per fermarlo, riuscì a deviare il colpo dal petto di Dorian. La punta lucente del pugnale rimase impigliata nel tessuto della sua tunica bianca, lasciando uno squarcio netto nella stoffa. Il pirata si ritrasse, vacillando, sbilanciato da quell'attacco inatteso, poi scaraventò a terra il vecchio con un gesto quasi sprezzante. «La pagherai, vecchio idiota», minacciò. «Signore, non fate del male al bambino. Pensate alla profezia e all'oro», implorò Ben Abram, aggrappandosi all'orlo della veste di al-Auf. Il pirata esitò, colpito dall'ammonimento. «Un lakh di rupie da perdere», insistette Ben Abram, «e la maledizione del santo Taimtaim sul vostro capo, se lo ucciderete.» L'altro tentennò, incerto, ma le labbra gli fremettero e la mano che impugnava il coltello tremava. Fissava Dorian con un odio così intenso che il ragazzo si perse di coraggio, arretrando con le spalle al muro. «Lo sputo di un infedele! È peggio del sangue di un porco! Mi ha contaminato!» Al-Auf si stava infuriando di nuovo. Riprese ad avanzare, poi si fermò di colpo, sentendo risuonare nella stanza una voce perentoria. «Fermo! Abbassate quel coltello! Che follia è questa?» Il principe alMalik dominava l'ingresso della sala. Richiamato dalle grida e dal trambusto, era passato dalle stanze da letto sul retro. Al-Auf si prostrò sul Wilbur Smith
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pavimento di pietra, lasciando cadere il coltello. «Perdonatemi, nobile principe», farfugliò. «Per un attimo l'ira mi ha accecato.» «Dovrei mandarvi a visitare il vostro terreno di esecuzione», replicò gelido al-Malik. «Sono polvere ai vostri occhi», piagnucolò al-Auf. «Il ragazzo non vi appartiene più. È di mia proprietà.» «Farò ammenda per la mia stupidità in qualsiasi modo vogliate, ma, ve ne prego, non volgete su di me il viso dell'ira, grande principe.» Al-Malik non si degnò neppure di rispondere, limitandosi a guardare Ben Abram. «Portate subito il bambino giù alla laguna e fatelo salire a bordo del mio dhow. Il comandante aspetta il suo arrivo. Vi seguirò tra poco. Salperemo con l'alta marea di stasera.» Due guardie del principe scortarono Dorian fino alla laguna e Ben Abram lo accompagnò, tenendolo per mano. Dorian era pallido, con le mascelle serrate nello sforzo di mantenere un'espressione coraggiosa. Non si scambiarono una parola fin quando non raggiunsero la spiaggia e trovarono ad aspettarli la barca che si era staccata dal dhow regale, all'ancora nella baia. Allora Dorian pregò Ben Abram: «Per favore, venite con me». «Non posso farlo.» Il vecchio scosse la testa. «Allora solo fino al dhow, ve ne prego. Siete il solo amico che mi resta al mondo.» «E va bene, ma solo fino al dhow.» Ben Abram salì sulla barca accanto a lui, e Dorian si spostò per stargli più vicino. «Ora che cosa mi succederà?» chiese con un filo di voce. Ben Abram rispose con gentilezza: «Quello che vorrà Allah, Leoncino rosso». «Mi faranno del male? Mi venderanno a qualcun altro?» «Il principe ti terrà per sempre con sé», lo rassicurò Ben Abram. «Come fate a esserne sicuro?» Dorian appoggiò la testa sul braccio di Ben Abram. «A causa della profezia del santo Taimtaim. Non ti lascerà mai andare. Sei troppo prezioso per lui.» «Che cosa dice questa profezia?» Dorian si raddrizzò, guardandolo negli occhi. «Tutti ne parlano, ma nessuno mi spiega che cosa dice.» «Questo non è il momento di saperlo, per te.» Ben Abram spinse di nuovo in basso la testa del bambino. «Un giorno ti sarà tutto chiaro.» Wilbur Smith
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«Non potete dirmelo adesso?» «Saperlo potrebbe essere pericoloso per te. Devi avere pazienza, piccolo.» La barca urtò contro il fianco del dhow, dove gli uomini del principe aspettavano Dorian. «Non voglio andare», mormorò lui, stringendosi a Ben Abram. «È la volontà di Dio.» Il vecchio liberò delicatamente le dita da quelle del ragazzino, e i marinai si protesero in avanti per issarlo sul ponte. «Vi prego, restate ancora un po' con me», implorò Dorian, guardando in giù verso la barca, e Ben Abram non seppe resistere a quella preghiera. «Resterò con te finché non salperete», disse alla fine, seguendolo sotto coperta, fino alla piccola cabina che era stata preparata per lui. Sedendosi al suo fianco sul giaciglio, infilò la mano nella piccola borsa che portava alla cintola. «Bevi questo», gli disse, estraendo dal sacchetto una piccola fiala verde, che gli porse. «Che cos'è?» «Allevierà il dolore della separazione, e ti farà dormire.» Dorian bevve tutto il contenuto della fiala, facendo una smorfia. «Ha un sapore orribile.» «Come il piscio di topo?» Ben Abram sorrise, e Dorian scoppiò a ridere, ma la risata somigliava a un singhiozzo, e lui si strinse di nuovo al vecchio. «Ora stenditi un po' a riposare.» Il medico sospinse all'indietro Dorian sul materasso, e per qualche minuto parlarono insieme, sottovoce. Poi le palpebre del ragazzino cominciarono ad appesantirsi. La notte prima non aveva chiuso occhio, e fu sopraffatto dalla stanchezza. Ben Abram lo accarezzò per l'ultima volta sulla testa. «Che Allah ti protegga, piccolo mio», disse sottovoce, prima di alzarsi e salire sul ponte. Dorian fu svegliato da uno scalpiccio di passi sopra la sua testa e dal movimento della carena nell'acqua mentre il dhow salpava. Guardandosi attorno in cerca di Ben Abram, scoprì che se n'era andato. Al suo posto c'era una donna sconosciuta, accovacciata sul pavimento vicino al suo giaciglio. Avvolta nella veste nera, col viso velato, sembrava un avvoltoio in attesa di una preda. Dorian si alzò, un po' stordito, per dirigersi verso l'oblò della cabina. Wilbur Smith
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Fuori era buio e le stelle danzavano sulle acque della laguna. L'aria mite della notte che gli soffiava sul viso lo rianimò, schiarendogli le idee. Avrebbe voluto salire sul ponte, ma, quando si diresse verso la porta, la donna si alzò, sbarrandogli la strada. «Non devi uscire di qui finché il principe non ti manderà a chiamare.» Dorian discusse con lei, ma poi rinunciò a quel futile sforzo, tornando all'oblò. Osservò le mura del forte allontanarsi, bianche e luminescenti al chiaro di luna, mentre il dhow usciva dalla laguna percorrendo il canale, poi sentì il ponte sollevarsi sotto di lui al primo assalto del mare. Quando la nave virò a occidente, non riuscì più a vedere l'isola illuminata dalla luna e allora si allontanò per gettarsi sul materasso. La donna velata di nero si diresse verso l'oblò, chiudendo il pesante portello di legno. In quel momento la vedetta sul ponte, proprio sopra la testa di Dorian, gridò, così bruscamente da farlo trasalire: «Chi siete?» «Pescatori, con la pesca della notte», fu la risposta. La replica fu fioca, quasi impercettibile per la distanza e il portello che sbarrava l'oblò, ma Dorian si sentì balzare il cuore nel petto, battendo freneticamente per l'eccitazione. «Padre!» esclamò ansimando. Anche se la voce aveva parlato in arabo, la riconobbe all'istante. Si slanciò attraverso la cabina, nel tentativo di raggiungere l'oblò, ma la donna lo raggiunse. «Padre!» gridò, lottando con la donna; ma era tarchiata, con i seni grandi e il ventre pieno e molle. Pur essendo grassa, era forte. Afferratolo all'altezza del petto, lo scaraventò all'indietro sul giaciglio. «Lasciami andare!» le gridò in inglese. «È mio padre. Lasciami andare da lui!» La donna lo schiacciò con tutto il suo peso, inchiodandolo sul materasso. «Non puoi uscire», grugnì. «È un ordine del principe.» Dorian si sforzò di lottare con lei, ma poi rimase paralizzato quando il padre, nel buio, si rivolse di nuovo al dhow. «E voi?» La sua voce era più fioca, adesso. Evidentemente, il dhow si allontanava in fretta. «La nave del principe Abd Muhammad al-Malik», gridò la vedetta di rimando, con voce forte e chiara. «Andate con Allah!» La voce di Hal era così debole e lontana da risuonare come un bisbiglio alle orecchie di Dorian. «Padre!» gridò con tutte le sue forze, ma il peso della donna gli Wilbur Smith
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schiacciava il petto, soffocandolo. «Non andate via! Sono io! Sono Dorry!» gridò con disperazione. Sapeva che la sua invocazione non sarebbe mai riuscita a uscire dai confini di quella cabina per giungere alle orecchie del padre, volando sulle acque. Con un guizzo improvviso, si liberò dal peso della donna, sgusciando al di sotto e, prima che lei riuscisse a rimettersi in piedi, schizzò verso la porta. Mentre lottava con la serratura, la donna gli si avventò contro, ed era appena riuscito ad aprire la porta che lei lo agganciò, afferrandogli con le dita il colletto della tunica. Ma Dorian si slanciò in avanti con un impeto tale che il cotone si lacerò e lui riuscì a liberarsi. Salì in un lampo la scaletta, con la donna alle calcagna che gridava a pieni polmoni: «Fermatelo! Catturate l'infedele!» Un marinaio arabo aspettava Dorian in cima alla scaletta, con le braccia allargate per bloccare il passaggio, ma lui si lasciò cadere sul ponte, sgattaiolando tra le sue gambe con l'agilità di un furetto per correre verso poppa. Riuscì a scorgere la sagoma scura della lancia della Seraph che solcava le acque nella scia del dhow, allontanandosi veloce verso l'isola, con i remi che si alzavano e s'immergevano nell'acqua lasciando cadere gocce luminescenti. C'era una figura alta che si stagliava a poppa, e Dorian sapeva che era suo padre. «Non mi lasciate!» La sua voce si perse nella notte. Raggiunse il parapetto di poppa e vi salì con un balzo, raccogliendosi per tuffarsi fuori bordo nelle acque scure, ma una mano forte si strinse intorno alla sua caviglia, trascinandolo in basso. Pochi secondi dopo, si ritrovò sul ponte, schiacciato dal peso di mezza dozzina di marinai arabi, che lo riportarono sotto coperta mentre scalciava, mordeva e graffiava. «Se ti fossi lanciato in acqua, avrebbero gettato in mare anche me, per farmi divorare dai pesci», si lamentò amareggiata la donna grassa. «Come puoi essere tanto cattivo con me?» Tutta offesa e stizzita, fece un gran chiasso, pretendendo dal comandante che mettesse due uomini di guardia davanti alla porta, poi controllò che il portello dell'oblò e la porta della cabina fossero sprangati saldamente per prevenire un altro tentativo di fuga. Dorian era così sconvolto e sfinito che, quando finalmente si addormentò, fu come se fosse ancora sotto l'effetto della droga. Era quasi mezzogiorno quando la donna lo svegliò. «Il principe ti ha mandato a chiamare», gli disse, «e andrà in collera con la vecchia Tahi, se Wilbur Smith
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sarai sporco e puzzolente come un capretto.» Ancora una volta dovette sottomettersi al rito del bagno e farsi pettinare e spalmare con un olio profumato. Infine fu condotto nella cabina principale, sul ponte di prua del dhow. Il ponte era riparato da una tettoia di tela per schermare i raggi ardenti del sole tropicale, ormai quasi allo zenit, ma i lati della struttura, che somigliava a una tenda, erano sollevati per lasciar passare i refoli freschi del monsone. Il pavimento era coperto di tappeti di seta e il principe era semidisteso su una pedana leggermente rialzata, appoggiato ai cuscini, mentre il mullah e altri quattro uomini del suo seguito personale erano seduti in basso a gambe incrociate. Quando comparve Dorian, erano immersi in una profonda discussione, ma al-Malik fece loro segno di tacere non appena Tahi giunse di fronte a lui. La donna si prosternò sul ponte e, quando Dorian si rifiutò di seguire il suo esempio, lei lo tirò per la caviglia. «Rendi omaggio al principe!» gli sibilò. «Altrimenti ti farà picchiare!» Il ragazzino, risoluto a non obbedire, irrigidì la mascella e alzò gli occhi per fissare in volto il principe. Pochi istanti dopo, però, sentì la sua determinazione vacillare e abbassò gli occhi. Non sapeva perché, ma gli riusciva impossibile sfidare quel personaggio regale, quindi mostrò il suo rispetto mormorando: «Salaam aliekum, signore!» e prosternandosi. L'espressione di al-Malik restò severa, ma intorno ai suoi occhi apparvero rughe sottili che nascevano dal riso trattenuto. «E la pace sia anche con te, al-Amhara.» Facendo cenno a Dorian di avvicinarsi, gli indicò un cuscino ai piedi della pedana, vicino alla sua mano destra. «Siedi qui, dove potrò impedirti di saltare fuori bordo la prossima volta che ti assalirà il cafard, la follia.» Dorian obbedì senza protestare, dopodiché gli uomini lo ignorarono, proseguendo la discussione. Per qualche tempo tentò di seguire la conversazione, ma parlavano così in fretta e in modo così ricercato da mettere a dura prova la sua capacità di comprensione. I loro discorsi erano fitti di nomi di persone e località a lui sconosciuti. C'era un nome che riconosceva, però: Lamu. Nel tentativo di orientarsi, evocò nella sua mente le carte nautiche della costa della Febbre che era stato costretto a studiare così spesso durante le lezioni di navigazione con Ned Tyler. Lamu si trovava parecchie centinaia di leghe a nord di Zanzibar. Era un'isola più piccola e, stando a quello che ricordava degli ordini di Wilbur Smith
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navigazione nel giornale di bordo del padre, si trattava di un altro importante centro commerciale dell'impero di Oman. Dalla direzione del vento e dall'angolazione del sole pomeridiano si rese conto che il dhow seguiva una rotta in direzione nord-ovest, il che indicava probabilmente in Lamu la sua meta. Si domandò quale destino lo attendeva laggiù, poi allungò il collo per guardare indietro, verso poppa. All'orizzonte, dietro di loro, non si vedeva traccia di Flor de la Mar. Durante la notte si erano allontanati dall'isola, recidendo ogni contatto con la Seraph, suo padre e Tom. A quel pensiero, si sentì assalire di nuovo da una fitta di disperazione, però era deciso a non arrendersi e fece un altro tentativo per seguire le discussioni del principe e del suo seguito. Mio padre si aspetterà che ricordi tutto quello che dicono. Potrebbe essere molto prezioso per lui, quando farà i suoi piani, pensò, tuttavia, proprio in quel momento, il mullah si alzò per dirigersi a prua, da dove cominciò il richiamo alla preghiera, con una voce tremula e acuta. Il principe e i suoi uomini interruppero la conversazione, cominciando i preparativi per la preghiera di mezzogiorno. Gli schiavi portarono brocche di acqua dolce, in modo che si potessero compiere le abluzioni rituali. Il timoniere a poppa rivolse la nave a nord, indicando la direzione della città santa della Mecca, e tutti gli uomini a bordo che non erano indispensabili alla manovra del dhow si rivolsero in quella direzione. All'unisono, seguendo le grida lamentose del mullah, eseguirono il rito di alzarsi, inginocchiarsi e prostrarsi sul ponte, sottomettendosi alla volontà di Allah e offrendogli la loro devozione. Era la prima volta che Dorian veniva coinvolto in una simile manifestazione di fede. Per quanto restasse seduto in disparte, si sentì stranamente commosso dalla sua intensità. Non aveva mai provato quel tipo di emozione durante le funzioni domenicali nella cappella di High Weald, e seguì la cantilena e l'esultanza della preghiera con un interesse maggiore di quello che il pastore della sua chiesa avesse mai suscitato in lui. Alzò gli occhi, contemplando l'immensa volta azzurra del cielo africano affollata di nubi sospinte in avanti dal monsone e, con l'animo colmo di religioso rispetto, immaginò di scorgere nei vortici di nubi argentee la barba di Dio, i tratti terribili del suo volto adombrati nelle forme e nei contorni delle nuvole temporalesche. Il principe Abd Muhammad al-Malik si rialzò dopo le prosternazioni, Wilbur Smith
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restando su quella bassa pedana, ancora rivolto verso la città santa, con le mani incrociate sul petto in un gesto finale di devozione. Dorian alzò la testa verso il suo viso barbuto, pensando che forse Dio aveva proprio quell'aspetto, così terrificante e insieme così nobile e benevolo. Il dhow filava veloce, sospinto dal monsone, con l'enorme vela latina tesa e gonfia come un otre di pelle pieno d'acqua. L'antenna era tutta scolpita, ricavata dall'unione di varie tavole di un legno tropicale scuro e pesante, con un diametro pari quasi alla cintola di un uomo, e più lunga della stessa nave. A ogni rollio del dhow sulle onde, l'ombra dell'antenna scorreva avanti e indietro sul ponte, prima oscurando la figura regale del principe e poi lasciando che tutta l'intensità della luce tropicale lo investisse in pieno. Al-Malik stava accanto all'antenna oscillante, ergendosi in tutta la sua statura. In quel momento, il timoniere arabo si lasciò distrarre, consentendo alla prua della nave di accostare troppo nell'occhio del vento, e la vela cominciò a gemere in modo sinistro. Ned Tyler aveva insegnato a Dorian che la vela latina era notoriamente imprevedibile e instabile in caso di colpi di vento, perciò lui si accorse subito delle difficoltà in cui si trovava la nave, sottoposta a un trattamento così rude. Con la coda dell'occhio, notò un improvviso cambiamento nell'ombra proiettata dalla vela sul ponte di coperta, sotto la pedana. Spostando rapidamente lo sguardo sull'alberatura, vide che la drizza cominciava a svolgersi proprio al di sotto del pesante verricello di legno: la cima cominciò a disfarsi come un nido di serpenti che si accoppiassero, mentre i trefoli cedevano uno per uno. Dorian era inorridito e, per alcuni secondi preziosi, rimase troppo interdetto per muoversi o gridare. Aveva visto calare e ruotare l'antenna quando il dhow virava di bordo, quindi sapeva quanto fosse vitale il ruolo della drizza nella manovra con la vela latina. Fece per alzarsi, sempre tenendo d'occhio l'albero, ma in quel preciso istante l'ultimo trefolo della drizza si spezzò con uno schiocco simile a un colpo di pistola. Con un fruscio e un rombo di tela, l'antenna cominciò la sua discesa precipitosa dall'alto dell'albero: mezza tonnellata di legno massiccio pronto ad abbattersi sul ponte come la mannaia di un boia. Il principe, sordo a tutto ciò che non fosse la sua devozione religiosa, si trovava proprio sulla traiettoria del boma che precipitava. Dorian si slanciò in avanti, urtando con la spalla le ginocchia di alMalik, alle spalle. Il principe fu colto impreparato da quella mossa, proprio Wilbur Smith
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nel momento in cui si bilanciava all'indietro per compensare il movimento della nave, e fu proiettato giù dalla pedana rialzata, finendo sul ponte a faccia in giù. La pila di tappeti e cuscini sparsi sul tavolato attutì la sua caduta, mentre il corpo minuto di Dorian cadde sopra di lui. Alle loro spalle, la massiccia antenna di legno si abbatté sulla bassa cabina di prua, fracassandola e riducendola a un ammasso di tavole e schegge taglienti. La grande antenna di legno si spezzò al centro e la parte terminale proseguì la caduta, acquistando velocità prima di colpire il ponte di prua, schiacciando la bassa pedana di legno sulla quale si trovava il principe fino a pochi istanti prima, per abbattere poi i parapetti di prua, sfondando in gran parte il tavolato del ponte. La vela latina si sgonfiò e scivolò in basso alle loro spalle, ricoprendo il ponte di prua e soffocando in un sudario di tela gli uomini che vi giacevano, mentre il movimento del dhow mutava nettamente. Alleggerita della pressione della vela, la nave deviò dalla rotta, ritrovandosi con la prua al vento, e cominciò a rollare con violenza, squassata dalle onde impetuose del monsone. Per lunghi istanti il silenzio regnò a bordo, fatta eccezione per i colpi sordi e gli schiocchi del verricello rimasto vuoto e delle cime recise. Poi si levò un coro di esclamazioni e urla di uomini feriti. Due marinai sul ponte di poppa erano stati schiacciati, restando uccisi sul colpo, mentre altri due erano orribilmente mutilati, con le membra dilaniate e le ossa spezzate. Le loro grida risuonavano pietosamente fioche nel vento. Obbedendo agli ordini lanciati dal comandante del dhow, i marinai rimasti illesi si precipitarono a prua per districare il groviglio di cime e di tela che copriva gli uomini sul ponte. «Trovate il principe!» gridava il comandante con voce stridula, temendo per la propria vita se il padrone fosse rimasto ferito oppure - Allah non lo volesse - ucciso sotto il peso dell'antenna. In pochi minuti gli uomini sollevarono le pieghe della vela e, levando esclamazioni di sollievo e ringraziamenti ad Allah, liberarono il principe rimasto imprigionato sotto i suoi resti. In mezzo a quel pandemonio, al-Malik mantenne una calma distaccata, ignorando le grida estatiche di gioia per la sua salvezza, per osservare meglio ciò che restava della pedana; l'antenna aveva squarciato persino lo spesso strato di seta del prezioso tappeto da preghiera sul quale lui si trovava pochi istanti prima. Il mullah, attraversando il ponte, si precipitò al Wilbur Smith
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suo fianco. «Siete illeso! Siano rese grazie ad Allah! Egli ha steso le sue Ali su di voi, perché siete il beneamato del Profeta.» Al-Malik scostò le sue mani, domandando: «Dov'è il bambino?» La domanda scatenò un'altra frenetica ricerca sotto le montagne di tela. Alla fine tirarono fuori Dorian, depositandolo di fronte al principe. «Sei ferito, piccolo?» Dorian sorrise, elettrizzato dalla devastazione che lo circondava. Non si divertiva tanto dall'ultima volta che era stato in compagnia di Tom. «Io sto benissimo, signore», rispose. Nell'eccitazione del momento era passato di nuovo all'inglese. «Ma la vostra nave è conciata proprio male.» Tom sapeva che era necessario tenere occupati gli uomini durante i giorni e le settimane in cui avrebbero dovuto attendere il ritorno di Anderson da Ceylon. I marinai in ozio trovano subito qualche pretesto per attaccare baruffa, diventando una minaccia per se stessi e per gli altri. Inoltre si rendeva conto che, per il suo stesso bene e per la pace del suo spirito, doveva trovare conforto nel lavoro, altrimenti avrebbe trascorso le lunghe giornate tropicali a rimuginare sulla sorte di Dorian e sulle terribili ferite riportate dal padre, oltre che sul suo stato di salute, che andava peggiorando di giorno in giorno. Sapeva che, non appena Hal fosse stato in grado di affrontare il viaggio, doveva cercare di riportarlo a casa, alla tranquillità e alla sicurezza di High Weald, dove avrebbe potuto essere assistito da medici inglesi e da uno stuolo di servitori fedeli. D'altra parte, ciò significava lasciare Dorian al suo destino di schiavo in un mondo che gli era del tutto estraneo, e Tom si sentiva attirare dalla forza irresistibile del giuramento fatto al fratello. Si rivolse ad Aboli perché lo aiutasse a risolvere quel dilemma. «Se mio padre mi affidasse il comando della Minotaur, assegnandomi un piccolo equipaggio di uomini in gamba, tu e io potremmo andare alla ricerca di Dorian! Io so dove cominciare a cercarlo: a Lamu!» «E allora che ne sarebbe di tuo padre, Klebe? Sei pronto ad abbandonarlo proprio adesso che ha più bisogno di te? Che cosa proverai, quando, chissà dove», incalzò Aboli, puntando il dito a ovest, dove il continente misterioso si stendeva oltre l'orizzonte, «ti giungerà la notizia che tuo padre è morto, e che forse restando qui avresti potuto salvarlo?» «Non dirlo nemmeno, Aboli», s'infiammò Tom, prima di calmarsi, lasciandosi sfuggire un sospiro pieno d'incertezza. «Forse, quando il Wilbur Smith
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comandante Anderson tornerà con la Yeoman, mio padre sarà abbastanza in forze per tornare a casa senza di noi. Aspetterò fino ad allora per decidere, ma intanto dobbiamo preparare la Minotaur per ogni evenienza.» Nonostante il lavoro già fatto, la nave mostrava ancora i segni del periodo in cui era stata in mano agli uomini di al-Auf, e sapevano entrambi che probabilmente lo scafo era infestato dalle teredini, il flagello delle acque tropicali. Quel giorno stesso, Tom ordinò che la nave fosse tirata in secca. Era la prima volta che eseguiva quell'operazione, e sapeva di doversi affidare in gran parte all'esperienza di uomini come Ned Tyler e Alf Wilson. La nave fu svuotata del carico e delle attrezzature pesanti, compresi i cannoni e le botti dell'acqua: tutto il materiale fu trasportato a terra e immagazzinato sotto alcune tettoie di fortuna costruite tra le palme, mentre i cannoni venivano disposti in modo da proteggere l'accampamento. Poi lo scafo, così alleggerito, fu sospinto sulla spiaggia in direzione parallela alla battigia, approfittando dell'alta marea di primavera. Grazie a una serie di massicci verricelli, gli uomini tesero alcune cime dalla sommità dei tre alberi fino alla riva, dando loro volta alle palme più grandi e robuste che sorgevano sulla spiaggia. Dopodiché la Minotaur, con tre braccia d'acqua sotto la chiglia, fu portata al limite minimo di pescaggio: venti uomini azionavano ciascuno degli argani, mentre gli altri tendevano le cime a riva, cantando per aiutarsi nello sforzo. A poco a poco la nave s'inclinò fortemente a dritta, mentre il fasciame dalla parte opposta restava allo scoperto, e corse il rischio di capovolgersi; ma ormai la marea stava calando al minimo, e la Minotaur si adagiò delicatamente sul fondo sabbioso, col lato di sinistra completamente esposto. Ancor prima che la marea fosse calata del tutto, Tom e Ned Tyler aggirarono la nave a guado per ispezionare il fasciame. La Minotaur navigava in quelle acque da quasi quattro anni e il fondo era incrostato di alghe e cirripedi che, pur limitandone la velocità e la maneggevolezza, non ne minacciavano la sopravvivenza. Invece, non appena raschiate via le alghe, i due scoprirono ciò che più temevano: tutta la carena, sotto la linea di galleggiamento, era perforata dalle gallerie scavate dalle teredini. Tom poté addirittura infilare tutto l'indice in uno di quei fori, e sentì il verme fremere sotto la punta del dito. Accendendo fuochi sulla spiaggia, i carpentieri avevano preparato alcuni pentoloni di ghisa pieni di pece bollente. Non appena Ned versò in uno dei fori un mestolo di quella poltiglia nera e gorgogliante, una creatura orribile Wilbur Smith
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uscì all'aperto, contorcendosi nell'agonia: aveva il diametro di un dito e, quando Tom l'afferrò per la testa, tenendola sollevata più che poteva, vide che il corpo rosso, simile a quello di un serpente, gli arrivava fino all'altezza delle ginocchia. «La vecchia signora non ce l'avrebbe mai fatta a tornare a casa con questa sporca ciurma a bordo», gli disse Ned. «La carena avrebbe ceduto alla prima vera burrasca che avesse incontrato.» Con un'espressione di disgusto, Tom gettò il corpo scottato del verme nella laguna, dove un banco di pesciolini argentei fece spumeggiare l'acqua mentre lo divorava. I carpentieri e i loro assistenti avanzarono a guado nella laguna per unirsi nel lavoro di liberare lo scafo dai vermi, e continuarono finché la marea non cambiò e l'innalzarsi delle acque li costrinse a risalire sulla spiaggia. Dovettero lavorare per l'arco di altri cinque cicli di marea per raschiare dal fondo le alghe e le incrostazioni di cirripedi, poi per stanare le teredini e riempire i fori con pece e stoppa. Le tavole troppo marce e infestate per essere recuperabili furono asportate e sostituite con altre nuove di zecca. Il fondo, una volta ripulito e raschiato, fu ricoperto con uno spesso strato di pece, cui furono sovrapposti uno strato di pece mista a sego e altre due mani di pece, prima che Ned e Tom si dichiarassero soddisfatti. Alla prima alta marea che seguì, la Minotaur fu rimessa in acqua, per invertire la direzione in acque più profonde. Poi fu riportata nello stesso punto della spiaggia e si ripeté daccapo tutto il procedimento, ma stavolta mettendo allo scoperto il lato di dritta. Quando alla fine la riportarono all'ormeggio, nelle acque più profonde della laguna, i gabbieri salirono sugli alberi per scrosciare i pennoni, che furono anch'essi esaminati con attenzione, riparando ogni punto debole prima di incrociarli di nuovo. Quindi fu la volta delle vele e delle sartie, ispezionate una per una con scrupolo; le cime furono in gran parte sostituite con altre nuove della migliore qualità, attinte dalla riserva della Seraph. Le vecchie vele nere erano ridotte a brandelli, per lo più riparate con rudimentali toppe dagli uomini di al-Auf. «Le sostituiremo tutte», decise Tom, inviando Ned ad aprire gli stipi della Seraph. I velai si accovacciarono in fila sul ponte, lavorando per preparare vele nuove e adattare quelle della Seraph agli alberi e ai pennoni della Minotaur. I ponti inferiori erano nello stesso stato di degradazione dell'alberatura. La nave era infestata da vermi e ratti, e puzzava come un letamaio. Ned Wilbur Smith
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preparò una micidiale mistura di polvere da sparo, zolfo e vetriolo, ne riempì alcuni recipienti che distribuì nei ponti inferiori e vi diede fuoco. Non appena i recipienti cominciarono a sprigionare un fumo velenoso, gli uomini si affrettarono a risalire all'aria aperta, chiudendo tutti i portelli, in modo che il fumo penetrasse in ogni anfratto della nave, impregnando gli ambienti. Nel giro di pochi minuti i ratti cominciarono ad abbandonare la nave, contorcendosi per uscire dall'occhio della cubia e da ogni pertugio dei portelli per i cannoni; alcuni erano grossi come conigli e, mentre nuotavano freneticamente per raggiungere la spiaggia, i marinai si divertirono un mondo a fare il tiro al bersaglio con la pistola o il fucile, scommettendo sulla precisione della loro mira. Una volta sistemati lo scafo e l'alberatura, Tom dedicò la propria attenzione alla pitturazione, che era sbiadita e scrostata. Installando alcune impalcature mobili sulle murate, squadre di uomini la carteggiarono, prima di passare tre mani di bianco scintillante fino all'altezza della linea di galleggiamento. Spinto dallo zelo artistico, Tom ordinò loro di mettere in risalto i portelli dei cannoni con un vivace azzurro e di rinnovare a prua la doratura della figura mitologica con le corna e delle sculture della galleria di poppa. Dopo sei settimane di lavoro indefesso, la Minotaur assunse l'aspetto di una nave appena uscita dai cantieri: le sue linee pure ed eleganti potevano risaltare in tutta la loro perfezione. Guardandola dal letto in cui era confinato, attraverso le finestre della galleria di poppa, Hal Courteney si lasciò sfuggire un pallido sorriso di approvazione. «Perdio, è graziosa come una sposa il giorno delle nozze. Ben fatto, ragazzo mio. Le Hal aggiunto cinquemila sterline di valore.» Incoraggiato da quelle parole, Tom si azzardò a fargli la sua richiesta. Hal lo ascoltò in silenzio mentre chiedeva di poter avere per sé la Minotaur e un comando indipendente, poi scosse la testa. «Ho perso un figlio», rispose a bassa voce, «e non sono ancora pronto a perderne un altro, Tom.» «Ma, padre, ho fatto a Dorry un giuramento sacro.» Gli occhi di Hal furono oscurati dall'ombra di una sofferenza terribile, peggiore di quella che aveva subito sulla grata quando gli avevano amputato le gambe. «Lo so, Tom, lo so», rispose in un sussurro. «Ma la Minotaur non è mia, e non posso disporne. Appartiene alla John Company. Questo, comunque, non mi fermerebbe, se pensassi che è possibile aiutare Wilbur Smith
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tuo fratello. Ma non posso affidarti la nave e lasciarti andare incontro a un tremendo pericolo senza nemmeno un equipaggio completo.» Tom aprì la bocca per obiettare, ma Hal si sporse dal letto nel quale giaceva per posare la mano sul braccio del figlio. «Ascoltami, ragazzo.» Aveva la voce roca e la mano pallida e ossuta che teneva sul braccio di Tom pesava quanto l'ala di un uccellino. «Non posso lasciarti andare da solo. Questo al-Malik è un uomo potente, comanda eserciti e centinaia di navi. Da solo, non potresti spuntarla contro uno come lui.» «Padre...» lo interruppe di nuovo Tom, ma l'altro lo fermò. «Ascoltami sino in fondo, Tom. Dobbiamo concludere questo viaggio insieme. Ho un dovere nei confronti del re e degli uomini che hanno riposto in me la loro fiducia. Quando avremo compiuto questo dovere, ti farò entrare nell'ordine. Diventerai un cavaliere dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal, con tutto il potere che questo ti conferisce. Potrai contare sul sostegno dei confratelli cavalieri, uomini come Lord Childs e Lord Hyde.» «Ma ciò richiederà un anno», gridò Tom, assalito dalla sofferenza fisica di fronte a quella prospettiva. «No, anzi, forse ce ne vorranno due o tre.» «Non otterremo niente lanciandoci impreparati all'assalto di un nobile potente in un Paese remoto, un Paese che ci è estraneo e dove non abbiamo alleati né influenza.» «Anni!» ripeté Tom. «E che cosa ne sarà di Dorry, nel frattempo?» «Prima di allora mi sarò ripreso da queste ferite», riprese Hal, abbassando gli occhi sulle gambe mutilate. «E salperemo insieme per trovare Dorian, tu e io, con una flotta di navi belle e possenti, cariche di marinai abili e buoni combattenti. Credimi, Tom, è questa la migliore possibilità di salvezza per Dorian e per noi.» Tom fissò incredulo il padre. Da quando era rimasto ferito, Hal Courteney era diventato un vecchio fragile, con la barba d'argento e il corpo menomato. Credeva davvero di poter tornare un giorno a comandare un'altra squadra navale o a combattere un'altra battaglia? Era un sogno assurdo. Tom si sentì salire le lacrime agli occhi, ma le respinse. «Abbi fiducia in me, ragazzo mio», mormorò il padre. «Ti do la mia parola. Vuoi darmi la tua?» «Sì, padre.» Tom dovette fare appello a tutto il suo coraggio per pronunciare quel giuramento, ma non poteva negarlo a suo padre. «Ti do la mia parola.» Wilbur Smith
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«Grazie, Tom.» La mano scivolò dal braccio del giovane, e il mento di Hal ricadde sul petto. Chiuse gli occhi, col respiro così lieve da apparire quasi impercettibile, tanto che Tom, costernato, credette di averlo perduto. Poi vide il petto incavato del padre sollevarsi e abbassarsi leggermente. Alzandosi, si allontanò dal capezzale per raggiungere la porta in punta di piedi, senza disturbare il sonno del padre. Il monsone cessò di soffiare e rimasero intrappolati per mesi nel torpore della grande bonaccia che cade tra una stagione e l'altra. Poi le fronde delle palme ripresero a stormire e le nubi tornarono sui loro passi nei cieli, riprendendo la marcia nella direzione opposta. «Questi due venti possenti sono il grande prodigio di tutti gli oceani delle Indie», disse Alf Wilson a Tom, mentre erano seduti sul castello. Parlava in arabo, perché Hal insisteva ancora per fargli fare pratica di quella lingua ogni giorno, e Tom sapeva che gli sarebbe stata di grande aiuto nella ricerca del fratello. «Da novembre ad aprile il vento soffia da nord-est, e gli arabi lo chiamano kaskazi», continuò Alf. «Poi, da aprile a novembre, spira in direzione opposta, da sud-est, e gli arabi lo chiamano kusi.» Fu il kusi a riportare il comandante Anderson a Flor de la Mar, all'alba di un altro giorno sereno e spazzato dal vento. Mentre gli equipaggi delle altre navi della squadra si schieravano sui pennoni e lungo i parapetti per salutarla, Anderson guidò la Yeoman nel canale attraverso la barriera di corallo, gettando l'ancora a fianco della Seraph. La nave si era appena fermata, dondolandosi all'ormeggio, che già Tom inviava una lancia per far salire Anderson a bordo, a salutare il padre. Edward Anderson salì la scaletta con disinvoltura, chiaramente compiaciuto di sé e delle proprie imprese, ma le prime parole che pronunciò furono dedicate alla salute di Hal Courteney. «Mio padre si è ripreso molto bene dalle ferite», mentì spudoratamente Tom, «e vi sono molto grato della premura, comandante Anderson.» Condusse Anderson nell'alloggio di poppa. Aveva fatto in modo che le lenzuola fossero fresche di bucato e stirate: Hal aveva i capelli tagliati e pettinati dall'assistente del chirurgo, era appoggiato ai cuscini e aveva un aspetto più sano di quanto fosse in realtà. «Ringrazio Dio di vedervi in così buone condizioni, Sir Henry», disse Anderson nel salutarlo, accettando la sedia vicino alla cuccetta che Hal gli Wilbur Smith
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indicava. Tom servì a entrambi un bicchiere di madera. «Desiderate che vi lasci solo col comandante Anderson, padre?» domandò mentre porgeva a Hal il bicchiere con lo stelo ritorto. «Niente affatto», si affrettò a rispondere Hal, aggiungendo, a beneficio di Anderson: «Mio figlio ha preso il comando in mia vece, da quando sono indisposto». Tom lo fissò: era la prima volta che si accennava alla sua promozione. Anderson, invece, non pareva sorpreso. «Vi fa onore, Sir Henry.» «Ma ora basta parlare della nostra attività qui sull'isola», disse Hal, tentando di tirarsi più su nel letto; ma fu assalito da una fitta di dolore e dovette abbandonarsi di nuovo sui cuscini, con una smorfia. «Sono ansioso di sentire un rapporto sulle vostre imprese da quando ci siamo separati.» «Sono tutte notizie buone.» Anderson non era modesto né reticente. «Il viaggio fino a Ceylon si è svolto senza incidenti, con la perdita di una dozzina appena di prigionieri. Van Groote, il governatore olandese di Colombo, ci ha accolti cortesemente, mostrandosi ansioso di commerciare con noi. A quanto pare, la nostra scelta dei tempi è stata molto felice, dal momento che una recente epidemia di vaiolo nei recinti degli schiavi ne aveva ridotto drasticamente la popolazione dell'isola. Per fortuna, ero stato informato di questo infortunio prima di aprire i negoziati con lui, quindi ho potuto accordarmi su un prezzo molto soddisfacente.» «Quanto?» «Trentasette sterline a testa.» Anderson era molto soddisfatto di sé. «Vi faccio i miei complimenti, comandante Anderson.» Hal gli porse la mano per felicitarsi. «È molto più di quanto ci aspettassimo.» «Le buone notizie non finiscono qui», aggiunse Anderson ridacchiando. «L'epidemia di vaiolo e le scorrerie di al-Auf in queste acque hanno impedito a van Groote d'inviare in Europa gran parte del raccolto di cannella degli ultimi due anni. Aveva i magazzini pieni da scoppiare.» Anderson ammiccò. «Invece di accettare una tratta sulla banca della voc ad Amsterdam in pagamento degli schiavi, ho caricato la nave di balle di cannella a un prezzo molto vantaggioso. Non ho dubbi sul fatto che l'investimento risulterà raddoppiato, non appena torneremo a Londra.» «Devo complimentarmi ancora una volta con voi per il vostro acume e buonsenso.» Le notizie portate da Anderson avevano rallegrato visibilmente Hal. Tom non lo vedeva tanto entusiasta e vigoroso dal Wilbur Smith
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momento in cui era stato ferito. «Il vento è favorevole per la navigazione fino a Buona Speranza. Dovremmo salpare non appena sarete pronto a riprendere il mare con la Yeoman, comandante Anderson. Quando sarà possibile?» «Ho qualche caso di scorbuto tra l'equipaggio, ma prevedo che si riprenderanno presto, ora che siamo in porto. Devo solo riempire le botti dell'acqua potabile e fare un carico di noci di cocco. Sarò pronto a salpare entro questa settimana.» Quattro giorni dopo, la squadra levò l'ancora, bordeggiando in linea di fila per superare il passaggio nella barriera. Non appena raggiunto il mare aperto, spiegarono tutte le vele dirigendosi a sud, per passare attraverso il canale di Mozambico e puntare alla massima velocità verso l'estremità meridionale del continente africano. Nelle prime settimane di navigazione il tempo si mantenne propizio, con venti favorevoli. La salute di Hal reagì positivamente alla sensazione di ritrovarsi di nuovo in mare, in mezzo all'aria pura, cullato dal lieve rollio della Seraph. Trascorreva il tempo facendo esercitare ogni giorno Tom nei riti dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal, per prepararlo al suo ruolo di cavaliere, e si rallegrava dei progressi del figlio. Dopo la prima settimana, Tom ordinò di preparare un letto da giorno in coperta, sul lato ridossato del cassero, e ogni giorno fece trasportare il padre sul ponte, dove poteva sentire di nuovo il sole e il vento sul viso. Pur assumendosi in pieno la responsabilità per la manovra della nave, Tom cercava di riservarsi quotidianamente del tempo da dedicare al padre. Si sentiva più vicino a lui di quanto non fosse mai stato; spesso i loro discorsi tornavano su Dorian e sui progetti per trovarlo e liberarlo dalla prigionia. Discutevano anche di Guy e del suo matrimonio con Caroline Beatty: con grande stupore di Tom, il padre gli si rivolgeva come se fosse un uomo adulto. «Ti rendi conto, Tom, che il bambino potrebbe essere figlio tuo, e non di Guy?» «L'idea mi aveva sfiorato, per la verità.» Tom cercò di mascherare il proprio imbarazzo, e rispose con una franchezza pari a quella mostrata da suo padre nell'affrontare l'argomento. «Temo che tu ti sia fatto un nemico del tuo stesso fratello gemello. Sii molto prudente con Guy. Non perdona le offese, e ha una capacità inesauribile di odio.» Wilbur Smith
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«Dubito che c'incontreremo mai. Lui vive in India, e io... be', sarò all'altro capo dell'oceano.» «Il destino ci gioca strani scherzi, Tom, e l'oceano forse non è vasto quanto credi.» La squadra raggiunse il sud e, alla posizione di 43 gradi di latitudine sud, cambiò rotta per dirigersi a ovest, in modo da raggiungere l'approdo all'estremità del capo di Buona Speranza. Ben presto avvistarono la risacca che martellava le pareti di roccia della punta meridionale dell'Africa. Quel giorno stesso, Hal convocò Tom nel suo alloggio per mostrargli l'annotazione sul giornale di bordo che registrava la sua promozione. «Oltre a essere una dimostrazione della fiducia che nutro in te, Tom, questo significa che avrai diritto alla quota del bottino riservata agli ufficiali», gli spiegò il padre. «Potrebbe arrivare fino a mille sterline.» «Grazie, padre.» «Ci sono tante altre cose che vorrei fare per te, ma sfuggono ai miei poteri. William è il mio primogenito, e tu sai che cosa significa: tutto andrà a lui.» «Non devi preoccuparti per me. Posso farmi strada da solo.» «Di questo sono sicuro.» Hal gli strinse il braccio. Aveva riacquistato in parte le forze, da quando erano partiti da Flor de la Mar. Tom sentiva il vigore delle sue dita, e il sole gli aveva riportato il colore sulle guance. «Dev'essere perché abbiamo doppiato il Capo e ormai siamo diretti a nord, che i miei pensieri si volgono di nuovo verso High Weald. Non odiare il tuo fratello maggiore, Tom.» «Io non lo odio, padre. E' Black Billy che odia me.» «Quel dispregiativo tradisce i tuoi veri sentimenti per lui, ma, quando me ne sarò andato, sarà lui il capo della famiglia e avrà diritto al tuo rispetto e alla tua lealtà.» «Siete stato voi, padre, a insegnarmi che il rispetto e la lealtà si devono guadagnare, e non pretendere.» Gettarono l'ancora, tenendosi bene al largo del piccolo insediamento olandese sul capo di Buona Speranza, per fare rifornimento di acqua e viveri, soprattutto verdure fresche e carne, senza avere nessun contatto con l'amministrazione olandese a terra. Poi, entro la settimana, ripresero il mare dirigendosi a nord, ma, non appena la squadra entrò nelle acque dell'oceano Atlantico, il carattere del mare cambiò, e con esso la salute di Wilbur Smith
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Hal Courteney. I marosi del Capo marciavano su di loro come montagne d'acqua grigia separate da valli profonde, martellando le navi della squadra giorno e notte. Il mare s'increspava spumeggiando oltre la prua, spazzando via dal ponte tutte le tavole o gli attrezzi che non fossero rizzati più che saldamente. L'ululato del vento era la voce di quel branco di lupi e il suo assalto era spietato e senza posa. Hal riprese a indebolirsi, ogni giorno di più e, una mattina di burrasca, Tom, entrando nel suo alloggio, trovò il padre sudato e febbricitante. Arricciò il naso, sentendo l'odore dell'infezione e, quando scostò le coltri, scoprì sul lino bianco le macchie rivelatrici di pus giallo. Gridò all'uomo di guardia in coperta di chiamare il dottor Reynolds, che venne subito. Tolse le bende dalla gamba sinistra di Hal, col viso gentile corrugato per la costernazione. Il moncherino era spaventosamente gonfio; la ferita appena rimarginata si era riaperta. «Ho paura che ci sia un'infezione profonda nella ferita, Sir Henry», mormorò il dottore con una smorfia. «Questi umori non mi piacciono. Hanno in loro la corruzione della cancrena. Devo sondare subito la ferita.» Mentre Tom immobilizzava il padre tenendolo per le spalle, Reynolds inserì a fondo nella ferita la punta di un lungo bisturi, sordo ai lamenti di dolore e alle convulsioni che scuotevano il paziente. Quando la lama si ritrasse, fu seguita da un fiotto di pus e sangue fresco, che coprì il fondo del vaso che l'assistente del chirurgo teneva pronto sotto l'estremità del moncone. «Credo di avere drenato la fonte del male», osservò Reynolds, apparentemente soddisfatto. «Adesso vi farò un salasso per ridurre la febbre.» Rivolse un cenno al suo aiutante. Rimboccarono la manica della camicia da notte di Hal, stringendogli un laccio di cuoio intorno alla parte superiore del braccio e torcendolo; quando le vene all'interno del gomito spiccarono in rilievo, come cordicelle bluastre sulla pelle chiara, Reynolds si pulì sulla manica la lama del bisturi, ne saggiò il filo col polpastrello del pollice, e poi incise la vena gonfia, osservando il sangue rosso scuro che gocciolava nel vaso di peltro. «Una pinta dovrebbe bastare», mormorò. «Penso che ora abbiamo eliminato gli umori morbosi. Anche se non dovrei essere io a dirlo, non si è mai visto un lavoro così ben fatto, da questa parte di Land's End.» Nelle settimane successive, le forze di Hal subirono alti e bassi. Per giorni interi languiva inerte sulla cuccetta, apparentemente in fin di vita; Wilbur Smith
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poi si riprendeva con eccezionale energia. Quando superarono l'equatore, Tom poté farlo trasportare in coperta, per fargli godere del sole caldo, e Hal parlò con impazienza di casa, esprimendo la nostalgia per i campi verdi e le brughiere selvagge di High Weald. Accennò anche ai libri e ai documenti della biblioteca: «Tutti i giornali di bordo dei primi viaggi di tuo nonno sono lì. E posso lasciarli a te, Tom, perché sei tu il marinaio della famiglia, mentre per William avrebbero scarso interesse». Il pensiero di Sir Francis provocò in lui un altro cambiamento di umore. «Il corpo del nonno ci aspetterà a High Weald, giacché Anderson lo ha spedito da Bombay. Lo deporremo nel suo sarcofago nella cripta della cappella. Sarà lieto di essere di nuovo a casa, almeno quanto me.» A quell'idea, il suo viso assunse un'espressione mesta. «Tom, fa' in modo che abbia anch'io un posto nella cripta. Mi piacerebbe giacere in eterno accanto a mio padre e alle tre donne che ho amato. Tua madre...» S'interruppe, incapace di proseguire. «Quel giorno è ancora lontano, padre», gli assicurò Tom, con una punta di disperazione nella voce. «Abbiamo ancora una ricerca da compiere. Abbiamo pronunciato un giuramento comune. Dobbiamo cercare Dorian e voi dovete ridiventare sano e forte.» Hal fece uno sforzo per scrollarsi di dosso quella cappa di umore nero. «Ma certo, Hal ragione. Questo piangersi addosso non giova a nessuno.» «Ho incaricato i carpentieri di fabbricarvi un paio di gambe nuove, di buona e solida quercia inglese», gli disse Tom con vivacità. «Ve le faremo provare prima che rivediate High Weald.» Mandò a chiamare il capo dei carpentieri, un piccolo e tozzo gallese, che portò le due gambe di legno, ancora rudimentali, per farle vedere a Hal. Poi Tom e lui fecero le viste di prendere le misure per adattarle alle gambe di Hal. Lui mostrò un vivo interesse, ridendo con loro e facendo suggerimenti frivoli. «Non potremmo munirle di una bussola e di una banderuola segnavento per aiutarmi nella navigazione?» Ma, non appena il carpentiere si allontanò, ricadde nel suo umore tetro. «Non sarò mai troppo in gamba con quei pioli di legno. Temo che dovrai andare in cerca di Dorian da solo, Tom.» Alzò una mano per placare la vivace protesta del figlio. «Comunque manterrò la parola data. Avrai tutto l'aiuto che sarò in grado di darti.» Due settimane dopo, mentre la nave era bloccata dalla bonaccia ai Wilbur Smith
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margini del torpido mar dei Sargassi, a 30 gradi di latitudine est e 60 gradi di longitudine ovest, Tom scese nell'alloggio del padre, immerso in una calura umida, e trovò il genitore rannicchiato nella cuccetta. Aveva la pelle tesa sulle ossa del cranio, rigida e di un colore giallastro simile alla pergamena, come il viso della mummia egiziana che uno degli antenati di Tom aveva riportato a casa da un viaggio ad Alessandria e che adesso era esposta dentro la bara aperta, appoggiata a una parete in fondo alla biblioteca di High Weald. Tom mandò a chiamare il dottor Reynolds, lasciando il padre affidato alle sue cure; poi, incapace di sopportare oltre, salì a precipizio sul ponte, inspirando profonde boccate di aria calda. «Ma non finirà mai, questo viaggio?» si lamentò. «Se non arriviamo a casa presto, non rivedrà mai più High Weald. Oh, se un vento ci spingesse fino alla meta!» Correndo verso le sartie dell'albero di maestra, si arrampicò, senza fermarsi finché non arrivò alla coffa, e rimase sospeso lì, scrutando l'orizzonte a nord, indistinto e sfumato da una cortina di foschia. Poi estrasse il pugnale dal fodero che portava alla cintola, conficcandolo nel legno dell'albero, perché Aboli gli aveva insegnato che quello era il modo di chiamare il vento. Cominciò a fischiettare la melodia di Spanisi) Ladies, ma gli ricordava troppo Dorian, così passò a Greensleeves. Fischiettò per tutta la mattina, cercando di evocare il vento, e, prima che il sole raggiungesse lo zenit, guardò in direzione di poppa. La superficie del mare sembrava uno specchio levigato, interrotto soltanto dagli isolotti galleggianti di sargassi gialli. Poi vide la linea blu scuro del vento che correva verso di loro sulla superficie lucente. «Ponte!» gridò allora. «Linea di burrasca! Dritto di poppa.» Gli uomini del turno di guardia sul ponte si precipitarono alle sartie per bordare le vele, preparandole al vento in arrivo. E il vento investì tutt'e quattro le navi, portandole via con sé, la Seraph sempre all'avanguardia, seguita dalla Yeoman, dalla Minotaur e dalla Lam, più matronale che mai. Da quel momento in poi continuò a soffiare sempre da ovest, senza mai calare, neanche durante la notte. Tom lasciò il pugnale conficcato in cima all'albero di maestra. Avvistando terra al largo delle isole Scilly, accostarono la prima vela che vedevano da due mesi. Era una piccola barca da pesca, con tre uomini di equipaggio. «Che notizie ci sono?» gridò Tom. «Siamo lontani da tre anni.» «La guerra!» fu la pronta risposta. «Siamo in guerra con la Francia.» Wilbur Smith
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Tom convocò a bordo della Seraph Edward Anderson e l'altro comandante per tenere un consiglio di guerra. Sarebbe stato tragico concludere un viaggio tanto rischioso per poi cadere vittime di qualche corsaro autorizzato dal re di Francia proprio quando erano quasi in vista di casa. Hal era in uno dei suoi periodi migliori, abbastanza lucido per partecipare alla discussione, quindi Tom aveva organizzato la riunione nel suo alloggio, a poppa. «Abbiamo un'alternativa», disse loro. «Possiamo attraccare a Plymouth, oppure risalire la Manica fino all'estuario del Tamigi.» Anderson optava per Plymouth, ma Ned Tyler e Alf Wilson volevano puntare su Londra. Una volta che tutti ebbero espresso la loro opinione, si pronunciò Tom: «Una volta arrivati a Blackwall, potremmo scaricare direttamente nei magazzini della Compagnia, e il nostro bottino sarebbe messo all'asta entro pochi giorni». Rivolse lo sguardo al padre, in cerca d'incoraggiamento, e, dopo che Hal ebbe annuito, continuò: «Invece, se andiamo a Plymouth, potremmo restare imbottigliati Dio sa per quanto tempo. Io dico di forzare il blocco dei corsari francesi e puntare a doppiare North Foreland.» «Ha ragione Tom. Prima ci liberiamo del carico, meglio mi sentirò», sentenziò Hal. Misero all'erta gli equipaggi, caricando i cannoni e raddoppiando le vedette sulla coffa prima di risalire la Manica a vele spiegate. Per due volte, durante i giorni seguenti, avvistarono strane vele che non battevano alcuna bandiera, ma avevano l'aria di essere francesi. Tom alzò il segnale con le bandierine per serrare la formazione, e gli estranei virarono di bordo, allontanandosi per tornare a est, dove la costa francese s'intravedeva oltre l'orizzonte. Avvistarono il faro di North Foreland due ore prima dell'alba, e a mezzogiorno avevano giù superato Sheerness: nello splendore di quella lunga giornata estiva, tutt'e quattro le navi si ormeggiarono alle banchine della Compagnia, sul fiume. Ancor prima che fosse gettato lo scalandrone, Tom aveva gridato al rappresentante della Compagnia in attesa sul molo: «Fate sapere a Lord Childs che abbiamo conquistato un grande bottino. Deve venire subito». Due ore prima di mezzanotte la carrozza di Childs entrò con gran fracasso dal cancello del molo, preceduta da due lacchè al galoppo che facevano da apristrada, e con le lanterne accese ai lati. Il cocchiere tirò le Wilbur Smith
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redini all'estremità della banchina, e Childs scese, con tanta foga da rischiare di cadere, prima che le ruote si fossero fermate del tutto. Percorse incespicando la scala della Seraph, col viso arrossato, la parrucca di traverso e la bocca tremante per l'eccitazione. «Chi siete?» esclamò, fissando Tom senza capire. «Dov'è Sir Henry?» «Milord, io sono il figlio di Sir Henry, Thomas Courteney.» «E tuo padre dov'è, ragazzo mio?» «Vi aspetta di sotto, milord.» Childs si girò di scatto per indicare la Minotaur. «Che nave è, quella? Ha l'aspetto di un East Indiaman, però non la conosco.» «È la vecchia Minotaur, milord, sotto una mano di pittura fresca.» «La Minotaur!. L'avete ripresa ai pirati?» Childs non attese la risposta. «E l'altra nave, più indietro?» Indicava la Lam. «Quella che nave è?» «Un altro trofeo del bottino, milord. Un Dutchman con un carico intero di tè cinese.» «Gesù ti ama, ragazzo, visto che sei araldo di splendide notizie. Conducimi da tuo padre.» Hal era seduto sulla sedia del comandante, con un mantello di velluto rosso drappeggiato in grembo per nascondere le mutilazioni. Portava la parrucca lunga e una veste di velluto blu, con l'emblema dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal che splendeva sul petto. Pur avendo il viso di un pallore mortale e gli occhi infossati nelle orbite, si teneva eretto con fierezza. «Benvenuto a bordo, milord», disse, salutando Childs. «Vi prego di scusarmi se non mi alzo, ma sono un po' indisposto.» Childs gli strinse la mano. «Bentornato, Sir Henry. Sono ansioso di ascoltare il resoconto completo delle vostre imprese. Ho visto i due trofei ormeggiati alla banchina, e vostro figlio mi ha dato un'idea del carico che portate.» «Vi prego, accomodatevi.» Hal gli indicò la sedia accanto alla sua. «Il mio rapporto non richiederà molto tempo. Ho messo tutto per iscritto, tuttavia vorrei parlarvi un po' della nostra spedizione, da uomo a uomo. Ma prima beviamo un bicchiere di vino.» Accennò a Tom di riempire i bicchieri che erano già pronti su un vassoio d'argento. Childs prese posto sulla sedia, tutto proteso in avanti, ascoltando con attenzione il racconto di Hal. Ogni tanto faceva una domanda, ma per lo più stava a sentire, in un silenzio rapito, mentre Hal recitava a voce alta il Wilbur Smith
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manifesto di carico delle quattro navi della squadra. Quando infine tacque, sfinito dallo sforzo della lunga lettura, Childs si sporse per prendergli di mano i fogli di pergamena ed esaminarli con cura, lo sguardo luccicante di avidità. Alla fine alzò di nuovo gli occhi. «Da quando è scoppiata la guerra con la Francia, i prezzi sono quasi raddoppiati. Con le due navi che avete catturato, il valore delle merci che ci avete procurato potrebbe arrivare a cinquecentomila sterline. I direttori della Compagnia vi saranno più che riconoscenti, e penso di poter parlare a nome di sua maestà se dico che la corona riconoscerà i meriti della vostra grande impresa. Prima che la settimana finisca, sarete Henry Courteney, barone di Dartmoor.» Childs brindò a lui, levando il bicchiere. «Sapevo di avere scelto l'uomo giusto, quando vi ho mandato laggiù. Bevo alla vostra salute e alla vostra fortuna, Sir Henry.» «Grazie, milord. Sono felice che siate soddisfatto.» «Soddisfatto?» Childs scoppiò in una risata sonora. «Non esistono parole sufficienti per esprimere tutto il mio piacere, la mia ammirazione, il mio stupore per la vostra intraprendenza, il vostro coraggio.» Si protese per battere con la mano sul ginocchio di Hal, e sul suo viso si disegnò un'espressione di stupore, mentre abbassava gli occhi, cercando una gamba che non c'era. «Sir Henry, sono costernato... Buon Dio, le gambe! Avete perso le gambe!» Hal rispose con un sorriso fiacco. «Sì, milord, c'era un prezzo da pagare. I marinai lo chiamano il prezzo del beccaio.» «Dobbiamo portarvi via da questa nave. Sarete mio ospite a Bombay House finché non vi sarete rimesso in salute. Ho la carrozza sul ponte. Chiamerò i miei medici, i migliori che ci siano a Londra. Non vi mancherà nulla, ve lo prometto.» Una delle prime cose che Hal fece, non appena arrivato a Bombay House, fu scrivere a William per informarlo dell'incredibile ammontare del bottino che aveva conquistato e della sua imminente ascesa alla nobiltà. La lettera impiegò una settimana per arrivare nel Devon. Non appena l'ebbe ricevuta, William ordinò che gli sellassero il cavallo e, meno di un'ora dopo, usciva come una furia dal cancello di High Weald per imboccare al galoppo la strada maestra per Londra, viaggiando alla massima andatura che il cambio dei cavalli nelle stazioni di posta gli Wilbur Smith
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consentiva di mantenere. Cinque giorni dopo la partenza da High Weald, entrò nella tenuta di Bombay House verso la metà del pomeriggio, sotto un acquazzone spaventoso. Lasciò nelle scuderie il cavallo preso a nolo e, col mantello nero fradicio di pioggia e infangato fino alla cintola, entrò dalla porta principale, allontanando con un gesto sprezzante il maggiordomo e i valletti che tentavano di sbarrargli la strada. «Sono il figlio maggiore di Sir Henry Courteney. Desidero vedere subito mio padre.» Non appena sentì quel nome, uno dei segretari si affrettò a farsi avanti. Negli ultimi giorni, il nome dei Courteney era corso di bocca in bocca per tutta la città. Tutti i gazzettini riportavano pagine e pagine di stampa sulle straordinarie imprese di Sir Henry Courteney nell'oceano delle Indie. Alcuni di quei resoconti erano di pura fantasia, comunque il suo ritorno trionfale aveva offuscato persino la notizia della vittoria inglese a Namur, e il nome dei Courteney veniva sbandierato in tutte le mescite di gin e i luoghi di ritrovo alla moda che esistevano a Londra. Non c'era dubbio che Hal fosse l'uomo del giorno. Per aumentare ancor più l'eccitazione, i volantini distribuiti per le strade annunciavano l'imminente vendita all'asta del carico e del bottino nei locali della John Company, in Leadenhall Street, definendoli: «I più grandi tesori mai strappati a un nemico in alto mare!» Entro pochi giorni dall'arrivo della squadra di navi, le azioni della United Company of Merchants of England Trading to the East Indies perché tale era il nome completo e altisonante della John Company - erano aumentate di valore del quindici per cento. Negli ultimi cinque anni, la Compagnia aveva pagato un dividendo annuale del venticinque per cento, ma le anticipazioni sulla distribuzione di quell'immenso tesoro facevano salire il valore attuale delle azioni a livelli inauditi. «Grazie a Dio, siete arrivato, signore», esclamò il segretario, dando il benvenuto a William. «Vostro padre chiede di voi ogni giorno. Vi prego, lasciate che vi accompagni da lui.» Condusse William lungo la vasta scalinata ricurva in marmo, ma, quando arrivarono al pianerottolo del primo piano, William si fermò bruscamente sotto l'imponente ritratto del bisnonno di Lord Childs, opera di Holbein, per guardare i due uomini che gli venivano incontro scendendo le scale. Il suo volto severo si contrasse, mentre gli occhi scuri Wilbur Smith
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scintillavano nel fissare il più giovane dei due. «Ben trovato, fratello caro. A quanto pare le mie preghiere non sono state esaudite, visto che sei tornato a infastidirmi, tu e il tuo enorme selvaggio nero», commentò William, lanciando un'occhiata ad Aboli. Tom si fermò sul pianerottolo di fronte a lui. Era ormai più alto, sia pure di poco, rispetto al fratello maggiore, e lo squadrò con aria decisa, cominciando dagli stivali infangati per risalire fino al viso cupo e arcigno, prima di rivolgergli un sorriso gelido. «Sono profondamente commosso dal tuo affetto. Puoi stare tranquillo che è ricambiato in pari misura.» Pur senza darlo a vedere, William fu colto alla sprovvista dalla trasformazione che quegli anni di assenza avevano prodotto in Tom. Era diventato robusto, inflessibile e sicuro di sé: un uomo con cui fare i conti. «Senza dubbio avremo modo di continuare questa piacevole conversazione in un altro momento.» William chinò il capo in segno di congedo. «Adesso, però, devo adempiere al mio dovere di primogenito e assistere nostro padre.» Tom non raccolse la pungente allusione ai diritti legati alla primogenitura di William, per quanto ne fosse amareggiato. Facendosi da parte, accennò un lieve inchino. «Servo vostro, fratello.» William passò oltre senza neanche voltarsi, proseguendo verso la lunga galleria dei ritratti della residenza. Il segretario lo guidò sino in fondo al corridoio, bussando col bastone sulla porta a due battenti. La porta si aprì subito, e William entrò in una camera arredata in modo sontuoso ed elaborato. Quattro medici vestiti di nero erano riuniti attorno all'enorme letto a baldacchino, posto su una pedana rialzata. William intuì la loro professione dalle macchie di sangue ormai vecchio che spiccavano sulle vesti. Al suo avvicinarsi, il gruppetto si sciolse. Vedendo la figura adagiata sui cuscini, William si fermò di scatto. Ricordava l'uomo robusto e vigoroso che aveva visto salpare dal porto di Plymouth; quel vecchio fragile, con la barba argentea, la testa rasata e i lineamenti stravolti dalla sofferenza non poteva essere la stessa persona. «Ho pregato Dio che ti facesse arrivare», sussurrò Hal. «Vieni a darmi un bacio, William.» Il figlio riprese ad avanzare, affrettandosi verso il capezzale del padre, dove s'inginocchiò per baciarlo sulla gota pallida. «Ringrazio Dio per avervi risparmiato e per il fatto che vi vedo così ben ristabilito dalle ferite», gli disse William con un'espressione di gioia che Wilbur Smith
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mascherava bene i suoi veri sentimenti. Sta morendo, pensava infatti, con un misto di esultanza e di allarme. La tenuta è quasi mia, e lo è anche questo famoso tesoro che ha riportato dalle sue scorrerie. «Spero che stiate bene quanto il vostro aspetto lascia intendere», aggiunse, stringendo la mano fredda e sottile che era posata sul risvolto del copriletto di broccato. Perdio, rifletteva intanto, se il vecchio muore prima dell'investitura, il titolo di barone andrà perduto. Senza la fascia di nobile, anche il gusto di questa enorme fortuna che ha strappato dalle grinfie dei pagani sarà amaro. «Sei un figlio bello e amorevole, William, ma non devi ancora piangere per me. Persino a questi becchini...» - fece un cenno per indicare i quattro eminenti medici che circondavano il suo letto - «... persino a loro riuscirà difficile mandarmi al camposanto.» Tentò una risata, che tuttavia risuonò vuota nella stanza immensa e piena di echi; nessuno dei medici sorrise. «Il mio affetto per voi è accentuato dall'orgoglio che provo per la gloria che avete raggiunto. Quando occuperete il vostro seggio alla Camera dei Lord, padre?» «Nei prossimi giorni», rispose Hal. «E tu, come primogenito, sarai al mio fianco per vedermi ricevere questo onore.» «Sir Henry!» esclamò uno dei medici. «Non riteniamo saggio, da parte vostra, recarvi alla Camera dei Lord nel vostro attuale stato di salute. Siamo seriamente preoccupati...» William balzò in piedi, avventandosi sul medico prima che potesse finire di esprimere le sue perplessità. «Sciocchezze, amico. Chiunque può vedere che mio padre è abbastanza forte da onorare la convocazione del suo sovrano. Io sarò con lui in ogni istante e provvederò personalmente a ogni sua esigenza.» Cinque giorni dopo, i servitori trasportarono Hal giù per la scala su una portantina, mentre William era al suo fianco, tutto preso da un'ansiosa sollecitudine. La carrozza di Lord Childs era pronta davanti al portone e, alla luce delle torce, Tom e Aboli aspettavano, isolati dallo squadrone di cavalieri che avrebbe scortato la carrozza. I valletti deposero la lettiga vicino alla carrozza, e ci fu un momento di confusione in cui nessuno sembrava sapere che cosa si dovesse fare. Tom si fece avanti prontamente, scostando con una gomitata il fratello maggiore e, prima che i medici potessero intervenire, sollevò di peso il padre, senza Wilbur Smith
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sforzo, e salì in carrozza tenendo tra le braccia quel corpo devastato. «Padre, questo non è saggio. State abusando delle vostre forze...» gli sussurrò all'orecchio Poi lo sistemò sui cuscini della carrozza e lo coprì con un mantello di pelliccia. «Il re potrebbe tornare sul continente da un momento all'altro, per riprendere la guerra, e nessuno sa quando rientrerà in Inghilterra.» «Allora Aboli e io dovremmo venire con voi», implorò Tom. «Ma William ce lo ha proibito.» «William si prenderà cura di me», replicò Hal, stringendosi intorno alle spalle la soffice coperta di pelliccia. «Voi dovete restare con Walsh per proteggere i nostri interessi alla casa d'aste. Ho molta fiducia in te, Tom.» Il giovane capì che il vero motivo di quel rifiuto era che il padre voleva evitare uno scontro tra lui e il fratellastro. «Come desiderate, padre», mormorò docilmente. «Non appena avremo sistemato questa faccenda alla Camera dei Lord, e la vendita sarà stata completata, potremo tornare a High Weald e preparare i nostri piani per la liberazione di Dorian.» «E io sarò laggiù ad aspettarvi», gli promise Tom. Poi scese dalla carrozza, restando presso la ruota posteriore. William salì in carrozza, prendendo posto accanto al padre; il cocchiere sferzò i cavalli e la vettura uscì dal cancello. Tom si rivolse ad Aboli. «È un peccato che Black Billy lo trascini in giro su quella carretta spaccaossa. Non gli permetterò di fare lo stesso per il viaggio di ritorno a High Weald. Il lungo tragitto fino al Devon, su quelle strade sconnesse, lo ucciderebbe. Dobbiamo portarlo a Plymouth con la nave. Il mare sarà più clemente con lui, e noi due potremo assisterlo meglio.» «Tu non Hal più una nave, Klebe», gli rammentò Aboli. «La Seraph e la Minotaur appartengono alla John Company.» «Allora dobbiamo trovarne un'altra da prendere a nolo.» «Nel canale della Manica ci sono i corsari francesi.» «Ci occorre qualcosa di piccolo e maneggevole, abbastanza piccolo da non attirare il loro interesse, e abbastanza veloce da seminarli se decidessero di darci la caccia.» «Credo di conoscere qualcuno che possiede una barca del genere», mormorò Aboli, pensieroso. «A meno che le cose non siano cambiate durante la nostra assenza.»
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La vendita all'incanto nella splendida sede della Compagnia, in Leadenhall Street, durò quattro giorni. Tom restò seduto accanto al signor Walsh per tutta la durata della vendita, prendendo nota dei prezzi che venivano battuti per i vari articoli del bottino. La sala principale aveva la forma di un'arena per i combattimenti dei galli, con varie file di panche disposte su gradini sempre più alti rispetto allo spazio circolare interno, dov'era collocata la pedana del banditore. Le panche erano così affollate di mercanti, accompagnati dai loro segretari e contabili, che non c'era posto per tutti; molti di loro dovevano accontentarsi di restare in piedi, addossati alle pareti, ma intervenivano comunque all'asta con voce tonante, lanciando le offerte e sbandierando il catalogo per attirare l'attenzione del banditore. Mentre ascoltava i prezzi che salivano vertiginosamente, Tom pensava alle casse di monete immagazzinate nei sotterranei della sede della Compagnia. Le avevano trasportate fin lì la notte stessa in cui la squadra aveva ormeggiato al molo della John Company, guidando i carri sull'acciottolato delle strade buie, mentre una scorta di cinquanta uomini armati marciava intorno a loro per proteggerli. Era evidente che i prezzi previsti da Lord Childs sarebbero stati superati di gran lunga, nell'isterismo che circondava quella vendita. Ogni giorno, Tom vedeva la sua quota dei profitti aumentare di valore. «Buon Dio!» esclamò l'ultimo giorno, scarabocchiando i suoi calcoli sulla lavagnetta. «Con un po' di fortuna, mi porterò via più di mille sterline.» Era una somma pari a quello che un minatore o un bracciante di High Weald poteva guadagnare in tutta la vita. Rimase sbalordito da tanta ricchezza, almeno fin quando non pensò al valore della quota che sarebbe toccata al fratello. «Quasi centomila!» mormorò incredulo. «Insieme con la spada e la cintura di barone.» La bocca gli si seccò per la collera. «E tutto questo cadrà senza fatica tra le grinfie di Black Billy, che storce il naso ogni volta che mette piede su una nave.» Mentre rimuginava ancora sull'ingiustizia della situazione, il banditore annunciò con voce sonora l'articolo successivo che veniva messo all'incanto. «Milord, signore e signori, siamo lieti di avere il privilegio di offrire al vostro diletto un raro e straordinario trofeo, che sarà la gioia e la delizia anche dei più raffinati tra voi.» Con un gesto elaborato, sollevò il Wilbur Smith
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panno che copriva un grosso barattolo di vetro spesso e resistente che si trovava sul tavolo di fronte a lui. «Nientemeno che la testa in salamoia del famigerato e sanguinario brigante e pirata Jangiri, altrimenti detto al-Auf, 'il Cattivo'.» Le panche affollate di mercanti furono percorse da un fremito e da un brusio, mentre tutti allungavano il collo per sbirciare con morbosa curiosità la testa che fluttuava in un bagno di alcol. Tom avvertì una specie di scossa fisica, trovandosi di nuovo di fronte ad al-Auf: i capelli scuri fluttuavano intorno alla testa come alghe marine, mentre uno degli occhi, ancora aperto, sembrava fissare proprio Tom, con un certo stupore. Sulle labbra aveva un sorriso sofferente, come se potesse ancora sentire il sibilo della lama che gli aveva spiccato la testa dal tronco. «Suvvia, signori!» intonò suadente la voce del banditore. «Questo è un articolo di valore. Molte persone in tutto il Paese sarebbero liete di pagare sei penny per avere la possibilità di dare una sbirciatina. Sbaglio, oppure ho sentito offrire cinque sterline?» A poco a poco, Tom si sentì sopraffare dall'indignazione. Aveva preso quella testa per dimostrare ai direttori della John Company il successo della loro spedizione, non perché diventasse una bizzarra attrazione in qualche circo viaggiante. L'istinto, unito all'addestramento che aveva ricevuto, gli aveva instillato la compassione e il rispetto per il nemico sconfitto. Il fatto che al-Auf avesse catturato e venduto come schiavo Dorian non incideva su questo. Senza riflettere oltre, gridò, furioso: «Dieci sterline!» Non aveva a disposizione quella somma, però c'era la quota del bottino che gli era dovuta. Intorno a lui, i presenti si voltarono, scrutandolo incuriositi. Li sentì bisbigliare. «È il figlio di Hal Courteney! Quello che ha tagliato la testa.» «È lui, quello che ha decapitato al-Auf.» «Come si chiama?» «Tom Courteney. È il figlio di Sir Hal.» Il banditore gli rivolse un inchino teatrale. «L'audace schermidore, il giustiziere in persona, offre dieci sterline. C'è qualcuno che offre di più?» Qualcuno nella prima fila di panche cominciò ad applaudire, e fu imitato subito da coloro che gli stavano intorno; lentamente l'applauso divenne un rombo, mentre tutti cominciavano a battere le mani e a pestare i piedi sul pavimento. Wilbur Smith
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Tom avrebbe voluto gridar loro di smettere. Voleva dire che non aveva ucciso quell'uomo per avere la loro approvazione, ma non c'erano parole per descrivere ciò che aveva provato quando aveva decapitato al-Auf e ciò che provava in quel momento, guardando la testa fluttuare in un barattolo, offerta in vendita per lo spasso di contadini ingenui che l'avrebbero fissata a bocca aperta. «Dieci sterline e uno! Dieci sterline e due! Aggiudicata al signor Tom Courteney per la somma di dieci sterline!» «Deduceteli dalla mia quota», ordinò Tom a Walsh, in tono secco, prima di alzarsi di scatto. Aveva voglia di respirare una boccata d'aria fresca, lontano dagli sguardi e dai sorrisi di quella folla di sconosciuti. Si fece largo a spallate per uscire dalla sala, scendendo di corsa la grande scalinata. Quando uscì in Leadenhall Street, pioveva, quindi si strinse il mantello intorno alle spalle, calcandosi in testa il cappello a tesa larga con le piume e controllando la cintura della spada prima di avventurarsi fuori del portico. Sentendosi sfiorare una spalla, si girò di scatto. Era tanto assorto che non aveva visto Aboli tra la folla degli sfaccendati che si aggirava intorno all'ingresso della sala d'aste. «Ho trovato il nostro uomo, Klebe.» Aboli sospinse avanti un tipo alto e snello, avvolto in un mantello da marinaio, col viso seminascosto dal berretto di lana che portava tirato fin sugli occhi. Per un attimo, Tom non fu certo di capire a che cosa si stava riferendo Aboli. «L'uomo per trasportare tuo padre a Plymouth via mare, anziché lungo le strade», gli rammentò l'altro. «Allora beviamo tutti insieme un boccale di birra, mentre ne discutiamo», propose Tom, e corsero sotto la pioggia fino alla taverna all'angolo di Cornhill. Nella sala soffocante, gremita di avvocati e scrivani, impregnata del fumo di pipa e dell'odore di lievito dei barili di birra, si liberarono di mantelli e cappelli, dopodiché Tom si voltò per guardare bene in faccia l'uomo che Aboli gli aveva portato. «Questo è il comandante Luke Jervis», spiegò Aboli, «che ha navigato con tuo padre e me sulla vecchia Pegasus.» A Tom piacque subito. Aveva uno sguardo acuto e intelligente e l'aspetto di un autentico marinaio, con la pelle abbronzata e segnata dal sole e dalla salsedine. «Luke è un tipo che ama andare veloce e conosce la Manica palmo a Wilbur Smith
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palmo, specialmente i porti francesi, come le sue tasche.» Aboli si lasciò sfuggire un sorrisetto. «Può seminare qualunque ispettore del dazio o ranocchio francese.» Lì per lì, Tom non afferrò quello che voleva dire, ma poi Aboli aggiunse: «Se è un carico di buon cognac del Limosino quello che vai cercando, Luke è l'uomo che fa per te». Tom sogghignò, rendendosi conto che Luke era un contrabbandiere. In tal caso, era l'ideale per fare un rapido viaggio lungo la Manica. La sua barca doveva essere veloce come un furetto e lui di certo era capace di navigare su quelle acque pericolose in una notte senza luna e col vento di burrasca. Gli strinse la mano. «Aboli vi ha spiegato che cosa vogliamo. Quale sarebbe il prezzo del noleggio, comandante?» «Devo a Sir Henry la vita e anche di più», rispose schiettamente Luke Jervis, sfiorando con la mano la lunga cicatrice bianca che gli correva lungo la guancia sinistra. «Non gli farei mai pagare neanche un soldo bucato. Sarei fiero, piuttosto, di potergli rendere un servigio.» Tom non chiese spiegazioni sulla cicatrice, ma accettò, ringraziandolo con un cenno. «Aboli vi farà sapere quando Sir Hal sarà pronto a lasciare Londra.» Lord Courteney tornò dalla sua prima visita alla Camera dei Lord e Tom comprese subito quanto il viaggio e la cerimonia lo avessero sfinito. Prendendolo tra le braccia con tenerezza, lo portò su per le scale fino alla camera di Bombay House, dove Hal si addormentò all'istante. Il figlio rimase accanto al suo letto fino a sera, quando un valletto portò il vassoio con la cena. «Dov'è William?» chiese Hal con un filo di voce, mentre Tom lo imboccava per fargli prendere qualche cucchiaio di minestra. «È in banca, col signor Samuels. Lord Childs gli ha consegnato la nota della Compagnia per la quota del bottino, e lui è andato a depositarla da Samuels», gli spiegò Tom. Quello che non disse era con quanta rapidità fossero diminuite le premure di William per il padre, ora che il titolo di barone e il suo carattere ereditario erano garantiti. Adesso il suo primo pensiero era vedere l'oro al sicuro nella banca sullo Strand, dove sarebbe rimasto sotto il suo controllo. «Ora dovete riposare, padre, e rimettervi in forze per il ritorno a casa. Ormai i nostri affari qui a Londra sono quasi sistemati. Prima riusciremo a riportarvi a High Weald, prima riacquisterete la salute.» Wilbur Smith
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«Sì, Tom.» Hal mostrò un'improvvisa animazione. «Voglio tornare a casa. Lo sai che William e Alice mi hanno dato un nipotino? Lo hanno chiamato Francis, come mio padre.» «Sì, padre, William me lo ha detto.» E aveva messo bene in chiaro che ormai, con un erede maschio, l'eredità del titolo e della proprietà sarebbe rimasta fuori della portata di Tom per sempre. «Ho noleggiato un'imbarcazione veloce per portarvi a Plymouth. Il comandante è Luke Jervis, ve lo ricordate? Dice che gli avete salvato la vita.» Hal sorrise. «Luke? Era un ragazzo in gamba, un buon diavolo. Sono felice di sentire che adesso ha una nave tutta sua.» «È solo un piccolo cutter, ma è veloce.» «Mi piacerebbe fare subito quel viaggio, Tom.» Hal gli serrò forte il braccio, con un'espressione ansiosa. «Dovremmo aspettare che i medici diano il loro parere.» Trascorse un'altra settimana prima che i quattro chirurghi permettessero, a malincuore, il trasferimento di Hal a bordo della Raven, la nave di Luke Jervis. Salparono dal molo della Compagnia nel tardo pomeriggio: in tal modo, la maggior parte del viaggio si sarebbe svolta col favore della notte. William non era con loro. Adesso che il ricavato dell'asta era al sicuro, depositato presso la Samuels Bank, sullo Strand, si era mostrato impaziente di tornare a occuparsi della gestione della proprietà. «Ogni ora che passo lontano ci costa cara. Non ho la minima fiducia in quei furfanti e imbecilli ai quali ho dovuto affidare la responsabilità della tenuta in mia assenza. Partirò subito per Plymouth, e verrò incontro alla nave quando arriverete, padre.» La Raven si rivelò all'altezza della sua fama. Mentre filavano verso sud, nella notte, Tom rimase accanto a Luke Jervis, al timone. Luke voleva sapere tutti i dettagli del viaggio nelle Indie, e interrogò Tom con avidità. «Oh, buon Gesù, se solo lo avessi saputo! Avrei firmato il contratto col comandante Hal in men che non si dica.» «E vostra moglie con i bambini?» domandò sorridendo Aboli, scoprendo nell'oscurità un bagliore di denti candidi. «Se non sentirò mai più un moccioso strillare o una massaia rimproverarlo, questo non mi spezzerà certo il cuore.» Luke tirò una boccata dalla pipa, e il riverbero gli illuminò il viso, rude ma attraente. Poi Wilbur Smith
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si tolse di bocca il cannello, usandolo per indicare un punto a oriente. «Vedete quelle luci laggiù? È Calais. Ci sono stato tre notti or sono, per prendere a bordo un carico di brandy e tabacco. È tutto un viavai di navi, come le pulci su un cane rognoso.» Si lasciò sfuggire un sorriso da lupo, alla luce delle stelle. «Se un uomo avesse una lettera di marca, non ci sarebbe bisogno di andare fino in Oriente per trovare un bel bottino.» «Non vi rimorde la coscienza a commerciare con i francesi mentre siamo in guerra con loro?» gli domandò Tom, perplesso. «Qualcuno deve pur farlo», rispose Luke. «Altrimenti non ci sarebbe più brandy né tabacco per dare un po' di conforto ai nostri ragazzi che combattono. Sono un patriota, io.» Lo disse con serietà, e Tom non insistette, ma si mise a riflettere su quello che gli aveva detto a proposito delle navi francesi che affollavano i porti della Manica. Quando la Raven gettò gli ormeggi nel porto di Plymouth, William si mostrò di parola. Aveva portato sul molo una grande carrozza ben molleggiata, con i domestici pronti a trasferire Hal a bordo. Si misero in viaggio per High Weald senza forzare l'andatura e, lungo il percorso, superarono piccoli gruppi di uomini e donne, operai, minatori e braccianti della proprietà che si erano disposti lungo la strada per salutare il ritorno a casa di sua signoria. Hal insistette per stare seduto, in modo che potessero vederlo e, se riconosceva il volto di qualcuno, faceva fermare il cocchiere per potergli stringere la mano attraverso il finestrino della carrozza. Una volta superato il cancello e percorso il viale di ghiaia che portava alla casa padronale, trovarono tutti i servitori schierati sui gradini dell'ingresso. Alcune tra le donne piansero nel vedere com'era ridotto Hal, quando i valletti lo portarono di peso su per la scalinata di pietra, seduto su una sedia, mentre gli uomini lo salutavano con voce roca. «Che Gesù vi protegga, milord. Ci fa bene al cuore sapervi di nuovo a casa.» Alice Courteney, la moglie di William, li aspettava in cima ai gradini. Teneva in braccio il bambino, una creaturina col visetto rosso e grinzoso, e lo porse a Hal. Il piccolo cominciò a strillare in modo irrefrenabile, ma lui sorrise orgoglioso e lo baciò sulla sommità della testa, coperta da un gran ciuffo di capelli neri. Sembra una scimmietta, pensò Tom. Poi guardò con più attenzione il viso di Alice. Sebbene non avesse avuto modo di conoscerla quando aveva sposato William, aveva provato per lei una simpatia istintiva; era graziosa Wilbur Smith
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e allegra... o, meglio, lo era stata. Adesso sembrava irriconoscibile. Intorno a lei aleggiava un'aria di malinconia, aveva gli occhi mesti e, anche se la pelle era ancora perfetta e levigata come quella di una pesca, sembrava quasi logorata dall'ansia. Una volta che Hal fu trasportato all'interno, lei si trattenne sull'ultimo scalino per salutare Tom. «Bentornato a casa, fratello», gli disse, baciandolo sulla guancia e facendogli una riverenza. «Avete uno splendido bambino.» Tom sfiorò con goffaggine il visetto rosso, ritirando di scatto le dita quando il piccolo riprese a strillare. «Bello come sua madre», concluse imbarazzato. «Grazie, Tom.» Gli sorrise, poi abbassò la voce per evitare che qualcuno dei domestici potesse sentirla. «Devo parlarvi. Non qui, ma alla prima occasione.» Poi gli voltò le spalle in tutta fretta, affidando il bambino a una balia, mentre Tom seguiva il padre su per le scale. Non appena fu libero, tornò indietro lungo il corridoio per scendere dalle scale di servizio, ma, così facendo, fu costretto a passare davanti alla camera di Dorian. Aprì la porta e rimase sulla soglia, assalito da una fitta di nostalgia nel rivedere quella piccola stanza, dove tutto era rimasto come il fratellino lo aveva lasciato. C'erano le schiere di soldatini di piombo con le graziose uniformi dipinte, allineati sul davanzale della finestra, e sopra il letto era appeso l'aquilone che gli aveva costruito lui. Quei ricordi erano troppo penosi, e Tom chiuse la porta senza rumore per scendere le scale. Sgattaiolando attraverso la cucina e le scuderie, risalì di corsa la collina in direzione della cappella. La cripta era buia e fresca, rischiarata solo da un sottile raggio di sole che penetrava dall'apertura al centro della volta a cupola. Notò con sollievo che la cassa contenente il corpo del nonno era appoggiata contro la parete in fondo, accanto al sarcofago di pietra che aspettava da tanto tempo di accoglierlo. Era arrivata intatta, dopo il lungo viaggio da Bombay e prima ancora dal capo di Buona Speranza. Tom si avvicinò alla bara, appoggiando la mano sul coperchio e mormorando: «Benvenuto a casa, nonno. Starete meglio qui che in quella caverna, in quel Paese lontano e selvaggio». Poi passò accanto alla fila di tombe di pietra per raggiungere quella al centro. Fermandosi davanti al sarcofago, lesse l'iscrizione: ELIZABETH COURTENEY, MOGLIE DI HENRY E MADRE DI DORIAN. Wilbur Smith
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RAPITA DAL MARE PRIMA DI SBOCCIARE APPIENO. RIPOSI IN PACE. «Oggi Dorian non c'è, ma presto verrà», le disse a voce alta. «Lo giuro.» Raggiunta la tomba della madre, si chinò a baciare le gelide labbra di marmo della sua effigie, prima d'inginocchiarsi. «Sono tornato a casa sano e salvo, madre, e Guy sta bene. È in India, adesso, e lavora per la John Company. È sposato. Caroline ti piacerebbe, è una ragazza graziosa, con una bella voce.» Le parlava come se fosse viva e potesse ascoltarlo, restando accanto al sarcofago finché il raggio di sole sulle pareti di pietra non ebbe descritto un cerchio completo. Allora uscì dalla cripta nella semioscurità, trovando a tentoni la strada per risalire all'aperto, nel crepuscolo. Si fermò a contemplare il panorama che ricordava così bene, ma che adesso gli appariva così estraneo. Oltre le colline ondulate, vide il mare in lontananza, che sembrava invitarlo, al di là dello scintillio di luci che contrassegnava il porto. Gli pareva di essere rimasto lontano una vita, ma non era contento, anzi provava un senso d'irrequietezza; si sentiva struggere dal desiderio di riprendere il viaggio. L'Africa era laggiù ed era là che il suo cuore anelava a trovarsi. «Mi domando se sarò mai felice, in un posto qualsiasi», mormorò, cominciando a scendere la collina. Quando giunse ai piedi del pendio, la casa era soltanto una sagoma scura, incerta nella foschia serale che si addensava sui prati. Tom si fermò di colpo ai piedi del muro di cinta, scorgendo una figura sotto l'ampia chioma di una delle antiche querce che sorgevano, imponenti, in mezzo ai prati. Era una figura femminile, tutta vestita di bianco, e Tom provò una fitta di timore superstizioso, perché quella figura aveva un aspetto etereo e spettrale. Si raccontavano molte leggende sui fantasmi che infestavano High Weald; quando era piccolo, la bambinaia lo aveva spaventato, raccontando quelle storie. «Non mi farò certo mettere in fuga da uno spettro», mormorò e, facendosi coraggio, si avvicinò alla ragazza in bianco, che diede l'impressione d'ignorarlo finché non l'ebbe quasi raggiunta; allora alzò la testa con un sussulto, pallida e spaventata, e lui vide che era la cognata, Alice. Nell'attimo in cui lo riconobbe, lei sollevò le gonne e fuggì in direzione della casa. Wilbur Smith
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«Alice!» la chiamò Tom, rincorrendola, ma lei, anziché voltarsi, accelerò la corsa. Tom la raggiunse solo sul viale inghiaiato, ai piedi della facciata della casa, e l'afferrò per il polso per trattenerla. «Alice, sono io, Tom. Non allarmatevi.» «Lasciatemi andare», rispose lei in tono terrorizzato, alzando gli occhi verso le finestre della casa, già illuminate dalla luce gialla e gioiosa delle candele. «Non volevate parlarmi?» le rammentò. «Che cosa volevate dirmi?» «Non qui, Tom. Ci vedrà insieme.» «Billy?» Tom era perplesso. «E che cosa mai può fare?» «Voi non capite. Dovete lasciarmi andare.» «Io non ho paura di Black Billy», ribatté lui, con giovanile arroganza. «Dovreste averne», replicò lei, liberando di scatto la mano e salendo le scale per rientrare di corsa in casa. Tom la seguì con lo sguardo, fermo in mezzo al viale con le mani sui fianchi. Stava per voltarsi, ma la sua attenzione fu attirata da qualcosa. Il fratello maggiore era fermo presso una delle finestre alte della camera, al secondo piano della casa. Aveva la luce alle spalle, quindi non era che una silhouette snella ed elegante. Per un po', nessuno dei due si mosse, poi Tom accennò un gesto spazientito e seguì Alice in casa, salendo i gradini dell'ingresso. Tom era nella sua stanza quando udì un lieve rumore che appariva stonato anche in quella vecchia casa tutta cigolii di travi e tetti spazzati dal vento. Rimase immobile, col colletto annodato a metà, piegando la testa di lato per sentire meglio. Pochi istanti dopo, il suono si ripeté; sembrava un coniglio in trappola, un lamento acuto e angosciato. Si diresse verso la finestra per aprirla e, quando spalancò le imposte, la stanza fu invasa dalla brezza notturna che soffiava dal mare, e i lamenti divennero più forti. Allora capì che erano grida umane: si trattava di un pianto di donna, intervallato dal tono più profondo di una voce maschile. Sporgendosi dalla finestra, Tom comprese che i suoni provenivano dal piano inferiore, dov'era situato l'appartamento padronale. Le voci tacquero bruscamente. Stava per richiudere la finestra, allorché sentì un colpo. Doveva essere assai violento per arrivare fino a lui così nitido. Il cuore di Tom mancò un battito quando la donna gridò di nuovo. Stavolta era un grido di dolore così acuto e nitido che era impossibile non capire chi fosse stato a lasciarselo sfuggire. Wilbur Smith
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«Quel porco!» proruppe Tom, lanciandosi verso la porta. In maniche di camicia, col colletto slacciato e i due capi che gli pendevano sul petto, corse lungo il corridoio fino alla scala principale e la discese a balzi, facendo tre gradini alla volta. Raggiunta la stanza del padre, esitò. La porta a due battenti era aperta e le cortine del letto a baldacchino all'altro capo della stanza erano scostate. Scorse il padre che giaceva sotto le coltri ricamate. Era appoggiato ai cuscini e chiamò con insistenza Tom, vedendolo passare davanti alla porta aperta. «No, Tom. Vieni qui!» Tom ignorò quel richiamo, proseguendo di corsa fino alla porta dell'appartamento di William, che si trovava più avanti lungo il corridoio. Tentò la maniglia, ma era chiusa, e allora tempestò di colpi il battente con i pugni chiusi. «Apri, Billy, dannazione a te!» ruggì. Dalla parte opposta ci fu un lungo silenzio. Tom si era appena riempito d'aria i polmoni per gridare di nuovo, quando il battente si aprì silenziosamente e William si stagliò sulla soglia, bloccando l'apertura in modo che Tom non potesse vedere l'interno. «Che cosa vuoi?» gli chiese William. «Come osi venire a fare chiasso qui, alla porta del mio appartamento privato?» Anche William era in maniche di camicia, ma aveva il volto soffuso di un cupo rossore, frutto della collera o di uno sforzo fisico, e gli occhi che ardevano. «Fila via, cucciolo impertinente», sibilò. «Voglio parlare con Alice.» Tom tenne duro, con ostinazione. «Le Hal già parlato una volta, per questa sera. Alice è occupata. Adesso non puoi vederla.» «Ho sentito qualcuno gridare.» «Non era qui. Forse Hal sentito un gabbiano, oppure il vento sulle grondaie.» «Hal del sangue sulla camicia.» Tom indicò le macchioline scarlatte sulla manica bianca del fratello, e William abbassò gli occhi, con un sorriso gelido sul viso furioso; poi sollevò la mano destra, che teneva dietro la schiena, succhiandosi il taglio che aveva sulla nocca gonfia. «Sono rimasto con la mano incastrata nella porta dell'armadio.» «Devo vedere Alice.» Tom fece per spingerlo da una parte, ma la voce di Alice si levò dall'interno della stanza: «Tom, andate via, vi prego. Ora non posso Wilbur Smith
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ricevervi». Aveva la voce incrinata dal pianto. «Vi prego, Tom, date ascolto a mio marito. Non potete entrare qui.» «Ora mi credi?» chiese William in tono sprezzante. «Alice non vuole parlarti.» Facendo un passo indietro, richiuse la porta. Tom rimase lì davanti, immobile, indeciso. Alzò la mano per bussare di nuovo, ma la voce del padre lo fermò. Hal lo chiamava di nuovo. «Tom, vieni qui. Ho bisogno di te.» Tom si allontanò dalla porta, per avvicinarsi al letto a baldacchino. «Padre, ho sentito...» «Non Hal sentito niente, Tom. Niente.» «Invece sì.» La voce del giovane era tesa per l'indignazione. «Chiudi la porta. Devo dirti una cosa.» Tom obbedì, prima di tornare verso il letto. «C'è una cosa che devi ricordare per tutta la vita, figlio mio. Mai immischiarsi nelle faccende di una moglie e di un marito. Alice appartiene a William, lui può farne quello che vuole e, se cerchi di metterti in mezzo, avrà tutti i diritti di ucciderti. Tu non Hal sentito niente.» Quando scese a cena, Tom ribolliva ancora di collera. C'erano tre posti apparecchiati al lungo tavolo di legno lucido, e William era già a capotavola. «Sei in ritardo, Tom», gli disse sorridendo, rilassato e attraente, con una pesante catena d'oro al collo e uno splendido pendente di rubini sul petto. «Qui a High Weald ci sediamo a tavola alle otto, quindi, per favore, cerca di adeguarti alle consuetudini della casa, finché sarai ospite qui.» «High Weald è casa mia», ribatté gelido Tom. «Non sono un ospite.» «Su questo ci sarebbe da discutere... Io sono di tutt'altro avviso.» «Alice dov'è?» Tom guardò con intenzione verso il posto vuoto alla sinistra di William. «Mia moglie non si sente troppo bene», rispose l'altro con disinvoltura. «Stasera non ci farà compagnia. Prego, siediti.» «È strano, però mi rendo conto di non avere più appetito. C'è qualcosa, in questo ambiente, che me lo ha fatto passare. Non cenerò con te, stasera.» «Come desideri», rispose William, con una scrollata di spalle, tornando a dedicare la sua attenzione al bicchiere che il maggiordomo gli stava riempiendo di vino rosso. In quello stato d'animo, Tom non se la sentiva di trascorrere la notte Wilbur Smith
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nella stessa casa in cui si trovava il fratello. Gettandosi addosso un mantello, si precipitò nelle scuderie, dove chiamò gli stallieri, che scesero di corsa dal loro alloggio per sellargli un cavallo. Percorse il primo miglio al galoppo, drizzandosi sulle staffe per spingere al massimo la bestia nell'oscurità; l'aria fresca della notte fece sbollire almeno in parte la sua rabbia, e allora ebbe pietà del cavallo e lo lasciò passare al trotto, imboccando la strada per Plymouth. Trovò Aboli insieme con Luke Jervis nella taverna del Royal Oak, vicino al porto. Lo accolsero con sincero piacere e Tom bevve la prima pinta di birra senza staccare le labbra dal boccale e senza riprendere fiato. A un certo punto della serata, salì le scale sul retro fino a una stanzetta che si affacciava sul porto, in compagnia di una ragazza graziosa e allegra, che lo aiutò quando perse l'equilibrio e lo sostenne quando rischiò di rotolare per le scale. Il corpo nudo della ragazza era candido alla luce della lampada, e il suo abbraccio caldo e accogliente. Gli soffiò una risatina nell'orecchio, stringendosi a lui, e Tom diede sfogo alla sua ira su di lei. Alla fine, la ragazza respinse ridacchiando la moneta che le offriva. «Dovrei essere io a pagarvi, signor Tom.» Quasi tutti, in città, lo conoscevano da quando era bambino. «Che bel ragazzo siete diventato! Erano molti mesi che non mi sentivo rimescolare tutta.» Quella stessa sera, Aboli gli impedì di accettare la sfida a duello di un altro marinaio alticcio, trascinandolo fuori della taverna e aiutandolo a risalire in sella, dopodiché lo riportò a High Weald, mentre intonava canzonacce sguaiate. La mattina dopo, di buon'ora, Tom risalì a cavallo verso la brughiera, con una delle sacche della sella rigonfia. Al bivio della strada, lo aspettava Aboli, una figura scura ed esotica nella fitta nebbia, che girò il cavallo per affiancarlo a quello di Tom. «Penso che i bravi cittadini di Plymouth avrebbero preferito un attacco dei francesi, piuttosto che la tua ultima visita.» Lanciò un'occhiata in tralice a Tom. «Non risenti ancora delle scorrerie di ieri sera, Klebe?» «Ho dormito da quel bambino innocente che sono, Aboli. Di che cosa dovrei risentire?» Il ragazzo tentò di sorridere, ma aveva gli occhi iniettati di sangue. «Della follia della gioventù», commentò Aboli, scrollando la testa e Wilbur Smith
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fingendosi costernato. Con un sorriso, Tom spronò la sua cavalcatura, spingendola a saltare la siepe. Aboli lo seguì e insieme cavalcarono oltre il ciglio della collina, fino a un bosco di alberi cupi, annidato in una piega del terreno. Tom tirò le redini, legò il cavallo a uno dei rami, poi entrò nel campo di antichissime pietre che sorgeva in mezzo al bosco; erano pietre che, nel tempo, si erano coperte di muschio. La leggenda diceva che contrassegnavano le sepolture degli antichi abitanti del luogo, inumati lì all'alba della storia. Scelse il punto propizio, lasciandosi guidare dai piedi, e non dalla testa. Infine piantò i talloni nel suolo erboso e umido. «Qui!» Aboli approvò con un cenno, facendosi avanti con la vanga in mano. Affondò la pala nel terreno soffice, cominciando a scavare, poi, quando si fermò a riprendere fiato, Tom gli diede il cambio e smise soltanto allorché la buca fu tanto profonda da arrivargli alla vita. Uscì, tornando verso il punto in cui aveva lasciato il cavallo, slacciò la fibbia della sacca e ne estrasse con precauzione un oggetto voluminoso, avvolto in un panno. Ritornando indietro, lo posò sull'orlo della buca che avevano scavato, svolse il panno che circondava il barattolo e attraverso il vetro vide al-Auf che lo fissava con un solo occhio sardonico, nella luce ancora fioca dell'alba. «Vuoi recitare la preghiera per i defunti, Aboli? Il tuo arabo è migliore del mio.» Aboli intonò la preghiera con una voce forte e profonda che suscitava strani echi nel bosco cupo. Quindi Tom riavvolse nel panno il recipiente, nascondendone il macabro contenuto, prima di depositarlo sul fondo della fossa che avevano preparato per accogliere la testa di al-Auf. «Eri un uomo coraggioso, al-Auf. Possa il tuo Dio, Allah, perdonare i tuoi peccati, che sono stati numerosi e terribili.» Richiuse la tomba, pressando con i piedi il terriccio soffice, poi risistemò le zolle. Tornarono verso i cavalli, risalendo in sella, ma, prima di ripartire, Aboli si voltò a guardare per l'ultima volta il bosco. «Hal ucciso il tuo nemico in duello», disse piano, «e Hal trattato il suo corpo con onore. Sei diventato un vero guerriero, Klebe.» Poi voltarono i cavalli e scesero dalla brughiera verso il mare. Era come se Hal Courteney si rendesse conto che la clessidra della sua Wilbur Smith
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vita stava lasciando scorrere gli ultimi granelli di sabbia. I suoi pensieri indugiavano spesso sulla morte e sui suoi cerimoniali. Dal letto nel quale era confinato, mandò a chiamare il capomastro della città, mostrandogli il disegno che aveva preparato per la sua tomba. «So bene quello che volete da me, milord.» Il capomastro era grigio, con i capelli brizzolati e i pori della pelle ancora impregnati di polvere di marmo. «Certo che lo sapete, John», annuì Hal. Quell'uomo era un artista, quando impugnava la mazzuola e lo scalpello; aveva già realizzato il sarcofago del padre di Hal e delle sue tre mogli, ed era giusto che facesse altrettanto per il padrone di High Weald. Poi Hal dispose che i funerali del padre fossero celebrati dal vescovo, in modo che i resti del vecchio potessero riposare finalmente nel sarcofago che John, il capomastro, aveva preparato per lui quasi vent'anni prima. Nella cappella si riunirono i familiari e tutti coloro che avevano conosciuto Sir Francis Courteney. I servitori e i braccianti della tenuta, con gli abiti migliori, riempirono i banchi sul fondo, riversandosi fin sul sagrato. Hal era seduto al centro della navata, su una sedia speciale che i carpentieri della proprietà avevano adattato per lui, con i braccioli alti ai lati e quattro stanghe agli angoli, come quelle di una sedia gestatoria, in modo che quattro valletti robusti potessero trasportarlo. Il primo banco era occupato dal resto della famiglia, compresi una dozzina di zii e cugini, oltre ai parenti più stretti. William era seduto nel posto più vicino al padre e, accanto a lui, c'era Alice. Era la prima volta che si mostrava in pubblico da quando Tom aveva tentato d'introdursi nel loro appartamento privato. Era vestita a lutto, con un abito nero e un fitto velo scuro che le copriva il volto, ma, quando ne sollevò un angolo per asciugarsi gli occhi, Tom si protese in avanti e vide che aveva un lato della faccia gonfio, con un taglio profondo sul labbro coperto da una crosta nera, mentre la guancia era segnata da un brutto livido ormai vecchio, di un pallido viola verdognolo. Non appena avvertì il peso dello sguardo di Tom, lei si affrettò ad abbassare l'angolo del velo. Nel banco dalla parte opposta della navata erano seduti gli ospiti d'onore, quattro cavalieri dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal: Nicholas Childs e Oswald Hyde erano giunti da Londra insieme, mentre il Wilbur Smith
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padre di Alice, John Grenville, conte di Exeter, era arrivato a cavallo dalla sua tenuta, che confinava con High Weald, insieme col figlio Arthur. Dopo la cerimonia, il gruppo tornò nella grande casa per il banchetto funebre; la famiglia e gli ospiti d'onore mangiarono nel grande salone da pranzo, mentre, nel cortile delle scuderie, erano stati disposti tavoli appoggiati su cavalletti e carichi di cibo per i contadini della proprietà. L'ospitalità di Hal fu tanto generosa e le riserve della cantina di High Weald si rivelarono così abbondanti che due pari del regno furono costretti a ritirarsi nelle loro stanze per riposare prima che il pomeriggio avesse termine. Il vescovo era sopraffatto a tal punto dagli oneri del suo ufficio e dall'eccellente chiaretto che fu necessario farlo assistere da due valletti per consentirgli di salire le scale, fermandosi a ogni pianerottolo per dispensare benedizioni agli altri intervenuti al funerale. I paesani che banchettavano all'aperto, dopo aver attinto generosamente ai recipienti di sidro spumeggiante, approfittarono delle siepi e dei covoni di fieno per scopi simili, oltre che per altri, più riprovevoli: insieme col russare dei bevitori, in mezzo al fieno risuonavano anche fruscii eccitati, risatine e grida sommesse di piacere sfuggite a giovani coppie intente ad altre occupazioni. Al crepuscolo, i quattro cavalieri dell'ordine scesero dalle loro stanze, in vari stadi di lucidità dopo il banchetto del mattino, per salire sulle carrozze in attesa. Il piccolo corteo lasciò la casa, seguendo Hal e Tom che, a bordo della prima carrozza, si diressero verso la cappella in cima alla collina. Nella cripta erano stati già completati i preparativi per la cerimonia, disponendo quattro calderoni di bronzo che contenevano gli elementi primordiali: fuoco, terra, aria e acqua. Le fiamme del braciere proiettavano sulle pareti di pietra ombre danzanti, che negli angoli, oltre le file di sepolcri di pietra, assumevano forme bizzarre. La sedia di Hal era pronta ad accoglierlo alla porta della cappella. Quando vi fu seduto, i cavalieri suoi confratelli lo trasportarono fino alla cripta, deponendo la sedia al centro del pentacolo, circondata dai calderoni. Tom, vestito con la semplice tunica bianca del neofita, attendeva da solo nella navata della cappella superiore, pregando davanti all'altare alla luce delle torce, fissate alle staffe in alto sulle pareti. Udì le voci sommesse dei cavalieri, che echeggiarono attutite dalla cripta inferiore. Poi si sentirono alcuni passi pesanti sui gradini di pietra: il conte di Exeter, che avrebbe Wilbur Smith
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fatto da padrino a Tom, stava infatti salendo a convocarlo. Tom lo seguì giù per le scale, trovando gli altri cavalieri ad attenderlo all'interno del circolo consacrato. Avevano sguainato la spada e portavano l'anello d'oro e la catena che erano le insegne del loro grado di cavalieri Nautonnier, navigatori del primo grado dell'ordine. Tom s'inginocchiò ai margini del pentacolo, pregando di essere ammesso. «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.» «Chi è colui che desidera entrare nel Tempio dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal?» gli chiese suo padre, con voce flebile, come un uomo appena salvato dall'annegamento. «Un novizio che si presenta per essere iniziato ai misteri del Tempio.» «Entra, a rischio della vita eterna», lo invitò il padre, in un tono gentile che sottolineava ancor più, per contrasto, il significato di quel monito. Alzandosi, Tom calpestò il disegno a mosaico sul pavimento di marmo, che contrassegnava i limiti del cerchio sacro. Non si era aspettato di sentire qualcosa, invece fu scosso da un brivido improvviso, come se un nemico avesse contrassegnato la sua tomba conficcando una spada nel terreno. «Chi patrocina questo novizio?» domandò Hal con la stessa voce incrinata. Fu il conte a rispondere, con voce tonante: «Io». Hal si volse a guardare il figlio e, col pensiero, tornò sulla cima di una certa collina, in una terra lontana, selvaggia e non ancora domata, molto più a sud dell'equatore, dove lui stesso aveva pronunciato quei voti, tanto tempo prima. Il suo sguardo, vagando all'esterno del circolo, sfiorò il sarcofago di pietra che ormai conteneva il corpo del padre, e lui sorrise, trasognato, riflettendo sulla continuità, su quella catena incantata che collegava l'una all'altra generazioni di cavalieri. Sentì la mortalità strisciare verso di lui come una fiera divoratrice di uomini che gli faceva la posta, acquattata nel buio. Sarà più facile affrontare l'oscurità quando avrò posto saldamente il futuro nelle mani dei miei figli, pensò, ma in quel momento gli parve di vedere quel futuro fondersi al passato, evolvendosi davanti ai suoi occhi. Vide figure impalpabili che conosceva: i nemici che aveva sconfitto, gli uomini e le donne che aveva amato e che erano morti da tempo, insieme con gli altri che, lo sapeva, dovevano ancora affiorare dalla caligine dei giorni di là da venire. Il conte allungò una mano, posandola con delicatezza sulle spalle curve Wilbur Smith
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di Hal per richiamarlo al presente, e lui si riscosse, guardando di nuovo Tom. «Chi sei, tu?» domandò, cominciando il lungo rito. «Thomas Courteney, figlio di Henry e Margaret.» Hal si sentì salire le lacrime agli occhi, sentendo il nome della donna che aveva amato con tanta tenerezza. Il suo cuore era pieno di malinconia; sentiva che il suo spirito era esausto e avrebbe voluto riposare, tuttavia sapeva di non poterlo fare prima di aver assolto tutti i compiti che gli erano stati assegnati. Riscuotendosi di nuovo, porse a Tom la lama della spada Nettuno, col pomo di zaffiro blu, che aveva ereditato dal padre. La luce delle torce si rifletté sfavillando sulla lama intarsiata d'oro, facendo risplendere la profondità della pietra che coronava l'elsa. «Su questa spada confermerai i dogmi della tua fede.» Tom sfiorò la lama, cominciando a recitare: «In queste cose credo, e le difenderò a costo della vita. Credo che esista un solo Dio, in forma di Trinità, eterno il Padre, eterno il Figlio ed eterno lo Spirito Santo». «Amen!» dissero in coro i cavalieri Nautonnier. Domande e risposte continuarono, mentre la luce delle torce cominciava a offuscarsi. Ognuna delle domande adombrava il codice dell'ordine, esemplato quasi per intero sul modello dei cavalieri Templari. Il rito tratteggiava così la storia dei Templari, ricordando come nell'anno 1312 i Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone fossero stati attaccati e massacrati dal re di Francia, Filippo il Bello, con la connivenza di un papa fantoccio, Clemente V. L'immensa fortuna accumulata dai Templari sotto forma di oro e di proprietà terriere era stata confiscata dalla corona, e il gran maestro dell'ordine era stato torturato e bruciato sul rogo. Tuttavia i navigatori dell'ordine, avvertiti dai loro alleati, erano riusciti a lasciare di soppiatto gli ormeggi nei porti francesi sulla Manica, prendendo il largo. Rifugiatisi in Inghilterra, avevano invocato la protezione del re Edoardo e in seguito avevano aperto logge in Scozia e in Inghilterra sotto nuovi nomi, ma sempre mantenendo intatti i dogmi della loro fede. Alla fine, esaurita la serie di domande e risposte, Tom s'inginocchiò, mentre i cavalieri formavano un circolo intorno a lui, posando una mano sulla sua testa china e l'altra sull'elsa della spada Nettuno. «Thomas Courteney, ti accogliamo nella compagnia del Graal, e ti accettiamo come cavaliere dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal.» Lo aiutarono a risollevarsi, abbracciandolo, uno dopo l'altro. Faceva Wilbur Smith
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parte dell'antico rituale, ma, quando Tom si chinò a baciare il padre, Hal si distaccò dalla formula consacrata dal tempo e pose l'elsa della spada Nettuno nella mano di Tom, chiudendogli le dita intorno all'impugnatura. «Adesso è tua, figliolo. Portala con coraggio e onore.» Sapendo che quella splendida spada era uno degli oggetti che il padre amava di più, il giovane non riuscì a trovare parole per esprimere la sua gratitudine. Si limitò a fissarlo negli occhi, e vide che il padre comprendeva il messaggio silenzioso di amore e senso del dovere che lui cercava di comunicargli. Dopo che gli invitati al funerale e i quattro cavalieri dell'ordine furono partiti, High Weald divenne silenziosa, come se fosse deserta. Alice trascorreva quasi tutto il giorno nelle sue stanze. Tom la vide un giorno cavalcare nella brughiera, ma, pur scorgendola da lontano, si rammentò delle conseguenze del loro ultimo incontro fugace e non cercò di avvicinarla. William era impegnato nella gestione della proprietà e passava giornate intere negli uffici della miniera di stagno, discutendo con gli amministratori o cavalcando da un capo all'altro della tenuta per fare apparizioni a sorpresa, con l'intento di sorprendere sul fatto dipendenti che si fingevano malati o commettevano qualche scorrettezza. Quei misfatti venivano puniti con la frusta e con l'espulsione immediata dalla proprietà. Tornava a casa soltanto la sera, e allora trascorreva un'ora in compagnia del padre prima della cena, servita alle otto in punto. Cenava da solo, perché Alice non lo raggiungeva a tavola e Tom trovava sempre qualche scusa per mangiare in camera sua o in una delle taverne del posto, dove poteva trovare commensali più cordiali, come Aboli e Luke Jervis, Ned Tyler e Alf Wilson. Col passare dei mesi, Tom cominciava a sentirsi sempre più irrequieto. Mentre William era fuori, poteva trascorrere gran parte del giorno col padre. Lo trasportava in biblioteca, sistemandolo con la sua sedia a un'estremità del lungo tavolo di quercia, prima di tirare giù dagli scaffali i libri e le carte che Hal gli chiedeva. Le stendevano sul tavolo, studiandole con attenzione e discutendo i dettagli dei viaggi che ormai, Tom lo sapeva, suo padre non avrebbe potuto fare mai più. Il signor Walsh, con un paio di occhiali nuovi di zecca in equilibrio sul naso, stava seduto all'altro capo del tavolo, scrivendo gli appunti che Hal gli dettava. Stendevano elenchi particolareggiati delle provviste e delle attrezzature necessarie e contratti Wilbur Smith
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per gli equipaggi che avrebbero navigato sulle navi della spedizione per tornare nell'oceano delle Indie. «Due navi», aveva sentenziato Hal. «Non tanto grandi come la Seraph o la Minotaur. Navi veloci e maneggevoli, ma ben armate, perché dovremo certamente combattere di nuovo contro i pagani. Con un pescaggio non eccessivo, dal momento che probabilmente dovremo risalire gli estuari e i fiumi lungo la costa della Febbre.» «Manderò Ned Tyler e Alf Wilson in cerca di navi che siano adatte alle nostre esigenze», era intervenuto Tom, in tono ansioso. «Possono percorrere la costa e fermarsi in tutti i porti tra Plymouth e Margate. Ma con la guerra che infuria nel continente, non sarà facile trovare le navi giuste.» «Se Hal oro per pagarle, resterai sorpreso dalla facilità con la quale si troveranno», aveva replicato Hal. «Anche se dovessi spendere fino all'ultimo penny del bottino che abbiamo conquistato ad al-Auf, sarebbero sempre soldi bene spesi, se riuscissimo a strappare Dorian dalle mani degli arabi.» «Potremmo pubblicare un avviso», aveva suggerito il signor Walsh. «Buona idea!» era stata la replica di Hal. «Ma non potremmo chiedere a Lord Childs una nave della Compagnia?» aveva chiesto Tom, alzando gli occhi dalla carta. «No!» Hal aveva scosso la testa. «Se Childs sapesse che vogliamo tornare nel territorio della John Company con una squadra di navi, farebbe del suo meglio per impedircelo. La Compagnia si oppone fermamente a quello che considera commercio non autorizzato, o anche solo alla navigazione, nel proprio territorio.» Un giorno dopo l'altro, continuavano a fare progetti e discutere. Poi, quindici giorni dopo che Tom li aveva inviati sulla costa orientale, Ned Tyler e Alf Wilson tornarono con la notizia che avevano trovato una nave che sembrava ideale per i loro scopi. I proprietari, tuttavia, chiedevano la somma esorbitante, per non dire folle, di settemila sterline. Ned e Alf portavano con loro una lettera di accettazione, che Hal avrebbe dovuto firmare, nonché la richiesta dei proprietari che il pagamento avvenisse tramite banca. Hal interrogò con ansia i due sulle condizioni e sulle qualità della nave, poi chiuse gli occhi e rimase in silenzio così a lungo che Tom cominciò ad allarmarsi. Wilbur Smith
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«Padre!» Balzando dalla sedia, accorse al suo fianco e, sfiorandogli la guancia, scoprì che ardeva di febbre. «Sua signoria non sta bene. Datemi una mano, ragazzi. Dobbiamo portarlo a letto.» Persino il signor Walsh afferrò uno dei braccioli della sedia e, insieme, si affrettarono a trasportare Hal su per le scale, fino alla sua camera. Dopo averlo messo al sicuro nel grande letto, Tom mandò Aboli a Plymouth, per chiamare il dottor Reynolds, che alloggiava in città. Poi congedò Ned Tyler e gli altri, mandandoli ad aspettare di sotto. Quando se ne andarono, chiuse a chiave la porta della stanza per restare solo col padre, scostò le coltri e cominciò con trepidazione a svolgere le bende dai moncherini delle gambe. Ormai Hal era in preda alla febbre violenta che gli ardeva nel sangue e vaneggiava. Tom sollevò l'ultima benda e vide che la cicatrice si era riaperta e dalla ferita sgorgava il pus fatale. La camera si riempì di quell'odore nauseabondo che ormai gli era familiare, e il giovane capì che l'infezione era ripresa, ma stavolta in modo più violento che mai. Tutto il moncherino era striato da linee scarlatte, simili ai segni lasciati da una frusta; il dottor Reynolds lo aveva messo in guardia contro quel sintomo, e Tom, con le dita tremanti, tastò l'inguine del padre, temendo quello che avrebbe potuto trovare. Infatti le ghiandole erano gonfie e dure come gusci di noce. Hal, sentendole sfiorare, gemette per il dolore. «È la cancrena gassosa!» confermò il dottor Reynolds appena arrivato. «Stavolta non posso salvarlo.» «Non potete tagliare per eliminarla?» gli gridò Tom. «Non potete drenare l'infezione, come avete fatto altre volte?» «È arrivata troppo in alto.» Il chirurgo seguì con la punta delle dita le linee di un rosso acceso che apparivano sul ventre di Hal. «Ci deve pur essere qualcosa che potete fare», implorò Tom. «È un male che consuma tutto il corpo come fa il fuoco con l'erba secca. Vostro padre sarà morto prima di domattina», si limitò a rispondere Reynolds. «Dovreste mandare a chiamare vostro fratello perché gli porga l'ultimo saluto.» Tom mandò Aboli a cercarlo, ma William era sceso nel pozzo principale della sua miniera di stagno a East Rushwold. Aboli aspettò fino alla sera che tornasse in superficie; appreso l'improvviso peggioramento del padre, William tornò a casa al galoppo, facendo irruzione nella camera di Hal con uno sfoggio di ansia che, agli occhi di Tom, si poteva facilmente Wilbur Smith
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scambiare per impazienza. «Come sta?» domandò al dottor Reynolds. «Mi duole dirvelo, ma sua signoria si sta spegnendo in fretta.» Ignorando Tom, William andò a inginocchiarsi dall'altro lato del letto. «Padre, sono io, William. Riuscite a sentirmi?» Al suono di quella voce, Hal si agitò nel letto, ma senza aprire gli occhi. «Parlatemi», insistette William. Poi, vedendo che il respiro del padre era quasi impercettibile, disse: «Se ne sta andando». Tom alzò gli occhi di scatto. Gli era sembrato di sentire nel suo tono una nota di soddisfazione. «Ormai non ti resta molto da aspettare, Billy», disse in tono freddo. «Entro domattina sarai Lord Courteney.» «Sei un piccolo rospo detestabile», ringhiò William. «Ti farò pagare a caro prezzo il tuo scherno.» Nell'ora seguente, nessuno dei due aprì bocca, poi all'improvviso William si alzò. «Sono le otto, e ho una fame da lupo. Non ho mangiato un boccone in tutto il giorno. Vuoi scendere a cenare?» «Resterò qui», rispose Tom, scuotendo la testa senza guardarlo. «Potrebbe svegliarsi e chiedere di noi.» «Reynolds ci chiamerà. Basta un minuto per venire qui dalla sala da pranzo.» «Vai tu, Billy. Ti chiamerò io», promise Tom. William si diresse alla porta, irrigidito dalla stizza, e tornò meno di mezz'ora dopo, forbendosi le labbra con un tovagliolo. «Come sta?» chiese in tono diffidente. «Non ha notato la tua mancanza», rispose Tom. «Non preoccuparti, Billy, non può diseredarti soltanto perché vuoi goderti una buona cena.» Si prepararono alla lunga veglia, seduti vicino al letto, uno da una parte e uno dall'altra, mentre Reynolds si era steso sul letto dello spogliatoio, vestito di tutto punto, e russava leggermente. La grande casa sembrava trattenere il fiato, e la notte all'esterno era così tranquilla e silenziosa che Tom udiva persino battere le ore dall'orologio nel campanile della cappella. Quando suonò l'una del mattino, guardò William, seduto dalla parte opposta del letto a baldacchino; la testa gli era scivolata in avanti sul copriletto, e respirava rumorosamente. Posò la mano sulla fronte del padre. È un po' più fresca, pensò. Forse la febbre sta calando di nuovo. È già successo altre volte. Per la prima volta, dalla sera precedente, sentì un fremito di speranza. Wilbur Smith
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Il padre si agitò, sentendo il suo tocco, e all'improvviso aprì gli occhi. «Sei tu, Tom?» «Eccomi, padre», rispose lui, cercando di assumere un tono lieto. «Vi rimetterete. Torneremo a navigare insieme, come abbiamo progettato.» «Io non verrò con te, ragazzo mio.» Hal ammise per la prima volta quello che Tom aveva sempre saputo. «Questo è un viaggio che dovrai fare da solo.» «Vorrei...» cominciò Tom, ma il padre cercò a tentoni la sua mano. «Non sprecare tempo a negarlo», sussurrò, «ce ne resta poco. Dammi la tua parola che troverai Dorian per me.» «Vi do la mia parola, come l'ho giurato solennemente a Dorry.» Hal sospirò, chiudendo gli occhi per un attimo. Tom, allarmato, pensò al peggio, ma poi il padre li riaprì. «William? Dov'è William?» Sentendosi chiamare, il figlio si riscosse dal sonno, alzando la testa. «Sono qui, padre.» «Dammi la mano destra, William», gli chiese Hal. «E tu, Tom, dammi la tua.» I figli obbedirono e lui riprese: «William, sai quale terribile destino ha colpito il tuo fratello minore, Dorian?» «Sì, padre.» «Ho incaricato Tom di ritrovarlo e liberarlo. Tom ha accettato di compiere questo dovere. Ora assegno anche a te un compito. Mi stai ascoltando, William?» «Sì, padre.» «Ti assegno come dovere solenne di fare ciò che è in tuo potere per aiutare Tom nella ricerca e nel salvataggio di Dorian. Gli fornirai le navi di cui avrà bisogno, pagherai l'equipaggio e le provviste e tutto il resto. Non gli lesinerai nulla, ma terrai fede al manifesto che Tom e io abbiamo stilato insieme.» William annuì. «Capisco che questo è il vostro desiderio, padre.» «Allora giuralo», insistette Hal, alzando la voce. «Ormai resta poco tempo.» «Lo giuro», disse William in tono sommesso. «Dio sia ringraziato», mormorò Hal. Rimase immobile a lungo, come se stesse raccogliendo le energie per un ultimo sforzo, ma continuando a stringere le loro mani con sorprendente vigore. Poi riprese a parlare. «Voi due siete fratelli, e i fratelli non dovrebbero mai essere nemici. Voglio che, per amor mio, cerchiate di dimenticare i vecchi dissapori e che diventiate Wilbur Smith
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fratelli nel vero senso della parola.» I due rimasero in silenzio, senza neanche guardarsi. «È il desiderio che esprimo sul mio letto di morte. Vi prego, concedetemi di soddisfarlo», li implorò Hal. Tom fu il primo a parlare. «Sono pronto a dimenticare il passato. In futuro mostrerò a William il rispetto e l'affetto che merita.» «Non posso chiedere di più», disse Hal, con un filo di voce. «Ora tocca a te, William. Devi giurarmelo.» «Se Tom manterrà la sua promessa, io gli renderò lo stesso rispetto e affetto», disse lui, senza guardare il fratello. «Grazie. Vi ringrazio entrambi», sussurrò Hal. «Adesso restate con me per questo poco tempo che mi resta.» La notte fu lunga. Più di una volta Tom pensò che il padre fosse morto, ma poi, chinandosi sulle sue labbra e ascoltando con attenzione, udì il lieve sibilo del suo respiro. A un certo punto dovette assopirsi, perché si riscosse di scatto, con un senso di colpa, al canto dei galli sull'aia. Lanciando un'occhiata a William, si accorse che era semidisteso sul letto e russava piano. La lampada si era spenta; tuttavia, dalle tende, filtrava il primo, pallido chiarore dell'alba. Sfiorando il viso del padre, fu assalito da un terribile senso di colpa accorgendosi che la pelle era fredda. Spostò le dita sul collo, cercando la pulsazione della carotide, ma non trovò nulla, neanche il minimo fremito di vita. Sarei dovuto restare sveglio, pensò. L'ho lasciato solo proprio nel momento fatale. Chinandosi a baciare il padre sulle labbra, si sentì scorrere sul viso le lacrime, che colarono sul volto di Hal. Tom dovette usare un lembo delle lenzuola per asciugarle, prima di baciarlo di nuovo. Attese quasi mezz'ora, finché la luce nella stanza non divenne più intensa. Si guardò allo specchio della parete opposta, per avere la certezza di riuscire a controllare del tutto il dolore; non voleva che Black Billy lo vedesse sconvolto. Quindi si avvicinò al fratello maggiore, scuotendolo per la spalla. «Svegliati, Billy. Nostro padre è spirato.» William alzò la testa, fissandolo con aria stordita. Alla luce fioca dell'alba, i suoi occhi apparivano cisposi e sfocati. Poi abbassò lo sguardo sul volto pallido di Hal. «E così è finita, una buona volta», commentò. Si alzò, tutto anchilosate, cercando di stirarsi. «Oh, Dio mio, quanto ci ha messo, quel Wilbur Smith
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vecchio furfante, a tirare le cuoia! Cominciavo a pensare che non mi avrebbe mai ceduto il posto.» «Nostro padre è morto!» Tom pensò di non aver capito; neanche Black Billy poteva essere tanto cinico. «Sarà meglio chiamare Reynolds, per averne la certezza, e poi rinchiuderlo nella sua bella tomba nuova, prima che ci ripensi e cambi idea.» William sorrise della sua macabra battuta, poi alzò la voce per chiamare Reynolds. Il chirurgo arrivò dallo spogliatoio, ancora mezzo addormentato, per esaminare in fretta Hal, ascoltandone il respiro e infilandogli una mano sotto la camicia da notte per sentire il cuore. Alla fine scosse la testa, guardando William. «Vostro padre è spirato davvero, milord.» Tom rimase stupito nel vedere com'era stato tutto rapido e semplice. Billy adesso era il barone di Dartmoor. «Volete che provveda io a comporlo e che curi gli altri preparativi per la sepoltura, milord?» «Naturalmente», rispose William. «Io sarò occupato. Ci sono tante cose cui pensare. Dovrò andare a Londra, non appena possibile.» Ormai stava parlando a se stesso, anziché agli altri. «Devo occupare il mio seggio alla Camera dei Lord, poi incontrarmi col signor Samuels alla banca...» S'interruppe, guardando Tom. «Voglio che tu provveda a organizzare il funerale. È ora che incominci a guadagnarti il tuo mantenimento.» «Ne sarei onorato», rispose Tom, tentando di farlo arrossire di vergogna, ma William continuò a parlare senza badarci. «Un funerale discreto. Solo i parenti stretti. La faremo finita il più presto possibile. Il vescovo può recitare l'elogio funebre, se riusciamo a farlo restare sobrio abbastanza a lungo. Tra una settimana esatta», decise bruscamente. «Lascio a te l'incarico di definire i dettagli.» Si stirò di nuovo. «Perdio, come sono affamato. Vado a fare colazione, nel caso v'interessi.» Non c'era tempo sufficiente perché tutti i cavalieri confratelli di Hal presenziassero al funerale. Il conte di Exeter e suo fratello erano gli unici abbastanza vicini da poter partecipare. Tuttavia gli ufficiali e i marinai che avevano navigato con lui arrivarono alla spicciolata da tutti gli angoli del Paese e da ogni porto di mare della costa; alcuni percorsero addirittura cinquanta miglia a piedi, pur di essere presenti. Ned Tyler, Alf Wilson e Wilbur Smith
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Luke Jervis trovarono posto nelle prime file di banchi della cappella, mentre gli altri, marinai semplici e braccianti della tenuta, si affollarono nella navata, riversandosi anche all'esterno. «Non spenderò le ghinee che mi sono guadagnato con tanta fatica per offrire da bere e da mangiare a tutti gli sfaccendati e i beoni del Paese», decise William, limitandosi a pagare soltanto le spese per l'ospitalità agli invitati. Fu così che Tom dovette attingere alla sua quota del bottino per offrire il banchetto funebre agli uomini che erano venuti a onorare il padre. Due giorni dopo che il corpo di Hal era stato sigillato nel sarcofago di marmo appena scolpito per lui e trasferito nella cripta della cappella di famiglia, William prese la carrozza per andare a Londra, e rimase lontano per quasi tre settimane. Prima di partire, aveva mandato Alice e il bambino dal padre di lei, ordinando alla moglie di rimanere lontana da High Weald per tutta la durata della sua assenza. Tom era certo che lo avesse fatto per impedirle di parlargli. La grande casa vuota gli sembrava così opprimente che prese alloggio al Royal Oak, trascorrendo le sue giornate in compagnia di Ned Tyler, Alf Wilson e del signor Walsh, programmando gli ultimi dettagli della spedizione per ritrovare Dorian. In base all'elenco degli uomini necessari e ai manifesti che lui e Hal avevano stilato insieme, preparò un preventivo da sottoporre a William non appena questi fosse tornato a High Weald. Il tempo era contro di lui, perché l'autunno avanzava a lunghe falcate: gli restavano meno di tre mesi per equipaggiare la nave e ingaggiare l'equipaggio, superare il golfo di Biscaglia e raggiungere le più miti acque del sud prima che le bufere invernali gli sbarrassero il passo. Ci toccherà aspettare un altro anno, se ci sorprende l'inverno, pensava Tom, roso dall'inquietudine. Prese accordi con i fornitori per le provviste di cui avevano bisogno, impegnando la sua parola in attesa del ritorno di William. Il credito del nuovo Lord Courteney era solido quanto quello di una banca. Prese in affitto un grande magazzino sul molo per tenere in deposito le provviste e mandò Ned e Aboli in cerca degli uomini necessari. Dopo il trionfo della loro ultima spedizione, non ebbero difficoltà a trovare i marinai migliori; per la maggior parte si trattava di gente che aveva navigato sulla Seraph e che aveva già sperperato la sua quota del bottino catturato: tutti erano perciò ansiosi d'imbarcarsi di nuovo agli ordini di Tom. Wilbur Smith
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Ned Tyler e Alf trovarono anche la seconda nave, contrattando per ottenere il prezzo migliore; tuttavia i proprietari delle due navi si rifiutarono di consegnarle prima di avere ricevuto il pagamento per intero e Tom dovette tenere a freno la sua impazienza. William tornò da Londra solo alla fine di settembre, e tornò trionfante. Aveva occupato il suo seggio alla Camera dei Lord, era stato presentato a corte, era stato ospite di Lord Childs a Bombay House per tutta la durata del soggiorno londinese e Childs aveva patrocinato il suo ingresso nella società alla moda di Londra, presentandolo in tutti gli ambienti che contavano e facendogli ottenere un posto nel Consiglio dei governatori della John Company. Utilizzando il denaro del premio che aveva ereditato, William aveva aumentato i suoi investimenti nella Compagnia, portandolo al sette per cento del capitale azionario, e diventando così uno dei cinque principali azionisti dopo la corona. In più, correva voce che Alice, ritornata dalla casa del padre, fosse di nuovo in attesa di un figlio. Non appena seppe dell'arrivo di Black Billy, Tom tornò a High Weald, eccitato e ansioso di discutere col fratello i progetti per la spedizione. Nelle sacche della sella portava due cassette metalliche per i dispacci, sul tipo delle valigie diplomatiche, nelle quali erano custoditi tutti i documenti che aveva messo insieme in quelle settimane di attesa: gli atti di acquisto delle due navi, più le fatture dei fornitori di provviste e di attrezzature nautiche, oltre a quelle relative al carico commerciale da trasportare. Arrivando a casa verso la metà della mattinata, scoprì che William si era già chiuso in biblioteca per consultarsi con i suoi fattori e amministratori. Tom rimase stupito, trovando una quindicina di persone riunite nell'atrio, in evidente attesa di Lord Courteney. Le conosceva quasi tutte: c'era l'avvocato di famiglia, John Anstey, che era anche cancelliere della contea, più vari sovrintendenti e ingegneri della miniera, il sindaco e i consiglieri comunali della città. Tom salutò tutti con cortesia e conversò con Anstey, mentre aspettava di essere ricevuto dal fratello. Quando fu mezzogiorno, decise che William non sapeva che lui fosse in attesa con gli altri, e gli fece pervenire un biglietto tramite Evan, il maggiordomo, che ritornò da lui quasi subito con un'aria imbarazzata. «Sua signoria dice che vi chiamerà quando sarà pronto a vedervi, ma nel frattempo dovete aspettare.» Il pomeriggio trascorse lentamente. A intervalli, Evan veniva a convocare gli altri in biblioteca. Giunta la sera, Tom era l'ultimo rimasto. Wilbur Smith
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«Adesso sua signoria è disposta a ricevervi», disse Evan in tono di scusa. Tenendo le cassette sotto braccio, una per parte, e cercando di mascherare l'irritazione per il modo in cui era stato trattato, Tom passò nella biblioteca, dove trovò William davanti al caminetto, con le mani intrecciate dietro la schiena e le code della marsina sollevate per scaldarsi al calore delle fiamme. «Buonasera, William, spero che la tua visita a Londra abbia avuto successo. Ho saputo della presentazione a corte e ti faccio le mie congratulazioni», disse, posando le cassette sul tavolo della biblioteca. «Ma come sei gentile, fratello.» Il tono di William era distante. In quel momento, Evan rientrò con due bicchieri su un vassoio d'argento, offrendone prima uno a William. Poi si avvicinò a Tom e, mentre lui prendeva l'altro, gli domandò: «Questa sera vi tratterrete a cena, signore?» Prima che Tom potesse rispondere, intervenne William: «Credo di no, Evan. Il signor Thomas non si tratterrà a lungo. Sono certo che ha intenzione di cenare in città con quegli zoticoni dei suoi amici». Tom ed Evan lo fissarono sbigottiti, ma lui proseguì in tono disinvolto: «È tutto. Grazie, Evan. La cena alle otto, come al solito. Prima di allora non voglio essere disturbato». Bevve un sorso di cognac, inarcando un sopracciglio mentre guardava le cassette metalliche verniciate di nero. «Sono certo che non sei venuto semplicemente per congratularti con me.» «Volevo chiedere la tua approvazione per il manifesto della spedizione e anche per le fatture delle spese alle quali mi sono già esposto.» «Quale spedizione?» replicò William, simulando perplessità. «Non ricordo di averti chiesto di accollarti spese a nome mio. Forse ho capito male?» «Si tratta dell'impegno che Hal preso con nostro padre.» Tom tentò di non far capire quanto fosse contrariato da quell'atteggiamento di rifiuto. «Ho quasi completato i preparativi.» Dopo aver aperto le cassette, estrasse i documenti, formando pile ordinate sulla superficie del tavolo. «Questi sono i contratti dei marinai: ne ho trovati centocinquanta, tutti in gamba. Si tratta proprio dell'equipaggio che cercavo: uomini che hanno navigato con nostro padre... e anch'io li conosco bene. Posso rispondere di tutti, dal primo all'ultimo.» William era rimasto davanti al caminetto, con un lieve sorriso Wilbur Smith
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enigmatico che gli sfiorava le labbra, mentre gli occhi restavano gelidi. «Questi sono gli atti d'acquisto delle due navi. Le ho controllate personalmente; sono l'ideale per i nostri scopi, e sono riuscito a convincere i proprietari a ridurre il prezzo di quasi quattrocento sterline.» Alzò la testa per guardare William, ma il fratello continuava a tacere. Tom attese qualche commento da parte sua, ma, visto che non ne arrivavano, riprese a spiegare: «Questa è la lista completa delle provviste e delle attrezzature che ci serviranno. Ne ho già acquistate una buona parte, depositandole in un magazzino di Patchley, sulle banchine del porto. Purtroppo sono stato costretto a pagare prezzi alti. L'Ammiragliato acquista tutte le merci disponibili per equipaggiare le navi della marina, e quindi c'è una richiesta incredibile di polvere, proietti, cime e vele. I prezzi sono più che raddoppiati, dopo l'inizio della guerra». Attese invano una replica di William, poi concluse: «Ho acquistato sulla parola, e mi servono subito contanti per saldare queste fatture e degli ordini di pagamento per i proprietari delle navi. Il resto può aspettare ancora un po'». William sospirò, dirigendosi verso una delle poltrone di cuoio, sulla quale si lasciò cadere. Tom fece per riprendere a parlare, ma l'altro lo prevenne, chiamando a gran voce una delle cameriere addette al guardaroba. «Susan!» La giovane doveva già essere in attesa fuori della porta, prevedendo di essere chiamata, perché arrivò subito. Tom la conosceva; quando lui era partito insieme col padre era una bambina, ma durante la sua assenza era diventata una ragazza graziosa, con una cascata di riccioli scuri che spuntavano ribelli dalla cuffietta e due occhi azzurri che scintillavano di malizia. Rivolse a Tom una rapida riverenza, prima di accorrere alla chiamata di William. William sollevò una gamba e lei, dopo averla stretta tra le sue, voltò le spalle al padrone per afferrare lo stivale alla punta e al calcagno, stringendolo quindi tra le ginocchia per cominciare a sfilarlo dal piede. Quando lo stivale scivolò via, William dimenò le dita del piede, sollevando l'altro per ripetere l'operazione; tuttavia, allorché il secondo stivale venne via, l'uomo le insinuò il piede sotto le gonne, da dietro, e Susan lanciò un gridolino scherzoso, diventando tutta rossa. «Milord!» esclamò, ma, invece di allontanarsi, si piegò ancora un po' in avanti, per consentire a William di esplorarla a suo piacimento con le dita del piede. Wilbur Smith
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Un minuto dopo, William esclamò ridendo: «Vattene, piccola sgualdrinella succosa», poi liberò il piede dalle gonne e glielo puntò con decisione sul sedere per darle una pedata scherzosa, spingendola verso la porta. Susan uscì saltellando, non senza aver lanciato un'occhiata maliziosa all'indietro prima di chiudere la porta. «Quando avrai finito di esercitare i tuoi diritti di padrone del maniero di High Weald, possiamo tornare all'argomento della spedizione?» gli chiese Tom. «Prego, Tom, continua pure», lo invitò William con un cenno della mano. «Vuoi prendere in esame la lista delle spese?» «Maledizione, Thomas, non seccarmi con le tue liste. Vieni subito al punto e dimmi quanto sei venuto a elemosinare.» «Io chiedo soltanto ciò che mi ha promesso mio padre.» Tom faticava a mantenere la calma. «La spesa principale è rappresentata dalle due navi...» «Parla!» scattò William. «Sii chiaro e dimmi una cifra tonda. Di quanto si tratta?» «Il totale ammonta a poco più di diciannovemila sterline», rispose Tom, «comprese le merci da vendere. Ho intenzione di commerciare in avorio e oro lungo la costa, più rame e gomma arabica. Prevedo di ottenere un buon profitto...» S'interruppe, vedendo che William aveva cominciato a ridere. Quella che era iniziata come una risatina si stava rapidamente trasformando in una risata sonora. Tom rimase impalato a guardarlo, sforzandosi di non perdere la calma. William aveva le lacrime agli occhi per il gran ridere e ansimava per riprendere fiato. Alla fine Tom non riuscì più a nascondere l'irritazione. «Forse sarò tardo, ma credo di non capire che cos'è che ti diverte tanto, fratello.» «Sì, Thomas, sei tardo. Non ti è ancora entrato in mente, in fondo a quella zucca che Hal al posto della testa, che adesso sono io il padrone di High Weald e che tu dipendi per ogni penny da me, e non dall'ombra di nostro padre.» «Quello che chiedo non è per me, ma per Dorian. Lo Hal giurato sul letto di morte di nostro padre», ribatté Tom con aria truce. «Hal dato la tua parola. Sei vincolato da un giuramento.» «Credo proprio di no, Thomas.» William smise bruscamente di ridere. «Alla fine, nostro padre era in preda al delirio e vaneggiava. Se ho detto qualcosa, è stato solo per calmarlo, ma non parlavo sul serio. Sarebbe una Wilbur Smith
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follia sperperare l'eredità che ho ricevuto per il capriccio di un moribondo. Diciannovemila sterline! Devi essere uscito di senno, se Hal creduto anche solo per un attimo che ti avrei dato una somma del genere perché potessi andartene a zonzo a casa del diavolo. No, mio caro fratello, puoi levartelo dalla testa.» Tom lo fissò, ammutolito per lo sbigottimento. Poi si riprese. «Vuoi rimangiarti quello che Hal promesso dando la tua solenne parola d'onore? Billy, io non voglio andarmene a zonzo per mio piacere! Stiamo parlando di liberare nostro fratello dalle mani degli infedeli!» «Non chiamarmi mai più Billy. Mai più.» William prese in mano il bicchiere, mandando giù le ultime gocce di cognac. «No, non lo farò. Esistono nomi più adatti per te. Che ne dici di 'imbroglione'? O di 'spergiuro'? In quale altro modo dovrei chiamare un uomo che rinnega il proprio fratello minore e si rimangia un giuramento fatto al padre?» «Non rivolgerti a me con questo tono privo di rispetto!» William scagliò il bicchiere nel caminetto, dove finì in frantumi. «Devi imparare a stare al tuo posto», sibilò, alzandosi e avanzando verso Tom con aria minacciosa. «Altrimenti dovrò insegnartelo a suon di botte!» Tom gli tenne testa, senza indietreggiare. «Come fai con Alice?» ribatté in tono amaro. «Sei forte quando si tratta di maltrattare servi e donne, fratello. E sei il principe dei bugiardi quando si tratta di violare la parola data e venir meno agli impegni che ti sei assunto con un giuramento.» «Spregevole bastardo!» Il viso di William era diventato di un color rosso cupo e pareva sul punto di esplodere. Non era più né bello né aristocratico. «Non azzardarti a parlare così di mia moglie.» Tom, scoperto il suo punto debole, aveva trovato il modo di ferirlo. «Sta' bene attento, Billy. Alice potrebbe renderti la pariglia. Non ce la faresti con lei, se vi doveste battere ad armi pari. Potresti ridurti a picchiare suo figlio. Questo sì, che dovrebbe darti un gran piacere! Far diventare rossa e blu la faccia del piccolo Francis a colpi di frusta.» Lo teneva d'occhio, bilanciandosi sulla punta dei piedi, con i pugni serrati lungo i fianchi, scrutandolo per intuire le sue intenzioni e pronto ad affrontarlo allorché si fosse lanciato all'attacco. «Tom, ti prego, no.» Con grande stupore di Tom, il viso di William si contrasse, assumendo un'espressione sconvolta, mentre la collera lo abbandonava di colpo. «Non dire questo, ti prego!» Lasciando ricadere le Wilbur Smith
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spalle in un gesto di abbattimento, tese le mani verso il fratellastro, quasi per fare appello alla sua generosità. «Hal ragione. Sono in debito con la memoria di mio padre. Gli abbiamo promesso di sanare le nostre divergenze.» Si avvicinò all'altro con la mano destra tesa. «Qua la mano, Tom. Vieni a stringerla.» Tom era sconvolto da quell'improvviso cambiamento di registro. Esitò, sentendo scemare l'ira e l'indignazione. Il fratellastro gli sorrideva con calore, e quello che diceva era vero: lo avevano promesso al padre. S'impose la calma e, con un sorriso imbarazzato, tese la mano per stringere quella che William gli porgeva; lui la serrò in una stretta vigorosa, sorridendo e guardando Tom negli occhi. Poi, con uno scatto fulmineo, attirò Tom verso di sé con tutta la sua forza e, nel contempo, abbassò il mento e gli assestò una violenta testata, centrandolo alla radice del naso. Davanti agli occhi di Tom esplose un lampo abbagliante. Un fiotto di sangue gli schizzò dalle narici, facendolo barcollare all'indietro, ma William lo teneva ancora per la mano destra e lo strattonò di nuovo, attirandolo in avanti. Era mancino, e quello era il suo punto di forza. Tom aveva la vista offuscata da bagliori e lampi che lo stordivano, per cui non vide arrivare il pugno, anzi gli andò incontro. Il colpo lo raggiunse alla tempia, facendolo volare sopra il tavolo della biblioteca. Le pile di fogli si sparsero come foglie al vento di burrasca, e Tom finì a terra, urtando il pavimento con le scapole, ma, pur essendo ancora mezzo stordito, cominciò subito ad artigliare il legno nello sforzo di rimettersi in piedi per riprendere la lotta. William, però, aveva estratto il pugnale dal fodero che portava alla cintola, lanciandosi sul piano del tavolo proprio mentre Tom si metteva in ginocchio. In mezzo ai lampi che gli offuscavano la vista, Tom individuò lo scintillio della lama e l'agganciò con l'avambraccio, deviando la mira, diretta verso il centro del torace, cosicché la punta gli sfiorò soltanto la parte superiore della spalla, penetrando nel farsetto. Sentì appena il taglio della lama, prima che William si abbattesse su di lui con tutto il suo peso. Allora finirono a terra insieme, allacciati: Tom aggrappato al polso del fratello che cercava di ficcargli il pugnale in un occhio, rotolandosi sul pavimento di legno lucido. «Ti strappo il fegato», sibilò William, cercando di forzare l'angolatura dei colpi, mentre Tom doveva ricorrere a tutta la sua forza e la sua astuzia per tenerlo a bada, con la lama del pugnale a un palmo dal viso. Per quanto Wilbur Smith
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William avesse condotto negli ultimi tre anni la vita posata del gentiluomo di campagna, la sua abilità di lottatore e la sua forza non ne avevano risentito affatto, e lui faticava a tenergli testa. Finirono per schiantarsi contro lo scaffale di libri in fondo alla stanza. A un certo punto, Tom si ritrovò sopra e sfruttò quel breve istante di respiro per sbattere la mano del fratello che stringeva il pugnale contro l'orlo aguzzo di uno dei ripiani di quercia dello scaffale. William si lasciò sfuggire un grugnito, allentando la presa sul pugnale, così Tom ricorse alle sue ultime risorse per ripetere il colpo. Vide il sangue sprizzare dalle nocche di William quando urtarono il legno, ma lui non mollò il coltello. Tom insistette, sbattendogli di nuovo il pugno contro il bordo dello scaffale; stavolta William gemette di dolore e le dita si aprirono involontariamente, lasciando scivolare via il pugnale. Nessuno dei due poteva allungare la mano per prenderlo senza lasciare la presa sull'avversario; per un attimo le forze si equivalsero, poi Tom cominciò a richiamare le gambe verso il corpo per alzarsi e William lo imitò. Si trovarono in piedi, faccia a faccia, tenendosi per i polsi: William tentò di fare lo sgambetto all'altro, ma Tom mantenne l'equilibrio; poi, quando William ritentò, assecondò il movimento, sfruttandolo per catapultare l'avversario contro la libreria. Gli scaffali, carichi di libri pesanti, sfioravano il soffitto alto della stanza, e William li investì con tanta violenza che un'intera sezione si staccò dal muro e cominciò a cadere su di loro: una valanga di libri rilegati in cuoio precipitò sui due fratelli, accelerando altresì la caduta degli scaffali già inclinati. Chiunque fosse rimasto intrappolato sotto quei massicci scaffali chiusi a vetri sarebbe stato schiacciato dal loro peso, e i due se ne resero conto nello stesso istante, separandosi di scatto. Mentre si scostavano, gli scaffali piombarono sul pavimento in un caos di schegge di legno e di vetro. Ansimando, si squadrarono dalle due estremità delle macerie. Tom aveva il naso rotto, col sangue che scaturiva gorgogliando e macchiandogli la camicia, ma stava riacquistando la vista e le forze, e si sentiva invadere di nuovo dall'ira. «Sempre sleale, Billy! Mi Hal colpito a tradimento.» Si slanciò in avanti, ma William girò bruscamente su se stesso per correre verso la panoplia di armi appesa alla parete più lontana della biblioteca. C'erano scudi d'acciaio circondati da decine di armi da taglio disposte secondo schemi decorativi, tutte raccolte dagli antenati dei Wilbur Smith
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Courteney sui campi di battaglia nei quali avevano combattuto. William staccò dal muro una pesante spada che era stata usata da un ufficiale di cavalleria ai tempi del re Carlo. «Ora la faremo finita una volta per tutte», dichiarò in tono truce mentre tornava verso Tom, menando fendenti in aria con la lunga lama per saggiarne l'equilibrio e abituarsi all'impugnatura. Tom arretrò lentamente di fronte a lui. Non poteva raggiungere la parete opposta per scegliere un'arma anche lui, e neppure fuggire dalla porta, perché, così facendo, avrebbe offerto a William l'opportunità di colpirlo. Pensò al pugnale che il fratello aveva lasciato cadere, ma era sepolto sotto la montagna di libri. Asciugandosi il sangue dal viso con la manica della camicia, cominciò a indietreggiare. «Ah! Ah!» gridò William, avanzando sempre più veloce e attaccandolo con una rapida serie di affondi. Tom era costretto a saltare indietro, contorcersi e schivare, mentre il fratello lo spingeva verso l'angolo più lontano dalla porta. Tom intuì la trappola; tuttavia, quando cercò di spezzare l'assedio, il fratello riuscì a bloccarlo, menando fendenti a destra e a sinistra della sua testa per costringerlo ad arretrare ancora. Tom, intanto, stava valutando la sua forza e la sua abilità; si rese conto che non era migliorato, dai tempi in cui lo aveva osservato esercitarsi con Aboli. Era sempre stato più abile nella lotta che nella scherma, perché gli occhi tradivano le sue intenzioni e, pur essendo fulmineo come una vipera negli assalti e nei fendenti portati da sinistra, era debole nelle risposte di rovescio e lento nel riprendersi dopo un affondo. Difatti, proprio in quel momento, attaccò all'improvviso, sottovalutando l'avversario disarmato. Tom reagì con una serie di rapidi passi di corsa all'indietro e finì con le spalle addossate a uno scaffale della biblioteca che era rimasto in piedi. Allora vide il trionfo negli occhi scuri del fratello. «Ora, signore!» William lanciò l'affondo alto, in linea, e Tom lasciò che s'impegnasse, prima di rotolare via. La spada gli passò sotto l'ascella, conficcandosi nel dorso di un libro sullo scaffale alle sue spalle e restando per un attimo bloccata. Tom non commise l'errore di tentare di strappargliela di mano, lacerandosi le mani sull'acciaio affilato come un rasoio. Invece, mentre William si sforzava di liberarla, si chinò in fretta a raccogliere uno dei pesanti libri caduti sul pavimento ai suoi piedi, lanciandolo in faccia al fratello. Lo colse in piena fronte, facendolo barcollare all'indietro proprio mentre la lama si liberava. Wilbur Smith
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Tom gli sfrecciò accanto, e William tentò di colpirlo, però era lento e ancora sbilanciato. La punta toccò Tom sul fianco, facendo sgorgare il sangue: si trattava comunque di una ferita superficiale e, in ogni caso, Tom era già passato oltre. Si slanciò verso la panoplia di armi, ma udì alle sue spalle il lieve fruscio dei piedi di William, coperti solo dalle calze, che scivolavano sul pavimento. Intuì che il fratello lo avrebbe raggiunto prima che lui fosse riuscito a staccare un'altra spada dal muro, assestandogli un colpo micidiale alla schiena; allora cambiò direzione di scatto e sentì William imprecare, scivolando sul pavimento lucido, sul quale le calze non facevano presa. Raggiunto il tavolo, Tom afferrò dal centrotavola il massiccio candelabro d'argento e, tenendolo davanti a sé, piroettò su se stesso per fronteggiare il nuovo assalto del fratello, che stava sopraggiungendo con la spada levata, deciso a calarla sulla testa dell'avversario. Era un colpo da principiante, che sarebbe stato fatale a William se Tom avesse avuto una spada in mano; invece aveva solo il candelabro, e lo sollevò, bloccando la lama col metallo. Sapeva quale shock si sarebbe ripercosso sul polso del fratello, che infatti fece una smorfia e ansimò per il dolore, ma risollevò l'arma per ripetere quel folle colpo dall'alto. Più rapido nella ripresa, Tom sferrò un colpo col candeliere d'argento, usandolo come un'ascia da combattimento contro le costole del fratello, al di sotto della spada sollevata. Con uno schiocco simile a quello di un rametto verde, sentì spezzarsi un osso: William lanciò un urlo di dolore, ma non riuscì a frenare l'affondo che aveva già lanciato. La lama sibilò vicino all'orecchio di Tom, mancandolo di poco, e finì per conficcarsi nel piano del tavolo, intaccando la splendida venatura del noce levigato. Tom lo colpì di nuovo col candeliere, ma stavolta William schivò in parte la sua risposta, evitando di subirne in pieno l'impatto; comunque finì barcollando all'indietro, inciampando contro la pila di libri. Stava quasi per cadere, tuttavia riuscì a recuperare l'equilibrio mulinando all'impazzata il braccio destro. Tom allora sfrecciò verso la porta, ma William lo inseguì ancora, sferrando colpi a destra e a sinistra in direzione della sua schiena e mancandolo per un soffio. Tom correva a perdifiato verso la porta per uscire nell'atrio, dove intravedeva la cintura con la sua spada, appesa nell'alcova dove l'aveva messa quando era entrato in casa. Il grande zaffiro sul pomo dell'elsa scintillava ai suoi occhi come un faro che segnala il porto a una nave Wilbur Smith
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investita dalla tempesta. Varcando di corsa la soglia, allungò la mano per sbattere in faccia al fratello uno dei battenti. William lo bloccò, anticipandolo con la spalla e scostandolo, ma quell'attimo di ritardo consentì a Tom di attraversare l'atrio e staccare la cintura dal piolo al quale era appesa. Poi, con una piroetta fulminea, bloccò il colpo seguente levando in alto il fodero inciso e laccato, fece un balzo all'indietro e, prima che William potesse dare seguito all'affondo, aveva già estratto dal fodero la lama della spada Nettuno. La lama uscì allo scoperto con un lieve sibilo, scintillando nella mano destra come un raggio di luce solido e compatto. I riflessi danzarono sulle pareti e sul soffitto dell'atrio; ormai, in quello spazio, Tom poteva affrontare il fratello su un piede di parità. Quando la spada di acciaio intarsiato sibilò davanti ai suoi occhi, snodandosi come un cobra eretto e spruzzandogli scintille d'oro negli occhi, William si arrestò di colpo. «Sì, fratello, ora la faremo finita una volta per tutte.» Tom gli rilanciò la sua stessa minaccia, facendosi avanti con gli occhi fissi negli occhi scuri di William, avanzando col piede destro, a rapidi passi leggeri. Di fronte al suo attacco, il fratello indietreggiò. Tom vide la paura sbocciare nei suoi occhi e comprese quello che aveva sempre intuito senza esserne pienamente consapevole: William era un vigliacco. Non so proprio perché dovrei stupirmi, si disse con amarezza. I prepotenti sono quasi tutti vigliacchi. Per metterlo alla prova, usò l'attacco en flèche, a freccia, bersagliandolo con una tempesta di colpi rapidissimi. Nello sforzo di evitare la lama sfolgorante, William rischiò di cadere. «Sei svelto come un coniglio spaventato, fratello caro.» Tom gli rise in faccia, ma rimase in guardia, senza mai allentare la vigilanza. Il leopardo è più pericoloso proprio quando è spaventato, pensò. Inoltre c'era sempre il rischio di affrontare un avversario mancino; tutti i colpi erano rovesciati e lui poteva restare inavvertitamente scoperto sulla sinistra, che era il lato forte di William. Per fortuna, Aboli aveva insistito su quella possibilità in tante e tante lezioni pratiche: lui stesso era ambidestro e spesso aveva cambiato mano nel bel mezzo di un assalto, passando la spada nella sinistra e rovesciando la simmetria dell'engagement, per tentare di spezzare il ritmo di Tom. Da principio c'era riuscito, però Tom era un ottimo allievo. William incespicò e scivolò, posando un ginocchio a terra; sembrava un Wilbur Smith
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incidente, ma Tom gli aveva letto negli occhi e aveva visto come la lama fosse tornata nella posizione iniziale per il colpo mancino sulla linea bassa, un colpo che gli avrebbe reciso il tendine di Achille, rendendolo invalido. Invece di cadere nella trappola, Tom balzò all'indietro, descrivendo un cerchio per coprire il suo lato debole. «Sprechi il tuo talento, fratello», osservò, sorridendo, nonostante il sangue che colava dal naso rotto. «Avresti fatto una splendida carriera al Globe, come attore.» William fu costretto a rialzarsi in gran fretta mentre Tom attaccava di nuovo da destra, respingendolo verso l'angolo della grande scala con una serie implacabile di colpi di punta e di taglio, cambiando ogni volta linea e angolazione, cosicché William stentava a bloccare i colpi che si susseguivano. Cominciava ad avere il respiro affannoso, mentre gli occhi erano ormai velati dal panico. La fronte si coprì di goccioline di sudore. «Non aver paura, Billy», gli disse sorridendo Tom, al di sopra di quel vortice d'acciaio, «è come un rasoio. Non sentirai niente.» Il colpo successivo squarciò il davanti della camicia di William, senza neanche graffiare la pelle bianca e liscia come l'avorio. «Ecco, proprio così», annuì Tom. «Nessun dolore.» Raggiunta la scala, William girò di scatto su se stesso, salendo a lunghi balzi elastici, tre gradini alla volta, ma Tom era alle sue spalle, e guadagnava terreno a ogni passo. Sentendolo arrivare, William fu costretto a voltarsi per difendersi, sul pianerottolo del primo piano. Allungò istintivamente la mano verso il fodero del pugnale, ma era vuoto. «Non c'è più, Billy», commentò Tom con un sorriso gelido. «Adesso basta con i trucchetti sporchi: dovrai combattere con quello che Hal.» Tanto per cominciare, William aveva il vantaggio della posizione superiore, dal momento che Tom saliva le scale verso di lui, quindi provò col fendente dall'alto, ma non era colpo da tentarsi con uno schermidore del calibro del fratello; infatti Tom lo bloccò, agganciando la lama dell'avversario mentre raggiungeva il pianerottolo, arrivando alla sua stessa altezza. I due si trovarono impegnati, con le lame incrociate all'altezza degli occhi. «Quando te ne sarai andato, Billy, il titolo passerà al piccolo Francis.» Tom cercò di non far trasparire lo sforzo dalla voce, ma William aveva spalle possenti, e le lame tremavano e vibravano, tanta era la pressione che ciascuno dei due esercitava. «Alice sarà la sua tutrice, e lei non Wilbur Smith
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rifiuterebbe mai ciò che tu invece Hal respinto», aggiunse, scostando la lama di William con una possente spinta delle spalle; nel contempo fece un passo indietro, abbassando la punta all'altezza della gola del fratello. «Come vedi, devo ucciderti, Billy. Se non altro, per amore di Dorian», sibilò. In quell'istante si lanciò in un affondo, puntando alla gola. Era un colpo mortale, ma William, per evitarlo, si slanciò all'indietro alla cieca e urtò con violenza contro la balaustra della scala, che cedette con uno schianto di schegge di legno. L'uomo precipitò all'indietro, schiantandosi sul pavimento dell'ingresso, dieci piedi più in basso, con un gran fragore che parve scuotere l'edificio, e la spada gli volò via di mano. Per un attimo rimase senza fiato, supino, stordito e senza difese. Tom saltò agilmente oltre la balaustra sfondata, con i piedi in avanti. Mentre era ancora a mezz'aria, si bilanciò con grazia felina prima di atterrare con leggerezza, le gambe flesse per attutire la caduta e un ginocchio posato a terra per aiutarsi nello scatto necessario a rialzarsi. Allontanò con un calcio la spada del fratello, facendola scivolare sul pavimento verso la parete opposta, poi guardò dall'alto il corpo disteso di William e gli appoggiò la punta della spada alla base della gola, nella V formata dall'apertura del collo della camicia bianca, dove spuntavano i peli neri e ricciuti del torace. «Come Hal detto tu, Billy, tra noi è finita, una volta per tutte», sentenziò, accingendosi a vibrare il colpo mortale. Eppure fu come se un cerchio d'acciaio trattenesse la mano che impugnava la spada. Punzecchiò la pelle morbida della gola di William, però non riuscì ad andare oltre. Ritentò, con tutta la sua energia. Niente. Una forza al di fuori di lui tratteneva la lama. Lì in piedi nell'atrio, mentre sovrastava William, aveva l'aspetto di una figura macabra e terribile, imbrattata di sangue, la spada stretta fra le mani tremanti e il viso stravolto in una maschera di collera e frustrazione. Fallo! gli intimava vibrante la voce della decisione, e lui tentava ancora una volta di affondare la punta della spada. Ma il braccio destro non gli obbediva. Fallo! Uccidilo adesso. Per Dorry, se non per te. D'un tratto, l'eco della voce del padre sopraffece quel pensiero omicida. «Voi due siete fratelli, e i fratelli non dovrebbero mai essere nemici. Voglio che, per amor mio, cerchiate di dimenticare i vecchi dissapori e che diventiate fratelli nel vero senso della parola.» Wilbur Smith
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«Devo farlo!» avrebbe voluto gridare Tom. William era ancora disteso, inchiodato al pavimento dalla sua spada, con gli occhi pieni di lacrime di terrore. Aprì la bocca per invocare pietà, ma non riuscì a pronunciare neanche una parola; gli sfuggì dalle labbra soltanto un verso simile a quello di un corvo. Tom sentì i muscoli e i tendini della mano destra contrarsi per lo sforzo che doveva sostenere, cercando di costringerli a obbedire alla sua volontà, e la punta scese di un dito, penetrando nella pelle morbida del collo. Il sangue cominciò a sgorgare da quel graffio. «Ti prego, Tom, ti darò il denaro», mormorò William, fremendo. «Lo giuro. Stavolta ti darò il denaro.» «Non posso più fidarmi di te. Hal violato un giuramento sacro, non sei più un uomo d'onore», disse Tom, e la repulsione per la codardia del fratello gli diede la forza di compiere quell'atto omicida. Stavolta la sua destra gli avrebbe obbedito. «Tom!» Un grido terribile risuonò nella casa silenziosa. Per un attimo, Tom pensò che fosse la voce della madre, un grido uscito dalla tomba, e alzò la testa di scatto. In cima alla scala apparve una figura spettrale, che riempì il giovane di un terrore superstizioso. Poi si accorse che era Alice, col bambino tra le braccia. «No, Tom. Non dovete ucciderlo.» «Non capisco», mormorò lui. «È un uomo malvagio. Voi stessa mi avete fatto capire che...» «È mio marito ed è il padre di Francis. Non fatelo, Tom. Per me.» «Voi e il bambino starete meglio, senza di lui.» Tom tornò a rivolgere la sua attenzione a quella creatura infame che giaceva piagnucolando ai suoi piedi. «È un assassinio, Tom. Vi daranno la caccia, dovunque andiate, e, quando vi troveranno, v'impiccheranno sul patibolo.» «Non me ne importa», disse Tom. Ed era vero. «Senza di voi», proseguì Alice, «non ci sarà nessuno che vada in cerca di Dorian. Per il suo bene, se non per il mio, non dovete commettere questo crimine.» La verità di quelle sue parole lo colpì come un pugno in faccia, facendolo sussultare. Allora fece un passo indietro. «Vattene!» ordinò, e William si affrettò ad alzarsi. Tom vide che non gli Wilbur Smith
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era rimasta la minima velleità di battersi. «Sparisci dalla mia vista», gli disse in tono disgustato, «e la prossima volta che alzerai le mani su tua moglie ricordati che oggi è stata lei a salvarti la vita.» William arretrò verso le scale, ma solo quando fu a distanza di sicurezza da lui si voltò per salire di corsa i gradini, dileguandosi nella lunga galleria del piano superiore. «Grazie, Tom.» Alice gli rivolse uno sguardo pieno di tristezza. «Avremo di che pentircene, voi e io», ribatté Tom. «Questo può saperlo soltanto Dio.» «Io devo andarmene», riprese Tom. «Non potrò restare qui a proteggervi.» «Lo so.» La voce di Alice era un mormorio rassegnato. «Non tornerò mai più a High Weald», insistette lui. «So anche questo», ammise lei. «Andate con Dio, Tom. Siete un brav'uomo, come vostro padre.» Voltandosi, svanì nell'ombra oltre l'angolo della galleria. Tom rimase immobile ancora per un istante, meditando sull'enormità di quello che aveva appena detto. Non sarebbe tornato mai più a High Weald. Da morto, non avrebbe riposato nella cripta della cappella sulla collina, insieme con i suoi antenati; la sua tomba sarebbe stata in una terra lontana e selvaggia. Quel pensiero lo fece rabbrividire; poi si chinò a raccogliere la cintura e il fodero che aveva lasciato cadere sul pavimento, affibbiandosi alla vita la spada Nettuno. Guardò oltre la porta della libreria, dove c'erano le sue carte sparse sul pavimento. Entrò nella stanza e stava per raccogliere i documenti, quando si trattenne. Ormai non ce n'era più bisogno, si disse, tetro. Volse lentamente lo sguardo intorno a sé: quella stanza era piena di ricordi meravigliosi del padre. Andarsene avrebbe significato recidere un altro legame con la sua fanciullezza. Poi gli cadde l'occhio sulla fila di giornali di bordo del padre, allineati sullo scaffale vicino alla porta: la registrazione fedele di tutti i viaggi di Hal. Ogni pagina, scritta dalla sua mano, conteneva istruzioni per la navigazione e informazioni molto più preziose per lui di qualsiasi altro oggetto contenuto nella casa che stava per lasciare per sempre. «Questi, almeno, voglio portarli con me.» Prendendo quella bracciata di libri, uscì nell'atrio. Fuori lo aspettava Evan, insieme con due valletti. Impugnava due pistole, una in ogni mano, col cane già alzato. Wilbur Smith
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«Sua signoria ha mandato a chiamare gli uomini dello sceriffo e mi ha ordinato di trattenervi qui fino al loro arrivo, signor Tom.» «E voi che cosa avete intenzione di fare, Evan?» ribatté Tom, con la mano sull'elsa della spada. «Il cavallo vi aspetta fuori, signor Tom.» L'uomo abbassò le pistole. «Spero che troverete il signorino Dorian. Mancherete a tutti noi, qui a High Weald. Tornate a trovarci, un giorno.» «Addio, Evan.» Tom aveva la voce roca. «E grazie.» Scese i gradini dell'ingresso, poi sistemò i giornali di bordo nelle sacche e balzò in sella al cavallo, percorrendo il lungo viale di ghiaia per dirigersi verso il mare. Arrivato al cancello, resistette all'impulso di voltarsi indietro. È finito, si disse. È tutto finito. E spronò il cavallo lungo la strada buia. Tom non aveva la minima intenzione di aspettare che gli uomini dello sceriffo venissero a cercarlo per contestargli tutte le accuse che senza dubbio William avrebbe confezionato nel frattempo, quindi andò a cercare i suoi uomini alla taverna del Royal Oak, lasciandoli di sasso alla vista dei vestiti macchiati di sangue e del naso rotto. «Salpiamo subito», disse rivolto ad Aboli, Ned Tyler e Alf Wilson. Poi lanciò un'occhiata a Luke Jervis, seduto dalla parte opposta del caminetto. Luke possedeva la minuscola Raven ed era padrone di se stesso, ma annuì, accettando l'ordine senza esitare. Mentre stavano per mollare gli ormeggi dal molo, giunse un cavaliere da Plymouth, lanciato al galoppo, tanto che rischiò di ruzzolare giù dal cavallo nella furia di tirare le redini. «Aspettatemi, signore! Non potete lasciarmi qui!» Tom sorrise, riconoscendo il signor Walsh. Il gruppetto di vecchi amici si riunì sul ponte di coperta della Raven, mentre questa usciva in mare aperto. «Qual è la rotta, signore?» chiese Luke quando doppiarono il promontorio. Tom guardò con rimpianto a sud, verso il capo di Buona Speranza e la porta dell'Oriente. Ah, se avessi una nave, una vera nave, e non questo guscio di noce, pensò, poi scosse la testa, voltando risolutamente le spalle a quella direzione. «Londra», decise. Aveva la voce roca, a causa del naso gonfio e chiuso. «Questo viaggio ve lo pagherò.» Gli era rimasta ancora gran parte del Wilbur Smith
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deposito presso la Samuels Bank, la sua quota del ricavato del bottino. «Ne discuteremo poi», rispose Luke, prima di impartire gli ordini ai suoi tre uomini di equipaggio per virare di bordo e portare il piccolo cutter su una rotta verso est. La Raven risalì tranquillamente il Tamigi fino al porto fluviale di Londra, senza attirare l'attenzione in mezzo alla folla di piccole imbarcazioni, e Luke li sbarcò, con i loro miseri bagagli, sulla banchina di pietra sotto il Tower Bridge. Aboli riuscì a trovare per tutti un alloggio a buon mercato in una delle strade secondarie lungo il fiume. «Se la fortuna ci assiste, queste stanze ci serviranno solo per pochi giorni», osservò Tom, guardando con occhio critico quella squallida baracca di legno. «Ci servirà una buona dose di fortuna per sopravvivere ai ratti e agli scarafaggi», commentò Alf, mentre Tom si cambiava, indossando i vestiti migliori che era riuscito a portare con sé. La giubba e le brache blu scuro, non troppo alla moda, gli conferivano un aspetto serio, da uomo che sa il fatto suo. «Vengo con te, Klebe», si offrì Aboli. «Senza di me, probabilmente ti perderesti.» La giornata era fredda e piovosa, un anticipo dell'autunno. Il cammino attraverso un dedalo di viuzze si prospettava lungo, ma Aboli si orientò senza incertezze, come se quelle strade fossero la sua foresta natia. Infine sbucarono su Leadenhall Street, all'estremità di Cornhill, attraversando la strada per raggiungere la sede imponente della Compagnia delle Indie. «Io ti aspetto nella taverna all'angolo», disse Aboli quando si separarono. Tom, invece, entrò nell'atrio dell'edificio, dove uno dei segretari lo riconobbe e lo salutò con rispetto. «Vedrò se sua signoria è disposto a ricevervi», gli disse. «Nel frattempo, vi prego di accomodarvi nel salottino dei visitatori, signor Courteney.» Un valletto in livrea gli tolse di mano il mantello da marinaio, servendogli un bicchiere di madera. Mentre era seduto su una poltrona davanti al fuoco scoppiettante, Tom preparò dentro di sé il discorsetto che intendeva fare a Nicholas Childs. Poteva contare con ragionevole certezza sul fatto che Childs non avesse ancora ricevuto notizie da suo fratello William. A meno che non fosse diventato chiaroveggente, Billy non poteva prevedere che lui si presentasse lì, e quindi era poco probabile che avesse inviato un messaggio urgente a Childs per invitarlo a non prestare Wilbur Smith
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aiuto a Tom. D'altra parte, Tom si era reso perfettamente conto dell'inutilità di chiedere a Childs il comando di una nave della Compagnia. C'erano tanti comandanti di vasta esperienza e di notevole anzianità che avevano diritto di precedenza su di lui: Tom non aveva mai esercitato il comando a pieno titolo, e Childs non gli avrebbe mai affidato uno dei suoi magnifici East Indiamen. Il massimo che poteva aspettarsi da lui era un ingaggio come ufficiale a bordo di una nave per l'India, ma così non avrebbe mai avuto l'autorità necessaria per influire sulla destinazione: era in Africa che si trovava Dorian, non in India. Fissando il fuoco con aria corrucciata e sorseggiando il vino, meditò sul problema. Lord Childs sapeva tutto della cattura di Dorian; Tom lo aveva addirittura sentito discuterne con suo padre, quando erano stati ospiti a Bombay House. Se Tom gli avesse chiesto una nave, lui avrebbe intuito subito la sua intenzione di andare alla ricerca del fratello catturato, anziché commerciare per ricavarne un profitto. Inoltre, se Tom si fosse procurato un'altra nave, Childs avrebbe fatto del suo meglio per impedirgli anche solo di doppiare il capo di Buona Speranza, perché la Compagnia era fermamente contraria alle intrusioni nei territori che rientravano nelle sue competenze. No, meglio fingere un totale disinteresse per quella regione del mondo, decise. Vorrà dire che prenderò la sorte come viene. Lord Childs lo fece aspettare meno di un'ora, e Tom lo considerò un segno di grande favore. Il presidente del Consiglio direttivo della Compagnia Inglese delle Indie Orientali era probabilmente uno degli uomini più indaffarati di Londra, e lui era arrivato senza invito e senza preavviso. D'altra parte, rifletté il giovane, sono un confratello dell'ordine, e la mia famiglia possiede il sette per cento delle azioni della Compagnia. Lui non può sapere che solo pochi giorni fa ero sul punto di tagliare la gola a Billy. Il segretario lo condusse, per la scala principale e attraverso l'anticamera, fino all'ufficio di Childs. L'arredamento era all'altezza dell'immensa fortuna accumulata dalla Compagnia: i tappeti nei quali affondava i piedi erano di seta lucente, mentre i dipinti appesi alle pareti, ricoperte da una boiserie di legno, erano imponenti paesaggi marini che ritraevano le navi della Compagnia a vele spiegate, sullo sfondo delle spiagge esotiche del Carnatico e delle coste del Coromandel. Tom passò sotto il lampadario, che sembrava una montagna di ghiaccio Wilbur Smith
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rovesciata, e varcò una porta tutta intarsi e dorature per entrare nello studio privato. Lord Childs si alzò dalla scrivania per andargli incontro. C'era di che sciogliere qualunque riserva Tom potesse ancora nutrire sull'accoglienza che gli avrebbe riservato. «Mio caro, giovane Thomas.» Childs gli prese la mano, con la stretta segreta del pollice e dell'indice che consentiva ai cavalieri dell'ordine di riconoscersi tra loro. «Che piacevole sorpresa!» Tom ricambiò la stretta col segnale di risposta. «Milord, siete molto generoso a ricevermi con un preavviso così breve.» Childs si schermì con un gesto. «Niente affatto, mi dispiace soltanto di essere stato costretto a farvi aspettare. L'ambasciatore olandese...» Scrollò le spalle. «Sono certo che capite.» Portava la parrucca lunga e la stella dell'ordine della Giarrettiera sul risvolto dell'abito ricamato in oro. «Come sta il vostro caro fratello, William?» «In ottima forma, milord. Mi prega di porgervi i suoi più profondi omaggi.» «Sono molto rattristato di non aver potuto partecipare alle esequie di vostro padre, ma Plymouth è così lontana da Londra!» Childs lo guidò verso una sedia sotto le alte finestre che si affacciavano sui tetti e, in lontananza, sul panorama del fiume e delle imbarcazioni. «Un uomo davvero eccezionale, vostro padre. Mancherà molto a tutti noi che lo conoscevamo bene.» Per qualche minuto ancora si scambiarono convenevoli, poi Childs si appoggiò allo schienale della sedia, frugando sulla vasta superficie del ventre per recuperare dal taschino l'orologio d'oro. «Sono certo che non siete venuto qui semplicemente per ingannare il tempo.» «Milord, se posso venire al punto, ho bisogno di un impiego.» «Siete venuto nel posto giusto.» Childs annuì con tanta veemenza che la pappagorgia oscillò come i bargigli di un tacchino. «La Seraph salpa tra dieci giorni per il Carnatico, sotto il comando di Edward Anderson. Voi conoscete bene tanto lui quanto la nave, ovviamente. Ha un posto libero di terzo ufficiale, ed è vostro, se lo volete.» «Avevo in mente qualcosa di più... bellicoso.» «Ah, il signor Pepys è un mio amico, e conosceva vostro padre. Non ho il minimo dubbio che potremo trovarvi un posto su una nave da guerra. Penso che una fregata dovrebbe garbare a un giovanotto col vostro temperamento, no?» Wilbur Smith
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«Ancora una volta, signore, posso essere franco?» lo interruppe Tom in tono di scusa. «Ho a disposizione un piccolo cutter. È molto veloce e maneggevole, l'imbarcazione ideale per razziare le navi commerciali francesi nella Manica.» Childs lo fissò con un'espressione stupefatta, e Tom si affrettò a continuare: «Ho anche un equipaggio di marinai pronti a combattere, alcuni dei quali hanno prestato servizio sulla Seraph agli ordini di mio padre. Per attaccare i francesi mi manca soltanto una lettera di marca». Childs cominciò a ridacchiare con tanto gusto che il ventre gli sobbalzò sulle ginocchia. «Buon sangue non mente, eh? Come vostro padre, preferite comandare, anziché obbedire. Certo, le vostre imprese guerresche sono sulla bocca di tutti. Dovreste far inserire la testa recisa di al-Auf nel vostro blasone, quando riceverete anche voi il titolo di baronetto, uno di questi giorni.» Smise bruscamente di ridere, e Tom intravide la mente avida e calcolatrice che si celava dietro quei benevoli occhi azzurri. Poi Childs si alzò, avvicinandosi alla finestra, dove rimase a lungo a fissare il fiume, mentre Tom cominciava a diventare irrequieto. Gli balenò alla mente l'idea che quella pausa poteva essere calcolata. «Milord», disse, «vorrei che voi accettaste una quota di tutto il bottino che riuscirò a confiscare con questo mandato. Pensavo che il cinque per cento potrebbe essere un'appropriata espressione di gratitudine.» «Il dieci per cento sarebbe ancora più appropriato», ribatté Childs senza voltarsi. «Senza dubbio», convenne Tom. «E, naturalmente, prima potrò salpare, prima sarò in grado di far fruttare tale percentuale per voi.» Childs tornò a voltarsi verso di lui, sfregandosi le mani con un'espressione di nuovo benigna e affabile. «Devo parlare proprio stamattina con certi personaggi di St. James, gentiluomini che hanno il potere di concedere mandati. Passate a trovarmi di nuovo fra tre giorni, vale a dire giovedì alle dieci. Può darsi che allora abbia qualche notizia per voi.» Quei tre giorni di attesa trascorsero lenti come un corteo funebre; ogni minuto portava con sé ansie e timori. Se William aveva preso la precauzione di mettere sull'avviso gli uomini potenti che conosceva in città, tutte le porte si sarebbero chiuse per Tom. Da quando aveva lasciato High Weald, era passato giusto il tempo sufficiente perché un messaggero Wilbur Smith
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di Billy raggiungesse Londra, mandando a monte i suoi piani. Anche se Childs fosse riuscito a procurargli il mandato, non aveva né nave né equipaggio, perché non poteva affrontare l'argomento con nessuno degli uomini senza avere prima in tasca la lettera del re. Luke Jervis era già salpato per un'altra delle sue losche spedizioni, deciso a incontrare una controparte francese al centro del canale. Poteva anche finire nelle mani dei gabellieri del re e non tornare mai più. I dubbi si addensavano intorno a Tom come avvoltoi che volassero in circolo, tormentandolo non solo nelle ore di veglia, ma anche nei sogni. Quando Luke, contrariamente alle sue aspettative, tornò, sostenne che era disposto a rischiare la piccola Raven in un'impresa così avventurosa. Eppure doveva essere già ricco, rifletté Tom, e Aboli gli disse che aveva moglie e una nidiata di figli. Un giorno dopo l'altro, gli uomini lo guardavano con aria di aspettativa, ma lui non poteva offrire loro niente. Non osava neanche accennare alle promesse di Childs, per non suscitare speranze eccessive. Il giovedì mattina uscì dal loro alloggio furtivo come un ladro, senza dire dove andava neppure ad Aboli. L'orologio sul campanile della piccola chiesa di Leadenhall Street aveva appena battuto le dieci quando il segretario di Childs scese nella sala d'aspetto dei visitatori per chiamarlo. Un'unica occhiata all'espressione cordiale di Childs fu sufficiente a dissipare tutti gli incubi che avevano afflitto Tom. Non appena si furono salutati e seduti, Childs prese dalla scrivania il pesante documento di pergamena, e Tom riconobbe il sigillo rosso del Gran Cancelliere in fondo alla prima pagina. Era identico al mandato che aveva ricevuto il padre allorché era stata varata la Seraph. Con voce nasale, Childs lesse la prima riga: «Si rende noto con la presente che il nostro leale e diletto suddito, Thomas Courteney...» Non proseguì nella lettura, ma alzò la testa per sorridere a Tom. «Per Giove, ce l'avete fatta», esclamò Tom, tutto eccitato. «Dubito che qualunque altro comandante abbia ricevuto un mandato con tanta celerità», osservò Childs, annuendo. «Che questo sia di buon auspicio per la nostra impresa», aggiunse, sottolineando il possessivo al plurale mentre accantonava il documento per prenderne un altro. «E questo è un contratto separato che suggella il nostro accordo. Ho lasciato in bianco il nome della nave, tuttavia ora dovremmo inserirlo.» Presa una Wilbur Smith
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penna d'oca, ne appuntì l'estremità prima di intingerla nel calamaio e alzare gli occhi verso Tom, il quale trasse un respiro profondo prima di impegnarsi. «La Raven.» «La Raven...» scrisse Childs con una calligrafia infantile, poi guardò di nuovo Tom. «Ora mi serve la vostra firma.» Tom guardò appena il contratto d'investimento, prima di scarabocchiarlo in segno di accettazione. Childs mise la firma sotto la sua, cospargendo poi il foglio di sabbia per asciugare l'inchiostro. Sempre con un sorriso affabile, si diresse verso un tavolino addossato alla parete sul quale era schierato un plotone di caraffe di cristallo, colmando due bicchieri fino all'orlo. Ne porse uno a Tom, levando l'altro in un brindisi. «Morte e dannazione a Luigi XIV e la peste nera ai francesi!» Aboli prese accordi con un traghettatore perché li portasse a monte del fiume dove Luke Jervis aveva il suo ormeggio, su un'isoletta dal nome bizzarro: Eel Pie, ossia «pasticcio d'anguilla». A distanza di una tesa videro che la Raven, tornata dalla sua ultima spedizione, era ormeggiata al pontile di legno. Quando si avvicinarono, Luke uscì dal cottage vicino, circondato da un gruppo di salici, avviandosi lungo il pontile per andar loro incontro, seguito da una sottile scia di fumo di tabacco. Tom balzò subito a terra, mentre Aboli pagava sei pence al barcaiolo. «Un viaggio proficuo, mastro Luke?» chiese Tom. L'altro si strinse nelle spalle. «I gabellieri ci hanno dato la caccia al largo di Sheerness, e ho dovuto gettare in mare tre barilotti di brandy prima di riuscire a scrollarmeli di dosso. Tutti i miei profitti degli ultimi sei mesi finiti in fondo al mare.» Sfregandosi con le dita la cicatrice sulla guancia, assunse un'espressione mesta. «Comincio a diventare troppo vecchio per questo gioco, signor Courteney.» «Forse potrebbe interessarvi qualcosa di meno logorante per i nervi», suggerì Tom. Luke alzò di scatto la testa. «Lo immaginavo, che avevate qualcosa in mente. Voi mi fate pensare a vostro padre, che aveva sempre l'occhio lungo per cogliere l'occasione buona.» In quel momento, sulla soglia del cottage, comparve una donna. Aveva il grembiule annerito dalla fuliggine dei fornelli e teneva in equilibrio sul fianco un bambino di pochi mesi, nudo, col sederino sporco. Il piccolo si Wilbur Smith
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teneva aggrappato con tutt'e due le mani al seno bianco e molle che penzolava dall'apertura della camicetta. «Luke Jervis, non azzardarti ad andartene di nuovo a zonzo con quella feccia dei tuoi amici, lasciandomi qui senza niente da mangiare in casa e sei bambini affamati», gli strillò dietro la moglie, con i capelli unti che spiovevano sul viso. Luke strizzò l'occhio a Tom. «Il mio piccolo angelo. Il matrimonio è una nobile condizione. Troppo nobile, per quelli come me, mi viene da pensare.» La donna riprese a strillare. «È ora che ti cerchi un lavoro onesto, invece di svignartela di notte come un ladro e tornare a casa con qualche fanfaluca su come Hal perso i soldi, quando so benissimo che sei rimasto all'ancora per spassartela con qualche puttanella impestata.» «Avete un lavoro onesto per me, signor Courteney? Un lavoro qualsiasi che mi tenga lontano dagli strilli della mia dolce metà?» «È proprio di questo che sono venuto a parlarvi», rispose Tom, con un gran sorriso di sollievo. Tre notti dopo, la Raven si avvicinava furtivamente alla costa francese, con uno scandagliatore a prua. «Marca cinque!» disse l'uomo sottovoce, indicando la profondità, prima di aprire di uno spiraglio lo schermo della lanterna per esaminare lo strato di sego spalmato sul fondo dello scandaglio di piombo e controllare che cosa aveva raccolto dal fondo marino. «Sabbia e conchiglie!» riferì poco dopo in un bisbiglio. «Le secche di Huitre.» Luke annuì nel buio, vedendo confermata la sua stima della posizione. «Allora dovremmo avere Calais a dritta e Honfleur oltre il promontorio.» Pronunciava in modo scorrevole tutti quei nomi difficili, e Tom sapeva da Aboli che parlava il francese come se fosse del posto. «In questo punto, la riva sabbiosa degrada in un pendio molto lieve e, con questo soffio di vento da est, dovremmo poterla raggiungere a guado senza difficoltà», spiegò a Tom. «Tenetevi pronto a saltare giù, quando darò la parola d'ordine.» Tom aveva deciso che soltanto Luke e lui sarebbero andati a terra per esplorare l'ancoraggio di Calais. Luke conosceva il terreno e avrebbe potuto cavare d'impaccio tutt'e due, con la sua parlantina, se si fossero trovati in qualche guaio. Era stato tentato di portare con sé Aboli, ma era meglio essere in pochi; inoltre la faccia nera di Aboli rischiava di non Wilbur Smith
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passare inosservata, se fossero stati fermati da una pattuglia francese. «Marca due!» Il richiamo sommesso veniva da prua. «Tenetevi pronto, adesso», mormorò Luke, lasciando la ruota del timone al secondo. Tom e lui raccolsero le sacche di cuoio, dirigendosi a prua. Erano vestiti entrambi da pescatori, con indumenti rozzi, gli zoccoli ai piedi e il farsetto di cuoio sopra la camicia di lana. In testa portavano un berretto di lana. In quel momento sentirono la Raven toccare il fondo, con un impatto smorzato dalla riva sabbiosa. «Alt!» sussurrò Luke agli uomini addetti ai lunghi remi, che si fermarono, tenendoli sollevati dall'acqua. Si calò fuori bordo per primo, con l'acqua che gli arrivava alle ascelle, e Tom gli passò le due sacche, prima di seguire il suo esempio. L'acqua era così fredda che gli mozzò il respiro. «Via!» ordinò sottovoce il secondo ai vogatori, e la Raven indietreggiò, liberandosi lentamente dalla morsa di sabbia. Per atterrare, Luke aveva scelto un momento in cui la marea saliva, in modo da avere la certezza che non si arenassero. Con una dozzina di colpi di remo, la piccola imbarcazione scomparve nella notte, e Tom rabbrividì ancora, e non solo per il freddo. Era strano trovarsi da solo sulla costa di un Paese nemico, senza sapere che cosa li aspettava a riva. Il fondo cominciò ben presto a risalire e, non appena si trovarono sulla sabbia solida, si accovacciarono, restando in ascolto. Si sentiva soltanto il lieve sciabordio della risacca bassa, quindi balzarono in piedi per raggiungere in fretta le dune. Una volta lì, si riposarono per qualche minuto, tendendo di nuovo l'orecchio e trattenendo il fiato, prima di incamminarsi in fretta verso il promontorio, attraversando le dune e la bassa sterpaglia. Dopo mezzo miglio, s'imbatterono nel relitto di un antico naufragio, arenato al di sopra del segno dell'alta marea. «È la vecchia Bonheur, una nave cabotiera bretone», spiegò Luke. «Un buon segno di riferimento per il ritorno.» Inginocchiandosi, scavò una buca nella sabbia sotto le costole della carena, bianche come ossa. Poi vi lasciò cadere una delle sacche, ricoprendola con la sabbia. «La ritroveremo qui, quando ne avremo bisogno.» Proseguirono, accelerando l'andatura per scalare il promontorio. Una volta in cima, rallentarono, sfruttando i bassi cespugli intrisi di salsedine per non farsi vedere mentre cercavano un nascondiglio. Ne trovarono uno tra le rovine di una costruzione di pietra che, spiegò Luke, era stata un Wilbur Smith
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fortino dell'esercito francese durante la guerra con l'Olanda; l'avevano costruito in quel punto per dominare senza ostacoli la visuale degli approcci e dell'ancoraggio principale. Perlustrarono la zona intorno al fortino per accertarsi che fosse deserto e non ci fossero segni di occupanti recenti, prima di sistemarsi all'interno. Dalla sacca, Luke estrasse una coppia di pistole per ciascuno, che caricarono subito con la polvere fresca, controllando il meccanismo d'innesco e tenendole a portata di mano. Poi attesero l'alba, quando l'orizzonte a est divenne di un pallido color limone striato di rosa, proiettando un chiarore caldo sulla scena che si stendeva ai loro piedi. Anche a quell'ora antelucana l'attività ferveva intorno alla flotta di vascelli francesi ancorati nel porto. Attraverso la lente del cannocchiale Tom contò quindici tre ponti, armati con ottanta pezzi l'uno, e un enorme assembramento di navi più piccole. Molte di esse non avevano ancora incrociato i pennoni e i ponti brulicavano di operai al lavoro. Anche a terra ferveva l'attività e, non appena il sole spuntò dalla foschia mattutina, videro compagnie di soldati che arrivavano marciando in città lungo la strada da Parigi. Il sole scintillava sulle baionette dei fucili che portavano a tracolla, mentre i nastri e le coccarde sui tricorni sussultavano e sventolavano a ogni passo. Li seguiva un convoglio di carri che procedevano con gran fracasso sulla strada profondamente incisa dai solchi delle ruote. Poco dopo, uscì dalla città al trotto uno squadrone di soldati di cavalleria, con le giacche chiuse dagli alamari dorati e i mantelli blu sopra i lucidissimi stivali neri al ginocchio. Per un attimo, Tom si sentì venir meno all'idea che stessero puntando verso il loro nascondiglio, ma poi sospirò di sollievo quando, giunti al bivio, i soldati proseguirono verso sud, lungo la strada orlata da filari di pioppi, sollevando una nuvola di polvere che si dissolse in direzione di Honfleur. Il sole cominciò a levarsi nel cielo, dissipando le nuvole basse e illuminando meglio il terreno. Tom poté puntare il cannocchiale sul porto per studiarlo meglio. C'erano dozzine di piccole imbarcazioni che si affollavano intorno alle navi da guerra. Alcune erano chiatte che trasportavano uomini e vettovaglie e una di esse si dirigeva lentamente, a forza di remi, verso uno dei tre ponti, facendo segnalazioni con le bandierine, sprofondata nell'acqua sotto il peso delle alte pile di barilotti pieni di polvere nera. Wilbur Smith
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Altri battelli erano ormeggiati al molo o ancorati alla rinfusa nella baia. Molti erano armati con albero di maestra e bompresso; sulle navi più piccole, questa nuova disposizione delle vele offriva dei vantaggi, rispetto a quella più tradizionale delle navi a vele quadre, e stava diventando sempre più diffusa in tutte le marine moderne, perché le navi si potevano manovrare con un equipaggio ridotto ed erano più veloci sotto il vento. Spesso venivano utilizzate come avanguardia oppure in qualità di ausiliarie della flotta da battaglia. Un fiume ininterrotto di questi piccoli velieri e di altri battelli entrava e usciva dall'insenatura, sempre tenendosi a ridosso della costa per sfuggire alle attenzioni della marina britannica. La flotta inglese aveva posto il blocco ai principali porti sulla Manica, aspettando che i francesi salpassero in forze. Laggiù, in mezzo al canale, Tom scorgeva ogni tanto le vele lontane della flotta inglese. Anche la Raven si trovava là, chissà dove, ad aspettare il calar della notte per avvicinarsi di nuovo alla spiaggia e riprenderli a bordo. Distolse la sua attenzione dalla Manica per osservare avidamente le imbarcazioni francesi alla fonda nella baia. Erano quasi tutte molto più grandi della Raven e molte erano armate con un piccolo cannone. Ne scelse una dozzina che sarebbero servite bene ai suoi scopi, ma poi fu costretto a scartarle, una dopo l'altra, scoprendone i difetti: qualcuna era in cattivo stato di manutenzione o aveva un armamento troppo leggero, altre erano navi di piccolo cabotaggio, inadatte ai lunghi viaggi e al mare grosso, altre ancora non avevano la stazza per trasportare gli uomini e il carico che a lui interessavano. Verso la metà della giornata, Tom e Luke si stesero bocconi sulla sabbia scaldata dal sole per consumare un pasto a base di pane, prosciutto e uova sode, che Luke tirò fuori della sacca, e poi si passarono la fiasca della birra leggera. Tom tentò di non sentirsi troppo avvilito, ma pareva che lì ci fosse ben poco per loro. Quando il sole cominciò a calare, delle dozzine di navi che Tom aveva esaminato, la scelta si era ridotta a due. Poi una di quelle bordò improvvisamente la vela di maestra e uscì in mare, lasciandolo senza altre possibilità che una vecchia e anonima carretta, un cutter che aveva visto tempi e occasioni migliori. «Dovremo accontentarci di quella», decise, pur a malincuore, e così raccolsero le pistole e la sacca, pronti a scendere verso la spiaggia non appena avesse fatto buio. Poi, d'un tratto, Tom afferrò per il braccio Luke, Wilbur Smith
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indicandogli un punto a nord, alle sue spalle. «Ecco!» gridò eccitato. «È lui!» Snello e veloce come un levriero, stava arrivando uno sloop che doppiò il promontorio volando, prima di virare di bordo con eleganza per imboccare il canale navigabile ed entrare nel porto. «Ma guardatelo! È molto carico, lo si vede dalla linea di galleggiamento, eppure riusciva lo stesso a fare dieci nodi con un peto di vergine!» sussurrò Luke, rapito dalla sua bellezza. Aveva il ponte continuo, senza sovrastrutture a poppa o a prua, e un unico albero dall'elegante inclinazione in avanti, proporzionato alla lunghezza dello scafo; a giudizio di Tom, doveva misurare cinquanta piedi, fuori tutto. «Dieci cannoni!» contò, guardando nel cannocchiale. «C'è di che mettere in fuga qualunque dhow.» Portava alla maestra una grande vela quadra, oltre che randa e boma, e due fiocchi al bompresso. Alla luce fioca del crepuscolo aveva un aspetto etereo e spettrale, una creatura fatta di vento, di spuma e di nebbia salmastra. «Io già lo adoro, e non so nemmeno come si chiama.» «Gli sceglieremo un nome nuovo», promise Tom. Lo sloop virò rapidamente prima di ammainare le vele, che scomparvero in un soffio, come per magia. Aguzzando lo sguardo per osservarlo mentre gettava gli ormeggi, Tom contò i marinai dell'equipaggio: ne vide nove, ma intuì che poteva accoglierne fino a trenta per un lungo viaggio, anche se forse, per farlo, avrebbero dovuto modificare i ponti inferiori. «Guardatelo bene, Luke», disse Tom, senza staccargli il cannocchiale di dosso, «perché dovrete ritrovarlo al buio.» «È impresso a fuoco nei miei occhi», gli assicurò l'altro. Agli ultimi raggi del sole morente videro sei uomini sbarcare dalla nave per avviarsi lungo il molo, verso il punto in cui si stavano accendendo le lanterne alle finestre della taverna. «Si sente da qui che hanno sete. Non torneranno prima dell'alba», sussurrò Tom. «Questo significa che a bordo ne restano tre.» Non appena la luce svanì, si affrettarono a ridiscendere verso la spiaggia. Luke dissotterrò la sacca nascosta sotto il relitto, accendendo la lanterna che c'era dentro, insieme con la pietra focaia e l'acciarino, poi la puntò verso il mare, sollevando lo schermo per lanciare tre lampi. Dopo aver atteso qualche istante, la fece lampeggiare di nuovo; al quarto tentativo Wilbur Smith
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risposero al suo segnale con tre lampi brevi sul mare immerso nell'oscurità. Si avventurarono in acqua finché la risacca bassa non s'infranse sul loro volto e, quando udirono il cigolio dei remi nella notte, Luke lanciò un fischio acuto. Pochi minuti dopo, all'apparire della Raven, si avvicinarono per salire a bordo. Ancora gocciolante, Luke prese il timone per allontanarsi dalla spiaggia in lieve pendio e, non appena ebbe sufficiente acqua sotto la chiglia, spiegò la vela di maestra e il fiocco. Tom si spogliò, asciugandosi col panno ruvido che Aboli gli porgeva, prima d'indossare vestiti asciutti. Arrivato a una lega dalla riva, Luke mise in panna la Raven e gli uomini si riunirono in circolo sul ponte di coperta, accovacciandosi intorno a una lanterna cieca: somigliavano a un branco di lupi. «Abbiamo trovato una nave», esordì Tom. «Tuttavia non sarà una passeggiata farla uscire dal porto sotto il naso dei francesi.» Non voleva che si sentissero troppo sicuri di sé. «Aspetteremo dunque fino al turno di guardia mediano, quando saranno al calduccio nella loro amaca. Mastro Luke ci guiderà nel porto e ci condurrà a fianco dello sloop. Se qualcuno ci rivolge la parola, risponderà Luke per tutti. Gli altri restino in silenzio.» Li fissò con aria accigliata per sottolineare quanto fosse importante tacere. Quindi proseguì: «Non appena accosteremo, lancerò la parola d'ordine, guidando il gruppo per l'arrembaggio. Aboli e Alf mi aiuteranno a liberare il ponte dal nemico. Sono quasi tutti a terra, e pare che ci resteranno per la notte. Dovremmo avere a che fare con tre uomini al massimo. Niente pistole, soltanto bastoni e pugni. Come ultima risorsa, usate il coltello. Il nostro principale intento è mantenere il silenzio e un uomo con un palmo d'acciaio nel ventre strilla come una scrofa quando figlia. Fred mollerà gli ormeggi a prua e Reggie a poppa. Dovete tagliare e filare via, ragazzi, quindi tenete a portata di mano il coltello a scatto.» Fece ripetere gli ordini a ciascuno degli uomini per evitare che, a causa del buio, sorgesse qualche malinteso. Contando anche Luke e i suoi tre uomini di equipaggio, erano in quindici, tutti vecchi lupi di mare della Seraph che Alf e Aboli erano riusciti a mettere insieme; più che sufficienti per quel lavoro. «Il vento soffia da est e, secondo Luke, rafforzerà prima di mezzanotte. Non li ho visti mettere garzette sulla vela di maestra, quindi dovrebbe liberarsi alzando la drizza.» Tom guardò Ned Tyler, col viso grinzoso illuminato dal chiarore giallo della lanterna. «Mastro Tyler, voi vi Wilbur Smith
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metterete al timone, quindi non partecipate al combattimento. Luke ci guiderà fuori del porto con la Raven, accendendo un fanale cieco a poppa.» Quando gli uomini ebbero capito le istruzioni, Tom controllò le armi, accertandosi che avessero tutti un bastone e un coltello. Lui sarebbe stato l'unico a portare la spada; si affibbiò alla cintola la spada Nettuno col pomo di zaffiro. Prima di salpare, aveva controllato che fossero tutti vestiti di colori scuri; fece passare la lanterna lungo il cerchio di uomini, in modo che potessero annerirsi il viso e le mani con la fuliggine. Si scambiarono le solite battute, commentando che Aboli non aveva bisogno di quell'aggiunta alla sua pigmentazione naturale, poi si rannicchiarono dietro le murate, avvolti nei mantelli, per mangiare un po' di pane e carne fredda prima di dormire per qualche ora. Alla fine del primo turno di guardia, Luke cominciò a portare la Raven più vicina a terra. Grazie alla brezza di terra i suoni che provenivano dalla riva giungevano nitidi fino a loro: una chiesa in città suonò le dodici così forte che poterono contare tutti i rintocchi. Non appena Tom passò parola, i marinai già desti svegliarono quelli addormentati, sebbene fossero ben pochi; per molti, la tensione aveva cancellato il sonno. Dovevano entrare in porto con la brezza contraria, ma era un prezzo che Tom era pronto a pagare pur di avere la possibilità di allontanarsi col vento in poppa. Ben presto si trovarono in mezzo alla flotta francese, passando così vicino a un tre ponti che sentirono la guardia dell'ancora parlare in tono assonnato dall'alto del ponte principale. Nessuno li fermò, mentre Luke manovrava in silenzio la Raven verso la banchina di pietra dove avevano visto ormeggiato lo sloop. Tom se ne stava rannicchiato a prua, aguzzando lo sguardo per intravedere la nave francese. C'era sempre la possibilità che avesse salpato o si fosse allontanata dal molo, ma lui pregava perché gli uomini dell'equipaggio stessero ancora trincando birra nelle taverne e il comandante intendesse aspettare fino al mattino per trasportare a terra il carico. Lentamente la Raven raggiunse il molo immerso nell'oscurità, insinuandosi tra due navi all'ancora. Tom si portò le mani a coppa ai lati degli occhi per escludere i riflessi di luce provenienti dalle lampade delle case lungo il fronte del porto. Ormai poteva sentire le risate e i canti che provenivano dalle taverne, ma il resto della flotta era silenzioso, e si vedevano soltanto le luci di posizione in testa d'albero. Wilbur Smith
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Se n'è andato! pensò Tom, sprofondando nella disperazione quando arrivarono a meno di un tiro di schioppo dal punto in cui aveva visto lo sloop, senza ancora avvistarlo; avrebbe dovuto scegliere un bersaglio secondario in previsione di questa eventualità, rifletté amaramente. Stava per richiamare Luke al timone e ordinargli di strambare, quando il suo cuore diede un balzo alla vista dell'unico albero che si profilava contro il riverbero fioco della luce delle lampade cittadine. D'un tratto, si rese conto che, con la bassa marea, lo scafo dello sloop era sceso sotto il livello del molo e quindi non risaltava contro il bastione di pietra. «C'è ancora, e ci aspetta!» mormorò, esaltato. Lanciò un'occhiata dietro di sé per controllare che gli uomini fossero pronti. Erano accovacciati come lui sotto il livello della murata, col viso annerito, tanto da sembrare balle di merce accatastate alla rinfusa lungo il ponte. Soltanto Luke era al timone e, in quel momento, girò la ruota per bloccarla, mentre il secondo ufficiale alla drizza, senza attendere l'ordine, ammainava la vela di maestra con un lieve fruscio: la Raven rallentò, avvicinandosi alla murata della nave francese, sospinta dalla deriva. Il ponte dello sloop era più alto di sei piedi rispetto alla Raven e Tom si preparò a raggiungerlo con un salto. Sentendo urtare i due scafi, una voce francese piuttosto insonnolita imprecò: «Nom de Dieu!» «Ho un messaggio per Marcel», disse Luke nella stessa lingua. «Qui non c'è nessun Marcel», protestò irritato il francese. «Mi stai rovinando la pittura con quel letamaio di barca.» «Ho portato i cinquanta franchi che Jacques gli deve», insistette Luke. «Manderò uno dei miei uomini a consegnarteli.» L'accenno a una somma così generosa prevenne ogni altra protesta. Il tono del francese divenne untuoso e accattivante. «Très bien! Dalli a me. Farò in modo che Marcel li riceva.» Tom superò con un balzo la murata della Raven, issandosi agilmente a bordo dello sloop. Il francese era appoggiato al parapetto, con un berretto di lana in testa e una pipa d'argilla serrata tra i denti. Raddrizzandosi, si tolse la pipa di bocca. «Dalli a me.» Quando si avvicinò a lui con la mano tesa, Tom vide che aveva un magnifico paio di baffi a manubrio. «Certo», gli rispose, ma nel contempo gli assestò col bastone un colpo ben calibrato sopra l'orecchio sinistro. L'uomo crollò a terra come un Wilbur Smith
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sacco, senza lasciarsi sfuggire neanche un lamento. Un attimo dopo, Aboli passò sullo sloop, atterrando in silenzio sui piedi nudi come una pantera. Tom vide che uno dei portelli a prua era aperto e dal basso proveniva il riflesso fioco di una lanterna. Seguito da Aboli, scese la scaletta di boccaporto. La lanterna sul soffitto oscillò e, a quella luce, vide tre amache appese dalla parte opposta del locale. Aveva sbagliato a calcolare il numero dei marinai francesi. Mentre avanzava, un uomo si mise a sedere di scatto sull'amaca più vicina. «Qui est là?» domandò. Per tutta risposta Tom lo colpì con un diretto. Il francese ricadde all'indietro, ma qualcun altro lanciò un grido d'allarme sull'amaca accanto. Aboli la rovesciò, facendo cadere l'uomo sul pavimento, e, prima che potesse gridare di nuovo, Tom vibrò un colpo di mazza e quello si accasciò. Un terzo francese balzò giù dall'ultima amaca, lanciandosi verso la scaletta, ma Tom lo afferrò per la caviglia nuda, tirandolo indietro. Aboli serrò il pugno enorme, colpendolo alla tempia, e l'uomo si abbatté sul pavimento. «Ce ne sono altri?» chiese Tom guardandosi attorno in fretta. «Questo è l'ultimo.» Aboli salì di corsa la scaletta, seguito da Tom, per uscire sul ponte. Fred e Reggie avevano tagliato gli ormeggi e lo sloop si stava già allontanando alla deriva dalla banchina. Il grido del francese non doveva essere arrivato lontano. Il porto sembrava silenzioso e sonnolento come prima. «Ned?» sussurrò Tom, ricevendo subito la risposta da poppa. «Sì, comandante.» Persino nell'eccitazione del momento Tom provò un brivido sentendosi chiamare così. Aveva una nave ed era di nuovo un comandante. «Ben fatto. Dov'è la Raven?» «Dritto di prua. Ha già bordato le vele.» C'era qualche intoppo tra gli uomini alle drizze dell'albero di maestra dello sloop. Nel buio, a bordo di una nave strana e forestiera, incontravano difficoltà a sbrogliare le cime, perché i francesi usavano un diverso sistema di manovre. Tom corse verso il capannello di uomini e, insieme, riuscirono a districarle. Intanto però lo sloop continuava a spostarsi di poppa, rischiando di finire contro una delle navi all'ancora. Tom si accorse che l'avrebbero urtata con violenza sufficiente a fare danni. Un francese a bordo dell'altra nave gridò: Wilbur Smith
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«Attenzione, idioti. State per urtarci!» «Fatevi più in là!» esclamò uno degli uomini di Tom in inglese. Dall'altra nave si levò subito il grido: «Merde! Ils sont Anglais!» Tom strappò la drizza di maestra dall'intrico delle cime. «Svelti, adesso! Bordate la vela!» La vela di maestra s'innalzò sull'albero e lo sloop smise di andare alla deriva, prendendo la brezza. Cominciava a navigare, ma era ancora pesante e colpì la nave all'ancora, strusciandola leggermente sul fianco. Ormai c'erano altre voci che gridavano. «Inglesi! Gli inglesi stanno attaccando.» Una sentinella sul molo, svegliata bruscamente, sparò un colpo di fucile, scatenando l'inferno. Lo sloop, però, era lanciato e acquistava velocità con eleganza. Guardando in avanti, Tom vide la Raven, con il fanale di poppa acceso, che li precedeva lungo il canale navigabile verso il mare aperto. «Bordate i fiocchi!» scattò Tom, correndo verso prua. Ormai cominciavano a capire la manovra delle vele, e i fiocchi salirono soltanto con un lievissimo ritardo. Lo sloop sbandò, spiccando un balzo in avanti, e l'acqua cominciò a frusciare sotto la prua; passarono così al largo della Raven per superarla. Tuttavia la flotta francese si stava svegliando: si sentivano lanciare grida da una nave all'altra e su alcune di esse si accendevano le luci da combattimento, issandole sugli alberi. Sull'onda di quel pandemonio, Tom corse verso uno dei cannoni dello sloop. Era un giocattolo, in confronto all'armamento delle navi di linea ancorate tutt'intorno a loro. Poteva solo sperare che fosse carico. «Aiutami!» gridò ad Aboli e in due aprirono il portello e spostarono il cannone, preparandolo al tiro. Alzando gli occhi, Tom si accorse che stavano passando a un tiro di schioppo da una delle navi di linea, un veliero imponente, alto almeno settantaquattro piedi, che oscurava il cielo notturno sopra di loro. Non dovette nemmeno puntare il cannoncino, si limitò semplicemente a tirare il cordone. Dal focone sprizzò una pioggia di scintille, tuttavia passò qualche istante prima che il pezzo facesse fuoco; poi, d'un tratto, lanciò un ruggito, rinculando contro l'affusto. Tom sentì il proietto sfondare con uno schianto il fasciame pesante della nave. Fu inseguito da grida furiose di collera, ma ormai lo sloop filava via ed era così basso sull'acqua da confondersi quasi con l'oscurità. Più avanti, lungo la fila di navi, un altro cannone sparò; dalla lunga fiammata, Tom intuì che non era puntato nella loro direzione. Non seppe Wilbur Smith
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mai dov'era finito il colpo. Si levarono altre grida e poi un balbettio di colpi, che culminò in un cannoneggiamento assordante mentre le grandi navi sparavano contro l'immaginaria flotta inglese che li stava attaccando. Il fumo si addensò sulle due navi più piccole, formando una fitta nebbia. Non riuscivano quasi a vedersi, e Tom dovette aguzzare lo sguardo per distinguere la luce del fanale della Raven che li guidava. Ben presto le grida e le cannonate rimasero alle loro spalle. Uscirono anche dal fumo, ritrovandosi in una notte limpida e serena. Si udirono alcune voci portate dalla brezza, ma erano voci inglesi, e Tom si accorse che il minuscolo equipaggio della Raven li stava acclamando. Anche i suoi uomini interruppero il lavoro sulle cime per ricambiare il saluto. Era poco saggio fornire una traccia agli eventuali inseguitori francesi, tuttavia Tom non impedì quei festeggiamenti. Vide i denti di Aboli scintillare nel buio e rispose con un sorriso. «Dove sono i francesi?» domandò. Le tre figure malconce furono trascinate fino al ponte per raggiungere il loro comandante. «C'è una barca a prua», disse allora. «Metteremo in panna e li caleremo a bordo. Rimandateli a casa con i nostri omaggi.» Scaricarono i quattro uomini nella barchetta, allontanandoli dalla nave. Quando si accorse di quello che stava succedendo, il comandante francese si alzò in piedi a prua della minuscola barca, con i baffi che fremevano d'indignazione, scuotendo i pugni verso di loro, e li salutò con una sfilza d'insulti. «Tua madre era una vacca, e ti ha fatto uscire dal buco sbagliato, stronzo schifoso. Io piscio sul latte di tua madre, pesto i testicoli di tuo padre!» «Parla inglese!» gli gridò di rimando Luke. «La bellezza della tua poesia va sprecata nell'aria notturna.» E gli insulti del comandante si spensero lentamente nel buio alle loro spalle. Aboli aiutò Tom a bordare la vela di maestra e, quando fu ben tesa, gli disse: «Adesso questa nave è tua, Klebe. Come la chiamerai?» «Come l'avevano battezzata i francesi?» Alf Wilson si protese fuori bordo, allungando il collo per leggere il nome sullo specchio di poppa alla luce della lampada. «Hirondelle», annunciò. «Che cosa significa?» «Swallow, cioè 'rondine'», tradusse Luke. «E' un bel nome», commentò Alf e tutti furono d'accordo. «Dio sa se vola come un uccello.» «Ma non in questa lingua dimenticata da Dio!» li corresse Tom. «Nella nostra dolce lingua inglese, piuttosto. Dunque sarà la Swallow. Berremo Wilbur Smith
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alla sua salute quando sarà ormeggiata sul fiume.» E tutti lanciarono un urrà. Quando si levò il sole erano già al largo di Sheerness e, sebbene avesse tutte le vele spiegate, la Raven era rimasta indietro a poppa, incapace di tenere il passo della Swallow. Lo sloop aveva preso il vento e fendeva le onde grigio peltro, sollevando pennacchi di spuma bianca. «Alla Swallow piace correre libera», disse esultante Ned, col viso increspato da rughe di gioia. «Bisognerebbe attaccarle un'ancora galleggiante a poppa per farle rallentare la corsa.» Nella luce sfavillante del mattino era graziosa come una sposa nell'abito nuziale, con le vele così nuove e splendenti che brillavano come madreperla. La pittura, poi, era così fresca che Tom sentiva ancora odore di trementina, e i ponti erano stati levigati con la pietra pomice fino a diventare bianchi come un campo di neve. Tom cominciò a pensare al carico che la Swallow trasportava nella stiva e, chiamando a sé Aboli, lo mandò a indagare. Dopo aver sollevato i portelli, Aboli e Alf Wilson scesero nelle stive buie con la lanterna accesa e mezz'ora dopo riemersero, entusiasti di quello che avevano trovato. «È piena zeppa di tela per le vele, della migliore qualità. Di che rivestire a nuovo una squadra di navi di linea.» Il viso di Tom s'illuminò di felicità: sapeva quale prezzo avrebbe spuntato un carico del genere nelle sale d'asta della Compagnia. «I 'tendini della guerra'», esclamò, esultante. «Valgono tanto oro quanto pesano!» Scaricarono le balle di tela sul molo della Compagnia, poi Tom mandò un biglietto a Lord Childs e portò la Swallow a monte del fiume, fino all'ormeggio di Luke sull'isola di Eel Pie. Si trattenne con i suoi uomini il tempo sufficiente a cominciare i lavori necessari, modificando l'infraponte dello sloop per accogliere un equipaggio più numeroso e installando camerini per il comandante e i tre ufficiali. I camerini sarebbero stati davvero minuscoli: avrebbero ospitato poco più di una cuccetta e un baule da marinaio - il cui coperchio si poteva usare come scrittoio o tavolo per le carte -, lasciando uno spazio per la testa così ristretto che gli occupanti avrebbero dovuto quasi piegarsi in due per entrare e uscire. Tom progettò allora di costruire a prua un cassero che potesse accogliere venti uomini: aveva ridotto il numero degli uomini che all'inizio riteneva necessari per manovrare la nave e combattere in caso di emergenza, riuscendo nel Wilbur Smith
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contempo a trasportare provviste sufficienti per una crociera di tre anni e merci da vendere per ottenere un profitto alla fine di quel periodo. Per la verità, le condizioni nei camerini destinati all'equipaggio sarebbero state difficili anche col bel tempo, quando la maggior parte degli uomini dormiva all'aperto, sul ponte, ma col cattivo tempo, quando tutti erano costretti a restare sotto coperta, sarebbero diventate impossibili anche per i vecchi lupi di mare ingaggiati da Alf e Aboli. Una volta progettate le modifiche all'interno e messi al lavoro i carpentieri, Tom e Aboli noleggiarono un traghetto che li portasse a valle. Quando arrivarono in Leadenhall Street, il segretario li informò che Lord Childs si trovava alla Camera dei Lord e ci sarebbe rimasto per tutto il giorno. Comunque aveva ricevuto il biglietto di Tom e aspettava la sua visita. Il segretario consegnò a Tom la lettera che aveva lasciato per lui. Mio caro Thomas, non mi aspettavo di ricevere così presto notizie dei vostri successi. Il carico che avete confiscato è già stato venduto all'Ammiragliato, e abbiamo ottenuto un buon profitto per tutta la merce. Devo discuterne con voi. Vi prego di attendermi alla Camera dei Lord, dove un messo potrà consegnarmi un messaggio. Servo vostro, N.C. Tom e Aboli s'incamminarono lungo l'argine del fiume verso l'enorme edificio del governo, il palazzo di Westminster, che sorgeva sulla riva del Tamigi. Il messo accettò la lettera che gli venne consegnata all'ingresso dei visitatori della Camera dei Lord, e Tom non dovette attendere a lungo prima che Lord Childs, con l'aria stravolta e il viso arrossato, scendesse sbuffando le scale e lo prendesse per il braccio. Attaccò subito senza preamboli, dicendo: «Qui c'è vostro fratello William. L'ho lasciato dentro, non più di dieci minuti fa. Avreste dovuto avvertirmi della situazione che si è creata fra voi». Chiamò con un grido la carrozza. «Dovreste sapere che intende essere risarcito delle offese che gli avete inflitto.» «La colpa è di Billy», cominciò Tom furibondo, ma Childs lo interruppe, trascinandolo oltre la porta, a bordo della carrozza che si era accostata Wilbur Smith
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all'ingresso. «A Bombay House!» ordinò al cocchiere, «più in fretta che puoi.» Poi si accomodò sul sedile vicino a Tom. «Il vostro nostromo può viaggiare insieme col valletto.» Tom gridò ad Aboli di salire sul predellino. La carrozza si avviò con un sobbalzo, mentre Childs sollevava la parrucca per asciugarsi il sudore dalla testa rasata. «Vostro fratello è un grande azionista della Compagnia, e non è un tipo da prendere alla leggera. Non deve vederci insieme. Per amor di pace, gli ho detto che non ho avuto a che fare con voi.» «Non può farmi niente», commentò Tom con una certezza superiore a quella che provava. Dovette aggrapparsi alla maniglia della carrozza che sussultava, alzando la voce per farsi sentire al di sopra del frastuono degli zoccoli e del rombo delle ruote dai cerchioni d'acciaio. «A mio parere, sottovalutate la forza dell'animosità di vostro fratello, Courteney», ribatté Childs, mettendosi di nuovo la parrucca sulla testa rasata. «Non importa chi ha ragione e chi ha torto, in una situazione del genere. Se un uomo nella mia posizione, oserei dire un uomo con una certa influenza, non desidera irritarlo, tanto più voi, un figlio minore e diseredato, dovreste tenervi lontano dalla sua vendetta.» Rimase in silenzio per qualche istante, prima di aggiungere in tono riflessivo: «Mi è accaduto di rado di vedere tanta malvagità e tanto veleno in un essere umano». Rimasero in silenzio per il resto del tragitto fino a Bombay House, ma, quando superarono il cancello, Childs si sporse dal finestrino per gridare al cocchiere: «Portaci alle scuderie, non all'ingresso principale». Sceso dalla carrozza nel cortile delle scuderie, Childs guidò Tom verso una porticina secondaria della residenza. «So che vostro fratello ha messo in giro alcune spie che vi cercano. È meglio che non sappia del nostro incontro...» Tom si affrettò a seguire Childs lungo una serie apparentemente interminabile di corridoi e di scale, fino a ritrovarsi in uno studiolo con le pareti ricoperte di arazzi e uno scrittoio tutto bronzo e dorature posto al centro della stanza. Childs gli indicò una sedia vicino alla sua, poi frugò tra i documenti che coprivano il piano della scrivania, scegliendone uno. «Ecco l'atto di vendita del carico di tela dello sloop francese Hirondelle all'Ammiragliato.» Lo passò a Tom. «Come vedete, ho dedotto dal totale la solita commissione.» «Il venti per cento!» proruppe Tom, sbalordito. Wilbur Smith
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«È la consuetudine», replicò Childs con disinvoltura. «Se vi prenderete la briga di rileggere il nostro accordo, vedrete che è contemplata nella clausola numero quindici.» Il giovane fece un gesto rassegnato. «E per quanto riguarda la Hirondelle? Vi prenderete il venti per cento anche del suo valore?» Cominciarono a contrattare, e ben presto Tom scoprì come aveva fatto Nicholas Childs a conquistarsi una posizione così elevata nel mondo degli affari e del commercio. Aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un avversario infinitamente più abile di lui. Ed era una sensazione avvilente. A un certo punto Childs si scusò, lasciando da solo Tom così a lungo che lui cominciò a fremere di agitazione, e alla fine balzò in piedi, prendendo a camminare su e giù per la stanza, spazientito. Intanto, nella stanza vicina, Childs stilava un lungo messaggio su un foglio di pergamena e, mentre lo asciugava con la sabbia e lo ripiegava, ordinò al segretario, parlando sottovoce: «Mandatemi Barney». Quando il cocchiere fu di fronte a lui, Childs gli disse: «Barney, questo messaggio è per Lord Courteney, alla Camera dei Lord. Devi consegnarlo nelle sue mani. È questione di vita o di morte.» «Bene, milord.» «Al ritorno, voglio che accompagni il mio ospite e il suo servitore all'approdo della Torre di Londra, però non devi andarci subito. Ecco che cosa devi fare...» Fornì al cocchiere istruzioni dettagliate e, alla fine, domandò: «Capito, Barney?» «Alla perfezione, milord.» Childs si affrettò a tornare nello studio dove Tom lo aspettava. «Perdonatemi», disse, «ma c'erano alcune questioni urgenti che dovevo risolvere subito.» Batté sul braccio del giovane con un gesto cordiale. «E ora torniamo agli affari.» Verso la metà del pomeriggio, Tom aveva in mano l'atto di proprietà della Hirondelle. Tuttavia era ormai chiaro che non avrebbe ricavato neanche una sterlina dalla vendita del carico. Inoltre Nicholas Childs aveva preteso il venti per cento d'interesse sui futuri profitti che Tom avrebbe raccolto grazie al mandato che lui gli aveva procurato. Il giovane capiva di essere una facile preda per quell'intrallazzatore, eppure si batté con accanimento. L'unico punto a suo favore nella contrattazione fu che Childs non aveva visto la Swallow e la descrizione che Tom gliene aveva fatto non le Wilbur Smith
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rendeva giustizia, quindi non stimolò la sua avidità. Il giovane intuì ben presto che l'altro non avrebbe saputo che farsene di una nave così piccola e che quindi era disposto a lasciarla andare. Tenne duro, e alla fine Childs rinunciò alle sue pretese esorbitanti, accettando di cedere la proprietà dello sloop senza porre limiti ai diritti di proprietà. In cambio, si tenne i proventi del carico. Childs sembrava molto soddisfatto dell'affare concluso, e del resto ne aveva motivo, pensò Tom con aria truce. Si domandò come avrebbe fatto a spiegare agli uomini che si erano battuti per catturare la Swallow che non avrebbero visto neanche un soldo in cambio delle loro fatiche. «Per voi, Courteney, sarebbe saggio lasciare l'Inghilterra appena possibile, restando sull'oceano fin quando vostro fratello conserverà la memoria.» Childs gli rivolse un sorriso magnanimo. «Vi sto offrendo la possibilità di fuggire da una situazione pericolosa, salvando la pelle.» In quel momento si sentì bussare piano alla porta dello studio. Dietro invito di Childs, il segretario entrò. «La commissione è stata eseguita, milord», disse. «Barney è tornato e aspetta di accompagnare i vostri ospiti.» «Molto bene», rispose Childs con un cenno. «Ottimamente.» Si alzò subito, sorridendo a Tom. «Credo che le nostre trattative siano concluse, Courteney. Se non sbaglio, volete prendere il traghetto dalla Torre.» Accompagnò Tom all'ingresso principale della residenza, dove Barney era in attesa con la carrozza. Poi, mentre si stringevano la mano, gli chiese con aria innocente: «Dove porterete la vostra nuova nave? E quando salperete?» Tom sapeva che era una domanda a doppio taglio e cercò di eluderla. «Ne sono diventato il proprietario solo in questo momento», esclamò ridendo. «Non ho ancora avuto il tempo di rifletterci.» Childs lo fissava negli occhi, spiando ogni tentativo di eludere la domanda, e Tom fu costretto ad aggiungere: «Credo tuttavia che la zona d'azione migliore siano i porti francesi sul Mediterraneo. O forse il territorio francese della Louisiana, sul golfo del Messico. Potrei portare la Swallow - perché questo è il suo nuovo nome - sulla riva opposta dell'Atlantico». Childs si lasciò sfuggire un grugnito, non del tutto convinto di quella risposta. «Spero proprio che non abbiate in mente di doppiare il capo di Buona Speranza per cercare vostro fratello nell'oceano delle Indie...» «Oh, buon Gesù, no, Sir!» Tom scoppiò di nuovo a ridere. «Non sono Wilbur Smith
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tanto pazzo da azzardarmi ad affrontare il capo delle Tempeste in una barchetta di carta come la Swallow.» «Tutti i territori oltre il Capo sono stati concessi alla Compagnia per decreto reale e chiunque si azzardasse a commerciarvi in modo indipendente sarebbe punito nel modo più severo che la legge consente.» Dallo scintillio d'acciaio dei suoi occhi azzurri appariva evidente che non si sarebbe certo lasciato frenare dalla legge nel compito di fare giustizia. «Non esiste legge oltre la linea» era un vecchio detto dei marinai e significava che all'altro capo dell'oceano non sempre erano valide le leggi dei Paesi civili. Per sottolineare quello che aveva annunciato, Childs gli serrò il braccio con forza. «In realtà penso che dovreste temermi più di vostro fratello, se foste tanto avventato da attraversarmi la strada.» «Vi assicuro, milord, che apprezzo molto la vostra amicizia e non farei nulla per cambiare la situazione», gli rispose Tom con serietà. «Allora ci capiamo.» Childs mascherò la sua espressione dura con un sorriso e strinse la mano al giovane. Non conta un fico secco, pensò poi, gongolante. Sono convinto che la destinazione finale del ragazzo sia nelle mani del fratello maggiore, ormai. A voce alta disse: «Andate con Dio», e dentro di sé aggiunse: O col diavolo! salutandolo con la mano bianca e paffuta. Tom salì a bordo della carrozza con un balzo leggero, invitando Aboli a sedersi accanto a lui. Childs fece un passo indietro, con un cenno rivolto al cocchiere a cassetta, che gli rivolse un'occhiata significativa prima di sfiorare con la frusta la tesa del cappello. Incitò i cavalli e la carrozza si allontanò. Tom e Aboli erano così immersi nella conversazione che nessuno dei due badò al percorso seguito dal cocchiere. Le strade strette della zona settentrionale di Londra si somigliavano tutte, per cui non c'erano segni che consentissero loro di orizzontarsi. Mentre la carrozza procedeva sobbalzando, Tom riferì tutti i particolari dell'incontro con Childs, e alla fine Aboli scrollò la testa. «Non è un cattivo affare, come credi, Klebe. Hal sempre la Swallow, più l'equipaggio per manovrarla.» «Devo pagare di tasca mia Luke Jervis e gli uomini che sono venuti con noi a Calais», gli ricordò Tom. «Si aspettano una quota sul carico.» Wilbur Smith
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«Offri loro una quota e un ingaggio nel prossimo viaggio: questo li renderà ancora più ansiosi d'imbarcarsi.» «Mi restano soltanto seicento sterline del bottino ricavato con la Seraph per armare la Swallow e rifornirla di provviste.» «No», ribatté Aboli. «Ne Hal milleduecento.» «Che idiozia è questa, Aboli?» Tom si girò sul sedile per fissarlo. «Io ho il denaro dei premi che mi sono guadagnato con tuo padre durante gli anni nei quali abbiamo navigato insieme, e lo aggiungerò al tuo.» Il nero si strinse nelle spalle. «Non saprei in quale altro modo usarlo.» «Sarai mio socio a pieno titolo. Ti firmerò un documento.» Tom non si curò di nascondere la sua gioia. «Se non posso fidarmi di te a questo punto...» Aboli stava per sorridere, poi scosse la testa. «A che mi servirebbe qualche pezzo di carta? Sono soltanto soldi.» «Con milleduecento sterline possiamo modificare e approvvigionare la Swallow, oltre a riempire la stiva di merci. Non te ne pentirai, vecchio mio, te lo giuro.» «Mi sono pentito di ben poche cose in vita mia», ribatté Aboli, impassibile. «E quando ritroveremo Dorian non avrò nessun rimpianto. Ora, se Hal finito di chiacchierare, voglio dormire un po'.» Appoggiando la schiena al sedile, chiuse gli occhi, e Tom ne approfittò per studiare il gigante nero, meditando sulla semplice filosofia e sulla forza interiore che rendevano Aboli un uomo soddisfatto di sé. È privo di vizi, pensò. Non è ossessionato dal bisogno di comandare o di accumulare ricchezze; possiede uno straordinario senso della lealtà e dell'onore; è un uomo dotato di una profonda saggezza, in pace con se stesso e capace di godere di tutti i doni che gli sono stati elargiti dalle sue strane divinità della foresta nonché di sopportare senza lamentarsi le avversità e le privazioni che il mondo gli infligge. Osservò il cranio nero e levigato sul quale non cresceva un solo capello, né scuro né bianco, che tradisse la sua età, poi fissò con maggiore attenzione il viso, dove gli elaborati disegni dei tatuaggi rituali nascondevano i segni che il tempo avrebbe potuto incidervi. Chissà quanti anni ha... si scoprì a domandarsi Tom. Quell'uomo sembrava senza età, come una roccia di ossidiana nera; di certo era molto più anziano di suo padre, eppure il trascorrere degli anni non aveva intaccato né le sue facoltà Wilbur Smith
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né la sua forza. È tutto quello che mi resta, ormai, capì d'un tratto il giovane, colpito dall'intensità dell'affetto che provava per quel gigante nero. È mio padre e anche il mio fidato consigliere, ma soprattutto è il mio migliore amico. Senza aprire gli occhi, Aboli disse improvvisamente: «Questa non è la strada del fiume». Tom si riscosse dalle sue riflessioni. «Come fai a saperlo?» chiese. Poi guardò subito fuori del finestrino e vide solo edifici bui, che, nella luce irreale del crepuscolo, sembravano addirittura abbandonati. Le strade strette erano deserte, a parte qualche rara figura che, avvolta nel mantello, si dirigeva chissà dove in gran fretta o se ne stava acquattata nel buio di un portone, sinistra e immobile. «Come fai a saperlo?» ripeté, insospettito. «Ci siamo allontanati dal fiume», rispose Aboli. «Avremmo dovuto raggiungere da tempo l'approdo della Torre, se era davvero là che questa carrozza ci stava portando.» Tom non mise in dubbio il senso del tempo e dell'orientamento di Aboli, perché era infallibile. Si protese dal finestrino per chiamare il cocchiere a cassetta. «Amico, dove ci stai portando?» «Dove ha ordinato sua signoria. Al mercato di Spitalfields.» «No, idiota», gridò Tom. «Vogliamo andare alla Torre di Londra.» «Devo aver sentito male. Sono sicuro che sua signoria ha ordinato...» «Al diavolo quello che ha detto sua signoria! Portaci dove ti ho detto io. Ci serve una barca per risalire il fiume.» Brontolando, il cocchiere girò la carrozza, indietreggiando nel vicolo fino a bloccarlo, mentre il valletto tirava per la briglia il cavallo di testa per costringerlo a obbedire. «Non arriveremo prima delle sei», avvertì il cocchiere, «e a quell'ora non troverete nessuno disposto a traghettarvi.» «Correremo il rischio», ribatté Tom in tono secco. «Fa' come ti si dice, amico.» Il cocchiere frustò i cavalli spingendoli al trotto, e tornarono indietro, sobbalzando sui solchi e sulle pozzanghere, ripercorrendo la strada per la quale erano venuti. A poco a poco furono avviluppati da una nebbia strisciante, che annunciava l'arrivo della sera. Gli edifici che superavano erano avvolti da grigi tentacoli di fumo e anche il suono delle ruote e degli zoccoli dei cavalli pareva attutito da quella coltre bianca. Faceva più freddo, tanto che Tom rabbrividì, stringendosi il mantello sulle spalle. Wilbur Smith
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«Hal la spada pronta nel fodero, Klebe?» gli chiese all'improvviso Aboli. Tom lo guardò allarmato. «Perché me lo chiedi?» Ma posò la mano sull'elsa con lo zaffiro azzurro, stringendo tra le ginocchia il fodero. «Forse ne avrai bisogno», grugnì l'altro. «Sento puzza di tradimento. Quel vecchio grassone ci ha mandati via per un buon motivo.» «È stato un errore del cocchiere», ribatté Tom. Aboli si lasciò sfuggire una risatina sommessa. «Non è stato affatto un errore, Klebe.» Ormai aveva aperto gli occhi. Allentò la spada nel fodero, estraendola per un dito e poi infilandola di nuovo nella guaina con un lieve fruscio. Dopo un altro lungo silenzio, riprese a parlare. «Adesso sì, che siamo vicini al fiume.» Tom aprì la bocca per chiedergli come lo sapeva, ma Aboli lo prevenne: «Ne sento l'umidità e l'odore». Aveva appena finito di parlare quando sbucarono dall'estremità del vicolo, dove il cocchiere tirò le redini dei cavalli, ai margini di una banchina fluviale di pietra. Guardando fuori, Tom vide che la superficie del fiume era coperta da una nebbia così fitta che non riusciva a vedere la riva opposta. La luce si stava spegnendo in fretta e l'oscurità portava con sé un glaciale presagio di sventura. «Questo non è l'approdo», esclamò allora, rivolto al cocchiere. «Seguite quella strada.» L'uomo puntò la frusta. «Da qui mancano meno di duecento passi.» «Portaci fin lì con la carrozza, se è tanto vicino.» I sospetti di Tom si stavano ormai trasformando in certezze. «La carrozza è troppo larga per il sentiero e ci vuole una lunga deviazione per tornare fino alla strada, mentre a piedi non impiegherete che un minuto.» Aboli sfiorò il braccio di Tom, dicendogli sottovoce: «Fa' come dice lui. Se questa è una trappola, potremo difenderci meglio sul terreno aperto». Scesero sull'argine fangoso, mentre il cocchiere osservava, sogghignando: «Un vero gentiluomo darebbe sei pence al cocchiere per il suo disturbo...» «Non sono un gentiluomo, e tu non ti sei preso nessun disturbo», lo rimbeccò Tom. «La prossima volta ascolta gli ordini che ti danno e portaci sulla strada giusta.» Il cocchiere fece schioccare la frusta, in preda alla collera, e la carrozza si allontanò rumoreggiando. Osservando le luci scomparire nel vicolo, Tom tirò un respiro profondo. Dal fiume si levava un fetore intenso, saturo Wilbur Smith
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di umidità e di freddo, proveniente dai liquami che scorrevano dai rigagnoli e dalle fogne direttamente nelle acque. La nebbia si apriva e si richiudeva come un sipario, giocando scherzi alla vista. Davanti a loro si stendeva l'alzaia; sulla sinistra c'era il fiume, con un salto di circa due braccia, mentre sul lato destro correva un muro di mattoni nudi. «Tu tieni la destra», mormorò Aboli. «Io resterò dalla parte del fiume.» Tom notò che aveva spostato il fodero della spada sul fianco sinistro. Aboli, che era ambidestro, aveva fatto in modo che non s'intralciassero tra loro con la spada, dal momento che lui si sarebbe battuto con la sinistra. «Rimani al centro della strada», concluse il nero. Imboccarono l'alzaia camminando fianco a fianco, avvolti nel mantello fino al mento, ma pronti a spalancarlo per sguainare la spada. Si sentivano oppressi dal silenzio e dall'ombra che si andava addensando. Davanti a loro, oltre la cortina di nebbia, si vedeva baluginare una luce fioca, che bastava appena a mostrare in controluce il contorno della banchina di pietra. Avvicinandosi, Tom vide che si trattava di una lanterna cieca. Poi, fatto qualche altro passo, riconobbe attraverso la nebbia incupita dall'oscurità i gradini di pietra dell'approdo fluviale. «Questo è il posto giusto», mormorò, in modo che soltanto Aboli potesse sentirlo. «Guarda, c'è un traghetto in attesa col barcaiolo.» Il barcaiolo era una figura alta e scura, in testa all'approdo. Gli occhi erano coperti da un cappello a tesa larga, mentre il collo del mantello saliva a nascondere la bocca. La barca era ormeggiata a uno degli anelli di ferro fissati alla banchina. L'uomo aveva posato la lanterna sul gradino più alto, cosicché proiettava un'ombra lunga sulla campata del ponte alle sue spalle. Tom esitò. «Non mi piace», disse. «Sembra un palcoscenico, con l'attore in attesa di recitare la sua battuta.» Parlava in arabo, in modo che nessun ascoltatore nascosto potesse seguire quello che diceva. «Come mai il barcaiolo aspetta? A meno che non sapesse già che stavamo arrivando...» «Piano, Klebe», lo ammonì Aboli. «Non lasciarti incantare dal barcaiolo. Il pericolo non è lui. Ce ne saranno altri.» Si diressero di buon passo verso quella figura solitaria, ma i loro occhi saettavano, frugando tra le ombre che si affollavano intorno. D'improvviso un'altra figura si staccò dall'oscurità, sbarrando loro la strada alla distanza giusta per la lama di una spada. La figura fece scivolare il cappuccio, lasciandolo ricadere sulle spalle per scoprire una testa fitta di riccioli d'oro Wilbur Smith
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che scintillavano alla luce fioca. «Buonanotte e buona passeggiata, bei signori.» La voce della donna era roca e provocante, ma Tom vide sulle guance le chiazze repellenti di belletto e lo strato pesante di rossetto sulla bocca larga, livida come quella di un cadavere. «Per uno scellino, vi faccio vedere la porta del paradiso.» Li aveva costretti a fermarsi in un punto dove il sentiero si restringeva, formando una strozzatura; fece ondeggiare i fianchi, fissando Tom con aria lasciva, in una disgustosa parodia di desiderio. «Alle spalle!» sussurrò Aboli in arabo, e Tom udì il lieve fruscio di un passo sulle pietre dell'acciottolato. «Io prendo lui, ma tu guardati dalla sgualdrina», lo ammonì il nero prima che potesse voltarsi. «A giudicare dalla voce, ha una serie completa di attributi sotto la gonna.» «Sei pence per tutt'e due, tesoro», disse Tom, avvicinandosi a lei per attirarla alla portata della sua spada. In quel momento sentì Aboli girarsi di scatto, ma non distolse gli occhi dalla prostituta. Fulmineo, Aboli si slanciò contro il primo dei due uomini che si erano avvicinati sbucando dall'ombra alle loro spalle. Fu così rapido che la vittima non riuscì nemmeno a sollevare la spada per parare l'assalto: la punta penetrò sotto le costole, uscendo dalla schiena all'altezza dei reni, e l'uomo lanciò un grido. Aboli sfruttò la lama affondata nel suo corpo e la forza del braccio sinistro per farlo ruotare come un pesce infilzato a una gaffa e scaraventarlo contro il compagno alle sue spalle. La lama della spada uscì dal ventre dell'uomo, mentre i suoi assalitori barcollavano all'indietro, sorreggendosi a vicenda; il ferito gridava ancora, destando nella notte un'eco strana e agghiacciante, ma bloccava il braccio del compagno, e Aboli ne approfittò per vibrare un altro colpo al di sopra della sua spalla, sul viso dell'uomo dietro di lui. Colpito in pieno alla bocca, costui lasciò cadere l'arma, coprendosi il volto con le mani, mentre il sangue gli sprizzava tra le dita, nero e denso come l'olio da una lampada. Vacillando, si rovesciò all'indietro oltre l'orlo della banchina, e si sentì uno scroscio quando colpì la superficie scura dell'acqua, sprofondando all'istante. L'altro cadde sulle ginocchia, tenendosi il ventre, prima di crollare in avanti, con la faccia a terra. Aboli piroettò su se stesso per aiutare Tom, ma era in ritardo. La prostituta aveva estratto una spada dal mantello; tuttavia, quando si avventò contro Tom, la parrucca le cadde, rivelando una testa rasata e Wilbur Smith
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rozzi lineamenti maschili. Tom era pronto ad affrontare l'avversario e balzò in avanti, cogliendolo di sorpresa; non aspettandosi una reazione così fulminea, l'assassino non aveva avuto il tempo di mettersi in guardia. Tom sferrò un attacco alto, lungo la linea naturale, puntando subito a uccidere con la lama alla base della gola, dove non c'erano ossa che potessero deviare il colpo. La lama recise la trachea e le grandi arterie del collo, stridendo sulla spina dorsale. Poi Tom la ritirò, prima di affondarla ancora di un dito: stavolta l'acciaio trovò la giuntura tra due vertebre, trapassando la gola da parte a parte. «Stai cominciando a imparare, Klebe», sibilò Aboli quando la finta prostituta cadde a terra, restando immobile con le gonne sollevate sulle gambe sottili, bianche e pelose. «Però non è ancora finita. Ce ne saranno altri.» Sbucarono dalle porte in ombra e dalle tenebre come cani randagi che annusano i rifiuti. Tom non si curò di contarli, ma erano tanti. «Schiena contro schiena», ordinò Aboli, passando la spada nella mano più forte. La strozzatura del sentiero che era sembrata una trappola divenne la loro forza: su un fianco li proteggeva il fiume, sull'altro il muro cieco di una casa a tre piani. Tom calcolò che gli aggressori erano più di otto, ma comprese anche che potevano farsi avanti soltanto uno alla volta. Il primo che assalì Tom era armato di un'asta con la punta di ferro e, dal modo con cui tentò di sferrare un colpo alla testa del giovane, apparve subito chiaro che era esperto nell'uso di quell'arma temibile. Tom ringraziò col pensiero Aboli per tutte le ore di esercizio con l'asta che lo aveva costretto a fare nella sala delle armi di High Weald. Si tuffò al di sotto del lungo e pesante bastone, non volendo rischiare la lama delicata della spada Nettuno contro un colpo così brutale, ma fu pronto a reagire alla mossa di ritorno che, lo sapeva, sarebbe stata un colpo di punta alla testa. Non poteva cedere terreno, perché aveva le spalle addossate alla schiena di Aboli. La lunghezza del bastone, che misurava sei piedi, aveva tenuto l'aggressore fuori della portata della spada almeno fino a quando l'uomo non si lanciò all'assalto con la punta di ferro. L'aguzzo puntale di ferro scattò verso la testa di Tom come una freccia scoccata dall'arco, ma lui girò la testa proprio all'ultimo momento, lasciando che gli sfiorasse la guancia, prima di afferrare con la mano sinistra il bastone di quercia, attirando l'uomo verso di sé alla portata della Wilbur Smith
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spada. Si protese in avanti, e la spada azzurra parve sospirare nell'aria, balenando come un fulmine estivo. Tranciò la gola dell'uomo sotto la linea della mascella con un solco nitido, neanche avesse in mano la lama di un rasoio, e l'aria sfuggì dalla trachea recisa con uno squittio simile a quello del porcellino cui viene negata la mammella della madre. Mentre l'uomo agonizzante barcollava, girando su se stesso, l'aggressore dietro di lui fissò sbigottito quello spettacolo orribile e ne rimase stordito al punto di affrontare con troppa lentezza l'attacco di Tom. Lui mirò di nuovo alla base della gola, ma all'ultimo momento la sua vittima scartò di lato e la punta penetrò nella spalla. L'arma che portava gli cadde di mano, tintinnando sull'acciottolato, mentre l'uomo si stringeva la ferita, gridando: «In nome di Dio, sono morto!» Voltandosi, cadde addosso agli uomini che lo seguivano da vicino; nell'oscurità si disegnò un groviglio di corpi che si dibattevano, così stretti gli uni agli altri che a Tom riusciva difficile scegliere un bersaglio. Colpì tre volte di seguito nel mucchio, con violenza, e ogni colpo fu seguito da un lamento d'agonia. Uno degli assalitori barcollò all'indietro, cadendo oltre l'orlo della strada, dimenando le braccia mentre spariva nel buio prima di finire in acqua, tra spruzzi di schiuma. Gli altri arretrarono, portandosi la mano alla ferita, con i volti che, nella penombra, avevano assunto un colore grigiastro. Tom udì alcuni rumori alle sue spalle: qualcuno che gemeva, un altro che singhiozzava per il dolore, un altro ancora che scalciava sul terreno come un cavallo abbattuto. Non osava distogliere lo sguardo dagli uomini che aveva ancora di fronte, però doveva sapere se Aboli gli copriva ancora le spalle. «Aboli, ti hanno colpito?» domandò sottovoce. Una voce profonda alle sue spalle rispose, in tono disgustato: «Queste sono scimmie, non guerrieri. Il loro sangue contamina la mia spada». «Non essere tanto suscettibile, ti prego, amico mio. Quanti altri ce ne sono?» «Molti, però credo che abbiano perso l'appetito di fronte alle pietanze che serviamo.» Aboli aveva di fronte a sé, poco più in là della portata della sua spada, un gruppetto di uomini. Vedendo che cominciavano a indietreggiare, improvvisamente rovesciò la testa all'indietro per lanciare un grido tale che Wilbur Smith
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persino Tom sussultò e, suo malgrado, girò la testa per guardare indietro. La bocca di Aboli sembrava una grande caverna rossa e il viso, segnato dai tatuaggi tribali, era contorto in una maschera di ferocia animale. Il grido che lanciò sembrava il ruggito di un gorilla, un suono che faceva vibrare le orecchie e stordiva. Mentre l'eco del grido risuonava ancora sulle acque buie del fiume, gli uomini di fronte a lui si dileguarono nel buio. Lo stesso panico assalì gli uomini che fronteggiavano Tom: girarono di scatto su se stessi per darsi alla fuga. Due di loro zoppicavano e procedevano a zigzag per le ferite ricevute, ma riuscirono lo stesso a trascinarsi in una strada laterale, dove il suono dei loro passi in corsa si spense nel silenzio della nebbia che avvolgeva il fiume. «Penso proprio che tu abbia dato l'allarme alla ronda», mormorò Tom, chinandosi per asciugare la lama della spada sulle gonne della «donna» morta. «Tra un attimo ci piomberanno addosso.» «Allora andiamo», convenne Aboli con un tono di voce che sembrava mite e suadente, dopo l'urlo terribile che lo aveva preceduto. Scavalcando i corpi accasciati sulla strada, si mossero in direzione della scala. Aboli scese verso il punto in cui era ormeggiato il traghetto, mentre Tom deviò per avvicinarsi al barcaiolo. «Una ghinea d'oro per i tuoi servigi!» promise Tom, correndo verso di lui. Era a meno di dieci passi, quando il barcaiolo aprì di scatto le pieghe del mantello, sollevando la pistola che aveva tenuto nascosta. Tom vide che la pistola aveva due canne affiancate, con l'imboccatura simile a due orbite nere e vuote. Mentre fissava quegli occhi vuoti, gli occhi della morte, lo scorrere dei secondi parve arrestarsi e tutto assunse un carattere irreale, come di sogno. Benché avesse tutti i sensi acuiti dal pericolo, i suoi movimenti erano rallentati, quasi avanzasse dentro un fiume di fango viscido. Vide che entrambi i cani della pistola erano armati e scorse, sotto la tesa del cappello ampio, l'unico occhio visibile del barcaiolo che scintillava cupo, fisso su di lui, mentre l'indice pallido era infilato nel ponticello del grilletto e si abbassava inesorabilmente. Tom notò che il cane della canna di sinistra si abbassava. Poi, quando scattò l'acciarino, uno sbuffo di fumo e un bagliore sprizzarono dall'innesco. Tentò di gettarsi di lato, ma le membra gli obbedivano solo al rallentatore. La mano del barcaiolo che impugnava la pistola si sollevò all'altezza della sua testa e l'arma sparò, con un'esplosione assordante che Wilbur Smith
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riempì l'aria di una nube azzurrina di fumo. In quello stesso istante, Tom fu investito da un colpo violento al corpo che lo scagliò all'indietro, e cadde di schianto, restando supino sulle pietre dell'acciottolato. Mi ha colpito, pensò, attonito. Provava un senso di peso e di torpore al petto e sapeva che cosa significavano quelle sensazioni. Forse sono morto, fu il pensiero successivo. Allora venne travolto dall'ira. Furioso, alzò gli occhi sull'uomo che gli aveva sparato e vide la pistola abbassarsi per fissare su di lui il suo sguardo terribile, come un micidiale basilisco. In quell'istante Tom si rammentò che aveva ancora la spada Nettuno nella mano destra. Se sono morto non posso più muovere il braccio che impugna la spada... Quell'idea divampò nella sua mente, costringendolo a fare appello a ogni stilla di energia e determinazione ancora racchiuse nel suo braccio destro. Con grande stupore, si accorse che il braccio non aveva perso nulla della sua forza e, quando scattò in avanti, la spada gli volò dalle dita come un giavellotto. Lui ne seguì con gli occhi il volo, fermo e inesorabile, mentre la luce della lanterna strappava barbagli d'oro dai preziosi intarsi della lama che volava nell'aria. Sovrastandolo per colpirlo, il barcaiolo aveva aperto il mantello, lasciando esposto il petto. Sotto, indossava soltanto una camicia di seta nera, ornata di pizzo intorno alla gola. Prima che partisse il secondo colpo, l'acciaio trafisse la stoffa leggera sotto il braccio sollevato per puntare la pistola, e Tom, come per magia, vide sparire la lama nel torso dell'uomo, penetrando per tutta la sua lunghezza. Il barcaiolo s'irrigidì, paralizzato da uno spasmo mortale, col cuore trafitto dalla spada. Poi barcollò, mentre le lunghe gambe racchiuse negli stivali lucidissimi di cuoio nero cedevano sotto il peso del corpo. Cadde all'indietro, supino, infilzato sulla spada, e ben presto i fremiti dell'agonia cessarono. Tom si sollevò, appoggiandosi su un gomito, e vide Aboli salire di corsa i gradini. «Klebe, dove ti ha colpito?» «Non lo so. Non sento niente.» Aboli scostò le pieghe del mantello, poi lacerò il tessuto della camicia, tastando le carni. «Piano, perdio!» fu la reazione di Tom. «Se non sono già morto, ci penserai tu.» Wilbur Smith
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Allora il nero afferrò la lanterna ancora accesa sul primo gradino, aprendo del tutto lo schermo per proiettare il raggio di luce sul petto nudo di Tom. C'era sangue, molto sangue. «In basso sul fianco destro», mormorò Aboli. «Non al cuore, ma forse ai polmoni.» Proiettò la luce negli occhi di Tom e, vedendo le pupille contrarsi, esclamò: «Bene! Ora fa' un bel colpo di tosse». Tom obbedì, asciugandosi la bocca col dorso della mano. «Niente sangue!» esclamò, osservando il palmo pulito. «Ringrazia tutti gli dei tuoi e miei, Klebe», grugnì Aboli, spingendo Tom all'indietro. «Ora ti farò male. Grida, se vuoi, ma devo valutare la traiettoria del proiettile.» Trovò il foro d'entrata e, prima che Tom potesse reagire, v'infilò dentro, sino in fondo, un dito lungo e robusto. Il giovane inarcò la schiena, gridando come una vergine deflorata senza troppa delicatezza. «Ha colpito una costola ed è stato deviato», disse Aboli, estraendo il dito insanguinato. «Non è entrato nella cavità del torace.» Fece scorrere la mano, bagnata di sangue caldo, lungo il fianco di Tom, sotto il braccio, e sentì la sporgenza del proiettile vicino alla scapola. «È passato tra l'osso e la pelle. Potremo estrarlo in seguito.» Poi alzò la grossa testa tatuata, sentendo echeggiare un grido all'imboccatura del vicolo buio che portava all'approdo. Quel grido aveva un tono secco di autorità. «Fermatevi e arrendetevi, furfanti, in nome del re!» «La ronda!» esclamò Aboli. «Non devono trovarci qui, in mezzo a tutti questi morti.» Aiutò Tom a rialzarsi. «Vieni, ti aiuterò a raggiungere la barca.» «Lasciami!» scattò lui, liberandosi. «Ho perso la spada.» Piegato in due sul lato della ferita, Tom raggiunse zoppicando il punto in cui il barcaiolo era steso supino. Puntando lo stivale sul torace del morto, estrasse la lunga spada scintillante. Stava per voltarsi e scendere i gradini, allorché un impulso improvviso lo spinse a usare la punta della lama per scostare il cappello a tesa larga dalla testa del cadavere. Fissò attonito il viso bruno e attraente, circondato da una massa di capelli neri che scintillavano alla luce della lampada. La bocca era rilassata, non più crudele, e gli occhi fissavano il cielo notturno senza vederlo, spenti e inespressivi. «Billy!» mormorò Tom. Fissò inorridito il volto del fratello morto e, per la prima volta, si sentì piegare le gambe. «Billy! Ti ho assassinato.» «Non c'è stato nessun assassinio.» Il grande braccio nero di Aboli si Wilbur Smith
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strinse intorno alle sue spalle. «Ma se la ronda ci trova qui, può darsi che ci sarà.» Sollevò di peso Tom, scendendo gli scalini dell'approdo, poi lo depositò a bordo della barca prima di saltare dentro, al suo fianco. Con un colpo di spada recise la cima che li assicurava all'anello di ferro infisso nella banchina di pietra e afferrò i remi. Sotto la forza della sua vogata, la barca fece un balzo in avanti. «Alt! Arrendetevi!» gridò una voce roca dalla riva del fiume, mentre nella nebbia risuonavano passi di corsa e voci di altri uomini. «Fermi, o vi sparo addosso! Questa è la ronda del re!» Aboli continuò a vogare, grugnendo per lo sforzo, e i banchi di nebbia si chiusero intorno a loro. Le pietre nere del molo scomparvero tra spirali di foschia argentea. Poi si sentì lo scoppio potente di uno schioppo, e il ronzio di uno sciame di pallini volò nella nebbia, ricadendo come una grandinata sulla superficie del fiume intorno a loro e investendo di striscio il legno della barca. Tom si rannicchiò sul fondo, stringendo il fianco ferito. Aboli si chinò in avanti sui remi, spingendoli ancora più lontano nell'acqua. Le grida della ronda svanirono ben presto alle loro spalle e il nero smise di vogare. «Ti prego, non pisciarmi addosso. Tieni quel grosso pitone nero ben chiuso nelle brache», lo pregò Tom, fingendosi terrorizzato al ricordo dell'infame trattamento che Aboli riservava a tutte le ferite; ma l'altro sogghignò, limitandosi a strapparsi una striscia di stoffa dalla camicia. «Tu non meriti certi piaceri. Che stupidaggine avvicinarsi a un nemico per offrirgli del denaro!» Alterò il tono della voce per scimmiottare Tom: «'Una ghinea d'oro per i tuoi servigi!'» ridacchiò. «Certo che ti ha reso un bel servizio, in cambio della tua ghinea!» Poi, ripiegando la striscia di stoffa per farne un tampone, la posò sul foro del proiettile, ordinando al giovane: «Tienila lì, e premi forte per frenare l'emorragia». Si rimise a vogare, commentando: «La marea ci favorisce. Saremo a Eel Pie prima di mezzanotte». Rimasero in silenzio per un'ora, procedendo in mezzo alla nebbia. Aboli si orizzontava sul fiume buio e invisibile come se fosse giorno pieno. Infine Tom parlò. «Era mio fratello, Aboli.» «Era anche tuo nemico mortale.» «Ho fatto un giuramento a mio padre sul letto di morte.» Wilbur Smith
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«Gli avevi già risparmiato la vita una volta. Qualsiasi giuramento fatto a tuo padre è stato assolto.» «Dovrò rispondere della sua morte, il giorno del giudizio.» «Di qui ad allora passerà molto tempo.» Aboli grugniva al ritmo regolare dei remi. «Aspettiamo fino ad allora, e poi testimonierò per te, ammesso che il tuo Dio sia disposto ad ascoltare la testimonianza di un pagano. Come va la ferita?» «Il sangue si è fermato... però fa male.» «Bene. Quando una ferita non fa male, vuol dire che sei morto.» Tacquero di nuovo. Tom udì i rintocchi dell'orologio di un campanile in riva al fiume segnare le otto. Si riscosse, facendo una smorfia per il dolore della ferita. «Dev'essere stato Nicholas Childs ad avvertire William del luogo dove poteva trovarci», mormorò. «Nel bel mezzo della discussione si è allontanato improvvisamente dalla stanza. È rimasto via a lungo, quanto bastava per mandargli un messaggio.» «Naturalmente. Ci ha mandati a fare un giro in carrozza per lasciare a tuo fratello il tempo di prepararci una bella accoglienza all'approdo, insieme con i suoi amici.» «Childs indicherà noi come i responsabili dell'assassinio. I magistrati ci faranno arrestare. E avrà molti testimoni contro di noi. Probabilmente gli uomini della ronda ci hanno visti all'approdo. Finiremo sulla forca, se mai ci metteranno le mani addosso.» Era una verità così evidente che non c'era bisogno di fare commenti. «Childs voleva la Swallow. Ecco perché ha detto a Billy dove poteva trovarci. Credevo che quel porco si fosse rassegnato al patto che avevamo concluso. Invece voleva tutto, da me, il carico e la nave», riprese Tom. «È grasso e avido», riconobbe Aboli. «Childs sa dove mandarli. Gli ho detto che la Swallow è ormeggiata a Eel Pie.» «Non devi biasimarti. Non potevi sapere che c'era sotto qualcosa.» Tom si agitò, irrequieto, tentando di lenire il dolore della ferita. «Billy era un pari del regno, un uomo importante che aveva amici potenti. Saranno tenaci come bulldog, non molleranno la presa su di noi.» Per tutta risposta, Aboli grugnì senza mai interrompere il ritmo della vogata. «Dobbiamo salpare stanotte», sentenziò con fermezza Tom. «È troppo rischioso aspettare fino a domani.» Wilbur Smith
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«Finalmente Hal visto quello che era chiaro fin dall'inizio», approvò Aboli con ironia. Tom si rilassò, appoggiandosi al banco del vogatore. Ora che la decisione era presa, poteva riposare meglio. Sonnecchiò in modo intermittente, ma il dolore continuava a svegliarlo. Un'ora prima di mezzanotte fu svegliato dal cambiamento nel ritmo dei remi e, alzando gli occhi, vide apparire nella nebbia il profilo snello ed elegante della Swallow. Aveva una luce di posizione in testa d'albero, e la figura scura della guardia dell'ancora si alzò dietro la murata, apostrofandoli in tono brusco. «Chi va là?» «Swallow!» Tom gridò la risposta tradizionale quando tornava a bordo il comandante della nave e sullo sloop si scatenò subito un gran trambusto. Non appena accostarono alla nave, molte mani si tesero per issarlo a bordo. «Dobbiamo mandare a chiamare un medico», disse Ned Tyler non appena vide il sangue, apprendendo il motivo e la gravità della ferita del suo comandante. «No! Abbiamo alle calcagna la ronda», ribatté Tom trattenendolo. «Dobbiamo salpare entro un'ora, visto che la marea è già cambiata. Dobbiamo scendere a valle col riflusso della bassa marea.» «Il lavoro sotto coperta non è finito», lo ammonì Ned. «Lo so», rispose Tom. «Troveremo un porto sicuro sulla costa meridionale per completarlo. Non possiamo andare a Plymouth, perché è troppo vicino a casa ed è il primo posto dove andranno a cercarci. Il dottor Reynolds vive a Cowes, sull'isola di Wight. È al largo della terraferma, dunque non verranno subito a cercarci laggiù. Possiamo avvertire gli uomini che ci servono di raggiungerci e finire lì il raddobbo prima di salpare per il capo di Buona Speranza.» Si alzò a fatica. «Dov'è Luke Jervis?» «A terra, con la moglie e i marmocchi», rispose Ned. «Mandatelo a chiamare.» Luke arrivò ancora stordito dal sonno. Tom gli spiegò in breve l'accaduto, come aveva perso i proventi del carico e quanto avesse bisogno di fuggire subito lungo il fiume. «So che vi devo la quota della Swallow e del carico che vi avevo promesso, ma in questo momento non posso pagarvi. Vi darò una nota per la somma che vi devo. Forse non potrò più tornare in Inghilterra; tuttavia, Wilbur Smith
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non appena avrò il denaro, ve lo manderò.» «No!» Luke si era svegliato del tutto durante il rapido racconto di Tom. «Non posso fidarmi di voi per una somma così ingente», disse con asprezza. L'altro lo fissò, senza parole, e di colpo il viso di Luke si aprì in un sorriso da lupo. «Dovrò venire con voi per proteggere il mio credito.» «Voi non capite», replicò Tom in tono rude, «io vado in Africa.» «Ho sempre desiderato assaggiare le noci di cocco», ribatté Luke. «Ci vorrà soltanto un minuto per prendere la mia sacca, comandante. Non mollate gli ormeggi prima che io sia di ritorno.» Tom si rifiutò di scendere nel camerino ancora incompleto e Aboli sistemò per lui un pagliericcio sul ponte, con una tela cerata sopra. Dieci minuti dopo Ned lo raggiunse. «La nave è pronta a prendere il mare, comandante», riferì. «Dov'è Luke Jervis?» domandò Tom. «Dovrebbe essere qui da un momento all'altro», cominciò Ned, ma s'interruppe nel sentire un grido che squarciava la notte, il grido di una donna in preda a un'angoscia terribile. Con un sussulto, tutti allungarono le mani verso le armi, proprio mentre due figure in ombra correvano lungo il pontile di legno verso la Swallow. «È soltanto Luke», spiegò Alf Wilson, sollevato, «con la moglie al seguito. È meglio che salpiamo. Potrebbe farci passare qualche guaio.» «Mollate gli ormeggi!» urlò Luke quando giunse a metà del pontile. «Questa indemoniata m'insegue!» Mollarono le cime e corsero alle drizze. La Swallow si allontanò dal molo. Luke percorse le ultime iarde a tutta velocità mentre la moglie guadagnava terreno, strillando di rabbia e cercando di colpirlo col lungo bastone che impugnava. Poi Luke coprì lo spazio tra il molo e la nave spiccando un balzo. «Luke Jervis, torna subito qui! Non puoi lasciarmi con questa nidiata di bastardi che mi Hal fatto mettere al mondo, senza cibo né denaro per sfamarci e vestirci. Non te ne andrai a zonzo in Africa per spassartela con quelle sgualdrine selvagge.» «Addio, mia dolce colombella.» Jervis si rialzò a fatica, più spavaldo adesso che li separavano venti piedi d'acqua. Le mandò un bacio con un soffio. «Ci rivedremo fra tre anni, o forse quattro, o forse anche di più.» «Che cosa ne sarà di me e dei miei bambini innocenti?» piagnucolò lei, cambiando repentinamente il tono della voce. «Non Hal un briciolo di Wilbur Smith
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pietà?» Scoppiò in singhiozzi pietosi. «Vendi la Raven», le gridò di rimando Luke. «Ti renderà abbastanza per mantenere te e la tua nidiata per vent'anni.» «Non aspetterò il tuo ritorno, Luke Jervis.» Il tono della donna era cambiato di nuovo. «Ci sono parecchi uomini che sarebbero contenti di prendere il tuo posto nel mio letto.» «Tutti uomini valorosi!» esclamò Luke e la salutò, sventolando il berretto. «Ti meritano più di me, fiorellino.» Si rifugiarono nelle acque del fiume Medina, a mezzo miglio di distanza da Cowes. Tom aveva ordinato a Ned di coprire con una mano di pittura il nome francese dello sloop, però non lo aveva ancora sostituito con quello nuovo. La nave non dava nell'occhio, in mezzo alle altre piccole imbarcazioni all'ancora. Tutti gli uomini dell'equipaggio avevano inoltre ricevuto la consegna del silenzio: non dovevano parlare a nessuno delle origini, dell'attività e della destinazione finale della nave. Non appena ricevuto il messaggio di Tom, il dottor Reynolds arrivò a bordo. Fece stendere il paziente su un graticcio sistemato nel camerino appena costruito e incise la pelle per estrarre il proiettile, mentre Aboli teneva Tom per le braccia e Alf Wilson per le gambe. Alla prima incisione, Reynolds trovò il proiettile di piombo molle, estraendolo dalle carni gonfie e infiammate come se fosse il nocciolo di una prugna. C'era un segno netto sul metallo nel punto in cui aveva colpito la costola di Tom. Poi, mentre il giovane si dibatteva, sondò il canale che il proiettile aveva scavato nella gabbia toracica. «Eccoli qua tutt'e due, lo stoppaccio e il frammento di camicia che si è portato dietro!» Esibì con fierezza quei sordidi trofei, tenendoli sollevati per mostrarli a Tom, che giaceva immerso nel sudore causato dalla sofferenza, serrando tra i denti il cuneo di legno. «Penso che ora guarirà bene.» Reynolds annusò il pus e i detriti estratti dalla ferita. «Dolce come il buon sidro del Devon. L'infezione non ha ancora fatto presa sul vostro sangue. Comunque lascerò una piccola sonda nella ferita per consentire un drenaggio completo. Tornerò fra tre giorni per toglierla.» E infatti, tre giorni più tardi, Reynolds tolse la sonda, proclamando che l'operazione era stata un capolavoro dell'arte chirurgica. Poi ingollò il boccale di sidro che Tom gli aveva offerto e, sotto l'influenza di quella bevanda, accettò senza proteste o esitazioni il posto di chirurgo della nave Wilbur Smith
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che Tom gli aveva offerto con insistenza. «In quest'ultimo anno ho rischiato di morire di noia», borbottò Reynolds. «Mai che capitasse una bella ferita di fucile o un taglio di spada a rallegrare le mie giornate. Nient'altro che nasi che colano e sederi che perdono», confidò poi, bevendo il secondo boccale di sidro, mentre erano seduti in coperta, vicino all'albero di maestra. «Ho ripensato spesso a quelle calde giornate serene sulla costa della Febbre.» Si sentì una raffica di martellate sotto coperta e, pochi minuti dopo, il capo dei carpentieri si affacciò dal boccaporto. «Il lavoro è finito, comandante. Potete partire in qualsiasi momento vorrete.» Tom aveva ingaggiato una squadra di tre carpentieri locali per completare i lavori sulla Swallow. Per soddisfare le sue richieste avevano lavorato a turno, di giorno e anche di notte, alla luce della lanterna, e lui fu in grado di pagarli, riconoscente per l'ottimo lavoro che avevano fatto, rimandandoli quindi a casa. Nel frattempo, aveva incaricato Alf Wilson e Ned Tyler di attraversare in barca il Solent per rintracciare gli uomini che avevano già messo sotto contratto per il viaggio. Erano sparsi lungo la costa, nei porti e nei villaggi di pescatori tra Plymouth e Portsmouth, in attesa che Tom li convocasse. Tom e il signor Walsh li accompagnarono fino a Southampton, dove fecero visita a mercanti di ogni genere: dovevano acquistare le provviste e le merci necessarie per rifornire la Swallow e metterla così in grado di compiere una lunga navigazione commerciale. Grazie all'ultimo viaggio compiuto insieme col padre, Tom sapeva quali merci erano più richieste fra le tribù di neri africani. Ordinò e pagò quasi due tonnellate di tessuto di cotone Merikani, duemila lame d'ascia, cinque tonnellate di filo di rame, cinquecento specchietti, una tonnellata di perline di vetro di Murano, venti libbre di aghi, un centinaio di fucili di bassa qualità con relative fiasche per la polvere e sacchetti di proiettili, più una tonnellata di gingilli assortiti. Quasi tutte queste merci furono consegnate senza problemi oltre le acque del Solent e stivate a bordo entro la settimana. Tom lasciò il signor Walsh a Southampton perché provvedesse all'acquisto delle ultime merci, mentre lui tornava alla nave. Era tormentato dall'inquietudine, in quegli ultimi giorni, mentre il suo equipaggio cominciava ad arrivare sul Solent, alla spicciolata, con la sacca in spalla. Quando salivano a bordo, li accoglieva chiamandoli per nome a Wilbur Smith
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uno a uno e li invitava a tracciare il loro segno di riconoscimento sul contratto. Erano i migliori fra tutti quelli che avevano navigato sulla Seraph e sulle altri navi della squadra. Tom si sentiva lieto e sollevato di averli con sé a bordo; pagò a ciascuno lo scellino d'argento che era loro dovuto per l'ingaggio, poi li spedì sotto coperta a scegliere i pioli ai quali attaccare la propria amaca. Il signor Walsh tornò dalla spedizione di acquisti a bordo della chiatta che aveva noleggiato per trasportare l'ultima consegna di merci e provviste da Southampton e lungo il Solent fino al punto in cui era ancorata la Swallow. Una volta caricate quelle merci, le stive della nave furono così piene che essa era bassa sull'acqua. Invece Ned Tyler e Alf Wilson non erano ancora tornati, e furono costretti ad aspettarli. Non passava ora senza che Tom guardasse la riva, angosciato dalla minaccia che pendeva sul suo capo. Era certo che i tutori della legge stessero già setacciando tutti i porti della costa meridionale. Immaginò che avessero cominciato da Plymouth, per allargare poi le ricerche dello sloop ad altri porti. Era solo questione di tempo prima che raggiungessero l'isola di Wight e cominciassero a trovare gli indizi che li avrebbero portati verso l'ancoraggio della Swallow. Aveva anche un altro motivo di preoccupazione. L'autunno era inoltrato e tra poco l'inverno avrebbe gettato la sua rete di tempeste sulle rotte per il sud, intrappolandoli. Comunque, quei giorni di tregua avevano lasciato alla ferita il tempo di rimarginarsi. Ormai era di nuovo forte e vigoroso, ansioso di mettersi in viaggio. Di notte, nel suo camerino, era ossessionato dall'assassinio del fratello e meditava sulla propria colpa. Nella Bibbia dalla copertina di cuoio, ormai logora, leggeva e rileggeva la storia di Caino e Abele, trovando scarsi motivi di conforto. Poi, dopo due settimane, Alf Wilson e Ned Tyler tornarono, restando sorpresi dal calore e dall'entusiasmo del suo benvenuto. «Jeremy Compton ha cambiato idea, e non siamo riusciti a trovare Will Barness e John Birdham», disse Ned con aria di scusa. «Niente di male, Ned», gli assicurò Tom in tono espansivo. Insieme ricontrollarono il ruolino dell'equipaggio, assegnando ogni uomo a un turno di guardia. Ned era il comandante in seconda, Alf, Luke e Aboli gli altri ufficiali, più ventisette marinai esperti - autentici veterani - per completare l'equipaggio. «Ci manca soltanto un carico di merci da rivendere che deve ancora Wilbur Smith
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arrivare: duecento libbre di perline di vetro di Murano rosse e verdi», spiegò Tom agli ufficiali. «Con un po' di fortuna, dovrebbero arrivare domani e, subito dopo averle stivate, salperemo con la prima marea favorevole.» Si disposero a trascorrere quella che doveva essere l'ultima notte prima della partenza. Quando il sole tramontò dietro uno spesso strato di nubi grigie, una delegazione guidata da Luke Jervis venne da lui, che se ne stava a prua, immerso nelle sue meditazioni, fissando le luci del villaggio oltre il corso del fiume; si stava congedando per sempre dall'Inghilterra, rattristato dall'esilio imminente al quale era condannato per tutta la vita. Nel contempo, però, era euforico al pensiero di poter cominciare finalmente la ricerca di Dorian e di tornare in quella terra misteriosa, laggiù a sud, che esercitava su di lui un fascino prepotente. «Qualcuno dei ragazzi vorrebbe gustare un ultimo boccale di birra alla taverna e baciare ancora una volta una bella ragazza cristiana, prima di salpare domani. Volete concedere il permesso di scendere a terra per un'ora, comandante?» Tom rifletté. Non era saggio permettere agli uomini di scendere a terra, perché, con un po' di liquore in corpo, anche i marinai migliori diventavano sfrenati e inaffidabili. «Passeranno almeno tre anni prima che possano assaggiare di nuovo una buona birra inglese», gli ricordò Luke, sollecitandolo con discrezione. Aveva ragione, pensò Tom; un rifiuto sarebbe stato duro da accettare. Da lì poteva vedere le finestre illuminate della taverna sulla riva opposta. Sarebbero stati quasi a portata di voce... «Volete andare con loro, mastro Jervis, per badare che sia davvero un'ora, e non di più?» chiese Tom. «Perché non venite anche voi, comandante? Baderanno a come si comportano e verranno via puntuali e sobri, se li terrete d'occhio voi.» «Sarà sempre meglio che starsene qui seduto a tormentarsi per quello che non sarebbe mai dovuto succedere, Klebe», gli disse piano Aboli, che era seduto ai piedi dell'albero. «I ragazzi saranno contenti di farsi offrire un boccale da te, per brindare insieme al successo del viaggio.» Tom affidò a Ned il comando dello sloop; con lui rimasero alcuni uomini che preferivano riposare sulla loro amaca anziché finire col naso nel bicchiere di birra. Gli altri si diressero a terra a forza di remi, su una delle barche. La taverna era rumorosa e affollata di pescatori e allevatori di aragoste, Wilbur Smith
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oltre agli equipaggi dei vascelli di linea della marina inglese. L'aria era densa di fumo, che formava una nebbia azzurrina. Tom ordinò un boccale di birra per tutti, poi Aboli e lui si appartarono in un angolo da cui potevano tenere d'occhio la sala e la porta. Jim Smiley e un paio di altri marinai attaccarono a parlare animatamente con un terzetto di donne nell'angolo in fondo e, nel giro di pochi minuti, si formarono le coppie che scomparvero nella notte, sebbene fosse cominciata a cadere una pioggerella leggera. «Non staranno via per molto», disse Aboli, per placare le ansie di Tom. «Ho raccomandato ai ragazzi di restare a portata di voce.» Tom non aveva bevuto neanche un sorso, quando due sconosciuti entrarono dalla porta principale, fermandosi sulla soglia per scrollarsi la pioggia dal tricorno e dalle spalle. «Quei due non mi piacciono», disse il giovane, a disagio, allontanando il boccale. Erano tipi grandi e grossi, con un'espressione insieme minacciosa e stolida. «Non sono venuti qui per bere e spassarsela.» «Resta qui», gli disse Aboli, alzandosi. «Cercherò di scoprire qualcosa sui loro affari.» Si mosse con indolenza tra gli avventori, seguendo la coppia mentre si faceva largo tra la folla per raggiungere il punto in cui la moglie dell'oste e due cameriere spillavano la birra dallo zipolo di un barilotto da venti galloni. «Buonasera, signora.» Fu il più anziano dei due a salutare la donna. «Vorrei scambiare due parole.» «Le parole non costano niente», ribatté lei, alzando la testa e scostandosi i capelli dagli occhi. «Prima vediamo se avete mezzo penny per un boccale, e allora potrete parlare quanto volete.» L'uomo sbatté una moneta sul tavolo; Aboli si avvicinò con aria distratta, in modo da poter ascoltare quello che dicevano senza farsi notare. «Sto cercando una nave», disse il più robusto dei due. «Allora siete venuto nel posto giusto. Di navi, qui, ce n'è quante ne volete. Laggiù c'è tutta Spithead, con la flotta al gran completo. Servitevi pure.» «La nave che cerco è uno sloop», mormorò l'uomo, sorridendo per ingraziarsela, ma con gli occhi gelidi e duri. «Una bella nave, piccola, che si chiama Hirondelle.» La sua pronuncia del francese era penosa. «O forse Swallow.» Wilbur Smith
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Aboli non attese la risposta dell'ostessa per girare sui tacchi e dirigersi verso il gruppo dei marinai dello sloop, riuniti a ridere e tracannare birra. Tom, che lo teneva d'occhio dalla parte opposta della sala, lo vide abbozzare un cenno con la testa, uno dei suoi inconfondibili segni di richiamo. Allora si alzò per fendere la folla, senza dare nell'occhio, individuando i suoi uomini e battendo sulla spalla di ciascuno, prima di mormorare loro una parola sottovoce. Aboli faceva altrettanto; così, come due cani da pastore, radunarono gli uomini all'aperto, sotto la pioggerella. «Che cosa succede?» domandò Luke. «Gli agenti del ministero della Giustizia stanno per smascherarci», spiegò Aboli. «Dove sono John Smiley e i suoi compagni di gozzoviglie?» «Stanno mollando il loro carico in qualche bel boccaporto roseo, direi.» «Richiamateli con un fischio», ordinò Tom. «Non aspetteremo la marea.» Luke prese il fischietto di osso di balena che portava al collo, appeso a un laccio, e lanciò due fischi acuti. Quasi subito, John Smiley arrivò di corsa dalla zona d'ombra dietro la taverna, e gli altri due lo seguirono incespicando, allacciandosi le brache e lisciando il camiciotto. «Tornate alla barca, ragazzi», ordinò Tom. «Altrimenti restate a terra.» Il pontile al quale avevano ormeggiato la barca distava appena un centinaio di passi, ma erano arrivati appena a metà strada quando una voce stentorea li trattenne. «Thomas Courteney! Fermatevi, in nome della legge.» Tom lanciò un'occhiata indietro e vide i due uomini uscire a precipizio dalla porta della taverna, lanciandosi all'inseguimento. «Ho un mandato d'arresto firmato dal ministro della Giustizia! Siete accusato dell'omicidio di Lord William Courteney.» La sfida spronò Tom, che incitò i suoi uomini: «Correte, ragazzi!» Arrivarono in cima ai gradini dell'approdo con un buon vantaggio sugli inseguitori, ma la scaletta rappresentò una strozzatura che permise ai due di riguadagnare terreno. Entrambi avevano estratto la spada dal mantello, e i loro stivali pesanti risuonavano sull'acciottolato. «Fermi, in nome della legge!» gridarono. «Li trattengo io!» borbottò Aboli, voltandosi a fronteggiarli. «Salite a bordo!» Invece Tom gli si affiancò e i due rimasero fermi in cima alla scaletta, spalla a spalla. «La ferita! Non puoi ancora impugnare un'arma. Quando mi darai retta, Wilbur Smith
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una buona volta?» gli domandò Aboli. «Quando dirai qualcosa di sensato!» Tom impugnò la spada Nettuno con la sinistra, sentendo una fitta di dolore al fianco, dove la ferita non era ancora perfettamente rimarginata. «Vi ucciderò, se mi costringete a farlo», gridò ai due che si avvicinavano, con un tono tale da indurli ad arrestarsi bruscamente. Si fermarono appena oltre la portata della spada. «Siamo rappresentanti della legge. Se ci toccate, lo fate a vostro rischio e pericolo.» Erano sconcertati da quella strana coppia che li fronteggiava: un giovane dal viso ancora ingenuo, nonostante il naso rotto, e un gigante nero col volto segnato da paurose cicatrici. «E io sono un assassino con le mani sporche di sangue. Una morte in più significa ben poco, per me», replicò Tom con una risata sinistra. «Questo selvaggio nero, poi, gli uomini li mangia crudi. La parte che preferisce è la testa. Succhia la carne dalle ossa.» Aboli si tolse il cappello per scoprire la grossa testa rasata e fissarli con un cipiglio feroce, contorcendo il viso tatuato in una maschera grottesca. D'istinto, i due agenti fecero un passo indietro. Alle sue spalle, Tom sentì gli ultimi uomini gettarsi nella barca, mentre i remi cominciavano a cigolare negli scalmi. «Venite a bordo, comandante», gridò Luke Jervis. «Filate via!» gli gridò Tom, facendo un balzo in avanti per andare incontro ai due agenti del ministero della Giustizia. «In guardia! Difendetevi!» Lanciò un assalto contro l'uomo che aveva di fronte, spingendolo indietro, facendogli balenare la lama davanti agli occhi, lacerando e tagliuzzando con la punta la stoffa del suo mantello, ma sempre badando a non ferirlo. Agli agenti bastò incrociare la lama con gli avversari per capire che erano irrimediabilmente inferiori e battere in ritirata di fronte a quell'attacco coordinato. Luke Jervis lanciò un altro richiamo e Tom gettò un'occhiata all'indietro, verso la barca che si era appena allontanata dalla banchina, con i vogatori pronti ai remi. «È ora di andare», mormorò parlando in arabo a beneficio di Aboli, prima di lanciare altri due rapidi affondi al viso che costrinsero i due tutori della legge a indietreggiare, incespicando. Poi Tom e Aboli si girarono di scatto e corsero fino all'estremità della banchina, spiccando un balzo e ricadendo in acqua Wilbur Smith
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mentre il mantello si gonfiava dietro di loro. La barca si precipitò a recuperarli non appena risalirono a galla. Tom teneva stretta nella mano destra la spada Nettuno, nuotando con l'altro braccio per andare incontro alla barca. Dopo averli issati a bordo, gli uomini invertirono subito la direzione, forzando l'andatura per raggiungere la Swallow all'ancora. Una volta tornati al sicuro a bordo, ci vollero solo pochi minuti per issare la barca e assicurarla a prua, mentre l'altro turno si dava da fare con l'argano, recuperando l'ancora dal fondale fangoso. Anche i due tutori della legge dovevano disporre di un'imbarcazione, perché erano a metà strada dalla banchina quando la Swallow bordò la randa di maestra per mettersi al vento nella notte. Mentre percorreva lo stretto canale che portava alle acque del Solent, superarono la barca, passandole vicino. Uno dei due uomini era a poppa, da dove puntò la spada verso Tom, che era al timone della Swallow. «Non riuscirete a fuggire in eterno», gridò per farsi sentire al di là del varco che separava le due imbarcazioni. «Avete le mani macchiate di sangue, e vi staneremo, prima o poi, ovunque vi nascondiate.» Tom non rispose, continuando a guardare davanti a sé e lasciando ballonzolare la barchetta nella scia della Swallow. Il vento la trattò come un'amante. Giunse dal nord, a mo' di ambasciatore dell'inverno, gelido e veloce, ma non tanto forte da costringerli a prendere una mano di terzaroli dalla randa di maestra. Nel giro di due settimane avevano già doppiato Ushant; poi il vento del nord li sospinse attraverso la baia di Biscaglia, notoriamente culla di tempeste e mari turbolenti, proseguendo verso sud oltre le Canarie, fino alla zona delle calme equatoriali. Là si aspettavano che calasse, diventando capriccioso e irregolare, invece continuò a soffiare dolce e costante. Un giorno, dopo il rilevamento della posizione del sole alle dodici, Tom calcolò che avevano raggiunto l'equatore e si trovavano mille miglia a ovest della massa imponente del continente africano. «La nuova rotta è sud-sud-est, signor Tyler. A vele spiegate.» Contrassegnò la posizione sull'asse della chiesuola. Ned si sfiorò la fronte con le dita. «A vele spiegate, comandante.» Tom alzò lo sguardo verso la randa di maestra della Swallow, bianca e gonfia come il ventre di una donna incinta di otto mesi. Poi guardò a Wilbur Smith
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poppa, dove la scia era nitida e diritta sullo sfondo dei cavalloni dell'Atlantico arruffati dal vento. «Con questo vento avvisteremo il Capo tra meno di sessanta giorni, e trenta giorni dopo getteremo l'amo per le strade di Zanzibar.» Ormai aveva lasciato i dubbi e le incertezze molto lontano, oltre l'orizzonte a nord, e si sentiva forte e invulnerabile. Il dhow di Abd Muhammad al-Malik era ridotto a mal partito. La caduta dell'antenna, oltre a rischiare di uccidere il principe, aveva lasciato la nave incapace di manovrare; andava alla deriva con la prua al vento, il ponte coperto di un intrico di vele e l'alberatura in pezzi. C'erano bozzelli che penzolavano dall'albero, sbattendo contro il legno e contro la carena sotto le forti raffiche del monsone, e le sartie schioccavano, frustando l'aria e minacciando di saltare, lasciando il veliero nel caos più completo. Il primo problema da risolvere per rimettere una parvenza di ordine in quella rovina era catturare l'estremità della drizza di maestra. Quella pesante cima, scendendo dalla sommità dell'albero, passava attraverso il bozzello che si trovava in testa all'albero, e quindi non si poteva ritirare dal ponte: questo non avrebbe fatto altro che complicare il compito di bordare la grande vela latina per riprendere la navigazione. Qualcuno sarebbe dovuto salire sull'albero. A differenza di quanto accadeva nelle navi a vele quadre, non esistevano sartie che rizzassero l'albero, e quindi non era facile accedervi. D'altronde, senza la vela, il dhow rollava con violenza sulle onde alte. Il comandante tentava di tenere la prua verso il mare, manovrando col timone per contrastare la tendenza della nave a girarsi di poppa, ma di tanto in tanto qualche maroso più grande la investiva al traverso, minacciando di capovolgerla. L'albero sembrava un pendolo gigantesco che oscillava da un lato all'altro, aggravando la violenza di questi movimenti. La nave correva seri rischi. Il comandante non osava allontanarsi dal timone, ma gridava ordini ai suoi uomini, che si rintanavano il più lontano possibile da lui, nel tentativo di sfuggire al suo sguardo. Sapevano perfettamente che cosa si doveva fare, ma nessuno era disposto a tentare la scalata fino alla testa dell'albero. Dorian assisteva a quel pandemonio, eccitato e affascinato. Sul ponte della Seraph non si erano mai viste scene così appassionanti, non si faceva tutto quel gridare e gesticolare. Wilbur Smith
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«Ahmed, figlio di una grandissima scrofa!» Il comandante, Fouad, individuò un'altra possibile vittima, indicandogli l'albero. «Farò avvolgere il tuo corpo in una pelle di porco prima di gettarti fuori bordo, se non mi obbedisci.» Il marinaio distolse lo sguardo, fissando il mare come se fosse sordomuto. Dorian valutò l'impresa con occhio esperto, chiedendosi di che cosa mai avessero tanta paura. Lui aveva danzato con Tom sul pennone di maestra della Seraph, tenendo una mano sul fianco e l'altra sopra la testa, mentre la nave filava sulle temibili onde lunghe del capo di Buona Speranza e il vento di sud-est soffiava forte, sfiorando l'intensità di una burrasca. E dire che quell'albero era alto appena un terzo dell'albero di maestra della Seraph. Gli parve quasi di sentire la voce di Tom che lo stuzzicava: «Andiamo, Dorry! Fa' vedere quello che sai fare. Scommetto che Hal fegato!» Nessuno lo guardava: nel caos generale, si erano completamente dimenticati di lui. Anche il principe pareva aver rinunciato alla sua compostezza abituale per aggrapparsi a uno degli stralli sul ponte di prua, fissando l'albero che oscillava. Dorian si sfilò di dosso la lunga tunica bianca, gettandola sul ponte. L'abito lo avrebbe intralciato, avvolgendosi intorno alle gambe. Nudo come un neonato, corse verso l'albero di maestra, arrampicandosi di slancio come una scimmia inseguita da un leopardo. Il principe, ritrovando il sangue freddo, gridò: «Fermate il bambino! Si ucciderà!» Dorian, però, era già lontano dalle mani frenetiche protese per eseguire l'ordine. La sua agilità e la sua capacità di equilibrio erano state sviluppate e messe a punto sull'alberatura della Seraph e, rispetto al livello raggiunto su quella nave, l'arrampicata che stava compiendo in quel momento era una passeggiata. Sfruttò il rollio della nave e l'oscillazione dell'albero per spingersi in alto, facendo presa alternativamente con le ginocchia e con le mani. Giunto in cima all'albero, rivolse lo sguardo in basso e, vedendo le facce terrorizzate sotto di lui, non seppe resistere alla lusinga di una piccola esibizione: cinse con le gambe l'albero, liberando una mano, e, puntando il pollice sulla punta del naso, agitò le dita in direzione del ponte, con un gesto di scherno. Sebbene l'equipaggio non lo avesse mai visto prima, era un atto dal significato inequivocabile. Il corpo nudo di Dorian splendeva al sole, bianco come un guscio di ostrica, col culetto roseo che il ragazzino dimenò per sottolineare l'insulto. Wilbur Smith
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Un gemito inorridito si levò dagli spettatori quando salì ancora più in alto; tutti sapevano che, se ad al-Amhara fosse capitato qualcosa di male, l'ira del principe sarebbe stata terribile e sarebbe ricaduta in pieno sulle loro teste. Gemettero di nuovo, quando Dorian si sporse per afferrare la drizza che svolazzava al vento. «Date volta all'estremità!» gridò rivolto al ponte, parlando in inglese. L'ordine tuttavia risultò chiaro per il comandante, che ne intuì il significato, traducendo in arabo. Tre uomini si precipitarono ad afferrare la coda di ratto della pesante cima. Non appena furono pronti a frenare la sua caduta, Dorian si arrotolò due volte intorno alla vita la cima logora e sfilacciata, facendola poi passare tra le gambe. «Frenate la caduta!» gridò ancora. Poi, dopo aver atteso il momento giusto rispetto all'oscillazione dell'albero, lasciò andare la presa e si allontanò dall'albero con un calcio. La drizza emise un sibilo, scorrendo rapidamente nel bozzello, mentre lui precipitava. I marinai all'altro capo della drizza la fecero scorrere tra le mani dal palmo calloso, frenando la caduta. A ogni oscillazione dell'albero del dhow, lui si trovava sospeso sull'acqua e ululava per l'esultanza, dondolandosi nell'aria. Gli uomini valutarono la sua discesa con l'esperienza dei marinai, lasciandolo scendere per le ultime braccia di cima con tanta leggerezza che Dorian, allorché atterrò sul ponte, non produsse il minimo rumore; poi si precipitarono tutti a controllare che fosse incolume e a rizzare saldamente l'estremità della drizza che teneva avvolta intorno alla vita. Non appena passarono una cima nuova nel bozzello in testa d'albero e fu possibile incrociare di nuovo l'antenna al suo posto, il dhow prese il vento, e la spinta della vela latina lo trasformò da uno scafo inerte e rollante in una creatura marina agile e veloce. Il principe posò una mano sulla spalla di Dorian e si guardò attorno, fissando i componenti del suo seguito. «Con la sua prontezza di spirito e di azione, questo bambino ha salvato la mia vita e quella della mia nave», annunciò. «C'è qualcuno tra voi che nutre ancora dubbi sul fatto che sia l'orfano dai capelli rossi indicato dalla profezia?» Accarezzando i riccioli lucenti di Dorian, guardò negli occhi, uno dopo l'altro, i suoi cortigiani, e nessuno di loro osò sostenere il suo sguardo. Fu il mullah a pronunciarsi per primo. «È il miracolo del santo Wilbur Smith
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Taimtaim», gridò. «Io annuncio la sacra parola. Questo è il bambino della profezia!» «È la profezia!» intonarono gli altri in coro. «Sia lodato il nome di Allah!» Continuando a tenere la mano sulla testa di Dorian, il principe aggiunse: «Sappiate tutti che prendo questo bambino come figlio adottivo. D'ora in poi sarà noto col nome di al-Amhara Abd Muhammad al-Malik, ossia il Rosso, figlio di al-Malik». Il mullah sorrise dell'astuzia del suo signore. Adottando quel bambino, aveva convalidato perfettamente la profezia; eppure c'erano anche altre condizioni da adempiere, prima che il principe potesse cogliere la ricompensa promessa dal santo. Senza dubbio, a suo tempo si sarebbero realizzate anche quelle. «È la volontà di Allah!» gridò, e gli altri intonarono in coro: «Allah è grande!» Anche se non avesse avuto la protezione del principe, Dorian, durante quelle settimane trascorse in mare, si era conquistato l'affetto dei membri dell'equipaggio. Era chiaro a tutti che il ragazzo portava con sé presagi favorevoli, e ciascuno sperava in segreto che almeno una parte delle promesse della profezia potesse riflettersi su di lui. Quando il ragazzino si aggirava sul ponte, anche i marinai più incalliti e scellerati gli sorridevano e scambiavano qualche battuta con lui, oppure gli toccavano i capelli rossi, per buona fortuna. Il cuoco della nave gli preparava manicaretti speciali e dolci zuccherati, mentre gli altri uomini dell'equipaggio si contendevano le sue attenzioni e gli offrivano piccoli regali. Uno di loro si tolse persino l'amuleto che portava al collo appeso a un laccio, per passarlo intorno alla testa di Dorian. «Perché ti protegga», gli disse, facendo il segno che allontanava il malocchio. «Scimmietta col cuore di leone», lo aveva soprannominato Fouad, il comandante, il quale, dopo la preghiera della sera, lo chiamava accanto a sé, al timone, per indicargli le stelle che guidavano la rotta, a mano a mano che sorgevano dal mare; poi, recitando i nomi delle costellazioni, gli raccontava le leggende legate a ciascuna di esse. Gli arabi, uomini dei deserti e degli oceani, trascorrevano la vita intera sotto la tenda del cielo e avevano sempre le stelle sopra di loro. Ecco perché le studiavano da secoli Wilbur Smith
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e Fouad, trasmettendo una parte della sua conoscenza a Dorian, faceva al ragazzino un dono raro e prezioso. Dorian, col viso illuminato dal chiarore delle stelle, ascoltava affascinato tutti i racconti e, a sua volta, indicava al comandante i nomi inglesi dei corpi celesti che aveva appreso da Ned Tyler e Big Daniel. Gli altri uomini dell'equipaggio si raccoglievano intorno a loro per ascoltare le leggende delle Sette Sorelle, le Pleiadi, del cacciatore Orione e dello Scorpione, raccontate da Dorian con la sua voce dolce e acuta. Amavano le stelle e adoravano ascoltare un buon racconto. Potendo muoversi liberamente a bordo della nave, Dorian era sempre molto occupato e gli restava poco tempo per sentirsi solo e compiangersi. A volte trascorreva metà della mattinata sporgendosi dal dhow per osservare un branco di delfini dal muso lungo che facevano le capriole nell'onda di prua, sventagliando la grande coda e fissandolo con gli occhietti acuti mentre si spostavano avanti e indietro, passando sotto la chiglia. Capitava addirittura che una di quelle creature saltasse fuori dell'acqua abbagliante di riflessi, proiettandosi fino all'altezza di Dorian e sorridendogli con la bocca larga; Dorian allora faceva un cenno di saluto al delfino, scoppiando in uno scroscio di risa gioiose. I marinai arabi che gli passavano vicino interrompevano le loro attività per sorridergli con simpatia. Però, ogni volta che lo vedeva troppo coinvolto in una conversazione con i marinai comuni, Fouad lo richiamava a sé con un atteggiamento possessivo. «Vieni qui, scimmietta col cuore di leone, dirigi la rotta della nave al posto mio.» E Dorian prendeva la barra del timone, con gli occhi scintillanti, tenendo al vento il dhow che filava veloce e sentendolo tremare sotto le sue mani, come un purosangue che si raccoglie, preparandosi al salto. Talvolta il principe, seduto a gambe incrociate sul tappeto di seta sotto la tenda che lo riparava dal sole, interrompeva i colloqui con i suoi cortigiani per osservare il ragazzino, con un lieve sorriso sulle labbra. Poiché Dorian era ancora un bambino e non era stato circonciso, Tahi poteva restare senza velo in sua presenza. Quella donna era la più umile delle creature. Suo marito era uno degli stallieri del principe, e, non riuscendo ad avere un figlio maschio da lei, l'aveva ripudiata. Soltanto la benevolenza e la compassione di al-Malik le avevano risparmiato l'umiliazione di chiedere l'elemosina per le strade di Lamu. Tahi era Wilbur Smith
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grossa, morbida e tutta tonda, con la pelle bruna e untuosa. Le piaceva mangiare, aveva la risata facile e un buon carattere. La sua lealtà e devozione al principe erano il centro della sua esistenza, e ora, d'un tratto, Dorian era diventato il figlio del suo padrone. Come tutti gli altri a bordo, anche Tahi era rimasta incantata dai bei capelli rossi, dagli strani occhi verde pallido e dalla pelle di un candore latteo. Quando Dorian esercitava su di lei tutto il potere del suo sorriso solare e del suo carattere accattivante, lei si scopriva incapace di resistergli. Non avendo figli suoi, riversò su di lui tutti i suoi istinti materni, e ben presto ne fu completamente conquistata. Quando il principe la nominò ufficialmente bambinaia di Dorian, pianse di gioia. Il ragazzino, però, non tardò molto a capire che, sotto quel viso dai tratti quasi bovini, si nascondevano un'intelligenza acuta e un sottile fiuto politico. Tahi conosceva tutte le correnti di potere e d'influenza che si agitavano alla corte del principe e riusciva a destreggiarsi con rara abilità tra le une e le altre. Gli spiegava quali erano i cortigiani importanti, quali erano i loro punti di forza e le loro debolezze, le loro manie e il modo migliore di prenderli per il verso giusto. Cominciò a insegnargli l'etichetta di corte e come bisognava comportarsi alla presenza del principe e dei suoi seguaci. Il dolore di Dorian, tuttavia, non era affatto sopito. Lo assaliva di notte. Al buio, i ricordi di Tom e del padre emergevano prepotenti, riuscendo a sopraffare la sua forza d'animo. Una notte, Tahi fu svegliata dai singhiozzi soffocati che provenivano dal pagliericcio su cui Dorian dormiva, dalla parte opposta della piccola cabina. Essendo anche lei una fuori casta, comprese per istinto la solitudine e la nostalgia del piccolo strappato alla sua famiglia e a tutto ciò che gli era caro e familiare, per essere gettato tra estranei che appartenevano a una razza, a una religione e a un modo di vivere diversi. In silenzio si alzò per andare da lui, stendendosi al suo fianco sul pagliericcio e stringendolo in un caldo abbraccio materno. Da principio, Dorian tentò di resistere e la respinse, ma poi si lasciò andare, abbandonandosi tra le sue braccia. E lei, con le labbra schiacciate contro i capelli lucenti, riversò su di lui tutte le parole d'amore che si era tenuta dentro per quel figlio che il suo ventre sterile le aveva negato. A poco a poco la tensione svanì dal corpo di Dorian, che si avvicinò a lei, rannicchiando la testa tra i grandi seni rotondi, e infine si addormentò. La Wilbur Smith
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notte seguente fu lui ad accostarsi al pagliericcio di Tahi, con molta naturalezza, e lei gli aprì le braccia grassocce, attirandolo a sé. «Bambino mio», bisbigliò, stupita dalla profondità dei suoi sentimenti. «Il mio bellissimo bambino.» Dorian non poteva ricordare il conforto delle braccia materne, però il suo bisogno di affetto era profondissimo, e ben presto Tahi riuscì a colmare in gran parte quel vuoto. Allorché il dhow si trovò nei pressi del suo porto di origine, Abd Muhammad al-Malik era seduto sotto la tenda. Intorno a lui i cortigiani parlavano di affari di Stato, ma il principe non aveva certo dimenticato la profezia del santo Taimtaim e osservava Dorian con aria di approvazione, velata ma inconfondibile. «Al-Allama», disse allora, usando il nome familiare del mullah, «che rivelazioni avete ricevuto riguardo al bambino?» Il mullah abbassò le palpebre per nascondere i suoi pensieri allo sguardo penetrante del padrone. «È accattivante, attira le persone come fa il miele con le mosche.» «Ciò mi pare chiaro.» Nella voce del principe affiorò una nota tagliente. «Ma non è quello che vi ho chiesto.» «Sembra che possieda le caratteristiche descritte dal santo Taimtaim», continuò al-Allama in tono cauto, «ma passeranno molti anni prima che possiamo averne la certezza.» «Nel frattempo, dobbiamo sorvegliarlo bene e alimentare quei tratti che sono necessari per l'adempimento della profezia», suggerì al-Malik. «Faremo ciò che è in nostro potere, grande principe.» «Sarà vostro dovere guidarlo sul sentiero della rettitudine e rivelargli la saggezza del Profeta, in modo che, a tempo debito, si avvicini senza scosse alla fede e si sottometta all'Islam.» «È ancora un bambino. Non possiamo sperare di mettere una testa di uomo su spalle così giovani.» «Ogni viaggio comincia col primo passo», lo contraddisse il principe. «Già parla il linguaggio sacro della fede meglio di alcuni dei miei figli e ha rivelato una certa conoscenza di questioni religiose. È ovvio che ha ricevuto un'istruzione. Sarà vostro sacro dovere alimentare quella conoscenza e ampliarla finché, col tempo, non si sottometterà all'Islam. Soltanto così la profezia potrà compiersi del tutto.» «Come il mio signore comanda», disse al-Allama, sfiorandosi le labbra e Wilbur Smith
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il cuore in segno di obbedienza. «Oggi stesso farò il primo passo del lungo viaggio», promise al principe. Al-Malik annuì, soddisfatto. «Piaccia ad Allah che sia così!» Dopo la preghiera di mezzogiorno, quando il principe si era ritirato nella cabina di poppa con le sue concubine, al-Allama andò in cerca del bambino, e lo trovò immerso in una conversazione con Fouad. Il comandante lo stava istruendo nell'arte della navigazione tra le isole, indicandogli i vari uccelli marini e gli isolotti di alghe galleggianti che indicavano il corso delle correnti. Lui le chiamava «fiumi del mare», spiegando a Dorian in quale modo le isole e la forma della costa influivano su quei possenti fiumi, piegandone e deviandone il corso e alterandone in modo quasi impercettibile le sfumature di azzurro e di verde. Sotto la guida di Ned Tyler, Dorian aveva imparato ad apprezzare tutte le sfumature dell'arte della navigazione. Tra i suoi ricordi più belli c'erano i momenti trascorsi insieme con Tom, quando misuravano l'altezza del sole o rilevavano la posizione in base a qualche aspetto della costa, per poi riportare i dati sulla carta e annotare i risultati sul giornale di bordo, discutendo e ridendo. Fouad invece gli stava insegnando le tradizioni di quella regione dell'oceano, i nomi e le abitudini degli uccelli e delle creature del mare e delle alghe galleggianti. C'erano alcuni uccellini con le piume color della neve che si tuffavano nella scia della nave, per librarsi poi sbattendo freneticamente le Ali. «Questi non si trovano mai a più di dieci leghe da terra. Osserva la direzione del loro volo: ti porteranno verso la terraferma», gli aveva spiegato. Quel giorno, invece, lo aveva chiamato al parapetto per indicargli un punto fuori bordo. «Guarda, scimmietta! Uno dei mostri del mare, ma gentile come un agnellino non ancora svezzato.» Stavano passando così vicino al pesce che Dorian, saltato sulla battagliola per osservarne il dorso screziato di macchioline, aveva subito capito che non si trattava di una delle balene che avevano incontrato a centinaia nelle regioni meridionali dell'Atlantico; sembrava piuttosto una specie di squalo, sebbene fosse lungo quasi quanto il dhow. Però, a differenza dello squalo tigre o del pesce martello, che lui già conosceva, quella bestia si muoveva pigramente tra le acque limpide, senza il minimo timore. Dorian era riuscito persino a scorgere il piccolo branco di pesci pilota che nuotavano poco più avanti della bocca cavernosa. Wilbur Smith
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«Non hanno paura di essere divorati?» aveva chiesto. «Il mostro mangia solo le creature più piccole, esserini viscidi e striscianti che galleggiano nell'acqua, più piccoli dei granelli di riso.» Era chiaro che Fouad si rallegrava dell'entusiasmo del suo allievo. «Se vedi uno di questi mostri gentili, significa che il monsone è pronto a cambiare, passando dal kaskazi al kusi, dal nord-ovest al sud-est.» In quel preciso istante al-Allama li aveva interrotti, portando via con sé Dorian per parlargli in privato. Dorian era deluso, e lo aveva seguito malvolentieri. «Una volta, in risposta a una mia domanda, tu Hal detto così: 'Io sono soltanto un uomo come voi; a me è stato rivelato che il vostro Dio è un Dio unico; ora colui che spera d'incontrare il suo Signore operi rettamente e non associ alcuno nel culto del suo Signore'.» «Sì.» Dorian non era particolarmente interessato a quel nuovo argomento. Avrebbe preferito di gran lunga continuare quell'animata conversazione con Fouad. D'altra parte Tahi lo aveva messo in guardia nei confronti del mullah, ammonendolo che poteva proteggere o punire un bambino che fosse in suo potere. «È il servo di Dio e la voce del Profeta. Trattalo con grande rispetto, per il bene di tutti noi», gli aveva detto la donna, e quindi lui si mostrò attento. «Chi ti ha insegnato questo?» domandò al-Allama. «Ho avuto un maestro.» D'un tratto, Dorian parve sull'orlo delle lacrime. «Quando ero con mio padre. Si chiamava Alf e mi ha insegnato l'arabo.» «E così è stato lui che ti ha fatto studiare il Corano, il libro sacro del Profeta?» «Soltanto alcuni versetti, da scrivere e discutere. Il versetto della sura 18 era uno di quelli.» «Tu credi in Dio, al-Amhara?» insistette il mullah. «Sì, certo», si affrettò a rispondere Dorian. «Credo che esista un unico Dio, in forma di Trinità: eterno il Padre, eterno il Figlio ed eterno lo Spirito Santo.» Gli era salita spontaneamente alle labbra la risposta dell'ordine, che aveva sentito recitare a memoria da Tom, e al-Allama tentò di non tradire il senso di allarme e di ripugnanza che provava di fronte a una simile bestemmia. «Esiste un unico Dio», esclamò in tono solenne, «e Maometto è il suo profeta.» Wilbur Smith
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Dorian non provava il minimo interesse per quell'affermazione, ma amava discutere, specie con chi rappresentava l'autorità. «E come fate a saperlo?» obiettò. «Come fate a sapere che io ho torto e voi avete ragione?» Al-Allama raccolse la sfida e Dorian si rilassò, lasciandosi mondare da un torrente di retorica religiosa, mentre intanto pensava ad altro. Dorian avrebbe voluto che ci fosse un posto per lui sull'albero di maestra, come sulla Seraph, un posto in alto, sul mare, dove poter stare solo. Invece quel dhow con la vela latina non offriva quella possibilità, e lui dovette restare sul ponte insieme col resto dell'equipaggio, mentre all'orizzonte si profilava la terraferma, la massa scura a misteriosa dell'Africa. Arricciò il naso, fiutando l'odore animale che aleggiava nell'aria. Era un odore di polvere, di spezie e di mangrovie immerse nell'acqua stagnante. Quell'aroma estraneo fu come un lieve trauma per i suoi sensi, ma invitante e seducente, dopo l'aria salmastra che aveva esaltato il suo olfatto. Restando al timone accanto a Fouad mentre puntavano verso terra, Dorian vide per la prima volta l'isola di Lamu. Il comandante gliene indicò i punti più importanti, raccontando in breve la storia di quel gioiello che faceva parte del territorio del califfato di Oman. «Il mio popolo commercia qui fin dai tempi del Profeta, e prima ancora, quando anche noi eravamo infedeli, estranei alla grande verità», spiegò con orgoglio. «Questo era già un porto di grande importanza quando Zanzibar era ancora una palude infestata dai coccodrilli.» Il dhow risalì il canale tra l'isola e il continente, mentre Fouad additava le colline di un verde cupo sopra le spiagge bianche. «Il principe ha un palazzo sulla terraferma, dove vive nella stagione secca, ma, all'arrivo delle piogge, si trasferisce sull'isola.» Indicò a Dorian gli edifici bianchi che, a quella distanza, sembravano la spuma della risacca su una barriera corallina. «Lamu è più ricca di Zanzibar», continuò. «I palazzi sono più belli e splendidi. Il sultano di Zanzibar è un vassallo del nostro principe, e gli paga un tributo.» L'ancoraggio era affollato d'imbarcazioni, e dozzine di barche arrivavano o salpavano: erano pescherecci, mentre altre erano navi commerciali cariche di merci o navi negriere più leggere e veloci, a riprova della prosperità e dell'importanza di quel porto fiorente. Wilbur Smith
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Superandoli, quelle navi riconoscevano il dhow del principe dalle bandierine verdi che issava sull'albero di maestra e dalla figura imponente di Abd Muhammad al-Malik, seduto a prua e circondato dal suo seguito. Allora abbassavano la bandiera in segno di rispetto, e quando il principe e il suo seguito entrarono in porto, c'era già un'immensa folla raccolta sulla spiaggia e sulla banchina per dar loro il benvenuto. Nella loro minuscola cabina, Tahi fece indossare a Dorian una tunica bianca pulita, coprendogli i capelli luminosi col tradizionale copricapo arabo. Poi gli fece calzare i sandali e, prendendolo per mano, lo portò in coperta. Fouad condusse il dhow fino alla spiaggia. La marea stava calando rapidamente, perché in quel punto la massima, nelle maree primaverili, era di venti piedi. Lo scafo toccò il fondo, sbandando mentre l'acqua si ritirava sotto la carena. Un gruppo di schiavi raggiunse subito a guado il veliero arenato, per trasportare a riva il principe e i cortigiani. Un nero enorme, coperto solo da un perizoma, si caricò sulle spalle il principe, mentre la folla in attesa s'inginocchiava, gridando saluti. Una banda di musicisti suonava una melodia acuta e lamentosa che feriva le orecchie di Dorian: flauti e pifferi singhiozzavano, mentre i tamburi rimbombavano e rullavano senza ritmo. Tahi avrebbe voluto portare in braccio Dorian fino alla spiaggia, ma lui le sfuggì per tuffarsi con gioia nella risacca, bagnandosi fino alle ascelle. Sulla spiaggia si svolse una breve cerimonia di benvenuto per il principe, poi Abd Muhammad al-Malik montò in sella a uno stallone nero. Si guardò attorno in fretta, incontrando lo sguardo di Tahi, che stava ritta in mezzo alla folla, tenendo per mano Dorian. Lei trascinò in avanti il bambino e il principe le parlò in tono imperioso. «Porta al-Amhara nello zenana. Kush preparerà un alloggio per voi.» Dorian era troppo interessato al cavallo del principe per badare alle parole che decidevano della sua sorte. Amava i cavalli quasi quanto le barche e il mare, e Tom gli aveva insegnato a cavalcare quando ancora sapeva camminare a stento. La cavalcatura di al-Malik era uno splendido animale, molto diverso da quelli che aveva conosciuto a High Weald: più piccolo e aggraziato, aveva dei grandi occhi limpidi e le narici dilatate, il dorso lungo e le zampe forti ma delicate. Dorian alzò la mano per accarezzarlo sul muso e lo stallone gli annusò le dita prima di scuotere la testa. «E' bellissimo», esclamò Dorian, ridendo. Wilbur Smith
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Il principe lo guardò con un lieve sorriso, che raddolciva i suoi lineamenti fieri da rapace; un ragazzo che era nato per navigare, ma amava anche i cavalli, incontrava tutta la sua approvazione. «Prendetevi cura di lui, ma badate che non tenti di fuggire», ordinò a Tahi e all'eunuco, Kush, che si era fatto avanti per esaudire le richieste del principe. Al-Malik sollevò la testa dello stallone con un lieve tocco delle redini e si allontanò lungo la strada, sulla quale, in suo onore, era stato steso un tappeto di fronde di palma. I musici e la folla si richiusero alle sue spalle, cantando e battendo le mani mentre seguivano il corteo fino alle mura della fortezza. Kush riunì le donne della casa del principe a mano a mano che sbarcavano dal dhow. C'erano due delle concubine più giovani, coperte da un fitto velo, ma snelle e aggraziate sotto gli strati di stoffa nera; avevano le mani e i piedi delicati, tinti con l'henné e impreziositi da anelli di zaffiri e smeraldi. Ridacchiavano in continuazione, cosa che infastidiva molto Dorian, e le loro servette erano ancora peggio, chiassose come uno stormo di gazze. Fu contento quando Kush le fece salire tutte a bordo del primo carro, trainato da buoi. Tahi lo guidò verso il secondo. I buoi erano candidi, con un enorme paio di corna e una massiccia gobba sulle spalle, come i disegni dei dromedari che Dorian aveva visto nei libri di viaggio della biblioteca di High Weald. Avrebbe voluto correre a fianco del carro, ma Kush lo trattenne, posandogli sulla spalla una mano grassoccia; portava anelli a tutte le dita e le gemme che vi erano incastonate riflettevano il sole intenso dei tropici, abbagliando con il loro sfavillio. «Sali vicino a me, piccolo», gli disse Kush con una voce acuta, femminile, e Tahi, accorgendosi che Dorian avrebbe voluto resistere, gli pizzicò il braccio con tanta forza da fargli male. Lui lo interpretò come un avvertimento: Kush era un uomo, o meglio un essere, potente, che doveva essere blandito. Il corteo di carri partì dalla spiaggia, attraversando il quartiere del porto. Percorsero lentamente una strada stretta e polverosa, che portava verso l'interno dell'isola verdeggiante, superando boschi di palme da cocco e foreste di fichi selvatici. Stormi di pappagalli dai colori vivaci e uccelli verdi si affollavano sui rami, divorando con avidità i frutti maturi; Dorian, che non aveva mai visto volatili come quelli, seguiva il loro volo lanciando esclamazioni di meraviglia. Dal canto suo, Kush lo studiava con attenzione, puntandogli addosso gli Wilbur Smith
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occhi neri e vivaci, benché affondati tra rotoli di grasso. «Chi ti ha insegnato a parlare la lingua del Profeta?» domandò all'improvviso Con un sospiro, Dorian gli diede la solita risposta. Ormai si era logorata, a furia di ripeterla, pensò. «Segui la vera fede, oppure è vero che sei un infedele?» «Sono cristiano», rispose Dorian con orgoglio. Kush fece una smorfia, come se avesse assaggiato una mela cotogna ancora acerba. «E allora come mai i tuoi capelli hanno lo stesso colore di quelli del Profeta?» domandò. «Oppure è una diceria? Di che colore sono i tuoi capelli? Perché li nascondi?» Dorian sistemò meglio il copricapo di stoffa. Era irritato dal continuo insistere su quell'argomento, che attirava troppo interesse su di lui. Avrebbe voluto che quel ciccione lo lasciasse in pace, a godersi la scarrozzata. «Fammi vedere i capelli», insistette Kush, allungando la mano verso il copricapo. Dorian stava per ritrarsi, ma Tahi gli lanciò un ordine secco, e così lasciò che Kush gli sollevasse la stoffa dalla testa. L'eunuco fissò sbalordito i folti riccioli che gli ricadevano fin sulle spalle, avvampando alla luce del sole come un incendio nell'erba alta. Gli altri passeggeri a bordo del carro lanciarono esclamazioni ammirate, invocando la testimonianza di Allah su quel prodigio, e persino i conducenti tornarono indietro per affiancarsi all'alta ruota del carro e fissarlo. Dorian si coprì di nuovo la testa. Dopo un miglio di cammino la pista tortuosa uscì dalla foresta e, davanti a loro, sorse il bianco muro di cinta dello zenana. Era fatto di blocchi di corallo e dipinto con la calce fino a ottenere un bianco abbagliante, del tutto privo di finestre: l'unica apertura era una porta, scolpita nel tek e decorata con intricati motivi di foglie e di tralci di vite, rispettando la prescrizione islamica che proibisce di rappresentare figure umane o esseri viventi. I battenti si aprirono all'avvicinarsi della piccola carovana, ammettendola nel mondo chiuso e segregato dello zenana; quello era il mondo delle donne, dei figli che davano alla luce e degli eunuchi che le sorvegliavano. A parte il principe, nessun uomo adulto poteva entrarvi, se non a rischio della vita. Le donne e i bambini si erano radunati appena oltre la porta per accogliere i carri. Molti di loro non lasciavano quel mondo dall'infanzia, e Wilbur Smith
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qualsiasi distrazione era una fonte di gioia. Chiacchieravano e strillavano eccitati, affollandosi intorno alla carovana per esaminare i passeggeri, in cerca di qualche volto nuovo. «Eccolo!» «Sì, è lui!» «Ma ha davvero i capelli rossi? Non può essere.» Lì, nell'isolamento dell'harem, alle donne era permesso andare in giro senza velo. Il principe poteva scegliere fra tutte le ragazze del regno, e per lo più erano giovani e attraenti. Il colore della loro pelle variava dal nero violaceo al marrone, in tutte le sue sfumature, all'oro e all'ambra, per finire con il giallo pallido del burro. I bambini saltellavano intorno a loro, sempre più animatamente, mentre i lattanti in braccio alle bambinaie piangevano in mezzo a quel frastuono. Le donne, chiacchierando tra loro, si affollarono intorno al carro per guardare più da vicino Dorian, mentre questi scendeva con un salto, e poi seguirono Kush attraverso un labirinto di cortili e giardini cinti da mura. Erano decorati in modo splendido con pavimenti di mosaico e archi elaborati, mentre nell'intonaco si scorgevano conchiglie incastonate che formavano disegni elaborati. C'erano piccoli stagni punteggiati da canne e piante di loto, dove pesci dai colori sfavillanti nuotavano nell'acqua e libellule e martin pescatori si libravano sulla superficie. Alcuni dei bambini più grandi danzavano intorno a Dorian, canticchiando e stuzzicandolo. «Piccolo bianco infedele!» «Diavolo dagli occhi verdi!» Kush, sorridendo, fingeva di respingerli con il lungo bastone che impugnava nella destra. Superarono in fretta la zona più splendida dello zenana per raggiungerne un'altra sul retro del complesso principale di edifici; questa però aveva un'aria quasi fatiscente, con i giardini trascurati, le mura macchiate e prive d'intonaco. Passarono accanto a ruderi abbandonati, invasi dalla vegetazione tropicale, prima di arrivare a una costruzione piuttosto malandata. Kush li condusse verso una porta piccola ma solida, ordinando loro di entrare. Si trovarono in una sala ampia, buia e non troppo pulita, dalle pareti chiazzate di fuliggine e dai pavimenti impolverati, coperti di escrementi di gechi e di ratti. L'eunuco chiuse la porta dietro di loro, girando nella serratura una chiave massiccia e suscitando così le proteste di Tahi, che si aggrappò alla Wilbur Smith
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minuscola grata della porta. «Perché ci chiudi dentro? Non siamo prigionieri né siamo criminali.» «Il potente principe Abd Muhammad al-Malik ha ordinato che s'impedisca al bambino di fuggire.» «Non può fuggire. Non saprebbe dove andare.» Ignorando le sue proteste, Kush si allontanò, portandosi via gran parte del suo seguito. Per qualche minuto alcuni figli del principe rimasero lì, per schernirli attraverso la griglia, ma ben presto si stancarono e corsero via. Quando tutto tornò tranquillo, Dorian e Tahi cominciarono a esplorare il loro alloggio. A parte la sala principale, c'erano alcune stanze da letto e una piccola cucina con un focolare. Vicino c'era la stanza del bagno, con il pavimento a piastrelle che scendeva verso un canale di scolo all'aperto, e ancora più in là la latrina, con i secchi coperti. L'arredamento era spartano: semplici pagliericci di canne intrecciate per dormire e tappeti di lana per sedersi. In cucina trovarono pentole e utensili per cucinare; naturalmente si mangiava con le dita, alla maniera araba. Per fortuna c'era una grande cisterna di ceramica per l'acqua piovana, che forniva acqua potabile. Dorian alzò la testa verso l'apertura nel soffitto della cucina, che consentiva l'uscita del fumo. «Potrei arrampicarmi facilmente fuori di lì», si vantò. «E Kush ti picchierebbe col bastone, quindi non pensarci neanche», gli rispose Tahi. «Su, aiutami a rimettere in ordine questo porcile.» Mentre lavoravano insieme, spazzando le stanze nude con le scope di canne e lucidando i pavimenti di piastrelle con i gusci delle noci di cocco tagliati a metà, Tahi cominciò a spiegargli le regole dello zenana. Quello, infatti, era il suo mondo. In veste di bambinaia dei figli del principe, da quando il marito l'aveva ripudiata, Tahi aveva vissuto entro i confini dello zenana ed era un'esperta della vita in quella società ristretta; nei giorni seguenti confidò a Dorian i frutti dell'esperienza accumulata. Il principe Abd Muhammad al-Malik aveva superato da poco la trentina. Il fratello maggiore, il califfo di Oman, per motivi legati alla successione gli aveva proibito di sposarsi prima di aver raggiunto i vent'anni, quindi il figlio maggiore era poco più grande di Dorian. Si chiamava Zayn al-Din e anche lui, come Dorian, non aveva ancora raggiunto la pubertà, quindi viveva con la madre nello zenana. Wilbur Smith
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«Rammenta il suo nome», gli raccomandò Tahi. «Essendo il figlio maggiore, è molto importante.» Poi continuò a elencare i nomi degli altri figli maschi che il principe aveva avuto dalle mogli e dalle concubine, ma erano così tanti che Dorian non si sforzò neppure di mandarli a memoria. Tahi non si preoccupò di citare le femmine, perché non avevano importanza. Nelle settimane che seguirono parve che il principe avesse dimenticato il piccolo schiavo dai capelli rossi. Non ricevettero altre notizie dall'esterno delle mura dello zenana. Ogni giorno, sotto la sorveglianza degli occhi acuti e lucenti di Kush, arrivavano alcune schiave a consegnare loro la razione quotidiana di riso, carne e pesce fresco, oltre che a portare via i rifiuti dalla cucina e vuotare i secchi della latrina. A parte quello, rimasero isolati, abbandonati a se stessi. Nella sala principale del loro alloggio c'erano finestre schermate da griglie traforate che si affacciavano su una parte del giardino. Per distrarsi dalla noia di quella prigionia, trascorrevano gran parte del loro tempo a spiare da quell'osservatorio privilegiato gli andirivieni degli altri ospiti dello zenana. Fu così che Tahi poté indicare a Dorian Zayn al-Din: un bambino grassoccio, più alto di tutti i fratelli e le sorelle. Aveva il colorito giallognolo e una bocca atteggiata a un perenne broncio; la pelle intorno agli occhi, poi, appariva bluastra, come se fosse segnata da lividi. «Zayn ha un debole per i dolci», spiegò Tahi. Il bambino aveva anche chiazze livide e infiammate, dovute al caldo, all'interno dei gomiti e delle ginocchia e camminava a gambe larghe, per evitare che le cosce sfregassero tra loro e la pelle s'irritasse. Ogni volta che Dorian lo vedeva, Zayn era circondato da almeno una dozzina di fratelli e sorelle. Una mattina, vide che quel gruppetto stava inseguendo un bambino attraverso il prato e, dopo averlo intrappolato contro il muro di cinta dello zenana, lo aveva trascinato da Zayn, che non si era affaticato a partecipare alla corsa, ma si era avvicinato, camminando con la sua andatura ondeggiante da anatra, soltanto alla fine della caccia. Avendo assistito anche lei alla scena, Tahi ebbe modo di spiegare a Dorian che la «preda» era il figlio di una delle concubine meno influenti del principe, quindi una vittima designata per il figlio maggiore della prima moglie. Dorian, dopo l'esperienza fatta con Billy, sapeva ormai tutto sui diritti di primogenitura e provò all'istante uno slancio di simpatia verso il piccolo, soprattutto quando Zayn gli torse le orecchie finché non cadde in Wilbur Smith
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ginocchio, piangendo di paura. «Per punirti di quello che Hal fatto, ti trasformerò nel mio cavallo!» gridò Zayn, costringendo l'altro a mettersi carponi. Poi gli montò sulla schiena, facendo gravare su di lui tutto il peso del suo corpo. Impugnava una verga, ricavata da una fronda di palma alla quale aveva staccato tutte le foglie. «Galoppa, cavallo!» ordinò, sferzandolo sul didietro. La fronda di palma, flessibile ed elastica, schioccò sonoramente sulle natiche del piccolo, che lanciò un grido di sorpresa e di dolore, avanzando a quattro zampe con Zayn in groppa. Gli altri bambini li seguirono, caracollando e lanciando grida di scherno per incitarlo a correre. Se il piccolo incespicava, si univano alle percosse, alcuni correndo persino a spezzare i rami dei cespugli più vicini. Uno sollevò la veste del bambino, scoprendogli le natiche brune, segnate da strisce rosse. In questo modo lo costrinsero a fare due volte il giro del prato. Quando infine si accasciò sotto il peso di Zayn, la vittima aveva il viso rigato di lacrime; rimase immobile nell'erba, singhiozzando con le ginocchia scorticate a sangue. Dopo avergli assestato un calcio con indifferenza, Zayn si allontanò alla testa della sua banda e il piccolo si rimise in piedi a fatica prima di allontanarsi zoppicando. «È un prepotente», esclamò furioso Dorian. Non riuscendo a esprimere quel concetto in arabo, ricorse all'inglese. Tahi si strinse nelle spalle. «Il Corano dice che i forti dovrebbero proteggere i deboli», aggiunse lui, passando di nuovo all'arabo. «Non dirlo a Zayn al-Din», gli consigliò Tahi. «Non gli piacerà.» «Mi piacerebbe far fare il cavallo a lui», proruppe Dorian, «per vedere quanto gli garba.» Tahi fece il segno che serviva a scacciare il malocchio. «Non pensarci neanche. Sta' alla larga da Zayn al-Din. È un bambino vendicativo e certamente già ti odia per il favore che il principe ti ha mostrato. Può farci molto male. Persino Kush ha paura di lui, perché un giorno sarà principe.» Nei giorni seguenti, la donna continuò a spiegare a Dorian la gerarchia dell'harem. Il principe poteva avere quattro mogli, per decreto del Profeta, però gli era consentito divorziare e risposarsi a suo piacere e non esistevano limiti al numero di concubine che poteva concedersi. Le mogli Wilbur Smith
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da cui aveva divorziato, ma che gli avevano dato figli, continuavano a vivere nello zenana. Quindi c'erano almeno cinquanta donne che vivevano insieme tra quelle mura: cinquanta donne belle e frustrate, che, per riempire le lunghe giornate, non avevano altro da fare se non intrigare, lottare tra loro e architettare piani dettati dalla gelosia. Dunque era una società complessa, piena d'innumerevoli correnti e sottili sfumature. Kush regnava su tutte loro, quindi il suo favore o la sua ostilità erano fondamentali per la felicità e il benessere delle ospiti dello zenana. Subito dopo, per importanza, venivano le quattro mogli attuali del principe, in ordine di anzianità, e la favorita del momento; di solito, però, si trattava di una graziosa fanciulla che aveva appena superato la pubertà e la sua stella tramontava in fretta. Poi venivano tutte le ex mogli e le concubine, che litigavano, lottavano e complottavano per conquistare un ruolo di maggiore prestigio. «È importante che tu capisca tutto questo, al-Amhara; è importante per tutt'e due. Io non ho nessun peso, sono soltanto una povera bambinaia. Posso fare ben poco per proteggerti, e nessuno sentirà la mia mancanza.» «Perché, devi andartene?» domandò allarmato Dorian. Si era affezionato a lei, nonostante il breve periodo trascorso insieme, e la prospettiva di essere abbandonato di nuovo lo spaventava. «La sentirei io, la tua mancanza...» «Non vado da nessuna parte, piccolo mio», lo rassicurò Tahi. «Tuttavia, qui nello zenana, c'è gente che muore, specialmente se offendono chi sta sopra di lei.» «Non preoccuparti, ti proteggerò io», le disse Dorian con fierezza, abbracciandola. «Sotto la tua protezione mi sento più sicura», rispose Tahi, nascondendogli il suo sorriso, «ma non sappiamo ancora qual è la tua posizione. A quanto pare, il principe ti accorda un certo favore, però non ne siamo certi. Come mai consente a Kush di tenerci prigionieri e di trattarci come animali in gabbia? Per quale motivo non ti manda a chiamare? Ti ha forse dimenticato?» Sospirò, ricambiando il suo abbraccio. «Forse non sa come ci tratta Kush?» suggerì Dorian. «Già, forse. Quindi bisogna aspettare. Nel frattempo, dobbiamo essere prudenti, al-Amhara. Molto prudenti.» Wilbur Smith
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I giorni passarono e, a poco a poco, l'eccitazione scatenata dal loro arrivo si placò. Nessuno li sbirciava più attraverso la grata e i bambini guidati da Zayn al-Din si stancarono di venire sotto le finestre a cantilenare insulti, trovando altre occupazioni più piacevoli. Ogni giorno Dorian soffriva di più a causa di quel crudele isolamento. Se udiva le grida acute e le risate felici degli altri bambini che giocavano nel giardino o li sentiva correre lungo i cortili interni e attraverso lo spiazzo all'esterno del loro misero alloggio, si precipitava alla finestra, anche solo per intravederli; ma ciò non faceva che acuire quel senso d'isolamento che fiaccava il suo spirito. Si sentiva imprigionato, proprio come nella cella a Flor de la Mar, dove al-Auf lo aveva incatenato alla parete. Una mattina, mentre la luce perlacea del nuovo giorno penetrava attraverso la finestra alta della stanza, Dorian era disteso sul pagliericcio e stava strappando con i denti lo strato esterno di un bastoncino di canna da zucchero. Fu allora che, all'improvviso, sentì qualcuno cantare nel giardino esterno. Era una voce dolce, infantile e, sebbene le parole fossero monotone e quasi prive di senso - una specie di filastrocca sui datteri e su una scimmia affamata -, rimase ad ascoltarla, masticando la canna per ricavarne il succo dolce e sputare poi il midollo. D'un tratto si udì il verso acuto e inconfondibile di una scimmietta; la persona che cantava interruppe subito il ritornello, scoppiando in una risata argentina. Quei suoni incuriosirono Dorian, che si alzò di scatto per arrampicarsi sino alla finestra. Sbirciando nel giardino sottostante, scorse una bambina seduta sul bordo della vasca dei fiori di loto. Gli voltava le spalle, quindi lui vedeva soltanto i capelli, che le ricadevano sulla schiena: erano scuri, di un nero quasi iridescente, ma venati da una striatura d'argento che affiorava tra le trecce folte; non aveva mai visto una cosa del genere e ne fu affascinato. La bambina indossava una veste ricamata di colore verde che le lasciava scoperte le braccia, sopra un paio di pantaloni di cotone molto ampi. Teneva le gambe ripiegate sotto di sé, per cui Dorian vide le piante dei piedi piccoli e scalzi, tinti di un arancione vivace con l'henné. Teneva in mano un dattero zuccherato e un piccolo cercopiteco danzava sull'erba di fronte a lei, reggendosi in piedi sulle zampe posteriori: ogni volta che lei faceva un segno con la mano, la scimmia lanciava un verso più forte, girando su se stessa, e la bambina rideva di gioia. Wilbur Smith
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Alla fine le offrì il dolce, chiamandola: «Vieni da me, Jinni!» La scimmia le balzò sulla spalla, prendendole il dattero dalle dita, poi se lo mise in bocca, tenendolo nella guancia, prima di cominciare a frugare tra i capelli della bambina con le sottili dita nere, come se cercasse i pidocchi. La bambina le accarezzò il ventre bianco e lanoso, ricominciando a cantare. Poi, d'improvviso, alzando gli occhi, la scimmietta vide la testa di Dorian alla finestra e lanciò uno squittio. Saltò giù dalla spalla della bambina per arrampicarsi lungo il muro e, aggrappata al davanzale, insinuò la zampa attraverso la grata della finestra, col palmo rivolto in su come un mendicante, tentando di estorcere a Dorian quel pezzetto di canna da zucchero. Lui scoppiò a ridere e la scimmia scoprì i denti, continuando nel suo tentativo di strappargli il pezzetto di canna. Nel contempo, però, lanciava versi argentini e faceva smorfie. La bambina si girò di scatto e, alzando la testa, disse a Dorian: «Falle fare qualche esercizio e non darle il dolce se prima non lo fa». Dorian vide che anche lei aveva un viso buffo da scimmietta, con due enormi occhi marroni, dello stesso colore del miele del Devon quando l'erica sulla brughiera è in piena fioritura. «Fa' così con la mano», spiegò lei e, a quel segnale, la scimmia eseguì un'agile capriola all'indietro. «Fallo tre volte», aggiunse, «e anche Jinni dovrà ripeterlo tre volte.» Dopo la terza capriola, Dorian offrì alla scimmia la canna da zucchero, e Jinni l'afferrò al volo prima di attraversare galoppando il prato a quattro zampe, con la coda alta, per arrampicarsi su un albero di tamarindo. Lì si sedette, masticando la canna, con lo sciroppo dolce che gocciolava dalle labbra. «Io lo so chi sei», proclamò la bambina in tono solenne, guardando Dorian con gli enormi occhi marroni. «E chi sono?» «Sei al-Amhara, l'infedele.» Fino a quel momento era rimasto indifferente al modo in cui lo chiamavano, ma improvvisamente gli dispiacque sentirsi definire in quel modo. «Il mio vero nome è Dorian, ma tu puoi chiamarmi Dorry. È così che mi chiama mio fratello.» «Dowie», provò lei, ma faticava a pronunciare la «r». «E' un nome strano, però ti chiamerò così.» Wilbur Smith
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«E tu, come ti chiami?» volle sapere Dorian. «Yasmini», rispose lei. «Significa 'fiore di gelsomino'.» Si alzò per avvicinarsi, fissandolo con un'espressione seria e un po' intimorita. «I tuoi capelli sono proprio rossi. Pensavo che fosse un'invenzione.» Piegò la testa di lato. «Mi piacerebbe toccarli.» «Be', non puoi», ribatté il ragazzino in tono brusco, ma lei non si mostrò offesa. «Mi dispiace molto per te.» «E perché mai?» Dorian non riusciva a raccapezzarsi. «Perché Zayn dice che sei un infedele, che non sei stato neanche circonciso e che non potrai mai entrare nei giardini del paradiso.» «Abbiamo anche noi il nostro paradiso», ribatté Dorian con alterigia. Trovava un po' sconcertanti quei discorsi sull'aldilà. «Dov'è?» volle sapere Yasmini, e s'imbarcarono in una discussione lunga e complicata sui rispettivi meriti dei due paradisi. «Il nostro paradiso si chiama Jannat. Allah ha detto: 'Ho preparato per i miei servi che si comporteranno con rettitudine ciò che nessun occhio ha mai visto e nessun orecchio udito, e la mente dell'uomo non ha mai concepito'.» Dorian rifletté in silenzio, non riuscendo a immaginare una risposta adeguata. Era troppo difficile sminuire Jannat, quindi cambiò argomento per passare a un campo nel quale si sentiva più sicuro. «In Inghilterra mio padre ha cinquanta cavalli. Tuo padre quanti ne ha?» Da allora, Yasmini venne ogni mattina, portando con sé Jinni e sedendosi sotto la sua finestra con la scimmia sulla spalla. Lo ascoltava con i grandi occhi che scintillavano quando lui tentava di spiegarle che cos'era il ghiaccio, come cadeva la neve dal cielo e per quale motivo gli inglesi avevano un'unica moglie; Dorian le raccontò anche che alcuni uomini del suo Paese avevano i capelli del colore dei braccialetti d'oro che lei portava alle caviglie, oltre che rosso fiamma come i suoi, mentre altri si rasavano la testa e portavano la parrucca, e che le ragazze si arricciavano i capelli con un ferro rovente. Poi descrisse i colori dei vestiti delle donne e le rivelò che non portavano i pantaloni come lei, ma andavano in giro nude sotto la gonna. «Questo è molto volgare», commentò Yasmini, severa. «Ed è vero, come dice Zayn, che mangiate persino la carne di maiale?» «La pelle si abbrustolisce quando viene arrostita», chiarì lui per Wilbur Smith
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impressionarla, «e diventa croccante sotto i denti.» Lei spalancò gli occhi, facendo finta di vomitare. «È davvero disgustoso. Non c'è da meravigliarsi se non potete venire in paradiso con noi.» «Non ci laviamo cinque volte al giorno come fate voi, anzi certe volte non ci laviamo affatto per tutto l'inverno. Fa tanto freddo», aggiunse Dorian, divertito all'idea di scandalizzarla. «Allora dovete puzzare come i maiali che mangiate.» Yasmini non sapeva niente del mondo esterno, ma era un'esperta della politica dello zenana. Gli disse che sua madre era una delle mogli divorziate del principe, ma lei aveva due fratelli maschi e quindi erano ancora nelle grazie di al-Malik. «Se fosse soltanto per me», spiegò, «sarebbe diverso, perché sono una bambina, e al principe non piacciono le figlie femmine.» Lo disse in tono realistico, senza autocommiserazione. «Comunque mia madre è di sangue reale. È la nipote del Gran Moghul, quindi l'imperatore è il mio prozio», aggiunse con orgoglio. «Allora sei una principessa?» «Sì, ma solo piccola, e non molto importante.» Il suo candore era disarmante. «La vedi questa ciocca d'argento nei miei capelli?» Fece una piroetta per metterla in mostra. «Ce l'hanno mia madre e anche mio nonno. È un segno di regalità.» Quando spiegava i rapporti tra gli altri bambini, Dorian l'ascoltava con ancor maggiore attenzione di quanta ne mostrasse a Tahi. «Zayn al-Din è il mio fratellastro, ma non mi piace», disse un giorno Yasmini. «È grasso e crudele.» Fissò Dorian. «È vero che mio padre ti ha adottato?» «Sì, è vero.» «Allora sei anche mio fratello! Mi piaci più di Zayn, anche se mangi carne di maiale. E io ti piaccio, al-Amhara? Zayn dice che somiglio a Jinni.» Accarezzò la scimmia che teneva sulla spalla. «Ti sembra che le somigli?» «Io penso che sei molto graziosa», le disse Dorian con galanteria e, quando lei sorrise, lo divenne davvero. «Mia madre dice che mio padre, il principe, è andato a trovare mio zio, che è il califfo di Oman.» «E quando tornerà?» si affrettò a chiedere Dorian. Ecco perché Tahi e lui erano stati trattati così male. Il principe non si trovava lì a proteggerli. «Mia madre dice che potrebbe restare lontano a lungo, forse un anno o più.» Yasmini piegò la testa di lato per osservarlo meglio. «Se tu sei Wilbur Smith
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davvero mio fratello, forse nostro padre ti porterà a cacciare col falco insieme con lui, quando tornerà. Ah, come vorrei essere un ragazzo, per poter venire con voi!» esclamò, alzandosi dal bordo della vasca dei fiori di loto. «Ora però devo andare. Kush non deve sorprendermi qui. Ha proibito a tutti noi di parlare con te e, se mi trova qui, mi picchia.» «Torna domani», le disse lui, cercando di non assumere un tono troppo supplichevole. «Può darsi», rispose Yasmini e, senza voltarsi indietro, corse via sul prato, preceduta da Jinni che saltellava intorno ai suoi piedi nudi. Quando fu lontana, Dorian alzò lo sguardo al cielo, osservando i gabbiani che volavano in cerchio e ascoltando il rumore lontano della risacca che martellava la spiaggia. Il pensiero della fuga divenne quasi irresistibile. Immaginò di arrampicarsi fino all'apertura nel soffitto della cucina, per uscire all'aperto, poi scalare il muro di cinta dello zenana e trovare una barca sulla spiaggia. «Ma dove andrei?» si domandò, mentre quella fantasticheria svaniva. «Dovrò aspettare che venga Tom», concluse, rassegnandosi all'inevitabile. Una mattina, Kush arrivò facendo tintinnare il mazzo di chiavi e strillando con la sua voce acuta: «Tahi, devi preparare il ragazzo per la visita al mullah». Le scaricò addosso una bracciata di vesti pulite. «Tornerò a prenderlo dopo la preghiera di mezzogiorno. Fa' in modo che sia pronto, altrimenti darò ordine di batterti a sangue.» Il carro trainato dai buoi li attendeva al cancello e Dorian salì a bordo con impazienza, quasi fuori di sé per la gioia di potersi allontanare da quella triste prigione. Tahi non lo avrebbe accompagnato, tuttavia anche a lei era stato concesso di uscire all'aperto, nei giardini, durante la sua assenza. Kush viaggiava accanto a Dorian sul sedile anteriore del carro, sorridendogli e adulandolo in continuazione. «Come ti donano queste vesti! Sono della migliore qualità. Guarda il ricamo sul colletto: è di seta! Il principe Muhammad al-Malik ne ha una proprio uguale. L'ho scelta apposta per te. Vedi come ti vizio!» Più si avvicinavano al palazzo, più Kush diventava nervoso e accattivante. «Prendi uno di questi biscotti alla cannella. Sono i miei preferiti. Vedrai che piaceranno anche a te. Desidero vederti felice, alAmhara.» Poi, quando furono in vista delle mura della fortezza, l'eunuco divenne più esplicito nelle sue raccomandazioni: «Se al-Allama, benedetto Wilbur Smith
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sia il suo nome, dovesse chiederti come ti ho trattato, devi dirgli che sono stato come un padre per te, che Hal ricevuto per la tua cucina la prima scelta dei cibi più raffinati, il pesce più fresco e i frutti più prelibati». «E che mi hai rinchiuso in una fetida galera come se fossi un criminale?» ribatté Dorian in tono ingenuo. «Questo non è vero. Forse sono stato un po' troppo preoccupato per la tua sicurezza, tutto qui.» Sebbene sorridesse, i suoi occhi erano gelidi come quelli di un cobra. «Non cercare di procurarmi guai, piccolo infedele. È meglio avermi come amico che come nemico. Chiedilo a quella grassa scrofa di Tahi, e lei te lo confermerà.» Scesero dal carro nel cortile esterno della fortezza, e Kush lo prese per mano, guidandolo in quell'edificio labirintico. Salirono parecchie scale prima di sbucare su un terrazzo che dominava il porto, spaziando sulla vista delle acque del canale, fino alla massa del continente africano. Dorian si guardava attorno, pieno d'interesse. Era una gioia rivedere il mare e sentire sul viso la brezza carica di salsedine del monsone, che gli schiariva la mente dagli odori stantii dello zenana. Scorse subito il mullah e lo salutò inchinandosi con rispetto e sfiorandosi il cuore e le labbra. AlAllama sorrise. «Possa Allah conservarti il sorriso, piccolo.» Accanto al mullah, sotto la tettoia di bambù che riparava il terrazzo dal sole, c'era un altro uomo. Stava seduto con le gambe incrociate e beveva un caffè denso e nero, con l'alto vaso di vetro della pipa ad acqua a portata di mano. «Salaam aliekum», gli disse Dorian, salutandolo con rispetto, ma, quando l'uomo si girò verso di lui, il suo cuore diede un balzo e il suo volto s'illuminò di gioia. «Ben Abram!» esclamò Dorian e gli corse incontro per serrarlo in un abbraccio. «Credevo di non rivedervi mai più», aggiunse. «Pensavo che foste ancora sull'isola, insieme con al-Auf.» Il vecchio si sciolse con gentilezza dall'abbraccio, lisciandosi la barba arruffata. Non gli sembrava opportuno lasciar capire agli altri l'intensità del rapporto che aveva con il ragazzo. «Lascia che ti dia un'occhiata», gli disse allora. Tenendolo discosto da sé, a braccia tese, lo studiò in volto e cambiò espressione. «Hal l'aria pallida. Che cosa ti è successo, bambino mio?» Girandosi, guardò Kush, che era rimasto sul fondo della terrazza. «Eravate voi il responsabile del bambino. Che cosa gli avete fatto, eunuco?» Fuori dello zenana, Kush era Wilbur Smith
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un semplice schiavo, per giunta castrato, quindi il medico non si curò di mascherare il disprezzo che provava per lui. «Invoco a testimoni Allah con tutti i suoi santi», biascicò Kush, con il doppio mento che tremava e un velo di sudore sul viso. «L'ho trattato con ogni cura. È stato ben nutrito e viziato come se fosse davvero figlio del mio signore.» Ben Abram guardò Dorian per averne conferma, sapendo che avrebbe ricevuto una risposta schietta. «Dal giorno in cui sono arrivato mi ha tenuto rinchiuso in una topaia», borbottò il ragazzino. «Mi dava da mangiare il pastone per i maiali, e per tutto questo tempo non ho potuto parlare con nessun altro tranne che con la mia bambinaia.» Ben Abram fissò Kush con uno sguardo gelido, e l'eunuco si gettò ai suoi piedi. «Erano gli ordini del principe, vostro onore. Mi ha ordinato d'impedire al ragazzo di fuggire.» «Per questo bambino il principe ha pagato un lakh di rupie d'oro; inoltre lo ha dichiarato ufficialmente suo figlio adottivo», rispose Ben Abram con voce sommessa, venata di minaccia. «Quando sua altezza reale tornerà da Muscat, lo informerò personalmente di come avete trattato suo figlio.» «Ho fatto soltanto il mio dovere, mio signore misericordioso», farfugliò Kush. «So bene come assolvete a questo dovere nei confronti di alcuni dei bambini e delle donne che sono affidati alle vostre cure, eunuco.» Ben Abram fece una pausa significativa. «A volte è mio dovere punire quelli che disobbediscono agli ordini del principe.» «Ricordo la giovane Fatima, per esempio», disse Ben Abram in tono riflessivo. «Era una sgualdrina e una prostituta», si giustificò Kush. «Aveva sedici anni ed era innamorata», lo contraddisse l'altro. «Aveva permesso che un animale lascivo venisse da lei scavalcando il muro di cinta dello zenana.» «Era un giovane guerriero, un ufficiale della guardia reale», precisò Ben Abram. «Ho fatto soltanto il mio dovere, signore. Non era mia intenzione che lei morisse. Doveva solo servire da lezione per le altre.» Ben Abram alzò una mano per porre fine a ulteriori proteste d'innocenza. Wilbur Smith
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«Ascoltatemi bene, eunuco, e prestate fede a quello che vi dico. Guai a voi se a questo bambino dovesse capitare qualche altro inconveniente! Se in futuro lo tratterete con una considerazione inferiore al massimo delle vostre possibilità, farò in modo di farvi strillare più forte di quanto abbia gridato la piccola Fatima.» Al-Allama aveva ascoltato con interesse il dialogo tra i due e, a quel punto, decise d'intervenire. «Tutto ciò che Ben Abram ha ordinato, io lo confermo. Il piccolo e la bambinaia devono avere un alloggio decente e un buon vitto. Non dovete tenerlo rinchiuso o sottoporlo a restrizioni non necessarie; dev'essere libero di andare a venire come qualunque altro figlio del principe. A giorni alterni verrà da me per essere istruito e io lo interrogherò regolarmente sul trattamento che riceve. Ora sparite dalla mia vista», ordinò, congedando Kush con un cenno. «Aspettate di sotto. Riaccompagnerete il bambino quando avrà finito.» Mentre si allontanava con aria servile, Kush lanciò a Dorian un'occhiata carica di veleno. «Ci sono molte cose che devo dirti», disse Ben Abram, rivolto al ragazzino. «Hal saputo dei combattimenti sull'isola, dopo la tua partenza?» «No, no! Non ho saputo nulla di tutto questo. Ditemi, vecchio padre. Raccontatemi ogni cosa.» «Non sono tutte buone notizie», lo avvertì Ben Abram, cominciando a parlare in tono pacato. Dorian ascoltò con avidità, lanciando esclamazioni di orgoglio e di eccitazione quando seppe dell'attacco alla fortezza di Flor de la Mar e dell'esito del duello tra al-Auf e Tom. «Al-Auf era una bestia! Sono così fiero di Tom. Avrei voluto essere lì per vederlo.» Invece pianse quando apprese che il padre era rimasto ferito e aveva perso le gambe. «È morto, vecchio padre? Vi prego, ditemi che è ancora vivo.» «In tutta sincerità, piccolo, non lo so. Era ancora vivo quando tuo fratello mi ha consentito di lasciare l'isola. Penso che lui avesse in mente di riportare tuo padre in Inghilterra.» «In Inghilterra?» Dorian rimase sconvolto da quella notizia. «È così lontana da qui... Forse non tornerà mai più. Tom mi ha abbandonato.» Le lacrime sgorgarono, irrefrenabili, e lui le lasciò scorrere sulle guance. Ben Abram gli prese le mani tra le sue, scoprendo che il bambino tremava come se fosse in preda a una febbre violenta. «Tuo fratello è una brava persona, un uomo d'onore. Ha mostrato una Wilbur Smith
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grande cortesia nei miei confronti.» «Ma se è tornato in Inghilterra...» Dorian s'interruppe, costretto a deglutire a fatica. «... si dimenticherà di me e non lo rivedrò più.» «Allora vorrà dire che questa è la volontà di Dio. Intanto, tu sei il figlio del principe e devi prestare rispetto ai suoi desideri.» Ben Abram si alzò. «Devi obbedire al santo al-Allama, perché egli è tornato da Muscat precedendo il principe, ed è volere di sua altezza reale che tu venga istruito dal mullah.» Bevendo numerose tazzine di caffè e aspirando boccate di fumo dal narghilè, Ben Abram attese per tutta la durata della lezione di dottrina religiosa, durante le ore più calde del giorno. Un paio di volte intervenne per fare un commento o rivolgere una domanda, ma per lo più si limitò ad ascoltare in silenzio. Dorian si sentiva confortato dalla sua presenza muta. Il sole proiettava le lunghe ombre delle palme sulla spiaggia ai loro piedi, quando Ben Abram chiese la benedizione del mullah prima di accompagnare Dorian in cortile, dove Kush aspettava a bordo del carro di riportarlo allo zenana. Prima di arrivare alla portata dell'orecchio dell'eunuco, però, Ben Abram si fermò per mormorare: «Cercherò di vederti il più spesso possibile, tutte le volte che verrai a prendere lezioni dal mullah». Poi abbassò ancor più la voce. «Tuo fratello mi ha usato una grande cortesia. Se non fosse stato per lui, sarei stato venduto schiavo anch'io. Per questo gli ho promesso di portarti un messaggio, ma non potevo riferirtelo in presenza del mullah. E' riservato solo a te.» «Qual è il messaggio? Vi prego, ditemi, vecchio padre.» «Tuo fratello mi ha pregato di dirti che manterrà fede al giuramento che ti ha fatto. Ricordi quel giuramento?» «Ha giurato che sarebbe tornato a prendermi», sussurrò Dorian. «Lo ha giurato col sangue.» «Sì, piccolo, e a me ha riconfermato la sua promessa. Tornerà a prenderti. Non avrei dovuto dirtelo, perché è contro gli interessi del mio signore, tuttavia non potevo privarti del conforto delle parole di tuo fratello.» «Sapevo che non avrebbe dimenticato quel giuramento.» Dorian sfiorò con le dita la manica del vecchio. «Grazie di avermelo detto.» Le minacce di Ben Abram e al-Allama ebbero un effetto notevole sul Wilbur Smith
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comportamento di Kush. Il giorno dopo, Dorian e Tahi furono trasferiti in un alloggio più spazioso, situato in una zona migliore dello zenana. Avevano addirittura un piccolo cortile tutto per loro, con una fontana di acqua potabile, e Kush mandò una schiava per aiutare Tahi in cucina e nelle faccende domestiche più pesanti. Inoltre fornì a Dorian un guardaroba nuovo, e Tahi ottenne il permesso di andare incontro ai carri che arrivavano ogni giorno dalla città, carichi di prodotti freschi e di provviste, per scegliere secondo i suoi gusti tra la carne e il pesce fresco. Ancor più rilevante era il fatto che Dorian, durante il giorno, era libero di spostarsi nello zenana; nonostante le sue proteste, però, Kush non gli consentì di uscire dai confini del muro di cinta, se non per recarsi dal mullah, alla fortezza. Anche questo, comunque, ebbe fine allorché Dorian si lamentò della sua situazione con Ben Abram. Da allora il ragazzino ebbe il permesso di aggirarsi per il porto e per tutta l'isola, anche se una delle guardie di Kush lo seguiva da vicino, senza mai perderlo di vista. La sua libertà di movimenti era tale che Dorian ricominciò a coltivare l'idea della fuga. I suoi progetti somigliavano più a un gioco che a un vero piano d'azione. Quando cominciò a frequentare la spiaggia, cercando di stringere amicizie con i pescatori, scoprì che Kush lo aveva preceduto: doveva aver ammonito tutti gli isolani a non parlare con l'infedele. Con la guardia del corpo sempre alle calcagna, non aveva la minima possibilità di rubare una barca o di ricevere anche solo un po' di assistenza dai pescatori e dai marinai del posto. Alla fine, Dorian si rassegnò all'inconsistenza di quei disegni di fuga e si dedicò all'intento di farsi amici i soldati della fortezza, gli stallieri delle scuderie reali e i falconieri del principe. Yasmini aveva accolto con gioia la sua liberazione e, quando si accorse che in apparenza Kush non aveva obiezioni, divenne la sua ombra. Naturalmente lei non poteva mettere piede fuori dello zenana, però seguiva Dorian nel parco e andava spesso a trovarlo nell'alloggio che lui divideva con Tahi. La sua voce e le sue risa si mescolavano al chiacchiericcio di Jinni, rischiarando quegli ambienti tetri. Tahi cominciò a insegnarle a cucinare sul fuoco di legna, che sprigionava un gran fumo. Per Yasmini quella era una novità, alla quale prese subito un gran gusto, imponendo poi le sue creazioni a Dorian. «L'ho fatto apposta per te, Dowie», gli diceva con voce argentina. «Ti piace, non è vero?» E spiava con ansia ogni boccone che Wilbur Smith
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spariva nella sua bocca. «È buono? Ti piace?» Quando Dorian lasciava lo zenana per visitare la spiaggia, il porto e la fortezza, lei si struggeva di malinconia, restando attaccata alle gonne di Tahi in attesa del suo ritorno; non appena lui varcava la soglia, il visetto da scimmia di Yasmini s'illuminava e lei gli correva incontro. A volte la sua devozione era così asfissiante che Dorian cercava un pretesto per uscire dallo zenana semplicemente per stare lontano da lei. Allora scendeva alle scuderie reali, passando ore intere ad accudire gli animali del principe, dando loro da mangiare e da bere o strigliandoli, pur di avere il privilegio di montarne uno. Gli tornavano alla mente le istruzioni ricevute dal padre e dai fratelli a High Weald. Nella frescura della sera, gli stallieri giocavano a pulu, un termine persiano per indicare la palla; quel gioco era la passione della famiglia reale moghul, ed era stato adottato anche dalla dinastia di Oman. La palla, ricavata da una radice di bambù, veniva colpita con un mazzuolo dello stesso materiale. Quando il capo degli stallieri imparò a conoscere meglio Dorian, gli permise di unirsi ai più giovani sul campo delle esercitazioni. Al ragazzino piaceva sentire tra le gambe il manto sudato del cavallo che montava a pelo, e adorava l'emozione della carica a tutta velocità attraverso il campo, sgomitando e spingendo gli altri giocatori nella mischia che si scatenava intorno alla palla. Ben presto la sua aggressività e la sua abilità suscitarono l'approvazione degli stallieri anziani. «Con il favore di Allah, diventerà un buon cavaliere.» Uno dei luoghi che Dorian amava di più era la zona delle scuderie reali dov'erano custoditi i falchi addestrati per la caccia. Se si trovava vicino a quei rapaci splendidi e fieri diventava silenzioso e attento, e ben presto i falconieri riconobbero e accettarono il suo genuino interesse, cominciando a trasmettergli la loro esperienza e competenza. Dorian imparò così il loro linguaggio colorito e la terminologia tecnica, tanto che a volte, invitato da loro, li accompagnava a cavallo nel terreno dove lanciavano in volo i falchi, ai margini delle paludi di mangrovie che si stendevano nella zona nordorientale dell'isola. In altri momenti, eludeva la sorveglianza della guardia del corpo per andarsene a esplorare le coste dell'isola, scovando piccole insenature e spiagge deserte dove poteva liberarsi dei vestiti e tuffarsi in mare nuotando al largo, oltre la risacca, spingendosi sino al limite delle sue forze. Una volta tornato alla spiaggia, si stendeva sulla sabbia candida a fissare il sud, Wilbur Smith
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immaginando di vedere le vele della nave di Tom che spuntavano dall'orizzonte. Al rientro nello zenana, portava sempre un piccolo dono a Yasmini così da placare il senso di colpa per averla lasciata sola. A volte era una piuma di falco presa a uno degli uccelli che erano nella fase della muda; altre volte un braccialetto intrecciato da lui con i crini della coda di un cavallo oppure le conchiglie che aveva raccolto sulla spiaggia, portate fin lì dalla risacca e infilate per farne una collana. «Vorrei poter venire con te», gli diceva lei, in tono malinconico. «Mi piacerebbe tanto nuotare in mare o guardarti montare a cavallo.» «Sai bene che non è possibile», rispondeva lui, in tono brusco. Stava cominciando a capire che, in futuro, Yasmini non sarebbe mai potuta uscire dallo zenana se non velata e accompagnata da una scorta. Lui era probabilmente l'unico rappresentante dell'altro sesso che lei avrebbe mai conosciuto - a eccezione dei parenti - e anche quella situazione sarebbe finita presto, perché ormai si trovavano entrambi alle soglie della pubertà. Non appena fosse diventata donna, Yasmini si sarebbe sposata: Tahi confidò a Dorian che il matrimonio della ragazzina era stato concordato quando lei aveva soltanto quattro anni. «Deve andare in sposa a uno dei suoi cugini nel Paese del Gran Moghul, oltre l'oceano, per rinsaldare i legami tra le due case reali.» Tahi osservò le emozioni che si riflettevano sul viso di Dorian al pensiero che la sua piccola compagna venisse mandata così lontano a sposare un uomo che non conosceva in una terra che non aveva mai visto. «È mia sorella, non voglio che se ne vada», proruppe Dorian, lui stesso sorpreso dall'intensità del sentimento che provava nei confronti di Yasmini. «Per te non farà differenza», gli disse Tahi in tono rude, cercando di mascherare la compassione. «Entro l'anno per te arriverà il cambiamento, l'inizio della virilità. Kush ti tiene d'occhio. A lui non sfugge niente. Ai primi segni, verrai bandito dallo zenana per sempre. Anche se lei dovesse restare qui, a partire da quel giorno non vedresti mai più il volto di Yasmini. Forse è meglio che la vostra amicizia finisca con un taglio netto, come il colpo di lama che celebrerà il tuo ingresso nella virilità.» Quell'accenno al «colpo di lama» turbò non poco Dorian. Aveva sentito gli altri ragazzi discutere il rito della circoncisione, rendendolo spunto di rozze battute, però non si era mai soffermato a pensare di doversi Wilbur Smith
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sottoporre a quella cerimonia. Tahi lo aveva riportato bruscamente alla realtà. «Io non sono musulmano», protestò, «non possono farmi questo.» «Non riuscirai a trovare moglie, se ti tieni stretto quel pezzetto di pelle», lo ammonì lei. «Non voglio prendere moglie e non voglio che qualcuno mi tagli neppure un pezzetto di pelle.» Il timore della lama era acuito dal senso di colpa che provava nei confronti di Yasmini per la loro imminente separazione forzata. Che cosa farà senza la mia protezione? rifletteva angustiato. E' solo una bambina. Un giorno tornò a casa dai suoi vagabondaggi sull'isola poco dopo la preghiera del pomeriggio. Aveva i capelli ancora umidi e irrigiditi dalla salsedine. Vedendolo sulla soglia, Tahi, che era accovacciata davanti al fuoco per cucinare, alzò la testa, e Dorian rispose con aria insofferente alle sue domande su dov'era stato e che cosa aveva fatto, riferendole soltanto i particolari che, secondo lui, la donna doveva sapere. Poi si guardò attorno con aria indifferente. «Dov'è Yasmini?» chiese in tono distratto, come se la risposta non avesse importanza. «È stata qui fino all'ora della preghiera, poi è andata a trovare Battuta, che ha un nuovo animale da compagnia, un pappagallo cinerino, credo.» Dorian allungò la mano sopra la sua spalla, rubando una delle focacce rotonde di pasta non lievitata che cuocevano sulle braci di fronte a lei. Tahi gli schiaffeggiò la mano. «Quella è per la cena. Posala subito!» «Possa il Profeta aprirti le porte della misericordia, Tahi», rispose ridendo Dorian. Poi uscì in giardino, spezzando la focaccia croccante per ficcarsela in bocca. Aveva un dono per Yasmini, una grande conchiglia a spirale con l'interno di un rosa opalescente. Sapeva dove trovarla. C'era una tomba in rovina, sul lato orientale dei giardini, che era stata costruita quasi duecento anni prima in onore di uno dei santi islamici. Sul muro esterno della tomba era affissa una tavoletta di pietra con una scritta che Dorian aveva decifrato laboriosamente: ABD ALLAH MUHAMMAD ALÌ, DEFUNTO NELL'ANNO 120 DEL PROFETA. Era una cupola alta, sormontata dal simbolo di bronzo della mezzaluna. Al di sotto della cupola si stendeva un terreno di preghiera aperto, rivolto verso la Ka'bah, alla Mecca. A un'estremità sorgeva una grande cisterna scoperta per l'acqua piovana, dove un tempo i fedeli compivano wudu, abluzioni rituali prima della Wilbur Smith
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preghiera. Ormai era in disuso e attirava a frotte gli uccelli selvatici. Yasmini e le sue migliori amiche tra le sorellastre amavano giocare su quella sorta di terrazza, dove chiacchieravano, bisticciavano e intessevano giochi di fantasia, vestendo i loro animaletti con abiti da neonato e trattandoli come bambini da allevare, fingendo di dirigere una casa e di cucinare per la loro famiglia immaginaria. Dorian era appena arrivato ai piedi della scala che portava alla terrazza quando un grido proveniente dall'alto lo bloccò, facendolo inorridire. Riconobbe subito la voce di Yasmini, ma quello che gli trafisse il cuore fu la sofferenza acuta, insostenibile, che quel grido esprimeva. Scattando in avanti, salì volando gli antichi gradini, mentre quegli urli laceranti continuavano, ognuno più forte e raggelante del precedente. Jinni, la piccola scimmia, era seduta in cima alla cupola dell'antica tomba. Se si stancava di essere coccolata e vestita come un lattante, si rifugiava lassù, nel suo posto preferito, dove Yasmini non poteva raggiungerla. In quel momento, si stava grattando sotto le ascelle con aria insonnolita, con le palpebre quasi abbassate sui grandi occhi marroni. A intervalli di pochi minuti oscillava, assalita dal sonno, rischiando di cadere, poi si riscuoteva per guardare i giardini sottostanti, sbattendo le palpebre. A un certo punto, però, le giunse alle narici un odore che la svegliò del tutto: era l'aroma dei dolci alla cannella. Non c'era nulla al mondo che Jinni amasse di più, quindi si erse in tutta la sua altezza, usando la lunga coda come un timone per tenersi in equilibrio sulla cupola e guardarsi attorno con avidità. Due ragazzi stavano arrivando lungo un sentiero attraverso i cespugli. Anche a quella distanza, Jinni vide che masticavano e che il più grande dei due teneva in mano un vassoio d'argento coperto. La scimmia non aveva bisogno degli occhi per capire che cosa c'era sotto il coperchio, e lanciò un piccolo squittio goloso prima di scivolare giù dalla cupola e lanciarsi sulla cima dell'albero di pipai che allargava la sua chioma sotto la terrazza. Nascosta dal fitto fogliame, osservò i due ragazzi sedersi in un angolo nascosto del giardino e sistemare in mezzo a loro il vassoio d'argento. Zayn al-Din sollevò il coperchio, e Jinni irrigidì la coda e roteò gli occhi, vedendo quella montagna di dolci gialli. Era combattuta fra golosità e paura. Conosceva fin troppo bene Zayn alWilbur Smith
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Din: la prova era la cicatrice che aveva sopra un occhio, dove il ragazzo l'aveva colpita con una pietra lanciata con la fionda, di cui era un virtuoso. D'altra parte, i dolci erano appena usciti dal forno di argilla e sprigionavano un aroma irresistibile. Jinni scese come un lampo dal pipai, utilizzando il tronco per nascondersi agli occhi dei ragazzi. Quando arrivò a terra, fece capolino per spiare le loro mosse e, non appena fu certa di non essere stata vista, abbandonò il suo nascondiglio per attraversare il prato come un fulmine. Rintanatasi in un cespuglio, si azzardò a dare un'altra sbirciatina, gonfiando le guance e arricciando il naso. L'aroma della cannella era molto più intenso. Osservò Zayn portarsi alla bocca uno dei dolci, addentando la morbida pasta gialla. L'altro ragazzo - Abd Muhammad al-Malik Abubaker, uno dei tanti fratellastri di Zayn - si alzò per avvicinarsi a uno degli alberi di casuarina che sorgevano lungo il muro di cinta, indicando un punto in alto, tra i rami. «C'è un falco che ha fatto il nido lassù», esclamò rivolto a Zayn, che si alzò pesantemente per raggiungerlo. Tenevano le spalle voltate al vassoio d'argento e la testa piegata all'indietro per discutere di quel nido posato sui rami più alti dell'albero. «Forse è un falco pellegrino», disse Zayn, speranzoso. «Potremo prendere i piccoli non appena avranno messo le piume.» Jinni si fece coraggio, scattò fuori del cespuglio e, come un lampo grigio, attraversò il terreno scoperto. Raggiunto il vassoio, afferrò a piene mani i dolci appiccicosi, ficcandoseli in bocca finché le tasche laterali non si gonfiarono fin quasi al punto di scoppiare. Sul vassoio ne era rimasta ancora la metà, e la scimmia tentò di prenderli tra le zampe anteriori, ma, non riuscendo a contenerli tutti, lasciò cadere quelli che aveva afferrato e ritentò, cercando di tenerne qualcuno anche con le dita delle zampe inferiori. «La scimmia!» La voce temuta di Zayn risuonò stridula alle sue spalle e Jinni capì di essere stata scoperta. Nella fretta di fuggire, rovesciò il vassoio e raggiunse il pipai lasciando dietro di sé una scia di dolci alla cannella sparsi sul prato. Mentre saliva lungo il tronco per mettersi in salvo sul primo ramo alto, abbassò la testa per lanciare un'occhiata indietro. I ragazzi la inseguivano da vicino, lanciando proteste e insulti. «Shaitan! Scimmia diabolica! Animale impuro!» Wilbur Smith
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Jinni raggiunse i rami in cima all'albero, rannicchiandosi in una biforcazione. Lassù si sentiva al sicuro, quindi cominciò a divorare i resti dei dolci sopravvissuti alla fuga e alla scalata del pipai. Sotto di lui, Zayn aprì la piccola sacca che portava appesa alla cintura, estraendo la fionda; dopo avere svolto i lacci di cuoio, tendendoli con le braccia, scelse dal sacchetto un ciottolo rotondo e perfettamente liscio, adattandolo nel piccolo incavo all'estremità della forcella, poi si spostò intorno alla base dell'albero per prendere la mira. La scimmia annuì e spalancò gli occhi, facendo una smorfia orribile per spaventarlo. «Ti darò una lezione tale che non mi ruberai mai più i dolci», le promise Zayn, prima di prepararsi al lancio, facendo roteare la fionda intorno alla testa, a velocità vertiginosa, finché i lacci di cuoio non vibrarono nell'aria. In quel preciso momento, lasciò andare il proiettile. Il ciottolo divenne una sibilante scia bianca, troppo veloce perché l'occhio di Jinni potesse seguirlo, e colpì la scimmia al braccio sinistro, poco più su del gomito, spezzando l'osso come se fosse un rametto secco. La scimmia lanciò un grido stridulo, saltando in aria col braccio spezzato che ciondolava, e, nel ridiscendere, tentò di aggrapparsi a un ramo, ma il braccio non rispose e lei precipitò fino a metà dell'albero prima di riuscire a trovare un sostegno con la zampa destra. I due ragazzi gridavano e ballavano di gioia. «L'hai colpita, Zayn!» esultava Abubaker. «Ti ucciderò, ladro di uno shaitan!» Zayn stava già adattando un altro sasso alla sacchetta della fionda, mentre Jinni si arrampicava di nuovo in cima all'albero con un braccio solo, gemendo e lanciando squittii di dolore mentre raggiungeva il lungo ramo che si protendeva sopra la terrazza. Zayn allora lanciò un altro ciottolo, che, sibilando, colpì il ramo proprio al di sotto del petto di Jinni. La scimmia scattò, correndo verso l'estremità del ramo. Sapeva dove trovare protezione: Yasmini aveva sentito le sue grida e, pur senza sapere da che cosa erano state provocate, stava correndo da lei. «Jinni! Che succede, piccola mia? Vieni dalla mamma.» Dall'estremità del ramo, Jinni si lanciò tra le braccia di Yasmini, singhiozzando per la paura e il dolore. «Vieni!» gridò Zayn, rivolto ad Abubaker. «Cerca un bastone, così la finiamo!» Ai piedi dei gradini, i giardinieri avevano lasciato una pila di bastoni di Wilbur Smith
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bambù. I ragazzi ne presero uno a testa e Zayn fu il primo ad arrivare sulla terrazza, sbuffando e ridendo. Poi, trovandosi di fronte Yasmini con la scimmietta tra le braccia, si fermò di colpo. «Non avvicinarti!» gli gridò lei. «Lasciaci stare, Zayn al-Din.» Per un attimo, Zayn rimase sconcertato dalla collera della bambina, ma poi Abubaker lo raggiunse, spingendolo in avanti. «E soltanto Yasmini. È una bambina. Io tengo lei e tu afferri la scimmia.» Yasmini arretrò davanti a loro, stringendosi al petto l'animale terrorizzato, ma i ragazzi la seguirono con aria minacciosa, brandendo le aste di bambù e incoraggiandosi a vicenda. «Lo shaitan ha rubato i miei dolci, e io lo ucciderò.» «Prima ti uccido io», gli gridò di rimando Yasmini, ma il suo coraggio cominciava già a incrinarsi, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Finì con le spalle addossate al muro basso della cisterna di acqua piovana, restando lì, in trappola, disperata. Le sorellastre l'avevano abbandonata, scappando al primo segno di contrasto con i fratelli maggiori. Yasmini era sola. Aveva le labbra tremanti, eppure si sforzò di mantenere un tono di voce fermo e sicuro. «Lasciateci stare. Lo dirò ad al-Amhara, e lui vi punirà per quello che avete fatto a Jinni.» «Lo dirai ad al-Amhara?» sogghignò Zayn. «Sai che paura! Al-Amhara è un infedele che mangia carne di porco!» L'accerchiarono, spingendola contro il muro della cisterna e, all'improvviso, Abubaker fece un balzo in avanti, afferrandola per il collo. «Acchiappa la scimmia!» gridò a Zayn, il quale afferrò Jinni per la zampa. I tre cominciarono a lottare, barcollando avanti e indietro sulla terrazza nel tentativo d'impadronirsi dell'animale che strillava. Yasmini si aggrappava a Jinni con tutte le sue forze, gridando tra le lacrime, mentre Abubaker cercava di liberare le dita della ragazza. Alla fine lei perse la presa e Zayn le strappò di mano la scimmia. «Ridatemi Jinni», implorò. «Vi prego, non fatele più del male.» Zayn afferrò la scimmia per la collottola. «Su, vieni a prenderla, prima che uccida questa sudicia bestia.» In quel momento, Jinni si contorse nella sua stretta, affondando i denti nel polso di Zayn, che lanciò un urlo di dolore e di sorpresa, sollevando in alto l'animale e scaraventandolo nella cisterna dell'acqua piovana. La scimmia scomparve sott'acqua, poi tornò a galla, annaspando verso il Wilbur Smith
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bordo. Zayn si guardò per un attimo il polso che sanguinava, poi il suo viso giallastro s'incupì di collera. «Mi ha morso! Guarda il sangue!» esclamò. Raggiunto di corsa il bordo della cisterna, si sporse per spingere sott'acqua la testa di Jinni con il bastone di bambù. Ogni volta che la scimmia cercava di risalire per respirare, lui la spingeva di nuovo sotto, lanciando urla di gioia sadica, «Vediamo come sai nuotare!» Liberandosi dalla stretta di Abubaker, Yasmini balzò sulla schiena di Zayn, strillando e tempestandogli di pugni la testa e le spalle. Zayn continuava a fischiare e urlare, indifferente alle grida e ai colpi; non aveva intenzione d'interrompere quel gioco crudele e ficcava la testa della scimmia sott'acqua ogni volta che emergeva. Jinni stava rapidamente perdendo le forze e sbuffava, inghiottendo acqua, con la pelliccia fradicia, incollata al cranio. Non aveva più la forza o l'aria nei polmoni per strillare, mentre la voce di Yasmini risuonava più forte e acuta. «Lasciami! Ti odio. Lascia stare la mia bambina!» Dorian salì di corsa gli ultimi gradini, fermandosi in cima alla scala, ma impiegò qualche istante per raccapezzarsi. Era stato assalito dal panico al pensiero di trovare Yasmini gravemente ferita o morente, come gli avevano fatto temere le sue grida. Adesso la paura stava cedendo il posto a una gelida collera. Vedendo che cosa stavano facendo i due ragazzi a Jinni e a lei, si lanciò subito contro di loro. Abubaker, che lo aveva visto arrivare, si girò di scatto per fronteggiarlo. Sollevò il bastone di bambù per colpirlo alla testa, però Dorian sfuggì al colpo passandogli sotto e, urtandolo con la spalla al centro del torace, lo scaraventò all'indietro. Abubaker batté contro il muro laterale della terrazza, lasciando cadere il bastone. Poi si voltò, corse verso l'inizio della scala e scese rapidamente i gradini, dileguandosi. Ormai l'unico pensiero di Dorian era attaccare Zayn per liberare Yasmini. Si scagliò contro di lui, e l'altro si voltò per affrontarlo, ma era ostacolato dalla bambina che gli stava a cavalcioni sulle spalle. Il colpo di Zayn si rivelò fiacco e Dorian riuscì non soltanto a bloccarlo, ma addirittura ad afferrare il bastone con entrambe le mani. I due ragazzi si fronteggiarono, girando l'uno intorno all'altro, nel tentativo di conquistare il bastone. «Prendi Jinni!» sibilò Dorian rivolto a Yasmini, che, obbediente, saltò giù della schiena di Zayn per correre verso la cisterna. Allungando la mano Wilbur Smith
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all'interno, afferrò la scimmia ormai allo stremo delle forze e la tirò fuori; tossiva e sputava acqua dalla bocca e dal naso, soffiando come se starnutisse. Poi, stringendola al petto, la bambina si rannicchiò sotto il parapetto della cisterna, scansando i due ragazzi che si stavano battendo sulla terrazza. Zayn era più pesante di Dorian e più alto di due dita, quindi affrontò la lotta sicuro di vincere quella prova di forza. «Ti affogherò proprio come una scimmia, infedele dagli occhi diabolici!» Lanciando quella minaccia, attirò a sé il bastone di bambù, facendo valere tutto il suo peso. In preda al furore, Dorian aveva dimenticato tutto quello che Tom gli aveva insegnato, ma quell'insulto lo calmò, facendogli tornare alla mente le lezioni del fratello. Si lasciò attirare vicino all'avversario, poi mollò la presa sul bastone, serrando il pugno destro, e spostò i piedi, bilanciandosi sul terreno. «Sfrutta l'impatto del corpo e la torsione delle spalle», gli aveva spiegato Tom. «Mira al naso.» Sferrò il pugno, con le mani rese callose dall'equitazione e le spalle irrobustite dal nuoto, centrando in pieno Zayn sul naso, che esplose come una prugna troppo matura, sprizzando un fiotto di succo scarlatto. Il ragazzo lasciò cadere il bastone, portandosi di scatto le mani al naso ferito. Aveva gli occhi pieni di lacrime e il sangue gli colava tra le dita, gocciolando sul kanzu bianco. Dorian si preparò ad assestare il colpo successivo. Rammentando i suggerimenti di Tom - che tante volte gli aveva fatto stringere i denti per guidarlo poi verso il punto sotto l'orecchio che indica l'estremità della mascella -, Dorian caricò quel pugno con tutto il suo peso. Zayn non aveva mai visto combattere in quel modo. Serrare la mano come un martello e usarla per colpire il viso di un avversario era una tecnica del tutto estranea alla sua idea di duello. Gli avevano insegnato la lotta, ma a lui piaceva soltanto se l'avversario era un ragazzo più piccolo e debole. Il colpo al naso lo aveva sconcertato al punto che la sorpresa era stata forse peggiore del dolore. Non era dunque pronto al colpo successivo, che si abbatté sul suo volto con la violenza di una cannonata, lasciandolo intontito. Dorian non aveva ancora la forza sufficiente per farlo cadere a terra svenuto, tuttavia il pugno arrivò esattamente nel punto al quale aveva mirato e con un impeto tale da far barcollare Zayn all'indietro, accecato Wilbur Smith
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dalle lacrime, incapace di difendersi, con le gambe molli. Poi, con suo immenso stupore, arrivò un terzo colpo, che lo raggiunse sulle labbra tumide. Sentì uno degli incisivi spezzarsi, mentre la bocca si riempiva del gusto caldo e metallico del sangue. Riparandosi il volto con le mani, si diresse alla cieca verso la sommità della scala. Dorian, dietro di lui, raccolse il bastone di bambù e prese a tempestargli la schiena e le spalle. Il bruciore delle sferzate, unito al dolore alla bocca e al naso, fece strillare Zayn come se fosse stato punto da uno scorpione; il ragazzo prima oscillò, poi perse l'equilibrio, rotolò sino in fondo e infine si allontanò strisciando, squassato dai singhiozzi. Allora udì Dorian che scendeva di corsa le scale per raggiungerlo e, con gli occhi inondati di lacrime, guardò dietro di sé. Il viso dell'infedele era stravolto, trasformato in una rossa maschera di furore, con gli occhi verde chiaro che sprizzavano lampi, mentre brandiva il bastone con tutt'e due le mani. Zayn si alzò a fatica, sputando il dente spezzato insieme con un fiotto di sangue. Tentò di fuggire, ma il piede destro era probabilmente rotto. Dovette allontanarsi zoppicando e saltellando attraverso il prato, sulle orme del pavido Abubaker. Dorian lasciò cadere il bastone, disinteressandosi di Zayn. Trasse qualche respiro profondo per dominare la collera, poi pensò alla bambina e risalì di corsa la scala. Yasmini era ancora accovacciata sotto il parapetto, scossa da un tremito e dai singhiozzi, col corpo bagnato della scimmia stretto al petto. «Sei ferita, Yasmini? Ti ha fatto male?» Lei scosse la testa, porgendogli Jinni senza dire una parola: la pelliccia della scimmia era completamente inzuppata d'acqua e aderiva al corpo, che sembrava ridotto alla metà delle dimensioni normali, come se fosse stato scorticato. «Il braccio!» bisbigliò Yasmini. «È rotto.» Dorian prese delicatamente l'arto che ciondolava, inerte. Jinni piagnucolò, ma non oppose resistenza, guardandolo con i grandi occhi pieni di fiducia. Dorian tentò di ricordare quello che aveva appreso osservando il dottor Reynolds all'opera su un marinaio che era caduto dall'alberatura della Seraph, oppure su un altro che era rimasto col braccio intrappolato nel meccanismo dell'argano. Dopo avere raddrizzato delicatamente il braccio di Jinni, usò un pezzo di canna di bambù per tenerlo in quella posizione, legandolo con una striscia di cotone strappata dalla keffiya. «Devo portarlo da Ben Abram», disse alla bambina. «Vorrei poter venire con te», sussurrò lei, ma sapeva che era Wilbur Smith
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impossibile. Da una piega della veste ricavò una specie di culla per Jinni, poi accompagnò Dorian fino alla porta dello zenana, seguendolo con gli occhi mentre si allontanava di corsa lungo la strada che attraversava il palmeto, diretto verso la città. Dopo meno di mezzo miglio, incontrò uno degli stallieri che guidava un gruppo di cavalli del principe. «Mustafà!» gridò Dorian. «Portami con te fino al porto.» L'uomo lo prese in sella alla sua cavalcatura e insieme galopparono lungo le stradine della città, sino al fronte del porto. Ben Abram era al lavoro, nel suo ambulatorio vicino al porto, e uscì dalla stanzetta sul retro, ripulendosi le mani sporche di sangue, per accogliere sbalordito Dorian e Jinni. «Vi ho portato una paziente, vecchio padre. Una che ha un gran bisogno della vostra abilità», gli spiegò Dorian. «La bestia mi morderà?» chiese Ben Abram, squadrando la scimmia con diffidenza. «Non temete, Jinni sa che può fidarsi di voi.» «L'arte di risistemare le ossa risale all'antichità», borbottò Ben Abram, osservando con attenzione il braccio della scimmia, «ma dubito che qualcuno dei miei predecessori abbia mai avuto una paziente del genere.» Quando ebbe finito, dopo avere steccato e bendato il braccio, Ben Abram somministrò a Jinni una dose di laudano e la scimmietta dormì tra le braccia di Dorian per tutto il viaggio di ritorno fino allo zenana. Yasmini, che li aspettava appena oltre la porta d'ingresso, prese con tenerezza la scimmia e la portò fino all'alloggio di Dorian, dove trovarono Tahi in preda a una crisi di lacrime. «Che cos'hai fatto, stupido?» gridò la donna, aggredendo Dorian non appena mise piede in casa. «Tutto lo zenana è in subbuglio. Kush è stato qui ed era così furibondo che non riusciva quasi a parlare. È vero che Jinni ha morso Zayn al-Din? Che tu gli Hal spezzato un dente e spaccato il naso? Che gli Hal fratturato un osso del piede? Kush sostiene che Zayn non potrà più camminare: come minimo resterà invalido per la vita.» «Se si è fratturato il piede è per colpa della sua goffaggine», ribatté Dorian per nulla pentito. Tahi lo abbracciò, stringendolo al petto generoso. Poi riprese a piangere come una fontana. «Tu non sai quale pericolo Hal attirato sulla tua testa», esclamò, singhiozzando. «D'ora in poi dovremo stare sempre in guardia. Wilbur Smith
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Non mangiare o bere nulla senza che io lo abbia assaggiato prima e tieni sbarrata la porta della camera da letto.» Snocciolò la lista di precauzioni che reputava necessarie per difendersi dalla vendetta di Kush e di Zayn alDin. «Soltanto Allah può sapere che cosa penserà il principe di tutto questo, quando tornerà da Muscat», concluse, abbandonandosi a cupe riflessioni. Yasmini e Dorian la lasciarono mentre gemeva e rimuginava orrori tra le pentole della cucina, trasportando Jinni fino alla stanza da letto di Dorian, dove la deposero sul pagliericcio, sedendosi al suo fianco per vegliarla. Nessuno dei due parlava. Poco dopo, Yasmini reclinò la testa come un fiore appassito, addormentandosi appoggiata alla spalla di Dorian. Lui la cinse con un braccio e Tahi, dopo qualche tempo, li trovò addormentati, l'una nelle braccia dell'altro. Inginocchiandosi vicino alla coppia immersa nel sonno, osservò i loro volti. «Sono così belli, insieme. Così giovani e innocenti. Peccato che sia impossibile! Avrebbero potuto avere figli con i capelli rossi», sussurrò, sciogliendo Yasmini da quell'abbraccio e prendendola tra le braccia per portarla nello splendido alloggio della madre, situato vicino alla porta principale, dove l'affidò a una delle bambinaie. La mattina dopo, di buon'ora, arrivò Kush, pieno di vanterie e di minacce. Fu subito chiaro che non aveva intenzione di trasgredire gli ordini di al-Allama e Ben Abram facendo del male a Dorian, tuttavia la malignità aleggiava intorno a lui come un'aura cupa e, sulla soglia, prima di uscire, si voltò a guardare il ragazzo, col viso gonfio su cui si leggeva un odio tenace. Se Allah sarà benigno, verrà presto il giorno in cui non sarai più qui, nello zenana, a procurarmi guai, pensò. Intorno a Dorian l'atmosfera crepitava di ostilità come l'aria estiva satura di fulmini. Tutti gli altri bambini, salvo Yasmini, si tenevano alla larga da lui. Non appena lo vedevano, interrompevano i loro giochi chiassosi per allontanarsi in gran fretta. Le donne si coprivano il volto e scostavano l'orlo delle vesti, come se il semplice contatto con lui potesse contaminarle. Incontrò Zayn tre giorni dopo, mentre rientrava dalla porta principale, dopo la lezione con al-Allama. Era seduto in compagnia di Abubaker e di altri tre amici, facendo onore a un piatto di dolci, ma, non appena Dorian s'incamminò lungo il cortile coperto, tacquero tutti, guardandolo con Wilbur Smith
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imbarazzo. Zayn aveva ancora il naso gonfio e una crosta nera sul labbro superiore. Le occhiaie apparivano ancor più livide del solito e il piede destro era avvolto nelle bende. Forse è vero che rimarrà invalido per tutta la vita, pensò Dorian, comunque non ebbe esitazioni e lo fissò dritto negli occhi. Il ragazzo più grande, non riuscendo a sostenere quello sguardo verde e gelido, distolse il suo; disse qualcosa sottovoce ad Abubaker, poi scoppiarono a ridere tutt'e due, ma era una risatina nervosa. Solo quando Dorian passò oltre, allontanandosi, Zayn ritrovò un pizzico della sua baldanza. «Pelle bianca come il pus», esclamò, parlando con un lieve sibilo per via del vuoto tra i denti anteriori. «Occhi verdi come il piscio dei porci», aggiunse Abubaker. «Soltanto chi lo beve può sapere così bene che colore ha», disse forte Dorian, proseguendo senza voltarsi. Nelle settimane successive, quel pericoloso sentimento di ostilità si attenuò. Benché Dorian fosse ormai diventato il paria dello zenana, gli altri si limitavano a ignorarlo. Persino Zayn e Abubaker non reagivano più, comportandosi con esagerata indifferenza ogni volta che lo incontravano. Zayn continuava a zoppicare e, col tempo, apparve chiaro che il danno riportato al piede destro poteva davvero rivelarsi permanente. Tahi, tutt'altro che convinta di quella tregua, non perdeva occasione per tenere lunghe prediche a Dorian sul rischio di esporsi al veleno o su altri macabri metodi per infliggere la morte a distanza. «Devi scrollare sempre il kanzu, prima d'indossarlo», gli ripeteva. «Rovescia i sandali. C'è un piccolo scorpione verde che uccide così in fretta che la vittima non ha neanche il tempo di gridare, dopo il morso. Kush conosce bene le abitudini degli scorpioni e tutte le altre arti maligne.» Nessuna di queste raccomandazioni riusciva a tenere a freno a lungo la vivacità di Dorian; l'unica differenza, rispetto a prima, era la riduzione del tempo che lui trascorreva dentro lo zenana. Quando si trovava lì, comunque, Yasmini era la sua compagna inseparabile. Quasi a dar credito all'abilità di Ben Abram, Jinni si riprese in fretta e, pur adoperando di preferenza il braccio sano per risparmiare l'altro, riprese ben presto ad arrampicarsi sul muro esterno o a scalare i rami più alti degli alberi di pipai. Giunse il lungo mese del Ramadan, e poi la luna nuova pose fine al Wilbur Smith
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digiuno. Pochi giorni dopo, Zayn al-Din lasciò lo zenana. Aveva raggiunto la pubertà ed era uscito nel mondo esterno, ancora zoppicante per la ferita che gli aveva inflitto Dorian. Yasmini e lui gioirono della sua partenza, apprendendo che era stato inviato a Muscat, alla corte di suo zio il califfo. Tahi tirò su col naso, quando glielo riferirono. «E' stato mandato come ostaggio al califfo, per garantire l'obbedienza del principe.» Non era la prima volta che Dorian sentiva parlare degli intrighi all'interno della famiglia reale di Oman. Tahi gli ripeté ciò che lui sapeva già. «Il califfo ha giustiziato sei fratelli per alto tradimento e non si fida di quelli che ha risparmiato.» Abbassò la voce fino a sussurrare: «Il califfo è un uomo crudele e malvagio. Allah non voglia che venga mai a sapere che tu sei il bambino della profezia». E, a quel pensiero, rabbrividì. Qualche settimana dopo la brusca partenza di Zayn al-Din, Yasmini si recò nell'alloggio di Dorian. Il ragazzo dormiva ancora e lei lo scrollò piuttosto bruscamente. «Ieri sera Jinni non è venuta a mangiare, e stamattina non era nel mio letto.» Dorian si alzò di scatto, indossando il kanzu, mentre Yasmini continuava a gemere: «Temo proprio che sia successo qualcosa di terribile alla mia Jinni!» «La troveremo», le promise Dorian. «Su, andiamo.» Cominciarono dai posti più probabili, i nascondigli preferiti di Jinni. Il primo era la tomba del santo Abd Allah Muhammad Alì. Frugarono l'antica costruzione a palmo a palmo, chiamando per nome Jinni e offrendogli dolci alla cannella. Sapevano che, se non altro, l'aroma l'avrebbe attirata fuori di qualsiasi nascondiglio. Ma fu tutto inutile. Allora la cercarono metodicamente in tutti i giardini, ma sempre senza successo. Ormai Yasmini era fuori di sé dal dolore. «L'hai già salvata una volta, Dowie. Ora lo Shaitan è tornato a prenderla. Forse l'ha portata via per punirla.» «Non fare la bambina, Yassie.» Senza rendersene conto, aveva usato le stesse parole con cui Tom rimproverava lui. «Lo Shaitan non si occupa di scimmie e femminucce.» «Che cosa facciamo?» Yasmini gli puntò addosso i suoi occhi color miele, pieni di angoscia ma anche di fiducia assoluta. «Ricominceremo dalla tomba. Jinni deve pur essere da qualche parte.» L'ingresso alla tomba era stato murato e intonacato con cura secoli prima Wilbur Smith
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e, per quanto Dorian lo controllasse, non c'erano pertugi nei quali una scimmia, seppur piccola, potesse introdursi. Risalirono sulla terrazza, cercando di nuovo anche lì; gridarono fino ad arrochirsi, però non si vedeva traccia di Jinni. Alla fine, in preda alla disperazione, si sedettero sul bordo della cisterna, evitando di guardarsi negli occhi, stanchi e avviliti. Se non fossero rimasti in silenzio non avrebbero mai sentito quel lieve chiacchiericcio; lo intesero nello stesso momento, e Yasmini afferrò per il braccio Dorian, affondandogli le unghie nella pelle. «Jinni!» sussurrò. Scendendo con un balzo dalla cisterna, si guardarono attorno con ansia, dimenticando la stanchezza. I rumori sembravano provenire dall'aria intorno a loro, anziché da un punto preciso. «Da dove viene, Dowie?» domandò Yasmini, ma lui la zittì con un gesto imperioso. Poi si mise in ascolto e rintracciò la provenienza del suono: giungeva da oltre la terrazza. Quando s'interruppe, Dorian lanciò un fischio, e Jinni riprese all'istante le sue strida, guidandolo così verso l'estremità opposta. Sembrava che fossero finiti in un vicolo cieco, poi però Dorian si mise in ginocchio per strisciare lungo la linea di congiunzione tra la parete della cupola e il rivestimento della terrazza. In quel punto, le strida di Jinni erano più forti. Erbe e rampicanti coprivano l'intera zona, ma lui riuscì a individuare una linea lungo la quale sembrava che fosse passato di recente qualcuno, o qualcosa. Appiattendo l'erba e sollevando la cortina di piante, si avvicinò per ispezionare la base della cupola. Si accorse subito che c'era un punto in cui la pietra friabile si era disgregata, lasciando un'apertura abbastanza grande per consentire il passaggio di Jinni. Accostò l'orecchio all'apertura e i suoi ultimi dubbi furono dissipati: le grida della scimmietta erano amplificate, come in un megafono. «È laggiù!» disse a Yasmini, che batté le mani per la gioia. «Puoi tirarla fuori, Dowie?» chiese lei. Poi accostò la bocca al foro, gridando verso il basso: «Jinni, piccola mia, puoi sentirmi?» Dal fondo della cavità, le risposero fiochi ma eccitati squittii. «Togliti di mezzo», le ordinò Dorian, scostandola e cominciando ad allargare il foro con le mani nude. I frammenti di roccia non erano fissati con la malta, quindi vennero via facilmente. Poi il ragazzo mandò Yasmini a prendere uno dei bastoni di bambù dalla pila in fondo alle scale: voleva usarlo come leva per svellere i blocchi di roccia più resistenti. Wilbur Smith
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In meno di mezz'ora, aveva allargato l'apertura al punto di potersi insinuare all'interno. Sbirciando dentro, però, non riusciva a vedere altro che la nuvola di polvere sollevata dal suo lavoro e l'oscurità. «Aspetta qui, Yassie», le ordinò, calando le gambe nel foro. Per quanto scalciasse, tuttavia, non riusciva a toccare il fondo né a trovare un punto d'appoggio per i piedi. Infine si aggrappò all'orlo dell'apertura, calandosi all'interno un palmo alla volta. D'un tratto, la sezione del muro alla quale era aggrappato cedette e lui, con un grido di allarme, precipitò nell'oscurità. Si aspettava un volo di alcune centinaia di piedi, invece bastarono pochi palmi, e finì sul fondo. L'impatto giunse tanto inatteso che le gambe cedettero e il ragazzo finì lungo disteso. Si rialzò a fatica, mentre Yasmini gridava, preoccupata: «Stai bene, Dowie?» «Sì.» «Posso scendere?» «No! Resta lì. Togli la testa dall'apertura, per lasciar entrare la luce.» Una volta che la polvere si fu posata e gli occhi si abituarono all'oscurità, riuscì a intravedere qualcosa. Un fioco raggio di sole filtrava dall'apertura sopra di lui. Si ritrovò in un passaggio stretto, che sembrava costruito al centro del massiccio muro esterno della tomba. Era poco più largo delle sue spalle e alto appena quanto bastava per consentirgli di stare in piedi. Le grida di Jinni provenivano da un punto poco lontano e lui si diresse da quella parte. Trovò una porta di legno che sbarrava il passaggio. Sbriciolata dal tempo e dalla muffa, era caduta dai cardini di cuoio marcito; Jinni doveva averla spinta e persino la sua piccola corporatura si era rivelata sufficiente a farla cadere. Ecco perché la scimmia era rimasta intrappolata sotto il battente. Si era spezzata le unghie sul legno nel tentativo di liberarsi, e aveva la pelliccia coperta di polvere e frammenti di legno. Dorian spinse e sollevò il battente, riuscendo a smuoverlo quel tanto che bastava perché la scimmia si divincolasse, liberandosi dal suo peso. Jinni non era ferita e salì di corsa lungo il corpo di Dorian, fino alla spalla, aggrappandosi al suo collo con tutt'e due le braccia e berciando freneticamente per il sollievo. «Stupida bestia», la rimproverò Dorian in inglese, accarezzandole la testa per calmarla. «Questo t'insegnerà a non ficcarti più in posti impossibili, scimmietta idiota che non sei altro.» Riportandola verso l'apertura, la porse a Yasmini, che si era introdotta Wilbur Smith
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nel foro con la testa e le spalle, poi tornò indietro, sollevò la porta, la trascinò dietro di sé per appoggiarla contro la parete del passaggio e infine se ne servì come scaletta per risalire alla luce. Era tutto coperto di polvere e di sporco, quindi, mentre Yasmini quasi soffocava Jinni, stringendola in un abbraccio amorevole, si lavò alla meglio nelle acque della cisterna. Yasmini scese la scala tenendo in braccio la scimmia, ma Dorian, prima di seguirle, tornò indietro, spinto da un impulso improvviso, e dispose le erbe e i rampicanti fioriti in modo da mascherare l'apertura alla base della cupola. Passarono alcuni giorni prima che Dorian tornasse a esplorare le profondità di quel passaggio segreto. Non avrebbe mai dovuto dire a Yasmini quello che aveva in mente, perché lei insistette per portare con sé Jinni. All'insaputa di Tahi, il ragazzo prese una delle lampade a olio, con la pietra focaia e l'acciarino per accenderla. Adottarono una serie di elaborate precauzioni, in modo da non essere seguiti da una spia o uno sgherro di Kush, e decisero di seguire strade separate per raggiungere il luogo dell'appuntamento, cioè la vecchia tomba. «Nessuno ti ha seguito?» chiese Dorian, quando vide Yasmini affannarsi a raggiungere la scala, portando Jinni sulla spalla. «Nessuno!» confermò lei, quasi ballando per l'eccitazione. «Secondo te, che cosa troveremo? Un gran tesoro? Oro e gioielli, forse?» «Una stanza segreta piena di teschi e di vecchie ossa», rispose lui per stuzzicarla. Lei assunse un'espressione apprensiva. «Vuoi andare tu per primo?» domandò allora, prendendolo per mano. Scivolarono dietro la cortina di vegetazione, richiudendola alle loro spalle, poi Dorian scostò i rampicanti dall'ingresso del passaggio per sbirciare nel buio. «Tutto a posto, nessuno lo ha scoperto.» Accovacciandosi, lavorò con la pietra focaia e l'acciarino. Allorché la fiamma della lampada cominciò a bruciare regolarmente, raccomandò a Yasmini: «Devi passarmela, quando te lo dirò». Si calò nell'apertura, alzando gli occhi verso di lei e le disse: «Dammi la lampada». Gliela prese di mano, posandola in un punto poco lontano dal varco. «Ora scendi», la invitò. Wilbur Smith
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Guidò i suoi piedi che penzolavano dall'apertura, posandoli sulla vecchia porta che faceva da scaletta. «Ci sei quasi. Adesso salta!» Lei scese con un balzo e prese a guardarsi attorno. Jinni scese come un fulmine dietro di lei, risalendo lungo la sua gamba, ma in alto non c'era spazio sufficiente perché potesse restare sulla spalla della ragazzina, quindi Yasmini la tenne sul fianco. «È così emozionante! Non avevo mai fatto niente del genere, prima d'ora.» «Non fare tanto chiasso.» Dorian raccolse la lampada. «Seguimi. Resta vicino a me, ma non intralciarmi.» Avanzò con cautela verso il punto in cui aveva incontrato la vecchia porta, ma provò una fitta di delusione nel vedere che, poco più avanti, l'antico passaggio era stato chiuso con un muro di mattoni. Si trovavano in un vicolo cieco. «Che cosa ci sarà dietro i mattoni?» chiese Yasmini in un soffio. «Credo che, un tempo, portasse alla tomba vera e propria, ma qualcuno lo ha sbarrato. Mi domando perché l'abbiano costruito, comunque.» «In modo che l'angelo Gibrail possa scendere nella tomba per portare in paradiso l'anima del santo», rispose Yasmini in tono solenne. «Gibrail viene sempre a prendere l'anima degli uomini giusti.» Dorian stava per farsi beffe di lei, ma vide che, alla luce della lampada, gli occhi di Yasmini erano grandi e luminosissimi. «Forse Hal ragione», convenne. «Comunque mi domando dove porta l'altro capo del passaggio.» Tornarono indietro, passando sotto l'apertura dalla quale erano entrati e avanzando lentamente nell'oscurità polverosa, che sapeva di muffa. Alla fioca luce gialla della lampada, il pavimento sotto i loro piedi cominciò a scendere; a intervalli di pochi passi incontravano gradini di pietra in discesa. Il tetto era distante appena un palmo dalla testa di Dorian. «Ho paura», mormorò Yasmini. «Gibrail potrebbe essere in collera con noi perché usiamo il suo passaggio,» Si strinse al petto Jinni e, con l'altra mano, si aggrappò saldamente al kanzu di Dorian. Proseguirono in silenzio. Il passaggio continuava a scendere. A un certo punto, Dorian calcolò che dovevano trovarsi più in basso del livello del terreno. Poi la pendenza cessò e la galleria proseguì in piano. Lui contava i passi. «Che succede, se il tetto crolla?» domandò Yasmini. «È rimasto al suo posto per quattrocento anni», ribatté lui, fiducioso. «Perché dovrebbe crollare proprio adesso?» Avanzò, sempre contando i Wilbur Smith
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passi a voce alta. «Trecentoventidue», annunciò, e poi, quasi subito: «Guarda, ci sono alcuni gradini in salita!» Salirono molto lentamente, perché Dorian sostava su ogni gradino, sollevando la lampada per osservare il passaggio davanti a loro. D'improvviso si fermò di nuovo. «È sbarrato», annunciò con delusione. Alla luce della lampada si accorsero che il tetto e una delle pareti laterali erano crollati. Rimasero fermi, incerti, fissando il muro in rovina. D'un tratto, Jinni saltò a terra dal fianco di Yasmini, lanciandosi in avanti e, prima che Dorian potesse acchiapparla per la coda, scomparve in una piccola apertura fra la parte intatta del tetto e la pila di detriti. «Jinni!» Yasmini si spinse oltre Dorian, infilando il braccio nell'apertura. «Resterà di nuovo incastrata. Salvala, Dowie!» «Stupida scimmia!» Dorian cominciò a smantellare il cumulo di rovine, tentando di allungare il braccio all'interno. A intervalli di pochi minuti sentivano il richiamo di Jinni, ma, per quanto Yasmini la pregasse, la bestia non tornava. Il ragazzo continuò a lavorare con ostinazione, sgomberando la galleria dai rifiuti. Poi smise di scavare per arrampicarsi sul cumulo di pietre. «Riesco a vedere la luce, più avanti», esclamò, trionfante. Scendendo di nuovo con un balzo, si rimise al lavoro, raddoppiando gli sforzi per togliere di mezzo i detriti che ancora bloccavano il tunnel. Un'ora dopo, si asciugò il viso col kanzu: il sudore si era impastato con la polvere, formando una maschera di fango. «Ora credo di poter passare dall'apertura, strisciando.» Si spinse nel varco che aveva allargato, strisciando sul ventre, e Yasmini vide con apprensione prima il corpo, poi le gambe e infine i piedi inghiottiti da quel pertugio. Pochi minuti dopo, lui la chiamò. «Yassie! Ho trovato Jinni! Tutto bene. Vieni!» Lei era così minuta che poté strisciare carponi nel passaggio. Poco più avanti, la luce aumentò d'intensità, e Yasmini trovò Dorian accovacciato all'uscita della galleria. C'era una cortina di vegetazione sospesa davanti a loro, ma più in là si vedeva splendere il sole. «Dove siamo?» gli domandò, prendendo in braccio la scimmia. «Non lo so.» Scostando con cautela il fogliame, scoprì che si trovavano in una piccola conca, circondata da pareti di mattoni di corallo disintegrati dal tempo e dalle intemperie. Il terreno era completamente ricoperto da una vegetazione rigogliosa. «Resta qui», le raccomandò, sgusciando all'aperto, Wilbur Smith
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e si arrampicò in cima alle rovine per guardare fuori. Vide alberi di palma e mangrovie e, ancora più in là, uno squarcio di sabbia bianca e il mare, di un azzurro intenso. Grazie alle sue esplorazioni all'esterno delle mura, riconobbe la zona. «Siamo fuori dello zenana», esclamò, sbalordito. «La galleria passa sotto le mura.» «Non sono mai stata fuori dello zenana in tutta la mia vita», mormorò Yasmini, arrampicandosi accanto a lui insieme con Jinni. «Guarda, quella è la spiaggia. Non possiamo scendere fin lì, Dowie?» In quel momento udirono alcune voci e si acquattarono tra la vegetazione: era un gruppo di donne, che passarono al di sotto del loro nascondiglio senza alzare lo sguardo. Si trattava di giovani schiave swahili, nere e senza il velo, che portavano enormi carichi di fascine per il fuoco in equilibrio sulla testa. Passarono oltre, e le loro voci svanirono. «Non possiamo scendere fino alla spiaggia, Dowie?» implorò Yasmini. «Solo per poco. Soltanto questa volta.» «No! Sei una ragazzina sciocca», le rispose Dorian con severità. «I pescatori ci vedranno e andranno a riferirlo a Kush. E allora ci sarà un'altra tomba nel cimitero. Lo sai che cosa succede alle bambine che lo sfidano!» Risalì fino all'imbocco della galleria, arrampicandosi sulle rovine. «Su, vieni! E prendi Jinni!» «Forse è la volontà di Allah, che non debba mai nuotare in mare con te», mormorò lei in tono malinconico, continuando a fissare la spiaggia oltre gli alberi. «Su, Yassie, dobbiamo tornare indietro.» Le parole di Yasmini lo tormentavano. Ogni volta che scendeva alla spiaggia da solo per superare a nuoto la barriera corallina, si sentiva in colpa, e, sebbene lei non ne avesse più parlato, la sua preghiera continuava ad assillarlo. Nel corso delle settimane successive, esplorò la zona all'esterno del muro orientale dello zenana, scoprendo tra gli alberi numerose rovine ricoperte di vegetazione. Erano quasi tutte nascoste dal sottobosco o dalle dune di sabbia sospinte in alto dal monsone che soffiava dalla spiaggia. Impiegò alcuni giorni per ritrovare l'intrico di cespugli e antichi detriti di corallo che nascondeva l'imbocco del tunnel e, quando fu certo di non essere osservato, scalò quel cumulo di rovine per discendere verso l'apertura, nella piccola conca riparata. Wilbur Smith
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Dedicò parecchie ore di lavoro a liberare l'apertura dai detriti, in modo che l'accesso fosse più facile e sicuro e poi lo ricoprì con fronde di palma e rami secchi per impedire che lo trovassero i raccoglitori di legna swahili. Chiese in prestito all'amico Mustafà, lo stalliere, un kanzu sporco e sbrindellato, ormai più toppe che stoffa, e una keffiya lurida al punto che neanche lo stalliere era disposto a portarla. Arrotolandoli in un fagotto, li nascose vicino all'uscita del tunnel. Poi attese la luna piena e, quando fu tutto pronto, domandò a Yasmini: «Vorresti davvero nuotare in mare?» Lei lo fissò sbigottita, poi il suo visetto da scimmia si contrasse. «Non prendermi in giro, Dowie», lo pregò. «Stasera verrai a cenare con Tahi e me. Dopo le preghiere del Maghrib, ringrazierai Tahi e le dirai che torni da tua madre. Invece verrai a nasconderti qui, dietro la cisterna.» Lentamente, il viso di Yasmini s'illuminò e i suoi occhi cominciarono a scintillare. «Tua madre penserà che sei con Tahi, e Tahi penserà che sei con tua madre. Io ti seguirò poco dopo e ti raggiungerò qui.» «Sì, Dowie», rispose lei, annuendo con energia. «Non avrai paura a venire qui di notte, da sola?» «No, Dowie.» Lei scosse la testa con tanta veemenza da dare l'impressione che potesse staccarsi dalle spalle. «Non puoi portare Jinni. Lei deve restare nella gabbia, me lo prometti?» «Te lo prometto con tutto il cuore, Dowie.» A cena, Yasmini era così irrequieta e loquace che Tahi la studiò con occhi attenti. «Che ti prende, piccola? Stai chiacchierando come un branco di parrocchetti e ti agiti come se avessi i carboni ardenti nei calzoni. Sei rimasta di nuovo al sole senza coprirti la testa?» Yasmini mandò giù il resto della cena tutto insieme, raccogliendolo dal piatto con le dita della mano destra, poi si alzò di scatto. «Devo andare, Tahi. Mia madre mi ha raccomandato di tornare presto.» «Non Hal finito la cena. Ho preparato il tuo piatto preferito, i dolcetti col cocco grattugiato e lo zafferano.» «Stasera non ho appetito. Devo andare. Tornerò domani.» «Prima le preghiere», l'ammonì Tahi, trattenendola. «Sia lodato e ringraziato Allah onnipotente per averci concesso da mangiare e da bere e averci resi musulmani», farfugliò Yasmini, poi balzò in piedi e uscì di corsa, per evitare che Tahi potesse fermarla di nuovo. Wilbur Smith
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Dorian lasciò trascorrere qualche minuto prima di alzarsi, stirandosi con aria indifferente. «Vado a fare una passeggiata in giardino.» Tahi entrò subito in agitazione. «Ricordati di stare molto attento, alAmhara. Non credere che Kush ti abbia perdonato.» Dorian si allontanò in fretta per sfuggire ad altre raccomandazioni. «Yassie?» chiamò a bassa voce, avvicinandosi furtivamente alla scala che portava fin sulla terrazza. La sua voce s'incrinò con un fremito. Negli ultimi tempi aveva cominciato a giocargli degli scherzi nei momenti di nervosismo o di emozione, arpeggiando sulla scala dei timbri. «Yassie?» Stavolta il richiamo gli sfuggì dalla gola roco e burbero. «Dowie! Sono qui.» Lei uscì strisciando dal retro della cisterna per corrergli incontro. La luna stava sorgendo al di sopra dello zenana, e quel chiarore permise a Dorian di guidarla fino all'imboccatura della Via dell'Angelo, come avevano soprannominato il passaggio. Calandosi all'interno, trovò la lampada a olio e l'acciarino con la pietra focaia dove li aveva lasciati. Quando lo stoppino cominciò a bruciare in modo regolare, chiamò Yasmini, afferrando al volo il suo corpo minuto mentre scivolava lungo la vecchia porta. Lei gli si strinse contro, aggrappandosi a un lembo della sua veste mentre la precedeva lungo il tunnel. Raggiunsero così la sezione che Dorian aveva liberato dai detriti. Il ragazzo spense la lampada. «Non dobbiamo far trapelare la luce», l'ammonì. Per l'ultimo tratto procedettero a tastoni, e poi finalmente scorsero il chiaro di luna attraverso la cortina di piante che mascherava l'uscita della galleria. Dorian cercò l'involto di vestiti vecchi che aveva nascosto in una nicchia della parete. «Tieni, indossali», le ordinò. «Puzzano!» protestò lei. «Vuoi venire con me oppure no?» Lei non mosse altre obiezioni; si sentì un fruscio di stoffa mentre si toglieva gli abiti per indossare dalla testa il kanzu. «Sono pronta», disse in tono ansioso, lasciandosi precedere da lui all'aperto, sotto il chiarore del plenilunio. La tunica era troppo grande, tanto da farla inciampare. Dorian s'inginocchiò per strapparne una fascia dall'orlo, all'altezza delle caviglie, e poi l'aiutò a sistemare la keffiya sulla testa per nascondere i lunghi capelli. «Così dovrebbe andare», le disse guardandola da capo a piedi: sembrava uno dei laceri monelli che correvano per le strade della città o lungo le spiagge. Il figlio di un Wilbur Smith
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pescatore, magari, o di uno dei raccoglitori di legna per il fuoco o di corteccia di mangrovie. «Avanti, vieni!» la incitò. Scesero incespicando dalle rovine, poi, con cautela, sgattaiolarono attraverso il palmeto fino all'inizio della spiaggia. Dorian, che conosceva perfettamente quel tratto di costa, aveva scelto un punto in cui alcune basse pareti di arenaria circondavano una pozza tranquilla in cui le acque si raccoglievano con l'alta marea. Sulla parete rocciosa si apriva una caverna poco profonda, piena di ombre che li nascondevano alla vista, mentre stavano seduti fianco a fianco sulla sabbia indurita dall'umidità. Contemplarono insieme la piccola insenatura inargentata dalla luna: era di un bianco purissimo e le ombre dei pilastri di arenaria, scolpiti dalle intemperie, spiccavano nitide e azzurrine sulla superficie della sabbia. La risacca bassa che s'infrangeva sulla barriera esterna emanava un riverbero fosforescente, che si rifletteva a intermittenza sui loro volti. «È magnifico», sussurrò Yasmini. «Non avrei mai creduto che fosse tanto bello.» «Vado a fare una nuotata», disse Dorian, alzandosi, togliendosi il kanzu e sfilandosi con un calcio i sandali. «Vieni anche tu?» Senza attendere la risposta, s'inoltrò sulla spiaggia e, arrivato all'orlo della pozza, si girò a guardarla. Yasmini emerse dalla caverna, muovendosi come una cerbiatta che uscisse allo scoperto, incerta sulle gambe che sembravano troppo lunghe per il suo corpo infantile. Si era tolta la veste lacera ed era nuda come lui. Al mercato, Dorian aveva osservato le giovani schiave esposte sul palco per la vendita, ma nessuna di loro possedeva la grazia incantata di Yasmini. I capelli le scendevano sulla schiena fino alle natiche piccole e rotonde, e la ciocca d'argento brillava al chiaro di luna in mezzo a quel manto scuro. Raggiungendolo, allungò la mano in un gesto innocente per prendere la sua. I seni erano ancora in boccio, ma i piccoli capezzoli stavano eretti con fierezza, stuzzicati dal soffio fresco del monsone. Dorian li fissò, assalito da una sensazione nuova per lui, una strana tensione alla bocca dello stomaco. Mano nella mano, entrarono nell'acqua della pozza creata dalla marea. L'acqua era più calda dell'aria notturna, calda come il loro sangue. Ridendo di gioia, Yasmini s'immerse e i lunghi capelli fluttuarono intorno a lei Wilbur Smith
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come le foglie della ninfea. La luna era discesa a metà del suo corso, quando infine Dorian le disse: «Non possiamo restare più a lungo. Si sta facendo tardi e dobbiamo tornare indietro». «Non sono mai stata così felice», rispose lei. «Mai, in tutta la vita. Vorrei che potessimo restare così per sempre.» Comunque si alzò, obbediente, mentre l'acqua le inargentava il corpo dalle linee lunghe e snelle. Risalendo la spiaggia, lasciarono orme simili a un doppio filo di perle sulla sabbia chiara. Arrivati all'imbocco della caverna, lei si girò per dirgli: «Grazie, Dowie». Poi all'improvviso gli gettò le braccia al collo, abbracciandolo. «Ti voglio tanto bene, fratello mio.» Dorian si sentì imbarazzato dal suo abbraccio e rimase immobile. La sensazione di quel piccolo corpo stretto al suo, il calore della sua pelle attraverso le gocce fresche di acqua di mare gli fecero provare di nuovo quella strana sensazione alla bocca dello stomaco. Lei si tirò indietro, con una risatina improvvisa, dicendo: «Sono tutta bagnata!» Afferrando una manciata dei folti capelli scuri, li torse, facendo scorrere l'acqua sulla sabbia. Dorian raccolse il proprio kanzu dal punto in cui lo aveva lasciato cadere. «Voltati!» le ordinò, e lei gli mostrò la curva snella della schiena, che lui asciugò con energia, sfregandola con le pieghe della sua veste. «Ora dall'altra parte.» Yasmini si girò e Dorian le passò il tessuto sui piccoli rigonfiamenti del seno, e poi più in basso, fino al ventre. «Mi fai il solletico!» esclamò lei, ridacchiando. Aveva il ventre liscio, interrotto soltanto dalla fossetta dell'ombelico e, alla base, dalla piccola fessura verticale sulle cosce, ancora priva di peli. «Ora indossa il kanzu», le ordinò lui, e Yasmini si girò per raccogliere la tunica dalla sabbia. Di fronte a quelle natiche piccole, perfettamente rotonde, Dorian provò un senso di costrizione al petto, che gli rendeva difficile il respiro. Lei si raddrizzò per infilarsi la veste e, quando la sua testa si affacciò dallo scollo, lui la stava ancora fissando. Gli rivolse un sorriso da monella e poi, mentre raccoglieva i capelli in una treccia spessa prima di nasconderli sotto la keffiya, studiò apertamente il corpo del ragazzo, senza provare il minimo senso di vergogna. «Sei così bianco, dove il sole non ti ha toccato!» esclamò. «E poi, guarda, Hal dei peli anche là sotto», aggiunse, puntando il dito con aria sorpresa. «Hanno lo stesso Wilbur Smith
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colore dei capelli. Splendono come la seta al chiaro di luna. Che belli!» Dorian si era dimenticato della soffice peluria che gli era spuntata con incredibile rapidità nelle ultime settimane. Per la prima volta si sentì impacciato, quasi colpevole, di fronte a lei, e si affrettò a coprirsi con la veste umida. «Dobbiamo andare!» le disse, avviandosi così in fretta che lei fu costretta a correre per raggiungerlo mentre tornava verso lo zenana. Una volta al sicuro nel tunnel, lei si tolse il kanzu sporco per indossare di nuovo i suoi vestiti. «Sei pronta?» le chiese Dorian. «Sì, Dowie.» Ma, prima che lui potesse avviarsi lungo la galleria, lo afferrò per la mano. «Grazie, fratello mio», bisbigliò. «Non dimenticherò mai quello che abbiamo fatto stanotte, mai, mai!» Lui tentò di liberarsi da quella stretta, confuso dalle emozioni che provava e quasi in collera con lei perché lo faceva sentire così. «Possiamo tornarci ancora, Dowie?» supplicò. «Non lo so... Forse.» «Ti prego, Dowie, è stato così divertente.» «Ebbene, allora vedremo.» «Sarò molto buona e farò tutto quello che mi dirai. Non ti prenderò più in giro e non ti darò fastidio. Dimmi soltanto di sì, ti prego, Dowie.» «Va bene, Yassie. Ci torneremo.» Qualche giorno dopo la loro fuga lungo la Via dell'Angelo e prima che Dorian potesse mantenere la promessa di riportarla alla spiaggia, Kush si presentò nel loro alloggio. Giunse di buon'ora, prima del levar del sole, accompagnato da due schiavi eunuchi. Tahi si parò davanti a loro sulla porta, cercando di fermarli. «Che cosa vuoi da al-Amhara?» domandò. «Fatti da parte, vecchia vacca», ordinò Kush. «Il ragazzo non è più affidato alle tue cure.» «Sei venuto a portarmelo via», mormorò lei con voce tremante, aggrappandosi alla cintura ricamata dell'eunuco mentre lui tentava di spingerla indietro. «Sta' indietro, ti ho avvertito!» Kush le spinse la punta del bastone nel ventre, e Tahi si piegò in due per il dolore. «Portate fuori l'infedele», ordinò poi l'eunuco ai due schiavi, che si precipitarono nella cameretta di Dorian. Lui era già seduto sul pagliericcio, Wilbur Smith
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svegliato bruscamente dalla voce acuta e penetrante di Kush, e si stropicciava gli occhi per liberarli dal sonno. Gli eunuchi lo afferrarono, uno per parte, trascinandolo verso Kush, che era rimasto in attesa. «Toglietegli quello», ordinò Kush, indicando con la punta del bastone il kikoi annodato intorno ai fianchi di Dorian. Gli schiavi obbedirono. «Lo immaginavo!» proruppe Kush, lasciandosi sfuggire un sorriso lascivo. «Che bel giardinetto sta crescendo, là sotto.» Pungolò con la punta del bastone il nido di soffici riccioli rossi che copriva il pube del ragazzo. Dorian si piegò su se stesso per coprirsi, ma i due eunuchi lo costrinsero a restare eretto. «È ora che questo venga via», osservò Kush, stuzzicando Dorian col dito grasso e carico di anelli. «Dovremo liberarti di questo fetido pezzetto di pelle.» «Non toccarmi!» gridò furioso il ragazzo con la voce che s'incrinava e le guance arrossate dalla collera e dall'umiliazione. «Toglimi di dosso quelle grasse mani bianche, miserabile creatura senza palle!» Il sogghigno svanì dalle labbra di Kush, che ritirò di scatto la mano, ordinandogli: «Fa' i tuoi salaam a questa vecchia vacca». Lanciò un'occhiata irosa a Tahi. «Non la vedrai mai più. I miei servi aspetteranno mentre prepari i bagagli. Devi lasciare lo zenana. Ti aspetta il coltello, e poi una nuova vita.» Sulla porta, Tahi gli s'aggrappò. «Tu sei il figlio che non ho mai potuto avere», gli sussurrò. «Ti amerò per tutta la vita.» «E io amerò te, Tahi. Non ricordo nulla di mia madre, però sono certo che era come te.» «Dimostrati un uomo e un guerriero, al-Amhara. Fa' che sia orgogliosa di te.» «Di' a Yasmini...» S'interruppe. Quale messaggio poteva mandare alla piccola? Mentre meditava, gli schiavi lo trascinarono oltre la soglia e lui, disperato, gridò a Tahi: «Di' a Yasmini che non la dimenticherò mai. Dille che sarà sempre la mia sorellina». Gli schiavi lo portarono verso il carro trainato da buoi che attendeva nel cortile anteriore dello zenana. Una piccola folla di bambini e di schiave si era riunita per assistere alla sua partenza, ma Yasmini non era tra loro, anche se la cercò con lo sguardo mentre uscivano dalla porta. «È sempre più difficile e pericoloso, quando il ragazzo è grande», Wilbur Smith
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osservò Ben Abram, scuotendo il capo. «Si sarebbe dovuto fare molto prima, non a quindici anni, quando ormai è sulla soglia della virilità.» «Il ragazzo proviene dal mondo degli infedeli e resterà in uno stato di abominio finché non sarà compiuto il rito. Occorre farlo prima del ritorno del principe da Muscat», replicò al-Allama. «Se è davvero il ragazzo della profezia, Allah lo proteggerà.» Dorian era di fronte a loro, completamente nudo. Si trovavano sul terrazzo della fortezza che sovrastava il porto. A parte il medico e il mullah, c'era con loro soltanto una giovane schiava nera, una pagana che non sarebbe stata contaminata dall'assistenza fornita a Ben Abram. Il medico dispose gli strumenti sul tavolo basso, prima di guardare Dorian dritto negli occhi. «Il dolore non è nulla per un uomo, mentre l'onore è tutto. Ricordalo per tutta la vita, figliolo.» «Non vi deluderò, vecchio padre», rispose Dorian. Ne avevano già discusso parecchie volte. «Bismillahi Allahu akbar!» disse piano Ben Abram. «Comincio in nome di Dio onnipotente. Allah è grande!» Nello stesso momento il mullah cominciò a recitare con voce lenta e monotona: «Cominciamo nel nome di Allah, misericordioso e compassionevole. Possa Allah concedergli fede completa, sicurezza duratura, abbondanza di mezzi, maturità della mente, conoscenza benefica, rettitudine per compiere giuste azioni, nobile carattere, onore e salute». Ben Abram rivolse un cenno alla schiava, che s'inginocchiò di fronte a Dorian, prendendogli il pene e cominciando a manipolarlo. Ben presto il pene cominciò a inturgidirsi, e allora la ragazza distolse gli occhi con modestia, senza smettere però di accarezzarlo fin quando non fu del tutto eretto. Allora Ben Abram scelse dal vassoio un piccolo coltello affilato come la lama di un rasoio, prima di avvicinarsi a loro. Rivolto alla ragazza, mormorò: «Basta così!» e lei si allontanò. «In nome di Allah», disse Ben Abram, praticando in fretta la prima incisione. Dorian s'irrigidì nel sentire la lama e si morse le labbra per soffocare il grido di dolore prima che riuscisse a sfuggirgli. Poi venne il taglio successivo, e un altro ancora, ma lui riuscì a soffocare ogni manifestazione di dolore, anche quando sentì il sangue caldo scorrere sulle cosce. Infine Ben Abram depose il coltello, esclamando: «In nome di Allah, è fatta!» Poi bendò la ferita. Wilbur Smith
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Dorian si sentiva tremare le gambe, ma rimase immobile, con gli occhi aperti, e persino al-Allama espresse la sua approvazione. «Ora sei un uomo», disse. Sfiorò la fronte di Dorian in segno di benedizione. «E ti sei comportato da vero uomo.» Ben Abram lo prese per il braccio, guidandolo verso una stanza sul retro del palazzo, dove c'era un pagliericcio già pronto per lui. «Verrò domattina a medicare di nuovo la ferita», gli promise. L'indomani, Dorian era congestionato e febbricitante, e la ferita appariva infiammata. Ben Abram cambiò la fasciatura, spalmandovi sopra un unguento, poi gli somministrò una pozione amara per far calare la febbre. Entro pochi giorni, la febbre era sparita e il processo di guarigione cominciato. Prima dell'inizio del Ramadan la cicatrice era guarita e Ben Abram permise a Dorian di andarsene da solo sulla riva dell'oceano per nuotare nell'acqua calma e limpida, e di scendere alle scuderie reali per aiutare gli stallieri a tenere in esercizio i cavalli del principe, galoppando sulla sabbia bianca e soffice delle spiagge e partecipando alle violente partite di pulu. Poco dopo la luna nuova del Ramadan, fu avvistata una vela che risaliva il canale, e le vedette sulle mura del palazzo scorsero le insegne reali in testa all'albero di maestra: tutta la popolazione dell'isola scese sulla spiaggia per accogliere il principe Abd Muhammad al-Malik che tornava dalla capitale del sultanato di Oman, Muscat. Il principe sbarcò, salutato da una salva di cannone sui bastioni della fortezza, dall'ululato delle donne e dalle grida di entusiasmo degli uomini, che scaricarono in aria i jezail dalla lunga canna, mentre i tamburi rullavano e i pifferi gemevano. Dorian si trovava in compagnia degli stallieri, che trattenevano i cavalli sulla sommità della spiaggia. Li aveva aiutati a lustrare i finimenti e levigare le turchesi che ornavano la sella del principe e il morso del cavallo regale. In qualità di figlio adottivo, il capo degli stallieri gli aveva accordato l'onore di guidare lo stallone di al-Malik in testa al corteo e di tenerlo fermo mentre il principe montava in sella. Il ragazzo osservò il principe che risaliva la spiaggia, mentre la folla si apriva davanti a lui e i sudditi si prosternavano, tentando di baciargli l'orlo della veste mentre passava. Erano trascorsi quasi due anni dal loro ultimo incontro e Dorian guardò con stupore quell'uomo imponente dalla veste candida, con la fascia che gli tratteneva la keffiya intessuta di fili d'oro, e Wilbur Smith
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adorno di un pugnale tempestato di gemme e con l'elsa di corno di rinoceronte che splendeva di una luminosità soffusa come ambra... Il principe si diresse a lunghe falcate verso Dorian, in attesa; sorrideva e ricambiava i saluti dei sudditi con un gesto elegante di benedizione, sfiorandosi il cuore e le labbra. «Salaam aliekum, potente signore!» Dorian s'inchinò e, benché la sua voce andasse perduta nel tumulto della folla, il principe lo vide e gli lanciò uno sguardo compiaciuto, facendogli capire di averlo identificato. AlMalik chinò leggermente la testa, poi saltò in sella con la grazia di un cavallerizzo esperto e si allontanò in direzione della fortezza. Il principe era seduto con i suoi cortigiani sulla terrazza del palazzo, sorseggiando il caffè e ascoltando i rapporti degli uomini che avevano amministrato le isole e le colonie in sua assenza. «Molte navi infedeli stanno approdando a Zanzibar», gli spiegò il visir. «Sono sempre più numerose, ora che il vento kusi le porta dal sud. Cercano tutte di commerciare avorio e schiavi.» Il sultanato di Zanzibar faceva parte dei domini del principe e una quota dei profitti ricavati nei suoi mercati affluiva nelle sue casse. Poteva star sicuro che il docile sultano avrebbe spremuto gli infedeli fino all'ultima rupia. «Ali Muhammad deve annunciare ai comandanti infedeli che non tollero la loro presenza a nord di Zanzibar. Lo proibisco nel modo più rigoroso.» L'oro e le merci che gli infedeli portavano con sé erano bene accetti, ma alMalik conosceva perfettamente l'avidità e la mancanza di scrupoli di quegli uomini, che avevano già impiantato stabilimenti e basi commerciali nell'impero del Gran Moguhl. Una volta che riuscivano a creare una testa di ponte, era impossibile costringerli ad andarsene, quindi non si poteva tollerare la loro presenza a nord, fino a Lamu. «Ali Muhammad è perfettamente al corrente dei vostri ordini. Se qualche nave infedele si avventurasse in queste acque, farà subito rapporto a vostra eccellenza.» Al-Malik annuì. «La richiesta di avorio è così grande... A che punto sono le nostre risorse sulla terraferma?» «L'avorio scarseggia ogni anno di più, mentre la richiesta degli infedeli aumenta.» Per rifornire le loro scorte, i mercati di Zanzibar e di Lamu contavano Wilbur Smith
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sulle tribù di pagani neri dell'interno, ma esse non disponevano di fucili per dare la caccia ai giganteschi pachidermi. Il loro metodo consisteva nell'allestire trappole piuttosto primitive - grosse buche che avevano sul fondo un micidiale tappeto di punte acuminate - nelle quali tentavano di spingere i branchi, spaventandoli. Esistevano anche alcuni cacciatori intrepidi, capaci di abbattere un elefante con arco e frecce, tuttavia i risultati erano sconfortanti. «Forse dovremmo vendere qualche fucile ai capitribù, in modo che possano abbattere un maggior numero di animali», suggerì con cautela uno dei cortigiani. Il principe scosse energicamente la testa. «È troppo pericoloso», obiettò. «Potrebbe incoraggiarli a ribellarsi contro la nostra autorità. Sarebbe come aprire la porta della gabbia dei leoni.» Discussero a lungo la questione, poi il principe passò al commercio degli schiavi. «Dal momento che noi razziamo gli schiavi nelle zone costiere, loro si rintanano nell'interno, diventando sempre più selvatici e diffidenti, come gli elefanti. Il numero di schiavi che riusciamo a procurarci diminuisce di stagione in stagione.» Come per l'avorio, gli arabi facevano assegnamento sui capitribù dell'interno, i più bellicosi, perché attaccassero i loro vicini, riducessero in schiavitù quei loro nemici tradizionali e li conducessero poi nei punti di raccolta, sulle rive dei grandi laghi. «Potremmo prendere in esame l'idea d'inviare i nostri guerrieri nelle foreste...» propose un altro dei cortigiani. Il principe si lisciò la barba, pensieroso. «Dovremmo mandare uomini validi e coraggiosi, perché non possiamo sapere che cosa troveranno laggiù, in quelle terre selvagge. L'unica certezza è che si tratta di un'impresa dura e pericolosa.» S'interruppe, per riflettere ancora su quel suggerimento, poi riprese: «Vi comunicherò in seguito la mia decisione su questo punto, ma, nel frattempo, stendete una lista di cinquanta uomini adatti a guidare spedizioni di questo genere». Esaminò tutte le questioni che concernevano il commercio, ma, prima di passare agli argomenti più seri, congedò i membri meno importanti del consiglio, tenendo con sé soltanto i cinque più anziani e fidati, ai quali riferì l'esito della sua visita a Muscat. Al-Malik spiegò che si era mosso su un terreno pericoloso, in cui la cospirazione e il tradimento erano sempre in agguato. Esordì ricordando ai Wilbur Smith
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presenti che il califfo, Al Uzar Ibn Yaqub, era più vecchio di lui di quarant'anni; infatti, mentre al-Malik era figlio dell'ultima favorita di suo padre, ormai giunto alla tarda maturità - «D'altra parte», commentò, «lo sa ogni cavaliere che un vecchio stallone e una giovane giumenta danno i puledri migliori...» -, Ibn Yaqub era nato da una delle mogli del padre quando quest'ultimo era ancora giovane. Al-Malik proseguì rivelando che il minuscolo impero di Oman era minacciato seriamente dall'espansione dei conquistatori ottomani, dominatori di quel potente Stato che aveva come capitali Istanbul e Baghdad e che si espandeva su gran parte del mondo arabo. Gli unici che finora avessero resistito all'espansione erano alcuni principati a nord, troppo insignificanti per attirare l'attenzione dei califfi turchi, e quelle regioni che, caparbiamente, erano riuscite a difendersi. Il califfato di Oman, però, era dotato di una potente flotta che lo proteggeva dagli attacchi provenienti dal mare; inoltre, se un aggressore avesse tentato d'invaderlo via terra, arrivando dal nord, si sarebbe trovato a fare i conti con le terribili sabbie del Rub Al Khali, «la regione deserta», nonché con i guerrieri del deserto che formavano il piccolo esercito di Oman e per i quali il deserto stesso era la loro casa. Oman quindi resisteva ai conquistatori ottomani da cent'anni e avrebbe potuto resistere per altri cento... se al governo ci fosse stato un uomo forte e pieno di risorse. Quell'uomo non era Ibn Yaqub, che aveva superato i sessant'anni ed era più incline alle tortuosità degli intrighi politici che alle asprezze della guerra. Anziché tenere unita la sua piccola nazione e proteggerla, il califfo si era preoccupato unicamente di salvaguardare il proprio potere personale e, così facendo, aveva perso il rispetto delle sue tribù. La popolazione di Oman, infatti, era composta da tante piccole tribù, ciascuna sotto il comando di uno sceicco e, senza una guida salda, quei rudi uomini del deserto stavano cominciando a guerreggiare tra loro, riesumando antiche faide tribali. In quelle tribù, il vecchio crudele e intrigante che, con polso incerto, governava da Muscat, era ormai guardato con crescente disprezzo. Come risultato, l'autorità di Ibn Yaqub, potente nella zona d'influenza immediata del califfo, diventava sempre più fiacca su quei deserti infuocati e sulle acque sconfinate dell'oceano delle Indie. Gli sceicchi del deserto e i comandanti di dhow erano disposti a seguire soltanto un uomo che rispettavano. Alcuni di loro avevano già inviato emissari segreti ad al-Malik, perché si Wilbur Smith
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era rivelato un uomo potente e un guerriero senza pari. Sapevano tutti che il califfo lo aveva esiliato in un avamposto dell'impero, a Lamu, perché ne temeva l'influenza e la popolarità. I messaggeri gli avevano promesso che, se fosse tornato in Arabia, a Oman, per mettersi alla testa di una rivolta contro il fratello, lo avrebbero seguito; se al timone dello Stato ci fosse stato lui, avrebbero potuto unire di nuovo le forze contro la minaccia ottomana. «È vostro dovere e diritto sancito da Allah», gli avevano assicurato. «Se verrete da noi, i mullah dichiareranno la jihad, la guerra santa, e noi vi seguiremo per rovesciare il tiranno.» Erano questioni gravi, irte di terribili pericoli. Se avessero fallito, nessuno dei sei uomini seduti sulla terrazza poteva avere dubbi su ciò che sarebbe accaduto, quindi rimasero a lungo riuniti in consiglio, discutendo le possibilità di successo e la giustezza della loro causa. Quando la riunione era cominciata, i dhow erano stati sospinti in secca dalla marea, nella parte alta della spiaggia, dov'erano rimasti, sbandati sul fianco sotto il sole, mentre lunghe file di schiavi si dipanavano sulla sabbia per trasportare a terra il carico. Durante il consiglio, la marea aveva cominciato a salire e, a poco a poco, le navi si erano raddrizzate, galleggiando sull'acqua, poi avevano bordato le vele per virare, uscendo nel canale. I sei uomini sulla terrazza stavano ancora discutendo quando altre navi, appena arrivate dalla terraferma, quasi sprofondando sotto il peso del carico, erano venute a ormeggiarsi sulla spiaggia e la marea risaliva pigramente e poi riprendeva a defluire. Per tutto quel tempo, al-Malik rimase in ascolto, parlando poco, mentre consentiva a tutti gli altri di dire ciò che avevano nel cuore senza limiti né restrizioni: setacciava attentamente le perle di saggezza dalle scorie. Riesaminarono le forze sulle quali potevano contare, stilando una lista degli sceicchi che non si erano impegnati o erano ancora incerti, e le confrontarono con le forze a disposizione di Ibn Yaqub. Soltanto allora, avendo ormai esaminato la questione sotto ogni aspetto, al-Malik prese la sua decisione. «Tutto dipende dalle tribù che vivono nel cuore del deserto, i saar, i dahm e i karab», dichiarò. «Sono i guerrieri più valorosi di tutto l'Oman. Senza di loro, la nostra causa è destinata all'insuccesso. Tuttavia ancora non sappiamo in quale direzione punteranno la lancia di guerra.» I consiglieri annuirono. «Devo andare da loro», concluse a bassa voce al-Malik. Rimasero in silenzio per qualche tempo, meditando su quell'audace linea Wilbur Smith
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di condotta, poi al-Allama disse: «Il califfo vostro fratello non lo permetterà e, se insisterete, fiuterà il pericolo nel vento». «Farò lo hajj, il pellegrinaggio alla Mecca, seguendo l'antica via del deserto per raggiungere i luoghi santi, la via che passa attraverso il territorio delle tribù. Il califfo non può proibire un pellegrinaggio, sotto pena di dannazione eterna.» «È un grande rischio», osservò al-Allama. «Non esiste grande vittoria senza un grande rischio», ribatté al-Malik. «E Allah è grande.» «Allah akbar!» risposero tutti. «Invero Allah è grande.» Al-Malik fece un gesto di congedo e gli altri si avvicinarono uno alla volta per abbracciarlo e baciargli la mano. L'ultimo fu al-Allama, e alMalik gli disse: «Restate con me. È l'ora del Maghrib, la preghiera del tramonto. Pregheremo insieme». Due schiave portarono delle brocche di acqua dolce attinta dal pozzo, con la quale i due uomini compirono le abluzioni rituali, lavandosi le mani sotto l'acqua che le ragazze versavano dalle brocche d'argento, sciacquandosi la bocca tre volte, aspirando l'acqua raccolta nel cavo della mano destra per tre volte e soffiandola via dalle narici con la sinistra, prima di procedere a bagnare il viso, le braccia e i piedi. Quando le schiave si allontanarono, al-Allama si alzò col viso rivolto verso la Ka'bah della Mecca, che era distante migliaia di miglia, a nord, e, con le mani poste a coppa dietro le orecchie, intonò a voce alta il richiamo alla preghiera. «Allah è grande. Io sono testimone che Maometto è il messaggero di Allah... Venite alla preghiera!» Ai loro piedi, nel cortile e sotto le palme che orlavano la spiaggia, centinaia di figure umane vestite di lunghe tuniche si riunirono in silenzio per prostrarsi nella preghiera, tutte rivolte nella stessa direzione. «La preghiera è cominciata!» intonò al-Allama. Alla fine della preghiera, al-Malik fece cenno al mullah di prendere posto sul cuscino alla sua destra e gli disse: «Quando sono arrivato, ho visto sulla spiaggia il ragazzo, al-Amhara. Ditemi come si è comportato in mia assenza». «Cresce alto e forte, come un albero di tamarindo. È già un ottimo cavaliere. Ha la mente agile e la lingua pronta, a volte anche troppo. Tende a mancare spesso di rispetto agli anziani e ai superiori, non accetta facilmente le critiche o i divieti e, se è in collera o viene contrariato, Wilbur Smith
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sfoggia un repertorio d'invettive che farebbero impallidire il comandante di una nave», osservò al-Allama in tono compunto. Al-Malik nascose a stento un sorriso. Quello che aveva sentito non faceva che indurlo ad apprezzare ancora di più quel figlio adottivo infedele. Sarebbe diventato un condottiero. Al-Allama aggiunse: «Ha raggiunto l'età virile ed è stato circonciso come si conviene da Ben Abram. Quando verrà il momento per lui di abbracciare l'Islam, sarà pronto». «Bene», disse il principe. «E ditemi, santo padre, i vostri insegnamenti hanno dato frutti in questo senso?» «Ora parla la nostra lingua come se fosse uno di noi e sa recitare a memoria lunghi passi del sacro Corano.» L'espressione di al-Allama era imbarazzata e sfuggente. «Non ha fatto progressi nel sottomettersi ad Allah?» insistette al-Malik. «Senza questa condizione la profezia non può avverarsi.» «Il Profeta stesso ha detto che non si può costringere un uomo a convertirsi all'Islam. Deve arrivarvi da solo, a suo tempo.» «Allora la risposta è no?» «Ama discutere. A volte penso che l'unico motivo per cui impara a memoria il Corano è poter discutere meglio con me. È fiero della religione del suo popolo e si vanta del fatto che un giorno sarà ammesso in un ordine religioso cristiano che chiama 'cavalieri dell'ordine di San Giorgio e del Santo Graal', come il nonno e il padre prima di lui.» «Non spetta a noi mettere in dubbio le vie di Allah», osservò al-Malik. «Dio è grande!» convenne al-Allama. «Comunque c'è una novità che riguarda il ragazzo. Abbiamo ricevuto una richiesta d'informazioni sul suo conto dal console inglese di Zanzibar.» Al-Malik si protese in avanti con un'espressione accigliata. «Credevo che il console di Zanzibar fosse stato assassinato, circa cinque anni fa.» «Quello si chiamava Grey. Dopo la sua morte, gli inglesi hanno mandato un altro a prendere il suo posto.» «Capisco. Quale tipo di richiesta è giunta da quest'uomo?» «Descrive con precisione il ragazzo, l'età e il colore dei capelli. Sa che al-Amhara era stato catturato da al-Auf, e venduto in schiavitù, e sa anche che è stato acquistato da vostra eccellenza. Conosce persino il nome che gli abbiamo dato: al-Amhara.» «Come ha saputo tutto questo?» La fronte di al-Malik era corrugata Wilbur Smith
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dall'ansia. «Lo ignoro, però Ben Abram mi ha raccontato molte cose sulla famiglia del ragazzo. Ha conosciuto il fratello maggiore di al-Amhara, quando gli infedeli lo hanno catturato nella base di al-Auf.» Il principe annuì. «Che cosa sa il medico sul conto del ragazzo?» «La sua famiglia è nobile e importante, vicina al re d'Inghilterra. Nonostante la giovane età, il fratello di al-Amhara è un formidabile combattente e un provetto navigatore, e ha giurato col sangue di trovare il fratello minore e di liberarlo. Forse dietro le richieste di notizie che provengono da Zanzibar c'è questa famiglia: non lo sappiamo con certezza, ma è saggio non ignorare tali richieste.» Dopo qualche istante di riflessione, Al-Malik domandò: «Dato che gli inglesi acquistano e possiedono schiavi, come possono fare obiezione se gli altri adottano la stessa pratica? Che cosa possono fare per imporci la loro volontà? Il loro Paese è lontano, all'altro capo della terra. Non possono mandare un esercito contro di noi.» «Ben Abram dice che hanno un modo insidioso di fare la guerra: rilasciano un firmari ai comandanti delle navi mercantili armate, autorizzandoli a combattere contro i loro nemici. Questi uomini sono come squali o barracuda: vengono per depredare.» «E il re d'Inghilterra dichiarerebbe la guerra a causa di un ragazzo?» «Ben Abram teme che potrebbe farlo, non soltanto per il ragazzo, ma anche per avere la scusa d'inviare molte navi nelle nostre acque, e impadronirsi così del territorio e delle ricchezze di Oman.» «Rifletterò su quello che mi avete detto», decise al-Malik, congedandolo. «Portatemi qui Ben Abram e il ragazzo domattina, dopo la preghiera di Zuhr.» Fu un Dorian trepidante ed eccitato quello che si presentò all'udienza col principe. Non aveva provato un simile turbamento in occasione del loro primo incontro: a quell'epoca, per lui, al-Malik era soltanto un musulmano, un nemico e un capo pagano. Da allora, però, Dorian, sotto la guida di al-Allama e di Ben Abram, aveva imparato molte cose. Sapeva che i diritti regali del principe erano antichi quanto quelli del re d'Inghilterra; inoltre conosceva le sue imprese di marinaio e di guerriero e si era reso conto del rispetto che i sudditi provavano per lui. A tutto ciò, si sommava il fatto che il legame tra il Wilbur Smith
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ragazzo, l'Inghilterra e il cristianesimo cominciava a logorarsi a causa del tempo trascorso e della grande distanza. Non avendo più avuto occasione di parlare la sua lingua, Dorian ormai pensava in arabo e faticava a ricordare le parole inglesi per esprimere anche le idee più semplici. Persino i ricordi della sua famiglia cominciavano a sbiadire. Gli accadeva soltanto di rado di pensare a Tom e aveva rinunciato a ogni idea di fuga da Lamu. Non si considerava più prigioniero sull'isola, perché cominciava a lasciarsi coinvolgere dalla cultura, dallo stile di vita e dal modo di pensare degli arabi. In quel momento, dunque, trovandosi di nuovo di fronte al principe, si sentiva sopraffare da un timore reverenziale. Quando s'inginocchiò davanti ad al-Malik sul pavimento di roccia corallina della terrazza, chiedendo la sua benedizione, sentì il cuore accelerare i battiti per la sorpresa e il piacere nel sentire come il principe ricambiava quel saluto. «Vieni a sederti accanto a me, figlio mio. Abbiamo tante cose di cui parlare.» Quell'uomo regale e maestoso lo aveva riconosciuto come proprio figlio davanti a testimoni; provò un senso di fierezza e subito dopo una fitta cocente di colpa. Gli balenò alla mente per un attimo l'immagine del suo vero padre, ma ormai quell'immagine era così lontana, sfocata... Sarò sempre fedele al mio vero padre, si ripromise, ma obbedì prontamente, con gioia, all'invito di al-Malik. «In mia assenza sei diventato un uomo», osservò il principe studiandolo con interesse. «Sì, mio signore», rispose Dorian, ma dovette trattenersi dall'aggiungere meccanicamente: «Per grazia di Allah». «Me ne rendo conto con i miei occhi.» Al-Malik scorse i contorni dei muscoli giovani e sodi e l'ampiezza delle spalle, sotto il kanzu che Dorian indossava con tanta naturalezza. «E quindi è opportuno che tu abbandoni il tuo nome da bambino per assumere invece un nome da uomo. D'ora in poi ti chiamerai al-Salil.» «È la volontà di Allah», dissero all'unisono al-Allama e Ben Abram, entrambi orgogliosi e compiaciuti dell'onore che il principe aveva concesso al loro protetto. Tornava a loro credito, perché il nome prescelto era propizio e significava «la spada sguainata». «La vostra benevolenza è come il sorgere del sole dopo l'oscurità della notte», replicò Dorian, mentre al-Allama annuiva, approvando la scelta dei termini e l'intonazione. Wilbur Smith
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«Inoltre è opportuno che tu abbia un portatore di lancia.» Al-Malik batté le mani e, a quel suono, un giovane avanzò sulla terrazza con una falcata lunga e agile, come un cammello da corsa. Doveva avere una decina d'anni più di Dorian, quindi si avviava verso la trentina e, a giudicare dalle vesti e dall'atteggiamento, era un guerriero: infatti portava alla cintola una scimitarra ricurva e teneva appoggiato sulla spalla uno scudo rotondo di bronzo. «Questo è Batula», gli disse il principe. «Ti farà giuramento di fedeltà.» Batula si avvicinò a Dorian, inginocchiandosi di fronte a lui. «Da oggi in poi sarete il mio signore», disse con una voce forte e limpida. «I vostri nemici sono i miei nemici. Dovunque andiate, porterò la lancia e lo scudo alla vostra destra.» Dorian gli posò la mano sulla spalla in segno di accettazione del giuramento, e Batula si alzò. I due si guardarono in faccia e Dorian approvò all'istante ciò che vedeva. Batula non era bello, ma il suo viso largo, dal naso grosso e adunco, aveva un'espressione onesta. I denti che mostrò, sorridendo, erano bianchi e regolari. Portava i folti capelli scuri, unti col ghee, il burro chiarificato, raccolti in una treccia su una spalla. «Batula è un portatore di lancia», spiegò al-Malik, «e un guerriero già messo alla prova in battaglia. Può insegnarti molto, al-Salil.» La lancia era l'arma dell'autentico cavaliere arabo. Dorian aveva visto i principianti che si esercitavano e si era esaltato osservando la carica tumultuosa degli zoccoli e il balenare d'acciaio della punta delle lance dei cavalieri che, lanciati a tutta velocità, staccavano un anello di bronzo sospeso in alto. «Sarò un allievo volenteroso», promise. Dopo aver congedato Batula, al-Malik aggiunse: «Tra poco intraprenderò un altro lungo viaggio verso il nord, il pellegrinaggio fino alla Mecca attraverso le sabbie e la solitudine del deserto. Tu mi accompagnerai, figlio mio». «Il mio cuore si rallegra di questa scelta, potente signore.» Al-Malik lo congedò e, quando Dorian fu lontano, si rivolse ad alAllama e Ben Abram. «Dovrete mandare un messaggio al sultano di Zanzibar, perché lo trasmetta al console inglese laggiù.» S'interruppe per scegliere le parole, poi riprese: «Ditegli che il principe al-Malik ha davvero acquistato al-Amhara da al-Auf, allo scopo di prendere il ragazzo sotto la sua protezione e di risparmiargli ogni rischio. Ditegli che, per quanto al-Malik abbia fatto tutto ciò che era in suo potere per proteggerlo, Wilbur Smith
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al-Amhara si è ammalato di peste ed è morto due anni fa. È sepolto qui sull'isola di Lamu. Ditegli che al-Malik ha parlato così». Al-Allama s'inchinò, colpito dall'ingegnosità di quella soluzione. «Sarà fatto come voi volete, signore.» «Al-Amhara è morto», aggiunse al-Malik. «Erigerete una lapide nel cimitero con quel nome sopra. Al-Amhara è morto, al-Salil vive.» «Per grazia di Allah», esclamò al-Allama, approvando quell'ordine. «Porterò il ragazzo con me nel deserto e lo lascerò tra i saar, per nasconderlo. Laggiù, tra le sabbie del deserto, imparerà l'arte della guerra e, col tempo, gli infedeli dimenticheranno la sua esistenza.» «È una saggia decisione.» «Al-Salil è più che un figlio per me, è il mio talismano vivente. Non lo cederò mai agli infedeli», concluse al-Malik, in tono sommesso ma risoluto. La Swallow risalì il canale, bordeggiando sulla rotta per Zanzibar. All'ancora, davanti a loro, c'erano dieci navi a vele quadre, insieme con una massa di dhow arabi. Tom Courteney le osservò con attenzione: battevano le bandiere di alcune delle grandi potenze commerciali dell'emisfero settentrionale, con una prevalenza di vessilli portoghesi e spagnoli. «Neanche un francese in vista, mastro Tyler», annunciò, sollevato. Non avrebbe gradito le complicazioni che potevano nascere dalla presenza di una nave nemica in un porto neutrale. «No», riconobbe Ned Tyler, «ma c'è almeno un East Indiaman.» Gli indicò la nave, l'imponente dominatrice degli oceani che spiegava la bandiera della Compagnia. «Ci offriranno un benvenuto ancora più gelido di quello che ci avrebbero riservato i ranocchi francesi.» Tom gli rivolse un sorriso spavaldo. «Di loro me ne infischio. Non possono farci niente al di fuori dei tribunali inglesi... E in Inghilterra noi non torneremo per un bel pezzo.» Ma sottovoce aggiunse: «Sempre che non mi ci trascinino in catene...» Lanciò un'occhiata alla testa d'albero, priva di bandiere; aveva preferito non annunciare la sua nazionalità. «Non appena gettata l'ancora, scenderò a terra per fare visita al nuovo console», spiegò a Ned Tyler. In occasione dello scalo al capo di Buona Speranza, Tom aveva parlato col comandante di un'altra nave inglese all'ancora nella baia della Tavola, e questi lo aveva informato che Grey aveva un Wilbur Smith
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successore al consolato di Zanzibar. «È un giovanotto mandato da Bombay, dopo l'assassinio di Grey, a svolgere le funzioni di console per tutta la costa della Febbre e naturalmente, quello che più conta, a curare gli interessi della John Company in quei mari», gli aveva detto il comandante. «Come si chiama?» aveva chiesto Tom. «Non ricordo. Non l'ho mai incontrato, ma, stando alle voci che ho sentito, è un tipo acido e suscettibile, molto compreso del suo incarico.» Tom rimase a guardare mentre Ned portava la Swallow nella baia. Calarono l'ancora in acque così limpide che si vedevano i pesci multicolori sciamare sulle teste di corallo quattro braccia al di sotto della carena. «Porterò Aboli a terra con me», disse Tom, non appena calarono in mare la lancia. I due sbarcarono sul molo di pietra sotto le mura dell'antico forte portoghese, addentrandosi nelle strade strette. Il calore e gli odori nauseanti della folla erano così familiari che Tom non riusciva quasi a credere che fossero passati cinque anni da quando era sbarcato per la prima volta sull'isola. Chiesero indicazioni al comandante di porto arabo. «No, no», disse loro, «il nuovo consolato non si trova più nella vecchia casa dell'effendi Grey, in città. Manderò un ragazzo a indicarvi la strada.» Scelse uno dei monelli laceri in mezzo allo sciame che tormentava i ferenghi chiedendo l'elemosina. «Questo figlio di shaitan vi farà da guida. Non dategli più di un anna di bakshish.» Il ragazzo li guidò, saltellando fuori del labirinto di vicoletti e costruzioni cadenti e inoltrandosi nel palmeto lungo una strada sabbiosa; a più di un miglio dall'ultima catapecchia della città raggiunsero una grande villa, circondata da un alto muro di cinta. Per quanto la dimora sembrasse vecchia, il muro esterno era stato riparato di recente e coperto con una mano di calce. Il tetto, che si scorgeva al di sopra del muro, era stato ricoperto da poco con fronde di palma. Alla porta c'erano due targhe in ottone. Una recava la scritta: CONSOLATO DI SUA MAESTÀ, mentre al di sotto c'era lo stemma della Compagnia, con i leoni rampanti e la dicitura: UFFICIO DELLA UNITED COMPANY OF MERCHANTS OF ENGLAND TRADING TO THE EAST INDIES. Un servitore rispose al campanello, aprendo il cancello del muro di cinta, e Tom gli consegnò un biglietto da portare al suo padrone. Quando il servitore tornò, pochi minuti dopo, lo seguì, lasciando Aboli ad aspettarlo Wilbur Smith
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in cortile. La residenza era disposta intorno a una serie di giardini e fontane, secondo lo stile dell'architettura orientale. I soffitti erano alti, ma le stanze apparivano arredate in modo molto sobrio. Tuttavia, nelle stanze che Tom attraversò, seguendo il servitore, c'erano vasi pieni di fiori tropicali, e quelle decorazioni floreali, insieme con la disposizione dei cuscini sui mobili austeri, facevano pensare all'intervento di una mano femminile. Infine il servitore fece entrare Tom in una grande stanza col pavimento di pietra e le pareti tappezzate di scaffali pieni di libri. «Vi prego di aspettare qui, effendi. Il padrone verrà subito.» Lasciato solo, Tom alzò gli occhi verso il ventilatore che girava lentamente, collegato da una serie di corde e di pulegge a un foro nella parete, oltre la quale uno schiavo tirava ritmicamente una fune per tenerlo in movimento. Si avvicinò alla scrivania posta al centro della stanza, osservando il calamaio con le penne d'oca disposte in perfetto ordine e le pile di documenti legate col nastro rosso e sovrapposte con assoluta precisione. Poi volse le spalle alla scrivania, scorrendo gli scaffali di libri per cercare d'indovinare dal loro contenuto il carattere dell'uomo che era venuto a incontrare; ma gli scaffali erano pieni di pesanti registri e rapporti rilegati con lo stemma della Compagnia impresso sul dorso. Non si vedeva nessun oggetto di natura personale: quella stanza sembrava priva di anima. Si riscosse sentendo un rumore di passi sul pavimento della terrazza che formava un cortile interno, e si voltò proprio mentre appariva sulla soglia una figura alta e snella. Aveva alle spalle il sole intenso dei tropici, quindi Tom non lo riconobbe subito. Il console a sua volta si fermò, per lasciare agli occhi il tempo di abituarsi alla penombra della stanza, dopo la luce intensa dell'aria aperta; indossava un abito sobrio di sargia nera con un colletto bianco di pizzo. Poi entrò nella stanza, togliendosi il cappello nero a tesa larga, e Tom vide chiaramente il suo viso. Per un lungo istante restò così sbalordito da non riuscire a muoversi né a parlare, poi scoppiò a ridere, avanzando di slancio. «Guy! Sei proprio tu?» Allargò impulsivamente le braccia per stringere al petto il gemello. Non c'era dubbio: la sorpresa di Guy Courteney era grande come quella di Tom. Una folla di emozioni diverse apparve sul suo viso, poi scomparve. I suoi lineamenti si raggelarono. «Thomas, non avevo idea che Wilbur Smith
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fossi tu», disse, indietreggiando per sottrarsi all'abbraccio del fratello. «Hal firmato il biglietto con un nome falso.» «Neppure io avevo idea che fossi tu», rispose Tom, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. Quanto all'accusa di usare un nome falso, evitò di rispondere. Gli era sembrato saggio non usare il suo vero nome, nell'eventualità che, per qualche caso strano, il mandato di arresto per l'assassinio di William fosse arrivato a Zanzibar prima di lui. Spiò l'espressione di Guy per capire se ciò era avvenuto, temendo di non poter contare sull'aiuto del fratello per sfuggire alla giustizia. Si fissarono in silenzio per qualche istante. A Tom parve un'eternità. Poi Guy tese la mano destra e lui la strinse con sollievo. La stretta di Guy era molle, la sua pelle fredda quanto la sua espressione. Lasciò ricadere subito la mano del fratello, dirigendosi verso la sua scrivania. «Accomodati pure, Thomas.» Senza guardarlo, gli indicò una sedia dallo schienale rigido all'altro capo della stanza. «Voglio sperare che tu non sia tornato in queste acque per dedicarti a qualche forma di commercio. Me lo fa supporre il fatto che usi un nome falso.» Vedendo che Tom non replicava, aggiunse: «Ti devo avvertire che la mia lealtà va anzitutto alla Compagnia» - pronunciò quel nome con lo stesso tono che avrebbe usato per invocare Dio - «e che manderò subito un rapporto a Londra». Tom lo fissò, sentendosi ribollire di collera. «Santo cielo, Guy, è questo il tuo primo pensiero? Non siamo fratelli? Non vuoi sapere notizie di nostro padre e di Dorian?» «Sono già al corrente della morte di nostro padre. La nave della Compagnia che si trova in porto mi ha fatto pervenire una lettera di Lord Childs e di nostro fratello William», rispose Guy. Tom provò un'ondata di sollievo: quella era la conferma che desiderava avere. Guy non sapeva della morte di William. «Ho pianto la scomparsa di mio padre a modo mio», riprese Guy. «Quindi non c'è altro da dire in proposito.» La sua bocca s'indurì. «E poi sei sempre stato tu il suo favorito. Io non contavo granché, per lui.» «Questo non è vero. Nostro padre ci amava tutti allo stesso modo», esclamò Tom. «Se lo dici tu...» Guy si strinse nelle spalle. «Quanto a Dorian, ho sentito dire che era rimasto disperso in mare e che era morto annegato.» «No, niente affatto.» Tom non si sforzò di abbassare la voce. «È stato Wilbur Smith
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catturato dai musulmani e venduto in schiavitù.» Guy scoppiò in una risata priva di umorismo. «Sei sempre stato disposto a credere alle storie più assurde. Ti assicuro che, in qualità di console di sua maestà in questi territori, ho accesso alle fonti d'informazione più affidabili.» Nonostante quel diniego, Tom ebbe l'impressione di scorgere una certa ambiguità nella sua espressione. «Dannazione, Guy, io ero lì. L'ho visto con i miei occhi.» Guy si sedette dietro la scrivania, giocherellando con la penna d'oca e sfiorandosi la guancia con l'estremità. «Ah, lo hai visto con i tuoi occhi? Mi sorprende che tu non abbia fatto nulla per impedire che Dorian fosse venduto come schiavo.» «No, accidenti!» ruggì Tom. «So che è nelle mani dei pirati musulmani, perché è stato catturato e non è morto annegato. Inoltre so per certo che è stato venduto come schiavo.» «Che prove Hal per...» cominciò il fratello, ma Tom si avvicinò alla scrivania, battendo i pugni sul ripiano con tanta violenza che l'inchiostro schizzò dal calamaio, macchiando le pile di documenti. «La testimonianza degli arabi che abbiamo catturato a Flor de la Mar e la prova dei miei occhi e dei miei sensi. Dorian è vivo, ti dico, ed è tuo dovere di fratello e d'inglese aiutarmi a trovarlo.» Guy balzò in piedi, col viso di un pallore glaciale e gli occhi che sprizzavano fiamme. «Come osi venire qui, in casa mia, nel mio territorio, facendo il prepotente come al solito, per ordinarmi quello che devo o non devo fare?» gridò, spruzzando goccioline di saliva. «Cristo, Guy, non tentarmi. Frusterò a sangue quella tua schiena da vigliacco, se non fai il tuo dovere nei riguardi del nostro fratellino.» «Quei giorni sono passati da un pezzo, Thomas Courteney. Qui sono io il padrone, il rappresentante di sua maestà e della Compagnia. Ti troverai scaraventato in prigione, con la tua bella nave confiscata, se solo alzi un dito contro di me.» Tremava di collera. «Non ti azzardare a farmi la predica, dopo quello che Hal fatto a Caroline.» Nel pronunciare quel nome, la sua voce assunse un tono stridulo, e Tom indietreggiò, come se fosse stato colpito al petto da una palla di fucile. Guy indietreggiò nello stesso istante, palesemente sbigottito da quello che si era lasciato sfuggire. Tom, dal canto suo, era rimasto disorientato da quell'accusa, che lo aveva punto sul vivo. Rimasero a guardarsi, senza Wilbur Smith
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parlare, e, nel silenzio, un lieve rumore li spinse a girarsi entrambi verso la porta che dava sul giardino. C'era una donna, ferma sulla soglia, vestita con un abito verde chiaro di seta cinese dalle maniche a sbuffo, con un taglio verticale, e dal collo alto. La gonna ampia nascondeva le caviglie, lasciando intravedere soltanto la punta delle scarpette. Fissava Tom come se avesse visto uno spettro, con una mano serrata intorno alla gola e l'altra stretta su quella del bambino accanto a lei. «Che cosa fai qui, Caroline?» ruggì Guy. «Sai bene che non devi entrare qui quando ricevo.» «Ho sentito delle voci», rispose Caroline con voce tremante. Portava i capelli raccolti in alto in una massa di riccioli che le ricadevano sulle guance, ma Tom si accorse che era pallida, come se fosse convalescente da una malattia. «Ho sentito pronunciare il mio nome.» Continuava a fissare Tom. Il bambino indossava un grembiule adorno di nastri e aveva un visetto angelico, dalle labbra rosee e perfette, circondato da riccioli biondi. «Chi è quell'uomo?» disse il piccolo, indicando Tom con una risatina. «Porta Christopher via di qui», gridò Guy rivolto a Caroline. «Immediatamente!» La donna sembrò non averlo udito. «Tom?» chiese in tono meravigliato. «Non avrei mai pensato di rivederti.» Christopher, sempre aggrappato alla sua mano, tentò di avanzare traballando verso l'estraneo, ma lei lo trattenne con dolcezza. «Come stai, Tom?» «In buona salute», rispose lui con un certo imbarazzo, «come spero stia anche tu.» «Ah, io sono stata male», mormorò Caroline, umettandosi le labbra. «Fin dalla nascita di nostro...» S'interruppe, arrossendo confusa. «... Fin dalla nascita di Christopher.» «Mi spiace molto.» Il viso di Tom fu oscurato da un'ombra di sincero rammarico. «E la tua famiglia? Come stanno i tuoi genitori e le tue sorelle?» Dovette fare uno sforzo per ricordare i loro nomi. «Sì, stanno bene Agnes e Sarah?» «Mio padre è stato nominato governatore di Bombay. È stato lui a procurare a Guy il posto di console, qui a Zanzibar.» Lanciò un'occhiata nervosa al marito, che continuava a fulminarla con lo sguardo. «Mia madre è morta di colera due anni fa.» Wilbur Smith
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«Mi dispiace molto», disse Tom. «Era una donna deliziosa.» «Grazie.» Caroline inclinò la testa di lato, con aria mesta. «Mia sorella Agnes si è sposata a Bombay.» «Ma se era così piccola!» esclamò Tom, ricordando le due monelle che aveva conosciuto a bordo della Seraph. «Non lo è più. Ha diciassette anni, quasi diciotto», lo corresse lei. Tacquero di nuovo, mentre Guy sprofondava sulla sedia, rinunciando a imporre la sua autorità alla moglie. Involontariamente, Tom abbassò gli occhi sul bambino aggrappato alla mano di Caroline. «È uno splendido bambino», osservò, riportando lo sguardo sul viso di lei. Caroline annuì, quasi in risposta a una domanda che non era stata pronunciata. «Sì, somiglia al padre.» Tom provò l'impulso irresistibile di avvicinarsi al piccolo per prenderlo tra le braccia, ma indietreggiò di un passo per impedirselo. «Caroline!» intervenne Guy in tono ancora più energico di prima. «Ho molti affari da sbrigare. Ti prego di portare via Christopher.» La donna diede l'impressione di afflosciarsi e nei suoi occhi affiorò un lampo di disperazione. «È stato bello rivederti, Tom», mormorò, fissandolo. «Forse verrai di nuovo a trovarci, mentre sei a Zanzibar... Potresti venire a cena qui da noi al consolato, una sera?» In quella domanda risuonava una nota di malinconia. «Non credo che Thomas si tratterrà abbastanza per fare visite di cortesia.» Guy si alzò di nuovo, fissandola con un cipiglio feroce, come per farla tacere. «È un gran peccato», disse lei. «Allora ti dirò addio adesso.» Prese il bambino tra le braccia. «Addio, Tom.» «Addio, Caroline.» Varcò la soglia con un fruscio di seta, mentre il bambino guardava Tom con aria curiosa, oltre la spalla della madre. Dopo che furono usciti, i due fratelli rimasero in silenzio per qualche istante, poi Guy disse, in tono freddo e controllato: «Devi stare alla larga dalla mia famiglia. Non tollero che tu rivolga di nuovo la parola a mia moglie. Ti ho già sfidato una volta a duello e lo farò di nuovo, se mi provocherai». «Non mi darebbe un grande piacere ucciderti. Non sei mai stato abile con la spada, Guy», replicò Tom, ripensando alla morte di Billy. Il senso Wilbur Smith
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di colpa gli serrava ancora lo stomaco in una morsa. «Non ho nessun desiderio d'intromettermi nella tua vita privata. D'ora in poi, ci atterremo solo agli affari. Possiamo almeno accordarci su questo?» «Va bene, sebbene io trovi sgradevole qualunque forma di contatto con te», rispose Guy. «E il primo punto, per quanto riguarda gli affari, è la domanda che ora ti ripeterò: Hal intenzione di dedicarti a qualche forma di commercio in queste acque? Dal porto mi riferiscono che la tua nave è a pieno carico. Hal la licenza della Compagnia per commerciare? Hal a bordo merci da vendere?» «Qui siamo a ottomila miglia da Londra. Ci troviamo oltre la linea, e non riconosco l'autorità della legge inglese per quanto riguarda me o le mie intenzioni.» Tom tenne a freno la collera con un certo sforzo. «Il mio unico pensiero è Dorian. Hal presentato una richiesta d'informazioni sulla sua sorte al sultano di Zanzibar?» Guy cominciò ad agitarsi. «Non ho mai avuto motivo di rivolgermi al sultano su questo argomento e proibisco anche a te di farlo. Sono riuscito a stabilire rapporti cordiali con lui, e adesso è bendisposto nei confronti dell'Inghilterra e della Compagnia. Non desidero che un simile stato di cose sia turbato da qualcuno che lancia accuse contro il suo sovrano, il principe al-Malik.» Tom cambiò bruscamente espressione. «Come fai a sapere che è stato alMalik ad acquistare Dorian come schiavo? Io non ho mai fatto il suo nome.» Guy pareva confuso. Rimase in silenzio per qualche istante, cercando una risposta. «Al-Malik è il signore supremo di questa costa. Era naturale presumere...» «Perdio, Guy! Non era naturale presumere niente! Tu sai qualcosa sulla sorte di Dorian. Se non me lo dici, andrò dal sultano in persona.» «No!» Guy balzò di nuovo in piedi. «Non ti permetterò di distruggere tutto il lavoro che ho fatto qui.» «Non puoi fermarmi», sibilò Tom. «Ascoltami», disse l'altro, cambiando tono di punto in bianco. «Ebbene, ti dirò la verità. Ho sentito anch'io queste voci su un ragazzo bianco con i capelli rossi che era in mano agli arabi. Naturalmente ho pensato a Dorian, quindi ho fatto una richiesta d'informazioni al sultano e lui mi ha promesso d'inviare un messaggero al principe al-Malik per scoprire la verità. Sono in attesa di ricevere notizie dal principe.» Wilbur Smith
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«Perché mi Hal mentito? Perché non me lo Hal detto subito?» chiese Tom. «Perché ti conosco bene. Non volevo che ti precipitassi ad affrontare il sultano. I miei rapporti con lui sono molto delicati.» «Quando Hal fatto questa richiesta?» «Voglio che tu ne resti fuori. È tutto sotto controllo», disse Guy, eludendo la domanda, ma Tom insistette. «Quanto tempo fa?» «Un po' di tempo fa.» Guy abbassò gli occhi sulla scrivania, sottraendosi allo sguardo del fratello. «Le trattative con gli arabi richiedono tempo.» «Quando?» Tom si avvicinò, accostando il viso a quello di Guy. «Al momento del mio arrivo sull'isola», ammise il fratello. «Un anno fa.» «Un anno fa?» gridò Tom. «Bene, io non aspetterò tanto. Andrò dal sultano oggi stesso, a esigere una risposta.» «Te lo proibisco! Io sono il console...» «Proibisci quello che ti pare, Guy», ribatté Tom con aria truce. «Vado subito al forte.» «Manderò un rapporto completo sul tuo comportamento a Lord Childs, a Londra», minacciò Guy in tono disperato. «La nave della Compagnia che si trova in porto salperà tra pochi giorni per l'Inghilterra. Lord Childs scatenerà sul tuo capo l'ira della Compagnia.» «Non c'è minaccia che m'impedisca di cercare Dorian. Manda tutti i rapporti che vuoi, Guy. Ci vorranno due anni e più per ricevere una risposta e, prima di allora, io sarò lontano mille miglia insieme con Dorian.» «Lasciate subito questa casa, signore!» gridò Guy. «E non osate mai più mettervi piede.» «Questo è un invito che mi giunge molto gradito», disse Tom, calcandosi il cappello in testa. Poi aggiunse: «Vi auguro una buona giornata, signore», e si avviò alla porta, sorridendo quando Guy gli gridò dietro: «Vi proibisco di avvicinarvi al palazzo del sultano. Gli farò sapere subito che siete un intruso in queste acque e non godete della protezione di sua maestà né della Compagnia né di questo ufficio!» Tom tornò verso il porto sul sentiero di sabbia camminando a lunghe falcate, tanto che Aboli dovette affrettarsi per restare al passo con lui. Wilbur Smith
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Il giovane era fuori di sé. Avrebbe voluto fare irruzione nella fortezza del sultano, sopra il porto, per afferrare alla gola quel porco di un pagano e strappargli di bocca le risposte; d'altra parte si rendeva conto che, seguendo quell'impulso, avrebbe corso il rischio di mandare a monte la sua impresa. Devo tornare a bordo della Swallow, dove non potrò fare male che a me stesso, e parlare con Aboli e Ned prima di agire, pensò, sebbene la sua mano continuasse a correre verso l'elsa della spada Nettuno. Perdio! si disse poi. Se per salvare Dorian dovessi lanciare la piccola Swallow contro tutta la flotta musulmana non batterò ciglio! Sentì un richiamo alle sue spalle, così fievole che da principio non penetrò oltre la cortina della sua ira. Poi udì un rumore di zoccoli e il grido si ripeté: «Tom! Aspetta! Devo parlarti!» Girandosi di scatto sul sentiero, Tom fulminò con gli occhi il cavaliere lanciato verso di lui, col corpo proteso in avanti sul collo del cavallo, mentre spruzzi di sabbia bianca schizzavano sotto gli zoccoli. «Tom!» Stavolta si accorse che la voce apparteneva a una ragazza e, quando il cavallo si avvicinò, vide una gonna gonfia di vento e lunghi capelli sciolti che sventagliavano nell'aria. Dimenticando in un attimo la collera, fissò sbalordito la giovane. Cavalcava a pelo, come un uomo, e Tom intravide addirittura le gambe nude dalla pelle chiara, strette intorno ai fianchi del cavallo e scoperte fin sopra il ginocchio, dove le erano risalite le gonne. La ragazza alzò un braccio snello per salutarlo, ma, sebbene lo chiamasse per nome, lui non la riconobbe. Lei arrestò bruscamente la giumenta baia vicino al punto nel quale Tom si era fermato, smontando in mezzo a un fruscio di gonne, poi porse le redini ad Aboli. «Tienila tu, per favore, Aboli», gli disse. Il gigante nero si riscosse dallo stupore, afferrando le redini. «Tom! Oh, Tom!» Quella strana ragazza gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo. «Credevo di non rivederti mai più.» Lo abbracciò con forza, prima di fare un passo indietro prendendolo per le mani. «Lasciati guardare.» Lo fissò con attenzione, e lui ricambiò l'esame. Sotto la massa di capelli castani, il viso non era bello, a causa della mascella troppo pronunciata e della bocca troppo larga, specie quando sorrideva, come in quel momento. Gli occhi erano di un azzurro intenso, tipicamente inglese, frangiati da lunghe ciglia. Tom notò subito che la dote principale della ragazza era la pelle perfetta, leggermente colorita dal sole Wilbur Smith
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tropicale fino ad assumere una sfumatura dorata che non era certo alla moda. Era alta quasi quanto lui, tanto da poterlo guardare negli occhi alla pari, e rivelava sicurezza e disinvoltura, muovendo i fianchi e le spalle con un piglio da ragazzo. «Non mi riconosci, vero, Tom?» gli disse ridendo, mentre lui scuoteva la testa con aria ottusa. Continuava a fissare il viso della ragazza e alla fine decise che era attraente, soprattutto per via degli occhi pieni di allegria e scintillanti d'intelligenza. «Perdonatemi, signora», rispose, incerto, «ma mi trovo in imbarazzo...» «'Signora', come no!» ribatté lei, prendendolo in giro. «Sono Sarah!» Gli scrollò le mani, che teneva ancora strette. «Sarah Beatty, la sorellina di Caroline. Mi avevi soprannominato 'tafano'. 'Perché mi ronzi sempre intorno come un tafano, Sarah?'» aggiunse, scimmiottandolo. «Adesso ti ricordi?» «Santo cielo, come sei cambiata!» esclamò lui, sbalordito, abbassando suo malgrado lo sguardo verso la curva generosa dei seni che gonfiavano il corpetto dell'abito. «Anche tu sei cambiato, Tom. Che cosa è successo al tuo naso?» Lui si sfiorò la punta, imbarazzato. «È rotto.» «Povero Tom...» Sarah fece una smorfia di comprensione. «Comunque ti dona. Oh, che bello rivederti», aggiunse, prendendolo sotto braccio e avviandosi con lui verso la città, mentre Aboli li seguiva tenendosi a rispettosa distanza. «Ho sentito la tua voce quando gridavi con Guy. Non potevo credere che fossi tu, anche se l'ho riconosciuta subito.» Gli lanciò un'occhiata maliziosa. «E così ho origliato alla porta. Se Guy mi avesse sorpreso, mi avrebbe picchiato.» «Perché, ti picchia?» Tom assunse subito un atteggiamento protettivo. «Provvederemo anche a questo.» «Oh, lascia perdere, non fare l'idiota. So badare a me stessa. Ma non perdiamo tempo a parlare di Guy. Posso trattenermi per poco. Si accorgeranno che sono uscita e manderanno i servitori a cercarmi.» «Sarah, non c'è molto da discutere.» Tom si sentiva stranamente addolorato all'idea di separarsi così presto da lei. Il braccio stretto al suo era forte e caldo; intorno a quella ragazza aleggiava una lieve fragranza che sembrava entrare fin nel suo animo. «Lo so, ti ho sentito parlare con Guy del piccolo Dorian. Volevamo bene Wilbur Smith
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tutti a Dorry, e voglio aiutarti.» Rifletté alla svelta. «Vicino alla punta meridionale dell'isola c'è un vecchio monastero cattolico in rovina. Incontriamoci lì domani, ai due tocchi del turno di guardia pomeridiano.» Scoppiò a ridere. «Lo vedi? Ricordo ancora tutte le lezioni che mi Hal dato sulla vita a bordo di una nave. Ci sarai?» «Ma certo.» Lei si sciolse dal suo braccio, girandosi verso Aboli per abbracciare anche lui. «Non ti ricordi quando giocavamo a cavalluccio e tu mi portavi sulla schiena?» Il viso del gigante nero fu rischiarato da un sorriso che lo trasformò. «Signorina Sarah, come siete diventata bella!» Lei gli tolse di mano le redini. «Aiutami a montare.» Aboli piegò a coppa una delle mani enormi e, quando lei vi appoggiò il piede, la issò senza fatica in groppa alla giumenta. Sarah rivolse un ultimo sorriso a Tom. «Non scordartene!» lo ammonì, prima di girare il cavallo, affondando i talloni nei fianchi della giumenta. Tom la seguì con gli occhi mentre si allontanava al galoppo. «No», disse a bassa voce. «Non lo scorderò.» «Effendi, il sultano mio signore è indisposto e non può ricevere visite, sia pure importanti come quella di vostra signoria.» Il visir sogghignò in faccia a Tom. Il porto era affollato di navi infedeli e tutti i comandanti pretendevano di essere ricevuti dal suo padrone; tutti in cerca di favori, licenze commerciali, autorizzazioni per visitare i territori proibiti più a nord. «E quando sarà disposto a ricevermi?» chiese Tom, mentre il visir si mordeva le labbra in segno di disapprovazione per una domanda così rozza e inopportuna. Sapeva che quel giovane infedele era il comandante di un veliero minuscolo, che poteva trasportare ben poco in fatto di merci, quindi non era degno di attenzioni serie. D'altra parte era insolito che parlasse un buon arabo, perfettamente comprensibile, e comprendesse l'etichetta degli affari, dal momento che aveva offerto doni adeguati per spianarsi la strada fino al sultano. «Questo è nelle mani di Allah», rispose il visir, stringendosi nelle spalle. «Forse una settimana, forse un mese, non so.» «Io sarò di nuovo qui domattina e tutti i giorni che seguiranno, finché il sultano non accetterà di vedermi», gli assicurò Tom. «E io aspetterò ogni giorno il vostro ritorno, come la terra colpita dalla Wilbur Smith
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siccità attende le piogge», rispose il visir in tono conciliante. Aboli lo attendeva all'ingresso della fortezza. Tom, troppo irritato e avvilito per parlare, si limitò a scuotere la testa in risposta alla sua tacita domanda. I due tornarono sui loro passi attraverso il mercato delle spezie, tra gli aromi penetranti dei chiodi di garofano e del pepe; superarono quindi il palco riservato alle fustigazioni, nel mercato degli schiavi, dove qualche donna incorreggibile era incatenata al palo, con la pelle del dorso ridotta a una massa di festoni sanguinolenti, raggiunsero le strade degli orefici e arrivarono così alla banchina di pietra del porto, presso la quale li attendeva la lancia. Prendendo posto a poppa, Tom alzò gli occhi al cielo per valutare l'inclinazione del sole, prima di estrarre dal taschino l'orologio d'argento, un magnifico pezzo di Thomas Tompion. «Portatemi oltre la punta meridionale dell'isola», ordinò. La sera prima aveva controllato la carta, scoprendo che riportava anche la posizione del vecchio monastero cattolico. Una piccola insenatura vicina al monastero poteva fornire un approdo adatto per la lancia. Mentre i vogatori si spingevano lungo il canale, costeggiando la barriera corallina che mostrava le zanne temibili oltre il risucchio della risacca, Tom sentì che il malumore cominciava a evaporare. Merito di quel sole caldo e del pensiero del prossimo incontro con Sarah. A prua della lancia vide le onde del mare aperto infrangersi con maggiore violenza sulla punta meridionale dell'isola, che non era ridossata, e, quando si alzò per osservare la costa davanti a loro, intravide il corso di un ruscello d'acqua dolce, contrassegnato da una vegetazione verde e rigogliosa, che si gettava nella laguna. Nei punti in cui l'acqua dolce impediva la formazione del corallo c'era sempre un varco nella barriera e, non appena arrivarono all'altezza del ruscello, Tom scorse le acque più profonde del canale, accostando per imboccarlo. La spiaggia era deserta. Tom balzò a terra da prua, senza neanche bagnarsi gli stivali. «Tornerò tra un'ora circa», disse ad Aboli. «Aspettatemi.» Trovando un sentiero invaso dalla vegetazione che correva parallelo al ruscello, cominciò a seguirlo, spingendosi verso l'interno fino a sbucare in un palmeto. Allora vide davanti a sé le rovine del monastero. Accelerò il passo e, giunto sotto le mura diroccate, lanciò un brusco richiamo. «Sarah! Sei qui?» Gli risposero le strida di uno stormo di pappagallini dai colori vivaci, Wilbur Smith
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che esplosero come un fuoco d'artificio dai rami più alti di un albero bo che affondava le radici nei blocchi di pietra in rovina. Proseguì, camminando lungo la base delle mura, poi d'un tratto sentì un nitrito sommesso. Si mise a correre, incapace di trattenere la sua impazienza, e scoprì la giumenta legata al cancello in rovina. C'era la sella, appoggiata alla base dell'albero, ma non si vedeva traccia dell'amazzone. Lui stava per chiamarla di nuovo, ma ci ripensò, avanzando invece con cautela oltre il cancello. L'edificio, privo del tetto, era invaso dalla vegetazione e dalle palme spuntate dalle noci cadute sul terreno. Lucertole dalla testa azzurra sfrecciavano tra le pietre, mentre farfalle dalle Ali multicolori svolazzavano sulla cima degli alberi. Si fermò, con le mani sui fianchi, al centro di quello che in origine era il cortile. Ripensando al passato, ricordava il gusto malizioso di Sarah per gli scherzi e le sorprese; evidentemente non era cambiata granché, e stava giocando a nascondino. «Ora conterò fino a dieci», gridò, come aveva fatto quando lei era una monella, «poi vengo a prenderti.» Una volta, quella minaccia era sufficiente a far scappare strillando lei e la sorella. «Uno!» cominciò, ma subito sentì una voce provenire dall'alto. «Guy dice che Hal l'abitudine di stuprare le giovani vergini.» Girandosi di scatto, la vide appollaiata in cima all'arco del cancello, con le lunghe gambe penzoloni nel vuoto, i polpacci scoperti tra l'orlo delle gonne e i piedi nudi. Era arrivato proprio sotto il suo nascondiglio. «Dice che nessuna onesta ragazza cristiana è al sicuro, quando sei nei paraggi», lo incalzò Sarah. «È vero?» «Guy è uno sciacallo», ribatté Tom, sorridendole. «Non devi piacergli granché. Non c'è calore fraterno, nel suo cuore.» Sarah fece dondolare le gambe, e lui le fissò. Erano lisce e ben modellate. «Christopher è davvero figlio tuo?» Tom smise di sorridere. Quella domanda diretta lo aveva sbigottito. «Chi te lo ha detto?» ribatté per guadagnare tempo e cercare di ritrovare il sangue freddo. «Caroline», rispose lei. «Non ha smesso di piangere un solo momento, da quando ti ha visto, ieri.» Tom alzò lo sguardo verso di lei. Si sentiva confuso: con poche, semplici frasi, quella ragazza gli aveva raccontato davvero molte cose. Rimase in silenzio, incapace di trovare qualcosa da dire. Wilbur Smith
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«Se scendo, mi prometti di non saltarmi addosso e di non mettere incinta anche me?» gli domandò Sarah con voce soave, alzandosi. Lui provò un fremito di paura mentre lei si teneva in equilibrio sull'orlo di quel muro pericolante, poi ritrovò la voce per dirle: «Fa' attenzione, potresti cadere». Come se non lo avesse sentito, Sarah corse lungo la sommità del muro stretto, saltando da una sezione all'altra, finché non raggiunse una sezione da cui poteva saltare a terra spiccando solo un balzo. Aveva l'agilità di un'acrobata. «Ho portato un cestino con qualcosa da mangiare.» Gli passò accanto, addentrandosi tra le rovine, e lui la seguì in una delle antiche celle dei monaci, che, pur essendo a cielo aperto, era riparata dai raggi obliqui del sole. Sarah tirò fuori il cestino, che aveva nascosto sotto un mucchio di fronde di palma, e si sedette, ripiegando le gambe sotto di sé con quell'aria disinvolta, ma insieme femminile, che lui trovava stranamente attraente. Poi sistemò le gonne senza troppa grazia, offrendogli un'altra visione eccitante di quelle gambe ben tornite. Mentre apriva il cestino e ne disponeva il contenuto sull'erba, gli domandò: «Sei andato dal sultano?» «Si è rifiutato di ricevermi», rispose lui, appoggiando la schiena a uno dei blocchi di pietra e incrociando le gambe. «Ma certo! Guy gli ha mandato un messaggio per avvertirlo che stavi arrivando.» Cambiò argomento con sconcertante rapidità. «Mi sono permessa di prendere una bottiglia di vino dalla sua cantina.» La tenne sollevata come un trofeo. «È francese: proviene dall'ultima nave che ha fatto scalo qui dall'Inghilterra.» Lesse l'etichetta. «Corton Charlemagne. È buono?» «Non lo so», ammise Tom. «Ma senza dubbio fa colpo.» «Guy dice che è un vino superbo. Mio cognato si crede un grande intenditore. Ne va terribilmente fiero e andrebbe su tutte le furie se sapesse che lo beviamo noi. A me ne è concesso soltanto mezzo bicchiere a cena. Vuoi aprirlo tu?» Lo passò a Tom, provvedendo poi a disporre vassoi di cibo, pasticci e carne fredda. «La notizia della morte di tuo padre mi ha addolorato sinceramente», disse poi, con un'espressione triste. «È stato così gentile con me e con la mia famiglia durante il viaggio fino al capo di Buona Speranza.» «Grazie», rispose Tom stappando la bottiglia e distogliendo leggermente il viso per nascondere l'ombra che lo oscurava. Wilbur Smith
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Lei intuì la sua pena e gli sorrise, cercando di rallegrarlo. «È stato mio padre a procurare a Guy questo posto di console, altrimenti farebbe ancora l'impiegato a Bombay. Non è un personaggio importante come crede di essere.» L'espressione solenne che la ragazza imitò era così simile a quella di Guy che Tom non poté fare a meno di sorridere. Poi Sarah imitò alla perfezione il tono pomposo e l'inflessione di voce del cognato. «'Sono il console più giovane che sia al servizio di sua maestà. Prima dei trent'anni otterrò il titolo di baronetto.'» Tom scoppiò a ridere di gusto. Quella ragazza era una compagna deliziosa. Poi, con altrettanta rapidità, Sarah cambiò espressione, ridiventando seria. «Oh, Tom, che cosa possiamo fare per il piccolo Dorian? A Guy non importa nulla. Si preoccupa soltanto dei traffici della Compagnia con gli arabi e di Lord Childs a Londra. Non farà nulla che possa offendere il sultano e il principe.» L'espressione di Tom tornò a incupirsi. «Non mi lascerò fermare né da Guy né dal sultano. Ho una nave veloce e, se mi costringono a farlo, la userò.» «So bene quello che provi, Tom. È come se Dorian fosse mio fratello e farò tutto quello che posso per aiutarti... però devi essere prudente. Guy dice che il principe ha proibito alle navi cristiane di spingersi più a nord di Zanzibar, sotto pena di confisca. E sostiene che, se si trasgredisse il decreto, gli equipaggi di quelle navi sarebbero venduti dagli arabi come schiavi.» Si protese in avanti, posandogli una mano sul braccio. Le sue dita lunghe e affusolate erano fresche sulla pelle di lui. «Sarà terribilmente pericoloso. Non potrei sopportare che ti succedesse qualcosa, caro Tom.» «Sono perfettamente in grado di badare a me stesso e al mio equipaggio», le assicurò, ma era turbato da quel contatto. «Lo so.» Lei ritirò la mano, provocandolo con un sorriso. «Versa il vino di Guy», lo invitò, porgendogli due coppe di peltro. «Vediamo se è buono come sostiene lui.» Ne bevve un sorso. «Hmmm, delizioso!» mormorò. «È meglio che la bottiglia resti vicino a te. Caroline dice che gli stupratori piegano con l'alcol la resistenza delle loro vittime, prima di approfittarne.» Spalancò gli occhi. «E io non voglio avere un bambino come Caroline. Non oggi, almeno.» Aveva un modo tutto particolare di tenerlo sulla corda. La camicia che indossava si era abbassata, lasciando scoperta una spalla, ma lei pareva non badarci. «Anche Agnes ha avuto un bambino. Ha sposato un certo Wilbur Smith
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comandante Hicks, che faceva parte dell'esercito della Compagnia a Bombay. A quanto pare, tutt'e due le mie sorelle sono giumente da riproduzione. Può darsi che sia un tratto di famiglia, quindi dovrò stare molto attenta. Tu non sei sposato, vero, Tom?» «No», rispose lui con voce roca. La spalla e il braccio di Sarah erano lisci e dorati, mentre l'avambraccio appariva coperto da una peluria serica e trasparente che catturava la luce del sole. «Bene. Allora che si fa per Dorian?» riprese la ragazza. «Vuoi che mi metta a spiare Guy, per scoprire tutto il possibile? Non credo che direbbe granché spontaneamente.» «Ti sarei molto grato di qualsiasi aiuto.» «Posso controllare la sua corrispondenza e origliare quando riceve dei visitatori. C'è un foro nella parete, dove passano le corde per il ventilatore girevole. Sarebbe un ottimo confessionale.» Sembrava molto soddisfatta di sé. «Ma ovviamente dovremo incontrarci qui a intervalli regolari, in modo che possa farti rapporto.» Tom trovava quella prospettiva tutt'altro che sgradevole. «Ricordi i concerti che organizzavamo la sera a bordo della Seraph?» gli chiese lei, attaccando poi il ritornello di Spanish Ladies. Aveva una voce limpida e priva di artificiosità, che Tom, pur essendo negato per la musica, trovò eccitante; gli vennero i brividi e, quando lei s'interruppe, si sentì dispiaciuto. «Che ne è stato del signor Walsh, il nostro istitutore?» gli domandò. «Era un ometto così buffo.» «È con me a bordo della Swallow.» Poi le raccontò le vicende di tutti i marinai della Seraph che lei ricordava. Quando le spiegò com'era morto Big Daniel, Sarah scoppiò a piangere e Tom avrebbe voluto prenderla tra le braccia per consolarla. Invece cambiò argomento, raccontandole come avevano catturato la Swallow e descrivendo il lungo viaggio per arrivare fino a Zanzibar. Lei lo ascoltò, rapita, asciugandosi le lacrime e plaudendo al suo coraggio e alla sua ingegnosità. Ben presto riprese a chiacchierare con disinvoltura, saltando da un argomento all'altro, come se, nei lunghi anni trascorsi dalla loro separazione, avesse tenuto in serbo per lui centinaia di domande. Tom ne rimase affascinato. Più osservava il suo viso, più si convinceva che la valutazione iniziale era stata errata. Forse non era grazioso, il naso e la bocca erano troppo Wilbur Smith
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grandi, la mascella troppo squadrata, ma, nell'insieme, i lineamenti, con l'animazione e lo spirito che li illuminavano, erano quasi belli. Strizzava gli occhi quando rideva, e aveva un certo vezzo di sollevare il mento, quando faceva una domanda, che a Tom piaceva molto. Mentre parlavano, le ombre si allungarono nel cortile. Nel bel mezzo di un'esilarante descrizione dell'arrivo della sua famiglia a Bombay e delle loro reazioni a quel nuovo mondo estraneo ed esotico, Sarah s'interruppe, esclamando: «Oh, Tom, com'è tardi... Il tempo è volato così in fretta! Mi sono trattenuta troppo a lungo». Si affrettò a raccogliere i piatti e le coppe del vino, ormai vuote. «Devo andare. Se sapesse dove sono stata, Guy andrebbe su tutte le furie.» «Guy non è il tuo padrone», osservò Tom, accigliandosi. «È il padrone della nostra casa, però. Mio padre mi ha affidata a lui quando la mamma è morta. Devo cercare di compiacerlo per amore di Caroline, perché sfoga il suo malumore su di lei.» «Sei felice di vivere con Guy e Caroline, Sarah?» Sebbene avesse trascorso con lei solo poco tempo, Tom sentiva di conoscerla abbastanza da rivolgerle una domanda così delicata. «Posso immaginare situazioni più piacevoli», rispose lei, a voce così bassa da risultare quasi inudibile e senza alzare gli occhi dal paniere. Poi s'infilò le scarpe e si alzò di scatto. Tom raccolse il cestino e lei gli posò sul braccio una mano sottile, quasi per sostenersi mentre camminava sul terreno diseguale, anche se poco prima lui l'aveva vista danzare sulla cima del muro. «Quando verrai di nuovo qui, per darmi notizie di quello che combina Guy?» le domandò, sollevando il paniere all'altezza del dorso della giumenta. «Non domani. Ho promesso di aiutare Caroline con Christopher. Dopodomani, alla stessa ora.» Lui le cinse la vita con le mani per issarla in sella, augurandosi che si rendesse conto della forza necessaria per compiere quel semplice gesto, perché non era certo uno scricciolo di ragazza. Quel giorno, Sarah usava una sella all'amazzone. Passò una gamba intorno al corno della sella, mentre lui l'aiutava a sistemare le lunghe gonne, poi lo guardò dall'alto. «Oh, Tom», gli disse d'impulso, «è stato così divertente! La vita sull'isola è tanto monotona e noiosa. Guy non mi lascia neanche andare in città da sola. Non riesco a ricordare quand'è stata Wilbur Smith
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l'ultima volta che mi sono sentita così bene.» Poi parve sopraffatta dall'imbarazzo per quella mancanza di autocontrollo e, senza attendere la risposta, spronò la giumenta, allontanandosi al galoppo sulla strada sabbiosa che correva in mezzo alle palme, alta e regale sulla sella. Mentre percorreva la strada rialzata che saliva dal porto, passando accanto alla saracinesca della fortezza, Tom vide due uomini che gli venivano incontro, immersi nella conversazione. Nell'incrociarli, afferrò qualche parola, sufficiente per dargli la certezza che parlavano inglese, e tornò subito sui suoi passi. «Che Dio vi protegga, signori», esclamò per richiamare la loro attenzione. «È bello sentir parlare la lingua dei cristiani in questa terra pagana. Posso presentarmi? Robert Davenport.» Usò lo pseudonimo che si era scelto per proteggersi dal mandato di arresto per omicidio che pendeva sulla sua testa e che, ne era certo, prima o poi lo avrebbe raggiunto. I due inglesi lo scrutarono con aria diffidente. Soltanto allora riconobbe in loro il comandante e uno degli ufficiali dell'East Indiaman che era all'ancora nel porto. Li aveva visti sbarcare dalla nave qualche ora prima. I due si presentarono, stringendogli la mano, ma mantennero un atteggiamento sostenuto e riservato. «Spero che abbiate fatto buon viaggio, finora», disse Tom. «Siete reduci dall'udienza col sultano?» «Sì», rispose il comandante, con un cenno brusco del capo. «Che tipo è?» chiese Tom, cercando di carpire qualche informazione. «Sapete, questa è la prima volta che lo incontro. Parla inglese, per caso?» «No, parla soltanto la sua lingua dimenticata da Dio», ribatté l'altro. «Se avete affari da discutere con lui, vi auguro buona fortuna, perché è un demonio astuto, e vi servirà tutto l'acume di cui potete disporre.» S'inchinò. «E ora, signore, se volete scusarmi...» Tom entrò nella fortezza schiumando di rabbia. Dunque quello che gli aveva detto Sarah era vero: il visir lo teneva alla larga dietro istigazione di Guy. Un servitore del visir tentò di bloccarlo nell'anticamera, ma Tom lo respinse. Conoscendo già la strada per raggiungere lo studio interno, scostò le pesanti cortine di seta che coprivano la porta ed entrò. Il visir era seduto sulla bassa pedana posta all'estremità della stanza, che odorava d'incenso e di hashish. Davanti a lui c'era una tavoletta per scrivere e, al suo fianco, un segretario che gli porgeva uno dopo l'altro i Wilbur Smith
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documenti da firmare. Il visir alzò gli occhi, sorpreso dall'irruzione di Tom. «Ho parlato un momento fa col comandante inglese che usciva da un'udienza col califfo», annunciò Tom. «Mi ha fatto piacere apprendere che il sultano si è ripreso così prontamente dall'indisposizione che lo aveva colpito», proseguì in arabo, «perché questo significa che adesso è in grado d'incontrarmi e di rispondere alla mia petizione.» Il visir si alzò faticosamente, ma Tom lo respinse di lato, dirigendosi verso la porta che si apriva poco più in là. «Non potete entrare!» esclamò lui, spaventato. Tom lo ignorò. «Guardia!» gridò il visir. «Ferma quell'uomo!» Si stagliò sulla porta un uomo massiccio, vestito con una lunga tunica e l'armatura leggera. Teneva la mano sul pomo dell'elsa della scimitarra, infilata nel fodero alla cintura, e cercò di sbarrare il passo al giovane. Tom si fece sotto, afferrandogli il polso. Allora la guardia tentò di estrarre l'arma, ma l'altro lo trattenne, stritolandogli il polso in una stretta così crudele da strappargli una smorfia e guardando nel contempo all'interno della stanza. «I miei rispetti, potente signore», esclamò rivolto all'uomo adagiato su una montagna di cuscini. «Invoco su di voi tutte le benedizioni di Allah e vi offro i miei umili e rispettosi omaggi. Chiedo di fare appello alla vostra misericordia. Come ha detto il Profeta, il bambino e la vedova meritano la nostra compassione.» Il sultano batté le palpebre, drizzandosi a sedere. Indossava una giacca rigida di pesante broccato di seta sopra i pantaloni scarlatti, stretti in vita da una cintura di filigrana d'oro. Il turbante aveva lo stesso colore dei pantaloni e la barba - che l'uomo si tirava nervosamente - era folta e rigogliosa. Non si capacitava di trovarsi di fronte un barbaro infedele che citava le sacre parole del Corano. Il visir, che aveva rincorso Tom, si frappose tra i due. «Perdonatemi, signore. Ho tentato di fermarlo. È questo il rozzo e miserabile infedele del quale vi ho parlato. Chiamerò la guardia per farlo allontanare.» «Lasciatelo», replicò il sultano, scuotendo la testa. «Voglio sentire che cos'ha da dire.» Tom lasciò libero il polso della guardia, spingendola di lato. «Questo Wilbur Smith
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rozzo e miserabile infedele ringrazia il possente sultano Ali Muhammad, porgendogli i suoi umili rispetti.» Quelle parole erano così in contrasto col suo comportamento che il sultano sorrise. «Quale appello vorresti rivolgermi?» «Io cerco un bambino, mio fratello, che ho perduto quasi cinque anni fa. Ho fondati motivi per sospettare che sia tenuto prigioniero nel territorio di Oman.» L'espressione del sultano divenne guardinga. «Mio fratello è suddito del re d'Inghilterra Guglielmo III. Esiste un trattato tra il vostro califfo e il nostro re che proibisce di vendere come schiavi i loro sudditi.» «So chi siete», disse il sultano. Tom stava per replicare, ma l'altro lo fermò con un cenno e proseguì: «Ho ricevuto notizie su di voi dal console inglese e dallo stesso console ho ricevuto anche una richiesta d'informazioni su questo bambino. Si sta indagando sulla faccenda. Non posso dirvi altro finché non riceverò una risposta dalla corte del califfo, a Muscat». «Sono passati più di quattro anni da quando...» cominciò Tom, furioso, ma il sultano lo interruppe. «Sono certo che vi renderete conto di quanto sia irragionevole suscitare il malcontento del califfo, importunandolo per una questione banale come questa.» «Non è una questione banale», protestò l'altro. «La mia famiglia è nobile e gode di grande influenza.» «Per il califfo, è una questione banale. Comunque sua maestà è dotato di grande compassione. Possiamo contare sul fatto che riceveremo sue notizie, se c'è qualcosa che possa dirci in merito al ragazzo. Nel frattempo, dobbiamo affidarci alla sua benevolenza e aspettare.» «E quanto dovremmo aspettare?» chiese Tom. «Finché sarà necessario.» Il sultano gli fece un cenno di congedo, poi, mentre Tom veniva condotto via, lo ammonì: «La prossima volta che farete irruzione qui come un nemico vi tratterò come tale, inglese». Una volta che il giovane fu uscito, il sultano convocò il visir, che si prostrò davanti a lui. «Perdonatemi, potente signore. Ho tentato d'impedire a quel folle...» Il sultano lo zittì con un gesto brusco. «Fate sapere al console inglese che voglio parlargli immediatamente.» Wilbur Smith
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«Guy è andato al forte, ieri. Lo ha mandato a chiamare il sultano», gli riferì Sarah. «Al suo ritorno era furibondo. Ha picchiato uno stalliere sino a fargli perdere i sensi e urlato con Caroline e me.» «Non ti avrà picchiato, vero?» chiese Tom. «Se osasse alzare le mani su di te, lo pesterei a sangue.» «Ci ha provato una sola volta», ribatté Sara, ridendo e scuotendo i capelli per farli danzare al soffio del monsone. «Dubito che ci riproverà. Gli ho spaccato sulla testa uno dei suoi preziosi vasi cinesi. Non ha perso molto sangue... Per quanto, a sentir lui, pareva sul punto di morire. Ma ora basta con questi discorsi, volevo farti il mio rapporto.» «Tieniti pronta a virare!» disse Tom, interrompendola, e lei si precipitò verso lo strallo della vela di mezzana della piccola feluca. Stava imparando in fretta la manovra delle vele ed era già un mozzo discreto. Tom aveva noleggiato la barca nel porto di Zanzibar per poche rupie al giorno. Virarono di bordo per doppiare la punta meridionale dell'isola, poi Sarah andò a sedersi al suo fianco. «E così, dopo aver messo sossopra tutta la casa, Guy si è ritirato nel suo studio per l'intero pomeriggio. A cena ha detto sì e no qualche parola, ma ha bevuto quasi una bottiglia di porto e una di madera. Ci sono voluti due domestici, oltre a Caroline e me, per portarlo a letto.» «Allora mio fratello è diventato un beone?» domandò Tom. «No, è stato un fatto insolito... Anzi è la prima volta che lo vedo ubriacarsi. Tu devi avere uno strano effetto sulle persone.» Fece quell'osservazione a doppio senso con tanta disinvoltura che Tom non capì come dovesse interpretarla. La ragazza proseguì, in tono spensierato: «E così, dopo avergli rimboccato le lenzuola e messo a letto Caroline al suo fianco, sono scesa nel suo studio e ho scoperto che aveva scritto una pila di lettere. Ho fatto una copia di alcune». Dalla tasca della gonna estrasse vari fogli ripiegati. «Questa è diretta a Lord Childs e quest'altra a tuo fratello William.» Gliele porse, mentre i fogli frusciavano al vento. «Prendi tu il timone», le disse Tom, offrendole la barra. Sarah si appollaiò sullo specchio di poppa, sollevando il vestito fino al ginocchio per lasciare che il sole e il vento giocassero con le gonne. Tom dovette fare uno sforzo per distogliere lo sguardo da quelle gambe lunghe e forti, concentrandosi invece sui documenti. Leggendo la prima lettera, corrugò la fronte e, a mano a mano che procedeva, il cipiglio si trasformò in Wilbur Smith
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un'espressione furibonda. «Quell'infame bastardo!» esclamò, pentendosi subito. «Perdonami, non intendevo usare un linguaggio così sconveniente.» Sarah scoppiò a ridere, strizzando gli occhi. «Se Guy è un bastardo, lo sei anche tu, quindi faremmo meglio a scegliere un'altra definizione. Che ne dici di 'rospo repellente', oppure di 'zipolo della botte del diavolo'?» Tom arrossì, sorpreso di essere stato superato in fantasia nella creazione di nuove invettive, quindi riportò in fretta la sua attenzione sulla lettera destinata a William: era strano leggere quelle parole dirette all'uomo che aveva ucciso con le sue mani. Alla fine stracciò le due lettere, disperdendone i frammenti al vento. I due li guardarono volar via come gabbiani bianchi sulle Ali del vento. «Allora, parlami della tua udienza col sultano, con tutti i particolari», pretese Sarah. Prima di rispondere, Tom si alzò per avvicinarsi alla base dell'albero e ammainare la vela latina. Il movimento della feluca si trasformò: non cercava più di lottare col vento, ma gli si abbandonava come se fosse un amante, con una lieve oscillazione ritmica. Tornò a sedersi vicino a Sarah. «Ho dovuto farmi largo con la forza per entrare nella sala delle udienze, ma mi ero armato di una citazione del Corano.» Le descrisse l'incontro, ripetendo la conversazione parola per parola, mentre Sarah ascoltava con serietà, senza mai interromperlo, cosa insolita per lei, come Tom sapeva ormai bene. Un paio di volte, durante la narrazione, perse il filo del discorso, ripetendosi. Sarah aveva gli occhi spalancati, col bianco tanto puro e luminoso che sembrava emanare un lieve bagliore azzurrino. I loro volti erano così vicini che lui poteva avvertire la fragranza sfuggente che emanava dal suo alito; quando ebbe finito di parlare, entrambi rimasero in silenzio per un poco, ma nessuno dei due pensò di allontanarsi dall'altro. Fu Sarah a rompere il silenzio. «Stai meditando di baciarmi, Tom?» Si scostò dal viso le lunghe ciocche scure di capelli, aggiungendo: «Perché, se è ciò che stai pensando, questo è un buon momento per farlo, dato che nessuno può spiarci». Lui accostò il proprio viso al suo, fermandosi a un soffio dalle sue labbra, travolto da una sensazione quasi religiosa di rispetto. «Non voglio fare nulla che possa offenderti», mormorò con voce roca. «Non fare l'idiota, Tom Courteney.» Nonostante l'insulto, anche lei Wilbur Smith
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aveva la voce arrochita e i suoi occhi si chiusero lentamente. Passò sulle labbra la punta della lingua rosea, poi le protese facendo il broncio, con aria di attesa. Tom provò l'impulso quasi irresistibile di afferrarla con violenza, schiacciando il corpo di lei contro il proprio, invece sfiorò quelle labbra con la leggerezza di una farfalla che si posa sui petali di un fiore. Il nettare che vi aleggiava aveva un gusto vagamente dolce, e lui ebbe paura di soffocare, tale fu il senso di costrizione che avvertì nel petto. Un attimo dopo, si tirò indietro. Lei spalancò gli occhi, di un verde incredibile. «Che tu sia dannato, Tom Courteney!» esclamò. «Ho aspettato cinque anni e questo è il meglio che sai fare?» «Sei così dolce e bella...» mormorò lui, quasi balbettando. «Non voglio farti del male o indulti a disprezzarmi.» «Se non vuoi che ti disprezzi, devi fare di meglio.» Chiuse di nuovo gli occhi, appoggiandosi a lui, che esitò solo un istante prima di afferrarla, stringerla tra le braccia e schiacciare le labbra contro le sue. Sarah si lasciò sfuggire un lieve mugolio di sorpresa, irrigidendosi di fronte allo slancio inatteso del suo abbraccio, poi si abbandonò, ricambiando il bacio con tanto trasporto che le loro labbra si schiusero e i denti cozzarono, mentre la bocca dell'uno si fondeva con quella dell'altra, sciogliendosi in un mare di dolcezza, e le lingue s'intrecciavano. Un'onda più alta investì di lato la feluca che andava alla deriva, facendoli ruzzolare giù dallo specchio di poppa, sul quale erano seduti in precario equilibrio; tuttavia non interruppe il loro abbraccio, perché scivolarono sul fondo della barca, indifferenti al puzzo della sentina e alle scaglie di pesce che coprivano le tavole sotto di loro. «Tom! Tom!» Lei tentava di parlare senza staccare le labbra dalle sue. «Sì! Oh, quanto tempo! Non avrei mai pensato... Oh, sì, sei così forte. Non smettere, adesso.» Lui avrebbe voluto divorarla, inghiottirla. La sua bocca era un invito, la sua lingua era un pungolo esasperante. I sensi del giovane fluttuavano, l'universo si chiuse su di lui finché il corpo caldo e fragrante che teneva tra le braccia non divenne tutta la sua esistenza. Infine dovettero staccarsi per respirare. Fu soltanto per un attimo, quanto bastava per indurre lei a sospirare: «Tom. Oh, Tom, ti ho amato fin dalla prima volta che ti ho visto! Credo di averti amato per tutti questi anni...» Wilbur Smith
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Poi si gettarono di nuovo l'uno nelle braccia dell'altra, gemendo e graffiandosi, con le labbra serrate fino a farsi male. Lui cercò a tentoni i seni e, nel trovarli, si lasciò sfuggire un grido quasi doloroso. Armeggiò con i lacci del corsetto, ma era goffo e inesperto. Fu lei, spazientita, a scostare le sue mani per sciogliere il nastro, allargando lo scollo e scoprendo uno dei seni per offrirglielo, chiudendovi sopra le sue dita. «Ecco», gli sussurrò sulle labbra, «è tuo. È tutto tuo.» Lui lo accarezzò con violenza, quasi impastando le carni con le dita, e lei, sebbene gemesse, esultò per quel dolore. «Oh, ti ho fatto male», mormorò lui, ritirando la mano. «Scusami. Davvero, mi dispiace.» «No, no!» Afferrandogli le mani, se le riportò al seno. «Fa' pure, fa' tutto quello che vuoi.» Lui fissò il seno che stringeva nella mano. Era bianco, quasi fosse stato scolpito nell'avorio, ma con i segni rossi lasciati dalle sue dita ruvide e il capezzolo turgido e scuro. «Che bello! Non ho mai visto nulla di così bello.» Chinando la testa, vi accostò le labbra per succhiarlo, e lei inarcò la schiena, spingendosi contro di lui. Tendendo le mani, intrecciò le dita ai riccioli folti ed elastici che crescevano sulla nuca di Tom, per guidare la sua bocca. Quando infine sollevò la testa per guardarla in volto, lei cercò ancora le sue labbra. Ormai era sopra di lei. D'improvviso, Sarah si rese conto del turgore che le premeva contro le cosce e il ventre. Non lo aveva mai sentito prima di allora, ma Caroline e lei ne avevano parlato spesso, e lei era riuscita a farsi raccontare dalla sorella maggiore tutti i dettagli. Smise quasi di respirare e s'irrigidì. Tom cercò subito di ritrarsi. «Non intendevo farti paura. Ora dovremmo fermarci.» Quella minaccia la spaventò; disperata all'idea di essere privata di lui e del suo corpo, lo attirò di nuovo a sé. «Ti prego, Tom, non allontanarti!» Lui l'abbracciò di nuovo, quasi timidamente, inarcando il corpo in modo da restare un po' discosto. Però Sarah voleva sentirlo di nuovo e, tendendo le mani dietro di lui, le intrecciò dietro le sue natiche, attirandolo a sé e invitandolo con una spinta dei fianchi. «Sì!» Lo aveva trovato. «Oh, sì!» Era trasportata da emozioni che la travolgevano e la squassavano come un fuscello rimasto intrappolato in una tromba d'aria. Sentì che Tom le tirava i vestiti, insinuando le mani tra i loro corpi, e capì che cosa stava cercando Wilbur Smith
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di fare. Allora si sollevò, puntando sul fondo della barca le spalle e i talloni e allungando le mani per aiutarlo a sollevare le gonne sulle cosce, e poi ancora più su, fino all'ombelico. Il monsone soffiò sul suo ventre nudo, mentre Tom s'inginocchiava, sovrastandola, cercando freneticamente di sciogliere la cintura delle brache. Sarah si sollevò sui gomiti, ansiosa di guardarlo. Le descrizioni di Caroline erano state precise, ma lei voleva vedere con i suoi occhi. Tom, però, ci metteva tanto che lei ebbe l'impressione di non poter resistere più a lungo; avrebbe voluto aiutarlo, e così tese la mano verso di lui. Poi Tom, con un solo movimento, riuscì a calare le brache fino alle ginocchia, e lei si lasciò sfuggire un gemito. Nulla di ciò che le aveva detto la sorella l'aveva preparata a quella vista: fissandolo, ricadde sulle tavole del ponte, e le sue gambe si schiusero. Molto tempo dopo, Tom ricadde inerte su di lei, schiacciandola col suo peso. Ansimava come un uomo appena salvato dall'annegamento. Goccioline di sudore cadevano su Sarah come una pioggia, tempestandole il seno scoperto. Gli aveva serrato le gambe intorno alla vita, continuando a tenerlo stretto, mentre la feluca sotto di loro oscillava come una culla. Tom si mosse, tentando di alzarsi, ma lei serrò la stretta delle braccia e delle gambe per impedirgli di lasciarla. Lui allora sospirò, esausto, accasciandosi di nuovo sul suo corpo, e Sarah provò uno strano senso di trionfo e di possesso, come se avesse ottenuto qualcosa che aveva un'importanza quasi mistica, qualcosa che trascendeva la carne. Non riusciva a trovare le parole per descriverla, ma gli accarezzò la testa, mormorando parole tenere e incoerenti. Con infinito rammarico, e un senso di dolorosa privazione, lo sentì raggrinzire dentro di sé, e, sebbene avvertisse una sensazione dolorosa là dove lui si era aperto una strada a forza, serrò i muscoli nel tentativo di trattenerlo; ma Tom scivolò via, e dovette lasciarlo andare. Lui si guardò attorno, sconcertato. «Siamo andati alla deriva di una lega verso il mare aperto», mormorò. Sollevandosi per mettersi a sedere e lisciarsi il vestito, Sarah si accorse che l'isola era una linea blu all'orizzonte. Tom si mise in ginocchio per tirarsi su le brache e lei lo guardò con aria materna e protettiva, come se per miracolo fosse diventata una donna completa, come se si fosse lasciata alle spalle la giovinezza e adesso fosse lei l'elemento forte, e lui un Wilbur Smith
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bambino da coccolare e proteggere. Tom si diresse vacillando verso lo strallo, bordò la vela e mise la feluca al vento, mentre Sarah si ricomponeva, annodando di nuovo il nastro del corsetto, prima di alzarsi per raggiungerlo al timone. Gli si sedette al fianco, col braccio di lui sulle spalle, e si strinse al suo petto. Erano a metà strada dall'isola quando lui ruppe il silenzio per dirle: «Ti amo, Sarah Beatty». Lei gioì di quelle parole, stringendosi ancora di più a lui. «Come ti ho già detto, io ti amo fin dal primo momento che ti ho visto, Tom Courteney. Anche se non ero che una bambina, speravo che, un giorno, sarei diventata la tua donna.» «E quel giorno è arrivato», disse Tom, baciandola di nuovo. S'incontravano tutte le volte che Sarah riusciva a sfuggire alla vigilanza di Caroline e Guy. A volte, tra un incontro e l'altro, trascorrevano anche due o tre giorni, ma allora l'intensità della passione sembrava moltiplicarsi. Quegli appuntamenti erano riservati sempre al pomeriggio, perché la mattina Sarah aveva vari compiti da sbrigare, come aiutare la sorella a dirigere la casa o badare al piccolo Christopher. Del resto, neppure Tom poteva lasciare la Swallow e i suoi uomini: la nave aveva riportato seri danni alla carena e all'alberatura a causa di una tempesta che l'aveva investita dopo lo scalo a Buona Speranza, e occorreva ripararli per metterla in condizioni di riprendere il mare. La mattina, Tom saliva quasi sempre alla fortezza, ansioso di ricevere notizie di Dorian da Muscat; inoltre aspettava ancora il permesso di commerciare. Per quanto fosse prodigo di adulazioni e di bakshish nei confronti del visir, era ancora in disgrazia; le scuse che gli venivano offerte per giustificare il ritardo non erano che un modo per punirlo, lo sapeva bene. Ma era impotente: senza quel firman del sultano, non poteva commerciare nei mercati dell'isola. Quelle ore preziose che Tom e Sarah trascorrevano insieme passavano troppo in fretta per entrambi. In certi pomeriggi restavano distesi, abbracciati, senza neanche toccare le leccornie che Sarah aveva portato con sé, facendo l'amore come se fosse l'ultima volta e, negli intervalli, parlando incessantemente, restando senza fiato per l'urgenza di dirsi tutto ciò che provavano l'uno per l'altra e facendo progetti per il futuro, per il momento in cui sarebbero potuti fuggire dall'isola insieme e salpare con Wilbur Smith
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Dorian a bordo della Swallow. Altri giorni, invece, salpavano con la feluca verso le barriere esterne dell'isola, ancorando l'imbarcazione al corallo per pescare con la lenza, ridendo e gridando di eccitazione ogni volta che s'impossessavano di qualche creatura degli abissi, che, prima di essere gettata a bordo, si dibatteva, scintillando come una pietra preziosa alla luce del sole. Un pomeriggio, Sarah portò a Tom la scatola con due pistole da duello che il padre le aveva donato quando si erano separati a Bombay, in modo che potesse difendersi in quella terra di fiere selvagge e uomini ancora più selvaggi. «Mio padre mi aveva promesso d'insegnarmi a sparare, però non ha mai trovato il tempo», gli disse. «Vuoi insegnarmelo tu, Tom?» Erano armi splendide, col calcio intagliato di noce levigato e lucente, mentre i congegni di sparo e le lunghe canne rigate erano intarsiati d'oro e d'argento, corredate da bacchette di corno e fiaschette per la polvere in argento. Nella scatola era inserito anche un barattolo col tappo a vite che conteneva cinquanta proiettili di piombo, selezionati in modo che fossero perfettamente rotondi e simmetrici. Gli stoppacci erano di cuoio grasso. Tom caricò le armi usando mezza dose di polvere, per ridurre la potenza del rinculo, e mostrò a Sarah in che modo disporre i piedi e come rivolgersi al bersaglio, cioè di lato, scoprendo solo la spalla destra. Poi, col pugno sinistro sul fianco, bisognava sollevare l'arma tenendo teso il braccio destro, far collimare la piccola sporgenza del mirino con l'incavo corrispondente nella parte posteriore e sparare al bersaglio di slancio, anziché tenere il braccio teso per prendere la mira finché non s'indolenziva e cominciava a tremare. Tom sistemò una noce di cocco in cima a uno dei muretti bassi del monastero, a quindici passi di distanza. «Colpiscilo!» le ordinò, correggendo quindi i tiri mancati. «Basso! Ancora basso! Bene!» Ricaricò in fretta e Sarah cambiò pistola, finché, al quarto tentativo, non fece volare in aria la noce, che sprizzò il latte di cocco tutt'intorno. La ragazza lanciò un grido di gioia e, ben presto, i centri furono superiori agli errori. «Dovrei ricevere un premio per ogni centro», pretese allora. «Che genere di premio avresti in mente?» «Un bacio mi sembra appropriato.» Con quell'incentivo, colpì cinque centri di seguito, e Tom le disse: «Che brava, Hal vinto il primo premio». Sollevandola tra le braccia, nonostante le sue proteste - a dire la verità non troppo sincere -, la condusse oltre il Wilbur Smith
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cancello, nel loro posto segreto tra le rovine. Qualche giorno dopo, portò con sé a bordo della feluca uno dei migliori fucili di Londra, insegnandole a caricare e sparare anche con quello. Tom aveva acquistato quattro di quelle armi eccezionali prima della partenza dall'Inghilterra; non poteva permettersi di comprarne di più, perché avevano un prezzo da capogiro. I fucili militari avevano, di solito, la canna liscia, per cui la palla non si adattava perfettamente a essa e non riceveva una spinta adeguata alla carica; non essendo stabilizzati, i proiettili descrivevano quindi una traiettoria incerta. Con quell'arma a canna rigata, invece, la precisione di tiro era sorprendente. Tom poteva avere la certezza di colpire una noce di cocco a ogni colpo, alla distanza di centocinquanta passi. Sarah era abbastanza alta e forte da riuscire a puntare il fucile tenendo il calcio contro la spalla senza eccessiva difficoltà e ancora una volta si rivelò un'ottima tiratrice, rapida e precisa. Dopo un'ora di esercizio, fu in grado di reclamare il premio quasi a ogni colpo. «Immagino che la prossima cosa che dovrò insegnarti sarà tirare di spada», osservò Tom, mentre erano distesi sulla stuoia che Sarah aveva portato per arredare la cella segreta senza tetto nell'antico monastero. «In questo senso Hal già fatto un ottimo lavoro», replicò lei con malizia, passandogli la mano sul corpo. «Ecco la mia fidata spada, signore, e so già benissimo come usarla.» Non mancavano però le volte in cui discutevano dei progetti per il futuro, una volta ritrovato Dorian. «Tornerò a prenderti», disse un giorno Tom. «E ti porterò via con me, lontano da Zanzibar e da Guy.» «Sì», mormorò lei, come se non ne avesse mai dubitato. «E torneremo insieme in Inghilterra, vero?» Tom non rispose subito e lei vide che la sua espressione era mutata. «Che cosa c'è, caro?» gli chiese allora, con ansia. «Io non potrò tornare in Inghilterra. Mai più», rispose piano Tom. Lei si mise in ginocchio e lo fissò, sgomenta. «Che significa?» «Stammi a sentire, Sarah», disse lui, mettendosi a sedere e prendendo le mani della giovane nelle sue. «Prima che lasciassi l'Inghilterra è accaduta una cosa terribile... Io non avrei mai voluto che accadesse, ma...» «Dimmela», lo pregò lei. «Tutto ciò che riguarda te riguarda anche me.» E così lui le parlò di William. Cominciò a descrivere la loro infanzia e la crescente tirannia che il fratello maggiore aveva esercitato sui minori attraverso innumerevoli piccoli gesti di spietata crudeltà. «L'unico periodo Wilbur Smith
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in cui Dorian, Guy e io siamo stati felici è stato quello in cui eravamo liberi dalla sua presenza, al tempo in cui frequentava l'università», le spiegò, guardandola negli occhi. Sarah aveva uno sguardo pieno di comprensione. «Ricordo che non mi piacque, quando lo incontrai a High Weald», convenne. «Mi faceva pensare a un serpente, gelido e velenoso.» Tom annuì. «Mentre ero lontano da casa, durante il viaggio sulla Seraph, avevo quasi dimenticato fino a che punto William fosse vendicativo. Tuttavia, quando riportammo a casa mio padre, dopo Flor de la Mar, ogni cosa si ritorse contro di me con violenza ancora maggiore.» Le spiegò quale trattamento avesse riservato William al padre morente, rinnegando poi, subito dopo la morte di Hal, il giuramento di ritrovare Dorian. «Ci battemmo in duello», continuò. «Ci eravamo già battuti, e spesso, mai però in quel modo.» S'interruppe, assalito dalla sofferenza, e lei tentò di abbracciarlo per indurlo a smettere. «No, Sarah, devo dirti tutto, e tu devi ascoltare, per capire com'è andata.» A tratti balbettando, a tratti parlando a raffica, le descrisse quel duello, l'ultima sera che aveva trascorso a High Weald. «Mi Hal chiesto come mi ero rotto il naso, ma allora non potevo dirtelo...» Si sfiorò con le dita la piccola gobba. «È stato Billy.» Descrisse la lotta con parole semplici, ma così vivide e intense che Sarah impallidì e gli strinse il braccio, affondando le unghie nella pelle. «Alla fine non sono riuscito a ucciderlo, anche se lo meritava cento, mille volte. Mi ha persuaso Alice, che stava lì col bambino tra le braccia, implorandomi di risparmiarlo. Ho preso la spada e me ne sono andato, convinto che fosse finita. Avrei dovuto sapere che...» «Perché, c'è dell'altro?» chiese lei, con una vocina spaventata. «Non credo di poterlo sopportare, Tom.» «Devo dirti tutto, e tu devi ascoltare. Per capire.» Giunse così a quell'incontro fatale presso l'approdo sotto la Torre di Londra. Descrisse la lotta con la banda di sgherri prezzolati. La sua voce divenne sempre più bassa e cupa; le pause tra le frasi erano ormai sempre più lunghe. Tom cercava le parole per descrivere quel momento terribile, al culmine dello scontro. «Ancora non sapevo che fosse Billy. La notte era buia, lui portava un grande cappello e aveva il viso coperto. Ho creduto che fosse il barcaiolo e sono corso nella sua direzione, pregandolo di Wilbur Smith
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traghettarci dall'altra parte. Sono rimasto sbigottito quando ha estratto la pistola. Ha sparato e mi ha colpito qui.» Sollevando la camicia, le mostrò la lunga cicatrice rosea tra le costole, sotto il braccio. Sarah la fissò, seguendone poi il percorso rilevato con la punta delle dita. L'aveva già notata, ma, quando lo aveva interrogato in proposito, lui era stato evasivo. Adesso capiva perché. «Avrebbe potuto ucciderti», sussurrò, impressionata. Tom annuì. «Sì, e credevo che lo avesse fatto. Invece, per fortuna, il proiettile ha colpito le costole ed è rimbalzato. Sono caduto a terra, e Billy si è avvicinato, sovrastandomi, per prendere la mira dall'alto con la seconda canna. Quel colpo avrebbe messo fine a tutto. Io reggevo la spada in mano, ero frastornato, atterrito. L'ho lanciata con tutte le mie forze e lo ha colpito al petto, trapassando il cuore.» «Oh, Dio misericordioso», esclamò Sarah. «Hal ucciso tuo fratello!» «Ti ripeto che ignoravo chi fosse. Almeno finché non ho sollevato il cappello e l'ho visto in faccia.» Rimasero in silenzio per qualche minuto. Sulle prime, Sarah aveva un'espressione inorridita, poi si riprese. «Stava cercando di ucciderti», disse con fermezza. «Hal dovuto farlo, Tom, per salvarti.» Vedendo la desolazione negli occhi del giovane, tese le braccia e strinse tra le mani la sua testa, attirandola al petto e accarezzandogli i capelli. «Non Hal nessuna colpa. Sei stato costretto a farlo.» «Me lo sono ripetuto migliaia di volte.» La voce di Tom le giungeva attutita. «Però era mio fratello.» «Dio è giusto, e so che ti perdonerà, mio caro. Devi lasciarti tutto questo alle spalle.» Tom alzò la testa, e lei capì che non avrebbe potuto dire nulla che alleviasse il suo dolore. Lo avrebbe perseguitato per sempre, anche se fosse vissuto cent'anni. Lo baciò. «Tutto questo non cambia nulla tra noi, Tom. Io sono la tua donna, per sempre. Se non potremo tornare in Inghilterra, tanto peggio. Ti seguirò sino ai confini del mondo. Non c'è nient'altro che conti, tranne te e me, e il nostro amore.» E, attirandolo sulla stuoia, gli offrì il conforto del suo corpo. La Swallow continuava ad aspettare in porto. Avevano completato da qualche tempo i lavori di raddobbo, ed era tornata snella ed elegante. Lo Wilbur Smith
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scafo risplendeva sotto una mano di pittura, ma le vele erano serrate e la nave oscillava, irrequieta, trattenuta solo dai cavi dell'ancora, impaziente come un falcone al laccio. L'equipaggio cominciava a mordere il freno. Il nervosismo dovuto all'inattività aveva già dato origine ad alcune risse. Tom sapeva di non poter tenere i suoi uomini ancora in ozio, come prigionieri a bordo della loro stessa nave. Avvertiva un bruciante impulso a sfidare il decreto del sultano, salpando verso il nord, in quelle acque proibite dove sapeva che Dorian era prigioniero; oppure progettava di condurre la Swallow verso la terraferma, verso il continente africano, per andare in cerca di quei luoghi misteriosi in cui si raccoglievano l'avorio, l'oro e la gomma arabica. Aboli e Ned Tyler gli ripetevano di avere pazienza, ma Tom si rivoltava contro di loro con ira: «La pazienza è per i vecchi. La fortuna non ha mai arriso a chi è titubante». Il monsone si esaurì, cedendo il passo al periodo torrido delle bonacce, poi invertì la direzione per cominciare a sussurrare in modo quasi impercettibile da nord-est, con le prime brezze gentili che annunciavano il cambiamento di stagione, foriere delle grandi piogge del kaskazi. Non appena il kaskazi prese forza, le navi commerciali che erano in porto, cariche di merci, levarono l'ancora per spiegare le vele al vento nuovo e impetuoso, puntando a sud, verso il capo di Buona Speranza. La Swallow attendeva, nel porto ormai quasi vuoto. Un bel giorno, però, il visir accolse Tom come se fosse appena arrivato a Zanzibar, offrendogli un cuscino di broccato e una minuscola tazzina di caffè nero, denso e dolce. «Tutti i miei sforzi a vostro favore sono stati premiati. Sua eccellenza il sultano ha accolto benevolmente la vostra petizione per ottenere la licenza di commerciare.» Con un sorriso disarmante, esibì il documento estraendolo dalla manica della veste. «Ecco il firman.» Tom tese la mano con impazienza, ma il visir ripose il pezzo di carta al sicuro nella manica. «Il firmari è limitato all'isola di Zanzibar. Non vi autorizza a navigare più a nord né a fare scalo in qualche altro porto sul continente. Se lo farete, la nave sarà confiscata, insieme con l'equipaggio.» Tom tentò di mascherare l'irritazione. «Comprendo, e sono grato al sultano per la sua generosità.» «Ci sarà un'imposta sulle merci acquistate qui nei mercati, e dovrà essere pagata in oro prima che le merci siano caricate a bordo della nave. La tassa Wilbur Smith
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consiste in un quinto del valore complessivo.» Tom masticò amaro, pur continuando a sorridere cortesemente. «Sua eccellenza è generosa.» Il visir gli porse il documento, ma quando Tom fece per prenderlo, lo ritirò di nuovo, lanciando un'esclamazione come se deplorasse la propria sbadataggine. «Ah, perdonatemi, effendi, mi era sfuggita la piccola questione del costo della licenza. Mille rupie in oro... e naturalmente altre cinquecento per la mia intercessione presso sua eccellenza.» Col firmari del sovrano, Tom finalmente poteva visitare i mercati. Ogni giorno, all'alba, scendeva a terra col signor Walsh e Aboli, per tornare a bordo soltanto all'ora di Zuhr, quando i mercanti chiudevano le botteghe per rispondere al richiamo del mu'adhin. Nelle prime settimane non fece acquisti; ogni giorno trascorreva lunghe ore con questo o quel mercante, bevendo caffè, scambiando convenevoli ed esaminando le merci che gli venivano offerte, senza tuttavia mostrare il minimo entusiasmo e senza concludere acquisti, limitandosi a confrontare i prezzi e la qualità. Da principio, Tom aveva creduto che il suo potere di contrattazione sarebbe stato accresciuto dal fatto che ormai quasi tutti gli altri commercianti europei avevano salpato col kaskazi e quindi la concorrenza per le merci in vendita era limitata. Ben presto, però, si rese conto che non era affatto così. Gli altri mercanti avevano scelto le merci, selezionando le migliori. Le zanne d'avorio rimaste sul mercato erano per lo più immature: alcune erano poco più lunghe del suo braccio, molte addirittura deformi o macchiate. Non ce n'era una che si avvicinasse anche lontanamente allo splendido paio che suo padre aveva acquistato dal console Grey in occasione della loro prima visita sull'isola. Eppure, nonostante la scarsa qualità, i mercanti, soddisfatti dei guadagni già incamerati, si ostinavano a non abbassare i prezzi e, quando lui protestava, si stringevano nelle spalle con indifferenza. «Effendi, ci sono pochi uomini disposti ad andare a caccia di quelle bestie. E' un lavoro pericoloso e, a ogni stagione che passa, bisogna spingersi più lontano per trovare i branchi. Tutto l'avorio disponibile è stato acquistato dagli altri mercanti occidentali...» Uno dei venditori aveva persino aggiunto, in tono mellifluo: «Comunque ho alcuni schiavi di qualità da sottoporre alla vostra considerazione». Con tutta la buona grazia possibile, Tom aveva rifiutato l'offerta di Wilbur Smith
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esaminare quelle merci umane. Aboli era stato catturato e venduto in schiavitù quando era bambino, ma ogni dettaglio degli orrori che gli erano stati inflitti gli era rimasto impresso nella memoria. Tom era cresciuto ascoltando le sue descrizioni di quell'infame traffico; il padre stesso, durante i suoi numerosi viaggi, aveva accumulato esperienze di prima mano su quel commercio, contribuendo a instillare nel figlio un senso di ripugnanza per quelle pratiche disumane. Fin dalla prima volta che aveva doppiato il capo di Buona Speranza, Tom era entrato in contatto con i mercanti di schiavi e le loro vittime. E, durante la lunga attesa a Zanzibar, il fetore intollerabile e i gemiti strazianti che arrivavano dalle navi negriere ancorate accanto alla Swallow erano stati una costante. Ogni giorno, Tom attraversava con Aboli i recinti degli schiavi, e gli riusciva sempre più difficile ignorare l'orrore di tutto ciò che lo circondava: i lamenti dei bambini strappati dalle braccia delle madri, il pianto delle madri separate dai figli e la sofferenza muta negli occhi scuri dei giovani, uomini e donne, privati della loro libertà, incatenati come animali, scherniti in una lingua che non conoscevano, legati sul cavalletto per la fustigazione, con le braccia e le gambe allargate, e frustati col crudele kiboko di pelle d'ippopotamo finché le costole non sporgevano biancheggiando dalle ferite. Il semplice pensiero di ricavare un profitto dalle torture inflitte a quelle povere creature faceva salire la bile in gola a Tom. Tornato a bordo della Swallow, discuteva di quella situazione con i suoi ufficiali. Anche se l'obiettivo principale del viaggio era trovare Dorian, e su quel punto Tom era inflessibile, aveva comunque precisi doveri verso gli uomini dell'equipaggio, molti dei quali erano stati allettati dalla promessa di una ricompensa. Fino a quel momento, però, ricompense non ce n'erano state e le prospettive di accumulare un bottino da dividere apparivano piuttosto scarse. «Ci sono pochi affari vantaggiosi da concludere, da queste parti», confermò il signor Walsh in tono lugubre, aprendo il taccuino e sistemandosi sul naso gli occhiali cerchiati d'oro per recitare la lista dei prezzi dell'avorio e della gomma arabica che aveva compilato prima di salpare dall'Inghilterra. «Il prezzo delle spezie è più favorevole, ma lascia comunque uno scarso margine di profitto, se si tiene conto delle spese del viaggio. La richiesta di chiodi di garofano e di pepe sul mercato è buona, Wilbur Smith
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mentre la cannella sembra in ribasso... Poi, naturalmente, c'è la corteccia di chinino, ricercata in America e nei Paesi del Mediterraneo colpiti dalla malaria.» «Abbiamo bisogno anche noi di qualche centinaio di libbre di chinino», intervenne Tom. «Stanno per cominciare le grandi piogge e ci saranno molti casi di febbre tra gli uomini.» L'estratto che si ricavava facendo bollire la corteccia era amaro come il fiele, ma, alcuni secoli prima, i monaci avevano scoperto che quello era un rimedio sovrano contro le febbri malariche; erano stati loro a introdurre gli alberi di chinchona in quelle isole, dove adesso crescevano in abbondanza. «Sì», convenne Aboli. «Il chinino ci è indispensabile, soprattutto se vuoi andare sul continente a cercare l'avorio.» Tom gli lanciò un'occhiata penetrante. «Che cosa ti fa pensare che io sia tanto pazzo da sfidare i decreti del sultano e della John Company, Aboli? Persino tu me lo Hal sconsigliato energicamente.» «Ti ho osservato mentre stavi seduto a prua, tutte le sere, a fissare il continente africano oltre il canale. I tuoi pensieri si sentivano così chiaramente da assordarmi.» «Sarebbe rischioso.» Tom rinunciò a smentire quelle accuse, ma d'istinto volse la testa a occidente. Uno sguardo trasognato affiorò nei suoi occhi mentre fissava il contorno sfumato della terra che si confondeva con le ombre della notte. «Questo non ti ha mai trattenuto, in passato», gli fece notare Aboli. «Non saprei da dove cominciare. È una terra sconosciuta, terra incognita.» Ripeté la didascalia che figurava sulle carte raccolte nel suo alloggio, quelle che studiava con tanta avidità. «Nemmeno tu ci sei mai stato, Aboli. Sarebbe folle avventurarci laggiù senza una guida.» «No, non conosco queste terre settentrionali», riconobbe il nero. «Sono nato molto più a sud, vicino al grande fiume Zambesi, e sono passati molti anni dall'ultima volta che ci sono stato.» Fece una pausa, poi riprese: «Ma so dove posso trovare qualcuno che ci guidi all'interno». «Chi è?» domandò Tom, non riuscendo a nascondere l'eccitazione. «Dove si trova? Come si chiama?» «Non conosco ancora il suo nome o il suo viso, però, non appena lo vedrò, non avrò esitazioni a identificarlo.» Quando scesero a terra, la mattina dopo, osservarono gli schiavi in Wilbur Smith
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catene che, dai recinti nei quali erano rinchiusi durante la notte, venivano condotti al mercato. Come tutte le altre merci, anche gli schiavi, in quella stagione ormai avanzata, scarseggiavano: delle parecchie migliaia in vendita al momento dell'arrivo della Swallow ne erano rimasti meno di duecento e quasi tutti erano vecchi o fragili, indeboliti dalle malattie o segnati dalle cicatrici lasciate dal kiboko. Gli acquirenti diffidavano sempre di uno schiavo segnato dalle cicatrici: significava, di solito, che era cocciuto e non si lasciava addestrare. In precedenza, passando attraverso quella zona del mercato, Tom aveva distolto lo sguardo, sforzandosi di non osservarli, sopraffatto com'era da un misto di repulsione e pietà. Quel giorno, invece, Aboli e lui si fermarono all'ingresso principale del mercato degli schiavi, così da seguire con lo sguardo quelle meste colonne che venivano sospinte in avanti ed esaminare ogni schiavo quando arrivava alla loro altezza. In quelle file c'erano due o tre uomini che a Tom sembravano adatti al loro scopo: alti, vigorosi e fieri nonostante le catene. Ma, quando sfiorò il braccio di Aboli lanciandogli un'occhiata interrogativa, il nero scosse la testa, spazientito. «Niente?» gli chiese Tom sottovoce, scoraggiato. Gli ultimi schiavi stavano sfilando davanti a loro, ma l'altro non aveva mostrato il minimo interesse. «Il nostro uomo è qui», lo contraddisse Aboli, «ma i mercanti di schiavi ci stavano osservando e non potevo indicartelo.» Gli schiavi furono condotti verso i loro palchi, nei vari punti della piazza, e incatenati ciascuno a un palo. I negrieri presero posto all'ombra; erano uomini ricchi e compiaciuti di sé, vestiti in modo sontuoso, accompagnati da schiavi personali che preparavano loro il caffè e accendevano la pipa ad acqua. Con occhi guardinghi e sfuggenti, seguirono Tom e Aboli che cominciavano lentamente a girare per il mercato. Aboli si fermò al primo palco, esaminando uno schiavo robusto, un guerriero, a giudicare dall'aspetto. Il padrone gli aprì la bocca per mostrare i denti, come se fosse un cavallo, poi gli palpò i muscoli. «Non ha più di vent'anni, effendi», fece notare l'arabo. «Guardate che braccia. Forte come un torello. Promette almeno trent'anni di lavoro duro.» Aboli rivolse la parola allo schiavo in uno dei dialetti della foresta, ma Wilbur Smith
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l'uomo lo fissò con uno sguardo ottuso. Il nero scosse la testa e i due passarono oltre, per ripetere la stessa routine. Tom capì che si stava avvicinando lentamente all'uomo che aveva già prescelto. Guardò in avanti, cercando d'intuire chi fosse, poi, all'improvviso, con assoluta certezza lo individuò. A parte un minuscolo perizoma, era nudo: piccolo di statura, col corpo sottile eppure nerboruto, senza un filo di grasso; i capelli parevano un cespuglio incolto e lanoso, come il pelame di un animale selvaggio, ma gli occhi erano vivaci e penetranti. Sempre fingendo indifferenza, Tom e Aboli si avvicinarono al punto in cui era legato. Ispezionarono un altro uomo, poi una ragazza, ma, con grande delusione dei mercanti, scossero la testa e cominciarono ad allontanarsi. Poi, quasi ripensandoci, Aboli tornò verso l'ometto. «Fammi vedere le sue mani», chiese al mercante. Lui rivolse un cenno al suo assistente e, in due, afferrarono lo schiavo per i polsi, facendo tintinnare le catene mentre lo costringevano a sottoporre le mani all'esame di Aboli, il quale ordinò ancora: «Fagliele girare». I due obbedirono, girando le palme delle mani verso l'alto. Aboli mascherò la sua soddisfazione: le prime due dita di entrambe le mani erano ricoperte dai calli al punto da risultare quasi deformate. «Questo è il nostro uomo», disse a Tom in inglese, ma il tono lo fece sembrare un rifiuto. Tom scosse la testa, quasi a confermarlo, e si allontanarono. Al negriero, deluso, non rimase che seguirli con lo sguardo. «Che aveva alle mani?» domandò Tom senza guardarsi indietro. «Che cos'è che le ha deformate in quel modo?» «La corda dell'arco», gli spiegò brusco Aboli. «Di tutt'e due le mani?» Tom si fermò, sorpreso. «È un cacciatore di elefanti», spiegò l'altro. «Continua a camminare... Adesso te lo spiego. L'arco che si usa per cacciare gli elefanti è così rigido che nessuno può tenderlo dalla spalla. Il cacciatore si avvicina strisciando fino a questa distanza» - indicò un muro a dieci passi da loro -, «poi si stende sulla schiena, puntando i piedi sulla parte curva dell'arco, sistema la punta della freccia tra gli alluci e tira la corda con entrambe le mani. Anni e anni di caccia fanno sì che la corda dell'arco deformi le dita in quel modo.» Tom faceva fatica a immaginare un arco di tale potenza. «Dev'essere un'arma formidabile!» Wilbur Smith
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«Può trapassare il corpo di un bue con una freccia e uccidere un uomo che si trovi dall'altra parte», spiegò Aboli. «Quell'uomo fa parte della piccola confraternita d'intrepidi che vivono dando la caccia ai grandi pachidermi.» Completarono il giro del mercato camminando senza fretta, prima di tornare con aria indifferente verso il punto in cui si trovava l'ometto. «Ha le catene tanto alle caviglie quanto ai polsi», gli fece notare Aboli, in inglese. «E guardagli la schiena.» Tom vide le cicatrici non ancora rimarginate che s'incrociavano sulla pelle scura. «Lo hanno percosso selvaggiamente, tentando di piegarlo alla loro volontà, ma si capisce dagli occhi che non ci sono riusciti.» Girò lentamente intorno all'ometto, esaminando il suo corpo muscoloso e dicendogli qualcosa in una lingua che Tom non comprendeva, ma senza ottenere nessuna reazione. Aboli allora pronunciò ancora due parole in un altro dei dialetti della foresta, ma invano. Non c'era modo d'intendere se l'ometto avesse capito. Tom sapeva che, oltre alla sua madrelingua, quella che gli aveva insegnato quand'era bambino, Aboli parlava almeno una dozzina di dialetti dell'interno. Ne provò un terzo, e stavolta lo schiavo trasalì, girando involontariamente la testa per fissarlo, confuso e stupito. Rispose con un'unica parola: «Fundi!» «Questo è il suo nome», spiegò Aboli a Tom in inglese. «Appartiene alla feroce tribù guerriera dei lozi. Il suo nome significa 'esperto'.» Aboli sorrise. «E probabilmente è un nome dato a ragion veduta.» Tom accettò l'invito del padrone a bere una tazza di caffè, ingrediente indispensabile di ogni contrattazione civile. In breve tempo, comprese che il negriero era ansioso di liberarsi di quello schiavo piccolo ma bellicoso, e riuscì a sfruttare quel vantaggio. Dopo un'ora di trattative, il negriero alzò le mani al cielo in segno di disperazione, esclamando: «I miei figli moriranno di fame. Mi avete rovinato, con la vostra intransigenza. Mi lasciate in miseria, ma prendetevelo pure! Portatelo via e, insieme con lui, anche il mio sangue e le mie ossa». Quando Fundi si trovò a bordo della Swallow, Tom chiese al fabbro di togliergli le catene dalle caviglie e dai polsi. L'uomo, stupito, si sfregò i segni lasciati dalle catene, poi volse lo sguardo a occidente, verso il profilo scuro della terra alla quale era stato strappato con tanta crudeltà. «Sì, potresti tentare la fuga verso casa», disse Aboli, neanche gli avesse Wilbur Smith
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letto nel pensiero. «Ma sei capace di nuotare così a lungo?» Indicò la distesa d'acqua azzurra. «Laggiù ci sono gli squali ad aspettarti, più grandi di qualunque coccodrillo tu abbia mai visto, con i denti più lunghi e aguzzi della punta delle tue frecce. Se non ti mangeranno loro, verrò a prenderti io e ti picchierò al punto che i colpi degli arabi ti sembreranno il tocco delicato di una giovane vergine. Poi t'incatenerò di nuovo come un animale.» Fundi lo guardò con aria di sfida, ma Aboli riprese: «Oppure, se sei saggio, ci parlerai della terra da cui provieni e poi ci guiderai laggiù senza catene, camminando davanti a noi come un guerriero, un cacciatore di elefanti, libero e orgoglioso». Fundi continuava a fissarlo; però, suo malgrado, cambiò espressione e gli occhi scuri si dilatarono. «Come fai a sapere che sono un cacciatore di elefanti? Come mai parli la lingua dei lozi e mi offri di nuovo la libertà? Per quale motivo vuoi raggiungere la terra dei miei padri?» «Ti spiegherò tutto», gli promise Aboli, «ma per ora pensa soltanto che non siamo tuoi nemici. Ecco, qui c'è del cibo per te.» Fundi doveva essere mezzo morto di fame, perché si gettò con avidità sulla scodella di riso e stufato di capra che Aboli gli mise davanti. Gradualmente, il cibo che aveva nello stomaco e le domande pacate di Aboli lo tranquillizzarono, tanto che cominciò a rispondere a bocca piena. Aboli tradusse a beneficio di Tom: «Non sa quanto sia distante, perché non calcola le distanze come noi, comunque la sua terra è molto lontana, a molti mesi di viaggio. Dice che vive vicino a un grande fiume». Fundi impiegò molto tempo a raccontare loro tutta la storia, ma nei giorni seguenti completò lentamente il quadro, affascinandoli con la descrizione di laghi e pianure sconfinati e di montagne coronate di un bianco abbagliante, come la testa dei vecchi. «Montagne coperte di neve?» Tom scosse la testa. «Com'è possibile, in questo clima tropicale?» Parlò d'immensi branchi di bestie strane, alcune delle quali più grandi degli zebù con la gobba degli arabi, neri e mostruosi, con le corna a forma di falce, che erano in grado di sventrare un leone dalla criniera nera con un solo colpo. «E gli elefanti?» chiese Tom. «L'avorio?» Gli occhi di Fundi splendevano mentre lui parlava delle possenti bestie. «Sono le mie capre», si vantò con Aboli, mostrandogli i calli sulle dita. «Io sono Fundi, il grande cacciatore di elefanti.» Tenne sollevate le mani con Wilbur Smith
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le dita allargate, serrandole a pugno per dieci volte e poi riaprendole. «Tanti sono gli elefanti caduti sotto il mio arco, trafitti al cuore dalle mie frecce. Ognuno di loro era un maschio possente, con le zanne più lunghe di così.» Si alzò sulla punta dei piedi, tendendo le braccia più in alto che poteva. «Ci sono ancora molti elefanti nella sua terra?» domandò Tom. «Oppure il grande cacciatore Fundi li ha sterminati tutti?» Quando Aboli gli rivolse quella domanda, Fundi scoppiò a ridere, con un'espressione maliziosa. «Si possono contare i fili d'erba nelle grandi pianure? Quanti pesci ci sono nei laghi? Quante sono le anatre degli stormi che oscurano il cielo nella stagione delle grandi piogge? Ecco quanti sono gli elefanti nella terra dei lozi.» L'eccitazione di Tom aumentava a vista d'occhio nel sentire quei racconti affascinanti; di notte, lui restava sveglio nella sua cuccetta piccola e dura, sognando la terra selvaggia che l'ometto descriveva. Non era soltanto la promessa della ricchezza e dei guadagni, ma il desiderio di vedere quelle meraviglie con i suoi occhi, d'inseguire quelle bestie possenti, di contemplare le montagne incappucciate di bianco e navigare sulle distese di acqua dolce dei laghi. Poi il volo sfrenato della sua immaginazione veniva controllato dal pensiero di Dorian e Sarah, e dell'impegno che aveva preso nei confronti di entrambi. «Sarah mi ha già promesso che verrà con me ovunque andrò. Lei non è come le altre ragazze, è come me. Ha l'avventura nel sangue. Ma Dorian?» E allora pensò al fratello come non aveva mai fatto in tutti gli anni della loro separazione. Lo immaginava in quella notte fatale quando si era arrampicato sino alla finestra della sua cella a Flor de la Mar: un bambino, un bambino fragile e inerme. «Non sarà più così adesso», mormorò Tom. Se ne rese conto lentamente. «Quanti anni avrà? Ha solo quattro anni meno di me.» Fece i calcoli, stupito. «È più vecchio di quanto fossi io quando ho assunto il comando della Seraph. Perdio, è già un uomo!» Dovette fare uno sforzo per liberare la mente dalle pastoie che l'avevano tenuta prigioniera così a lungo. «Che aspetto avrà? È stato trasformato dalle sofferenze subite? È ancora il mio fratellino, oppure un uomo diverso dal bambino che conoscevo un tempo?» si chiese, allarmato al pensiero che uno sconosciuto avesse preso il posto di Dorian. «Di una cosa sola sono certo: non potrà mai diventare come Guy. In lui ci deve essere ancora Wilbur Smith
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del fuoco e vorrà venire con me in questa nuova avventura. Il legame tra noi è ancora forte, ne sono sicuro.» Sembrava che avesse gettato il guanto di sfida ai piedi degli dei del fato, perché la risposta che aspettava giunse prima del previsto. All'alba del giorno seguente, una barca da rifornimento piccola e sporca arrivò a forza di remi dalla banchina di pietra del porto fino all'ormeggio della Swallow. Quando fu a un tiro di sasso dalla murata della nave, il barcaiolo si alzò sul banco dei vogatori, gridando: «Effendi, ho un documento per voi da parte del console inglese!» Teneva sollevato il documento, sventolandolo in aria. «Salite a bordo», gli concesse Ned Tyler. Tom, dalla sua cabina, udì le grida ed ebbe lo strano presentimento che stesse per accadere qualcosa d'importante. Si precipitò in coperta ancora in maniche di camicia, giusto in tempo per strappare la lettera dalle mani del barcaiolo. Vide subito che l'indirizzo sul foglio ripiegato era scritto con la calligrafia di Guy, ben poco mutata da quando facevano esercizio insieme sotto la guida del signor Walsh. La missiva era indirizzata al comandante Thomas Courteney, a bordo della Swallow, Zanzibar. Quando Tom lo strappò, lesse un messaggio conciso: Il sultano ci ha convocati entrambi per le dodici di oggi. Mi troverò alla porta della fortezza dieci minuti prima dell'ora stabilita. G.C. Com'era prevedibile, Guy fu puntualissimo. Quando arrivò, in compagnia di uno stalliere, lo salutò freddamente, prima di smontare, gettando le redini al servitore, e di lanciare un'occhiata in direzione di Tom. «Se fosse stato per me, non vi avrei disturbato, signore», disse in tono distaccato, senza guardare negli occhi il fratello. «Invece sua eccellenza ha insistito per farvi presenziare all'udienza.» Estrasse l'orologio dal taschino del panciotto per controllare l'ora e si avviò oltre la porta senza voltarsi indietro. Il visir li salutò con estremo rispetto, inchinandosi e sorridendo con aria accattivante; poi arretrò davanti a loro fino alla presenza del sultano, dove Wilbur Smith
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si prosternò. Guy fece un inchino non troppo profondo, consapevole della sua carica di rappresentante di sua maestà, salutando con studiata cortesia. Tom seguì il suo esempio, prima di osservare l'uomo che sedeva alla destra del sultano. Aveva un aspetto florido e la sua veste era di qualità finissima, con l'elsa del pugnale in oro e corno di rinoceronte. Era chiaramente un personaggio di alto rango e di notevole prestigio, dal momento che persino il sultano si mostrava deferente nei suoi confronti. Studiava Tom con interesse particolare, come se sapesse chi era o avesse sentito parlare di lui. «Invoco su di voi le benedizioni di Allah», disse il sultano, indicando loro i cuscini che erano stati preparati per accoglierli. Guy si sedette con una certa goffaggine, perché gli riusciva difficile sistemare la spada, mentre Tom, che aveva trascorso molte ore con i commercianti del mercato, cominciava ad abituarsi a quella posizione e, con disinvoltura, sistemò di traverso sulle ginocchia il fodero della spada Nettuno. «Sono onorato di accogliere alla mia corte il santo mullah della moschea del principe Abd Muhammad al-Malik, fratello del califfo di Oman.» Il sultano fece un cenno col capo all'uomo seduto accanto a lui, e Tom s'irrigidì, mentre il suo cuore accelerava i battiti, sentendo nominare il principe, colui che aveva comprato Dorian dal pirata. Fissò il mullah, mentre il sultano continuava: «Questo è il santo al-Allama, che viene da parte del principe». Tom e Guy lo fissarono. Al-Allama fece un gesto aggraziato di saluto: aveva mani piccole e levigate come quelle di una fanciulla. «Possiate trovare favore agli occhi di Allah e del suo Profeta», disse, mentre tutti i presenti chinavano la testa. «Confido che abbiate fatto un viaggio piacevole e che, al momento della vostra partenza, la prosperità regnasse nella vostra casa», disse Tom. Il mullah rispose: «Vi ringrazio della cortese sollecitudine. Il kaskazi ci ha portati dolcemente fin qui e Allah ha arriso alla nostra impresa». AlAllama sorrise. «Devo congratularmi con voi per l'eccellente qualità del vostro arabo. Parlate la lingua sacra come se fosse la vostra.» Si scambiarono i soliti complimenti, ma Tom trovò difficile da sopportare il lungo e complicato rituale di saluti e formule di buon auspicio. Quell'uomo era lì perché aveva notizie di Dorian; non potevano esserci altri motivi per quella udienza. Studiò il viso di al-Allama, tentando di decifrare la natura delle notizie da piccoli segni, come il modo di torcere Wilbur Smith
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le labbra, l'inflessione della voce e l'espressione degli occhi, ma il viso del mullah era inespressivo, nonostante i modi cortesi. «Il vostro commercio nei mercati di Zanzibar è stato proficuo?» domandò al-Allama. «Il Profeta approvava il commercio onesto.» «La ragione principale per cui sono venuto a visitare il regno del califfo non è il commercio», rispose Tom, sollevato di trovare uno spiraglio per mettere sul tappeto i veri motivi della sua ansia. «Mi trovo qui alla ricerca di una persona cara che è perduta per me e per la mia famiglia.» «Il mio signore, il principe al-Malik, ha saputo della vostra ricerca e ha ricevuto la petizione che gli avete rivolto», rispose al-Allama, sempre con un tono inespressivo e un volto imperscrutabile. «Ho sentito dire che il vostro signore è un uomo potente, ma pieno di compassione per i deboli e che sostiene fortemente la giustizia e la legge.» «Il principe Abd Muhammad al-Malik è tutto ciò, e per questo mi ha mandato di persona a dare una risposta alle vostre ansie, anziché inviare un messaggio che non avrebbe potuto esprimere la profondità della sua compassione per la vostra perdita.» Nonostante la stanza chiusa e l'aria torrida, greve d'incenso, Tom si sentì raggelare. Sentì Guy agitarsi vicino a lui, ma non lo guardò, aspettando che il mullah parlasse di nuovo e timoroso di sentire quello che avrebbe detto. Invece al-Allama bevve un sorso dalla tazzina di caffè con un gesto affettato, tenendo gli occhi fissi sulle ginocchia. Alla fine Tom fu costretto a sollecitarlo. «Ho atteso quasi cinque anni per avere notizie di mio fratello. Vi prego di non prolungare oltre la mia sofferenza.» Il mullah posò la tazzina prima di forbirsi le labbra sulla salvietta ricamata che uno schiavo gli porgeva. «Il principe mio signore mi ordina di parlare così.» Fece ancora una pausa, come per riordinare le idee. «'È vero che alcuni anni or sono ho acquistato un fanciullo infedele. Era chiamato al-Amhara, a causa dei suoi capelli, che erano di una straordinaria sfumatura di rosso.'» Tom si lasciò sfuggire un lungo sibilo di sollievo. Lo avevano ammesso, non era necessario scontrarsi contro dinieghi e sotterfugi: Dorian si trovava nelle mani del principe musulmano. «Le vostre parole mi hanno tolto dal cuore un macigno, un peso che minacciava di togliermi la vita», mormorò con voce strozzata. Per un attimo pensò che avrebbe potuto perdere il controllo e abbandonarsi al sollievo. Una debolezza del genere sarebbe Wilbur Smith
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stata una terribile perdita di dignità, e avrebbe attirato il disprezzo di tutti. Inspirando a fondo, sollevò il mento per fissare negli occhi il mullah. «Quali condizioni ha fissato il principe per il ritorno di mio fratello in seno alla famiglia?» Il mullah non rispose subito, ma si lisciò la barba, riordinando sul petto le treccioline profumate di unguento. «Il mio signore mi ha ordinato di parlare così: 'Io, Abd Muhammad al-Malik, ho preso sotto la mia protezione il fanciullo al-Amhara, pagando per lui un riscatto principesco, per proteggerlo dagli uomini che lo avevano catturato e far sì che non gli infliggessero altre sofferenze'.» «Il vostro principe è un uomo potente e misericordioso», esclamò Tom, anche se avrebbe voluto gridare: Dov'è? Dov'è mio fratello? Quale prezzo volete per lasciarlo libero? «Il principe mio signore ha scoperto che il fanciullo era attraente e ricco di doti. Lo ha preso a cuore e, per dimostrargli il suo favore e proteggerlo da ogni male, ha dichiarato al-Amhara suo figlio adottivo.» Tom fece per alzarsi dai cuscini, lasciando trasparire il senso di allarme che provava. «Suo figlio?» ripeté, mentre presagiva il terribile ostacolo che si profilava sul suo cammino. «Sì, suo figlio. Lo ha trattato come un principe. A me è stato affidato l'incarico di educarlo e l'ho trovato anch'io degno di amore.» Al-Allama abbassò gli occhi, mostrando per la prima volta un segno di emozione. «Mi rallegro che mio fratello abbia incontrato favori in così alto loco», disse Tom. «Tuttavia è pur sempre mio fratello. Io ho il diritto del sangue. Il Profeta di Allah ha detto che il vincolo di sangue è come acciaio e non si può rescindere.» «La vostra conoscenza delle sacre parole dell'Islam vi fa onore», rispose il mullah. «Il principe mio signore riconosce il vostro diritto di sangue e vi offre il pagamento del prezzo del sangue per la perdita che avete subito.» Al-Allama convocò un servitore, che si fece avanti portando un forziere di ebano con intarsi in avorio e madreperla; inginocchiatosi di fronte ai due occidentali, lo depose sul pavimento, aprendo il coperchio. Tom non si mosse e non guardò neppure il contenuto del forziere. Guy, invece, si protese in avanti per fissare le monete d'oro che traboccavano dalla cassetta. «Cinquantamila rupie», disse al-Allama, «pari a mille delle vostre sterline inglesi. La somma tiene conto del fatto che al-Amhara era un Wilbur Smith
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principe della casa reale di Oman.» Finalmente Tom ritrovò la voce e la facoltà di muoversi. Alzandosi, portò la mano sull'elsa della spada Nettuno. «Non c'è oro sufficiente in Arabia per comprarmi», tuonò. «Sono venuto qui per trovare mio fratello e non me ne andrò finché non me lo avrete consegnato.» «Questo è impossibile», rispose al-Allama, abbassando la voce in tono carico di rammarico. «Vostro fratello è morto. È stato ucciso due anni fa dalla peste. Non c'è stato nulla da fare per salvarlo, anche se Allah sa quanto abbiamo tentato, tutti noi che lo amavamo. Al-Amhara è morto.» Tom, pallidissimo, ricadde sui cuscini e fissò al-Allama con occhi allucinati, restando in silenzio a lungo; l'unico rumore nella stanza era il ronzio di un moscone azzurro che urtava contro il soffitto. «Non vi credo», sussurrò, ma la sua voce era piena di angoscia, l'espressione disperata. «Vi giuro, così come amo Allah e prego per ottenere la salvezza, che ho visto il nome di al-Amhara sulla sua tomba nel cimitero regale di Lamu», disse al-Allama, con una pena infinita nella voce sommessa, cosicché Tom non poté più dubitare di lui. «Dorian», sussurrò. «Era così giovane, così pieno di vita...» «Allah è misericordioso. Possiamo stare certi che ci sarà un posto per lui nell'aldilà. Il principe mio signore vi offre il suo conforto e condivide sinceramente il vostro lutto», disse il mullah. Tom si alzò a fatica, come se un movimento così semplice richiedesse un grande sforzo. «Ringrazio il vostro padrone», rispose. «Vi chiedo perdono, però ora devo lasciarvi per restare solo col mio dolore e piangere mio fratello.» Si diresse verso la porta. Guy si alzò, inchinandosi ai due arabi. «Ringraziamo il principe vostro signore per la compassione che ci ha mostrato e accettiamo l'offerta del prezzo del sangue.» Chinandosi per chiudere il coperchio del forziere, lo prese tra le braccia. «Tutti i debiti tra il principe Abd Muhammad al-Malik e la nostra famiglia sono condonati.» Poi, impacciato dal peso del forziere, seguì Tom verso la porta. Come al solito, Sarah era appollaiata sulle mura del vecchio monastero, da cui poteva avvistare Tom non appena giungeva sul sentiero che saliva dalla spiaggia. «Tom!» gridò, salutandolo allegramente con la mano, mentre scendeva di corsa dalle mura in rovina con le braccia allargate per Wilbur Smith
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tenersi in equilibrio. «Sei in ritardo, ti aspetto da ore. Avevo quasi rinunciato alla speranza di vederti.» Balzando a terra, corse a piedi nudi sul sentiero sabbioso, ma a dieci passi da lui si fermò di colpo, guardandolo in faccia. «Tom, che cosa c'è?» mormorò. Non lo aveva mai visto in quello stato, con i lineamenti tesi e gli occhi colmi di una sofferenza terribile. «Tom, che cosa ti è successo?» Lui mosse un passo incerto nella sua direzione, tendendo le braccia come un uomo che sta annegando, e lei gli volò incontro. «Tom! Oh, Tom, che c'è?» Lo tenne stretto con tutte le sue forze. «Dimmelo, tesoro. Voglio aiutarti.» Lui cominciò a tremare, tanto che Sarah pensò che fosse malato, assalito da qualche febbre terribile. Tom si lasciò sfuggire un suono strozzato, col viso rigato di lacrime. «Devi dirmelo», lo pregò. Non avrebbe mai immaginato che potesse cedere fino a quel punto; lo aveva sempre ritenuto forte e indomabile, e invece era lì tra le sue braccia, distrutto. «Ti prego, Tom, parlami.» «Dorian è morto.» Lei si sentì raggelare. «Non è possibile», sussurrò. «No, non è possibile. Ne sei sicuro? Non ci sono dubbi?» «L'uomo che ha portato la notizia è un mullah, un sant'uomo. Ha giurato sulla sua fede. Non ci possono essere dubbi.» Sempre tenendosi abbracciati, caddero in ginocchio, piangendo insieme. «Era come se fosse mio fratello», disse Sarah, premendo la guancia contro la sua. «Com'è successo?» sussurrò, asciugandosi gli occhi con la manica della camicetta. Lui scosse la testa, ancora incapace di parlare. «Dimmelo,. Tom», insistette lei; sapeva per istinto che doveva farlo parlare. Allora, dopo qualche tempo, lui cominciò a raccontare, ma le parole gli uscivano a fatica, come se gli lacerassero la gola. Alla fine, comunque, le descrisse ogni cosa, e Sarah capì che quella doveva essere la verità. «E ora che faremo?» domandò, tenendolo stretto per le mani e costringendolo ad alzarsi insieme con lei; voleva impedirgli di abbandonarsi alle onde cupe della sofferenza nella quale stava sprofondando. «Non lo so», rispose Tom. «So soltanto che Dorian è morto, che non sono riuscito a salvarlo. E' stata colpa mia. Se solo fossi arrivato prima...» «Non è colpa tua», ribatté lei con veemenza. «Non ti permetterò neanche di pensarlo. Hal fatto quello che Hal potuto. Nessuno avrebbe potuto fare Wilbur Smith
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di più.» «Non m'importa più di nulla», mormorò Tom. «E invece t'importa di molte cose. Lo devi a te stesso, a me e alla memoria di Dorian, che ti ha sempre ammirato. Sapeva com'eri forte, e non vorrebbe che ti comportassi così.» «Ti prego, non tormentarmi, Sarah. Sono sfinito dal dolore. Non c'è nient'altro che conti, per me.» «Non ti permetterò di arrenderti. Dobbiamo fare progetti insieme», insistette lei. «Che cosa faremo, adesso?» «Non lo so», ripeté lui, ma raddrizzò le spalle e si asciugò le lacrime. «Dove andremo?» incalzò lei. «Non possiamo restare qui e non possiamo tornare in Inghilterra. Allora, dove andremo, Tom?» «In Africa», rispose lui. «Aboli ha trovato un uomo che ci guiderà nell'interno.» «Quando partiamo?» domandò lei semplicemente, senza discutere la decisione. «Presto... Tra pochi giorni.» Si era calmato, riscuotendosi, almeno per il momento, dal dolore che lo aveva fiaccato. «Ci vorrà un po' di tempo per riempire le botti di acqua potabile, per acquistare provviste fresche e fare gli ultimi preparativi.» «Sarò pronta.» «Sarà difficile, un viaggio pericoloso, senza fine. Sei sicura che sia quello che vuoi? Se Hal qualche dubbio, devi dirmelo adesso.» «Non fare l'idiota, Tom Courteney», ribatté lei. «Io vengo con te.» Allontanandosi dal monastero, Sarah tornò al consolato seguendo un percorso tortuoso, da principio su un sentiero, scoperto da lei, che conduceva a uno dei piccoli villaggi sulla costa dell'isola che dava sull'oceano. Aveva percorso appena mezzo miglio quando fu assalita dalla sensazione che qualcuno la seguisse. Le parve di sentire un rumore di zoccoli sulla pista dietro di lei, quindi tirò le redini e si girò sulla sella per guardarsi alle spalle. Il sentiero era fiancheggiato da una folta vegetazione, fitta di steli contorti e foglie vellutate, mista a cespugli di lantana. Non riusciva a vedere oltre l'ultima svolta del sentiero, pochi passi dietro di lei. Wilbur Smith
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«Tom?» gridò. «Sei tu?» Non ottenendo risposta, decise che si trattava di uno scherzo della sua immaginazione. Ti comporti come un'idiota, si disse, risoluta, riprendendo il cammino. Raggiunto il villaggio, acquistò un cestino di verdure da una delle vecchie del posto, come pretesto per giustificare la lunga assenza, poi scese fin quasi al porto per tornare al consolato lungo la strada principale. Aveva molte cose su cui riflettere. Il suo umore oscillava tra l'euforia, suscitata dalla prospettiva dell'avventura che l'attendeva, alla profonda tristezza, dovuta alla necessità di lasciare Caroline e il piccolo Christopher, che amava teneramente. Nella cupa infelicità del matrimonio con Guy, Caroline aveva finito per appoggiarsi alla sua forza d'animo e al suo coraggio, e Sarah, dal canto suo, era affezionata al piccolo Christopher come se fosse suo figlio. Si domandò, preoccupata, come avrebbero fatto senza di lei. Non potrebbero venire con noi? si chiese, ma capì subito che era una sciocchezza anche solo pensarlo. «Dovrò lasciarli», mormorò, facendosi forza. «Li amo entrambi, ma Tom è il mio uomo e io lo amo più della vita stessa. Devo andare con lui.» Era così immersa in quei pensieri che entrò nel cortile della scuderia senza notare Guy, finché lui non la chiamò con severità dall'ombra della lunga veranda. «Dove sei stata, Sarah?» Lei alzò gli occhi, confusa. «Mi Hal fatto paura, Guy.» «Hal la coscienza sporca, per caso?» «Per aver comperato un po' di verdura?» Sfiorò il paniere legato dietro la sella. «Sto per fuggire con un cavolo!» esclamò, ridendo allegramente, ma Guy non sorrise. «Vieni nel mio studio!» le ordinò, e in quel momento lei notò lo stalliere sulla soglia delle scuderie. Il ragazzo era un protetto di Guy, un essere viscido col viso butterato dal vaiolo, che si chiamava Assam. Non le era mai piaciuto e non le ispirava fiducia, tanto meno in quel momento, quando vide il suo sorriso malizioso e gongolante. Colta da un cattivo presagio, Sarah rimpianse di non aver fatto maggiore attenzione a coprire le sue tracce quando andava a incontrare Tom e di non aver prestato fede alla sensazione di essere seguita che aveva avuto quel pomeriggio. «Ho voglia di fare un bagno e di cambiarmi per la cena», disse a Guy, tentando d'impressionarlo, ma lui si accigliò, facendo schioccare il frustino contro lo stivale. Wilbur Smith
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«Non ci vorrà molto. Sono il tuo tutore e tu devi obbedirmi. Assam si occuperà della giumenta.» Rassegnata, Sarah lo seguì lungo la veranda, entrando nella fresca penombra del suo studio. Guy chiuse la porta dietro di loro e si sedette alla scrivania, mentre lei rimaneva in piedi al centro della stanza. «Ti sei incontrata con lui al vecchio monastero», le disse con voce atona. «Con chi? Di chi diavolo stai parlando?» «Non negare. Assam ti ha seguito, obbedendo alle mie istruzioni.» «Tu mi Hal fatto spiare!» esclamò lei con alterigia. «Come osi?» Tentò di mostrarsi indignata, ma non era affatto convincente. «Mi fa piacere che tu non offenda la mia intelligenza negando i fatti.» «Perché dovrei rinnegare l'uomo che amo?» Sarah raddrizzò le spalle. Adesso era veramente indignata. «Ti sei lasciata incantare da un marinaio», le disse Guy. «Quando avrà ottenuto quello che vuole, leverà l'ancora e se ne andrà sghignazzando, come ha fatto con tua sorella.» «Quando leverà l'ancora, io andrò con lui.» «Io sono il tuo tutore e tu non Hal ancora diciott'anni. Non andrai da nessuna parte senza il mio consenso.» «Io andrò con Tom», ribatté lei. «E nulla di ciò che tu potrai dire o fare riuscirà a fermarmi.» «Lo vedremo. Intanto sei confinata nelle tue stanze e non uscirai finché la Swallow non sarà salpata da Zanzibar.» «Non puoi trattarmi come una prigioniera.» «Sì, che posso. Ci sarà una guardia alla porta del tuo alloggio, e altri uomini staranno di guardia ai cancelli. Hanno ricevuto ordini da me. Ora ritirati nelle tue stanze. Ti farò mandare la cena in camera.» Tom era così occupato nei preparativi per la partenza della Swallow che prestò scarsa attenzione alla nave a vele quadre che, con visibile difficoltà, entrò in porto dopo il tramonto. Persino a quella luce fioca vide che era stata danneggiata dalle tempeste: quella era la stagione in cui i tifoni investivano l'oceano delle Indie, e la nave doveva aver incontrato uno di quei venti diabolici. Il nome sullo specchio di poppa era Apostle. Batteva la bandiera della John Company e, non appena ebbe gettato l'ancora, Tom mandò Luke Jervis a bordo della lancia per chiedere notizie. Luke tornò meno di un'ora dopo, entrando nella cabina di Tom mentre Wilbur Smith
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questi stava scrivendo il giornale di bordo. «L'Apostle arriva da Bombay con un carico misto di tessuti e di tè», riferì Luke. «Si è imbattuta in una tempesta a nord delle isole Mascarene e intende completare le riparazioni qui prima di riprendere il viaggio.» «Che notizie porta?» «Quasi tutte vecchie, visto che ha salpato dal molo della Compagnia alcuni mesi fa... Comunque i francesi hanno riconosciuto finalmente Guglielmo re d'Inghilterra. Li ha conciati per le feste, il nostro Willy; è un buon combattente. La guerra è finita.» «Magnifico!» Tom balzò in piedi con entusiasmo. «Informate l'equipaggio e distribuite una razione di rum a tutti, per brindare alla salute di re Willy.» Quello che Tom non poteva sapere era che, oltre alla notizia della vittoria, l'Apostle portava un plico di lettere e documenti, sigillati in un sacco di tela incatramata, proveniente dal governatore di Bombay e indirizzato al console di sua maestà a Zanzibar. Il comandante fece recapitare il plico la mattina dopo e Guy Courteney lo aprì a pranzo, sulla lunga veranda del consolato. Caroline era seduta di fronte a lui, mentre Sarah era ancora chiusa a chiave nel suo alloggio. «C'è una lettera personale di tuo padre», disse Guy a Caroline, prendendola dal mucchio di documenti sigillati. «È indirizzata a me», protestò Caroline quando lui spezzò il sigillo di ceralacca, cominciando a leggerla. «Sono tuo marito», ribatté lui in tono di sufficienza, poi all'improvviso cambiò espressione, mentre il foglio gli tremava tra le mani. «Santo cielo! Questo è addirittura incredibile!» «Che cosa c'è?» chiese Caroline, posando il cucchiaio d'argento. Doveva essere una notizia davvero straordinaria per avere quell'effetto sul marito, perché Guy si vantava di saper mantenere una calma assoluta anche nelle circostanze più difficili. Mentre fissava la lettera, l'espressione di Guy passò lentamente dalla costernazione all'esultanza. «Ora lo tengo in pugno!» gridò. «Chi? Che cos'è successo?» «Tom! È un assassino. Perdio! Ora ne pagherà il fio sulla forca. Ha assassinato il nostro caro fratello William. C'è un mandato di arresto per lui. Ho intenzione di fare il mio dovere, ma per me distruggerlo sarà anche Wilbur Smith
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un grandissimo piacere.» Guy balzò in piedi, facendo cadere dal sostegno la teiera, che finì in pezzi sul pavimento, senza che lui ci badasse. «Dove stai andando, Guy?» Caroline si alzò, pallida e malferma sulle gambe. «Dal sultano», rispose lui, gridando poi ai domestici: «Dite ad Assam di sellarmi il grigio, e alla svelta». Girandosi di nuovo verso Caroline, batté il pugno sul palmo dell'altra mano. «Finalmente! Era tanto che aspettavo questo momento. Chiederò al sultano di affidarmi gli uomini della sua guardia e lui non farà obiezioni, dopo tutti i fastidi che Tom gli ha causato. Lo arresteremo e confischeremo la Swallow. Quando la venderemo, dovrebbe fruttare come minimo duemila sterline. Mi meriterò pure una ricompensa, per avere assicurato alla giustizia un pericoloso criminale.» Scoppiò in una risata trionfante. «Il nostro Thomas farà il viaggio gratis fino a Londra sull'Apostle, ma in catene.» «Guy, è tuo fratello! Non puoi fargli questo.» Caroline era sconvolta. «Anche Billy era fratello di Tom, eppure quel porco lo ha infilzato a sangue freddo. Ora pagherà cara la sua arroganza.» Caroline corse verso il marito, aggrappandosi alla sua manica. «No, Guy, non puoi farlo.» «Ah, tu intercedi per lui!» Si girò di scatto verso di lei, mentre il suo viso s'incupiva e sembrava gonfiarsi per la rabbia. «Lo ami ancora, non è vero? Saresti pronta a sollevare le gonne e aprire le gambe per lui, da quella sporca sgualdrinella che sei!» «Questo non è vero.» «Ti piacerebbe che seminasse un altro bastardo nel tuo ventre, vero?» La colpì al viso, scaraventandola contro il muretto della veranda. «Ebbene, il tuo amante non metterà al mondo altri bastardi.» Si allontanò a lunghe falcate dalla terrazza, chiedendo a gran voce che gli portassero il cavallo. Caroline si appoggiò alla parete, con la mano sul segno rosso che aveva sulla guancia, poi udì il cavallo allontanarsi al galoppo oltre il cancello, imboccando il sentiero che conduceva al porto e alla fortezza. Allora si rimise faticosamente in piedi. La prima volta che Guy le aveva parlato della relazione tra Tom e la sorella minore, lei era rimasta inorridita e straziata dalla gelosia; poi, la notte prima, era andata nella stanza di Sarah, trascorrendo quasi due ore con lei. A poco a poco si era resa conto della profondità dell'amore che la sorella provava per quel giovane. Sapeva ormai che i suoi sentimenti per Wilbur Smith
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Tom erano senza speranza, e così alla fine li aveva accantonati e, sebbene il dolore del sacrificio fosse intenso, aveva baciato Sarah, promettendole di aiutare Tom e lei a fuggire. «Devo avvertirli», sussurrò. «Ma resta così poco tempo...» Prese il vassoio dal tavolo di servizio e lo portò lungo la veranda, oltre la stanza dove dormiva Christopher e verso l'ultima porta. Davanti c'era uno degli uomini lasciati di guardia da Guy, accovacciato contro il muro e insonnolito dal calore del pomeriggio, col fucile sulle ginocchia; tuttavia, vedendola avvicinarsi, si svegliò di scatto e si alzò. «Salaam aliekum, padrona.» S'inchinò. «Il padrone ha dato ordini rigorosi che nessuno superi questa porta, entrando o uscendo.» «Ho il cibo per la signora mia sorella», gli disse lei in tono imperioso. «Fatti da parte.» L'uomo esitò, perché gli ordini non prevedevano quella possibilità, poi s'inchinò di nuovo, dicendo: «Sono come polvere sotto i vostri piedi». Estratta la grande chiave di ferro dalla piega della veste, la girò nella serratura. Caroline gli passò davanti, ma, non appena la porta si chiuse, posò il vassoio sul primo tavolino a portata di mano, per correre verso la stanza da letto della sorella. «Sarah, dove sei?» chiamò. Sarah si trovava sul letto, sotto la zanzariera. Era coperta con un lenzuolo leggero e sembrava addormentata, ma, non appena sentì la voce di Caroline, scostò il lenzuolo per saltare giù dal letto, vestita di tutto punto, con gli stivali da equitazione sotto le lunghe gonne. «Caroline! Sono così felice che tu sia venuta. Non volevo andarmene senza dirti addio.» Corse verso la sorella per abbracciarla. «Sto per partire con Tom», spiegò. «Mi aspetta sulla spiaggia, sotto il vecchio monastero... Sono già in ritardo.» «E come farai a sfuggire alle guardie di Guy?» domandò Caroline. Sarah frugò sotto la gonna, estraendo le pistole da duello. «Sparerò a chiunque tenti di fermarmi.» «Ascoltami, Sarah. E' arrivata una lettera di nostro padre da Bombay. Tom è accusato di avere ucciso il fratello e c'è un mandato di arresto per lui.» «Lo so, Tom mi ha raccontato tutto.» Si allontanò dalla sorella. «Non puoi fermarmi, Caroline. Non fa nessuna differenza. So che è innocente e me ne andrò con lui.» «Non capisci.» Caroline l'afferrò di nuovo per il braccio. «Ho già Wilbur Smith
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promesso di aiutarvi e non intendo rimangiarmi la parola. Sono venuta a dirti che Guy è andato alla fortezza per avvertire il sultano. Stanno per arrestare Tom e rimandarlo in catene in Inghilterra per il processo e l'esecuzione.» «No!» Sarah fissò la sorella, attonita. «Devi avvertire Tom, ma non potrai fuggire di qui senza il mio aiuto.» Rifletté, poi disse: «Ecco che cosa faremo». Parlò rapidamente, completando il piano mentre procedeva nel discorso. «È tutto chiaro?» domandò alla fine. Sarah annuì. «Sono pronta, ho fatto tutti i miei preparativi, ma devi sbrigarti, Caroline. Tom penserà che non voglio raggiungerlo. Si stancherà di aspettare e se ne andrà.» Caroline si diresse verso la porta, chiamando la guardia per farsi aprire. Quando fu uscita, lui richiuse la porta a chiave. Lei andò direttamente alle scuderie, chiamando Assam. «Sella la mia giumenta.» Vedendo che lo stalliere esitava, lei pestò i piedi. «Subito, altrimenti ti farò frustare!» scattò. «Ho molta fretta. Ho promesso di raggiungere il padrone alla fortezza.» Pochi minuti dopo, Assam portò fuori il cavallo e Caroline gli prese le reclini di mano. «Va' al cancello e ordina alle guardie di aprirlo perché devo uscire.» Ormai intimorito, Assam corse a obbedire. Tentando di non mostrarsi troppo precipitosa o agitata, Caroline condusse la giumenta attraverso il prato sino in fondo alla veranda. La guardia alla porta di Sarah si alzò per salutarla e lei gli porse la lettera del padre. «Consegna questa a mia sorella, subito», gli ordinò. L'uomo si mise a tracolla il fucile, prendendo la lettera, e si avvicinò alla porta per bussare. Un attimo dopo, Sarah esclamò dall'interno: «Che cosa c'è?» «Una lettera, padrona.» «Dammela.» L'uomo aprì la porta, spalancando il battente, e Sarah uscì, puntandogli in faccia le pistole, col cane alzato e le dita già piegate sul grilletto. «Stenditi con la faccia per terra», gli ordinò, ma la guardia, invece di obbedire, si tolse di spalla il fucile, tentando di armare il cane. Sarah abbassò con calma la pistola che impugnava nella mano destra, prendendo la mira, e gli sparò a bruciapelo al ginocchio. L'uomo lanciò un grido, accasciandosi sul pavimento della veranda con la gamba fracassata. Lei Wilbur Smith
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allontanò con un calcio il fucile caduto. «Idiota, avresti dovuto obbedire», gli disse con asprezza. «La prossima volta ti sparerò alla testa», aggiunse, sfiorandogli la fronte con la canna dell'altra pistola. L'uomo si coprì il viso, rannicchiandosi ai suoi piedi, e Sarah s'infilò nella cintola la pistola con la quale aveva sparato; poi, indietreggiando sulla soglia, prese la borsa di cuoio che aveva riempito con i suoi beni più preziosi e la trascinò sulla veranda. Nel frattempo, Caroline era accorsa per aiutarla a caricare la borsa sulla sella. Le due sorelle si abbracciarono di slancio. «Va' con Dio, mia carissima Sarah. Auguro ogni gioia a te e a Tom.» «So che lo ami anche tu, Caroline.» «Sì, ma adesso è tuo. Trattalo bene.» «Da' un bacio a Christopher per me.» «Sentiremo la tua mancanza... Va'! Presto!» Caroline intrecciò le mani per aiutare Sarah a salire in sella. «Addio, sorella mia», le gridò dietro, mentre Sarah spingeva al galoppo la giumenta attraverso i prati. Assam la vide arrivare e gridò alle altre guardie di chiudere il cancello, ma Sarah puntò direttamente contro di lui e lo stalliere dovette gettarsi di lato per non essere travolto dagli zoccoli. La giumenta volò oltre il cancello aperto, addentrandosi nella foresta. Sarah imboccò il sentiero che portava a sud, attraverso le palme, fino al monastero in rovina. «Ti prego, Tom, aspettami», mormorò, mentre il vento portava via le sue parole e faceva sventolare i suoi lunghi capelli come una bandiera. «Per favore, aspettami, tesoro. Sto arrivando.» Spinse la giumenta al limite delle sue possibilità, sfrecciando fra i tronchi delle palme. Arrivata al cancello del monastero, fermò di colpo la giumenta, che si agitò irrequieta, scuotendo la testa e sudando per il nervosismo, non avvezza a un trattamento così rude. «Tom!» gridò Sarah, ma le rispose soltanto l'eco beffarda sulle antiche mura del monastero. «Tom!» Se n'è andato! pensò allora, con terrore. Mentre la giumenta arretrava e girava su se stessa, lei si sporse dalla sella per osservare il terreno: scorse le orme recenti di Tom che salivano dalla spiaggia e la zona davanti al cancello dove aveva camminato avanti e indietro, aspettandola. Poi, dopo aver esaurito la sua pazienza, era tornato verso la spiaggia, come rivelava la fila d'impronte. Wilbur Smith
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«Tom!» gridò, angosciata, spingendo la giumenta sul sentiero angusto che attraversava il sottobosco. I rami le sferzavano le gambe mentre correva lungo il ruscello, sbucando infine sulla candida sabbia corallina, di fronte alle acque limpide della laguna. Vide il segno lasciato dalla chiglia della feluca, poi, alzando gli occhi, scorse la minuscola imbarcazione che avanzava lentamente verso il varco nella barriera corallina, a mezzo miglio di distanza. A poppa c'era Tom, che teneva tra le mani un lungo palo di bambù, puntandolo sul fondo per superare quel tratto di fondale basso. «Tom!» gridò lei, agitando le braccia. «Tom!» Ma il vento frusciava tra le palme e la risacca ribolliva rombando sulla barriera esterna, soffocando le sue grida. La minuscola feluca si allontanava faticosamente e Tom non guardava indietro. Sarah spinse in acqua la giumenta; dapprima recalcitrò, poi, dal momento che era un animale coraggioso, si spinse in avanti, saltando le buche più profonde, finché l'acqua non le arrivò al garrese, inzuppando gli stivali e la gonna di Sarah. Ma la feluca continuava ad allontanarsi, sempre più in fretta. «Tom!» gridò Sarah straziata dal dolore, poi estrasse dalla cintura la seconda pistola, puntandola verso il cielo prima di sparare. La detonazione risuonò quasi insignificante nell'immensità del mare e del vento. Non ha sentito! pensò la giovane, ormai sull'orlo della disperazione. Il suono impiegò un lungo istante per arrivare, poi Sarah vide la figura lontana di Tom sussultare, mentre si girava a guardarla. «Oh, sia lodato Dio!» mormorò lei e quasi pianse per il sollievo. Con un colpo esperto del palo, Tom invertì la direzione, facendo scivolare la feluca sulla laguna verso Sarah. «Dov'eri? Che cosa è successo?» le gridò quando fu a portata di voce. «Guy ha scoperto tutto di te e William», gridò lei di rimando. «È andato alla fortezza per dare l'allarme. Hanno intenzione di arrestarti e confiscare la nave.» Vide la sua espressione indurirsi, ma lui non disse niente mentre accostava la barca alla giumenta. Poi lasciò cadere il palo e si protese per prendere la giovane alla vita, sollevandola dalla sella e deponendola nella barca. «La mia borsa!» disse Sarah, ansimando. Tom estrasse il pugnale dal fodero alla cintura per tagliare il laccio di cuoio che la legava al pomo Wilbur Smith
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della sella, trascinando la borsa a bordo. Poi assestò una pacca alla giumenta, che si girò per tornare verso la spiaggia. Afferrando il palo di bambù, Tom puntò di nuovo la prua della feluca verso il passaggio nella barriera. «Quando è andato alla fortezza, Guy?» le domandò. «Quanto tempo abbiamo?» «Non molto. Ha lasciato il consolato più di due ore fa.» «Manovra lo strallo della vela», le ordinò con aria cupa. «Dovremo bordare la vela e correre qualche rischio sulla barriera corallina.» La vela latina si svolse schioccando prima di gonfiarsi al soffio del monsone, e la feluca s'inclinò bruscamente, filando verso il varco nella barriera. Lo superò di stretta misura e, non appena l'acqua divenne blu, Tom si mise al timone, virando verso il porto dov'era all'ancora la Swallow. «Dimmi tutto», la pregò. Lei si avvicinò, cingendogli la vita con le braccia. «Come ha fatto Guy a scoprirlo?» «È arrivata una nave ieri sera.» «L'Apostle», esclamò Tom. «Avrei dovuto aspettarmelo.» Poi ascoltò attentamente mentre lei gli riferiva tutti i dettagli. Quando ebbe finito, mormorò: «Dio voglia che facciamo in tempo», guardando il porto di Zanzibar che si apriva davanti a loro. Fu allora che vide la piccola Swallow dondolarsi tranquillamente all'ancora. «Grazie a Dio, non l'hanno ancora presa», disse con sollievo. In quel preciso istante, però, videro una flottiglia di una dozzina di barche staccarsi dalla banchina di pietra ai piedi della fortezza e sciamare attraverso la baia verso la Swallow. Tom si fece schermo agli occhi con una mano, aguzzando lo sguardo oltre quel miglio d'acqua che li separava dalla barca di testa, e riconobbe la figura alta e snella col cappello piumato che stava a prua. «Guy è eccitato come un segugio che sente la pista della volpe.» Il grande dhow sprofondava nell'acqua, sotto il peso degli uomini armati che vi si erano affollati, e tutte le altre imbarcazioni della piccola flotta erano altrettanto cariche. «Deve avere con sé almeno cento soldati del sultano», calcolò Tom. «Non vuole correre rischi.» Alzò gli occhi verso la testa dell'albero di maestra, valutando la forza e la direzione del vento sulla vela. Aveva navigato abbastanza su quella Wilbur Smith
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piccola imbarcazione per conoscere ormai tutte le sue idiosincrasie e sapeva come spremerle fino all'ultima stilla di velocità. «Bordala un po'», gridò a Sarah, che corse verso la vela. La feluca gradì quel piccolo ritocco e si slanciò in avanti sotto i loro piedi. «Sarà una corsa all'ultimo respiro», osservò Tom, scrutando la barca di testa e calcolando la differenza di velocità e di rotta. Loro avevano il vantaggio del vento al largo, mentre Guy era sovraccarico e costretto a bordeggiare, con la carena bassa nell'acqua. Tom dubitava che l'altra barca potesse raggiungere la Swallow all'ancora con un solo bordo. D'altra parte, la feluca doveva passare di prua davanti al dhow di Guy. Tom socchiuse gli occhi, calcolando le rotte di convergenza. «Passeremo a distanza di tiro dalla barca di testa», disse a Sarah. «Ammucchia quelle reti e quelle cassette per il pesce lungo la battagliola di dritta e stenditi a ridosso.» «E tu?» chiese lei, con ansia. «Non te l'ho detto? Io sono immune dalle palle di fucile.» Sogghignò. «E poi tutti gli arabi non valgono granché come tiratori.» Se non lo avesse amato tanto, forse sarebbe rimasta più colpita dalla sua indifferenza al pericolo. «Il mio posto è al tuo fianco», ribatté, ostinata, tentando di mostrarsi all'altezza della sua esibizione di coraggio. «Il tuo posto è dove dico io.» L'espressione di Tom divenne gelida e impassibile. «Mettiti giù, donna.» Lei non lo aveva mai visto così prima di allora, e questo la colse alla sprovvista. Si ritrovò a obbedire docilmente, e soltanto quando fu stesa sul fondo puzzolente della barca, protetta dalle reti e dalle pesanti cassette di legno, cominciò a recuperare il suo spirito d'indipendenza. Non devo permettergli di avere la meglio con tanta facilità, si disse, ma le sue riflessioni furono interrotte da un grido fioco. Gli arabi sulla barca di testa avevano finalmente avvistato la piccola feluca che tagliava loro la strada. La nave s'inclinò pericolosamente di lato quando si affollarono lungo il parapetto per guardare oltre il varco che li separava, sbraitando e gesticolando, mentre brandivano con aria spavalda i jezail dalla lunga canna. «Fermo!» La voce di Guy era attutita dal vento, ma ormai erano abbastanza vicini perché Tom vedesse chiaramente il suo viso cupo e furioso. «Accosta subito, Tom Courteney, altrimenti ordinerò agli uomini di spararti addosso.» Wilbur Smith
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Tom scoppiò a ridere, agitando allegramente la mano. «Piscia al vento, fratello caro, e vedrai che ti ritorna tutta in faccia!» Erano separati da meno di cento iarde, la portata di una pistola, e Guy chiamò a sé i fucilieri arabi che affollavano il ponte scoperto del dhow, indicando la feluca con la spada sguainata. In risposta, loro puntarono i fucili e, nonostante la sua spavalderia, Tom provò una fitta di paura guardando quella fila di armi puntate contro di lui. «Fuoco!» gridò Guy brandendo la spada. Si sentì un'esplosione e, subito dopo, un banco di fumo spesso e bianco oscurò per un attimo il dhow. L'aria intorno alla testa di Tom si riempì del sibilo e del ronzio di proiettili, mentre le pesanti palle di piombo sollevavano spruzzi dalla superficie dell'acqua tutt'intorno alla feluca e si conficcavano nel fasciame, producendo schegge bianche. Tom si sentì tirare la manica della camicia: abbassando gli occhi, vide uno strappo nel tessuto e un filo sottile di sangue scorrere dalla ferita superficiale al bicipite. «Stai bene, Tom?» gli chiese Sarah con ansia, distesa ai suoi piedi, e lui rise di nuovo, girandosi per metà in modo che non vedesse il sangue sulla manica. «Te lo avevo detto che sono pessimi tiratori», rispose. Sollevando il cappello, rivolse un saluto beffardo a Guy, ma, nel movimento, alcune gocce scarlatte piovvero sul ponte ai suoi piedi. Vedendo il sangue, Sarah impallidì e scattò in piedi senza esitazioni, precipitandosi a poppa. «Torna indietro!» ordinò Tom. «Quelli sono proiettili veri, potresti farti ammazzare.» Sarah lo ignorò, mettendosi di fronte a lui per fargli scudo col suo corpo. Togliendosi lo scialle, sciolse i capelli in modo che volassero al vento come una bandiera. «Spara!» gridò, rivolta al dhow. «Spara, se ne Hal il coraggio, Guy Courteney!» Erano abbastanza vicini per vedere l'espressione furibonda di Guy. «Abbassati, Sarah!» le gridò lui di rimando. «Se sarai colpita è perché lo Hal voluto tu.» Tom tentò di spingerla giù dal ponte, ma lei gli passò le braccia intorno al collo, aggrappandosi a lui col viso acceso dall'ira mentre fissava il dhow. «Se vuoi tuo fratello, dovrai uccidere prima me», strillò, rivolta a Guy. Wilbur Smith
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L'espressione di Guy passò dal trionfo all'incertezza. Si voltò a guardare i suoi uomini. I fucilieri arabi stavano ricaricando in fretta: Tom vedeva la punta delle bacchette salire e scendere freneticamente, spingendo i proiettili in fondo alla lunga canna. Anche un uomo in gamba impiegava almeno un paio di minuti per ricaricare: al momento della prossima salva, le due imbarcazioni avrebbero raggiunto il punto in cui la feluca doveva incrociare la rotta della chiatta. I fucilieri più veloci ed esperti avevano finito di caricare e preparare l'innesco. Quattro di loro sollevarono e puntarono le armi, mirando lungo la canna verso la coppia a poppa della feluca. Guy esitava ancora, ma poi la sua espressione s'incrinò e, abbassando la spada, bloccò l'arma dell'uomo più vicino a lui, gridando in arabo: «Fermi! Non sparate! Colpireste la donna!» Uno degli uomini ignorò l'ordine e fece fuoco. Dalla canna del suo jezail sprizzò un pennacchio di fumo azzurrino, mentre la palla colpiva la barra del timone tra le mani di Tom. «Fermo!» gridò Guy in preda al collera, calando la spada sul polso dell'uomo. Il sangue sprizzò, mentre l'uomo si stringeva al petto il braccio ferito e barcollava all'indietro sul ponte. «Basta!» Guy si girò verso gli altri uomini che, uno alla volta, a malincuore, abbassarono i fucili. La feluca puntò direttamente contro il dhow, prima d'incrociarlo e lasciarselo alle spalle. «Non Hal ancora vinto, Tom Courteney!» gridò Guy dietro di loro. «D'ora in poi, sono tutti contro di te. Uno di questi giorni pagherai il fio di quello che Hal fatto. Ci penserò io, lo giuro!» Tom ignorò le grida del fratello, che si andavano spegnendo, per guardare in avanti. Ormai mancava soltanto una tesa per raggiungere la Swallow, inoltre il fuoco dei fucili aveva messo in allarme l'equipaggio, che stava sciamando sul ponte, arrampicandosi sul sartiame. Ned Tyler non aveva bisogno di ordini per preparare la nave a salpare. Sarah strinse Tom a sé, guardando indietro verso lo sciame di piccole barche che arrancavano dietro di loro. «E' stato emozionante», esclamò, con gli occhi scintillanti. «Non essere così soddisfatta di te, piccola peste.» Tom l'abbracciò con calore. «Hal disobbedito a ordini espliciti.» «È meglio che ti ci abitui», ribatté lei, guardandolo con un sorriso, «perché potrebbe succedere di nuovo, un giorno o l'altro.» Poi assunse un Wilbur Smith
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tono più pratico, tagliando la manica della camicia col pugnale e usando la stoffa per fasciare la ferita al braccio, fermando l'emorragia. Nel frattempo si stavano avvicinando in fretta alla Swallow, e Tom le disse: «Lascia perdere. Preparati a saltare in fretta». Sul ponte dello sloop l'argano sferragliava, mentre Ned Tyler ritirava l'ancora e, non appena le marre si staccarono dal fondo, la nave cominciò a girarsi di poppa. Sarah sollevò le gonne, infilandole nella cintura per avere le gambe libere, poi si rannicchiò vicino alla battagliola. Tom vide la testa di Aboli affacciarsi al parapetto sopra di lui. I due scafi si toccarono e Tom ammainò la vela; Aboli saltò giù, come una grande pantera nera che attacca una gazzella dal ramo di un albero. I suoi piedi nudi risuonarono sul ponte mentre atterrava vicino a Sarah. La prese tra le braccia e, sebbene lei protestasse, spiccò di nuovo un balzo, aggrappandosi alla biscaglina che penzolava dalla murata e trasportandola di peso sul ponte della Swallow. Tom afferrò la sacca di cuoio di Sarah sul fondo della feluca, prima di superare con un salto lo stretto specchio d'acqua che separava le due imbarcazioni, lasciando libera la feluca di andare alla deriva, e seguì Aboli in coperta. Quando scavalcò il parapetto, Ned Tyler lo salutò dal timone con aria solenne. «Benvenuto a bordo, comandante.» «Grazie, signor Tyler. Non mi viene in mente nessun motivo per cui dovremmo restare ancora qui. Mettete la nave al vento, se non vi dispiace.» Lasciando cadere la borsa di Sarah sul ponte, si diresse a poppa. Quando la Swallow invertì la rotta, il dhow con Guy a prua venne a trovarsi solo duecento iarde più indietro, ma lo sloop prese uno slancio tale che il dhow sembrava ancorato al fondo. Guy aveva la spada sguainata lungo il fianco, le spalle curve per l'avvilimento e il viso stravolto dalla frustrazione e dall'odio. Nel vedere Tom, gli uomini attorno a lui non seppero trattenersi e aprirono il fuoco in una salva furiosa, scaricando i fucili, ma Guy pareva ignorarli, concentrando tutta la sua attenzione sul fratello gemello. Rimasero a guardarsi mentre le due navi si allontanavano in fretta. Sarah si affiancò a Tom e i due, mano nella mano, osservarono il dhow diventare sempre più piccolo, finché non riuscirono più a distinguere la figura alta e rigida di Guy. Poi la Swallow doppiò la punta, lasciandosi alle spalle il porto di Zanzibar, e il dhow scomparve alla loro vista. Wilbur Smith
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Dorian Courteney si alzò dopo aver pregato in ginocchio il Dio di suo padre. Camminando sull'orlo della parete rocciosa a strapiombo sul mare, si chinò per raccogliere un sassolino che aveva attirato la sua attenzione e, dopo averlo inumidito con la lingua, lo tenne sollevato alla luce del sole. Era un'agata rosa, striata di lievi venature azzurre e punteggiata da cristalli di una purezza adamantina: bellissima. Si protese per lasciarla cadere, poi la guardò precipitare in fondo all'abisso, con un salto di cinquecento piedi. Il sassolino rimpicciolì e scomparve prima di colpire la superficie del mare, senza sollevare spruzzi o increspature sulla superficie, senza lasciare traccia della sua esistenza, sebbene fosse una cosa così bella. All'improvviso, per la prima volta da quasi sette anni, Dorian pensò alla piccola Yasmini, che era scomparsa dalla sua vita allo stesso modo. Il vento faceva svolazzare la veste alle sue spalle, ma lui aveva i piedi ben piantati sul terreno e non temeva il precipizio che si spalancava ai suoi piedi. La parete spoglia di roccia rossa che s'innalzava sul mare era interrotta alla sua destra da una valle stretta. In fondo alla valle, abbarbicati alla riva, c'erano i palmeti, i tetti e le cupole bianche del villaggio di Shihr. Gli uomini di Dorian erano accampati poco più in alto nella valle, tra gli alberi bassi di acacia spinosa e le palme. Il fumo azzurrino dei loro fuochi da campo si levava nell'aria, formando viticci che salivano a incontrare il vento che soffiava sulla sommità della scogliera e che li disperdeva in direzione delle colline e delle dune del deserto. Dorian si riparò gli occhi con la mano per guardare verso il mare. Ormai le navi erano più vicine: quattro imponenti dhow con la poppa alta e le vele di stuoia intrecciata, la flotta del principe al-Malik. Erano in vista fin dall'alba, ma il vento era contrario e li costringeva a bordeggiare. Socchiuse gli occhi, valutando i loro progressi, e si rese conto che sarebbero trascorse molte ore prima che potessero entrare nella baia e approdare. Era impaziente e irrequieto. Da molto tempo non vedeva il principe, suo padre adottivo. Voltando le spalle all'orlo della scogliera, tornò indietro lungo il sentiero che conduceva a una tomba antica, eretta sulla sommità di quel promontorio roccioso, con la cupola sbiancata da cent'anni di sole del deserto. Wilbur Smith
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Al-Allama e gli sceicchi dei saar erano ancora immersi nella preghiera, con i tappeti da preghiera stesi all'ombra della tomba, rivolti in direzione della città santa che sorgeva centinaia di miglia a nord da quella terra arroventata dal sole. Dorian rallentò il passo, perché non desiderava arrivare mentre erano ancora immersi nelle loro devozioni. I saar erano all'oscuro del fatto che lui non era musulmano. Dietro istruzioni del principe, lo aveva tenuto nascosto durante il periodo in cui aveva vissuto in mezzo a loro. Sapeva che, se avessero intuito che era un infedele, non lo avrebbero mai accolto con tanta prontezza nella loro tribù. Erano convinti che avesse fatto voto, per penitenza, di non pregare con gli altri, ma di fare le sue devozioni ad Allah in solitudine; all'ora della preghiera, si allontanava sempre per addentrarsi nel deserto. Da solo, in ginocchio nel deserto, pregava il Dio di suo padre, anche se, col passare del tempo, le parole diventavano sempre più difficili e le preghiere sempre più formali. A poco a poco si stava impadronendo di lui la strana sensazione di essere stato abbandonato dal suo Dio. Stava perdendo la fede della fanciullezza, e questo lo faceva sentire confuso e turbato. Fermandosi in cima alla collina, osservò gli uomini che s'inginocchiavano e si prostravano all'ombra della moschea. Non era la prima volta che invidiava la loro fede incrollabile. Restando a distanza, attese che finissero di pregare e cominciassero a disperdersi. Quasi tutti salirono a cavallo per allontanarsi al trotto lungo il sentiero, scendendo al villaggio. Ben presto, vicino alla tomba, rimasero soltanto due uomini. Batula, il suo portatore di lancia, era vicino ai due cammelli, accovacciato con pazienza infinita nel piccolo riquadro d'ombra proiettato dagli animali. Lo scudo di bronzo era legato alla sella del cammello di Dorian, mentre la lunga lancia era infilata nella custodia di cuoio, con la punta lucente al sole e lo stendardo verde svolazzante. Il suo jezail era chiuso nel fodero di cuoio. Quelli erano tutti gli armamenti del guerriero del deserto. Lo aspettava anche al-Allama, seduto al riparo del vento su una sporgenza di roccia rossa. Dorian si diresse verso di lui, risalendo il sentiero. Nella barba del mullah si vedevano le prime striature grigie, ma aveva ancora la pelle liscia e, nonostante quei mesi di faticose cavalcate e razioni modeste, la circonferenza della sua pancia non era ancora diminuita. Piegò la testa di lato, mentre osservava al-Salil, «la spada Wilbur Smith
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sguainata», che veniva verso di lui. Al-Salil era alto, ormai, e sotto la lunga tunica svolazzante il suo corpo era snello e forte, temprato dal deserto. Avanzava con passo lungo e ondulato, simile all'andatura di un cammello da corsa, lasciando trasparire l'autorità e l'abitudine al comando dalla posizione delle spalle e dal portamento della testa velata. «Il suo nome è stato ben scelto», mormorò al-Allama. Quando Dorian lo raggiunse, gli rivolse un cenno d'invito e il giovane si lasciò cadere vicino a lui sulla roccia, con le gambe ripiegate sotto il corpo, sedendosi con la stessa grazia disinvolta di uno dei saar, la spada ricurva chiusa nel fodero di cuoio e d'argento posata di traverso sulle ginocchia. Si vedevano soltanto gli occhi, mentre il resto del viso era coperto dal lembo di stoffa del copricapo, appoggiato mollemente sul naso in modo da coprire la bocca e il mento. Gli occhi erano penetranti, di un verde intenso, non iniettati di sangue, nonostante la sabbia e il riverbero accecante del deserto. Lentamente Dorian scoprì il viso per sorridere al mullah. «È bello riavervi tra noi. Mi siete mancato, santo padre. Qui non c'è nessuno con cui discutere, e la mia vita è stata davvero noiosa.» «Noiosa?» ribatté al-Allama nascondendo un sorriso. «Non è quello che mi hanno detto gli sceicchi sul tuo soggiorno qui. La tua lancia ha ucciso sedici nemici.» Dorian si accarezzò la barba, una massa di riccioli ardenti come il rame appena fuso, che crepitavano sotto le sue dita nell'aria secca del deserto. «Gli ottomani sono facili da uccidere», disse in tono modesto, ma il sorriso continuò ad aleggiargli sulle labbra. È ancora attraente come il bambino che ho visto per la prima volta sull'isola di Daar al-Shaitan. Il mullah studiò il suo volto, notando la fronte alta e pensierosa tipica dello studioso, in contrasto con la linea dura della bocca e della mascella, che rivelava il guerriero e il condottiero. «Perché mi avete portato qui, vecchio padre?» chiese Dorian, proteso in avanti per scrutarlo negli occhi. «C'è sempre una ragione in tutto ciò che fate.» Al-Allama si lasciò sfuggire un lieve sorriso, rispondendo a sua volta con una domanda: «Lo sai di chi è questa tomba?» Dorian alzò gli occhi sulla cupola logorata dalle intemperie e sulle mura cadenti. «La tomba di un sant'uomo», rispose con una scrollata di spalle. Ce n'erano tante, di quelle antiche tombe, alcune poste a guardia delle oasi Wilbur Smith
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sparse nell'interno, altre sulle pareti di roccia e sulle colline scoscese lungo la costa di Oman, nell'Arabia meridionale. «Sì», confermò al-Allama. «È la tomba di un sant'uomo.» «Non riesco a leggere il nome», disse Dorian, perché quasi tutte le iscrizioni sul muro erano state erose dai venti carichi di sabbia. Ce n'erano molte, di cui alcune citazioni dal Corano, mentre altre non riusciva a riconoscerle. Forse erano le parole del defunto stesso. Alzandosi, al-Allama cominciò a girare intorno alla tomba, soffermandosi a decifrare tutte le iscrizioni ancora leggibili. Un attimo dopo, Dorian si alzò per seguirlo. «Qui c'è una citazione del santo che giace nella tomba. Forse può interessarti», disse al-Allama, indicando un punto in alto sul muro. Dorian ne decifrò a fatica una parte. «'L'orfano che viene dal mare'», lesse a voce alta, mentre al-Allama annuiva in segno d'incoraggiamento. «'Con la lingua e la corona del Profeta...'» S'interruppe. «Non riesco a leggere la riga seguente. È troppo corrosa.» «'Con la lingua e la corona del Profeta, ma con le tenebre nel cuore pagano'», completò al-Allama. Dorian si avvicinò al muro, scrutandolo da vicino. «'Quando la luce colmerà il cuore pagano, riunirà le sabbie del deserto che sono divise, e il padre giusto e pio cavalcherà il dorso dell'elefante'», lesse, poi si riavvicinò al mullah. «Che cos'è? Non mi sembra di riconoscere le parole del Corano. Il metro funziona, ma non ha senso... Che cosa sono 'la lingua e la corona del Profeta'? Come può un orfano avere un padre? E che c'entra il dorso dell'elefante?» «Il Profeta era coronato di capelli rossi, e ovviamente la sua lingua era l'arabo, la lingua sacra», gli fece notare al-Allama, alzandosi. «Nel palazzo di Muscat si trova il Trono dell'Elefante di Oman, ricavato da possenti zanne d'avorio. Lascerò a te il compito di meditare sul resto della profezia. Anche uno studente ottuso come al-Salil, applicandosi, dovrebbe essere in grado di trovare una soluzione all'enigma del santo Taimtaim.» «Taimtaim!» esclamò Dorian. «Allora questa è la tomba del santo?» Fissò quell'iscrizione erosa dal vento, e il nome del santo gli apparve come una figura intravista attraverso una fitta nebbia. «Questa è la profezia! Sono queste le parole che hanno forgiato la mia vita!» Provava un senso di rispetto reverenziale, unito però a un certo risentimento, dovuto al pensiero di tutto ciò di cui era stato privato e di tutte le sofferenze che aveva dovuto Wilbur Smith
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patire a causa di quelle poche parole oscure, scritte tanto tempo prima e ormai quasi illeggibili. Avrebbe voluto sfidarle, protestare e rifiutarle, ma al-Allama era già arrivato a metà della discesa verso la valle, lasciandolo in quel luogo desolato, solo di fronte al suo destino. Dorian rimase lì per lunghe ore, a tratti camminando furioso lungo le mura della tomba, in cerca di altre iscrizioni che gli fornissero qualche altro brandello di verità. Le leggeva a voce alta, mettendo alla prova il suono delle parole, più che il senso, tentando d'intuire i significati nascosti che vi erano celati. A volte invece si accovacciava per studiare una singola parola o frase e poi scattava di nuovo in piedi, tornando a studiare l'iscrizione che al-Allama gli aveva indicato. «Se sono davvero io l'orfano di cui parli, ti sbagli di grosso, vecchio. La tua profezia non potrà mai applicarsi a me. Io sono cristiano, e non accetterò mai l'Islam», disse ad alta voce, quasi a sfidare le parole del santo. «Non riunirò mai le sabbie del deserto, qualunque cosa ciò significhi.» «Signore!» La voce di Batula interruppe infine la sua meditazione, spingendolo ad alzarsi. «Le navi.» Batula indicò il mare ai piedi del precipizio. «Stanno entrando nella baia.» Aveva fatto alzare i cammelli, spingendoli verso l'inizio del sentiero. Dorian si mise a correre, raggiungendoli senza fatica prima che cominciassero la discesa, e chiamò la sua cavalcatura, una femmina, nel momento in cui le si affiancava a lunghi balzi. «Ibrisam! 'Vento di seta'!» Al suono della sua voce, lei girò la testa per guardarlo, con i grandi occhi scuri frangiati da ciglia lunghissime, ed emise un lungo verso amorevole di saluto. Era una nobile Sherari, dalla gobba elegante. Lui balzò agilmente sulla sella alta, a sette piedi da terra, con un unico movimento aggraziato e leggero, sfiorò il collo della bestia con la punta del lungo bastoncino che usava per guidarla e spostò in avanti il proprio peso sulla sella, ricoperta del più fine cuoio Nejd e decorata in modo sfarzoso, con piccole nappe e cordoncini tinti in varie sfumature di rosso, giallo e blu, oltre che corredata da reticelle intrecciate e adorne di stelle d'argento e maglia di metallo. Ibrisam rispose docilmente al suo tocco e al suo movimento, assumendo quell'andatura elegante e confortevole che una volta aveva portato il suo padrone a percorrere dieci miglia l'ora per diciotto ore senza neanche una sosta, dall'estremità di Wadi Taub, attraverso la spettrale piana di Mudhail, costellata dalle ossa calcinate delle carovane che avevano smarrito la strada, fino alle acque salmastre dell'oasi di Ma Shadid. Wilbur Smith
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Ibrisam amava Dorian con la fedeltà di un cane. Dopo un'intera giornata di cammino attraverso le terribili sabbie del deserto, non riusciva a dormire se lui non riposava al suo fianco. Per quanto intensa fosse la sete o la fame, smetteva di bere o di pascolare per andargli incontro e solleticarlo col muso, implorando da lui una carezza o il conforto della sua voce. Scesero come in volo il sentiero, superando al-Allama che non aveva ancora raggiunto il fondo della valle. L'intero accampamento era in subbuglio: i cammelli rumoreggiavano e gli uomini gridavano e ululavano, sparando in aria per la gioia mentre si riversavano verso la spiaggia attraverso i palmeti. Il cammello portò Dorian in testa a quella processione disordinata, attraversando le sabbie dorate fino a raggiungere la battigia. Quando il principe al-Malik sbarcò dal dhow, fu Dorian il primo a corrergli incontro per salutarlo. Lasciando scoperto il volto, s'inginocchiò per baciare l'orlo della veste del principe. «Possano tutti i vostri giorni essere indorati dal sole della gloria, signore. Troppo a lungo i miei occhi sono stati privati della vista del vostro volto.» Il principe lo invitò ad alzarsi, fissandolo negli occhi. «Al-Salil! Non ti avrei riconosciuto, se non fosse per il colore dei tuoi capelli, figlio mio.» Abbracciò Dorian, stringendolo al petto. «Mi rendo conto che tutti i rapporti che ho ricevuto su di te sono veri. Sei diventato davvero un uomo.» Poi il principe si dedicò a salutare gli sceicchi dei saar, che si fecero avanti, circondandolo. Dopo averli abbracciati a uno a uno, si avviò verso la valle, seguito da una processione trionfale. I guerrieri del deserto stendevano ai suoi piedi fronde di palma, invocando benedizioni su di lui, o gli baciavano l'orlo della veste e sparavano in aria con i fucili. Vicino al pozzo, al riparo del palmeto, era stata eretta una tenda di cuoio abbastanza grande da accogliere cento uomini. I lati della tenda erano aperti per consentire il passaggio alla brezza della sera che soffiava dal mare e il terreno sabbioso era ricoperto di tappeti e cuscini. Il principe prese posto al centro, mentre gli sceicchi si riunivano attorno a lui. Gli schiavi portarono brocche piene d'acqua attinta al pozzo per lavarsi le mani e, dopo le abluzioni, offrirono enormi vassoi di bronzo carichi di cibo. C'erano montagne di riso giallo, che nuotava nel grasso di cammello, e fragranti stufati di carne di montone e spezie. Al-Malik prese un boccone da ogni piatto, usando con grazia la mano destra; alcuni li assaggiava lui stesso, altri li distribuiva agli uomini intorno Wilbur Smith
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a lui. Questo era un onore, un segno del suo favore personale, e quei guerrieri dal volto rapace e temprato dal sole del deserto, che non avrebbero saputo neanche contare le cicatrici impresse sul loro volto e sul loro corpo, lo trattavano col rispetto e l'affetto che i figli amorevoli mostrano nei confronti del padre. Quando ebbero finito di mangiare, il principe fece segno che i piatti ancora colmi di cibo fossero portati fuori e distribuiti tra le schiere di guerrieri che erano accovacciati all'aperto, in modo che anche loro potessero partecipare al banchetto. Il disco rosso del sole scivolò dietro le colline, e gli sceicchi si strinsero al principe, passandosi di mano in. mano il bocchino d'avorio della pipa ad acqua, mentre le dense volute di fumo del tabacco turco si gonfiavano intorno al loro capo. Alla luce gialla delle lampade, cominciarono a parlare. Il primo a prendere la parola disse: «La Porta ha inviato un esercito di quindicimila uomini a conquistare Muscat e Yaqub ha aperto loro le porte della città». La Sublime Porta era la possente autorità dell'impero turco ottomano, che aveva sede nella lontana Istanbul. Il fratello maggiore di alMalik, Al Uzar Ibn Yaqub, debole e dissoluto califfo di Oman, a Muscat, aveva infine capitolato di fronte agli ottomani senza neanche attaccare battaglia. Allah soltanto sapeva quali ricompense e assicurazioni avesse ricevuto; in ogni caso, aveva dato il benvenuto all'esercito occupante nella sua città, esponendo a un rischio terribile la libertà e l'indipendenza di tutte le tribù del deserto. «È un traditore, Allah mi è testimone! Ci ha venduti in schiavitù», esclamò un altro degli sceicchi, e tutti lanciarono un ringhio, come un branco di leoni, guardando al-Malik. «È mio fratello ed è il califfo», replicò il principe. «Sono vincolato a lui da un giuramento.» «Perdio, non è più il sovrano di Oman», protestò un altro sceicco. «È diventato l'uomo di paglia della Porta.» «Proprio lui, che ha sodomizzato mille ragazzini, si è prostituito ai turchi», convenne un altro. «In seguito al suo tradimento, voi, e tutti noi, siamo svincolati dal giuramento di fedeltà.» «Guidateci, o potente signore», incalzò un altro ancora. «Siamo ai vostri ordini. Guidateci alle porte di Muscat e vi aiuteremo a scacciare gli ottomani, ponendovi sul Trono dell'Elefante di Oman.» Wilbur Smith
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Uno dopo l'altro, parlarono tutti, e tutti dissero la stessa cosa: «Vi abbiamo pregato di venire da noi, ora vi preghiamo di guidarci». «Noi saar vi giuriamo fedeltà. Possiamo mettere insieme tremila lance per marciare dietro di voi.» «E le altre tribù?» chiese il principe, non volendo prendere una decisione affrettata. «Che cosa mi dite degli awamir e dei bait imani? E i bait kathir? E gli harasis?» «Noi saar non possiamo parlare a nome loro», gli risposero, «perché esiste una faida sanguinosa tra noi e molte di queste popolazioni. Ma i loro sceicchi vi aspettano nel deserto. Andate da loro e, ad Allah piacendo, brandiranno anche loro la lancia di guerra e marceranno con noi fino a Muscat.» «Comunicateci la vostra decisione», lo implorarono poi. «Diteci che cosa avete deciso e vi giureremo fedeltà.» «Vi guiderò io», rispose il principe con semplicità. I loro volti scuri e rugosi s'illuminarono di gioia e, uno dopo l'altro, s'inginocchiarono davanti a lui, baciandogli i piedi e sfiorando con le labbra il pugnale ricurvo che lui teneva proteso. Poi lo presero per le mani, attirandolo in piedi e conducendolo fuori della tenda, verso i guerrieri in attesa al chiaro di luna. «Ecco il nuovo califfo di Oman», dissero ai loro uomini, che lanciarono grida di esultanza, giurandogli fedeltà e scaricando in aria i fucili. I tamburi di guerra cominciarono a rullare, e il suono arcano dei corni d'ariete echeggiò dalle pareti di roccia scura al di sopra del palmeto. In mezzo a quel trambusto gioioso, Dorian si avvicinò al padre per abbracciarlo. «Io e i miei uomini siamo pronti per condurvi all'incontro con gli sceicchi awamir, presso i pozzi di Muhaid.» «Allora partiamo, figlio mio», replicò il principe, accettando l'invito. Dorian lo lasciò per avviarsi nel folto del palmeto, chiamando i suoi uomini: «In sella! Si parte subito!» Corsero verso i cammelli, chiamandoli per nome, e all'istante l'intera valle fu in subbuglio, mentre levavano l'accampamento. I cammelli, caricati di otri pieni d'acqua, lanciarono versi sonori, e le tende si afflosciarono, prima di essere ripiegate e preparate per il viaggio. Prima del sorgere della luna nuova, nella frescura della notte, furono pronti a mettersi in marcia, una lunga colonna di uomini chiusi nei mantelli e nei copricapi di stoffa, in sella alle cavalcature dalle lunghe zampe. Il cammello riservato al principe era una femmina color crema: Wilbur Smith
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non appena lui fu montato, Dorian le ordinò di alzarsi, e lei si riscosse con un grugnito. Al-Malik si teneva in sella con disinvoltura; nato nel deserto e guerriero fin dalla prima giovinezza, offriva un'immagine di nobile eleganza, sotto i primi raggi della luna nascente. Dorian mandò in avanscoperta un gruppo di venti uomini, destinò un altro gruppo alla retroguardia, poi si avviò, cavalcando a fianco del principe mentre la colonna risaliva la valle per addentrarsi nel deserto. Procedevano veloci, perché erano tutti in sella a cammelli da corsa, col bagaglio ridotto al minimo, fatta eccezione per gli otri dell'acqua. Si arrampicarono in fretta, uscendo dalla valle, e il deserto si stese davanti a loro, infinito e silenzioso, tutto colline scure di roccia violacea e dune rilucenti di sabbia argentata che si stendevano a perdita d'occhio verso il nord. In alto, sopra il serpente ondulato di uomini e di animali, si spiegava un campo abbagliante di stelle, fitte come le pratoline che spuntano subito dopo la pioggia. La sabbia attutiva il suono dei cuscinetti delle zampe dei cammelli, e gli unici rumori che si udivano erano il cigolio del cuoio e qualche voce sommessa che ammoniva: «Attenzione, buca!» Dorian cavalcava tranquillamente, cullato dall'andatura ritmica di Ibrisam, mentre il deserto si snodava davanti a lui come un tappeto ruvido, miglio dopo miglio. Le colline scure che li circondavano assumevano forme strane e prodigiose, piene di ombre e di mistero, e le stelle e la mezzaluna dell'Islam guidavano il loro cammino nella notte. Stranamente, quelli erano i momenti in cui si sentiva più vicino al suo passato, in cui gli sembrava di avere ancora accanto a sé la presenza di Tom. Quante notti avevano trascorso insieme sotto il firmamento stellato, quando erano ragazzi a bordo della vecchia Seraph, appollaiati tra le sartie. Erano stati Aboli, Big Daniel e Ned Tyler a insegnargli i nomi di tutte le stelle utili alla navigazione, che ora recitava a bassa voce. Quante di loro avevano nomi arabi: Al Nilaim, Al Nitak, Mintaka, Saif... Cavalcando in compagnia dell'uomo che era diventato suo padre e di quei guerrieri dal viso di falco che erano ai suoi ordini, Dorian meditò sull'antica profezia del santo Taimtaim, sulle parole che aveva letto sulle mura cadenti dell'antica tomba del saggio, e si sentì invadere lentamente da un senso quasi religioso di fatalismo, al pensiero del destino immutabile che lo attendeva sotto quei cieli deserti. Si fermarono dopo mezzanotte, quando il grande Scorpione era basso Wilbur Smith
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sulle colline di pietra. Uno degli sceicchi saar si presentò al principe per congedarsi e rinnovargli il suo giuramento di fedeltà. «Vado a chiamare alle armi i miei uomini», annunciò ad al-Malik, promettendo: «Prima che questa luna sia piena, vi verrò incontro ai pozzi di Ma Shadid, con cinquecento lance al seguito». Dopo aver seguito con gli occhi il suo cammello che si allontanava a oriente, perdendosi nelle ombre purpuree della notte, ripresero il cammino. Per altre due volte, durante la notte, altri sceicchi si staccarono dalla colonna principale e, dopo aver chiesto allo sceicco la sua benedizione, si allontanarono sulle sabbie del deserto, congedandosi con la promessa d'incontrarsi al plenilunio ai pozzi di Ma Shadid. Proseguirono il cammino finché non s'imbatterono in un campo rigoglioso di zahra, spuntata nella zona in cui, mesi prima, un temporale circoscritto aveva irrigato un minuscolo lembo del deserto. Allora si fermarono per lasciare i cammelli liberi di pascolare, mentre gli uomini tagliavano grandi fasci di zahra - «il fiore», perché quello era il foraggio migliore per i cammelli -, molto apprezzata dagli arabi. Dopo aver caricato sulle cavalcature le fascine di foraggio, ripresero il viaggio fino a quando l'alba non colorì l'orizzonte di rosa e di arancio a oriente. Si fermarono di nuovo, stavolta per accamparsi, far riposare i cammelli e nutrirli con la zahra che avevano raccolto. Prepararono il caffè e le focacce sui fuochi fumosi, alimentati con lo sterco secco di cammello, e, dopo mangiato, si stesero a riposare, avvolti nei mantelli, per trascorrere dormendo le ore di caldo torrido, quando le rocce danzavano nel liquido fluttuare dei miraggi creati dal calore. Dorian si stese a fianco di Ibrisam, lasciandosi cullare dal suono familiare dei suoi rutti e delle mascelle che si muovevano mentre ruminava. Dormì bene e si svegliò soltanto a sera, quando l'aria cominciava a rinfrescare. Mentre la colonna si destava, preparandosi alla lunga marcia notturna, Dorian inviò in ricognizione una piccola pattuglia al comando di Batula, perché ispezionasse il percorso che dovevano seguire. Poi montò in sella a Ibrisam, tornando sui suoi passi per accertarsi che nessuno li seguisse. Era così che si doveva procedere in quella terra dura e ostile, dove le tribù vivevano in un perpetuo stato di guerra, dove le razzie di cammelli e di donne erano un aspetto normale e lo stato di allerta era il fulcro dell'esistenza di tutti. Dorian si accertò che la pista che avevano percorso fosse libera, quindi Wilbur Smith
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tornò indietro, spingendo Ibrisam al trotto e raggiungendo ben presto la colonna principale. Dopo mezzanotte, arrivarono ai pozzi amari di Ghail ya Yamin, dove si trovava già un piccolo accampamento di saar, che uscirono dalle loro tende per circondare il cammello del principe, ululando e sparando in aria per manifestare la loro gioia. Rimasero accampati due giorni sotto le striminzite palme da datteri di Ghail ya Yamin, la cui acqua era così salmastra che si poteva bere soltanto mescolandola al latte di cammella. Gli uomini dovevano scavare in profondità per raggiungere l'acqua, portandola in superficie negli otri di pelle per abbeverare gli animali. Dopo la lunga giornata trascorsa senza bere, i cammelli la consumarono avidamente. Ibrisam si abbeverò più volte, consumando fino a venticinque galloni d'acqua in poche ore. Anche gli ultimi sceicchi saar si staccarono dalla colonna per disperdersi nel deserto alla ricerca dei loro uomini, lasciando il principe al-Malik con la sola scorta del piccolo esercito di Dorian, che doveva guidarlo e proteggerlo nell'ultima tappa del viaggio per incontrare gli awamir, ai pozzi di Muhaid. Ci vollero tre notti di viaggio per attraversare le distese di sale ai piedi delle colline di Shiya; al chiaro di luna, apparivano bianche come un campo di neve e i cuscinetti delle zampe dei cammelli lasciavano un'impronta scura su quella superficie lucente. Al mattino del terzo giorno videro le colline sorgere dinanzi a loro sotto forma di una pallida linea azzurrina, seghettate come le zanne di uno squalo tigre sullo sfondo luminoso dell'aurora. Per quel giorno si accamparono in uno uadi poco profondo, dove un gruppo di alberi spinosi di ghaf assicurava un minimo di riparo dal sole. Prima di stendersi a dormire, Dorian salì sul ciglio dello uadi per osservare la linea delle colline che si profilava davanti a loro, con le rocce rossastre e irregolari messe in evidenza dai raggi del sole che sorgeva. Le colline di Shiya segnavano il confine tra il territorio dei saar e quello degli awamir. Dorian scorse la cima che somigliava alla torretta di un castello e che i saar chiamavano la «Torre della Strega»: contrassegnava il passo tra i monti che avrebbe permesso loro di accedere al territorio degli awamir. Sorrise, soddisfatto di sé perché era riuscito a condurre la colonna attraverso la pianura priva di piste direttamente fino al passo, poi si alzò e ridiscese nello uadi, in cerca di ombra e di riposo per tutto il giorno. Quella sera, quando la colonna fu pronta a riprendere la marcia, Dorian Wilbur Smith
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tornò indietro come al solito per ispezionare il tratto di strada già percorso e, a mezzo miglio dal campo, s'imbatté nelle tracce di un cammello estraneo alla loro carovana. Ormai era diventato un conoscitore così esperto delle vie del deserto da ravvisare le tracce di ognuna delle bestie della loro colonna. Quei segni indicavano che il cavaliere sconosciuto arrivava da ovest e aveva incrociato il loro percorso. Dorian lesse nelle impronte che era sceso di sella per esaminare la loro pista, poi, montato di nuovo sulla sua cavalcatura, aveva seguito la pista per quasi due miglia, prima di deviare verso un basso affioramento di scisto che s'innalzava come la spina dorsale di un elefante sulla bianca distesa di sale. Al riparo di quel rilievo aveva fatto sostare il cammello per strisciare verso la cima: i segni sinuosi che aveva lasciato erano chiarissimi agli occhi di Dorian. Seguendoli fino alla sommità di quella cresta, aveva scoperto che essa sovrastava l'accampamento tra gli alberi di ghaf dove la colonna aveva trascorso la giornata. Dorian vide che lo sconosciuto era rimasto per un certo tempo sulla cresta, prima di tornare indietro di corsa fino al punto in cui aveva impastoiato il cammello, e di lì era ripartito, descrivendo un ampio circolo intorno all'accampamento e poi puntando direttamente verso le colline di Shiya e la Torre della Strega che sovrastava il passo. La spia aveva almeno otto ore di vantaggio sulla colonna, e ormai doveva avere raggiunto il passo. Quella scoperta era allarmante. La notizia dell'arrivo di al-Malik e del suo viaggio nel deserto per incontrare i capi delle tribù doveva essere giunta quasi certamente al califfo di Muscat e ai suoi alleati ottomani, che potevano aver mandato alcune truppe a intercettarli, e il punto più logico per tendere un'imboscata era il passo della Torre della Strega. Dorian impiegò soltanto pochi minuti per stabilire una linea d'azione; risalito in sella a Ibrisam, la spinse al galoppo, cosicché attraversarono velocemente la pianura bianca di sale e in brevissimo tempo vide davanti a sé la colonna, una fila di ombre scure sul terreno lucente. La retroguardia cercò d'intercettarlo quando li raggiunse, poi riconobbero Ibrisam. «È alSalil!» urlò qualcuno. «Dov'è Batula?» gridò Dorian non appena fu a portata di udito. Il portatore di lancia lo raggiunse al galoppo e, non appena giunse al fianco del suo padrone, respinse all'indietro il velo per scoprire il viso. «Venite in gran fretta, padrone. C'è pericolo?» «Uno sconosciuto cavalca nella nostra ombra», rispose Dorian. «Ci ha Wilbur Smith
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spiati da lontano mentre eravamo accampati, poi si è allontanato in direzione del passo, forse per preavvertire gli uomini che ci aspettano lì.» Spiegò in fretta a Batula quello che aveva scoperto, poi lo mandò, insieme con due compagni, a seguire le tracce dello sconosciuto. Li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano, quindi spinse avanti Ibrisam per affiancarsi al principe. Al-Malik ascoltò con attenzione il rapporto di Dorian. «I nemici sono molti», commentò infine. «Quasi certamente questi sono i servi degli ottomani, oppure di mio fratello, il califfo di Muscat; Allah sa che sono tanti coloro che vorrebbero impedirmi di raggiungere le tribù dell'interno. Che cosa mediti di fare, figlio mio?» Dorian puntò il dito in avanti. Le colline di Shiya formavano una barriera ininterrotta, innalzandosi a cinquecento piedi di altezza sopra le pianure salate. «Signore, non sappiamo quanti nemici ci aspettino lassù. Io ho trenta uomini, che possono affrontare senza timori un numero di avversari doppio o triplo. Tuttavia, se gli ottomani hanno avuto sentore del vostro viaggio, possono aver inviato un esercito intero a cercarvi.» «È probabile.» «Il passo della Torre della Strega è la strada principale, e anche la più breve, che passa tra le colline per raggiungere il territorio degli awamir, ma c'è anche un altro passo, più a ovest.» Dorian indicò un punto nella pianura argentea. «È conosciuto col nome di passo della Gazzella Leggiadra e, per raggiungerlo, sarà necessaria una deviazione di molte leghe... Tuttavia non posso correre il rischio di passare dalla Torre della Strega e restare intrappolato nella gola da un grande esercito ottomano.» Al-Malik annuì. «Quanto dista quest'altro passo, da qui? Possiamo raggiungerlo prima della sosta del giorno?» «No», rispose Dorian. «Anche spingendo i cammelli al massimo dell'andatura, non saremo laggiù prima della metà della mattinata.» «Allora andiamo», decise al-Malik. Dorian si spinse in testa alla colonna, lanciando un richiamo agli uomini dell'avanguardia per ordinare loro di deviare a occidente. Serrando le file e mantenendo il principe al centro dello schieramento, con tutti gli uomini all'erta in vista di un'imboscata, lanciarono i cammelli. Gli animali erano ancora forti e riposati e i cristalli di sale scricchiolavano sotto le zampe. Mentre correvano verso la meta, si levò una nuvola bianca di polvere sottile, che scintillava dietro di loro nell'aria immobile della notte. Wilbur Smith
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Si fermarono per una breve sosta poco dopo mezzanotte, in modo che i cammelli riprendessero fiato e gli uomini potessero bere ciascuno una tazza di acqua mista a latte di cammella, poi ripresero la corsa. Nell'ora più buia della notte, quattro ore prima del levar del giorno, si udì un grido di allarme dai cavalieri della retroguardia, e Dorian tornò verso la coda della colonna. «Che c'è?» domandò, ma s'interruppe, vedendo il gruppetto scuro di cammelli che avanzavano verso di loro nella notte. Erano pochissimi, ma potevano essere l'avanguardia di un esercito. «Serrate le file!» ordinò allora, allentando il fodero di cuoio che racchiudeva l'impugnatura della lancia. In pochi istanti la colonna si dispose in formazione difensiva, col principe al centro in modo da poterlo proteggere. Poi Dorian spinse Ibrisam in avanti, sfidando gli uomini che si avvicinavano a farsi riconoscere. «Al-Salil!» La risposta fu immediata, e lui riconobbe la voce di Batula. «Batula!» Si fece avanti per incontrare il suo portatore, anche lui lanciato al galoppo, poi voltò Ibrisam per affiancarsi alla cavalcatura di Batula in modo da poter parlare. «Che notizie mi porti?» «Una spedizione di guerra. Molti uomini», rispose Batula. «Aspettavano alla Torre della Strega.» «Quanti?» «Cinquecento, forse più.» «Chi?» «Turchi e masakara.» I masakara formavano la tribù dei territori costieri intorno a Muscat e Sur. Dorian ormai non aveva più dubbi che fossero uomini del califfo, specie se con loro c'erano i turchi. «Accampati?» «No, correvano al nostro inseguimento.» «Come hanno saputo che abbiamo cambiato direzione?» «Probabilmente dispongono di numerosi esploratori che ci spiano e che hanno visto la vostra nuvola di polvere da molte miglia di distanza. Brilla come un faro, al chiaro di luna.» Alzando la testa, Dorian vide la nube di polvere oscurare per metà il cielo sopra di loro. «A che distanza ti seguono?» chiese. Batula spinse indietro il velo che gli proteggeva il viso, sorridendo alla luce delle stelle. «Se fosse giorno, potreste vedere chiaramente la loro nuvola di polvere. Allentate la lancia, al-Salil, perché ci sarà battaglia prima che il sole tramonti domani.» Wilbur Smith
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Continuarono la corsa per tutta la notte, finché l'alba non colorì il cielo a oriente e la luce cominciò a diventare intensa. «Proseguite!» gridò Dorian rivolto al principe, mentre si allontanava dalla colonna, lanciando Ibrisam verso una chiazza di lava scura che spuntava bruscamente dalla pianura bianca, alla loro sinistra. Non appena la raggiunse, balzò giù dalla sella e si arrampicò in cima a quel mucchio di rocce. L'alba divampò davanti ai suoi occhi e la luce si diffuse in un baleno, con la prodigiosa repentinità del giorno sul deserto. Le colline selvagge di Shiya sorgevano alte e seghettate davanti a lui, dispiegando una tavolozza di colori degna di un uccello tropicale, dall'oro al rosso, con fasce violacee e pennellate scarlatte. Riusciva a scorgere chiaramente il passo della Gazzella Leggiadra, un solco blu che tagliava nettamente la parete di rocce scabre dalla sommità fino alla base. Le sabbie bianche si erano accumulate ai piedi delle colline, formando una rampa in pendio, e il vento aveva modellato le dune sottostanti la parete di roccia, creando forme bizzarre e fantastiche. Poi Dorian si volse a guardare indietro, nella direzione da cui erano venuti, e scorse la nube di polvere, sollevata dai turchi, che si gonfiava sulla pianura scintillante alle sue spalle. In quel momento, il sole scoccò la prima freccia di luce attraverso un varco nella cresta delle colline. Anche se lui era ancora in ombra, la pianura alle sue spalle era illuminata e ciò gli permise d'individuare la luce del sole che scintillava sulle punte di lancia dei cavalieri che si avvicinavano. «Batula si sbagliava», mormorò. «Sono più di cinquecento, molti di più. Mille, forse.» Erano sparsi lungo un fronte ampio, divisi in molti squadroni di cavalleria, alcuni seminascosti dalla polvere sollevata dai primi. «Ci dev'essere stato un traditore», sussurrò. «Non avrebbero mandato una schiera così numerosa, se non avessero saputo con certezza che il principe veniva da questa parte.» Lo squadrone nemico più vicino era verso il centro dello schieramento, un piccolo gruppo che aveva superato il grosso delle forze, lasciandoli alle spalle. Erano tanto vicini che Dorian, oltre la cortina di polvere, poteva distinguere le sagome dei cammelli e dei cavalieri. Non riuscì a contarli, ma calcolò che quel gruppo doveva comprendere almeno duecento uomini e, a giudicare dal modo in cui cavalcavano, erano combattenti di valore. Socchiudendo gli occhi, cercò di valutare la loro velocità in confronto al Wilbur Smith
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passo della sua colonna in fuga. Quei cammelli erano freschi e scattanti, mentre i suoi avevano corso per tutta la notte e non bevevano da quando si erano fermati ai pozzi di Ghail ya Yamin. I nemici stavano guadagnando terreno, e raggiungere prima di loro il passo della Gazzella Leggiadra sarebbe stata un'impresa non da poco. Correndo verso il punto in cui Ibrisam lo aspettava, balzò in sella, e lei scattò al tocco della bacchetta, lanciandosi all'inseguimento della colonna. Quando emerse dal riparo delle rocce, gli inseguitori lo scorsero, e Dorian sentì le loro grida di guerra, fioche ma bellicose, trasportate fino a lui dall'aria fresca del mattino. Allora si girò sulla sella, guardando indietro appena in tempo per scorgere gli sbuffi di fumo mentre i tiratori delle prime file gli sparavano addosso. La distanza era eccessiva, tanto che non sentì neppure il fischio dei proiettili. Ibrisam, «vento di seta», continuò indisturbata la sua corsa, riunendosi al gruppo proprio all'inizio della rampa sabbiosa che conduceva ai piedi delle pareti di roccia. Era un pendio sdrucciolevole, composto da particelle cristalline che cedevano sotto il peso dei cammelli, scorrendo all'indietro come acqua. La colonna si sgranò nel corso della salita: per ogni passo in avanti, tornavano indietro di mezzo e i cammelli lanciavano gemiti spaventati su quel terreno infido. Uno degli animali di testa scivolò, finendo accovacciato sul terreno e, nel balzo frenetico che fece per rialzarsi, rotolò all'indietro, schiacciando il cavaliere sotto la sella. Dorian era abbastanza vicino da sentire le grida e lo schiocco delle ossa, quando le gambe dell'uomo si spezzarono. Poi la bestia fu trascinata all'indietro dal suo stesso peso, fino alla base della rampa, lasciando sparsi dietro di sé sul pendio gli otri dell'acqua, insieme con altri pezzi di attrezzatura, e travolgendo il cavaliere, rimasto impigliato nei finimenti. Dorian balzò a terra e, con la spada, liberò il ferito. Batula, accortosi di quello che stava facendo, tornò indietro per aiutarlo. La sua cavalcatura scese slittando lungo il pendio, in mezzo a una scia di sabbia, e Batula, arrivato in fondo, smontò accanto a Dorian. In due, sollevarono l'uomo con le gambe fratturate, issandolo in groppa a Ibrisam. La coda della colonna era già arrivata a metà del pendio, mentre il principe e l'avanguardia avevano raggiunto la base delle rocce e stavano scomparendo nella buia fenditura del passo che attraversava le colline. Dorian afferrò Ibrisam per la cavezza, facendole voltare la testa per Wilbur Smith
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risalire lungo la duna. Lanciando un'occhiata alla pianura, comprese che gli inseguitori stavano per raggiungerli. Allora, lanciate le cavalcature a tutta velocità, con la polvere che sembrava ribollire sotto i cuscinetti delle zampe, i cavalieri presero a sollevare le armi, lanciando grida di guerra, con le vesti e la barba al vento, tutti protesi nello sforzo di agguantarli mentre risalivano faticosamente quel pendio insidioso. D'un tratto, dall'alto, giunse una salva di spari di fucile. Non appena raggiunta l'imboccatura del passo, il principe aveva radunato gli uomini, e le detonazioni degli spari echeggiarono rimbombando lungo la parete rocciosa. Dorian vide almeno tre dei cavalieri lanciati all'attacco sbalzati di sella dai pesanti proiettili di piombo. Uno dei cammelli di certo fu colpito al cervello, perché cadde in modo così repentino da compiere una capriola, sbalzando in aria il suo cavaliere e abbattendosi poi, privo di vita, sul terreno compatto. Sotto quell'attacco improvviso, la carica perse impeto e velocità e, mentre Dorian e Batula risalivano a fatica il pendio, un'altra raffica di colpi partì sopra la loro testa in direzione degli assalitori. Rispose una scarica sostenuta di colpi dalla base delle dune: i nemici stavano smontando per puntare i jezail contro i due uomini rimasti allo scoperto sulla rampa sopra di loro. I proiettili sollevavano spruzzi di sabbia intorno ai piedi di Dorian, ma pareva che un incantesimo proteggesse sia Batula sia lui, perché, nonostante la pioggia di piombo, entrambi continuarono imperterriti a salire. Grondanti di sudore e ansimando per la fatica, trascinarono i cammelli oltre la sommità della rampa di sabbia, sulla cengia di pietra all'imboccatura del passo. Dorian si guardò attorno, mentre cercava di riprendere fiato. Gli altri cammelli erano stati condotti al riparo, dietro la prima svolta delle alte pareti di pietra, e gli uomini li avevano fatti accovacciare lì prima di correre indietro a prendere posizione tra le rocce, da cui potevano sparare sui nemici. Guardando la pianura ai loro piedi, Dorian vide gli squadroni ottomani stendersi per miglia e miglia sul terreno biancastro, ma tutti rivolti nella sua direzione. Ne calcolò rapidamente il numero. «Quasi mille!» concluse, asciugandosi con un lembo del copricapo il sudore che gli irritava gli occhi. Poi esaminò Ibrisam, facendo scorrere le mani sui fianchi e sulle zampe, nel timore di trovare il sangue di una ferita; invece l'animale era illeso, e lui gettò le corde della cavezza a Batula. «Porta al sicuro i cammelli», gli ordinò. «E fa' in modo che qualcuno si Wilbur Smith
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occupi del ferito.» Mentre Batula portava le bestie al riparo, all'interno del passo, Dorian andò in cerca del principe. Al-Malik era accovacciato, col fucile in mano, incolume e composto, intento a dirigere con pochi ordini sommessi il fuoco degli uomini appostati tra le rocce. Dorian si accovacciò vicino a lui. «Signore, questo non è compito vostro, ma mio.» Il principe gli sorrise. «Finora ti sei comportato bene. Avresti dovuto lasciare che quel goffo individuo se la cavasse da solo. La tua vita vale cento delle sue.» Dorian ignorò tanto il complimento quanto il rimprovero, rispondendo con voce pacata: «Con metà degli uomini sono in grado di trattenere il nemico qui per molti giorni, finché non finirà l'acqua. Manderò Batula e l'altra metà a scortarvi oltre il passo, fino all'oasi di Muhaid». Al-Malik lo guardò con un'espressione grave. Le probabilità sarebbero state venti contro duemila e, anche se la loro posizione appariva forte, di certo i nemici erano determinati e pieni di risorse. Sapeva quale sacrificio gli stava offrendo Dorian. «Lascia qui Batula», gli disse allora, «e vieni con me a Muhaid.» Dal tono s'intuiva che era una proposta, non un ordine. «No, mio signore», rispose Dorian. «Non posso farlo. Il mio posto è qui, con i miei uomini.» «Hal ragione.» Il principe si alzò. «Non posso importi di venir meno al tuo dovere, ma posso ordinarti di non restare qui a combattere fino alla morte.» Dorian si strinse nelle spalle. «La morte sceglie da sé, non accoglie certo le nostre preferenze.» «Trattienili qui per il resto del giorno e per la notte», gli ordinò al-Malik. «Questo mi darà il tempo di raggiungere Muhaid e fare appello agli awamir. Tornerò da te con un esercito.» «Come comanda il mio signore», rispose Dorian. Il principe, però, scorse negli occhi verdi del giovane il desiderio della battaglia e questo lo mise a disagio. «Al-Salil», gli disse con fermezza, afferrandolo per la spalla in modo da sottolineare le sue parole. «Non so dirti quanto ci vorrà per tornare con gli uomini degli awamir. Trattienili qui fino all'alba di domani, non di più. Poi vieni via e raggiungimi più veloce che puoi. Sei il mio talismano, e non posso perderti.» «Signore, dovete andarvene subito», ribatté Dorian. «Ogni momento è Wilbur Smith
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prezioso.» Tornarono insieme verso i cammelli, e il giovane impartì pochi ordini rapidi, dividendo gli uomini in due gruppi: quelli che sarebbero rimasti al passo e quelli che avrebbero proseguito il viaggio col principe. Si divisero quello che restava dell'acqua e del cibo: un quarto andò al principe e il resto al gruppo di Dorian. «Lasceremo a voi tutti i fucili, i cinque barilotti di polvere nera e i sacchetti di proiettili», disse al-Malik. «Ne faremo buon uso», gli assicurò Dorian. Pochi minuti dopo, tutto era concluso: il principe e Batula salirono in sella, in testa al gruppo che si allontanava. «Allah ti faccia da scudo, figlio mio», disse al-Malik dall'alto della sella. «Andate con Dio, padre», rispose il giovane. «È la prima volta che mi chiami così.» «E la prima volta che lo sento vero.» «Mi fai onore», disse al-Malik in tono grave, sfiorando con la bacchetta il collo del suo cammello. Dorian li guardò percorrere lo stretto passaggio tortuoso tra le alte pareti di roccia, scomparendo oltre la prima svolta, poi escluse dalla mente qualsiasi pensiero che non riguardasse la battaglia imminente. Tornando all'entrata del passo, osservò la pianura e le rocce con l'occhio del soldato e calcolò l'altezza del sole: era passato da poco mezzogiorno. Sarebbe stata una giornata lunga, e una notte ancora più lunga. Per prima cosa individuò, nelle sue difese, i punti deboli che il nemico avrebbe potuto sfruttare, preparandosi in modo da controbattere ogni mossa. Per prima cosa tenteranno un assalto diretto, su per il pendio, decise, guardandoli mentre si ammassavano lungo i margini della pianura. Si mescolò poi ai suoi uomini e, conversando con loro, li spostò nelle migliori posizioni difensive tra le rocce, accertandosi che ciascuno avesse le fiasche piene di polvere e i sacchetti di proiettili. Non aveva ancora finito di disporre l'ultimo picchetto quando, dalla base del pendio, si udì il suono distante di un corno, seguito subito dopo dal rullo dei tamburi di guerra e dalle grida della prima ondata di aggressori. «Tenete duro!» raccomandò Dorian ai suoi soldati. «Rispondete al fuoco, fratelli del sangue guerriero!» Batté sulla spalla di un uomo i cui lunghi capelli arruffati ricadevano sulle spalle, scambiando un sorriso con lui. «Il primo sparo sarà il più dolce, Ahmed. Fa' che lo sentano.» Wilbur Smith
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Proseguì lungo la fila. «Aspetta finché non guardano dritto nella tua canna, Hassan.» «Voglio un centro perfetto col primo proiettile, Mustafà.» «Lasciali avvicinare finché non sarai certo di non poter sbagliare, Salim.» Per quanto ridesse e scherzasse, scrutava con occhi attenti gli attaccanti che risalivano il pendio. Erano turchi, uomini più massicci degli agili arabi del deserto, con i baffi lunghi, la testa protetta dall'elmo rotondo di bronzo col paranaso e farsetti di maglia di metallo sopra le tuniche di lana a righe. È un armamento davvero pesante per il deserto... pensò Dorian, osservandoli mentre risalivano a fatica la rampa di sabbia cedevole. E infatti, ben presto, la prima carica selvaggia si trasformò in una laboriosa scalata. Il giovane si spinse sul ciglio del pendio, come per offrire il benvenuto ai nemici, e rimase in piedi, con le mani sui fianchi, guardandoli con un sorriso di sfida. Non lo faceva soltanto per infiammare gli uomini col suo esempio, ma anche per essere certo che nessuno disobbedisse ai suoi ordini, aprendo il fuoco: non potevano farlo, finché lui si trovava lì, davanti a loro. Uno dei turchi ai suoi piedi si fermò per tirare col fucile; aveva il viso lucente di sudore e le mani gli tremavano per la fatica della salita. Dorian si fece forza per restare immobile, mentre il turco sparava. Il proiettile sibilò oltre la testa del giovane, facendogli ricadere una ciocca di capelli rossi sulla guancia e sulle labbra. «È questo il meglio che sapete fare, voi altri amatori di capre?» li schernì, ridendo. «Venite quassù! Venite ad assaggiare l'ospitalità dei saar.» Le sue provocazioni raddoppiarono le energie dei primi assalitori, che si lanciarono in una corsa goffa e disordinata lungo l'ultimo tratto del pendio. Dorian arretrò, rientrando tra le file dei suoi uomini. «Tenetevi pronti, ora, fratelli», ordinò piano, armando il cane del suo jezail. Una fila compatta di turchi, con i volti congestionati e bagnati di sudore, si affacciò al ciglio del pendio, trovandosi di fronte ai jezail spianati dei saar. Molti avevano gettato via il fucile durante l'estenuante arrampicata e brandivano la scimitarra. Si lanciarono sui difensori con un grido roco. «Ora!» tuonò Dorian. I saar spararono tutti insieme, venti fucili all'unisono in uno scoppio prolungato di fumo e di proiettili che spazzò la fila di turchi. Dorian vide il suo colpo aprire un vuoto tra i denti gialli di un turco baffuto e corpulento proprio di fronte a lui. La testa dell'uomo Wilbur Smith
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scattò all'indietro, mentre sangue e tessuti cerebrali esplodevano dal retro del cranio e la spada gli volava via di mano. Ricadde all'indietro, verso l'uomo in bilico sul ciglio del pendio alle sue spalle, e lo travolse, cosicché precipitarono insieme, rotolando lungo la rampa di sabbia, abbattendo altri tre uomini impegnati nella salita e riportandoli tutti sul fondo. «Adesso attaccate con la spada», ordinò Dorian, e gli uomini balzarono fuori del loro riparo tra le rocce, caricando la massa di turchi che si accalcava sulla cengia. La carica micidiale li respinse, facendoli inciampare nei propri caduti e precipitare giù dalla cornice di roccia. La cengia fu sgomberata, cosicché i saar poterono affrontare gli uomini che ancora si sforzavano di salire verso di loro: avevano il vantaggio dell'altezza, mentre i turchi, quando arrivavano alla distanza giusta per sguainare la spada, erano ormai esausti. La lotta si concluse rapidamente. Gli assalitori erano quasi tutti morti o feriti e i pochi ancora illesi non poterono far altro che indietreggiare, scivolando giù per la rampa, senza dare ascolto alle grida furibonde dei loro comandanti, anzi travolgendoli e portandoli via con loro in una fuga disordinata. I saar danzarono di gioia sulla cornice di roccia, con la barba e le vesti al vento, lanciando grida di scherno e insulti osceni ai nemici in rotta. Dorian si accorse subito di non avere perso neanche un uomo, mentre nella sabbia fine delle dune ai loro piedi si scorgeva almeno una dozzina di turchi morti. Questa era solo la prima portata del banchetto, si disse per frenare l'esultanza. In quella prima carica frettolosa, si erano lanciati contro di loro non più di cento turchi. Non ci riproveranno più allo stesso modo. Si aggirò tra gli uomini, ordinando loro di ricaricare i fucili, ma impiegò qualche tempo per riconquistare la loro attenzione. «Voglio dieci uomini lassù tra le rocce.» Li indicò per nome, a uno a uno, inviandoli in cima alle pareti di roccia, da dove potevano osservare il fronte delle colline e ogni mossa fatta dal nemico. Intuiva che gli avversari avrebbero mandato un gruppo di uomini a scalare le dune di sabbia ai lati dell'imboccatura del passo, fuori della portata dei fucili nemici, per riunirsi poi sulla cengia rocciosa, chiudendoli ai lati. Quella manovra, combinata con un altro attacco frontale, sarebbe stata difficile da sventare. Dorian sapeva che alla fine i suoi uomini sarebbero stati respinti all'interno del passo, ed era là, in quel passaggio angusto, che lo scontro finale avrebbe avuto luogo. Facendo affidamento sugli uomini che aveva Wilbur Smith
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appostato in cima alle pareti di roccia per essere preavvisato del prossimo attacco, ne spostò altri sei indietro, nel passo, per scegliere la migliore posizione difensiva. Erano passati quasi tre anni dall'ultima volta che aveva percorso quella strada, tuttavia ricordava ancora la presenza di una strettoia nella quale la roccia formava un passaggio angusto. Quando lo ritrovò, si accorse che era appena sufficiente a consentire il transito di un cammello carico. Subito oltre, si scorgeva una cascata di frammenti di roccia, franati dalle pareti laterali; dietro suo ordine, i sei saar deposero le armi per utilizzare le rocce della frana in modo da fortificare il varco, costruendo un sangar dietro il quale i difensori potessero ripararsi. I cammelli erano accovacciati più all'interno del passo, oltre la curva successiva, e Dorian andò a controllare che fossero sellati e pronti per una rapida fuga quando il nemico avesse superato le loro difese. Ibrisam emise un grugnito amorevole nel vedere Dorian, che le accarezzò la testa prima di lasciarla per tornare all'imbocco del passo. Gli uomini che aveva mandato a scalare le rocce erano in posizione sopra di lui, mentre gli altri erano sparsi lungo la cengia. Stavano caricando anche i fucili supplementari che il principe aveva lasciato loro, collocandoli a portata di mano; in questo modo, se il combattimento si fosse fatto acceso, avrebbero avuto a disposizione un colpo in più. Accovacciato sul ciglio del pendio, Dorian osservò i nemici dall'alto. Anche se il sole ormai era alto e il caldo cominciava a farsi intenso, le bianche pianure di sale brulicavano di attività. Truppe a cavallo continuavano ad affluire e ufficiali turchi andavano avanti e indietro lungo la base delle dune di sabbia, osservando la configurazione del terreno. Gli elmi e le armi scintillavano, nonostante la nube di polvere bianca sospesa su di loro come una cortina baluginante di cristalli di sale. D'un tratto ci fu un movimento ancor più convulso tra le truppe, proprio al di sotto del punto in cui si trovava Dorian, e un corno suonò la fanfara. Si stava avvicinando un piccolo drappello, preceduto da cavalieri con gli stendardi verdi e scarlatti, i colori della Sublime Porta. Non potevano esserci dubbi sul fatto che quello fosse il comando delle forze nemiche e Dorian lo studiò con interesse, individuando al centro del gruppo due figure: a giudicare dallo splendido abbigliamento e dalle ricche bardature dei cammelli, erano ufficiali di alto grado. Uno era turco, perché portava lo scudo rotondo di bronzo e l'elmo col paranaso d'acciaio. Si trattava del Wilbur Smith
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generale ottomano, decise il giovane, prima di dedicare la sua attenzione al secondo uomo, che era un arabo. Persino a quella distanza, c'era in lui qualcosa di familiare che suscitò in Dorian una vaga inquietudine. Era avvolto in un mantello di lana fine, ma s'intuiva che era un uomo massiccio. La fascia della keffiya che portava sul capo era di filigrana d'oro, e il fodero del pugnale ricurvo infilato alla cintura scintillava. Ai piedi portava addirittura sandali d'oro. Quell'uomo è un vanesio, si disse Dorian. Dannazione, ma io lo conosco! pensò poi con sorpresa. Quella sensazione di familiarità diventava sempre più forte, e lui si scervellava alla ricerca di un nome. Il comando nemico si riunì ai piedi delle dune, ben fuori della portata dei fucili degli uomini di Dorian appostati in cima, mentre il comandante turco si portava all'occhio un cannocchiale per scrutare l'accesso al passo. Completato con tutta calma l'esame della parete di roccia, abbassò il cannocchiale e parlò con gli ufficiali che si erano riuniti ossequiosamente alle sue spalle. Subito dopo, gli ufficiali voltarono le cavalcature per allontanarsi, cominciando a lanciare ordini agli squadroni in attesa. Ci fu un altro scoppio di attività intensa. Stavano facendo esattamente quello che aveva previsto Dorian e, poco dopo, centinaia di uomini armati cominciarono a salire lungo il pendio ai lati dell'imboccatura del passo. Si tenevano fuori della portata dei fucili, ma Dorian sapeva che, una volta raggiunta la cornice rocciosa, avrebbero cominciato a convergere verso il centro, tentando quindi di attaccare l'accesso al passo. «Al-Salil! Quei turchi mangiatori di sterco ci attaccano di nuovo!» Le vedette di Dorian, dalla loro postazione sulle rocce, cominciarono a riferirgli le loro osservazioni. Da quel punto privilegiato potevano vedere più di lui, e gli segnalarono quando i primi nemici raggiunsero la cengia, cominciando a spostarsi verso il centro. «Sparate a chiunque arrivi a portata di tiro!» gridò di rimando il giovane, e subito echeggiò tra le rocce una salva di spari di fucile. I saar sparavano dall'alto e i turchi rispondevano al fuoco. Di tanto in tanto, si sentiva l'urlo di qualche uomo colpito, ma le grida delle vedette facevano capire che il nemico stava a poco a poco raggiungendo una posizione da cui avrebbe potuto sferrare il primo attacco all'imboccatura del passo. Pur essendo distratto dall'azione che ferveva intorno a lui, Dorian continuava a osservare l'arabo ricoperto d'oro che cavalcava al fianco del generale turco. Infine arrivò dalle retrovie un convoglio di cammelli da Wilbur Smith
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soma, scaricando una tenda di cuoio. Venti uomini la srotolarono per montarla sulla pianura bianca, disponendo alla sua ombra tappeti e cuscini. Il generale turco smontò di sella, prendendo posto sui tappeti, e anche l'arabo ordinò al cammello di accovacciarsi e scese di sella a sua volta, con una certa goffaggine, seguendo il turco verso la tenda. Dorian rimase immobile, osservando l'ampiezza delle spalle dell'arabo e la curva del ventre sotto il mantello di lana, e notò che l'uomo evitava di appoggiare il peso sul piede destro. Fu allora che, d'un tratto, tutto gli apparve chiaro. La lotta sui gradini dell'antica tomba, nei giardini dello zenana di Lamu, la caduta in seguito alla quale si era fratturato il piede... «Zayn!» mormorò. «Zayn al-Din!» Era il suo nemico dei giorni dell'infanzia, ora abbigliato come un principe di Oman, alla testa del suo esercito. Dorian sentì riaccendersi in lui tutto l'odio che provava per quell'individuo: era di nuovo il nemico. «Ma che cosa ci fa, qui, schierato contro suo padre?» mormorò, perplesso. «Saprà che ci sono anch'io?» Tentò d'interpretare quella circostanza strana e imprevista. Zayn era rimasto così a lungo alla corte di Muscat che probabilmente si era lasciato coinvolgere in quel gorgo d'intrighi dinastici, magari addestrato e incoraggiato in questo dal califfo suo zio. A meno che non fosse cambiato molto rispetto al ragazzo che Dorian aveva conosciuto, doveva essersi appassionato alle congiure di corte, ed era chiaro che era diventato un'altra pedina della Sublime Porta; anzi, forse c'era lui al centro della capitolazione di Oman di fronte agli ottomani. «Porco traditore», sussurrò Dorian, fissandolo dall'alto con odio. «Sei disposto a vendere il tuo Paese e il tuo popolo, persino tuo padre! Qual è il prezzo? Quale ricompensa ti ha offerto la Porta, Zayn? Il trono, magari, come fantoccio dei turchi a Muscat!» Zayn al-Din prese posto a fianco del generale turco all'ombra della tenda, mentre uno schiavo gli metteva in mano una coppa di sorbetto; lui ne bevve un sorso, e Dorian vide che ora aveva una barba rada e sottile, mentre le guance erano gonfie e molli. Alzò la testa verso di lui, e Dorian si tolse il copricapo, scuotendo i riccioli d'oro rosso e lucente. Non appena lo riconobbe, Zayn lasciò cadere la coppa. Dorian scoppiò a ridere, salutandolo allegramente con la mano. L'altro non rispose, ma diede l'impressione di afflosciarsi un po', ripiegandosi su se stesso, come un grosso rospo gonfio. In quel momento, si scatenò una salva di spari lungo le rocce sulla destra, e Dorian dovette allontanarsi per Wilbur Smith
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rafforzare le difese su quel lato del passo. «Attenzione, al-Salil», gridò una delle vedette. «Arrivano!» «Quanti?» gridò lui di rimando, mettendosi al riparo della roccia insieme con Ahmed. «Tanti!» fu la risposta. «Troppi!» Su quel lato le rocce formavano un bastione scosceso che si ripiegava su se stesso, cosicché non potevano vedere più in là di venti passi lungo la cengia aperta, anche se si udivano sia le voci degli uomini oltre la sporgenza della roccia sia i loro passi mentre si spingevano avanti, nonché il tintinnio metallico di uno scudo di bronzo sulla roccia, il cigolio dei lacci di cuoio del pettorale dell'armatura e della cintura con la spada. «Calma!» raccomandò Dorian ai suoi. «Aspettate che arrivino. Lasciateli avvicinare.» Un gruppo compatto di turchi aggirò improvvisamente l'angolo della roccia, puntando su di loro. La cengia in quel punto consentiva il passaggio soltanto di tre uomini per volta, ma gli altri si affollavano dietro di loro. «Allah akbar!» gridarono. «Allah è grande!» In prima fila c'era un uomo alto, butterato dal vaiolo, con l'elmo saraceno d'acciaio, la cotta di maglia e un'ascia bipenne da combattimento: balzando davanti ai compagni, individuò subito Dorian, fissandolo negli occhi, e si lanciò all'assalto con l'ascia impugnata a due mani, alta sopra la testa. Era a distanza di un braccio e la canna del lungo jezail gli sfiorava il viso, quando Dorian sparò. Il proiettile colpì il turco alla gola, facendolo crollare in ginocchio, con le mani strette sulla ferita: un'arteria recisa cominciò a pompare sangue tra le sue dita e lui cadde riverso in avanti. Dorian lasciò il fucile scarico per afferrare quello già carico che aveva a portata di mano e armare il cane. Quando un altro uomo scavalcò il turco morente, lo colpì al petto, e l'altro si accasciò sulla cornice di roccia, fremendo e scalciando. Il giovane gettò via anche il secondo fucile scarico, sguainando la spada e avanzando per bloccare il passaggio sulla cengia. Aveva Ahmed a destra e Salim a sinistra, schierati fianco a fianco. Il nemico li assaliva a gruppetti di tre alla volta, ma gli altri uomini erano pronti alle loro spalle per riempire i vuoti lasciati dai caduti. Dorian amava sentire una buona lama tra le mani, e quella che brandiva era un dono di congedo che il principe Wilbur Smith
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gli aveva fatto quando era partito da Lamu: una scimitarra di acciaio di Damasco, sottile come una verga di salice e affilata come il dente avvelenato di un serpente. Uccise il primo aggressore con un colpo netto al di sotto dell'elmo, centrandolo nell'occhio scuro e infilzando la pupilla come un rognone di agnello su un kebab, mentre l'acciaio si conficcava nel cranio. Recuperò in fretta la lama, ritirandola e lasciando cadere la vittima a terra. Gli altri nemici, però, si avventarono in massa, protetti dagli scudi di bronzo, e non ci fu più né tempo né spazio per un lavoro di fino. Sostenendo l'assalto, Dorian, Ahmed e Salim colpirono di taglio e di punta, gridando, ondeggiando avanti e indietro e da un lato all'alto, sempre sullo stretto passaggio offerto dalla cornice di roccia. Il grido di allarme delle vedette saar in cima alla parete di roccia fu quasi soffocato dalle urla e dal clangore dell'acciaio che urtava l'acciaio, nella mischia convulsa. «Sulla sinistra e davanti!» Dorian lo sentì, ma abbatté un altro uomo prima di ritirarsi dalla mischia, lasciando a Mustafà, che era dietro di lui, il compito di occupare il suo posto nello schieramento. Guardandosi attorno in fretta, vide che, mentre lui combatteva sulla destra, i turchi avevano lanciato una rapida serie di attacchi in tutti gli altri punti. Cinque dei suoi uomini si battevano disperatamente per difendere il lato opposto dell'accesso al passaggio, dove i nemici si spingevano in avanti lungo la cengia, mentre duecento turchi attaccavano frontalmente, risalendo il pendio sabbioso. Nei pochi istanti necessari per fare quella valutazione, due dei suoi uomini restarono uccisi: Salim con la testa spaccata a metà dalla lama di un'ascia, Mustafà per un colpo di spada al petto che lo fece cadere in ginocchio, in mezzo a fiotti di sangue. Dorian sapeva di non potersi permettere quelle perdite. In più, i turchi che risalivano il pendio avevano quasi raggiunto la cornice. Gli uomini che aveva piazzato sulle rocce non avevano atteso i suoi ordini per scendere a unirsi al combattimento, e lui gliene fu grato quando coprirono con un balzo gli ultimi dieci piedi, calandosi sulla roccia accanto a lui. Ormai entrambi i fianchi del suo schieramento cominciavano a cedere e, da un momento all'altro, si sarebbe riversata su di loro un'orda di nemici urlanti, che stavano per scavalcare il ciglio del pendio. «Schiena contro schiena!» urlò ai suoi uomini. «Copritevi a vicenda, Wilbur Smith
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ritirandovi all'interno del passo.» Formarono un anello difensivo compatto, accerchiati dai turchi urlanti mentre arretravano precipitosamente verso il passo, ma persero altri uomini, sotto i colpi delle spade lampeggianti e i proiettili di fucile sparati a distanza ravvicinata. «Ora!» lanciò l'ordine Dorian. «Correte!» Girandosi di scatto, si slanciarono ancor più in fondo al passo, trascinando con sé i feriti, mentre i nemici bloccavano l'accesso, ostacolandosi a vicenda nella foga d'inseguirli. Dorian, che era in testa nella corsa oltre la svolta del passaggio tra le rocce, gridò ai sei uomini oltre le pareti del sangar. «Cessate il fuoco! Siamo noi!» Lo sbarramento di pietre del sangar che avevano eretto contro la parte più stretta del passaggio arrivava all'altezza del petto. Dovettero arrampicarsi per superarlo, e gli uomini al riparo del muro li aiutarono a trascinare i feriti oltre la sommità. Proprio mentre l'ultimo dei saar si lasciava ricadere oltre la parete di pietre, i nemici arrivarono ululando lungo il passaggio di roccia. I sei uomini, che fino a quel momento non avevano partecipato al combattimento, erano ansiosi di prendervi parte. Avevano già caricato tutti i fucili rimanenti, allineandoli contro la parete di roccia, e piantato nel terreno le lunghe lance per averle a portata di mano quando i turchi avessero sfondato lo sbarramento del sangar. La prima raffica di spari contro la fila di turchi lanciati all'attacco li colse di sorpresa, seminando confusione e sgomento nelle loro file, perché gli uomini in prima linea tentavano di ritirarsi, mentre quelli alle loro spalle li spingevano avanti. Un'altra salva di spari con la seconda batteria di fucili già carichi fece precipitare l'equilibrio, spingendo i turchi rimanenti a fuggire lungo il passaggio, scomparendo dietro la curva della roccia. Benché fossero nascosti oltre la roccia ricurva, le loro voci risultavano amplificate dalle pareti che li circondavano, tanto che Dorian poteva sentire ogni parola che dicevano, imprecando contro i saar e incitandosi a vicenda per il nuovo attacco. Sapeva che quella sarebbe stata solo una breve pausa, prima dell'assalto successivo. «Acqua!» ordinò. «Portate un otre d'acqua.» Quella strettoia arroventata dal sole sembrava un forno per il pane, e il combattimento era stato accanito e spossante. Mandarono giù l'acqua amara e salmastra dei pozzi di Wilbur Smith
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Ghail ya Yamin come se fosse un sorbetto dolce. «Dov'è Rachid?» chiese Dorian, contando le teste. «L'ho visto cadere», rispose uno degli uomini, «ma stavo trasportando Zayid e non potevo tornare indietro a prenderlo.» Dorian pianse amaramente quella perdita, perché Rachid era uno dei suoi preferiti. Ormai gli restavano solo dodici uomini ancora in grado di combattere. Cinque feriti erano riusciti a trascinarli con sé, ma altri erano rimasti alla mercé dei turchi; portarono i feriti più indietro, nel punto in cui erano rannicchiati i cammelli, poi Dorian divise i superstiti in due gruppi. La parete del sangar era larga appena quanto bastava per accogliere tre uomini alla volta. Dorian dispose gli altri tre gruppi dietro la prima fila, in modo che, dopo ogni salva di spari, i primi potessero indietreggiare per ricaricare, mentre gli altri si sarebbero fatti avanti a loro volta. In questo modo sperava di mantenere un fuoco costante contro i turchi; sarebbe riuscito a tenerli a bada fino al tramonto, ma dubitava di farcela a superare la notte. Ormai i saar rimasti in piedi erano davvero pochi, mentre i turchi avevano fama di essere combattenti valorosi e temibili; sapeva che erano abbastanza ingegnosi da trovare una strategia capace di frustrare i loro tentativi di difesa. Tutto quello che poteva sperare era guadagnare un po' di tempo per al-Malik, ma alla fine avrebbero dovuto battersi con la lancia e la spada per uscirne vivi. Per il momento, i suoi uomini e lui si attestarono dietro il sangar, nell'aria torrida e soffocante del passo, raccogliendo le forze. «In questo momento, baratterei il mio posto in paradiso per una pipa di kif», osservò sorridendo Mishqa, mentre si avvolgeva una striscia di stoffa sporca e intrisa di sudore intorno al taglio che la lama di una spada gli aveva lasciato sulla parte superiore del braccio. Il fumo potente di quell'erba rendeva gli uomini intrepidi, facendo dimenticare il dolore delle ferite. «Te la preparerò io e l'accenderò con le mie mani, quando saremo seduti nella reggia di Muscat», gli promise Dorian. Poi s'interruppe, sentendo qualcuno che lo chiamava per nome. «Al-Salil, fratello mio!» disse la voce, echeggiando tra le rocce. «Il mio cuore è colmo di gioia nel rivederti.» Era una voce acuta, quasi femminea, e, anche se il timbro era cambiato, Dorian la riconobbe subito. «Come va il piede, Zayn al-Din?» esclamò di rimando. «Vieni a romperti anche l'altro, così il tuo passo da papera sarà più bilanciato.» Wilbur Smith
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Zayn, invisibile dietro la svolta del passaggio, si lasciò sfuggire una risatina. «Verremo, fratello mio, credi a me. E allora riderò, mentre i miei alleati turchi ti alzeranno la veste, rovesciandoti sulla sella del tuo cammello!» «Penso che ti piacerebbe di più che a me, bella Zayn», rispose Dorian sottolineando l'aggettivo al femminile, proprio come se parlasse a una donna. Zayn rimase in silenzio per qualche minuto, poi riprese: «Ascolta, alSalil. Ho qui il tuo fratello di sangue, Rachid. Lo Hal lasciato indietro, quando sei fuggito come uno sciacallo codardo. È ancora vivo». Dorian sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «È un uomo coraggioso, Zayn al-Din. Lascialo morire con dignità», rispose. Rachid era stato suo amico fin dal primo giorno in cui era andato a vivere tra i saar; aveva due mogli giovani e quattro figli piccoli, il più grande dei quali aveva solo cinque anni. Un urlo terribile risuonò nel passaggio, un grido di sofferenza straziante e d'indignazione oltraggiata, che diminuì di volume fino a trasformarsi in un singhiozzo. «Ecco un dono per te dal tuo amico.» Qualcosa di piccolo, rotondo e sanguinolento fu gettato oltre l'angolo del passaggio, rotolando sul terreno sabbioso prima di fermarsi davanti alla parete del sangar. «Al-Salil, fratello mio, ti serve un altro paio di palle», gridò Zayn alDin. «Eccole, tanto Rachid non ne avrà bisogno, là dove sta per andare.» I saar imprecarono, lanciando maledizioni, mentre Dorian si sentiva bruciare le palpebre dalle lacrime trattenute. La voce gli si strozzò in gola, mentre replicava: «Giuro in nome di Dio che un giorno farò lo stesso a te». «Oh, fratello mio», rispose Zayn, «se questo cane di un saar ti sta tanto a cuore, te lo rimando. Ma prima vorrei dare un'occhiata al suo fegato, per vedere se ne ha!» Si udì un altro grido terribile, poi Rachid fu spinto in avanti, allo scoperto, e percorse barcollando il passaggio verso il sangar. Era nudo, con uno squarcio scuro tra le gambe, umido di sangue. Gli avevano lacerato il ventre, da cui traboccavano le viscere che pendevano fino alle ginocchia. Avanzò vacillando verso Dorian, con la bocca aperta. Da quella caverna piena di sangue, emise solo un suono gracchiarne, animalesco: Zayn al-Din gli aveva tagliato la lingua. Prima di raggiungere il sangar si accasciò al suolo, restando disteso Wilbur Smith
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nella polvere, scosso appena da un tremito. Dorian scavalcò di slancio lo sbarramento, impugnando il fucile, appoggiò la canna sulla nuca di Rachid e sparò; il cranio si spappolò come un melone maturo e, a quel suono, i turchi si riversarono in massa nel passaggio, come un'onda di piena. Dorian tornò con un balzo al riparo. «Fuoco!» gridò agli uomini, e la prima salva di fucile si abbatté come una grandinata di ghiaia sulla fila degli aggressori. Il combattimento continuò a infuriare, a fasi alterne, per le poche ore di luce che restavano. A poco a poco, il passaggio venne intasato dai nemici morti, accatastati l'uno sull'altro fin quasi a raggiungere l'altezza della parete di roccia, mentre la densa nebbia, formata dal fumo degli spari, saturava l'aria, rendendo difficile respirare: gli uomini ansimavano senza fiato, mentre sparavano e ricaricavano. Il fumo si mescolava all'odore metallico del sangue e ai gas emessi dagli intestini lacerati, il sudore provocato dal caldo bruciava gli occhi col suo contenuto salino. Per tre volte, usando i loro morti come una scala da assedio, i turchi riuscirono a scalare la sommità della parete, e per tre volte Dorian e i suoi saar riuscirono a respingerli. Quando cominciarono a calare le tenebre, c'erano solo sette arabi ancora in grado di reggersi in piedi, perché tutti gli altri erano feriti. Nelle pause tra un attacco e l'altro, trascinarono morti e feriti più indietro, verso il punto in cui riposavano i cammelli. Non c'era nessuno per assistere i feriti, quindi Dorian sistemò un otre d'acqua vicino a loro, per quelli che avevano ancora la forza di bere. Jaub, che era soprannominato «il gatto», aveva la spalla destra fracassata dal colpo di un'ascia da combattimento, e Dorian non riusciva a frenare l'emorragia dall'arteria. «È tempo che me ne vada, al-Salil», gli sussurrò Jaub, strisciando sul terreno fino a mettersi in ginocchio. «Tieni la spada per me.» Dorian non poteva rifiutare quell'ultima richiesta, lasciando in mano ai turchi il compagno di tante battaglie. Col gelo nel cuore, impugnò saldamente l'elsa della spada, appoggiando la punta della lama ricurva nell'incavo sotto lo sterno di Jaub, in direzione del cuore. «La benedizione di Allah e del Profeta scenda su di te, amico mio», disse Jaub, ringraziandolo, prima di lasciarsi cadere in avanti. La lama penetrò per tutta la sua lunghezza, mentre la punta fuoriusciva in mezzo alle scapole, macchiata di sangue. Dorian si alzò, correndo di nuovo verso Wilbur Smith
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il muro di sbarramento, proprio mentre un'altra orda di turchi si riversava nel passaggio. Alla fine riuscirono a respingerli, ma altri due saar erano caduti. Avevo sperato di trattenerli più a lungo, pensò Dorian, appoggiandosi alla parete bagnata di sangue. Avevo sperato di concedere a mio padre più tempo per sollevare gli awamir, ma ormai siamo troppo pochi, ed è quasi finita. Nel passaggio cominciavano a calare le tenebre. Ben presto i turchi avrebbero potuto arrampicarsi in alto sulla parete di roccia senza essere visti. «Bin Shibam», mormorò all'uomo che gli era vicino, con voce roca, perché aveva la gola gonfia di sete e irritata dal continuo gridare. «Porta qui l'ultimo otre di pelle e le fascine di legna dal carico dei cammelli. Berremo e accenderemo il nostro ultimo falò.» Le fiamme divamparono, illuminando le pareti di roccia del passo con una luce incerta e tremolante, mentre a intervalli uno dei saar gettava un tizzone ardente oltre il muro del sangar per dissipare l'oscurità nella quale i turchi potevano avvicinarsi strisciando. Ci fu una breve pausa nel combattimento. Sentivano i turchi parlare oltre la svolta, e i gemiti dei feriti e dei morenti erano angosciosi, ma l'attacco finale ancora non veniva. Sedettero l'uno vicino all'altro, a gambe incrociate, bevendo l'ultima acqua rimasta e aiutandosi a vicenda a fasciare le ferite. Erano stati colpiti tutti, ma Dorian, pur essendo rimasto per il giorno intero al centro della mischia, era il meno grave. Aveva un taglio profondo sul braccio sinistro, nella parte posteriore, e un colpo di spada lo aveva raggiunto alla spalla, sempre a sinistra. «Mi resta ancora il braccio destro per impugnare la spada», disse all'uomo che gli stava ricavando una fascia per tenere il braccio al collo, usando un tratto di corda preso dai finimenti di un cammello. «Penso che abbiamo fatto tutto quello che potevamo, qui. Se qualcuno di voi vuole andarsene, prenda un cammello e parta pure, con i miei ringraziamenti e le mie benedizioni.» «Questo è un buon posto per morire», disse l'uomo al suo fianco. «Le urì del paradiso saranno tristi, se rifiuteremo il loro invito», intervenne un altro, declinando l'offerta. Poi un sassolino cadde dall'alto, rimbalzando da una parete all'altra e facendo sprizzare dalla roccia minuscole scintille. Wilbur Smith
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«Hanno scalato la parete e sono sopra di noi», mormorò Dorian, balzando in piedi. «Spegnete il fuoco.» Le fiamme li avrebbero resi un facile bersaglio per gli uomini in alto, rivelando la loro posizione; ma il suo ammonimento arrivò in ritardo. D'improvviso l'aria intorno a loro si riempì di un rombo poderoso, simile a quello di una grande cascata, mentre su di loro pioveva un bombardamento di sassi. Alcuni erano grossi come un barilotto di polvere, altri come la testa di un uomo, ma in ogni caso, nello stretto imbuto formato dal passo, non esisteva riparo a quella pioggia micidiale. Tre uomini rimasero schiacciati all'istante, e gli altri furono abbattuti mentre cercavano di correre verso i cammelli. Dorian fu l'unico a farcela, raggiungendo il fianco di Ibrisam e balzando in sella. «Hut! Hut!» la incitò per farla alzare in piedi, ma, proprio mentre si sollevava, il bombardamento di sassi cessò di colpo e i turchi si lanciarono sulle sue tracce, superando lo sbarramento. Pugnalati gli arabi feriti, fecero solo una breve pausa prima di slanciarsi in avanti per circondare Ibrisam. Dorian ne colpì uno al petto con la lancia, affondando la punta d'acciaio nonostante la tenace resistenza delle carni, ma poi l'asta gli si spezzò in mano e fu costretto a scagliare il troncone in faccia a un altro turco, sguainando la spada. Menando fendenti sulla testa degli uomini che tentavano di disarcionarlo, riuscì a spingere indietro Ibrisam lungo il passaggio. Lei scalciò contro gli uomini che le sbarravano il passo, serrando gli enormi denti gialli per mordere le dita a un turco e sfondando la gabbia toracica di un altro con un solo colpo di una zampa anteriore, poi si slanciò in avanti, rompendo lo schieramento dei nemici. Dorian si aggrappò al pomo della sella con la mano ancora buona, mentre Ibrisam correva via, seguendo le curve tortuose del passo, e le urla dei turchi assetati si spegnevano alle loro spalle. Il passo serpeggiava per un miglio e più in mezzo alle colline, coprendo il letto ormai asciutto di un antico torrente, formatosi nel punto in cui uno strato più cedevole di roccia era stato dilavato dalle acque piovane nel corso dei millenni. Una volta al sicuro dagli inseguitori, Ibrisam tornò a quel lieve trotto oscillante che le consentiva di avanzare rapidamente e che le aveva fatto meritare il nome di «vento di seta». Sfinito dalla sete e dal dolore delle ferite, Dorian scivolò in una specie di trance. Le pareti del passo gli scorrevano ai lati in una sequenza Wilbur Smith
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interminabile, e quasi lo ipnotizzavano. Una volta rischiò di cadere in avanti dalla sella, e fu Ibrisam a salvarlo, fermandosi bruscamente nel sentirlo scivolare. Questo riscosse il giovane, che sedette in sella più saldamente, mentre lei riprendeva il cammino. Soltanto allora si rese conto che l'andatura di Ibrisam stava diventando incerta e impacciata, ma era confuso e stordito, quasi incapace di reggersi in sella, e lo sforzo necessario per smontare e controllare le sue condizioni era troppo, per lui. Scivolò di nuovo nella sonnolenza, riscuotendosi solo quando si accorse che erano usciti dall'altra estremità del passo e si trovavano allo scoperto, nel territorio degli awamir. Dall'altezza della luna in cielo e dalla posizione delle stelle si accorse che era passata la mezzanotte. La notte era gelida, in netto contrasto con la calura torrida del giorno; il sangue e il sudore che inzuppavano la sua veste contribuivano ad accentuare il freddo, che lo faceva rabbrividire e gli dava le vertigini. Sotto di lui, Ibrisam si muoveva in modo strano, a passi brevi. Infine Dorian fece appello alle sue ultime forze per ordinarle di fermarsi e accovacciarsi. Controllando l'otre che era appeso al suo garrese, scoprì che conteneva meno di un gallone della fetida acqua di Ghail ya Yamin; prese dalla reticella il pesante scialle di lana per avvolgerlo intorno alle spalle, poi, ancora tremante di freddo, esaminò Ibrisam per scoprire la causa del suo malessere. Si accorse subito che aveva il posteriore umido e scintillante al chiaro di luna, e scoprì che perdeva abbondanti feci liquide, scure di sangue. Dorian si sentì sprofondare nella costernazione. Dimenticando le sue ferite e il suo avvilimento, palpò i fianchi snelli e lisci di Ibrisam e, non appena le sfiorò il ventre, appena prima delle zampe posteriori, lei si lasciò sfuggire un gemito sommesso: ritirando la mano, Dorian vide che era bagnata di sangue. Una lancia turca le era penetrata nel ventre, squarciando l'intestino. Era una ferita mortale: soltanto per un miracolo di amore e di volontà Ibrisam era riuscita a portarlo fin lì. Dorian era così debole e triste che si sentì salire di nuovo le lacrime agli occhi. Slegando il secchio di cuoio dal carico, lo riempì con l'ultima acqua contenuta nell'otre; bevve mezza pinta di quel liquido schifoso, poi s'inginocchiò vicino alla testa di Ibrisam. «Mia cara e coraggiosa amica», le disse, offrendole da bere quello che restava nel secchio. Lei risucchiò l'acqua con avidità, soffiando nel fondo quando fu finita. «Non c'è altro che possa fare per te», mormorò, sfregando Wilbur Smith
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le orecchie di Ibrisam, con la carezza che lei preferiva. «Entro domattina sarai morta... E io con te, se non mi porti un poco più avanti, perché i turchi ci inseguono da vicino. Vuoi portarmi per l'ultima volta?» Alzatosi, la chiamò con dolcezza. «Hut! Hut!» Lei volse la testa per guardarlo con i grandi occhi, illanguiditi dalla sofferenza dell'agonia. «Hut! Hut!» ripeté Dorian, e Ibrisam si alzò pesantemente, con un grugnito, mentre lui s'issava a fatica in sella. La cammella riprese la marcia con quell'andatura penosa e contratta, seguendo la pista che il principe e Batula avevano lasciato attraversando le colline scoscese e i profondi uadi. Dorian rischiò ancora una volta di cadere, ma si riprese e utilizzò la reticella ormai vuota per legarsi alla sella, dove rimase aggrappato, sonnecchiando a tratti. Perse ogni nozione del tempo, della velocità e della direzione, mentre proseguivano il cammino, la bestia morente e l'uomo in lento declino. Un'ora dopo l'alba, proprio quando il crudele flagello del sole ricominciava a sferzarli, Ibrisam si accasciò per l'ultima volta. Morì in piedi, in un estremo tentativo di rialzarsi per riprendere la marcia; con un ultimo gemito, si abbandonò sul terreno, sbalzando Dorian di sella, cosicché lui finì lungo disteso sul terreno costellato di sassi. Strisciò sulle ginocchia per trascinarsi all'ombra della carcassa di Ibrisam, costringendosi a non pensare alla fine della bestia amata e alla perdita di tanti dei suoi uomini. Doveva concentrare tutte le sue forze e le risorse del suo ingegno nell'intento di restare in vita finché Batula non fosse riuscito a mettersi alla testa degli awamir per salvarlo. Sul terreno davanti a sé vide le tracce vistose di molti cammelli e uomini, rendendosi conto che, nonostante gli spasimi dell'agonia, Ibrisam aveva continuato a seguire fedelmente la pista lasciata da Batula e dal principe nella marcia verso l'oasi di Muhaid. Questo poteva ancora salvargli la vita, perché sarebbero certamente tornati sui loro passi. La prima regola di sopravvivenza nel deserto imponeva di non lasciare un luogo sicuro per avventurarsi verso l'ignoto, ma Dorian sapeva che i turchi lo inseguivano: Zayn al-Din non lo avrebbe lasciato andare tanto facilmente. I nemici dovevano essere vicini e, se lo trovavano prima del ritorno di Batula, lui poteva aspettarsi lo stesso trattamento che Zayn aveva riservato ai feriti catturati al passo della Gazzella Leggiadra. Doveva proseguire il cammino, andando incontro a Batula, tentare di Wilbur Smith
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precedere i turchi lanciati all'inseguimento, almeno finché gli restava la forza di reggersi in piedi. Si alzò a fatica, vacillando, per esaminare il carico di Ibrisam e vedere se c'era qualcosa che poteva essergli utile. Sganciò l'otre dell'acqua, scuotendolo, poi lo sollevò, accostando il beccuccio alle labbra: poche gocce amare stillarono nella sua bocca, e lui deglutì a fatica, con la gola già gonfia. Poi lasciò cadere l'otre vuoto. Armi! Guardò quelle che aveva con sé. C'era lo jezail, nel fodero di cuoio, con la fiasca della polvere e il sacchetto dei proiettili. Il calcio del fucile era intarsiato di avorio e madreperla, il congegno di sparo cesellato in argento. Pesava quasi sette libbre, quindi era troppo pesante da portare. Via. La lancia spezzata era rimasta sul passo, e la spada lo avrebbe appesantito, dato che il suo peso sembrava raddoppiare a ogni miglio che percorreva. Sia pure con tristezza, slacciò la fibbia e la lasciò cadere a terra. Tenne invece il pugnale, che gli sarebbe servito nel momento cruciale. La lama era tagliente: aveva provveduto lui stesso ad affilarlo al punto di poterlo usare per radersi i peli d'oro rosso sull'avambraccio. Se si fosse visto accerchiato dai turchi, si sarebbe gettato su quella lama, anziché affrontare l'evirazione e lo sventramento. Abbassando gli occhi su Ibrisam, le disse: «C'è ancora una cosa che ti chiedo, mia cara». Inginocchiandosi accanto a lei, le squarciò il ventre col pugnale ed estrasse a manciate il contenuto dello stomaco, spremendolo tra le dita per berne il liquido. Era amaro come il fiele, tanto che fu costretto a dominare l'impulso di vomitarlo subito, ma sapeva che gli avrebbe dato la forza di sopravvivere ancora per qualche ora sotto quel sole crudele. Si fasciò di nuovo le ferite, scoprendo che il sangue aveva cessato di scorrere e si stavano formando croste scure. Poi strinse le cinghie dei sandali e si annodò sulla testa lo scialle per difendersi dall'assalto brutale del sole. Senza voltarsi a guardare Ibrisam, si mise in marcia sulle tracce della colonna del principe, verso un orizzonte che ondeggiava già nella foschia azzurrina del miraggio creato dal calore. Un'ora dopo, cadde per la prima volta. Ebbe l'impressione che le sue gambe diventassero d'acqua sotto il peso del corpo, e finì a terra, con la faccia in avanti. La bocca aperta si riempì di terra gessosa e amara, che rischiò di soffocarlo mentre tentava di sputare; non aveva più saliva e la polvere venne risucchiata nei polmoni mentre lui ansimava, cercando di riprendere fiato. Wilbur Smith
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Si sforzò di mettersi a sedere, tossendo e sbuffando, e, se non altro, quello sforzo lo salvò dal rischio di scivolare nell'incoscienza. Tergendosi il viso con un lembo del copricapo, si accorse di non avere una goccia di saliva né di sudore. S'impose di rialzarsi e, sebbene traballasse e barcollasse, rischiando di cadere ancora, riuscì a restare in piedi e si sentì tornare nelle gambe un po' di forza. Riprese a camminare mentre il sole gli ardeva negli occhi, come se volesse cuocere il contenuto del suo cranio. Quando tentò di deglutire, sentì spaccarsi le labbra, ormai aride come pergamena, e avvertì in bocca il gusto leggermente metallico e salino del sangue. Il dolore e la sete lentamente si placarono, e Dorian entrò in quello stato quasi onirico nel quale non si provano sensazioni. Udì una musica dolce e melodiosa, che lo indusse a fermarsi e guardarsi attorno, con gli occhi infiammati. Allora vide Tom e Yasmini fermi in cima al pendio che stava risalendo: lo salutavano con la mano e ridevano. «Non fare il moccioso, Dorry!» gridava Tom. «Su, vieni, Dowie», lo invitava Yasmini, danzando accanto a lui come un elfo e facendo roteare le gonne: aveva dimenticato quanto fosse graziosa. «Vieni con me, Dowie, voglio portarti di nuovo sulla Via dell'Angelo.» Dorian cominciò a correre, vacillando, e i due in cima alla collina si girarono a salutarlo con la mano, scomparendo poi oltre la sommità. Lui aveva l'impressione di affondare a ogni passo nella sabbia soffice, poi inciampò su un sasso e dovette agitare le braccia per non cadere; ma riuscì a raggiungere la cima, per guardare nella valle che si stendeva al di là di quella. Rimase sbalordito, perché la valle era fitta di alberi verdi carichi di frutti rossi e maturi e ai suoi piedi si stendevano prati rigogliosi di erba inglese, che scendevano verso un lago scintillante. Tom era scomparso, però c'era Yasmini, nuda, in piedi sulla riva del lago. Il suo corpo era snello e flessuoso, con la pelle di una deliziosa sfumatura dorata, e i capelli neri con la ciocca d'argento le scendevano fino alla vita. I seni piccoli come mele occhieggiavano timidi dalla cortina di capelli lucidi. «Dowie!» lo chiamò, con una voce dolce come il richiamo che il tordo del deserto lancia all'aurora. «Dowie, è tanto che ti aspetto.» Dorian tentò di correre verso di lei, ma le gambe lo tradirono di nuovo, e cadde. Era troppo stanco per alzare la testa. «Lasciami dormire solo un po', Wilbur Smith
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Yassie», la pregò, ma dalla gola non uscì neanche un suono: la lingua gonfia sembrava incollata al palato. Con un altro sforzo immane riuscì ad aprire gli occhi, accorgendosi con un terribile senso di perdita che Yasmini e il lago erano scomparsi. Ai suoi piedi c'era soltanto la distesa scabra e ardente del deserto, tutto roccia, spine e sabbia. Girandosi per guardare indietro, ai piedi della collina, vide la pattuglia della cavalleria ottomana. Cinquanta uomini in sella a cammelli da corsa stavano seguendo la sua pista: erano distanti ancora due miglia, ma guadagnavano terreno. E Dorian capì che quelli non erano una visione. Percorse un breve tratto procedendo carponi, poi si mise in piedi di slancio. Le ginocchia gli tremavano, ma lottò per combattere la debolezza e, aiutato dalla pendenza, superò la cima della collina. Sentì di nuovo la musica, ma stavolta sembrava che riempisse il cielo intero, e a cantare erano centinaia di voci. Alzando gli occhi, vide il coro celeste, una schiera di angeli disposti a raggiera intorno al sole, così risplendente da abbagliarlo come i riflessi delle sfaccettature di un enorme diamante. «Vieni a Dio!» cantavano. «Arrenditi alla volontà di Dio!» «Sì!» mormorò con una voce che risuonò estranea alle sue stesse orecchie, come se provenisse da una grande distanza. «Sì, sono pronto.» Non appena lo disse, accadde un miracolo: Dio gli apparve. Era alto e indossava una veste di un bianco accecante, mentre i raggi del sole formavano un'aureola dorata dietro la testa. Era bellissimo, nobile e misericordioso, pieno di compassione. Dio alzò la mano destra in un gesto benedicente, posando su Dorian gli occhi pieni d'amore, e lui si sentì come se la forza divina fluisse nel suo corpo, infondendogli un senso infinito di santità e di reverenza. Cadendo in ginocchio, usò quella nuova forza per gridare: «Sono qui per testimoniare che non esiste altro Dio all'infuori di Allah, e Maometto è il suo profeta!» Il volto bellissimo di Dio risplendette di benevolenza, mentre avanzava per aiutare Dorian ad alzarsi e lo abbracciava, baciandolo sulle labbra annerite e sanguinanti. «Figlio!» disse Dio, ma parlava con la voce del principe Abd Muhammad al-Malik. «La tua accettazione dell'unica vera fede mi riempie il cuore di gioia. La profezia si avvera, e rendo grazie ad Allah che ti abbiamo trovato in tempo.» Wilbur Smith
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Dorian si accasciò tra le braccia del principe, mentre al-Malik gridava, rivolto agli uomini che lo seguivano da vicino: «Acqua! Batula, porta dell'acqua». Batula gli spremette tra le labbra una spugna imbevuta d'acqua fresca, deponendolo sulla lettiga che avevano preparato per quel momento, e una dozzina di uomini della tribù degli awamir caricarono la lettiga su uno dei cammelli da soma. Issato su quella lettiga ondeggiante, Dorian voltò la testa e, con gli occhi iniettati di sangue tra le palpebre gonfie, vide le orde degli awamir attraversare la pianura. Poi, all'orizzonte, apparve la pattuglia dei turchi, che trattennero i cammelli, fermandosi all'interno della nuvola di polvere da loro stessi sollevata, fissando l'esercito degli awamir con stupore e improvviso allarme. Un grido possente: «Allah akbar!» si levò dalle schiere degli awamir, che abbassarono le lunghe lance, precipitandosi in avanti, mentre i turchi invertivano la direzione e fuggivano davanti a loro. Dorian si abbandonò sulla lettiga, chiudendo gli occhi e lasciandosi sommergere dall'oscurità. La colonna di awamir che si riversò oltre il passo della Gazzella Leggiadra contava quasi seimila uomini. Le pianure salate oltre il passo erano deserte, perché gli esploratori del nemico avevano riferito l'avvicinarsi dell'esercito del principe, spingendo i turchi a rifugiarsi a nord, tornando verso Muscat. Al-Malik si fermò al passo per dare sepoltura dignitosa ai corpi dei saar che vi avevano trovato la morte. Dorian era ancora troppo debole e malato per alzarsi dalla lettiga, ma si fece trasportare da Batula e altri quattro fino alla tomba, e per la prima volta pregò da musulmano nella comunità degli altri credenti, mentre recitavano le preghiere per i defunti. Poi l'esercito proseguì attraverso le pianure salate verso i pozzi amari di Ghail ya Yamin, dove si erano già riuniti i guerrieri dei saar, che ingrossarono le file del suo esercito di tremila lance. Quella notte, gli sceicchi dei saar si recarono alla tenda nella quale riposava Dorian, affollandosi intorno alla sua lettiga per chiedergli di descrivere nei dettagli il combattimento al passo della Gazzella Leggiadra; Quando il giovane narrò della morte di ciascuno dei saar si levarono Wilbur Smith
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esclamazioni di meraviglia, mentre i padri e i fratelli dei caduti piangevano di orgoglio. «Per Allah, una battaglia in cui Rachid sarà stato fiero di morire!» «In nome di Allah, Salim era davvero un uomo!» «Allah preparerà un posto in paradiso per mio figlio Mustafà.» Erano assetati di guerra e di vendetta, perché la faida si poteva spegnere soltanto col sangue, e pronunciarono un giuramento contro Zayn al-Din e i turchi: in cuor suo, Dorian pronunciò lo stesso giuramento. Anche in seguito, per tutti i giorni in cui l'esercito rimase accampato a Ghail ya Yamin, tornarono alla sua tenda, a mezzogiorno e al tramonto, per sentirsi ripetere la storia, e correggevano Dorian se tralasciava anche un unico particolare, pregandolo di ricordare ogni fendente di scimitarra e ogni colpo di fucile, e che cosa aveva detto e fatto esattamente ciascuno dei saar prima di morire. Da Ghail ya Yamin, l'esercito si diresse a nord per la tappa seguente della lunga marcia verso Muscat. A ogni pozzo e ogni passo che incontrarono tra le montagne vennero a unirsi a loro le altre tribù, i balhaf e gli afar, i bait kathir e gli harasis, cosicché, quando raggiunsero Muqaibara, erano ormai quindicimila, un esercito imponente che formava una colonna lunga dieci miglia attraverso il deserto. Batula sussurrò a uno dei compagni la storia della conversione di Dorian all'Islam; e poiché nessun arabo è capace di tenere un segreto, specie se succoso come quello, la storia fece il giro di tutti gli accampamenti. I guerrieri ripetevano la profezia del santo Taimtaim, poiché molti di loro avevano letto il testo sulle pareti della sua tomba, e ne discutevano all'infinito, giurando sul nome di Allah che al-Salil era davvero l'orfano della profezia. Con lui, la vittoria era assicurata, e loro, prima che tornasse il Ramadan, avrebbero insediato l'emiro Abd Muhammad al-Malik sul Trono dell'Elefante nella reggia di Muscat. Durante le settimane necessarie all'esercito per coprire la distanza tra Ghail ya Yamin e Muqaibara, le ferite di Dorian erano guarite senza complicazioni, perché nel deserto non esistono umori maligni che possano infettare le ferite e provocare la cancrena. Quando fu di nuovo pronto a prendere il suo posto tra i guerrieri, il principe lo mandò a chiamare e, mentre passava in mezzo all'accampamento, gli arabi di tutte le tribù lo acclamarono, seguendolo fino alla tenda di al-Malik. Si ammassarono poi davanti alla tenda aperta mentre Dorian s'inginocchiava davanti al Wilbur Smith
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principe, chiedendogli: «Datemi la vostra benedizione, padre». «Hal già la mia gratitudine e la mia benedizione, figlio, e molto di più.» Al-Malik batté le mani, e Batula condusse avanti quattro cammelli da corsa di razza purissima, tutti adorni di una ricca bardatura, con la lancia, la spada e il jezail nei foderi fissati al dorso. «Questo è il mio dono per te, per ripagare in minima parte quello che Hal perduto al passo della Gazzella Leggiadra.» «Vi ringrazio per la generosità, padre, anche se non cerco ricompense per quello che era soltanto il mio dovere.» Al-Malik batté di nuovo le mani, e due vecchie della tribù dei saar, coperte di fitti veli, si avvicinarono a Dorian per deporre ai suoi piedi un involto di seta ripiegata. «Sono le madri di Rachid e Salim, morti al passo», spiegò il principe. «Mi hanno pregato di concedere loro l'onore di cucire e ricamare il tuo stendardo da combattimento.» Le due vecchie stesero lo stendardo sul pavimento della tenda. Era lungo sei piedi, di seta azzurra, con la profezia del santo Taimtaim ricamata sopra col filo d'argento; l'elegante scrittura araba scorreva sinuosa sul fondo di seta, come le correnti e i mulinelli sulla superficie di un fiume azzurro. «Padre, questo è lo stendardo di uno sceicco», protestò Dorian. «E infatti lo sei», rispose al-Malik, sorridendogli con affetto. «Ti ho innalzato a questo rango e so che lo porterai con onore.» Dorian si alzò, sollevando lo stendardo sopra la testa, poi corse fuori per spiegarlo alla luce del sole, mentre la folla si apriva dinanzi a lui e lo acclamava, sparando in aria: lo stendardo si snodava alle sue spalle come un serpente azzurro che volasse al vento. Quindi tornò alla tenda del principe, prostrandosi ai suoi piedi: «Voi mi fate troppo onore, signore», mormorò. «Nella battaglia imminente, tu comanderai l'ala sinistra, sceicco alSalil», gli disse al-Malik. «Metterò ai tuoi ordini quattromila uomini.» Dorian si mise a sedere, guardandolo negli occhi con espressione grave. «Padre, posso parlarvi in segreto?» Il principe annuì, ordinando con un cenno che i pannelli di cuoio che formavano le pareti laterali della tenda fossero calati e al-Allama e il suo seguito si ritirassero, lasciandoli soli. «Che cos'altro mi chiedi, figlio mio?» disse al-Malik, chinandosi per ascoltarlo più da vicino. «Parla, e lo avrai.» Wilbur Smith
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Per tutta risposta, Dorian distese lo stendardo azzurro, seguendo con le dita le parole della profezia. «'Riunirà le sabbie del deserto che sono divise'», lesse a voce alta. «Continua», ordinò il principe, accigliandosi. «Non capisco il significato delle tue parole.» «Si direbbe che il sant'uomo mi abbia imposto un altro dovere. A me sembra che, quando parlava delle sabbie del deserto, il santo si riferisse alle tribù che sono divise e in guerra tra loro.» Il principe annuì. «Questo è possibile», ammise. «Anche se gran parte delle tribù si sono alleate con noi, i masakara e gli harth e i bani bu hasan suonano ancora il tamburo di guerra per Yaqub e la Sublime Porta.» «Lasciatemi andare da loro, innalzando questo stendardo», lo pregò Dorian. «Che vedano il colore dei miei capelli, e poi discuterò con loro la profezia. Allora, se Allah è benevolo, vi porterò più di diecimila lance.» «No!» esclamò al-Malik, allarmato. «I masakara sono infidi, ti sbudelleranno e t'impaleranno al sole. Non posso permetterti di correre un rischio simile.» «Ho combattuto contro di loro», disse Dorian con voce pacata. «Dovranno accordarmi almeno il rispetto che è dovuto a un nemico onorevole. Se mi presentassi da solo e mi mettessi nelle loro mani come viandante, non oserebbero andare contro gli insegnamenti del Profeta. Dovrebbero ascoltarmi.» Il principe aveva un'espressione infelice, mentre si accarezzava la barba con un gesto che indicava agitazione, ma quello che Dorian aveva detto era vero: il Profeta aveva imposto ai credenti il dovere dell'ospitalità, per cui erano obbligati a proteggere il viandante che giungeva tra loro. «Comunque non posso permetterti di esporti a un rischio simile», disse infine. «Una vita a rischio, ma una posta di diecimila lance», obiettò Dorian. «Padre, non potete negarmi questa occasione di adempiere il mio destino come sta scritto.» Alla fine, il principe sospirò. «Come potrebbero i masakara spuntarla contro la tua eloquenza? Io non ci riesco. Puoi andare da loro, al-Salil, come mio emissario. Ma giuro sulla barba rossa del Profeta che, se ti faranno del male, ci sarà una tale pioggia di teste da satollare tutti gli avvoltoi dell'Arabia al punto che non riusciranno più a volare.» Al tramonto del giorno dopo, il principe era seduto da solo sulla cima di Wilbur Smith
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una collina bassa, oltre l'oasi. Quattro cammelli uscirono senza dare nell'occhio dall'accampamento dell'esercito, passando oltre la collina per dirigersi a nord, tra le ombre violacee della notte. Dorian era in sella al primo cammello e guidava il secondo con una lunga cavezza, mentre Batula lo seguiva, conducendo anche lui un cammello di riserva. Erano entrambi velati. Alzando gli occhi verso il principe, Dorian abbassò la lancia in segno di saluto e l'altro sollevò la mano destra per benedirlo. Poi Abd Muhammad al-Malik li guardò allontanarsi nel deserto, con un'espressione mesta e addolorata. Era buio e le stelle sfavillavano in cielo, quando infine si alzò dalla roccia sulla quale era seduto, per scendere verso il chiarore dei falò che riempivano l'ampia valle di Muqaibara. Nella stagione fresca in cui i venti soffiano dal mare, un mese prima del Ramadan, l'esercito di al-Malik era schierato davanti a Muscat, osservando gli ottomani e la schiera delle tribù fedeli al califfo schierarsi in ordine di combattimento per affrontarli. Al-Malik era seduto insieme col suo seguito sotto una tenda di cuoio, su un'altura che dominava la pianura, con l'esercito schierato ai suoi piedi. Sollevò il lungo cannocchiale di bronzo per studiare la formazione nemica che prendeva posto di fronte a lui: i turchi erano al centro, con gli squadroni di cavalleria all'avanguardia e gli uomini con i cammelli dietro. «Quanti?» domandò agli uomini che lo circondavano, e che discussero tra loro come se dovessero contare le capre al mercato. «Dodicimila turchi», decisero infine. Il centro dello schieramento scintillava di bronzo e d'acciaio, con gli stendardi verdi della Sublime Porta che sventolavano alla brezza di mare, mentre gli squadroni di cavalleria si spingevano avanti al piccolo trotto e poi si assestavano in una solida falange pronta a muovere all'attacco. «E i masakara?» domandò al-Malik. «Quanti sono?» Erano schierati all'ala destra, una massa di uomini in sella ai cammelli, irrequieti come uno stormo di starne. «Sei, settemila», rispose uno sceicco harasis. «Come minimo», disse un altro. «Forse di più.» Al-Malik guardò l'altra ala nemica, riconoscibile dai veli neri e dai copricapi come l'esercito dei bani bu hasan e degli harth. Erano i lupi del deserto, pari per numero ai masakara. Sentì di nuovo, in fondo alla gola, il gusto di fiele della delusione: i suoi uomini erano inferiori di numero quasi Wilbur Smith
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della metà. Al-Salil non era riuscito nel tentativo di portare dalla loro le tribù del nord, e al-Malik non aveva saputo più nulla di lui da quando si era allontanato nel deserto, quasi due mesi prima. In cuor suo, sapeva che avevano commesso un errore di calcolo e che lui non avrebbe mai dovuto mandare al-Salil da loro. Ogni giorno temeva di ricevere in dono dai masakara la testa recisa del figlio dai capelli rossi, chiusa in un sacco di cuoio. Benché quel macabro trofeo non fosse arrivato, la prova del suo fallimento era laggiù, sulla pianura: quasi quindicimila lance ribelli puntate contro di lui. D'un tratto notò un trambusto al centro dello schieramento turco. Alcuni messaggeri si fecero avanti al galoppo, recando gli ordini del comando ottomano, poi i corni suonarono l'avanzata. La cavalleria turca mosse in avanti, una fila dopo l'altra, con la luce del sole che si rifletteva sulle armature, mentre le formazioni arabe ai fianchi restarono sulle loro posizioni, lasciando spazi vuoti nella prima linea. Era un fatto insolito, che il principe osservò attraverso il cannocchiale con improvviso interesse. Ci fu un altro trambusto tra le file nemiche, e stavolta i messaggeri partirono al galoppo dal comando turco al centro, agitando le braccia, di certo per sollecitare gli alleati arabi a unirsi all'avanzata generale, chiudendo i vuoti pericolosi che si erano formati nel fronte d'attacco. Infine le formazioni arabe cominciarono a muoversi, ma effettuarono una manovra a tenaglia da destra e da sinistra convergendo verso il centro, dove i turchi restavano fermi, incerti e confusi da quell'inatteso sviluppo. «Sia benedetto il nome di Allah», sussurrò al-Malik, mentre il cuore cominciava a battergli forte, facendogli mancare il respiro. Al centro della prima linea dei masakara vide spiegarsi un nuovo stendardo portato da un cavaliere alto, in sella a un cammello purosangue color miele. Puntando il cannocchiale su quel guerriero, vide che lo stendardo era azzurro, con una scritta scintillante in argento: sotto i suoi occhi attoniti, il cavaliere si tolse il copricapo, abbassando la lancia. Aveva i capelli d'oro rosso e la lancia era puntata contro il fianco dello schieramento turco. «Allah! Sia lode ad Allah. Al-Salil ce l'ha fatta. Ha convertito alla nostra causa le tribù ribelli.» Mentre lui restava a guardare, stupito, le formazioni arabe schierate sulle Ali dei turchi avanzarono, prendendo d'infilata gli ottomani e chiudendosi su di loro come una tenaglia d'acciaio. Wilbur Smith
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Riscuotendosi, il principe lanciò l'ordine: «Avanzata! Carica!» e i tamburi di guerra risuonarono, mentre i corni lanciavano una nota stridula e incalzante. Con i sahar e gli awamir al centro, l'esercito che veniva dal sud si fece avanti, sollevando una nube di polvere che oscurò il cielo azzurro. Dorian cavalcava al centro della fila, e il suo cuore cantava. Fino all'ultimo momento non aveva avuto la certezza che gli sceicchi dei masakara tenessero fede alla promessa di ribellarsi contro gli ottomani. La sua cavalcatura si spinse più avanti dei cavalieri che lo fiancheggiavano; solo Batula riuscì a tenergli testa, restandogli a una lancia di distanza. Di fronte a lui, i turchi erano in preda alla confusione; per lo più guardavano ancora verso la valle dove l'esercito del principe alMalik stava avanzando. Solo quelli più vicini all'ala destra avevano visto il pericolo e si stavano voltando per affrontare la carica. Con un fragoroso clangore di corpi e di scudi, investirono il fianco dello schieramento ottomano, sconvolgendone le file. Dorian scelse un uomo fra i tanti, un individuo corpulento, con la cotta di maglia di ferro e l'elmo di bronzo, il viso scuro stravolto dall'ira e dalla costernazione mentre tentava di controllare lo stallone imbizzarrito. Il giovane abbassò la punta della lancia, abbassandosi sulla sella. Sotto l'addestramento di Batula, aveva imparato a colpire un melone lanciato in aria mentre correva al galoppo. Mirò quindi all'apertura nella cotta di maglia del turco, sotto l'ascella sinistra, e la lancia vibrò nella sua mano: la punta trovò il varco e si conficcò nel petto dell'uomo fino a colpire la cotta dalla parte opposta; poi l'impatto sbalzò di sella il turco, che rimase appeso alla lancia flessibile, scalciando in aria. Dorian inclinò la punta in basso, lasciandolo scivolare dall'acciaio e rotolare nella polvere, poi risollevò la lancia, scegliendo la vittima seguente. Stavolta la lancia gli si spezzò in mano per la violenza del colpo, ma la punta d'acciaio era già saldamente conficcata nella gola dell'uomo che aveva colpito. Il turco afferrò il troncone con entrambe le mani, tentando di estrarlo dalle carni, ma morì prima di riuscirci, scivolando dalla sella per finire trascinato dal cavallo, impazzito dal terrore. Batula gettò la lancia di ricambio a Dorian, che la prese al volo e, con un unico movimento, abbassò la lunga asta, puntando la testa scintillante all'altezza del ventre di un altro nemico. Wilbur Smith
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Nei primi minuti della carica, la schiera degli ottomani fu sconvolta, caricata da entrambi i lati, e, mentre stentavano ancora a riprendersi, il grosso dell'esercito proveniente dal sud si abbatté sul loro fronte disordinato. Gli eserciti, ormai intrecciati l'uno all'altro, si muovevano come una massa di detriti travolti da una tromba d'aria, e il fragore divenne assordante, mentre gli uomini colpivano, spingevano, gridavano e morivano. Non poteva durare a lungo, perché il conflitto era troppo squilibrato e la furia degli assalitori troppo violenta. Attaccati ai fianchi e sul davanti, inferiori numericamente, gli ottomani cedettero, cominciando a ripiegare. Intuendo la vittoria, gli arabi si spinsero in avanti come lupi intorno a un cammello morente, lacerando, ululando e azzannando, finché non infransero la resistenza nemica e la battaglia si trasformò in una sanguinosa carneficina. La carica iniziale aveva portato Dorian al centro della massa nemica, tanto che, per qualche disperato istante, Batula e lui rimasero isolati e circondati. Anche la seconda lancia si spezzò tra le mani di Dorian, che sguainò la spada, combattendo fino ad avere il braccio destro bagnato di sangue turco fino alla spalla. Poi, bruscamente, la furia del nemico si placò: i turchi cominciarono a ripiegare, rivolgendo le cavalcature verso la retroguardia. Dorian vide gli uomini gettare le armi, mentre gli arabi irrompevano nei varchi aperti nello schieramento e gli sconfitti frustavano i cavalli spingendoli al galoppo per fuggire. «Inseguiteli!» urlò Dorian. «Inseguiteli! Fateli a pezzi.» I due eserciti, mischiati come acqua e olio, dilagarono nella pianura. Gli arabi ululavano e menavano fendenti, lanciando il loro grido di guerra, mentre la battaglia si tramutava in una disfatta e i turchi in fuga facevano ben poco per difendersi. Alcuni di loro si gettarono da cavallo per inginocchiarsi davanti ai nemici invocando pietà, ma gli arabi li trafissero senza fermarsi, tornando indietro soltanto per depredare i cadaveri dell'oro e del bottino. Dorian combatté aprendosi la strada fino alla retroguardia: guardando in avanti, vide che il comando ottomano aveva disertato da tempo la battaglia, lanciandosi in una fuga disperata attraverso la pianura. Il generale e tutti gli ufficiali avevano afferrato al volo un cavallo o un cammello per fuggire verso la città. In tutta quella moltitudine, però, lui Wilbur Smith
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cercava un uomo, e uno soltanto. «Dov'è Zayn al-Din?» gridò a Batula. Lo aveva visto quella mattina, mentre l'esercito usciva dalle porte di Muscat. Zayn al-Din era in mezzo agli altri ufficiali del comando turco e cavalcava dietro il generale ottomano, indossando l'armatura leggera e portando la lancia come se fosse ansioso di combattere. Insieme con lui c'era Abubaker, il suo vecchio amico e compagno di bravate dello zenana di Lamu; Abubaker era diventato alto e snello, con un paio di lunghi baffi, ed era abbigliato da guerriero. Anche se i suoi vecchi nemici erano passati a meno di due lance da Dorian, nessuno dei due lo aveva riconosciuto tra le file dei masakara, perché il giovane montava un cammello diverso e aveva il viso e i capelli rossi nascosti dalle pieghe di un turbante nero. «Dov'è?» gridò a Batula. «Riesci a vederlo?» Dorian si alzò di scatto sulla sella di legno del suo cammello, compiendo con disinvoltura una prodezza da atleta, e, da lassù, scrutò la pianura davanti a lui, coperta di nemici in fuga, ma anche di cavalli sciolti e cammelli rimasti senza cavaliere. «Eccolo!» gridò infine, abbassandosi di nuovo sulla sella e spingendo il cammello in avanti. Zayn al-Din era mezzo miglio più avanti, in sella allo stesso stallone baio che Dorian aveva visto quella mattina. Il suo corpo grassoccio era inconfondibile, come la fascia d'oro che gli stringeva il copricapo azzurro. Dorian spinse a tutta velocità il cammello, superando molti altri turchi, alcuni dei quali erano ufficiali di alto grado; ma lui li ignorò e, come un ghepardo che insegue la gazzella prescelta, piombò fulmineo su al-Din. «Fratello!» lo chiamò, raggiungendo alle spalle lo stallone baio. «Fermati! Ho qualcosa per te.» Zayn guardò indietro, e il vento gli sfilò il turbante dalla testa, facendo sventolare i lunghi capelli scuri e la barba. Per il terrore, il suo viso assunse il colore del burro di cammella rancido. Dorian gli era vicinissimo, con la lunga scimitarra in mano, il viso chiazzato dal sangue delle sue vittime e il sorriso crudele e spietato. Paralizzato dal terrore, aggrappato al pomo della sella, Zayn teneva gli occhi fissi su Dorian che ormai gli si era affiancato, sollevando la scimitarra. Poi, con uno strillo acuto, Zayn lasciò la presa cadendo di sella, urtò con violenza il terreno e rotolò come un masso lungo un pendio ripido, prima di fermarsi, restando inerte come un mucchio di stracci. Dorian riportò indietro il cammello, sovrastandolo, mentre Zayn Wilbur Smith
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strisciava per mettersi in ginocchio. Aveva il viso bianco di polvere e un graffio su una guancia. Alzando gli occhi verso l'altro, cominciò a farfugliare: «Risparmiami, al-Salil. Ti darò quello che vuoi». «Gettami la tua lancia», gridò Dorian a Batula senza staccare gli occhi dal viso disgustoso di Zayn. Batula gli lanciò l'arma, e Dorian abbassò la punta appoggiandola sul petto di Zayn, che cominciò a piangere: le lacrime lasciarono lunghe striature sulla polvere che gli copriva il viso. «Ho un lakh di rupie d'oro, fratello. Sono tutte tue, se mi risparmi, te lo giuro.» Aveva la bocca molle, con le labbra tremanti, e sbavava per la paura. «Ti ricordi Rachid, al passo della Gazzella Leggiadra?» gli chiese Dorian con aria truce, sporgendosi dalla sella per guardarlo in faccia. «Che Allah mi perdoni», gridò Zayn. «L'ho fatto nella foga del combattimento. Ero fuori di me. Perdonami, fratello.» «Vorrei soltanto poter vincere la ripugnanza che m'impedisce di toccarti, perché allora potrei tagliarti i testicoli come Hal fatto col mio amico. Preferirei toccare un serpente velenoso, invece», ribatté Dorian, sputando per il disgusto. «Tu non meriti la morte del guerriero, trafitto dall'acciaio della lancia. Tuttavia, poiché sono un uomo compassionevole, te la concederò.» Spinse in avanti la lunga asta, pungendo con la punta scintillante il petto grasso di al-Din. E questi si salvò la vita, perché trovò le uniche parole che potessero dissipare la collera implacabile di Dorian. «In nome dell'uomo che è nostro padre, per amore di al-Malik, abbi pietà di me.» Il giovane cambiò espressione, ritirando la lancia di un palmo, mentre il suo sguardo diventava incerto. «Tu chiedi il giudizio del padre che Hal tradito. Sappiamo entrambi che dev'essere la garrotta del boia. Se questa è la morte che preferisci, anziché quella pulita che ti offro io, così sia. Te la concedo.» Risollevò la lancia, infilandone l'impugnatura nel fodero di cuoio della sella, vicino al tallone. «Batula!» chiamò poi. Quando il portatore di lancia accorse, gli ordinò: «Lega dietro la schiena le braccia di questo porco infedele e mettigli un cappio al collo». Batula scese di sella, legando rapidamente le braccia di Zayn, poi gli passò intorno al collo un cappio, gettando l'altra estremità della corda a Dorian, che l'assicurò a uno dei ganci della sella. «In piedi!» ordinò, imprimendo uno strattone alla corda. «Ti porterò dal Wilbur Smith
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principe.» Zayn si alzò, vacillando, per avviarsi dietro il cammello con la sua andatura incerta. Una volta perse l'equilibrio e rotolò a terra, ma Dorian non rallentò né si degnò di guardare indietro, e Zayn dovette alzarsi di nuovo, con la veste lacera sulle ginocchia sanguinanti. Prima che avessero coperto un solo miglio su quella pianura imbevuta di sangue, sulla quale i corpi dei turchi giacevano affastellati come alghe su una spiaggia flagellata dalla tempesta, i sandali d'oro ai piedi di Zayn erano andati distrutti e lui aveva la pianta dei piedi scorticata a sangue e il viso gonfio e nero, strozzato dal cappio al collo. Era così debole che non aveva neanche la forza d'invocare pietà. Quando il principe Abd Muhammad al-Malik entrò a Muscat alla testa del suo seguito, gli abitanti della città e i cortigiani del califfo Al Uzar Ibn Yaqub spalancarono le porte per uscire ad accoglierlo. Si erano stracciate le vesti, cospargendosi il capo di cenere e polvere in segno di pentimento, prima di inginocchiarsi davanti al suo cavallo e pregarlo di risparmiare loro la vita, giurando fedeltà a lui e acclamandolo nuovo califfo di Oman. In sella al suo cavallo, il principe rimase impassibile, una figura nobile e maestosa, ma quando il visir del fratello Yaqub si fece avanti, portando in spalla un sacco macchiato, al-Malik assunse un'espressione addolorata, perché sapeva già che cosa conteneva quel sacco. Il visir lo vuotò sulla polvere della strada, e la testa recisa di Yaqub rotolò fino ai piedi del principe, con gli occhi spenti e vitrei rivolti al cielo. La barba grigia era incrostata di sudiciume come quella di un mendicante, mentre una nube di mosche si posava ronzando sugli occhi aperti e sulle labbra insanguinate. Al-Malik fissò quel macabro resto con aria malinconica, prima di alzare lo sguardo sul visir per dirgli a bassa voce: «Vuoi conquistarti la mia approvazione assassinando mio fratello e portandomi questo dono infame?» «Potente signore, ho fatto soltanto quello che pensavo potesse compiacervi», mormorò il visir. Il principe rivolse un cenno allo sceicco degli awamir che era al suo fianco. «Uccidilo!» Lo sceicco si sporse dalla sella e, con la spada, fendette il cranio del visir, spaccandolo in due fino al mento. «Trattate i resti di mio fratello con il massimo rispetto e preparatelo per la sepoltura prima del tramonto del sole. Io reciterò le preghiere per la sua anima», disse al-Malik, rivolgendo poi lo sguardo sui cittadini di Muscat, Wilbur Smith
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che si stringevano gli uni agli altri, assaliti dal terrore. «Ora la vostra città è anche la mia, e il suo popolo è il mio popolo», annunciò. «Per decreto reale Muscat è esente dal saccheggio. La mia parola d'onore protegge le sue donne dalla violenza e i suoi tesori dalla rapina.» Alzando la mano destra in un gesto di benedizione, aggiunse: «Quando mi avrete prestato giuramento di fedeltà, tutti i vostri misfatti e i crimini contro di me saranno perdonati e dimenticati». Poi entrò in città, nella reggia, insediandosi sul Trono dell'Elefante di Oman, ricavato da enormi zanne d'avorio. Cento nobili si contendevano l'attenzione del nuovo califfo e cento affari di Stato pressanti attendevano le sue cure, ma uno dei primi che mandò a chiamare fu lo sceicco al-Salil. Quando Dorian si prostrò dinanzi al trono d'avorio, al-Malik scese per invitarlo a rialzarsi e per abbracciarlo. «Ti credevo morto, figlio mio, e quando ho visto il tuo stendardo sventolare sulle schiere dei masakara il mio cuore ha esultato di gioia. Ti devo molto, non saprò mai quanto, perché, se non avessi condotto le tribù del nord sotto la mia bandiera, forse la battaglia non si sarebbe conclusa bene per noi, e forse oggi non sarei seduto sul Trono dell'Elefante.» «Padre, durante il combattimento ho preso un prigioniero dell'esercito ottomano», gli disse Dorian, facendo un segnale a Batula, che attendeva in mezzo ai nobili riuniti in fondo alla sala del trono. Il suo portatore di lancia si fece avanti, tirandosi dietro con la corda Zayn al-Din. Aveva gli abiti laceri e sporchi di polvere e sangue rappreso, i capelli e la barba bianchi di polvere, mentre i piedi, nudi, erano scorticati a sangue come quelli di un pellegrino, al punto che al-Malik non lo riconobbe subito. Poi Zayn avanzò incespicando per gettarsi ai piedi del padre, piangendo e dimenandosi tutto come un porcellino frustato. «Perdonatemi, padre. Perdonate la mia terribile stupidità. Sono colpevole di tradimento e mancanza di rispetto. Sono colpevole di avidità. Sono stato traviato da uomini malvagi.» «Ah, è così?» replicò il principe in tono gelido. «La Sublime Porta mi aveva offerto il Trono dell'Elefante se mi fossi rivoltato contro di voi, e io sono stato debole e stupido. Me ne pento con tutto il cuore e, se doveste ordinare di giustiziarmi, griderò al cielo il mio amore per voi mentre la vita fuggirà dal mio corpo.» «Meriti ampiamente una morte simile. Da me non Hal ricevuto altro che affetto e gentilezza per tutta la vita, e mi Hal ripagato con il tradimento e il Wilbur Smith
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disonore.» «Concedimi un'altra possibilità di dimostrarti il mio affetto», farfugliò Zayn, inondando di muco i sandali del padre, mentre le lacrime gli sgorgavano dagli occhi. «Questo giorno di letizia è stato già contristato dalla morte di mio fratello Yaqub. È stato versato sangue a sufficienza», osservò al-Malik. «Alzati, Zayn al-Din. Ti concedo il perdono, ma per penitenza dovrai compiere il pellegrinaggio nei luoghi santi della Mecca e chiedere perdono anche laggiù. Non presentarti al mio cospetto finché non sarai tornato con l'anima mondata dalle tue colpe.» Zayn si alzò a fatica. «Invoco tutte le benedizioni di Allah su di voi, per la benevolenza e la compassione che mi avete mostrato. Scoprirete che il mio affetto è come un fiume possente che scorrerà in eterno.» Continuando a mostrarsi servile, inchinandosi e mormorando proteste di lealtà e doverosa obbedienza, Zayn percorse a ritroso tutta la sala del trono, prima di voltarsi per fendere la folla e varcare la soglia, superando gli alti battenti d'avorio. Dieci giorni dopo l'ingresso trionfale a Muscat, e una settimana prima dell'inizio del Ramadan, nella reggia e per le vie della città si celebrò l'incoronazione del nuovo califfo. I guerrieri delle tribù erano tornati in gran parte nel deserto, ai loro villaggi raccolti intorno alle oasi sparse in tutto il territorio di Oman, perché gli uomini del deserto si sentivano a disagio entro le mura di una città. Dopo aver prestato giuramento di fedeltà ad al-Malik, si allontanarono con i cammelli carichi delle spoglie dell'esercito ottomano che avevano sbaragliato. Quelli che erano rimasti si unirono ai festeggiamenti in corso nelle vie cittadine, dove cammelli e montoni interi furono arrostiti sui fuochi accesi in ogni suk e in ogni strada, mentre risuonava il richiamo dei corni d'ariete e dei tamburi e gli uomini danzavano per le strade, sotto gli occhi delle donne velate, confinate ai piani superiori delle case, strette l'una all'altra. Il nuovo califfo percorse a piedi le vie affollate, seguito da una processione di cortigiani, fermandosi a ogni passo per abbracciare uno dei guerrieri che avevano combattuto nel suo esercito, mentre la folla ululava e sparava in aria per la gioia, gettandosi ai suoi piedi. Mezzanotte era passata da tempo, quando il califfo rientrò nel palazzo di Muscat, e lo sceicco al-Salil, come sempre per tutto quel giorno, era al suo Wilbur Smith
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fianco. «Resta con me ancora un poco», ordinò il califfo, quando raggiunsero la porta della sua stanza da letto, prendendo per il braccio Dorian e guidandolo fuori, sull'alta balconata che dominava il mare e le vie cittadine. La musica e le grida della popolazione in festa giungevano fino a loro attutite dalla distanza, mentre le fiamme dei falò si riflettevano sulle mura, illuminando i danzatori. «Ti devo spiegazioni per la grazia che ho concesso a Zayn al-Din», disse infine il califfo. «Voi non mi dovete nulla», protestò Dorian. «Sono io che vi devo tutto.» «Zayn meritava una punizione severa. Era un traditore, e ho visto come ha trattato i tuoi compagni al passo della Gazzella Leggiadra.» «I miei sentimenti non contano», replicò Dorian. «Piuttosto mi preoccupa quello che ha fatto a voi, e quello che farà ancora, un giorno o l'altro.» «Tu pensi che il suo pentimento sia simulato?» «Ambisce al Trono dell'Elefante», rispose Dorian. «Sarei stato più felice se aveste accolto uno scorpione nel vostro seno e un cobra nel vostro letto.» Il califfo si lasciò sfuggire un sospiro mesto. «È il mio primogenito. Non potevo inaugurare il regno con la sua morte. Ma so di averti esposto a un grave pericolo, perché il suo odio per te è implacabile.» «Sono capace di difendermi, padre.» «Questo lo Hal già dimostrato», ammise il califfo con una risata sommessa. «Ma ora passiamo ad altro. Ho un nuovo incarico per te, difficile e pericoloso.» «Non avete che da ordinare.» «Il commercio con l'interno dell'Africa è essenziale per la prosperità della nazione. Noi, che un tempo eravamo solo un popolo di poveri nomadi del deserto, stiamo diventando una nazione di navigatori e commercianti.» «Me ne rendo conto, padre.» «Oggi ho ricevuto un messaggero del sultano di Zanzibar. Il nostro commercio con l'Africa è esposto a una nuova e grave minaccia: l'esistenza stessa della nostra base a Zanzibar e Lamu è in pericolo.» «Com'è possibile?» Wilbur Smith
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«Una banda di predoni assalta le nostre vie carovaniere tra la costa della Febbre e i grandi laghi. Il nostro commercio in Africa corre seri rischi.» «Le tribù nere si stanno ribellando?» «Può darsi. Sappiamo che fra i predoni vi sono uomini delle tribù, ma corre anche voce che siano guidati da alcuni infedeli.» «Di quale Paese?» chiese Dorian. Il califfo si strinse nelle spalle. «Questo non si sa. L'unica certezza è che sono spietati negli attacchi alle carovane di schiavi. Abbiamo perso quasi tutte le entrate previste per quest'anno dalla vendita degli schiavi, insieme con immense quantità di oro e avorio provenienti dall'interno.» «Che cosa volete che faccia?» chiese Dorian. «Ti rilascerò un firmari di autorizzazione e una lettera di nomina a generale del mio esercito, insieme con tutti i combattenti che ti servono. Quanti ce ne vorranno? Mille? Duemila? Voglio che salpi subito per Lamu e poi attraversi il canale, marciando verso l'interno per mettere fine a queste scorrerie.» «Quando volete che parta?» «Dovrai salpare con la luna nuova che pone fine al digiuno del Ramadan.» La piccola flotta dello sceicco al-Salil, «la spada sguainata», gettò l'ancora al largo della spiaggia dell'isola di Lamu in coincidenza con il plenilunio del Ramadan. Comprendeva sette grandi dhow adatti alla navigazione oceanica, che trasportavano milleduecento soldati del califfo. Dorian sbarcò all'alba per fare visita al governatore, sottoporgli il firmari e prendere accordi per la sistemazione delle truppe, bisognose di rifornimenti. Gli servivano alloggi a terra per gli uomini, che dovevano riprendersi dal viaggio lungo la costa, oltre a provviste di cibi freschi, cavalli e bestie da soma. Su quella costa umida e malsana i cammelli del deserto non sarebbero sopravvissuti a lungo, come del resto i cavalli arabi appena arrivati dal nord. Dorian aveva bisogno di animali già acclimatati, che fossero stati allevati sulla costa, sviluppando così l'immunità alle malattie africane. Ci vollero tre giorni per scaricare tutti gli uomini e i bagagli, giorni nei quali Dorian trascorse gran parte del tempo presso l'approdo o nell'accampamento appena innalzato sulla spiaggia. La sera del terzo giorno, mentre tornava all'approdo attraverso le vie della città, Wilbur Smith
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accompagnato da Batula e da tre dei suoi comandanti, giunto quasi all'ingresso della fortezza, si sentì chiamare con il suo nome da bambino: «Al-Amhara!» Si girò di scatto, riconoscendo la voce, sebbene non la sentisse da tanti anni, per fissare la donna coperta da un fitto velo che stava rannicchiata sulla soglia dell'antica moschea, dalla parte opposta della viuzza. «Tahi? Sei tu, vecchia madre?» «Allah sia lodato, bambino mio. Pensavo che forse non ti saresti ricordato di me.» Dorian avrebbe voluto precipitarsi da lei per abbracciarla, ma fare una cosa del genere in pubblico sarebbe stata una grave infrazione all'etichetta. «Resta lì, manderò qualcuno che ti accompagni fino al mio alloggio», le disse prima di proseguire, poi mandò indietro Batula per farla condurre all'interno della fortezza, nell'ala che il governatore aveva messo a sua disposizione. Appena varcata la soglia, Tahi gettò il velo all'indietro per correre da lui, piangendo e parlando in modo incoerente. «Piccolo mio, bambino mio, come sei diventato alto! Hal la barba e gli occhi fieri come un falco, ma ti avrei riconosciuto ovunque. Sei diventato un grand'uomo, e anche sceicco, per giunta!» Dorian scoppiò a ridere, tenendola stretta e accarezzandole i capelli. «Che cosa sono questi fili d'argento, vecchia madre? Comunque, sei sempre bella.» «Sono vecchia, ma il tuo abbraccio mi fa sentire di nuovo giovane.» «Siediti.» La guidò verso la pila di tappeti disposti sul terrazzo, poi mandò uno schiavo a prendere del sorbetto e un piatto di datteri al miele. «Sono tante le notizie che voglio sentire da te», disse lei, allungando la mano per accarezzargli la barba e le guance. «Il mio bellissimo bambino è diventato un uomo bellissimo! Dimmi tutto quello che Hal fatto da quando Hal lasciato Lamu.» «Ci vorrebbero un giorno e una notte», protestò lui, sorridendo con affetto alla vecchia. «Ho tutto il resto della vita per ascoltarti», ribatté lei, e così Dorian rispose alle sue domande, tenendo intanto per sé quelle che avrebbe voluto rivolgerle, sebbene il farlo gli costasse tutta la forza di volontà che aveva. Infine giunse al termine del racconto. «E così il califfo mi ha rimandato qui a Lamu, prima della spedizione sulla costa della Febbre, e ne sono Wilbur Smith
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grato a Dio, perché ora posso rivedere il tuo volto amato.» Il viso di Tahi era segnato da rughe profonde, frutto dell'ansia e delle privazioni, sotto i capelli grigi come l'acciaio, ma lui l'amava più che mai. «E ora, dimmi, come te la sei passata in questi anni, da quando sono andato via?» Tahi gli raccontò che era rimasta nello zenana, svolgendo dei lavori servili per conto del capo degli eunuchi, Kush. «Perlomeno ho un tetto sulla testa e qualcosa da mettere nello stomaco, e di questo rendo grazie ad Allah.» «Adesso verrai a vivere con me», le promise lui, «così potrò ripagarti di tutto l'amore e la gentilezza che mi Hal prodigato.» Lei pianse di felicità. Poi, tentando di mostrarsi indifferente, Dorian le rivolse la domanda che desiderava farle sin dall'inizio, aspettando con ansia la risposta. «Quali notizie Hal della piccola Yasmini? Dev'essere una donna, ormai, e sarà andata da tempo in India per sposare il suo principe moghul.» «Lui è morto di colera prima che potesse raggiungerlo», rispose Tahi, scrutandolo con occhi penetranti. Dorian tentò di nasconderle i suoi sentimenti bevendo un sorso di sorbetto. «E così le hanno trovato un altro marito nobile e importante?» «Sì, l'emiro di Al Bil Khail, ad Abu Dhabi, un vecchio riccone con cinquanta concubine ma solo tre mogli, la prima delle quali è morta due anni fa.» Tahi lesse la sofferenza e la rassegnazione negli occhi verdi di Dorian. «Quando si è sposata?» le domandò, e lei ne fu impietosita. «È promessa, ma non ancora sposata. Dovrà salpare per raggiungere lo sposo non appena i venti cambieranno e comincerà a soffiare il kusi. Nel frattempo, langue nell'attesa, qui nello zenana di Lamu.» «Yasmini è ancora qui a Lamu?» Lui la fissò attonito. «Non lo sapevo.» «Mi trovavo con lei proprio stamattina. Nel giardino presso la fontana. Sa che sei qui. Lo sanno tutti, nello zenana. Avresti dovuto vedere gli occhi di Yasmini, quando pronunciava il tuo nome! Brillavano come le stelle della Grande Croce. Mi ha detto: 'Amo al-Amhara come un fratello, e anche di più. Devo vederlo per l'ultima volta, prima di diventare la sposa di un vecchio e sparire per sempre agli occhi del mondo'.» Dorian si alzò di scatto dal tappeto, dirigendosi verso il fondo della terrazza, dove rimase in piedi a fissare la baia con i dhow all'ancora. Provava uno strano senso di esultanza, come se la ruota del destino avesse compiuto un altro giro. Nel corso dei suoi duri anni di vita nel deserto, il Wilbur Smith
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ricordo di Yasmini era sbiadito, ma lui si era sempre rifiutato di accettare le offerte degli sceicchi saar di trovargli una moglie tra le loro figlie. Fino a quel momento non aveva capito che stava aspettando qualcosa di diverso, il ricordo di una bambina dal musetto di scimmia e dal sorriso malizioso. Poi avvertì una fitta di sgomento. C'erano tanti ostacoli sul loro cammino: lei era imprigionata nello zenana e promessa a un altro uomo. Agli occhi di Allah era sua sorella, e lui sapeva che la pena prevista per l'incesto era una fine orribile. Se avesse violato una vergine della famiglia reale e profanato la sacralità dello zenana, nemmeno il califfo avrebbe potuto salvarlo dalla morte per lapidazione o decapitazione. Quanto a ciò che avrebbero fatto a Yasmini, rabbrividì, pensando ai racconti che aveva sentito sul trattamento riservato da Kush a qualunque donna affidata alle sue cure che deviasse dalla retta via. Quei racconti venivano ripetuti con un filo di voce: dicevano che una ragazza aveva impiegato quattro giorni per morire e che, per tutto quel tempo, le sue urla avevano impedito a chiunque si trovasse nello zenana di dormire. «Non posso permettere che corra questo rischio», disse a voce alta, incurvando le spalle, lacerato dall'emozione che lo spingeva prima in una direzione, poi nell'altra. «E d'altra parte non so resistere all'impulso del mio cuore.» Si voltò, picchiando il pugno chiuso contro la parete ruvida, fatta di frammenti di corallo cementato, e godendo di quel dolore. «Che cosa devo fare?» Tornò da Tahi, in paziente attesa, accovacciata sul tappeto. «Sei disposta a portarle un messaggio?» «Lo sai già. Che cosa devo dirle, figlio mio?» «Dille che stanotte, al sorgere della luna, l'aspetterò in fondo alla Via dell'Angelo.» Non permise neanche a Batula di accompagnarlo. Al calar della sera prese un cavallo e, nascosto sotto una veste pesante, con la testa velata, si allontanò dalla città diretto a nord. Ricordava ogni sentiero, ogni rivolo d'acqua e ogni tratto di foresta o di palude invasa dalle mangrovie. Facendo il giro sul retro, attraverso le palme, vide stagliarsi dinanzi a sé le mura dello zenana, alte, imponenti e oscure, visto che la luna non era ancora sorta. Raggiunte le vecchie rovine, legò la giumenta a un cespuglio poco lontano, dove sarebbe rimasta nascosta agli occhi di chiunque usasse il sentiero. Non si aspettava che qualche isolano si aggirasse nei paraggi a Wilbur Smith
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quell'ora, perché erano superstiziosi e temevano il jinn della foresta. Arrampicandosi in cima al cumulo di macerie, si fece largo nel folto di sterpi e cespugli fino a raggiungere la depressione nascosta al centro. L'ingresso della galleria era invaso dalla vegetazione, e lui ne dedusse che nessuno lo aveva usato negli anni trascorsi. Trovò posto per sedersi su un blocco di corallo da cui poteva sorvegliare l'entrata del tunnel. «Dowie? Sei tu?» La voce di Yasmini, più roca e sensuale di come la ricordasse, gli fece venire la pelle d'oca sulle braccia, drizzando la peluria sottile che gli cresceva sulla nuca. «Sono qui, Yassie.» I rami che schermavano l'ingresso si aprirono per lasciarla uscire al chiaro di luna. Indossava una semplice tunica bianca, con il velo sulla testa. Dorian si accorse subito che era cresciuta in altezza, ma aveva conservato il corpo snello e flessuoso della bambina che era stata, con il passo rapido e vigile di una timida gazzella. Nel vederlo, lei si fermò, poi lentamente sollevò le mani per scostare il copricapo che le velava il volto. Dorian si lasciò sfuggire un sospiro. Alla luce della luna piena, Yasmini era bellissima. Anche se non era più una bambina, il suo viso era ancora delicato come quello di un elfo, gli zigomi alti e gli occhi scuri, enormi; sorridendo, scoprì i denti bianchi e regolari. Lui si alzò, togliendosi a sua volta il copricapo e lasciandola stupita. «Come sei diventato alto! E la barba...» Lei s'interruppe, restando immobile, incerta. «E tu sei diventata una donna bellissima.» «Oh, mi sei mancato tanto», sussurrò Yasmini. «Ogni giorno...» Tutt'a un tratto corse da lui, che l'accolse a braccia aperte, stringendola al petto mentre lei tremava e singhiozzava. «Non piangere, Yassie. Ti prego, non piangere.» «Sono tanto felice», disse lei tra i singhiozzi. «Non sono mai stata tanto felice in vita mia.» Lui l'attirò accanto sé sul blocco di corallo, e Yasmini smise di piangere, tenendolo discosto da sé per guardarlo in faccia. «Ho avuto tue notizie anche qui nello zenana e so che sei diventato un guerriero importante. Hal vinto una grande battaglia nel deserto e sei andato con nostro padre a Muscat, dove Hal ottenuto la vittoria in un'altra battaglia campale.» «Non certo da solo», ribatté lui, sorridendo e seguendo con la punta del dito la linea delle sue labbra. Parlavano in fretta, con ansia, Wilbur Smith
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interrompendosi a vicenda e lasciando tante cose non dette, o dette solo a metà, prima di passare ad altro. «Che cosa ne è stato della tua scimmietta, Jinni?» le domandò. Le salirono le lacrime agli occhi, scintillanti al chiaro di luna. «Jinni è morta», rispose in un soffio. «Kush l'ha trovata nel suo prezioso giardino e l'ha uccisa con un colpo di zappa. Poi mi ha mandato in dono il suo corpicino.» Allora Dorian cambiò argomento, per distrarla con altri ricordi della loro infanzia, più piacevoli, e ben presto lei riprese a ridere. Poi tacquero entrambi, e Yasmini abbassò gli occhi con modestia, prima di sussurrare, senza guardarlo: «Ti ricordi quella volta che mi Hal portato a nuotare in mare, quando eravamo bambini? È stata la prima volta in cui ho lasciato lo zenana». «Certo che lo ricordo», le rispose con voce burbera. «Vuoi portarmi di nuovo laggiù, stanotte?» lo pregò, guardandolo negli occhi. «Ti prego, Dowie.» Passarono tra gli alberi, tenendosi per mano, fino a raggiungere la spiaggia deserta che luceva al chiaro di luna. Le ombre delle palme spiccavano sulla sabbia con il loro nero violaceo, mentre l'acqua splendeva con la luminescenza oleosa di una perla nera. Rispetto all'ultima volta che erano stati laggiù, le caverne nella parete di arenaria erano più profonde, scavate dall'azione delle onde dell'alta marea. Si soffermarono all'entrata, guardandosi. «Quello che stiamo facendo è peccato?» domandò lei. «Se lo è, non me ne importa», rispose Dorian. «So soltanto che ti amo, e stare con te non mi sembra un peccato.» «Anch'io ti amo», rispose lei. «Non potrei amare di più nulla e nessuno, anche se vivessi cent'anni.» Sciolse il nastro alla gola, lasciando scivolare sulla sabbia la tunica che indossava. Sotto, portava soltanto i pantaloni di seta. Dorian rimase senza fiato. I seni erano più rotondi, con i capezzoli scuri ed eretti, la pelle liscia splendeva come l'interno della conchiglia di un'ostrica. «Mi prendevi sempre in giro, dicendo che sembravo una scimmia», gli rammentò lei, con un tono in parte timido, in parte di sfida, temendo un rifiuto. «Ora non più.» Finalmente lui aveva ritrovato il fiato. «Non ho mai visto nulla di più bello.» Wilbur Smith
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«Avevo tanta paura di non piacerti! Voglio piacerti, Dowie. Dimmi che ti piaccio, te ne prego.» «Io ti amo», le rispose, «e voglio che tu sia la mia donna e mia moglie.» Lei rise di gioia, prendendo le mani di Dorian per guidarle sui suoi seni: erano caldi ed elastici, e i capezzoli s'inturgidirono mentre lui li sfregava dolcemente tra le dita. «Io sono la tua donna, e lo sono sempre stata. Non so come si può fare, ma voglio diventare tua moglie qui, stanotte.» «Ne sei sicura, mia cara? Se qualcun altro lo sapesse, per te vorrebbe dire il disonore e una morte atroce.» «Restare senza di te sarebbe una morte peggiore di qualunque sorte Kush possa infliggermi. Lo so che non può essere per sempre, ma concedimi di essere tua moglie per questa notte. Insegnami come fare, Dowie, te ne prego.» Così Dorian stese il suo mantello sulla sabbia prima di adagiarvi Yasmini, e lentamente, con infinita delicatezza, tra sommessi gemiti d'amore, sussulti di sorpresa e, alla fine, un lungo spasmo fremente di dolore, subito dimenticato nella gioia che lo seguì, divennero amanti. Nei giorni successivi, Dorian fu assorbito completamente dalla preparazione dell'imminente campagna sulla terraferma, dalla parte opposta del canale. Acquistò la maggior parte delle bestie da tiro e dei cavalli disponibili a Lamu, inviando uno dei suoi comandanti con tre dhow a Zanzibar, più a sud, per fare altrettanto. Inoltre comprò buona parte delle granaglie in vendita e dei prodotti commerciali disponibili sul mercato. Poi dedicò lunghe ore a parlare con le guide e i mercanti arabi che avevano fatto parte delle carovane attaccate e saccheggiate dai predoni, nel tentativo di scoprire l'identità dei banditi, il loro numero, il modo in cui erano armati e i metodi che usavano per compiere i loro attacchi. Calcolando il totale delle perdite subite da quegli uomini, rimase scosso: erano stati rubati oltre tre lakh di polvere d'oro, ventisette tonnellate di avorio appena raccolto e almeno quindicimila schiavi catturati da poco. Il califfo aveva tutte le ragioni per essere preoccupato. Quanto ai predoni, i rapporti erano vaghi e contraddittori; alcuni dicevano che erano bianchi, infedeli accompagnati da arcieri e lancieri negri, altri dicevano che erano solo selvaggi armati di lancia e frecce. Uno sosteneva che lanciavano i loro attacchi solo di notte, quando le carovane erano accampate; un altro, invece, riferì che tendevano imboscate alle Wilbur Smith
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lunghe colonne di schiavi e portatori durante il giorno, uccidendo tutti gli arabi di scorta, tanto che lui soltanto si era salvato. Un mercante dichiarò che avevano risparmiato lui e i suoi uomini, dopo averli spogliati di tutti i loro beni. In conclusione Dorian si rese conto che non erano concordi sull'identità dei predoni e sui loro metodi. Una sola cosa era chiara: i predoni sbucavano dalla foresta all'improvviso, come jinn, e si dileguavano allo stesso modo. «Che se ne fanno degli schiavi catturati?» chiese Dorian, ma gli arabi risposero con una scrollata di spalle. «Devono pur venderli da qualche parte», insistette. «Per trasportare tanti schiavi avranno bisogno di una grande flotta.» «Nessuno ha avvistato una flotta del genere lungo la costa della Febbre», gli risposero, contribuendo ad alimentare la sua perplessità. Aveva poche informazioni su cui basarsi per formulare i suoi piani. Poteva concentrarsi soltanto sul compito di proteggere le carovane e avviare di nuovo il commercio, che si era quasi interrotto. Di fronte alla prospettiva di perdite così pesanti, pochi mercanti arabi erano disposti a correre il rischio di finanziare ulteriori spedizioni. Gli altri piani che stava preparando riguardavano la guerra ai banditi, che lo avrebbe costretto a seguirli fino alle loro basi, individuando le loro tracce, da quegli animali selvaggi che erano, per distruggerli. A quello scopo reclutò tutti gli esploratori e le guide delle carovane che erano stati ridotti all'inattività dall'interruzione del commercio. Comunque non poteva cominciare la campagna finché il tempo non fosse cambiato, perché quella era la stagione delle grandi piogge, quando le pianure costiere erano inondate e la costa della Febbre meritava in pieno la sua terribile reputazione. Tuttavia doveva tenersi pronto a salpare non appena fossero cessate le piogge e fosse tornato a soffiare il kusi. Il pensiero del kusi lo riportava sempre a Yasmini. Quello stesso vento avrebbe sospinto la sua nave a nord, verso il golfo e il matrimonio, ma quell'idea lo faceva ribollire di collera e disperazione rabbiose. Pensò di scrivere al califfo di Muscat per chiedergli di annullare il progetto di matrimonio, pensò addirittura di confessare il suo amore al padre adottivo, per chiedergli di concedere la dispensa che gli avrebbe permesso di sposare Yasmini. S'incontravano ogni sera quando calava il buio; ma, quando le rivelò quel progetto, Yasmini cominciò a tremare di paura. «Non penso a me Wilbur Smith
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stessa, Dowie», mormorò. «Ma se nostro padre dovesse anche soltanto sospettare che fra noi c'è lo stesso amore che regna tra una donna e un uomo, per quanto possa volerti bene, sarà tenuto a sottoporre il tuo caso ai mullah perché sia giudicato secondo le leggi della sharia, e il verdetto potrebbe essere uno solo, per entrambi. No, Dowie, non c'è scampo. Il nostro destino è con Allah, e non sempre è misericordioso.» «Ti porterò via», dichiarò Dorian. «Prenderemo uno dei dhow e alcuni dei miei uomini migliori e fuggiremo via, per cercare un posto in cui poter vivere il nostro amore.» «Un posto del genere non esiste», gli disse Yasmini con tristezza. «Siamo entrambi musulmani e per noi non c'è posto nell'Islam. Diventeremmo due paria, costretti a fuggire per tutta la vita. Qui sei un grand'uomo, e ben presto lo sarai ancora di più. Godi dell'amore e del rispetto di tuo padre e di tutti gli uomini. Non ti permetterò di gettare via tutto questo per me.» Dedicavano gran parte del poco tempo che avevano da trascorrere insieme a discutere della loro terribile situazione. Giacevano abbracciati, al chiaro di luna, parlando sottovoce e, quando vedevano che non esisteva via di scampo, facevano l'amore con passione quasi selvaggia, come per stornare il destino che incombeva su di loro. Ogni mattina, prima dell'alba, Dorian la riportava all'ingresso del tunnel, e lei lo baciava per l'ultima volta, ripercorrendo poi la Via dell'Angelo per rientrare nello zenana. Ormai, durante il giorno, la ragazza che un tempo era stata allegra e scherzosa, benvoluta da tutti, appariva pallida, silenziosa e apatica. Le amiche e le schiave cominciarono a preoccuparsi per lei e, in quel piccolo mondo segregato, non c'era nulla che non arrivasse, prima o poi, alle orecchie di Kush. Il loro idillio di amore e disperazione, condannato fin dall'inizio, si prolungò per tutti i mesi precedenti al cambiamento del monsone. Le truppe per la spedizione sulla terraferma erano quasi pronte a salpare, gli ultimi preparativi per le nozze di Yasmini erano completati. La sua dote era stata inviata da Muscat allo sposo di Abu Dhabi, mentre il corredo era già pronto per essere caricato sul dhow che l'avrebbe portata verso la sua nuova patria, migliaia di miglia a nord, entro i confini di un altro zenana regale, dove avrebbe trascorso il resto della vita. «Non posso permetterlo», le disse Dorian. «Ti strapperò a questo destino, anche se per farlo dovessi rinunciare a tutto quello che ho.» Wilbur Smith
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«No, Dowie. Non te lo permetterò. Avrai molte altre mogli, negli anni a venire, e conquisterai gloria e felicità senza di me.» «No», ribatté lui, «non m'importa nulla del resto, solo di te.» «Allora non potrò più venire da te lungo la Via dell'Angelo. Se non mi prometterai di rinunciare a questa follia, sarà l'ultima volta che c'incontriamo, Dowie. Devi giurarmelo.» «Non posso farlo.» «Quindi non ti vedrò mai più.» Dorian intuì che lei era decisa. «Ti prego, Yassie, non puoi essere così crudele con tutt'e due.» «Allora fa' l'amore con me per l'ultima volta.» «Yassie, non posso andarmene senza di te.» «Sei forte, ce la farai. Ora fa' l'amore con me. Dammi qualcosa cui aggrapparmi, qualcosa da ricordare negli anni che mi aspettano.» Poi si separarono all'ingresso del tunnel, e Yasmini corse indietro lungo il passaggio angusto, accecata dalle lacrime; ma, mentre usciva a fatica dallo stretto pertugio sulla tomba del santo, si sentì afferrare al braccio da una mano enorme che la sollevò di peso e, mentre si dibatteva e scalciava, Kush le rise in faccia, tenendola prigioniera senza fatica. «Erano molti anni che aspettavo questo momento, sgualdrinella. Lo sapevo che un giorno ti saresti messa nelle mie mani. Sei sempre stata troppo sfacciata e ostinata.» «Lasciami!» strillò lei. «Mettimi giù!» «No», rispose Kush, «ormai sei mia. Non trasgredirai più alle mie regole. Le altre donne ascolteranno le tue urla, rannicchiandosi tremanti nel loro letto, e penseranno al prezzo del peccato.» «Mio padre e il mio futuro marito te la faranno pagare cara, se mi fai del male», gridò lei. «Tuo padre a stento ricorda il tuo nome. Ha molte altre figlie, e nessuna di loro è una sgualdrina. Quanto al tuo futuro marito, non accoglierà mai nel suo zenana un frutto già addentato da un altro. No, piccola mia, d'ora in poi tu apparterrai soltanto a Kush.» Kush la portò nella celletta vicino al cimitero, in fondo al giardino, separato dal resto dello zenana da una siepe di cespugli spinosi coperti di fiori. C'erano già due suoi assistenti in attesa, anche loro eunuchi, massicci, Wilbur Smith
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anzi grassi, ma molto forti. Avevano già inflitto parecchie volte quella punizione, e tutti i preparativi erano stati compiuti. Kush distese Yasmini sulla rigida struttura in legno del cavalletto, togliendole i vestiti con lentezza. I tre eunuchi, vestiti solo del perizoma eppure già coperti di sudore in quella cella soffocante, sogghignavano, pregustando lo spettacolo cui stavano per assistere. Le palparono il corpo a mano a mano che restava scoperto, accarezzando le membra levigate, annusando i capelli, pizzicando i piccoli seni lucenti, e poi, quando fu completamente nuda, la legarono per i polsi e le caviglie con i legacci di cuoio, finché Yasmini non rimase distesa sul cavalletto di legno, con le braccia e le gambe allargate. Allora Kush si fermò davanti a lei, troneggiando fra le sue gambe, con un atteggiamento quasi paterno. «Sei stata colta in flagrante mentre ti comportavi in modo immorale. Conosciamo l'uomo, ma, per mia disdetta, è diventato troppo potente per poterlo citare in giudizio. La sua punizione consisterà nell'essere messo a parte della sorte che ti è toccata. Il resto del mondo, al di là di queste mura, saprà che sei morta di febbre. Accade a molti, in questa stagione. Invece farò in modo che qualcuno sussurri la verità all'orecchio del tuo amante. Dovrà tormentarsi per tutta la vita al pensiero di essere stato responsabile della tua morte atroce.» Sempre sorridendo, allungò una mano grassoccia per posarla sulle parti intime della ragazza, accarezzando delicatamente il morbido nido di peli scuri e fini che aveva tra le cosce. «Sono certo che Hal sentito parlare di quello che succede alle ragazze cattive che vengono chiuse in questa stanza, ma, nel caso tu abbia qualche dubbio, te lo spiegherò mentre procederemo.» Rivolse un cenno a un altro degli eunuchi, che venne a mettersi al suo fianco, reggendo un vassoio di legno. Sopra c'erano due piccoli pacchetti di forma allungata, avvolti in una sottile carta di riso, lunghi un dito e assottigliati alle due estremità. Scintillavano alla luce della lampada, perché erano stati unti in abbondanza col grasso di montone. «Ciascuno di essi contiene cinque once di polvere di peperoncino», spiegò Kush. «Coltivo le piante io stesso, nel mio giardino, e sono della qualità più piccante. Il succo di questi frutti è in grado persino di bruciare le carni della bocca di un moghul, abituato fin dalla nascita alle spezie più piccanti. Quando li macino per ridurli in polvere, devo indossare guanti di pelle di cane, per proteggere le mani.» D'improvviso affondò dentro di lei l'indice grasso, guardandola con un Wilbur Smith
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sogghigno quando lei gridò per il dolore e l'umiliazione. «Uno per questa piccola fessura profumata qui davanti.» Poi ritirò il dito, prima di spingerlo di nuovo dentro, ancora più a fondo. «E il secondo pacchetto per quest'altra caverna scura, di dietro.» Ritirò il dito per annusarlo, arricciando il dito e facendo una smorfia rivolto agli altri due eunuchi, che ridacchiarono. Quindi prese dal vassoio uno dei pacchetti, mentre Yasmini lo fissava inorridita, dibattendosi al punto di tendere i lacci. «Tenetele ferme le gambe», ordinò agli altri due con un grugnito. Uno di loro la costrinse ad allargare le ginocchia fino al limite della sua resistenza e Kush dischiuse la serica peluria del pube e le labbra delicate al di sotto, poi, con l'esperienza che derivava dalla pratica, inserì nel suo corpo il pacchetto unto di grasso. «Come sai, al-Amhara mi ha aperto la strada, facilitandomi il compito.» Risollevatosi con un grugnito, si asciugò le dita sul perizoma. «Il davanti è fatto. Ora tocca al dietro», osservò, prendendo l'altro pacchetto. Il suo assistente infilò la mano sotto il corpo di Yasmini, afferrando con le mani le piccole natiche rotonde per allargarle con un gesto rude. Per non gridare, lei si mordeva le labbra con tanta forza da macchiarle di sangue, dimenando il corpo dorato e flessuoso per quanto le permettevano i legacci, mentre le lacrime scorrevano all'indietro fino ai capelli. Con la mano libera, Kush frugò tra le natiche. «Aprila bene!» ordinò all'altro uomo. «Sì, così va meglio. Oh, com'è dolce e stretta!» I singhiozzi di Yasmini si conclusero con un grido acuto. «Ah, sì», esclamò gongolando Kush. «Così va bene. Sino in fondo. Fin dove riesco ad arrivare.» Si tirò indietro. «Shabash! È fatta. Ora legatela ben stretta alle caviglie e alle ginocchia, in modo che non possa espellerli.» Muovendosi con rapidità ed efficienza, i due assistenti conclusero il lavoro, indietreggiando poi per ammirarlo, soddisfatti. «Ora andate fuori, per finire di scavare la fossa della sgualdrinella.» I due uscirono per recarsi nel cimitero, e ben presto giunse nella cella il suono delle vanghe che scavavano nel terreno sabbioso e le chiacchiere allegre che gli eunuchi si scambiavano lavorando. Kush tornò al fianco di Yasmini. «La cassa è pronta, insieme con il lenzuolo che ti coprirà quando ti caleremo nella terra.» Glieli indicò, disposti contro la parete di fronte. «Vedi, ho persino intagliato la lapide con le mie mani amorevoli.» La tenne sollevata per fargliela leggere. Wilbur Smith
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«Porta la data della tua morte, spiegando al mondo che sei stata uccisa dalla febbre.» Yasmini ormai taceva, con il corpo irrigidito, e gli occhi grandi, scintillanti di lacrime, erano fissi sul viso di Kush, curvo su di lei. «Vedi, la polvere di peperoncino è così potente che corroderà la carta di riso, aiutata dal fatto che i succhi del tuo corpo inumidiscono la carta dall'esterno, rendendola ancora più fragile. Tra poco il pacchetto si scioglierà e la polvere si spargerà dentro di te.» Le scostò i capelli dalla fronte, poi col pollice le asciugò le lacrime dalle palpebre, con un gesto delicato, quasi femminile. «Da principio sentirai solo un lieve bruciore, che poi diventerà un fuoco, un fuoco ardente che ti farà desiderare le fiamme dell'inferno, molto più clementi. Ho visto morire tante sgualdrine, su questo letto di legno, e non credo che esistano parole adeguate per descrivere appieno la loro sofferenza. Ti corroderà il ventre e le viscere, straziandoti come un centinaio di ratti che ti divorino dall'interno, e le tue urla di dolore arriveranno a tutte le donne dello zenana. Si ricorderanno di te, la prossima volta che saranno indotte in tentazione.» Ora Kush, profondamente eccitato dalle immagini di sofferenza che stava evocando, aveva il respiro ansimante e un'espressione estatica. «Quando comincerà?» si chiese in tono retorico. «Non possiamo saperlo con certezza. Tra un'ora o due, o anche di più, non c'è modo di dirlo. Quanto durerà? Anche questo non saprei dirlo. Ho visto le più deboli andarsene in un giorno e le più forti resistere anche quattro giorni, gridando sino alla fine. Io credo che tu sia tra queste ultime, comunque lo vedremo.» Si diresse verso la porta, chiamando gli uomini che stavano scavando la fossa. «Non avete ancora finito? Non potete venire a godervi lo spettacolo finché non avrete finito.» «Manca poco.» Uno di loro s'interruppe, appoggiandosi al manico della vanga; al di sopra del ciglio della fossa si vedeva soltanto la sommità della testa rasata. «Finiremo prima che si apra il primo pacchetto.» Kush rientrò nella piccola costruzione, mettendosi comodo sulla panca accostata alla parete opposta. «L'attesa è il momento più interessante», confidò a Yasmini. «Alcune chiedono pietà, ma so che tu sei troppo orgogliosa per farlo. A volte, quelle coraggiose riescono a nascondermi il momento in cui la carta si lacera. Tentano di negarmi questa gioia, ma non ci riescono per molto.» Si concesse una risatina. «Non per molto.» Wilbur Smith
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Incrociando le braccia sulle mammelle piene, quasi femminee, si appoggiò alla parete. «Ti starò vicino sino alla fine, Yasmini, per dividere con te ognuno di questi momenti preziosi. E probabilmente verserò anche una lacrima sulla tua tomba, perché sono un uomo di buoni sentimenti e tenero di cuore.» La voce che Kush aveva portato un'altra fanciulla nella piccola costruzione vicino al cimitero si sparse in fretta nello zenana, e Tahi, non appena la sentì, comprese di quale fanciulla si trattava. Sapeva esattamente che cosa fare. Senza esitare, si gettò addosso il velo e uno scialle, prendendo il cesto nel quale portava sempre le compere che faceva in città quando una delle mogli o delle concubine reali la mandava a sbrigare una commissione. Nella sua qualità di donna divorziata, libera e anziana, aveva la possibilità di spostarsi senza ostacoli tra lo zenana e il mondo esterno alle mura, e rientrava tra i suoi doveri il compito di fare visita ogni giorno al mercato cittadino. Uscendo dalla squallida stanzetta in fondo ai locali delle cucine, si affrettò a percorrere i portici coperti, terrorizzata al pensiero che uno degli eunuchi potesse fermarla prima che arrivasse alla porta. Nello zenana e nei giardini regnava un silenzio profondo, innaturale; persino i cortili interni erano deserti. Non si sentivano cantare i bambini né ridere le donne, e i fuochi nelle cucine erano spenti. Tutte le abitanti di quel mondo di donne si erano rinchiuse nelle loro stanze insieme con i figli. Tutto era silenzioso al punto che, quando Tahi si fermò ad ascoltare, non riuscì a udire altro che il pulsare affannoso del sangue nelle sue stesse orecchie. Alla porta c'era un solo eunuco di guardia, ma la conosceva bene ed era tanto turbato da quell'atmosfera di tragedia soffocata che la degnò appena di un'occhiata, quando lei gettò all'indietro il velo per farsi riconoscere, facendole segno di passare. Non appena fu uscita dal cancello, Tahi gettò via il cesto per lanciarsi in una corsa disperata. Meno di un miglio più avanti, aveva il cuore così gonfio per la fatica che non riusciva quasi a respirare e dovette lasciarsi cadere ai margini del sentiero, incapace di fare anche un solo passo avanti. Dai campi stava arrivando un giovane schiavo che spingeva due asinelli carichi di corteccia di mangrovia, usata per la concia delle pelli. Tahi si alzò, incerta sulle gambe, frugando sotto la tunica in cerca del sacchetto Wilbur Smith
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delle monete. «Mia figlia sta male», esclamò, rivolta al ragazzo. «Devo andare a chiamare il medico.» Gli porse una rupia d'argento. «Portami da lui e ci sarà un'altra moneta per te, quando saremo arrivati alla fortezza.» Il ragazzo, non appena adocchiata la moneta, annuì energicamente, slegando uno dei fardelli di corteccia e lasciandolo cadere sul bordo del sentiero. Issata Tahi in groppa all'asino, sferzò il piccolo animale per spingerlo al piccolo trotto, e lo rincorse, ridendo e chiamando Tahi. «Reggiti forte, vecchia madre. Rabat è veloce come una freccia. Arriveremo al porto in un batter d'occhio.» Dorian era seduto sulla terrazza, a fianco di Ben Abram. Bevevano tazzine di caffè nero, così denso da somigliare al catrame, ed erano profondamente assorti nella compilazione delle liste di medicinali necessari per la spedizione sulla terraferma. I due avevano riannodato la loro amicizia nel momento stesso in cui Dorian aveva messo piede a Lamu. Ogni giorno Ben Abram andava a trovare il giovane all'ora della preghiera mattutina, e poi restava a tenergli compagnia, godendo della piacevole conversazione. «Sono troppo vecchio per lasciare l'isola», stava protestando in quel momento, per schermirsi dall'insistenza di Dorian, che lo avrebbe voluto con sé nella spedizione per provvedere al benessere dei soldati. «Sappiamo tutti che siete forte e vivace come il primo giorno che ci siamo conosciuti», ribatté Dorian. «Vorreste lasciarmi morire di qualche malattia orribile nel cuore dell'Africa? Ho bisogno di voi, Ben Abram.» Poi, notando un trambusto improvviso in fondo alla terrazza, s'interruppe per gridare alle guardie in tono irritato: «Che cos'è questo baccano? Avete ordini rigorosi di non disturbarmi». «Sono polvere sotto i vostri piedi, grande sceicco, ma qui c'è una vecchia megera che scalcia e graffia come una gatta selvatica in preda alla rabbia.» Dorian si lasciò sfuggire un'esclamazione seccata, e stava per ordinare loro di scacciare la donna con una bastonata sul posteriore, quando lei strillò: «Al-Amhara! Sono io, Tahi! In nome di Allah, lascia che ti parli di qualcuno che amiamo entrambi». Dorian si sentì agghiacciare. Tahi non sarebbe mai stata così indiscreta se Yasmini non fosse stata minacciata da qualcosa di terribile. «Fatela passare», ordinò alle guardie, affrettandosi incontro alla vecchia che Wilbur Smith
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avanzava trotterellando sulla terrazza, stravolta dalla fatica e dall'ansia. Lasciandosi cadere ai piedi di Dorian, gli abbracciò le ginocchia. «Kush sa di te e della ragazza. Stava aspettando Yassie, quando è tornata nello zenana, e l'ha portata nella cella vicino al cimitero», proruppe, parlando d'un fiato. Dorian sapeva della piccola cella fin dai tempi del suo soggiorno nello zenana. Per quanto fosse rigorosamente proibito, i bambini dello zenana si erano sfidati a vicenda ad avventurarsi oltre la siepe di rovi per entrare nella stanza e toccare il terribile cavalletto di legno, terrorizzandosi a vicenda con le storie orribili delle torture inflitte da Kush alle donne che rinchiudeva là dentro. Uno dei ricordi più agghiaccianti che Dorian avesse degli anni trascorsi nello zenana erano le grida di una fanciulla di nome Salima, portata laggiù quando Kush aveva scoperto la sua passione per un giovane ufficiale della guardia del governatore. Quelle grida erano durate quattro giorni e tre notti, diventando sempre più fioche, e il silenzio alla fine era stato ancora più spaventoso delle urla più acute. Per lunghi istanti rimase atterrito dall'avvertimento di Tahi; si sentì svuotato di ogni energia, al punto di non potersi muovere, e gli si annebbiò la mente, come per sfuggire a quell'orrore. Poi, con un brivido, si riscosse da quell'istante di debolezza, rivolgendosi a Ben Abram. Il vecchio medico si era alzato in piedi, con un'espressione allarmata, mitigata dalla compassione. «Non avrei dovuto sentire queste parole, figlio mio. Devi essere stato stolto, folle, irragionevole... ma mi si spezza il cuore per te.» «Aiutatemi, vecchio amico», lo pregò Dorian. «Sì, sono stato idiota e ho commesso un terribile peccato, ma era frutto dell'amore. Voi sapete che cosa le farà Kush.» L'altro annuì. «Ho visto i frutti della sua mostruosa crudeltà.» «Ben Abram, ho bisogno del vostro aiuto.» Dorian tentò di convincerlo con l'intensità stessa del suo sguardo. «Io non posso entrare nello zenana», obiettò il vecchio. «Se riuscirò a portarla fuori, ci aiuterete?» «Sì, figlio mio. Se riuscirai a portarla da me, vi aiuterò, a meno che non sia troppo tardi.» Ben Abram si rivolse a Tahi. «Quando l'ha portata nella piccola cella?» «Non so, forse due ore fa», rispose la donna, singhiozzando. «Allora ci resta poco tempo», disse brusco Ben Abram. «Ho con me gli strumenti necessari, possiamo partire subito.» Wilbur Smith
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«Non riuscirete mai a restare al passo con me, vecchio padre», gli fece notare Dorian, cingendo la spada. «Seguitemi più in fretta che potete. Esiste un'entrata segreta che passa sotto le mura, sul lato orientale.» Gli spiegò in fretta come trovare l'entrata del tunnel. «Ci sono passato a cavallo, ricordo quelle vecchie rovine», mormorò Ben Abram. «Aspettatemi lì», ordinò Dorian, precipitandosi verso la scala, che scese tre gradini alla volta, per recarsi nel cortile. Mentre correva verso le scuderie, vide che uno degli stallieri stava portando fuori il suo stallone nero per strigliarlo all'aperto. Il cavallo aveva una cavezza intorno al collo snello, tipico dei purosangue arabi, ed era uno dei più veloci della scuderia di animali che il califfo gli aveva regalato come dono di addio prima della partenza da Muscat. Strappando la cavezza dalle mani dello stalliere sorpreso, Dorian balzò in sella allo stallone, montandolo a pelo. Appena gli piantò i talloni nei fianchi, l'animale partì con uno scatto, e prima di raggiungere la porta della fortezza era già lanciato al galoppo. Percorsero come un lampo le vie strette, seminando la confusione tra galline, cani e passanti terrorizzati. Quando uscirono dal dedalo dei vicoli, sbucando in aperta campagna, Dorian si abbassò sul collo del cavallo, spingendolo al massimo della velocità. «Va'!» gli sussurrò all'orecchio, e lo stallone rivolse all'indietro le orecchie per ascoltarlo. «Corri, per salvare il mio amore.» C'era una scorciatoia tra le mangrovie e Dorian la imboccò, abbandonando la strada principale e sguazzando nel fango per un centinaio di iarde finché non raggiunse di nuovo il terreno solido, sfrecciando tra le palme dalla parte opposta, dopo avere risparmiato mezzo miglio di strada. Le alte mura dello zenana biancheggiavano fra i tronchi delle palme, ma lui deviò verso la spiaggia per non farsi vedere dalla porta, e subito dopo tornò verso l'interno, galoppando alla base delle mura. Vedendo a poca distanza il monticello di rovine, si abbassò, tenendo un braccio intorno al collo del cavallo e sfiorando il terreno con i piedi. Poi si lasciò andare prima che lo stallone si fermasse del tutto, sfruttando lo slancio per issarsi al di sopra dei ruderi e atterrare nella depressione più oltre. Scostando i rami penduli delle piante, imboccò di corsa il varco. L'interno era molto più stretto e basso di come lo ricordasse, e tanto buio che rischiò di cadere quando il terreno diseguale cominciò a risalire sotto i suoi piedi. Infine scorse davanti a sé la luce fioca dell'uscita e poté Wilbur Smith
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procedere più in fretta. Spiccando un balzo verso l'alto, si aggrappò all'orlo dell'apertura, issandosi all'esterno con un solo movimento fluido e uscendo all'aperto, sulla terrazza illuminata dal sole dove tanto tempo prima Yasmini e le sue piccole amiche giocavano con le bambole. Adesso era deserta; Dorian l'attraversò a lunghe falcate per raggiungere la scala da cui Zayn al-Din era caduto fratturandosi il piede e scendere nei giardini sottostanti. Arrivato in fondo, si fermò per orientarsi. Lo zenana e i giardini erano avvolti in una cappa di silenzio. Non si vedeva in giro nessuna delle schiave addette alla cura delle aiuole e delle fontane; nessuno si muoveva, neppure gli uccelli cantavano. Nel silenzio, persino la brezza era calata, come se tutta la natura trattenesse il respiro; le fronde di palma pendevano silenziose, e non una foglia si muoveva in cima agli alberi di casuarina. Dorian estrasse la spada, sapendo che doveva tenersi pronto a uccidere senza esitazioni qualunque eunuco tentasse di fermarlo, prima di dirigersi verso l'estremità nord del recinto, che ospitava la moschea e il cimitero. Corse lungo il vialetto tra il muro esterno e la parete posteriore della moschea, davanti alla quale si stendeva la siepe di spine che recintava il cimitero. Chinandosi per passare attraverso il varco nella siepe che ricordava così bene, si guardò attorno, in direzione del terreno riservato alle sepolture. Ogni tumulo recava una piccola lapide, e alcune delle tombe più recenti erano ancora decorate con nastri e bandierine sbiadite. La piccola costruzione sorgeva sul lato opposto, dove la siepe spinosa era cresciuta fin quasi a soffocarla, negli anni trascorsi dall'ultima volta che l'aveva vista. La porta era aperta: Dorian trattenne il respiro, tendendo l'orecchio per captare qualunque lamento proveniente dall'interno. Quel silenzio era opprimente e sinistro, carico di malvagità. Poi udì alcune voci, un chiacchiericcio acuto di eunuchi: allora nascose la spada sotto una piega del mantello, avanzando furtivo, senza fare rumore. Sentì uno scoppio di risa sommesse e vide uno degli eunuchi seduto sull'orlo di una fossa scavata di fresco, con i piedi che dondolavano nel vuoto e i rotoli di grasso che pendevano sul ventre. Dorian gli si avvicinò di spalle. Attraverso il grasso vedeva le piccole infossature delle vertebre, mentre l'uomo si chinava in avanti per parlare con qualcuno nella fossa, e infilò la punta sottile come un ago della lunga lama ricurva esattamente nella giuntura tra due vertebre, recidendo il midollo spinale con la precisione di un chirurgo. L'eunuco morì senza emettere neanche un Wilbur Smith
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mormorio, accasciandosi in avanti e scivolando nella buca, cosicché il suo stesso peso liberò la lama. Cadendo, investì come un sacco di lardo l'uomo che era sotto di lui. Intrappolato sotto quel peso, l'altro lanciò uno strillo indignato, lottando per liberarsi. «Che cosa combini, Sharif? Sei impazzito? Togliti di mezzo.» Respingendo il corpo, si alzò, trovandosi con la testa all'altezza del suolo, ma con gli occhi ancora rivolti in basso, verso il morto che giaceva ai suoi piedi nella fossa. «Alzati, Sharif. A che gioco stai giocando?» La sommità della testa rasata sembrava un uovo di struzzo. Dorian sollevò la spada prima di calarla con forza, spaccando il cranio a metà fino all'altezza dei denti, poi, con una torsione del polso, estrasse la lama dalle fragili ossa del cranio prima di dirigersi verso la porta della costruzione. La raggiunse di corsa, ma Kush gli si parò davanti, bloccando la soglia con la sua figura enorme. Si fissarono solo per un attimo, eppure l'eunuco lo riconobbe subito; era sceso anche lui sulla spiaggia, mescolandosi alla folla, quando Dorian era sbarcato sull'isola con la flotta proveniente da Muscat. Con una prontezza e un'agilità impressionanti per una creatura così massiccia, balzò all'indietro nella stanza, afferrando la vanga appoggiata alla parete. Con un altro balzo, frappose tra sé e Dorian il pesante cavalletto di legno sul quale Yasmini era distesa, sollevando la vanga sopra il suo corpo. «State indietro!» gridò. «Con un solo colpo posso far esplodere i sacchetti nel suo ventre, sprigionando il veleno.» Yasmini, nuda, giaceva inerme sotto la minaccia della vanga, con le lunghe gambe snelle legate insieme all'altezza delle caviglie e delle ginocchia e le braccia tese sopra la testa, fin quasi a deformare i teneri seni dorati. Quando alzò lo sguardo verso Dorian, neppure i suoi occhi enormi erano abbastanza grandi per contenere tutto il terrore che provava. Dorian non esitò un attimo di più, lanciandosi verso l'altro capo della stanza proprio mentre Kush abbassava la vanga con tutte le sue forze, cosicché riuscì ad assorbire l'impatto del colpo prima che raggiungesse Yasmini al diaframma. Stendendosi sopra di lei e facendole scudo col proprio corpo, fu colpito dalla vanga alla schiena e sentì le costole incrinarsi, procurandogli una fitta dolorosa al torace. Imponendosi di ignorare il dolore, rotolò subito via dal cavalletto, Wilbur Smith
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facendo attenzione a non gravare col suo peso sul ventre di Yasmini, che conteneva i fragili pacchetti. Kush sollevò ancora una volta la vanga, stavolta mirando alla testa di Dorian: il suo volto era una maschera di furore, mentre il ventre gonfio sporgeva in fuori al di sopra del perizoma. Dorian, che aveva tutto il lato sinistro intorpidito dal colpo, appoggiò un ginocchio a terra, incapace di alzarsi in tempo per parare il colpo, ma sempre impugnando la spada nella destra. Alzando il braccio per difendersi, passò la lama di taglio sul ventre di Kush, all'altezza dell'ombelico, aprendolo allo stesso modo in cui una pescivendola incide il ventre di una cernia. L'eunuco si lasciò sfuggire la vanga, che cadde con gran fragore sul pavimento di pietra, prima di arretrare verso la parete sul fondo, tentando di arginare con le mani la lunga ferita. Abbassando gli occhi con aria stupita, scorse le viscere sfuggirgli tra le dita, come una matassa scivolosa, mentre il fetore sprigionato dagli intestini squarciati si spargeva nella piccola cella. Dorian riuscì a rimettersi in piedi, col braccio sinistro che penzolava lungo il fianco, intorpidito e inservibile, per protendersi verso Yasmini. «Ho pregato che tu venissi», bisbigliò lei. «Mi sembrava impossibile, e ormai è troppo tardi. Kush mi ha ficcato dentro cose orribili...» «Lo so che cosa ha fatto», le disse Dorian. «Non parlare e resta immobile.» Kush si lasciò sfuggire un lamento acuto, ma Dorian non gli badò neppure, mentre l'eunuco crollava a terra bocconi, scalciando e dibattendosi in mezzo alle sue viscere. Dorian passò la lama della scimitarra tra le caviglie di Yasmini, tagliando i legacci di cuoio, prima di fare altrettanto con quelli alle ginocchia. «Non cercare di metterti a sedere», le ordinò. «Ogni contrazione potrebbe far scoppiare i pacchetti.» Con un lieve tocco della lama, affilata come un rasoio, recise i lacci che le imprigionavano i polsi, poi lasciò cadere la spada per massaggiarsi il braccio sinistro; con un impeto di sollievo, lo sentì cominciare a formicolare, mentre i polpastrelli riacquistavano lentamente la sensibilità. Passando il braccio sotto le spalle di Yasmini, la sollevò delicatamente dal cavalletto di legno, mettendola in piedi. «Ora devi accovacciarti», le sussurrò, «ma senza fare movimenti bruschi.» L'aiutò ad abbassarsi. «E ora allarga le ginocchia e spingi delicatamente, come se fossi sulla seggetta.» Inginocchiatosi accanto a lei, Wilbur Smith
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la sostenne per le spalle. «Da principio fai piano, poi aumenta la spinta.» Lei respirò a fondo prima di fare forza, col viso contorto e arrossato, poi si udì un lieve risucchio e uno dei pacchetti fu espulso dal suo corpo con tanta forza da urtare il pavimento e spaccarsi, spargendo la polvere rossa sulle pietre fra i suoi piedi. L'acre odore del peperoncino si mescolò al lezzo nauseante delle feci di Kush, irritando le narici. «Brava, Yassie!» la incoraggiò, tenendola più stretta. «Puoi fare lo stesso con l'altro pacchetto?» «Tenterò», rispose lei con un filo di voce, prima di respirare a fondo e fare un tentativo; ma un minuto dopo si lasciò sfuggire un sospiro, scuotendo la testa. «No, non si muove. Non ci riesco.» «C'è Ben Abram che ci aspetta in fondo alla Via dell'Angelo», le disse Dorian. «Ora ti porto da lui. Saprà che cosa fare.» Rimettendola delicatamente in piedi, le raccomandò: «Non devi tentare di camminare. Anche il minimo movimento potrebbe far scoppiare il pacchetto. Piano, adesso, passami un braccio intorno al collo e stringimi forte». Passandole il braccio sano sotto le ginocchia, la sollevò di peso senza fatica, avviandosi alla porta. In quel momento Kush cominciò a gemere e farfugliare. «Aiutatemi, non lasciatemi qui. Sto morendo.» Dorian non si voltò neppure. Passando accanto alla fossa aperta in fondo alla quale giacevano i due eunuchi morti, affrettò il passo, nel timore di incontrarne un altro, perché aveva lasciato la scimitarra sul pavimento della cella e non aveva ancora recuperato l'uso del braccio. Temeva soprattutto di stringere troppo Yasmini, o di farla sobbalzare bruscamente. Doveva tentare di combinare insieme velocità e cautela, e mormorava parole di incoraggiamento nel tentativo di calmarla e rassicurarla. «Andrà tutto bene, mia cara. Ben Abram riuscirà a liberartene, e presto sarà tutto finito.» Attraversò i prati con un'andatura fluida, per proteggere il suo prezioso carico, poi salì la scala fino alla terrazza della tomba del santo affrontando un gradino alla volta, con passo leggero. Dopo aver calato Yasmini nella fenditura che dava accesso al tunnel, scese a sua volta, scrutandola in viso con ansia, in cerca di qualche segno rivelatore che il movimento aveva fatto scattare qualcosa nel suo tenero grembo. «Stai bene?» le domandò. Lei annuì, tentando di sorridere. «Ci siamo quasi, ormai. Ben Abram ci aspetta», le disse, sollevandola di Wilbur Smith
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peso, ma nell'imboccare la galleria dovette quasi piegarsi in due, per non urtare contro il soffitto basso. Poi, vedendo la luce davanti a sé, quasi involontariamente allungò il passo, e un frammento di corallo si mosse sotto il suo piede, facendolo inciampare e quasi cadere, cosicché Yasmini urtò contro la parete. «Ah!» gemette, sentendosi scuotere, e Dorian si sentì stringere il cuore. «Che c'è, mia cara?» «Mi brucia dentro», sussurrò lei. «Oh, per Allah, come brucia!» Lui coprì l'ultimo tratto di corsa, portandola fuori, nella piccola conca tra le rovine, illuminata dal sole. «Ben Abram!» gridò. «In nome di Dio, dove siete?» «Qui, figlio mio», rispose il medico, che aveva atteso nell'ombra, affrettandosi verso di loro con la borsa degli strumenti in mano. «È cominciato, vecchio padre. Fate presto.» L'adagiarono sul terreno, mentre Dorian spiegava in modo quasi incoerente che Yasmini si era liberata di uno dei pacchetti. «Ma l'altro è ancora dentro, e ha cominciato ad aprirsi.» «Tieni sollevate le ginocchia, così», gli ordinò Ben Abram, poi disse a Yasmini: «Dovrò farti male. Questi sono gli strumenti che uso per il parto». Vedendoli scintillare tra le sue mani, lei annuì e chiuse gli occhi. «Mi sottometto alla volontà di Dio», mormorò, affondando le unghie nel braccio di Dorian mentre Ben Abram si metteva al lavoro. Sul viso le passò un'ombra di dolore, costringendola a serrare e torcere le labbra. Una volta si lasciò sfuggire un gemito che somigliava al miagolio di un gattino, spingendo Dorian a mormorare: «Ti amo, fiore del mio cuore». «Ti amo, Dowie», rispose lei, in un soffio, «ma c'è un fuoco che brucia dentro di me.» «Ora dovrò praticare un'incisione», borbottò Ben Abram. Un attimo dopo, Yasmini gridò, irrigidendosi tutta. Abbassando gli occhi, Dorian vide le mani del medico coperte di sangue, mentre prendeva uno strumento d'argento che aveva la forma di un doppio cucchiaio. Un minuto dopo, Ben Abram si accovacciò sui talloni, stringendo con quello strumento il pacchetto macchiato di sangue e ormai quasi disintegrato. «Ce l'ho fatta!» esclamò. «Ma è rimasta dentro una parte di polvere. Dobbiamo portarla subito in riva al mare.» Dimenticando il braccio ferito e il dolore delle costole incrinate, Dorian Wilbur Smith
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la sollevò di peso, cominciando a correre con il corpo nudo di Yasmini stretto al petto. Ben Abram li seguì trotterellando a fatica, perdendo terreno mentre Dorian attraversava il palmeto. Scese lungo la spiaggia fino al mare, tuffandosi con Yasmini nell'acqua verde e fresca. Ben Abram li seguì, stringendo in mano una siringa di ottone per clisteri. Mentre Dorian teneva immerso il corpo di Yasmini, Ben Abram riempì più volte il tubo della siringa con l'acqua di mare, svuotandola poi dentro di lei; ma ci volle quasi mezz'ora prima che si dichiarasse soddisfatto del risultato, permettendo a Dorian di portarla fuori dell'acqua, sulla spiaggia. Vedendola tremare per la paura e il dolore, Dorian l'avvolse nel suo scialle di lana, prima di deporla in un punto riparato dal sole, sul fondo della foresta. Ben Abram attinse a un grande flacone di unguento preso dalla borsa per lenire il dolore, e poco dopo i brividi calarono d'intensità, e Yasmini lo disse. «Ora il dolore sta passando. Brucia ancora, ma non tanto forte.» «Sono riuscito ad asportare quasi tutto il veleno con il cucchiaio, e credo di aver lavato via il resto prima che facesse danni gravi. Ho dovuto incidere per raggiungere il pacchetto, ma è un taglio pulito, e adesso potrò ricucirlo. L'unguento farà guarire la ferita in poco tempo», le assicurò con un sorriso incoraggiante, preparando un ago con la minugia. «Sei stata fortunata, e per questo devi ringraziare Tahi e al-Salil.» «E ora che cosa facciamo, Dowie?» Lei tese una mano a Dorian, che la prese, stringendola con forza. «Non potrò tornare nello zenana.» Sembrava di nuovo la bambina col musetto di scimmia, ora che aveva i capelli bagnati sciolti sulle spalle e gli occhi segnati da ombre violacee di sofferenza, pallida e avvolta nello scialle. «Non ci tornerai mai più, lo giuro.» Dorian si protese per baciarla sulle labbra gonfie e livide, prima di alzarsi con un'espressione cupa e risoluta. «Dovrò lasciarti qui con Ben Abram, mentre lui finisce il lavoro», le disse. «Ho anch'io un lavoro da sbrigare, ma tornerò molto presto, prima che Ben Abram abbia finito. Sii coraggiosa, amore mio.» Tornò indietro attraverso la foresta, calandosi nella depressione per ripercorrere in senso inverso il tunnel che passava sotto le mura dello zenana. Uscì con cautela all'esterno, sulla spianata della tomba del santo, scendendo la scala che portava ai prati. Nascosto dietro la siepe di rovi del cimitero, si accertò che nessuno avesse trovato i corpi dei due eunuchi, Wilbur Smith
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lanciando l'allarme, prima di avanzare con prudenza allo scoperto. Soffermandosi sulla soglia della piccola costruzione per consentire agli occhi di adattarsi alla penombra, dopo la luce intensa del sole, vide Kush raggomitolato sul pavimento, nella stessa posizione di un bambino nel grembo materno, con le mani insanguinate strette sul ventre e gli occhi chiusi. Lo credette morto, invece appena si avvicinò Kush aprì gli occhi per guardarlo, cambiando espressione. «Vi prego, aiutate il vecchio Kush», mormorò. «Siete sempre stato un bravo ragazzo, al-Amhara. Non mi lascerete morire.» Dorian si chinò a raccogliere la spada che aveva lasciato sul pavimento, e Kush si animò. «No, non uccidetemi. In nome di Allah, vi chiedo misericordia.» Quando lo vide riporre la lama nel fodero, piagnucolò di sollievo. «Lo dicevo che eravate un bravo ragazzo. Aiutatemi a salire sulla lettiga», aggiunse, tentando di strisciare verso la bara che avrebbe voluto usare per portare Yasmini alla tomba; ma quel movimento riaprì la grande ferita al ventre, da cui riprese a uscire il sangue. Allora si fermò, cingendosi con le mani. «Aiutatemi, al-Amhara. Chiamate qualcuno per farmi portare da un medico.» L'espressione di Dorian divenne spietata mentre si chinava per afferrare le caviglie di Kush, cominciando a trascinarlo sul pavimento all'indietro, verso la porta. «No, non così. Farete aprire ancor di più la ferita», strillò Kush. Dorian ignorò le sue proteste, lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. Quando lo trascinò con i piedi in avanti oltre la soglia, all'aperto, Kush si aggrappò gemendo allo stipite della porta, facendo leva con la forza disperata di un uomo che sta per annegare. Allora Dorian lasciò ricadere le gambe dell'eunuco e, con un movimento troppo rapido perché l'occhio potesse seguirlo, estrasse la spada e gli recise tre dita della mano destra, artigliate sullo stipite. Kush lanciò un urlo spaventoso, portandosi al petto la mano monca e fissandola con attonito stupore. «Mi avete mutilato», sussurrò. Rinfoderata la spada, Dorian lo afferrò di nuovo alle caviglie per trascinarlo sul terriccio del cimitero verso la fossa aperta, ma, quando furono a metà strada, Kush si accorse di quello che intendeva fare e le sue grida diventarono acute e infantili mentre si rotolava, dibattendosi. «Le donne che ti sentono gemere penseranno che i tuoi lerci pacchetti si Wilbur Smith
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sono aperti nel ventre di Yasmini», commentò Dorian con un grugnito di fatica. «Canta pure, grossa vescica di lardo di porco. Non c'è nessuno che possa aiutarti, ormai, da questa parte dell'inferno.» Con un ultimo sforzo fece rotolare Kush nella tomba, sopra gli altri due corpi, prima di abbassare gli occhi su di lui, con i pugni sui fianchi, mentre riprendeva fiato, aspettando che il dolore delle costole incrinate si calmasse un po'. Kush lesse la propria morte in quegli occhi verdi. «Pietà!» Tentò di risollevarsi, ma il dolore al ventre era troppo forte e dovette sollevare le ginocchia, raggomitolandosi contro la parete laterale della fossa appena scavata. Dorian andò a prendere la vanga. Quando tornò indietro e sollevò la prima palata di terra, Kush strillò disperato: «No, no! Come potete farmi questo?» «Con la stessa facilità con cui tu Hal inflitto torture indicibili alle donne indifese affidate alle tue cure», ribatté Dorian. L'eunuco continuò a gridare e invocare pietà finché la terra non soffocò le sue urla, ma Dorian seguitò ostinatamente a lavorare finché la tomba non fu richiusa del tutto sui tre corpi. Poi pressò ben bene la terra, per dare al tumulo una forma regolare. Dalla piccola cella prese la tavola di legno con il nome di Yasmini inciso sopra, per piantarla sul tumulo, legandovi attorno uno dei nastri che si usavano per la sepoltura, con la preghiera per i defunti ricamata sopra. Quindi ripose la vanga, raccogliendo i resti dei lacci di cuoio recisi, e prese le vesti di Kush, che l'eunuco aveva lasciato appese a un piolo infisso nella parete. Dopo averle avvolte in modo da formare un rotolo, le legò con uno dei lacci di cuoio. Prima di andarsene, si guardò attorno per controllare che fosse tutto in ordine, lasciandosi sfuggire un sorriso truce. «Nei prossimi cent'anni i poeti canteranno la scomparsa dei tre eunuchi, misteriosamente spariti dopo aver ucciso e sepolto la bella principessa Yasmini. Forse il diavolo stesso verrà a scortarli all'inferno, chissà. Comunque, che bella leggenda diventerà, questa, per i posteri!» Poi uscì dallo zenana, percorrendo per l'ultima volta la Via dell'Angelo. Quando Dorian tornò dove li aveva lasciati, Ben Abram aveva finito di ricucire le ferite di Yasmini e la stava bendando. «È andata bene, al-Salil», gli assicurò. «Fra sette giorni potrò togliere i punti e nel giro di un mese Wilbur Smith
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sarà completamente guarita, come se non fosse accaduto nulla.» Dorian avvolse Yasmini nelle vesti asciutte di lana finissima che erano appartenute a Kush, poi la issò con delicatezza sul dorso del suo stallone, tenendola tra le gambe, in modo da non fare pressione sulle ferite, per tornare verso la fortezza a un'andatura tranquilla. Yasmini era così infagottata in quella veste voluminosa che nessun passante curioso avrebbe potuto dire se era un uomo o una donna. «Fuori dello zenana nessuno ti ha mai vista in faccia, quindi non riconosceranno mai la principessa Yasmini, che giace nella sua tomba nel cimitero dello zenana.» «Sono davvero libera, Dowie?» mormorò lei, in tono sofferente, perché i punti le dolevano molto, nonostante le premure di Dorian. «No, sciocchina. Ora sei il piccolo schiavo che appartiene al grande sceicco al-Salil. Non sarai mai libera.» «Mai?» ripeté lei. «Promettimi che sarò la tua schiava per sempre, che non mi lascerai andare mai più.» «Te lo giuro.» «Allora va bene», mormorò lei, abbandonandogli la testa sulla spalla. Per molte settimane, nei suk di Lamu, circolarono strane voci sulla scomparsa di Kush, l'eunuco ben noto sulle isole, temuto e odiato anche al di fuori delle mura dello zenana. C'era chi diceva che, camminando di notte per la strada, fosse stato rapito dal jinn della foresta, mentre in un'altra versione il rapitore era Shaitan, il diavolo in persona. I più pratici erano del parere che avesse derubato il suo padrone, il califfo al-Malik, e che, temendo di essere scoperto e punito, avesse noleggiato un dhow per farsi portare dall'altra parte del canale e dileguarsi nell'interno dell'Africa. Per avvalorare quella tesi, il principe al-Salil emise un mandato di arresto per Kush, offrendo una ricompensa di diecimila rupie per la sua cattura. Ma, dopo soltanto un mese, non avendo notizie dell'eunuco, gli sfaccendati del suk smisero d'interessarsi di lui. Il nuovo argomento di discussione sull'isola divenne la fine dei venti kaskazi e l'inizio del kusi, che segnava l'avvio della stagione commerciale. E l'imminente partenza della spedizione dello sceicco al-Salil per il continente fece scemare del tutto l'interesse per la scomparsa di Kush. Nell'imponente seguito del principe al-Salil furono ben pochi a notare il nuovo schiavetto, Yassie. Pur essendo molto attraente e aggraziato, sotto la Wilbur Smith
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tunica lunga fino alla caviglia, da principio sembrava malaticcio, timido e insicuro. Ben presto, però, Tahi, la vecchia bambinaia dello sceicco, entrata anche lei da poco a far parte del suo seguito, prese a benvolere il ragazzo. Yassie divideva l'alloggio con lei e non ci volle molto perché la sua avvenenza e i suoi modi garbati gli attirassero le simpatie di tutti gli altri servi e schiavi. Oltre a suonare il sistro con rara abilità, Yassie aveva una voce affascinante e, quando lo sceicco al-Salil cominciò a convocarlo ogni sera perché cantasse per lui nel suo appartamento privato, per rasserenarlo e fargli dimenticare le preoccupazioni della giornata, nessuno degli altri schiavi lo trovò strano. In poche settimane, Yassie riuscì a conquistarsi i favori del padrone, diventando uno dei suoi servitori personali. A un certo punto lo sceicco gli ordinò di stendere la sua stuoia nella minuscola alcova cinta di tende che si affacciava sulla sua stanza da letto, a poca distanza dal letto di al-Salil, in modo da poter provvedere alle sue esigenze durante la notte. La prima notte di quella nuova sistemazione, al-Salil tornò tardi dal consiglio di guerra con i comandanti dei dhow sulla terrazza. Yassie, che si era appisolata mentre lo aspettava, balzò in piedi non appena al-Salil entrò nella stanza, accompagnato da Batula. Gli aveva tenuto in caldo l'acqua sul braciere e, dopo che Batula ebbe aiutato lo sceicco a spogliarsi, restando in perizoma, gli versò l'acqua sul corpo e sulla testa in modo che potesse lavarsi. Nel frattempo Batula appendeva ai pioli accanto al letto le armi del padrone, la spada e il pugnale ben affilati e l'elmo lucente. Infine s'inginocchiò, in attesa degli ordini. «Ora puoi lasciarmi, Batula, ma svegliami un'ora prima dell'alba, perché rimane ancora molto da fare prima della partenza.» Mentre parlava, al-Salil si asciugava col panno che Yassie gli aveva offerto. «Dormi bene, Batula, e possano gli occhi di Dio vegliare sul tuo riposo.» Non appena le tende si chiusero sulla porta alle spalle di Batula, Dorian e Yassie si scambiarono un sorriso, mentre lui allungava le braccia verso di lei. «Ho aspettato troppo», le disse, ma lei gli sfuggì, danzando. «Ho i miei doveri da compiere, nobile padrone. Devo acconciarti i capelli e ungerti il corpo.» Mentre lui sedeva su un tappeto di seta, s'inginocchiò alle sue spalle, sfregandogli i capelli con una salvietta finché non furono quasi asciutti, poi li pettinò, raccogliendoli in una treccia che gli scendeva lungo la schiena. Wilbur Smith
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Mentre lavorava, si lasciava sfuggire sommessi mormorii di ammirazione e di rispetto. «Come sono folti e belli! Hanno il colore dell'oro e dello zafferano.» Poi gli massaggiò le spalle con l'olio profumato al cocco, sfiorando le cicatrici che aveva sul corpo. «E queste? Dove te le sei fatte?» «In un luogo chiamato il passo della Gazzella Leggiadra.» Lui si sottometteva a occhi chiusi all'abile tocco delle sue dita, poiché nello zenana Yasmini era stata addestrata nell'arte di compiacere il futuro marito. Quando poi, cullato dalle sue carezze, scivolò nella sonnolenza, lei si protese in avanti, gli sussurrò: «Soffri ancora il solletico, qui, Dowie?» e gli affondò la lingua nell'orecchio, eccitandolo e strappandogli un gemito di protesta. Con la pelle d'oca sulle braccia, Dorian si protese all'indietro, afferrandola per la vita. «Dovrò insegnarti un po' più di rispetto, schiavo.» La prese tra le braccia, portandola verso il letto e inginocchiandosi sopra di lei, dopo averle inchiodato le braccia in alto. Per qualche minuto risero, guardandosi negli occhi, poi la risata cessò e Dorian chinò la testa, posando la bocca sulla sua. Le labbra di Yasmini lo accolsero, calde e umide, e lei gli sussurrò: «Non sapevo che il mio cuore potesse accogliere in sé tanto amore!» «Hal troppi vestiti addosso», le mormorò lui di rimando, in tono affettuoso, e lei se ne liberò in fretta, inarcando il dorso per farseli sfilare di dosso e gettarli sul pavimento. «Sei incredibilmente bella», le disse, contemplando il corpo snello e serico. «Ma sei davvero guarita?» «Sì, completamente. Ma non devi accontentarti della mia parola, padrone. Mettimi alla prova, per la tua soddisfazione e la mia.» Quando il kusi cominciò a soffiare forte e costante lungo il canale e i cieli divennero di un azzurro incandescente, senza neanche una nuvola, la piccola flotta dello sceicco al-Salil salpò da Lamu, approdando tre giorni dopo sul continente africano. Sotto l'onda di seta dello stendardo azzurro, sbarcarono, allontanandosi dalla costa in una lunga colonna di uomini armati e bestie da soma, per marciare verso l'interno lungo la via degli schiavi. Lo sceicco cavalcava in testa alla colonna, seguito da vicino dal piccolo schiavo Yassie. Alcuni degli uomini notarono l'adorazione con la quale il Wilbur Smith
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ragazzo guardava il padrone, sorridendo con indulgenza. Nei lunghi mesi successivi alla fuga da Zanzibar, Tom Courteney esplorò la costa del continente, pur tenendosi a sud delle vie commerciali degli arabi, evitando ogni incontro con i rappresentanti del sultanato di Oman, sia per terra sia per mare. Cercava la foce del fiume che Fundi, il cacciatore di elefanti, chiamava Lunga. Senza l'aiuto dell'ometto forse non l'avrebbero mai trovata, perché il canale tornava indietro su se stesso, creando un'illusione ottica, cosicché, dal mare, la linea di terra sembrava ininterrotta e una nave poteva passare oltre senza neanche sospettare l'esistenza del fiume. Una volta messo al sicuro lo sloop all'interno del canale, Tom calò in acqua le due lance, agli ordini di Luke Jervis e Alf Wilson, perché seguissero il canale principale, guidando la Swallow. In mezzo ai papiri c'erano molti falsi canali e vicoli ciechi, ma riuscirono a orientarsi, anche se più di una volta furono costretti a tornare indietro, quando il canale che seguivano si restringeva. Ci vollero giorni e giorni di ricerca e di faticoso lavoro per superare quel tratto con la Swallow, e Tom ringraziò il cielo per il suo pescaggio limitato. Senza di esso, non sarebbero mai riusciti a superare le innumerevoli secche e i banchi di sabbia. Alla fine sbucarono nel corso principale del fiume. Le distese di papiri erano infestate da coccodrilli minacciosi e ippopotami che lanciavano grugniti sonori, mentre in alto era sospesa una cortina d'insetti ronzanti. Immensi stormi di uccelli che lanciavano strida acute si alzavano dai canneti al loro passaggio. Poi, bruscamente, i canneti finirono. Cominciarono a navigare tra pianure alluvionali che sembravano prati, punteggiate da tratti di foresta su entrambe le rive. Branchi di animali sconosciuti alzavano la testa dal pascolo, per osservare il passaggio delle piccole imbarcazioni, prima di sbuffare allarmati, rifugiandosi nella foresta. Il loro numero e la loro varietà erano impressionanti, tanto che i marinai si affollavano lungo il parapetto per fissarli pieni di ammirazione. C'erano antilopi piene di grazia, alcune simili ai cervi inglesi, altre molto più grandi, con corna strane e fantastiche, a forma di scimitarra o di mezzaluna, oppure a torciglione, non divise in due palchi come i cervi che conoscevano nel loro Paese. Ogni giorno scendevano a terra per dare la caccia a quegli animali; Wilbur Smith
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evidentemente non avevano mai visto uomini bianchi armati, perché si mostravano tanto fiduciosi che i cacciatori potevano avvicinarsi facilmente a distanza di tiro e abbatterli con un colpo ben piazzato. La carne non mancava mai, anzi mettevano sotto sale e seccavano quella che non riuscivano a mangiare subito. Non appena uccidevano la preda, sventrandola e dividendola in quarti, arrivavano creature ancora più strane a contendersi le ossa e gli avanzi rimasti in riva al fiume. I primi ad arrivare erano gli uccelli che ripulivano le carogne, una sorta di cicogne e avvoltoi di mezza dozzina di specie diverse, che riempivano il cielo come una nube scura che girasse in circolo, prima di posarsi. Tanto erano aggraziati e maestosi nel volo quanto apparivano grotteschi e macabri nel riposo. Dopo gli uccelli era la volta di creature maculate simili ai cani, che ululavano e gemevano come ossessi, e piccole volpi rosse, col dorso nero e i fianchi d'argento. Poi avvistarono i primi leoni. Non ci fu bisogno che Aboli spiegasse a Tom quali bestie fossero quei grandi felini con la criniera. Li riconobbe subito, grazie agli stemmi dei re e dei nobili inglesi e alle illustrazioni contenute in tanti libri della biblioteca di High Weald. I ruggiti e i mostruosi brontolii che quelle bestie lanciavano durante la notte innervosivano gli uomini che riposavano sulle amache, e Sarah si stringeva a Tom nella cuccetta angusta. Nelle foreste e nelle paludi cercarono le tracce degli elefanti che dovevano diventare la loro preda, ripagandoli con le zanne di tutti quegli sforzi e di quelle fatiche. Fundi e Aboli indicarono alcune grandi impronte rimaste impresse sull'argilla cotta dal sole, che ormai aveva assunto la consistenza della roccia. «Quelle sono state lasciate durante la stagione scorsa, nel periodo delle piogge», dissero a Tom. Poi, attraversando gli alberi, raggiunsero un tratto di foresta che era stato devastato, come se un vento impetuoso avesse spogliato gli alberi dei rami e della corteccia; eppure gli alberi erano morti e le ferite che avevano riportato erano ormai vecchie. «Tutto questo è successo un anno fa», spiegò Fundi. «Gli animali sono andati via e potrebbero non tornare per molte stagioni.» Il terreno divenne ondulato, mentre il fiume Lunga cominciava a seguire un percorso tortuoso tra le valli, diventando sempre più impetuoso e disseminato di rapide. Ben presto riuscirono a spingersi avanti soltanto con Wilbur Smith
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grande difficoltà, poiché il canale navigabile era fiancheggiato da macigni e rocce nere e aguzze: ogni miglio che percorrevano esponeva la piccola Swallow a rischi maggiori. Alla fine raggiunsero un punto in cui il fiume formava un arco intorno a una collina bassa ricoperta di vegetazione. Tom e Sarah scesero a terra per raggiungere la cima della collina, sedendosi insieme sul ciglio del pendio, mentre Tom osservava il terreno sottostante attraverso il cannocchiale. «È una fortezza naturale», disse. «Siamo circondati su tre lati dal fiume. Ci basterà costruire una palizzata all'imboccatura della penisola, e saremo al sicuro da uomini e animali.» Poi si voltò per indicare una piccola insenatura fiancheggiata da rocce lisce. «Ecco un approdo perfetto per la Swallow.» «Che cosa faremo qui?» domandò Sarah. «Gli elefanti non si sono ancora visti.» «Questo sarà il nostro campo base», le spiegò lui. «Da qui potremo proseguire verso l'interno, con la lancia o a piedi, finché non troveremo i branchi che Fundi ci ha promesso.» Così costruirono una palizzata di tronchi attraverso l'imbocco della penisola, portando a riva i cannoni della Swallow e sistemandoli su piazzole di terra battuta per tenere sotto tiro il pendio davanti alla palizzata. Quindi costruirono capanne di tronchi, intonacando le pareti col fango e ricoprendole con un tetto di canne tagliate sulla riva. Il dottor Reynolds installò il suo ospedale in una delle baracche, disponendo in ordine gli strumenti chirurgici e le medicine. Ogni giorno costringeva i membri della spedizione a inghiottire un cucchiaio della polvere di chinino, grigia e amara, che aveva acquistato nei mercati di Zanzibar e, anche se la medicina faceva ronzare le orecchie e tutti protestavano maledicendolo, nel campo nessuno fu colpito dalla febbre. Sarah divenne la sua volenterosa apprendista, capace ben presto di ricucire lo squarcio aperto in un piede da un colpo di ascia, somministrare una purga o salassare un malato con altrettanto sangue freddo del suo maestro. Per la loro capanna, Sarah aveva scelto un punto a una certa distanza dagli altri, dove si godeva un bel panorama della valle e del fiume, fino alle montagne azzurrine in lontananza. Utilizzò il cotone delle balle del carico per ricavarne tende e lenzuola; poi disegnò i mobili, facendoli costruire dai carpentieri della nave. Ned Tyler, che aveva l'istinto del contadino, piantò un orto con i semi Wilbur Smith
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che si era portato dall'Inghilterra, per arricchire la loro dieta limitata alla cacciagione e alle gallette. Lo irrigava grazie ai canali che aveva creato deviando l'acqua del fiume, ma poi dovette ingaggiare una guerra infinita con le scimmie che venivano a fare razzia dei germogli non appena spuntavano dal terreno. Il campo fu completato in meno di un mese e Sarah lo battezzò Fort Providence. Qualche giorno dopo, Tom caricò sulle barche le merci da vendere, la polvere e i fucili con le munizioni. Sotto la guida di Fundi, partì per una spedizione di caccia e di esplorazione a monte del fiume, in cerca degli introvabili branchi di elefanti e delle tribù con le quali avrebbero potuto concludere affari. Ned Tyler, insieme con il signor Walsh e cinque uomini, fu lasciato al comando di Fort Providence. Sarah rimase al forte perché Tom non le permise di avventurarsi sul fiume, non sapendo quali pericoli avrebbero incontrato. Lei si sarebbe assunta il compito del dottor Reynolds, durante la sua assenza, oltre a completare i lavori della casa. In piedi sull'approdo, salutò con la mano Tom finché le barche non scomparvero oltre la curva del fiume. A tre giorni di viaggio dal forte, le barche ormeggiarono per la notte alla confluenza con un corso d'acqua più piccolo. Mentre raccoglievano legna da ardere e costruivano un recinto di rami spinosi per tenere lontani i predatori notturni, Fundi e Aboli ispezionarono le rive del fiume. Erano rimasti lontani solo per poco, quando Fundi tornò indietro di gran carriera. I suoi occhi scintillavano di eccitazione, mentre riversava su di loro un torrente di spiegazioni confuse. Alla fine, Tom aveva capito soltanto qualche parola, quindi dovette aspettare l'arrivo di Aboli al campo per avere un rapporto completo. «Tracce fresche», gli spiegò il nero. «Fresche di un giorno. Un grande branco, forse cento animali, con alcuni maschi di grandi dimensioni.» «Dobbiamo seguirli subito.» Tom era più eccitato del piccolo cacciatore, ma Aboli scosse la testa, indicando il sole, che era appena un dito più su della cima degli alberi. «Farà buio prima che abbiamo percorso un miglio. Cominceremo domattina, alle prime luci dell'alba. Un branco del genere sarà facile da seguire. Si muovono assai lentamente, mangiando lungo il percorso, quindi lasciano una larga pista nella foresta.» Prima del calar della sera, Tom aveva progettato la spedizione. Ci Wilbur Smith
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sarebbero stati quattro uomini armati di fucile incaricati di attaccare i pachidermi: Aboli e lui, Alf Wilson e Luke Jervis. Ogni cacciatore avrebbe avuto a disposizione due uomini per portare le armi di riserva, ricaricare e porgere un fucile carico dopo ogni colpo. Controllò le armi - i fucili con la canna rigata che aveva acquistato a Londra - e verificò che ci fossero acciarini di riserva per i congegni di sparo, che le fiasche di polvere fossero piene e i sacchetti per i proiettili gonfi di palle di piombo calibro dieci rese più resistenti dall'antimonio e fatte apposta per quelle armi. Calibro dieci significava che dieci proiettili pesavano una libbra. Mentre lavorava sulle armi, Aboli riempì gli otri dell'acqua, accertandosi che avessero una provvista di gallette e carne secca per tre giorni di viaggio. Nonostante la lunga giornata trascorsa a vogare e trainare le barche in secca, tutti gli uomini erano troppo eccitati per dormire e rimasero svegli a lungo, seduti intorno al fuoco, ascoltando gli strani rumori della notte africana, il fischio e il verso sinistro degli uccelli notturni, le risatine delle iene e i brontolii di un branco di leoni a caccia sulle colline lontane. Tom aveva già ascoltato le storie di Fundi sulla caccia alle possenti bestie grigie, però, quella sera, chiese all'ometto di ripeterle. Quando non riusciva a seguire il racconto, Aboli traduceva, ma Tom stava facendo grandi progressi nella conoscenza della lingua dei lozi, per cui poteva comprendere quasi tutto. Fundi spiegò di nuovo che l'elefante era molto miope, ma possedeva un senso dell'odorato che poteva avvertirlo della presenza di un cacciatore anche a distanza di un miglio, se si trovava sopravvento. «Riesce ad aspirare l'odore dall'aria e a trattenerlo nelle cavità ossee della testa», disse, «conservandolo anche per un lungo tratto di cammino, e poi a soffiare l'odore con la proboscide nella bocca dei compagni.» «Nella bocca?» domandò, Tom interessato. «Non nelle narici?» «L'odorato dello nzou risiede nel labbro superiore», spiegò Fundi. Il nome che usava per indicare l'elefante era quello riservato a un vecchio saggio, e lui lo usava con rispetto e uno strano tono affettuoso, esprimendo i sentimenti del vero cacciatore per la sua preda. «In bocca ha piccole ghiandole rosa che assomigliano ai boccioli dei fiori dell'albero di kigilia. È con queste che annusa l'aria.» Con un bastoncino, Fundi disegnò nel terreno polveroso il contorno dell'elefante, mentre gli altri allungavano il collo per guardare alla luce del fuoco, e illustrò dove bisognava conficcare la freccia per abbattere uno di quei giganti. «Qui!» esclamò, toccando un Wilbur Smith
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punto dietro la spalla della sagoma. «Bisogna fare molta attenzione a non colpire le ossa delle zampe, che sembrano tronchi d'albero. In fondo! Spingete il ferro in fondo, perché il cuore e i polmoni sono nascosti dietro una pelle spessa così.» Indicò il suo pollice. «E poi muscoli e costole.» Allargò le braccia per indicare la misura. «Tanto così bisogna andare in fondo per uccidere lo nzou, il saggio vecchio grigio della foresta.» Tom avrebbe voluto che quelle descrizioni non finissero mai e supplicò Fundi di continuare il suo racconto, ma lui si alzò con aria dignitosa. «Domani ci sarà un lungo cammino da percorrere, quindi adesso è ora di riposare. V'insegnerò ancora quando saremo sulla pista.» Tom rimase sveglio finché la luna non ebbe quasi completato il circuito del cielo, col sangue che ribolliva di eccitazione e, quando chiuse gli occhi, continuò a immaginare la preda. Non l'aveva mai vista in carne e ossa, anche se aveva ammirato centinaia di zanne ammucchiate nei mercati delle Isole delle Spezie, e ricordava lo splendido paio di zanne che il padre aveva acquistato dal console Grey a Zanzibar e che si trovava nella biblioteca di High Weald. Ucciderò un'altra bestia come quella, si ripromise, ma un'ora prima dell'alba scivolò in un sonno così profondo che Aboli dovette scuoterlo per svegliarlo. Dopo aver lasciato due uomini di guardia alle barche, nel primo lucore di un'alba gelida, s'incamminarono lungo la pista che il branco di elefanti aveva lasciato in riva al fiume. Come aveva pronosticato Aboli, i segni si leggevano chiaramente, consentendo loro di avanzare ad andatura sostenuta. Quando la luce aumentò, accelerarono il passo, muovendosi vicini ad alberi spezzati e privi della corteccia e dei rami. Sul fondo della foresta c'erano montagne di escrementi di colore giallo, nelle quali frugavano branchi di scimmie e stormi di uccelli selvatici simili alle pernici, in cerca di semi e frutti non digeriti. «Ecco!» Aboli indicò uno di quei cumuli. «Questi sono di un vecchio maschio, uno che potrebbe avere delle zanne pesanti, perché l'avorio non smette mai di crescere finché la bestia è viva.» «Come si fa a distinguere i suoi escrementi da quelli di un animale giovane?» volle sapere Tom. «Il vecchio non riesce a digerire bene il cibo», spiegò Aboli affondando il dito nel mucchio. «Vedi? I rametti sono ancora interi e le foglie intatte. Wilbur Smith
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Ecco i frutti della palma dell'avorio, con una metà della polpa ancora sul torsolo.» Tom meditò su quella briciola di saggezza che aveva appena appreso. Nella tarda mattinata, raggiunsero il punto in cui il branco si era allontanato dal pozzo d'acqua per puntare a ovest, verso le colline. Attraversarono poi una zona in cui la superficie sembrava cosparsa di talco. Su quel terreno l'impronta dei cuscinetti delle zampe era così nitida da riprodurre fedelmente ogni minima screpolatura e grinza. «Ecco qui!» Aboli indicò una fila di orme. «Questa è la pista del grande maschio. Guardate le dimensioni di ogni impronta, col piede anteriore rotondo e quello posteriore di forma più ovale.» Il nero appoggiò il braccio vicino a una delle orme, usando come metro il tratto che andava dalla punta delle dita fino al gomito. «Questa lunghezza indica che è un maschio poderoso. Vedete come sono levigati i cuscinetti delle zampe? Dev'essere molto vecchio. Se le zanne non sono logorate o spezzate, si tratta davvero di un animale degno di essere cacciato.» Superarono la prima linea delle colline e, nella valle lussureggiante che si stendeva più in là, Fundi e Aboli lessero in vari segnali che il branco si era nutrito e aveva riposato in quel punto la notte prima. «Abbiamo guadagnato molte ore su di loro», esclamò trionfante Fundi. «Ormai non sono molto lontani.» Fu in quell'occasione che Tom scoprì l'abisso che separava la sua idea di distanza e quella che aveva Fundi. Al calar della notte, erano ancora sulla pista del branco, mentre l'ometto continuava ad assicurare che gli elefanti si trovavano vicinissimi. Tutti i bianchi della spedizione erano sull'orlo dello sfinimento: i marinai non erano abituati a coprire così grandi tratti a piedi. Ebbero appena la forza di mangiare una galletta e una striscia di carne secca, mandando giù qualche sorso d'acqua dagli otri, prima di addormentarsi sul terreno. La mattina dopo ripresero l'inseguimento del branco mentre il cielo era ancora buio, ma ben presto apparve chiaro che avevano perso gran parte del vantaggio accumulato il giorno prima, perché il branco, mentre loro dormivano, aveva continuato a spostarsi verso occidente al chiaro di luna. Per la maggior parte dei bianchi, la marcia divenne un incubo interminabile, fatto di sete, muscoli indolenziti e vesciche ai piedi. Tom era ancora giovane e forte, così ansioso di raggiungere la meta da badare poco alle asprezze del cammino e procedeva baldanzoso dietro gli esperti Wilbur Smith
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nella lettura delle tracce, col pesante fucile in spalla. «Vicini! Ormai siamo molto vicini.» Fundi sogghignava con un'espressione di gioia maliziosa, mentre le miglia si snodavano alle loro spalle. Ormai gli otri dell'acqua erano quasi vuoti e Tom dovette ammonire gli uomini a non bere senza permesso. Minuscole mosche nere sciamavano intorno alla loro testa, strisciando nelle orecchie, negli occhi e nelle narici. Il sole picchiava come un martello sull'incudine, riflesso dal terreno sassoso; le spine si agganciavano alle gambe al loro passaggio, strappando i vestiti e lasciando graffi sanguinanti sulla pelle. Infine scoprirono un tratto di foresta fitta dove il branco si era fermato, trascorrendo molte ore a riposare e a cospargersi di polvere, cogliendo i ramoscelli dagli alberi, prima di riprendere la marcia. Aboli fece notare a Tom che gli escrementi del branco non avevano avuto il tempo di seccarsi; infatti, ficcando il dito in uno di quei cumuli, mentre nubi di farfalle dai colori vivaci vi aleggiavano sopra per succhiarne gli umori, si sentiva ancora un residuo di calore corporeo. I cacciatori ripresero le forze, accelerando l'andatura per scalare un'altra catena di colline, convinti di aver riguadagnato il terreno perduto. Su quei pendii rocciosi crescevano strani alberi col tronco rigonfio e una piccola corona di rami nudi sulla cima, a cinquanta piedi da terra. Alla base di uno di quegli alberi erano ammucchiati enormi baccelli pieni di semi pelosi. Aboli aprì uno di quei baccelli, rivelando che i semi neri contenuti all'interno erano rivestiti di uno strato di sostanza gialla che sembrava midollo. «Succhiateli», suggerì. Gli uomini obbedirono e un gusto acre ma piacevole fece sgorgare la saliva nella loro bocca, alleviando la sete della marcia. La fila di cacciatori, appesantiti dalle armi e dagli otri, risalì faticosamente la collina. Poco più in basso della cresta, però, tutti alzarono di scatto la testa. Nell'aria torrida giunse loro un suono terribile, distante ma spaventoso come lo squillo di una tromba di guerra. Anche se Tom non l'aveva mai sentito prima, comprese per istinto di che cosa si trattava. Ordinò subito alla colonna di fermarsi sotto la cresta della collina: quasi tutti gli uomini si stesero, riconoscenti, all'ombra, mentre Tom, Aboli e Fundi proseguivano furtivamente fino alla linea dell'orizzonte, approfittando del tronco di un albero per dissimulare la loro presenza. Quando sbirciarono nella valle oltre la cresta, il cuore di Tom fece un balzo. Wilbur Smith
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In fondo alla valle si stendeva una fila di pozze d'acqua verde scintillante, tutte circondate da canneti lussureggianti e alberi dalla chioma larga. Il branco di elefanti era riunito intorno alle pozze: alcuni stavano all'ombra, sventolandosi con le orecchie enormi, che a Tom parvero grandi come la gabbia di maestra della Swallow. Altri stavano ritti sulle rive di sabbia gialla che circondavano gli stagni, immergendo la proboscide nell'acqua verde per risucchiare sorsate gigantesche, prima di arrotolarla e spruzzarsi l'acqua in bocca con la forza della pompa di sentina di una nave. Gli esemplari più giovani si affollavano invece negli stagni come bambini chiassosi che scherzassero e si annaffiassero a vicenda, battendo la proboscide sull'acqua, scuotendo la testa enorme e sventolando le orecchie. I loro corpi bagnati erano neri e lucenti. Altri pachidermi, infine, si stendevano sul fondo per rotolarsi da una parte e dall'altra, scomparendo del tutto sotto la superficie e lasciando emergere soltanto la proboscide, simile a un serpente di mare. Tom posò un ginocchio a terra, accostando l'occhio al cannocchiale. La prima visione di quelle bestie leggendarie era superiore a ogni sua più sfrenata fantasia, tanto che si sentì sopraffare dalla meraviglia. Si beava di ogni dettaglio. Uno dei cuccioli più piccoli, poco più grande di un grosso maiale, ma sfacciato e birichino, uscì dall'acqua lanciato alla carica, con la proboscide che dondolava, lanciando poderosi barriti per scacciare le egrette bianche appollaiate in riva allo stagno. Gli uccelli lo accontentarono, alzandosi in volo come una nuvola bianca, e l'elefantino tornò in acqua, pavoneggiandosi, e si lasciò cadere quasi subito nel fango, restando intrappolato sotto un tronco sommerso. Le sue strida, ora terrorizzate, richiamarono l'attenzione di tutte le femmine a portata d'orecchio, che accorsero con atteggiamento protettivo, convinte che il piccolo fosse stato attaccato da un coccodrillo. Il cucciolo, trascinato fuori dell'acqua con grave danno per la sua dignità, corse mortificato a rifugiarsi tra le zampe della madre, consolandosi con una delle mammelle gonfie di latte che penzolavano alla sua portata. Tom scoppiò a ridere forte, ma poi Aboli gli sfiorò la spalla, indicandogli un gruppo di tre maschi enormi che se ne stavano in disparte, come se volessero isolarsi dal chiasso delle femmine e dei piccoli. Si trovavano in un tratto fitto di cespugli sulla riva opposta, schierati spalla a spalla, con le orecchie che sventagliavano, indolenti. Di tanto in tanto uno di loro risucchiava la polvere con la proboscide, spruzzandola Wilbur Smith
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sulla testa e sul dorso. A parte quello, si sarebbe detto che dormissero in piedi. Attraverso la lente del cannocchiale, Tom osservò quel trio maestoso di pachidermi che facevano sembrare nani tutti gli altri animali del branco. Esaminò le lunghe zanne d'avorio, accorgendosi subito che, per quanto fossero tutti massicci, il maschio al centro sfoggiava delle zanne che gli sporgevano dal labbro per una lunghezza pari al remo di una barca e con una circonferenza analoga a quella della vita di Sarah. Quello era il maschio che aveva sognato, tanto che il suo primo istinto fu di afferrare il fucile che aveva appoggiato contro l'albero vicino, per precipitarsi a combattere contro quel gigante. Intuendo il suo stato d'animo, Aboli gli posò una mano sulla spalla per trattenerlo. «Sono creature sagge e prudenti», lo ammonì. «Non sarà facile arrivare a quel maschio. Le sue femmine lo proteggeranno, facendogli la guardia. Dovremo far ricorso a mille astuzie e cautele per batterli.» «Spiegatemi che cosa dobbiamo fare», ribatté Tom. Allora Aboli e Fundi gli si affiancarono, programmando la caccia. «Il segreto è nel vento», spiegò Aboli. «Dobbiamo restare sempre sul lato sottovento.» «Non c'è vento», gli fece notare Tom, indicando le foglie che pendevano inerti dai rami più alti degli alberi, nel meriggio assolato. «C'è sempre vento», lo contraddisse Aboli, facendo scorrere tra le dita una manciata di polvere. I granelli dorati fluttuarono alla luce del sole, prima di disperdersi lentamente: il nero seguì con un gesto delicato il movimento della polvere che scendeva verso la valle. «Quando sono allarmati», proseguì, «corrono sempre col vento in faccia, poi descrivono un cerchio per trovarsi sopravvento e annusare la pista.» Illustrò quella manovra con un gesto. «Metteremo Alf e Luke lì e lì», aggiunse, indicando i punti. «Quando saranno al loro posto, tu e io scenderemo laggiù.» Indicò il percorso dell'agguato. «Ci avvicineremo di soppiatto e, nel momento in cui loro spareranno, i maschi verranno sospinti contro di noi.» Tom fece segno ad Alf e Luke di salire sulla cresta. Quando si furono ripresi dallo stupore generato da quelle bestie enormi, impartì loro gli ordini, inviandoli ad aggirare la cresta delle colline, incrociandola oltre un miglio più avanti nella valle, dove sarebbero stati invisibili e in posizione tale da sfuggire al fiuto degli elefanti. Passò un'ora prima che Tom riuscisse a scorgere, attraverso il Wilbur Smith
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cannocchiale, i due gruppi di cacciatori che risalivano la valle per occupare le posizioni che aveva assegnato loro. Era bello avere ai suoi ordini uomini che lo conoscevano bene e sapevano eseguire i suoi ordini con tanto zelo. Guidati da Aboli, si spostarono silenziosamente, restando sotto la linea dell'orizzonte, approfittando degli alberi e dei cespugli per schermare i loro spostamenti, perché i pachidermi non erano miopi al punto da non riuscire a scorgere un movimento anormale. Scesero verso gli stagni con penosa lentezza, badando a non farsi individuare dalle femmine sparse tra gli alberi. Tom non riusciva quasi a credere che un animale tanto grosso potesse diventare praticamente invisibile se restava immobile tra la vegetazione fitta, grigio su grigio, dove anche le zampe somigliavano ai tronchi degli alberi. Lentamente, si avvicinarono al terzetto di maschi. Per quanto non fossero individuabili, i cacciatori erano guidati dai loro brontolii profondi. Tom domandò sottovoce ad Aboli: «È il suono del loro ventre?» Aboli scosse la testa. «No. Sono i vecchi che parlano tra loro.» Ogni tanto, quando uno dei maschi si spolverava, vedevano una nube levarsi al di sopra della sterpaglia; quel segnale contribuiva a farli orientare nel folto sottobosco. Un passo alla volta, con cautela, avanzarono, costretti a un certo punto a tornare indietro e a fare una deviazione per evitare una giovane femmina che allattava il suo piccolo in mezzo ai cespugli che li separavano dalla loro preda. Infine Fundi, con un gesto del palmo roseo, li fermò, indicando un punto poco oltre. Tom posò un ginocchio a terra, guardando al di sotto della vegetazione ricadente e dei rami per scorgere le massicce zampe anteriori del maschio più vicino. Il sudore dell'eccitazione colava negli occhi, pungente come acqua di mare. Se lo asciugò con la bandana che portava legata alla gola, mentre controllava il congegno di sparo e l'acciarino del fucile. Al segnale di Aboli, alzò il cane a metà, prima di cominciare a strisciare in avanti. Poco alla volta, apparve ai loro occhi una porzione maggiore del corpo della bestia più vicina: la curva del ventre pendulo, la pelle grigia e floscia che ricadeva formando pieghe intorno alle ginocchia e poi la curva inferiore di una grossa zanna giallastra. Quando furono più vicini, Tom si accorse che la zanna era chiazzata dai succhi della corteccia che il maschio aveva strappato dagli alberi. Ancora qualche passo, e fu in grado di scorgere ogni piega e ogni grinza della Wilbur Smith
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pelle, ogni pelo della coda tozza. Guardò Aboli, facendo il gesto di sparare, ma l'altro scosse la testa con decisione, facendogli cenno di avvicinarsi ancora. Il maschio si dondolava leggermente sulle zampe e poi, con grande stupore di Tom, qualcosa d'incredibile cominciò a spuntargli tra le zampe posteriori: aveva una circonferenza superiore alla coscia di un uomo e parve estendersi all'infinito, penzolando fino a sfiorare il suolo. Il giovane dovette fare uno sforzo per non scoppiare a ridere: il vecchio elefante, sonnacchioso e soddisfatto, stava lasciando pendere il membro, che s'inturgidiva a vista d'occhio. Tom guardò di nuovo Aboli, aspettando istruzioni, e di nuovo il gigante nero lo fissò con aria severa, indicandogli di avanzare; ma in quel momento il maschio arretrò per cogliere con la proboscide un mazzetto di foglie dai rami sopra di lui e, con quel movimento, lasciò allo scoperto l'altro maschio che aveva finora nascosto con la sua mole. Tom prese fiato con un lieve sibilo, vedendo quanto fosse più grande quel vecchio patriarca rispetto al suo compagno, più giovane. La testa enorme era curva in avanti, con le orecchie che oscillavano delicatamente, logore e sbrindellate come le vele di una nave reduce dalla tempesta. Gli occhi piccoli erano chiusi, con le ciglia rosa chiaro intrecciate tra loro, e Tumore che colava dalla ghiandola dietro l'occhio gli scorreva sulla guancia, lasciando una lunga traccia umida. La testa del maschio era appoggiata sulle zanne. Tom fissò ammirato la lunghezza e la circonferenza di quelle curve d'avorio che arrivavano fino a terra; erano così massicce e pesanti che riusciva difficile scorgerne la linea leggermente affusolata, che si restringeva dal labbro verso la punta smussata. Riusciva persino a vedere la sporgenza sotto la pelle grigia, dove un quarto della lunghezza della zanna era affondata nel cranio. Doveva essere un peso enorme da portare ogni giorno, anche per un animale possente. Ormai era così vicino che scorse chiaramente un moscone di un azzurro metallico posarsi sulle ciglia del maschio, che batté le palpebre per scacciarlo. In quel momento, si sentì sfiorare il braccio e, voltando lentamente la testa, vide che Aboli annuiva. Allora si girò di nuovo verso il maschio, concentrando lo sguardo sul contorno delle ossa della spalla, sotto la pelle raggrinzita e corrosa dal tempo, per individuare esattamente il punto che Fundi gli aveva indicato: Wilbur Smith
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appena dietro la spalla, a due terzi della curva massiccia del petto. Sollevando il fucile, tirò lentamente indietro il cane per armarlo, smorzando con la mano lo scatto del meccanismo. Guardando lungo la canna dell'arma, si accorse che la bocca sfiorava quasi il fianco del maschio, quindi non c'era bisogno di usare il mirino. Aumentò delicatamente la pressione sul grilletto e il cane scattò sullo scodellino, facendo sprizzare una cascata di scintille azzurre. Trascorse soltanto un istante, ma sembrò eterno; poi la potente arma sparò con una detonazione sonora, rinculando con violenza contro la spalla, tanto da fargli perdere l'equilibrio, fino a ricadere sui talloni, e accecandolo con una nuvola di fumo bianco che oscurò ai suoi occhi la mole dell'elefante. Sentì Aboli sparare un attimo dopo di lui. Tutt'intorno, la foresta sonnolenta si tramutò in una cascata di corpi massicci: il branco, lanciando barriti e strida di allarme, si lanciò alla carica attraverso la vegetazione, mentre gli alberi tremavano sotto il loro impeto. Tom lasciò cadere il fucile carico, abbassando la mano per afferrare il secondo fucile che l'uomo alle sue spalle gli porgeva, prima di scattare in piedi, correndo verso la nube di polvere. Quando emerse dalla parte opposta, vide i quarti posteriori del maschio sparire e la sterpaglia richiudersi alle sue spalle. «Inseguilo!» gridò Aboli, al suo fianco, mentre si lanciavano all'inseguimento del maschio in fuga e udivano le femmine e i piccoli spaventati che avanzavano nella vegetazione. Tom si sentì artigliare i vestiti e le carni da spine e rami, ma ignorò strappi e graffi, continuando a correre lungo la pista che il maschio aveva aperto nel sottobosco. D'un tratto si ritrovò allo scoperto, sulla riva di uno degli stagni: il maschio, più avanti di cinquanta piedi, con le orecchie allargate e le curve delle zanne visibili ai lati del posteriore flaccido, si stava allontanando a tutta velocità. Teneva alta la coda tozza, che terminava con un ciuffetto di peli, e Tom vide la linea della spina dorsale che correva lungo la curva del dorso, fino alla coda. Sollevando il fucile, sparò alla spina dorsale, e il maschio ricadde, seduto sulle zampe posteriori, scivolando in basso lungo la riva; ma il proiettile doveva avere sfiorato la colonna vertebrale, anziché spezzarla, e quindi l'animale rimase paralizzato solo per un secondo. Non appena arrivato in fondo alla riva, si risollevò su tutt'e quattro le zampe, sguazzando nello stagno per risalire sulla sponda opposta. Wilbur Smith
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Aboli corse avanti, affiancandosi a Tom per sparare oltre la pozza d'acqua. Videro entrambi che la palla sollevava uno schizzo di fango secco dalla parte posteriore della testa del maschio, ma l'animale scosse la testa, sbattendo le orecchie contro i fianchi prima di scomparire nella fitta boscaglia. Allora Tom afferrò il terzo fucile dalle mani dell'uomo ansimante che glielo porgeva, tuffandosi lungo la riva all'inseguimento del pachiderma. Aboli correva sempre al suo fianco. Il percorso che il maschio si apriva nella foresta era ben visibile, perché le cime degli alberi vibravano, mentre si udiva un fruscio e un crepitio simile a quello di una balena che s'innalza prima di emergere dalla superficie del mare. Improvvisamente si levò una potente detonazione di fucile sul fianco destro, dov'erano nascosti gli altri cacciatori. Aboli si lasciò sfuggire un grugnito: «Gli altri maschi devono aver incontrato Alf e Luke». Procedendo affiancati, costeggiarono lo specchio d'acqua, tuffandosi nella vegetazione che copriva la sponda opposta. Il sentiero aperto dal maschio si richiudeva dietro di lui, costringendo i cacciatori a lottare contro gli ostacoli, cedendo alle spine lembi di stoffa e di pelle. «Ormai non lo prenderemo più», gemette Tom, ansimando. «Riuscirà a sfuggirci.» Invece, quando sbucarono finalmente in una radura, lanciarono un grido di trionfo, vedendo il grande maschio a poca distanza da loro. Era stato colpito in modo grave; la sua corsa si era ridotta a un avanzare incerto e ondeggiante, con la testa china e le zanne che scavavano lunghi solchi nel terreno molle, mentre una schiuma rosea di sangue colava gorgogliando dall'estremità della proboscide. «Col primo colpo lo Hal preso al polmone!» gridò Aboli, e i due si slanciarono in avanti con rinnovato vigore, superando ben presto la bestia ferita. A dieci passi di distanza da lui, Tom posò un ginocchio a terra. Ansimava, col cuore che batteva all'impazzata e le mani che tremavano, quando tentò di prendere la mira puntando a quei quarti posteriori ondeggianti, per coglierlo di nuovo alla spina dorsale. E stavolta il proiettile, uscendo dalla canna rigata, raggiunse il bersaglio con precisione. Un istante prima che il fumo gli oscurasse la vista, vide la palla affondare nell'immenso dorso grigio, fracassando le vertebre sopra la coda. Il maschio ricadde di nuovo sulle zampe posteriori, mentre Tom si alzava precipitosamente, correndo di lato per riuscire a vedere qualcosa Wilbur Smith
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oltre la nube di fumo bianco. L'elefante stava seduto di fronte a lui, scuotendo la testa nel furore dell'agonia, con le grandi zanne sollevate, perdendo una nube di sangue scarlatto dalla proboscide e lanciando barriti così tonanti che Tom ebbe l'impressione che gli spaccassero il cranio e gli sfondassero i timpani. Aboli sparò alla testa del pachiderma e, sebbene vedessero entrambi il proiettile colpire la fronte a cupola, la palla non riuscì a penetrare nella fortezza d'osso in cui era sepolto il cervello, tanto che la bestia ferita riuscì a muoversi, trascinandosi dietro le zampe posteriori paralizzate, tentando di raggiungere i suoi aguzzini. I due si allontanarono di corsa dalla portata della proboscide, versando la polvere nella canna del fucile con le mani tremanti, prima d'inserire lo stoppaccio e il proiettile, poi ripresero ad avanzare, descrivendo un cerchio nella speranza di trovare un varco per avvicinarsi abbastanza da sparargli nel petto poderoso. Più volte dovettero indietreggiare per ricaricare, avanzare di nuovo e sparare. A poco a poco, le forze abbandonarono l'elefante, insieme col sangue che scorreva da venti ferite. Infine, con un gemito, il maschio si accasciò sul fianco e rimase immobile. Tom si fece avanti con cautela. Con la canna del fucile sfiorò l'occhio minuscolo, frangiato da ciglia chiare e traboccante di lacrime quasi umane, ma la palpebra non si mosse. L'elefante era morto. Avrebbe voluto gridare di gioia, invece si sentì sopraffare da una malinconia strana, quasi religiosa. Aboli gli si accostò e, quando si scambiarono un'occhiata, annuì per fargli capire che comprendeva. «Sì», disse piano, «Hal imparato che cosa significa essere un vero cacciatore, perché Hal compreso la bellezza e la tragedia che convivono in ciò che facciamo.» Alf e Luke erano riusciti ad abbattere un altro maschio, ma il terzo era sfuggito all'agguato, allontanandosi illeso col resto del branco per cercare rifugio nel cuore della foresta. Tom avrebbe voluto seguirlo, ma Fundi e Aboli risero di lui. «Non lo rivedrai mai più. Correrà per venti miglia senza fermarsi, poi proseguirà camminando per altre cinquanta, più in fretta di quanto tu possa correre.» Quella sera cenarono da re, mangiando la carne dura e aspra ricavata dalle guance del maschio, arrostita su spiedi di legno verde sopra le braci, Wilbur Smith
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e bevendo l'acqua fangosa della pozza, mista a urina di elefante, neanche fosse il chiaretto migliore del mondo; dopodiché si addormentarono come massi, vicino al fuoco. Nei due giorni seguenti estrassero le zanne dai due maschi, incidendo il cranio e facendo molta attenzione a non sciupare o incrinare l'avorio. Fundi mostrò loro come si faceva a estirpare il lungo nervo conico dalla cavità alla base di ogni zanna, prima di riempire d'erba verde la cavità rimasta. Poi usarono una corda di corteccia per fissare le quattro enormi zanne ad altrettanti pali da portatore. Quando s'incamminarono per la lunga marcia, diretti verso le barche, ci vollero quattro uomini per trasportare ogni zanna. Una volta raggiunto il fiume, nascosero le zanne sulla riva, seppellendole in profondità per evitare che le iene potessero scovarle e addentarle, scheggiandole, poi risalirono il fiume a bordo delle barche. Ogni giorno trovavano altri segni, sempre più numerosi, del passaggio degli elefanti; li seguivano a piedi e talvolta uccidevano la loro preda a distanza di poche miglia, mentre in altri casi erano costretti a marciare per giorni interi prima di raggiungere i pachidermi. Nel giro di un mese avevano raccolto avorio sufficiente per caricare entrambe le barche, ma tutti i bianchi della spedizione erano esausti, al limite delle forze. Dal loro corpo era scomparsa anche l'ultima stilla di grasso e avevano i volti barbuti e scavati. Soltanto Aboli e Fundi sembravano indenni dalle fatiche della caccia. Comunque si rallegrarono tutti, quando Tom annunciò la decisione di tornare a Fort Providence. Quella sera, intorno al fuoco, Aboli e Fundi si avvicinarono a Tom, che sedeva fissando le fiamme morenti e pensando a Sarah, pregustando il momento in cui l'avrebbe rivista. Si accovacciarono al suo fianco, uno per parte, e lui fissò pensieroso i loro volti scuri prima di parlare. «Questa è una faccenda seria», sospirò. «Vedo bene che volete sciuparmi la gioia del ritorno a Fort Providence.» Sospirò rassegnato. «E va bene, che cosa c'è?» «Fundi dice che siamo molto vicini al territorio del suo popolo, i lozi.» «Quanto vicino?» chiese Tom con diffidenza, perché ormai parlava in modo corrente la lingua dei lozi e aveva anche imparato quale significato avesse per Fundi la parola «vicino». «Dieci giorni di viaggio», gli rispose con aria sicura di sé, ma, quando Tom lo fissò con aria di accusa, abbassò gli occhi e ammise: «Forse un po' di più». Wilbur Smith
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«E così Fundi vuole tornare dal suo popolo?» chiese Tom. «Anch'io voglio andare con lui», completò Aboli a bassa voce. Il giovane avvertì una fitta di allarme, poi si alzò per allontanare Aboli dal fuoco e parlargli in tono quasi iroso. «Che significa questa storia? Vuoi lasciarmi per tornare in Africa?» Il nero scosse la testa sorridendo. «Ti lascio soltanto per poco. Tu e io siamo diventati carne della stessa carne e non potremo mai restare separati.» «Allora perché te ne vai senza di me?» «Da molti anni i lozi sono braccati dai negrieri. Se solo intravedessero la tua faccia di bianco...» Si strinse nelle spalle con aria espressiva. «No, andrò io dai lozi. Porteremo con noi merci da vendere, tutte quelle che riusciremo a trasportare. Fundi sostiene che la sua tribù ha una riserva di avorio, grazie agli elefanti che hanno catturato con le trappole e alle carcasse degli animali che hanno trovato morti nella foresta. Con Fundi per calmare i loro timori e qualche campione di merce da far vedere, forse riuscirò ad avviare un commercio con i lozi.» «Come farò a ritrovarti?» «Ti troverò io, a Fort Providence. Fundi dice che potrò comprare una canoa dalla sua tribù. Forse, quando ci rivedremo, la mia canoa sarà carica di tesori.» Posò una mano sulla spalla di Tom, con fare paterno. «In questi ultimi giorni Hal dimostrato di essere un grande cacciatore, ma ora è tempo che ti riposi. Torna dalla donna che ti aspetta e falla felice. Io arriverò prima che cambi la stagione e comincino le grandi piogge.» La mattina dopo, Aboli e Fundi si issarono sulla testa pesanti balle di perline, filo di rame e stoffa, tenendole in equilibrio in modo da avere le mani libere d'impugnare le armi, poi si allontanarono lungo la riva del fiume, verso occidente. Tom camminò per qualche tempo a fianco di Aboli, poi si fermò, seguendo con gli occhi il compagno di tante avventure che spariva tra gli alberi alti della foresta fluviale prima di tornare indietro, mesto, per scendere sulla riva, verso le barche già cariche. «Si parte», ordinò, prendendo posto al timone della prima. «Torniamo a Fon Providence.» E gli uomini lo acclamarono, chinandosi sui remi e seguendo la corrente verso est. Le vedette sulla collina che sovrastava Fort Providence avvistarono le barche non appena superarono l'ultima curva a monte e, quando Tom Wilbur Smith
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sbarcò, Sarah ballava di gioia sulla riva. Si gettò tra le sue braccia, ma subito dopo si tirò indietro per guardarlo in faccia, spaventata. «Sembri mezzo morto di fame!» osservò. «E per giunta vestito di stracci come uno spaventapasseri.» Poi arricciò il naso. «Quand'è stata l'ultima volta che ti sei lavato?» Lo condusse in cima alla collina, ma non volle farlo entrare nella capanna. «Rovineresti tutto quello che ho preparato con tanta fatica.» Prima riempì di acqua bollente il semicupio in rame sistemato sotto il fico selvatico del cortile, poi lo spogliò, mettendo da parte i vecchi stracci che indossava, per lavarli e rammendarli in seguito. Lo mise a sedere nella vasca come se fosse un bambino, levandogli di dosso la polvere e lo sporco accumulati in quelle settimane di caccia faticosa, e gli pettinò i folti capelli neri, intrecciandoli in un codino da marinaio. Con le forbici regolò la barba ispida, tagliandola a punta secondo lo stile che il re Guglielmo aveva reso di moda. Infine medicò i graffi e i tagli che aveva sulle gambe e sulle braccia con un unguento preso dalla farmacia del dottor Reynolds. Tom accoglieva con gioia tutte quelle attenzioni e non protestò nemmeno quando lei lo aiutò a indossare camicia e brache fresche di bucato e stirate con amore. Soltanto allora lo prese per mano, guidandolo nella casetta. Gli mostrò con orgoglio ciò che aveva fatto in sua assenza, dalla poltrona che i carpentieri avevano costruito apposta per lui al grande letto matrimoniale nella stanza sul retro, col materasso che lei aveva cucito e riempito di kapok ricavato dagli alberi che crescevano in riva al fiume. Tom squadrò il letto con un sorriso malizioso. «Sembra un bel mobile, ma prima di dare un parere devo provarlo», esclamò, inseguendola per due volte intorno al letto, prima che lei si lasciasse catturare e deporre sul copriletto ricamato. Più tardi, mentre il sole tramontava, rimasero distesi a chiacchierare e i loro discorsi si prolungarono per gran parte della notte. Tom le parlò di tutto quello che aveva fatto e visto, descrivendole la caccia e i territori nuovi e strani che avevano scoperto, le foreste e i monti azzurrini per la lontananza, gli animali e gli uccelli meravigliosi che avevano osservato. «È così grande, una terra sconfinata, bellissima e selvaggia», le disse tenendola stretta. «Non abbiamo mai visto un altro uomo e neppure qualche traccia per tutto il viaggio. È tutta nostra, Sarah. È nostra, se vogliamo prenderla.» «Mi porterai con te, la prossima volta?» gli domandò lei, gelosa del suo Wilbur Smith
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trasporto e impaziente di dividere con lui quelle meraviglie. In un certo senso non aveva mai dubitato che ci sarebbe stata una prossima volta. In cuor suo sapeva che Tom si era innamorato di quella terra almeno quanto lo era di lei, e sapeva che d'ora in poi ne avrebbero fatto parte entrambi. «Sì», le rispose Tom. «La prossima volta la vedrai insieme con me.» C'erano molte decisioni da prendere e da discutere, quindi ci volle più di una notte. Nelle settimane di riposo che seguirono, mentre gli uomini recuperavano le forze spese nella caccia, Tom e Sarah trascorsero ogni giorno ore intere da soli. Lui le lesse il diario che aveva tenuto durante la spedizione per non trascurare neppure il più piccolo dettaglio e, quando ebbe finito di raccontare, parlarono dei progetti per il futuro. «Abbiamo avuto fortuna a trovare questo fiume, o, meglio, a trovare Fundi che ce lo ha indicato», le disse Tom. «Gli antichi esploratori portoghesi devono averlo trascurato, come del resto gli arabi. Fundi mi ha detto che le vie commerciali degli arabi, la via degli schiavi, sono molto più a nord.» Fece un sorriso malinconico. «Se Fundi sostiene che è lontano, puoi stare certa che dista almeno cento miglia, o anche più. Con un po' di fortuna né il sultano di Oman né la John Company ci troveranno mai. Fort Providence è una testa di ponte ideale per raggiungere l'interno. I branchi di elefanti che vivono da queste parti non sono mai stati cacciati e, se Aboli e Fundi riescono a prendere contatto con le tribù, potremo avviare un commercio con loro e tenere tutto per noi.» «Ma dove venderete l'avorio?» gli domandò Sarah. «Non potete farlo a Zanzibar o in qualche altro porto arabo, né ovunque la Compagnia abbia uno stabilimento. Tuo fratello Guy non ti lascerà mai in pace, se scoprirà dove sei. Non potremo mai tornare in Inghilterra.» Tentando di non mostrarsi malinconica, si affrettò ad aggiungere: «Dove potremo vendere le nostre merci e comprare quello che ci serve, polvere e proiettili, medicine e farina, candele e olio, corda, tela e pece?» «C'è un posto del genere a portata di mano», le assicurò Tom. «Non appena cominceranno le grandi piogge, ce ne andremo di qui per navigare fino al capo di Buona Speranza. Gli olandesi del Capo andranno pazzi per il nostro avorio e ancora di più per venderci tutte le merci che potremo pagare. Meglio ancora, non daranno né un fiorino di bronzo né un boccone del loro formaggio stagionato per il mandato di arresto che è stato spiccato contro di me in Inghilterra.» C'era di che tenere occupati tutti gli uomini del forte durante le settimane Wilbur Smith
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in cui Tom attese il ritorno di Aboli. Fu necessario pulire e pesare l'avorio, prima di avvolgerlo nell'erba secca per impedire che restasse danneggiato durante il viaggio. Poi si dovette tirare in secca la piccola Swallow sulla spiaggia ai piedi del forte, per ripulire la carena dalle alghe e stanare con la pece bollente le teredini che si erano già insediate nel fasciame. Quando fu di nuovo in acqua, la ripitturarono, prima di ricucire gli strappi nelle vele e di apportare piccole modifiche all'alberatura, in modo che fosse irriconoscibile rispetto alla nave sulla quale erano fuggiti dall'Inghilterra. Un'antica tradizione marinara sosteneva che portava sfortuna cambiare il nome di una nave, ma non ci fu nulla da fare: dovettero raschiare il vecchio nome dallo specchio di poppa per pitturarvi sopra quello nuovo. Quando fu varata di nuovo, Sarah infranse sulla prua una bottiglia di brandy presa dalla riserva della nave. «Ribattezzo questa nave Centaurus», disse a gran voce. «Possa Dio benedire la nave e tutti coloro che sono a bordo.» Poi trasportarono l'avorio sulla Centaurus, stivandolo con precauzione, riempirono d'acqua le botti e completarono i preparativi per il viaggio verso il sud. Ormai, ogni pomeriggio, nuvole temporalesche si ammassavano all'orizzonte settentrionale e, quando il tramonto le tingeva di un viola screziato di rosso, i fulmini balenavano nel loro ventre, mentre tuoni lontani annunciavano minacciosi l'arrivo della stagione umida. Le prime piogge li investirono con violenza, scavalcando le colline col loro strascico grigio. I tuoni li bombardarono per tre giorni e tre notti di fila, mentre l'aria era satura d'acqua, come se fossero sotto una cascata. Poi le nubi si schiusero e, durante quella breve tregua, una dozzina di canoe ricavate da tronchi d'albero discesero veloci le acque gonfie del fiume Lunga. A bordo della prima c'era Aboli, alto, col viso segnato dalle cicatrici tribali. Nel vederlo, Tom lanciò un urlo di gioia, scendendo di corsa sulla spiaggia per dargli il benvenuto. Nell'ultima canoa c'era Fundi, ma i vogatori erano tutti sconosciuti. Sul fondo di ogni imbarcazione erano accumulate zanne di elefante, nessuna grande come quelle ricavate dalla spedizione di Tom, ma comunque preziose. I vogatori appartenevano tutti alla tribù lozi, la stessa di Fundi. Nonostante i suoi tentativi di rassicurarli, erano terrorizzati dagli strani uomini bianchi di Fort Providence. Si aspettavano di essere presi in Wilbur Smith
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schiavitù, incatenati in fila e condotti lontano, com'era successo a tanti altri della loro tribù, andati via senza più tornare né dare notizie. Per lo più erano vecchi, grigi e curvi, oppure adolescenti che non avevano ancora superato l'iniziazione. Rimasero ammassati sulla spiaggia, senza lasciarsi rabbonire o consolare dalle frasi rassicuranti che Tom pronunciava nel suo rudimentale dialetto lozi. «Sono venuti con noi solo perché glielo ha ordinato Bongola, il loro capo», spiegò Aboli. «Quando Bongola ha visto le merci che portavamo con noi, l'avidità ha vinto il timore dei negrieri. Comunque non è voluto venire di persona, ma ha inviato in sua vece i membri meno importanti della tribù.» Scaricarono l'avorio dalle canoe, pesandolo e discutendo un prezzo equo con Fundi. «Non voglio pagarlo troppo», spiegò Tom a Sarah, «ma d'altra parte non voglio truffarli e stroncare il commercio prima che cominci davvero.» Alla fine furono caricate sulle canoe le perle di vetro, le balle di stoffa, le casse di specchietti e di lame per le asce, insieme con le balle di filo di rame, dopodiché i vogatori furono rimandati a casa. La piccola flotta di canoe ripartì contro corrente, sospinta da uomini così riconoscenti di essere salvi che vogavano con la forza di demoni, cantando istericamente la loro gratitudine per la salvezza a tutti i loro dei ed antenati tribali, mentre superavano la prima curva del fiume. «Torneranno con la prossima stagione», profetizzò Aboli. «Ci penserà Bongola.» Fundi e tre dei lozi più audaci, rimasti con lui, accettarono di restare a Fort Providence durante la stagione delle piogge, per proteggere le capanne e i giardini contro i danni del maltempo e degli animali selvaggi. Il resto del gruppo, invece, completò il carico dell'avorio e salì a bordo della Centaurus. Mentre le piogge li investivano in pieno, si allontanarono dal fiume gonfio di acque, lasciandosi trasportare dal monsone a valle, fino all'oceano delle Indie. «La rotta è al largo del Madagascar, poi verso il capo di Buona Speranza, sud-sud-est. Prego, signor Tyler, segnatela sulla tavola della chiesuola», ordinò Tom. «Sud-sud-est, comandante.» «Alla via così, signor Tyler.» Tom prese per mano Sarah, conducendola a prua, dove rimasero insieme a guardare i pesci volanti che parevano Wilbur Smith
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esplodere alla superficie del canale di Mozambico, schizzando via in un lampo d'argento come monete nuove di zecca lanciate sulla corrente azzurra. «Se riesco a trovare un prete al capo di Buona Speranza, mi sposerai, Sarah Beatty?» le domandò. «Certo che lo farò, Thomas Courteney.» Lei scoppiò a ridere, abbracciandolo. «Certo.» La piccola Centaurus gettò l'ancora nella baia della Tavola in una mattina di sole, quando il vento di sud-est sollevava spruzzi bianchi sulla cresta delle onde, e i passeggeri sbarcarono ai piedi della montagna la cui cima piatta era sovrastata dalla celebre Tovaglia, un banco stazionario di nubi bianche. Dall'ultima volta che avevano visitato il Capo, la colonia si era estesa. Le restrizioni imposte dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali contro qualunque straniero volesse possedere della terra o prendere residenza nel territorio erano altrettanto rigide di quelle imposte dalla controparte inglese. Tuttavia Tom scoprì ben presto che, mettendo qualche fiorino d'oro nelle mani del funzionario giusto, era possibile aggirare quelle leggi. Una volta pagato il dovuto, ricevettero un cordiale benvenuto dai coloni del posto, soprattutto perché la Centaurus aveva a bordo un buon carico e i mercanti olandesi fiutavano un guadagno. Progettavano di restare al Capo sino alla fine delle piogge sulla costa della Febbre e il loro alloggio a bordo era angusto almeno quanto era scomodo il movimento della nave all'ancora; così Tom trovò un alloggio per sé e per Sarah in una delle piccole locande che sorgevano sotto i giardini della Compagnia, gestita da una schiava emancipata malese, che era una cuoca e una padrona di casa eccezionale. Durante la prima settimana, Tom, insieme col signor Walsh, fece visita a tutti i mercanti che possedevano magazzini sul fronte del porto, scoprendo con gioia che c'era una forte richiesta di avorio. Riuscì a concludere parecchi buoni affari per la vendita del carico, così gli uomini dell'equipaggio ricevettero la prima paga e le prime quote dei profitti da quando avevano lasciato l'Inghilterra. Nei pochi mesi successivi, molti di loro spesero tutto quello che avevano guadagnato nelle birrerie e nei bordelli della città, mentre Ned Tyler e il dottor Reynolds investirono le loro quote in un piccolo appezzamento nella valle di Constantia, sul versante opposto della montagna. Tom e Aboli, Wilbur Smith
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invece, le utilizzarono quasi tutte per acquistare sia le provviste necessarie per un'altra stagione a Fort Providence sia una discreta quantità di merci in offerta nei magazzini della colonia. Tom regalò a Sarah cinquanta sterline, che lei usò per farsi il corredo, comprendente un piccolo clavicembalo e una culla da bambino in legno, che decorò con coronane di fiori e cori di cherubini. Tutto l'equipaggio si unì ai fedeli della chiesetta nei giardini quando Tom e Sarah si sposarono e, dopo la cerimonia, portò in spalla la coppia di sposi fino al loro alloggio, cantando e bersagliandoli con manciate di petali di rosa. In una delle taverne del porto, Aboli scovò un piccolo olandese col volto avvizzito dal sole che si chiamava Andries van Houten ed era stato convocato da Amsterdam come cercatore d'oro per la Compagnia Olandese delle Indie Orientali. «Ho esplorato le montagne fino a Stellenbosch», disse van Houten ad Aboli dopo aver ingollato il terzo boccale di birra, col pomo d'adamo che ballonzolava nella gola rossa e grinzosa. «In questa colonia dimenticata dal diavolo non c'è oro, però lo sento, su al nord», osservò annusando l'aria. «Se solo riuscissi a trovare una nave che mi porti sulla costa...» A quel punto guardò Aboli con aria speranzosa. «Ma non ho neppure un fiorino nella borsa per pagarmi il viaggio.» Aboli lo portò da Tom, e i due parlarono tutte le sere per un'intera settimana. Come risultato di quei colloqui, Tom accettò di acquistare le attrezzature necessarie a van Houten per le prospezioni aurifere e gli assicurò che, al momento di salpare, lo avrebbe portato a Fort Providence. Quei giorni piacevoli al capo di Buona Speranza passarono troppo in fretta. Alla fine caricarono di nuovo la Centaurus, facendo molta attenzione col clavicembalo di Sarah e con la culla; poi, non appena la stagione cambiò e le querce lungo le strade di Città del Capo persero le foglie, levarono l'ancora e si diressero al nord per doppiare Cape Point e immettersi nel canale di Mozambico. Entrati nella foce del fiume Lunga, navigando contro corrente, videro il segno della piena lungo le rive e i detriti tra i rami degli alberi che indicavano fino a che punto fossero arrivate le acque durante i mesi delle grandi piogge; quando raggiunsero la zona delle colline, la foresta era verdissima e fitta di germogli. Wilbur Smith
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Fedele alla consegna che gli avevano affidato, Fundi li accolse all'approdo sotto Fort Providence, mostrando con orgoglio a Tom come aveva provveduto a ogni cosa durante la loro assenza. Si dedicarono a rifare la copertura delle capanne e a riparare i punti deboli della palizzata. Sarah fece sistemare il clavicembalo nel piccolo salotto del loro cottage, suonando e cantando per Tom tutte le sere dopo cena. Poi sistemò la culla dipinta a nuovo vicino al letto nella loro stanza e, la prima sera, Tom la notò mentre si sedeva sul letto per togliersi gli stivali. «La considero una sfida, signora Courteney», le disse. «Vogliamo vedere che cosa si può fare per riempirla?» Tuttavia non ebbero molto tempo da dedicare a quel compito; poche settimane dopo, infatti, Tom era già pronto per guidare la prima spedizione di caccia a monte del fiume. Van Houten si trovava nella barca di testa, seduto sopra la cassetta di legno piena di prodotti chimici e con le padelle per setacciare l'acqua accatastate a portata di mano. Controllava ogni letto di ghiaia e banco di sabbia che incontravano al loro passaggio; quando scendevano a terra per dare la caccia ai branchi di elefanti, l'olandese non si univa a loro, ma si allontanava insieme con due assistenti lozi per setacciare le colline e i torrenti in cerca di tracce del prezioso metallo. In quella stagione la caccia fu buona, tanto che in un mese riempirono le barche di avorio e partirono per tornare a Fort Providence. Nella seconda spedizione, Sarah accompagnò Tom, portando con sé la cassetta dei colori che aveva acquistato al capo di Buona Speranza e ricoprendo le pagine del suo album di schizzi con le immagini del viaggio. Risalirono più a monte di quanto avessero mai fatto in precedenza, raggiungendo infine il territorio dei lozi. Nel primo villaggio che incontrarono la popolazione fuggì in massa nella foresta, e ci vollero parecchi giorni prima che gli uomini cominciassero ad affacciarsi timidamente dagli alberi. Comunque, dopo che Fundi e Aboli furono riusciti a far superare i timori e i sospetti iniziali, si avviò un rapporto di amicizia con l'intera tribù. Scoprirono così che i lozi avevano un carattere amabile e vivace. Sebbene piccoli di statura, erano ben fatti e attraenti; alcune donne, poi, avevano lineamenti eleganti ed erano davvero belle. Andavano in giro a seno nudo, con un portamento fiero e aggraziato. A seguito di una lunga discussione con gli anziani del villaggio e al dono di pochi rotoli di filo di rame e di un sacchetto di perline di vetro, Wilbur Smith
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Aboli poté acquistare come mogli due delle vergini più graziose e procaci. Le ragazze si chiamavano Falla e Zete. Era difficile capire chi fosse più soddisfatto dell'affare concluso, se lo sposo o le sposine, che si pavoneggiavano con gli ornamenti regalati loro da Aboli col prezzo delle nozze, fissando il marito con timore reverenziale. Il dottor Reynolds, assistito da Sarah, riuscì a curare con successo molti lozi malati, suggellando così i buoni rapporti stabiliti con la tribù. Quando la spedizione risalì il fiume per raggiungere il kraal principale dei lozi, i tamburi trasmisero la notizia prima del loro arrivo. Il capo dei lozi, Bongola, scese all'approdo per dare il benvenuto agli «stranieri» e guidarli verso le capanne che erano state costruite in loro onore. Il villaggio di Bongola era composto da alcune centinaia di capanne ricoperte di fronde, costruite lungo la riva del fiume e sul pendio delle colline. Ognuna era circondata da uno shamba di manghi e piante di manioca. I kraal, recinti fatti di tronchi, ospitavano il magro bestiame della tribù, tenendolo al sicuro dalle scorrerie notturne dei leopardi e delle iene. Ormai Tom e Aboli parla vano in modo corrente il dialetto lozi e, per l'intera durata del loro soggiorno, ebbero lunghe indaba con Bongola, il quale era un ometto dotato di una grande parlantina. Bongola raccontò a Tom la storia recente della tribù. Un tempo i lozi avevano posseduto fertili terre sulle rive del grande lago d'acqua dolce al nord, ma poi erano arrivati i mercanti di schiavi, abbattendosi su di loro come ghepardi sui branchi di gazzelle delle pianure. I superstiti della tribù erano stati costretti a fuggire a sud, e da quasi due decenni, ormai, erano riusciti a sfuggire ad altre scorrerie. Ma vivevano ogni giorno nel terrore dei negrieri, che cominciavano a spingersi sempre più all'interno per le loro razzie. «Sappiamo che un giorno dovremo fuggire di nuovo», disse a Tom. «Ecco perché eravamo così terrorizzati quando abbiamo saputo del vostro arrivo.» Tom rammentò i racconti di Aboli sulla sua cattura per opera degli schiavisti, quando era bambino. Ricordava anche i poveri infelici che aveva visto al mercato di Zanzibar, e fu assalito ancora una volta dall'indignazione per l'orrore di quel traffico e dall'ira per la propria impotenza. Da solo, non poteva certo mutare la situazione. Il commercio con Bongola si dimostrò redditizio; Tom prese molte belle zanne d'avorio della sua riserva per venderle. Poi van Houten, al ritorno da una delle sue escursioni nella natura selvaggia, mostrò con orgoglio a Tom Wilbur Smith
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cinque aculei d'istrice chiusi a un'estremità da un minuscolo tappo. Quando tolse il tappo da uno degli aculei, versandone il contenuto sul piatto della bilancia per pesare l'oro, Tom fissò attonito il mucchietto di scaglie e granuli che scintillavano al sole. «Polvere d'oro?» domandò. «Ho sentito parlare dell'oro dei farlocchi. Siete sicuro che non si tratti di questo?» Van Houten, sentendo mettere in dubbio la sua integrità professionale, andò in collera e insegnò a Tom come saggiare la qualità delle schegge d'oro con l'acido preso dalla sua cassetta. «L'acido corrode tutti i metalli basici, ma non quelli nobili», gli spiegò, mentre osservavano l'acido gorgogliare e schiumeggiare quando v'immergeva la scheggia; eppure, quando la estrasse dal recipiente, il metallo era intatto e scintillante. Accompagnò Tom nel punto in cui aveva trovato la polvere d'oro, mostrandogli la serie di letti di ghiaia e banchi di sabbia lungo il corso di un ruscello che scorreva dal versante di una delle valli. Su richiesta di Tom, Bongola inviò cinquanta donne della tribù, visto che, per tradizione, gli uomini non si occupavano di lavori umili come la coltivazione dei campi o lo scavo di buche nel letto di corsi d'acqua. Van Houten distribuì alle donne le padelle da cercatore, mostrando come si usavano: occorreva immergere la padella nell'acqua e scuoterla, facendo roteare la ghiaia sul fondo e versando l'acqua finché restava solo il residuo scintillante. Le donne impararono in fretta, e Tom promise loro un sacchetto di perline di vetro per ogni aculeo pieno di quella nobile polvere che riuscivano a portargli. Il giacimento alluvionale di van Houten si rivelò così ricco che una donna, lavorando sodo, poteva riempire un aculeo in meno di un giorno; ben presto setacciare l'oro divenne l'attività preferita della tribù. Alcuni uomini, attirati da quel passatempo tanto redditizio, vollero parteciparvi, ma le donne li scacciarono, indignate. Quando giunse la minaccia delle piogge - segno che era tempo di ridiscendere il fiume -, le barche affondavano nell'acqua sotto il peso del carico, ma Tom aveva quasi cento once di polvere d'oro nella cassaforte della nave. Aboli informò Falla e Zete che le avrebbe lasciate presso le loro famiglie fino al suo ritorno, nella stagione successiva, ma le due mogli scoppiarono in urla disperate, versando fontane di lacrime, e Sarah protestò con lui per un simile trattamento. «Come puoi essere tanto crudele, Aboli? Ti sei fatto Wilbur Smith
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amare, e ora spezzi il loro cuore.» «Morirebbero di terrore e di mal di mare durante il viaggio fino al capo di Buona Speranza e, se anche dovessero sopravvivere, ogni giorno si struggerebbero in lacrime per la lontananza dalla madre e mi renderebbero la vita impossibile. No, devono restare qui, e aspettarmi come ogni brava moglie.» La profonda desolazione delle due ragazze fu miracolosamente lenita dai doni che Aboli fece loro per consolarle della separazione: perline, tessuti e specchietti sufficienti a renderle le mogli più ricche del villaggio. Così, nel salutare il gigante nero che si trovava al timone della barca di testa, le due ragazze gorgogliavano di risatine e di sorrisi. Quando tornarono nel territorio dei lozi, al principio della stagione secca, Falla e Zete erano incinte, col ventre nero teso e lucente che sporgeva al di sopra del gonnellino e i seni grossi come meloni maturi. Partorirono a pochi giorni di distanza, assistite da Sarah, che fece da levatrice: i bambini erano entrambi maschi. «Per Giove!» esclamò Tom, esaminando i neonati. «Non c'è dubbio che siano tuoi, Aboli. A quei poveri diavoletti mancano solo i tatuaggi, per essere brutti come il padre!» Aboli sembrava diventato un altro. Quando teneva sulle ginocchia i due lattanti, uno per parte, il suo dignitoso riserbo svaniva. In quei momenti il viso che aveva ispirato terrore a mille nemici diventava benevolo, quasi bello. «Questo si chiamerà Zama», disse a Tom e Sarah, «perché sarà un potente guerriero, e questo è Tula, perché diventerà un poeta e un saggio.» Quella notte, nel buio della loro capanna, Sarah posò la guancia su quella di Tom, mormorandogli all'orecchio: «Voglio un figlio anch'io. Te ne prego, Tom. Per favore, tesoro, dammi un bambino da tenere tra le braccia e da amare». «Ci proverò», le promise. «Ci proverò con tutto il cuore.» Ma gli anni passarono, in parte a Fort Providence, in parte nelle terre selvagge dei lozi, in parte al capo di Buona Speranza, e Sarah continuò a restare alta e snella, col ventre piatto, senza che nulla alterasse le linee ben modellate del ventre e del seno. Zama e Tula crebbero in fretta, diventando bambini forti e molto somiglianti al padre, alti per la loro età e dotati di un ascendente naturale Wilbur Smith
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sui loro coetanei. Trascorrevano le giornate nella foresta e sulle pianure erbose lungo il fiume, pascolando le mandrie comuni della tribù, imparando a usare l'arco e la lancia e a conoscere le abitudini delle creature selvatiche. La sera, sedevano ai piedi di Aboli, vicino al fuoco, ascoltando con gli occhi spalancati le storie meravigliose che raccontava, storie di battaglie e di avventure in Paesi lontani. «Portateci con voi, padre», lo implorava Zama. Come Aboli aveva previsto, era il più alto e il più forte dei due. «Vi prego, riverito padre», supplicava Tula. «Portateci con voi e mostrateci queste meraviglie.» «Dovrete restare con le vostre madri e fare il vostro dovere qui, finché non sarete circoncisi e iniziati», rispondeva Aboli, «poi Lord Klebe e io vi porteremo con noi nel mondo, fuori delle terre dei lozi.» Un anno dopo l'altro, la caccia agli elefanti prosperava, senza contare che Van Houten aveva scoperto, più a nord, un nuovo giacimento alluvionale d'oro, a tre giorni di distanza dal primo, da cui affluiva a Fort Providence un rivolo costante di polvere d'oro. Tanto la tribù quanto Tom ne godevano i benefici e, durante la stagione delle piogge, la Centaurus trasportava al Capo un carico completo. Ad Amsterdam esisteva una banca molto stimata, con un'agenzia sulla Heerengracht, sul fronte del porto. Tom aveva già depositato presso di loro duemila sterline e, dopo quella stagione, la somma fu raddoppiata. Finalmente era un uomo ricco. Ci fu un'unica delusione da affrontare, e fu cocente. Quando venne il momento di salpare di nuovo per il nord dal capo di Buona Speranza, Ned Tyler dichiarò di essere troppo vecchio per intraprendere un altro viaggio. Ormai aveva i capelli candidi e fini come il cotone appena colto, la schiena curva e gli occhi, che un tempo erano così acuti, annebbiati dalla cateratta. «Lasciatemi qui nella mia piccola fattoria nella valle di Constantia», disse a Tom, in tono di preghiera. «Voglio allevare le galline e coltivare i campi.» «Resterò anch'io con Ned», decise il dottor Reynolds. «Le avventure che ho vissuto mi bastano per il resto dei miei giorni.» Soltanto allora, guardando bene in faccia il chirurgo, Tom si rese conto di quanto anche lui fosse invecchiato. «Ne ho abbastanza di bendare e ricucire i vostri furfanti. Desidero piantare una piccola vigna e magari produrre un po' di vino Wilbur Smith
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buono prima di morire.» «Ma chi si occuperà di noi?» protestò Tom. «Non potete mandarci a morire di malaria nella foresta.» «Avete a fianco un ottimo medico», ribatté il vecchio. «Ho insegnato a Sarah tutto quello che conosco sul modo per rimettere in sesto una gamba rotta o preparare una pozione. Vi lascio in buone mani, anzi non potreste trovarne di migliori. Il Signore sa se è più graziosa di me e se ha un cuore più gentile.» Alf Wilson prese il posto di secondo a bordo della Centaurus, ed ebbe l'onore di restare al timone quando entrarono nella foce del fiume Lunga, all'inizio della stagione di caccia successiva. Tutti a bordo, uomini e donne, erano pieni d'ansia e di eccitazione per quel ritorno a Fort Providence. Erano impazienti di vedere come Fundi si fosse preso cura di quel piccolo insediamento durante la stagione delle piogge, di apprendere se gli elefanti erano ancora numerosi sulle colline dei lozi e di scoprire quanta polvere d'oro le donne avevano accumulato in loro assenza. Aboli tentava invano di nascondere l'impazienza al pensiero di rivedere le mogli e i figli perché, nel frattempo, Falla e Zete avevano ampliato la famiglia. C'erano due bambine e altri quattro maschi. Quell'anno sarebbe stato il più importante nella vita di Zama e Tula, perché avrebbero affrontato il periodo dell'iniziazione, vivendo per molti mesi isolati, sotto la tutela dei vecchi saggi della tribù, apprendendo i doveri e i segreti della virilità. Prima della stagione delle piogge sarebbero stati circoncisi, diventando uomini, con la posizione e il prestigio di guerrieri, e Aboli aveva promesso che sarebbe stato presente il giorno della loro circoncisione. Come sempre, Fundi era lì ad accoglierli sull'approdo ai piedi del forte, per dare il benvenuto a Tom e Sarah. Il fortino era in ordine e c'erano pochi danni da riparare. Sarah tolse la copertura di tela dal clavicembalo e, con un sorriso, scoprì che era ancora accordato; allora si lanciò nel ritornello di Spanish Ladies. Aboli chiese a Fundi le novità sulla tribù e sulla famiglia, ma non ce n'erano, perché quell'anno le piogge erano state molto intense e il fiume, sino a quel momento, non era navigabile: nessuna notizia era quindi giunta al forte dal villaggio di Bongola. Aboli fu irrequieto per tutto il tempo necessario a scaricare la Centaurus e a riparare il forte, prima dei preparativi finali per la spedizione nella terra dei lozi. Quando finalmente Wilbur Smith
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furono pronti a lasciare Fort Providence, c'era lui al timone della prima barca. Si accorsero che qualcosa non andava quando arrivarono ai primi villaggi lozi e li videro tutti deserti. Per quanto cercassero nella zona intorno ai gruppetti di capanne, non trovarono anima viva e neppure un segno di quello che era accaduto agli abitanti. Tremando al pensiero di ciò che avrebbero trovato, proseguirono verso il villaggio di Bongola più in fretta che potevano, trainando le barche oltre i tratti poco profondi e continuando a navigare finché c'era luce sufficiente sulle rive e per virare tra le rocce nel canale. Raggiunsero il villaggio nel primo pomeriggio, in un silenzio di tomba: una cappa di quiete era sospesa sulle colline e non si udiva né il rullo di un tamburo né il suono di un corno né un grido di benvenuto. Si accorsero subito che gli orti circostanti erano abbandonati e invasi dalle erbacce. Poi passarono accanto alla prima capanna, in riva al fiume: il tetto di fronde era stato bruciato e le pareti erano spoglie, con l'intonaco di fango lavato dalle piogge. Sulle barche nessuno parlava, ma il viso di Aboli era una maschera terribile di disperazione, mentre spingeva il lungo remo con tutte le sue forze. Fissarono le rovine del villaggio, le capanne bruciate, gli orti distrutti e i recinti del bestiame vuoti. I rami in cima agli alberi erano coperti da avvoltoi appollaiati, tetre sagome col dorso curvo e il becco adunco. Nell'aria aleggiava il lezzo dolciastro della morte e della putrefazione. Sulla spiaggia dell'approdo c'era un'unica canoa, ma era sfondata. Le rastrelliere sulle quali gli uomini mettevano a seccare il pesce erano state rovesciate e le reti abbandonate in disordine. Aboli saltò fuori bordo quando l'acqua gli arrivava ancora alla cintola, guadando il fiume per raggiungere la riva e risalire la spiaggia lungo il sentiero invaso dalla vegetazione che portava alle capanne di Falla e Zete. Tom lo seguì, ma non riuscì a raggiungerlo finché Aboli non fu arrivato al piccolo gruppo di capanne circondate da un boma di rami spinosi. Il nero si fermò al cancello, fissando i resti delle capanne delle mogli e dei figli, devastate dall'incendio. Tom si fermò al suo fianco, ma nessuno dei due parlò. Poi Aboli avanzò, inginocchiandosi. In mezzo alle ceneri azzurrine, raccolse da terra un minuscolo teschio umano, che tenne tra le mani come se fosse un sacro calice. Il cranio era stato schiacciato da un Wilbur Smith
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colpo violento. Fissò le orbite vuote, mentre le lacrime scendevano sul viso segnato dai tatuaggi. Nonostante le lacrime, la sua voce era ferma quando alzò gli occhi su Tom. «I mercanti di schiavi uccidono sempre i bambini», gli disse, «perché sono troppo deboli per sopravvivere alla marcia fino alla costa, e il loro peso non fa che indebolire le madri costrette a portarli in braccio.» Sfiorò la profonda cavità nel cranio minuscolo. «Vedi? Hanno preso la mia bambina per le caviglie, spaccandole il cranio sullo stipite della porta. Questa era la mia bellissima Kassa.» Così dicendo, si portò alle labbra quel piccolo teschio, baciando la terribile ferita. Tom non poté resistere allo spettacolo del suo dolore. Dovette distogliere lo sguardo, e allora vide che qualcuno aveva scritto con un pezzo di carbone, sulla parete della capanna scoperchiata, un motto in arabo: «Allah è grande, non esiste altro Dio all'infuori di Allah». Questo dissipava ogni incertezza sui colpevoli di quell'atrocità. Fissò la scritta, tentando di ricomporsi, ma quando finalmente riuscì a parlare, la sua voce era arrochita dall'orrore di ciò che aveva visto. «Quando è successo, tutto questo?» gli domandò. «Forse un mese fa», mormorò Aboli, alzandosi. «Forse un po' di più.» «Le colonne di schiavi non devono muoversi lentamente?» chiese Tom. «Con le catene, le donne e i bambini?» «Sì», confermò l'altro. «Si muovono molto lentamente, anche perché la strada fino alla costa è lunga e faticosa.» «Possiamo raggiungerli», decise Tom, con una voce che diventava sempre più forte e sicura. «A patto di partire subito e di marciare in fretta.» «Sì», rispose Aboli, «li raggiungeremo, ma prima devo seppellire i miei morti. Tu fa' pure i preparativi per la marcia, Klebe. Io sarò pronto a partire prima di mezzogiorno.» Aboli trovò altri due minuscoli scheletri tra le rovine e le erbacce. Le ossa erano state sparpagliate e divorate dai predatori, ma riconobbe i bambini dai braccialetti di perline che aveva regalato loro e che erano ancora intrecciati alle piccole ossa: erano i maschi più piccoli, che avevano meno di tre anni. Raccogliendo i loro resti, li depose su un mantello di cuoio conciato. Scavò la tomba nel pavimento della capanna in cui erano stati concepiti, per seppellirli insieme; infine si aprì una vena del polso per far colare il sangue sul sepolcro, mentre pregava i suoi antenati di accogliere benevolmente le anime dei figli. Wilbur Smith
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Quando scese all'approdo, scoprì che Tom aveva quasi completato l'ordine di marcia. Dopo anni di esperienza nella caccia agli elefanti, ogni uomo sapeva qual era il suo compito. C'erano tre gruppi di cinque uomini ciascuno, comandati rispettivamente da Tom, Alf Wilson e Luke Jervis. Tre marinai sarebbero rimasti a guardia delle barche. Ogni componente della spedizione avrebbe portato con sé le armi, la polvere e i proiettili, un otre pieno d'acqua, una coperta e cibo sufficiente per una settimana. Era un carico di sessanta libbre a testa e, una volta consumato quello, avrebbero dovuto vivere delle risorse della foresta. «Tu devi restare qui, vicino alle barche», disse Tom a Sarah, estraendo la spada azzurra dal rotolo di tela nel quale la teneva abitualmente. Se andava a caccia di elefanti non portava con sé quell'arma, perché con la sua lunghezza gli ostacolava il passo, ma adesso ne avrebbe avuto bisogno. «Ci saranno combattimenti e pericoli», le spiegò, chiudendo la fibbia della cintura alla quale era unito il fodero. «È proprio per questo che devo venire con te. Ci saranno molti feriti e nessuno per curarli. Non posso starmene qui», ribatté lei. Tom vide la sua espressione decisa e la luce fredda che aveva negli occhi. Sarah aveva già preparato la cassetta dei medicinali e la coperta, quindi sapeva per esperienza che discutere con lei non sarebbe servito a niente. «Resta vicino a me», cedette infine. «Se mai ci trovassimo in pericolo, fa' quello che ti dico, donna, e una volta tanto non perdere tempo a discutere.» Guidati da Aboli e da Fundi, marciarono in fila indiana attraverso le rovine del villaggio distrutto dagli incendi. Lungo il cammino incontrarono molti altri scheletri, tutto ciò che restava dei vecchi e dei bambini che, secondo i negrieri, erano troppo deboli per sopravvivere alla marcia fino alla costa. Fu un sollievo lasciarsi alle spalle quello spettacolo di morte e desolazione e seguire invece la pista lasciata dalle file incespicanti di prigionieri lozi che venivano sospinti a nord, sulle colline. Aboli e Fundi segnarono l'andatura, a un ritmo massacrante. Fundi portava su una spalla il grande arco per gli elefanti e sull'altra una faretra piena di frecce avvelenate; anche lui aveva perso la sua famiglia nel massacro e nel saccheggio. Secondo i calcoli di Tom, in quella prima tappa coprirono dieci miglia e si fermarono soltanto perché la notte senza luna era troppo buia per consentire loro di vedere dove mettevano i piedi. Tuttavia il giovane, Wilbur Smith
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stretto a Sarah sotto la coperta, non riusciva a dormire. Dopo mezzanotte si alzò di scatto, sentendo echeggiare un grido spettrale dalla cima della collina sopra di loro. Era una voce umana, che si rivolgeva a loro nella lingua dei lozi. «Chi siete?» gridò. «Io sono Klebe, vostro amico», gridò Tom in risposta. «Io sono Aboli, marito di Falla e Zete.» Aboli gettò sul fuoco dell'altra legna, facendo divampare le fiamme. «Io sono Fundi, il cacciatore di elefanti. Scendete da noi, uomini dei lozi.» Apparvero tra gli alberi nell'oscurità, ombre in movimento alla luce del fuoco che si materializzarono in forma umana. Erano meno di cento superstiti della razzia, in gran parte donne, ma anche cinquanta guerrieri ancora armati, con i giavellotti e gli archi per la caccia all'elefante con le frecce avvelenate. Si accovacciarono intorno al fuoco e gli anziani, uno alla volta, descrissero l'attacco che aveva colto il villaggio di sorpresa, col massacro e la razzia di schiavi che erano seguiti. «Alcuni di noi sono riusciti a fuggire nella foresta e altri erano andati a caccia o a raccogliere radici e miele selvatico, quindi ci siamo salvati», spiegarono. «E la mia famiglia?» chiese Aboli. «Hanno preso Falla e Zete, insieme con i tuoi figli Zama e Tula. Li abbiamo visti in catene, spiando da lontano la carovana.» Restarono seduti attorno al fuoco per tutta la notte, recitando il lungo elenco di quelli che erano morti e di quelli che erano stati catturati. All'alba, quando giunse l'ora di riprendere l'inseguimento, Tom ordinò ai vecchi e alle donne di tornare al villaggio distrutto per seppellire i morti e piantare il raccolto, in modo da tenere a bada la carestia che sarebbe inevitabilmente seguita a quel disastro. «Laggiù ci sono alcuni dei miei uomini, che andranno a caccia per sfamarvi mentre matura il nuovo raccolto», spiegò. I vecchi si avviarono docilmente, mentre lui riuniva i guerrieri restanti. Li conosceva quasi tutti per nome ed era andato a caccia con alcuni di loro. «Stiamo inseguendo la carovana e ci batteremo per liberare quelli che sono stati catturati», disse. «Volete unirvi a noi?» «Per la verità, volevamo seguirli, ma gli arabi hanno i bastoni di fuoco e noi avevamo paura», risposero. «Però adesso anche voi avete i terribili Wilbur Smith
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bastoni di fuoco, e quindi verremo.» Fundi scelse tra loro i cacciatori più coraggiosi e abili, mandandoli in esplorazione per scoprire eventuali imboscate o trappole disposte dai negrieri. Quando ripartirono, seguendo la pista lasciata dagli schiavi in marcia verso il nord, tenne con sé gli altri lozi. Marciarono a ritmo sostenuto dall'alba al tramonto e, sebbene le tracce della carovana degli schiavi fossero ormai troppo vecchie e quasi cancellate perché anche cacciatori esperti come Fundi e Aboli riuscissero a leggerle con precisione, capirono che in un giorno avevano coperto più o meno la stessa distanza che la lunga colonna di schiavi in catene aveva percorso in sei giorni. Tanti erano infatti i ripari rudimentali col tetto di fronde, insieme con le tracce dei falò accesi per la notte, che avevano incontrato. Il giorno seguente si misero in marcia alle prime luci dell'alba e, prima di mezzogiorno, s'imbatterono nei primi segni di perdite tra gli schiavi: lungo la pista c'erano alcuni frammenti di ossa e cenci insanguinati, probabilmente ciò che restava di un perizoma. Evidentemente gli arabi avevano tolto le catene dai corpi e gli animali della foresta avevano divorato il resto. «Questi sono i più deboli», disse Fundi. «Sono morti di debolezza e di crepacuore. Ne troveremo molti altri, prima di raggiungere la carovana.» A ogni giorno di marcia, la pista diventava più fresca e più chiara da leggere, e il percorso era sempre contrassegnato dalle tracce dei vecchi accampamenti nei quali la carovana aveva sostato per la notte e dai resti di coloro che non erano sopravvissuti agli stenti del viaggio. Dieci giorni dopo, raggiunsero il bivio in cui la colonna degli schiavi provenienti dal territorio dei lozi si era unita a un'altra, ancora più numerosa, che arrivava dalla regione dei grandi laghi, a ovest. Fundi e Aboli esaminarono il luogo in cui le due carovane si erano accampate la prima notte dopo la loro fusione. «Ormai la colonna comprende più di duemila schiavi. Ho contato i loro giacigli.» Aboli indicò a Tom i punti in cui gli schiavi avevano schiacciato l'erba col peso del corpo, durante il riposo notturno. «Portano quasi tutti carichi pesanti, alcuni di viveri, come granaglie e carne secca.» «Come fai a saperlo?» gli chiese Tom. «Le orme così profonde nella polvere indicano che sono appesantiti... Inoltre hanno abbandonato vicino ai fuochi da campo alcune delle ceste Wilbur Smith
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per il cibo, ormai vuote, lasciando chicchi di grano e brandelli di carne», spiegò Aboli. «Ma gli arabi li costringono anche a trasportare molte zanne di avorio.» «Avorio?» L'interesse di Tom si ridestò. «E dove lo trovano?» «Gli arabi lo hanno saccheggiato dai villaggi razziati, e poi anche gli uomini di Oman sono cacciatori come voi», intervenne Fundi. «Come fate a sapere dell'avorio?» chiese Tom, ancora perplesso. Aboli lo portò dalla parte opposta del campo, indicandogli alcuni segni sul terreno. «Questo è il punto in cui hanno accatastato le zanne durante il riposo notturno.» Le lunghe impronte ricurve sul terreno erano evidenti persino agli occhi di Tom. «La carovana deve comprendere circa centosessanta arabi, tra guardie e mercanti.» Aboli lo condusse verso il boma di rami spinosi, coperto da un tetto di fronde, che aveva accolto le guardie per la notte, indicandogli i giacigli d'erba sui quali avevano dormito. «Ecco: uno per ciascuno. E poi ho contato anche le orme.» «Come riesci a distinguere le orme degli arabi da quelle degli schiavi?» volle sapere Tom. «Gli arabi portano i sandali. Molti di loro hanno grossi cani al guinzaglio: vedi i segni dei cuscinetti delle zampe? Li usano per spaventare gli schiavi e catturare chi tenta di fuggire.» «Abbiamo perso quasi un'ora, qui», tagliò corto Tom. «Adesso sappiamo con quanti nemici abbiamo a che fare. Andiamo a prenderli.» Quell'enorme massa di uomini e donne carichi di fardelli procedeva ancor più lentamente di prima, mentre il gruppetto degli inseguitori, temprato da anni di caccia agli elefanti, cominciava a guadagnare rapidamente terreno su di loro. Verso la metà della mattina del diciassettesimo giorno da quando avevano lasciato il villaggio di Bongola, due esploratori tornarono di corsa verso la testa della colonna inseguitrice, dove Sarah marciava al fianco di Tom, mantenendosi al passo con lui grazie alle lunghe gambe. «Abbiamo visto il fumo dei loro fuochi da campo, più avanti», gridarono ancor prima di raggiungere la testa della colonna. «Tu resta con Luke e Alf», ordinò Tom a Sarah; poi fece un cenno ad Aboli. I due si slanciarono in avanti, assumendo subito quell'andatura Wilbur Smith
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regolare, al piccolo trotto, che usavano per accostarsi ai branchi di elefanti nella fase finale della caccia. Gli esploratori lozi li condussero in cima a una piccola collina di granito, da cui si godeva una buona visuale del territorio davanti a loro. Sul cielo sereno s'iscriveva il fumo di centinaia di piccoli fuochi da campo, non più di qualche miglio più avanti lungo la pista. «Li abbiamo in pugno», esclamò Tom, esultante, precedendo gli altri in discesa, sempre con la stessa andatura. Meno di un'ora dopo, raggiunsero l'accampamento deserto, con i fuochi ancora fumanti. L'ampia pista battuta da migliaia di piedi si snodava tra gli alberi, e loro la seguirono. Si fermarono involontariamente nell'udire un suono lontano: era un canto lugubre, intonato da migliaia di voci, sommesso sotto il sole intenso del giorno, ma di una bellezza tale da mozzare il fiato. Gli schiavi cantavano un lamento per la terra perduta, per la casa e per i loro cari che non avrebbero rivisto mai più. Tom scrutò il terreno. «Li aggireremo sulla destra», decise, indicando la direzione. «Dobbiamo superare la colonna e osservarla mentre passa, in modo da controllare il numero degli uomini e la loro formazione.» Sbucando dal folto degli alberi, si trovarono davanti una pianura aperta che si stendeva fino all'orizzonte, con la prateria di colore giallo chiaro che ondeggiava al calore del sole. Alcuni kopje, caratteristiche colline di forma conica, sorgevano come isolette su quella vasta distesa, mentre qua e là si ergeva un albero isolato di acacia, dalla chioma piatta. Sulla pianura erano sparsi branchi di animali selvatici, zebre, gnu e gazzelle. Le giraffe stendevano il collo maestoso sino alle foglie in cima all'acacia, e qua e là un rinoceronte se ne stava immobile, scuro e massiccio sullo sfondo dell'erba chiara. Due o tre miglia più avanti, sulla sinistra, una sottile nube di polvere indicava la posizione della carovana degli schiavi, cosicché Tom e Aboli si trovarono subito d'accordo sulla mossa successiva. Una delle colline coniche di granito che sorgevano sulla pianura si trovava proprio sul percorso della colonna distante. La sommità avrebbe costituito un punto di osservazione ideale, ma dovevano fare in fretta. Lasciando gli esploratori lozi nascosti tra gli alberi, i due si lanciarono in corsa attraverso la pianura. Quando arrivarono ai piedi della collinetta, dal lato opposto rispetto alla carovana che sopraggiungeva, erano quasi senza fiato e dovettero gettarsi a terra per ritrovare il respiro. Non appena si furono ripresi a sufficienza da Wilbur Smith
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mettersi a sedere, bevvero qualche sorso d'acqua dall'otre di pelle, poi si accinsero a scalare il fianco roccioso della collina. Poco più in basso della sommità si stesero a terra, sbirciando con cautela verso il basso. A un miglio di distanza, nella prateria, si scorgeva l'inizio della carovana di schiavi, che sarebbe passata vicino ai piedi della collina. Erano migliaia di figurine minuscole, disposte in una fila rada che si prolungava per quasi tre miglia, fino ai margini della foresta. Era esattamente come Tom l'aveva immaginata, grazie alle tracce che Aboli aveva letto. In testa alla colonna cavalcava una figura imponente, in sella a uno stallone arabo. Indossava un lungo mantello verde e aveva la testa e il volto coperti da un turbante dello stesso colore, che gli lasciava scoperti soltanto gli occhi. Vicino al cavallo correvano a piedi due schiave negre, nude, che tenevano sospeso sulla testa del cavaliere un grande parasole ornato di frange. Gli altri arabi procedevano ai fianchi della colonna; attraverso il cannocchiale, Tom ne contò in tutto centocinquanta, di cui Centotrentasei erano soldati appiedati, mentre gli altri erano a cavallo, ma tutti avvolti nel mantello e ben armati. Gli uomini a cavallo si spostavano avanti e indietro lungo la colonna, incitandola ad avanzare. Gli schiavi erano troppo numerosi per fare un calcolo preciso, ma Tom si rese conto che la stima iniziale di Aboli, intorno ai duemila individui, doveva avvicinarsi alla realtà. Erano quasi tutti nudi, uomini e donne, con qualche lembo appena di cuoio o di stoffa intorno alla vita, e tutti in catene, mentre i bambini erano uniti a gruppi di cinque o sei, legati con funi di corteccia intrecciata o di cuoio grezzo che formavano un cappio intorno al collo; per loro, i negrieri non avevano sprecato le catene. Tutti gli schiavi avevano il volto e il corpo ricoperti da uno strato di polvere grigia, rigato dal sudore, che dava loro un aspetto quasi disumano. Avevano tutti qualcosa di pesante da trasportare; persino i bambini portavano sulla testa zucche o panieri ricolmi di granaglie. Le donne erano cariche di pagliericci e oggetti di proprietà dei negrieri, oppure ceste e otri per l'acqua, mentre gli uomini trasportavano le zanne d'avorio. Col cannocchiale, Tom vide che in tutto erano centinaia di zanne, alcune così grandi che ci volevano quattro uomini per reggerne una sola. La colonna si avvicinava sempre più ai piedi della collina sulla quale si trovavano, tanto che riuscirono a vederla meglio e a udire più distintamente quel canto mesto. Una delle donne all'inizio della colonna Wilbur Smith
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lasciò cadere il cesto e si accasciò a terra, trascinando con sé le altre tre donne incatenate insieme con lei. Quelle che le stavano intorno cercarono di rimetterla in piedi, ma era troppo debole per reggersi. Quel trambusto richiamò l'attenzione dei negrieri, che accorsero subito, circondando la ragazza caduta a terra. Tom sentì le grida furibonde, mentre cercavano di farla rialzare; poi uno di loro la frustò col kiboko, il micidiale scudiscio di pelle d'ippopotamo, vibrando i colpi dall'alto, prima sulla parte posteriore delle gambe e poi, vedendo che non avevano effetto, sul dorso e sulle natiche, in una pioggia di frustate che tagliavano le carni. Lo schiocco secco dello scudiscio sulla pelle nuda arrivava nitido fino a loro nell'aria torrida. Infine le guardie si rassegnarono alla perdita di un altro capo; uno di loro s'inginocchiò per aprire le manette ai polsi della ragazza, poi l'afferrò per le caviglie, trascinando il corpo lontano dal sentiero. I compagni incalzarono la colonna, incitandola a proseguire, abbandonando nella polvere il corpo nudo. La colonna era ormai giunta così vicino al kopje che Tom e Aboli riuscivano a distinguere i volti degli schiavi persino a occhio nudo; d'un tratto, Aboli s'irrigidì, afferrando per il braccio Tom. Indicò un punto al centro della fila, ma il giovane impiegò qualche istante per capire che cosa lo aveva scosso. In quel tratto marciava una fila di bambini, maschi e femmine insieme, legati tra loro con una lunga corda leggera intorno alla vita. Ogni bambino portava un involto o un cesto in equilibrio sulla testa, di misura e dimensioni proporzionate all'età e alle forze di chi lo portava. Il ragazzo in testa alla fila era il più alto, e camminava agilmente, con un portamento fiero, mentre gli altri apparivano sfiniti dalla stanchezza e dalla disperazione. «Zama», disse Aboli. «Il mio primogenito. E quello dietro di lui è Tula.» Parlava con calma, ma nei suoi occhi brillava una collera ardente. «Ci sono anche Zete e Falla, nella fila dietro di loro.» Le due donne erano nude, con la catena al collo, ma avevano ancora il seno gonfio di latte che non avevano potuto dare ai neonati massacrati. Tom non trovò nulla da dire che potesse confortare l'amico, quindi i due rimasero in silenzio, osservando la mesta processione. Nella scia della colonna avanzava un branco di iene e sciacalli, che divoravano gli escrementi lasciati sul veld dagli schiavi tormentati dalla dissenteria, insieme con altri rifiuti e scarti della carovana. Tom pensava Wilbur Smith
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che la ragazza abbandonata sul ciglio della strada fosse già morta da ore, ma si sbagliava. Non appena le iene si disposero in cerchio attorno a lei, sghignazzando e lanciando versi avidi ed eccitati, lei cercò di sollevarsi, appoggiandosi a un gomito, per rimettersi in piedi; ma lo sforzo era eccessivo e la giovane si abbatté di nuovo al suolo, ripiegando le ginocchia verso il petto e coprendosi la testa con le braccia nude. Il branco di iene arretrò leggermente, poi si fece di nuovo avanti, accerchiandola. Una allungò il collo, tentando di annusarle un piede, ma la ragazza afferrò un sasso, lanciandolo contro la bestia, che indietreggiò. Poi, all'improvviso, un altro dei grossi animali l'aggredì alle spalle, affondandole le zanne nella spalla. Mentre lei si rotolava nella polvere, scalciando, la scrollò, muovendo da una parte all'altra la testa massiccia, fino a conficcare i denti nella carne viva, strappandone un lembo. Lo inghiottì, mentre la ragazza si abbatteva, singhiozzando, sul terreno polveroso. L'odore del sangue fresco divenne irresistibile per gli altri componenti del branco. Un'altra iena scattò in avanti, afferrando la giovane per un piede prima di fuggire con la preda, trascinandola sul dorso. Tom balzò in piedi, pronto a lanciarsi giù dalla collina per salvarla, ma Aboli lo trattenne, costringendolo ad abbassarsi di nuovo. «Gli arabi sono ancora troppo vicini», lo ammonì, puntando un dito verso la coda della colonna, distante mezzo miglio. «Ti vedranno. Non possiamo fare niente per lei.» Aboli aveva ragione, naturalmente. Tom si acquattò di nuovo, guardando un'altra iena che si faceva avanti per azzannare la ragazza al ventre, opponendosi al primo animale che tentava di trascinarla via. La dilaniarono, tanto che le sue urla disperate giunsero nitide agli uomini in cima alla collina. Poi si unì al festino un'altra dozzina di iene, che la sbranarono, spezzando le ossa con le mascelle poderose e ingoiando grossi bocconi di carne, mentre i tentativi di resistenza della ragazza si affievolivano e infine cessavano. In pochi minuti non restò nulla di lei, tranne il tratto di terreno bagnato di sangue. Allora il branco si rimise sulle tracce della carovana di schiavi, che stava scomparendo all'orizzonte. Scendendo dal loro osservatorio, anche Tom e Aboli s'incamminarono dietro di loro, seguendo come ombre la carovana mentre la luce del giorno si affievoliva e il sole scendeva verso l'orizzonte. Quando i capi della carovana diedero l'alt per il riposo notturno e la colonna si accampò, i due si avvicinarono. Approfittando del riparo di un boschetto di acacie, Wilbur Smith
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spiarono la disposizione del campo, prendendo nota delle file di cavalli e dei boma nei quali riposavano gli arabi. Al calar delle tenebre, Tom e Aboli lasciarono l'accampamento per tornare indietro di corsa. Meno di un'ora dopo, si riunivano al resto del gruppo che li seguiva, accendendo un fuoco schermato per cucinare la cena e mangiando in fretta, mentre Tom teneva un consiglio di guerra e impartiva gli ordini ai suoi guerrieri in vista dell'attacco notturno all'accampamento degli arabi. Non appena finito di mangiare, si rimisero in marcia. Su quel terreno pianeggiante riuscirono ad avvistare il bagliore dei fuochi da campo a distanza di due miglia, e si avvicinarono furtivamente. Tom e Aboli disposero gli arcieri lozi nei punti prestabiliti, ripetendo gli ordini in modo che non ci fossero malintesi, poi raggiunsero la loro posizione, preparandosi alla lunga attesa. Tom voleva attaccare nell'ora più buia della notte, tra mezzanotte e l'alba, quando lo spirito e il vigore degli arabi avrebbe toccato il minimo. Uno alla volta, i falò della carovana si affievolirono e infine si spensero, riducendosi a pozze di braci. Il grande Scorpione del cielo, con la coda levata, sorse lentamente sopra di loro, sprofondando poi all'orizzonte. Le voci e i canti degli schiavi si spensero, mentre un silenzio profondo calava sull'accampamento. «È ora», disse infine Tom, alzandosi. Si avvicinarono per fare un'ultima ispezione del campo e controllare che nulla fosse cambiato. L'unico fuoco che ardeva ancora era quello vicino ai cavalli, in mezzo a un boschetto di acacie, sul lato del campo più vicino a loro. Sullo sfondo delle fiamme, si scorgevano tre guardie arabe sedute insieme a bere caffè e parlare sottovoce. Tutt'e tre fissavano il fuoco. «Questo li accecherà», pensò Tom, incupito, prima di mormorare ad Aboli: «Prendi quello più vicino a te». Si accostarono fino ai margini del cerchio di luce del fuoco, tenendo la spada coperta in modo che non riflettesse il riverbero delle fiamme, mettendo così in allarme una sentinella. «Addosso!» Sguainando la spada, Tom raggiunse di corsa gli arabi seduti, sorprendendoli alle spalle. Uccise il primo con un colpo netto alla nuca e Aboli, dalla parte opposta del fuoco, ne uccise un altro, che cadde in avanti tra le fiamme, cosicché il turbante e la lunga barba folta s'incendiarono, divampando come una torcia. Il terzo arabo si lasciò Wilbur Smith
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sfuggire un grido di sorpresa, cercando di alzarsi, ma Tom lo trafisse alla gola; la spada azzurra scivolò silenziosa nelle carni, spegnendo il grido successivo in un gorgoglio di sangue. Tom e Aboli si accovacciarono vicino al corpo delle loro vittime, tendendo le orecchie per capire se qualcuno lanciava l'allarme; ma i cavalli erano custoditi lontano dal campo principale e l'arabo morente non aveva fatto molto più rumore di un uomo che grida nel sonno, assalito da un incubo. Tutto era tranquillo. Si diressero verso i cavalli legati, mentre un'ombra scura veniva incontro a loro tra gli alberi. Tom lanciò un fischio sommesso su due tonalità, il richiamo di un nottolone, e giunse subito il segnale di risposta: si fece avanti Luke Jervis. «Tutto a posto!» mormorò, informando Tom che anche gli altri arabi addetti a sorvegliare i cavalli erano stati sistemati. Il giovane corse verso uno dei cavalli: aveva scelto lo stallone baio che il capo degli arabi montava quel giorno, osservando la sua posizione lungo le file di cavalcature. Slegando la cavezza dell'animale, gli parlò sottovoce, accarezzandolo sulla fronte e calmandolo con la mano e la voce, prima di montarlo a pelo. Aboli aveva scelto un altro cavallo e, quando fu in sella anche lui, Tom lanciò un fischio sommesso a Luke Jervis. Luke corse verso il punto in cui i suoi uomini avevano accerchiato uno dei boma nei quali dormivano le sentinelle arabe. Quasi subito si udirono salve di fucile tutt'intorno al perimetro del campo, dove le fiammate delle armi punteggiavano l'oscurità, mentre i marinai attaccavano gli arabi immersi nel sonno, sparando a bruciapelo. Un lieve brusio si sparse per l'accampamento, salendo ben presto d'intensità fino a diventare un clamore confuso. I negrieri arabi uscirono dai boma con passo malfermo, ancora insonnoliti, cercando a tastoni le armi, e si trovarono di fronte a scariche di fucile e alla pioggia di frecce dei lozi, che sibilavano nell'aria. Gli schiavi, incatenati ai paletti di ferro conficcati nel terreno dagli arabi, non potevano muoversi, quindi rimasero distesi dove si trovavano, ululando di terrore e contribuendo così ad accrescere la confusione. Alcuni degli arabi cominciarono a rispondere al fuoco, organizzando una strenua resistenza. Tom corse lungo la fila, diretto verso il boma di rami spinosi dove, al tramonto, aveva visto ritirarsi il capocarovana. Reggeva un tizzone acceso che aveva strappato al falò del campo e lo scagliò contro il tetto di fronde secche del riparo. Il tetto prese subito fuoco e le fiamme si levarono alte, sprizzando scintille e illuminando la notte per un raggio di Wilbur Smith
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un centinaio di iarde. Stanato dal calore, il capo degli arabi uscì di corsa dalla capanna, impugnando un jezail. Era senza turbante, con i capelli grigi e unti sciolti sulle spalle e la barba aggrovigliata dal sonno. Tom fece girare il cavallo su se stesso, lanciandolo alla carica. L'arabo lo affrontò a viso aperto, sollevando il jezail, mentre Tom si protendeva in avanti, abbassandosi sul collo del cavallo per lanciarlo contro la bocca del fucile. L'arabo sparò: in mezzo alla nube di polvere, Tom udì il proiettile ronzargli vicino all'orecchio. Si aspettava che, una volta scaricata l'arma, il vecchio si desse alla fuga, invece rimase fermo con orgoglio, affrontando la morte a testa alta e con lo sguardo fiero. Tom provò per lui un lampo di ammirazione e rispetto, mentre si sporgeva per conficcargli nel cuore la spada azzurra con tanta forza che l'uomo fu sollevato da terra e morì prima di ricadere al suolo. Tom si girò a guardarlo per un istante, scorgendo la barba d'argento che ondeggiava nella brezza notturna. Avrebbe potuto provare una fitta di rimorso, ma poi si ricordò dei figli di Aboli e della ragazza divorata viva dal branco di iene, e il senso di colpa si spense sul nascere. Girando su se stesso, controllò il campo dall'alto dello stallone. I negrieri si erano attestati in due punti del campo, trovando un riparo e raggruppandosi per opporre una migliore resistenza. «Dobbiamo stroncare la loro reazione», sussurrò concitato Tom ad Aboli. «Vieni con me.» Si avventarono su di loro con la spada sguainata e, lanciando grida furiose nella foga del combattimento, li sbaragliarono. Gli arabi superstiti cedettero di fronte a quell'assalto, gettando a terra i fucili scarichi e dandosi alla fuga nell'oscurità. «Lasciateli andare!» esclamò Tom. «Non andranno lontano e, appena farà giorno, manderò Fundi e gli arcieri a inseguirli.» Durante lo scontro era rimasto separato da Aboli, quindi andò in cerca di lui, percorrendo le file di schiavi. Il combattimento era finito, ma nell'accampamento regnava il caos. Molti schiavi avevano divelto i pali ai quali erano incatenati e si aggiravano incerti alla luce dei fuochi, gridando e ululando. Il frastuono era tale che Tom non riusciva a farsi sentire. Quando poi tentò di calmare alcuni schiavi con qualche colpo inferto di piatto col fodero della spada, riuscì soltanto a terrorizzarli. Allora vi rinunciò e si rimise in cerca del gigante nero. Vedendo il suo cavallo, ma senza cavaliere, provò una fitta dolorosa di Wilbur Smith
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ansia. Spinse in avanti lo stallone, ma, proprio in quel momento, vide Aboli a piedi, con due bambini tra le braccia, nudi e coperti di polvere, che si stringeva al petto con forza. «Sono sani e salvi, Klebe, tutt'e due», gli gridò il gigante nero, esultante. Allora Tom tornò sui suoi passi per cercare Sarah. Sapeva di trovarla intenta ad assistere chi aveva bisogno di aiuto, in mezzo a quel mare di corpi neri che schiamazzavano, ed era preoccupato per lei, in quell'atmosfera instabile e pericolosa. Poteva finire schiacciata dalla folla impazzita di terrore o imbattersi in uno degli arabi in fuga, che portavano tutti un pugnale alla cintola. Poi vide i suoi capelli d'oro che splendevano come un faro al riverbero delle fiamme e spinse lo stallone in mezzo alla folla per raggiungerla, passandole un braccio intorno alla vita e issandola in groppa al cavallo, davanti a sé, prima di baciarla. Lei gli gettò le braccia al collo, stringendolo con tanta foga da fargli male. «Ci sei riuscito, tesoro. Sono liberi!» «E c'è anche un bel carico di avorio arabo da prelevare», ribatté lui con un sorriso. «Che uomo rozzo e interessato.» Lei gli sorrise di rimando. «Non riesci a pensare ad altro, in questo momento di gloria?» «Me lo ha insegnato mio padre. Fa' del bene a tutti, ma alla fine presenta il conto.» Ci volle il resto della notte per riportare una parvenza di ordine tra gli schiavi. Quasi tutti erano ancora in catene, ma, non appena sorse il giorno, si cominciò a lavorare per liberarli. Tom trovò un enorme mazzo di chiavi appeso alla cintura del vecchio arabo che aveva ucciso: le chiavi erano fatte per aprire le serrature delle catene, quindi consentirono di liberarli tutti. Poi ordinò che gli schiavi fossero divisi in gruppi a seconda delle tribù e dei villaggi ai quali appartenevano e li affidò ai loro capivillaggio o capitribù. Sarah si dedicò anzitutto alla famiglia di Aboli. I due figli maschi apparivano illesi e ancora in buona salute. Zete e Falla sembravano impazzite dal terrore, ma Aboli, parlando con severità, riuscì a calmarle. Quando Sarah fu certa che non avevano più bisogno del suo aiuto, passò agli altri schiavi, scegliendo per primi i bambini che avevano bisogno di cure. Molti erano debilitati dalla dissenteria, quindi somministrò loro una pozione astringente, medicando poi le piaghe lasciate dalle catene e dalla Wilbur Smith
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corda con un unguento cicatrizzante. Per quanto lavorasse senza sosta per tutta la notte e il giorno seguente, non poteva fare granché, con la sua piccola cassetta dei medicinali, per le centinaia di persone che invocavano il suo aiuto. Intanto Tom aveva mandato Fundi e la sua banda di arcieri sulle tracce degli arabi fuggiti durante la notte. Non erano andati lontano ed erano quasi tutti disarmati; gli uomini di Fundi li catturarono in breve tempo, uccidendoli con le loro temibili frecce. Il veleno tingeva di porpora la pelle intorno al foro di entrata della freccia, prima di diffondersi nel sangue come un fuoco liquido. Non era una morte piacevole, ma, quando i cacciatori portarono la testa di alcune vittime come prova della loro morte, Tom non batté ciglio. I misfatti di quegli arabi erano ancora troppo freschi nella sua mente, per cui la collera non si era ancora placata. I marinai, al comando degli ufficiali, saccheggiarono il campo, ammucchiando il bottino in modo che Tom potesse calcolarne il totale e annotarlo nel giornale di bordo. Oltre alla montagna di zanne d'avorio, tra le ceneri della capanna del capocarovana trovarono una cassettina di ferro che aveva resistito al calore delle fiamme. Aprendola, scoprirono che conteneva quasi tremila dinari d'oro. «Tutto sommato, un buon profitto per un giorno di lavoro onesto», osservò Tom con soddisfazione, rivolto a Sarah. Raccolsero i cesti di viveri e i fucili, i barilotti di polvere e i lingotti di piombo necessari per la fabbricazione dei proiettili, le balle di stoffa e i sacchi di perline, più una montagna di materiale utile. «Come farete a trasportare tutta questa roba a Fort Providence?» volle sapere Sarah. «Potresti essere costretto a lasciarla qui.» «Vedremo», rispose Tom, rabbuiandosi e decidendo di far convocare da Fundi e Aboli tutti i capi degli schiavi che avevano liberato. Spiegò loro che avrebbe diviso le riserve di viveri tra le varie tribù e che le donne e i bambini potevano tornare ai loro villaggi. Tuttavia, in cambio della libertà, gli uomini dovevano prestarsi a fare da portatori per trasferire il bottino nel territorio lozi, dopodiché sarebbero stati liberi di seguire le donne fino alla loro casa. Spiegò inoltre che, per quel lavoro, sarebbero stati pagati con una parte delle merci. I capi furono entusiasti di quella soluzione, perché naturalmente il compenso dei loro sudditi sarebbe andato a loro; fino a quel momento non si erano resi conto di essere di nuovo liberi; credevano piuttosto di essere passati da un padrone a un altro. Wilbur Smith
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Ci vollero alcuni giorni per suddividere i viveri e ricomporre la carovana; poi Tom poté rimandare le donne a casa: partirono cantando le loro lodi e ringraziando i bianchi che le avevano salvate. Venne quindi la volta della carovana per il sud, composta di uomini carichi e guidata da Tom e Sarah, che montavano i cavalli arabi sottratti ai negrieri. Tom lasciò Fundi insieme con venti dei suoi cacciatori più intrepidi a pattugliare la via degli schiavi per il resto della stagione secca. Non appena avesse avvistato un'altra carovana araba, Fundi aveva ordine d'inviare un messaggero a Fort Providence, per avvertirlo. Una volta tornati a Fort Providence, Tom si rese conto di avere un carico d'avorio troppo abbondante per la piccola Centaurus. «Non saremo costretti a tornare a caccia, almeno per questa stagione», annunciò a Sarah. «Potrò concentrare tutti i miei sforzi nel tentativo di strappare un numero maggiore di questi poveri infelici dalle grinfie dei crudeli musulmani.» Aveva un'espressione virtuosa stampata sul volto, ma lei non si lasciò incantare, vedendogli un luccichio negli occhi. «Vorrei che questi fossero sentimenti sinceri, Thomas Courteney, ma ti conosco troppo bene. Sono l'avorio e il gusto di un bel combattimento a trattenerti.» «Sei un giudice troppo severo, mia piccola cara», protestò lui con un sorriso malizioso. «Ma perché mai dovresti formalizzarti? Se è a quei mocciosi che pensi, ebbene io li affido tutti alle tue cure. In questo modo, ciascuno di noi ha ciò che desidera.» «La prossima volta non sarà così facile», lo ammonì lei. «I mercanti arabi ti aspetteranno al varco.» «Ah, sì, ma anche su questo punto mi è venuta qualche idea.» Avevano catturato quasi duecento fucili arabi, più una buona riserva di polvere e piombo. Invece di dare la caccia agli elefanti, Tom e i suoi uomini addestrarono cinquanta lozi e li trasformarono in fucilieri. Tuttavia, sebbene avessero scelto i guerrieri più dotati, anche loro faticavano a maneggiare un'arma così estranea alla loro cultura e non riuscirono mai a superare del tutto il timore nei confronti delle armi da fuoco o a vincere l'istinto di chiudere gli occhi in attesa della detonazione. Tom comprese ben presto che non sarebbero mai diventati buoni tiratori. Accettando questa realtà, si accontentò di addestrarli a sparare massicce raffiche a distanza ravvicinata, caricando i jezail, anziché con un solo proiettile, con Wilbur Smith
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una manciata di pallini realizzati proprio a quello scopo, in modo da formare una rosa. Poche settimane dopo, uno dei messaggeri di Fundi arrivò a Fort Providence con la notizia che un'altra carovana di schiavi era in arrivo dalla regione dei laghi. «È ora di vedere se la mia nuova strategia funziona», disse Tom a Sarah. «Immagino di non poter pretendere che tu resti qui a Fort Providence, lontano dai guai, vero?» Per tutta risposta lei sorrise, andando a preparare la riserva di medicinali da portare con sé. Quando infine raggiunsero la carovana, scoprirono che era ancora più grande e ricca della prima, ma aveva anche una scorta assai più agguerrita di soldati a piedi e a cavallo. Tom si trovò in inferiorità numerica - i nemici erano pari quasi al doppio dei suoi uomini -, quindi seguì gli arabi per giorni e giorni, studiando insieme con Aboli un piano per attaccarli. Ben presto fu chiaro che i negrieri arabi dovevano essere al corrente della sorte della prima carovana, perché stavano sempre all'erta. Durante la marcia mandavano avanti un gruppo di esploratori e, al primo imprevisto, si schieravano in formazione difensiva. Quando si fermavano per la notte, si ritiravano entro boma difensivi costruiti con estrema cura, tenendo intorno all'accampamento un cordone di sentinelle perché dessero l'allarme in caso di attacco. Tom e Aboli precedettero la colonna, raggiungendo il guado di un fiume dal corso ampio, che la carovana sarebbe stata costretta a traversare. Concentrando le loro forze, sistemarono tutti gli uomini nella fitta foresta pluviale sulla sponda opposta. Così, allorché la carovana di schiavi raggiunse il fiume e la lunga e torpida colonna cominciò la traversata, Tom lasciò andare l'inizio della fila, poi, quando metà degli schiavi e delle scorte fu passata sull'altra riva, tagliò loro la strada, piombando sulla testa della colonna. Dalle loro posizioni, ben mimetizzate, i lozi armati di fucile spararono raffiche impressionanti contro le sentinelle arabe: usando la rosa di pallini non potevano fallire il colpo, e l'effetto era micidiale. Per qualche minuto il combattimento divampò, ma l'avanguardia araba era troppo inferiore di numero e fu massacrata da quelle salve. I loro compagni, sulla riva opposta, tentarono di tornare indietro, ma furono costretti a procedere contro corrente con l'acqua all'altezza del petto, falcidiati dalla precisione di tiro dei marinai di Tom. Wilbur Smith
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Al calar della sera, il combattimento sulle sponde era cessato. Tom aveva catturato il capocarovana, spazzando via tutte le sentinelle arabe. Per un colpo di fortuna, si erano impadroniti anche dell'intera riserva di polvere nera degli arabi; si trovarono così in vantaggio numerico, mentre gli arabi rimasti sulla riva occidentale erano disperatamente a corto di munizioni. Tom attraversò il fiume con i suoi uomini, lanciando una serie di fulminee scorrerie contro le posizioni arabe e costringendo i negrieri a difendersi e quindi a consumare le ultime riserve di polvere. Una volta che i nemici ebbero le armi scariche, lanciò il vero attacco, distruggendo lo schieramento arabo. Esaurite le riserve di polvere, i difensori furono spazzati via nel disperato corpo a corpo in cui i lozi usavano con estrema perizia le loro lance corte. Gli ultimi arabi furono sospinti nel fiume, dove si erano radunati i coccodrilli, attirati dall'odore del sangue nell'acqua. Alla fine del combattimento, Tom restituì la libertà a trecento schiavi prima di marciare a sud, verso Fort Providence, con una lunga fila di portatori carichi di un gigantesco bottino. Benché gli esploratori di Fundi continuassero a sorvegliare la via degli schiavi, quella fu l'ultima carovana che tentò di raggiungere la costa della Febbre durante quella stagione secca. «Dobbiamo pregare perché il prossimo anno ci porti affari migliori», disse Tom a Sarah, quando furono di nuovo sul cassero della piccola Centaurus che navigava sul fiume diretta verso il mare, all'inizio della stagione delle piogge. «Se gli affari andassero meglio, la nave affonderebbe sotto i nostri piedi», ribatté lei. «Non posso neanche entrare nel mio alloggio, tanto è pieno di puzzolenti zanne di elefante.» «Sono tutti questi mocciosi che ci appesantiscono», ribatté Tom in tono di accusa. Sarah non aveva saputo resistere all'impulso di prendersi cura degli orfani più piccoli tra gli schiavi liberati, riversando su di loro il suo istinto materno; e adesso si stringevano intorno a lei, indossando gli abiti che aveva cucito con le sue mani, succhiandosi il pollice e aggrappandosi alle sue gonne. «Thomas Courteney, secondo me sei geloso di questi poveri bambini.» «Non appena arriveremo al capo di Buona Speranza ti regalerò un cappellino nuovo, per riconquistare il tuo amore», promise Tom. Lei aprì bocca per dire che avrebbe preferito un bambino tutto loro, ma quello era Wilbur Smith
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un argomento doloroso per entrambi, quindi preferì sorridere. «E anche un bel vestito intonato al cappellino. In questi ultimi mesi mi sono vestita di stracci.» Si strinse a lui. «Oh, Tom, sarà così bello tornare alla civiltà, sia pure per poco!» Il califfo di Oman, Abd Muhammad al-Malik, stava morendo nella reggia di Muscat, e neanche il più abile dei medici riusciva a intuire la causa del male misterioso che lo aveva assalito. Gli avevano somministrato tante purghe che ormai perdeva sangue dall'ano, lo avevano trafitto con le lancette e salassato finché il suo viso già scarno non era diventato pallido ed emaciato, con le occhiaie color prugna. Gli avevano applicato coppette roventi sul petto e sul dorso per scacciare la malattia col calore, ma invano. La malattia aveva cominciato a manifestarsi poco dopo che il principe Zayn al-Din era tornato dal lungo pellegrinaggio alla Mecca e nei luoghi santi dell'Islam che il padre gli aveva ordinato come penitenza per il suo tradimento. Al ritorno a Muscat, Zayn al-Din aveva rinnovato le sue abbiette petizioni nei confronti del padre, strappandosi le vesti finissime e graffiandosi le guance e il petto con un pugnale affilato, cospargendosi il capo di cenere e di polvere e strisciando carponi al cospetto del padre, sempre invocando il suo perdono. Al-Malik era sceso dal trono d'avorio per aiutarlo a risollevarsi, prima di tergergli il viso dallo sporco e dal sudore con un lembo della veste, baciandolo sulle labbra. «Tu sei mio figlio e, anche se una volta ti ho perduto, ora mi sei stato restituito», gli aveva detto. «Va' a fare un bagno e cambiati d'abito. Indossa la veste azzurra dei principi di Oman e occupa il posto che ti spetta sul cuscino al mio fianco.» Subito dopo il califfo aveva cominciato a soffrire di terribili mal di testa, che lo lasciavano insonnolito e confuso, ed era stato colpito da attacchi di vomito e convulsioni. Gli faceva male lo stomaco e le feci erano nere, con la stessa consistenza del catrame, mentre le urine apparivano scure di sangue. Più i medici lo curavano, più la malattia peggiorava. Le unghie divennero bluastre, i capelli e i peli della barba gli caddero a ciocche; il califfo cominciò a scivolare in uno stato intermittente d'incoscienza, mentre la testa calva e glabra somigliava sempre più a un teschio. Wilbur Smith
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Sapendo che la fine era prossima, trenta dei suoi figli si erano radunati al suo capezzale, nella stanza dalle imposte chiuse e dall'atmosfera soffocante. Il maggiore, Zayn al-Din, seduto vicino al letto, guidava il coro di preghiere per invocare l'intervento di Aliali, affinché alleviasse le sofferenze del padre. Durante una pausa delle preghiere, Zayn alzò gli occhi pieni di lacrime per guardare con mestizia il fratellastro, seduto all'altro capo della stanza. Ibn al-Malik Abubaker era il figlio di una delle concubine meno importanti ed era sempre stato il suo fedele compagno fin dai giorni dell'infanzia, trascorsi nello zenana dell'isola di Lamu. A causa della sua condizione umile nella casa regale, Abubaker sarebbe potuto scivolare nell'ombra; tuttavia un detto degli arabi del deserto ammonisce che ogni uomo ha bisogno di un cammello che lo porti in sella sulle sabbie, e Zayn al-Din era il cammello di Abubaker. In sella al fratellastro, maggiore di lui in età, Abubaker era deciso a salire prima o poi al potere. Inoltre sapeva che Zayn aveva bisogno di lui, perché lui era un servo fedele, astuto e pieno di risorse, profondamente devoto al fratello. Era stato al fianco di Zayn nella battaglia di Muscat, tentando di proteggerlo quando i turchi ottomani si erano dati alla fuga, ma nella mischia era stato ferito al petto da una lancia e sbalzato di sella. Dopo la battaglia si era ripreso dalla ferita, ricevendo il perdono del nuovo califfo, perché al-Malik era sempre benevolo e generoso con i suoi figli. Invece di essergli grato di quel gesto di misericordia, Abubaker covava rancore contro di lui; come Zayn al-Din, era un uomo ambizioso e contorto, un cospiratore nato, avido di potere. Sapeva che, nonostante il perdono, il ricordo del tradimento sarebbe rimasto impresso nella mente del califfo suo padre per tutta la vita. Purché sia breve, pensò, ricambiando l'occhiata del fratello nella stanza da letto velata dal fumo dell'incenso. Zayn al-Din gli rivolse un cenno quasi impercettibile, e Abubaker abbassò gli occhi, lisciandosi i baffi per far intendere che aveva capito. Era stato lui a procurarsi la polvere bianca e amara che stava per ottenere il risultato voluto. Uno dei medici che assisteva il califfo era un uomo di Abubaker. Il veleno, somministrato a piccole dosi, si accumulava nel corpo della vittima, cosicché i sintomi diventavano sempre più acuti. In silenzio, Abubaker convenne con il fratello che era giunto il momento di somministrare al califfo la dose letale. Si coprì il viso con il lembo del copricapo, come per nascondere la sua Wilbur Smith
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tristezza, mentre in realtà sorrideva. L'indomani a quell'ora, sul trono d'avorio sarebbe stato seduto il fratello maggiore Zayn al-Din e lui, Ibn alMalik Abubaker, sarebbe diventato il comandante dell'esercito e della flotta di Oman. Zayn al-Din glielo aveva promesso, insieme col rango di imam e due lakh di rupie attinte al tesoro reale. Abubaker, che si era sempre considerato un grande guerriero, sapeva che finalmente la sua stella stava per sorgere e cominciare a risplendere. «E tutto grazie al mio onorato fratello, Zayn al-Din. Possa Allah riversare su di lui diecimila benedizioni», mormorò. Al crepuscolo, i medici somministrarono al califfo una pozione per farlo dormire e fortificarlo contro l'assalto dei demoni notturni. Benché alMalik, in preda a una tosse convulsa, facesse colare la medicina sul mento nel tentativo di distogliere il viso, i medici lo tennero fermo con delicatezza, versandogliela in bocca fino all'ultima goccia. Il califfo si abbandonò sui cuscini, così pallido e immobile che per ben due volte, durante quella notte lunga e torrida, i medici gli sollevarono le palpebre, passando una lampada davanti agli occhi, per controllare la dilatazione delle pupille. «Per amore e per clemenza di Allah, il califfo vive ancora», intonavano ogni volta. Poi, mentre i primi raggi ramati dell'alba penetravano tra gli intagli delle imposte della finestra a oriente, il califfo sussultò, alzandosi di scatto a sedere e lanciando un grido forte e chiaro: «Allah è grande!» Infine ricadde sui cuscini e un rivoletto di sangue gli sfuggì dalle narici. I medici si precipitarono a formare un cerchio intorno al suo corpo e, sebbene i figli allungassero la testa per sbirciare, il califfo rimase nascosto alla loro vista finché il circolo dei medici non si riaprì. Il più autorevole sussurrò qualcosa in tono lugubre al visir di corte, dopodiché questi si girò verso i principi, annunciando: «Abd Muhammad al-Malik, califfo di Oman, è morto. Allah riceva il suo spirito!» «In nome di Allah», risposero in coro i principi, molti dei quali sinceramente addolorati. «Secondo i desideri del padre, Zayn al-Din gli succede sul Trono dell'Elefante di Oman. Possa Allah benedirlo e concedergli un regno lungo e glorioso.» «In nome di Allah!» ripeterono tutti, ma nessuno si mostrò lieto di Wilbur Smith
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quell'annuncio. Sapevano che li attendevano giorni bui. Fuori delle mura della città sorgeva un promontorio roccioso proteso sul mare. Le scogliere ai lati cadevano a strapiombo su acque profonde, così limpide che ogni dettaglio dei coralli sul fondo risaltava con la nitidezza di un mosaico di marmo. Il nuovo califfo aveva fatto costruire un padiglione di granito rosa levigato proprio sul ciglio del precipizio, battezzandolo Palazzo del Castigo. Dal suo seggio, posto all'ombra del colonnato, poteva guardare la superficie del mare, seguendo con gli occhi le lunghe ombre degli squali che scivolavano oltre la barriera corallina ai suoi piedi. Quando il palazzo era stato costruito, non c'erano squali, mentre adesso se ne potevano scorgere molti e ben nutriti. Zayn al-Din stava mangiando una melagrana matura quando gli trascinarono davanti un altro degli ufficiali del padre, a piedi nudi. Gli avevano rasato la testa e la barba, passandogli un anello di ferro intorno al collo come simbolo della condanna. «Quando ero in disgrazia agli occhi di mio padre, possa Allah benedire la sua anima, siete stato scortese con me, bin-Nabula!» disse il califfo. Sputò uno dei semi di melagrana per colpire in faccia il vecchio orgoglioso, che non batté ciglio, limitandosi a fissare il suo aguzzino con uno sguardo gelido; bin-Nabula era stato comandante dell'esercito e della flotta del califfo ed era un vero soldato. «Mi chiamavate il cucciolo grasso», aggiunse Zayn al-Din scuotendo il capo con aria mesta. «È stato molto crudele da parte vostra.» «Era un nome che vi si addiceva», replicò il condannato. «E da allora non avete fatto che diventare più grasso e più repellente. Rendo grazie ad Allah che il vostro nobile padre non possa sapere quale sciagura ha inflitto al suo popolo.» «Siete sempre stato un chiacchierone, vecchio, ma ho una cura infallibile per questo vizio.» Zayn al-Din rivolse un cenno al nuovo capo dell'esercito. «I miei piccoli amici laggiù sono affamati. Non fateli aspettare.» Abubaker s'inchinò. Indossava l'armatura leggera di metallo lucente, con l'elmo a punta e un lembo di seta ricamata che gli cadeva sul collo. Si raddrizzò, sorridendo, e il sorriso su quel volto stretto, con i denti aguzzi di un barracuda, era uno spettacolo orribile, ma bin-Nabula non batté ciglio. Wilbur Smith
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«Molti uomini giusti hanno già percorso questa strada prima di me», replicò l'ufficiale. «Preferisco la loro compagnia alla vostra.» Da quando il nuovo califfo era salito al trono, qualche mese prima, le esecuzioni si susseguivano a ritmo quotidiano. Centinaia di uomini che erano stati potenti e rispettati venivano scaraventati in mare dalla scogliera per nutrire gli squali in attesa. Zayn al-Din aveva la memoria lunga per ogni minima offesa, e né lui né il generale Abubaker si stancavano mai di quel gioco. «Toglietegli la catena», ordinò Abubaker ai suoi uomini, perché non voleva che bin-Nabula affondasse troppo in fretta. Gli tolsero dal collo la pesante catena, conducendolo verso il blocco del carnefice. «Tutt'e due i piedi», ordinò Abubaker, e i suoi uomini sistemarono sul blocco le gambe del vecchio. Era stato Abubaker ad aggiungere quel tocco di raffinatezza alla pena: senza i piedi, il condannato poteva sguazzare in superficie, ma non era in grado di tornare a riva, e il sangue nell'acqua eccitava il branco degli squali, spingendoli ad azzannarlo freneticamente. Estrasse la spada, facendola saettare nell'aria al di sopra delle gambe di bin-Nabula, sempre sorridendogli con quei denti disuguali. Il vecchio lo guardò con fermezza, senza mostrare traccia di paura. Abubaker avrebbe potuto affidare quel compito a uno qualsiasi dei suoi uomini, ma gli piaceva servire personalmente il fratello. Appoggiò la curva della lama contro una caviglia dell'uomo, socchiudendo gli occhi per valutare la forza necessaria. «Un solo colpo netto», lo incoraggiò Zayn al-Din, «altrimenti t'imporrò una penitenza, fratello mio.» Abubaker sollevò la spada, fermandosi per un attimo quando fu in alto, poi l'abbassò di colpo. L'acciaio sibilò nell'aria, recidendo carni e ossa prima di urtare contro il legno del blocco. Il piede bianco con le vene azzurre cadde sul pavimento di granito levigato, mentre Zayn al-Din batteva le mani. «Davvero un bel colpo. Ma sei capace di rifarlo?» Abubaker asciugò la lama sul riquadro di seta che uno schiavo gli porgeva, poi prese la mira sull'altra caviglia. Un sibilo e uno schiocco, poi la lama d'acciaio affondò nel legno. Zayn al-Din lanciò una risata sonora. I soldati trascinarono bin-Nabula fino all'orlo del precipizio, lasciando una scia rossa sulle lastre levigate di granito rosa. Zayn al-Din si alzò di scatto dai cuscini per raggiungere zoppicando il parapetto basso che lo Wilbur Smith
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proteggeva dal precipizio e si protese, guardando verso il basso. «I miei pesciolini vi stanno aspettando, bin-Nabula. Andate con Allah.» I soldati lo scaraventarono nell'abisso, mentre le vesti si gonfiavano intorno al suo corpo, ma il vecchio non si lasciò sfuggire neanche un lamento. Alcune delle vittime gridavano per tutto il tempo, e Zayn al-Din lo apprezzava molto, invece bin-Nabula precipitò in silenzio, colpì la superficie e sprofondò. Poi le acque agitate ridiventarono limpide, e lo videro risalire a galla e tentare di restarvi, con la testa fuori dell'acqua, mentre il mare si arrossava tutt'intorno. «Eccoli!» Zayn al-Din puntò un dito verso il basso, tremando e gridando per l'eccitazione. «Guarda che belli, i miei pesciolini!» Le ombre scure si muovevano freneticamente, accelerando mentre salivano verso la superficie e cominciando a circondare il vecchio che si dibatteva. «Sì, piccoli miei. Venite! Venite!» Il primo degli squali attaccò, risucchiando bin-Nabula sotto la superficie, ma le acque erano così chiare che Zayn al-Din poté seguire ogni istante del banchetto che aveva apparecchiato. Quando il divertimento finì e non ci fu più niente da guardare, tornò verso la pila di cuscini sotto il baldacchino di seta, ordinando un sorbetto ghiacciato. Poi fece segno al fratello di avvicinarsi. «Ben fatto, Abubaker, ma mi diverto di più quando strillano. Credo che il vecchio shaitan sia rimasto in silenzio solo per sciuparmi il divertimento.» «Bin-Nabula è sempre stato un vecchio caprone ostinato», ammise Abubaker. «C'erano seicentododici nomi sulla lista che mi avevate dato. È triste, maestà, ma bin-Nabula era il numero seicento. Siamo quasi alla fine della lista.» «No, no, mio carissimo fratello. Non siamo alla fine. Non abbiamo ancora toccato uno dei nostri nemici principali.» «Ditemi come si chiama questo furfante.» Abubaker scoprì i denti irregolari in una smorfia troppo selvaggia per essere un sorriso. «Ditemi dove trovarlo, e lo cercherò io per voi.» «Ma tu lo conosci bene, fratello mio. Hal anche tu un conto aperto con lui.» Zayn al-Din si protese in avanti, mentre il ventre gli ricadeva sul grembo, e sollevò l'orlo della veste per massaggiarsi delicatamente la caviglia deformata. «Persino dopo tanti anni, il piede mi fa ancora male Wilbur Smith
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quando c'è un temporale nell'aria.» Negli occhi scuri di Abubaker cominciò a scintillare un barlume di comprensione, mentre Zayn al-Din aggiungeva, a bassa voce: «Non mi è piaciuto essere trascinato con una corda al collo davanti alle porte di Muscat». «Al-Salil», esclamò Abubaker assentendo. «Il demonio dai capelli rossi e dagli occhi verdi. So dove trovarlo. Il nostro venerato padre, che Allah benedica la sua memoria, lo ha mandato in Africa per riaprire le vie delle carovane.» «Prendi tutte le navi e gli uomini che ti servono, Abubaker, e va' in Africa. Cercalo e portalo da me, annientato, se vuoi, ma non morto. Mi capisci?» «Annientato, ma non morto. Vi capisco perfettamente, maestà.» Yasmini scese dalla spiaggia verso l'acqua, risucchiando in dentro il ventre già piatto nel sentire com'era gelida e sollevando le mani sopra la testa. Dorian, disteso sulla sabbia candida, la guardava: anche se avevano fatto l'amore solo pochi minuti prima, non si stancava mai di ammirare quel corpo color crema e avorio. Lei era rifiorita da quando aveva abbandonato i confini soffocanti dello zenana e ribolliva d'interesse e di eccitazione per tutte le meraviglie che la circondavano e, quando erano soli, il suo senso dell'umorismo e la sua malizia lo incantavano. Immersa fino alla vita nelle acque del lago, Yasmini chiuse le mani a coppa per raccogliere l'acqua dolce e portarla alle labbra. Mentre beveva, alcune gocce filtrarono dalle dita scorrendo sul petto e lì, catturando la luce del sole, scintillarono sulla pelle liscia come una collana di diamanti, mentre i capezzoli, già increspati per il freddo, sporgevano ancora di più. Si voltò a salutarlo con la mano, poi, con un brivido, s'immerse, tenendo soltanto la testa al di sopra della superficie. I capelli neri con la ciocca d'argento fluttuarono come una nube scura intorno al suo viso di ninfea. «Coraggio, padrone! Vieni a raggiungermi!» lo invitò, ma lui agitò pigramente la mano in segno di rifiuto. Quella pausa di respiro era così piacevole, dopo i mesi di faticosa marcia dalla costa verso l'interno del continente... «Forse il grande sceicco, il potente guerriero e conquistatore di Muscat, ha paura di un po' di acqua fredda?» lo schernì. Lui le sorrise, scuotendo la testa. «Non ho paura dell'acqua, ma tu Hal esaurito tutte le mie forze.» Wilbur Smith
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«Era proprio quello il mio scopo!» esclamò lei con una risata argentina, alzandosi di scatto per spruzzarlo d'acqua fredda. «Donna perversa!» Dorian si alzò. «Hal esaurito anche la mia pazienza.» Si lanciò verso il lago in una tempesta di spruzzi e, sebbene Yasmini tentasse di sfuggirgli, l'afferrò sprofondando insieme con lei sotto la superficie. Risalirono a galla tenendosi stretti e ridendo. Poco dopo, tuttavia, l'espressione di Yasmini divenne severa. «Temo che non siate stato sincero con me, signore», lo accusò. «Ho in mano la prova che la vostra forza è tutt'altro che esaurita.» «È sufficiente che ti chieda perdono per averti ingannata?» «No, neanche lontanamente.» Gli passò intorno al collo le braccia snelle. «È così che pesci e coccodrilli puniscono i loro compagni infedeli.» Con un lieve balzo, gli strinse le gambe intorno ai fianchi. Poco dopo risalirono sulla spiaggia, sempre tenendosi abbracciati e ansimando dal ridere. Si lasciarono cadere sulla battigia, poi Dorian alzò gli occhi per valutare l'altezza del sole e mormorò con rammarico: «La mattina è quasi finita. Ora dobbiamo andare, Yassie». «Restiamo ancora un po'», implorò lei. «Qualche volta mi stanco di recitare la parte del piccolo schiavo.» «Su, vieni!» le ordinò lui, tirandola in piedi. Si diressero verso il punto in cui avevano abbandonato i vestiti, rivestendosi in fretta. Il piccolo dhow era in secca, ma, prima di salire a bordo, Yasmini si soffermò per guardarsi lentamente attorno, congedandosi da quel luogo meraviglioso dove, per un'ora, erano stati liberi e felici. Sulla cima dell'albero più alto dell'isola era appollaiata una coppia di aquile pescatrici dalla testa nivea, con il corpo snello color cannella. Una delle due gettò all'indietro la testa, lanciando un suggestivo richiamo. «Non dimenticherò mai quel grido», disse Yasmini. «È la voce stessa di questa terra selvaggia.» Le colline sulla riva opposta del lago sembravano una linea azzurra, più chiara dell'acqua. Una lunga fila di fenicotteri rosa volava bassa lungo la sponda; il capo dello stormo s'innalzò, seguendo una corrente ascensionale di aria calda, prima di ridiscendere, e tutti quelli che lo seguivano s'innalzarono nello stesso punto, per ricadere esattamente come aveva fatto il primo. Era uno spettacolo straordinario, come se un lungo serpente rosa si snodasse sulle acque azzurre. «E non dimenticherò mai tanta bellezza», sussurrò Yasmini. «Vorrei Wilbur Smith
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restare qui per sempre, insieme con te.» «Questo è il paese di Dio, dove l'uomo non conta», le rispose Dorian, «ma adesso vieni, non possiamo permetterci un sogno del genere. Il dovere mi stringe nella sua morsa d'acciaio. Domani dovremo partire, per cominciare la marcia di ritorno sulla costa della Febbre.» «Ancora un attimo, mio signore, vi prego», lo implorò, indicando una strana nube scura che si elevava dalla superficie del lago a un miglio di distanza, salendo in linea retta nell'azzurro intatto del cielo africano. «Che cos'è? È come se l'acqua fosse in fiamme e sprigionasse fumo nell'aria.» «Sono insetti minuscoli», le spiegò Dorian. «Crescono a migliaia sul fondo del lago, poi salgono in superficie per tessere vele di garza con le quali galleggiano nell'aria, lasciandosi trasportare.» «Le vie di Allah sono straordinarie», sussurrò lei con gli occhi scintillanti. «Vieni», la sollecitò Dorian. «E ricordati che sei di nuovo Yassie, il piccolo schiavo, e devi mostrarmi obbedienza e rispetto.» «Sì, padrone.» S'inchinò profondamente, sfiorandosi le labbra con le palme unite, mentre il suo atteggiamento cambiava, da quell'attrice consumata che era. Quando si raddrizzò, si comportava come un servitore, non come una principessa, e si muoveva come un ragazzo mentre spingeva il dhow nelle acque del lago, arrampicandosi a prua. Si sedettero a bordo della minuscola imbarcazione che doppiava l'estremità dell'isola, raggiungendo il villaggio sulla terraferma, a una lega di distanza. Stavano discosti perché, anche da lontano, c'erano molti occhi che li osservavano. Benché, a vedersi, quello specchio d'acqua fosse vasto come l'oceano, si trovava a qualche mese di viaggio dalla costa della Febbre, dove il clima era più secco e salubre, sull'altopiano all'interno del continente. Il villaggio di Ghandu si estendeva per parecchie miglia sulla riva del lago, perché quello era il centro di tutto il commercio di Oman con l'interno, e da lì partiva la lunga strada degli schiavi che arrivava alla costa. Avvistarono una dozzina di canoe e dhow che viravano per raggiungere il porto di Ghandu, dopo aver viaggiato per centinaia di miglia lungo le rive del lago, trasportando carichi di pesce secco, avorio, schiavi, pelli e gomma arabica raccolti nei territori selvaggi dell'interno. Nel raggiungere il villaggio, Yasmini arricciò il naso, disgustata. L'aria Wilbur Smith
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pura era contaminata dal puzzo delle rastrelliere per il pesce secco e dei recinti degli schiavi. Quando Dorian sbarcò, Bashir al-Sind, il suo luogotenente, era lì ad aspettarlo con il resto degli ufficiali. Yassie si tenne in disparte, mentre Dorian si rituffava subito nei doveri e nelle responsabilità del comando, un dovere al quale era riuscito a sfuggire solo per quelle poche ore trascorse sull'isola con Yasmini. «Sono arrivate le donne, signore», gli disse Bashir, «e i mercanti si sono radunati per ascoltare i vostri ordini per la marcia.» Dorian attraversò il villaggio, passando tra i recinti affollati nei quali erano rinchiusi gli schiavi, oppresso dallo squallore e dall'infelicità che contrastavano in modo così stridente con la bellezza e la serenità che Yasmini e lui avevano sperimentato poco prima. Nel suk principale, seduti sugli sgabelli imbottiti sotto i parasole di seta colorata, lo aspettavano i cinque mercanti, ognuno dei quali era circondato da un seguito di guardie, vestite sontuosamente, e schiavi. Quegli uomini controllavano tutto il commercio che passava da Ghandu: erano tutti pii e colti, sapevano parlare con eleganza, gli facevano complimenti elaborati, avevano un portamento nobile e dignitoso ed erano incredibilmente ricchi, tuttavia Dorian, nel breve periodo trascorso a Ghandu, aveva finito per detestarli, una volta compresa la crudeltà sottesa alla loro ricchezza. Anche Dorian era stato un schiavo, però al-Malik non lo aveva mai trattato come tale. La schiavitù era stata un aspetto costante della sua vita adulta, ma proprio per questo ci aveva pensato ben poco. Quasi tutti gli schiavi che aveva conosciuto erano docili, o nati in cattività, rassegnati e quasi sempre trattati con sollecitudine, in quanto beni preziosi. Invece, da quando era arrivato a Ghandu, si era trovato di fronte alla realtà brutale dei fatti, costretto ad assistere all'arrivo degli schiavi appena catturati: non era stata una lezione facile da assimilare. Si sentiva diviso tra il proprio senso di umanità da un lato, e l'amore e il dovere che sentiva per il padre adottivo, il califfo, dall'altro. Si rendeva conto che tutta la prosperità e il benessere della nazione dipendevano da quel commercio e non intendeva sottrarsi al dovere di proteggerlo, eppure non provava il minimo piacere per quello che doveva fare. Era l'ora della preghiera pomeridiana, quindi dovevano compiere le abluzioni rituali. Yassie gli versò l'acqua per lavarsi, poi Dorian pregò insieme con i mercanti, inginocchiato sui tappeti di seta e rivolto in direzione dei luoghi santi a nord. Quando ripresero il loro posto sotto i Wilbur Smith
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parasole, Dorian provò l'impulso di saltare gli elaborati discorsi di apertura e gli scambi di complimenti per arrivare al problema che dovevano discutere; tuttavia ormai aveva assimilato la mentalità orientale al punto che non poteva neanche contemplare l'idea di commettere un'azione così inopportuna. Il sole era già oltre lo zenit, quando uno dei mercanti accennò quasi di sfuggita che avevano preparato per lui duecento schiave, secondo le sue richieste. «Portatele da me», ordinò. Non appena i mercanti diedero l'ordine, le donne sfilarono davanti a lui, e Dorian si accorse subito che gli avevano rifilato le più vecchie e malaticce. Molte di quelle donne non sarebbero sopravvissute alla terribile marcia verso la costa. Sentì ribollire la collera dentro di sé: era venuto fin lì per salvare quegli uomini dalla rovina, aveva un firma» del califfo che imponeva obbedienza, e invece si mostravano renitenti e facevano ostruzionismo. Tentò di dominarsi. Le condizioni delle donne non erano essenziali per il successo dei suoi piani, perché intendeva metterle nella carovana soltanto per indurre i predoni ad attaccare. Una colonna di schiavi composta di soli uomini avrebbe suscitato sospetti. Scartò subito cinquanta donne, le vecchie più deboli e quelle in stato avanzato di gravidanza. Le fatiche della marcia avrebbero ucciso le vecchie e anticipato il travaglio delle donne incinte, e Dorian non poteva addossarsi la colpa della morte inevitabile dei loro figli. Per lo stesso motivo, aveva rifiutato i bambini che gli erano stati offerti. «Quando partiremo da Ghandu, voglio che queste poverette portino le catene più leggere che avete», disse ai mercanti in tono di ammonizione. Poi si alzò per indicare che la riunione era finita. Fu un sollievo lasciare quel villaggio odioso per salire tra le colline al di sopra del lago, dove l'aria era più fresca e pura e la vista del lago era splendida. Dorian aveva disposto il suo accampamento in cima al pendio. L'esperienza gli aveva insegnato che la salute degli uomini ci guadagnava se questi ultimi stavano lontani dai villaggi affollati, se le fosse delle latrine venivano scavate lontano dalle provviste d'acqua e se si rispettavano rigorosamente le leggi halaal per la preparazione dei cibi. Si era chiesto spesso se fossero le abluzioni rituali prima della preghiera a migliorare lo stato di salute delle truppe; senza dubbio, nel campo, c'erano meno malattie di quante ne avesse dovute affrontare suo padre a bordo delle navi inglesi, piccole e sovraffollate, sulle quali lui aveva navigato da Wilbur Smith
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bambino. Anche se ormai era tardo pomeriggio, il suo lavoro per quel giorno non era ancora finito. L'indomani sarebbero partiti di buon'ora per la prima tappa del viaggio e lui doveva rivedere l'ordine della carovana. Cinquecento dei suoi uomini, insieme con le schiave, sarebbero serviti da esca. Aveva selezionato gli uomini soprattutto in base al colore della pelle, che era di un nero quasi violaceo. Neanche gli arabi più scuri di carnagione erano di quel colore, quindi Dorian era ricorso all'infuso di corteccia, ricco di tannino, nel quale i pescatori del lago immergevano le reti, per tingere i loro corpi, ottenendo una sfumatura naturale. Non era ancora perfetto, ma lui contava sul fatto che la polvere e lo sporco del viaggio rendessero più credibile l'inganno. Aveva incontrato anche altre difficoltà. Nessuno dei suoi uomini voleva restare nudo in pubblico, perché il pudore dettato dalla religione lo proibiva, quindi era stato costretto a consentire loro di portare un perizoma, per quanto avesse controllato che fosse sporco e lacero. Si erano anche ribellati all'ordine di radersi la testa, ma nessuno schiavo africano aveva chiome folte e lui aveva insistito con fermezza su questo punto. Avrebbero portato catene leggere, ma senza che fossero chiuse, in modo da poterle togliere in un attimo. Con scarsa buona grazia, i cinque mercanti di Ghandu avevano fornito, per «addolcire l'esca», cento zanne di elefante; comunque erano piccole e leggere, in modo che gli uomini potessero portare le armi nascoste in un piccolo involto sulla testa, insieme con l'avorio. Dorian avrebbe guidato la colonna, in sella a un cavallo, coperto dalla veste e dal velo, proprio come i predoni si aspettavano. Vicino a lui ci sarebbe stata Yassie, che aveva imparato a cavalcare durante la marcia dalla costa. Inoltre avrebbe incaricato un piccolo distaccamento di sentinelle arabe di restare a fianco della colonna; il distaccamento non era così debole da suscitare sospetti, ma neanche tanto forte da scoraggiare un attacco. Bashir al-Sind avrebbe guidato la retroguardia con altri mille combattenti, restando indietro di due o tre leghe in modo che la nube di polvere non fosse visibile agli esploratori nemici. Il segnale che l'avanguardia veniva attaccata sarebbe stato un razzo cinese di colore rosso. A quel segnale, Bashir si sarebbe precipitato a circondare gli aggressori, mentre Dorian e i suoi li avrebbero inchiodati finché Bashir Wilbur Smith
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non fosse riuscito a schierare in campo le sue forze. «È un piano semplice», decise Dorian, dopo che lui e Bashir lo avevano riesaminato per la decima volta. «Ci sono molti fattori che non possiamo prevedere. Ma questi sono gli incerti della guerra e li risolveremo a mano a mano che si presentano. Forse i fisi non verranno affatto.» Fisi, che significava «iena» in swahili, era il soprannome che avevano dato ai predoni. «Verranno, al-Salil», predisse Bashir. «Ormai hanno assaggiato il sangue di Oman e non possono farne a meno.» «Prego Allah che abbiate ragione», rispose Dorian, ritirandosi nella tenda dove il piccolo schiavo Yassie gli aveva preparato la cena. «Questa carovana ha qualcosa che non mi convince», osservò Aboli, esaminandola attraverso il cannocchiale. «Confidami le tue ansie», lo invitò Tom, con un sarcasmo appena velato. Il nero si strinse nelle spalle. «Quegli uomini hanno l'ossatura leggera, delicata, e camminano con una strana grazia, una leggerezza quasi felina. Non ho mai visto schiavi marciare in quel modo.» A tre miglia dal punto in cui erano appostati, la carovana araba scendeva il pendio delle colline, con un percorso tortuoso come un serpente. «Marciano soltanto da qualche settimana dopo aver lasciato la regione dei laghi», spiegò Tom, rivolto più a se stesso che all'amico. «Sono ancora freschi e vigorosi.» Rifiutava qualsiasi elemento che potesse sconsigliare l'attacco. Quella era la prima carovana della stagione secca che riuscivano a individuare. Tom aveva cominciato a temere che la fonte della loro fortuna si fosse già esaurita ed era deciso a non lasciarsi sfuggire quella preda. «Sì, gli uomini sono giovani e forti, ma guarda le donne», insistette Aboli. Tom riprese il cannocchiale per osservarle e fu assalito da un lieve moto di disagio. Le donne erano diverse dagli uomini per il colore della pelle, l'età e la struttura del corpo. «Sono di una tribù diversa», spiegò, in tono più fiducioso del suo stato d'animo. «Non ci sono bambini», obiettò Aboli. «Dove sono i bambini?» «Che Dio ti benedica, Aboli», proruppe Tom, esasperato. «Certe volte sei capace di far sembrare il profumo di una rosa appena colta peggiore di un peto.» Wilbur Smith
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Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre Tom puntava il cannocchiale sull'inizio della carovana. Il cavaliere arabo montava una giumenta pomellata con una ricca bardatura. Era un cavallerizzo provetto, probabilmente giovane, a giudicare dal modo in cui stava in sella, alto e disinvolto. Portava a tracolla il lungo jezail e lo scudo sulla spalla. Alla sua destra cavalcava un portatore di lancia, pronto a passargli l'arma, e, dall'altra parte, un ragazzo molto giovane, uno schiavo personale o un favorito. L'arabo portava il turbante azzurro della casa reale di Oman, con il lembo inferiore avvolto intorno al viso in modo da lasciare scoperti soltanto gli occhi. «Mi piacerebbe mettere alla prova la sua lama», disse Tom, imponendosi d'ignorare la sua stessa diffidenza. «Per Giove, sembra un tipo capace di battersi come si deve.» «Le zanne d'avorio sono piccole e, a giudicare dalla facilità con cui le portano, anche leggere...» mormorò Aboli. Tom si girò verso di lui. «Ho fatto cento miglia di cammino per prendermi quell'avorio, leggero o pesante che sia, e intendo averlo. Non me ne tornerò a casa con la coda tra le gambe perché Hal fatto un brutto sogno.» Non avrei mai dovuto parlargli del sogno, si rimproverò Aboli, che, la notte precedente, era stato assalito da incubi di sangue e di distruzione. Con un sospiro, disse: «Ti ho seguito in tutte le imprese azzardate e folli che Hal concepito, Klebe. Forse sono un vecchio stolto, però intendo morire al tuo fianco. Quindi, se insisti, andiamo a prenderci questo bottino così facile e ricco». Tom richiuse il cannocchiale di scatto, sorridendogli. «Non parliamo di morte in una giornata così splendida, vecchio mio.» Si alzò. «Prima andremo a controllare la loro retroguardia, poi precederemo la colonna per trovare un posto adatto a concludere la faccenda.» Scesero verso il punto in cui Fundi custodiva i cavalli, ai piedi della collina. Batula si presentò in testa alla lunga colonna che serpeggiava attraverso la foresta, salutando al-Salil. «I fisi stanno annusando la nostra pista», riferì. Dorian fece uscire il cavallo dalla fila, mentre tirava le redini. «Da quando?» «Dopo che ci siamo accampati, ieri sera. Sono arrivati dal sud due Wilbur Smith
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uomini a cavallo, seguiti da altri due a piedi.» «Che cosa Hal capito di loro?» «Quando sono smontati per studiare le nostre tracce, portavano calzature di cuoio. Penso che siano stranieri, infedeli. Sono andati avanti e indietro, risalendo poi in sella per seguirci. Da una collina hanno osservato il campo, poi sono tornati al sud.» «Ti è sembrato che si rendessero conto del fatto che Bashir al-Sind ci sta seguendo?» «No, signore. Credo che non ne siano consapevoli.» «In nome di Allah, si comincia», commentò Dorian. «Fa' il segnale per avvertire Bashir al-Sind che i fisi sono vicini, e che può ridurre le distanze.» Tre cumuli di pietre disposti in un certo modo sulla strada dietro di loro non avrebbero avuto nessun significato tranne che per al-Sind. Batula ritornò verso la coda della carovana, poi riferì a Dorian: «È stato fatto come avete ordinato, signore». «Adesso prendi con te tre uomini e precedi la colonna per trovare il posto nel quale è più probabile che ci attaccheranno», gli ordinò Dorian. «Cavalca pure allo scoperto, senza fare mosse sospette.» Era già pomeriggio quando Dorian vide tornare indietro la pattuglia. Batula gli si avvicinò per informarlo con calma: «Signore, sul nostro cammino esiste un luogo tale da favorire i piani dei nostri nemici». Dorian gli fece segno di continuare, e Batula proseguì: «La testa della colonna raggiungerà quel luogo tra un'ora. La strada scende per un altro pendio, serpeggiando attraverso una strettoia in un terreno accidentato. Gli arcieri possono nascondersi senza fatica ai lati e inoltre, verso la metà, c'è un luogo ancora più ripido, nel quale il sentiero scende come una scala su alcuni gradini naturali. È un punto in cui possono dividere la nostra colonna a metà». «Sì», disse Dorian, «ricordo questo luogo, dal viaggio di andata. C'è un fiume che scorre nella valle sottostante, con uno stagno dove abbiamo sostato quattro giorni.» «È quello», confermò Batula. «Allora è lì che sferreranno il loro attacco», affermò Dorian, convinto, «perché oltre il fiume c'è una pianura vasta parecchi giorni di marcia, che non si addice ai loro piani.» Al di sopra di quella scala naturale di pietra si ergeva una fortezza merlata anch'essa naturale, di roccia rossa tappezzata di licheni, alta un Wilbur Smith
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centinaio di piedi e molto friabile. Intaccata da profonde spaccature verticali, incombeva sulla strettoia del passo sottostante. Tom era seduto sul ciglio del precipizio, con i piedi che penzolavano nel vuoto e lo sguardo fisso sul passaggio stretto. Aveva scoperto quel luogo tre anni prima, subito dopo il primo successo che avevano riportato sui negrieri, e ne aveva preso nota. «Non possono passarci più di cinque cavalli affiancati», aveva calcolato. «Ed è troppo impegnativo per essere affrontato restando in sella. Dovranno smontare e condurre i cavalli per la cavezza.» Quello era un bene, perché gli arcieri lozi si erano rivelati inaffidabili se si trattava di affrontare una carica di cavalleria, mentre erano combattenti formidabili negli scontri corpo a corpo. Non c'era un altro luogo, in tutte le centinaia di miglia della strada degli schiavi, che si prestasse altrettanto a un'imboscata e al tipo di combattimento nel quale i suoi uomini eccellevano. Sotto la supervisione di Luke Jervis, dieci uomini erano impegnati nell'ascesa, alle spalle del punto in cui si trovava Tom; ciascuno di loro portava sulle spalle un barilotto di polvere da cinquanta libbre. Tom si alzò per dare loro istruzioni, indirizzandoli verso l'imbocco della profonda fenditura verticale nella fortezza di roccia, dove gli uomini accatastarono i barilotti prima di stendersi a riposare. Aboli costruì rapidamente una rozza teleferica con un'asse e un rotolo di corda. Ordinando a tre uomini di manovrare l'estremità delle corde, si calò nella fenditura; poi, raggiunto il fondo, si fece mandare i barilotti di polvere. Tom sapeva che in quel campo era il migliore, quindi lo lasciò al suo lavoro, decidendo invece di compiere ancora una volta il giro del ciglio roccioso, per controllare le disposizioni che aveva dato e accertarsi che esistesse una via di scampo nel caso l'attacco fallisse. Sarah li avrebbe attesi con i cavalli in una gola invasa dalla sterpaglia, ben lontana dal combattimento, ma abbastanza vicina se tutto fosse volto al peggio, costringendoli alla fuga. Quando tornò all'imboccatura del camino di roccia, scoprì che Aboli aveva già finito di sistemare l'esplosivo e si stava facendo issare di nuovo. «Ho innescato tre micce separate nel caso che una non funzioni», disse a Tom, indicando i lunghi serpenti bianchi lungo la parete rocciosa. «Duecentocinquanta libbre», osservò Tom con un sogghigno. «Questo dovrebbe bastare a fargli spalancare gli occhi e ballare i denti nelle gengive.» Wilbur Smith
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Tornarono indietro sul terreno scosceso per raggiungere un punto di osservazione dal quale potevano seguire l'avanzata della carovana che si stava avvicinando. Avvistarono la nube di polvere prima di vedere la colonna vera e propria, in mezzo agli alberi della rada foresta di miombo. Tom studiò la testa della fila attraverso il cannocchiale, ma senza scorgere cambiamenti nella velocità o nella composizione della colonna. Gli schiavi continuavano a marciare in fila per tre o per quattro, con le catene che penzolavano tintinnando, gli arabi continuavano a sorvegliarli ai fianchi e il capocarovana con il turbante azzurro continuava a cavalcare in testa. «Non si sente cantare», notò Aboli. Tom si rese conto che era vero; in passato avevano sentito sempre cantare gli schiavi. «Questo dev'essere un gruppo mesto», borbottò. «I negrieri non usano la frusta», aggiunse Aboli. «Inventa un'altra scusa ingegnosa anche per questo, Klebe.» Tom si sfregò la gobbetta sul naso rotto. «Ci siamo appena imbattuti negli unici musulmani teneri di cuore dell'Arabia. Stai sprecando fiato, Aboli, e mettendo a dura prova la mia pazienza. Questa carovana è mia, e la voglio.» Il nero si strinse nelle spalle. «Non è colpa tua, Klebe. Tuo padre era un uomo ostinato, come tuo nonno prima di lui. Lo avete nel sangue.» «Secondo te si accamperanno all'imbocco del passo, per questa notte, o lo affronteranno subito?» chiese Tom, preferendo cambiare argomento. Aboli valutò l'altezza del sole. «Se affrontano subito il passo, farà buio prima che riescano a superarlo.» «L'oscurità è propizia ai nostri piani.» «Ora metti via quel pezzo di vetro, Klebe. Sono vicini, e l'angolazione del sole potrebbe riflettere la luce sino a loro, facendo scattare la trappola prima del tempo.» Dorian tirò le redini del pomellato grigio, fermandosi per osservare l'imboccatura del passo che si apriva in modo graduale, con i fianchi che diventavano sempre più profondi e ripidi con l'aumentare dell'altitudine. Ricordava perfettamente quel terreno, perché ne aveva memorizzato i rischi la prima volta che lo aveva attraversato. Era il luogo ideale per un'imboscata: sentì correre un brivido lungo la schiena, una premonizione di pericolo della quale aveva imparato a fidarsi. «Batula», chiamò. «Prendi con te due uomini e scendi lungo il passo per ispezionare il terreno.» Era Wilbur Smith
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quello che avrebbe fatto qualunque capocarovana prudente. «Devi dare l'impressione di cercare alcune tracce, ma, se dovessi scoprirle, non lanciare l'allarme. Torna da me; però, prima di raggiungermi, grida a gran voce che la strada è libera ed è tutto tranquillo.» Batula abbassò la punta della lancia, inoltrandosi nel passo prima di scomparire oltre la prima curva. Dorian smontò, anchilosato dalle molte ore trascorse in sella, e la lunga colonna alle sue spalle si fermò, mentre gli schiavi deponevano il carico per stendersi a terra. Il piccolo schiavo Yassie innalzò un parasole per il principe e attizzò con un soffio i carboni ardenti custoditi nel braciere di rame che portava appeso dietro la sella. Quando la fiamma divampò, vi pose sopra la caffettiera e, non appena il caffè cominciò a gorgogliare, ne riempì una tazzina, inginocchiandosi per offrirla al suo padrone. «Resta vicino a me, quando comincerà il combattimento», le sussurrò Dorian. «In nessun caso devi impugnare un'arma o fare gesti bellicosi. Se sarai minacciata da un nemico, gettati per terra e invoca pietà. Se ti catturano, non lasciar capire che sei una donna, altrimenti ti useranno come tale.» «Sarà fatto, padrone. Ma con te al mio fianco non ho paura di nulla.» «Sappi che ti amo, mia cara, e ti amerò sempre.» «Come ti amo io, padrone.» Li interruppe un grido che proveniva dal passo. «La strada è libera! Tutto è tranquillo!» Alzando la testa, Dorian vide Batula scrollare la lancia, con lo stendardo azzurro che garriva al vento. Allora risalì in sella, alzandosi sulle staffe per dare l'ordine di riprendere la marcia. Non occorreva altro, perché ognuno degli uomini sapeva qual era il suo posto e il suo compito. La carovana riprese la lenta marcia, addentrandosi nel budello di roccia rossa. Le pareti di pietra si chiusero su di loro. Quella era un'antica via degli elefanti, tanto che, col passare del tempo, i cuscinetti delle zampe dei vecchi pachidermi avevano levigato il fondo della roccia. Dorian si strinse meglio intorno al viso il lembo del turbante azzurro e, senza chinarsi in avanti per non dare nell'occhio, esaminò il terreno in cerca di tracce recenti del passaggio dei predoni. La roccia era pulita, ma ciò non significava granché: erano uomini pericolosi, e non sarebbero stati così disattenti da lasciare tracce sul loro cammino. A mano a mano che il sentiero si restringeva, le file di schiavi e di Wilbur Smith
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guardie furono costrette ad accalcarsi, sino a marciare fianco a fianco, sfiorandosi. La colonna era silenziosa e nessuno cantava, perché gli arabi non erano in grado d'imitare la cadenza e il ritmo dell'Africa selvaggia. Dorian vide un movimento rapido in cima alla parete del passo, un lampo grigio, e si sentì battere il cuore più forte, ma poi si accorse che era soltanto una minuscola antilope. La bestiola rimase in equilibrio precario sulla cima di un masso, con i quattro zoccoli riuniti, le coma erette e le orecchie tese, osservando gli uomini ai suoi piedi con i grandi occhi colmi di stupore. A metà del pendio la salita si faceva ripida, mentre il passo era stretto tra due alti portali di roccia rossa, corrosa dal tempo e dalle intemperie, prima di cominciare a scendere verso la pianura con una rampa di gradini naturali. Dorian smontò di sella, conducendo per le briglie la giumenta pomellata per evitare che scivolasse su quel terreno infido. Dal fondo, guardò indietro verso la sommità e avvertì una subitanea apprensione nel vedere i suoi uomini in una situazione tanto rischiosa: erano intrappolati nel budello di pietra, così serrati tra le due pareti che sarebbero riusciti a stento a sguainare una spada o a puntare un fucile. Allontanò il cavallo dal sentiero per addossarsi alla parete, lasciando passare davanti a sé le file di schiavi e di guardie; poi frugò con gli occhi le pareti ai lati del passaggio, cercando un bagliore metallico o il movimento di una testa umana sullo sfondo del cielo. Non vide nulla; ormai metà della colonna stava scendendo la scala di pietra. La seconda metà della carovana, invece, cominciava a serrare le file per passare attraverso quei portali di roccia rossa. «Dev'essere adesso.» In quel momento, erano in trappola. Si volse per guardare Yassie, che si era fermata dietro di lui, allontanando anche lei il cavallo dal sentiero. Si era incuneata contro un grosso macigno per lasciar passare gli uomini. Dorian volse di nuovo lo sguardo al cielo. Un avvoltoio di un nero funereo, con la testa rossa calva e il becco adunco, osservava la massa di uomini, continuando a girare in cerchio. Pazienza, sordida creatura, pensò cupamente Dorian. Oggi ti offriremo un banchetto capace di saziare persino la tua avidità di carne umana. Prima che potesse completare quel pensiero, l'aria investì i suoi timpani con tale violenza da farlo barcollare all'indietro. Gli parve che una tenaglia enorme si fosse chiusa intorno al suo petto, mentre la roccia sussultava e Wilbur Smith
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tremava sotto i suoi piedi. Vide una colonna di fumo, polvere e frammenti di roccia rossa schizzare in alto, fino all'avvoltoio che roteava nel cielo. Poi la terra si squarciò e la fortezza di roccia si spaccò in due. La parete di roccia rabbrividì, prima di ripiegarsi lentamente, afflosciandosi all'esterno. Il movimento fu così lento che lui ebbe il tempo di pensare mentre la guardava. Polvere nera! Avrei dovuto intuirlo. Hanno fatto saltare in aria il bastione del passo! La parete di roccia accelerò la caduta, cominciando a brontolare, stridere e rombare. Le urla degli uomini travolti dalla sua caduta risultavano fioche, al confronto. La roccia si abbatté su di loro, soffocando in un istante le loro inutili invocazioni a Dio. Con il passo bloccato, la lunga carovana era rimasta tagliata in due, come un pitone troncato da un colpo di spada. Aggrappato al collo del suo cavallo, con le orecchie che gli ronzavano e i sensi in subbuglio, Dorian vide le prime ondate di frecce abbattersi sui suoi uomini come nubi di cavallette, mentre salve di fucile partivano dalle pareti del passo. Il fumo sprigionato dalla polvere da sparo riempiva l'aria calda e immobile di una fitta nebbia, per cui udiva soltanto i colpi dei proiettili, che bersagliavano pietre e carni vive come una grandinata letale. Più di cento dei suoi uomini erano rimasti schiacciati sotto la valanga di roccia. Meno di cinquanta erano riusciti a sfuggire alle rovine fumanti; il resto delle forze era lontano dal suo comandante. In un attimo, intuì che gli aggressori avevano assunto il controllo della situazione, e capì che stavano per lanciare la carica in modo da portare a termine quel sanguinoso lavoro che avevano cominciato così bene. Issandosi in sella, sguainò la scimitarra. Batula era rimasto separato da lui, ma questo aveva poca importanza, perché gli sarebbe stato impossibile usare la lancia: al momento dell'attacco dei fisi, avrebbero dovuto battersi con la spada e il pugnale. I falsi schiavi si erano gettati a terra, secondo gli ordini ricevuti, e, mentre si rannicchiavano sul pavimento di pietra, fingendosi in preda al terrore, in realtà sganciavano le catene ed estraevano le armi dagli involti che avevano portato sulla testa. Stando in sella, vide i fisi balzare allo scoperto e lanciarsi all'impazzata dalle pareti ripide del passo, uomini neri con il gonnellino di piume che usavano in guerra, armati di scudi leggeri di cuoio, che balzavano da una roccia all'altra, lanciando selvagge grida e impugnando lance corte e pesanti bastoni da combattimento. Poi, con immenso stupore, Dorian vide Wilbur Smith
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un bianco all'avanguardia, e poi un altro e ancora un terzo. «Allah è grande!» ruggì. E gli arabi seminudi e accovacciati balzarono in avanti per affrontare l'attacco, la scimitarra in mano, rispondendo al suo grido: «Allah è grande! Allah akbar!» Dorian spronò il cavallo per raggiungere una posizione tale da dominare il campo di battaglia, ma un pesante proiettile di fucile colpì il pomellato grigio alla spalla con un tonfo sordo, facendolo ruzzolare in un groviglio di zampe scaldanti e finimenti che volavano da tutte le parti. Dorian si liberò con un balzo, atterrando agilmente in piedi. Tutt'intorno regnava un frastuono assordante, ma in quel clamore gli arrivò all'orecchio una voce sola, nitidissima. «Addosso, ragazzi! Dategli addosso a questi bastardi pagani!» Era una voce inglese, venata dalla cadenza piena e sonora del Devon, e colpì Dorian più dell'esplosione. «Inglesi!» Erano molti anni che non sentiva parlare quella lingua, ma d'improvviso tutti quegli anni furono spazzati via. Quelli erano suoi compatrioti. Si sentì risucchiare in un turbine di emozioni contrastanti, guardandosi attorno in cerca di un modo per porre fine al combattimento, per salvare la vita ai suoi uomini e ai suoi compatrioti, schierati gli uni contro gli altri. Ormai, però, la lancia di guerra era partita e non c'era modo di deviarne la traiettoria. Cercò con gli occhi Yassie, rimasta al riparo del macigno. Fu lei, invece, a lanciare un avvertimento con voce acuta, indicandogli un punto alle sue spalle. «Dietro di voi, signore!» Giratosi di scatto, Dorian si predispose ad affrontare l'uomo che lo assaliva alle spalle: era un tipo robusto, con le spalle larghe, il naso rotto e una barba scura e cespugliosa sul viso abbronzato dal sole. Tuttavia c'era qualcosa nei suoi occhi, in quello scintillio verde, che toccò una corda profonda nella memoria di Dorian. Quello però non era il momento per abbandonarsi a certe sensazioni, perché l'uomo già lo stava aggredendo, con una prontezza e un sangue freddo da vero guerriero. Dorian parò il primo assalto, così potente da fargli vibrare il braccio destro fino alla spalla. Si slanciò subito in una risposta fluida e aggraziata, e l'inglese lo affrontò accogliendo la lama in alto, sulla sua linea naturale, e attirandola nel classico legamento prolungato, facendo roteare le due lame insieme finché l'acciaio non cominciò a cantare. Wilbur Smith
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In quell'istante, Dorian comprese tre cose: che l'inglese tirava di spada meglio di qualunque altro avversario che avesse mai incontrato; che, se avesse tentato di liberarsi da quel legamento, sarebbe stato un uomo morto, e che conosceva la spada che aveva intrappolato la sua. L'ultima volta che l'aveva vista era appesa al fianco del padre, sul cassero della vecchia Seraph. L'acciaio azzurro e gli intarsi in oro scintillavano, abbagliando lo sguardo: era inconfondibile. Poi l'avversario parlò per la prima volta, con la voce appena velata dallo sforzo che sosteneva per tenere sotto controllo la lama di Dorian. «Andiamo, Abdullah, lascia che ti tagli un altro pezzetto di pelle!» Parlava in arabo, ma Dorian riconobbe la voce. «Tom!» avrebbe voluto gridare, ma il trauma era stato così violento che la voce gli morì in gola prima che il suono arrivasse alle labbra. I muscoli del braccio destro cedettero, e lui abbassò la punta della spada. Nessun uomo poteva permettersi di abbassare la punta della spada quando Tom Courteney l'aveva intrappolata nel legamento prolungato: il colpo mortale arrivò, fulmineo come un lampo in un sereno cielo estivo. All'ultimo momento, Dorian si spostò lateralmente, deviando la mira del fratello di un'inezia, ma poi sentì il colpo, nella parte destra del torace, e la lunga lama d'acciaio che gli affondava nelle carni. La scimitarra sfuggì dalle sue mani inerti, mentre lui cadeva in ginocchio con la lama ancora conficcata nel corpo. «Tom!» Tentò di nuovo di gridare quel nome, ma senza suono. L'altro arretrò, sfilandogli la lama dal petto con un lieve risucchio, come un neonato che si stacca dalla mammella della madre. Dorian cadde bocconi, mentre Tom lo scavalcava, puntando la lama in basso per dargli il colpo di grazia; ma, prima che potesse vibrare il colpo mortale, qualcosa di fragile e minuto si scagliò tra loro, coprendo il corpo del ferito con un gesto protettivo. «Accidenti a te!» gridò Tom, ma trattenne il colpo. «Togliti di mezzo!» Il ragazzo che usava il proprio corpo come scudo era quasi un bambino, e quel sacrificio colpì e commosse Tom, nonostante la foga del combattimento. Avrebbe potuto ucciderli entrambi, trapassandoli da parte a parte, ma non seppe decidersi a farlo. Indietreggiando di un passo, tentò di staccare con un calcio il ragazzo dal corpo disteso del capo arabo, ma il piccolo restava aggrappato al suo padrone come un'ostrica alla roccia, lanciando grida pietose in arabo: «Pietà! In nome di Allah, pietà!» Wilbur Smith
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Aboli lanciò un grido di avvertimento: «Alle tue spalle, Klebe!» e Tom si girò di scatto, sollevando la spada per fronteggiare l'assalto di due uomini seminudi. Per un attimo, pensò che fossero schiavi miracolosamente liberati dalle catene, che lo attaccavano con scimitarre prese chissà dove. Poi si accorse che i loro lineamenti non erano negroidi, bensì arabi. Per Giove! si disse. Questi non sono schiavi, ma guerrieri musulmani. Parò colpi a destra e a sinistra, tenendoli a bada entrambi, poi ne uccise uno e allontanò l'altro con un fendente alla spalla nuda. «È una trappola, Klebe!» ruggì di nuovo Aboli, e Tom ebbe un attimo solo per guardarsi attorno: tutti i presunti schiavi erano liberi dalle catene e armati. I lancieri lozi cominciavano già a ripiegare sotto il loro attacco, per darsi quasi tutti alla fuga, arrampicandosi sulle pareti della gola, in preda alla confusione. Poi, vedendo un razzo cinese rosso levarsi in cielo con un lungo pennacchio di fumo bianco, in testa alla colonna, Tom capì che doveva essere un segnale per invitare i rinforzi arabi a piombare su di loro. Dalla sommità della parete di roccia rossa che bloccava la parte posteriore del passo, si riversò un'altra orda di musulmani, alcuni con la lunga veste bianca, altri in perizoma, tutti ansiosi di unirsi alla battaglia. Aboli e il suo piccolo gruppo di marinai inglesi erano già inferiori numericamente; entro pochi minuti sarebbero stati circondati e sopraffatti da quella nuova ondata di guerrieri. «Via, Klebe! Ormai tutto è perduto. Vieni via!» «A me!» ruggì Tom. «Centaurus, a me!» Chiamò a sé tutti gli altri, anche Alf Wilson e Luke Jervis, che dovettero superare le file nemiche per correre al suo fianco. Insieme con Aboli e gli altri marinai, formarono un circolo di lame d'acciaio, ritirandosi nella formazione che si erano esercitati tante volte ad assumere. Con il capo fuori combattimento, gli arabi sembravano d'un tratto indecisi e restii a spingersi troppo avanti. Non appena raggiunse il punto ai piedi della parete di roccia da cui si poteva cominciare a ripiegare, arrampicandosi sulla parete rocciosa, Tom gridò: «Via, ragazzi! Ognuno per sé, e il diavolo si pigli chi resta indietro!» Si arrampicarono faticosamente, passando da un appiglio all'altro, sudando, ansimando e imprecando. Prima che raggiungessero la cima, gli arabi in basso avevano ritrovato una parvenza di ordine e cominciavano a sparare le prime salve di fucile, che s'infrangevano contro le rocce intorno a loro, facendo piovere una pioggia di frammenti di roccia e rimbalzando Wilbur Smith
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con un ronzio fastidioso. Uno dei marinai inglesi fu colpito al dorso da una pallottola e s'inarcò, mollando la presa e poi scivolando giù, con il volto contro la parete. Lanciando un'occhiata in basso, Tom vide gli arabi gettarsi sul corpo e farlo a pezzi non appena arrivò in fondo. «Non c'è più niente da fare per il povero Davie. Continuate a scalare», grugnì. Tom e Aboli superarono insieme la sommità della parete, trovandosi finalmente al riparo dal fuoco che infuriava in basso. Fecero una pausa per riprendere fiato e chiamare a sé gli altri. Aboli grondava sudore dal viso tatuato e, quando guardò Tom, scosse la grossa testa calva: non c'era bisogno di parole per esprimere con eloquenza quello che sentiva. «Non dirlo, Aboli. Mi Hal dimostrato ancora una volta di essere saggio al pari di Dio, anche se un po' più vecchio e non altrettanto bello.» Il giovane si lasciò sfuggire una risata incerta, ancora ansimante. «Andiamo, ragazzi. Torniamo ai cavalli.» Sarah li custodiva in mezzo alla fitta vegetazione della gola; le bastò dare un'occhiata ai loro volti, mentre tornavano alla spicciolata, trascinandosi dietro due feriti, per capire la situazione e non fece domande. Quasi tutti avevano qualche taglio da cui perdevano sangue, ed erano tutti esausti e sudati. Non c'erano cavalli sufficienti, quindi Tom sollevò Sarah, issandola sulla sella dietro di sé, mentre Luke portava uno dei feriti e Alf Wilson l'altro; gli altri marinai si aggrapparono alla staffa di qualcuno, facendosi trascinare lungo la strada per il sud. I guerrieri lozi si erano dileguati da tempo nel bush. «Ci siamo tirati addosso una tempesta. Ora ci manderanno dietro un esercito», osservò Aboli. «I tempi di Fort Providence sono finiti», ammise Tom, seguendolo a tutta velocità. «Grazie a Dio, la Centaurus non ha carichi da trasportare. Le acque del fiume sono basse, di questi tempi, ma la nave ha un pescaggio ridotto e potremo andarcene scendendo la corrente, prima che i musulmani possano raggiungerci.» Dorian rimase disteso là dov'era caduto, nella strettoia del passo. Ben Abram, il vecchio medico, non permise a nessuno di spostarlo prima di avergli applicato una compressa sul torace, legandola stretta per frenare l'emorragia. «Il colpo ha mancato il cuore e il polmone», sentenziò con Wilbur Smith
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aria tetra, «ma lui corre lo stesso un pericolo mortale.» Improvvisarono una lettiga con due lance e il lembo di una tenda, poi otto uomini lo trasportarono con cautela attraverso il caos del campo di battaglia, dove altri feriti giacevano, invocando un sorso d'acqua. Yasmini camminava a fianco della lettiga, con il volto coperto dal lembo del turbante per soffocare i singhiozzi e nascondere le lacrime. Raggiunto il boschetto vicino alla pozza del fiume, alla base della parete, i senatori avevano già recuperato dai bagagli la tenda del principe, montandola in gran fretta. Deposero al-Salil sul suo letto, circondandolo di cuscini di seta. Ben Abram gli somministrò una pozione di papavero, facendolo scivolare in un sonno inquieto. «Non morirà, vero?» disse Yasmini a Ben Abram, in tono implorante. «Vi prego, vecchio padre, ditemi che non morirà.» «È giovane e forte. Con l'aiuto di Dio, vivrà, ma ci vorrà molto tempo perché si riprenda e riacquisti l'uso del braccio destro.» «Io resterò al suo fianco e non avrò riposo fino a quel momento.» «Lo so, piccola mia.» Meno di un'ora dopo, si levarono voci all'esterno della tenda, e Yassie uscì come una furia per proteggere il suo signore e scacciare gli intrusi; ma persino nello stato in cui era, sotto l'azione del sonnifero, Dorian riconobbe le voci di Bashir al-Sind e Batula. «Falli entrare», ordinò con un filo di voce, e Yassie dovette tirarsi in disparte. Bashir entrò, inchinandosi. «Potente sceicco, invoco su di voi la protezione di Allah.» «Che cosa mi dite dei nemici?» «Siamo venuti non appena abbiamo visto il razzo, ma era troppo tardi. Erano già fuggiti.» «Quanti nemici sono rimasti uccisi?» «Molti kaffyr neri, e tre infedeli stranieri.» «Per caso uno degli infedeli era un uomo alto e robusto, con la barba nera?» Al-Sind scosse la testa. «No, nessuno. Due erano magri e piccoli di statura, e l'infedele più alto aveva la barba grigia.» Dorian provò un impeto di sollievo. Tom era riuscito a fuggire. Poi intervenne Batula, senza essere interrogato, parlando in tono brusco e ansioso. «Signore, ho seguito le tracce di quei fisi che sono fuggiti dal campo di Wilbur Smith
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battaglia. Avevano cavalli nascosti poco lontano e sono diretti a sud. Si spostano in fretta, ma dateci l'ordine e li seguiremo.» Al-Sind, altrettanto ansioso, aggiunse: «Al-Salil, ho mille uomini pronti e già in sella, impazienti di braccarli. Attendo solo il vostro ordine e poi, per Allah, nessuno di loro avrà scampo». «No!» L'esclamazione sfuggì dalle labbra di Dorian come un grido di dolore, tanto che al-Sind batté le palpebre di fronte alla veemenza di quel rifiuto. «Perdonate la mia impertinenza, grande e potente signore, ma non capisco. Il fulcro dei vostri piani era che inseguissimo quei banditi infedeli.» «Non dovete inseguirli, ve lo proibisco.» Dorian fece appello a tutte le forze che gli erano rimaste per conferire vigore a quell'ordine. «Se non li inseguiamo subito, la faranno franca!» Vedendosi soffiare l'occasione di gloria sulla quale contava, al-Sind lanciò un'occhiata in tralice a Ben Abram. «Forse la gravità della ferita ha appannato la vostra capacità di giudizio, signore.» Dorian si sforzò di sollevarsi su un gomito. «In nome di Allah, vi giuro che, se non vi atterrete agli ordini, infilzerò la vostra testa sulla punta della mia lancia e seppellirò il vostro corpo avvolto in una pelle di maiale!» Seguì un lungo silenzio, che Bashir interruppe, dicendo a bassa voce: «Il potente signore al-Salil è disposto a ripetere questi ordini di fronte agli alti ufficiali del comando, in modo che possano testimoniare che non è stata la codardia a impedirmi di proseguire l'attacco mentre il nemico fuggiva sconfitto?» I quattro ufficiali di grado più alto entrarono nella tenda e Dorian ripeté l'ordine davanti a loro, congedandoli subito dopo. Quando Bashir fece per seguirli, Dorian lo trattenne. «In questa storia ci sono questioni troppo profonde perché possa spiegarvele, Bashir. Perdonatemi se ho dato l'impressione di trattarvi con scarsa considerazione. Sappiate solo che godete ancora di grande favore da parte mia.» Al-Sind s'inchinò, sfiorandosi il cuore e le labbra, ma l'espressione rimase fredda e altezzosa mentre usciva dalla tenda, e lo udirono impartire con voce irosa alle sue truppe l'ordine di smontare da cavallo. Dorian diede l'impressione di scivolare in un sonno profondo. Nella tenda regnava un silenzio greve, mentre Yasmini gli asciugava il sudore dalla fronte con un panno umido. Molto tempo dopo, Dorian si riscosse, Wilbur Smith
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aprendo gli occhi, e guardò prima lei, poi Ben Abram. «Siamo soli?» domandò. Quando annuirono entrambi, mormorò: «Venite più vicino, vecchio padre, ci sono molte cose che devo dirvi». Vedendo Yasmini alzarsi per uscire dalla tenda, le posò una mano sul braccio per trattenerla. Non appena furono entrambi chini su di lui, mormorò: «L'uomo che mi ha colpito è mio fratello. È per questo che non ho potuto lanciare sulle sue tracce al-Sind». «Ma com'è possibile, Dowie?» Yasmini lo fissò negli occhi. «Sì», rispose per lui Ben Abram. «Conosco questo fratello, ed è possibile.» «Spiegatele voi, vecchio padre. Mi riesce faticoso parlare. Ditele tutto.» Ben Abram rimase un momento in silenzio per raccogliere le idee, poi cominciò a parlare piano, per evitare che qualcuno all'esterno della tenda potesse sentirlo, raccontando a Yasmini come Dorian fosse stato catturato da bambino e venduto schiavo, e come al-Malik lo avesse riscattato dai pirati e adottato. «Ho incontrato di persona questo fratello di al-Salil. Ho imparato a conoscerlo bene sull'isola, quando ha distrutto il covo dei pirati. Si chiama Tom. Sono stato suo prigioniero, ma mi ha liberato, inviandomi con un messaggio da al-Salil. Prometteva che non avrebbe mai cessato di cercarlo, e che un giorno lo avrebbe trovato per liberarlo.» Yasmini guardò Dorian, per avere la conferma di quel racconto, e lui annuì. «Allora perché non ha tenuto fede al giuramento di liberarti, questo tuo fratello così leale?» gli chiese lei. Dorian assunse un'espressione avvilita. «A questo non so trovare una risposta», ammise. «Mio fratello Tom non è mai stato uomo da prendere alla leggera un giuramento. Immagino che, alla fine, mi abbia semplicemente dimenticato.» «No», disse Ben Abram. «C'è qualcosa che non Hal mai saputo e che non potevo dirti. Tuo fratello è venuto a Zanzibar a cercarti, ma il principe al-Malik non voleva rinunciare a te, così ha inviato il mullah al-Allama con un messaggio per tuo fratello. Gli ha fatto dire che al-Amhara era morto di peste e che avevano messo una lapide al cimitero con il tuo nome sopra.» «È stato quando mio padre mi ha cambiato nome, dandomi quello di alWilbur Smith
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Salil, vero?» La voce di Dorian acquistò forza e asprezza, mentre cominciava a capire. «Era per nascondere le verità a Tom. Non c'è da stupirsi se mio fratello ha rinunciato a cercarmi.» Chiuse gli occhi, restando in silenzio. Yasmini credeva che fosse entrato in coma, poi vide una lacrima sfuggire dalle palpebre chiuse. Si sentiva il cuore traboccare di pietà per lui. «Che cosa farai, amor mio?» domandò, accarezzandogli la testa di oro rosso. «Non lo so. È tutto così crudele. Ho l'impressione che una spada mi divida l'anima in due.» «Ormai sei un figlio dell'Islam», gli rammentò Ben Abram. «Potresti mai ritornare alle tue origini?» «Tuo fratello crederebbe che sei vivo, quando per lui sei morto da tanti anni?» disse Yasmini. «E tu potresti abbracciarlo, ora che è un nemico giurato di tuo padre, il califfo al-Malik, del tuo Dio e del tuo popolo?» insistette il medico. Non sapendo dare risposte a nessuno dei due, Dorian girò il volto verso la parete di cuoio della tenda per cercare rifugio nella debolezza della ferita. Yasmini non si staccò mai dal suo fianco, mentre lui scivolava a tratti nell'incoscienza, tormentato dal dolore fisico e dall'intensità dei sentimenti che gli straziavano il cuore, minacciando di lacerarlo. L'esercito rimase inattivo per giorni e giorni nell'accampamento, ai piedi della parete rocciosa del passo, mentre lo sceicco restava rinchiuso nella sua tenda. Sotto la guida di Bashir, raccolsero i feriti, costruendo ripari all'ombra degli alberi, dove Ben Abram li assistette; seppellirono i morti, lasciando indisturbati quelli che erano già sepolti sotto la roccia rossa della valanga; ripararono tutto ciò che era stato danneggiato e affilarono le armi. Poi rimasero in attesa di ordini che non venivano. Bashir al-Sind si aggirava furioso per il campo, sfogandosi contro chiunque incrociasse, e gli uomini condividevano la sua frustrazione. Ardevano dal desiderio di vendicare i compagni morti nella strettoia del passo, tuttavia non potevano muoversi senza l'ordine di al-Salil. Nel campo cominciarono a circolare brutte voci: che Bashir si era ammutinato, sottraendo il comando allo sceicco sofferente; che il principe era morto; che era fuggito in gran segreto durante la notte, abbandonandoli Wilbur Smith
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al loro destino. Poi si sparse fra le truppe un'altra voce, assai più strana, e cioè che, dalla costa verso l'interno, stesse marciando un'altra grande spedizione militare sotto il comando di un principe della casa reale di Oman, che avrebbe dovuto unirsi alla loro; in tal modo, una volta congiunte le forze, avrebbero potuto finalmente inseguire gli infedeli fino alla loro base segreta. Quella voce aveva appena cominciato a circolare che udirono in lontananza un suono di tamburi di guerra, da principio così sommesso che pareva il battito del loro cuore. I soldati arabi si affollarono sulla sommità del passo per osservare la pianura, eccitati dal suono del corno di ariete, e di lì videro avvicinarsi un esercito imponente, con un gruppo di alti ufficiali che marciavano in testa. Quando gli sconosciuti entrarono nell'accampamento, i soldati si raccolsero intorno a loro, intimoriti e soggiogati. L'ufficiale che comandava il drappello indossava un'armatura leggera di stampo turco, più che arabo, con l'elmo rotondo sovrastato da un aculeo e la nuca protetta da una falda imbottita. Dall'alto della sua cavalcatura, quel nobile personaggio arringò i soldati con voce stentorea. «Io sono il principe Ibn al-Malik Abubaker. Uomini di Oman, coraggiosi e leali soldati, vi porto un triste annuncio. Abd Muhammad al-Malik, mio padre e vostro califfo, è morto nel palazzo di Muscat, colpito nel fiore dell'età dalla spada dell'angelo nero.» Un gemito si levò dai soldati, molti dei quali avevano combattuto a Muscat per insediare al-Malik sul Trono dell'Elefante. Avevano amato il califfo, e caddero in ginocchio, gridando: «Possa Allah avere misericordia della sua anima!» Abubaker lasciò loro il tempo di dare sfogo al dolore, prima di alzare una mano guantata per imporre il silenzio. «Soldati del califfo, vi porto i saluti del nuovo sovrano, Zayn al-Din, diletto figlio maggiore di al-Malik, che ora è il califfo. Mi ha incaricato d'invitarvi a giurargli fedeltà.» I soldati s'inginocchiarono, guidati da Bashir al-Sind, per prestare il giuramento di fedeltà, invocando Allah come testimone. Quando la cerimonia si concluse, il sole volgeva al tramonto e il principe Abubaker li lasciò liberi, convocando presso di sé al-Sind. «Dov'è quel codardo traditore di al-Salil?» gli domandò. «Ho affari urgenti da discutere con lui per conto del califfo.» Dorian udì l'annuncio della morte del padre adottivo mentre giaceva sul Wilbur Smith
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pagliericcio della sua tenda, perché la voce di Abubaker gli giungeva nitida attraverso la parete di cuoio. Ebbe l'impressione che tutte le fondamenta della sua vita crollassero, una alla volta, ma si sentiva troppo debole e malato per affrontare quel tracollo. Poi sentì nominare Zayn al-Din e, apprendendo la notizia della sua ascesa al Trono dell'Elefante, si rese conto che la sua situazione era peggiore di quanto avesse immaginato. Con uno sforzo enorme, cercò di respingere dalla mente il dolore per la morte del padre e la sofferenza fisica, prendendo la mano di Yasmini per attirarla vicino al suo letto. Era scossa anche lei per la morte di al-Malik, ma non quanto Dorian, perché conosceva a stento il padre, e si riscosse subito quando lui le disse: «Ci troviamo in grave pericolo, Yasmini. Ora siamo alla mercé di Zayn. Non c'è bisogno che ti spieghi che cosa significa, perché Kush era un santo, in confronto a nostro fratello». «Come possiamo sfuggirgli, se tu non puoi muoverti, Dowie? Che possiamo fare?» Lui le spiegò che cosa doveva fare per loro, parlando sottovoce e in tono incalzante e costringendola poi a ripetere ogni istruzione. «Ti darei una lettera, ma con questo braccio non posso scrivere. Dovrai riferire il mio messaggio a voce, però devi impararlo bene a memoria, altrimenti non ti crederanno.» Yasmini aveva un ingegno pronto e, nonostante la confusione, imparò tutto a memoria al primo tentativo, anche se faceva fatica a pronunciare alcune delle parole che pronunciava Dorian. D'altronde non c'era il tempo di perfezionare il suo accento. «Può bastare, lui capirà. Ora devi andare!» le ordinò. «Non posso lasciarti, mio signore», insistette lei. «Se resti vicino a me, Abubaker ti riconoscerà. Se cadessi nelle sue grinfie, non saresti di aiuto a nessuno dei due.» Yasmini lo baciò con tenerezza e amore, poi si alzò per uscire, ma in quel momento si sentì un gran trambusto fuori della tenda, e lei si rintanò in un angolo, coprendosi la testa e le spalle con lo scialle. Poi il lembo della tenda si sollevò per lasciar entrare al-Sind. Ben Abram tentò d'impedire che si avvicinasse al giaciglio di Dorian. «Al-Salil è gravemente ferito e non dev'essere disturbato.» Al-Sind lo spinse da parte con un gesto sprezzante. «Vi annuncio il generale Abubaker, emissario del califfo», esclamò rivolto a Dorian, con Wilbur Smith
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un'espressione fredda e maligna. Dorian capì subito che aveva cambiato partito e non era più suo alleato. Alle sue spalle, entrò nella tenda Abubaker, piantandosi i pugni sui fianchi. «E così il traditore è ancora vivo. Bene! Al-Salil, che un tempo era al-Amhara, quando eravamo compagni di giochi nello zenana di Lamu», aggiunse con un ghigno sarcastico, «sono venuto per portarti al cospetto del califfo, a rispondere del reato capitale di alto tradimento. Ci metteremo in marcia per raggiungere la costa domani all'alba.» Ben Abram intervenne di nuovo. «Nobile principe, è impossibile spostarlo. La ferita è grave e metterebbe in pericolo la sua stessa vita.» Abubaker si avvicinò al letto, guardando dall'alto Dorian. «Una ferita, dite. Come posso avere la certezza che non stia simulando per viltà?» Con un gesto improvviso, afferrò la fasciatura che copriva il tampone sul petto di Dorian, strappandola in modo brutale. La crosta di sangue che si era appena formata sulla ferita aderiva alla benda, e, quando venne via, Dorian si lasciò sfuggire un sibilo, irrigidendosi per il dolore atroce. Il sangue riprese a scorrere dalla ferita. Yasmini, nell'angolo della tenda in cui si era rifugiata, gemette, ma nessuno si accorse di lei. «Non è che un brutto graffio», sentenziò Abubaker, fingendo di esaminare la ferita aperta. «Non è sufficiente perché il traditore si sottragga alla giustizia.» Afferrando per i capelli Dorian, lo trascinò via dal letto. «In piedi, porco traditore», ordinò. Poi, sempre tenendolo per i capelli, si rivolse a Ben Abram: «Vedete, dottore, com'è forte il vostro paziente. Vi stava ingannando. Non ha niente di grave». «Nobile principe, non sopravvivrà a un simile trattamento, né alla lunga marcia verso la costa.» «Vecchio caprone rimbecillito, se muore prima che raggiungiamo la costa, vi taglierò la testa. Facciamo conto che sia una piccola gara tra voi e me.» Abubaker sorrise, scoprendo i denti irregolari. «Voi dovete fare del vostro meglio per mantenere in vita al-Salil, mentre io, da parte mia, farò del mio meglio per ucciderlo poco alla volta. Vedremo chi vincerà.» Gettando di nuovo Dorian sul pagliericcio, si voltò per uscire dalla tenda, seguito da al-Sind. Yasmini si precipitò al fianco di Dorian, ma lui, pur avendo il viso stravolto dalla sofferenza, trovò la forza per mormorarle: «Ora va', donna. Non perdere altro tempo. Cerca Batula e prendete i cavalli».
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Tom e i suoi raggiunsero Fort Providence in tre giorni di viaggio, cavalcando senza soste e, non appena arrivati, cominciarono i preparativi per abbandonare l'insediamento. Aboli incaricò Fundi e tre dei suoi uomini di risalire a monte del fiume per andare a prendere la sua famiglia. «Non posso partire senza di loro», confessò a Tom. «E io non te lo avrei chiesto», rispose l'altro, «ma dovranno fare in fretta. Possiamo star certi che i musulmani c'inseguono da vicino.» Inviò alcuni picchetti a sorvegliare tutte le vie d'accesso, per avere un preavviso non appena si fossero presentati gli arabi. Poi, in tutta fretta, cominciarono a caricare la Centaurus per la navigazione sulle acque del Lunga. I cannoncini da nove libbre che erano disposti sulle piazzole lungo il recinto del fortino vennero riportati a bordo e montati sul loro affusto, in coperta. Non c'erano zanne d'elefante da trasportare, ma stivarono di nuovo sulla nave le merci di scambio che avevano portato con loro dal capo di Buona Speranza, all'inizio della stagione. Sarah radunò tutti i suoi tesori, caricando a bordo biancheria, piatti e posate, pentole, provviste di medicinali e libri. Tom provò a opporsi soltanto al trasporto del clavicembalo. «Te ne comprerò un altro», le promise, ma, quando vide la sua espressione, capì che stava sprecando fiato e le cedette malvolentieri due marinai perché lo trasportassero lungo la passerella, calandolo nella stiva. Stranamente, non c'era nessun indizio che facesse pensare a un inseguimento da parte degli arabi, al nord, il che spinse Tom a incaricare Aboli d'ispezionare i picchetti che sorvegliavano le piste per accertarsi che fossero vigili e ai loro posti. Quella calma era innaturale; prima o poi, la vendetta degli arabi avrebbe dovuto abbattersi su di loro. I giorni passarono e finalmente Fundi tornò a valle dal territorio dei lozi, portando con sé, su due canoe, Zete e Falla, insieme con i due ragazzi Zama e Tula e i nuovi nati, che Sarah prese sotto la sua ala protettrice. Tom inviò un messaggio urgente ad Aboli, pregandolo di riportare indietro con sé tutti i picchetti perché erano pronti per la partenza. Due giorni dopo, si udì il grido della sentinella sulla torre di guardia che sovrastava il forte. «Cavalieri in arrivo dal nord!» Tom si arrampicò per la scaletta con il cannocchiale in mano. «Dove?» chiese alla sentinella e, mentre l'uomo lo aiutava a mettere a fuoco il cannocchiale, Sarah salì al suo fianco. «Chi è?» domandò in tono ansioso. Wilbur Smith
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«È Aboli che torna con i picchetti.» Tom si lasciò sfuggire un fischio di sollievo e di soddisfazione. «E nessun segno d'inseguimento. A quanto pare, i musulmani ci hanno lasciati andare senza combattere. Lo credevo impossibile... Carica a bordo tutti i tuoi mocciosi. Salperemo lungo il fiume non appena arriverà Aboli.» Lei stava per scendere, quando lui la fermò con un altro fischio. «Aboli porta con sé anche due sconosciuti... Arabi, perdio. Prigionieri, si direbbe, visto che li ha legati. Se è riuscito a catturare due esploratori nemici, è probabile che possano dirci dove si trova il grosso delle loro forze.» Quando Aboli portò i prigionieri a bordo della Centaurus, Tom e Sarah erano già lì ad aspettarli. «Che pesciolini sono, questi che Hal catturato, Aboli?» chiese Tom, squadrandoli. A giudicare dall'abbigliamento erano arabi, e uno di loro era un guerriero, pericoloso, per giunta, mentre l'altro era uno scricciolo di ragazzo, con due grandi occhi scuri, timido e spaventato. «Una strana coppia», decise Tom, e il ragazzo parve rincuorato dal suo tono cordiale. «Effendi, voi parlate la mia lingua?» gli chiese timidamente, con una voce dolce e limpida. «Sì, ragazzo, parlo l'arabo.» «Vi chiamate Tom?» «Accidenti a te, ragazzino, come fai a saperlo?» E avanzò verso di lui con fare minaccioso, accigliandosi. «Calma, Tom!» lo fermò Sarah. «È una ragazza!» Tom fissò intensamente negli occhi Yasmini, poi scoppiò a ridere, strappandole il copricapo e liberando i lunghi capelli scuri, che le ricaddero sulle spalle. «È vero, ed è anche molto graziosa. Chi sei?» «Sono la principessa Yasmini e vi porto un messaggio da parte di Dowie.» «Di chi?» «Di Dowie.» Sembrava disperata. «Dowie! Dowie!» Lo ripeté più volte, con inflessioni diverse, mentre Tom continuava a scuotere la testa, perplesso. «Io credo che stia cercando di dire Dorry», intervenne Sarah, e l'espressione di Yasmini rivelò il sollievo. «Sì! Sì! Dowie! Dowie, vostro fratello.» Il viso di Tom si oscurò, invaso da un cupo rossore, fin quasi a diventare brutto. «Sei venuta qui a farti beffe di me? Mio fratello Dorry è morto, ormai da molti anni. Dove vuoi arrivare, sgualdrinella? È una trappola, per caso?» le gridò. Gli occhi di Yasmini si riempirono di lacrime, ma lei si drizzò con fierezza, cominciando a cantare. Da principio la voce era incerta e tremante, poi divenne più ferma, dolce e intonata. La Wilbur Smith
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ragazza, però, cantava con il tremolio tipico degli orientali, estraneo all'orecchio europeo, per cui la melodia risultava alterata e le parole sembravano una parodia della lingua inglese. La fissarono tutti con gli occhi sgranati, senza capire. Infine Sarah esclamò: «Tom, è Spanish Ladies! Sta tentando di cantare Spanish Ladies». Si slanciò in avanti per abbracciare Yasmini. «Dev'essere vero, Dorian è vivo e la canzone è il segnale che la ragazza viene da parte sua.» «Dorian! Possibile? Ma dov'è?» Tom afferrò Yasmini per le braccia, scrollandola con violenza. «Dov'è mio fratello?» La risposta fu un fiotto di parole ingarbugliate. Yasmini cominciava una frase prima di aver finito la precedente, balbettando per la fretta di dire tutto e lasciando fuori gran parte del messaggio, per cui doveva tornare indietro e ricominciare daccapo. «Dorry ha bisogno di aiuto», concluse Tom, afferrando l'essenziale, poi si rivolse ad Aboli. «Dorry è vivo, ma in una situazione molto pericolosa, e ci ha mandati a chiamare.» «I cavalli sono ancora sellati», rispose imperturbabile Aboli, con un cenno di assenso. «Possiamo partire subito.» Tom si girò di nuovo verso Yasmini, che continuava a parlare con Sarah in tono concitato. «Basta così, ragazza!» esclamò per interromperla. «Ci sarà tempo in seguito per raccontare il resto. Puoi accompagnarci da Dorry?» «Sì!» rispose lei, assentendo energicamente. «Batula e io possiamo portarvi da lui.» Tom si sporse dalla sella per dare un ultimo bacio frettoloso a Sarah, che, una volta tanto, non aveva insistito per accompagnarli. Da quel comportamento insolito e dal suo atteggiamento soddisfatto e reticente degli ultimi tempi Tom avrebbe dovuto capire che c'era qualcosa sotto, ma era così stravolto che non prestò attenzione a quei segnali. «Controlla che Alf Wilson faccia restare tutti a bordo, e al sicuro, perché al ritorno avremo una gran fretta, e può darsi che avremo alle calcagna mezzo esercito arabo!» Raccogliendo le redini, incitò il suo cavallo, guardandosi attorno in cerca degli altri. Yasmini e Batula si erano già messi in marcia, e si trovavano a metà del pendio della prima collina in riva al fiume. Luke Jervis e Aboli erano rimasti più indietro, aspettando che Tom li raggiungesse. Erano vestiti tutti Wilbur Smith
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da arabi e si portavano dietro un cavallo di riserva per ciascuno. Tom affondò i talloni nei fianchi della sua cavalcatura, salutando con la mano Sarah mentre prendeva lo slancio. «Torna sano e salvo!» gli gridò dietro Sarah, sfiorandosi delicatamente il ventre con una mano. Per raggiungere la colonna araba avevano impiegato quattro giorni, cavalcando senza soste e cambiando cavallo ogni ora, sfruttando anche il minimo barlume di luce, dall'alba fino al breve crepuscolo africano. Tom aveva cavalcato per tutto il tempo al fianco di Yasmini, parlando con lei fino ad avere la gola arida per la polvere e per il caldo. Lei gli aveva raccontato ciò che era accaduto a Dorian, da quando lo aveva conosciuto nello zenana fino all'arresto decretato da Abubaker pochi giorni prima. Stavolta il racconto era stato lucido e coerente, a tratti venato di umorismo e di pathos. In certi momenti, Tom aveva riso forte e in altri si era commosso fino alle lacrime. Yasmini gli aveva fatto capire che tipo d'uomo fosse diventato Dorian, e questo lo riempiva di orgoglio. Gli aveva parlato anche del loro amore, conquistandosi l'affetto e la simpatia di Tom, che era rimasto incantato dalla sua effervescenza e dalla sua natura solare. «E quindi adesso sarai la mia sorellina?» commentò infine, guardandola con tenerezza. «Mi fa piacere sentirvi dire così, effendi», disse lei di rimando, con un sorriso. «Mi rende molto felice.» «Se devo diventare tuo fratello, devi darmi del tu e chiamarmi Tom.» Quando lei gli ricordò la battaglia sul passo, spiegando che aveva colpito suo fratello, e per poco non aveva aggredito anche lei, Tom fu assalito dal rimorso. «Non si è mai fatto vedere in faccia! Come potevo saperlo?» «Lui capisce, Tom, e ti vuole ancora bene.» «Avrei potuto uccidervi tutt'e due. È stato come se una forza esterna mi avesse trattenuto il braccio.» «Le vie di Allah sono meravigliose, e non sta a noi discuterle», commentò la ragazza. Poi gli riassunse le complesse trame politiche della casa reale di Oman, spiegandogli come loro vi fossero rimasti coinvolti, e illustrando le conseguenze per Dorian dell'ascesa al trono di Zayn al-Din. «E così ora Abubaker vuole riportarlo a Muscat per fargli subire la vendetta di Zayn», concluse Yasmini, col viso impolverato tutto rigato di lacrime. Wilbur Smith
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Lui si protese per darle una pacca sul braccio, proprio come un fratello. «A questo provvederemo noi, Yasmini. Ti prego, non piangere.» Attraversando l'ampia pista lasciata dall'esercito arabo in marcia, arrivarono a scorgere la nube di polvere che sollevava al di sopra della foresta, poi mandarono in avanscoperta Batula, mentre gli altri si tenevano indietro, aspettando il calar della notte. Batula sarebbe riuscito a infiltrarsi nella massa di cavalieri velati senza attirare l'attenzione né destare sospetti. Tornò indietro lungo la pista proprio mentre il sole tramontava. «Dio sia lodato, al-Salil è ancora vivo», furono le sue prime parole. Alle orecchie di Tom il nome arabo di Dorian suonava ancora strano. «L'ho visto da lontano, ma non ho tentato di avvicinarmi. Lo trasportano su una lettiga trainata da un cavallo.» «Fino a che punto ha ripreso le forze?» volle sapere Tom. «Può camminare un po'», rispose Batula. «Ho visto Ben Abram aiutarlo ad alzarsi dalla lettiga per raggiungere la tenda dove lo tengono adesso. Ha il braccio destro ancora appeso al collo, e si muove lentamente, in modo rigido come un vecchio, però tiene la testa alta. È più forte di quando siamo partiti.» «Sia lodato il nome di Allah», mormorò Yasmini. «Puoi guidarci fino alla sua tenda?» chiese Tom. Batula annuì. «Sì, ma è ben sorvegliato.» «Lo tengono in catene?» «No, effendi, devono essere convinti che la ferita sia sufficiente a trattenerlo.» «Lo porteremo via stanotte stessa», decise Tom. «Ed ecco in che modo.» Si avvicinarono al campo dal lato sopravvento, per evitare che i loro cavalli fiutassero l'odore di quelli arabi e nitrissero, richiamandone l'attenzione. Il campo era animato come un alveare, con l'aria azzurrina densa del fumo di centinaia di fuochi accesi per cucinare. Ovunque regnava un movimento incessante: stallieri e schiavi che andavano e venivano, occupandosi dei cavalli, uomini che si appartavano nella boscaglia per soddisfare necessità naturali prima di stendersi sul pagliericcio a riposare, cuochi che reggevano pentoloni di riso fumante per distribuire il pasto della sera. Le sentinelle erano scarse e regnava un gran disordine. «Abubaker non è un vero soldato», osservò Batula con disprezzo. «AlWilbur Smith
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Salil non ammetterebbe mai tutta questa indisciplina.» Tom mandò avanti Batula, mentre gli altri lo seguivano uno per volta, a intervalli, muovendosi con aria disinvolta, protetti dal copricapo e dalla veste ampia sotto la quale nascondevano le armi. Batula si diresse verso un avvallamento al centro del campo, dov'era stata eretta una tenda di cuoio isolata dalle altre. Alla luce del fuoco, Tom vide che la vegetazione tutt'intorno non era stata estirpata né tagliata, però, intorno alla tenda, c'erano almeno tre uomini di guardia, accovacciati con le armi di traverso sulle ginocchia. Batula si fermò sotto un albero di marula dai rami contorti, distante un centinaio di metri dalla tenda che serviva da prigione; gli altri lo raggiunsero senza dare nell'occhio, accovacciandosi in circolo intorno a lui, finché, nella penombra che avvolgeva l'accampamento, non finirono per assomigliare a uno dei tanti gruppi di soldati di Oman sparsi qua e là a parlare sottovoce tra loro, bere caffè e passarsi una pipa di mano in mano. D'un tratto si notò una certa agitazione: era arrivato un gruppo composto da tre arabi vestiti con eleganza e seguiti dalle loro guardie del corpo, che si dirigeva in gran fretta da quella parte. Per un attimo, Tom si lasciò prendere dal panico, certo che la loro presenza fosse stata scoperta; invece gli arabi li sfiorarono senza notarli, proseguendo verso la tenda. «Quello con il copricapo azzurro e la fascia d'oro è il principe Abubaker, quello di cui vi ho parlato», bisbigliò Batula. «Gli altri due sono al-Sind e Bin Tati, due grandi guerrieri e fedeli alleati di Abubaker.» Tom annuì, seguendo con gli occhi i tre che entravano nella tenda in cui Dorian era prigioniero. Erano abbastanza vicini da udire prima un mormorio oltre le pareti di cuoio, poi il rumore di un colpo e un grido di dolore. Tom stava per alzarsi, ma Aboli allungò una mano per trattenerlo. Si udirono altre voci all'interno della tenda e infine Abubaker uscì, chinandosi per passare sotto il lembo dell'apertura prima di soffermarsi a guardare indietro. «Tenetelo in vita, Ben Abram, in modo che possa morire con maggiore passione», esclamò, ridendo, poi tornò sui suoi passi, così vicino che Tom avrebbe potuto toccargli l'orlo della veste. Si limitò invece a mormorare: «Salaam aliekum, potente signore», ma Abubaker non lo degnò neanche di uno sguardo, proseguendo verso la sua tenda. Il silenzio scese lentamente sul campo: le voci si spensero a poco a poco, Wilbur Smith
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gli uomini cominciarono a raggomitolarsi nelle coperte, raccolti intorno ai falò, dove le fiamme morivano, soffocate dalla cenere. Tom e i suoi si stesero a terra intorno al piccolo fuoco acceso da Batula, coprendosi il capo col mantello. Senza il riverbero delle fiamme, il buio s'infittì. Tom osservava le stelle per valutare il trascorrere del tempo, che passava con infinita lentezza. Infine si protese per sfiorare il dorso di Aboli. «È ora.» Alzandosi lentamente, si avviò verso la tenda di Dorian. Aveva tenuto d'occhio la sentinella che sedeva sul retro, notando che la testa gli ciondolava, poi si rialzava di scatto, ma finiva sempre per ciondolare di nuovo. Tom gli si accostò alle spalle, senza fare rumore, poi si chinò su di lui, colpendolo alla tempia con la canna della pistola. Sentì l'osso fragile spezzarsi, mentre l'uomo si accasciava senza un lamento, e prese il suo posto, accovacciandosi nella stessa posizione, con il fucile sulle ginocchia. Attese ancora un minuto per essere certo che nessuno desse l'allarme, poi, restando accovacciato, avanzò fino a trovarsi vicino alla parete posteriore della tenda. Non aveva modo di sapere se ci fosse un uomo di guardia anche all'interno, al capezzale di Dorian, quindi si umettò le labbra per prendere fiato e fischiettò piano le prime note di Spanish Ladies. Dietro la parete di cuoio qualcuno si mosse, mentre si levava una voce che Tom non conosceva; non certo la voce del bambino che Dorian era stato quando si erano separati, bensì la voce di un uomo. «Tom?» «Sì, ragazzo mio. Si può entrare?» «Ci siamo soltanto Ben Abram e io.» Tom estrasse il coltello a scatto e il cuoio della tenda si divise sotto la lama. Attraverso l'apertura si protese verso di lui una mano, pallida alla luce delle stelle. Lui la prese, stringendola forte, e Dorian lo attirò all'interno attraverso il varco nella tenda, per abbracciarlo. Tom tentò di parlare, ma la voce gli si fermò in gola. Allora si strinse al petto Dorian, prendendo di nuovo fiato prima di mormorare: «Che Dio ti protegga, Dorian Courteney. Non so che cosa dire». «Tom!» Dorian sollevò la mano sana per afferrare un ciuffo di capelli ricci e irrigiditi dalla polvere sulla nuca del fratello. «È così bello rivederti!» Le parole inglesi gli sembravano estranee, mentre piangeva, sopraffatto dalla debolezza della ferita e da una gioia sconvolgente. Wilbur Smith
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«Non fare così, Dorry, altrimenti mi spettini», protestò Tom, sottraendosi a quel contatto per asciugarsi gli occhi col dorso della mano. «Andiamo via di qui, ragazzo. Quanto è grave la ferita? Ce la fai a camminare, se Aboli e io ti aiutiamo?» «Aboli? È qui con te?» La voce di Dorian tremava. «Sono qui, Bomvu», rispose con un brontolio Aboli. «Ma per tutto questo ci sarà tempo in seguito.» Aveva trascinato la sentinella caduta all'interno della tenda, attraverso lo squarcio nella parete. Con l'aiuto di Tom, arrotolò l'uomo nella stuoia del pagliericcio, coprendolo con la coperta di lana di Dorian. Nel frattempo, Ben Abram aiutava Dorian a vestirsi, nascondendo i capelli rossi sotto un turbante. «Va' con Dio, al-Salil», sussurrò, prima di rivolgersi a Tom. «Io sono Ben Abram. Vi ricordate di me?» «Non dimenticherò mai voi e la gentilezza che avete dimostrato a mio fratello, vecchio amico.» Per un attimo, Tom gli serrò il braccio con forza. «Che Dio vi benedica.» «Avete mantenuto fede al giuramento», gli disse sottovoce Ben Abram. «Ora dovete legarmi e imbavagliarmi, altrimenti Abubaker mi riserverà un trattamento crudele, quando scoprirà che al-Salil è scomparso.» Lasciarono Ben Abram legato e imbavagliato, facendo uscire Dorian dal retro della tenda. Una volta fuori, lo misero in piedi, sostenendolo per le braccia, e si avviarono lentamente attraverso l'accampamento immerso nel sonno, preceduti da Batula e Luke Jervis, che si muovevano con la leggerezza di due spettri. Quando superarono uno dei fuochi, un arabo addormentato si riscosse, fissandoli mentre passavano accanto a lui, ma poi li lasciò andare senza fermarli, stendendosi di nuovo sul terreno e coprendosi la testa. «Sta' su, Dorry», gli sussurrò all'orecchio il fratello. «Ce l'abbiamo quasi fatta.» Proseguirono verso la foresta e Tom, non appena giunto nel folto degli alberi, stava per lanciare un'esclamazione di sollievo, quando una voce brusca li apostrofò in arabo, poco lontano. «Chi siete? Fermatevi, in nome di Allah, e fatevi riconoscere.» Tom allungò la mano verso la spada nascosta sotto il mantello, ma Dorian lo fermò, rispondendo in arabo: «La pace di Allah sia con te, amico. Io sono Mustafà di Muhaid. La dissenteria mi divora, e i miei amici mi stanno accompagnando in un posticino appartato nella boscaglia». «Non sei il solo a soffrire, Mustafà. In questo campo ci sono molti Wilbur Smith
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malati», borbottò la sentinella, comprensiva. «La pace sia con te, e con le tue budella.» Proseguirono lentamente. All'improvviso Batula ricomparve, sbucando dall'oscurità. «Da questa parte, effendi!.» sussurrò. «I cavalli sono vicini.» Udirono un calpestio di zoccoli, poi la figura fragile di Yasmini si staccò dalle tenebre per correre verso Dorian. Si strinsero l'uno all'altra, scambiandosi abbracci e tenerezze sommesse, finché Tom non intervenne per separarli con delicatezza, guidando Dorian verso il cavallo più robusto. Aboli e Tom lo issarono in sella, dove rimase in equilibrio instabile. Tom gli serrò le caviglie tra loro con un legaccio di cuoio che passava sotto il ventre del cavallo, quindi aiutarono Yasmini a salire in sella dietro di lui. «Tienilo forte, sorellina», le ordinò Tom. «Non farlo scivolare giù.» Montato in sella al suo cavallo, prese per le briglie quello di Dorian. «Portaci a casa, Aboli», disse, prima di voltarsi a guardare l'accampamento addormentato, oltre gli alberi. «Non avremo che poche ore di vantaggio, se tutto va bene, poi ci piomberanno addosso come uno sciame di calabroni.» Non ebbero pietà per i cavalli, già esausti dopo il viaggio da Fort Providence, e che non avevano avuto il tempo di riposare e di pascolare, se non durante le brevi soste notturne. Al ritorno il trattamento fu lo stesso; a mezzogiorno il caldo era torrido, le tappe, tra un'abbeverata e l'altra, erano lunghe, il terreno era accidentato e minuscole schegge di selce penetravano negli zoccoli delle cavalcature. Il primo cavallo lo persero prima di avere percorso venti miglia. Era quello che portava Dorian e Yasmini: si fermò di colpo, reggendosi in piedi a stento, e Tom lo liberò con la morte nel cuore, sapendo che, prima di sera, i leoni e le iene avrebbero fatto scempio di quella bestia coraggiosa. Trasferirono Dorian su uno dei cavalli di riserva, riprendendo il cammino alla stessa andatura. Il terzo giorno avevano già esaurito le bestie di riserva e potevano contare soltanto sugli animali che montavano. Mentre stavano per risalire in sella, dopo la breve sosta di mezzogiorno presso un abbeveratoio dall'acqua limacciosa, Aboli mormorò: «I fucili non ci serviranno a niente, contro un esercito, e questo peso sta uccidendo i cavalli». Così abbandonarono le armi, le fiasche per la polvere, i sacchetti dei proiettili e ogni altro bagaglio, conservando solo le armi da taglio e gli otri dell'acqua. Tom, però, voltando le spalle agli altri, in modo che Wilbur Smith
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nessuno vedesse che cosa faceva, s'infilò sotto la camicia una delle pistole cariche. Era un'arma a doppia canna. Da quello che gli aveva detto Yasmini, sapeva quale destino attendeva lei e Dorian, se gli arabi li avessero raggiunti; la pistola era per loro, un colpo a testa. Che Dio mi conceda la forza di farlo, se verrà il momento, pregò in silenzio. Pur avendo ridotto il carico in modo così drastico, quel giorno persero altri due cavalli, cosicché Luke, Aboli e Tom furono costretti a correre a turno accanto agli uomini in sella, aggrappandosi alle staffe per restare al passo. Quella sera avvistarono per la prima volta la colonna degli inseguitori. Gli arabi stavano attraversando un'altra delle catene di colline che costituivano l'ossatura di quella terra selvaggia. Guardandosi alle spalle, videro la nube di polvere levarsi nell'aria tre leghe più indietro. Decisero perciò di fermarsi un'ora soltanto, prima di proseguire al chiarore delle stelle, seguendo il faro della Grande Croce che fa parte della costellazione del Centauro. E, sebbene gli arabi stessero sfiancando le loro cavalcature, all'alba i fuggiaschi si accorsero che non avevano guadagnato terreno. Alle prime luci del sole, la nube di polvere apparve sospesa all'orizzonte, rossa come il sangue, ma sempre a tre leghe di distanza. Durante le marce notturne persino Aboli perdeva il senso dell'orientamento, per cui, in quel susseguirsi ininterrotto di foreste e colline irregolari, ignoravano la loro esatta posizione. Quella sera superarono un'altra catena di colline, sperando di vedere ai loro piedi le acque lucenti del fiume Lunga, ma le loro speranze s'infransero di fronte a un'altra catena di colline verdi. Attraversarono faticosamente la valle intermedia, con i cavalli ormai esausti, spendendo le ultime energie. Persino Aboli appariva sofferente, pur tentando di nascondere l'andatura zoppicante dovuta a uno stiramento al ginocchio; pareva aver esaurito il sudore che gli restava in corpo e aveva il viso inaridito e coperto di polvere. Dorian appariva emaciato, con il corpo scheletrico sotto la tunica, e la ferita aveva ripreso a sanguinare sotto la benda sporca. Yasmini aveva quasi dato fondo alle sue energie nello sforzo di tenerlo in sella, e l'ultimo cavallo rimasto barcollava sotto il loro peso. Il cavallo cedette poco prima della sommità delle colline, abbattendosi al suolo come se fosse stato colpito da una palla di fucile al cervello. Tom Wilbur Smith
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liberò Dorian dal suo peso, tagliando il laccio che gli teneva unite le caviglie per trascinarlo lontano. «Da qui si prosegue con il cavallo di san Francesco, ragazzo. Ce la farai?» gli domandò. Dorian tentò di sorridere. «Ce la farò finché ce la farai tu, Tom.» Ma, quando il fratello tentò di sollevarlo, le ginocchia lo tradirono e finì lungo disteso sul terreno sassoso. Alle loro spalle, la nube di polvere si alzò sulla valle che avevano appena attraversato. Ricavando da un ramo un palo corto, Aboli e Tom ne sollevarono le estremità, facendo sedere Dorian al centro, con le braccia intorno alle loro spalle; in questo modo, discesero barcollando il pendio della collina, verso il fondo della valle. Durante la notte si fermarono a intervalli, ogni volta per pochi minuti, prima di sollevare il palo con Dorian e proseguire finché non erano più in grado di fare neanche un passo; allora si accasciavano per riposare. Impiegarono tutta la notte per attraversare l'ampia valle. Potevano soltanto sperare che gli inseguitori si fossero fermati, non riuscendo a seguire la pista per via dell'oscurità. L'alba li sorprese mentre risalivano il versante opposto della valle; quando si voltarono, gli arabi erano tanto vicini che la punta delle loro lance rifletteva i primi raggi del sole, scintillando. «Hanno dimezzato la distanza», osservò Tom, mentre deponevano a terra Dorian per fare un'altra sosta. «A questa velocità, ci saranno addosso tra un'ora.» «Lasciatemi qui», sussurrò Dorian. «Mettetevi in salvo.» «Sei pazzo!» esclamò Tom. «L'ultima volta che ti ho lasciato solo, sei scomparso per anni. Non intendo correre di nuovo questo rischio.» Lo ripresero in spalla e si avviarono lungo la salita. Yasmini li precedeva di pochi passi, con i sandali di cuoio logori che lasciavano quasi del tutto scoperti i piedi, costellati di vesciche sanguinanti, ma, poco prima di raggiungere la sommità, cadde e, sebbene riuscisse a trascinarsi verso l'albero più vicino, tentando di appoggiarsi al tronco per risollevarsi, era troppo debole per rimettersi in piedi. «Luke, prendete il mio posto, qui! E tu, Batula, aiutalo.» Tom consegnò loro le estremità del palo, per accorrere da Yasmini, che si era rannicchiata contro l'albero, singhiozzando sommessamente. «Sono una donna stupida e debole», mormorò quando Tom si chinò su Wilbur Smith
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di lei. «Già», confermò lui con un sorriso, «ma troppo graziosa per essere abbandonata.» La sollevò di peso e, per quanto fosse fragile e leggera come un uccellino, lo sforzo gli tese allo spasimo i muscoli della schiena e delle spalle, già doloranti. Stringendola al petto, si fece forza per avanzare verso la sommità della collina. Poi sentì un grido fioco alle sue spalle, in lontananza, e, voltandosi a guardare, si accorse che l'avamposto della colonna araba aveva già raggiunto la base della collina. Uno degli uomini sollevò il jezail, da cui partì uno sbuffo di fumo. Pochi istanti dopo, udirono il tonfo sordo dello sparo, ma la distanza era ancora superiore alla portata dell'arma, quindi il proiettile non si avvicinò neppure. «Siamo quasi in cima», intonò a gran voce Tom, tentando di mostrarsi ottimista. «Ancora un piccolo sforzo, ragazzi.» E finalmente giunse in cima alla collina. Era accecato dal sudore e sapeva di non poter andare oltre. Depose a terra Yasmini per asciugarsi gli occhi, ma aveva ancora la vista annebbiata e barcollò, abbagliato da mille puntini luminosi. Guardando gli altri, si accorse che anche loro erano allo stremo; persino Aboli non aveva più energie da spendere, anzi gli costava fatica compiere gli ultimi passi fino alla sommità. Allora è qui che moriremo, pensò Tom. Ho ancora la spada Nettuno, per potermi battere con onore, e alla fine mi resta la pistola per Yasmini e Dorian. Frugò sotto la camicia per assicurarsi che fosse ancora lì e ne sfiorò il calcio. D'improvviso, però, si ritrovò Aboli a fianco, che lo scrollava per il braccio, incapace di parlare, indicando un punto ai loro piedi, nella valle. Per un attimo Tom credette in un miraggio, poi si accorse che quel barbaglio che feriva i suoi occhi infiammati era il sole riflesso sulla superficie del fiume, e quella ormeggiata laggiù, sulla riva, era la Centaurus. Si trovavano così vicini da scorgere persino le minuscole figure umane in coperta. Tom si sentì pervaso da un nuovo slancio. Estratta la pistola dalla camicia, sparò tutt'e due i colpi in aria, scatenando un'improvvisa agitazione sul ponte della nave. Vide scintillare la lente di un cannocchiale puntato su di loro. Fece un cenno di saluto con la mano, e la figura alta di Alf Wilson gli rispose. Allora Tom si voltò a guardare indietro. L'avanguardia degli arabi stava Wilbur Smith
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arrivando al galoppo, ed era già a metà del pendio alle loro spalle. Senza dire una parola, prese di nuovo in braccio Yasmini, lanciandosi in discesa verso il fiume. La forza d'inerzia lo trascinò in avanti, al punto che riusciva appena a tenerle dietro con le gambe; ogni passo si ripercuoteva dolorosamente sulla spina dorsale, mentre il terreno pareva sfuggirgli sotto i piedi. Sentiva Aboli e gli altri che lo seguivano, ma non poteva voltarsi, perché aveva bisogno di tutta l'attenzione e la forza che gli restavano per reggersi in piedi. Terrorizzata, Yasmini chiuse gli occhi, stringendogli le braccia al collo. Alle loro spalle si alzò un grido, seguito da una serie di colpi di fucile. Gli arabi avevano raggiunto la cima della collina. Un proiettile fece sprizzare un lembo di corteccia e una pioggia di schegge bianche e umide di linfa dal tronco dell'albero più vicino a Tom. Lui non riusciva a mantenere il passo, ma non poteva nemmeno fermarsi, trascinato in avanti dal peso di Yasmini. Poi una delle gambe cedette, come se il ginocchio si fosse piegato nel verso sbagliato, e lui cadde a precipizio. Tom e la ragazza rotolarono insieme, finché non urtarono contro un masso e si fermarono, storditi. Aboli li superò di slancio, saltando e incespicando sotto il peso di Dorian che portava sulle spalle, mentre Batula e Luke Jervis cercavano di stargli dietro. Aboli sentiva che le gambe erano sfuggite al suo controllo e non poté fermarsi per aiutare Tom, ma Luke lo afferrò per il braccio e lo trascinò in avanti, mentre Batula prendeva tra le braccia Yasmini per fare ancora qualche passo incerto lungo la discesa. Alle loro spalle sentirono scalpitare gli zoccoli dei cavalli arabi lanciati alla carica, e Tom vide i soldati abbassare le lance, con un'espressione di trionfo sui volti scuri. Fu allora che sentì gridare il suo nome da Sarah. «Tom! Stiamo arrivando!» Girandosi di scatto, la vide arrivare in sella a un cavallo baio, trascinando dietro di sé per la cavezza altri due cavalli lanciati a tutta velocità. Poco discosto scorse Alf Wilson, in sella a una giumenta nera che apparteneva al loro branco, anche lui con due bestie di riserva. Sarah si fermò a fianco di Tom, che strappò Yasmini dalle braccia di Batula per scaraventare letteralmente il suo corpo leggero oltre il garrese della cavalcatura di Sarah. Lei l'afferrò al volo, impedendole di scivolare dalla parte opposta. «Via!» ansimò Tom. «Portala via di qui!» Wilbur Smith
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Senza dire una parola, Sarah gli gettò le briglie dei cavalli di riserva, voltando il suo per scendere dalla collina, con Yasmini che sobbalzava sulla sella come un sacco bagnato. Tom lasciò un cavallo a Luke e Batula, issandosi in groppa all'altro e raggiungendo al galoppo Aboli, per togliergli dalle spalle il corpo sanguinante di Dorian. «Prendi un cavallo da Alf!» gli gridò passando oltre, lanciato giù per la collina sulle orme di Sarah. Sentendo dietro di sé alte grida in arabo e uno scalpitio di zoccoli, si aspettava di ricevere da un momento all'altro un colpo di lancia nella schiena, ma non poté neanche voltarsi, occupato com'era a non farsi sfuggire dalle mani il corpo di Dorian. Disperato, lo sentì scivolare via dalla sua presa senza riuscire a trattenerlo, ma poi Aboli gli si affiancò, in sella a uno dei cavalli di ricambio, e, sporgendosi, raddrizzò Dorian in modo che Tom potesse afferrarlo meglio per le spalle. Quando furono all'altezza della riva del fiume, Tom e Aboli si gettarono sulle tracce di Sarah, che portava ancora Yasmini in sella davanti a sé. Alf, Batula e Luke li seguivano in gruppo, mentre, a breve distanza, i cavalieri arabi erano lanciati alla carica e guadagnavano terreno, protesi in avanti con le lunghe lance. Quando raggiunse il fiume, Sarah non ebbe esitazioni: sospinse in avanti il cavallo, che spiccò un balzo dall'argine, finendo in acqua con un'esplosione di spruzzi e sprofondando. Tom e Aboli, lanciati al galoppo, seguirono il suo esempio, e gli altri saltarono quasi sopra di loro. Poi riemersero tutti, e le bestie presero a nuotare faticosamente verso la Centaurus. Con un volteggio, gli arabi alle loro spalle si arrestarono, furiosi, sulla riva, tentando di estrarre i jezail mentre i cavalli s'impennavano e scalciavano. La prima scarica di mitraglia lanciata da uno dei cannoncini della Centaurus li colse in pieno, abbattendone la metà e generando un viluppo sanguinolento di uomini e animali. Gli altri, in preda al panico, invertirono la direzione, risalendo la collina di gran carriera, inseguiti da un'altra bordata della Centaurus che seminava la distruzione tra gli alberi intorno a loro. Nuotando, i cavalli giunsero a fianco della nave, e i marinai issarono a bordo i cavalieri. Non appena salito in coperta, Tom, grondante, corse da Sarah per abbracciarla. «Nei momenti difficili, bellezza, tu vali dieci uomini, per me», le disse in un soffio. Poi si staccò da lei. «Dorian sta molto male. Avrà bisogno di tutto il tuo aiuto. E anche Yasmini è sfinita. Wilbur Smith
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Provvedi a loro, mentre io penso alla nave.» Si mise al timone, alzando gli occhi verso l'alberatura. Alf Wilson aveva messo tutto a punto per la partenza. «Prego, signor Wilson, preparatevi alla navigazione lungo il fiume», ordinò, prima di chiamare a sé Aboli. «Ci serviranno i cavalli per trainare la nave in secca. Portali a valle, lungo la riva meridionale, dalla parte opposta rispetto ai musulmani. Dovreste riuscire a restare al passo con la Centaurus.» Aboli chiamò i figli, Zama e Tula. «Venite con me, ho del lavoro da uomini per voi.» E i ragazzi lo seguirono, calandosi fuori bordo per aiutarlo a riunire il branco. Tom sentì la nave animarsi sotto di lui, affidandosi alla corrente, mentre le rive cominciavano a scorrere ai lati. Guardando verso la riva sud, vide che Aboli e i ragazzi avevano radunato i cavalli in un branco compatto e li stavano portando a valle del fiume, al piccolo trotto. Voltandosi per guardare a nord, fece appena in tempo a scorgere l'avanguardia dell'esercito arabo superare la sommità della collina e riversarsi in direzione del fiume, come una massa solida di armature scintillanti, lance e canne di fucile. Allora, strappando il cannocchiale dalle mani di Alf Wilson, lo puntò sulla testa della colonna che stava avanzando e riuscì a individuare l'elmo alla turca di Abubaker e il turbante giallo di al-Sind che cavalcava al suo fianco. «Penso proprio che avremo una guardia d'onore per tutto il percorso», commentò con aria tetra, rivolto ad Alf. «Non potranno darci grandi seccature finché non arriveremo alla zona delle secche.» Prima di raggiungere il mare, avrebbero dovuto superare un tratto di bassi fondali, in cui il corso del fiume si allargava, rallentando il suo slancio verso l'oceano. In quel punto i banchi di sabbia cambiavano di continuo altezza e posizione. Con il livello attuale delle acque, la profondità sarebbe stata appena sufficiente a consentire il passaggio della Centaurus. Era dunque logico aspettarsi che Abubaker e al-Sind li avrebbero seguiti, continuando ad assillarli per l'intero percorso. Mancavano solo alcune ore a quel tratto insidioso, e Tom mise tutti al lavoro in preparazione del compito di trainare la nave oltre le secche e difenderla dagli attacchi nemici nel momento in cui era più vulnerabile. Approfittò di qualche istante di respiro per scendere nell'alloggio dove Sarah aveva portato Dorian e Yasmini, scoprendo, sollevato, che il fratello Wilbur Smith
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riposava tranquillamente sulla cuccetta. Sarah gli aveva cambiato la fasciatura sulla ferita e annuì a Tom per fargli capire che andava tutto bene. Yasmini si era ripresa abbastanza da aiutare Sarah, e stava imboccando Dorian, che mandava giù a fatica la minestra contenuta in una scodella di peltro. Tom trascorse appena un minuto con loro, prima di affrettarsi a tornare sul ponte. La prima cosa che vide, non appena messo piede in coperta, fu la lunga colonna di cavalieri di Oman che li seguiva sulla riva settentrionale del fiume. «Cinquecento, o anche più», calcolò, e Alf Wilson fu d'accordo. «Quanto basta per giocarci qualche brutto scherzo in uno scontro aperto, comandante.» «Sarà meglio evitarlo, allora», ribatté Tom, simulando maggior fiducia di quanta ne sentisse. «Quanto manca alle secche?» «A questa velocità, due ore.» «Bene, allora, dobbiamo alleggerire la nave. Gettate fuori bordo tutto ciò che non è essenziale al nostro viaggio.» E, abbassando la voce, per non farsi sentire da Sarah, aggiunse: «Potete cominciare dal clavicembalo». Con una serie di scrosci poderosi, si liberarono del carico. Dopo il clavicembalo fu la volta delle balle di merce, che continuarono a galleggiare nella loro scia mentre puntavano rapidamente verso le secche. Finirono fuori bordo anche i barilotti di polvere e tutti i proietti: Tom conservò soltanto la polvere e i proiettili sufficienti per sostenere un'ora di combattimento accanito. «Vuotate metà delle botti d'acqua. Lasciatene soltanto il minimo indispensabile per arrivare al capo di Buona Speranza a razioni ridotte», ordinò. Sarebbe stata una privazione terribile per donne e bambini, ma si consolò col pensiero che la cattura da parte dei soldati di Oman sarebbe stata una prospettiva ben peggiore. Mentre l'equipaggio lavorava, Tom teneva d'occhio gli inseguitori a cavallo. Là dove la corrente accelerava il suo corso, nelle strettoie, la Centaurus distanziava la cavalleria di Oman, ma, verso la metà della mattinata, non appena rallentò e il vento si fece instabile, lasciando schioccare pigramente le vele, gli arabi riguadagnarono il terreno perduto. Tom caricò uno dei cannoni di poppa con una dose doppia di polvere e di mitraglia e, non appena arrivò a tiro, fece fuoco contro la testa della colonna. I danni furono limitati, ma i cavalli s'impennarono, danzando Wilbur Smith
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sulle zampe, e gli arabi indietreggiarono, intimoriti. Aboli e i due ragazzi che guidavano i cavalli sulla riva meridionale riuscivano a restare al passo. Il branco era forte e riposato, mentre i cavalli arabi, sfiancati dal lungo inseguimento, non erano alla loro altezza. Percorsero un ultimo tratto rapido, manovrando per tenere la carena di legno alla larga dalle temibili sporgenze di roccia nera, poi la corrente perse di colpo velocità e potenza, lasciandoli galleggiare pigramente verso il punto in cui i banchi di sabbia ostruivano quasi il fiume con le loro gobbe di ghiaia giallastra. «Trasferite donne e bambini sulle barche», ordinò Tom. «Ogni libbra di peso può essere determinante.» Dorian era troppo debole per essere mandato a terra, e Yasmini rimase per prendersi cura di lui. Sarah avrebbe badato al timone, per consentire a un uomo in più di collaborare al faticoso lavoro di traino. Tutti gli altri passeggeri furono traghettati sulla riva meridionale e affidati alle cure di Aboli. Poi le barche tornarono indietro, affiancandosi alla nave per rimorchiarla, nel caso si fosse arenata. Tom rimase accanto al timone, mentre un silenzio ansioso calava sulla Centaurus che percorreva la prima curva a meandro, in cui si vedeva la linea del fondo attraverso l'acqua verde e limpida. La colonna di cavalieri parve intuire al volo il momento propizio, cominciando ad avvicinarsi. Tom lanciò un'occhiata all'indietro, verso di loro, ma, sebbene fossero a portata di tiro, era troppo occupato per caricare i cannoncini, quindi dovette lasciarli avvicinare. La Centaurus superò facilmente la curva e Tom si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo; ma era troppo prematuro. D'improvviso lo scafo vibrò e sobbalzò sotto di lui, urtando il fondo, prima di liberarsi con uno scrollone e riprendere la navigazione sulle acque verdi del fiume. «C'è mancato poco», mormorò, poi, rivolto a Sarah al timone, le ordinò: «Tienila al centro del canale verde». Era la volta della seconda curva, in cui la nave si muoveva molto lentamente. Gli arabi erano a portata di tiro e convergevano al piccolo trotto sul terreno sabbioso della riva settentrionale, con le lance rilucenti e i copricapi ondeggianti al vento della corsa. La Centaurus urtò la sabbia con la chiglia, scivolando prima di fermarsi in modo così repentino da rischiare di farli cadere lunghi distesi sul ponte. Tom si aggrappò alla chiesuola per mantenere l'equilibrio: stavolta la Wilbur Smith
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Centaurus era davvero arenata. «Via con le barche!» gridò, e tutti gli uomini a bordo si calarono in fretta. Poi ordinò a Sarah: «Timone al centro!» prima di scendere anche lui nella barca. I timonieri a poppa di ogni barca afferrarono l'estremità dei cavi da rimorchio che erano già pronti, fissandoli alla barca, e le due barche, sospinte dai vogatori, avanzarono a prua della Centaurus finché le cime non furono tese. Poi fecero forza sui lunghi remi, tentando di smuoverla dalla morsa di sabbia. Aboli, dalla riva meridionale, si slanciò in acqua con il suo cavallo per afferrare l'estremità della cima che Sarah gli lanciava, poi tornò indietro e, non appena la sua cavalcatura balzò sulla riva, legò la cima all'equipaggio di cavalli in attesa. «Ia! Ia! Ala!» Incalzati dallo schiocco della sua frusta, i cavalli si misero in moto, tendendo le tirelle con tutte le loro forze. La Centaurus avanzò leggermente, raschiando la ghiaia del fondo, poi rimase di nuovo incagliata. A riva, i cavalieri arabi si lanciarono al galoppo, superandola e allargandosi a ventaglio. Appena arrivati all'altezza della nave arenata, gli uomini della prima fila girarono su se stessi, con le lance abbassate, ed entrarono in acqua sollevando un muro di schiuma bianca, puntando verso gli uomini sulle barche. L'acqua arrivò al ventre dei cavalli, poi salì fino alle spalle. Ormai i cavalli di testa erano costretti a nuotare, ma i loro cavalieri continuarono a procedere, puntando le lance verso la barca di testa e sciamandole intorno come un branco di squali intorno a una balena morta. I marinai scaricarono su di loro le pistole, sparando a distanza ravvicinata, poi si alzarono in piedi per colpirli con i lunghi remi, ma la nave rollava vistosamente e rischiava di capovolgersi per il peso dei nemici. Sulla riva settentrionale, l'ondata successiva di cavalieri si preparava alla carica, disponendosi in una massa compatta lungo il banco di sabbia. Al centro della linea c'era Abubaker, con la corazza e l'elmo a punta che scintillavano. Brandendo la scimitarra, guidò i suoi uomini all'attacco, partendo al piccolo trotto, che poi divenne trotto e infine galoppo. Sarah non poteva lasciare il timone. A prua, vide le barche circondate da masse disordinate di uomini e di cavalli, mentre Tom, a poppa, menava fendenti con la spada sugli arabi in acqua. Alcuni di loro tentavano di Wilbur Smith
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tagliare il cavo di rimorchio a poppa, segandolo con la scimitarra, mentre altri si scagliavano contro la murata con tutto il loro peso e quello della loro cavalcatura. La nave si stava inclinando di lato e cominciava a imbarcare acqua. Tra poco sarebbe stata sommersa. Lo squadrone di cavalleria di Abubaker partì alla carica in direzione del fiume, e persino Sarah si rese conto che la fine era ormai prossima. Non poteva intervenire in nessun modo. Però non aveva visto Dorian salire sul ponte, sorretto da Yasmini. Usandola come una gruccia, lui si diresse zoppicando verso il cannone più vicino, afferrò il punteruolo della cima per brandeggiare la tozza canna nera e poi prese la miccia a lenta combustione dal recipiente di sabbia, accostandone l'estremità al focone. L'arma rinculò, indietreggiando sull'affusto, mentre una grandinata letale si abbatteva sulla prima fila della cavalleria araba proprio mentre entrava in acqua. Yasmini, che guardava oltre il canale, aggrappata al parapetto, scorse un proietto da due once colpire Abubaker alla bocca. I denti esplosero tra le labbra in una rosa di schegge, poi la palla sfondò lo zigomo e la parte posteriore del cranio, sollevando l'elmo a punta e scaraventandolo in alto. Gli uomini intorno a lui furono sbalzati di sella, mentre lo schieramento di soldati e di cavalli cedeva, ripiegando verso la riva. Vacillando, Dorian si avvicinò al cannone successivo e prese la mira. Vedendosi puntare addosso la bocca del cannone, i cavalieri spronarono i cavalli per allontanarsi, in preda al panico, ma lo sciame ronzante di mitraglia li prese d'infilata, abbattendo una dozzina di cavalli. In pochi secondi, le schiere degli arabi erano in preda al caos. Tutti avevano visto la testa del generale Abubaker saltare in aria, e ora anche al-Sind era caduto, con il cavallo ucciso sotto di sé. L'istinto di battersi li abbandonò e cedettero, allontanandosi al galoppo per evitare la prossima pioggia letale. Yasmini afferrò Dorian per il braccio e, barcollando, lo guidò verso il cannone successivo. Quando sparò anche quello, la Centaurus sussultò leggermente per il rinculo e poi cominciò a malincuore a scivolare sulla sabbia. Gli arabi che accerchiavano la barca videro i compagni sulla riva cedere e ripiegare, lasciandoli isolati, e a loro volta cominciarono a dirigere i cavalli verso la sponda. «Voga! Sino a farvi scoppiare i polmoni!» gridò Tom ai suoi uomini, che tornarono ai remi. La Centaurus scivolò in avanti, poi toccò di nuovo il fondo. Dorian sparò un altro colpo di cannone e, mentre la nave Wilbur Smith
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sussultava, sulla riva meridionale Aboli spronò i cavalli. Lentamente, quasi malvolentieri, la Centaurus scivolò sulla sabbia, tornando a galleggiare libera nel canale. «Risalite a bordo!» ruggì trionfante Tom. «Riportate a bordo donne e bambini.» Aboli affastellò mogli e figli sulla barca non appena la chiglia toccò la riva, poi tagliò le tirelle dei cavalli, assestando loro vigorose pacche sul didietro per spingerli verso la foresta. Tornato indietro di corsa, scavalcò d'un balzo la murata della nave, mentre i vogatori inseguivano la Centaurus. Ormai la nave filava veloce, trasportata dalla corrente, e dovettero mettercela tutta per raggiungerla. «Da qui alla foce è tutto libero!» riferì Aboli a Tom, avvicinandosi al timone. Si voltarono entrambi a guardare gli arabi sconfitti sulla riva settentrionale; parevano rassegnati, non tentavano neppure di radunarsi per continuare l'inseguimento. «Lasciate liberi gli uomini, signor Wilson», disse Tom, «e distribuite loro una doppia razione di rum per il disturbo.» Alf Wilson si sfiorò il berretto prima di rispondere: «Chiedo scusa, comandante, ma avete gettato fuori bordo il barile del rum. Volete invertire la direzione e tornare indietro a prenderlo?» Il tono era serio, ma le labbra trattenevano a stento un sorriso. «Penso che gli uomini dovranno aspettare di raggiungere il capo di Buona Speranza», replicò Tom, in tono altrettanto serio. Tom era affacciato alla battagliola di poppa mentre la Centaurus puntava verso il largo e la massa scura del continente africano si confondeva lentamente con le ombre della notte che si addensavano in lontananza. Quando udì un passo leggero sul ponte, si protese per stringere a sé Sarah in modo che si appoggiasse al suo petto, poi l'abbracciò con forza, sporgendosi in avanti per baciarla sull'orecchio. Sarah fu scossa da un brivido di piacere nel sentire la barba che le solleticava la nuca. «Dorry chiede di te», gli riferì. «Vado subito da lui», rispose, ma senza accennare a lasciarla. Dopo un lungo silenzio, lei domandò: «E adesso, che cosa succederà, Tom?» «Non lo so, ragazza mia. Prima andiamo al capo di Buona Speranza, poi sarà quel che sarà.» Wilbur Smith
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«Be', una cosa è certa. Quando arriveremo al Capo avrò una piccola sorpresa per te.» «Ah, sì?» Lui parve interessato. «E di che si tratta?» «Se te lo dico, non è più una sorpresa.» Inarcandosi all'indietro, gli prese le mani per posarle con fermezza sul proprio ventre. Tom ci mise un istante a capire, poi si abbandonò a una risata di gioia. «Che Dio ti protegga, Sarah Courteney! Non so che cosa dire.» Lei sapeva che quella era la sua massima espressione di gioia. «Allora non dire niente, idiota, e dammi un bacio.» FINE
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